Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI AFRO-ASIATICI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI AFRO-ASIATICI

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quei razzisti come i marocchini.

Il Marocco guida la "decolonizzazione" del calcio africano. Il Mondiale consacra la "decolonizzazione" del calcio d'Africa. Il caso del Marocco è emblematico: i figli della diaspora vogliono giocare per la nazionale di Rabat. Andrea Muratore e Mauro Indelicato l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L'Africa agli africani: non è uno slogan terzomondista di Thomas Sankara, che pure approverebbe quanto sta accadendo in Qatar, piuttosto l'attestazione della definitiva "decolonizzazione" del calcio africano. Cinque allenatori su cinque delle nazionali africane della Coppa del Mondo sono nati nel continente di frontiera per eccellenza. Compreso quello del Marocco rivelazione del torneo. La cui storia di "africanizzazione" è paradossalmente la più recente. Poco prima dell'inizio del Mondiale, arriva un colpo di scena da Rabat: la federazione calcistica marocchina rescinde il contratto con il commissario tecnico Vahid Halilhodzic, artefice della qualificazione della nazionale africana a Qatar 2022. Al suo posto viene chiamato Walid Regragui, un ex calciatore nato in Francia ma formatosi come allenatore nel suo Paese di origine e in grado di riportare nello scorso mese di maggio la Champions League africana proprio in Marocco, trionfando con il Wydad Casablanca.

Regragui è l'eroe del momento. Il 6 dicembre 2022, con la vittoria ai rigori sulla Spagna, regala al Marocco il suo primo quarto di finale ai mondiali. Ma è anche uno dei volti che sta dando all'Africa un'inaspettata decolonizzazione calcistica. Cinque nazionali africane sono andate in Qatar e tutte hanno in panchina allenatori africani. Un fatto inedito per un continente le cui squadre più iconiche nella rassegna iridata sono state sempre guidate da commissari tecnici stranieri, soprattutto europei.

Il Camerun di Italia '90, prima squadra africana a raggiungere i quarti di finale, era allenato dal russo Valerij Nepomnjascij. Il Senegal capace di sconfiggere la Francia campione del mondo nel 2002 era stato costruito dal francese Bruno Metsu, mentre il Ghana che in Sudafrica nel 2010 ha sfiorato le semifinali aveva in panchina il serbo Milovan Rajevac.

Cinque allenatori hanno riscritto la storia calcistica dell'Africa

Se Regragui è l'eroe del Marocco, in Senegal le attenzioni sono tutte per Aliou Cissé. È forse da lui e dalla federcalcio senegalese che parte una tanto repentina quanto inaspettata inversione di tendenza del calcio africano. Cissé è già da anni una leggenda del calcio del suo Paese. Fa parte della squadra che nel 2002, agli ordini di Metsu, arriva ai quarti e si attesta come rivelazione del torneo.

Dieci anni dopo viene chiamato a dirigere la nazionale, ma è solo un incarico ad interim. È nel 2015 che Cissé prende definitivamente in mano la squadra. Non sono anni facili per il calcio senegalese, incapace di replicare i risultati del decennio precedente. Ci sono però alcuni nomi importanti da cui ripartire. C'è ad esempio l'attaccante Sadio Mané, così come il difensore Kalidou Koulibaly. A Cissé viene concesso tempo e pazienza per poter ricostruire un gruppo competitivo. Nel 2018 arriva la qualificazione a Russia 2018, dove gli ottavi sfuggono solo per la differenza di cartellini gialli favorevole al Giappone (primo e finora unico caso nella storia). Poi la nazionale riesce a giocarsi il titolo di campione d'Africa l'anno successivo in Egitto, perdendo però con l'Algeria. Il riscatto definitivo arriva nello scorso febbraio, quando in Camerun nella finalissima supera l'Egitto ai rigori e ottiene il primo storico alloro continentale.

La vittoria del Senegal è forse uno spartiacque nel calcio africano. Ci sono molte nazionali che nella rassegna giocata a febbraio deludono amaramente. A partire dal Camerun padrone di casa, chiamato a vincere il trofeo ma non in grado di esprimere un buon gioco. A deludere è anche il Ghana, squadra lontana dalla generazione d'oro di inizio XXI secolo ma da cui non ci si aspetta un'uscita di scena dalla coppa continentale con soltanto un punto nel girone.

Le due federazioni allora decidono di guardare al modello Senegal: via i precedenti allenatori, spazio alle storiche bandiere delle rispettive nazionali. Il Camerun non rinnova il contratto al portoghese Toni Conceiçao e chiama Rigobert Song, protagonista con i “leoni indomabili” a cavallo tra gli anni '90 e 2000. Per lui anche una fugace apparizione in Serie A con la Salernitana, poi Liverpool e West Ham nella sua carriera, assieme ad alcune esperienze in Turchia. Vince per due volte consecutive la Coppa d'Africa, nel 2000 e nel 2002, e i suoi tanti anni in Europa lo rendono tra i camerunensi più conosciuti e apprezzati a livello calcistico. Song guida il Camerun ai playoff per andare in Qatar e riesce il 29 marzo scorso a qualificare la nazionale superando l'Algeria.

Il Ghana invece licenzia l'allenatore dei quarti di finale di Sudafrica 2010, Milovan Rajevac, e decide di affidare la direzione tecnica a Otto Addo. Anche lui storica presenza tra le fila della sua nazionale, con riferimento soprattutto alla partecipazione a Germania 2006, primo mondiale con il Ghana al via e capace di raggiungere poi gli ottavi di finale. Addo è un “allenatore di ritorno”: nato e vissuto in Germania, decide però di vestire la maglia del suo Paese di origine e, a distanza di 16 anni, di traghettarlo ai mondiali in veste di commissario tecnico. Il suo è un incarico temporaneo, chiuso subito dopo l'eliminazione ai gironi in Qatar, a cui il Ghana arriva dopo il doppio confronto con la Nigeria ai play off. L'esperienza di Addo però rappresenta una svolta nella gestione del calcio nel Paese africano.

La Coppa d'Africa risulta fatale anche per la panchina tunisina, ma in quel caso si tratta di un passaggio di testimone tutto interno al calcio del Paese nordafricano. Via Mondher Kebaier, spazio a Jalel Kadri, tunisino la cui carriera calcistica si svolge interamente nel mondo arabo e che porta la nazionale in Qatar dopo la vittoria sul Mali.

Cinque allenatori africani quindi in cinque squadre africane. E non è forse un caso che proprio in questo mondiale per la prima volta il continente può vantare almeno due formazioni, il Senegal di Cissé e il Marocco, nella fase ad eliminazione diretta. Con il Marocco adesso punta di diamante capace di alimentare il sogno africano nel deserto qatariota. E fonte di un'altra forma di "decolonizzazione" calcistica: l'attrazione della diaspora.

La nazionale del Marocco, raduno della diaspora

La decolonizzazione passa anche per il "soft power". Una nazione si libera dalle catene della dipendenza coloniale e comincia a essere attrattiva sul profilo identitario. Questo vale per l'arrembante e giovane Marocco targato Regragui. Identitario e cosmopolita al tempo stesso, senza alcuna contraddizione: la squadra del Marocco è la squadra dei figli della diaspora. A fronte di un Paese di 37 milioni di abitanti ci sono circa 5 milioni di marocchini all'estero, quasi un settimo del totale degli abitanti. La maggior parte di questi vive in Europa occidentale, principalmente in Francia (circa 1.500 000), Spagna (circa 750.000), Belgio (circa 500.000), Italia (circa 450.000), Paesi Bassi (circa 400.000) e Germania (circa 140.000), oltre che in Israele e Canada.

La nazionale del Marocco ha saputo operare l'attrazione necessaria a far tornare coi colori di casa i figli di questa diaspora. Se nella vecchia guardia, per fare un esempio, i figli delle nazioni degli ex imperi coloniali nati nelle antiche colonie anelavano a giocare per la compagine europea più quotata (Clarence Seedorf dal Suriname all'Olanda, Patrick Vieira dal Senegal alla Francia, per fare due esempi), oggi succede l'opposto. E così un fuoriclasse del calibro di Achraf Hakimi, nato a Madrid e passato dalla camiseta blanca del Real alle maglie di Borussia Dortmund, Inter e Paris Saint Germain, sceglie legittimamente e convintamente il Marocco. Al suo fianco, il portiere-eroe degli ottavi, Bounou, nato a Montreal, Canada. Il roccioso difensore Noussair Mazraoui e l'estroso centrocampista offensivo Hakim Ziyech, in forza rispettivamente a Bayern Monaco e Chelsea, sono nati in Olanda.

E c'è spazio anche per l'Italia. Parla un florido accento marchigiano Walid Cheddira, giovane talento del Bari nato a Loreto, in provincia di Macerata, all'ombra di quel santuario e di quella Casa Santa che molto dicono dei rapporti tra Italia e Oriente mediati dal Mediterraneo. Un rapporto che ha portato in passato i nostri destini a incrociarsi con quelli del Marocco e del Maghreb, molto prima che la florida diaspora proveniente da Casablanca e dintorni si ramificasse nel Paese. Cheddira, classe 1998, ha giocato stagioni tra Eccellenza e D nel maceratese dividendosi tra il Loreto e la Sangiustese. Ha poi peregrinato tra Arezzo, Lecco e Mantova in Serie C prima di consacrarsi a Bari: 6 gol nella vittoriosa Serie C 2021-2022, ben 9 nel primo spezzone dell'attuale Serie B. A settembre l'esordio con la nazionale del Marocco per questo giovane prospetto che ha giocato anche l'ottavo con la Spagna.

Mutatis mutandis, non possiamo non sottolineare che il periodo d'oro del calcio italiano iniziò quando, tra gli Anni Venti e Trenta, gli "oriundi", i figli della diaspora, iniziarono a giocare con la Nazionale azzurra e i club del nostro Paese. Da Raimundo Orsi a Enrique Guaita, protagonisti del Mondiale 1934, la storia degli oriundi è proseguita con nomi di peso come Omar Sivori, José Altafini e Eddie Firmani per arrivare ai giorni nostri con Mauro German Camoranesi, campione del Mondo nel 2006, e i campioni d'Europa del 2021 Jorginho ed Emerson Palmieri. Ebbene i legami di molti di questi campioni, specie i più recenti, con la madrepatria erano prima dell'affermazione calcistica molto meno ombelicari di quelli dei figli di prima generazione dell'emigrazione marocchina. Ora tornati a vestire i colori rosso acceso della nazionale di casa per decolonizzare il calcio nel Paese. E contribuire a restituire l'Africa del pallone agli africani. Ovunque essi siano nati.

Costruzione dal basso. Il miracolo del Marocco non è solo sportivo, ma anche politico. Carlo Panella su L’Inkiesta l’8 Dicembre 2022.

È il solo paese arabo-islamico che si possa definire democratico e la squadra che ha battuto la Spagna riflette uno Stato moderno in cui la religione non è violenta ma si evolve con la società

Il pallone è rotondo e guai a strologare sentenze per cavare lezioni epocali da una partita dei mondiali. Ma la coincidenza è troppo grossa per resistere alla tentazione di spiegare che c’è un mondo di intrecci interessanti dietro il 3 a 0 con cui il Marocco ha battuto la Spagna in Qatar e giocherà quindi i quarti di finale. Questa vittoria è caduta infatti proprio nel giorno in cui l’Indonesia ha definito reato il sesso fuori dal matrimonio, punito addirittura con un anno di carcere, così come la promozione della contraccezione. Per coincidenza dunque, nello spazio di poche ore, abbiamo visto gli effetti perversi  di un governo dell’Islam fondamentalista nell’Indonesia, il più popoloso paese islamico del mondo. All’opposto, sul campo abbiamo visto invece gli effetti modernizzatori di un governo dell’Islam evolutivo nel Marocco, unico e solo paese arabo-islamico a democrazia compiuta. Il tutto, nei giorni bui e sanguinosi che l’Islam iraniano impone al suo popolo di strage in strage 

Non tiriamo dunque per i capelli la realtà se scorgiamo una qualche linea di continuità tra la clamorosa vittoria del Marocco sulla Spagna ai mondiali e l’unicità di quel paese musulmano che, solo, accetta le sfide della modernità, vive un Islam non dogmatico ma evolutivo, sia pure con prudenza estrema e mille contraddizioni. 

Certo, il pallone è rotondo e guai a fare sociologia d’accatto su una partita finita ai calci di rigore. Ma l’intrico dei rapporti tra Spagna e Marocco invoglia a riflettere. Soprattutto perché, caso unico nella storia, quel Marocco che nell’Ottocento divenne in parte colonia della Spagna, prima e per secoli, aveva colonizzato e dominato la Spagna, o meglio, la feconda e ridente Andalusia sotto il dominio dei sultani berberi Almoravidi e poi Almohadi.

È storia antica e complessa ma non è un caso che quel crogiolo di fedi che fu l’Andalusia abbia prodotto a Cordova, nati a pochi anni di distanza e probabilmente riforniti dagli stessi librai ebrei, sia Averroé che Mosé Maimonide. Allora erano i dotti ebrei a tradurre Aristotele e l’ellenismo a cristiani e musulmani, e da essi Averroé ha attinto il razionalismo, inascoltato ahimè tra i Musulmani e così il Maimonide che trasportò l’ebraismo nella modernità.

In quel antico pensiero limpido e ibrido ha dunque le sue radici l’Islam di un Marocco che in seguito, unico paese arabo al mondo, sotto la dinastia degli Alawidi, ha resistito per secoli al dominio oppressivo e oscurantista dell’impero ottomano.Quella storia di fiera indipendenza nazionale dei marocchini e quel loro Islam così fecondato dalla modernità ellenistica, ebraica e cristiana c’entra col 3 a 0? In qualche modo sì. 

I grandi risultati sportivi, pur sempre debitori alla Dea Fortuna, sono il prodotto di un profondo retroterra fatto di agonismo diffuso, di organizzazioni efficienti, di un forte e maturo equilibrio mentale e nazionale. Dunque, questa squadra del Marocco riflette un paese moderno, l’unico in cui l’Islam non è d’impaccio violento e invece, lentamente, con prudenza, si evolve.

L’unico paese arabo che dagli anni cinquanta in poi ha stretto forti legami sotterranei con Israele (a Rabat il Mossad è sempre stato di casa), riconosciuto poi formalmente con gli accordi di Abramo. Insomma, nella palude di un Islam che arretra e regredisce – lo straricco Qatar impone in mondovisione la arretratezza delle sue regole – il Marocco ci mostra l’Islam che anche altrove avrebbe potuto essere, ma non è stato.

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 6 dicembre 2022.

Nei giorni più sanguinosi della guerra civile, un soldato marocchino che combatteva con i franchisti fu sorpreso da un ufficiale con la testa di un nemico repubblicano nascosta nei pantaloni; spiegò che non aveva avuto tempo di cavargli i denti d’oro, e intendeva farlo con calma.

L’ufficiale lo fece fucilare.

Il suo attendente gli chiese spiegazioni: «In fondo anche noi uccidiamo i repubblicani».

«È vero – rispose l’ufficiale -. Ma era pur sempre uno spagnolo. Ammazzato da un marocchino». 

(Testimone dell’episodio fu un giovane volontario italiano, Edgardo Sogno, che l’avrebbe raccontato molti anni dopo). 

Non esistono nella storia due popoli che si siano affrontati per altrettanti secoli e con altrettanta ferocia come marocchini e spagnoli; e per quanto si annunci intenso oggi l’ottavo di finale dei mondiali, a Doha , non sarà che una pallida parvenza dei duelli combattuti dagli antenati dei calciatori in campo.

Francisco Franco si temprò nella guerra contro i marocchini, conquistando quell’aura fortunata – la baraka — che ne farà il Caudillo di Spagna. All’inizio della guerra civile, porterà dal Marocco sugli aerei tedeschi il nerbo del proprio esercito, tra cui le truppe coloniali del Tercio. Ma erano mille anni, dai tempi del Cid Campeador, che spagnoli e mori incrociavano le lame; e proprio davanti a un quadro del Cid (che poi sarebbe Sidi, signore, in arabo) che faceva strage di infedeli Franco maturò la convinzione di combattere una battaglia per la civiltà cristiana occidentale. 

Se è per questo, il Cid non faceva che replicare il modello di Santiago Matamoros: san Giacomo, quello del pellegrinaggio, sarebbe intervenuto personalmente a cavallo nella battaglia di Clavijo (23 maggio 844), massacrando i mori e dando la vittoria ai cristiani.

Ovviamente sarebbe improprio identificare direttamente quelli che gli spagnoli chiamavano mori con quelli che oggi chiamiamo marocchini. Ma già Dante, nel raccontare il «folle volo» di Ulisse, cita la Spagna e il Marocco, Siviglia e Ceuta, i confini occidentali del mondo conosciuto. E certo i califfi di Cordova e di Granada, contro cui i castigliani combatterono le battaglie della Reconquista, erano imparentati con i sovrani di Fes e di Marrakesh (da cui deriva appunto il nome Marocco).  

Dopo la caduta di Granada, avvenuta in quello stesso fatale 1492 in cui Cristoforo Colombo sulla rotta dell’Ulisse dantesco approdò in America, i mori furono costretti alla conversione o alla fuga. 

Con il tempo, gli spagnoli portarono la guerra in Africa. Parte del Marocco divenne una loro colonia. E quando gli europei si ritirarono, il re Hassan II ordinò la «marcia verde»: un’onda di marocchini preceduti dal Corano invase il Sahara spagnolo, strappandolo ai nomadi saharoui. 

Ancora oggi i due Paesi separati dallo stretto di Gibilterra hanno un contenzioso aperto: la Spagna conserva sul territorio marocchino le enclave di Ceuta e Melilla, difese spesso a fucilate dai migranti che cercano di penetrarvi ed essere accolti in Europa. 

Per il Marocco è un problema vedere la bandiera spagnola su due piazzeforti che considera proprie, e pure essere attraversato da carovane in arrivo dall’Africa nera che a volte, non riuscendo a passare la frontiera, finiscono per accamparsi fuori dalle città marocchine e a vivere di espedienti.

Di tutto questo a Gavi, Pedri e agli altri ragazzini spagnoli cresciuti a pallone e playstation non potrebbe importare di meno (anche se Gavi è andaluso e Pedri delle Canarie, quindi del Marocco sono dirimpettai). 

È possibile invece che i loro colleghi marocchini metteranno nella storica sfida di oggi qualche stilla di energia e di rabbia in più. 

Spesso gli scontri mondiali ispirano una duplice retorica: quella che li carica di significati politici, culturali, letterari; e quella che riduce tutto a una partita di calcio. 

Tra poco vedremo se Spagna-Marocco è solo una partita di calcio.

(ANSA il 25 agosto 2022) - In rete circola un breve filmato, di appena pochi secondi, in cui si vede il re del Marocco Mohammed VI apparentemente ubriaco, barcollante, la notte scorsa nelle strade di Parigi. Il sovrano, asceso al trono nel 1999 a 36 anni, è circondato da guardie di sicurezza, una delle quali, nel video, cerca di fermare la persona che ha filmato. 

In breve tempo il video è diventato virale online ed è stato ripreso da numerosi siti web arabi, come riferisce il Times of Israel, notando che il consumo di alcolici è vietato dall'Islam, sebbene il Marocco sia clemente sulla questione e consenta la vendita di bevande alcoliche.

Rayan come Alfredino. Estratto dopo 100 ore "Ma non ce l'ha fatta". Chiara Clausi il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Precipitato a 32 metri nel pozzo che stava scavando suo padre. Il re chiama la famiglia.

Una corsa a ostacoli e contro il tempo per salvare il piccolo Rayan. Alla fine i soccorritori ce l'hanno fatta a raggiungerlo, ma purtroppo Rayan era morto. Il piccolo è stato subito caricato in ambulanza e su un elicottero, ma per lui non c'era più nulla da fare, ucciso dalle ferite che si era provocato cadendo. Il re Mohamed VI ha telefonato alla famiglia per le condoglianze. La tragedia che ha tenuto tutti con il fiato sospeso era iniziata martedì scorso, quando il padre stava riparando un pozzo. «Ho staccato gli occhi da lui per un secondo, e il piccolo è caduto lì dentro», ha raccontato. La madre con le lacrime agli occhi aveva spiegato: «L'intera famiglia lo ha cercato. Poi ci siamo resi conto che era caduto lì».

Il dramma di Rayan Awram, cinque anni, è avvenuta nella città marocchina di Bab Berred, a 100 chilometri da Chefchaouen, sui monti del Rif e ha bloccato e scioccato tutto il paese nordafricano. Sono stati utilizzati macchinari pesanti per scavare senza sosta e il posto è stato trasformato in un cantiere di terra rossa con la campagna e i boschi circostanti. L'operazione è stata delicata perché c'era sempre la minaccia di possibili frane. I lavoratori con elmetti e giubbotti hanno trasportato barelle, corde, e altre attrezzature nella trincea. Per cercare di salvarlo con sei scavatrici è stato aperto un altro pozzo, molto più grande, a pochi passi dal pertugio. Arrivati in profondità, i soccorritori hanno cominciato a scavare in orizzontale un tunnel che raggiungesse il posto di Rayan senza farlo crollare. Il pozzo è profondo 32 metri e si restringe in profondità. Il suo diametro è di 45 centimetri nella parte superiore, lì dove si trovava Rayan 25. Questa storia ricorda quella di Alfredino, caduto anche lui in un pozzo a Vermicino nel 1981, morto in seguito all'incidente. La regione in cui si trova Rayan è molto fredda in inverno. Ma gli sono stati forniti acqua, cibo e ossigeno attraverso un tubo. E c'era anche una telecamera per monitorarlo. Lo ha mostrato da dietro sdraiato su un fianco e con alcune lievi ferite alla testa. Sul posto si trovavano i genitori del bambino e centinaia di persone, che sono state tenute a distanza dai militari. La folla scandiva «Allah u akhbar», «Dio è il più grande», in attesa di vedere il piccolo. Un elicottero della Royal Gendarmerie era pronto a trasportare Rayan in ospedale non appena liberato e c'era anche un'équipe medica per curare subito il ragazzo. «Stiamo dimostrando solidarietà a questo bambino caro al Marocco e al mondo intero», aveva affermato Hafid el-Azzouz, una persona sul posto. «Gli ho parlato via radio, ho sentito il suo respiro, respira a fatica, ma è vivo», aveva invece raccontato poco prima il padre mentre le preghiere a voce alta dei marocchini scandivano il ritmo dei lavori, giorno e notte. E le preghiere per Rayan risuonavano ogni giorno nelle 60 mila moschee del Marocco.

L'incidente ha suscitato un'ondata di simpatia online sui social media. L'hashtag «Save Rayan» è diventato virale. Il calciatore marocchino Achraf Hakimi ha sottolineato gli sforzi per il suo salvataggio sui social media, insieme alle emoji di un cuore spezzato e le mani unite in preghiera. Anche il calciatore algerino Riyad Mahrez ha partecipato al coro di solidarietà, e ha condiviso una foto di Rayan su Facebook insieme all'hashtag «Stay Strong». Poi c'è anche chi specula sulla tragedia. Una pagina Facebook fake è stata creata a nome del padre del bambino. E c'è chi ne ha approfittato per creare magliette vendute a 16,68 euro. Ma non finisce qui. Una donna nei giorni scorsi aveva creato un finto profilo Twitter e aveva comunicato la falsa notizia della morte di Rayan. La polizia giudiziaria l'ha arrestata in meno di 12 ore. Chiara Clausi

 Bambino caduto nel pozzo in Marocco, Rayan estratto dai soccorritori senza vita dopo 5 giorni. Redazione su Il Riformista il 5 Febbraio 2022. 

Il piccolo Rayan è stato estratto dal pozzo in cui era rimasto incastrato nel villaggio di Tamrout, nel nord del Marocco, cento chilometri da Chefchaouen sui monti del Rif, ma è morto per le ferite riportate. Lo ha annunciato in un comunicato il gabinetto della Casa Reale del Marocco: “Il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta“, si legge nel comunicato citato dai media arabi

Il bambino di 5 anni era stato raggiunto dai soccorritori ed estratto dal pozzo dopo giorni di incessante lavoro di scavo, quindi portato in una ambulanza che lo aspettava a pochi metri: l’obiettivo era quello di farlo salire su un elicottero pronto a volare verso un ospedale, ma Rayan è morto per le ferite riportate nella caduta.

Un epilogo drammatico dopo le ore di grande attesa che ha vissuto il Marocco, che da giorni stava pregando per il piccolo Rayan, caduto martedì in un pozzo nel villaggio di Tamrout.

Da subito si era mossa la macchina dei soccorsi, che hanno scavato con sei grosse bulldozer un tunnel parallelo al pozzo profondo circa 30 metri. Una montagna è stata letteralmente sbancata per creare una voragine e raggiungere in parallelo il fondo del pozzo.

Il bambino da martedì ha trascorso oltre 100 ore in un ‘buco’ di una larghezza di circa 50 centimetri e ha riportato probabili fratture nella caduta. In questi Rayan tramite un tubo è stato rifornito di ossigeno, acqua e cibo.

I lavori di scavo nel tunnel sono proseguiti di centimetro in centimetro, anche perché il rischio crolli ha costretto gli operatori a lavorare con estrema cautela. “Ottanta centimetri ci separano da Rayan, i perforatori stanno lavorando minuziosamente per evitare qualsiasi errore“, aveva detto Mourad Al Jazouli, riferendosi a una progressione di 20 centimetri all’ora.

Rayan come Alfredino

La storia del piccolo Rayan ricorda quella di Alfredo Rampi, detto Alfredino, che il 13 giugno 1981 morì a Vermicino, nel Lazio, dopo aver trascorsi tre giorni in un pozzo artesiano di circa 60 metri di profondità.

Le operazioni di recupero, trasmesse in diretta tv per oltre 18 ore, paralizzarono l’Italia intera. Anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini si precipitò sul posto. Una vicenda che resta dolorosa a distanza di oltre 40 anni.

La tragedia che ha fatto il giro del mondo. Com’è morto il piccolo Rayan, il bimbo caduto in un pozzo come Alfredino Rampi. Vito Califano su Il Riformista il 6 Febbraio 2022. 

Rayan ha lottato per quasi cinque giorni, oltre 100 ore, 32 metri sotto terra. Quando la storia sembrava essere arrivata al lieto fine la tragica notizia: il bambino di 5 anni precipitato in un pozzo nel nord del Marocco è morto. La notizia è stata diffusa dalla Casa Reale ieri sera e ha fatto il giro del mondo in pochi minuti. Inutili i soccorsi. Un dramma che agli italiani ha ricordato quello del piccolo Alfredino Rampi, il bimbo caduto in un pozzo artesiano e morto a Vermicino nel 1981.

Tutto è cominciato nel pomeriggio martedì scorso. Rayan sta giocando davanti casa nel villaggio di Tamrout, a 100 chilometri da Chefchaouen sui monti del Rif. C’è anche il padre. “Lo tenevo d’occhio ma è sparito all’improvviso, non l’ho più visto e non avevo capito fosse precipitato lì dentro”. Ovvero in un pozzo asciutto di proprietà della famiglia. La caduta del piccolo si è fermata a 32 metri, a un punto in cui la larghezza era di circa 25 centimetri. I soccorsi sono scattati subito: prima sono arrivati i vicini di casa, poi i volontari del villaggio. Il primo a scendere è stato un vicino di casa, molto magro, con una corda non riesce ad andare oltre un punto troppo stretto. Fa scendere un telefonino con telecamera accesa: Rayan è vivo, si lamenta e chiama la mamma.

Lo specialista dei pozzi Ali El Jajaoui arriva da Erfoud appena apprende la notizia. Scava per ore e ore anche con le mani nude dopo l’intervento di cinque escavatori che apre una voragine, un corridoio orizzontale. I soccorsi sono imponenti. Mercoledì tramite un tubo si fa arrivare a Rayan ossigeno, acqua e qualcosa da mangiare. Il piccolo è provato ma vigile. È ferito alla testa. La voragine arriva all’altezza del piccolo venerdì e si comincia a lavorare alla costruzione del tunnel. La corsa contro il tempo è ostacolata dalle rocce e dalla terra che frana. “Resto fiducioso che mio figlio uscirà vivo da questo pozzo – aveva detto il padre del piccolo venerdì sera alla tv di Stato 2M – Ringrazio tutti coloro che si sono mobilitati e coloro che ci sostengono in Marocco e altrove”.

Rayan è appoggiato sul fianco. L’ultimo contatto con il padre sabato mattina: “Gli ho parlato, sentivo che respirava a fatica”. Con la moglie viene fatto salire su un’ambulanza con a bordo una psicologa. La rassicurazione dei soccorsi, sabato pomeriggio: oggi lo tiriamo fuori. I soccorritori sono entrati nel tunnel mentre una folla di spettatori osserva e alcuni pregano al grido di Allah Akbar. Pronta l’equipe medica per soccorrere il piccolo. L’ennesima roccia, 80 centimetri di masso da sgretolare, ritarda ancora la salvezza.

Lo sforzo di volontari, speleologi e forze marocchine sembra essere premiato: il bambino viene raggiunto. Il quotidiano Le Matin dà la notizia di “una scena toccante e mai vista”: Rayan è vivo e viene portato in una coperta termica in ambulanza nel visibilio. Poco dopo il comunicato che tronca ogni gioia, della Casa Reale. “Il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta”. Il Re Mohammed VI ha espresso le sue condoglienza alla famiglia.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Michele Farina per corriere.it il 6 febbraio 2022.  

«I genitori, hanno chiamato i genitori!». Sono passate da poco le 9 di sera quando, alla luce delle fotoelettriche e dei telefonini, la folla degli uomini intona inni di ringraziamento. Questione di attimi. Dopo quattro giorni e quattro notti di incubo. 

Lo portano fuori avvolto in un lenzuolo giallo. Papà Khalid e mamma Soumaya ora aspettano all’ambulanza. Che parte verso il piccolo campo dove un elicottero è pronto a partire. La folla festeggia. Ma l’elicottero non si alzerà in volo. E un comunicato della Casa Reale del Marocco gela tutti: «Rayan è morto per le ferite riportate durante la caduta».

20 centimetri all’ora

Per tirarlo fuori avevano squarciato la montagna. E poi hanno continuato a rosicchiare la roccia a mani nude, per ore, avanzando in orizzontale grazie a un condotto di sicurezza. Piano piano, per non rischiare di far crollare tutto. 

Roccia grigia, terra rossa. Alla luce del sole e quando è calata la sera, una grande scavatrice gialla, con il braccio pazientemente piegato e ormai inservibile, è rimasta a fare da sentinella all’imboccatura della caverna artificiale, mentre dentro i soccorritori con il casco rosso avanzavano a piccoli colpi di 20 centimetri all’ora per salvare il bambino Rayan, 5 anni, prigioniero da martedì pomeriggio di un pozzo profondo 32 metri e largo 25 centimetri. Il pozzo che, mentre lui giocava, suo padre stava sistemando .

La folla in preghiera

Per ore ieri il papà contadino è stato visto vagare all’entrata della caverna, o seduto con il cappuccio calato sulla testa, mentre intorno una folla sterminata di persone (quasi tutti uomini) incorniciava la scena da ogni lato. A Ighrane, villaggio di 500 persone sulle montagne del Rif, nel nord del Marocco, tanta gente insieme non si era mai vista. Persone pronte, con il cellulare in mano, a riprendere un momento atteso in tutto il Marocco e non solo. 

Un momento che era sembrato imminente già dal mattino, quando i capi della Protezione Civile raccontavano che l'avanzata nella notte precedente era stata ritardata da un pericoloso imprevisto: l’ostacolo di una grande roccia di tre metri aveva richiesto quattro di scavo e mille precauzioni per la paura di frane.

Il sole è tramontato sui monti del Rif, su quel villaggio di coltivatori di cannabis che è sempre stato soltanto un puntino nelle mappe, e il momento tanto atteso ancora non arriva. Per la mamma e il papà di Rayan, per gli spettatori che a decine (tanti bambini) hanno chiamato le radio e le tv per lasciare un messaggio o una preghiera. 

L’incertezza

Alla discesa del buio, gli «Allah Akhbar» lanciati verso il cielo sono ripresi tra la folla, quando alla squadra degli scavatori si è affiancata l’equipe dei medici. Le flebo dopo gli scalpelli. Ma del piccolo Rayan ancora nessuna traccia. Nella mente le avvertenze di Abdelhadi Temrani, responsabile dei soccorsi, che prima di mezzogiorno aveva messo in guardia: «Non è possibile determinare le condizioni del bambino. Non sappiamo se abbia preso l’acqua e la mascherina dell’ossigeno che gli abbiamo mandato giù. Ma preghiamo Dio che sia vivo». 

La testa ferita

Le ultime immagini dalla telecamerina, ha raccontato Temrani, mostravano Rayan appoggiato sul fianco. Giovedì, il giovane che si era calato nel pozzo arrivando a sei metri di distanza dalla sua testa ferita, come avevano fatto a Vermicino i volontari italiani nel tentativo di salvare Alfredino Rampi nel 1981, lo aveva sentito piangere e respirare. 

Non aveva potuto fare altro, perché a 26 metri il pozzo si restringeva ulteriormente.

La Protezione Civile aveva così cambiato strategia. Scavando la montagna con sei scavatrici in modo da arrivare «di lato» alla stessa profondità del bambino. Sulla parete in alto, sotto il treppiede alla bocca del pozzo, i segni dei denti delle benne. Al fondo, «i perforatori» che avanzavano 20 centimetri all’ora.  

Scesa la notte, nella caverna illuminata dalle fotoelettriche si è continuato a lavorare. Fuori, la folla in attesa: tra la sentinella gialla e l’ambulanza bianca pronta ad aprire il portellone per il tragitto fino all’elicottero e da lì all’ospedale.

Poi sono comparsi i genitori, il papà con il cappuccio e gli occhi bassi, la mamma impietrita. Cominciano i cori. Adesso esce. Ancora un attimo. Scattano i telefonini. L’ambulanza accoglie Rayan avvolto in un lenzuolo giallo.

Rayan e gli incubi di Ali, «l'eroe del deserto» che non è riuscito a salvarlo: come Angelo Licheri con Alfredino Rampi. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 06 febbraio 2022.

Uno di volontari che ha provato a salvare il piccolo Rayan era partito dal sud del Marocco per arrivare sui monti del Rif, per tentare di salvare il bambino. È stato salutato, sui social, come «l'eroe del deserto». E ora affronterà gli stessi incubi di Angelo Licheri, che provò a salvare Alfredino Rampi. 

Non è arrivato a sfiorarlo, come fece Angelo Licheri con Alfredino Rampi. «Tentai di afferrarlo per la canottierina, ma ho sentito che cedeva», disse a Giusi Fasano che lo intervistò nel 2019 per «7», «allora me ne andai e dissi “ciao piccolino”». Ma gli incubi — è facile immaginarlo — non smetteranno di assillarlo. 

Ali Sahroui, come lo chiama l'agenzia Afp; «l'Eroe del deserto», come lo chiamano in Marocco, è uno delle decine di soccorritori che sono arrivati nei giorni scorsi per tentare di salvare Rayan, il bimbo di 5 anni caduto in un pozzo mentre giocava, martedì, davanti a casa sua, sulle montagne del Rif, in Marocco. 

È diventato — suo malgrado, forse — un simbolo: il più applaudito a Tamrout, il villaggio teatro della vicenda, durante le operazioni di soccorso, terminate tragicamente sabato sera. 

Si era presentato con una maglietta azzurra, e un berretto nero in testa, a chiedere di poter dare una mano. 

Secondo le agenzie, viene da Erfoud, nel Sud del Marocco. Ha circa 50 anni, ed è specialista nella perforazione di pozzi. Una professione preziosa, specie in zone dove l'acqua è così scarsa. 

Appena saputo di quanto era accaduto a Rayan si è messo a disposizione. È partito da Erfoud, percorrendo quasi per intero tutto il Marocco, da sud a nord, per condividere con i tecnici che erano già al lavoro i segreti dei pozzi. Sarebbe sua l'idea del tunnel di raccordo tra il cratere e il punto in cui era precipitato Rayan. 

Quando sono andati via i bulldozer è stata l'ora di Ali, che con altri giovani ha scavato a mano, fino alla fine. Un lavoro di ore: Ali è entrato nel cratere venerdì, più o meno alle 18, per uscirne solo sabato, a operazione conclusa. 

Applaudito dalla folla ogni volta che si è affacciato, per bere un sorso d'acqua o per riprendere fiato: la sua foto è diventata virale sui social. 

Ha contribuito a dar forma al tunnel che doveva rappresentare la via di fuga, per Rayan: e che invece si è invece trasformato nel suo ultimo percorso. 

Non sappiamo se sia già ripartito, o se intenda partecipare ai funerali del piccolo Rayan. 

Ma il pensiero di tutti, osservandolo, è andato alle parole di Licheri, scomparso pochi mesi fa. 

Anche lui — sardo di Gavoi — era partito all'improvviso da dove abitava, a Roma, per raggiungere Vermicino. Faceva il fattorino per una tipografia, seguì l'inizio della vicenda davanti allo schermo, come altri 32 milioni di telespettatori. Come ha scritto Giusi Fasano qui: «Rimase davanti allo schermo per due giorni finché la sera del 12 giugno disse alla donna che allora era sua moglie: "Esco a prendere le sigarette". E lei: "Fra mezz’ora è pronta la cena". Lo vide uscire e - confesserà dopo - le venne spontaneo un pensiero: "Vuoi vedere che quel pazzo vuole andare a Vermicino...". Nelle ore precedenti lo aveva visto davanti allo specchio fare strane contorsioni con le braccia in alto. "Che fai?" aveva chiesto. "Niente, un po’ di ginnastica", aveva risposto lui. Ma cos’altro poteva essere quella strana ginnastica se non prove immaginarie di movimenti nel pozzo? Lei non disse nulla ma capì». 

«Non sapevo nemmeno dove fosse quel posto», disse, sempre a 7. «"Ricordo solo che ho fatto tutte le infrazioni possibili per arrivarci. Mi sono fatto l’ultimo tratto a piedi, sono arrivato davanti al blocco e non mi hanno fatto passare, ma non avrei ceduto per niente al mondo. Così ho costeggiato una via che portava al pozzo e, come un ladro, sono passato in mezzo a una vigna finché ci sono arrivato davanti. C’era un cordone di militari e mi sono detto: e adesso che faccio? A quello che mi ha bloccato ho detto che mi aspettava il capo dei pompieri: puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori. In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei vigili del fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema... L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io. 

Gli tolsi il fango dagli occhietti e dalla bocca e cominciai a fargli promesse che avrei senz’altro mantenuto. Gli dissi: ho tre bambini e uno è più piccolo di te. Hanno tutti la bicicletta. Sai che facciamo? Appena usciamo ne compro una anche a te, vedrai che sarai orgoglioso di questa bici nuova. E poi ti compro anche una barchetta, mi hanno detto che sai pescare bene... Lui emetteva quel rantolo che è qui, nella mia testa..." 

Lo imbragò una prima volta e diede il segnale alla squadra in superficie. Ma lo strattone fu troppo forte e la cinghia scivolò fuori dalle braccia. La rimise e tentarono ancora ma stavolta fu il moschettone a sganciarsi. «Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva. Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento, lieve. Non aveva più forze, povera creatura. Gli ho detto: dopo tutta la sofferenza che hai patito ci mancavo proprio io a farti ancora più male. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva... E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino"».

Così Rayan ha unito mondi divisi. Fiamma Nirenstein il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La vita di un bambino vale tutto. D'un tratto i conflitti del mondo musulmano sono spariti nel niente.

Il mondo non è stato salvato. Intorno alla terra marrone e fangosa, nei palazzi adornati dai tappeti colorati di tutto il mondo arabo, fino nella mitica casa del re, e molto molto più in là, sui nostri teleschermi squadrati, crudeli di luce azzurrina, negli uffici dei governanti europei, americani e nelle redazioni affollate e formicolanti di notizie, per alcuni giorni ha contato solo la quintessenza della speranza, quella di salvare il bambino Rayan. Quella provincia abbandonata del Nord Marocco in breve sarà di nuovo un luogo periferico, sconosciuto ai più, i poveri genitori disperati e poveri resteranno soli: per alcuni giorni quel villaggio è stato la capitale del mondo. Per un bambino si deve fermare il mondo: troppo spesso invece non è successo, non succede. I bambini che muoiono di fame in Africa e di guerra in Siria, i piccoli che salgono in braccio ai genitori su una barca e vengono ripescati o inghiottiti fra i flutti, quelli che vengono usati come kamikaze o scudi umani dai terroristi, quelli che sono stati oggetto di genocidio per mano di mostri civilizzati, come i bambini ebrei nella Shoah hanno trovato per cinque inutili giorni il loro riscatto nel martirio di Rayan. La vita di un bambino vale tutto. D'un tratto i conflitti del mondo musulmano sono spariti nel niente, una amorosa solidarietà fatta di preghiere comuni ad Allah fra Paesi spesso antagonisti si è fatta largo. L'ardua, impossibile comunanza fra musulmani, ebrei, cristiani, realizzata nelle piccole mani, sempre più deboli, del bambino. Il Bambino. Al Arabyia dava continue notizie al mondo su quanti centimetri, quanti minuti, quanto miracolo ci si potesse aspettare da Ali El Jajaoui, il mago dei pozzi del deserto arrivato da Erfoud; proprio come fu per Angelo Licheri a Vermicino, l'eroe, purtroppo inutile anche lui, di Alfredino. Anche Ali, come Angelo, per tutta la vita dovrà sentire il peso sull'anima di chi ha provato per un momento l'ebbrezza di salvare il mondo e poi invece è stato castigato dalla ferocia della sorte umana. Qui poi la folla è impazzita di gioia e ha lodato Dio quando il piccolo corpo è stato estratto dalla terra, senza sapere che era troppo tardi. Uno strappo che lascia muti. Intorno a Rayan si era compiuto il miracolo che è ovvio a ogni genitore quando guarda suo figlio, e che invece si frammenta, si sbriciola inaspettatamente nella miseria della realtà politica, sociale, religiosa: un bambino è una luce candida, perfetta, non ha religione, né nazionalità. Tanto più crudele, come accadde anche a Vermicino, è quindi su di lui l'accanirsi improvviso insieme alla disgrazia del definitivo meccanismo devastante del tempo: un secondo in più, due, tre, il mondo davanti al teleschermo, i fedeli nei loro luoghi di culto, i genitori nella devastazione dell'ansia, hanno contato i minuti della corsa contro il tempo che non è stata vinta. E poi il buio, la sconfitta collettiva: era il bambino di tutto il mondo, come lo fu Alfredino. Si è dovuto scoprire che la sublimazione, il desiderio, l'intuizione della perfezione, non bastano per salvare la persona. Non è mai bastato. Fiamma Nirenstein. Fiamma Nirenstein

Marocco, ultimo saluto a Rayan: addio al bimbo di 5 anni caduto nel pozzo di Ighrane. Ilaria Minucci il 07/02/2022 su Notizie.it.

Centinaia di persone in lutto hanno partecipato ai funerali del piccolo Rayan, il bimbo di cinque anni morto dopo essere caduto in un pozzo in Marocco. 

Centinaia di persone in lutto hanno partecipato ai funerali del piccolo Rayan, il bimbo di cinque anni morto dopo essere caduto in un pozzo in Marocco.

Marocco, ultimo saluto a Rayan: addio al bimbo di 5 anni caduto nel pozzo di Ighrane

Nella giornata di lunedì 7 febbraio, si sono tenuti i funerali del piccolo Rayan, il bambino di soli cinque anni che è morto dopo essere precipitato in un pozzo profondo 32 metri, situato nel villaggio di Ighrane, in Marocco.

Il piccolo era caduto nel pozzo lo scorso martedì 1° febbraio e il Paese ha seguito con il fiato sospeso le oltre cento ore di diretta video che mostravano il lavoro svolto dai soccorritori.

Dopo quattro giorni di interminabili tentativi, lavorando prima con scavatrici e poi a mano per tentare di trarre in salvo il bambino, Rayan è stato infine estratto dal pozzo ancora vivo nella giornata di sabato 5 febbraio ma è deceduto all’ospedale militare di Rabat poco dopo il suo arrivo a causa delle ferite riportate a seguito della caduta.

In occasione dei funerali, centinaia di persone in lutto si sono recate al cimitero di Ighrane, situato a sei chilometri dal luogo della tragedia, nelle vicinanze di Chefchaouen, nel Marocco settentrionale, e hanno atteso che i rituali funebri musulmani avessero inizio.

In merito ai funerali del bambino, un abitante del villaggio Ighrane ha dichiarato: “Ho più di 50 anni e non ho mai visto così tante persone ad un funerale.

Rayan è il figlio di tutti noi”.

In considerazione del grande afflusso ai funerali del piccolo, sono state allestite due grandi tende dinanzi all’abitazione della famiglia di Rayan, consentendo alle persone di potersi fermare e porgere le proprie condoglianze.

Sull’accaduto, un altro abitante del villaggio ha affermato: “La morte di Rayan ha rinnovato la fiducia nell’umanità poiché persone di lingue diverse e provenienti da Paesi diversi esprimono solidarietà”.

Tra i volontari che hanno lavorato insieme a i soccorsi per dare una mano e trarre in salvo il bimbo, invece, domina la tristezza. Il volontario Ali Sahraoui, infatti, ha ammesso ai giornalisti presenti alla cerimonia funebre: “Sono tanto triste. Non abbiamo risparmiato alcuno sforzo per raggiungere il ragazzo vivo. Abbiamo scavato 24 ore su 24 in cinque giorni ciò che avrebbe potuto richiedere settimane”.

I giocatori di calcio egiziani e senegalesi, infine, hanno osservato un minuto di silenzio nella giornata di domenica 6 febbraio, prima del calcio d’inizio della finale del torneo della Coppa d’Africa.

·        Quei razzisti come i libici.

Gheddafi e il «patto del diavolo» con l’Ira: il dittatore inviò 12,6 milioni di dollari. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera l'1 gennaio 2022. Il regime finanziò i terroristi con l’equivalente di 45 milioni attuali. I primi contatti sono stati favoriti dall’Urss nel 1973, un canale privilegiato che ha portato ad una prima spedizione nel marzo di quell’anno con la nave Claudia. 

L’aiuto di Gheddafi all’Ira è storia, una collaborazione ampia con invio di materiale bellico e denaro. Ora però si hanno dati più precisi: Tripoli, nei primi anni ‘80, ha versato 12,6 milioni di dollari, l’equivalente di 45 milioni attuali. Documenti riservati emersi dagli archivi irlandesi forniscono informazioni interessanti sul patto del diavolo. I primi contatti tra il regime e i terroristi sono stati favoriti dall’Urss nel 1973, un canale privilegiato che ha portato ad una prima spedizione nel marzo di quell’anno con la nave Claudia. 

E il rapporto si è consolidato con un flusso continuo che ha creato il grande arsenale della fazione. I libici hanno spedito: 1.450 Kalashnikov, 180 pistole, 66 mitragliatrici, 36 lanciagranate tipo Rpg, 10 missili terra-aria (tipo Strela), 10 lanciafiamme, 765 bombe a mano, 5.800 chilogrammi di esplosivo al plastico, 1.080 detonatori e oltre un milione di proiettili. A questi «pezzi» ne vanno aggiunti altri, come mine anti-carro, fucili di precisione, sistemi per creare ordigni. 

Il Paese nord africano non era l’unico fornitore in quanto i militanti hanno spesso acquistato il necessario su fronti diversi, dagli Usa all’Europa dell’Est. Per trasferire gli equipaggiamenti sono stati impiegati, oltre la Claudia, altri cargo. La Casamara nell’agosto e ottobre 1985, la Kula nel luglio 1986, la Villa nell’ottobre dell’anno dopo. La filiera si è poi interrotta nell’87 quando la Francia ha intercettato il mercantile Eksund, anche questo con la stiva piena di armamenti. 

I dettagli, coincidenti con le valutazioni dell’intelligence, sono però di fonte libica. Un gesto distensivo legato a nuove condizioni diplomatiche. Gheddafi, per uscire dall’isolamento internazionale provocato dalle indagini per la strage di Lockerbie (dicembre 1988, jet Pan Am), ha avviato un dialogo con la Gran Bretagna e ha passato file importanti nel corso di due incontri riservati nel 1992. Il primo a Ginevra, il secondo al Cairo. 

Il crocifisso, i vestiti, la bomba: così la morte giunse dal cielo. Mariangela Garofano il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il 21 dicembre 1988 il volo Pan Am 103 esplose in volo sopra la cittadina di Lockerbie, Scozia, provocando il decesso delle 270 persone a bordo.  

È il 21 dicembre 1988 quando il volo Pan Am 103 diretto da Londra a New York decolla dall’aeroporto di Heathrow con un leggero ritardo, a causa del traffico natalizio. Ma solo mezz’ora più tardi il Boeing 747-121 esploderà in volo sulla città di Lockerbie, in Scozia, uccidendo tutte le 259 persone a bordo e 11 persone che si trovavano a terra. Solo nel 1991 le indagini porteranno alla cattura dei responsabili, due terroristi libici che misero a bordo l’ordigno esplosivo, causando il più grave disastro aereo accaduto in Gran Bretagna.

L’antefatto e l’esplosione

Il Boeing “Clipper Maid of the Seas" della compagnia Pan American stava effettuando la seconda tratta da Londra a New York, quando esplose durante la fase di crociera. Il giorno precedente al disastro, il velivolo aveva effettuato un volo di routine da Francoforte a Londra, dove rimase parcheggiato per i controlli prima della partenza successiva. L’aereo sarebbe dovuto restare sotto osservazione, a causa di un allarme bomba. Sedici giorni prima della partenza, un uomo dall’accento arabo chiamò l’ambasciata americana a Helsinki per avvisare che entro due settimane un volo della Pan Am da Francoforte a New York sarebbe esploso a causa di una bomba. 

Pur avendo preso seriamente la soffiata anonima, l’allarme durò solo due giorni e, terminato il check-in, il "Clipper Maid of the Seas" decollò alle 18.25 con 243 passeggeri e 16 membri dell’equipaggio a bordo. Alle 19.01 il comandante James MacQuarrie contattò i controllori di volo di Prestwick, in Scozia, per chiedere il permesso di dirigersi sull’Oceano Atlantico, con direzione New York. Ma quella fu l’ultima comunicazione radio del volo 103, perché alle 19.02 l’aereo sparì dai tracciati e neanche un minuto più tardi una forte esplosione che causò una scossa sismica, fu avvertita nei pressi di Lockerbie. A provocare la scossa fu il volo 103, che con a bordo 91.000 chilogrammi di carburante a bordo, si schiantò al suolo, disintegrando diverse abitazioni nel raggio di 60 metri.

Le ricerche e gli indizi

Membri dell’esercito britannico e una squadra dell'Air Accident Investigation Branch scozzese arrivarono sul posto poche ore dopo il disastro, trovandosi davanti agli occhi uno spettacolo apocalittico. L’area colpita dai rottami del velivolo si estendeva per 2000 metri quadrati ed era un inferno di fuoco e rottami. Gli inquirenti stabilirono che a causare l’esplosione dell’aereo fu un attentato terroristico. A bordo del Boeing venne trovato un mangianastri contenente un ordigno esplosivo. La bomba era stata inserita a sua volta all’interno del vano bagagli in una valigia Samsonite, che esplose sul lato sinistro della fusoliera provocando un buco di mezzo metro. L’aereo si spezzò in più parti: la cabina di pilotaggio, il terzo motore e il tetto della parte del velivolo in cui era contenuta la bomba si separarono dal resto dell’aereo, che precipitò in posizione quasi verticale. Nessun passeggero si salvò dalla violenza dell’esplosione.

Le vittime 

Durante le ricerche delle vittime, la Fatal Accident Inquiry scoprì che a molti dei passeggeri si strapparono i vestiti di dosso, a causa delle decompressione. Alcuni di loro restarono attaccati ai sedili, altri furono sbalzati fuori dal velivolo durante la rovinosa caduta. Purtroppo anche 11 persone che si trovavano a terra persero la vita, quando le ali dell’aereo colpirono le loro abitazioni alla velocità di 800 chilometri all'ora. La furia dell’esplosione provocò un cratere lungo 47 metri e polverizzò ben 27 case nei paraggi. Dall'autopsia inoltre si evinse che molte delle vittime arrivarono al suolo ancora vive, rivelando particolari drammatici al mondo sugli ultimi momenti di vita dei passeggeri. Venne infatti ritrovata una madre davanti al figlio, nell'atto di proteggerlo dall’urto, due amici che si tenevano per mano e altri passeggeri furono trovati con un crocifisso in mano.

Le indagini e le teorie

Quando gli investigatori specializzati in disastri aerei trovarono i resti del Boeing, scoprirono che le maschere d’ossigeno erano al loro posto e che non vi era nulla di insolito. L’esplosione era avvenuta così repentinamente che non c’era stato tempo per alcuna procedura di sicurezza. Il 25 dicembre dell’anno successivo venne ritrovato nella valigia, in mezzo ai vestiti, un altro congegno con un timer uguale a quello esploso sul volo della Pan Am, fabbricato da una società svizzera, che ammise di averlo consegnato ad alcuni esponenti del governo libico.

Il 13 novembre 1991 l’Fbi e la polizia dell’area amministrativa di Dumfries e Galloway, Scozia, accusarono dell’attentato del volo 103 l'ufficiale dell'intelligence libica Abd el-Basset Ali al-Megrahi e il responsabile della Libyan Airways presso l'Aeroporto Internazionale di Malta, Lamin Khalifah Fhimah. Gli inquirenti sospettarono di un attacco agli Stati Uniti, dato che 178 passeggeri erano di nazionalità statunitense e che i rapporti con la Libia erano tutt’altro che distesi. A questo punto gli accusati furono presi in custodia dal Gruppo di intervento speciale dei carabinieri per conto della Corte dell'Aia e vennero emesse sanzioni nei confronti della Libia.

 Megrahi e Fhimah 

Megrahi fu condannato all’ergastolo per l’uccisione di 270 persone, mentre Fhimah venne prosciolto. Megrahi fu rilasciato nel 2009 per problemi di salute. Siamo alla fine degli anni ’80, i rapporti degli Stati Uniti con il Medio Oriente sono tesi e la Guerra del Golfo è alle porte. Nel 1986 inoltre, gli Usa bombardarono la Libia con l’operazione El Dorado Canyon, in risposta a un attentato di quest’ultima alla discoteca La Belle di Berlino, in cui rimasero ferite 230 persone, tra le quali 50 militari statunitensi e trovarono la morte una donna turca e due soldati. Non sembrò strano quindi che la responsabilità dell’accaduto venisse imputata al governo libico.

Ma, come riporta RaiNews, un ex agente dell’intelligence iraniano sostenne che l’attentato fu opera del governo iraniano, come rivendicazione dell’abbattimento del volo Iran Air 655, avvenuto per errore il 3 luglio 1988 da parte di un'unità da guerra della Us Navy. Ma Teheran smentì la dichiarazione dell’agente e prese piede un’ulteriore teoria, che vede protagonisti dell’attacco al volo della compagnia americana dei terroristi siriani, teoria che non fu mai confermata.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna

·        Quei razzisti come i congolesi.

Un dente d’oro è tutto ciò che resta di Patrice Lumumba? Gianluca Mercuri su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.

L’uomo che ebbe il coraggio di dire, davanti al re del Belgio, che il suo popolo era stato schiacciato da «un’umiliante schiavitù», dai belgi venne torturato, ucciso e sciolto nell’acido. Ma qualcosa di lui rimase. E oggi trova sepoltura. 

«Un’umiliante schiavitù ci è stata imposta con la forza». 

Quando sentì pronunciare queste parole, Baldovino ebbe un sussulto. Il re dei belgi, quando era toccato parlare a lui, aveva usato tutt’altro tono. Aveva definito il suo antenato Leopoldo II «un civilizzatore». Leopoldo II non era un civilizzatore ma uno sterminatore. Tra il 1884 e il 1908 sfruttò il Congo in quanto suo dominio personale, beffardamente denominato «Stato libero del Congo». In quegli anni praticò il genocidio: milioni di congolesi schiavizzati nella produzione del caucciù, trattati brutalmente, mutilati quando non raggiungevano i quantitativi previsti. Morirono oltre dieci milioni di persone. 

Ma il Belgio non era pronto a fare i conti col suo piccolo Hitler incoronato, e forse non lo sarà mai del tutto. 

Chi era prontissimo a dire la verità, quel 30 giugno 1960, era il giovane primo ministro del Congo finalmente davvero libero, almeno in teoria. 

Patrice Lumumba aveva 34 anni ed era stato eletto una settimana prima, negli ultimi giorni dell’amministrazione coloniale, perché dopo il 1908 il Congo era diventato una colonia belga, non più una proprietà privata del re. 

Nel proclamare l’indipendenza aveva raccontato la vera storia di quella dominazione, interrotto più volte dagli applausi e salutato alla fine da una standing ovation. 

I belgi rimasero interdetti e con loro tutti gli europei, perché fino a quel giorno nessun africano aveva mai osato denunciare i crimini del colonialismo. Per questo Patrice Lumumba divenne un simbolo prima ancora di diventare uno statista, ruolo che non fece in tempo a perfezionare. Un simbolo della lotta per la libertà, della ribellione dei popoli schiavizzati dai bianchi, del terzomondismo. 

Di tutte quelle cose, insomma, che oggi sono demodé, che nel discorso pubblico davvero imperante non si possono nemmeno menzionare perché sennò si passa per nemici dell’Occidente. 

Lumumba fu il primo a criticare. Gli storici sono portati a pensare che quel giorno, con quelle parole, si autocondannò a morte. 

Gliela giurarono tutti: i belgi, gli americani sospettosi dei suoi flirt con i sovietici, gli inglesi che nella storia deprecata da Lumumba vedevano la loro storia. E, certamente, altri africani, altri congolesi, perché nel momento stesso in cui finiva il colonialismo altri mali cominciavano a flagellare l’Africa, la corruzione, la lotta per accaparrarsi le risorse, il tribalismo, la tendenza all’eccidio feroce, la conflittualità endemica, l’instabilità perenne: mali seguenti al colonialismo, vai a capire quanto conseguenti o quanto da attribuire solo a quei popoli finalmente «indipendenti», loro senza più l’alibi del dominio straniero e noi senza più colpe. 

Fatto sta che Lumumba rimase per quarant’anni il primo e unico leader democraticamente eletto del Congo; che il Belgio fomentò subito la secessione del Katanga (la regione più ricca di miniere); che Lumumba entrò subito in conflitto col presidente; che in dicembre, solo sei mesi dopo l’indipendenza, il generale golpista Mobutu lo fece arrestare; che in gennaio fu trasferito con due fedelissimi in Katanga; e che lì fu torturato e massacrato. 

A massacrare Lumumba furono i belgi. Se il contributo del governo di Bruxelles fu tacito, furono sicuramente mani belghe a compiere lo scempio. 

Quelle del commissario di polizia Gerard Soete e dei suoi sottoposti, come lui stesso ammise quattro decenni dopo dinanzi alla commissione parlamentare belga incaricata di fare luce sull’assassinio: «Avevamo fucilato Lumumba nel pomeriggio. Poi tornai nella notte con un altro soldato, perché le mani dei cadaveri spuntavano ancora dal terriccio. Prendemmo l’acido che si usa per le batterie delle automobili, dissotterrammo i corpi, li facemmo a pezzi con l’accetta; poi li sciogliemmo in un barile, facendo tutto di fretta, perché non ci vedesse nessuno». 

Altre testimonianze parlano di uno spostamento del cadavere in una zona a 200 chilometri dal luogo della fucilazione, prima della riesumazione e della liquidazione. Di certo, nelle intenzioni degli assassini, di Lumumba non dovevano restare tracce. Ma ne restarono. Due dita e due denti, che Soete conservò — disse lui stesso in un documentario del 1999 — come «una specie di trofeo di caccia». 

Aggiunse di essersene poi sbarazzato. Tranne di un pezzo. Un dente d’oro. Soete morì nel 2000 e del dente si riparlò solo nel 2016, quando la figlia ne ricordò l’esistenza durante un’intervista. C’è voluta una battaglia legale di quattro anni perché un tribunale ne disponesse la restituzione alla famiglia. 

Nel frattempo la figlia di Lumumba, Juliana, che quando il padre fu ucciso aveva 5 anni, era stata costretta a scrivere una lettera aperta al re Filippo perché intervenisse. 

Quel dente è l’unica cosa rimasta di Lumumba e il 20 giugno, in una cerimonia ufficiale al Palazzo di Egmont a Bruxelles, il Belgio l’ha restituto alla sua famiglia, rappresentata da Juliana. 

La reliquia è stata esposta all’interno di una bara, dal 27 al 30 giugno, al Palais du Peuple, sede del Parlamento congolese. 

Il 30 giugno, nel 62esimo anniversario della nascita della Repubblica Democratica del Congo, si terrà la cerimonia ufficiale di sepoltura di ciò che resta di Patrice Lumumba, in un mausoleo costruito per lui nella periferia orientale di Kinshasa. 

Il Belgio, l’Occidente, noi, abbiamo fatto i conti con tutto questo? È un processo faticoso. 

La commissione parlamentare, dopo due anni di lavoro, scrisse che all’epoca del massacro «le norme del pensiero internazionale politicamente corretto erano diverse», il che fa sobbalzare per un paio di motivi: per come ancora all’inizio di questo millennio si tendeva a ridimensionare la portata di un orrore come quello con una imbarazzata e imbarazzante contestualizzazione storica; ma anche per il riconoscimento di come il tanto deprecato «politicamente corretto» sia stato necessario, nella sua versione originaria, a ricostruire verità storiche rimosse o taciute per decenni o secoli. 

Quanto alla matrice dell’assassinio, la commissione concluse che alcuni membri del governo belga erano «moralmente responsabili delle circostanze che portarono alla morte di Lumumba». 

Un passo in più l’ha fatto all’inizio di giugno re Filippo, che è andato per la prima volta in Congo e ha definito il colonialismo belga «un regime caratterizzato da relazioni ineguali, di per sé ingiustificabili, segnate da paternalismo, discriminazione e razzismo», per poi aggiungere: «Qui, davanti al popolo congolese e a coloro che ancora oggi ne soffrono, desidero ribadire il mio più profondo rammarico per queste ferite del passato». 

Un po’ poco forse.

E forse si potrebbero dire molte cose sulle lentezze e sulle reticenze dei belgi, e sulla tentazione di catalogarle come difetti cronici. 

Ma sarebbe politicamente scorretto. 

Dente per dente. Come il Belgio sta affrontando il suo travagliato passato coloniale. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.

Un discorso di scuse del Re Filippo in Congo e due restituzioni simboliche sono gli ultimi episodi di un processo difficile nel Paese che deve confrontarsi con violazione dei diritti umani perpetrati nel passato, assumendosi le proprie responsabilità storiche in Africa

Il cofanetto blu passa di mano in modo solenne, in una cerimonia sobria alla presenza del Primo ministro, trasmessa in diretta televisiva. Chi la riceve non proferisce parola. Dentro c’è un dente, vecchio di 61 anni. Apparteneva a un giovane politico africano, assassinato in circostanze poco chiare ancora oggi, ma per tutto questo tempo è rimasto conservato in Europa. Il Belgio lo ha restituito alla Repubblica democratica del Congo: un gesto che rivela l’impegno delle autorità di Bruxelles a fare i conti con il passato coloniale del Paese.

Il dente era di Patrice Émery Lumumba, protagonista dell’indipendenza e primo Primo Ministro nella storia congolese. Non un mandato lungo, per la verità: Lumumba annunciò la nascita del nuovo Stato il 30 giugno del 1960, ma il 5 settembre dello stesso anno era già stato destituito e il 17 gennaio di quello successivo, assassinato.

Gli anni turbolenti a cavallo dell’indipendenza sono raccontati minuziosamente nel libro «Congo» del giornalista e scrittore David Van Reybrouck. Quel giovedì di giugno del 1960 Lumumba, appena proclamato Primo ministro dopo le prime elezioni della neonata repubblica, pronunciò un discorso storico, molto critico nei confronti della dominazione belga, durata in totale 75 anni. Nelle sue parole, il regime coloniale veniva associato alla schiavitù, al saccheggio, al lavoro estenuante e alla discriminazione razziale: il Congo era stato governato fino ad allora con una legge «crudele e disumana» per i suoi abitanti indigeni e «accomodante» per i bianchi colonizzatori.

Il discorso, intriso di rabbia e rivendicazioni e dal tono poco riconciliatorio, non piacque alle autorità belghe, che avevano appena concesso l’indipendenza al Paese. Lo stesso Re Baldovino, presente alla cerimonia, restò interdetto. Pochi mesi dopo, Lumumba sarebbe stato costretto a rimangiarsi quelle parole: in senso letterale, visto che fu obbligato a inghiottire una copia del testo.

I primi mesi di vita della Repubblica democratica del Congo furono infatti molto tormentati. Come ricostruisce Van Reybrouck, Lumumba procedette in maniera troppo rapida all’«africanizzazione» dell’esercito nazionale, trasformando la Force Publique dell’epoca coloniale nell’Armée Nationale Congolaise e sostituendo gli alti ufficiali belgi con impreparati militari del luogo. Una decisione forse motivata da intenzioni lodevoli, ma dagli effetti nefasti, visto che tolse al neonato governo un esercito efficiente con cui affermare il monopolio nell’uso della forza.

In pochi giorni, il Paese fu travolto da violenze e tumulti: alcuni fra i soldati che si erano ammutinati per ottenere promozioni e aumenti salariali attaccarono i civili europei ancora presenti in una città congolese, Thysville. La cosa provocò l’intervento dell’esercito belga, deciso a salvare i propri connazionali e l’esodo degli europei tolse al nuovo Stato anche il personale amministrativo, prima che si fosse pronti a sostituirlo.

La situazione degenerò presto, con due regioni meridionali, il Katanga e il Kasai del sud, che dichiararono a loro volta l’indipendenza dal Congo. Il caso congolese assunse subito una dimensione internazionale, con l’intervento delle Nazioni Unite, le pressioni del Belgio e degli Stati Uniti e la richiesta di aiuto inviata da Lumumba all’Urss: una mossa probabilmente dettata dall’inesperienza del governo, ma destinata ad aprire un fronte africano nella Guerra fredda.

Il 5 settembre Lumumba fu destituito dal Presidente della Repubblica, Joseph Kasavubu e il 14 si verificò il primo colpo di Stato, ad opera di Joseph-Désiré Mobutu, ex segretario e amico di Lumumba. Il primo risultato di questo caos governativo fu l’arresto ai domiciliari di Lumumba da parte del nuovo leader Mobutu, il cui governo provvisorio venne riconosciuto dalla Nazioni Unite. L’ex Primo ministro tentò la fuga dalla capitale Léopoldville verso l’Est del Paese, dove i suoi sostenitori avevano allestito un governo parallelo. Ma fu intercettato, incarcerato, torturato e infine trasferito nella regione del Katanga.

Qui trovò la morte, insieme a due fedelissimi, per mano delle autorità katanghesi, in un luogo sperduto nella foresta. I funzionari dei governi di Belgio e Stati Uniti, decisi a disfarsi di lui politicamente, non fecero nulla per impedire la deportazione di Lumumba, pur consci che ne avrebbe messo in pericolo la vita. Per questo i due Paesi sono considerati coinvolti, anche se non direttamente responsabili, nell’omicidio politico.

Storia di un dente

Racconta nel suo libro Van Reybrouck: «I tre prigionieri furono condotti, uno alla volta, sul bordo della fossa. A meno di quattro metri di distanza c’era il plotone d’esecuzione: quattro militari katanghesi con una mitragliatrice. Per tre volte una salva assordante risuonò nella notte. Lumumba fu l’ultimo a essere giustiziato. Alle 21.43 il corpo del Primo ministro eletto democraticamente del Congo rotolò nella fossa».

Viene ricordata anche la sottrazione del dente, operata dal vice-ispettore generale della polizia katanghese, un belga. «L’assassinio di Lumumba fu tenuto nascosto a lungo. Gerard Soete segò in pezzi i corpi e li sciolse in un barile di acido solforico. Dalla mascella superiore di Lumumba estrasse due denti rivestiti d’oro, dalla sua mano mozzò tre dita. Nella sua casa di Bruges conservò per anni una piccola scatola che mostrava talvolta ai visitatori: conteneva i denti e un proiettile».

Solo alla fine degli anni ‘80, Soete confessò il suo ruolo nell’occultamento dei cadaveri e la refurtiva trafugata. Ne scaturì un’inchiesta del parlamento belga, a cui dichiarò di aver gettato i resti di Lumumba nel Mare del Nord. 

Ma nel 2016, sedici anni dopo la sua morte, la polizia belga sequestrò a casa della figlia di Soete un dente, che ora è stato consegnato alla famiglia di Lumumba e alla Repubblica democratica del Congo. Con tanto di scuse dell’attuale Primo ministro di Bruxelles, Alexander De Croo, non solo per l’appropriazione indebita. «Abbiamo riconosciuto la responsabilità morale del governo belga. Vorrei qui, alla presenza della sua famiglia, presentare a mia volta le scuse per il modo in cui il governo belga all’epoca ha pesato sulla decisione di uccidere Patrice Émery Lumumba».

I conti con il passato

La restituzione segue di pochi giorni quella, altrettanto simbolica, di una grande collezione di maschere africane finora conservate nel museo di Tervuren, alle porte di Bruxelles. Un gesto realizzato nell’ambito di una visita diplomatica molto importante, effettuata dal Re dei belgi Filippo e dalla regina Mathilde, accompagnati da rappresentanti del governo, nelle città di Kinshasa, Lubumbashi e Bukavu.

In quell’occasione, dal sovrano belga sono arrivate parole di rammarico, se non proprio scuse esplicite, per gli anni della dominazione coloniale, causa di «ferite profonde». Filippo ha evocato una relazione tra belgi e congolesi «ineguale, ingiustificabile, segnata da paternalismo, discriminazione e razzismo». Toni simili erano stati utilizzati in una lettera ufficiale indirizzata al presidente congolese Félix Tshisekedi due anni fa, per celebrare i 60 anni dall’indipendenza del Paese.

Il trisnonno di Filippo, Leopoldo II di Sassonia-Coburgo-Gotha, si appropriò nel 1885 del territorio che corrisponde all’incirca all’attuale Congo. Per oltre due decenni, si trattò di un dominio «personale». Leopoldo era a capo dell’Associazione Internazionale del Congo, nata in teoria per garantire il libero commercio in quello che era appunto chiamato «Stato Libero del Congo», sulla carta escluso dai confini coloniali africani delle potenze europee. In pratica, il Congo fu amministrato da funzionari belgi come un possedimento personale di Leopoldo: monarca costituzionale in patria, dove doveva rendere conto al Parlamento, e sovrano assoluto in una terra grande 80 volte il Belgio, dove tra l’altro non mise mai piede.

Il Congo di Leopoldo fu segnato da uno sfruttamento intensivo delle materie prime: inizialmente l’avorio, che però non permise al sovrano di rientrare dagli investimenti iniziali, poi la gomma, molto richiesta alla fine diciannovesimo secolo con l’invenzione dello pneumatico. Proprio in questo periodo si verificarono grandi atrocità nei confronti della popolazione locale, costretta a raccogliere gomma incidendo le liane come forma di tassazione e punita severamente quando non in grado di consegnare alle autorità i quantitativi richiesti. 

Rapporti, testimonianze, fotografie e un’inchiesta internazionale dell’epoca hanno evidenziato trattamenti disumani, frustate, amputazioni di arti e omicidi punitivi perpetrati da belgi sadici o sorveglianti locali incaricati dai superiori di ottenere i pagamenti. Le stime, molto complicate per la mancanza di cifre affidabili, parlano di milioni di morti per la «politica della gomma»: non solo a causa delle punizioni inflitte, ma anche e soprattutto per le condizioni insalubri di lavoro e il generale impoverimento dei villaggi congolesi, condannati alla malnutrizione, alle epidemie e allo spopolamento.

La pressione internazionale suscitata da tali atrocità costrinse Leopoldo a rinunciare al suo territorio d’oltremare, che dal 1908 divenne ufficialmente una colonia del Belgio. Diminuirono gli episodi cruenti, ma la dominazione restò segnata da profondi squilibri, una politica commerciale di rapina (soprattutto mineraria) e la discriminazione perpetrata dagli europei nei confronti dei locali, che vivevano in una situazione di apartheid di fatto e potevano al massimo aspirare al rango di évolué (evoluti), ovvero neri che provavano a imitare i costumi dei bianchi ed essere ammessi ai loro consessi sociali. 

L’incidenza negativa negli anni della colonizzazione e in quelli successivi all’indipendenza, con le redini economiche del Paese in mano alle élite belghe e l’intromissione nella politica nazionale, sono state causa di tensione nella seconda parte del ‘900 tra Bruxelles e Kinshasa, come fu ribattezzata nel 1966 la capitale Léopoldville, in un tentativo di africanizzare la toponomastica del Paese che trasformò persino il Congo in Zaire. 

Oltre alla freddezza tra i due governi, si è registrato per anni il silenzio della monarchia belga sul passato coloniale, rotto solo di recente da Filippo. Secondo la stampa nazionale, nel 2020 il movimento Black Lives Matter ha favorito il riemergere del dibattito sulle responsabilità del Belgio in Congo, culminato con la lettera di rammarico inviata dal sovrano e l’istituzione di una nuova commissione parlamentare per indagare sui crimini dell’epoca coloniale, che presenterà le sue conclusioni alla fine dell’anno. Con queste iniziative, forse tardive, il Belgio cerca di riconciliarsi con il Congo sul passato comune, con la speranza esplicita di rafforzare i legami per il futuro. 

Mercenari, dittatori, sangue. Il Congo di Lumumba e Mobutu. Marco Valle su Inside Over l'8 maggio 2022.

Léopoldville, 30 giugno 1960. In quel giorno torrido, Re Baldovino scese — abbastanza malvolentieri — dal piccolo Belgio nel cuore dell’Africa per concedere l’indipendenza all’immensa colonia creata dal suo avo Leopoldo II. Una folla enorme lo accolse, acclamandolo. Vive le Roi, vive Lumumba. Un trionfo, apparentemente. Ma lungo il percorso, un manifestante si affiancò alla vettura e strappò la spada dal fianco del giovane sovrano. Un gesto fulmineo, provocatorio e terribilmente simbolico che colse di sorpresa il monarca e il suo seguito. Poco dopo, Baldovino dovette subire, al momento della cessione dei poteri, un’arringa confusa quanto violenta di Patrice Lumumba sulle colpe dell’amministrazione coloniale. Terrorizzati dall’eccitazione della folla, i dignitari belgi imposero al loro sovrano un’apparenza di tranquillità e rassegnazione. Poche ore dopo la duplice umiliazione, mentre il Re — furibondo e mortificato — s’involava per la sicura Bruxelles, le milizie lumumbiste iniziavano i saccheggi devastando i quartieri della città europea. Il Congo era indipendente. Un’epoca complessa e contradditoria si chiudeva e una terribile tragedia aveva inizio.

A luglio l’esercito si ammutinò, gli ufficiali belgi furono rimossi ed espulsi e l’intero paese piombò nel caos. L’11 luglio Moise Tshombe (il nome viene a volte italianizzato in Ciombe) dichiarò la secessione del Katanga, la più ricca regione del Congo. A settembre dello stesso anno, il presidente Kasavubu impose le dimissioni a Lumumba. L’uomo, ormai in piena deriva filo-comunista, in dicembre venne arrestato e, due mesi dopo, ucciso in circostanze oscure. La mattanza aveva inizio.

Le ingerenze internazionali sul Congo si fecero sempre più pesanti, causando l’intervento dell’Onu e dei principali attori della Guerra fredda, Stati Uniti e Urss, che trasformarono la crisi “interna” in un vero e proprio campo di battaglia globale. Per una volta sincero, John Kennedy nel marzo del 1962 chiariva, a chi ancora dubitava, i contorni della micidiale partita: “quello che faremo — o non riusciremo a fare — in Africa entro il prossimo anno o i prossimi due anni avrà grandi conseguenze per gli anni venire […]  Riteniamo che l’Africa sia forse il più grande campo di manovra della competizione su scala mondiale fra il blocco comunista e il mondo non-comunista”.

Un meccanismo infernale a cui anche l’Italia pagò un tributo crudele. L’11 novembre 1961 a Kindu due equipaggi dell’Aeronautica militare, assegnati al contingente delle Nazioni Unite, furono selvaggiamente trucidati da insorti locali. I corpi straziati dei tredici aviatori, malamente sepolti in una fossa comune, vennero ritrovati solo dopo quattro mesi. Dal 1962 le salme riposano nel Sacrario dei caduti di Kindu, all’ingresso dell’aeroporto militare di Pisa. A ricordo del sacrificio dei due equipaggi una stele si staglia all’ingresso dell’aeroporto intercontinentale “Leonardo Da Vinci” di Fiumicino.

In questa follia assassina s’inserì più tardi la prima incursione comunista nell’Africa della decolonizzazione. La spedizione, guidata da Ernesto “Che” Guevara, si rivelò un fallimento pieno: i comunisti congolesi si rivelarono “un esercito di parassiti” (Che dixit), un’armata stracciona che i mercenari europei— gli affreux, ruvidi reduci di ogni guerra — sbaragliarono con facilità, cancellando le velleità dell’argentino che preferì levare il disturbo e partire, dopo qualche tappa altrettanto deludente, verso la fatale Bolivia.

La secessione del Katanga si concluse solo nel 1963 e l’anno successivo Tshombe venne nominato primo ministro ma la guerra civile e gli odi tribali non si arrestarono. Nel 1965 gli Usa, assai preoccupati per la situazione ormai fuori controllo, appoggiarono il golpe del “generalissimo” Joseph-Désiré Mobutu Sese Seko. Un regime spietato. A scanso d’equivoci, il primo atto del nuovo presidente fu la plateale fucilazione dei principali oppositori nello stadio della capitale.

Alla trentennale dittatura cleptocratica di Mobutu seguirono l’opaco regime della famiglia Kabila e la presidenza di Félix Tshisekedi, eletto più o meno pacificamente nel 2019. Ma l’attuale uomo forte di Kinshasa ha poco da celebrare e nulla di cui sorridere. Dopo la fresca condanna ai lavori forzati di Vital Kamerhe, il suo braccio destro reo d’aver intascato 50 milioni di dollari destinati all’edilizia popolare, il governo naviga a vista, l’esercito resta inquieto e le proteste montano in tutto il Paese. Sullo sfondo una miseria dilagante: malgrado le sue enormi ricchezze minerarie (che ogni anno rendono allo Stato 15 miliardi di dollari), il Congo — questo formidabile “scandalo geologico” — rimane uno dei dieci paesi più poveri del pianeta.

Il 30 giugno 2020, nell’anniversario della fine della presenza belga in Congo, monsignor Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa non ha avuto peli sulla lingua e ha tracciato un amarissimo bilancio del fatidico sessantenario:

“Contrariamente ai paesi vicini, l’indipendenza è stata una indipendenza più sognata che ponderata: mentre altri riflettevano sul significato dell’indipendenza e preparavano le persone alle sue conseguenze; noi, in Congo, sognavamo l’indipendenza con emozione, passione, irrazionalità, tanto che quando il momento è giunto non sapevamo che cosa sarebbe accaduto. Le conseguenze si vedono ancora oggi. Per i congolesi dell’epoca sognare l’indipendenza significava sognare di occupare i posti dei bianchi, sedersi sugli scranni dei bianchi, godere dei vantaggi riservati ai bianchi e non agli indigeni dell’epoca. Per molti l’indipendenza era vista come la fine di tutti i lavori pesanti. Quando saremo indipendenti diventeremo tutti capi. Occuperemo i posti dei bianchi. Tutto ciò si è verificato: i congolesi hanno occupato i posti dei bianchi. Ma dato che non capivano niente di quello che facevano i bianchi, dato che non capivano l’esercizio dell’autorità o l’esercizio delle cariche, qualunque compito politico o incarico è stato visto come l’occasione di godere dei vantaggi dei bianchi. Si cercava di accedere al potere non per rendere servizio a coloro che si trovano sotto la propria responsabilità ma per avere i privilegi dei bianchi. Ma questi, mentre erano seduti sulle loro sedie, non se la spassavano e basta. Lavoravano anche. Comprendevano il senso del loro lavoro. Noi invece abbiamo messo da parte l’idea del servizio da rendere agli altri e abbiamo posto l’accento sul piacere”. Parole su cui riflettere.

Daesh e superpotenze: Il tesoro conteso della miniera d’Africa. Jihadisti e milizie puntano ai giacimenti della Repubblica democratica del Congo. Il Paese insanguinato dove è atteso Papa Francesco. Daniele Bellocchio su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

La notte sta accomiatandosi con lentezza dalla Repubblica democratica del Congo. Le nere montagne del massiccio del Rwenzori appaiono ancora indefinite all’orizzonte; in cielo persiste il profilo di una luna trasparente ma, poco a poco, la delicata luce dell’albeggio svela la città di Beni, incastonata a 1.100 metri d’altezza tra il lago Alberto e il lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, tra anatemi esiziali e malvagità politiche. È qui, infatti, che nel 2019 si è consumata la prima epidemia di Ebola in una zona di conflitto e la più feroce per numero di bambini colpiti, e oggi è sempre questa città, nell’estrema parte settentrionale della provincia del Nord Kivu, ad essere l’epicentro della guerra tra la formazione jihadista degli Adf e l’esercito governativo.

Il bailamme che sveglia e infetta di una vitalità febbrile il centro cittadino nel giorno di mercato è stato sovvertito da un silenzio inquietante. Nel vicino villaggio di Mutuej, nella notte, è stato compiuto un massacro da parte di una colonna islamista e la notizia, che si diffonde in breve tempo attraverso le frequenze delle radio locali, paralizza e ammutolisce il capoluogo. Le strade vengono subito occupate dai soldati governativi che immediatamente allestiscono posti di blocco, dispongono i blindati, effettuano perquisizioni e controllano ossessivamente i documenti: tutti imbracciano i kalashnikov, alcuni celano la tensione dietro le scure lenti dei Ray-Ban, altri invece la ostentano, appoggiando l’occhio nella scanalatura del mirino e tenendo sotto tiro chiunque si aggiri per le vie di Beni.

Per avere piena comprensione di ciò che è avvenuto occorre dirigersi all’obitorio dove si rimane sconvolti di fronte al delirio di odio che è stato perpetrato. Dozzine di corpi sono ammassati nella piccola camera mortuaria. Alcuni hanno impressi gli inequivocabili segni dei colpi degli Ak-47, altri sono stati mutilati con i machete, altri ancora barbaramente decapitati. La commistione tra l’afrore di morte e l’umidità rende l’aria irrespirabile ma, nonostante ciò, centinaia di persone, stravolte e immobili, vegliano le salme. «Non ne possiamo più! Ogni giorno avvengono massacri e il mondo dov’è? Ci mandate sacchi di farina anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a queste stragi. Noi vogliamo soltanto la pace»: mentre il parente di una vittima sfoga la sua collera demolendo le consunte e sfiduciate parole d’ordine della carità internazionale, intanto gli infermieri trasportano dei cadaveri appena rinvenuti nella boscaglia.

Due barellieri avanzano lentamente: il lenzuolo che copre la salma che stanno trasportando scivola e, in quel momento, si svela il corpo di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, con la testa riversa e la gola recisa. Un silenzio assoluto, livido di paura e impotenza, cala su una folla attonita e sconvolta che osserva quell’ennesimo assassinio senza ragione e senza risposte. Si odono solo i rintocchi ferali delle campane dell’ospedale che, oltre a informare la comunità della tragedia, forse suonano anche per esortare Dio a essere testimone delle azioni dell’uomo e, nel vederle, soffrire per la sua creazione.

Quanto avvenuto nel piccolo villaggio della Repubblica democratica del Congo è infatti solo l’ultimo di una serie di massacri perpetrati dagli Adf, Allied democratic forces, un gruppo jihadista, nato in Uganda e che nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh, ribattezzandosi Iscap: Provincia dello Stato islamico in Africa centrale. I ribelli che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti e reclutamento di bambini soldato, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali del Paese ma, secondo analisti e giornalisti locali, il vero obiettivo, più che la guerra santa, sarebbe quello di mettere le mani sulle ricchezze del Congo.

La formazione terroristica è passata alla ribalta delle cronache perché è una delle prime formazioni di matrice islamica ad aver dato vita a una ribellione in Congo ma, soprattutto, perché è il gruppo più spietato presente nel Paese e che fa dell’uso sistematico della violenza contro i civili lo strumento per prendere controllo del territorio. Per provare a respingere l’avanzata delle bandiere nere l’esecutivo congolese ha chiesto supporto al governo dell’Uganda che, da dicembre, ha inviato le proprie truppe in appoggio a quelle di Kinshasa. Nelle province orientali dello Stato africano però non si annovera solo la ribellione degli jihadisti: sono oltre 130 le formazioni armate e, da aprile, nella parte meridionale del Nord Kivu, è divampata la guerriglia del gruppo filo-ruandese M23 che nel 2012 aveva dato origine all’ultimo conflitto su vasta scala in Congo. A causa del cristallizzarsi dei conflitti, si è aggravata anche la crisi umanitaria: i profughi interni, secondo l’ultimo report dell l’Unhcr, son più di 5 milioni e il World food programme ha dichiarato che sono 27 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo, 3,4 milioni i bambini malnutriti e, dall’inizio dell’anno ad oggi, nelle sole province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1.800, stando a quanto riporta il Kivu security tracker.

Tra le vittime della violenza che impera nell’est del Congo si annovera anche l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso a soli 44 anni, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo, la mattina del 22 febbraio 2021 a Kibumba, piccolo villaggio distante 20 chilometri dal capoluogo Goma, mentre stava viaggiando su un fuoristrada del Programma alimentare mondiale all’interno di un convoglio composto da un’altra jeep del Pam. Secondo le ricostruzioni e le dichiarazioni rilasciate dalle autorità congolesi si sarebbe trattato di un tentato rapimento a scopo di riscatto finito tragicamente, ma molti interrogativi e ombre ancora avvolgono la vicenda. Da quel che si è potuto apprendere, infatti, stando alle indagini condotte dalla procura di Roma, il nome dell’ambasciatore non sarebbe stato inserito, dai funzionari del Pam, tra i membri del convoglio e la Monusco (la Missione dei Caschi Blu in Congo) non sarebbe stata preventivamente avvisata del viaggio che il diplomatico e il militare italiano stavano per intraprendere.

La figura del diplomatico sarà ricordata anche da Papa Francesco durante il suo viaggio nel Paese africano, programmato a luglio e posticipato per motivi di salute. Il Pontefice ha annunciato che celebrerà una messa a Chegera, proprio vicino al luogo in cui si è registrato il tragico agguato. Nella visita del Santo Padre in Repubblica democratica del Congo, a 42 anni esatti da quella compiuta da Giovanni Paolo II, missionari e vescovi locali hanno visto la ferma volontà da parte di Francesco di esporsi in prima persona perché la violenza cessi nella nazione. Il Papa negli anni ha infatti più volte invitato a pregare per il Congo denunciando anche lo sfruttamento del sottosuolo che alimenta gli endemici conflitti. 

L’ex Zaire, pur occupando il 175esimo posto su 189 Paesi nell’Indice dello sviluppo umano, è una delle nazioni maggiormente ricche di materie prime al mondo. Qui si trovano metà dei giacimenti planetari di cobalto; l’ex colonia belga è il quarto produttore di diamanti, possiede l’80 per cento delle riserve mondiali di coltan oltre a immensi giacimenti di rame, uranio, oro, cassiterite e petrolio. Ed è proprio questa ricchezza ad aver attirato gli appetiti di potenze internazionali e locali ed essere alla base delle guerre che dal’96 ad oggi hanno insanguinato la regione provocando oltre 6 milioni di morti.

«Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo. Il popolo congolese muore di fame e stenti per arricchire il resto del mondo. Questo è il grande paradosso del mio Paese». Le parole di Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu, anticipano quanto si scopre all’indomani nelle miniere di cassiterite di Nyabibwe, nel Sud Kivu, dove, nella cornice di un paesaggio empireo, tra montagne e foreste smeraldine, si consuma un inferno terreno. Centinaia di persone lavorano nelle cave, senza sosta, per pochi dollari al giorno. Un gruppo di donne caracolla dal pendio di una montagna trasportando gerle che pesano più di 50 chili; dei bambini, badili alla mano, setacciano per ore, con i piedi nell’acqua, il materiale estratto dalle miniere separando i minerali dalle pietre grezze; uomini dai volti deformati dalla fatica, con le mani granitiche e gli occhi gonfi, scavano senza sosta e senza nemmeno la consolazione di un raggio di sole, nella speranza di trovare una nuova vena. I minatori, che spesso muoiono sepolti sotto i crolli improvvisi, vengono pagati in base a quanto estraggono e se al termine della giornata non trovano nulla, non percepiscono nessuna paga.

Da decenni il popolo congolese, sotto il maglio dell’indifferenza globale, balsamo per coscienze e interessi, è costretto quindi a calarsi continuamente nelle miniere e a precipitare negli abissi di uno sfruttamento talmente disumano e inintelligibile che non consente né di vivere e neppure di morire, ma solo di consumarsi poco a poco, nelle viscere di una terra che appartiene a tutti, eccetto che ai congolesi.

Luca Attanasio. L'AMBASCIATORE DIMENTICATO IL CONGO SANGUINA PARTE 1. Testo di Daniele Bellocchio su Inside Over il 21 febbraio 2022.

Il Lago Kivu è un oceano che sommerge l’orizzonte e nel quale i pensieri facilmente naufragano nei ricordi e nelle malinconie. Padre Franco Bordignon, saveriano in missione da oltre cinquant’anni a Bukavu, est del Congo, invita ad accompagnarlo lungo la riva del lago. Cammina con l’energia della gente di una volta e il bastone a cui si accompagna, lascito di un attacco di malaria cerebrale, lo utilizza più per indicare, quasi fossero compagni di vecchia data, i villaggi e le montagne che punteggiano il promontorio, piuttosto che come sostegno. Ha conosciuto il Congo quando ancora si chiamava Zaire, è stato testimone delle guerre di liberazione e di quelle dei minerali, ha visto le montagne tremare per le esplosioni dei mortai e per quelle della dinamite, ma cinque decadi di errori ed orrori dell’uomo guardati a distanza ravvicinata non hanno scalfito le oneste speranze e le vive convinzioni di padre Bordignon.

Le felci ornano il bordo del lago, lo sciabordio della pagaia di un pescatore interrompe il silenzio ed è il missionario veneto a invitare a osservare il paesaggio tutt’intorno: “Guardate quanta bellezza, quanta meraviglia!”; si aggiusta la montatura spessa degli occhiali con l’indice della mano destra e prosegue: “Chi dice che il Congo è una terra maledetta non ha capito niente. Il Congo è una terra troppo benedetta. Sono gli uomini ad aver trasformato questo Eden in un far west: per la ricchezza, per le miniere. Il Congo è una torta di cui tutti vogliono un pezzo. Ma c’è anche gente che invece crede nel Congo, in questa terra, nello sviluppo e nella pace di questo Paese. Luca Attanasio era un uomo così”.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Kabamba – vista del lago. Nelle regioni orientali del congo persiste uno stato di conflitto ed insicurezza. La guerra nel est del paese, per il saccheggio del sottosuolo, ha visto un proliferare dei gruppi armati. All’oggi sembra che solo nelle province orientali se ne contino 128, tra cui spicca il gruppo di matrice islamista ADF.  La popolazione paga il prezzo più alto di questo stato di insicurezza. 

È trascorso un anno dal tragico attacco durante il quale hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo e padre Bordignon, amico del diplomatico italiano, oggi, in riva alle acque del lago Kivu, si abbandona ai ricordi, inciampando spesso, durante il racconto, nel tempo presente; forse una resistenza personale al definitivo dell’imperfetto: di certo una maniera autentica di serbare vivo un ricordo e di conferire all’impersonalità di un’intervista i connotati di una lettera a un amico del passato, che fa in modo che il passato non passi mai del tutto.

“Luca ti contagia, ti contagiava. Attanasio non era un ambasciatore come gli altri. Nel suo modo di presentarsi, di vestire, di accogliere. Era come se fosse un ‘fratello’ che viveva dall’altra parte del Paese, a 2mila chilometri di distanza, e che era presente nonostante si trovasse lontano. Continuamente ci mandava messaggi, ci telefonava, chiedeva come andava, quali fossero i problemi: voleva sapere cosa si poteva fare in loco. Pensate, in cinquant’anni di servizio qui a Bukavu, Attanasio è stato il secondo ambasciatore che ho incontrato e che è venuto più di una volta qui, nella nostra missione”. 

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Dai bambini giocano su un mortaio abbandonato dalla guerra con gli M23 a Kibumba. Nelle regioni orientali del congo persiste uno stato di conflitto ed insicurezza. La guerra nel est del paese, per il saccheggio del sottosuolo, ha visto un proliferare dei gruppi armati. All’oggi sembra che solo nelle province orientali se ne contino 128, tra cui spicca il gruppo di matrice islamista ADF. La popolazione paga il prezzo più alto di questo stato di insicurezza. 

Padre Bordignon è un fiume in piena di aneddoti e la memoria corre subito alla sera del 20 febbraio, quando il diplomatico italiano ha cenato insieme ai saveriani. “Quella sera lui arrivava da Goma. Aveva fatto quasi otto ore di viaggio in macchina e, appena arrivato a Bukavu, si era fermato da noi insieme a una delegazione del Pam (Programma alimentare mondiale). Mi ricordo che durante il viaggio aveva visitato una cooperativa e questo è un aspetto rilevante per capire chi era Luca. Diceva che il suo ruolo, la sua figura di ambasciatore, era in funzione della gente; aveva una visione della professione del diplomatico estremamente umana e impegnata nel sociale, che è davvero un che di unico, straordinario. Infatti il pomeriggio e la sera di sabato, quando siamo rimasti insieme, ci siamo confrontati su progetti da realizzare nelle periferie di Bukavu, Uvira e Goma e poi tanto si è parlato del Congo, della storia di questo Paese, delle problematiche che lo attanagliano, perché Luca era curioso e interessato a conoscere questa terra, in tutti i suoi aspetti”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

La storia prosegue: padre Bordignon ricorda i saluti prima della partenza per Goma, gli abbracci e le mani strette insieme alle promesse di ritrovarsi per dar forma e concretezza ai progetti, alle idee, ai sogni. E poi la mattina del 22 febbraio. “Quel giorno non me lo scorderò mai. Era mattina e un funzionario del Pam di Bukavu corse nella nostra sede, sconvolto, dicendoci che l’ambasciatore era stato ferito. Pochi minuti dopo un altro dipendente si precipitò a dirci che forse era rimasto vittima di un agguato. Non avevamo notizie certe, non riuscivamo a capire con esattezza in quei momenti cosa fosse successo. Solo quando è ritornato il funzionario del Pam qui in sede abbiamo avuto comprensione dell’accaduto: Luca era stato ucciso. Noi eravamo increduli. Insieme ad alcuni confratelli sono partito per Goma per capire cosa fosse successo; ci hanno raccontato com’è andata, il viaggio, il posto di blocco, la sparatoria, l’intervento dei ranger…ma ancor oggi permangono dei punti di domanda su quanto accaduto un anno fa a Kibumba, sulla strada RN2 che collega Goma con Rutshhuru”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

Sono passati 365 giorni da quando i notiziari di tutto il mondo hanno annunciato la morte del diplomatico italiano e, stando alle ricostruzioni fatte sino ad oggi, la mattina del 22 febbraio 2021, Luca Attanasio stava viaggiando su un fuoristrada del Pam insieme all’autista Mustapha Milambo e al carabiniere Vittorio Iacovacci, all’interno di un convoglio composto da un’altra jeep del Programma alimentare mondiale, da Goma verso Rutshuru, poiché doveva andare a visitare un centro dell’agenzia delle Nazioni Unite, per valutare la possibilità di replicarlo in un’altra regione del Paese. A Kibumba, piccolo villaggio distante 20 chilometri dal capoluogo del Nord Kivu, il convoglio è stato arrestato da un gruppo di assalitori che hanno aperto il fuoco contro la macchina su cui viaggiava il diplomatico. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti.

I colpi sparati dagli Ak-47 dei banditi hanno ucciso l’autista; poi Attanasio e il militare Iacovacci sono stati prelevati dal veicolo e condotti nella boscaglia che circonda la strada. Gli spari hanno attirato una pattuglia di rangers del Parco del Virunga che sono accorsi sul posto ed è incominciato così uno scontro a fuoco tra i guardiaparco e i rapitori e sembrerebbe che sia stato in quel frangente, mentre i due gruppi armati si fronteggiavano e il drappello di sequestratori sparava all’impazzata per corprirsi la fuga, che l’ambasciatore e il carabiniere italiano siano stati colpiti e feriti a morte. Il 18 gennaio 2022 le autorità del Nord Kivu hanno annunciato, durante una conferenza stampa, di aver arrestato i presunti assassini e che si sarebbe trattato di un tentato rapimento a scopo di riscatto.

Una versione che però non ha convinto il padre dell’ambasciatore Salvatore Attanasio che, ai media italiani, ha dichiarato: “Il governo del Congo ha l’obiettivo di chiudere in tutta fretta questo caso che, per il Paese, è piuttosto spinoso e quindi cerca di liquidare in fretta e in modo semplicistico la vicenda. Di certo, anche se queste persone fossero davvero gli assassini di Luca, ciò non basterebbe per fare chiarezza, in quanto bisogna chiarire le responsabilità del Pam, che a nostro avviso sono molto gravi, per non aver previsto la necessaria protezione alla missione”. Tra gli interrogativi più annosi che permangono intorno all’accaduto ci sarebbero alcune omissioni da parte dei dirigenti del Programma alimentare mondiale. Da quel che si è potuto apprendere, infatti, stando alle indagini condotte dalla procura di Roma, il nome dell’ambasciatore non sarebbe stato inserito, dai funzionari del Pam, tra i membri del convoglio e la Monusco (la Missione dei caschi blu in Congo) non sarebbe stata previamente avvisata del viaggio che il diplomatico e il militare italiano stavano per intraprendere. Ciò avrebbe portato i dipendenti del Pam, Mansour Rwagaza e Rocco Leone, ad essere iscritti nel registro degli indagati.

In una nota diramata dalla procura capitolina si legge a proposito: “Avrebbero attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell’Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima”. Prosegue poi:  “Avrebbero omesso, in violazione dei protocolli Onu, di informare cinque giorni prima del viaggio, la missione di pace Monusco che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza informando gli organizzatori della missione dei rischi connessi e fornendo indicazioni sulle cautele da adottare (come una scorta armata e veicoli corazzati)”. E: “Omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia, secondo la ricostruzione effettuata allo stato, che risulta in linea con gli esiti dell’inchiesta interna all’Onu, ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam che percorreva la strada Rn2 sulla quale, negli ultimi anni, vi erano stati almeno una ventina di conflitti a fuoco tra gruppi criminali ed esercito regolare”. 

Kibumba è un piccolo villaggio vicino a Goma. Due militari oggi pattugliano stanchi la strada nazionale; sanno che in quel posto, proprio sotto le antenne delle telecomunicazioni è avvenuto il tragico agguato la mattina del 22 febbraio di un anno fa. Altro però non sono in grado dire. Osservano l’arteria nazionale, guardano transitare alcuni moto-taxi carichi di sacchi di riso e poi indicano, con beneficio d’approsimazione, un punto di quella pista che, come un nastro d’ocra, fende il verde circostante: ecco il luogo dove sarebbe stata tesa l’imboscata. Nulla oggi è rimasto a testimonianza dell’accaduto, la vegetazione ha investito i bordi delle strade, il parco del Virunga e le montagne del Ruanda incorniciano il paesaggio, gli unici rumori sono quelli del vento e l’eco di un convoglio dei caschi blu che sopraggiunge in lontananza.

“Luca non accettava gli stereotipi e i luoghi comuni: credeva in questo Paese, con la convinzione che il Congo e la sua gente possano esseri liberi”. È con queste parole che padre Bordignon si commiata dal ricordo dell’ambasciatore Attanasio. Nuvole nere e minacciose sopraggiungono da est e prima che un acquazzone tropicale investa il lago, il missionario italiano si lascia andare a un ultimo ricordo, dal sapore di una confessione intima e preziosa: ”Chi era Luca lo si capiva non solo da quello che diceva, ma anche dal suo modo di interagire con la popolazione; da quella sua capacità di abbracciare tutti e di sorridere sempre. Era un uomo di pace e lo si comprendeva appena lo si incontrava, perché affrontava ogni situazione con il sorriso: un sorriso indimenticabile che ti infettava”.

Mentre ne parla, padre Bordignon accenna anche lui un sorriso, probabilmente lasciatogli in dono dal suo amico Luca Attanasio, insieme all’innocente capacità di continuare a stupirsi e sapere tener viva la speranza che le cose possano essere migliori un giorno. Testo di Daniele Bellocchio

IL CONGO SANGUINA PARTE 2. Articolo di Daniele Bellocchio su Inside Over il 13 giugno 2022.  

Sono le prime ore del mattino a Beni, città del Nord Kivu nell’estremo est della Repubblica Democratica Del Congo, e una nebbia spessa si solleva lentamente lasciando scorgere una bellezza empirea tutt’intorno. La città congolese, a 1100 metri di altitudine, tra il Lago Alberto e il Lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, è assediata da foreste di un verde talmente intenso che sfuma in un nero impenetrabile. Le montagne che la circondano, quelle dell’altipiano del Rwenzori e del parco del Virunga, viste in lontananza, hanno lo stesso colore blu del cielo, e la terra, rossa e feconda, è uno sconfinato forziere di minerali.

Beni è un paradosso storico e geopolitico con cui è impossibile venire a patti perché queste ambe, tripudio di una ricchezza trascendente, sono anche il proscenio di ingiustizie vertiginose e di diseguaglianze incommensurabili. Questa città, nel 2019, è stata l’epicentro della prima epidemia di Ebola in un contesto di guerra e la più feroce per numero di bambini colpiti. Oggi è il cuore del conflitto tra la formazione jihadista degli ADF e gli eserciti del Congo e dell’Uganda, che hanno unito le proprie forze per cercare di eradicare la ribellione degli islamisti.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nelle regioni orientali del congo persiste uno stato di conflitto ed insicurezza. La guerra nel est del paese, per il saccheggio del sottosuolo, ha visto un proliferare dei gruppi armati. All’oggi sembra che solo nelle province orientali se ne contino 128, tra cui spicca il gruppo di matrice islamista ADF. La popolazione paga il prezzo più alto di questo stato di insicurezza 

É ancora l’alba, ma un’isteria collettiva si è impossessata della città. Dalle radio e dai telefoni si diffonde la notizia di un massacro avvenuto a poche decine di chilometri di distanza dal capoluogo. Le prime testimonianze raccontano di una strage consumatasi nella notte nel piccolo villaggio di Mutuej e riferiscono di sette persone uccise. A Beni tutti parlano dell’accaduto e un panico dettato dallo sgomento e dalla collera infetta in poco tempo l’intero centro abitato. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il cordoglio della madre di Ushindi Mumbere, di 23 anni. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni, è stato ucciso dalla polizia Ushindi Mumbere, di 23 anni. Il ragazzo, membro del movimento giovanile apartitico e non-violento  L.U.C.H.A. che rivendica maggiori diritti per la popolazione e la revoca dello “etat de siege”. Sabato 29 gennaio durante i funerali gran parte delle popolazione di Beni si è riversata per le strade per un ultimo saluto al ragazzo e per protestare contro il potere dei militari della MONUSCO

La guerra, nonostante la proclamazione dell’ état de siege, prosegue senza un’apparente soluzione di continuità: le bande armate infestano il territorio, le milizie jihadiste fanno del terrore lo strumento con cui imporsi ed estendere il proprio controllo. Nessuno si sente protetto e la frustrazione corale è manifesta nelle centinaia di dimostranti che si riversano nelle strade, dopo aver appreso dell’ultima tragedia avvenuta, invocando pace e diritti.

Usciti dal caotico centro abitato e procedendo in direzione di Oicha, si è però improvvisamente investiti da un silenzio antitetico e spettrale. La strada che conduce verso il luogo dove si è consumata la strage corre nel mezzo di una muraglia verde e per chilometri non si vedono altro che cespugli, piante, frasche e arbusti impenetrabili. La boscaglia è interrotta soltanto da piccoli villaggi ormai disabitati che punteggiano l’arteria nazionale e dove sono ancora visibili gli attrezzi della vita di ogni giorno, prima di una fuga precipitosa e senza ripensamenti: una tanica dell’acqua, una zappa, i resti di un fuoco; tracce di cos’era la quotidianità qualche istante prima che tutto finisse.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Un’operazione militare congiunta tra l’esercito regolare congolese FARDC e quello ugandese UPDF nelle zone di confine tre i due paesi lungo il Semliki, uno dei principali fiumi del Africa centrale, sull’altopiano del Ruwenzori, roccaforte del gruppo jihadista del ADF 

Ai limiti della foresta appare Oicha e, appena fatto l’ingresso in città, ci si imbatte subito in decine di persone che, in ossequioso silenzio, si dirigono verso l’ospedale. E’ sufficiente seguirli per raggiungere l’obitorio, avere così comprensione della strage che si è consumata e rimanere sconvolti e muti alla visione di un delirio d’odio senza ragione e senza risposte. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni

Nella piccola camera mortuaria una dozzina di corpi sono ammassati gli uni sopra gli altri. L’odore di disinfettante non riesce a sovrastare quello di morte che penetra nelle narici e stringe la bocca dello stomaco. Alcune vittime presentano i segni dei colpi dei kalashnikov, altre quelli delle mutilazioni inferte con i machete e con i coltelli, altre ancora sono state decapitate. Il personale dell’ospedale inizia a preparare le bare per procedere con le sepolture, intanto però il numero dei corpi trasportati nell’obitorio aumenta.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Nella notte tra il 18 e il 19 gennaio 2022 nel villaggio di Mutuei, nel territorio di Beni è stato compiuto un attacco contro la popolazione civile da parte delle milizie ADF. Il bilancio finale del efferata incursione è stata di 17 morti, alcuni dei quali decapitati e trucidati con armi bianche e machete. Questi morti si vanno a sommare ai 638 registrati da Kivu Security Tracker avvenuti nei soli ultimi 3 mesi 

Due infermieri sopraggiungono con una barella sulla quale è stato adagiato un corpo esanime appena rinvenuto nella foresta. Il lenzuolo che copre la vittima durante il trasporto scivola per terra e improvviso appare il volto sfigurato di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, a cui è stata tagliata la gola. ”Basta! Basta! Basta! Non ne possiamo più di tutto questo. Ogni giorno ci sono massacri, ogni giorno. E dov’è il mondo? Dov’è l’Europa? Dove sono gli Stati Uniti? Cosa fanno le Nazioni Unite? Ci mandate i sacchi di farina come aiuti umanitari anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a tutto questo. Perchè? Ditemelo: perchè? Noi abbiamo bisogno soltanto della pace”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni 

É un urlo che nasce dall’esasperazione e che si scaglia contro ogni artificio retorico della compassione quello lanciato da un parente seduto fuori dalla camera mortuaria. E gli fanno seguito centinaia di grida di disperazione intervallate da lacrime e singhiozzi. La popolazione maledice gli ADF, la milizia islamista colpevole del massacro, attacca l’esercito congolese e le forze dell’ordine, accusate di non esser in grado di porre fine alle violenze, e non lesina critiche sulla missione della MONUSCO, da 22 anni dispiegata nel Paese africano e sotto attacco per non aver stabilizzato e pacificato la regione come si prefiggeva di fare a inizio mandato. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni

I responsabili della strage compiuta nel villaggio di Mutuej sono gli ADF, Allied Democratic Forces, un gruppo armato jihadista, nato in Uganda, radicalizzatosi nel tempo, che dal 2013 ad oggi ha intensificato gli attacchi e le azioni nel Nord Kivu e nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh ribattezzandosi ISCAP, Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale. La guerra degli jihadisti ha aggravato una situazione già estremamente precaria e solo negli ultimi tre mesi, nelle province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1500, stando a quanto riporta il Kivu Security Tracker.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. La preghiera del venerdì nella moschea centrale Jamia, di Beni. Dopo l’insurrezione islamista degli ADF la comunità islamica è vittima di discriminazione da parte del resto della popolazione. L’imam della moschea, Idriss Kabuyaya, apparentemente a seguito dei suoi sermoni d’impegno per un dialogo di pace inter-religioso, è stato ucciso da alcuni membri dell’organizzazione islamista radicale ADF agli inizi di gennaio 2022 

Gli ADF, che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di aver commesso stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti nonché di arruolare bambini, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali. Analisti e opinione pubblica ritengono però che il vero obiettivo dei salafiti sia quello di accaparrarsi una porzione della ricchezza del Congo. A causa dell’incancrenirsi del conflitto, si è aggravata anche la crisi umanitaria nel Paese. I profughi nella nazione, secondo l’ultimo report dell l’UNHCR, son più di 5 milioni e il World Food Programme ha dichiarato, nel suo ultimo report sulla Repubblica Democratica del Congo, che sono 22 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo .

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Francine Kavira di anni 15, è stata rapita e tenuta prigioniera insieme alla madre per 4 giorni agli ADF.  Il padre è stato ucciso davanti ai suoi occhi. La notte del quarto giorno la ragazza è riuscita a fuggire insieme alla madre che però e rimasta gravemente ferita durante la fuga 

“Lo stato c’è. Lo stato congolese con il suo esercito e le sue forze di polizia sta conducendo un’offensiva nell’est del Paese per sconfiggere i terroristi dell’ADF. Grazie all’état de siege stiamo ripristinando l’ordine e la sicurezza”. Il colonnello Charles Omeonga, dopo essersi recato nella città di Lume, piccolo villaggio ai piedi del massiccio del Rwenzori, accerchiato da montagne e gruppi armati, descrive con toni entusiastici l’operato delle truppe regolari ed elogia l’introduzione della legge marziale da parte dell’esecutivo di Thsisekedi.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Un soldato cammina per il villaggio deserto di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti 

Da maggio infatti, nelle province dell’Ituri e del Nord Kivu, è in vigore l’état de siege, un provvedimento attraverso il quale le autorità civili sono state sostituite da quelle militari e queste, grazie al regime speciale introdotto, godono di poteri speciali: possono effettuare perquisizioni nelle case, vietare le riunioni pubbliche e applicare leggi che limitano la circolazione dei cittadini. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori

Questa misura straordinaria, introdotta per porre fine all’insurrezione jihadista e all’insicurezza che regna nell’est, è in vigore da oltre otto mesi e, a dispetto di quanto dichiarato dall’ufficiale dell’esercito regolare, il provvedimento è osteggiato dalla popolazione, secondo la quale la militarizzazione del territorio non ha portato a nessun cambiamento, ma solo inasprito la violenza. “Stando a quanto dicono studiosi e ricercatori il numero delle vittime civili è aumentato dall’applicazione della legge marziale , rispetto al periodo precedente la sua introduzione”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Nella prima periferia della città di Oicha è sorto il campo profughi spontaneo di Luvangira che da riparo a famiglie Bantu e anche a 103 famiglie di pigmei, uno dei gruppi primigeni delle foreste congolesi e che oggi è perseguitato e minacciato dalla violenza degli islamisti. Oggi secondo l UHNCR in Congo si contano 5.6milioni sfollati interni, di cui la quasi totalità nelle provincie del est. Il capo villaggio Mutengu Kimbunda di etnia TWA (o più comunemente chiamato pigmea) 

A parlare è Fabrice Mulali, membro di Lucha, un’ organizzazione pacifista e apolitica che si batte per il rispetto dei diritti civili in Congo. E l’attivista prosegue dicendo: ”Nelle regioni del Nord Kivu e dell’Ituri, a causa della militarizzazione del territorio, si è riscontrato un aumento della violenza. Violenza come soluzione alla violenza: questo, in sintesi, è il frutto del provvedimento e, sebbene non abbia portato ai risultati sperati, continua a perdurare. Il prezzo più alto di questa politica, però continua a pagarlo il popolo congolese, vittima di abusi, repressione e violenze di ogni sorta”. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Nella prima periferia della città di Oicha è sorto un campo profughi spontaneo di Muloku, di 1090 persone.  Oggi secondo l UHNCR in Congo si contano 5.6milioni sfollati interni, di cui la quasi totalità nelle provincie del est.  Il capo villaggio Issa Baguma Akoloza, racconta le efferatezze compiute dagli ADF che hanno costretto la sua comunità ad abbandonare i loro territori d’origine

Le parole dell’attivista sembrano prevedere quanto avviene all’indomani quando, nella città di Beni, durante una manifestazione di protesta contro il potere dei militari, la polizia apre il fuoco sui dimostranti e uccide Ushindi Mumbere. Un giovane di soli 23 anni.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Il 24 gennaio durante delle manifestazioni di protesta contro l “etat de siege”, a Beni 

Durante i funerali del ragazzo, migliaia di persone si riversano nelle strade. Tutti i gruppi della società civile partecipano alle esequie e un corteo di centinaia di persone sfila, accompagnando il feretro per la città. Il ritratto del giovane studente assassinato è riproposto sulle magliette indossate dai militanti congolesi e sugli striscioni che aprono il corteo. Sventolano le bandiere del Congo insieme a quelle dell’organizzazioni civili e, con il proseguire della manifestazione, il dolore aumenta e si mescola con la rabbia. ”Polizia come ADF”, recita uno striscione. ”Saremo sempre troppi perché possiate ucciderci tutti!”, grida la folla. Il servizio d’ordine impedisce che la situazione degeneri al passaggio di un blindato della MONUSCO.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. I territori settentrionali del nord Kivu, sono oggi l’epicentro delle guerra tra la milizia islamista ADF e l’esercito regolare del Congo ( FARDC )  in operazioni congiunte al esercito Ugandese (UPDF). 

Nei villaggi di Erengeti, Oicha e Luna, considerati la prima linea di questo conflitto asimmetrico, vige oggi la legge marziale e tutti i poteri sono stati trasferiti alle autorità militari 

Dopo il lancio di qualche sasso in direzione del mezzo delle Nazioni Unite il corteo riparte e tutti i partecipanti, interrogati su quali siano le loro richieste e le loro rivendicazioni, rispondono all’unisono: ”pace e libertà!”. Libertà di vivere, di sognare, di potere concepire, almeno in potenza, un’idea di futuro. E c’è una scritta, dipinta sul muro dell’obitorio cittadino, capace, nella sua immediatezza, di riassumere tutte le richieste della cittadinanza: ”Stop massacre!”, Basta massacri. Indipendentemente da chi vengano compiuti e in nome di quale ideologia, fede o eresia.

Fine alla violenza: una richiesta capace di rivelare, nella sua essenzialità, tutta l’esasperazione di un popolo che, da oltre 60 anni, è orfano di pace e che non ha mai potuto godere del privilegio di poter immaginare l’incedere della vita senza l’incombere improvviso in essa della tragedia. Articolo di Daniele Bellocchio

LA FURIA JIHADISTA. IL CONGO SANGUINA PARTE 3. Daniele Bellocchio su Inside Over il 18 giugno 2022.  

Georgine Kaindo (nome di fantasia usato per ragioni di sicurezza) ha 29 anni, è seduta in una casa protetta nella città di Oicha e guarda la telecamera con una dignità granitica che destabilizza. ”Io sono una sopravvissuta al gruppo jihadista degli ADF. Sono stata rapita, torturata e violentata. Sono una sopravvissuta”. Georgine ha un volto invecchiato in faccia alla morte e la follia di cui è stata vittima è un precipizio di sofferenze  da cui è impossibile risalire. Georgine non cerca di sublimare la disperazione con l’oblio di sé e di quanto le è accaduto. Tutt’altro; tiene viva la memoria dell’orrore che l’ha travolta e lo urla in faccia al mondo: perchè sappia,  si indigni, si mortifichi e  perda il sonno con la presa di coscienza delle sue distrazioni, della sua nepente sordità, dei suoi ammanchi di coerenza.

”Era il 1 ottobre del 2016 e mi trovavo vicino alla città di Kasindi con la mia famiglia. Eravamo lì per lavorare, per raccogliere il nostro nutrimento, perchè quella era la nostra vita. All’improvviso ci siamo trovati accerchiati da i ribelli dell’ADF. Ci hanno puntato le armi contro, ci hanno legati e ci hanno condotti nella foresta. Arrivati nel loro accampamento, ci hanno fatti mettere tutti in fila e per prima cosa mi hanno chiesto chi fosse mio marito. Io l’ho indicato e loro gli hanno sparato. Lo hanno ucciso davanti ai miei occhi! Senza un motivo, senza un perchè. L’hanno ucciso come se neanche fosse un essere umano”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Un’operazione militare congiunta tra l’esercito regolare congolese FARDC e quello ugandese UPDF nelle zone di confine tre i due paesi lungo il Semliki, uno dei principali fiumi del Africa centrale, sull’altopiano del Ruwenzori, roccaforte del gruppo jihadista del ADF. 

Georgine prende fiato e, senza concedersi neppure il conforto di un pianto, prosegue nel racconto: ”Dopo aver ucciso mio marito, ci hanno separati: gli uomini da un lato, le donne da un altro e ci hanno spinti in buche profondissime che usavano come prigioni. Io, con mia madre, ero in una fossa molto stretta e da cui era impossibile risalire. Lì dentro eravamo in sei persone. Non ci davano da bere e neppure da mangiare; il loro scopo era che morissimo in quei pozzi. Siamo rimaste lì dentro per cinque giorni. Io e mia madre mangiavamo la terra che grattavamo dalle pareti di quelle buche, per cercare di sopravviere e non morire di fame, ma altre donne non ce l’hanno fatto e sono morte lì, in quelle fosse dove eravamo imprigionate, le une addosso alle altre: strette e immobili”. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti.

Secondi, minuti, ore: ogni singola unità di misura adottata convenzionalmente per calcolare l’incedere dei momenti non ha più alcun valore. Tutto è sospeso, pietrificato; anche il tempo sembra essersi arrestato al cospetto di un racconto che è un incubo vivido e reale. Come in ogni sogno angoscioso, muoversi, divincolarsi e liberarsi è impossibile e proibito. Si è prigionieri dei lamenti, delle suppliche, dei gemiti e delle grida. E’ doverso ascoltare, ma fa male e il racconto, poco a poco, deposita, nell’intimo di chi l’ascolta, una spessa morca di sfiducia e di biasimo, di impotenza e di vergogna.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Akilimali Saleh Chomachoma, guarda fuori dalla finestra della parrocchia di Nyabibwe.

Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi. 

L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera. 

” Il sesto giorno ci hanno fatti uscire dalle buche. All’inizio avevamo gli occhi coperti, poi ci hanno tolto le bende e abbiamo visto che ci avevano portati all’interno di un cerchio e che davanti a noi era stato posizionato un tronco di un albero: il ceppo che usano per decapitare la gente. Abbiamo capito in quell’istante quale sarebbe stata la nostra sorte. Piangevamo, urlavamo, supplicavamo dicendo che non avevamo nessuna colpa: potete immaginare cosa significhi comprendere che nel breve tempo verrete uccisi? Decapitati! Ecco quello era ciò che stavamo vivendo. Ma mai avremmo immaginato che la nostra morte potesse diventare un gioco per loro. Non solo stavano uccidendo degli innocenti, ma si stavano anche divertendo nel farlo. Avevano scritto infatti i nostri nomi su dei fogli, poi li pescavano da un cestino e la persona il cui nome veniva estratto era trascinata sino al tronco d’albero e poi fatta inginocchiare. Un ribelle recitava dei versi del Corano e accusava il condannato di essere un infedele che poi veniva decapitato da un altro uomo. Ho visto prima mio padre e poi mia madre morire così. Davanti ai miei occhi”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

Gli ADF sono oggi il gruppo armato più temuto tra quelli presenti nell’est della Repubblica Democratica del Congo. La formazione sostiene di voler instaurare il Califfato nelle regioni orientali del Paese e, per prendere controllo del territorio, attacca in modo indiscriminato la popolazione. Il gruppo islamista però ha anche un altro obiettivo: il sottosuolo dell’ex colonia belga. La bandiera nera che guida il jihad dei guerriglieri congolesi celerebbe in realtà l’ennesima formazione armata il cui catechismo ideologico si trova ben scritto nella tavola periodica degli elementi. Rapire, mutilare, decapitare: per l’oro, il coltan, la cassiterite; facendo di un odio, elevato a imperativo di condotta ,e di una crudeltà, che ha travolto qualsiasi argine di umanità, gli strumenti attraverso i quali raggiungere l’obiettivo. Questi sarebbero gli jihadisti secondo analisti locali e internazionali, chi li ha incontrati però, pù semplicemente, li chiama ”diavoli’. Ed è facile comprendere il motivo poiché, se l’ inferno esiste, di certo non si discosta molto da ciò che alberga nel vissuto di Georgine. 

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. I territori settentrionali del nord Kivu, sono oggi l’epicentro delle guerra tra la milizia islamista ADF e l’esercito regolare del Congo ( FARDC )  in operazioni congiunte al esercito Ugandese (UPDF).  Nei villaggi di Erengeti, Oicha e Luna, considerati la prima linea di questo conflitto asimmetrico, vige oggi la legge marziale e tutti i poteri sono stati trasferiti alle autorità militari. 

”Quando è stato il mio turno e sono stata trascinata in mezzo al cerchio, un uomo si è fatto avanti dicendo che non dovevo venire uccisa perchè lui mi voleva per sé. Gli altri allora hanno iniziato a discorrere e alla fine hanno sentenziato che dovevo dimostrare di meritarmi la vita. A quel punto mi hanno spogliata, mi hanno legato le mani dietro la schiena, mi hanno buttato dell’acqua addosso e hanno iniziato a frustarmi. Mi frustavano, mi prendevano a bastonate, a calci e poi ancora frustate; non so quante ne ho ricevute: continuavano a colpirmi, non si fermavano mai. Solo grazie a Dio sono viva. Pensavo di morire mentre venivo frustata e picchiata. Poi, quando hanno smesso di colpirmi, l’uomo che aveva deciso di prendermi con sé, dal momento che ero sopravvissuta, mi ha portato nella sua abitazione e lì ho lavorato come una schiava per un anno e due mesi facendo tutto quello che mi ordinava. E ogni volta che lo voleva, mi violentava!”.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Villaggio di Lume, ai piedi del massicciò del Ruwenzori, zona rossa di questo conflitto asimmetrico, una delegazione delle FARDC ( esercito regolare congolese ) ha incontrato alcuni rappresentanti della comunità locale, compresi alcuni membri delle milizie MAI MAI con l’obiettivo di stringere un’alleanza contro i ribelli jihadisti. 

Ha un nome quest’uomo. Georgine lo conosce, ma non lo pronuncia mai. Nemmeno una volta lo proferisce e in questa omissione cosciente e considerata si legge tutto il desiderio di vendetta che cresce simbiotico con la memoria. Sono i nomi infatti a fare esistere le persone, a renderle vive nel presente e immortali nei ricordi: privare di un nome significa negare l’esistenza di chi c’è e di chi  c’è stato e così, non proferendone mai il nome, Georgine confina il suo aguzzino nel limbo del niente. E’ un ribelle senza volto e identità, é la banalità del male, l’esecutore in armi che ha colmato il proprio nulla con l’odio, che è molto peggio del nulla.

Repubblica Democratica del Congo. Beni, Gennaio 2022. Olive Mwambiabo di anni 15, rimasta orfana di entrambi i genitori uccisi in maniera efferata dagli ADF. Oggi vive come sfollata interna a Oicha e non può frequentare la scuola per mancanza di mezzi e racconta: “ io continuo a pregare Dio perchè io possa studiare, perchè per me il significato della parola pace è potere andare a scuola”. 

”Un giorno c’è stata un’offensiva delle FARDC (Forze Armate Repubblica Democratica del Congo) vicino al villaggio in cui ero tenuta prigioniera. Ho approfittato dei momenti di confusione per fuggire. Ero andata al fiume a lavare i vestiti dei combattenti e in quel momento mi sono detta che se non fossi scappata, non avrei più avuto altre possibilità. Avevo paura, tantissima paura, perchè se gli ADF mi avessero vista fuggire mi avrebbero uccisa. Però qualcosa da dentro mi ha spinta a scappare. Sono corsa e non mi sono più voltata, neppure quando dei soldati dell’ADF mi hanno vista e hanno sparato contro di me. Alla fine ho incontrato una pattuglia dei militari congolesi, mi sono lanciata tra le braccia di un soldato che mi ha portata in caserma e alcuni giorni dopo sono tornata al mio villaggio”.

“E oggi sono la donna che è sopravvissuta a tutto questo e continuo a vivere e lavorare perché, nonostante tutto ciò, ho cinque figli cui devo pensare e provvedere da sola”. Testo di Daniele Bellocchio

Le miniere maledette. DISCESA NELL'INFERNO. IL CONGO SANGUINA PARTE 4. Daniele Bellocchio su Inside Over il 19 giugno 2022.

Il sentiero che dall’abitato di Nyabybwe conduce alla vicina miniera di cassiterite dapprima si snoda sulla cresta di una collina, poi si tuffa in una foresta fitta e impenetrabile e  poi quando la vegetazione si dirada, di nuovo, il tratturo si inerpica e conduce sulla sommità di una montagna che si affaccia su un oceano verde che disorienta e spaventa. E’ un verde infinito quello che travolge e circonda i monti del Sud-Kivu e gli unici rumori che sopraggiungono sulla sommità del monte sono quelli della giungla circostante. Il cinguettio degli uccelli, le urla delle scimmie, il ticchettio di una leggera pioggia sulle foglie di banano. Tutto appare enorme, sublime, numinoso. Ma in realtà, in questa magnificenza della natura, si celano le ragioni della dannazione della Repubblica Democratica del Congo. E’ tra le vallate e sui pendii delle montagne infatti che si trovano le cave e le miniere da cui vengono estratti i minerali e sono i minerali la ragione dei conflitti e delle violenze che travolgono il Paese africano da decenni.

Dagli anni ’90 ad oggi tutte le guerre che hanno investito l’est del Paese hanno avuto due comuni denominatori: la ricchezza come fine e la violenza come mezzo. Così è stato durante la prima guerra del Congo, quella che ha visto l’AFDL di Kabila destituire Mobutu, lo stesso si è verificato nella seconda guerra del Congo, iniziata nel ’98 e mai formalmente finita e che vide l’Uganda e il Ruanda creare degli eserciti ombra per mettere mano sul forziere congolese. Sempre per il sottosuolo, nonostante i proclami di etnicità, è stata combattuta la guerra del 2012 tra i ribelli M23 e il governo di Kinshasa e anche oggi, il conflitto che vede gli jihadisti dell’ADF avanzare nel Nord Kivu, secondo osservatori ed analisti, vede, più che nella guerra santa, nella ricchezza del territorio congolese il suo combustibile.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il movimento ribelle armato dei Nyatura si è formato dalla secessione, avvenuta nel 2010, dal movimento ribelle CNDP, oggi chiamato M23. Formati per lo più da hutu congolesi, sono guidati dal Colonnello Marcel Habarugira. Oggi una parte di questi ribelli è stata reintegrata all’esercito regolare congolese FARDC. Privi di qualunque forma di stipendio sopravvivono spadroneggiando, con abusi di potere, soprusi sui civili, razzie notturne, e diurne, pretendendo una tassa del 10% su qualunque forma di attività nella città di Rubaya. Alcuni Nyatura pattugliano il territorio attorno alle Miniere. 

Occorre marciare per diverse ore, arrampicandosi tra le colline e oltrepassando foreste e boscaglie, prima che appaia in lontananza la miniera di cassiterite di Nyabybwe. Vista dall’alto la cava ha le proporzioni di un ciclopico formicaio: un alternarsi geometrico e ordinato di cuniculi e rivoli, venature e avvallamenti all’interno dei quali centinaia e centinaia di piccole figure si muovono e non si arrestano mai. Avvicinandosi al centro estrattivo, ecco che le sagome diventano sempre più nitide e sono centinaia gli uomini, le donne e i bambini piegati sotto al peso dei sacchi e dei badili che lavorano incessantemente e senza sosta. 

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nei siti di estrazione mineraria, i minatori scavano buche che possono arrivare fino a 50 metri per estrarre i minerali. Il Congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi.  L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera.

È un brulicare continuo, ininterrotto, di persone che scavano, setacciano, riempiono sacchi di sassi e detriti e scavano di nuovo e poi strisciando ed entrano nel ventre della terra. Non si danno tregua. Hanno i volti ricoperti di terra, marciano scalzi su pietraie e nel fango, hanno mani di marmo e occhi rossi, irrorati di sangue e velati di polvere.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il Coltan, un metallo raro usato per i microchip di telefoni cellulari e computer, è una miscela di Columbite e tantalite. Il suo valore di mercato è così alto da aver suscitato l’interesse di multinazionali ed organizzazioni criminali: per destabilizzare la situazione politica ed appropriarsi dell’estrazione mineraria a prezzi contenuti, vengono finanziati gruppi armati in guerra tra di loro. Sotto la supervisione dei compratori in Rwanda, soldati e poliziotti controllano il territorio, sfruttando la popolazione locale e rivendendo le risorse naturali: i proventi servono ad acquistare altre armi che garantiscono un ulteriore potere. Un circolo vizioso difficile da debellare. Lavoratori separano i minerali dalla sabbia e dai sassi lavandoli a mano nel fiume. 

”In Africa , dove non ci sono risorse, non ci sono guerre. Le guerre in questo continente avvengono per le miniere. L’import export è molto semplice: escono minerali ed entrano soldi, pochi, ed armi, molte. E dove non c’è lo Stato è più facile mettere mano sulle ricchezze. Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi, né i Paesi vicini né altre potenze mondiali. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo.” Così parla padre Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu che aggiunge: ”Ma chi paga il prezzo più alto dello sfruttamento del Congo? I congolesi.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il Coltan, un metallo raro usato per i microchip di telefoni cellulari e computer, è una miscela di Columbite e tantalite. Il suo valore di mercato è così alto da aver suscitato l’interesse di multinazionali ed organizzazioni criminali: per destabilizzare la situazione politica ed appropriarsi dell’estrazione mineraria a prezzi contenuti, vengono finanziati gruppi armati in guerra tra di loro. Sotto la supervisione dei compratori in Rwanda, soldati e poliziotti controllano il territorio, sfruttando la popolazione locale e rivendendo le risorse naturali: i proventi servono ad acquistare altre armi che garantiscono un ulteriore potere. Un circolo vizioso difficile da debellare. Alcuni minatori escono da una un tunnel della miniera. Questi minatori scavano a volte buchi profondi oltre 50 metri per trovare i minerali. Una volta rimenpiti i sacchi, questi vengono trasportati ad un fiume ai piedi della collina dove sorge la miniera. 

Quando andrete a Nyabybwe vedrete gli uomini, le donne e i bambini che lavorano nelle miniere del Congo. Lavorano in condizioni atroci, per una paga di pochi dollari. A volte, persone che hanno un lavoro in città o anche gli studenti, quando gli giunge notizia che è stata scoperta una nuova vena d’oro, lasciano la loro vita per andare a unirsi ai minatori nella speranza di poter arricchirsi trovando dei minerali. Nessun congolese è diventato ricco in questo modo. Anzi, la società si impoverisce, le famiglie si disgregano e spesso questi minatori infettati dalla ”febbre dell’oro”, muoiono nel silenzio globale a causa dei crolli, delle frane o dei massacri che vengono compiuti per il controllo delle cave. Il popolo congolese muore di fame e di fatica per dare le sue ricchezze al resto del mondo. E’ un atroce paradosso”.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nei siti di estrazione mineraria, i minatori scavano buche che possono arrivare fino a 50 metri per estrarre i minerali. Il congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi. L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera. 

Quanto dice il prelato congolese preannuncia ciò che ci si para davanti nel momento in cui facciamo l’ingresso nella miniera. Alcune donne, scalze, caracollano da un pendio trasportando sulla schiena sacchi contenenti pietre e terriccio. Le gerle pesano più di cinquanta chili e le portatrici non si fermano nemmeno un’istante per una breve intervista: ”Ci pagano in base a quanta cassiterite viene estratta. Più lavoriamo più c’è possibilità di guadagnare”. Spiega lapidaria una donna mentre rovescia il contenuto del suo carico in una pozza d’acqua dove una dozzina di uomini, con badili e setacci, immediatamente, inizia a lavare il materiale per separare i minerali dalle pietre grezze. La miniera funziona come una catena di montaggio della sofferenza: c’è chi trasporta, chi lava i minerali ma il settore più feroce è quello dell’estrazione. 

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Alcune donne trasportano sulle spalle sacchi che arrivano a pesare anche 60kg per diversi km. Il congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi.  L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera.

Dai rivoli dove vengono lavate le pietre sino all’ingresso delle miniere occorre camminare ancora per un’ora. L’umidità incolla i vestiti alla pelle, i piedi affondano prima nel fango e poi scivolano sulle pietraie e intanto un gruppo i bambini, con ancora i badili in mano, su ordine del direttore della miniera, si nasconde nella boscaglia così che non si sappia dello sfruttamento minorile che si consuma sistematico nelle cave congolesi.

Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, Massisi, Rubaya. 16/09/2013 Il Coltan è una miscela di Columbite e Tantalite, metallo raro usato per la realizzazione di cellulari e computer. Il suo valore di mercato è così alto da aver suscitato l’interesse di multinazionali ed organizzazioni criminali: per destabilizzare la situazione politica ed appropriarsi dell’estrazione mineraria a prezzi contenuti, vengono finanziati gruppi armati in guerra tra di loro. Sotto la supervisione dei compratori in Rwanda, soldati e poliziotti controllano il territorio, sfruttando la popolazione locale e rivendendo le risorse naturali: i proventi servono ad acquistare altre armi che garantiscono un ulteriore potere. Un circolo vizioso difficile da debellare. Alcuni minatori portano sacchi di cassiterite dalla miniera giù per la collina dove poi il minerale verrà lavato e pesato.  

Poi, improvvisa, appare una voragine. Alcuni uomini stanno spalando, immersi nel limo fino al ginocchio, per cercare di creare degli scalini e intanto, altri uomini, equipaggiati soltanto di una pila frontale, a torso nudo e senza scarpe si calano in un tunnel profondo 50 metri. Una scala a pioli fatta con delle travi conduce nel ventre della montagna. L’unica misura di sicurezza è una sottile corda logorata e legata a una tanica dell’acqua incastrata tra due bastoni. Una volta dentro la miniera, il buio totale non permette di scorgere neanche una sagoma. Le sole fonti di luce sono quelle dei minatori in profondità, e si scende lentamente aggrappati alla scala e alla corda e più si scende più si è travolti da una paura primigenia che non si pensava più di conoscere: la paura del buio. E’ tutto nero, di un nero assoluto, e giunti in fondo alla galleria, provando a voltarsi e guardare l’ingresso della miniera, ci si rende conto che si è così in profondità che non si scorge né l’ingresso e neppure il più flebile e sottile spiraglio di luce.

Repubblica Democratica del Congo. Sud Kivu, Febbraio 2022. Nei siti di estrazione mineraria, i minatori scavano buche che possono arrivare fino a 50 metri per estrarre i minerali. Il Congo è il paese più ricco al mondo di risorse minerarie. Lo sfruttamento del sottosuolo è la causa principale dei conflitti che da decenni coinvolgono lo stato africano. Nella miniera artigianale di Nyabibwe, in sud Kivu, centinaia di persone, uomini donne, e anche bambini, lavorano in condizione estreme per estrarre la cassiterite, uno dei componenti fondamentali per la realizzazione degli smartphone ed impiegato anche nella cosmesi. L’intera economia del villaggio di Nyabibwe ruota intorno alla miniera. 

C’è solo l’oscurità e  questa fa paura perché avvolge tutto come un mantello e ricopre, come una spessa coperta, l’ ingiustizia che si consuma nelle miniere africane rendendola invisibile al resto del mondo. Testo di Daniele Bellocchio

·        Quei razzisti come gli ugandesi.

Da lastampa.it il 20 febbraio 2022.

Il ministro degli Esteri ugandese Abubakhar Jeje Odongo è passato senza salutare davanti alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ed è andato a stringere la mano solo al capo del Consiglio dell'UE Charles Michel e al presidente francese Emmanuel Macron durante un ricevimento ufficiale a Bruxelles giovedì.

Dopo aver posato per le telecamere, Macron fa un cenno alludendo a von der Leyen e il ministro scambia solo un saluto verbale. L'incontro ricorda un incidente dell'aprile 2022 quando von der Leyen era stata relegata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan su un divano distante durante un incontro mentre al suo collega Michel era stato fatto sedere accanto a lui su una sedia.

Il ministro arriva e "umilia" la Von der Leyen: il video fa il giro del mondo. Federico Garau il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Arrivato a Bruxelles per il vertice Ue-Africa, il ministro degli Esteri ugandese ha completamente ignorato la presidente della Commissione europea, stringendo la mano solo a Michel e a Macron.

Ha fatto molto scalpore quanto accaduto giovedì al vertice Ue-Africa tenuto a Bruxelles, dove il ministro degli Esteri ugandese Abubakhar Jeje Odongo ha completamente ignorato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (guarda il video), andando a direttamente a salutare il presidente del Consiglio dell'Ue Charles Michel ed il presidente francese Emmanuel Macron.

Un episodio che ha riportato subito alla memoria un altro fatto simile, accaduto l'aprile dello scorso anno in Turchia, quando la von der Leyen era stata ospite del presidente Recep Tayyip Erdogan. In quell'occasione, la presidente della Commissione europea era stata l'unica a non avere una sedia sulla quale sedersi ed aveva dovuto accontentarsi di un sofà.

Giovedì scorso, invece, è stato il ministro degli Esteri ugandese Abubakhar Jeje Odongo a fare uno sgarbo alla von der Leyen, passandole di fronte senza neppure degnarla di un cenno. Il politico è infatti subito andato a stringere la mano a Charles Michel e a Emmanuel Macron. È stato proprio il presidente francese, dopo un momento di imbarazzo generale, ad indicare con una certa fermezza la presidente della Commissione europea al ministro ugandese.

Un tentativo quasi del tutto vano. Sollecitato da Macron, Abubakhar Jeje Odongo si è limitato a rivolgere alla von der Leyen una semplice parola di saluto. Per tutta la durata dell'episodio, la presidente della Commissione europea ha mantenuto sul volto un sorriso di circostanza. Ha fatto discutere la mancata reazione del presidente del Consiglio Ue Charles Michel. In seguito all'episodio, qualcuno ha immediatamente parlato di maschilismo, ma in realtà le ragioni del gesto di Abubakhar Jeje Odongo non sono note.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

·        Quei razzisti come i nigeriani.

Nigeria, ritrovate dopo 8 anni due studentesse rapite da Boko Haram. Tgcom24 il 22 giugno 2022.

Sono state liberate dall'esercito nigeriano che le ha mostrate alla stampa con i figli. Così le due giovani hanno raccontato la prigionia

L'esercito nigeriano ha annunciato di aver trovato due ex studentesse del gruppo delle cosiddette "ragazze di Chibok", rapite dai jihadisti di Boko Haram otto anni fa, nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2014 dalla scuola di Chibok, da qui il nome, nello Stato di Borno, nord-est del Paese. 

Le due giovani erano tra le 276 studentesse di età compresa tra 12 e 17 anni rapite dal loro collegio. Con i loro figli in braccio sono state presentate alla stampa. Si tratta di Hauwa Joseph e  Mary Dauda

Il ritrovamento - Il generale Christopher Musa, comandante militare della 26ma brigata dell'esercito nigeriano, ha dichiarato che le giovani sono state trovate il 12 e 14 giugno in luoghi differenti. La prima, Hauwa Joseph , era con altri civili vicino a Bama, dove le truppe avevano attaccato un campo di Boko Haram. L'altra, Mary Dauda, era nei pressi del villaggio di Ngoshe, al confine con il Camerun, assieme al suo bambino. 

Le testimonianze - Alcune delle ragazze scappate dalla prigionia hanno raccontato di essere state portate nella 

foresta di Sambisa, dove si trovava la base di Boko Haram, e divise tra cristiane e musulmane: le musulmane erano state costrette a sposare dei miliziani; lo stesso accadde alle cristiane che accettarono di convertirsi all'Islam. Le studentesse cristiane che rifiutarono la conversione furono ridotte in schiavitù, costrette a dormire all'aperto e compiere lavori di fatica, oltre a cucinare per i miliziani, curare quelli feriti e seppellire quelli morti. I loro guardiani le separarono in piccoli gruppi e continuarono a spostarle nelle varie basi di Boko Haram per tenerle nascoste. 

"Siamo state abbandonate, nessuno si è preso cura di noi. Non ci hanno neanche dato da mangiare a sufficienza", ha riferito Hauwa Joseph. Mary Dauda, racconta di essere stata costretta a sposarsi con diversi combattenti di Boko Haram prima di riuscire a fuggire. "Ti fanno morire di fame - ha detto. - Ti picchiano se ti rifiuti di pregare".

La sorte delle altre ragazze rapite - A oggi, delle 276 studentesse rapite, oltre 57 sono riuscite a scappare quasi subito dopo il sequestro, altre 80 sono state liberate grazie all'intervento dell'esercito nigeriano o in cambio di alcuni comandanti prigionieri di Boko Haram. Tante altre ragazze però risultano ancora disperse da otto anni. 

Secondo l'Unicef, dal 2009, inizio dell'insurrezione dei terroristi nel nord della Nigeria, 27mila persone hanno perso la vita. Sono state chiuse oltre 1.400 scuole nel nord-est del Paese e più di 2.200 insegnanti sono stati uccisi. Almeno 2,8 milioni bambini non hanno accesso all’istruzione di base. Tanti sono dovuti fuggire dalle loro case e ora si trovano in campi per sfollati o profughi nei Paesi limitrofi. 

·        Quei razzisti come i ruandesi.

Hotel Rwanda. La vita impunita dell’uomo che comprò le armi per il genocidio ruandese. Pietro Del Re su L'Inkiesta il 26 Settembre 2022.

Come spiega Pietro Del Re ne “I dimenticati”, Félicien Kabuga non sarà probabilmente mai condannato per aver acquistato 500.000 machete con cui migliaia di contadini hutu sterminarono 800mila tutsi e per incitato all’odio etnico dalla sua Radio des Mille Collines 

L’esagerata copertura mediatica del processo contro l’uomo che nel 2005, assieme a Aretha Franklin e Muhammad Ali, fu insignito dal presidente George W. Bush del massimo riconoscimento americano, la Medal of Freedom, è la prova di come il genocidio del 1994 sia ancora una ferita aperta nel cuore dei ruandesi. Per ore, le radio e le televisioni locali trasmettono in diretta ogni udienza del dibattimento contro Paul Rusesabagina, l’eroe raccontato nel film “Hotel Rwanda” e oggi giudicato per tredici reati di terrorismo da un tribunale di Kigali.

A quest’uomo di sessantasei anni, apparso in aula indossando pantaloni e camicia rosa confetto, l’uniforme dei galeotti locali, molti augurano oggi l’ergastolo, non tanto per aver creato una milizia armata che secondo l’accusa nel 2017 avrebbe rapinato e ucciso al confine con il Burundi, quanto per il ruolo che ebbe lui stesso durante i massacri di ventisette anni fa, quand’era direttore dell’Hôtel des Mille Collines. «Raccontò a tutti di aver salvato più di milletrecento tutsi dai machete dei genocidari, ma in realtà le cose sono andate diversamente”, dice l’attivista JeanPierre Sagahutu, che allora sopravvisse miracolosamente alle stragi nascondendosi in una fossa biologica dove per settimane si nutrì soltanto di vermi e scarafaggi.»

Secondo Sagahutu, «Rusesabagina chiedeva 1500 dollari a chiunque chiedesse di varcare il portone del suo albergo per poter usufruire della protezione del contingente dell’Onu che vi alloggiava. Molti furono da lui respinti semplicemente perché non avevano di che pagarlo. Non ha mai agito per altruismo ma solo per soldi. Con le sue tante bugie è riuscito a convincere Hollywood di essere stato un uomo eccezionalmente generoso e grazie al successo del film che gli fu dedicato negli Stati Uniti c’è ancora chi gli dà credito», aggiunge Sagahutu, la cui madre fu impalata viva, i due fratelli massacrati con il machete e il padre segato in due.

È del resto comprensibile che il genocidio non sia ancora stato metabolizzato né i suoi tanti lutti elaborati dai ruandesi, perché si è trattato di uno spaventoso trauma collettivo, in cui le milizie interahamwe e i contadini hutu si sono accaniti con una frenesia omicida e devastatrice su tutta la popolazione tutsi. Nonostante l’organizzazione sommaria e i mezzi piuttosto arcaici per compierlo, cioè machete, mazze e bastoni, ottocentomila tutsi sono stati uccisi in dodici settimane, conferendo ai genocidari ruandesi uno spaventoso primato.

Dalla notte del 6 aprile 1994, subito dopo l’abbattimento nei cieli di Kigali dell’aereo sul quale viaggiavano il presidente del Ruanda Juvénal Habya Rimana e il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira, il paese si tramutò improvvisamente in un luogo di estremo sadismo, dove le donne e i bambini furono le prime vittime dei massacri affinché non rinascesse alcuna generazione di tutsi, con le madri costrette a uccidere i propri figli per essere poi sistematicamente violentate, mutilate e infine ammazzate anch’esse. Secondo un’inchiesta realizzata dall’Unicef, l’80 per cento dei bambini ha avuto un morto in famiglia in quei tragici tre mesi del 1994 e il 70 per cento di loro ha visto uccidere qualcuno. 

L’ex “banchiere del genocidio” che nel 1994 aveva fatto arrivare in Ruanda 500.000 machete e che aveva creato e diretto Radio des Mille Collines da cui diffondeva odio e invitava a snidare e mutilare gli “scarafaggi tutsi”, fino al giorno del suo fermo a Asnières sur Seine, vicino Parigi, aveva trascorso la vita comoda e serena di un qualsiasi pensionato molto benestante. Dice ancora Sagahutu: «Chi l’ha protetto, tutti questi anni? Non lo sapremo mai, ma possiamo immaginare il sollievo che deve provare quell’assassino seriale, ormai vecchio e malato, all’idea che probabilmente non sarà mai condannato per tutto il male che ha fatto. Perché sono certo che morirà prima che il Tribunale dell’Aia possa giudicarlo»

"Racconto il Ruanda tra siccità, antichi riti e l'inizio dell'odio". La scrittrice in "Kibogo è salito in cielo" indaga le radici comuni di un Paese dilaniato. Eleonora Barbieri il 3 Agosto 2022 su Il Giornale.

Scholastique Mukasonga ha lasciato il suo Paese, il Ruanda, quarantanove anni fa. Nel 1973, a diciassette anni, a causa delle persecuzioni contro i tutsi è fuggita in Burundi; poi, nel 1992, è arrivata in Francia, dove vive tuttora e la sua opera è stata riconosciuta, fra gli altri, con un Prix Renaudot. Ha raccontato la sua storia nel memoir Inyenzi ou les cafards, pubblicato da Gallimard, e les cafards sono gli «scarafaggi», uno dei nomi con cui venivano definiti i tutsi ai tempi del genocidio del '94. Kibogo è salito al cielo, pubblicato da Utopia (pagg. 126, euro 18), è il suo secondo romanzo ad apparire in Italia, dopo Nostra signora del Nilo (66thand2nd, 2014): parla del suo Paese a metà del '900, di una grande siccità (come oggi...) e dei tentativi degli abitanti di un villaggio di far scendere la pioggia, fra l'adesione, non sempre spontanea, alla religione cristiana e i ricordi di antichi riti e leggende, legati alla figura di Kibogo, la cui storia ricorda proprio quella di Gesù...

Scholastique Mukasonga, come è nata l'idea del romanzo?

«Ogni sera, intorno al camino, mia madre Stéfania ci raccontava le leggende della tradizione ruandese. Nel suo inesauribile repertorio ritornava spesso quella del principe Kibogo, che salì in cielo per riportare la pioggia in Ruanda, minacciato da una grave siccità. Al catechismo i missionari ci hanno raccontato la storia della resurrezione al cielo di Gesù: come si fa a pensare che le due storie non siano collegate?»

Quindi la leggenda di Kibogo esiste davvero?

«Non l'ho inventata io. Le tradizioni orali ruandesi hanno spesso per protagonisti degli eroi chiamati abatabazi, i salvatori. In tempi di guerra o di calamità naturali, gli indovini di corte chiedevano a una persona di alto rango, talora al re in persona, di sacrificarsi per salvare il Paese. Il rito, definito a sua volta abatabazi, potrebbe essere paragonato alla devotio romana, il cui esempio più famoso, secondo Tito Livio, è quello del console Decio Mure».

E in questo caso?

«Nella corte del re c'era una capanna-santuario dedicata a Kibogo: essa era presieduta da una vestale, responsabile del culto. Il mio personaggio, Mukamwezi, è proprio una vestale, che il cristianesimo ha bandito».

In effetti, nel romanzo il Ruanda appare quasi una terra di conquista religiosa, fra paganesimo e cristianesimo.

«La colonizzazione belga si fondava essenzialmente sulle missioni cattoliche, alle quali era affidata l'istruzione. Nel 1931 il re Musinga, che si opponeva al controllo coloniale e missionario, fu deposto e sostituito con uno dei suoi figli, favorevole invece al battesimo: questo portò alla conversione dei chef, che a sua volta portò alla conversione di gran parte della popolazione».

Con questo scontro religioso voleva anche rimandare al tragico conflitto civile che ha insanguinato il suo Paese?

«Vorrei innanzitutto sottolineare che hutu e tutsi non sono gruppi etnici: tutti i ruandesi parlano la stessa lingua, vivono gli uni accanto agli altri e condividono la stessa cultura. L'appoggio che i belgi e la Chiesa hanno dapprima garantito ai tutsi, e poi il rovesciamento dell'alleanza per paura del comunismo al momento dell'indipendenza, spiegano in parte il genocidio dei tutsi nel 1994. La fine del romanzo può essere ambientata nel 1959, anno in cui scoppiarono i primi pogrom contro i tutsi».

Può raccontare come la guerra ha colpito lei e la sua famiglia?

«La mia famiglia è stata deportata nel 1966 a Nyamata, perché era tutsi. Nel 1994, trentasette dei suoi membri sono stati massacrati lì».

Il romanzo parla di una grande siccità: è qualcosa di molto attuale.

«In passato, la colpa della siccità veniva attribuita a Dio o agli spiriti maligni. Oggi la responsabilità è del cambiamento climatico, in gran parte causato dall'uomo...»

Siccità e pioggia hanno anche significato metaforico?

«La pioggia e il suo arrivo, auspicato in una data ben precisa, sono ovviamente cruciali per i ruandesi, che vivono al novanta per cento di agricoltura. Il re e gli stregoni della pioggia sono sempre stati ritenuti responsabili dei mali del Paese. La carestia del 1943 però è ben documentata: fu causata dalla siccità, ma anche dallo sforzo bellico richiesto alle popolazioni colonizzate».

Akayézu è un personaggio centrale, che incarna lo spirito cristiano più dei religiosi stessi: come nasce?

«Il nome Akayézu, Piccolo Gesù, sembra determinare il suo destino. È davvero un piccolo Gesù, ma un piccolo Gesù africano, addirittura ruandese. Spesso i convertiti, sia in Africa, come Beatriz Kimpa Vita in Congo, sia in America, come i mormoni, si sono chiesti: perché le Scritture bianche non parlano dell'Africa o dell'America?»

Quanto sono state avvicinate la storia di Kibogo e quella di Gesù?

«Quando i missionari volevano spiegare ai loro catecumeni la salita in cielo di Gesù, di Elia o di Maria, si appellavano all'esempio di Kibogo, che era stato portato in cielo con le mogli, i figli, i servi, i guerrieri e le mucche. Le catechesi dei missionari erano spesso prese alla lettera, e confondevano una storia con l'altra. Di qui è nato un certo sincretismo».

Da dove nasce il tono così ironico del romanzo?

«L'humour è una peculiarità imprescindibile dell'eleganza, e un ruandese deve disporne nel comportamento e nei modi».

La pluralità di voci che cosa rappresenta?

«Il romanzo vorrebbe essere corale. La voce fuori campo appartiene al villaggio che è stato costruito ai piedi del monte Runani, dove Kibogo è salito in cielo e dove si oppongono due luoghi santi: un bosco sacro con alberi intoccabili e la cappella in mattoni della missione».

C'è un personaggio che ama particolarmente?

«Ho provato a rendere Akayézu un personaggio molto simpatico, credo. Come me, ascoltava i racconti di sua madre».

Il richiamo alle radici ha un valore anche oggi?

«All'indomani del genocidio, i ruandesi hanno cercato di riconciliarsi e di ricostruire il Paese attorno a valori fondamentali come l'agaciro, in cui ogni ruandese può identificarsi. Il termine può essere tradotto come dignità. Nel 2019, il Ruanda ha riportato in vita una festa tradizionale chiamata umuganura, la festa del sorgo».

Con quale intento?

«Secondo il governo, al di là delle manipolazioni che la storia del Ruanda ha subito, è necessario affidarsi a pratiche e riti che sono stati alla base della società e della cultura ruandese. Il nuovo Ruanda può affondare le sue radici in un passato ritrovato? È questa la scommessa del mandato di Paul Kagame. Questo ritorno alle origini non deve essere accompagnato da una recrudescenza nazionalista, deve essere accompagnato da un'apertura agli altri: questo è ciò che il Ruanda sta cercando di fare».

 Carlo Tarallo per “La Verità” il 19 aprile 2022.

«Non conosco i dettagli dell'accordo tra Ruanda e Regno Unito, ma in base all'annuncio pubblico sembra essere un buon passo avanti»: è il commento del ministro per l'Immigrazione e l'integrazione della Danimarca, Mattias Tesfaye, in riferimento al piano del governo britannico per contrastare l'immigrazione illegale, che prevede, fra l'altro, che alcuni dei richiedenti asilo sbarcati sulle coste inglesi siano trasferiti in Ruanda per la gestione dell'iter burocratico relativo alle loro richieste. Le parole di Tesfaye sono destinate a far venire il mal di testa ai sedicenti progressisti di tutta Europa, e in particolare ai paladini della immigrazione senza regole.

Tesfaye, infatti, non è un politico di destra, ma l'esatto contrario: il babbo, Tesfaye Momo, è un rifugiato etiope, mentre il ministro, prima di aderire al Partito Socialdemocratico della premier Mette Frederiksen, è stato un esponente di primo piano del Partito Popolare Socialista e prima ancora dell'Alleanza Rosso-Verde e dell'ormai disciolto Partito Comunista Marxista-Leninista della Danimarca.

Dunque, siamo di fronte a un politico di sinistra radicale, che però non ha alcun problema a definire interessante il piano di Boris Johnson per contrastare l'immigrazione clandestina: «Spero», ha aggiunto Mattias Tesfaye, a quanto riferisce il Guardian, «che più Paesi europei nel prossimo futuro sosterranno la visione di affrontare la migrazione irregolare attraverso partenariati impegnati con Paesi extraeuropei".

Il piano di Boris Johnson, la cui realizzazione pratica è affidata al ministro dell'Interno britannico Priti Patel, prevede che venga sottoscritto col governo del Ruanda un accordo da 120 milioni di sterline che prevede in alcuni casi rimpatri rapidi per i richiedenti asilo arrivati nel Regno Unito e la gestione dell'intero processo burocratico nel Paese africano.

Johnson nei giorni scorsi ha sottolineato che la situazione degli sbarchi clandestini è diventata insostenibile per la Gran Bretagna: arrivano anche 600 persone al giorno su gommoni e piccole imbarcazioni che attraversano il canale della Manica, e il totale dall'inizio dell'anno supera le 5.000 persone. 

Johnson ha accusato i trafficanti di esseri umani, sottolineando che Londra non può tollerare queste azioni illegali: «La nostra compassione può essere infinita», ha commentato il primo ministro inglese, «ma la nostra capacità di aiutare le persone non lo è».

In sintesi, il piano di Johnson prevede che ogni immigrato clandestino che verrà pizzicato mentre tenta di sbarcare sulle coste britanniche o che è entrato in maniera irregolare sul territorio dall'inizio dell'anno verrà imbarcato su un aereo e trasferito in Ruanda, stato dell'Africa orientale con poco più di 11 milioni di abitanti. Ottenuto l'asilo, i rifugiati saranno accolti in ostelli e sostenuti per cinque anni dal governo locale, con fondi inviati appositamente da Londra, per costruirsi una vita e trovare una attività lavorativa: sono stati già stanziati 140 milioni di euro. Il piano prevede anche il dispiegamento della Royal Navy, la Marina militare, per intercettare, identificare e bloccare i barconi degli scafisti.

Il ministro Patel, nei giorni scorsi, è volata a Kigali per sottoscrivere il patto tra Gran Bretagna e Ruanda: «Si tratta di un Paese», ha evidenziato Johnson, «che ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».

Da corriere.it il 14 aprile 2022.

Il governo britannico guidato da Boris Johnson ha lanciato un controverso piano per contrastare l'immigrazione illegale. Il progetto dell'esecutivo conservatore prevede che alcuni dei richiedenti asilo entrati illegalmente in Gran Bretagna possano essere mandati in Ruanda per la gestione delle loro richieste — senza alcuna certezza di poter tornare indietro.

Non ci sono limiti numerici al piano, ha detto il governo di Londra, che quindi potrebbe riguardare migliaia di persone che hanno attraversato la Manica per entrare in Gran Bretagna. 

Il piano è stato formalizzato oggi dopo la sigla, a Kigali, di un'intesa con il Ruanda chiamata «Partnership per lo sviluppo economico». 

Secondo Londra, la situazione migratoria è diventata «insostenibile»: oltre 600 persone sono arrivate solo ieri dopo aver attraversato su barchini e gommoni il Canale della Manica, portando il totale a oltre 5.000 quest'anno. 

Lo scorso anno le persone entrate in territorio britannico attraverso la Manica su imbarcazioni di fortuna sono state almeno 28000 (contro le 8.500 nel 2020). Decine i morti: l'incidente più grave fu registrato nel mese di novembre, e a morirono furono 27 migranti.

L'intenzione dichiarata da Johnson è quella di porre fine al traffico di esseri umani. «Chi cercherà di saltare la coda (per entrare nel Paese) o prendersi gioco del nostro sistema» sarà «rapidamente, e in modo dignitoso, mandato in un Paese terzo sicuro» (cioè il Ruanda) o «nel loro Paese d'origine».

Le ong hanno fortemente criticato il piano, definendolo «crudele»; l'opposizione laburista l'ha bollato come «impraticabile e immorale». Il piano — per ammissione dello stesso Johnson — sarà probabilmente contestato legalmente, e non entrerà in vigore subito. 

«Noi siamo convinti che il nostro piano rispetti appieno i nostri obblighi internazionali ma nonostante questo ci aspettiamo dei ricorsi legali - ha riconosciuto Johnson - e se questo Paese è considerato debole verso l'immigrazione illegale da alcuni nostri partner è a causa di una schiera di avvocati politicizzati che per anni fatto affari ostacolando le deportazioni e limitando l'azione del governo». 

Il piano annunciato oggi da Londra prevede anche che sia la Royal Navy — la marina militare britannica — a pattugliare il canale della Manica per frenare l'impennata di sbarchi di immigrati illegali.

Il Ruanda è lo stato più densamente popolato del continente africano; le tensioni etniche e politiche hanno scatenato, nel 1994, un genocidio tra le etnie Hutu e Tutsi.

Il piano choc di Johnson: gli immigrati clandestini deportati in Ruanda. Erica Orsini il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

Intesa Londra-Kingali sui richiedenti asilo. Critiche al premier: "Una scelta immorale".

Londra. Un biglietto di sola andata per il Ruanda.

È quello che intende regalare il governo di Boris Johnson ai migranti clandestini che hanno attraversato la Manica cercando rifugio e una nuova patria nel Regno Unito. La decisione, annunciata ieri in una conferenza stampa dallo stesso Primo Ministro britannico rientra nell'ambito del pacchetto di nuove politiche sull'immigrazione che già aveva suscitato reazioni polemiche nel mondo politico.

«Questo tipo di schema si è reso necessario per mettere fine ai mezzi usati nel traffico di esseri umani, così sarà possibile salvare innumerevoli vite» ha spiegato Johnson nella conferenza svoltasi in Kent.

Il Premier ha spiegato di aver raggiunto un accordo con quello ruandese che accoglierà un numero ancora non fissato di clandestini, attualmente detenuti nel Regno. Il ministro degli Interno, Priti Patel, si è infatti recata a Kigali per sottoscrivere il patto tra i due Paesi nell'ambito delle collaborazioni di sviluppo economico. L'idea dell'Home Office è infatti di portare gli immigrati in Runanda, «incoraggiandoli» a rimanere e a rifarsi una nuova vita lì. «Quel Paese - ha proseguito Johnson - ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».

Ai giornalisti che gli hanno fatto presente il triste record di violazioni dei diritti umani perpetrate in quei territori e le numerose torture alle quali vengono sottoposti i detenuti il Primo Ministro ha risposto: «Il Ruanda ha subito una trasformazione completa e negli ultimi decenni è diventato un Paese diverso da quello che era». Nel costo totale dell'operazione sarà compreso un iniziale pagamento di 120 milioni di sterline, una cifra già contestata dall'opposizione che ha definito l'intero sistema «non fattibile e non etico». «L'attuale sistema di accoglienza che prevede la sistemazione negli alberghi ci costa già un miliardo e mezzo ogni anno - si è difeso Johnson - la permanenza negli hotel si aggira intorno ai 5 milioni quotidiani ed è destinata ad incrementare». I migranti che arriveranno in Ruanda verranno prima sistemati in un ostello del quartiere Gasabo di Kigali che al momento funge da albergo per turisti e che il governo africano intende acquistare in leasing dall'attuale proprietario. Al momento non è ancora chiaro se verranno spediti in Africa soltanto uomini, se laggiù sarà possibile ricorrere in appello e se il sistema sarà destinato ai soli migranti «economici». Johnson ha anche dichiarato che dalla prossima settimana la Royal Navy assumerà il comando operativo nel Canale per assicurare che «nessun barcone arrivi clandestinamente nel Regno Unito». Lo scorso anno hanno attraversato la Manica in imbarcazioni di fortuna 28,526 persone secondo i dati ufficiali, ma il numero potrebbe essere molto più alto. Decine hanno perso la vita tentando di raggiungere le coste inglesi.

Il ministro Patel aveva dichiarato in Parlamento che «il 70% degli immigrati clandestini che arrivano a bordo dei barconi sono migranti economici» ma i dati ottenuti dal Guardian dallo stesso Home Office evidenziano che il 61% degli immigrati arrivati via mare hanno poi ricevuto il permesso di rimanere come rifugiati.

Cuore di tenebra. Il modello Brexit dell’immigrazione? Appaltare l’accoglienza dei rifugiati al Ruanda. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.

Il premier Johnson ha deciso di spedire a Kigali i migranti maschi single che arrivano nel Regno Unito. I primi trasferimenti partiranno a maggio. Londra pagherà i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza, spendendo tra le 20mila e 30mila sterline a persona.

Aiutiamoli a casa loro. Anche se non è casa loro. Basta che non sia casa nostra. In una riga, è questo il piano del governo inglese per spedire – e quindi deportare, accusano opposizione e ong – in Ruanda i migranti illegali. Inizialmente verranno respinti così solo i maschi adulti senza figli, a prescindere dalla nazionalità: chi scappa dall’Afghanistan potrebbe trovarsi su un volo per Kigali. Più di esternalizzare l’accoglienza, si tratta di pagare per lavarsi la coscienza. Da Londra, il Ruanda riceverà subito 120 milioni di sterline. Benché più avanzata di altri Stati africani, la repubblica guidata da Paul Kagame è criticata per come reprime il dissenso.

Il primo ministro Boris Johnson combatte l’immigrazione, anche quella regolare, da quando è a Downing Street. Ha reso più difficile ottenere un visto per gli europei, con un sistema a punti. Ha pagato la Francia per pattugliare le coste normanne. Ha varato una legge, il Nationality and Borders Bill, che prevede il carcere per chi arriva illegalmente. Sono aumentati gli sbarchi via mare: 28 mila persone nel 2021, ventimila più del 2020. I numeri di quest’anno, con più di 5mila ingressi, hanno convinto i conservatori all’ennesima stretta. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza, in Italia l’anno scorso sono approdate 67mila persone.

Chi cerca salvezza nel nostro Paese proviene soprattutto da altre nazioni del Mediterraneo, in testa Tunisia ed Egitto. La maggior parte dei profughi diretti verso l’Inghilterra, invece, arriva da più lontano. Iran, Iraq, Eritrea, Siria, Vietnam, Afghanistan. È prevalente il Medio Oriente, non l’Africa, eppure è qui che i richiedenti asilo verranno mandati.

Il criterio per il trasferimento in Ruanda, risparmiato a donne e bambini, è che i maschi single siano prima transitati dalla Francia o da altri «Paesi sicuri». Difficile non passarci per salpare su un barchino di fortuna o rischiare la vita nascosti nel retro di un camion.

Johnson ha promesso che i primi transfert saranno a maggio. Verranno imbarcati i migranti arrivati da inizio gennaio. Downing Street si aspetta di riuscirne a rilocare – la terminologia dei Tories si addice più alle merci che agli esseri umani – «decine di migliaia» nei prossimi anni. Sarà il governo a pagare i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza in Ruanda, dove si potrà chiedere asilo a patto di rinunciare alla domanda nel Regno Unito. Il Times ha stimato che la spesa oscillerà dalle 20 alle 30mila sterline a persona.

Cosa succede dopo? A Londra non interessa troppo, non lo ritiene più un suo problema. I tre mesi coperti dai fondi britannici sono quelli in cui, in teoria, la repubblica africana esaminerà le domande d’asilo. In caso positivo, verrà concesso un permesso di soggiorno di cinque anni. In caso di diniego, per esempio per precedenti penali, di fatto scatta il rimpatrio nel Paese d’origine. Se la trafila burocratica si ingolfasse, questa triangolazione rischia di trasformare il Ruanda nell’ultima fermata del viaggio della speranza.

Il Regno Unito non solo esternalizza l’accoglienza, come ha fatto l’Unione europea con la Turchia, ma paga un Paese terzo per accollarsi le responsabilità. Una specie di export di disperati. Ci sono gravi storture: un profugo partito dall’Afghanistan o dall’Iraq, per l’attuale normativa, può chiedere asilo solo dal suolo britannico, ma raggiungere l’isola, in base ai nuovi criteri, equivale a rendere inammissibile la domanda. È un vicolo cieco. In linea d’aria, Londra dista da Kigali 6,591 chilometri: mille più di Kabul, duemila più di Teheran e il doppio di Aleppo.

Perché proprio il Ruanda, allora? La risposta più semplice è che è l’unico Paese ad aver accettato. Ha negoziato il patto Priti Patel, ministra dell’Home Office dell’ala destra dei conservatori. La repubblica è entrata nel 2009 nel Commonwealth, di cui ospiterà il summit a giugno, e può darsi voglia compiacere Londra. Ma le ragioni sono soprattutto economiche. Kigali conta sull’afflusso di denaro stabile da una superpotenza finanziaria. Le cifre non sono ancora pubbliche, ma saranno legate al numero di trasferimenti e c’è già un fondo da 120 milioni di sterline per progetti educativi.

«Il Ruanda somiglia alla Svizzera dell’Africa, ma è un posto estremamente repressivo e spaventoso», ha detto alla BBC Michela Wrong, autrice di un libro sul Paese. C’è il W-iFi, una copertura vaccinale della popolazione al 60% e un parlamento a maggioranza femminile, è vero, ma vengono pure messi in galera gli Youtuber che criticano il presidente Kagame, al potere dal 2000, fine della guerra civile. Con percentuali plebiscitarie, ha modificato la costituzione per candidarsi dopo il secondo mandato, scaduto nel 2017, ed è stato regolarmente rieletto.

I sostenitori di Kagame spiegano i risultati con l’ascendente popolare di uno «statista», ma gli analisti sollevano dubbi sul funzionamento della democrazia ruandese. «Nel corso degli scorsi decenni – ha scritto per esempio Amnesty International – lo spazio politico e il processo elettorale in Ruanda sono stati caratterizzati da restrizioni delle libertà di associazione e assemblea, attacchi mirati contro i leader dell’opposizione, omicidi, sparizioni e processi politici che hanno indebolito la società e i media».

Una delle figure più note del Paese è Paul Rusesabagina, che ha salvato più di mille persone negli anni del genocidio dei Tutsi. Hollywood nel 2004 gli ha dedicato un film, Hotel Rwanda, con diverse nomination agli Oscar. Nel 2020, secondo quanto denuncia la sua famiglia, Rusesabagina è stato rapito da Dubai e portato in Ruanda, dove è stato condannato a 25 anni di carcere per il presunto sostegno a un gruppo ribelle. «Il Ruanda è una dittatura, non c’è libertà di parola, non c’è democrazia», ha detto alla Bbc sua figlia, Carine Kanimba.

«Siamo un posto sicuro, teniamo al rispetto dei diritti umani come ogni altra nazione» ha assicurato ai media inglesi il portavoce di Kigali. Il Paese africano più densamente popolato, per ora, ha solo 50 stanze per chi atterrerà dal Regno Unito. Possono accogliere al massimo cento persone. Un nuovo complesso di palazzine dovrebbe triplicare questa (scarsa) capacità ricettiva. Il paradosso è che proprio l’anno scorso il governo inglese ha espresso le sue preoccupazioni davanti all’Onu per «le continue limitazioni ai diritti civili e politici e alla libertà di stampa», testuale, nel paese dove ora intende spedire i migranti.

Il Regno Unito non è il solo, né il primo, a varare strategie simili. Ci ha provato anche la Danimarca, proprio con il Ruanda. «Tentativi xenofobi e inaccettabili» li ha definiti l’Unione africana. Ha protestato anche la commissione europea. Così il memorandum firmato dal ministro socialdemocratico Matthias Tesfaye è rimasto lettera morta: finora, zero trasferimenti in Africa. La Danimarca, in compenso, ha revocato il permesso di soggiorno a migliaia di siriani, sostenendo che possano tornare a Damasco, mentre si prepara ad accogliere centomila profughi ucraini.

Tra respingimenti e centri di detenzione, l’Australia ha fatto scuola negli ultimi vent’anni. Queste politiche sono costate, solo nel 2021, 460 milioni di sterline a Camberra, ma sono state spostate solo 239 persone. Una spesa media di quasi due milioni ciascuna. Anche Israele ha un accordo con due paesi: i nomi sono secretati, ma secondo i media si tratta proprio di Ruanda e Uganda. Chi viene respinto da Tel Aviv può scegliere se tornare a casa o accettare un pagamento di 3,500 dollari e un biglietto aereo per l’Africa.

Secondo un sondaggio di YouGov, il provvedimento di Johnson piace solo al 35% degli elettori ed è avversato dal 43% di loro. Anche l’esecutivo si è spaccato, se per farlo passare Patel ha dovuto usare un meccanismo che scavalcasse l’opposizione dei funzionari dell’Home Office. I conservatori potranno anche stanziare 50 milioni di sterline per armare la marina e intercettare i barchini sulla Manica, ma – secondo una proiezione in esclusiva del Telegraph – il partito crollerà alle elezioni locali di maggio, perdendo più di ottocento seggi a favore dei laburisti.

La guerra ai migranti. Profughi deportati in Ruanda, la barbarie di Boris Johnson. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Ho letto tre volte la nota di agenzia. Perché non ci credevo, ero convinto che ci fosse un errore o di non aver capito io. Invece è proprio così. Boris Johnson, il premier britannico, ha annunciato che schiererà la marina militare inglese – storicamente la più potente marina del mondo – per impedire gli sbarchi di profughi. La Royal Navy, una volta catturati i nemici, li stiperà in alcuni aerei messi a disposizione dall’aeronautica militare e con un volo di poche ore li trasporterà in Ruanda. Qui saranno accolti e sistemati, si immagina, in appositi campi di concentramento. Poi, del loro destino non si saprà più nulla.

Al Ruanda sono destinati non solo tutti i profughi che verranno catturati da oggi in poi. La caccia è aperta. Ma anche tutti quelli sbarcati in Gran Bretagna dal primo gennaio. Insieme alla marina, spalla a spalla, lavorerà la polizia. Sarà una deportazione di massa. Come quella che gli europei qualche secolo fa realizzarono con il percorso inverso. Allora andavano a prendere gli africani e li portavano in America. Li vendevano come schiavi al mercato di Charleston. Ora invece prendono i profughi e li portano in Africa. Anzi, per essere precisi, li portano in uno dei paesi più poveri dell’Africa. Il Ruanda è uno stato piccolissimo, molto popoloso, governato da una dittatura. Ha un reddito medio inferiore ai due dollari al giorno. Medio: vuol dire che ci sono alcuni milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno o forse un po’ meno. Nelle classifiche ufficiali del Pil pro-capite il Ruanda sta intorno al 175° posto su 190. I poveri sono la maggioranza della popolazione, e muoiono letteralmente di fame. Il regime è dominato da un signore che si chiama Paul Kagame.

Governa dal 2003 e le previsioni (dopo una serie di ben studiate riforme costituzionali) dicono che governerà fino al 2034. Le ultime elezioni le ha vinte ottenendo il 99 per cento dei voti. Una percentuale leggermente superiore a quella ottenuta da Kim Jong Un nella Corea del Nord. Agli oppositori è stato proibito di presentarsi alle elezioni, per evitare confusione. Il Ruanda è il paese del quale si parlò molto negli anni novanta per lo sterminio di una delle due etnie, i Tutsi, che erano una etnia di minoranza e furono annientati dagli Hutu. Il problema razziale fu risolto in quel modo. Si trattò, effettivamente in quel caso, di genocidio. Magari va segnalato a Biden. Boris Johnson ha pensato che il luogo migliore dove mandare i migranti che non vuole più fosse proprio il Ruanda. E ha sborsato circa 120 milioni di sterline per realizzare questa operazione. Più o meno il prezzo che la Juventus ha pagato qualche anno fa per comprare Cristiano Ronaldo già a fine carriera.

Non sappiamo a cosa serviranno questi dollari. Probabilmente a blindare il potere di Kagame. Ma Londra non era nemica delle dittature? Si, si, è vero, ma non stiamo lì a fare troppe polemiche, in fondo questo Kagame è stato eletto dal popolo, no? Non sappiamo a cosa serviranno i soldi inglesi ma sappiamo cosa, con baldanza e tranquillità, ha dichiarato Johnson nell’annunciare questa operazione inglese. Ha detto che “la compassione degli inglesi non ha limiti ma la possibilità di accogliere migranti invece ne ha”. Il ragionamento del primo ministro del Regno Unito è abbastanza semplice. In questi giorni in Gran Bretagna ci sono stati 600 sbarchi al giorno. Siamo oltre i limiti della possibile accoglienza. L’Inghilterra è un paese abbastanza ricco, è vero, è tra i cinque o sei paesi più ricchi del mondo, ma anche la ricchezza ha un limite, no? Molto meglio mandare i migranti in un paese poverissimo, dove in fondo è quasi impossibile aumentare la povertà. In Ruanda ci sono 11 milioni di persone (circa un sesto degli abitanti dell’Inghilterra) e come dicevamo un reddito medio di circa 600 euro all’anno a testa: non sarà un gran problema se a un esercito di morti di fame si aggiunge qualche altro migliaio o centinaio di migliaia di persone.

Infatti Johnson ha parlato esplicitamente di “approccio innovativo, guidato dal nostro condiviso impulso umanitario”. Si, Johnson ha detto proprio così. Non dovete pensare che sio sia impazzito o sia travolto dal mio ben conosciuto spirito anti-inglese. Johnson ha usato esattamente queste parole: innovativo, umanitario, impulso.

Tutto questo succede in un periodo un po’ particolare nella storia dell’Europa e dell’Occidente. E cioè nei giorni nei quali tutti, i grandi giornali in testa, e i politici, e gli intellettuali più lucidi, ci spiegano che noi siamo gente che può rinunciare a tutto, ma non ai propri valori occidentali. I nostri valori occidentali sono superiori a tutti gli altri valori. Indipendenza, libertà, giustizia.

Ci hanno anche chiesto di rinunciare ai condizionatori per difendere la nostra libertà. E noi abbiamo battuto le mani: si, si, siamo gente di tempra idealista. Chissà se Johnson ha chiesto anche ai cittadini del Ruanda di rinunciare ai condizionatori. È probabile – credo – che loro accettino senza fiatare. Per fortuna i laburisti inglesi hanno protestato un po’. E hanno protestato un po’ più vigorosamente le organizzazioni umanitarie che ancora esistono, anche se governi e magistratura stanno tentando di annientarle, magari solo perché hanno l’impressione che queste organizzazioni non conoscano bene i valori occidentali. Io però mi chiedo: ma se l’Occidente è questa roba qui, se i suoi valori sono questi, se i suoi leader ragionano come Boris Johnson, vale la pena difendere a spada tratta questa follia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

·        Quei razzisti come gli egiziani.

Giurano di salvare il futuro nell’Egitto senza presente. Non resta nulla della «Primavera araba». Nemmeno Piazza Tahrir. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Novembre 2022

Ho ancora la sua boccetta di vetro. Era il 2011. Ed eravamo al Cairo. Alaa Abd El-Fattah tolse il tappo, e mi disse: L’aria di piazza Tahrir. L’aria della libertà.

Poi mi disse: Va lasciata così. Aperta.

Ma a quest’ora probabilmente è già morto.

Ha iniziato lo sciopero della fame il 5 aprile. E dal 6 novembre rifiuta anche l’acqua. Con il suo blog, è stato l’icona della Primavera Araba. Ed è in carcere da dieci anni, ormai. Arrestato da chiunque sia stato al potere. Da Mubarak, dai Fratelli Musulmani, dall’esercito. E ora, da al-Sisi. Ha passaporto britannico, oltre che egiziano, ma Rishi Sunak ha chiesto invano una prova di vita. Non ha avuto risposta. I capi di Stato e di governo in questi giorni sono tutti a Sharm el-Sheik per la Cop27 sul clima. Promettono di salvare il mondo: e intanto non sono neppure capaci di salvare un uomo.

Ma questo è l’Egitto. Questo è al-Sisi. Intoccabile.

Quando sono stata fermata all’aeroporto del Cairo, nel 2019, e rispedita indietro in quanto «pericolo per la sicurezza nazionale», non mi sono meravigliata. Ho pagato l’inchiesta Regeni. E comunque, al Cairo siamo stati fermati tutti. Dal New York Times ad al-Jazeera. Ero pronta. Capita, in questo mestiere. Ma quello a cui non ero pronta, era l’Italia. Questa sensazione, mentre ero giù in quello scantinato, che l’Italia fosse non dico dalla parte dell’Egitto: ma certo non dalla mia. La console, quando arrivò, e mi disse che nessuno aveva idea di dove fossi, che non contassi su Amnesty International. Su una mobilitazione. Quando mi disse: Sei sola. Quello che in genere ti dice la polizia. Quando mi disse di firmare una cosa in arabo che non capivo. Quando mi disse che è perché scrivo per Yedioth Ahronoth, per Israele, che è una follia che una legata a Israele stia in Medio Oriente - Israele: che è il primo alleato di al-Sisi, e con l’Egitto ha un trattato di pace dal 1979. Quando rientrai a casa. E trovai messaggi di giornalisti di mezzo mondo: ma non uno da quelli italiani. Non uno.

Perché ti occupi di Egitto, e hai l’inferno.

Sembra un Paese lontano. E così diverso. Eppure, la mia prima volta al Cairo pensai: Ma l’Italia è uguale. Ma perché la Primavera Araba è la storia della mia generazione. Piazza Tahrir chiedeva molto più che democrazia. Chiedeva karama. Dignità. Perché il problema non era solo la politica. Non era solo Mubarak. Il problema era anche l’economia, dominata dall’esercito, e la società, marcia di clientelismo e nepotismo. Ma in fondo, cos’è il sistema del wasta, della raccomandazione, in arabo, quella con cui ti trovi un lavoro, ti salti una lista d’attesa, ti eviti un controllo della Finanza, se non quello che chiamiamo disuguaglianza delle opportunità? Non c’è un solo inviato di guerra nero. L’avete mai notato? Perché il giornalismo, come la diplomazia, come l’università, è uno di quei settori in cui ormai sei sottopagato per anni: il giornalismo è per privilegiati. Ed è sempre più così. Architetti figli di architetti, medici figli di medici.

Persino calciatori figli di calciatori.

Wasta. O come si dice a Napoli: «La conoscenza».

E poi, l’economia. In Egitto, è dell’esercito. Attraverso quattro organizzazioni, istituite perché i militari contribuissero allo sviluppo. Ma da infrastrutture e edilizia, l’esercito è dilagato ovunque. Ha imprese di ogni tipo. E tutto esentasse. Ma quanto è diversa la nostra economia? In Cina, gli operai che assemblano gli iPhone non hanno mezzo diritto. Ma i nostri, invece? Non stiamo più come schiavi alle catene di montaggio, è vero. Ma le sedi alle Cayman, per esempio, l’elusione fiscale: smantella il nostro welfare. Svuota le casse dei nostri Stati. O pensate che chi viola i diritti in Cina poi altrove sia ligio alle regole?

Se non ti importa della vita dei cinesi, non ti importa della vita di nessuno.

Perché ti importa del profitto e basta.

E la democrazia. La politica. Non abbiamo i Mubarak. Gli al-Sisi. Ma quanto potere ha un Parlamento, oggi? Quanto potere reale? Quanta sovranità, in tempi di globalizzazione? Di questioni sempre più transnazionali? E quanto è rappresentativo? Quanto è accessibile? Rishi Sunak è più ricco del Re, ma il record è stato di David Cameron: nel suo governo, erano milionari 18 ministri su 29. Cosa è il potere, cosa è la politica, in un mondo in cui l’uomo più ricco, Elon Musk, è più ricco di più di un quarto dei Paesi?

In Egitto, se fai politica ti arrestano. Ma altrove, sei escluso comunque.

Ed è per questo che la generazione di Tahrir è la mia generazione.

E Alaa Abd el-Fattah anche la mia icona.

Ma sono tutti a Sharm el-Sheikh come se niente fosse. Ambientalisti compresi. Si battono per il futuro: indifferenti a un Paese che non ha l’oggi. Ma in fondo, non hanno mai visto gli Alaa Abd el-Fattah come dei pari. La Primavera Araba qui è sempre stata bollata come una manovra degli americani. Come una cospirazione. O si è temuto che avrebbe ottenuto non la democrazia, ma la Sharia. E quando Mohamed Morsi, il primo, e ultimo, presidente regolarmente eletto della storia dell’Egitto, è stramazzato a terra in tribunale, ed è morto così, per un attacco di cuore, mentre tutti restavano a guardare, la stampa occidentale non gli ha dedicato che due righe.

Quante iniziative per i panda. Nessuna per un islamista.

E comunque, a Sharm el-Sheikh non si discute di clima. Si discute dei risarcimenti per i danni causati dai paesi più industrializzati. Perché l’ambientalismo non è che questo, per molti: una nuova opportunità per battere cassa. Secondo l’ONU, nel 2025 l’Egitto non avrà più acqua. E intanto al-Sisi, nella nuova capitale da 45 miliardi di dollari che ha voluto a est del Cairo, ispirata a Dubai, costruisce fontane nel deserto.

Dei dieci Paesi con le maggiori emissioni di anidride carbonica, 7 sono nel Golfo.

Piazza Tahrir neppure esiste più. In questi anni, tutta l’area è stata oggetto di riqualificazione urbana. E la piazza, sostanzialmente, è sparita. Per evitare manifestazioni.

Ma ora ha un prato, invece dell’asfalto, è bellissima, vero? Così verde.

Il controllo dell’opinione pubblica in Iran, Qatar ed Egitto. Chiara Salvi il 28 Novembre 2022 su Inside Over.

Il 16 novembre le autorità egiziane hanno arrestato centinaia di persone, come riportato dall’Ong Human Rights Watch. Gli arresti sarebbero avvenuti in risposta a un appello a manifestare contro gli abusi del governo, ma si tratta solamente dell’ultima di una serie di arresti, volti a bloccare ogni tipo di assembramento non autorizzato in occasione della COP27. L’Egitto non è però l’unico paese in Medio Oriente a fronteggiare una crisi dell’opinione pubblica: l’Iran sta combattendo un moto di proteste che ha coinvolto gran parte del paese e il Qatar affronta il delicato passaggio dei Mondiali di Calcio, tra esposizione mediatiche e critiche per i dirtti umani.

Il cuore delle protese iraniane

Il 16 settembre Mahsa Amini, ragazza di ventidue anni, muore in custodia della “polizia morale” iraniana. Il decesso è arrivato dopo un arresto per uso “scorretto” dell’hijab, il velo di carattere religioso che nello Stato shiita è obbligatorio, perché risultava scoperta una parte dei suoi capelli. La sua morte ha innescato in Iran una delle proteste più ampie degli ultimi anni, ma la risposta del governo non si è fatta attendere. Tre giorni dopo, il 19 settembre, è stato tagliato l’accesso ai social media e la connessione a Internet in gran parte del Paese, rendendo così più difficile il coordinamento fra i manifestanti, ma soprattutto ostacolando la fuoriuscita di notizie verso il resto del mondo.

La “polizia morale” deve controllare il rispetto della sharia (una rigida interpretazione del Corano), ma i manifestanti lamentano che queste forze dell’ordine sono solo uno degli strumenti di oppressione utilizzati dal governo per controllare la popolazione. Specialmente sotto il nuovo mandato del presidente Ebrahim Raisi, in carica dall’agosto 2021, l’intervento della polizia morale è diventato più aggressivo. Secondo la Human Rights Activists News Agency (HANRA) dall’inizio delle proteste ad ora sono state arrestate 14.000 persone. In diverse occasioni le forze dell’ordine hanno sparato sui manifestanti o usato gas lacrimogeni cercando di disperderli e alcuni dei detenuti rischiano la pena di morte. Se la popolazione è perlopiù isolata dal resto del mondo, per via dei continui blocchi applicati a Internet, l’Iran spicca fra gli attori più avanzati nell’uso di strumenti tecnologici e cyber per raggiungere i propri obiettivi. Tra le strategie di intervento volte a individuare i luoghi di protesta e identificare i dissidenti risulta l’uso di droni dispiegati per le strade delle principali città, così da identificare i luoghi della protesta e chi vi partecipa, e una campagna di phishing, volta a raccogliere le informazioni di potenziali dissidenti.

Però, anche le azioni benevolenti di attori esterni possono presentare un rischio: Amir Rashidi, iraniano ed esperto di sicurezza sul web, ha spiegato alla CNN come Elon Musk abbia esposto, non volutamente, la popolazione iraniana ad un pericolo considerevole. Il 23 settembre, il fondatore di SpaceX ha promesso di mettere a disposizione Starlink, la sua flotta di satelliti utilizzati anche in Ucraina, ma il processo di attivazione non è così immediato come si potrebbe sperare. Attivare la connessione in Iran significa un impegno a livello tecnologico considerevole e poter garantire una connessione anonima e sicura per chi la usa. Nei giorni susseguenti l’annuncio di Musk molte sono state le persone che sono cadute in trappole di phishing che promettevano loro una connessione sicura a Starlink. Rashidi ha avvertito come alcuni di questi hacker potrebbero essere incaricati dal governo per fornire a esso i profili raccolti. Ha sottolineato inoltre, che l’uso di tecnologie americane può essere motivo di accusa di spionaggio contro il governo iraniano.

Culture a contrasto ai Mondiali di calcio

Inaugurata il 20 novembre, la Coppa del mondo di calcio quest’anno si svolge per la prima volta in un Paese del Medio Oriente: il Qatar. Lo Stato sta combattendo da anni contro accuse di violazione dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori. L’attenzione mediatica sulle condizioni dei lavoratori migranti è rimasta elevata da quando, nel 2010, il Paese è stato individuato come stato ospite dei Mondiali del 2022. Un’inchiesta del Guardian, uscita nel febbraio 2021, ha dimostrato la morte di quasi 6.500 lavoratori coinvolti nella costruzione delle infrastrutture per la coppa del mondo a causa delle condizioni, spesso disumane, sotto le quali hanno sofferto. L’estate della penisola araba è particolarmente calda, con temperature che superano anche i 50°, nonostante questo i lavoratori, sotto il sole cocente del deserto, hanno spesso toccato turni di 14 ore al giorno.

Anche la libertà di stampa di tradizione occidentale si scontra con i limiti imposti dal Qatar, come dimostrato dall’episodio del 16 novembre in cui le forze di polizia locali hanno interrotto la trasmissione del reporter danese Rasmus Tanthold. La Danimarca si è già scontrata con gli organizzatori dei Mondiali, quando la FIFA ha proibito alla sua squadra di allenarsi con delle magliette con lo slogan “Diritti umani per tutti.” A Germania e Stati Uniti è stato proibito di gareggiare con la fascia arcobaleno, simbolo della comunità LGBTQ+, di cui qualunque affiliazione o appartenenza è proibita in Qatar.

I comportamenti occidentali si stanno per scontrare con quelli che sono valori intrinsecamente diversi dai propri. In data 18 novembre è stato ufficializzato il divieto di vendere alcolici, cosa che è in aperto contrasto con uno degli sponsor principali dei Mondiali: Budweiser. Ma il Qatar non si da per vinto: per dimostrare l’apertura della religione musulmana e della loro cultura verso il mondo, gli arabi hanno una cultura dell’ospitalità della quale vanno particolarmente fieri, e per dimostrare l’attrattiva del loro Paese sono stati affissi, per esempio, diversi cartelloni con alcuni insegnamenti presi dal Corano riguardanti la carità, la tolleranza e l’amore.

La COP27 tra censura e arresti

La XVII Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si è conclusa il 18 novembre. E mentre Sharm-el-Sheik, città ospitante, torna alla normalità, i riflettori mediatici sono ancora puntati sull’Egitto.

Visto l’attivismo in materia, dimostrato da Ong e civili, è diventata prassi comune permettere l’organizzazione di proteste nell’area della conferenza e nella città ospitante. Il caso dell’Egitto rappresenta però l’eccezione alla regola: il paese proibisce la maggior parte delle manifestazioni e, in vista della COP27, le ha vietate del tutto citando motivi di sicurezza pubblica. Solo all’interno della conferenza, lontano dalle attività principali, è stata designata un’area per permettere di organizzare delle manifestazioni, ma qualunque protesta doveva essere registrata con un preavviso minimo di 36 ore. Nelle settimane precedenti la conferenza, le autorità hanno avviato una rete di sorveglianza per trovare chiunque stesse organizzando una manifestazione. Tra le strategie messe in atto c’è stata anche la creazione di postazioni di controllo al Cairo in cui le forze dell’ordine bloccavano i passanti per controllargli i profili social media.

Secondo quanto riportato dalla Commissione egizia per i diritti e libertà (Egyptian Commission for Rights and Freedoms) sono state arrestate quasi 700 persone in vista della Conferenza, tra loro anche giornalisti e un avvocato per i diritti umani, Ahmed Nazir Elhelw.

Anche le delegazioni di Stati, organizzazioni e media si sono resi conto della stretta da parte del governo egiziano: specialmente nei primi giorni sono state numerose le segnalazioni di chi non riusciva ad accedere a pagine di organizzazioni per i diritti umani, come ad esempio il sito di Human Rights Watch, o a siti di giornali, come Al-Jazeera o il Huffington Post, perché oscurate dalle autorità.

L’Egitto è in piena crisi economica, causata in parte dalla guerra in Ucraina e la svalutazione della sterlina egiziana. Il timore di molti “watchdog” è che la stretta avvenuta in occasione della conferenza possa continuare per prevenire possibili disordini causati dal carovita.

Egitto, il "sistema delle porte girevoli" che permette al regime di tenere gli oppositori in carcere per anni senza processo. Francesca Caferri su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

In un'inchiesta minuziosa, frutto di un anno di lavoro, il New York Times ha dato nome e cognome a migliaia di persone detenute raccontando nei dettagli la strategia repressiva di Al Sisi.

Uno squarcio nel muro del silenzio. È l’inchiesta minuziosa, tutta basata sui dati, che il New York Times ha pubblicato sabato dopo un anno di lavoro del suo ufficio del Cairo: il quotidiano americano ha dato nome e cognome a migliaia di persone detenute – spesso senza nessuna notifica alle famiglie – nelle prigioni egiziane. Persone arrestate e in un secondo momento accusate, per lo più di diffusione di notizie false e di associazione con gruppi terroristici che, in base alla legge egiziana possono restare in carcere fino a due anni senza processo, in una serie infinita di rinvii.

Tagadà, Domenico Quirico furioso con Mario Draghi sul caso Regeni: inganna i genitori, vergogna.

Affari con l'Egitto di Al Sisi dopo l'omicidio di Regeni: rivolta contro le mosse di Draghi. Dalla Cina parte l'assalto all'Occidente: senza la Nato vivremmo in un mondo pacifico. Il Tempo il 14 aprile 2022.

L’Italia è a caccia di gas alternativo rispetto a quello della Russia e dopo aver bussato alla porta dell’Algeria adesso è il turno di un possibile accordo con l’Egitto. Nel corso della puntata del 14 aprile di Tagadà, talk show di La7 condotto da Alessio Orsingher in sostituzione di Tiziana Panella, è ospite il giornalista Domenico Quirico, che usa toni durissimi nei confronti del governo Draghi legando il tema dell’energia a quello dell’omicidio del giovane Giulio Regeni, assassinato in Egitto, un paese con cui ora l’Italia vuole fare affari dopo anni di depistaggi: “Trovo la vicenda Regeni assolutamente scandalosa. Due persone che hanno seguito il più tremendo degli urti che la vita e la morte gli può dare dal 2016 vengono ingannate sistematicamente, ma non dagli egiziani che lo fanno per principio loro, bensì da quelli che stanno in questo Paese, cioè i governo di questo Paese, che sono stati innumerevoli e tutti si sono occupati di questa vicenda. Ai genitori di Regeni gli si racconta che stiamo facendo tutto il possibile e anche un po’ di impossibile per ottenere la verità dall’Egitto, la condanna dei responsabili… Ma non è vero! Il problema doveva essere risolto all’inizio, andando a cercare il responsabile numero uno di questa storia, che è il presidente, dittatore, capo, boss di questo Paese e il ministro degli Interni. L’hanno preso, l’hanno torturato e ammazzato. È - martella il giornalista - inutile e ridicola questa cosa di farsi dare quattro indirizzi di manutengoli della violenza di Stato, pensando che quella sia la soluzione del problema. Non te li daranno mai, perché ovviamente li coprono. È stato lo Stato egiziano, non sono quattro tizi che hanno ammazzato uno per un altro”. 

Lo Stato egiziano è - prosegue Quirico - colui che lo rappresenta e lo guida, denunciate Al-Sisi ad un tribunale internazionale, come bisogna denunciare Vladimir Putin per i crimini commessi dai suoi soldati in Ucraina. Lui non li ha impediti o puniti. È una cosa elementare, dire che state facendo il possibile per condannare gli assassini di Regeni è una bufala, una bugia. Gli assassini bisogna cercarli nella scala gerarchica di coloro che hanno ucciso materialmente questo povero ragazzo e coloro che hanno coperto e consentito questo diletto. Se non fate questo ai due poveri genitori di Regeni date soltanto delle chiacchiere ed è una cosa vergognosa”.

Domenico Quirico, Alessandro Sallusti: "Ciò che dovrebbe ricordare sul suo rapimento", realpolitik meglio dell'etica. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.

«Vogliamo la giustizia o i termosifoni?», ha scritto Domenico Quirico, firma di punta de La Stampa - indignato del fatto che il nostro governo si sia rivolto a quello egiziano per rimpiazzare almeno in parte il gas che vorremo non più comperare dalla Russia di Putin. Ma come, si chiede l'illustre collega, quel criminale di Abdel al-Sisi fa torturare e uccidere un nostro ragazzo, Giulio Regeni, ostacola le indagini della magistratura e noi, anziché punirlo, andiamo in Egitto con il cappello in mano e la valigetta piena di miliardi, implorandolo di aiutarci, dove è finito il senso di giustizia?

Detto che l'omicidio di Giulio Regeni e tutto quanto successo dopo ci fa orrore e ci indigna, il ragionamento di Quirico non fa una grinza in punta di etica, ma proprio lui dovrebbe sapere che ci sono casi in cui sull'etica assoluta si deve fare prevalere la ragione di Stato. Dovrebbe saperlo, perché lui fu al centro di un caso benedetto nella sostanza ma discutibile in quanto a etica. Nell'aprile del 2013 Quirico fu rapito in Siria da una delle bande di miliziani che si fronteggiavano sul campo. Fu liberato a settembre dietro il pagamento da parte del governo italiano di un riscatto di quattro milioni di euro (cosa ufficialmente negata ma accertata da inchieste indipendenti), soldi che i guerriglieri usarono in armi per compiere nuovi massacri. È evidente che in quella occasione abbiamo trattato col nemico (e pure pagato) ma non ho dubbi: tra la giustizia e la vita di Quirico il governo italiano ben fece a scegliere la seconda senza badare a questioni morali.

Oggi il compito del governo è salvare la vita economica di cittadini e aziende e liberare i nostri approvvigionamenti da chi - Putin - li tiene in ostaggio. Bisogna sporcarsi le mani e tapparsi il naso? Sì, anche perché - dove ti giri, ti giri - gas e petrolio sono in mano praticamente ovunque a banditi e tiranni. Ahimè non ci sono pozzi in Svizzera né in Liechtenstein. Del resto, già facciamo affari con Paesi, dalla Cina all'Algeria, che poco hanno a che fare con democrazia e rispetto dei diritti umani senza che Enrico Letta e compagnia si scandalizzino più di tanto. Lasciamo che Regeni riposi in pace; oggi in guerra - almeno in quella energetica - ci siamo noi e a salvarci non saranno retorica facile né moralismi buoni a riempire le bocche in tempi di pace e vacche grasse.

Carlo Bertini per “La Stampa” il 15 aprile 2022.  

Dopo l'annuncio di un accordo per la fornitura di gas con l'Egitto, Enrico Letta la mette giù senza mezzi termini: «Mi lascia moltissimi dubbi. La vicenda Regeni è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Quindi è netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani». 

E se Carlo Calenda gli chiede polemico «quali soluzioni» proponga e Antonio Tajani invece plaude al realismo, «perché sono un bene le forniture alternative alla Russia», il gelido silenzio di tutti i vertici istituzionali fa capire quanto il tema sia spinoso per il governo: a palazzo Chigi la critica del segretario dem viene vissuta con il disincanto di chi pensa che alla politica tocchi questo ruolo e all'esecutivo quello di mettere in sicurezza la dotazione energetica dell'Italia.

Ma nei vari dicasteri si registra notevole imbarazzo: c'è chi non apprezza il modo con cui la questione è stata gestita dalla Farnesina e chi addossa la croce a Palazzo Chigi, perché non si muove foglia che Draghi non voglia.

Dai piani alti del governo trapelano considerazioni di questo tenore: «Questo accordo - svela una fonte addentro al dossier - è stata gestita da Eni e ovviamente il premier ne è consapevole. Ma la differenza stringente tra questo caso e gli accordi con Algeria, Congo e Angola è che in questi tre Paesi si procede con intese istituzionali e politiche, mentre in Egitto no: c'è un contratto tra Eni e una società egiziana, come ce ne sono stati svariati in questi anni tra società italiane ed egiziane».

Ovvero, non c'è un ripristino di relazioni a livello istituzionale tra Egitto e Italia: questo il punto centrale. Anche se l'accordo riguarda uno dei maggiori giacimenti del mondo, quello di Zohr, la più grande scoperta di gas nel Mediterraneo, e 3 miliardi di metri cubi di gas liquefatto per il mercato Eni in Europa e Italia. 

Dunque, lo stop di Letta si inserisce in un contesto complicato ed è lui il primo a dire «chi meglio di Draghi può gestire una partita così, è il primo a essere consapevole di tutte le implicazioni». Ma al tempo stesso nel momento in cui si tratta una grande vendita di gas, «il contenzioso serissimo con il regime di Al Sisi rischia di passare in sordina».

Se nel medio termine, bisogna investire sulle rinnovabili e costruire l'unione energetica europea, nel breve «non bisogna legarsi mani e piedi all'Egitto. Punto». Ma c'è poi un piano più strategico, così sintetizzabile: il problema energetico di questi mesi si può trasformare in opportunità. «È possibile una nuova centralità dell'Italia - dicono gli strateghi di Letta - perché se la Germania non può prendere gas russo, gli servirà gas africano, che passa da due Paesi: Spagna e Italia. Così il nostro Paese diventerebbe un hub e questo apre a uno scenario nuovo: il che significa un nuovo sistema di relazioni, che deve soppiantare la logica neocoloniale, se vogliamo stabilità».

Enrico Borghi, che del Pd è responsabile sicurezza, fa notare che «il tempismo sul caso Egitto è sbagliato e si incrocia con la vicenda Regeni. Insomma, non possiamo immaginare che il gas sia usato come arma di scambio sui diritti umani violati». In ogni caso l'affondo sull'Egitto non è una minaccia alla stabilità del governo, come quelle della Lega: l'annuncio di una trattativa separata della destra con Draghi e Franco sulla delega fiscale è vissuto come un'escalation pericolosa e il numero due del Pd Peppe Provenzano, sbotta: «Da parte nostra c'è grande irritazione, non esiste che riscrivano loro la norma. Hanno dato vita a una sceneggiata e bisogna evitare di dargli occasioni di fare propaganda». Anche qui, il premier è avvisato: pari dignità nella maggioranza e nessun cedimento.

Gas, ci mancava Giulio Regeni: il "no" all'Egitto di Enrico Letta, il democratico del Cairo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

Doverosa premessa. Certo andrebbe -metaforicamente- spalmato di napalm quell'Egitto che nega alla magistratura italiana e alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni gl'indirizzi degli indagati dell'omicidio del nostro ricercatore. E un sudario di ipocrisia copre questa penosa faccenda. E abbracciamo tutti Claudio e Paola Regeni sopravvissuti alla morte contronatura di un figlio; e faremmo ingoiare gli sgherri di Al Sisi dalla fiamme di centomila inferni.

Detto ciò, come facciamo col gas egiziano? Tenendo conto che le parole d'ordine del governo sarebbero «renderci autonomi dai russi» e «differenziare gli approvvigionamenti» (ma in modo capillare, onde evitare di sostituire al Cremlino un altro fornitore dominante, ché saremmo daccapo), come dovremmo comportarci, noi, col Cairo col quale Draghi tratta per 2/3 miliardi metricubi di forniture di gas?

L'ottimo Enrico Letta ha «moltissimi dubbi». «La vicenda Regeni va oltre la singola vicenda personale drammatica, è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani», dice. E a lui si accodano i suoi. O i renziani come Massimo Ungaro della Commissione Regeni il quale, giustamente inviperito ci chiede di rivolgersi per l'approvvigionamento energetico «all'Azerbaigian e all'Algeria». Ma l'abbiamo già fatto, in realtà. E con l'Algeria qualcuno a sinistra ha storto il muso sul costo eccessivo del rifornimento.

Mentre sul petrolio dall'Azerbaigian -il nostro primo fornitore- molti hanno sollevato le eccezioni di un paese «poco democratico che stringe accordi con l'Iran» già, peraltro, ufficialmente considerato poco democratico di suo. Insomma l'Eni, chez Draghi, firma col Cairo un accordo quadro che «consente di massimizzare il gas e le esportazioni di Gnl»; e il Pd, nella figura del suo capo, è per la linea dura con la Russia. Ma lo è anche un po' con l'Arabia Saudita, con la Libia, e con tutti quegli Stati che si macchiano di etica incerta. E siamo d'accordo, caro Enrico, anche sul fatto di interrompere il prima possibile la perversa dipendenza energetica con Mosca.

Però, appunto, gli Stati nordafricani non vanno bene. Ci siamo girati un attimo e la Turchia e la Russia stessa ci hanno fregato il controllo del petrolio libico. Potevamo ottenere il gas attraverso il pipeline Eastmed che partiva da Israele e Cipro; e qualcuno ha preferito esser dissuaso da Biden, il quale pretendeva di attivare il russo North Stream 2 (col senno di poi, gli avessimo dato del tutto ascolto, saremmo morti).

E, tra i partiti di governo ce ne fosse uno che insistesse davvero sul tetto al costo del gas e sulla richiesta di trasparenza nell'offerta; magari, lì, ci accorgeremmo che la civile Norvegia ci vende gas a 100 euro al megawattora ma lo produce a 10 euro, e nessuno capisce bene perché.

Per non dire degli anatemi contro chi soltanto si azzarda a discutere di riattivare le trivelle nel Mar Adriatico e nel Mar di Sicilia, un bacino di 350 miliardi metricubi di gas, e ora ne estraiamo solo 4 miliardi (il resto se lo fregano la Croazia e l'Albania). Inoltre c'è la faccenduola del nucleare, a cui si oppongono sinistra e 5 Stelle in blocco solo ad evocarlo, e noi certo qui non ci ripeteremo, pure se comprare l'energia dalla centrali francesi e svizzere ha un che di dadaista. Insomma caro Enrico, detto col cuore in mano: se il nostro fabbisogno dalla Russia è di 29 miliardi di metricubi di gas e se non va bene nulla, dove e come cavolo andiamo a differenziare? Forse, allora, ha ragione Carlo Calenda di Azione quando afferma: «Enrico Letta, vuoi lo stop immediato e totale al gas russo ma non vuoi il gas egiziano perché l'Egitto viola i diritti umani.

Però non vuoi neanche il carbone per sostituire il gas russo, perché inquina. Hai una soluzione o facciamo solo retorica?». E forse non ha torto -anzi senza forse- Stefano Fassina di Leu: «Russia, Egitto, Arabia Saudita, finché non arriviamo all'autosufficienza energetica è davvero complicato rimanere esclusivamente sul terreno etico. Siccome Regeni è italiano l'Egitto no, ma l'Arabia Saudita sì perché Khashoggi è saudita? Quando acquistiamo gas dall'Egitto, non siamo noi che facciamo un favore ad Al Sisi. È lui che lo fa a noi. Se noi non lo compriamo, ha la fila fuori la porta. Ai fini sacrosanti di avere giustizia per Regeni è assolutamente inutile. Dobbiamo trovare canali efficaci».

Canali efficaci, appunto. Quello della cocciuta opposizione a sinistra intesa come un riflesso pavloviano, be', caro Enrico, forse non è la migliore delle risposte...

Filippo Facci per "Libero Quotidiano" il 16 aprile 2022.

Giusto. Il noto criminale egiziano Abdel al-Sisi - condannato in giudicato dal web - fa torturare e uccidere Giulio Regeni e quindi non possiamo, ora, riempirlo di miliardi solo per avere quel gas che rifiutiamo dall'altro noto criminale a capo della Russia. È una questione di decenza, non c'entra la realpolitik. Dev' esserci un limite, e questo limite sono i diritti umani. È di questo, di diritti umani, che Mario Draghi è andato a discutere l'11 aprile scorso in Algeria: non di gas.

Dalla nazione più grande del Nordafrica, pare, potrà passare una fornitura di miliardi di metri cubi l'anno di metano, e pazienza se il nostro premier non ha potuto discutere anche con Faleh Hannoudi, che è proprio il presidente della sezione locale della Lega per i diritti umani: gli algerini infatti l'hanno arrestato il 20 febbraio e condannato a tre annidi carcere per un reato gravissimo, cioè un'intervista che aveva rilasciato al canale televisivo Al Maghibiya. È un peccato che lui non sia divenuto un'icona come Giulio Regeni, o che semplicemente non sia italiano. Mario Draghi però non sa che cosa rischia, comportandosi così: è probabile che l'inverno prossimo, il gas algerino, gli italiani non lo vorranno. 

Gli italiani, a loro volta, non sanno che la mancata qualificazione della nazionale al Mondiali di calcio, in realtà, è dovuta al mancato rispetto del Qatar per i diritti umani.

E' una nazione in cui i diritti dei lavoratori migranti, impegnati proprio nella costruzione delle infrastrutture e degli impianti sportivi, sono stati orribilmente vilipesi con violenze e sfruttamento. 

È una nazione che da anni sostiene ufficiosamente anche i gruppi islamici radicali in tutto il mondo (anche se il loro governo non lo ammette) e insomma, lo sanno tutti che il Qatar sostiene gruppi islamisti anche in Siria, Iraq, Libia e Afghanistan, quindi mica potevamo andarci, anche perché peraltro ci saremmo trovati a giocare il campionato del Mondo con la nazionale dell'Iran, altro stato che di recente, per dire, ha tenuto le sue donne tifose fuori dallo stadio e ha usato lo spray urticante. Si era addirittura letto che la Fifa voleva prendere dei provvedimenti, e che la nazionale iraniana avrebbe potuto essere squalificata e la nostra nazionale di conseguenza ripescata, ma è una cosa che non va fraintesa: le residue speranze dei tifosi italiani erano votate solo al rispetto dei diritti umani in Iran, erano tutti indignati, cioè, per i 2.000 biglietti messi a disposizione delle donne iraniane alle quali è stato impedito di entrare allo stadio. Non c'entra lo sport, così come in generale, parlando di Egitto, non c'entra il gas per alimentare i termosifoni o banalità del genere.

L'ETICA PRIMA DI TUTTO Allo stesso modo non si può credere che il premier Mario Draghi sia passato e passerà dalla Repubblica del Congo e dall'Angola se non per mettere pressione sul rispetto dei citati diritti umani, che in quest' ultime nazioni, a loro volta, è vagamente inesistente. Non si può crederlo, perché sarebbe come pensare che l'indignazione per le violazioni dei diritti umani di Vladimir Putin riesca meglio rimanendo al caldo piuttosto che al freddo, e che allora si passi, banalmente, dall'appoggiare alcune violazioni al posto di altre.

Sarebbe puerile.

Ci sono dei limiti che non possono essere superati: l'Arabia, per esempio, di recente ha scoperto nuovi giacimenti di gas naturale al centro del Paese e nella parte orientale (l'ha riferito la Saudi Press citando il ministro dell'Energia) ma all'Occidente questo non interessa, così come - è noto anche questo - non è mai interessato a nessuno il petrolio arabo: in Occidente sono tutti troppo indignati per l'assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, quello che era entrato nel consolato dell'Arabia Saudita di Istanbul - ricorderete - e che da allora risulta scomparso.

È accaduto in un contesto dove il governo saudita (chiamiamolo governo) continua a reprimere il dissenso con arresti e processi iniqui che spesso terminano con lunghe condanne o con la pena di morte: per questo a nessuno ha mai acquistato il loro petrolio, e tantomeno, ora, potrebbe interessare il loro gas. Il pensiero fisso degli europei e degli italiani non è il gelo invernale: è Jamal Khashoggi. Esiste un'etica, a questo mondo. Non si tratta con l'Egitto del caso Regeni. Sarebbe come, per dirne un'altra, lasciare che il dittatore Recep Erdogan funga da mediatore dell'Occidente con Putin, e che si utilizzi un suo canale di dialogo con Mosca e con l'Ucraina: è impensabile. Non potrebbe mai accadere, e se vi hanno detto che sia avvenuto non dovete crederci.

Non è vero che la mediazione turca abbia portato i ministri degli Esteri di Russia e Ucraina a incontrarsi ad Antalya lo scorso 10 marzo: perché la Turchia non rispetta i diritti umani, e l'Occidente (e Amnesty International, il Pd, e tantissimi italiani) non sono disposti a passarci sopra, pensano a questo e non altro. Pensano al fatto che Erdogan ha incarcerato politici dell'opposizione, giornalisti e difensori dei diritti, pensano alle sue discriminazioni degli omosessuali, alle accuse di tortura e maltrattamenti. Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha notificato alla Turchia l'intenzione di avviare un procedimento per gravi infrazioni: come potrebbe, il presidente-sultano di uno Stato del genere, fungere da mediatore tra Ucraina e Russia?

Suvvia. Sarebbe come ospitare al centro di Roma una monarchia assoluta guidata da soli uomini, uno staterello in cui la nostra vita apparterrebbe a un dio o allo Stato, come nelle teocrazie islamiche o come nella vecchia Unione Sovietica. Non si scherza sui diritti umani. Per questo non commerciamo con la Cina o le lasciamo organizzare, chessò, le Olimpiadi. Sono i diritti umani a governare il mondo, la gente non pensa ad altro. 

Alessandro Barbera per “La Stampa” il 16 aprile 2022.  

«Il decreto firmato da Vladimir Putin sulle modalità di pagamento in rubli porterà a una violazione delle sanzioni adottate dall'Unione europea». Il gioco delle parti fra Bruxelles e Mosca sulle forniture di gas russo sta assumendo i contorni di una tragica farsa. Ieri i servizi giuridici della Commissione hanno formalizzato una decisione annunciata più volte. A meno di una retromarcia da parte dello Zar, la prossima riunione dei capi di Stato europei - a fine maggio - dovrebbe sancire lo stop all'importazione del metano russo. Non è però chiaro se la scadenza fissata ai primi del mese da parte del Cremlino verrà rispettata. Sempre ieri, nelle ore in cui la Commissione faceva filtrare il proprio orientamento, il portavoce di Putin Dimitri Peskov rilasciava una dichiarazione criptica. 

«Per l'ampliamento dei pagamenti in rubli al momento non ci sono scadenze», senza chiarire se si riferisse a petrolio e carbone, o anche al gas. Una cosa è certa: a meno di uno stop improvviso alla guerra, con il passare dei giorni le probabilità che lo stop si realizzi davvero aumentano.

Il mandato di Mario Draghi al ministro Roberto Cingolani è di prepararsi entro l'autunno, ma in un settore come quello energetico significa domani. Per capirlo basta un dettaglio: dal primo aprile sono iniziate le aste dei nuovi stoccaggi, e due sono andate deserte. I prezzi sono troppo alti, dunque chi avrebbe interesse ad acquistare teme di farlo a prezzi molto più alti di quelli futuri. Per metterci una pezza, il governo ha dovuto introdurre incentivi, ma il livello delle nuove scorte è ancora al sette per cento. 

Sostituire un terzo del fabbisogno di gas - circa trenta miliardi di metri cubi l'anno - non è semplice. L'accordo firmato da Draghi ad Algeri a inizio settimana vale un terzo di quel fabbisogno, ma nessun altro singolo fornitore sarà in grado di offrire altrettanto. Occorrono una somma di forniture minori, dall'Azerbaijan all'Africa. Alcuni di questi possono però essere forieri di problemi politici per la maggioranza. L'aumento delle importazioni dall'Egitto, ad esempio, oggetto delle proteste del Pd per via del caso Regeni.

O la necessità di derogare agli impegni del Green deal europeo. Durante l'ultima riunione a Palazzo Chigi, presenti Cingolani, il capo dei servizi segreti Franco Gabrielli e il numero uno di Enel Francesco Starace si è discusso della possibilità di far ripartire singole unità di centrali a carbone dismesse più o meno di recente. L'Enel ne ha a Brindisi, Venezia, nel Sulcis e a Civitavecchia. Secondo le stime di Nomisma Energia, entro il prossimo inverno la produzione di energia elettrica da carbone potrebbe essere raddoppiata, e così rinunciare a tre miliardi di metri cubi di gas, un decimo delle forniture russe.

Starace ha dato la sua disponibilità a procedere, Cingolani non ne vuole sapere. «Finché non sarà necessario, non sarò io a farmi carico di una decisione che ci metterebbe contro tutto il mondo ambientalista», ha detto il ministro durante la riunione. Stessa cosa dicasi per il vecchio investimento - mai decollato - di un rigassificatore a Porto Empedocle, in Sicilia, grazie al quale ritrasformare il prodotto liquefatto in arrivo via nave da Angola e Congo, dove Draghi andrà in visita dopo Pasqua proprio con l'obiettivo di aumentare l'importazione.

Pochi giorni fa - era il 5 aprile - Starace ha detto di essere pronto a investire un miliardo di euro. Il progetto è bloccato da sette anni per via di lungaggini amministrative e l'opposizione feroce dei comitati ambientalisti. Anche su quest' ultimo progetto Cingolani ha espresso dubbi. «I tempi sono lunghi e i rischi alti. Meglio puntare sui rigassificatori galleggianti». Cingolani ha dato mandato a Snam di acquistarne due, e quello per lui resta l'obiettivo prioritario.

Marcello Sorgi per "La Stampa" il 16 aprile 2022.

Il caso Egitto - o meglio l'incrocio dell'accordo per l'aumento delle forniture di gas con il Paese con cui siamo il conflitto per l'ostruzionismo al processo Regeni - ha rivelato solo in parte le difficoltà di mettere a punto un nuovo piano di approvvigionamento energetico alternativo a quello basato fin qui sulla Russia. Ci sono infatti difficoltà diplomatiche, legate al fatto che i regimi a cui si va a chiedere aiuto (Algeria, Azerbaigian, eccetera) non sono proprio democratici. 

Ci sono difficoltà logistiche, legate ad esempio alla collocazione di nuovi rigassificatori che servono per la trasformazione del gas liquido, ma che naturalmente non verrebbero accettati a braccia aperte dagli abitanti dei luoghi destinati agli impianti. Per non dire della riapertura delle centrali elettriche a carbone, la cui chiusura era stata salutata come un passo avanti, oltre che per la riduzione dell'inquinamento atmosferico, sulla strada della civiltà. Esiste insomma il rischio di una moltiplicazione in serie di problemi come l'Ilva di Taranto. 

C'è poi un problema di adattamento della gente al dilemma posto efficacemente da Draghi, «pace o condizionatori», nel senso che già dalla prossima estate l'uso contingentato dell'aria condizionata e dal prossimo inverno quello del riscaldamento potrebbero creare reazioni inaspettate, anche se i primi sondaggi dicono che emerge una certa disponibilità dei cittadini. E c'è una questione ambientale che va montando, con una vittima, politicamente parlando, designata: il ministro della Transizione ecologica Cingolani, che si trova a gestire un percorso opposto a quello per cui era stato nominato.

Politicamente, a giudicare dalle prime reazioni, l'ambiente rischia di trasformarsi per il Pd e la sinistra e i 5 Stelle ciò che il fisco è stato per il centrodestra. Non è solo il caso Regeni che preme al portone del Nazareno: per Letta (ma anche per Conte) è inaccettabile che un tema a cui gli elettori di centrosinistra e grillini sono ultrasensibili venga sacrificato sull'altare di uno stato di necessità.

Cara Boldrini, il gas di Putin non è più etico di quello di al-Sisi. Se non prendiamo gas dall'Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca. E non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. Davide Varì su Il Dubbio il 15 aprile 2022.

La nuova campagna della sinistra anti-atlantista, putinista, antioccidentale, pacifista, papista, (ognuno scelga la sua), ora muove contro la scelta italiana di prendere il gas dall’Egitto. «È come passare dalla padella alla brace», ha detto Boldrini, ricordando che Al Sisi è lo stesso che protegge gli agenti accusati dell’omicidio di Giulio Regeni.

In effetti non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. E sì perché una cosa deve essere chiara: se non prendiamo gas dall’Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca finanziando la sua guerra. Ma evidentemente, per Boldrini e gli altri, il gas russo deve avere qualcosa di decisamente più etico. La verità è che gran parte dei paesi che controllano le fonti di energie sono dittature – e non è certo un caso. Ma cara onorevole Boldrini, continuare a prendere il gas di Putin non ci assolve di certo…

Gas, un ginepraio tra dittatori e rinnovabili. Obiettivo: fare presto. Quello dell'energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà a uscire dalla crisi attuale. Paolo Delgado su Il Dubbio il 16 aprile 2022.

Si fa presto a dire che del gas russo potremo fare a meno in tempi se non proprio rapidissimi quanto meno non biblici. La corsa al gas è appena cominciata e già si avvertono chiari i segnali di quali e quanti problemi si creeranno senza il pur minimo dubbio. Va detto che l’Eni non poteva scegliere giorno peggiore per bussare alle porte egiziane di casa al- Sisi proprio mentre l’Egitto chiariva per l’ennesima volta di non voler chiarire in alcun modo le circostanze e le responsabilità nell’assassinio di Giulio Regeni. Ma anche senza quell’inconcepibile coincidenza le cosa sarebbero cambiate di poco. Per uscire dalla dipendenza energetica di un dittatore di cui si denunciano con strepiti indignati le nefandezze antidemocratiche bisogna rivolgersi a figuri della stessa risma, altrettanto alieni da ingombranti pastoie democratiche, non meno pronti del russo a far valere la propria vantaggiosa posizione per ricattare e tacitare eventuali proteste.

Con l’Algeria, Paese dal quale già riceviamo una quota decisiva del gas non russo che alimenta non solo i condizionatori ma anche le italiche aziende, il problema è diverso ma non meno spinoso. Proprio perché già eroga in copiosa dose, l’Algeria fatica a pompare dosi ancora maggiori di gas senza ledere gli interessi fraterni degli altri Paesi Ue che da quella fonte si abbeverano, la Spagna e il Portogallo. Una soluzione per la verità ci sarebbe ma non se ne vedono i vantaggi. L’Algeria può sempre rifornirsi dalla solita Russia e poi rivendere. Non sarebbe salva neppure la faccia, ma il portafogli starebbe messo peggio perché con un passaggio in più inevitabilmente pagheremmo lo stesso gas russo a prezzi maggiorati. Sulla Libia meglio glissare. Grazie alla guerra contro Gheddafi, ma anche contro l’Italia, alla quale l’Italia stessa ha partecipato seguendo una logica puramente autolesionista, quel Paese è in mano a signori della guerra al confronto dei quali i dittatori figurano come modelli di affidabilità.

Lo zio Sam ci dà una mano col suo gas liquido. Però non ce la dà gratis e il prezzo, anzi lievita. Però a quel prezzo bisogna aggiungere quelli, non tutti quantificabili in moneta, dei rigassificatori: costano molto, inquinano anche di più e tutto per una qualità di gas tra le peggiori. L’autarchia ha il suo fascino ma anche qui, oltre alle ovvie difficoltà, il conto è salato. È vero che negli ultimi anni l’Italia ha fatto sempre meno ricorso alle proprie peraltro esigue fonti ma lo ha fatto perché contro le trivellazioni si è mobilitato, non senza ottimi argomenti, un combattivo e nutrito fronte ecologista. Tanto che neppure nelle drammatiche circostanze attuali è parso opportuno ricominciare a trivellare acque salate a destra e a manca. Qualcosina si potrà fare rispolverando il carbone, sempre che gli impianti fermi da un bel pezzo non si rivelino catorci inutilizzabili. Però insistere, come è giusto e inevitabile fare, sulla riduzione drastica delle emissioni e allo stesso tempo annerirsi di nuovo le mani col carbone appare un bel po’ contraddittorio.

La parola magica, che in effetti Draghi non manca di adoperare in ogni dove, è “rinnovabili”: pulite, indipendenti, eticamente adamantine. Però riconvertire in tempi brevi non è difficile bensì impossibile e anche solo accelerare drasticamente non sarà affatto una corsa in discesa. Per centrare l’obiettivo sarebbe necessaria una vera rivoluzione nelle abitudini e negli stili di vita, e su quanto il popolo sia pronto e disponibile a rivedere tutta la propria way of life ogni dubbio è lecito. Peraltro si tratterà di un grosso affare e il bivio già si profila nitido: per evitare che a gestirlo e ingrassarcisi sia la criminalità ci vorrebbero controlli stringenti, che però rallenterebbero tutto proprio quando la parola d’ordine è invece fare presto.

Va da sé che come sempre nei dilemmi ognuna di queste contrastanti e tutte fondate esigenze diventa o può diventare bandiera di qualche forza politica, a maggior ragione con l’avvicinarsi delle elezioni. Quello dell’energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà. Come non aiuta le accuse che sono risuonate nell’ultimo mese contro i “colpevoli” di aver troppo puntato sul gas russo. Come se a motivare quella scelta fosse stata una sorta di miope pigrizia e non, invece, il semplice fatto che il gas russo era effettivamente di estrema utilità.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2022.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. 

Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d'America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro. 

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files , nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l'indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d'Egitto, con l'obiettivo di ottenere l'assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario».

Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. 

È ormai impensabile; l'ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti. 

Ma il giudice dell'udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia.

L'informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. 

L'eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell'Arma sarebbe in teoria percorribile. 

Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. 

E lì che l'Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l'ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell'Interno, con l'incarico di un progetto relativo alle carte d'indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l'indirizzo di questo ufficio: c'è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. 

Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l'ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l'Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un'altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif - l'unico accusato anche delle torture e dell'omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani - «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. 

Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell'Interno, di cui è indicato l'indirizzo a Nuova Cairo 1. 

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. 

Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro - il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel - sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram.

In attesa di capire se sarà possibile imboccare l'impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l'Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

Giulio Regeni, nuovo stop del Cairo al processo: per l’Egitto gli 007 sono innocenti. Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

Impossibile notificare gli atti agli imputati individuati dalla Procura di Roma quali responsabili dell’omicidio. La famiglia di Giulio Regeni: «Una presa in giro, intervenga Draghi».

Per l’Egitto il procedimento contro i quattro ufficiali della National Security accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni è già in archivio, e non si può riaprire. Caso chiuso. Per questo le autorità del Cairo non hanno risposto (e non risponderanno) alle richieste italiane di conoscere i loro indirizzi, necessari per notificare gli atti e poterli processare davanti alla Corte d’Assise di Roma. La Procura generale della Repubblica araba ha già valutato le imputazioni e le prove a loro carico, e li considera innocenti. Dunque l’assistenza giudiziaria sollecitata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, pronta a un incontro con il suo omologo egiziano, non ha avuto (e non avrà) alcun esito.

La lettera

A questa amara conclusione è giunto l’ultimo tentativo del giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi, dopo la lettera ricevuta dal capo del Dipartimento degli affari di giustizia del ministero di via Arenula, Nicola Russo: cinque pagine di risposta alla richiesta di farsi parte attiva con il governo del Cairo per cercare di sbloccare la situazione a livello politico, e capire se ci siano possibilità di cooperazione. Il risultato è che, al momento, non ce ne sono. Il giudice ha rinviato l’udienza di altri 6 mesi, al 10 ottobre, mentre la famiglia di Giulio chiede che la pressione politica salga di livello.

L’indignazione della famiglia

«Siamo indignati dalla risposta della Procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocata Alessandra Ballerini, che assiste i genitori e la sorella di Giulio. «Chiediamo che il presidente Draghi, condividendo la nostra indignazione, pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro». Il capo del Governo valuterà il da farsi, ma la replica egiziana alle mosse della ministra della Giustizia non lascia presagire nulla di costruttivo. «La condizione fermamente posta dalla ministra Cartabia per recarsi al Cairo e interloquire con il suo omologo Omar Marwan — scrive Russo — è che nel corso dell’incontro si affronti il caso Regeni. Ad oggi, nonostante i ripetuti passi svolti dal nostro ambasciatore al Cairo, il ministro della Giustizia egiziano non ha ancora fornito un riscontro alla lettera della ministra Cartabia».

La competenza

La missiva era partita da Roma il 20 gennaio. Difficile quindi che sul piano politico possano esserci passi avanti. A livello tecnico, invece, un dialogo c’è stato. Una delegazione guidata proprio da Russo è andata al Cairo un mese fa, ma s’è sentita dire che in assenza di accordi bilaterali tra i governi, la cooperazione giudiziaria internazionale è competenza esclusiva della Procura generale. I carabinieri del Ros hanno recuperato i recapiti di lavoro degli imputati e l’Avvocatura dello Stato, parte civile per conto del governo, propone di notificare lì gli atti. Ma sarebbe una forzatura del codice italiano. E proprio dalla Procura generale egiziana arriva la novità che potrebbe rappresentare lo sbarramento definitivo alla possibilità di andare avanti con il processo.

Le prove raccolte dalla Procura di Roma

L’ufficio giudiziario del Cairo ha infatti esaminato le prove raccolte dal procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco (con la collaborazione del Ros e del Servizio centrale operativo della polizia) a carico del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmi Uhsam, e del maggiore Magdi Ibrahim Sherif (accusato anche delle torture e dell’omicidio). Arrivando a un loro sostanziale proscioglimento.

Il memorandum

In un memorandum consegnato all’Italia il 26 dicembre 2020, è scritto che «il quadro probatorio avanzato dalle autorità italiane è poco solido e contrario ai meccanismi della cooperazione giudiziaria internazionale, il che spinge la Procura generale a ritenere che le autorità italiane si siano sviate dalla verità, ed esclude tutti i sospetti nei confronti degli indagati». Quel provvedimento, comunica il ministero italiano al giudice Ranazzi, secondo l’Egitto «ha natura decisoria irrevocabile, non più suscettibile di impugnazione e preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi soggetti». Di conseguenza, «l’assistenza giudiziaria sarebbe preclusa dal principio del ne bis in idem (non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto, ndr) sancito dall’ordinamento interno egiziano e dalle Convenzioni internazionali». In pratica un’assoluzione definitiva senza che si sia celebrato il processo. Utilizzata dall’Egitto per impedire lo svolgimento di un regolare giudizio in Italia. Che resta sospeso, in attesa di una soluzione che non si trova.

Caso Regeni, caccia agli 007 egiziani che torturarono il ricercatore: «Rogatoria negli Usa sui profili social per rintracciarli». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.  

La pista suggerita dal Ros per risalire al domicilio. Grazie agli accertamenti telematici ora hanno un volto.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d’America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro.

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files, nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l’indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d’Egitto, con l’obiettivo di ottenere l’assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario». Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. È ormai impensabile; l’ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti.

Ma il giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia. L’informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. L’eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell’Arma sarebbe in teoria percorribile. Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. E lì che l’Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l’ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell’Interno, con l’incarico di un progetto relativo alle carte d’indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l’indirizzo di questo ufficio: c’è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l’ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l’Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un’altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif — l’unico accusato anche delle torture e dell’omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani — «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell’Interno, di cui è indicato l’indirizzo a Nuova Cairo 1.

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro — il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel — sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram. In attesa di capire se sarà possibile imboccare l’impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l’Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

NUOVA UDIENZA IL 10 OTTOBRE. Carte mancanti, affari e nessuna collaborazione. Il caso Regeni resta fermo. LAURA CAPPON su Il Domani l'11 aprile 2022

È stata fissata al 10 ottobre la nuova udienza del gup sull’omicidio di Giulio Regeni. Il giudice ha sospeso il procedimento perché mancano ancora gli indirizzi dei quattro agenti della National Security accusati del rapimento e dell’uccisione del giovane ricercatore.

La ministra Marta Cartabia aveva promesso ai genitori di Giulio Regeni che si sarebbe recata al Cairo per ottenere gli indirizzi dei quattro agenti. Ma la richiesta, inoltrata il 20 gennaio alle autorità egiziane, non ha mai ricevuto risposta.

Il 15 marzo, al posto della Cartabia, a volare al Cairo è stato il direttore della cooperazione giudiziaria italiana. In quell’occasione le autorità egiziane hanno ribadito che la la procura generale considera chiuso il caso.

LAURA CAPPON. Giornalista, nel 2011 si trasferisce in Egitto per seguire gli anni del post rivoluzione egiziano. Ha lavorato per Rai 3, Skytg 24, Il Fatto Quotidiano, Al Jazeera English, The New Arab e Radio Popolare. Nel 2013 ha vinto il premio l'Isola che c'è per la copertura del colpo di stato egiziano e nel 2017 il premio "Inviata di Pace "del Forum delle giornaliste del Mediterraneo per i suoi articoli sulla morte di Giulio Regeni. È inviata per Mezz'ora in più, su Rai 3.

Caso Regeni, il gup dispone la sospensione del processo. L’Egitto non collabora. Il Domani l'11 aprile 2022.

Mancano ancora gli indirizzi degli imputati, e non è possibile notificare loro gli atti. I carabinieri del Ros dovranno fare nuove ricerche. La prossima udienza è stata fissata per il 10 ottobre. Il legale dei genitori ha chiesto che Draghi intervenga

Il giudice per l’udienza preliminare di Roma, Roberto Ranazzi, ha disposto la sospensione del procedimento a carico dei quattro agenti dei Servizi segreti egiziani, accusati per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Mancano gli indirizzi di domicilio degli imputati, e senza i recapiti non è possibile dar luogo alla notifica degli atti giudiziari. L’Egitto non collabora. Ora proseguiranno le indagini del Ros, mentre la nuova udienza, per valutare eventuali sviluppi, è stata fissata per il 10 ottobre prossimo. 

SOSPENSIONE DEL PROCESSO

La decisione del gup è arrivata  dopo le comunicazioni del ministero di Giustizia e dei carabinieri del Ros, che hanno confermato la già nota indisponibilità dell’Egitto a qualsiasi forma di collaborazione con l’Italia in merito al caso Regeni.

A gennaio, il giudice aveva chiesto al governo di verificare la possibilità di una effettiva collaborazione con le autorità egiziane. Ma il ministero ha ribadito «il rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti», cui si è aggiunto il rifiuto da parte del Cairo a un incontro tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il suo omologo egiziano.

Il direttore della cooperazione giudiziaria italiana ha fatto sapere che le autorità egiziane, che ha incontrato al Cairo, hanno evidenziato come, sul caso Regeni, la competenza sia della procura generale, per la quale comunque l'indagine è chiusa perché non sarebbe possibile effettuare ulteriori verifiche sui quattro indagati.

All’indisponibilità egiziana non hanno fatto da contrappeso i risultati delle indagini, condotte nel frattempo dai carabinieri del Ros. Le loro ricerche hanno portato solo all’indirizzo dei luoghi di lavoro, non anche a quello dei domicili. E, secondo il codice di procedura internazionale, l’indirizzo lavorativo non può essere utilizzato per le notifiche in sede processuale. 

Il rifiuto di collaborare da parte dell'Egitto, ha detto il gup, «è un dato di fatto» e «sono del tutto pretestuose le argomentazioni proposte delle autorità egiziane». Alla prossima udienza del 10 ottobre sarà sentito il direttore generale del ministero della Giustizia, Nicola Russo, sugli eventuali sviluppi.

IL SIT-IN AL TRIBUNALE

In mattinata, davanti al tribunale di Roma, dove stava per svolgersi l’udienza preliminare, i genitori di Giulio Regeni, Claudio Regeni e Paola Deffendi, con la legale Alessandra Ballerini, hanno mostrato lo striscione giallo con la scritta «Verità per Giulio Regeni», dando luogo a un sit-in. Al presidio hanno partecipato anche il presidente della Federazione della stampa italiana (Fnsi) e degli attivisti, anche egiziani. i.

«Siamo qui per dire che non smetteremo mai di reclamare verità e giustizia», ha detto Giuseppe Giulietti, presidente Fnsi che ha partecipato al presidio. «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l'Egitto, qualora dovesse perseguire una politica di omissione e di cancellazione delle prove».

Anche il presentatore tv Flavio Insinna ha preso parte al sit-in, e alla domanda dei giornalisti sul perché fosse lì ha risposto: «Perché sono qui? La domanda è da porre al contrario. Perché non esserci? Bisogna esserci. Come ha detto la mamma di Giulio su quel viso ha visto tutto il dolore del mondo, non dobbiamo darci pace fino a quando non si arriverà alla verità. Lo dobbiamo alla famiglia, alla parte buona di questo paese. Voglio vivere in un paese, come dice il papa, che ritrovi un senso di fraternità, dove il tuo dolore diventa il mio. Questa famiglia sta facendo un’opera straordinaria con una compostezza unica al mondo. Dal primo minuto mi sono legato a questa storia. Mi interessa che ci sia la volontà politica di andare avanti, spero che l'alta politica faccia il bene delle persone che amministra. A questa famiglia l’alta politica deve dare la verità».

IL PROCESSO

L’udienza preliminare che si è svolta oggi, davanti al gup, è la seconda dopo quella dello scorso gennaio. A  ottobre del 2021, il processo contro i quattro 007 era stato sospeso al termine della prima udienza, nell’aula bunker di Rebibbia, per decisione dei giudici della Corte d’Assise, che avevano stabilito che il gup si pronunciasse sulla questione della notifica delle accuse agli imputati. I legali della difesa avevano sollevato la questione della non conoscenza, da parte dei quattro imputati, di quanto veniva loro imputato a Roma.

 A gennaio poi il gup aveva stabilito che i carabinieri del Ros disponessero di altro tempo per verificare i luoghi di residenza e di lavoro dei quattro agenti presunti torturatori e omicidi in modo tale da notificare loro l’avvio del processo e sollecitato un intervento da parte del ministero di Giustizia. 

L’OMICIDIO

Giulio Regeni venne rapito la sera del 25 gennaio 2016 e il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo. La procura di Roma, in seguito a quanto raccolto finora, ritine che il ricercatore dell’Università di Cambridge sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi.

Gli agenti egiziani coinvolti nel procedimento sono Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di sequestro di persona, mentre Abdelal Sharif risponde anche di lesioni e concorso nell’omicidio.

Caso Regeni, processo sospeso: «L’Egitto non collabora». Il gup di Roma dispone nuove ricerche e rinvia il processo a carico degli 007 egiziani al 10 ottobre dopo la nota di Via Arenula che riferisce di una chiusura netta da parte del Cairo. La legale della famiglia Regeni: «L'Egitto si beffa di noi, intervenga Draghi». Il Dubbio l'11 aprile 2022.

Sospensione del procedimento a carico di quattro 007 egiziani accusati di avere sequestrato, torturato ed ucciso Giulio Regeni. È quanto disposto dal gup di Roma dopo le comunicazioni arrivate sia dal ministero della Giustizia, sia dai carabinieri del Ros, in merito al rifiuto delle autorità egiziane ad una collaborazione con l’Italia.

Secondo il giudice è un dato di fatto il rifiuto dell’Egitto di collaborare e sono pretestuose le argomentazioni della Procura generale del Cairo. Il giudice ha disposto nuove ricerche degli imputati affidate al Ros e ha rinviato il processo al prossimo 10 ottobre: in quell’occasione verrà sentito anche il capo dipartimento Affari di giustizia del ministero Nicola Russo sugli eventuali sviluppi dopo la nota inviata alle autorità egiziane in seguito all’incontro del 15 marzo scorso.

La nota di Via Arenula

Dopo l’annullamento del processo a ottobre 2021, lo scorso gennaio il giudice aveva chiesto al governo italiano di verificare la possibilità di una «interlocuzione» con le autorità del Cairo. E nella nota inviata al gup di Roma in occasione della nuova udienza preliminare, il ministero della Giustizia ha sottolineato il «rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti» con l’Italia così come il no ad un incontro tra il ministro Marta Cartabia e il suo omologo egiziano. Lo scorso 15 marzo il direttore della cooperazione giudiziaria italiana si è recato in Egitto per un incontro e in quell’occasione gli è stato comunicato che la competenza è della Procura Generale che considera chiuso il caso Regeni e che non è possibile andare avanti con ulteriori indagini sui quattro indagati in Italia. I carabinieri del Ros inoltre, ai quali erano state affidate nuove ricerche sul domicilio degli indagati, hanno fatto sapere di essere riusciti ad acquisire solo l’indirizzo del luogo di lavoro dei quattro 007 egiziani e non il domicilio, necessario per il codice di procedura internazionale.

La legale della famiglia Regeni: «Il Cairo si beffa di noi»

«Prendiamo atto dei tentativi falliti del ministero della Giustizia di ottenere concreta collaborazione da parte delle autorità egiziane e siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, al termine dell’udienza.

«Chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati dal presidente Al Sisi e ci consenta lo svolgimento del processo per ottenere giustizia riguardo il sequestro le torture e l’omicidio di Giulio», prosegue la legale. «La lesione della tutela della vita, della libertà e dell’integrità dei cittadini all’estero, come la presidenza del Consiglio Ricorda nel suo atto di costituzione di parte civile, costituisce grave pregiudizio dell’immagine e del prestigio dello Stato Italiano nella sua funzione di protezione dei propri cittadini – aggiunge -. Quindi, visto il conclamato ostruzionismo, egiziano pretendiamo da parte del nostro governo la necessaria, tempestiva e proporzionata reazione. Stare inermi ora, permettere al regime di Al Sisi di bloccare questo processo faticosamente istruito, consentirebbe l’impunità degli assassini di Giulio ed equivarrebbe ad essere loro complici. Il nostro governo ha il dovere invece di esigere energicamente giustizia».

Regeni, i silenzi e il caos boicottaggi. Giannino della Frattina il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La tournée in Egitto, la rivolta dell'orchestra, il giusto orgoglio dei genitori di Giulio Regeni, la smentita della Scala per bocca del sovrintendente Dominique Meyer. Di certo sipario calato, ma comunque sia andata non è stato un trionfo. Perché la nostra serva Italia continua a essere nave sanza nocchiere in gran tempesta. E soprattutto non donna di provincie, ma bordello! E bordello ancor più sconcio se a essere coinvolto in questo pantano sono un ragazzo rapito e torturato a morte in quell'Egitto che si rifiuta di collaborare alle indagini per chiarire la tragedia e punire i colpevoli e soprattutto i suoi genitori che hanno saputo trasformare l'indicibile dolore in una campagna per trovare la verità e rendere giustizia a quello sventurato figliolo. Perché qui hanno ragione un po' tutti: gli orchestrali che protestano, i giornalisti che raccontano e scoprono l'affaire, papà e mamma che ringraziano, il sovrintendente che nega. Tutti fuorché purtroppo ancora una volta il governo italiano, quello Stato che avrebbe il dovere di ergersi granitico a difendere un proprio figlio a cui servitori forse non troppo infedeli di un'altra nazione hanno tolto la vita. E, invece, non è così. Perché al di là di generiche dichiarazioni d'intenti che non costano nulla e servono ad ancor meno, striscioni gialli esposti un po' qui e un po' là da sindaci volonterosi e chiacchiere da bar o da campagna elettorale dei politici, null'altro è stato fatto per mettere in piedi una seria iniziativa diplomatica e contemporaneamente appoggiare il lavoro dei magistrati italiani che vedono i loro tentativi infrangersi sul muro di gomma eretto dall'omertà di quei governanti d'Egitto mai abbastanza disprezzati per questo. In filigrana, ma senza mai il coraggio di dirlo chiaramente, una malintesa e mal gestita ragion di Stato da chi uno Stato che si rispetti (e si faccia rispettare) nemmeno sa dove metta le fondamenta. Ragioni di economia e di geopolitica male interpretate da analfabeti della politica atte solo a scatenare multicolori iniziative individuali che nascono dal basso. E altro non fanno che alimentare la confusione, non certo la giustizia per Giulio. Giannino della Frattina

IL “GRAMSCI D’EGITTO”. Scioperi e pressioni diplomatiche per Alaa Abdel Fattah, l’attivista che fa paura al Cairo. LAURA CAPPON su Il Domani il 28 maggio 2022

Alaa è in sciopero della fame da 58 giorni contro l’accanimento dell’autorità penitenziaria egiziana, che va avanti dal 2019. Il trasferimento in un carcere meno duro lo ha portato dalla «repressione in stile medioevale a una repressione più moderna», dice la madre Laila Soueif. La campagna di solidarietà di Amnesty 

Lo sciopero della fame di Alaa Abdel Fattah, blogger e simbolo della rivoluzione egiziana, arriva anche in Italia. Inizia oggi uno sciopero solidale indetto da Amnesty International Italia per supportare la battaglia dell’attivista egiziano.

Alaa è in sciopero da 58 giorni contro l’accanimento dell’autorità penitenziaria che va avanti dal 2019, anno del suo ultimo arresto. Dall’inizio del digiuno, è stato trasferito nel carcere di Wadi el Natrun e ha ottenuto di nuovo libri, carta e penna.

«È passato dalla repressione in stile medioevale del carcere di Tora a una repressione più moderna», dice la madre Laila Soueif che chiede che il figlio, da poco cittadino britannico, riceva la visita delle autorità consolari del Regno Unito.

Lo sciopero della fame di Alaa Abdel Fattah, blogger e simbolo della rivoluzione egiziana, arriva anche in Italia.

L’attivista ha smesso di mangiare da 58 giorni, in protesta contro le condizioni di detenzione, definite «disumane» dalla sua famiglia, a cui è sottoposto dal 2019. Un gesto estremo, che dopo l’appello fatto da diversi parlamentari nel Regno Unito e negli Stati Uniti sta mobilitando anche la società civile italiana.

Ieri Riccardo Noury, portavoce, di Amnesty International Italia, ha dato il via a uno sciopero a staffetta annunciato alcuni giorni fa su Twitter.

«Abbiamo pensato che un piccolo gesto di solidarietà, ossia stare almeno un giorno nelle condizioni di Alaa, sarebbe servito a perorare la sua causa», dice Noury.

Le adesioni da parte di cittadini e associazioni iniziano ad arrivare mentre la madre dell’attivista, Laila Soueif, ha parlato mercoledì scorso in videoconferenza al Comitato permanente sui diritti umani della Camera e ha denunciato un accanimento contro di lui da parte delle autorità carcerarie, nel penitenziario di Tora al Cairo.

Per più due anni, infatti, Alaa non ha avuto diritto a carta e penna, libri, ora d’aria e nemmeno a un orologio.

LE CONDIZIONI IN CARCERE 

Dall’inizio dello sciopero della fame, il regime egiziano ha fatto alcune piccole concessioni. Il 18 maggio Alaa è stato trasferito dal penitenziario di Tora al carcere di Wadi el Natrun, mentre giovedì scorso le autorità carcerarie gli hanno permesso di ricevere alcuni libri e le sue amate copie di Topolino portate dalla madre.

Ma resta ancora senza l’ora d’aria e in una cella, sorvegliata 24 ore su 24, in cui non è possibile spegnere la luce.

«È passato dalla repressione in stile medievale del carcere di Tora a una repressione più moderna. Ci sono le telecamere che lo controllano tutto il giorno e ha un sistema di comunicazione diretto con le guardie che al momento sembrano essere persino gentili», dice con una punta di sarcasmo la madre dell’attivista.

«Ci ha scritto una lunga lettera, dice che al momento continua lo sciopero. Beve solo acqua e latte con un po’ di zucchero, sono circa 100 calorie al giorno», continua.

«Non si fermerà sino a quando non otterrà tutte le sue richieste, compreso l’incontro con le autorità consolari britanniche».

La diplomazia di Londra è coinvolta in maniera diretta nel caso dallo scorso aprile. Dieci giorni dopo l’inizio del digiuno volontario, infatti, l’attivista ha preso la cittadinanza del Regno Unito proprio grazie alla madre, nata a Londra nel 1956.

PRESSIONE INTERNAZIONALE

Il nuovo passaporto è l’ennesimo tentativo dell’attivista di dare una svolta alla sua vicenda giudiziaria che lo ha portato a trascorrere sette anni di carcere negli ultimi suoi otto anni di vita.

L’ultimo arresto risale al 2019, poi il 20 dicembre del 2021 è arrivata la condanna a 5 anni di carcere per diffusione di notizie false dal tribunale per i reati minori di New Cairo.

Una sentenza inappellabile perché emessa secondo il rito previsto dallo stato di emergenza. Secondo il triste copione che il sistema giudiziario egiziano segue sulle decine di migliaia di detenuti di coscienza, chi riceve una pena definitiva non ha quasi alcuna via di uscita se non quella di chiedere l’annullamento del processo.

Così, negli ultimi anni, alcuni attivisti con doppia cittadinanza, sfruttando un decreto presidenziale del 2014, hanno ritrovato la libertà rinunciando al passaporto egiziano. Se Alaa vorrà seguire questa strada non è ancora certo. Quello che chiede ora, insieme alla sua famiglia, è pressione diplomatica.

«Sono convinta che la mobilitazione dei paesi occidentali abbia giocato un ruolo fondamentale nel far trasferire mio figlio in un altro penitenziario ma ora serve qualcosa di più», dice Soueif.

«Egitto e Gran Bretagna sono in ottimi rapporti, quindi dovremmo aspettarci che le richieste di Londra su mio figlio vengano accettate dal governo del Cairo».

Che il regime egiziano, impegnato da diversi mesi in una nuova operazione di recupero della credibilità sui diritti umani, stia cercando di dare un segnale alla comunità internazionale è un dato di fatto.

Ora cerca di farlo anche con gli attivisti di punta della rivoluzione contro i quali, sino a ora, non aveva mai allentato la morsa della repressione. Soprattutto con Alaa, definito ormai il Gramsci d’Egitto, fonte di ispirazione per una generazione di attivisti, non solo egiziani.

Il suo libro, Non siete stati ancora sconfitti, una raccolta di scritti dal carcere, è stato pubblicato in Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti e presto arriverà in Germania.

«Il regime egiziano ha paura di Alaa. Nonostante sia costantemente privato della sua libertà personale, da più di dieci anni trasmette messaggi di cambiamento sulla democrazia e sui diritti umani», spiega Noury.

«Credo soprattutto che i palazzi del potere del Cairo stiano iniziando a temere la mobilitazione che c’è intorno a lui. E questo sta succedendo grazie anche al suo libro, che sta arrivando nei luoghi di cultura più importanti del mondo, e sta facendo diventare il suo caso una campagna globale».

·        Quei razzisti come gli israeliani.

In Palestina le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare, durante le lezioni. Gloria Ferrari su L'Indipendente  il 29 Novembre 2022

A Isfey Al-Fouqa, un villaggio all’interno del complesso di Masafer Yatta, nella Cisgiordania meridionale occupata, il 23 novembre le forze israeliane hanno demolito una scuola elementare palestinese frequentata da 22 studenti, provenienti da quattro diverse comunità. Durante l’orario di lezione i soldati sono arrivati sul posto con un bulldozer, lanciando bombe vicino all’edificio per avvisare della loro presenza, e costringere i bambini a sgomberarlo prima della demolizione.

L’ordine di abbattimento è stato emesso dall’Alta Corte di giustizia israeliana, che quello stesso mercoledì ha revocato un’ingiunzione che fino a quel momento aveva bloccato la demolizione della scuola. Secondo il COGAT (l’ente militare israeliano di proprietà del Ministero della difesa che coordina e gestisce le attività governative nei territori occupati) quell’edificio era stato costruito illegalmente in un’area proibita, e per questo andava rimosso.

La scuola, che si trovava in una zona in cui ai residenti tocca spesso fare i conti con sfollamenti forzati, è riuscita a rimanere in piedi per poco: era stata costruita da circa un mese ed era entrata in “funzione” da ancora meno, all’incirca un paio di settimane prima della demolizione. Secondo quanto raccontato da alcuni attivisti ad Al-Jazeera, la sua costruzione – insieme a quella di almeno altre 12 strutture simili – era stata prevista da un programma del Ministero dell’Istruzione dell’Autorità Palestinese, finanziato dall’Unione Europea, per favorire lo sviluppo palestinese nonostante le restrizioni e le pressioni israeliane.

Tra l’altro la scuola di Isfey Al-Fouqa a Masafer Yatta – una regione che in tutto ospita più di 1.200 palestinesi, tra cui 500 bambini – era l’unica in zona che fornisse istruzione ai suoi abitanti e «quando la polvere si posa su una scuola che ora è ridotta in macerie, 22 bambini palestinesi si chiederanno cosa hanno fatto per meritarsi che la loro scuola fosse abbattuta dai bulldozer israeliani”, ha detto Caroline Ort, rappresentante per la Palestina della Norwegian Refugee Council, un’organizzazione umanitaria non governativa che protegge i diritti delle persone colpite dallo sfollamento.

Quello di Isfey Al-Fouqa potrebbe non essere l’unico episodio di questo tipo. Ad oggi in tutta la Cisgiordania occupata sono 57 le scuole a rischio di demolizione, istituti che ospitano quasi 7mila studenti, costruiti ad hoc in zone ritenute meno pericolose di altre. Senza una struttura adeguata vicina, tutti i ragazzi dei villaggi coinvolti sono costretti a percorrere a piedi ogni giorno lunghissime distanze, con il rischio di ricevere una pallottola durante il tragitto. «Questa occupazione prende di mira tutto: prende di mira le nostre case, l’istruzione, la nostra acqua, i pannelli solari. Pensano che questo spingerà le persone ad andarsene, in modo che Israele possa “pulire” etnicamente questa zona», hanno spigato ad Al-Jazeera gli esponenti del comitato per la protezione e la resilienza di Masafer Yatta. Molte famiglie infatti vivevano in questa zona ancora prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania del 1967, ma con il tempo le forze israeliane hanno reso la loro permanenza un inferno: gli hanno tolto l’acqua, la corrente elettrica, li hanno circondati con insediamenti israeliani illegali e li sottopongono a sistematiche violenze.

Secondo l’ONU, tra l’altro, il 2022 è da considerare uno degli anni più mortali per i palestinesi dal 2005, da quando cioè l’organizzazione ha iniziato a tenere conto delle vittime. I dati, quelli ufficiali, dicono che da gennaio nella Cisgiordania occupata sono morte almeno 120 persone, di cui un quinto sono bambini, per via dell’aumento dei raid militari israeliani. Molti di loro sono stati uccisi durante perquisizioni e arresti, giustificati dalle forze israeliane come operazioni portate avanti contro sospetti “terroristi”.

Studiosi e attivisti per i diritti umani, sia palestinesi che israeliani, sostengono che l’obiettivo reale di Israele sia chiaramente lo sgombero dei residenti arabi, col fine ultimo di perseguire e rafforzare la sua presenza nei loro territori, nonostante “l’espansione degli insediamenti, le demolizioni e gli sfratti sono illegali secondo il diritto internazionale”.

Ad oggi, però, le testimonianze palestinesi (sostenute da filmati aerei, foto, documenti) non sembrano bastare ad una comunità mondiale che continua a riempirsi la bocca di parole, ma che nel concreto sostiene ancora una nazione che perpetua violenze ai danni di un’intera comunità. D’altronde, come si fa a chiedere a qualcuno di accorgersi di qualcosa se di fondo non vuole vederla? [di Gloria Ferrari]

Netanyahu e il nuovo corso israeliano. Piccole Note su Il Giornale il 05 novembre 2022.

Netanyahu si è ripreso lo scettro. E stavolta potrà costituire un governo fortissimo, sostenuto solo da forze di ultradestra, tra cui spicca quella guidata da Ben Gvir, la vera rivelazione di queste elezioni.

Così un editoriale di Haaretz: “Il sionismo religioso , il partito che ha distorto il progetto sionista e lo ha trasformato da casa nazionale del popolo ebraico in un progetto di suprematismo ebraico conservatore, di destra, razzista e religioso, nello spirito del maestro e rabbino di Ben Gvir, Meir Kahane, è ora la terza forza politica più grande in Israele. Questo è il vero, agghiacciante significato delle elezioni tenutesi martedì”. Parole pesanti, che riecheggiano quelle di un altro articolo di Haaretz, firmato da Yossi Klein, dal titolo: “Ora è ufficiale: il fascismo siamo noi”.

Gli sconfitti si interpellano su cosa non abbia funzionato e tanti hanno addossato la colpa al premier uscente Yair Lapid, che ha lavorato solo per se stesso, sottraendo consensi ai partiti di sinistra, che in tal modo non hanno superato la soglia di voti necessaria per entrare nella Knesset.

Nessuna differenza tra destra e sinistra…

La vittoria di Bibi è stata favorita anche dall’usuale astensionismo degli arabo-israeliani, sui quali invece contava il centro-sinistra per sbarrare la strada al sempiterno Netanyahu (France 24). In realtà, gli arabo-israeliani nutrono scetticismo verso tutte le forze politiche, tanto che hanno accolto l’esito del voto non con allarme, ma con indifferenza.

Un atteggiamento sintetizzato dal commento dal premier palestinese Mohammad Shtayyeh:  “La differenza tra Benny e Bibi – Benny Gantz e Bibi Netanyahu – […] è la stessa che c’è tra Pepsi Cola e Coca-Cola” (per quanti non conoscono la politica israeliana, Gantz è uno dei leader del centro-sinistra).

Un’idea condivisa da Gideon Levy, che su Haaretz scrive: “Cosa pensavi che sarebbe successo? Cosa pensava la sinistra sionista, che è caduta in coma dopo gli accordi di Oslo? Che fosse possibile tornare al potere uscendo dal coma? A mani vuote? Senza alternativa e senza leadership? Solo sulla base dell’odio per Netanyahu? A parte questo, non aveva nulla da offrire”.

“Nessuno dovrebbe sorprendersi per quanto è accaduto. Non poteva essere altrimenti. Tutto è iniziato con l’occupazione – scusate l’accenno fastidioso al cliché – ma è lì che è iniziato davvero, ed è necessariamente culminato con un governo impregnato di razzismo e voglia di deportazione [dei palestinesi ndr]”.

“Cinquant’anni di istigazione all’odio contro i palestinesi e di terrore nei loro confronti non potevano culminare con un governo di pace. Cinquant’anni di sostegno israeliano quasi spalla a spalla, dalla sinistra e dalla destra sioniste, all’occupazione, non potevano finire in nessun altro modo se non con Ben-Gvir portato sugli scudi come un eroe popolare”.

“Un’occupazione senza fine non poteva che portare al governo Benjamin Netanyahu-Itamar Ben-Gvir. Perché, data l’occupazione, allora devi abbracciare la sua versione più genuina, quella che non è minimamente imbarazzata al riguardo: la versione di Ben-Gvir”.

“Era semplicemente impossibile continuare con le illusioni – ebraiche e democratiche, di un’occupazione illuminata, temporanea – e tutto quello stanco repertorio di frasi. Era arrivato il momento della verità, ed è ciò che Netanyahu e Ben-Gvir ci diranno”.

Tante e non propriamente graziose le incognite che incombono sul futuro. All’interno della politica israeliana potrebbe marcarsi il divario già esistente tra Bibi e i suoi alleati di ultradestra, che sembrano ansiosi di strappargli lo scettro, come rivelato da una conversazione riservata, e misteriosamente trapelata (Timesofisrael).

Ma Netanyahu è una vecchia volpe, difficile da mandare in pellicceria, tanto che già alcuni analisti israeliani prospettano che in futuro scaricherà uno o entrambi gli scomodi alleati – invisi agli Stati Uniti (Axios) – per formare un governo più presentabile. Una crisi (una guerra con l’Iran, per esempio), richiedendo l’unità nazionale, favorirebbe tale sviluppo.

I palestinesi, l’Iran e l’Ucraina

Al di là degli interna corporis della politica israeliana, la prospettiva che il conflitto con i palestinesi raggiunga picchi drammatici resta purtroppo reale. Ed è presumibile che l’esito elettorale segni una svolta anche per lo scontro con l’Iran, verso il quale Netanyahu nutre una vera e propria ossessione.

Non sembra affatto un caso che, subito dopo le elezioni israeliane, Biden abbia giurato di “liberare l’Iran“, frase che indica un rapido allineamento al nuovo vento e che riecheggia le parole di George W. Bush in occasione della guerra irachena (alla quale il senatore Biden diede il suo consenso). Nel caso, le bombe cadranno anche sulle teste di quei manifestanti e quelle manifestanti oggi esaltati dai media occidentali per il coraggio con cui stanno sfidando le autorità.

Resta da capire se cambierà l’atteggiamento di Israele verso la guerra ucraina, rispetto alla quale, pur condannando l’invasione russa, Tel Aviv ha osservato un prudente distacco. Secondo tanti analisti Bibi sarà più interventista, cosa che aggraverebbe vieppiù il conflitto che avrebbe bisogno più di pompieri che di incendiari.

In questo quadro alquanto fosco, ci permettiamo di riferire un’analisi in controtendenza apparsa su Ria novosti: “in un’intervista con USA Today alla fine di ottobre, Netanyahu ha detto che se vincesse, prenderebbe in considerazione la possibilità di fornire armi. Ma preferisce ancora una soluzione diplomatica del conflitto. E gli è già stato chiesto di mediare”.

“Sotto il governo uscente, abbiamo assistito a un periodo di raffreddamento [dei rapporti tra Tel Aviv e Mosca ndr]”, ha ricordato il politologo Stanislav Tarasov. “Ciò ha influito anche sull’approccio alla crisi ucraina. Ma Netanyahu ha criticato costantemente Lapid. C’è un’intesa personale tra Putin e Netanyahu, una stretta collaborazione e la possibilità di nuove soluzioni”.

“Come sottolinea l’esperto, sotto Netanyahu c’è stato un processo di riconciliazione tra Iran e Israele. ‘I negoziati, per quanto ne so, si sono svolti a porte chiuse – e con la mediazione di Mosca. Credo che, per quanto riguarda l’iran, con il nuovo governo l’intensità delle passioni si attenuerà e la Russia riprenderà il suo impegno. Israele è pronto per facilitare un accordo con Kiev. Cioè, la mediazione [israeliana con Kiev] in cambio della mediazione [russa con l’Iran] è possibile’, conclude Tarasov”..

Possibile che quella del politologo russo sia una pia illusione, ma l’analisi, distinguendosi da altre prodotte in fotocopia, meritava una menzione, in particolare per l’accenno agli incontri segreti Netanyahu-iraniani.

Più realistica la conclusione del media russo: “Gli analisti concordano sul fatto che Israele, pur essendo un alleato chiave degli Stati Uniti, non rischierà i suoi legami consolidati con la Russia e continuerà a evitare dure dichiarazioni contro Mosca”.

Davide Frattini per il “Corriere della Sera” il 27 Ottobre 2022.

Come centrare una buca sul campo da golf in un colpo solo e passando attraverso un muro. O ancora: la stessa distanza tra il ponte George Washington e la Trump Tower a New York. Benjamin Netanyahu ha imparato dagli americani a comunicare con gli elettori israeliani e dagli israeliani a comunicare con gli americani, almeno quelli a livello dell'ex presidente, il suo amico Donald. 

Semplificare. Così le trattative per la pace vengono presentate con una metafora golfistica comprensibile per l'inquilino-giocatore di Mar-a-Lago e a quel tempo della Casa Bianca: impossibili, irrealistiche, chi ci prova va a sbattere contro i mattoni.

Mentre il futuro Stato palestinese diventerebbe una base per i terroristi a un passo dall'aeroporto israeliano Ben Gurion. La mappa del conflitto è ormai troppo intricata tra linee di armistizio che risalgono al 1949, sovrapposte a righe disegnate più di recente, suddivisioni della Cisgiordania in Area A, B, C. Meglio tirar fuori la cartina di Manhattan, facile da navigare per il leader repubblicano che ci è cresciuto. 

È «Bibi: la mia storia» come la racconta Bibi. Diventa la storia dei capi di Stato incontrati nei dodici anni al potere consecutivi (quindici in totale), dei negoziati e dei trucchetti diplomatici, delle richieste rimaste inesaudite: nel 2013 l'ex premier israeliano aveva incitato Barack Obama a bombardare l'Iran per fermarne il programma nucleare. 

Gli era stato risposto: «Non voglio essere un gorilla di 300 chili che balza sulla scena mondiale. Troppo a lungo gli Stati Uniti si sono comportati così». Ammette di aver promesso sia ad Obama che a Trump di essere pronto a riaprire il dialogo con i palestinesi perché sapeva che l'iniziativa non sarebbe andata da nessuna parte.

All'inizio - riconosce - Trump sospettava di lui: «Netanyahu non vuole la pace», si sarebbe sfogato. Lo ha convinto che a non volerla fosse Abu Mazen, il raìs che l'ex presidente non ha più voluto sentire. 

È la storia di Bibi - come lo chiamano amici e nemici - e quella del Medio Oriente fino alle minuzie della politica interna, gli israeliani tornano a votare martedì prossimo per la quinta volta in quattro anni. 

Ancora un referendum attorno a lui, tra chi smonta le accuse di corruzione (il processo è in corso) come una montatura dei giudici «sinistrorsi» per rimuoverlo e chi pensa che quel lungo periodo ai vertici - con le casse di champagne e i sigari in regalo - abbia corrotto il capo senza rivali della destra, fino a trasformarlo in un pericolo per la nazione.

L'autobiografia - Netanyahu ha compiuto 73 anni il 21 ottobre - è uscita nei tempi giusti della campagna elettorale per elencare quelli che considera i suoi successi e prometterne implicitamente altri. 

Senza indicarli per nome critica i vertici del Mossad e delle forze armate (Benny Gantz era capo di Stato Maggiore ed è ora un rivale nelle urne): sarebbero stati «troppo preoccupati dai rischi» e per almeno un paio di volte si sarebbero opposti alla sua volontà di attaccare le centrali iraniane con i jet. Ricorda le ferite del passato perché a sanguinare siano miti israeliani come Ehud Barak.

Fuoco amico contro il soldato più decorato della storia del Paese che è stato suo comandante nelle forze speciali, mentore e pure compagno di coalizione, fino a diventare uno dei critici più accaniti: lo accusa di essersi preso il merito per la liberazione degli ostaggi sull'aereo della Sabena nel 1972 (Netanyahu partecipò e fu colpito di striscio) mentre «è stato un semplice spettatore, il suo unico ruolo nell'assalto è stato rimanere sulla pista e soffiare in un fischietto».

Il sodale che non ripudia è Vladimir Putin. Ripercorre la relazione molto stretta e ventennale con il presidente e lo esalta: «Ha ricostruito l'Armata russa in una forza formidabile». Ci sarebbe stato il tempo di ritoccare le bozze dopo l'invasione dell'Ucraina, che racconta una storia diversa.

Commissione d’inchiesta ONU: l’occupazione israeliana della Palestina è illegale. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 24 Ottobre 2022. 

Un rapporto di una commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite diffuso il 20 ottobre ha definito “illegale” l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, per via “della sua permanenza e delle azioni intraprese da Israele per annettere parti del territorio”. Il controllo permanente esercitato sulla Cisgiordania e l’annessione delle terre rivendicate dai palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania, oltre alle terre siriane nel Golan, configurerebbero quindi, a detta dei commissari, una violazione da parte di Israele del diritto internazionale. Il rapporto verrà presentato il 27 ottobre prossimo all’Assemblea Generale dell’ONU.

La commissione, composta da Navanethem Pillay (Sudafrica), Miloon Kothari (India) e Christopher Sidoti (Australia), è stata istituita nel maggio 2021 quando, a seguito di una sessione speciale del Consiglio per i diritti umani riguardante la “grave situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi, inclusa Gerusalemme est”, è stata adottata la risoluzione Garantire il rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario nei Territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme est, e in Israele. In base a tale risoluzione, la commissione è stata incaricata di indagare “tutte le presunte violazioni del diritto umanitario internazionale e gli abusi della legge internazionale sui diritti umani” e “tutte le cause profonde delle tensioni ricorrenti, dell’instabilità e del protrarsi del conflitto, incluse le discriminazioni sistematiche e la repressione basata sull’identità nazionale, etnica, razziale o religiosa”.

Nel rapporto, in particolare, si legge come “la Commissione ha rilevato che vi siano motivazioni ragionevoli per concludere che l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi sia ora illegale secondo l’attuale legge internazionale a causa della sua permanenza e delle azioni intraprese da Israele per annettere parti del territorio de facto e de iure. Le azioni di Israele volte a causare fatti irreversibili sul terreno e a espandere il suo controllo sul territorio sono riflessi e motori della sua occupazione permanente”. Inoltre, “continuando ad occupare il territorio con la forza, Israele incorre in responsabilità internazionali provenienti da una continua violazione degli obblighi internazionali, e si rende responsabile per qualsiasi violazione dei diritti delle persone palestinesi”. L’annessione de facto di Israele include “l’espropriazione delle terre e delle risorse naturali, la creazione di insediamenti e avamposti, il mantenimento di un regime di pianificazione e costruzione restrittivo e discriminatorio per i palestinesi e l’estensione della legge israeliana in modo extraterritoriale ai coloni israeliani della Cisgiordania”. La Commissione ha così confermato che l’occupazione delinea “gravi violazioni ed abusi dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale”, mettendo in campo “una serie di politiche […] che hanno influito negativamente su tutti i settori della vita palestinese”, tra le quali “sgomberi, deportazioni e trasferimenti forzati di palestinesi all’interno della Cisgiordania, espropriazione, saccheggio e sfruttamento della terra e delle risorse naturali vitali, restrizioni alla circolazione e il mantenimento di un ambiente coercitivo con l’obiettivo di frammentare la società palestinese, incoraggiare l’allontanamento dei palestinesi da alcune aree e garantire che essi non siano in grado di soddisfare il loro diritto all’autodeterminazione“. Di conseguenza, il governo di Israele dovrebbe “porre immediatamente fine ai 55 anni di occupazione dei Territori palestinesi e siriani” e rispettare “il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e al suo diritto di utilizzare liberamente le risorse naturali”.

Il premier israeliano Yair Lapid ha reagito al rapporto definendolo “scritto da antisemiti” oltre che “parziale, falso che istiga e palesemente sbilanciato”. Intanto, mentre veniva reso pubblico il report, 65 organizzazioni palestinesi e internazionali hanno siglato una lettera indirizzata al nuovo Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Voler Türk per domandargli di trattare come prioritaria la situazione dei diritti umani in Palestina. “Al popolo palestinese [è stato] negato il diritto all’autodeterminazione, e ha sopportato oltre sette decenni di colonialismo e Apartheid da parte di Israele e 55 anni di occupazione bellicosa” hanno scritto i firmatari nella lettera, che sottolineano come “per troppo tempo la questione della Palestina è stata trattata come un’eccezione all’attuazione del diritto internazionale”. [di Valeria Casolaro]

Un tranquillo weekend. Il tormento religioso degli ebrei americani e la vulnerabilità dei discorsi identitari. Joshua Cohen su L'Inkiesta il 21 Settembre 2022

“I Netanyahu” è una riflessione dissacrante e pungente sui problemi della società americana. Joshua Cohen racconta con ironia l’incontro di Ruben con una famosa famiglia israeliana che lo costringerà a tornare in contatto con le sue radici profonde, da cui per tutta la vita ha cercato di affrancarsi

Feci un passo fuori dalla porta giusto in tempo per vedere lo sportello posteriore che si apriva e i corpi che capitombolavano fuori; non dei pagliacci in tutto il loro splendore demente a suonare la trombetta e fare il gioco delle palline, ma quasi: bambini rivestiti di montone. Uno, due, tre bambini. Mi ci volle un attimo per contarne tre: piccolo, medio, grande. I cappottini di montone identici e soprattutto l’improvvisa sconfinata energia li facevano sembrare più numerosi. Si stavano inseguendo tra il marciapiede e la strada e lanciavano palle di neve, intanto che due forme adulte più grandi scivolavano fuori dallo sportello anteriore dal lato del marciapiede. Gli sportelli sul lato opposto dovevano essere bloccati. I due adulti all’inizio sembravano indistinguibili e completamente androgini, dato che erano infagottati in cappotti di montone di qualche taglia più grande rispetto a quelli dei bambini. Cinque cappotti identici, pelosi e allacciati con le olivette, si spera comprati in blocco con uno sconto notevole. Intanto che i bambini facevano esercitazioni antincendio attorno alla macchina in un delirio di palle di neve lanciate e schivate, uno degli adulti sollevò una mano verso il cielo e urlò in una lingua che nella mia gio ventù era stata parlata solo da Dio. Lei – perché quello era l’urlo di una donna – doveva aver ordinato ai bambini di smetterla di correre e di zittirsi. Questo fu il mio primo incontro con i Netanyahu, con tutta la famiglia: die ganze mishpocha.

Mentre la moglie rimproverava i figli, il marito tirò indietro il cappuccio per mostrare la faccia che conoscevo o pensavo di conoscere dalla fototessera dimensione passaporto incollata alla buona sull’angolo in alto a destra del suo curriculum: era invecchiato. Aveva cinquant’anni allora, la faccia era una noce dura da spaccare dai linea menti vagamente mongoli; aveva occhi stretti a nocciolo di oliva e orecchie decisamente enormi e carnose come gusci di ostriche, forti pieghe nasolabiali che mi rifiuto di definire “piccole rughe d’espressione” o “rughe da risata”, perché la bocca in sé era priva di umorismo, tutta labbrastrette. La testa era sormontata da due gobbette da cammello di capelli, la cupola in mezzo era un uovo luminoso di calvizie lentigginosa. Le prime parole che mi rivolse furono:

«Il dottor Blum, suppongo?»

«Piacere di conoscerla.»

«Dottor BenZion Netanyahu.»

Sì, insistette per usare i titoli ufficiali all’inizio e sì, mi strinse la mano senza togliersi il guanto pieno di pelucchi. Il suo accento era più forte di quello che mi aspettavo; era sabbioso, ma più tardi ebbi l’impressione che volesse enfatizzarlo di proposito: BenSion.

«Può chiamarmi Ruben. O Rube. Shalom.»

Stavamo sulla neve su quello che poteva essere il marciapiede o il prato, chi poteva dirlo, e lui strinse le labbra e annuì con fare pensoso, come se non riconoscesse il saluto, o ci si stesse arrendendo. «Shalom, Rube.»

Condussi l’uomo lungo il sentiero impolverato di neve verso casa, seguito da sua moglie e dai figli che non mi aveva ancora presentato.

Fu solo quando salirono i gradini ed entrarono che la moglie tracagnotta e con i capelli a ciuffi disse: «Mi chiamo Tzila», ma lo disse fissando suo marito, che a sua volta aggiunse: «Si chiama Tzila, mia moglie», e io tirai fuori la mano e Tzila la prese e mi tirò a sé offrendo la guancia. Io la baciai velocemente. Lei offrì l’altra guancia. Baciai velocemente anche quella.

Le sue guance erano fredde.

Edith, rinfrescata, con il sorriso che mostrava i denti, ci venne incontro per accoglierci. «Tzila, BenZion, questa è Edith», e Edith disse: «Oh che bello… avete portato i bambini… che bella sorpresa, Ruben non mi aveva detto dei bambini… ecco qui, lasciate che vi prenda i cappotti…»

I bambini e i genitori dismisero le loro pelli identiche e guanti e sciarpe e cappelli e, impilandoli, trasformarono Edith in un appendiabiti.

«Vi dispiacerebbe – la sua voce era un cinguettio smorzato sotto gli strati – togliervi le scarpe?»

Ma i genitori erano già passati sul tappetino d’ingresso senza nemmeno sbattere i piedi per pulirli ed erano entrati in salotto, lasciando strisce di neve sul parquet a formare pozzanghere.

I maschietti detonarono in uno stridio. A quanto pareva, il più alto dei tre era riuscito a infilare una palla di neve di contrabbando dentro casa ed era impegnato a ficcarla ovunque tra i vestiti del fratello di mezzo, nella maglia, nei pantaloni, dentro la vita a molla di uno sparticulo.

Tzila li riprese in ebraico, intanto che quello di mezzo inseguiva il più grande attorno al pianoforte e il più piccolo ululava. Altra neve divenne acqua sul pavimento; impronte di scarpe impregnarono i falsi arabeschi del falso tappeto persiano e Edith ci provò di nuovo: «Per favore, vi dispiace? Le scarpe? Temo che la nostra sia una casa piuttosto orientale».

Tzila disse di nuovo qualcosa, qualcosa dal suono troppo brusco per essere una traduzione, una parola sola impacchettata con densità e impazienza, tesa, declinata e con connotazioni di genere, e i maschietti si impalarono tutti in una volta e si accasciarono dove stavano; i due ragazzi più grandi sul tappeto, il più piccolo sul parquet, e lì iniziarono a strattonare i lacci delle scarpe molte volte allacciati. «Anche voi adulti, se non vi dispiace» disse Edith a Tzila e Netanyahu, che si guardarono perplessi e poi si sedettero sul Nascondiletto per togliersi le scarpe a loro volta.

Nessuno in famiglia, mi resi conto allora, stava indossando stivaletti o galosce o qualsiasi altro tipo di calzatura anche solo lontanamente adatta all’inverno: Netanyahu aveva dei mocassini stringati, Tzila delle ballerine, e i ragazzi scarpe di tela a buon mercato. Le calze di lei erano fradicie, e uno dei calzini di Netanyahu aveva un buco; un alluce spuntava fuori dal tessuto con un’unghia ricurva non tagliata.

Tzila passò le calzature sue e di suo marito a Edith, che si voltò per prendere quelle dei bambini. E mentre ognuno di loro porgeva il suo paio, Tzila li nominò: il più grande era Jonathan, quello di mezzo Benjamin, il più piccolo Iddo, e Edith disse: «Grazie, Jonathan, grazie Benjamin, grazie Iddu», e Tzila disse: «Iddo», e Edith disse: «Iddu», e i due fratelli più grandi si misero a ridere, e qualsiasi parola ebraica scegliessero di utilizzare per bat tibeccare con il più piccolo della cucciolata, adesso finiva per “Iddu”.

Mentre Edith posava le scarpe per farle asciugare sul tappetino, Tzila indicò le loro età: tredici, dieci e sette anni, e io ricordo di essermi soffermato su quel sequen ziamento pensando che fosse l’unica cosa disciplinata e ordinata di quelle persone, di questi Yahu, che era il modo con cui iniziai a chiamarli subito nella mia testa; questi rozzi e chiassosi Yahu che avevano fatto irruzione in casa nostra e nevicato sui pavimenti, e adesso erano di nuovo in piedi e vagavano per tutto il salotto come se lo stessero esaminando per una rapina; Jonathan e Benjamin ispezionavano la cornice del camino, esaminando le navi in bottiglia ispirate alla Mayflower e alla Speedwell, bistrattando i pupazzetti di latta a molla di Hamilton e Burr, e sovraccaricando le vaschette in peltro della bilan cia d’antiquariato con dei pesi che continuavano a squit tire. Iddo stava tra le loro gambe, colpendo gli alari e scavando nel caminetto, prima di strofinarsi la faccia cospargendola di cenere.

«Ruben» disse Edith, «avremo bisogno di sedie in più… Terra chiama Ruben Blum: va’ a prenderne qualcuna in sala da pranzo.»

Tzila, forse capendo male, disse ai ragazzi qualcosa che doveva significare sedetevi, e loro si mossero alla rin fusa alla ricerca di trespoli; Jonathan e Benjamin presero le delicate sedie Shaker che stavano di fronte al Nascon diletto prima che io o Edith potessimo fermarli.

Iddo, senza sedia, provò a salire sul grembo di Jona than ma venne respinto, e poi cercò di salire su quello di Benjamin, ma venne respinto anche lì, scatenando il tremolio allarmante delle gambe Shaker e delle sedute in trecciate, e – dopo che fu capitombolato a terra perico losamente vicino al tavolino Chippendale – gattonò via piangendo per asciugarsi il blackface bagnato su un fianco del Nascondiletto e annidarsi tra i suoi genitori.

Io andai in sala da pranzo e presi due delle sedie incorniciate di alluminio, robuste e abbinate al tavolo, le misi ai bordi della conventicola e mi sedetti su una fissando l’altra, cercando di individuare il modo più educato per dire ai ragazzi più grandi di fare a cambio.

«Ho preparato un piccolo rinfresco» annunciò Edith, «molti salati, ma immagino che debba prendere qualcosa di dolce per i piccoli?»

Tzila non rispose, continuava ad accarezzare la testa del bambino con il blackface che frignava, quindi Edith provò di nuovo: «Vi andrebbe se servissi dei biscotti?»

Tzila, confusa, ripeté lo spelling: «Bisca», ma Jonathan interruppe sua madre: «Biscotti, sta facendo lo spelling di biscotti». Poi si rivolse a Edith: «Parliamo inglese».

Benjamin intervenne: «Non siamo idioti».

«E lui?» disse Edith a Iddo. «Per te va bene?»

«Lui è un idiota» chiarì Jonathan. «Vero Iddy? Ho ragione? Iddy, non sei un idiota che non sa parlare inglese?» Iddo, con la voce ispessita dal piagnisteo, si protese verso la madre e disse: «Biscotti».

Tzila lo sollevò, lo annusò e poi lo posò sopra il tavolino e, senza nemmeno usare una tovaglietta o un asciugamano, iniziò ad abbassargli i pantaloni e a sfilargli il pannolino. «I bambini mangiano tutto» disse come se stesse parlando di quel casino. «Non ha più bisogno dei pannolini, se non la notte e quando facciamo un lungo viaggio in macchina.»

Edith, chiudendo gli occhi, scomparve in cucina. Intanto che Tzila pescava dalla sua borsa un rotolo di carta igienica e puliva Iddo, io domandai: «Ben, Jon, volete fare cambio posto?»

Ma Benjamin si stava sporgendo verso la nudità cine rina del fratello più piccolo titillandogli il pene. Tzila gli schiaffeggiò la mano e Iddo ululò. «Gocciole di cioccolato pupù» disse Benjamin indicando il pannolino, «goccio le di cioccolato brownie pupù.»

«Non è pupù» mi informò Tzila, «è solo pipì, piscio…»

«Urina» disse Jonathan strappando un petalo da una poinsezia 

“I Netanyahu”, Joshua Cohen, Codice edizioni, 272 pagine, 20 euro 

La forca a Gaza ha ripreso il suo corso. Hamas e la giustizia fai da te, è strage: in un giorno 3 impiccati e 2 fucilati. Sergio D'Elia su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Tre sono stati impiccati, altri due sono stati fucilati. In un solo giorno, lo Stato-Caino che detta legge nella Striscia di Gaza ha recuperato il tempo perduto. Da quando ha preso il potere nel 2007, Hamas aveva placato la sete di vendetta del suo popolo mandando ogni anno al patibolo almeno un paio di presunte spie del suo nemico giurato e assassini comuni. Dopo cinque anni di tregua, la “giustizia riparativa” della forca ha ripreso il suo corso mortale. Per i musulmani, la domenica non è il giorno del Signore, riservato al riposo, all’amore, alla grazia. All’alba della prima domenica di settembre, il boia di Hamas è stato richiamato al lavoro per “giustiziare” cinque palestinesi condannati in casi diversi di omicidio e presunta collaborazione con Israele. A due di loro, entrambi membri delle forze di sicurezza palestinesi, è stato concesso il “privilegio” di essere uccisi da un plotone di esecuzione.

Gli altri tre sono stati ammazzati come cani, con il cappio al collo. Tutte le condanne a morte sono state eseguite intorno alle cinque di mattina nell’Ansar Security Compound, nella parte occidentale della Città di Gaza. Il Ministero dell’Interno non ha fornito i nomi completi dei disgraziati, ha solo indicato le loro iniziali, l’età e descritto sommariamente il fatto. Il primo a essere fucilato è stato K. S., un uomo di 54 anni, residente a Khan Yunis. Era in carcere dal 2015 e secondo Hamas nel 1991 aveva fornito a Israele “informazioni sui combattenti della resistenza, sul loro luogo di residenza e la posizione dei lanciarazzi”. Anche N. A. era sospettato di essere una spia, ma non era un militare e quindi è stato impiccato. Aveva 44 anni ed era stato condannato per aver fornito nel 2001 informazioni di intelligence che avevano portato alla presa di mira e all’uccisione di civili da parte delle forze israeliane.

E. A. aveva 43 anni e abitava nella città di Gaza. Nel 2004 era stato incarcerato con l’accusa di rapimento e omicidio. Era evaso dal carcere e aveva commesso un altro rapimento e omicidio oltre a una rapina nel 2009. È stato impiccato. Il quarto giustiziato per impiccagione, M. Z., aveva 30 anni ed era residente nel nord della Striscia di Gaza. Era stato arrestato nell’ottobre del 2013 per un omicidio a scopo di rapina. J. Q. era un militare delle forze di sicurezza di Hamas e quindi non ha subito l’onta della forca. Ha avuto l’onore di finire davanti a un plotone di esecuzione. Aveva 26 anni ed era stato arrestato il 14 luglio scorso per aver ucciso un uomo e una ragazza e aver ferito altre 11 persone durante una lite familiare. Hamas ha detto che a tutti gli imputati è stato “concesso il pieno diritto di difendersi, secondo le regole di procedura, davanti a un tribunale competente”. Nel caso di J. Q. il corso della giustizia è stato tumultuoso, e la sua esecuzione avvenuta a furor di popolo. Cittadini e funzionari palestinesi l’hanno invocata con violente manifestazioni di piazza e anche sui social network con un hashtag inequivocabile: #Retribution_Life, occhio per occhio. Il prigioniero non ha avuto il tempo di chiedere la grazia o la commutazione della pena.

Questa furia di esecuzioni in un solo giorno in una stretta striscia di terra non era mai successa. Non era neanche volta a pareggiare il piatto del bene con quello del male nella bilancia della giustizia. Per Hamas le esecuzioni intendevano soprattutto “raggiungere la pace e la stabilità nella società”, anche a costo della violazione della legge palestinese e dei valori universali della giustizia. Dall’istituzione dell’Autorità Palestinese nel 1994, sono state eseguite 46 condanne a morte: 44 nella Striscia di Gaza e 2 in Cisgiordania. Di quelle effettuate a Gaza, 33 sono avvenute senza la ratifica del presidente palestinese, come prevede la legge nazionale. Ma, a Gaza, il regolamento dei conti tra vittime e carnefici non passa sempre dalle aule di giustizia del regime islamista. Accade anche che persone sospettate, arrestate o condannate siano “giustiziate” sul campo: nel cortile di un carcere o di una moschea, nelle strade e nelle proprie case. Se la pena capitale “legale” dei tribunali militari e civili di Gaza è stata intermittente dal 2007 a oggi, la giustizia “fai da te” di Hamas, fuori dalla legge e dai codici, ha fatto il suo corso senza interruzioni. Senza timbri e carte bollate, la colpa, la sentenza e la pena sono state scritte dagli uomini mascherati su pezzi di carta affissi sui muri accanto ai cadaveri senza nome dei nemici dello “stato islamico”, dell’ordine costituito in nome di dio. Sergio D'Elia

Stretta di mano tra Rabin e Arafat. La ratifica degli «Accordi di Oslo». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Settembre 2022.

«Rabin e Arafat, storica stretta di mano a Washington»: è il 14 settembre 1993 e in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» compare la foto simbolo dell’intesa raggiunta tra il primo ministro israeliano e il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Si tratta della ratifica dei cosiddetti Accordi di Oslo, che prevedono l’istituzione di un’Autorità nazionale palestinese ad interim su Cisgiordania e Gaza, il graduale ritiro militare israeliano dai territori occupati e il trasferimento dei poteri civili alla nuova entità amministrativa.

Con una dichiarazione, inoltre, Israele accetta come rappresentante del popolo palestinese l’OLP, che a sua volta riconosce il diritto d’Israele a esistere. Quella stretta di mano, dopo anni in cui le due parti hanno rifiutato ogni possibilità di dialogo, suona come un momento di svolta per la pace in Medio Oriente.

«Yitzhak Rabin, il 71enne comandante di tante guerre contro gli eserciti arabi, e Yasser Arafat, l’ex terrorista che per quasi mezzo secolo ha promesso al suo popolo la distruzione di Israele, si sono stretti la mano per dare ai bambini israeliani e palestinesi un futuro di speranza e di pace»: così inizia la cronaca della solenna cerimonia tenutosi alla Casa Bianca. «L’accordo che il Ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres e il collaboratore di Arafat Mahmoud Abbas hanno firmato ieri mattina sullo stesso tavolino su cui fu firmato l’accordo di Camp David, sotto gli occhi attenti del segretario di Stato Warren Christopher e del ministro degli esteri russo Andrei Kozyrev, è certo un accordo limitato, fragile e in molti punti volutamente ambiguo», commenta Gianna Pontecorboli.

«Visibilmente emozionato, quasi esitante di fronte all’enormità del passo che ha deciso di compiere, Rabin ha ricordato che “quello che ieri era un sogno, oggi è diventato un impegno. Abbiamo combattuto contro di voi, i palestinesi, e adesso vi diciamo con voce forte e chiara, basta sangue, basta lacrime, è finito il tempo dell’odio”. In confronto a Rabin, il leader dell’Olp è apparso più fiducioso, ha parlato con voce ferma: “Questo passo ha richiesto un grande coraggio e ancor più ne richiederà andare avanti”».

Dopo la cerimonia, Rabin è ripartito per Gerusalemme per celebrare il nuovo anno, mentre Arafat ha scelto di partecipare al «Larry King Show» «per spiegare le sue ragioni al largo pubblico», si legge sulla «Gazzetta».

L’illusione della pace non durerà a lungo. Gli Accordi verranno attuati solo parzialmente: gli israeliani non fermeranno l’espansione degli insediamenti e il malcontento nei territori occupati non farà che agevolare l’ascesa politica di Hamas.

Estratto dall'articolo di Rossella Tercatin per “la Repubblica” il 18 agosto 2022.

Israele avrebbe commesso «cinquanta Shoah». Lo ha dichiarato il Presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) Abu Mazen e non in un luogo qualsiasi, ma a fianco del Cancelliere tedesco Olaf Scholz a Berlino, lasciandolo letteralmente di sasso, in un episodio che secondo il suo portavoce «getta un'ombra sulle relazioni tra Germania e Anp».

In visita ufficiale per discutere la cooperazione internazionale a favore della popolazione palestinese , durante la conferenza stampa congiunta con Scholz martedì sera Abu Mazen si è trovato a rispondere alla domanda se avrebbe chiesto scusa a Berlino per i fatti di Monaco '72. Cioè le maledette Olimpiadi in cui un commando di terroristi palestinesi legati a Fatah, il partito di Abu Mazen, prese in ostaggio undici atleti israeliani, che furono uccisi insieme a un poliziotto tedesco.

«Se vogliamo concentrarci sul passato, fate pure», ha detto il presidente ai giornalisti, aggiungendo che poteva citare «cinquanta massacri» commessi da Israele, «cinquanta stermini, cinquanta olocausti». Se lì per lì Scholz non ha avuto la presenza di spirito di replicare, in seguito il cancelliere si è detto «disgustato». [...] 

Le parole di Abu Mazen hanno provocato sdegno tanto in Germania quanto nello Stato ebraico. «Mahmoud Abbas che accusa Israele di aver commesso "50 Shoah" mentre si trova sul suolo tedesco non è solo una disgrazia morale, ma una mostruosa menzogna», il commento di Lapid. [...]

«Il presidente Mahmoud Abbas riafferma che la Shoah è il crimine più efferato della storia umana moderna», si legge nel comunicato diffuso sull'agenzia di stampa Wafa, che sottolinea come il presidente intendesse parlare di «crimini» commessi dalle forze israeliane.

Tuttavia, l'87enne Abu Mazen, politicamente sempre più debole e incapace di mantenere il controllo della Cisgiordania, non è nuovo al negazionismo della Shoah. La sua stessa tesi di dottorato, discussa nel 1982, si intitolava "L'altra faccia: la relazione segreta tra nazismo e sionismo". Nello studio si ripete più volte l'idea che la cifra dei sei milioni di ebrei annientati fosse un'esagerazione. 

«Questo è il "dottorato" del Presidente dell'Anp. C'è da stupirsi che egli accusi Israele di compiere 50 olocausti? », ha commentato l'ambasciatore di Israele a Roma Dror Eydar. Durante la conferenza stampa ci sono stati altri momenti di tensione tra Abu Mazen e Scholz, come quando il cancelliere ha sottolineato che non condivideva l'uso della parola Apartheid usata da Abu Mazen per descrivere la situazione nei Territori palestinesi. A elogiare invece le parole del leader, altri esponenti di Fatah. «Siamo orgogliosi di te», si legge in un post di Fatah pubblicato sui social media, secondo quanto riportato dalla stampa israeliana.

 I napoletani sono suoi concittadini. Abu Mazen, i 50 olocausti di Israele e la vergogna della cittadinanza onoraria concessa da de Magistris. Andrea Aversa su Il Riformista il 21 Agosto 2022 

L’ultima l’ha combinata in Germania. A Berlino, dinanzi al Cancelliere Olaf Scholz, Mahmūd Abbās – noto come Abu Mazen – ha accusato Israele di aver commesso, «dal 1947 ad oggi, 50 olocausti in altrettanti località palestinesi». Si, ha utilizzato proprio quella parola “OLOCAUSTO”, pronunciata a casa di un popolo che con la shoah e il programmato sterminio degli ebrei ha un rapporto delicato e sofferto. Parole che non solo hanno offeso la storia e la memoria ma che hanno rappresentato una mistificazione e una narrazione fittizia del conflitto israelo palestinese. Purtroppo i napoletani sono concittadini di Abu Mazen.

A conferirgli la cittadinanza onoraria è stato il sindaco in bandana Luigi de Magistris. Ciò avvenne nell’aprile del 2013, quando l’ex primo cittadino raggiunse il suo acme di retorica e ideologia anti israeliana dinanzi al leader palestinese. Per l’occasione de Magistris annunciò che erano «state messe in campo una serie di iniziative tra la città di Napoli e le città di Nablus, Gerico, Betlemme e Gerusalemme». Progetti in settori quali la cultura, la ricerca, l’economia e l’imprenditoria. Che fine abbiano fatto tutte queste promesse nessuno lo sa. Il corteggiamento dell’estremismo arabo da parte di quella giunta non deve certo meravigliarci. Dema aveva il suo serbatoio elettorale nei centri sociali, ovvero quelle organizzazioni di estrema sinistra da sempre nemiche di Israele.

Ma ci sono stati altri episodi che hanno confermato la distanza dell’ex pm con lo stato ebraico. “Giggino” cercò di conferire la cittadinanza anche al terrorista Bilal Kayed; fece proiettare in Comune un film dal nome “Israele, il cancro”; ospitò nella sala consiliare un convegno con gli aderenti al Movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele; chiese in Consiglio, come se il suo fosse stato un governo autonomo e nazionale, di votare l’embargo militare ad Israele, benedicendo tutte le imbarcazioni che da Napoli si recavano provocatoriamente a Gaza; accolse a Palazzo San Giacomo i soli atleti palestinesi quando la città ospitò le Universiadi. Un curriculum, quello di de Magistris, del tutto sbilanciato verso una sola parte. Infine le ultime due gaffe. Prima, l’aver snobbato eventi e commemorazioni come l’inaugurazione di 9 pietre d’inciampo, installate in Piazza Bovio, per ricordare le vittime napoletane del genocidio voluto da Hitler: Amedeo Procaccia, Iole Benedetti, Aldo Procaccia, Milena Modigliani, Paolo Procaccia, Loris Pacifici, Elda Procaccia, Luciana Pacifici, Sergio Oreste Molco.

Poi, nel 2019, la nomina ad assessore alla Cultura di Eleonora De Majo (al posto di Nino Daniele, una decisione inspiegabile), la “regina” dei centri sociali. Quest’ultima aveva paragonato il sionismo al nazismo, definendo gli israeliani come dei «porci, accecati dall’odio, negazionisti e traditori finanche della loro stessa tragedia». L’ex primo cittadino, per smorzare gli animi, avrebbe potuto simbolicamente insignire della stessa onorificenza Shimon Peres, statista israeliano. Un passo indietro che avrebbe un minimo riequilibrato pesi e misure, anche rispetto ai rapporti con la comunità ebraica locale. Ma chi è Abu Mazen. Oltre ad essersi laureato con una tesi con forti denotazioni negazioniste, il leader palestinese non ha mai preso nette distanze dal terrorismo islamico. Dal 2005 è ininterrottamente Presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e presidente dello Stato della Palestina. In pratica, è come se in Italia un leader di partito diventasse e restasse premier per quasi 20 anni, senza che ci fossero più state le elezioni.

E anche in caso di consultazioni ci saremmo trovati di fronte a esiti elettorali “bulgari”. Cosa è questa se non una dittatura? Un regime che ha spremuto i palestinesi e causato l’egemonia terroristica di Hamas nella striscia di Gaza. Per non parlare della presunta corruzione della quale Abu Mazen pare sia colpevole. Soprattutto in merito ai tanti miliardi che gli stati occidentali hanno versato nelle casse palestinesi. A cosa sono serviti tutti quei fondi? A trovare la pace, una soluzione ai due stati, a migliorare le condizioni di vita dei palestinesi o a riempire le tasche dei loro rappresentanti politici? Non lo sappiamo. Sarebbe un bel gesto se il sindaco Gaetano Manfredi revocasse la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen. Un piccolo grande passo di discontinuità rispetto alla precedente amministrazione. Andrea Aversa

ANTONIO ROSSELLO il 15 agosto 2022 su corrierenazionale.net.

Una riflessione di Igor Belansky.

Il nostro illustratore, Igor Belansky, ha da sempre focalizzato la sua vena artistico documentale nell’ambito della storia contemporanea. In questa occasione, però, porge ai lettori un suo contributo scritto. E lo fa entrando in un argomento che è da decenni scottante, che è fonte spesso di un dibattito assai autoreferenziale e poco informato: l’eterno ritorno della guerra in Israele. Una questione controversa che, con ripetitività ossessiva, declina in sé stessa elementi come la rappresaglia, le sofferenze, i diritti violati, l’odio che separa due popoli, su cui si scaldano anzitutto due minoranze militanti, nel grande mare della più totale indifferenza.

La prima fazione, più numerosa e con salde radici a sinistra (come pure in una determinata destra anti-araba) fa leva sulla tragedia palestinese. La seconda, assai più sparuta, postula che Israele è l’unica democrazia del Medioriente, il che diventa un vero e proprio slogan in difesa del Paese della stella di David. Ad ogni nuova recrudescenza di questa interminabile guerra, le due parti si fronteggiano senza quartiere, ovunque sui media, ora più che mai rete, in chiave offensiva o difensiva, con i loro post, la loro controinformazione o la loro propaganda da tifoseria calcistica.

Ecco come nasce l’anti-dialettica tra quelli per cui “Israele ha sempre torto” e quelli per cui “Israele ha solo e sempre ragione”. Questo ovviamente non stupisce, come non stupisce  (non solo sul web, anche sulla carta, ma perché no in famiglia o nei bar…) la polarizzazione estrema con cui, in ossequio a Zygmunt Bauman, ogni discussione in questa società fluida si origina. Il dramma è che manchino vieppiù le riflessioni pacate e l’analisi dei fatti scevra da partigianeria e ideologia, in sfregio alle grida di dolore, di rabbia e di guerra che si levano non solo dal tremendamente massacrato Medioriente, ma pure da altri – ahimè troppi – sanguinanti angoli del mondo.

Tutto ciò premesso, vediamo come in forma originale la pensa Belansky.

ISRAELE

Per molte persone Israele passa per l’invasore nei confronti dei palestinesi.

La situazione, però, è un pò diversa.

Gli ebrei non hanno invaso militarmente l’attuale Israele, hanno comprato le terre dagli sceicchi della zona, che furono ben contenti di vendere zone desertiche.

Pensavano di ingannare gli ebrei dandogli terre che mai avrebbero immaginato che sarebbero state coltivate.

Allora i palestinesi cominciarono a lamentarsi degli ebrei, ma ormai, era troppo tardi.

Oggi, siamo sempre nella stessa situazione.

I palestinesi rivogliono le terre dagli israeliani, che ovviamente dicono di no, forti del fatto che le terre le hanno comprate . Igor Belansky

Per Luzzatto gli ebrei sono “Un popolo come gli altri”. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista l'11 Agosto 2022 

Amo profondamente i libri di Sergio Luzzatto. Parliamo di uno dei maggiori storici italiani della contemporaneità, formatosi alla Normale di Pisa e alla École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dove ha preso un doppio Ph.D. Cattedratico di Storia Moderna presso l’Università di Torino per vent’anni, attualmente è Emiliana Pasca Noether Chair in Modern Italian History presso la Univesity of Connecticut.

Uno storico rigoroso e anticonformista

Lì, sulla Costa Est statunitense, sta lavorando sui nostri anni di piombo, dopo un recente, bellissimo testo biografico sulla figura di Guido Rossa, Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa (Einaudi, 2021, pp. 256, €15,20), a cui Luzzatto è legato da molti fili, non ultimo la comune genovesità.

Unico italiano vincitore del Cundill History Prize

Ma i campi di specializzazione del prof Luzzatto spaziano dalla Storia italiana dell’Otto e Novecento, alla Storia francese del Sette e Ottocento, includendo anche gli Studi ebraici del Novecento. Non manca una nota di eclettismo, testimoniata dal tagliente saggio su Padre Pio, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento (Einaudi, 2007, pp. 420, €22,80) che ha vinto il Cundill History Prize nel 2011. Il Premio Cundill è considerato uno dei più prestigiosi premi storici di saggistica a livello mondiale. Ad oggi, Luzzatto è l’unico vincitore del Cundill Prize il cui libro non è stato originariamente pubblicato in inglese.

L’affaire “Pasque di sangue”

I suoi libri, così come le sue recensioni ai libri di altri colleghi, sono state a volte al centro di grandi polemiche perché Luzzatto ha il dono di essere uno studioso assai rigoroso, ma nient’affatto conformista. Sa parlare e scrivere in modo franco e sa ragionare in modo laico, senza ossequi verso nessuna corporazione. Sa prendere posizione, Luzzatto. Soprattutto quando si tratta di difendere la qualità e l’originalità del lavoro di un collega attaccato da tutta la sua comunità. Mi riferisco alla recensione (celebre, per la microcomunità di noi storici) che Luzzatto fece, il 6 febbraio 2007,  sul Corriere della Sera, all’assai discusso volume Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, di Ariel Toaff (Il Mulino, 2007; seconda edizione riveduta 2008), il figlio del  rabbino capo di Roma, Elio Toaff.

Toaff e Luzzatto contro tutti

Per quella recensione per lo più elogiativa di un libro che scavava in quanto ci potesse esser di storicamente vero riguardo a una delle tematiche che hanno nel tempo alimentato la fobia antisemita – il fatto che alcuni ebrei fondamentalisti askenaziti usassero, nel Rinascimento, rapire e uccidere bambini cristiani per utilizzarne il sangue nei riti della Pasqua, da mescolare al pane azzimo – lo stesso Luzzatto si  trovò nell’occhio di una tempesta ben più grande di lui. Toaff indagava i confini fra “mit” e “rito” e aveva scoperto che, in almeno un caso – quello di Simoncino di Trento, del 1475 – era accaduto un omicidio rituale in ambienti di fondamentalisti ebraici askenaziti. Le fonti di Toaff erano soprattutto giudiziarie di matrice inquisitoriale, confermate poi da fonti successive, sempre cattoliche. Lo studio di Toaff si era speso intorno alla questione della maggiore o minore attendibilità delle confessioni estorte sotto tortura, analizzando le spie lessicali e culturali che potevano far propendere per una loro eventuale genuinità.

Questo tipo di ermeneutica risultò subito inaccettabile per la comunità ebraica italiana, che si tuffò a demolire non solo lo studio – e fin qui, nulla di male – ma anche l’autore e financo i suoi recensori positivi.

Così, sia Toaff che Luzzatto furono stigmatizzati  “da una sedicente intellighenzia ebraica legata all’Unione delle comunità israelitiche italiane” (p. 11) il giorno stesso dell’uscita della recensione (quindi senza che avessero potuto leggere lo studio di Toaff), e poi da altri storici e dal rabbino capo di Roma dell’epoca, Riccardo Di Segni. Al termine di quell’ondata di maccartismo fuori tempo, Ariel Toaff dovette piegarsi e far uscire un’edizione del suo Pasque di sangue riveduta, mentre il governo d’Israele (Toaff insegnava presso l’Università Bar-Ilan di Tel Aviv) dovette disporre nei suoi confronti una protezione armata a causa di tutte le credibili minacce di morte che gli erano arrivate.

Il caso “Partigia”

Anni dopo, quando Sergio Luzzatto pubblicò  il volume Partigia (Mondadori, 2017, pp. 415, €15), che presenta un Primo Levi negli inediti panni di complice della fucilazione di due membri della sua banda di partigiani, avvenuta il 13 dicembre 1943, prima di essere deportato ad Auschwitz, il riverbero di quella sua recensione positiva al testo proibito di Toaff sarebbe esploso nella richiesta di censura da parte di alti papaveri della dogmatica dell’ebraismo. Fra gli altri, Gad Lerner che in una recensione su Repubblica arrivò a paragonare Luzzatto a Giampaolo Pansa. Sic.

L’ebreo come uomo normale

Dopo aver letto questo libro Un popolo come gli altri. Gli ebrei, l’eccezione, la storia (Donzelli, 2019, pp. 310, €19,50, ho come l’impressione che Luzzatto viva la religione al modo in cui la vivo io: da laico, da razionalista, da agnostico e da scettico. Se questa sensazione è corretta, è facile comprendere il perché di questo titolo non poi tanto sibillino, preso da una frase di Vladimir Ze’ev Jabotinsky, apolide e rivoluzionario di professione: “Un popolo come gli altri”, teso a dimostrare che uno storico non deve parlare di “storia ebraica” ma semmai di “storia degli ebrei” e che, dopotutto, parliamo di un popolo che è come gli altri, quindi non è eletto, non è speciale, non è migliore degli altri. Di questo popolo non dobbiamo studiare solo la storia dell’antisemitismo che – per carità – è importante, ma non deve e non può esaurire l’intero spettro delle ricerche sulla storia degli ebrei.

Gli ebrei, un popolo come gli altri

Il testo è una raccolta di interventi di Luzzatto in vari ambiti di storia degli ebrei, dagli elzeviri del Corriere della sera, ad articoli più lunghi, forse pubblicati in occasioni accademiche. Si divide in 4 sezioni e una premessa fondamentale. Le 4 sezioni sono “Prima”, “Durante”, “Primo” e “Dopo”, dove il fulcro è la Shoah e dove “Primo” sta per “Primo Levi”. Gli interventi di Luzzatto sono dunque collocati in queste sezioni a seconda si occupino di storia medievale o rinascimentale o moderna (Prima), o di Shoah (Durante) o di Primo Levi (Primo) o di ciò che si è scritto vent’anni dopo la fine della Shoah, concentrandosi soprattutto sul conflitto arabo-israeliano. Luzzatto è un convinto critico delle politiche del governo d’Israele, e non le manda a dire.

Consigli utili per letture future

L’intento dell’autore in questo zibaldone è quello di raccontare diversi aspetti di storia degli ebrei, anche se c’è una tendenza a preferire la storia del Novecento. Luzzatto recensisce volumi che ha giudicato fondamentali – fra gli altri La tigre sotto la pelle. Storie e parabole degli anni della morte, di Zvi Kolitz, dove si incontrano personaggi della Shoah titanici, come la mamma che va a cercare la figlia cremata fra i papaveri, e la ritrova e la porta con sé sotto forma di due fiori rossi, e il più celebre I fratelli Oppermann di Lion Feuchtwanger, citato anche da Primo Levi, che possiamo definire la risposta della borghesia ebrea tedesca a I Buddenbrook.

Ne vien fuori una collezione di interventi brevi davvero preziosi, che funzionano anche come indice dei libri da leggere sugli ebrei. La premessa, poi, è salace, profonda e sorprendente, ed è dove appunto si richiama il terremoto culturale in seguito alla recensione del volume di Toaff.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 10 agosto 2022. 

Paul Pogba non ha mai avuto paura di mostrare bandiere, lui stesso potrebbe definirsi così, nome di un calcio ancora ribelle e indipendente, talento che a volte non ha reso al meglio anche perché fuori dal sistema. Oggi, rientrato alla Juve dopo 6 anni al Manchester United, torna a sostenere la causa di Gaza: «Allah protegga il nostro popolo». Idealmente sventola di nuovo i colori della Palestina, come ha fatto davvero, in campo, nel maggio del 2019. 

Oggi aggiunge un post alle sue storie di Instagram, non lo ha scritto lui, lo prende da un account che si definisce «Islam is my deen» (l'Islam è la mia guida) e si limita a lasciarlo come è, con le facce dei bambini uccisi nei bombardamenti dei giorni scorsi, prima del cessate il fuoco mediato dall'Egitto che regge, come sempre su precari equilibri. Il testo scarno è una denuncia: «Bambini uccisi. Nessuna notizia. Ma siete umani?». La Palestina elenca i minorenni morti, 16, il più piccolo di 4 anni e Israele fa altri conti, dà altri numeri e allontana le responsabilità. In mezzo alla faida la gente continua a soffrire e Pogba sa bene da che parte stare.

Il campione del mondo si è convertito già da stella del pallone, in tempi recenti. Sua madre è musulmana, ma non l'ha cresciuto secondo i principi della religione, lui ne ha sentito il bisogno quando ricco e famoso ha capito di non avere un proposito. Di non avere chiari i valori che servono per mettere in fila ciò che conta ed evitare di farsi stravolgere da ogni cattiva notizia: «L'Islam mi ha dato una identità. A volte mettiamo in discussione la vita per qualsiasi stupidaggine, serve un fulcro».

 Se oggi Pogba, infortunato e lontano dal campo per più di un mese, scrive, «vedi il buono in ogni cosa» è per il culto che segue. È per l'esempio di Muhammad Ali che lui ha scelto come punto di riferimento: «Il Corano mi ha detto come affrontare le mie giornate, Ali è come me, un uomo che si è convertito per capire la sua storia».

Qualche anno fa Pogba ha iniziato a pregare con gli amici, si è confrontato con i numerosi colleghi praticanti, è stato alla Mecca, poi ha semplicemente capito «che cosa mi avrebbe messo in pace». E ha individuato esempi. E ha scelto le lotte, molte cause e quella palestinese abbracciata subito senza temere di finire in mezzo alle critiche, di essere contestato. Non è il tipo che si lascia spiegare che cosa fare.

 Su tutte le questioni vuole decidere in proprio, lo ha fatto anche sul suo menisco, dopo vari consulti e in accordo con la Juve, ma ha avuto lui l'ultima parola: ha optato per una terapia conservativa, non proprio la più consigliata, per poter riprendere a giocare prima ed essere ai Mondiali del Qatar, i primi in un Paese arabo. Gli interessa per difendere il titolo con la Francia, gli interessa per quel che rappresentano. Nel 2019, la bandiera palestinese gli è stata calata dalla tribuna, lanciata da un tifoso e lui l'ha raccolta e non ha esitato.

Non si è limitato ad alzarla: dopo la partita contro il Fulham, ha fatto il giro del campo con il compagno Amad Diallo, ivoriano e musulmano. Erano altri giorni di bombardamenti e di morti, anche allora ha pubblicato la foto sui suoi profili e anche allora si è scatenato il solito rumore di fondo. Sul conflitto arabo-israeliano non si muovono solo i differenti fronti, pure degli interessi. Diversi giocatori hanno litigato con i propri sponsor per aver manifestato solidarietà a Gaza. 

Pogba ha reso il suo credo evidente, tutti sanno come la pensa, i marchi che lo accompagnano e le squadre che lo vogliono quindi la Juve non può essersi stupita. Neanche se pochi giorni fa era a Tel Aviv dove avrebbe dovuto giocare un'amichevole contro l'Atletico Madrid. La partita è saltata proprio perché la situazione era instabile, pericolosa. Pogba è fermo e non si è dovuto porre il problema del viaggio.

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 agosto 2022. 

Caro Dago, sono strazianti le foto che il calciatore francese islamico Paul Pogba ha offerto alla commozione di tutto il mondo, le foto dei quattro bellissimi bambinetti palestinesi rimasti uccisi nell’attacco israeliano contro un edificio dove s’erano riuniti alcuni terroristi islamici.

Una gang ancor più feroce e inconsulta di Hamas, il raggruppamento politico palestinese che governa e domina lo spicchio di terra palestinese che ha nome Gaza. Quello da cui Sharon fece ritirare con la forza i coloni ebrei che vi si erano insediati e dove a un certo punto Hamas scalzò con la forza la leadership del ragionevole Abu Mazen (delfino di Arafat). 

E in quell’occasione i gentiluomini di Hamas commisero gesti molto eleganti tipo quello di legare il cuoco di Abu Mazen, portarlo al secondo piano di non so più quale edificio e scaraventarlo giù. Cose di cui dubito che venga un gran vantaggio ai bambinetti palestinesi e che Allah ne sia orgoglioso. 

Da allora la politica di Hamas è quella votata alla distruzione di Israele, e a tal uopo fanno un grande uso di missili e razzi indirizzati a grappoli sui civili israeliani, e ogni volta a un certo punto Israele reagisce, e ogni volta ne muoiono dei civili palestinesi, ivi compresi donne e bambinetti. 

E’ il regno dell’orrore, ma come potrebbe essere diversamente dato l’assunto di partenza dell’Hamas fomentata dagli iraniani? Sanno fare solo quello, sparare alla cieca contro un’entità militare che ogni volta li sovrasta e questo al costo di vite umane, ahimé tante. Se ne stanno cheti per un po’, per poi ricominciare.

Certo che la situazione di Gaza è disperata, lo sarebbe di meno se chi la governa spendesse non in armi i soldi che riceve da tutto il mondo, da un mondo che assiste sgomento e impotente a quella disperazione. 

Governata con altri criteri e non più votata alla distruzione dello Stato degli ebrei, Gaza potrebbe diventare tutt’altro sito che quello della disperazione. 

Le parole “pace” e “convivenza fra i diversi” ne potrebbero fare un luogo dove l’esser palestinese sarebbe meno disperante e senza sbocchi. Sta a loro scegliere quella pista, il non offrirsi ogni volta all’inevitabile e furibonda rappresaglia israeliana. Spero che lo stesso Pogba sia d’accordo con questo modo di vedere le cose.

"Allah protegga i palestinesi": il post di Pogba che nasconde la verità su Gaza. Andrea Muratore su Il Giornale il 10 agosto 2022. 

Paul Pogba è tornato a spendersi per la causa di Gaza e della Palestina partendo dal suo profilo Instagram. Il centrocampista della Juventus, campione del mondo con la Francia nel 2018 e ritenuto tra i maggiori talenti della sua generazione, ha ripreso in una storia un post raffigurante i volti di sei dei bambini morti nei recenti combattimenti a Gaza tra l'esercito israeliano e la Jihad Islamica palestinese.

Durante l'operazione Breaking Dawn, nella scorsa settimana, Israele è intervenuta contro una delle forze che controllano la Striscia di Gaza. I caccia hanno bombardato diversi obiettivi nell'enclave palestinese, uccidendo Tayseer al-Jabari, comandante della Pji nel nord della Striscia. In pochi giorni un cessate il fuoco è stato raggiunto, ma tra i raid dello Stato ebraico e i lanci di missili dalla Striscia, una volta di più, è stata la popolazione civile a essere colpita dal fuoco incrociato.

Il post di Pogba, in tal senso, riporta i volti di sei dei sedici bambini uccisi nei combattimenti postati dall'account "Islam is My Deen", con sede a Londra, accompagnandolo con l'invito "Allah protegga i palestinesi". L'account in questione, nel post originale, aggiunge il fatto che non c'è stata "copertura mediatica" nella diffusione dei nomi e dei volti dei bambini uccisi. I quali, va detto, sono stati però indicati con nome, cognome e immagine in un articolo di Al Jazeera, una delle testate più importanti al mondo, che da tempo segue con attenzione le violenze nella Striscia di Gaza. E anche Nbc News ha dato risalto al drammatico fatto.

Non è la prima volta che Pogba solidarizza con la causa palestinese, e il fatto di per sé sarebbe comprensibile essendo il giocatore tornato da poco a Torino dal Manchester United un musulmano praticante fedele alle sue radici. Poco più di un anno fa, al termine della partita di Premier League tra Manchester United e Fulham, insieme al compagno Amed Diallo fece un giro di campo a Old Trafford mostrando una bandiera palestinese ricevuta da un tifoso. Il punto problematico del post in questione è il rischio di una strumentalizzazione dei bambini uccisi a Gaza per fini politici.

In primo luogo, il post esce a scontri finiti e accompagnato da un perentorio hashtag #StopTerrorism, a indicare la convergenza tra l'azione militare israeliana e vere e proprie manovre volte a seminare il panico a Gaza in maniera brutale. In secondo luogo, sulla causa delle morti dei bambini trucidati a Gaza c'è ancora grande incertezza. Così come spesso accaduto sul fronte dei combattimenti tra israeliani e palestinesi nell'ultimo ventennio, causa di 4mila vittime di cui un quarto bambini, c'è grande confusione. Chi è il responsabile? L'aviazione israeliana o il confuso fuoco di controbatteria della Jihad Islamica?

L'esercito israeliano a tal proposito ha presentato ciò che dice essere una prova video che mostra che sette persone uccise a Jabaliya sabato notte, inclusi quattro bambini - in quello che i media palestinesi hanno affermato essere un attacco israeliano - sono state in realtà uccise da un missile della Jihad Islamica il cui lancio è fallito e che è atterrato all'interno della Striscia. Chiaramente tutto questo si può inserire nel quadro della propaganda bellica o nel giudizio sul tema, ma ogni evidenza deve essere analizzata ed eventualmente confutata prima di arrivare a giudizi definitivi.

Secondo quanto riferito dal Times of Israel, "l'esercito israeliano crede che la maggior parte dei bambini uccisi a Gaza durante i tre giorni di combattimenti di questo fine settimana siano morti a causa di esplosioni causate da lanci di razzi falliti da parte di agenti terroristi palestinesi e non a causa degli attacchi israeliani. Secondo un rapporto non fornito della domenica sul quotidiano Haaretz, i militari ritengono che la Jihad islamica palestinese sia responsabile di almeno 12 delle 16 morti di bambini segnalate dal ministero della Salute di Hamas a Gaza nei combattimenti".

Infine, si ripropone con post popolarizzati da un'atleta di fama globale come Pogba il mantra dell'utilizzo dei bambini a fini "iconografici" per giustificare messaggi politici. Una pratica diffusasi in forma virale nell'era dei social ma che lascia poco spazio a quello che dovrebbe essere un ragionamento serio sulla natura orribile di ogni guerra e delle sue conseguenze. Il nemico, in ogni raffigurazione, è sempre descritto allo stesso modo: violento, terrorista, uccisore di donne e di bambini. La costruzione del "mostro" attorno al nemico non citato ma lasciato intendere essere tale, in questo caso Israele, parte per Pogba proprio dal volto di bambini di cui si sa solo che sono morti, uccisi in una guerra più grande di loro, senza alcuna possibilità di consolazione per le loro famiglie. Buon senso vorrebbe che si cercasse di costruire, per loro, la strada della ricerca della verità sulle loro morti e, per i bambini di Gaza e di tutte le altre aree in crisi del mondo, un reale sentiero di pace. Un compito decisamente più nobile e utile di quello di utilizzare i volti di chi è stato strappato precocemente alla vita per denunce che durano giusto il tempo di una storia. Ma che è decisamente troppo complesso per le star dell'attivismo social.

Gaza, nuovi raid israeliani nella notte. Ucciso uno dei capi della Jihad. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.  

Ancora attacchi delle forze di Tel Aviv. Presidiati i luoghi di rito. Nei precedenti rai, secondo il ministero della Salute palestinese, ci sono stati 24 morti (sei bambini) e 203 feriti. 

L’esercito israeliano ha continuato a colpire Gaza durante la notte in risposta al lancio di razzi, mentre si teme l’acuirsi delle tensioni a Gerusalemme in occasione delle celebrazioni per il Tisha B’Av, una festività ebraica. Lo riferisce il Times of Israel, precisando che i luoghi dei riti sono presidiati da massicci schieramenti di polizia. Numerosi pellegrini già attendono di poter accedere alla Spianata delle Moschee, dove è stato vietato l’accesso agli uomini al di sotto di una certa età.

La Jihad palestinese ha intanto confermato, mentre l’operazione «Breaking Dawn» entra nel suo terzo giorno, la morte dell’alto comandante Khaled Mansour che si aggiunge a quella di Tayseer Jabari, avvenuta due giorni fa durante i raid israeliani. Ucciso, secondo la stessa fonte, il comandante dell’unità missilistica delle Brigate Al-Quds, Raafat al-Zamili, «martirizzato» negli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza.

I media palestinesi - riporta sempre il sito del Times of Israel - riferiscono poi di 7 feriti negli attacchi israeliani vicino a Rafah, dove sarebbe stato colpito un edificio residenziale. L’esercito israeliano, in un tweet in lingua inglese, afferma di aver preso di mira presunti tunnel terroristici utilizzati dalla Jihad islamica.

Intanto il ministero della Salute palestinese ha comunicato che è salito a 24 il bilancio delle vittime degli attacchi dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Tra i morti si contano 6 bambini, precisa il dicastero, mentre i feriti sono 203. Da parte sua, in una nota, il governo israeliano ha negato di aver colpito nelle ultime ore la località di Jabalia, dove sono morti dei bambini. «È stato dimostrato che si è trattato di un razzo della Jihad islamica non partito correttamente», si legge nel comunicato.

Davide Frattini per corriere.it il 6 Agosto 2022.   

Un rettangolo di muro si stacca dalla parete del palazzone nel centro di Gaza: dove prima c’era una finestra adesso c’è un buco grande il triplo che espelle polvere e fiammate. Dove prima i capi della Jihad Islamica erano seduti a complottare attacchi — secondo l’intelligence israeliana — non resta che la morte. 

L’operazione «Sorgere dell’alba» inizia con l’uccisione di Taysir al Jaabari (assieme ad almeno altre dieci persone, tra loro anche una bambina di cinque anni) e prosegue con 19 arresti all’alba di sabato tra i capi della Jihad islamica in Cisgiordania occupata. Gli ufficiali spiegano di aver fatto arrivare ad Hamas il messaggio di starne fuori, vorrebbero che questa rimanesse una mini-guerra contro la Jihad, sanno che le probabilità sono basse: 25 mila riservisti sono già stati richiamati, le strade attorno alla Striscia bloccate, le batterie anti-missile Iron Dome piazzate attorno a Tel Aviv. L ‘esercito israeliano ha riferito in una nota sabato mattina che soldati e agenti dell’agenzia di sicurezza interna Shin Bet hanno arrestato 20 persone in raid mattutini nella Cisgiordania occupata, «di cui 19 sono agenti associati all’organizzazione terroristica della Jihad islamica palestinese».

La rappresaglia annunciata nel pomeriggio è arrivata alle nove di sera, come promesso dai portavoce islamisti. Lanciati 160 razzi in poche ore, tra venerdì e sabato — intercettati nel 95% dei casi dal sistema Iron Dome — verso le città a nord di Gaza, sempre le prime a finire sotto il fuoco quando questi conflitti ciclici si riaccendono. Nel gergo in ebraico dei militari sono chiamati sivuv, parola che a Fania Oz-Salberger, figlia del romanziere Amos, suona fatalista e disperata: un altro giro del dolore che sembra inevitabile, nella Bibbia indica i cicli del sole. E dell’Alba appunto.

Jaabari è stato eliminato perché sarebbe stato lui a guidare la squadra incaricata di vendicare l’arresto cinque giorni fa di Bassam al Saadi, 61 anni passati più dentro che fuori le prigioni israeliane: tra i leader a Jenin, nel nord della Cisgiordania, è sospettato di voler organizzare attacchi contro gli israeliani. Gli analisti si aspettavano che le operazioni in Cisgiordania avrebbero aperto il fronte di Gaza. Così è successo. L’intelligence aveva preparato il pubblico con informazioni filtrate ai giornalisti di cose militari: la Jihad stava definendo gli ultimi dettagli di un attentato con razzi-anticarro da sparare al di là della barriera su obiettivi civili.

Ancora una volta in questi ultimi anni Israele va in guerra durante una campagna elettorale. Yair Lapid è premier da un mese e mezzo, un capo del governo ad interim (almeno fino alle elezioni dell'1 novembre) su cui le fazioni palestinesi potrebbero aver voluto mettere pressione. La coalizione che ha presieduto con Naftali Bennett fino alla crisi era nata proprio dopo gli undici giorni di scontro a maggio dell’anno scorso. In mezzo i civili: gli abitanti delle città israeliane colpite dai razzi (una cinquantina solo nei primi minuti), i due milioni di palestinesi stretti a Gaza sotto il dominio di Hamas in un corridoio di sabbia lungo 41 chilometri e largo dai 6 ai 12. Pochi possono uscirne per l’embargo israeliano contro i fondamentalisti, mentre il valico a sud controllato dagli egiziani resta quasi sempre chiuso dal 2007, da quando Hamas ha tolto con le armi il controllo della Striscia all’Autorità palestinese.

L'escalation nell'operazione Breaking Dawn. Altissima tensione tra Israele e Gaza: missili e bombardamenti dopo l’eliminazione del leader islamico. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Agosto 2022 

Esplode di nuovo la tensione tra Israele e il gruppo palestinese del Jihad Islamico nella Striscia di Gazza. Gli attacchi reciproci sono continuati per tutta la notte tra venerdì e sabato. Tel Aviv aveva lanciato un’operazione nella striscia con diversi raid venerdì: almeno una decina di morti e 55 feriti. Eliminato, nell’operazione che ha determinato l’escalation e che era stata battezzata “Breaking Dawn” un capo del gruppo radicale, Taiseer al Jabari. Altre 19 persone ritenute a capo dell’organizzazione sono state arrestate.

Israele ha fatto sapere che dei 160 razzi lanciati dalla Striscia il sistema difensivo Iron Dome li ha intercettati quasi tutti. Una sola persona risulta ferita dalla scheggia di un razzo. Aperti comunque i rifugi antiaerei nelle cittadine israeliane al confine con la Striscia. Chiuse al pubblico zone considerate a rischio, tra cui alcune spiagge.

La notte ha invece visto due attacchi aerei e bombardamenti da terra da parte di Israele nella Striscia. Il ministero della Salute Palestinese ha comunicato una vittima e un ferito, a Khan Yunis. Un altro militante palestinese di 15 anni era stato ucciso nei giorni scorsi in un conflitto a fuoco scaturito dall’arresto, in Giordania, di un leader del gruppo Jihad Islamica, il comandante 61enne Bassam al Saadi. E un altro leader dell’organizzazione, Ziad al Nakhalah, aveva annunciato l’inizio di una “guerra senza tregua per rispondere a questa aggressione”.

Giornalista di Al Jazeera uccisa in Cisgiordania: “Shireen Abu Akleh colpita deliberatamente alla testa”

Jaabari era ritenuto l’incaricato della vendetta per l’arresto dell’altro leader islamico in Giordania, perciò sarebbe stato colpito. Hamas, che governa la Striscia di Gaza popolata da circa due milioni di palestinesi, aveva accusato di crimini di guerra Israele.

Gli scontri in corso sono tra i più intensi da quelli del maggio 2021, in una guerra di 11 giorni che aveva lasciato sul terreno oltre 200 palestinesi e 12 israeliani. Nell’operazione “Breaking Down”, ha precisato il ministero palestinese è morta anche una bambina di cinque anni. Israele aveva parlato di azioni preventive contro attacchi imminenti del gruppo islamico. Il primo ministro israeliano Yair Lapid aveva parlato di “una precisa operazione antiterroristica contro un pericolo immediato”.

L’operazione “Breaking Dawn” dovrebbe durare circa una settimana. Hamas al momento non ha preso parte ai lanci di missili dalla Striscia. Sarebbero in corso delle trattative mediate dall’Egitto per disinnescare l’escalation. Le strade attorno alla Striscia sono state bloccate. Israele è in campagna elettorale, si vota l’1 novembre.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

La vita di Shimon Peres, un racconto per capire meglio Israele. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.  

Su Netflix il documentario sull’ex presidente è interessante per ricostruire i negoziati con la Giordania, gli accordi di Oslo, la cooperazione tra arabi ed ebrei 

Su Netflix è possibile vedere «Il talento di sognare: la vita e gli insegnamenti di Shimon Peres» («Never Stop Dreaming: The Life and Legacy of Shimon Peres»), un documentario sulla vita dell’ex presidente dello Stato d’Israele. Prodotto dal regista Richard Trank, sorretto dalla voce narrante di George Clooney, il film è un insieme di interviste con l’ex presidente israeliano e con i membri della sua famiglia, ma anche con i suoi amici più cari e una lunga lista di leader mondiali che lo hanno conosciuto. Tra loro, l’ex primo ministro britannico Tony Blair, l’ex premier israeliano Benjamin Netanyahu e gli ex presidenti degli Stati Uniti Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama.

Nato nell’attuale Bielorussia, emigrato con la famiglia nella Palestina mandataria (governata dagli inglesi), ebraicizza poi il suo nome Persky (letteralmente «persiano»: l’attrice Lauren Bacall, all’anagrafe Betty Persky, era sua cugina) in Peres, fonda il suo kibbutz e inizia la sua lunga attività politica, ora falco ora colomba: attivista nel movimento socialista dei lavoratori, formidabile organizzatore della difesa ebraica Haganà, a 27 anni direttore generale del ministero della Difesa, a 36 deputato della Knesset, quindi leader della sinistra, ministro della Difesa (fu lui ad autorizzare l’Operazione Entebbe) e degli Esteri e delle Finanze e dei Trasporti e dell’Informazione e dell’Immigrazione e di molte altre cose, infine due volte premier e presidente d’Israele.

Il film è molto interessante per ricostruire i negoziati di pace tra Israele e Giordania nel 1994, gli accordi di Oslo con il leader palestinese Yasser Arafat e, più ingenerale, la cooperazione tra arabi ed ebrei. Shimon Peres (1923-2016), la cui vita si intreccia con quella dello Stato Ebraico fin dalla sua fondazione nel 1948, è riuscito grazie al suo carisma a diventare un modello per le future generazioni, un leader amato e rispettato.

Nasce Israele ed è subito conflitto. La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 maggio 1948. Annabella De Robertis  su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 maggio 2022.

«Al suono solitario di una cornamusa scozzese, sir Cunningham, Alto commissario per la Palestina, ha lasciato stamane Gerusalemme, ponendo così termine al mandato britannico sulla Palestina». «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 15 maggio 1948 con queste parole annuncia ai suoi lettori una notizia di importanza storica: la nascita dello Stato di Israele. «La sera prima sir Cunningham aveva rivolto un messaggio di addio alla popolazione palestinese facendo appello alla comprensione tra ebrei e arabi residenti in Terrasanta».

Il corrispondente da Londra spiega che nelle ultime ore si è riunito il Consiglio nazionale ebraico, che si è espresso in questi termini: «... proclamiamo la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina che prenderà il nome di Israele. Lo Stato sarà aperto a tutti gli immigranti ebrei, promuoverà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà basato sui precetti di libertà giustizia e pace insegnati dai profeti ebrei, garantirà la piena uguaglianza di razza, religione o sesso e assicurerò piena libertà di educazione e di cultura». I membri del Consiglio ebraico, inoltre, hanno promesso piena uguaglianza di diritti e di rappresentanza in tutti gli organi dello Stato alla popolazione araba e auspicano l’istituzione di relazioni pacifiche con i Paesi confinanti. Si tratta di un primo, inutile tentativo di mettere in atto la risoluzione 181, il piano proposto dall’Onu nel novembre 1947 per la spartizione della Palestina in due Stati, respinto dalla comunità araba. Poche ore dopo l’annuncio della nascita di Israele, gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano invaderanno il territorio dello Stato appena nato.

Uccisa Shireen, la giornalista-star di Al Jazeera. Ma Israele attacca: "Non abbiamo colpito noi". Fiamma Nirenstein il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.

Stati Uniti, Onu e Unione europea chiedono un'inchiesta indipendente.

Quando un giornalista muore sulla linea del fuoco è un dramma per tutto il mondo, e purtroppo accade spesso, come si vede anche in Ucraina. Quando questo accade sul fronte del conflitto israelo-palestinese tuttavia la reazione è diversa da ogni altra, molto simile a una condanna pubblica senza processo. Qui Israele è il condannato preventivo del grande accusatore, la rete, il movimento, i politici. Shireen Abu Akle, la giornalista 51enne di Al Jazeera uccisa ieri da un proiettile a Jenin, in Cisgiordania, era seguita e apprezzata da decine di milioni di telespettatori: filopalestinese sempre sul campo, convinta che gli israeliani fossero responsabili di crimini da raccontare al telespettatore, spiegava il suo impegno in prima fila dai tempi dell'Intifada, dicendo che «voleva essere vicina al popolo e portare la sua voce al mondo». Una posizione politica consona al ruolo di Al Jazeera, jihadista e amante dei palestinesi (tutti noi giornalisti l'abbiamo incontrata, agile e articolata, e la notarono anche gli autori di Fauda, che hanno tratto da lei l'ispirazione per il nome della dottoressa, Shireen, protagonista della serie Netflix). Alla notizia della sua morte, i siti per la «causa palestinese» e i notabili della battaglia si sono mobilitati nell'accusare Israele di «terrorismo di stato», come ha detto il ministro degli Esteri giordano Ayman al Safadi, o il ministro degli Esteri del Qatar, il paese che di Al Jazeera è lo sponsor e che finanzia, notoriamente, Hamas; Abu Mazen si è spinto a dichiarare la morte della Abu Ahla una esecuzione, e di là dall'oceano la deputata Rashida Tlaib dal Congresso americano, attivista palestinese nota, ha detto che Israele deve essere processata dalla corte internazionale. Da Israele si chiede che i palestinesi accettino, cosa che per ora hanno rifiutato, una commissione formata dalle due parti, più garanti, che esamini la realtà dei fatti. Un'inchiesta indipendente la chiedono anche Stati Uniti, Onu, Unione europea. La prima ricerca dovrebbe essere sul proiettile che ha ucciso Shireen. Il primo ministro Naftali Bennett, il Capo di Stato Maggiore Aviv Kohavi, il ministro della Difesa Benny Gantz («non c'è stato fuoco dell'esercito verso giornalisti, mentre abbiamo materiale sul fuoco indiscriminato dei palestinesi»), tutti rifiutano la condanna preventiva e anzi pensano che sia probabile che il fuoco inaccurato dei terroristi sia responsabile del tragico episodio, e chiedono che una commissione faccia luce. Poiché Shireen era anche americana, può darsi che in vista della visita di Biden, in giugno a Gerusalemme e a Ramallah, si accetti un'indagine. Comunque siano, purtroppo, andate le cose, l'esercito era a Jenin perché è la città da cui muove una percentuale impressionante di terroristi, compresi quelli di quest'ultima ondata. In un documento filmato ieri, uno degli abitanti spara col kalashnikov e urla «ho colpito un israeliano, è a terra». Ma non risulta nessun israeliano colpito. In Israele l'ipotesi è che, per un equivoco, la persona colpita sia Abu Akle. Ma occorrono le perizie necessarie, altrimenti non si saprà cos'è successo, qualsiasi cosa dicano i palestinesi.

Il New York Times: "Il proiettile che ha ucciso la giornalista di Al Jazeera proveniva da un convoglio israeliano". Massimo Basile su La Repubblica il 20 Giugno 2022.

Un'inchiesta del quotidiano americano conferma quanto sostenuto anche da Ap e Bellingcat sull'uccisione di Shireen Abu Akleh a Jenin, in Cisgiordania

Il proiettile che l’11 maggio ha ucciso la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh è partito da una zona in cui si trovava l’esercito israeliano. E’ la conclusione a cui sono arrivati i giornalisti del New York Times e che conferma l’ipotesi già avanzata da altri media. La giornalista di Al Jazeera, 51 anni, volto conosciuto per i suoi reportage in prima linea, si sentiva al sicuro a Jenin, in Cisgiordania, quando è stata uccisa: aveva il giubbotto antiproiettile, l’elmetto protettivo, la scritta “Press” a caratteri giganti.

L'inchiesta sulla morte della reporter di Al Jazeera. Shireen Abu Akleh, per la morte della giornalista il New York Times accusa Israele: “Proiettili sparati da un loro convoglio militare”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

A poco più di un mese dalla tragica morte di Shireen Abu Akleh, la giornalista 51enne palestinese-americana di Al Jazeera uccisa durante un reportage a Jenin, in Cisgiordania, piovono nuove accuse nei confronti dell’esercito israeliano.

A metterle nero su bianco è una inchiesta pubblicata dal New York Times, che conferma di fatto le ricostruzioni già pubblicate nelle scorse settimane da Cnn, Washington Post e Bellingcat: a sparare e uccidere la reporter sono stati i militari israeliani.

A nulla è valso per Shireen Abu Akleh indossare un elmetto protettivo ma soprattutto il giubbotto antiproiettile con la scritta ‘Press’ a caratteri cubitali: contro di lei, probabilmente intenzionalmente, anche se su questo punto lo stesso giornale sottolinea di non avere prove certe, sono stati esplosi ben 16 colpi di proiettile.

Al termine di una indagine portata avanti per un mese, il quotidiano americano ha smentito così la ricostruzione israeliana fatta dallo stesso esercito e dal premier Naftali Bennett, che aveva tirato in ballo l’ipotesi che la morte della giornalista potesse esser stata provocata dal ‘fuoco amico’ dei palestinesi armati.

Nulla di tutto ciò è accaduto l’11 maggio scorso a Jenin, è invece la tesi del Nyt. Secondo quanto ricostruito i proiettili sono stati esplosi da un soldato di un’unità d’élite in un convoglio militare israeliano distante circa 300 metri dal luogo dove si trovava Shireen Abu Akleh, nei pressi del campo profughi di Jenin per seguire un’operazione militare israeliana nella zona.

Il Times ha sottolineato nella sua indagine che nella zona in cui si trovava la reporter di Al Jaazera non vi erano palestinesi armati, come confermato al quotidiano da sette persone, tra freelance e testimoni, presenti sul luogo dell’omicidio. I palestinesi più vicini alla giornalista erano distanti quasi 400 metri, una distanza che secondo gli esperti di balistica sentiti dal New York Times non è compatibile con la ricostruzione fornita da Israele.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Per l’Onu la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh è stata uccisa dall'esercito israeliano. LUCA SEBASTIANI su Il Domani il 24 giugno 2022

Un’inchiesta delle Nazioni unite ha concluso che la giornalista uccisa lo scorso 11 maggio sia stata raggiunta da colpi sparati dalle forze dell’esercito israeliano.

La giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, uccisa lo scorso 11 maggio, è stata raggiunta da colpi di armi da fuoco sparati dalle forze di sicurezza israeliane. È il risultato di un’inchiesta svolta dall’Onu.

«È profondamente inquietante che le autorità israeliane non abbiano condotto un'indagine penale», ha detto Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni unite, in un briefing a Ginevra.

Shamdasani ha affermato che «i colpi che hanno ucciso Abu Akleh e ferito il suo collega Ali Sammoudi provenivano dalle forze di sicurezza israeliane e non dal fuoco indiscriminato di palestinesi armati, come inizialmente affermato dalle autorità israeliane».

Israeliani e palestinesi da giorni cercavano di addossarsi a vicenda la responsabilità dell’accaduto. Anche il funerale della giornalista era stato un momento di forte tensioni con le cariche delle forze israeliane sulla folla.

Shireen Abu Akleh, 51 anni, era una giornalista americano-palestinese, corrispondente di Al Jazeera e si occupava da oltre vent’anni del conflitto israelo-palestinese. Abu Akleh stava raccontando di un raid israeliano nella città di Jenin.

LA REAZIONE DI ISRAELE

Un portavoce militare di Israele ha risposto all’esito dell’inchiesta della Commissione dei diritti umani della Nazioni unite, sostenendo che Shireen Abu Akleh «non è stata colpita in maniera intenzionale da nessun soldato israeliano». Per il portavoce «ancora non è possibile determinare se sia stata uccisa da miliziani palestinesi che sparavano indiscriminatamente o inavvertitamente da un soldato israeliano». 

LUCA SEBASTIANI.  Giornalista praticante, laureato in Storia e con un master in Geopolitica e sicurezza globale. Scrive di esteri e politica internazionale.

Da open.online.it il 13 maggio 2022.

La polizia israeliana ha attaccato il corteo funebre per la giornalista palestino-americana Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio durante un’operazione delle forze israeliane nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Centinaia di persone si erano raccolte fuori dall’ospedale di Gerusalemme Est per accompagnare la bara verso la Chiesa per la celebrazione del funerale, cantando e sventolando la bandiera palestinese, (di cui Israele vieta l’esposizione in pubblico).

Come si vede nel video, la polizia ha iniziato a colpire le persone con manganelli, calci e granate stordenti, cercando di far indietreggiare la folla e provocando la caduta della bara. Le forze dell’ordine hanno dichiarato che la folla stava «disturbando l’ordine pubblico».

Davide Frattini per corriere.it il 16 maggio 2022.

Ha scelto lo stesso cortile in cui la polizia israeliana ha fatto irruzione, lo stesso ospedale che ha conservato il corpo di Shirin Nasri Abu Aqla prima che la bara venisse accompagnata al cimitero sul Monte degli Ulivi. 

Pierbattista Pizzaballa — il Patriarca latino di Gerusalemme, l’autorità cattolica più alta nella città e nel Paese — condanna l’intervento delle squadre antisommossa durante i funerali per la giornalista di Al Jazeera: «Siamo sconvolti. Le ragioni di sicurezza non possono giustificare le cariche che offendono la sensibilità della comunità cristiana e non solo».

Gli agenti hanno colpito con i bastoni la folla davanti alla clinica San Giuseppe nella parte araba, non hanno risparmiato gli uomini che stavano trasportando il feretro, uno di loro è scivolato, la bara ha rischiato di cascare a terra. 

Attacco che Tomasz Grysa, l’inviato del Vaticano, definisce «una violazione brutale della liberà religiosa, diritto fondamentale incluso nell’accordo tra Israele e la Santa Sede». 

L’ordine di interrompere il corteo – hanno raccontato i giornali locali – è stato dato dal capo della polizia, pur in viaggio all’estero: le squadre avrebbero risposto al lancio di pietre ma soprattutto sono intervenute per strappare le bandiere palestinesi sventolate dalla gente in omaggio alla reporter, ormai diventata un simbolo politico.

Shirin è stata ammazzata mercoledì scorso durante gli scontri tra le forze speciali israeliane e i miliziani palestinesi a Jenin, nel nord della Cisgiordania: il canale satellitare di proprietà del Qatar accusa i soldati di aver freddato la giornalista, ne sono convinti anche i palestinesi che hanno eseguito l’autopsia. I portavoce di Tsahal spiegano che per avere certezze su chi l’abbia uccisa è necessario analizzare il proiettile. Per ora i palestinesi aprono a un’inchiesta internazionale, si rifiutano di condividere il bossolo con gli israeliani.

Ancora tensione al funerale della giornalista uccisa in Cisgiordania. Rossella Tercatin su la Repubblica il 13 maggio 2022.

Il suono delle campane, ma anche l’insistente frastuono delle pale degli elicotteri. Grande commozione ma anche forti tensioni. Una lunga processione con migliaia di persone ha accompagnato l’ultimo viaggio di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa mercoledì in Cisgiordania e sepolta sul Monte Zion dopo il funerale celebrato nella Chiesa di Sant’Andrea nella Città Vecchia di Gerusalemme. 

Un funerale ancora una volta teatro di violenza: mentre il corpo della giornalista lasciava l’ospedale, le forze dell’ordine israeliane hanno caricato i partecipanti, inclusi coloro che portavano la bara, che a un certo punto ha rischiato di cadere per terra. A provocare l’intervento secondo quanto comunicato dalla polizia, lancio di pietre e canti nazionalistici da parte di “centinaia di manifestanti” che hanno “disturbato l’ordine pubblico” e “costretto gli agenti a intervenire”.

Nata nel 1971 a Gerusalemme, palestinese di religione cristiana, Abu Akleh, era ormai diventata per i telespettatori palestinesi e nel resto del mondo familiare un volto familiare. Dal 1997 lavorava per il network qatariota ed era considerata un simbolo della causa palestinese, a cui dava voce attraverso i suoi reportage. È stata colpita alla testa durante uno scontro a fuoco tra esercito israeliano e miliziani palestinesi a Jenin, dove i soldati stavano conducendo un’operazione antiterrorismo.

A più di due giorni dalla morte della giornalista, lo scambio di accuse sulle responsabilità dell’accaduto non accenna a placarsi. I testimoni palestinesi  - incluso un altro giornalista che lavorava con Abu Akleh ed è rimasto ferito - l’Autorità palestinese e la stessa Al Jazeera hanno sin dall’inizio accusato Israele, sostenendo che i soldati abbiano deliberatamente preso di mira i membri della stampa che indossavano un giubbotto con la scritta “Press”. Dal canto loro, le autorità israeliane invece hanno inizialmente sostenuto che era “molto probabile” che Abu Akleh fosse stata uccisa dal fuoco dei miliziani, pur non escludendo in via definitiva l’ipotesi contraria. In seguito però, le dichiarazioni – tanto del Primo Ministro Naftali Bennett, quanto del Ministro della Difesa Benny Gantz e dei vertici militari – si sono fatte più caute, riconoscendo che a esplodere il colpo fatale potrebbe essere stato - inavvertitamente - uno dei soldati e chiedendo ancora una volta, così come nelle prime ore dopo l’uccisione, un’inchiesta congiunta insieme ai palestinesi con il coinvolgimento degli Stati Uniti, di cui la giornalista aveva la cittadinanza. La proposta però è stata ripetutamente respinta dall’Autorità palestinese che è attualmente in possesso dei resti del proiettile ritrovato nel corpo. “Israele ha richiesto un'indagine congiunta e la consegna del proiettile che ha assassinato la giornalista Shireen, noi abbiamo rifiutato e abbiamo affermato che la nostra inchiesta sarà completata in modo indipendente,” ha twittato il Ministro degli Affari Civili palestinese Hussein al-Sheikh. “Informeremo la sua famiglia, Usa, Qatar e tutte le autorità ufficiali e il pubblico dei risultati dell'indagine con la massima trasparenza. Tutti gli indicatori, le prove e i testimoni confermano il suo assassinio da parte di unità speciali israeliane”. Al momento, però, le indagini preliminari condotte dall’Istituto di Medicina Legale di Nablus, così come quelle dell’inchiesta interna dell’esercito israeliano non hanno raggiunto conclusioni definitive. Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, a uccidere Abu Akleh sarebbe è stato il proiettile di un M-16, usato dai soldati ma anche molto comune fra i miliziani.

Dalla fine di marzo Israele ha conosciuto una serie di attentati terroristici come non accadeva da anni, con un bilancio totale di 19 morti. In numerosi attacchi, i terroristi provenivano dalla zona di Jenin. Secondo fonti palestinesi invece sono state almeno una trentina nello stesso periodo le vittime degli scontri in Cisgiordania, durante le numerose operazioni militari condotte dall’esercito israeliano, inclusi alcuni civil6i. Dopo la morte di Abu Akleh le operazioni nell’area di Jenin sono proseguite. Venerdì a perdere la vita è stato anche un ufficiale dell’esercito israeliano, il quarantasettenne Noam Raz. Diversi anche i palestinesi rimasti feriti. 

Autogol del governo d'Israele. Un'inchiesta sulla sua polizia. Fiamma Nirenstein il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Dopo lo sdegno mondiale per la bara quasi ribaltata per l'azione degli agenti, il ministro apre l'indagine.

Gerusalemme. La condanna mondiale generale, o piuttosto la criminalizzazione, le parole sconsiderate, automatiche di tutte le tv e di molti leader contro Israele, l'accettazione della colpa anzi dell'intenzione criminale proposta dai palestinesi, il silenzio mondiale sul rifiuto di Ramallah di condividere un'indagine comune sul proiettile che ha ucciso Shirin Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa a Jenin, non contribuiscono alla ricerca della verità. Al contrario, la nascondono: sostenuti, i palestinesi non consentiranno mai l'esame delle prove. Così come aggiunge un elemento di confusione (che servirebbe bene a Douglas Murray per provare la tesi del suo ultimo libro che l'Occidente è il maggiore nemico di se stesso) il fatto che il ministro della Sicurezza israeliano Omer Bar Lev abbia istituito una commissione di inchiesta che indaghi sulla sua polizia e sugli eventi che hanno portato venerdì, durante il funerale, a scontri con la folla e quasi al rovesciamento, molto scioccante, della bara della povera giornalista.

La portavoce del presidente degli Stati Uniti Jen Psaki ha dichiarato le immagini «molto inquietanti», l'Ue si è detta «sconvolta». Lo stesso la Bbc, la Cnn, i giornalisti al funerale. Nessuno si è chiesto come sono andate le cose. La versione della polizia è che l'intento, forse non gestito con il garbo necessario, era quello di consentire un funerale ordinato e di sottrarre la bara a un gruppo di facinorosi che se ne era impadronito. È vero? Bar Lev sospetta di no insieme ai nemici di Israele, anche se quella è la sua polizia. Le forze dell'ordine invece che di fronte a un funerale si sono trovate di fronte a una manifestazione palestinese di massa (che non è come una manifestazione sindacale in Italia!) con le bandiere dell'Olp sventolate da una grande folla per le strade di Gerusalemme che gridava slogan si odio e di vendetta e ha anche lanciato di pietre. La polizia si è trovata in una situazione di esplosione politica e di violenza dopo giorni e giorni in cui con Ramadan la città è stata tormentata da attacchi terroristi e da scontri con i miliziani di Hamas e altre organizzazioni sulla Spianata delle Moschee. Quando la processione funebre è diventata la testa di un corteo dell'Olp non autorizzato, e le pietre hanno cominciato a piovere, si è fatta forse troppo sotto per impedirlo.

E allora tutte le peggiori congetture sull'aggressività israeliana, lasciando da parte quella palestinese, sono diventate carburante che ha preso fuoco. Vedremo: ma l'abbandono della polizia israeliana da parte del ministro in una situazione di attacco internazionale, ha qualcosa di oscuro e di inconsueto. Israele è uno stato democratico che ha il dovere di dar conto del suo comportamento, e quindi sarebbe stato logico che fornisse e anche rendesse pubbliche le risposte della polizia allo scandalo internazionale. Ma l'inchiesta significa una dilatazione del sospetto che toglie energia alle forze dell'ordine in un momento molto difficile, dopo tre settimane con 19 morti uccisi nelle strade, ai bar e nei negozi, in nome della stessa bandiera che ieri ha coperto coi suoi colori le strade della città. Inutile domandarsi cosa succederebbe a un cittadino israeliano che portasse la bandiera con la stella di David a Ramallah. Inutile anche domandarsi come mai se Israele è così esecrabile, il 93% dei cittadini arabi di Gerusalemme dicono che preferiscono essere israeliani rispetto alla prospettiva di una cittadinanza palestinese.

Israele e l'uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh. Piccole note il 13 maggio 2022 su su Il Giornale.

L’uccisione di Shireen Abu Akleh, una delle più autorevoli croniste di al Jazeera, sta incendiando il Medio oriente. L’assassinio è avvenuto a Jenin, mentre documentava un’operazione dei militari di Tsahal. Per al Jazeera e i palestinesi non ci sono dubbi sulla responsabilità dell’esercito israeliano (IDF). A dare voce al dolere di al Jazeera il potente e dolente J’accuse di Andrea Mitrovica, al quale rimandiamo.

Tel Aviv, ovviamente, si difende, affermando che a colpirla potrebbero essere stati anche i palestinesi impegnati nello scontro a fuoco con i soldati israeliani. E ha aperto un’inchiesta per accertare i fatti, chiedendo ai palestinesi di parteciparvi (ma al momento non sembrano intenzionati a farlo perché reputano l’accaduto fin troppo chiaro).

È un durissimo colpo per l’immagine di Israele, tanto che, come spiega Amos Harel, su Haaretz, l’Hasbara (la macchina della propaganda israeliana) è entrata in azione, producendo un fuoco di sbarramento che andava dalla difesa più o meno ragionevole dei soldati a dei veri e propri deliri: “Alcuni – scrive Harel – sono arrivati ​​addirittura a incolpare la stessa Abu Akleh per la sua morte: non è altro che propaganda pagata dai nostri nemici, hanno affermato, e dal momento in cui [la cronista] ha scelto di entrare in una zona di combattimento, il suo sangue è stato perso”.

Ma, dopo alcune ore dall’accaduto, “l’ipocrisia è svanita“, continua Harel e “il capo di stato maggiore Aviv Kochavi ha promesso che sarebbe stato effettuato un esame approfondito delle cose e ha espresso dolore per la morte” della cronista.

Quindi, “in serata, il capo del Comando Centrale, generale Yehuda Fuchs, ha rilasciato alcune interviste alle Tv nelle quali ha lodevolmente dichiarato quel che avrebbe dovuto essere detto fin dalla mattina: in quanto guida dell’IDF, sono responsabile di tutto ciò accade in questa terra. Non volevamo che accadesse. Apriremo un’inchiesta interna per verificare se la giornalista è stata uccisa accidentalmente da uno dei nostri” (quell’accidentalmente è atto dovuto, ma suona come un evidente limite; tant’è).

A contribuire a tale svolta, aggiunge Harel, “è stata senza dubbio l’inattesa rivelazione che Abu Akleh aveva la cittadinanza americana“. E però, al di là di quanto verrà appurato e dalla potenza dell’Hasbara, commenta il cronista di Haaretz, il tribunale dell’opinione pubblica mondiale ha già emesso il suo verdetto e condannato Israele. Resta solo da vedere quanto in alto divamperanno le fiamme dell’incendio innescato dall’uccisione della giornalista.

Quanto avvenuto cade in un momento più che critico per Israele e il suo governo. Negli ultimi due mesi il Paese ha registrato una serie di attentati senza precedenti nel recente passato.

Non solo, il già fragile governo sta anche subendo pressioni debite e indebite sul fronte interno. Significativa in tal senso la lettera contenente una pallottola inviata a Bennet, che ha preceduto un’analoga missiva inviata al figlio (Israel Hayom).

Non solo, il governo ha vacillato a causa delle fibrillazioni all’interno della coalizione: la Lista araba unita ha infatti minacciato di farlo cadere. Si era perfino iniziato a parlare di elezioni anticipate quando, in extremis, lo strappo è stato ricucito. Ma, proprio mentre Bennet annunciava lo sventato pericolo, giungeva la notizia dell’uccisione di Abu Akleh (uccisa l’11 maggio, un altra volta l’infausto 11).

Così la morsa sul governo Bennet continua a stringersi: da una parte le fiamme della nuova conflittualità arabo-israeliana, che oggi vede scontri a Jenin con rischi in aumento; dall’altra le fortissime pressioni interne, come dimostra l’allarme del premier, il quale ha dichiarato che Abbas, leader della Lista araba unita, è in pericolo e “potrebbe essere assassinato” (Haaretz).

Una morsa che vede Netanyahu attendere (attivamente) alle contorsioni degli avversari nella speranza di riprendersi lo scettro perduto.

Sullo sfondo di tutto ciò, la trattativa sul nucleare iraniano che, se non avrà un esito positivo, alimenterà il parossismo le tensioni tra Israele e Iran. Il negoziato avviato da Washington con Teheran sembrava ormai felicemente chiuso quando è scoppiata, imprevista, la guerra ucraina.

Da allora in poi le trattative sono andate in stallo. Gli oppositori del negoziato sono riusciti a trovare un modo per bloccarlo, usando come pietra d’inciampo lo status dei Guardiani della rivoluzione (IRCG), che l’Iran chiede che siano rimossi dalla lista nera del terrorismo (nella quale sono stati inseriti da Trump), riportando le cose a com’erano al tempo in cui è stato siglato l’accordo.

Ma nonostante il fatto che i democratici si dicessero scandalizzati dalla decisione di Trump, si oppongono a tale richiesta, pur consapevoli che non cambierebbe granché. Lo spiegava Pietro Beinart sul New York Times riferendo la testimonianza del segretario di Stato Anthony Blinken alla Commissione per gli affari esteri del Senato, nella quale affermava che gli Usa non hanno intenzione di cancellare l’IRCG dalla lista nera, almeno non senza che la controparte accetti delle “condizioni non meglio specificate che Teheran sembra riluttante a soddisfare. [Blinken] Ha anche avvertito i senatori che se non si dovesse trovare un accordo che blocchi i progressi nucleari dell’Iran le conseguenze sarebbero gravi. Per la repubblica islamica, ha stimato, produrre un’arma nucleare è ormai solo una ‘questione di settimane'” (evidente esagerazione).

“Detto questo – si legge sul Nyt – quanto ha aggiunto Blinken è ancora più scioccante. Ha infatti dichiarato che la designazione dell’IRCG come organizzazione terrorista non ha importanza. ‘In pratica’, ha spiegato, ‘la designazione non è di molta utilità perché sono in vigore tante altre sanzioni sull’IRGC’. Per sua stessa ammissione, l’amministrazione Biden sta mettendo a rischio l’accordo sul nucleare iraniano per niente” (una considerazione analoga è esposta in un articolo di  Yair Golan e Chuck Freilich su Haaretz, al quale rimandiamo).

Se abbiamo fatto questa digressione è perché un governo Netanyahu cambierebbe tante cose. Anzitutto sull’accordo suddetto, verso il quale l’attuale governo è contrario, ma senza prodursi in eccessi. Netanyahu, come ha dimostrato in passato, lo contrasterebbe in maniera ben più aggressiva.

Il cambio di guardia a Tel Aviv, inoltre, potrebbe cambiare anche l’approccio israeliano alla guerra ucraina, verso la quale Bennet persevera in una posizione di formale equidistanza tra le parti, pur inviando aiuti a Kiev.

Un eventuale governo Netanyahu potrebbe cambiare le cose, come sembra indicare un articolo di Timesofisrael pubblicato agli inizi maggio, dedicato alla campagna globale avviata da Zelensky per procurare armi al suo Paese: “Walla news ha riferito che Zelensky ha ricevuto consigli da Srulik Einhorn, il più importante consigliere del Likud di Netanyahu nelle ultime elezioni. Secondo Walla, [il presidente ucraino] si è anche consultato con Jonatan Urich, da tempo al fianco di Netanyahu, del quale è ancora portavoce”. 

Ps. Peraltro, si può notare che al Jazeera sta attraversando un periodo complicato rispetto alle autorità israeliane. Nella recente guerra di Gaza la torre che ospitava i suoi uffici è stata distrutta dai bombardamenti.

Scontro con l'Anp. Shireen Abu Akleh, Israele non aprirà un’indagine per la morte della giornalista palestinese di Al Jazeera. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Maggio 2022. 

Nessuna indagine in Israele per la morte di Shireen Abu Akleh, la nota giornalista palestinese-americana di Al Jazeera che l’11 maggio era stata uccisa mentre stava seguendo per lavoro un’operazione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale.

A comunicarlo oggi è stato l’esercito israeliano, che ha reso noto come la polizia militare, ovvero l’organismo interno che si occupa di presunti reati compiuti dal personale dell’esercito, non indagherà sulla morte della reporter 51enne.

Secondo l’esercito infatti non vi sono allo stato degli indizi che possano portare ad ipotesi di reato contro i militari israeliani presenti l’11 maggio nel campo profughi di Jenin, dove Shireen Abu Akleh è stata uccisa e il collega Ali Samodi, che lavora per il giornale Al-Quds è stato ferito alla schiena.

In un comunicato affidato al Jerusalem Post, l’esercito ha sottolineato come la morte della reporter di Al Jazeera non richiede l’apertura di una inchiesta in quanto non vi è il sospetto che sia stato compiuto un reato.

Al momento la ricostruzione di quanto accaduto nel campo profughi di Jenin è incerta, con uno scambio di accuse tra Israele e l’Anp, l’Autorità Nazionale Palestinese, l’organismo politico di governo della Palestina. Il 13 maggio scorso l’esercito aveva pubblicato un rapporto provvisorio in cui si sottolineava che “non è possibile stabilire l’origine dei fuoco che ha colpito” Shireen Abu Akleh.

Il rapporto menzionava due scenari: il primo è che fosse stata raggiunta da un “fuoco massiccio, di centinaia di proiettili” indirizzato “in maniera non controllata” da miliziani palestinesi verso veicoli militari israeliani; il secondo che sia stata colpita da proiettili sparati da un militare israeliano, dalla fessura all’interno di una jeep, dopo aver mirato a un “terrorista” palestinese. “Per scegliere una delle due possibilità – afferma l’esercito – occorre compiere una perizia balistica professionistica sul proiettile estratto dal corpo della giornalista”.

L’Anp ha accusato i soldati israeliani di aver ucciso la giornalista, ma ha impedito di effettuare l’autopsia sul corpo della reporter e non ha voluto consegnare alle autorità israeliane il proiettile estratto dalla testa della giornalista, impedendo quindi di fare una perizia per appurare da chi fosse stato sparato.

“Abbiamo respinto l’indagine congiunta con le autorità israeliane perché sono loro ad aver commesso il crimine e perché non ci fidiamo di loro”, è stata l’accusa di Mahmoud Abbas, presidente dell’Anp, che invece ha intenzione di sottoporre la questione alla Corte penale internazionale “per perseguire i criminali” israeliani.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Davide Falcioni per fanpage.it il 7 settembre 2022.

C'è "un'alta possibilità" che la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh uccisa l'11 maggio scorso a Jenin, in Cisgiordania, sia "stata colpita accidentalmente" da proiettili esplosi dall'esercito israeliano, anche se "non è possibile determinare in modo inequivoco la fonte" dei colpi e "non c'è alcun sospetto che sia avvenuto un atto penale, tale da necessitare l'apertura di un'indagine".

Questo il risultato dell'inchiesta interna condotta dell'esercito stesso (Idf) sulla morte della reporter, uccisa circa quattro mesi fa durante una protesta organizzata da palestinesi a Jenin. La morte di Shireen Abu Akleh è dunque destinata a restare priva di una risposta definitiva sulle responsabilità, almeno secondo l'inchiesta ufficiale condotta dalle forze armate di Tel Aviv, che hanno ribadito una tesi già largamente anticipata subito dopo i fatti.

Le conclusioni sono state respinte dai palestinesi, che ancora una volta hanno imputato Israele del crimine. Secondo l'Idf, inoltre, sebbene sia probabile che il colpo che ha ucciso la cronista sia stato esploso da un suo soldato, resta "rilevante" la possibilità che "sia stata colpita da pallottole sparate dai palestinesi armati". 

Questo è il motivo per cui la Procura militare israeliana non aprirà un'indagine penale contro soldati visto che "non c'è alcun sospetto che sia avvenuto un atto criminale" tale da giustificarla. L'Idf ha ricordato inoltre che "va enfatizzato e chiarito che durante l'intero incidente, il fuoco dei soldati era indirizzato con l'intento di neutralizzare i terroristi che sparavano ai militari, anche dall'area dove si trovava Shireen Abu Akleh".

L'indagine – chiesta anche a livello internazionale e dagli Usa, visto che la reporter aveva anche la cittadinanza americana – ha avuto inizio nei mesi scorsi ed è avvenuta con la revisione "delle circostanze" della morte della giornalista attraverso una task force, anche tecnica, designata dal capo di Stato maggiore Aviv Kochavi. L'inchiesta ha ascoltato "i soldati coinvolti nell'incidente" (si parla di un'unita del battaglione Dudvedan), la cronologia degli eventi, i rumori sul posto, dall'area dell'incidente e in particolare da quella dello sparo.

Al Jazeera denuncia Israele all'Aja per la morte della giornalista Shireen Abu Akleh: "Non fu uccisa per sbaglio". Poster con il volto di Shireen Abu Akleh agitati da dimostranti palestinesi e libanesi davanti al quartier generale delle Nazioni Unite a Beirut (ansa)

L'emittente: "Raccolte nuove prove". Il premier ad interim Lapid: "Nessuno interrogherà i nostri soldati". La Repubblica il 6 Dicembre

 Al Jazeera ha denunciato Israele alla Corte Penale internazionale dell'Aja per la morte della giornalista palestino-americana Shireen Abu Akleh, uccisa a maggio scorso a Jenin in Cisgiordania in scontri con l'esercito. Lo riferiscono i media secondo cui l'emittente del Qatar ha nuove prove che dimostrano che i soldati israeliani spararono direttamente verso la giornalista.

"La tesi che Shireen sia stata uccisa per sbaglio in uno scambio di colpi è completamente infondata", fanno sapere dal network. Al Jazeera ha precisato che le nuove prove si basano su nuove testimonianze di persone sul posto, sull'esame di video ed evidenze forensi.

"Nessuno interrogherà o indagherà i soldati dell'esercito israeliano", ha detto il premier ad interim Yair Lapid. "Nessuno ci può fare la morale sul comportamento in guerra, tanto meno la rete tv Al Jazeera", ha aggiunto Lapid commentando l'iniziativa del network del Qatar di denunciare Israele alla Corte Penale dell'Aja

Lo "sgarbo" americano al premier Netanyahu. "Un'inchiesta Fbi sulla reporter uccisa a Jenin". L'annuncio di Washington. Protesta anche Lapid in difesa dei soldati. Fiamma Nirenstein il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

A volte l'eccesso di machiavellismo può diventare paradossale. Biden abbraccia la Cina incurante di Taiwan per isolare la Russia, si può capire. Ma che allo scopo di mettere in difficoltà la formazione di un governo israeliano che potrebbe risultare poco gradito agli Stati Uniti, mobiliti l'Fbi per indagare il proprio migliore alleato, è un'intromissione smodata: se l'ipotesi fosse realistica, ha toni eccessivi. Ricorda un po' la ministra francese che ha avvertito l'Italia di essere sotto tutela, ha solo recuperato l'unità nazionale italiana. Così è quando si minaccia la sovranità nazionale. Alla Knesset oggi, passando la torcia a Netanyahu, Lapid ha detto così: «I soldati israeliani non saranno indagati dall'Fbi né da alcuna altra autorità di Paese stranieri. Non abbandoneremo i soldati a inquirenti stranieri, abbiamo inoltrato le nostre proteste». Più ancora, questo non si fa quando si inaugura una nuova fase politica, e quando tre persone sono state uccise in un attentato terroristico.

L'Fbi ha l'incarico di indagare la morte della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Ahleh, uccisa a Jenin l'11 maggio in un'operazione dell'esercito. Ma l'indagine era già stata compiuta dalla giustizia israeliana, accorta e severa, oltretutto con risultati trasparenti che ipotizzano la responsabilità involontaria dei soldati israeliani. Semmai, sono i palestinesi che si sono rifiutati di consegnare la pallottola. Dunque, cosa cerca l'Fbi? Immagina che i soldati abbiano ucciso volontariamente una giornalista? È un gesto di ricerca di giustizia o un tentativo di ostacolare il nuovo governo di Benjamin Netanyahu che potrebbe avere fra i suoi ministri «pericolosi estremisti di destra»? È forse un avviso? Lascia Smotrich e Ben Gvir a casa anche se portano 14 seggi? Israele ha un codice militare severo; e se non è certo scevro da errori, da «fuoco amico», da scambi a fuoco che possono colpire innocenti, pure la sua etica esclude i crimini di cui li accusano i palestinesi: apartheid, pulizia etnica, attacchi a civili e a bambini. Associarsi alla criminalizzazione è una mossa sbagliata, né si deve cercare di indurre un senso di colpa che impedisca ai soldati di difendersi: Jenin, dove Abu Ahleh è stata uccisa, è la città capitale del terrorismo, guai se i soldati non ci vanno con la volontà di battersi contro i terroristi che sparano da ogni parte, questo significherebbe altri attentati come quelli che nelle due settimane prima dell'operazione a Jenin hanno fatto strage di 19 israeliani.

Fra 1990 e 2020 sono stati uccisi in guerra 2.658 giornalisti, 12 erano di Al Jazeera, come Abu Ahleh, nessuno dei loro nomi è conosciuto in tutto il mondo: c'è da chiedersi perché. La stessa domanda vale per un'indagine straniera sui soldati responsabili. È un grande errore, come ha detto il ministro della difesa Benny Gantz. La richiesta riceverà un rifiuto, ha solo gettato un'ombra sui rapporti di fiducia Usa-Israele proprio mentre si forma il nuovo governo. Biden non rimetterà in discussione i risultati elettorali anche se non sono quelli che desiderava, né romperà l'unità di Israele sulla sovranità e il diritto all'autodifesa.

Israele, attacco terroristico a Tel Aviv: almeno due morti e dieci feriti. Ucciso l'attentatore. La Repubblica il 7 aprile 2022.  

L'attentato compiuto in tre posti diversi nei pressi di via Dizengoff nel centro della città. Sono almeno due le vittime e diversi i feriti, alcuni gravi. Hamas non rivendica ma loda: "Risposta naturale ai crimini di Israele".  

Sono almeno due i morti e diversi i feriti gravi della sparatoria avvenuta giovedì nel tardo pomeriggio a Tel Aviv, in Israele. L'attacco terroristico è stato compiuto in tre posti diversi nei pressi di via Dizengoff, zona centrale e affollata: lo ha detto il portavoce della polizia, Eli Levi. Secondo una prima ricostruzione della polizia gli attentatori sarebbero stati due, "uno dei quali è stato eliminato dalle forze di sicurezza, mentre l'altro è riuscito a scappare".

Ma notizie successive hanno indicato la presenza di un unico aggressore. Il sospettato, un cittadino palestinese del nord della Cisgiordania, è stato localizzato e ucciso nella notte nel corso di un conflitto a fuoco. Secondo la radio militare israeliana, l'uomo si trovava nel centro di Jaffa (Tel Aviv), nelle vicinanze di una moschea.

La polizia aveva invitato la popolazione a mettersi al riparo, a stare a casa lontana dalle finestre e a non disturbare le forze di soccorso. Nei video girati da cittadini dalle finestre si vedono persone in fuga per le strade e forze di polizia in assetto anti-sommossa che stanno setacciando la città in una caccia all'uomo. Il premier Naftali Bennett si è recato al ministero della difesa a Tel Aviv per seguire gli sviluppi. I clienti di bar e ristoranti hanno lasciato di corsa il proprio posto ai tavoli, ribaltando sedie e tavoli nella fuga. Molte le ambulanze che sono confluite sul posto, sono almeno otto i feriti soccorsi dei quali quattro in gravi condizioni. 

Il movimento islamico palestinese di Hamas ha lodato l'attacco sferrato nel centro di Tel Aviv: "Le operazioni di resistenza sono una risposta naturale ai crimini di Israele contro il popolo palestinese", ha detto alla televisione al-Jazeera un alto funzionario di Hamas, Mushir al-Masri. Il gruppo terroristico non ha però rivendicato la responsabilità dell'attacco.

Si tratta del quarto attacco in poco più di 14 giorni nel Paese, mentre è in corso il Ramadan e ci si prepara alla Pasqua ebraica, Pesach. La scorsa settimana, un palestinese in Cisgiordania aveva aperto il fuoco sulla folla nella città ebraica ultra-ortodossa di Bnei Brak, vicino a Tel Aviv, uccidendo cinque persone, tra cui due ucraini e un poliziotto arabo israeliano. Pochi giorni prima, due agenti di polizia, tra cui un giovane franco-israeliano, erano stati uccisi ad Hadera in una sparatoria rivendicata dall'Isis. Il 22 marzo, a Beersheva, città nel deserto del Negev meridionale, quattro israeliani hanno perso la vita in un attacco perpetrato da un insegnante condannato nel 2016 a quattro anni di carcere per aver pianificato di recarsi in Siria per combattere per Isis. I movimenti islamisti palestinesi di Hamas e della Jihad islamica avevano subito elogiato l'attacco. Sulla scia di questi attentati, l'esercito israeliano, la polizia e i servizi di sicurezza interna hanno arrestato dozzine di persone sospettate di avere legami con l'Isis in Israele e hanno intensificato le operazioni in Cisgiordania in particolare a Jenin, dove proveniva l'aggressore dell'attacco Bnei Brak.

Da quotidiano.net il 30 marzo 2022.

Cinque persone uccise e una ferita gravemente. E' il bilancio delle sparatorie avvenute questa sera in due località della città ultraortodossa di Bnei Brak, vicino a Tel Aviv. Si sarebbe trattato di un attacco terroristico. La prima sparatoria è stata segnalata attorno alle 20, ora locale: una persona è stata trovata morta dentro un'auto e altre due sono state uccise nel marciapiede vicino, su HaShnaim Street. Una quarta persona è stata uccisa in un'altra strada, non lontana, in Hertzl Street.  

La quinta vittima è l'assassino, che era in sella a una moto: il suo corpo è stato trovato in un'altra strada. Sarebbe un palestinese proveniente dalla Cisgiordania. Lo riferisce l'emittente Channel 12, citando fonti della sicurezza. Si ritiene che l'uomo possa aver avuto dei complici che lo hanno aiutato ad entrare in Israele. Un sospetto complice è stato arrestato.  

L'attacco, il terzo in pochi giorni in Israele, è avvenuto come detto a Bnei Brak, una cittadina alle porte di Tel Aviv, abitata prevalentemente da ultraortodossi, con un'alta densità di popolazione e un basso reddito. 

Il premier Naftali Bennet ha convocato per le 22 (ora locale) una riunione straordinaria di sicurezza sulla situazione in atto nel Paese. Alla riunione prenderanno parte il capo della polizia, il ministro della Pubblica Sicurezza, il capo di stato maggiore dell'esercito e il direttore dello Shin Bet. E intanto messaggi di tripudio sono stati pubblicati a Gaza da Hamas e dalla Jihad islamica dopo aver appreso dell'attacco a Bnei Brak. "La lotta armata continua, siano benedette le mani degli eroi", ha esclamato su twitter Mushir al-Masri, un portavoce di Hamas. Ahmed al-Mudallal (Jihad islamica) ha rilevato che l'attacco odierno segue quelli di Beersheva e di Hadera, di questa settimana. "Ciò dimostra che la resistenza è in una nuova fase. È una un'unica campagna che coinvolge tutti i palestinesi: a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme e nelle terre del 1948", ossia Israele. 

Israele, quattro morti in un attacco terroristico a colpi di coltello a Beersheva. La Repubblica il 22 Marzo 2022.

L'aggressore, ucciso subito dopo a colpi di pistola, sarebbe un beduino della zona che secondo le forze di sicurezza è ritenuto un sostenitore dell'Isis.

Quattro persone sono morte in un sospetto attacco terroristico a Beersheva, nel sud di Israele. Lo riportano i servizi di pronto soccorso Zaka. Ci sono anche feriti, uno o due dei quali sarebbero in gravi condizioni secondo le prime informazioni. Due delle vittime sono donne tra i 30 e i 40 anni. Morto anche un uomo di 35 anni. 

L'uccisione sarebbe avvenuta a colpi di coltello, secondo quanto riferito dal capo del Pronto soccorso della zona, citato dai media.  Una delle quattro vittime è stata uccisa travolta dall'automobile guidata dall'agressore. Al momento non si sa quanti siano i feriti.

L'attacco - secondo le prime informazioni - è avvenuto in un centro commerciale della città. L'aggressore - come mostrano anche le immagini di alcuni video sui social - è stato raggiunto da colpi d'arma da fuoco e, ha poi fatto sapere la polizia, è morto poco dopo. L'autore dell'attacco sarebbe un beduino della zona che secondo le forze di sicurezza era ritenuto sostenitore dell'Isis. "Un passante ha preso l'iniziativa e gli ha sparato, uccidendolo", ha detto il portavoce della polizia, Eli Levy, alla tv Channel 13.

La tensione è aumentata nelle ultime settimane in Israele e nei Territori palestinesi con l'avvicinarsi del Ramadan, il mese sacro per i musulmani (che quest'anno cade in aprile), A Gerusalemme Est e in Cisgiordania ci sono stati diversi attacchi all'arma bianca compiuti da palestinesi e alcuni sospetti assalitori sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane.

I movimenti islamisti palestinesi di Hamas e della Jihad islamica hanno elogiato l'attacco che ha causato quattro morti a Beersheva, nel Sud di Israele. "I crimini dell'occupazione saranno combattuti con operazioni eroiche: accoltellamenti, investimenti e sparatorie", ha detto un portavoce di Hamas alla radio ufficiale dell'organizzazione. 

Attentato in Israele, 4 morti a Beer Sheva. Davide Frattini su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2022. 

Un arabo israeliano ha colpito a morte 4 persone a Beer Sheva, ed è stato poi ucciso: è il terzo assalto armato a colpi di coltello in quattro giorni. E sale l’allerta per l’aumento della violenza a Gerusalemme.

Sabato un uomo è stato accoltellato e ferito a Gerusalemme. Il giorno dopo un poliziotto è stato assalito con un pugnale vicino alle mura della Città Vecchia, ferito. 

Adesso un altro attacco sempre con il coltell o, a Beer Sheva un beduino ha colpito nel mucchio. È arrivato in auto e ha pugnalato una donna a una stazione di benzina, è risalito sulla macchina per investire un ciclista, è sceso e ha accoltellato altre due persone. I morti sono quattro, 3 donne. 

L’attentatore – cittadino israeliano e abitante di un villaggio nel deserto del Negev – è stato ucciso da un autista di bus che era armato. Ha cercato di avvicinarsi, lo ha inseguito nel parcheggio e gli ha sparato quando l’uomo gli si è lanciato addosso. 

Nel 2015 Mohammed Abu Al Kian era stato condannato a quattro anni di prigione per aver cercato di organizzare ad Hura un gruppo di sostenitori dello Stato Islamico, insieme sarebbero voluti andare a combattere in Siria. 

Lo Shin Bet, i servizi segreti interni, avevano arrestato altri insegnanti di scuola come lui per aver incitato gli allievi ad appoggiare l’ideologia radicale dell’Isis. Al Kian predicava anche in una moschea del posto. 

Proprio ieri il premier Naftali Bennett aveva discusso di un possibile aumento della violenza a Gerusalemme. 

Il Ramadan inizia il 2 aprile e quest’anno coincide con la Pasqua ebraica. L’anno scorso erano state le proteste e gli scontri con la polizia durante il mese più sacro per i musulmani a portare agli 11 giorni di guerra con Hamas e la Jihad Islamica. Che da Gaza hanno esaltato l’attentato a Beer Sheva.

Israele, attacco dell'Isis. Torna la paura di attentati. Chiara Clausi il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.

A Beersheva 4 vittime: l'aggressore era vicino allo Stato islamico. Terzo episodio in quattro giorni.

È arrivato in macchina a un distributore di benzina. È sceso e ha accoltellato una donna, poi è tornato all'auto ed ha investito un ciclista. Quindi si è diretto in un centro commerciale. Ha lasciato l'automezzo, ha colpito a morte un altro uomo e un'altra donna. È stato poi abbattuto dai colpi d'arma da fuoco di un conducente di autobus sceso per soccorrere le persone aggredite. Sono per ora quattro le vittime di un attacco terroristico a Beersheva, nel sud di Israele. Due sono donne tra i 30 e i 40 anni. Morto anche un uomo di 35 anni. Secondo i media locali, l'aggressore, Muhammad Alab Ahmed abu Alkiyan, era un beduino arabo israeliano della città di Hura, a circa 19 chilometri a est di Beersheba. Dicono che avesse già scontato una pena in una prigione israeliana per reati alla sicurezza ed era noto ai servizi di sicurezza come un sostenitore del gruppo militante dello Stato islamico. Alkiyan è stato arrestato nel 2015, insieme a una serie di altri sospetti, per aver sostenuto e promosso l'Isis tra gli studenti di una scuola in cui insegnava.

Il premier Naftali Bennett ha espresso le sue condoglianze alle famiglie delle vittime, dicendo che «i civili che hanno sparato al terrorista hanno mostrato intraprendenza e coraggio e hanno impedito ulteriori vittime». Ha poi aggiunto che le forze di sicurezza sono in allerta e che lo stato opererà con mano pesante contro i terroristi e coloro che li assistono. I leader delle autorità beduine del Negev hanno rilasciato una dichiarazione in cui condannano l'attacco: «disapproviamo completamente qualsiasi violenza ed estremismo». Il leader dell'opposizione Benjamin Netanyahu ha chiesto «un'azione immediata per arrestare tutti i responsabili». Il portavoce di Hamas, Abd al-Latif al-Qanou, invece ha accolto con favore l'attacco, e anche il Jihad islamico si è congratulato per l'attentato.

Si tratta del terzo accoltellamento in quattro giorni in Israele. Domenica due agenti di polizia sono rimasti feriti in un attacco nel quartiere di Ras al-Amud, a Gerusalemme Est, mentre sabato, un uomo di 35 anni è stato accoltellato e lievemente ferito in Hebron Road, vicino alla stazione di Gerusalemme. È l'attacco più mortale in Israele da diversi anni. Il filmato della scena mostra un uomo barbuto in strada con in mano quello che sembra essere un grosso coltello, mentre il traffico continua. In un altro video, viene affrontato da un uomo con una pistola, che apre il fuoco quando l'aggressore si lancia verso di lui con il coltello. Proprio ieri c'era stato un incontro tra paesi dell'area. Bennett ha partecipato ad un meeting a Sharm El-Sheikh con il presidente Abdel Fattah El Sissi ed il principe degli Emirati, Mohammed bin Zayed. Secondo alcune fonti, il vertice ha voluto ribadire la posizione comune nelle trattative sul nucleare iraniano nella sua fase finale ed anche per l'intenzione, attribuita agli Stati Uniti, di togliere i «Pasdaran» dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 9 febbraio 2022.

«Abbiamo un software... siamo molto più avanti degli americani. Voglio che tu capisca: la mia conoscenza del tuo mondo, della tua vita, di quello che fai al lavoro, è totale. Pensa a quelle migliaia di lettere che sono passate attraverso le tue dita».

Quelle di Shlomo Filber, uno dei principali testimoni nei processi contro Benjamin Netanyahu. E di decine di israeliani che la polizia ha messo sotto sorveglianza digitale senza chiedere un permesso ai giudici.

Ha utilizzato lo stesso sistema di intrusione venduto dalla Nso, uffici in un cubo di vetri scuri a nord di Tel Aviv, ai regimi stranieri che lo hanno sfruttato per spiare gli oppositori. Lo stesso avrebbero fatto gli agenti delle unità investigative, rivela il giornale Calcalist , che hanno piazzato Pegasus nei telefonini dei leader delle proteste contro Netanyahu e pure in quelli dei consiglieri più stretti dell'allora primo ministro, hanno pedinato in virtuale i manifestanti per i diritti degli etiopi o quelli dei disabili, funzionari dei ministeri, sindaci, amministratori delegati.

Fino ad Avner Netanyahu, tra i figli del leader del Likud quello che resta fuori dalle questioni politiche di famiglia. Una delle giustificazioni offerte è stata che i poliziotti cercavano di individuare chi passasse ai reporter notizie riservate sulle varie inchieste, comprese quelle che hanno coinvolto Bibi - com' è soprannominato - e hanno portato al processo per corruzione.

La procura sostiene che nel caso di Filber le informazioni presentate dall'accusa sarebbero state recuperate in modo legale. La sua testimonianza, prevista per oggi, è stata comunque rinviata. Kobi Shabtai, il capo della polizia, ha dovuto accorciare il viaggio ufficiale a Dubai e tornare di corsa in Israele dove lo scandalo è diventato troppo complicato da gestire, «un barattolo pieno di vermi che sta per inondare le élite», come scrive Anshel Pfeffer, una delle firme migliori del quotidiano Haaretz .

Shabtai ripete che non sono state trovate prove di «infrazioni alla legge», il governo ha già creato una commissione «per valutare le violazioni dei diritti negli anni in questione». Anni in cui al comando delle forze c'era però Roni Alseich voluto da Netanyahu proprio perché arrivava dallo Shin Bet e avrebbe portato con sé «la cyber-tecnologia che sta diventando un aspetto importante in ogni azione dello Stato», come aveva proclamato l'allora premier alla cerimonia di insediamento.

I servizi segreti interni hanno sempre usato questi sistemi per controllare i palestinesi in «azioni anti-terorrismo, non sono stati però progettati per bersagliare i cittadini israeliani», dice adesso Naftali Bennett, che ha scalzato Netanyahu dal potere dopo dodici anni. L'ex premier in passato ha dispiegato quella che gli analisti chiamano «la diplomazia di Pegasus», dare il via libera governativo alla vendita del software - di fatto considerato un'arma - ai regimi con cui Israele è interessato a costruire relazioni. Adesso sta scoprendo che potrebbe aver contribuito alla sua caduta.

·        Quei razzisti come i libanesi.

Beirut, uomo armato entra in banca e prende in ostaggio dipendenti e clienti. La folla lo sostiene. Chiara Barison su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.

Il fratello del sequestratore ha chiarito: «Nostro padre è in fine di vita e non sappiamo come pagare le sue cure». Dal 2019 i conti correnti in euro e dollari sono stati congelati gettando migliaia di persone sul lastrico. 

La crisi del sistema bancario libanese sta portando all’esasperazione la popolazione. L’ultimo tragico effetto è l’irruzione di un uomo all’interno della Federal Bank di Beirut all’urlo di «Ridatemi i miei soldi!». Dopo essere entrato con una grossa tanica di benzina, ha preso in ostaggio alcuni clienti presenti nella filiale, oltre ai dipendenti. La sua richiesta può sembrare semplice: chiede che venga sbloccato il suo conto corrente, congelato ormai da tre anni.

Poco dopo la diffusione della notizia da parte della polizia libanese, una folla di persone si è riunita fuori dalla banca per esprimere la propria solidarietà nei confronti del sequestratore. Il fratello ha dichiarato ai media locali che il gesto è giustificato dalla malattia del padre: «È in fine di vita in ospedale e non sappiamo come pagare le sue cure», ha spiegato alla tv, «mio fratello è pronto a darsi fuoco se non riceverà quello che gli spetta». Ha aggiunto poi di non sapere dove possa aver trovato l’arma che si vede nei frame del video, perché è entrato «solo con la tanica di benzina».

Al momento, dopo una lunga trattativa con i poliziotti, il sequestratore ha rilasciato solo un anziano cliente. Sui social circola il video che mostra l’uomo, in evidente stato di agitazione, che gli agenti chiamano Bassam. Cammina nervosamente con l’arma puntata verso il pavimento e la sigaretta accesa nella mano sinistra.

Dal 2019 il cartello delle banche libanesi - d’accordo con la Banca Centrale - ha comportato il blocco di tutti i conti correnti e i depositi di investimenti in euro e dollari, nonostante i titolari siano cittadini libanesi. Allo stesso tempo, la moneta locale è stata colpita da una pesante svalutazione, arrivando a valere il 95% in meno rispetto al dollaro statunitense. Secondo l’Onu, la crisi che sta affrontando il Libano è la più grave di sempre e ha ridotto in povertà l’80% della popolazione a beneficio delle élite.

Il martirio di una nazione. Il futuro travagliato del Libano. Andrea Muratore su Inside Over il 4 agosto 2022.

Il Libano è una nazione in crisi. Un crocevia della storia mediorientale, della civiltà e dei rapporti tra Oriente e Occidente ancora oggi interessato da un notevole valore geopolitico e strategico. Dati nonostante i quali Beirut non riesce a uscire da una fragilità strutturale legata alla sua complessità interna, alle mire di ingombranti vicini, ai problemi della classe dirigente.

Negli ultimi quattro decenni guerre, invasioni, crisi interne hanno condotto il Libano più volte sull’orlo dell’abisso. E nell’ultimo biennio il Covid, la guerra in Ucraina e le dinamiche regionali mediorientali hanno messo più volte il Paese in ginocchio. Simbolo di questo processo è stato il terribile evento del 4 agosto 2020, giorno in cui una deflagrazione colossale ha devastato il porto di Beirut, causando centinaia di vittime.

La Ground Zero di Beirut è stata il simbolo del martirio del Libano. E proprio The Martyrdom of a Nation  è il titolo della quindicesima issue del magazine inglese di InsideOver, dedicata ai problemi atavici e al futuro complesso del Paese dei Cedri.

Il nuovo numero del magazine inglese di InsideOver

Si parte proprio dal ricordo di Beirut, dal devastante episodio del 4 agosto 2020 rivivendo il momento più problematico per la capitale libanese con il reportage di Ivo Saglietti, che si era recato nella città devastata poche settimane dopo la deflagrazione.

Il Ground Zero di Beirut nelle immagini di Ivo Saglietti.

La reporter Isabel Demetz investiga invece il futuro dopo l’esplosione nel porto parlando del recupero di un quadro di Artemisia Gentileschi, artista italiana del XVI secolo, che è stato danneggiato il 4 agosto 2020.

Art Lost in Tragedy: il reportage di Isabel Demetz

C’è spazio anche per le grandi complessità del Paese, che spaziano dalla religione alla politica nei due reportage firmati da Antonio Borrelli e Marco Ferraro che parlano del Libano contemporaneo e delle sue fragilità. Spaziando dalle voci dei cittadini preoccupati dalla crisi energetica a quelle dei militari impegnati nella missione Onu di stabilizzazione del Paese che garantisce i confini sulla Blue Line al confine Sud con Israele.

Le molte fonti di instabilità del Libano nel primo reportage di Borrelli e Ferraro

Il Libano calderone del Medio Oriente.

Infine, due pezzi di autori di spessore completano il quadro. L’analista statunitense Michael Young scrive un pezzo sulle grandi crisi strutturali vissute dal Libano e ci parla della grande tensione interna vissuta dal Paese e dalle istituzioni. 

La visione di Michael Young per il Libano di domani 

Lo storico britannico David Abulafia, invece, torna sulle nostre colonne e ci racconta del ruolo antico del Libano come crocevia della Storia e punto di contatto tra i popoli. Come porta del mare del Medio Oriente e bastione mediterraneo nella regione. Un ruolo di polmone ai rapporti tra uomini e nazioni che rappresenta anche oggi la chiave di volta per permettere al Paese di rinascere.

David Abulafia e la storia del Libano come paradigma.

Contrastata, dolorosa e a tratti tragica: la storia recente del Libano è importante, forse troppo turbolenta per questo piccolo lembo di terra al confine orientale del Grande Mare. Ma è il destino di questa terra, forse, produrre più storia di quanta ne riesce a digerire e interiorizzare. E così sempre sarà negli anni a venire. Con la speranza che il martirio del Paese dei Cedri possa avere fine.

Libano in Miseria. UN PAESE IN GINOCCHIO TRA CRISI ENERGETICA E ALLARME ALIMENTARE. Testo di Antonio Borrelli su Inside Over il 3 Agosto 2022.

Dall’aeroporto al centro di Beirut si attraversa un buco nero. La strada principale che collega lo scalo alla capitale è buia. Soltanto i cigli sono illuminati per qualche centesimo di secondo dai fari delle auto che sfrecciano nonostante il prezzo del carburante alle stelle. Intorno domina l’ignoto: dalle finestre dei palazzi non c’è luce, tutto è spento. Le case illuminate si contano sulle dita di un paio di mani. Sono i fortunati che possono permettersi un generatore di corrente elettrica, gli altri hanno al massimo qualche candela.

La crisi energetica

Da mesi, a causa della grave crisi energetica ed economica del Libano, non si riesce più a garantire la fornitura di energia elettrica per tutto il giorno, così i blackout sono sempre più frequenti. A Beirut, anche nei quartieri borghesi, capita che salti la corrente all’improvviso in qualsiasi momento e che torni nel cuore della notte. È l’effetto di una crisi energetica che in Libano è un’emergenza radicata (già nel 2018 l’azienda pubblica soddisfava soltanto il 63% della richiesta di elettricità nel Paese) ma che ora sta esplodendo e sta contribuendo ad aumentare le forti disuguaglianze. “Quando l’Occidente ci chiamava la Svizzera del Medioriente non sapeva realmente di cosa parlava”, commenta Rashid alla guida del suo taxi. 

Proteste all'indomani dell'esplosione di Beirut epa08592431 Un ferito manifestante antigovernativo libanese affronta la polizia antisommossa in una protesta a Beirut, Libano, 08 agosto 2020. La gente si è riunita per il cosiddetto "sabato delle corde sospese" per protestare contro i leader politici e invitarli responsabile dell'esplosione per essere ritenuto responsabile. Il 7 agosto il ministero della Salute libanese ha dichiarato che almeno 154 persone sono state uccise e più di 5.000 ferite nell'esplosione di Beirut che ha devastato l'area portuale il 4 agosto e che si ritiene sia stata causata da circa 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate in un magazzino.

Ad amplificare il dramma è la crisi economica del Paese, messo in ginocchio dall’esplosione del porto del 4 agosto 2020 e ferito in maniera irreversibile dalla guerra in Ucraina. Fino a due anni fa il Libano dipendeva per il 66% dal grano di cui aveva bisogno dall’Ucraina e per il 12 dalla Russia. Oggi non ha più linee di approvvigionamento e non può neppure contare su scorte di grano, finite in fumo con la drammatica esplosione al porto, un evento dal quale la città non si è ancora ripresa.

“È la terza volta che vengo e stavolta mi sono accorto che questa profonda crisi economica si percepisce”. A parlare è il colonnello Claudio Guaschino, comandante del Reggimento Lagunari “Serenissima” alla sua terza missione nel Paese dei Cedri. “Nell’atteggiamento della popolazione c’è una considerevole difficoltà nel garantirsi i servizi essenziali. C’è carenza di medicinali, difficoltà ad approvvigionare il gasolio, che peraltro serve per costruire i pozzi per estrarre l’acqua, e anche il prezzo del pane è salito alle stelle”. Guaschino, che è stato qui anche nel 2006, nel periodo più drammatico del conflitto tra Hezbollah e Israele, ha pochi dubbi: “La situazione di oggi mi pare persino peggiore di quella di allora. Se non si trova una soluzione a livello governativo, si rischia davvero il peggio”.

Un lavoratore conta soldi in una stazione di servizio nella città di Khalde, nel sud di Beirut, Libano, 18 maggio 2022. Alcune stazioni di servizio a Beirut sono state chiuse ai clienti a causa di una carenza di benzina. Le società in Libano stanno distribuendo benzina in quantità limitate, ma alcune stazioni hanno interrotto le forniture a causa di un ritardo nelle consegne di benzina e di un ritardo nel completamento delle transazioni di cambio in USD per le società importatrici. 

Malumori al Sud

Nel sud del Paese, costellato da piccoli villaggi, si vive persino peggio, come spiega Abdul Qader Safiyeddine, sindaco di Shama – villaggio a una manciata di chilometri dal confine con Israele: “Questi villaggi sono stati abbandonati dal governo libanese. Se c’è un buco in strada nessuno se ne occupa se non il contingente italiano di Unifil”. Shama, questo piccolo paesino di 4mila anime – terra di mezzo in un’area da sempre instabile – ha però legato le sue “fortune” (se così possono essere chiamate) alla base italiana dell’Onu che ospita nel proprio territorio.

Una foto diffusa dal Gabinetto del Ministro della Difesa il 17 giugno 2021. Il ministro Lorenzo Guerini nel pomeriggio ha presieduto – insieme alla ministra della Difesa francese Florence Parly ed al coordinatore speciale per il Libano delle Nazioni Unite, Joanna Wronecka – una video conferenza per discutere sul livello di operatività della Lebanese Armed Forces (Laf) e sulla loro capacità di compiere a pieno la loro missione, ritenuta “fondamentale per la stabilità del Paese e dell’Area”. 

“In tutti i villaggi di quest’area Unifil ha portato acqua nelle case dei libanesi costruendo pozzi, ha costruito muri di sostegno e rifatto le strade. Inoltre nella base lavorano 250 persone, tutte libanesi, che prendono lo stipendio in euro. Questo è per loro un grande aiuto per vivere”.

I prossimi mesi saranno cruciali per capire il destino del Libano e con esso di tutto il Medioriente.

Testo di Antonio Borrelli

Sotto la polvere di una tragedia. IL RESTAURO CHE RACCONTA LA TRAGEDIA DEL LIBANO. Testo di Isabel Demetz su Inside Over il 4 Agosto 2022.

Questo reportage è tra i vincitori del corso di reportage della Newsroom Academy tenuto da Daniele Bellocchio.

Quando si entra in una mostra d’arte, lo si fa spesso con la consapevolezza che i quadri esposti ci raccontano periodi lontani. Il quadro Maria Maddalena di Artemisia Gentileschi, al contrario, narra di un avvenimento recente: l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020.

L’esplosione

Verso le 17:40 del 4 agosto 2020, una grande colonna di fumo si innalza dal porto della città di Beirut, capitale del Libano. In uno dei suoi depositi è scoppiato un incendio. Alle 18:08, la città viene scossa da una delle esplosioni non-nucleari più grandi mai registrate nella storia. Del porto rimane un cratere, vetri, pareti e tetti vengono danneggiati nel raggio di 5 km, l’esplosione viene addirittura percepita fino a Cipro, a 200 km di distanza. Nella deflagrazione perdono la vita 218 persone, tra le quali i pompieri chiamati a combattere le fiamme. 7.000 persone vengono ferite gravemente e più di 300.000 rimangono senza una casa.

Nei giorni successivi si scopre la causa dell’esplosione: 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, confiscate da una nave mercantile nel 2014, erano state lasciate nel porto: avrebbero dovuto essere depositate lì solo temporaneamente, in attesa di trovare una sistemazione definitiva. Oltre al costo umano, l’esplosione distrugge case, scuole, musei, edifici storici e culturali.

Tra questi anche il Palazzo Sursock-Cochrane, residenza della famiglia Sursock, all’interno del quale, al momento dell’esplosione, si trovano due dipinti di Artemisia Gentileschi, appartenenti alla collezione privata della famiglia: “Maria Maddalena” e “Ercole e Onfale”. 

“Nel corso delle ricerche per la mia tesi magistrale, avevo attribuito i due dipinti ad Artemisia Gentileschi, ma chi è che avrebbe ascoltato un neolaureato ventenne? Mi avrebbero deriso.”, racconta Gregory Buchakjian, artista e studioso di storia dell’arte libanese.

La storia dell’identificazione di questi quadri, risale infatti agli anni ’90. In quel periodo, come parte della sua tesi di magistrale, Buchakjian aveva cercato di catalogare e identificare i quadri appartenenti alla collezione privata della famiglia Sursock, tenuta all’interno del palazzo residenziale.

“Sapevo che i dipinti erano di origine napoletana. La mia supposizione era che fossero stati portati dall’Italia verso la fine dell’800, in occasione del matrimonio tra l’italiana Donna Maria Teresa Serra di Cassano e Alfred Bey Sursock.”, spiega Buchakjian.

“Molto probabilmente sono passati per lo stesso porto, dove secoli dopo è avvenuta l’esplosione che li ha danneggiati.” 

Per quanto fosse difficile l’attribuzione, non essendoci documentazione adeguata, Buchakjian era certo che i quadri fossero opera di Artemisia Gentileschi. Ma la conferma definitiva è arrivata appena trent’anni dopo, a ridosso dei tragici fatti il 4 agosto 2020.

“Sono entrato nel Palazzo Sursock una settimana dopo l’esplosione. Nessuno aveva toccato nulla, era come se si fosse fermato il tempo”,  racconta Buchakjian. “Le fotografie diffuse dai notiziari non rendono giustizia a quello che era lo stato reale del Palazzo e della città.”

Buchakjian è entrato nella residenza dei Sursock, accompagnato da due colleghi, Camille Tarazi e Georges Boustany, per valutare lo stato dell’edificio e delle opere della collezione. Al loro arrivo, l’artista ricorda di avere ritrovato la famiglia Cochrane-Sursock in un profondo stato di choc, incapaci persino di parlare. Lady Cochrane, figlia di Alfred Bey Sursock e Donna Maria, gravemente ferita dall’esplosione, è morta poco dopo, il 31 agosto 2020, all’età di 98 anni. Con i padroni di casa calati nel silenzio, Buchakjian inizia un difficile compito: salvare le tele.

“Mi muovevo per il Palazzo come se fosse casa mia. Ero munito di fotocamera, un metro e un taccuino. Sapevo solo di dover creare un inventario delle opere. È qui che è riemersa la questione dei due quadri di Artemisia Gentileschi.” I quadri della collezione Sursock realizzati dalla pittrice italiana sono “Ercole e Onfale” e “Maria Maddalena”.

Grazie a un articolo riguardante il suo lavoro all’interno del Palazzo, la “scoperta” di Buchakjian ha ricevuto molta attenzione e ben presto la sua attribuzione è stata confermata anche da altri studiosi.

Di uno dei due quadri, però, si erano inizialmente perse le tracce.

“Il primo giorno che sono entrato nel palazzo, l’opera “Maria Maddalena” risultava scomparsa. Era rimasta soltanto la sagoma che aveva lasciato sulla parete. Ai piedi di essa, un cumulo di detriti.”, è così che Buchakjian capisce, che l’opera si trovava sotto le macerie. 

“I pezzi di vetro, legno e soffitto erano incastrati uno nell’altro. Temevo che quel fragile equilibrio sarebbe crollato a momenti, danneggiando ulteriormente il quadro. Tirarlo fuori da quei detriti fu una decisione di pochi secondi. Dovetti staccarlo dalla cornice originale, rimasta incastrata a una trave. È un miracolo che la tela fosse in condizioni così buone”.

In effetti, l’opera risulta molto meno danneggiata rispetto a “Ercole e Onfale”. Questa, infatti, presenta danni maggiori, tra i quali un largo strappo nella tela, che hanno reso il suo trasporto temporaneamente impossibile. “Maria Maddalena”, invece, ha preso la via dell’Italia per il restauro.

Il restauro

“Ogni quadro ha una sua storia.”, racconta Andrea Cipriani, responsabile del restauro del quadro. “Io ci penso quando restauro. Chissà cosa ha visto questo quadro, essendo appeso ad una parete, chissà se ha cambiato proprietario e dove è stato. Il quadro della Gentileschi, ad esempio, è partito da Napoli in seguito ad un matrimonio. È stato scelto proprio questo tra altri, per chissà quali motivi, forse affettivi, forse economici.”

Non di tutte le opere però, possiamo conoscere la storia. Di alcune non ci resta che supporre la strada che hanno percorso, come spiega il restauratore, altre vengono perse, ancora prima di arrivare da noi.

“Siamo stati fortunati perché questa opera poteva andare distrutta, come succede a molte altre. Spesso mi capita di immaginare gli accadimenti vissuti dalle opere che restano. In questo caso, ad esempio, mi immagino che, ovviamente in un’esplosione, la prima cosa che uno salva è sé stesso, ma, mentre lascia la casa, riesce a portarsi via tre cose e tra queste c’è proprio questo quadro. Così l’opera arriva a noi, quando, probabilmente, un’altra non ci arriverà mai, perché per un motivo a noi sconosciuto non si è salvata.”

Della “Maria Maddalena”, qualche conferma della sua storia arriva proprio tramite l’intervento di recupero. Il primo passo è il restauro conservativo, come spiega Cipriani, anche noto come restauro strutturale. Questo include, tra l’altro, lo smontaggio del dipinto dal telaio e la rintelatura, il risanamento e la sutura degli strappi. 

È nel corso di questa prima fase dell’intervento che il restauratore ha potuto scoprire un dettaglio che altrimenti sarebbe rimasto nascosto: durante lo smontaggio del dipinto dal telaio, ha rinvenuto delle piccole schegge di vetro. “Molto probabilmente una testimonianza dell’esplosione che ha investito il luogo dove si trovava il quadro”, spiega Cipriani.

Al restauro conservativo è seguita la pulitura che ha permesso il ritrovamento dei colori originali. Come racconta il restauratore, però, “dal punto di vista tecnico non c’era molto da scoprire. I pigmenti e la tecnica utilizzati dalla Gentileschi erano già noti e coincidevano con quello che risultava dall’analisi del quadro.” 

Il restauro estetico, che include anche il ritocco pittorico, è invece completamente reversibile. “Questo processo non deve essere invasivo e dev’essere compatibile con i materiali originali dell’opera. Se tra qualche secolo un altro restauratore dovesse lavorarci, basterà usare un leggero solvente, per cancellare il mio intervento e riportare alla luce lo stato originale del quadro.” Infatti, la finalità del restauro è quella di ridare all’opera un’uniformità e una godibilità dell’insieme.

Cipriani lavora come restauratore da 30 anni, collaborando insieme a altre quattro persone nel suo laboratorio a Firenze. “Il mio lavoro è quello da tramite, sono un tramite tra un periodo della storia di un’opera e un altro.”

Nel caso della “Maria Maddalena”, non è però solo il restauratore a fare da tramite, bensì è il quadro stesso che, nel suo stato danneggiato, ha reso tangibile una tragedia. Portando con sé una piccola testimonianza di quella che è stata la distruzione vissuta durante il 4 agosto. 

Il Libano adesso

Le tracce dell’esplosione sono state cancellate dalla superficie della “Maria Maddalena”. Sulla popolazione libanese, invece, le conseguenze di quel giorno pesano tuttora.

“Il porto è nelle stesse condizioni del giorno dell’esplosione. Ho portato lì mio cugino in visita dalla Francia. È rimasto traumatizzato, tanto quanto i testimoni diretti.”, racconta Jana Mahmoud, studentessa alla Lebanese American University di Beirut.

“Il 4 agosto mi trovavo a casa. Vivo in montagna, ma l’esplosione l’ho percepita lo stesso. Ho iniziato a scrivere ad amici per capire se fossero vivi. L’incertezza è stata la cosa peggiore. Le notizie in Libano circolano lentamente e ci sono volute ore prima di scoprire cos’era successo”. 

“La gestione degli sfollati poi, è stata vergognosa. Il governo è intervenuto appena il giorno dopo. Le persone che avevano appena perso casa, parenti e amici, sono state costretta a passare la notte per strada. Chi aveva la possibilità era sceso in città ad aiutare, dando acqua e cibo a chi aveva appena perso tutto.”

Il 10 agosto, il governo, accusato di essere il responsabile dell’esplosione, perché a conoscenza del carico di nitrato di ammonio, si è dimesso. 13 mesi dopo, il 10 settembre 2021, è stata finalmente annunciata la formazione di un nuovo governo. “Noi non abbiamo un governo, un governo è formato da persone buone, ma queste non sono persone buone. Non gli importa se più di 200 persone sono morte per colpa loro.”, Jana Mahmoud.

La speranza in un cambiamento politico però rimane bassa. Il 15 di maggio si sono tenute le elezioni in Libano, ma il settarismo che divide i libanesi per credo e partito politico è ancora troppo radicato nella popolazione e tutto rende impossibile un vero cambiamento.

“Li stanno spaventando di nuovo con l’incubo della guerra civile, dicendo che se non manteniamo l’ordine creato con il settarismo, ritorneremo a combatterci per strada. La realtà però è che attualmente stiamo peggio che durante la guerra civile.”, così sempre Jana, riferendosi alla crisi economica nella quale sta sprofondando il paese.

Proteste contro il governo nell’agosto del 2020 

Il debito pubblico libanese ha toccato 175% del PIL nel 2021, con alcune stime che arrivano al 495% del PIL. La lira libanese continua a svalutarsi, con il tasso di cambio lira libanese verso dollaro che a gennaio 2022 ha raggiunto il picco di 32.000 lire per dollaro.

Un chilo di pane, che nel 2019 costava 1.500 lire, ora ne costa 13.000.

Se, quindi, il restauro del dipinto di Artemisia Gentileschi rappresenta un piccolo passo verso il ritorno alla normalità per una famiglia, non si può dire lo stesso per i libanesi che restano imprigionati in un’amara realtà.

Jana ammette: “Io non vedo l’ora di finire i miei studi e andarmene. Non voglio rimanere qui, presa in ostaggio dalla classe dirigente.”

·        Quei razzisti come i sudafricani.

Sudafrica veleni, trame e sei vedove: la dinasty degli Zulu. Riccardo Orizio su Il Corriere della Sera il 3 Settembre 2022.

La successione al trono del re, morto dopo 50 anni di regno, agita il Sudafrica. E rischia di metterne in crisi il fragile equilibrio politico 

Misuzulu Sinqobile Zulu, 47 anni, ha preso il posto del padre Goodwill Zwelithini, re degli Zulu per 50 anni, morto lo scorso anno a 72 anni. A destra un’immagine che ricorda la battaglia di Isandlwana, tra gli Zulu e gli inglesi

Centoquarantatrè anni fa erano così uniti e compatti che i loro reggimenti, fanaticamente devoti a re Cetshwayo, nipote del leggendario re Shaka, sconfissero nientemeno che l’esercito inglese nella battaglia di Isandlwana. Undici giorni prima il generale Chelmsford aveva invaso il regno zulu pensando che sarebbe stata una passeggiata, grazie al fatto che questi guerrieri-pastori vestiti di pelli di leopardo avevano a disposizione solo lance artigianali e scudi di pelle di bufalo (più dura del metallo, peraltro). Ma la loro coesione ideologica, in nome della dei valori di un’antica civiltà guerriera, aveva prevalso sui moderni fucili Martini-Henry e sulle divise gallonate degli inglesi. Oggi sono così divisi che nei sei palazzi reali di Nongoma, la località nella regione del Kwazulu Natal dove vivono i reali zulu, si consumano più intrighi che in una corte shakesperiana, con cerimonie e contro-cerimonie di incoronazione, parate e contro-parate rivali di guerrieri ululanti, cause legali con i migliori avvocati sudafricani, risse a pugni tra giovani principi e persino morti misteriose. Ovviamente per presunto avvelenamento.

I privilegi e quel reality che è faida tribale

In Sudafrica qualcuno sospetta che ci sarebbero problemi più seri da risolvere di una faida tribale di provincia. Ma in molti sono invece incollati alla tv e seguono ogni puntata del dramma reale zulu come se fosse un reality. Perché non si tratta di una storia anacronistica senza consequenze, ma di una vicenda che potrebbe cambiare i fragili equilibri politici del Paese-arcobaleno. I fatti sono questi; dopo 50 anni di regno, l’anno scorso è morto re Goodwill Zwelithini, capo di una tribù che conta tra i 10 e i 12 milioni di componenti, è la più grande del Sudafrica ed è riconosciuta dal governo sudafricano come un’entità regionale (nella provincia del Natal) culturalmente indipendente, anche se del tutto integrata nella nazione. La casa reale zulu non ha solo un ruolo cerimoniale: possiede 25.000 km quadrati di territorio come proprietà privata che nessun governo osa toccare, ha un budget di alcuni milioni di dollari per stipendiare il proprio funzionamento e di fatto il governo del presidente Cyril Ramaphosa si guarda bene dal prendere decisioni senza prima consultare informalmente i potenti zulu.

La regina Mantfombi Dlamini Zulu, 68 anni, morta 48 giorni dopo il marito

Evitare ogni tentazione di secessione

Il Sudafrica da sempre cerca di blandire gli zulu per evitare ogni tentazione di secessione. Così facendo garantisce alla tribù privilegi vari, assegnando a politici zulu ministeri e posizioni di potere. Insomma, gli zulu sono una circoscrizione elettorale molto importante, senza la quale l’ANC, l’African National Congress, forse farebbe fatica a reggere. Morto Goodwill, suo figlio maggiore Misuzulu è stato nominato come successore, una decisione approvata da un lungo elenco di zii, zie, parenti e anche dal governo centrale di Pretoria. A benedire questa transizione, anzi secondo molti a manovrarla, è stato l’uomo che anche se formalmente non ha mai avuto lo scettro regale, è sempre stato considerato il più influente degli zulu: il principe Mangosuthu Buthelezi, 92 anni, carismatico ex ministro degli Interni e amico-nemico di Nelson Mandela, uno straordinario Richelieu africano che ha fondato e guidato a lungo il temuto Inkhata Freedom Party. Questo partito ha sempre rivaleggiato con l’ANC (il partito che ha preso potere dopo la caduta del regime dell’apartheid e che lo detiene tuttora), controllando un pacchetto di voti molto pesante e senza mai schierarsi in modo definitivo.

Buthelezi, l’ago della bilancia

Il principe Buthelezi ha capito prima e dopo la caduta del regime bianco che gli conveniva fare l’ago della bilancia. Così, Mandela e i suoi successori non sono mai riusciti ad addomesticarlo del tutto, e il territorio zulu è da sempre una spina nel fianco del Sudafrica post-apartheid. Le mille offerte fatte a Buthelezi di diventare vicepresidente del Sudafrica e chissà cosa altro non hanno mai sortito effetto. Lo Zululand è di fatto una nazione dentro la nazione, anche perché la loro cultura di pastori semi-nomadi (come quella dei masai in Kenya) li rende culturalmente diversi dai concittadini e diffidenti nei confronti di qualunque potere centrale. Quando Buthelezi si è mosso e ha nominato Misuzulu, ha giustificato la scelta del giovane e sconosciuto principe, che fino ad allora si era dedicato più alla frequentazione dei night club di Durban che alla politica, spiegando che non solo è il figlio maggiore di Goodwill, che ha lasciato sei vedove e almeno 28 figli, ma è anche di sangue reale sia da parte di padre che da parte di madre.

La rivolta dei parenti

La regina Mantfombi Dlamini Zulu, infatti, è figlia dell’ex re di Eswsatini (nazione conosciuta in passato come Swaziland) e sorella dell’attuale re degli swazi, che degli zulu sono confratelli. Il discorso sembrava chiuso. Di solito Buthelezi parla, gli altri ascoltano. Invece, a sorpresa, questa logica non è piaciuta a molti parenti. Uno dopo l’altro, zii, fratelli, cugini e cortigiani vari hanno iniziato a protestare contro Misuzulu con rivelazioni che a loro parere lo renderebbero inadatto a diventare re. Accusato di avere problemi di alcolismo, di avere figli illegittimi con cameriere di palazzo, di essere solo un pupazzo nelle mani di Buthelezi, nei giorni scorsi Misuzulu è finalmente riuscito a completare la cerimonia di incoronazione: dopo l’ingresso trionfale nel “kraal”, il sacro recinto del bestiame dove in passato migliaia di mucche muggivano insieme simboleggiando la ricchezzza della nazione, davanti a centinaia di guerrieri che danzano riproducendo pari pari le scene di battaglia del passato, davanti ai cantastorie che ricordano le vite leggendarie dei suoi precedessori e cantano già le meraviglie del neo-sovrano, con ragazze a petto nudo che ballano nella tradizionale offerta di nuove mogli, Misuzulu è finalmente diventato re. La saga, tuttavia, continua.

La causa dei fratelli del re defunto

I principi Mbonisi Zulu e Vulindlela Zulu, fratelli del re defunto, si sono candidati alla successione e hanno fatto causa al giovane nipote. Un terzo parente, principe Simakade, ha improvvisato una sua cerimona del kraal, dopo la quale anche lui si è vestito da re e, circondato dall’ennesima fazione di cortigiani, ha dichiarato che lo scettro è suo. La vicenda è complicata dal fatto che sei mesi fa, a 68 anni, senza che si conoscesse di una sua malattia e a soli 48 giorni dalla morte del marito, la regina e reggente al trono è improvvisamente morta. Dalla sua famiglia di origine, i reali dell’ex Swaziland, sono venute accuse di omicidio per avvelenamento. Il figlio non ha voluto gettare benzina sul fuoco e dice che è morta di cause naturali. Nei palazzi del potere a Johannesburg ci si chiede cosa succede se una fazione radicale si impossessa del trono e, magari, alle prossime elezioni decide alleanze diverse, senza seguire l’equilibrismo di Buthelezi.

La star tv sudafricana di origine calabrese

Di certo sopravvivere dentro la famiglia reale zulu non è mai stato facile. Ne sa qualcosa Debora Patta, origine calabrese, star della tv sudafricana e giornalista di talento, oggi corrispondente della tv americana CBS dal Sudafrica, che nel ‘96 aveva sposato il principe Mweli Mzizi. Mweli è un brillante regista e produttore di film. Un matrimonio al quale - in nome del “teniamo buoni gli zulu” - aveva partecipato anche il padre della nazione Nelson Mandela, che peraltro conosceva bene anche Debora per i suoi reportage sulla fine dell’apartheid e per il suo impegno sociale. Il matrimonio misto di due star era stata una favola del Sudafrica del dopo apartheid. Ma a cerimonia finita, sia dentro che fuori i palazzi reali, Debora e Mweli non avevano sempre incontrato accoglienza entusiastica. Oggi i due non sono più insieme. Mweli non è coinvolto nelle beghe di famiglia. Debora è più famosa che mai. E dopo l’incoronazione di Misuzulu il popolo più famoso d’Africa deve ritrovare l’unità dei giorni di Isandlwana, per restare l’ago della bilancia di un Sudafrica diviso e complicato, così come il Sudafrica vuole ritrovare la magia unificatrice dei giorni della presidenza Mandela.

·        Quei razzisti come i turchi.

Filippo Rossi per “La Stampa” il 15 Dicembre 2022.

Il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamolu, è stato condannato ieri da un tribunale turco a 2 anni 7 mesi e 15 giorni di carcere. Oltre alla sentenza finale e la condanna al carcere, pronunciata da un tribunale penale di Istanbul e che dovrà essere confermata dalla corte d'appello suprema, il procuratore ha deciso di applicare l'articolo 53 del Codice penale, il quale prevederebbe il "divieto politico" nei confronti del sindaco escludendolo da ogni attività politica e da ogni candidatura alle elezioni durante il periodo della condanna. 

Il 52enne è stato accusato dal pubblico ministero di aver insultato alcuni membri del consiglio elettorale supremo turco nel 2019 - definendoli "idioti" - dopo che la sua elezione fu invalidata nel marzo dello stesso anno (prima di essere eletto a giugno dello stesso anno). Fra le persone insultate c'era anche l'attuale ministro degli interni Suleyman Soylu.

Secondo il pubblico ministero, Imamolu avrebbe pronunciato le parole offensive durante una conferenza stampa con i giornalisti il 4 novembre del 2019, che l'accusa ha definito «di natura offensiva per l'onore e la dignità dei membri del consiglio», sicura che le parole «fossero implicitamente dirette ai membri del consiglio». 

Secondo l'addetto stampa di Imamolu, Murat Ongun, e il suo consigliere politico, Necati Özkan, entrambi presenti come testimoni, il sindaco non avrebbe mai pronunciato tali parole contro il consiglio elettorale. Il pubblico ministero invece, ha ribadito la sua posizione, chiedendo 4 anni e 1 mese per «insulto a funzionari pubblici».

Ad assistere alla sentenza, oltre al suo avvocato Kemal Polat, anche alcuni membri del suo partito, il Chp, e del partito Iyi. L'avvocato Polat, annunciando un ricorso immediato, ha richiesto alla corte che il ministro degli Interni Soylu sia ascoltato come testimone. 

Dopo che la sentenza è stata resa pubblica, il ministro della Giustizia, Bekir Bozdag, ha confermato che la procedura di ricorso è stata aperta e sarà revisionata dal tribunale d'appello supremo dicendo però che «il potere giudiziario è esercitato da tribunali indipendenti e imparziali per conto della nazione turca», rispondendo alle forti critiche provenienti da molti ambienti politici nel Paese ma anche dall'estero. Difatti, dopo la sentenza, migliaia di persone si sono radunate di fronte al municipio di Istanbul, a Saraçhane, in sostegno al sindaco, il quale ha denunciato in un lungo discorso pubblico una situazione di «profonda illegalità» usando poi parole forti: «Oggi, in Turchia, non esiste giustizia.

Un gruppo di persone non possono togliere il potere dato dal popolo. Continueremo a lottare più forte in nome di Dio».

Il processo a Imamolu è stato anche oggetto dell'assemblea nazionale ad Ankara con forti dichiarazioni di dissenso da parte dei leader dei principali partiti dell'opposizione. Sebbene la sentenza non sia ancora definitiva, molti temono che questo possa avere ripercussioni sulle elezioni previste a giugno 2023.

Per molti, Imamolu avrebbe dovuto essere scelto come primo candidato dell'opposizione per sfidare il presidente Recep Tayyip Erdogan, anche se il suo partito non ha finora annunciato nessun candidato ufficiale e lo stesso sindaco di Istanbul, qualche mese fa, aveva dichiarato che non si sarebbe candidato. Si vedrà se questa sentenza, in caso di conferma in appello, avrà un impatto sulla campagna politica, peraltro già entrata nel vivo in un Paese che sta vivendo una situazione economica delicata ma una posizione geopolitica di grande spessore.

Le epurazioni del sultano. La condanna del sindaco di Istanbul è solo l’ultima sentenza politica in Turchia. Futura D’Aprile su L’Inkiesta il 17 Dicembre 2022.

L’antagonista di Erdogan (che perde consensi) non andrà in prigione, ma non potrà guidare l’opposizione alle presidenziali del 2023. Nonostante molti casi giudiziari come quello di İmamoğlu, l’Ue tace per i ricatti di Ankara sui migranti

Il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, è da tempo considerato l’antagonista per eccellenza del presidente Recep Tayyip Erdogan e da mesi si rincorrono voci sulla sua candidatura alle prossime elezioni alla testa della coalizione d’opposizione. La possibilità che il primo cittadino, esponente del partito kemalista Chp, guidi il cosiddetto “Tavolo dei sei” è però sfumata dopo la condanna a due anni e sette mesi decisa dalla Corte di Istanbul. I legali di İmamoğlu hanno fatto ricorso alla Corte di appello, ma i tempi della giustizia turca sono troppo lunghi perché la risposta arrivi in tempo per le prossime presidenziali, previste per giugno del 2023.

La condanna, salvo un ribaltamento in ultimo grado, non prevede la carcerazione effettiva perché è al di sotto del limite previsto nel Paese per l’applicazione della pena, ma comporta un allontanamento della vita politica per la durata della sentenza. İmamoğlu dunque dovrebbe anche rinunciare alla sua carica di sindaco, oltre a dover dire addio alla speranza di correre alle prossime urne.

L’accusa mossa al primo cittadino di Istanbul è di aver insultato alcuni funzionari elettorali dopo la decisione della Commissione di annullare le elezioni comunali del 2019 dietro pressioni del presidente, che aveva fatto ricorso per irregolarità. Nello specifico, İmamoğlu aveva definito «idioti» i responsabili di questa scelta, ma secondo quanto dichiarato dal sindaco stesso il suo commento era in realtà diretto al ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, che lo aveva in precedenza definito un pazzo, accusandolo tra l’altro di aver criticato la Turchia in sede europea.

Alla fine le elezioni comunali sono state ripetute pochi mesi dopo il loro annullamento, ma il risultato è rimasto immutato, a tutto svantaggio del presidente e del suo partito. La condanna definitiva di İmamoğlu è invece una buona notizia per Erdogan. Il presidente deve fare i conti con un calo senza precedenti del consenso e l’esclusione di una figura come quella del sindaco di Istanbul rende meno aspra la competizione alle prossime elezioni. A guidare l’opposizione potrebbe essere a questo punto Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Chp, ma si tratta di un personaggio che non sembra godere dello stesso consenso tra gli elettori.

D’altronde İmamoğlu non è il primo a finire in carcere per motivazioni politiche. A inizio anno aveva fatto scalpore la notizia della condanna all’ergastolo di Osman Kavala, filantropo turco accusato di aver sostenuto le proteste di Ghezi Park e di aver voluto rovesciare il governo. L’uomo era già agli arresti domiciliari quando i giudici si sono pronunciati sul suo caso nonostante i ripetuti interventi della Corte europea per i diritti umani (Cedu) che aveva definito la detenzione di Kavala «un abuso» nonché uno stratagemma per creare «un effetto dissuasivo sui difensori dei diritti umani».

Sempre quest’anno è arrivata anche la sentenza ai danni di Canan Kaftancioglu, presidente della sezione di Istanbul del Chp, condannata in via definitiva a quattro anni, undici mesi e venti giorni di reclusione con l’accusa di offese al presidente e allo stato turco. Femminista, apertamente a sostegno dei movimenti Lgbtq+ e figura di spicco del partito kemalista, Kaftancioglu è nota per la sua opposizione al presidente ed è grande sostenitrice di İmamoğlu. Anche nel suo caso è prevista l’esclusione della vita politica e in particolare dalle prossime elezioni, a tutto vantaggio dei partiti dal governo.

Contro le vessazioni politiche e giudiziarie a cui Kaftancioglu è da tempo sottoposta si è espresso in passato anche il Parlamento europeo in una più ampia risoluzione sulla situazione dei diritti umani in Turchia. In quello stesso documento veniva chiesto anche il rilascio dell’ex co-presidente del partito filocurdo Hdp Selahattin Demirtaş, in conformità con la sentenza della Cedu del 2018, e di tutti gli altri membri dell’Hdp ancora in carcere. Sentenze però che la Turchia continua a disattendere senza che vengano presi i dovuti provvedimenti.

Il Consiglio d’Europa potrebbe infatti aprire una procedura contro Ankara, ma ad oggi non sono stati fatti passi in avanti in questo senso e difficilmente la condanna del sindaco di Istanbul porterà dei cambiamenti. Casi giudiziari come quelli di İmamoğlu, Kaftancioglu, Demirtaş e Kavala segnano però una distanza sempre più ampia tra la Turchia e l’Unione europea, nonostante sia ancora tra i Paesi candidati a entrare nell’Ue.

Di questa adesione però non c’è più traccia nei programmi politici di Erdogan, che guarda sempre più spesso verso quei governi autocratici in cui la tutela dei diritti civili e politici dei cittadini sono messi da tempo in secondo piano, anziché verso il Vecchio continente. Dal canto suo, l’Ue possiede gli strumenti per esercitare maggiori pressioni nei confronti di Ankara, ma la presenza di quattro milioni di rifugiati siriani nel Paese anatolico resta un utile strumento di ricatto nelle mani del governo turco. A discapito di chi, nella stessa Turchia, continua a lottare per far valere i propri diritti.

Istanbul, l’attentato nella via dello shopping: 6 morti, 22 gli arresti. Monica Sargentini su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

Anche 81 persone ferite dall’esplosione in pieno centro. Erdogan: vile attacco. Il governo accusa il partito dei lavoratori del Kurdistan. «A piazzare la bomba una donna rimasta seduta per 40 minuti su una panchina»Non ci sono stranieri tra le vittime

Sono le quattro e venti di pomeriggio quando un boato squarcia l’aria a Istanbul in Istiklal Caddesi, la via pedonale dello shopping che va da piazza Taksim a piazza Tunel, a due passi dalla Torre di Galata e che come ogni domenica è affollata di turisti, famiglie con bambini,ragazzi e ragazze in cerca di divertimento, suonatori ambulanti. Chi ha potuto si è dato alla fuga, tra le lacrime e le urla. Sull’asfalto sei morti e più di 80 feriti (non ci sono stranieri tra le vittime). «Quando ho sentito l’esplosione mi sono pietrificato — ha raccontato alla Reuters Mehmet Akus, 45 anni proprietario di un ristorante sul viale —, la gente si è guardata negli occhi, poi ha cominciato a correre. Che altro si poteva fare?».

Le parole di Erdogan

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha subito parlato di «vile attentato» e ha affermato di «avere il sentore» di un attentato anche se per ora non ci sono conferme ufficiali: «Sarebbe sbagliato se dicessimo con certezza che si tratta di terrorismo, ma i primi sviluppi indicano quella pista». E subito attacca: «La nostra nazione deve essere sicura che i responsabili saranno puniti come meritano». Più tardi il vice presidente Fuat Oktay ha parlato di «una donna kamikaze con una borsa», ripresa dalle telecamere, che avrebbe fatto esplodere la bomba. In serata il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag aveva aggiunto che la donna è stata seduta su una panchina per 40 minuti e poi si è alzata. L’esplosione è avvenuta un paio di minuti dopo». Quindi le possibilità, ha spiegato, sono due: «O la borsa aveva un meccanismo all’interno per esplodere autonomamente oppure è stata fatta esplodere con un comando a distanza, l’inchiesta segue entrambe le ipotesi».

Nella notte gli arresti

Ventidue gli arresti nella notte. Il ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu ha accusato il Partito dei lavoratori del Kurdistan e annunciato l’arresto di una ventina di sospetti, tra cui uno che avrebbe piazzato la bomba. «La persona che ha piazzato la bomba è stata arrestata. Secondo le nostre conclusioni, l’organizzazione terroristica Pkk è responsabile» dell’attacco, ha affermato Soylu in una dichiarazione notturna, trasmessa dall’agenzia ufficiale Anadolu e dalle televisioni locali. Anche altri 21 sospetti sono stati arrestati, ha aggiunto. Il ministro ha accusato le forze curde che controllano gran parte della Siria nord-orientale, che Ankara considera terroristi, di essere dietro l’attacco: «Riteniamo che l’ordine per l’attacco sia stato dato da Kobane».

La partita

Come è accaduto in passato, immediatamente sono state varate delle rigide restrizioni delle notizie, delle immagini e dei video che possono circolare su giornali, radio e tv per evitare che la popolazione rimanga traumatizzata ma anche per limitare la circolazione di voci e notizie non verificate. Nei ristoranti, ieri pomeriggio, tutti i televisori erano sintonizzati sulla partita di calcio Kayserispor-Konyaspor che si giocava in Cappadocia. Solo un bar trasmetteva la dichiarazione di Erdogan che parla di «vile attentato».

Operazioni militari

Il Paese della Mezzaluna aveva vissuto la stagione del terrore tra il 2015 e l’inizio del 2017 quando più di 500 persone hanno perso la vita in diversi attentati, alcuni compiuti dall’Isis, altri dai militanti curdi del Pkk. Allora la Turchia aveva risposto lanciando una serie di operazioni militari contro i curdi sia in Siria che nel nord dell’Iraq, mentre in patria erano state approvate leggi anti-terrorismo, anche in risposta al fallito colpo di Stato del 2016, che avevano consentito di perseguire politici, giornalisti e attivisti, curdi e non, facendo gridare alla censura e alla repressione. Ma, fino a ieri, quella stagione sembrava ormai un triste ricordo e non c’era stato, in questi mesi, alcun sentore di una recrudescenza.

Le condoglianze del mondo

Ad Ankara sono giunte le condoglianze da tutto il mondo, tra cui Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Nato, Ue e anche dalla vicina Grecia con cui le relazioni sono particolarmente tese. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso su Twitter la vicinanza del popolo italiano alle famiglie delle vittime e al governo turco. E il presidente Sergio Mattarella ha inviato un messaggio a Erdogan. Ieri sera, comunque, nel quartiere di Beyoglu la vita continuava come sempre. «Non ho paura — ha detto all’Afp Derin, direttore di un hotel situato non lontano dal luogo dell’esplosione — ma provo rabbia perché il mio Paese si trova di nuovo in questa situazione». Uno dei cavalli di battaglia di Erdogan è il suo successo nella lotta al terrorismo. A metà dell’anno prossimo ci saranno le elezioni presidenziali.

Le autorità turche hanno arrestato l’attentatore di Istanbul e accusano i curdi. Il Domani il 14 novembre 2022

«Secondo le nostre conclusioni, l’organizzazione terroristica del Pkk è responsabile», ha detto il ministro dell’Interno. Si aggrava il bilancio dei feriti, da 53 diventano 81, di cui due in gravi condizioni

Secondo il ministro dell’Interno turco, Soumeylan Soylu, l’autore materiale dell’attentato che ieri ha ucciso almeno sei persone e ferito altre 81 è stato arrestato dalle forze di polizia. Soylu ha accusato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) di aver causato l’attacco. «Secondo le nostre conclusioni, l’organizzazione terroristica del Pkk è responsabile», ha detto il ministro che ha annunciato che altri 21 sospetti sono stati arrestati. «Riteniamo che l’ordine per l’attacco sia stato dato da Kobane», ha specificato.

La questione, quindi, diventa politica. Il capo della comunicazione presidenziale Fahrettin Altun ha alluso al potenziale impatto sulle relazioni tra la Turchia e i paesi Nato a causa del loro sostegno ai gruppi attivi nel nord della Siria, come quello degli Stati Uniti di Joe Biden. «La comunità internazionale deve prestare attenzione. Gli attacchi terroristici contro i nostri civili sono conseguenze dirette e indirette del sostegno di alcuni paesi ai gruppi terroristici. Se vogliono l’amicizia della Turchia, devono cessare immediatamente il loro sostegno diretto e indiretto», ha detto Altun.

Negli ultimi mesi, il presidente turco Erdogan ha anche più volte accusato Svezia e Finlandia di sostenere e aiutare membri del Pkk, considerati organizzazione terroristica, e minacciato il loro ingresso nella Nato.

IL PRIMO SOSPETTO

Non è ancora chiaro l’identità del presunto attentatore, nella giornata di domenica sono circolate online le registrazioni di una telecamera di sicurezza che hanno ritratto una donna abbandonare per strada quello che è stato identificato come il bagaglio contenente l’esplosivo.

«Una donna si è seduta su una panchina per 40-45 minuti, e qualche tempo dopo c’è stata un’esplosione. Tutti i dati su questa donna sono attualmente sotto indagine», ha detto il ministro della Giustizia Bekir Bozdag. «O questa borsa conteneva un timer o qualcuno l’ha attivato da remoto», ha aggiunto.

Un attentato suicida è avvenuto nella stessa strada il 19 marzo 2016, atto che ha ucciso cinque persone e ne ha ferite 36. All’epoca, la polizia turca aveva affermato che l’attentatore aveva legami con il gruppo dello Stato islamico.

Arrestata una curda. Ma l'inchiesta fa acqua. Luigi Guelpa su Il Giornale il 15 novembre 2022.

L'attentato di domenica a Istanbul non ha soltanto provocato la morte di 6 persone, tra le quali Ecrin, una bambina di appena 9 anni, e il ferimento di altre 81, ma sta mandando in tilt i rapporti diplomatici tra Ankara e Washington, e sollevando alcuni dubbi sulla matrice terroristica dell'azione. Il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerato un'organizzazione terrorista dal governo turco, ha smentito ogni coinvolgimento nei fatti di Istiklal. «Non siamo collegati a questo atto criminoso, perché non prendiamo di mira i civili. Lottiamo per la nostra libertà, e ci muoviamo per creare un futuro comune e libero con la società turca», si legge nella nota scritta dal comandante delle Forze democratiche Mazlum Abdi su Twitter. Ankara invece non ha dubbi sull'implicazione curda nell'attentato a Istiklal Caddesi, e già nella notte tra domenica e lunedì ha arrestato 46 persone legate al Pkk e al Ypg, le Unità di protezione popolare. Le manette sono scattate ai polsi anche di Ahlam Albashir, un'operaia tessile. Si tratterebbe della donna ripresa dalle telecamere di sicurezza mentre posizionava il sacchetto con l'esplosivo su una panchina. La presunta attentatrice, come si vede da un video pubblicato dal quotidiano Hurriyet, avrebbe quindi lasciato la scena di corsa, prendendo un taxi per recarsi nella sua abitazione al quartiere di Esenler, a 9 km dal luogo del misfatto. Di nazionalità siriana, avrebbe confessato durante l'interrogatorio di essere stata addestrata come ufficiale speciale dell'intelligence dal Pkk, ed entrata illegalmente in Turchia quattro mesi fa dalla regione di Afrin-Idlib, in Siria. L'attentato sarebbe stato orchestrato a Kobane, città a maggioranza curda che si trova in un'area in cui la Turchia ha gradualmente allargato la propria sfera di influenza negli ultimi anni. Al fermo dei sospettati si è giunti analizzando le immagini di 1.200 telecamere di sicurezza. La televisione turca ha trasmesso un video che mostra Ahlam mentre viene arrestata nell'abitazione in cui si nascondeva, dove la polizia ha sequestrato ingenti somme di denaro, oggetti in oro, una pistola automatica e un centinaio di munizioni. Gli inquirenti hanno quindi diffuso una foto che mostra la donna in piedi tra due bandiere turche, in manette. Secondo una prima ricostruzione degli inquirenti, l'Ypg avrebbe dato addirittura ordine di ucciderla per evitare che le prove risalissero a loro.

Le milizie curde filosiriane fanno parte delle Forze democratiche di Mazlum Abdi, sostenute dagli Stati Uniti nella lotta contro l'Isis nel nord della Siria. Per queste ragioni la loro presunta responsabilità nell'attentato ha provocato la dura reazione di Ankara contro Washington. Fahrettin Altun, portavoce di Erdogan, ha ricordato che «l'attacco di domenica è conseguenza diretta e indiretta del sostegno di alcuni Paesi ai gruppi terroristici. Devono fermare immediatamente il loro sostegno se vogliono la nostra amicizia». Si è spinto oltre il ministro degli Interni Soylu, affermando che la Turchia «non accetterà i messaggi di condoglianze di Biden».

Sono due però i dubbi che assillano analisti e alcune diplomazie internazionali sui fatti di Istiklal Caddesi: la rapidità con cui i turchi sono riusciti a individuare i presunti attentatori (meno di 10 ore dall'esplosione), e le foto della donna arrestata. Ha il volto visibilmente tumefatto, e non si può escludere che la confessione sia stata estorta attraverso l'uso della violenza.

Troppi dubbi sull'Isis. La pista dei curdi umiliati dal Sultano e "traditi" dalla Nato. Gian Micalessin su Il Giornale il 14 novembre 2022.

«È stata una donna kamikaze». Così sentenziava ieri sera, il vice presidente turco Fuat Oktay diffondendo i primi elementi emersi dalle indagini sull'attentato che ha causato sei morti e oltre ottanta feriti nella zona pedonale tra via Istiklal e piazzo Taksim, vero cuore turistico e metropolitano di Istanbul. In assenza di una rivendicazione precisa le dichiarazioni del vice presidente fanno propendere per due possibili scenari. Il primo è un ritorno ai tempi bui di quattro o cinque anni fa quando lo Stato Islamico firmò diversi sanguinosi attentati messi a segno tra Istanbul e altre città della Turchia. Un secondo scenario porta a ipotizzare il ritorno sulla scena di quelle militanti nazionaliste curde coinvolte, stando a vecchie, ma significative statistiche dei servizi di sicurezza turchi, nel 55 per cento degli attacchi rivendicati tra il 1996 e il 2010 dal Pkk, la formazione del Partito dei Lavoratori Curdi guidata da Abdullah Ocalan. Ovviamente in mancanza di dati certi la cautela è di rigore.

Tempi, modalità dell'azione e contesto geopolitico spingerebbero, però, a prendere per buona la pista curda. L'utilizzo di attentatrici suicide - pur non assente nella ritualità che accompagna e identifica le azioni dello Stato Islamico e di altre organizzazioni del terrorismo islamista - rappresenta un'eventualità rara o quantomeno inconsueta. Inoltre va ricordato che l'Isis, duramente colpito sia in Siria sia in Irak dopo il 2019, ha, ad oggi, tutto l'interesse a tener buoni rapporti con quei servizi segreti turchi con cui - non è un mistero, né una novità - ha sempre intrattenuto relazioni assai ambigue. Relazioni che hanno permesso a molti suoi membri in fuga di riparare, in attesa di momenti migliori, proprio sui territori di Ankara.

Dunque in assenza di un kamikaze maschio e di comprovate responsabilità islamiste risulta inevitabile ipotizzare anche una matrice più marcatamente politica. Anche sul piano della contingenza geo-politica i curdi finiscono con il risultare i maggiori indiziati. Condizionando l'entrata nell'Alleanza Atlantica di Svezia e Finlandia all'interruzione di qualsiasi sostegno alla causa curda, Erdogan ha garantito completa libertà d'azione all'esercito turco. Un esercito impegnato in continui raid contro il Pkk e contro le formazioni ad esso collegate in Siria e in Irak. In questo scenario l'attentato punterebbe dunque a risvegliare l'attenzione di un'Europa e un'America distratte dal conflitto in Ucraina e ormai completamente indifferenti alla sorte dei combattenti curdi. Combattenti che si sentono abbandonati al proprio destino dopo esser stati usati per combattere l'Isis.

Ma molti commentatori, sottolineando sia le ambiguità sia le difficoltà politiche ed economiche della Turchia di Erdogan, ipotizzano anche un terzo scenario, assai più torbido. Nella primavera del prossimo anno il Paese sarà chiamato ad elezioni dal risultato assai incerto. Da quel voto dipenderà non solo la conferma alla presidenza del cosiddetto Sultano, ma anche la capacità della sua formazione - l'Akp, ovvero il Partito della Giustizia e dello Sviluppo - di mantenere il controllo del Parlamento. Il tutto in un clima di estrema incertezza economica segnato da un'inflazione superiore all'80 per cento e da un crollo del prodotto interno lordo pro-capite precipitato dai 12.150 euro del 2012 ai 7.200 euro di questi giorni. Per non parlare delle continue e progressive restrizione di libertà e diritti civili accompagnate da continui arresti di giornalisti e oppositori. Un clima in cui la disinformazione è la regola e in cui, come già avvenuto alla vigilia di precedenti prove elettorali, la strategia della tensione può tornare a giocare un ruolo non indifferente. L'attentato di ieri arriva, infatti, a meno di un mese dalle clamorose uscite di Erdogan che a Praga, durante una cena in compagnia di ministri e leader europei, minacciò d'invadere la Grecia e le sue isole. Parole destinate ad aumentare quel clima di tensione che assieme alla paura per nuovi attentati potrebbe, come già in passato, contribuire alla vittoria dell'inveterato Sultano.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 14 novembre 2022.

Due luoghi per tentare di decifrare una strage ancora senza firma, collezione di mistero e congetture, un «vile attentato» come lo ha definito senza specificare Erdogan. Il primo è quello dove è stata collocata la bomba o il kamikaze ha realizzato il suo proposito criminale, via Istiklal, trasformata in un attimo in uno spazio in cui si ha l'impressione di vivere la fine del modo in poche centinaia di metri, in plastico museo dell'orrore. 

È stata scelta non soltanto per essere un luogo affollato in cui un ordigno moltiplica le vittime, ma perché è un simbolo. È una deliziosa arnia di consumismo: vetrina, non la sola ma una delle più scintillanti, della weltanschaung erdoganiana, della nuova Turchia che in vent' anni il sultano capace di succedere sempre a se stesso ha costruito per scandire il suo successo.

Non a caso nel 2015 e nel 2016 lo Stato islamico la scelse per punire la Turchia con una serie di attentati ancor più micidiali e mortiferi di quello di ieri. Sembra oggi un'altra Era. Dopo aver fatto affari petroliferi e favorito il passaggio dei miliziani che andavano a unirsi al Califfato, Erdogan nel 2015 cambiò politica e chiuse la frontiera agli islamisti. E per questo divenne un regime apostata da unire.

L'attentato, in questo luogo, scandisce brutalmente il momento in cui il sogno della nuova Turchia potente e moderna, in miracoloso equilibro tra passato e futuro, restaurazione e innovazione, sembra arrivata allo stadio della crisi e del disamore. Il prossimo anno, le elezioni presidenziali sotto l'urto della crisi economica che cancella l'analgesico del miracolo permanente e senza fine potrebbero mettere in crisi quella macchina per vincere che è il partito della Giustizia e dello Sviluppo.

Nulla può essere più pericoloso per Erdogan di questa sfida sanguinosa portata proprio all'immagine del suo potere. L'attentato affonda con l'onda d'urto della paura la miniera del turismo che ha consentito quest' anno di fronteggiare il collasso economico. E distrae Erdogan, in questo che appare come un lento autunno del patriarca, dall'ultima dei suoi trasformismi, la meticolosa costruzione cioè dell'immagine di pacificatore e di mediatore tra gli imperi con cui ha messo a suo profitto perfino la guerra in Ucraina. Un velo, l'ennesimo, steso sulle accuse di usare metodi repressivi e autoritari per rafforzare ancor più il nido di consenso di cui gode. 

A meno che questo funambolico rabdomante, capace di coniugare con un pragmatismo freddo autocrazia e populismo, non riesca a trasformare l'orrore per questo attentato nell'arma propagandistica che ne prolunga per l'ennesima volta il potere. 

Non sarebbe la prima volta che il terrorismo diventa l'utilissimo pretesto con cui le autocrazie, combinando paura e rabbia, hanno puntellato uno zoppicante consenso.

Una delle poche notizie che il governo ha fatto filtrare è che l'attentato è opera anche di una donna. È un elemento che pare allontanare dalla consueta pista islamista e ricondurre al Pkk curdo che lo ha utilizzato in passato e che pare in grado di colpire in modo così clamoroso e micidiale nel cuore del Paese.

I curdi da mesi sono nel mirino di Erdogan che ha minacciato più volte di allargare con un'invasione la fascia di sicurezza anti-curdi in Siria nella zona di Afrin fino alla città di Kamechliyé. Offensiva che ha dovuto rinviare ogni volta per l'opposizione dei russi, che sostengono il governo di Bashar Assad, e degli americani. 

Il secondo luogo da cui potrebbe iniziare il filo dell'attentato si chiama Idlib, in Siria appunto, ultima roccaforte delle formazioni jihadiste che combattono contro il regime di Damasco e i suoi alleati Russia e Iran. Una zona «liberata», quanto resta delle sbandate formazioni della rivoluzione siriana, che la Turchia protegge garantendo appoggio alle formazioni come Hayar Tahrirn al Sham che utilizza per i suoi interessi strategici in territorio siriano.

Idlib: terra di nessuno dove sono imprigionati quattro milioni di profughi , in cui si affoga nelle sigle islamiste che cambiano in un vorticoso mimetismo come insegne di negozi, teatro complicato di alleanze che durano un giorno come le tregue, dove l'Isis che sta rialzando la testa ha cercato finora invano di insediarsi e di prendere il potere sugli altri concorrenti dalle tinte islamiste almeno a parole meno forti.

È la Siria incubo e miraggio di Erdogan, che lo adesca come una fissazione dal 2011, pozzo di ambizioni e frustrazioni, tra l'incubo della possibile nascita dal caos della guerra civile di uno Stato curdo alla frontiera e i sogni neo-ottomani di riafferrare Aleppo e il Nord della Siria che Ankara considera come terra sua, sottratta dai soprusi della storia del Novecento. 

È la Siria da cui vengono i quattro milioni di profughi a cui con accorta mossa politica dal 2011 ha dato asilo dopo lo scoppio della guerra civile; che ha usato per tenere a bada le antipatie dell'Europa e lucrare sulla angoscia occidentale per «l'invasione» dei profughi. Ma che ora stanno diventano un grave problema politico anche per lui. Perché la crisi economica ha fatto crescere l'insofferenza dei turchi per questa costosa ospitalità.

Tanto che si chiede di negoziare con Bashar il loro ritorno in Siria, e lo stesso Erdogan, che pensa al voto, ha annunciato piani per trasferirli in nuovi insediamenti con cui popolare di fedelissimi la fascia di sicurezza. Idlib è il punto di partenza per ogni ipotesi, un nodo sanguinoso di tragici tribalismi, di faide del fanatismo che si mescolano a concreti interessi, difficile da tenere a bada anche per uno spregiudicato domatore come Erdogan. Duri scontri hanno messo di fronte le milizie filoturche e la formazione che ha preso l'eredità di Al Qaida. Un'altra pista che potrebbe spiegare il mistero sanguinoso di Istanbul.

La Turchia ha subito un attentato perfetto, dove ogni dettaglio torna comodo.  Andrea Legni ed Enrico Phelipon su L'Indipendente il 15 novembre 2022.

Quante possibilità ci sono di subire un’avversità perfetta, dove ogni tassello si inserisce al posto giusto fino a formare un mosaico capace di trasformare una disgrazia in una fortunata opportunità. Come se in uno stesso giorno a un imprenditore andasse in fiamme il ristorante per il quale aveva appena stipulato un’ottima polizza antincendio e cadesse a terra il computer a poche ore della scadenza dell’assicurazione contro i danni accidentali. Non è tecnicamente impossibile, ma di certo si può dire che è nato con la camicia. È quanto accaduto a Istanbul, dove domenica è esplosa una bomba nel centralissimo viale Istiklal Caddesi provocando 6 morti e 81 feriti. Dalla nazionalità dell’attentatrice, al luogo da cui l’attacco sarebbe stato progettato, al momento in cui avviene fino al dettaglio simbolico della scritta sulla felpa indossata: ogni dettaglio di quanto accaduto è perfetto per i fini politici e militari del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.

Sono bastate poche ore per permettere alla Turchia di affermare di aver concluso le indagini sul fatto. A collocare la borsa-bomba che ha provocato il massacro sarebbe stata una giovane donna di nome Ahlam Albashir, curda di cittadinanza siriana. L’imputata è apparsa con le manette ai polsi, l’espressione smarrita e il volto gonfio e livido, nella foto diffusa dal governo. Secondo le autorità avrebbe confessato: è stata lei ed è stata addestrata dal PKK (il partito dei lavoratori del Kurdistan) come ufficiale speciale dei servizi segreti curdi per compiere l’attacco. È entrata illegalmente in Turchia attraverso il confine siriano di Afrin-Idlib, mentre le menti del PKK hanno pianificato i dettagli dal quartier generale di Kobane. Se non fosse stata presa sarebbe fuggita in Grecia, mentre sulla felpa indossata al momento dello scatto scenico diffuso dalla polizia turca esibiva la scritta “New York”. Per supportare questi dettagli non è stata fornita alcuna prova.

Di certezze in questa vicenda purtroppo ci sono solo i civili innocenti morti e feriti, perché per il resto rimangono ancora aperti diversi punti interrogativi, a partire dalla velocità con cui le autorità turche hanno risolto il caso, nonostante sia il PKK che le Syrian Demoratic Force (SDF-YPG) – le milizie curde che hanno combattuto in Siria contro lo Stato Islamico – abbiano fermamente smentito ogni responsabilità. E si tratta di organizzazioni che di solito rivendicano le proprie azioni. Di certo per ora c’è solo che ogni dettaglio fornito è perfettamente utile alla strategia del governo turco.

Da tempo Erdogan cerca di ottenere via libera al suo progetto di conquistare ulteriore territorio curdo in Siria, allargando la cosiddetta “zona cuscinetto” di confine creata grazie ad un accordo del 2019 con gli Stati Uniti. La città di frontiera da cui Ahlam Albashir sarebbe penetrata in territorio turco, Afrin, è in mano a jihadisti – che sono al governo della città dopo aver combattuto i curdi su mandato turco – in lotta tra opposte fazioni. Ankara cerca da tempo il pretesto per intervenire a ristabilire l’ordine. Quella da cui invece i vertici del PKK avrebbero ordito l’attacco è Kobane: città simbolo della resistenza curda contro lo Stato Islamico e al centro del progetto di confederalismo democratico attuato dai curdi nei territori autogovernati del Rojava, la zona sotto il loro controllo in Siria. Guarda caso è proprio la città nella quale Erdogan annuncia di voler intervenire militarmente da mesi.

Addebitare l’attentato al PKK è inoltre funzionale alle strategie politiche della Turchia, sia verso gli USA che verso Finlandia e Svezia che necessitano del via libera di Ankara per coronare l’obiettivo di entrare nella NATO. Questo potrebbe rappresentare un ulteriore indurimento delle operazioni militari del governo contro i curdi nella Turchia sud orientale, in Iraq e in Siria. Operazioni che a dire il vero non si sono praticamente mai fermate, dati i numerosi raid aerei occorsi negli ultimi mesi contro le presunte basi del PKK, nella regione del Kurdistan iracheno. Inoltre questa ipotesi tornerebbe utile anche per l’impasse emersa dalla richiesta di ingresso nella NATO da parte di Svezia e Finlandia. L’ingresso di nuovi paesi nell’alleanza Atlantica deve essere approvato da tutti i paesi membri. La Turchia si sta opponendo all’ingresso dei due proprio in relazione alla questione curda, per Ankara pericolosi terroristi, mentre per le due democrazie nordeuropee una minoranza perseguitata a cui garantire asilo politico. O almeno cosi era prima dello scoppio della guerra in Ucraina.

I vertici del governo di Ankara, non hanno inoltre esitato a lanciare un attacco agli Stati Uniti. «Non accettiamo il cordoglio dell’ambasciata statunitense, lo respingiamo» ha detto il ministro dell’Interno della Turchia, Suleyman Soylu, paragonando il telegramma della Casa Bianca nientemeno che a un «assassino che si presenta per primo sulla scena del crimine». Gli Stati Uniti in Siria sono alleati delle SDF, le milizie a maggioranza curda che hanno combattuto, con il supporto americano e di altri paesi occidentali, per liberare le zone della Siria che erano cadute sotto il dominio dello Stato Islamico. Che Ankara al pari del PKK considera pericolosi terroristi. Il dettaglio della felpa con scritto “New York” indossata (o fatta indossare) dalla presunta attentatrice è un particolare simbolico che palesa scenograficamente la connessione tra i curdi e gli Stati Uniti.

Non è mancata inoltre una frecciatina anche contro la Grecia, dove secondo i turchi l’attentatrice sarebbe fuggita se non fosse stata arrestata. Tra Turchia e Grecia esistono diverse controversie aperte nel Mediterraneo, e i due governi non sono nuovi a scambiarsi accuse reciproche, nonostante l’appartenenza comune dei due alla NATO.

Non si può inoltre non considerare le ripercussioni che l’attentato potrebbe avere a livello interno in vista delle prossime elezioni politiche previste nel 2023. Secondo i sondaggi, il partito del presidente Erdogan (AKP – Partito della Giustiza e dello Sviluppo), sarebbe in calo di almeno 10 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni a causa delle condizioni economiche e delle divisioni interne al partito stesso. A settembre 2022 l’inflazione in Turchia ha raggiunto livelli record che hanno toccato l’83% portando ad un conseguente aumento considerevole dei prezzi dei beni di prima necessità. Il momento è quantomai propizio per saldare l’opinione pubblica di fronte al nemico esterno.

Una poderosa mole di particolari che convergono tutti insieme fino a trasformare una tragedia in una occasione perfetta. Questo significa che il regime turco si sia auto inflitto l’attentato? Naturalmente non ci sono indizi in questo senso e anche se così fosse verosimilmente non ce ne sarebbero. Le variabili circa i possibili autori, dopotutto, possono essere tante: da gruppi jihadisti, a diverse fazioni politiche, fino al singolo fomentato che non risponde ad organizzazioni né ad apparenti logiche o strategie. Di certo la Turchia, risolvendo il caso a tempo di record, ha trovato il colpevole perfetto inserito nel contesto perfetto. Ultimo tassello: è dagli anni ’90 che il PKK ha abbandonato la strategia di utilizzare anche il terrorismo per perseguire l’obiettivo dell’indipendente del Kurdistan e in passato, quando lo fece, aveva sempre rivendicato le azioni. La scelta di tornare a farlo proprio mentre è in atto a livello internazionale una compagna per la sua rimozione dalla lista delle organizzazioni terroriste di Stati Uniti e Unione Europea sarebbe quantomeno insensata e suicida. [di Andrea Legni ed Enrico Phelipon]

Quella guerra di Ataturk che salvò la Turchia. Ataturk nel 1922 salvò la Turchia dall'offensiva greca. Ma i nazionalisti si abbandonarono dopo la vittoria a terribili massacri. Andrea Muratore il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Un'epopea nazionale seguita da drammi inenarrabili. Il riscatto di una sconfitta che chiuse l'era di un Impero e inaugurò una Repubblica. La tracotanza di un vincitore trasformatasi in rotta. La guerra di tre anni (1919-1922) tra la Grecia e il Movimento Nazionale Turco di Mustafa Kemal Ataturk, detentore di fatto del potere del fatiscente Impero Ottomano, fu la più sanguinosa di quelle seguite come coda alla Grande Guerra, eccezion fatto per i cataclismi della Rivoluzione Russa. Consacrò definitivamente un leader in Ataturk, capace di riscattare, materialmente e politicamente, la disfatta bellica. E inaugurò la nuova fase del dualismo greco-turco che, nell'ultimo secolo, non ha accennato a diminuire.

Il contesto geopolitico della guerra greco-turca del 1919-1922 è legato all'onda lunga della spartizione di parte dell'Impero ottomano da parte dei governi alleati dopo la Prima guerra mondiale. Nel 1919, le forze greche ricevettero l'autorizzazione dell'Intesa a sbarcare nella città di Smirne, in Anatolia prima che con il trattato di Sèvres (10 agosto 1920) la Sublime Porta accettasse le conseguenze della capitolazione.

Alla conferenza di pace di Parigi del 1919, il capo del governo greco, Eleutherios Venizelos, aveva fatto pressione sugli Alleati per attuare il suo sogno di una "Grande Grecia" (la Megali Idea), destinata a comprendere l'Epiro settentrionale, la totalità della Tracia e l'Asia minore, in qualche modo andando a ricreare il "nocciolo duro" dell'antico Impero bizantino. Mentre tra il 1919 e il 1920 la vigilanza dei britannici su Istanbul privava la Turchia della sua regione più ricca (il Bosforo), e le forze armate nazionaliste turche affrontavano tanto le truppe francesi in Cilicia quanto i nazionalisti armeni nella regione del Caucaso i greci poterono avanzare e consolidarsi indisturbati.

Ma Ataturk seppe riscattare apertamente la disfatta. Il leader vincitore della battaglia di Gallipoli rifiutò di accettare una presenza greca anche solo temporanea a Smirne. Alla fine, i nazionalisti turchi con l'aiuto delle forze armate kemaliste sconfissero le truppe elleniche in una serie di battaglie: nel distretto di Inonu, a sud della capitale imperiale, fermarono l'avanzata greca nel cuore dell'Asia Minore nel 1921; sul fiume Sakarya (Sangarios, in greco), in una regione situata a meno di 100 km da Ankara, nell'agosto 1922 l'avanzata fu congelata definitivamente; nel settembre 1922 la guerra-lampo di Ataturk travolse, infine, gli ellenici?

Cosa era successo nel frattempo? Certo, Ataturk si presentò con l'intento di resistere e fare dell'Anatolia "una sorta di fortezza eretta contro tutte le aggressioni verso Oriente". I militari greci non capivano la necessità di un'altra guerra dopo i lutti del primo conflitto mondiale. L'avventurismo di Atene finì per compattare i nazionalisti turchi e individuare un capro espiatorio nella popolazione greca della Turchia. Ma soprattutto il governo rivoluzionario di Ankara aveva ottenuto la vittoria sugli Armeni, conquistato la Cilicia inizialmente occupata dalle truppe francesi, ottenuto la restituzione di Antalya dove erano sbarcati gli italiani e, in particolar modo, siglato proprio con Parigi e Roma un'alleanza strategica. Entrambe le potenze latine temevano gli effetti dell'espansionismo e dell'avventurismo greco sull'ordine balcanico ed esteuropeo, non volevano che una Grecia molto vicina alla Gran Bretagna consegnasse di fatto a Londra le chiavi del Bosforo e segretamente avevano iniziato nella metà del 1921, dopo gli accordi con Ataturk, ad armare il suo esercito e a fornirgli ricognizione e intelligence sui movimenti greci. A giocare un ruolo decisivo, in questo senso, fu il conte Carlo Sforza, futuro ministro degli Esteri di Alcide De Gasperi, commissario a Costantinopoli per le potenze dell'Intesa, che giocò a favore della vittoria ottomana tramando per togliere ad Atene il terreno sotto i piedi.

Tra il settembre e l'ottobre 1922 Ataturk e i suoi uomini spazzarono via i greci dall'Asia Minore. Per la Turchia questa fu una vera e propria offensiva militare e politica al tempo stesso: Ataturk ebbe gioco facile nel presentare la sua mossa militare come una guerra di indipendenza contro un aggressore baldanzoso e di utilizzare contro il fatiscente potere del Sultano Mehmed VI lo spirito repubblicano e nazionalista. L'11 ottobre i Greci lasciarono confusamente la Turchia. Un mese dopo, Mehmed si dimise e la storia dell'Impero Ottomano iniziata nel 1299 veniva archiviata definitivamente, ed è un paradosso a dirsi, proprio dopo l'estrema difesa dell'integrità territoriale del suo nucleo storico. Ataturk plasmò la Repubblica che fu istituita nel 1923 come uno Stato nazionalista e fondato sul ceppo etnico turco anche in virtù del trionfo contro le aggressioni delle potenze dell'Intesa, Grecia in testa, che volevano approfittare della vittoria nella Grande Guerra.

Chi ci rimise? Senza ombra di dubbio la popolazione civile greca dell'Anatolia. La disfatta dell'esercito e la tracotanza dei nazionalisti turchi portò a massacri continui delle comunità greche che vivevano ininterrottamente nell'area dell'Asia Minore da quasi tremila anni. Gli effetti della sconfitta militare e del genocidio in Anatolia e la conseguente ondata di profughi che si insediarono in Grecia vanno oltre i fatti politici, diplomatici e militari. Si tratta di un evento storico totale che ha determinato tutti gli aspetti della storia e della società greca dal 1922 in poi. La "catastrofe dell'Asia Minore" portò 1,2 milioni di greci a stabilirsi nella madrepatria, aumentando del 20% la popolazione ellenica. Al contempo, il Trattato di Losanna del 1923 consentì a 500mila turchi residenti nella Tracia greca di spostarsi nella neonata Repubblica.

Il culmine della catastrofe fu il rogo di Smirne, città simbolo della Grecia "asiatica" in cui i turchi entrarono il 9 settembre 1922 e che fu data alle fiamme quattro giorni dopo: lo storico e giornalista britannico Arnold Joseph Toynbee dichiarò che, al momento in cui aveva visitato la regione, aveva visto villaggi greci rasi al suolo e la città data alle fiamme in maniera dolosa. Inoltre, Toynbee raccontò che le truppe turche avevano deliberatamente incendiato le abitazioni una a una. Almeno 10mila persone morirono in quel fatto, mentre la Turchia operava politiche di vera e propria pulizia etnica. Il trionfo di Ataturk generò la creazione del seme avvelenato che guasta da un secolo i rapporti tra Ankara e Atene. Oggi, più che mai, rivali sistemici.

Le tre carte del Sultano. Come Erdogan ha sfruttato il caos geopolitico della guerra in Ucraina. Maurizio Molinari su L'Inkiesta il 20 Ottobre 2022

Nel suo ultimo libro “Il ritorno degli imperi”, Maurizio Molinari spiega che l’invasione russa ha stravolto i rapporto tra gli Stati. E il leader turco è quello che più di tutti è riuscito ad approfittare della situazione, grazie alla sua abilità di giocare su più tavoli

In attesa di conoscere quali effetti produrrà la guerra ucraina in Europa e dintorni, possono esserci pochi dubbi sul fatto che nel breve periodo il leader riuscito più di altri ad avvantaggiarsene è stato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Abile nel distinguersi all’interno della Nato per la non adesione alle sanzioni alla Russia, Erdogan si è guadagnato un accesso privilegiato al Cremlino per poi diventare fra i maggiori alleati di Kiev, fornendo droni armati che i russi non riescono a intercettare e chiudendo acque e cieli nazionali all’esercito di Mosca. L’abilità di Erdogan è di saper giocare su più tavoli con straordinaria efficacia: da un lato aprendo le porte a Svezia e Finlandia nella Nato, dall’altro incontrando Putin in più occasioni – da Teheran a Soci – per testimoniare il non isolamento internazionale della Russia.

Ciò che accomuna tali e tante mosse, apparentemente in contraddizione, è il filo rosso dell’interesse nazionale turco. Erdogan è convinto che il conflitto fra Mosca e Kiev porterà a una frattura fra Est e Ovest destinata a durare nel tempo, in Europa come nel Mediterraneo, offrendo così spazio ad Ankara per estendere e consolidare una propria sfera di influenza lì dove, fino al termine della Prima guerra mondiale, si estendeva l’impero ottomano.

A tenere assieme i tasselli del mosaico di Erdogan sono dunque decisioni che assegnano alla Turchia il ruolo di interlocutore indispensabile di ogni parte in conflitto, permettendo ad Ankara di rafforzarsi ovunque, dal Bosforo a Gibilterra, dal Nordafrica allo Stretto di Babel-Mandeb, con gli interlocutori più disparati. Più gli attori rivali sono in attrito, più entrambi hanno bisogno di lui, per il semplice motivo che la Turchia è fisicamente presente nello scacchiere conteso ed è in grado di sfruttare, con grande disinvoltura, la propria geografia a favore di tutti i contendenti. È un risiko comprensibile solo tenendo presenti gli interessi turchi e l’idea strategica che Erdogan persegue con ferrea determinazione: tornare a essere potenza egemone nel Mediterraneo ripetendo la formula dei Sultani ottomani, che si imponevano con potenza efferata, trattavano con tutti ma esitavano a intervenire nelle dispute locali fino a quando non erano minacciati direttamente.

Se il legame con la Nato e gli Stati Uniti è indispensabile a una Turchia con un’economia in affanno, afflitto da un’inflazione molto alta e interessato a essere l’unico Paese musulmano parte dell’Alleanza occidentale, è invece la dipendenza dalle importazioni di energia dalla Russia l’architrave del legame con il Cremlino. Ma tenere a galla un sistema produttivo in difficoltà, segnato da forti squilibri di ricchezza sul territorio e un aumento demografico senza freni, non è l’unica priorità di Erdogan: il presidente turco persegue anche un’idea neoimperiale sui «territori» nordafricani e mediorientali già ottomani da riconquistare e mantenere.

L’intento di fondo è estendere le aree – terrestri o marittime – sotto il controllo, diretto o meno, delle proprie forze armate: gli accordi con la Russia in Siria e Libia consentono di controllare la regione a Nord di Idlib e attorno a Tripoli, così come il legame con il Qatar costituisce la testa di ponte per le operazioni nel Golfo Persico, mentre la presenza di armi nucleari Usa nella base di Incirlik assicura una formidabile autorità in tutta l’instabile regione.

Da qui anche l’impegno nel negoziato sull’export del grano dall’Ucraina, perché la mediazione diretta fra Putin e Zelensky – con il relativo successo delle consegne in Nordafrica, Medio Oriente e Italia – trasforma la Turchia nel protagonista indiscusso del superamento di una crisi alimentare che vedeva più Paesi, dal Libano all’Egitto, rischiare il collasso.

I tavoli negoziali aperti dal «Raìs» di Ankara sono quindi molteplici: dalla richiesta a Helsinki e Stoccolma di espellere gli oppositori curdi in cambio del definitivo avallo al loro ingresso alla Nato, al braccio di ferro con Mosca e Teheran per estendere il territorio curdo siriano sotto il controllo turco, fino alla consegna di armi hi-tech americane in cambio del sostegno a Kiev, e alle forniture energetiche russe in cambio della non adesione alle sanzioni occidentali.

A Washington e Mosca c’è chi ritiene che Erdogan stia rischiando più di un corto circuito, ma il presidente turco guarda tutti dall’alto in basso, nella convinzione che chiunque voglia essere attivo nel Mediterraneo debba, per avere successo, stringere accordi con lui, riconoscendo alla Turchia il ruolo di leader regionale a cui Ankara ambisce. Anche il ritorno dei terroristi jihadisti, che hanno spostato le loro roccaforti nel Sahel e nel Corno d’Africa, in realtà è una carta a suo favore, perché nessuno come Erdogan – che ha prima flirtato con e poi combattuto contro l’Isis – conosce la dinamica interna ai gruppi islamici. Nulla da sorprendersi, dunque, se il Qatar tenti di far leva su Ankara per spingere il regime talebano in Afghanistan ad attivare un canale di comunicazione con il resto del mondo.

Il trucco di Erdogan per restare al potere: guerra totale ai curdi. A dieci mesi dalle elezioni presidenziali e politiche la Turchia vive una gravissima crisi economica e il Sultano perde consensi che prova a recuperare con il solito metodo: la repressione. Ezio Menzione, Osservatore Internazionale UCPI, su Il Dubbio il 10 luglio 2022.

Nella primavera del 2023 in Turchia si terranno le elezioni, parlamentari e presidenziali. I sondaggi danno lo AKP, il partito di Erdogan, in deciso calo, e tale da non raggiungere la maggioranza nemmeno col suo partner nella attuale dittatura, il fascistissimo e islamissimo MHP. Addirittura, in termini assoluti, l’AKP verrebbe secondo dopo il CHP, di opposizione moderata, che ha già in mano le amministrazioni delle maggiori città.

Il calo di consenso dell’AKP è dovuto, secondo ogni osservatore, alla crisi economica che dal 2018 sta colpendo le classi più disagiate con disoccupazione e intollerabile aumento dei prezzi, in generale, e in particolare dei generi di prima necessità. Si noti che la maggioranza presidenziale del 52% anche alle ultime elezioni era stata costruita attraverso l’alleanza con lo MHP, che ci mise il suo 7%, che sarebbe andato disperso perché in Turchia vi è una soglia dell’ 8%. È mai possibile che Erdogan si rassegni a lasciare la sua posizione senza porre in atto manovre e trucchi per cercare di ricostituire il vecchio consenso? L’attivismo di Erdogan sullo scenario internazionale è volto ad accreditare una Turchia di cui non si può fare a meno se si intende preservare l’ordine geopolitico attuale. Questo dovrebbe consentire anche di portare aggressioni per esempio verso la Siria, o nei territori dei curdi siriani, così come anche recentemente più volte verso quello dei curdi irakeni.

Ciò consente alla Turchia di additare un proprio indebolimento come un venir meno delle garanzie di stabilità non solo del Mediterraneo orientale, ma di tutto il Medio Oriente, costringendo le potenze occidentali non solo a chiudere gli occhi sul tema dei diritti umani e civili, ma a consentire politiche di aggressione verso Siria, Cipro, Libia, Irak. Il presentarsi come mediatore necessario nel conflitto russo- ucraino ne dovrebbe fare un soggetto indispensabile nel panorama occidentale. Non ci sarebbe da meravigliarsi che prima o poi Erdogan ricominciasse a bussare alle porte dell’Ue. Una politica estera che vede Erdogan così ben piazzato è moneta che egli può spendere anche per tappare le falle di consenso in politica interna.

Il tallone d’Achille è l’economia, in tutte le sue declinazioni ( finanza, industria, occupazione ecc.) ed è anche il terreno su cui si vincono elezioni. Di fronte ad una crisi verticale che attanaglia il paese da 4 anni, soprattutto in quei settori, come l’edilizia, su cui si fondava il consenso del “sultano”, e che fa viaggiare l’inflazione a tre cifre (120% annuo, ma sui beni che interessano le fasce più basse sale al 165%), Erdogan non intende tirare i freni del credito. Ha cambiato governatore della banca centrale 4 volte negli ultimi tre anni proprio perché la ruota dovrebbe continuare a girare e garantire un certo livello di consenso negli strati intermedi e soprattutto imprenditoriali. E’ chiaro il ragionamento: più debiti faccio, soprattutto verso l’estero, e meno questi debiti saranno esigibili, perché troppo elevati. Se le banche tedesche ( ma anche italiane) dovessero richiedere i propri crediti ad Ankara non solo fallirebbe il governo, ma anche le incaute banche tedesche ( e italiane). E’ un po’ lo stesso principio che governa la politica estera: Erdogan non può essere lasciato andare in malora.

Come sappiamo, Erdogan ha fatto dei rifugiati ( soprattutto siriani) una merce di scambio con l’Europa. Tu paghi, ed io trattengo i rifugiati. Così negli ultimi anni ha incassato 10 miliardi di euro, e ha dovuto ospitare nei campi ( tutti ormai militarizzati) fino a 6 milioni. Oggi, però, le classi meno abbienti addossano la colpa della crisi ai rifugiati, che sottrarrebbero lavoro e benessere (!) ai turchi. Erdogan da un lato continua a minacciare la EU di spedirgli i rifugiati trattenuti, dall’altro si è impegnato a rispedirne a casa 2 milioni e ottocentomila.

Erdogan ha fatto passi indietro su tutta la linea (amministrazione, scuola, cultura) per quanto riguarda il riconoscimento dell’autonomia dei curdi. I sindaci curdi sono in galera e i comuni del Kurdistan sono governati da prefetti. Ma l’offensiva è soprattutto sul piano politico, cercando di mettere fuori legge lo HDP, terzo partito del panorama turco, di sinistra non solo curdo, ma capace di raccogliere oltre il 10 % di consensi fra gli strati medio bassi.

Da tempo i leader locali e nazionali ( compreso Demirtas, il segretario del partito, e la sua vice) sono in galera. E’ facile immaginare che l’assalto finale verrà sferrato nei mesi immediatamente precedenti le elezioni, così che esso non abbia il tempo di ricostituirsi con un’altra bandiera o tramite un’altra alleanza. Siccome chi decide sulla messa fuori legge di un partito è la Corte Costituzionale, Erdogan ha rafforzato la presenza conservatrice al suo interno tramite la nomina di un nuovo giudice di strettissima osservanza AKP. Accanto alla messa fuori legge dell’HDP, c’è poi un progetto di legge elettorale, con riscrittura dei confini dei collegi, ma soprattutto con un “premio” per chi si presenta in coalizione, nel presupposto che lo AKP si presenterà sicuramente assieme all’MHP, mentre per l’opposizione è più difficile raggiungere l’accordo.

Siamo abituati a pensare che una dittatura al declino possa fare dei timidi accenni di apertura soprattutto sul piano delle libertà e della politica giudiziaria. Non vanno così le cose in Turchia, anzi.

I dossier politico- giudiziari aperti si stanno concludendo nel peggiore dei modi, con pene più che esemplari: il processo all’imprenditore filantropo Kavhala (per il quale era intervenuta due volte la CEDU perché fosse liberato) e il cosiddetto caso Gezi Park si è chiuso con la condanna dell’imprenditore all’ergastolo e degli altri 8 imputati (di cui due avvocati; odiati da Erdogan come rappresentanti di una borghesia illuminata che non si vuole piegare) a 18 anni con immediata carcerazione. Non meglio andranno i moltissimi processi contro gli avvocati e i giornalisti.

Recentemente è stato nominato vice Ministro della Giustizia il famigerato giudice Akin Gurlek, quello che dava tre anni di condanna agli Accademici per la Pace che avevano firmato un appello per la non aggressione in Siria, laddove gli altri giudici “contenevano” le condanne attorno all’anno, con la condizionale: finché non è intervenuta la Corte Costituzionale affermando che l’appello era una libera espressione del pensiero. Lo stesso giudice nel marzo 2019 condannò praticamente con una finzione di processo 20 avvocati del CHD a pene che vanno da 3 a 18 anni. Il giudice più reazionario che ha messo le mani in pasta nei dossier politicamente più rilevanti.

Erdogan è molto attento anche sul fronte della politica culturale e dei diritti individuali, anche perché incalzato dagli islamisti fondamentalisti, che fanno il bello e il cattivo tempo tramite il potentissimo Direttore degli Affari Religiosi, e dunque eccoci alla disdetta della Convenzione di Istanbul per la tutela delle donne, i un paese in cui i femminicidi ammontano a uno al giorno di media; al divieto del Gay Pride e all’attacco all’intera comunità LGBT+; alla stretta sulle nomine dei rettori dei vari atenei; ai divieti di spettacolo per chiunque sia lontanamente schierato con l’opposizione. Per non parlare dell’informazione e della persecuzione dei giornalisti della carta stampata e della TV ( ma l’attacco è anche contro i social).

Insomma, il “sultano” sembra convinto che il suo consenso debba nutrirsi, anche in questa fase declinante, di repressione e violazione di ogni diritto, civile e politico. Altri trucchi? Difficile dire come Erdogan agirà se dovesse intravedere una sicura sconfitta. Un rinvio delle elezioni? E per far questo? Un nuovo stato di emergenza? E per giustificare questo? Una serie di attentati “pilotati” o un secondo tentativo di colpo di stato assai benvenuto? Chissà, staremo a vedere. 

Domenico Quirico per “La Stampa” il 19 luglio 2022.

Guardate Erdogan. Come si muove, come stringe le mani, come è elegante e sornione, come ascolta con compostezza e gravità, con incoraggianti cenni di testa, le battute dei suoi colleghi della Alleanza, un po' scervellati, ma tanto in buona fede, poverini. Astuzia e sfrontatezza sono negli occhi e nella bocca. È un antipatico che come il canto di Orfeo, può domare anche i più feroci. 

Il guaio con lui è che tutte le volte ci diciamo, speranzosi: questa volta è al capolinea, è preso in trappola. E giù a elencare i suoi guai ciclopici, l'inflazione al settantatré per cento, la liretta turca che ha perso nei primi mesi di quest' anno il venti per cento del valore, i sondaggi che danno per sepolti, lui e il suo partito, alle elezioni del giugno del prossimo anno.

La buona notizia è che il suo goffo e muscolare «ottomanismo» non sembra più la grande idea che era fino a qualche anno fa. Le sue galere sono piene di giornalisti e oppositori, come d'abitudine tutti «terroristi». Ma la decisione di dire basta con il sultano pare aver guadagnato consensi al di fuori dei salottini di Istanbul dove noi andiamo a cercare rassicurazioni di coraggiose ma finora rare volontà democratiche. E un sultano che viene sfidato non può permettersi di perdere. Perdere significa restare senza un ruolo, diventare ridicolo. 

La cattiva notizia è che mai come oggi l'anticamera della Sublime Porta, così si chiamava il palazzo di Istanbul al tempo dei sultani-califfi, è affollata di questuanti occidentali, di riverenti, di aspiranti alleati disposti a chiudere gli occhi su tutto. La Storia si ripete.

Fino al Settecento l'impero ottomano non sprecava denaro e uomini per aprire ambasciate nei tenebrosi e incivili paesi europei. Erano questi che venivano a Istanbul a implorare uffici diplomatici e a imparare come bisognava ungere il favore dei gran visir per ottenere qualcosa dall'onnipotente sultano. 

Diavolo di un Erdogan! Son tornati quei tempi: corteggiato, adulato, invocato lui è ovunque, guizza, promette, tradisce, illude, un figaro dai mille intrighi. Si illudono i russi, la nato, gli europei di averlo afferrato e lui scivola via, se la ride infilandosi in altri intrighi, alleanze e contro-alleanze e li avviluppa in mille fili. Ci fa le lezioni. E tutti a chiedersi, a Washington, a Bruxelles, a Damasco, a Mosca: ma a che gioco gioca? che cosa cerca? 

Erdogan non è un dittatorello da paese musulmano, prevedibilmente disonesto e pittoresco. Ma il pittoresco stanca.

Lui è moderno, modernissimo. Non si abbandona alla retorica e alle astrazioni, si ancora proficuamente al prosaico e all'immediato. Non offre teologie. Offre interessi. Per questo nessuno dei «democratici» osa dirgli che è una vergogna la sua politica di repressione interna e di avventurismo internazionale. Chi, ancor un po' naif, si è lasciato sfuggire l'insulto «dittatore», poi deve correre a Canossa. Il moralismo, in un mondo fradicio di immoralità come il nostro, ha una bassa quotazione.

Un caso da manuale è il rompicapo del grano ucraino bloccato dalla guerra. Anche qui tutto sembra passare da lui, il pasto quotidiano di centinaia di milioni di uomini, una crisi alimentare da maledizione biblica, un barlume di disgelo tra mosca e Kiev. 

Stiamo in guardia: non è detto che l'happy end accada davvero. Ma anche se finirà in nulla lui ha dettato il ritmo per settimane alla diplomazia universale, ha messo insieme crediti per i prossimi anni che si farà scontare a pronta cassa, silenziosamente. Erdogan il Negoziatore: un gigante in un panorama desertico di mezze figure che non vanno oltre l'insulto o la perorazione. 

Un minuto dopo l'annuncio dell'eventuale fallimento delle trattative lui riprenderà, sornione, paziente, i suoi furbi calcoli, gli insinuanti ricatti. Perché ottiene tutto ma non concede mai nulla che sia essenziale per i suoi complicati disegni.

E forse questo è l'unico limite: che i suoi progetti sono architetture così complesse e ardite che, alla fine, proprio l'inseguirne la perfezione diventa l'unico fine. Come un architetto che disegna case meravigliose ma dove non c'è posto per dettagli come scale e cantine. 

Da ammirare da fuori, ma impossibile entrarci, inutili. Se gli levi gli intrighi, a Erdogan che gli resta? 

I baccaloni di Bruxelles, Stoltenberg mezzo guerriero e già mezzo bancario, hanno attraversato tutte le forche caudine della vergogna per strappargli il sì a Svezia e Finlandia nella Nato, gli hanno lisciato il pelo e il contropelo regalandogli un po' di curdi da gettare in pasto al nazionalismo implacabile dei turchi.

Il sultano, che li sospetta implicati nel golpe fallito del 2016, ha fatto un po' le moine, si è negato come una accorta damina del Serraglio. Poi ha detto sì. Applausoni, mai come ora la nostra amicizia per lui è andata più liscia e spedita. In realtà non ha concesso nulla, solo parole. 

Se gli arriverà qualche offerta migliore, da Mosca per esempio, provvederà a negare la necessaria ratifica nel suo parlamento come impongono i trattati della nato. Siamo una democrazia, non decido solo io... Peccato. Nessuno oserà dire niente. 

E Putin? Pensa di tenerlo ben stretto con il cappio siriano. Perché se non c'è il via libera del grande Protettore di Bashar impossibile procedere alla quarta invasione turca della Siria dopo quelle del 2016, 2018 e 2019. Trenta chilometri di fascia di sicurezza anticurdi sono pochi per Erdogan. Bisogna cacciarli indietro di un altro bel tratto, bombardarli con cura i curdi delle Ypg, i terroristi. Ma lo zar dovrebbe venir imparare da lui, dalle sue astute civetterie.

Perché Erdogan da anni pianifica e realizza aggressioni come quelle putiniane del Donbass e della Crimea, vende armi e da a servizio mercenari. Ma invece che una cateratta di sanzioni e maledizioni si inghinghera di dollari, armi e applausi. 

Vedrete che dopo aver ottenuto la complicità occidentale otterrà anche il via libera di Putin per ripulire gli angolini curdi. Mosca ne ha bisogno, unico contatto che è rimasto con l'altra parte del fronte, l'Ucraina e l'Occidente. Non si sa mai. Erdogan sa che almeno metà dei turchi è convinta che la responsabilità della guerra in Ucraina sia degli Stati Uniti e della Nato e che intravedono negli atti degli occidentali il peccato dell'islamofobia.

I cosiddetti «eurasiani», coloro che pensano che il posto adatto per la Turchia sia a fianco di Cina e Russia e non certo con gli europei e l'America, sono influenti all'interno dell'esercito e dei servizi segreti. Di cui Erdogan non può fare a meno.

La nuova guerra di Erdogan contro i curdi si chiama pulizia etnica. Alberto Stabile su La Repubblica il 27 Giugno 2022. 

Approfittando del conflitto in Ucraina il sultano di Istanbul si prepara a entrare in Siria con l’esercito. Obiettivo: costringere la popolazione del Kurdistan siriano ad emigrare e insediare qualche milione di rifugiati arabi

Sul grande scacchiere della crisi scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina ha saputo guadagnarsi e mantenere, almeno finora, una posizione strategica centrale, in grado al tempo stesso di promettere fruttosi rapporti con la Russia di Putin pur restando membro della Nato. Ma poiché è un giocatore capace di esibirsi su diversi tavoli contemporaneamente, è sul Levante che il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, si prepara a fare la sua puntata “all-in”: lanciando la quarta operazione militare in sei anni nel Nord Est della Siria, allo scopo di allontanare gli indipendentisti curdi dalla frontiera ed allungare ulteriormente la cosiddetta “fascia di sicurezza”, profonda 30 chilometri, in parte già sotto controllo delle forze armate turche e delle milizie loro alleate.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - La presidenza della Repubblica turca ha lanciato una campagna sui social per modificare il nome con cui la Turchia è conosciuta a livello internazionale (in inglese 'Turkey') con il termine in lingua turca per definire il Paese, ovvero 'Türkiye'.

Il quotidiano Milliyet ha presentato la campagna '#SayTürkiye' che segue un'altra iniziativa denominata #HelloTürkiye lanciata a dicembre quando la decisione è stata annunciata dal presidente Recep Tayyip Erdogan.

Il nuovo nome "rappresenta ed esprime la cultura, la civiltà e i valori della nostra nazione nel mondo migliore", ha affermato il leader turco incoraggiando le aziende ad utilizzare la denominazione 'made in Türkiye' nei prodotti destinati all'export. 

Il progetto si pone l'obiettivo di arrivare a cambiare il termine 'Turkey' con 'Türkiye' in passaporti, documenti di identità, siti web istituzionali e nelle versioni internazionali dei social delle aziende turche.

Molte pagine web ufficiali hanno già modificato il nome mentre i giornalisti della versione in lingua inglese della tv pubblica turca Trt World hanno iniziato nelle scorse settimane ad utilizzare il termine 'Türkiye'. 

"Riteniamo che sia significativo utilizzare l'espressione 'Türkiye' nell'arena internazionale per rafforzare ulteriormente il marchio e la reputazione del nostro Paese", ha fatto sapere il direttore delle comunicazioni presidenziali Fahrettin Altun che ha ideato la campagna. 

Secondo media locali, Ankara punta nelle prossime settimane a registrare ufficialmente il termine 'Türkiye' presso le Nazioni Unite.

Erdogan scrive all'Onu: "Ora siamo Turkiye, non Turkey" La Turchia non vuole più essere un tacchino. Dal “Fatto Quotidiano” il 6 giugno 2022.  

Altro successo internazionale per Erdogan: la Turchia, come scrive il Post, non si chiamerà più come un tacchino. "La Turchia - si spiega - ha chiesto ufficialmente alle Nazioni Unite di essere chiamata in modo diverso da qui in avanti. Il suo nome non sarà più Turkey', la versione inglese usata fino ad ora a livello internazionale, ma Turkiye', il nome turco che viene già usato in Turchia.  

La richiesta, fa parte di una campagna di rebranding, cioè di rinnovamento d'immagine, avviata nel paese dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan a dicembre dello scorso anno".  

Mai più tacchini: "Tra le ragioni del cambiamento, c'è anche il fatto che il paese non voleva più essere associato al tacchino (che in inglese si chiama appunto `turkey) e ad alcuni significati poco lusinghieri che il Cambridge English Dictionary attribuisce a questo termine, come 'qualcosa che fallisce miseramente' o 'una persona stupida e ridicola". L'Onu ha già ratificato, che nessuno irriti il sultano.

·        Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Mohammed bin Salman, gli Stati Uniti sostengono l’immunità nel processo per l'omicidio Khashoggi. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022.

L’opinione è arrivata dal dipartimento di giustizia su richiesta del dipartimento di Stato . La fidanzata di Khashoggi: «Biden ha tradito Jamal»

Il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha raccomandato l’immunità per il principe saudita Mohammad bin Salman, per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi avvenuto nel consolato saudita di Istanbul nel 2018. Il caso è sotto esame di un tribunale americano, in seguito alla denuncia della fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz. Un rapporto della Cia desecretato proprio dal presidente Joe Biden indica che il leader de facto dell’Arabia saudita sarebbe il mandante di quell’omicidio. Ora il dipartimento di Giustizia, senza scendere nel merito delle colpe del principe, scrive che la legge internazionale non permette di processare i capi di stato di altri paesi: a settembre Mohammed bin Salman (spesso identificato attraverso le sue iniziali, Mbs) è diventato infatti formalmente primo ministro (anche se era di fatto al potere dal 2017). La decisione ultima spetterà al giudice, ma un tribunale degli Stati Uniti non rovescerebbe mai una raccomandazione simile da parte del dipartimento di Giustizia, dicono gli esperti. 

Era da considerarsi improbabile che gli Stati Uniti, partner commerciale e alleato dell’Arabia saudita, facilitassero l’arresto di Mbs. Ma garantirgli l’immunità in questo modo ha provocato le proteste dei gruppi per i diritti umani. La fidanzata di Khashoggi che richiede un risarcimento di danni da parte del Regno saudita, ha accusato Biden di aver tradito il giornalista: «Oggi Jamal è morto di nuovo». 

La segretaria generale di Amnesty International Agnes Callamard ha criticato sia Trump che Biden per la scelta di archiviare il caso. Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva di Dawn, ha scritto su Twitter che è «assolutamente paradossale che Biden abbia assicurato che Mbs sfugga alla giustizia, visto che proprio questo presidente aveva promesso agli americani che avrebbe fatto tutto il possibile perché ci fosse giustizia». Il figlio di un agente della sicurezza in esilio in Canada, Saad al-Jabri, dichiara che questa decisione dà al leader saudita «licenza di uccidere». Il Regno saudita ha condotto un processo a porte chiuse, nel quale ha concluso che la morte di Khashoggi è stata il risultato di un’azione «fuori controllo» di agenti mandati a persuadere il giornalista a tornare a casa, negando ogni responsabilità di Mbs. L’episodio va letto anche nel contesto della necessità di Washington di migliorare i rapporti con il principe. Dopo aver giurato di fare dell’Arabia saudita uno «Stato-paria», Biden ha detto la scorsa estate di voler «ricalibrare» i rapporti. 

A luglio, dopo il famoso pugno contro pugno con il principe (si voleva evitare una stretta di mano, ma le critiche sono state anche maggiori), le cose non sono migliorate. Il rifiuto di Riad di aumentare la produzione di petrolio per abbassare i prezzi negli Stati Uniti è un chiaro messaggio agli occhi dell’Amministrazione, come la relazione di Riad si rafforza con Russia e Cina. Se le elezioni presidenziali del 2024 vedranno Trump contro Biden non c’è dubbio che Mbs tiferà per l’ex presidente, che scelse Riad come prima tappa all’estero.

Omicidio Khashoggi, per gli Usa Mohammed bin Salman ha l'immunità. Redazione Esteri su La Repubblica il 18 Novembre 2022.

Non può essere processato in quanto primo ministro saudita. Il giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi è stato ucciso nel 2018 nel consolato di Riad a Istanbul. La fidanzata del reporter su Twitter: "Jamal è morto di nuovo oggi"

L'amministrazione Biden ha stabilito che al principe ereditario dell'Arabia Saudita Mohammed bin Salman dovrebbe essere concessa l'immunità nella causa intentata contro di lui dalla fidanzata del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 nel consolato di Riad a Istanbul. "Jamal è morto di nuovo oggi", ha scritto su Twitter Hatice Cengiz, cittadina turca che stava per sposare il reporter quando è stato rapito e ucciso.

La richiesta di immunità è stata avanzata dagli avvocati del Dipartimento di Giustizia su richiesta del Dipartimento di Stato perché bin Salman è stato recentemente nominato primo ministro saudita e, di conseguenza, ha diritto all'immunità in quanto capo di governo straniero. La richiesta è stata presentata nella tarda serata di ieri. Lo riporta la Cnn.

"Biden ha salvato l'assassino concedendogli l'immunità. Ha salvato il criminale e si è così coinvolto in questo crimine. Pensavamo che forse ci sarebbe stato un barlume di giustizia dagli Stati Uniti. Ma ancora una volta, i soldi sono la prima cosa", ha constato Cengiz che già a luglio aveva criticato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, per il suo incontro con bin Salman in Arabia Saudita.

"Biden è al corrente di questo processo legale ma è stata una decisione del dipartimento di Stato, che ha fatto una richiesta a quello della Giustizia", ha chiarito il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana, John Kirby, in un briefing virtuale con la stampa, a proposito della questione. 

Hatice Cengiz e Dawn, organizzazione per i diritti umani con sede a Washington fondata dal giornalista, hanno intentato una causa contro bin Salman e altre 28 persone nell'ottobre 2020 presso la Corte distrettuale federale di Washington. Sostengono che la squadra di assassini abbia "rapito, legato, drogato, torturato e assassinato" Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul e poi abbia smembrato il suo corpo. I resti del reporter non sono mai stati ritrovati.

Nourah Saeed al- Qahtani, il tweet critico del regime le costa 45 anni di carcere. Lei è un’insegnante universitaria e giornalista. L’ha condannata un tribunale speciale: «Mina l’ordine pubblico». Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 2 settembre 2022.

Sono passate appena due settimane dalla condanna a 34 anni di prigione della giovane ricercatrice universitaria saudita Salma al- Shehab che aveva criticato, sul suo account twitter, la monarchia saudita. Era la più lunga pena detentiva mai inflitta per un reato di opinione. Fino a quando non è arrivata la notizia che un’altra donna, insegnante e giornalista dovrà scontare 45 anni dietro le sbarre.

Si chiama Nourah bint Saeed al- Qahtani, giudicata da un tribunale speciale antiterrorismo che l’ha accusata di aver usato Internet per «lacerare il tessuto sociale saudita» ma anche di minare l’ordine pubblico. Troppo simili i due casi per non pensare che in Arabia Saudita sia in corso un’escalation contro chiunque dissente.

In particolare le donne, specie se con un’istruzione e una posizione sociale rilevante. Saeed al- Qahtani è infatti un’accademica che svolge il suo lavoro presso il College of Arts della King Saud University, a Riyadh. Qui insegna letteratura e critica moderna. Un particolare non secondario e che ricopre anche il ruolo di editore del quotidiano Al- Jazirah. Come la sua collega al- Shehab si è laureata in Gran Bretagna, all’università di Leeds. Anche le accuse accomunano le due donne così come l’uso dei social network che stanno diventando una spina nel fianco per il potere esercitato dal principe ereditario bin- Salman già coinvolto come presunto mandante dell’omicidio del giornalista Khashoggi. Twitter infatti, nonostante le pesanti limitazioni, è seguito da moltissimi sauditi.

L’account di al- Qahtani conta circa 6mila follower, non un numero enorme ma sufficiente a far scattare la mannaia della prigione. Attraverso i social è riuscita spesso non solo a parlare di ciò che insegna ma anche a discutere della situazione politica del suo paese. La notizia della condanna ha penetrato la cortina della censura grazie ai gruppi che difendono i diritti umani che si trovano all’estero. L’ong Dawn racconta di aver ricevuto documenti relativi alla vicenda da una fonte giudiziaria.

Secondo il direttore di Dawn, Abdullah Alaoudh, «nulla nelle pagine prodotte dal tribunale riguarda violenza o attività criminale ma le accuse contro di lei sono davvero tante. Stanno usando la legge antiterrorismo e la legge anti- criminalità informatica… che può criminalizzare qualsiasi pubblicazione critica nei confronti del governo».

Dawn teme che molti e molte altre sepolte nelle carceri saudite possano subire la stessa sorte di al- Qahtani. Una paura condivisa anche da un’altra organizzazione, ALQST che ha sede nel Regno Unito: «Stiamo assistendo a un allarmante deterioramento della situazione dei diritti umani in Arabia Saudita.» La situazione viene messa in relazione con l’ incontro del presidente Usa Joe Biden con il principe Mohammed, a Jeddah, il mese scorso, la Casa Bianca infatti aveva precedentemente promesso di rendere l’Arabia Saudita un paese sotto stretta sorveglianza per il suo non rispetto dei diritti umani. Cosa che però sembra aver sortito l’effetto opposto con un aumento della repressione.

Non passa giorno infatti che al di là delle condanne, non si venga a conoscenza di episodi gravi come quello che in questo momento ha costretto le autorità giudiziarie ad aprire un’inchiesta. Anche in questo caso è stata la rete a scoperchiare una storia di abusi verificatisi in un orfanotrofio, il Social Education House di Khamis Mushait. In un video pubblicato martedì scorso da un utente su twitter si vedono le forze di sicurezza fare irruzione nell’istituto e picchiare ragazze adolescenti.

Le immagini mostrano funzionari in borghese che trascinano una ragazza urlante per i capelli mentre un poliziotto la colpisce con una cintura. Le circostanze e il tempo degli avvenimenti non sono verificati ma sembra che la causa delle violenze sia stata una protesta contro la corruzione e l’ingiustizia inscenata dalle ragazze che reclamavano i loro diritti negati dalla direzione dell’orfanotrofio.

Marta Serafini per il "Corriere della Sera" il 18 febbraio 2022.

L'annuncio di lavoro era destinato a 30 macchiniste. Hanno risposto in 28 mila. Lo scenario, come ormai accade di frequente quando si parla di diritti delle donne, è quello dell'Arabia Saudita. Nel Regno di Mohammed Bin Salman di recente sono state le restrizioni al lavoro femminile ma a Riad, evidentemente, le aspirazioni femminili non sono ancora soddisfatte. Tanto più se si considera che fino al 2018 alle donne, in Arabia Saudita, non era nemmeno concesso guidare. 

Per trovare l'ago nel pagliaio, l'operatore ferroviario spagnolo Renfe, autore dell'annuncio di lavoro, ha fatto sapere che valuterà le candidature online e che, ai fini della selezione il cui termine è previsto a fine marzo, dirimente sarà la conoscenza della lingua inglese. Le 30 donne selezionate guideranno treni ad alta velocità tra la Mecca e Medina dopo un anno di formazione retribuita. Una tratta coperta per ora da 80 uomini. 

Fino a poco tempo fa, le opportunità di lavoro per le donne saudite erano limitate a certi ruoli quali insegnanti e operatrici sanitarie, nel rispetto delle regole di segregazione. Poi, la partecipazione femminile alla forza lavoro è quasi raddoppiata negli ultimi cinque anni, arrivando al 33 per cento dopo il piano di Mohammed Bin Salman di riammodernamento del regno e di apertura dell'economia, il Vision 2030. L'occupazione femminile nel settore privato è aumentata a un tasso doppio rispetto al settore pubblico nel 2019-2020, con una crescita del 40% nelle industrie ricettive e alimentari, del 14% nel settore manifatturiero e del 9% nelle costruzioni. 

Risultato, le donne ora iniziano a fare lavori una volta riservati agli uomini e ai lavoratori migranti. Ma la percentuale di donne che lavorano nel regno è ancora bassa, al 34,1% nel primo trimestre del 2021, e la disoccupazione femminile è ben oltre tre volte superiore a quella maschile, al 21,9%. 

L'Arabia Saudita di Mbs dunque punta molto sui progressi sulle questioni di genere anche a fini propagandistici - di recente alle donne è stato permesso anche di guidare i taxi - ma resta sotto osservazione sul tema dei diritti umani, a causa della repressione del dissenso che ha portato in carcere dozzine di attiviste per i diritti delle donne e per l'omicidio nel 2018 del giornalista Jamal Khashoggi. 

Come dire che 30 posti di lavoro riservati alle donne non bastano a cacciare le ombre. Da non dimenticare, poi, come le 30 candidate selezionate, prima di accettare il posto di lavoro dovranno chiedere il permesso al parente maschio più prossimo se single, o al marito se sposate. Perché così ancora è in Arabia Saudita, dove il sistema del guardiano non consente alle donne di prendere le decisioni più importanti da sole. Compreso salire su un treno per viaggiare. Figuriamoci per guidarlo.

Riad libera la principessa Basma detenuta da tre anni senza un perché. Monica Ricci Sargentini Il Corriere della Sera il 9 Gennaio 2022.

Figlia minore dell’ex re Saud, aveva criticato il principe ereditario bin Salman. Imprenditrice e attivista, scriveva articoli critici sulle condizioni di vita dei sauditi, in particolare delle donne. 

È tornata finalmente libera la principessa saudita Basma bint Saud al Saud, la più giovane dei 115 figli di re Saud che era stato rimosso dal trono lo stesso anno della sua nascita, nel 1964. La donna era stata arrestata nel 2019 insieme alla figlia Suhoud al-Sharif mentre stava per recarsi in Svizzera dove si sarebbe sottoposta a cure mediche. Nei suoi confronti non era mai stata presentata alcuna accusa specifica ma in molti avevano letto la sua detenzione come l’ennesimo «attacco» a una componente della famiglia reale che il principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) voleva rendere sempre più marginale.

Sicuramente Basma è sempre stata un personaggio «alieno» dalla monarchia saudita. Suo padre, che ha visto solo due volte, è morto quando lei aveva cinque anni ed è cresciuta prima a Beirut, poi in Gran Bretagna dove ha avuto un’educazione internazionale. Imprenditrice, è stata la prima componente della famiglia reale ad apparire sulla copertina di una rivista in Arabia Saudita, ha fondato una catena di ristoranti, un gruppo editoriale e nel 2016 ha scritto un libro, The Fourth way law, in cui elenca le quattro condizioni fondamentali per costruire una società equa: sicurezza, libertà, istruzione e uguaglianza.

Un personaggio scomodo, insomma, che, aveva deciso di tornare a vivere in Arabia Saudita nel 2016 continuando a scrivere articoli molto critici sulle condizioni di vita dei sauditi e in particolare delle donne. La principessa si era anche espressa duramente contro la repressione del dissenso messa in atto dal principe ereditario. Le sue parole avevano irritato la famiglia reale tanto che i funzionari sauditi avevano cominciato a censurare i suoi articoli, come lei stessa aveva dichiarato al britannico The Independent.

A un anno dall’arresto, nell’aprile del 2020, Basma era riuscita incredibilmente a lanciare un appello dalla prigione al re Salman e a Mbs utilizzando il suo account Twitter: «Sono reclusa in maniera arbitraria nella prigione di Al-Ha’ir, senza accuse penali o di altra natura. La mia salute si sta deteriorando a un punto che potrebbe portarmi alla morte».

A dare la notizia del rilascio delle due donne è stata, sabato, l’ong saudita Alqst, con sede a Londra, che ha ricordato come durante il periodo di detenzione alla principessa «sono state negate le cure mediche di cui aveva bisogno». Ora madre e figlia hanno fatto ritorno a Gedda ma Basma, ha fatto sapere il suo avvocato Henri Estramant, soffre di problemi di salute, tra cui l’osteoporosi, e dovrà sottoporsi a urgenti cure mediche. «Il rilascio è segno che la famiglia reale sta tentando di modernizzarsi — ha spiegato l’avvocato Estramant —, per loro è importante non avere persone detenute arbitrariamente».

Di oppositori in carcere, però, ce ne sono ancora troppi.

·        Quei razzisti come i qatarioti.

Giordano Stabile per la Stampa l’11 Dicembre 2022. 

I nostri cari emiri. Il titolo di un saggio di qualche anno fa, 2016, ora di bruciante attualità. Autori due giornalisti francesi, Georges Malbrunot e Christian Chesnot. La guerra in Siria era all'apice, Bashar al-Assad usava tutte le armi, anche proibite, per massacrare i ribelli. Le accuse contro le monarchie del Golfo, in quel momento i principali sostenitori della rivoluzione siriana, valgono agli autori anche accuse di "assadismo". 

Ma l'inchiesta guardava lontano e lo scandalo nel cuore della democrazia europea conferma tutte le loro preoccupazioni. L'alleanza tra Occidente e Paesi del Golfo, che vede la Francia fra i principali protagonisti, ha il suo lato oscuro, fatto soprattutto di corruzione. «Da una parte c'è lo scambio irrinunciabile - conferma Malbrunot - tra forniture energetiche e sicurezza, con gli Stati Uniti come garante supremo dell'esistenza stessa dei ricchissimi ma piccoli emirati, minacciati dall'Iran. Dall'altra un flusso di investimenti gigantesco verso l'Europa, sempre più spesso opaco».

È il Qatar, il Paese con il reddito pro capite più alto al mondo, 70 mila dollari all'anno, a esserne la fonte. Con la Francia il rapporto è simbiotico. 

Sboccia negli anni Novanta, ma è nel 2009, dopo la mediazione qatarina per la liberazione delle infermiere bulgare prigioniere di Gheddafi, che il presidente Nicolas Sarkozy impone una convenzione fiscale a misura dell'allora emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, compresi famigliari e amici, senza ritenute alla fonte. 

In pratica, la Francia diviene un paradiso fiscale per i ricchi qatarini. Lo shopping è gigantesco. L'Hôtel Lambert sull'Ile Saint-Louis, nel cuore di Parigi, il casinò di Cannes, quote nei principali gruppi del lusso, fino alla perla, la squadra di calcio del Psg, che sarà una delle porte d'ingresso per arrivare all'assegnazione dei Mondiali di Calcio.

Ma il trattamento privilegiato si accompagna a «innaffiatura» di uomini politici. «La maggior parte dei francesi sono stati "innaffiati" dal Qatar durante la presidenza Sarkozy - precisa Chesnot -. Doha però ha anche finanziato le campagne sia dei laburisti che dei conservatori britannici nel 2015. Mentre negli Stati Uniti la penetrazione è soprattutto emiratina e saudita: Mohammed bin Salman si è vantato si aver contribuito per il 20 per cento della campagna di Hillary Clinton nel 2016», salvo poi diventare uno dei più stretti alleati di Donald Trump. Un altro esempio di come non ci siano «preferenze di campo». 

L'importate è l'obiettivo, cioè influenzare le società occidentali. Con tutti i mezzi.

Ne hanno in abbondanza.

Qatar ed Emirati hanno sviluppato una strategia di soft power, che ha come pilastri «l'educazione, la cultura e lo sport», conferma Malbrunot: «Hanno i mezzi per comprarsi tutto o quasi: i quadri più preziosi, i club più prestigiosi, come il Manchester City, ma anche i politici. Quando c'è un problema, un ostacolo, la loro reazione può essere riassunta in una frase: "Compralo". Il risultato è che la classe politica europea ha spesso difficoltà a resistere a queste sirene». E se noi vediamo i miliardari in turbante ancora come «beduini ignoranti», loro ci percepiscono come gente che si vende facilmente «per un libretto degli assegni o un Rolex». O soldi in contanti in una valigia. Lo scandalo che ha coinvolto il patron del Psg, Nasser al-Khelaïfi, ne è un esempio. Che seguono quelli sulle mazzette alla Fifa o il finanziamento a moschee estremiste.

È dal fronte culturale che forse arrivano le minacce più insidiose. Come ancora Malbrunot ha documentato in un altro saggio, Qatar Papers, Doha è anche la principale finanziatrice di imam vicini alla Fratellanza musulmana, che diffondono una visione integralista dell'islam nelle diaspore dei Paesi arabi in Europa. L'altro volto scuro dell'Emirato. L'alleanza con i Fratelli musulmani è suggellata dall'accoglienza al loro leader Yusuf al-Qaradawi, condannato a morte in Egitto, e rifugiato a Doha fin dal 1977, dove fonda la facoltà di Studi islamici all'Università e diventa dagli anni Novanta in poi uno dei volti di Al-Jazeera in arabo. L'Emirato ha protetto il controverso imam jihadista fino alla sua morte, il 26 settembre scorso. «La soluzione è il Corano», era il suo motto. Soprattutto se oliato di petrodollari, si potrebbe aggiungere.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 28 novembre 2022.

Una finta Rimini sul lungomare di Lusail, vicino allo stadio che ospiterà la finale, la Venezia di plastica nel mall davanti al Khalifa Stadium, la copia di Manhattan costruita ovviamente in verticale nella West Bay, come la replica di Hyde Park in faccia all'università. Il trasferello dell'Occidente in mezzo al Qatar dichiara un'ambizione: somigliare al mondo quotidianamente accusato di spocchia. Questo Mondiale è un gioco di specchi deformanti, dove ognuno deve fare il conto con il proprio riflesso. 

La prima Coppa del mondo organizzata da un Paese arabo porta a un inevitabile confronto tra il calcio declinato a Ovest e quello vissuto dal Medio Oriente. Il campo doveva essere terreno di incontro solo che al momento sta esasperando le differenze e non è dato sapere se il 18 dicembre, giorno della chiusura, si arriverà all'intesa.

Ore 18, la sfida tra Belgio e Marocco è appena finita, 0-2, l'ennesima sorpresa di un torneo che non ne vuole sapere di rispettare il copione e una sfilata di costumi da leone con le bandiere della Palestina. È la causa araba, istanza che l'Europa e il Nord America maneggiano con cura e che qui sbandierano, la portano al braccio. 

È successo dopo la vittoria dell'Arabia Saudita contro l'Argentina e ricapita nella festa del Marocco, con tifosi che alzano i disegni della kefiah. Pure se non c'è nessuna diretta relazione, qui oppongono la questione territori occupati alle campagne inclusive, agli arcobaleni. Non c'è parentela o contrasto, ma è andata così e se chiedi perché non esistono spiegazioni: «Non esiste solo quello che interessa a voi». Vero, solo che si confondono piani molto distanti tra loro.

Gli arabi si sentono giudicati, ma questo non giustifica la limitazione dei diritti dovuti. Gli Europei si sentono nel giusto, ma questo contrasta la brutta abitudine, per esempio, di un certo seguito inglese ancora vestito da crociato, così come una latente superiorità colonialista che purtroppo, a sprazzi, resta in circolo. 

Doha si nutre di contraddizioni. I sostenitori del Marocco, allargati a tutti gli arabi arrivati qui, ballano davanti all'M7, il centro culturale che ospita una mostra tributo a Valentino e squarci di Roma e moda italiana che racconta proprio il gusto desiderato e l'atteggiamento condannato. Tutto insieme.

Ci sono i track food, come al Borough market di Londra e certi hanno pure quel logo sopra, il fake del cibo di strada. Fa sorridere, perché quel mercato è nato come luogo meticcio prima di essere tendenza e qui potrebbe essere lo stesso, con una popolazione al 90 per cento di immigrati, invece al momento si vede solamente la cartolina, la riproduzione. Altrove, il modello inizia a lasciarsi contaminare dalla vita locale.

Oxygen Park, dentro Education City, distretto giovane della città. È appena finita Belgio-Marocco, c'è Croazia-Canada dentro la cornice di un parco londinese. Le sdraio sul prato davanti al maxischermo, gli angoli per comprare il caffè e il pop corn, ma non c'è birra e non può essere Gran Bretagna. È un altro modo di vivere il pallone, più tiepido verrebbe da dire, almeno per chi è abituato alla passione da cui adoriamo farci devastare quando una squadra si impossessa di noi. Eppure, dopo dieci minuti, è impossibile non accorgersi dell'autenticità del posto. È diverso dall'Europa, molto, ma non è finto solo perché nessuno urla e ondeggia.

Ci sono le famiglie, tante, donne, tutte velate, che giocano a pallone con i ragazzini, plaid da picnic apparecchiati anche mentre quelli sul mega video segnano. Non sono indifferenti, sono distanti, però vogliono stare lì. Ritrovarsi sotto le luci a mongolfiera. Stare al sicuro, con i bambini piccoli e le biciclette, Aisha con un palla sotto braccio e un pupo nel passeggino, chiarisce: «Non verrei qui se sapessi di poterci trovare degli ubriachi e sarebbe un peccato perdermi queste serate».

Non si sentirebbe a proprio agio se l'atmosfera fosse quella del vero Hide Park durante gli ultimi Europei. Stavolta sì, è un'altra cultura ed è probabile che sia eccessivo etichettare come proibizionismo il desiderio di stare in un luogo pieno di gente dove le persone sono sobrie. È una possibilità, un modo di vederla e di viverla. In bilico tra imitazione e contrapposizione basterebbe non lasciare spazio alla limitazione della libertà.

Doha non è l'America degli Anni Venti, non c'è bisogno di contrabbando per trovare dell'alcol, però non è neanche un posto dove l'uguaglianza oggi è un valore. L'Europa piace quando si può mangiare allo stesso modo e diventa il nemico se difende dei principi. In mezzo a incroci quasi impossibili si gioca, ogni giorno, con la strip di Las Vegas trapiantata sulla Corniche. Prima o poi ci si incontra. Difficile che capiti durante questo Mondiale.

Qatar: come un microstato di sabbia è diventato potenza. Enrico Phelipon su L'Indipendente il 24 Novembre 2022.

I mondiali di calcio portano per la prima volta il Qatar al centro dell’attenzione mediatica mondiale, una vetrina che fino ad oggi lo stesso emirato ha sempre dato idea di voler evitare. Come se il contestatissimo evento arrivasse a segnare un punto di svolta nella storia di questo Paese grande circa come l’Abruzzo, edificato sulla sabbia e con un clima semi-invivibile, divenuto una piccola potenza economica – e quindi politica – con un Pil procapite doppio a quello dei più ricchi stati occidentali. Una lunga storia quella del Qatar, a tratti avvincente, che si basa sulla fortuna del petrolio, certo, ma non solo.

Cosa sappiamo del Qatar?

Il Paese è stato governato dal 1869 ad oggi come una monarchia ereditaria dalla famiglia al-Thani. L’attuale emiro, in carica dal 2013, è Tamim bin Hamad Al Thani, il quale detiene un’ampia serie di poteri che lo rendono di fatto quasi un monarca assoluto. All’emiro la Costituzione riconosce poteri sia esecutivi che legislativi, oltre al controllo sulla magistratura. Ad al-Thani spetta inoltre il compito di nominare il primo ministro e il gabinetto di governo, mentre l’altro organo legislativo del Paese, l’Assemblea consultiva, eletta per la prima volta nel 2021 dispone di poteri limitati che le permettono solamente di bloccare alcune leggi e di revocare i ministri. Nell’ottobre del 2021 si sono infatti tenute in Qatar le prime storiche elezioni, inizialmente previste per il 2013, le quali hanno permesso ai cittadini di eleggere 30 dei 45 membri dell’assemblea – i rimanenti 15 membri sono nominati dall’emiro. I candidati che si sono presentati alle elezioni hanno potuto concorrere, previa approvazione, esclusivamente da indipendenti, dal momento che non esistono partiti politici nel Paese. Nessuna donna è stata eletta e secondo la ONG Human Rights Watch a molti cittadini è stato comunque negato il diritto di voto, nonostante sulla carta in Qatar esista il suffragio universale.

Cenni storici

Lo scoppio della prima guerra mondiale e il declino dell’Impero Ottomano hanno spinto il Qatar sotto la sfera d’influenza della corona inglese. Nel 1916 l’allora sceicco Abdullah bin Jassim Al Thani siglò un trattato con il governo inglese che incluse il Qatar nel Trucial System of Administration, sistema studiato dall’allora governo britannico che garantiva protezione in cambio di influenza alle confederazioni tribali nell’Arabia sudorientale. Con la firma del trattato lo sceicco Abdullah si impegnava a non entrare in relazioni diplomatiche con nessuna altra potenza mondiale, se non con il previo consenso del governo britannico, in cambio di protezione militare nell’eventualità di un’invasione. Questi trattati con le confederazioni tribali della penisola arabica hanno garantito alle imprese del Regno Unito vantaggiosi contratti per lo sfruttamento del petrolio nella regione. I primi pozzi di petrolio vennero scoperti in Qatar nel 1939 e, a seguito della seconda guerra mondiale, i legami con la potenza coloniale vennero incentrati sul commercio del greggio. Il petrolio divenne quindi la prima fonte di ricchezza del Qatar, andando a soppiantare il commercio delle perle che prima di allora costituiva il principale ingresso economico. L’enorme flusso di denaro generato dal settore energetico ha permesso al Qatar di avviare un processo di ammodernamento del Paese, oltre a garantire enormi ricchezze personali alla famiglia al-Thani. Nel 1968, con il processo di decolonizzazione in atto a livello mondiale, il governo britannico – che aveva perso le colonie in India e Pakistan – annunciò l’intenzione di abbandonare anche il golfo Persico entro tre anni. Nel 1971 si dichiarano quindi indipendenti i Paesi facenti parte del Trucial System of Administration, Qatar, Bahrain e l’insieme di sceicchi che hanno poi formato gli Emirati Arabi Uniti. L’indipendenza del Qatar garantì comunque alle compagnie petrolifere inglesi e occidentali di continuare a fare affari nel regno. La guerra del Golfo del 1991 lanciò il Qatar sullo scenario internazionale consolidandolo nella sfera d’influenza occidentale. Il piccolo esercito del regno prese parte alla battaglia di Khafij, quando con i suoi carri armati fornì supporto alle truppe saudite nel respingere l’invasione irachena che arrivava dal Kuwait. Inoltre il Qatar consentì alle truppe della coalizione canadese di utilizzare il Paese come base aerea, garantendo anche l’utilizzo dello spazio areo per le operazioni militari a Stati Uniti e Francia. Nel 1995 l’emiro Hamad bin Khalifa Al Thani prese il controllo del Paese soppiantando il padre grazie al sostegno delle forze armate. Sotto Hamad, il Qatar ha conosciuto un moderato grado di liberalizzazione: vennero infatti approvati il suffragio femminile, la stesura della prima Costituzione scritta e venne lanciata anche la nota stazione televisiva Al Jazeera. Nel 2010 Hamad al-Thani riuscì ad ottenere per il Qatar anche i diritti per ospitare la Coppa del Mondo FIFA del 2022, diventando così il primo Paese del Medio Oriente ad essere selezionato per ospitare il torneo. Nel 2013, lo sceicco Hamad cedette il potere al figlio Tamin, che da allora governa il Paese.

Politica estera 

Negli anni il Qatar, grazie alle ricchezze derivate dalle risorse naturali, ha potuto assumere un ruolo di maggior rilievo a livello internazionale. Il Paese è stato fondamentale durante l’invasione dell’Iraq da parte di Stati Uniti e alleati nel 2003, tanto da divenire la sede del Comando Centrale dell’esercito Americano. Nel 2011 prese parte all’operazione militare della NATO in Libia. Operazione che porto alla cattura e all’uccisione di Gheddafi, gettando il Paese del nord Africa in uno stato di semi-anarchia che dura ancora oggi. La monarchia del Qatar è inoltre uno dei principali finanziatori delle forze di opposizione che hanno combattuto durante la guerra civile in Siria il governo di Bashar al-Assad. Anche in Yemen il Qatar ha partecipato in modo attivo, supportando le operazioni militari saudite contro il movimento ribelle degli Houthi, che durante le proteste di piazza note come "primavera araba" portò alla cacciata del presidente Ali Abdullah Saleh.

L’attivismo a livello internazionale del Qatar, e in particolare il suo ruolo durante le rivolte che colpirono il Bahrein nel 2011, ha portato ad un deterioramento delle relazioni con gli altri attori regionali. Nel 2017, adducendo il supporto del Qatar a gruppi estremisti, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e in seguito la Giordania, interruppero le relazioni diplomatiche ed imposero un blocco economico che includeva la chiusura del confine e dello spazio aereo. Il Qatar ha sempre negato di aver fornito supporto ad organizzazioni estremiste  come al-Qaeda, dato che il Paese era stato alleato degli Stati Uniti nella "guerra al terrorismo", riconoscendo tuttavia il supporto alla Fratellanza Musulmana, gruppo di stampo islamista nato in Egitto a fine anni ’20 il quale, a seguito della caduta di Mubarak nel 2011, era riuscito a far eleggere in Egitto un suo alleato Mohamed Morsi. La presidenza di Morsi venne poi interrotta bruscamente dal colpo di Stato militare capeggiato da Abdel Fattah al-Sisi, che ancora oggi governa l’Egitto. Nel gennaio del 2021, grazie alla mediazione di Stati Uniti e Kuwait, l’Arabia Saudita e il Qatar siglarono un accordo per la riconciliazione e il ripristino di normali relazioni diplomatiche. Il "boicottaggio" da parte delle monarchie del Golfo ha di fatto rafforzato il Qatar, che è stato in grado di crescere sia economicamente che militarmente grazie anche all’incremento delle relazioni con Iran e Turchia.

Leggi e cittadinanza

Il Qatar ha una popolazione di circa 2,9 milioni di persone: di queste, tuttavia, solo poco più di 380.000 sono cittadini, mentre i restanti sono immigrati. Il reddito pro capite annuo in Qatar al 2021 era di 61,276 dollari (dati della Banca Mondiale), rendendo di fatto la monarchia uno degli stati più ricchi al mondo. Le enormi entrate derivate dal petrolio hanno permesso allo Stato nel tempo di costruire un ampio sistema di sicurezze sociali per i cittadini qatarioti: scuola, sanità e abitazione sono infatti pubbliche e garantite. Un sistema sociale che potremmo definire come di benessere in cambio delle libertà politiche e civili. In Qatar non esistono infatti partiti politici né organizzazioni sindacali e la legislazione si basa principalmente sulla legge islamica, la Sharia. Punizioni corporali come frustate e lapidazione sono pene previste dalla legge, anche se sempre meno applicate, mentre omosessualità e apostasia sono considerati crimini punibili con la pena di morte. Il consumo di alcool è illegale, anche se le autorità hanno annunciato che la vendita sarà eccezionalmente permessa nelle aree per i tifosi in occasione delle partite del mondiale. Mentre le punizioni previste dalla legge vengono applicate a tutti senza distinzione di sesso o religione, lo stesso non si può dure dei benefici derivanti dalla cittadinanza, da cui milioni di immigrati sono totalmente esclusi. In Qatar esiste infatti nei fatti una forma di moderna schiavitù di migliaia di immigrati provenienti da India, Pakistan e Bangladesh. In generale, ai migranti provenienti dai Paesi poveri vengono riservati i lavori più umili e pericolosi, senza il rispetto delle più basilari norme di sicurezza. Stando ad un articolo pubblicato nel febbraio 2021 della testata inglese The Guardian, sarebbero oltre 6.500 gli immigrati morti da quanto il Qatar ha ottenuto i diritti per i mondiali di calcio. Inoltre sono stati riportati anche numerosi casi in cui ai lavoratori non sono stati pagati i salari, o sono stati sequestrati i documenti di modo che diventasse per loro impossibile lasciare il Paese.

Economia

L’economia del Qatar è basata principalmente sullo sfruttamento delle ricchezze naturali di cui il Paese dispone: gas e petrolio. I due combustibili fossili rappresentano oltre il 70% delle entrate totali del governo, il 60% del prodotto interno lordo e circa l’85% dei proventi delle esportazioni. Nonostante le dimensioni ridotte – la superficie del Paese equivale a circa la metà dell’Emilia Romagna – il Qatar detiene le terze risorse al mondo di gas naturale per dimensioni dopo Russia e Iran, ed è il secondo esportatore a livello mondiale. Il giacimento di North Field è infatti il più grande singolo giacimento al mondo per dmensioni. Oltre alla produzione di gas, può contare anche su importanti risorse petrolifere, stimate a 25 miliardi di barili. La produzione giornaliera è di circa 1,3 milioni di barili: di questi, circa 1 milione sono destinati all’esportazione. Secondo gli studi, mentendo costanti gli attuali livelli di produzione, il Qatar potrà continuare a sfruttare le proprie riserve di gas per altri 300 anni, per 80 le riserve di greggio. Il governo del Paese per diversificare l’economia sta inoltre puntando molto sullo sviluppo del settore finanziario e bancario.

Al Jazeera, media autorevole o strumento del regime? 

Il caso di al Jazeera è più unico che raro a livello globale: un media di regime, di proprietà della famiglia reale e finanziato con soldi pubblici, ma che allo stesso tempo è stato in grado, negli oltre 20 anni di attività, di guadagnarsi autorevolezza grazie ad un giornalismo di qualità. Ed in effetti l’emittente è un formidabile strumento di politica estera nelle mani del Qatar. Grazie alla sua portata – è la prima emittente in lingua araba a livello mondiale – al Jazeera permette al regno di spingere la sua narrazione quando si trattano particolari avvenimenti. Come nel caso delle rivolte della primavera araba, in cui il Qatar ha potuto incentrare l’attenzione a livello internazionale su ciò che stava accadendo in Paesi nemici. Non a caso durante gli anni del boicottaggio del Paese da parte delle vicine monarchie del Golfo, uno dei principali punti di tensione era proprio relativo al ruolo di al Jazeera. Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono stati tra i Paesi più critici del media qatariota, tanto da chiederne in diverse occasioni la chiusura. Almeno formalmente, l’emittente ha un certo grado di indipendenza dal governo, anche se numerosi critici hanno fatto notare come molto spesso le posizioni assunte dall’emittente siano coincise con quelle del governo del Qatar. In realtà, in qualche rara occasione, al Jazeera ha anche pubblicato contenuti critici sull’operato del governo. Secondo comunicazioni interne del Dipartimento di Stato americano, pubblicate da WikiLeaks, la linea editoriale del giornale sarebbe stata decisa in accordo con gli interessi politici del Qatar. Quella di al Jazeera resta indubbiamente un’informazione di qualità su molti argomenti, anche se solo parzialmente libera. [di Enrico Phelipon]

Qatar, una ex principessa trovata morta in Spagna. Francesca Caferri su La Repubblica l'1 giugno 2022.  

Kasia Galliano era la moglie separata dello sceicco Abdelaziz bin Khalifa, zio dell'attuale emiro. Fra i due era in corso un duro scontro sulla custodia delle figlie.

Se sia un giallo o meno lo chiarirà l'autopsia. Di certo è una storia drammatica fatta di soldi, amori finiti male, giudici e guerre familiari, quella che si è conclusa domenica a Marbella con il ritrovamento del cadavere di Kasia Galliano nella sua casa della località balneare spagnola.

La donna, che aveva 45 anni, era la moglie separata di Abdelaziz bin Khalifa al Thani, zio dell'attuale emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al Thani. 

Da ilmessaggero.it il 31 maggio 2022.

Giallo in Spagna: è stata trovata morta nella sua abitazione di Marbella Kasia Galliano, ex principessa del Qatar: lo riporta l'agenzia di stampa Efe, confermando anticipazioni del giornale francese Le Parisien. Secondo quanto reso noto, la donna, 46enne ex moglie di Abdelaziz bin Khalifa Al-Thani, zio dell'emiro qatariota è stata trovata senza vita domenica scorsa.

In attesa dell'autopsia, una delle ipotesi sulle cause del decesso è il consumo di qualche sostanza nociva.

In seguito alla separazione dal marito, Gallanio, di doppia nazionalità polacca e statunitense, aveva intrapreso una lunga battaglia legale riguardante la custodia delle tre figlie minorenni: le denunce della donna sono state archiviate da un tribunale parigino alcuni giorni fa, secondo la Efe.

Kasia Galliano, trovata morta l'ex principessa del Qatar: droga, l'ipotesi sconvolge il mondo. Francesco Fredella su Libero Quotidiano l'1 giugno 2022

Giallo. Kasia Gallanio, l’ex principessa del Qatar, è stata trovata morta in casa. Adesso si aprono varie piste, ma prima i fatti: la donna si trovava nella sua abitazione di Marbella, in Spagna. A lanciare l’allarme è stata una delle figlie che vive a Parigi. C'è un'ipotesi: overdose di farmaci, ma è tutta da chiarire. Kasia Gallanio aveva 46 anni ed era un'ex principessa del Qatar. Secondo fonti di polizia sarebbe stata aperta un’indagine per capire quali possano essere le cause del decesso, infatti è stata disposta l’autopsia.

La scoperta risale a domenica, scorsa, tutto è partito dopo la segnalazione di una delle sue figlie (minorenne) che si trova in Francia, a Parigi. La ragazza da quattro giorni non riusciva a parlare con la donna, il cui corpo senza vita non presentava segni di violenza. Kasia era sposata con Abdelaziz Khalifa Al-Thani (73 anni), si tratta dello zio dell’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani, che ha incontrato nel 2004 a Parigi.

Dal loro amore sono nate tre figlie, ma il matrimonio è finito da tempo dopo una durata di dieci anni. Poi c'è stata una dura battaglia legale per l’affidamento delle figlie. Sulle cause della morte circolano molte voci, ma poche conferme. Dalle prime indiscrezioni, che trapelano dagli inquirenti, la morte potrebbe essere stata causata da un’overdose di farmaci. Infatti, si dice che Kasia in passato aveva sofferto di depressione nel periodo della battaglia legate dopo le difficoltà giudiziarie.

Francesca Caferri per "la Repubblica" il 2 giugno 2022.

Se sia un giallo o meno lo chiarirà l'autopsia. Di certo è una storia drammatica fatta di soldi, amori finiti male, giudici e guerre familiari, quella che si è conclusa domenica a Marbella con il ritrovamento del cadavere di Kasia Gallanio nella sua casa della località balneare spagnola. 

La donna, che aveva 45 anni, era la moglie separata di Abdelaziz bin Khalifa al Thani, zio dell'attuale emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al Thani. E dunque, ufficialmente, una ex principessa dell'emirato. Secondo il giornale francese Le Parisien che per primo ha dato la notizia, il corpo non aveva segni di violenza e la polizia si starebbe orientando su una dose eccessiva di medicinali o di tranquillanti come causa della morte.

Gallanio, che aveva una doppia nazionalità, polacca e americana, era da anni separata dal ricchissimo marito: grazie ai giacimenti di gas, il Qatar è uno dei Paesi più ricchi del mondo. Lo sceicco Khalifa vive in esilio dal 1992 dopo essere stato accusato di aver tentato un colpo di Stato contro il fratello, l'allora emiro Hamad, ma come il resto dei reali ha proprietà e ricchezze in tutto il mondo. 

In questo mondo dorato aveva vissuto a lungo Gallanio: le foto pubblicate dai magazine britannici e francesi la mostrano protagonista di feste ed eventi mondani in abiti occidentali o in stile arabo, ma ugualmente lussuosi.

Nel 2012 la coppia si era separata e la ex consorte aveva iniziato una durissima battaglia legale contro il marito per la custodia delle tre figlie minorenni. A maggio il tribunale francese le aveva negato la custodia e aveva anzi ordinato una perizia psicologica sulla donna. Le Parisien scrive che soffriva di crisi di nervi e che si era a più riprese sottoposta a cure per disintossicarsi dai farmaci. 

«La mia cliente è stata devastata da questa decisione. Credo che sia morta di dolore», ha detto al giornale di Parigi Sabrina Boesch, l'avvocatessa che seguiva la causa di affidamento. La legale è in Spagna con le due figlie maggiori della coppia: alle ragazze, che hanno 17 anni, secondo El País è stato chiesto lunedì di identificare il corpo della madre.

Quello che è emerso in questi giorni è comunque una situazione di fortissima tensione che andava avanti da mesi. Lo scontro fra Gallanio e l'emiro infatti non si era chiuso con la decisione dei giudici sull'affidamento: ad aprile la figlia minore della coppia aveva accusato di violenza sessuale il padre, sostenendo che l'avesse toccata in maniera impropria quando aveva fra i nove e i quindici anni.

A Parigi, dove vivevano sia Gallanio che le figlie, residenti insieme al padre in una lussuosa dimora sugli Champs Elysées, è stata aperta un'inchiesta da parte della Procura dei minori. Proprio dalla figlia minore è partito l'allarme che ha portato alla scoperta del cadavere della ex principessa: ha allertato la polizia di Marbella che da giorni non riusciva a contattare la madre e così è scattato il blitz.

·        Quei razzisti come gli iraniani.

L’«uomo più sporco del mondo» è morto a 94 anni (dopo essere tornato a lavarsi). Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

L’eremita iraniano Amou Haji si era convinto, grazie agli abitanti del villaggio, a fare una doccia dopo 30 anni. Mangiava carne di manzo, fumava una pipa piena di escrementi di animali e più sigarette contemporaneamente

Per più di mezzo secolo non si era fatto nemmeno una doccia rifiutandosi di lavarsi con acqua e sapone e guadagnandosi così il soprannome di «uomo più sporco del mondo». Amou Haji, un eremita iraniano che credeva che la pulizia lo avrebbe fatto ammalare, era però riuscito ad arrivare alla veneranda età di 94 anni quando è morto, questa volta «lavato e pulito», dopo che gli abitanti del villaggio di Dejgah, nella provincia meridionale di Fars, lo avevano convinto a lavarsi per la prima volta. Il Guardian, che riporta la notizia, racconta di un uomo coperto di fuliggine che viveva in una baracca di cemento. Che mangiava carne di manzo, fumava una pipa piena di escrementi di animali e sigarette, più din una contemporaneamente, come mostra una foto pubblicata nel 2014 dal Tehran Times.

Dopo la morte di Haji, il record non ufficiale di «uomo più sporco del mondo» potrebbe andare a un uomo indiano che non aveva fatto il bagno per gran parte della sua vita. Nel 2009 l’Hindustan Times ha riferito che Kailash «Kalau» Singh, di un villaggio fuori dalla città santa di Varanasi, non si lavava da più di 30 anni nel tentativo di aiutare a porre fine a «tutti i problemi che la nazione deve affrontare». Un uomo che rifiutava l’acqua a favore di un «bagno di fuoco». «Ogni sera, quando gli abitanti del villaggio si radunano, Kalau … accende un falò, fuma marijuana e si alza su una gamba pregando Lord Shiva», scrive il giornale. «È proprio come usare l’acqua per fare il bagno — avrebbe infatti detto Singh —. Il bagno di fuoco aiuta a uccidere tutti i germi e le infezioni nel corpo».

Iran, conversioni-sfregio contro Maometto: qualcosa di impensabile. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022

«La più grande impresa degli ayatollah sarà quella di restituire la Persia a Zoroastro. Ci sono conversioni occulte anche al Cristianesimo». L'apparente provocazione viene via Social da Germano Dottori; consigliere scientifico di Limes, già docente di Studi Strategici presso la Luiss-Guido Carli, e noto commentatore tv. Ma Dottori spiega che si tratta di mera constatazione. La protesta sempre più dura contro il regime della Repubblica Islamica sta infatti mostrando in modo sempre più insistito un tipo di simbologia che fa riferimento all'identità persiana, più antica, risalente all'epoca pre-islamica. In particolare, nelle manifestazioni vengono spesso accesi fuochi. Servono a bruciare gli hijiab, ma sono anche l'antico simbolo del dio del bene Ahura Mazda, venerato appunto nei templi del fuoco: un collegamento fatto espressamente nei Social, in cui si invoca anche la liberazione della Persia dopo oltre un millennio e mezzo di occupazione e oppressione islamica.

RELIGIONE MILLENARIA

Già religione ufficiale dell'impero persiano, dopo la conquista araba lo zoroastrismo fu ridotto col tempo ai minimi termini. Nel 2012 il numero totale di zoroastriani nel mondo fu stimato tra i 111.691 e 121.962, il primo Paese di presenza degli zoroastriani non è neanche l'Iran ma l'India, dove la comunità dei Parsi è discendente di rifugiati che scapparono per non sottomettersi all'islam. Sono solo 69.000, ma rappresentano una élite estremamente importante, sa da punto di vista economico che culturale. In Iran secondo l'ultimo censimento erano, nel 2011, 25.271. Sono riconosciuti come minoranza tollerata e hanno diritto a uno dei cinque seggi riservati alle minoranze religiose in parlamento, ma è severamente vietato loro fare proselitismo. C'è poi una diaspora zoroastriana che conta ad esempio su 14.405 negli Stati Uniti, 6442 in Canada, 5500 nel Regno Unito o 2577 in Australia, che viene in gran parte da immigrati da India e Iran. Ma ad esempio 15.000 zoroastriani nel Kurdistan Iracheno, 7000 in Uzbekistan, 2700 in Tagikistan e 2000 in Azerbaigian sono invece soprattutto gente di stirpe iranica che a un certo punto ha deciso che lo zoroastrismo era vicino alle loro radici più dell'islam, e si sono convertiti negli ultimi anni. Nel Kurdistan Iracheno, in particolare, è stata una reazione alla violenza dell'Isis, e alcuni fonti affermano che gli zoroastriani vi avrebbero ormai addirittura oltrepassato la cifra di 100.000. Sicuramente 3000 curdi si sono convertiti allo zoroastrismo in Svezia. Anche in Iran c'è un movimento del genere proprio in reazione all'oppressione clericale degli ayatollah, ma finora si era tenuto nascosto, appunto perché abiurare l'islam in Iran è punito dalla legge. «Ci sono molte conversioni più o meno occulte» conferma Dottori, che aggiunge: «avendo parecchi contatti nella diaspora iraniana e anche qualcuno nella loro madrepatria ho contezza di questi fenomeni».

LAICITÀ DELLO STATO

«Zarathustra, come Gesù, è compatibile con una visione laica dello Stato. E non è che uno degli importanti contatti che ci sono tra zoroastrismo e cristianesimo». «I persiani ritengono l'islam una religione straniera, araba. Ovvero giunta da un popolo nei confronti del quale nutrono un forte complesso di superiorità culturale», conferma Dottori. Ma Dottori ricorda che anche il cristianesimo per gli iraniani che non ne possono più degli ayatollah «ha molte attrattive». «Le iraniane che migrano in Occidente spesso lo abbracciano, perché è una religione che attraverso la monogamia afferma un principio di eguaglianza tra uomini e donne». Lo storico Danel Pipes nel 2021 su Newsweek ricordò varie testimonianze sulla crescita di questo cristianesimo catacombale, che prega senza clero e edifici ecclesiastici, ma con discepoli efficienti e una rete di piccole chiese domestiche di quattro o cinque membri ciascuna. La sua leadership laica, in netto contrasto con i mullah che governano l'Iran, è costituita principalmente da donne. Data la natura clandestina di questo movimento, le stime sulle sue dimensioni sono inevitabilmente vaghe. Ma, ricorda sempre Pipes, «nel 2013, la ong Open Doors rilevò la presenza di 370.000 cristiani ex musulmani e 720.000 nel 2020; Duane Alexander Miller si avvicina a 500 mila, Hormoz Shariat parla almeno di 1 milione di Mbb e la fondazione Gamaan anche di più». Ciò anche se nel 2008 il governo ha presentato una legge per imporre la pena di morte a chiunque nato da genitori musulmani si converta a un'altra fede religiosa. «Adesso è in atto una lotta nuova», spiega Dottori. «Non si discute più di riforme, ormai è in contestazione la legittimità dell'islam politico. Se viene sconfitto in Iran, si chiude la breccia aperta nel 1979-80».

Francesca Paci per “La Stampa” il 29 novembre 2022.

Mahak Hashemi aveva sedici anni e viveva a Shiraz insieme al padre e alle due sorelline che seguiva passo passo dalla scomparsa della mamma, morta di cancro qualche anno fa. Il 24 novembre, giovedì scorso, è uscita di casa indossando il berretto da baseball al posto dell'hijab, come faceva ormai da settimane per affiancare la rivoluzione iniziata a metà settembre nel nome di Masha Amini: e non è più tornata. L'hanno cercata per due giorni, invano. 

Fino alla chiamata dell'ospedale che chiedeva agli Hashemi di recarsi in obitorio per identificare due cadaveri senza nome: uno era il suo. Sebbene la polizia parli d'incidente, la tensione per questa ennesima giovanissima vittima della teocrazia iraniana è al livello di guardia, tanto che, come già accaduto per altri attivisti massacrati di botte dal Kurdistan iraniano alla capitale Teheran, le autorità hanno proibito il funerale a Shiraz, la città del bacio ribelle tra le auto incolonnate, imponendo alla famiglia il silenzio stampa e la sepoltura del corpo spezzato dalle bastonate a Kangan.

«Non dimentichiamo, ti vendicheremo» scrivono oggi gli amici della rete Free Fire, il gioco di sopravvivenza di cui Mahak era un'appassionata. Del suo volto, tumefatto dai colpi, resta l'immagine simbolo, un seme, come il coetaneo Arshia Emamgholi Zadeh, suicidatosi un paio di giorni fa dopo essere stato in cella due settimane per aver strappato il turbante di un mullah a Jolfa, nella provincia dell'Azerbaigian Orientale. 

Come Mohammad Hossein Kamandloo, 17 anni, freddato sabato a Teheran dai basij che, premiati come i pasdaran per la loro efficienza sanguinaria, stanno volando a turno in Qatar, ospiti degli sceicchi nello stadio dei mondiali più controversi (è ormai noto che Doha ha fornito a Teheran la lista "completa" di tutti gli iraniani in procinto di entrare nel paese per le partite e ne ha respinti parecchi).

Sono passati due mesi e mezzo da quando, scioccati dall'assassinio di Masha Amini, le iraniane e gli iraniani sono scesi in strada, le prime mettendosi spontaneamente alla testa di una protesta cresciuta ora dopo ora fino a lambire le regioni più remote della Repubblica Islamica, e gli altri dietro. All'inizio è stato lo slogan apotropaico, "donna, vita, libertà". 

Poi, via via che alle coraggiose figlie più giovani si affiancavano le sorelle maggiori, le madri, i fratelli, i padri, le docenti e i docenti carichi di una cultura troppo a lungo repressa, il rifiuto dell'hijab come simbolo del potere misogino si è trasformato in rifiuto del regime stesso, "morte alla dittatura", "morte agli ayatollah". E la rivolta è diventata rivoluzione.

Sono passati due mesi e mezzo e, secondo i calcoli delle Nazioni Unite, le vittime hanno raggiunto quota 416 (300 a detta del regime), di cui oltre 50 minori. Almeno 14 mila persone sono state arrestate e centinaia condannate alla pena capitale con l'accusa di "aver dichiarato guerra a Dio" (250 nella sola città di Zanjan).

 Minacce concrete. Il boia è già entrato in azione cinque volte a Teheran mentre a Zahedan è stato appena giustiziato Mohammad Eisa Zehi e l'attivista baluco 23enne Majidreza Rahnavard è in attesa dell'esecuzione. Tutti gli occhi sono ora su Toomaj Salehi, il rapper trentunenne in carcere da ottobre su cui grava la pena di morte per il reato di "corruzione" e "incitamento alla violenza".

La Repubblica Islamica vacilla. La distruzione della casa natale dell'ayatollah Khomeini a Khomeyn, le università occupate nella capitale come a Mashhad, Esfahan, Mahabad in Kurdistan, in Baluchistan, gli scioperi a catena dei settori produttivi del Paese e le serrate dei tradizionalmente governativi bazar, i tentativi di marcia sul quartiere dove risiede la guida suprema Khamenei, la cui nipote Farideh Mooradkhani si è schierata con i ribelli paragonando lo zio a Hitler e Mussolini, scuotono le fondamenta del regime come mai erano riuscite né l'Onda verde del 2009 né le proteste per il carovita del 2018.

Le incertezze sul futuro della piazza, che al netto di una resilienza inaspettata soffre della mancanza di una leadership interna, non riducono la spinta popolare. «Trascorrere tutta la propria esistenza in dittatura lascia all'uomo pochissime opzioni, la morte, la schiavitù volontaria o il coraggio di non abbassare la testa» racconta un attivista cinquantenne al telefono da Busher. 

Dice che quelli come lui, sia pur senza successo, si sono battuti, ma che il coraggio mostrato dalle ragazzine del 2022 riscatta il popolo tutto dall'oblio. E manda la foto postata su Instagram dalla celebre attrice Ghazaleh Jazayeri.

Senza velo, senza veli. È la partita della vita. Mentre i social moltiplicano la notizia dell'ennesimo sciopero dei camionisti a Hamedan, il portavoce del ministero degli esteri Nasser Kanani replica al biasimo delle Nazioni Unite tacciandole di «utilizzo strumentale dei diritti umani». Ogni post rilancia in sovrimpressione il volto bello di Mahak Hashemi, un seme dopo l'altro. Fin quando il deserto sarà vinto.

Cosa non torna nella storia di Mahak Hashemi. Il Domani il 29 novembre 2022

La storia della ragazza 16enne uccisa durante le proteste in Iran è diventata virale anche in Italia, ma i media internazionali e le principali ong non ne parlano, mentre account social che dicono di essere legati alla famiglia dicono che è morta in un incidente

Negli ultimi giorni sta avendo grande risalto la morte di Mahak Hashemi, una ragazza di 16 anni morta in Iran la scorsa settimana. Secondo diversi media e account social, Hashemi sarebbe stata uccisa a colpi di manganello dalle forze di sicurezza del regime nel corso delle proteste in corso da mesi nel paese.

Della vicenda si sta parlando molto anche in Italia. Secondo un articolo pubblicato sulla prima pagina della Stampa di oggi, Hashemi sarebbe stata uccisa dopo essere uscita di casa indossando un cappello da baseball, un gesto che compiva da giorni in solidarietà con le proteste.

La polizia iraniana, però, sostiene che Hashemi sia morta in un incidente e ha pubblicato alcune fotografie dell’auto ribaltata a bordo della quale si sarebbe trovata la ragazza. Lo stesso affermano alcuni account social che sostengono di appartenere a membri della sua famiglia. I grandi media internazionali, per ora, trattano la vicenda con prudenza e alcuni hanno anche cancellato i riferimenti pubblicati alla storia nei giorni scorsi.

LA VICENDA

La notizia della morte di Hashemi sembra che sia stata pubblicata per la prima volta il 27 novembre dall’account twitter Iran human rights society (non affiliato alle più note Ong Ihr e Hrana). La storia ha immediatamente iniziato a circolare moltissimo. Il calciatore iraniano Ali Karimi ha condiviso la storia sul suo profilo Instagram (finendo criticato dall’agenzia delle Guardie rivoluzionarie del regime) e migliaia di utenti hanno twittato messaggi in suo ricordo. Un utente di TikTok ha postato un collage di video che sostiene siano di Hashemi.

Secondo le principali Ong vicine all’opposizione iraniana, nelle proteste iniziate lo scorso 16 settembre sono morte almeno 400 persone, tra cui molti giovani e giovanissimi che soprattutto nei primi giorni della rivolta sono stati i principali animatori della protesta.

Dopo essere circolata nei network di attivisti, la storia è stata ripresa da due testate internazionali in lingua iraniana che sostengono di aver parlato con testimoni a conoscenza della vicenda. Voice of America in persiano sostiene che un testimone abbia visto il corpo di Hashemi con il volto tumefatto. La polizia lo avrebbe restituito alla famiglia in cambio del pagamento di una grossa somma di denaro e avrebbe imposto loro il silenzio sul caso. Voice of America precisa che in realtà «non si sa molto di Hashemi» e riporta un tweet in cui viene riferito che Hashemi era nota nella comunità dei giocatori di Free fire, un videogioco per smartphone molto diffuso in Iran. 

Il sito Iranwire, un progetto portato avanti da un gruppo di giornalisti iraniani della diaspora, scrive che, secondo una persona informata sui fatti, la madre di Hashemi sarebbe morta quattro anni fa di tumore. La ragazza, uscita di casa nel fine settimana, sarebbe sparita per due giorni. La famiglia avrebbe poi ricevuto una telefonata in cui gli veniva chiesto di identificare il corpo in ospedale.

I DUBBI

La storia di Hashemi non è stata ripresa da alcuni dei principali gruppi per i diritti umani in Iran, come ad esempio Hrana, che pubblica una lista costantemente aggiornata di persone scomparse, ferite o uccise nelle proteste.

Radio Farda, parte del network Radio Free Europe/Radio Liberty finanziato dal governo americano, ha prima pubblicato un tweet sulla vicenda per poi rimuoverlo senza spiegazione. La versione persiana di Bbc, in un articolo in cui cita altri casi di persone uccise nelle proteste, si è limitata a riferire la versione della polizia, per poi aggiungere che «precedenti versioni» parlavano di morte avvenuta in seguito a percosse.

Un account Twitter che sostiene di appartenere a un familiare di Hashemi scrive che la ragazza è morta in un incidente e che sul suo conto sono state diffuse notizie false. Un account Instagram che sostiene di appartenere allo zio di Hashemi ha postato diverse storie in cui chiede di cessare con i “pettegolezzi” sulla sorte della ragazza.

Le terribili violenze in Iran non fanno notizia. Luciano Tirinnanzi su Panorama il 18 Novembre 2022.

Al G20 dei grandi della Terra nemmeno una parola sulle proteste e soprattutto sui massacri di giovani da parte della Polizia di Teheran. Fino a che punto durerà questo macabro silenzio? Le terribili violenze in Iran non fanno notizia

Iran, questo sconosciuto. I media occidentali sono così concentrati in queste settimane nel coprire crisi internazionali come la guerra russo-ucraina e nel criticare eventi come i mondiali in Qatar, che quasi non si accorgono – o ignorano del tutto – le conseguenze incendiarie della «rivolta continua» che divampa nella Repubblica islamica. Eppure, l’Iran la crisi è ormai giunta al suo terzo mese e, anziché placarsi, cresce d’intensità giorno dopo giorno. Troppo facile snocciolare i numeri degli scontri: 324 vittime tra i manifestanti, 14 mila arresti, 62 giornalisti detenuti e 40 forze di sicurezza decedute. Sono cifre preoccupanti, ma probabilmente assai sottostimate. E non aiutano a comprenderne la reale dimensione. Perché se è vero che le proteste sono state molto accese soprattutto nel Kurdistan iraniano, la regione nel nordovest da cui proveniva Mahsa Amini (l’involontaria scintilla delle proteste e prima vittima accertata del regime iraniano), è anche vero che la rivolta ha ormai contagiato l’intero Paese, dilagando pressoché ovunque e trovando proprio nella capitale Teheran il centro propulsore delle rivendicazioni dei manifestanti.

Dove, infatti, adesso arrivano anche le serrate dei negozi e gli scioperi generali delle classi lavoratrici che oggi si sono unite alle proteste delle donne, vero e proprio motore di questa pagina di storia della Repubblica islamica. Da martedì, i manifestanti hanno indetto tre giorni di cortei e raduni su larga scala per commemorare il cosiddetto «novembre di sangue»: si tratta della repressione seguita alle proteste antigovernative del 2019, quando cioè il governo degli ayatollah ordinò di soffocare ogni manifestazione di dissenso, lasciando senza vita per le strade circa 1.500 persone. Anche in questo caso, nessuno lo ricorda mai. Ma i giovani iraniani non possono dimenticare. Così come, al contrario di noialtri, non sottostimano il valore intrinseco dei simboli. Non c’è soltanto il togliersi il velo per le donne, o i baci scambiati in pubblico tra coppie nonostante siano proibiti dalla polizia morale (esti liberatori che hanno un valore immenso per una società dove la polizia morale spia e terrorizza il popolo, ed è autorizzata a calpestare ogni diritto civile). C’è molto di più. Mentre scriviamo, ad esempio, giunge la notizia che numerosi dimostranti anti-regime hanno preso d’assalto e incendiato persino la casa dove è nato l’ayatollah Khomeini, il padre spirituale della Rivoluzione islamica e il fondatore del regime. Dare alle fiamme la casa-museo della Guida Suprema non è un fatto da poco: questo fatto non solo costituisce un attacco diretto all’ordine costituito, ma segnala anche che le nuove generazioni si sono ormai convinte che la parabola della teocrazia iraniana sia giunta al suo termine naturale. Questo, signori, ha un nome preciso: si chiama rivoluzione. E vedremo cos’avranno da dire la casta religiosa e i Pasdaran che governano l’Iran con pugno di ferro, quando (e se) i giocatori della nazionale di calcio in Qatar rifiuteranno di cantare l’inno nazionale in mondovisione. Non si tratta di elementi da sottostimare, perché questa rivolta è trasversale e intercetta l’intera società iraniana: giovani e donne, operai e imprenditori, laici e religiosi, conservatori e progressisti. Solo gli ayatollah sembrano non aver ancora ben compreso la reale portata delle proteste. E difatti sinora hanno saputo soltanto comminare condanne a morte per chiunque compia «crimini contro lo Stato». Atti tanto arbitrari quanto controproducenti, che non fanno altro che aumentare il numero di martiri della nuova rivoluzione, allargando le rivolte nelle province più lontane della Persia, dove si moltiplicano gli assalti ai municipi locali, gli incendi nelle carceri, mentre nella capitale vengono erette barricate in piazza. Se è vero che il governo di Teheran non ha ancora voluto soffocare nel sangue ordinando all’esercito schierato per le strade di procedere come nel 2019, poco ci manca prima che la situazione sfugga completamente fuori dal suo controllo. E certo non aiuta il fatto che gli stessi Guardiani della Rivoluzione che dovrebbero difendere le istituzioni iraniane, siano tuttora concentrati più sul fornire armi ai russi e raggiungere la piena capacità nucleare, che non a dirimere la gravissima crisi sociale che sferza l’Iran e fomenta la rabbia del popolo.

Solo i francesi sembrano essersi accorti del peso specifico delle proteste. E lo cavalcano: «Qualcosa è cambiato in Iran» ha detto da Bali il presidente francese Emmanuel Macron, dopo che nelle ultime settimane aveva incontrato alcuni esponenti della dissidenza iraniana. «Questa è una rivoluzione delle donne, dei giovani iraniani, che difendono valori universali come l'uguaglianza di genere. È importante elogiare il coraggio e la legittimità di questa lotta» ha aggiunto, sollevando le critiche di Teheran che ha accusato Parigi di «tramare per la destabilizzazione del paese». Mentre Parigi si appresta a votare per censurare l’Iran e suo programma nucleare alla prossima riunione del consiglio dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), anche negli Stati Uniti, in Turchia e nello Stato di Israele s’inizia a considerare la caduta del regime – o quantomeno una sua radicale sterzata – come uno scenario improvvisamente possibile e attuabile. Insomma, a ben vedere nel 2022 regimi autoritari come appunto la teocrazia iraniana (non meno che la democratura russa), sembrano scricchiolare pesantemente sotto i colpi di masse critiche delle società contemporanee che – troppo vessate dall’intrusione dello Stato negli affari privati e ripetutamente colpite da crisi economiche – non intendono più accettare i metodi rozzi e brutali che hanno contraddistinto le amministrazioni al potere sin dal secolo scorso. Quel patto sociale che durava da decenni si è infine rotto, almeno in Iran, e con l’avanzare del nuovo millennio sembra affacciarsi una rivoluzione laica di cui abbiamo finto troppo a lungo che non vi fosse alcuna traccia

Gabriella Colarusso per “la Repubblica” il 22 novembre 2022.

Quando l'inglese Sterling firma il 3-0 con l'Iran, Hossein si sfoga: «Evviva, quello non è il nostro team!». «Si sono uniti a noi, in una situazione difficile, diamo loro una chance», gli risponde calmo Amir. Mentre allo stadio internazionale Khalifa di Doha va in scena uno dei match più politici di questo mondiale, Inghilterra- Iran, in una stanza privata di Clubhouse si accendono le divisioni di un Paese ferito. 

Nel salotto virtuale si sono dati appuntamento ragazzi che vivono in Iran e altri iraniani della diaspora, la cronaca della partita viene interrotta di continuo dalle notizie che arrivano dal Nord curdo dove il governo ha inviato mezzi pesanti e artiglieria per sedare le proteste di massa, e ci sarebbero almeno 13 morti, secondo la ong Hengaw. Finora sono quasi 400 le vittime della repressione, 40 i poliziotti caduti negli scontri. 

«La foto della squadra sorridente con il principale responsabile della repressione insieme a Khamenei è stata un oltraggio mentre i nostri amici muoiono in piazza!», dice Hosssein. Il 15 novembre il Team Melli aveva incontrato il presidente Ebrahim Raisi prima di partire per Doha.

«È stato un grosso errore», premette Amir, «ma meritano una seconda possibilità». Il punto in questo Mondiale iraniano non è il calcio. «Da che parte sta la nazionale? Oggi non hanno cantato l'inno, si sono presentati con la fascia nera al braccio e mi hanno reso felice. Vediamo cosa succede nella partita decisiva, quella con gli Stati Uniti: se anche allora, con tutte le pressioni che subiranno dai servizi di sicurezza, si rifiuteranno di cantare l'inno della Repubblica Islamica, perché quello non è l'inno dell'Iran, sapremo cosa hanno scelto». Ammesso che avranno ancora la possibilità di scegliere. 

Oggi il quotidiano iraniano che più rispecchia la voce del potere ultraconservatore - Kayhan , il cui direttore viene nominato dalla Guida Suprema Khamenei - sentenzia in prima pagina: traditori: «Alcuni membri della nazionale non hanno avuto onore e non hanno cantato l'inno. Iran 2-Inghilterra, Israele, Al Saud (i sauditi, ndr ), traditori interni e stranieri 6».

Ieri Teheran era deserta: chiuse scuole e università, Internet funzionava a singhiozzo. Da un palazzone di dieci piani nel quartiere Shahran si sentivano le urla di una gioia rabbiosa per i gol dell'Inghilterra. Davanti alla biblioteca nazionale dove di solito si vedono le partite c'era qualche centinaio di persone. Uno studente di 21 anni ha detto all 'Afp : «Ho sempre tifato per la nazionale, ma non questa volta perché i giocatori non hanno tifato Iran». 

Eppure in oltre due mesi di proteste pro-democrazia tanti sportivi hanno pagato il prezzo del dissenso, i calciatori Hossein Mahini e Parviz Broumand sono finiti in carcere per aver sostenuto il movimento, l'ex stella della nazionale, Ali Karimi, una delle voci più apprezzate dai manifestanti, invocato ieri anche allo stadio, vive confinato a Dubai e gli hanno sequestrato anche la casa. Pure Yahya Golmohammadi è nei guai: ex nazionale e oggi allenatore del Persepolis, la squadra più amata insieme all'Esteghlal, aveva criticato il Melli per non aver «portato la voce del popolo oppresso alle orecchie delle autorità». È stato convocato dal tribunale per dare spiegazioni. L'Iran ieri ha perso, ma nessuno ha esultato.

"Morte a Khamenei”: l’insulto dei tifosi durante la partita. E i giocatori non cantano l’inno. Storia di Mauro Indelicato su Il Giornale il 21 novembre 2022.

Quando le due formazioni sono entrate in campo, all'interno del Khalifa International Stadium di Doha, il primo pensiero è andato al comportamento dei giocatori dell'Iran. Dopo le dichiarazioni alla vigilia del capitano della nazionale iraniana, Ehsan Hajsafi, il quale ha ammesso una situazione di difficoltà nel suo Paese, da più parti ci si è chiesto se i giocatori avessero o meno cantato l'inno nazionale.

L'inno non è stato cantato e la tribuna si è spaccata. Alcuni tifosi iraniani hanno fischiato i giocatori, in segno di disapprovazione. Altri invece hanno urlato slogan contro i vertici della Repubblica Islamica.

Bocche cucite durante l'esecuzione degli inni nazionali

L'esordio dell'Iran nel girone B di Qatar 2022 era con l'Inghilterra. Una sfida già di suo politicamente molto significativa. Terminata l'esecuzione dell'inno inglese, storica perché per la prima volta è stato intonato a un mondiale “God Save The King”, lo speaker dello stadio di Doha ha annunciato quella dell'inno iraniano.

Una volta partite le note, i calciatori hanno tenuto la bocca chiusa. Nessuno ha cantato, nessuno ha fatto un pur minimo cenno a una delle strofe del testo. La prima curiosità della partita, la quale sportivamente in seguito non ha avuto molto da dire con il netto successo dell'Inghilterra, ha prodotto una notizia non secondaria.

Non cantare l'inno nazionale ha dato modo alla squadra di prendere una decisa posizione. I giocatori si sono schierati con chi da più di due mesi è in piazza nelle principali città iraniane per protestare contro il governo.

Proteste sorte all'indomani della morte di Mahsa Amini, la ragazza iraniana di origine curda deceduta all'interno di una stazione di Polizia di Teheran. Secondo le autorità locali, la morte è da ricollegare a cause naturali, ma non sono mai stati dello stesso avviso i manifestanti. I quali, al di là della richiesta della verità per accertare i veri motivi del decesso, hanno protestato anche per i motivi che hanno portato all'arresto. Mahsa Amini infatti era stata fermata per non aver indossato correttamente il velo.

L'Iran è in fiamme da oramai molte settimane. Gli scontri sono dilagati soprattutto nelle aree delle minoranze etniche, in quelle curde, azere e baluci. Teheran sospetta il coinvolgimento di attori stranieri e parla di ingerenze dei nemici storici della Repubblica islamica.

I fischi e le urla durante l'inno

Tornando a quanto accaduto all'interno dello stadio, durante l'esecuzione dell'inno oltre al silenzio dei giocatori iraniani a fare notizia sono stati anche i fischi piovuti dalle tribune. In un primo momento, non si è capito se i fischi fossero rivolti all'inno oppure ai giocatori. Se cioè il pubblico avesse preso posizione con o contro i calciatori della nazionale iraniana.

Per la verità, è molto difficile da decifrare. L'Iran è molto vicino al Qatar e dunque dal Paese sono potuti entrare migliaia di tifosi, sia sostenitori che detrattori dell'attuale governo. Non a caso prima della partita nelle gradinate sono stati notati iraniani con la bandiera della Repubblica islamica e iraniani con cartelli inneggiati ai manifestanti. Tra questi anche striscioni a favore della libertà delle donne.

Possibile quindi che il pubblico iraniano presente a Doha si sia diviso. C'è stato chi ha fischiato contro l'atteggiamento dei giocatori e chi invece contro l'inno. Una divisione che forse è specchio della spaccatura attuale all'interno della società. A questo occorre aggiungere poi che altri tifosi invece hanno urlato espressamente contro la Repubblica Islamica. "Morte a Khamenei" sarebbe stato scandito da un gruppo presente nello stadio dove da lì a breve sarebbe andata in scena la partita. A riferirlo è stata l'edizione in lingua farsi del network britannico Bbc.

Fabrizio Piccolo per sport.virgilio.it il 30 novembre 2022.

Che fosse una gara ad alta tensione, e non per motivi calcistici, lo si sapeva: Iran-Usa ai Mondiali in Qatar era una potenziale bomba ad orologeria per le implicazioni politiche tra i due paesi. Alla fine poteva andare peggio ma non sono mancati episodi da dimenticare. Un tifoso Usa con la fascia arcobaleno, ad esempio, è stato cacciato dallo stadio. Prima della gara i giocatori dell’Iran, alcuni non molto convinti, hanno cantato l’inno, a differenza della prima giornata quando rimasero tutti muti. Secondo la stampa Usa le famiglie dei giocatori sarebbero state minacciate se non lo avessero fatto. Tanti i fischi dagli spalti ma i problemi più gravi ci sono stati dopo l’incontro.

Una violenta rissa è scoppiata infatti dopo la partita. A denunciare l’accaduto è Michele Criscitiello che con un tweet riporta il video in cui c’è parte dell’aggressione, in cui è rimasto coinvolto anche l’inviato di Sportitalia Tancredi Palmeri insieme ad altri tifosi iraniani.

Il cronista è stato aggredito e fermato dagli steward che lo hanno minacciato, intimandogli di non registrare alcun filmato: ad alcuni tifosi hanno obbligato di nascondere bandiere e magliette, ad una donna hanno requisito il cellulare. Tre ragazzi iraniani residenti in Svezia che indossavano la maglietta "Woman, Life, Freedom" sono stati circondati da una trentina di addetti alla sicurezza filo-iraniani e aggrediti.

Ecco il suo racconto: "All’uscita dallo stadio escono questi tre ragazzi. Avevano una maglietta sui diritti sulle donne e avevano il volto truccato con lacrime di sangue. Li fermo, li noto, era una cosa grossissima. Gli ho chiesto – ‘Vi va bene venire in diretta?’ – uno dei tre che parla in italiano ha accettato. Preparo tutto per la diretta, ma poi si raggruppa un gruppo di 20-30 tifosi iraniani con tuniche e simboli islamici".

"Pochi secondi dopo la ragazza caccia il telefono per fare un selfie e uno dei tifosi la colpisce. Il telefono vola, loro accerchiano i ragazzi e mi allontano per salvare la videocamera. Mentre i ragazzi provano a recuperare il telefono si crea un principio di rissa. La polizia interviene e porta con sé i ragazzi, chiudendosi nella struttura dello stadio e non ci hanno permesso di accedere. Ho comunicato poi con uno dei ragazzi che ha ammesso di avere paura di uscire ma anche di rimanere lì con i poliziotti".

Teheran arresta il calciatore-simbolo (e minaccia i dissidenti ai mondiali). Storia di Manila Alfano su Il Giornale il 25 novembre 2022.  

Oltre 400 morti, 51 sono bambini, circa 14.000 persone arrestate da settembre a oggi, aumento delle esecuzioni. È il risultato della più vasta e capillare protesta nella storia della Repubblica islamica. Coraggiosa quanto sanguinosa contro il regime. Donne che chiedono pari diritti e questa volta non sono sole. In piazza, dopo l'uccisione di Masha Amini per il velo messo male, sono scesi in strada giovani, uomini di tutti i ceti sociali, studenti, lavoratori, atleti, artisti. E la risposta è sempre la stessa: violenza. Ieri il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato la repressione in Iran delle pacifiche proteste di piazza e ha deliberato l'avvio di una indagine ad alto livello. La decisione è passata con 25 voti a favore, sei contrari e 16 astensioni.

«Una crisi totale dei diritti umani», ha denunciato l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, nel corso di una sessione speciale del Consiglio dei diritti umani dell'Onu, che ha chiesto nuovamente alle autorità di «mettere fine all'uso della forza non necessario e sproporzionato» contro i manifestanti.

Dopo aver espresso la sua «profonda ammirazione per il popolo iraniano», Turk si è detto «addolorato nel vedere ciò che sta accadendo nel Paese: immagini di bambini uccisi, di donne picchiate per strada, di persone condannate a morte». E proprio ieri l'Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, Volker Tuerk, ha ribadito di non aver ricevuto alcuna risposta dall'Iran alla sua proposta di visitare il Paese. Arrivano intanto dal Paese notizie sconfortanti. Ormai il regime non guarda più in faccia a nessuno. Arrestata anche la nipote della Guida suprema dell'Iran Ali Khamenei, l'attivista Farideh Moradkhani per aver partecipato alle proteste. Ma la furia non risparmia neppure una leggenda del calcio, Voria Ghafouri, ex giocatore della nazionale di calcio iraniana e attuale difensore del Khuzestan Steel Club, catturato e portato via davanti al figlio di dieci anni per aver «insultato» il regime e «propaganda contro lo Stato». «Sono sconvolto», ha detto Andrea Stramaccioni, tecnico e commentatore Rai dei Mondiali Qatar 2022. «Ho parlato con la moglie e gli amici, hanno paura, era mio capitano all'Esteghlal». Un arresto con un tempismo perfetto. O meglio, un avvertimento perfetto. Non è un caso infatti che la cattura di Ghafouri giunge mentre ai Mondiali di calcio, lo scorso 21 novembre durante la partita d'esordio contro l'Inghilterra, i giocatori della nazionale non hanno cantato l'inno in solidarietà con le proteste. Ora sanno cosa spetterà ai disobbedienti una volta rientrati in patria. Intanto Teheran punta il dito contro i Paesi occidentali dicendo che «non hanno la credibilità morale» per dare lezioni. Intervenendo in video alla riunione d'emergenza dell'Unhrc il rappresentante permanente della Russia alle Nazioni Unite a Ginevra, Ghennady Gatilov, ha esortato «gli Stati a smettere di interferire negli affari interni della Repubblica islamica e di destabilizzare la situazione nel Paese». 

Ma nel Paese non si placano le proteste con nuovi appelli a manifestare in solidarietà con i manifestanti nelle province a maggioranza curda, in particolare nell'Azerbaigian occidentale, colpita duramente dalla repressione delle forze di sicurezza iraniane. Per arginare nuovi focolai di protesta, il governo ha dispiegato le forze di terra dei Guardiani della rivoluzione iraniana (pasdaran) nelle città e nei villaggi della provincia del Kurdistan e nell'Azerbaigian occidentale per reprimere brutalmente i manifestanti.

L'atleta si era espresso esplicitamente contro la repressione delle proteste. Il calciatore Vouria Ghafouri arrestato per "insulto e propaganda" in Iran: "Preso davanti al figlio". Antonio Lamorte su Il Riformista il  24 Novembre 2022

Il calciatore iraniano Vouria Ghafouri è stato arrestato per "insulto e indebolimento della squadra nazionale di calcio iraniana e propaganda contro la Repubblica islamica". A confermarlo l’agenzia di stampa Fars. L’arresto, riportato da Iran International, è arrivato dopo l’allenamento del calciatore con la squadra Foolad Khuzestan su decisione dell’Autorità Giudiziaria. Il calciatore, che negli anni passati aveva giocato con la nazionale, non è stato convocato per i Mondiali in Qatar dove la selezione ha protestato contro la repressione delle proteste non cantando l’inno. Gesto che ha fatto infuriare le autorità di Teheran.

Da metà settembre il Paese è attraversato da proteste, represse anche nella violenza. L’ondata di manifestazioni è stata scatenata dalla morte della 22enne Mahsa Amini, fermata dalla polizia religiosa perché indossava in maniera scorretta il velo e morta durante la detenzione. Per le autorità per un tragico malore, per la famiglia a causa di violenze subite. E così sono esplose le proteste nel Kurdistan iraniano, regione di origine della 22enne, che si sono estese in tutto il Paese. Le immagini delle manifestazioni e i gesti di protesta sono diventati virali in tutto il mondo.

E Ghafouri aveva sostenuto esplicitamente i manifestanti sui social. Aveva anche fatto visita alle famiglie delle vittime a Mahabad, in particolare a membri della minoranza curda. Già a maggio scorso Ghafouri aveva criticato il governo di Teheran per la gestione di proteste scatenate da un improvviso aumento dei prezzi. Da quel momento la sua posizione all’interno della selezione si era complicata. "Sono scioccato: ho parlato con amici a Teheran, Ghafouri è stato arrestato davanti al figlio maggiore, di 10 anni. E la moglie è preoccupatissima, come tutti noi", ha dichiarato all’Ansa Andrea Stramaccioni, tecnico e commentatore Rai dei mondiali in Qatar 2022.

Ghafouri dal 2015 al 2019 è stato capitano dell’Esteghlal, allenato nel 2019 proprio da Stramaccioni, e ha giocato la coppa d’Asia nel 2015 e nel 2015. Chiedeva lo stop alla repressione violenta, soprattutto nel Kurdistan iraniano, nei suoi ultimi post su Instagram. "Nella Repubblica islamica lo sport è totalmente politico … L’eliminazione degli atleti popolari [che parlano] ha lo scopo di coprire i crimini del governo", ha scritto una volta in un post su twitter il blogger dissidente Hossein Ronaghi, anche lui detenuto in carcere.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Iran, il mistero dell’uccisione del «colonnello dei droni». Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2022.

Daoud Jafari, colonnello dei pasdaran iraniani, esperto di droni e missili, è stato ucciso in un agguato nella regione di Damasco, in Siria. Un agguato attribuito al Mossad. E ora Teheran promette vendetta 

Il colonnello Jafari con la Guida Suprema

La guerra strisciante Israele-Iran continua per terra e per mare, spesso oscurata da crisi più gravi. L’ultimo lampo in Siria, con un’azione mirata. Daoud Jafari, colonnello dei pasdaran iraniani, esperto di droni e di missili, è stato ucciso in un agguato nella regione di Damasco, in Siria. Era a bordo di un veicolo che è stato investito dall’esplosione di un ordigno piazzato ai lati di una strada. Morta anche la guardia del corpo. 

Un agguato attribuito al Mossad, già protagonista di operazioni analoghe per contrastare i programmi bellici del regime. L’alto ufficiale – secondo alcune informazioni – aveva partecipato nel 2016 ad un’operazione con la cattura di alcuni marinai britannici finiti fuori rotta nel Golfo Persico. E per questo era stato insignito di un riconoscimento dalla guida suprema, l’ayatollah Khamenei. Cerimonia documentata dai media con una foto. Successivamente sarebbe passato alla Divisione aerospaziale, la componente che gestisce velivoli guidati in remoto, missili e sistemi apparsi su diversi fronti. 

La Repubblica islamica ha fornito droni alle milizie alleate in Yemen, Libano, Iraq e Siria, poi ne ha venduti un gran numero alla Russia che li ha impiegati nel conflitto in Ucraina. Più volte i guardiani se ne sono serviti per attaccare mercantili legati a compagnie israeliane: il 15 novembre l’episodio che ha coinvolto una petroliera, la Pacific Zirkon, al largo delle coste omanite. Fonti statunitensi sostengono che sarebbe stato uno Shahed 136, lo stesso modello di quelli che hanno causato danni nelle città ucraine. Sono mezzi lanciabili da piattaforme multiple: navi, camion oppure basi come l’installazione di Chahabar, nel sud est dell’Iran. 

Quattro i punti da considerare.

1) L’eliminazione di Jafari conferma la volontà di Israele di neutralizzare le figure che dirigono ricerca e sviluppo di sistemi moderni.

2) Gli agenti segreti, affidandosi a sponde locali, hanno condotto missioni simili contro esperti del movimento palestinese Hamas.

3) Gli ayatollah hanno creato siti sul territorio siriano per sostenere Assad ma anche per colpire lo stato ebraico. La presenza di Jafari è la prova della presenza e forse era legata a progetti speciali.

4) È un ciclo infinito, con possibili ritorsioni: Teheran ha promesso di vendicare la morte del colonnello.

Che cosa è la polizia morale in Iran: le pattuglie in divisa verde che vanno a caccia delle «malvelate». Storia di Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2022.

Tutto nasce dall’ hisbah, concetto del Corano, che invita ad apprezzare ciò che è giusto e disprezzare ciò che è sbagliato per rendere migliore se stessi e quel che ci circonda. In nome dell’ si può portare la pace nel mondo, aiutare i poveri, non rubare, non tradire come in ogni religione oppure ossessionarsi con i vestiti delle donne. Nell’Afghanistan talebano c’era (ed è tornato) un ministero per «la promozione della virtù e la repressione del vizio»: ha fruste e pietre per punire gli adulteri o le donne che col «sensuale» rumore dei loro tacchi turbano gli uomini. In Arabia Saudita e Palestina si accontentano di comitati. Nei secoli, l’hisbah ha giustificato altre persecuzioni (vino o strumenti musicali, ad esempio), ma oggi gira tutto attorno al sesso.

In Iran l’ vuol dire camionette blindate e divise verdi delle Gasht Ershad, le pattuglie della Polizia morale. Stanno (o stavano visto l’annuncio di ieri) agli angoli più trafficati e r iempiono il furgone di , le «malvelate». Un foulard caduto dai capelli, un mantò (spolverino) aderente, un mascara calcato, basta a farle finire al commissariato. A Teheran, la questura «morale» è in via Vosarah dove è stata uccisa a botte Masha Amini, la ragazza simbolo di questa incredibile rivolta «donne, vita, libertà». Lì le ragazze venivano «rieducate» a voce o a manganellate sulla scandalosità dei capelli, sui colori peccaminosi dei soprabiti, sulle diaboliche sfumature dell’ombretto. In genere firmavano di aver capito e venivano consegnate a un parente/guardiano maschio. Altre volte finiva peggio.

Difficile credere che questa stortura di un principio religioso possa svanire senza che cambi l’essenza stessa della Repubblica Islamica d’Iran. Dai tempi del fondatore Ayatollah Khomeini, la polizia morale ha avuto nomi e violenze diverse, ma non è mai sparita. Negli anni ’80 c’erano le pattuglie Jondollah della polizia e quelle Sarollah dei Pasdaran. Nel 1997 una legge introdusse ufficialmente multe, prigione e frustate per le malvelate. L’attuale Gasht Ershad nasce nel 2006 con il presidente Ahmadinejad. Il resto è la continua sfida tra donne e poliziotti. I pantaloni si sono fatti via via più aderenti, i colori brillanti, i soprabiti morbidi a seguire le curve. Un arresto, una firma e di nuovo in strada a sfidare il regime con i loro abiti. Teheran fa sapere che l’abolizione della polizia morale non significa rinuncia all’obbligo del velo. Ci sono altri modi per imporlo. Più moderni dei manganelli come le telecamere che già scrutano dentro le auto e identificano le malvelate. La prima volta sarà una multa, poi il ritiro della patente, poi il sequestro dell’auto se il guardiano maschio non vigila sulla passeggera. Se ne va, forse, la polizia morale, ma l’ossessione continua.

"Stop alla polizia morale". Ma è giallo a Teheran. E la protesta si infiamma. Annuncio dei giudici. I media: non c'è conferma. Tre giorni di sciopero, la minaccia del regime. Chiara Clausi il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Tre mesi di proteste e uno sciopero generale che comincia oggi hanno convinto il regime iraniano a dare un primo segnale di apertura, se non di cedimento. Il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri ha annunciato ieri uno stop all'attività della polizia morale, la famigerata Gasht-e-Ershad. Questo braccio delle autorità ha il compito di far rispettare il codice di abbigliamento islamico del Paese ed è il più odiato dalla popolazione. Montazeri ha parlato nella città santa di Qom: «La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l'ha creata». I commenti di Montazeri però devono ancora essere avvalorati dai vertici della Repubblica islamica. E pure secondo la tivù qatarina Al Jazeera non c'è conferma che le pattuglie siano state tolte dalle strade.

Proteste oceaniche hanno travolto l'Iran da quando la 22enne Mahsa Amini è morta il 16 settembre, tre giorni dopo il suo arresto da parte della polizia morale a Teheran. La sua morte è stata il catalizzatore dei disordini, alimentati anche dal malcontento per la povertà, la disoccupazione, la disuguaglianza, l'ingiustizia e la corruzione. Da allora le iraniane hanno bruciato gli hijab e si sono tagliate i capelli in segno di protesta e solidarietà. «Donna, vita, libertà», è diventato il grido di battaglia dei manifestanti.

Le autorità iraniane hanno accusato gli Stati Uniti, Israele e le potenze europee di essere dietro i persistenti disordini, e sostengono di aver usato la morte di Mahsa come una «scusa» per prendere di mira il Paese e le sue fondamenta. L'hijab, obbligatorio poco dopo la rivoluzione islamica del Paese del 1979, è diventato una questione ideologica centrale per le autorità iraniane. Tuttavia queste hanno recentemente affermato che potrebbero rivedere le modalità di attuazione delle regole obbligatorie sull'abbigliamento. L'Iran ha avuto varie forme di «polizia della moralità» sin dalla rivoluzione islamica del 1979, ma l'ultima versione - la Gasht-e-Ershad - è attualmente il principale strumento incaricato di far rispettare il codice di condotta dell'Iran. Questo richiede alle donne di indossare l'hijab, abiti lunghi e vieta pantaloncini, jeans strappati e altri vestiti ritenuti immodesti. Il controllo della forza spetta al ministero dell'Interno e non alla magistratura. Se confermato, però, lo smantellamento della polizia morale sarebbe una concessione ma non ci sono garanzie che basterebbe a fermare le proteste. Eloha, 43 anni, fa la traduttrice a Teheran e conferma che «l'abolizione della polizia morale è un successo, ma non è sufficiente, è una delle tante nostre richieste». Le forze della polizia andavano in giro con furgoni bianchi e verdi, e per lo più dicevano alle donne per strada di aggiustarsi il velo o le portavano nei cosiddetti centri di «rieducazione» se ritenuto necessario. I furgoni però non sono stati visti in giro per Teheran o in altre città di recente.

Le proteste intanto non sembrano raffreddarsi. I manifestanti hanno indetto ieri uno sciopero di tre giorni. Dovrebbe tenersi anche quando il presidente Ebrahim Raisi visiterà l'Università di Teheran mercoledì, in occasione della Giornata dello studente. Ma il regime ha già annunciato tolleranza zero. I dimostranti, però, chiedono anche scioperi da parte dei commercianti e una manifestazione verso la piazza Azadi (Libertà) di Teheran. Hanno pure chiesto tre giorni di boicottaggio di qualsiasi attività economica. Continuano però le repressioni del regime. Quattro uomini sono stati condannati all'impiccagione per aver collaborato con il Mossad israeliano.

Le prime crepe di un regime impaurito (che cerca consensi dentro e fuori casa). Ormai la rivolta di popolo sta minacciando gli ayatollah. Sempre più deboli in patria e isolati a livello internazionale. Fiamma Nirenstein il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Se fosse degna di fede, la notizia sarebbe molto importante, e in ogni caso divulgarla segna un cambio della scena, mostrando un regime impaurito, a caccia di consensi dentro e fuori i confini: il procuratore generale iraniano Mohamad Jafar Montazeri ha annunciato lo scioglimento della funesta «Polizia della morale» che dopo aver sequestrato Mahsa Amini perché non indossava il velo secondo le regole, ne ha poi riconsegnato il corpo torturato e senza vita alla sua disperata famiglia. Da quel momento una protesta guidata dalle donne, sempre più coraggiose, ha tenuto le piazze e le strade nonostante ormai si contino quasi cinquecento morti fra i dimostranti. L'Iran non vuole più vedere donne, dissidenti, gay imprigionati e uccisi solo per ciò che sono. La resa sulla «polizia della morale» però di fatto rivela solo che il regime è nei guai e non che cerchi soluzioni.

Alla notizia infatti si aggiungono molte «chiarificazioni» per cui il sistema giudiziario dichiara di non «perseguire dichiaratamente» il suo scioglimento, ma è la polizia stessa che «cerca una soluzione prudente», mentre il presidente Raisi annuncia che «è allo studio» una legge per modificare l'uso obbligatorio del velo. Mahsi Alinejad una protagonista delle rivolta al femminile, di recente ricevuto all'Eliseo dal Presidente Macron, ha già detto che si tratta di «disinformazione, una tattica per fermare la rivolta». Perché la rivolta è ormai diventata una strada possibile verso un cambiamento fondamentale, ed è la prima volta dopo le tante rivolte che si susseguono dal 2017. È il mondo intero stavolta, come per l'Ucraina, che non può tacere alla violazione di ogni norma etica e che chiede insieme agli iraniani un altro domani. Un esempio italiano: Antonio Tajani, ministro degli esteri, il primo di dicembre ha cancellato l'incontro bilaterale col ministro degli esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian. Un gesto di coraggio da parte di un ministro di prima fila del secondo Paese dell'Ue. Avveniva quando l'appassionato pubblico del calcio iraniano veniva sconfitto dalla squadra del Grande Satana, gli Usa. Quanto deve non poterne più il popolo e quanto ormai il consesso internazionale riconosce l'impresentabilità di un Paese che solo fino a tre mesi fa si baloccava con la speranza americana ed europea degli incontri di Vienna del «P5 più uno» spronati da Biden a rinnovare il Jcpoa, ovvero, l'accordo sul nucleare? Le cose sono cambiate, le colossali violenze e violazioni dei diritti umani, le donne senza paura e senza velo in piazza, non consentono più la gestione del rapporto con l'Iran secondo «business as usual».

Come dice l'ambasciatore Ron Dermer nel podcast Jinsa «Politically Incorrect», due cose sono accadute: il regime di paura che teneva la gente a casa si è infranto e la richiesta di cambiamento, di «regime change» è totale. In secondo luogo, si sta formando un nuovo fronte internazionale dagli Usa, all'Ue ai Paesi Sunniti contrapposti all'Iran, alle istituzioni dell'Onu, su un atteggiamento comune, che non ne può più della prepotenza interna ed esterna del regime. La gente da Teheran sente il nuovo sostegno, e ne ricava forza. Al tempo della caduta del Comunismo, l'Unione Sovietica che sembrava immortale, si spezzò di fronte alla immensa disapprovazione interna e esterna, quando ai refusenik e al biasimo morale si unì la voce americana e l'azione concreta internazionale.

Iran, dietro la lotta delle donne la rivolta generazionale contro un regime di dinosauri integralisti. Da oltre due mesi una formidabile ondata di contestazione sta scuotendo le fondamenta della Repubblica sciita: un clima bollente che ricorda la rivoluzione del 1979. Sono giovani di ogni classe sociale che chiedono più libertà, di movimento, di pensiero, di abbigliamento ricevendo in cambio solamente una repressione feroce. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 05 dicembre 2022

È una vampata che attraversa tutto l’Iran da oltre due mesi e che scuote le fondamenta della repubblica sciita. In prima linea le donne, delle grandi città, dei campus universitari ma anche nei piccoli centri di provincia dove il consenso degli ayatollah sembra ancora altissimo e la tradizione regna sovrana. E dietro di loro tutta una generazione, quella dei venti trentenni nati quando il regime aveva già esaurito la spinta propulsiva della Rivoluzione e che hanno conosciuto solamente la repressione di Stato e una classe politica di dinosauri integralisti.

Certo, negli inverni del 2017 e del 2019 in Iran ci sono state massicce proteste di piazza, ma si trattava di un movimento “classico”, perlopiù di lavoratori maschi che protestavano contro l’inflazione e la crisi economica, in particolare contro l’aumento dei prezzi del carburante, la miccia che fece scoppiare la contestazione e che come sempre fu repressa nel sangue.

Ora in piazza ci sono invece migliaia di giovani di ogni classe sociale che chiedono più libertà, libertà di movimento, di pensiero, di abbigliamento, gridando “morte alla repubblica islamica”. E la miccia stavolta è stata innescata da un orrendo crimine: la morte di Mahsa Amini, la ragazza di origine curda arrestata dalla polizia religiosa a Teheran il 16 settembre perché indossava il velo in modo «non conforme» e deceduta due giorni dopo in circostanze mai chiarite.

Il suo sacrificio ha unificato la rabbia a livello nazionale, dando vita a un movimento del tutto diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto per ampiezza e radicalità.

Non era mai capitato infatti che la polizia facesse irruzione a Narmak, quartiere popolare di Teheran e feudo dell’ex presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, una storica roccaforte del consenso al regime oggi ribollente di cortei e manifestazioni. O che alle proteste si unissero anche i proprietari agricoli o i grandi commercianti dei bazar che non proclamavano lo sciopero dalla primavera del ’79 , una classe produttiva che è sempre stata dalla parte degli ayatollah e che adesso chiede un’alternativa politica.

C’è poi una dimensione anticlericale manifesta, una messa in discussione dell’influenza claustrofobica che i vertici religiosi esercitano su tutta la società iraniana, dalla sfera privata alla vita pubblica. Lo “schiaffo del turbante”, il gesto provocatorio diventato virale sui social network con cui i giovani fanno cadere per terra i copricapo dei mullah peraltro è stato mutuato dalla Rivoluzione del ’79 quando i militanti khomeinisti sbeffeggiavano i chierici “collaborazionisti” con il sistema politico guidato dallo Scià Reza Palevi e con la sua spietata polizia segreta .

Ma il nocciolo duro del regime, religiosi, pasdaran, ufficiali dello stato maggiore, resiste, ossificato ma compatto. E rilancia, facendo quadrato attorno alla declinante guida suprema Alì Khamenei e al monopolio della violenza, rispondendo alle piazze con una repressione durissima: oltre 250 i manifestanti uccisi secondo le ong il governo parla di 150 vittime), migliaia gli arresti. Con i tribunali, che alla fine di processi farsa, hanno già emesso le prime condanne a morte per impiccagione. Decine i reporter finiti in cella il che fa dell’Iran la terza “prigione” al mondo per i giornalisti dopo la Cina e il Myanmar della giunta golpista.

Nell’impeto fanatico di ristabilire l’ordine il regime trova anche l’occasione di regolare vecchi conti aperti. Come con i poveri curdi, bombardati dalle milizie governative nelle città di Bukan, Javanrud, Mahabad e Piranshahr, teatro anch’esse di imponenti cortei e scontri con le forze dell’ordine che arrestano i feriti facendo irruzione negli ospedali. Oppure nello sperduto e sottosviluppato Baluchistan regione al confine pakistano a maggioranza sunnita che rappresenta il 3% della popolazione ma conta quasi un terzo dei manifestanti uccisi.

È questa radicalizzazione del conflitto, anche dal punto di vista militare, l’aspetto più pericoloso per Khamenei e soci, neanche più capaci di mettere in scena la dialettica formale tra riformisti e conservatori ma soprattutto di aprire canali di mediazione con gli oppositori. E le generiche accuse agli stati Uniti e alla Cia che avrebbero occultamente orchestrato le rivolte sono un mantra a cui non sembra credere neanche chi lo pronuncia.

Bisogna stare attenti però a non interpretare questo potente movimento di contestazione attraverso gli schemi delle democrazie occidentali o peggio con spocchia paternalista, pensando che i giovani iraniani vogliano costruire una società “come la nostra”. Aspirano come tutti noi diritti e libertà, che però non sono un esclusiva dell’Occidente e se un giorno vinceranno la battaglia dovranno decidere loro e soltanto loro quale sarà il volto dell’Iran di domani.

Fabiana Magrì per “la Stampa” il 6 dicembre 2022.

«Il pentimento del lupo è la sua morte», dice un proverbio persiano. Lo scetticismo degli attivisti verso la propaganda di un regime tirannico, corrotto e che esercita una giustizia arbitraria, e verso i suoi proclami lasciati transitare alla vigilia della nuova mobilitazione nazionale in corso, si è rivelato ben riposto. Tanto che ieri il capo della magistratura iraniana Gholamhossein Ejei ha annunciato la prossima esecuzione per impiccagione di un gruppo di rivoltosi. 

L'agenzia di stampa statale Irna ha riportato le sue dichiarazioni a proposito del destino di un gruppo di persone arrestate durante le settimane di proteste. Secondo Amnesty International, si tratta di almeno 28 detenuti, tra cui tre minorenni. «I rivoltosi saranno impiccati presto», ha detto Ejei, specificando che i due capi di accusa della legge islamica iraniana per la sentenza di morte sono «muharebeh» (guerra contro Dio) e «fesad fel arz» (corruzione sulla terra). 

Subito dopo, la Guardia rivoluzionaria ha rilasciato una dichiarazione all'agenzia di stampa semi-ufficiale Tasnim per elogiare la decisione della magistratura. Non è chiaro se i detenuti, che sono stati condannati formalmente, abbiano ancora il diritto di presentare ricorso. 

L'ammonimento è evidentemente rivolto a chi provoca e partecipa alla rivolta popolare, a chi incoraggia altri ad aderire agli scioperi e alle mobilitazioni, e mira anche a intimorire chi osserva la situazione senza scendere in piazza. Uno dei più influenti riformisti iraniani, Abbas Abdi, ha messo l'accento, in un'intervista citata dalla testata indipendente britannica Iran International, proprio su questa «maggioranza silenziosa, importante ma trascurata».

Molti sondaggi che il governo non ha permesso di pubblicare, secondo quanto sostiene l'analista, indicano che il 60-80% della popolazione sostiene il movimento dei giovani, anche se non esplicitamente. 

Constatato che le dichiarazioni sull'abolizione «momentanea» della polizia morale (questo significa l'aggettivo utilizzato, «tatil» in farsi, come osserva in un tweet la scrittrice Farian Sabahi) e su una prossima revisione della legge che impone il velo obbligatorio alle donne non hanno sortito l'effetto di placare l'ondata rivoluzionaria, le autorità mettono in chiaro che la revisione, casomai, andrà nella direzione di una maggiore severità.

«Il prezzo da pagare per chi non porterà il velo si alzerà», ha avvertito Hossein Jalali, un membro della commissione cultura del parlamento iraniano, in un video pubblicato dal quotidiano riformista Shargh durante un'assemblea di donne nella città di Qom. Allo stesso quotidiano, il capo del centro informazioni della polizia di Teheran, Ali Sabahi, ha precisato che «non è il momento di parlare di hijab», prendendo le distanze dal procuratore generale. «Con o senza hijab, stiamo andando verso la rivoluzione», hanno risposto ieri le studentesse riunite in un cortile di una scuola a Qods, nella periferia di Teheran. 

Con la pioggia, con la luce o con il buio, i video di ieri sui social media mostravano strade vuote, saracinesche abbassate, negozi chiusi. È apparsa massiccia l'adesione alla prima giornata di sciopero nazionale nell'ambito delle proteste anti-governative in corso da settembre, dalla capitale alle periferie del Paese, a Sanandaj, Isfahan, Bushehr, Shiraz, Kerman, Ardebil, Mahabad, Orumiyeh, Kermanshah, Bojnurd, Karaj, Kangavar, Tabriz, Rasht.

Gli scioperi hanno coinvolto anche autotrasportatori e lavoratori degli impianti petrolchimici di Mahshahr e delle acciaierie di Isfahan.Dimostrazioni e boicottaggio delle lezioni si sono visti in vari atenei dove domani, 7 dicembre, si festeggia la «giornata nazionale dello studente», a cui il presidente Ebrahim Raisi ha in programma di partecipare tenendo un discorso in una delle università del Paese. In serata i raduni hanno riempito di nuovo le strade e le piazze. 

Lo slogan «Morte a Khameini» è stato il filo che li legava gli uni agli altri. Altre riprese hanno mostrato una folla riunita alla stazione Sadeghiyeh della metropolitana di Teheran urlare «Morte al dittatore». Gli agenti della polizia, intervenuti a disperdere l'assembramento, hanno arrestato una donna ma sono stati assaliti dai manifestanti che hanno cercato di liberarla.

Il ribaltamento tra aggrediti e aggressori è cavalcato dal clero iraniano nei sermoni del venerdì. L'imam di Teheran Ahmad Khatami, alto religioso sciita e membro del Consiglio dei Guardiani e membro anziano dell'Assemblea degli Esperti, va ripetendo che, secondo i principi religiosi, qualsiasi tentativo di indebolire il regime è «haram», proibito. Khatami ha sostenuto che una protesta è accettabile fino a quando la gente parla o scrive lettere e articoli e ha bollato i manifestanti come «assassini» che, pertanto, devono essere soggetti alla pena di morte. 

Niente quindi indica che la situazione delle donne in Iran possa migliorare. L'ha osservato un portavoce del Dipartimento di Stato di Washington, rifiutandosi di «commentare affermazioni ambigue o vaghe» del potere iraniano. La Repubblica islamica, dal canto suo, ha criticato la richiesta di espellere l'Iran dalla Commissione Onu sullo status delle donne. «Teheran utilizzerà tutti i mezzi a sua disposizione per impedire questa misura illegale da parte degli Usa e degli europei che mira ad esercitare una pressione politica contro l'Iran», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Nasser Kanani.

Demolita la casa di Elnaz Rekabi, l’atleta iraniana di arrampicata che aveva gareggiato senza velo a Seul. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 3 Dicembre 2022.

La notizia diffusa da un sito anti regime: un video mostra macerie e medaglie a terra con il fratello in lacrime

E’ stata demolita la casa della famiglia di Elnaz Rekabi, l’atleta iraniana che aveva gareggiato senza velo ai campionati di arrampicata a Seul proprio mentre le proteste per Mahsa Amini iniziavano a diffondersi in tutto il Paese. L’abitazione è stata distrutta da funzionari governativi, ha fatto sapere il sito di notizie anti-regime IranWire che ha pubblicato un video dove si vedono macerie e medaglie a terra. L'uomo che filma descrive cosa è successo alla casa e mostra in lacrime il fratello di Rekabi, Davood, anche lui scalatore. «Così vanno le cose in questo Paese — dice una voce fuori campo —. Così trattano un campione che ha dato chili di medaglie a questo Paese, che ha lavorato sodo per renderlo orgoglioso. Gli hanno spruzzato del peperoncino, gli hanno demolito la casa di 39 mq e se ne sono andati».

Il filmato di Rekabi che indossava una fascia con i capelli raccolti in una coda di cavallo mentre gareggiava a Seul a ottobre era diventato virale sui social e aveva fatto notizia a livello internazionale. Tornata a Teheran, la ragazza era stata accolta in aeroporto da una folla che cantava «Elnaz l’eroina»: per molti era diventata un simbolo della rivolta nazionale per maggiori libertà per le donne.

Rekabi tuttavia ha sostenuto di aver gareggiato a capo scoperto non come gesto politico, ma «inavvertitamente», anche se si sospetta che la sua dichiarazione sia stata tutt’altro che spontanea.

L'Iran condanna a morte per le proteste un'allenatrice di pallavolo. Calci ad un paramilitare ed accuse di essere una delle leader della protesta: l'Iran condanna a morte per le proteste un'allenatrice di pallavolo. di Giampiero Casoni su Notizie.it il 3 Dicembre 2022

Il regime di quel paese non cessa di mettere in atto politiche violente e repressive e l’Iran condanna a morte per le proteste un’allenatrice di pallavolo.

I media spiegano che è stata emessa una nuova sentenza per Fahimeh Karimi che era stata arrestata nei pressi di Teheran. La nuova condanna capitale è stata decisa dalla magistratura iraniana per "partecipazione alle proteste contro il regime". La teocrazia araba sta incasellando numerose violazioni dei diritti umani.

L’Iran condanna a morte un’allenatrice

Quelle stesse proteste che stanno interessando il Paese islamico da oltre due mesi. Destinataria di questo agghiacciante provvedimento giudiziario è  una donna, Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo e madre di tre figli.

La donna era stata arrestata dalla polizia durante una manifestazione a Pakdasht, nella provincia di Teheran. 

Calci ad un paramilitare in piazza

Su Karimi gravano accuse per le quali gli inquirenti la ritengono essere "una delle leader e di aver sferrato calci a un paramilitare Basiji". A riportarlo sarebbero stati i media e i social. Karimi è stata di recente trasferita dal carcere di Evin a Teheran a quello di Khorin, a Pakdash.

In queste ore sui social c’è stata una vera sollevazione per la condanna a morte della donna.

Iran, Alessia Piperno: «Ero in cella con Fahimeh, adesso lei rischia di morire». «Un giorno è andata in infermeria e non è più tornata. Cosa serve per fermare tutto questo?» Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022.

Era in cella con Fahimeh Karimi, ha condiviso con lei 34 giorni di detenzione nel carcere di Evin, in Iran. E ora Alessia Piperno, la travel blogger romana che è rientrata in Italia il 10 novembre, ha scoperto che la sua compagna di cella è stata condannata a morte. Una notizia che l'ha molto turbata. «Cosa serve per fermare tutto questo? - ha scritto su Instagram - Fahimeh è stata la mia compagna di cella. Un giorno è uscita per andare in infermeria e non è più tornata».

Alessia Piperno, il racconto

C'erano barriere linguistiche tra le due detenute: «Tra di noi non ci sono state grandi conversazioni dal momento che io non parlavo farsi e lei non parlava inglese. Ma eravamo unite dallo stesso dolore e dalle stesse paure». Alessia non l'ha dimenticata dopo la liberazione: «Ho cercato il suo nome ogni giorno da quando sono tornata, per controllare se avessero liberato anche lei. Invece mi sono trovata davanti a un articolo con il suo volto con scritto condannata a morte».

Chi è Fahimeh Karimi 

Fahimeh Karimi è una giovane donna iraniana che verrà giustiziata per aver dato calci a un paramilitare durante una manifestazione contro il regime. L'allenatrice di pallavolo, madre di tre figli è stata arrestata nella regione di Teheran. Alessia ha voluto ricordarla: «Fatimah, Athena, Mohammed: continui a gridare i nomi dei tuoi figli, avranno sentito l'eco o l'amore non viaggia attraverso le sbarre? Non avevamo fatto nulla per meritarci di essere rinchiusi tra quelle mura, e non posso negare che siano stati i giorni più duri della mia vita. Ho visto, subito e sentito cose, che non dimenticherò mai, e che un giorno mi daranno la forza per lottare accanto al popolo iraniano».

Gli ayatollah: «Impiccheremo i dissidenti». Alessia Piperno: «La mia compagna di cella condannata a morte». Irene Soave su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.

La travel blogger romana arrestata a settembre nelle proteste in Iran, e poi rilasciata: «La sera le cantavo Bella Ciao per calmarla»

Allenatrice di pallavolo, madre di tre figli, Fahimeh Karimi è stata condannata a morte per aver protestato e soprattutto per aver dato un calcio a uno dei pasdaran che tentava di fermarla; l’annuncio, di sabato, ha sconvolto la sua compagna di cella Alessia Piperno, la travel blogger italiana arrestata a settembre e poi liberata il 10 novembre. «Farimah è stata la mia compagna di cella per 34 giorni» nel carcere di Evin, scrive su Instagram (@travel.adventure.freedom, 72 mila seguaci). «La sera le cantavo Bella Ciao per calmarla. Da quando sono tornata ho cercato sue notizie ogni giorno». Sabato, così, Alessia Piperno ha appreso della condanna.

Le autorità hanno minacciato ieri di giustiziare i manifestanti condannati. «Le sentenze inflitte per le proteste», comprese le impiccagioni, «saranno presto eseguite», ha annunciato il capo della Giustizia iraniana Gholam-Hossein Mohseni-Ejèi, sottolineando che «diverse sentenze sono già state confermate dalla Corte Suprema». Le prime condanne a morte a manifestanti sono state firmate a novembre; ma da metà settembre, quando le proteste per la morte di Mahsa Amini sono esplose in tutte le città iraniane, gli arresti sono stati circa 18 mila. Non è un dato ufficiale: come la stima delle vittime della repressione — 470, di cui sessanta bambini — lo comunica regolarmente la ong Hrana, osservatorio per i diritti umani in Iran. I Guardiani della rivoluzione (i cosiddetti pasdaran) hanno ringraziato la magistratura. «Un duro colpo a rivoltosi, teppisti e terroristi mercenari».

E «non ci sono indicatori» che la situazione delle donne in Iran possa migliorare dopo l’inaspettato annuncio dell’abolizione della «polizia della moralità» giunto nel fine settimana: è la valutazione arrivata ieri dal Dipartimento di Stato americano. «I leader iraniani non stanno migliorando il modo in cui trattano donne e ragazze o fermando la violenza sui manifestanti». Tra le richieste degli attivisti, l’abolizione dell’obbligo per le donne di indossare il velo, imposto nel 1983; ma il capo dei servizi della polizia di Teheran ha tagliato corto ieri in conferenza stampa: «Non è il momento di parlare di velo».

E i manifestanti hanno indetto domenica uno sciopero di tre giorni, partito ieri, che prevede la chiusura di negozi e attività commerciali in molte città del Paese. Il culmine della mobilitazione dovrebbe essere mercoledì, quando il presidente Ebrahim Raisi, in occasione della «Giornata dello studente» visiterà l’Università di Teheran e incontrerà gli studenti. Per mercoledì — così il tam tam su Twitter — i manifestanti chiedono un corteo verso piazza Azadi, nel cuore di Teheran. È la più grande protesta antigovernativa dalla rivoluzione del 1979.

Dal "Venerdì di Repubblica" il 2 dicembre 2022.

Guardo con molta comprensione e un po' di vergogna i filmati che dall'Iran ci mostrano la rivolta delle donne e degli uomini che sfilano con loro, e mi umilia la nostra indifferenza: basta tagliarsi una ciocca di capelli per sostenere la loro causa di vita e morte? Mettere in vetrina i romanzi delle scrittrici iraniane? Scrivere, come sto scrivendo io adesso, il nostro dolore?

Non basta, è quasi offensivo perché già quella meravigliosa rivolta comincia ad essere usata per fare pubblicità a berretti e gonne lunghe ma molto sexy. Diciamo la verità: alle italiane di queste donne lontane e ferite, in cerca di libertà, non importa niente. È vero, stiamo vivendo un momento terribile non solo politicamente ed economicamente, ma perché ci sono nostri nuovi rappresentanti istituzionali che nei loro terrori sembrano appena usciti dalle caverne.

Ma anche noi donne, qui, siamo troppo prese dai nostri affanni, impedendoci di sentirci sorelle, sia pure lontane, di chi vorrebbe riprendersi la vita, come essere umano, qualunque sia il genere che a noi sta tanto a cuore.

Marilena Mari

Risposta di Natalia Aspesi: Vedo su TikTok una rosea stupidella universitaria che si chiama Aronohh, e si dichiara «attivista asessuale non binary», ciò né maschio né femmina, né omosessuale né trans, che vive con un uomo e vuole diventare mamma: è neutra ma provvista di utero, che, dice lei, non tutte (le persone) hanno, ma i trans sì, che quindi possono andare dal ginecologo e partorire.

Si potrebbe ribattere che una persona trans nata femmina e diventata maschio non dovrebbe avere più l'utero, e al contrario se nato maschio sarebbe per ora, difficile, ottenerlo. Quel che conta, per lei, è definire tutti quanti "persona" e basta. È una novità certo, la Bibbia non ne sapeva niente. Il cinema sì, tanto che nel 1973 il regista francese Jacques Demy ne fece un film, Niente di grave, suo marito è incinto, protagonista Marcello Mastroianni col pancione. Naturalmente Aronohh è un influencer con seguito di neutri.

Scusi la deviazione dalla sua bellissima lettera, ma per ricordare il distacco dal mondo di tante ragazze italiane e chiedere a questa influencer, se fosse in Iran, in quanto attivista sessuale non binary, porterebbe il velo o no?

Chiara Clausi per "il Giornale" il 2 dicembre 2022.

L'Iran rischia di implodere, travolto dalle proteste più forti degli ultimi decenni, e il regime reagisce anche all'esterno in maniera violenta. Secondo il prestigioso quotidiano americano Washington Post, che scoprì il Watergate, Teheran ha intensificato gli sforzi per rapire e uccidere funzionari governativi, attivisti e giornalisti nel mondo, inclusi gli Stati Uniti. Nel mirino della Repubblica islamica sono finiti ex funzionari del governo americano, dissidenti espatriati ma anche media critici del regime e civili ebrei o comunque legati ad Israele, e persino intellettuali come il francese Bernard-Henri Lévy.

«L'intensità della campagna si riflette nella portata globale», scrive il quotidiano statunitense, osservando come lo scorso anno sono stati sventati i tentativi di assassinare l'ex consigliere alla Sicurezza nazionale Usa John Bolton a Washington, rapire la giornalista e blogger iraniano-americana Masih Alinejad, mentre Lévy è finito nel mirino della Forza Quds, l'unità d'élite dei Pasdaran, probabilmente perché considerato un intellettuale di livello internazionale critico con la leadership iraniana.

Secondo il Washington Post, le forze speciali delle Guardie della rivoluzione avevano ingaggiato un narcotrafficante iraniano e lo avevano pagato 150mila dollari per aiutare a reclutare altre persone per uccidere l'intellettuale francese. Il Post afferma di aver consultato «documenti governativi» e intervistato «circa quindici funzionari dell'intelligence statunitense, europea e mediorientale» per compiere l'inchiesta. Ogni volta il procedimento adottato si ripete: gli agenti iraniani avvicinano «affiliati» per portare a termine i loro piani, ladri di gioielli, spacciatori di droga e altri criminali e offrono loro centinaia di migliaia di dollari.

Ma questo approccio poco affidabile ha probabilmente causato il fallimento di alcune operazioni, in quanto i piani sono stati sventati e, in alcuni casi, i sicari assoldati potrebbero aver avuto paura e non hanno mai eseguito gli ordini.

La volontà di uccidere cittadini americani sarebbe alimentata, secondo gli esperti interpellati dal quotidiano americano, anche dalla sete di vendetta per l'uccisione di Qasem Soleimani, avvenuta per mano statunitense nel 2020. Dei 124 complotti iraniani per colpire all'estero dal 1979, afferma l'ex funzionario dell'antiterrorismo americano Matthew Levine, ben 36 sono avvenuti infatti dopo l'uccisione di Soleimani.

Ma la sequela di azioni non Per uccidere lo scrittore francese la Quds Force aveva dato 150mila dollari a un trafficante di droga si ferma qui. I Pasdaran potrebbero essere dietro anche ai recenti attacchi in Germania alle sinagoghe del Nordreno-Vestfalia. A riferirlo questa volta è il programma Kontraste della tv pubblica tedesca Ard.

Mente delle operazioni potrebbe essere un tedesco-iraniano del mondo criminale, Ramin Y, sospettato di guidare un comando operativo che compie attacchi in Germania per conto dei Pasdaran. Nella notte tra il 17 e il 18 novembre sono stati sparati dei colpi di pistola contro la casa del rabbino della vecchia Sinagoga di Essen. Poco dopo c'è stato un fallito attentato incendiario alla sinagoga di Bochum, per cui è stato arrestato un cittadino tedesco-iraniano. Si indaga anche su un attacco progettato contro la sinagoga di Dortmund.

Si sospetta che il gruppo di Ramin Y abbia anche cercato di seguire e spiare il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster.

Nato in Germania nel 1988, Ramin Y. è stato gestore di un locale di prostitute a Leverkusen e a lungo attivo nel club Bandidos. È rimasto coinvolto in scontri mortali con il club rivale degli Hells Angels. Su di lui pende già un mandato d'arresto internazionale.

Misogini, moribondi, ayatollah. La repressione atroce del regime in Iran rischia di spegnere lentamente la protesta. Carlo Panella su L’Inkiesta l’1 Dicembre 2022

Più di quattrocento morti, una sessantina bambini, migliaia di feriti, oltre quindicimila arresti. Questa è la dura risposta dei Pasdaran. La società iraniana si è militarizzata, con il tacito consenso di una non piccola parte della popolazione

Vorremmo sbagliare, ma le notizie che non arrivano dall’Iran ci dicono che il grande movimento di protesta iniziato il 16 settembre, dall’uccisione di Masha Amini, si sta spegnendo sotto i colpi di una repressione atroce. Questa è una notizia – pessima – che va data sia pure con tutte le cautele. Setacciando la rete, da venerdì scorso non si trova riscontro di nessuna manifestazione, dopo che nei giorni precedenti il movimento si era affievolito nel Paese e gli scontri si erano concentrati nel Kurdistan (Masha Amini era curda).

Ma qui il regime e i Pasdaran hanno attuato una schiacciante occupazione militare con elicotteri, autoblindo, ronde assassine nei quartieri e infine pare siano riusciti a imporre la loro pace di morte. Notizie solo di alcuni scioperi nella regione arabo-sunnita del Kuzhestan.

Beninteso, non è improbabile che questo o il prossimo venerdì, o in occasione del quarantesimo giorno della morte di qualche manifestante, si organizzino nuove manifestazioni, nuovi cortei al grido di «donna, vita libertà». Ma quel che proprio pare – e vorremmo assolutamente essere smentiti – è che il grande, corale, movimento di protesta che ha occupato per due lunghi mesi tutte le piazze anche nella immensa provincia iraniana si è infine piegato sotto i colpi della repressione.

Il prezzo pagato è enorme: più di quattrocento morti, una sessantina bambini, migliaia di feriti, più di quindicimila arresti e soprattutto cinque orribili condanne a morte di manifestanti arrestati.

Un movimento immenso, con le caratteristiche di una rivoluzione contro le perverse fondamenta stesse del regime dei Pasdaran e degli ayatollah, che però si è scontrato – questo è il punto – con una compattezza totale del potere.

Non una crepa si è aperta nel Palazzo della Repubblica Islamica, non un esponente del regime si è dissociato e ha proposto mediazioni, riforme, aperture nei confronti del movimento di protesta. Non solo, i Pasdaran hanno approfittato della contingenza per marcare ancora di più la loro centralità politica e operativa nella gestione del potere.

La società iraniana si è così ulteriormente militarizzata. Il tutto, va detto, va riconosciuto con onestà, grazie non solo alla ferocia del potere, ma anche al consenso al regime di una non piccola parte della popolazione.

Come in tutte le dittature, ayatollah e Pasdaran comprano con una politica populista il consenso di una parte del popolo, soprattutto negli strati più poveri, ma anche fra i ceti medi.

Un centinaio di Bonyad, fondazioni caritatevoli, controlla il venti per cento del Pil nazionale e distribuisce a pioggia, anche grazie ai proventi del petrolio, un buon reddito a più di sei milioni di iraniani. Ma il vero punto di forza del consenso al regime viene da coloro che lavorano nel grande complesso militar-industriale iraniano.

Complesso controllato dai Pasdaran – secondo il modello nazista delle holding industriali controllate e di proprietà delle Ss – del quale fanno parte aziende industriali, holding e conglomerate per un valore superiore ai diciassette miliardi di dollari. E non si tratta della sola industria militare a bassa, media e altissima tecnologia. Telecomunicazioni, automobili, aeroporti, industrie alimentari e di tutti i tipi sono di proprietà dei Pasdaran.

Il nucleo d’acciaio di questo blocco sociale di consenso al regime, ben stipendiato, oltre alle decine di migliaia di mullah e religiosi, è costituito dai duecentocinquantamila Pasdaran, dai centomila membri delle Forze Armate e infine dal famigerato corpo dei Bassiji che conta novantamila membri a tempo pieno, trecentomila riservisti e un milione di membri mobilitabili.

I Bassiji sono istituzionalmente i veri e propri squadristi del regime, ideologicamente molto motivati – e motivate, la metà sono donne – e naturalmente ben pagati. Se si calcolano le famiglie, si vede che il blocco sociale del complesso militare-industriale, fortemente coeso ideologicamente col regime, conta alcuni milioni di iraniani. Nel complesso, questo blocco sociale legato da mille fili al regime, sia pure numericamente minoritario, coincide grosso modo con quel quarantadue per cento di iraniani che partecipano alle elezioni ed eleggono il blocco conservatore che oggi domina il Majlis, il Parlamento e tutte le istituzioni.

Dunque, il movimento di protesta in Iran ha di fronte a sé non solo una forza di fuoco feroce e capillare, ma anche un blocco sociale avverso che sostiene il regime così come la durissima repressione.

Naturalmente, la flessione che pare subire oggi la protesta, che sembra ora essere entrata in una fase carsica, non è affatto definitiva. Il movimento può riemergere da un giorno all’altro. Ma sino a quando non si aprirà una qualche crepa nel blocco politico del regime, pagherà un prezzo altissimo di sangue e dolore.

Iran, così la polizia usa le ambulanze per reprimere la protesta. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 24 novembre 2022. 

Secondo testimonianze e immagini, i veicoli sono utilizzati in modo sistematico per condurre arresti e pestaggi. La protesta dei medici iraniani e l’appello alla Croce Rossa Internazionale.

Non è certo la prima volta che succede, anzi sono decenni che gli attivisti lo denunciano. Ma da quando Mahsa Amini è stata uccisa e sono scoppiate le rivolte, in Iran sta diventando una vera e propria prassi: ambulanze usate per reprimere, arrestare e picchiare i manifestanti. Accade in Iran secondo quanto denunciato da tempo dalle ong che si occupano di diritti umani al di fuori del Paese e secondo un’inchiesta ora pubblicata dal New York Times.

Le proteste scoppiate a settembre hanno portato a una brutale repressione da parte delle forze di sicurezza iraniane, con più di 14.000 persone arrestate, secondo le Nazioni Unite e almeno 326 persone uccise, secondo Iran Human Rights, ong con sede in Norvegia. Parte di questa repressione, secondo testimoni e dozzine di video e immagini, prevede l’uso di ambulanze da parte delle forze di sicurezza per infiltrarsi nelle proteste e arrestare i manifestanti.

In un’intervista su un’app di messaggistica crittografata, un addetto alla ristorazione di 37 anni ha descritto al New York Times di aver visto quasi ogni giorno ambulanze entrare nei campus universitari durante le proteste e di aver visto uscire dai veicoli forze di sicurezza in uniforme. Testimoni che hanno assistito alle proteste a Teheran hanno raccontato di aver visto agenti di polizia in borghese, i Basiji, costringere gli studenti a salire sul retro di un’ambulanza durante una manifestazione alla Sharif University il 2 ottobre. Uno dei testimoni, in un’intervista tramite un’app di messaggistica crittografata, ha riferito di aver visto i Basiji picchiare uno degli studenti, che era a terra e coperto di lividi, con un manganello prima di spingerlo su un’ambulanza insieme a un altro manifestante e allontanarsi. Un video, la cui posizione è stata menzionata da un utente Twitter e verificato in modo indipendente dal Times, che sembra essere stato girato dall’interno di un’auto, mostra un’ambulanza in fiamme dopo essere stata presa di mira dai manifestanti. Il video mostra un uomo che indossa quella che ricorda l’uniforme della polizia nazionale iraniana che lascia l’ambulanza e fugge mentre viene inseguito.

Il Times ha analizzato e geolocalizzato video e foto che mostrano ambulanze che entrano o escono dalle stazioni di polizia, o posizionate appena al di fuori, in almeno sei località in tutto il Paese (in un caso la posizione è stata menzionata per la prima volta da un utente di Twitter). Sebbene i video e le foto non mostrino chi viene trasportato all’interno, un ex medico del pronto soccorso ha affermato che non vi è alcun motivo medico legittimo per cui le ambulanze si trovino nelle stazioni di polizia.

L’uso delle ambulanze per trattenere le persone ha suscitato indignazione nella comunità medica iraniana. Un video pubblicato su Twitter il 4 ottobre e verificato dal Times mostra operatori sanitari che manifestano davanti al Razi University Hospital di Rasht, con cartelli che dicono: «I Basiji non sono studenti» e «Le ambulanze dovrebbero essere utilizzate per il trasporto dei pazienti». Il 22 ottobre , il Consiglio medico della Repubblica islamica dell’Iran, l’organismo di autorizzazione e regolamentazione per gli operatori sanitari, ha sollevato preoccupazioni sull’uso delle ambulanze per il trasporto non medico.

Per molti in Iran, l’uso delle ambulanze per sopprimere le proteste si aggiunge alla sfiducia nel sistema medico del Paese. Ci sono state diverse segnalazioni di iraniani feriti durante le proteste e poi arrestati dopo aver ricevuto cure mediche negli ospedali. In un’intervista, un manifestante di Teheran ha affermato che molte persone si curano le proprie ferite a casa invece di andare in ospedale a causa di un clima di paura. «Ci siamo sentiti molto insicuri quando abbiamo visto la polizia. Ma ora sentiamo i dolori peggiori quando vediamo le ambulanze», spiega. «E ogni volta che siamo bloccati nel traffico, ci chiediamo chi ci sia davvero dentro quei veicoli».

Uno dei principali obiettivi del diritto internazionale umanitario è proteggere i civili e i veicoli civili come le ambulanze durante i conflitti. Secondo la prima e la seconda Convenzione di Ginevra, un individuo diventa una «persona protetta» non appena si ferisce o si ammala e smette di combattere. Le ambulanze sono responsabili della protezione dei feriti e dei malati, ma anche del trasporto del personale medico e religioso e delle unità mediche. In alcuni tweet indirizzati al Comitato internazionale della Croce Rossa Internazionale, gli attivisti iraniani hanno inviato un messaggio. «La Repubblica islamica dell’Iran usa le ambulanze per arrestare e sopprimere le persone che protestano. Dov’è la Croce Rossa Internazionale?».

Intanto il Consiglio Onu per i diritti umani si riunisce oggi per discutere se avviare o meno un’indagine internazionale di alto livello sulla repressione violenta delle proteste in corso in Iran. La sessione speciale sul «deterioramento della situazione dei diritti umani» in Iran in programma stamattina a Ginevra è stata richiesta da Germania e Islanda, con il sostegno di oltre 50 Paesi.

Ultimo orrore a Teheran. "Stuprati brutalmente donne e uomini in cella". Storia di Chiara Clausi su Il Giornale il 23 novembre 2022.

L'Iran precipita in un clima di estrema paura, la repressione si intensifica ed è sempre più violenta. Ma in questa rivolta eroica le donne non vogliono cedere. Lo slogan «Donne, vita, libertà» risuona nelle piazze e nelle strade. Le chiamano «donne dissolute», «pedine» di un complotto ordito dai governi occidentali. Ma non si fermano nonostante le forze di sicurezza scivolino nell'abiezione più cupa. Botte, torture, ma adesso emergono anche segnalazioni di violenze sessuali contro attivisti nelle carceri. È successo ad Armita Abbasi, 20 anni, capelli tinti di biondo platino, un piercing al sopracciglio, lenti a contatto colorate, che si filma su TikTok insieme ai suoi gatti dal suo soggiorno. Ad Armita la rivolta le ha cambiato la vita. Le forze di sicurezza l'hanno sottoposta ad alcune delle peggiori brutalità. La polizia l'ha accusata di essere una «leader delle proteste» e di avere in casa «10 molotov». Ma il regime ha pure trasformato Armita come Mahsa e Nika Shahkarami prima di lei in simboli della protesta. Una volta iniziate le manifestazioni Armita ha cominciato a postare sui suoi account social delle critiche al regime, senza nascondersi dietro l'anonimato. È stata arrestata a metà ottobre nella sua città Karaj, appena fuori Teheran. Secondo le testimonianze dei medici dell'ospedale Imam Ali, dove la giovane è stata portata d'urgenza il 17 ottobre, era stata «torturata e brutalmente stuprata». «Aveva la testa rasata e tremava, hanno riferito i medici. La ragazza è ora detenuta nel famigerato carcere di Fardis, sempre nella sua città.

Ma gli orrori non si fermano qui. C'è anche la testimonianza di un ragazzo di 17 anni arrestato che ha raccontato: «Quattro uomini urlavano con forza in un'altra cella. Uno di loro è stato mandato nella sala d'attesa dove mi trovavo. Gli ho chiesto cosa significassero tutte quelle urla e lui mi ha spiegato che stavano stuprando alcuni uomini». Altre ragazze sono state minacciate di violenza sessuale per costringerle a rilasciare confessioni forzate. «Sta avvenendo un crimine e non posso rimanere in silenzio», ha scritto un medico dell'ospedale Imam Ali in un post sui social.

La risposta del regime è sempre più brutale. Teheran ha adottato un «approccio anti insurrezionale» scrive l'Institute for the study of war. Cioè le unità militari sono propense «all'utilizzo estremo della forza e a uccidere i civili in modo indiscriminato». Le Nazioni Unite hanno chiesto alle autorità di imporre una moratoria sulla pena di morte. L'Iran intanto fa sapere che «finora, 40 cittadini stranieri sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nelle manifestazioni». Ma la stretta del regime continua, implacabile. Il quotidiano economico iraniano Jahan-e Sanat (Il mondo dell'industria) è stato chiuso. Il motivo? La pubblicazione di un'intervista al politico Sadegh Zibakalam, dove l'intervistato esprime critiche nei confronti delle forze di sicurezza. Il quotidiano aveva anche pubblicato in prima pagina una foto di Kian Pirfalaki, bambino di 9 anni ucciso.

Ma il clima si sta surriscaldando anche sul fronte esterno. L'Iran ha iniziato a produrre l'uranio arricchito al 60 per cento nel suo impianto di Fordo. Ma il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa John Kirby ci va cauto: le notizie «non sono verificate in modo indipendente». Arriva poi anche il commento del presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Dobbiamo sostenere il desiderio di libertà e le battaglie che, dall'Afghanistan all'Iran, le donne stanno portando avanti con coraggio».

Rivolta in Iran, a fuoco la casa di Khomeini. Cori anti-regime ai funerali del piccolo Kian. Molotov sull'abitazione-museo del padre della Repubblica islamica. Rabbia al corteo per la morte del bimbo ucciso dalle forze di sicurezza. Chiara Clausi il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Questa volta i giovani iraniani hanno deciso di sfidare il cuore e il simbolo stesso del regime degli ayatollah. E hanno assaltato e incendiato con bottiglie molotov la casa dove è nato l'imam Khomeini, il padre spirituale della Rivoluzione islamica. L'abitazione è stata trasformata in un museo in onore della prima Guida Suprema. La casa si trova nella città di Khomein, nella regione Markazi. «Quest'anno è l'anno del sangue», alcuni dimostranti sono stati sentiti cantare. E ancora: l'attuale leader supremo Ali Khamenei «sarà rovesciato».

Khomeini è nato nella casa nella città di Khomein - da cui deriva il suo cognome - all'inizio del secolo. Divenne un religioso critico nei confronti dello scià Mohammed Reza Pahlavi, sostenuto dagli Stati Uniti, andò in esilio ma poi tornò trionfante dalla Francia nel 1979 per guidare la rivoluzione islamica. Khomeini morì nel 1989 ma rimane oggetto di adulazione da parte della leadership religiosa. La furia contro l'oppressione che dura da quarant'anni ormai è incontenibile. Un altro video mostra i manifestanti che incendiano parti del seminario sciita della città sacra di Qom. Fondato nel 1922, è il più importante in Iran. Centinaia di persone in lutto poi si sono riversate nella città di Izeh, nel sud-ovest dell'Iran, per il funerale del ragazzo Kian Pirfalak la cui famiglia dice sia stato ucciso dalle forze di sicurezza iraniane. I manifestanti hanno cantato slogan anti-regime e ridicolizzato il resoconto ufficiale della sua morte. I funzionari iraniani hanno insistito sul fatto che è stato ucciso in un attacco «terroristico». Ma la madre ha raccontato: «Non possono dire che sia stata opera di terroristi perché mentono. Forse hanno pensato che volessimo sparare e hanno trivellato l'auto di proiettili. Le forze in borghese hanno sparato a mio figlio. Questo è tutto».

I manifestanti allora per mettere in ridicolo la versione ufficiale hanno cantato: «Basij, Sepah tu sei la nostra Isis!», in un video pubblicato dall'Iran Human Rights, ong con sede in Norvegia. Il Basij è una forza paramilitare filogovernativa e Sepah è un altro nome per la temuta Guardia rivoluzionaria iraniana. «Morte a Khamenei», hanno gridato poi in un altro video. I media dell'opposizione con sede al di fuori dell'Iran hanno affermato che un altro bambino, il 14enne Sepehr Maghsoudi, è stato ucciso in circostanze simili a Izeh mercoledì. I funerali sono diventati più volte focolai di protesta nel movimento iniziato dopo la morte, il 16 settembre, di Mahsa Amini. «Kian Pirfalak, nove anni, e Sepehr Maghsoudi, 14 anni, sono tra gli almeno 56 bambini uccisi dalle forze iraniane che lavorano per reprimere la rivoluzione iraniana del 2022», ha dichiarato Hadi Ghaemi, direttore del Centro per i diritti umani in Iran con sede a New York. Iran Human Rights ha anche precisato che slogan anti-regime sono stati cantati al funerale a Tabriz per Aylar Haghi, un giovane studente di medicina che secondo gli attivisti è stato ucciso dalle forze di sicurezza che lo avrebbero lanciato da un palazzo. Ma la violenza non accenna a placarsi. A Bukan in occasione del funerale di due manifestanti uccisi il 16 novembre dalle forze di sicurezza alcune persone provenienti dalla vicina Mahabad hanno sparato dato alle fiamme ad alcuni autoveicoli e assaltato un negozio. Mentre a Sandaj i manifestanti hanno ucciso un membro dei paramilitari Basij e bruciato la sua auto.

Estratto dell’articolo di Gabriella Colarusso per "la Repubblica" il 24 novembre 2022. 

Dopo più di due mesi di proteste, la repressione in Iran non risparmia neanche il mondo dei moderati fedeli alla rivoluzione islamica. Farideh Moradkhani, nipote dell'ayatollah Ali Khamenei, la guida suprema iraniana, è stata arrestata ieri a Teheran con l'accusa di aver partecipato alle proteste antigovernative iniziate con la morte di Masha Amini. 

Muradkhani, che indossa regolarmente il velo, è un'attivista per i diritti umani ed è stata già arrestata in passato per le sue posizioni giudicate troppo liberali. […]

Il movimento pro democrazia che sta scuotendo l'Iran ha allargato le fratture anche all'interno dell'establishment. Alla fine di ottobre, mentre le piazze e le università iraniane iniziavano a riempirsi, gli ultraconservatori iraniani che da un anno e mezzo hanno in mano tutti i centri del potere in Iran parlamento, magistratura, presidenza - e il controllo degli apparati di sicurezza e militari, hanno cercato di coinvolgere alcuni esponenti moderati nel tentativo di rabbonire i manifestanti. Con esito negativo. 

A raccontarlo è il Wall Street Journal, che riferisce di un incontro tra il segretario del consiglio nazionale di sicurezza, Ali Shamkhani, e alcuni emissari vicini ai Khomeini e ai Rafsanjiani, due tra le famiglie fondatrici della Repubblica Islamica. Alla richiesta di un intervento per far rientrare le proteste, in cambio di presunte riforme, Shamkhani avrebbe ricevuto un netto no. 

Al tavolo c'erano Majid Ansari, il più influente chierico moderato, ex vice dell'ex presidente moderato Rouhani; Hossein Marashi, vicino ai Rafsanjani; e Behzad Nabavi, fondatore dell'intelligence della Repubblica islamica e legato all'ex presidente riformista Khatami. [...] 

Ma il compromesso tra ultraconservatori e moderati su cui si è retta la Repubblica Islamica per 44 anni si è rotto nella primavera del 2021, quando tutti i candidati riformisti e moderati di maggior peso, persino l'ex speaker del Parlamento Ali Larijani, sono stati esclusi dalle elezioni presidenziali, spianando la strada alla vittoria dell'ultraconservatore Ebrahim Raisi.

«Dopo gli incontri, alcuni membri delle due famiglie hanno appoggiato pubblicamente i manifestanti», scrive il Wsj. 

Hassan Khomeini, il nipote del fondatore della repubblica, anche lui escluso dalle ultime elezioni presidenziali, ha lanciato un appello pubblico per un cambiamento politico: «Il modo più razionale di gestire il paese è la democrazia orientata alla maggioranza». […]

Iran, arrestata la nipote di Khamenei: «Questo regime assassina i bambini». Storia di Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2022.

È finita di nuovo in cella Farideh Moradkhani, nipote della Guida suprema dell’Iran Ali Khamenei e attivista per i diritti umani, dopo aver invitato i governi a rompere i rapporti con Teheran per la sua repressione della rivolta popolare. «O gente libera state con noi e dite ai vostri governanti di smettere di appoggiare questo regime assassino di bambini» dice la donna in un video che ha fatto il giro dei social.

A pubblicare il filmato su Youtube sarebbe stato Mahmoud, il fratello di Farideh, entrambi sono figli di Badri Hosseini, sorella di Khamenei, e di un leader dell’opposizione, Ali Tehrani, morto recentemente. La donna, che è un’ingegnera, sarebbe stata arrestata mercoledì scorso dopo essersi recata nell’ufficio del procuratore a seguito di una convocazione. Rischia una condanna a 15 anni. «Questo regime non è fedele a nessuno dei suoi principi religiosi e non conosce alcuna legge o regola se non quella della forza e del mantenimento del potere in ogni modo possibile» dice ancora la donna nel filmato. «In questo momento critico della storia, l’umanità sta guardando il popolo iraniano che, a mani nude e con grande coraggio, combatte contro le forze del male» aggiunge.

Lo scorso gennaio Farideh era stata rinchiusa nel carcere di Evin, si dice perché aveva incontrato la vedova dell’ultimo scià Fara Diba. La sua abitazione era stata perquisita e alcuni dei suoi beni confiscati.

Secondo le Nazioni Unite più di 14.000 persone sono state arrestate dall’inizio delle proteste per la morte, a settembre, di Mahsa Amini, la ragazza curda di 22 anni arrestata per un velo portato male. Almeno 416 persone sono state uccise nella repressione , secondo un ultimo rapporto dell’Ong Iran Human Rights (IHR), con sede in Norvegia. Tra questi ci sono anche 63 minori.

(Adnkronos/Dpa il 7 Dicembre 2022) - "Spero di vedere presto la vittoria del popolo e la caduta di questa tirannia che ora governa l'Iran". È quanto scrive, in una lettera aperta da Teheran, Badri Hosseini Khamenei, la sorella del leader Supremo Ali Khamenei, moglie di Ali Moradkhani, dissidente del regime, e madre di Farideh Moradkhani, la nipote del leader Supremo arrestata nelle scorse settimane per aver partecipato alle proteste in corso nel Paese. 

"Il regime della Repubblica islamica di Khomeini e Ali Khamenei non ha portato altro che sofferenza ed oppressione all'Iran, il popolo iraniano si merita libertà e prosperità e la loro rivolta è legittima e necessaria per ottenere i propri diritti", si legge nella lettera che è stata pubblicata sui social.

"Mio fratello non ascolta la voce del popolo - aggiunge la sorella di Khamenei - e in modo errato considera che la voce dei suoi mercenari e accaparratori sia la voce del popolo iraniano. Lui giustamente merita le parole irrispettose ed impudenti che usa per descrivere il popolo oppresso, ma coraggioso dell'Iran". "Mi oppongo alle azioni di mio fratello - conclude - ed esprimo solidarietà con tutte le madri che piangono i crimini del regime islamico".

Nella lettera, la sorella del leader supremo iraniano racconta anche "molte volte ho portato la voce del popolo alle orecchie di mio fratello, decenni fa. Ma dopo che ho visto che non ascoltava e continuava sulla strada di Khomeini nel sopprimere ed uccidere persone innocenti, ho tagliato i miei rapporti con lui". Infine afferma che "i Guardiani della Rivoluzione ed i mercenari di Ali Khamenei dovrebbero al più presto deporre le armi ed unirsi al popolo prima che sia troppo tardi. Possa la giusta lotta del popolo per ottenere libertà e democrazia possa essere realizzata al più presto possibile".

(ANSA il 7 Dicembre 2022) - Secondo i post sui social network, gli studenti di diverse Università in Iran e di molte facoltà a Teheran, hanno organizzato manifestazioni in concomitanza con la Giornata dello studente: le immagini mostrano attacchi da parte delle forze di sicurezza e "un certo numero di loro insanguinati", come riporta Bbc Persia.

Secondo il canale Student Trade Union Council, all'Università di Teheran, gli studenti sono stati "attaccati dalle forze di sicurezza guidate da Hossein Izdiyar", un giovane di nome Mohammad Shabaati è stato "rapito dalle forze di sicurezza". Tre studenti dell'Università Khwaja Nasiruddin Tusi sono stati arrestati.

(ANSA il 9 dicembre 2022) - Farideh Muradkhani, attivista iraniana e nipote della Guida suprema dell'Iran, Ali Khamenei, è stata condannata a 15 anni di carcere dal Tribunale speciale del clero, pena poi ridotta a 3 anni. Lo riferiscono i media iraniani, citando l'avvocato Mohammad Hossein Agassi. La donna era stata arrestata il 23 novembre scorso. Prima di finire in carcere, aveva chiesto ai Paesi "amanti della libertà" di espellere gli ambasciatori dell'Iran, a sostegno delle proteste del popolo iraniano. Farideh è figlia di Badri Hosseini Khamenei, sorella di Ali, che nei giorni scorsi ha condannato la repressione delle proteste. 

Da repubblica.it il 12 dicembre 2022.

È diventato virale il video girato il 29 ottobre all'interno della facoltà di musica dell'università di arte di Teheran. Un gruppo di giovani intona l'Inno della libertà, una reinterpretazione del famoso inno cileno El Pueblo Unido Jamás Será Vencido, composto nel 1970 da Sergio Ortega. Il canto è strettamente legato al movimento Unidad Popular e alla presidenza del Cile da parte di Salvador Allende.

Questo riadattamento è diventato un simbolo delle proteste in Iran e riflette i temi delle attuali proteste: "Donna, Vita, Libertà". L'identità dei membri del coro non è stata rivelata

Danilo Ceccarelli per “la Stampa” il 13 dicembre 2022.

L'ultima volta che Mahmoud Moradkhani ha incontrato la Guida Suprema dell'Iran Ali Khamenei, suo zio, era il 1984. «La mia famiglia gli chiese un'autorizzazione ufficiale per lasciare il Paese ma ce la rifiutò», ricorda il dottore, che oggi è otorinolaringoiatra a Croix, piccolo comune nei pressi di Roubaix. Da quel giorno, le loro strade si sono separate, anche se Moradkhani ha continuato, seppur a distanza, a contestare il potere di Teheran. Come la madre Badri Hossein Khamenei, sorella dell'ayatollah.

Lei, sull'ottantina, è rimasta in Iran, dove nei giorni scorsi ha inviato una lettera aperta al fratello, schierandosi apertamente al fianco delle proteste. «Siamo sempre stati all'opposizione», dice il medico spiegando che il padre Ali, morto un paio di mesi fa, ha partecipato alla rivoluzione del 1979 per poi prenderne quasi subito le distanze: «L'ayatollah Khomeini lo considerava come un figlio» ma «dal punto di vista di mio padre la religione non sarebbe dovuto arrivare a governare». 

Una storia di contestazione familiare lunga più di quarant' anni, che negli ultimi mesi si è riaccesa con le manifestazioni scoppiate in tutto il Paese. E proprio nel clima di tensione che regna in questo momento in Iran è scattata la condanna a tre anni di prigione della sorella di Moradkhani, Farideh, che in un video aveva attaccato il regime seguendo l'esempio della madre. Per questo quando gli viene chiesto di sostenere l'appello de La Stampa per la liberazione di Fahimeh Karimi, il medico non esita un secondo: «Mettete pure la mia firma!».

Dottor Moradkhani, adesso teme per l'incolumità di sua madre e di sua sorella?

«Se avessimo avuto paura di morire non ci saremmo opposti al regime. Facciamo comunque parte della famiglia di Ali Khamenei, sappiamo che non ci uccideranno perché sarebbe controproducente per loro». 

Ha avuto più notizie da sua madre?

«Prima chiamava quasi tutti i giorni, ma dopo la diffusione della lettera non le hanno più permesso di avere contatti con noi». 

Come giudica la condanna inflitta a sua sorella?

«È un pretesto per colpire tutta la mia famiglia. Era stata incarcerata all'inizio dell'anno e in seguito rilasciata su cauzione. Quando è stata pronunciata la condanna, ha chiesto di rientrare a casa per prendere le sue cose con al promessa di tornare, ma è stata fermata con la forza e imprigionata. Del resto, anche io se tornassi in Iran sarei immediatamente arrestato».

La protesta in Iran è esplosa dopo che una ragazza, Mahsa Amini, è morta mentre era in stato di fermo, scattato perché non indossava correttamente il velo. Sua sorella, però, in un video di protesta che proprio lei ha pubblicato su Youtube è apparsa con il volto coperto.

«Lei è credente, ma tenere l'hijab è stata anche una scelta mirata. Quando scendeva in strada a manifestare mi diceva di voler dimostrare che la protesta non riguarda solamente i giovani intenzionati a voler vivere all'occidentale, come la propaganda di regime ha cercato di far credere. Il movimento in atto richiede la libertà totale: di pensare, di parlare e di lavorare. È importante dimostrare che anche le persone più religiose sono contrarie al potere centrale di Teheran».

Pensa che le autorità di Teheran abbiano i giorni contati?

«Il regime è destinato a cadere, sono anni che aspettiamo». 

Come si spiega questa resistenza?

«Le ragioni sono molteplici. In questi anni non è stata creata un'opposizione abbastanza forte, con un programma chiaro da presentare agli iraniani e alla comunità internazionale. La maggior parte della popolazione è contraria al regime ma al tempo stesso ha paura che possa scoppiare una guerra civile con esecuzioni sommarie. 

Poi c'è anche un aspetto internazionale. L'Iran è sostenuto da Mosca e Pechino, ma anche l'Unione europea e gli Stati Uniti per anni hanno perso tempo a negoziare sul dossier del nucleare, continuando a mantenere aperti i canali commerciali. I Paesi europei devono richiamare in massa i loro ambasciatori a Teheran in segno di protesta».

E le sanzioni?

«Non bastano, perché l'Iran sul piano economico ha relazioni commerciali con la Cina, la Russia, l'India e i Paesi limitrofi. Economicamente non è il regime ad essere in difficoltà, ma il popolo». 

Secondo un'inchiesta del Guardian, durante i cortei la polizia colpisce volontariamente le donne al volto, ai genitali e al seno per sfigurarle. Neanche questa violenza basterà a scoraggiare la protesta?

«Sono più di 40 anni che in Iran va avanti la repressione. Ci sono state esecuzioni sommarie, dei veri e propri massacri nelle strade. Ma adesso c'è più coraggio. La gente che manifesta non ha più paura e risponde alle aggressioni. Più si cercherà di reprimere la contestazione e più aumenterà l'odio nei confronti del regime». 

Cosa è cambiato in questi anni?

«Nel 1979, quando c'è stata la rivoluzione, io avevo 15 anni. Ho visto come sono cambiate le cose e so che l'attuale regime ha mentito su chi l'ha preceduto. I giovani che scendono in strada oggi, invece, sono nati in questa situazione e hanno capito che l'unico modo per cambiare le cose è manifestare. Soprattutto le donne, che con il loro coraggio e la loro sensibilità stanno cercando di liberarsi».

Una nuova speranza. Le proteste in Iran non si fermeranno fin quando non crollerà la Repubblica islamica. Mariano Giustino su L’Inkiesta il 12 Dicembre 2022

Per la prima volta tutto il Paese è coinvolto in una rivolta che ha uno slogan che non è legato ad alcuna richiesta economica o a generiche riforme. L’obiettivo è anzi ben preciso: la fine della dittatura degli ayatollah e l’abbattimento del “regime di apartheid di genere”

La rivoluzione in Iran sta mostrando caratteristiche inimmaginabili e senza precedenti nei quarantatré anni di regime teocratico. E sembra che stia vivendo un momento decisivo. In una prima fase vi è stata una rivolta in alcune piccole città delle province curde del Paese, insorta dopo l’uccisione della giovane ventiduenne Mahsa Amini, curda di Saqqez, massacrata di botte il 16 settembre in un furgone della cosiddetta “polizia morale” che l’aveva arrestata perché non indossava correttamente il velo come prescrive la legge islamica.

L’uccisione di Amini ha sconvolto tutto l’Iran. Subito la protesta è divampata in più di cento città e ha visto al centro le donne. Nella capitale Teheran si è avviato un processo rivoluzionario spontaneo che è dilagato in tutto il Paese e ha coinvolto larghi strati della popolazione. La rivoluzione è così entrata in una seconda fase in cui donne e uomini, giovani e anziani, sono scesi per le strade, dai quartieri ricchi di Teheran a quelli poveri delle più remote province e campagne, del sud, dell’est e dell’ovest. Un evento, questo, decisamente unico nella storia iraniana, e che non si era verificato nelle due rivoluzioni precedenti. A quella costituzionale del 1905 prese parte solo un’élite, prevalentemente di due grandi città: Teheran e Tabriz. Quella del 1979, invece, fu una rivoluzione sostenuta dalla Francia che è stata molto rapida nel suo processo e comunque non ha interessato tutti gli strati sociali.

Ora è la prima volta che tutto il Paese partecipa a una rivolta con uno slogan molto preciso non legato ad alcuna richiesta economica o generica riforma, come spesso è accaduto in passato quando movimenti politici con insegnanti, pensionati, studenti o minoranze etnico-religiose rivendicavano diritti e riforme. Richieste a cui il regime riusciva in qualche modo a fare fronte, disinnescando subito le proteste.

Ora gli slogan che rimbalzano in ogni angolo dell’Iran sottendono un obiettivo ben preciso: il crollo della Repubblica islamica con l’abbattimento del “regime di apartheid di genere”.

La terza fase di questo processo rivoluzionario ha visto il coinvolgimento delle fabbriche, in particolare dei lavoratori del petrolchimico e anche di molte città che erano tradizionalmente sostenitrici del regime oscurantista e della rivoluzione khomeinista del 1979.

La quarta fase ha visto l’ingresso degli studenti universitari che sono riusciti a trascinare nella protesta anche i liceali e addirittura gli alunni delle scuole medie.

Questa caratteristica ha particolarmente allarmato il regime che ha risposto alzando il livello della repressione. Nei licei di Teheran ha fatto irruzione la “polizia morale” che ha l’obbligo di monitorare e assicurare che le “regole etiche” islamiche siano rispettate. Ha sequestrato un gran numero di studenti che avevano violato il codice islamico per rieducarli nei campi della moralità.

Asra Panahi, una ragazza di 15 anni, ha pagato con la vita il suo rifiuto di cantare l’inno alla Guida suprema Ali Khamenei. È stata infatti picchiata a morte nel suo liceo di Ardabil dai miliziani delle forze di sicurezza che avevano fatto irruzione nella scuola lanciando gas lacrimogeno.

Dunque, oltre alle donne, i protagonisti della rivoluzione sono anche gli studenti universitari di oltre centodieci istituzioni accademiche di tutto il Paese e i liceali delle maggiori città dell’Iran.

Questo movimento spontaneo, non organizzato da alcuna struttura di opposizione, politica o religiosa, è “senza testa” ed è apertamente e strenuamente contrario alla struttura conservatrice-islamica del regime; in questo senso si mostra come un movimento molto “occidentale” che fa suonare la campana a morto per la Repubblica islamica.

La dinamica delle manifestazioni è sempre più dirompente e con un linguaggio sempre più diretto. La nuova generazione iraniana è in contatto con il resto del mondo attraverso i social e ha scelto di non farsi guidare e strumentalizzare da alcuno e di usare metodi rigorosamente pacifici densi anche di simbolismi. E ciò non era mai accaduto prima.

Questa è la differenza fondamentale rispetto alle proteste del 2009, del 2017 e del 2019. Questo movimento popolare e spontaneo, letteralmente insorto nelle piazze e nelle strade, ha piuttosto radici nelle coraggiose e iconiche proteste del “Mercoledì bianco” del 2018, quando a Teheran giovani donne si vestivano di bianco e si toglievano il velo in una pubblica piazza per sventolarlo come una bandiera. Per il regime oscurantista degli ayatollah questo gesto è una “blasfemia”, una sfida alle leggi islamiche che impongono alle donne di tenere sempre il capo e i capelli coperti e di indossare vestiti lunghi e larghi “per non eccitare gli uomini”.

Ora le donne di tutte le province dell’Iran si tolgono l’hijab e gli dànno fuoco, lo fanno con rabbia strappando dagli edifici pubblici le foto di Khamenei, di Khomeini e di Qassem Soleimani, il comandante della Forza Quds ucciso dagli americani. Lo stesso fanno le giovani adolescenti nei licei che si fanno fotografare mostrando il dito medio accanto ai ritratti dei mullah appesi alle pareti della loro classe. Sfidano apertamente la regola dell’hijab e pubblicano in rete le foto e i video delle loro performance per incoraggiare tutte le altre donne alla ribellione.

Dal 16 settembre si registra un’ondata di sfida contro il sistema a colpi di simbolismi. L’hijab è il simbolo dell’oppressione; i capelli tagliati, le ciocche dei capelli che le donne stringono tra le mani dopo essersi rasate il capo, sono il simbolo del dolore, del lutto, del coraggio, della rabbia e dell’orgoglio. Durante il genocidio perpetrato dall’Isis nel 2014 a Shengal, nel nord dell’Iraq, le donne ezide (e cioè appartenenti al popolo degli ezidi, più comunemente chiamati anche yazidi, ndr) sono state viste tagliarsi i capelli.

Ma, attenzione, l’hijab ha un alto valore simbolico, è come il Muro di Berlino: i manifestanti credono che se lo si abbatte l’intero sistema crollerà.

L’abolizione dell’obbligo dell’hijab, dunque, non è il limitato, unico, obiettivo della loro rivoluzione. Abbattere il regime che impone l’“apartheid di genere” significa abbattere l’intero sistema della Repubblica islamica. È in questo senso che va inteso il simbolismo dell’hijab e la lotta contro l’apartheid di genere.

I manifestanti in sostanza vogliono il crollo della teocrazia dalla quale si sentono oppressi dal 1979, vogliono vivere in democrazia e libertà, in un sistema in cui siano rispettati i diritti di tutti. Con i media tradizionali completamente controllati dallo Stato, gli iraniani si sono riversati sui social come Facebook, Instagram, Telegram, Twitter e WhatsApp, per manifestare il loro rifiuto della Repubblica islamica, aggirando la censura grazie ai provider VPN.

Milioni di persone seguono le campagne sui social media con gli hashtag #MyStealthyFreedom (La mia libertà rubata) in riferimento alla lotta contro l’apartheid di genere, #WalkingUnveiled (Camminare senza velo), #MenInHijab (Gli uomini in hijab) e #MyCameraIsMyWeapon (La mia macchina fotografica è la mia arma). L’Iran ha oltre 130 milioni di abbonamenti di telefonia mobile, il che costituisce, in un Paese di 84 milioni di abitanti, un incredibile tasso di penetrazione del 161 per cento dei telefoni cellulari. In media ogni persona possiede più di un telefonino.

Ma il modo più efficace per comprendere cosa sta accadendo in Iran e cosa significa questa rivoluzione della “generazione Z” è ascoltare i messaggi che essa lancia in Rete. I giovani sono consapevoli che «la vita può essere vissuta in modo diverso» e non vedono altra speranza se non quella del salvifico abbattimento di questo regime. Con eroico coraggio affrontano le milizie dei pasdaran a braccia aperte e gridano loro: «Non abbiamo paura dei tuoi proiettili, uccidici pure, ma non potrai uccidere la nostra voglia di libertà».

Insomma, si comprende che la nuova generazione iraniana è molto determinata a liberarsi del regime teocratico, come se il proprio Paese fosse stato occupato da mostri, da essere alieni venuti dallo spazio che l’hanno ghermita e ridotta alla segregazione. Nei suoi slogan grida: «Via i mullah!», «Mullah andate al diavolo!», «Vogliamo essere lasciati in pace», «Via la Repubblica islamica dall’Iran». E chiede alla comunità internazionale di non sostenere più un regime criminale che la opprime. I manifestanti, dunque, non stanno chiedendo all’Occidente un sostegno per abbattere il regime, perché non ne hanno bisogno: ad abbattere la Repubblica ci stanno pensando loro mettendo in gioco la propria vita.

La video blogger di 16 anni, Sarina Ismailzade, uccisa il 23 settembre a manganellate in testa dalle forze basiji durante una protesta a Gohardasht, nella provincia di Alborz, aveva riassunto questo atteggiamento in un video-clip sul suo canale YouTube, postato poche ore prima di morire: «Non siamo come la generazione di vent’anni fa, che non sapeva che cosa fosse la vita al di fuori dell’Iran. Ci chiediamo perché non possiamo divertirci come le adolescenti di New York o Los Angeles».

Sarina in un altro suo video cantava la canzone Take Me to Church del musicista irlandese Hozier, che è diventata un inno alla libertà e all’amore per i quali si può morire. Per le strade del loro Paese queste giovani donne combattono, pacificamente, a mani nude, contro un regime armato fino ai denti, pronte a rischiare tutto. Le coraggiose ragazze dell’hijab sono ora diventate l’incubo di Ali Khamenei.

Il fatto che le proteste non abbiano una leadership rende difficile alle forze di sicurezza iraniane porre fine alle manifestazioni perché non vi sono dirigenti da imprigionare o eliminare. In questo caso ogni manifestante è esso stesso un leader e dunque le rivolte non si spengono e anzi si autoalimentano perché raccolgono le simpatie e il sostegno di strati sempre più vasti della popolazione.

La strategia del regime è quella di usare la forza più feroce per trascinare nelle proteste gruppi di opposizione e scatenare una reazione violenta nella popolazione, compresa la vasta minoranza curda. Questa strategia mira a far perdere il vasto consenso che vi è nel Paese verso i giovani manifestanti e a dividere l’opinione pubblica muovendo anche la leva del nazionalismo e accusando i curdi di voler creare un Kurdistan iraniano indipendente, un luogo comune, questo, che viene tirato fuori ogni volta che il regime si sente vulnerabile.

La rivoluzione è dilagata anche nei centri più conservatori dell’Iran, come nelle province più remote, dalle aree curde più povere del Paese a quelle del Sistan-Balucistan. Nell’Università della città santa sciita di Qom, cuore del conservatorismo della Repubblica islamica, durante una conferenza, le studentesse col velo hanno irriso i rappresentanti del governo presenti nell’aula magna, gridando: «Azadi, azadi, azadi» (Libertà, libertà, libertà). Questo è un chiaro segno che è tutto un Paese a insorgere.

Da Zahedan, nella provincia iraniana del Sistan-Balucistan, dove il regime ha trucidato novantasei civili in una moschea, a Teheran, il ballo si sta diffondendo come un’epidemia tra giovani e anziani. Nonostante la brutale repressione, donne e uomini escono fuori dalle case a ballare contro la tirannia e l’ingiustizia. Ballano insieme attorno a un fuoco, ancestrale retaggio della vittoria degli oppressi sugli oppressori.

(ANSA il 12 dicembre 2022) - Un gruppo di noti ecclesiastici ha criticato duramente la recente esecuzione dei manifestanti Majidreza Rahnavard e Mohsen Shekari. "Chiunque sia accusato di 'Muharebeh' (guerra con Dio) o 'corruzione sulla terra' non dovrebbe essere necessariamente giustiziato", ha dichiarato all'Ilna un membro dell'Assemblea degli esperti ed ex capo della Corte Suprema, l'ayatollah Morteza Moghtadai, aggiungendo che secondo l'Islam tali accuse sono legate alla guerra, non agli scontri tra una o due persone. Critiche dello stesso tenore sono state mosse da altri due ayatollah.

Anche un membro dell'Assemblea del Seminario di Qom, l'Ayatollah Mohammadali Ayazi, ha dichiarato all'Ilna che la Muharebeh viene usata in tempo di guerra, non per le proteste o gli scontri di piazza, soprattutto quando i manifestanti si difendono dagli attacchi delle forze di sicurezza. "La partecipazione a qualsiasi cerimonia organizzata da questo regime tirannico è haram (religiosamente proibita) fino a quando non sospenderanno le esecuzioni", ha annunciato un altro ayatollah, Mahmoud Amjad, che è istruttore al seminario di Qom.

Da lastampa.it il 12 dicembre 2022.

L'agenzia legata alla magistratura iraniana, Mizan, ha pubblicato sul suo sito le foto dell'impiccagione pubblica di Majidreza Rahnavard, il secondo manifestante giustiziato dalla Repubblica islamica. Nelle immagini si vede il corpo del giovane penzolare dalla gru installata sulla strada di Mashhad, dove il ragazzo avrebbe compito il crimine per cui è stato condannato a morte: l'uccisione, con arma da taglio, di due membri della milizia Basiji, nel corso delle proteste che il regime sta reprimendo con violenza. Rahnavard è stato giustiziato per crimine di «guerra contro Dio».

Nelle immagini molto crude si può vedere che l'esecuzione si è svolta alla presenza di molti agenti con il volto coperto; l'area era stata transennata con blocchi di cemento, dietro ai quali si intravede un pubblico. Secondo alcuni attivisti, si è trattato di una «messa in scena» con cui il regime vuole dimostrare il sostegno della popolazione alle esecuzioni capitali di quelli che ritiene «terroristi fomentati dai nemici dell'Iran».

In realtà non è chiaro chi abbia precisamente assistito al macabro evento visto che fino a poche ore fa non si sapeva neppure che Rahnavard fosse stato portato nel braccio della morte. Gli stessi famigliari non sono stati avvertiti. «Li hanno chiamato alle 7 di questa mattina (le 4:30 in Italia) e hanno detto loro di andare al cimitero Beheste Reza: abbiamo giustiziato vostro figlio e lo abbiamo sepolto», è stato il messaggio delle autorità ai parenti secondo quanto riporta l'agenzia Reuters.

(ANSA il 12 dicembre 2022) - "Siamo precisi e veloci durante i processi equi dei nostri casi giudiziari e non badiamo alle chiacchiere e alla volontà altrui. "Non siamo preoccupati di essere incolpati da nessuno". Lo ha detto il capo della magistratura iraniana, Gholamhossein Ejei. I commenti sono stati fatti in risposta al clamore interno e internazionale per la seconda esecuzione, legata alle proteste in corso in Iran, del 23enne Majidreza Rahnavard, avvenuta oggi in pubblico a Mashhad. Era accusato di aver ucciso due paramilitari delle forze Basij durante le proteste.

Secondo quanto riferiscono i social media, la famiglia di Rahnavard ha detto di aver ricevuto una telefonata alle 7:00 di stamani con qualcuno che diceva: "Andate al cimitero sezione 66 per trovare vostro figlio sepolto".

 L'avvocato Mohsen Borhani ha sottolineato che esiste un video che mostra che le forze Basijis armate hanno attaccato per prime i manifestanti, compreso Rahnavard, ma non è mai stato pubblicato.

Iran, i dissidenti torturati: «Costretti a violentarci tra di noi mentre le guardie ci filmavano». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.

Ali: «Ci hanno privato della dignità». Sara: «Ci spingevano a pensare al suicidio». Le testimonianze dei manifestanti appena usciti dalle carceri iraniane

Il vocale arriva in persiano. Sono quattro minuti di voce metallica, monotona. Parole-fiume alternate a lunghi silenzi e sospiri. Lo facciamo tradurre. «Buongiorno, sono Ali (nome di fantasia, ndr), ho 42 anni e faccio il tassista». È una settimana che cerchiamo di parlare con lui. Sappiamo che è appena uscito dal carcere e sappiamo che è uno dei pochi disposti a raccontare quello che ha subito, visto e sentito. «Sono stato arrestato di fronte all’università di Isfahan (nell’Iran centrale, ndr), a fine ottobre. Sostenevo gli studenti nelle proteste contro il dittatore Khamenei». Le guardie lo hanno caricato su una macchina e l’hanno portato in un centro di detenzione segreto. Oltre alle carceri - secondo un report di World Prison Brief, nel 2014 si contavano 253 carceri - il regime ha decine di strutture il cui indirizzo non è noto al pubblico, dove interroga, tortura e trattiene i dissidenti.

«Si comportano meglio con gli animali che con noi», dice Ali. «C’era un uomo molto alto, con un passamontagna. Non faceva che insultarci e picchiarci». Poi parte con il racconto dell’impensabile. «Ci portavano in una stanza e ci riempivano di botte, ci minacciavano e ci ordinavano di violentarci a vicenda. Sul soffitto, una telecamera che riprendeva tutto». Riprendono per avere del materiale con cui poi ricattare i manifestanti e costringerli a dichiarare il falso.

 L’Iran Human Rights Monitor, una ong con sede a Londra, ci conferma le atrocità di cui parla Ali: «L’uso sistematico degli stupri nelle carceri non è una novità. Avvengono sia sulle donne che sugli uomini, senza differenza». Succedeva negli anni ‘80, durante la Rivoluzione Verde, nelle proteste del 2019 e anche oggi. I numeri non si conoscono per due ragioni: la paura delle vittime ricattate dal regime e lo stigma sociale. Anche un rapporto di Amnesty International del 2020 conferma che lo stupro è un metodo di tortura e di repressione molto utilizzato, oltre ai pestaggi, l’isolamento, il waterboarding, l’elettroshock. «Fonti primarie hanno raccontato che inquirenti e guardie perpetravano violenze sessuali sui detenuti. Li denudavano, facevano perquisizioni invasive per umiliarli, usavano spray al peperoncino sui genitali ed elettroshock ai testicoli. I prigionieri uomini venivano violentati attraverso la penetrazione con vari strumenti, tra cui bottiglie», si legge sul rapporto.

Ali e i suoi compagni provavano a fermare la disumanità dei poliziotti, ma più si opponevano e più venivano picchiati. «Ci torturavano, sentivamo urlare gli altri dalle celle vicine. Li stupravano». Poi, La voce traballa: «Ci hanno privato della dignità». 

Tramite la ong di Londra, riusciamo a metterci in contatto anche con Sara (nome di fantasia, ndr), 23 anni. Come Ali, è finita dentro dopo una manifestazione. Anche lei ha subito violenza sessuale. A violentarla ripetutamente sono state le guardie. Se di stupri sugli uomini si è scritto poco, la Cnn ha raccontato le violenze sessuali sulle manifestanti iraniane e sui social sono tante le storie che girano. Tra tutte, quella di Armita Abbasi, 20 anni, finita in ospedale.

Sara non vuole parlare degli abusi sessuali subiti perché «non riesco ancora a tornare con la mente a quei momenti», dice, ma ci tiene a raccontare un altro aspetto delle torture: le violenze psicologiche. «In prigione, i medici cercano di farti il lavaggio del cervello. Mi ripetevano: “Hai rovinato la tua vita, perché manifesti?”. Lo psicologo mi diceva che i giovani come me poi si suicidano: “Che senso ha una vita vissuta così?”». Sara racconta che la istigavano al pensiero di togliersi la vita, ma lei rispondeva che no, voleva vivere per vedere il suo Iran libero. «Gli aguzzini convincevano i detenuti ordinari a maltrattarci. Mi imbottivano di pillole. Ero obbligata a ingoiarle, loro aspettavano che deglutissi. Se mi rifiutavo, la destinazione era la cella d’isolamento».

Oggi, Sara e Ali sono fuori in libertà condizionata. Ad Ali hanno revocato la licenza da tassista. In carcere, non aveva con sé né documenti né cellulare. Partecipare alle manifestazioni senza niente che ti renda troppo riconoscibile è il consiglio che danno a tutti i dissidenti. Ali non è un politico, ma fa parte di uno dei nuclei di resistenza che si muovono sotto la guida del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, e in modo particolare dei Mojahedin del Popolo, i nemici numero uno del regime, dal 2009 fuori dalla lista dei terroristi dell’Unione europea. «Se avessero saputo la mia visione politica mi avrebbero ucciso».

Ali racconta che i prigionieri sono tantissimi. Le ong parlano di 15 mila manifestanti arrestati dall’inizio delle proteste, i numeri che arrivano da dentro il Paese parlano del doppio. Ieri, la storia di Hamed Salahshoor, un giovane morto in custodia della polizia, con segni scioccanti delle torture subite. «Ci sono così tante Mahsa Amini», continua Ali. 

Gli abbiamo chiesto di Alessia Piperno, la ragazza di Roma rinchiusa nel carcere di Evin. Lui non conosce la sua storia. «È stata sfortunata a finire qui. Il regime non rispetta nessuno». Il vocale si conclude con questa frase: «Scusate, basta così, non mi sento bene».

Iran, uccisa la dottoressa che curava i manifestanti "È stata torturata a morte". Storia di Gaia Cesare su  Il Giornale il 18 Dicembre 2022

La rivolta in Iran entra nel quarto mese da quel 16 settembre in cui Mahsa Amini morì in ospedale, «per malattia», secondo le autorità iraniane, per le percosse e gli abusi subiti dopo il suo arresto, secondo testimoni. E le tecniche repressive del regime non cambiano, semmai si sono fatte più spietate, con le condanne a morte dei primi due manifestanti e i conseguenti disordini esplosi ieri nel carcere di Karaj, a ovest di Teheran, dove al grido «Abbasso Khamenei» i prigionieri hanno protestato contro nuove possibili esecuzioni. Le proteste non si fermano e così anche gli orrori compiuti nel nome della Repubblica islamica. Il corpo di un medico, la dottoressa iraniana Aida Rostami, 36 anni, (nella foto) scomparsa a inizio settimana a Teheran, è stato riconsegnato alla famiglia. Secondo le autorità, la sua morte sarebbe dovuta a un «incidente», ma la donna era tra i medici che in questi mesi hanno curato i manifestanti feriti nella repressione nella capitale, nel quartiere Ekbatan. Molti rivoltosi si sono infatti rivolti a medici consenzienti, per evitare di finire in ospedale, con il rischio di venire arrestati.

La dottoressa era scomparsa il 12 dicembre, dopo aver lasciato l'abitazione di un manifestante per andare a recuperare materiale medico. Il giorno dopo è arrivata la chiamata alla famiglia, in cui si diceva che la donna era rimasta uccisa in un incidente stradale, «probabilmente gettata da un ponte da un uomo con cui aveva una relazione», secondo Mizan, l'agenzia di stampa legata al potere giudiziario. Ma una fonte ha raccontato a IranWire, testata fondata da giornalisti della diaspora, che il medico legale ha riferito alla famiglia di aver ricevuto l'ordine di tacer ma di essere convinto che la donna sia stata torturata e uccisa. Come se non bastasse, nello stile del regime, anche i membri della famiglia della dottoressa «sono sotto pressione» per apparire in tv e confermare la falsa versione. Finora si sono rifiutati.

Per placare le proteste, il regime lancia anche un altro segnale chiaro a chi vuol far emergere la verità. È stato arrestato l'avvocato di diversi attivisti e giornalisti, tra cui le due reporter che raccontarono la morte di Mahsa Amini. Mohammad Ali Kamfirouzi è il 25esimo legale in manette a causa della rivolta. Aveva assunto la difesa di Niloufar Hamedi, reporter del quotidiano riformista Shargh, arrestata il 20 settembre dopo aver visitato l'ospedale dove Mahsa ha trascorso tre giorni in coma prima di morire. Kamfirouzi era anche l'avvocato di Elaheh Mohammadi, giornalista fermata il 29 settembre mentre lavorava al funerale di Mahsa, a Saqez. L'arresto di Kamfirouzi è un doppio avvertimento ad avvocati e giornalisti. Dei 70 reporter arrestati da inizio proteste, 35 sono in cella. In carcere è finita anche l'attrice Taraneh Alidousti che sui social ha sostenuto le proteste, pubblicato sue foto senza velo e criticato le esecuzioni. Aveva scritto: «Il silenzio significa sostenere tirannia e tiranni». Il suo profilo Instagram non è più accessibile. E il regime minaccia di bloccare in modo permanente in Iran sia Instagram che Whatsapp, se non adegueranno le linee guida alla Repubblica islamica.

Iran, arrestato l'avvocato delle giornaliste che svelarono la morte di Mahsa Amini. Il Tempo il 17 dicembre 2022

Le autorità iraniane hanno arrestato l’avvocato di due giornaliste, incarcerate dopo aver scritto della morte in custodia della Polizia Morale della 22enne Mahsa Amini, episodio che ha scatenato l’ondata di proteste anti-governative che vanno avanti da 3 mesi. «Mohammad Ali Kamfirouzi, l’avvocato di diversi attivisti e giornalisti, è stato arrestato», ha scritto il quotidiano di ala riformista Ham Mihan. L’arresto porta a 25 il numero degli avvocati detenuti in relazione alle proteste, secondo la testata. L’avvocato di Kamfirouzi, Mohammad Ali Bagherpour, ha riferito di non essere a conoscenza delle accuse mosse nei confronti del suo assistito. Secondo il fratello di Kamfirouzi, l’arresto è avvenuto mercoledì. La magistratura è «responsabile di proteggere la vita e la salute di mio fratello», ha ammonito l’uomo.

Tra i clienti di Kamfirouzi ci sono Niloufar Hamedi ed Elaheh Mohammadi, le due giornaliste arrestate dopo aver coperto la morte di Amini e le sue conseguenze. Hamedi, che lavora al quotidiano riformista Shargh, è stata arrestata il 20 settembre dopo aver visitato l’ospedale dove la 22enne aveva trascorso 3 giorni in coma prima di morire. Mohammadi, giornalista di Ham Mihan, è stata arrestata il 29 settembre dopo essersi recata nella città natale di Amini, Saqez, nella provincia del Kurdistan, per raccontare il suo funerale. Le due reporter sono state formalmente accusate l’8 novembre di «propaganda contro lo Stato» e «cospirazione contro la sicurezza nazionale», reati punibili con la pena capitale nella Repubblica islamica. 

Reporters senza frontiere (Rsf), l’osservatore dei media con sede a Parigi, ha espresso preoccupazione per la loro sorte e ha chiesto il loro rilascio immediato. L’ Iran ha dichiarato il 3 dicembre che più di 200 persone sono state uccise nelle proteste - che i funzionari descrivono come «rivolte» fomentate dai nemici della Repubblica islamica - tra cui decine di agenti. Il gruppo con sede in Norvegia "Iran Human Rights" ha denunciato che le forze di sicurezza iraniane hanno ucciso almeno 469 persone nella repressione delle proteste, in un bilancio aggiornato. Migliaia di persone sono state arrestate per le proteste: 11 sono stati condannati a morte e due, entrambi 23enni, sono già stati giustiziati. Nel frattempo l’Iran ha rilasciato due adolescenti che erano stati arrestati con l’accusa di aver preso parte alle manifestazioni: Amir Hossein Rahimi, 15 anni, e Sonia Sharifi, 17 anni, sono stati entrambi rilasciati giovedì, dopo quasi due mesi di detenzione, hanno riferito i quotidiani riformisti Etemad e Ham Mihan.

"Non voglio che piangiate sulla mia tomba". “Siate felici e suonate musica allegra, non leggete il Corano”, le ultime parole di Majidreza Rahnavard prima dell’esecuzione in Iran. Redazione su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

“Suonate musica allegra, non pregate e non leggete il Corano“. Sono le ultime parole di Majidreza Rahnavard, il manifestante 23enne giustiziato in Iran il 12 dicembre scorso, il secondo dopo Mohsen Shekari (8 dicembre). In un video diventato virale in rete, Rahnavard, con gli occhi bendati e circondato da uomini delle forze di sicurezza col volto coperto da un passamontagna, esprime le ultime sue volontà: “Non voglio che piangiate sulla mia tomba né che leggiate il Corano o preghiate; voglio che siate felici e suoniate musica allegra“.

Il video è stato diffuso da una tv locale della provincia di Khorasan, di cui è capoluogo Mashhad, la città dove è stato arrestato e impiccato pubblicamente Rahnavard. Un uomo con un microfono, probabilmente un giornalista locale, chiede al ragazzo cosa ha scritto nelle sue ultime volontà. Lui risponde: “Il luogo dove seppellirmi”. “Non ti piace che leggano il Corano o preghino?”, incalza il cronista. “Non voglio, voglio che si festeggi e che si suoni musica allegra”, conclude Majidreza prima di essere giustiziato: è stato impiccato in pubblico in una strada della città di Mashhad e la magistratura iraniana ha pubblicato le immagini della sua esecuzione.

Rahnavard così come Shekari sono stati condannati dopo un processo farsa e pochi giorni di arresto. Entrambi hanno pagato con la vita la loro “guerra contro Dio”. Parole quelle del 23enne che riflettono i desideri di tanti giovani iraniani che vivono sotto la tirannia teocratica degli Ayatollah contro cui è esplosa da mesi la rivolta dopo la morte di Mahsa Amini. 

Intanto dopo l’esecuzione di Majidreza Rahnavard, la sua abitazione è stata vandalizzata. Le finestre sono state rotte e sui muri sono stati scritti slogan. Lo riporta Bbc Persia. Dopo le prime due condanne a morte, la magistratura iraniana ha dichiarato di aver emesso condanne a morte per 11 persone coinvolte nelle proteste. Gli attivisti invece sostengono che circa una dozzina di altre persone sono state condannate alla pena capitale.

Maurizio Stefanini per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2022.

Amir Nasr-Azadani, 26 anni, era calciatore. Hossein Mohammadi, anche lui 26 anni, era attore teatrale. Secondo quanto riferisce la Bbc, sono tra i condannati a morte per avere partecipato alle proteste contro il regime iraniano. Amir Nasr-Azadani, sempre secondo la Bbc, è stato accusato di tradimento, dopo essere stato arrestato lo scorso 27 novembre con l'accusa di essere membro di un «gruppo armato e organizzato che opera con l'intenzione di colpire la sicurezza della Repubblica islamica dell'Ira»".

Secondo il capo del tribunale di Isfahan Asadollah Jafari, l'ex calciatore delle squadre di serie A Sepahan e Tractor è «uno dei nove imputati nel caso in cui tre agenti di sicurezza sono stati martirizzati durante i disordini del 25 novembre». Alcuni ex atleti e calciatori iraniani, tra cui Ali Karimi e Mehdi Mahdavikia, hanno chiesto il rilascio del giovane giocatore. 

Secondo IranWire, una delle testate della diaspora iraniana, la notizia del suo arresto era rimasta segreta fino al momento in cui il calciatore non è stato con uno dei parenti di Nasr Azadani ha anche aggiunto che la sua famiglia, ignara dei motivi dell'arresto, era stata minacciata dalle forze di sicurezza nei giorni successivi: qualora avessero reso pubblica la notizia, al 26enne sarebbe stata comminata la condanna più severa possibile.

L'atleta 26enne, costretto a fermarsi nei mesi scorsi dopo essersi infortunato, ha partecipato alle proteste di Isfahan ma non sarebbe stato coinvolto nell'uccisione di un agente della milizia, fatto per il quale sono state emesse diverse condanne a morte contro manifestanti della città. 

L'esecuzione dell'attore Hossein Mohammadi sarebbe imminente, scrive su Twitter il reporter di Bbc Monitoring Khosro Kalbasi Isfahani postando le immagini dell'artista durante uno spettacolo in teatro. Mohammadi è stato arrestato il 5 novembre ed è una delle 5 persone per le quali è stata decisa la pena capitale da un tribunale di Karaj, città nel nord dell'Iran.

C'è invece speranza per il 23enne Mahan Sedarat Madani, accusato di «aver mosso guerra a Dio» per aver preso parte alle manifestazioni, brandendo un coltello. L'agente Mohammad Reza Qonbartalib, che aveva sporto denuncia contro di lui, ha infatti annunciato su Twitter la «sospensione e il rinvio» dell'esecuzione della condanna a morte per il giovane, che sabato sembrava imminente. 

Il poliziotto dopo aver testimoniato contro di lui in tribunale alla notizia della condanna alla pena capitale ha detto di averlo perdonato e che avrebbe cercato di fermare l'esecuzione. La magistratura iraniana non ha però ancora confermato la sospensione della pena. In precedenza l'agente in un altro tweet, poi cancellato, aveva annunciato il rinvio dell'esecuzione di 48 ore. Le due nonne di Mahan Shanno chiesto alle autorità di Teheran di risparmiare la vita del nipote con un video, fatto circolare sui social network. 

Ma anche i bambini vengono uccisi nella repressione. Ben 44, secondo una lista che è stata compilata da Amnesty International, con nomi e dati. Oltre 30 di loro, si legge nel rapporto, sarebbero stati uccisi da proiettili sparati al cuore, al capo e ad altri organi vitali.

Altri quattro sono stati uccisi «da pallini di metallo esplosi da breve distanza; cinque, tra cui una ragazza, sono morti a seguito di pestaggi; infine, una minorenne è morta dopo essere stata colpita al capo da un candelotto lacrimogeno». L'età di 39 delle vittime di sesso maschile andava dai due ai 17 anni; una bambina aveva sei anni, le altre quattro tra i 16 e i 17 anni. I minorenni rappresentano finora il 14% del totale delle persone uccise durante le manifestazioni che scuotono il Paese da mesi, scatenate dalla morte della giovane Mahsa Amini, arrestata a settembre per aver indossato male il velo. 

La Corte Suprema dell'Iran ha emesso nei giorni scorsi la sentenza di esecuzione anche di Mohammad Broghani, accusato di «guerra contro Dio» e condannato a morte per la sua presunta partecipazione alle proteste. Gli è stato negato l'accesso ad un avvocato. Lo scrive su Twitter sempre Khosro Kalbasi Isfahani. In un altro messaggio sul social il reporter riferisce che un membro del Parlamento ha protestato per l'esecuzione del manifestante Mohsen Shekar di due giorni fa lamentandone la «lentezza» perché nella Sharia «le esecuzioni devono essere eseguite istantaneamente».

Evoca quasi una vecchia storia di Paperino in cui il personaggio disneyano finito sotto processo in Asia centrale dopo l'arringa dell'accusa «chiedo la condanna a morte» si sentiva così difendere dall'avvocato: «chiedo che la condanna a morte sia eseguita il più presto possibile per abbreviare al massimo le sofferenze dell'attesa». Purtroppo, però, qua non ci troviamo di fronte a una barzelletta macabra, ma a un regime refrattario a qualunque senso del ridicolo.

A rischiare la condanna a morte, in totale, sarebbero 24 persone. L'osservatorio per i diritti umani Iran Human Rights Monitor, parla addirittura di 39 persone, di cui fornisce i nominativi. La storia di qualcuno di loro è raccontata sui social, sotto l'hashtag #saytheirname. A parte i già citati, c'è ad esempio Mohammed Ghobadlou: affetto da disturbo bipolare, da settimane lasciato senza farmaci.

Estratto dell'articolo di Gabriella Colarusso per “la Repubblica” il 14 dicembre 2022.

A Teheran lo chiamano "il giudice delle impiccagioni", una fama oscura di cui si torna a parlare con terrore nei giorni in cui la magistratura iraniana esegue le prime condanne a morte per le proteste. 

A decidere l'impiccagione di Moshen Shekari, 23 anni, il primo manifestante giustiziato, è stato lui, Abolghassem Salavati, il giudice a capo della sezione 15 del Tribunale rivoluzionario islamico di Teheran. Del suo passato si sa pochissimo: nessuna notizia su dove sia nato o su quale formazione legale abbia. A essere certa è la drammatica conta delle sentenze di condanna a morte o di lunga prigionia che portano la sua firma. Secondo la ong United for Iran, al 15 settembre 2020 Salavati «aveva emesso 25 condanne a morte e condannato 250 imputati a un totale di 1.277 anni di carcere e 540 frustate».

L'organizzazione conta «229 imputati nei suoi casi a cui è stato negato l'accesso all'assistenza legale, non meno di 166 messi in isolamento prolungato, e almeno 104 a cui non sono state consentite visite familiari o telefonate». Vicino all'attuale capo della magistratura Gholam-Hossein Mohseni- Ejei, il suo nome divenne tristemente noto all'opposizione iraniana dopo le grandi proteste del 2009 contro la vittoria alle elezioni di Ahmadinejad, quando il giudice presenziò diversi processi a carico dei manifestanti, anche in quel caso comminando sentenze pesantissime. […]

Salavati è il giudice che condannò a morte anche il giornalista e attivista Ruhollah Zam, ideatore di un canale di informazione indipendente seguitissimo in Iran, Amadnews : fu impiccato esattamente due anni fa, accusato di aver fomentato le proteste del 2017 e del 2018: "corruzione sulla terra". Ma Salavati è anche il giudice che ha presieduto i processi di numerosi cittadini con doppia nazionalità, considerati dalle organizzazioni per i diritti umani non equi e politicamente motivati.

Da lui fu condannato per "spionaggio" anche il giornalista iraniano-americano Jason Rezaian, corrispondente da Teheran del Washington Post , che ha passato 544 giorni in carcere. «In aula, dove c'erano le telecamere della tv di Stato, Salavati manteneva un profilo basso. Fuori dall'aula l'ho incontrato tre volte ed era molto intimidatorio», racconta Rezaian a Repubblica.

«Non ho potuto avere un mio avvocato di fiducia e quando incontravo quello assegnatomi Salavati era presente. Immagina che sei sotto processo e vuoi preparare la difesa con il tuo avvocato e il giudice e il magistrato sono lì a ogni incontro, è contro ogni legge». Rezaian ha raccontato la sua esperienza in un libro e in un podcast. Prima del processo, ricorda, «mi disse: "Perché state perdendo tempo? Ti condannerò a morte, tu sei una spia americana"». […]

Da open.online l’11 Dicembre 2022.

In Iran la repressione su chi ha osato protestare contro il regime non ha risparmiato nessuno, nemmeno i giovanissimi. Amnesty International parla di almeno 44 minorenni uccisi dalle forze di sicurezza iraniane: 34 di loro, si legge nel rapporto, sarebbero stati uccisi da proiettili mirati al cuore, al capo e ad altri organi vitali. Altri quattro sono stati uccisi «da pallini di metallo esplosi da breve distanza; cinque, tra cui una ragazza, sono morti a seguito di pestaggi; infine, una minorenne è morta dopo essere stata colpita al capo da un candelotto lacrimogeno». 

L’età di 39 delle vittime di sesso maschile andava dai due ai 17 anni; una bambina aveva sei anni, le altre quattro tra i 16 e i 17 anni. I minorenni rappresentano finora il 14 per cento del totale delle persone uccise durante le manifestazioni che scuotono il Paese da circa mesi, scatenate dalla morte della giovane Mahsa Amini, arrestata a settembre per aver indossato male il velo. 

Anche i ragazzi maggiorenni, ma giovanissimi, sono stati oggetto di esecuzioni che hanno fatto molto discutere. Come l’impiccagione di Mohsen Shekari, 23 anni, arrestato con l’accusa di aver bloccato il traffico e ferito una guardia della milizia Basij e giustiziato giovedì scorso per «inimicizia contro Dio». A rischiare la condanna a morte, in totale, sarebbero in 24.  

L’osservatorio per i diritti umani Iran Human Rights Monitor, parla addirittura di 39 persone, di cui fornisce i nominativi. La storia di qualcuno di loro è raccontata sui social, sotto l’hashtag #saytheirname («dì il loro nome», ndr). Come quella di Mohammed Ghobadlou, affetto da disturbo bipolare, da settimane senza farmaci.  

O quella di Mahan Sedarat Madani, ventitreenne in isolamento da due mesi senza avvocati nè visite. La resistenza in Iran ha contato molte migliaia di arrestati, di cui si teme la sorte. I genitori dei giovani in cella continuano a manifestare vicino alle carceri, chiedendo al regime il loro rilascio. Correndo anche rischi non indifferenti: «Le autorità iraniane minacciano regolarmente le famiglie delle vittime per costringerle a stare in silenzio. 

O ad accettare la narrazione ufficiale che assolve le forze di sicurezza da ogni responsabilità», spiega ancora la nota di Amnesty. «Nel caso in cui si oppongano, i parenti delle vittime sono minacciati di arresto, morte, stupro e uccisione di altri minorenni della famiglia oppure viene detto loro che i loro cari verranno sepolti in luoghi sconosciuti o che le salme non verranno restituite per i funerali».

La polizia morale e l'inimicizia contro Dio. Perché in Iran gli ayatollah stanno perdendo: esecuzioni non più in strada perché c’è il terrore della folla. Paolo Guzzanti su Il Riformista l’11 Dicembre 2022

Stavolta il regime non ha voluto che l’esecuzione fosse pubblica e così Mohsen Shekari si è trovato solo alle 5 del mattino nel cortile della prigione in cui era detenuto dal 10 novembre scorso, quando lo arrestarono con un coltello in mano ma senza che avesse compiuto alcun gesto aggressivo. Si è trovato davanti al mostro di ferro e carrucole che lo aspettava insieme a un pasdaran seduto in cabina di guida, la mano sul pulsante di carico della gru.

Aveva già le mani legate dietro la schiena e gli hanno calcato un cappuccio sulla testa poi è bastato un gesto, toccare un pulsante, e il motore si è messo in moto sollevando da terra il ragazzo di 22 anni primo della lista di 12 condannati a morte che dovrebbero essere impiccati come lui nei giorni prossimi. Le impiccagioni in Iran avvengono in genere così: la forca è una gru e il condannato deve penzolare a lungo prima di perdere la vita. Per Mohsen Shekari hanno fatto un’eccezione: le strade di Teheran sono un inferno e anche la polizia ha paura persino di un calcio negli stinchi come quello che Farimah Karami ha sferrato a una guardia della polizia morale che cercava di arrestarla. Quel calcio ha determinato la sua condanna a morte e sarà impiccata nei prossimi giorni. Farimah era la compagna di carcere dell’italiana Alessia Piperno. Riportata a casa dopo lunghe trattative tra il ministero degli esteri italiano e quello iraniano.

La rivolta in Iran è cominciata da molti mesi ma ha avuto una eco internazionale per l’uccisione da parte della polizia morale della ragazza curda, Mahsa Amini, colpevole di essersi messa il velo in maniera disordinata e sfrontata tale da attirare le attenzioni dei carnefici che girano per le strade di Teheran, un gruppo dei quali l’ha caricata su un furgone dove la ragazza è stata uccisa a pugni e calci su tutto il corpo. La giovane età, il fatto che fosse curda, e che avesse compiuto un gesto di sfida così sottile come non indossare correttamente il velo imposto alle donne, sono tutti fattori che hanno reso il suo martirio simbolico in tutto il mondo provocando manifestazioni in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Italia, in Austria e il governo fondamentalista per la prima volta si è trovato di fronte a eventi che non riusciva più a dominare.

Il capo della giustizia iraniana, Gholam-Hossein Moheni-Ejèi, ha fatto trapelare la notizia secondo cui l’infame corpo della polizia morale sta per essere sciolto. Ma contemporaneamente sono emersi dei crimini di portata sconosciuta compiuti dai carnefici di questa organizzazione. Il più orrendo è quello dei tiratori scelti i quali hanno il compito di sparare ai genitali delle donne senza ucciderle ma provocando danni che non permetteranno una gravidanza. Il regime più crudele del dopoguerra che agisce sulla base di superstizioni e in posizione di natura barbarica ha creato un reato che si chiama “moharebeh”, e cioè “inimicizia contro Dio”, un’accusa dalla quale nessun penalista di Teheran potrebbe salvarvi perché soltanto Dio conosce i sentimenti delle persone, a parte gli aytaollah naturalmente.

Se la polizia morale si avvia allo scioglimento (cosa per ora non confermata dalla burocrazia di governo) la violenza della repressione non accenna a cedimenti. La polizia morale non è uno strumento semplicissimo da contrastare, perché le prove che questa banda di assassini sostiene di accumulare è di natura quasi metafisica e richiede la costruzione di dossier densi di citazione delle scritture. Il vero obiettivo del regime è quello di spezzare il morale delle donne perché questa rivolta sfrontata che mette in crisi un regime che dura da quarantadue anni è fatta per lo più di ragazze che non esitano a sfidare la polizia, rispondere alle violenze, che si sanno difendere e che vedono di giorno in giorno aumentare la loro popolarità nel mondo. Il regime non era pronto, non era stato assolutamente in grado di concepire una rivolta delle donne. I segnali erano arrivati ormai da circa due anni quando la polizia morale aveva scoperto che i giovani si difendevano dalla dittatura creando luoghi in cui darsi al sesso libero.

Dopo una prima reazione violenta e una massa di arresti, il regime decise di chiudere un occhio su questa rivolta sessuale che, se mantenuta discretamente in aree controllate, aveva il potere di mantenere i giovani distratti di fronte alle angherie del regime. Ma questa finta liberalità ha avuto un effetto contrario a quello sperato: i giovani, e specialmente le ragazze, hanno imparato a non tenere in alcun conto i tentativi di mantenerli in un regime di terrore, sicché la rivoluzione sessuale si è trasformata presto in rivoluzione politica. E quando una giovane curda è stata brutalmente linciata dalla polizia, la risonanza di questo delitto ha non soltanto scosso le coscienze di tutti, ma ha fornito il coraggio e l’energia agli adolescenti, donne in prima fila, per sfidare apertamente le forze di repressione e dimostrare di non aver paura. Così una di queste giovani si è messa il velo alla rovescia ed è stata linciata, un’altra ha preso a calci un poliziotto e sta per essere impiccata e decine di condannati si stanno ammassando nelle galere mentre vengono oliate le gru.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Un colpo al cerchio e uno alla botte: l’Occidente e la grave crisi dell’ Iran. Martina Melli su L’Identità il 10 Dicembre 2022

Dell’impiccagione di Mohsen Shekari,il giovane manifestante arrestato per aver contrastato le forze di polizie in strada e aver colpito un agente in servizio, resta oggi lo sdegno internazionale e poco più.

Dall’inizio della protesta in Iran, scoppiata a metà settembre come risposta all’inspiegabile morte della poco più che ventenne Mahsa Amini, l’Occidente ha supportato la causa (a distanza) specialmente nella prima fase delle sommosse.

In moltissime, sui social network, nei giorni immediatamente successivi a quel 16 settembre, hanno espresso la loro solidarietà alle donne iraniane, condividendo messaggi accalorati e, nei casi più vistosi, recidendosi pubblicamente i capelli. Appelli su Instagram a parte, non sembra che questi quasi 3 mesi di rivolte abbiano ricevuto il giusto corrispettivo d’attenzione.

Ora che la situazione sfugge di mano, che c’è stata la prima pena di morte e ce ne saranno altre; che la repressione istituzionale si fa sempre più impietosa e crudele, il resto del mondo cosa pensa di fare?

A settembre, l’amministrazione Biden ha emesso una linea guida sanzionatoria per sostenere i manifestanti, esonerando le società tecnologiche che volevano fornire servizi agli iraniani, come l’accesso alle notizie e in generale al web.

Le organizzazioni internazionali, quelle non governative, in particolare quelle che si battono per i diritti umani, sono particolarmente attive. Ma gli organismi governativi di Europa e America, legittimati a indagare sul governo iraniano – come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – non sono andati oltre dichiarazioni di preoccupazione.

Gli Stati controllano queste organizzazioni e agiscono sempre secondo la propria agenda di politica estera. Gli attivisti affermano che i diritti umani non sono della massima importanza per molti Paesi, mentre l’economia o la sicurezza sono le priorità assolute quando si ha a che fare con una teocrazia mediorientale ricca di petrolio come l’Iran.

La Cina e la Russia – le uniche due grandi potenze non occidentali – hanno relazioni amichevoli con Teheran e, a loro volta, sono infastidite dalle critiche delle organizzazioni internazionali nei confronti dei propri diritti umani.

Inoltre, nei Paesi occidentali, altre questioni, in particolare il programma nucleare iraniano e il suo recente coinvolgimento nella guerra in Ucraina, sono una grande fonte di ansia.

Sebbene i negoziati con l’Iran per rilanciare l’accordo nucleare del 2015 si siano bloccati prima dell’attuale ondata di proteste, entrambe le parti insistono sul fatto che i colloqui non sono ancora falliti e che la finestra per una soluzione diplomatica è aperta.

Sostenere i manifestanti iraniani rischia di chiudere tale finestra. Nonostante ciò, la solida reazione pubblica a sostegno delle proteste iraniane nei Paesi dell’occidente, ha reso la questione particolarmente spinosa e scomoda per i governi.

Finora Stati Uniti, Regno Unito, UE e Canada hanno sanzionato funzionari e organizzazioni iraniane accusati di aver preso parte alla repressione. Tuttavia, tutte le misure sono state accuratamente calcolate per non inimicarsi Teheran e mantenere percorribile la strada diplomatica. Dunque, le possibilità che la richiesta dei manifestanti di tagliare i rapporti con il governo iraniano venga soddisfatta, appaiono piuttosto scarse.

Le Nazioni Unite vogliono l’Iran fuori dalla commissione sui diritti delle donne.

In un post su Twitter l’ambasciatrice Linda Thomas-Greenfield ha dichiarato: “Il governo iraniano non dovrebbe far parte del CSW (The Commission on the status of women), un organismo internazionale dedicato alla promozione dell’uguaglianza di genere e dell’emancipazione delle donne. Rimuovere l’Iran dalla Commissione sullo status delle donne è la cosa giusta da fare”.

Una bozza di risoluzione proposta dagli Stati Uniti, riguardante la rimozione dell’Iran dalla commissione, sarà votata alle Nazioni Unite la prossima settimana.

La bozza “rimuoverebbe con effetto immediato la Repubblica islamica dell’Iran dalla Commissione sullo status delle donne per il resto del suo mandato 2022-2026”.

Oltre alle esclusioni, arrivano le multe: in questi giorni Il Regno Unito sta sanzionando l’Iran per il trattamento dei detenuti nel carcere di Evin, e per la violazione dei diritti umani.

La mossa inglese è arrivata il giorno dopo che la Francia ha annunciato i piani per nuove sanzioni della Ue contro l’Iran, per violazioni dei diritti umani nella sua repressione della sicurezza sui disordini popolari in patria, e la sua fornitura di droni alla Russia prima dell’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca.

Queste sanzioni, l’esclusione dalla commissione delle Nazioni Unite ecc, hanno tanto un sentore di paternalismo.

Ok, non è una situazione semplice o lineare, e forse per capire capire come muoversi per aiutare al meglio i manifestanti bisognerebbe fare dei pensieri appropriati, riflettere tenendo conto dei molteplici fattori in campo.

Ma una cosa è certa. Sarebbe il caso di includere l’Iran in sempre più Commissioni internazionali sullo stato delle donne al momento; invitarli a partecipare a tutti i panel, ai workshop e alle conferenze sulla tematica femminile e sulle problematiche di genere.

I potenti di Teheran trattano la fuga in Venezuela. Storia di Gaia Cesare su Il Giornale il 9 dicembre 2022

La vita dei manifestanti? O la testa del regime? Che la posta in gioco in Iran si sia fatta altissima, che le proteste siano l'embrione di una rivoluzione contro il regime di Teheran, lo prova non solo il pugno di ferro esibito dalla Repubblica islamica, che ha giustiziato il primo manifestante. Lo confermano indirettamente anche le indiscrezioni di fonti diplomatiche occidentali arrivate all'orecchio di Iran International, network di informazione indipendente con sede a Londra. «La Repubblica islamica ha avviato negoziati con i suoi alleati venezuelani per assicurarsi che offrano asilo ai funzionari del regime e alle loro famiglie se la situazione dovesse peggiorare e aumentasse la possibilità di un cambio di regime», hanno riferito le gole profonde occidentali.

La fuga verso Caracas sarebbe già in piena organizzazione, se le cose dovessero mettersi male, per trovare un paradiso sicuro in un Paese amico, quel Venezuela di Nicolás Maduro, campione anch'esso di repressione. «Una delegazione di quattro alti funzionari della Repubblica islamica ha visitato il Venezuela a metà ottobre, per negoziare la garanzia che Caracas conceda asilo a rappresentanti pubblici di alto rango e alle loro famiglie». Un'eventualità che i funzionari di Teheran chiamano «lo sfortunato incidente», ma che non escludono più, di fronte alle proteste incessanti in Iran. Secondo il britannico Daily Express, già a ottobre, dopo la morte di Mahsa Amini che ha scatenato la rabbia popolare, alti funzionari della Repubblica islamica hanno tentato di ottenere passaporti britannici per le loro famiglie, in modo da poter lasciare in fretta l'Iran, se necessario. Una fonte iraniana ha riferito che i funzionari hanno noleggiato fino a «cinque voli charter al giorno» per le loro famiglie e hanno trasformato alcune sezioni del «principale aeroporto di Teheran» in aree preferenziali per velocizzare l'espatrio.

A inizio novembre, ha raccontato un'altra fonte al giornale on-line di opposizione Kayhan London, tre voli al giorno sono decollati con «una quantità considerevole di merci» dirette in Venezuela. «Non sappiamo cosa stiano trasferendo queste persone e se stiano lasciando il Paese con tutti i bagagli o no. Le targhe delle loro auto non appartenevano a nessuna ambasciata. Sappiamo solo che nelle scorse settimane, ogni giorno ci sono stati tre o quattro voli per il Venezuela», ha riferito un testimone dell'Aeroporto Internazionale di Teheran-Imam Khomeini.

E se è vero che non c'è miglior metodo per capire come vanno le cose che non sia il «follow the money» - segui dove vanno i soldi - diversi attivisti anti-regime denunciano sui social «regolari trasferimenti di denaro all'estero da parte di alti funzionari del regime». La moglie dell'ex ministro degli Esteri Javad Zarif avrebbe trasferito 4 milioni su un conto della Abc Bank a Shanghai. Non solo. A Teheran, sospetta qualcuno, anche la vendita di case lussuose a prezzi ben al di sotto del valore di mercato, potrebbe essere un segnale della paura del regime e della speranza dei manifestanti: che sia arrivata l'ora della contro-rivoluzione alla Rivoluzione islamica del 1979.

Iran, il racconto dagli ospedali: «Sparano agli occhi per marchiare una generazione». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.  

I medici iraniani: «In tre ospedali della capitale, 500 manifestanti rischiano di perdere la vista». Tra violenze sessuali e brutalità, la resistenza iraniana non fa passi in dietro

La benda, il volto insanguinato, ma soprattutto le sue parole: «L’ultima cosa che ha visto il mio occhio destro è una guardia che mi spara in faccia e  ride. Perché ridi?». Quasi un mese dopo il colpo che le ha portato via metà vista, Ghazal Ranjkesh, la studentessa di giurisprudenza di 19 anni della città portuale di Bandar Abbas, è diventata suo malgrado uno dei simboli delle violenze della Guardia rivoluzionaria iraniana che oltre a uccidere ferisce brutalmente.

Un chirurgo di Teheran che preferisce rimanere anonimo usa un termine ben preciso, «marchiare»: «Il regime sta marchiando un’intera generazione». «Sparano a mezzo metro di distanza proiettili che si frantumano in centinaia di pallini di metallo e di gomma. Sono quelli che si usano per la caccia agli uccelli, alcuni di provenienza italo-francese. Sparano sul busto, sui genitali, ma soprattutto colpiscono gli occhi, lasciando danni permanenti alla retina, al nervo oculare: rendono ciechi». Solo in tre ospedali di Teheran — Farabi Hospital, Labafinejad Clinic e Rasul Akram Hopital —  i medici hanno confermato oltre 500 casi di manifestanti, spesso minorenni,  arrivati in ospedale con danni gravissimi alla vista. Un oculista ci racconta che trecento di questi non vedranno mai più. «Oggi, in Iran raccogliere dati è molto difficile, ma se tre ospedali parlano di numeri così alti di persone accecate, chissà quali sono quelli totali», commenta un medico iraniano in Italia. La situazione è così grave, che  il 25 novembre, 140 oftalmologi hanno scritto una lettera al loro presidente  chiedendo di intervenire.

Se quello che succede nelle carceri è terribilmente immaginabile, colpisce il racconto che esce dai corridoi degli ospedali. «Da settimane, i paramilitari in borghese sono presenti in tutti i reparti. Prelevano i manifestanti dalle sale operatorie, li consegnano alle forze di sicurezza che li portano in prigione. Molti dei ventimila manifestanti in carcere sono stati presi dalle nostre cliniche», racconta il medico. Motivo per cui, chi viene ferito nelle proteste, se può, evita di andare in ospedale. «Ma curarsi a casa è molto pericoloso perché questi proiettili finiscono ovunque e non tutti sono facilmente estraibili. Abbiamo visto radiografie di pallini di metallo bloccati vicino alla corteccia cerebrale».

Sempre da Teheran, ci raccontano che in tutte le città sta nascendo una rete segreta di ambulatori dove i dottori curano di nascosto. Lo fanno per aiutare i giovani che protestano, ma anche per proteggersi visto che la loro categoria è nel mirino del regime. Non è un caso che dopo l’impiccagione del ventitreenne Mohsen Shekari, sia arrivata la notizia della condanna a morte di Hamid Garehassanlu, un radiologo: «Sembra sia stato accusato di aver ferito un membro delle forze paramilitari dei Basiji. Ormai il presidente Raisi e i suoi   pescano a caso tra la popolazione con punizioni esemplari che hanno lo scopo di rassicurare le guardie demoralizzate dalla rivolta. Si racconta che nell’ultima settimana abbiano alzato  lo stipendio dei militari del 20%», spiega il chirurgo di Teheran.

Anche le storie delle ragazze e dei ragazzi violentati nelle carceri sono sempre più frequenti, ma i dati sono quasi impossibili da trovare. «Un collega ha raccontato che in un giorno sono state portate in una clinica della capitale sei ragazze dallo stesso carcere che riportavano lacerazioni vaginali e anali molto gravi. Dicono che i poliziotti scelgono le minorenni più belle da violentare in gruppo», riporta  il medico.

Ma le violenze del regime  non sembrano avere la forza di fermare la rivoluzione. In un post sui social, Ghazal Ranjkesh ha scritto: «Quella guardia non sapeva che ero a prova di proiettile. Non sapeva che il mio corpo e la mia anima sono più grandi e non tremano davanti al suo fucile».

Iran, la strage dei bambini. Storia di Chiara Clausi su Il Giornale il 21 Novembre 2022 

Continua l'escalation della violenza in Iran e a pagarne il prezzo sono soprattutto i bambini. I giovani sono stati in prima linea dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata per non aver indossato correttamente l'hijab. Almeno 58 bambini, alcuni di appena otto anni, sono stati uccisi in Iran. Secondo gli attivisti per i diritti umani sono 46 i ragazzi e 12 le ragazze sotto i 18 anni morti. Tra questi c'è la tragedia di Kian Pirfalak, 9 anni, una delle sette persone tra cui un bambino di 13 anni uccise mercoledì nella città occidentale di Izeh. I servizi di sicurezza iraniani hanno però incolpato i «terroristi». Un'altra vittima è Kumar, diventato un martire dopo essere morto per le strade della sua città natale di Piranshahr, nell'Iran occidentale, il 30 ottobre. Suo padre Hassan Daroftadeh ha raccontato che è stato colpito più volte a distanza ravvicinata. E poi ha aggiunto: «Kumar era solo in piedi per strada. Non ha detto una parola. Non so con quale coscienza lo abbiano martirizzato». Il video di Hassan che piange sulla tomba di suo figlio è diventato virale sui social. «Hanno detto che gli "stranieri" lo hanno ucciso. Non so come l'ufficiale che l'ha ammazzato abbracci i suoi stessi figli. Non so come faccia a dormire la notte», ha tuonato.

Prima della morte di Kumar c'è stata anche la storia di Mohammad Eghbal, 17 anni. Stava andando alla preghiera del venerdì quando è stato colpito alla schiena da un cecchino a Zahedan. Secondo Amnesty International, quel giorno 10 bambini sono stati uccisi a Zahedan. Mohammad Eghbal lavorava come operaio dall'età di 9 anni per mantenere la sua numerosa famiglia e aveva sognato di mettere da parte abbastanza soldi per comprare uno smartphone per poter aprire un account Instagram. Le sue ultime parole sono state rivolte a uno sconosciuto, ha raccontato uno dei suoi parenti: «Ha chiesto a un passante: Per favore, prendi il mio cellulare dalla tasca e chiama mio padre. Digli che mi hanno sparato. Quando la sua famiglia è arrivata in ospedale per cercarlo, ha trovato cadaveri che giacevano sul pavimento e le urla e le grida delle madri».

Una settimana dopo è la volta di Abolfazl Adinehzadeh 17 anni. Era per le strade della sua città natale Mashhad e non è più tornato a casa. «Abbiamo seppellito Abolfazl con più di 50 proiettili di fucile ancora nel suo corpo», ha detto un membro della famiglia. Anche la morte di due adolescenti, Nika Shakamari e Sarina Esmailzadeh, entrambe probabilmente picchiate a morte dalle forze di sicurezza per aver protestato, ha provocato grande indignazione. Così come la storia di Asra Panahi, 16 anni, morta dopo essere stata attaccata dalle forze di sicurezza all'interno della sua classe. Un'altra ragazza di 16 anni in Kurdistan è invece sopravvissuta. Dopo essere arrestata si è gettata da un furgone della scuola la scorsa settimana. La repressione continua anche su altri fronti. La procura ha convocato alcuni vip e celebrità, tra cui alcuni personaggi del cinema e del mondo dello sport, perché rispondano dell'accusa di aver diffuso sui social media «commenti falsi, non documentati e provocatori» in appoggio alle proteste. Ieri la magistratura di Teheran ha annunciato che l'attrice Hengameh Ghaziani è stata arrestata. Nel suo account Instagram, Ghaziani aveva postato un breve video con il capo scoperto. Fra le persone raggiunte da un mandato di comparizione figurano le attrici Elnaz Shakerdoust, Mitra Hajjar, Baran Kowsari, Sima Tirandaz e Hengameh Ghaziani, i due ex parlamentari riformatori Parvaneh Salahshouri e Mahmoud Sadeghi e l'ex allenatore della squadra di calcio del Persepolis Yahya Golmohammadi.

Una rivoluzione di carne e sangue. Storia di Vittorio Macioce su Il Giornale il 21 Novembre 2022

No, non rinnega, non bestemmia. Non è neppure contro Dio. Non è fede contro fede. Non ha un'ideologia. Al funerale di Artin Rahmani, martire di 14 anni, le donne si sono tolte il loro hijab e hanno pianto con «toshmal-e chapi». È un canto di addio dei nomadi Bakhtiari. Questa rivoluzione che non ha bisogno di troppe parole è uno scambio di sguardi, che passa e abbraccia e si diffonde e non si abbassa davanti alla paura e va di cuore in cuore, con un coraggio che non si può misurare e ha l'orgoglio delle donne, la coscienza di uomini che non vogliono nascondersi e le lacrime per questa mattanza che sembra non finire e non risparmia i bambini. È una rivoluzione senza armi, che va avanti mettendo in piazza il corpo, la voce, il canto della rivolta e nella sua forza inattesa ha qualcosa di antico, perché è fatta di carne e sangue. Non è virtuale. Non c'è finzione. Non si preoccupa di avere un pubblico, perché la scelta di dire basta è ancestrale. È lineare, semplice e sgretola le parole degli yatollh, che si difendono rispolverando le formule di una propaganda che giorno dopo giorno è sempre più grottesca. «Il male», urlano. «Il male incarnato dai nemici dell'Islam». «Il male che porta il marchio dei soldi dell'Occidente». È quello che il regime continua a ripetere mentre spara e condanna a morte. Gli uomini in nero di Teheran non vogliono vedere che c'è un punto di rottura, un limite, che rende il potere, qualsiasi potere, non più umanamente sopportabile. Non cerchi neppure una ragione. Dici basta. Dici basta perché non si può ammazzare una ragazza per una ciocca di capelli fuori posto. Dice basta perché tanta arroganza non ha più nulla di sacro o legittimo a cui appellarsi. Non c'è fede. Non c'è tradizione. Non c'è più nulla di umano e sovrumano. È il vuoto del tiranno che vive solo per la sua tirannia.

C'è un nome all'origine di questa storia. Mahsa verrà ricordata come quella Lucrezia, offesa e violentata, che millenni fa spinse i romani a ripudiare il settimo e ultimo re, Tarquinio detto il superbo. Tarquinio come gli yatollh. Le parole di questa rivoluzione le rubi a Sahar Delijani, lei che è nata in un carcere di Teheran e ha raccontato la sua storia ne L'albero dei fiori viola e adesso la segue giorno per giorno. «Questa non è una festa. Questo è un funerale. Questi sono i bambini. Queste sono le madri. Questa è una nazione in lutto. Questa è una nazione ribelle. Questa è nazione che non si spegne».

Iran, sesta condanna a morte per un manifestante anti regime. La Corte rivoluzionaria di Teheran, secondo quanto riferisce il sito Mizan Online, ha deciso la sentenza capitale per un uomo giudicato colpevole di «guerra contro Dio». Il Dubbio il 21 novembre 2022

Sesta condanna a morte in Iran per le proteste contro il regime. La Corte rivoluzionaria di Teheran, secondo quanto riferisce il sito Mizan Online, ha deciso la sentenza capitale per un uomo giudicato colpevole di «aver estratto un coltello con l’intenzione di uccidere, diffondere il terrore e creare insicurezza nella società durante i recenti disordini». La Corte ha anche dichiarato l’imputato colpevole di «moharebeh», reato che significa «guerra contro Dio».

La condanna può essere ancora impugnata dinanzi alla Corte suprema, ma nel Paese non si placa l’ondata di proteste seguite alla morte, il 16 settembre, di Mahsa Amini, una ragazza curda iraniana di 22 anni, arrestata dalla polizia morale per aver infranto il rigido codice di abbigliamento per le donne nel Paese. Le autorità iraniane hanno accusato a più riprese l’Occidente di fomentare le rivolte.

E proprio oggi è stata arrestata in Iran anche l’attrice Hengameh Ghaziani, “colpevole” di aver pubblicato su Instagram un video in cui, senza velo, esprimeva solidarietà alle proteste. L’attrice aveva detto ai suoi follower di temere che quello fosse il suo «ultimo post».  E così è stato. Poche ore dopo, infatti, Hengameh Ghaziani è stata convocata in procura e poi arrestata. A riferire l’accaduto, i media statali, mentre gli account di attivisti per i diritti umani in Iran si sono riempiti di denunce dell’ennesimo arresto. Ghaziani aveva criticato la dura repressione delle manifestazioni da parte del regime e nel suo ultimo post aveva promesso: «Sarò con il mio popolo fino al mio ultimo respiro».

(ANSA il 7 Dicembre 2022) - La magistratura della Repubblica islamica ha annunciato che Mohsen Shekar, arrestato durante le proteste, è stato giustiziato: è la prima sentenza di morte eseguita per un manifestante, come riporta Bbc Persia. 

Shekari è stato accusato di aver bloccato una strada, di disordini, di aver estratto un'arma con l'intenzione di uccidere nonché di aver ferito intenzionalmente un ufficiale durante il servizio. La magistratura ha detto che l'udienza si è tenuta il 10 novembre e l'imputato ha confessato le sue accuse.

"L'esecuzione di Mohsen Shekari deve incontrare una forte reazione altrimenti corriamo il rischio di aver esecuzioni di manifestanti ogni giorno, questa esecuzione deve portare rapidamente a conseguenze pratiche a livello internazionale". 

È l'appello lanciato da Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della ong 'Iran Human Rights' con sede ad Oslo, dopo che questa mattina la magistratura della Repubblica islamica ha annunciato che è stata eseguita la prima condanna a morte per una delle persone arrestate durante le dimostrazioni in corso da quasi tre mesi nel Paese.

 (ANSA il 7 Dicembre 2022) - "Il popolo iraniano merita libertà e prosperità, e la sua rivolta è legittima e necessaria per realizzare i suoi diritti. Spero di vedere presto la vittoria del popolo e il rovesciamento di questa tirannia che governa l'Iran. Che la giusta lotta del popolo per raggiungere la libertà e la democrazia si realizzi il prima possibile". 

Queste le parole, affidate a una lettera aperta pubblicata su La Stampa, di Badri Hossein Khamenei, sorella della Guida suprema della Repubblica islamica Ali Khamenei. 

"Nel nome di Dio - scrive Khamenei - . Perdere un figlio ed essere lontano da tuo figlio è una grande tristezza per ogni madre. Molte madri sono rimaste in lutto negli ultimi quattro decenni.

Penso che sia opportuno ora dichiarare che mi oppongo alle azioni di mio fratello ed esprimo la mia simpatia per tutte le madri che piangono i crimini del regime della Repubblica islamica, dai tempi di Khomeini all'attuale era del despotico califfato di Ali Khamenei", aggiunge. 

 La sorella del leader iraniano nella lettera racconta: "L'opposizione e la lotta della nostra famiglia contro questo sistema criminale sono iniziate pochi mesi dopo la rivoluzione. I crimini di questo sistema, la soppressione di qualsiasi voce dissenziente, l'imprigionamento dei giovani più istruiti e ispirati di questa terra, le punizioni più severe e le esecuzioni su larga scala iniziarono fin da subito".

"Come tutte le madri in lutto iraniane - sottolinea -, sono anche triste per il fatto di esser lontana da mia figlia. Quando arrestano mia figlia con violenza, è chiaro che applicano migliaia di volte più violenza ad altri ragazzi e ragazze oppressi che sono sottoposti a crudeltà disumana.

Iran, giustiziato Mohsen Shekari: chi è il primo manifestante condannato a morte dopo l'arresto per proteste. A cura della redazione Esteri su La Repubblica l’8 Dicembre 2022

L'uomo era accusato di aver bloccato una strada e attaccato un membro delle forze di sicurezza con un machete a Teheran. Altri due giovani arrestati portati in isolamento

È stato giustiziato Mohsen Shekari, il primo manifestante arrestato per le proteste esplose in Iran contro il regime. L'annuncio è delle autorità iraniane che hanno riferito di aver giustiziato un progioniero, arrestato nel corso delle proteste.

L'agenzia di stampa iraniana Mizan ha riferito dell'esecuzione. Il governo accusa l'uomo di aver bloccato una strada e attaccato un membro delle forze di sicurezza con un machete a Teheran.

In Iran le proteste sono esplose dallo scorso 16 settembre per la morte della 22enne Mahsa Amini, deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale del Paese.

Shekar era stato arrestato il 25 settembre, poi condannato il 20 novembre con l'accusa di "moharebeh", una parola farsi che significa "guerra contro Dio", accusa che comporta la pena capitale. Le autorità iraniane stanno reprimendo con violenza il movimento di protesta, iniziato con le donne che manifestavano per maggiori libertà e il rispetto dei loro diritti umani e arrivato ormai a coinvolgere anche gli uomini e diverse classi sociali uniti dalla richiesta di mettere fine al sistema stesso della Repubblica islamica. Secondo le Ong per i diritti umani, le vittime della repressione da metà settembre sono oltre 400, di cui una sessantina minorenni.

"L'esecuzione di Mohsen Shekari deve incontrare una forte reazione altrimenti corriamo il rischio di aver esecuzioni di manifestanti ogni giorno, questa esecuzione deve portare rapidamente a conseguenze pratiche a livello internazionale". È l'appello lanciato da Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della ong Iran Human Rights con sede ad Oslo, dopo l'annuncio dell'esecuzione. Ed è la stessa ong a denunciare che "altri due giovani manifestanti iraniani sono stati portati in isolamento, dove i prigionieri vengono tenuti prima dell'esecuzione della pena di morte: Saman Seydi e Mohammad Boroghani". 

"Avevamo messo in guardia che in Iran, insieme ai morti nelle strade, ci sarebbero stati morti sul patibolo. Un'altra trentina rischiano l'impiccagione. Cosa attende la comunità internazionale, compreso il governo italiano, a esprimere il massimo della protesta?". Così il portavoce di Amnesty International Italia, Riccardo Noury, ha commentato la notizia.

La repressione sanguinaria in Iran. Un ragazzo impiccato dopo il processo-farsa, spari ai genitali alle donne in piazza. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani l’08 dicembre 2022

Centinaia di persone hanno già perso la vita mentre protestavano. Ora il regime comincia l’esecuzione dei condannati, il primo è Mohsen Shekari. Noury: «Le ambasciate si attivino». Intanto un’inchiesta svela la pratica degli spari al volto e ai genitali di chi manifesta

Fino a che punto arriva il regime per reprimere le proteste in corso in Iran? Le notizie che si rincorrono descrivono una repressione senza limiti, sia nelle strade che nelle aule dove si tengono i processi-farsa. Mohsen Shekari aveva solo 23 anni, era stato condannato a morte ed è stato impiccato questo giovedì mattina; nelle stesse ore, altre due persone condannate per le proteste – Saman Seydi e Mohammad Boroghani – venivano messe in isolamento nel braccio della morte, in vista dell’esecuzione. Intanto le testimonianze raccolte sul campo dal Guardian ricostruiscono la pratica ricorrente di colpire le donne che protestano con spari mirati a volto, seno e genitali.

I PROCESSI FARSA

Un tribunale ha condannato il 23enne Mohsen Shekari per la sua «inimicizia contro Dio», secondo quanto riferito dai media statali. La sua “colpa” era di essere un rivoltoso: il 25 settembre aveva ostruito una delle strade principali della capitale iraniana e ferito un paramilitare; l’agenzia iraniana Mizan ha diffuso anche l’ipotesi che sia stato pagato per farlo, il che alimenta la versione del regime secondo il quale le proteste sono state istigate dai «nemici internazionali». Il professor Mahmood Amiry-Moghaddam, che dirige l’organizzazione non governativa Iran Human Rights, evidenzia la gravità dell’esecuzione del manifestante, resa ancor più pesante dalla «mancanza di un vero processo» e quindi dall’impossibilità per lui di esercitare una difesa. La “corte rivoluzionaria di Teheran” opera a porte chiuse, e solo dopo l’esecuzione del ragazzo la tv di stato ha diffuso un pacchetto di immagini in cui si mostra il giudice, Abolghassem Salavati, e le parti in causa. In realtà «si tratta di un processo sommario, senza un avvocato di propria scelta, durato un niente», spiega Riccardo Noury di Amnesty.

Le autorità giudiziarie iraniane hanno già annunciato la condanna a morte di 11 persone, ma – ricostruisce Amnesty – «almeno 28, di cui tre minorenni, rischiano l’esecuzione» per aver protestato contro il regime. Queste 28 persone «sono state sottoposte a processi iniqui: sono stati negati i loro diritti a essere difesi da un avvocato di propria scelta, alla presunzione di innocenza, ad avere un processo giusto e pubblico. Secondo fonti ben informate numerosi imputati sono stati torturati e le confessioni estorte con la tortura sono state usate come prove». Le confessioni vengono mandate in tv in prima serata, racconta Noury.

INTERVENTO INTERNAZIONALE

Le proteste iniziate in Iran in autunno dopo la morte di Mahsa Amini sono state inquadrate dal regime come «istigate da nemici stranieri» e represse col sangue. L’inchiesta pubblicata dal Guardian, con le testimonianze dei medici iraniani, ricostruisce anche la pratica sistematica di prendere di mira le donne che protestano in punti specifici: il volto, il seno, i genitali. Stando ai dati raccolti dagli attivisti per i diritti umani e diffuse dall’agenzia Hrana, 475 persone sono state uccise durante le proteste, oltre 18mila sono state arrestate. «Rischiamo di aggiungere alla repressione in strada anche quella giudiziaria, nel contesto di una mancanza di trasparenza completa da parte delle autorità iraniane», dice Noury di Amnesty. «Mi chiedo cosa aspettino i governi a condannare questa mattanza. L’Onu ha votato per una commissione di verifica dei fatti ma non è stata ancora formata, il punto è se il paese oggetto della commissione consentirà l’operato effettivo».

Il portavoce di Amnesty Italia lancia un appello che riguarda anche palazzo Chigi: «Chiediamo a tutte le ambasciate presenti nel paese di inviare propri rappresentanti ai processi». Un appello che rafforza quello già arrivato dalla Iran Human Rights, che ha chiesto un’azione urgente da parte della comunità internazionale per fermare l’esecuzione dei manifestanti. 

FRANCESCA DE BENEDETTI.  Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Iran, l'antropologa Homa Hoodfar: «Quella delle esecuzioni è una nuova fase di violenza». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022

Il regime degli ayatollah dice ai suoi: «Vi copriamo le spalle». La professoressa della Concordia University di Montreal: «Il rischio sono le esecuzioni di massa»

Nella lingua del regime, l’impiccagione del ventitreenne Mohsen Shekari vuol dire «benvenuti in un altro livello», spiega dalla sua casa in Canada Homa Hoodfar, 72 anni, professoressa emerita di antropologia alla Concordia University di Montreal e scrittrice iraniana che nel 2016 ha conosciuto il carcere di Evin, a Teheran, accusata di stare lavorando a uno studio sul ruolo delle donne in politica.

Il «nuovo livello» di cui parla Hoodfar è quello delle violenze: «Per Alì Khamenei e Ebrahim Raisi, le esecuzioni sono pratiche quotidiane. L’Iran è uno dei Paesi che più utilizza la pena di morte». Secondo l’Iran Human Rights, nel 2022 più di 500 persone sono già state giustiziate, ma Shekari è il primo tra i manifestanti.

A chi parla il regime con questa esecuzione?

«Alle ragazze e ai ragazzi per le strade che chiedono la sua fine. Ma parla anche ai suoi, alle guardie della rivoluzione».

Cioè?

«Da una parte vuole spaventare i manifestanti e mostrare cosa può fare, dall’altra vuole rassicurare chi si sporca le mani per lui. Shekari avrebbe ferito un membro dei Basij, la sua uccisione è un modo per dire “vi copriamo le spalle, non siete soli”. Si racconta che molti militari non siano felici di questa repressione».

Iran, eseguita la prima condanna a morte di un manifestante: «Inimicizia contro Dio». «La polizia spara ai genitali delle manifestanti»

Potrebbe essere la prima di una serie di esecuzioni?

«Sì, c’è il rischio. Potrebbero iniziare a pensare anche alle esecuzioni di massa. In carcere ci sono decine di migliaia di manifestanti, numeri che non possiamo immaginare. Persone senza diritti».

Che cosa intende?

«Il processo che ha portato alla morte di Shekari è stato una farsa, così come tutti gli altri. Durante l’interrogatorio non hai il diritto a un avvocato: ti massacrano psicologicamente e fisicamente. Poi, finisci nelle mani di quello che viene chiamato il tribunale rivoluzionario, lì ti viene affidato un avvocato-fantoccio e il tuo destino è segnato. È il momento che la comunità internazionale faccia qualcosa».

Che cosa potrebbe fare?

«Prima di tutto, deve condannare con forza questa esecuzione e tutta la violenza del regime. Poi è necessario ripensare ai rapporti economici, finanziari e politici con l’Iran. Si può iniziare richiamando gli ambasciatori. Se questa volta la comunità internazionale non risponde, Khamenei farà molto di più. È importante anche per i manifestanti».

Perché?

«A questo punto, chi scende per le strade ha bisogno di sapere che ha il supporto del mondo fuori».

Lei ha conosciuto in prima persona la violenza del regime e le sue carceri.

«Sono stata nel carcere più famoso d’Iran, Evin. Ma era il 2016, per quanto la mia esperienza sia stata brutale, non credo ci sia paragone con quello che succede oggi».

Racconti.

«Ero tornata in Iran per far visita alla mia famiglia, mi hanno portata in carcere e tenuta per quattro mesi. Mi hanno interrogata più di 30 volte, mi torturavano psicologicamente, volevano che piangessi ma io non piangevo. Una volta, hanno preso il mio cellulare e hanno fatto partire la canzone del funerale di mio marito. Cercavano tra le mie cose quello che poteva farmi più male, e l’hanno trovato».

Perché l’hanno liberata?

«Perché ho il doppio passaporto e la comunità degli accademici si è mossa per sbloccare la situazione, è stata una fortuna immensa».

Oggi si legge di stupri e violenze inaudite nelle prigioni.

«Credo che le torture e le violenze sessuali siano pane quotidiano in quei luoghi. Non conosco direttamente casi di questo tipo, ma so di storie di donne e uomini violentati che una volta usciti si sono suicidati».

La polizia morale iraniana non è mai stata abolita, anche se lo avete letto. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 7 Dicembre 2022

«Non ci sono conferme sul fatto che il lavoro delle unità di pattugliamento, ufficialmente incaricate di garantire la “sicurezza morale” nella società, sia effettivamente terminato». Secondo al Jazeera, l’Iran non ha fornito alcuna conferma o dichiarazione ufficiale rispetto alla presunta abolizione della “polizia morale”, il corpo di forze dell’ordine responsabile dell’applicazione della legge iraniana sul velo obbligatorio e di altre severe misure, ritenuto colpevole dell’assassinio in carcere di Mahsa Amini, la ragazza curda ventiduenne arrestata il 13 settembre scorso a Teheran per non aver indossato correttamente l’hijab e poi deceduta in carcere tre giorni dopo. 

La Gasht-e Ershad (Guidance Patrol, “polizia morale”), che è stata creata dal Consiglio supremo della Rivoluzione culturale sotto il presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad per “diffondere la cultura della decenza e dell’hijab”, risponde al ministero dell’Interno, che non ha ancora commentato ufficialmente la notizia.

La ricostruzione di al Jazeera è stata condivisa anche dalla TV di stato iraniana in lingua araba Al-Alam che – citata dalla Cnn – ha sottolineato come «nessun funzionario della Repubblica islamica dell’Iran ha detto che la polizia religiosa islamica è stata chiusa».

Nonostante ciò, negli ultimi giorni la notizia dello smantellato della polizia morale è circolata su gran parte dei giornali italiani e internazionali, a partire da testate come il Wall Street Journal e il New York Times. Gli esperti di Iran e gli attivisti hanno inizialmente invitato alla prudenza, criticando poi aspramente come “fuorvianti”, “vergognosi” e “fake news” i contenuti condivisi dai principali media occidentali. Anche le agenzia di stampa e gli organi di stampa italiani hanno rilanciato la notizia come assodata: da Agi al Corriere della sera, da Repubblica a Il fatto quotidiano.

«È incredibile quante testate giornalistiche stiano seguendo la linea “L’Iran abolisce la polizia morale” basata su una citazione contorta di un funzionario», ha scritto su Twitter Borzou Daragahi, corrispondente internazionale di The Independent. «In realtà la polizia morale è inattiva da quando sono iniziate le proteste, ma non ci sono notizie sostanziali sul loro futuro». A confermare la scarsa credibilità della notizia sono anche gli stessi manifestanti, che, come riporta il Guardian sono tornati a scioperare. Lunedì 5 dicembre, infatti, il movimento di protesta iraniano ha avviato uno sforzo concertato per tenere tre giorni di scioperi, con migliaia di attività commerciali chiuse in diverse parti del Paese, come testimoniato dalla CNBC.

A bollare la notizia come una “fake news” è stato anche Kasra Aarabi, responsabile del programma Iran presso il Tony Blair Institute for Global Change, in un post sul suo profilo Twitter. Secondo Aarani questa forma di disinformazione sarebbe stata diffusa per distrarre l’attenzione dei media dalla nuova ondata di proteste. 

Il fraintendimento è nato a seguito di alcune dichiarazioni di Mohammad Jafar Montazeri, procuratore generale della repubblica islamica e importante esponente del regime, rilasciate all’agenzia stampa iraniana Isna, domenica 4 dicembre. In base a quanto riporta la BBC, Montazeri ha detto che il governo avrebbe smantellato la polizia religiosa («La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l’ha creata») e che era anche al lavoro per modificare la legge che obbliga le donne iraniane a indossare il velo islamico. Tuttavia, nonostante la sua influenza, Montazeri non ha alcuna autorità sulla polizia religiosa, alle dipendenze, come anticipato, del ministero dell’Interno, che però non ha diffuso alcuna dichiarazione a riguardo. 

Secondo lo scrittore ed esperto di Medio Oriente, Arash Azizi, le parole di Montazeri vanno prese con prudenza perché «nella migliore delle ipotesi [sono] quanto meno poco chiare». «È improbabile», ha spiegato Azizi, «che queste vadano lontano, dal momento che il leader, Ali Khamenei, non è da tempo interessato alle concessioni, e sa che concessioni significative possono fare l’opposto di disinnescare il movimento; possono incoraggiarlo ulteriormente». [a cura di Enrica Perucchietti]

Il parlamento di Teheran ha chiesto la pena capitale per i manifestanti. Cosa sta succedendo in Iran: le proteste tra manganelli e forca. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 18 Novembre 2022 

Il fiume umano che si riversa nelle strade della Repubblica Islamica ci attrae e ci trascina verso l’idea di un possibile Iran libero. Emana una forza tale per cui oggi nessuno può dirsi indifferente rispetto a questo popolo, oppresso da oltre quarant’anni da un regime teocratico e misogino. Un popolo che sembra ormai un flusso d’acqua in cerca del punto di congiunzione con il mare cristallino della libertà. Sappiamo che i regimi si fondano sulla violenza e che usano come un manganello le punizioni a loro disposizione per sedare il dissenso, finanche il malcontento. Se poi il loro ordinamento prevede la pena di morte, picchiano anche con questa.

In Iran però si va oltre, perché si arriva a picchiare con la pena di morte, chi morto lo è già. È accaduto a Zahedan, capitale della provincia del Sistan-Baluchistan, dove risiede l’etnia baluci di religione sunnita, duramente perseguitata dagli sciiti al potere del governo centrale. Lo scorso 30 settembre le forze paramilitari del regime teocratico hanno aperto il fuoco contro fedeli e manifestanti baluci in una moschea a Zahedan, trucidando 96 persone e ferendone 350. A questo orrore se ne è aggiunto un altro quando lo scorso 6 novembre Nematollah Barahouyi è stato appeso al cappio nel carcere di Zahedan, insieme ad Amanollah Alizehi. I due uomini erano entrambi di etnia baluci ed erano stati condannati a morte da una Corte Rivoluzionaria per reati legati alla droga. Solo che, secondo la testata Hal Vash, Nematollah è stato impiccato morto. Le guardie lo avevo ucciso a botte perché poneva resistenza mentre lo trascinavano verso il patibolo. Lo hanno appeso privo di vita per attribuire al cappio la responsabilità del decesso e così evitare di incorrere in problemi legali. Sono due esecuzioni di cui non vi è traccia nei mezzi di informazione ufficiali, come peraltro accade per molte delle esecuzioni compiute in Iran arrivate a ben 534 quest’anno secondo il meticoloso monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino…

In effetti, rispetto a certi accadimenti è meglio tacere o nascondere la verità. I regimi vivono di silenzi come di menzogne. Oltre che di repressione e di botte. Devono far stare male per sopravvivere. Mors tua vita mea, o con me o contro di me. Questo è il pensiero diabolico che attraversa le menti al vertice di qualsivoglia regime. Un pensiero così involuto che nel vortice del male che crea cola a picco verso gli abissi più oscuri. Si è infatti arrivati lo scorso 7 novembre al punto che la grande maggioranza dei membri del parlamento iraniano ha chiesto alla magistratura che venga applicata la pena di morte ai manifestanti arrestati durante le proteste. È avvenuto con un appello, firmato da 227 deputati su 290 in totale, che chiede la pena capitale per i dimostranti definiti come “nemici di Dio” in modo che “serva da lezione”. Secondo Iran Human Rights sono 15.000 i manifestanti arrestati da quando, due mesi fa, è cominciata la protesta innescata dalla morte di Mahsa Amini. A distanza di pochi giorni, il 14 novembre, è arrivata la prima condanna a morte di uno dei manifestanti di cui non è noto il nome. A pronunciare il verdetto di morte è stata una Corte Rivoluzionaria.

Almeno altre cinque condanne a morte di manifestanti sono seguite a questa, mentre almeno altri 20 stanno già affrontando processi punibili con la morte secondo quanto riportano notizie ufficiali. Ma se migliaia e migliaia di manifestanti arrestati restano in attesa del processo, della condanna e dell’esecuzione, intanto si va avanti con le esecuzioni sommarie per mano delle forze dell’ordine. Sono almeno 342 quelli uccisi (550 secondo il Consiglio della resistenza iraniana), compresi 43 bambini e 26 donne. È notizia di questi giorni che la Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, di nuovo al voto della Assemblea Generale dell’ONU, è stata approvata in un primo passaggio, quello del Terzo Comitato, ed è in attesa di passare al vaglio della plenaria. I voti a favore sono stati 126 (erano stati 120 nel 2020), 37 i contrari e 24 gli astenuti. In plenaria andrà ancora meglio a riprova che la moratoria, dono di Nessuno tocchi Caino e oggi patrimonio curato meritevolmente da molti, continua a orientare l’umanità verso una giustizia capace di deporre la spada.

Tra i voti a favore della risoluzione anche quelli di Paesi islamici a riprova del fatto che il problema non è il Corano, perché non tutti i Paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria legge fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico. Che l’Iran rientri tra questi regimi è noto da tempo. Che la politica di accondiscendenza dei Paesi cosiddetti democratici abbia contribuito a farlo durare nel tempo sicuramente meno. Per cambiare dunque le cose in Iran occorre innanzitutto cambiare noi stessi: passare da una politica dell’accondiscendenza a quella di un dialogo fondato sul rispetto dei diritti umani fondamentali. Elisabetta Zamparutti

L’alba di un nuovo giorno. «Donna, vita, libertà» e la battaglia degli iraniani e degli ucraini contro i regimi dispotici. Christian Rocca su L’Inkiesta il 18 Novembre 2022.

Gli iraniani hanno un nemico interno (gli ayatollah), gli ucraini hanno un nemico esterno (Putin). Ma insieme lottano per la libertà e per rendere possibile ciò che sembrava impossibile. E poi ci sono i russi, che non hanno ascoltato quella vecchia canzone di Sting. Anticipazione del nuovo numero di Linkiesta Magazine in edicola dal 23 ma già disponibile su Linkiesta Store

Le rivoluzioni sembrano sempre impossibili il giorno prima, e sempre inevitabili il giorno dopo. La rivolta delle ragazze contro “l’apartheid di genere”, cui le donne iraniane sono state costrette dagli ayatollah a cominciare dal 1979, pareva impossibile fino al giorno prima dell’assassinio di Mahsa Amini il 16 settembre 2022, una ragazza colpevole di essersi tolta dalla testa quel cencio medievale chiamato hijab e imposto dal clero sciita.

Quarantatré anni di potere teocratico dei mullah corrotti e miserabili su una società che un tempo era tra le più avanzate e moderne del Grande Medio Oriente sembravano fossero destinati a durare in eterno. Fine mullah mai.

Quando l’ayatollah Khomeini con l’aiutino dei francesi instaurò la Repubblica islamica sciita, le giovani donne di Teheran provarono a resistere, a cominciare dal velo (come mostrano le splendide fotografie che pubblichiamo su Linkiesta Magazine), ma i metodi islamofascisti delle squadracce della Gasht-e Ershad, la polizia morale religiosa, fecero calare le tenebre su tutto l’Iran e in particolare sulla condizione delle donne.

Il regime teocratico degli ayatollah è sopravvissuto a tutto, alle guerre sanguinarie con Saddam Hussein e alle sanzioni americane, ma per la prima volta improvvisamente mostra i segni di un cedimento strutturale grazie alle commoventi proteste delle ragazze, e poi anche dei ragazzi, contro l’imposizione del velo e in solidarietà alle vittime della repressione islamista, volte ormai a destituire i carcerieri di un’intera generazione che vuole vivere come le coetanee di New York e di Los Angeles.

«Donna, vita, libertà», ecco la rivoluzione inevitabile, popolare, coraggiosa e ammirevole. Siamo dunque arrivati all’alba del giorno dopo, come racconta Mariano Giustino in apertura di questo numero del nostro giornale con il World Review del New York Times.

C’è un altro popolo coraggioso e ammirevole che altrettanto inevitabilmente sta lottando per la propria incolumità, per la propria indipendenza, per la propria libertà.

Questo popolo è il popolo ucraino sotto attacco russo dal 24 febbraio 2022, ma in realtà da anni, anzi da secoli caratterizzati da incessante pulizia etnica, linguistica e culturale, e da stermini pianificati dagli zar imperialisti, dai comunisti dell’Unione sovietica e dal loro attuale e tragicomico imitatore di stanza al Cremlino, il palazzo più sanguinario della storia dell’umanità. Linkiesta è orgogliosa di pubblicare per la seconda volta le riflessioni di Volodymyr Yermolenko, il principale filosofo contemporaneo ucraino, e le parole di Serhiy Zhadan, il più importante scrittore e poeta (e anche musicista punk rock) del Paese. Yermolenko e Zhadan sono le voci più rappresentative della generazione ucraina che dalle proteste di Majdan alla resistenza antirussa sta combattendo per la libertà e l’indipendenza di un popolo, e anche per noi.

A unire le ragazze e i ragazzi iraniani e ucraini non c’è solo la comune battaglia per la libertà e l’aspirazione a vivere come i coetanei occidentali, come i newyorchesi o i parigini, c’è anche un nemico comune.

Un nemico astratto che è il regime autocratico e fanatico che li vorrebbe tenere entrambi in carcere e in alternativa li uccide senza pietà, ma anche un nemico fatto di persone fisiche che non a caso sono saldamente alleate nell’organizzare la doppia carneficina di questi mesi.

I droni kamikaze che uccidono i civili ucraini nelle scuole, nei centri commerciali, nei parchi giochi e negli ospedali delle città che resistono all’invasore russo sono forniti a Vladimir Putin dagli ayatollah iraniani.

Se esiste un asse del male oggi è composto dall’alleanza criminale russo-iraniana, impegnata a cancellare una generazione di ucraini (e pure di russi usati come carne da macello) e a reprimere nel sangue una generazione di iraniani.

L’Iran è sotto attacco interno, l’Ucraina è sotto attacco esterno, ma l’evidenza della battaglia comune è lampante, solo alcuni volenterosi complici occidentali di Putin e di Ali Khamenei non vogliono vedere quello che invece succede alla luce del sole.

C’è un’altra questione, decisiva, che segna inesorabilmente la fine del regime reazionario di Teheran e purtroppo tiene ancora in vita quello autoritario di Mosca.

Gli iraniani si stanno ribellando, i russi no. Gli iraniani della diaspora scendono in piazza, i russi no. Gli iraniani che vivono all’estero manifestano con gli ucraini contro i due regimi, i russi che vivono in Italia, in Francia, in Germania, in Gran Bretagna fanno shopping e si girano dall’altra parte.

I russi non muovono un dito per gli ucraini e al massimo fingono di non essere corresponsabili dei crimini di guerra di cui invece sono complici, come se i russi che ogni giorno uccidono donne e bambini ucraini fossero un popolo diverso rispetto a quello sedicente illuminato di Mosca, di San Pietroburgo o della diaspora occidentale.

Nel 1985, quando i vertici sovietici minacciavano l’uso dell’atomica, una famosa canzone di Sting, Russians, si augurava per scongiurare la guerra totale che anche i russi amassero i loro figli, come gli occidentali avevano a cuore i loro.

«Potremmo salvarci, me e te, solo se anche i russi amassero i loro figli», cantava Sting. Vale anche oggi, vale per i russi e per gli iraniani, con la differenza che oggi sappiamo che sia i russi sia gli iraniani non amano i figli degli ucraini e nemmeno i loro.

(ANSA il 18 ottobre 2022) - Elnaz Rekabi, l'atleta iraniana che ha partecipato domenica senza hijab alla competizione di arrampicata nella capitale sudcoreana, sarà trasferita direttamente da Seul nella famigerata prigione di Evin a Teheran. 

Lo rivela IranWire, sito di giornalisti dissidenti iraniani. Secondo IranWire, Reza Zarei, il capo della Federazione di arrampicata iraniana, ha ingannato l'atleta conducendola dall'albergo di Seul all'ambasciata iraniana dopo aver ricevuto ordini dal presidente del Comitato olimpico iraniano Mohammad Khosravivafa. Khosravivafa, che ha agito su input del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane. 

In Iran l'hijab è obbligatorio anche per le donne iraniane nelle competizioni sportive anche quando rappresentano all'estero il proprio paese.

"Elnaz aveva deciso di apparire senza l'hijab circa un mese fa e sapeva che avrebbe gareggiato senza l'hijab obbligatorio", ha detto una fonte a IranWire aggiungendo che la donna non ha chiesto asilo "perché suo marito è in Iran e voleva tornare dopo la competizione. Prende sempre decisioni così audaci". 

Il capo della Federazione di arrampicata iraniana Reza Zarei, che in precedenza era un membro del Ministero dell'Informazione, ha promesso a Elnaz che se le avesse consegnato il passaporto e il cellulare, l'avrebbe portata in Iran rapidamente, senza rischi e senza renderlo pubblico. Ma, spiega una fonte di IranWire, "sappiamo cosa fanno le ambasciate della Repubblica islamica. La porteranno direttamente all'aeroporto e la riporteranno in Iran".

L’Iran ha emesso la prima condanna a morte ai danni di un manifestante. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 14 novembre 2022.

In Iran c’è stata la prima condanna a morte nei confronti di una persona che ha partecipato alle proteste degli ultimi due mesi per la morte di Mahsa Amini, la 22enne arrestata e uccisa nel carcere di Teheran per non aver indossato correttamente il velo. È quanto ha stabilito domenica 13 novembre un tribunale della capitale, che ha deciso di mandare a morte un individuo (non si sa bene se sia un uomo o una donna) incriminato per aver «dato fuoco a un edificio governativo», e colpevole inoltre di aver disturbato l’ordine pubblico e aver organizzato un «complotto finalizzato a commettere un crimine contro la sicurezza nazionale». La persona in questione è inoltre accusata di essersi comportata come «nemico di Dio» per via della corruzione che a causa sua si sarebbe ulteriormente diffusa sulla Terra. Secondo la legge iraniana, si tratta di uno dei reati più gravi per cui essere condannati.

Sull’identità del detenuto non si hanno notizie certe e il tribunale, nel suo comunicato, non fornisce ulteriori dettagli. C’è tuttavia una certa somiglianza tra questa condanna e la storia diffusa lo scorso ottobre da una donna sui social network, la madre di un 22enne che online aveva lanciato un appello per salvare il figlio, condannato proprio per gli stessi reati. Non è chiaro se si tratti della stessa persona, ma in quel caso la magistratura aveva negato di aver emesso una condanna simile.

Oltre a questa, un altro tribunale della capitale ha emesso una sentenza con l’accusa di «cospirazione per commettere crimini contro la sicurezza nazionale e disturbo dell’ordine pubblico» ai danni di altre cinque persone, che rischiano di passare in cella dai 5 ai 10 anni.

La magistratura ha inoltre fatto sapere che presto potrebbero essere condannate altre persone. Sono più di 750 le persone, residenti in tre province diverse, che domenica sono state incriminate con varie accuse, tipo «istigazione all’omicidio» e «propaganda contro il regime». Nello specifico 164 di loro subiranno un processo nella provincia meridionale di Hormozgan, 276 a Markazi e 316 nella provincia di Isfahan. Altre 2mila invece erano già state incriminate nelle settimane precedenti, mentre 100 giovani sono stati rimessi in libertà dopo aver promesso di non partecipare mai più a delle proteste.

In generale le OGN che sul campo si occupano di diritti civili raccontano di oltre 15mila arresti dall’inizio delle proteste, molti dei quali avvenuti per «danneggiamento alle forze di sicurezza» e «danneggiamento alla proprietà pubblica». Altre 326 persone avrebbero perso la vita. Si tratta ovviamente di numeri non verificabili.

Nonostante il pugno duro mostrato da Teheran fin dall’inizio delle manifestazioni, nelle strade del Paese non cessano le proteste. L’ultima protesta è avvenuta nella provincia sudorientale Sistan-Baluchistan, dove in centinaia hanno espresso forte dissenso contro la repressione portata avanti dalle autorità nel capoluogo Zahedan. Qui il 30 settembre avrebbero perso la vita più di 90 persone che manifestavano per lo stupro di una ragazza di quindici anni avvenuto – secondo gli abitanti del luogo – per mano di un poliziotto.

Le donne iraniane sono diventate in tutto il mondo un simbolo e un “mezzo” attraverso cui esprimere dissenso e lanciare segnali. In una dinamica dove anche i Paesi occidentali si stanno inserendo con comunicati e azioni che il governo iraniano considera tentativi di interferire con le vicende nazionali. L’ultimo è stato il presidente francese Emmanuel Macron, che venerdì scorso ha ospitato a Parigi quattro attiviste iraniane, elogiandole per il coraggio con cui stanno portando avanti le proteste. Un gesto che ha scatenato l’ira del Governo iraniano. L’Eliseo ha detto di aver accolto nel suo palazzo Masih Alinejad, attivista che spinge le donne iraniane a svincolarsi dall’obbligo di indossare il velo, Shima Babaei, attivista iraniana anche lei, che si batte per scoprire la verità sulla scomparsa del padre (di cui non si hanno notizie da quando ha tentato la fuga verso la Turchia), Ladan Boroumand, che ha fondato un’organizzazione per i diritti umani a Washington, e Roya Piraei, figlia di Minoo Majidi, una donna uccisa all’inizio delle proteste. Per Teheran si è trattato di un atto vergognoso e di una «violazione delle responsabilità internazionali della Francia nella lotta al terrorismo e alla violenza». [di Gloria Ferrari]

L'Iran, tra repressioni e droni alla Russia diventa il nuovo paese del «male». Stefano Piazza il 29 Ottobre 2022 su Panorama.

Teheran continua la sua guerra civile contro gli oppositori dopo la morte di Mahsa Amini, con almeno 300 morti tra i civili, e si stringe L'Iran, tra repressioni e droni alla Russia diventa il nuovo paese del «male» sempre più a Mosca

L'Unione europea rigetta le contro-sanzioni imposte da Teheran dal momento che «hanno solo motivazione politiche», mentre l'ondata di proteste in Iran, a più di 40 giorni dalla morte di Mahsa Amini, non si fermano. A poche ore dall'attentato al mausoleo di Shiraz compiuto da miliziani dello Stato islamico il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha detto che «i disordini spianano la strada agli attacchi terroristici». Immediata la solidarietà del presidente russo Vladimir Putin che si è detto «pronto a rafforzare ulteriormente la cooperazione nella lotta contro il terrorismo».

Come detto l’Unione Europea ha preso atto «della decisione degli iraniani di sanzionare 12 persone e 8 entità dell'Unione europea. L'Ue respinge queste sanzioni poiché sembrano essere motivate solo politicamente». Lo ha detto il portavoce per la politica estera dell'Ue Peter Stano che nella sua nota ha aggiunto: «Al contrario le sanzioni decise dall'Ue sono adottate su basi legali chiare e sulle prove di violazione dei diritti umani in Iran». A proposito di questo Raisi, che prima di diventare presidente ha trascorso decenni nel famigerato sistema giudiziario iraniano come giudice e pubblico ministero e che è accusato di aver far parte di un gruppo che nel 1988 ha giustiziato migliaia di prigionieri politici iraniani che scontavano la pena, in una dichiarazione riportata dai media iraniani ha affermato che «il nemico ha visto che le sanzioni non sono efficaci e ha fallito dal momento che è chiaro che il treno del progresso iraniano sta accelerando e c'è chi vuole isolare l'Iran». Raisi in una successiva dichiarazione ha dichiarato che «pace e sicurezza sono necessarie per produrre scienza e conoscenza e la speranza nei cuori delle persone e le proteste sono crudeli per le persone innocenti sulle cui vite ricadono le ripercussioni dei disordini». Parole che si scontrano con la realtà che vede un Paese in fiamme e dove le proteste non si fermano nonostante la durissima repressione della polizia morale di Teheran. La Bbc ha diffuso un video nel quale a Kermanshah, Iran occidentale, alcune giovani donne iraniane si tolgono l'hijab, si mettono in piedi sopra i bidoni della spazzatura e cantano «Morte a Khamenei», e poi «Donna, vita, libertà», prima che una donna di mezza età con l'hijab le raggiunga tra gli applausi di moltissimi manifestanti. Proteste anche a Mahabad, una città curda nel nord-ovest, dove la Ong Hengaw ha denunciato l'uccisione di un uomo curdo da parte delle forze di sicurezza iraniane: «È molto difficile ottenere un quadro generale accurato di ciò che sta accadendo. Ma quello che sappiamo per certo è che le fondamenta della rivoluzione islamica vengono scosse» scrive Bbc Persian. Le forze di sicurezza iraniane sono intervenute anche alle manifestazioni celebrate nel ricordo di Nika Shahkarami l’adolescente iraniana scomparsa il 20 settembre 2022 dopo aver assistito alle proteste nella capitale Teheran. La Cnn ha mostrato dei video nei quali si vede che la polizia spara sulla folla e utilizza gas lacrimogeni vicino al villaggio di Veysian. La mamma di Nika Shahkarami ha accusato le autorità di aver ucciso la figlia e di averle fatto pressioni per dichiarare il falso sulla sua morte. In un video inviato a Radio Farda, emittente finanziata dagli Stati Uniti, Nasrin Shahkarami ha dichiarato che le autorità le avrebbero chiesto di dire che la figlia si sarebbe suicidata, buttandosi dal tetto di un edificio. Il corpo di Nika Shahkarami scomparsa a Teheran lo scorso 20 settembre, dopo aver partecipato alle proteste di piazza e aver detto a un'amica di essere inseguita dalla polizia, e il suo corpo è stato consegnato alla famiglia lo scorso 1º ottobre. Come detto, il presidente russo Vladimir Putin ha espresso le condoglianze al presidente Raisi dopo l'assalto dell’Isis al santuario sciita, confermando la disponibilità della parte russa «a rafforzare ulteriormente la cooperazione con i partner iraniani nella lotta contro il terrorismo». Secondo la nota del Cremlino, Putin ha espresso le sue condoglianze «per le tragiche conseguenze dell'atto terroristico commesso a Shiraz». Il leader russo ha aggiunto che «è difficile immaginare un crimine più cinico dell'omicidio di civili compresi bambini e donne all'interno di un santuario religioso». E che dire delle bombe russe che cadono da mesi sulla popolazione civile, le torture e le fosse comuni in Ucraina? Il nuovo asse del male è quindi russoiraniano con Teheran che ha accettato di fornire droni, missili e munizioni all’esercito russo sempre più a corto di mezzi. Una scelta strategica obbligata visto l’isolamento di Mosca sullo scacchiere internazionale. Nonostante le smentite iraniane ultima quella del portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kaanani che ha parlato di «voci infondate e basate su motivi politici», le forniture continuano. Oltre a quanto anticipato dal Washington Post in merito alla fornitura dei droni Shahed-136 e Mohajer-6, Iran e Russia avrebbero stipulato accordi per la fornitura anche di missili Fateh-110 e Zolfaghar che da tempo sono prodotti in gran quantità a Teheran. Un tema che preoccupa e non poco i servizi segreti israeliani che hanno le prove delle continue forniture di droni, missili e munizioni agli Hezbollah in Libano, al regime di Assad in Siria, senza dimenticare le milizie sciite in Iraq e gli Houthi in Yemen in guerra con l’Arabia Saudita e ora anche alla Russia di Vladimir Putin. Mentre scriviamo si apprende che da giorni Israele sta prendendo di mira le fabbriche dei droni iraniani Shahed-136 in Siria, usati dalla Russia contro l’Ucraina. Secondo quanto riferito il primo attacco sarebbe avvenuto lo scorso il 21 ottobre e successivamente ci sarebbe stato almeno un altro attacco sulla stessa area. Il premier dello Stato Ebraico, Yair Lapid, si è detto preoccupato della: «pericolosa vicinanza tra Mosca e Teheran». Nel confermare il suo supporto all’Ucraina ha aggiunto che almeno per il momento, non invierà armi a Kiev. Tutto questo però non impedirà allo Stato ebraico di continuare condividere con gli ucraini quelle informazioni d’intelligence sono utili a neutralizzare gli UAV iraniani oltre a colpire le loro fabbriche fuori dalla Repubblica islamica

L’alba di Teheran. I giovani iraniani non chiedono preghiere, ma azioni contro i fanatici del fascismo religioso. Alfredo Toriello su L’Inkiesta il 7 Novembre 2022.

Il racconto di cinque expat che seguono dall’estero la lotta dei loro coetanei: «Continuate la battaglia» perché è quella di tutti, donne e uomini, per liberare la loro terra d’origine da un Medioevo infinito

«Non abbiamo bisogno di preghiere ma di azioni». Questo è ciò che chiede Feriel, di fianco a Bahram (tutti i nomi di questo articolo sono di fantasia per mantenere l’anonimato), mentre avvicina il viso allo schermo parlando della rivoluzione in Iran. Il tono della voce è fermo, anche se gli occhi tradiscono la sua inquietudine perché la distanza è tanta dal Canada, ma non dimentica com’era l’aria che respirava lì.

«Da piccola ho sempre percepito questo senso di oppressione. Vedevo i ragazzi e la loro libertà e volevo la stessa cosa, però tu, in quanto donna, sei bloccata in un cliché. Solo da grande ho capito bene cosa volevo e ciò che non volevo».

Non è diverso da quello che racconta Azadeh dall’Olanda: «Dovevi sempre stare attenta a tutto. A come vestire, a cosa facevi o dove andavi. È tutto così frustrante». «Direi che si tratta più di una discriminazione della donna all’interno della società – aggiunge Javid – parliamo di un qualcosa radicato e che porta le donne a doversi adattare per sopravvivere».

L’Iran ha iniziato a combattere per la sua libertà, in una battaglia che non accenna a fermarsi così come i tentativi di repressione da parte del governo. Nella sola Teheran mille persone verranno processate per avere preso parte alle proteste, mentre continua ad allungarsi una lunga, quanto insensata, lista di morti causati del regime.

Ultima ad aggiungersi è la quattordicenne della scuola media Parvin Etesami, picchiata a morte dagli agenti di polizia che, durante una perquisizione: all’interno dei libri scolastici, hanno trovato una fotografia strappata di Khomeini.

Tutto questo a un mese e mezzo di distanza dalla morte Masha Amini, il 16 settembre. Il ricordo di quei giorni è ancora vivido: «Pensavamo che questa cosa sarebbe durata due, tre giorni o al massimo una settimana – confidano Azadeh e Javid –. Non è la prima grande manifestazione che c’è dopo la rivoluzione del 1979. Eppure dopo un mese questo movimento è ancora in piedi e ci dà fiducia».

Quella stessa fiducia che però i primi giorni era angoscia, per la facilità con cui il regime uccide e perseguita chi scende in piazza. Un sentimento che ha tenuto sveglio soprattutto Bahram: «Eravamo molto preoccupati perché non potevamo parlare con i nostri familiari. Immagina, è come se fino a poco tempo fa potevi tranquillamente sentire tutti, anche da lontano, e poi all’improvviso non è più così».

Comunicare con la terra d’origine è sempre più difficile. Non solo perché è lo stesso regime a limitare il flusso delle notizie ma, come spiega Javid, è complesso anche per i media avere notizie in tempo reale. Gli inviati devono passare al vaglio ogni immagine, filmato o virgolettato perché dietro può nascondersi la mano del regime che ha il solo obiettivo di: «Disunire e togliere la speranza alle persone».

«Ci sono tanti account falsi su Twitter o su Instagram dove scrivono: “Vivo in quella città e qui non sta succedendo nulla”. Cercano di imporre un’idea avvelenata secondo cui se segui questa rivoluzione l’Iran diventerà instabile come la Siria o l’Iraq. Dicono di portare pace e sicurezza ma questo è un regime del terrore». Non è nient’altro che violenza, sussurra Azadeh: «Deve essere chiaro. Questo governo non rappresentata gli iraniani».

La goccia che ha fatto traboccare il vaso ormai è arrivata e, sia chiaro, quello in atto non un movimento solo per i diritti delle donne come afferma Feriel: «È qualcosa che riguarda tutti, donne e uomini uniti contro un fondamentalismo religioso che non è più tollerabile». Tutto è partito giovani dalla Generazione Z, spiega Dalir da Roma, che vogliono solo avere la possibilità di scegliere: «Non solo la propria religione, ma tutto ciò che ruota intorno alla loro vita».

Tutti sono d’accordo che però c’è bisogno di sostenere i più giovani che hanno «La forza di smuovere le cose – dice Javid – ma hanno bisogno di supporto da parte della vecchia generazione e da tutti i livelli della società. Ci deve essere qualcuno che li sostenga da dietro altrimenti diventano deboli».

Bahram scherza un attimo: «Sai cosa si dice? Che gli iraniani sono come gli italiani. Entrambi abbiamo una lunga tradizione solo che parliamo lingue diverse». Ma è un istante, prima che il suo sguardo torni duro: «Ma poi hanno preso strade diverse. E non dobbiamo usare mezzi termini, quello che c’è in Iran è un fascismo religioso che ci ha portato indietro nel tempo, al Medioevo».

«Stiamo parlando di un Paese corrotto fino al midollo – aggiunge Bahram – che in nome di una religione pensa di governare tutto e portano via ricchezza ai cittadini. Gas, giacimenti di petrolio, denaro. Ogni cosa è controllata da loro come se fosse una mafia».

Facile intuire che gli animi fossero tesi già da prima, ma allora cosa si può fare per sostenere a livello internazionale? «Richiamare gli ambasciatori e chiudere i rapporti diplomatici – non ci pensa due volte Azadeh –. Le sanzioni possono aiutare ma bisognerebbe espellere dai vari Paesi i parenti così come chi è legato al regime e alla polizia morale».

«Ci sono organizzazioni molto strutturate come in Canada o anche in America come il Niac (National Iranian American Council) che sono molto vicine al governo attuale. Già colpire loro, smantellare queste lobby, sarebbe una cosa positiva». «L’Ue e tutto il mondo dovrebbe fermarsi e chiedersi come ancora può collaborare con un Paese così. Bisogna accettarlo e capire che sono terroristi» rincara Bahram.

Si fa quel che si può nel proprio piccolo da cittadini privati. Tutti loro lo sanno, ma qualcosa si è spezzato. Lo ravvisa soprattutto Feriel: «Ora ho il coraggio di parlare. So che potrebbero esserci conseguenze per me o per la mia famiglia. Ma adesso ho la libertà di parola e non intendo rinunciarci».

Chi per lavoro, chi per studio, chi per altri motivi, tutti sono partiti con l’intenzione di cercare un futuro migliore. Eppure il legame con la terra natia è ancora forte, così forte che si alza un messaggio univoco per chi è lì a combattere: «Rise Up! Continuate a lottare perché stiamo affrontando tutto questo insieme».

È il tempo dei saluti e anche Dalir, che ha ascoltato attentamente, chiude il collegamento confidando che questi temi: «Mi fanno una rabbia che non immagini. Mi ribolle il sangue». Ormai in Italia è sera, anche se in Iran si vede all’orizzonte una nuova alba.

Iran, Amnesty International: «La polizia spara sui manifestanti: si temono almeno dieci morti». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 4 Novembre 2022

La ong parla di possibili dieci vittime, compresi dei bambini, uccise in Iran dopo che le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco nella provincia sud-orientale del Sistan-Beluchistan

Lo scrive Amnesty International. La ong teme che oggi, almeno dieci persone, compresi dei bambini, siano state uccisi in Iran dopo che le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui manifestanti nella provincia sud-orientale del Sistan-Beluchistan.

Le proteste sono scoppiate dopo la preghiera del venerdì nella capitale provinciale di Zahedan, ma anche in altre aree della provincia, inclusa la città di Khash a sud. Amnesty ha accusato le forze di sicurezza di aver sparato «proiettili veri» dai tetti degli edifici ufficiali di Khash.

Da oltre sette settimane, da dopo che la polizia morale ha ucciso Mahsa Amini, la ragazza di 22 anni che ha avuto «la colpa» di una ciocca che le usciva dal velo, migliaia di iraniane e iraniani marciano contro il regime teocratico dell'Ayatollah Khamenei. Secondo l'Iran human rights, la ong che a sede in Norvegia, a oggi i morti sarebbero 277 , tra cui 40 bambini.

Da rainews.it il 7 novembre 2022.

Una dottoranda di 35 anni, Nasrin Ghadri, che studiava filosofia a Teheran, è morta ieri dopo essere stata picchiata con un manganello dalle forze di sicurezza durante le proteste del venerdì. Indignati dalla morte della donna - originaria di Marivan - numerose persone sono scese oggi in piazza proprio nella città del Kurdistan, cantando "Morte a Khamenei". 

I manifestanti hanno bloccato alcune strade. In base alle testimonianze raccolte in alcuni video diffusi sui social media, la polizia ha usato il pugno duro sparando sui dimostranti e ferendo alcune persone.

Nasrin Ghadri è entrata in coma e poi è morta dopo essere stata picchiata alla testa. 

La stessa sorte era probabilmente toccata a Mahsa Amini, la ventiduenne curda morta a settembre perché avrebbe subìto percosse alla testa da parte della polizia morale durante l'arresto per non aver indossato correttamente il velo islamico: la sua morte ha innescato l'ondata di proteste senza precedenti, come quella di venerdì cui partecipava Nasrin.  

I manifestanti hanno accusato il governo di aver forzato la sepoltura della donna in fretta e furia questa mattina e anche di aver costretto il padre ad annunciare che la causa della morte della figlia era legata ad una "malattia" o una "intossicazione", versione simile a quella adottata dalle autorità per il caso di Mahsa Amini.

La polizia uccide un'altra donna. Redazione su Il Giornale il 7 novembre 2022.

Una dottoranda di 35 anni, Nasrin Ghadri, che studiava filosofia a Teheran, è morta sabato dopo essere stata picchiata con un manganello dalle forze di sicurezza durante le proteste del venerdì. Indignati dalla morte della donna - originaria di Marivan - numerose persone sono scese ieri in piazza proprio nella città del Kurdistan, cantando «Morte a Khamenei». I manifestanti hanno bloccato alcune strade. In base alle testimonianze raccolte in alcuni video diffusi sui social media, la polizia ha usato il pugno duro sparando sui dimostranti e ferendo alcune persone. Nasrin Ghadri è entrata in coma e poi è morta dopo essere stata picchiata alla testa.

La stessa sorte era toccata a Mahsa Amini, la ventiduenne curda morta a settembre per le percosse alla testa da parte della polizia morale durante l'arresto per non aver indossato correttamente il velo islamico: la sua morte ha innescato l'ondata di proteste senza precedenti, come quella di venerdì cui partecipava Nasrin. I manifestanti hanno accusato il governo di aver forzato la sepoltura della donna in fretta e furia ieri mattina e anche di aver costretto il padre ad annunciare che la causa della morte della figlia era legata ad una «malattia» o ad una «intossicazione», versione simile a quella adottata dalle autorità per il caso di Mahsa Amini.

Sempre ieri, la stragrande maggioranza dei 290 deputati iraniani ha chiesto che la giustizia applichi la legge del taglione contro i «nemici di Dio» cioè agli autori delle «rivolte» in nome di Mahsa Amini.

Il rapper ristretto a Evin, il carcere dei detenuti. Iran a ferro e fuoco per Mahsa Amini, paura per i cantanti delle proteste: “Tomaj Salehi arrestato e costretto a pentirsi”. Redazione su Il Riformista il 3 Novembre 2022 

Le ultime immagini di Tomaj Salehi lo ritraggono bendato, il volto tumefatto e in stato di detenzione mentre viene trasportato in un’autovettura. Il rapper è stato arrestato e trasferito alla prigione Dastgerd a Isfahan e quindi a quella di Evin, dove vengono ristretti i prigionieri politici. “Ci riprenderemo le strade, ogni giorno e ogni finche l’Iran non sarà libero” oppure “riusciremo a sollevarci dalla voragine in cui siamo precipitati e colpiremo il vertice della piramide”, le barre di una delle sue canzoni in cui denunciava il regime iraniano. Non aveva esitato un attimo a unirsi alle proteste esplose nel Paese dopo la morte di Mahsa Amini.

La 22enne originaria del Kurdistan iraniano si trovava in un parco di Teheran quando era stata fermata dalla polizia religiosa: indossava male il suo velo, lo hijab. È morta mentre era detenuta: secondo le autorità è morta tragicamente per un malore, la famiglia (ai domiciliari) ha denunciato violenze. Da allora l’Iran è a ferro e fuoco, morti e arresti e feriti nelle manifestazioni contro la polizia morale e il regime degli ayatollah. Per le autorità di Teheran le manifestazioni in corso sono “rivolte” fomentate dai nemici dell’Iran, Israele e Stati Uniti in primis.

Salehi “è nelle mani di funzionari dell’intelligence” e “non è autorizzato a chiamare o ricevere visite” ha raccontato lo zio Iqbal Iqbali. La famiglia del musicista era andata ieri a Dastgerg dove ha appreso del trasferimento del rapper al carcere dei prigionieri politici. Secondo lo zio Salehi “è ora in pericolo”. Come lui era stato arrestato un altro cantate voce delle proteste, Shervin Hajipour. A preoccupare è anche la video-confessione in cui Salehi si pente, bendato e in ginocchio. “Mi scuso con il popolo iraniano, ho sbagliato”, dice il musicista. Il video è stato diffuso da media affiliati al regime.

È partita così una campagna social in farsi, la lingua parlata da 77 milioni di persone in Medio Oriente, per non condividere quel contenuto, in quanto “lo scopo di queste immagini è creare paura e disperazione, non diffondetele”, ha twittato Hichkas, considerato il padre del rap persiano, che vive all’estero in una sorta di auto-esilio. Salehi era stato arrestato già l’anno scorso e rilasciato dopo pochi giorni su cauzione in seguito a una vasta campagna per la sua liberazione. Dall’esplosione delle proteste aveva deciso di nascondersi ma di non lasciare l’Iran. Comunicava tramite i social. I media ufficiali hanno riferito dell’arresto, lo scorso 30 ottobre, nella provincia di Chaharmahal Bakhtiari mentre “cercava di uscire illegalmente dai confini occidentali”.

Il procuratore di Isfahan, Seyyed Mohammad Mousaviyan, lo ha accusato di aver “svolto un ruolo chiave nel creare caos e incoraggiare i recenti disordini nella provincia di Isfahan e nella città di Shahinshahr”. La maggioranza dei rapper pubblica in Iran i suoi brani senza l’approvazione del ministero della Cultura e Guida Islamica, l’organo del regime che regola il lavoro artistico e applica la censura. I fan e i familiari di Salehi, che in Iran non si è mai esibito e poteva diffondere la sua musica solo grazie alle piattaforme online, intanto pregano per la sua vita. All’artista è stato proibito di incontrare chiunque.

Salehi è stata una delle voci delle proteste. Tra queste anche Shervin Hajipour, cantante di 25 anni che ha scritto Baraye, la canzone diventata un po’ l’inno delle proteste cantata nelle scuole e per le strade per denunciare la repressione del governo. Il testo è stato assemblato su Twitter dove i manifestanti esprimono il loro dissenso pubblicano frasi e slogan. In un’anafora che termina comincia sempre per baraye, che vuol dire “a causa di”, si ripetono i motivi dei manifestanti: “per ballare nei vicoli”, “per il terrore che si prova quando si da un bacio”, “per mia sorella”, e via dicendo. Il pezzo, che ha origine da un canto del Movimento delle donne curde recita: “Per le donne, la vita, la libertà”. La canzone è stata rimossa da internet ma continua a essere ripubblicata e ri-condivisa. Shervin Hajipour è stato rilasciato su cauzione. Dovrà subire un processo.

Iran, accusa per le 2 giornaliste arrestate: «Sono spie della Cia». Oltre mille persone a processo a Teheran. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2022.

Niloufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, tra le prime a seguire la vicenda di Mahsa Amini, si trovano nella prigione di Evin. Secondo le autorità iraniane sono state addestrate in Paesi terzi tra cui Italia e Turchia

In manette, additate come agenti Cia. Due giornaliste iraniane, Niloufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, tra le prime a seguire la vicenda della morte di Mahsa Amini, sono state accusate dal ministero dell’Intelligence di essere spie addestrate dagli Usa. Hamedi è stata la prima a riferire del ricovero in ospedale della giovane di origini curde, postando su Twitter la foto dei genitori che ha suscitato indignazione e scatenato le prime proteste; Mohammadi ha coperto il funerale della 22enne a Saqez, nel Kurdistan iraniano. Entrambe sono state successivamente arrestate e si trovano nella prigione di Evin nella capitale. Mohammadi è stata presa il 22 settembre e il suo avvocato ha detto che le forze di sicurezza hanno sfondato la sua porta e portato via oggetti personali come il suo telefono e laptop.

In un comunicato delle Guardie Rivoluzionarie e del Ministero dell’Informazione di venerdì scorso Niloufar Hamedi di Shargh ed Elaheh Mohammadi sono accusate di essere agenti della Cia e di essere state addestrate in precedenza in alcuni paesi terzi, tra cui Italia, Turchia, Paesi Bassi, Sudafrica ed Emirati Arabi. Nel comunicato si legge che il «regime mafioso degli Stati Uniti e dei suoi alleati, Israele e Arabia Saudita, hanno organizzato corsi di formazione per alcuni individui in questi Paesi, dove hanno ospitato consapevolmente o inconsapevolmente i corsi. E hanno rilasciato visti sotto la copertura del turismo o dell’istruzione». Il documento specifica anche che «Teheran ha informato alcuni di questi governi attraverso la cooperazione di intelligence che hanno con l’Iran». Il quotidiano riformista Shargh per cui le giornaliste lavorano sabato ha definito false le accuse rivolte a due giornaliste.

La lettera pubblicata su Etemad

Sul quotidiano indipendente Etemad è stato pubblicato un appello firmato da oltre 300 giornalisti, fotografi e attivisti dei media iraniani per il rilascio delle due colleghe. «La libertà dei media non è solo un diritto dei giornalisti, ma anche della società», si legge nella lettera. E ancora: «La nostra società ha il diritto di sapere cosa sta succedendo in modo tempestivo, senza censure o filtri, e ha anche il diritto di interrogare qualsiasi persona o istituzione che causi inefficienza, corruzione o violi la legge», continua la dichiarazione.

Dalla morte di Amini, il 16 settembre, l’Iran è sconvolto da dure proteste di piazza che non accennano a diminuire e alle quali il regime ha risposto con una violenta repressione. Più di un migliaio le persone arrestate, tra cui decine di giornalisti. Mille persone saranno processate nella sola Teheran per avere preso parte alle proteste. Lo hanno annunciato funzionari della magistratura iraniana, come riporta Irna, facendo sapere che andranno a processo individui che hanno compiuto «azioni sovversive» e hanno avuto un ruolo centrale nelle dimostrazioni. «Coloro che intendono scontrarsi con il regime e sovvertirlo sono dipendenti dagli stranieri e saranno puniti in linea con la legge», ha affermato il capo della Magistratura iraniana Gholam-Hossein Mohseni Ejei alludendo al fatto che alcuni manifestanti potrebbero essere condannati con l’accusa di avere collaborato con governi stranieri. «Senza dubbio, i nostri giudici affronteranno i casi delle recenti rivolte in modo accurato e rapido», ha aggiunto Mohseni Ejei. Minacce dunque e intimidazioni che non fermano però la piazza iraniana.

«Io, dissidente, vi dico che le iraniane faranno cadere il regime oscurantista». Intervista a Fairborz Kamkari autore di diverse opere nelle quali le donne sono protagoniste del cambiamento. «Si rischia una guerra civile come in Siria». Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 3 novembre 2022.

L’Iran è scosso da più di un mese dalla rivolta contro gli Ayatollah. Un movimento guidato dalle donne scese in strada dopo la morte di Mahasa Amini, arrestata dalla polizia morale per un velo indossato in maniera considerata contraria alla legge. Ne parliamo con il regista iraniano, di origine curda, Fairborz Kamkari autore di diverse opere nelle quali le donne sono protagoniste del cambiamento.

Nel 2010 lei ha girato il film I fiori di Kirkuk. Una storia ambientata nel momento della repressione del popolo curdo da parte del regime di Saddam Hussein. La protagonista di quella storia era una donna che per amore deve affrontare sia la difficile situazione politica sia la violenza di un mondo militare e maschilista. È un riferimento a quello che sta succedendo in questo momento in Iran?

In tutti i miei film io affronto il tema centrale della responsabilità personale. Quando i cittadini si assumono il compito di cambiare le cose in prima persona. Spesso sono proprio le donne, i cui diritti sono negati, a portare avanti questo compito. Raccontare questo attraverso un personaggio femminile del mondo islamico e un modo per raccontare tutta la società. Un contesto dove esistono cittadini di varie estrazioni sociali secondo la vicinanza che hanno con il potere. Tramite le donne, le più vessate e lontane dai vertici, dunque parlo di tutto ciò.

Quindi come interpreta quello che sta succedendo in Iran attualmente?

Da quando è stato instaurato il regime teocratico le donne iraniane vedono calpestati e negati i loro diritti. Il paradosso è che ad esempio nell’Università la maggioranza degli studenti è costituita da donne, i maschi sono una minoranza, 900mila contro ben 1milione e 300mila. Quando si analizza il mondo del lavoro però la situazione si ribalta.

Come spiega questo?

È dal 1979 (anno della rivoluzione degli Ayatollah ndr) che lo status politico e sociale delle donne viene negato. Il regime le vuole chiuse in casa ad occuparsi solo dei figli. Con le giovani generazioni, molto istruite appunto, tutto questo sta cambiando.

Una questione generazionale. Basta questo per comprendere il protagonismo femminile attuale in Iran?

Non solo. Bisogna risalire a prima del 1979, quando venne attuato un cambiamento costituzionale teso a sottrarre potere al clero islamico che consentì alle donne di avere più poteri all’interno della società. Questo ha lasciato nel mondo delle donne la spinta a lottare per i propri diritti, come sta succedendo ora. Un retaggio culturale che sta quindi creando molti problemi al regime. Il mondo femminile dunque era ed è talmente forte ed istruito che il governo degli Ayatollah ha paura, ad esempio e stato costretto ad emanare una legge che garantisce una quota fissa per gli uomini nelle scuole e nelle università.

A causa dei temi che affronta nelle sue opere lei non può tornare nel suo paese, però recentemente ha scritto un romanzo che si intitola Ritorno in Iran. Sicuramente ha notizie di prima mano ma come si immagina l’atmosfera che si sta vivendo?

Sono tornato l’ultima volta dieci anni fa, ma nel romanzo parlo dell’ oggi. Si tratta di finzione certo, ma tutti gli elementi principali sono reali. La storia del protagonista è quella di un uomo che torna dopo una telefonata ricevuta dalla madre che aveva visto l’ultima volta ventisette anni prima in occasione di un fatto traumatico.

Una storia familiare dunque

Si, ma anche la metafora letteraria di quello che è successo con la Rivoluzione islamica che ha fatto esplodere conflitti nelle famiglie, tra uomini e donne e di cui le prime vittime spesso sono i bambini.

Ma le donne non si sono mai arrese

Certamente, ma c’è anche un altro aspetto. In Iran fondamentale è la questione curda. I curdi sono il più grande popolo del mondo senza uno stato, divisi tra Iran, Iraq e Siria. In quello che chiamiamo Kurdistan le persone vogliono una società democratica, basti pensare che nella parte iraniana esistono ancora i partiti banditi dal regime. E le donne sono più libere di partecipare alla vita della società. La stessa Mahasa Amini, dalla cui morte è partita la rivolta, era curda. E se il regime cadrà per questo sarà un fatto altamente simbolico.

E qualcosa di possibile?

La rivolta è iniziata nelle piccole città ma ora si è estesa a quelle più grandi compresa Teheran. Anche in zone tradizionalmente legate al regime si organizzano manifestazioni. Stanno scendendo in sciopero anche i lavoratori come quelli del settore importantissimo del petrolchimico. Il rischio è che il governo voglia forzare la situazione e far precipitare la situazione verso una guerra civile come è successo in Siria. Ciò che mi dà speranza è che è stata eliminata ogni opposizione quindi in strada scende movimento nato dal basso senza un élite a guidarlo. Un cambiamento culturale e politico fondamentale.

Aso Komeni: «Donne iraniane e popolo curdo vinceranno se lotteranno insieme». Segregazione femminile e persecuzione della minoranza sono due volti del regime repressivo degli ayatollah. Fino a oggi si sono ignorati a vicenda. Ma ora, spiega l’attivista, le cose stanno cambiando. Maria Edgarda Marcucci su L'Espresso il 31 ottobre 2022.

Il 16 settembre 2022 a Teheran una pattuglia della polizia morale ferma una giovane donna accusata di indossare l’Hijab in maniera inappropriata. Si tratta di Jina Mahsa Amini, ventiduenne curda in visita da dei parenti nella capitale. La ragazza viene arrestata, poche ore dopo muore in custodia. La polizia dichiara che la causa del decesso è un malore al cuore, la famiglia smentisce: impossibile, era in piena salute. Escono i referti del ricovero, si vedono diverse fratture, una profonda sul cranio. Amini era originaria di Saqqez, città del Rojhilat, il Kurdistan iraniano, dove nel giro di poche ore le persone cominciano a scendere in strada, chiedendo giustizia. Le manifestazioni si diffondono immediatamente in tutta la regione curda, dalla vicina Sanandaj arrivano fino a Theran e poi in tutto il resto del Paese.

È passato poco più di un mese, ma ripercorrere ciò che è successo nelle ultime settimane in Iran, già vuol dire parlare della Storia di questo Paese. Perché queste proteste ne stanno scrivendo un capitolo importante. È presto per capire cosa si potrà leggere al suo interno, però non sembra assurdo pensare a come potrebbe intitolarsi: “Zan, Zandegi, Azadi”, donna, vita, libertà. Come lo slogan più ripetuto nelle strade da quel sedici settembre in poi. Sarebbe normale, sentendo queste parole per la prima volta in occasione delle proteste in corso, non essersi interrogate troppo sulla loro origine, pare basti la traduzione: “Donna, vita, libertà” il protagonismo delle donne è un elemento fondativo in questo movimento contro il regime, torna tutto. 

Ma chi ha seguito la storia recente del cosiddetto Medio Oriente, e in particolare quella delle donne, probabilmente lo ha trovato familiare: è lo slogan del movimento delle donne libere del Kurdistan, è lo slogan delle Ypg. Spesso, lo si legge anche sui cartelli nelle piazze di Non Una Di Meno, in Italia. «Jin JIyan Azadi (l’originale in curdo Ndr.) È uno slogan che nasce dalla Jineolojì, la scienza delle donne: l’insieme di teorie e pratiche del movimento delle donne del Kurdistan», racconta Aso Komeni, che ne fa parte. Komeni, esattamente come Amini è una donna curda iraniana, ha trent’anni, oggi vive a Londra, ma non smette di andare e venire dall’Iran. Soprattutto non ha mai interrotto il suo lavoro con il Kjar (Comunità delle donne libere del Rojhilat), la branca iraniana del movimento delle donne. Chi meglio di lei per parlare di quello che sta succedendo nel suo Paese.

«Le donne dell’Iran e del Rojhelat sono state sottoposte a trattamenti degradanti e disumanizzanti, tra cui femminicidi, mancanza di istruzione, mancanza di diritti di base. L’obbligo del velo e la regolamentazione dell’abbigliamento ne sono un prodotto: vengono usati come strumento dal regime, per ricordare costantemente alle donne che sono imprigionate».

Amini non è certo la prima vittima della polizia morale, che negli ultimi anni ha notevolmente intensificato le sue attività. Da lontano è difficile capire, perché proprio lei? Perché proprio ora? «Il regime iraniano ha sempre impedito qualsiasi evoluzione sociale attraverso un governo fondamentalista che applica la sharia, così ha marginalizzato la posizione e il ruolo delle donne nella società e, per procura, di una vasta maggioranza della popolazione. Ha soffocato le nostre identità, individuali e collettive».

Il governo iraniano ha sempre strumentalizzato la presenza di diverse etnie sul territorio per fomentare discriminazioni e guerre tra poveri. «In molti anni di malagestione e corruzione estrema, ha saccheggiato l’economia e le risorse naturali del Paese, facendo perdere ai giovani ogni speranza di un futuro certo e sicuro». La stessa gioventù che oggi sta fronteggiando le guardie di regime e che sta trovando modi sempre nuovi di respingere i suoi attacchi. «Non è stata solo la morte di un’altra donna; è stata il simbolo della morte delle donne e dei giovani in Iran». Un simbolo che oggi ha tutt’altro segno, perché il viso di Jina Amini ormai è noto in tutto il mondo, e chi lo guarda non vede “la morte delle donne e dei giovani in Iran”, vede la loro resistenza. 

«Jina è diventata un legame tra la storia del popolo curdo e quella delle donne iraniane». Per comprendere il senso di questa affermazione è necessario conoscere la storia dei curdi in Iran, almeno quella recente. «Nell’agosto del 1979, l’ayatollah Khomeini emise una Fatwa (editto religioso ndr) contro i curdi, che si tradusse in una campagna militare contro la popolazione civile per tutti gli anni Ottanta, in particolare a Sanandaj. Nel 1988 i membri del cosiddetto “Comitato della morte” arrestarono circa 33.000 civili. Ci furono “sparizioni forzate”, stupri, torture e condanne al patibolo, molti considerano ciò che accadde in quegli anni come un tentativo di genocidio. Ebrahim Raisi, attuale presidente, era parte del comitato».

Lo stesso Raisi che ha mandato truppe armate ad assediare proprio Sanandaj nella notte del 15 ottobre. Il numero delle vittime di questo attacco ancora non è accertato: «Quando non si trova il corpo della vittima, per il governo tecnicamente non è considerato un decesso». Ecco spiegato come mai il regime fornisca numeri così discordanti rispetto alle organizzazioni umanitarie e alle testate indipendenti; non è la propaganda del momento, bensì uno strumento rodato perché la popolazione viva nella paura ogni giorno. «È molto difficile dare un numero preciso alle persone uccise nell’assedio. Abbiamo la certezza su 9 vittime, ma stiamo ancora cercando di capire. Le persone ferite sono più di 1.500».

È la seconda volta che succede in meno di un mese, durante il primo intervento le truppe iraniane hanno scagliato colpi di artiglieria fino alle città curde dal lato iracheno del confine. Dopo l’attacco le organizzazioni studentesche di Teheran hanno chiamato manifestazioni in tutta la città per rispondere. Il governo ha drasticamente limitato l’accesso a internet e a qualunque social media. «Ma i giovani si affidano a servizi di messaggistica criptati, correndo il rischio che possano vendere i dati a terzi, ci si organizza anche col passaparola, per fortuna ci sono delle comunità molto forti».

Del resto pensando alla storia dell’Iran è facile ricordarsi che quando l’attuale governo prese il potere, nel 1979, non c’era internet. Intanto la rivolta quella notte è arrivata fino al carcere di Evin, la struttura di massima sicurezza di Teheran. Per ora il bilancio è di otto morti tra le persone imprigionate, e tra le decine di feriti, 61 sono state colpite da proiettili.

C’è qualche persona che conosci detenuta a Evin? «Ognuna di noi conosce qualcuno che è stato a Evin, specialmente se si è parte di un’organizzazione politica. La popolazione curda non supera il 10% di quella di tutto il Paese. Però il 70% delle persone detenute sono curde. Fare nomi che non siano già pubblici però può esporre a molti pericoli. È ironico che “evin” significhi amore, in curdo».

Testate indipendenti come Iran International e Iranwire riportano fonti da dentro il carcere, che l’incendio era pianificato. «Se era un tentativo da parte del governo per sedare le idee di rivoluzione, si è rivelato un passo falso. Abbiamo visto i video dei prigionieri riuniti sui tetti che gridavano slogan, gridavano “Jin, Jiyan, Azadi”».

Aso deve andare, non posso rubarle altro tempo, c’è qualcosa che vuole aggiungere? «Storicamente, quando ci siamo fidate di vecchi partiti, gruppi e leader, abbiamo scoperto che le nostre voci sono state messe in secondo piano e la società è peggiorata. Dobbiamo trovare una strada diversa, come hanno fatto le donne del Rojava. Non dobbiamo accontentarci né accettare niente di meno».

Elnaz Rekabi, scomparsa l’atleta iraniana che ha gareggiato in Corea senza velo. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022. 

Lo riferisce la Bbc. Secondo fonti dei dissidenti, le erano già stati sequestrati passaporto e cellulare. La sua destinazione sarebbe il carcere di Evin, a Teheran 

Paura per la campionessa iraniana di arrampicata sportiva Elnaz Rekabi, che ha gareggiato nella finale dei Campionati asiatici di Seul senza velo. Da domenica non si hanno sue notizie: secondo una fonte citata dalla Bbc persiana, gli amici hanno provato a contattarla, senza esito. Sempre la Bbc riferisce di aver contattato il Garden Seul Hotel, l’hotel dove alloggiava il team iraniano, e di aver appreso che i membri hanno lasciato la struttura lunedì mattina anche se la loro partenza era prevista per domani.

Secondo IranWire, sito realizzato da giornalisti dissidenti del regime islamista in vigore in Iran, le Guardie rivoluzionarie islamiche avrebbero arrestato oggi Davud Rekabi, fratello di Elnaz, per usarlo come ostaggio. Elnaz avrebbe consegnato il suo passaporto e il suo telefono con la promessa che la sua incolumità non era in pericolo, ma sarebbe stata subito trasferita dal Garden Seul Hotel all’ambasciata iraniana della città, dove è attualmente detenuta in attesa di prendere un volo per Teheran. La sua destinazione, riferiscono le fonti di IranWire, sarebbe il carcere di Evin, dove sono detenuti i prigionieri politici del regime islamista. 

L'anno scorso, Rekabi è diventata la prima donna iraniana a vincere una medaglia ai campionati mondiali di arrampicata. In Corea del Sud è arrivata quarta. Sarebbe la seconda atleta iraniana a competere senza il copricapo islamico, prima di lei la pugile Sadaf Khadem, che oggi vive in Francia.

Iran, Elnaz Rekabi torna a casa da eroina. Ma lei dice che avrebbe voluto indossare il velo. Elnza Rekabi ritorna a Teheran: "Il velo l'ho dimenticato per errore". Il Domani il 19 ottobre 2022

L’atleta che domenica aveva gareggiato ai campionati di arrampicata sportiva in Corea del Sud senza indossare l’hijab è tornata a Teheran. Dove è stata accolta da una folla

È tornata in Iran Elnaz Rekabi, l’atleta che domenica aveva gareggiato ai campionati di arrampicata sportiva in Corea del Sud senza indossare l’hijab. Secondo le immagini diffuse dalle agenzie e dai social media, la climber è stata accolta come un’eroina a Teheran. Il suo gesto simbolico è coinciso con la quinta settimana di manifestazioni in Iran, dopo la morte il 16 settembre di Masha Amini, una ragazza arrestata perché non indossava correttamente l’hijab.

“NON INTENZIONALE”

Mercoledì Rekabi aveva detto pubblicamente che il gesto di non indossare il velo non fosse intenzionale. Lo ha ribadito ancora una volta quando è stata intervistata al suo arrivo. Comunque per l’occasione si è radunata una piccola folla, all’esterno dell’aeroporto internazionale Imam Khomeini. Nei video si vedono persone che cantano e la definiscono un’eroina. Qualcuno le ha consegnato dei fiori.

Ma lei ha ripetuto di nuovo di essere stata chiamata in gara all’improvviso: «Ero impegnata a indossare le mie scarpe e la mia attrezzatura. Questo mi ha fatto dimenticare di indossare l’hijab quando sono andata a gareggiare».

LA REPRESSIONE

In realtà non è ancora chiaro cosa sia successo all’atleta dopo la gara (e quanto questo abbia influito sulle sue dichiarazioni successive). Il servizio persiano della Bbc, che ha molte fonti in Iran anche se le è vietato operare lì, ha citato una "fonte informata" e anonima secondo la quale i funzionari iraniani avrebbero sequestrato sia il cellulare sia il passaporto di Rekabi.

IranWire, un sito web fondato dal giornalista iraniano-canadese Maziar Bahari, che in passato è stato incarcerato in Iran, ha affermato che Rekabi sarebbe stata destinata alla prigione di Evin, quella dove si trovano i prigionieri politici, la stessa dove si trova anche l’italiana Alessia Piperno. E la stessa dove è scoppiato un incendio nei giorni scorsi dopo la rivolta.

La Federazione internazionale di arrampicata sportiva ha fatto sapere in una nota che continuerà a tenere monitorata la situazione.

Elnaz costretta all'abiura e alla foto con il ministro. "Senza velo per sbaglio". L'atleta diventata icona torna in patria da star. "Un equivoco". Ma c'è l'ombra delle minacce. Chiara Clausi il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Un berretto da baseball, una felpa con cappuccio e un velo sportivo che le copre i capelli. Così si è mostrata Elnaz Rekabi la scalatrice iraniana nel mirino del regime per aver partecipato senza l'hijab a una gara ai Campionati asiatici di domenica. Il suo atto di ribellione ha sollevato un caso e si è pure temuto per la sua incolumità. Ieri mattina Elnaz è arrivata all'aeroporto internazionale Imam Khomeini di Teheran. Ha ricevuto dei fiori ed è stata accolta come una star da un grande numero di persone. Ha ripetuto che non indossare l'hijab è stata una scelta «non intenzionale», come già aveva spiegato su Instagram.

Su di lei non si erano avute più notizie, ma al suo arrivo in aeroporto ha spiegato alla tv iraniana la sua versione della vicenda: «Sono stata chiamata inaspettatamente a gareggiare mentre ero nello spogliatoio femminile, ero impegnata a infilare le mie scarpe, e questo mi ha fatto dimenticare di indossare il velo. Il gesto è stato del tutto involontario». La folla che si è radunata all'aeroporto l'ha acclamata cantando il suo nome e chiamandola «eroina». «Sono tornata in Iran in piena salute e mi scuso con il popolo iraniano per il tumulto e le preoccupazioni che ho creato», ha concluso. La sua famiglia l'ha incontrata anche lì e l'ha subito abbracciata. Elnaz ha detto che ci sono state «alcune reazioni estreme» al video in cui si vedeva lei con una coda di cavallo e che si sentiva «stressata e tesa». Ha anche negato le notizie secondo cui non aveva contatti con la sua famiglia e i suoi amici e che aveva lasciato la Corea del Sud prima del previsto. «Non è successo. Siamo tornati in Iran esattamente come previsto», ha ribattuto.

Molti però sono scettici e credono che la dichiarazione sia stata rilasciata sotto costrizione, anche a causa dell'arresto del fratello che sarebbe stato fermato proprio a scopo minatorio. Una foto al suo rientro infatti ritrae Elnaz con il ministro dello sport Hamid Sajjadi. L'ambasciata iraniana è pure intervenuta e ha negato quelle che ha definito «tutte notizie false, bugie» su di lei. L'Iran da settimane è attraversato da proteste contro le leggi sull'hijab e i suoi leader religiosi. Le donne iraniane sono tenute a coprirsi i capelli con un velo e le braccia e le gambe con abiti larghi. Le atlete devono anche rispettare le regole quando rappresentano l'Iran in competizioni all'estero. Elnaz è stata ritenuta subito un nuovo simbolo delle proteste anti-governative guidate dalle donne dopo che il video di lei senza il velo è diventato virale.

La lotta fra popolo e regime è in corso anche su social e media. La guida suprema Ali Khamenei si è fatto riprendere durante un incontro a Teheran con le élite accademiche. «Le università sono il pilastro del progresso della nazione» ha esordito, ma «uno dei più grandi ostacoli sta nel dominio dei poteri arroganti». Un chiaro riferimento agli Stati Uniti. Ora però non più solo adolescenti e studentesse, ma anche donne anziane e osservanti dell'islam, si uniscono all'ampia protesta che da un mese in Iran sfida la repressione. Gohar Eshghi, madre del blogger Sattar Beheshti, ucciso in prigione nel 2012, dopo essere stato arrestato, è stata filmata mentre si siede sul tappeto del soggiorno di casa sua e con la foto del suo ragazzo morto dieci anni fa scivolare il velo e scopre i lunghi capelli grigi. Il video è diventato presto virale e rappresenta un episodio inedito per l'Iran. «Dopo 80 anni», ha spiegato la donna nel filmato, «rimuovo il mio hijab perché voi uccidete in nome della religione. Non fate i codardi, scendete in strada».

Evin, la prigione politica vergogna degli ayatollah. Anche sui detenuti in rivolta, la repressione è implacabile. Come nel caso della ragazza italiana arrestata Alessia Piperno. Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 20 ottobre 2022

Cosa sia realmente accaduto nella famigerata prigione iraniana di Evin riservata a dissidenti e prigionieri politici, non è ancora chiaro. La notte di sabato scorso una densa colonna di fumo si e alzata dal penitenziario e in molti hanno sospettato che si stesse consumando una carneficina. La censura dei media e l’isolamento dei prigionieri non permette di capire ancora la reale successione dei fatti e al momento resta la ricostruzione delle autorità.

La cosa terribilmente certa e che nel’ incendio o forse nel corso della rivolta che ha provocato le fiamme sono morte almeno otto persone, a quanto sembra uccise dalle esalazioni e dalle bruciature. La magistratura iraniana ha fornito la versione secondo cui l’incendio è divampato in un laboratorio di cucito della prigione dopo una rissa tra detenuti. La tv di Stato invece ha parlato di un piano di fuga premeditato che sarebbe stato sventato dalle forze di sicurezza.

Le versioni ufficiali dunque escludono che quanto accaduto nella prigione della capitale sia collegata alla rivolta che attraversa l Iran da più di un mese dopo le proteste scoppiate per la morte della 22enne Mahsa Amini in custodia della polizia il 16 settembre. La giovane donna della provincia iraniana del Kurdistan era stata arrestata dalla polizia morale del paese per un hijab indossato impropriamente. Disordini che continuano anche se sembrano aver perso la forza iniziale a causa della repressione sanguinosa e delle restrizioni imposte domenica sera e che limitano quasi interamente l’accesso alle reti private virtuali (VPN) che i cittadini usano per organizzare le manifestazioni di piazza.

Il carcere di Evin è tristemente noto perché oltre i detenuti comuni vi sono rinchiusi i prigionieri politici compresi molti di coloro che sono stati arrestati durante le proteste attuali. Le condizioni di detenzione sono state ripetutamente stigmatizzate dai governi occidentali e dai gruppi per i diritti umani e la prigione è stata inserita nella lista nera dal governo degli Stati Uniti nel 2018 per gravi violazioni dei diritti umani.

Proprio per il clima di contestazione che sta vivendo la Repubblica sciita e per la natura “politica” del carcere diversi media indipendenti sono convinti che a Evin sia scoppiata una vera rivolta poi soffocata nel sangue. Alcuni testimoni dall’interno, anche se si tratta di voci non confermate, hanno riportato che sicuramente non sono stati i prigionieri a dare fuoco alla struttura. Si tratta pero di voci isolate raccolte soprattutto tra i parenti dei detenuti che si sono radunati sotto il penitenziario. Voci che hanno anche accennato a spari ed esplosioni che sarebbero stati uditi all’esterno.

In ogni caso le forze di polizia, per negare ogni riferimento a una possibile sollevazione politica, hanno affermato che l’incidente si sarebbe sviluppato all’interno dell’ala che comprende le celle dove sono rinchiusi i detenuti per reati finanziari. Tutti gli otto reclusi deceduti sarebbero invece stati imprigionati per reati legati al furto, secondo la magistratura le famiglie sono state informate ma non è stata rivelata l’identità dei morti. Settanta sono state le persone salvate dalle fiamme mentre altri sei rimangono ricoverati in ospedale in condizioni stabili e in miglioramento.

Lunedì scorso, l’Ue ha imposto sanzioni a undici persone e quattro organizzazioni in Iran, compresa la polizia morale, in risposta alla repressione delle proteste. Il responsabile della politica estera europea Borrel ha detto che la comunità internazionale si aspetta massima trasparenza su ciò che e successo ad Evin in quanto «le autorità iraniane sono responsabili della vita di tutti i detenuti, compresi i difensori dei diritti umani e i cittadini dell’Ue.» Un riferimento non casuale visto che nel carcere si trovano uomini e donne con doppia cittadinanza e a quanto pare anche l’italiana Alessia Piperno, la ragazza arrestata per motivazioni ancora sconosciute in concomitanza con l’esplodere delle manifestazioni di piazza.

Asra, la studentessa iraniana picchiata a morte a scuola perché non ha cantato l'inno per l'Ayatollah. Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022.

Aveva sedici anni e frequentava il liceo femminile Shahed ad Ardabil. Il sindacato degli insegnanti ha raccontato il pestaggio, le autorità negano, proprio come è successo per Masha Amini 

Asra Panahi aveva 16 anni e frequentava il liceo femminile Shahed ad Ardabil, la città capoluogo della Provincia di Ardabil, nell'Iran nord-occidentale. La sua storia la racconta il Consiglio di coordinamento delle associazioni di categoria degli insegnanti iraniani, il sindacato dei professori. Le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sua scuola chiedendo a lei e alle sue compagne di cantare un inno-lode dedicato all'Ayatollah Ali Khamenei. 

Alcune di queste giovani studentesse, tra cui Asra, si sono rifiutate di inneggiare al leader supremo e la polizia, furiosa, le ha picchiate. Le botte sarebbero state così forti che sono finite in ospedale, e, come è successo per Masha Amini, la ventiduenne uccisa perché dal velo usciva una ciocca di capelli, anche Asra è morta. 

Era il 13 ottobre scorso. La notizia dell'ennesima vittima delle forze iraniane, che come riporta l'Iranian Human Rights fa salire il bilancio a 215, ha infuocato di nuovo le piazze già a fuoco da quattro settimane, dall'uccisione di Amini. 

Come sempre, i funzionari di Raisi hanno respinto le accuse rivolte alla forze di sicurezza e un uomo identificato come lo zio di Asra è apparso in tv dicendo che la ragazza sarebbe morta per una condizione cardiaca congenita. Stesso copione che si ripete. Nelle ultime settimane, gli attivisti hanno raccontato che la polizia costringerebbe i familiari delle vittime dei pestaggi a raccontare menzogne sulla morte dei loro figli e delle loro figlie. 

Le scuole femminili sono diventate tra i bersagli preferiti delle forze di sicurezza che fanno raid e incursioni punitive. Sono tanti i video e le immagini che mostrano le studentesse in rivolta, contro il regime teocratico. Il sindacato degli insegnanti ha chiesto le dimissioni del ministro dell'Istruzione, Yousef Nouri.

«Le donne in Iran combattono il regime a mani nude e possono cambiare la storia». «La mia generazione ha cercato di rovesciare il regime con le armi. Non c’è riuscita. Le nostre figlie invece lasceranno un’impronta profonda». Kader Abdolah su L'Espresso il 17 Ottobre 2022. 

È contro ogni nostro desiderio, contro ogni nostra volontà, siamo arrivati al punto di mandare le nostre figlie nelle strade a combattere contro gli ayatollah.

È uno degli eventi più dolorosi che siano mai accaduti nell’antica storia dei persiani.

È stato tutto invano, non è servito a niente e la lotta dei nostri uomini non ha portato a nulla. Dovevano quindi compiere un altro grande sacrificio per salvare il nostro Paese, la nostra cultura e il nostro onore; e questo sacrificio era il bene più prezioso delle nostre famiglie: le nostre giovani figlie.

Gli ayatollah hanno mirato a loro fin dall’inizio, per farne delle serve di Allah.

Ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno mai.

Quando i religiosi sono saliti al potere, hanno subito inchiodato le porte del cinema.

Trovavano che il cinema fosse un’invenzione peccaminosa, sporca dell’umanità, soprattutto perché le attrici recitavano a capo scoperto e mostravano spudoratamente la loro bellezza.

C’è voluta una battaglia ventennale perché finalmente gli ayatollah capissero che il cinema era un miracolo divino, e che poteva essere addirittura un miracolo divino islamico.

Dopo un po’ fu di nuovo permessa perfino la proiezione di film stranieri, ma, ruolo dopo ruolo, i giovani imam disegnarono con un pennarello nero un velo sulla testa di Meryl Streep, di Angelina Jolie, di Jane Fonda e di Nicole Kidman, e, ad esempio, coprirono con un tratto di pennarello nero tutte le belle parti femminili di Elizabeth Taylor. 

I registi iraniani hanno inventato tutte le sceneggiature possibili perché le donne potessero continuare ad apparire a capo scoperto nei cinema iraniani.

Nel film “Ten”, il grande regista Abbas Kiarostami mostrò improvvisamente una donna senza il velo: l’attrice si era rasata i capelli a zero. Un’immagine scioccante, ma un forte grido delle donne iraniane in difesa della loro libertà.

In un altro film, in una bella scena d’amore, si vedono un giovane uomo e una giovane che, a bordo di un’auto, si fermano, con una certa angoscia nel cuore, sotto un albero lungo da strada. Come spettatore pensi: wow, cosa succede adesso qui? Succede una cosa che secondo gli ayatollah non deve succedere: l’uomo chiede con trepidazione alla sua amata: «Posso vedere una ciocca dei tuoi capelli?».

Sullo schermo non si vedono i capelli della donna, ma si vede lei che con le sue mani scioglie il nodo del foulard.

E altre centinaia di scene simili.

Ci volle parecchio, ma a poco a poco gli ayatollah capirono che neanche Allah era in grado di impedire a una donna di mostrare la propria bellezza. È l’essenza della vita: una donna deve potersi mostrare.

Gli ayatollah lo sapevano, ma questo era in contrasto con il diritto di esistenza della Repubblica popolare islamica. Le due cose non potevano andare d’accordo.

Comunque, per tenere insieme il regime, hanno pensato a un comitato denominato: Comitato dei guardiani dello hijab per vegliare sull’onore femminile.

E hanno radunato centinaia di donne malate, psicologicamente traumatizzate, le hanno istruite, coperte di nero dalla testa ai piedi e mandate per le strade armate di bastoni come polizia del buon costume. Non erano donne normali, ma bestioni di donne. Afferravano per i capelli le ragazze che portavano il foulard un po’ allentato e le trascinavano verso dei pulmini per poi portarle in carcere. Se loro si ribellavano le prendevano a bastonate in testa. E così è stata uccisa Masha Amini, e così sono state uccise centinaia di altre donne.

E poi è arrivata la fine per la violenza di stato: le ragazze sono scese nelle strade e hanno dato fuoco allo hijab. La loro protesta è uno dei più grandi movimenti femministi del mondo. Una pura rivolta di donne basata sui loro storici bisogni.

Questa generazione di giovani donne combatte a mani nude e con la consapevolezza di poter essere ammazzate. Questo puro movimento di donne lascerà un’impronta profonda sul mondo femminile del Medio Oriente.

La mia generazione ha cercato di rovesciare il regime con le armi. Migliaia di noi sono stati uccisi, migliaia sono stati rinchiusi in prigione per anni, milioni sono fuggiti, ma la nostra voce non è quasi arrivata al mondo, ed è stata soffocata dal regime con ogni forma di violenza.

Ma questa giovane generazione di donne è andata alla battaglia contro gli ayatollah a mani nude e il mondo intero ha sentito la loro voce. Di fatto è avvenuto un miracolo: tutti parlano della loro rivolta. In tutte le case italiane si parla di loro.

Ma devo anche riconoscere un’altra dolorosa realtà: le nostre figlie hanno iniziato una grande guerra contro il regime. Ma non hanno gli strumenti necessari per vincere questa battaglia di strada. Non c’è un partito politico, un’opposizione, un leader che incarni la loro rivolta.

Il regime iraniano è in completa bancarotta. Vive solo dei proventi della vendita di petrolio e gas, che spartisce tra i propri fanatici sostenitori. Non c’è traccia dell’umanità, della misericordia e della giustizia dell’islam in questo regime. Ma gli ayatollah resteranno attaccati con tutta la violenza possibile a due aspetti, alla loro barba e al velo per le donne. Per loro il velo delle donne è come il Muro di Berlino per l’ex Germania dell’Est. Se cedono e abbattono il muro, dovranno cedere su tutto e di loro non resterà più niente. Non lo faranno e per questo saranno disposti a scatenare una guerra civile.

Ma Kader Abdolah crede anche in un miracolo. Può avvenire un miracolo e le nostre figlie potranno entrare per sempre nella storia come una generazione potente, che senza usare la violenza ha rimosso e abbattuto una brutta dittatura confessionale.

Kader Abdolah è triste, ma anche se non si può, anche se è fuori luogo, è segretamente contento per quello che sta succedendo. Il regime dell’Iran vuole vederci addolorati e in lutto. Noi piangiamo le nostre figlie che sono state uccise, i nostri ragazzi che sono stati uccisi. Ma piangiamo ridendo per il loro coraggio, per il colpo storico che hanno inferto a una pericolosa istituzione che voleva governare in nome di Allah. Le donne hanno compiuto il primo, grande, giusto passo verso l’abbattimento dell’impero degli ayatollah.

Segretamente è in corso una grande festa di gioia in patria, anche se tra le lacrime e il dolore.

Gabriella Colarusso per repubblica.it il 16 ottobre 2022.

Brucia il carcere di Evin, simbolo della repressione politica in Iran, nei giorni in cui l'ondata di proteste scatenata dalla morte di Mahsa Amini scuote alle fondamenta il consenso della Repubblica Islamica. Per moltissimi iraniani Evin non è una semplice prigione, è la cella in cui la teocrazia guidata dall'ayatollah Ali Khamenei ha rinchiuso il dissenso e ogni forma di critica al sistema: prigionieri politici, attivisti, intellettuali, avvocati, studenti, anche tanti di quelli che sono stati arrestati nelle ultime settimane.

"Molte delle menti migliori dell'Iran sono chiuse lì dentro", ci dice Asma, attivista. Lì sarebbe detenuta anche Alessia Piperno, la ragazza italiana arrestata mentre era in viaggio a Teheran agli inizi di ottobre. 

Il primo allarme ieri sera intorno alle 21: una colonna di fumo si alza sulla cittadella fortificata ai piedi dei monti Alborz, a Nord di Teheran, che fu fatta costruire dallo Scià. Si sentono spari, almeno due esplosioni. Video verificati da giornalisti indipendenti mostrano le colonne di agenti delle unità speciali dirigersi verso il reparto sette, dove ci sono i detenuti accusati di reati finanziari, quelli in attesa di processo ma anche prigionieri politici.

La telecamera di un cittadino che filma dalla torre Atisaz, poco distante da Evin, inquadra un gruppo di prigionieri sul tetto. Si sentono le urla probabilmente di persone fuori dal carcere: "Morte al dittatore", "Azadi", ("Libertà"). Alcuni parenti delle vittime si precipitano davanti alla prigione ma vengono respinti dalle forze di sicurezza, si alza la tensione, tutte le strade che portano a Evin vengono chiuse. 

Non è chiaro cosa sia successo all'interno. Fonti iraniane parlano di una rivolta di un gruppo di prigionieri. Intorno alle 22.30 i media di Stato provano rassicurare: "La situazione è sotto controllo", scrive l'agenzia di stampa ufficiale Irna citando un funzionario della sicurezza: "I teppisti hanno dato fuoco a un magazzino di vestiti all'interno della prigione di Evin, provocando un incendio", ci sono stati scontri tra "rivoltosi" e guardie carcerarie, sostiene il funzionario. Almeno otto persone sono ferite.

La società civile si mobilita, si temono morti, c'è persino chi evoca il massacro dell'incendio del Cinema Rex ad Abadan che nell'agosto del 1978 accelerò la caduta dello Scià. "Molti attivisti e prigionieri politici sono detenuti a Evin. Le autorità iraniane e Khamenei sono responsabili della vita dei prigionieri!", scrive Amiry Moghaddam, della ong Iran Human Rights. 

L'incendio è avvenuto dopo una giornata in cui migliaia di persone sono tornate in piazza, come ormai accade da un mese. All'università di Teheran gli studenti cantavano uno degli slogan principali del movimento nato in reazione alla morte di Mahsa Amini nelle mani della polizia morale: "Teheran è una prigione, Evin è una università", riferendosi proprio ai tantissimi intellettuali e attivisti rinchiusi nel carcere, come l'avvocatessa premio Shakarov Nasrin Sotoudeh, o il politico riformista Mostafa Tajzadeh.

La tensione è salita ad Ardabil, nel Nord-Ovest del Paese, dove le notizie di un raid della polizia all'interno di una scuola, durante il quale sarebbe morta una studentessa, hanno infiammato la popolazione. A Sanandaj, capoluogo della provincia curda, i negozi hanno abbassato le serrande per lo sciopero convocato in tutta la regione. 

Almeno 233 manifestanti sono stati uccisi dall'inizio delle manifestazioni, secondo la ong Hrana, 32 avevano meno di 18 anni. Il governo sostiene che le proteste siano frutto di forze esterne, un complotto occidentale ordito per indebolire la Repubblica Islamica. Ma la rabbia popolare arde e dai tetti di Teheran, Rasht, Sanandaj si alza il grido, "Donna, Vita, Libertà". 

Da leggo.it il 16 ottobre 2022.

Spunta un primo bilancio della rivolta e dell'incendio scoppiato ieri nel carcere di Evin, a Teheran (Iran), lo stesso carcere in cui è detenuta la blogger italiana Alessia Piperno. Secondo quanto ha comunicato l'autorità giudiziaria iraniana, riportano i media internazionali, quattro detenuti sono morti e 61 sono rimasti feriti. Non è chiaro se Alessia stia bene e se sia stata coinvolta o meno in quello che è successo.

I quattro detenuti sono morti per aver inalato il fumo provocato all'incendio scoppiato ieri, in seguito a una rivolta, ha reso noto Mizan, l'autorità giudiziaria, aggiungendo che dei 61 feriti 4 sono gravi, mentre circa 70 altri detenuti sono stati tratti in salvo. 

Il «governo iraniano è opprimente», il commento del presidente americano Joe Biden sulla rivolta scoppiata nel carcere di Evin a Teheran. «Ho un enorme rispetto per le persone che manifestano nelle strade», ha detto il presidente parlando con i giornalisti al seguito in Oregon.

Da lastampa.it il 15 ottobre 2022.

Sta provocando un'ondata di accese polemiche sui social network in Iran il video che ritrae alcuni esponenti delle temibili forze antisommossa che aggrediscono sessualmente una manifestante mentre cercavano di arrestarla in pieno giorno. Lo riporta la Bbc precisando di avere visionato il video. 

Malgrado le restrizioni sul web gli iraniani riescono ancora a condividere le immagini delle proteste, scatenate dalla morte di Mahsa Amini, la 22enne curda deceduta tre giorni dopo il suo arresto da parte della polizia morale per non aver indossato correttamente lo hijab, il velo islamico.

Nel video in questione, girato a Teheran mercoledì scorso si vede un gruppo di agenti con indosso dei caschi che circondano una donna su una strada principale. Uno di loro la afferra per il collo e la conduce in mezzo ad altri poliziotti, molti dei quali in motocicletta. La donna viene spinta verso una delle moto, mentre un altro agente le si avvicina alle spalle e la palpeggia con una mano. 

Nella sequenza si vede che la donna si accovaccia circondata dalle forze antisommossa e nel sottofondo si sente una voce femminile dietro la telecamera che dice: «Le stanno tirando i capelli».

Gabriella Colarusso per “la Repubblica” il 14 ottobre 2022.  

«In piazza stiamo molto attenti: non sai mai chi è il tuo vicino». A 20 anni, Azadeh sa bene cosa vuol dire delazione. Ha partecipato alle prime proteste in Iran che era ancora minorenne, nel 2019, ed è determinata a non mollare nemmeno questa volta. «Ma serve il massimo della prudenza. I basiji sono i nostri vicini di casa, i nostri compagni all'università, a volte anche i nostri stessi parenti ».

Nel ramificato e pervasivo apparato di sicurezza e sorveglianza della Repubblica Islamica, i basiji sono la colonna portante della repressione di piazza. Girano spesso in moto, vestiti di nero ma senza uniformi, armati di bastoni o pistole, e «picchiano, arrestano, spiano», dice Azadeh. Sono gli occhi e le orecchie del governo, la rete informale di milizie con cui l'intelligence raccoglie informazioni sui manifestanti. L'organizzazione Basij, che in farsi vuole "Mobilitazione degli oppressi", (basiji sono i singoli membri) fu fondata poco dopo il 1979 da Khomeini per "islamizzare" la società, difendere e imporre le rigide regole su cui si fonda la teocrazia islamica iraniana.

Erano soprattutto i ragazzi delle classi più povere a farne parte, attratti dalla promessa di riscatto che l'ayatollah tornato dall'esilio in Francia offrì alle masse oppresse dopo la caduta dello Scià. Negli anni della lunga guerra con l'Iraq (1980-1988) si guadagnarono il rispetto di molti iraniani combattendo contro le truppe di Saddam, spesso male addestrati e male armati e utilizzati nelle operazioni più rischiose, come gli attacchi kamikaze.

Negli anni Novanta sono stati inglobati sotto il comando del Corpo dei guardiani della Rivoluzione, i Pasdaran, da cui dipendono, e da allora impiegati soprattutto per reprimere il dissenso e le manifestazioni di piazza. Quando nel 2009 l'Onda verde portò nelle strade di Teheran più di due milioni di persone, furono loro a schiacciare nel sangue l'opposizione riformista ad Ahmadinejad, accusato di aver manipolato il risultato del voto.

I basiji ricevono una formazione militare e sono addestrati a usare la forza anche brutale contro i cortei, ma non hanno divisa, sono una milizia paramilitare, che permea ogni ramo della società per controllare le organizzazioni indipendenti. Esistono branche dei Basij nelle università, nelle ong, nelle professioni, nella pubblica amministrazione. Basij- e Karegaran, per esempio, è l'organizzazione del Lavoro Basij e fa da controparte ai sindacati; i Basij-e Daneshjouyi operano nelle scuole.

Molti ricevono un salario fisso, per tanti entrare nelle milizie vuol dire avere un canale di accesso privilegiato ai lavori nella pubblica amministrazione, una via facilitata con gli esami all'università, protezione e influenza. Secondo Saeid Golkar, dell'Università del Tennessee, i basiji sono circa 1 milione. Altre stime parlano di 5 milioni. Tra loro ci sono anche molte ragazze. Per la prima volta, durante questo mese di proteste, le donne sono state impiegate anche nella polizia anti-sommossa. È l'altra faccia della primavera femminile iraniana.

Il corpo delle iraniane è un campo di battaglia: 20 anni fa ce lo svelò Persepolis. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2022.  

La foto è di una manifestazione di donne nel luglio 1980 in Iran: protestano a centinaia davanti al palazzo presidenziale di Teheran contro l’imposizione del velo voluto dalla Repubblica islamica sciita che ha preso il potere nel Paese un anno prima 

La protesta delle donne iraniane il 5 luglio del 1980 davanti al palazzo presidenziale di Teheran contro la legge che le obbligava a coprirsi il capo con il velo. Sono donne vestite “all’occidentale”: la rivoluzione islamica stava per cancellare la loro libertà (foto Getty images)

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 23 settembre. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova».

E la battaglia continua... continua sul corpo delle donne. Ovunque ci siano spiragli, questo avviene: ecco perché dobbiamo serrare le fila, ecco perché non dobbiamo permettere che questo accada, nemmeno sotto la forma, apparentemente innocua, del “confronto” televisivo su argomenti come l’aborto, la procreazione assistita: dibattiti perpetrati sulla pelle delle altre. Mahsa Amini era una donna di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano morta mentre era sotto la custodia della polizia morale iraniana. Quando è stata arrestata si trovava a Teheran per una vacanza di famiglia. È stata arrestata per non aver indossato il velo, l’ hijab, in modo appropriato. E dunque in Iran una giovane donna è morta, ammazzata di botte, per la posizione del velo sul capo. Per undici volte le hanno sbattuto la testa contro il muro - così riporta la giornalista Masin Alinejad - e, nonostante il volto tumefatto, le autorità hanno avuto il coraggio di parlare di infarto.

Il governo iraniano ha addirittura provato a ostacolare la circolazione della notizia limitando l’accesso a Internet in diverse zone del Paese, ma non è servito a nulla di fronte alla rabbia di una opinione pubblica sconvolta da una morte assurda. Ed è proprio nei pressi dell’ospedale dove è morta Mahsa Amini che si sono radunate le prime persone, e poi migliaia di donne in decine di città si sono tolte l’ hijab in segno di protesta e hanno iniziato a girare video nei quali si tagliavano i capelli e bruciavano i veli. Poi arrivano immagini di un’altra ragazza, una ragazza dai capelli biondi; il suo nome è (era!) Hadis Najafi, presto diventa anche lei simbolo della protesta contro il velo. Aveva vent’anni. Aveva perché l’hanno uccisa con una raffica di colpi d’arma da fuoco.

In Iran stanno massacrando una generazione di giovanissimi che, nativi digitali, non accettano l’arbitrio di un clero ignorante e sanguinario. Quello che stiamo vedendo in questi giorni, in queste ore, ce lo ha raccontato Marjane Satrapi in Persepolis. Satrapi è nata nel 1969, al tempo della rivoluzione islamica, quando l’Iran da monarchia divenne una repubblica islamica sciita, aveva pressappoco dieci anni. In Persepolis, il suo graphic novel autobiografico, pubblicato per la prima volta in lingua francese tra il 2000 e il 2003, Satrapi raccontò tutto ciò che ricordava di quel passaggio, violenza, morte, arbitrio e sofferenza. Raccontò il primo allontanamento dall’Iran per trovare pace in Austria. E il suo ritorno in patria. Marjane non apparteneva più a nessun luogo, però. Non all’Austria, non all’Europa ma nemmeno a quella terra non più in guerra ma con cicatrici talmente profonde da essere divenuta irriconoscibile e inospitale.

Ho letto Persepolis prestissimo, non esisteva Facebook al tempo, sarebbe nato poco dopo ma qui da noi sarebbe divenuto strumento effettivo di condivisione solo più tardi. Ho letto Persepolis e ho compreso dinamiche che articoli di geopolitica e reportage non riuscivano a spiegarmi, ho capito la paura, ho sondato quel limbo odioso in cui non auguro a nessuno mai di trovarsi, quel luogo familiare e perturbante che ti rende delatore per aver salva la pelle. Poi nel 2007 - in Italia sarebbe arrivato nel 2008 - esce l’omonimo film d’animazione, tratto dal fumetto, che a Cannes vince il meritatissimo Premio della Giuria. Un film che consiglio a tutti, soprattutto alle giovanissime che vogliono capire dove inizia ciò che sta accadendo oggi in Iran, che vogliono capire le radici storiche del conflitto.

La famiglia di Marjane è salda, prova a mantenere una integrità di spirito, e per integrità intendo quell’anelito alla libertà che ti fa violare le regole se le regole sono folli. Nel film, poco dopo la rivoluzione islamica, un uomo assai scortese rimprovera per strada, all’uscita dal supermercato, la madre di Marjane che porta l’hijab troppo alto sulla fronte. Restano fuori, non coperti, pochi capelli: quelli che bastano a sagomare il volto e a renderlo più morbido, personale, suo. Quando ho saputo della morte di Mahsa Amini ho ripensato a quella scena di Persepolis, ci ho pensato con grande tenerezza e rabbia. Una donna costretta alla barbarie del velo subisce l’umiliazione di essere ripresa per la libertà di pochi capelli. Viene arrestata e picchiata a morte. Il corpo della donna è campo di battaglia e chi dice il contrario mente.

Alessia Piperno torna a casa: “In cella con sei persone, è stata dura ma non ho subito violenze”. Dopo 45 giorni di prigionia la travel blogger è stata liberata dal carcere di Teheran. Meloni la accoglie a Ciampino: «Vittoria della nostra intelligence». Il Dubbio l’11 novembre 2022

La stanchezza per i 45 giorni di prigionia e il sorriso per il ritorno a casa: maglione color blu elettrico e pantaloni beige, capelli che cadono sulle spalle, Alessia Piperno ha parlato brevemente con il sindaco di Roma Roberto Gualtieri dopo l’arrivo a Ciampino. «Bentornata Alessia! Ti aspettiamo in Campidoglio», ha scritto il sindaco su Twitter pubblicando anche la foto della 30enne appena arrivata in Italia.

«Sono stati 45 giorni duri, poi questa mattina la sorpresa. Ho trascorso la mia detenzione in una cella con sei persone, è stato difficile ma non ho subito violenze», ha la giovane blogger, circondata dai suoi familiari, nell’incontro lampo con il primo cittadino della Capitale. Poi è salita in auto – dribblando cronisti e telecamere – per raggiungere la casa di Roma ai Colli Albani ed è entrata abbracciata al padre.

Alessia era stata fermata il giorno del suo compleanno per motivi che non sono ancora stati chiariti ed era stata portata nella prigione famigerata della capitale iraniana di Evin. Qui ad ottobre era scoppiata una rivolta che aveva provocato la morte di almeno otto detenuti, periti probabilmente nell’incendio divampato nel corso degli incidenti o forse uccisi dalle forze di sicurezza. Nel penitenziario di massima sicurezza sono rinchiusi gran parte dei dissidenti e oppositori del regime degli Ayatollah, una circostanza che ha fatto ipotizzare un arresto legato al drammatico momento che vive l’Iran facendo temere il peggio.

Dopo la morte della ragazza curda Mahasa Amini, caduta nelle mani della polizia morale a causa di un hijab indossato in maniera non conforme, si stanno susseguendo manifestazioni di piazza molto spesso represse nel sangue con circa un centinaio di vittime tra i dimostranti. Il regime ha più volte imputato alla presenza di agenti stranieri l’organizzazione delle proteste. Proprio Alessia Piperno era arrivata in Iran proveniente dal Pakistan fedele alla sua professione di travel blogger e viaggiatrice che l’aveva già condotta in numerosi paesi del mondo.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera” l’11 novembre 2022.

La passione per i viaggi non si è spenta, ma per un po' Alessia resterà a casa. Nel palazzo di via Carlo Cipolla, nella zona non proprio centrale dell'Appio, assediato per tutto il giorno dai cronisti che, alle 18.20 di ieri, l'hanno vista passare rapidamente, incappucciata e abbracciata al padre Alberto. Seguita dalla madre Manuela, dal fratello David e da un'amica di famiglia. Tutti in silenzio. 

Non solo per l'emozione, ma anche per rispettare il riserbo del governo e dell'intelligence che ha avvolto tutta l'operazione che l'ha riportata in Italia. «Ma sono stati 45 giorni duri, in sei in una cella per un mese e mezzo. Ma non sono stata maltrattata», ha detto Alessia Piperno, travel blogger di 30 anni, durante il breve incontro con il sindaco di Roma Roberto Gualtieri all'accoglienza del 31° Stormo dell'aeroporto di Ciampino, appena sbarcata da un Falcon 900 dell'Aeronautica militare.

Poche parole prima di salire sul van scuro che l'ha riportata nella sua abitazione, scambiate anche con il premier Giorgia Meloni, che qualche ora prima aveva dato la notizia della sua scarcerazione dal penitenziario di Evin dove era stata rinchiusa il 28 settembre scorso, accusata di aver preso parte a una delle manifestazioni di piazza a Teheran contro il regime e in segno di solidarietà per la morte di Mahsa Amini. «Non ho subìto atteggiamenti violenti, sono stata trattata bene. 

Ho mangiato regolarmente cibo occidentale», ha ripetuto ancora Alessia, a sottolineare il fatto che la durezza della detenzione, in un momento peraltro molto difficile per l'Iran, non è sfociata in qualcosa di peggio.

Anche perché le premesse non erano state incoraggianti -con una rivolta scoppiata proprio in quel carcere - e durante il primo incontro con l'ambasciatore italiano a Teheran Giuseppe Perrone la ragazza era bendata, in cella con un'altra giovane reclusa iraniana. Entrambe si trovavano nella famigerata «sezione 209», quella dei detenuti politici. Era l'11 ottobre scorso.

Da quel momento l'attività della Farnesina e dei servizi di intelligence si è intensificata per arrivare a un accordo con la controparte iraniana e allo stesso tempo monitorare condizioni di salute e trattamento della 30enne romana, alla quale in un primo momento sarebbe stato contestato anche di avere il visto scaduto, ma soprattutto di soggiornare in un ostello dove erano già stati catturati altri giovani manifestanti. Insomma una situazione molto complicata, appesantita dai rapporti fra Italia e Iran in un momento difficile a livello internazionale.

La svolta sarebbe arrivata nei giorni scorsi con tre-quattro contatti telefonici diretti fra il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il suo omologo Amir Abdullahian, che già si erano sentiti in precedenza dopo l'insediamento alla Farnesina dell'ex presidente del Parlamento europeo per parlare di lotta al terrorismo, soluzione politica del conflitto ucraino e revoca delle sanzioni all'Iran. Il contatto risolutivo però c'è stato mercoledì pomeriggio, 24 ore dopo il secondo incontro dell'ambasciatore Perrone con Alessia. Una tela tessuta con cautela per evitare che la ragazza venisse processata ma anche che riferimenti espliciti a quanto sta accadendo in Iran potessero rovinare la trattativa. Da qui il silenzio della famiglia, convocata alla Farnesina, fino alla telefonata di ieri mattina della ragazza alla madre: «Sono libera!».

Alessia Piperno libera? Chi ha fatto la telefonata decisiva: ora tutto torna. Mirko Molteni su Libero Quotidiano l’11 novembre 2022

La liberazione e il rientro in Italia di Alessia Piperno, la blogger di 30 anni detenuta in Iran per oltre un mese, è stata frutto di trattative diplomatiche che il nuovo governo italiano ha portato avanti con Teheran sfruttando canali di dialogo che il nostro Paese ha saputo mantenere per anni con la ex-Persia, a differenza di altri Stati europei. Con un lavoro di squadra tra il Ministero degli Esteri e l'agenzia AISE, i nostri servizi segreti esteri.

La ragazza era stata arrestata il 28 settembre e imprigionata nel carcere di Evin, nel clima di repressione delle proteste popolari per la morte della giovane Mahsa Amini, malmenata dai poliziotti di regime perché non «portava correttamente il velo». Alessia - piumino blu e berretto verde - è atterrata ieri pomeriggio con un aereo Falcon 900 dell'AISE all'aeroporto di Roma-Ciampino, dove l'attendevano i genitori, Alberto e Manuela. La premier Giorgia Meloni ha ringraziato i nostri servizi, mentre da Amsterdam, dove accompagnava il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in visita ufficiale, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha confermato: «Alessia Piperno è stata liberata grazie a un intenso lavoro della diplomazia italiana. Sta bene e non ha subito alcuna violenza». 

Dal canto suo, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha affermato: «Ringrazio tutti coloro che, a partire dalla nostra diplomazia e dal governo italiano, dal presidente Meloni al ministro degli Esteri Tajani, hanno contribuito a raggiungere questo straordinario risultato. Bentornata Alessia!». La diplomazia italiana non ha avuto gioco facile con un regime iraniano in allarme da un mese per le manifestazioni popolari che gli ayatollah sostengono fomentate da "agenti esterni", come i presunti "agenti dell'intelligence francese" arrestati negli scorsi giorni. Nonostante l'Italia sia allineata con il G7 in tema di sanzioni e di condanna della repressione, ha capitalizzato i suoi rapporti con l'Iran, tendenzialmente migliori rispetto alla media dei Paesi europei, in parte anche eredità di una più ampia vocazione storica del nostro Paese a dialogare con le nazioni del Mediterraneo e del Medio Oriente, fin dai tempi di Enrico Mattei, Aldo Moro o Bettino Craxi.

Al di là di trattative condotte in modo riservato, importante è stata una telefonata intercorsa tra Tajani e il suo collega iraniano, il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian. Un colloquio forse decisivo, inizialmente taciuto dalla stampa italiana, ma che è stato divulgato dalle fonti iraniane. Amir-Abdollahian anzitutto s' è congratulato con Tajani per la sua recente nomina alla guida della Farnesina. Poi s' è augurato che «le relazioni con l'Italia possano espandersi a livello politico, economico e culturale». Ha affermato che «la politica immutabile della Repubblica islamica dell'Iran» sulla guerra tra Russia e Ucraina si basa sulla necessità di una «soluzione politica per il conflitto per porre fine alla guerra». Il ministro iraniano ha detto a Tajani che Teheran «continuerà a impegnarsi affinché il processo politico possa avanzare in questa direzione».

Il regime degli ayatollah, provato dalle rivolte interne che ne fanno scricchiolare il potere e dalle sanzioni internazionali, di certo cerca sponde in Europa, nella fattispecie mediante i rapporti con l'Italia, per cercare di migliorare la sua situazione. Ma resta un governo militarizzato che solo in parte s' affida al dialogo e con cui è sempre bene trattare con prudenza. Proprio ieri l'Iran ha annunciato di aver sviluppato il suo primo missile ipersonico, ovvero con velocità superiore a quella del suono di almeno 5 volte. Lo ha detto il generale Amirali Hajizadeh, capo della divisione aerospaziale dei pasdaran. 

Maria Berlinguer per lastampa.it il 12 novembre 2022.

«Quando sono andati a prenderla non sapeva che sarebbe stata liberata, pensava che l’avrebbero trasferita in un’altra prigione, meno dura. Quando l’ha capito è scoppiata a piangere. Non so lo aspettava. È stanca e provata, ma non ha subito violenze di nessun tipo anche se qualche volta è stata bendata.  

Mia sorella è una ragazza forte, coraggiosa, non credo che abbia avuto paura per lei, semmai si è sempre preoccupata per noi, per mamma e per papà, immaginava la loro angoscia e soffriva per questo». David Piperno 25 anni, cinque in meno di Alessia, non sta nella pelle per la gioia di riavere a casa la sorella Alessia, la travel blogger romana arrestata il 28 ottobre in Iran e rinchiusa nel carcere di Evin, con le detenute politiche, all’inizio sospettata di terrorismo.

Alle 15, 30 in punta tira su la saracinesca della libreria di famiglia, a Colli Albani. «È stato bellissimo svegliarsi con Alessia a casa, siamo una famiglia semplice, siamo ancora tutti scombussolati dall’essere finiti nel ciclone dei media e non vediamo l’ora di tornare alla normalità ma vogliamo ringraziare tutti quelli che ci sono stati vicini e l’ambasciatore italiano che in queste settimane ci ha confortato e dato notizie di mia sorella. Una persona piena di umanità, a dimostrazione che non siamo solo spaghetti».

A proposito di spaghetti, come avete festeggiato giovedì sera Alessia? La mamma Emanuela le ha cucinato il suo piatto preferito?

«Con un piatto di pasta all’arrabbiata, non c’è stato tempo di pensare alla cena. Non faremo niente di speciale neanche stasera (ieri, ndr) perché nessuno di noi è andato a fare la spesa. Anche perché la nostra casa è stata “assediata” dalle telecamere. E comunque l’importate è essere di nuovo tutti a casa. Anche se siamo tutti stanchi perché abbiamo fatto le ore piccole. Alessia ha dormito nel lettone con mamma e papà, come da bambina».

Chi vi ha dato la notizia che Alessia sarebbe tornata a casa?

«Giorgia Meloni ha chiamato mamma cinque minuti prima che la notizia fosse diffusa». 

Quali sono parole con le quali l’avete accolta?

«Ci siamo abbracciati tutti e quattro e siamo scoppiati a piangere. L’emozione e la gioia ci hanno travolti. Non abbiamo spiccicato parola». 

E dopo, che vi ha raccontato Alessia?

«Che era in cella con altre sei compagne: vivere in una cella con sei detenute è stato dura ma almeno si è sentita meno sola. Le sue compagne di prigionia sono cambiate in questi quaranta giorni diverse volte e spesso è stato difficile comunicare per via della lingua. Alessia parla inglese, francese, spagnolo e un po’ di tedesco, ma solo alcune delle detenute sapevano l’inglese». 

Anche lei è un poliglotta?

David scoppia in una fragorosa risata. «Io so a malapena l’italiano». 

E la passione per i viaggi è di famiglia?

«No, è una passione di Alessia, nata dall’amore per la natura. Alessia, come sa chi a segue, è sempre alla ricerca di cose particolari, se dovesse venire a Roma certamente la prima cosa che andrebbe a vedere non sarebbe il Colosseo». 

Sua sorella all’inizio è stata scambiata per un’attivista politica. Si è appassionata alla lotta delle donne iraniane?

«Deve chiederlo a lei. Alessia è una giramondo, non è un’attivista. E comunque con papà e mamma abbiamo deciso di non parlare delle cose che ci ha detto, lo farà lei, se e quando ne avrà voglia. Ora penso che voglia soprattutto riposare perché anche se non ha subito violenze, la pressione psicologica è stata tanta».

Sono tantissimi i Paesi che ha visitato, spesso andando anche in zone non tranquille, in mete sconsigliate dalla Farnesina.

«Può essere, ma Alessia non è una che si mette nei guai. I suoi viaggi sono studiati, organizzati e programmati con saggezza. Non è una sprovveduta né una che cerca guai».

Vi ha già annunciato che presto riprenderà a viaggiare e a raccontare le sue storie?

«Certamente lo farà, ma ora speriamo che si fermi per qualche mese a Roma. Dobbiamo recuperare il tempo che ci è stato rubato».

Maria Teresa Mura per nextquotidiano.it il 13 novembre 2022.

“Ha dormito tra e me e mia moglie, è tornata piccola”, aveva raccontato ieri Alberto Piperno, il papà di Alessia, liberata dopo oltre un mese di detenzione in un carcere iraniano, parlando della prima notte trascorsa dalla ragazza insieme alla famiglia dopo il suo rientro a Roma.  

Ma oltre alla commozione e al sollievo per la liberazione di Alessia ora suo padre a Repubblica ha voluto far luce anche sull’inferno vissuto dalla figlia durante i mesi di prigionia.

“Non è stata toccata a livello fisico, ma a livello emotivo e psicologico è stata pesante e dura – aveva già dichiarato – Non sapeva se e quando sarebbe uscita; si preoccupava per noi, per la famiglia. È una ragazza forte, l’ho scoperto adesso”. Perché Alessia è stata forte ora è più chiaro. Alberto Piperno, infatti, in un’intervista a Repubblica ha sottolineato che “Non ha subito violenze fisiche ma psicologiche”. 

La ragazza veniva bendata ogni volta che la portavano fuori per farle prendere aria. E in ogni caso si trattava di cinque minuti, due volte a settimana. Lo stesso trattamento lo subiva se la spostavano da un posto all’altro di Evin. “È l’unico carcere dove è stata”, sottolinea il padre di Alessia che poi racconta cosa mangiava e in quali condizioni fisiche si trova in questo momento: 

“Ha perso 8 chili, da 52 è passata a 44, la muscolatura si è indebolita. Lei è vegetariana e chiedeva pomodori. Glieli davano, ma marci. E lei mi ha detto: “Papà, li ho mangiati per riprendermi”. Povera figlia mia. Poi è passata al pane e zucchero, si è ripresa un po’. Al mattino c’erano una tazza di tè e un cetriolo”.

Papà Piperno poi rievoca i terribili momenti in cui è scoppiato l’incendio a Evin, e si è pensato al peggio. Fino alla liberazione, inaspettata. Alessia pensava di essere trasferita in un altro carcere e anche in quell’occasione è stata bendata. Traspare l’orgoglio verso la sua ragazza “forte” anche nell’ultima risposta, quella in cui viene chiesto se ripartirà: “È la sua natura, non si può cambiare. Adesso resta un po’ con noi. Poi, sarà lei a scrivere il suo futuro”.

Da open.online il 28 novembre 2022.

La travel blogger Alessia Piperno detenuta per 45 giorni in Iran e rientrata il 10 novembre scorso nella propria abitazione a Roma nel quartiere Colli Albani racconta per la prima volta con un lungo post su Instagram la sua prigionia a Teheran e i momenti precedenti all’arresto. «Nei primi giorni di settembre, andai a visitare per la prima volta nella mia vita una prigione a Teheran. Si trattava del carcere di Ebrat, ormai diventato museo, ma che una volta era utilizzato dalla polizia segreta Savak, per torturare i detenuti. Rimasi tra quelle mura per diverse ore, cercando di immaginare la paura che si viveva all’interno di quelle celle». 

E poi: «”Le urla dei prigionieri si sentivano per tutta la prigione”. Così mi raccontò la mia guida. In qualche modo sembrava come se quelle grida fossero ancora scolpite nei muri e che viaggiassero tra quei corridoi. “Esistono ancora prigioni così in Iran?”. Domandai alla mia guida. Lui sospirò. “Purtroppo si, la prigione di Evin, che si trova proprio nella parte nord di Teheran”.

Sentii i brividi corrermi su tutto il corpo, senza lontanamente immaginare che 21 giorni dopo, sarei stata anche io, una detenuta, proprio in quella prigione». La 30enne, scomparsa lo scorso 26 settembre in Iran e arrestata il 28, poco dopo i festeggiamenti per il suo compleanno, e portata al carcere di Evin, il centro di detenzione dove vengono condotti i dissidenti, ha scritto sul social media di «non aver fatto nulla per meritarci di essere rinchiusi tra quelle mura, e non posso negare che siano stati i giorni più duri della mia vita». 

E ancora: «Ho visto, subito e sentito cose, che non dimenticherò mai, e che un giorno mi daranno la forza per lottare accanto al popolo Iraniano. Al tempo, non avevo partecipato alle proteste, perché ci era stato sconsigliato, e il rumore degli spari, mi metteva paura». Ma adesso per la travel blogger è diverso: «Sono a casa, tra la mia famiglia e i miei amici, libera si, ma fisicamente.

È la mia mente a non esserlo, perché in quell’angolo di inferno sono ancora rinchiuse le mie compagne di cella, migliaia di iraniani, e il mio amico Louis. Io sono tornata a una vita normale, esco, a volte rido, faccio progetti per il mio futuro, e dormo in un letto. Oggi è lunedì, oggi in prigione si fa la doccia. Domani è martedì, ci sono i 5 minuti d’aria. La mia mente ora vive un po’ così, tra sorrisi, in un letto soffice, un piatto di pasta e tra delle mura bianche dove le urla, non cessano mai e dove l’aria si respira per 5 minuti, due volte a settimana», ha scritto.

Poi il ringraziamento a chi le ha dimostrato supporto: «Volevo ringraziare tutti voi, per il vostro supporto, per le parole, per i meravigliosi disegni che mi avete mandato, per essere stati vicini alla mia famiglia, e per avermi dedicato anche solo una preghiera», ha concluso.

Iran, oltre 50 bambini uccisi dal regime. Piperno: "Quei giorni non li dimentico". Storia di Manila Alfano su Il Giornale il 29 novembre 2022.

Donne, ragazzine e persino i bambini. Sotto la scure della repressione iraniana non si salva nessuno. Sono più di 50 i minori uccisi durante le proteste che da oltre due mesi scuotono il regime degli ayatollah. La conferma del bilancio arriva dall'Unicef che chiede a Teheran di «porre fine a tutte le forme di violenza e abuso» che hanno portato alla morte di bambini e adolescenti, anche attraverso «continue incursioni e perquisizioni condotte in alcune scuole». L'Unicef ha sottolineato l'appello del Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che ha a sua volta chiesto alle forze di sicurezza iraniane di «astenersi dall'uso della forza non necessaria o sproporzionata» durante le manifestazioni. Nel frattempo, continua con scioperi e sit-in degli universitari in varie città la protesta esplosa il 16 settembre in seguito alla morte a Teheran di Mahsa Amini, la 22enne di origine curda che ha perso la vita dopo essere stata arrestata perché non portava il velo in modo corretto. E si allarga sempre di più la frattura tra l'Iran e il mondo occidentale che denuncia le «violazioni di diritti umani» durante la repressione contro i manifestanti. Teheran ha convocato l'ambasciatore tedesco Hans-Udo Muzel per contestare le critiche di Berlino, definendole «prive di fondamento» e motivate da un atteggiamento «interventista». La convocazione arriva dopo che la Germania aveva chiesto una sessione speciale del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sugli abusi durante le dimostrazioni: la settimana scorsa l'organismo Onu aveva quindi adottato una risoluzione per chiedere un'inchiesta indipendente sulle violenze. Non coopereremo con l'Onu, è stata la risposta di Teheran, che ha definito la richiesta una mossa «politicizzata». Secondo i rapporti dell'agenzia degli attivisti dei diritti umani iraniani Hrana, sono oltre 450, le persone che hanno perso la vita durante gli scontri mentre sono oltre 18mila gli arrestati, 709 che la Repubblica islamica ha deciso di liberare dopo la vittoria della nazionale di calcio iraniana. Tra le persone scarcerate c'è la nota attrice Hengameh Ghaziani, rilasciata su cauzione, come il dissidente Hossein Ronaghi, e anche il calciatore Voria Ghafouri. La contestazione degli sportivi è arrivata anche durante i Mondiali in Qatar, e la sfida di oggi tra Iran e Stati Uniti è destinata ad accendere nuovamente l'attenzione sulle proteste. Decine di artisti iraniani hanno chiesto il boicottaggio internazionale delle istituzioni culturali gestite dalla Repubblica islamica. «Non avevamo fatto nulla per meritarci di essere rinchiusi tra quelle mura, e non posso negare che siano stati i giorni più duri della mia vita. Ho visto, subito e sentito cose, che non dimenticherò mai, e che un giorno mi daranno la forza per lottare accanto al popolo Iraniano», ha scritto sul suo profilo Instagram Alessia Piperno, la travel blogger arrestata e liberata dopo oltre un mese di detenzione in un carcere iraniano. E proprio nella prigione di Evin dove è stata detenuta la giovane, che si trovano i dissidenti. Lì c'è ancora la giornalista Nilufar Hamedi. La sua colpa? Aver dato per prima la notizia di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia morale per il velo messo male.

Il caso della blogger italiana. Che faceva in Iran Alessia Piperno e perché è stata arrestata. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Alessia è figlia di librai e cartolai romani Piperno, il fiore della gioventù ebrea romana e adesso è nelle mani della polizia segreta iraniana che sta arrestando, torturando, intimidendo tutte le donne insorte e che con la loro protesta temeraria, sapendo il peggio che può accadere loro, non esitano ad andare avanti e hanno messo gravemente in crisi il regime degli Ayatollah che sfida i diritti civili di tutte le donne del mondo dalla conquista del potere dell’Ayatollah Khomeini quando riuscì a mettere in fuga lo Scià di Persia quarantadue anni fa. Alessia Piperno ha trent’anni e viaggia per il mondo da sette, finché non è stata arrestata a Teheran il 30 settembre. E da allora non si sa nulla. Neanche la notizia dell’arresto è certa, perché la giovane romana è sparita e non posta più le sue cronache su Instagram.

In realtà neanche la data dell’ultimo mese di settembre è certa, perché quella è soltanto la data del suo ultimo messaggio su Instagram, che è straziante. Il regime si sente sotto attacco sia dalle opposizioni clandestine, sia dalla pressione politica che tutte le donne del mondo per lo più aderenti a organizzazioni per i diritti civili che hanno promesso di non permettere al regime di voltare pagina dopo la barbara esecuzione di una ragazza iraniana prelevata dalla polizia per strada con l’accusa di indossare il velo “in maniera scorretta” e poi scaraventata in un van e dentro presa a calci e bastonate prima di essere scaricata agonizzante sull’asfalto. L’insurrezione è esplosa immediatamente in modo spontaneo con la partecipazione anche di moltissimi uomini al fi anco delle loro donne. Ma il regime ha scatenato insieme alla repressione contro i manifestanti anche una campagna contro i curdi sostenendo che le manifestazioni erano soltanto il frutto di una macchinazione curda per occultare un traffico di armi con i curdi turchi e siriani.

Alessia Piperno è una ragazza solare, sorridente e tanto spaventata quanto attratta dalle lotte civili che vive da tempo con una passione lirica che ha riversato su Instagram. Nell’ultimo messaggio aveva scritto parole che rimbalzano in tutte le lingue sui social di tutto il mondo e in particolare l’ultimo brano da lei scritto e postato il trenta scorso: «Mentre gli spari rimbombavano alle nostre spalle e l’odore del gas si propagava nell’aria, non so cosa sia passato nella mia mente mentre gli occhi giravano impazziti. Ho chiuso la porta dell’ostello mentre la gente urlava e dopo trenta secondi ho sentito bussare violentemente: erano due donne, due uomini e due bambini che tossivano bruscamente per aver respirato il gas e la donna più anziana era in preda ad un attacco di panico e chiedeva “Milk! Milk!” Mentre cercavo un bicchier d’acqua ho visto lei seduta a terra con le gambe rannicchiate e il viso rigato dalle lacrime ma senza piangere. Gli occhi fissavano un punto lontano e non saprò mai il nome di quella bambina ma era il volto della paura. Le ho dato un biscotto, una gomma e le ho offerto il mio cellulare. Le ho chiesto di dirmi che cosa voleva. Lei ha disegnato una casa».

Alessia Piperno era arrivata in Iran dopo sette anni in Pakistan e si era trovata subito in strada con tutti i manifestanti contro il regime e ha annotato giorno per giorno sia ciò che vedeva, sia ciò che accadeva dentro di lei: «Non riesco più ad andarmene, ora più che mai. E non lo faccio per sfidare la sorte, ma perché anche io sono ora parte di tutto questo: in due mesi questa terra che mi ha accolta a braccia aperte mi è entrata dentro e profondamente nel cuore». Di fronte alla totale indifferenza dell’Europa aveva appena scritto: «Noi europei non sappiamo nulla di loro, eppure stanno manifestando per la loro libertà».

L’Unione Europea ha fatto sapere che sta seguendo la vicenda di Alessia, ma le fonti diplomatiche ricordano che questo è un pessimo momento per discutere con l’Iran perché il Paese che più di ogni altro nega l’identità alle donne, in buona compagnia con l’Afghanistan e le peggiori tirannie religiose, è ora saldamente alleato con la Russia di Putin e si trova preso a tenaglia dalle manifestazioni sempre più violente di un popolo esasperato e la posizione conflittuale con la Turchia che rappresenta il maggiore avversario sunnita e membro della Nato. Malgrado ciò, sia Bruxelles che la Farnesina cercheranno di liberare Alessia e riportarla a casa sana e salva.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Estratto dell'articolo di Gabriella Colarusso per repubblica.it il 16 settembre 2022.

La morte di una giovane ragazza in Iran, fermata dalla polizia perché non indossava correttamente il velo, ha scatenato un'ondata di indignazione e proteste al punto da spingere il presidente conservatore Ebrahim Raisi a chiedere l'apertura di un'indagine sul caso. 

Mahsa Amini aveva 22 anni, veniva dalla regione del Kurdistan iraniano ed era in vacanza con la famiglia a Teheran quando è stata fermata dalla polizia morale, la Ershad, martedì scorso, davanti a una fermata della metro. Portata al centro di detenzione di Vozara, dove c'erano molte altre donne fermate per lo stesso motivo, dopo due ore è stata trasferita d'urgenza in ospedale: è entrata in coma ed è morta poche ore dopo.

La famiglia e le organizzazioni per diritti umani iraniani accusano gli agenti della Ershad di aver picchiato la ragazza con tanta forza da averle procurato un trauma cranico e poi il coma. 

La polizia smentisce, e sostiene invece che Mahsa abbia avuto un problema cardiaco, un infarto. La televisione di Stato ha diffuso due video delle telecamere a circuito chiuso nella stazione di polizia che mostrano la ragazza accasciarsi all'improvviso mentre è nella stanza insieme ad altre donne fermate per "abbigliamento inappropriato".

La testimonianza del fratello

I parenti di Amini contestano la ricostruzione delle autorità. Il fratello Kiarash ha raccontato al sito Iran Wire che la giovane è stata fermata all'improvviso dagli agenti della Ershad e spinta con violenza in un furgoncino. Il ragazzo ha cercato di intervenire ma l'hanno bloccato dicendogli che la sorella sarebbe stata portata in un centro di detenzione e rilasciata dopo un'ora di "lezione di rieducazione".

Da quella stazione di polizia Mahsa è uscita in ambulanza. Le foto scattate mentre era nel letto di ospedale la mostrano intubata e con delle ecchimosi vicino all'orecchio. Uno zio della ragazza ha detto al sito rifomista Etemad che la giovane non aveva mai sofferto di problemi cardiaci. [...]

Tra i commenti critici sui social media, quello del politico riformista Mahmoud Sadeghi, un ex deputato, che si è rivolto direttamente al leader supremo, l'Ayatollah Ali Khamenei: "Cosa dice il leader supremo, che ha giustamente denunciato la polizia statunitense per la morte di George Floyd, sul trattamento riservato a Mahsa Amini da parte della polizia iraniana?".

Iran, proteste al funerale di Mahsa Amini, uccisa a 22 anni perché portava male il velo. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 17 Settembre 2022.

Diversi feriti a Saqez, città dove viveva la ragazza, e nella capitale Teheran. E chi è sceso in strada si scaglia anche contro Khamenei

Al funerale di Mahsa Amini, la ragazza iraniana di 22 anni picchiata a morte perché non indossava bene il velo, le donne e le sue coetanee hanno tolto il velo. E hanno gridato: «Morte al dittatore».

Almeno quattro persone sarebbero rimaste ferite dopo che gli agenti di polizia hanno usato i lacrimogeni e disperso la folla, secondo informazioni diffuse sui social che non è possibile verificare. Internet è stato bloccato nella città del Kurdistan. La ventiduenne è morta in ospedale a Teheran: era finita in coma due ore dopo essere stata arrestata perché non rispettava le regole del velo, obbligatorio nella Repubblica Islamica.

«I servizi segreti volevano che la famiglia la seppellisse al mattino presto, quando ancora era buio, non appena il cadavere della ragazza è arrivato nella sua città, Saqez. Ma la famiglia non ha accettato - afferma il blogger Fahramand Alipur, che vive in esilio dopo il suo coinvolgimento nel movimento dell’Onda verde nel 2009 represso nel sangue dalle autorità -. L’hanno seppellita verso le 10.00, quando erano arrivati migliaia dei suoi concittadini». Le proteste si sarebbero anche estese nella capitale provinciale, Sanandaj: un video mostra i manifestanti marciare e si sente il suono di spari.

Molti artisti e personalità del cinema iraniano hanno scritto tweet e post su Instagram contro la «polizia della moralità», accompagnati dall’hashtag «No alla Gashte Ershad» e «no alla violenza sulle donne» e ripetendo il nome di Mahsa Amini: «Ripetete il suo nome, non dimenticate quello che passano le donne iranian e» ha scritto la celebre attrice Taraneh Alidoosti. Il regista premio Oscar Asghar Farhadi si rivolge direttamente alla ragazza, di cui pubblica la foto in coma all’ospedale, ed esprime sconcerto per quanto le è toccato. «Sono disgustato, stavolta da me stesso. Tu sei su un letto d’ospedale, ma sei più sveglia di noi, mentre noi siamo tutti in coma. Noi ci fingiamo addormentati, di fronte a questa oppressione senza fine. Noi siamo complici di questo crimine». Pantea Bahram, grande attrice, pubblica un disegno della morte con la falce appoggiata ad un furgone della polizia e rievoca un episodio di quando aveva quindici anni, quando fu chiamato dalla polizia della moralità che allora si chiamava Komiteh insieme ai cugini, per l’abbigliamento.

Ma la protesta nelle strade si scaglia anche contro il regime e la Guida Suprema Ali Khamenei, come visibile da un video diffuso su Twitter in cui la sua immagine viene presa a sassate.

Le autorità hanno aperto un’indagine ma il medico forense afferma che potrebbero volerci tre settimane per i risultati dell’autopsia. La polizia sostiene che Amini si è sentita male mentre aspettava insieme ad altre donne alla stazione di polizia, mentre sui social gli agenti vengono accusati di averla picchiata. In precedenza, sempre la polizia aveva attribuito la morte ad un attacco cardiaco, ma la famiglia ha negato che la ragazza soffrisse di problemi di cuore.

Il fratello di Mahsa: «L’hanno portata via dicendo che le davano una lezione di moralità». Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2022.

La testimonianza di Kiarash Amini dopo che sua sorella è stata picchiata a morte dalla polizia della moralità iraniana: aveva il velo 

Manifestazioni, proteste, campagne sui social. La morte di sua sorella Mahsa, uccisa di botte a Teheran dalla polizia religiosa perché non indossava correttamente il velo, ha indignato il mondo intero. Ora che Mahsa è tornata a casa Saqqez, nel Kurdistan iraniano, dove è stata seppellita durante un funerale cui hanno partecipato migliaia di persone, suo fratello Kiarash e l’intera famiglia provano a rimettere insieme i pezzi.

Partiamo dall’inizio cosa è successo? Quando è stata presa sua sorella?

«Eravamo a Teheran in visita a dei parenti, erano le 6:30 stavamo uscendo dalla metropolitana di Shahid Haghani. E siamo stati avvicinati da alcune guardie che hanno iniziato a strattonare mia sorella e l’hanno caricata su un camioncino».

Non che questo sposti la gravità di quanto accaduto: ma sua sorella indossava il velo?

«Sì, aveva una veste nera lunga e aveva il capo coperto. Lei ha anche provato a dire “non sono di qui, perdonatemi (Mahsa è originaria del Kurdistan iraniano, ndr)” ma non è servito a nulla».

Poi cosa è successo?

«L’hanno trascinata via dicendo che la portavano a fare una “lezione di moralità”. Intanto io ho avvisato i miei genitori. E siamo andati davanti al commissariato della polizia morale a Vozara. Lì davanti ci hanno detto che l’avrebbero rilasciata in poche ore. E invece...».

Chi vi ha avvisato che Mahsa stava male?

«Quando sono arrivato davanti all’edificio, c’erano decine persone che trasportavano i vestiti per le donne detenute all’interno. All’improvviso abbiamo sentito delle urla. Gli agenti sono si sono precipitati fuori dall’edificio e ci hanno attaccato con manganelli e lacrimogeni. Cinque minuti dopo un’ambulanza ha lasciato l’edificio. Una donna ci ha detto “Qualcuno è stato ucciso lì dentro”. Mia madre ha mostrato la foto di Mahsa alle ragazze che venivano fuori. Una di loro ha detto che era svenuta tra le sue braccia. Ho chiesto a uno dei soldati cosa fosse successo. Lui mi ha risposto: “Uno dei nostri è stato ferito”. Ma mentiva: era Masha in quell’ambulanza».

Dunque non vi hanno avvisato per dirvi che Mahsa era in ospedale?

«Ho corso fino all’ospedale di Kasra. Alle 20:17 di martedì, i medici ci hanno detto che non c’era niente da fare. Ci hanno detto che aveva avuto un infarto e sebbene il suo cuore continuasse a battere, il suo cervello non funzionava più. Mi hanno fatto vedere il suo corpo, aveva lividi sul volto. Ma non mi hanno permesso di fotografarlo, chissà come mai. Poi due giorni dopo la polizia della moralità ha detto che mia sorella era morta a causa di un infarto. Ma lei era sana, completamente sana e non soffriva di cuore».

Cosa farete ora?

«Ora piangiamo mia sorella». 

La morte di Mahsa infiamma l’Iran: le ragazze si tagliano i capelli per il lutto, negli scontri 3 morti. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022.

Decine di video sui social, e anche qualche uomo: le donne iraniane si tagliano i capelli in lutto per Mahsa Amini, morta tra le mani della polizia della moralità che l’aveva arrestata perché «velata male» 

Lo fanno le ragazze nei video condivisi sui social, lo fa qualche uomo come il calciatore curdo Mohammad Zobeir Niknafs dell’Esteghlal, e succede anche in piazza, dove una giovane di Kerman si recide la chioma tinta di biondo tra gli applausi. Tagliarsi i capelli in segno di lutto è un’usanza curda che forse le donne praticano ancora solo nei paesini del Kurdistan. È diventato in tutto l’Iran un simbolo del dolore per Mahsa Amini — che in quella regione era nata — e dell’opposizione al regime.

In decine di piazze e in tutte le maggiori università del Paese continuano e crescono le manifestazioni iniziate sabato scorso al funerale della ragazza di 22 anni finita in coma poco dopo essere stata arrestata dalla cosiddetta polizia della moralità perché «mal velata». Vani gli appelli alla calma della polizia che giura sia stato un incidente, del presidente Ebrahim Raisi che promette un'inchiesta e definisce Mahsa «una figlia». Inutili le condoglianze di un consigliere della Guida suprema Ali Khamenei che assicura alla famiglia che lo stesso ayatollah è «addolorato». Gli scontri hanno portato alla morte di almeno tre persone: secondo il gruppo curdo per i diritti umani Hengaw sono morte sotto il fuoco degli agenti; le autorità confermano il numero, ma sostengono che la violenza è fomentata dall’estero e accusano, senza precisazioni, anche le ambasciate.

Non si tratta solo di una contestazione contro il velo obbligatorio. Grida come «Morte al dittatore» e sassate contro l’immagine di Khamenei accompagnano le proteste sin dal primo giorno. Nella notte di ieri due ragazze di Mashhad, la capitale religiosa dell’Iran, gridavano in piedi su un’auto della polizia in fiamme: «Noi non vogliamo la Repubblica islamica». Sul balcone del municipio di Sari, nel Nord, due giovani distruggevano le effigi di Khamenei e del fondatore della Repubblica islamica Ali Khomeini; in piazza una ragazza danzava e gettava l’hijab in un falò.

Negli ultimi anni non sono mancate le proteste per il carovita, la siccità, o il velo. Rispetto al dicembre 2017, quando una donna di nome Vida si tolse il velo e lo sventolò come una bandiera in via della Rivoluzione a Teheran, imitata da molte altre, i filmati di queste ore sembrano mostrare una più ampia contestazione a partire dal simbolo dell’hijab e un ritorno in piazza della classe media, impoverita dalle sanzioni e dalla cattiva gestione del Paese da parte di un regime che non accetta le richieste di riforme dall’interno, come quelle avanzate dal’Onda verde del 2009. «A quel tempo avevamo la speranza di un qualche cambiamento dall’interno. Ora non c’è più speranza. Non c’è richiesta di riforme, ma solo rabbia», ci dice Farahmand Alipour, che fu uno dei portavoce di quel movimento e da allora vive in esilio.

Ogni sistema totalitario dipende da simboli e rituali, ma in questo modo si rende vulnerabile. Sfidarne l’autorità usando il velo diventa un’arma politica. Qualcuno sui social azzarda pure un nome per un nuovo movimento: «Donne, Vita, Libertà». Ma gli arresti sono già decine e la Repubblica islamica respinge le condanne dell’Onu, degli Stati Uniti e dell’Italia.

Mahsa uccisa per il velo. Il pugno duro del regime sulla protesta in piazza. Donne senza hijab alla guida della rivolta. La repressione fa 5 vittime e 75 feriti. Fiamma Nirenstein il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

La rabbia è di nuovo un fiume in piena, il coraggio del popolo iraniano è dispiegato nelle piazze per fronteggiare un regime che uccide i suoi cittadini pur di conservare il potere degli Ayatollah: una folla di giovani grida slogan di protesta nelle strade, molte donne si strappano il velo, mettono in gioco di fronte alla brutalità della polizia che picchia e spara, il bene più prezioso, la vita. Si parla già di 5 persone uccise e 75v ferite da lunedì in varie città del Paese. 

La ragione dell'ira iraniana è un'orrida e non inconsueta vicenda legata alle regole imposte dalla «polizia morale»: Mahsa Amini, una bella ragazza curda di 22 anni, era in gita con la famiglia da Saqez la nella provincia curda dell'Iran, quando la «polizia della moralità» l'ha arrestata perché non aveva la testa coperta «propriamente». Trasportata in un furgone al centro di «rieducazione» è stata picchiata e torturata a morte. La polizia nega ogni responsabilità, il primo ministro Raisi ha telefonato alla famiglia dichiarandosi addoloratissimo. Ma non sono molti quelli che credono che Mahsa sia morta di un attacco cardiaco, come le fonti ufficiali suggeriscono, anche perché la famiglia ha ripetuto che era in perfetta salute e chi ha potuto accedere a foto e documenti parla di una frattura del cranio. 

Durante il suo funerale alcune donne si sono strappate il hijab e la folla ha intonato lo slogan «morte al dittatore». La repressione delle manifestazioni, ormai in corso da tre giorni, spara, uccide, arresta in massa i manifestanti. Mahsa, sulla cui tomba qualcuno ha scritto «Non sei morta, il tuo nome sarà il nostro simbolo», è ormai un simbolo come Nada Sultan, la bella ragazza di cui è impossibile dimenticare la morte in strada, freddata da un cecchino a Teheran nel 2009, una musicista di 26 anni il cui nome diventò una bandiera internazionale per i diritti umani nel Paese in cui i diritti umani non esistono. 

Dopo che i manifestanti hanno sfidato la repressione per chiederne l'abolizione, ora anche alcuni parlamentari hanno osato criticare l'istituzione, chiedendone la revisione o l'abolizione. La «polizia morale», nota anche come Gasht-e Ershad, o «pattuglia della morte», «non ottiene alcun risultato, se non quello di causare danni al Paese», ha detto il deputato Jalal Rashidi Koochi. Il presidente del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, ha chiesto che la condotta di questa unità sia oggetto di un'inchiesta: per evitare che si ripeta quanto accaduto a Mahsa, dice, «i metodi utilizzati da queste pattuglie dovrebbero essere rivisti». Ancora più radicale un altro parlamentare, Moeenoddin Saeedi, che ha annunciato la sua intenzione di proporre l'abolizione totale del corpo. 

Le leggi che condannano a morte gli omosessuali, le fedifraghe nel matrimonio, che danno alle donne un ruolo dimezzato, che perseguitano tutta una serie di altri pretesi violatori della moralità e della fedeltà istituita dagli Ayatollah nel 1979 hanno fatto dell'Iran, oltre che il Paese numero uno nell'aggressività antisemita che nega (come ha fatto ieri il primo ministro) la Shoah, un campione nell'uso della pena di morte. 

Dal 2010 le esecuzioni sono tate 6.825, nel 2022 siamo già a 414. Il 5 settembre due donne nella città di Urumieh sono state trovate colpevoli di «traffico di esseri umani» secondo l'agenzia di informazione della Repubblica Islamica, ma si riporta con molta attendibilità che siano state condannate a morte per omosessualità. Sono la 31enne Zahra Sedughi e la 24enne Elham Chubdar. 

Le dimostrazioni in queste ore sono potenti, la gente è coraggiosa come già nel 2009. È difficile prevedere l'esito dei moti attuali. L'intensificarsi del ritmo degli scoppi di collera pubblici fanno pensare che la rete del dissenso sia migliore, più organizzata di quella che portava la gente in piazza solo una volta ogni dieci anni. La figura di Raisi, simile nella durezza a quella di Ahmadinejad, non ha appeal personale, e Khamenei non gode di buona salute. Forse nel nome di Mahsa, donna coraggiosa, si prepara una lunga rivolta per la libertà.

L’Iran brucia: ecco i motivi delle proteste. Inside Over il 23 Settembre 2022.

Sono almeno 31 le vittime per gli scontri accaduti in Iran negli ultimi giorni. Un bilancio reso noto da alcune Ong e di poco superiore a quello fornito dalla tv di Stato iraniana, secondo cui le vittime sono 17. Al di là delle fredde cifre, ciò che appare importante sottolineare è che anche le autorità e i media ufficiali hanno ammesso l’esistenza di manifestazioni di piazza in grado di paralizzare diverse città. Stando ai racconti emersi sui social, si tratterebbe di una delle più violente proteste degli ultimi anni.

Perché stanno protestando in Iran

Tutto è partito dalla morte di una giovane iraniana. Si chiamava Mahsa Amini, aveva 22 anni ed era di origine curda. Alcuni giorni fa, la ragazza è stata arrestata dalla polizia a Teheran in quanto rea di non indossare il velo in testa, obbligatorio in Iran per tutte le donne. Dopo essere stata portata dagli agenti in una delle centrali di polizia della capitale, Mahsa è morta in circostanze ancora adesso misteriose.

Non è dato sapere al momento cosa realmente sia accaduto all’interno dell’edificio dove la giovane era trattenuta in custodia. Si sa per certo soltanto che la sua morte ha acceso una miccia che in Iran era pronta a esplodere da tempo. Dopo la diffusione della notizia del decesso, a Teheran diversi cittadini sono scesi in piazza per protestare. In alcuni casi le donne per strada hanno tolto il velo tradizionale, sfidando i divieti.

In molti, tra chi ha organizzato le prime manifestazioni, è diffusa l’idea che Mahsa sia deceduta a causa di percosse subite nella centrale di polizia. Ad alimentare i sospetti il fatto che il corpo della ragazza non è stato mostrato al padre, nemmeno nel giorno dei funerali: “Non gli importa quanto abbia implorato, non mi hanno permesso di vedere mia figlia”, ha dichiarato il genitore a Bbc Persia, lì dove durante l’intervista ha anche riferito, tra le altre cose, di aver notato lividi nell’unica parte scoperta del corpo della figlia, ossia i piedi.

La autorità dal canto loro si sono difese smentendo ogni possibilità di aggressione fisica contro la giovane. Nelle ultime ore la polizia ha mostrato delle immagini di videosorveglianza della centrale dove Mahsa è stata detenuta, in cui si nota la ragazza svenire improvvisamente forse in preda a un collasso. Un modo per ribadire come la morte sia sopraggiunta per cause naturali. Sulla tv di Stato Irib2, il neurochirurgo Masoud Shirvani ha reso noto che la ragazza a otto anni ha subito un intervento per un tumore al cervello. Una circostanza che, di per sé, secondo il medico non avrebbe potuto provocare alcun collasso ma le cui cure collaterali, in caso di forte stress, sarebbero comunque in grado di causare gravi conseguenze nella salute della giovane.

Dove stanno avvenendo le proteste in Iran

L’impressione è però che le proteste non riguardino soltanto la morte di Mahsa. Le piazze cioè non si sono riempite soltanto per chiedere giustizia per la ragazza deceduta, ma anche per denunciare i motivi per cui la giovane è stata arrestata. In poche parole Mahsa, a prescindere dalle vere cause della sua morte, per i manifestanti in quella centrale di polizia non sarebbe nemmeno dovuta entrare. Questo spiega perché molte donne hanno pubblicamente bruciato il velo e perché la protesta si è diffusa a macchia d’olio in buona parte del Paese.

A Teheran, così come a Mashad, Kish e a Tabriz, sono state diverse nelle ultime ore le manifestazioni segnalate. In piazza non sono scese soltanto donne. La morte della giovane ha innescato un effetto domino, soffiando sull’insofferenza latente in seno a molti strati della società iraniana. Negli ultimi anni l’effetto combinato delle sanzioni e della crisi internazionale hanno contribuito a piegare ulteriormente l’economia del Paese. Il ceto medio ne sta pagando gravemente le conseguenze, dovendo subire il rincaro dei generi di prima necessità e un peggioramento delle condizioni di vita. In molti casi ai giovani iraniani manca anche una certa prospettiva futura.

In un contesto del genere, basta una miccia per far deflagrare la situazione. E così è stato. Nelle città si protesta e si muore, sia da un lato che dall’altro della barricata: tra le vittime infatti non ci sono soltanto manifestanti ma anche poliziotti. Segno di una violenza che ora a Teheran si rischia di far fatica a controllare.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

L’indignazione che non c’è. Ma perché le femministe si disinteressano della lotta delle donne iraniane? Carlo Panella su L'Inkiesta il 21 Settembre 2022

Migliaia di persone contestano da giorni il regime di Ali Khamenei per condannare l’omicidio della ventiduenne Masha Amini, uccisa dalla polizia di Teheran perché i suoi capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Le cose purtroppo non cambieranno perché il resto del mondo non se ne occupa

Nel disinteresse totale del movimento femminista e progressista internazionale da quattro giorni molte piazze iraniane si sono riempite di manifestanti che protestano contro l’uccisione in carcere a Teheran da parte della “polizia morale” della ventiduenne Masha Amini. La sua colpa? I capelli non erano sufficientemente coperti dal velo. Tutto qui. 

La polizia iraniana ha reagito alle manifestazioni sparando, usando gli idranti e ha lasciato sul selciato almeno cinque morti. Il 13 settembre scorso Masha, una giovane curda in vacanza a Teheran, era stata duramente malmenata e gettata violentemente su un furgone della polizia del costume con l’accusa di violare le norme sullo Hijab emanate dalla Commissione per la Promozione della Virtù e la repressione del Vizio. 

Gli agenti hanno detto ai parenti della ragazza che protestavano che Masha sarebbe stata sottoposta a una «sessione di rieducazione». Gli esiti della “rieducazione” sono stati fatali: dopo tre giorni, Masha è stata dichiarata morta in ospedale. Immediate le manifestazioni di protesta davanti all’università di Teheran, a Sanandaj e in tutto il Kurdistan, regione nella quale le aspirazioni autonomiste e indipendentiste non si sono mai sopite, nonostante una repressione che dal 1979 in poi, dalla instaurazione della Repubblica Islamica di Khomeini, ha fatto decine di migliaia di morti. 

Nei cortei, moltissime donne si sono levate il velo dalla testa e molti, come già durante le grandi manifestazioni del 2020, hanno gridato lo slogan: «Morte al dittatore!» indirizzato alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei. Fortissima anche la mobilitazione in rete, con non meno di 1.600.000 visualizzazioni dello hashtag #MashaAmini.

È questa l’ennesima protesta di massa che vede le piazze iraniane riempirsi con una grande mobilitazione, soprattutto giovanile. Enorme fu l’Onda Verde del 2009 e altrettanto grandi le manifestazioni del 2020. Ambedue con centinaia di morti falciati dalle forze dell’ordine. Ma oggi la mobilitazione si presenta con una novità precisa: la protesta contro l’umiliazione della donna imposta dal regime con una stretta decisa dall’ultra conservatore presidente Ibrahim Raisi, eletto un anno fa. 

Stretta di cui si fa interprete appunto la “polizia morale”, composta soprattutto da donne, che ha imposto strumenti di verifica come il riconoscimento facciale e che setaccia autobus, treni e strade alla ricerca di “ribelli” non abbigliate secondo rigidissimi canoni islamici.

Purtroppo, queste ripetute e massicce proteste popolari in Iran non hanno mai uno sbocco politico e non preoccupano eccessivamente il regime che reagisce sempre con enorme violenza repressiva. Non esiste infatti né dentro il paese né all’estero una forza politica di opposizione che riesca a capitalizzare sul piano politico la grande forza espressa. Men che meno esiste dentro il regime – se non nella fantasia di certi media e analisti occidentali – una componente riformista in grado di contrastare o quantomeno condizionare la retriva forza conservatrice della dirigenza islamica degli ayatollah e ancor più il potentissimo blocco ultra nazionalista e ancora più retrivo dei Pasdaran.

Inoltre ha un suo grande peso l’assoluta indifferenza nei confronti della repressione, in particolare nei confronti delle donne iraniane, delle opinioni pubbliche internazionali, in particolare, lo ripetiamo, da parte dei movimenti femministi e progressisti che sanno vedere oppressione e ingiustizie solo in Occidente.

Le donne iraniane che protestano coraggiosamente in piazza sono sole.

Caos Iran: proteste anti-velo e piazze fondamentaliste. Cortei contrapposti. Oltre 50 le vittime. Gli Usa: sanzioni più lievi sul web per favorire i manifestanti. Chiara Clausi il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'esplosione delle proteste in Iran in seguito alla morte durante la custodia della polizia di una donna curda di 22 anni, Mahsa Amini, detenuta per presunta violazione delle regole dell'hijab (il velo) è la sfida più seria che la leadership iraniana ha dovuto affrontare negli ultimi anni. Almeno 30 persone sono state uccise nella rivolta. Ma la rabbia degli iraniani è più generale, per la situazione complessiva del Paese. La corruzione è sistemica tra l'élite politica, la povertà è crescente con un'inflazione superiore al 50%, i colloqui sul nucleare sono in una fase di stallo e c'è una totale mancanza di libertà sociale e politica. La popolazione iraniana si sente senza speranza. Secondo l'Istituto di ricerca dell'Organizzazione per la sicurezza sociale iraniana, almeno 25 milioni di iraniani vivevano al di sotto della soglia di povertà nel giugno 2021. Adesso quel numero è anche più alto.

Ma queste non sono le prime proteste nella storia della Repubblica islamica dell'Iran. Molti osservatori però ritengono che ci sia qualcosa di diverso questa volta. Lo slogan principale dei manifestanti è «Donna, vita, libertà», un appello all'uguaglianza e una presa di posizione contro il fondamentalismo religioso. Le proteste in corso vengono ora segnalate sia nelle aree della classe media che della classe operaia. Il cosiddetto Movimento Verde del 2009 aveva visto la protesta della classe media contro presunte frodi elettorali. Mentre quelle nel 2017 e nel 2019 erano confinate nelle aree più povere.

Il gioco però ora si fa duro. Ieri si sono svolte anche manifestazioni organizzate dallo stato in diverse città per contrastare i disordini antigovernativi. Ciò potrebbe preludere al tipo di repressione già avvenuto in passato. I manifestanti hanno bollato gli anti-governativi come «soldati israeliani», hanno anche gridato «Morte all'America» e «Morte a Israele», slogan comuni usati dai dirigenti religiosi del paese per cercare di suscitare sostegno alle autorità. «I trasgressori del Corano devono essere giustiziati», cantava la folla. E pure l'esercito ha minacciato che avrebbe «affrontato i vari complotti dei nemici al fine di garantire sicurezza e pace alle persone che vengono ingiustamente aggredite». Il ministro dell'intelligence Mahmoud Alavi invece ha avvertito: il loro «sogno di sconfiggere le grandi conquiste della rivoluzione non si realizzerà mai».

Le proteste anti-governative sono state forti nella provincia natale di Mahsa, il Kurdistan e nelle aree vicine. La televisione di stato ha detto che due depositi di armi, esplosivi e apparecchiature per le comunicazioni sono stati sequestrati e due persone sono state arrestate nell'Iran nordoccidentale. Per le Ong il bilancio è di almeno 50 morti, con arresti di studenti e attivisti nelle loro case. Anche la giornalista Nilufar Hamedi è stata incarcerata. Era stata una delle prime a dare notizia di quanto accaduto a Mahsa. Un chiaro tentativo di frenare la rabbia oramai dilagante mentre gli Stati Uniti hanno ampliato la gamma di servizi Internet per gli iraniani, in deroga alle sanzioni, per aiutare la popolazione mentre le autorità iraniane stanno rallentando o oscurando la connessione alla Rete.

"Rieducate alla sharia". Così vengono punite le iraniane accusate di "mal velo". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

A Roma le testimonianze delle donne scappate dal regime degli ayatollah: "Ti portano in commissariato e ti rieducano, il velo è un'imposizione, basta un capello fuori posto per rischiare la vita"

Non si può banalizzare né decontestualizzare. Non è uno slogan né un accessorio alla moda. Ci vuole cautela e l’Occidente non può usarlo come simbolo di libertà. Ce lo insegnano Masha Amini e le tante iraniane che in questi giorni stanno protestando nel suo nome e per la loro autodeterminazione. Chi il velo lo conosce e lo subisce, lo brucia. È quello che sta accadendo nelle piazze della Repubblica islamica dell'Iran: a Teheran, Mashhad, Tabriz, Rasht, Isfahan e Kish. Centinaia di hijab dati alle fiamme. La 22enne curda è stata percossa dalla polizia morale lo scorso venerdì. La sua colpa è una ciocca di capelli sfuggita dall’hijab e la sua storia è uno spartiacque.

"Il caso di Masha non è l’unico: centinaia di donne sono state percosse e perseguitate dal regime degli ayatollah", ci spiega Davood Karimi, presidente dell’Associazione dei rifugiati politici iraniani residenti in Italia. Lo incrociamo nel gruppo di manifestanti che oggi si è dato appuntamento davanti all’ambasciata iraniana a Roma. "Venite, venite, siamo tanti non abbiate paura", scandiscono i manifestanti in persiano. È lo stesso canto che si leva nelle piazze iraniane, e ribadisce la vicinanza ideale con chi sta rischiando la vita per difendere i propri diritti.

"Masha è una scintilla di libertà, il suo omicidio ha risvegliato le masse, le donne come lei sono in prima linea, vogliono rovesciare il presidente Raisi, vogliono la democrazia", continua il presidente. Anche a Roma in prima linea ci sono le donne. C’è Ghazal, 37 anni, passati per lo più in Italia. Lei e le altre oggi sono qui a manifestare a capo scoperto, senza correre il rischio di essere prelevate, picchiate e "rieducate". È per questo che si definiscono "fortunate e privilegiate". "Il velo dovrebbe essere una scelta, e invece in Iran le donne hanno paura ad uscire di casa. Non sai mai cosa ti può succedere, basta un capello fuori posto per rischiare la vita", racconta.

Sua cugina avrebbe potuto fare la stessa fine di Masha. È stata accusata anche lei di "mal velo", ossia di aver indossato pubblicamente l’hijab in maniera difforme dalla sharia. "In Iran è considerato un crimine e c’è una polizia morale creata appositamente per perseguire chi lo commette. Ti sorprendono in mezzo alla strada, ti caricano su una camionetta, vieni percossa con fucili e manganelli e portata in commissariato". È così che ti rimettono in riga quando sbagli, e per assicurarsi che tu non lo faccia più ti rinfrescano la memoria. "Ti sottopongono ad una specie di rieducazione, leggendoti i versetti coranici che prescrivono il velo e spiegandoti come lo devi indossare correttamente", conclude la 37enne.

"Le ragazze iraniane che vengono in Italia del velo non ne vogliono sapere, e sono convinta che la maggior parte di quelle che lo indossa lo fa per le pressioni della famiglia". Ad assicurarcelo è Nazli, 28 anni. Nessun hijab, sulla sua testa c’è il cappellino di una nota squadra di baseball americana. È una millenials e ha uno smartphone in mano. "Per Masha c’è stata una buona mobilitazione anche in Italia, sui social tanti utenti hanno condiviso e denunciato l’accaduto, ma che fine hanno gli influencer?", si domanda. "È mancato il supporto delle persone influenti. Le donne che hanno un seguito sui social e che si sono esposte sono state poche. Non c’è stata quella adesione che abbiamo visto con il caso Floyd e il Black lives matter". Come mai? "È come se l’argomento non avesse appeal, sembra che il velo sia qualcosa di sacro e intoccabile e che se non sei musulmano non puoi permetterti di giudicarlo", risponde.

Più in là, c’è lo scultore iraniano Reza Olia. È pronto a scommettere che le proteste non si fermeranno. "Stavolta gli iraniani fanno sul serio, ogni giorno si svegliano e escono senza pensare alle conseguenze, senza pensare se la sera torneranno a casa o al cimitero”, dice. Finora i morti negli scontri di piazza, secondo le Ong, sarebbero più di cento: "Certo, se l’Europa prendesse una posizione netta, forse si eviterebbe altro spargimento di sangue".

Iran, nuovo giorno di sangue. Il regime spara: morti 4 bimbi. Negli scontri uccise almeno 50 persone, 739 arresti. Il governo accusa l'Occidente: "Vogliono distruggerci". Chiara Clausi il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'Iran brucia ancora, e ai falò dei chador si sono aggiunti gli incendi alle auto delle forze di sicurezza. Le proteste per la morte di Mahsa Amini, arrestata a Teheran dalla polizia morale, e poi morta in un ospedale in circostanze ancora tutte da chiarire, continuano ad allargarsi. Gli agenti hanno picchiato la testa di Mahsa con un manganello e l'hanno sbattuta contro uno dei loro veicoli ma la polizia ha affermato che non ci sono prove di alcun maltrattamento e che ha sofferto di «insufficienza cardiaca improvvisa». Il ministro dell'Interno Ahmad Vahidi ha insistito sul fatto che Mahsa non è stata picchiata. «Ci sono stati rapporti dagli organi di controllo, sono stati intervistati testimoni, sono stati esaminati i video, sono state ottenute opinioni forensi ed è stato riscontrato che non ci sono state percosse», ha concluso.

Finora le forze di sicurezza hanno arrestato «739 rivoltosi, tra cui 60 donne», nella sola provincia di Guilan, durante le proteste dell'ultima settimana. Negli scontri sono morte almeno 50 persone, tra i quali almeno quattro bambini, il regime invece parla di 35 morti e centinaia di feriti e arresti. E mentre il presidente ultraconservatore iraniano, Ebrahim Raisi, dice che la morte di Mahsa sarà oggetto di indagine, ha dichiarato pure che le manifestazioni e i disordini in Iran dovrebbero essere affrontati «con durezza». Raisi ha definito i manifestanti «rivoltosi che disturbano l'ordine e la sicurezza nel Paese» parlando al telefono con Mohammadrasul Doustbeigi, membro dei Pasdaran e della milizia che difende i luoghi santi sciiti, che combatte in Iraq e in Siria. Mentre Vahidi, da parte sua ha detto che i manifestanti «seguono gli Stati Uniti e i Paesi europei e i controrivoluzionari con il fine di creare disordine e distruzione nel Paese», aggiungendo che il bando a Internet, a Whatsapp e Instagram continuerà fino alla fine delle proteste.

I video che circolano sui social media mostrano violenti disordini in dozzine di città in tutto il paese, e in alcuni le forze di sicurezza sparano quelli che sembrano essere proiettili veri contro i manifestanti nelle città nord-occidentali di Piranshahr, Mahabad e Urmia. Lo conferma anche Amnesty International che aggiunge che le forze governative hanno sparato e ucciso 19 persone, tra cui almeno quattro bambini. Ma non si possono ancora verificare in modo indipendente i dati. Le forze governative hanno anche lanciato un giro di vite sui media indipendenti e sugli attivisti. L'organismo di controllo dei media con sede negli Stati Uniti, il comitato per la protezione dei giornalisti, afferma che 11 giornalisti sono stati incarcerati da lunedì.

In un tweet il Segretario di Stato Usa Antony Blinken si è impegnato «a garantire che il popolo iraniano non sia tenuto isolato e all'oscuro» ed Elon Musk ha risposto subito dicendo di aver attivato il servizio satellitare Starlink per aiutare gli iraniani ad accedere a Internet. Su Instagram interviene anche il mondo dello spettacolo e della cultura a favore della libertà delle iraniane, come la cantante Patty Smith. «L'equinozio d'autunno, tempo di cambiamento, tempo di azione. In Iran le donne si tagliano i capelli, bruciano i loro hijab, rischiano la vita. Solo la loro sorella Mahsa Amini 22 anni, vibrante, innocente, non vedrà cadere le foglie, non sperimenterà mai un'altra stagione. A 22 anni il suo sangue scorre nei cuori di coloro che chiedono giustizia, il suo viso è il dolce simbolo dell'oppressione delle nostre sorelle iraniane».

Omaggio alle donne coraggiose: Saman, le iraniane, e noi? Dacia Maraini su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.   

Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che «tanto non cambia niente». Cambia invece, se veramente lo vogliamo 

Se si volesse esemplificare cosa sia il fanatismo, basterebbe raccontare la storia del padre di Saman Abbas, la ragazza pakistana di seconda generazione che è stata strangolata, poi fatta a pezzi e quindi gettata nel fiume. La madre, intercettata al telefono avrebbe detto che «anche noi siamo morti quel giorno». Morti sì, ma avendo compiuto un dovere sociale e religioso, il piu disumano e orrendo che si possa immaginare. E non si tratta di un caso di egoismo famigliare , ma di una pratica che viene legittimata da una tirannica religione di Stato.

Si possono capire le inquietudini, i malumori di chi ha una identità debole e sente il bisogno di confermarla con la violenza. La brutalità infatti nasce sempre dalla paura di perdere qualcosa dell’idea che ci si fa di se stessi. Anche i femminicidi vengono perpetrati da uomini convinti che la loro identità virile consista nel possesso della donna che hanno deciso essere «propria». L’amore è l’ultima delle preoccupazioni. Si tratta di paure ataviche e del terrore tutto nuovo di perdere i privilegi che fanno parte di una arcaica concezione di superiorità maschile.

La povera Saman voleva semplicemente vivere come le sue coetanee, libera di scegliersi il fidanzato, libera di muoversi, libera di vestirsi a modo suo. Ma queste libertà sono considerate peccaminose e illegittime da una religione che pur nascendo dall’amore , col passare del tempo si è trasformata in intolleranza, potere oppressivo e tirannia. Noi ne sappiamo qualcosa. Ci sono voluti secoli per uscire dal dispotismo di una Chiesa totalitaria che aveva tradito le parole sagge e dolcissime del Cristo per torturare e mandare al rogo coloro che considerava nemici di Dio (guarda caso quasi tutte donne), in combutta col diavolo e quindi pericolose per la collettività.

Sembra che il padre di Saman, il pio Shabbar, che aveva organizzato per ragioni famigliari il matrimonio della figlia col cugino, si sia inalberato di fronte alla pretesa della figlia di scegliersi l’uomo da amare. Una offesa alla autorità del padre, e all’onore della famiglia. E dopo essersi messo d’accordo con il fratello, i figli e i nipoti (un’altra scelta significativa: Le donne devono partecipare agli orrori di una tradizionale patriarcale, ma sempre in posizione passiva. Non possono né agire né impedire di agire). Quindi porta in campagna la ragazza con la scusa di una passeggiata, si fa raggiungere dai parenti maschi, che terranno ferma la cugina mentre lo zio la strozzerà con una corda, poi la faranno a pezzi , la chiuderanno in un sacco e la getteranno nell’acqua che scorre.

«L’ho fatto per la mia dignità e il mio onore», ha sentenziato il pakistano Shabbar. E qui si capisce la mostruosità del concetto di onore. Il nostro delitto d’onore non era la stessa cosa? Se mia moglie mi tradisce, ho il diritto di ucciderla per difendere il mio onore. Ma chi stabilisce l’onore di un uomo? Dovrebbe essere l’etica laica. Invece in questi casi l’onore viene deciso dall’alto, dai sacerdoti barbuti che rappresentano in modo meschino e violento la volontà di un Dio da loro rappresentato come intollerante e crudele. Al Dio si può disobbedire? Chiaro che no. Per questo le religioni che si identificano con lo Stato sono pericolose.

È quello che sta succedendo in Iran, dove la polizia morale ha ucciso una ragazza perché portava male il velo, ovvero non si copriva interamente e quindi con spirito religioso, i capelli. Naturalmente oggi la polizia nega. Dicono che è morta di infarto. Ma da dove vengono quelle ecchimosi, quei segni di calci, e pugni che le coprono il corpo? Le donne iraniane, pur sotto minaccia di prigione e di frustate, sono scese in piazza per protestare. Con un coraggio ammirevole, sapendo quanto rischiano. Ma il coraggio vero lo si vede in queste situazioni: quando si rischia e si protesta lo stesso per difendere le proprie idee, i propri valori.

Mi vengono in mente le difese del velo che ho sentito da tante parti anche occidentali: sono le donne che lo desiderano, è una espressione religiosa, una scelta di pudore. Non vi dicono niente queste ragazze che si tagliano i capelli in strada gettando via il velo, mostrando quanto sia isterica e repressiva la pretesa di fare sparire il corpo femminile sotto ampie vesti scure per non destare il desiderio maschile?.

Queste donne oggi ci stanno dando un esempio di coraggio straordinario e di fede nella libertà. Dovremmo imparare da loro anziché cedere alla tentazione di una sorda e cinica passività, con la scusa che «tanto non cambia niente». Cambia invece, se veramente lo vogliamo, anche se si rischia qualcosa. Tutta la mia solidarietà alle ragazze iraniane e ai giudici che hanno condannato con parole severe l’azione di un padre che ha voluto uccidere la figlia per difendere il suo vile e antistorico onore.

Masha Amini e l’ultimo abbaglio delle femministe. Alberto Giannoni il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Come si può fare finta di niente? E che significato ha l’indifferenza? La protesta delle donne e dei giovani sta infiammando l’Iran, un Paese finora oppresso da un regime teocratico islamista, totalitario e potenzialmente genocida (le minacce rivolte a Israele e agli ebrei non si fermano). Le manifestazioni anti-regime sono partite, anzi ri-partite, dopo la tragica fine di Masha Amini, la 22enne arrestata dalla polizia di Teheran (perché non portava il velo in modo «appropriato») e morta in ospedale dov’era arrivata in coma per le percosse subite in caserma. Da Teheran, le proteste si stanno allargando ad altre città dell’Iran, di altri Paesi, compresa Milano, dove martedì un centinaio di persone ha manifestato in piazza Cordusio. Vestite di nero, hanno acceso dei lumini dedicati alla giovane uccisa per una ciocca di capelli fuori dal velo. E molte donne, a Cordusio, se li sono tagliati i capelli, in segno di ribellione all’oppressione integralista (e maschilista) hanno bruciato il velo (hijab) e gridato «no alla dittatura» e «no all’hijab obbligatorio». Di fronte a tutto questo come è possibile restare indifferenti? Come possono restare indifferenti, soprattutto, quelle donne che – a parole – sono impegnate nella difesa dei «diritti». Le femministe, le progressiste, quelle che scioperano l’8 marzo, le consigliere comunali e regionali del Pd. Le donne della sinistra italiana mobilitate giorno e notte per contrastare i propositi (immaginari) della «destra», non hanno un minuto di tempo e un’oncia di energia per ascoltare l’appello delle donne iraniane? E Sumaya Abdel Qader, già dirigente dei centri islamici, poi consigliera del Pd, ora ricercatrice alla Cattolica. Volto dell’islam italiano, docente di un’università italiana, Abdel Qader si è battuta per difendere il diritto di portare il velo e non ha niente da dire sul diritto delle donne di toglierselo, quel velo? Pare che a sinistra nessuno abbia capito. Di certo, nessuno muove un dito.

(ANSA il 25 settembre 2022) - Hadith Najafi, la ragazza simbolo delle proteste in Iran dopo l'uccisione di Mahsa Amini, è stata a sua volta uccisa a Karaj. Lo riferiscono vari social e in particolare la giornalista iraniana Masih Alinejad sul suo profilo Twitter: "Sua sorella mi ha detto che aveva solo 20 anni ed è stata uccisa da 6 proiettili nella città di Karaj". Era diventato virale il video nel quale la bionda Hadith, senza velo, si legava i capelli prima di una manifestazione.

L'Occidente che non sa più se indignarsi. Vittorio Macioce il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale 

Alessia Piperno è l'eccezione. Non è possibile non vedere. «Non riesco a andarmene da qui, ora più che mai. Sono parte di tutto questo». Solo che l'Iran sembra lontana. La voce rivoluzionaria, di donna in donna, arriva e porta un canto di morte e libertà, ma non si alza fino a scuotere il mondo. L'indignazione, parola abusata, è soffocata. È come se in questa storia mancasse il nemico. Non c'è la voglia di guardare in faccia il totalitarismo. Non si mette il nome. C'è perfino chi, da queste parti, annuisce alle parole del Grande Ayatollah. Ali Khamenei parla della morte di Mahsa Amini come di un «triste incidente». Lo fa con la faccia commossa e poi aggiunge che le donne in piazza sono serve di Israele e dell'America. Le proteste sono impure. Khamenei sa che l'alibi funziona, dentro e fuori. Non fidatevi di chi urla dalla parte sbagliata. È questa l'anomalia. Si accusa il maledetto Occidente di sentirsi al centro del mondo. Si dice che la storia non può essere raccontata da Parigi, Londra, Washington o New York. Serve un cambio di prospettiva, di altri punti di vista. È sacrosanto e per fortuna questo accade da tempo. Il mappamondo è rivoluzionato. Tutti i sensi di colpa sono stati messi in campo, senza alibi, senza più recriminazioni. Non c'è più la centralità della vecchia Europa. E va bene così. Seriamente. L'Europa è stanca e marginale. È ai confini del grande gioco. È trascurabile. C'è qualcosa che però non torna. Chi si indigna per i torti dell'Occidente, chi alza i pugni e chiede giustizia, chi giustamente rivendica il diritto di essere se stesso, continua a ragionare con il vecchio mappamondo. Non va oltre l'Occidente. Si batte solo dentro i suoi confini, quello che accade al di là, non tocca, non conta, non brucia la pelle e l'anima. Non c'è il rumore di fondo degli influencer, non ci sono facce di attori che prendono la scena, non c'è il canto di libertà che si diffonde senza sosta per giorni e giorni. C'è quasi l'impressione che quello che sta accadendo a Baghdad non può certo essere ignorato, ma per qualche strano motivo non scalda il cuore. 

La magistratura ha aperto un'inchiesta. Nika Shakarami, la 17enne che cantava senza velo in Iran morta nelle proteste: il corpo trovato dopo 10 giorni. Redazione su Il Riformista il 5 Ottobre 2022 

I video di Nika Shakarami che canta, senza velo, in Iran, sono diventati virali, hanno fatto il giro dei media di tutto il mondo. Lei aveva 17 anni, è morta durante le proteste che da venti giorni stanno attraversando il Paese, dopo l’esplosione del caso di Masha Amini, 22 anni, arrestata dalla polizia religiosa perché non indossava bene il velo e morta durante la detenzione. La famiglia della 22enne accusa le autorità, le autorità hanno parlato di un tragico malore. E intanto le proteste, esplose dal Kurdistan iraniano ed allargatesi a tutto il Paese, Regione di origine di Amini continuano.

La magistratura iraniana ha aperto un’inchiesta sul caso dell’adolescente Nika Shakarami morta in circostanze ancora da chiarire e ha fatto sapere di aver arrestato otto persone in relazione al caso. Dai video si vede la 17enne con i capelli corti, scuri, interamente vestita tutta di nero, con una t-shirt larga e pantaloni sportivi. Cantava in quel video una canzone d’amore del 1968, epoca precedente alla Rivoluzione Khomeinista. Il brano si chiamava Soltane Ghalbha, Re di cuori. Altra canzone tra le tante che in queste settimane di scontri hanno accompagnato le proteste sfociate in violenze e repressione in Iran.

Il corpo di Nika è stato ritrovato solo dieci giorni dopo la scomparsa, lo scorso 20 settembre a Teheran. Nika Shakarami aveva scritto in un ultimo messaggio a un’amica di essere inseguita dalle forze di sicurezza, secondo quanto ha raccontato la zia Atash a Bbc Persian. Il cadavere è stato ritrovato in un obitorio di un centro di detenzione della capitale. “Quando siamo andati a identificarla, non ci hanno permesso di vedere il suo corpo, solo il suo viso per alcuni secondi”, ha raccontato la donna, nota pittrice, che sarebbe stata arrestata.

La parente aveva detto che delle lesioni profonde attraversavano il volto, il naso sformato e il cranio deformato della 17enne. L’agenzia di Stato Tasnim ha dichiarato che la salma era stata ritrovata in strada. Dopo il riconoscimento la famiglia ha trasferito il corpo nella città natale del padre, Khorramabad, nella parte occidentale del Paese. Era il giorno del compleanno dell’adolescente, il 2 ottobre. Le forze di sicurezza avevano intimato ai familiari di non tenere i funerali: per evitare che la tomba diventasse un luogo di pellegrinaggio per i manifestanti.

La famiglia ha quindi accusato le forze di sicurezza di aver “rubato” il cadavere per seppellirlo a 40 chilometri da dove era stata prevista la sepoltura. Centinaia di persone si sono comunque radunate nel cimitero di Khorramabad e hanno cantato slogan contro il governo. A confermare l’apertura dell’inchiesta sul caso il procuratore di Teheran Ali Salehi, come ha riportato l’agenzia di stampa Irna.

Nika Shakarami, uccisa nelle proteste in Iran, e la sua ultima canzone. Viviana Mazza  il 4 Ottobre 2022 su Il Corriere della Sera 

La ragazza è stata uccisa, il suo corpo «rubato». La musica come arma per sfidare il regime. 

Nika Shakarami è un’adolescente che si diverte con gli amici: capelli corti, senza velo, tutta vestita di nero in pantaloni sportivi e ampia t-shirt, nel video diffuso sui social dopo la sua morte, prende il microfono e, ridendo, canta una vecchia canzone d’amore del 1968, che tutti gli iraniani sanno a memoria, tratta dal film Soltane Ghalbha (Re di cuori). «Una parte del mio cuore mi dice di andare, andare. L’altra parte mi dice di restare, restare». Nika è scomparsa il 20 settembre, durante le proteste contro il regime a Teheran. Il suo corpo è stato identificato dieci giorni dopo dalla zia, nell’obitorio di un centro di detenzione, ma l’agenzia di Stato Tasnim dichiara che è stato ritrovato per strada. Il 2 ottobre, il giorno in cui avrebbe dovuto celebrare il suo diciassettesimo compleanno, Nika è stata portata senza vita a Khorramabad, nell’Iran occidentale, con l’ordine alla famiglia di seppellirla in silenzio, senza funerale. Ma poi gli agenti hanno «rubato» il cadavere per seppellirla in un villaggio più piccolo, ed evitare che la sua tomba diventasse un luogo di pellegrinaggio.

La nostalgia come protesta

Nika cantava per divertimento, non per protesta. Ma anche il divertimento può essere una forma di protesta. Nel film Hit the Road, recente debutto di Panah Panahi, figlio del maestro Jafar Panahi oggi in prigione, una famiglia in auto ascolta ad alto volume vecchie canzoni dell’Iran pre-rivoluzionario. «La società attuale è contraria a questo tipo di musica, quindi è importante ascoltarla — ci disse il giovane Panahi — e le famiglie iraniane, quando vanno in vacanza, lo fanno sempre».

Canzoni vecchie e nuove

Le proteste di questo autunno iraniano, piccole e decentrate ma imperterrite, giorno e notte, da oltre due settimane, hanno canzoni nuove come colonna sonora: più di tutte Per... di Shervin Hajipour, che elenca i motivi per cui il popolo combatte («Per poter ballare in strada, Per il timore nell’attimo di un bacio, Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle..»).

Shervin Hajipour 

L’autore è stato arrestato 24 ore dopo averla condivisa e ieri notte con un post su Instagram ha preso le distanze dall’uso «improprio» fatto della sua canzone da non meglio precisate persone residenti all’estero; ma le ragazze ora la cantano a scuola. «Un amico in Iran mi dice che in auto ce l’hanno tutti in loop a palla, è una gara a chi la mette più ad alto volume», racconta Saeed, che con Leila e Pejman è uno dei tre membri di Bowland, band iraniana di Firenze. Ma ci sono anche le vecchie canzoni di protesta, come quella scelta dai Bowland per accompagnare un loro video con le immagini delle manifestazioni. «Assomiglia a Bella Ciao, parla di partigiani e di rivolta contro la dittatura. Si chiama Sar oomad zemestoon (l’inverno è finito)». Fu cantata nelle strade durante la rivoluzione del 1979 e poi durante il Movimento verde nel 2009. «È finito l’inverno, la primavera è in fiore», dice il testo. Ma l’inverno non è mai finito.

I Bowland 

I Bowland hanno sempre evitato di parlare di politica, per avere meno problemi; ora per la prima volta si espongono con la loro musica «per dare voce a chi sta combattendo in Iran», spiega Leila. Inclusi i ragazzi, femmine e maschi, dell’età di Nika. «Le proteste nelle scuole sono una cosa che non si era mai vista — nota Pejman — Sono veramente coraggiosi». «Fanno ciò che avremmo voluto fare noi ma non avevamo le palle», aggiunge Saeed. «È vero che è stata la morte di Mahsa Amini a scatenare le proteste ma ci sono tantissimi motivi, l'inflazione, i problemi economici, le sanzioni, una situazione tesa da anni, che alla fine è esplosa, in una protesta trasversale». 

Riscrivere il passato

Un’altra vecchia melodia ritornata su Instagram èShab Navard (Chi cammina nella notte) di Mohammad-Reza Shajarian (inviso al regime per aver appoggiato il Movimento verde): parla di una «ragazza che gronda sangue», come Mahsa Amini.

Samin and Behin Bolouri, due sorelle di Rasht, nel nord dell’Iran, hanno riadattato le parole di «Bella Ciao» 

E poi c’è Bella Ciao: riscritta da due sorelle di Rasht, descrive il grano che cresce e ha bisogno di acqua per resistere. Alla popolarità del canto della Resistenza italiana nel Paese potrebbe aver contribuito anche il film There is no Evil di Mohammad Rasoulof (Orso d’Oro a Berlino nel 2020, anche lui arrestato), in cui un soldato rifiuta di giustiziare un condannato a morte e fugge con l’amata sulle note di Bella Ciao. Agli iraniani basta la musica dei clacson per protestare, racconta ancora Saaed dei Bowland: «Mi dicono che ogni tanto la gente va in macchina a creare traffico e, quando arrivano i poliziotti e vedono le macchine suonare i clacson per protesta, staccano la targa (quindi poi non puoi più girare con l’auto, devi andare dalle autorità, e son problemi). Dicono che, quando questi poliziotti arrivavano in gruppo da una parte della strada, allora la gente smetteva di suonare i clacson, poi iniziavano tutti molto più in là a suonarli. E quando gli agenti andavano di là, i clacson ripartivano di qua».

Chiara Clausi per “il Giornale” il 4 ottobre 2022.

Le università iraniane sono in rivolta. Ieri sono continuate le proteste, come avviene ormai da quindici giorni, per Mahsa Amini, la 22enne curda morta il 16 settembre dopo essere stata arrestata dalla polizia morale perché non indossava il velo in modo corretto.

Si sono tenute negli atenei di Shiraz e Birjand oltre che in alcune università di Teheran, dove gli studenti hanno anche chiesto il rilascio di alcuni colleghi arrestati nei giorni scorsi nell'Università Sharif, sempre nella capitale. La situazione è così tesa che è dovuto intervenire il leader supremo iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei.

Ha accusato gli Stati Uniti e Israele per le proteste anti-governative che stanno dilagando nel Paese. Sono i suoi primi commenti pubblici sui disordini. «Siamo inorriditi e allarmati dalla repressione delle proteste in Iran», ha intanto ribadito la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre. Khamenei ha affermato che le «rivolte» erano state «costruite» dagli acerrimi nemici dell'Iran e dai loro alleati. «Se non ci fosse stato alcun problema con la morte della giovane donna, avrebbero usato un altro pretesto per fomentare disordini e rivolte in questo momento», ha spiegato. Ha anche invitato le forze di sicurezza ad essere pronte ad affrontare ulteriori disordini.

Queste proteste sono la più grande sfida al governo di Khamenei da un decennio. Sono state le donne a guidare le manifestazioni iniziate dopo il funerale di Mahsa. Hanno sventolato in aria il velo o gli hanno dato fuoco al canto di «Donna, vita, libertà» e «Morte al dittatore», un riferimento chiaro a Khamenei. «Dico che queste rivolte e l'insicurezza sono state progettate dall'America e dal falso regime sionista occupante Israele, così come dai loro agenti pagati, con l'aiuto di alcuni iraniani traditori all'estero» ha sottolineato il leader supremo. Alla cerimonia di consegna dei diplomi della polizia e dei cadetti delle forze armate Khamenei ha affermato che la morte di Mahsa «ci ha spezzato il cuore».

«Ma ciò che non è normale è che alcune persone, senza prove o indagini, hanno reso pericolose le strade, bruciato il Corano, tolto l'hijab e dato fuoco a moschee e automobili», ha aggiunto. L'ayatollah ha pure affermato che le potenze straniere avevano pianificato queste «rivolte» perché non potevano tollerare che l'Iran «prendesse forza in tutte le sfere». In risposta, il presidente Usa, Joe Biden, si è detto in una nota «fortemente preoccupato» e ha annunciato che in settimana gli Stati Uniti «imporranno nuove sanzioni contro Teheran».

Iran Human Rights, una ong con sede in Norvegia, ha affermato domenica che almeno 133 persone sono state uccise finora dalle forze di sicurezza. I commenti di Khamenei sono arrivati il giorno dopo che le forze di sicurezza hanno represso violentemente una protesta degli studenti e arrestato decine di giovani nella più prestigiosa università di scienze e ingegneria dell'Iran, la Sharif University of Technology di Teheran. Gli agenti hanno tentato di entrare nel campus, ma gli studenti li hanno respinti e hanno chiuso tutti i cancelli d'ingresso al grido: «Gli studenti preferiscono la morte all'umiliazione».

Poi i ragazzi hanno cercato di scappare attraverso un parcheggio adiacente ma sono stati presi uno ad uno e picchiati, bendati e portati via, un gran numero di persone sono state inseguite da uomini in moto. Gli studenti subito dopo però hanno annunciato che non sarebbero tornati in aula fino a quando tutti i loro compagni non saranno rilasciati. L'università intanto ha affermato di aver spostato le lezioni online, per «la necessità di proteggere gli studenti». Meenna, una studentessa universitaria, ha spiegato: «Stiamo attraversando la peggiore forma di violenza da parte della polizia. Ho visto cadaveri per le strade e non permetteremo che il loro sangue venga sprecato».

Iran, Hadis Najafi, 20 anni, uccisa con sei proiettili mentre manifestava per Mahsa Amini. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.  

Capelli biondi, prima dell’inizio delle proteste se li legava con l’elastico: è stata uccisa sabato sera durante le manifestazioni a Karaj, vicino a Teheran, diventando un simbolo della rivolta

Legarsi i capelli in una coda o uno chignon disordinato: un gesto quotidiano per qualsiasi ragazza. Hadis Najafi era stata ripresa in un video diventato un simbolo: senza velo, si legava i capelli tinti di biondo prima di unirsi alle proteste per Mahsa Amini. La sua famiglia ha diffuso ieri un altro filmato. Quello dei funerali della giovane a Karaj, città a 40 chilometri da Teheran. Nel ritratto circondato di petali rossi e bianchi il suo volto è ora incorniciato dal chador, il velo che il regime è pronto a uccidere pur di difendere.

Aveva vent’anni e «il cuore spezzato per Mahsa», ha detto la sorella di Hadis all’attivista esule in America Masih Alinejad. Sarebbe stata colpita da «sei proiettili al petto, al collo e al cuore». È diventata un’altra Mahsa Amini.

«Donna, vita, libertà»

Najafi è una delle tante ragazze scese in prima linea in queste notti iraniane a gridare «Donna, vita, libertà». Bruciano i veli in città religiose come Mashhad e Qom, li sventolano dalle auto a Teheran. Una giovane si tagliava la coda bionda in piazza Kerman, una ragazza dai lunghi capelli neri danzava e gettava l’hijab nel fuoco a Sari. Un’anziana canuta avanzava zoppicante a Rasht ripetendo «Morte a Khamenei». Anche qualche donna velata e conservatrice ha espresso solidarietà sui social. La sorella di Javad Heidari, 36 anni, ucciso a Qazvin, si tagliava i capelli castani sulla sua tomba coperta di fiori.

Solidarietà

«Le ho viste da vicino in queste notti. La maggior parte di loro è molto giovane: diciassette, vent’anni», dice in un filmato sul suo profilo social il regista iraniano premio Oscar, Asghar Farhadi. «Ho visto indignazione e speranza nei loro volti e nel modo in cui marciavano per le strade. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà e il diritto di scegliere il proprio destino nonostante tutta la brutalità a cui sono soggette». «Anziché rimboccarsi le maniche, legarsi i capelli: sarà così che ricorderemo la determinazione», scrive il regista teatrale Amir Reza Koohestani su Instagram. E la fotografa Newsha Tavakolian ha ripubblicato una sua celebre immagine: la ragazza in chador con guantoni rossi da pugile. Perché storie come quella di Mahsa non sono isolate. L’avvocata Leila Alikarami ricorda la 27enne Zahra Bani Yaghoub che subì la stessa sorte per mano della polizia della moralità, un caso che lei stessa rappresentò 15 anni fa. Nonostante «il cranio fratturato e il sangue sul volto», chiesero alla famiglia di dire che aveva avuto un infarto; ad altri parenti dichiararono che era vittima di un’incidente d’auto.

La repressione

Un video girato a Shiraz illustra bene il prezzo per le donne in prima linea: una giovane in arresto, disarmata, in jeans, giacca a quadri e hijab, è circondata da agenti anti-sommossa. Uno di loro le tiene la mano sul seno, un altro dopo un po’ la tira per le spalle e la scaglia al suolo, facendole sbattere la testa contro il bordo del marciapiedi.

L’appello

Karim Sadjadpour, studioso iraniano-americano del think tank «Carnegie Endowment for International Peace», in passato sostenitore del dialogo con la Repubblica Islamica, scrive sul Washington Post che è presto per dire se queste proteste cambieranno la politica di Teheran o saranno solo un’altra frattura nel sistema, ma ricorda che il velo è molto più che un indumento. «L’hijab obbligatorio è uno dei tre pilastri ideologici rimasti al regime, insieme agli slogan “Morte all’America” e “Morte a Israele”. Khamenei chiaramente crede che qualsiasi compromesso su quei pilastri — incluso il velo — ne accelererà la caduta». Sadjadpour elogia la scelta di Christiane Amanpour di rifiutare di indossarlo nell’intervista rifiutata dal presidente Raisi e chiede ai governi, ai media e alle Ong internazionali di fare altrettanto e di «smettere di legittimare la discriminazione di genere della Repubblica islamica», mentre le ragazze in piazza contestano «i nonni che guidano il Paese da quarant’anni».

Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2022.

Sono 41 secondo le autorità - tra cui civili e agenti delle forze di sicurezza -, mentre sono almeno 54 secondo gli attivisti ma potrebbero essere molti di più i morti nelle proteste per Mahsa Amini, la ragazza finita in coma mentre si trovava sotto custodia della polizia di Teheran perché «mal velata». Le vittime identificate finora dalla Ong «Iran Human Rights», con sede a Oslo, sono localizzate soprattutto del Nord, in province come Mazandaran, Gilan, l'Azerbaigian occidentale, il Kurdistan dov' era nata Amini.

«I cadaveri vengono restituiti alle famiglie dietro promessa di seppellirli in segreto». Ventitrè anni, uno in più di Mahsa Amini, Hananeh Kian sarebbe stata uccisa dalle forze di sicurezza a Nowshahr, 50 mila abitanti nella provincia di Mazandaran, mercoledì sera. «Tornava da un appuntamento dal dentista», ha detto la famiglia al sito Iranwire.

Quella notte ci sono stati scontri tra manifestanti e agenti, auto della polizia date alle fiamme. A Rezvan Shah, dodicimila abitanti nella provincia di Gilan, gli agenti avrebbero sparato e ucciso almeno sei persone, secondo Iran Human Rights: uno di loro si chiamava Yassin Jamalzadeh, aveva due figli. Secondo Amnesty International, tra i morti ci sono 4 minorenni.

Internet e politica Kayhan, il quotidiano vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, definisce «estremisti» i giovani manifestanti. Il presidente Ebrahim Raisi, appena tornato da New York, dichiara che i «nemici» cercano di «creare il caos» con proteste «organizzate». Le autorità confermano di aver bloccato Internet e definiscono «un atto ostile» la decisione degli Stati Uniti di allentare le sanzioni sul web per aiutare gli iraniani ad evadere la censura. Elon Musk ha replicato ad un tweet del segretario di Stato Antony Blinken scrivendo: «Attiviamo Starlink». Il regime intanto usa Telegram per invitare a identificare i partecipanti alle proteste.

Tredici anni dopo Il principale partito riformista, vicino all'ex presidente Mohammad Khatami, ha fatto appello ieri alle autorità di porre fine all'obbligo del velo e alla polizia della moralità. Uno dei leader del Movimento Verde del 2009, Mehdi Karroubi, già presidente del Parlamento iraniano, ha chiesto la stessa cosa a luglio, dopo l'arresto di un'altra ragazza, Sepideh Rashnu, «mal velata» sul bus, picchiata e costretta a «confessare» le sue colpe in tv. Si dibatté dell'abolizione della polizia della moralità anche nel lontano 2009 e poi non venne fatto, ma poco importa ai ragazzi oggi in piazza.

C'è chi canta «Bella ciao» in farsi, come si faceva allora, ma nessuno chiede più riforme. C'è una nuova generazione arrabbiata, che brucia l'hijab e le auto della polizia, e sorprende anche gli attivisti della generazione precedente. I video delle proteste che continuano a emergere (anche se in numero minore e a rilento) mostrano gli agenti sparare sui manifestanti, ma i giovani sono tornati in piazza affrontando proiettili, lacrimogeni e arresti anche a Babol e Amol, nella provincia di Mazandaran, il giorno dopo l'uccisione di decine di manifestanti. Un altro elemento, osserva Mahmood Amiry-Moghaddam di «Iran Human Rights», pare essere il morale basso degli agenti della sicurezza. In alcuni video li si vede mentre decidono di ritirarsi.

A Teheran, nella notte di venerdì, la folla esultava dopo averli respinti. Nonostante ieri fosse il primo giorno dell'anno accademico, diverse università di Teheran hanno annunciato che la prima settimana di lezioni si terrà in remoto. 

Arresti «preventivi» Le autorità cercano di soffocare la protesta con arresti «preventivi», una politica confermata dallo stesso capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei: in carcere sono finite anche Narges Hosseini, una delle «ragazze di via Rivoluzione» (che nel 2018 protestarono contro il velo), e Niloufar Hamedi, la giornalista del quotidiano Shargh che per prima ha scritto di Mahsa Amini. Gli arresti sono centinaia: 739 tra cui 60 donne solo nella provincia di Gilan; in totale almeno 600 curdi, di cui 100 identificati dalla ong «Hengaw». 

È possibile che parte della città di Oshnavieh, 40 mila abitanti soprattutto curdi, al confine con l'Iraq, sia finita nelle mani dei manifestanti dopo la ritirata della polizia, ma sono stati inviati i Guardiani della rivoluzione per riprendere il controllo. Mentre le proteste si estendono a Erbil, nel Kurdistan iracheno, con lo slogan chiave di questi giorni «Donne, vita, libertà», sempre i Pasdaran avvertono di aver colpito con l'artiglieria i «terroristi curdi» al confine.

Uccisa la «ragazza della coda» simbolo delle proteste in Iran. Hasib Omerovic e il caso Primavalle, in procura le foto scattate dai poliziotti indagati. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.  

Il pm Stefano Luciani ha acquisto una serie di immagini fornite dagli stessi agenti finiti sotto inchiesta per il loro intervento nella casa del 36enne sordomuto a Primavalle 

Una serie di foto, scattate dai poliziotti, mostrano come si sarebbero svolti gli attimi cruciali di quanto accaduto tra il momento in cui gli agenti entrano nella casa di Hasib Omerovic per identificarlo e l’attimo in cui il 36enne di etnia rom, sordomuto, precipita dalla finestra la mattina del 25 luglio del 2022. Gli scatti sono stati acquisiti dal pm Stefano Luciani, che ha ricevuto le foto su iniziativa dei poliziotti indagati –alcuni assistiti dall’avvocato Eugenio Pini - con l’accusa di tentato omicidio e falso. Non esistono video dell’intervento. Due le immagini chiave per quanto concerne la ricostruzione temporale di quanto accaduto. In una foto Hasib è seduto su una sedia nel salotto di casa: è disteso, non mostra alcun segno di nervosismo. 

La seconda foto è stata scattata quando Omerovic è riverso sul selciato, il volto coperto di sangue. Lo scatto è stato fatto - per prassi - dai poliziotti accorsi in strada. Tra la prima e la seconda foto intercorrono due minuti. In questo intervallo di tempo non sono stati effettuati altri scatti, come osservano i legali degli indagati. È pertanto in questo spazio temporale che andrebbe ricostruito come si sono articolati i rapporti tra Hasib e gli agenti. Un buco nero che potrà essere colmato attraverso le testimonianze della sorella di Omerovic, Sonita, 30 anni, affetta da un grave ritardo cognitivo, presente in casa durante l’intervento e le deposizioni dei poliziotti. Per adesso questi sono i fatti certi. La mattina del 25 luglio scorso 4 agenti del commissariato di Primavalle si recano in via Gerolamo Aleandro 24. Diverse voci di quartiere, alcune comparse anche su Facebook, accusano un condomino, Omerovic, di aver molestato delle donne. 

Gli agenti – secondo la relazione di servizio – entrano a casa di Omerovic senza problemi. Ad accoglierli, Sonita. I poliziotti, due vestiti in borghese e due in divisa, cercano Omerovic. Stando allo scatto, l’uomo si accomoda su una sedia e vengono abbassate le serrande, come da protocollo. Poi, stando alla relazione degli agenti, si sentono le serrande risollevarsi. Loro, sempre attenendosi alla relazione, corrono in camera di Omerovic. L’uomo è caduto dal primo piano. Per i familiari di Hasib, i poliziotti l’hanno picchiato e gettato di sotto. Secondo la relazione di servizio, il 36enne si è lanciato dalla finestra di sua iniziativa, senza alcuna ragione. C’è una lacuna che i poliziotti dovranno spiegare: perché non hanno portato con loro qualcuno, com’è prassi in questi casi, che li aiutasse nei colloqui con Omerovic, sordomuto.

Iran, Bbc: "La "ragazza con la coda" nel video virale non è Hadith Najafi, morta a Karaj". Gabriella Colarusso su La Repubblica il 26 Settembre 2022.  

L'emittente ha parlato con una donna che dice di essere la protagonista del video e di essere ancora viva: "Combatto per Hadith e Mahsa".

Hadith Najafi, la 23enne morta durante le manifestazioni a Karaj, non sarebbe la ragazza che si lega i capelli in un video diventato virale e diventato un simbolo delle proteste in Iran.

La Bbc in lingua farsi ha parlato con una donna che dice di essere la protagonista del video e di essere ancora viva. In un videomessaggio dice: "Combatto per Hadith e Mahsa".

Nei giorni scorsi, l'immagine di una donna che si lega i capelli e che cammina con determinazione nel mezzo delle proteste è diventata rapidamente virale e molti hanno descritto questa immagine come un simbolo di coraggio e una delle immagini durature delle proteste iraniane.

La donna ha spiegato che il suo scopo nel registrare il video era incoraggiare le ragazze iraniane ad "avere il coraggio di scendere in strada" e non voleva che la falsa notizia della sua morte preoccupasse e spaventasse i manifestanti. La ragazza ha anche inviato alla Bbc persian un video in cui ripete il gesto dei capelli per dimostrare di essere la stessa persona.

Iran, uccisa anche Hadis, "la ragazza con la coda". Simbolo delle proteste contro il velo. L'appello di 100 registi e attori. Teheran contro la tv inglese. Chiara Clausi il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.

Legava i suoi bei capelli biondi con l'elastico e manifestava senza il velo. Hadis Najafi aveva vent'anni ed è stata raggiunta da sei colpi di proiettile, al petto, al viso, al collo. È morta sabato sera, nella città di Karaj, vicino a Teheran, durante le manifestazioni seguite alla morte di Mahsa Amini. Un gesto comune a tante ragazze, fatto ogni giorno, quello di legarsi i capelli, ma che in Iran si può pagare con la vita. La giovane era diventata una delle ragazze simbolo delle proteste: quando affrontava la polizia, era senza velo perché contraria all'hijab obbligatorio e alle leggi discriminatorie della Repubblica islamica. In un video che era circolato sui social, si vedeva chiaramente la giovane legarsi i capelli con l'elastico prima di unirsi ai manifestanti.

La battaglia per le strade continua ancora. Sempre dai social, in particolare quello dell'attivista Masih Alinejad, arrivano notizie di rappresaglie e centinaia di arresti preventivi da parte della polizia morale iraniana, oltre 700, tra loro ovviamente molte donne che sfidano con grande coraggio la repressione. Il pugno duro è stato richiesto dal presidente Ebrahim Raisi e la polizia starebbe sparando ad altezza d'uomo. Non ci sono solo le donne, ci sono anche molti uomini, e studenti, che reagiscono all'oppressione tagliandosi barba e capelli in segno di solidarietà alle loro compagne arrabbiate in piazza.

I Pasdaran stanno danno la caccia a un'icona del calcio, un personaggio molto popolare, schieratosi con le proteste in corso nel Paese. È Ali Karimi, ex capitano della nazionale di calcio iraniana. Ha utilizzato i suoi sostenitori sui social - 11,6 milioni di follower su Instagram - per coinvolgerli nella causa a fianco dei migliaia di manifestanti per le strade. «I nostri figli stanno morendo mentre i figli dei funzionari del regime lasciano l'Iran, ma chi resta rischia la morte», ha commentato.

L'Unione popolare dell'Iran islamico, che è legata all'entourage dell'ex presidente riformista Mohammad Khatami, ha chiesto alle autorità di aprire la strada alla «cancellazione della legge sull'hijab obbligatorio» e che la Repubblica islamica annunci «ufficialmente la fine delle attività della polizia morale» e «autorizzi manifestazioni pacifiche». È un primo cedimento alla rivolta, alimentata dall'indignazione e dalla voglia di giustizia, come testimonia una ragazza che intona sui social la canzone di «Bella ciao» in persiano. Il video diffuso su Twitter è diventato un inno alla resistenza del popolo iraniano.

Ma la repressione e le intimidazioni del regime vanno avanti. Il Ministero degli Esteri iraniano ha convocato l'Ambasciatore britannico e quello norvegese a Teheran per il «carattere ostile» della copertura dei disordini da parte dei media in lingua persiana con sede a Londra. Poi è arrivato anche l'appello del regista iraniano premio Oscar per «The Client» e «Una separazione» Asghar Farhadi. In un video destinato alla comunità internazionale, agli artisti e agli intellettuali di tutto il mondo perché si mobilitino in segno di solidarietà verso il suo popolo ha spiegato: «La maggior parte di loro è molto giovane: diciassette anni, vent'anni. Ho visto indignazione e speranza nei loro volti e nel modo in cui marciavano per le strade. Rispetto profondamente la loro lotta per la libertà e il diritto di scegliere il proprio destino nonostante tutta la brutalità a cui sono soggette. Mobilitiamoci per il popolo dell'Iran, le donne guideranno il cambiamento. Per un domani migliore».

Iran: la morte di Amini e la rivolta che parte da lontano. Piccole Note il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.

La morte di Mahsa Amini ha suscitato una nuova ondata di proteste in Iran. La donna sarebbe stata arrestata, torturata e picchiata dalla polizia a causa del mancato rispetto della norma che impone il velo. Così la narrativa ufficiale.

In tutto l’Iran si sono verificate manifestazioni di piazza contro il governo, che hanno trovato come simbolo la rimozione del velo (l’hijab, che copre i capelli, non quello integrale, che copre il viso, in uso in altri Paesi arabi).

Secondo autorità di Teheran dietro le manifestazioni ci sarebbero le Agenzie straniere, in particolare Washington, alla quale hanno rimproverato, in maniera legittima, di piangere “lacrime di coccodrillo” per la sorte delle donne iraniane, mentre, allo stesso tempo, con le sanzioni che stringono il Paese in una morsa di ferro, le affamano (Irna).

L’ennesimo tentativo di regime-change iraniano

Insomma, sarebbe in atto un tentativo di regime-change, cosa che Washington alimenta a minaccia da anni. Ne scriveva, ad esempio, James Dobbins sul sito della Rand Corporation – organismo che ha stretti legami con la Cia – criticando delle dichiarazioni rese in tale prospettiva dall’allora Segretario di Stato Mike Pompeo.

Rigettando l’ipotesi di dar vita a un regime change iraniano, Dobbins scriveva: “La follia è a volte descritta come fare la stessa cosa ripetutamente e aspettarsi risultati diversi. Promuovere il cambio di regime in Iran si adatterebbe a questa definizione. Nel 2012, le rivolte popolari hanno rovesciato i governi di cinque paesi del Medio Oriente. Dopo qualche esitazione, l’amministrazione Obama ha espresso sostegno a queste rivoluzioni e in un paio di casi ha anche fornito supporto materiale. Sei anni dopo, Libia , Siria e Yemen sono ancora sconvolte da una guerra civile. L’Egitto ora ha un governo ancora più repressivo di quello che il popolo ha rovesciato”. Solo la Tunisia, perché meno interessante per l’America, ne è uscita non devastata.

Ma tant’è. A quanto pare ci risiamo, con i soliti corollari: alle manifestazioni di piazza dei ribelli rispondono quelle a sostegno del governo; alle violenze dei ribelli risponde quella della polizia etc. Si contano vittime e non solo della repressione, sul conto delle quali non è possibile alcuna verifica, stante che le notizia riguardanti Teheran sono spesso distorte e che le fonti governative sono di parte.

Tutto questo per una morte che potrebbe non essere avvenuta come raccontano: un video diffuso dalle autorità fa vedere quanto avvenuto alla stazione di polizia. Nel filmato si vede Amini che si accascia dopo un diverbio acceso, ma senza alcun contatto fisico, con un’altra donna, che dovrebbe essere in forza alla polizia (il video si può vedere cliccando qui). Peraltro, poi l’altra donna accorre in suo aiuto.

Sulla vicenda le autorità iraniane, compreso l’ajatollah Khamenei, hanno espresso dolore e hanno chiesto di far chiarezza. Il capo della magistratura si è impegnato in tal senso.

Resta, certo, la restrizione del velo, ma è pur vero che strumentalizzare tale vicenda per dar vita a un regime-change non fa che incrementare esponenzialmente la violenza nel Paese. Quanto avvenuto in Libia, Siria e Yemen fa intravedere la devastazione di cui è foriera tale spinta.

Che ci sia una spinta internazionale in tal senso lo indicano tanti fattori, tra cui gli attacchi di cui sono state bersaglio le ambasciate iraniane. Attacchi si sono registrati in Belgio, Svezia e Grecia. Arduo ritenere che si tratti solo di espatriati inferociti, dal momento che tali azioni implicano un coordinamento, come anche un certo lassaiz faire da parte delle forze di sicurezza straniere che dovrebbero tutelare le sedi diplomatiche, come lamenta Teheran.

Né l’America dà segno di essere indifferente a quanto accade, anzi: Washington ha deciso di sostenere in tutti i modi la rete internet iraniana, che Teheran aveva chiuso come hanno fatto in anni recenti altre nazioni interessate a tentativi di regime-change.

Per sostenere la rete usata dai ribelli iraniani il Dipartimento di Stato si è rivolto anche a Elon Mask e alla sua rete di satelliti Starlink. Sul punto si tenga presente un titolo di Politico: “UkraineX: come i satelliti spaziali di Elon Musk hanno cambiato la guerra a terra”. Insomma, di fatto, gli Usa stanno trattando quanto avviene in Iran alla stregua di una vera e propria guerra…

Masih Alinejad, l’Fbi e la rivolta del velo

Ma sulla genesi della rivolta del velo è più che istruttivo quanto si legge sul New Yorker: “Donne provenienti da tutto l’Iran si stanno togliendo l’hijab e gli stanno dando fuoco, prendendo in giro i teocrati dalla barba grigia del paese, in un susseguirsi di scene drammatiche di una popolazione che lotta per la libertà”.

“Di tutte le cose che stupiscono di quanto sta emergendo nella Repubblica islamica, forse il più notevole è il fatto che l’Iran sia stato portato a questo punto, almeno in parte, da una madre di quarantasei anni, non finanziata, che lavora in un rifugio dell’FBI a New York”.

“Masih Alinejad, una giornalista iraniana che è stata condannata all’esilio tredici anni fa, ha contribuito a galvanizzare le donne del paese, accumulando circa dieci milioni di follower sui suoi social media e spingendole a distruggere il simbolo più potente dell’apartheid di genere legalizzato del regime: l’hijab, il copricapo obbligatorio per tutte le donne adulte”.

“La maggior parte dei seguaci di Alinejad vive in Iran, il che la rende una delle voci più potenti del Paese. Dal 2014 ha lavorato seguendo una formula semplice, dall’effetto devastante. Ha invitato le donne all’interno dell’Iran a registrarsi mentre sfidano la regola dell’hijab e a inviarle le prove”.

“Migliaia di donne hanno obbedito e Alinejad ha pubblicato video e foto che mostrano i loro capelli su account di Instagram, Twitter e Facebook. Quei siti sono stati bloccati dalla dittatura del Paese, ma, facendo uso di reti private virtuali, molti iraniani li hanno visti comunque. Milioni di persone hanno potuto assistere al coraggio dei loro concittadini e vedere quanto ampiamente sono condivise le loro opinioni, cosa che, nell’ambiente soffocante dell’Iran moderno, sarebbe altrimenti impossibile”.

Così, quando la settimana scorsa sono esplose le proteste, continua il giornale, Alinejad “ha visto finalmente concretizzarsi anni di organizzazione”. Un tweet del Ron Paul Institute riprende l’articolo del New Yorker corredandolo con una bella fotografia della giornalista “non finanziata” accanto a un sorridente Mike Pompeo.

Insomma, una rivolta che parte da lontano, addirittura dal 2014. Poco da aggiungere, se non che questo caos è scoppiato in concomitanza della riunione generale dell’Onu, nella quale l’Iran ha ribadito la sua volontà di giungere a un accordo sul nucleare con gli Stati Uniti.

Interessante, sul punto, un cenno del New Yorker: “Alinejad appare raramente in pubblico. All’inizio di questa settimana, ha guidato una folla per protestare contro l’arrivo del presidente iraniano, Ebrahim Raisi , alle Nazioni Unite”.

In questo clima infuocato, anche questo ennesimo tentativo per raggiungere un’intesa sul nucleare verrà procrastinato. E se scorrerà sangue per le vie di Teheran, sarà sotterrato definitivamente.

Fabiana Magrì per “La Stampa” il 6 ottobre 2022.

Anche Nika, come Mahsa, è morta con il cranio fracassato. Da chi, non è ancora certo, ma i sospetti sono tutti sulle forze di sicurezza della Repubblica islamica. La magistratura iraniana aveva dichiarato, martedì, di aver aperto un'indagine sulla morte dell'adolescente Nika Shahkarami. Scomparsa durante le proteste che da tre settimane si sono accese in varie città iraniane come reazione all'uccisione di un'altra giovane donna, Mahsa Amini, la 22enne deceduta tre giorni dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per non aver indossato correttamente lo hijab, il velo islamico.

Il cadavere della sedicenne Nika è stato trovato dalla famiglia in un obitorio di Teheran, dieci giorni dopo l'ultimo messaggio vocale di lei a un'amica, in cui sosteneva di essere inseguita dalla polizia. La famiglia, ha rivelato poi che le forze di sicurezza avrebbero intimato loro di evitare la cerimonia funebre per la ragazza. Ne avrebbero quindi prelevato il cadavere per seppellirlo in un villaggio a 40 chilometri dal luogo dove era prevista la sepoltura, a Khorramabad, la città di origine del padre. 

«Il caso è stato depositato presso il tribunale penale per indagare sulle cause della morte - ha replicato il procuratore di Teheran Ali Salehi all'agenzia di stampa ufficiale Irna - e sono state adottate le misure necessarie al riguardo». Poi ieri, i risultati dell'autopsia sul corpo della ragazza curda iraniana sono stati resi noti dall'Irna, che ha riportato le dichiarazioni di Mohammad Shahriari, funzionario della magistratura della Repubblica islamica: «Fratture multiple al bacino, alla testa, agli arti superiori e inferiori» indicherebbero, secondo il dirigente iraniano, che Nika Shahkarami è precipitata, «lanciata dall'alto».

«Non sono stati trovati segni di proiettili», ha aggiunto, e quindi «l'incidente non ha nulla a che fare con i recenti disordini». Ma per la famiglia la ragazza aveva «la testa fracassata e il naso fratturato», e sul corpo della giovane c'erano segni di stupro e di torture «suture, cuciture fatte a mano», e gli organi interni erano stati rimossi. Mentre sua zia sua zia Atash Shakarami ha rivelato che nell'ultimo messaggio ricevuto la nipote le diceva di «essere inseguita dalle forze di sicurezza».

Segno che Nika potrebbe essere stata picchiata e torturata a morte dagli agenti, come con tutta probabilità è accaduto a Mahsa. Un'altra vittima della repressione, sempre più giovane, come sempre più giovani sono i manifestnati. Universitari ma anche liceali, degli atenei e scuole superiori in varie città dell'Iran, da Teheran a Karaj a Zanjan, da Mashhad a Kerman, a Shiraz. Un'ondata così diffusa non si vedeva in Iran da quasi tre anni. In alcuni filmati, condivisi online, studentesse abbandonano le aule di studio e prendono parte a flash-mob per evitare di essere scoperte.

Il regime cerca soffocare le proteste anche sui social, con blocchi quasi totali di Internet, mentre le forze di sicurezza sono impegnate a domare le strade, uccidendo decine di persone e arrestandone a centinaia. Secondo la Ong svedese Iran Human Rights, che riporta i numeri raccolti dal portale dei dissidenti iraniani all'estero Iran International, almeno 154 persone uccise, compresi 9 minori. Una repressione feroce che sta attirando la condanna globale. 

 L'Unione Europea si è unita agli Stati Uniti nell'avvertimento di nuove e severe sanzioni, misure punitive nei confronti di alti funzionari iraniani come il congelamento dei beni e sospensione del diritto di viaggiare. Ma l'Iran rimbalza le minacce, accusando chi gli punta l'indice contro di alimentare le proteste. L'ambasciatore britannico Simon Shercliff è stato convocato a Teheran dal ministero degli esteri iraniano, in segno di protesta contro le critiche di Londra agli interventi delle forze iraniane durante le manifestazioni per Mahsa Amini, ritenute «false e provocatorie» dalla Repubblica islamica.

Fulvia Caprara per la Stampa il 6 ottobre 2022.

Un fiume di capelli sta per sommergere le ambasciate iraniane, a Roma, ma anche in altri Paesi, a iniziare dalla Francia, dove le attrici più famose, da Juliette Binoche a Isabelle Huppert, postano un video che le ritrae nell'attimo in cui tagliano una ciocca. Ormai ovunque il gesto simbolico risuona nei modi più inventivi, come nell'immagine della bandiera di capelli che sventola postata da Ferzan Ozpetek e da tanti ripresa. L'onda delle proteste internazionali per la morte di Masha Amini, la 22enne curda arrestata perché indossava l'hijab in modo giudicato non corretto, dilaga: dai social dove Claudia Gerini ha lanciato la sua immagine nell'attimo della sforbiciata, alla tv, dove Belen, durante le «Iene», si è tagliata una ciocca in diretta; dalle cerimonie ufficiali come quelle del Premio Afrodite dove, nello scorso week end, molte attrici, da Margherita Buy a Maria Chiara Giannetta, si sono sottoposte allo stesso rito, alle istituzioni culturali, come la Triennale di Milano e il Maxxi di Roma dove è possibile lasciare un ciuffo di capelli che sarà inviato all'ambasciata iraniana: «Tra le tante foto viste in questi giorni - riflette Elena Sofia Ricci - una mi ha colpito più di tutte. È degli Anni 70, ritrae una ragazza iraniana con la minigonna. Vuol dire che allora eravamo molto più avanti di adesso. Vuol dire che allora potevamo vivere come volevamo, eravamo tutte figlie di Mary Quant, anche in Iran, mentre ora tutto questo non è più possibile ed è drammatico». 

La protesta sta coinvolgendo donne in tanti luoghi del mondo, pensa possa essere utile?

«Anche io ieri mi sono tagliata i capelli, ma quello che noi possiamo fare sulle nostre pagine social è in realtà poca cosa, anche io ho pubblicato la foto con la bandiera di capelli nel vento, mi è sembrata molto potente, sono piccoli gesti che possiamo compiere. Io però non smetto di pensare a quelle bambine che, in Afghanistan, dopo 20 anni in cui era stato possibile studiare, andare a scuola, si sono ritrovate con l'obbligo del burqa. 

Vuol dire che non c'è stato niente da fare, anche se di una cosa sono convinta: che oggi le grandi rivoluzioni non possano che venire dalle donne. Quelle che hanno subito privazioni in maniera più evidente, ma anche le altre, anche quelle che ogni giorno, nella nostra Italia evoluta, combattono le loro battaglie, magari non per un velo messo male, ma per altre ragioni, una gonna più corta, un desiderio di maggiore libertà». 

Fino a domenica dirige, al Teatro Quirino di Roma, la "Fedra" di Seneca. Un testo molto femminile, con infinite ricadute sulla nostra attualità. Che riflessioni ha fatto portandolo in scena?

«Il testo è stato scritto duemila anni fa, ma quelle parole restano oggi tragicamente contemporanee. Non ci siamo ancora evoluti, il maschio resiste con tutto se stesso a questo processo di evoluzione, alla rivolta, all'accettazione della parità. Accade in modo più marcato in certe culture, ma nella nostra non è poi tanto diverso, ogni giorno leggiamo notizie di femminicidi e violenze sulle donne, è una tragedia epocale, ha a che fare con l'animo umano più che con le religioni, temo sia qualcosa di ancestrale, radicato in una dimensione esistenziale quasi barbarica». 

Una dimensione che, puntualmente, si riafferma attraverso la violenza sul corpo delle donne

«Sì, è sempre così, ho due figlie femmine e sto cercando di insegnare loro disperatamente che nessuno mai avrà il diritto di camminare sulle loro anime con le scarpe chiodate. È difficile, perché noi donne siamo sempre state invitate a comprendere le ragioni dell'altro, ma il rischio è che questa comprensione ci faccia dimenticare quale siano le nostre. Rischiamo di essere affette da "comprensivismo"». 

Perché?

«Penso sia tutto legato alla nostra possibilità di essere madri, noi diamo la vita, questo superpotere ci offre un'energia vitale che ci rende capaci di sopportare tanto, e questo può essere rischioso. Le donne dovrebbero prima di tutto educare meglio i loro figli maschi. E questo non solo in Iran, perché le zone d'ombra esistono anche da noi».

Dal “Corriere della Sera” il 6 ottobre 2022.  

La prima è Juliette Binoche: «for freedom», per la libertà, dice, prima di tagliarsi una ciocca di capelli. Seguono le immagini di Marion Cotillard, Isabelle Huppert, Charlotte Gainsbourg, Julie Gayet, Jane Birkin, Charlotte Rampling e una cinquantina di altre attrici e cantanti che hanno deciso di lanciare su Instagram la campagna #HairForFreedom in solidarietà con le donne iraniane.

Iniziativa simile anche in Italia: dopo l'appello lanciato mercoledì dal programma Mediaset «Le Iene», si sono tagliate una ciocca di capelli - pubblicando il video con l'hashtag #IeneDonnaVitaLibertà - la conduttrice Belen, e poi Claudia Gerini e Rocio Munoz Morales, Costanza Caracciolo, Bianca Atzei e Laura Torrisi. 

«I morti si contano già a decine, tra loro anche bambini. Gli arresti non fanno che aumentare il numero di prigionieri già detenuti in totale illegalità e troppo spesso torturati. Abbiamo deciso di rispondere all'appello tagliando, anche noi, qualcuno dei nostri ciuffi», si legge nel testo di accompagnamento delle attrici francesi. Il video pubblicato su Instagram ha in sottofondo Bella ciao , nella versione della cantante iraniana Gandom, diventata l'inno della rivolta.

L'autrice di fumetti e regista Marjane Satrapi, da anni a Parigi ma nata e cresciuta in Iran, ha offerto il disegno di una donna che mostra i capelli tagliati. In Iran la protesta delle donne e di molti uomini che si sono schierati con loro sfidando il regime islamista di Teheran è cominciata dopo che Mahsa Amini, 22 anni, il 13 settembre scorso è stata arrestata dalla polizia perché portava il velo «in modo improprio». La ragazza è stata picchiata ed è poi morta dopo alcuni giorni di coma. Secondo l'ong Iran Human Rights, basata a Oslo, sono 92 le persone uccise nei tumulti in Iran a partire dal 16 settembre. 

«Le donne iraniane hanno bisogno di sapere che non sono sole, il silenzio può essere la peggiore delle violenze», dice l'attrice e produttrice Julie Gayet, moglie dell'ex presidente della Repubblica francese François Hollande. Poche ore dopo la diffusione del video, l'esempio delle attrici è stato imitato al Parlamento europeo da Abir Al-Sahlani, deputata svedese del gruppo Renew (liberali e centristi), che ha concluso l'intervento tagliandosi una ciocca di capelli e gridando in inglese «donne, vita, libertà».

In Italia l'iniziativa cerca di portare aiuto anche ad Alessia Piperno, la ragazza italiana arrestata a Teheran il 28 settembre e tuttora detenuta. Sui social media francesi e italiani non mancano le critiche: c'è chi sottolinea i pochi millimetri di capelli tagliati, e chi ironizza sul fatto che il regime teocratico al potere dal 1979 non ammorbidirà certo la sua repressione in seguito agli appelli di Angelina Jolie in America o di Juliette Binoche o Claudia Gerini in Europa. 

Il punto però non è fare pressione sul governo di Teheran ma dare un po' di sostegno alle teenager e alle altre donne iraniane, mentre i governi occidentali sembrano osservare una grande cautela: il presidente francese Emmanuel Macron, che il 20 settembre a New York ha anche incontrato il suo omologo iraniano Ebrahim Raïssi, non ha ancora condannato la repressione in corso.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 6 ottobre 2022.

Scrive un lettore: «Perché le piazze italiane non si riempiono di manifestazioni di solidarietà per le donne iraniane? E perché, se è Putin a minacciare l'atomica, nei talk se la prendono con la mancanza di iniziativa diplomatica dell'Occidente? Fosse stato Biden ad agitare lo spettro nucleare, si sarebbero forse arrabbiati coi russi?». 

Domande provocatorie, ma non peregrine. Esiste un sentimento diffuso che prende le mosse dalla fine della Seconda guerra mondiale. Molti italiani di destra e di sinistra non considerano gli americani dei liberatori, ma degli occupanti che si sono sostituiti ad altri occupanti. L'ha detto chiaramente Di Battista da Floris: «L'Italia non è un Paese libero, non può uscire dalla Nato».

Se consideri i marines degli invasori, la bussola con cui orientarti è l'interesse dell'Impero americano di cui ti senti suddito: per collocarti sempre, ovviamente, dalla parte opposta. Una dittatura sostenuta dalla Cia è una dittatura, una dittatura filocinese o filorussa è l'espressione ancora imperfetta di un mondo multipolare. 

Una donna uccisa in un Paese amico degli Usa è una vittima. Una donna uccisa in un Paese nemico degli Usa, come l'Iran, rimane una vittima, ma non va strumentalizzata. Non pensi però il lettore che le sue siano domande nuove. Montanelli rispondeva già negli Anni Cinquanta: «In un mondo in tempesta occorre purtroppo trovarsi un ombrello, e quello americano, pur pieno di buchi, resta l'unico sotto il quale sia almeno consentito starnutire».

Il corpo delle iraniane è un campo di battaglia: 20 anni fa ce lo svelò Persepolis. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 7 ottobre 2022.  

La foto è di una manifestazione di donne nel luglio 1980 in Iran: protestano a centinaia davanti al palazzo presidenziale di Teheran contro l’imposizione del velo voluto dalla Repubblica islamica sciita che ha preso il potere nel Paese un anno prima 

La protesta delle donne iraniane il 5 luglio del 1980 davanti al palazzo presidenziale di Teheran contro la legge che le obbligava a coprirsi il capo con il velo. Sono donne vestite “all’occidentale”: la rivoluzione islamica stava per cancellare la loro libertà (foto Getty images)

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 23 settembre. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova».

E la battaglia continua... continua sul corpo delle donne. Ovunque ci siano spiragli, questo avviene: ecco perché dobbiamo serrare le fila, ecco perché non dobbiamo permettere che questo accada, nemmeno sotto la forma, apparentemente innocua, del “confronto” televisivo su argomenti come l’aborto, la procreazione assistita: dibattiti perpetrati sulla pelle delle altre. Mahsa Amini era una donna di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano morta mentre era sotto la custodia della polizia morale iraniana. Quando è stata arrestata si trovava a Teheran per una vacanza di famiglia. È stata arrestata per non aver indossato il velo, l’ hijab, in modo appropriato. E dunque in Iran una giovane donna è morta, ammazzata di botte, per la posizione del velo sul capo. Per undici volte le hanno sbattuto la testa contro il muro - così riporta la giornalista Masin Alinejad - e, nonostante il volto tumefatto, le autorità hanno avuto il coraggio di parlare di infarto.

Il governo iraniano ha addirittura provato a ostacolare la circolazione della notizia limitando l’accesso a Internet in diverse zone del Paese, ma non è servito a nulla di fronte alla rabbia di una opinione pubblica sconvolta da una morte assurda. Ed è proprio nei pressi dell’ospedale dove è morta Mahsa Amini che si sono radunate le prime persone, e poi migliaia di donne in decine di città si sono tolte l’ hijab in segno di protesta e hanno iniziato a girare video nei quali si tagliavano i capelli e bruciavano i veli. Poi arrivano immagini di un’altra ragazza, una ragazza dai capelli biondi; il suo nome è (era!) Hadis Najafi, presto diventa anche lei simbolo della protesta contro il velo. Aveva vent’anni. Aveva perché l’hanno uccisa con una raffica di colpi d’arma da fuoco.

In Iran stanno massacrando una generazione di giovanissimi che, nativi digitali, non accettano l’arbitrio di un clero ignorante e sanguinario. Quello che stiamo vedendo in questi giorni, in queste ore, ce lo ha raccontato Marjane Satrapi in Persepolis. Satrapi è nata nel 1969, al tempo della rivoluzione islamica, quando l’Iran da monarchia divenne una repubblica islamica sciita, aveva pressappoco dieci anni. In Persepolis, il suo graphic novel autobiografico, pubblicato per la prima volta in lingua francese tra il 2000 e il 2003, Satrapi raccontò tutto ciò che ricordava di quel passaggio, violenza, morte, arbitrio e sofferenza. Raccontò il primo allontanamento dall’Iran per trovare pace in Austria. E il suo ritorno in patria. Marjane non apparteneva più a nessun luogo, però. Non all’Austria, non all’Europa ma nemmeno a quella terra non più in guerra ma con cicatrici talmente profonde da essere divenuta irriconoscibile e inospitale.

Ho letto Persepolis prestissimo, non esisteva Facebook al tempo, sarebbe nato poco dopo ma qui da noi sarebbe divenuto strumento effettivo di condivisione solo più tardi. Ho letto Persepolis e ho compreso dinamiche che articoli di geopolitica e reportage non riuscivano a spiegarmi, ho capito la paura, ho sondato quel limbo odioso in cui non auguro a nessuno mai di trovarsi, quel luogo familiare e perturbante che ti rende delatore per aver salva la pelle. Poi nel 2007 - in Italia sarebbe arrivato nel 2008 - esce l’omonimo film d’animazione, tratto dal fumetto, che a Cannes vince il meritatissimo Premio della Giuria. Un film che consiglio a tutti, soprattutto alle giovanissime che vogliono capire dove inizia ciò che sta accadendo oggi in Iran, che vogliono capire le radici storiche del conflitto.

La famiglia di Marjane è salda, prova a mantenere una integrità di spirito, e per integrità intendo quell’anelito alla libertà che ti fa violare le regole se le regole sono folli. Nel film, poco dopo la rivoluzione islamica, un uomo assai scortese rimprovera per strada, all’uscita dal supermercato, la madre di Marjane che porta l’hijab troppo alto sulla fronte. Restano fuori, non coperti, pochi capelli: quelli che bastano a sagomare il volto e a renderlo più morbido, personale, suo. Quando ho saputo della morte di Mahsa Amini ho ripensato a quella scena di Persepolis, ci ho pensato con grande tenerezza e rabbia. Una donna costretta alla barbarie del velo subisce l’umiliazione di essere ripresa per la libertà di pochi capelli. Viene arrestata e picchiata a morte. Il corpo della donna è campo di battaglia e chi dice il contrario mente.

 Doppie punte e Ayatollah. Leggere Instagram lontano, lontanissimo, da Teheran. Guia Soncini su L'Inkiesta il 7 Ottobre 2022.

Le star occidentali sforbiciano e poi instagrammano per «sensibilizzare» sulla battaglia di libertà delle donne iraniane. Ma farlo in un paese in cui nessuno t’impone alcunché non è un gesto solidale, è un modo di stare al centro dell’attenzione

«Non è un problema di doppie punte, vorrei segnalare: è una tragedia collettiva e una rivoluzione possibile»: l’ha scritto cinque giorni fa Concita De Gregorio, giacché quelle parecchio brave sono capaci di intercettare in anticipo il materiale umano su cui ti verrà voglia di soffermarti più tardi.

L’ha scritto prima che Isabelle Adjani e a scendere tutte le più belle attrici del cinema francese facessero dei video che somigliano alla parte più tenera di noi, quella che si raccomanda col parrucchiere di non tagliare troppo.

Prima che le donne si sforbiciassero le chiome nelle vie di Bologna e negli Instagram assortiti, prima che attrici romane inserissero le loro ciocche in una busta diretta all’ambasciata iraniana, e ora sì che gli ayatollah diverranno illuministi: abbiamo ricevuto capelli di attrici, poffarbacco, vedi mai che se non stiamo buoni Pantène ci tolga la sponsorizzazione di stato, le aziende sono sensibili alle buone cause, guarda le patatine come hanno cazziato quelli del Grande Fratello.

Prima che sbuffiate dicendo che sì, vabbè, ma che vogliamo da voi, fate quel che potete, non è che potete paracadutarvi imbottite di tritolo sull’Iran, non è che possiate fare altro che gesti dimostrativi e solidali, e se non li fate vi accusiamo di occuparvi solo delle file divise per sessi ai seggi, per non farvi dire «e allora le iraniane?» qualcosa dovevate fare, e allora fate questa manfrina che descrive Concita: «Ragazze italiane – su Instagram, su TikTok – si tagliano gli ultimi due centimetri della fluente chioma trattata con prodotti volumizzanti, forse sponsor».

Il fatto è che non per tutto c’è un cancelletto, non per tutto c’è un gesto efficace, non per tutto c’è una soluzione facile, a portata di quindici secondi di storia Instagram, ma pure di due minuti di video TikTok. A volte – spesso – non possiamo fare niente.

È meglio un gesto dimostrativo di niente, diranno le mie piccole lettrici. Meglio del silenzio, dell’indifferenza, del restare accomodate nelle nostre vite con problemi inventati. Forse no.

Forse andare a tagliarsi i capelli in piazza o su YouTube, in una nazione in cui nessuno t’impone o anche solo ti suggerisce di coprirteli, in una città in cui nessuno ti arresterà se sfidi la legge morale, in cui la polizia morale non c’è o almeno non in divisa (certi commentatori sui social sono altrettanto prescrittivi, ma possono prenderti a notifiche, non a bastonate), forse quello non è un gesto solidale: forse è solo un modo di stare al centro dell’attenzione.

Magari è una scorciatoia perché uno qualunque dei mille premi al giorno assegnati in questo paese dove una gloriosa didascalia non si nega a nessuno finisca sui giornali: le premiate si sono fatte tagliare una ciocca, siamo sul pezzo, manda il comunicato alle pagine di esteri.

Il tentativo di catalizzare attenzione sarà perlopiù in buona fede, ma la buona fede smette di valere come attenuante intorno alla seconda media: un’adulta ha il dovere di distinguere ciò che serve davvero a tutelare la vita di qualcun’altra da ciò che serve solo a lei stessa, alla sua vanità, al suo esibizionismo, alla sua smania d’essere parte della conversazione collettiva e protagonista del trending topic del giorno.

A scuola non insegnano evidentemente più la capacità di astrazione se, dal gesto «mi taglio i capelli in pubblico per sfidare un regime che ha un corpo di polizia apposito per punire la mia immoralità se scopro il capo in pubblico», quello che traiamo è: mi taglio i capelli in pubblico prima di andare a prendere l’aperitivo, mi taglio i capelli in pubblico invece d’andare al cinema, mi taglio i capelli in pubblico e m’instagrammo col cancelletto solidale.

Se non siamo più capaci di capire che il punto è rischiare la vita per la propria libertà, e non le cazzo di forbici che magari – invero un rischio eroico – ti rovinano un taglio costoso e donante.

Intendiamoci: è una buona notizia, la nostra incapacità di capirlo. La differenza, tra la libertà nostra che al massimo facciamo i capricci perché non c’è una fila per le persone non binarie ai seggi, e quella di chi non può andare in giro non accompagnata, o a capo scoperto, o decidersi atea o capofamiglia o quel che le pare, la differenza è di così tanti ordini di grandezza che neanche riusciamo a immaginare cosa voglia dire quando andare in piazza a tagliarti i capelli come gesto di protesta significa che magari l’ordine costituito t’ammazza.

C’è una foto d’una ragazza a capo scoperto che gira sui social in questi giorni. È sulla tomba della madre, ammazzata dalla teocrazia perché osava protestare. È meno fotogenica di Jane Birkin che taglia una ciocca a Charlotte Gainsbourg, e viceversa, o di Isabelle Huppert o Marion Cotillard che partecipano al grande gioco di società di Barbie si taglia una ciocca e poi la sventola eroica alla telecamera del telefono, con l’eroismo di chi non rischia niente, al massimo che la luce ad anello dietro al telefono non la illumini nel migliore dei modi.

Chissà quante saranno ciocche di extension, pensano le più scettiche davanti a questi video di buona volontà e buonissima fotogenia.

Chissà cosa ne pensa, la ragazza sulla tomba della madre. Magari è arrivato persino lì l’illusionismo di parole come «sensibilizzazione». Magari crede in una primavera francese, italiana, instagrammatica che riscatterà le iraniane. Magari tutto quel che serve agli ayatollah, per essere ricondotti alla ragionevolezza, è una busta con dentro una ciocca e un autografo di Margherita Buy.

Il "metodo ayatollah": botte, spari e video falsi. Solo a Zahedan 82 morti. Altre proteste. Pressione sulla famiglia della 17enne Nika: dite che è caduta da un palazzo. Chiara Clausi il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La brutale repressione in Iran continua inarrestabile. Nasrin Shakrami, la madre di Nika, l'adolescente scomparsa nelle proteste a Teheran e ritrovata cadavere una settimana dopo nell'obitorio di Kahrizak, con il cranio fracassato, in un video messaggio ha raccontato che le autorità le stanno facendo pressione perché sostenga che la figlia sarebbe morta in seguito alla caduta da un edificio. La famiglia ritiene la versione del regime una «falsità».

La madre ha riferito che il medico legale ha certificato che la morte della figlia è stata provocata da «diversi colpi sferrati con un oggetto contundente» sulla testa. Ma le pressioni sui famigliari sono sempre più forti: lo zio e la zia sono già stati arrestati e costretti a «confessioni forzate». Un metodo usato sempre di più dalle autorità, per rovesciare la narrazione.

Ieri mattina la tv di Stato ha trasmesso quelle che sostiene essere le «confessioni» di spionaggio da parte di due francesi. In un video la funzionaria del sindacato francese degli insegnanti Cecile Kohler afferma di essere un «agente della Dgse», il servizio segreto francese. La Kohler e il suo compagno Jacques Paris sono detenuti in Iran dal 7 maggio e sono accusati dalle autorità di voler fomentare agitazioni sindacali. Secondo il ministero degli Esteri di Parigi, è «una messa in scena indegna, ributtante, inaccettabile». Il Quai d'Orsay ha lanciato quindi un appello alla «liberazione immediata» dei due cittadini.

Ci sono ormai molti stranieri agli arresti, a partire dalla nostra Alessia Piperno. Kylie Moore-Gilbert, 36enne australo-britannica, ex-detenuta nella prigione di Evin, dove adesso si trova la travel blogger italiana ha lanciato un appello per la giovane: «Chiunque avesse la possibilità di parlare ad Alessia dovrebbe dirle di non arrendersi all'estorsione di una falsa confessione, Teheran l'ha arrestata perché spera di aver qualcosa in cambio, il che significa che sono disposti a lasciarla andare».

Per ora almeno 82 persone (compresi bimbi) sono state uccise solo nella città di Zahedan nella repressione delle rivolte seguite alla morte di Mahsa Amini. Lo ha annunciato Amnesty International. Come se non bastasse Ebrahim Raisi è tornato a puntare il dito contro «l'America e gli altri nemici del Paese», che - a suo dire - «hanno cercato di perseguire i loro obiettivi anti-iraniani e anti-rivoluzionari all'Università Sharif». Secondo l'Associazione islamica degli studenti di Sharif, solo in questa università sono stati arrestati almeno dai 30 ai 40 studenti, sulle cui condizioni non ci sono informazioni.

Il soffocamento della rivolta riguarda anche le star. L'Iran ha incriminato, in contumacia, l'ex campione di calcio Ali Karimi per il suo sostegno alle proteste. Il 43enne ha sul suo profilo Instagram 13 milioni di follower. Ma non è stato l'unico: diversi sportivi si sono schierati con i manifestanti e la settimana scorsa l'ex calciatore Hossein Maahini è stato arrestato «per aver sostenuto e incoraggiato gli scontri».

Anche il presidente Sergio Mattarella è intervenuto e ha spiegato che «la forza dei valori europei a difesa dei diritti, della libertà e della democrazia è inarrestabile come dimostra la situazione in Iran. È indispensabile una politica estera e di difesa comune dell'Unione. Il Parlamento europeo ha chiesto sanzioni europee contro gli assassini di Mahsa e coloro che sono coinvolti nella repressione. Washington si muove: sanzioni a sette funzionari di alto livello: «Non esiteranno a prendere di mira chi appoggia direttamente la repressione».

(ANSA-AFP il 7 ottobre 2022) - La morte di Mahsa Amini è dovuta ad una malattia e non è stata causata dalle percosse. Lo sostiene il rapporto medico seguito all'autopsia effettuata a Teheran sul corpo della giovane iraniana arrestata perché non indossava correttamente il velo. 

Secondo l'Organizzazione di medici legali iraniani, la morte i Mahsa Amini non è stata provocata da colpi alla testa e agli organi vitali", ma sarebbe invece legata a "un intervento chirurgico per un tumore al cervello subito all'età di 8 anni", si legge nel rapporto pubblicato dalla tv di Stato. Ma la magistratura iraniana ieri ha negato anche che la morte della 16/enne Sarina Ismailzadeh: Amnesty International e altre organizzazioni accusano la polizia di averle provocato la morte con "colpi di manganello alla testa".

Secondo quanto dichiarato dal procuratore di Alborz, Hossein Fazli Harikandi, citato dalla Mizan online, invece, la ragazza si sarebbe "suicidata". Sarina, afferma il magistrato, si sarebbe lanciata dalla finestra di un edificio non lontano dalla casa della nonna, situata nel quartiere Azimieh, poco prima della mezzanotte del 24 settembre. 

In un video pubblicato su Mizan, si vede la madre di Sarina Ismailzadeh che afferma che sua figlia "non ha niente a che fare" con le manifestazioni di protesta. La giustizia della Repubblica islamica due giorni fa ha negato anche qualsiasi legame fra la morte di un'altra adolescente, Nika Shakarami, e le proteste.

L'Iran: "Mahsa Amini è morta di malattia non di botte". La Repubblica il 7 Ottobre 2022.

Un referto medico diffuso dall'organizzazione di medicina legale iraniana e rilanciato dalla tv di Stato afferma che la 22enne arrestata dalla polizia morale è deceduta per pregressi problemi di salute e non per percosse subite

La morte della ventiduenne curda Mahsa Amini, deceduta dopo essere finita in coma mentre era sotto custodia della "polizia morale" iraniana, sarebbe legata a malattie pregresse e non è stata causata da percosse. E' quanto risulta da un referto medico diffuso dall'organizzazione di medicina legale iraniana.

Secondo il rapporto, reso pubblico dalla televisione di Stato, "la morte di Mahsa Amini non è stata causata da colpi alla testa e agli organi vitali", ma è stata correlata a "un intervento chirurgico per un tumore al cervello all'età di 8 anni".

Nella nota si sostiene che Masha avesse un "disturbo importante dell'asse ipotalamo-ipofisario per il quale era stata trattata con idrocortisone, levotiroxina e desmopressina". La ragazza avrebbe "perso improvvisamente conoscenza" e successivamente sarebbe "caduta a terra".

Vani gli "sforzi e il trasferimento in ospedale", scrivono i medici, Mahsa sarebbe deceduta per "insufficienza multiorgano causata da ipossia cerebrale".

La famiglia di Mahsa ha sempre smentito che la ragazza avesse problemi di salute o che fosse stata operata in passata, e ha denunciato i poliziotti che l'hanno arrestata, chiedendo accesso a tutta la documentazione medica che finora non ha potuto visionare.

Altri testimoni che hanno parlato con alcuni giornali indipendenti iraniani hanno detto che nel furgoncino che la portava al centro di polizia Mahsa è stata picchiata alla testa.

Il sito Iran International, che ha base a Londra, ha pubblicato quella che viene descritta come una tac fatta ad Amini in ospedale, e fatta filtrare da alcuni attivisti, che mostrerebbe segni di trauma cranico.

La morte di Masha nelle mani della polizia è stata la scintilla che ha fatto scoppiare proteste in tutto l'Iran. I manifestanti chiedono la fine della Repubblica islamica e del regime oppressivo che impone alle donne.

Le autorità: "Sarina si è suicidata"

Le autorità iraniane hanno fornito anche la loro versione sulla morte Sarina Esmailzadeh, la sedicenne deceduta nella provincia di Alborz lo scorso 23 settembre dopo aver partecipato a una manifestazione: si sarebbe suicidata e non è vero che è morta per le percosse delle forze di sicurezza, come sostiene Amnesty International, secondo il procuratore di Alborz, Hossein Fazeli Harikandi, citato da Mizan Online. 

I media iraniani hanno mandato in onda anche una presunta intervista alla madre, in cui si vede la donna rispondere alle domande di una intervistatrice e dire che sua figlia aveva già tentato il suicidio in passato. Un'intervista esorta con le minacce e le pressioni, come altre mandate in onda in questi giorni, sostengono attivisti e giornalisti indipendenti.

La polizia: Nika è "caduta" da un palazzo

Anche la ricostruzione che le autorità hanno fornito della morte di Nika Shakarami, 16 anni, scomparsa a Teheran il 20 settembre dopo una manifestazione e riconsegnata cadavere alla famiglia una settimana dopo, è stata smentita. La polizia aveva sostenuto che Nika fosse caduta da un palazzo, e aveva fatto sostenere in tv questa versione anche dalla zia, che era stata arrestata poco dopo aver denunciato la scomparsa della nipote. Ma è stata la stessa madre di Nika a svelare l'inganno: ci hanno costretti a mentire, ha detto, Nika è stata uccisa.

La perizia parla di ipossia. “Mahsa Amini non è stata picchiata a morte”: l’autopsia ufficiale sul caso che incendia l’Iran. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Ottobre 2022 

Le fontane a Teheran – a Student Park, Fatemi Square, Iranshahr Theatre e Artists’ Park – zampillano sangue: sangue finto, nell’opera di un artista anonimo per denunciare le repressioni seguite alla vicenda di Mahsa Amini, la 22enne arrestata perché indossava male il velo e morta durante la detenzione. Quella morte, in circostanze ancora da chiarire, sarebbe stata causata secondo la perizia di un medico legale iraniano da un’ipossia, una carenza di ossigeno che ha provocato danni cerebrali e il rapido deterioramento di altri organi.

Il risultato di questa analisi è stato diffuso dall’IRNA, l’agenzia di stampa ufficiale dell’Iran. Le autorità avevano sempre parlato di una tragica fatalità, di un malore che aveva stroncato la ragazza durante la detenzione. La 22enne era stata arrestata dalla polizia religiosa in un parco a Teheran perché indossava male il velo, lo hijab, obbligatorio per le donne nella Repubblica Islamica. La famiglia di Amini ha accusato maltrattamenti da subito e già contestato la perizia.

La morte della ragazza ha provocato un’ondata di proteste in tutto il Paese, un movimento epocale partito dal Kurdistan iracheno, Regione d’origine della ragazza. La repressione delle manifestazioni è stata subito violenta. Secondo la ong norvegese Iran Human Rights sono 154 i manifestanti che hanno perso la vita, gli arrestati sarebbero migliaia. Stando ai dati di Amnesty Internazional a Zahedan è di almeno 82 morti il bilancio della violenta repressione dello scorso 30 settembre, compresi bambini. All’Università Sharif di Teheran sarebbero stati arrestati dai 30 ai 40 studenti. Il Presidente Ebrahim Raisi ha accusato gli Stati Uniti “e gli altri nemici del Paese” per aver “cercato di perseguire i loro obiettivi anti-iraniani e anti-rivoluzionari all’Università Sharif”.

Le tensioni hanno ormai ampiamente superato i confini dell’Iran: oltre alle proteste diffuse in tutto il mondo Washington ha imposto sanzioni a sette funzionari iraniani di altro livello. Secondo la perizia invece la morte “non è stata causata da percosse alla testa e agli arti” e le condizioni della donna si erano aggravate per via di “malattie preesistenti” e che i tentativi di rianimazione non avevano funzionato portando all’ipossia. Il dottor Masoud Shirvani, neurochirurgo membro del consiglio della Società di Neurochirurgia dell’Iran, era già intervenuto dopo i primi giorni di proteste sul canale televisivo iraniano Irib Tv2, e aveva dichiarato che Amini, quando aveva 8 anni, era stata operata al cervello per la rimozione di un tumore.

Il medico aveva fatto riferimento ai trattamenti ormonali che questo tipo di pazienti deve intraprendere. “Il tumore cerebrale che ha avuto in passato non può essere strettamente correlato alla sua morte, ma eventuali problemi ormonali, se associati a stress, potrebbero causare danni”. La polizia iraniana aveva inoltre diffuso alcuni filmati delle telecamere a circuito chiuso interne alla caserma in cui si vede Amini che collassa nella stazione di polizia. Le proteste però non si erano fermate: si erano allargate da strade e piazze a scuole e università con i manifestanti a urlare slogan contro la Repubblica islamica degli Ayatollah e contro la polizia religiosa, l’obbligo del velo. Il gesto di tagliarsi i capelli o di bruciare lo hijab è diventato virale in tutto il mondo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Iran, la difesa di Raisi: "Inchiesta su Mahsa Amini". Ma manda i suoi in piazza. Gabriella Colarusso su La Repubblica il 23 Settembre 2022. 

“Forze straniere dietro i disordini”. Gli Usa allentano le sanzioni per facilitare l’accesso al web del popolo

"E' un incidente su cui si sta indagando", ma "nessuno tollererà disordini e vandalismo". A New York per l'assemblea Onu, il presidente iraniano Ebrahim Raisi risponde così alle proteste per Mahsa Amini - la ragazza di 22 anni morta dopo essere stata arrestata dalla polizia perché vestiva in modo "contrario alla morale" - mentre nel venerdì di preghiera scende in piazza l'altro Iran, a "difesa della Repubblica islamica" e dei rigidi codici di abbigliamento che la sharia prescrive per le donne.

La giornalista è senza velo. Il leader iraniano la snobba. Raisi diserta l'intervista con l'inviata della Cnn Amanpour. E lei pubblica lo scatto della sedia vuota. Chiara Clausi il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.

Una sedia vuota pronta per il presidente iraniano Ebrahim Raisi. Nell'altra la reporter Christiane Amanpour a capo scoperto che lo aspetta. In questa immagine c'è lo scontro tra la teocrazia di Teheran e i valori dell'occidente. Alla fine l'intervista, già concordata con la Cnn, non ha avuto luogo poiché la giornalista britannica di origine iraniana non ha accettato di indossare il velo a New York.

È stata la stessa Amanpour a raccontare la vicenda su Twitter. «Le proteste attraversano l'Iran e le donne bruciano l'hijab dopo la morte della scorsa settimana di Mahsa Amini, in seguito al suo arresto da parte della polizia della moralità. Nelle ultime ore, la tv di Stato di Teheran ha dichiarato che i morti sarebbero 17. La ong con sede a Oslo Iran Human Rights dichiara che i civili uccisi sarebbero almeno 31. Volevo chiedere questo e molto altro al presidente Raisi. Sarebbe stata la sua prima intervista su suolo americano, durante la sua visita a New York per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite - continua Amanpour - . Dopo settimane di pianificazione e otto ore di preparativi per traduzione, luci e telecamere eravamo pronti. Ma neanche l'ombra del presidente Raisi. Quaranta minuti dopo l'inizio previsto dell'intervista, è arrivato un assistente. Il presidente, ci ha detto, suggeriva che indossassi il velo, perché ci troviamo nei mesi sacri di Muharram e Safar. Ho gentilmente rifiutato. Siamo a New York, dove non c'è legge o tradizione che riguarda il velo. Ho fatto notare che nessun precedente presidente iraniano aveva fatto questa richiesta quando li ho intervistati fuori dall'Iran. L'assistente ha chiarito che l'intervista non sarebbe avvenuta se non avessi indossato il velo. Ha detto che era una questione di rispetto e ha fatto riferimento alla situazione in Iran alludendo alle proteste nel Paese. Ancora una volta, ho ripetuto che non potevo accettare questa condizione senza precedenti e inaspettata. E così ce ne siamo andati. L'intervista non c'è stata. Credo - ha spiegato la reporter - che non voglia essere visto con una donna senza velo nel momento in cui nel suo Paese infuriano le proteste».

Nel frattempo sulle strade di 22 città del Paese non si placano le manifestazioni. E gli Usa hanno annunciato sanzioni contro la «polizia morale» e inserito sette alti funzionari nella lista nera. Anche la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock ha denunciato quanto accaduto: «Questo brutale attacco contro donne coraggiose è un attacco all'umanità». Negli ultimi giorni le autorità hanno censurato internet e «spento» Instagram e Whatsapp. I Pasdaran hanno avvertito: chi diffonde «notizie false» sarà punito. Ma la piazza continua a infiammarsi. È stato bruciato a Kerman (sua città natale) il poster di Qassem Soleimani. Il gesto dei manifestanti è una sfida nei confronti del regime iraniano e una presa di posizione dura contro l'assassinio di Amini.

Iran, tutti in piazza per Mahsa Amini La polizia spara sui manifestanti. Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Pugno duro delle autorità nella data «pericolosa» dei 40 giorni dal lutto. Nel Kurdistan chiuse le scuole, sospeso Internet e riempito la città di posti di blocco. 

Ci sono tutti. Donne senza velo, donne col velo, uomini, giovani, bambine, anziani. Nei video postati sui social vediamo il lato sinistro di un’autostrada fuori Saqqez, città nel Kurdistan iraniano, traboccante di persone che cercano di aggirare i posti di blocco delle forze di sicurezza per raggiungere il cimitero di Aichi, dove si trova la tomba di Mahsa Amini, la ventiduenne uccisa il 16 settembre a Teheran dalla «polizia morale». Sentiamo il rumore che fanno centinaia di clacson suonati contemporaneamente. Riconosciamo «donne, vita e libertà», le parole che da quaranta giorni fanno da sottofondo alle proteste del popolo iraniano contro il regime di Raisi e dell’Ayatollah Khamenei. Erano diecimila, dice l’agenzia di stampa iraniana Irna. La ong Hengaw riporta che la polizia ha sparato proiettili veri, ha lanciato lacrimogeni tra la folla per disperderla e ancora non si conosce il numero delle vittime e dei feriti.

Nonostante i morti, gli arrestati, i divieti e gli avvertimenti, al quarantesimo giorno dall’uccisione di Amini, le persone si sono comunque date appuntamento per commemorare la giovane ragazza, simbolo di questa (nuova) rivoluzione. Il quarantesimo giorno, per la religione islamica, coincide con la fine del lutto, è il momento in cui l’anima si separa dal corpo per raggiungere il paradiso. Le autorità sapevano che il 26 ottobre sarebbe stata una data «pericolosa» e hanno attuato tutte le norme di sicurezza che pensavano potessero bastare per arginare la marea dei manifestanti che vedevano crescere all’orizzonte. Hanno ordinato la chiusura delle scuole e delle università del Kurdistan «per un’ondata di influenza», una scusa per ostacolare le proteste degli studenti, secondo le organizzazioni per i diritti umani. Hanno riempito la città di Saqqez di posti di blocco e sospeso Internet per limitare la possibilità di comunicazioni tra i manifestanti. Secondo alcune fonti, ci sarebbe stata una telefonata alla famiglia Amini per intimarli di non organizzare nessuna cerimonia in nome di Mahsa, minacciando la vita del figlio. «Volevano impedire alla gente di entrare nel cimitero, ma in molti ci sono riusciti comunque», hanno riferito testimoni a Reuters.

Ieri, si urlava «Donne, vita, libertà» in onore della coetanea Amini anche alla Sharif University di Teheran, a quella di Qom, in tantissimi altri atenei e scuole del Paese, fulcro delle proteste. La contestazione, iniziata il 16 settembre e in un primo momento gestita e portata avanti principalmente dalle ragazze più giovani — appoggiate dai coetanei — che chiedevano di togliere l’obbligo del velo e più libertà alle donne, in poco tempo è dilagata tra le altre generazioni. Nonostante sia da considerare la rivoluzione della generazione Z — quella dei nati tra il 1997 e il 2010 — vissuta nelle piazze e raccontata sui social, anche i lavoratori del settore petrolifero, il sindacato dei professori, molti liberi professionisti e genitori si sono uniti alla lotta. Si sciopera, si contesta in tutto il Paese con una parola in comune: libertà. Gli iraniani e le iraniane chiedono la fine del regime teocratico che nel mentre accusa i «nemici stranieri» di guidare le proteste, chiedono l’abolizione del fondamentalismo, delle disuguaglianze economiche e di genere che affliggono il Paese da oltre 40 anni. Come sempre, ogni rivoluzione porta con sé slogan e immagini che rimangono nel racconto. Ieri, una fotografia che è entrata a far parte della storia di questa protesta. Si vede una ragazza in piedi sul tetto di una macchina che svetta proprio sopra la lunga coda umana sull’autostrada di Saqqez. Una mantella rossa, le scarpe da ginnastica, i capelli lunghi, sciolti. Ha il braccio destro alzato che più di ogni parola ci dice «libertà».

Iran, nuove proteste, ancora vittime. Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Gli uomini delle forze di sicurezza ci provano in ogni modo: con i proiettili, irrompendo nelle università, picchiando a morte. Ma non sono ancora riusciti a fermare i giovani iraniani che chiedono la fine del regime teocratico dell’Ayatollah Khamenei.

Anche ieri le strade di decine di città sono state invase dalle proteste. Si marcia nonostante le ultime dimostrazioni di forza delle autorità che il 26 ottobre, nel quarantesimo giorno dalla morte di Mahsa Amini, hanno ucciso, ferito, lanciato lacrimogeni contro le migliaia di persone che si sono date appuntamento a Saqqez, la sua città natale, dando vita alla manifestazione più grande delle ultime sei settimane, in ricordo della ragazza assassinata il 16 settembre a Teheran dalla «polizia morale» per una ciocca di capelli che le usciva dal velo. Intanto, «la famiglia di Mahsa è agli arresti domiciliari», racconta un cugino a .

Ma la brutalità della polizia sembra avere l’effetto contrario sulle piazze che invece di svuotarsi si riempiono. Un gruppo di persone ha fatto irruzione negli uffici del governatore di Mahabad, un’altra città dell’Iran nordoccidentale, dopo la morte di Esmaeil Mauludi, 35 anni. Secondo Hengaw, un’organizzazione per i diritti umani, Mauludi e un altro giovane, il ventunenne Shariati, sono stati «uccisi durante le proteste» per la commemorazione di Amini. Gli abitanti di Mahabad hanno partecipato ai funerali di Mauludi intonando «Morte al dittatore» e le forze di sicurezza hanno anche in questo caso cercato di bloccarli.

Ogni momento di incontro, anche un funerale o una commemorazione, è un’occasione di lotta. È successo per Amini, per Mauludi e anche per un’altra ragazza simbolo delle contestazioni. Si tratta di Nika Shakarami, la manifestante di 16 anni scomparsa il 20 settembre e ritrovata morta dopo dieci giorni. Ieri, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco anche sulla folla radunata nel cimitero dove Shakarami è sepolta, a Khorramabad. Alla commemorazione c’era la madre: «So che la tua grande anima sta guardando. Nella tua breve vita ho visto quanto hai sofferto». Su Bbc, la giornalista anglo-iraniana Rana Rahimpour scrive: «Ogni volta che il governo uccide un manifestante, viene avviato un timer di quaranta giorni e ogni volta il timer riparte. Uccidendo dozzine di ragazze e ragazzi, il governo si è intrappolato in un circolo vizioso. I giovani sono elettrizzati dalla protesta senza precedenti di mercoledì. Ora sono tornati in strada per celebrare il 40° giorno di Nika Shakarami. Il prossimo sarà quello di Sarina Esmailizadeh, e così via».

Intanto, il presidente iraniano Raisi e la guida spirituale Khamenei hanno dichiarato che le «rivolte» aprono la strada ad atti terroristici. Parole che arrivano dopo l’attacco mortale compiuto in un importante santuario sciita nella città meridionale di Shiraz, rivendicato dall’Isis.

Iran Human Rights fa i conti, quelli macabri ma necessari: dal 26 settembre almeno 234 manifestanti sono stati uccisi. Tra questi 29 bambini.

L’altro Iran. Martina Melli su L'Identità il 28 Ottobre 2022 

A oltre 40 giorni dalla scomparsa di Mahsa Amini, la ragazza curda morta ingiustamente per mano della polizia morale islamica, l’ondata di ribellione in Iran non accenna a fermarsi, anzi.

La notte tra mercoledì e giovedì è stata una delle più cruente dall’inizio delle sommosse.

Decine di migliaia di persone sono scese in piazza in tutte le principali città del paese dopo che nella serata del 26 ottobre, una vasta folla in lutto ha marciato verso il cimitero di Aichi, a Saqqez, dove è sepolta la giovane Mahsa, battendo le mani, gridando e suonando i clacson delle auto, fino a intasare completamente l’autostrada per 8 km, dal confine della città fino al cimitero.

“Le forze di sicurezza hanno sparato gas lacrimogeni e aperto il fuoco sulle persone in piazza Zindan, nella città di Saqqez”, ha twittato Hengaw Human Rights Organization, un gruppo con sede in Norvegia che monitora le violazioni dei diritti nelle regioni curde dell’Iran. Tutt’ora il numero delle vittime non è noto.

Dove arriva la repressione violenta arriva anche la censura, e proprio a Saqqez, a tutti i cittadini è stato immediatamente bloccato l’accesso a Internet “per motivi di sicurezza”.

A Teheran, la capitale, sono stati appiccati fuochi in strada, mentre centinaia di persone marciavano e manifestavano cantando slogan quali “Morte al dittatore”.

Nel quartiere Gomrok di Mahabad, nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, dopo che una delle stazioni di polizia della città è stata circondata, le forze governative hanno sparato sulla folla finendo per uccidere un uomo curdo, ha fatto sapere sempre Hengaw.

“Un giovane curdo è stato ucciso dal fuoco diretto delle forze di sicurezza iraniane” si legge su Twitter. “Questo giovane è stato colpito alla fronte”.

“I manifestanti hanno circondato anche una base della milizia Basij a Sanandaj, nella provincia del Kurdistan, appiccando incendi e respingendo la polizia” ha aggiunto Hengaw. Scene simili sono state registrate nella città di Ilam, vicino al confine occidentale dell’Iran con l’Iraq.

Anche altre città, come Andimeshk e Borujerd a ovest, e Lahijan, vicino al Mar Caspio a nord, sono state teatro di un riacuirsi delle proteste.

Secondo l’organizzazione norvegese, in una sola notte di tumulti, nelle città della regione più di 50 civili sono stati feriti dagli spari. Tra i responsabili, Ismail Zarei Koosha, governatore della regione del Kurdistan, nel nordovest del paese.

Secondo Iran Human Rights, un’altra Ong norvegese, almeno 234 manifestanti, inclusi 29 bambini, sono stati uccisi finora dalle forze di sicurezza durante le repressioni.

Nel frattempo, i leader iraniani hanno descritto i disordini come “rivolte” fomentate dagli stranieri che non faranno altro che aprire la strada al terrorismo, che in effetti non si è fatto attendere. Ieri, almeno 15 pellegrini sono rimasti uccisi in un attacco compiuto da terroristi armati in un luogo di culto sciita, il mausoleo di Shah Cheragh a Shiraz, nell’Iran sud-centrale. L’Isis ha subito rivendicato l’attentato. L’agenzia Mehr News ha parlato di circa 40 persone rimaste ferite nell’attacco, compiuto per mano di aggressori “takfiri”, cioè miscredenti, secondo una parola usata dai funzionari dell’Iran musulmano sciita per definire i gruppi islamici sunniti armati. L’ayatollah Khamenei ha dichiarato: “Puniremo gli autori di questo tragico crimine, condividiamo tutti il dovere di infliggere un colpo al nemico guerrafondaio”.

Pessime idee. L’Iran è il motore del terrorismo internazionale, ma Biden fa finta di niente pur di chiudere l’accordo. Carlo Panella su L'Inkiesta l'1 Settembre 2022

Teheran fornisce missili a Hezbollah contro Israele e droni alle truppe russe impegnate in Ucraina. Il regime degli ayatollah lavora per la destabilizzazione del Medioriente, ma al presidente americano non importa: si limita a voler bloccare i lavori per l’arricchimento dell’uranio

Alireza Heydarifard, da Unsplash

L’Iraq è sull’orlo di una guerra civile non già tra sunniti e sciiti, come da tradizione, ma tra partiti sciiti filo e anti iraniani, la cui posta in gioco è mantenere o cessare lo status di colonia iraniana dell’Iraq, i cui destini vengono decisi e pilotati dagli ayatollah di Teheran.

Un conflitto di tale portata che dalle elezioni dell’ottobre 2021 a oggi non è stato ancora possibile formare un nuovo governo. Negli stessi giorni continuano i raid israeliani in Siria per distruggere migliaia di missili puntati sullo stato ebraico che l’Iran ha fornito ad Hezbollah e ad altri gruppi militari. Contemporaneamente, Teheran fornisce centinaia di micidiali droni alle truppe russe per martellare le difese dell’eroico esercito ucraino. Infine, ma certo non per ultimo, il recente attentato nel cuore degli Stati Uniti a Salman Rushdie conferma una realtà incontrovertibile: l’Iran è il “motore immobile” del terrorismo internazionale e della destabilizzazione in Medio Oriente e in tutto il pianeta.

Pure, per decisione incauta di Joe Biden, tutti questi avvenimenti non hanno il minimo riflesso sulle trattative sul nucleare iraniano, denominate Jpcoa, in corso a Vienna. Trattative che ruotano rigidamente tutte e solo sul merito del programma iraniano di arricchimento dell’uranio e sulle sanzioni e che, per quanto riguarda il tema che invece dovrebbe essere centrale, cioè quello del ruolo fortissimo di destabilizzazione operato da Teheran in Medio Oriente, si limitano all’iscrizione o meno del corpo dei pasdaran nella lista americana delle organizzazioni terroriste. Elemento puramente formale e dall’impatto nullo, perché i pasdaran a migliaia e migliaia operano impunemente in paesi (Siria, Iraq, Libano, Gaza, Yemen) nei quali nulla vale la loro emarginazione da parte americana.

Joe Biden dunque ha deciso, facendo un grave errore, di non tenere in minimo conto quanto è avvenuto dopo la firma del primo accordo sul nucleare iraniano voluto da Barack Obama il 14 luglio 2015. Allora, appena siglato l’accordo e cessate le sanzioni, l’Iran, che sino a quel momento e da anni era uno Stato più che isolato e reietto dalla comunità internazionale, ha immediatamente sviluppato un poderoso intervento armato in tutto il Medio Oriente, tramite appunto i pasdaran, sotto la guida del geniale generale Qassem Suleimaini (ucciso da un drone americano il 3 gennaio 2020 a Baghdad per ordine di Donald Trump).

Nell’arco di un anno la potenza politico militare iraniana si è estesa così in Siria, nella quale ha letteralmente “salvato” il regime sull’orlo della fine di Bashar al Assad; in Yemen, dove ha scatenato la guerra civile degli Houti; in Libano; a Gaza, tramite la propaggine della Jihad Islamica, e naturalmente in Iraq, attraverso il governo del filo iraniano Nuri al Maliki.

Grazie così a quell’accordo sul nucleare, l’Iran è rapidamente diventato una solida potenza regionale nel nome della destabilizzazione armata.

Pure, durante la sua campagna elettorale, Joe Biden aveva dato segno di avere tratto la lezione dall’errore fatto da Barack Obama e da lui stesso (era il vice presidente) nel 2015 e si era detto pronto a discutere di un nuovo accordo sul nucleare – nel frattempo unilateralmente condannato da Donald Trump l’8 maggio 2018 – solo nel contesto di una più larga trattativa sulle ingerenze iraniane in Siria, Iraq, Libano, Yemen e Gaza.

Ma, una volta ripresi i colloqui a Vienna e nell’evidente tentativo di portare a casa un risultato internazionale di prestigio a qualsiasi costo per riscattare una presidenza scialba e in declino di consenso (vedi il disastroso, cruciale, abbandono dell’Afghanistan), Joe Biden ha accettato di trattare – anche su spinta di una Unione Europea più cieca che mai – solo e unicamente sull’arricchimento iraniano dell’uranio e sulle sanzioni. Inutili sono stati sinora gli allarmantissimi segnali contrari provenienti da Israele, Arabia Saudita e paesi del Golfo.

Ora, le trattative di Vienna sono ad un punto cruciale e molti segnali indicano che stanno per concludersi positivamente. Se così sarà, e sarà di nuovo il preludio per una ulteriore fase di destabilizzazione armata iraniana del Medio Oriente, l’unica speranza è che il Congresso americano non ratifichi il nuovo accordo.

Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2022.

Nella stagione degli animali abbandonati (80 mila gatti e 50 mila cani ogni anno in Italia, secondo la stima della Lav: il 25-30% d'estate) c'è un Paese che ha messo a punto un sistema per eliminare il problema alla radice. Si chiama «Legge per la protezione dei diritti delle persone contro gli animali» ed è in dirittura d'arrivo al Parlamento di Teheran. In pratica, cani e gatti diventano fuorilegge. Gli iraniani che vogliono tenerli in casa dovranno chiedere il permesso a uno speciale e arcigno Comitato governativo.

Sono previste multe di almeno 800 euro per l'acquisto, la vendita, il trasporto e il possesso di una serie di altri animali giudicati «pericolosi» (compresi coniglietti e tartarughe). Un reportage semi-clandestino della Bbc segnala una nuova ondata di arresti (di persone) e di sequestri (di cani) nella capitale Teheran. La polizia di recente ha annunciato una nuova stretta: per «proteggere la sicurezza del pubblico», da questa estate è vietato girare con i cani nei parchi.

Per gli animali confiscati c'è una prigione ad hoc, di cui si raccontano cose orribili. Immaginiamo gente che per i bisogni dei propri cari esce furtiva a orari impensati, oppure cerca di passare inosservata tra la folla con l'amato quattrozampe nascosto nella borsa, pronto per un istantaneo pit-stop al cardiopalma. Il dottor Payam Mohebi, presidente dell'Associazione Veterinari, coraggiosamente definisce la Legge contro gli animali «imbarazzante».

Lo sforzo legislativo per fare piazza pulita di questi amici pericolosi è cominciato alcuni anni fa, con un gruppo di deputati che volevano relegare i «pet» negli zoo oppure abbandonarli nel deserto. Tradizionalmente, nei Paesi islamici gli animali sono considerati impuri. I veterinari raccontano alla Bbc che in Iran è proibito importare cibo specifico dall'estero e che quello di produzione interna è spesso scadente.

Così si è creato un mercato nero, tanto fiorente quanto costoso per i proprietari: trafficanti di crocchette e pusher di scatolette le fanno arrivare per vie traverse, con prezzi quintuplicati negli ultimi mesi. E pensare che l'Iran nel 1948 fu tra i primi Paesi del Medio Oriente a promuovere leggi per il benessere degli animali. Ora persino il gatto persiano si troverà a essere considerato un paria nella sua stessa patria.

Chiara Clausi per “il Giornale” il 28 luglio 2022.

Migliaia di donne hanno marciato per le strade di Teheran e di altre città a capo scoperto, senza il tradizionale velo. Una sfida aperta agli ayatollah proprio in occasione della «Giornata nazionale dell'hijab e della castità», che si celebra il 12 luglio. La protesta è riesplosa, alimentata da una campagna sui social con l'hashtag #Hijab_No_Hijab o #No_to_obligatory_Hijab. 

 Un gran numero di video e foto sono diventati virali. In alcuni si vedono giovani e meno giovani senza l'hijab. Altri mostrano il violento confronto con la polizia. In uno si vede una madre che urla e chiede alla polizia di non portare via con il furgone la figlia arrestata, perché malata. 

L'obbligo del velo è tornato a lacerare la Repubblica islamica. «L'Occidente ha da tempo tentato di iniettare l'idea che la politica e la religione siano separate, ma il popolo iraniano ha rifiutato questa affermazione» ha ribadito la Guida Suprema Ali Khamenei. «L'obiettivo dei nemici è diffondere il dubbio tra le persone e scuotere la loro fede, che è il fattore principale per il mantenimento del Paese».

Poi ha aggiunto che è l'Occidente stesso ad aver trasformato le donne in merci. In base alla legge iraniana della sharia, imposta dopo la rivoluzione del 1979, le donne sono obbligate a coprirsi i capelli e a indossare abiti lunghi e larghi per mascherare la propria figura. I trasgressori devono affrontare rimproveri pubblici, multe o arresti. Ma decenni dopo la rivoluzione, i religiosi al potere lottano ancora per far rispettare la legge. Molte donne di tutte le età e background indossano cappotti attillati lunghi fino alle cosce e sciarpe dai colori vivaci spinte indietro per mostrare i capelli.

Ma i punti oscuri del regime sono anche altri. Il Centro Abdorrahman Boroumand per i diritti umani e Amnesty International hanno reso noto che in Iran, nei primi sei mesi del 2022, sono state messe a morte almeno 251 persone. Di questo passo il totale delle esecuzioni del 2021, 314, sarà superato ben presto. 

«Nei primi sei mesi del 2022 le autorità iraniane hanno eseguito in media almeno una condanna a morte al giorno. Questa macchina della morte statale mette in atto un abominevole assalto al diritto alla vita. Si rischia di tornare al 2015, quando vi fu un'altra scioccante ondata di esecuzioni», ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l'Africa del Nord. 

«Chiediamo una moratoria sulle esecuzioni in vista della completa abolizione della pena capitale», ha aggiunto invece Roya Boroumand, direttrice del Centro Abdorrahman Boroumand.

La maggior parte delle esecuzioni del primo semestre del 2022, 146, hanno riguardato il reato di omicidio. Ma sono state eseguite al termine di processi irregolari. Almeno 86 prigionieri sono stati messi a morte per reati di droga per i quali, secondo il diritto internazionale, non dovrebbe essere inflitta la pena capitale. Il numero reale è probabile che sia più alto, data la segretezza che circonda la pena di morte in Iran.

La scia di sangue tra i pasdaran che sta allarmando l’Iran. Mauro Indelicato su Inside Over il 22 giugno 2022.

É partito tutto il 22 maggio scorso. Alcuni uomini a bordo di una motocicletta hanno freddato a pochi passi dalla propria abitazione Sayad Khodayari. Non proprio uno qualunque. Secondo le stesse fonti di Teheran, si trattava di uno dei membri delle “Quds Force” dei guardiani della rivoluzione. Un pasdaran quindi tra i più importanti. L’unità in questione è quella che si occupa delle attività all’estero dei guardiani. Ma l’uccisione di Khodayari ha rappresentato soltanto il primo di una lunga serie di episodi di sangue. Una scia proseguita anche a giugno e che sta gettando non poche ombre sulla turbolenta situazione in medio oriente.

La lunga scia di sangue

La modalità dell’omicidio di Khodayari ha subito fatto pensare alla mano del Mossad, il potente servizio segreto israeliano. Anche perché già in altre occasioni, in anni passati, i servizi dello Stato ebraico sono riusciti a colpire nel centro di Teheran. Operazioni mai confermate da Israele e accuse, da parte iraniana, poco più che silenti per non dare troppo l’idea di essere vulnerabili anche a casa propria. In passato tuttavia gli “omicidi eccellenti” in Iran hanno riguardato persone direttamente coinvolte nel programma di arricchimento nucleare. Il cruccio principale cioè di Israele, preoccupato dalla possibilità un giorno che gli ayatollah possano avere in mano armi atomiche. Khodayari, pur se membro di spicco dei pasdaran, non sembrava direttamente coinvolto nei progetti di arricchimento dell’uranio.

Se la sua morte ha destato non pochi sospetti, con gli stessi pasdaran che hanno parlato dell’omicidio come di “atto di affiliati all’arroganza globale”, quanto avvenuto in seguito ha ulteriormente destabilizzato il quadro. Pochi giorni dopo infatti, si è avuta la notizia del decesso di Ali Esmailzadeh, un colonello molto vicino, secondo diverse fonti iraniane, a Khodayari. A darne comunicazione è stato Iran International, testata collegata all’opposizione iraniana all’estero. Un sito quindi che potrebbe avere tutto l’interesse a mettere in cattiva luce il governo di Teheran. Tuttavia la ricostruzione fatta sembrerebbe poggiare su fonti interne alle autorità della Repubblica Islamica. In particolare, la morte di Esmailzadeh sarebbe da ricollegare a un “incidente domestico“. La vittima sarebbe caduta dal tetto della propria abitazione. Ma secondo Iran International, l’intelligence dei pasdaran avrebbe indicato nel suicidio la causa ufficiale della morte. Alla famiglia le autorità avrebbero parlato di un bigliettino lasciato da Esmailzadeh, in cui si parlava del suo stato di depressione dopo la recente separazione dalla moglie.

Cadute accidentali o suicidi in medio oriente non sempre sono apparsi in passato “casuali”. Tra molti gruppi dell’opposizione iraniana si è iniziato a parlare di un’uccisione voluta dagli stessi guardiani della rivoluzione per via di presunti coinvolgimenti di Esmailzadeh nella morte di Khodayari. A giugno la situazione è poi letteralmente precipitata. Nel giro di pochi giorni sono stati trovati morti Ali Kamani e Mohammad Abdous, altri due membri dei pasdaran impegnati però nella divisione aerospaziale. Il 15 giugno la stessa sorte è toccata a un terzo guardiano della medesima divisione, Wahab Premarzian. Tre pasdaran morti in circostanze non chiare in pochi giorni, dopo i decessi di due comandanti delle guardie della rivoluzione, costituiscono molto più di un campanello d’allarme. Ma negli ultimi giorni a morire non sono stati soltanto pasdaran. Il 4 giugno infatti, è stato trovato senza vita Ayoob Entezari, uno scienziato impegnato nello sviluppo di droni e missili in uno dei centri di ricerca più importanti del Paese.

I sospetti di Teheran sulla morte dello scienziato

Dall’Iran non sono filtrati commenti dei pasdaran o del governo sulla morte dei militari. Lunedì però dalla capitale iraniana qualcosa si è mosso in relazione al decesso di Ayoob Entezari. “Non si è trattato di un incidente”, ha dichiarato il comandante dei guardiani della rivoluzione, Hassani Ahangar. Un’ammissione quindi che qualcuno, probabilmente dall’esterno, ha colpito. “Lui però non era il vero obiettivo di chi lo ha ucciso – ha aggiunto il comandante – lo scienziato è stato colpito da un sabotaggio industriale. Noi dobbiamo prevenire tali minacce con metodi di intelligenza artificiale”. Dopo le tante vittime di giugno, tra militari e scienziati, quello di Ahangar è stato il primo vero commento ufficiale da parte di Teheran.

L’accordo sul nucleare sullo sfondo?

La scia di sangue ha contribuito ad acuire la tensione tra Iran e Israele. Le autorità dello Stato ebraico hanno emesso nei giorni scorsi un avviso ai propri connazionali in Turchia, esortandoli alla massima attenzione per possibili ritorsioni iraniane. Sono stati anche sconsigliati i viaggi verso il Paese anatolico, visto come possibile sede di attacchi contro obiettivi o cittadini israeliani. Che tra Israele e Iran emerga una certa tensione non è certo una novità. Sul perché però proprio adesso si sta arrivando a un’escalation, la risposta potrebbe essere ricercata nelle trattative in corso per il Jcpoa, l’accordo cioè sul nucleare di Teheran. Siglato nel 2016 dopo lunghe trattative al termine delle quali era stato previsto, tra le altre cose, la fine delle sanzioni contro l’Iran, il trattato è stato poi strappato dall’ex presidente Usa Donald Trump. Il suo successore Joe Biden ha riavviato le trattative che prevedono il formato 5+1: ossia i cinque Paesi con il seggio permanente al consiglio di sicurezza dell’Onu (Usa, Regno Unito, Francia, Russia e Cina), più la Germania.

Israele si oppone a questo accordo o, quanto meno, non vuole vengano inserite condizioni in grado di porre l’Iran nelle giuste condizioni per realizzare l’atomica. Le autorità dello Stato ebraico hanno visto con sospetto le ultime mosse di Washington, non ultima la possibilità di togliere proprio i pasdaran dalla lista delle organizzazioni terroristiche. La scia di sangue a Teheran potrebbe quindi essere figlia di un avvertimento. Se i sospetti sul Mossad fossero confermati, Israele potrebbe aver lanciato agli Usa e all’Iran il segnale di poter colpire i principali esponenti dei pasdaran e i principali artefici dei piani di armamento di Teheran. Ma non sono da escludere nemmeno regolamenti di conti interni agli apparati iraniani, in vista delle fasi decisive delle trattative.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

L’Iran e un secolo di silenzio sulla «questione dell’Ahwaz». Camille Eid su Avvenire l'11 giugno 2022.  

Il conflitto balza agli onori della cronaca solo in occasione di proteste o di attentati che avvengono nella provincia sudoccidentale iraniana del Khuzestan. Eppure lo stillicidio va avanti da esattamente un secolo, ossia da 36.493 giorni, con un bilancio di alcune centinaia di morti. La questione dell’Ahwaz, come viene definita nel mondo arabo, è iniziata nel luglio 1922, quando il futuro scià Reza Pahlavi ha inviato i suoi uomini per assoggettare l’emirato semi indipendente dell’Arabistan, popolato da arabi. La colonna militare persiana fu annientata per errore sul suo cammino, ma il fatto è bastato per allarmare lo sceicco Khazal circa le reali intenzioni dei suoi vicini.

La sconfitta nel 1924 dello sceicco – e il suo conseguente esilio a Teheran – ha portato all’annessione dell’Arabistan alla Persia, dando luogo a una lunga serie di insurrezioni e rivolte: prima nel 1925, poi nel 1928, 1940, 1943, 1945, 1956-70, 1979, 2005, 2011, infine nel 2018. La politica perseguita dai Pahlavi contemplava l’alterazione della realtà demografica attraverso la confisca delle terre agricole degli arabi ahwazi allo scopo di insediarvi centinaia di migliaia di membri di altre etnie (delle tribù lori e bakhtiari, in particolare), ma anche la «persianizzazione» dei toponimi: l’antica capitale al-Mohammarah viene ribattezzata Khorramshahr, al-Khafajiah Susangerd, al-Salihiyah Andimeshk, al-Fallahiyah Shadegan, e persino il nome di Arabistan – il Paese degli Arabi – ha ceduto il posto a quello di Khuzestan. Il passaggio dalla monarchia alla Repubblica islamica non ha migliorato di una virgola la situazione. Le varie sigle che rivendicano «la liberazione dell’Ahwaz» (Asmla, Afla e altre) hanno intanto intensificato la loro azione, culminata nell’attentato del 22 settembre 2018 avvenuto nella città di Ahvaz contro una parata militare, che ha provocato 25 morti e 60 feriti.

Gli assalitori si sarebbero travestiti da pasdaran prima di aprire il fuoco contro i soldati che sfilavano in commemorazione dell’inizio della guerra Iran-Iraq (1980-1988) che proprio nel Khuzestan ha visto le battaglie più sanguinose del conflitto. Attentati cui Teheran risponde ricorrendo alla repressione e all’eliminazione fisica dei capi separatisti, anche all’estero, come avvenne nel 2017 all’Aia.

Per le autorità iraniane, gli attentati sono solo un tassello nella più ampia campagna di destabilizzazione del loro regime portata avanti dagli Stati Uniti e soprattutto dall’Arabia Saudita, accusata di avere «preso il posto» di Saddam Hussein nel muovere le fila del separatismo arabo.

In questo clima, le frequenti proteste della provincia, come quelle contro la mancanza di acqua oppure contro la costruzione di dighe che sommergono interi villaggi arabi, destano immediatamente sospetti nelle sfere più alte del regime. È successo di recente lo scorso 23 maggio dopo il crollo di un palazzo ad Abadan che è costato la vita a 43 persone. Ma invece di premurarsi a mandare i soccorsi, le autorità si sono preoccupate di inviare i basiji, i volontari della Rivoluzione incaricati di sedare le proteste anti governative.

Chi era Mohammad Reza Pahlavi. Mauro Indelicato su Inside Over il 26 gennaio 2022.  

Reza Pahlavi è noto per essere l’ultimo Scià, titolo reale esistente durante la monarchia in Iran. Il suo regno inizia nel 1941 e termina con la rivoluzione islamica del 1979. Il suo nome è legato soprattutto alla cosiddetta “rivoluzione bianca”, una serie di iniziative politiche volte a occidentalizzare l’Iran. Nota anche la sua storia d’amore con la seconda moglie Soraya, oggetto di film e romanzi negli anni successivi.

La formazione di Reza Pahlavi

Reza Pahlavi nasce a Teheran il 26 ottobre 1919. Il suo nome completo è Mohammed Reza Pahlavi ed è figlio di Reza Pahlavi, generale iraniano impegnato in quel momento nel tentativo di detronizzare lo Scià Ahmad Qajar. Un anno dopo la nascita di Mohammed Reza Pahlavi, il padre riesce ad ottenere il potere con la nomina a primo ministro, ma solo nel 1925 viene formalmente incoronato quale nuovo Scià.

Mohammed Reza Pahlavi quindi non nasce quale erede al trono, ma viene insignito di questo titolo all’età di sei anni, quando il padre diventa sovrano. La nomina quale erede è dovuta al fatto che Mohammed, pur essendo il terzogenito, è il primo figlio maschio dello Scià. Già in adolescenza quindi “studia” quale futuro monarca e futuro capo di Stato.

Il padre nel 1932 lo manda all’istituto Le Rosey, in Svizzera. Si tratta di una delle più importanti scuole private elvetiche, dove il giovane Reza Pahlavi ha la possibilità di vedere da vicino la cultura occidentale. Circostanza quest’ultima importante per comprendere il suo futuro operato come Scià. Rientra in Iran (nome con cui il padre inizia a far identificare il Paese nel 1935, dopo che per diverso tempo la designazione ufficiale è stata quella di Regno di Persia) nel 1936, dove conclude i suoi studi superiori prima di iscriversi all’accademia militare.

La repentina ascesa al trono del 1941

La seconda guerra mondiale non coinvolge inizialmente l’Iran. Lo Scià Pahlavi dichiara infatti la neutralità di Teheran e l’equidistanza con le parti in lotta. Nel 1941 però la situazione cambia. Il primo ministro britannico Wiston Churchill e il leader sovietico Josiph Stalin pianificano un’invasione del Paese nell’agosto dello stesso anno. Gli alleati temono infatti un avvicinamento tra l’Iran e la Germania nazista, circostanza però mai confermata dagli iraniani. Il Paese diventa ad ogni modo strategico. Il cosiddetto “corridoio persiano” garantisce il rifornimento di armi ai sovietici da poco invasi da Hitler nell’ambito dell’operazione Barbarossa.

L’operazione militare ideata da Londra e Mosca ha luogo effettivamente nell’estate del 1941. Il 28 agosto le truppe inglesi e sovietiche occupano già buona parte del territorio iraniano e lo Scià ordina un cessate il fuoco che sa di vera e propria resa. Churchill e Stalin premono il sovrano per firmare la cessazione di ogni velleità e l’interruzione di ogni rapporto con i Paesi dell’asse. Di fronte a queste condizioni, Reza Pahlavi decide il 16 settembre di lasciare il Paese. Lo Scià abdica a favore del figlio, il quale all’età di 22 anni diventa il 17 settembre nuovo sovrano.

La politica filo occidentale di Reza Pahlavi

Da quel momento in poi il nuovo Reza Pahlavi al potere applica una linea marcatamente filo britannica. Accade durante il conflitto, così come dopo la fine della seconda guerra mondiale. La politica vicina a Londra si accentua con l’inasprimento, a partire dal 1947, della guerra fredda. Teheran dunque diventa un attore filo occidentale nella regione mediorientale. Nel frattempo il Paese diventa strategico sotto il profilo economico ed energetico. Si iniziano a sfruttare i pozzi di petrolio e Reza Pahlavi si mostra favorevole a concedere contratti a società britanniche. Nel frattempo novità importanti arrivano anche dalla vita privata del sovrano iraniano. Dopo aver sposato nel 1939 Fawzia d’Egitto, figlia di Fuad I d’Egitto, l’anno successivo nasce la primogenita Shahnaz Pahlavi. La coppia però divorzia nel 1949. È la fine del primo dei tre matrimoni di Reza Pahlavi.

Il primo esilio del 1953

A livello politico tiene sempre banco la questione delle concessioni petrolifere. L’Iran formalmente è una monarchia costituzionale, con un primo ministro a guidare un governo e un parlamento, chiamato Majilis, a detenere il potere legislativo. Il Majilis appare restio a concedere ulteriori contratti alle società inglesi e, in particolare, alla Anglo-Iranian Company (Aico). Contro l’Aico si schierano diverse fette della società iraniana. In tanti non vedono di buon occhio la politica accondiscendente verso Londra. Tra questi gruppi ci sono partiti e movimenti di sinistra, così come gli islamisti e una parte del clero. Un estremista religioso nel 1951 uccide il primo ministro Ali Razmara, favorevole a un nuovo accordo con l’Aico.

Al suo posto il Majilis riesce a far eleggere Mohammad Mossadeq. Quest’ultimo è uno dei principali oppositori al rinnovo delle concessioni all’Aico e, una volta al governo, grazie alla maggioranza in parlamento fa approvare un disegno di legge di nazionalizzazione delle industrie petrolifere. Ha inizio così quella che alla storia passa come la “crisi di Abadan”, dal nome della località dove hanno sede buona parte delle industrie petrolifere iraniane. Il Regno Unito preme sullo Scià affinché sostituisca Mossadeq, cosa che avviene nel 1952 ma alla notizia della destituzione del primo ministro a Teheran e nelle principali città scoppiano proteste da parte di migliaia di cittadini. Reza Pahlevi è costretto quindi a ridare l’incarico a Mossadeq. Tornato alla guida del governo, il contrasto con lo Scià è talmente forte da costringere quest’ultimo all’esilio nel 1953.

Reza Pahlevi vola quindi a Roma e qui resta per diversi mesi. Dalla sua parte però ha ancora l’esercito, preoccupato delle velleità di Mossadeq di trasformare l’Iran in una repubblica. Circostanza non particolarmente gradita allo stesso clero sciita, nonostante i contrasti con lo Scià. Questo favorisce un colpo di Stato militare che spiana la strada al repentino rientro dall’esilio di Reza Pahlevi. Da questo momento in poi il sovrano accentua il carattere autoritario della monarchia.

Il matrimonio con Soraya

Dopo la fine del primo matrimonio, lo Scià intraprende una relazione con Soraya Esfandiary Bakhtiari. Quest’ultima è figlia di un importante rappresentante della tribù Bakhtiari, una delle più influenti nel Paese. Il padre per alcuni anni è ambasciatore in Germania e qui si sposa con Eva Karl, ebrea tedesca futura madre di Soraya. Il matrimonio tra lo Scià e la giovane Bakhtiari è sì combinato ma tra i due nasce una vera storia d’amore, capace di infiammare per anni anche i rotocalchi in occidente. Soraya ha uno stile di vita occidentale e quando si trova in Germania sogna di fare l’attrice. Anche per questo la stampa europea si accorge della coppia. Ma la favola d’amore non ha un lieto fine. Nel 1958 Reza Pahlavi ripudia la moglie per via della mancanza di eredi. Prima di compiere questo gesto, lo Scià, dicono le cronache dell’epoca, sarebbe pronto ad abdicare e a lasciare il trono al fratello per garantire continuità dinastica. Quest’ultimo però muore in un incidente aereo. Si arriva quindi alla decisione che pone termine al matrimonio. Soraya va a vivere in Francia dove intraprende la carriera di attrice e soggiorna spesso in Italia, diventando così una delle icone della “Dolce Vita” negli anni ’60.

Lo Scià contra nuove nozze il 21 dicembre 1959 con la principessa Farah Diba. Da questa unione nel 1960 nasce Reza Ciro Pahlavi, ancora oggi considerato dai monarchici iraniani come vero pretendente al trono. Reza Pahlavi però appare ancora innamorato di Soraya e i due si incontrano in segreto.

La "rivoluzione bianca"

Sotto il profilo politico, dopo il breve esilio del 1953 lo Scià dà vita a un sistema sempre più autoritario e accentratore. In politica estera la posizione di Teheran continua a essere vicina a quella di Londra e a quella occidentale. Una circostanza che lo spinge ad avvicinarsi all’occidente anche sul piano interno. Nel 1962 si dà il via a quella che gli storici chiamano “rivoluzione bianca”. Si tratta di un vasto programma volto, nelle intenzioni di Reza Pahlavi, a “modernizzare” l’Iran. Viene introdotto il suffragio universale consentendo anche alle donne il voto, si creano incentivi per l’alfabetizzazione, ancora molto scarsa nelle aree rurali, e inoltre vengono approvate le riforme agrarie e industriali. Molte terre e molti beni appartenenti al clero sciita vengono espropriate e redistribuite. La rivoluzione bianca incontra però non pochi ostacoli, sia politici che sociali. Il Paese non sembra pronto e né tanto meno intenzionato a digerire in modo così veloce le riforme.

La rivoluzione islamica del 1979 e il definitivo esilio

La rivoluzione bianca nel corso degli anni ’70 scatena proteste sia tra partiti e movimenti di sinistra, sia tra i membri del clero sciita. La popolazione dal canto suo inizia a vedere con sospetto il crescente autoritarismo dello Scià e a criticare aspramente la corte e la corruzione percepita all’interno di essa. Nel 1978 sono i partiti di sinistra a scendere in piazza e nel corso di questo anno le statue dello Scià vengono divelte nelle università. Poi si aggiungono anche i movimenti religiosi. L’Ayatollah Khomeini, in esilio a Parigi dall’inizio della rivoluzione bianca, lancia proclami ai rivoltosi. È l’inizio della rivoluzione che, ben presto, viene dominata dagli islamici e assuma la connotazione di una rivolta islamica.

Nel gennaio del 1979 la situazione nelle principali città è caotica. Anche gli Usa, per bocca del presidente Carter, tolgono l’appoggio a Reza Phalavi, invitato ad andare fuori Paese. Il 16 gennaio lo Scià abbandona l’Iran. Questa volta l’esilio si rivelerà definitivo. Il sovrano, che da poche settimane scopre di essere malato di cancro, vola in Marocco assieme alla moglie. Pochi mesi dopo entrambi vengono condannati, dalle nuove istituzioni della Repubblica Islamica proclamata il 30 marzo, a morte in contumacia. Finisce l’era degli Scià e l’ultimo monarca iraniano trascorre i mesi successivi fuori dal Paese.

La morte avvenuta nel 1980

Dopo il Marocco, Reza Pahlevi vola negli Usa. Qui viene diagnosticata nel dettaglio la sua malattia. Si tratta di un tumore affine al linfoma non Hodgkin, uno dei più gravi. Intuisce di essere in uno stadio terminale sia della malattia che del suo percorso di vita. Negli Stati Uniti prova a curarsi e per questo gli viene concesso un visto umanitario. Da Teheran però lo Scià viene reclamato. I nuovi leader del Paese sostengono di dover eseguire la condanna decretata contro di lui. Carter si oppone e, per tutta risposta, i pasdaran nella capitale iraniana prendono in ostaggio gli impiegati dell’ambasciata Usa. Nasce la cosiddetta “crisi degli ostaggi”, che lo stesso Scià non arriva a vedere.

L’occupazione della sede diplomatica termina solo il 20 gennaio 1981. Lui invece muore in Egitto il 27 luglio 1980. Il governo del presidente Sadat è l’unico ad accoglierlo e nella capitale egiziana trascorre gli ultimi giorni di vita. Reza Pahlavi si trova ancora oggi sepolto al Cairo.

·        Quei razzisti come gli iracheni.

Chiedi a Baghdad della guerra. Risponderanno: «Quale guerra?». L’Ucraina, a queste latitudini, non fa notizia. E il petrolio ora lo comprano da Mosca. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Novembre 2022

E anche stamattina ho letto le ultime analisi sulla Russia. Gli ultimi conteggi di missili, e droni e carrarmati. Si discute di T-72 e KH-101, e Buk, Bulava e Iskander, Bayraktar T82 turchi contro Mohajer-6 iraniani. Ma qual è il vero fronte, oggi, in una guerra? Dove si combatte? Qual è la cronaca della battaglia: quella sull’avanzata su Melitopol, o quella alla pagina dopo, sulle file alla Caritas?

Cosa è più decisivo, per la vittoria e la sconfitta?

E cosa è la vittoria? E cosa la sconfitta?

Le parole sono specchio della vita. E non a caso si dice: la guerra di Siria, la guerra di Bosnia. Non: la guerra in Siria. In Bosnia. E questa è la guerra di Ucraina.

In Ucraina. Ma non per l’Ucraina.

Dal 22 febbraio non si parla d’altro. A Kiev sono accreditati oltre 11mila giornalisti stranieri. Ma nel mondo in cui sto, l’Ucraina non fa notizia. Ieri il ministro degli Affari Esteri dell’India era con Sergei Lavrov, il ministro degli Affari Esteri della Russia: e non l’ha mai citata. Ha snocciolato dati sull’espansione dei legami d’affari, e sul petrolio che ora compra da Mosca. Aumentato dal 2% al 23%. E ha concluso dicendo: Le nostre relazioni non sono mai state migliori. Ci guadagniamo, ha detto. Qual è il problema?

L’India. Che ha da sola il doppio degli abitanti di Europa e Stati Uniti insieme.

A Baghdad ho chiesto a un deputato quali fossero le ripercussioni della guerra sull’Iraq. Quale guerra? ha detto. I jihadisti? O gli americani? L’Ucraina neppure gli è venuta in mente. Ma perché per l’Iraq, non fa differenza. Anzi. Con il petrolio alle stelle, ha un surplus di bilancio di 80 miliardi di dollari. L’unica differenza sono le ONG. Che sono andate via tutte. Insieme agli aiuti internazionali. E l’Iraq, ora, è fuori dai radar. Ma per molti, non è una cosa negativa. Al contrario. Perché significa il ritiro dell’Occidente. Degli Stati Uniti. Che era già in corso, in realtà. In Siria la tregua è arrivata dal processo di Astana: da trattative tra la Russia, l’Iran e la Turchia. E basta. A ottobre, quando ha chiesto all’OPEC di produrre più petrolio per sostenere l’Europa a corto di gas, Joe Biden non ha avuto un no, ma più di un no: l’Arabia Saudita ha tagliato 2 milioni di barili al giorno.

Vogliamo punirla? Vogliamo adottare sanzioni? Guardate l’Afghanistan. Il cui ministro dell’Interno, Siraj Haqqani, ha sulla testa una taglia dell’FBI da 5 milioni di dollari. In un anno, i talebani hanno tenuto oltre 500 incontri bilaterali. Quasi un quinto con la Cina: 82. Ma hanno stretto accordi con la Turchia, il Qatar, l’Iran, il Pakistan, l’Arabia Saudita, il Giappone. E naturalmente, con Putin.

Non siamo più capaci di isolare neppure i talebani.

Ma in fondo, perché dovremmo esserlo? Cosa abbiamo dato all’Afghanistan? Ricchezza? Siamo arrivati che era alla fame un afghano su tre, e siamo andati via che era alla fame un afghano su due. Abbiamo dato democrazia, forse? I nostri alleati erano le milizie locali. Città a città. O resta l’esempio, magari? I nostri valori? I famosi diritti umani? Il tribunale dell’Aja sta indagando sui crimini dei talebani. Ha escluso di indagare sulle accuse alla NATO. Poi in aula c’è scritto: La legge è uguale per tutti.

Abbiamo dato guerra. E ora guerra è quello che ci viene restituito.

Nel mondo in cui sto, a febbraio erano tutti indifferenti. Nessun sostegno a Putin: ma nessuna solidarietà a Europa e Stati Uniti. Ma ora, è tutto un viavai da Mosca. Putin non è il loro eroe. Ma è come se fosse scattato il «tana libera tutti»: uno a uno, si stanno riaprendo tutti i fronti. Tutti quelli in cui la Russia è coinvolta: e concede nuovi spazi di manovra. Il più visibile è quello di Siria e Iraq: in cui la Turchia sta riguadagnando terreno per rompere la continuità curda. Ma anche Hamas. Che ha riallineato Gaza all’Iran. Il principale alleato di Putin in Medio Oriente. O il Kosovo. Con i serbi, che sono l’avanguardia di Putin in Europa. E la Libia: è un caso che siano ricominciati gli sbarchi? Era esattamente l’obiettivo di Putin: un ordine internazionale multipolare. Per ora, per la verità, più che un ordine è un disordine. Ma di certo, è il tramonto del nostro dominio.

Ma stiamo ancora qui a contare quanti droni restano.

A discutere di arsenali.

Ancora siamo alla cavalleria. Eppure, uno dei pilastri della teoria militare sovietica è la dottrina della correlazione delle forze. L’idea, cioè, che lo scontro armato non è che una parte di uno scontro più ampio, e il ruolo della politica è coprire l’insieme del campo strategico. E qual è il nostro punto vulnerabile, oggi? La difesa antiaerea? O il gas, il grano? I fertilizzanti? L’interdipendenza economica?

Ma è vietato scrivere. Vietato riflettere. Subito ti tacciano di essere con Putin.

Subito ti dicono: E allora? Kiev dovrebbe forse arrendersi?

No. Si tratta solo di non dimenticare qual è il fronte. Qual è l’obiettivo.

Possiamo fermare Putin in Ucraina. Certo. A Kherson. Ma non è lì che sta avanzando.

L’Iraq resta in bilico tra caos e guerra civile. Dopo le elezioni dell’ottobre scorso i partiti non sono riusciti a dar vita a un governo e ora si profilano nuove consultazioni. Ma i leader accendono la piazza e innescano la violenza. Marta Bellingreri su L'Espresso il 12 settembre 2022

Almeno 30 morti e 380 feriti in meno di 24 ore. È questo il bilancio del 29-30 agosto a Baghdad, giorni in cui il leader sciita Moqtada al-Sadr della coalizione vincente alle ultime elezioni di ottobre 2021, ha premuto il tasto “play” e poi “stop” con la sua abituale sequela di annunci, richieste e dichiarazioni, spesso in forma di tweet. Prima, comunicando il suo ritiro dalla vita politica, che ha scatenato l’irruzione dei suoi sostenitori nella Green Zone e quindi attorno ai palazzi governativi, e lo scontro in strada con le forze armate e le milizie sciite pro-Iran rivali; e il giorno dopo, chiedendo il ritiro e la fine della violenza, richieste alle quali i suoi sostenitori hanno prontamente obbedito, liberando la Green Zone nel giro di un’ora.

«Abbiamo passato 24 ore molto dure», racconta a L’Espresso Ibtisam Aziz, che lavora nell’ufficio del dipartimento del primo ministro, e che abita nella stessa Green Zone, considerata per molto tempo inattaccabile, essendo l’area più militarizzata della capitale irachena e sede delle ambasciate, simbolo del potere e dei privilegi contro cui i cittadini iracheni continuano a protestare.

«Non abbiamo dormito tutta la notte a causa dei combattimenti e del caos, oltre ai danni che sono stati fatti alle fogne, ai serbatoi dell’acqua e alle finestre». Nelle stesse lunghe ore di Aziz, i sostenitori di Moqtada al-Sadr hanno anche nuotato nella piscina del palazzo presidenziale, tuffi che ricordano l’irruzione nel palazzo presidenziale dello Sri Lanka, per protesta contro la crisi economica del Paese, solo due mesi fa. Qui, però, al netto di tuffi e passeggiate, si sono riversati gli uomini di milizie armate fino ai denti e che possono in poche ore far piombare il fragile Paese nell’incubo della guerra civile. Da un lato, Saraya al-Salam, le “Brigate della Pace”, fedeli ad al-Sadr; dall’altro l’esercito e i paramilitari filoiraniani di Hashd el-Shaabi, le “Forze di mobilitazione popolare”, le stesse che hanno combattuto a Mosul contro l’Isis e che sebbene formalmente integrate nelle truppe regolari, mantengono un loro potere di milizia su diversi territori. «Hamdulilla, grazie a Dio un milione di volte, è finito tutto in un giorno», conclude Aziz: «Perché se si fosse prolungato ancora, sarebbe stato ancor più difficile fermarlo: come la guerra civile in Libano, che è durata 15 anni».

Fuori dalla Green Zone invece, la testimonianza di Husam Sobhi, riferisce di una tensione non ancora terminata: «Le strade di Baghdad sono nervose, piene di paura che la violenza possa riesplodere da un momento all’altro», dice l’attivista e ambientalista che ha preso parte per mesi alle proteste di ottobre 2019, la rivoluzione di ottobre in piazza Tahrir, repressa fortemente dalle forze di sicurezza irachene con centinaia di morti e migliaia di feriti. «Adesso, e sottolineo queste mie parole, fino ad adesso, non è più successo niente, ma viviamo sul chi va là. Io abito non distante dalla Green Zone: è stato un giorno terrificante, sentivamo spari, granate, missili, tutto il tempo fino alle 4 del mattino».

Queste ore sono il risultato di mesi di stallo politico a seguito delle elezioni in cui la coalizione vincente di al-Sadr, che voleva creare una maggioranza con il partito sunnita Taqqadum, guidato da Al-Halbusi e il Partito democratico del Kurdistan (Kdp), guidato da Masoud Barzani, non è riuscita a formare il governo. I partiti che non hanno ottenuto un numero sufficiente di voti (principalmente le forze sostenute dall’Iran) non erano soddisfatti dei risultati e hanno rifiutato la formazione di una maggioranza di governo che non li comprendesse, alleandosi nel “Quadro di coordinamento”, al fine di aumentare i propri numeri e sostituire il movimento di al-Sadr.

Così, a giugno il politico e leader religioso ha chiesto un ritiro di massa dei suoi parlamentari e a fine luglio ha incitato all’occupazione del Parlamento che è durata oltre un mese. I lavori in aula sono ripresi solo il 4 settembre, e il giorno seguente i vertici dell’esecutivo iracheno e i principali partiti hanno concordato, in una riunione boicottata da al-Sadr, di lavorare per indire elezioni anticipate. L’ufficio del primo ministro ancora in carica Mustafa al-Kadhemi ha scritto in un comunicato che i rappresentati politici dei partiti hanno «concordato di formare un comitato tecnico che comprenda le varie forze politiche (…) per arrivare a elezioni anticipate», una delle richieste anche di al-Sadr e dimostranti.

Per quanto l’Iraq post-2003 non sia stato estraneo a crisi politiche infra-sciite, quest’ultima ha rappresentato uno dei momenti più gravi, in un periodo storico in cui la fiducia dei cittadini verso il mondo politico è ormai perduta, come ha provato la bassissima affluenza alle urne dello scorso ottobre. Cosa che rischia di ripetersi alle prossime, ennesime, elezioni anticipate. La figura di al-Sadr incarna in parte gli ultimi decenni di storia irachena: figlio di uno dei chierici sciiti uccisi dal regime di Saddam Hussein, si è fatto leader della lotta armata contro l’invasione americana post-2003 che ha buttato giù il regime di Saddam. Da allora, non ha mai abbandonato la scena politica, rendendosi protagonista di terremoti e volendo testare costantemente il suo consenso tra la popolazione più povera.

La società civile irachena, così come riunita nel gruppo “Iniziativa di solidarietà della società civile irachena”, vede le sfide politiche, ambientali, sociali molto urgenti e scottanti, e però non si arrende, ribadendo nell’ultimo comunicato che l’unica cosa che vogliono gli iracheni è la pace. «Gli iracheni vogliono la pace! La società civile irachena fa appello al governo e alle forze politiche irachene affinché scelgano la strada del dialogo, del disarmo e della pace. Chiede il rispetto delle richieste sollevate durante la rivolta del 2019, da parte dei giovani iracheni, per chiedere che il settarismo sia eliminato dalla politica irachena». E non dimentica chi, proprio in nome di un futuro migliore per l’Iraq, non è più tra loro: «Chiediamo al governo iracheno di riconoscere le libertà civili (…) in memoria di tutti quei giovani che hanno perso la vita nel 2019». 

Domenico Quirico per "la Stampa" il 30 dicembre 2021. La morte di Saddam, l'esecuzione di Saddam: anche quindici anni dopo ecco immagini davanti a cui non è giusto chiudere gli occhi. No: bisogna tenerli spalancati e maledirla e ancora maledirla quella morte. Occorrerebbe per lei restaurare il lamento funebre, la cosa più antica che ci resta degli esseri umani: frutto della giudiziosa paura del morto, del terrore che potesse tornare indietro. Lo si tributava non solo agli eroi, ma soprattutto ai reprobi. Serviva a inchiodarli alla dimenticanza come un esorcismo definitivo. E infatti quindici anni dopo lo spettro è ancora qui, ci bracca, non ci dà pace. Non ci siamo liberati di questo Ercole macellaio, di questo pignolo del Male neppure consegnandolo alla umiliante e macabra mediocrità di una impiccagione. I suoi delitti e le complicità che ci hanno per decenni legato a lui non sembrano appartenere alla Storia ma al libro dei canti del demonio. Ci ingarbuglia nelle sottigliezze del rimorso la bugia che è stata usata per farlo cadere, che possedesse cioè micidiali arsenali di armi di distruzione di massa. Ma l'unico delitto non realizzato, rimasto velleitario, è solo la prova della nostra inadeguatezza morale, non un elemento a discarico del sanguinario Saladino di Baghdad. Conosceva troppo bene i nostri limiti e i nostri difetti, lui, ci inchiodava alla nostra esatta figura. Sforziamoci di non dimenticare, mai, evocandolo cosa è scritto nel registro dei peccati di quel regime criminale: popolazioni irrorate di gas, massacri, torture, guerre sciagurate e senza fine, la sicurezza del potere che si ottiene solo al prezzo di innumerevoli ingiustizie. Ora possiamo ripensare a quel 30 dicembre del 2006, allo scorrere del film girato con un telefonino nella prigione dove il tiranno condannato a morte incontrò il suo destino. È davvero una tragedia classica che non consente alcuna distrazione. Perché la morte di un uomo singolo vi acquista tutto il suo peso, omicidio esecuzione punizione vendetta dannazione e sepolcro: tutto è lì, esemplare, nudo e senza fronzoli legulei o sacrali, retorica, mistificazione. Alcuni uomini corpulenti, i volti coperti da cappucci neri, senza divise o simboli, si affannano su una stretta balaustra in ferro attorno a un uomo invece elegante, cappotto nero e camicia bianca, la barba ben curata. Le mani non si vedono strette dietro la schiena dalle manette. Lo sfondo è anonimo, sa di garage, di locale abbandonato recuperato come scenografia provvisoria per non lasciare indizi o prove. Gli officianti il rito della morte si muovono in modo febbrile, scomposto, sembrano loro aver paura. E fretta. Li diresti una banda di sequestratori che temono l'arrivo della polizia più che l'autorità incaricata di una sentenza.

Il più grasso, forse il capo, spinge Saddam verso il parapetto della piattaforma, dove si intravede una botola, gli infila al collo un enorme cappio, fa prove, stringe il nodo attorno al collo. L'immagine si allarga. Sotto la pensilina appaiono altri uomini di schiena che insultano, urlano il nome del capo sciita Moqtaba Al Sadr, il cui padre e due fratelli furono assassinati su ordine di Saddam. Il Raiss è incredibilmente calmo.

È il personaggio più dignitoso in questa recita umiliante. Per questo bisogna essere attenti, anche ad anni di stanza. La visione dei personaggi, come avviene per le figure di Dante, trae il suo aspetto essenziale dalla loro morte. Restano straordinariamente vivi perché sono morti in un certo modo. È questa la loro più sbalorditiva (e pericolosa) vittoria sulla morte. Quando lo spingono verso la botola pronuncia la "chahada", la professione di fede musulmana.

La botola si spalanca. Primo piano di due minuti e 38 secondi di agonia. Uno dei boia urla: «Nessuno lo stacchi, deve restare appeso per otto minuti...». Il giorno dopo un pick up portò il cadavere a Aujia, vicino a Tikrit, in un piccolo mausoleo che era stato trasformato in tomba. Gli americani avevano consentito che vi fossero già sepolti i due figli di Saddam caduti nella battaglia di Baghdad. Speravano, invano, che il padre mosso da pietas funebre uscisse dal suo nascondiglio. Ressa, molti prudentemente a viso coperto con le kefiah, uno sceicco regola il tumulto, invita alla austerità della preghiera. Gli americani erano ovunque ma si tennero nascosti.

Con le tenebre risuonarono le raffiche di mitra del saluto funebre, e le grida: Saddam, ti vendicheremo, gli americani la pagheranno. Si diffuse la voce che i parenti dei due generi che il dittatore aveva fatto eliminare avessero trafugato la salma per darla in pasto ai cani. Fu necessaria una smentita governativa. Bush rimproverò agli alleati la mancanza di "dignità" di quella esecuzione così sconciamente filmata. Il premier iracheno Al Maliki replicò: siamo stati anche troppo pietosi, Saddam non aveva diritto neppure a un processo. 

Era già pomposamente in vigore il dopo Saddam: annunciato come l'avvento dell'evo democratico e del medio oriente americano costruito a misura delle necessità dello Zio Sam, in particolare come scudo contro l'intatto Satana iraniano. Garantivano i due sciagurati ideologi dell'impero non più tanto riluttante, Cheney e Rumsfeld. E invece... disordine da fine del mondo, sommosse settarie e estremiste, Al Qaeda scatenata, guerriglie, imboscate, autobombe e kamikaze, carneficine inaudite di innocenti, la vergogna del lager di Abu Ghraib, cinquemila morti solo tra gli americani La sofferenza e l'odio qui contano su una età dell'oro che continua.

L'Iraq come l'Afghanistan è stata una dura lezione di come una vittoria possa essere più pericolosa di una sconfitta: se l'accompagnano una catena di errori grossolani, l'incomprensione della realtà locale e le cattive lezioni tratte dalla storia. Ovvero i piani del dopo Saddam tracciati confidando in modo fideistico sulla presunta attrazione irresistibile della democrazia. Si utilizzarono le informazioni fornite da oppositori incompetenti e corrotti che accudivano ai loro concretissimi interessi, ovvero i 450 miliardi di dollari che hanno rubato.

Si pensava che il regime fosse solo Saddam e i suoi accoliti: bastava dunque smantellare il partito Baath e l'esercito. Invece c'erano altre forze a cui il vuoto spalancato dagli americani apriva enormi occasioni. Bastava vezzeggiare le inclinazioni al fanatismo, alla intolleranza e alla vendetta contro gli invasori occidentali. Un ufficiale di Saddam, Haji Bakr, lavorava paziente a un nuovo progetto, costruire, tra la Siria e l'Iraq, su nuove basi, impastando il fanatismo jihadista con competenze militari e criminali dei reduci del regime, la macchina sanguinaria di Saddam. Sì: il califfato è la vendetta di Saddam.

·        Quei razzisti come gli afghani.

Afghanistan, i talebani escludono le donne da tutte le università afghani. Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.

Si legge nella lettera resa pubblica dal ministro Neda Mohammed Nadeem: «Vi informiamo di mettere in opera l’ordine di sospensione dell’educazione delle donne fino a nuovo ordine»

In Afghanistan le donne devono rimanere analfabete. I talebani le vogliono così: sottomesse, chiuse in casa, coperte dal burqa, cancellate dalla società. Ieri l’ennesimo schiaffo. Il governo ha chiuso l’accesso alle università alla popolazione femminile. Lo ha annunciato il ministro dell’Istruzione Superiore Neda Mohammad Nadeem in un’ordinanza inviata a tutte le università governative e private del Paese: «Si consiglia a tutti voi di attuare il citato ordine di sospendere l’istruzione femminile fino a nuovo avviso», si legge nel testo.

Nadeem, ex governatore e comandante militare, nonché esponente della linea dura religiosa, è stato nominato responsabile dell’Università lo scorso ottobre e sin da subito ha espresso la sua ferma opposizione all’istruzione femminile, definendola non islamica e contraria ai valori afghani.

«Hanno paura di noi e del nostro potere», ha commentato una studentessa alla Bbc. «Hanno distrutto l’unico ponte che mi metteva in connessione con il futuro — ha aggiunto tra le lacrime —. Come posso reagire? Pensavo di poter studiare e portare luce nella mia vita ma hanno spazzato via tutto». Un’altra ragazza ha parlato dei «tanti ostacoli» che già esistevano sulla strada dello studio: «Abbiamo affrontato una situazione difficile proprio per essere in grado di continuare ad andare a scuola. Ero felice di potermi laureare e inseguire i miei sogni. Ma ora a cosa servirà?».

Il divieto di istruzione superiore arriva meno di tre mesi dopo gli esami di ammissione all’università sostenuti da migliaia di ragazze e donne in tutto il Paese. Le afghane erano già state private dell’accesso alle scuole secondarie lo scorso 23 marzo poche ore dopo la loro tanto annunciata riapertura. E anche negli atenei era stata a loro impedita l’iscrizione ad alcune facoltà come ingegneria, economia, veterinaria e agricoltura. Oltre al fatto che erano state istituite classi separate e l’obbligo per le studentesse di avere insegnanti donne o uomini molto vecchi.

Ma una popolazione femminile analfabeta o quasi ha riflessi anche sull’economia che è già sull’orlo del collasso. Secondo un’analisi dell’Unicef questo implica una perdita di almeno 500 milioni di dollari l’anno.

Ieri gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno condannato la decisione del governo di Kabul che, tra l’altro, è arrivata mentre era in corso una riunione del Consiglio di Sicurezza a New York proprio sul Paese centroasiatico.«I talebani non possono aspettarsi di essere un membro legittimo della comunità internazionale fino al rispetto dei diritti di tutti afghani, in particolare i diritti umani e la libertà fondamentale di donne e ragazze», ha detto il vice ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, Robert Wood.

Dal momento del loro ritorno al governo, il 15 agosto 2021, i talebani avevano varato le stesse misure draconiane che avevano segnato il loro primo periodo al potere (1996-2001). La libertà conquistata dalle donne nei venti anni precedenti è stata velocemente erosa. Il governo, formato naturalmente da soli uomini, ha abolito il ministero degli Affari femminili e lo ha sostituito con quello del Vizio e della Virtù, ha vietato alle cittadine quasi tutti i lavori, ha imposto che le donne viaggino per lunghi tragitti solo accompagnate. Infine, all’inizio di maggio, è arrivato l’editto del leader supremo Hibatullah Akhundzada che imponeva alle afghane di «stare a casa» e di indossare il burqa qualora fossero costrette ad uscire.

Resta da vedere quale sarà ora la reazione delle cittadine. «Pane, lavoro, libertà» avevano gridato alcune coraggiose lo scorso maggio quando erano scese in piazza per protestare contro l’imposizione del burqa. Ora potrebbero rifarlo nella consapevolezza che comunque nessuno le aiuterà.

Il macabro rito. Esecuzioni show, i talebani aprono gli stadi per il rito della pena di morte. Sergio D'Elia su Il Riformista il 16 Dicembre 2022

Tornati al potere in Afghanistan un anno e mezzo fa, il 7 dicembre scorso i Talebani sono tornati a fare i Talebani secondo i loro usi e costumi fuori dal tempo e fuori dal mondo. Hanno riaperto uno stadio, non per giocare a pallone ma per mettere in scena la legge del taglione. Per il macabro rito della prima volta che segna il ritorno di quelli di una volta, hanno allestito una cerimonia inaugurale degna di un’apertura dei campionati del mondo.

La tribuna d’onore dello stadio di Farah era riservata a leader talebani e magistrati di alto livello, alcuni arrivati addirittura dalla capitale Kabul. Erano presenti, tra gli altri, alcuni giudici della Corte Suprema, il Ministro degli Esteri Amir Khan Muttaqi, quello degli Interni Sirajuddin Haqqani, il Ministro per la promozione della virtù e la repressione del vizio Mohammad Khaled Hanafi, il vice Ministro dell’Economia Abdul Ghani Baradar. Il grande evento non era legato alla calciomania indotta dai Mondiali in corso in Qatar. La leadership talebana e centinaia di spettatori erano nello stadio per assistere alla brutale esecuzione di una persona. Erano lì per celebrare il ritorno al passato, alla legge del Qisas: la regola simmetrica della “restituzione dello stesso tipo”, del rispondere al sangue col sangue, alla morte con la morte.

Sugli spalti c’erano i tifosi della Sharia, a centrocampo il condannato a morte, un uomo di nome Tajmir, figlio di Ghulam Sarwar, residente in un villaggio della provincia di Herat. Cinque anni fa, aveva ucciso un uomo di nome Mustafa, residente nella vicina provincia di Farah. Dopo averlo ammazzato, gli aveva portato via la moto e il cellulare. Secondo la legge islamica, la famiglia della vittima può scegliere tra la morte e il perdono. Talebani misericordiosi hanno supplicato la madre di Mustafa di graziare Tajmir “per amore di Dio”, ma lei ha insistito per la sua esecuzione. “Deve essere ucciso e seppellito come lui ha fatto con mio figlio”. A eseguire la condanna è stato proprio il padre della vittima che ha sparato all’uomo tre colpi di arma da fuoco.

Prima dell’esecuzione è stato emesso un avviso che pubblicizzava l’evento e chiedeva a tutti i cittadini di recarsi al campo sportivo. Mancava solo Haibatullah Akhundzada, il leader supremo dell’Emirato islamico d’Afghanistan che non si mostra mai in pubblico, vive nell’ombra e governa con l’assenza. A metà novembre, aveva emesso un editto con cui ordinava a giudici e funzionari statali maggior rigore nell’applicazione della Sharia, anche con esecuzioni di piazza, frustate, lapidazioni per reati più o meno gravi o del tutto inesistenti, furto, sequestro, ma anche adulterio. Da lì a poco e nelle settimane successive si sarebbero moltiplicati gli eventi di persecuzione e le punizioni corporali nei confronti di ladri e criminali comuni, donne adultere e cittadini accusati di comportamenti “immorali”.

Il portavoce dei Talebani, Zabihullah Mujahed, ha respinto le critiche internazionali e ha fatto ricorso a concetti di sovranità giurisdizionale, garantismo processuale e relativismo culturale per giustificare la barbarie dell’atto compiuto nella provincia di Farah. “La sentenza di Dio onnipotente contro un assassino è stata esaminata da tre diversi tribunali dell’Emirato in modo molto dettagliato e ripetuto”, ha dichiarato. È stata poi sottoposta al parere della guida suprema che dopo averla analizzata con “la massima cura” e averne discusso in modo “esauriente con un folto gruppo di studiosi, alla fine, ne ha ordinato l’attuazione”.

La prima esecuzione pubblica da quando nell’agosto 2021 i Talebani sono tornati al potere, è un punto di svolta nel rapporto con la comunità internazionale. All’inizio avevano promesso di garantire i diritti delle donne e delle minoranze. Poi hanno cominciato a limitare diritti e libertà, fino a imporre un divieto all’istruzione delle ragazze oltre la prima media. Con la sfacciata e rivendicata esecuzione a Farah, i Talebani hanno rotto gli argini della prudenza e del pudore nel mostrare il vecchio volto oscurantista.

Il giorno dopo l’esecuzione, ventisette persone sono state frustate in pubblico a Charakar, capoluogo della provincia di Parwan, come punizione per presunti reati di adulterio, furto, droga e altri crimini. Diciotto uomini e nove donne sono stati fustigati ciascuno dalle 25 alle 39 volte nel corso di un raduno pubblico di gente del posto. Funzionari talebani hanno fatto una predica per dire dell’importanza e la bellezza della legge della Sharia. Gli oltranzisti più conservatori non si curano più di come sono visti agli occhi del mondo. Il loro sguardo è rivolto al passato islamico, all’antico piccolo mondo afghano. Sergio D'Elia

Chiara Clausi per “il Giornale” il 25 novembre 2022.

La notte afghana è sempre più buia. Una notte dove le vite non contano come altrove, neppure quelle dei bambini. Conta solo la sharia, la legge islamica. E così in uno stadio nella provincia di Logar, a sud di Kabul, dodici persone, comprese tre donne, sono state frustate in pubblico dopo la condanna per «crimini morali». Cioè furto, adulterio e rapporti omosessuali.

È già la seconda volta in un mese che il gruppo islamista ha fatto fustigare in pubblico «gli immorali». Una escalation che potrebbe segnalare un ritorno alle pratiche della linea dura viste nel precedente dominio talebano negli anni Novanta. Sebbene quando hanno preso il potere l'anno scorso i leader barbuti avessero rassicurato che ciò non sarebbe avvenuto. Bugie. 

La fustigazione arriva una settimana dopo che il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, ha ordinato ai giudici di imporre punizioni per determinati crimini in linea con la rigorosa lettura del gruppo della legge islamica della sharia. Questa interpretazione della legge islamica prevede esecuzioni e amputazioni pubbliche e lapidazioni, sebbene i crimini esatti e le rispettive punizioni non siano stati ufficialmente definiti. Questo è il secondo inverno da quando i talebani hanno preso il potere. I fondi esteri sono stati congelati e milioni sono a un passo dalla carestia.

L'Afghanistan è pieno di storie di disperazione cieca, violenze e compromessi che nessuno vorrebbe mai fare. Qui alcuni genitori sono costretti a vendere i propri organi se non anche i propri figli, che vengono drogati per non patire la fame. Siamo alla catastrofe umanitaria e la situazione è tragica. 

Abdul Wahab che vive appena fuori Herat, la terza città più grande del Paese, in un insediamento di migliaia di piccole case di fango, piene di sfollati e martoriate dalla guerra e dai disastri naturali, racconta: «I nostri bambini continuano a piangere e non dormono. Non abbiamo cibo. Quindi andiamo in farmacia, compriamo le compresse e le diamo ai nostri figli in modo che si addormentino».

La pratica di dare droghe psicotrope ai bambini per farli addormentare e non patire la fame è molto diffusa. Una pasticca costa meno di un pezzo di pane. Ma proprio l'uso di queste droghe a digiuno potrebbe creare danni irreversibili a questi bambini. Danni al fegato, insieme a una serie di altri problemi come stanchezza cronica, disturbi del sonno e del comportamento.

Ma gli orrori non si fermano qui. La storia di Ammar (il nome è di fantasia) è altrettanto forte e terribile. Ammar ha subito un intervento chirurgico per asportare il suo rene tre mesi fa. È stato pagato circa 270 mila afgani, 3.100 dollari, la maggior parte dei quali è stata usata per rimborsare il denaro che aveva preso in prestito per comprare cibo per la sua famiglia. 

E poi c'è la disperazione che ha attraversato la mamma di una bambina costretta anche lei a vendere un rene sette mesi fa per ripagare un debito, per un gregge di pecore poi morte tutte a causa della crisi alimentare del Paese.

 La somma ottenuta poco meno di tremila dollari non è bastata per tirare avanti: «Ora siamo costretti a vendere nostra figlia di due anni, le persone da cui abbiamo preso il prestito ci tartassano ogni giorno» racconta la donna. Mentre il marito confessa: «A volte penso che è meglio morire che vivere così». Lontano dall'attenzione del mondo, la crisi afghana potrebbe rimanere nascosta perché qui gli uomini, le donne, i bambini contano meno.

L’ex superpoliziotto Angelo Bani e l’operazione segreta: «Così abbiamo liberato più di mille donne afghane». Armando Di Landro su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2022.  

Come in un film, in un’operazione dei servizi segreti con tanto di infiltrati nei gruppi governativi, rotte e case sicure, satelliti utilizzati per controllare i posti di blocco, contatti tra ex colleghi dentro e fuori le principali organizzazioni di polizia internazionale. Ma qui non ci sono Robert Redford o Brad Pitt in un’operazione «Cena fuori», né tantomeno emergenti attori in serie tv che ricostruiscono i retroscena di un clamoroso attentato. C’è una storia vera, di gente vera, abituata a maneggiare per lavoro informazioni che scottano. Con un piano clandestino, segreto, l’ex poliziotto italiano Angelo Bani — per anni in servizio all’Interpol in mezzo mondo e oggi titolare di un’agenzia di sicurezza a Singapore — insieme ad altri tre esperti di intelligence, ha portato 1.029 donne afghane a lasciare il loro Paese dopo i fatti di oltre un anno fa, quando tornò il regime dei talebani. Studentesse e atlete liberate, partite verso altri Paesi nel mondo, per poter studiare o fare sport: «For the Education» come sottolinea Tim Ellis, neozelandese e già funzionario al servizio del suo governo, che ha coordinato la raccolta di informazioni durante l’operazione.

Ellis, Bani, Jake Winslow, canadese esperto nell’utilizzo dei satelliti, e Carl Fareday, britannico (tra i suoi ultimi incarichi anche la responsabilità della sicurezza per Ineos Uk Team all’America’s Cup). In quattro a comporre una moderna squadra segreta che, tramite Ellis, è stata chiamata in causa ad agosto 2021 dalla ong Ascend (ascendathletics.org), quando 46 ragazze afghane, alpiniste, furono respinte all’aeroporto di Kabul: vietato lasciare il Paese, travolto dal caos e dal regime. Nacquero così i (il nome adottato dai quattro): «Ci siamo ispirati alla Special Operation Executive britannica e ai suoi componenti, Baker Street Irregulars, che svilupparono la cosiddetta linea Britannia, per la fuga dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale» racconta Bani, che iniziò la carriera da poliziotto in via Fatebenefratelli a Milano, poi nella sua Bergamo, quindi in questura a Roma, prima di dedicarsi all’Interpol in Francia, Iran, India, Afghanistan, Cambogia, Laos, Colombia e Salvador.

Oggi il gruppo decide di svelarsi perché ritiene che non ci siano più rischi per la sicurezza. E perché a Wellington, il Professional New Zealand Institute of Intelligence ha riservato ai un riconoscimento. Una storia che finora era rimasta materia degli esperti di settore. Ma anche una storia di volontari, che hanno messo alla prova i propri agganci, la propria professionalità, su più piani. Fareday è stato l’uomo sul campo: a Islamabad, in Pakistan, ha individuato le case sicure per un primo approdo delle ragazze in fuga. «Dall’inizio della nostra operazione al viaggio delle prime 46 ragazze — ricorda Bani — sono passati due mesi. Di mezzo c’è stata una preparazione imprescindibile». Oltre a Fareday il resto del gruppo è stato operativo da remoto: «I dati da verificare e i riscontri da ottenere sono stati molti — prosegue l’ex poliziotto —. Con i satelliti Jake ha verificato lo stato delle principali strade, dei posti di blocco. L’utilizzo dei social e di vecchie fonti, soprattutto da parte mia, è stato ampio». Non sono mancati contatti con gruppi pro talebani, anche tramite infiltrati sul campo, per esempio in un’accademia militare afghana. Oppure con realtà anti governative. «Anche applicando quelle tecniche in cui la polizia italiana ha fatto scuola, dopo gli anni dei collaboratori di giustizia, per capire se un interlocutore sta dicendo la verità o se qualcosa scricchiola».

La rotta maestra per i viaggi è stata tracciata tra Kabul e Mazar-e-Sherif, per poi varcare il confine con il Pakistan. Altri viaggi sono seguiti al primo, con diverse varianti di percorso. E con camion messi a disposizione dall’Ong oppure tramite autisti contattati dai Descend Irregulars. Dalle aree più torride alle montagne, anche con tratti in mezzo alla neve: in tutto 1.029 giovani donne che hanno lasciato l’Afghanistan da agosto 2021 a maggio di quest’anno. «Una gioia indescrivibile, per noi, l’arrivo delle prime ragazze a Doha, in aereo dal Pakistan», ricorda Ellis. E la «sensazione di aver fatto qualcosa di buono» per Bani, l’ex poliziotto che ha esplorato il mondo.

Ritratto di un Paese: «Burqa e barbe? L’ultimo strato. Qui durano solo le rocce». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022

L’inviato (Rai) Duilio Giammaria ripercorre la storia millenaria dell’Afghanistan fino all’ultimo tratto che pensiamo di conoscere. «Ma i giovani hanno interiorizzato la modernità»

Torneranno gli aquiloni? «Con la crisi ucraina, l’Afghanistan ha iniziato a occupare un posto di second’ordine nelle cronache internazionali. Ma gli ultimi decenni ci hanno insegnato che, se anche dimentichiamo ciò che accade in Afghanistan, prima o poi accadrà qualcosa che ce lo riporterà alla memoria». Sembra di vederlo, Duilio Giammaria: seduto lungo le rive del Kabul, col salwar kamiz che ha indossato in una quarantina di viaggi negli ultimi vent’anni («Una volta ho portato in vacanza perfino mia moglie...»), aspetta disilluso che sul fiume passi di nuovo questa storia infinita. E scruta il cielo dove non volano più gli aquiloni, nuovamente vietati dai talebani: «No, il racconto non è terminato. Ogni volta che tralasciamo l’Afghanistan, c’è un colpo di scena che lo riporta in prima pagina. È così da almeno un secolo e mezzo. Gli inglesi, i sovietici, i mujaheddin, gli americani. Ora rivediamo i talebani. Ma anche loro sono un fenomeno variegato, pieno di tensioni e differenze, non quel monolite unico che spesso viene rappresentato. Perché l’Afghanistan non è più il Paese con venti milioni d’abitanti del 2001, quando vi si stabilirono gli americani: oggi gli afghani son diventati quaranta milioni, molti sono giovanissimi che hanno interiorizzato la modernità e anche questo cambio, seguito al ritiro degli americani nel 2021, non può essere che transitorio.

Niente dura, in Afghanistan. Niente, tranne i suoi paesaggi, ancora intatti e aspri come dovevano essere il primo giorno della creazione». Non ci si libera tanto facilmente di queste montagne e di queste gole, come sapeva bene il primo inviato italiano che le scoprì, Ettore Mo, e che alla fine non volle più tornarci: «La prima persona che me ne parlò fu Alighiero Boetti», racconta Giammaria, «e fin dall’inizio capii che queste terre valevano molto di più dei 90 secondi d’un servizio al tg». Un libro, per esempio: storico inviato Rai, Giammaria ha scritto La magnifica porta. Un Paese chiamato Afghanistan (edizioni Marsilio) per chiedersi che cosa lasci la guerra, sull’uscio d’un Paese come questo. E che cosa rimanga d’una storia millenaria cominciata da un divino gesto, quando leggenda vuole che Allah abbia gettato in quest’angolo d’Asia le ultime pietre che gli avanzavano, e via via narrata attraverso i conquistatori e i carovanieri, gli emiri e i gesuiti, Alessandro Magno e i Persiani, le miniere di lapislazzuli e i tappeti di guerra, gli yak irsuti e i leopardi della neve, l’oppio dei papaveri e le rose bianche, le cacce a Bin Laden e i soldati Nato uccisi.

C’è chi ci ha fatto venire a noia l’Afghanistan, copiando-incollando da vent’anni sempre lo stesso, millesimo reportage sul burqa: «Quella è pura retorica», dice Giammaria, che viaggia nella cronaca rovente (da leggere, come la Rai si trovò a pagare ottomila dollari pur d’avere il video d’un giornalista rapito) e intanto allarga il raggio esplorando etnie remote, partecipando a scavi archeologici, incontrando i femminielli di Kabul, accettando «la sfida intellettuale d’uscire dai luoghi comuni di quando s’appaiavano i talebani ad Al Qaeda, di carotare una storia molto più complessa e profonda, sapendo bene che le donne velate e le barbe lunghe ne sono solo l’ultimo strato». La Magnifica Porta è socchiusa e ci dice molto anche delle guerre d’adesso. «I sovietici l’aprirono con la certezza d’aiutare un popolo fratello. Gli americani, provando a esportare la democrazia con gli elicotteri», dice Giammaria: «Se lo studi bene, quel che è successo in Afghanistan t’aiuta a capire che cosa succede, o succederà, anche in Ucraina». Scruta il cielo degli aquiloni, e vedrai meglio quest’epoca di droni.

Lotta al terrorismo guerra in Afghanistan. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Ottobre 2022.

Èl’8 ottobre 2001: «La Gazzetta del Mezzogiorno» annuncia l’inizio della guerra in Afghanistan. «L’attacco militare è cominciato. Il presidente George Bush ha annunciato ieri alla nazione, con un drammatico discorso della Casa Bianca, che nella guerra al terrorismo l’America è passata all’offensiva. Bush ha parlato alla nazione, mentre i missili Cruise e le bombe americane stavano ancora piovendo sull’Afghanistan. E il Presidente ha chiarito fin dal primo momento che gli Stati Uniti ormai non fanno più alcuna distinzione tra i terroristi di Osama Bin Laden e il regime dei Talebani». L’Afghanistan, dal 1996 «emirato islamico», si era ripetutamente rifiutato di consegnare Osama Bin Laden, il capo dell’organizzazione terroristica al Qaeda, alle autorità internazionali. La situazione non era cambiata né dopo le sanzioni da parte dell’Onu, né dopo l’attentato alle Twin Towers di New York nel 2001: ciò ha provocato l’immediata reazione del governo statunitense che, così, avvia alla campagna militare «Enduring freedom».

Il Presidente Usa sottolinea che l’America non è sola. «La Gran Bretagna sta partecipando con noi all’attacco. Ed altri paesi amici, come Canada, Australia, Germania e Francia, si sono impegnati a partecipare in futuro alle azioni con le loro forze. Altri 40 paesi in Medio Oriente, Africa, Europa e in Asia ci hanno garantito permessi di transito e di uso del territorio. La volontà collettiva del mondo è dalla nostra parte», ha affermato Bush.

Si legge ancora sul quotidiano: «Il presidente ha sottolineato che l’America non è nemica del popolo oppresso dell’Afghanistan. E per dimostrare questo, in parallelo agli attacchi contro i Taliban sono cominciati anche lanci di viveri medicinali ed equipaggiamenti umanitari per alleviare le sofferenze della popolazione». Ci si aspetta, naturalmente, una reazione da parte dei terroristi contro obiettivi americani: Bush annuncia di aver ordinato di rafforzare le misure di sicurezza nel paese. L’America, si legge sul quotidiano, è schierata con il Presidente, che ha aggiunto: «Dall’11 settembre, un’intera generazione di giovani americani ha cominciato a comprendere in modo più profondo il valore della libertà ed i costi ed i sacrifici richiesti dalla sua difesa. Non falliremo: la pace e la libertà trionferanno». Pochi mesi dopo, con la conquista di Kabul, l’emirato islamico sarà rovesciato. Ci vorranno ancora dieci anni per assistere all’uccisione di Osama Bin Laden e altri dieci per il ritiro delle truppe occidentali dal paese, che consentirà tuttavia la drammatica riconquista del potere da parte dei Talebani.

Testo di Daniele Bellocchio. Inside Over il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

“Abbiamo iniziato un attacco mirato contro l’Afghanistan, contro obiettivi militari e strategici dei talebani. Un attacco portato per sconfiggere i terroristi”. E poi: “Oggi siamo partiti dall’Afghanistan, ma non ci fermeremo qui. Le nazioni sono davanti ad una scelta, possono decidere se stare con il Bene o con il Male. Noi vogliamo portare la pace e per farlo dobbiamo annientare i terroristi e gli stati che li proteggono”. Era con queste parole che nell’ottobre del 2011 l’allora presidente degli Stati Uniti d’America George W. Bush, a seguito dell’attacco alle Torri gemelle compiuto da Al Qaeda, annunciava l’inizio della guerra in Afghanistan. Sono passate due decadi da quando venne pronunciato questo discorso dal peso di una pietra d’inciampo nel corso della Storia e nulla di ciò che era stato predetto e paventato allora si è verificato. La guerra in Afghanistan si è conclusa con l’abbandono del Paese da parte delle forze occidentali e il ritorno al potere dei talebani. I combattenti islamisti, la personificazione del Male, sono tornati vittoriosi alla guida “della tomba degli imperi”, la bandiera dell’Emirato è stata issata e garrisce su Kabul e di nuovo, oggi come vent’anni fa, il mondo si è imbattuto nei talebani. 

Afghanistan, Kabul. Il 15 agosto 2021, dopo 20 anni di occupazione da parte delle forze internazionali, i talebani hanno preso il controllo della capitale e hanno proclamato la nascita del “emirato islamico del Afghanistan” all’oggi non riconosciuto da alcuno stato al mondo

Ma nonostante vent’anni di guerra in Afghanistan costata, solo a Washington, 2261 miliardi di dollari, e che ha provocato la morte di 240mila persone, noi, sappiamo davvero chi sono oggi i talebani? Il leader supremo del gruppo è ora l’Amir al Mu’minin, la guida dei credenti, Haibatullah Akhunzada, poi, a tenere le redini della nazione c’è un esecutivo non eterogeneo che nel primo anno di potere ha mostrato diverse spaccature al suo interno. Due le maggiori forze politiche del governo talebano: la rete Haqqani, che fa capo a Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno, vicino ad Al Qaeda, ricercato dall’Fbi e con una taglia sulla testa di dieci milioni di dollari. E l’ala più pragmatica e tradizionalista del gruppo che vede nel moulawi Yaqoob, figlio del Mullah Omar e ministro della Difesa, e nel mullah Abdhul Ghani Baradar, vice primo ministro, i suoi principali esponenti. E poi ci sono 100mila combattenti che governano una nazione di quasi 40 milioni di abitanti e che imbevuti di dogmi tenaci, soffocati da una propaganda semplice e infettati da chimere di revanscismo, fervorosi applicano un Islam che non ammette concessioni al presente.

“Io mi sono unito ai talebani quando avevo sedici anni, oggi ne ho 20 e sono un comandante. Ho fatto questa scelta perché il nostro Paese è stato invaso da forze straniere che hanno bombardato, torturato, ucciso famiglie, calpestato la nostra religione e infangato la nostra fede. Io ho combattuto e continuo a farlo per la mia gente, per la sharia, perché l’Afghanistan cresca e prosperi nel solco tracciato dal Profeta. Perché il Corano ci dice che dobbiamo partecipare al jihad, per l’Islam e per Allah”. Nel viso, Shiraaha Intezar conserva il ricordo del ragazzino che è stato. Lo sguardo è sincero, entusiasta, una peluria adolescenziale, maldestra imitazione delle folte barbe assire dei suoi capi, gli ricopre le guance e ogni sua dichiarazione è un omaggio all’inesauribile giustizialismo e splendore dell’Emirato.

“Da quando ci siamo noi in Afghanistan il crimine sta scomparendo, la corruzione che prima infestava il Paese adesso non c’è più, stiamo combattendo contro il traffico di droga e abbiamo messo al bando la coltivazione del papavero da oppio”. Shiraaha supervisiona la distribuzione degli aiuti umanitari in uno dei quartieri centrali di Kabul. Mentre centinaia di donne coperte dai burqa e di uomini appoggiati a carriole e carretti attendono il loro turno per ricevere la propria razione di alimenti, Shiraha intanto  controlla che nessuno rubi le derrate, che non si verifichino incidenti e il kalashnikov che porta a tracolla lo ostenta con orgoglio perché è attraverso il suo fucile automatico che ha acquisito il diritto di vivere a ritroso, in un passato che qualcuno gli ha insegnato glorioso e che lui si immagina empireo. “Io sono andato a scuola, in una madrasa, ho studiato il Corano e ho combattuto e sono un grande mujaheddin”. È questa la sintesi della storia del giovane comandante talebano che ha trascorso la sua vita prima subendo la guerra, e poi combattendola in nome di un provvidenzialismo assoluto e intransigente che l’ha spinto al di là dell’argine della paura e della critica. 

Afghanistan, Kandahar. Uno scorcio di una delle piazze di Kandahar, capitale spirituale dei talebani, città dove il mullah Mohammed ʿOmar militare, politico e religioso afghano, guida spirituale, ha dato vita al movimento degli “studenti”.  La città è luogo del Afganistan dove oggi l’islamismo dei talebani si manifesta nella sua forma più radicale

Shiraaha é un ragazzo afghano che non ha visto altro se non armi, ha ascoltato soltanto esplosioni, ha imparato a recitare il Corano ancor prima di sapere leggere e ha conosciuto solo ingiustizie arrivando al punto da non poter aver più ripensamenti e di divenire anch’esso un esecutore in armi che, solo nell’irrazionale del fanatismo, ha trovato il viatico per saldare i conti in sospeso coi torti del passato. “Voi continuate a dire che noi siamo terroristi e per questo non riconoscete il nostro stato. Ma siete stati voi a uccidere più di 50mila cittadini afghani e a bombardare questo Paese. E adesso noi vogliamo soltanto governare attenendoci al rispetto delle leggi del Corano, aiutando la popolazione, rispettando i diritti di tutti, compresi quelli delle donne che voi dite che noi violiamo ma che invece noi tuteliamo perché  indichiamo loro la strada che devono perseguire per vivere secondo le regole dateci dal Profeta”. È un credo tautologico che non ammette repliche e non accetta argomentazioni quello di Shiraaha e di altre migliaia di mujaheddin che in shalwar kameez, sandali e Ak-47 pattugliano le strade della capitale.

Il caldo scioglie l’asfalto delle arterie di Kabul, in piazza Massoud, quasi in sfregio alla memoria del leone del Panjshir, è stata dipinta una pantagruelica bandiera dell’Emirato e un bambino vende adesivi e gagliardetti del nuovo governo in mezzo a un traffico congestionato. Le donne, anche se non è obbligatorio ma fortemente raccomandato, indossano i notori burqa e sui taxi pubblici sono costrette a viaggiare nel bagagliaio se a bordo della vettura vi si trova un uomo che non è il loro marito. 

Sui muri di quelle che furono le basi delle forze occidentali, e che oggi ospitano i ministeri del nuovo governo, campeggiano murales che celebrano la vittoria dei talebani e intanto, mentre le forze dell’esercito presidiano e istituiscono checkpoint, gli uomini della polizia religiosa, vestiti di bianco e con a tracolla gli M16, zelanti , si adoperano affinchè vengano rispettati i dettami del Libro Sacro.  I custodi della morale perlustrano tutte le vie della città, sui mezzi pubblici si accertano che le donne viaggino coperte dagli hijab, imbrattano di vernice le vetrine dei barbieri e dei negozi di moda dove sono ritratti dei volti femminili, controllano i locali pubblici accertandosi non venga somministrato nessun tipo di alcolico, ascoltano e derimono anche i problemi famigliari, hanno occhi e orecchie ovunque e sono il braccio armato di uno dei più temuti e discussi organi del nuovo esecutivo afghano: il Ministero della Prevenzione del Vizio e Promozione della Virtù.

“Il nostro incarico è estremamente importante perché ci è stato affidato direttamente dal Profeta”. E’ in questo modo che il portavoce del Ministero della Prevenzione del Vizio e Promozione della Virtù Hakif Mohaj Mohajir ci spiega il perché della rilevanza del suo incarico all’interno del nuovo governo. La bandiera dell’Emirato occupa l’intera parete alle sue spalle, i nuovi volantini che ricordano di indossare il velo integrale sui mezzi pubblici, freschi di stampa, sono visibili sula scrivania ed è proprio dalla questione femminile che il leader talebano decide di incominciare l’intervista: “Io sono sicuro che non esista alcun Paese al mondo in cui i diritti delle donne sono rispettati e difesi come in Afghanistan. Ovunque nel mondo voi sentite di stupri e violenze contro le donne. Qua in Afghanistan, da quando ci siamo noi al potere, non accade più nulla di tutto questo”. Proseguendo il portavoce del ministero ha aggiunto “I poliziotti di questo Ministero sono buoni e gentili con la popolazione. Loro invitano la gente a non fare quello che non è accettato dall’Islam e invitano a fare invece quello che è giusto per l’Islam. Noi non puniamo con pene corporali le persone che non rispettano la legge del Corano. Noi abbiamo un protocollo al quale ci atteniamo. La prima volta che una persona viene sorpresa a non rispettare le regole le spieghiamo perché ciò che sta facendo è sbagliato. La seconda volta, di nuovo, le spieghiamo perché non è corretto. La terza volta la minacciamo, la quarta riceve un’ammonizione , la quinta viene condotta in tribunale”. Chiedendogli poi quali siano le più grandi differenze con il primo Emirato e se la violenza, ancora, sia considerata uno strumento legittimo per far rispettare la legge e punire i trasgressori, a quel punto la replica arriva caustica e accusatoria: “Gli Stati Uniti e l’occidente pensano che noi siamo i cattivi e i terroristi. Non è vero nulla. Noi rappresentiamo il popolo afghano e poi chi ha congelato i fondi del nostro Paese provocando una crisi economica che ad oggi sta soffocando le famiglie afghane, sono stati gli Usa. Questo non è un atto violento?”.

Sta per scendere la sera e la piazza Shahid Dan, la piazza dei martiri di Kandahar, è affollata di persone e i banchetti degli ambulanti vendono frutta e dolciumi per la “festa del sacrificio”. Dalle macellerie halal sgorgano rivoli di sangue dovuti all’uccisione degli agnelli e intanto decine di bambini giocano per strada. Indossano tutti il tradizionale shalwar kameez, corrono in sandali, alcuni hanno gli occhi truccati con il kajal, tutti impugnano un kalashnikov giocattolo. Simulano gli spari, corrono, saltano e giocano alla guerra imitando i loro padri e i loro fratelli maggiori. “Io da grande sarò un mujaheddin”, grida un bambino tra le risa divertite degli adulti che lo invitano a mettersi in posa, davanti all’obiettivo della videocamera, con il suo fucile giocattolo e il dito indice alzato. E rimane questa l’istantanea capace di riassumere l’essenza dell’Afghanistan.

Un Paese dove la guerra si è ripetuta ciclicamente per decadi come le stagioni e dove le ferite del conflitto sono divenute le feritoie da cui è spuntata la gramigna della violenza che ha infestato tutti e tutto: anche i bambini e la loro innocenza. Testo di Daniele Bellocchio

Afghanistan, un anno dopo: raggiunto l’obiettivo. Matteo Carnieletto il 4 ottobre 2022 su Inside Over.   

Più di un anno è passato da quando i talebani sono tornati al potere. Ma fin dai primi mesi dalla tragica ritirata degli Stati Uniti da Kabul, in redazione ci siamo chiesti: e ora che succede? Cosa faranno i talebani? Torneranno quelli degli anni Novanta o nel frattempo sono cambiati? È nato così il crowdfunding, e il reportage che vedrete e leggerete il prossimo 7 ottobre (l’anniversario dell’inizio delle operazioni militari occidentali), intitolato “Afghanistan, un anno dopo”. Vi abbiamo chiesto tanto (10mila euro). Ci avete dato molto di più (11.326 euro), segno che il nostro patto – raccontare la realtà con lealtà, come aveva detto Toni Capuozzo – è oggi più che mai forte. Grazie.

Quello che vedrete non è il classico reportage sull’Afghanistan. Non c’è spazio a partigianerie o a tifo, da una parte o dall’altra. Ancora una volta, siamo stati i vostri occhi della guerra, della disperazione, della fame. Non abbiamo messo alcun filtro. Abbiamo semplicemente portato videocamere, macchine fotografiche e desiderio di conoscere in uno dei posti più dimenticati, e fondamentali, di questo mondo: l’Afghanistan. I talebani si raccontano direttamente, nel bene e nel male. Dicono che per il momento alcuni gradi scolastici sono chiusi per le donne ma che sono disposti a riaprirli a breve. Verità? Propaganda? Non sta a noi dirlo. A noi compete solo il raccogliere la voce dei diretti interessati, aspettando che le loro promesse diventino realtà oppure siano tradite. A quel punto, ma solo a quel punto, potremo comprendere.

Ciò che colpisce di più di questo Paese sono le ferite aperte. Ferite che si sono formate in 40 anni di guerre tremende. Prima quella sovietica, poi tra le bande dei signori della guerra, poi quelle che hanno visto la contrapposizione tra il Ahmad Shah Massoud e i talebani, infine quella ventennale tra le potenze occidentali e gli studenti del Corano.

Quello che resta è un cumulo di macerie, fatto di disperazione, madri costrette a vendere i propri figli, tossici senza alcuna speranza e fame. Tanta fame. Quella concreta, che ti stringe le budella, e quella di vita che hanno tante donne afghane che, dopo aver assaporato le libertà occidentali, ora sono costrette a coprirsi con un burqa. È questo l’Afghanistan di oggi. L’Afghanistan che vedrete nel reportage di Daniele Bellocchio e Marco Gualazzini. Un Afghanistan che abbiamo potuto raccontare solamente grazie a voi. Grazie a un patto che, anche in un periodo di grande crisi come quello che stiamo vivendo oggi, è ancora vivo. E dà speranza.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

Kabul, kamikaze si fa esplodere in una scuola: 32 morti nell’area di Dashti Barchi. Nell'istituto scolastico, al momento dell’esplosione, sarebbero stati presenti almeno 150 studenti. Il Dubbio il 30 Settembre 2022 su Il Giornale.

Sale il bilancio delle vittime dell’esplosione avvenuta in una scuola a Kabul, nell’area di Dashti Barchi: sono 32 i morti, secondo quanto riferisce Al Jazeera, che cita una fonte del governo talebano. Nella scuola, al momento dell’esplosione, sarebbero stati presenti almeno 150 studenti. Per le forze dell’ordine si è trattato di un attentato kamikaze. L’area dove è avvenuta l’esplosione è a maggioranza sciita.

Da ansa.it il 30 settembre 2022.

Almeno 32 persone sono rimaste uccise e oltre 40 ferite in un attentato suicida, seguito da una sparatoria in un un centro educativo a ovest di Kabul: lo ha riferito una fonte del governo afgano ad Al-Jazeera. 

L'esplosione è avvenuta all'interno del centro educativo "Kaj" nel quartiere di Dasht al-Barshi, abitato da sciiti, secondo l'Associated Press. L'aggressore ha sparato alla guardia dell'istituto, poi ha preso d'assalto l'aula e fatto detonare la sua cintura esplosiva tra gli studenti. Lo stesso centro educativo "Kaj", nel quartiere di Dasht al-Barshi, abitato da sciiti, era stato preso di mira nel 2018. 

Il portavoce della polizia di Kabul Khaled Zadran ha confermato l'esplosione. L'esplosione è avvenuta nel quartiere di Dasht-e-Barchi, un'area a maggioranza musulmana sciita nella parte occidentale di Kabul, dove vive la comunità minoritaria Hazara, teatro di alcuni degli attacchi più mortali in Afghanistan.

 "Un centro educativo chiamato 'Kaj' è stato attaccato, causando purtroppo morti e feriti", ha twittato il portavoce del ministero degli Interni Abdul Nafy Takor. "Le squadre di sicurezza hanno raggiunto il sito, la natura dell'attacco e i dettagli delle vittime saranno resi noti più tardi". "Attaccare obiettivi civili dimostra la crudeltà disumana e la mancanza di standard morali del nemico". 

 Video postati online e foto pubblicate dai media locali hanno mostrato le vittime insanguinate che venivano portate via.  Negli ultimi mesi la sicurezza nl Paese ha cominciato a deteriorarsi sotto la guida degli islamisti della linea dura.

Gli hazara sciiti dell'Afghanistan hanno dovuto affrontare persecuzioni per decenni, con i Talebani accusati di abusi contro il gruppo quando hanno governato dal 1996 al 2001 e di averli ripresi dopo essere saliti al potere l'anno scorso. Sono anche il bersaglio frequente degli attacchi del gruppo dello Stato Islamico, nemico dei Talebani. Entrambi li considerano eretici. 

Innumerevoli attacchi hanno devastato l'area, molti dei quali hanno preso di mira bambini, donne e scuole. L'istruzione è un tema scottante in Afghanistan, con i Talebani che impediscono alle ragazze di tornare a frequentare la scuola secondaria, mentre anche lo Stato Islamico si schiera contro l'istruzione di donne e ragazze. 

La mattanza. Kamikaze a Kabul, strage di studentesse nella scuola in Afghanistan: almeno 32 vittime. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Settembre 2022 

È di almeno 32 morti e oltre 40 feriti il bilancio dell’attentato terroristico che si è verificato in una scuola a Kabul, in Afghanistan. L’attentato si è verificato in un centro educativo a ovest della capitale. Prima l’esplosione, l’azione suicida, quindi la sparatoria all’interno del centro “Kaj” nel quartiere Dasht al-Barshi, abitato da musulmani sciiti di etnia hazara. Il portavoce della polizia ha confermato l’esplosione e i dati sono stati forniti da fonti governative ad Al Jazeera.

Al momento dell’attentato all’interno del centro educativo gli studenti si stavano esercitando in vista di un esame universitario. L’etnia hazara è stata a lungo perseguitata sia dai talebani che da altre organizzazioni terroristiche di stampo sunnita come il sedicente Stato Islamico, presente nel Paese tornato nell’agosto del 2021 sotto il controllo del governo dei talebani con la ramificazione dell’Isis-Khorasan. Il gruppo era diventato noto in tutto il mondo dopo l’attacco del 26 agosto all’aeroporto di Kabul, una strage di persone in fuga dal Paese di nuovo sotto il controllo del regime islamico.

Al momento non risultano però rivendicazioni di alcun tipo. Secondo le prime ricostruzioni l’aggressore ha sparato alla guardia dell’istituto, è entrato nell’aula e si è fatto esplodere tra gli studenti. Il bilancio dell’attacco potrebbe sensibilmente salire nelle prossime ore. Secondo il giornalista Zaki Daryabi “la maggior parte delle vittime” erano ragazze. C’erano circa 600 studenti in classe, ha aggiunto dall’ospedale dov’è stato ricoverato un testimone della strage. Lo stesso centro era stato preso di mira da un attacco dal 2018. Circolano in queste ore video e foto su social e sui media dell’attacco, con le vittime insanguinate portate via dalla scuola.

Gli hazara è una popolazione particolarmente diffusa nella regione montuosa fra i bacini dello Helmand e del Tarnak, lo Hindukush, il Koh-i Baba e il bacino dello Heri-rud. Quelli che vivono nella regione detta Hazaristan o Hazarajat, sono sciiti, gli hazara occidentali sono invece di fede sunnita. Discendono probabilmente da coloni introdotti dopo le conquiste mongole di Gengis Khan agli inizi del tredicesimo secolo. Gli hazara si sono scontrati con l’etnia pashtun e si sono dimostrati insofferenti alla dominazione afghana dando vita a diverse ribellioni tra il 1888, il 1891, il 1924 e negli anni Quaranta.

Per decenni la minoranza ha sofferto persecuzioni da parte dei talebani al potere dal 1996 al 2001. E sono stati anche bersaglio degli attacchi del gruppo Stato Islamico. Sia per i talebani che per l’Isis sono degli eretici. La strage nel centro educativo rimette sotto i riflettori il tema dell’istruzione nell’Afghanistan sotto il controllo dei talebani. Gli estremisti al governo impediscono alle ragazze di tornare a frequentare la scuola secondaria, lo Stato Islamico è contrario all’istruzione di donne e ragazze.

I talebani non sembrano in grado al momento di reagire o contenere l’escalation di violenza da parte dell’Isis verso la minoranza sciita. “L’Emirato islamico dell’Afghanistan considera un crimine grave l’attacco al centro di formazione Kaaj”, il tweet del portavoce Zabihullah Mujahid. Condanne da parte delle Nazioni Unite e dell’Unicef: “Questo atto atroce è costato la vita a decine di ragazze e ragazzi adolescenti e ne ha gravemente feriti molti altri. Bambini e adolescenti non sono e non devono mai essere oggetto di violenza”. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

"È un crimine di guerra: così i talebani hanno massacrato i combattenti della resistenza". Spunta un video dei massacri talebani. Nelle immagini si vedono gli uomini della resistenza guidati da Ahmad Massoud trucidati a colpi di mitra. Fausto Biloslavo il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

Vienna. Pochi giorni fa i nostri combattenti per la libertà hanno lottato fino all'ultimo proiettile. Sfortunatamente non siamo come l'Ucraina che riceve tanti aiuti. Siamo soli», racconta Ahmad Massoud, che guida la resistenza del Fronte nazionale in Afghanistan. E denuncia senza mezzi termini: «Non abbiamo tante munizioni. Quando sono finite i talebani hanno catturato gli uomini della resistenza. In violazione alle norme sui conflitti, quelle internazionali e pure la legge islamica hanno ucciso, in una vera e propria esecuzione, tutti i prigionieri. È un crimine di guerra».

Le immagini, terribili, della mattanza non lasciano dubbi. Fra domenica 11 settembre e lunedì una quarantina di partigiani di Massoud nella valle del Panshir sono stati attaccati dai talebani. Lo scontro è stato duro, fino all'ultima pallottola e poi i combattenti del Fronte nazionale di resistenza sono capitolati. I talebani hanno filmato tutto: in uno spezzone di video si vedono alcuni prigionieri con le mani legate dietro la schiena costretti ad inerpicarsi sul versante di una montagna con i talebani attorno. Poi, il filmato più terribile, mostra un folto gruppo di prigionieri inginocchiati, di spalle, uno accanto all'altro, in mezzo alle rocce.

Il plotone d'esecuzione è una decina di metri più in alto. Si notano un comandate con la radio portatile e talebani giovanissimi che puntano i fucili mitragliatori. Poi tirano il grilletto vomitando una valanga di proiettili sui prigionieri inermi, che rimbalzano come marionette colpiti dalle raffiche. All'inizio si vede una bandiera bianca con i versi del Corano in nero del potere talebano.

Dopo la strage i video si soffermano sulle vittime. Quasi tutti hanno le mani legate dietro la schiena e alcuni sono bendati. Delle foto fanno notare come diversi prigionieri siano stati freddati con colpi ravvicinati sparati in testa. Un talebano con il turbante e barbone nero da capoccia osserva la scena. Un altro video registra le ultime parole di un paio di partigiani ancora vivi seduti a terra con le mani legate, che vengono interrogati per scoprire dove sono gli altri combattenti. Uno dei prigionieri in mimetica dice: «Sono musulmano e in questa postazione eravamo solo noi quattro». I talebani non sembrano soddisfatti e li passano sbrigativamente per le armi.

Se il crimine di guerra, documentato con terribile chiarezza da filmati e foto, fosse stato compiuto dai russi in Ucraina sarebbe scoppiato il terzo conflitto mondiale, almeno sui media che avrebbero denunciato tutto in prima pagina per settimane. L'esecuzione di prigionieri inermi è avvenuta a una latitudine lontana sulla pelle degli afghani che hanno creduto nell'Occidente per 20 anni. Vittime di un crimine di guerra poco importanti o facili da dimenticare, come abbiamo fatto con il loro paese.

"Il mio Afghanistan dimenticato per Kiev. Ma il jihad va fermato o colpirà l'Occidente". Il leader chiama a raccolta la resistenza al governo: "Anche Al Qaida ora è più forte". Fausto Biloslavo il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

Vienna. Il pacul, tipico copricapo a ciambella afghano, lo porta anche a Vienna. Ahmad Massoud, che guida la resistenza ai talebani come fece il padre, il leone del Panjsher, è in missione in Europa per unire la diaspora. Nell'intervista esclusiva a Il Giornale parla dell'Afghanistan dimenticato. E mette in guardia su un «catastrofico» attacco del terrore jihadista in Occidente.

La prima volta in Europa dopo la conquista talebana di Kabul un anno fa. Qual è il motivo?

"Sono a Vienna per una conferenza con le élite all'estero del mio Paese per creare una coalizione o meglio unire la diaspora politica afghana, tutti coloro che si oppongono ai talebani. E assieme trovare una via di uscita dal caos".

Qual è la situazione?

"Terribile e frustante. L'Afghanistan è stato dimenticato a causa della guerra in Ucraina e per altre ragioni. È in mano a gruppi estremisti che l'hanno trasformato in un rifugio sicuro per i terroristi. Per non parlare del narcotraffico. La mia nazione è una prigione guidata da una banda".

Lei è a capo della resistenza del Fronte nazionale. Riuscite a insidiare i talebani?

"Gli afghani vogliono resistere contro un regime oppressivo. All'inizio i talebani hanno addirittura negato che esistesse una resistenza. I nostri martiri sul campo di battaglia sono una chiara indicazione che mentivano. La lotta si è espansa oltre la valle del Panjsher, in altre province e anche nell'Afghanistan occidentale, ma siamo solo all'inizio".

Su quanti combattenti potete contare?

"Abbiamo oltre 3mila uomini e il nostro obiettivo è aumentare gli effettivi a 5mila per la fine dall'anno. La domanda per arruolarsi è molto alta, ma sfortunatamente non abbiamo la possibilità di accogliere tutti perché nessun Paese ci aiuta".

Come è possibile?

"Spero che unendo la diaspora afghana il mondo ci ascolterà prestando attenzione alle nostre richieste. Bisogna premere sui talebani per un negoziato politico. E dal punto di vista militare aiutare la prima linea contro la tirannia, l'ultima speranza per un Afghanistan democratico".

Voi non ricevete aiuti esterni. E i talebani?

"Le nostre forze hanno visto i droni sopra le loro teste e i talebani tracciano, in maniera sorprendente, i telefonini. Non possono avere queste capacità da soli".

Esiste una soluzione negoziale?

"L'unica possibilità è un governo afghano legittimo scelto dal popolo attraverso libere elezioni, anche se il voto facesse vincere i talebani. Credo che la soluzione dovrebbe essere politica e non militare, ma hanno preso il potere armi in pugno. Se i talebani cambiassero attitudine sono pronto a negoziare. Al contrario non mi piegherò mai a vivere sotto dittatura e tirannia".

Al Qaida è presente in Afghanistan e più forte di prima?

"Certamente. La prova evidente della collaborazione fra i talebani e al Qaida era la presenza di Ayman al Zawahiri a Kabul. Abbiamo anche informazioni su campi attivi di al Qaida, ma si tratta solo di uno dei 21 gruppi del terrore presenti in Afghanistan".

I terroristi potrebbero tornare a colpire come l'11 settembre?

"Certo. In Afghanistan hanno trovato un rifugio sicuro dove operare e sono di nuovo in grado di reclutare e addestrare. È solo una questione di tempo prima di un'altra catastrofe in Europa o in America. Se non li fermiamo un attacco è inevitabile".

L'Isis in Afghanistan punta a esportare la guerra santa oltre i confini?

"È un obiettivo comune con il regime. Il leader dei talebani viene chiamato Amir al-Mu'minin, il capo di tutti i credenti, anche fuori dall'Afghanistan. Gli obiettivi di gran parte dei 21 gruppi terroristici sono all'esterno. E non riguarda solo il Tajikistan, ma l'Uzbekistan, la Cina, il Pakistan".

In Italia abbiamo accolto migliaia di afghani. Non sarebbero utili alla resistenza?

"Se non miglioreremo le condizioni dell'Afghanistan, il fiume dell'emigrazione non si fermerà mai. Uno dei nostri obiettivi è invertire la tendenza. La resistenza sta già attingendo fra l'ex personale della sicurezza. L'obiettivo è liberare un'area, che mostri al mondo la nostro volontà e che attragga gli afghani fuggiti".

Si sente tradito dall'Occidente?

"No, ma l'Occidente si è disorientato a cominciare dai vertici Usa. In Ucraina la mobilitazione internazionale è scattata in nome della difesa del Paese e della libertà. Noi afghani chiediamo lo stesso, ma la risposta è non appoggiamo la resistenza armata. Questa è ipocrisia".

Chiamate il terrore col suo nome. Fiamma Nirenstein su Il Giornale l'11 settembre 2022.

Molto è cambiato da quel giorno di orrore in cui attoniti, precisamente 21 anni fa, e sembra ieri, guardammo alla tv morire tremila persone a New York City, Washington DC e a Shanksville, Pennsylvania. Fu l'11/9. Ma ancora siamo preda dell'incubo terrorista e della sua astutissima costruzione teoretica, inchiodati davanti agli schermi tv a seguirne le gesta in tutto il mondo, con qualsiasi sigla si presenti; siamo avviluppati con le sedi di decisione internazionale, specie l'Onu, le Corti internazionali, le Ong e i suoi derivati, nell'adottare una concettualizzazione dubitosa e timida della parola stessa «terrorismo» e dei suoi feroci perpetratori, preferendo spesso immaginare squilibrati e disadattati miserevoli, per timore che siano alla fine «combattenti delle libertà». Questo ha anche indotto il giudiziario alla cautela estrema per timore di ferire la libertà religiosa ed epitome della vicenda, dopo tanti anni di combattimento, ha spinto l'America l'anno scorso a fuggire nella vergogna dall'Afghanistan, nido in cui Bin Laden aveva trovato rifugio e conforto. Si è ripetuta la storia irachena che ha generato l'Isis; dopo che tante vite di soldati americani vi erano state perdute.

Al Qaida però e l'Isis non somigliano a ciò che erano. Bin Laden è morto, e anche tutti gli altri capi delle due organizzazioni non esistono più. Ma esistono un numero pari a quattro volte i gruppi salafisti-jihadisti che esistevano 21 anni fa. Al Qaida è molto cresciuta in Africa, si è installata e poi rarefatta in Siria, è presente in molte province afghane e il suo rapporto coi talebani risulta fiorente. Nel frattempo è vivo anche lo Stato Islamico, per abbattere il quale (e non definitivamente) ci sono voluti cinque anni e una coalizione di 83 Paesi. L'Isis ha agito con grossi attacchi in tante città importanti, Parigi, Bruxelles, Nizza, New York. Al Qaida si è rifatta viva con il volo Egitto Russia (29 vittime). Ma l'Isis è stata nel 2021 il gruppo terrorista più letale, con gli attacchi nel Niger.

Oggi la vera epidemia è nelle zone di conflitto; lo sforzo dei Paesi Occidentali dall'11/9 ha fatto diminuire gli attacchi dell'82%. E tuttavia, la pulsione terrorista è sempre micidiale e anche la guerra in Ucraina influenzerà probabilmente la crescita del terrore in Europa, mentre il cyberterrore russo avanza, dice il «Global Terrorism Index» del 2022.

Chi scrive ha visto morire a marzo, aprile e maggio nelle città israeliane per mano terrorista di Hamas, della Jihad Islamica e di appartenenti ad al Fatah, giovani genitori, donne ai caffè, ragazzini che passeggiavano. Ciò che alimenta il terrore è la incessante ripetizione propagandistica di slogan che sporcano dalla più tenera infanzia le scuole e i mezzi di comunicazione talebani, o iraniani, o palestinesi, che incitano all'odio e alla violenza contro immaginari aggressori della vera fede, la loro.

La guerra contro il terrorismo può avvenire solo con una autentica rivoluzione culturale e di deterrenza che superi le pure ottime forme di organizzazione e l'alleanza internazionale. Occorre una cultura che sappia con fermezza chiamare il terrorismo col suo nome, che fermi chi lo alimenta sotto mentite spoglie (sono miliardi quelli che finiscono nelle casse terroriste sotto forma di aiuti a organizzazioni umanitarie) e controlli l'uso mortale dei social media.

Alberto Simoni per “La Stampa” il 12 settembre 2022.

Lui non si affibbierebbe mai l'etichetta, ma per gli americani Mark Lewis è "un eroe" dell'11 settembre. Di quelli silenziosi, trovatosi in una mattina di sole di 21 anni fa a raccogliere le vite degli altri, travolte, tramortite e recise nell'attacco al Pentagono da parte di Al Qaeda.  

Quando ieri, parlando alla cerimonia al Pentagono, il segretario della Difesa Lloyd Austin ha citato i colleghi che hanno portato sulle spalle gli altri, che si sono sostenuti in quel giorno, pensava anche a Lewis. E sugli eroi che «hanno protetto l'America» ha puntato pure Biden sottolineando che «continueremo a difendere gli Usa dal terrorismo» e che quel giorno se «ha cambiato la Storia Usa», non ne ha però alterato il carattere. 

Veterano della 82esima divisione aviotrasportata, missioni a Granada e in altre zone di crisi, grado di colonnello nel 2001, Mark Lewis siede a capotavola di un tavolo di legno nel suo ufficio nell'E-Ring del Pentagono. Per arrivare nella zona più esclusiva del palazzo-fortezza, si cammina quasi dieci minuti. Sempre scortati.

In quest' angolo dell'edificio ci sono gli uffici della leadership della super potenza. Da qui, la mattina dell'11 settembre del 2001, l'allora segretario della Difesa, Donald Rumsfeld se ne uscì impolverato, gli occhiali storti sul naso e si mise nel piazzale antistante a muovere soccorsi e aiutare i feriti. 

Ma prima di lui, lungo i corridoi del secondo piano della facciata occidentale nel cuneo 5, Mark Lewis aveva trasformato l'istinto alla sopravvivenza del soldato in una spinta irrefrenabile all'aiuto degli altri. Ricorda due cose di quel giorno. «Sono freschi nella mia mente il fumo e il fuoco». Il racconto del colonnello tornato al Pentagono con un incarico nella catena di comando civile, però si ferma dopo pochi minuti.

Serve la scenografia, serve vedere, immaginare quel che fu. «Dove siamo seduti io e lei si conficcò il corpaccione del volo 77». Lewis si alza e si accosta alla finestra, l'aereo passò sopra una collinetta e si buttò dentro il Pentagono. «Sono appena cinque piani, colpirlo così... » sospira lasciando capire quanto quei kamikaze fossero preparati per la missione. Quel giorno Lewis aveva una riunione con il generale Maude, il più alto ufficiale in grado morto l'11 settembre. 

Era lui ad occupare l'ufficio dove oggi c'è quello dell'ex colonnello, quello di Lewis distava qualche decina di metri. Mentre camminava nel corridoio verso l'appuntamento, arrivò il botto poi il buio e il fuoco.«C'era puzza di cherosene, fiamme e fumo ovunque. Un silenzio spettrale, le porte antincendio si erano chiuse come da procedura». Una trappola per chi era dentro. «L'unico riferimento era il pavimento, si poteva toccare, sentire», ricorda Lewis. 

Andò a ritroso, recuperò le persone negli uffici, la t-shirt sulla bocca per non inalare fumo. Per aggirare le porte sbarrate, Lewis condusse alla cieca i superstiti, feriti e terrorizzati, lungo un corridoio che portava a una piccola porticina sconosciuta ai più. È diventata la porta per la salvezza. L'aereo si schiantò alle 9,37; 40 minuti dopo Lewis era sul prato del Pentagono fra il frastuono delle sirene, il via vai dei soccorritori.

L'angoscia però era per chi era rimasto indietro. «Quanti? E Chi? Quale ufficio è vuoto». Prese - e con lui altri - ogni telefono possibile, compose ogni numero per rintracciare dispersi. All'appello non tutti risposero. Durò fino alle due di notte questo straziante rito. Allora Lewis tornò a casa: 125 persone al Pentagono erano morte, 184 in totale contando quelle sull'aereo proiettile. 

Inutile chiedere se dormì, l'America si era già messa in modalità guerra, le unità operative dovevano avviarsi. «E così si fece, bisogna andare avanti». Per cinque mesi fu così, avanti a far girare la macchina già protesa sull'Afghanistan.  

Gli occhi di Lewis diventano lucidi. «Accadde a San Francisco, in hotel, qualche mese dopo. La famiglia a fare shopping, io in camera a guardare la Cnn. Un lungo servizio sugli attentati del 11 settembre». E lì lo strazio, il dolore, la presa di coscienza di quel che era successo scoppiarono fragorosi. Il ricordo degli amici. 

Lewis cammina lungo il corridoio dell'E-Ring. Fuori dal suo nuovo ufficio c'è una mappa del piano e vi è disegnata la traiettoria dell'aereo. A fianco le foto delle vittime di quella sezione. Lewis li conosce quasi tutti: la soldatessa che doveva sposarsi a giorni; l'amico generale e Max Beilke, fu l'ultimo soldato a lasciare il Vietnam. «Great and honest men», brave persone. Qualcuno anche un eroe americano. 

Il particolare 11 settembre a un anno dal ritorno dei talebani a Kabul. Mauro Indelicato l'11 settembre 2022 su Inside Over.

Oggi a Manhattan suona di nuovo quella campana che ricorda i minuti in cui, oramai 21 anni fa, si è consumata la tragedia dell’11 settembre. Un suono riprodotto lì dove oggi sorge il memoriale dedicato alle vittime della strage del 2001, a pochi passi da dove sorgevano le Torri Gemelle. Vengono letti i nomi di tutti coloro che qui hanno perso la vita, un elenco di quasi tremila persone cadute mentre erano a lavoro oppure perché ritrovatesi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

Quest’anno la commemorazione ha un sapore diverso. Nel 2021 a pesare maggiormente sul cerimoniale è stato il raggiungimento del ventennale dalla strage. Adesso invece pesa il fatto che mentre oltreoceano si commemorano le vittime, lì da dove è partito l’ordine dell’attacco terroristico la situazione è tornata uguale a com’era l’11 settembre 2001. A Kabul, bersagliata il mese successivo l’attentato per via della presenza dei talebani accusati di dare ospitalità a Bin Laden, gli studenti coranici sono di nuovo al potere. E nel centro della capitale afghana appena un mese fa è stato ucciso il braccio destro di Bin Laden, ossia quell’Ayman Al Zawayri ritenuto tra gli ideatori dell’11 settembre.

I minuti che hanno cambiato gli Stati Uniti

Una chiamata per una fuga di gas in una strada del quartiere sud di Manhattan, in un normale martedì mattina. Poi il rumore di un aereo, lo sguardo che istintivamente si alza verso il cielo e quindi il boato. Sono le ore 8:46 dell’11 settembre 2001, la scena è ripresa da un cameraman che segue una squadra dei Vigili del Fuoco. E si vede per l’appunto un pompiere che abbandona le sue attività per girarsi verso il luogo dell’esplosione. L’immagine diventa una delle più iconiche della giornata. Segna il passaggio dalla normale quotidianità di New York e degli Stati Uniti a uno dei momenti più tragici della storia recente. Il boato è prodotto dallo schianto di un aereo su una delle due torri gemelle di Manhattan. Sembra un incidente, uno dei più clamorosi. E subito la Cnn e gli altri network portano sul posto altri cameraman e degli elicotteri per riprendere la scena dall’alto.

A questo punto i riflettori sono tutti puntati sulle torri gemelle. E alle 9:01 l’arrivo di un altro aereo sull’altra delle due torri gemelle è ripreso in diretta. Appare chiaro ormai che non si tratta di un incidente, ma di un’azione terroristica. Non solo gli Usa, ma tutto il mondo guarda verso New York.

Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, in quel momento si trova a Sarasota, in Florida. Sta parlando in una scuola, quando il consigliere Andy Card lo avvicina per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Anche questa scena è ripresa dalle telecamere e diventa anch’essa emblema della giornata. Ore che ancora non sono finite, perché alle 9:37 c’è un terzo aereo a cadere. Non a New York, bensì davanti il Pentagono a Washington, sede della Difesa Usa. Il Paese è sotto attacco e scattano tutte le misure di emergenza, sia a livello locale che federale. Lo spazio aereo viene chiuso, tutti i soccorsi vengono puntati sulle due città colpite e nella capitale tutti gli uffici più importanti vengono evacuati.

C’è poi un altro velivolo che cade, anche se in campagna. A Shanksville, in Pennsylvania, altre persone muoiono in quello che, pochi giorni dopo, risulta essere un altro dei mezzi dirottati per portare a termine l’azione terroristica. Il terrore quindi passa dai cieli. Il primo aereo a schiantarsi sulle torri gemelle è il volo Boston-Los Angeles dell’American Airlines, il secondo aereo invece serve la stessa rotta ma per la United Airlines. L’aereo che si schianta sul Pentagono è invece decollato da Washington con destinazione California ed è dell’American Airlines. Il quarto aereo, questa volta della United Airlines, è partito da Newark e secondo le indagini non riesce a raggiungere uno degli obiettivi prefissati dai dirottatori per via di una ribellione interna dei passeggeri.

Il terrore però non si esaurisce con lo schianto degli aerei. Alle 9:59 crolla infatti la torre sud delle torri gemelle, la seconda ad essere stata colpita in precedenza. Alle 10:28 cede la torre nord. Le “twin towers” di Manhattan non ci sono più e, con esse, vengono trascinate giù verso la morte migliaia di persone in quel momento intrappolate. Il bilancio ufficiale parla ancora oggi di dispersi: a distanza di 21 anni ci sono 24 cittadini di cui non si sa più nulla. Sono 2.996 le vittime ufficiali, compresi i 19 dirottatori kamikaze.

L’avvio della “guerra al terrore”

Le conseguenze politiche di quell’attentato non si fanno attendere. Il dito viene subito puntato contro Al Qaeda, il gruppo terroristico fondato da Osama Bin Laden già protagonista negli anni precedenti di altri attacchi islamisti contro obiettivi Usa, pur se all’estero. La formazione jihadista ha la propria base in Afghanistan. Qui governano i talebani dal 1996, anche se per la verità Bin Laden è nel Paese da prima dell’avvento a Kabul degli studenti coranici. I talebani predicano un’ideologia estremista, un’interpretazione radicale della visione islamica. Le donne devono girare con il burqa e non vanno a scuola, i maschi devono portare la barba lunga. Hanno già isolato l’Afghanistan da quasi tutto il resto del mondo, ma ad ogni modo soldi e sostegno al gruppo non mancano. Dal Pakistan in primis, in passato dagli stessi Usa quando i gruppi islamisti servono negli anni ’80 ad ostacolare la presenza sovietica nel Paese.

Dopo l’11 settembre i talebani diventano il principale bersaglio di Washington. Sono accusati di dare ospitalità a Bin Laden. E il 7 ottobre, dopo aver incassato il sostegno di Islamabad, Bush fa partire le operazioni militari volte a spodestare gli studenti coranici. Gli Stati Uniti bombardano Kabul, Jalalabad, Kandahar e le principali città afghane. Spianano così la strada all’Alleanza del Nord, l’opposizione ai talebani. I miliziani avanzano e nel giro di poche settimane entrano a Kabul ponendo fine all’emirato.

Secondo Bush questo è solo il primo atto della cosiddetta “guerra al terrore”. Una dottrina però che negli anni è destinata a mostrare ampie lacune. In Afghanistan si pensa a insediare un nuovo Stato e a organizzare, nel giro di pochi anni, delle elezioni. Due anni dopo l’11 settembre la guerra al terrore è combattuta contro l’Iraq di Saddam Hussein. Deposto quest’ultimo, in medio oriente si apre un vaso di pandora che in realtà fa uscire fuori una miriade di gruppi terroristici che nel decennio successivo sconvolgo l’intero medio oriente. Nello stesso Afghanistan la situazione è tutt’altro che rosea: viene inviata una missione Nato, a cui partecipa l’Italia, per dare manforte alle nuove istituzioni di Kabul. Soldi, vite umane perse, soldati caduti, un bilancio cruento che però serve a poco se non addirittura a nulla.

Afghanistan, un anno dopo

Mentre infatti a New York si commemorano le vittime dell’11 settembre 2001, a Kabul i padroni di oggi sono quelli di allora. I talebani il 15 agosto 2021 riconquistano la capitale afghana e ridanno vita all’emirato. Ritornano i burqa, ritornano le barbe, ritornano i divieti e ritornano le scuole precluse alle donne. Possibile che da quell’11 settembre non è cambiato nulla? Una domanda a cui rispondere è difficile. Solo stando nel nuovo-vecchio Afghanistan si può realmente trovare risposta. Il quesito è di quelli in grado di scuotere dalle fondamenta le dottrine occidentali delle ultime due decadi: per davvero l’11 settembre è una data destinata a rimanere unicamente nel novero degli annali e delle cerimonie di commemorazione, ma senza lasciare tracce evidenti nella storia nonostante quanto accaduto dopo le tremila vittime di quella giornata?

 A 20 anni dall'11 settembre confermata la profezia della Fallaci. Riccardo Mazzoni Libero Quotidiano il 11 settembre 2021

Il ventesimo anniversario delle Torri Gemelle si incrocia col quindicesimo della morte di Oriana Fallaci, che cade il 15 settembre, e le due date sono legate a filo doppio, perché fu dopo l’attentato di New York che la più grande scrittrice italiana smise di curare il suo cancro – l’Alieno - per dedicarsi, anima e corpo, a contrastare quello cosmico del fondamentalismo islamico. Dopo la sua morte Franco Zeffirelli scrisse: «Noi non potremo né dovremo seppellirti nell’oblio, cara Oriana, perché tu avevi visto prima il pericolo che ci sovrastava e l’avevi urlato con tutta la tua forza a un mondo di sordi, di ciechi, di vigliacchi».

Oggi che l’Afghanistan è di nuovo in mano ai talebani, col rischio di ridiventare un santuario del terrorismo, il messaggio della Fallaci riacquista una terribile attualità. Già, perché anche solo ipotizzare un abbozzo di dialogo con un premier iscritto nella lista Onu dei terroristi più pericolosi e col ministro dell’Interno ricercato dall’Fbi, pare più un sogno da anime belle che un trattato di Realpolitik. Per Oriana, l’Islam è un’unica immensa palude: «Continua la fandonia dell’Islam moderato, la commedia dell’intolleranza, la bugia dell’integrazione» – scrisse dopo la strage di Londra. Un monito a non illudersi che ci sia un jihadismo “buono” e uno “cattivo”, come invece sembrano credere (ancora!) certi commentatori che, dopo l’attentato dell’Isis all’aeroporto di Kabul, si sono cimentati in una distinzione secondo cui, in fondo, i talebani sarebbero diventati “moderati”, e che la vera minaccia per l’Afghanistan sia ora da individuare nei loro nemici interni, più estremisti di loro. Ma è solo una folle illusione».

Lo scomposto ritiro dell’Occidente, in realtà, ha messo in moto un Risiko che, oltre a sfregiare in modo irreparabile l’immagine e la credibilità degli Stati Uniti, avrà inevitabilmente ricadute anche in un’Europa disorientata e divisa. L’Occidente ha bandito da tempo la parola «guerra», ormai imperversa la dottrina politicamente corretta secondo cui esportare la democrazia con le armi è stato solo un tragico abbaglio storico. Come se la libertà non fosse una conquista da difendere ogni giorno con le unghie e con i denti, anche in patria, ma una quieta eredità, un diritto immutabile delle nuove generazioni. Come se il «Risveglio islamico» nato con la rivoluzione khomeinista del ’79 non si proponesse di risvegliare la moltitudine islamica nel mondo da un letargo lungo trecento anni per affrancarla dalle imitazioni contaminanti dell’Occidente secolarizzato e decadente. L’unico strumento per la rinascita sarebbe dunque il ritorno alla fede e alla disciplina originaria del primo Islam.

La lunga consuetudine col socialismo arabo ha insegnato agli ideologi del terrore l’arte dell’organizzazione attraverso cellule segrete altamente disciplinate e ben addestrate. Ebbene, Oriana Fallaci conosceva profondamente l’Islam fondamentalista, le sue regole, la sua insopprimibile voglia di morte, e sapeva che troppe moschee vengono trasformate «in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi». Fino alla morte, non si è mai stancata di ripeterlo, incurante dell’isolamento culturale e del disprezzo dell’intellighenzia occidentale.

Eppure apparve subito evidente, dopo la spaventosa carneficina dell’11 settembre che nulla sarebbe più stato come prima. Invece ha prevalso il giustificazionismo, il pentitismo storico di un’Europa arcobaleno e senza più identità, secondo cui il terrorismo sarebbe solo il frutto avvelenato degli inevitabili risentimenti nei confronti dell’Occidente sopraffattore. Nulla importava se l’Internazionale del terrore era guidata da un club di miliardari che avevano studiato nei college, o se chi organizzò l’attacco alle Torri Gemelle proveniva da una famiglia facoltosa di Amburgo. La colpa era solo della fame e della povertà a cui erano stati condannati i Paesi arabi, del Satana amerikano e di Israele che difende il suo diritto ad esistere. Quella dei terroristi è invece solo una colpa riflessa e dunque attenuata. Da questa narrazione nasce il mito imperituro del «dialogo». Lo vogliono i pacifisti e lo pretende la sinistra, senza rendersi conto che il dialogo a senso unico significa solo la resa.

Un manuale di addestramento di Al Qaeda trovato a Londra nel ’93 diceva testualmente: «Il confronto che si vuol aprire con i regimi apostati non è fatto di dibattiti socratici, né di dialoghi platonici o di diplomazia aristotelica. Conosce solo il dialogo delle pallottole, gli ideali dell’assassinio, delle bombe e della distruzione e la diplomazia delle mitragliatrici e del cannone».

Ecco: la parola d’ordine della vittoria talebana in Afghanistan «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo» è solo il sinistro complemento del motto di tanti terroristi islamici: «Voi amate la vita e noi amiamo la morte». Una dichiarazione di guerra all’Occidente in ritirata.

(ANSA il 5 settembre 2022) - Un attentato kamikaze è avvenuto stamattina davanti all'ambasciata russa di Kabul in Afghanistan nel momento in cui un diplomatico russo è uscito per annunciare i nomi dei richiedenti il ;;visto. Lo riferisce l'agenzia russa Ria Novosti riportando una fonte che afferma che "da 15 a 20 persone sono rimaste uccise o ferite a causa dell'esplosione".

(ANSA il 5 settembre 2022) - Due funzionari dell'ambasciata russa a Kabul sono morti nell'attentato suicida di stamane. Lo riferiscono le agenzie russe Interfax e Ria Novosti. 

HERAT. UCCISO L'IMAM ANSARI VICINO AI TALEBANI. ALMENO 18 I MORTI. Da repubblica.it il 5 settembre 2022.

E' di almeno 18 morti e 23 feriti il bilancio ancora provvisorio di un attentato a Herat in cui è rimasto ucciso l'imam Mujib Rahman Ansari, un religioso di primo piano nella galassia teocratica dei talebani. L'attentatore "si è fatto esplodere mentre gli baciava la mano", riferiscono testimoni. Non ci sono ancora rivendicazioni. 

L’attentato, l’ennesimo di una lunga serie che sta minando alla radice la pretesa dei talebani di avere riportato la pace nel Paese con la loro presa del potere dopo la ritirata degli occidentali, è avvenuto davanti a una moschea nella città di Herat, nell'Afghanistan occidentale. 

La morte di Ansari è stata confermata dal portavoce della polizia di Herat, Mahmood Rasoli, secondo cui il religioso filo-talebano è morto insieme ad alcune delle sue guardie e ai civili che si avvicinavano alla moschea per la preghiera del venerdì. 

Il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid, in un Tweet, ha espresso "forte condoglianze" per la morte di Ansari e ha detto che i suoi aggressori saranno puniti. 

Mujib Rahman Ansari aveva parlato con forza in difesa dei talebani a un grande raduno di migliaia di studiosi e anziani organizzato dal gruppo alla fine di giugno, condannando chiunque si fosse opposto alla loro amministrazione.

I talebani affermano di aver migliorato la sicurezza nel paese da quando hanno preso il potere circa un anno fa, ma ci sono state diverse esplosioni negli ultimi mesi, alcune delle quali hanno preso di mira le moschee durante le preghiere. Le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per il numero crescente di attacchi e alcune esplosioni sono state rivendicate da una filiale locale dello Stato islamico.

Afghanistan, almeno 21 morti nell'attentato in una moschea di Kabul. Il Domani il 18 agosto 2022

Continuano gli attacchi terroristici nei centri urbani del paese. L’ospedale di Emergency a Kabul è al centro dei soccorsi medici dopo i diversi attacchi che si sono susseguiti nell’ultimo mese

Continuano gli attacchi terroristici in Afghanistan. Secondo la polizia di Kabul è arrivato a 21 il numero di vittime uccise da un attacco bomba kamikaze che ha colpito una moschea della città. L’attacco è avvenuto durante le preghiere serali di ieri. 

Uno dei portavoce della polizia ha inoltre aggiunto che ci sarebbero 33 feriti. La moschea colpita si trova nella zona nord della città, secondo vari testimoni la bomba sarebbe stata esplosa tramite un attacco kamikaze. 

Per quanto riguarda le responsabilità, nessun gruppo ha  – per ora – rivendicato l’attacco e la polizia non si è sbilanciata. I talebani comunque continuano a rivendicare un calo della violenza nel paese da quando si sono insediati al governo del paese nell’agosto del 2021. Però da alcuni mesi si susseguono diversi episodi di attacchi bomba nei centri urbani del paese, alcuni di questi rivendicati dallo stato islamico.

L’ospedale di Emergency, ong italiana fondata da Gino Strada, ha preso in cura molti dei feriti dell’attentato. E in un comunicato ha detto di aver ricoverato 27 persone, tra cui cinque bambini, che sono rimaste ferite nelle esplosioni. Il direttore dell’ospedale Stefano Sozza ha poi annunciato che due persone sono arrivate morte in ospedale e un paziente è morto al pronto soccorso. 

Secondo le stime dell’ospedale, nel solo mese di agosto sono stati già curati circa 80 pazienti con ferite che derivavano da incidenti gravi come esplosioni o sparatorie di massa. Per Sozza «il paese sta soffrendo le conseguenze di un lunghissimo conflitto che ne ha minato il futuro».

Estratto dall’articoli Barbara Schiavulli per “la Repubblica” il 21 agosto 2022.

Nadima trasuda ironia, coraggio ed eleganza. Il suo sorriso illumina tutta la stanza. In Afghanistan è forse una delle donne più conosciute del Paese. Un po' per il suo lavoro con la sua ong, grazie alla quale riesce a sfamare migliaia di persone, ma soprattutto perché lei è Patinggala Kakai, un personaggio di TikTok che racconta la storia divertente di una donna pashtun. […] 

Nata in Afghanistan ma cresciuta in Canada, 39 anni, è tornata nel 2019 per dare una mano. Ha capito che questo è il suo posto, non importa quanto sia difficile, Nadima non ha nessuna intenzione di mollare. A febbraio i talebani sono andanti nella sua ong per arrestare un inglese sospettato di spionaggio come la maggior parte degli stranieri. Lei si è opposta: «È mio ospite e io sono una donna pashtun (la stessa etnia dei talebani, ndr), se prendete lui prendete anche me», e i talebani l'hanno tenuta in prigione per 29 giorni.

«Gli ho detto che dovevano rispettarmi, che ero ospite loro e dei veri pashtun non avrebbero mai permesso che venissi maltrattata». L'ospitalità è uno dei pilastri della tradizione. Ai talebani che entravano nella sua cella dove era reclusa con altre donne, molte delle quali manifestanti, diceva di togliersi le scarpe perché lì pregavano. Poi gli offriva il tè. E le ubbidivano.

In un Paese dove i diritti delle donne sono cancellati, lei ha fatto della sua vulnerabilità una forza. Dopo 29 giorni, è stata rilasciata con tanto di scuse. […] 

«Questi uomini sono stati condizionati fin da piccoli, come molti altri uomini nel mondo sono stati esposti alla violenza, viene detto loro che sono superiori alle donne. Dobbiamo trovare il modo di riconnetterli alla vita, alla gioia, al bene». 

E con lei funziona. Ora sta escogitando una sfilata di moda di abiti tradizionali: «Cuciti da donne, e sfileranno delle donne». E i talebani non riusciranno a dirle di no, perché a differenza di tutti gli altri parla la loro stessa lingua e usa l'arguzia per colpirli dove sa, sono indifesi. «Dobbiamo aiutare questi uomini a ritrovarsi, e molte donne convinte di valere poco devono uscire dalle scatole che altri hanno creato per loro».

E per farlo usa la sua vita, i social, il lavoro umanitario e scenette comiche su TikTok per una sorta di risveglio consapevole. «A molti non piace vedermi parlare con i talebani, ma ora ci sono loro, uomini che hanno passato la vita a combattere sulle montagne e ora dovrebbero andare dallo psicologo invece di gestire uno Stato, ma questo è, e quando provano a maltrattarmi dico loro che li capisco, che sono qui come una madre e una sorella e loro si imbarazzano tanto da vergognarsi. Siamo vittime di bulli che sono stati a loro volta bullizzati». […]

Afghanistan un anno dopo: donne da 300 giorni senza scuola. Karzai: "Non è Islam, ma un ordine pakistano". Marjana Sadat La Repubblica il 15 Agosto 2022. 

Nel primo anniversario della caduta della capitale afghana in mano ai talebani, la questione dei diritti fondamentali e della libertà individuale è ancora uno dei temi più scottanti e dolorosi per la popolazione del Paese. 

Nel primo anniversario della caduta della capitale afghana in mano ai talebani, la questione dei diritti fondamentali e della libertà individuale è ancora uno dei temi più scottanti e dolorosi per la popolazione di questo Paese, soprattutto per le donne afghane.

Le donne di nuovo in piazza in Afghanistan: "Siamo stufe dell'ignoranza".

Afghanistan, la violazione dei diritti delle donne è anche un disastro economico. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 16 Agosto 2022. 

Le restrizioni per le lavoratrici, a un anno dalla conquista talebana, costano oltre un miliardo di dollari. L’occupazione femminile è diminuita del 16 per cento e il 42 per cento delle aziende guidate da donne ha temporaneamente chiuso. La denuncia della direttrice di Un Women

«Si stima che le attuali limitazioni all'occupazione femminile comportino una perdita economica fino a 1 miliardo di dollari, o fino al 5 per cento del prodotto interno lordo dell’Afghanistan», ha affermato, lo scorso maggio, Sima Bahous, la direttrice di Un Women, l'ente delle Nazioni Unite che lavora per favorire il processo di crescita e sviluppo della condizione delle donne e della loro partecipazione pubblica. 

Perché, anche se le condizioni di vita sono più difficili per tutti da quando, il 15 agosto del 2021, i talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan, le donne sono quelle che pagano il prezzo più alto. L’elenco delle limitazioni della loro libertà è lungo e simile quello imposto tra il 1996 e il 2001, quando i talebani governarono gran parte del paese per la prima volta. Al dovere di rispettare severi codici di abbigliamento, alla segregazione di genere, all’impossibilità di viaggiare senza essere accompagnate dal mahram, un partente stretto maschio, e di frequentare le scuole secondarie, si aggiunge anche la difficoltà nell’accedere (o restare) al mondo del lavoro.

Come emerge da un rapporto dell’Ilo, l’organizzazione internazionale del lavoro, le donne sono state colpite in modo sproporzionato dalla crisi che ha seguito il cambio di amministrazione. Mentre l’occupazione maschile è diminuita del 6 per cento nei primi mesi del 2021, quella femminile del 16 per cento. Secondo le stime dell’Ilo il calo potrebbe essersi avvicinato al 28 per cento nella prima metà del 2022.

Per quanto riguarda il settore privato, da un recente sondaggio della Banca Mondiale emerge che il 42 per cento delle aziende guidate da donne in Afghanistan ha temporaneamente chiuso, contro il 26 per cento di quelle di proprietà di uomini. Nel pubblico: sebbene il nuovo regime non abbia licenziato le dipendenti del governo, ha impedito loro di entrare nei luoghi di lavoro. Poco dopo la presa del potere, i talebani hanno chiesto alle lavoratrici, che così ricevono stipendi fortemente ridotti per non fare nulla, di rimanere a casa.

Secondo i racconti di alcune funzionarie del ministero delle Finanze, nelle ultime settimane cresce il numero di quelle a cui viene chiesto di consigliare un familiare uomo che possa sostituirle (così da licenziarle). Sarebbero almeno 60 per Maryam che ha lavorato per più di 10 anni al ministero delle finanze afghano. E che, come ha detto al Guardian ha ricevuto una telefonata dal dipartimento delle risorse umane in cui le hanno chiesto di indicare un uomo che potesse prendere il suo posto di lavoro. «I talebani mi hanno retrocesso e ridotto il mio stipendio. Non posso nemmeno permettermi le tasse scolastiche di mio figlio. Quando l’ho fatto notare un funzionario mi ha detto bruscamente di uscire dal suo ufficio e ha detto che la mia retrocessione non era negoziabile», racconta.

Così per le donne diventa sempre più difficile avere una vita normale: aumentano le violenze domestiche e il tasso di suicidi, soprattutto tra le più giovani. Secondo il sito di informazione Afghanistan International, almeno 104 donne sono state uccise o si sono suicidate negli ultimi sei mesi. Almeno 28 sono tate uccise dal marito, 11 dai fratelli, dal padre o dai figli.

Ma dove c’è oppressione c’è resistenza. Lo testimoniano le proteste che le donne afghane organizzano nelle piazze delle principali città del paese, senza arrendersi, da mesi.

«Pane, lavoro, libertà» è lo slogan che ha animato la marcia dello scorso 13 agosto, durante la quale circa 40 donne hanno raggiunto il ministero dell’istruzione. È stata repressa con la violenza dalle forze talebane, che hanno che sparato in aria per disperdere la folla. Ma non sarà l’ultima.

IL TRISTE ANNIVERSARIO. In un anno i Talebani hanno imbavagliato il paese. VALERIO PELLIZZARI su Il Domani il 14 agosto 2022

Non è un anniversario glorioso. Un anno fa i Talebani entravano a Kabul e in queste ore ancora brandiscono i kalashnikov contro le donne.

Di fatto l’Afghanistan è un paese muto, imbavagliato, liberato e poi assediato dagli stessi liberatori. Capaci alla fine di sconfiggere il più grande esercito del mondo ma sempre divisi in fazioni, mentre i paesi stranieri mostrano grande cautela a riconoscerli politicamente.

L’Emirato di oggi è una costruzione statale dove l’islam più conservatore si mescola ai canoni del mondo tribale. Una formula aggravata dalle quattro sciagurate paginette dell’accordo di Doha firmato nel 2020.

Afghanistan, un anno dopo: perché non possiamo dimenticare. Fausto Biloslavo il 15 agosto 2022 su Inside Over.  

“Cibo, lavoro e libertà” gridano le donne di Kabul scese coraggiosamente in piazza alla vigilia della presa del potere talebano un anno fa, grazie alla Caporetto afghana della Nato. E come nell’agosto 2021, quando manifestavano per la prima volta contro il nuovo emirato, sono state prese a fucilate, per fortuna in aria. Una resistenza pacifica, che abbiamo velocemente dimenticato relegando l’Afghanistan in un buco nero dell’informazione e della politica internazionale già prima della guerra nel cuore dell’Europa.  Un paese kaputt che, al contrario, dobbiamo raccontare, ma per farlo abbiamo bisogno del vostro aiuto, come in Ucraina e nei tanti reportage sostenuti da voi lettori. Per riaccendere i riflettori sul disgraziato paese al crocevia dell’Asia, Daniele Bellocchio e Marco Gualazzini sono tornati a Kabul, un anno dopo.

Fame e burqa

I numeri del buco nero fanno spavento: il Programma alimentare mondiale denuncia che 22,8 milioni di afghani, la metà della popolazione soffre la fame e sopravvive grazie agli aiuti internazionali. I 2,7 milioni di rifugiati all’estero sono la terza nazionalità al mondo dopo siriani e venezuelani, ma si calcola che altri 3,5 milioni di afghani siano sfollati interni. A un anno dalla conquista del potere dei talebani, il 15 agosto, “è in gioco la sopravvivenza dell’Afghanistan” sottolinea Alberto Cairo da Kabul. Il veterano piemontese dalla Croce rossa è convinto che “la comunità internazionale deve trovare il modo di dialogare” con il governo talebano “altrimenti l’Afghanistan è veramente perduto”.

Il fisioterapista che torna a far camminare chi ha perso le gambe sulle mine ammette che “le donne sono state cancellate dalla vita pubblica. Non esistono più”. Non sono tornati solo il burqa obbligatorio, l’accompagnatore maschio e le limitazioni nel lavoro. L’Afghanistan è l’unico paese al mondo dove le ragazze non possono più frequentare le scuole superiori. Il ministero “contro il vizio per la virtù”, fino ad un anno fa dell’emancipazione femminile, ha emesso due nuovi editti. Il primo vieta alle donne di lavorare come assistenti di volo. Il secondo prevede di non farle partecipare alle feste nuziali.

Faide talebane

Un anno al potere ha accentuato le spaccature nel mondo talebano, fra vecchia e nuova guardia, che in maniera sorprendente riguarda anche il giro di vite sui diritti femminili. Lo scontro più duro coinvolge il clan Haqqani, forte nell’Est del paese, in rotta di collisione con il nocciolo storico dei talebani che risiede a Kandahar. Il leader spirituale e teoricamente capo supremo degli studenti guerrieri, Haibatullah Akhundzada, ha soppresso da marzo la libertà delle donne imponendo il burqa e negando la piena istruzione. In risposta Anas Haqqani, ha annunciato a Khost, una delle roccaforti del clan famoso negli anni per la rete di terroristi suicidi, che “le ragazze torneranno presto a scuola e tutti saranno felici. Le donne hanno un ruolo nella fondazione dell’Emirato”.

Non è mai accaduto, ma Anas è il fratello minore del potente Sirajuddin, capo della rete Haqqani e ministro dell’Interno ricercato dall’Fbi con una taglia sulla testa di 10 milioni di dollari. Il 31 luglio, in una villetta di Kabul collegata al clan Haqqani e nella disponibilità del ministero dell’Interno è stato eliminato da un drone Usa Ayman al Zawahiri, capo di al Qaida. L’Onu aveva reso noto, poche settimane prima, che il terrorista super ricercato non era morto, come voleva far credere, ma “comunicava liberamente”.

Trampolino jihadista

Il clan Haqqani, da sempre alleato di Al Qaida, si contrappone all’ala più “pragmatica” composta da moulawi Yaqoob, figlio del fondatore del movimento talebano Mohammed Omar e dal ministro della Difesa mullah Baradar, indebolito dopo essere stato protagonista dell’accordo di Doha con gli americani. L’Afghanistan rischia di diventare, ancora una volta, “un trampolino del jihadismo globale” secondo Claudio Bertolotti, che ha guidato la sezione contro-intelligence della Nato a Kabul. Assieme ad al Qaida la minaccia jihadista è duplice: l’Isis-Khorasan, la costola afghana dello Stato islamico rimane una spina nel fianco del nuovo emirato. I miliziani del Califfo sono nemici giurati dei talebani considerati troppo moderati. Imboscate e attentati suicidi insanguinano a chiazza di leopardo il paese. Per di più lo Stato islamico del Khorasan lancia razzi, seppure in maniera sporadica, sul territorio uzbeko e tajiko con l’obiettivo di allargare la guerra santa alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale oggi indipendenti.

La resistenza e le superpotenze

Ahmed Massoud, figlio del leggendario leone del Panjsher, dichiara di guidare una resistenza armata di 3mila uomini, soprattutto tajiki, ancora poco incisiva nonostante attacchi e imboscate. I talebani sospettano che, grazie alle retrovie in Tajkistan, sia appoggiata segretamente sia dagli Usa che dalla Russia. Mosca, però, ha accolto come “incaricato d’affari”, Jamal Nasir Garwal, inviato talebano. Nessun paese ha riconosciuto pienamente l’emirato, ma i cinesi si sono esposti fin da marzo con la vista del ministro degli Esteri, Wang Yi, a Kabul. il rappresentante di Pechino ha ribadito che la Cina punta ad un ruolo di “sviluppo e rivatilizzazione” dell’Afghanistan nell’ottica del grande piano di penetrazione economica e politica della nuova via della Seta.

Del sangue e sudore dei nostri soldati in Afghanistan resta solo il ricordo di basi saccheggiate come il quartier generale di Camp Arena ad Herat. E lo strascico doloroso di chi ha collaborato con noi o spera nell’Italia come via di fuga dalla prigione invisibile del nuovo emirato. La Difesa ha evacuato dallo scorso anno 5450 afghani e altri sono arrivati con lenti corridoi umanitari. Ben 1500 afghani rimangono in attesa in gran parte incastrati in Iran in condizioni penose. Non possiamo permetterci di dimenticare l’Afghanistan.

L’ombra del terrore islamista a un anno dalla caduta di Kabul. Roberto Vivaldelli il 14 agosto 2022 su Inside Over.

È passato un anno dal ritorno al potere dei Talebani a Kabul e dall’evacuazione precipitosa e sgangherata delle forze occidentali dall’Afghanistan. I talebani, nonostante la retorica e la propaganda sui cambiamenti che avrebbero apportato e alle promesse di essere “diversi” rispetto al passato, si comportano in maniera analoga agli stessi talebani che hanno governato il Paese dal 1996 al 2001. Secondo Human Rights Watch, le autorità talebane hanno imposto severe restrizioni ai diritti di donne e ragazze, represso i media e detenuto arbitrariamente, torturato e giustiziato sommariamente critici e presunti oppositori, tra i vari abusi. Da quando hanno preso il potere, i talebani hanno imposto regole che impediscono alle donne e alle ragazze di esercitare i loro diritti fondamentali, dal diritto di espressione, all’istruzione.

La situazione economica del Paese è disastrosa, soprattutto perché i governi occidentali hanno tagliato gli aiuti internazionali e limitato le transazioni economiche. Più del 90% degli afghani è in stato di insicurezza alimentare da quasi un anno, con milioni di bambini che rischiano di soffrire di malnutrizione. Come se non bastasse, l’Afghanistan continua a essere un luogo dove i gruppi terroristici internazionali o perlomeno alcuni membri di queste ultime possono trovare rifugio, anche contro la volontà degli stessi talebani, rivali – almeno sulla carta – delle ramificazioni afghane di Isis e al-Qaeda. 

Le prospettive dell’Afghanistan dopo l’uccisione al-Zawahiri

Come ha riportato Paolo Mauri su InsideOver, domenica 31 luglio, alle 6:48 ora dell’Afghanistan, una coppia di missili Agm-114 “Hellfire” R9X, soprannominati “blade bomb” o anche “ninja bomb”, lanciati da un drone che si ritiene essere un Mq-9 Reaper, hanno ucciso Ayman al-Zawahiri, leader formale di al-Qaeda, mentre stava per uscire sul balcone di un appartamento nel quartiere di Shirpur a Kabul, dove viveva con i membri della sua famiglia. Alla fine di luglio, gli Stati Uniti hanno partecipato a una conferenza regionale a Tashkent, in Uzbekistan, incentrata sul tema del terrorismo, dove il ministro degli Esteri talebano Amir Khan Muttaqi ha affermato che il suo regime ha mantenuto gli impegni per non consentire all’Afghanistan di essere utilizzato come base per il terrorismo transnazionale. La presenza di al-Zawahiri a Kabul sembra smentire le osservazioni di Muttaqi e la loro reale capacità di arginare le formazioni terroristiche, che continuano ad essere presenti sul suolo afghano, a maggior ragione dopo l’evacuazione della coalizione internazionale a guida statunitense dal Paese.

Scontro sulla presenza di al-Qaeda in Afghanistan

L’uccisione di Al-Zawahiri, tra le menti degli attacchi dell’11 settembre 2001, imbarazza i talebani, perché secondo quanto affermato dal governo americano, a seguito dell’attacco che ha ucciso il leader di al-Qaeda, una parte dei talebani era a conoscenza della presenza di Al-Zawahiri nell’area, in “chiara violazione dell’accordo di Doha”, e hanno persino preso provvedimenti per nascondere la sua presenza, limitando l’accesso al rifugio e ricollocando rapidamente i membri della sua famiglia, compresi sua figlia e i suoi figli, rimasti illesi nell’attacco che ha ucciso il terrorista 71enne. Gli Stati Uniti, infatti, non hanno allertato i funzionari del governo talebano prima dell’attacco drone, evidentemente non ritenendo i talebani dei partner affidabili in tal senso.

Secondo la Cnn, sarebbe stato impossibile per Al-Zawahiri essere a Kabul senza il sostegno di almeno un piccolo numero di talebani e della rete Haqqani. Sulla reale forza di al-Qaeda in Afghanistan, tuttavia, si registrano pareri e rapporti discordanti. Secondo quanto riportato nei giorni scorsi dal New York Times, le agenzie di spionaggio americane ritengono che al-Qaeda non abbia ricostituito la sua presenza in Afghanistan dal ritiro degli Stati Uniti lo scorso agosto e che solo una manciata di membri di lunga data della formazione terroristica siano rimasti nel Paese. Il gruppo terroristico, affermano, non ha la capacità di lanciare attacchi dal Paese contro gli Stati Uniti, secondo il rapporto. Tuttavia, potrà fare affidamento, almeno per ora, su una schiera di fedeli affiliati al di fuori della regione per realizzare potenziali complotti terroristici contro l’Occidente.

Secondo i repubblicani, viceversa, il ritiro degli Usa dal Paese messo in atto dall’amministrazione Biden (ma pianificato da Donald Trump) ha permesso ad Al-Zawahiri di tornare tranquillamente nella capitale, segnale evidente della politica fallimentare della politica estera di Biden, che potrebbe permettere ad al-Qaeda di ricostruire campi di addestramento e tramare attacchi nonostante la promessa dei talebani di negare al gruppo un rifugio sicuro. A sostegno di questa tesi c’è un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato la scorsa primavera, secondo il quale al-Qaeda aveva trovato “maggiore libertà d’azione” in Afghanistan da quando i talebani hanno preso il potere. Il rapporto delle Nazioni Unite suggerisce che la maggior parte dei leader di Al Qaeda si trovano attualmente nella regione orientale dell’Afghanistan, dalla provincia di Zabul a nord verso Kunar e lungo il confine con il Pakistan. La regione di confine tra Pakistan e Afghanistan è fiancheggiata da colline inospitali, ideali per nascondersi.

Cos’è l’Isis Khorasan

Oltre ad Al Qaeda, non va dimenticata la presenza nel Paese dell’Isis-Khorasan, il ramo afghano di Daesh, chiamato anche Isis-K o Iskp. La variante afghana dell’Isis ha una genesi relativamente recente ed è andata raccogliendo proseliti negli ultimi cinque anni, rendendosi responsabile dei principali attacchi alla capitale, “contendendosi” con i talebani il record di attentati verso target militari e civili. La nascita del gruppo è da registrarsi nella provincia del Khorasan, al confine con il Pakistan. L’Isis-k vede i talebani come un nemico inconciliabile che deve essere sconfitto militarmente. L’inimicizia tra i due gruppi è stata aggravata dalle continue ostilità militari, ma la causa principale rimane la loro differenza settaria. L’Isis-k aderisce all’ideologia jihadista-salafita, mentre i talebani, invece, aderiscono a una scuola settaria islamica sunnita, la Hanafi madhhab, che l’Isis considera troppo debole. I due gruppi differiscono per l’approccio relativo al nazionalismo: per chi vuole costruire uno stato-islamico transnazionale, il nazionalismo dei talebani rappresenta un ostacolo e un pericolo.

Nonostante i talebani neghino la presenza dell’Isis-k, stando alle ultime notizie il numero di miliziani che ha aderito allo Stato Islamico sarebbe addirittura aumentato. Il gruppo è responsabile dell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto e di oltre 77 attacchi terroristici nei primi quattro mesi del 2021. Nel 2022, l’attività della formazione terroristica si è espansa, rivendicando recentemente anche la responsabilità di attacchi missilistici contro l’Uzbekistan e il Tagikistan sferrati proprio dal territorio dell’Afghanistan (il che desta preoccupazione anche in Russia e in Cina). Il ritorno dei talebani al potere, nonostante la grande inimicizia settaria fra i due gruppi, ha rappresentato una grande opportunità per l’Isis-k: la maggior parte dei prigionieri appartenenti a Daesh è infatti stata rilasciata o è stata in grado di fuggire da varie prigioni afghane, e molti si sono plausibilmente riuniti al gruppo. Fino al 2019, grazie al supporto aereo degli Stati Uniti, combinato con le operazioni militari afghane, i talebani sono riusciti a prendere di mira in maniera efficace l’Isis afghano e ad arginare la sua presenza: ora devono cavarsela da soli, e non sembra affatto un’operazione semplice.

Come è cambiato l’Afghanistan dopo il ritorno dei talebani. Francesca Salvatore il 15 agosto 2022 su Inside Over.

Un anno fa Kabul cadeva per l’ennesima volta nella sua storia. Come un ladro nella notte, il regime talebano avanzava nuovamente incontrando una resistenza prossima allo zero: la fuga di Ashraf Ghani, così come quella rocambolesca delle forze occidentali, simbolo di una battaglia persa iniziata nel nome della war on terror. A riguardare le immagini di dodici mesi fa sembra ancora incomprensibile come in vent’anni non sia stato possibile evitare una débâcle di tali proporzioni, come e perché le strutture politiche e militari fossero ancora così fragili da sgretolarsi al primo soffio.

La condizione della donna

Un anno dopo, si può affermare senza ombra di dubbio che i talebani si son presi l’Afghanistan sotto una coperta scura, trascinandosi via quel po’ di respiro di cui la società afgana aveva goduto, soprattutto le donne e i bambini. Nell’immediato era apparsa lampante la differenza tra la vecchia e la nuova guardia: più spregiudicati, più mediatici, più pragmatici e meno idealisti dei loro predecessori i nuovi taliban. Avevano azzardato delle promesse, nessuna delle quali mantenuta.

A farne spese immediate donne e bambine, che si sono viste nuovamente depredate dell’istruzione, del volto, della parola, del diritto ad avere una professione e un futuro. Oggi, l’Afghanistan è l’unico Paese al mondo in cui alle ragazze è vietato frequentare le scuole superiori. Le restrizioni riguardano circa 1,1 milioni di ragazze adolescenti. Nel frattempo, le donne ora sono obbligate a coprirsi il viso in pubblico, in gran parte non possono lavorare fuori casa e devono avere un accompagnatore maschio durante i lunghi viaggi. Tali vincoli limitano sempre più la loro capacità di guadagnarsi da vivere, accedere all’assistenza sanitaria e all’istruzione, cercare protezione, sfuggire a situazioni di violenza, esercitare i propri diritti individuali e collettivi. Queste crescenti violazioni dei diritti di donne e ragazze stanno costando caro all’Afghanistan e stanno avendo un impatto sulla crescita sociale ed economica. Le Nazioni Unite stimano che le attuali restrizioni all’occupazione femminile abbiano provocato perdite economiche immediate fino a 1 miliardo di dollari, il 5% della produzione economica del Paese. Con più della metà della popolazione che necessita di assistenza umanitaria, tra insicurezza alimentare e malnutrizione, le ultime restrizioni rendono i tentativi di recupero più difficili, se non impossibili.

La catastrofe umanitaria e le carestie

Nel frattempo nel Paese è andata realizzandosi una delle catastrofi umanitarie più gravi di sempre: milioni di persone soffrono la fame. Più del 90% dei quasi 40 milioni di afgani non ha abbastanza da mangiare secondo le Nazioni Unite. Nella provincia di Ghor, nell’Afghanistan centrale, circa 20.000 persone hanno dovuto affrontare condizioni simili a carestie tra marzo e maggio. Una serie di fattori scatenanti ha portato a questa terribile situazione, in particolare il ritiro improvviso lo scorso anno di circa 8 miliardi di dollari in aiuti internazionali e le sanzioni contro i talebani che, dopo che il gruppo ha preso il potere, hanno portato all’isolamento del sistema bancario afgano dal resto del mondo. Sebbene da allora gli Stati Uniti e altre nazioni abbiano adottato misure per garantire che le restrizioni ai talebani non soffochino l’economia afgana e ostacolino il flusso di assistenza umanitaria, la situazione continua a deteriorarsi. Nonostante i programmi di soccorso abbiano contribuito a evitare una catastrofe durante il rigido inverno afgano, la fame persiste ancora a livelli senza precedenti.

I recenti raccolti porteranno un po’ di sollievo a milioni di persone, ma sarà solo a breve termine per molti. Le ricadute della guerra in Ucraina continuano a esercitare pressioni sulla fornitura di grano, sui prodotti alimentari, sui fattori di produzione agricoli e sui prezzi del carburante. Inoltre, l’accesso a semi, fertilizzanti e acqua per l’irrigazione è limitato, le opportunità di lavoro sono scarse e le persone hanno contratto enormi debiti per acquistare cibo negli ultimi mesi.

La libertà di stampa e la tolleranza religiosa

Ridotta al lumicino anche la libertà di stampa: oltre 200 media afgani hanno chiuso nell’arco di quest’anno. Negli ultimi dodici mesi, su 544 organi di stampa, 218 sono stati chiusi e su 1200 operatori dei media, 7000 di loro hanno perso il lavoro. Secondo la Federazione afgana dei giornalisti e dei media, più di 2.800 donne erano impiegate nei media afgani prima dell’ascesa al potere dell’Emirato islamico, ma più di 2.100 di loro hanno perso il lavoro.

Ci sono poi migliaia, forse milioni, di afgani invisibili: sono coloro che non sono riusciti a scappare. Fra questi le minoranze religiose costrette a vivere come fantasmi: in seguito al loro ritorno al potere, i talebani avevano dichiarato che leggi sulla tolleranza religiosa emanate sotto l’ex governo dell’Afghanistan sarebbero rimaste in vigore a meno che non violassero la sharia. Parole al vento. Nel mirino degli studenti coranici ci sono non solo la minoranza sciita ma anche i cristiani convertiti, i rappresentanti della comunità Hazara, sikh e indù.

Le relazioni “diplomatiche” dei talebani

Da questi talebani 4.0 ci si aspettava un’intrusività internazionale di gran lunga maggiore, quantomeno per una questione di opportunità. Aveva fatto quasi sorridere l’atterraggio della loro delegazione in quel di Oslo, lo scorso gennaio, guidata dal ministro degli esteri Amir Khan Muttaqi per incontrare la delegazione occidentale, che si era affrettata a chiarire come non si trattasse di un riconoscimento diplomatico. Questi ultimi erano reduci da un tour in Russia, Iran, Qatar, Pakistan, Cina e Turkmenistan, quasi a definire la sottile linea di separazione tra nemici, “quasi” amici e vecchi amici. Strette di mano, convenevoli, parole altisonanti, qualche sorriso, ma più che un dialogo alla pari quell’incontro aveva sancito una reciproca repulsione.

Il 25 febbraio scorso, un altro tentativo di insinuarsi nelle cose del mondo, che avrebbe fatto sorridere se non si fosse trattato dell’inizio di una tragedia: all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, il nuovo governo afgano esprimeva preoccupazione per i civili in Ucraina, chiedendo moderazione a tutte la parti, ritenendo ci fosse una possibilità reale di vittime civili nel conflitto. Fu quella l’occasione per rivendicare una politica estera neutrale, pur senza criticare “l’operazione militare speciale” annunciata da Vladimir Putin e confidando che la crisi di quelle ore potesse risolversi “tramite il dialogo e in modo pacifico”. Ma i talebani non sono Nehru, tantomeno Kabul è Bandung.

Chi riconosce il “nuovo” Afghanistan?

Un anno dopo, i talebani lottano ancora per ottenere il riconoscimento internazionale, anche se diversi governi si sono impegnati con Kabul, soprattutto per scongiurare la crisi umanitaria. La leadership afgana sostiene che l’attacco che ha ucciso Ayman al-Zawahiri ha violato sia le leggi internazionali che l’accordo dello scorso anno con gli Stati Uniti sul ritiro delle truppe statunitensi. L’accordo di Doha firmato in Qatar nel febbraio 2020 invitava anche i talebani, l’allora gruppo ribelle, a impedire ai terroristi transnazionali di operare in Afghanistan: gli Stati Uniti, pertanto, a loro volta accusano i talebani di aver violato l’accordo.

A oggi, nessun Paese ha riconosciuto ufficialmente il governo talebano in Afghanistan nonostante possa contare su forti simpatie e accoglienza calorosa in Cina, Russia e altri Paesi in lotta con l’Occidente. Dopo mesi di aperture, che includevano la consegna dell’ambasciata afgana a Mosca ai talebani, la Russia ha recentemente accennato alla possibilità di un riconoscimento formale. Dal canto suo, la Cina ha consentito ai talebani di assumere il controllo dell’ambasciata afgana a Pechino. Inoltre, i cinesi hanno manifestato interesse per numerose iniziative economiche, in particolare il sostegno finanziario per la costruzione di una ferrovia transnazionale attraverso l’Afghanistan che collegherebbe l’Uzbekistan ai porti marittimi del Pakistan: business as usual, insomma.

Anche il Pakistan starebbe cercando di stabilire una relazione con i talebani a causa delle crescenti sfide di sicurezza. L’anno scorso, l’establishment politico e di sicurezza pakistano sembrava appoggiare apertamente i talebani poiché l’allora Primo Ministro Imran Khan aveva definito il ritorno al potere del gruppo di ribelli come una rottura delle “catene della schiavitù”. Eppure, quell’euforia iniziale è scemata per via delle minacce poste dai talebani pakistani. L’Iran, nel frattempo, ha mantenuto una relativa distanza, mostrando una maggiore ambiguità. Le preoccupazioni iniziali derivanti dagli scontri lungo il confine tra talebani e guardie di frontiera iraniane hanno lasciato il posto a un do ut des di confine. Nel frattempo, la Turchia mantiene un’ambasciata a Kabul, ma non accade il contrario. Ankara, invece, resta coinvolta in progetti economici in Afghanistan come la diga idroelettrica di Kajaki nella provincia di Helmand. Erdogan ha tutto l’interesse a stabilizzare il Paese per arginare il flusso di afgani che entrano in Turchia attraverso l’Iran. Negli ultimi mesi, funzionari turchi affermano che più di 18.000 afgani sono stati deportati dalla Turchia.

Dopo la conferenza di Tashkent

Ad un passo dal riconoscimento potrebbe essere l’India: a giugno, New Delhi ha inviato per la prima volta un team tecnico a Kabul dopo i colloqui dietro le quinte con i talebani. La squadra indiana è giunta a Kabul dopo che un alto diplomatico indiano ha visitato la capitale afgana e ha incontrato il ministro degli esteri. Questo è stato il primo incontro pubblico tra il governo talebano afghano e i funzionari indiani che hanno messo in luce l’approccio pragmatico adottato da New Delhi. L’India, in passato, si oppose fermamente ai talebani afgani e, nonostante l’insistenza degli Stati Uniti, si rifiutò di impegnarsi con il gruppo mentre i negoziati erano in corso a Doha. Ha investito massicciamente nella precedente amministrazione afgana guidata prima da Hamid Karzai e poi da Ashraf Ghani, e questo è stato a lungo ragione di attrito con Islamabad.

Solo qualche settimana fa, a Tashkent, l’Uzbekistan ha convocato una conferenza internazionale sull’Afghanistan. All’evento hanno partecipato più di 100 delegazioni provenienti da quasi 30 nazioni: molti dei governi, in particolare quelli dell’Asia centrale, hanno chiaramente spinto verso un’eventuale normalizzazione dei rapporti con Kabul. Per i talebani in grande spolvero si è trattato di un’occasione unica per dichiarare le loro ambizioni anche verso i loro ex antagonisti, Washington in primis. L’Occidente, nell’ultimo anno ha dialogato con i nuovi talebani esclusivamente a suon di milioni di dollari nei settori agricoltura, salute e istruzione: non si è trattato di un riconoscimento politico, ma di una resa di fatto allo stato delle cose. Il braccio di ferro continua e prima o poi uno dei due giocatori dovrà cedere in nome della stabilità regionale. Il governo dei talebani si è fatto in queste settimane via via più insistente sul riconoscimento politico da parte occidentale al grido di “non c’è altro governo da riconoscere”. La triste realtà dei fatti è proprio questa.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 13 agosto 2022.

«Quando fu annunciato il ritiro da Kabul, lo dissi subito: ce ne saremmo pentiti. L'uscita fu catastrofica: le conseguenze peggiori. E ora tanti si rammaricano di quella scelta, sapendo che c'erano altre opzioni possibili». 

A un anno dal ritiro delle truppe americane che il 15 agosto 2021 portò alla riconquista di Kabul da parte dei talebani, il generale David H. Petraeus, 69 anni, fa una lunga lista dei mali che oggi tormentano quel Paese. Già a capo dello United States Central Command, ha guidato le forze americane in Afghanistan e in Iraq.

Fra 2011 e 2012 è stato direttore della Cia e oggi presiede la Kkr Global Institute, società che fornisce analisi di rischio geopolitico a investitori di fondi economici. 

Quali sono state le conseguenze del ritiro dall'Afghanistan?

«Al Qaeda è stata accolta dai talebani, come dimostra l'uccisione a Kabul di al Zawahiri. Allo stesso tempo, gli affiliati dello Stato Islamico fomentano una pericolosa guerra settaria. 

L'economia è crollata. Il nuovo governo applica un'interpretazione ultraconservatrice dell'Islam proibendo alle donne di lavorare, frequentare scuole e università. La situazione del popolo è disperata. Chi sperava che il nuovo regime talebano sarebbe stato diverso rispetto a 20 anni prima è stato deluso».

Quali alternative c'erano?

«Personalmente auspicavo il mantenimento di circa 3.500 uomini e donne in divisa col compito di svolgere missioni di consulenza, assistenza e addestramento delle forze di sicurezza afghane: insieme ai 17mila contractor addetti alla manutenzione dei sistemi tecnologici, necessari al funzionamento della Difesa aerea afghana. Un livello modesto di impegno, assolutamente sostenibile. 

Capisco che continuare una missione che non avrebbe mai condotto alla vittoria, coi talebani protetti dal Pakistan, era frustrante. Ma lasciare un piccolo numero di militari avrebbe convinto le altre forze di Coalizione a fare lo stesso. Insieme ai contractor». 

Ne sarebbe valsa la pena?

«Afghani e Occidente pagheranno a lungo le conseguenze del ritiro. Certo, il governo di Ashraf Ghani era disfunzionale e corrotto. Ma ci aiutava a tenere a freno gli estremisti e garantiva al popolo libertà oggi perse. Era preferibile a quel che lo ha sostituito: e poteva essere migliorato col tempo». 

C'è il rischio che Al Qaeda o un'altra organizzazione si radichi al punto da costituire un nuovo pericolo per l'Occidente?

«Sì. Al Qaeda oppure il rivale Isis useranno l'Afghanistan per riorganizzarsi. E un giorno potrebbero tornare a minacciare i territori circostanti, come quando lo Stato Islamico stabilì il suo califfato in Iraq e Siria. All'epoca, solo l'aiuto della coalizione a guida americana consentì alle forze irachene e siriane di sradicarli. Detto questo, una simile minaccia non si realizzerà a breve. 

Monitoriamo la situazione e l'eliminazione di Al Zawahiri dimostra che siamo in grado di agire quando necessario: pure se la mancanza di basi in Afghanistan rende tutto più difficile».

Un anno fa si disse che gli americani avevano tradito la fiducia degli alleati. Il sostegno all'Ucraina ha emendato gli errori di allora?

«Definirei l'uscita dell'Afghanistan un'anomalia. Oggi gli Stati Uniti guidano la risposta globale all'invasione russa dell'Ucraina, lavorando duramente in sostegno dell'unità della Nato e del mondo occidentale. Garantiamo assistenza militare, finanziaria, umanitaria d'ogni tipo. Il lavoro per colpire con le sanzioni la Russia e la cerchia di Putin è stato straordinario». 

Come legge ciò che è appena successo a Taiwan e la rinnovata attenzione americana verso l'area indo-pacifica?

«Stiamo rispondendo efficacemente e in tutto il mondo a sfide complesse.

Incluso, certo, il perseguimento del "riequilibrio dell'Asia", caratteristica delle ultime tre amministrazioni». 

Qual è la lezione dell'Afghanistan da applicare in futuro?

«Quando si interviene, l'impegno deve poi essere costante. Purtroppo spostammo l'attenzione sull'Iraq subito dopo la caduta del regime talebano. E poi, concludendo che non avremmo vinto, abbiamo dimenticato che anche semplicemente aiutare gli afghani a resistere era alternativa migliore del ritiro. Oggi dobbiamo cercare un modo di aiutare gli afghani, alla fame, senza arricchire il regime talebano. Mentre altrove nel mondo dobbiamo far pressione sugli estremisti, come d'altronde stiamo già facendo».

Come immagina la leadership americana del futuro?

«Fondata su valori di principio, pragmatica e ferma. Sempre concertata coi nostri alleati e partner. Come d'altronde, stiamo già facendo».

Afghanistan, un Paese abbandonato nell’indifferenza dell’Occidente. Dopo un anno di governo talebano l’economia è ferma. La povertà e la fame aumentano. Continua la discriminazione femminile. E c’è il timore che tutto possa crollare di nuovo. Filippo Rossi su L'Espresso il 12 Agosto 2022.

Sarai Shahzada, l’edificio della “borsa” di Kabul, è in fibrillazione già di primo mattino. La gente corre, urla, esce dagli uffici stracolmi. È il centro nevralgico dell’economia del paese. Zirack Abdul Rahman, il responsabile, è oberato. Si ferma un attimo per parlare: «Lo scorso 15 agosto, l’economia è collassata. Il sistema bancario era a terra, niente funzionava. Abbiamo dato una mano al nuovo governo per importare beni di prima necessità. 

Afghanistan, ritorno a Herat un anno dopo l'arrivo dei talebani. FRANCESCA BORRI su La Repubblica l'11 Agosto 2022.  

La Jami Masjid, la Moschea del Venerdì di Herat, nell’Afghanistan occidentale, capolavoro di architettura la cui fondazione risale al 1200. (Francesca Borri) 

A un anno dal ritiro americano, nella "Firenze afghana" un tempo tanto amata dagli hippie si cerca di sopravvivere: chi rovista tra i rifiuti, chi si vende un rene

HERAT (Afghanistan). "Ma se hai voglia di una cosa veramente afghana, compra questa", mi dice il rigattiere, tra elmetti e altri cimeli britannici. E mi passa una Lonely Planet. 1973. L'Hippie Trail. Il viaggio in India degli europei. La Lonely Planet è nata così. Entrando da est, dall'Iran, Herat era la prima tappa. E ancora oggi è tutta luci, colori.

Un anno dopo. L’ambasciatore Sandalli racconta l’Afghanistan con i talebani al potere. L'Inkiesta il 12 Agosto 2022.

La situazione sociale ed economica del Paese si aggrava ogni mese di più. E «se continuerà a prevalere l’ala ultraconservatrice che fa capo alla cerchia dell’emiro a Kandahar, il Paese è destinato a diventare sempre di più un rifugio e un punto di riferimento per il terrorismo di matrice islamica», dice. Ma «un contributo alla pressione sulle autorità de facto può arrivare anche dalla diaspora afghana»

È passato un anno da quando il volo KC767 dell’Aeronautica Militare è atterrato da Kabul a Fiumicino con 74 persone a bordo. Tra loro, c’era anche l’ambasciatore Vittorio Sandalli, cui venne chiesto di rientrare in Italia, prima di stabilire temporaneamente la sede italiana dell’ambasciata a Doha, da cui tuttora opera. E a un anno di distanza da quando i talebani hanno ripreso Kabul, Sandalli racconta ora sulla Stampa lo stato di un Paese che sprofonda nella povertà.

«È stato un momento davvero difficile», ricorda. «Si trattava di lasciare un Paese dove avevo chiesto di essere assegnato due anni prima, quando ancora si sperava che gli sforzi internazionali potessero portare a un’intesa tra le parti in conflitto, i taleban e la repubblica islamica, speravamo che dopo decenni di sofferenze in Afghanistan ci fosse la possibilità di un futuro di pace. L’Italia in Afghanistan aveva sacrificato vite, e aveva portato progresso, sviluppo. Basti pensare a quanto fatto a Herat, in termini di sviluppo sociale, istruzione per le ragazze, infrastrutture, l’Ambasciata a Kabul era diventata un punto di riferimento per le conquiste femminili, organizzavamo convegni, seminari con imprenditrici, esponenti delle istituzioni, con attiviste della società civile, per fare il punto sui progressi compiuti, sulle conquiste raggiunte, sulle prospettive che avevamo davanti a noi. Tutte queste persone avevano creduto in noi, contavano su di noi. E in quei momenti ci stavano chiedendo aiuto come continuano a chiedercelo adesso».

L’ambasciatore spiega che «gli accordi di Doha del febbraio 2020 tra Stati Uniti e taleban prevedevano che a fronte dell’impegno del ritiro delle truppe internazionali le parti in conflitto si impegnassero in un dialogo che si stava svolgendo a Doha, dal settembre 2020. In ritardo, sì, ma c’era un dialogo in corso. Un dialogo che nelle aspettative della comunità internazionale avrebbe dovuto portare a un assetto concordato che da una parte fosse rappresentativo di tutte le componenti etniche e religiose dell’Afghanistan, e dall’altra parte fosse in grado di preservare le conquiste degli ultimi vent’anni, soprattutto nel rispetto dei diritti umani. Noi appoggiavamo e incoraggiavamo questo dialogo però, soprattutto dopo la metà di aprile quando fu confermato il ritiro delle truppe internazionali e con la progressiva avanzata dei taleban, eravamo pronti a tutti gli scenari. Ormai la caduta, anche ravvicinata, della Repubblica, era una possibilità anche se è avvenuta con una rapidità che non tutti avevano previsto».

Ora, un anno dopo, la situazione sociale ed economica dell’Afghanistan si aggrava ogni mese di più. Sandalli ammette che «la preoccupazione è molto forte, soprattutto con l’avvicinarsi del prossimo inverno che sarà il secondo dopo il cambio di regime e porterà nuove privazioni alla popolazione afghana. In primo luogo occorre fare in modo che Unama, la missione delle Nazioni Unite sul campo, aumenti la pressione nei confronti delle autorità de facto, cioè del governo taleban, continuando a sostenere l’inclusione delle minoranze nei processi decisionali e il rispetto dei diritti delle donne». Poi, prosegue, «dobbiamo continuare a stimolare l’influenza dei Paesi della regione, che, anche se animati spesso da interessi divergenti e contrapposti, sono i primi a subire le conseguenze dell’instabilità in Afghanistan quanto a minaccia terroristica, flussi migratori e traffici illeciti». In terzo luogo, «dobbiamo continuare a puntare sulla cooperazione da parte dei Paesi islamici moderati che sono in grado di far emergere le contraddizioni della dottrina intollerante e radicale del movimento taleban, mettendo in evidenza quanto danneggi gli interessi della popolazione e della tenuta del Paese».

Ma il primo pensiero è «evitare una catastrofe ancora peggiore, e per farlo dobbiamo continuare a sostenere la popolazione nei suoi bisogni primari: l’assistenza alimentare e quella sanitaria sempre attraverso le Nazioni Unite e contando sulle ong italiane che continuano a operare sul campo». E da tempo si discute anche della possibilità di «estendere l’aiuto a settori non strettamente umanitari, il sostegno all’istruzione, il sostegno alle microimprese, all’agricoltura, ma tutto ciò potrà avvenire solo quando ci saranno progressi in termini di inclusione delle minoranze e del rispetto dei diritti umani e delle donne in particolare».

Secondo Sandalli, «un contributo alla pressione sulle autorità de facto può arrivare anche dalla diaspora afghana, che per esempio in Italia è formata da persone che erano già nel nostro Paese da prima del cambio di regime e da coloro che hanno raggiunto l’Italia con le operazioni di evacuazione che sono in contatto con le voci residue della società civile che sono ancora in Afghanistan».

In questi 12 mesi, l’Italia ha evacuato non solo i cittadini afghani che erano in servizio nell’agosto del 2021 e le loro famiglie, ma ha continuato e continua a mettere in salvo persone a rischio. Gli aiuti «continueranno nel prossimo futuro e a maggior ragione in vista dell’inverno», assicura l’ambasciatore. «Abbiamo avuto una particolare attenzione per gli studenti. Siamo in contatto con le università che offrono borse di studio agli studenti afghani a cui si aggiungono le borse di studio stanziate dal Ministero degli Esteri»

Kabul, qualche giorno fa, è tornata sulle prime pagine dei giornali per la morte del leader di Al Qaeda Ayman al Zawahiri causata da un drone americano. Secondo Sandalli, questo fatto dimostra «che i legami col terrorismo di matrice islamica non solo non si siano mai interrotti ma sembrano anzi rafforzati». E ora, spiega, «penso che la morte di Zawahiri e la sua presenza a Kabul stiano provocando un confronto interno alle diverse anime dei taleban anche per il timore delle conseguenze sulla già scarsa legittimazione interna che i taleban hanno che deriverà dall’ulteriore isolamento del Paese. Se in Afghanistan continuerà a prevalere l’ala ultraconservatrice che fa capo alla cerchia dell’emiro a Kandahar, il Paese è destinato a diventare sempre di più un rifugio e un punto di riferimento per il terrorismo di matrice islamica».

L’onda lunga dell’Afghanistan sui flussi migratori. Mauro Indelicato il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.   

Le conseguenze di un evento internazionale si vedono sempre nel lungo periodo. Un anno fa i talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan, occupando Kabul il 15 agosto 2021. Oggi gli effetti di quanto accaduto oramai dodici mesi fa si stanno facendo avvertire in Italia sotto forma di aumento degli approdi da parte di migranti afghani. Un elemento che sta incidendo e non poco sul complessivo trend in rialzo degli sbarchi nel nostro Paese. Secondo i dati del Viminale, sono più di 3.200 gli afghani che, dal primo gennaio a fine luglio, sono arrivati irregolarmente in Italia. Una cifra che nello stesso periodo dell’anno scorso non superava il migliaio. C’è quindi stato un incremento di più di duemila migranti provenienti dall’Afghanistan rispetto al 2021. Complessivamente, in territorio italiano l’aumento di ingressi irregolari è attualmente nell’ordine di diecimila migranti in raffronto a dodici mesi fa. A conti fatti dunque, la rotta afghana sta incidendo per oltre il 20% sull’incremento del flusso migratorio diretto verso il nostro Paese. Un peso non da poco e che potrebbe andare ad aumentare ulteriormente nelle prossime settimane.

Perché l’incremento è riscontrabile solo adesso

Se la guerra in Ucraina rappresenterà in futuro senza dubbio l’episodio più emblematico del 2022, nel 2021 invece le immagini più significative sono arrivate da Kabul. E, in particolare, a destare scalpore sono stati soprattutto i video dove migliaia di afghani sono stati immortalati lungo le piste dell’aeroporto della capitale nella speranza di imbarcarsi per il primo volo possibile e fuggire dai talebani. Alcuni di loro si sono anche aggrappati ai carrelli degli aerei, cadendo fatalmente al suolo subito dopo il decollo. Quelle immagini hanno subito fatto intuire che dall’Afghanistan era lecito aspettarsi un vero e proprio esodo verso l’Europa. Già nelle prime ore dopo l’arrivo degli studenti coranici a Kabul in tanti volevano scappare. Soprattutto chi, nei 20 anni di presenza delle truppe Nato, ha collaborato con i soldati occidentali.

In quei giorni non si è provato a scappare solo dalla principale città afghana. É da tutto il Paese che sono emerse autentiche carovane pronte a lasciare in qualche modo il territorio oramai dominato dai talebani. Un esodo cominciato sul finire di quel mese di agosto. Chi non è riuscito a imbarcarsi sui voli con destinazione l’occidente a Kabul, si è unito ai gruppi che da Herat, da Mazar i Sharif, da Jalalabad e dalle altre province afghane si erano messi in cammino.

La rotta via terra dei migranti afghani ha previsto però lunghi mesi di attesa e di autentico pellegrinaggio verso ovest. Chi è scappato dalle regioni orientali ha avuto il Pakistan come prima meta e, da qui, ha cercato di prendere dei voli diretti in Europa. Chi è andato via dalle zone occidentali ha subito varcato, dopo alcuni giorni di cammino, i confini iraniani. Anche da Kabul e dalle zone orientali sono arrivati cittadini afghani la cui volontà era quella di dirigersi verso l’Iran. Una prima tappa in vista del secondo passaggio obbligatorio verso l’occidente, ossia la Turchia. Sul finire del 2021 il presidente turco Erdogan ha fatto erigere una grande barriera lungo le frontiere iraniane con l’intento di frenare il più possibile il flusso migratorio. In molti però sono riusciti a entrare. E questo grazie a una rete di complicità tra organizzazioni turche e iraniane, leste a sfruttare “l’occasione” generata da chi è uscito dall’Afghanistan.

I flussi migratori hanno rappresentato movimenti durati mesi e, ad oggi, mai del tutto terminati. Ancora in questi giorni c’è chi sta provando a scappare dai talebani e ad intraprendere il viaggio verso l’Europa. Con l’avvento del nuovo anno, chi tra gli afghani si è trovato in Turchia ha iniziato a imbarcarsi verso l’Italia. Alcuni, approfittando delle reti di complicità tra organizzazioni turche e libiche, sono andati in Tripolitania sperando di partire con uno dei tanti barconi diretti verso il Mediterraneo centrale. Sopraggiunta l’estate quindi, ecco che l’onda lunga dell’immigrazione afghana ha presentato il conto.

Cosa c’è da aspettarsi nelle prossime settimane

Come detto, gli spostamenti degli afghani verso occidente non sono mai stati del tutto chiusi. Una considerazione che vale sia con riferimento a chi dalla Turchia o dalla Libia sta continuando ad attendere il turno per imbarcarsi verso l’Italia, così come per chi dalle proprie case sta continuando a spostarsi verso l’Iran per poi aspirare a trovare i “corridoi” giusti per l’Europa. Un flusso continuo e costante quindi, in grado di far immaginare ulteriori aumenti degli sbarchi. Anche perché, a partire dalle prossime settimane, a fuggire potrebbero essere non soltanto coloro che temono ritorsioni dai talebani per via del loro passato da collaboratori con gli occidentali. Al contrario, a lasciare l’Afghanistan potrebbero essere cittadini spinti da mere motivazioni economiche.

A un anno dalla loro salita al potere, gli studenti coranici non hanno avuto alcun ufficiale riconoscimento internazionale. Il loro emirato è quindi ancora pressoché isolato e questo per l’economia afghana vuol dire ulteriori fasi di stallo. Nel Paese faticano ad arrivare generi di prima necessità, così come faticano a ripartire i commerci. Inoltre con il perdurante blocco delle riserve statali congelate negli Usa e in alcune banche occidentali, rischia di impedire il regolare pagamento degli stipendi. Condizioni in grado di spingere sempre più persone a cercare la via della fuga.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora. 

Talebani, Al Qaeda e terre rare: perché l'Afghanistan è un pericolo per l'Occidente. Elena Barlozzari il 6 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'uccisione di al-Zawahiri ha riacceso i riflettori sull'Afghanistan e sul rapporto mai reciso tra al-Qaeda e i talebani. Ma a preoccupare l'Occidente c'è anche la gara per le terre rare, l'oro del XXI secolo

Ventuno anni dopo l’11 settembre, si chiude il cerchio. La giustizia americana ha le sembianze di un drone. È un’operazione chirurgica che si consuma la mattina presto. L’obiettivo è Ayman al-Zawhairi, leader carismatico e mente di un gruppo, al-Qaeda, che ha fatto la storia del terrorismo internazionale. Cosa succederà adesso? Quale futuro per l’Afghanistan? Ne abbiamo parlato con Francesca Manenti, direttore del Centro studi internazionali (Cesi).

Un bel colpo per l’amministrazione Biden. Servirà a risollevare il consenso interno?

"Un grande colpo per Biden che stava raccogliendo molte critiche per via della propria agenda, sia domestica sia internazionale. È una spilla che si può appuntare alla giacca e che in qualche modo lo ricollega all’esperienza obamiana."

Ad un anno dal ritiro occidentale dall’Afghanistan, sul piano geopolitico cosa racconta questa operazione?

"Che gli americani attenzionano ancora l’area, perché la lotta al terrorismo non si è conclusa con l’uscita dall’Afghanistan. Del resto, questo era forse l’unico punto ben fermo degli accordi di Doha, firmati dall’amministrazione Trump con i talebani."

La presenza di al-Zawhairi a Kabul suggerisce una verità scomoda...

"Nonostante la clamorosa operazione, la coperta è corta: andando ad individuare al-Zawahiri a Kabul hanno svelato il segreto di Pulcinella, dimostrando che il rapporto tra al-Qaeda e i talebani non si è mai reciso, anzi, negli anni è diventato osmotico. La presenza di una figura di primo piano come al-Zawahiri, proprio a Kabul, sorpreso mentre se ne stava tranquillamente in balcone, prova che con i talebani al potere al-Qaeda sta vivendo una sorta di ritorno alla normalità, con possibilità di riorganizzarsi."

Cosa succederà ora?

"Questa è la vera domanda: in corsa per la nuova leadership ci sono diverse figure, una di queste è l’uomo ombra Saif al-Adl, una figura storica, un qaedista della prima ora che ha tenuto un profilo più basso rispetto ad altri della sua caratura. Con lui si verrebbe a creare una sorta di anello di congiunzione tra la vecchia guardia e la nuova generazione di al-Qaeda, tra l’eredità ideologica del primo qaedismo e la militanza sul terreno. Quello che si può ipotizzare è che il gruppo andrà verso una sorta di regionalizzazione degli scenari, con i contesti africano e yemenita che avranno sempre più rilevanza. Ciò non significa che la rete non sia presente anche altrove, seppur in maniera indebolita rispetto al passato."

Potrebbe andare a beneficio dell’Isis?

"Se parliamo del contesto afghano, in realtà al-Qaeda è ben integrata con l’insorgenza talebana ed ha messo profonde radici nel tessuto sociale. Quindi la morte di al-Zawahiri potrebbe avere un impatto limitato in questo senso."

L’uccisione di al-Zawahiri ha riacceso i riflettori su una regione martoriata. Qual è la situazione?

"Da un anno l’Afghanistan sta attraversando una crisi profonda. Già prima era tra i Paesi più poveri del panorama internazionale, ma a partire dall’insediamento dei talebani la crisi si è acuita. È una crisi economica che si traduce in crisi umanitaria, aggravata dall’incapacità amministrativa di chi governa e dalle regole di matrice radicale che l’emirato porta con sé, che ledono diritti e libertà civili della popolazione."

Il governo sta cercando di ottenere il riconoscimento della comunità internazionale.

"Sì ma la partita in gioco è complessa: per poterlo ottenere viene chiesta una serie di concessioni su diritti umani e libertà civili che per propria natura il gruppo talebano ha difficoltà ad accordare. Oltre a non riconoscerle come valide, il governo rischierebbe di incontrare non poche difficoltà a giustificarle alle frange più radicali del movimento."

Ci sono Paesi, penso alla Cina, che sulla questione sono decisamente più morbidi…

"Tutti gli attori regionali, come Russia, Cina, Pakistan, Iran e Paesi dell’Asia centrale, guardano con attenzione all’Afghanistan. Gli obiettivi sono due: il primo è scongiurare una nuova crisi che faccia da moltiplicatore alle criticità con ricadute sulla sicurezza nazionale, il secondo è invece di natura economica. Puntano a favorire la ripresa del Paese per inserirlo in un panorama regionale nel quale possa diventare un interlocutore anche economico."

In Afghanistan si stima un tesoro di trilioni di dollari di terre rare. Cosa significa controllarle?

"Significa conquistare un ruolo fondamentale nelle future partite internazionali. Il grande esempio è la Russia che con il gas riesce ad ottenere risultati politici. Il ruolo che stanno giocando gli idrocarburi oggi, domani lo giocheranno le terre rare. Aggiudicarsi contratti per la loro estrazione e fornitura è una partita cruciale per controllare le supply chain di settori strategici. Le terre rare sono il primo gradino delle catene di valore per le tecnologie di transizione ecologica, basti pensare alle auto elettriche."

L’Occidente sta puntando molto su queste tecnologie, eppure dopo vent’anni di presenza sul campo, rischia di rimanere con il cerino in mano.

"L’Occidente è chiamato a fare delle scelte. Si deve garantire una sicurezza strategica senza andare in deroga ai principi democratici, senza scendere a compromessi. Bisogna capire come ricondurre ad una sintesi interessi strategici di natura economico securitaria con quelli valoriali. È un percorso più lungo, e per non rimanere troppo indietro bisogna non contingentare le scelte politiche al qui ed ora ma avere una visione." 

Jalaluddin Haqqani, il demolitore dell’Unione Sovietica. Emanuel Pietrobon il 2 Agosto 2022 su Inside Over.  

Non è possibile capire chi sono e che cosa rappresentano i talebani, gli studiosi del Corano, senza una disamina approfondita e imparziale del loro sistema di valori e credenze. Perché se è vero che gli eredi del Mullah Omar non rappresentano l’intero Afghanistan, lo è altrettanto che sono figli legittimi della sua (lunga) storia di resistenza all’imperialismo straniero.

Scrivere e parlare dei talebani equivale a fare un ritratto della parte più profonda dell’Afghanistan, quella che ha rifiutato la modernità dopo averla tastata con mano. Equivale a capire che cosa potrebbe accadere in questo teatro-chiave dell’Eurasia, storico capolinea di esperienze imperiali cominciate altrove. E se non si può comprendere a fondo la nazione dei pashtun ignorando l’esistenza e il legato di Dost Mohammed Khan, lo stesso vale per i talebani, la cui storia e il cui disegno non si possono capire completamente tralasciando una figura come Jalaluddin Haqqani.

Le origini

Jalaluddin Haqqani nacque nel cuore del Pashtunistan, ovvero in un piccolo villaggio, Karezgay, sito nel distretto di Zadran. Ignoti il giorno e il mese in cui venne al mondo, arricchendo la tribù guerriera dei fieri Jadran; di lui è noto soltanto che nacque nel 1939.

Di lignaggio elevato – il padre era un ricco proprietario terriero –, Haqqani crebbe in Pakistan, dove nel 1964 si iscrisse al prestigioso seminario Darul Uloom Haqqania, il centro propulsore del deobandismo legato a colui che in futuro sarebbe divenuto il “padre spirituale” dei talebani: l’imam Sami-ul-Haq.

La vera ideologia dei Talebani

Nel 1970, a completamento del ciclo di studi, Haqqani fu creato Molvì, l’onorificenza sunnita che precede il titolo di Mullah. L’inizio di un percorso che lo avrebbe legato indissolubilmente al carismatico Sami-ul-Haq, traghettandolo alla guida dell’albeggiante movimento di resistenza anticomunista della sua patria, l’Afghanistan.

All’indomani della detronizzazione di re Zahir, avvenuta nel 1973 e capitanata da Daoud Khan, Haqqani decise di rientrare in Afghanistan per tentare l’ingresso in politica. Non ci riuscì: le sue attività gli valsero l’attenzione dell’apparato di sicurezza, costringendolo ad un continuo andirivieni tra le cime del Paropamiso afgano ai meandri del Waziristan pakistano.

L’astio provato verso il potere centrale, aumentato di pari passo con l’autoritarismo di Khan e con la crescita dei comunisti – emblematizzata dalla rivoluzione di Saur del 1978 –, lo avrebbe radicalizzato e spinto ad aderire al fronte panislamico. Prima l’ingresso nel partito Hezb-i Islami di Mohammad Yunus Khalis, poi l’arruolamento nei mujaheddin.

Demolitore dell'Unione Sovietica

Carismatico, dunque capace di trascinare le folle, e dotto, perciò in grado di persuadere i musulmani più scettici a prendere le armi, Haqqani sarebbe entrato nel mirino della Central Intelligence Agency in concomitanza con l’avvio dell’operazione Cyclone. Era l’uomo, invero, del quale Washington abbisognava per trasformare l’Afghanistan nel Vietnam dei sovietici.

Coltivato dall’intelligence a stelle e strisce come “assetto unilaterale”, e cioè esclusivamente di proprietà degli Stati Uniti, Haqqani sarebbe diventato il pilastro indispensabile dell’intera operazione di impantanamento dei sovietici. E il perché è storia: nessuno si sarebbe rivelato più capace di lui, anche per ragioni organizzative – aveva avuto l’idea di fondare un circuito ad hoc, la rete Haqqani, per gestire i flussi transnazionali di uomini, armi e danari –, di magnetizzare capitale e combattenti dal vicinato islamico.

Tra le decine di migliaia di combattenti che risposero al richiamo del Jihād proveniente dai muezzini afgani, e notevolmente amplificato dalla rete Haqqani, ci fu anche un giovane Osama bin Laden, che del Molvì divenne un protetto e uno degli allievi migliori.

Akhtar Abdur Rahman, il “generale” dei Talebani

Sami-ul-Haq, il “padre” dei Talebani

Sfruttando la conoscenza del territorio, Haqqani evitò di cadere nelle trappole delle unità d’élite del KGB inviate in loco per catturarlo – ed eliminarlo. E capitalizzando il proprio lignaggio, che lo legava ad alcune delle più importanti tribù del Pashtunistan, Haqqani sabotò i piani sovietici di controinsorgenza basati sulla creazione di cellule autoctone e sulla disseminazione di discordia tra la costellazione di clan del panorama afgano.

Temerario combattente, oltre che predicatore e amministratore dell’operazione Cyclone, Haqqani sarebbe stato oggetto di una mitizzazione quando ancora in vita per via della sua partecipazione ad alcune delle più importanti battaglie tra mujaheddin e sovietici. Nota è, ad esempio, la sua presenza alla cattura di Khost, nel 1991, la prima grande città caduta nelle mani dei guerriglieri anticomunisti.

La fama imperitura

La ritirata sovietica non avrebbe comportato l’inizio della pace per il martoriato Afghanistan. Al contrario, in coincidenza con il ritorno a casa dell’Armata rossa, nella multinazione sarebbe scoppiato un conflitto fratricida tra le varie fazioni di mujaheddin. Conflitto nel quale Haqqani non si fece trascinare, mostrando un’incredibile lungimiranza.

Nel 1992, nel dopo-caduta di Kabul, Haqqani fu nominato a capo del ministero della giustizia del neonato Emirato islamico dell’Afghanistan. In seguito, una volta ottenuta la piena fiducia del mullah Omar, avrebbe ricoperto il ruolo più consono di titolare del ministero dei confini e degli affari tribali. 

Nel 2001, allo scoppio della Guerra al Terrore, l’amministrazione Bush provò a corteggiare il fu “assetto unilaterale” con il duplice obiettivo di spaccare il governo talebano e di sveltire la cattura di Bin Laden, del quale si vociferava che Haqqani stesse coprendo la latitanza. L’adulazione, però, non sarebbe andata a buon fine: Haqqani rifiutò di tradire gli studiosi del Corano, equiparando gli statunitensi ai sovietici – definendoli degli “invasori infedeli” – e incitando la popolazione alla resistenza a oltranza all’operazione Enduring Freedom.

Tra Haqqani e Stati Uniti, un tempo alleati contro un comune nemico, sarebbe stata lotta senza quartiere sino al passaggio a miglior vita del primo. Ma ancora una volta, proprio come in passato, la geografia avrebbe permesso al predicatore-guerriero di sopravvivere ai tentativi di eliminazione.

Di Haqqani, il campione dell’anticomunismo celebrato nel Congresso degli Stati Uniti e persino invitato alla Casa Bianca ai tempi di Ronald Reagan, si sarebbe perduta ogni traccia per quasi vent’anni. Un fantasma schivo, invisibile a droni e satelliti, e morto da uomo libero, da qualche parte del Paropamiso, nel 2018.

Roberto Bongiorni per “Il Sole 24 Ore” il 3 agosto 2022.

Per il presidente americano Joe Biden probabilmente non poteva esserci momento migliore. Per la leadership talebana, invece, uno peggiore era difficile da immaginare. Le commemorazioni, volute o non volute, hanno sovente bisogno di un evento che le enfatizzi. 

Nel mese che ha visto il disastroso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan (conclusosi il 30 agosto 2021), il raid che ha portato sabato all’uccisione di Ayman Zawahiri, proprio a Kabul, rappresenta un grande successo - militare e politico - per il presidente americano. Zawahiri era l’ultimo grande terrorista in circolazione. Il chirurgo del terrore, il jihadista che aveva fondato insieme a Osama Bin Laden la rete di al-Qaeda e pianificato gli attacchi contro le Torri Gemelle. Era il pesce più grosso, per quanto la sua influenza sull’ormai frammentato network di al-Qaeda fosse di gran lunga ridotta.

Per la leadership talebana si tratta invece di un caso imbarazzante. Se non avessero saputo nulla della presenza di Zawahiri a Kabul significherebbe che non esercitano il controllo neanche sulla loro capitale. Se lo avessero saputo, allora avrebbero violato un asse portante degli accordi di pace con gli Usa. 

A 12 giorni dall’anniversario della simbolica conquista di Kabul, e quindi della creazione del loro secondo Emirato, che peraltro ha riportato indietro il Paese di molti anni, veder bombardata la propria capitale dalla potenza a cui si chiede da tempo di essere riconosciuti come Governo legittimo, da cui ci si attende lo sblocco dei fondi della banca centrale afghana (sette miliardi di dollari) custoditi presso la Federal Reserve, e da cui si spera possano arrivare presto altri miliardi di aiuti, tutto ciò è umiliante.

Biden può esultare. Gli Stati Uniti sono in grado di colpire il nemico, dovunque e in qualunque modo. Anche senza “boots on the ground”, ha rimarcato. Le elezioni di Midterm si avvicinano. Il colpo segnato può risollevare in parte la sua popolarità in un momento in cui è quasi ai minimi. 

Ogni cosa, tuttavia, può esser guardata da diverse angolazioni. Se si abbandona la retorica elettorale il caso Zawahiri segna la sconfitta di entrambi. 

Quando gli Stati Uniti iniziarono a ritirarsi la priorità era soprattutto una: che abbandonando l’Afghanistan non tornassero gruppi jihadisti decisi a creare una base per sferrare attacchi al mondo occidentale. Una delle colonne portanti negli accordi di pace di Doha era proprio l’assicurazione da parte dei talebani di non consentire a gruppi di estremisti islamici di operare sul loro territorio. Tantomeno di cooperare con loro.

La presenza di Zawahiri a Kabul, si presume protetto da almeno una parte dei talebani, è un campanello d’allarme di cui tutti devono tener conto. Se poi si considera che sulla testa del ministro degli Interni talebano, Sirajuddin Haqqani, un uomo con solidi legami con i gruppi qaedisti pakistani, pende un taglia di 10 milioni di dollari del Dipartimento di Stato Usa, e che altri membri del Gabinetto talebano coltivano relazioni pericolose con al Qaeda, l’Afghanistan che si sono lasciati dietro gli americani è decisamente peggiore rispetto a quello in cui faticosamente cercavano di garantirne la sicurezza.

E che dire dei “nuovi” talebani? Nonostante si fossero presentati in principio come un gruppo di moderati, deciso a non smantellare i progressi che il Paese aveva compiuto negli ultimi 20 anni nel campo dell’economia e soprattutto in quello dei diritti umani, mese dopo mese stanno mostrandosi per quello che sono. Ormai le ragazze non possono nemmeno più frequentare le scuole. 

Il Paese è in balia di una gravissima crisi umanitaria, la peggiore al mondo. Il 15 agosto cade l’anniversario della ri-conquista di Kabul. Ma sarà una triste commemorazione. Per gli americani, protagonisti di un disastro politico e militare. Per i talebani, ormai divisi e incapaci di amministrare il Paese. Ma soprattutto per i civili. Nel tunnel in cui si trovano non si vede alcuna luce. Anzi, potrebbe esser ancora più buio e lungo di quanto già si immaginassero.

Da agenpress.it domenica 24 Luglio 2022.

Centinaia di uomini, stanchi di eroina, oppio e metanfetamina, erano sparsi sulla collina che sovrasta Kabul, alcuni in tende, altri sdraiati nella terra. I cani si aggiravano furtivamente perché a volte gli somministravano droghe e c’erano corpi di cani in overdose in mezzo alla spazzatura. 

Anche gli uomini qui scivolano, tranquilli e soli, oltre il confine dall’oblio e dalla disperazione alla morte. 

“C’è un uomo morto accanto a te”, mi ha detto qualcuno mentre mi facevo strada tra loro, scattando foto. “Abbiamo seppellito qualcuno laggiù prima”, ha detto un altro. 

Un uomo giaceva a faccia in giù nel fango, immobile. Lo scossi per una spalla e gli chiesi se era vivo. Girò un po’ la testa, appena fuori dal fango, e sussurrò di sì. 

“Stai morendo. Cerca di sopravvivere. Va bene. Va bene morire”.

Sollevò un po’ il corpo. Gli ho dato dell’acqua e qualcuno gli ha dato una pipa di vetro di eroina. Fumarla gli dava un po’ di energia. Ha detto che si chiamava Dawood. Aveva perso una gamba a causa di una mina circa un decennio fa durante la guerra; dopo di che non ha potuto lavorare e la sua vita è andata in pezzi. Si era rivolto alla droga per scappare. 

La tossicodipendenza è stata a lungo un problema in Afghanistan, il più grande produttore mondiale di oppio ed eroina e ora una delle principali fonti di metanfetamina. I ranghi dei tossicodipendenti sono stati alimentati dalla povertà persistente e da decenni di guerra che hanno lasciato indenni poche famiglie.

Sembra solo peggiorare da quando l’economia del paese è crollata dopo la presa del potere da parte dei talebani nell’agosto dello scorso anno e la conseguente sospensione dei finanziamenti internazionali. Le famiglie che un tempo erano in grado di cavarsela si sono viste tagliare i mezzi di sussistenza, lasciando molte a malapena in grado di permettersi il cibo. Milioni di persone si sono unite ai ranghi degli impoveriti. 

Il numero crescente di tossicodipendenti si trova intorno a Kabul, che vivono nei parchi e nelle fognature, sotto i ponti, su pendii aperti.

Un sondaggio del 2015 delle Nazioni Unite ha stimato che fino a 2,3 milioni di persone avevano fatto uso di droghe quell’anno, il che sarebbe stato pari a circa il 5% della popolazione dell’epoca. Ora, sette anni dopo, il numero non è noto, ma si ritiene che sia solo aumentato, ha affermato il capo del dipartimento per la riduzione della domanda di droga, il dottor Zalmel, che come molti afgani usa un solo nome. 

I talebani, che hanno preso il potere quasi un anno fa, hanno lanciato una campagna aggressiva per sradicare la coltivazione del papavero. Allo stesso tempo, hanno ereditato la politica del governo estromesso e sostenuto a livello internazionale di radunare i tossicodipendenti e costringerli nei campi. 

Uccisione al-Zawahiri: il corpo non si trova, dicono i talebani. Piccole Note l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

“I talebani affermano di non aver trovato il corpo del leader di Al-Qaeda assassinato dagli Stati Uniti, Ayman Al-Zawahiri , a seguito di un’indagine condotta  dopo la sua uccisione”. Così su New Arab.

A darne comunicazione pubblica è stato il ministro dell’informazione del governo afghano  Zabiullah Mujahid, il quale ha detto che nella casa colpita dal missile americano “è stato distrutto tutto, ma non c’era nessun corpo”.

A proposito di missili rotanti e case disabitate

In un’altra nota avevamo notato che il raid del drone della Cia contro la casa in cui avrebbe trovato rifugio il leader di al Qaeda presentava degli aspetti singolari, a iniziare dai missili non caricati da testate esplosive ma dotati di lame rotanti, in stile Goldrake, usati nell’occasione, mai usati in precedenza, una sorta di arma segreta dell’arsenale dell’Us Army (siamo curiosi di vedere se verranno utilizzati in futuro, dal momento che a occhio tale tipo di arma non sembra di grande utilità).

E ci si interpellava anche sulla mancanza di riscontri oggettivi al raid, come da dichiarazioni ufficiali delle autorità statunitensi, le quali hanno comunicato di non avere alcun interesse a cercare ulteriori prove, essendo bastevoli quelli già in loro possesso, non rivelate alla pubblica opinione.

Inoltre, a suscitare perplessità è anche un altro aspetto della questione, che un occidentale, non avvezzo alle rivalità feroci esistenti nel mondo arabo, non può cogliere.

I pessimi rapporti tra Al Quaeda e i talebani

Tali perplessità sono esposte in un articolo di Eric Margolis ripreso dal sito del Ron Paul Institute: “Il motivo per cui al-Zawahiri vivesse liberamente a Kabul – se davvero era là – rimane un mistero. I rapporti tra al-Qaeda e talebani sono sempre stati pessimi, così come con l’Iran”.

“Eppure al-Zawahiri avrebbe scelto di vivere in un appartamento del centro, circondato da informatori, spie ed ex agenti della polizia segreta del regime con una taglia di 25 milioni di dollari in testa? Ci si chiede anche perché Osama bin Laden vivesse ad Abbottabad, un accampamento militare pakistano, liberamente e senza guardie a presidio”.

Così ci permettiamo di dare notizia anche delle conclusioni delle indagini dei talebani, che peraltro coincidono con una testimonianza da Kabul raccolta dalla Reuters citata nella nota pregressa, secondo la quale la casa sarebbe stata disabitata.

L’annuncio dei talebani, che smentisce seccamente la grandiosa narrazione Usa (a meno che non si sia polverizzato…), potrebbe essere non veritiero, ma ci sembra comunque doveroso darne notizia, lasciando al lettore le conclusioni. Riteniamo che l’importanza della vicenda non dia spazio alla censura preventiva, osservata dai media d’Occidente che hanno snobbato la comunicazione.

L’uccisione di Al Zawahiri, l’erede di Bin Laden : i talebani protestano ma non troppo. Il governo afghano formalmente reagisce ma la componente jihadista è da tempo una spina nel fianco per chi ha stretto gli accordi di Doha e incassato la smobilitazione americana dal Paese. Il sospetto di talpe che abbiano agevolato il lavoro dei droni che hanno eliminato Ayman al-Zawahiri. Giuliano Battiston su La Repubblica il 2 Agosto 2022.

Ayman al-Zawahiri, il medico egiziano a capo dell’organizzazione terroristica al-Qaeda, è stato ucciso domenica 31 luglio, intorno alle 4 del mattino ora italiana, da un attacco aereo della Cia: due missili Hellfire sparati da un drone sul balcone di un edificio di Shirpur, quartiere residenziale nel cuore di Kabul, la capitale dell’Afghanistan controllato dai Talebani.

«Giustizia è fatta». Con le stesse parole usate nel maggio 2011 dal presidente Usa Barack Obama per celebrare l’uccisione di Osama bin Laden, ieri Joe Biden ha rivendicato quella del successore dello sceicco saudita: “sabato, dietro mio ordine, gli Stati Uniti hanno condotto con successo un attacco aereo a Kabul, in Afghanistan, che ha ucciso l’emiro di al-Qaeda: Ayman al-Zawahiri”.

Alla guida di al-Qaeda dal maggio 2011, quando Bin Laden è stato ucciso da un raid dei Navy Seals nel suo compound ad Abbottabad, in Pakistan, in una cittadina simbolo dell’establishment militare, al-Zawahiri ha alle spalle una lunga militanza nell’islamismo radicale e poi jihadista. Nato nel 1951 al Cairo da una famiglia colta e ricca, la sua “carriera” inizia quando aveva soltanto 15 anni.

Joe Biden annuncia l'uccisione del terrorista Al Zawahiri: "Giustizia è fatta"

È il 1966: Sayyid Qutb – ideologo e pedagogista autore di testi cruciali per l’islamismo radicale e amico intimo di uno zio materno di Ayman – viene impiccato. Ayman al-Zawahiri dà vita a una cellula clandestina per rovesciare il governo egiziano. Sogna di realizzare quell’“avanguardia dei pionieri” descritta nei testi rivoluzionari di Qutb. La stessa idea, dopo molti anni di battaglie e di sermoni, lo porterà a Peshawar, in Pakistan, dove arriva come medico e dove negli anni Novanta consolida il rapporto con il saudita Osama bin Laden, promotore della guerriglia anti-sovietica e poi fondatore di al-Qaeda. Sarà a lui che Bin Laden, con la sua morte, lascia in eredità un’organizzazione che molti, negli anni successivi, avrebbero dato per spacciata. E che invece, proprio grazie ad al-Zawahiri, è riuscita a sopravvivere fino a oggi.

Sul breve termine, la sua uccisione è un successo per il presidente Biden. Che ieri ha rivendicato la capacità degli Usa “di difendere gli americani da chi cerca di danneggiarli”. Per i terroristi, ha dichiarato enfaticamente Biden, non c’è scampo: “non importa quanto ci vuole, non importa dove provate a nascondervi, vi troveremo”.

L’operazione della Cia rafforza in effetti la pretesa dell’amministrazione Biden di poter condurre operazioni di contro-terrorismo senza una presenza sul campo. E per il presidente è una piccola rivincita personale, rispetto alla debacle dell’agosto 2021, quando le ultime fasi del ritiro dall’Afghanistan, con i Talebani già in controllo di Kabul e dell’intero Paese, inficiarono le sue previsioni di stabilità e la sua immagine di comandante in capo delle forze armate degli Usa. Rivincita parziale, perché i Repubblicani già lo accusano: il nostro ritiro ha rafforzato al-Qaeda in Afghanistan, sostengono.

Al-Zawahiri è stato trovato, ed eliminato, in quartiere centrale di Kabul, Shirpur, dove dallo scorso agosto vivono molti dei leader dei Talebani. A ridosso del quartiere diplomatico di Wazir Akhbar Khan, per gli afghani che vivono a Kabul Shirpur è il simbolo di molti dei mali che hanno portato al collasso della Repubblica islamica: l’avidità delle classi dirigenti e dei politici, la speculazione edilizia, l’atteggiamento predatorio e cleptocratico delle elite al potere. Un quartiere fatto, almeno per metà, di grandi edifici a più piani, ville di ricchezza pacchiana ed esibita, in passato erano appannaggio dei membri più alti del ministero della Difesa e della politica afghana e che poi i Talebani hanno occupato.

Secondo alcune ricostruzioni, l’edificio in cui viveva al-Zawahiri – a lungo vissuto in clandestinità nel confinante Pakistan e poi nelle aree di confine tra i due Paesi – era controllato dagli Haqqani, una delle anime del movimento dei Talebani. E quella che tradizionalmente più e meglio ha coltivato i rapporti con i jihadisti dalla vocazione globale, come al-Qaeda. Una strategia del fondatore del gruppo, Jalaluddin, poi fatta propria anche dal successore, il figlio Sirajuddin, che è anche il ministro degli Interni dell’Emirato islamico e che, secondo alcune fonti, avrebbe lasciato Kabul, dopo l’attacco aereo.

La presenza del numero uno di al-Qaeda a Kabul, in pieno centro, solleva molti interrogativi sul rapporto tra i Talebani e al-Qaeda. Già nelle settimane scorse, gli analisti dell’Onu sottolineavano come la maggiore libertà di comunicazione da parte di al-Zawahiri coincidesse con il ritorno al potere degli eredi di mullah Omar. Che ieri hanno condannato l’operazione militare degli Stati Uniti.

“L’Emirato islamico d’Afghanistan condanna fortemente questo attacco e lo denuncia come una chiara violazione dei principi internazionali e dell’accordo di Doha. Tali azioni sono una ripetizione delle esperienze fallimentari degli scorsi anni e sono contro gli interessi degli Stati Uniti, dell’Afghanistan e della regione. La ripetizione di tali azioni danneggerà le esistenti opportunità”. Così il comunicato reso pubblico da Zabihullah Mujahid, portavoce dell’Emirato e viceministro della Cultura.

Per i Talebani, l’attacco aereo avrebbe violato l’accordo di Doha, il patto fortemente voluto dal presidente Donald Trump e firmato nella capitale del Qatar nel febbraio 2020. Presentato come un accordo di pace, quel patto serviva a garantire il ritiro delle truppe americane in sicurezza in cambio dell’impegno dei Talebani nel controterrorismo. Oltre che della disponibilità generica a sedersi al tavolo negoziale con altri politici afghani.

Oggi i Talebani accusano dunque Washington di aver violato l’accordo di Doha, violando la sovranità territoriale afghana. Washington accusa i Talebani di aver violato l’accordo di Doha, dando ospitalità al leader di al-Qaeda. Ma i toni formali e pubblici potrebbero nascondere una diversa realtà. Il movimento dei Talebani è un movimento policentrico. Il rapporto con al-Qaeda è sempre stato vissuto con fastidio da una componente dei Talebani. Tanto più ora che i Talebani sono al governo e che hanno bisogno di rafforzare i rapporti diplomatici, per uscire dall’isolamento in cui si sono ficcati con la conquista militare del potere.

Per una componente dei Talebani, aiutare segretamente gli Stati Uniti a eliminare al-Zawahiri avrebbe un doppio vantaggio: indebolire la componente pro-qaedista e accreditarsi agli occhi di Washington e della comunità euro-atlantica. Una strategia che comporta però il rischio di alimentare le divisioni all’interno dei Talebani proprio alla vigilia dei festeggiamenti per il primo anno dalla loro ri-conquista di Kabul.

Guido Olimpio per corriere.it il 3 agosto 2022.

Quando un capo jihadista viene «neutralizzato» non c’è mai una sola versione a narrare l’epilogo. Le versioni corrono veloci come il vento, mescolate a supposizioni, illazioni, teorie. Alcune fondate, altre complottiste. Fa parte del Grande Gioco. 

Il nuovo sceriffo in città

Per al Zawahiri siamo solo all’inizio e al centro del racconto c’è un drone della Cia, uno dei simboli della lotta al terrorismo a livello globale. L’intelligence ne ha fatto la sua arma principale.

Era «il nuovo sceriffo in città», come disse un alto dirigente per spiegare che era l’unico modo per poter eliminare ricercati in zone proibite agli agenti perché troppo lontane e pericolose. È un cecchino appostato che attende che la sua preda esca dal buco. In quel momento la colpisce con missili guidati, a volte «aiutati» da elementi sul terreno che possono illuminare il bersaglio. 

Dal Golfo Persico

I droni sono basati in piste nelle aree di intervento e in quelle limitrofe. In questo caso è probabile che sia partito dal Golfo Persico, vista il rifiuto di Paesi della regione di ospitarli. Il decollo è eseguito da un centro di controllo locale, quindi una volta in quota i comandi passano ad un’altra centrale, magari negli Stati Uniti, alle porte di Washington o in Stati amici.

Qui, all’interno di un cubicolo, ci sono il pilota, l’addetto alle armi, l’uomo dell’intelligence. Siedono davanti a una serie di schermi, luci basse. Guidano la missione via satellite, assistiti da telecamere e sensori. 

L’aereo guidato in remoto può stare su una zona per ore, analizza, segue, verifica. E soprattutto aspetta il momento propizio. Le immagini sono registrate e possono essere girate ai vertici militari o politici. È un blitz in diretta. Una volta riconosciuto il possibile nemico si passa all’azione, con l’ordine di tiro.

Il ritorno a casa

Chiuso l’attacco, il velivolo torna «a casa», mentre gli informatori devono trovare le prove – se possibile – che lo strike ha fatto centro. A volte solo il DNA può dare la certezza: per Zawahiri non c’è questa possibilità di verifica in quanto gli Usa non lo hanno, ma si fidano delle loro fonti (ha spiegato un portavoce). Sono stati uccisi così centinaia di militanti, dalla Somalia allo Yemen. 

I terroristi hanno accusato il colpo, preoccupati dalla minaccia costante sulle loro teste. A inseguirli la Cia, ma anche il Pentagono con il suo reticolo di installazioni. Una di queste a 40 minuti a nord di Las Vegas, con gli equipaggi diventati dei pendolari della guerra. Alla mattina nel «box» della base, alla sera a casa poco lontano dai casinò. 

La campagna è diventata una continua evoluzione della caccia all’uomo, con nuovi mezzi e altri tipi di bombe. Compreso un ordigno che invece di esplodere contiene delle lame che triturano il tetto di un veicolo e i suoi occupanti. Alcuni analisti, osservando la mancanza di deflagrazione sulla casa di al Zawahiri non hanno escluso che gli americani abbiano impiegato un sistema simile, noto come Ninja. Una soluzione per cercare di evitare danni collaterali, che purtroppo ci sono. Per molte ragioni. 

Danni collaterali

L’esplosione può investire dei passanti. Le informazioni all’origine dell’attacco sono sbagliate. L’obiettivo era insieme a innocenti. C’erano degli ostaggi. Proprio a Kabul, un anno fa, un’intera famiglia è stata scambiata per una cellula dello Stato Islamico e un drone statunitense l’ha spazzata via. Anche per Osama Bin Laden venne considerata l’opzione dell’incursione aerea, ma venne accantonata perché poteva avere conseguenze per i civili. La mano passò ai commandos della Marina. 

I plastici della Cia per colpire i nemici Dal Vietnam fino ad Al Zawahiri. Guido Olimpio Il Corriere della Sera il 3 agosto 2022.  

L’intelligence usa la tecnologia avveniristica, si affida alla manualità di un modellista. Un insieme ben raccontato dalle operazioni anti-terrorismo, compresa la fine di Ayman al Zawahiri, ucciso a Kabul da un attacco . Una foto diffusa dalla Casa Bianca ferma un momento: il direttore della Cia, William Burns, è seduto insieme ad altri funzionari al tavolo con Joe Biden. Nel mezzo una scatola in legno chiara. Vista in un altro luogo poteva sembrare una cassetta da lavoro e invece quel contenitore racchiudeva un oggetto importante: la replica, in scala, della casa-rifugio del leader di al Qaeda. Viviamo l’era digitale, però il plastico vecchia maniera è efficace, ti porta «dentro». Il metodo è antico, usato dagli eserciti e dallo spionaggio. La Cia ha un suo laboratorio di specialisti, uomini e donne che devono riprodurre bersagli, palazzi, aree. In un bando pubblico di reclutamento hanno indicato i requisiti: modelli per briefing riservati a dirigenti governativi su «questioni complesse»; addestramento di team; modellini tridimensionali di teatri difficili che possano essere compresi facilmente a prescindere dal background.

Così ne sono stati creati di famosi. Uno per aiutare i commandos che dovevano liberare dei prigionieri nel campo di Son Tay durante il conflitto in Vietnam. La National Geospatial Intelligence Agency, l’agenzia che gestisce i satelliti spia, ha invece realizzato il compound che ospitava Manuel Noriega, deposto nell’89 da un’azione statunitense a Panama, e la palazzina di Abbottabad dove si era nascosto Osama. Non meno celebre quello voluto dal generale Jim Mattis prima dell’invasione dell’Iraq. Gigantesco, ci si poteva camminate dentro, all’aperto, composto da 6 mila mattoncini Lego a rappresentare unità, snodi critici, postazioni. All’Nga il compito è svolto dal 3D Model Shop che segue alcune fasi: mappatura dell’area con dati dei satelliti e da altre fonti; disegno al computer e analisi; stampa dei pezzi in 3D; composizione manuale del plastico. I tecnici non sanno chi sia il target, tutto è top secret, possono solo provare a immaginare. A meno che una mattina guardando un Tg non riconoscano che la casa in miniatura che hanno costruito era quella del più grande ricercato sulla faccia della Terra.

Filippo Rossi per “La Stampa” il 3 agosto 2022.

Alle 6 del mattino una forte esplosione vicina. Bum. Niente si muove. È sabato mattina, Kabul si sveglia normalmente. Tutti hanno sentito. Ma ormai, una bomba in più o una in meno, a Kabul, non fa più differenza. Dopo poco il fumo comincia a salire verso il cielo dal quartiere di Sherpur, un'area sicura nella città nuova di Kabul. 

Nessuno si è posto domande fino a lunedì sera, come Khalil, un abitante del quartiere: «Abbiamo sentito l'esplosione, ma pensavamo fosse un tipico attacco contro i civili». Solamente quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato lunedì sera che l'obiettivo del bombardamento era il ricercato leader di Al-Qaeda Ayman Al-Zawahiri - una delle menti degli attentati dell'11 settembre 2001 e successore di Osama Bin Laden dopo la sua morte nel 2013 con un taglia di 25 milioni di dollari sulla sua testa - tutti hanno realizzato l'importanza dell'attacco.

«Incredibile che una persona di questa portata si nascondesse qui», continua Khalil. Fra gli abitanti c'è tensione, un po' di paura e scetticismo. «Siamo un po' preoccupati - dichiara Shahid Zadran, 29, commerciante nella strada principale del quartiere Sherpur -. Questa è una delle zone più sicure della città, dove vivono altri ranghi del governo. Se è vero che hanno ucciso al-Zawahiri, significa che avremo una nuova guerra». 

Mohammadullah, 32, studente universitario e abitante del quartiere, è più scettico: «Sono molto sorpreso di sentire che al-Zawahiri è rimasto ucciso qui vicino. Ma non ci crediamo. Vogliamo vedere il corpo». Se i taleban si attengono al silenzio stampa, nel quartiere di Sherpur controllano meticolosamente le strade. Nessuno può avvicinarsi alla casa bombardata.

Le strade sono bloccate dai mujahidin taleban vicini agli Haqqani, la frangia taleban fortemente legata ad Al Qaeda. La zona, secondo alcune informazioni, è stata evacuata completamente per far uscire i familiari, rimasti illesi, insieme alla salma del leader terrorista. Secondo molte fonti, Al-Zawahiri si sarebbe nascosto a Kabul già da tempo, ospitato in una casa di un amico stretto del ministro della difesa taleban, Serajuddin Haqqani. 

L'attacco è stato fortemente condannato dall'Emirato Islamico dell'Afghanistan, il quale, attraverso il suo portavoce Zabiullah Mujahid, ha dichiarato che «rappresenta una chiara violazione degli accordi di Doha» firmati nel 2020 fra Usa e taleban. Una cosa reciproca, visto che anche gli Stati Uniti accusano i taleban di aver ospitato terroristi su suolo afghano, uno dei punti chiave dell'accordo.

Ciononostante, il movimento taleban, dopo la dichiarazione ufficiale rilasciata lunedì sera, non ha più voluto esprimersi sulla questione. Secondo un giornalista locale, anonimo, «è nel loro interesse insabbiare la faccenda per evitare troppe domande scomode». La presenza di una personalità come al-Zawahiri fa però risorgere la questione della vicinanza fra taleban e gruppi terroristici. 

«Oggi i membri di Al Qaeda non sono liberi come lo erano negli Anni 90» - commenta il giornalista - «In realtà, negli Anni 90 potevano girare liberamente nel Paese e molti afghani hanno aderito all'ideologia del movimento. Tuttavia, da quando i taleban hanno ripreso il potere l'anno scorso, i membri di Al Qaeda, ancora presenti sul territorio, non hanno avuto molte libertà, obbligati a rimanere inosservati per essere tollerati».

Questo probabilmente perché non tutte le differenti fazioni taleban sono d'accordo con la presenza di terroristi: «Si pensa anche che membri dell'Emirato Islamico stesso abbiano aiutato gli Stati Uniti a colpire al-Zawahiri» - conclude il giornalista -. «Perché se lasciato libero di agire, avrebbe potuto diventare nuovamente una mina vagante incontrollata per il Paese». 

Al Zawahiri, leader di Al-Qaeda, era il mio vicino di casa. Guardando Google Maps, non si capisce realmente cosa significhi. La casa è all’interno di una specie di compound che non è chiuso, non ha cancelli di ingresso. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Agosto 2022

Edunque il mio vicino di casa era il leader di al-Qaeda. Ma proprio la casa di fronte.

Che Ayman al-Zawahiri fosse a Kabul, invece che in un angolo sperduto dell’Afghanistan, colpisce. Ma in più, era nel centro di Kabul. E anzi: a Sherpur. Guardando Google Maps, non si capisce realmente cosa significhi. La casa è all’interno di una specie di compound che non è chiuso, non ha cancelli di ingresso: ma è l’area in cui abitavano Ashraf Ghani e i suoi ministri e fedelissimi vari, in ville in marmo e finte statue romane che ora sono occupate dai talebani. E i talebani presidiano ogni accesso. E ogni isolato. Ogni incrocio. Sono ville protette da alti muri di cemento, e da fuori, dalla strada, non si vede niente. Ma dalle case intorno, si vede tutto. Dalle finestre. Dai terrazzi.

E l’altro vicino è Wali Jan Hamza. Il nuovo comandante della polizia di Kabul.

A pochi metri poi abita Siraq Haqqani, che tra i talebani, è quello più vicino ad al-Qaeda. E ora, è il più indiziato. Ma davvero si è tenuto sul divano il numero uno dei ricercati? Proprio mentre rilasciava una lunga intervista alla CNN, e tentava di migliorare i rapporti con gli americani? Ayman al-Zawahiri è stato trovato dalla CIA, che in fondo, è stata a Kabul fino ad agosto, o è stato venduto dai talebani, o alcuni tra i talebani? La certezza è una: i talebani e al-Qaeda sono due cose diverse. I rapporti sono soprattutto rapporti personali e familiari. Tribali. Non sono rapporti strategici. Organici.

Perché ai talebani interessa solo l’Afghanistan. Ad al-Qaeda il mondo.

Per gli Stati Uniti, il successo è indubbio. Ma è simbolico. Ormai al-Qaeda è un’ideologia, più che un’organizzazione. Ispira e influenza: ma quello che conta è l’ISIS. Che è una specie di franchising. La sigla comune di jihadisti locali e radicati.

E infinitamente più pericolosi.

Più che un colpo al terrorismo, è un colpo ai talebani. Se anche avessero cooperato con la CIA per ottenere la fine delle sanzioni internazionali, o altro, ora il loro nome è legato ad al-Qaeda: a prescindere dalla realtà. E finora, ha parlato solo il ministro del Vizio e della Virtù. Ha detto che ha infine deciso quale hijab è adatto alle studentesse.

Le battaglie di Bala Murghab, la valle maledetta. Paolo Mauri su Inside Over il 20 luglio 2022.  

Bala Murghab è una cittadina nell’omonima valle, della provincia di Badghis nell’Afghanistan nord-occidentale, situata sul fiume Murghab, ed è il più grande centro abitato del distretto amministrativo, che conta una popolazione di 109mila abitanti.

La provincia di Baghdis si estende per circa 23mila chilometri quadrati – quanto la Lombardia, per dare un termine di paragone -, mentre quella di Herat ne misura 54700. In totale l’Rc (Regional Command) West, uno dei settori in cui è stato diviso l’Afghanistan dalla Coalizione della Nato da quando è intervenuta nel conflitto cominciato nel 2001, occupa una superficie di 162mila chilometri quadrati aggiungendo, alle già citate province, quelle di Farah e di Ghor.

Le forze della coalizione in questa regione appartengono a Stati Uniti, Italia, Spagna e Lituania, e sovrintendono ai quattro distretti, ma il comando è italiano ed è situato a Herat.

Tra il 2008 e il 2010, nella valle di Bala Murghab, avvengono una serie di scontri armati coi talebani che impegnano duramente reparti italiani, statunitensi e afghani culminati in una serie di battaglie, avvenute tra luglio e novembre del 2009, tra le più cruente combattute dai nostri reparti in Afghansitan.

La nostra storia comincia il 4 agosto del 2008, quando i baschi azzurri della terza Compagnia “Aquile” del 66esimo Reggimento aeromobile della Brigata “Friuli”, comandata dal capitano Massimiliano Spucches, occupa per la prima volta con un’operazione elitrasportata i ruderi dell’ex cotonificio cittadino, già base dell’Armata Rossa, poi trasformato nella Fob (Forward Operating Base) “Columbus” dagli spagnoli.

Questa azione si inquadra nella decisione, presa dal contingente spagnolo nel 2006, di recarsi nella valle per ricostruire un ponte fatiscente che rende successivamente necessaria la costituzione di una “bolla di sicurezza” da allargare ai villaggi della valle, pertanto vengono costruiti sulle colline circostanti oltre due dozzine di avamposti per contrastare l’attività dei “insorgenti”.

Tornando al contingente italiano impegnato in quest’azione, tra maggio e giugno del 2009 la Brigata Folgore invia unità del 183esimo Reggimento paracadutisti “Nembo” per rilevare un reparto del Genio spagnolo a Bala Murghab, ma nel corso del tempo l’Esercito impegna nella valle, a rotazione, elementi del 151esimo Reggimento Fanteria della Brigata Sassari, del Secondo e Ottavo Reggimento Alpini rispettivamente delle Brigate Taurinense e Julia.

L’arrivo dei soldati italiani, insieme a elementi di una squadra di addestramento dell’esercito americano, agli spagnoli e a unità dell’esercito nazionale afghano (Ana), scatena la prima furente battaglia: sono tre giorni d’inferno, quelli del 5, 6 e 7 agosto 2008, quando i talebani tentano, senza riuscirci, di spazzare via l’avamposto “Columbus”. Una novantina di fucilieri della Friuli difendono le mura dell’ex cotonificio e la prima battaglia di Bala Murghab si conclude con due soldati afghani e uno statunitense uccisi dai talebani. I feriti ammontano a una dozzina di soldati dell’Ana e diversi statunitensi.

Gli scontri continuano sporadici per mesi: le truppe della coalizione riescono a farsi la prima doccia a febbraio dell'anno successivo, ma la situazione non è affatto destinata a stabilizzarsi. A luglio del 2009 la Task Force “Barbarian” statunitense (dell'82esima divisione aerotrasportata) arriva a Bala Murghab e si scatenano nuovi combattimenti coi talebani che vedono impegnati anche i parà della “Nembo” insieme all'esercito afghano, ma i nostri soldati combattono da tempo, perché gli scontri a fuoco, anche molto intenso, non sono mai del tutto cessati.

La situazione generale nella valle è precaria: quando arrivano gli statunitensi, che prendono il controllo a settembre della base della coalizione, le forze italiane e Usa, insieme ai loro compagni dell'esercito nazionale afgano, non possono avventurarsi oltre il bazar appena oltre il fiume senza prendere il fuoco nemico. “Erano come prigionieri nella Fob”, ha detto poi il generale Ziaratshah Abed, comandante della 201esima Brigata dell'Ana. Il fiume diventa così la linea di demarcazione, con le forze del governo dell'Afghanistan (e della Coalizione) a ovest, i talebani a est. La situazione degenera il 4 novembre.

Un aviorifornimento Usa sparge il carico su una vasta area intorno alla zona di sicurezza per il forte vento al suolo, e due soldati statunitensi impegnati nel tentativo di recupero di un pallet muoiono annegati nel fiume. Viene quindi organizzata una missione di recupero, in gergo “Hero Recovery”, e le forze della Coalizione vanno letteralmente a cozzare contro guerriglieri locali pashtun, dediti al narcotraffico per via della posizione geografica della valle.

Il fuoco nemico inchioda i soldati italiani e statunitensi insieme ai colleghi dell'Ana, e nei giorni successivi aumenta di intensità costringendoli a trincerarsi nell'avamposto. Il sei novembre avviene una tragedia nella tragedia: un cacciabombardiere Usa A-10, soprannominato “warthog” (facocero) per il suo aspetto sgraziato ma possente, colpisce per errore le truppe Usa e dell'Ana. Sono cinque i soldati statunitensi feriti gravemente mentre le forze afghane ne fanno registrare 23 insieme a cinque morti. Nonostante la resistenza degli “insorgenti” le forze della Coalizione riescono a stabilire un presidio in posizione strategica vicino al villaggio di Ludina.

La battaglia dura diversi giorni, e il corpo di uno dei soldati viene recuperato il 10 novembre mentre il secondo il 29. Lo slancio acquisito nell'operazione di recupero non si esaurisce: approfittando della minore intensità dei combattimenti il comando della Coalizione, consolidata la presenza a Bala Murghab e nei presidi vicini, viene organizzata la “Operazione Buongiorno”.

Il 27 dicembre 2009, italiani e statunitensi, escono dal compound di Bala Murghab e riescono a impossessarsi di alcuni capisaldi da utilizzare per le operazioni successive volte a stabilizzare l'area e ad aprire al traffico la Ring Road – l'unica vera arteria stradale afghana – in quel tratto di 60 chilometri che non era sotto controllo della Coalizione.

Bisogna fare una precisazione: i nostri soldati, insieme agli afghani e agli statunitensi, durante tutti quei mesi – e quelli successivi – sono stati impegnati in combattimenti, più o meno violenti, praticamente tutti i giorni.

L'operazione è un successo, ma gli insorti cominciano immediatamente a contrattaccare gli avamposti, coadiuvati da guerriglieri giunti anche da province confinanti. I talebani non avevano mai visto questo tipo di offensiva e azioni aggressive da parte delle unità Isaf e Ana, e sono stati costretti a combattere durante il duro inverno afghano invece di essere a riposo per sperare di poter mantenere qualche forma di controllo sulla valle e sulle per loro vitali rotte del narcotraffico e contrabbando.

A luglio del 2010 si combatte la terza battaglia di Bala Murghab e sono i talebani a passare all'offensiva, trovandosi davanti gli Alpini della Taurinense. Questa volta tra i nostri soldati ci sono feriti.

Potremmo continuare la narrazione di centinaia di episodi di scontri a fuoco avvenuti in quei mesi (diventati anni), a sottolineare, ancora una volta, l'intensità dei combattimenti in quella regione. L'inizio della fine, invece, si pone a settembre del 2012, quando la bandiera di guerra dell’Ottavo Reggimento Bersaglieri ha lasciato la Fob “Columbus”, cedendo le competenze della sicurezza a un battaglione di soldati afghani. Sappiamo poi com'è andata a finire: dopo 8 mesi dal ritiro, le forze armate e di sicurezza afghane controllavano solo un fazzoletto di terra nella valle, quel bazar da cui tutto era cominciato.

Sono stati anni in cui si è versato sangue, anche italiano ma soprattutto afghano, andati persi, come sappiamo dal tragico epilogo del ventennale conflitto in Afghanistan; anni in cui, però, i nostri soldati hanno vissuto e combattuto “shana ba shana”, spalla a spalla, coi militari dell'esercito di Kabul, condividendone le sorti e mangiando la stessa polvere di quella valle maledetta.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora. 

Devil Eyes, obiettivo: terrore in Medio Oriente. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 20 luglio 2022.

La realtà attinge alla finzione o la finzione mutua dalla realtà? La verità, molte volte, giace nel mezzo: realtà e fantasia si influenzano vicendevolmente. L’immaginazione fervida degli autori fantascientifici ha storicamente illuminato le menti degli scienziati alle prese coi dilemmi e le sfide della quotidianità, così come scrittori e sceneggiatori traggono spesso ispirazione da fatti realmente accaduti.

Nelle relazioni internazionali e nelle scienze strategiche, spazi in cui valgono le stesse regole delle relazioni umane, perché la psicologia è tutto, realtà e fantasia interagiscono in continuazione. E, talvolta, nei modi più bizzarri. Come quando, ai tempi della Guerra al Terrore, gli specialisti in psyops della Central Intelligence Agency attinsero ai prodotti horror di Hollywood per combattere Osama bin Laden.

Un pupazzo stregato contro Al Qaeda

Devil Eyes, ovvero occhi demoniaci, questo è il nome in codice di un’operazione di guerra psicologica che, per quanto apparentemente folle, fu realmente condotta dalla Central Intelligence Agency nell’Asia meridionale in pieno fermento antiamericano del dopo-11 settembre. Un’operazione che, cinematograficamente parlando, sembra una via di mezzo tra la commedia L’uomo che fissa le capre e l’horror demoniaco Annabelle.

Erano i tempi delle manifestazioni popolari che, al grido di Death to America, stavano avendo luogo da Islamabad a Dacca. Si protestava – e anche parecchio – contro i danni collaterali e i soprusi della Guerra al Terrore, specialmente in Afghanistan e in Pakistan, e gli Stati Uniti temevano che quella rabbia (legittima) avrebbe potuto essere capitalizzata da Al-Qāʿida ed impiegata per magnetizzare consenso e reclute da sacrificare sull’altare del Jihād globale.

A Langley, nave-scuola di psico-guerrieri, qualcuno propose di ricorrere ad una soluzione incorporea, la psicologia, per affrontare un nemico deterritorializzato, il terrorismo. E quella proposta, influenzata dagli horror hollywoodiani, prevedeva di affidare ad un produttore di giocattoli la realizzazione su scala industriale di action figure “stregate” di Osama bin Laden.

Tra fantasia e realtà

I vertici dell’agenzia di intelligence accolsero positivamente l’idea di un bambolotto indemoniato di bin Laden: comportamentismo e riflessologia, in particolare il comprovato riflesso pavloviano, insegnavano (e insegnano) che ad uno stimolo ripetuto corrisponde una reazione prevedibile. E i bambini di Medio Oriente e Asia centro-meridionale, da Baghdad a Islamabad, avrebbero potuto trasformare quel terrore del gioco in rifiuto psicologico del qaedismo.

La logica dell’operazione Devil Eyes era semplice: intridere le action figure di Bin Laden di una potente sostanza allucinogena in grado di provocare visioni deliranti al semplice tocco, tra le quali il divenire del bambolotto un mostro dalle fattezze demoniache. Un piano più folle che ambizioso. Ma la storia, del resto, non è sempre stata scritta dai sognatori?

Una volta ottenuto il semaforo verde dai vertici, gli psico-guerrieri di Langley si misero alla ricerca di tecnici ed esperti che potessero aiutarli nel disegno, nella produzione e nella distribuzione dell’action figure. Fu contattato Donald Levine, ex Hasbro e padre della linea di giocattoli G.I. Joe, che progettò un pupazzetto di trenta centimetri – con tanto di pori a prova di microscopio attraverso i quali effondere l’allucinogeno.

La fine avvolta nel mistero

Levine, realmente convinto della fattibilità dell’operazione Devil Eyes, contattò degli amici nella Cina continentale che, in quanto proprietari di stabilimenti, avrebbero potuto occuparsi della produzione su larga scala del giocattolo. Ed è precisamente a questo punto che la storia lascia lo spazio alle speculazioni – e potrebbe non essere una coincidenza.

Secondo la Central Intelligence Agency, che riconobbe la paternità dell’operazione soltanto nel 2014, Devil Eyes non sarebbe andata a buon fine perché Levine fu in grado di realizzare soltanto tre prototipi del giocattolo indiavolato. Ma per il Washington Post, che all’operazione dedicò un documentato approfondimento lo stesso anno, le cose sarebbero andate diversamente: un migliaio di bambolotti prodotti negli stabilimenti cinesi in contatto con Levine e poi effettivamente distribuiti tra Afghanistan e Pakistan. Ignota la loro sorte. Ignoti i risultati.

Levine, passato a miglior vita un mese prima della pubblicazione dell’inchiesta del Washington Post, non poté dire la sua sull’argomento. I familiari spiegarono, però, che un patriota come lui avrebbe potuto realmente dedicarsi ad un simile progetto. E per quanto riguarda i tre prototipi da lui personalmente realizzati, due sono stati venduti all’asta a degli acquirenti anonimi e uno, il primo esemplare, si vocifera che sia nella stanza dei cimeli di Langley.

I talebani avviano una campagna per eradicare il papavero da oppio. Piccole Note il 3 giugno 2022 su Il Giornale.

Mentre il mondo stringe l’Afghanistan in una morsa d’acciaio con sanzioni che ne stanno strangolando l’economia, portando alla fame centinaia di migliaia di persone, i talebani hanno avviato una campagna per eradicare le coltivazioni di papavero dal Paese.

L’Afghanistan, infatti. è il maggiore produttore di oppio del mondo, arrivando a produrre l’85% della produzione globale nel 2020, con produzione rimasta più o meno inalterata negli ultimi anni.

Una produzione che era stata eradicata già al loro arrivo al potere negli anni ’90 e che era ripresa, tornando ai livelli precedenti, anzi era aumentata, dopo l’invasione americana del 2001.

Tale circostanza ha gettato e getta un’ombra inquietante sull’intervento americano, che con il loro attivismo hanno, di fatto, alimentato il traffico di droga internazionale e il terrorismo, che col traffico di droga si finanzia.

Così una campagna anti-terrorismo, che vedeva peraltro i talebani intruppati nella variegata armata del Terrore, ha di fatto prodotto Terrore.

Per fugare tale ombra sull’occupazione americana, diversi analisti votati all’atlantismo senza limitismo avevano derubricato l’eradicazione dell’oppio da parte dei talebani a boutade, a una semplice operazione di marketing.

il punto, spiegavano tali soloni nei loro dettagliati articoli pubblicati su giornali importanti, era che c’era stato un surplus di produzione negli anni precedenti, per cui il prezzo dell’oppio era calato. Da cui la necessità di far rialzare i prezzi abbattendo la produzione.

Tutte sciocchezze, come indica il rinnovato tentativo dei talebani di cancellare dal proprio territorio la malapianta, con un’azione vigorosa della quale dà notizia nientemeno che l‘Associated Press, in una nota che riportiamo.

“Il governo talebano dell’Afghanistan ha avviato una campagna per sradicare la coltivazione del papavero, con l’obiettivo di spazzare via la massiccia produzione di oppio ed eroina del paese, anche se gli agricoltori temono che i loro mezzi di sussistenza saranno rovinati in un momento di crescente povertà”.

“Alcuni giorni fa, nel distretto di Washir, nella provincia meridionale di Helmand, combattenti talebani armati hanno fatto la guardia mentre un trattore dilaniava un campo di papaveri, mentre il proprietario del campo osservava da presso”.

“I talebani, che hanno preso il potere in Afghanistan più di nove mesi fa, hanno emesso un editto all’inizio di aprile che vieta la coltivazione del papavero in tutto il paese”.

“Coloro che violano il divieto ‘saranno arrestati e processati secondo le leggi della Sharia nei tribunali competenti’, ha detto all’Associated Press nella capitale provinciale di Helmand, Lashkar Gah, il vice ministro degli interni talebano per la lotta alla droga, il mullah Abdul Haq Akhund” etc.

La cosa è seria, dunque, e potrebbe assestare un duro colpo al traffico di stupefacenti internazionale e al Terrore globale. Tanto seria che, come annota l’Ap, pur di portare a termine quanto promesso, non guardano in faccia a nessuno, mettendo a rischio quanti, anche in buona fede, vivono di tale traffico (che però stanno meglio di altri, che non hanno campi da coltivare, né hanno incassato i lucrosi guadagni del passato).

Il mondo dovrebbe essere grato al governo di Kabul per quanto sta facendo a questo livello, e anzi dovrebbe aiutare, sostenendo in qualche modo la campagna con finanziamenti per creare un’alternativa agli agricoltori interessati.

Nulla di tutto ciò, anzi le sanzioni continuano a flagellare, ponendo criticità anche a tale determinazione. La cosa simpatica è che le sanzioni sono state comminate per le restrizioni poste alla didattica, alla quale le donne hanno un accesso limitato, e per l’imposizione del velo.

Agli occhi dell’Occidente si tratta di restrizioni non accettabili, anche se certe restrizioni sono accettate in altre latitudini (ad esempio in Arabia Saudita), ma affamare un popolo, donne e bambini compresi, non sembra la via più ragionevole per proteggere certi diritti.

Al di là della contingenza, resta appunto la determinazione dei talebani contro la droga e l’assordante silenzio con cui l’Occidente sta accompagnando tale decisione politica. Un disinteresse che interpella non poco.

Sempre sull’Afghanistan, riportiamo una notizia di Us. News: “Una squadra di funzionari indiani ha incontrato giovedì il ministro degli Esteri a interim dell’Afghanistan per parlare dei legami bilaterali e di aiuti umanitari, hanno affermato i talebani. Si tratta della prima visita del genere a Kabul dai tempi del caotico ritiro degli Stati Uniti dello scorso anno”.

L’Afghanistan sta tentando di ripristinare i rapporti con i Paesi confinanti, in particolare quelli più importanti (Cina, Russia, India, Pakistan, Iran), nel tentativo di far fronte all’indigenza in cui versa a causa del caos in cui è precipitato dopo l’intervento Usa, che ha instaurato governi fantoccio votati alla predazione, aggravato dalle stringenti sanzioni internazionali. Il passo dell’India può aiutare.

«Indagavo sui crimini dei talebani e ho rischiato la morte. Qui in Italia ho iniziato una seconda vita». Samuele Damilano su L'Espresso il 16 Maggio 2022.

Fazil Popalzai era a capo del dipartimento antiterrorismo (Atdp) della provincia di Kapisa, in Afghanistan. Dopo la presa di Kabul da parte degli studenti coranici, si è nascosto per quasi sette mesi. Prima di riuscire a venire in Italia, grazie all’aiuto dell’associazione di alpinismo “Mountain wilderness”.

«Sono braccato, vivo lontano da casa in un buco. Ho davanti solo il cimitero». Questo il messaggio, tanto laconico quanto disperato, che Fazil Ahmad Popalzai, ex pubblico ministero della provincia di Kabul e, in seguito, a capo del dipartimento antiterrorismo (Atdp) della provincia di Kapisa, ha mandato lo scorso dicembre. «Dopo che i talebani hanno ripreso il controllo del Paese, per me qui non c’era più futuro. Ho dovuto cancellare tutto, cambiare identità», racconta Popalzai, che lo scorso 23 aprile è riuscito a raggiungere l’Italia, dove tutt’ora si trova, e vorrebbe costruire il suo futuro. «Per me qui è iniziata una seconda vita. Sono morto in Afghanistan, dopo la presa di Kabul dei talebani, e rinato qui. Voglio che i miei figli studino, imparino l’italiano». Un’attesa di quasi quattro mesi da quel messaggio di aiuto. «Diverse volte ho avuto paura di morire. Mi sento fortunato a essere sopravvissuto. Per molti miei amici e colleghi, purtroppo non è andata così bene…».

A causa del suo lavoro, specializzato nella persecuzione di crimini di terrorismo, tra cui dunque anche Isis, talebani e Al Qaeda, Popalzai era una delle figure più a rischio di rappresaglia e vendetta degli studenti coranici. Innanzi alle corti di giustizia ha indagato sui reati degli attuali membri del governo. Ha investigato su attentati, esplosioni, uccisioni a sangue freddo su civili inermi, «22 persone uccise da un terrorista mentre passeggiavano». Nonché sul governatore di Kabul. «Alcuni amici mi hanno detto che, una volta uscito di prigione, è venuto subito a cercarmi davanti casa. Ha chiesto anche della mia famiglia, per fortuna eravamo già scappati».

Negli occhi di Popalzai sembrano combattere due sentimenti. Da una parte, la gioia di stare in Italia, manifesta ogni volta che parla al presente, o meglio al futuro, dei figli in particolare. Dall’altra, la rabbia e la frustrazione per il destino del suo Paese, privato delle libertà e dei diritti più basilari per come sono intesi in Europa. Diritti per i quali Popalzai ha lavorato, rischiato e condotto battaglie che oggi vengono vanificate: «Nei 20 anni di intervento militare americano nel centro di detenzione centrale si era toccato il numero di 18.000 persone che avevamo arrestato. Quando nell’ambito degli accordi di pace portati avanti nel 2020 dall’ex presidente afghano Ashraf Ghani e i talebani si era raggiunto il compromesso di 5.000 talebani liberati, mi sono interrogato sulla valenza della parola “pace”. Sapevo che una loro scarcerazione avrebbe portato solo ad altre violenze». Circa 66.000 soldati dell’esercito afghano sono morti nel corso di 20 anni di conflitto nel Paese. Secondo il Watson Institute della Brown University, Stati Uniti, più di 71.000 civili, afghani e pakistani, sono morti a causa del conflitto, 241.000 in totale. «Nei primi mesi dopo la presa di Kabul si parlava di 500 persone uccise dai talebani. Per quello che ho visto io, direi che sono dieci volte tanto».

Questi numeri Popalzai li sciorina con lo sguardo deluso di chi ha fatto di tutto per evitarli. Poi, quando parla del suo viaggio verso l’Italia, ritrova immediatamente il sorriso. Quando i talebani hanno preso il potere, racconta, è stato dunque costretto a scappare. Dopo mesi di fuga e cambio continuo di nascondigli, è riuscito a mettersi in contatto con l’associazione di alpinismo “Mountain wilderness”, per la quale svolse il ruolo di interprete nel 2005, in occasione di un corso nelle montagne dell’Hindu Kush per promuovere la conoscenza del territorio da parte dei suoi abitanti e stimolare così il turismo in una regione dalle potenzialità altrimenti non sfruttate.

Il messaggio di aiuto è arrivato prima a Elisabetta Galli, istruttrice, e poi a Carlo Alberto Pinelli, cofondatore dell’associazione, regista e docente di Scienze dello spettacolo e dei media all’università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli. Pinelli è considerato uno dei massimi esperti mondiali delle montagne dell’Hindu Kush, il primo a scalarne sette vette, versante sia afghano che pakistano, e autore dell’unica guida esistente a riguardo, “Peaks of Silver and Jade”. Nel mediometraggio “Siddiqa e le altre. Un sogno afghano”, che racconta l’esperienza in queste montagne cui ha partecipato anche Popalzai, Pinelli racconta l’esperienza di tre giovani ragazze afghane che dell’alpinismo fanno una chiave per la libertà.

«In Afghanistan alcuni degli allievi avevano dato vita a attività legate al turismo d'avventura con un certo successo», racconta Pinelli. «Oggi mi scrivono che a causa dei talebani ogni forma di turismo è scomparsa e loro -letteralmente - muoiono di fame e chiedono aiuto».

Dopo aver ricevuto il messaggio del suo vecchio allievo, Pinelli si è prodigato per trovargli una via di fuga. Grazie a una conoscenza nel ministero degli Affari esteri, di cui non vuole fare il nome, è riuscito a coinvolgere l’ufficio visti e quindi l’Ambasciata di Islamabad, in Pakistan, da dove Popalzai sarebbe potuto partire per venire in Italia. Dopo un controllo del ministero dell’Interno per accertare la veridicità del suo racconto e l’imprescindibile garanzia di un inserimento nella società italiana, possibile grazie all’associazione Abele, fondata da Don Ciotti, è stato possibile far arrivare Popalzai in Italia.

«È stato un processo molto lungo e complesso, ma soprattutto rischioso, soprattutto nel periodo di permanenza in Pakistan, che teoricamente non poteva essere superiore a un mese», racconta Pinelli.

Dietro a visti e burocrazia, c’è la paura di Popalzai, «mai così tanta provata in vita mia», di lasciare il Paese. Di dover passare per un aeroporto controllato da persone che lo vorrebbero morto. Ottenuto un visto per una licenza commerciale, pagato 2.000 dollari, si è posto il problema di superare i controlli all’aeroporto: «Conoscevo un amico che lavorava nell’aeronautica militare, e dunque al corrente della quasi totale mancanza di tecnologia di controllo nell’aeroporto», racconta l’ex capo dell’Atdp, che non vuole fare nomi e non sa, né vuole sapere, dove si trovino le persone di cui parla. «Per salire sull’aereo però serviva una motivazione: un’altra nostra conoscenza che lavorava in un ospedale ci ha fornito delle certificazioni di malattia per i genitori del mio amico nell’aeronautica, delle sedie a rotelle e un’ambulanza». Arrivati al momento del controllo dei documenti e del certificato di malattia, ecco i 20 minuti in cui viene deciso, sempre da persone che non conoscono la sua identità e che con buone probabilità ti vorrebbero morto, se la vita può fare un salto verso la libertà, o terminare. «Ero sicuro di morire. Anche se sapevo che i sistemi di controllo non funzionavano. In aeroporto c’erano persone arrestate, con le manette, già mi vedevo come loro».

Alla fine Popalzai è riuscito a raggiungere il Pakistan, dove è rimasto due mesi, di cui il primo grazie al visto e il secondo pagando una multa, in attesa dell’aereo che lo portasse in Italia. Oggi si trova a Rimini, con la famiglia e il cugino. «Amo questo Paese, e voglio che ne possano far parte a pieno titolo». Non può ancora lavorare, racconta, ma sta facendo di tutto per ottenere i documenti necessari e poter applicare i suoi studi, un master in legge e uno in criminologia conseguiti a Kabul, per trovare un impiego in Italia e aiutare chi non ha avuto la stessa fortuna. «Ho colleghi in Pakistan che non hanno cibo né documenti. Li voglio aiutare, voglio che tutti abbiano una seconda chance».

In Afghanistan un anno dopo il ritorno dei talebani le donne sono sparite. Gli islamisti rivendicano il consenso del popolo e la presa di Kabul contro il caos. Soffocano il dissenso con il sangue e la paura. E istituiscono un apartheid di genere chiudendo le scuole e impedendo a donne e ragazze di studiare o farsi vedere. Giuliano Battiston su L'Espresso il 18 Luglio 2022.

«Il vecchio regime aveva il sostegno dell’America, ma non quello della gente. Per questo era debole. La nostra resistenza è stata forte grazie al sostegno della popolazione: rappresentiamo 40 milioni di afghani». La versione dei Talebani, tornati al potere il 15 agosto scorso dopo vent’anni di guerriglia, è nelle parole di Noor Ahmad Saeed. Barba lunga, profonde occhiaie e un abito bianco, è il responsabile del dipartimento per l’Informazione e la Cultura della provincia di Kandahar.

La guerra dei Talebani contro le donne: «Vogliono controllare le nostre idee coprendoci il corpo». Sono attiviste, studentesse, giovani afghane pronte a ribellarsi al decreto che le costringe a mostrare solo gli occhi. mantenere la loro libertà: alzeranno la voce e combatteranno per diritti, libertà e indipendenza». Giuliano Battiston da Kabul, su L'Espresso il 25 Maggio 2022.

«Il mio nome? Usalo pure, bisogna avere coraggio per affrontare un periodo così buio». Occhiali rettangolari sotto un velo marrone come il vestito, Masouda Khazan è una scrittrice. «Ho pubblicato una decina di libri, molti di satira politica e sociale, altri di racconti per bambini e poesie. A volte li ho stampati a mie spese e distribuiti nelle librerie o nei negozi come questo».

Siamo in un’edicola storica sul lungofiume di Kabul, nel cuore del bazar principale, tra negozi di tessuti, biancheria, abiti per donne. L’edicola è gestita da Sardar Hashemi, un signore dai baffi ben curati che da questo negozietto di pochi metri quadrati, zeppo di materiali da cancelleria, libri e riviste, ha visto passare decenni di storia afghana. «Nel primo Emirato sono finito in prigione tre volte. Vendevo dei libri che venivano dall’Iran. Me li hanno bruciati. Ora vorrebbero farmi chiudere, ma ho protestato: da qui non mi cacciano». Per Sardar Hashemi, che fino a pochi mesi fa vendeva anche quotidiani in lingua inglese, il problema dell’Afghanistan è sempre lo stesso: «i nostri leader non amano veramente il popolo». 

Seduta su uno sgabello di plastica, Khazan mostra un libro di satira che ha pubblicato quasi dieci anni fa. «Altri tempi», ricorda con un sospiro. Sulla copertina, una donna in burqa (qui chiamato chadori) con tacchi a spillo. Nella mano sinistra ha un telefono cellulare, nella destra una bombola del gas. «L’idea era di mettere insieme modernità e tradizione, ma anche di far arrivare l’idea che, sotto il chadori, le donne afghane hanno idee, volontà e forza. Insomma, sono diverse da quel che potrebbero apparire».

Sarà forse per provare a controllarne idee, volontà e forza che due settimane fa il ministero per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù ha reso pubblico un nuovo decreto che riguarda le donne: porta la firma dell’Amir al-Mumineen, la “guida dei fedeli” Haibatullah Akhundzada e le obbliga coprirsi anche il volto, a eccezione degli occhi. «Una misura per preservare la dignità delle donne», ci ha spiegato il portavoce del ministero, Mohammad Sadiq Aqif: «È diventato illegale non indossare l’hijab, ora. Per hijab intendiamo qualunque vestito che non sia troppo stretto, che non lasci vedere le forme. Va bene il burqa, il chadori, un lungo telo che copra il corpo, anche un vestito fatto in casa».

Un decreto contro la libertà delle donne, replica Masouda Khazan, che racconta come gli spazi di libertà, già precari durante la Repubblica islamica, l’architettura istituzionale collassata il 15 agosto 2021, si siano ulteriormente ridotti. «Prima ci riunivamo almeno una volta alla settimana, ci incontravamo per fare letture di poesie, per commentare le ultime uscite, ma i Talebani ci hanno detto che non si può più fare». Scrivere satira politica è diventato pericoloso, spiega Khazan, che è stata per molti anni la direttrice di un mensile satirico, Achar Kharbuza, Melone sotto-aceto. «Ora scrivo perlopiù storie per bambini, ma ho perso buona parte della spinta a scrivere ed è difficile anche pubblicare: non ci sono soldi nel Paese».

Tra le critiche ai Talebani più diffuse qui a Kabul, c’è proprio quella di non occuparsi dei problemi più urgenti del Paese, che vive una crisi umanitaria ed economica senza precedenti: per le Nazioni Unite, circa il 95 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà, il World Food Programme ha stimato in 20 milioni, su 40 milioni totali, la popolazione in grave insicurezza alimentare. Da una parte le sanzioni occidentali, che hanno congelato circa 9 miliardi di dollari della Banca centrale afghana, dall’altra le politiche repressive dei Talebani: la popolazione nel mezzo. «Per venire qui sono stata fermata da un paio di Talebani», continua la scrittrice. «Contestavano il mio modo di vestire. Ma se sono tutta coperta?! Gli ho risposto che il Paese è alla fame, che non c’è lavoro, non ci sono soldi, che dovrebbero occuparsi di quello, non dell’abito delle donne, ma mi hanno mandato via a male parole».

Anche Najiba (nome di fantasia) non accetta il nuovo decreto dei Talebani. Ventuno anni, studentessa di ingegneria ambientale all’Università di Kabul, vive con la madre, la sorella, il padre: «mi dà molto fastidio che qualcuno decida i limiti per gli altri, specie per noi donne. Non mi piace quel decreto e non sono d’accordo», ci dice quando la incontriamo nel centro commerciale Gulbahar, tre piani di negozi lucenti e un piano terra con un caffè rumoroso tra il palazzo presidenziale e il bazar centrale. «Ci stanno sottraendo la nostra libertà, la possibilità di scegliere su ogni cosa». La famiglia è dalla sua parte, ma Najiba teme per il padre. Secondo il nuovo decreto, se le donne non dovessero indossare l’abito conforme sarebbero i loro padri, fratelli, figli a pagarne le conseguenze: la prima volta, una visita dei Talebani, con ramanzina; la seconda, una multa; la terza il carcere. «È un modo per obbligarci a coprire il volto. Prenda il mio caso: se non lo facessi, potrebbero portar via mio padre. Potrebbe succedergli di tutto, anche che lo uccidano».

Nell’intervista che ci concede nel suo ufficio, nella sede di quello che una volta era il ministero per gli Affari femminili poi abolito dai Talebani, il portavoce del ministero per la Prevenzione del Vizio e la promozione della virtù ci dice che «non ci sarà nessuna imposizione», nessuna violenza. Salvo poi enfatizzare che il suo ministero ha a disposizione 7.000 mohtaseb, ispettori «esperti in sharia e giurisprudenza islamica», per far applicare la legge. Camice bianco da medici e lunga barba, alcuni di loro già si vedono in città.

«Decidiamo noi cosa metterci», dichiara sicura un’altra studentessa che incontriamo nel centro commerciale. Anche lei è disposta a parlare, a condizione dell’anonimato. «Chi pretendono di essere per dirci come vestirci?». Wazmah ha 19 anni e studia farmacia. Veste alla moda, con un abito lungo e un foulard colorato. Il contesto, spiega, è cambiato molto in pochi mesi: «abbiamo perso le motivazioni per andare avanti, perfino la confidenza in noi stesse. Io per esempio già so che non diventerò né medico né farmacista, in futuro». Il problema non sono solo i Talebani, «ma un Paese governato dagli uomini e dalla loro volontà, con le donne costrette a obbedire». Quanto all’Islam a cui si appellano i Talebani, «è solo un pretesto. Sappiamo già come comportarci, sappiamo cosa vuol dire dignità. Non è il loro Islam a dovercelo spiegare».

Tra le spiegazioni sulle ragioni del nuovo decreto, la più accreditata tra le nostre fonti è quella che rimanda a una delicata dialettica interna. Da quando sono arrivati al potere, tra i Talebani sono infatti cresciute le tensioni tra fazioni. Il leader supremo Haibatullah Akundzada, pur avendo traghettato il gruppo al potere, è indebolito. Ha dunque lasciato che dentro la Rahbari shura, il massimo organo di indirizzo politico composto da una trentina di membri, i giochi venissero fatti dai più scaltri. Tra questi, gli ultra-ortodossi, gli islamisti più radicali. I quali avrebbero chiesto e ottenuto uno “scambio”: il loro sì alla riapertura delle scuole femminili superiori in cambio del sì dei “pragmatici” all’obbligo del velo integrale. Una partita giocata tutta sulla pelle delle donne. Ma che nelle prossime settimane dovrebbe portare, dopo circa 250 giorni di chiusura, alla riapertura delle scuole per le ragazze sopra gli 11 anni. 

Nel centro commerciale Gulbahar incontriamo infine Arezo Osmani. «Sono un’imprenditrice e una lettrice di sociologia all’Università». Trentaquattro anni, modi sicuri, è una donna troppo indipendente per i criteri dei Talebani. «Ho una piccola azienda di prodotti cosmetici. E mi piace l’insegnamento». Il decreto dell’Emirato, sostiene, è solo l’ultimo atto di una vera e propria battaglia contro le donne. Con ricadute sulla loro stabilità

psicologica ed emotiva. «Ci sono traumi giornalieri, apparentemente minori, che avranno conseguenze sul lungo termine, sulla capacità di immaginare il proprio futuro».

L’obiettivo delle nuove autorità di fatto «è farci vivere nascoste, sotto qualunque abito, purché rimaniamo nascoste». Ma è anche quello di «nascondere la loro incapacità nel governare: non sono in grado di individuare buone politiche per il Paese. Sono schiavi di nazioni straniere e non vogliono che il popolo si ribelli. Per questo puntano tutto sulle donne».

È contraria al velo. E intende far valere le sue idee. «Quando hanno annunciato che avremmo dovuto indossare il burqa, l’hijab o il chadori, che non avremmo dovuto mostrare volto o mani, quello stesso giorno ho aperto Facebook e ho postata una mia foto senza velo, a capo scoperto. Non mi importa delle loro politiche, di ciò che dicono o vogliono. Mi piaccio così e continuerò, vediamo cosa succede». Osmani è convinta che ci siano «tante donne e ragazze che, come me, vogliono mantenere la loro libertà: alzeranno la voce e combatteranno per diritti, libertà e indipendenza».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 maggio 2022.

I giornalisti maschi della tv afgana hanno deciso di indossare mascherine per il viso durante la messa in onda per protestare contro la decisione dei talebani di costringere le loro colleghe donne a coprirsi il volto anche quando sono in televisione. 

All’inizio di questo mese, il leader supremo dell’Afghanistan Hibatullah Akhundzada, seguito dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, ha ordinato alle presentatrici tv di indossare il burqa. Alcune di loro si sono rifiutate di conformarsi, provocando una repressione da parte dei funzionari, che hanno minacciato di licenziarle. Non solo: le hanno avvisate che anche i loro mariti sarebbero stati licenziati. I colleghi maschi allora hanno deciso di mostrare solidarietà coprendosi il volto.

Il velo integrale è l’ultima mossa dei talebani per imporre l’Islam fondamentalista. Si tratta di un’ulteriore restrizione rispetto a una precedente regola che le obbligava a coprirsi solo i capelli in pubblico. 

Oltre a impedire alle donne di apparire senza burqa, i talebani hanno anche vietato programmi TV, film e soap opera in cui le donne apparivano senza velo. Mohammad Sadeq Akif Mohajir, portavoce del ministero talebano per il progresso del benessere e la prevenzione dei vizi, si è detto indifferente alla protesta maschile essendo interessato solo al fatto che le donne stavano adempiessero i loro obblighi come specificato dalla leggeMonica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2022.

«Pane, lavoro, libertà», «il burqa non è il nostro hijab». Hanno del coraggio da vendere le donne afghane che, nei giorni scorsi, sono scese in piazza a Kabul armate di cartelli per protestare contro la disposizione che le obbligherebbe ad uscire di casa coperte dalla testa ai piedi. «Vogliamo vivere come esseri viventi, non come prigioniere in un angolo della casa, non vogliamo essere tenute chiuse mentre i nostri mariti vanno a mendicare il cibo» ha detto una di loro, Saira Sama Alimyar.

Martedì scorso la protesta è iniziata in piazza Ansari ed è arrivata davanti al ministero dell'Interno dove è stata dispersa con la forza dai talebani che hanno fatto a pezzi i cartelli e impedito ai giornalisti presenti di raccontarla. «Ci hanno sequestrato i cellulari e volevano portarci dentro il palazzo per farci confessare i nostri crimini» ha raccontato Zhulia Parsi.

Nella capitale, comunque, l'ultimo editto del leader supremo dell'Afghanistan e capo dei talebani, Hibatullah Akhundzada, per ora non è stato preso molto sul serio e sono poche le donne che girano per le strade indossando il copricapo che ti obbliga a vedere il mondo attraverso una grata e impedisce la visuale di lato. È una ribellione forte che coinvolge anche gli uomini perché è previsto che siano loro a pagare le conseguenze dell'«insubordinazione femminile», persino con il carcere.

A Kabul un venditore di burqa ha detto alla Reuters che nei giorni successivi al provvedimento i prezzi degli indumenti erano saliti del 30% per poi diminuire nuovamente visto che non c'era stato l'incremento della domanda che ci si aspettava. «La maggior parte delle donne preferisce comprare un hijab, piuttosto che burqa. Questa è l'ultima cosa che sceglierebbero le afghane» ha detto il negoziante.

Il decreto di Akhundzada ordina anche alle donne di «stare a casa» se non hanno un lavoro importante ma questa è solo l'ultima di una serie di restrizioni imposte dal regime dei nuovi talebani che hanno preso il potere lo scorso 15 agosto. Il governo, formato naturalmente da soli uomini, ha abolito il ministero degli Affari femminili e lo ha sostituito con quello del Vizio e della Virtù, ha impedito alle ragazze di andare a scuola e vietato alle cittadine quasi tutti i lavori, ha imposto che le donne viaggino per lunghi tragitti solo accompagnate. Per citare solo alcuni dei provvedimenti.

A non essere sorprese da questo salto indietro di 20 anni sono le attiviste per i diritti umani che avevano messo in guardia la comunità internazionale dalle false promesse e rassicurazioni dei talebani. «Noi siamo dottoresse, facciamo operazioni chirurgiche, dobbiamo lavarci le mani fino al gomito - hanno spiegato due mediche alla Reuters -, coprirci la faccia e indossare abiti larghi interferirebbe con il nostro lavoro». Di una cosa le afghane sono consapevoli: non sarà l'Occidente a salvarle dal baratro. La resistenza è nelle loro mani e in quella degli uomini che vorranno stare al loro fianco.

DIRITTI DELLE DONNE. Afghanistan, i talebani costringono le conduttrici ad andare in onda col burqa. GIULIA MERLO su Il Domani il 22 maggio 2022

L’ordine del burqa per le conduttrici aveva una data: adeguarsi entro il 21 maggio. Loro nei giorni scorsi hanno sfidato l’ordine dei talebani di nascondere il viso, oggi le giornaliste sono state costrette a indossare il burqa dopo le pressioni sulle loro emittenti

Se ne va un altro pezzo di libertà per le donne in Afghanistan. Per la prima volta, le conduttrici dei principali canali televisivi hanno dovuto andare in onda con il viso coperto dal burqa.

Da quando sono tornati al potere, i talebani hanno ridotto fino quasi a cancellare i diritti delle donne e all’inizio del mese hanno emesso un ordine per il quale le donne devono coprirsi con il burqa tradizionale quando sono in pubblico, mentre prima bastava il foulard per i capelli. 

L’ordine del burqa per le conduttrici aveva una data: adeguarsi entro il 21 maggio.

Loro nei giorni scorsi hanno sfidato l’ordine dei Talebani di nascondere il viso, oggi le giornaliste sono state costrette a indossare il burqa, lasciando visibili solo gli occhi, per presentare le notizie sulle emittenti TOLOnews, Ariana Television, Shamshad TV e 1TV.

La presentatrice di TOLOnews, Sonia Niazi, ha detto che lei e le sue colelghe si sono opposte all’uso del velo integrale, ma “l'emittente ha subito pressioni, hanno detto che a qualsiasi presentatrice apparsa sullo schermo senza coprirsi il volto sarebbe stato dato un altro lavoro".

Mohammad Sadeq Akif Mohajir, portavoce del Ministero per la Promozione della Virtu' e la Prevenzione del Vizio, ha negato che le autorità talebane vogliano costringere le presentatrici a lasciare il lavoro ma ha detto che “Siamo felici che i canali abbiano esercitato correttamente la loro responsabilità”. GIULIA MERLO

L’Azovstal delle giornaliste afghane. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.

Le giornaliste afghane hanno provato a resistere, per 18 giorni sono andate in onda a viso scoperto. Poi come i soldati ucraini hanno dovuto arrendersi. Ma hanno ricevuto una inaspettata solidarietà dai colleghi maschi. 

Come i soldati di Azovstal. Le giornaliste afghane hanno provato a resistere, sono andate in onda a viso scoperto. I talebani avevano ordinato il burqa o al massimo il niqab, che lascia visibili soltanto gli occhi. E loro avevano deciso di disobbedire. Donne al fronte, come lo erano gli asserragliati nella pancia dell’acciaieria di Mariupol. Il volto e un po’ di trucco invece del fucile. E la consapevolezza, come ad Azovstal, di non poter resistere a lungo senza l’aiuto del mondo. Ma il mondo guarda altrove, i diritti negati delle donne in Afghanistan non sono all’ordine del giorno.

Così un pugno di giornaliste si è ritrovato a fare quella piccola ma grandissima rivoluzione del volto scoperto in completo isolamento, rischiando ritorsioni barbare. Hanno resistito 18 giorni. E in quei 18 giorni il governo dei barbuti ha preso le contromisure. Pressioni sulle loro aziende, richiami ai maschi di famiglia, licenziamenti ventilati. E alla fine le nostre amiche sono uscite dal loro Azovstal con la bandiera bianca. Hanno dovuto arrendersi e andare in onda - da ieri - con il niqab.

Ma la loro resistenza era un seme e da quel seme è germogliata una solidarietà maschile che i talebani non si sarebbero mai aspettati. Gli uomini delle redazioni hanno deciso di coprirsi anche loro il volto mentre vanno in onda in segno di vicinanza alla protesta delle loro colleghe. Invece del viso scoperto una mascherina chirurgica. Un’azione simbolica, inattesa, piccola ma importante. Cosa farà adesso il governo talebano? Quale altra aberrazione si inventerà il potente ministero della Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio per stroncare la rivolta delle mascherine maschili in favore delle donne?

Se hai la sfortuna di nascere donna in un Paese come l’Afghanistan non potrai mai imparare il senso delle parole «libertà», «indipendenza», «autodeterminazione». «Tuteleremo i loro diritti» avevano promesso gli integralisti di Kabul dopo la caduta della capitale, ad agosto dell’anno scorso. Bugie. Alle donne non sono permesse le scuole, hanno il divieto di viaggiare da sole, di lavorare... Se non hanno cose importanti da fare «è meglio che stiano a casa» è il «consiglio» dei padroni delle vite altrui. Misoginia pura. Orrore. E bisognerebbe abbracciarle ad una ad una, le giornaliste afghane che hanno osato resistere nella loro Azovstal.

Burqa obbligatorio in Afghanistan, Guterres: "I talebani tengano fede alle promesse". La Repubblica l'8 Maggio 2022.

Dopo le notizie sul burqa obbligatorio in Afghanistan, interviene il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres.

"Sono allarmato - ha scritto su Twitter - dall'annuncio di oggi dei talebani in base al quale le donne devono coprirsi il volto in pubblico e uscire di casa solo in caso di necessità. Esorto ancora una volta i talebani a tenere fede alle promesse fatte alle donne e alle ragazze afghane e ai loro obblighi ai sensi della legge internazionale sui diritti umani".

Il leader supremo dei talebani ha infatti ordinato con un decreto alle donne di indossare il burqa in pubblico, riportando indietro la storia di oltre 20 anni. "Le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane - è scritto - dovrebbero velarsi il viso di fronte a un uomo che non è un membro della loro famiglia", per evitare provocazioni.

Afghanistan, burqa obbligatorio per tutte le donne. I talebani: "È per la loro dignità". Il Tempo il 07 maggio 2022.

I talebani hanno imposto a tutte le donne afghane di indossare il burqa in pubblico. Lo ha annunciato il ministero del vizio e della virtù. La mossa ha riportato alla memoria le restrizioni ai diritti delle donne varate in precedenza dai talebani tra il 1996 e il 2001. "Vogliamo che le nostre sorelle vivano con dignità e in sicurezza", ha affermato Khalid Hanafi, ministro ad interim dei vizi e delle virtù. 

L’annuncio conferma i timori sul rispetto dei diritti umani da parte dei fondamentalisti islamici che hanno preso il potere nell’agosto scorso in Afghanistan, ed è apparentemente destinato a complicare ulteriormente i rapporti di Kabul con la comunità internazionale. I talebani in precedenza hanno deciso di non permettere alle bambine di frequentare la scuola al di sopra del sesto anno, rinnegando una precedente promessa e assecondando così la base intransigente. Quella decisione ha messo fine ai tentativi di ottenere il riconoscimento dai potenziali donatori internazionali, nel contesto della crisi umanitaria in peggioramento che affligge il Paese. 

Indossare il velo "è necessario per tutte le donne afghane dignitose e il migliore è il chadori (il burqa dalla testa ai piedi) che fa parte della nostra tradizione ed è rispettoso", ha affermato Shir Mohammad, funzionario del ministero del vizio e della virtù. Il decreto aggiunge che, se le donne non avevano in precedenza un lavoro importante, è meglio che restino nella loro abitazione: "I principi islamici e l’ideologia islamica sono più importanti per noi di qualsiasi altra cosa". La donna che rifiuti di indossare il burga riceverà una visita dei talebani, che chiederanno un colloquio con il marito, il padre o il fratello. Il tutore maschio della donna potrebbe anche essere chiamato a presentarsi al ministero per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù. Infine il tutore maschio potrebbe essere portato in tribunale e anche incarcerato per tre giorni.

Le donne afghane tornano al Medioevo. L'obbligo talebano di indossare il burqa. Chiara Clausi l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.

Nonostante le promesse iniziali, i mullah riportano le lancette a venti anni fa. Il velo integrale sarà imposto in pubblico.

È uno dei provvedimenti più severi per le donne da quando il gruppo estremista dei talebani ha riconquistato il potere a Kabul. Il leader supremo dell'Emirato dell'Afghanistan ha ordinato con un decreto alle afghane di indossare il burqa in pubblico. E la storia di questo Paese martoriato è andata indietro di oltre 20 anni. La decisione di Hibatullah Akhundzada dice che «le donne che non sono troppo anziane o troppo giovani devono coprire il volto a eccezione degli occhi, in rispetto delle direttive della sharia - l'insieme di princìpi morali e giuridici islamici che i talebani applicano in forma radicale - in modo da evitare provocazioni quando si incontrano con uomini che non sono parenti stretti». Il decreto stabilisce anche che le donne che non hanno importanti mansioni da svolgere farebbero meglio a «restare a casa». «Vogliamo che le nostre sorelle vivano con dignità e in sicurezza», sono le parole di Khalid Hanafi, che con un mandato ad interim guida il ministero per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù.

Molte donne in Afghanistan indossano già il burqa ma alcune, in particolare nelle aree urbane, portano solo un semplice velo sui capelli. Il Corano, il libro sacro dell'Islam, dice ai musulmani - uomini e donne - di vestirsi con modestia. La modestia maschile è stata interpretata coprendo l'area dall'ombelico al ginocchio. Quella delle donne consiste generalmente nel nascondere tutto tranne il viso, le mani e i piedi quando sono in presenza di uomini con cui non sono parenti o sposati. Lo stesso provvedimento prevede condanne fino al carcere per le donne che si rifiutino di rispettare le nuove norme. In primo luogo, la donna che non indossa il burqa riceverà una visita dei talebani, che chiederanno un colloquio con il marito, il padre o il fratello. Loro potrebbero anche essere chiamati a presentarsi al ministero per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù. Oppure essere portati in tribunale e anche incarcerati per tre giorni. Il burqa, va ricordato, è l'abito tradizionale musulmano più costrittivo: copre interamente il corpo, compresa la testa, lasciando solo una fessura o una finestrella, talvolta velata, all'altezza degli occhi.

Nei giorni successivi al loro ritorno al potere i talebani, che hanno anche vietato l'istruzione alle donne, avevano fatto capire che le afghane non avrebbero dovuto indossare il burqa, ma solo l'hijab. Durante la loro prima conferenza stampa ad agosto dello scorso anno si sono presentati come un gruppo moderato e aperto. Hanno annunciato che avrebbero garantito il rispetto dei diritti delle donne, ma poi nei mesi successivi sono state applicate misure sempre più restrittive nei loro confronti, specie nel campo dell'istruzione. La decisione di imporre il burqa è l'ultimo esempio del fatto che i talebani hanno istituito un secondo regime simile al primo, durato dal 1996 al 2001, durante il quale alle donne erano negati moltissimi diritti. Molte delle rigide regole imposte dai talebani alla vita quotidiana sono rivolte infatti proprio alle donne. L'Afghanistan è diventato l'unico paese al mondo che limita pubblicamente l'istruzione in base al genere, un importante punto debole del regime che ostacola il tentativo dei talebani di ottenere una legittimità dalla comunità internazionale. Oltre a essere stato vietato alle ragazze di ricevere l'istruzione secondaria, è stato sciolto anche il ministero per gli Affari delle donne e in molti casi alle afghane non è stato neanche permesso di lavorare.

Nuova stretta ai diritti delle donne in Afghanistan. Burqa obbligatorio in pubblico, il diktat dei talebani alle donne: “Devono vivere in dignità e sicurezza”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 7 Maggio 2022. 

“Le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane devono coprirsi il volto, tranne gli occhi, come indicato dalla Sharia, per evitare di provocare quando incontrano uomini che non siano mahram“, ossia i parenti stretti.

Il leader supremo dei talebani, Haibatullah Akhunzada, ha firmato il decreto che impone alle donne afghane di indossare il burqa in pubblico. Riportando così indietro la storia di oltre 20 anni.

Il decreto

Tornati al potere a metà agosto, dopo essere stati cacciati dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nel 2001, i talebani avevano dichiarato che sarebbero stati più ‘flessibili’. Una promessa evidentemente non mantenuta.

Secondo il decreto le donne “devono indossare un chadori”, ossia quel tipo di burqa che le copre dalla testa ai piedi, lasciando intravedere unicamente gli occhi attraverso uno schermo a rete, in quanto “tradizionale e rispettoso”.

Khalid Hanafi, ministro ad interim per la Propagazione della virtù e la Prevenzione del vizio, ha chiarito in conferenza stampa che, a rispondere di eventuali violazioni del decreto, saranno anche il padre, il marito o il parente maschio più vicino alla donna, a cui i talebani chiederanno un colloquio nel caso dovesse rifiutare di indossare il burqa. Loro potrebbero anche essere chiamati a presentarsi al ministero per la Prevenzione del vizio e la promozione della virtù, oppure essere portati in tribunale e incarcerati per tre giorni. “Vogliamo che le nostre sorelle vivano in dignità e sicurezza“, ha concluso Hanafi.

I diritti violati delle donne

Il burqa era quasi sparito da alcuni quartieri cittadini dopo la fine del primo regime talebano tra il 1996 e il 2001, nonostante fosse ancora diffuso nell’Afganistan rurale. Le ragazze più giovani continuavano a coprirsi i capelli, lasciando però scoperto il volto, ormai abituate a poter studiare, lavorare e a spostarsi senza essere accompagnate dal proprio padre o dal marito.

Ma il ritorno del burqa è solo l’ennesimo attacco ai diritti delle donne. Nel decreto di Akhunzada viene inoltre stabilito che, se una donna non ha cose di fondamentale importanza da fare fuori, “è meglio che resti in casa”. I talebani avevano già impedito che viaggiassero fuori dalla propria città, o che potessero essere curate in ospedale, senza che fosse presente anche un parente maschio. Lo scorso marzo le scuole secondarie femminili sono state di fatto chiuse, nonostante quanto stabilito in precedenza: una decisione con cui hanno tradito gli impegni presi con la comunità internazionale. 

“I principi islamici e l’ideologia islamica sono più importanti per noi di qualsiasi altra cosa“, ha dichiarato Hanafi. Mariangela Celiberti

«Non andranno più a scuola. Con i talebani, tradita la promessa sui diritti delle ragazze». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.

Nadia Hashimi, scrittrice americana di origini afghane , sulla “beffa”della finta riapertura: «Le donne hanno provato a ribellarsi, ma al governo ci sono i terroristi». 

Un gruppo di ragazze di una scuola a Kabul: le scuole femminili, riaperte dai talebani il 23 marzo, sono state chiuse poche ore dopo con la scusa che le divise delle alunne dovevano essere cambiate (foto Afp via Getty images)

«I talebani avevano detto che, all’inizio del nuovo semestre dopo il primo giorno di primavera, avrebbero permesso il ritorno a scuola alle ragazze dalla prima media in su. Così, per 175 giorni, le ragazze hanno aspettato. Il primo giorno di scuola, il 23 marzo, alcune di loro si sono presentate: finalmente il momento era arrivato. Molte sono state mandate via. I talebani avevano cambiato idea. Hanno trovato scuse come quella che bisogna pensare a una divisa appropriata. Sciocchezze. Non c’è niente che non avrebbero potuto decidere nei passati sette mesi e, comunque, queste ragazze hanno indossato abiti “appropriati” a scuola per tutta la vita, anche prima che i talebani riprendessero il potere». La scrittrice Nadia Hashimi, nata a New York da genitori afghani emigrati negli Anni 70, segue con attenzione la situazione nel suo Paese d’origine ed è coinvolta nell’accoglienza dei rifugiati e nell’insegnamento offerto ai più giovani, arrivati negli ultimi mesi.

Fa la pediatra, nel 2018 ha tentato la candidatura alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. I suoi sei romanzi - tutti con bambine e donne afghane come protagoniste - sono stati tradotti in Italia da Piemme, l’ultimo questo mese: Le stelle di Kabul . «Scrivo queste storie perché so quanto sia facile dimenticare le donne afghane. Nei primi cinque anni in cui i talebani furono al potere (negli Anni 90 ndr) la comunità internazionale non si preoccupò dell’oppressione subita dalle ragazze e dalle donne. Fu solo dopo l’11 settembre che il mondo ne divenne consapevole e si indignò per la misoginia di questo regime. Anche oggi la maggior parte della gente non sa che alle ragazze continua ad essere vietato frequentare la scuola a partire dalle medie, che di nuovo devono essere accompagnate da un parente maschio per poter viaggiare, che non possono lavorare in molti campi e hanno perso i mezzi di sostentamento. Cerco anche di portare l’attenzione su figure femminili forti: sono stata circondata e ispirata da donne afghane per tutta la vita. Le storie sulle conseguenze della guerra per le famiglie afghane sono vicine al mio cuore, perché riflettono alcune battaglie che i miei parenti hanno dovuto combattere. Vorrei aver potuto leggere storie come queste quand’ero giovane».

Che cosa è successo alle donne dopo che i talebani hanno ripreso il Paese lo scorso agosto?

«Abbiamo avuto conferma del sospetto che i talebani non fossero cambiati affatto. Ci sono state proteste, le donne hanno opposto resistenza in molti modi — marciando per strada, rifiutando di cambiare il modo di vestire, insistendo nel voler fare le proprie scelte — ma i livelli di questa crisi sono sempre più stratificati: il fatto che i talebani non sono cambiati si aggiunge alla povertà, alla disoccupazione, all’insicurezza economica, a un inverno durissimo. Tutto ciò mentre l’attenzione del mondo è lontana. I talebani hanno interrogato e arrestato molte di coloro che hanno protestato, hanno perquisito le case in piena notte, ucciso persone, dato la caccia a chi era legato al precedente governo e alle forze armate, terrorizzato la popolazione. Ufficialmente, negano tutto. L’onere della prova ricade sulle donne: sono loro a dover dimostrare che siano state commesse atrocità, i talebani non devono dimostrare nulla».

Che cosa è successo nei luoghi di lavoro?

«Alle giornaliste, come alle donne impiegate nel governo, è stato detto di non tornare al lavoro. Ho partecipato ad una sessione con una parlamentare che raccontava che, subito dopo la caduta di Kabul, i talebani l’hanno fermata per strada e hanno riso di lei: “Una volta avevi potere, ma non più. Sei troppo giovane per morire, meglio che stai zitta”. In altri impieghi, le donne sono state rimosse con la scusa che gli uffici devono essere resi appropriati perché possano lavorarci».

«QUANDO GLI AMERICANI NEGOZIAVANO IL RITIRO, LA TEORIA ERA CHE I TALEBANI FOSSERO CAMBIATI: VOLEVANO AVERE LA COSCIENZA PULITA»

Nadia Hashimi, pediatra e scrittrice, nata a New York da genitori afghani emigrati negli Anni 70. E’ autrice di 6 romanzi, tutti con protagoniste bimbe e donne afghane 

Quale reazione ha osservato in America?

«Quando gli americani negoziavano il ritiro, la teoria era che i talebani fossero cambiati: lo si voleva credere in modo da andar via con la coscienza pulita. Alla fine, abbiamo visto che non era vero, ma ora non è più questione di crederci, è che non c’è interesse a far nulla. Non senti grande indignazione da parte della leadership americana. Gli Stati Uniti hanno cancellato un incontro laterale con i talebani dopo la mancata riapertura delle scuole femminili - un segnale, ma non molto forte. Non ho visto dichiarazioni da parte del presidente americano. C’è grande frustrazione tra le donne afghane, perché nel loro governo siedono terroristi i cui nomi compaiono sulle liste dei ricercati internazionali, eppure vengono trattati come legittime autorità. A gennaio i talebani sono arrivati con tanto di jet a Oslo, per colloqui, mentre le donne e le ragazze afghane non possono viaggiare e lasciare il Paese. Certo, è molto complicato aiutare gli afghani senza legittimare i talebani. Ma credo che non presteremo davvero attenzione a meno che non torni ad essere rilevante per gli Stati Uniti. E questo i talebani lo sanno bene».

È possibile fare pressione per ottenere la riapertura delle scuole?

«Sarebbe lo scenario migliore, ma bisogna chiedersi pure se gli insegnanti verranno pagati. Altrimenti molte scuole non funzioneranno comunque, ed è un problema che si sta già ponendo con quelle di grado inferiore, maschili e femminili. E poi che cosa studieranno? Scienze, letteratura, o solo religione? Senza contare che, se la gente vive in condizioni troppo misere, non può mandare le figlie a scuola: anche se pubblica, ci sono alcune spese, e in Afghanistan molti bambini lavorano per contribuire al sostentamento della famiglia. I talebani non hanno esperienza nella gestione del governo: il punto non è solo che sono dei criminali, ma che non sono qualificati. Hanno passato la vita a sparare e bombardare, come ci si può aspettare che sappiano costruire scuole e programmi educativi? E infatti i talebani mandano i figli a scuola all’estero — persino le figlie —. C’è molta ipocrisia».

C’è chi dice che la mancata riapertura delle scuole femminili sia legata al disaccordo tra fazioni dei talebani, alcuni più conservatori di altri.

«Ho sentito la stessa cosa e non so che cosa succederà alla fine, se ciò poterà ad ulteriori lotte, a un governo più restrittivo o meno. Non so chi vincerà, ma so chi sta perdendo: il popolo afghano, che non ha scelta».

«LE RAGAZZINE PROFUGHE CHE INCONTRO MI DICONO CHE VORREBBERO DIVENTARE PILOTA O MEDICO, CHIEDONO ESERCIZI DI MATEMATICA»

Lei sta lavorando nell’accoglienza dei rifugiati afghani. Cosa le dicono le ragazze?

«Ho fatto l’insegnante nei rifugi governativi dove le famiglie attendono di essere ricollocate per iniziare una nuova vita negli Stati Uniti. Quando chiedo alle ragazze che cosa vogliono fare da grandi, rispondono: “pilota”, “medico”, una di loro mi ha chiesto di portarle delle operazioni matematiche con i polinomi. Sono ambiziose e ne sono felice, ma mi spezza il cuore pensare a tutte le loro amiche e compagne con gli stessi sogni e desideri rinchiusi nell’armadio nell’Afghanistan dei talebani».

Il suo nuovo libro è ambientato in un periodo storico precedente ai talebani. Perché?

«È basato su un evento vero, il colpo di stato dell’aprile 1978, ma la protagonista è inventata. È una ragazza, unica sopravvissuta alla strage nel palazzo presidenziale. Viene tratta in salvo e le dicono: “La tua Kabul non c’è più, non tornerà più”. Purtroppo è quello che sta succedendo di nuovo in Afghanistan. Succede ai bambini e alle madri che incontro: la loro Kabul, tutto ciò per cui avevano lavorato negli ultimi vent’anni, non c’è più. Non possiamo dimenticare che anche gli afghani — non solo gli americani o gli stranieri — hanno lavorato per costruire il Paese in questi anni. La gente mi chiede spesso cos’è successo all’Afghanistan, quand’è che le guerre sono iniziate, che cosa ha portato a tutto questo. Se leggi la Storia, è il risultato delle tensioni della Guerra fredda, negli Anni 60 e 70. Allora sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica aprivano università in Afghanistan, cercavano di portare il Paese dalla propria parte ma l’hanno dilaniato internamente, con il risultato del golpe del 1978 seguito dall’invasione sovietica del 1979. Per capire il dolore degli afghani, bisogna capire che cosa hanno perduto, in passato e adesso».

ALESSANDRA MUGLIA per il Corriere della Sera il 30 marzo 2022.

Altro che nuovo corso talebano. L'Afghanistan sta tornando al tempo buio del primo regime islamista degli anni 90: con una raffica di editti le donne si ritrovano di nuovo ingabbiate, senza poter più lavorare, né studiare e ora nemmeno viaggiare in aereo da sole. Donne in ostaggio di uomini che, a loro volta, non possono più cedere ad alcun segno di modernità, come farsi la barba. E dire che negli ultimi 20 anni molti afghani avevano apprezzato l'idea di radersi.

Ora invece chi è senza barba rischia il licenziamento. I talebani stanno negando una dopo l'altra tutte le promesse di moderazione che avevano fatto dopo la presa di Kabul. Dopo il dietrofront sulla riapertura delle scuole superiori per le ragazze, ora le donne non possono neanche salire su un aereo se non accompagnate da un maschio. Un altro recente provvedimento prevede che i parchi siano separati per genere. Con le donne autorizzate ad accedere 3 giorni a settimana e gli uomini gli altri 4. «Le recenti restrizioni dei talebani sono un inasprimento del loro apartheid di genere. È preoccupante pensare a quel che il futuro potrebbe riservare alle afghane» dice Shaharzad Akbar, attivista afghana a Londra.

Bimbo caduto in un pozzo come Rayan e Alfredino Rampi: è corsa contro il tempo per salvare Haidar. Vito Califano su Il Riformista il 17 Febbraio 2022 

Haidar è caduto dentro a un pozzo. È rimasto incastrato, bloccato da due giorni. E la paura è che possa ripetersi la tragedia del piccolo Rayan, il bambino di 5 anni rimasto intrappolato dentro un pozzo in Marocco, e morto dopo quattro giorni; una storia che a sua volta ricordava quella del piccolo Alfredo Rampi che nel 1981 morì in un pozzo artesiano a Vermicino. È quindi corsa contro il tempo in queste ore in un remoto villaggio dell’Afghanistan per salvare Haidar, che ha nove anni.

Il villaggio di si chiama Shokak, nella provincia di Zabul. Haidar sembra essere in grado di muovere le braccia e la parte superiore del corpo. Sul posto anche alcuni funzionari del nuovo governo talebano. “Stai bene figlio mio? Parlami e non piangere, stiamo lavorando per tirarti fuori”, le parole del padre per rassicurarlo. “Va bene, continuerò a parlare”, la risposta di Haidar. L’operazione di salvataggio è in corso in queste ore sono stati diversi i video postati dai cittadini e dai funzionari sui social network.

Le immagini sono state girate grazie a una telecamera fatta calare nel pozzo con una fune. I funzionari locali hanno stimato che il bambino sia incastrato a una decina di metri del pozzo profondo 25 metri. “C’è una squadra con un’ambulanza, ossigeno e altre attrezzature necessarie”, il tweet di Abdullah Azzam, segretario del vice primo ministro Abdulghani Barada. Per intervenire e salvare il piccolo i soccorritori hanno cominciato a scavare da un fosso aperto ad angolo in superficie.

Simile tecnica era stata utilizzata per salvare il piccolo Rayan, a inizio febbraio. Il bambino marocchino stava giocando davanti al suo villaggio di Tamrout quanto è caduto in un pozzo asciutto di proprietà della famiglia. Ed era rimasto incastrato a 32 metri, in un punto in cui la larghezza era di circa 25 centimetri. A ostacolare la corsa contro il tempo le rocce e la terra che franava lungo il pozzo. Lo sforzo di speleologi, volontari e soccorritori sembrava essere stato premiato quando il piccolo era stato raggiunto e tirato fuori. Poco dopo il tragico comunicato della Casa Reale marocchina. “Il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta”.

La distanza per raggiungere Haidar è “molto breve e i soccorritori dicono che possono udire le grida del bambino. La speranza è che possa essere salvato presto”. Ha detto il segretario del vice primo ministro. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

È morto il piccolo Haidar, la tragedia del bimbo di 5 anni: intrappolato nel pozzo come Rayan e Alfredino. Il Riformista il 18 febbraio 2022.  

Non ce l’ha fatta Haidar: il bambino di cinque anni caduto in un pozzo in Afghanistan è morto. Ad annunciarlo funzionari talebani. Il piccolo era caduto ed era rimasto incastrato, a una decina di metri di profondità, due giorni fa. La tragedia – che ricorda quella del piccolo Rayan, 6 anni, morto a inizio febbraio in un pozzo in Marocco, e quella di Alfredino Rampi, nel 1981, a Vermicino, che aveva sconvolto e commosso l’Italia – nel villaggio di Shokak, nella provincia di Kabul. Haidar “ci ha lasciati per sempre”, ha twittato Anas Haqqani, consigliere anziano del ministero dell’Interno. “Questo è un altro giorno di lutto e dolore per il nostro Paese”.

Il dispiegamento di forze per salvare il bambino era stato notevole. Si scavava mentre il padre parlava con il piccolo. “Stai bene figlio mio? Parlami e non piangere, stiamo lavorando per tirarti fuori”, diceva il padre al piccolo. “Va bene, continuerò a parlare”, rispondeva Haidar. Le sue condizioni erano monitorate tramite una telecamera fatta calare nel pozzo tramite una fune.

Quelle immagini erano circolate in tutto il mondo, tramite i social network. E avevano trasmesso ottimismo per lunghi tratti delle operazioni, in quanto il piccolo era in grado di muovere le braccia e la parte superiore del corpo e di comunicare. I funzionari locali avevano fatto sapere che il bambino era intrappolato a una decina di metri del pozzo profondo circa 25 metri. “C’è una squadra con un’ambulanza, ossigeno e altre attrezzature necessarie”, aveva twittato Abdullah Azzam, segretario del vice primo ministro Abdulghani Barada.

La distanza per raggiungere Haidar è “molto breve e i soccorritori dicono che possono udire le grida del bambino. La speranza è che possa essere salvato presto”, aveva detto il segretario del vice primo ministro ieri sera. All’esterno del pozzo, durante le operazioni, decine di persone. Secondo quanto ha scritto il giornalista inviato del Tg3, esperto di Afghanista, Nico Piro, il bambino era stato estratto vivo dal pozzo.

La speranza che che aveva accompagnato i soccorsi è stato troncato dalla notizia della tragedia. E nonostante i soccorritori avessero cominciato a scavare un fosso aperto ad angolo in superficie per cercare di raggiungere il punto in cui il bimbo era intrappolato. La tecnica era simile a quella che i soccorritori avevano tentato in Marocco all’inizio di febbraio per salvare il piccolo Rayan.

Il bambino marocchino stava giocando davanti al suo villaggio di Tamrout quanto è caduto in un pozzo asciutto di proprietà della famiglia. Ed era rimasto incastrato a 32 metri, in un punto in cui la larghezza era di circa 25 centimetri. A ostacolare la corsa contro il tempo le rocce e la terra che franava lungo il pozzo. Lo sforzo di speleologi, volontari e soccorritori sembrava essere stato premiato quando il piccolo era stato raggiunto e tirato fuori. Poco dopo il tragico comunicato della Casa Reale marocchina. “Il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta”.

In Afghanistan le ragazze studiano nelle scuole clandestine. Con i talebani al potere alle giovani è proibito frequentare gli istituti. E nascono così scuole nascoste grazie a volontari che rischiano la prigione e la vita (foto di Alessio Romenzi). Francesca Mannocchi su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

È una giornata gelida, a Kabul, quella in cui incontro Yaqub. L’appuntamento è a un distributore di benzina, appena dopo pranzo. La notte ha coperto la città di bianco, le automobili faticano ad evitare il giaccio e i mucchi di neve ai bordi delle strade. «Ci vediamo lì», mi aveva detto Yaqub, «perché devi venire con i nostri mezzi, l’autista e il traduttore che lavorano con te non possono seguirci, sarebbe troppo pericoloso per la nostra sicurezza».

Afghanistan, un milione di minori è costretto a lavorare per sostenere la famiglia. Il Domani il 14 febbraio 2022

Il nuovo studio dell’organizzazione, che ha coinvolto 1.400 famiglie e sette province, evidenzia la drammaticità della situazione, con il sistema sanitario al collasso, l’aumento dei prezzi dei beni alimentari e 5 milioni di minori sull’orlo della carestia

In Afghanistan sono 5 milioni i minori sull’orlo della carestia. Un milione invece i bambini e le bambine costretti a lavorare, a causa del crollo dei redditi degli ultimi sei mesi. La nuova indagine dell’ong Save the children evidenzia la drammatica situazione del paese. 

Dalla ricerca condotta dall’ong su 1.400 famiglie è risultato che, dalla caduta del precedente governo, l’82 per cento ha perso il reddito e il 18 per cento ha dichiarato di essere costretto a mandare i figli a lavorare. Un afgano su tredici afferma «di chiedere già l’elemosina o di fare affidamento sulla carità per sfamare i propri cari», scrive Save the children.

«La grave crisi economica minaccia di lasciare più del 95 per cento della popolazione in condizioni di povertà e con un sistema sanitario al collasso», si legge nel rapporto. L’aumento dei prezzi rende più difficile l’acquisto dei beni di prima necessità alle famiglie: il 36 per cento circa ha detto di acquistare il cibo a credito.

Le cause principali del crollo dei servizi sanitari sono il congelamento delle risorse globali e la sospensione degli aiuti allo sviluppo. L’organizzazione lancia dunque una petizione per chiedere lo sblocco dei finanziamenti al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale. 

Afghanistan, gli aiuti umanitari arrivano con le criptovalute per aggirare banche, sanzioni e talebani. Chiara Sgreccia su L'Espresso l'8 Febbraio 2022.  

In un paese in cui l’economia è quasi al collasso, le monete digitali sono una forma di pagamento veloce, diretta, sicura. «La mancanza di dispositivi e connessioni è ancora un problema. Ma domani non lo sarà più»

La blockchain non può salvare l’Afghanistan dalla crisi, non ancora. Ma permette al denaro di entrare nel paese evitando le sanzioni degli Stati Uniti e aggirando i Talebani. «Consente il trasferimento immediato di moneta, senza necessità di intermediari, tra chi dona e chi riceve» spiega Gian Luca Comandini, imprenditore, docente universitario in blockchain, che fa parte della task force ministeriale per la transizione tecnologica. «Non si parla tanto dell’importanza delle criptovalute per l’assistenza umanitaria perché è un settore in cui gli investitori hanno poco interesse a speculare. Ma è diffuso e in grado di dare sostegno alle economie locali in difficoltà».

In un paese in cui il sistema finanziario è vicino al crollo - perché la banca centrale afghana non è in grado di mandare e ricevere denaro dagli istituti stranieri che si rifiutano di fare da intermediari, per paura di ritorsioni future da parte degli Stati Uniti - le criptovalute sono una soluzione che sempre più persone stanno utilizzando per bypassare i Talebani, evitare le sanzioni, le banche, e aiutare direttamente chi è in difficoltà. Così ha fatto, ad esempio, Fereshteh Forough, la fondatrice di Code to Ispire, una scuola di Herat pensata per insegnare alle donne la programmazione informatica e come diventare finanziariamente indipendenti. Un esperimento che si era già dimostrato di successo prima dell’arrivo dei Talebani e che Forough, che ora vive nel New Hampshire, negli Stati Uniti, ha deciso di trasformare in uno strumento di assistenza per la popolazione, inviando aiuti in moneta digitale alle studentesse e alle loro famiglie. «Abbiamo scoperto che ad Herat ci sono posti che accettano le criptovalute come forma di pagamento o che offrono in cambio denaro locale o dollari».

Come chiarisce Comandini, infatti, «i pagamenti via telefono sono molto più diffusi di quanto immaginiamo. Nel mondo ci sono più persone che hanno accesso a Facebook, e quindi hanno uno smartphone e la connessione a internet, rispetto a quelle con un conto in banca». Per pagare in criptovalute servono pochi secondi. Basta inquadrare il QR code che rappresenta l’indirizzo verso cui dovrà essere trasferito il denaro e inserire l’importo. «Anche il processo di conversione da una valuta all’altra è banale, simile a quello dei videogame. È sufficiente un’app per conservare e scambiare le monete digitali, la maggior parte delle piattaforme oggi fanno entrambe le cose». In più, non tutte le criptovalute sono così volatili come si crede. «Il bitcoin oscilla molto sul mercato perché piace, e gli speculatori comprano e vendono in continuazione. Ma esistono altre monete, le stablecoin, ancorate al valore dell’euro o del dollaro, quindi stabili, come Tether» Sono queste ad essere principalmente utilizzate nel settore dell’assistenza umanitaria, così il valore dell’aiuto offerto non varia in base alle fluttuazioni del mercato.

Grazie alle monete digitali gli afghani possono ricevere denaro in sicurezza, subito, sul telefono. Portarlo facilmente dietro, se decidono di lasciare il paese. Le transizioni digitali evitano che i contrabbandieri e gli intermediari rubino o interferiscano con gli aiuti perché «la tecnologia con cui è stata pensata la blockchain permette di tracciare tutti i passaggi della filiera umanitaria. È un registro che tiene conto di ogni procedimento che ha portato alla creazione di una criptovaluta e dei suoi trasferimenti. La mancanza di fiducia tra gli esseri umani ha fatto sì che per certificare i processi fossero necessarie delle figure super partes, i garanti, come le banche centrali per le monete tradizionali. La blockchain dà le stesse garanzie ma senza la figura di un intermediario. Con un processo decentralizzato di cui tutti siamo parte».

Ma gli aiuti umanitari in criptovalute non arrivano soltanto in Afghanistan. Sempre più organizzazioni nel mondo usano le monete digitali per sostenere le popolazioni in territori di conflitto o dopo disastri naturali. Tra queste c’è anche il World Food Programme, l'agenzia delle Nazioni Unite. Che da anni promuove Building Blocks, un progetto per fornire assistenza tramite blockchain, che aiuta più di un milione di persone tra Bangladesh e Giordania.

«La mancanza di dispositivi e connessioni è ancora un problema. Ma domani non lo sarà più. Per questo è importante dare credibilità al settore. Per il futuro. In situazioni di difficoltà, quando usare le valute digitali è l’unica alternativa possibile, molte più persone si sforzano per comprenderne il funzionamento e conquistarne l’accesso». Per questo, secondo Comandini, la blockchain è anche un incentivo allo sviluppo tecnologico.

Tiziana Ferrario per lavocedinewyork.com il 7 febbraio 2022.

Vent’anni fa l’arrivo a Kabul del primo contingente italiano dopo la caduta del regime dei talebani. 

A guidarlo era il generale Giorgio Battisti che, in una città ridotta in macerie dalla guerra civile, si dovette inventare tutto per alloggiare i primi 350 soldati della Brigata Alpina Taurinense che stavano per giungere dall’Italia.

Scelse una vecchia caserma sovietica, diventata poi una prigione per talebani. Un grande edificio semidistrutto e lercio, che i nostri soldati avrebbero trasformato in un luogo accogliente con tanto di pizzeria.

Lo ricordo molto bene, perché anch’io negli anni ci sarei andata spesso a cercare un po’ di sapori e sorrisi italiani dopo le giornate trascorse tra la polvere di Kabul. Il generale sarebbe tornato altre 3 volte in missione in Afghanistan, nel 2007, nel 2013 e nel 2014, accumulando esperienza e impressioni su quello che il tormentato paese stava diventando.

Il ritorno al potere dei talebani la scorsa estate è stato uno shock per tutti noi, ma per il generale Battisti e i tanti militari che come lui hanno speso energie e hanno visto cadere 53 soldati in Afghanistan è stato anche molto doloroso.

Un momento triste e amaro e il pensiero è andato subito alla parte più debole della popolazione, le donne e le bambine, confessa nel libro Fuga da Kabul scritto insieme alla giornalista Germana Zuffanti, nel quale racconta vent’anni di presenza militare occidentale in Afghanistan.

L’occasione per riflettere su quello che è andato storto, sugli errori fatti e su quello che si sarebbe potuto fare meglio, come quello scellerato accordo di Doha siglato tra l’amministrazione Trump e i talebani nel febbraio 2020 e che ha portato al disastroso ritiro dello scorso agosto gestito dall’amministrazione Biden. 

Ma anche Obama e la sua strategia della “Surge” associata a un successivo ritiro non è stata una scelta azzeccata, scrive il generale, come pure la decisione di andare in Iraq nel 2003 quando il lavoro in Afghansitan non era completato.

Fuga da Kabul è un manuale per chi volesse capire meglio l’esperienza militare in una nazione che viene considerata la tomba degli imperi. Un libro che spiega anche la storia di un popolo guerriero e fiero.

“È stata una sconfitta per tutti, scrive il generale senza mezzi termini e il futuro è tutt’altro che roseo. La tragedia afghana è peggiore della caduta di Saigon che si inquadrava nel contesto della Guerra Fredda, prevedendo il rischio di implosione del nuovo regime talebano a causa delle tante differenze tra i tanti gruppi talebani e la pressione dell’Isis Khorasan attivo nel paese. L’Afghanistan rischia di diventare un buco nero”.

Da ansa.it il 31 gennaio 2022.

Una giornalista neozelandese incinta è stata accolta dai talebani a Kabul dopo che, a causa delle norme anti-Covid, il suo Paese non l'ha autorizzata a rientrare dal Qatar.

Charlotte Bellis, questo il nome della reporter che ha raccontato la sua storia "brutalmente ironica" al New Zealand Herald, in agosto aveva lavorato in Afghanistan per Al Jazeera assieme al suo compagno, il fotografo belga Jim Huylebroek.

Era rientrata al quartier generale di Doha a settembre quando si è accorta di essere incinta.

Essendo illegale in Qatar aspettare un figlio senza essere sposati la giornalista ha deciso di rientrare in Nuova Zelanda ma le rigide norme anti-Covid imposte nel suo Paese le hanno impedito l'ingresso. A quel punto lei e il suo compagno si sono trasferiti in Belgio ma non avendo un permesso di soggiorno non è potuta restare. L'unico altro Paese per il quale la coppia aveva il visto era l'Afghanistan e così Charlotte ha deciso di rivolgersi ai suoi contatti tra alti funzionari talebani. "Siamo felici per te, puoi stare qui, non avrai nessun problema", le hanno detto aggiungendo di dire di essere sposata ma qualora si venisse a sapere che non lo è di "chiamarli". "Andrà tutto bene", l'hanno rassicurata.

Bellis, che dovrebbe partorire una bambina a maggio, non è ancora riuscita a tornare in Nuova Zelanda ma ha detto che raccontare la sua storia ha velocizzato la procedura per l'ingresso. Il ministro neozelandese per l'emergenza Covid Chris Hipkins ha chiesto verifiche sul suo caso.

Esecuzioni e povertà nell'Afghanistan dei talebani che non sanno governare. Pietro Del Re su La Repubblica il 18 Gennaio 2022.

Dopo cinque mesi al potere, gli studenti coranici continuano a dare la caccia a chiunque abbia collaborato con gli americani e con la precedente amministrazione, pronti a giustiziare ogni oppositore. Le donne non possono più lavorare ne studiare. Il consumo di droga è esploso. E intanto il Paese sprofonda nella crisi economica, che i nuovi padroni di Kabul non sanno come gestire. Si sono accorciati la barba e, dismesso il mantello nero da briganti, molti di loro indossano oggi l'uniforme mimetica dell'esercito sconfitto. In giro vedi anche meno kalashnikov e nel traffico di Kabul non senti più i loro pick-up sgommare come una volta. Inurbati da sei mesi nella capitale, e da allora incontrastati padroni dell'Afghanistan, i talebani si sono dati una ripulita: passata l'euforia della vittoria, è anche tramontato il bisogno di affermare il loro potere terrorizzando la popolazione civile. 

Le mille contraddizioni dell’Afghanistan, prigione a cielo aperto. Viaggio nella periferia del Paese ora in mano ai talebani. La gente combatte contro miseria, fame e incertezza ma nessuno rimpiange gli stranieri. E molti hanno fiducia nei nuovi potenti. Filippo Rossi su L'Espresso il 17 Gennaio 2022.

Una famiglia da Maymana, provincia di Faryab (nord dell’Afghanistan) alle 4 del mattino. Il 4x4 sovietico fatica, inerpicandosi lentamente su montagne sabbiose e attraverso guadi di fiume. «Qui non c’è più nulla. Andiamo a Teheran a lavorare», commenta Mohammad Shahab, uno dei tre fratelli sulla cinquantina, presenti insieme ad a altri 2 nipoti. Si fermano per il namaz, la preghiera.

Da tg24.sky.it il 10 gennaio 2022.

Sohail Ahmadi, il neonato afghano di cui per mesi si erano perse le tracce dopo che era stato affidato dai genitori a un marine Usa all'aeroporto Hamid Karzai di Kabul durante il caotico ritiro dall'Afghanistan della scorsa estate e che è stato ritrovato nelle scorse settimane, è ritornato con la sua famiglia. Il piccolo, secondo quanto riporta la Bbc, è stato riconsegnato al nonno. 

L’uomo ha viaggiato dalla lontana provincia di Badakhshan fino a Kabul per riabbracciare il nipote. «Stiamo festeggiando e cantando, sembra una festa di matrimonio», ha detto. Il resto della famiglia, che ora si trova negli Stati Uniti, ha assistito alla festa via videochat. In questi mesi, il bambino - che ora ha circa sei mesi - è stato con il tassista 29enne Hamid Safi: il giovane ha raccontato di averlo trovato in aeroporto a Kabul, abbandonato, e di averlo preso con sé, portandolo a casa dalla moglie e dai suoi figli. Poi ha pubblicato la foto del neonato, ribattezzato Mohammad Abed, sul proprio profilo Facebook.

I coniugi Ahmadi, genitori di Sohail, erano all'aeroporto di Kabul il 19 agosto per cercare di lasciare l'Afghanistan dopo l'arrivo al potere dei talebani. Travolti dalla calca davanti ai cancelli dell'Abbey Gate, insieme a migliaia di altre persone in attesa di entrare nello scalo, avevano affidato il loro neonato a un militare americano nel timore che rimanesse schiacciato dalla folla, pensando che sarebbero presto arrivati all'ingresso per riprenderlo.

Ma da quel momento del piccolo non avevano avuto più notizie. La coppia è stata poi evacuata con gli altri figli di 17, 9, 6 e 3 anni, arrivando a Fort Bliss, in Texas, dopo un lungo viaggio con tappe prima in Qatar e poi in Germania. Per mesi hanno lanciato appelli nella speranza di ritrovare il piccolo.

Afghanistan, l’ex presidente Ashraf Ghani ricorda la sua fuga da Kabul. Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 31 Dicembre 2021. In un’intervista alla Bbc, l’ex presidente che il 15 agosto lasciò il Paese racconta i momenti che hanno portato alla sua fuga: una decisione che consegnò il Paese nelle mani dei talebani. Quando la mattina del 15 agosto 2021 si è svegliato, il presidente afghano Ashraf Ghani non sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno nel Paese che guidava dal 2014. Solo quando il suo aereo ha lasciato Kabul, ha raccontato in un’intervista andata in onda sul programma radiofonico Today della Bbc, ha realizzato che se ne stava andando davvero, lasciando l’Afghanistan in mano ai talebani: una decisione che gli ha attirato grandi critiche ma che, a distanza di 4 mesi e mezzo, difende ancora.

«I talebani avevano accettato di non entrare a Kabul, ma due ore dopo non era più così», ha ricordato Ghani, che oggi vive negli Emirati Arabi Uniti, durante il colloquio con il generale Nick Carter, ex capo di Stato maggiore delle forze armate britanniche. «Due diverse fazioni dei talebani si stavano avvicinando da due direzioni differenti, e c’era l’enorme possibilità di un grande conflitto che avrebbe distrutto una città di 5 milioni di abitanti, portando il caos fra la sua gente».

Per questo, spiega, decise di lasciar partire alcuni dei suoi più stretti collaboratori e dei suoi cari, compresa la moglie — riluttante — e il suo consigliere per la sicurezza nazionale. Ghani, invece, attendeva che un auto lo portasse al ministero della Difesa: quell’auto non è mai arrivata, mentre il suo consigliere tornò insieme al capo della sicurezza presidenziale, entrambi terrorizzati, sostenendo che sarebbero stati uccisi tutti. «Mi ha dato meno di due minuti per prendere una decisione, dissi di partire per Khost, ma mi rispose che la città era caduta, così come Jalalabad», ricorda l’ex presidente.

«Non sapevo dove stessimo andando», aggiunge. «Solo quando siamo decollati ho capito che stavamo lasciando l’Afghanistan. È successo tutto all’improvviso». Secondo molti osservatori, la fuga di Ghani — che già era criticato per la sua gestione del Paese — mandò all’aria un complicato accordo che prevedeva una transizione «ordinata» e spianò la strada alla riconquista del Paese da parte dei talebani: gli studenti coranici erano certi di tornare al governo, ma il vuoto creato dall’improvvisa uscita di scena del presidente accelerò il passaggio.

Oggi Ghani, 72 anni, ammette alcuni errori, a cominciare dalla fiducia riposta nella comunità internazionale, ma sostiene «categoricamente» di non aver portato soldi fuori dal Paese e ritiene che siano stati gli accordi di Doha fra gli Stati Uniti di Donald Trump e i talebani — che prevedevano una graduale riduzione delle forze armate americane in Afghanistan — a portare alla caduta di Kabul. «Invece di un processo di pace, fu un processo di ritiro. L’accordo ci ha cancellato: invece di un accordo politico, abbiamo avuto un colpo di Stato violento», dice alla Bbc Ghani. «La mia vita professionale è stata distrutta, i miei valori calpestati, io sono stato trasformato nel capro espiatorio».

I talebani riportano le donne nel buio: viaggi solo se accompagnate dall'uomo. Chiara Clausi il 27 Dicembre 2021 su Il Giornale. Vietato spostarsi da sole oltre i 70 km e mai senza velo integrale. In auto musica proibita. L'Onu: "Se continuate così pene dure". I diritti delle donne afghane continuano a retrocedere. Dopo la presa del potere da parte dei Taleban hanno già perso l'accesso al lavoro, allo sport, allo studio. Adesso non potranno viaggiare più da sole e per aver accesso ai mezzi pubblici dovranno indossare il velo islamico. I talebani hanno annunciato proprio ieri il divieto sulle lunghe distanze: oltre i 70 chilometri, dovranno essere accompagnate da un uomo della famiglia. La raccomandazione, pubblicata dal ministero della Promozione della Virtù e della Prevenzione del vizio, che già circolava sui social, invita gli autisti a non accettare donne sui loro veicoli se non indossano l'hijab, senza tuttavia precisare quale tipo di velo, se quello che copre solo i capelli, il viso o tutto il corpo, il famigerato burqa.

Il portavoce del ministero ha aggiunto che le donne dovranno pure indossare l'hijab quando viaggiano e utilizzano qualsiasi mezzo di trasporto. «Alle donne che viaggiano per più di 45 miglia (72 chilometri) non dovrebbe essere offerto un passaggio se non sono accompagnate da un familiare stretto» ha detto ieri il portavoce del ministero, Sadeq Akif Muhajir. La direttiva vieta anche a tutti - donne e uomini - di ascoltare musica in macchina. Sembra un salto all'indietro. Quello che tutti temevano. Dopo aver preso il potere lo scorso agosto, i talebani avevano promesso una minore rigidità rispetto al periodo in cui governarono il Paese negli anni Novanta. In molte province hanno concesso la riapertura delle scuole, ma molte ragazze non possono ancora accedere all'istruzione di secondo grado.

La direttiva arriva settimane dopo che il ministero ha chiesto ai canali televisivi afghani di interrompere drammi e soap opera con attori donne. Il ministero aveva anche invitato le giornaliste televisive a indossare l'hijab durante le trasmissioni. Ma l'interpretazione dell'hijab da parte dei talebani - che può variare da una copertura per i capelli a un velo per il viso o per tutto il corpo - non è chiara seppure la maggior parte delle donne afghane indossi già il velo. All'inizio di questo mese, il gruppo islamista ha emesso un decreto in nome del loro leader supremo che intimava il governo a far rispettare i diritti delle donne. Ma il decreto non menzionava l'accesso delle ragazze all'istruzione. Gli attivisti sperano che la voglia dei talebani di ottenere il riconoscimento internazionale e di far rifluire gli aiuti in uno dei paesi più poveri del mondo li porti a fare maggiori concessioni alle donne. Il rispetto dei diritti delle donne è stato ripetutamente citato come condizione per ripristinare gli aiuti. La condanna internazionale però è subito arrivata. «Questa nuova decisione si muove nella direzione di rendere le donne prigioniere» ha detto Heather Barr, co-direttrice della divisione per i diritti delle donne di Human Rights Watch. «Chiude loro le opportunità di potersi muovere liberamente, viaggiare in un'altra città, fare affari, o essere in grado di fuggire se subiscono violenze in casa» ha aggiunto Barr. I diritti delle donne sono stati gravemente lesi durante il precedente periodo al potere dei talebani. Ma gli aiuti ora sono indispensabili.

L'Onu ha avvertito che l'Afghanistan affronterà un duro inverno, e ha stimato che ventidue milioni di cittadini dovranno scontrarsi con un'«acuta» carenza di cibo se la comunità internazionale non interverrà. Chiara Clausi

·        Quei razzisti come gli indiani.

CINA INDIA: I PERCHE’ DEL CONFLITTO INFINITO. Martina Melli su L’Identità il 17 Dicembre 2022

La “Linea di controllo effettivo” è quel tratto di terra al confine himalayano (che separa i territori cinesi e indiani dal Ladakh a ovest, allo stato orientale indiano dell’Arunachal Pradesh) che da decenni innesca tensione e scontri tra i due Paesi.

Dal terribile combattimento di giugno 2020 – in cui entrambi i gruppi militari hanno contato decine di morti – sono trascorsi due anni pacifici, fino allo scorso 9 dicembre.

In quel giorno infatti, i soldati delle due fazioni si sono affrontati nella zona di confine di Yangtze, a nord-est della città monastica di Tawang nell’Arunachal Pradesh (India).

Il “Lac”, il famoso tratto di separazione, non esiste né fisicamente sul territorio né su alcuna mappa (cartacea o meno): è essenzialmente una sorta di linea percepita, sacra a entrambe le nazioni per diversi motivi.

Nell’ottobre 1962 la Cina attaccò l’esercito indiano, facendo scoppiare la famosa guerra Sino-indiana. Il conflitto durò un mese, fino all’annuncio del un cessate il fuoco nel novembre 1962 da parte del Governo cinese che, in quell’occasione, suggerì di concordare una zona demilitarizzata e dei posti di controllo lungo la linea del cessate il fuoco per evitare futuri malintesi sul confine. L’allora primo ministro indiano, tuttavia, non accettò il suggerimento, e il problema al confine continuò ad esistere. Se l’offerta della Cina fosse stata accettata, è possibile che la tratta concordata avrebbe preso la connotazione di una linea di controllo effettivo.

I Paesi non allineati, guidati dal primo ministro dello Sri Lanka, Sirimavo Bandaranaikei, cercarono di riunire i due contendenti al tavolo dei negoziati. Ma gli sforzi non diedero frutti e il problema rimase irrisolto.

La situazione al confine, restando incerta e indefinita, ha creato nel tempo margini per incidenti diplomatici e scontri.

Nell’ultimo quarto di secolo, i due Paesi non sono riusciti a definire lo spazio e ad accordarsi. Questo fallimento testimonia la mancanza di fiducia tra di loro.

È dunque l’assenza di questa linea che sta al centro del problema. Nonostante i diversi cicli di colloqui, tra vari gradi delle istituzioni, i due Paesi rimangono ai ferri corti, e il problema del confine continua a tormentare le loro relazioni. Un esempio alternativo a quest0, è il confine Sikkim-Tibet, delimitato nel 1896, ben definito e riconosciuto da entrambi i Paesi in questione.

Tuttavia, anche in quel caso c’erano ostacoli e frizioni: la Cina non aveva accettato la fusione del Sikkim con l’Unione indiana nel 1975. Fu il primo ministro Atal Bihari Vajpayee a fare in modo che questo cambiasse, durante una sua visita a Pechino nel 2003.

Ciò contribuì a prevenire qualsiasi incidente sulla barriera Sikkim-Tibet dove il confine è oggi saldamente delimitato. I governi successivi, con l’eccezione di quello di Vajpayee, scelsero di seguire la posizione assunta da Jawaharlal Nehru che aveva portato alla guerra del 1962. Diverse opportunità per risolvere la disputa furono dunque sprecate. Rahul Bedi, un analista della difesa con sede a Nuova Delhi, ha detto ad Al Jazeera che l’ultimo scontro sulla Lac è “grave e inquietante”. “È grave nel senso che si prevede che questi scontri si aggraveranno, non scompariranno di certo”.

Ciò che sembra necessario, a questo punto, è un nuovo sguardo alle vecchie politiche.

Nuovi approcci risolutivi devono essere portati al tavolo dei negoziati. È evidente, in un tale scenario, che l’India dovrebbe concedere alcuni luoghi che non sono mai stati in suo possesso, o dove la sua proprietà è solo nominale.

Questo tuttavia, potrebbe causare varie polemiche, tra cui l’accusa di “resa”. La questione è delicata, ma non impossibile. Un problema vecchio di oltre sei decenni che forse potrebbe risolversi con tanta chiarezza, buon senso e buona volontà.

(ANSA il 16 dicembre 2022) - Rishi Rajpopat, 27 anni, un dottorando indiano che studia a Cambridge ha risolto un enigma grammaticale su cui si sono interrogati per 2.500 anni gli studiosi di sanscrito, l'antica lingua utilizzata nei testi filosofici, scientifici e letterari del subcontinente. Il problema è contenuto nella Astadhyayi, una grammatica attribuita a Panini, maestro vissuto nel V secolo a.C., che trasforma la base e il suffisso di una parola in espressioni grammaticalmente corrette.

Rajpopat ha risolto il problema millenario dei conflitti che sorgono in presenza di due o più regole da applicare contemporaneamente, che spesso portava a risultati grammaticalmente errati. Le indicazioni di Panini erano state sinora interpretate secondo il criterio per cui, "in caso di conflitto tra due regole aventi la stessa forza, prevale quella immediatamente successiva nell'ordine seriale della grammatica"; Rajpopat ha avuto l'intuizione che Panini intendesse invece dire che "tra le regole applicabili al lato sinistro e a quello destro di una parola, va scelta quella applicabile al lato destro", e ha verificato che, con questo metodo si ottengono parole grammaticalmente corrette. 

L'intuizione, "arrivata dopo vari mesi di disperazione sulla possibilità di risolvere il millenario enigma", come ha raccontato lo studioso, potrebbe rivoluzionare gli studi del sanscrito.

Andrea Pasqualetto per corriere.it il 13 novembre 2022.

Mandeep ha lottato, ha rischiato e ha vinto. E ora le scendono le lacrime pensando alla montagna che ha scalato, contro tutto e contro tutti. Contro la sua famiglia, che l’ha data in sposa a uno sconosciuto, contro le tradizioni della terra dov’è nata, il Punjab, contro certi tabù e contro l’integralismo induista del matrimonio combinato.  

Costretta alle nozze a 23 anni nel villaggio indiano di Padhiana, dopo averne trascorsi 18 in Italia, si era ribellata e aveva denunciato per minacce padre, zio e marito chiedendo al giudice civile la cancellazione del matrimonio: «Perché il consenso è stato estorto con violenza», scriveva nel suo sfogo. Ora il Tribunale ordinario di Modena le ha dato ragione: «Si annulla il matrimonio contratto in India il 12 febbraio 2017, trascritto in Italia agli atti dello Stato civile di ... (in provincia di Modena, ndr)».

Sentenza storica, assicurano i suoi avvocati, che premia il coraggio di Mandeep e alimenta le speranze delle giovani donne costrette a sposare uomini che spesso neppure conoscono, come nel suo caso. «Non credevo fosse possibile, mi sembra di rinascere, è un sogno che si realizza perché ora posso sposare il ragazzo che amo», si è commossa lei quando il presidente del Tribunale ha letto la decisione del collegio giudicante: «Si accoglie la domanda dell’attrice», il matrimonio è sciolto. 

A costringerla al legame con quel giovane era stato soprattutto il padre, che aveva concordato tutto con la casta di appartenenza. Sull’altare di Padhiana l’ha impalmata un indiano del villaggio, per il quale avevano trattato i parenti. Non riuscì a evitare quel destino. 

«Perché ero minacciata di morte». Non si oppose, cioè, come fece la pachistana Saman Abbas che rifiutò il matrimonio e per questa difficile scelta perse la vita. No, Mandeep convolò e andò in viaggio di nozze insieme con i genitori e pure con i suoceri. Un incubo. Ma lì iniziò a dire no. «L’ho rifiutato, dopo quel viaggio non ho mai abitato con lui». 

Punto nell’orgoglio, il marito è tornato alla carica. Le ha provate tutte per riuscire a trattenerla, anche la violenza, ha raccontato lei. Tanto che si è convinta di sporgere denuncia. Non solo. Ha voluto portare le prove di quel che aveva messo nero su bianco, registrando le conversazioni del padre, in particolare quelle con il genero: «Gli diceva di tenermi in India e di bruciare il mio passaporto e anche di darmi fuoco», aveva dichiarato agli inquirenti.

A quel punto, la rottura con la famiglia era scritta. «Mi dissero che per loro ero morta». I genitori se ne andarono in Germania, lasciandola sola in questo paesino della provincia di Modena dove è arrivata da bambina. «Ma devo dire che poi si sono pentiti per quello che hanno fatto, hanno anche sofferto e adesso non ci sono più i problemi di prima».  

Mandeep ha così ritirato la querela nei confronti del padre e anche del cugino. «Non so se l’indagine penale è stata archiviata — spiega l’avvocato Davide Ascari che con il collega Edoardo Vitale la assiste —. 

Anche perché rimane in piedi quella nei confronti del marito, che per lei è comunque diventato un corpo estraneo. L’uomo è rientrato in India nel 2019. «L’annullamento del matrimonio ha efficacia anche lì, quindi se vuole può risposarsi». Lei invece è rimasta in Italia, ha un’occupazione fissa e questo fidanzato con il quale vorrebbe mettere su famiglia. «Finalmente Dio ha ascoltato la mia preghiera».

L'India non trova pace per Rajiv Gandhi. La Corte Suprema libera i sei assassini. Chiara Clausi su Il Giornale il 12 novembre 2022.

Una decisione che è stata come un terremoto. La Corte Suprema indiana ieri ha autorizzato la liberazione di tutti e sei i condannati all'ergastolo per l'assassinio del primo ministro Rajiv Gandhi, ucciso nell'attacco suicida di un commando terrorista Tamil nel maggio 1991. Era il 21 maggio a Sriperumbudur, pochi giorni prima delle nuove elezioni generali. Lì Rajiv ha trovato la sua fine: è stato assassinato dalle Tigri Tamil, l'organizzazione militare clandestina che lottava per l'indipendenza dei tamil dello Sri Lanka.

L'omicidio di Rajiv è stato visto come una rappresaglia dal gruppo ribelle per il coinvolgimento dell'India nella guerra civile della nazione insulare dopo che Delhi aveva inviato forze di pace lì nel 1987 quando Rajiv era primo ministro. Ieri la notizia-bomba: «Tutti liberi». I sei erano stati condannati all'ergastolo 30 anni fa per avere organizzato assieme alla suicida Dhanu, l'attentato durante una manifestazione elettorale in Tamil Nadu. Ora la Corte era stata chiamata a decidere sulla richiesta di libertà presentata da Nalini Srihan, la sola donna del gruppo, e da R.P. Ravichandran, ma i giudici hanno autorizzato la libertà anche per gli altri quattro. Nella sua ordinanza di ieri, la Corte Suprema ha affermato che la condotta dei prigionieri è stata «soddisfacente». I detenuti erano tra le 25 persone inizialmente condannate a morte nel 1998. La corte suprema ha poi confermato la condanna di solo sette di loro.

La condanna a morte di Nalini è stata commutata nel 2000 a seguito di una petizione di clemenza della vedova di Gandhi, Sonia Gandhi, che aveva fatto notare che la detenuta in quel momento era incinta. Il partito del Congresso, di cui Gandhi era il leader, ieri ha criticato con molta durezza la decisione della corte di liberare i detenuti e la reazione, netta e decisa, è arrivata.

«La scelta è totalmente inaccettabile e completamente erronea. Il partito del Congresso la trova del tutto insostenibile», ha affermato il portavoce del partito Jairam Ramesh. «È davvero un peccato che la Corte Suprema non abbia agito in consonanza con lo spirito dell'India su questo tema», ha poi tuonato. Se il Congresso ha sempre scelto la linea della condanna dura, Sonia e i figli, da tempo, hanno optato per la clemenza. E il silenzio in cui si sono chiusi ieri l'ha riconfermata. Dopo che Sonia intervenne perché la condanna a morte per Nalini fosse trasformata in ergastolo, nel 2008, Priyanka, la figlia, con un gesto audace andò addirittura ad incontrarla in carcere. «Volevo chiudere per sempre con il dolore che ha segnato tutta la mia vita». E ha aggiunto: «Non credo alla rabbia, all'odio e alla violenza, non voglio che questi sentimenti condizionino la mia vita». Ma il partito, che poche settimane fa ha eletto, per la prima volta dopo 20 anni, un presidente estraneo alla famiglia Gandhi, resta su una posizione diversa: «Sonia Gandhi ha diritto alle sue convinzioni personali», ha ribadito il portavoce. «Ma l'assassinio di un premier è una questione istituzionale, che va al di là delle scelte private e coinvolge la sovranità, l'integrità e l'identità dell'intera nazione. La Corte ha sbagliato».

Un ponte in India è crollato uccidendo 141 persone. su Il Domani il 31 ottobre 2022

Continua a salire il bilancio del ponte di epoca coloniale appena riaperto che è crollato portando con sé una parte delle circa 350 persone che lo stavano percorrendo. Le autorità locali hanno annunciato indagini, ma c’è il sospetto che l’azienda che gestisce il ponte lo abbia riaperto dopo recenti lavori senza aver eseguito i controlli di sicurezza necessari

È salito a 141 il bilancio dei morti per il crollo del ponte sospeso ieri nello stato indiano del Gujarat, mentre 100 feriti altri restano in ospedale. I sopravvissuti sono circa 170. 

Almeno dodici delle vittime erano bambini. I soccorritori, che stanno ancora lavorando, temono che dal fiume emergeranno i corpi di altre persone annegate: al momento del crollo sul ponte sospeso si trovavano circa 350 persone.

Alcuni video in diretta hanno mostrato centinaia di altri aggrappati alla struttura per cercare di farsi strada verso la salvezza. Il ponte sospeso di epoca coloniale lungo 230 metri era stato riaperto quattro giorni fa, dopo alcune riparazioni. I funzionari locali hanno detto che il ponte ha ceduto perché era sovraccarico di turisti accorsi per la stagione dei festival indù.

LE CAUSE DEL CROLLO

Secondo i media locali, c’è il rischio che l’azienda privata che gestisce il ponte abbia riaperto il ponte senza che fossero eseguiti i controlli di sicurezza necessari. Le autorità dello stato hanno annunciato indagini sul caso. Il governo locale ha formato una commissione speciale di cinque persone. 

Il quotidiano The Hindu informa che tutte le manifestazioni politiche in corso, comprese quelle del premier Narendra Modi e la marcia di Rahul Gandhi sono state sospese in segno di lutto. Modi, che non è riuscito a trattenere le lacrime mentre in un video porgeva le condoglianze alle famiglie. Il premier è originario della zona ed era in visita per una tre giorni. Ha promesso alle famiglie delle vittime sostegno economico. 

Consegnata la prima portaerei indiana costruita “in casa”. Paolo Mauri il 5 Settembre 2022 su Inside Over.  

La Vikrant, la prima portaerei indiana interamente costruita autonomamente, è stata consegnata alla flotta venerdì 2 settembre. Alla presenza del primo ministro Narendra Modi, l’unità ha ricevuto anche la nuova bandiera della Marina Indiana, il cui disegno rompe definitivamente col passato coloniale del Paese eliminando la croce di San Giorgio rossa in campo bianco che caratterizza le unità da guerra britanniche.

Si tratta quindi di un giorno storico per l’India, che dimostra la crescente abilità del Paese nella produzione industriale bellica autoctona, e una pietra miliare nel percorso verso l’”Atmanirbhar Bharat”, che si può tradurre come “India autosufficiente”, ovvero un piano promosso dal governo Modi riguardante la visione economica e lo sviluppo del Paese. L’India intende, con questo progetto, avere una partecipazione più ampia nell’economia mondiale, perseguendo politiche che siano efficienti, competitive e resilienti, e soprattutto autosufficienti. Nel settore della Difesa, per perseguire l’autosufficienza, ha dato enfasi alla cooperazione tra il settore pubblico e quello privato: qualcosa che era stato avviato già nel 1992 e che non è mai stato raggiunto appieno. In ogni caso oltre la metà dell’equipaggiamento militare indiano è di origine sovietica o russa e anche le recenti acquisizioni di nuovi cacciabombardieri hanno interessato un produttore straniero: Nuova Delhi ha infatti ordinato dalla Francia un lotto di 36 Rafale per far fronte a un’emergenza individuata nel divario tecnologico (e numerico) che la separa dal suo rivale regionale, la Cina.

Rivolgendosi al pubblico presente sullo scalo dei cantieri navali Cochin nel Kerala, il primo ministro ha affermato “ogni indiano sta assistendo all’alba di un nuovo futuro” e “alla manifestazione del sogno dei combattenti per la libertà che immaginavano un’India capace e forte”. I toni nazionalistici della propaganda del primo ministro hanno anche sottolineato la “liberazione da ogni traccia di schiavitù” con l’introduzione della nuova bandiera e l’apertura alle donne della marina militare: Modi ha infatti detto che “con l’immenso potere dell’oceano, lo sconfinato potere femminile, sta diventando l’identità della nuova India”, aggiungendo anche che “non ci saranno confini o restrizioni per le figlie dell’India”.

Passando a tematiche più pragmatiche e contingenti, il primo ministro ha commentato la mutevole situazione geostrategica, affermando che in passato le preoccupazioni per la sicurezza nella regione indo-pacifica e nell’Oceano Indiano sono state a lungo ignorate. Oggi, però, quest’area è “una delle principali priorità di difesa del Paese” ha affermato, pertanto Nuova Delhi sta muovendosi a 360 gradi aumentando il budget per la marina e le sue capacità.

Il ministro della Difesa indiano, Raksha Mantri Shri Rajnath Singh, ha definito la messa in servizio della portaerei Vikrant “una testimonianza della forte determinazione del governo di garantire la sicurezza della nazione nei prossimi 25 anni” aggiungendo che è responsabilità della marina garantire gli interessi marittimi del Paese per un commercio marittimo ininterrotto e che questa unità è una “garanzia per i Paesi stranieri amici che l’India è pienamente in grado di soddisfare le esigenze di sicurezza collettiva della regione” per un “Indo-Pacifico libero, aperto e inclusivo”. Il capo di Stato maggiore della marina, l’ammiraglio Hari Kumar, ha espresso la determinazione della forza armata al suo comando affinché l’India diventi completamente autosufficiente entro il 2047, il che significherà avere navi, sottomarini, aerei, navi senza pilota e sistemi “made in India” espressione di una forza credibile, coesa e capace di affrontare le sfide del futuro.

Il taglio della prima lamiera della portaerei Vikrant era stato effettuato nell’aprile 2005, e al fine di promuovere la spinta verso la produzione nazionale, l’acciaio usato per l’unità proviene da un programma di cooperazione tra la Steel Authority of India Limited, il Defense Research and Development Laboratory e la marina indiana. La Vikrant è stata varata ad agosto 2013, per poi andare incontro a un lungo periodo di ultimazione dei lavori, prove in mare e certificazione dei sistemi che si è concluso solamente di recente.

L’unità è lunga 262 metri e larga 62, per un dislocamento a pieno carico di circa 43mila tonnellate e capace di sprigionare una velocità massima di 28 nodi. La nave dispone di circa 2200 compartimenti, progettati per un equipaggio di circa 1600 persone che includono cabine specializzate per ospitare donne ufficiali e marinai. La nave è progettata con un altissimo grado di automazione per le operazioni di macchinari, navigazione e sopravvivenza. L’unità sarebbe in grado di operare uno stormo di velivoli imbarcati composto da 30 cacciabombardieri MiG-29K, elicotteri multiruolo Kamov Ka-31, Mh-60R, oltre a elicotteri leggeri avanzati e velivoli da combattimento leggeri di produzione locale. La Vikrant utilizza il sistema Stobar (Short Take-Off But Arrested Recovery) per l’impiego dei velivoli ad ala fissa, esattamente come per altre unità di medio tonnellaggio quali le cinesi Lianoning e Shandong, e la russa “Admiral Kuznetsov”. Pertanto anche la portaerei indiana presenta uno ski-jump che occupa tutta la larghezza della prua della nave, insieme a tre cavi di arresto nella parte poppiera del ponte di volo. La Vikrant risente molto del disegno delle unità di fabbricazione russa, di cui l’India ha in servizio la Vikramaditya (ex Baku nella marina sovietica): l’isola, situata a dritta, è pertanto massiccia ed il ponte di volo presenta un’angolazione sul lato sinistro. La nave ospita a bordo un complesso medico con le più moderne attrezzature, riflettendo quindi l’adesione dell’India alla dottrina “dual use” come avviene anche in alcune marine occidentali, tra cui la nostra. La propulsione è data da quattro turbine a gas da 22 Mw ciascuna che azionano due assi, mentre la generazione di elettricità è data da 8 motori diesel da 3 Mw. L’autonomia, stimata, è pertanto di 7500 miglia nautiche.

Sarà particolarmente interessante vedere quali velivoli userà il gruppo aereo della portaerei, e più in generale quali saranno quelli della marina indiana: attualmente i registri fanno segnare la presenza di 45 MiG-29K, insufficienti per due unità navali anche considerando che non tutti sono in linea di volo. Recentemente abbiamo assistito a un test, a terra, dove F/A-18E “Super Hornet” della U.S. Navy hanno effettuato prove di lancio da uno ski-jump in una base aerea indiana: il 20 luglio scorso due “Super Hornet” ha completato con successo i test dimostrativi presso la base di Hansa a Goa. I test miravano a mostrare la capacità dell’F/A-18 di operare in modo efficace e sicuro da portaerei utilizzanti il sistema Stobar. Questo test è stato successivo a un primo, avvenuto a dicembre negli Stati Uniti presso la base di Patuxent River, effettuato con le stesse modalità. Nuova Delhi, quindi, potrebbe integrare i suoi MiG-29 dell’aviazione navale con gli F/A-18, in considerazione delle pressioni statunitensi per evitare che si affidi ulteriormente a Mosca per la fornitura di armamenti, tra cui rientra il ricorso al Caatsa, il provvedimento Usa che sanziona quegli Stati che acquistano armi da una “lista nera” di Paesi tra cui c’è anche la Russia.

Orbassano, morta la madre di Sonia Gandhi. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Paolina Predebon aveva 98 anni. Da più di venti la figlia guida l’Indian National Congress.

È morta a Orbassano, all’età di 98 anni, Paolina Predebon, madre di Sonia Maino Gandhi, che da oltre 20 anni guida l’Indian National Congress. È praticamente impossibile (anche se qualche anziano concittadino ci spera) che la vedova del defunto primo ministro indiano Rajiv Gandhi possa essere presente al funerale della madre, che si svolgerà oggi pomeriggio. Da moltissimi anni, anche per questioni di sicurezza, Sonia Maino Gandhi non ritorna in provincia di Torino, dove vivono ancora alcuni familiari. E finora non è stato preso nessun contatto con l’amministrazione locale e le forze dell’ordine.

Chi è Sonia Gandhi

Sonia Maino è cittadina indiana dal 1983, ma è nata a Lusiana, in provincia di Vicenza, nel 1946. Si trasferì all’età di 3 anni a Orbassano, dove suo padre Stefano avviò un’impresa edile. Elementari a Sangano, collegio a Giaveno e poi la Lennox Cook School di Cambridge. In Inghilterra incontrò Rajiv, il nipote di Jawaharlal Nehru, padre dell’India indipendente e figlio di Indira Gandhi, la prima donna a ricoprire la carica di primo ministro, assassinata nel 1984. I due si sposarono nel nel 1968 e fino al 1998 Sonia Maino non ha mai ricoperto incarichi politici ufficiali. Dopo la morte del marito, ucciso in un attentato nel 1991, si era ritirata a vita privata, ma dopo le insistenze della famiglia Nehru-Gandhi, divenne presidente dell’Inc. Nel 2013 la rivista Forbes l’aveva inserita nella classifica delle prime 10 donne più potenti del mondo, dietro ad Angela Merkel e davanti a Michelle Obama. Ancora oggi, alla guida del partito di opposizione, è considerata una delle personalità più influenti in India. E non solo.

I funerali

Paolina Predebon viveva a Orbassano in via Bellini e il funerale verrà celebrato nella chiesa di San Giovanni Battista, alle 14. La salma verrà pii tumulata nella tomba di famiglia nel cimitero di Orbassano.

Da blitzquotidiano.it il 24 agosto 2022.

Un indiano sta spostando la sua casa di due piani per ricollocarla a 150 metri dalla sua posizione originaria. Lo spostamento avviene tre centimetri alla volta. Sukhwinder Singh, un agricoltore del Punjab, 52 anni, spiega al quotidiano The Indian Express di avere preso questa decisione per evitare la demolizione. 

La sua casa, costruita nel 2019, si trova infatti lungo il tracciato della superstrada in costruzione che collegherà Delhi alla regione del Jammu e Kashmir.

La casa è costata 180mila euro

Singh ha detto di avere speso circa 180mila euro per costruirla. “È la mia casa dei sogni: l’ho progettata io stesso, in tutti i dettagli”, spiega. “Il governo mi ha offerto un risarcimento, ma non voglio costruire nulla da capo“. Non si sa, tuttavia, quanto costerà lo spostamento, per il quale stanno lavorando 20 operai. 

L’India ha visto raramente imprese simili: nel 2017 una casa fece notizia quando venne trasferita, pezzo a pezzo, dallo stato del Kerala e ricostruita a Delhi,2.414 km più a nord.

India, scomparsa e riapparsa dopo 9 anni: "Mi hanno rapita perché...", caso choc. Libero Quotidiano il 23 agosto 2022

Scomparsa e riapparsa dopo 9 anni: è successo in India, dove una bambina - rapita quando era piccola - è riuscita a tornare dalla sua famiglia. Si tratta di Pooja Gaud, la ragazza oggi 16enne di cui si erano perse le tracce il 22 gennaio del 2013. Un uomo e una donna l'avevano adescata davanti alla sua scuola elementare di Mumbai offrendole un gelato. Lo ha raccontato lei stessa, parlando della traumatica esperienza. La coppia - Harry D'Souza e sua moglie Soni - prima avrebbe minacciato la bambina con le armi, poi - dopo averla caricata in macchina - l'avrebbe portata nel Karnataka.  

"Ho smesso di andare a scuola. Mi avevano rapita perché volevano un figlio e non riuscivano ad averne uno. Quando Soni è rimasta incinta, le cose per me sono peggiorate notevolmente. Hanno iniziato a picchiarmi e a farmi lavorare", ha raccontato Pooja alla stampa internazionale. Dopo l'arrivo del primogenito, tanto desiderato, la coppia ha costretto la bambina a trasferirsi con loro a Bombay. "Ero sempre chiusa in casa. A volte mi picchiavano con una cintura, mi prendevano a calci e a pugni. Una volta mi hanno colpito così forte che la mia schiena ha iniziato a sanguinare. Dovevo svolgere i lavori domestici e lavorare anche fuori casa". 

Una notte la ragazza sarebbe riuscita a prendere il telefono dei suoi rapitori: "Ho scritto il mio nome su Youtube e ho visto alcuni video riguardanti il mio rapimento. Nei filmati erano riportati dei numeri di telefono da contattare". Ad aiutarla, la collaboratrice domestica Pramila Devendra, che conosceva la sua storia. Un giorno l'adolescente è uscita per andare a lavorare sorvegliata dalla domestica. Una volta lontane dall'abitazione, la donna l'avrebbe aiutata a prendere il treno per Mumbai. "Non credevo di poter ritrovare mia figlia. Avevo perso ogni speranza, ma gli dei sono stati gentili con me", ha raccontato sua mamma tra le lacrime. Il padre invece è morto quattro mesi prima del suo ritorno a casa. Arrestati i due rapitori.

Attraversa un ponte dal Nepal e non paga una tassa di 40 euro, 18enne italiano arrestato in India. Redazione online su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022

Federico Negri, alessandrino, rischia da 2 a 8 anni di carcere. Il legale nominato dalla famiglia: «Il giovane non sapeva esattamente dove si trovasse»

Ha attraversato un ponte che collega il Nepal all’India a metà a luglio ed è stato arrestato dalla polizia dello Stato dell’Uttar Pradesh. Federico Negri, classe 1994, di Pozzolo Formigaro (Alessandria), centro alle porte di Novi Ligure, dopo un viaggio di due anni e mezzo prima in Cina, poi in Nepal, stava rientrando in Italia.

«Sono stato nominato dalla famiglia per aiutare Federico - fa sapere l’avvocato alessandrino Claudio Falleti, referente Penelope Piemonte -. Da metà luglio, coordinandomi con un collega indiano e il collaboratore che parla indi, stiamo seguendo l’evoluzione della situazione processuale. Federico non sapeva esattamente dove si trovasse e la polizia contesta il mancato pagamento di una tassa di 40 euro, quindi una presenza non autorizzata sul territorio, con il rischio dai 2 agli 8 anni di carcere». Il pool legale sta seguendo quotidianamente gli sviluppi anche con la Farnesina, «alla quale chiediamo ancora maggiore sostegno per aiutare Federico a rientrare a casa».

Gino Fortunato per “la Stampa” l'11 agosto 2022.

«Ciao mamma, ho tanta voglia di tornare a casa. In questo momento sto attraversando un ponte e fra poco entrerò in India, tutto bene non preoccuparti».

Federico Negri, un ragazzo di 28 anni di Pozzolo Formigaro in provincia di Alessandria, non sapeva che quelle sarebbero state le ultime parole rivolte a un familiare prima di essere arrestato insieme ad altre 6 persone delle quali non è ancora stata resa nota la nazionalità. 

Ora sono tutte rinchiuse in un tetro carcere dell'India, in precarie condizioni igienico-sanitarie, con l'accusa di «ingresso in India da irregolari». Sarebbe bastato pagare al confine una semplice tassa, equivalente a circa 40 euro, per non vivere questa esperienza surreale. Ma nessuno ne era a conoscenza: una leggerezza pagata a un prezzo molto caro.

Il giovane è un esperto di viaggi nei Paesi orientali. Ne ha visitati addirittura 14, fermandosi per lunghi periodi, svolgendo lavori che gli procuravano vitto, alloggio e anche qualche spicciolo. Ma a Federico bastava poco per vivere in quei luoghi che lo avevano tanto affascinato, probabilmente dopo aver frequentato in Italia un dojo di Qwan ki do, l'arte marziale cino-vietnamita che l'aveva fatto sognare di raggiungere prima o poi Vietnam, Cambogia, Nepal, Tibet, India e tante altre nazioni di quel continente. 

Dopo i 20 anni cominciò a concretizzare i suoi sogni, scegliendo di vivere da persona libera e lavorando come imbianchino, contadino o cuoco. «Ha fatto persino il babysitter, una volta in Cambogia - ricorda mamma Silvana -. Federico si adattava a tutto e, prima di partire, sapeva già cosa sarebbe andato a fare, perché contattava via internet persone del luogo». Quando era in Asia, alternava il lavoro a lunghe escursioni. 

Ma l'ultima avventura ha avuto un fuoriprogramma spiacevole. Federico non sapeva che, attraversando quel ponte di collegamento fra il Nepal e l'India, si sarebbe poi trovato nel distretto di Maharajganj, dove ci sono leggi severe sugli irregolari. Lo aveva fatto su consiglio di un amico nepalese, che gli aveva suggerito in buona fede di andare ad imbarcarsi in India, seguendo quel percorso. Attraversato il ponte, dopo una manciata di minuti percorsi a piedi, in agguato c'erano le autorità di polizia indiane. Lui e le persone che lo accompagnavano, non avendo il permesso per transitare, sono state arrestate e da allora non sono più uscite dal carcere, nemmeno dietro la proposta di pagamento di una cauzione. 

«Federico aveva con sé i soldi per pagarla - dice il padre Guido Negri -. Non abbiamo però ben chiaro cosa sia realmente accaduto e, soprattutto, quali siano le condizioni di salute di mio figlio ,perché le carceri indiane non sono certo alberghi».

Segue il caso l'avvocato Claudio Falleti, di Alessandria. «Mi sto coordinando con un collega di lingua indi e seguiamo l'evoluzione processuale che evidenzia la sua presenza non autorizzata sul territorio indiano, con il rischio di una condanna dai 2 agli 8 anni di carcere - racconta il legale -. Il fermo è avvenuto il 5 luglio e nel frattempo ci sono state tre udienze.

La prima il 16 luglio, la seconda il 2 agosto nella quale confidavamo nel rilascio a seguito del pagamento della cauzione, l'ultima tre giorni fa che ha purtroppo confermato lo stato d'arresto. Il ministero degli Esteri è debitamente informato ed è aggiornato sulla vicenda, ma chiediamo maggior sostegno per aiutare Federico a rientrare a casa». La notizia è trapelata oltre un mese dopo l'arresto. «Questo perché inizialmente speravamo in una soluzione favorevole in tempi brevi - prosegue l'avvocato Falleti -. L'obiettivo era appunto di fissare una cauzione, ecco perché in accordo con la famiglia avevamo ritenuto non necessario dare eco alla vicenda.

Ma, nonostante i presupposti che parevano decisamente buoni, il giudice l'ha trattenuto in cella. Dopo l'ultima udienza, le speranze di scarcerazione sono per il momento finite e quindi abbiamo reso pubblico il caso, sollecitando maggiormente la Farnesina. Va sottolineato che Federico Negri è incensurato e non si è mai macchiato di alcun reato: in Italia e all'estero ha sempre lavorato onestamente, non ci sono i presupposti per un trattamento del genere».

India, beve acqua da un fiume sacro per dimostrare che non è inquinata: ricoverato primo ministro del Punjab. Il Domani il 22 luglio 2022

Poche ore prima del suo ricovero, Mann si è fatto riprendere in video mentre beveva un bicchiere d’acqua preso direttamente da Kali Bein, un piccolo fiume considerato sacro, per dimostrare che non sia inquinato.

Due giorni dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua da Kali Bein (un ruscello sacro a Sultanpur Lodhi) per provare che non fosse contaminata, secondo i media indiani il primo ministro del Punjab Bhagwant Mann è stato ricoverato all’Indraprastha Apollo Hospital di Delhi.

LA VICENDA

Il primo ministro del Punjab ha sentito un forte mal di stomaco mentre si trovava nella sua residenza ufficiale a Chandigarh nella serata di martedì ed è stato trasportato in aereo e ricoverato all’ospedale di Delhi. 

Fonti dell’ospedale hanno riferito al Tribune India che il primo ministro è arrivato nelle prime ore di mercoledì lamentando disturbi addominali ed è stato tenuto sotto osservazione da un team multidisciplinare di esperti medici di alto livello.

Dopo un’intera giornata in ospedale, accompagnato da sua moglie, Bhagwant Mann è stato dimesso questa mattina. L’ufficio del primo ministro non ha confermato il ricovero in ospedale, anche se un funzionario ha dichiarato che Mann è sano e vegeto e che da giovedì è già tornato ai suoi appuntamenti.

Poche ore prima del suo ricovero, Mann si è fatto riprendere in video mentre beveva un bicchiere d’acqua preso direttamente da Kali Bein, un piccolo fiume considerato sacro, per dimostrare che non sia inquinato e che le autorità locali avevano portato a termine la sua pulizia.

Carlo Pizzati per “la Repubblica” il 23 luglio 2022.

È la prima presidente che viene dalle popolazioni tribali radicate in India da prima di tutte le migrazioni storiche. Sono i più poveri, quelli alla base dell'imponente piramide di caste, i diseredati, i maltrattati. Vogliono preservare le loro lingue, gli usi e i costumi. Ora avranno un'alleata in più. Una di loro.  

La neoeletta presidente indiana Droupadi Murmu viene da Uparbeda, paesino dell'Odisha, al confine con la foresta del Jharkhand, 4 case sperdute, dove si cucina all'aperto, l'acqua si pompa a mano, l'elettricità te la sogni. Qui nasceva, 64 anni fa, la candidata del premier Narendra Modi, che in questo modo attira i voti del 10% della popolazione indiana, i tribali, appunto. 

Non è un posto di potere, la presidenza indiana ha un ruolo più che altro cerimoniale. Ma è un gesto simbolico importante, un'abile mossa strategica per il partito al potere, il Bharatiya Janata Party. Murmu ha vinto con una valanga di voti, anche alcuni dell'opposizione. È un premio enorme per questa signora della tribù dei Santhal, leggendaria per essersi ribellata al colonialismo britannico a metà del XIX secolo. 

Non è la prima donna presidente. Fu Pratibha Patil, dal 2007 al 2012, a vincere quel primato, ma è la prima donna "tribale" ad occupare la residenza di Rashtrapati Bhavan. «Sarà una presidente fenomenale che rafforzerà il cammino dell'India verso lo sviluppo», ha twittato Modi. 

Figlia di un coltivatore di riso, da bimba marciava per chilometri fino a scuola. La notte studiava alla luce di una lampada al kerosene. Gli studi le piacquero così tanto che diventò insegnante. Poi entrò in politica con i fondamentalisti indù del Bjp.

Nel 2015, divenne governatrice del Jharkhand, dove la povertà è estrema, la condizione delle donne una delle peggiori al mondo. Murmu è restata al comando fino all'anno scorso. Schiva e dimessa, in realtà non voleva questa carriera, come spiegò nel 2016: «Mi era sembrato, all'epoca, che entrare in politica non fosse visto di buon occhio. Soprattutto per le donne. Perché nella società alla quale appartenevo pensavano che le donne non dovessero occuparsi di amministrazione pubblica».

Ed eccola, invece, a rappresentare un miliardo e quasi 400 milioni di indiani. Anche se non tutti si sentono rappresentati da questa nuova carica. Alcune associazioni puntano il dito sulla «dura realtà che la promozione di leader Dalit e delle caste più basse è solo una strategia ben congegnata dal Bjp». Eleggere candidati dalle comunità oppresse, dicono i critici all'opposizione, «crea solo l'illusione dell'inclusività, quando invece è una mossa per espandere la base politica tra le caste non-dominanti con l'intento di raccogliere voti. È ipocrisia». Ma funziona. 

«Il Bjp vuole ampliare la sua base politica», commenta un parlamentare "tribale" del Bjp, Salkhan Murmu «e noi vogliamo maggior riconoscimento. Loro vincono politicamente, noi preservando il nostro modo di vivere». Tra gli elettori che interpretano il linguaggio dei simboli, la vittoria della presidente tribale è una grande occasione per far festa. "Ci stiamo preparando a ballare al ritmo dei tamburi!" ha dichiarato Bhakta Tudu, cugina della neoeletta. «Ho il cuore pieno di gioia». 

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 12 luglio 2022.

In India, un bambino nato con quattro gambe e quattro braccia, ha scatenato lo stupore degli abitanti del piccolo villaggio, lo definiscono un “miracolo della natura” ed è stato persino considerato la “reincarnazione di Brahma, il Dio con otto arti“. 

Bambino nasce con 4 gambe e 4 braccia, è considerato la reincarnazione di Brahma

Secondo quanto riferisce il Mirror, il bambino – che alla nascita pesava circa tre kg – ha quattro arti in più che sporgono dallo stomaco. Il piccolo è nato allo Shahabad Community Health Center ad Hardoi, un distretto nel nord dell’India, nello stato dell’Uttar Pradesh. 

La mamma Kareena, che non ha rivelato il cognome, dopo essere entrata in travaglio è stata immediatamente portata in ospedale. Nonostante la rarità del caso da un punto di vista medico, mamma e bambino sembrano stare bene.  

Quando nella zona si è diffusa la notizia della nascita, secondo i media locali le persone del posto si sono recate in ospedale per vedere il “dio dagli arti multipli”. 

Non è il primo caso in India

Non è la prima volta che questo tipo di nascita scatena l’eccitazione della gente. All’inizio di quest’anno, un altro bambino nato con quattro braccia e gambe è stato idolatrato dalle persone del posto che pensavano fosse un’incarnazione del dio Hindu Brahma, sempre raffigurato con otto arti.

Dopo il parto, il 17 gennaio, una folla di visitatori si è recata al Sadar Hospital, nell’India orientale, per dare un’occhiata al neonato. Il bambino, non è ancora noto il genere, è diventato immediatamente una celebrità locale.

(ANSA il 17 giugno 2022) - Gravi disordini in varie parti dell'India durante manifestazioni di protesta contro Agni path, il nuovo programma di leva volontaria lanciato dal governo Dopo la presentazione due giorni fa, da parte del Ministro alla Difesa, ieri il ministro all'Interno ha annunciato che gli Agniveers, i giovani che si saranno formati nell'esercito durante i 4 anni previsti dal format avranno la priorità nei concorsi per il corpo di Polizia statale (central Armed Police Forces) e per quello degli Assam Rifles. I governatori degli stati dell'Uttar Pradesh, del Madhya Pradesh, dell'Haryana e dell'Assam, hanno aggiunto che gli "Agniveers" avranno una corsia preferenziale per i posti nell'amministrazione pubblica. Questi annunci hanno scatenato furiose proteste, con incidenti violenti nello stato dell'Assam e in Bihar, dove, questa mattina un treno è stato dato alle fiamme dai manifestanti. In Bihar migliaia di giovani, in gran parte disoccupati, hanno invaso binari e stazioni e paralizzato il traffico ferroviario al grido di "lavoro o morte": secondo loro, alla fine dei 4 anni, solo il 25 per cento dei militari volontari avrà un'occupazione fissa. Il governo continua a sostenere l'iniziativa, definita "un cambio di paradigma storico per l'esercito indiano" e ha già messo online la piattaforma per le prime 45mila candidature.

Da tgcom24.mediaset.it il 10 luglio 2022.  

Un uomo per 41 anni si è finto il figlio di un ricco proprietario terriero. L'impostore aveva assunto l'identità di Kanhaiya Singh, scomparso nel 1977 nello Stato del Bihar, India nord-orientale, mentre tornava a casa da scuola. La storia è stata ricostruita da Soutik Biswas in un articolo per la Bbc. La condanna arriva dopo quasi quattro decenni, dichiarato colpevole di furto d'identità, imbroglio, associazione a delinquere, dovrà scontare sette anni di prigione.

La storia - All'epoca dei fatti la famiglia denunciò immediatamente la sparizione del figlio ma le ricerche non portarono a nulla. Kanhayia era il primogenito del benestante Kameshwar Singh, influente proprietario terriero nel distretto di Nalanda, che dopo la scomparsa cadde in depressione. La disperazione lo spinse a recarsi da stregoni, indovini e ciarlatani di ogni genere. Un giorno uno sciamano del villaggio gli annunciò che suo figlio era vivo e che presto sarebbe ritornato. 

Nel settembre del 1981, in un villaggio vicino a quello del 16enne scomparso, arrivò un giovane. Il ragazzo sosteneva di essere "figlio di una persona importante" ma per vivere cantava e medicava per le strade. 

Le voci arrivarono presto a Kameshwar Singh, ormai anziano e quasi cieco si convinse che quello fosse davvero suo figlio. La notizia giunse anche alla moglie di Singh, Ramsakhi Devi. La madre si rese subito conto che quell'uomo non era chi diceva di essere. Lo denunciò per furto d'identità e l'impostore trascorse un mese in prigione. Kameshwar Singh, però, era irremovibile: quel giovane era il primogenito scomparso.

La farsa - Dayanand Gosain, questo è il vero nome del truffatore, dopo quasi quattro decenni è stato dichiarato colpevole di furto d'identità, imbroglio, associazione a delinquere, con una condanna in prigione di sette anni. 

Come un moderno Mattia Pascal di Pirandello, Gosain nel corso del processo ha cercato di "uccidere" la sua identità originale con un certificato falso. Non ci sono dubbi sull'inganno, l'uomo aveva rifiutato di fornire un campione del Dna da confrontare con quello della figlia di Singh.

Negli anni in cui Gosain ha indossato i panni di Kanhayia Singh ha frequentato l'università, si è laureato, si è sposato, ha votato, ha ottenuto un porto d'armi e ha amministrato le terre di "suo padre". Si è anche costruito una famiglia, la quale si rifiuta di credere a tutta questa storia.

Del vero Kanhaiya Singh, ancora nessuna traccia. 

L'India. Foto e testo di Marino Da Costa. Il Giornale il 30 maggio 2022.

Questo reportage è tra i vincitori del corso di fotografia della Newsroom Academy con Ivo Saglietti

Ho pensato che visitare l’India mi avrebbe offerto un punto di vista diverso, un modello culturale nuovo con regole nuove. Nel cercare il senso, l’ordine delle cose, ho scoperto che solo perdendolo potevo capirlo più profondamente. Ho trovato nelle parole di Fabrizio De André il sottotitolo del mio progetto prima ancora di averlo realizzato: “Essere anarchici significa darsi delle regole prima che te le diano gli altri”. Del resto, sono state proprio le fotografie del mio viaggio a farmi comprendere a pieno il significato di quella frase. L’India è un luogo che ha stravolto il mio modo di fare fotografia: il tempo, il diaframma e la composizione hanno preso forma nell’istante dell’intuizione, sgretolando lunghe riflessioni, calcoli e programmi troppo lenti per cogliere l’essenziale. Ho scoperto con sorpresa che la più importante abilità era quella di tenere le antenne dritte, di vedere e fermare al volo tutto quello che cambia in un attimo. In India mi è capitato perlopiù di fotografare l’imprevedibile, mettendo da parte le aspettative.

L’imprevedibilità dell’India è qualcosa che non si capisce finché non si sperimenta direttamente. Accanto a scatti studiati e persone talvolta in posa, ci sono le pause. Quelle che in altri contesti sono delle attese di un avvenimento, divengono in un istante l’evento stesso. Un caldo e monotono pomeriggio si può animare non appena alcuni ragazzi iniziano a volteggiare sopra le teste dei turisti. Ma non è solo il tempo ad essere inaspettato, spesso lo sono anche i luoghi. Ne è un esempio uno dei monumenti simbolo dell’India, il Taj Mahal: grazie alla sua perfetta simmetria architettonica, ognuno dei quattro lati propone una visione identica a quella della facciata principale. I numerosi templi riescono di frequente ad unire sacro e profano. Come nei pressi di Jaipur, dove il tempio di Galta Jil cede la sacralità delle sue vasche, per l’istante di uno scatto, a qualcuno che va in cerca di un bagno fresco. Ma non è escluso che la tradizione della preghiera coesista qualche volta con la moderna vanità.

È sorprendente realizzare con quanta facilità si possa passare da un vicolo quasi deserto a una strada piena di persone, veicoli e spesso anche animali. L’affollamento, a volte, è anche relativo alle idee delle persone e non è strano vedere degli elettricisti improvvisati che, di punto in bianco, si mettono all’opera senza prestare attenzione alle modalità, ai possibili rischi o pericoli.  

Se gli umani appaiono spesso incuranti della folla o del traffico, gli animali mostrano spesso comportamenti che si potrebbero definire innaturali, se si trovassero in natura. Avendo a che fare con un ambiente molto caotico, sia come affollamento che come rumori, cercano la quiete in un modo bizzarro; non si allontanano dai mezzi di trasporto che quella stessa quiete la rendono spesso impossibile, ma semplicemente cambiano prospettiva.

Questo talvolta ispira anche gli uomini. I cani, molto numerosi sia nelle città sia nelle zone di periferia, sono molto poco addomesticati. Spesso sono liberi. Anche in questo caso può accadere qualcosa di inaspettato: il rapporto tra l’uomo e il cane non è quello più comune, vale a dire l’animale che viene istruito dal padrone. Viceversa, può capitare che sia l’uomo ad imitare il comportamento dell’animale e scoprirne il senso.

D’altra parte, l’uomo fa spesso azioni il cui senso non appare immediatamente. Come trasformare in pochi istanti il pozzo del centro città in una gara di tuffi. Ne è un esempio il pozzo di Jodhpur, costruito in modo da poter raggiungere l’acqua con le scale, indipendentemente dall’altezza del livello dell’acqua. Nonostante questa organizzazione della struttura in più livelli, ci sono molti ragazzi che decidono di tuffarsi lanciandosi da diversi metri di altezza. Molti restano feriti a causa di un salto sbagliato.

Le acrobazie sono qualcosa che intrattiene fin da piccoli: non serve avere un’attrezzatura particolare, si possono fare da soli o in compagnia e, soprattutto, si possono fare improvvisando. Questo è infatti uno dei giochi che i bambini fanno nei parchi e nelle piazze. In quelle stesse piazze un mercato può prendere improvvisamente vita, anche di notte. E il gioco dei bambini lascia spazio al gioco degli adulti, fatto di trattative, compravendite, persuasione.

Nei numerosi mercati ciò che balza all’occhio non è solo la varietà di prodotti venduti, ma le personalità dei diversi commercianti. Alcuni di loro parlano molte lingue straniere ed hanno escogitato sistemi di “recensioni analogiche” che gli permettono di dimostrare di aver soddisfatto turisti provenienti da diversi paesi. Altri invece, alle parole preferiscono uno sguardo, per comunicare che il loro negozio è chiuso.

Solo lasciando indietro tutto quel che sapevo, o quasi, ho potuto accogliere quello che invece accade davvero. 

Foto e testo di Marino Da Costa

Fabio Polese per “il Giornale” il 3 giugno 2022.

In India il ministero della Cultura ha stanziato un budget pari a circa un milione e duecentomila euro per acquistare kit per il test del DNA e relativi macchinari all'avanguardia per stabilire la storia genetica e «tracciare la purezza delle razze» dei suoi 1,4 miliardi di abitanti. A riferirlo, citando fonti governative di alto livello, è stato il quotidiano The New Indian Express, che ha spiegato che il processo di acquisizione sarebbe iniziato di recente, a seguito di un incontro avvenuto due mesi fa a Hyderabad, dove hanno partecipato il segretario del ministero Govind Mohan, l'archeologo Vasant S. Shinde e diversi studiosi del Birbal Sahani Institute of Paleosciences.

Shinde, che è professore al National Institute of Advanced Study di Bangalore e direttore del Rakhigarhi Research Project, è noto per sostenere una narrativa maggioritaria Indù, che rifiuta una teoria secondo cui la razza ariana è emigrata in India e ha spostato la popolazione indigena del Paese.

Un'opinione supportata dal «Partito del popolo», il Bharatiya Janata Party di Narendra Modi, attualmente al governo, che ha anche il record di essere il primo movimento al mondo per numero di iscritti, con un totale di 180 milioni di fedelissimi. «Vogliamo vedere come è avvenuta la mutazione e la miscelazione dei geni nella popolazione negli ultimi 10mila anni. La mutazione genetica dipende dall'intensità del contatto tra le popolazioni e dal tempo impiegato da questo processo. Avremo quindi un'idea chiara della storia genetica. Potresti anche dire che questo sarà uno sforzo per tracciare la purezza delle razze in India», ha detto Shinde in un'intervista rilasciata al quotidiano indiano.

Le parole del professore hanno scaturito polemiche a non finire. «L'ultima volta che un Paese ha avuto un ministero della cultura che studiava la purezza razziale, non è andata a finire bene. L'India vuole sicurezza del lavoro e prosperità economica, non purezza razziale, primo ministro», ha detto Rahul Gandhi, figlio di Sonia Gandhi, dell'Indian National Congress. Sui social si è espresso anche Jairam Ramesh, esponente dello stesso partito d'opposizione e membro della camera alta del parlamento. «Niente può essere più sinistro della decisione del ministero della Cultura di acquisire macchine per il profilo del DNA per stabilire la storia genetica e tracciare la purezza delle razze in India. La storia genetica è una cosa, ma la purezza razziale?», ha twittato.

A seguito delle parole di Shinde, l'Anthropological Survey of India, con sede nella città orientale di Calcutta, che sin dall'inizio ha fatto parte del progetto cominciato nel 2019, ha espresso «riluttanza» nel procedere. L'obiettivo iniziale, spiegano al The New Indian Express, era quello di «sviluppare una risorsa di linee cellulari e campioni di DNA che possano essere utilizzati per studiare il polimorfismo della sequenza del DNA nelle popolazioni indiane contemporanee». L'organizzazione aveva precedentemente affermato di voler comprendere la diversità genetica delle popolazioni indiane tra i vari gruppi etnici in tutto il Paese sulla base del risequenziamento dei genomi aploidi.

Secondo il rapporto sui diritti umani del 2021 redatto dagli Stati Uniti, dall'ascesa al potere del primo ministro Narendra Modi nel 2014, l'India è stata testimone di un'ondata di violenze contro le comunità minoritarie tribali e religiose in tutto il Paese.

(ANSA il 30 maggio 2022) - "Meglio morire davvero, che sopportare torture quotidiane" da parte di mariti violenti: lasciandosi dietro questo drammatico messaggio, tre sorelle si sono suicidate, uccidendo anche i rispettivi figli, gettandosi insieme in un pozzo nello stato indiano del Rajasthan. "Ce ne andiamo, così tutti saranno felici. La ragione della nostra scelta sono i nostri parenti acquisiti", continua il messaggio delle tre donne su Whatsapp.

Le sorelle, di 27, 23 e 20 anni, figlie di genitori indigenti, erano state date come mogli ad altrettanti fratelli di una famiglia benestante di proprietari terrieri. La maggiore, sposata per prima, aveva cercato invano di tornare nella casa dei padre e lo aveva implorato di non sposare ai cognati le sorelle, che, nonostante le scarse risorse, avevano tutte un diploma, e sognavano di entrare nell'esercito. I familiari dei mariti, con i quali le sorelle erano costrette a vivere, denunciano le sorelle, le picchiavano costantemente reclamando la dote, che non era stata pagata.

 Cinque anni fa, la maggiore era finita in ospedale con gravi ferite e aveva denunciato il marito; da quando era rientrata, i soprusi erano divenuti ancora più intollerabili. Nella loro scelta disperata, le sorelle hanno coinvolto anche i figli: la più grande si è gettata nel pozzo stringendo un bambino di quattro anni e un neonato di tre settimane; le altre due erano entrambe incinte. Il padre, che, dopo la scomparsa delle figlie si era buttato in una ricerca affannosa, ha detto ai media di "non avere capito fino in fondo la disperazione delle figlie". I loro mariti con tutti i membri della loro famiglia sono stati arresta

(ANSA il 12 maggio 2022) - Un villaggio indiano del distretto di Kolhapur, nello Stato del Maharashtra, ha approvato un'ordinanza che vieta ogni forma di discriminazione nei confronti delle vedove. Nella società indiana, in particolare nelle zone rurali del Paese, le vedove sono pesantemente discriminate poiche' non viene consentito loro di partecipare a cerimonie religiose o a eventi pubblici, ne' di lavorare fuori di casa o indossare gioielli o simboli religiosi nonostante una legge che penalizza questi comportamenti nei loro confronti. 

La decisione è stata approvata all'unanimità dall'assemblea del villaggio nei giorni scorsi. "L'idea è venuta per l'aumento del numero delle vedove causato dal Covid, il villaggio stava diventando un deserto, con tutte le vedove segregate in casa - ha detto al quotidiano The Indian Express il capo del consiglio del villaggio, Srigonda Patil -. Non sarà facile far rispettare le nuove regole, ma proporrò ai villaggi vicini di seguire il nostro esempio".

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 maggio 2022.

Una coppia indiana in pensione ha fatto causa al figlio chiedendogli oltre 580.000 euro perché colpevole di avergli provocato una «agonia mentale» non avendogli dato un nipote. 

Sajneev Prasd, 61 anni, e la moglie Sadhana, 57, hanno presentato il ricorso contro il figlio Shrey Sagar e la moglie Shubhangi, sposi dal 2016 ma rimasti senza prole. I due coniugi senior hanno detto di aver pagato il loro sontuoso matrimonio, e anche la luna di miele in Thailandia. E di aver finanziato gli studi del figlio negli Stati Uniti per farlo diventare un pilota. 

Nel 2007 Shrey è tornato in India dagli Usa e da allora lavoro come pilota, ma vive separatamente da Shubhangi. La madre e il padre hanno regalato alla coppia un’Audi del valore di 75.000 euro e hanno pagato per il loro lussuoso ricevimento di nozze in un hotel a cinque stelle. Sostengono di aver speso 310 mila euro per il figlio da quando è nato.

Ora vogliono indietro quell’importo più altre 25 milioni di rupie per danni. «Abbiamo ucciso i nostri sogni per allevarlo» ha detto Sajneev a The National World. «Diventare nonno è il sogno di ogni genitore. Aspettiamo da anni di diventare nonni». 

«Avevamo cercato di convincere nostro figlio e sua moglie, ma non hanno prestato attenzione alle nostre richieste. Abbiamo il cuore spezzato dal fatto che moriremo senza vedere [un] nipote».  Sajneev ha scritto nel ricorso presentato in tribunale: «Mio figlio è sposato da sei anni ma non stanno ancora pianificando un bambino. Almeno se abbiamo un nipote con cui passare del tempo, il nostro dolore diventerà sopportabile».

«Abbiamo dovuto prendere un prestito per costruire la nostra casa e ora stiamo attraversando molte difficoltà finanziarie. Anche mentalmente siamo abbastanza disturbati perché viviamo da soli». 

L'accusa presentata al tribunale distrettuale di Haridwar è stata elencata come «agonia mentale e molestie». È tecnicamente etichettato come un caso di «violenza domestica». 

L'avvocato dell'accusa Arvind Kumar Srivastava ha affermato che la petizione sarà esaminata dal tribunale dell'India settentrionale il 17 maggio, secondo quanto riportato dall'AFP. Shrey e Shubhangi verranno quindi formalmente contattati.

L'India ha un forte sistema familiare e molte generazioni tra cui nonni, nipoti, zie e zii spesso vivono nella stessa famiglia. Tuttavia, negli ultimi anni la tendenza è cambiata, e le giovani coppie preferiscono allontanarsi dai genitori o dai fratelli e le mogli - come in questo caso - scegliendo di lavorare piuttosto che concentrarsi sull'avere figli e stare a casa.

Alessandra Necci per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.

«Sono qui oggi, potrei non esserlo domani...Ho vissuto una vita lunga e sono fiera di averla spesa interamente al servizio della mia gente... Continuerò a servirla sino all'ultimo respiro e, quando morirò, ogni goccia del mio sangue rinvigorirà e fortificherà l'India». Queste parole sono state dette da Indira Nehru-Gandhi, che è stata due volte primo ministro dell'India. Fanno parte di un discorso del 30 ottobre 1984 e hanno il sapore di una premonizione. Il giorno dopo, Indira - abbigliata con un sari arancione - viene assassinata dalle sue due guardie del corpo, di etnia Sikh. Il corpo verrà cremato, come prescrive il rito induista; le cenere poste in diverse urne, poi sparse sull'Himalaya.

LA VITA La futura premier nasce ad Allahabad il 19 novembre 1917. Sua madre si chiama Kamla, suo padre è il Pandit (significa maestro, ma è anche un titolo onorifico) Jawaharlal Nehru, di importante famiglia di casta Bramina. Poco dopo la nascita di Indira, diviene discepolo del Mahatma Gandhi, apostolo della non violenza e assertore dell'indipendenza dell'India. È soprattutto grazie all'opera di Gandhi e di Nehru, e contro il volere di gran parte dell'establishment britannico, che nella notte fra il 14 e 15 agosto 1947 si arriverà alla tanto desiderata indipendenza.

Nehru, erede di Gandhi nonché estimatore dell'ultimo viceré Louis Mountbatten e legatissimo a sua moglie Edwina, diventerà primo ministro. Il subcontinente viene diviso fra indù e musulmani. Anche per volontà del leader della Lega Musulmana Mohammed Alì Jinnah nascerà il Pakistan, ci sarà la partizione del Punjab e del Bengala. Il Paese precipiterà in una spirale di massacri, che degenereranno dopo l'assassinio di Gandhi. 

Indira cresce in questa atmosfera complicata e suggestiva, fra potere e politica, lotta e privilegi, rischi e successi, ascese e cadute. Suo nonno Motilal è stato seguace di Gandhi.

Spesso, i familiari vengono imprigionati dagli inglesi. La ragazza, di carattere forte e ribelle, va a studiare un periodo in Europa e passa anche a Oxford. La madre è malata di tubercolosi, per cui si fa curare in Svizzera ma muore prematuramente. La stessa Indira ha problemi di salute. Rientrata in India nel mezzo della Seconda guerra mondiale, sposa l'avvocato Feroze Gandhi (che non è imparentato con il Mahatma) nel 1942. Da lui ha due figli, Sanjay (che morirà prematuramente) e Rajiv; tuttavia si separa.

LA POLITICA Quando Nehru diventa primo ministro il 15 agosto 1947 - il suo discorso si chiama Appuntamento con il destino - Indira prende ad accompagnarlo ovunque, imponendosi come la persona a lui più vicina. Nehru instaura politiche di pianificazione economica e statale, cerca di mantenere il paese in una posizione neutrale rispetto ai due blocchi dell'epoca. Muore nel 1964: è Indira a prendere le redini della successione. É già diventata capo del Congresso (Indian National Congress), poi nel '64 viene nominata ministro dell'informazione, quindi nel '66 primo ministro. 

Si dimostra una vera donna di potere, gestendo con fermezza le difficoltà e le contraddizioni di un Paese affascinante, grande e sofferto, fatto di profonde ingiustizie e straordinarie redenzioni, immense ricchezze e terribile miseria, profonda religiosità e divisione in caste, cultura e storia millenaria e desiderio di modernità. La stessa Indira, che si è posta come obiettivi l'eliminazione della povertà e la riforma, la modernizzazione del mondo rurale, non è esente da paradossi. Il Paese conosce un sostanziale progresso, diviene una grande potenza mondiale, ma è lacerato da crisi, scioperi e violente lotte interne.

Per un periodo la Gandhi proclama lo stato di emergenza, sospende i diritti civili e si muove con durezza contro l'opposizione. Nell'agosto '71 ha siglato un accordo ventennale con l'allora Unione Sovietica, mentre con gli Usa i rapporti sono peggiorati. Il suo partito è diviso fra conservatori e progressisti, lei viene accusata di brogli elettorali. 

LE ELEZIONI Nel '77 viene sconfitta alle elezioni e arrestata per qualche giorno. Non si dà per vinta, fonda un nuovo partito, diviene capo dell'opposizione. Vince le elezioni all'inizio di gennaio 1980 e torna alla guida del governo. La situazione rimane difficile, anche perché all'interno e all'esterno c'è agitazione. L'Unione Sovietica ha invaso l'Afghanistan. La Gandhi si avvale dell'esercito per sedare i tumulti interni. Poiché alcuni sikh hanno dato vita a un movimento per l'indipendenza del Punjab indiano, con l'operazione Blue star Indira fa occupare il loro Tempio sacro di Amritsar e uccidere molti Sikh.

Qualche tempo dopo, viene assassinata dalle guardie del corpo, appartenenti a quella fede. Moltissimi, per rappresaglia, sono gli innocenti uccisi. Sale allora al potere il figlio Rajiv, sposato con l'italiana Sonia Maino, e che verrà a sua volta ucciso nel '91. Dei Gandhi si è detto che «sono stati la famiglia reale dell'India»: senza dubbio, hanno fatto parte della storia del Paese, pagando anche con la vita il ruolo. È stata Indira a dire: «La paura, ogni paura, è una perdita di tempo. Come i rimpianti».

La Corte Suprema Indiana chiamata a confermare o meno 38 condanne a morte. Si sta avverando la profezia di Gandhi: “Occhio per occhio finisce per rendere il mondo cieco”. Elisabetta Zamparutti su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022.  

Il centro storico di Ahmedabad, capitale culturale del Gujarat, uno degli Stati dell’India, è stato riconosciuto nel 2017 come patrimonio dell’umanità. Nella breve descrizione che si trova nel sito web dell’Unesco si legge che la sua architettura, fatta di processi di stratificazione, memorie e tecnologie, miti e simboli, integra dimensioni sociali e spirituali ed è “un eccezionale e unico esempio di convivenza multiculturale”. Il prestigioso riconoscimento pare voler preservare, con le composizioni lignee, anche l’universo di relazioni sociali che nel tempo lo hanno modellato tenuto conto che oggi è sottoposto alla pressione di uno sviluppo speculativo unito a un progetto di amnesia.

Mi riferisco allo sradicamento delle memorie culturali, allo sgretolamento di relazioni di vita accettabili in una città in fortissima crescita. In bilico tra la vita e la morte, il centro storico di Ahmedabad, diventa metafora del come si può dire e fare giustizia. L’India è una repubblica democratica, dove la Corte Suprema contiene l’uso della pena di morte. Con la storica sentenza “Bachan Singh contro lo Stato del Punjab” del 9 maggio 1980 ha sostenuto che la pena capitale può essere applicata solo se il caso rientra tra quelli “più rari tra i rari”. Entro questi limiti, condanne a morte ed esecuzioni si continuano a registrare. La settimana scorsa si è saputo che un tribunale speciale del Gujarat ha condannato a morte ben 38 persone e all’ergastolo altre 11, mentre 28 sono andate assolte. Se la sentenza verrà confermata in appello passerà alla storia per il numero di condanne capitali pronunciate in un sol colpo.

Dal 2010, l’India ha impiccato sette persone in quattro esecuzioni distinte: Ajmal Kasab, il 21 novembre del 2012 per l’attacco terroristico del 2008 a Mumbai; Afzal Guru, il 9 febbraio del 2013 per l’attacco terroristico al Parlamento del 2001; Yakub Memon il 30 luglio 2015 anche lui per gli attacchi dinamitardi di Bombay nel 1993; infine, i quattro stupratori del caso Nirbhaya impiccati insieme nel carcere di Tihar a Delhi il 20 marzo 2020. Le ultime 38 condanne a morte sono state l’esito di un maxi processo ultra decennale che si è svolto a porte chiuse, in un’aula allestita nel carcere di Sabarmati, durante il quale sono stati uditi oltre mille testimoni su quanto accadde ad Ahmedabad il 26 luglio del 2008. Nell’arco di un’ora 21 ordigni, nascosti in biciclette e altri oggetti di uso quotidiano, vennero fatti esplodere nel centro della città in due serie di esplosioni successive. La prima era avvenuta nei pressi di un frequentato centro commerciale e la seconda, circa 20 minuti dopo, nei pressi dell’ospedale in cui erano stati portati alcuni dei feriti. Furono 56 le vittime, 200 i feriti.

L’attentato, l’ultimo atto di una catena di violenze, è stato rivendicato dal gruppo terroristico Indian Mujahideen (IM), una fazione dello Students Islamic Movement of India (SIMI), già dichiarato fuorilegge, che aveva agito per vendicare i massacri religiosi del 2002 a Godhra, altra città del Gujarat. Nelle violenze di Godhra, scoppiate per vendicare l’incendio di un treno in cui avevano perso la vita 59 indù, vennero inseguiti, violentati, bruciati e massacrati almeno mille musulmani. Ora, mettendo a confronto il numero delle vittime dei diversi attacchi, non v’è pareggiamento tra i piatti della bilancia delle vendette religiose. Neanche la vendetta di stato, la pena di morte, potrebbe mai ristabilire l’equilibrio nella bilancia. L’aritmetica della giustizia retributiva produrrebbe effetti umanamente insostenibili perché – come diceva il Mahatma Gandhi – con l’occhio per occhio alla fine il mondo sarebbe diventato cieco.

Vedremo se la Corte Suprema indiana confermerà o meno le 38 condanne a morte, se il caso rientra o meno tra “i più rari dei rari”. Di fronte ai conflitti indiani che non sono pochi, anche in rapporto al livello di povertà e ai problemi legati alla convivenza tra religioni non sempre tolleranti, la risoluzione umanamente sostenibile è ben rappresentata nella storia e architettura del Centro Storico di Ahmedabad che sono lì a insegnare – insieme a Gandhi che da questa città iniziò la sua “marcia del sale” – che l’equilibrio, l’armonia, l’ordine vivono e durano nel tempo solo se basati sulla nonviolenza, l’integrazione, la cooperazione. Elisabetta Zamparutti

Storia. Gandhi, la "grande anima" che fermò l'Impero britannico. Da Focus

Il 30 gennaio 1948 fu assassinato il Mahatma Gandhi. Ecco la vita dell'uomo che si batté per i diritti e la libertà del suo popolo diventando, per l'India, il "padre della nazione". 

Il 30 gennaio ricorre l'anniversario della morte del Mahatma Gandhi che fu ucciso nel 1948 a Nuova Delhi da un fanatico indù. Ripercorriamo la vita di Mohandas Karamchand Gandhi, il paladino della non violenza che riuscì a piegare l'impero Britannico, con l'articolo L'avvocato della giusta causa pubblicato su Focus Storia Biografie.

FAMIGLIA DI MERCANTI. Nulla avrebbe fatto sospettare, quel secondo giorno d'ottobre del 1869, che in un villaggio di pescatori del Gujarat, in quella parte d'India che oggi confina con il Pakistan, stesse per nascere una delle più grandi personalità del '900. E non ci fu nulla, nei primi anni di vita di Mohandas Karamchand Gandhi, figlio di un politico e di una donna molto pia, che rivelasse i primi sintomi di quella forza, di quel pensiero che avrebbero lasciato il segno in un secolo devastato dalla violenza di due guerre mondiali, innescando la fine del colonialismo e la nascita della democrazia più grande del mondo. Ma l'apostolo della non violenza dovette prima diventare avvocato per scoprire che non c'era nessuno a difendere i diritti degli ultimi della Terra.

Il ragazzo era nato dalla parte giusta, nella casta dei mercanti, non così importante come quella dei bramini, i sacerdoti indù, ma sufficiente per avere una vita agiata. Il padre era un diwan (primo ministro) del principato di Rajkot; la madre, quasi illetterata, era divisa tra i doveri di casa e i voti religiosi, alternando le quotidiane visite al tempio ai frequenti digiuni. A scuola il piccolo Mohandas non possedeva particolari talenti, anzi le tabelline furono per lui un problema, come pure la pessima grafia, che si pentì anni dopo di non aver curato abbastanza. Lo sport, altra sua bestia nera, fu sostituito da lunghe camminate all'aria aperta.

GELOSO DELLA MOGLIE. A 13 anni, mentre ancora frequentava le medie, si sposò – o meglio fu sposato, racconta lo stesso Gandhi – alla coetanea Kasturba nel corso di uno sfarzoso matrimonio triplo (insieme a un fratello e un cugino). Si trattò delle tipiche nozze indù fra bambini, come si usava nell'India dell'Ottocento, pratica che in seguito condannò duramente. Comunque fosse iniziato, il matrimonio si rivelò un connubio indissolubile, e Kasturba fu compagna di battaglie quotidiane condotte con pari spirito di sacrificio e la stessa ostinata dolce espressione del marito.

Gandhi era molto possessivo e nella sua autobiografia racconta di qualche scenata poco edificante, scatenata dallo spirito di indipendenza della compagna. Ma se la gelosia fu il primo chiodo fisso, l'altro fu quello di elevare culturalmente una moglie analfabeta. Non riuscì mai a farla arrivare oltre la scrittura di "una modesta letterina", ma Kasturba divenne uno dei pilastri della sua lotta politica.

STUDI IN INGHILTERRA. Il padre morì dopo una lunga malattia quando Mohandas aveva 16 anni, lasciando la famiglia quasi in povertà. Affascinato dalla medicina, il ragazzo dovette ripiegare su una più redditizia carriera d'avvocato. La famiglia, che riponeva in lui la speranza di un ritorno al benessere, lo mandò a studiare legge in Inghilterra, Paese di cui l'India era allora un dominio. Compiuti i 18 anni, Mohandas partì per Bombay lasciando la moglie con un bambino di pochi mesi e prese una nave per Southampton, allora uno dei più importanti porti del Regno Unito, trovandosi in difficoltà con l'inglese già durante la traversata.

La sua proverbiale timidezza gli rese la vita difficile, l'abito di flanella immacolata che indossava per scendere dal piroscafo ne fece una mosca bianca. L'etichetta europea esigeva ben altro e Gandhi, per non sentirsi troppo diverso, imparò presto che l'abito faceva il monaco e ordinò una serie di completi, scarpe e cappelli tali da confondersi con un gentleman inglese. Provò anche a prendere lezioni di dizione, francese, ballo e violino, ma la necessità di risparmiare lo ricondusse ad abitudini più frugali. Eliminò i mezzi pubblici e prese ad andare a piedi per miglia e miglia, irrobustendo il fisico.

Superati gli esami universitari e tornato in India, capì ben presto di non essere un principe del foro. Non conosceva abbastanza bene le leggi indiane e poi era troppo timido: al suo primo controinterrogatorio in tribunale svenne sulla sedia e dovette rimborsare la parcella al cliente. Per fortuna un ricco imprenditore gli offrì una via d'uscita: per un anno avrebbe dovuto seguire un processo civile in Sudafrica, dove la comunità dei lavoratori indiani era nutrita.

QUEL VIAGGIO IN TRENO. Fu durante il viaggio in treno da Durban a Pretoria che avvenne l'episodio chiave della sua vita: gli fu intimato dal capotreno di lasciare lo scompartimento di prima classe, per cui il giovane indiano aveva pagato un regolare biglietto, e spostarsi in terza, dove viaggiava la gente di colore. Mohandas aveva 24 anni, era educato, introverso, intimorito, e nonostante questo si rifiutò di farlo. Lo fecero scendere alla stazione di Maritzburg, nella cui sala d'aspetto Mohandas rimase a rimuginare tutta la notte sugli insulti ricevuti dai bianchi. Probabilmente fu lì che nacque Gandhi l'attivista.

L'avvocato che doveva restare in Sudafrica pochi mesi ci rimase oltre vent'anni, difendendo i suoi connazionali dai soprusi dell'apartheid, pretendendo per loro il diritto di voto, un'equa tassazione e il riconoscimento dei matrimoni misti, e fondando un partito, il Natal indian congress, considerato l'antesignano dell'African national congress di Nelson Mandela. Arrivò persino a organizzare un corpo volontario di portaferiti per affiancare gli inglesi nella Seconda guerra anglo-boera (e pretendere quindi gli stessi diritti). Creò un giornale e aprì una fattoria a Phoenix, vicino Durban, dove riunì seguaci e collaboratori in una comune "d'amore e dignità". Ispirato dai libri di Tolstoj (diede il suo nome alla fattoria, e con il grande scrittore pacifista russo ebbe per anni un vivace carteggio) propugnò uno stile di vita all'insegna della povertà, del lavoro e della preghiera.

LA CASTA DEGLI INTOCCABILI. Imparò a fare tutti i lavori manuali, anche i più umili come la pulizia delle latrine, attività che in patria gli indiani riservavano alla casta degli intoccabili. In quegli anni iniziò a cibarsi solo di noci e frutta fresca e perfezionò la pratica del digiuno, inizialmente considerandolo come mezzo per avvicinarsi a Dio o per espiare i propri errori, ma in seguito usandolo come un potente strumento di lotta per rivendicare i diritti negati.

Nel 1906 fece voto di castità e sublimò le sue energie nell'impegno politico e nella pratica religiosa. Nello stesso anno formulò una dottrina, la satyagraha o "forza della verita". Era nato un concetto in grado di cambiare il mondo, un principio rivoluzionario ed eversivo: la non violenza. Fu questa la grande lezione che Gandhi regalò al mondo: protestare sempre, ma secondo i principi della disobbedienza civile e della resistenza pacifica, mai con la lotta armata. Gandhi sperimentò la satyagraha sulla propria pelle quando venne processato e incarcerato in Sudafrica. Al momento della liberazione da quella angusta cella regalò al generale Smuts, il governatore che lo aveva perseguitato come pericoloso sovversivo, un paio di sandali fabbricati in carcere.

LEADER POLITICO. Nel 1915 l'avvocatino di un tempo era diventato un leader politico e come tale fu accolto in India, che all'epoca era una colonia inglese suddivisa in innumerevoli principati, con una popolazione di 300 milioni di indù e 100 milioni di musulmani. Gandhi era stato richiamato allo scopo di rafforzare il movimento indipendentista, e in pochi anni avviò un'azione di resistenza non violenta contro il potere illimitato del British Raj, il dominio britannico. Nel 1919 uno sciopero paralizzò il Paese e sfociò nel sangue della repressione (il massacro di Amritsar).

Gandhi digiunò, convinto di aver sbagliato strategia (lo definì il suo "errore himalaiano") e interruppe ogni forma di cooperazione con la Corona: era arrivato il momento di colpire gli inglesi nei loro interessi. Si rasò la testa e indosso il dohti, l'abito dei contadini indiani, come gesto simbolico e tenendo presente un altro obiettivo: danneggiare l'importazione dei tessuti provenienti dalle manifatture britanniche preferendo a questi il kadhi, il tradizionale panno di cotone filato dagli indiani. Iniziò a produrlo lui stesso all'arcolaio a ruota, che divenne un simbolo così potente da essere poi riprodotto sulla bandiera dell'India indipendente.

GRANDE ANIMA. Gandhi, ormai per tutti il Mahatma (Grande anima) continuò a tessere con pazienza la trama della satyagraha, l'azione non violenta che in una data ancora lontana, il 15 agosto 1947, avrebbe liberato il Paese dal secolare dominio inglese. Fondò un ashram, comunità aperta anche agli intoccabili, dove visse secondo i voti di fedeltà alla verità, povertà, castità, lavoro quotidiano per il pane e rispetto di ogni religione; avviò la battaglia contro le coltivazioni di indaco, imposte dagli inglesi; nel 1930 percorse a piedi i 400 chilometri che lo separavano dal mare in un'epica marcia del sale, "l'unico condimento dei poveri" disse, su cui gli indiani dovevano pagare una tassa.

Si ammalò a più riprese e si rimise in piedi nonostante i digiuni a oltranza, guidò preghiere di massa e azioni di disobbedienza civile, promosse il boicottaggio delle merci e delle istituzioni britanniche, attraverso l'India a piedi varie volte, incantò l'Europa, si sedette ai tavoli del potere e trattò sorridendo con re e viceré. Subì a più riprese il carcere (passando in cella 2.338 giorni della sua vita) e in prigionia perse nel 1944 l'adorata moglie Kasturba, morta di infarto dopo 18 mesi di arresti domiciliari.

PREGHIERA E DIGIUNO. Gandhi era ormai diventato un simbolo del movimento pacifista mondiale, dopo essere stato, fin dagli Anni '20, il perno della lotta per l'indipendenza indiana. Ma quando la sua terra fu finalmente libera, il Mahatma scoprì che con la partenza degli inglesi gli indiani avevano accettato (e voluto) anche la mela avvelenata, la "partizione" del Paese in due Stati sovrani: l'India induista e il Pakistan islamico. Quando le differenze religiose interne si trasformarono in lotta fratricida e tra i due confini si assistette al più grande esodo di massa della Storia, il Mahatma si ritirò a pregare e digiunare.

Il 30 gennaio del 1948, alle cinque della sera, Nathuram Godse, un estremista indù lo avvicinò, piegandosi davanti a lui come in omaggio, e gli sparò tre colpi a bruciapelo. Gandhi mormorò "He Ram" (Oh Dio) prima di morire. Aveva 78 anni. La Grande anima del XX secolo era vissuta e morta secondo il principio "porgi l'altra guancia". Lo aveva preso a prestito dal Discorso della montagna, il sermone che Gesù aveva fatto ai suoi discepoli e che tanti anni prima aveva affascinato un giovane avvocato indiano vestito come un lord inglese.

·        Quei razzisti come i singalesi.

Sri Lanka: una Maidan nel cuore dell'Oceano Indiano. Piccole Note il 19 luglio 2022 su Il Giornale.

Per alcuni giorni la crisi dello Sri Lanka ha occupato lo spazio mediatico in maniera massiccia e altro spazio le verrà tributato in futuro, data la rilevanza geopolitica dell’isola, da tempo crocevia di tanti interessi a causa della sua collocazione strategica nel sempre più cruciale Oceano Indiano.

Non per nulla nei decenni passati lo Sri Lanka è stato dilaniato da una feroce guerra intestina (supportata da attori esterni), che ha visto il governo opporsi alle feroci tigri Tamil. Finita la guerra, sembrava che la situazione potesse stabilizzarsi, ma la contesa tra Usa e Cina ha riportato l’isola al centro delle tensioni internazionali, soprattutto dopo che Pechino ha iniziato a investirvi.

Così torniamo alla crisi attuale, che i media hanno descritto come una rivolta popolare prodotta da una tragica crisi economica. Da qui la folla che assalta i palazzi del potere e la fuga del presidente Gotabaya Rajapakasa.

A innescare la crisi economica l’incapacità del governo, le ristrettezze causate dalla pandemia e dalla guerra ucraina, ma soprattutto la trappola del debito innescata dai finanziamenti giunti dalla Cina, identificata così come la principale responsabile del disastro.

Jean-Pierre Page, co-fondatore dell’Osservatorio sulla globalizzazione e caporedattore di La Pensée libre, che ha vissuto in Sri Lanka per 15 anni, dà una lettura meno superficiale, che riprendiamo dal sito al Manar.

Anzitutto Page afferma che la narrazione riguardo alla trappola del debito cinese è “una spudorata bugia”, dal momento che solo il 10% del debito del Paese è impegnato con Pechino, mentre il restante 90% è nelle mani della finanza occidentale.

Quindi spiega chi sia Gotabaya Rajapakasa, fratello del più carismatico ex presidente dello Sri Lanka, Mahinda, quest’ultimo da sempre bersaglio di critiche feroci da parte dell’Occidente per le sue idee e la sua influenza nel Paese (per inciso, Mahinda è ancora in Sri Lanka).

Rajapakasa fu eletto presidente nel 2019 con un vero e proprio diluvio di voti, ma si trovò a gestire il Paese nel periodo della pandemia, che ha quasi azzerato le rimesse dall’estero, una delle maggiori entrare del Paese.

Ma ha fatto tanti errori, spiega Page, tra i quali la cessione dei terreni statali alle multinazionali e anche all’esercito americano, che intende fare del Paese un’enorme “portaerei” per la sua disfida con la Cina.

Tale cedimento agli Usa non è casuale, afferma Page, dal momento che, prima di diventare presidente, Rajapakasa era un cittadino americano, così come il fratello Basil, chiamato a dirigere il ministero dell’Economia.

Il senso dei fratelli per gli States ha impedito loro anche di accettare il petrolio e il gas offerti da Iran e Russia a prezzi scontati, preferendo affrontare l’inflazione galoppante rivolgendosi al Fondo Monetario internazionale, il quale però, al solito, ha condizionato il suo sostegno al varo di riforme economico-sociali, che, come avvenuto altrove, hanno acuito le diseguaglianze sociali e la crisi.

Il dilagare della crisi ha reso esplosivo il malcontento popolare, che, spiega Page, è stato gestito dai soliti attori di tali criticità. Questi ultimi anni, infatti, hanno visto il “moltiplicarsi delle Ong sostenute dai governi occidentali, la NED (1) e la Soros Foundation, molto attiva in Sri Lanka”. Mentre molto attiva è stata anche l’ambasciata Usa, che ha “pilotato e finanziato” anche un partito marxista-leninista come il JPV (Fronte di liberazione del popolo).

Così la presa del Palazzo srilankese non ha nulla a che vedere la Bastiglia, scrive Page, ma ha tutte le caratteristiche di una rivoluzione colorata, una sorta di Maidan nel cuore dell’Oceano Indiano. Da questo punto di vista, aggiunge Page, appare “significativo sottolineare che il sottosegretario di Stato americano, la frenetica interventista Victoria Nuland, era andata in missione in Sri Lanka prima dell’inizio dei fatti”.

E non per nulla, dopo la fuga del presidente, le forze di governo e di opposizione hanno deciso di assegnare la presidenza ad interim al primo ministro Ranil Wrickremensighe, in attesa del successore.

Il partito di Ranil non aveva ottenuto nessun seggio alle ultime elezioni e lui stesso era entrato in Parlamento solo grazie a un artificio. E, però, nel maggio scorso, per far fronte alla dirompente crisi di governo, Rajapakasa si era rivolto proprio a lui per crearne uno nuovo. Una missione nella quale non è riuscito, ma che gli permette adesso di avere concrete chanche per diventare presidente a tutti gli effetti.

“Ranil – scrive Page – è il terminale degli interessi statunitensi; più volte al potere, è un leader conservatore inamovibile da quasi cinquant’anni, ultra liberale e membro attivo del circolo riservatissimo della Mont Pèlerin Society”, una dei tanti organismi sovranazionali delle élite d’Occidente.

Tanti, troppi gli interessi in gioco in questa isola, contesa tra le pretese imperiali dell’America, quelle coloniali della Gran Bretagna, i più legittimi interessi della vicina India e quelli connessi alla Via della Seta cinese. Un puzzle impazzito che non promette nulla di buono. Vedremo.

(1) La National Endowment for democracy (NED) è l’organismo del Dipartimento di Stato Usa che ha la missione di diffondere la “democrazia” nel mondo.

Sri Lanka, assalto al palazzo presidenziale: Rajapaksa si dimetterà il 13 luglio. Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

Migliaia di persone hanno invaso la residenza del capo dello Stato per protestare contro il carovita e l’inflazione. La crisi economica ha causato carenza di cibo, medicine e carburante. Il presidente ha annunciato le dimissioni. 

Una marea umana. Vista dall’alto, l’ultima rivolta a Colombo, la capitale di uno Sri Lanka in crisi da settimane, sembrava tratta da uno di quei film come «L’uomo che volle farsi re», dove nessun fucile è in grado di fermare la folla inferocita. E infatti, i soldati di guardia alle porte del palazzo presidenziale non hanno potuto fare nulla: a che sarebbe servito sparare sui cittadini che spingevano come uno tsunami sui cancelli? Ore prima, i poliziotti in assetto antisommossa avevano cercato di disperdere i manifestanti che convergevano sul centro del potere singalese: pallottole di gomma e gas lacrimogeni non avevano fermato operai e impiegati, monaci buddhisti e fedeli musulmani, per una volta uniti contro il simbolo della disfatta di una nazione: il presidente Gotabaya Rajapaksa, nascosto in una località segreta da dove in serata ha fatto sapere di aver accettato di farsi da parte: firmerà le dimissioni mercoledì 13 luglio.

Così è finito un ciclo che ha portato il Paese alla bancarotta. Certo, a vedere le scene diffuse poi — i manifestanti all’interno del magnifico palazzo, immersi nella piscina, a spasso per i giardini tra palme e fiori tropicali — sembrava più una rivoluzione allegra, un cambio della guardia pacifico. Ma non è così. I cittadini del Paese che un tempo si chiamava Ceylon e forniva il tè alla regina Vittoria sono alla disperazione. Una crisi finanziaria senza precedenti ha esaurito le riserve in valuta. Di qui l’impossibilità di rimborsare le rate del debito estero (7 miliardi di dollari, di cui 5 dovuti alla Cina) e la dichiarazione di default agli inizi di giugno.

Ma da settimane la popolazione era costretta a fare i conti con un’inflazione a due cifre che in pochi mesi ha portato allo stremo la maggior parte delle famiglie, ridotte alla sussistenza mentre gli scaffali dei negozi si svuotavano e il mercato nero fioriva. Già a fine maggio la situazione era talmente compromessa che rivolte e violenza avevano portato il presidente a licenziare il fratello primo ministro, Mahinda Rajapaksa, nel tentativo di calmare le acque. Manovra fallita, anche perché al suo posto ha nominato Ranil Wickremesinghe, un uomo considerato dall’opinione pubblica poco più che un maggiordomo di famiglia. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è l’esaurimento del carburante, tolto dai distributori per destinare le riserve ai mezzi di esercito e polizia. Nemmeno una telefonata a Putin da parte di Gotabaya ha potuto cambiare il corso degli eventi: nonostante le promesse, nessun barile di petrolio ha raggiunto i porti singalesi, anche perché non ci sono soldi per pagarlo.

Affamati, accaldati (nella torrida estate tropicale i continui black-out fermano aria condizionata e ventilatori), disoccupati, i cittadini di un Paese dalle tante etnie e religioni (ma a maggioranza buddhista) si sono uniti contro l’uomo considerato responsabile del disastro. E ha deciso di entrare nel suo palazzo.

Sri Lanka, la caduta dei fratelli Rajapaksa: da eroi della patria a fuggiaschi. Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

Gotabaya e Mahinda, gli eredi di una dinastia politica che insieme gestivano il potere nello Sri Lanka

Per anni eroi della patria, sono bastate poche settimane per distruggere immagine e stima della nazione. I fratelli Rajapaksa, Gotabaya — il più giovane, 73 anni — presidente dimissionario di una repubblica che per la prima volta dall’indipendenza (1948, dai britannici) rischia la rovina come nemmeno durante la lunga guerra civile; e Mahinda, il più anziano, 76 anni, già sacrificato a maggio per placare la folla: le sue dimissioni da primo ministro non sono evidentemente servite.

Gotabaya e Mahinda, ma anche Mahinda e Gotabaya: perché, come se il Paese fosse una loro proprietà, si sono scambiati i ruoli, prima uno presidente e l’altro premier (o ministro) e viceversa. Ma non solo. Perché in questa originale democrazia dell’Asia meridionale, lo Sri Lanka, una goccia di smeraldo nell’Oceano Indiano, facile complemento dell’ingombrante vicino settentrionale, ma di tutt’altra natura, i Rajapaksa sono stati anche all’opposizione quando a vincere le elezioni erano «tutti gli altri». Nati in una ricca famiglia di proprietari terrieri del Sud, i Rajapaksa hanno quattro fratelli e tre sorelle. Sotto la cura dei genitori, in particolare del padre, Don Alwin, i fratelli sono cresciuti dividendosi i settori dello scibile più adatti per il loro futuro politico, come era tradizione sin dai tempi della Ceylon coloniale. Se consideriamo zii, cugini, parenti più o meno stretti, negli ultimi 70 anni non c’è mai stato un momento della storia nazionale senza un Rajapaksa in qualche importante posizione dello Stato. Ma la trasformazione dei due fratelli più ambiziosi, Mahinda e Gotabaya (allora in quest’ordine), nei beniamini del popolo risale al 2009, quando, dopo anni di guerra civile tra la maggioranza buddhista e la minoranza induista del Nord arrivò a una fine che nessuno avrebbe mai previsto. I ribelli delle Tigri Tamil, celebri per l’efferatezza delle loro operazioni, furono annientati grazie a un’offensiva spietata condotta dall’allora ministro della Difesa Gotabaya Rajapaksa, su ordine del fratello Mahinda, presidente, che sollevò non poche proteste degli osservatori internazionali. Per lo Sri Lanka, tuttavia, si era aperta una nuova era, o così sembrava. Grazie a un crescente turismo, incoraggiato dalla stabilità e dalla pace, i Rajapaksa, scambiandosi le poltrone, coinvolgendo più o meno tutto il clan, avviarono riforme e modernizzazioni delle infrastrutture che (nella loro idea) avrebbero garantito il potere perpetuo alla famiglia, insieme a ricchezze inestimabili le cui briciole comunque sarebbero state condivise con il popolo.

Così, mentre le accuse di corruzione e nepotismo venivano affossate grazie alla presa ferrea sulle istituzioni, i due fratelli hanno imbastito una serie di progetti a credito (porti, ferrovie, strade, Internet) affidandosi soprattutto a un Grande Fratello di cui avevano scoperto la «generosità»: la Cina. Ma i guai sono cominciati ben in anticipo sulla crisi scatenata da pandemia e guerra (in Ucraina). Già prima che l’immenso porto di Hambantota (costruito da imprese cinesi con finanziamenti della Repubblica Popolare) entrasse in funzione, il governo dei due fratelli aveva dovuto concederlo in concessione a Pechino per 99 anni avendo mancato gli obiettivi di rimborso dei capitali. Per intenderci, 99 anni è il lasso di tempo concesso da Pechino a Londra per permettere lo sviluppo di Hong Kong, quando i ruoli e i rapporti di forza erano ben diversi. Grazie ai Rajapaksa, insomma, lo Sri Lanka è passato in breve tempo da perla destinata a un futuro radioso a neo-colonia di un (altro) Paese lontano. Mahinda e Gotabaya, Gotabaya e Mahinda: è davvero finita?

·        Quei razzisti come i birmani.

Alessandra Muglia per corriere.it il 20 settembre 2022.

Speravano di cancellare le tracce dell’atrocità appena commessa: quei bambini, almeno sette, uccisi a scuola e poi, diversi di loro, fatti cremare. Un attacco infame, quello sferrato contro la scuola elementare di un complesso monastico buddista dalle truppe della giunta golpista birmana. 

E’ avvenuto venerdì scorso nel villaggio di Let Yet Kone a Tabayin, 110 chilometri a nord-ovest di Mandalay, la seconda città più grande del Paese. Ma il silenzio sulla strage è durato soltanto qualche giorno, ora stanno emergendo testimonianze drammatiche. «C’erano pozze di sangue all’interno della scuola. Pezzi di carne sparsi dappertutto, sui ventilatori, sui muri e sul soffitto», ha raccontato un abitante del villaggio andato sul posto dopo l’attacco. «Alcuni genitori sono venuti a cercare i loro figli, ma tutto ciò che era rimasto erano dei vestiti, così non hanno potuto nemmeno celebrare i funerali». 

La preside dell'istituto, che si trova nel compound del monastero buddista del villaggio, ha ricostruito con l’Ap quei momenti terribili: stava cercando di portare gli studenti in nascondigli sicuri nelle aule del piano terra quando due dei quattro elicotteri Mi-35 che sorvolavano il villaggio hanno iniziato a sparare con mitragliatrici e armi più pesanti contro la scuola.

Mar Mar, come si fa chiamare questa donna, lavora nella scuola con 20 volontari che insegnano a 240 studenti dalla scuola materna all’ottavo anno. Si era nascosta nel villaggio con i suoi tre figli per evitare la repressione del governo dopo aver partecipato l’anno scorso a un movimento di disobbedienza civile contro la presa di potere militare. «Dal momento che gli studenti non avevano fatto nulla di male, non avrei mai pensato che sarebbero stati brutalmente colpiti dalle mitragliatrici», ha detto Mar Mar. Sette bambini sono morti sul colpo e altre 4 persone nelle ore successive, mentre in 17 , tra insegnanti e studenti, sono rimaste ferite. Due docenti e una ventina di studenti sarebbero stati arrestati. 

L'Unicef stima in almeno 11 i bambini morti in Birmania a causa di un attacco aereo e di fuoco indiscriminato in aree civili lo scorso 16 settembre, tra cui quello alla scuola di Tabayin. «Almeno 15 bambini della stessa scuola risultano ancora scomparsi. L'Unicef chiede il loro rilascio immediato e sicuro», si legge in una nota. «Le scuole devono essere sicure. I bambini non devono mai essere attaccati», conclude. Precedentemente testimoni avevano riferito di 13 morti, fra cui 7 bambini, in un attacco aereo condotto da elicotteri della giunta militare.

I media di Stato birmani difendono l'attacco sostenendo che la scuola e il villaggio erano un nascondiglio per le forze anti golpe: i civili sono morti perché le milizie ribelli li hanno usati come scudi umani, dicono. 

Dal colpo di Stato del febbraio 2021, con cui i militari hanno travolto il governo civile guidato da Aung San Suu Kyi, l’esercito birmano si è macchiato di violenze atroci contro i civili, prendendo più volte di mira le istituzioni religiose dove la popolazione cerca rifugio dagli scontri. 

In particolare la regione del Sagaing, dove si trova la scuola monastica colpita, è stata teatro nei mesi scorsi di diverse offensive dell’esercito birmano, che avrebbe dato alle fiamme interi villaggi, spingendo alla fuga circa mezzo milione di persone, secondo un rapporto pubblicato questo mese dall’Unicef. 

E' stato attaccato un monastero che ospitava sfollati a Mobye, nello Stato meridionale Shan: tra le vittime anche due bambini. In questa città le truppe birmane hanno profanato anche una chiesa cattolica usandola come cucina per i propri soldati e circondandola di mine dopo averla abbandonata. 

Più di 5mila civili sono fuggiti da Mobye dopo che almeno 100 abitazioni sono state distrutte dagli attacchi aerei.

Myanmar, l'esercito spara su una scuola. Morti 11 bambini ma la tv di Stato non lo dice. L'attacco è avvenuto una settimana fa. I militari: "Era un blitz contro i ribelli". Diana Alfieri il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Raffiche di mitragliatrici da elicotteri militari, e poi raid dei soldati classe per classe: almeno 11 bambini e sette adulti sono stati uccisi in Birmania - e altri 15 piccoli studenti, feriti, sono ricoverati in un ospedale nelle mani dei militari - in un attacco dell'esercito contro una scuola nel centro-nord del Paese, che ufficialmente aveva come obiettivo i ribelli armati che si oppongono al governo militare.

Un anno e mezzo dopo il colpo di stato che ha fatto precipitare la Birmania in una guerra civile, la strage di bambini conferma l'assenza di scrupoli di una giunta militare sorda alle richieste di democrazia della popolazione. L'attacco è avvenuto venerdì scorso nel villaggio di Let Yet Kone, nella divisione di Sagaing, una delle aree dove è più attivo un movimento armato di resistenza alla giunta militare. Nel weekend i media statali avevano riportato la notizia dell'assalto - senza far menzione dei bambini - parlando di una «ispezione a sorpresa» contro ribelli che trasportavano armi utilizzando la scuola come nascondiglio, e che avrebbero aperto il fuoco per primi. La portata della strage è emersa però nei giorni successivi grazie a racconti di abitanti del villaggio a siti di informazione birmani indipendenti, nonché alle foto delle classi insanguinate diffuse sui social media. L'amministratrice della scuola, Mar Mar, ha raccontato che gli elicotteri hanno iniziato a sparare mentre lei stava cercando di portare gli studenti in un nascondiglio sicuro all'interno dell'istituto, che si trova nel complesso di un monastero buddista e ospita 240 bambini dall'asilo alle elementari. «Hanno continuato a sparare dall'alto per un'ora. Non si sono fermati nemmeno un minuto» ha detto la donna, aggiungendo che poi circa 80 soldati hanno fatto irruzione sparando nelle aule. Secondo alcuni residenti del villaggio, i corpi dei piccoli uccisi sono stati cremati già il giorno dopo dai militari, per rimuovere qualsiasi traccia della strage. L'Unicef ha condannato l'azione dei militari: «Le scuole devono essere sicure. I bambini non devono mai essere attaccate», si legge in una nota del Fondo dell'Onu per l'infanzia, che chiede il rilascio «immediato e sicuro» dei 15 bambini prelevati dai militari e ancora in ospedale; secondo alcune testimonianze, alcuni dei bambini feriti hanno perso degli arti. Per quanto sia il più cruento di cui si abbia notizia, l'attacco di venerdì non è il primo contro istituti educativi dal golpe del 1 febbraio 2021: l'Onu ne ha documentati almeno 260. La strage è l'ennesima conferma di come la Birmania sia precipitata in un vortice di violenza. La giunta del generale Min Aung Hlaing, dopo aver deposto il governo guidato da Aung San Suu Kyi, ha represso nel sangue manifestazioni della popolazione inizialmente pacifiche, e da allora la resistenza ai militari è diventata armata e si è spostata nelle campagne, spesso unendosi a milizie ribelli di gruppi etnici in guerra da decenni contro il governo centrale.

I Rohingya, un popolo alla ricerca di una terra da abitare.  Simona Iacobellis su Inside Over il 29 maggio 2022.

Il mese di maggio decreta l’inizio della stagione dei monsoni nella regione del Myanmar e attraversare il mare per i Rohingya, che cercano ancora una terra da abitare, è sempre più pericoloso. Lo scorso sabato, 17 persone tra adulti e bambini hanno perso la vita: la loro barca si è capovolta. Save the Children ha registrato che “molti dei corpi trovati senza vita erano di bambini di età compresa tra gli 11 e i 12 anni, secondo i rapporti locali. Più di 50 persone rimangono disperse”. Non si tratta di un singolo episodio, ma dell’ennesimo incidente degli ultimi anni. Ogni anno centinaia di persone salgono su barche dismesse per raggiungere terre in cui poter vivere dignitosamente. Ma ogni volta un naufragio intercorre tra questo popolo e il loro obiettivo.

Quella dei Rohingya è una storia di persecuzione e sofferenza. Musulmani sunniti, i Rohingya parlano una lingua di ceppo indoeuropeo, sono originari del Rakhine, territorio della Birmania al confine con il Bangladesh, dove convivevano con la maggioranza buddista dello Stato, ma senza essere riconosciuti dal Paese, nonostante rappresentassero un terzo della popolazione. Sull’origine della loro etnia si hanno molte teorie ma poche certezze. Secondo alcuni la loro terra è il Myanmar da secoli; per qualcun altro hanno raggiunto quella terra solo nell’ultimo secolo. La loro presenza è attestata dal 1785, l’anno dell’invasione birmana che uccise migliaia di indigeni e molti Rohingya. I superstiti fuggirono nelle zone adiacenti sotto il controllo britannico. Quando gli inglesi conquistarono lo Stato dell’Arakan, nome antico del Rakhine, il popolo fu incentivato a migrare in quelle terre. I Rohingya si stabilirono così nel Bengala orientale dell’Arakan, che oggi è il Bangladesh.

La birmania ha ottenuto l’indipendenza nel 1948. Dopo il colpo di Stato che ha rovesciato il governo birmano nel 1962, i Rohingya sono stati discriminati perché ritenuti non appartenenti al Myanmar dalle autorità nazionaliste. A dimostrazione della loro mancata appartenenza a quelle terre, la legge sulla cittadinanza del 1982 non li include tra i gruppi etnici riconosciuti ufficialmente dal Paese. In Birmania un Rohingya necessita di un permesso speciale per viaggiare, ma anche per cercare lavoro, andare dal medico o partecipare ad un funerale. Alcuni di loro sono costretti al lavoro forzato, vengono arbitrariamente arrestati, le tasse per loro sono discriminanti e subiscono anche violenza fisica e psicologica. Ai giovani, invece, non è garantito il diritto all’istruzione. 

Anche i monaci buddisti si sono accaniti nei loro confronti. Li considerano una minaccia per la purezza religiosa buddista, motivo per cui non sono permessi i matrimoni misti. Il Movimento 999 a suon di “vivono sulla nostra terra, bevono la nostra acqua e non portano rispetto” rappresentano il gruppo portavoce di questa campagna. Il movimento è guidato da Ashin Wirathu, monaco buddista già incarcerato per 8 anni per incitamento all’odio. 

Il genocidio che li ha spinti alla fuga

L’inizio delle loro peregrinazioni è legato agli scontri del 2012, in cui sono stati saccheggiati e distrutti interi villaggi in seguito dello stupro e uccisione di una giovane donna buddista, Thida Htwe. Il primo apice della fuga dei Rohingya si è verificato nel 2015, quando circa 25mila profughi hanno abbandonato il Golfo del Bengala. L’emergenza migranti si è intensificata ulteriormente per la mancata accoglienza dei Paesi limitrofi. Nel 2017 l’esercito birmano ha dato vita ad un’operazione di pulizia etnica: violenze sessuali, incendi, stragi e crimini contro l’umanità hanno causato una forte ondata migratoria di civili costretti a scappare in Bangladesh, dove hanno trovato una sistemazione nel Cox’s Bazar, un grande campo profughi alla frontiera. Un accorto bilaterale tra Bangladesh e Myanmar aveva stabilito il rimpatrio della sfortunata popolazione Rohingya all’inizio del 2018. Diverse sono state le proteste per la difesa dei diritti umani che ne hanno causato il rinvio. Sono state le Nazioni Unite a definire quelle azioni come “pulizia etnica”: l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha parlato di genocidio, in relazione alla violenza delle forze di sicurezza birmane chiaramente intenzionate a distruggere il gruppo etnico. 

In questa vicenda ha un ruolo, più passivo che attivo, Aung San Suu kyi, che dal 2016 è stata Consigliera di Stato e alla guida del ministero degli Esteri. Contrariamente a quanto dice il suo Nobel per la pace, le sue azioni, o meglio non-azioni, si sono limitate alla richiesta di “rispettare la legge e l’ordine”. Nel mentre continuava ad omettere il termine “Rohingya” nei suoi discorsi, sostituendolo con “bengalesi” o “musulmani”. È arrivata anche a revocare il permesso alla Bbc per recarsi sui luoghi del conflitto. Le Nazioni Unite hanno stabilito che la leader “non ha usato la sua posizione di capo di fatto del governo, né la sua autorità morale, per contrastare o impedire lo svolgersi degli eventi nello stato di Rakhine”. Nel 2019 è stata chiamata dalla Corte di Giustizia dell’Aja a rispondere delle accuse di genocidio contro i Rohingya.  

Nel 2021 la leader birmana è stata arrestata in seguito ad un colpo di Stato, ma il Paese è caduto in un abisso di violenze che ha solo peggiorato la situazione della minoranza, ma anche di tutta la società civile birmana. La risoluzione delle Nazioni Unite del 2021 ha chiesto l’immediata cessazione delle ostilità e di tutte le violazioni delle leggi umanitarie da parte dell’esercito del Mynmar contro i Rohingya e le altre minoranze. 

Intanto la popolazione continuava ad organizzarsi per fuggire, unica soluzione per un popolo non riconosciuto, discriminato e senza via di uscita. All’ennesimo naufragio, Sultana Begum, Regional humanitarian Advocacy and Policy Manager di Save the Children, ha affermato: “Questo dovrebbe essere un campanello d’allarme per tutti noi. La lunga persecuzione del popolo Rohingya ha ora mietuto nuove vittime innocenti, tra cui anche bambini”. E ancora, “le passate esperienze di violenza, così come la povertà e l’insicurezza, spingono le famiglie Rohingya a compiere questi viaggi mortali in mare alla ricerca di una vita migliore”. Per le famiglie “queste traversate sono estremamente pericolose e coloro che fuggono rischiano la morte, gravi danni fisici e mentali e la malattia. La necessità di garantire che i Rohingya siano al sicuro, rispettati e protetti è più urgente che mai”. 

Prigionieri di un’isola

Il capo dell’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati ha infatti accettato di aumentare il sostegno ai rifugiati trasferiti in un’isola sperduta e soggetta a inondazioni in Bangladesh. I rifugiati sono stati trasferiti sull’isola di Bahsan Char nel 2020, ma prima che le Nazioni Unite potessero verificare se fosse adatta ad ospitarli. Tra le motivazioni di questa scelta azzardata c’era anche la necessità di fronteggiare l’aggravante Covid. L’isola di Bahsan Char è emersa dal mare nel 2006, è costituita interamente da sedimenti di limo himalayano ed è nota per la sua vulnerabilità ai cicloni. Nulla ha fermato, però, la costruzione di abitazioni, negozi e moschee, tutto appositamente per i 100mila apolidi. Se non fosse per il piccolo particolare delle ostilità metereologiche che ogni anno sommergono le pianure di un metro d’acqua durante l’alta marea.

Il governo del Bangladesh aveva suggerito per la prima volta questa soluzione nel 2015, soluzione giudicata “difficile dal punto di vista logistico” dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Nonostante questo, il Bangladesh ha comunque ordinato il loro reinsediamento nel 2017. Dal 2020 sono 29.116 i rifugiati Rohingya che possono lavorare e contribuire all’economia sull’isola, a patto che non ci si allontanino. Ed è proprio il limite di movimento imposto ai residenti che li ha spinti a fuggire disperatamente da una prigione in cui le acque rappresentano una barriera mortale. 

Le condizioni sono critiche anche per chi risiede ancora nelle terre del Bangladesh. A Shahjalal Upasahar, un quartiere povero nella città di Sylhet, nel Bangladesh nord-orientale, la stagione dei monsoni sta rendendo più complicata del solito la vita dei rifugiati del quartiere. Le forti piogge nella regione hanno innescato inondazioni pre-monsoniche la settimana scorsa e i fiumi Surma e Kushiara in piena hanno sommerso centinaia di villaggi. Oltre alla mancanza di acqua potabile e cibo, oltre 1,5 milioni di bambini erano a rischio di malattie trasmesse dall’acqua, annegamento e malnutrizione a causa delle inondazioni. Per i cittadini è impossibile vivere nelle proprie case, in cui l’acqua arriva alle ginocchia. Molti di loro si sono trasferiti nei rifugi istituiti dalla Shylet City Corporation. 

Nonostante gli elogi nei confronti del Bangladesh per aver accolto i rifugiati, in questi anni il Governo non solo non è riuscito a trovare una casa permanente per i Rohingya, ma non è riuscito neanche a garantire loro un soggiorno dignitoso nel loro Paese, abbandonandone altri in un’isola senza possibilità di scelta. 

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggi

Il processo farsa. Aung San Suu Kyi condannata a 6 anni per corruzione: altro ‘colpo’ del regime militare birmano. Redazione su Il Riformista il 15 Agosto 2022. 

La scure del regime militare birmano colpisce ancora una volta Aung San Suu Kyi, la leader politica democratica e premio Nobel, già agli arresti domiciliari dal colpo di stato del febbraio 2021. 

Un tribunale del Paese l’ha infatti condannata ad altri sei anni di prigione nell’ambito di un processo condotto a porte chiuse e senza la possibilità per la stampa di poter assistere alle udienze, oltre ad un ordine del tribunale che impediva agli stessi legati di Aung San Suu Kyi d poter parlare pubblicamente del processo.

Le accuse nei confronti della leader birmana, già condannata lo scorso gennaio a quattro anni per violazione delle restrizioni alle importazioni (importando illegalmente dei walkie-talkie), la violazione della legge sulle telecomunicazioni (utilizzando i walkie-talkie senza licenza) e la violazione delle restrizioni per il coronavirus, erano quelle di aver abusato della sua posizione nel governo del Myanmar per affittare terreni pubblici a canoni inferiori a quelli di mercato e per aver costruito una residenza privata con fondi raccolti per scopi caritatevoli.

Dal colpo di stato del 2021, compiuto dall’esercito instaurando un regime militare, il Paese è sprofondato nuovamente nella dittatura, le libertà sono fortemente limitate e gli stessi militari controllano il sistema giudiziario.

Proprio dopo la svolta militare Aung San Suu Kyi ha dovuto incassare diverse condanne. Nel dicembre 2021 era stata condannata a quattro anni, due per sedizione e due sempre per aver violato le restrizioni per il coronavirus, durante la campagna elettorale. Quindi ad aprile l’ennesima condanna, questa volta a cinque anni, con l’accusa di aver accettato una tangente dell’equivalente di oltre 500mila euro dall’ex governatore della regione di Yangon.

·        Quei razzisti come i kazaki.

Il Kazakistan e l’ex presidente Nazarbayev: come affamare un popolo e diventare miliardari. Franceso Battistini e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2022.

2221b Baker Street. Gli appassionati di gialli sanno che questo indirizzo nel centro di Londra è la casa di Sherlock Holmes. L’ultimo proprietario conosciuto del palazzo si chiamava Rakhat Aliyev: un ex ambasciatore che aveva sposato Dariga, la prima figlia del primo – e per 29 anni unico – presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev. Caduto in disgrazia e scappato in Europa, Aliyev aveva fatto appena in tempo a denunciare pubblicamente quanto corrotto fosse il regime dell’ex suocero. Nel 2014 lo arrestarono in Austria, con l’accusa d’aver assassinato due funzionari kazaki. E otto mesi dopo, mentre attendeva il processo, lo trovarono impiccato nella sua cella a Vienna. Proprietario di banche e raffinerie, si scoprì che Aliyev era l’intestatario del museo di Sherlock Holmes e di tutte le case di Baker Street che vanno dal civico 215 al 237: valore 215 milioni di dollari. Ma il patrimonio immobiliare complessivo a Londra è di ben 450 milioni di dollari. Ed è solo una goccia, nell’immenso mare d’oro del clan Nazarbayev. 

Nel ricco Kazakistan si fa la fame

In Kazakistan, il 2 gennaio, è scoppiata una rivolta contro il caro vita così furiosa da convincere Putin a inviare l’esercito, in appoggio del governo amico. La più ricca ed estesa delle vecchie repubbliche sovietiche nell’Asia Centrale – con meno di 20 milioni d’abitanti – è anche il più grande esportatore mondiale d’uranio e ha il secondo giacimento petrolifero al mondo. Eppure il reddito familiare medio dei kazaki non arriva a 600 dollari mensili e la metà delle ricchezze nazionali è nelle mani soltanto di 162 persone. L’81enne padre-padrone del Kazakistan ha lasciato la presidenza tre anni fa e, dopo la rivolta popolare, sembra non controllare più la macchina del potere, ma il suo clan, una cinquantina fra nipoti e parenti, possiede ancora tutto: 40 miliardi di dollari solo in liquidità. Certo, le proteste per il rincaro del gpl avrebbero causato una perdita di circa 3 miliardi di dollari alla secondogenita di Nazarbayev, Dinara, e al di lei marito Timur Kulibaev: uno dei mille uomini più ricchi del mondo, proprietario del fondo sovrano, di tutti gli idrocarburi e di un bel po’ di banche kazake. 

Tutte le banche del clan

Le banche, appunto. In Kazakistan, solo sei anni fa ce n’erano nove che controllavano il 78% del mercato: quattro sono sparite, le restanti sono finite nel portafoglio del clan. Jysan Bank è una delle più grandi, fa capo al genero di Nazarbayev, ed è considerata il suo bancomat personale, pur avendo in pancia un 44% di prestiti scaduti. C’è poi il caso di Tengri Bank, fondata dalla coppia più chiacchierata del clan, il finanziere Timur Kuanyshev e la moglie Alfiya: li chiamano «i ricchi in mutande» da quando furono ammanettati a Mosca con un milione di dollari non dichiarati e cuciti nella biancheria intima. Timur e Alfiya, amici del Principe Andrea, invitati di riguardo al matrimonio reale di William&Kate, in agosto hanno venduto ai cinesi le loro quote della Tengri: appena in tempo, prima che i dirigenti venissero arrestati per distrazione di fondi. Infine c’è l’Italian Connection: un ex ministro di Nazarbayev che ora da Parigi guida l’opposizione, Mukhtar Ablyazov, ha ricordato l’incredibile risiko bancario che portò anche il più grande istituto italiano, Unicredit, a strapagare 2,1 miliardi di dollari una banca (Atf) che apparteneva a Bulat Utemuratov, un affiliato di Nazarbayev. Sei anni dopo, nel 2013, la stessa Unicredit ha rivenduto l’Atf per 493 milioni a un nipote di Nazarbayev, Akhmetzhah Yessimov. Il quale a sua volta la girò al Jysan Bank, il bancomat di Nazarbayev. Un’operazione costata ad Unicredit la strabiliante cifra di 1,6 miliardi di dollari, che finì nelle tasche del dittatore. Perché la banca italiana accettò di perdere tanti soldi? In quei mesi il regime andava accusando l’Eni d’essere in ritardo con i contratti per lo sfruttamento dei pozzi di Kashagan e minacciava di farle pagare una maxi-penale. Dopo l’operazione Atf, miracolosamente, Nazarbayev tolse ogni pressione su Eni. 

Ricatti e tangenti

È naturalmente il petrolio a dare profumo ai soldi di Nazarbayev. Questo figlio d’umili pastori, ex operaio siderurgico e capataz comunista, fu l’ultimo leader d’una repubblica sovietica a dichiarare l’indipendenza dall’Urss e il più lesto a fiutarne le opportunità. «Veniva a Mosca a chiedermi di spiegargli i segreti del business» ricorda l’ex ambasciatore americano Robert Strauss. Nel 1993, da poco diventato presidente, Nazarbayev già offriva in saldo all’Occidente centinaia di missili sovietici. Il Dipartimento americano della Giustizia ha indagato spesso l’ex presidente kazako per corruzione, mentre il suo amico banchiere James Giffen, lobbista a Washington, è stato anche arrestato per 78 milioni di tangenti incassate da grandi compagnie petrolifere. Famosa la mazzetta da un miliardo di dollari offerta da Nazarbayev in persona a James Baker, nel mezzo d’un incontro ufficiale col segretario di Stato americano, perché favorisse una pipeline. O la proposta a Bush jr, tre mesi dopo l’11 settembre, d’aderire alla lotta al terrorismo in cambio d’un aiutino per i guai giudiziari negli Stati Uniti. In una colazione al Rockfeller Center, Nazarbayev chiese alle compagnie petrolifere, in cambio di contratti, di versare l’obolo per un suo investimento immobiliare a New York. Un nipote di Nursutan, Aisultan, 29enne figlio ribelle di Dariga con problemi di droga, un giorno fuggì a Londra e rivelò tra le altre cose una tangente da 1,5 miliardi versata al nonno dai russi di Gazprom, su un conto a Singapore. «Sono la pecora nera, mi daranno del tossico e mi uccideranno» predisse il ragazzo pochi mesi prima di morire all’improvviso, e non è mai stato chiarito come. 

I consiglieri: da Blair a Schröder

In trent’anni, dai conti del clan Nazarbayev in Svizzera e alle Isole Vergini sono usciti soldi un po’ per tutti. Trenta milioni finirono alla fondazione di Bill Clinton, che nel 2005 in visita nella capitale kazaka ne aveva tessuto pubbliche lodi. Altri nove a Tony Blair, assunto come advisor internazionale del regime. Nella lista dei consiglieri politici stavano anche Romano Prodi, l’ex cancelliere tedesco Schröder, quello austriaco Gusenbauer. Nell’elenco degli amici italiani c’era, soprattutto, Silvio Berlusconi. Il presidente Scalfaro conferì al dittatore l’onorificenza di Gran Croce. Del resto l’Italia è da anni il secondo partner d’affari europeo del Kazakistan. WikiLeaks nel 2012 rivela: le imprese italiane per lavorare sono obbligate a pagare il dittatore. 

Dai castelli in Svizzera all’Hotel Plaza

La figlia Dariga controlla i media e il partito unico. E assieme al figlio Nurali, al suocero Aisultan, alle sorelle Dinara e Aliya, ai cognati Timur e Bolat, gestisce lo sterminato patrimonio immobiliare di famiglia. Un elenco difficile da aggiornare: il castello di Bellerive e la villa coloniale a tre piani ad Anières, sul lago di Ginevra (valutati in 190 milioni di dollari); la quota al Plaza Hotel che domina Central Park a New York (20 milioni); le case a Wall Street, nel New Jersey e in Florida (30 milioni); le proprietà inglesi a Chelsea, ad Ascot e nel Surrey (165 milioni); «La Tropicale» di Cannes (34 milioni); e poi la tenuta spagnola di Lloret de Mar, gli alberghi termali in Repubblica Ceca, altri 140 milioni sparsi in proprietà che la National Crime Agency britannica ritiene «acquistati con denaro di fonte illecita». 

Dopo settimane d’assenza, finita la rivolta, Nazarbayev è comparso in pubblico per rassicurare che «non c’è lotta per il potere» e che il padrone è ancora lui. Forse no, ma certamente resta padrone di tutto quello che ha arraffato, mentre il Kazakistan che lascia in eredità fa fatica a pagare la bolletta del gas ed è al 113esimo posto (su 180) nella classifica di Transparency International dei Paesi più corrotti. Al 157esimo in quella della libertà di stampa. Ha pochi eguali per inquinamento da scorie nucleari e sostanze tossiche. I kazaki considerano il pane, «nan», un alimento sacro e finito il pranzo, secondo tradizione, sulla tavola non ne deve mai avanzare. Il Leader della Nazione è stato il più bravo di tutti a non lasciare neanche una briciola.

IL PESO DELLA RUSSIA. Il Kazakistan è lo specchio dell’eredità politica dell’Unione Sovietica. VALERIO PELLIZZARI su Il Domani il 15 Gennaio 2022.

Questi sono i giorni bianchi e freddi in cui il potere, ma anche i suoi nemici, agiscono più liberamente e velocemente del solito. Nel linguaggio popolare dicono: il momento ideale per cambiare le cose, per un golpe.

E così è stato in Kazakistan il primo gennaio quando è raddoppiato il prezzo del gas. Parallelamente al braccio di ferro tra Mosca e la Nato sull’Ucraina, ai due estremi del mondo postsovietico. Come una tenaglia.

Il benessere della terra promessa si è concentrato sempre più sfacciatamente attorno al clan di Nazarbaev e incombe la stessa domanda dei primi giorni di indipendenza: perché in una regione così ricca si vive così male?

VALERIO PELLIZZARI. Giornalista, ha seguito per oltre quarant'anni gli avvenimenti che hanno sconvolto l'Europa dell'Est, il Maghreb, il Medio Oriente, l'Asia centrale e l'Estremo Oriente. Ha vinto il Premio Max David per il giornalismo ed è considerato uno tra i primi venti corrispondenti di guerra internazionali. Venne dichiarato «nemico del popolo iracheno» dal regime di Saddam Hussein per aver rivelato i documenti sui prigionieri curdi vittime di esperimenti chimici. A circa vent'anni di distanza da Kabul Kabul, scritto insieme a Ettore Mo, nel 2012 ha pubblicato un memorabile volume sull'Afghanistan dal titolo: In battaglia, quando l'uva è matura.

Kazakistan, economia e politica di un paese ricco di risorse. Il Domani il 7 Gennaio 2022.

Il Kazakistan è definito da molti una miniera d’oro. Ha un territorio esteso quanto l’intera Europa Occidentale ed è pieno di risorse minerarie e di idrocarburi. Ma per trent’anni alla sua guida ha visto un uomo solo: Nursultan Nazarbayev, storico alleato di Vladimir Putin

Da giorni il Kazakistan è finito al centro del dibattito pubblico dopo le rivolte contro il caro del gas e le politiche del governo che hanno portato a decine di morti.

Lo scontro con l’apparato poliziesco kazako rischia di arrivare in breve tempo a un punto di non ritorno dopo che il presidente Toqaev ha ordinato di sparare a vista ai manifestanti, definiti come «terroristi locali e stranieri». In suo supporto è arrivato anche il presidente russo e stretto alleato, Vladimir Putin, che ha inviato circa 2.500 soldati nel paese.

Ma che stato è il Kazakistan? Che tipo di economia ha? E dove si colloca nello scacchiere geopolitico?

BREVE STORIA DELLA LEADERSHIP POLITICA

Il Kazakistan, fa parte dei cosiddetti “Stan states” dell’ex Unione Sovietica, i paesi dell’Asia centrale come Turkemenistan, Kirghizistan, Uzbeistan e Tagikistan. Nello specifico, era la seconda repubblica socialista più grande, e ottenne l’indipendenza da Mosca il 16 dicembre 1991.

Come molti altri ex paesi dell’Urss, il Kazakistan è governato degli eredi della vecchia leadership sovietica locale. Il paese è stato dominato per circa 30 anni del presidente Nursultan Nazarbayev, ultimo leader sovietico del paese. Nazarbayev ha lasciato l’incarico nel 2019, ma secondo molti esercita ancora una profonda influenza nel paese.

Dopo l’indipendenza, il percorso di transizione politica ha portato alla firma di una nuova costituzione nel 1993. Nello stesso anno il paese si è trovato a gestire l’arsenale nucleare sovietico smantellato e consegnato poi alla Russia dopo la firma del Trattato di non proliferazione nucleare.

A fine anni Novanta è stata depenalizzata l’omosessualità e il paese ha cambiato capitale che da Almaty (epicentro delle manifestazioni scoppiate a inizio gennaio) è diventata Astana. Ma al centro delle proteste di questi giorni ci è finito anche l’81enne Nazarbayev la cui statua è stata abbattuta dai manifestanti, che hanno criticato il suo governo autoritario e personalistico. Non è un caso se, con un decreto presidenziale, nel 2019 la capitale Astana è stata rinominata Nursultan, proprio in suo onore.

Alla guida del paese gli è succeduto il suo fedelissimo Toqaevv, esponente del partito Nur Otan fondato da Nazarbayev, accusato di brogli elettorali da parte dell’Osce per le elezioni del 2005. Prima di diventare presidente della Repubblica del Kazakistan, Toqaev ha ricoperto diversi ruoli politici: è stato primo ministro, presidente del senato e anche ministro degli Esteri del paese.

Attualmente, il partito Nur Otan, da sempre vicino alla Russia, detiene 76 dei 98 seggi del parlamento kazako, risultato del dominio politico incontrastato nel paese.

GEOGRAFIA 

Il Kazakistan è definito da molti una miniera d’oro. Ha un territorio esteso quanto l’intera Europa Occidentale ed è pieno di risorse minerarie e di idrocarburi. Confina con Cina, Russia, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan e conta una popolazione di circa 19 milioni di abitanti. Il paese è anche caratterizzato da un melting pot non indifferente, visto che vi vivono cittadini rappresentanti di oltre 100 nazionalità.

I due principali gruppi etnici sono i kazaki e i russi, seguiti dagli uzbeki, gli ucraini e gli uiguri (la minoranza turcofona cinese).

Secondo l’ultimo censimento del 2020, la maggioranza della popolazione è di religione musulmana sunnita (poco più del 70 per cento), mentre circa il 24 per cento della popolazione è cristiana ortodossa. 

ECONOMIA

Gas, petrolio, uranio e altri minerali sono il vero motore dell’economica nazionale. Giacimenti di petrolio si trovano a Qarashyghanaq, Zhangaözen, Tengiz e nel Mar Caspio. Nel 2020 il paese ha attiratto investimenti per 161 miliardi di dollari dalle multinazionali dell’energia come Eni, Chevron, Shell e General Electric. 

Il paese, a oggi, dipende dall’esportazione dei prodotti petroliferi ma ha iniziato, ancora senza successo, a diversificare la propria economia investendo in altri settori. Negli ultimi anni il Kazakistan ha attirato anche investimenti cinesi nel settore delle infrastrutture e dell’edilizia. 

Ma le proteste possono avere una ricaduta non indifferente nell’economia del paese, già messa in crisi come nel resto del mondo da parte del Covid-19. Stando ai dati dello scorso 5 gennaio la moneta nazionale (tenge kazako) ha subito un crollo rispetto al dollaro statunitense.

(ANSA-AFP l'11 gennaio 2022) - Il presidente del Kazakhstan, Kassym-Jomart Tokayev, ha accusato il suo predecessore Nursultan Nazarbayev di aver favorito la creazione di "una classe di persone ricche anche per gli standard internazionali". Secondo l'agenzia di stampa statale russa Ria Novosti, il presidente del Kazakhstan Tokayev ha incaricato il governo di creare un elenco di società e grandi oligarchi che trasferiranno annualmente capitali a un fondo sociale. 

"Grazie al primo presidente, l'Elbasy (leader della nazione, titolo dell'ex presidente Nazarbayev, ndr), nel Paese sono comparsi un gruppo di aziende molto redditizie e un ceto di persone ricche anche per gli standard internazionali", ha detto Tokayev, parlando davanti ai membri del parlamento. "Credo che sia giunto il momento di rendere il dovuto al popolo del Kazakhstan e aiutarlo in modo sistematico e regolare", ha affermato Tokayev secondo Ria Novosti.

Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per "la Repubblica" l'11 gennaio 2022.  

[…] Il presidente Tokayev. Il quale, ormai, non ha più remore a parlare di «tentato colpo di Stato». Chi c'era racconta di un improvviso abbandono del campo da parte delle forze di polizia. Poche ore che sono bastate però a gruppi di violenti armati e organizzati per prendersi la città, metterne a ferro e fuoco i palazzi delle istituzioni e l'aeroporto, saccheggiare il saccheggiabile. Chi si è trovato nei pressi della centrale piazza della Repubblica, avvertiva qualcosa nell'aria. Giravano voci secondo cui, al calar del sole, sarebbe stato meglio tornare a casa, e in fretta, perché qualcosa di grave poteva accadere.

[…] Dice Tokayev: «Ad Almaty sono comparsi fanatici religiosi, criminali, banditi, predoni e hooligans che hanno agito come un commando. Moltissimi provenivano dall'estero, combattenti dall'Asia centrale, compreso l'Afghanistan, e dal Medio Oriente. L'obiettivo era minare l'ordine costituzionale e prendere il potere». E ancora: «Ora che abbiamo il quadro completo, posso affermare che tutti gli eventi sono correlati e sono parte di un unico piano distruttivo, la cui preparazione è durata nel tempo. Se un anno, due o tre, lo chiarirà l'indagine. In altre parole, è stato un tentativo di colpo di Stato». […]

gli arresti sono arrivati a 8mila, i feriti a più di 2mila, un centinaio quelli gravi, 164 le vittime tra rivoltosi, poliziotti e inermi cittadini. […] Solo ad Almaty la polizia ha scoperto sette depositi di armi. I banditi erano, nella lettura che ne fa il leader kazako, professionisti ben addestrati. […] Putin parla di «metodi in stile Maidan», con «forze distruttive, esterne e interne, che hanno approfittato della situazione». […]

Il presidente kazako tuttavia nulla dice del comportamento degli agenti schierati ad Almaty. Sorvola. Non offre nessuna spiegazione sul perché la città, come sostiene l'ala pacifica della rivolta, sia stata lasciata alla mercé dei violenti. Ne accenna alla clamorosa accusa mossa da Yermukhamet Yertysbayev, ex consigliere di Nazarbayev: 40 minuti prima dell'assalto venne dato ordine al cordone di sicurezza dell'aeroporto di tornare a casa. […]

Intorno alle 6 di quel pomeriggio Tokayev licenzia il capo dei servizi segreti (poi lo farà arrestare per alto tradimento) e rimuove l'ex presidente Nazarbayev dalla guida del Consiglio di sicurezza. Dichiara che è in corso un attacco terroristico e chiama in aiuto le truppe di Putin e degli alleati, attivando per la prima volta da quando esiste la clausola di difesa del Trattato collettivo. Alle 9 parla alla nazione. Rimangono però due domande per il regime kazako: perché, nelle ore cruciali, Almaty è rimasta indifesa? E da chi erano guidati i ribelli che l'hanno devastata?

Kazakistan, strage in piazza: Putin manda i soldati russi, carneficina di manifestanti anti-regime.  Libero Quotidiano il 06 gennaio 2022.  

Situazione fuori controllo in Kazakistan, dove decine di  persone hanno perso la vita nei violentissimi scontri di piazza tra chi protesta contro il regime per l'aumento del prezzo del gas (lo stato ex sovietico ha uno dei climi più rigidi al mondo) e le forze dell'ordine schierate dal governo. Ad Astana e Almaty, le due più importanti città del Paese, sono intervenute anche le truppe dell'esercito russo, con Vladimir Putin che ha risposto all'appello del governo alleato inviando migliaia di soldati all'alba. E gli scontri si sono velocemente trasformati in una carneficina.

Ci sono "decine" di vittime tra i manifestanti, e tredici tra gli agenti di sicurezza, secondo fonti governative. Centinaia di feriti, migliaia d’arresti, con contorno inevitabile di devastazioni e saccheggi nelle ville degli oligarchi e municipi incendiati. Assalto anche alla residenza presidenziale, a testimonianza di come la protesta sia diventata subito politica. Mosca ha commentato la vicenda sottolineando come sia in atto un tentativo di destabilizzazione dall’estero. Uno scenario inquietante, che riecheggia quanto accaduto in tutti questi anni in Ucraina. Un altro focolaio di tensione internazionale.  

"La sicurezza e l’integrità del Kazakistan sono minati", fanno sapere dal Ministero degli Esteri russi. "Continueranno le consultazioni con il Kazakistan e con gli altri Paesi dell’Organizzazione del trattato per la sicurezza collettiva per ulteriori iniziative da elaborare, se necessario, per facilitare le operazioni antiterrorismo in Kazakistan". Il presidente kazako Qasym-Jomart Toqaev (la cui statua è stata distrutta) ha parlato di "atto d'aggressione" da parte di "bande di terroristi internazionali", mentre la tv di Stato kazaka ha riferito di uomini armati che hanno circondato due ospedali ad Almaty, bloccando l'ingresso a pazienti e personale medico. Il clima è quello di guerra civile imminente, con Lufthansa che ha precauzionalmente cancellato tutti i voli di collegamento con la Germania "fino a nuovo avviso", imitata rapidamente dalle compagnie aeree degli Emirati Arabi.

Rivolta in Kazakistan contro il caro energia. La polizia spara: 20 morti. Luigi Guelpa il 6 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Appena due settimane fa il Kazakistan festeggiava i 30 anni di indipendenza da Mosca e le reti televisive mandavano in onda uno spot nel quale il presidente Kassym Tokayev sosteneva: «Il Kazakistan ha leadership, stabilità e progresso». Oggi si piangono i morti. La favola non ha imboccato la strada del lieto fine, spazzata via dalle proteste di piazza. Oltre la patina di ottimismo sbandierata da Tokayev, esistono 18 milioni di abitanti che vivono al di fuori della bolla del benessere frequentato dall'establishment politico.

L'aumento del prezzo della benzina è stata la scintilla che ha gettato il Paese nel caos. I lavoratori del settore del gas e del petrolio, ma soprattutto le fasce più povere, hanno visto più che raddoppiare in poche ore il prezzo del carburante. Inconcepibile per una nazione che produce ed esporta energia. Purtroppo le proteste per i rincari si sono trasformate in assalti alle istituzioni governative. Tokayev, delfino dell'81enne Nursultan Nazarbajev, al comando dal 1990 al 2019, sta vestendo i panni del parafulmine. I kazaki però ce l'hanno con il grande vecchio, l'amico di Putin che dietro le quinte manovra ancora l'apparato economico della giovane nazione. Tokayev, diventato presidente con l'elezione pilotata del marzo 2019, sta cercando di riprendere il controllo, ma l'anarchia regna sovrana. Con due interventi in tv in meno di 24 ore, ha lasciato intendere di essere pronto a considerare le richieste dei dimostranti, invitandoli però a non diventare preda di provocazioni interne ed esterne, ammonendo che il proseguimento dei disordini illegali verrà contrastato con durezza. Al momento le sue parole non sembrano un deterrente. Nelle principali città del Paese la gente ha occupato strade, piazze ed edifici pubblici, spesso con la violenza. Ad Almaty, la capitale finanziaria, i manifestanti hanno sequestrato il quartier generale della sicurezza nazionale. Ad Aktobe, la prima località, assieme a Janaozen, dove sono scoppiate le proteste per l'aumento dei prezzi del gas, il municipio è nelle mani dei rivoltosi, che non hanno incontrato alcuna resistenza da parte delle forze dell'ordine. Anzi, alcuni poliziotti si sono schierati al loro fianco. Nella città di Taldykorgan è stato abbattuto il monumento di Nazarbajev.

Il bilancio delle violenze, in parte sedate dalla polizia con granate stordenti e attrezzature speciali, è di una ventina di morti, un centinaio di agenti delle forze dell'ordine feriti e di oltre trecento arresti effettuati. Ma si tratta di cifre parziali, anche perché da alcune ore è in corso un blackout di internet a livello nazionale. Ufficialmente per presunti disservizi registrati nella telefonia mobile, in realtà per spezzare la catena di contatti tra i gruppi di manifestanti. Tokayev ha tentato un'ulteriore carta della distensione licenziando l'esecutivo guidato da Asqar Mamin e promettendo di riportare da 24 a 10 centesimi d'euro il prezzo al litro della benzina. Parallelamente ha imposto il coprifuoco in tutto il Kazakistan dalle 23 alle 7 e la chiusura dell'aeroporto di Almaty, già comunque vandalizzato da un gruppo di contestatori.

A livello internazionale si attendono le mosse della Russia. Mosca ha interessi nel settore energetico, e dipende dalla base di lancio di Baikonur per tutte le missioni spaziali. Il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov si augura che nessuno interferisca nella situazione in corso. Intanto Putin, Tokayev e Lukashenko hanno organizzato un summit da remoto. E mentre Bruxelles chiede una de-escalation, Washington ha comunicato all'ambasciatrice Judy Kuo di mettere in sicurezza i concittadini in attesa di un volo speciale per il rientro negli Usa. Luigi Guelpa 

Il Kazakistan in fiamme. Mosca manda le truppe spari ad altezza d'uomo. Luigi Guelpa il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Decine di morti, inutile l'appello di Tokayev. Governo impotente, violato il coprifuoco.

Il Kazakistan non vive più giornate di protesta, ma una vera e propria guerra civile. Nonostante gli appelli lanciati in tv dal presidente Kassym-Jomart Tokayev, il clima è sempre più teso, votato a una totale anarchia. Da una parte ci sono i manifestanti, che con il pretesto degli aumenti esorbitanti di gas e benzina hanno messo sotto assedio edifici pubblici, stazioni e aeroporti, chiedendo la testa non di Tokayev, ma del grande vecchio della politica kazaza, l'81enne Nursultan Nazarbajev, l'uomo che nell'ombra comanda la stanza dei bottoni del comparto economico del Paese. Sull'altra sponda c'è un governo quasi impotente, che non riesce a far rispettare lo stato di emergenza, che attende aiuti dalla Russia e che si barcamena sotto la guida del vicepremier Alikhan Smailov, chiamato a ricoprire il delicato ruolo di leader nazionale fino alla formazione di un nuovo esecutivo.

Se la situazione appare in minima parte gestibile di giorno, la notte, nonostante il coprifuoco imposto dalle 23 alle 7, migliaia di persone, anche armate, scorrazzano per le strade di Almaty, Astana, Aktobe e Taldykorgan, ormai in balìa della legge del più forte. Secondo quanto riferito da fonti di polizia, che ha perso 19 uomini, ci sarebbero decine di manifestanti uccisi mentre cercavano di assaltare vari edifici delle forze dell'ordine e della politica. Oltre mille le persone ferite in due giorni di violenti scontri, di cui almeno 400 ricoverati in ospedale e 62 in terapia intensiva. Immediata la reazione di Mosca, che ha inviato decine di mezzi blindati e truppe già arrivati nella piazza della città più grande, Almaty, teatro degli scontri più gravi. L'Organizzazione del trattato per la sicurezza collettiva (Csto), composta da sei ex repubbliche sovietiche guidate dalla Russia, ritiene che i disordini in corso siano in parte dovuti a un intervento dall'estero. Il Csto include, oltre a Russia e Kazakistan, anche Armenia, Bielorussia, Kirghizistan e Tagikistan. Dopo l'arrivo delle prime truppe da Mosca, l'Organizzazione ha annunciato la decisione di inviare anche forze di «peacekeeping» per un periodo limitato di tempo, con l'obiettivo di stabilizzare e normalizzare la situazione nel Paese. Secondo Mosca la sovranità del Kazakistan sarebbe minacciata in parte da interventi dall'estero. Il ministro degli esteri russo Lavrov ha persino accennato alla presenza di mercenari provenienti dall'Afghanistan.

La situazione sta tornando alla normalità nella capitale Nur-Sultan, dove si stanno creando lunghe file ai bancomat nel tentativo di prelevare contante, dopo che la banca centrale ha annunciato la sospensione delle operazioni. Le strade sono affollate ma non sono in corso proteste, internet è ancora bloccato e la polizia pattuglia la città. Non è così invece ad Almaty, dove rivoltosi armati hanno circondato due ospedali intralciando il transito dei feriti. I dimostranti starebbero utilizzando civili come scudi umani, il che sta complicando le operazioni per ristabilire l'ordine. Nella città, come riporta l'agenzia russa Tass, ci sarebbe stata una intensa sparatoria tra militari e uomini armati di fronte alla sede governativa. «Le truppe sono arrivate in piazza e hanno iniziato a ripulirla dai rivoltosi», riferisce l'agenzia russa. Saccheggiate le sedi di cinque stazioni televisive, e in tilt si trovano anche i trasporti. Gli aeroporti di Almaty, Aktay e Aktobe sono chiusi in seguito alle violente proteste. L'hub di Almaty è stato devastato dai dimostranti che lo avevano occupato. Le aree del terminale e del duty free sono state distrutte e depredate. Le forze di sicurezza hanno ripreso a stento, e sono nella tarda serata di ieri, Il controllo dello scalo. Le autorità aeroportuali hanno inoltre comunicato la sospensione di tutti i voli da Mosca verso Almaty e Nur-Sultan. Interrotte anche le principali direttrici ferroviarie, dopo che un gruppo di manifestanti ha sabotato i binari della linea ad alta velocità che collega la capitale Nur-Sultan ad Almaty, all'altezza di Karaganda. Luigi Guelpa 

Kazakistan, che fine ha fatto il clan Nazarbayev? Dariga, la figlia prediletta, si prepara al «trono». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022.

L’ex presidente finora aveva potuto esercitare un controllo assoluto, ma l’appello all’intervento militare russo del suo delfino Tokayev è apparso un segno di debolezza.

«Ci sei tu, in riva al mareee…!». Al più grande Paese del mondo senza mare e senza democrazia, ogni tanto tocca anche questo: ascoltare i gorgheggi di Dariga Nazarbayeva, la figlia prediletta del Leader della Nazione, l’erede predestinata che la stampa kazaka (di cui è proprietaria) descrive come un usignolo e che quando molla il Senato (di cui è presidente) va sulla tv di Stato (di cui è fondatrice) a cantare ballate folk, vecchi successi di Joe Dassin, l’immancabile Toto Cutugno e l’amata versione francese di «Luglio» by Riccardo Del Turco, «luglio col bene che ti voglio/ credevo ad un abbagliooo…». Cose normali, nel Nazarbayev-stan. Dove la rabbia contro il clan Nazarbayev, ben prima che per il prezzo del gas, si barcamena da anni su un mare d’abusi, di delitti, di follie. Città cambiate di nome. Ordinanze per imporre l’uso dell’apostrofo. Favole per bambini riadattate all’epica di regime. 

«Andate tutti in vacanza in Kazakistan», esortava nel 2008 il premier italiano Silvio Berlusconi, che dal bielorusso Lukashenko in poi sempre è sempre stato generoso con gli alleati di Putin: «Lì c’è un signore che è un mio amico, non a caso ha il 92% dei voti. Un consenso che non può non basarsi sui fatti». Il consenso è nei numeri: è dal 1991 che l’81enne Nursultan Nazarbayev macina percentuali oscillanti fra il 90 e il 98%, mai di meno, e in fondo cosa conta che tutti gli osservatori internazionali le abbiano sempre giudicate elezioni-truffa, che un referendum (votato ovviamente al 90%) gli dia il diritto d’essere eletto a vita, che perfino i candidati dell’opposizione rinuncino a farsi votare e raccomandino di preferire lui, l’Aksakal, il Vecchio Saggio, il Leader Nazionale che Amnesty International accusa regolarmente di torture, uccisioni mirate e quant’altro. 

I fatti dicono che Nursultan, letteralmente «il Sultano di Luce», s’è dimesso a sorpresa nel 2019 pretendendo la totale immunità: da ieri costretto a lasciare anche il Consiglio di sicurezza che avrebbe dovuto prevenire gli scontri di piazza, al Sultano preme che la corte resti protetta. Finora ha potuto esercitare un controllo assoluto, ma l’appello all’intervento militare russo del suo presidente-delfino Tokayev è apparso un segno di debolezza. E sembra un po’ sfilacciata la rete di sostegno di molti leader stranieri, che un tempo passava per Tony Blair e David Cameron, oggi per la Turchia di Erdogan e la Cina, domani chissà. Qualcosa di questa rete si capì anche in Italia nell’estate 2013, quando la polizia arrestò a Roma e poi espulse Alma Shalabayeva, moglie d’un oppositore. Il ministro dell’Interno era Angelino Alfano e il governo fu accusato d’avere violato, inspiegabilmente, tutte le normali procedure d’espulsione. Nazarbayev è sempre stato veloce a trovarsi gli amici giusti, a scaricare quelli inutili e a fiutare i capovolgimenti, fin da quando osava dire no a un declinante Gorbaciov che voleva nominarlo vicepresidente dell’ultima Urss, o buttava alle ortiche la tonaca di comunista ateo per mettersi il turbante del sunnita anti-iraniano. Con tutto il gas e l’uranio che in trent’anni di potere ha venduto per il mondo, soprattutto a noi italiani, gli è riuscito facile rilanciare l’economia – pur lasciando i kazaki, meno di venti milioni, poco più che alla fame – e rifarsi una capitale nuova di zecca, Astana, con modestia ribattezzata tre anni fa Nursultan.  

Un po’ meno, il Sultano ha saputo placare gli appetiti della corte. A cominciare da Dariga, 58 anni, la prima delle tre figlie, che ha fondato un partito poi confluito in quello di papà («sei tornata da tuo padre!», fu il pubblico riconoscimento) e alterna, in attesa di salire al trono presidenziale, concerti sugli Champs-Elisées a ruoli in film musical. E’ l’ambiziosa Dariga a tenere la cassaforte, dicono: i Panama Papers rivelarono i suoi immensi depositi off-shore nelle Isole Vergini, compreso il titolo di proprietà della finta casa di Sherock Holmes a Londra, al 221B di Baker Street. 

Sono noti i suoi contrasti col presidente Tokayev, che ne ha temporaneamente usurpato il trono. Ma Dariga sa aspettare, sempre che il clan sopravviva alle folle furiose che adesso la insultano nelle piazze. 

Alla corte dei Nazarbayev, del resto, non sono abituati al dissenso. E una strana maledizione s’è sempre abbattuta su chi ha rotto le regole. Rakhat Aliyev, l’ex marito di Dariga, già capo dei servizi e ambasciatore kazako, entrò in contrasto con la Famiglia e scoprì suo malgrado d’essere divorziato mentre si trovava all’estero. Il povero genero del Leader Nazionale chiese inutilmente asilo politico a Malta e a Cipro, ma fu inseguito da un ordine di cattura internazionale per omicidio e venne incarcerato in isolamento in Austria: misteriosamente, lo trovarono impiccato. E il figlio di Dariga? Anche il giovane Nurali figurava intestatario di fortune nei Panama Papers, era un promettente calciatore passato per il Chelsea e il Portsmouth, aveva il vizio della cocaina e di parlare un po’ troppo: su Facebook, raccontò «la mentalità medievale» dei suoi parenti, rivelò d’essere nato da un incesto, denunciò la «corruzione della famiglia e di chi fa affari tra Russia e Kazakistan», poi nel 2020 scappò a Londra e chiese asilo, pure lui. «Mi vogliono uccidere», spiegò. Sei mesi dopo, morì. «Arresto cardiaco». A 29 anni.

FRANCESCO BATTISTINI per il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022.

«Oyan Qazaqstan!», svegliati Kazakistan. Nella capitale più fredda del mondo, dove le acque dell'Iim ghiacciano da ottobre a maggio, in uno dei più congelati regimi post-sovietici, dove da trent' anni comandano ancora i vecchi leader comunisti, ad Almaty e ad Astana bruciano nella notte i blindati della polizia e i palazzi del potere. 

Oyan Qazaqstan: stavolta il Kazakistan s' è svegliato davvero. E il gran fuoco della rivolta, il primo dall'indipendenza del 1991, acceso il 2 gennaio nelle lontane città petrolifere del Mangystau, impiega poco a incendiare tutto. Ci sono morti, non si sa quanti. Centinaia di feriti, migliaia d'arresti, saccheggi nelle ville degli oligarchi, fiamme nei municipi e alla residenza presidenziale.

«Non me ne vado!», ripete sulla tv Jabar 24 il presidente-travicello Kassim-Jomart Tokayev, 68 anni, un passato da ambasciatore dell'Urss, uno che parla in russo a un popolo al 70% turcofono e musulmano. Annuncia due settimane di stato d'emergenza, l'epurazione del premier e ovviamente le riforme: «La risposta sarà dura - promette, lasciando prevedere una repressione di tipo bielorusso -. Questa situazione è tutta colpa di potenze straniere che sobillano!». 

La causa della rabbia è soprattutto lui: a capodanno ha liberalizzato i prezzi alle pompe di gpl e permesso che raddoppiassero ovunque. In un Paese grande nove volte l'Italia e dove tutto viaggia su gomma. In un'economia che è fra le prime dieci esportatrici mondiali di greggio e, da sempre, calmiera i carburanti. Tokayev ha fatto subito retromarcia, riabbassando le tariffe, ma s' è capito presto che nella rivolta del gas c'è ben altro che arde.

«Cacciate il vecchio!», grida la piazza. Perché l'obbiettivo della rabbia popolare non sono solo i pozzi d'oro nero, ma il pozzo nero del potere più profondo: il vecchio Nursultan Nazarbayev, 81 anni, l'«elbasy», il Caro Leader della Nazione, il più longevo dei vecchi arnesi sovietici, l'ex segretario comunista che per 29 anni ha fatto da padrone assoluto del Kazakistan ed è ancora lì, dopo avere messo al potere il suo tirapiedi Tokayev. Hanno già postato le immagini d'una statua di Nazarbayev tirata giù a Taldykorgan, funi e applausi stile Saddam, fra gente che canta l'inno nazionale. L'eterno Nursultan è stato dimissionato dal Consiglio di Sicurezza Nazionale. Girano voci d'un tentato assalto alla casa di Dariga Nazarbayeva, la potente figlia, che papà ha nominato presidente d'un Senato da lui interamente controllato. Ma il regime ha disattivato internet e telefonini ed è già tanto se qualche notizia rompe la barriera del silenzio, nel regno di Nazarbayev: perfino Astana, la sfavillante capitale dei grattacieli di Norman Foster, qualche anno fa è stata ribattezzata Nursultan in cieca obbedienza al Caro Leader. Lo scossone non era previsto: fra tutti gli «stan» dell'Asia Centrale, ugualmente governati con pugno di ferro da reduci dei soviet, il Kazakistan è quello dove meglio convivono le etnie ed è stata garantita una strabiliante crescita economica. La crisi 2014 del petrolio e il calo del 90% delle esportazioni verso la Cina, causa Covid, per la prima volta in vent' anni hanno portato il Paese in recessione.

Quella kazaka, osservano fonti diplomatiche, è anche la prima crisi provocata dai bitcoin: solo nel 2021, quasi 90 mila società di criptovalute si sono spostate qui dalla Cina, allettate dal basso costo dell'energia. Ma così facendo, spiegano, s' è spinto alle stelle il costo della mostruosa quantità d'elettricità necessaria agli algoritmi per «proteggere» i bitcoin. Troppi interessi giostrano intorno a questo gigante centrasiatico. Che è il nono Paese più grande del mondo, siede su enormi giacimenti d'uranio, ha coltivazioni più estese della Russia e dell'Ucraina, flirta sia con Putin che con Erdogan. «Non ammetteremo interferenze», fa sapere il Cremlino: Tokayev ha chiesto l'intervento militare russo. La sveglia è suonata, qualcuno è pronto a spegnerla.

Kazakistan, Mukhtar Ablyazov: “Sono io il capo delle rivolte. Tornerò dall’esilio per liberare il Paese”. Roberto Brunelli su La Repubblica il 7 gennaio 2022. Intervista al marito di Alma Shalabayeva: "Parlo con gli attivisti e denuncio la corruzione su Telegram e YouTube". “È da quattro anni che con il mio partito preparo il terreno per gli eventi di oggi. Ordinando alle forze di sicurezza di sparare per uccidere, Tokayev ha gettato la maschera. Ma rimane un burattino di Nazarbayev”. Parola di Mukhtar Ablyazov, ex ministro kazako all’economia, ex banchiere accusato in patria e in Russia di reati finanziari. Oggi il più noto dissidente del Kazakistan si dichiara il leader dell’opposizione, pronto a rientrare nel suo Paese. 

Gli spari sulla folla e le distese di cadaveri: i video della repressione in Kazakistan. Francesco Battistini per corriere.it il 7 gennaio 2022. Sbarrate le frontiere, spenti i social, disattivato internet. Il Kazakistan chiude per non mostrare al mondo la repressione, feroce, che il regime sta scatenando sulla folla in piazza. «Sparate a vista e senza preavviso», è l’ordine dato in tv dal presidente Kassym-Jomart Tokayev: «Ci sono 20mila delinquenti che hanno attaccato i palazzi pubblici di Almaty – dice nel suo terzo discorso pubblico, da quando è cominciata la rivolta, ringraziando il presidente russo Vladimir Putin per il suo aiuto -. Non negoziamo con questa gente, è assurdo che dall’estero ce lo chiedano. Verrà creata una squadra speciale per dare la caccia a questi terroristi. Chi non s’arrende, sarà eliminato».

A fatica, i kazaki riescono a far uscire informazioni e immagini su quel che sta realmente accadendo. E in questi brevi video, arrivati al Corriere della Sera, qualcosa si vede e si capisce. I corpi speciali, sostenuti dalle truppe inviate da Mosca, che sparano ad altezza d’uomo. Un giovane a terra, sull’asfalto, colpito e in fin di vita.

Distese di cadaveri, coperti da lenzuoli bianchi. Il ministero dell’Interno, dopo aver parlato fino a giovedì sera soltanto di diciotto morti tra gli agenti, solo al sesto giorno di rivolta ammette che ci sono almeno 26 manifestanti uccisi. Le opposizioni sostengono che in realtà le vittime sono centinaia e che la ribellione, placata a fatica nella capitale politica di Nursultan (Astana) e in quella finanziaria di Almaty, prosegue senza sosta nel resto del Paese, specialmente nelle lontane province occidentali. Tokayev dichiara che l’ordine è stato ristabilito quasi dappertutto, accusando “forze dall’estero” di fomentare quelli che chiama “terroristi”. Ma l’aeroporto internazionale di Almaty per ora rimane chiuso.

Le truppe inviate da Putin, in risposta alla richiesta d’aiuto di Tokayev, si sono dislocate in punti nevralgici come le stazioni tv, i ministeri, le residenze della nomenklatura, il centro spaziale russo di Bajkonur: è un intervento militare previsto dal trattato di sicurezza che lega alcune delle vecchie repubbliche sovietiche (Russia, Armenia, Bielorussia, Tagikistan, Kirghizistan e appunto Kazakistan), una riedizione ristretta del Patto di Varsavia dei tempi della Guerra fredda. Lo stesso patto invocato in Bielorussia dal dittatore Lukashenko, nel 2020. E che stava per essere applicato, un anno fa, anche nella rapida guerra fra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabak. Il Kazakistan è diventato, in queste ore, un protettorato russo e il Cremlino fa sapere che “l’operazione di pace” – ovvero il tempo necessario a reprimere le rivolte per il carovita e contro un regime trentennale – durerà almeno un mese. Gli Stati Uniti hanno avvertito Mosca: “Vigileremo sul rispetto dei diritti umani”. Queste immagini dimostrano che sarà un lavoro difficile, al momento quasi impossibile.

Kazakistan: il tradimento, e l'arresto, del capo dell'intelligence. Piccole Note l'8 gennaio 2022 su Il Giornale.

Mentre sui media d’Occidente si rincorrono gli usuali strali contro il governo kazako, che starebbe reprimendo nel sangue una protesta pacifica contro un regime corrotto, un avvenimento di cronaca fa crollare tale narrazione.

L’8 gennaio le autorità hanno annunciato che il capo dei servizi di sicurezza Karim Masimov, destituito dall’incarico senza alcuna spiegazione subito dopo l’inizio della rivolta, è stato arrestato con l’accusa di tradimento (Eurasianet).

La svolta conferma in pieno l’analisi che abbiamo pubblicato in precedenza, che inquadrava gli eventi kazaki nel quadro di una banale, quanto sanguinosa, operazione di regime-change realizzata grazie al supporto di forze interne (peraltro le più oscure, essendo da anni Masimov alla guida della struttura repressiva del Paese).

Da parte sua, il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha affermato che “l’analisi della situazione ha mostrato che il Kazakistan sta affrontando un atto di aggressione armata ben preparato e coordinato da gruppi terroristici addestrati fuori dal Paese” (Itar Tass).

Infine, sembra interessante l’analisi prodotta da Strategic Culture Foundation, in una nota rilanciata dal sito della Ron Paul Institute, che inquadra anch’essa le vicende kazake nel quadro di un regime-change allo scopo di far sprofondare nel caos un Paese più che strategico per Cina e Russia, ma soprattutto per porre nuove criticità alle trattative tra Nato e Russia che si terranno il 10 gennaio (sempre che non saltino a motivo della crisi kazaka).

In particolare, la nota riferisce che alcuni “osservatori hanno scoperto che i soliti sospetti – l’ambasciata americana – già dal 16 dicembre 2021 stavano ‘avvertendo’ della possibilità che avvenissero delle proteste di massa”.

Il 16 dicembre era l’anniversario del distacco del Kazakistan da Mosca. Sull’account twitter dell’ambasciata Usa anche un messaggio del Dipartimento di Stato che ricordava con soddisfazione quell’avvenimento, lodava l’impegno del Kazakistan nel promuovere i diritti umani (sic), impegno che gli aveva permesso di essere accolto nel l Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, e concludeva: “Gli Stati Uniti sono orgogliosi di chiamare il Kazakistan amico e restano impegnati a tutelare la sua sovranità, indipendenza e integrità territoriale. Continueremo a rafforzare la nostra partnership strategica a beneficio dei cittadini di entrambi i paesi”.

Ha assunto la carica di presidente quando Nazarbayev si è improvvisamente dimesso nel 2019. Chi è Kassym-Jomart Tokayev, il presidente del Kazakistan che ha dato ordine di sparare ai manifestanti. Redazione su Il Riformista l'8 Gennaio 2022. 

Il Kazakistan, sconvolto dal 2 gennaio scorso dalle proteste e dagli scontri violenti, è “osservato speciale” per la sua rilevante posizione geostrategica. La repubblica centroasiatica, che da decenni ha attirato finanziamenti e progetti – in particolare dalla confinante Cina – a causa della sua stabilità politica, mostra ora il vero volto dell’uomo forte che guida il paese di oltre 18 milioni di abitanti.

Il presidente Kassym-Jomart Tokayev, messo a capo del governo tre anni fa dal predecesssore e fondatore del Kazakistan indipendente, Nursultan Nazarbayev, ha dato mandato alla polizia di sparare ai manifestanti senza avvertimento.

Chi è Kassym-Jomart Tokayev

Classe 1953, Kassym-Jomart Tokayev ha assunto la carica di presidente quando il suo mentore Nazarbayev, uno stretto alleato del presidente russo Vladimir Putin, si è improvvisamente dimesso nel marzo 2019 dopo 29 anni di governo. Ma Nazarbayev, che ha 81 anni e ha governato il Kazakistan dal 1989, mantiene il controllo sul paese come presidente del consiglio di sicurezza e “Leader della nazione”, un ruolo costituzionale che gli consente privilegi unici di definizione delle politiche, nonché l’immunità dalla persecuzione.

La ascesa politica di Tokayev è iniziata nel 2011 quando è stato direttore generale dell’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra fino all’ottobre 2013. Nella repubblica centroasiatica, Tokayev ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali. E’ stato prima premier del Paese dall’ottobre 1999 al gennaio 2002 e poi dal gennaio 2007 all’aprile 2011 è stato presidente del Senato. Adesso, alla guida del Senato c’è sua figlia Dariga, aprendo la strada alla potenziale successione al governo.

La sua carriera di autocrate ha conosciuto una svolta quando è subentrato ad interim al presidente dimissionario Nazarbaev, e ha indetto le elezioni presidenziali nel giugno 2019, anticipandole di un anno rispetto alla data inizialmente prevista. Alla tornata elettorale, che lo ha consacrato come secondo presidente del paese centrasiatico, Tokayev è stato eletto con il 70,7 per cento dei voti.

Alla guida del paese

Di indirizzo centrista e a capo del partito di governo Nur Otan, Tokayev durante la sua presidenza ha introdotto diverse riforme con l’obiettivo di modernizzare il paese, aumentando i salari dei lavoratori, abolendo la pena capitale, liberalizzando i prezzi e decentralizzando il governo locale. Ma la leadership di Tokayev è nota per la costante violazione dei diritti umani, segnando una continuità con le politiche del suo predecessore. Infatti, il lungo governo autoritario di Nursultan Nazarbayev ha dovuto affrontare poche sfide da parte dei deboli partiti di opposizione.

Dal punto di vista internazionale, Tokayev può contare sull’appoggio del presidente russo Vladimir Putin e del leader cinese Xi Jinping che nel 2013 proprio dal Kazakistan lanciò il progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta. A suscitare l’interesse nel paese dell’Asia centrale è la ricchezza di idrocarburi. Dall’indipendenza in seguito al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, importanti investimenti nel settore petrolifero hanno portato una rapida crescita economica e attenuato alcune delle forti disparità di ricchezza degli anni ’90.

Dal punto di vista etnico, infatti, l’ex repubblica sovietica è molto eterogenea: i russi sono poco meno di un quarto della popolazione, mentre la restante parte è rappresentata da diverse minoranze. Nel Paese  la religione principale è l’Islam, che sta subendo una rinascita dopo una battuta d’arresto durante il governo di Nazarbayev. Le proteste spontanee e non autorizzate sono illegali, nonostante una legge del 2020 che è passata allentando alcune restrizioni della libertà di riunione nello stato autoritario.

·        Quei razzisti come i russi.

Le carceri russe di oggi sono come i gulag: ecco l’inferno in cui è rinchiuso Alexei Navalny. Il principale oppositore di Vladimir Putin è in una delle colonie penali eredità dell’Urss. Tra torture e violenze, così piegano e distruggono le persone. Sabrina Pisu su L'Espresso il 12 settembre 2022

«Niente visite, niente lettere, niente pacchi. Questo è l’unico posto della prigione in cui è vietato fumare. Mi danno carta e penna solo 1 ora e 15 minuti al giorno. Ho solo una tazza e un libro»: così il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny ha denunciato attraverso Twitter il 15 agosto di essere stato messo in una «unità abitativa speciale (Shu)».

È una cella di isolamento all’interno della colonia penale IK-6 di Melekhovo, nella regione di Vladimir, 250 chilometri a est di Mosca, dov’è stato trasferito il 15 giugno dalla colonia penale IK-2 di Pokrov, per scontare la condanna ad altri 9 anni di carcere, inflittagli a marzo per “frode su larga scala” e “oltraggio alla corte”. Questo «isolamento nell’isolamento» è stato deciso dopo che Navalny aveva creato un sindacato dei prigionieri e denunciato le condizioni dei detenuti.

La battaglia del maggior oppositore di Vladimir Putin va avanti anche per cambiare le condizioni «mostruose» delle colonie protette da un muro di impunità. A scalfirlo ci ha provato Sergey Savelyev, 32 anni, bielorusso, condannato nel 2013 a nove anni per droga. Rilasciato nel 2021 ha consegnato a Gulagu.net, il gruppo russo per i diritti umani, fondato dall’attivista Vladimir Osechkin, un dossier e oltre mille video che documentano torture e abusi, soprattutto sessuali, sui detenuti.

Savelyev adesso è ricercato in Russia e continua a ricevere «minacce di morte». Vive in una località segreta francese. Per cinque dei sette anni e mezzo da detenuto è stato all’Ospedale penitenziario n.1 della colonia penale di Saratov, 800 chilometri a sud-est di Mosca. «Mi hanno picchiato, torturato per mesi, con l’acqua e l’elettricità. Ho desiderato morire». Poi lo hanno assegnato al Dipartimento di sicurezza per lavorare al computer: «È un sistema molto corrotto, nelle prigioni utilizzano il lavoro gratuito dei detenuti, un lavoro da schiavi. Ho accettato perché hanno promesso di liberarmi con la condizionale il prima possibile. Stampavo documenti, lavoravo con le videoregistrazioni delle camere di sorveglianza e così ho avuto accesso ai file che documentano quel che succede lì dentro».

A torturare i detenuti sono spesso altri detenuti su ordine degli agenti che rimangono così impuniti: «Formano squadre di reclusi che obbediscono a tutto, molti hanno subito torture e umiliazioni e si sono disumanizzati, sono anche loro vittime del sistema. Ci sono tanti casi di suicidio», dice Savelyev.

Le torture obbediscono a svariate necessità del sistema, controllato da Servizio federale penitenziario (Fsin) e dal Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa (Fsb). Sono inflitte per un’infrazione, per estorcere informazioni, soldi o la totale disponibilità del condannato a farsi strumento di altri piani, ai quali collaborano spesso boss della criminalità organizzata.

Il tasso di incarcerazione in Russia è il più alto d’Europa: 328 detenuti per 100mila abitanti (fonte, Consiglio d’Europa) e le condanne medie sono quattro volte superiori a quelle degli altri Paesi europei.

«Nelle prigioni il sistema politico crea, di fatto, una serie di Putin a tutti i livelli», dice Sergei Davidis, al fianco di Navalny, ora esule in Lituania e per dieci anni direttore del programma di sostegno ai prigionieri politici e membro del consiglio della Ong russa Human Rights Center “Memorial”, classificata nel 2016 come “agente straniero” e chiusa, il 29 dicembre 2021 su ordine del tribunale di Mosca. «L’attenzione nei confronti di Alexei Navalny è troppo alta e quindi, probabilmente, non oseranno fargli del male. Ma rederanno la sua permanenza il più difficile possibile», continua Davidis.

«Niente assistenza sanitaria, 12 ore di lavoro al giorno, tutti i giorni, per 2 euro al mese: questo il regime nelle colonie penali», spiega da Mosca Olga Podoplelova, responsabile legale per Russia Behind Bars, Ong che lavora per migliorare le condizioni dei prigionieri.

Le colonie penali, istituite nel 1929 nella Russia di Stalin, sono sostanzialmente rimaste immutate. Baracche di legno e mattoni in luoghi remoti dove i detenuti lavorano per lo Stato. Oggi in Russia di luoghi così «che ricordano i gulag» ce ne sono 670, nota Giovanni Savino, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università di Parma, che ha insegnato a Mosca per dieci anni ed è tornato in Italia, come atto di dissenso dopo l’invasione dell’Ucraina: «Proprio Navalny ha denunciato che all’interno delle strutture c’è una modalità di controllo fondata sulla creazione di una gerarchia tra i detenuti. Un sistema che va inquadrato nella storia del Paese e nel tentativo di creare una permanenza dell’ordine statale anche a livello carcerario».

Dall’inizio della guerra sono 15.413 i manifestanti pacifici arrestati secondo Ovd-Info, Ong russa per i diritti umani. Secondo Memorial il numero dei detenuti politici dal 2015 è aumentato di dieci volte, i prigionieri politici sono 1.300 su 466mila detenuti.

Sergei Davidis ha sperimentato direttamente i metodi di repressione politica con 10 giorni di arresto per aver ritwittato la notizia di una manifestazione a sostegno di Navalny. «Quasi tutti quelli impegnati nella difesa dei diritti umani o nell’opposizione politica sono finiti dentro per una o due settimane, si viene privati dalla libertà, si hanno 15 minuti al giorno per telefonare alla famiglia e si possono vedere gli avvocati. Nulla di paragonabile alla colonia penale».

La repressione politica in Russia si nutre di accuse false che schermano le ragioni vere della condanna di un oppositore. Proprio come in Urss. E come nel caso Navalny che Davidis ha difeso testimoniando al processo. «È un caso assolutamente politico, tutte le prove della sua colpevolezza sono false».

«In epoca sovietica esistevano degli articoli che punivano la dissidenza ideologica e politica, nella Russia di oggi si formulano accuse e sentenze che non sono formalmente politiche ma per corruzione, vandalismo e pedofilia come nel caso dell’attivista Jurij Dmitriev, condannato solo per aver tentato di dare un nome ai resti umani del terrore staliniano», dice Savino.

Il pregiudizio accusatorio è profondamente radicato all’interno del sistema giuridico russo dove il ruolo decisivo è svolto dalla procura. E Putin ha il diritto di nominare il Procuratore generale della Federazione russa. «Meno dell’1 per cento di tutte le persone processate è scagionato, l’assoluzione è vista come un fallimento dalle forze dell’ordine», spiega Vladimir Kudriavtsev, ricercatore russo in criminologia all’Università Statale della Florida. La tortura nelle fasi investigative è la regola. Il 90 per cento dei casi arriva in tribunale con una confessione. «Per i crimini meno gravi, c’è una sorta di “patteggiamento” alla russa, applicato nel 60 per cento dei casi: l’imputato non contesta l’accusa e il giudice timbra la decisione, infliggendo non più di due terzi della pena massima possibile», conclude Kudriavtsev.

Altra storia portare a processo le torture. Gulagu.net ci prova: «Ora si sta indagando sull’omicidio di un condannato spacciato per suicidio», dice Sergei Saveliev. «È molto complicato smascherare tutte le montature, ma non ci fermiamo». 

Da lastampa.it il 30 Agosto 2022. 

L’ex Presidente dell'Unione sovietica, e segretario del Partito Comunista, Mikhail Gorbaciov, è morto. Era stato ricoverato in ospedale ai primi di luglio, in dialisi. Aveva 92 anni. 

Gorbaciov è stato protagonista della scena mondiale alla fine degli anni '80 del novecento, determinante nella fine della guerra fredda e nella caduta del muro di Berlino.

BIOGRAFIA DI MIKHAIL GORBACIOV. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Michail Gorbacëv (Michail Sergeevic G.), nato a Privolnoe (Stavropol, Russia) il 2 marzo 1931. Politico. Ex segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (1985-1991) e unico presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1990-1991). Premio Nobel per la pace nel 1990.

«La sua forza rese possibile ogni cosa. Ma le sue debolezze minarono l’intero progetto» (William Taubman). 

«A guardare le cose da una prospettiva più ampia, partendo da come si è venuto delineando il destino che mi ha voluto non solo attore di una delle più importanti svolte della storia, ma anche protagonista e artefice di un grande processo di trasformazione del Paese, posso dire di essere stato fortunato. Ho bussato alle porte della storia e le porte si sono aperte, per me e per coloro per i quali ho ingaggiato la mia battaglia» 

• Nato in una famiglia contadina, alla nascita fu segretamente battezzato dalla madre, devota cristiana ortodossa. «Pantelei Efimovic, il nonno materno, fu il primo a influire su Mikhail, con le letture che gli consigliava, con lo stimolo costante a studiare, con il suo passato di organizzatore delle prime cooperative agricole post-rivoluzionarie.

Ma l’esempio più importante che gli diede ha a che fare con una tragedia collettiva: lo stermino dei kulaki, gli agricoltori più abbienti, i protagonisti della privatizzazione permessa da Lenin negli anni della Nep, la prima riforma economica. Anche il nonno divenne una vittima delle purghe staliniane: un giorno fu arrestato, e spedito nel gulag. 

"Tornò a casa nel 1939, dopo tutte le torture che aveva subìto", ricorderà Gorbaciov una volta al potere, "tutta la famiglia sedette intorno a lui ad ascoltarlo, soffocando grida di orrore quando ci raccontò cosa gli avevano fatto". Il nonno ebbe un’altra fondamentale influenza su Mikhail, regalandogli un paio di valenki, i tradizionali stivali di feltro russi, che gli permisero di compiere il viaggio sino a scuola nel gelo e nella neve dell’inverno.

Le "medie superiori" erano in un altro villaggio, a 15 chilometri di distanza, Krasnogvardejskij: Mikhail, come un pendolare, partiva da Privolnoe la domenica sera, e tornava a casa il sabato pomeriggio, vivendo durante la settimana nella casa di amici di famiglia. Compiva il tragitto a piedi quando il tempo lo permetteva, o su un carro trainato da un cavallo che trasportava fieno. […]

Aveva 18 anni quando trascorse le vacanze scolastiche sulla trebbiatrice del padre, producendo un raccolto di grano da record: con un berretto di traverso sul capo, sudava nei campi da mattina a sera, poi andava con gli amici a rinfrescarsi con un bagno nelle acque dello Egorlyck, il fiumiciattolo che attraversa il paese. Fu così che guadagnò l’Ordine della Bandiera Rossa, la più alta decorazione al lavoro di quell’epoca. […] Finiti gli studi, nel 1950 […] Mikhail Sergeevic lasciò Privolnoe per iscriversi all’Università di Mosca.

Era un "provinciale" rispetto ai suoi compagni, e forse senza l’Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro, una decorazione rara fra gli studenti, non sarebbe stato ammesso nella più prestigiosa ed esclusiva istituzione accademica del Paese. Ma con il premio guadagnato sui campi di grano, con la sua educazione da ragazzo di campagna, e con un solo paio di pantaloni, quelli che portava addosso, il "contadino" di Privolnoe riuscì a "sbarcare" nella capitale, dove avrebbe conosciuto Raissa e imboccato la strada di una rivoluzione che ha cambiato lui, l’Urss e il mondo» (Enrico Franceschini).

A Mosca conseguì due lauree, in Giurisprudenza e in Economia agraria, e mosse i primi passi in politica. «La sua carriera si potrebbe dividere in due periodi. Nell primo, che va dal 1952, anno in cui entrò nel partito, al 1978, quando venne chiamato a Mosca e nominato responsabile dell’agricoltura presso la Segreteria del Comitato centrale, non è molto dissimile da quella degli alti funzionari provinciali: responsabile locale e provinciale del Komsomol (Lega della gioventù comunista) di Starvropol, città al centro di un’importante zona granaria; poi membro della segreteria, fino ad essere primo segretario del Pcus. Una trafila come ce ne sono state migliaia. […]

Nel 1978 arriva la chiamata a Mosca. Gorbaciov ha 47 anni; è un esperto di agricoltura, ma negli ultimi tre anni i raccolti nella zona di Stavropol sono stati disastrosi. Alcuni cremlinologi hanno raccontato l’improvvisa fortuna in chiave campanilistica: Yuri Andropov, gran protettore di Gorbaciov, era nativo di Stavropol; i contatti tra i due risalirebbero ai primi anni ’70. In realtà il legame con Andropov si stabilisce nella Segreteria del Comitato centrale e si stringe per affinità intellettuali, per una comune, pragmatica visione politica.

Sotto la potente ala del capo del Kgb, Gorbaciov scala in pochissimi anni i massimi vertici: membro supplente al Politburo nel 1979, membro effettivo nel 1980. In Occidente viene visto come uno dei maggiori esponenti del "riformismo moderato" – per quanto possano valere queste definizioni –, delfino del leader, Andropov. 

In questa chiave è stata interpretata la sua candidatura alla morte di Andropov, in opposizione a quella del "burocrate" Cernienko. Ma quando Cernienko viene eletto segretario generale, nel febbraio 1984, Gorbaciov rimane al suo posto, e anzi accresce il suo potere, fino a diventare supervisore del settore ideologico e numero due del regime: "il nostro secondo segretario generale", come lo aveva definito […] il direttore della Pravda» (Stefano Malatesta).

La svolta giunse nel marzo 1985. «“Lo conosco bene – disse Andrej Gromyko –: è giovane, ma ha i denti d’acciaio”. Quel plenum del Comitato centrale non riusciva a decidersi tra la tentazione a mummificare ogni leadership in gerontocrazia (quasi per un bisogno istintivo di ingessare fisicamente l’ortodossia a garanzia dell’immobilità, per evitare ogni cambiamento) e la vertigine di un precipizio che apriva verticalmente la “classe eterna” al vertice dell’Urss per puntare su un uomo di vent’anni più giovane del segretario generale Cernenko, appena morto dopo dodici mesi di completa paralisi.

Gromyko garantì per lui, rassicurò i conservatori, e l’11 marzo […] Mikhail Sergeevic Gorbaciov arrivò alla guida del partito comunista dell’Urss e della superpotenza sovietica, minacciosa e stremata padrona di metà del mondo» (Ezio Mauro).

«Quando Michail Gorbaciov arrivò sulla scena del mondo, lo shock fu simile a quello provocato dal lancio del primo satellite artificiale Sputnik nel 1956. Sembrò di colpo che quel grigio e misterioso mondo dell’Unione Sovietica dove nessuno sembrava felice avesse prodotto un nuovo fenomeno in grado di riportare il Paese della Rivoluzione d’Ottobre alla ribalta del progresso e dell’innovazione. […] L’uomo nuovo […] era relativamente giovane, e aveva persino una moglie giovane e graziosa come Raissa, che poteva essere equiparata a una First Lady. Una svolta formale che sembrava anche sostanziale» (Paolo Guzzanti). 

«Con lui per la prima volta sale al vertice del Pcus il rappresentante di una generazione che non ha fatto la Rivoluzione d’Ottobre, non ha vissuto gli anni bui dello stalinismo e non ha combattuto nella Seconda guerra mondiale. […] In Italia nelle redazioni dei giornali e nei dibattiti in tv si interpellano i corrispondenti da Mosca e i “cremlinologi” per capire se le due parole chiave del vocabolario di Mikhail Gorbaciov – “perestrojka” (ristrutturazione economica) e “glasnost” (trasparenza politica) – porteranno davvero a un cambiamento profondo dell’Unione Sovietica.

A differenza dei suoi predecessori, Gorbaciov non assume la presidenza del Soviet Supremo (carica equivalente a quella di capo dello Stato), ma vi designa il vecchio Andrej Gromyko, ministro degli Esteri dell’Urss fin dal 1957. A guidare la diplomazia chiama invece un uomo fidato, il georgiano Edvard Shevardnadze. I due incontri di Gorbaciov con il presidente americano Ronald Reagan – a Ginevra nel novembre 1985 e a Reykjavík nell’ottobre 1986 – fanno ben capire quanto i nuovi leader moscoviti siano sinceri nel volere la distensione e il disarmo, meritando la fiducia dell’Occidente. Usa e Urss avviano un negoziato, concluso a Washington nel dicembre 1987, per l’eliminazione dall’Europa dei missili di breve e media gittata. Tra il 1988 e il 1989 Gorbaciov ritira le truppe dall’Afghanistan (invaso dall’Armata rossa quasi dieci anni prima) e convince Fidel Castro ad abbandonare l’Angola.

 La politica di non intervento archivia la “dottrina Breznev”, permettendo ai governi dell’Est europeo di essere artefici del proprio destino politico. Le elezioni in Polonia sono vinte dai cattolici di Solidarnosc e l’elettricista di Danzica Lech Walesa prende il posto del generale Jaruzelski alla presidenza della Repubblica. Infine, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, cade il muro di Berlino: uno di quegli eventi che “tagliano” il corso della storia. […]

Nei vertici di Malta (dicembre 1989) e di Mosca (luglio 1991), il successore di Reagan, George Bush Sr., e Gorbaciov fanno un altro passo avanti verso il disarmo nucleare – dal trattato Salt al trattato Start I –, che prevedeva non solo la limitazione, ma anche la riduzione di un terzo delle testate nucleari delle due parti. 

La Guerra fredda era finita. Prima di recarsi a Malta, Gorbaciov compie una visita di tre giorni in Italia con la moglie Raissa. A Roma tiene un discorso in Campidoglio denso di richiami alle ragioni della pace e dei diritti umani; in Vaticano avviene la storica stretta di mano fra i due maggiori protagonisti della svolta politica nell’Est europeo, il leader comunista e il papa polacco Giovanni Paolo II. […]

Nel 1990 Gorbaciov raggiunge l’apice dei riconoscimenti: viene confermato segretario del Pcus e presidente della Repubblica con ampi poteri (dopo la riforma costituzionale del 1989), insignito del Premio Nobel per la pace. Pareva vicina la prospettiva di un mondo sempre più cooperativo e pacifico, grazie al trionfo dei princípi della democrazia e del mercato: quasi la “fine della storia” vagheggiata dal politologo americano Francis Fukuyama nel suo famoso libro The End of History and the Last Man.

Ma fu ottimismo di breve durata. La situazione interna nell’Urss andava facendosi sempre più difficile e cresceva il malcontento: le riforme proposte da Gorbaciov si scontrarono con le resistenze burocratiche e l’opposizione dei poteri forti, facendo precipitare il Paese in una disastrosa crisi economica e riacutizzando le spinte indipendentistiche e i conflitti etnici fino ad allora repressi.

Nel luglio 1991 Gorbaciov andò al summit del Paesi più industrializzati a Londra per chiedere un sostegno al suo piano di riforme, ma la maggioranza del G7 si espresse contro la concessione dei sostanziosi crediti da lui richiesti per affrontare la crisi economica e mantenere il controllo della situazione politica interna (nonostante le buone intenzioni dell’Italia di Andreotti, della Francia di Mitterrand e anche della Germania di Kohl)» (Pietro Fornara). «Gli occidentali non lo aiutarono. […] Se ne tornò a Mosca con uno squallido voto di raccomandazione per essere ammessi, come osservatori, al Fondo monetario. Di qui cominciò la parabola discendente del nuovo corso moscovita. Non fu difficile al muscolare signor Eltsin metterlo in crisi; e buon per lui se non fu spedito al Creatore» (Giulio Andreotti).

«A Mosca il 19 agosto 1991 scatta un tentativo di colpo di Stato, organizzato dai conservatori del Pcus, che tuttavia fallisce. Ma Gorbaciov di fatto perde il potere, anche se il mondo esterno lo crede ancora al comando, come ha scritto Hélène Carrère d’Encausse (La Russie entre deux mondes, 2010, pubblicato in italiano da Salerno editrice): “È il rivale – e inizialmente suo protetto – Boris Eltsin, l’uomo salito in piedi su un carro armato, simbolo della resistenza al ‘putsch’, a prendere in mano la situazione”» (Fornara). 

«Davanti al Parlamento russo, il 23 agosto, Gorbaciov ringrazia Eltsin per il suo intervento in difesa dello Stato, denuncia le responsabilità dei golpisti, ma viene duramente contestato dall’uditorio, che gli rinfaccia di avere dato lui il potere a chi ha poi cercato di eliminarlo politicamente. […]

 In pochi giorni si sgretolano l’Urss e il comunismo: le tre Repubbliche del Baltico – Estonia, Lettonia e Lituania – proclamano l’indipendenza, che il 27 agosto è riconosciuta dalla Comunità europea; anche a Kiev il Parlamento ucraino vota l’indipendenza e indice il referendum popolare per il 1° dicembre; a fine mese seguiranno le Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Gorbaciov il 24 agosto si dimette da segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica.

Formalmente resta presidente della Repubblica fino alla sera di Natale, quando annuncia le sue dimissioni in un breve discorso in tv. La bandiera rossa con falce e martello viene ammainata dal più alto pennone del Cremlino e sostituita con quella bianco-rosso-blu della Federazione Russa (rispolverata dal tempo degli zar). Il 26 dicembre 1991 si riunisce per l’ultima volta il Soviet supremo, che ratifica lo scioglimento dell’Urss» (Fornara). 

«L’Unione Sovietica cessò di esistere il 31 dicembre del 1991. Ma il suo certificato di morte fu firmato in Bielorussia l’8 dicembre di quell’anno dai presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, Boris Eltsin, Leonid Kravchuk e Stanislav Shushkevich. […] "Dal giorno del mio ritorno dalla Crimea dopo il golpe di agosto non avevo fatto altro che tentare di ricucire uno straccio di trattato per rifondare l’Unione. 

Con le Repubbliche che ci volevano stare. Alle loro condizioni. Anche senza di me. Almeno una parte. Certo non i Baltici, che avevano già deciso. Trattative su trattative, bozze di accordo su bozze di accordo per cercare di tenere insieme il Paese. L’Ucraina non partecipò: soprattutto dopo il referendum sull’autonomia, rifiutava ogni incontro. Ma io mi ostinavo caparbiamente a tentare ogni carta. 

Ero convinto che, se la Russia, la Bielorussia e gli altri avessero firmato, in qualche modo anche Kiev avrebbe aderito. Eltsin continuava a dire ‘l’Unione ci sarà’. Ma aveva ben altre intenzioni".  […] Lei si dimise solo il 25 dicembre del 1991. "Nei 17 giorni che seguirono gli accordi di Belovezha mi aspettavo una reazione degli intellettuali, della gente. Certo, il Paese era sotto choc. Nessuno comunque scese per strada. Sembrava quasi che le sorti dell’Urss fossero un problema soltanto mio. Non ci fu un ukaz per destituirmi. Lo decisi autonomamente. Salutai i leader stranieri, parlai al Paese e me ne andai"» (Fiammetta Cucurnia). 

«“Termino qui le mie attività di presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”, annunciò in tv la sera di Natale del 1991, mentre sul Cremlino veniva ammainata la bandiera rossa dell’Urss. […] “Sono molto preoccupato, ma ho anche fiducia e speranza. […] Avevamo molto di tutto – terra, petrolio e gas, altre risorse naturali – e intelletto e talento in abbondanza. Eppure, vivevamo peggio dei Paesi industrializzati… Questo Paese soffocava, incatenato da un sistema di comando burocratico… schiacciato dal peso della corsa agli armamenti… Stavamo andando verso il nulla, dovevamo cambiare tutto radicalmente”.

Poi Gorbaciov difese la decisione di imboccare la via delle riforme, e fece un bilancio: “Le elezioni libere sono diventate realtà… libera stampa, libertà di culto, un sistema multipartitico, un’economia diretta verso la parità di tutte le forme di proprietà”. Disse: “Questa società ha acquisito la libertà… ma non abbiamo ancora imparato a usarla”.

Negli anni successivi vennero lo sviluppo selvaggio dell’economia e le disuguaglianze, la ricerca di un’identità per un Paese abituato a essere impero e non più potenza. Vennero povertà e crisi e guerre, e poi venne Putin, che garantì stabilità in cambio di una gestione autoritaria del sistema» (Antonella Scott). 

Dopo le sue dimissioni, proclamandosi socialdemocratico, Gorbacëv provò in più di un’occasione a recuperare un ruolo politico di primo piano, senza tuttavia riuscirci: emblematica la débâcle rimediata dalla sua candidatura da indipendente, con appena lo 0,5% dei consensi (settima posizione), alle elezioni presidenziali del 1996, le stesse che sancirono, al secondo turno, la conferma al potere dell’odiato Eltsin, con il 54,4% dei voti.

In seguito, nei confronti di Putin Gorbacëv ha dimostrato un atteggiamento ambivalente, critico verso la sua impostazione scarsamente democratica e la sua eccessiva permanenza al potere e favorevole invece ai suoi interventi in ambito economico (soprattutto nei primi anni) e alle sue rivendicazioni territoriali, con particolare riguardo alla Crimea. «“Al posto di Putin avrei agito allo stesso modo”, ribadisce. […] “La libera volontà popolare e la maggioranza dei cittadini della Crimea voleva che fosse riannessa alla Russia”. […]

Gli dico che Gorbaciov, l’uomo che ha contribuito alla caduta del Muro di Berlino rifiutandosi di reprimere le sommosse popolari nell’Europa dell’Est, non avrebbe annesso la Crimea. La sua risposta è ancora più eloquente: “L’unico vero motivo per cui non lo avrei fatto è che, se fossi rimasto al potere, avrei tenuto in vita l’Unione Sovietica, e la Crimea ne farebbe ancora parte”» (Mark Franchetti)

• Da ultimo è stato il protagonista di un documentario girato da Werner Herzog e André Singer, Meeting Gorbachev, che nel gennaio 2019 ha aperto il Trieste Film Festival. «Herzog tratteggia il ritratto-testamento di un uomo e di un politico che inseguendo un ideale di socialdemocrazia ha cambiato le sorti del mondo. Il suo sogno, però, si è realizzato solo a metà. 

Gorbachev, stoikiy muzhik, appare come una figura tragica che vive in attesa di terminare i suoi giorni. Quell’uomo che per tutti aveva sognato un mondo migliore oggi è un uomo solo con i suoi rimpianti, che sulla propria tomba vorrebbe l’epitaffio “We tried”. Ci abbiamo provato» (Beatrice Fiorentino) 

• Una figlia, Irina (1957), dall’amatissima moglie Raisa Gorbacëva (1932-1999), «con cui ha condiviso 46 anni di matrimonio e una profondissima amicizia. I due, inseparabili, si erano incontrati all’università, e nel 1953 […] si sposarono. Gorbaciov mi racconta che ogni mattina, per tutti quegli anni, facevano una passeggiata di sei chilometri. 

“Ogni giorno, ovunque fossimo e con qualsiasi tempo: nemmeno neve e temporali ci fermavano. Anche perché Raissa adorava il temporale: se io dicevo ‘Per l’amor del cielo, stiamo a casa’, lei mi rispondeva tutta contenta ‘Dai, andiamo!’. E così mi sono abituato a camminare sotto la pioggia. Quando è morta ho smesso di fare passeggiate, e la mia salute è peggiorata» (Franchetti).

«Non mi sono mai sentito tanto solo. Io e Raisa abbiamo convissuto quasi cinquant’anni, senza mai separarci e senza sentirci mai di peso l’uno per l’altra: insieme siamo stati sempre felici. Ci amavamo, ma anche in privato non ce lo confessavamo spesso. L’essenziale era preservare quel sentimento che era nato tra noi fin dagli anni della giovinezza. Ci comprendevamo e cercavamo di proteggere il nostro rapporto» 

• «Gorbaciov non riuscì mai ad essere eletto dal popolo, fallendo ogni tentativo di legittimazione dopo il ripristino di una parvenza di democrazia. Così rimase quel che era stato fin dall’inizio: l’ultimo prodotto del sistema di potere, incapace di riformarlo come aveva promesso e sognato, e alla fine prigioniero di un meccanismo che non faceva sconti a nessuno» (Guzzanti).

«I giudizi politici su un uomo o su un evento dipendono spesso dagli effetti che quell’uomo o quell’evento hanno avuto per la vita di coloro che giudicano. È naturale che le democrazie occidentali diano di Michail Gorbaciov un giudizio positivo; ed è altrettanto naturale che i russi abbiano per lui sentimenti alquanto diversi. Per le democrazie la politica riformatrice dell’ultimo leader sovietico ha significato la conclusione della Guerra fredda, la fine dell’èra del reciproco ricatto nucleare, il ritorno alla libertà dei Paesi satelliti.

Per i russi ha significato il crollo della grande potenza a cui erano orgogliosi di appartenere, la perdita dei benefici economici e sociali (mediocri ma garantiti) di cui tutti avevano goduto, l’avvento di oligarchie rapaci e di organizzazioni criminali, una lunga sequenza di sanguinose guerre civili. Esiste poi il giudizio storico, quello che cerca, per quanto possibile, di sfuggire al criterio della convenienza personale e viene dato con un certo neutrale distacco. Considerato in questa prospettiva, Gorbaciov è un riformatore fallito.

Sperò di rinnovare il sistema sovietico iniettando nel corpo inerte dell’Urss una forte dose di dinamismo economico (la perestrojka) e assicurando una maggiore trasparenza dei pubblici poteri (la glasnost), ma riuscì soltanto a mettere in maggiore evidenza gli incurabili mali del regime. Il maggiore paradosso del riformismo gorbacioviano fu che la perestrojka non funzionò e la glasnost funzionò fin troppo bene: mentre la riforma dell’apparato industriale produceva risultati opposti a quelli desiderati dal Cremlino, la stampa e i cittadini erano più liberi di giudicare e criticare. 

Gli errori di Gorbaciov furono dovuti in buona parte alla sua formazione sovietica. Credeva che il maggiore dinamismo dei dirigenti delle aziende fosse compatibile con la proprietà pubblica di tutti i mezzi di produzione. Credeva che la crescita di una più libera opinione pubblica fosse compatibile con l’esistenza di un solo partito. Credeva che i soviet invocati dalla rivoluzione leninista fossero stati, sia pure per un breve periodo, organismi democratici (non lo furono mai).

E non tenne conto di una famosa riflessione di Alexis de Tocqueville: “Un popolo che ha sopportato a lungo, senza protestare, un regime oppressivo si ribella quando si accorge che il governo ha allentato la sua pressione”. In altre parole, accade spesso che i cattivi regimi crollino quando i loro leader tentano di riformarli» (Sergio Romano). 

«Non esiste una teoria politica, un pensiero, a guidare una stagione che pure metterà fuori gioco la cremlinologia cambiando involontariamente la storia d’Europa e liberando la geografia dell’Urss, fino a travolgere la stessa “natura” sovietica, immobile e intatta per settant’anni, costruita com’era col ferro e col fuoco per durare per sempre. Gorbaciov è tutto prassi, sospinto da uno stato di necessità che lo porta a cambiare, senza sapere dove il cambiamento lo porterà. Non ha un ceto di riferimento, né una leva sociale a disposizione, né una cultura di ricambio.

Si muove interamente dentro l’orizzonte del comunismo – perestrojka non è altro che “ristrutturazione” – tentando un’opera di manutenzione straordinaria, senza sapere dov’è la sponda verso la quale si dirige a zig zag, mentre dietro di lui la vecchia sponda brucia. La sponda, evidentemente, sarebbe diventata visibile solo pronunciando la parola definitiva della fuoruscita dal comunismo: democrazia.

 Ma tutto il gorbaciovismo sta al di qua di quell’approdo, che non riesce a concepire, tutta l’idea-forza del leader è imprigionata nel fascino a sovranità limitata di due concetti intermedi, di due parole a metà: perestrojka invece di democrazia, glasnost(trasparenza) invece di verità. Il comunismo sovietico ferma qui il suo alfabeto leninista, non riesce nemmeno nella fase di massima torsione ad andare oltre se stesso. Eppure in quei sei anni il mondo ha creduto possibile l’impossibile, perché tutte le spinte scomposte che Gorbaciov ha messo in campo avevano superato la soglia russa dell’incredibile» (Mauro). «La causa più profonda della fine del comunismo russo era nel comunismo stesso, giunto nel 1985, quando Gorbaciov diventa segretario, alla carenza d’ossigeno e alla fase della disintegrazione che era fisiologica e che si sarebbe compiuta comunque: anche se al posto del conservatore illuminato vi fosse stato un conservatore oscurantista. […] 

Egli, seppure nolente più che volente, ha agito come uno strumento dell’astuta fatalità o giustizia della storia. In quanto tale, ogni spirito liberale lo ricorderà sempre con rispetto» (Enzo Bettiza) 

• «Prima o poi, il Muro di Berlino doveva cadere. Certo, senza la perestrojka e i cambiamenti che avvennero in Urss non sarebbe stato possibile. L’Europa sarebbe rimasta incastrata per molto tempo ancora. Invece, tutto accadde. Senza sangue. E il merito è di quella generazione di leader che scoprì l’ingrediente per risolvere i problemi: la fiducia. Quello che bisogna ritrovare».

«“Noi credemmo in un nuovo ordine mondiale, ma gli Usa hanno cambiato comportamento molto rapidamente. Hanno elaborato una nuova politica: la guida del mondo da Washington. Sono troppo abituati a essere i padroni. E dunque hanno voltato le spalle agli accordi e ai princìpi di allora. […] La Germania oggi non è libera. I leader europei non sono liberi. E non a causa di Bruxelles: a causa degli Stati Uniti”. Dunque quella casa comune europea in nome della quale si rinunciò al Muro oggi sembra un’occasione mancata? “Noi pensavamo a tutta l’Europa unita, Russia inclusa. Anche se in quel momento l’Unione europea non era pronta per un passo così. Poi, via via, il concetto di Europa è stato riformulato, e non a Mosca: ora, quando si parla d’Europa si intende solo l’Europa occidentale”» (Cucurnia).

«Il più grande rimpianto di Gorbaciov è quello di non essere riuscito a evitare il collasso dell’Unione Sovietica. “Mi rammarico che un grande Paese con grandi potenzialità e risorse sia scomparso. La mia intenzione è sempre stata quella di riformarlo, non distruggerlo”. Gli faccio notare l’amara ironia secondo cui in patria viene criticato, mentre all’estero viene osannato per il suo ruolo nel tramonto dell’Unione Sovietica, ma la verità è che l’opinione pubblica sembra non capire che questa era l’ultima cosa che voleva. “Lei è senz’altro il leader più incompreso del mondo. La gente ancora oggi non la capisce”, gli suggerisco. “Capiranno, capiranno”, ribatte lui con un sorriso. “Serve pazienza”» (Franchetti).

INTERFAX, PER GORBACIOV NON CI SARANNO FUNERALI DI STATO. (ANSA il 31 agosto 2022) - Per l'ultimo leader sovietico, Mikhail Gorbaciov, non ci saranno funerali di Stato a Mosca, secondo quanto riferisce l'agenzia russa Interfax. "Due fonti informate hanno detto a Interfax che per Gorbaciov non ci saranno funerali di Stato", scrive l'agenzia.

(ANSA il 31 agosto 2022) - Mikhail Gorbaciov avrà funerali di Stato che si svolgeranno a Mosca sabato. Lo scrive l'agenzia Tass.

(ANSA il 31 agosto 2022) - "Un politico e uno statista che ha avuto una influenza importante sulla Storia del mondo". Così il presidente russo Vladimir Putin ha ricordato Mikhail Gorbaciov nel suo telegramma di condoglianze alla famiglia, secondo quanto riferisce l'agenzia Tass.

(ANSA il 31 agosto 2022) - Mikhail Gorbaciov è stato protagonista di "qualcosa di straordinario" nella storia, "se si guarda a ciò che ha fatto per rendere libera l'intera Europa e per liberare i Paesi dell'ex Urss". 

Lo ha affermato oggi il premier britannico uscente Boris Johnson, argomentando ai media il tributo già reso a caldo nella notte alla memoria dell'ultimo leader sovietico scomparso ieri a 91 anni in Russia; e riproponendolo ancora una volta come un modello a suo dire opposto rispetto a quello dell'attuale presidente russo Vladimir Putin.

Gorbaciov, nelle parole di BoJo, "innescò una serie di cambiamenti a cui probabilmente (all'inizio) non mirava" e pagò a livello personale "un prezzo politico per questo"; ma "la storia lo iscriverà comunque, penso, come uno degli autori di un fantastico cambiamento in meglio del mondo". 

Un cambiamento che tuttavia il premier conservatore britannico imputa a Putin di voler ribaltare, dicendosi "preoccupato dell'intenzione" attribuita all'attuale "leadership di Mosca di disfare ciò che di buono Gorbaciov fece" e di ambire a "ricreare vendicativamente l'Impero Sovietico".

"Lo stiamo vedendo in Ucraina, una tragedia che credo per Gorbaciov fosse impensabile, ingiustificata e irrazionale", ha concluso Johnson secondo quanto riporta la Bbc, il cui sito accompagna la citazione con un’immagine d'archivio d'uno scambio di sorrisi fra Gorbaciov - ritratto in visita a Londra nel 2009 - e lo stesso BoJo, all'epoca sindaco della capitale del Regno Unito.

Media Cina, 'Gorbaciov fece gravi errori, ingenuo con Usa'. ANSA il 31 agosto 2022.

Mikhail Gorbaciov è una "figura tragica che ha soddisfatto i bisogni di Usa e Occidente senza morale", responsabile di "gravi errori" e "ingenuo" nel valutare la situazione internazionale, provocando "il caos nell'ordine economico interno": una parabola politica che rappresenta un "promemoria" per gli altri Paesi ad essere cauti verso l'Occidente. E' il pesante giudizio del Global Times, tabloid del Quotidiano del Popolo, sull'ultimo leader dell'Urss scomparso ieri poche ore dopo l'annuncio sulla data (16 ottobre) del XX Congresso del Partito comunista che darà al presidente Xi un inedito terzo mandato a segretario generale. (ANSA).

Gorbaciov: Peskov, il suo romanticismo non si è realizzato. ANSA il 31 agosto 2022.

"Il romanticismo" di Mikhail Gorbaciov per una pace stabile tra Mosca e l'Occidente "non si è concretizzato, non c'è stato un secolo del miele e la sete di sangue dei nostri avversari si è manifestata". Lo ha affermato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, parlando alla maratona educativa "Knowledge".

Peskov, citato dalla Tass, ha detto che "Gorbaciov ha dato impulso alla fine della Guerra Fredda, e voleva sinceramente credere che sarebbe finita e che sarebbe iniziato un periodo romantico eterno tra la nuova Unione Sovietica e l'Occidente collettivo". (ANSA).

Gorbaciov: disse 'sfida ecologica nuova perestrojka'. ANSA il 31 agosto 2022.

"La sfida ecologica rappresenta il punto più importante nell' ordine del giorno del XXI secolo'' e a Mikhail Gorbaciov, l' ex presidente dell' Urss, morto ieri a 91 anni, ricordava la spinta al cambiamento e le difficoltà che accompagnarono la sua Perestrojka, il nuovo corso dell'Unione Sovietica. Sono parole dello stesso Gorbaciov, che uscito dalla scena politica si era dedicato ai temi dell'ambiente, in un messaggio alle Marche, dove venne nel 2001 per firmare e presentare a Urbino la Carta della Terra, in qualità di presidente del network Green Cross International.

''Se non saremo in grado di affrontare la sfida ecologica adeguatamente - aveva ammonito - molto della nostra vita perderà di significato". La Carta, che ricevette parole di apprezzamento anche da parte del papa e delle autorità ecclesiastiche, ''sarà un pilastro per lo sviluppo sostenibile e durevole'', paragonato alla Dichiarazione dei diritti dell' Uomo. La Carta era nata dal basso, spiegò, dall' incontro di culture e religioni diverse, ''dai pensieri, dalle speranze e dai sogni di migliaia di persone'' davanti alla crisi globale che il pianeta stava attraversando ''sia per quanto attiene la condizione ambientale, sia per la giustizia sociale, la pace e la democrazia''.

Gorbaciov aveva invocato "una grande sforzo comune", citando gli anni della Perestrojka, sostenendo che l' apertura alla libertà e alla democrazia partì da una serie di dimostrazioni su questioni ambientali: "davanti alla forza di queste dimostrazioni noi, in rappresentanza del governo, fummo costretti a chiudere 1.300 aziende che causavano danni all' ambiente. Un test nucleare fu sospeso e un intero progetto riguardante le acque dei fiumi dal sud al nord del paese fu anch' esso messo da parte''.

Durante la sua visita nelle Marche (con tappe anche a Loreto, Ascoli Piceno e Ancona), parlò di energia con gli imprenditori locali e ricevette una laurea honoris causa in economia politica dall'Università Politecnica delle Marche, oltre a partecipare ad una cena di gala con Rita Levi Montalcini. (ANSA).

QUELLA VOLTA CHE GORBACIOV GIRÒ UNO SPOT PER LA PIZZA. Da open.online il 31 agosto 2022.

L’ex leader dell’Urss Mikhail Gorbaciov, morto ieri all’età di 91 anni, nel 1997 girò uno spot televisivo per Pizza Hut. 

Nella pubblicità che andò in onda a livello internazionale nel gennaio 1998 – ma non in Russia – l’ex presidente, seduto al tavolo con una bambina, veniva riconosciuto dagli avventori scatenando un dibattito sul suo operato tra chi lo accusava di aver generato instabilità economica e chi lo difendeva per aver restituito al paese la libertà.

Il dibattito che si chiudeva con l’accordo di tutti proprio grazie alla pizza. Il finale era affidato a una voce fuori campo: «A volte, niente unisce le persone meglio di una bella pizza calda da Pizza Hut». 

Al termine, lo slogan “Buoni amici. Ottima pizza“. Per l’apparizione nello spot Gorbaciov ha ricevuto un compenso di un milione di dollari, poi devoluto alla sua Fondazione.

Matteo Redigolo per gliann80.com – articolo del 25 gennaio 2018 

Qualche settimana fa ho riascoltato una canzone a dir poco strana, un brano che pensavo fosse in lingua russa, o perlomeno dell’est Europa, con un video incentrato sul comunismo e sui suoi ideali… in realtà mi sbagliavo! 

Questo brano targato 1987 viene scritto con l’avvento della “Perestroika”, l’apertura alle riforme dell’URSS che c’era stata dopo l’elezione a presidente sovietico di Mikail Gorbaciov, ma che finì in un certo senso fuori controllo ponendo fine all’URSS come entità politica e a 40 anni di guerra fredda.

Sull’onda di questa occidentalizzazione sovietica, noi italiani abbiamo confermato la nostra fama di “popolo del mandolino” riuscendo a trarne un brano dance, anche molto orecchiabile, che è appunto “Tovarisc Gorbaciov” (Compagno Gorbaciov)! Il gruppo a cui va attribuita la canzone è The Midnight’s Moscow, che grazie ad un grammelot (termini a caso ma che ricordano le sonorità della lingua russa), approva o boccia una serie di importanti personaggi della storia russa con “Da” o “Niet” (Sì o No), che sono forse gli unici veri termini di vocabolario russo, mentre tutti gli altri sono inventati! Vengono nominati Stalin, Lenin, Rasputin, il KGB e tanti altri.

Il punto è che al tempo molti italiani pensavano che il brano fosse veramente russo! Anche per effetto delle vicende di quel periodo che erano concentrate spesso sulla USSR, il brano ottiene molto successo in Italia, ma anche all’estero, tra l’altro nell’Est Europa dove il sound russo… suona familiare. 

Quindi mettetevi il cuore in pace, la traduzione del brano non esiste: solo noi italiani potevamo fare una cosa del genere!

È morto Michail Gorbaciov, ultimo vero leader dell’Urss e premio Nobel per la pace. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Agosto 2022.  

Morto a 91 anni l’ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Artefice della dissoluzione dell’Urss (quella che Putin vorrebbe ricostituire) e della fine della Guerra Fredda con l’Occidente

E’ morto Mikhail Gorbaciov. L’ex segretario generale del Pcus ed ex presidente dell’Unione Sovietica aveva 91 anni. L’agenzia russa Tass riporta la nota diffusa dal Central Clinical Hospital, l’ospedale di Mosca dove Gorbaciov era ricoverato: “Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto questa sera dopo una grave e lunga malattia“. Da quanto riferisce la Tass citando una fonte vicina al politico, le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi mesi e dal 20 giugno Gorbaciov era sotto la costante supervisione dei medici. Secondo la fonte, l’ex presidente era stato ricoverato in ospedale nel 2020, “all’inizio della pandemia di coronavirus“, su richiesta dei medici.

Nato il 2 marzo 1931 a Privol’noe, in provincia di Stavropol‘, nel Sud della Federazione russa, da una famiglia di agricoltori, nel 1955 Gorbaciov si laurea in giurisprudenza all’Università Lomonosov di Mosca. Durante una festa nella casa dello studente di Sokolniki, incontrò Raisa Maksimovna Titarenko, che studiava filosofia e sociologia. Se ne innamora subito e la sposa subito dopo. Un’unione durata fino alla morte di lei, avvenuta a Muenster, in Germania, nel settembre 1999. 

È stato l’ultimo segretario del Partito Comunista sovietico ma anche colui che ha cancellato il comunismo dove era stato più reale che mai. Come ha detto il grande scrittore israeliano Amos Oz, “per cambiare il mondo bisogna diventare o essere dei traditori“, allora in tal caso Michail Gorbaciov lo è stato più di tutti, nel corso almeno degli ultimi ottant’anni. Con la sua scomparsa se ne va uno di quegli uomini che hanno dato alla storia, a quella con la “S” maiuscola anche se a volte non se la merita, una faccia diversa, e per sempre.

Fa un certo effetto leggere nella sua biografia , che alla voce “suo successore” la casella viene riempita da un “carica abolita“, perché Eltsin, che arrivò dopo di lui nel 1991, si chiama ormai “presidente della Federazione Russa” e la parola “comunista” è stata cancellata. 

Probabilmente non è ancora il momento per tracciare un bilancio di quello che la storia porterà con sé in quel mondo a seguito della rivoluzione proclamata e portata avanti da quest’uomo: certo le parole russe “Perestrojka” e “Glasnost”, cioè “riforme” e “trasparenza” allora avevano lasciato il mondo con gli occhi sgranati a bocca aperta, poichè queste parole significavano che il più grande Paese al mondo stava attraversando una rivoluzione non meno drastica e traumatica di quella vissuta neanche un secolo prima, con la caduta dell’impero zarista. Questa nuova rivoluzione russa portava la sigla di un solo uomo, un vero politico che era lui, che la propugnò e la portò avanti con una decisione che sembrava arrivare da un altro mondo.

Legittimo chiedersi cosa direbbe oggi Gorbaciov, di fronte alle rinnovate manie di grandezza imperialista di cui il suo Paese fa sfoggio, causando a una guerra insensata. Di fronte a un regime che non ha più nulla della Glasnost e della Perestrojka, che non assomiglia neanche al comunismo reale in cui la Russia è rimasta attanagliata per più di settant’anni, che sogna fors’anche nostalgie dell’Impero ma senza fasti e con uno squallore decadente. 

La Russia di Vladimir Putin non è certo il coronamento di quel sogno di riconciliazione che Gorbaciov ha desiderato e cercato per gran parte della sua carriera politica, e che nel 1990 gli procurò il Premio Nobel per la Pace. La sobrietà e trasparenza della sua vita privata, affianco alla sempre sorridente Raissa, sembrano lontane anni luce dall’alone di “machismo” e mistero di cui la leadership odierna della Russia deve ammantarsi, con una sfilza di amanti e pose eroiche a torso nudo. Gorbaciov è certamente sempre stato più amato all’estero che nel suo Paese, dove la diffidenza nei suoi confronti non è stata tenera.

La sua lunga carriera politica, i viaggi per il mondo in cerca di un dialogo sempre costruttivo e innovativo, le riflessioni sul passato e il futuro del regime che guidava, appaiono oggi radicalmente differenti dalle strategie machiavelliche e goffe, che la Russia sta manifestando negli ultimi tempi. Legittimo chiedersi ed interrogarsi cosa penserebbe e direbbe oggi, Gorbaciov, di tutto questo e tanto altro. 

Lui che una volta dimessosi da Presidente dell’Urss non uscì dalla scena politica e diplomatica internazionale ma si dedicò alla Fondazione non governativa di studi politici ed economici che portava il suo nome, ad attività legate al Women’s World Award di cui era presidente, alla difesa dell’ambiente. Tutti problemi e contesti che negli Anni 90 non sembravano essere così urgenti e oggi invece lo sono diventato senza alcun dubbio.

Se per cambiare il mondo bisogna diventare dei traditori, Michail Gorbaciov allora lo è stato fino in fondo, con una coerenza mirabile, una tenacia mai sopita, un senso della missione politica capace di guardare sempre un po’ più in là, persino oltre gli sconfinati orizzonti della grande Russia. 

Gorbaciov sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie, come ha reso noto alla Tass una persona che conosceva i desideri dei parenti dell’ex presidente.

Mikhail Gorbaciov è morto. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Mikhail Gorbaciov, ex presidente dell’Unione sovietica, è morto all’età di 91 anni. Sarà sepolto accanto alla moglie Raissa, a Mosca. 

Mikhail Gorbaciov, ex presidente dell’Unione sovietica, è morto all’età di 91 anni, dopo una lunga malattia. Gorbaciov — che, da ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico, pose fine alla Guerra fredda con gli Stati Uniti, ma non riuscì a evitare il collasso dell’Unione sovietica — fu l’ultimo leader dell’Urss, e venne insignito nel 1989 della Medaglia Otto Hahn per la Pace e, nel 1990, del Nobel per la pace. Secondo quanto riferito dalla Tass, sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy, a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie Raissa. Della guerra di Putin all’Ucraina aveva detto, secondo il direttore dell’Eco di Mosca, pochi mesi fa: «Questa invasione ha rovinato tutti i suoi precedenti sforzi per la Russia». 

Quando uscì il suo nome dalla riunione del Politburo che doveva scegliere il successore di Konstantin Chernenko, tutti furono presi alla sprovvista. Il candidato più quotato era Viktor Grischin, 68 anni, un altro esponente della gerontocrazia che da tempo governava l’Urss. Dopo Leonid Brezhnev, morto a 76 anni nel 1982, era venuto il sessantottenne Yurij Andropov, e poi, dopo soli due anni, il settantatreenne Chernenko che se n’era andato il 10 marzo 1985. 

Invece questa volta il vertice del partito aveva accolto la raccomandazione che Andropov aveva fatto in punto di morte. 

«Scegliete un giovane, scegliete Gorbaciov perché lui è l’unico che può ridare slancio al Paese, rimettere in piedi l’Urss e ridare fiato al partito». 

Così il cinquantaquattrenne Mikhail Sergeyevich, che da poco era diventato membro effettivo del supremo organo di governo dell’Urss, l’11 marzo del 1985 si ritrovò sulla poltrona di Gensek, a coronamento di una carriera brillante, iniziata nella nativa regione di Stavropol, a ridosso della Crimea. 

Era lì che il giovane Mikhail, nato nel 1931, aveva vissuto il disgelo dell’epoca di Krusciov, che tante speranze aveva suscitato nei quadri più dinamici. Ed era lì che era nata la sua fortuna quando si era trovato, come segretario del partito per la regione, ad accompagnare in vacanza il potente capo del Kgb Andropov, che lo aveva preso sotto la sua ala protettiva. 

Già il suo aspetto, il fatto che la moglie Raissa comparisse in pubblico, il voler girare il Paese e incontrare la gente furono visti come una rivoluzione. Si parlò di un nuovo disgelo, mentre lui spiegava che il Paese aveva bisogno di una «accelerazione» per tentare di riguadagnare il terreno perduto nei confronti dell’Occidente. 

La situazione, come sapeva bene il Kgb, era disastrosa. Alla stagnazione brezheviana era seguita negli anni Settanta la ripresa della corsa agli armamenti. Ronald Reagan aveva dato il colpo finale con il suo programma di Guerre Stellari che aveva gettato nel panico i militari e aveva fatto saltare ogni piano economico. 

L’Urss non ce la faceva a produrre generi di consumo, le spese militari erano folli, l’avventura in Afghanistan («per contenere l’avanzata del capitalismo») stava dissanguando il Paese in tutti i sensi. All’«accelerazione», con gli incentivi alla produttività, fece seguito il programma per legare i salari al lavoro, abbandonando l’egualitarismo. 

Poi arrivarono la Perestrojka e la Glasnost. Ristrutturazione del sistema economico sovietico con l’introduzione di fortissimi elementi di mercato. E in più la Trasparenza, la partecipazione del popolo di cui Gorbaciov ricercava il consenso. 

Di pari passo andava avanti la trasformazione politica. Via i vecchi conservatori dai posti chiave, nel governo e nel partito: Eduard Shevardnadze prendeva al ministero degli Esteri il posto di Andrej Gromiko, sopravvissuto ai tempi di Stalin. Andrej Sakharov ritornava a Mosca dall’esilio interno. Veniva convocata la Conferenza del Pcus nella quale per la prima volta nasceva una specie di «corrente», la piattaforma democratica. Poi le elezioni libere, fino alla storica abolizione nel 1990 dell’articolo 6 della Costituzione che stabiliva il ruolo guida del partito. 

Intanto il gensek (generalnij sekretar) affrontava la folle corsa agli armamenti, tentando di convincere gli americani che l’immagine che proiettavano di lui le tv e i giornali popolari era quella vera. La prima a credere in lui fu Margaret Thatcher : «We can do business together» (possiamo lavorare insieme). Al primo vertice, a Ginevra, Reagan non fece grosse aperture. Ma poi gli accordi sulla limitazione delle testate, dei missili intercontinentali, arrivarono, con Reagan e con Bush padre. 

L’Urss poteva ora destinare le sue risorse a migliorare il tenore di vita dei suoi cittadini.

Forse, però, era ormai troppo tardi. 

La resistenza dei burocrati, dei direttori delle fabbriche, di tutta la nomenklatura era fortissima. Gorbaciov non ebbe il coraggio di spingere fino in fondo e, per questo, venne abbandonato dai riformisti più accesi, come Eltsin e Shevardnadze. 

La campagna contro la vodka aveva contribuito a minare la sua popolarità che all’inizio era stata altissima. Poi venne il programma dei cinquecento giorni di Grigorij Yavlinskij, che avrebbe dovuto portare all’introduzione in Urss dell’economia di mercato. Davanti agli attacchi durissimi dei vecchi boss, da Ligaciov a Ryzhkov, Gorby, come lo chiamavano all’estero, fece marcia indietro. Abbandonò il giovane economista per adottare invece un programma assai più moderato. 

Fu avviata la riforma monetaria che portò alla corsa verso gli accaparramenti nei negozi. Ore di fila per ricevere una salsiccia. Razionati zucchero, sigarette, sapone. I radicali si erano raccolti attorno a Boris Eltsin che dopo essere stato cacciato dal vertice era «resuscitato» con l’elezione trionfale alla presidenza del Soviet Supremo russo. L’impero iniziava a sfaldarsi. 

La vittoria di Solidarnosc alle elezioni polacche del 1989, l’apertura delle frontiere da parte dell’Ungheria, il crollo del muro di Berlino il 9 novembre dello stesso anno, al quale Gorbaciov ebbe l’accortezza di non opporsi. Poi la «recessione» delle tre repubbliche baltiche. Gorbaciov tentò di tenere assieme i cocci dell’Urss ricorrendo al Trattato dell’Unione, tra tutte le altre Repubbliche. Ma la situazione si faceva sempre più difficile. 

Il segretario, diventato nel frattempo presidente dell’Urss, era incerto, ondeggiava tra i riformisti e i conservatori. Questi ultimi ebbero l’impressione che avrebbe avallato una loro iniziativa per rimettere le cose a posto. E alla vigilia della firma dell’accordo, il 19 agosto 1991, tentarono il colpo di Stato. Sulla carta erano in grado di controllare il Paese: Primo Ministro, ministro dell’Interno, capo del Kgb. Non avevano messo nel conto il fatto che i cittadini dell’Urss erano cambiati. E che Boris Eltsin non era disposto a cedere. 

Quando Corvo Bianco si presentò ad arringare la folla davanti al palazzo del Soviet Supremo e salì su uno dei carri armati mandati dai golpisti, l’esercito non reagì. Il colpo di stato era fallito (solo il ministro dell’Interno Pugo si suicidò, gli altri finirono brevemente in prigione).

 Il potere oramai era nelle mani del capo della Russia, la repubblica più importante dell’Urss. 

Di fronte a un nuovo tentativo di Gorbaciov di rilanciare il Trattato dell’Unione, Eltsin passò all’attacco. Assieme ai capi delle altre due repubbliche slave, Bielorussia e Ucraina, decise l’8 dicembre lo scioglimento dell’Urss. Il giorno di Natale del 1991 la bandiera sovietica veniva ammainata dal pennone più alto del Cremlino. 

Gorbaciov doveva lasciare una poltrona che non esisteva più. 

Il «dopo» scioglimento dell’Urss è una storia diversa. Amatissimo all’estero, l’ultimo gensek era odiato in patria. Un suo tentativo di rientrare sulla scena politica, alle elezioni del 1996, fu catastrofico: riportò meno dell’1 per cento dei voti. 

Ritiratosi nella fondazione che portava il suo nome, ebbe un altro durissimo colpo nel 1999, con la morte dell’amata Raissa. 

Con Putin, Gorbaciov era uscito in Russia dall’elenco dei «non esistenti» e aveva ricominciato ad avere un ruolo anche di rappresentanza internazionale. Poi, di fronte alla svolta autoritaria di Vladimir Vladimirovich, aveva preso le distanze dal Cremlino, criticando più volte le scelte di Putin. Fino a diventare uno dei proprietari (assieme all’oligarca Aleksandr Lebedev) del giornale d’opposizione Novaya Gazeta per il quale aveva lavorato Anna Politkovskaya. 

Nel marzo 2021, per il suo novantesimo compleanno, il portavoce del presidente parlando con i giornalisti disse semplicemente che al Cremlino si guarda a Gorbaciov come a una «parte della storia, con grande rispetto». Certamente saranno molti di più quelli che lo piangeranno nel resto del mondo e soprattutto in Germania.

Gorbaciov, gigante che cambiò il mondo (odiato nella sua patria): dall’Urss alle critiche a Putin. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.  

Mikhail Gorbaciov, morto martedì 30 agosto a 91 anni, demolì il Muro, ma passa alla Storia come un gigante senza pace. Credeva che ogni nazione dovesse decidere il proprio destino: l’opposto di quanto pensi Vladimir Putin 

Un eroe tragico, un gigante senza pace, il comunista che cercando di salvarlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni preparò la fossa al primo Stato socialista della Storia. 

Tutto questo e altro ancora è stato Mikhail Sergeyevich Gorbaciov — morto martedì 30 agosto a 91 anni —, l’uomo che, come Icaro, pensò di poter volare vicino al sole ma finì per distruggere sé stesso e l’opera che voleva preservare. 

Se potessimo arbitrariamente ridurre a una sola persona, a una sola biografia il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue Harte Wendungen, le sue svolte brusche, molto probabilmente questa sarebbe Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione Sovietica, vero demolitore del Muro di Berlino e architetto di quella perestrojka che si rivelò il canto del cigno della Superpotenza comunista. 

«Non si poteva andare avanti allo stesso modo», disse in una delle ultime interviste ricordando il suo disperato tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, travolto dalla bancarotta ideologica, politica ed economica. Un passo obbligato, nella sua visione, ma un passo avventato. Che in fondo lo denudò come cattivo marxista: al contrario dei compagni cinesi, che avrebbero aperto a un capitalismo selvaggio stringendo le viti della democrazia e difendendo brutalmente il ruolo di guida del partito, Gorbaciov iniziò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, la fine della censura, il diritto a manifestare) mentre si mosse poco e confusamente nella struttura economica, mezze riforme e timide aperture al mercato. E intanto, costretto dal riarmo dell’America di Reagan e sperando negli aiuti dell’Occidente, col quale si era vantato di avergli tolto il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica: gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali, il patto di Varsavia, le aree di influenza. 

Quando nel 1989, il generale Sergeij Akromeev incontrò per la prima volta il nuovo capo della delegazione americana ai negoziati Start, Richard Burt, gli disse senza perifrasi che Gorbaciov aveva tradito il comunismo, ma che lui, che aveva combattuto nell’assedio di Leningrado, non avrebbe mai permesso che l’Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Andò diversamente. 

Ma l’aneddoto conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza denigrata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche protestare a voce alta. 

L’Occidente e il mondo devono però molto a Michail Sergeyevich, che non si è mai pentito delle sue scelte, convinto che non si potessero negare le aspirazioni alla libertà e alla democrazia di polacchi e cechi, ungheresi e tedeschi dell’Est. Rimane scolpita nel marmo la frase con cui ammonì Erich Honecker, eterno leader della Ddr, innescandone la fine: «La vita punisce chi arriva in ritardo». Il paradosso fu che la profezia sarebbe valsa anche per lui. 

Si è sempre lamentato Gorbaciov, che dopo la fine della Guerra fredda i leader occidentali non seppero costruire una nuova architettura della sicurezza in Europa. E che nell’umiliazione inflitta alla Russia negli anni Novanta affondino le radici del revanscismo neo-imperiale di Vladimir Putin. Verità elementare. 

Ma la sua ferma convinzione che ogni nazione dovesse decidere da sé il proprio destino, riassunta da un suo collaboratore nella cosiddetta «dottrina Sinatra» citando la celebre My Way, è l’esatto opposto della pretesa dell’attuale leader del Cremlino di poter imporre lui, a suon di cannonate, cosa debbano essere un Paese e un popolo. Requiem per un grande della Storia.

Morte Gorbaciov, l'incontro con Papa Woytila nel 1989. Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

L'annuncio in televisione il 25 dicembre 199. Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

(LaPresse) Il 25 dicembre 1991 con un discorso in diretta Tv Mikhail Gorbaciov, presidente dell’Urss, ultimo Segretario Generale nonché l’uomo che aveva avviato i cambiamenti epocali, annunciò le sue dimissioni. 

«Signor Gorbaciov, abbatta questo muro!»: le frasi più celebri sull’ex leader dell’Unione sovietica. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Mikhail Gorbaciov, ultimo leader sovietico, è morto martedì 30 agosto, all’età di 91 anni: da Reagan a Thatcher, ecco alcune delle frasi più note su di lui 

Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione sovietica, è morto martedì 30 agosto a 91 anni. Ecco alcune delle più note frasi pronunciate su di lui nel corso degli anni. 

«Mi piace il signor Gorbaciov. Possiamo lavorare insieme»

(Margaret Thatcher, premier britannica, intervista alla Bbc, 14 dicembre 1984) 

«C’è un segnale che i sovietici possono dare, un segnale inequivocabile, e che accelererebbe in modo drammatico la causa della libertà, e della pace. Signor Segretario Generale Gorbaciov: se cerca la pace, se cerca la prosperità per l’Unione sovietica e per l’Europa dell’Est, se cerca la liberalizzazione: venga qui, a questa porta! Signor Gorbaciov, apra questa porta! Signor Gorbaciov, abbatta questo muro!»

(Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, discorso al Muro di Berlino, 12 giugno 1987) 

«Negli ultimi anni si sono verificati drammatici cambiamenti nei rapporti tra l’Est e l’Ovest. Un rapporto conflittuale è stato sostituito da negoziati. I vecchi stati nazionali europei hanno riconquistato la loro libertà. La corsa agli armamenti sta rallentando... Questi cambiamenti storici derivano da diversi fattori: ma nel 1990 il Comitato per il Nobel vuole onorare Mikhail Gorbaciov per i suoi numerosi e decisivi contributi».

(Comunicato del Comitato del Premio Nobel per la Pace, 15 ottobre 1990) 

«Il comitato del Nobel non sa di che cosa parla. Fateli venire a vivere un paio di mesi a vivere qui, come noi russi, sentiamo cosa ne pensano. La pace è solo per gli stranieri?»

(Insegnante di Mosca, non identificato, citato dalla Reuters in un lancio d’agenzia del 15 ottobre 1990) 

«Un pericolo mortale incombe sulla nostra madre patria. La politica di riforme lanciata da Mikhail Gorbaciov e concepita come mezzo per assicurare lo sviluppo dinamico del Paese e la democratizzazione della vita sociale, è entrata in un vicolo cieco. Mancanza di fiducia, apatia e disperazione hanno sostituito l’entusiasmo e le speranze originali. Le autorità a tutti i livelli hanno perso il sostegno della popolazione. Il Paese è diventato ingovernabile, e sta sprofondando nel pantano della violenza e dell’illegalità. Mai prima d’ora nella storia nazionale la propaganda del sesso e della violenza ha assunto una tale portata, minacciando la salute e la vita delle generazioni future. L’orgoglio e l’onore del popolo sovietico devono essere ripristinati in pieno»

(Dichiarazione del Comitato per la situazione d’emergenza nell’Unione sovietica dopo aver annunciato che a Gorbaciov erano stati tolti i suoi poteri a seguito di un colpo di Stato fallito nell’agosto del 1991) 

Nichols: «Tanti errori, però aiutò Reagan a chiudere la Guerra fredda».  dall‘inviata a New York Marilisa Palumbo su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

Il sovietologo: «Non era un eroe romantico, ma un uomo degli apparati». 

«Ronald Reagan non avrebbe potuto fermare la guerra fredda senza Gorbaciov, avevano uno bisogno dell’altro. Reagan era entrato in carica impegnandosi a contrastare l’Unione Sovietica, ma arrivati al 1984 aveva cominciato a cercare dei partner con cui parlare a Mosca e non riusciva a trovarne finché non arrivò Gorbaciov. Entrambi avevano capito di non poter andare avanti così. Reagan aveva compreso che la corsa agli armamenti era andata troppo oltre. Gorbaciov sapeva che l’Unione Sovietica non poteva continuare sulla strada che stava percorrendo. Entrambi erano uomini disposti a parlare di un vero cambiamento. Per Gorbaciov fu però un processo molto più complicato perché aveva tantissimi oppositori in casa».

Tom Nichols, sovietologo che per anni ha insegnato allo Us Naval War College, conosciuto in Italia per il suo libro sulla fine della competenza, vuole sottrarsi però alle mitizzazioni: «Fece molti errori, ma alla fine scelse la cosa più importante, di essere un essere umano. Non dovremmo farne una figura troppo romantica, ha passato la vita nel Partito comunista e il suo mentore era Yuri Andropov, che era stato anche capo del Kgb, un personaggio davvero terrificante. Ma davanti al dilemma se usare la forza per mantenere insieme l’Urss e il Patto di Varsavia, scelse l’opzione di essere un essere umano».

Si ricorda quando ha sentito parlare per la prima volta di lui?

«Studiavo l’Unione sovietica al college, e la prima cosa che mi colpì di lui era quanto fosse giovane. Era un’altra generazione, e la cosa mi rendeva speranzoso. Poi più avanti, quando lui e Reagan dichiararono insieme che una guerra nucleare non si sarebbe mai dovuta combattere, pensai che era un momento importante, ma come molti americani, essendo cresciuto guardando figure come Brezhnev e appunto Andropov, ancora non mi fidavo appieno».

Chi fu nell’amministrazione Usa a capire di avere davanti una persona diversa?

«Nancy Reagan, per cominciare. E Shultz (il segretario di Stato di Ronald Reagan, scomparso lo scorso anno, ndr)».

Fu lasciato solo alla fine?

«Io credo che lo aiutammo standogli fuori dai piedi. George H. Bush disse: “Non danzeremo sul muro di Berlino”, e noi cercammo di non umiliarlo, di trattarlo come un pari fino alla fine ed è stato importante. Non c’era molto altro che potessimo fare, non provammo a convincerci di poter in qualche modo influenzare gli eventi all’interno dell’Unione Sovietica. E lui era molto odiato in casa, non è mai riuscito a farsi rieleggere in Russia. E poi le sue storie sulla fine dell’Unione sovietica cambiavano in continuazione a seconda del suo interlocutore: se parlava in Occidente diceva una cosa, se parlava in Russia sosteneva che la caduta dell’Urss era stata una tragedia».

E dopo, negli anni di Eltsin? Si poteva fare di più per coinvolgere la Russia nel nuovo ordine mondiale?

«Non so che cosa altro avremmo potuto fare, abbiamo trattato Mosca come una potenza più grande di quanto non fosse davvero, l’abbiamo fatta entrare nel G7... La terribile realtà sulla guerra in Ucraina è che Mosca non accetterà mai che sia un Paese separato».

Gorbaciov, il ricordo di Sergio Romano: «Aveva l’abito giusto, ma poche idee. Portò la libertà ma affossò l’economia». Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

L’ambasciatore in Urss dal 1985 al 1989 sui suoi anni moscoviti: «Mikhail diverso dai suoi predecessori: quando lo dissi a Roma e capii di non essere più gradito»

«Quando arrivai a Mosca, nel 1985, la capitale dell’Unione Sovietica era in sostanza ancora quella di Stalin. L’Urss era allora una gigantesca macchina burocratica che funzionava sempre allo stesso modo».

Sergio Romano è un testimone privilegiato. Ambasciatore d’Italia a Mosca tra il 1985 e il 1989, ha assistito di persona alla «rivoluzione» che avrebbe cambiato per sempre l’Urss. Non solo: diplomatico di grande esperienza e fine studioso di storia, Romano si accorse sin dal principio che qualcosa, nelle riforme varate da Gorbaciov, cominciava a stonare. Ma pochi, a Roma, si fidarono del suo fiuto, almeno in quel caso.

«Mi sono insediato — spiega al Corriere Sergio Romano — proprio nel momento del passaggio: dopo Andropov e Chernenko, arrivava al Cremlino una figura assai diversa. Noi del corpo diplomatico capimmo subito che Gorbaciov rappresentava una novità assoluta per l’Urss, che si stava per aprire una stagione senza precedenti».

In effetti, il giovane segretario generale del Pcus si presentò allentando per la prima volta la presa della censura e della polizia politica sulla società. «I cambiamenti furono immediati per quanto riguarda, per esempio, la libertà di stampa e di opinione. Ma non solo: ai cittadini sovietici fu concesso, novità assoluta, il diritto di viaggiare ovunque nel proprio Paese, cosa fino a quel momento complicatissima e soggetta a permessi e passaporti “interni”». Insomma, un homo novus: «Dopo una serie infinita di personaggi “ingessati”, ecco arrivare al vertice dell’Urss un uomo garbato ed elegante, capace di muoversi con tatto nella gabbia del potere sovietico».

Eppure, l’ambasciatore Romano si accorse che qualcosa sembrava non funzionare nel verso giusto... «Mi trovai ben presto — dice ancora — a osservare criticamente gli avvenimenti. Rimproveravo a Mikhail Sergeevic di non avere un vero programma economico. Va bene concedere più libertà: tutti erano giustamente contenti. Ma cosa fare del sistema di produzione collettivo? Lui parlò della creazione di una “industria sociale”: ma non spiegò mai in cosa consistesse. Per come la vedevo io, si trattava di introdurre nelle aziende di Stato un po’ di democrazia interna. Ma per il libero mercato, per le privatizzazioni (con il risultato di creare un esercito di oligarchi) dovevamo attendere l’arrivo di Eltsin». E così i suoi rapporti diretti al governo italiano cominciarono a crearle dei «problemi». «Questo non lo so, nessuno mi ha mai detto nulla — risponde Sergio Romano — Tuttavia io mettevo in guardia sul pericolo di eccedere in entusiasmo. Ero preoccupato: non ne sapevamo ancora abbastanza, soprattutto per quanto riguarda la sua idea di politica internazionale». Gorbaciov «si stava presentando al mondo e si era messo l’abito giusto. Ma di cose concrete, progetti: poco o nulla». E quindi si arrivò a una rottura tra lei e il governo a Roma. Può raccontarci, oggi, chi decise di metterla da parte? «Fui io a dimettermi anche se in verità ho avuto l’impressione che si fossero stancati di me. Ero rientrato a Roma e mi era stata proposta una sede di “tutto riposo” presso un’organizzazione internazionale, in una capitale dell’Europa occidentale. Io in vacanza? Preferii lasciare».

Da allora in avanti Sergio Romano si è dedicato a un’altra sua grande passione: la scrittura. Proviamo infine a chiedergli quali politici ricorda legati a quegli anni. «Ho avuto a che fare soprattutto con Andreotti e De Mita. Avevo simpatia per Andreotti: non era un uomo caldo (e nemmeno io), non cercavamo l’amicizia. Ma era stimabile: colto ed esperto». E De Mita? «No, lui non era Andreotti».

Gorbaciov e Eltsin: così l’Unione sovietica cessò di esistere. Sergio Romano su Il Corriere della Sera il 3 settembre 2022.  

Molti russi hanno accolto la morte di Gorbaciov con freddezza perché lo ritengono responsabile della disintegrazione dell’Urss. L’accusa è discutibile: ma non priva di qualche verità 

Credo di comprendere le ragioni per cui molti russi hanno accolto la morte di Mikhail Sergeevic Gorbaciov con freddezza. 

Per noi è l’uomo che ha messo fine alla guerra fredda, stretto rapporti cordiali e positivi con tutte le democrazie occidentali (fece una eccellente impressione sulla signora Thatcher, durante un viaggio a Londra), tessuto utili relazioni personali con i maggiori leader del pianeta, aperto i mercati del suo Paese al commercio internazionale. Per molti russi, invece, Gorbaciov sarebbe responsabile della disintegrazione dell’Unione Sovietica. 

L’accusa è discutibile, ma non priva di qualche verità. 

La dissoluzione cominciò quando Gorbaciov, cedendo alle insistenze di Boris Eltsin, firmò il decreto che aboliva il partito comunista dell’Unione Sovietica. 

Era certamente vero che il partito aveva paralizzato l’intero Paese con le sue catene ideologiche e con la sua puntigliosa burocrazia. Ma era altrettanto vero che il partito era la spina dorsale del Paese. 

Ricordo ancora la breve cerimonia televisiva che permise ai cittadini sovietici di assistere alla morte del loro Stato. Gorbaciov era affaticato, forse preoccupato, confuso e smarrito, mentre Eltsin, con un tono padronale, spingeva bruscamente attraverso la scrivania il documento su cui l’infelice compagno avrebbe apposto la sua firma. 

Da quel momento la Russia smise di essere la grande casa che aveva accolto fra le sue mura numerosi gruppi etnici uniti dalla fede comunista. 

Un altro colpo mortale fu inflitto al Paese quando fu deciso di privatizzare le aziende statali. Per realizzare questo disegno ed evitare che il cittadino russo cadesse nuovamente tra le braccia del comunismo, fu deciso che tutti sarebbero diventati proprietari. L’obiettivo era chiaro ma l’applicazione avrebbe richiesto una maggiore gradualità. Per aumentare il numero dei proprietari fu deciso che ogni cittadino russo avrebbe ricevuto una somma di voucher (noi diremmo «buoni») con cui avrebbe comperato il maggior numero possibile di azioni. Ma a questo punto entrarono in scena persone abili e spregiudicate che comperavano voucher per farne azioni. E in tempi relativamente brevi la vecchia patria del comunismo divenne un mercato di voucher. 

Le aziende in questo modo finirono nelle mani di pseudo industriali che erano in realtà spregiudicati avventurieri. Una delle ricadute impreviste di questo fenomeno fu quindi una diffusa criminalità e una legione di nuovi ricchi, veri corsari, che compravano case nelle riviere mediterranee, gestivano casinò o costruivano lussuose ville là dove il cittadino si sarebbe accontentato di una modesta dacia nei sobborghi di Mosca. 

Il regista di questa operazione non fu Gorbaciov e le responsabilità, se mai, furono piuttosto di Eltsin. Ma era Gorbaciov che aveva messo in moto la macchina della modernizzazione post- sovietica e i russi sembrano considerarlo non meno colpevole del suo successore alla guida del Paese.

Quando Gorby a Genova predisse il futuro. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

Caro Aldo, la morte dell’ex presidente russo Gorbaciov, ci riporta indietro di quaranta anni, la caduta del muro di Berlino, la caduta dell’Urss e la speranza che il popolo russo dopo gli Zar, Lenin, Stalin, potesse assaporare la libertà e la democrazia. In cosa sbagliò Gorbaciov? Lei lo ha mai conosciuto? Sergio Guadagnolo

Caro Sergio, In questi giorni Mikhail Sergeevic Gorbaciov è stato ricordato soprattutto come icona pop degli Anni ’80; e in effetti è stato anche questo (indimenticabile il sosia, con tanto di voglia di fragola sulla fronte, che compare nel finale di Rocky IV: film orribile che però con la sconfitta di Ivan Drago presagiva la fine della guerra fredda e il crollo dell’Urss). In realtà, Gorby, come lo chiamammo fin da subito, è stato uno degli uomini più importanti del Novecento: in positivo, dal punto di vista occidentale; in negativo, da quello dei russi. In patria non lo amava nessuno: non ovviamente i nostalgici del comunismo, da lui abbattuto; ma neppure gli avversari del regime, perché lui il comunismo non lo voleva abbattere, bensì riformare. Compito, come si è visto, impossibile. L’ho conosciuto nel marzo 1995, a Genova. Cenammo con Grigorij Javlinskij, un liberale cui veniva predetto un grande avvenire e che quella sera scoprì il pigato e il vermentino, e con Giulietto Chiesa (Gorbaciov lo stimava moltissimo). C’era anche Raissa. Il giorno dopo, nel tentativo di intervistarla, la seguii in una malinconica visita a una scuola di Masone, paesino dell’entroterra. Era già scesa dall’auto e aveva salito le scale, quando alle sue spalle partì un piccolo applauso: erano otto signore venute a salutarla (ma forse erano solo sette). Raissa Gorbaciova — una che aveva familiarizzato con la regina Elisabetta e Nancy Reagan — tornò indietro, si avvicinò, strinse la mano alle signore di Masone, dicendo a ognuna «grazie signora» in italiano. Una lezione di stile. Gorbaciov parlò agli studenti dell’università. Tenne un discorso molto bello, ricordando che nel 1952, quando aveva la loro età, aveva scritto una tesi che cominciava così: «Stalin è la nostra forza e la nostra giovinezza». Nella vita tutto cambia, era il senso; lui però stava già con Raissa. Sosteneva che i pericoli del futuro sarebbero stati il ritorno dei nazionalismi e la distruzione dell’ambiente. Purtroppo aveva ragione. Per affrontarli vagheggiava un consiglio di vecchi saggi di tutto il mondo, lui compreso, che avrebbero discusso fino a quando non sarebbero stati tutti d’accordo. Era insomma rimasto un idealista un po’ velleitario. Ma era sempre Gorby.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” l'1 settembre 2022.

«Ha scritto la storia del mondo e ha cambiato la mia vita in modo fondamentale, non lo dimenticherò mai». Così l'ex cancelliera tedesca Angela Merkel rende omaggio a Mikhail Gorbaciov, l'ultimo leader dell'Urss morto martedì scorso a 91 anni. 

Cresciuta nell'ex Germania comunista Merkel ricorda commossa: «Ancora oggi posso sentire la paura che avevo nella Ddr nel 1989, temendo l'arrivo dei carri armati come nel 1953. Ma questa volta nessun carro armato si è mosso, nessun colpo è stato sparato». Poi l'auspicio per il tempo presente: «Possa il ricordo della sua storica conquista permettere una pausa, soprattutto durante queste terribili settimane e mesi di guerra della Russia contro l'Ucraina».

Parla dell'attualità anche il premier britannico uscente Boris Johnson preoccupato «dell'intenzione attribuita all'attuale leadership di Mosca di disfare ciò che di buono Gorbaciov fece». E il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi sottolinea che «il suo desiderio di pace, la sua opposizione a una visione imperialista della Russia gli sono valsi il premio Nobel. Sono messaggi quanto mai attuali davanti alla tragedia dell'invasione dell'Ucraina».

Per Henry Kissinger, 99 anni, segretario di Stato durante la presidenza Nixon e Ford, «gli europei dell'Est, i tedeschi e anche i russi dovrebbero essere grati a Gorbaciov per l'ispirazione e il coraggio con cui ha portato avanti la sua idea di libertà. Anche se - aggiunge - non è riuscito a consolidare» alcuni dei suoi progetti perché «la società non era pronta». 

Un'altra segretaria di Stato, Condoleezza Rice, che era in carica nella seconda amministrazione di George W. Bush, sottolinea che «senza di lui e il suo coraggio non ci sarebbe stata la fine della Guerra Fredda». Il presidente della Ronald Reagan Presidential Foundation, Fred Ryan, ricorda che la first lady Nancy Reagan era rimasta «molto colpita» quando Gorbaciov era andato ai funerali del marito: «Una conferma in più che tra i due leader c'era una vera amicizia».

Un riconoscimento inatteso arriva dall'ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski, al potere tra il 1995 e il 2005: «I Paesi dell'ex blocco sovietico, come la Polonia, devono gratitudine al presidente Mikhail Gorbaciov perché le riforme che lui ha pensato di realizzare ci hanno permesso di liberarci dalla dominazione postbellica di Mosca».

Vladimir Putin, ha ricordato Kwasniewski, trattava l'ex leader sovietico come un «parassita» che ha distrutto l'Urss. Positivo anche il giudizio dell'attuale sodale del presidente russo Alexander Lukashenko: «Mikhail Sergeevic - ha sottolineato - ha dato un grande contributo personale all'allentamento delle tensioni internazionali e al disarmo nucleare globale alla fine del XX secolo».

Per il presidente della Bielorussia, Gorbaciov «credeva sinceramente nella possibilità di riorganizzare la società secondo i principi di glasnost, democrazia e apertura». 

 Chi, invece, non vuole partecipare a quest' omaggio postumo è un altro Paese alleato della Russia. Ieri il Global Times , il tabloid del Quotidiano del Popolo , ha tracciato un ritratto impietoso dell'ultimo presidente dell'Urss: «Gorbaciov è una figura tragica che ha soddisfatto i bisogni di Usa e Occidente».

«Venerare ciecamente il sistema occidentale - è la tesi del giornale - ha fatto perdere indipendenza all'Unione Sovietica e il popolo russo ha sofferto di instabilità politica e di gravi pressioni economiche, fatti che la Cina ha considerato un grande avvertimento e una lezione da cui trarre esperienza per la propria governance». E poi l'accenno alla situazione attuale: «Negli ultimi dieci anni, il leader russo Vladimir Putin ha imparato dalle lezioni del leader sovietico», definendo una «via autonoma per Mosca».

Giuliano Ferrara per “il Foglio” l'1 settembre 2022.

Ci vorranno biblioteche intere di storiografia, trattati poderosi di antropologia politica, corpose analisi freudiane e junghiane ispirate alla curiosità per il sottofondo della mente umana e per gli archetipi dell’anima, ci vorranno inchieste letterarie direttamente derivate dalla pietas latina e dall’epica greca per spiegare l’inspiegabile: il disamore, perfino l’odio dei russi per Michail Gorbaciov.

Garibaldi, il più disordinato e inconsapevole creatore dell’Italia unita, un confusionario d’impeto in camicia rossa, è onorato in ogni piccola comunità, eccetto che da minoranze borboniche. Napoleone Bonaparte riposa agli Invalides ed è celebrato come perenne homme fatal del destino francese malgrado i lutti e le ondate di guerra che scombussolarono Francia ed Europa. I monumenti a Churchill sono sverniciati dagli adepti settari della cancel culture, ma solo perché la sua memoria popolare torreggia con i suoi sigari e i suoi bicchieri di whisky di unico e inflessibile avversario di Adolf Hitler.

Lincoln se ne sta seduto nel suo marmo candido e guarda Washington con la crudele benevolenza del discorso di Gettysburg che chiuse la sanguinosa guerra civile. Gandhi è il nome chiave dell’India moderna e della sua retorica, nonostante i grandi cambiamenti nei decenni. Ci sono cose in cui i grandi creatori di storia hanno fallito, altre in cui sono riusciti, prezzi immensi che hanno fatto pagare a popoli e nazioni, ci sono i loro difetti, lo spirito tirannico, gli errori belluini, le conseguenze inattese, e contano alla fine i risultati finali che si chiamano libertà, indipendenza, unità e visione di una vita migliore per l’ispirazione delle generazioni.

I russi disamorati di Gorbaciov vivevano prima di lui nel sottomondo ossessivo descritto da Grossman in “Vita e destino”. Perfino nell’epopea vittoriosa della guerra patriottica contro l’invasore nazista, seguita a tutti gli equivoci di una iniziale collaborazione fra i totalitarismi, il loro stigma era la sottomissione, la delazione, la purga del dissenso, la confessione falsa, l’inimicizia obliqua in una boscaglia sociale disadattata alla vita libera, il dubbio esistenziale sistematico, la corruzione fino al cuore dell’amore e della famiglia e dell’amicizia, la tortura, il Gulag, una sequela di miti tirannici e imperiali che veniva dal tempo lontano degli zar, per non dire delle invasioni mongole, e si era riprodotta dopo secoli, eguale e piatta, con la rivoluzione dei bolscevichi e con i suoi esiti sovietici.

Prima di Gorbaciov c’era la corsa agli armamenti, c’era un orgoglio nazionale di cartapesta, c’erano la guerra e la Guerra fredda, la chiusura delle frontiere, l’oppressione costosa e vile di mezza Europa, un’eguaglianza livellatrice e forzata che sapeva di miseria e di azzeramento della libertà di consumo e di movimento per tutti, salvo per le oligarchie degli apparati e del partito unico, c’era la cultura ufficiale derelitta, l’uso partitico delle idee, l’arte di regime, la funzione esornativa degli intellettuali sfuggiti all’eccidio staliniano, c’era la censura, mancavano la libertà di espressione, di associazione, di proprietà di se stessi e della propria vita individuale. 

L’Unione sovietica, come aveva capito Yuri Andropov, capo del Kgb, potente occhio assoluto sulla storia sovietica e bolscevica, sulla società russa e delle repubbliche federate, sugli usi e costumi del popolo e sui suoi bisogni, era diventata un caos decadente travestito da stabilità, un sistema senza responsabilità e libertà che non reggeva più il confronto con l’occidente europeo e americano, che non produceva energia né slancio alcuno, una eterna notte di morti viventi. 

Fu Andropov a indicare Gorbaciov, russo caucasico di cinquantaquattro anni, la mascotte del Politburo, uno dell’apparato e non un campione dell’inesistente società civile, come unico successore all’altezza della tragedia. E in sei anni di destino Gorbaciov attuò l’unico programma possibile: distruggere tutto con le parole d’ordine della riforma e della libertà.

Diede ai popoli dell’Urss la fine della galera in cui erano rinchiusi, li fece evadere, li mise di fronte alle loro responsabilità verso se stessi e il mondo, accettò unificazione tedesca e caduta del Muro di Berlino, non mosse un dito contro la ritrovata indipendenza dell’Europa centrale e orientale e dei Baltici e dell’Ucraina e della Bielorussia e degli stan asiatici, tutte nazioni forzate a un’unione produttiva solo di un falso onore politico, di un falso primato mondiale, un mondo disseminato di piccole spie e di polizie politiche arcigne, il mondo dei commissari Gletkin, del buio a mezzogiorno, di un esercito impantanato come tutti prima e dopo di esso nel tragico Afghanistan. 

Altro che Pizza Hut, dialogo internazionale antiatomico, indizi di economia di mercato, fu la resurrezione miracolosa di un fantasma inaudito per i russi, la libertà civile, la fine dell’autoritarismo centralizzato, la liberazione dei Sacharov, la riabilitazione dei Solgenitsin, l’uscita dal carcere di centinaia di migliaia di prigionieri politici, un tentativo di restituire alla propria autonomia le istituzioni della società, della cultura, i giornali, le tv, i libri usciti dall’Indice dei proibiti. 

E tutto questo in nome di una possibile creazione di una classe media e di una mobilità sociale fondata su investimenti e lavoro, su proprietà individuale ed economia di sviluppo, consumi e avanzamento tecnico e scientifico. Il meccanismo era divoratore, non si poteva riformare l’irriformabile, Gorbaciov fu inghiottito dall’ala conservatrice e dall’ala radicale, che la ebbe vinta infine, come prevedibile, sulle sue incertezze, e vorrei vedere, e alla fine se lo mangiò in un sol boccone con la dissoluzione dell’Unione sovietica da lui promossa consapevolmente anche se non voluta o prefigurata, a parte le conseguenze inattese di un’opera di destabilizzazione travolgente del male organizzato.

Le cose poi sono andate nel peggiore dei modi, come sempre quando sono i radicali a mettersi la storia sulle spalle, e ne è venuta la peggiore restaurazione possibile. Che ha fomentato ed è stata fomentata da questo incomprensibile o fin troppo comprensibile disamore, da questo odio per l’uomo che aveva liberato i popoli sovietici dalla cortina di ferro che li divideva dal mondo libero, e aveva restituito loro dignità e onore 

Estratto dell'articolo di Micol Flammini per “il Foglio” l'1 settembre 2022.

Durante una lezione di grammatica russa, un mio compagno di corso particolarmente zelante e incurabilmente nostalgico di un’epoca mai conosciuta aveva consegnato all’insegnante una frase che in traduzione suona così:  “Putin ha distrutto ciò che Lenin ha costruito”. 

La finalità era dimostrare che sapessimo usare in modo corretto le forme perfettive e imperfettive dei verbi, categorie  che nelle lingue slave possono sovvertire il senso di una frase. 

L’insegnante, russa di San Pietroburgo, riportò le nostre frasi corrette e il compito del mio compagno presentava un enorme stralcio vergato con una penna rossa, dal quale trasparivano stizza e rimprovero.

Non erano i perfettivi o gli imperfettivi a essere sbagliati, l’insegnante aveva cancellato il nome Putin e lo aveva sostituito con Gorbaciov in modo che la frase fosse: “Gorbaciov ha distrutto ciò che Lenin ha costruito”. 

Il mio compagno comprese che non aveva evidentemente capito granché dell’epoca per la quale provava nostalgia e io iniziai a intuire che in Russia le cose funzionavano in un altro modo: Gorbaciov per noi era il simbolo di tutto quello che non sarebbe mai potuto succedere senza di lui, per  i russi  era il simbolo di tutto quello che a causa sua è accaduto. 

Nel parlare con Sergey Radchenko, storico della Guerra fredda e docente alla Scuola di studi internazionali avanzati dell’Università Johns Hopkins, ad anni di distanza da quel giorno di  lezione  sui verbi russi, scopro una cosa in più: non eravamo soltanto noi o  i russi a non aver capito Michail Gorbaciov fino in fondo, ma forse neppure lui aveva capito se stesso.

“Gorbaciov ha iniziato con questo sogno di riformare l’Unione sovietica ma nel processo di queste riforme ha scoperto che le cose non stavano andando come sperava. 

Ha cercato di mantenere quella strada, fino a quando ha perso il controllo e questo ha portato all’implosione, o all’esplosione, dell’Unione sovietica. Una conseguenza del fatto che Gorbaciov non fosse pienamente consapevole”. (...) Quando arrivò Vladimir Putin (...) anche lui fu visto come un riformatore. In realtà (...) la sua volontà era quella di riportare la Russia indietro. (...) Radchenko nota che i due “hanno avuto una relazione strana, non facile. Putin a volte ha criticato Gorbaciov per essere stato ingenuo nei confronti dell’occidente, ma lo ha fatto in modo  riservato. Gorbaciov ha criticato Putin a sua volta, ma non sono mancate consonanze tra i due”.

Il freddo di Mosca saluta Gorbaciov. Isolati dal mondo i funerali di Stato. Marta Ottaviani su Avvenire l'1 settembre 2022.  

Raramente la morte di un leader che ha fatto la storia è stata tanto ignorata nel suo Paese. Ma nella Russia di Vladimir Putin tutto è possibile, anche che Mikhail Sergeevich Gorbaciov, ultimo Segretario generale del Pcus, colui che pose fine all’Unione Sovietica, sia morto martedì sera nella sostanziale indifferenza dei media e che sabato avrà funerali di Stato “alternativi”, senza la presenza dei capi di Stato stranieri. 

Anche perché, in tal caso, il Cremlino avrebbe avuto qualche problema: l’isolamento a cui è sottoposta la Russia dall’inizio della guerra contro l’Ucraina avrebbe reso possibile solo la presenza di leader con una visione del mondo diametralmente opposta rispetto all’uomo della glasnost e della perestroika. La sua salma sarà esposta nella Sala delle Colonne della Casa dei Sindacati di Mosca, ossia nel pieno centro della capitale, dietro il teatro Bolshoij, a poche decine di metri dalla Piazza Rossa e dove, in precedenza, sono stati esposti i corpi di Stalin e Lenin.

Martedì sera, le televisioni hanno totalmente ignorato la dipartita dell’ex presidente. I quotidiani, ieri, hanno dedicato l’apertura a colui che ha cambiato tutto, ma sottolineandone più gli errori che i meriti. L’unica voce totalmente a favore di Gorbaciov è stata quella della testata Novaya Gazeta, di cui il politico era in parte proprietario.

Il direttore, il premio Nobel per la Pace 2021 Dmitrij Muratov, è stato uno degli ultimi a visitarlo in ospedale. Un incontro breve, date le condizioni di salute sempre più precarie, ma durante il quale l’ex presidente aveva esortato «a evitare in tutti i modi una guerra nucleare».

Toccante anche la testimonianza della Ong Memorial, una delle più autorevoli e storiche della Russia, bandita lo scorso anno, nata proprio per denunciare i crimini commessi durante l’Unione Sovietica. Irina Scherbakova, una delle sue fondatrici, ha sottolineato come, con la morte di Gorbaciov, si è spenta «una luce di speranza» per tutti i liberali russi, «la possibilità, poi persa, di essere un Paese democratico, un Paese libero».

Il presidente, Vladimir Putin, lo ha commemorato con un telegramma così scarno da indurre a pensare che avrebbe preferito ignorarlo. «Mikhail Gorbaciov – si legge sul sito del Cremlino – è stato un politico e statista che ha avuto un enorme impatto sul corso della storia mondiale. Ha guidato il nostro Paese in un periodo di cambiamenti drammatici e complessi, di politica estera su larga scala, di sfide economiche e sociali. Capì profondamente che le riforme erano necessarie, si sforzò di offrire le proprie soluzioni a problemi urgenti».

Per il resto, silenzio o quasi, anche da quelle giovani generazioni di politici che, secondo alcuni analisti, avrebbero potuto rappresentare un futuro diverso per la Russia. Unica voce fuori dal coro, quella del dissidente, Alexeij Navalny, che dal carcere di massima sicurezza dove è detenuto, ha parlato di un leader «che seppe lasciare il potere in modo pacifico». In evidente contrapposizione con quello attuale.

Se dentro ai confini nazionali si è tiepidi, fuori è un coro unanime di cordoglio. Dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Francia alla Germania, passando per il premier Mario Draghi, la voce dell’Occidente si è levata per commemorare chi, anche solo per un soffio, ha fatto sperare tutti in un mondo migliore. La percezione di Gorbaciov cambia andando verso l’Estremo Oriente, a delineare un ordine mondiale che risponde alla Guerra Fredda del Terzo Millennio.

La stampa cinese ha bollato l’ultimo leader sovietico come un «ingenuo», una «figura tragica» che «ha soddisfatto i bisogni di Usa e Occidente senza morale», responsabile di «gravi errori».

Per sua espressa volontà, il corpo di Gorbaciov riposerà nel cimitero monumentale di Novodevicij, vicino all’omonimo convento, ma soprattutto accanto a Raijssa, la donna della sua vita, che nel 1999 lo ha lasciato solo a combattere la sua battaglia contro una Russia che se a un certo punto ha smesso di amarlo, di certo lo ha capito poco, e negli ultimi anni lo ha ignorato, fino all’atto finale.

Tutte cose che Gorbaciov sapeva da tempo. Tanto da premunirsi. In un’intervista rilasciata nel 2011, alla domanda su come lo avrebbe giudicato la storia, l’ultimo leader comunista rispose: «La storia è una donna capricciosa ed è difficile dire quale sarà il suo disegno. Ma voglio anticiparla, per dire che, in generale, Gorbaciov è un bravo ragazzo. Aspirava a fare qualcosa di molto importante, serio per le persone. Non tutto ha funzionato, ma molto».

È morto Mikhail Gorbaciov, padre della perestroika. Il padre della perestroika aveva 91 anni. Fu l'ultimo leader dell'Urss, artefice della fine della guerra fredda. Nel 1990 fu insignito del Nobel per la pace. Il "profondo cordoglio" di Putin, Biden: "Un leader raro". La Repubblica il 30 Agosto 2022.

È morto Mikhail Gorbaciov. L'ultimo leader dell'Unione Sovietica aveva 91 anni. In precedenza era stato reso noto che era ricoverato in ospedale. "Questa notte, dopo una grave e prolungata malattia, Mikhail Sergeyevich Gorbaciov è morto", recita il comunicato diffuso dal nosocomio e riportato dalla Tass. Sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, nella tomba di famiglia, accanto alla moglie Raisa.

Gorbaciov fu l'ultimo segretario generale del Pcus e l'ultimo presidente dell'Urss. Fu lui ad avviare il processo di apertura della società sovietica passato alla storia come perestroika, a promuovere la glasnost (trasparenza), a segnare il cammino che portò nel 1991 al crollo dell'Unione sovietica e alla fine della guerra fredda.

La vita e l'ascesa politica

Nato il 2 marzo 1931 a Privol'noe, in provincia di Stavropol', nel Sud della Federazione russa, da una famiglia di agricoltori, nel 1955 Gorbaciov si laurea in giurisprudenza all'Università Lomonosov di Mosca. Lì, durante una festa nella casa dello studente di Sokolniki, conosce Raisa Maksimovna Titarenko, che studia sociologia e filosofia. Se ne innamora subito e la sposa poco dopo. Un'unione durata fino alla morte di lei, avvenuta a Muenster, in Germania, nel settembre 1999.

La carriera politica di Gorbaciov inizia nel 1970, quando viene nominato primo segretario del partito a Stavropol. Dieci anni dopo torna a Mosca come membro a pieno titolo del Politburo: è il più giovane di tutti. Rafforza la propria posizione sotto le ali protettive di Jurij Andropov, capo del Kgb e originario anche lui di Stavropol. Viaggia spesso all'estero e nel 1984 incontra per la prima volta l'allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, "un osso duro" con cui stabilirà poi un rapporto di stima e fiducia.

L'anno dopo, con la morte di Kostanntin Cernenko, è il suo turno. L'11 marzo 1985 diventa segretario generale del Pcus: ha solo 54 anni, una svolta generazionale dopo un lungo periodo di gerontocrazia.

Glasnost e perestroika

Il 1986 è già un anno cruciale, che rafforza le attese e le speranze, in Urss come nel resto del mondo, legate alla nuova leadership sovietica. A febbraio Gorbaciov lancia le sue parole d'ordine, glasnost (trasparenza) e perestroika (ristrutturazione), per portare una inedita ventata di libertà nei media e nell'opinione pubblica e per riformare un sistema economico sempre più stagnante. In ottobre invece si incontra con l'allora presidente americano Ronald Reagan a Reykjavik, in Islanda, per discutere la riduzione degli arsenali nucleari in Europa, suggellata l'anno successivo dalla firma di uno storico trattato. Nel luglio del 1991 fa il  bis con George Bush: lo 'Start 1' per una forte riduzione delle armi nucleari strategiche.

Gorby, come ormai viene amichevolmente chiamato in Occidente, riabilita anche i dissidenti più celebri, a partire dal fisico Andrei Sakharov, dopo otto anni di confino. Il percorso democratico interno avanza, le riforme economiche meno. Il potere viene spostato dal partito agli organi legislativi eletti a suffragio universale e nel marzo del 1989 ci sono le prime libere elezioni: una data storica. Nel 1990 il ricostituito Congresso dei deputati del popolo elegge Gorbaciov presidente, con più ampi poteri. Nel frattempo sono cambiate la geografia e la storia dell'Europa, che per il padre della peretroika deve diventare "una casa comune". Il 9 novembre 1989 crolla il Muro di Berlino, il simbolo della guerra fredda, seguono le rivoluzioni di velluto nell'Europa centro-orientale e la riunificazione della Germania.

Tutto con il benestare di Gorbaciov, che nel 1989 ritira anche le truppe dall'Afghanistan. Nello stesso anno compie due visite storiche: in maggio a Pechino, dove Cina e Urss riallacciano i rapporti interrotti trent'anni prima; il primo dicembre in Vaticano da Wojtyla, primo leader sovietico ad incontrare un Papa. Inevitabile, e meritato, il Nobel per la pace nel 1990.

Il crollo dell'Urss

Il 1991 è un anno drammatico. In agosto viene sequestrato per tre giorni nella villa presidenziale in Crimea, vittima di un golpe dei comunisti conservatori spento solo dalla coraggiosa resistenza del presidente russo Boris Eltsin. L'8 dicembre lo stesso Eltsin firma con Ucraina e Bielorussia la nascita della Csi, la Comunità di Stati indipendenti: è la fine dell'Unione Sovietica. Impotente e ormai impopolare dopo le sue riforme troppo lente e prudenti, inviso anche per la sua crociata contro la vodka, umiliato nel duello con l'esuberante Eltsin, Gorbaciov getta la spugna poche settimane dopo, il giorno di Natale.

Nella sua biografia restano alcune ombre, come l'invio del carri armati in Lituania contro le prime aspirazioni indipendentiste o la catastrofe nucleare di Cernobyl nel 1986, passata sotto silenzio per diversi giorni nonostante la glasnost. Ma i suoi meriti storici prevalgono di gran lunga, nonostante l'impopolarità o l'indifferenza tra i russi, che non gli perdonano il crollo dell'Urss. Il suo impegno a favore della pace, della democrazia e dell'ambiente è continuato sino a poco tempo fa, tra conferenze, incontri e critiche aperte alla deriva autoritaria di Vladimir Putin. Anche se nel 2014 era tornato a difenderlo come paladino degli interessi russi, a partire dall'annessione della Crimea, contro l'imperialismo Usa. Ma chiedendo anche, fino alla fine dei suoi giorni, di evitare il rischio di uno scontro nucleare.

Le reazioni internazionali

Putin ha espresso il suo "profondo dolore" annunciando che lo manifesterà direttamente ai parenti e agli amici del leader scomparso. Di tutt'altro tenore l'omaggio del premier britannico uscente Boris Johnson: "Sono rattristato di apprendere della morte di Gorbaciov. Ho sempre ammirato il coraggio e l'integrità con cui egli portò la guerra fredda a una conclusione pacifica. In un tempo segnato dall'aggressione di Putin all'Ucraina, il suo impegno senza risparmio per aprire la società sovietica resta un esempio per tutti noi".

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ne ha elogiato "straordinaria visione" definendolo un "leader raro", con la capacità di vedere che un futuro diverso era possibile e il coraggio di rischiare la sua intera carriera per realizzarlo. "Il risultato è stato un mondo più sicuro e una maggiore libertà per milioni di persone", ha dichiarato. Biden ha ricordato l'incontro alla Casa Bianca nel 2009 durante la sua vicepresidenza e il confronto sugli sforzi degli Stati Uniti e della Russia per ridurre le loro scorte nucleari. Il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres lo ha definito "un uomo di Stato unico, che ha cambiato il corso della storia".

La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha salutato Gorbaciov come un "leader fidato e rispettato" che "ha aperto la strada a un'Europa libera". Il suo "ruolo cruciale" nell'abbattere la cortina di ferro, che simboleggiava la divisione del mondo in blocchi comunisti e capitalisti, e nel porre fine alla guerra fredda ha lasciato un'eredità che "non dimenticheremo", ha scritto su Twitter.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha descritto su Twitter Gorbaciov come un "uomo di pace", che "ha aperto una strada di libertà per i russi. Il suo impegno per la pace in Europa ha cambiato la nostra storia comune".

 Morto Gorbaciov. L'ultimo Segretario generale, il primo riformatore. Ezio Mauro La Repubblica il 30 Agosto 2022.

Il ritratto del padre della perestroika: aveva 91 anni.

"Slava Bogu", gloria a Dio, disse a sorpresa Mikhail Sergheevic Gorbaciov in quel cortile dell'asilo dov'erano schierati i bambini per salutarlo nella visita di Stato in Finlandia. I due corrispondenti che lo avevano seguito fino a quell'inutile coda del cerimoniale di giornata cercarono di raggiungerlo per chiedergli conto di quelle due parole clamorosamente estranee al vocabolario ufficiale sovietico, ma furono bloccati dagli uomini del Kgb mentre Raissa Maksimovna, la moglie del leader russo, lo portava via di fretta, avvertito il pericolo.

Da Putin gelido cordoglio. Per il deputato Medvedev "sue le radici di quel che accade in Ucraina". Il parlamentare Milonov: "eredità peggiore alla catastrofe inflitta da Hitler". Ma qualcuno ricorda: "Ci diede la libertà". La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Su Pervyj Kanal si commenta quella che chiamano la "presunta" avanzata ucraina a Kherson, mentre su Rossija1 Vladimir Soloviov, il "propagandista-in-capo" di Vladimir Putin, manda avanti il suo talk show con collegamenti da Donetsk e commenti degli ospiti in studio come se niente fosse. Sulle reti tv più viste dai russi, la morte di Mikhail Gorbaciov non è neppure una "ultima ora" in sovrimpressione.

Le dimissioni di Gorbaciov: "Metto fine alla mia opera di presidente dell'Urss". La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Il 25 dicembre 1991 Mikhail Gorbaciov rassegnò le sue dimissioni da Capo dello Stato. La "situazione che si è creata", come dice nel comunicato che legge, è legata all'8 dicembre 1991, quando Boris Eltsin per la Russia e i capi di Stato di Ucraina e Bielorussia firmarono l'Accordo di Belaveza, il trattato che sanciva la dissoluzione dello Stato sovietico. Questa dissoluzione venne ufficialmente confermata il 26 dicembre dello stesso anno, dal Soviet Supremo

Perestroika e glasnost: il significato delle due grandi riforme. Enrico Franceschini La Repubblica il 31 Agosto 2022.

La parola perestroika significa ristrutturazione: con Gorbaciov diventò un piano per riformare il comunismo e farne un sistema socialdemocratico. La glasnost, che alla lettera significa trasparenza, diventò sinonimo di libertà di espressione, libertà di stampa

Il significato era nuovo. Ma la parola, in russo, esisteva già. “Perestroika” vuol dire ristrutturazione. Nell’Urss di Mikhail Gorbaciov diventò sinonimo di riforme, poi di democratizzazione. Un piano per riformare il comunismo, farne un sistema socialdemocratico, con pluralismo politico, libere elezioni, economia di mercato o meglio mista, imprese private e imprese di Stato. 

Così, nel dicembre di trent’anni fa, si dissolse l’Urss e si concluse l’era cominciata con la prima rivoluzione bolscevica. di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) ,  Fiammetta Cucurnia ,  Enrico Franceschini ed Ezio Mauro. Coordinamento multimediale di Laura Pertici. Produzione Gedi Visual su La Repubblica l'8 dicembre 2021.

Trent'anni fa, l'8 dicembre 1991, alle 21 in punto ora di Mosca, la televisione di Stato annuncia agli allora 294 milioni di abitanti delle quindici repubbliche socialiste sovietiche che l'Urss ha legalmente cessato di esistere. Due settimane dopo, la notte di Natale, la bandiera rossa verrà ammainata sul Cremlino e l'ultimo segretario generale del Pcus, Mikhail Gorbaciov, nominato sei anni prima per provare a salvare dal collasso il più grande Stato comunista della terra, un impero multietnico esteso su 22 milioni di chilometri quadrati e undici fusi orari, si dimetterà dal partito e dalla guida del Paese.

Mikhail Gorbaciov, l'uomo visto nel momento della sconfitta. Enrico Franceschini su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Gioviale, caloroso, dotato di un'inesauribile energia: così ci sembrava Mikhail Gorbaciov, il 26 dicembre 1991, poche ore dopo avere annunciato in televisione le dimissioni. Erano anche le ultime ore che l'ormai ex-presidente trascorreva nell'ufficio al Cremlino, da lui occupato dal giorno dell'insediamento al potere, sei anni prima. Accogliendo me e la mia collega Fiammetta Cucurnia, allora corrispondenti di Repubblica da Mosca, per quella che fu la sua ultima intervista all'interno della fortezza sulla piazza Rossa, dalla cui cupola il giorno prima era stata ammainata la bandiera rossa, Mikhail Sergeevic non dava l'impressione di uno sconfitto, non appariva demoralizzato o depresso: al contrario, in un certo senso era come se gli avessero levato un formidabile peso dalle spalle.

Addio a Mikhail Gorbaciov, padre della perestroika

La fine dell'Urss era nell'aria perlomeno da sei mesi prima, quando i nostalgici del comunismo avevano tentato di rovesciarlo con un golpe: da vittima designata, Mikhail Sergeevic diventò agli occhi del suo stesso popolo un complice del complotto, perché quegli uomini li aveva scelti lui, nel continuo zig-zag tra riforme e passi indietro per tenere insieme il Paese più grande del mondo. In un certo senso, dopo il golpe d'agosto, era stato dunque un lungo addio, dall'epilogo scontato. Ciò non significa che Gorbaciov non fosse amareggiato e preoccupato dal crollo dell'Urss. "Non siamo né tartari né tedeschi", disse nella lunga conversazione, protratta più di quello che ci aspettavamo, il segno che non aveva fretta, perché i suoi impegni ufficiali erano conclusi. Intendeva che la Russia non era né Asia né Europa, bensì una cerniera fra i due continenti: avrebbe voluto risolvere così l'eterno dilemma tra slavofili ed europeisti. Ma il tempo dei compromessi era passato. E il suo tempo personale era scaduto.

Dal villaggio del sud al Cremlino

Per misurare il viaggio compiuto da Gorbaciov tra il 1985, quando il Politbjuro del Pcus lo elesse segretario generale dopo la morte di tre anziani leader uno dopo l'altro, Breznev, Andropov e Chernenko, e il 26 dicembre '91 della sua uscita di scena, serviva un altro viaggio. Lo avevo compiuto, spinto dalla curiosità e dal caso, nel luglio precedente, poche settimane prima del colpo di stato, recandomi a Privolnoe, un villaggio di duemila abitanti nel sud della Russia, dove Gorbaciov era nato e cresciuto. Nel silenzio della campagna assolata, c'era una sola "stalovaja", una mensa invasa di mosche, tra le misere izbe in legno e le orrende casupole di stile sovietico. Il giovane Mikhail andava a scuola nel villaggio vicino ogni mattina su un carro trainato da un trattore o dai buoi. Il nonno, giudicato un kulako, un contadino arricchito, aveva subito le persecuzioni staliniane. La nonna aveva segretamente battezzato Mikhail, come usava allora. Forse da lì veniva la sua abitudine, ripetuta più volte nel corso della nostra intervista, di esclamare "slava Bogo", grazie a Dio: era strano per me sentire l'ex-capo della superpotenza comunista, della nazione che predicava l'ateismo, intercalare con il nome del Signore il suo discorso sulle riforme riuscite o mancate della perestrojka. Una delle contraddizioni del potere dei Soviet: Stalin aveva mandato il suo aguzzino Kaganovic a fucilare i preti, ma non era riuscito a sradicare del tutto la religione dal linguaggio del socialismo reale.

Quello sperduto villaggio nella regione di Stavropol, in cui spiccava una sola abitazione, modesta come le altre ma protetta da un casotto di guardia del Kgb, perché lì dentro continuava a vivere la madre di Gorbaciov, era lontano dalla Piazza Rossa, dal Cremlino, dall'ufficio con la bandiera rossa sul tetto, come la terra dalla luna. Ci era voluta una determinazione di ferro per compiere quel percorso: la capacità di fare carriera usando fermezza antica e metodi nuovi, di apparire un continuatore e un innovatore, per non spaventare i nostalgici ma pure per dare al sistema lo scossone che anche il suo predecessore e padrino Andropov, un ex-capo del Kgb, dunque uno dei pochi a conoscere il vero stato del disfacimento sovietico, giudicava necessario. Ma quella duplicità, che aveva funzionato per portarlo fino al vertice, non lo aveva più servito quando si era trattato di cambiare l'Urss senza rivoluzionarla: come tutti i riformatori, Gorbaciov era rimasto solo, abbandonato dai nostalgici del comunismo come dai radicali democratici. E sbeffeggiato dalla gente comune per la sua battaglia contro l'alcolismo, che gli valse il soprannome di "segretario minerale", come se fosse astemio, un'infamia per un russo paragonabile a quella di un italiano che disdegna la pizza o gli spaghetti. Non era vero che non beveva: qualche volta, nei giorni finali di solitudine al Cremlino, si era perfino sbronzato di cognac, come confessò il suo più stretto collaboratore Anatolij Cernjaev nel proprio diario. Non era un ubriacone come il suo successore Boris Eltsin, tuttavia. Non avrebbe mai detto, come il principe Vladimir, fondatore della prima Russia, "bere è la gioia dei russi, non possiamo vivere senza", rifiutando per questo l'Islam come fede di stato, perché vietava l'alcol, e abbracciando invece il cristianesimo.

Il giorno dopo l'intervista a Gorbaciov tornai al Cremlino per intervistare il suo braccio destro Aleksandr Jakovlev, detto "l'architetto della perestroika", anche lui intento a traslocare e abbandonare il suo ufficio. Uscendo dalla stanza di Jakovlev, in chi ci imbattiamo di nuovo Fiammetta, io e il nostro redattore russo Sergej Avdeenko? In Gorbaciov, che si aggirava per i corridoi, con il colbacco in testa, come un uomo che non sa più dove andare, cosa fare, impossibilitato ad andarsene per sempre. Baciò Fiammetta. Strinse la mano a me. Quindi la porse anche a Sergej. Ma Sergej si ritrasse, quasi come se una forza oscura lo spingesse verso il muro del corridoio. "Non capisci?", mi disse più tardi. "Per me era come se l'imperatore, Dio in terra, fosse sceso dal trono o dal cielo a stringermi la mano. Non mi sembrava possibile". Questo era il segretario generale del Pcus: un dio in terra. E ora la terra era franata, travolgendolo.

Il collasso dell'Urss

Quella intervista doveva essere il suo testamento politico. Ma era un testamento pronunciato troppo a caldo per essere completo, meditato. Rividi ancora Gorbaciov a Mosca, poi in Israele dove ero stato trasferito dal giornale, infine a Londra, dopo un nuovo trasferimento. E proprio nella capitale britannica Mikhail Sergeevic offrì una riflessione più acuta, oltre che più dolorosa e più consapevole dei problemi creati dal fallimento della perestroika e dal collasso sovietico: "Ci facevano fretta, ma saremmo dovuti andare più piano". Disse che i primi anni di Vladimir Putin erano stati buoni, per riportare un po' di ordine senza imbrigliare del tutto la nascente democrazia russa e i buoni rapporti con l'Occidente, ma che poi Putin aveva sbagliato a spingere sull'autoritarismo e sulla forza. Quella forza che Gorbaciov non aveva usato, lasciando che l'Europa orientale si liberasse dalle catene, regalando agli stessi russi lo spiritello della libertà. Ma la libertà, come ripetevano le massaie di Mosca davanti ai negozi vuoti, non si mangia.

Nemmeno con Eltsin, il rivale che per spodestarlo aveva mandato in frantumi l'Urss, Gorbaciov usò la forza. "Avrei potuto mandarlo a fare l'ambasciatore in Canada e non avremmo mai più sentito parlare di lui", ricordava nel dicembre 1991. Invece era stato clemente, lo aveva tenuto a Mosca, gli aveva dato una seconda chance. Forse perché gli faceva comodo, nella costante ricerca di un equilibrio tra comunisti e democratici. In parte perché era quello il suo carattere.

La cosa più bella che ci disse, come spesso succede nelle interviste, venne a registratore chiuso, sulla porta dell'ufficio. Ricordò un viaggio di tanti anni prima, quando era soltanto segretario di Stavropol, invitato in Sicilia dai compagni del Pci per una vacanza insieme alla moglie Raissa, in un'era in cui solo i sovietici autorizzati potevano recarsi all'estero, mettendo il naso fuori da quell'immenso stato-prigione. E Raissa, bella quando il mondo la conobbe nei panni di una moderna first-lady, da giovane doveva essere ancora più bella: "In spiaggia, vicino a Palermo", raccontava Mikhail Sergeevic, "cominciarono a girarle attorno dei bellimbusti locali. E io dovetti tirare fuori i muscoli per farli allontanare! Che figura! Chissà cosa avranno pensato di quello zoticone russo!" L'uomo della perestroika, l'ultimo presidente sovietico, il leader che per liberare un impero lo ha distrutto, era fatto così: sapeva ridere di sé stesso. Perfino nel momento in cui aveva perso tutto.

"Un leader raro", "un uomo di pace" capace di "abbattere muri": il ricordo corale dei leader politici sulla scomparsa di Gorbaciov. La Repubblica il 31 agosto 2022.

Da Biden a Macron, da Von Der Leyen a Guterres: le ultime ore hanno visto una pioggia di messaggi di ricordo e gratitudine all'eredità lasciata da Mikhail Gorbaciov nell'indomani della sua scomparsa. "Un leader raro", ma anche, "un uomo di pace e di libertà", capace di "abbattere muri".

In mattinata arriva il messaggio di Putin alla famiglia. Mikhail Gorbaciov "ha dovuto affrontare grandi sfide in politica estera, nell'economia e nella sfera sociale, capiva profondamente che le riforme erano necessarie e cercava di proporre le proprie soluzioni a problemi scottanti". Lo scrive il presidente russo Vladimir Putin nel messaggio di condoglianze alla famiglia per la scomparsa dell'ultimo leader sovietico. "Vorrei sottolineare - aggiunge Putin - anche quella grande attività umanitaria, di beneficenza e illuminismo che Gorbaciov ha condotto in tutti gli ultimi anni. Chiedo di accettare le parole sincere di solidarietà e empatia per la perdita che avete subito".

Le parole di Biden

"Quando salì al potere, la Guerra Fredda durava da quasi 40 anni e il comunismo da ancora più tempo, con conseguenze devastanti" e "pochi funzionari sovietici di alto livello avevano il coraggio di ammettere che le cose dovevano cambiare", si legge in una dichiarazione del presidente americano Joe Biden diffusa dalla Casa Bianca. "Ha lavorato con il presidente Reagan per ridurre gli arsenali nucleari dei nostri due Paesi" e, "dopo decenni di brutale repressione politica, ha sposato riforme democratiche". "Ha creduto nella glasnost e nella perestroika non come semplici slogan, ma come la strada per la popolazione dell'Unione Sovietica dopo tanti anni di isolamento e privazioni", prosegue, parlando di "un leader raro, con l'immaginazione di vedere che un futuro diverso era possibile e il coraggio di rischiare la sua intera carriera per realizzarlo".

"Il risultato è stato un mondo più sicuro e una maggiore libertà per milioni di persone". Biden ricorda poi un incontro con Gorbaciov alla Casa Bianca nel 2009. "E' stato facile capire perché tanti in tutto il mondo lo stimassero così tanto", conclude la dichiarazione con le condoglianze "alla sua famiglia, ai suoi amici e a tutte le persone che nel mondo hanno beneficiato della sua fiducia in un mondo migliore".

I leader europei

"Le mie condoglianze per la scomparsa di Mikhail Gorbaciov, uomo di pace le cui scelte hanno aperto un percorso di libertà per i russi. Il suo impegno per la pace in Europa ha cambiato la nostra storia comune". Così su Twitter il presidente francese Emmanuel Macron ha ricordato nelle ultime ore Gorbaciov, morto ieri all'età di 91 anni.

 "Mikhail Gorbaciov era un leader fidato e rispettato. Ha svolto un ruolo cruciale per porre fine alla Guerra Fredda e far cadere la cortina di ferro. Ha aperto la strada a un'Europa libera. Questa eredita' e' quella che non dimenticheremo". Lo scrive in un tweet la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. 

"Il mio ricordo indelebile di Mikhail Gorbaciov e' vederlo incontrare George Hw Bush nella tempestosa Malta per segnalare la fine della Guerra Fredda. Ha ispirato la speranza di un mondo migliore e piu' libero. Significava abbattere muri e portare alla riunificazione dell'Europa. La sua eredita' sara' ricordata. Possa riposare in pace". Lo scrive la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola.

Le Nazioni Unite e la Nato

"Mikhail Gorbaciov è stato uno statista unico che ha cambiato il corso della storia". Sempre su Twitter il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ricordato nelle ultime ore Gorbaciov. "Il mondo ha perso un leader globale - ha scritto - un sostenitore instancabile della pace. Sono profondamente addolorato per la sua scomparsa".

"Le storiche riforme di Mikhail Gorbaciov hanno portato alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, hanno contribuito a porre fine alla Guerra Fredda e hanno aperto la possibilità di una partnership tra Russia e NATO. La sua visione di un mondo migliore rimane un esempio". Lo ha scritto su Twitter Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato.

Le reazioni in Italia

Tutti gli uomini liberi "sono in lutto, se n'è andato un campione della democrazia. Mikhail Gorbaciov è un uomo che ha cambiato la storia del 20° secolo”, scrive Silvio Berlusconi, commentando la morte del padre della pereistroika. “Pur essendo cresciuto all'interno dell'apparato comunista e avendone raggiunto i vertici, ha avuto la lucidità, l'onestà intellettuale e il coraggio politico di porre fine al sistema totalitario sovietico e di scegliere la strada della democrazia e del rispetto della sovranità dei popoli”, è il post lasciato sui social dal leader di Forza Italia.

Anche per il commissario europeo all'Economia, Paolo Gentiloni, "Gorbaciov ha cambiato la Storia. Osannato, poi sconfitto e oggi in patria deriso, con le sue riforme ha accompagnato il crollo delle dittature comuniste e ha acceso la speranza di democrazia in Russia e di disarmo nel mondo. Una speranza che deve tornare".

Su Twitter il messaggio del segretario del Pd, Enrico Letta: “Ognuno è stato attraversato da pensieri e ricordi alla notizia della scomparsa di Gorbaciov. Quello che li riassume tutti è per me gratitudine. Un uomo che si assunse la responsabilità più difficile. Che cambiò la storia. Che pagò di persona per questo. Giù il cappello”. Ha espresso cordoglio, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ha definito Gorbaciov “pilastro della nostra storia recente e protagonista di scelte fondamentali di democrazia e libertà. Bisogna difendere la sua importantissima eredità e continuare a credere in un mondo di pace e apertura", conclude il leader di Impegno Civico. “Un uomo che ha creduto nel cambiamento attraverso il coraggio delle riforme e della trasparenza. Un uomo di dialogo e di pace. Ha fatto la storia del Novecento. Gorbaciov'', ha scritto su Twitter la senatrice del Pd Simona Malpezzi.

 Occhetto: “Mikhail mi disse: Achille, che hai fatto? Ma approvò la Bolognina". Concetto Vecchio su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

L’intervista all’ultimo segretario del Pci

Achille Occhetto, qual è il suo primo ricordo di Gorbaciov?

«Risale all’inverno del 1987. Mosca. La neve imbiancava le guglie del Cremlino. Ero vicesegretario del Pci. M’impressionò per l’umanità, il linguaggio schietto, l’apertura mentale e culturale. Era diverso dagli altri burocrati al vertice del Pcus».

Un incontro tra voi due?

«Sì, ma la mattina fummo ricevuti dal vice di Gorbaciov, Ligaciov.

L'oste di Trastevere e quell’amicizia con Gorbaciov nata cucinando la spigola: "Mi parlava d’amore". Katia Riccardi su La Repubblica l'1 settembre 2022. 

Il ricordo dello chef Claudio Dordei: "Aveva un modo di fare così semplice che riempiva il cuore. Quella prima sera mi ha parlato della moglie Raissa, era morta nel '99 ma lui aveva le lacrime agli occhi quando raccontava di lei"

Nuotava in pace e ignara, la spigola, quando venne pescata e portata sui banchi ai mercati generali di Roma all'alba di una mattina di dicembre del 2007. In pace camminava anche Claudio Dordei quel giorno, quando la vide e considerò di comprarla per la sua osteria, 'la Gensola' a Trastevere, l'avrebbe cucinata prima o poi.

Per la Pace quel giorno a Roma era arrivato anche l'ex presidente dell'Urss, Mikhail Gorbaciov.

Gorbaciov e la profezia a Honecker che accelerò il crollo della "cortina di ferro". Paolo Garimberti su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

"La vita punisce chi arriva in ritardo", disse il leader sovietico al numero uno della Ddr per convincerlo a seguire la via delle riforme sul modello di Mosca. Era il 7 ottobre 1989: un mese dopo, la caduta del Muro di Berlino segnava la fine della Germania comunista

"La vita punisce chi arriva in ritardo". Con un monito, che si sarebbe rivelato ben presto profetico, Mikhail Gorbaciov aveva cercato di spingere Eric Honecker, il più ortodosso tra i leader comunisti dei Paesi satelliti di Mosca, sulla via della "perestrojka" e della "glasnost", le riforme che aveva intrapreso in Unione Sovietica. Gorbaciov era arrivato  il 7 ottobre 1989 a Berlino Est per le celebrazioni del quarantesimo anniversario della Ddr, la Germania orientale.

 

Morto Gorbaciov: a Mosca le tv ignorano la notizia, poi partono i commenti impietosi. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Da Putin gelido cordoglio. Per il deputato Medvedev "sue le radici di quel che accade in Ucraina". Il parlamentare Milonov: "eredità peggiore alla catastrofe inflitta da Hitler". Ma qualcuno ricorda: "Ci diede la libertà"

Su Pervyj Kanal si commenta quella che chiamano la "presunta" avanzata ucraina a Kherson, mentre su Rossija1 Vladimir Soloviov, il "propagandista-in-capo" di Vladimir Putin, manda avanti il suo talk show con collegamenti da Donetsk e commenti degli ospiti in studio come se niente fosse. Sulle reti tv più viste dai russi, la morte di Mikhail Gorbaciov non è neppure una "ultima ora" in sovrimpressione. 

Gorbaciov, i nemici, gli errori economici, l'illusione del comunismo democratico: tutte le critiche al grande leader. Enrico Franceschini su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Uno dei protagonisti del Ventesimo secolo, è stato un leader dai due volti contrapposti, in Occidente e in patria.

Osannato all’estero come l’uomo del Nobel per la pace, del disarmo nucleare, della fine della guerra fredda, della liberazione dell’Europa dell’est dalle catene della dittatura comunista; contestato e perfino dileggiato a Mosca per il caos, la fame e infine il crollo dell’Unione Sovietica, che portò anche alle sue dimissioni. Mikhail Gorbaciov, uno dei protagonisti del Ventesimo secolo, è stato un leader dai due volti contrapposti, in Occidente e in patria. 

Gorbaciov, il messaggio di Putin: "Ha affrontato grandi sfide". Sabato i funerali, ma non è chiaro se saranno di Stato. La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Il presidente russo ai parenti: "Chiedo di accettare parole sincere di solidarietà ed empatia". La camera ardente nella Sala delle Colonne del Palazzo dei sindacati, la stessa utilizzata alla morte di Lenin, Stalin e Breznev

Come annunciato, è giunto in mattinata il contenuto del telegramma inviato da Putin alla famiglia di leader scomparso ieri sera. Mikhail Gorbaciov "ha dovuto affrontare grandi sfide in politica estera, nell'economia e nella sfera sociale, capiva profondamente che le riforme erano necessarie e cercava di proporre le proprie soluzioni a problemi scottanti". Lo scrive il presidente russo Vladimir Putin nel messaggio di condoglianze per la scomparsa dell'ultimo leader sovietico. "Vorrei sottolineare - aggiunge Putin - anche quella grande attività umanitaria, di beneficenza e illuminismo che Gorbaciov ha condotto in tutti gli ultimi anni. Chiedo di accettare le parole sincere di solidarietà e empatia per la perdita che avete subito".

I funerali

Mikhail Gorbaciov sarà sepolto sabato, il 3 settembre, al cimitero di Novodevichy: lo ha reso noto la figlia, Irina, che non ha saputo dire se è in programma un funerale di Stato. Non è ancora chiaro neppure se il presidente Vladimir Putin parteciperà alla cerimonia. Quello che si sa, comunque, è che la camera ardente verrà allestita nella Sala delle Colonne del Palazzo dei sindacati, la stessa in cui si sono tenuti in più occasioni i congressi del Pcus e che ha ospitato la camera ardente dei precedenti leader sovietici, da Lenin a Stalin e Breznev. "Le decisioni saranno prese in base ai desideri dei familiari e degli amici" di Gorbaciov, ha detto il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, citato dall'agenzia Interfax.

Gorbaciov, parla il suo portavoce Poljakov: "Il rapporto con il Cremlino era inesistente". Rosalba Castelletti su La Repubblica l'1 settembre 2022.

Vladimir Poljakov è uno degli uomini che negli ultimi anni è stato più vicino a Mikhail Gorbaciov, l'ultimo leader sovietico morto martedì a 91 anni dopo una "prolungata e grave malattia". Da trent'anni suo portavoce, Poljakov era anche il segretario stampa della sua Fondazione.

Ieri è toccato a lui annunciare che la camera ardente verrà allestita sabato presso la Sala delle Colonne nella Casa dei Sindacati dove un tempo vennero esposte le salme di altri leader sovietici, da Vladimir Lenin a Josif Stalin. Risponde di corsa al telefono alle domande di Repubblica, la voce rotta dal lutto.

Quando è stata l'ultima volta che aveva visto Gorbaciov o che ci aveva parlato? 

"Non ci vedevamo da molto tempo perché era ricoverato in ospedale da mesi. Ma ci sentivamo spesso al telefono, l'ultima volta un paio di settimane fa".

Che cosa vi eravate detti?

"Abbiamo discusso dei nostri soliti affari, quelli della Fondazione. Mikhail Sergeevic era sempre molto attento, seguiva tutto, anche se nelle ultime settimane parlava oramai a stento".

Si era reso conto che la fine fosse vicina? 

"Naturalmente, anche se per ovvi motivi non ne abbiamo mai parlato esplicitamente. Essere malato alla sua età, 91 anni, non promette niente di buono".

Commentava mai "l'operazione militare speciale" in Ucraina?

"Tralascerei questo tema".

Come vede la coincidenza che Gorbaciov sia morto proprio nel mezzo dell'offensiva in Ucraina e del rischio di una catastrofe a Zaporizhzhia?

"È evidente che per l’uomo che ha dedicato tutta la sua vita politica a promuovere la pace, il disarmo, la sicurezza nucleare, tutte queste notizie fossero difficili da digerire".

Il presidente russo Vladimir Putin si è limitato a un sobrio telegramma di cordoglio alla famiglia. Com'era il rapporto tra Gorbaciov e il Cremlino?

"Non esisteva alcunn rapporto. Gorbaciov non era in contatto con nessuno già da tanti anni. La sua ultima volta al Cremlino fu nel marzo del 2011 quando l’allora presidente Dmitrij Medvedev gli conferì l'ordine di Sant’Andrea Apostolo in occasione del suo ottantesimo compleanno.  Da allora più nulla".

Qual è il suo più bel ricordo di Gorbaciov?

"È impossibile individuare qualcosa in particolare. Tutti i miei trent’anni di lavoro con lui sono stati speciali".

Lo storico Paul Kennedy: "Gorbaciov scommise su una Russia filo-Occidentale. Putin sta facendo l'opposto". Paolo Mastrolilli su La Repubblica l'1 Settembre 2022.

Secondo l'accademico britannico non si può escludere che i russi decidano di tornare a volere un ruolo responsabile nella comunità internazionale

Il problema è il carattere di Putin, non gli errori di Gorbaciov, con cui la storia sarà assai più generosa in futuro. E in parte la colpa è anche dell'Occidente, che non ha aiutato l'ultimo capo dell'Urss come aveva promesso. Non è sicuro però che il futuro di Mosca siano l'autocrazia e la morte delle riforme decretate dal capo del Cremlino, perché con un altro leader al suo posto non si può escludere che i russi decidano di tornare a volere un ruolo responsabile nella comunità internazionale.

Trent’anni fa la fine dell’Urss. Gorbaciov: “Dopo il crollo Usa arroganti”. La Stampa il 30 Agosto 2022.

«Non si capisce ciò che è accaduto in Europa alla fine del Novecento senza considerare il ruolo di Giovanni Paolo II», disse l’ultimo leader sovietico mentre terminava la guerra fredda. Le persone che passeggiavano per la Piazza Rossa innevata di Mosca la sera del 25 dicembre 1991 sono state testimoni di uno dei momenti cruciali del XX secolo: la bandiera rossa sovietica sul Cremlino è stata ammainata per l'ultima volta e sostituita con il tricolore della Federazione Russa . Pochi minuti prima, infatti, il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov aveva annunciato le sue dimissioni in un discorso televisivo in diretta alla nazione, concludendo così 74 anni di storia sovietica. Nelle sue memorie, Gorbaciov, ora novantenne, ha amaramente ricordato la sua incapacità di impedire la fine dell'Urss. Evento che evento che ha sconvolto l'equilibrio di potere mondiale e ha gettato i semi di un braccio di ferro in corso tra la Russia e la vicina Ucraina. «Mi rammarico ancora di non essere riuscito a portare la nave sotto il mio comando in acque calme, di non essere riuscito a completare la riforma del paese», ha scritto Gorbaciov. Intanto a superare la cortina di ferro concorrevano la ostpolitik vaticana e il Papa polacco Karol Wojtyla attraverso Solidarnosc.

E la storia cambiò. Gli esperti politici discutono da trent’anni se avrebbe potuto mantenere la sua posizione e salvare l'Urss. Alcuni accusano Gorbaciov, che salì al potere nel 1985, di non essere stato in grado di impedire la disgregazione sovietica. Lo avrebbe potuto impedire se si fosse mosso più risolutamente per modernizzare l'anemica economia regolata dallo stato mantenendo controlli più severi sul sistema politico. «Il crollo dell'Unione Sovietica è stata una di quelle occasioni nella storia che si crede siano impensabili fino a quando non diventano inevitabili», ha detto all'Associated Press Dmitri Trenin, direttore del Moscow Carnegie Center. «L'Unione Sovietica, qualunque fossero le sue possibilità a lungo termine, non era destinata a crollare quando è successo». Nell'autunno del 1991, tuttavia, l'aggravarsi dei problemi economici e le richieste secessioniste delle repubbliche sovietiche avevano reso il crollo tutt'altro che certo. Un fallito colpo di stato dell'agosto 1991 da parte della vecchia guardia comunista fornì un importante catalizzatore, erodendo drammaticamente l'autorità di Gorbaciov e incoraggiando più repubbliche sovietiche a cercare l'indipendenza.

Il trattato. Mentre Gorbaciov cercava disperatamente di negoziare un nuovo "trattato sindacale" tra le repubbliche per preservare l'URSS, ha dovuto affrontare una dura resistenza da parte del suo arcirivale, il leader della Federazione Russa Boris Eltsin, che era ansioso di impadronirsi del Cremlino e aveva il sostegno di altri capi indipendenti di repubbliche sovietiche. L'8 dicembre, i leader di Russia, Ucraina e Bielorussia si sono incontrati in un padiglione di caccia, dichiarando morta l'URSS e annunciando la creazione della Comunità degli Stati Indipendenti. Due settimane dopo, altre otto repubbliche sovietiche si unirono alla neonata alleanza, offrendo a Gorbaciov una scelta netta: dimettersi o cercare di evitare la disgregazione del paese con la forza. Il leader sovietico ha analizzato il difficile dilemma nelle sue memorie, osservando che un tentativo di ordinare l'arresto dei leader delle repubbliche avrebbe potuto provocare un bagno di sangue tra le lealtà divise nei militari e nelle forze dell'ordine. «Se avessi deciso di fare affidamento su una parte delle strutture armate, ciò avrebbe inevitabilmente innescato un acuto conflitto politico irto di sangue e conseguenze negative di vasta portata», ha scritto Gorbaciov.

In retrospettiva. «Non potevo farlo: avrei smesso di essere me stesso». Quello che sarebbe successo se Gorbaciov avesse fatto ricorso alla forza è difficile da immaginare in retrospettiva, ha osservato Trenin del Carnegie Center. «Potrebbe aver scatenato eventi sanguinosi a Mosca e in tutta la Russia, forse in tutta l'Unione Sovietica, o potrebbe aver consolidato alcune cose", ha detto. «Se avesse deciso di percorrere quella strada... ci sarebbe stato del sangue sulle sue mani. Avrebbe dovuto trasformarsi in una sorta di dittatore, perché questo avrebbe... eliminato il suo più importante elemento di eredità; cioè, non usare la forza in modo massiccio».

I vincitori. L'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov, nel trentennale del crollo dell'Urss, ha denunciato che è proprio dal quel momento che gli Stati Uniti sono diventati «arroganti e pieni di sè», promuovendo l'espansione della Nato a Est. «Come possiamo contare su relazioni paritarie con gli Usa e l'Occidente da una tale posizione?», ha dichiarato Gorbaciov in un'intervista all'agenzia Ria Novosti per il 30°anniversario delle sue dimissioni. L'ex segretario generale del Pcus ha così rilanciato le stesse considerazioni del presidente russo, Vladimir Putin, che è tornato a chiedere con insistenza a Nato e Washington «garanzie di sicurezza legalmente vincolanti» su manovre militari e dispiegamento di armi in Europa orientale. Nell'intervista, Gorbaciov, 90 anni, ha ricordato «l'atteggiamento trionfante in Occidente, soprattutto negli Usa», dopo la fine dell'Urss, nel 1991 e ha denunciato: «Sono diventati arroganti e pieni di sé e hanno dichiarato vittoria nella Guerra Fredda». I vincitori, ha proseguito l'ex leader sovietico e padre della perestrojka, «hanno poi deciso di costruire un nuovo impero e da qui l'idea dell'espansione della Nato». Gorbaciov ha, infine, accolto con favore gli imminenti colloqui sulla sicurezza tra Mosca e Washington, che dovrebbero tenersi a Ginevra e gennaio. «Spero che portino risultati», ha auspicato. 

Il socialismo non è contro. MIKHAIL GORBACIOV La Stampa il 30 Agosto 2022.

Dal giorno in cui il golpe d’agosto è fallito, i cospiratori sono finiti in carcere e le loro responsabilità gravissime sono apparse ben chiare a tutti [...], mi sento di rivolgere una domanda che nasce in Occidente ma arriva fin qui, a Mosca: il comunismo è morto oppure sopravvive e può rinascere? Posso rispondere oggi, con una precisa convinzione. Quel che è finito per sempre è il modello creato da Stalin, che fu fin dall’inizio un’avventura, un regime che ignorava la democrazia, i diritti degli uomini, le esigenze della gente, un sistema che violentava la società e tradiva le idee socialiste. Dunque questa è la mia opinione: è morto il modello di Stalin. E voglio aggiungere, grazie a Dio. Con la stessa certezza devo subito precisare che questa morte non riguarda il socialismo. L’idea del socialismo è ben viva, e io sento lo sforzo di ricerca, l’ansia di sperimentare, di trovare una nuova forma di vita per questo ideale. Qui, in questo nuovo terreno, i princìpi della democrazia dovranno naturalmente occupare il primo posto, insieme con i princìpi umanitari. La cosa che più mi colpisce, oggi, è che questo tentativo di ricerca non riguarda solo il nostro Paese, ma tutto il mondo, compresi naturalmente i Paesi capitalisti. [...] Ho avuto modo di riflettere molto su questi temi. La verità è che oggi noi tutti, ad Oriente come ad Occidente, consapevoli o no, stiamo andando verso una sorta di nuova civiltà. E proprio questo mi fa ritenere che molti schemi del nostro stesso modo di pensare oggi non hanno più senso e devono essere modificati. Soprattutto non possiamo più contrapporre il capitalismo e il socialismo. Questo significa che la società e la civiltà che stiamo creando devono essere lette in tutta la loro complessità, nella molteplicità dei loro aspetti [...]. In fondo, questo e non altro è il senso della libertà politica ed intellettuale in cui crediamo, il senso del pluralismo. E questo è il significato, anche, della libertà economica. Mi hanno riferito le parole del filosofo Norberto Bobbio, che ha detto che il sistema socialista è andato in crisi per la mancanza del mercato. Ma per me il concetto di libertà economica significa proprio questo: coesistenza di ogni tipo di proprietà - statale, cooperativa, privata. E questo presuppone il mercato [...]. Uscire dai vecchi schemi significa anche rinunciare a leggere la storia passata e recente ad uso e consumo dei propri interessi particolari. Sarebbe ingiusto ripensare alla storia dell’Urss solo come ad una vicenda di occasioni perdute. Questo è un approccio estremamente unilaterale. La vera grande occasione è stata infatti perduta insieme dall’Est e dall’Ovest, disperdendo le enormi opportunità che nascevano dalla vittoria contro il nazismo e il fascismo. Esistono cause e motivazioni diverse per questo errore storico: alcuni temettero la democratizzazione del loro Paese e il rafforzamento del dialogo tra le due parti che insieme avevano vinto la guerra; altri ebbero paura dell’espansione dell’influenza sovietica. Il risultato fu una contrapposizione che sfociò nella Guerra fredda. Una grande occasione per l’Europa e il mondo fu perduta, nel 1945-47. Forse la più grande di questo secolo. Il presidente George Bush ha detto che gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra fredda. Vorrei rispondere così: rimanendo immersi nel clima della Guerra fredda, tutti hanno perduto. E oggi, quando il mondo ha saputo liberarsi da quel clima, [...] tutti hanno vinto. Penso che questa polemica non abbia più grande rilevanza. Se non per una campagna elettorale...

Francesca Sforza per “La Stampa” il 31 agosto 2022.

Va nel personale, Jas Gawronski, giornalista e analista che ha attraversato il crollo del comunismo con il passo del diplomatico, ereditato da suo padre, e la prossimità con i più grandi, da Lech Walesa a Papa Giovanni Paolo II. 

E lo fa, a proposito di Gorbaciov, ricordando cosa gli disse proprio Papa Wojtyla nel corso di una conversazione avuta negli anni del suo papato: «Ha sempre difeso il comunismo sperando che potesse cambiare volto e non poteva fare altrimenti come primo segretario del partito, ma allo stesso tempo è stato l'unico che ha avviato una autentica riflessione sul comunismo». 

Gawronski, che ruolo ha avuto Gorbaciov nel crollo del comunismo?

«Il crollo del comunismo è stato determinato da quattro personaggi: Ronald Reagan, che con le guerre stellari ha messo in difficoltà economiche l'Urss come potenza, poi Giovanni Paolo II, col semplice fatto della sua nomina e per come ha gestito la cosa, poi certamente Lech Walesa, grazie alla scintilla che ha fatto scattare». 

E poi, lui, il padre della Perestrojka

«Io non credo che Gorbaciov volesse riformare il comunismo. A differenza dei primi tre, che volevano eliminarlo, Gorbaciov lo voleva migliorare, renderlo più umano, più sostenibile, ma non era più possibile, e non per una questione di riforme, ma proprio perché il sistema era arrivato a un punto di rottura irreversibile. Ha cavalcato opportunisticamente il ruolo del riformatore, ma non lo è stato per convinzione, lo è stato per le circostanze». 

Definiva Eltsin e il suo entourage degli "avventati". È d'accordo che il tempo non ha giocato a suo favore?

«Penso che sia vero dal suo punto di vista. Era presuntuoso e convinto di avere sempre ragione, guardava agli altri riformatori come concorrenti nella gara a conquistare un posto nella Storia, ma non ha colto la gravità del momento, l'impossibilità, per il comunismo, di trovare una qualsiasi possibilità di sopravvivenza».

Dal punto di vista comunicativo, ammetterà, è stato un rivoluzionario

«Diciamo che si è mosso molto bene, proprio con La Stampa, grazie al suo rapporto privilegiato con Giulietto Chiesa, all'epoca corrispondente da Mosca, e anche in parte con Giovanni Agnelli. Ma di nuovo, questo mi conferma nell'idea che volesse soprattutto lavorare sull'immagine di sé». 

Per questo, secondo lei, i russi non l'hanno mai amato?

«Lo giudicavano male i comunisti perché metteva in discussione gli aspetti fondanti del sistema, e lo giudicavano male gli anticomunisti perché intuivano la superficialità con cui intendeva riformare il Paese. In definitiva era un superficiale...»

Come sarà ricordato?

«Come il primo leader sovietico - perché sovietico era - accettato e accettabile in Occidente. Era l'unico che si muoveva a suo agio in Europa, erano gli europei che lo facevano sentire così riformatore, e a lui piaceva molto. 

Era contento di esserci, di apparire, di sembrare un sovvertitore della tradizione. Anche per quello i russi non lo hanno mai amato, ne coglievano il tratto narcisista.

Cosa diceva Lech Walesa di lui?

 «Walesa era moto critico nei confronti di Gorbaciov, soprattutto perché non credeva in un successo del comunismo, anche nella sua versione riformata. Allo stesso tempo, così come Gorbaciov non era immune dalla vanità, Walesa provava nei suoi confronti una certa invidia, perché aveva più successo di lui. Ma io sono convinto che fra trent' anni la storia ricorderà più Walesa che Gorbaciov». 

Anna Zafesova per “La Stampa” il 31 agosto 2022.  

C'è qualcosa di simbolico nel fatto che Mikhail Gorbaciov sia morto proprio mentre la Russia emersa da quell'impero sovietico che lui aveva cercato di salvare pacificamente stia naufragando nel sangue e nella vergogna. Chi lo ha frequentato negli ultimi mesi diceva che a 91 anni restava lucido e sapeva della guerra.

Era quello l'incubo al quale aveva sacrificato la sua carriera, accettando a soli 60 anni di diventare un pensionato, dopo essere stato uno degli uomini più potenti e popolari al mondo. 

Per lui, come per Vladimir Putin, la fine dell'Unione Sovietica era la tragedia più grande del '900, ma a differenza dell'attuale leader russo il primo e ultimo presidente sovietico aveva scelto la pace come priorità della sua missione politica e umana, e probabilmente non ci poteva essere per lui una punizione peggiore che morire sapendo che il suo Paese stava bombardando l'Ucraina, il Paese dal quale veniva sua madre e del quale cantava con una bella voce intonata le canzoni popolari quando era di buon umore.

Mikhail Sergeevich Gorbaciov - figlio di contadini arrestati da Stalin, studente moscovita idealista nel disgelo di Krusciov, funzionario del comunismo brezhneviano, il demolitore del Muro di Berlino, il Nobel per la pace premiato per il disarmo nucleare - è morto nel momento in cui la storia russa ha compiuto una giravolta a 180 gradi, e tutto (o quasi) quello che lui aveva conquistato o costruito è stato distrutto e rinnegato. 

Era entrato nella Storia già trent' anni prima di morire, eppure è morto sconfitto. Se la Russia di Putin è arrivata a pensare che la perestroika gorbacioviana fosse stata un tragico errore, e si è posta come obiettivo quello di tentare di riportare l'orologio della storia al 1984, è colpa probabilmente anche dell'idealismo di Mikhail Sergeevich.

Politico di magistrale bravura nella retorica e nell'intrigo, era però anche uomo di compromessi e mezze misure, che aveva sottovalutato il pericolo dei conservatori comunisti che cercava di tenere a bada mentre aveva sopravvalutato la lealtà dei suoi alleati riformisti. 

Aveva cambiato il mondo alla cieca, quasi d'istinto, mosso spesso più da un senso morale che da una consapevolezza chiara: era un uomo sovietico, che era arrivato a tastoni alla necessità di distruggere il sistema in cui era nato, ma senza riuscire ad accettarlo. 

Non l'avrebbe mai ammesso, ma era un rivoluzionario: nel modo in cui sceglieva la libertà, nel modo in cui aborriva la violenza anche quando vi rimaneva immischiato, ma anche nel modo in cui aveva portato nel mondo anaffettivo del Cremlino l'amore dichiarato per la sua Raissa. Aveva liberato dal Gulag i dissidenti. 

Aveva dato la libertà di parlare e creare agli intellettuali. Aveva fatto finire la guerra fredda, firmando con un presidente americano anticomunista come Ronald Reagan accordi sul disarmo nucleare che oggi sembrano appartenere a un mondo che abbiamo soltanto sognato. Aveva lasciato andare i Paesi dell'Europa dell'Est, accettando che gli ex satelliti sovietici tornassero in Europa, un "crimine" che gli ispiratori del putinismo ancora non riescono a perdonargli.

Aveva portato a Mosca quello che nessuno aveva mai visto: un politico che sorrideva, discuteva, che andava tra la gente e parlava a braccio. Un politico che sbagliava e ammetteva i suoi errori. Un leader che sapeva chiedere scusa e chinare il capo. Un potente che aveva invocato la fine di un mondo governato dalla forza. Uno statista che si era inserito da pari in un mondo di grandi leader occidentali, e che è stato amato all'estero proprio per la qualità che più è stata odiata in patria: il rifiuto della violenza, la visione che il potere politico si conquista e si negozia e non si impone.

Addio Mikhail Gorbaciov, eroe tragico che provò a salvare l’Unione Sovietica. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 31 Agosto 2022.

L’ultimo segretario del Pcus scompare all’età di 91 anni. Le sue riforme furono l’ultimo tentativo, tardivo, di tenere in piedi il gigante rosso

Nel marzo del 1985 il Comitato centrale del Partito comunista sovietico elegge un relativamente giovane (aveva 54 anni) burocrate Mikhail Gorbaciov alla carica del Primo segretario. L’Unione sovietica, all’epoca, è retta da una gerontocrazia priva di immaginazione e che governa coi metodi di segretezza modellati sull’esempio di satrapie orientali: esisteva perfino una scienza, la cremlinologia, che dà segni difficilmente percettibili, come l’ordine di apparizione dei leader a qualche cerimonia ufficiale, traeva conclusioni su ciò che succedeva ai vertici di potere. Nel vicino Afghanistan è in corso una guerra che le truppe dell’Urss non sono in grado di vincere; ogni giorno aerei Antonov riportano nell’Urss bare con cadaveri di ragazzi morti inutilmente. E ancora: l’economia è a pezzi, causa inefficienza, corruzione, clientelismo. Il fianco occidentale del Paese è un’altra ferita aperta: in Polonia il movimento di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, continua la sua attività, nonostante anni prima fosse stato messo fuori legge, ed è aiutato dalla Chiesa e dal pontefice Karol Wojtyla. E ancora: il dissenso, così si chiamava quel fenomeno che vide intellettuali e attivisti democratici organizzare una vera opposizione ai regimi autoritari, ha preso piede in Cecoslovacchia (protagonista un grande scrittore Václav Havel), Ungheria, perfino nella Ddr. Tutto questo, mentre il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, affiancato dalla premier britannica Margaret Thatcher, è convinto che quello comunista fosse “l’impero del Male”, condannato a morte (simile intuizione ebbe da noi Bettino Craxi, l’unico tra i leader italiani a onor del vero).

È difficile sapere quale fosse il vero programma politico di Gorbaciov nel momento in cui diventò il padrone del Cremlino. Probabilmente, stava pensando a una graduale riforma del paese, a qualche misura per rendere l’economia un po’ più vivace. Ma, spesso nella storia accade che un incidente in apparenza tecnico, finisce per cambiare il corso degli eventi e lo spirito del tempo. È stato questo il caso del disastro di Cernobyl nell’aprile del 1986. L’esplosione di un reattore nucleare e la nube radioattiva che si propagò per tutto il continente, fino all’Oceano Atlantico non potevano essere nascosti all’opinione pubblica, come avveniva invece in Urss, per decenni.

Il mistero cui era avvolta la vita dei sovietici era tale che non venivano pubblicati elenchi telefonici; le cartine geografiche portavano dati falsi, conglomerati urbani di importanza militare, ufficialmente non esistevano. Gorbaciov colse quindi l’occasione dell’indicente nucleare per farla finita con l’ossessione della segretezza. Il segretario del Pcus aveva compreso che senza la libertà d’informazione l’Urss sarebbe stata condannata a morte. O meglio, il suo tentativo di introdurre la libertà di parola (lo chiamò glasnost, seguì un progetto di riforma dell’economia definito perestrojka) fu un tentativo eroico e tragico, tragico perché intrapreso troppo tardi e non per colpa sua, di salvare il salvabile.

In questa sua impresa Gorbaciov trovò un alleato in Andrej Sacharov, premio Nobel per la pace, confinato da anni nella città di Gorkij (Nižnyj Novgorod). La scena è da grande romanzo: il 23 dicembre 1986, l’uomo, che siede al Cremlino (simbolo di un potere assoluto) chiama al telefono il suo prigioniero più illustre e gli dice: da domani sei libero e sappi che ho bisogno di te. I primi a capire quello che stava accadendo a Mosca sono stati i polacchi. Il paese era allo stremo; nei negozi mancavano beni di prima necessità; gli ospedali erano privi di medicine. I comunisti non erano più in grado di governare: per stanchezza, per mancanza di fiducia in se stessi, e lo sapevano bene. Dall’altro lato della barricata, nonostante la messa fuori legge di Solidarnosc (dicembre 1981) in seno all’opposizione democratica ha continuato a crescere una classe politica straordinariamente ben preparata, colta, intelligente e generosa. E basti pensare a intellettuali come il cattolico Tadeusz Mazowiecki (fu il primo Presidente del Consiglio non comunista; mori nel 2013, povero); o il grande storico Bronislaw Geremek, o a Jacek Kuron ́ (nove anni nelle patrie galere; a casa sua non chiudeva mai la porta perché chiunque potesse entrare e chiedere aiuto).

A Varsavia nel 1988 i comunisti intavolavano un negoziato con l’opposizione e con la mediazione della Chiesa, e che finì con il passaggio di potere l’anno dopo. Seguivano, con un simile modello, gli ungheresi. Poi, manifestazioni di piazza hanno finito per rovesciare gli altri regimi, e fino e oltre (in caso cecoslovacco) alla sera del 9 novembre 1989 in cui è caduto il Muro. Comunque, quelle rivoluzioni furono, tra le ultime guidate da grandi intellettuali prestati alla politica (in Cecoslovacchia da Václav Havel, una delle menti più eccelse del secolo scorso), e forse per questo, prive di rancore e generose invece. L’entusiasmo era contagioso. Tanto che in Palestina era in atto l’Intifada, una rivolta popolare contro l’occupazione israeliana, mentre in Cina gli studenti reclamavano libertà e democrazia.

Di quell’entusiasmo, come si diceva, rimane poco. Ma due cose vanno ribadite. La prima: la memoria, anche e soprattutto quella degli in apparenza sconfitti (come appunto i generosi intellettuali o Gorbaciov) può in ogni momento trasformarsi in un progetto dell’avvenire. Lo sapeva bene il grande pensatore ebreo tedesco Walter Benjamin. La seconda cosa da ricordare è che nessuno può negare quanto nonostante tutto l’Europa sia oggi un posto migliore: basta andare in visita a Berlino, Varsavia o Vilnius per constatarlo. E comunque quel Muro doveva cadere.

Quando Mikhail Gorbaciov andò al potere per cambiare il mondo (senza saperlo). Nel 1986 il “giovane” Gorbaciov diventato da poco segretario del Pcus inizia le sue radicali riforme. Ecco come il mondo guardava a quegli eventi storici (e chi si opponeva). Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 19 ottobre 1986.

Questo articolo dell’Espresso del 1986 è tratto dal libro “La nostra storia, Cadono i muri 1985-1989”.

C’è chi parla di un uragano, o addirittura di un terremoto. Comunque, da cinquant’anni a questa parte in Urss non accadeva una cosa simile. Stiamo parlando delle massicce purghe volute dal segretario generale del Pcus Mikhail Serghievicˇ Gorbaciov.

Per illustrare l’ampiezza del fenomeno ecco alcune cifre: quattro dei quattordici primi segretari dei partiti delle quindici Repubbliche che compongono l’Unione Sovietica sono stati cambiati; un terzo dei responsabili del partito a livello regionale ha dovuto trovare un’altra occupazione; nel comitato centrale sono stati sostituiti ben quattordici dei ventitré capi dipartimento; infine il 40 per cento dei titolari dei ministeri. Tutto questo in poco più di un anno e mezzo. Il capo del Cremlino sta dunque liquidando, e in fretta, l’eredità lasciatagli dal suo predecessore, Konstantin Cˇernenko. Queste purghe di burocrati corrotti, o troppo vecchi e troppo pingui per adattarsi al nuovo stile del giovane zar dai vivaci occhi grigio-blu che sorridono dolcemente nei momenti di bonaccia, ma che diventano di ghiaccio negli attimi di rabbia, non sono che la punta dell’iceberg del cambiamento radicale che il segretario generale del Pcus sta imponendo alla società. Una rivoluzione dall’alto? Sarebbe esagerato sostenere una simile tesi. Le fondamenta del potere sovietico non muteranno: il partito unico rimane e rimarrà la massima e inappellabile autorità. Ma Mikhail Gorbaciov è fermamente convinto che la società che egli governa debba essere riformata.

Il terremoto in atto non è che il preludio alla costruzione di una Urss diversa da quella che egli ha ereditato. Ma vediamo qual è il progetto che persegue il capo del Cremlino, o con più esattezza come egli si immagina la “sua” Urss e con quali mezzi la vorrebbe costruire. Cominciamo dal settore più disastrato: l’economia. Nella cerchia degli intellettuali moscoviti vicini a Gorbaciov si dice che il sogno non troppo segreto del capo del Cremlino sarebbe di dar vita a una riedizione della Nep. La Nep fu la politica economica voluta negli anni Venti da Lenin e che consisteva nel dare un elevato spazio al mercato. I contadini erano autorizzati a vendere i loro prodotti direttamente in città. Mentre nelle città ai privati era permesso di aprire piccole fabbriche e negozi, arricchirsi, insomma. Il riferimento alla Nep è più che altro simbolico, nessuno intende ritornare alle pratiche di 65 anni fa, si tratta piuttosto di varare una «riforma radicale», espressione che, dopo mesi di esitazione, Gorbaciov usa sempre più spesso e volentieri.

Alla base di questa riforma sta l’esperimento in atto da più di due anni (dai tempi precedenti l’avvento di Gorbaciov quindi) che entro il 1988 sarà allargato a tutte le industrie. I direttori delle aziende dovranno operare usando il metro, finora loro estraneo, del profitto. I lavoratori non saranno più pagati a seconda della quantità prodotta, mentre i piani di produzione non saranno calcolati in tonnellate di materie prime. Il direttore della fabbrica avrà invece a sua disposizione un certo fondo di capitale; starà a lui organizzare il lavoro e distribuire le paghe in modo di trarre il massimo guadagno e di incrementare la produttività. Tutto ciò provocherà non solo forti sperequazioni salariali e licenziamenti degli operai “inutili”, ma anche la fine dei poteri delle burocrazie ministeriali che finora decidevano ogni dettaglio della vita di ogni fabbrica. Del resto molti dei ministeri di settore (ce ne sono un centinaio) sono stati aboliti, altri sono stati raggruppati in organismi di “importanza strategica”.

Il loro compito è quello di fissare globalmente le linee generali della politica economica, lasciando ai direttori delle aziende (diventati così manager e non più soli esecutori di ordini) una larga autonomia. I responsabili di quei nuovi “organismi strategici” sono fedelissimi di Gorbaciov. Tra di essi spiccano, per citare solo i più importanti, il Presidente del Consiglio dei Ministri Nikolaj Ryžkov, Nikolaj Talyzin attuale capo del Gosplan (l’ufficio di pianificazione centrale), Vsevolod Murakhovskij, presidente dell’importantissimo Comitato agro-industriale, Jurij Batalin responsabile dell’edilizia. Tutti loro (ad eccezione di Murakhovskij – che ha fatto carriera a Stavropol, la città di Gorbaciov) sono ingegneri con ferrea mentalità di tecnocrati. Simile è la musica che suona nelle campagne. Non saranno aboliti i kolkhoz (le fattorie collettive) voluti da Stalin, ma tutta la produzione agricola eccedente le quote fissate dal piano potrà essere venduta liberamente e ufficialmente nei mercati cittadini. Riuscirà Mikhail Gorbaciov a portare a compimento questi progetti? Non è facile dirlo. È certo che lo zar riformatore ha molti nemici.

C’è la massa degli uomini senza volto, i piccoli burocrati dei ministeri in via di abolizione spaventati dalla prospettiva di perdere il posto di lavoro e il potere che da esso deriva. Ma c’è anche l’opposizione, tenace anche se non dichiarata apertamente dei membri del Politburo. Il numero due del Cremlino, grande sacerdote della dottrina marxista-leninista Egor Kuzmicˇ Ligaciov, non perde occasione per spiegare che parole come “profitto”, “autonomia dei manager” devono considerarsi bandite dal lessico sovietico. Ma forse Ligaciov non è tanto spaventato dalla prospettiva di concedere una certa autonomia ai direttori delle industrie e ai contadini koknosiani, quanto di un altro concetto che secondo gli uomini di Gorbaciov dovrebbe caratterizzare la società sovietica del Duemila.

“Unità nella diversità” è il titolo (che ricalca la celebre parola d’ordine “eretica” dei comunisti italiani negli anni Sessanta) di un articolo del professore Vsevolod Davidovicˇ apparso un mese fa sulla “Pravda” l’organo del Pcus. Le tesi del saggio si possono riassumere così: «Compagni, è ora di riconoscere che in seno alla nostra società vi sono interessi e idee differenti. Mettere una cappa burocratica per soffocarli e per creare l’impressione di una falsa unanimità è non solo errato, ma addirittura nocivo». Idee queste che da anni vengono espresse da Tatyana Zaslavskaja, una sociologa siberiana che Gorbaciov ascolta volentieri. Nell’articolo di Davidovicˇ non solo vengono criticate le passate gestioni dell’impero, ma si tenta di tracciare un modello della società proiettato nel futuro. Vediamolo. Intanto dovrebbe essere radicalmente ridimensionato l’enorme potere che ai tempi di Breznev avevano accumulato i capi locali e regionali del partito. Le decisioni “strategiche” saranno prese direttamente a Mosca, ma questa centralizzazione sarà poi accompagnata con la “democratizzazione” (la parola è stata pronunciata, anche se è difficile sapere che cosa essa significhi in lessico sovietico) delle decisioni a livello dei “collettivi di fabbrica”. Il partito dovrà “sorvegliare” l’attuazione della linea politica e non più ingerirsi nella diretta gestione dell’economia. Quest’ultimo concetto è poi guardacaso il cavallo di battaglia di Boris Eltsin, segretario del partito di Mosca e capofila dei “gorbacioviani arrabbiati”, di quelli cioè che vorrebbero vedere la burocrazia di grado intermedio se non proprio smantellata, almeno privata di alcuni importanti privilegi.

Il vento nuovo ha scosso anche la sfera della cultura. Il poeta Andrej Voznesenskij ha recentemente parlato addirittura di una “rinascita spirituale” in atto. Intendiamoci, Gorbaciov certamente non abolirà la censura, ma vorrebbe almeno ammorbidirla. Solo un mese fa un celebre critico letterario Boris Egorov ha denunciato con molto vigore dalle pagine di Sovietskaja Kultura gli abusi degli editori e dei burocrati del Glavlit (l’ufficio della censura), ma alcuni libri di autori importanti, finora proibiti stanno per essere pubblicati. Tra questi: il Dottor Živago di Boris Pasternak, i romanzi di Vladimir Nabokov e le poesie di Nikolaj Gumilëv che fu fucilato dai bolscevichi nel 1921. Su “Ogonjok”, una rivista stampata in un milione e mezzo di copie, ha visto la luce un frammento di I camici bianchi, il romanzo di Vladimir Dudinzov che denuncia lo stalinismo in termini mai usati sulla stampa sovietica, ad eccezione del brevissimo periodo in cui ad Alexander Solženicyn era permesso pubblicare in Urss. Infine, gli intellettuali moscoviti prevedono il trionfo nelle librerie di Stato di quel gruppo di trentenni esplicitamente “ribelli” che contestano tutto l’establishment letterario e che scrivono opere di aspra denuncia dello stesso stato delle cose esistenti in sintonia con le tendenze d’avanguardia in Occidente.

L’Unione Sovietica sognata da Gorbaciov dovrà anche esercitare un ruolo nuovo nell’arena internazionale. La teoria del “nuovo pensiero” (novoje myshlenije) è stata spiegata sul “Komunist”, la rivista teorica del Pcus, nel settembre scorso da Anatolij Dobrynin, ex ambasciatore sovietico negli Usa e oggi segretario del Cc responsabile de facto della politica estera. La vecchia nozione di “lotta antimperialista” viene abbandonata a favore della “salvaguardia dell’umanità”. Il linguaggio di Dobrynin è tutt’altro che chiaro. Ma dal saggio da lui firmato si può dedurre che, nonostante gli Stati Uniti siano sempre considerati il “nemico principale”, il compito più urgente della politica estera sovietica non è tanto raggiungere e mantenere la parità strategica con Washington, quanto costruire una rete di buoni rapporti con gli altri paesi del mondo. E questo perché nell’era delle armi nucleari la sicurezza «è un problema globale che non può riguardare una sola nazione». C’è chi considera tutto questo un altro trucco propagandistico per dividere i paesi dell’Europa occidentale dall’alleato americano e per convincere l’opinione pubblica mondiale della “cattiveria” di Reagan e della “bontà” di Gorbaciov. Può darsi che questo sia vero. Ma rimane il fatto che Dobrynin ha duramente, anche se non esplicitamente, criticato la gestione passata della politica estera sovietica, alla quale ha rimproverato troppa rigidità e troppo attaccamento alle tesi precostituite e alla visione bipolare del mondo.

La politica di Dobrynin e di Gorbaciov, a differenza di quella di Gromiko, sarà molto più elastica, improntata al pragmatismo, meno fissata sul rapporto esclusivo con gli Stati Uniti. L’Urss cercherà i favori dei paesi dell’Asia, Cina compresa, del Pacifico e dell’Europa occidentale. Questi progetti sono duramente osteggiati dai militari i quali hanno addirittura dato vita ad una rivista mensile “Vojennyj Vjestnik” (Il messaggio militare) – distribuita, fatto inedito, esclusivamente in Occidente – sulle cui pagine si possono leggere critiche degli altissimi ranghi dell’esercito nei confronti della politica estera e militare del segretario generale del Pcus. L’Unione Sovietica resterà il leader dell’alleanza dei paesi del socialismo reale, ai quali sarà permessa una certa autonomia nella gestione delle loro economie, ma sarà richiesta assoluta fedeltà alla linea del Cremlino soprattutto nelle questioni di politica estera e di strategia militare. Questo è il ritratto dell’impero riformato come lo vorrebbe il giovane zar. Ma, sovietologi e intellettuali moscoviti sono concordi nell’affermare che i suoi numerosi nemici non dormono. E pochi sono pronti a scommettere che Gorbaciov non farà la fine di quel suo illustre predecessore Nikita Krušcˇev che il nuovo segretario generale del Pcus non ha ancora osato far uscire dal dimenticatoio e il cui spirito aleggia su Mosca in attesa di una tardiva riabilitazione.

1931-2022. In Russia il sogno di Mikhail Gorbaciov si è infranto nello scontro fra generazioni. MARA MORINI, politologa, su Il Domani il 31 agosto 2022

«Per colpa sua abbiamo una gran confusione economica e instabilità politica!», afferma con fervore un anziano signore seduto a un tavolo nel centro di Mosca. «Grazie a lui abbiamo opportunità e libertà», ribatte un ragazzo. «Grazie a lui abbiamo molte cose... come Pizza Hut», afferma sorridente una signora, mettendo tutti d’accordo. 

Questo video della pubblicità del brand americano a cui l’ultimo segretario del Pcus, Mikhail Gorbaciov, aveva partecipato per finanziare la sua fondazione di studi, riassume efficacemente come il processo riformatore della perestrojika e della glasnost’ sia stato valutato dal popolo russo.

Da un lato, una generazione di giovani che desideravano la libertà d’opinione e sognavano un futuro migliore. Dall’altro lato, una gerontocrazia al potere, contraria alla ridefinizione del socialismo reale e al rinnovamento nel e del partito di stato, e una popolazione mediamente anziana che ha subito uno shock per il tracollo economico e sociale che le riforme gorbacioviane avevano determinato nel paese.

Gorbaciov ha cambiato per sempre anche la politica americana. MATTEO MUZIO su Il Domani il 31 agosto 2022

Lo scomparso leader sovietico non scompaginò soltanto gli equibri mondiali, ma anche i due maggiori partiti americani: i repubblicani, una volta vinto il nemico comunista, concentrarono le proprie attenzioni sul nemico interno e le “culture wars”, mentre i democratici trovarono una sintesi tra i liberal urbanizzati e i conservatori del sud durante la presidenza di Bill Clinton.

Cosa resta oggi nella memoria pubblica americana dell’epoca di Mikhail Gorbaciov? Rimane un leader russo amichevole e rispettabile, forse l’unico con queste caratteristiche.

Ha rappresentato un unicum nell’immaginario collettivo: il capo del principale avversario della potenza americana che voleva seriamente riformare il proprio sistema e che voleva superare il sistema dei due blocchi passando gradualmente alla democrazia e all’economia di mercato.

“INGENUO E IMMATURO”. Lo spettro di Gorby aleggia ancora sulla Cina. MICHELANGELO COCCO su Il Domani il 31 agosto 2022

Il Partito comunista cinese ha accolto la notizia della morte di Mikhail Gorbaciov ribadendo il giudizio politico, liquidatorio, sull’ex leader sovietico. «Durante il periodo in cui è stato alla guida dell’Urss, ha commesso gravi errori nel giudicare le vicende nazionali e internazionali, e i fatti hanno dimostrato che le sue politiche sono state catastrofiche per il paese» ha scritto mercoledì il Global Times.

Il giornale del gruppo editoriale del Quotidiano del popolo (organo ufficiale del Comitato centrale del Pcc) bolla Gorbaciov come «una figura tragica, senza principi e compiacente con gli Stati Uniti e l’Occidente», un «ingenuo e immaturo, che ha rappresentato un certo periodo storico in cui la Russia oscillava tra la “ricerca di una via indipendente” e “l’abbraccio all’occidente”».

Ma nell’ultimo decennio - conclude il Global Times - il presidente russo, Vladimir Putin, «ha imparato dalle lezioni del leader sovietico degli anni Novanta, portando il suo paese su un percorso autonomo».

Morto Mikhail Gorbaciov, l'ultimo presidente dell'Unione sovietica aveva 91 anni. Il Tempo il 30 agosto 2022

Se ne va un protagonista del Novecento. È morto a 91 anni l’ex presidente dell’Unione sovietica Mikhail Gorbaciov. È stato l'ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Urss dal 1985 al 1991, propugnatore dei processi di riforma legati alla perestrojka e alla glasnost’, e protagonista nella catena di eventi che portarono alla dissoluzione dell’Urss e alla riunificazione della Germania. Artefice, con la sua politica, della fine della guerra fredda, fu insignito nel 1989 della Medaglia Otto Hahn per la Pace e, nel 1990, del Nobel per la pace.

A dare la notizia della morte, riporta la Tass che sottolineando come l’ex presidente abbia posto fine alla Guerra fredda, è la struttura sanitaria che lo aveva in cura. "Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto questa sera dopo una grave e lunga malattia", ha fatto sapere il Central Clinical Hospital. 

Gorbaciov sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie. Lo ha annunciato alla Tass una persona che conosceva i desideri dei parenti dell’ex presidente. "Mikhail Sergeevich sarà sepolto accanto a sua moglie Raissa al cimitero di Novodevichy", ha detto la fonte all’agenzia russa. 

Alla guida dell’Urss tra il 1985 e il 1991, Gorbaciov negoziò la fine della Guerra Fredda, la caduta del muro di Berlino e il disarmo nucleare. Tra il 1990 e il 1991 fu Presidente dell’Unione Sovietica, prima di doversi dimettere definitivamente il 25 dicembre 1991, con la fine dell’Urss. È stato il simbolo di una nuova generazione di leader: fu lui ad avviare la Glasnost (trasparenza) e poi la Perestrojka (ristrutturazione economica), che vide la nascita della Russia moderna. Cercò di cambiare l’Unione Sovietica e le sue relazioni con il mondo occidentale. E non volle solo la fine della Guerra Fredda o un ritorno alla politica della distensione, ma creare una vera cooperazione, un’intesa tra Oriente e Occidente: difese il multilateralismo non ancora globalizzato, consapevole che il pericolo peggiore fosse quello di una guerra nucleare ma anche delle sfide ambientali, che sarà uno dei primi leader politici a mettere in agenda. 

Funerali di Mikhail Gorbaciov, Vladimir Putin non parteciperà alla cerimonia di Mosca. Il Tempo l'01 settembre 2022

Vladimir Putin non parteciperà alla cerimonia di addio a Mikhail Gorbaciov, morto all’età di 91 anni, «con elementi da funerale di stato». Lo ha reso noto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, citato dall’agenzia russa Interfax. Peskov ha riferito che Putin si è recato presso l’ospedale in cui è deceduto Gorbaciov, prima di spostarsi a Kaliningrad, e non potrà quindi partecipare ai funerali previsti per sabato a Mosca.

Lo "zar" del Cremlino ha, però, reso omaggio a Gorbaciov nell'ospedale di Mosca. In silenzio, con un grande bouquet di rose rosse, solo un accenno di inchino e il segno della croce. Così Vladimir Putin ha reso omaggio alla salma dell’ex leader sovietico che riposa in un’ampia sala vuota e semi illuminata all’Ospedale centrale di Mosca dove è morto il 30 agosto. Le immagini di Putin che depone le rose vicino alla bara aperta di Gorbaciov, prima di fermarsi per un minuto di raccoglimento, sono state diffuse dalla tv di Stato. 

È morto Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione sovietica. Il Domani il 31 agosto 2022

Preso il potere nel 1985, Gorbaciov cercò di riformare l’Urss con la glasnost e la perestrojka, ma non riuscì a impedire la caduta del comunismo e la nascita della Russia moderna

L’ultimo leader dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov è morto questa notte all’età di 91 anni dopo una lunga malattia. Gorbaciov è considerato il politico che ha portato la guerra fredda a una conclusione pacifica, sovrintendo allo smantellamento quasi non violento dell’Urss che aveva tentato di riformare.

Condoglianze sono arrivate da tutti i principali leader internazionali. Il segretario dell’Onu, Antonio Guteress, ha detto che è stato un uomo «che ha cambiato la storia». Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden lo ha definito «un leader raro». Il presidente russo Vladimir Putin ha comunicato le sue condoglianze tramite il suo portavoce.

L’ULTIMO SEGRETARIO

Arrivato al potere nel 1985 all’età di 54 anni, Gorbaciov è stato il più giovane leader sovietico e ha cercato di aprire l’Urss all’esterno, di rendere meno vincolanti i legami con gli stati del suo blocco e di aumentare le libertà politiche ed economiche. Le sue riforme, note con i nomi di glasnost e perestrojka, contribuirono in modo significativo al crollo dell’Urss. Nel 1990, Gorbaciov ha ottenuto il premio Nobel per la pace.

Gorbaciov è stato il leader politico che ha gestito il disastro della centrale nucleare Chernobyl, nel 1986. Pochi anni dopo, nel 1989, deve gestire la caduta del muro di Berlino, resa possibile dall’allentamento del legami tra l’Urss e gli stati della sua alleanza. Infine, nel 1991, il processo innescato dalle sue riforme porta al collasso dell’Unione e l’ascesa della nuova Russia, all’epoca guidata dal carismatico sindaco di Mosca, Boris Yeltsin. 

In Russia, l’opinione nei confronti di Gorbaciov è peggiorata nel corso degli anni e molti lo incolpano per gli il caos e la povertà seguiti alla caduta dell’Urss. Con l’ascesa di Putin e con la rinascita di un forte sentimento nazionale russo sostenuto dal governo guidato dal successore di Yeltsin, Vladimir Putin, la sua figura è diventata sinonimo delle umiliazioni subite dalla Russia negli anni Novanta. 

Gorbaciov è morto in un ospedale di Mosca e la malattia che lo affliggeva non è stata rivelata.

Gorbaciov seppe prevedere e gestire il crollo dell’Urss: ora Putin impari dalla storia. Piero Liuzzi su la Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Settembre 2022.

Con le sue sperticate lodi a Mikhail Gorbaciov, Silvio Berlusconi ha posto una pietra tombale su quanto restava della sua amicizia con Vladimir Putin. Ammesso che l’ufficio stampa del Cremlino abbia incluso il Cavaliere nella rassegna dei laudatores occidentali per colui che Mad Vlad considera l’autore della «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Così, infatti, Putin definì nel 2005 lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Gerarchia dei fatti molto inopportuna per un Novecento particolarmente generoso di catastrofi belliche ed umane.

In Occidente era la sera di Natale del 1991, quando Gorbaciov parlò per 11 minuti e 22 secondi alla televisione di Stato. Poco dopo, Valentin Kuzmin e Vladimir Arkhipikin, addetti al cerimoniale, ammainarono la bandiera rossa con falce, martello e stella dell’Unione Sovietica dal più alto pennone del Cremlino sostituendola con la bandiera russa.

Per Vladimir Putin un secondo colpo tanto terribile quanto temuto. Il primo lo aveva accusato nel suo ufficio, nella «rezidentura» del Kgb a Dresda al numero 4 di Angelikastrasse, la sera del 9 novembre 1989, quando era crollato il Muro di Berlino. Quella notte Gorbaciov fece varie telefonate. Una ad Helmut Kohl e una a Willy Brandt, assicurando che i 400mila militari russi di stanza nella DDR (la Germania dell’Est, comunista, appartenente al blocco sovietico e al Patto di Varsavia - n.d.r.) sarebbero rimasti nelle caserme. Infatti, nessuno accese i motori degli oltre 4mila carri armati sovietici che presidiavano la Germania Est. Decisione non del tutto scontata, considerando l’entourage che lo circondava.

Ma facciamo un passo indietro. L’Urss che Gorbaciov eredita da Cernenko è stremata dalla guerra in Afghanistan, da spese militari insostenibili e, in buona sostanza, da un modello politico che è arrivato al capolinea. Che la soluzione sia una perestroika governata dalla glasnost è quanto di più velleitario si possa immaginare.

A remare contro di lui, il primo ministro Valentin Pavlov, il vicepresidente Gennadij Janaev, il capo del Kgb Vladimir Krjuckov, il ministro degli interni Boris Pugo e quello della difesa Dmitrij Jazov, tutti alla testa del fallito golpe del 18 agosto 1991 che porta sulla scena Boris Eltsin.

Pochi giorni dopo, il 24 agosto, l’Ucraina proclama l’indipendenza.

Una leggenda racconta che a Gorbaciov l’ispirazione della perestroika venne nel 1984, in una notte mentre chiacchierava con il suo amico Eduard Shevardnadze, in una dacia in Abkhazia, sul Mar Nero. Forse la spinta venne da una bottiglia di vodka. Al tempo è solo Secondo Segretario del Pcus. A Mosca regna incontrastato Cernenko. Gorbaciov avrebbe scandito a Shevardnadze: «È tutto marcio. Dalle radici alla punta».

Capire la natura del conto che decenni di Unione Sovietica lasciano a Mikhail Gorbaciov è importante per riflettere sull’oggi. «Overstretching» sarebbe il termine giusto: sovraestensione politica, militare ed economica. Il sostegno russo al Comecon e al Patto di Varsavia non era più sostenibile. Gorbaciov ha cercato un’alternativa impossibile nelle condizioni date all’inizio degli Anni Novanta.

Ovviamente «parce sepulto», onore ad una delle figure più tragiche del Novecento ma anche una riflessione sull’ossessione dell’«overstretching» che, ancora una volta, assedia un Paese la cui unica forza è l’esportazione di quanto Madre Natura gli ha destinato e un’atomica che sarebbe un «game over» per tutti. Nessuno escluso.

Si dice che Putin sia un cultore della storia russa. E della storia fanno parte anche le mitologie e da queste originano gli esiti più devastanti. Su aspirazioni territoriali caddero i Romanov e sullo stesso terreno cadde l’Unione Sovietica. A leggerla bene la storia può essere anche una via che porta alla pace.

Morto Mikhail Gorbaciov, l'ultimo presidente dell'Urss. Mikhail Gorbaciov scompare all'età di 91 anni dopo aver passato una vita alla sburocratizzazione dello Stato e un'operazione di trasparenza che avrebbe concesso le libertà individuali. Francesco Curridori il 30 Agosto 2022 su Il Giornale.

Dopo Reagan, la Thatcher e Papa Giovanni Paolo II muore anche l’ultimo fautore della fine del regime sovietico, Mikhail Gorbaciov che passerà alla storia come un grande riformista. Gorbaciov è morto all'età di 91 anni e sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie. Gorbaciov è morto al Central Clinical Hospital.

L'infanzia di Gorbaciov

Gorbaciov nasce il 2 marzo 1931 da una famiglia di contadini a Privol'noe, un paese del Caucaso settentrionale, al confine con l’Ucraina.“Mio padre e mia madre alla nascita mi avevano chiamato Viktor, ma quando mi battezzarono nonno Andrej, alla domanda del prete sul nome che era stato scelto, rispose: Michail”, racconta l’ex presidente dell’Urss nella sua prima autobiografia, intitolata ‘Ogni cosa a suo tempo: storia della mia vita’. Gorbaciov, infatti, trascorre la sua infanzia a casa del nonno, insieme ai suoi genitori e ai 4 fratelli e, come tutti i suoi coetanei, parla indistintamente sia il russo sia l’ucraino. Per i suoi antenati essere russi “significava appartenere al nostro Stato, alla religione ortodossa e alla cultura russa. Non si attribuiva grande importanza al fatto di essere chochol (ucraino) o moskal (moscovita)”.

La repulsione verso il regime di Stalin

Gorbaciov ha sempre avuto una repulsione verso il totalitarismo introdotto da Josep Stalin negli anni ’30. La repressione del regime staliniano, infatti, tocca direttamente anche la sua famiglia. Il nonno materno fu condannato a morte, nonostante avesse sostenuto la rivoluzione e nonostante il comunismo gli avesse dato la terra per sostentare la sua famiglia. Sopravvisse dopo essere stato torturato per 14 mesi perché il giudice dell’epoca “non aveva visto nella sua ‘causa’ non solo alcun motivo per la fucilazione, ma neppure alcuna colpa”. Il nonno paterno, invece, fu arrestato per la mancata realizzazione del piano di semina. “Il mio punto di vista è che in Unione Sovietica abbia trionfato un regime rigido, crudele, totalitario. Naturalmente ebbe un’evoluzione e dopo la morte di Stalin la sua crudeltà si attenuò leggermente, si affievolì. Ma la sostanza resta la stessa. Il totalitarismo dell’Unione Sovietica non può essere un modello per nessuno. Questo è fuori discussione. Ma - spiega nel libro ‘Riflessioni sulla rivoluzione d’Ottobre’- il trionfo di questo regime nell’Unione Sovietica degli anni Trenta non può in nessun modo essere un argomento contro l’idea stessa di socialismo”.

La carriera nel Pcus e l'amore per Raissa

Finita la guerra e conclusi gli studi adolescenziali, Gorbaciov si trasferisce a Mosca per studiare legge e, grazie ai buoni risultati ottenuti negli esami, riesce a ottenere varie borse di studio. Vive, però, male il “clima iperideologizzato” dell’università dove gli uomini del Pcus “controllavano e orientavano il sistema didattico in modo da forgiare le giovani menti fin dalle prime settimane”. Gorbaciov, in questi anni diventa segretario del Komsomol (l’Unione comunista della gioventù), della sua facoltà e conosce Raissa, la sua futura moglie che gli resterà accanto fino alla morte, avvenuta il 20 settembre del ‘99, cinque giorni prima del loro 46esimo anniversario di matrimonio e due giorni prima di effettuare il trapianto di midollo. A un anno dalla sua perdita, nel libro ‘Il nuovo muro’ confessa: “Non mi sono mai sentito tanto solo. Io e Raissa abbiamo convissuto quasi cinquant’anni, senza mai separarci e senza sentirci mai di peso l’uno per l’altra, insieme siamo stati sempre felici”. Alla fine degli anni ’60 Gorbaciov si trasferisce, insieme alla moglie Raissa, a Stavropol, capoluogo della regione del Caucaso Settentrionale, dove studia economia agraria e prosegue la carriera politica tanto da essere eletto, a 39 anni, primo segretario di comitato del Pcus in quel territorio.

Gorbaciov, in breve tempo, entra anche nel Comitato centrale del partito e instaura un rapporta d’amicizia con il futuro segretario generale, Jurij Andropov, anch’egli favorevole a sburocratizzare l’Urss. A cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70 visita la Germania dell’Est, la Bulgaria e la Cecoslovacchia ma non mancano, però, viaggi anche in Italia, Francia, Belgio e Germania dell’Ovest. Nel 1979 Gorbaciov si trasferisce a Mosca e tre anni dopo muore Leonid Breznev che lui criticava perché aveva smantellato le riforme avviate da Krusciov e per aver invaso militarmente Praga e l’Afghanistan. Negli anni ’80 Andropov sostiene il suo ingresso nel Politiburo e gli affida il discorso per l’anniversario dei 113 anni dalla nascita di Lenin. Nel 1983 Gorbaciov va in visita ufficiale in Canada, mentre l’anno successivo è in Italia per i funerali di Enrico Berlinguer, principale sostenitore dell’Eurocomunismo.

Gorbaciov nominato segretario generale del Pcus

Nel 1985, a 54 anni, viene eletto segretario generale del Pcus, diventando di fatto il capo del governo. Le parole perestrojka (ristrutturazione dello Stato) e glasnost (trasparenza) entrano così di diritto nel vocabolario mondiale. Gorbaciov, nel suo libro ‘Riflessioni sulla Rivoluzione d’Ottobre’, definisce la perestrojka come “il rifiuto degli stereotipi ideologici, dei dogmi del passato”. Nella perestrojka c’era “una profonda democratizzazione della vita sociale, la garanzia della libertà di scelta sociale e politica”. In sintesi, nelle politiche di Gorbaciov vi è anche la condanna della dittatura del proletariato, che “nella sua variante staliniana, veniva definita come la forma più alta di democrazia” ma, in realtà, “non era neanche una dittatura del proletariato come strato di massa della società, bensì la dittatura di un gruppo dirigente e della sua nomenclatura gerarchica”.

Gorbaciov, perciò, pur abbracciando le teorie socialiste e respingendo quelle ultraliberiste, valuta negativamente anche lo statalismo in economia.“È stato provato che agendo in questo ruolo, lo Stato – scrive sempre nel libro sulla rivoluzione del ’17 - si trasforma in un’arma del potere incondizionato della burocrazia, mentre la forza produttiva (per dirla meglio, i direttori/gestori e i lavoratori/dipendenti) perde la capacità di iniziativa e di imprenditorialità”. In politica estera, invece, il capo dell’Urss mantiene frequenti ed intensi rapporti sia con Margaret Thatcher sia con i presidenti americani Ronald Reagan e George Bush senior per porre fine alla guerra fredda. Il 9 novembre 1989 crolla il muro di Berlino e nel 1990 Gorbaciov viene insignito del premio Nobel per la Pace.

Boris Eltsin subentra a Gorbaciov

In patria, però, deve guardarsi dall’ostilità del sindaco di Mosca, Boris Eltsin che nell’agosto del 1991 diventa il vero vincitore del fallimento del golpe organizzato dai conservatori del Pcus che tentavano di fermare le riforme avviate da Gorbaciov. Il fallito golpe consente ai riformisti come Eltsin di accelerare il processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica. Gorbaciov, perciò, il 25 dicembre rassegna le sue dimissioni, lasciando il posto a Eltsin che gli negherà persino l’immunità parlamentare. Dopo soli cinque giorni ufficializza la nascita della sua fondazione e diventa uno dei maggiori critici della “terapia d’urto” con cui Eltsin privatizzò l’intera economia russa. “Oggi come ieri - scrive nel libro ‘Il nuovo muro ‘ - ritengo che il principale errore strategico sia stato la scelta di abolire l’Unione Sovietica come Paese unico, accompagnata dalla distruzione di tutta una cultura, di uno spazio economico e militare, dalla rottura di rapporti umani”.

L’autorità giudiziaria russa dell’epoca cerca di incriminare Gorbaciov con un processo farsa sulla legittimità costituzionale del Pcus che, alla fine, si conclude con un nulla di fatto. Negli anni ’90 Gorbaciov si fa promotore della nascita del Partito socialdemocratico unito della Russia (ROSDP) che, poi, abbandona per dissidi interni. Nel ‘99 appoggia l’ascesa di Putin che, in una recente intervista, ha rimproverato per la lentezza nel processo di democratizzazione del Paese“perché è vero che molte delle libertà civili introdotte con la perestrojka resistono e che la stragrande maggioranza dei russi ha votato per Vladimir Putin. Ma – conclude - nessuno sa quale sarebbe la loro scelta se l'intero processo elettorale, dalla selezione dei candidati in poi, fosse davvero libero e democratico". Nel 2021 Gorbaciov viene ricoverato in ospedale per problemi ai reni e viene sottoposto a dialisi.

Con il miracolo Perestrojka salvò la Russia dall'orrore. Angelo Allegri il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Fu l'ultimo leader del Pcus, cercò di riformarlo e traghettò il Paese fuori dal comunismo. Ma Putin lo ha rinnegato 

A far rivalutare Mikhail Gorbaciov ci ha pensato Vladimir Putin. L'attuale inquilino del Cremlino è la dimostrazione di quanto possa essere pericoloso il gigante russo se guidato da chi si nutre di nostalgie imperiali e revansciste. Lui, Mikhail, è riuscito invece in una specie di miracolo: chiudere una parentesi di 70 anni di comunismo e di massacri, praticamente senza colpo ferire, senza morti e senza stragi.

L'impero sovietico crollò sotto il peso delle sue inefficienze e della sua mancanza di libertà, i Paesi satelliti dell'Europa orientale ritrovarono la strada della libertà, le repubbliche sovietiche, dall'Ucraina alla Georgia, iniziarono un percorso, doloroso ma inevitabile, di indipendenza. E negli stessi, pericolosi, frangenti le bombe rimasero negli arsenali nucleari, mai in nessun momento con Gorbaciov si corse davvero il rischio di un confronto atomico. Oggi più che mai il mondo è in grado di apprezzarlo e di valutare i suoi meriti.

Sono gli stessi meriti che la Russia non gli ha mai perdonato. La «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo», come l'ha definita Vladimir Putin, la fine dell'Urss, ha lasciato nell'animo dei cittadini ex sovietici una ferita che ancora oggi si fa sentire. Travolto dal tentato colpo di Stato della vecchia guardia comunista, superato da un Boris Eltsin molto meglio di lui in grado di interpretare i tempi nuovi del nazionalismo e della Russia degli animal spirits trionfanti, Gorbaciov finì alla svelta ai margini della vita pubblica. I tentativi di tornare in gioco si rivelarono poco più che velleitari. Seguirono anni, più o meno tutti gli anni Novanta, di violenze e di anarchia, di business criminale e di violenze, di rapace sottrazione delle risorse pubbliche. Con il comunismo sembrò implodere il cuore stesso della Russia. Lui non c'entrava o c'entrava poco. Ma per i suoi concittadini non era così. Era stato lui a far finire il vecchio mondo, con le sue rassicuranti certezze, era lui il colpevole.

Quello che in Occidente era un merito, l'immagine amichevole e alla mano, perfino la moglie Raissa, dall'aspetto elegante e raffinato, diventò per in Russia, per l'uomo della strada un limite e una colpa, un tradimento del severo galateo tipico dell'unica nomenklatura che il Paese aveva conosciuto.

Eppure di quel Paese Gorbaciov era un figlio tipico: nato in una famiglia di contadini della regione di Stavropol, nel Sud, non lontano dalle prime montagne del Cucaso, cresciuto in una casa di paglia e fango, senza acqua corrente e una fede genuina, come quella dei suoi genitori, nel futuro del socialismo. Anche lui, come uno dei suoi successori, Putin viene battezzato di nascosto, dalla madre e dalla nonna. Ma la sua carriera nel partito è senza macchia: si iscrive subito al Komsomol, l'organizzazione giovanile, poi diventa uno dei più grandi esperti di problemi agricoli del Pcus. Tra le file della dirigenza degli anni della stagnazione brezneviana, la sua forza, la sua energia, la sua modernità, fanno la differenza. In una sfilata di mummie alla Chernenko o alla Andropov, diventa l'ultima speranza di salvare il sistema.

E invece ne diventa l'affossatore. Chiude l'avventura afghana, dichiara ufficialmente fnita la dottrina Breznev che tiene nel pugno sovietico tutta l'Europa orientale. Le sue parole d'ordine, glasnost, perestroika, trasparenza, riforme, diventano slogan popolari in ogni angolo del mondo. Le sue visite ufficiali si trasformano in bagni di folla. Alla fine degli anni Ottanta viene anche in Italia, a Milano: lui e la moglie sono accolti come delle specie di rockstar. Anche dopo il tramonto politico il suo attaccamento alla Russia non cambia. È tra gli azionisti della Novaya Gazeta, il giornale che fino all'ultimo tenta di salvare qualche spiraglio di democrazia. 

"Fu un gigante della Storia da apprendista stregone. Le riforme? Un'illusione". Il docente Aldo Ferrari e direttore del Programma Asia dell'Ispi ha le idee chiare sul lascito di Gorbaciov. "Ha avviato meccanismi che non ha controllato". Fausto Biloslavo l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Gorbaciov armato di buoni propositi, ma apprendista stregone di fronte alla missione impossibile di riformare il sistema comunista sovietico. E gli strascichi del crollo dell’Urss li paghiamo ancora oggi con la guerra in Ucraina. Aldo Ferrari ha le idee chiare sul lascito dell’ultimo leader sovietico. Docente all’università Ca’ Foscari di Venezia è anche direttore delle ricerche dell’ Istituto di studi di politica internazionale per la Russia, Caucaso e Asia centrale. Al Giornale spiega il ruolo di Gorbaciov, che bene o male, resterà nella storia. 

Mikhail Gorbaciov era un grand’uomo o un personaggio fra luci e ombre?

“Anche i grandi uomini hanno luci e ombre. Non era una personalità forte della storia russa come Pietro il Grande o Ivan IV, che noi chiamiamo il Terribile oppure Stalin e Lenin. Era un classico funzionario sovietico, ma il suo ruolo storico è stato immenso, positivamente o negativamente a seconda dei punti di vista. Non penso che esistono altri casi di un personaggio che in soli sei anni sia riuscito ad imprimere alla storia del proprio paese ed universale dei cambiamenti epocali come quelli provocati da Gorbaciov”. 

C’è qualcosa che non sappiamo o che si conosce poco dell’ascesa e caduta di Gorbaciov?

“Non ci sono lati oscuri o segreti da rivelare. Gorbaciov non era un outsider e aveva percorso la sua carriera disciplinatamente, seppure brillantemente, all’interno del Partito comunista dell’Unione sovietica. In Occidente forse ce lo dimentichiamo ma non voleva distruggere l’Urss e il sistema comunista, bensì riformarlo rendendolo più efficiente ed umano”. 

Ha sicuramente fallito…

“Le sue azioni hanno avuto un peso importantissimo. Le riforme bene intenzionate e corrette sono fallite cozzando contro la realtà sclerotizzata del sistema sovietico. Però mi sembra ingiusto addebitare il fallimento al tentativo stesso intrapreso da Gorbaciov. Le riforme erano valide e necessarie dall’economia alla glasnost da tradurre più che con il termine “trasparenza” come libertà di parola e di coscienza. Purtroppo, però, hanno distrutto un paese o meglio ucciso il malato anziché curarlo”. 

E’ stato il migliore “alleato” dell’Occidente?

“Per come è andata a finire, sì, ma sicuramente non era questa la sua volontà. Nei fatti, però, è implosa una grande potenza crollata dall’interno senza una guerra o un’invasione. La responsabilità o il merito è da attribuire a Gorbaciov”. 

Voleva veramente la caduta del muro di Berlino?

“E’ un po’ giornalistico e riduttivo, ma l’immagine dell’apprendista stregone è abbastanza calzante per Gorbaciov. Ha messo in moto dei meccanismi che non è stato in grado di controllare”. 

Ha chiuso la guerra fredda…

“Voleva porre fine alla guerra fredda, ma su un piano di parità fra Urss e Stati Uniti. Di fronte alle difficoltà della perestroika gli Usa e l’Occidente hanno ritenuto di avere vinto la partita e trattato prima l’Urss e poi la Russia come dei nemici sconfitti ai quali non era necessario dare retta. Un atteggiamento che purtroppo è ancora attuale e alla base dei disastri successivi in cui siamo impelagati oggi”. 

Il fallito golpe, il crollo dell’Urss del 1991. Cosa ha sbagliato?

“Ha sbagliato molte cose, ma credo che avesse intrapreso un’operazione politica umanamente impossibile. L’Urss era un’unione di 15 repubbliche con storie e tradizioni spesso confliggente con il potere centrale moscovita. Gorbaciov non era uno scolaretto impreparato, ma l’errore è stato fatto in partenza: volere riformare un sistema irriformabile”. 

E’ vero che molti russi lo considerano un traditore?

“E’ molto difficile trovare in Russia qualcuno che abbia stima e simpatia per Gorbaciov se non che una ristretta élite di intellettuali orientati verso l’Occidente. La stragrande maggioranza della popolazione lo considera un incapace, un traditore o tutte e due le cose insieme. Percepisce quest’uomo come il responsabile principale del crollo dell’Urss che non a caso l’attuale presidente russo Putin ha definito “la più grande tragedia geopolitica del XX secolo”. 

Putin ai tempi di Gorbaciov era un ufficiale del Kgb in Germania Est. Oggi il Cremlino parla di personaggio storico, ma cosa pensa veramente di lui il nuovo Zar?

“Credo che pensi tutto il male possibile. Agli occhi di Putin Gorbaciov porta una responsabilità primaria nel dissolvimento sovietico. Il comunicato di cordoglio neutro e freddo, anche nella scelta della parole, dimostra che secondo Putin le scelte di Gorbaciov sono state completamente sbagliate perchè hanno smantellato la grande potenza sovietica precipitando tutto lo spazio dell’ex Urss in un caos dal quale fatica a riprendersi”. 

Putin è una reazione al crollo dell’Urss?

“Si può considerare una reazione non solo a Gorbaciov, ma pure a Eltsin (al potere subito dopo nda). Putin ha voluto portare avanti una politica che sanasse i disastri precedenti. Nella sua ottica statalista sono entrambi responsabili del decadimento della potenza russa”. 

Guerra in Jugoslavia, alle porte di casa, bombe sui serbi, interventi in Iraq e Libia. Si stava meglio quando si stava peggio?

“Il mondo bipolare era più stabile, ma con duri regimi repressivi in Europa orientale e la penetrazione comunista sovietica in mezzo mondo dall’Afghanistan all’Angola. Gli Usa reagivano finanziando regimi dittatoriali ovunque per contrastare l’avanzata dell’Urss. Non è un mondo da rimpiangere”. 

Gorbaciov ha criticato l’invasione dell’Ucraina, ma non è alla lunga figlia del crollo dell’Urss?

“Indirettamente, ma sicuramente. Il conflitto in Ucraina è iniziato nel 2014, molto dopo la fine dell’Urss, però non era inevitabile. E’ stato gestito male soprattutto per il rafforzamento delle posizioni nazionaliste in Ucraina, il neo imperialismo a Mosca e anche per lo sconsiderato interventismo occidentale. Si é arrivati alla guerra a causa di scelte scellerate, che si potevano evitare”.

Il saluto a Gorbaciov e il gelo del Cremlino. "Solo un romantico". E la Russia lo liquida. "Ha distrutto l'Urss". Alla fine i funerali di Stato, almeno secondo la Tass, ci saranno. La cerimonia è prevista per sabato, prima della sepoltura al cimitero di Novodevichy, accanto all'amata moglie Raissa. Angelo Allegri l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Alla fine i funerali di Stato, almeno secondo la Tass, ci saranno. La cerimonia è prevista per sabato, prima della sepoltura al cimitero di Novodevichy, accanto all'amata moglie Raissa. Una smentita alle voci trapelate ieri in mattinata e raccolte da un'agenzia di stampa, che escludevano onori pubblici. Ma il fatto stesso che l'omaggio fosse in dubbio testimonia il distacco con cui la Russia, ufficiale e no, si appresta al congedo da Mikhail Gorbaciov.

Le condoglianze di Vladimir Putin alla famiglia (incerta la sua presenza) sono un capolavoro di distacco e di equilibrismo. Era «un politico e uno statista che ha avuto un impatto enorme sulla storia mondiale. Ha guidato il nostro Paese in un periodo di cambiamenti complessi e drammatici e si era impegnato a proporre soluzioni a problemi urgenti». Nessun coinvolgimento, nessuna valutazione. La chiave di lettura del tono gelido sta nelle parole del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov che, più libero dai vincoli del protocollo, la dice tutta: «Il romanticismo di Gorbaciov verso l'Occidente non aveva giustificazioni» e il suo progetto di creare rapporti cordiali «non ha funzionato». Una condanna definitiva, pur se espressa in termini più garbati di quanto abbiano fatto, a qualche migliaio di chilometri di distanza, i commentatori cinesi sul comunista Giornale del Popolo: è stato una «figura tragica», che visto in prospettiva storica si è dimostrato «ingenuo e immaturo». «La sua venerazione cieca del sistema occidentale ha fatto perdere indipendenza all'Unione Sovietica e il popolo russo ne ha tratto instabilità politica e pesanti conseguenze economiche».

Tornando a Mosca, è la stessa prospettiva di giudizio utilizzata dalle forze nazionalistiche e «imperiali» raccolte attorno a Tsargrad, la tv dell'oligarca Kostantin Malofeev. Qui il giudizio è durissimo: «Gorbaciov è stato uno dei più grandi successi della Cia americana», recitava ieri il sito dell'emittente. «Non hanno nemmeno avuto bisogno di reclutarlo: ha fatto tutto da solo». Più severi di così non si può. Eppure Gorbaciov non era un pericoloso estremista. Nel 2014 si era dichiarato a favore dell'annessione della Crimea e contro le sanzioni occidentali. «Difenderò in modo fermo le posizioni della Russia e quindi di Vladimir Putin. Sono convinto che difenda gli interessi russi meglio di qualunque altro». Con il tempo il giudizio sugli atteggiamenti autocratici del leader del Cremlino si era fatto più severo, ma sempre con misura. «Ha salvato il Paese, ma ora mi sembra malato di presunzione» aveva detto qualche tempo fa. «Tutti mi dicono che non ha più importanza, perché lui è già Dio o, come minimo, il vice di Dio in terra». Allo scoppio delle ostilità in Ucraina, per la prima volta non aveva commentato gli eventi. Dmitri Muratov, direttore della Novaya Gazeta, giornale che Gorby ha finanziato fino all'ultimo, era andato a trovarlo: «Non sta bene, ma mi ha confermato che bisogna fare tutto il possibile per evitare una guerra nucleare», aveva riferito.

Al di là di questa o quella specifica posizione era tutta la sua storia ad essere lontana dall'attuale élite di potere moscovita. A spiegarlo bene è stato ieri Pietr Akopov, uno degli editorialisti di Ria Novosti, considerato tra i più vicini al Cremlino (suo l'editoriale pubblicato per errore alla fine del mese di febbraio, scritto in anticipo per celebrare la facile vittoria russa e la conquista di Kiev).

Le sue parole sembrano un manifesto del potere moscovita. «La Russia e l'Occidente salutano diversi Gorbaciov: nella nostra storia rimarrà il distruttore dell'Urss e, per l'Occidente, l'uomo che ha posto fine alla Guerra Fredda e ha aperto la strada all'unificazione della Germania e dell'Europa», scrive Akopov. «La lezione principale del suo periodo di governo consiste nel fatto che la Russia non solo non può far parte dell'Occidente e nemmeno essere sua alleata, ma deve in ogni modo rafforzare la sua indipendenza e autosufficienza».

Un amico del leader scomparso, Alexey Venediktov, direttore di una radio indipendente, Echo Moskvy, ha detto che «tutte le riforme di Gorbaciov sono ora ridotte in cenere e in fumo». Per Putin anche la guerra in Ucraina è stato un mezzo per azzerare l'eredità del predecessore. Ora non restano che i funerali. C'è chi ha ipotizzato la partecipazione di leader occidentali come Angela Merkel (un suo portavoce ha già smentito). In questo momento sarebbe un evento straordinario, l'ultimo servizio di Mikhail Sergeevic Gorbaciov alla politica mondiale. 

L'omaggio minore e il messaggio dello Zar. Angelo Allegri su il Giornale il 2 settembre 2022.

Un anonimo salone, grigio e spoglio, quello dell'ospedale centrale di Mosca, la camminata particolare e un po' impacciata di Vladimir Putin (per gli americani è il gunslinger gait, il passo del pistolero, e sul perchè Putin cammini così sono stati scritti libri), un mazzo di fiori e pochi istanti di raccoglimento. Tutto qui. Le immagini diffuse dai canali ufficiali sull'omaggio del leader del Cremlino a Mikhail Gorbaciov sono un simbolo potente. Specie se si confrontano con altri decessi illustri.

Nell'aprile scorso, alla morte dell'ultranazionalista Vladimir Zirinovskij, l'uomo che aveva proposto di buttare un'atomica su Kiev, Putin decise di dare un'immagine diversa. Rese omaggio al defunto quando la bara era nel Salone delle colonne della Casa dei sindacati, il luogo sacro dei funerali di Stato, da Stalin in poi: un trionfo di architettura classica decorato di velluti e pieno di debordanti corone di fiori. Ancora più stridente il contrasto con i funerali del successore di Gorbaciov, Boris Eltsin nel 2007: Putin era in prima fila nella Cattedrale di Cristo Salvatore, la cerimonia venne trasmessa in diretta dai principali canali televisivi, nel Paese fu proclamato un giorno di lutto nazionale.

Per il potere russo i funerali hanno sempre contato parecchio. Come dimostra la stessa carriera di Gorbaciov. I Cremlinologi dell'epoca capirono che era destinato a diventare il numero uno quando fu nominato presidente della Commissione incaricata di organizzare le esequie del suo predecessore, Kostantin Chernenko.

A Gorby è stata risparmiata la sorte riservata a Nikita Krushev, ultimo leader morto in disgrazia nel 1971: la bara trasportata al cimitero nel cassone di un camion e a seguirla un vecchio autobus riservato ai parenti.

Al premio Nobel della Pace è stata concessa la celebrazione nella casa dei Sindacati e il picchetto d'onore. Il meno possibile. Perchè i rapporti tra la Russia del potere e quella di Gorbaciov sono all'insegna della rimozione e dell'inconciliabilità.

Nell'ultimo libro in uscita (e di cui ieri il Giornale ha pubblicato un estratto), Gorbaciov parla di «Europa come casa comune», pur sottolineandone gli errori e le ambiguità. Per Putin e i suoi, i valori di quell'Europa non sono più politicamente presentabili. Il futuro della Russia, per la sua attuale dirigenza, è in una triade lontana: autocrazia, nazionalismo e ortodossia. Nulla a che fare con quell'ingenuo di Gorbaciov e con la sua deplorevole infatuazione per l'Occidente. Centinaia di migliaia di russi che la pensavano come lui sono scappati negli ultimi mesi oltre frontiera. Quanto alla Russia ufficiale l'opinione più sincera l'ha espressa Igor Korotchenko, analista di cose militari, presenza fissa nei più importanti talk show russi. «Gorbaciov? - ha detto- se ne vada pure all'inferno».

Quando il Pci si genufletteva per il picconatore del Soviet. Tutti pazzi per Gorby in Italia e non soltanto in Italia quando si apprese di questo evento assolutamente nuovo: la grande patria del comunismo aveva prodotto per la prima volta un essere umano come leader. Paolo Guzzanti l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Tutti pazzi per Gorby in Italia e non soltanto in Italia quando si apprese di questo evento assolutamente nuovo: la grande patria del comunismo aveva prodotto per la prima volta un essere umano come leader. Mikhail Gorbaciov fu un grande successo mediatico, e anche un uomo molto sfortunato che ha concluso la sua lunga vita nell'oblio quasi generale. Detestato nel Paese in cui è nato e che ha governato, ha ricevuto manifestazioni di amore sfegatato in Europa e specialmente in tutti i paesi come l'Italia in cui esisteva un forte o fortissimo partito comunista. In Italia il primo a correre trafelato a Mosca per porgere non soltanto i suoi omaggi ma anche utili consigli fu Alessandro Natta, il dimenticato segretario del partito comunista succeduto a Enrico Berlinguer. Natta era convinto di poter convincere Gorbaciov di ciò di cui Gorbaciov era già convinto in partenza e cioè che l'occasione dell'Unione europea che stava per farsi fosse quella giusta per mettere insieme il mondo sovietico con L'Europa antiamericana e tutti insieme dare una nuova società che per nostra fortuna c'è stata poi evitata. Chi veramente pianse di commozione fino alle lacrime fu Giulio Andreotti, il quale benché non comunista era tuttavia filosovietico fino al cuore oltre che al cervello e posso dirlo con cognizione di causa avendolo avuto tra i membri della commissione Mitrokin che indagava sulle imprese sovietiche. Andreotti dichiarò durante il primo G7 cui Gorbaciov fu invitato di aver avuto davvero la più grande delle fortune: quella di vedere un leader sovietico unirsi all'Europa. Tutto il partito comunista era in festa e così anche i giornali sia vicini al partito comunista che quelli di grosso taglio che trovavano egualmente delizioso per quanto indecifrabile il modo di parlare di quest'uomo che rese popolari benché intraducibili parole come glasnost e perestroika.

Era felicissimo Walter Veltroni che trovava finalmente un sovietico che assomigliava un po' a un americano pur restando del tutto sovietico. Mikhail Gorbaciov infatti diventò segretario generale del partito comunista sovietico e quindi capo dell'URSS perché era stato selezionato con grande accuratezza dal più intelligente e lungimirante capo del KGB: Yuri Andropov che aveva capito bene come le cose sarebbero finite; e cioè la guerra fredda si sarebbe conclusa con una sconfitta totale del mondo sovietico e una vittoria dell'occidente cosa che non era possibile evitare ma quantomeno si sarebbe potuta correggere grazie ad alcuni ammortizzatori. Gli ammortizzatori erano la liberazione degli Stati satelliti dell'Unione sovietica che costavano troppo e rendevano pochissimo ottenendo in cambio un posto a tavola nella imminente Unione europea. Questo era il piano, ma lo conoscevano in pochi. Ne erano pazzi tutti i capi socialisti d'Europa e primo fra tutti il presidente francese Francois Mitterrand. La parola d'ordine diffusa da Gorbaciov fu: liberare l'Europa da americani e inglesi mettendo insieme il continente che va dall'atlantico agli Urali. Questa era stata la formula scelta dal generale Charles De Gaulle e tutti erano convinti che potesse funzionare. Arrivò a trattare in maniera molto greve il presidente americano Ronald Reagan chiedendogli se il suo Dio fosse veramente il denaro. Ciò accadeva perché la funzione mediatica di Mikhail Gorbaciov funzionava perfettamente. Diffondeva l'impressione del socialismo dal volto umano che era stata devastata da continui atti di brutalità dei suoi predecessori e permetteva a tutti comunisti italiani ma anche a molti socialisti e democristiani di fare una sorta di outing e dichiarare le proprie simpatie internazionali. La Democrazia Cristiana era pazza di Gorbaciov, molto meno allora era il partito socialista di Bettino Craxi che naturalmente guardava al leader sovietico con la massima attenzione e il massimo rispetto ma senza lasciarsi incantare dalla chiassosa messinscena che accompagnava ogni suo atto e ogni suo discorso.

L'Italia ai tempi di Gorbaciov era letteralmente genuflessa di fronte a un uomo di grandi qualità ma che stava servendo una causa per nulla a favore dell'Europa occidentale ma che doveva servire a far uscire la Russia dal penoso isolamento in cui si era chiusa per molti decenni. Non saprei trovare nessuno della dirigenza comunista, da D'Alema a Veltroni, da Occhetto ai tanti dirigenti che nel frattempo sono scomparsi, che non vedesse in quest'uomo tutto sommato modesto ma ben addestrato, un messaggero della pace, un inviato di Dio o almeno dalla commissione del premio Nobel che gli venne subito inflitto. Per avere un'idea del culto della personalità che fu scatenato dalla presenza di Gorbaciov in Italia non c'è che ricorrere a internet. Ma le foto mostrano quanto il vuoto delle idee dello schieramento comunista avessero fame di pura, anche se ben servita, propaganda. Ora Gorbaciov se n'è andato ma nel suo Paese nessuno ricorda più neanche chi fosse. In Russia lo odiano perché il risultato finale fu la catastrofe del proprio Paese.

Dall'Atlantico agli Urali. Gorbaciov, l’uomo che cambiò il mondo e pagò il ‘tradimento’ di volere una sola Europa. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Fu l’incanto dell’Occidente mentre l’Oriente lo ha sempre ignorato e spesso disprezzato. Da ieri tutta la stampa e i media dell’Europa occidentale e dell’America di lingua inglese celebrano la morte dell’ultimo Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Michail Gorbaciov, perché con lui muore un sogno occidentale. Ero a Mosca pochi giorni prima che un piccolo golpe ordito dal Kgb lo mettesse fuori circolazione per qualche giorno per poi restituirlo al mondo denudato dei magici poteri con cui era venuto al mondo, specialmente le sibilline armi della “perestroika” e della “glasnost”, grossomodo riforma e trasparenza, su cui in Occidente furono versati inchiostri abbondanti.

Per i giornalisti che andavano all’esame per diventare professionisti era particolarmente raccomandato, in Italia, non in Unione Sovietica, essere ferratissimi in materia. Oggi, con quel che sta accadendo in Russia e fuori dei suoi confini, non resta che celebrare la memoria di quel sogno, ricordandone le cause. Chi è giovane non ricorderà il longevo Leonid Breznev dalle enormi sopracciglia, ricco, corrotto e prigioniero di una classe dirigente che dissipava tutte le risorse in armamenti inutili. Morto Breznev fu il turno di un vero stratega: Yuri Andropov di cui si può dire, come per certi imperatori romani, che fu spietato ma intelligente. Andropov si rese conto che l’Urss stava andando in bancarotta e che sia le forze armate che la catena degli Stati “satelliti” costavano un occhio e producevano solo guai e dissidenti. L’Europa occidentale stava diventando un progetto sempre più concreto e specialmente i francesi spingevano molto per il vecchio sogno del generale De Gaulle: fare un’Europa “dall’Atlantico agli Urali” (Russia inclusa) imponendo ad americani e inglesi di lasciare il continente europeo. La Russia aveva sempre avuto bisogno della tecnologia europea e l’Europa del petrolio e del gas russo.

Il dissidente e scrittore russo Vladimir Bukowski pubblicò un libro, intitolato “Eurss”, che sintetizzava sarcasticamente il progetto. Andropov selezionò fra i candidati anche l’emergente Michail Gorbaciov perché aveva tutte le qualità che piacciono agli occidentali, persino una moglie elegante come Raissa che infatti furoreggiò in Occidente. A causa del tumore che lo stava uccidendo, Andropov tentò di convincere il Comitato Centrale ad eleggere Gorbaciov come successore, ma quel club di vecchie cariatidi preferì uno dei loro, Cernenko. Eppure, aveva spiegato Andropov allo stesso Comitato Centrale, l’obiettivo era non solo semplice e da raggiungere con urgenza, ma anche che richiedeva qualità personali: concedere all’Occidente tutti gli Stati della cosiddetta “cortina di ferro” incapaci di mantenersi, a cominciare dalla Repubblica Democratica, e ottenere in cambio una procedura di ingresso nell’Europa occidentale. E poi trovare un accordo con gli americani sulla insostenibile corsa agli armamenti in cui la tecnologia recitava un ruolo da protagonista.

Finalmente nel 1985 Cernienko muore e Gorbaciov ottiene il posto che gli spetta e per cui era stato addestrato con molta cura. Comportandosi come un leader occidentale Gorby parla volentieri in pubblico e a braccio, cosa inappropriata in terra sovietica. Ma fa di più: impone parole nuove come glasnost – la trasparenza – attraverso la quale far accettare l’idea di una gigantesca riforma come la Perestroika poco compresa in Occidente e che era stata elaborata dallo stesso Andropov. La sovietologa francese Hélène Blanc concorda con un altro grande analista Nicolas Jallot: «Fabbricando la Perestroika, il Kgb comprende che la sola soluzione per far ripartire l’Unione Sovietica è abbandonare l’Europa Centrale puntando sull’Europa Occidentale».

Cominciano gli anni d’oro del grande flirt fra l’Occidente e Gorbaciov che entusiasma in particolare gli eurocomunisti italiani, spagnoli, portoghesi e francesi. Ma in Italia anche la Democrazia Cristiana è felice dell’incoraggiante piega che sembra prendere lo scenario internazionale perché si può sperare di vedere la fine della guerra fredda e dunque la possibilità di ringraziare gli americani per i servizi resi con preghiera di tornarsene a casa. La controstoria, che emergerà con qualche anno di ritardo, saranno i grandi movimenti delle mafie russe protette dal Kgb solleticate dalle possibili alleanze con le mafie europee, giocando un ruolo fondamentale nella fuga dei capitali di Stato organizzata dai servizi segreti per rimettere la Russia in una posizione favorevole.

Nel gennaio 1986 Alessandro Natta, segretario del Pci, volle incontrare Gorbaciov per parlare della creazione del Mercato Unico Europeo previsto per il 1992. Gorbaciov era perfettamente d’accordo e ripeté ufficialmente che ciò “che avviene oggi in Europa occidentale determinerà il corso degli eventi per molti e forse per secoli”. Gorbaciov spiegava che la nuova linea internazionale non consisteva nel dividere l’Europa occidentale dagli Usa, ma nel far uscire gli Usa dall’Europa, in perfetta coincidenza col progetto gollista poi rilanciato dal Presidente Francois Mitterrand. Fra i consiglieri di Gorbaciov viene arruolato il generale Jaruzelski, ex presidente – golpista per necessità – della Polonia dal febbraio del 1981 che propone una serie di incontri con ex politici europei come Willy Brandt. L’incontro fra Gorbaciov e la sinistra socialdemocratica europea diventa un trend: nel maggio del 1988, Vogel, leader dei socialdemocratici tedeschi va da Gorbaciov dichiarandosi favorevole a una vasta “perestroika” internazionale.

Anche i laburisti inglesi cominciano a guardare a Mosca con nuovo interesse e il 23 agosto 1988 Vladimir Zagladin, il miglior esperto di politica estera, corse da Gorbaciov per dirgli di aver avuto un colloquio con il parlamentare laburista Ken Livingstone secondo cui “il nocciolo duro” del partito ritiene che esistano ampie opportunità per incrementare i rapporti tra Europa occidentale e Urss”. Un colpo vincente dopo l’altro. Un anno dopo Kenneth Coats, presidente del sottocomitato per i diritti dell’uomo del Parlamento Europeo fece la tanto attesa proposta: preparare entro due anni una sessione congiunta dell’Europarlamento e del Soviet supremo dell’Urss. Finalmente il 26 novembre del 1988 si incontrarono a Mosca Gorbaciov e Mitterrand, che mise in chiaro il grande sogno: “L’Europa, unita nella Cee, è solo il primo passo verso la totalità dell’Europa”.

Certo, osservò Mitterrand, che nel campo dei diritti individuali l’Europa occidentale segue una prassi “più perfetta di quella vigente in Urss”, ma per i diritti collettivi “l’Occidente nel suo complesso dovrà lavorarci molto”. A Mitterrand era poi succeduto Chirac, che diceva di non amare affatto l’idea della “casa comune europea”, ma decide di appoggiare il progetto. Fu poi la volta del ministro degli Esteri spagnolo Ordonez, il quale disse a Mosca che “il successo della perestroika significa il successo della rivoluzione socialista nelle condizioni odierne”. L’anno successivo, il 1989 della caduta del muro di Berlino, l’ex Cancelliere tedesco Willy Brandt chiese al leader sovietico “che tipo di aiuto per la perestroika si aspetta dal cosiddetto Occidente e da noi socialdemocratici”. Brandt era stato travolto dallo scandalo del suo segretario Guillaume, il quale era stato arrestato per essere sempre stato un agente sovietico. E per far meglio capire da che parte stava disse che avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo delle Repubbliche baltiche di uscire dalla federazione con l’Urss.

Tutti questi movimenti si trasformavano in spostamenti reali: la gente dell’Est sovietico faceva capolino in Europa occidentale alla guida delle misere Trabant e venivano fotografati come marziani. Il mondo occidentale si stava preoccupando: che intenzioni ha Gorbaciov? Vuole aprire le frontiere a milioni di fuggiaschi che si riverseranno in Europa? A novembre del 1989 il ministro degli Esteri francese Dumas si precipitò a Mosca molto preoccupato. Ma Gorbaciov era allegro: “Noi stiamo cambiando, gli disse. Ma sta cambiando l’Occidente? Noi rappresentiamo due tendenze del movimento socialista”. E Dumas rispose: “Se lei scorge una certa sorpresa nei miei occhi, è solo perché stavo per dire la stessa cosa”.

La questione del muro di Berlino rientrava nell’ambito dell’altro tavolo, quello con gli Stati Uniti, dove il Presidente Donald Reagan poneva la precondizione, per trattare, che “Mister Gorbaciov butti giù quel muro”. E Gorbaciov volle darne l’annuncio personalmente al Bundestag di Bonn, dove disse di ritenere quel muro un errore da correggere. Pensava di poter realizzare i programmi con ordine, ma la folla dei berlinesi lo accolse il giorno dopo con i picconi in mano, gridando “Gorby! Gorby!” e il muro venne giù a furor di popolo. A chi in patria era furioso per quel gesto che si sarebbe tradotto prima o poi nella riunificazione della Germania, Gorbaciov rispose che la riunificazione avrebbe dissanguato la Repubblica federale e che avrebbe dovuto dare garanzie reali di disarmo e di pacifismo, come poi avvenne realmente dopo gli incontri del Cancelliere Kohl con gli altri leader europei: lasciateci fare la riunificazione e noi in cambio vi permetteremo di usare in tutta Europa il Deutsche Mark, magari chiamandolo euro.

Furono anni febbrili i primi Novanta perché Mitterrand era totalmente favorevole a qualche forma di associazione dell’Urss con l’Ue e il fronte gorbacioviano si allargava fino alla Spagna di Felipe Gonzales, il quale il 26 ottobre del 1990 ricevette Gorbaciov a Madrid e disse pubblicamente di provare “disgusto intellettuale” di fronte agli atti del G7 in cui si equiparano i problemi della democrazia e dell’ideologia dell’economia di mercato. Mitterrand andò a Praga per parlare con Havel di una possibile Assemblea per “una confederazione europea”. Tuttavia, il presidente Havel, un grande scrittore che aveva trascorso alcuni anni in galera, mandò a monte il progetto, almeno per la parte cecoslovacca. Finalmente si arrivò al Summit del G7 a Londra dove il Segretario generale del Pcus fu invitato come ospite e protagonista. Giulio Andreotti disse: «Sono felice di aver vissuto abbastanza per arrivare al giorno in cui siamo noi a dire all’Urss di mantenere le sue posizioni».

Ma tutto questo fermento europeista di Gorbaciov, che nel frattempo aveva ottenuto una pace di fatto con gli Stati Uniti pagando come prezzo un declassamento di fatto dell’Urss da superpotenza a potenza regionale, aveva fatto imbestialire i quadri del Kgb, all’interno del quale però Gorbaciov aveva costruito un suo proprio Kgb molto attivo sul piano internazionale. Si arrivò così al teatrale colpo di Stato contro Gorbaciov che doveva avere soltanto l’effetto che poi realmente ebbe: frantumare il prestigio di Gorbaciov e portare a un repulisti all’interno dello stesso Kgb con l’arresto del suo capo Vladimir Kryuchkov. Spaccata in due, la grande casa madre del Kgb si affossò e con decreto dello stesso Gorbaciov il Kgb venne frantumato in nuovi Direttorati da cui nascono l’Svr, l’Fsb, il servizio interno, e il Fapsi.

Il Paese era arrivato al collasso: Gorbaciov non aveva avuto mezzi e capacità sufficiente per tenere sotto controllo i suoi nemici che ormai erano tutti. Alla fine del 1991 Gorbaciov cede e lascia il potere a Boris Eltsin che, non aveva esitato a prendere a cannonate il Parlamento di Mosca dove si erano asserragliati i rivoltosi che avevano tentato il golpe. Da allora, Michail Gorbaciov diventò un fantasma sulla scena internazionale dove appariva saltuariamente ai convegni cui era invitato. In patria gli rimproveravano una nuova forma di totalitarismo consistente nel distruggere la tradizione russa per assumere dall’Occidente, sia pure europeo e sia pure socialista, atteggiamenti incompatibili con la Russia e la sua anima profonda, che è quella di gente come Dugin, il grande ispiratore di Vladimir Putin,

A Gorbaciov non piaceva Putin che era stato imposto a Eltsin dal circolo ristretto del Kgb, impegnato e riprendere il potere dopo l’ondata delle violenze e delle sopraffazioni degli oligarchi che avevano fatto riciclare all’estero gran parte del tesoro sovietico e dello stesso partito comunista. Gorbaciov aveva sempre con sé una vistosa ed elegante borsa firmata di Luis Vuitton e compariva sempre meno perché era noto che fosse malato e del resto ampiamente dimenticato in Occidente, mentre nella sua Russia era ed è considerato una disgrazia per aver causato lo spappolamento dell’impero, un danno cui il presidente Vladimir Putin è intenzionato a porre rimedio.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

"L'Europa sia casa comune. Se c'è unità siamo in tempo per riparare tutte le crepe". Nel suo ultimo libro-testamento, lo statista Gorbaciov chiama i leader a muoversi in fretta e non risparmia accuse: "La Russia non può essere solo spettatrice". Mikhail Gorbaciov l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Pubblichiamo un ampio estratto dell'ultimo libro di Mikhail Gorbaciov «La posta in gioco. Manifesto per la pace e la libertà» (Baldini+Castoldi, 176 pagine). Una sorta di testamento politico, specie nel capitolo pubblicato in cui elogia l'importanza dell'Europa ed esorta a migliori rapporti tra gli Stati, compresa la Russia.

Che ruolo svolgerà l'Europa? Cosa succederà al nostro continente a cui l'umanità deve così tanto? Ma prima ancora, occorre rispondere a questa domanda: di quale Europa stiamo parlando? Alle conferenze internazionali e nei media, l'Europa equivale spesso all'Unione Europea. Ogni volta che mi trovavo di fronte a questa idea, non potevo fare a meno di chiedere: «Non state forse facendo confusione? Le nazioni che non ne fanno parte, in particolare la Russia, non sono comunque Europa?». Negli ultimi anni, questa ambiguità è apparsa particolarmente evidente (forse perché l'Unione Europea stessa sta affrontando grossi problemi), ma non è scomparsa. Vero è che la Comunità Europea, che in seguito è diventata l'Unione Europea, è stata eccezionalmente importante nel continente e nel mondo intero, e lo è tuttora. 

(...) L'idea di una casa comune, di un'Europa unita senza linee di confine è una delle idee più produttive nella nostra storia comune, e ha svolto un ruolo incontrovertibile nel superamento della guerra fredda. Sviluppare questa idea, aiutarla a evolversi e metterla in pratica avrebbe dovuto diventare il tema unificante della politica europea. Sono convinto che avrebbe aiutato a prevenire molti conflitti, come quelli nei Balcani, all'interno dell'Unione Europea e nelle relazioni tra la Russia e i suoi vicini. Sfortunatamente, la storia ha preso un'altra piega. Oggi l'Europa è diventata un focolaio di crisi per la politica mondiale. Come è potuto accadere? Sono sempre più convinto che uno dei motivi sia da ricercare nel corso stabilito dai principali Stati membri nei primi anni Novanta. All'epoca l'Unione intraprese un percorso di espansione accelerata in risposta al desiderio di alcuni Paesi di entrare in Europa: il nostro continente, la nostra casa a farne parte, ma allo stesso tempo trascurò il fatto che le sue posizioni globali dipendevano dalla forza della sua struttura interna. È emerso che membri vecchi e nuovi non rispettavano gli standard comuni in termini di economia, sicurezza sociale e lotta alla corruzione. A mano a mano che l'Unione si espandeva, i suoi problemi interni peggioravano anziché diminuire, con grande dispiacere di molti cittadini che non vedevano alcun beneficio concreto da parte di questo enorme apparato burocratico, lento nel rispondere ai loro problemi e bisogni. Diverse crisi, in particolare quella in Grecia, hanno reso questo atteggiamento dolorosamente evidente. E a partire dal referendum per la Brexit, la questione principale è questa: quanto è forte l'Unione Europea oggi? 

Il rapido processo di espansione ha anche notevolmente teso le relazioni tra l'Unione Europea e la Russia. Durante gli anni della perestrojka iniziammo a costruire, nel 1988, una nuova relazione attraverso un accordo commerciale e di cooperazione. L'accordo di partenariato e cooperazione tra l'Unione Europea e la Russia venne firmato nel 1994. Nel 2001 si svolse il summit in occasione del quale Romano Prodi, allora presidente della commissione europea, presentò l'idea di istituire uno spazio economico comune, seguita da un accordo, firmato nel 2005, tra la Russia e l'Unione Europea che aveva l'obiettivo di creare partenariati strategici in quattro spazi: uno economico, uno di libertà, sicurezza e giustizia, uno in materia di sicurezza estera e uno di ricerca, istruzione e cultura. Sembrava che si fossero aperte grandi prospettive, decisamente in linea con l'idea di una casa comune europea. Ma queste nuove opportunità dipendevano da un dialogo tra pari e dalla considerazione per gli interessi russi, in particolare per quel che riguardava la creazione delle relazioni con i nostri vicini, ai quali ci legava una complessa storia comune e plurisecolare. In merito a questo aspetto i leader dell'Unione non hanno mostrato sufficiente saggezza politica, e non sono stati nemmeno in grado di essere lungimiranti. Ciò è stato evidente soprattutto nel modo in cui l'Unione Europea ha negoziato un accordo di associazione con l'Ucraina. Non era forse lampante che un tale accordo toccasse direttamente gli interessi della Russia? Commercio, relazioni economiche, cooperazione industriale... tutto questo è saldamente legato a problemi politici, economici e legali, e avrebbero dovuto discuterne al tavolo delle trattative, permettendo alla Russia di parteciparvi da pari. Sono certo che il contributo della Russia sarebbe stato costruttivo, perché in fondo è davvero interessata a un partenariato sia con l'Unione Europea che con l'Ucraina. Ma al posto di negoziati, la Russia è stata semplicemente messa davanti a un fatto compiuto. Il risultato è noto a tutti. 

Molti sembrano pensare che il nostro continente abbia vissuto una spaccatura irreversibile. In tal caso, il danno all'Europa sarà enorme; nell'inevitabile competizione tra le regioni del mondo globale, che è già iniziata, la sua posizione risulterà indebolita. Sarebbe davvero il «declino dell'Europa» di cui molti parlano. E noi dobbiamo impedire che ciò accada. Non vi è altra scelta che tornare all'idea di una casa comune per tutti gli europei. In realtà viviamo già in una casa Europa: il nostro continente, la nostra casa simile, ma i cui abitanti ultimamente non vanno d'accordo. Questa situazione deve cambiare. Dobbiamo lavorare insieme per riparare le crepe che si sono formate in questi ultimi decenni e che di recente si sono fatte più profonde. La situazione è così complessa da richiedere uno sforzo praticamente titanico. E dobbiamo metterci al lavoro il prima possibile. In tutta onestà, avremmo dovuto incominciare ieri. Peccato che i leader politici responsabili non avessero la saggezza e la forza necessarie per farlo.

L'illusione della "glasnost". Il comunismo? Non è morto. L'Urss è stata archiviata troppo in fretta. I principi illiberali circolano ancora nell'economia. E il sindacato li alimenta. Pier Luigi del Viscovo l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

La glasnost, operazione trasparenza, fu talmente veloce da non far vedere le ragioni della fine del comunismo, e infatti ce lo ritroviamo ancora tra i piedi.

Il comunismo contiene molti e forti punti di contatto con le dottrine religiose che vogliono gli uomini tutti uguali e che insistono sulla distribuzione dei beni e sulla generosità verso gli altri. Tuttavia, non è una fede ma una teoria economica che, mettendo insieme fattori sociali ed economici, costruisce un modello per l'equa distribuzione della ricchezza, che era il tema centrale dell'economia nel primo secolo della rivoluzione industriale, quando la creazione di ricchezza non pareva così in discussione.

A differenza della fede, ha il grande vantaggio di poterlo sottoporre alla prova dei fatti. Così, più Paesi nel corso del Novecento l'hanno adottato e tra questi il più importante è stato l'Unione Sovietica, retta per 70 anni da un regime comunista. Sì perché fu subito chiaro che il modello avesse bisogno di un regime, poiché pare che i cittadini non si trovassero poi tanto bene. In effetti, pure chi non abbia grandi conoscenze di economia può giudicare quanto i russi o i tedeschi dell'Est fossero contenti del modello comunista. Comunque, la bocciatura della storia è in economia: assolutamente incapace di produrre ricchezza, ha mostrato molte debolezze anche sulla distribuzione, la sua ragion d'essere. Infatti, è imploso su se stesso, dopo esser durato 70 anni, non poco. Di tutto l'esperimento l'aspetto forse più sorprendente è la quasi totale mancanza di analisi del risultato.

In pochi anni, a me gli occhi, carta vince e carta perde, et voilà: giù il muro, glasnost, perestroika e scioglimento dell'URSS, quasi si trattasse dell'ultimo e più marginale staterello sullo scenario geopolitico. Tanto per dire, il fascismo, considerato volgarmente l'antagonista del comunismo, ha governato per 20 anni ma è stato archiviato con un processo storico molto lungo e puntellato di occasioni di ricordo. Al punto che oggi è facile etichettare un movimento o un esponente politico come fascista per bollarlo negativamente. Certo, è un paragone insostenibile nel contenuto ma è giusto per cogliere il senso, anzi l'assenza, dell'elaborazione storica del comunismo sovietico, i cui principi e valori sono vivi e vegeti nella nostra società. Non per un caso ma per un vero capolavoro.

I figli del PCI hanno subito condannato il comunismo, alcuni addirittura sostenendo di non esserlo mai stati e di non aver mai approfondito il significato di quella C nel simbolo. L'abilità è stata puntare il dito sulla dittatura e sulla mancanza di libertà, sorvolando leggiadri sull'incapacità del sistema di produrre la ricchezza che ambiva a distribuire. Così da sdoganare un'idea semplice: purché in democrazia e libertà, quei principi possono funzionare e sono auspicabili. Anche la contro-narrazione di fine secolo concentrò le sue bordate sulla libertà anziché insistere sul valore della competizione e dello spirito di impresa. Probabilmente valutando che sul piano dell'economia non sarebbe stato facile contrastare quel proselitismo, arrivato negli anni '70 a un terzo dei cittadini e tra i giovani di allora, oggi adulti, anche di più. Fatto sta che è tuttora molto forte, specie nella parte della società non esposta alle leggi del mercato e dell'iniziativa personale, con il sindacato in funzione di vestale ad alimentare la fiammella. Però il comunismo non è un regime politico ma una teoria economica e come tale nella pratica ha fallito. La glasnost su questo è stata una finestra aperta e richiusa troppo in fretta.

Morto Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell'Urss: il discorso con cui ha scritto la Storia. Libero Quotidiano il 30 agosto 2022

L'ex presidente dell'Urss, Mikhail Gorbaciov, è morto all'età di 92 anni. Lo ha reso noto l'agenzia russa Tass, sottolineando che l'ex presidente che mise finealla guerra fredda è deceduto nell'ospedale dov'era ricoverato.

Era il 25 dicembre del 1991 quando Mikhail Gorbaciov, in un discorso considerato fra i cardini della storia del XX secolo, annunciava le sue dimissioni da presidente dell'Unione sovietica. Padre della Perestrojka e della dottrina Glasnost, protagonista della caduta del Muro di Berlino e insignito nel 1990 del premio Nobel per la Pace "per il ruolo di primo piano nei cambiamenti radicali delle relazioni fra Est e Ovest", Gorbaciov accompagnava la Russia in un nuovo momento storico: al Cremlino veniva abbassata la bandiera dell'Urss, sostituita con il tricolore della Federazione russa.

Per lui si era trattato di una scelta di responsabilità, dichiarò in un'intervista rilasciata alla Bbc nel 2016: "Eravamo sulla buona strada per una guerra civile e volevo evitarlo", "una divisione nella società e una lotta in un paese come il nostro, traboccante di armi, comprese quelle nucleari, avrebbe potuto causare la morte di molte persone ed enorme distruzione. Non potevo lasciare che accadesse solo per aggrapparmi al potere. Dimettermi è stata la mia vittoria". Gorbaciov è rimasto una figura controversa: se in Occidente è considerato da molti un eroe, colui che ha dato la libertà all'Europa orientale e ha permesso la riunificazione della Germania, da molti russi è visto come il leader che ha perso un impero, quello sovietico. Fu lui, però, che condusse la Guerra fredda a una fine pacifica, ragion per cui il comitato del Nobel scelse di premiarlo.

Nato il 2 marzo del 1931 in una famiglia di agricoltori a Privolnoye, sotto il regime di Stalin, visse sotto l'occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra studiò all'università di legge a Mosca, laureandosi nel 1955. Laurea a cui nel 1967 aggiunse quella in Economia agraria all'università di Stavropol. La sua carriera politica nel Partito comunista iniziò poco dopo proprio in questa città, come primo segretario del partito.

Questo ruolo gli permise viaggi all'estero che lo resero gradualmente critico nei confronti dell'inefficiente sistema sovietico, che subì ulteriori pressioni quando l'Unione sovietica invase l'Afghanistan nel 1979. Tra le sue trasferte più importanti, nel 1975 condusse una delegazione nella Repubblica federale di Germania. Nel 1983 guidò una delegazione sovietica in Canada per incontrare il primo ministro Pierre Trudeau e alcuni membri della Camera dei Comuni del Paese nordamericano. Nel 1984 partecipò come delegato sovietico ai funerali a Roma del segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, mentre nello stesso anno incontrò nel Regno Unito la prima ministra Margaret Thatcher.

Con il suo ministro degli Esteri, Eduard Ševardnadze, conseguì poi il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan, messo in pratica dopo la stipula degli Accordi di Ginevra del 1988.

Nel 1985 Gorbaciov fu eletto segretario generale del partito, nuovo leader dell'Unione Sovietica. Cercò di riformare il comunismo e introdusse i concetti di "Glasnost" (apertura) e "Perestroika" (cambiamento). La società fu liberalizzata e Gorbaciov cercò la distensione con gli Stati Uniti per poter trasferire i fondi dalla difesa alla società civile. Dichiarò che non avrebbe sostenuto i regimi comunisti in altri paesi se i loro popoli si fossero opposti a loro. Iniziò così una reazione a catena che portò alla caduta del comunismo in Europa.

L'11 ottobre 1986 arrivò anche un'epocale svolta sull'arresto agli armamenti, quando incontrò il presidente statunitense Ronald Reagan a Reykjavík in Islanda per discutere la riduzione degli arsenali nucleari installati in Europa. Tutto ciò condusse nel 1987 alla firma del Trattato INF sull’eliminazione delle armi nucleari a raggio intermedio. Nell'aprile di quell'anno dovette anche gestire il disastro nucleare della centrale di Chernobyl, nella Repubblica Ucraina allora parte dell’Unione sovietica.

Il 1989 vide gli effetti distensivi della sua politica arrivare ai massimi, con la caduta del muro di Berlino il 9 novembre. Il resto di quell'anno fu scandito dalla crescente divergenza tra i riformisti, che criticavano il lento ritmo di cambiamento, e i conservatori, che criticavano l'estensione del cambiamento.

Il 15 marzo del 1990 il Congresso dei rappresentanti del popolo dell'Urss lo elesse presidente dell'Unione Sovietica. Lo stesso anno, cinque mesi dopo, gli fu assegnato il Nobel per la Pace.

Tuttavia, fallì nel riorganizzare economicamente l'Unione sovietica nel suo obiettivo di migliorare le condizioni di vita nel Paese. Le riforme politiche radicalizzarono l'opposizione e nell'estate del 1991, quattro mesi dopo un fallito colpo di Stato nei suoi confronti, Gorbaciov si dimise. L’Unione Sovietica era avviata inesorabilmente verso la sua dissoluzione.

Non perse però il suo fervore e impegno politico. Nel gennaio del 1992 diventò presidente della fondazione Gorbaciov, Fondazione Internazionale Non-Governativa per gli Studi Socio-Economici e Politici. Dal marzo del 1993 fu inoltre presidente e fondatore della Green Cross International, organizzazione ambientalista indipendente presente in più di 30 paesi.

In un'intervista concessa nel 2016 a Bbc, l'ex presidente sovietico è stato critico sulla Russia moderna. "I burocrati", disse, "rubarono le ricchezze della nazione e iniziarono a creare corporazioni". Criticò anche uno dei più stretti collaboratori dell’attuale presidente Vladimur Putin, Igor Sechin, capo del gigante petrolifero Rosneft, accusandolo di cercare di influenzare gli affari di stato. Ma ebbe anche parole dure per l'Occidente. "Sono sicuro che la stampa occidentale abbia ricevuto istruzioni speciali per screditare Putin e sbarazzarsi di lui. Non fisicamente. Solo per assicurarsi che si faccia da parte. Ma, di conseguenza, il suo indice di popolarità qui ha raggiunto l'86%. Presto sarà del 120%".

Al suo 91esimo compleanno ha incontrato i giornalisti Maria Ressa e Dmitry Muratov, a cui è stato assegnato il Premio Nobel per la pace nel 2021. Muratov è il direttore di Novaja Gazeta, una delle poche voci indipendenti nella Russia di Putin, nonché settimanale che lo stesso Gorbaciov finanziò nel 1993. Sulla situazione attuale, riguardante la guerra tra Russia e Ucraina, il suo appello è però stato monolitico e disarmante: "Fate il possibile per fermare Putin".

Per lo scrittore e amico János Zolcer, che su di lui ha scritto un libro, Gorbaciov ha lasciato un'eredità senza precedenti: "Essere qui a parlare liberamente. Questa è l’eredità più grande di Gorbaciov. Ha dato la libertà all’Unione sovietica e ai popoli dell’Europa orientale. Ci ha detto ‘siete voi gli artefici della vostra vita’, il modo in cui l’ha fatto ha cambiato la nostra vita".

Mikhail Gorbaciov, lo sfregio dalla Cina: "Figura tragica, ingenua e immatura". Libero Quotidiano il 31 agosto 2022

Mikhail Gorbaciov è stato una "figura tragica che ha soddisfatto i bisogni degli Stati Uniti e dell'Occidente senza morale", ha commesso "gravi errori" nel valutare la situazione internazionale, "ha provocato il caos nell'ordine economico interno" e la cui parabola politica deve servire da "promemoria" per altri Paesi nell'essere cauti verso l'Occidente. 

Questo il durissimo giudizio degli osservatori cinesi citati dal tabloid Global Times, pubblicato dal Quotidiano del Popolo, organo di stampa ufficiale del Partito Comunista Cinese, su Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell'Unione Sovietica, scomparso ieri, martedì 30 agosto, a distanza di solo poche ore dall'annuncio diramato da Pechino delle date del prossimo Congresso del Partito Comunista Cinese, che a ottobre, con ogni probabilità, rieleggerà Xi Jinping per un terzo mandato consecutivo alla guida del partito. Un pensiero, quello dei cinesi, condiviso da Vladimir Putin. Lo zar russo, pur non avendo speso parole di condanna nei confronti dell'ultimo leader Urss, si è limitato a un gelido commento esprimendo cordoglio. Si ricorda che Putin ebbe a dire che a suo giudizio "la dissoluzione dell'Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe del XX secolo". E Gorbaciov, su quella dissoluzione, ci mise la firma.

Ma torniamo a Pechino. "In una riflessione storica, Gorbaciov è ingenuo e immaturo", scrive ancora l'agguerrito giornale cinese. "Venerare ciecamente il sistema occidentale ha fatto perdere indipendenza all'Unione Sovietica, e il popolo russo ha sofferto di instabilità politica e di gravi pressioni economiche, che la Cina ha considerato un grande avvertimento e una lezione da cui trarre esperienza per la propria governance". 

Nell'articolo, che ripercorre le scelte prese da Gorbaciov quando era al vertice dell'Urss, il Global Times cita il direttore dell'Istituto per gli Affari Internazionali dell'Università del Popolo di Pechino, uno dei più prestigiosi atenei della capitale, Wang Yiwei. "Gorbaciov è stato ingannato dall'Occidente", è il giudizio dello studioso. "In un momento critico non ha potuto salvare l'Unione Sovietica, né il Partito Comunista dell'Unione Sovietica", ha aggiunto l'accademico di Pechino, sottolineando la differenza di approccio del Pcc che, ha detto, si fonda sulla leadership del partito e sul principio di indipendenza "piuttosto che sulla ricerca dell'occidentalizzazione, come l'Urss", si conclude l'offensivo ricordo del leader sovietico scomparso a 91 anni.

Morte Gorbaciov, il gelo di Putin e l'affondo del fedelissimo: "Coincidenza mistica". Libero Quotidiano il 31 agosto 2022

A 91 anni, se ne è andato Mikhail Gorbaciov, l'ultimo leader dell'Unione Sovietica, l'uomo della perestrojka e della glasnost, del disgelo, del passaggio alla Federazione russa. La notizia arriva poco prima della mezzanotte italiana, con uno scarno comunicato della Clinica di Mosca dove Gorbaciov era ricoverato da tempo. "Questa sera, dopo una prolungata e grave malattia, Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto". Punto e stop. Poche, gelide, righe rilanciate dalla Tass, l'agenzia di stampa russa organica al Cremlino.

Già, un gelo "di Stato". Un gelo dietro al quale è fin troppo semplice ipotizzare che ci sia un ordine diretto di Vladimir Putin, il presidente di quella Russia nata proprio dopo Gorbaciov e che, prima di lui, ha visto il passaggio di Boris Eltsin. Già, si pensi che lo zar Putin ritiene che il crollo dell'Urss fu "la più grande catastrofe del XX secolo", queste le sue parole. E poiché sulla dissoluzione del mostro sovietico c'era proprio la firma di Gorbaciov, è fin troppo facile capire il distacco con cui è stata accolta la notizia della sua morte.

Non a caso, Putin si è limitato ad esprimere "profondo cordoglio". "Un politico e uno statista che ha avuto una influenza importante sulla Storia del mondo - questo quanto avrebbe scritto Putin nel suo telegramma di condoglianze alla famiglia, secondo quanto riferisce l'agenzia Tass -. Vorrei sottolineare anche quella grande attività umanitaria, di beneficenza e illuminismo che Gorbaciov ha condotto in tutti gli ultimi anni. Chiedo di accettare le parole sincere di solidarietà e empatia per la perdita che avete subito". Stando all'altra agenzia russa Interfax, però, pare che per Gorbaciov non ci saranno funerali di Stato a Mosca: "Due fonti informate hanno detto a Interfax che per Gorbaciov non ci saranno funerali di Stato". Un vero e proprio schiaffo insomma. 

Prima di queste indiscrezioni, il Cremlino aveva detto di non avere ancora preso una decisione sullo svolgimento di un funerale di Stato per l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbaciov. "Non posso ancora dirlo con certezza. La questione sarà affrontata oggi. Verrà presa una decisione. Finora non sono state prese decisioni", aveva detto il portavoce Peskov ai giornalisti. Certo non quello che ci si aspetta per una delle figure più importanti della storia contemporanea. Un discreto sfregio a Gorbaciov. E, forse, ad esprimere il vero pensiero di Putin, ci pensa Andrej Medvedev, deputato di Russia Unita, che commentando il fatto ha ricordato le recenti morti di Shushkevich, Kravchuk e Burbulis, i tre che firmarono gli accordi di Belovezha che sancirono la fine dell'Unione Sovietica. "Dall'inizio dell'operazione militare speciale, Gorbaciov è già il quarto politico deceduto direttamente coinvolto nel crollo dell'Urss. Questa, ovviamente è una specie di coincidenza quasi mistica", ha concluso. Parole, per certi versi, agghiaccianti.

Mikhail Gorbaciov, raccapricciante insulto: "Becchino, peggio di Hitler". Mirko Molteni su Libero Quotidiano il 02 settembre 2022

Il detto "nemo propheta in patria sua" è perfetto per Mikhail Gorbaciov, la cui morte a 91 anni è stata accolta freddamente, quasi con imbarazzo, in Russia, dove gran parte della popolazione è nostalgica dell'Unione Sovietica. Anche l'ultimo leader sovietico, in carica dal 1985 al 1991, voleva che l'Urss sopravvivesse, ma le aperture da lui promosse, di fatto, ne accelerarono la crisi. Il ricordo prevalente di Gorbaciov nel suo Paese è, nella migliore delle ipotesi, quello dell'ingenuo che s' è fatto "fregare" dall'Occidente e s'è illuso di poter ristrutturare un sistema farraginoso, scoperchiando un vaso di Pandora. Nel caso peggiore, un demolitore, perfino un traditore, quantomeno inconscio.

Per il deputato Vitaly Milonov, il presidente sovietico ha lasciato un'eredità «peggiore di Hitler per il nostro Paese» mentre Vladimir Rogov, filoputiniano dell'oblast di Zaporizhia nella parte occupata dell'Ucraina, ha definito Gorbaciov un traditore che ha deliberatamente portato al collasso l'Urss. Infine, la Komsomolskaya Pravda lo ha definito «becchino della stessa Urss». Il presidente Vladimir Putin ha invece espresso un cordoglio distaccato, con sottintese critiche: «Ha dovuto affrontare grandi sfide. Capiva che le riforme erano necessarie e cercava di proporre sue soluzioni a problemi scottanti. Ha avuto un impatto enorme sulla storia mondiale». Se lo "zar" parla di «sue soluzioni», ne prende le distanze, e se parla di «impatto enorme», intende una valanga. Putin già aveva definito il crollo dell'Unione Sovietica «la peggior catastrofe geopolitica del secolo». I due si rendevano pan per focaccia. L'anziano Gorbaciov diceva: «Putin? Ha salvato la Russia, ma ora mi sembra malato di presunzione». E poi: «Putin governa con la paura».

Ma approvò nel 2014 l'annessione della Crimea, lui che era di madre ucraina e aveva sposato l'ucraina Raissa. Gorby era però critico sull'attuale offensiva contro Kiev. Per Nina Krusciova, nipote dell'ex-leader sovietico Nikita Kruscev, «era completamente devastato dalla guerra in Ucraina». Malato, dal febbraio 2022 non parlava più pubblicamente, ma in Russia il suo silenzio è passato inosservato. In serata la TASS ha confermato i funerali di Stato, il che era rimasto in dubbio per tutto il giorno. Sabato, cerimonia nella Sala delle Colonne della Casa di Sindacati, già teatro delle esequie di Stalin nel 1953, poi la sepoltura al cimitero moscovita di Novodevichy.

Veloci saluti, nella fretta di chiudere una pagina traumatica. Il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov lega gli eventi di 30 anni fa alla crisi odierna: «Il romanticismo di Gorbaciov per una pace stabile non s' è concretizzato, non c'è stato un secolo del miele e la sete di sangue dei nostri avversari s' è manifestata». Propaganda a parte, lo studioso Andrey Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council, definisce Gorby «controverso, con idee naif». Per l'ex rabbino di Mosca, Pinchas Goldschmid, espatriato per protesta contro la guerra in Ucraina, «tre milioni di ebrei sovietici gli devono la libertà», avendo Gorby eliminato le restrizioni all'emigrazione in Israele. E l'oppositore Alexei Navalny, incarcerato da Putin, dice: «Liberò gli ultimi prigionieri politici e verrà giudicato meglio dai posteri che dai contemporanei».

È morto Mikhail Gorbaciov. L'ultimo leader dell’Urss aveva 91 anni. Il Dubbio il 31 agosto 2022.

È morto all’età di 91 anni Mikhail Gorbaciov, ultimo segretario generale del Partito Comunista ed ex presidente dell’Urss. Fautore di una politica di riavvicinamento con l’Occidente, Premio Nobel per la pace nel 1990, è stato uno dei maggiori protagonisti della politica mondiale negli anni ’80, alla guida dell’Urss tra il 1985 e il 1991: negoziò la fine della Guerra Fredda, la caduta del muro di Berlino e il disarmo nucleare. Tra il 1990 e il 1991 fu Presidente dell’Unione Sovietica, prima di doversi dimettere definitivamente il 25 dicembre 1991, con la fine dell’Urss. È stato il simbolo di una nuova generazione di leader: fu lui ad avviare la Glasnost (trasparenza) e poi la Perestrojka (ristrutturazione economica), che vide la nascita della Russia moderna. Cercò di cambiare l’Unione Sovietica e le sue relazioni con il mondo occidentale. E non volle solo la fine della Guerra Fredda o un ritorno alla politica della distensione, ma creare una vera cooperazione, un’intesa tra Oriente e Occidente: difese il multilateralismo non ancora globalizzato, consapevole che il pericolo peggiore fosse quello di una guerra nucleare ma anche delle sfide ambientali, che sarà uno dei primi leader politici a mettere in agenda. I suoi traguardi sono stati significativi: la fine dell’occupazione dell’Afghanistan, la firma di un accordo sugli euromissili, l’«opzione 0» che elimina completamente una categoria di armi nucleari, l’accordo sul disarmo convenzionale, ma anche il fatto che ogni Paese dell’Est europeo potesse seguire la propria strada: l’Urss non imponeva più la sua politica con la forza, come dimostrò la riunificazione tedesca che Gorbaciov accettò quando c’erano ancora 500mila soldati sovietici nella Germania dell’Est. Dopo le dimissioni dal suo incarico di presidente dell’Urss, Mikhail Gorbaciov si rivolse all’ecologia. In vent’anni ha scritto Il mio manifesto per la Terra e partecipato a diversi documentari sull’argomento – La battaglia di Chernobyl nel 2006, L’undicesima ora, prodotto da Leonardo DiCaprio nel 2007, o Rimarremo sulla Terra nel 2009. Ma la sua eredità più notevole in questo settore è la Green Cross International, fondata nell’aprile 1993 con il deputato svizzero Roland Wiederhehr: un ong ecologica sul modello della Croce Rossa mira a garantire «un futuro sostenibile per tutti i popoli del mondo». Per fare questo Gorbaciov auspica una «perestrojka dello sviluppo sostenibile» , come ha indicato in occasione del 20 anniversario della Ong. Secondo l’agenzia Tass, che ha dato la notizia del decesso, Gorbaciov, morto in un ospedale di Mosca, sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy, nella capitale russa, dove giacciono i resti di personaggi di spicco della storia del Paese, ma dove riposano anche i resti della moglie di Gorbaciov, Raissa. Gorbaciov viveva da anni lontano dai riflettori dei media a causa di problemi di salute. 

La versione di Gorbaciov, l’ultimo principe del Novecento. 29 novembre del 1989: sul Quirinale sventola la bandiera rossa, i romani si stringono intorno a Gorbaciov. Che come Kennedy per gli Usa, ha incarnato la “nuova frontiera russa”. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 31 agosto 2022.

La frase memorabile, in realtà gliel’aveva rubata John Fitzgerald Kennedy che a Berlino nel giugno del 1963, quando il Muro era stato proprio da poco tirato su, mattone su mattone, in quel tour europeo che poi lo porterà anche a Roma, prima di pronunciare il famoso Ich bin ein Berliner, aveva detto che un tempo nel mondo si era orgogliosi di dire: “civis romanus sum”. A Gorbaciov – che era attento alle campagne pubblicitarie del mondo occidentale e che diventerà, quando tutto sarà finito, un’icona con la sua borsa da viaggio Louis Vuitton – era rimasto “So’ Caio Gregorio, er guardiano der Pretorio”, il Carosello che sponsorizzava il tessuto terital Scala d’oro Rhodiatoce. L’avesse detta, i romani si sarebbero spellati le mani. Ma era troppo serio, e i romani lo amarono lo stesso, e lo applaudirono e gli si strinsero intorno con calore in un bagno di folla, quel 29 novembre del 1989.

Un calore, che mai avevano riservato a un qualche capo di Stato. Forse, appunto, con Kennedy. Ma Kennedy sembrava il futuro, con la sua “nuova frontiera” e il ciuffo bello. Anche Gorbaciov sembrava il futuro, benché fosse calvo e avesse una meravigliosa “voglia rossa” sulla fronte. E la “nuova frontiera” russa significava forse la fine della guerra fredda e la distensione nel mondo. Questo era quello che si percepiva, guardandolo. Sul Quirinale sventolava la bandiera rossa – certo, era il protocollo delle diplomazie. Ma nemmanco con la Repubblica romana, con Mazzini e Garibaldi, la bandiera rossa era stata issata sul pennone del Quirinale. Non erano arrivati i cosacchi a abbeverarsi alle fontane di San Pietro – come dicevano le profezie di don Bosco e la campagna anticomunista del ’48 – e non era il marziano di Flaiano, ma un signore, con la sua signora Raissa che entrò subito nel cuore degli italiani, per la sua sobrietà e la sua solarità, che con la perestrojka e la glasnost stava aprendo la Russia al mondo. Portava affari Gorby, portava business per le imprese italiane: la globalizzazione iniziava con quel suo tour europeo. Tre giorni restò a Roma Gorbaciov – e era il primo appuntamento est-ovest dall’inizio della sua storia. Perché la storia non stava finendo, si stava sbloccando.

Prima l’Italia. Gorbaciov scelse il nostro paese perché – come disse – avevamo «una percezione migliore della Storia», che so, per Machiavelli e Guicciardini? Perché, come disse, si considerava anche lui “un meridionale”? O perché qui c’era “il più forte Partito comunista dell’occidente”? Berlinguer però è morto già nell’84: era stato lui a dire, nell’81, che “la spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre” era finita. Gorbaciov avrebbe sottoscritto; lui, anzi, lo stava dimostrando. Segretario del Partito comunista italiano – sarà l’ultimo segretario – è ora Achille Occhetto che ha seguito con attenzione quello che succedeva in Unione sovietica. Occhetto ha appena dichiarato “la svolta della Bolognina”, ma ci vorranno ancora quasi due anni perché il PCI diventi il PDS, il Partito democratico della sinistra. E fra due anni, Gorbaciov sarà prima agli arresti per un tentato golpe e poi travolto dal succedersi improvviso degli eventi. Sarà la sua propria “fine della storia”. Anche Occhetto finirà travolto. Ma in quel momento, a Roma, Gorbaciov sta cavalcando l’onda. È l’Unione sovietica, è l’Armata rossa, è Stalingrado, è “addavenì Baffone” che arrivano con lui – e il popolo romano, quello delle sezioni comuniste ancora attive e vegete nei quartieri, gli rende omaggio. Che l’abbiamo issata a fare allora, la bandiera rossa al Quirinale?

Ma è anche all’incredibile coraggio intellettuale e politico di quest’uomo – che mostrerà anche coraggio fisico nei momenti del putsch militare – che tutti, senza appartenenza di bandiera, rendono omaggio: Norberto Bobbio lo definirà un “grande principe riformatore”. Nessuno ha davvero la più pallida idea di quel che sta accadendo dentro la nomenklatura russa. È dalla parte giusta della storia Gorbaciov – gli altri, i suoi nemici, fra i quali il capo del KGB, finiranno nella spazzatura. In quello stesso anno del putsch, il 1991, Putin lascia i servizi segreti e inizia la sua carriera politica a San Pietroburgo, come “ufficiale di collegamento” con l’FSB. Più tardi, si unirà a Eltsin, l’uomo che ha fatto fuori Gorbaciov, e infine ne sarà, a sua volta, il successore. Noi non avevamo la più pallida idea di quello che stava accadendo dentro la nomenclatura russa. A Roma, anzi a Città del Vaticano, Gorbaciov incontrerà Wojtyla – è la prima volta per un leader sovietico – che è l’uomo al mondo che più di altri si è battuto contro l’impero russo per amore della sua cattolicissima Polonia. E è anche riuscito a incrinarlo davvero quel potere, con Lech Walesa, gli operai dei cantieri navali di Danzica e il loro Solidarnosc, fino alla legge marziale di Jaruzelski dell’81, che forse evitò che arrivassero i russi con i loro carri armati, come era accaduto in Ungheria nel ’56 e in Cecoslovacchia nel ’68. Ma ora, tutto questo è il passato. Gorbaciov ha definito “irreversibile” il processo di rottura dell’Urss e se le nazioni che facevano parte del blocco sovietico vorranno scegliere la propria autonomia – lui non interverrà. Avranno un’ora e mezza di colloquio Gorbaciov e Wojtyla. Raissa è vestita di rosso – infrangendo il protocollo che vuole le donne in Vaticano vestite di nero e con il velo. Troverà anche il tempo, Raissa, in quei tre giorni di volare a Messina e ricevere, al posto del marito, il premio Colapesce, in memoria dei marinai russi che per primi accorsero a soccorrere la popolazione della città colpita dal terremoto del 1908.

Dieci anni dopo, quando la perestrojka e la glasnost sono ormai un ricordo e un rimpianto, Gorbaciov e Raissa arriveranno insieme al festival di Sanremo del 1999 a salutare e ringraziare gli italiani che così calorosamente li avevano accolti. Eravamo rimasti nei loro cuori. Quello stesso anno, a settembre, Raissa morirà di leucemia. Erano stati insieme per quasi cinquant’anni.

Addio al padre della Perestrojka. Morto Mikhail Gorbaciov, addio all’ultimo presidente dell’Unione Sovietica: aveva 91 anni. Redazione su Il Riformista il 30 Agosto 2022 

Mikhail Gorbaciov, ultimo presidente dell’Unione Sovietica, è morto all’età di 91 anni dopo una lunga malattia. A darne notizia è stata l’agenzia di stampa russa Tass, citando l’ospedale dove era ricoverato, il Central Clinical Hospital: “Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto questa sera dopo una grave e lunga malattia”, si legge nella breve nota resa pubblica dalla Tass.

Gorbaciov sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy, a Mosca, nella tomba di famiglia accanto alla moglie Raissa.

Da considerare uno dei leader più importanti dell’ultima parte del Novecento, Gorbaciov fu l’ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, carica che ha ricoperto dal 1985 al 1991, ottenendo la carica a soli 54 anni. L’ex leader sovietivo nacque il 2 marzo 1931 a Privol’noe, località rurale nella Russia sudoccidentale

Gorbaciov ebbe il merito di porre fine alla Guerra Fredda con gli Stati Uniti senza arrivare ad un confronto diretto tra le due superpotenze nell’epoca della ‘Cortina di ferro’, ricevendo per questo nel 1990 il Nobel per la Pace, ma non riuscì ad impedire il collasso della stessa Urss.

A lui si devono anche i due tentativi di dare una ‘sterzata’ all’Unione Sovietica tramite la Perestrojka e con la Glasnost, un insieme di riforme nel tentativo di mettere fine alla corruzione e ai privilegi dell’apparato politico del Partito comunista sovietico, introducendo “trasparenza” (Glasnost) nel dibattito politico e nella società civile dell’Unione Sovietica.

Il tentativo di riorganizzazione l’economia e la struttura politica e sociale del Paese, la “ristrutturazione” dell’Unione Sovietica (il termine russo Perestrojka) portò in realtà il sistema a collassare su sé stesso, i cambiamenti imposti al sistema sovietico portarono la stessa Urss alla dissoluzione in pochi anni. Se da una parte il processo democratico all’interno del Paese avanzerà, le riforme economiche non faranno lo stesso percorso.

La sua fine politica, e paradossalmente anche quella dell’Urss, arrivarono per cause interne, con l’ostracismo di una parte del Pcus. Episodio chiave il tentativo di golpe del 1991 da parte dei comunisti più conservatori e refrattari al cambiamento imposto dalla sua guida. Gorbaciov viene sequestrato per tre giorni nella villa presidenziale in Crimea, ma il colpo di stato fallisce. 

È solo il preavviso della crisi politica che scoppierà l’8 dicembre del 1991, quando Gorbaciov firma con Ucraina e Bielorussia la nascita della Csi, la Comunità di Stati indipendenti, ponendo fine all’Urss. 

Ormai impopolare tra l’ala più conservatrice del partito ma anche tra i cittadini, l’arrivo sulla scena politica di Boris Yeltsin lo porta al passaggio di consegne, gettando la spugna nel giorno di Natale ponendo fine alla sua era.

 30 anni fa crollava l'Unione Sovietica. Natale 1991, cala per sempre la bandiera rossa: la rivoluzione è morta. Umberto Ranieri su Il Riformista il 24 Dicembre 2021 

1) Il 25 dicembre del 1991 la bandiera rossa con la falce e il martello calava dal pennone del Cremlino sostituita da quella bianco, rosso e blu della Russia. Lo Stato nato dalla rivoluzione d’Ottobre non esisteva più. La sua capacità di attrazione era venuta meno da tempo. Era fallito il tentativo di Gorbacev di ridefinire una missione che consentisse all’Urss di rientrare nelle dinamiche del mondo globale e di ridare al comunismo la capacità di emanare un credibile messaggio universalistico. Il fallimento dell’ultimo segretario generale del Pcus metteva a nudo le insormontabili contraddizioni insite nel tentativo di riformare il comunismo sovietico.

2) L’altro tentativo di riforma fu quello condotto da Chruscev. Egli comprese che occorreva fare i conti con lo stalinismo. Difficile negare gli effetti liberatori della sua denuncia brusca, clamorosa e drammatica al XX congresso del Pcus nell’indimenticabile 1956. Tuttavia la risposta del leader sovietico alla esigenza emersa all’indomani della morte di Stalin di rivedere obiettivi, strategie e ruolo dell’Urss e del comunismo internazionale fu, come scrive Silvio Pons, debole e inefficace. Nella visione del comunismo chrusceviano restava intatta la convinzione che il capitalismo andava incontro alla depressione e alla catastrofe, assente era la capacità di intendere la tenuta e il dinamismo del sistema occidentale. Di qui le illusioni su una competizione economica vincente. Fallirà il tentativo di riformare, sulla scorta delle tesi di Evsej Liberman, l’economia sovietica, introducendovi concetti quali la produttività, gli incentivi, il profitto d’impresa.

3) Chruscev uscì di scena il 14 ottobre del 1964 vittima di una congiura che avrebbe aperto la strada all’era di Leonid Breznev. Lasciava un’Urss meno dispotica di quella che aveva ereditato ma le fondamenta del regime sovietico restavano quelle forgiate da Stalin. Negli anni di Breznev sarà raggiunta la parità negli armamenti con gli Stati Uniti ma apparirà chiaro che sotto il coperchio di ferro della dittatura politica permaneva una realtà di inefficienza e degrado economico, oltreché di fame e miseria per strati sempre più estesi della popolazione. Con l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968 venne stroncato l’ultimo tentativo di riformare un regime comunista. La vicenda ungherese del ‘56 e quella della Cecoslovacchia nel ’68 segneranno la fine del tempo delle riforme “dall’alto”, promosse dalle classi dirigenti dell’est. In Polonia, dalla fine degli anni Settanta aveva preso corpo un movimento di massa che “dal basso” erodeva ormai le basi del regime.

4) Era inevitabile, si chiede Silvio Pons a conclusione del suo bel libro sul comunismo La rivoluzione globale, il crollo dell’Unione Sovietica? Fu Gorbacev a provocarlo involontariamente, aggiunge Pons: «Il suo ideale di un socialismo dal volto umano lo portò a varare riforme insostenibili per le compatibilità del sistema, che innescarono la dissoluzione». Nei trent’anni successivi alla fine dell’Urss si sono moltiplicati i lavori e le ricerche per capire le ragioni di fondo che hanno portato l’Urss al crollo e il comunismo allo scacco. La rivoluzione del 1917, scrive Aldo Schiavone, “rappresentò la quintessenza di quel trionfo “giacobino” della politica… che era l’esatto contrario delle previsioni e degli auspici di Marx. In questo senso fu di sicuro “una rivoluzione contro Il Capitale” (per riprendere una formula celebre) destinata a riproporre per tutto il secolo il mito della conquista del potere come puro atto di forza e di volontà. Accadde così che il carattere giacobino della rivoluzione cristallizzatosi in una forma di Stato si trasformò rapidamente in dispotismo. Infine il colpo di grazia al sistema fu inferto dalla straordinaria trasformazione capitalistica che dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento aveva cambiato il volto del pianeta. Travolto dal mutamento e incapace di adeguarvisi il comunismo diventerà all’improvviso una figura inattuale e obsoleta”.

5) La verità è che avevano visto bene Julij Martov e i menscevichi: quella di Lenin fu la dittatura del partito e si trasformò dopo nella dittatura del despota Stalin sulla intera società russa. L’ultima illusione dei riformatori gorbacioviani, il ritorno a Lenin, lo aveva già sostenuto Chruscev, non avrebbe impedito una crisi sempre più profonda di quel sistema. Eduard Bernstein, il socialista più denigrato della storia del Movimento Operaio, vedrà nel leninismo la conferma che le rivoluzioni finiscono col risolversi nella pura conquista del potere. Privilegiato l’aspetto militare, la costruzione di un ordine economico e sociale nuovo si esaurirà in una serie di atti volontaristici, in “tentativi capricciosi…brancolamenti dilettanteschi” che produrranno danni irreparabili.

6) Trent’anni fa, Gorbacev uscì dalla scena come un uomo sconfitto e tuttavia, senza la sua iniziativa, la fine dell’Urss difficilmente avrebbe presentato un carattere pacifico. Quel sistema avrebbe potuto esasperare il suo aspetto concentrazionario, chiudersi senza varchi come una fortezza assediata, tentare una avventura militare. Soluzioni disperate che avrebbero imposto sacrifici sconvolgenti. Imboccare la via cinese avrebbe significato una tragedia di proporzioni incalcolabili per l’Europa e per l’Urss. Gorbacev scongiurò un simile esito. Rinunciò al profilo imperiale dell’Urss lasciato in eredità da Stalin, liquidò la concezione del potere che aveva portato alle tragedie di Berlino Est nel 1953, di Budapest nel 1956, di Praga nel 1968, di Varsavia nel 1981. Il putsch dell’agosto 1991 a Mosca fu un penoso colpo di coda di un regime ormai esausto. Gorbacev uscì dalla scena come un uomo sconfitto. La sua iniziativa, scrive Silvio Pons, «se non aveva cambiato il sistema né rinnovato il comunismo, ciò nonostante, aveva privato di senso una sua difesa ad oltranza».

7) Con la fine del comunismo implodeva un sistema totalitario. Eppure le immagini di quell’ammaina bandiera senza onore nell’indifferenza dei moscoviti suscitava una profonda tristezza al pensiero dei tanti che avevano guardato al comunismo come una utopia liberatrice. Il comunismo storico è fallito scriverà Norberto Bobbio ma i problemi restano. La via maestra per affrontarli è in un ancoraggio ideale e politico alle imprescindibili lezioni della democrazia liberale e al pensiero socialista democratico. Consapevoli come scriveva Isaiah Berlin che nessuna soluzione perfetta è possibile nelle cose umane e ogni serio tentativo di metterla in atto è destinato con ogni probabilità a produrre sofferenza, delusione e fallimento. Umberto Ranieri

La testimonianza. Dal muro di Berlino alla Glasnost: vi racconto Gorbaciov, il leader del secolo breve. Alessandro Iovino su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Oggi gli uomini liberi sparsi in ogni parte del mondo piangono la scomparsa di un grande riformatore, un uomo che si è speso per la pace e la libertà dei popoli. Il Novecento fu definito da Henric J. Hobsbawn «il secolo breve». E se a questo secolo, pur breve, volessimo dare un volto, allora quel volto non potrebbe che essere quello di Mikail Sergeevich Gorbačëv. Non ho dubbi. Fu l’ultimo segretario del PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, dal 1985 al 1991 e fu dunque l’ultimo Presidente dell’URSS, l’artefice della fine della Guerra Fredda che ebbe un ruolo determinante per la caduta del Muro di Berlino. Poi anche Premio Nobel per la Pace nel 1991.

Da allora, una vera icona mondiale. Un gigante del XX secolo. Quando ci incontrammo nella sede della sua fondazione a Mosca – grazie ai buoni uffici del suo consigliere per la comunicazione, il prof. Vladimr Polyakov – il Presidente si mostrò premuroso, disponibile e molto interessato all’Italia, Paese che insieme al Giappone ha amato particolarmente. Ci fu il tempo anche per qualche ricordo: l’abbraccio con Benigni, l’incontro con Sofia Loren, l’ammirazione per Pavarotti e Bocelli, le interviste con Enzo Biagi e Maurizio Costanzo e, ovviamente, la grande passione per la cucina italiana. Il momento per me sicuramente più emozionante e significativo fu quando gli consegnai una Bibbia in russo e parlammo di fede. Alla fine degli anni ’80 l’ex Presidente sovietico era uno degli uomini più potenti al mondo. La sua sembrava un’ascesa inarrestabile, fino al golpe di Stato e alla caduta di quel regime che si era proposto di riformare, invano.

Gli anni che seguirono non furono sempre facili: sia per la scomparsa dell’amata moglie Raissa e sia per la disaffezione di molti russi nei suoi confronti. Contestualmente crebbe, però, la sua popolarità in Occidente fino alla realizzazione di alcuni spot per delle multinazionali che fecero molto scalpore. Si narra che in un colloquio con Ronald Reagan, ancora prima che Gorbačëv divenne segretario generale del PCUS, il primo ministro Margaret Thatcher gli disse: «…is an unusual Russian», un russo anomalo. Aveva ragione. Non solo anomalo, singolare, ma anche un uomo dalle mille vite. Nel 2021, in piena pandemia, l’ex leader sovietico festeggiò i suoi 90 anni e da lui ricevetti l’onore di poter coordinare i contributi editoriali ad una pubblicazione internazionale sulla sua illustre figura di alcuni illustri italiani che lo avevano conosciuto personalmente. Il libro fu poi curato e pubblicato in lingua russa dalla Fondazione a lui intestata.

Quando mi spedirono le copie, fui sorpreso nel vedere che nella sezione degli amici del Presidente fu scelta una mia foto, insieme a poche altre. Uno degli onori più grandi della mia vita. Il giorno del suo compleanno in tanti avremmo dovuto festeggiarlo a Mosca. Ma le sue condizioni di salute e soprattutto la pandemia non hanno consentito nessuna cerimonia pubblica. Però mi fecero una richiesta specifica: il presidente era un grande fan di Andrea Bocelli che prontamente contattai e da Miami – dove era impegnato per un concerto – mandò un video in cui intonò un Happy Birthday per il Presidente. Da Mosca mi dissero che fu il regalo di compleanno più bello che aveva ricevuto e che si commosse. Negli ultimi mesi le condizioni di salute del Presidente erano peggiorate.

Era in ospedale e venivo informato continuamente sul suo stato di salute dal suo principale collaboratore, il prof. Polyakov. Il Presidente era molto angosciato anche per questa guerra. Poi ieri la notizia che nessuno di noi avrebbe voluto ricevere. Ho subito scritto a Polyakov che mi confermato quanto riportavano quotidiani di mezzo mondo. In tanti abbiamo amato Gorby e quello che lui ha rappresentato. Le sue azioni e le sue parole rimarranno scolpite nel nostro cuore per sempre: «Sono un sostenitore della libertà di scelta, di religione, di parola. Sempre e comunque libertà. Piuttosto sparatemi, ma alla libertà non volto le spalle». Addio, signor Presidente. Alessandro Iovino

Meriti e oblio: tanti applausi ma pochi aiuti. Gorbaciov, ritratto di un leader dimenticato: osannato dall’Occidente e odiato dai russi, il tempo con lui non è stato galantuomo. David Romoli su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Sorte ingrata quella di Michail Gorbacev, ex uomo più potente del mondo a pari merito con il presidente degli Usa, ex segretario generale del Pcus, dunque padrone della sterminata Unione sovietica, premio Nobel per la pace mai tanto meritato. L’Occidente, che lo aveva molto applaudito e poco aiutato all’epoca del suo tentativo di riformare un sistema che probabilmente riformabile non era, lo aveva dimenticato. Un conferenziere ben pagato, il presidente di una Fondazione racchiusa in spazi sempre più angusti a Mosca, da onorare, certo, ma senza bisogno di ascoltarlo: come quando nel 1999, con gli aerei Nato che bombardavano Belgrado, ammoniva inutilmente la Nato a non scippare le prerogative dell’Onu in virtù solo della forza militare. Appena dieci anni prima aveva messo fine alla guerra fredda ma era già un sopravvissuto, estraneo al nuovo mondo.

In Russia gli entusiasmi iniziali avevano ceduto il passo a un discredito universalmente diffuso già nel corso del suo breve regno: poco più di sei anni, dall’11 marzo 1985, quando grazie a un accordo con i geronti della vecchia guardia breneviana diventò segretario generale del partito, all’8 dicembre 1991, quando si dimise da presidente dell’Urss, carica che aveva sommato a quella di segretario nel 1988 togliendola al dinosauro Andrej Gromyko. Nel bellissimo e monumentale Tempo di seconda mano, della giornalista premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievic, testo definitivo per capire la fine dell’Urss, il solo tratto comune nelle decine di testimonianze è il disprezzo per l’uomo che in Occidente chiamavamo amichevolmente Gorby e applaudivamo senza capire quanto poco fosse invece amato nel suo Paese. Nel ricordo dei decenni successivi le quotazioni dell’ultimo leader dell’Urss sono scese ulteriormente, nessuna riabilitazione per lui in Patria: per i russi è ancora l’uomo che ha smantellato la potente e orgogliosa Unione sovietica.

Per i popoli che si affrancarono e si resero indipendenti allora, invece, Gorbaciov è l’Urss, il giogo sovietico, il presidente che, dopo aver permesso e quasi incentivato la nascita dei nazionalismi, tentò di sedarli e reprimerli ordinando nel gennaio 1991 all’Armata Rossa di occupare il Parlamento della Lituania a Vilnius e di sparare sulla folla. Un disastro politico che Gorbacev rese anche peggiore negando contro ogni evidenza di essere stato al corrente dell’operazione militare contro la Lituania. Il tempo per ora non è stato galantuomo con Gorby. Ha cancellato il ricordo degli accordi che portarono nel 1987 alla firma del Trattato sovietico-americano Inf sullo smantellamento dei missili nucleari a medio raggio in Europa. Fu l’inizio della fine della guerra fredda, tanto che proprio il segretario del Partito comunista sovietico arrivò a pronunciare parole allora inimmaginabili come quelle sulla Nato non più considerata un nemico.

Il tempo ha fatto dimenticare la vitalità, l’energia, le speranze della breve primavera russa, della quale tuttavia proprio il libro di Svetlana Aleksievic è testimonianza e monumento perché tutti, pur biasimando il leader, ricordano con struggente rimpianto quelle ore di interminabili discussioni, ogni sera fino a notte tarda e sempre nelle cucine, dove i russi ritenevano di potersi esprimere con minor rischio di essere ascoltati e registrati. E ancora i decenni hanno annebbiato nei Paesi dell’ex Urss la percezione di quanto la loro indipendenza debba alla rivoluzione di Gorbacev, alla perestrojka e alla glasnost, che certo non miravano alla dissoluzione dell’Urss ma che posero lo stesso le basi necessarie e imprescindibili per quella indipendenza.

Forse è vero che Michail Gorbacev non riuscì ad andare oltre la metà del guado. È probabile che colga nel segno Georgj Shaknazarov, suo strettissimo collaboratore, quando dice che in lui “coabitavano due persone: un riformatore radicale e un funzionario di partito”. Ma è anche vero che quasi sempre il riformatore ebbe la meglio sul funzionario e che difficilmente avrebbero potuto evitare qualche ambiguità. In fondo era arrivato al potere attraverso un tipico percorso tutto interno alla nomenklatura, ai suoi riti e alle sue logiche. Lo aveva indicato come suo delfino Andropov, ex capo del Kgb succeduto a sorpresa a Breznev come segretario del partito nel 1982, come Gorbaciov proveniente dalla provincia di Stavropol. Andropov era allo stesso tempo un duro della vecchia guardia e un riformatore che, per imporre le riforme, era pronto a ricorrere ai metodi spicci ereditati dall’età di Stalin. Durò pochissimo. Alla sua morte, nell’84, gli succedette, invece del delfino Gorbaciov, il conservatore assoluto Cernenko che a sua volta sopravvisse al conferimento dell’alta carica appena un anno. Per spuntarla, dopo il terzo decesso di geronte in meno di tre anni, Gorbaciov dovette stringere un’alleanza con il più inossidabile tra i campioni della nomenklatura, Andrey Gromiko, ministro degli Esteri da 28 anni.

Eppure fu subito chiaro che con il nuovo segretario le cose erano cambiate. Gorbaciov era giovane, molto energico, in ottima salute, e già questo nell’Unione sovietica degli anni 80, dove i dirigenti erano tutti più di là che di qua, faceva scalpore, tanto che praticamente tutti i leader occidentali che lo incontrarono ai funerali di Cernenko non mancarono di notare e segnalare. Arrivava in ufficio alle 9, lavorava a testa bassa 12 ore al giorno di solito senza neppure fermarsi per la pausa pranzo. Aveva una moglie, Raissa, con la quale era felicemente sposato da 22 anni e certo non era il primo. Ma dai tempi di Lenin era la prima volta che una first lady compariva in pubblico, non restava nell’ombra ed era anche bella ed elegante. Ed era anche, incredibile ma vero, la principale consigliera del marito. Cose da Casa Bianca o peggio!

Poi Gorbaciov, per gli standard sovietici dell’epoca, era un cosmopolita. Aveva passato la cortina di ferro più spesso di qualunque altro dirigente sovietico a eccezione di Gromyko. Era stato in Germania, Belgio, Canada. Una volta si era anche eclissato per girare la Francia in macchina con Raissa, roba che nell’Urss neppure Easy Rider. Era stato in Italia ed era davvero interessato alla svolta del Pci. Gorbaciov era nuovo e in quanto tale suscitò nel suo Paese attese e speranze che né la situazione né probabilmente l’acume politico dell’uomo permettevano di realizzare davvero. Come politico Gorbaciov di errori ne commise parecchi: esordì con una campagna proibizionista dura contro il consumo di vodka, già avviata con metodi Kgb da Andropov, che mise al tappeto un’economia già agonizzante e gli inimicò subito la popolazione. Provò a forzare sulla produzione con metodi quasi bellici e fallì miseramente l’obiettivo.

Quando scelse di aprire a spiragli di iniziativa privata lo fece riproponendo la Nep degli anni 20, come se nel frattempo non fossero passati sei decenni e passa e fu un altro scacco. Forse la sconfitta della sua scommessa era già scritta quando scelse di giocarla, ma di certo merita che sulla sua lapide campeggi la scritta che, intervistato dal regista Werner Herzog, disse che gli sarebbe piaciuta più di ogni altra: “We Tried”. Ci abbiamo provato. David Romoli

La morte dell'ex leader Urss. “Il mio incontro con Gorbaciov: da Craxi e Andreotti all’amicizia con Berlinguer. La sua perestroika sfruttata dall’Occidente”, intervista a Gianni Cervetti. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Gianni Cervetti, una storia nel Pci e del Pci, l’Unione Sovietica l’ha conosciuta e frequentata come pochissimi altri in Italia. Nel suo libro Il compagno del secolo scorso, ha raccontato gli anni della sua formazione, assieme alla moglie Franchina, compagna di una vita recentemente scomparsa, di studente nella Russia di Chruščëv. “Cervetti – scrive Siegmund Ginzberg in un bell’articolo su Il Foglio – è uno che di Unione Sovietica e di Russia ne sa qualcosa… È l’uomo che Enrico Berlinguer aveva incaricato di recidere ogni cordone ombelicale con l’Urss. Di mettere fine agli imbarazzanti finanziamenti, in qualsiasi forma. L’ha raccontato negli anni Novanta senza alcuna reticenza, per filo e per segno nel suo L’oro di Mosca”. Sul filo della memoria, che l’età avanzata non ha minimamente scalfito, intrecciando analisi e ricordi personali, Cervetti racconta a Il Riformista il “suo” Michail Sergeevič Gorbačëv

Cosa ha rappresentato Gorbačëv per il mondo, per l’Unione Sovietica e per il Partito comunista italiano?

Per il mondo ha rappresentato l’uomo della pace. Per l’Unione Sovietica, di conseguenza, ha rappresentato un innovatore delle vecchie politiche e anche delle strutture. Per il Pci è stato un uomo dell’apertura e della comprensione, innanzitutto verso le politiche berlingueriane.

Gorbačëv l’innovatore. Il leader che pensava di poter riformare il socialismo reale. Era un illuso?

No, è stato un combattente. Un combattente che si dovette scontrare con resistenze potenti e radicate, in primis quelle interne ma anche di carattere internazionale. La sua perestroika fu letta in Occidente come un segno di debolezza, come l’ammissione di una crisi dell’impero sovietico su cui bisognava agire per vincere definitivamente la Guerra fredda. Fu questo l’approccio di Reagan e della Thatcher. Continuo a credere, con gli occhi dell’oggi, che quell’approccio punitivo ha contribuito a sedimentare quella volontà di rivalsa antioccidentale da parte della Russia su cui continua a far leva Putin per mantenere un consenso interno.

Scavando nel tempo e dal ricco cassetto dei suoi ricordi personali. Quali cose le sono rimaste più impresse nei suoi tanti incontri con Gorbačëv?

I ricordi sono tanti, e tutti indelebili nella mia mente. Ricordo l’incontro che ebbi con lui nel maggio del 1982 quando era stato appena eletto Segretario generale del Pcus. Qualcuno ha detto che avevamo frequentato assieme la stessa Università. Ma questo non è del tutto esatto, perché l’anno in cui lui terminò l’università di Mosca io la cominciai. Eravamo nello stesso edificio. La prima volta che lo incontrai fu nel 1972 alla Festa de l’Unità di Torino. Lui era stato invitato, assieme a Raisa Gorbačëva, la sua splendida moglie e ad un altro gruppo di segretari, dal Pci per una vacanza in Italia. Lui a quel tempo era Segretario della sua regione, quella di Stavropol’, dove aveva mosso i primi passi da uomo politico. Era stato in Sicilia, a Terrasini. Prima di ripartire per Mosca, si fermò a Torino alla Festa de l’Unità. Io andai lì per incontrare Berlinguer. Incontrai Enrico e anche Gorbačëv. Si dice che la prima volta non la si scorda mai. Beh, in quel caso fu così. Parlammo per qualche minuto, e non credo di esagerare nel dire che si stabilì un feeling di simpatia umana tra di noi. In seguito lo incontrai a Mosca appena dopo la sua elezione al vertice del Pcus.

Perché si recò a Mosca?

Io ero allora presidente del Gruppo parlamentare multinazionale in Europa. Andai a Mosca perché avevo avuto sentore che qualcosa stava cambiando. Una mattina di maggio, era sabato, ricevetti in albergo una telefonata dal suo segretario, Aleksandrov-Agentov, il quale mi disse “se sei d’accordo Gorbačëv vorrebbe incontrarti. Ti prega di venire qui alle 11”. Ovviamente io gli dissi di sì. Ero a Mosca con il presidente del gruppo comunista al Parlamento europeo, Angelo Oliva. Il giorno prima, Gorbačëv aveva fatto un discorso nell’allora Leningrado, in cui aveva usato, per la prima volta, la parola perestroika. E io leggendo i giornali di quella mattina trovai questa parola. A un certo punto del nostro incontro, gli chiesi cosa volesse esattamente dire con quel termine.

E lui?

Con parole abbondanti cercò di spiegarmelo. E poi mi disse che una settimana dopo avrebbe incontrato Craxi e Andreotti che andavano a Mosca in quanto l’Italia era presidente di turno dell’allora Comunità Europea. Mi chiese cosa avrebbe dovuto dire loro. Io che fino a quel momento gli avevo raccontato che noi eravamo autonomi etc., ebbi una esitazione nel rispondergli. C’è una parola russa, edinizza, che significa unione, unità. Io gli dissi che se Craxi, a quel tempo presidente del Consiglio, e Andreotti, ministro degli Esteri, si fossero presentati animati con spirito di edinizza, sarebbe stato importante che l’Urss avesse risposto con lo stesso spirito costruttivo. Lui convenne in questo. Mi ricordo che si rivolse al suo segretario, che partecipava al nostro colloquio, Aleksandrov-Agentov, che era un uomo di grande cultura, e conosceva parecchie lingue, ma era anche una persona molto rigida. Gorbačëv gli disse: “annota, annota questa frase”. Frase che poi utilizzò a Parigi, qualche settimana dopo, quando tenne un importante discorso all’Assemblea Nazionale francese. E a Craxi e Andreotti disse la stessa cosa. Poi io tornai in Italia dove la cosa non fu accolta tanto bene. Ricordo che mi telefonò Altiero Spinelli che mi disse ma cosa sei andato a fare a Mosca, quelli non cambieranno mai. Io gli risposi che mi sembrava di aver sentito toni diversi da quelli di prima. E lui tagliò corto dicendomi, pressappoco, che ero un ingenuo. E invece è successo quel che è successo.

Lei che è stato testimone attivo di un’epoca, come racconterebbe i rapporti tra Berlinguer e Gorbačëv?

Furono rapporti veri, tra persone che si stimavano reciprocamente e che avevano maturato, ognuno con il proprio carattere, sentimenti di amicizia personale, di simpatia umana. Stima e amicizia. Tanto che Gorbačëv volle partecipare ai funerali di Berlinguer. Volle venire di persona, cosa che non era mai successa per nessun Segretario. Ricordo quel giorno e ricordo la commozione sincera, il dolore vero, personale, di Gorbačëv.

Sempre sul filo dei ricordi personali. Lei in precedenza ha fatto riferimento al suo primo incontro con il futuro Segretario generale del Pcus, nel 1972 alla Festa de l’Unità di Torino. Ad accompagnare Gorbačëv c’era la moglie Raisa, compagna di una vita. Cosa le è rimasto impresso di quel rapporto e quanto Raisa ha pesato nella vita politica e di statista di Michail Sergeevič?

Ha pesato molto, fin dagli anni della loro gioventù. Erano molto legati. Quando lei parlava, lui la seguiva sempre con grande attenzione. Una volta, proprio qui a Milano, in un’assemblea molto partecipata e animata, alla quale partecipavano Gorbačëv e Raisa, le domande rivolte a Raisa erano così a raffica da impedirle di completare il suo discorso. A un certo punto lui disse: fatele finire quel che sta dicendo. Mi colpì lo sguardo e il sorriso tra i due. Il loro era un rapporto di reciproca protezione, se posso dire di complicità sentimentale e intellettuale. Un rapporto durato una vita. Per Gorbačëv la scomparsa di Raisa fu un colpo tremendo, dal quale non si riprese mai completamente.

In una nostra precedente conversazione, lei affermò che nella storia della Russia, ancor prima che s’instaurasse l’Unione Sovietica, ci sono tre periodi nei quali le cose potevano svilupparsi in senso democratico. E uno di questi fu nella breve stagione di Gorbačëv. Il fatto che quel tentativo non andò a buon esito, significa che il socialismo reale è irriformabile?

Alla luce degli avvenimenti che si sono susseguiti, si deve rispondere di sì. Tuttavia io credo che in quel fallimento c’è anche la responsabilità degli uomini che governavano in Occidente, negli Stati Uniti come in Europa. C’è stata una vista corta.

Cosa è rimasto, se è rimasto qualcosa, della Russia immaginata, se non realizzata, da Gorbačëv, nella Russia di Putin?

Nella Russia attuale di Putin non è rimasto nulla della Russia immaginata da Gorbačëv. Quella di Putin è una Russia che guarda al futuro con gli occhi di un passato che ha le sue radici storiche e identitarie nella Russia pre-sovietica, nella Russia imperiale, zarista. Certamente il suo riferimento non è mai stato Gorbačëv, semmai Pietro il Grande.

Gorbačëv può essere considerato un “Grande della storia”?

Io penso di sì. Lui è stato alla testa di un tentativo di cambiare i rapporti nel mondo e di cambiare la posizione del suo Paese. Lui era sinceramente convinto che potesse avvenire una rivoluzione democratica. Non c’è riuscito, ma ha combattuto per questo. La battaglia di una vita. Una vita ben spesa. 

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Come non vi invidio. L’estate dei miei nove anni e le canzoni stupende di quando nessuno sapeva chi fosse Gorbaciov. Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 Settembre 2022.

Anni prima che l’ex leader sovietico andasse a Sanremo, gli italiani andavano in piazza ad ascoltare i cantanti di Vota la voce (quando non era il Festivalbar) e all’arena estiva per rivedere i film già usciti. Poi è arrivato l’autunno ed è morto Breznev

E se invece di parlare di Gorbaciov al Sanremo del 1999 (vinto dall’unica canzone brutta di Anna Oxa), se invece di parlare di Gorbaciov eletto segretario del Pcus tre mesi prima che Sting lamentasse che in America e in Europa c’era un crescente senso di isteria, se invece andassi fuori tema come facevo sempre a scuola e parlassi dell’estate di quarant’anni fa?

L’estate dei miei nove anni nessuno sapeva chi fosse Gorbaciov. Il segretario del Pcus era Breznev, quello del Pci era Berlinguer, il problema della guerra fredda non me lo sarei posto per altri tre anni, quando Sting incise Russians e passammo l’estate a canticchiare che speravamo anche i russi volessero bene ai loro figli.

L’estate dei miei nove anni avevo una tuta rosa, di Fiorucci, con gli angeli sulla felpa. Le estati italiane non erano ancora climaticamente simili a quelle di Bangkok: si poteva persino indossare la tuta, di sera.

L’estate dei miei nove anni nelle arene si andava a vedere Innamorato pazzo, che l’inverno aveva incassato uno sfracello, e non ci eravamo ancora stancati di rivederlo, e – siccome lo streaming non c’era neppure nelle idee più spericolate degli autori di fantascienza – se un film ti piaceva lo vedevi in prima visione, e poi in seconda, e poi al parrocchiale, e poi all’arena estiva.

(In Innamorato pazzo Adriano Celentano era un autista d’autobus che rapiva Ornella Muti per non lasciarle sposare un altro tizio. Oggi verrebbe accusato d’essere un apologo dello stalking).

L’estate dei miei nove anni alla sinistra non faceva schifo chi si divertiva, quella dinamica così favolosamente illustrata da Dov’è Mario?, e quindi, benché Bologna fosse governata dal Pci, la me novenne e la sua tuta di Fiorucci poterono andare in piazza Maggiore a saltare mentre Miguel Bosé cantava Bravi ragazzi. In playback, naturalmente, perché neanche le spalline imbottite sono entelechia degli anni Ottanta quanto il playback.

La manifestazione alla quale la me novenne si strappava i capelli per Miguel Bosé (le signore della mia età non hanno avuto neanche un sex symbol eterosessuale: che impressione volete che ci faccia l’identità di genere), quel raduno di piazza lì si chiamava Vota la voce.

Serviva a chi non era stato così fortunato da essere vicino a qualche tappa del Festivalbar. Certo, al Festivalbar s’impegnavano di più, e Loredana Berté cantava vestita da sposa, ma comunque veniva anche da noi a fare Non sono una signora, e non c’è davvero molto di più che una bambina in tuta rosa possa chiedere alla vita che essere contemporanea d’un disco stupendissimo del quale non capisce una parola: ci avrei messo trent’anni a rendermi conto che quella prima della vita balera era una carretera, mica una carne intera.

Era un’opportunità, mica un limite: la tensione verso quel che non è per te è l’unica cosa che ti faccia crescere, mica quest’epoca infelicitata dalla Pixar in cui qualunque produzione cinematografica o musicale o sartoriale è a misura di minorenne, e sono gli adulti ad adattarsi.

Nei Festivalbar e nei Vota la voce dell’estate dei miei nove anni c’era roba che ancora oggi se la fanno nella serata delle cover di Sanremo saltiamo tutti sui divani, e io mica lo so se questa estate dei miei quarantanove anni stia producendo altrettante indimenticabilità. Nelle piazze dove le bambine in Fiorucci si strappavano i capelli c’era Claudio Baglioni che cantava Avrai e Ron che cantava Anima, c’erano Al Bano e Romina che facevano Felicità e Marco Ferradini che faceva Teorema, e la Domenica bestiale di Concato, e Un’estate al mare di Giuni Russo: era l’estate migliore per avere nove anni.

Chissà se oggi Vota la voce e il Festivalbar sarebbero quella macchia di Rorschach che è il JovaBeachParty: una cosa che la guardi e se mi dici cosa ci vedi dentro io ti dico se sei uno con cui valga la pena fare conversazione. Chissà se il playback consuma più elettricità che cantare dal vivo e quindi ci sarebbero polemiche su quello, o su cos’altro. Beh, su Teorema, naturalmente: «prendi una donna, trattala male» varrebbe qualche decina di editoriali indignati.

Chissà se oggi un Lucio Dalla regalerebbe a un Ron un capolavoro come Anima o, come l’aristocratica toscana di Sabina Guzzanti, si baloccherebbe un po’ con l’idea d’essere generoso, ma poi «si tenne». Chissà se oggi una novenne potrebbe appassionarsi al disco in cui c’era Non sono una signora, disco la cui più bella canzone a un certo punto diceva «giusto ai piedi del letto, un giornale: la questione d’Algeria», che la me novenne sapeva a stento che da quelle parti c’era un Valtur, perché in casa giravano dei dépliant. Chissà quanti autori di fantascienza ci vogliono, oggi, per concepire un disco in cui non solo c’è Non sono una signora, ma non è neppure la canzone più bella del disco. Chissà quante carretere ci stiamo perdendo, coi parolieri analfabeti che hanno sostituito Fossati, e quanti Festivalbar in abito da sposa stiamo delegando agli sponsor, con la dittatura degli stylist.

Dicono che il più preoccupante segno di vecchiaia sia sospirare «ah, ai miei tempi». Ma a me al massimo viene da sospirare «poveri voi, come non v’invidio».

L’estate dei miei nove anni stava tra i due Sanremo in cui Vasco Rossi andò a dimostrare che Sanremo è roba per rockstar solo se già affermate. (L’inverno dei miei ventisei anni a Sanremo sarebbe arrivato Gorbaciov, a ribadire il concetto). Poi arrivò l’autunno, morì Breznev, al cinema uscì E.T., e una lavatrice sbagliata mi rovinò la tuta di Fiorucci.

"Uomini liberi in lutto. Se ne va un campione della democrazia". Il ricordo di Silvio Berlusconi per la scomparsa di Mikhail Gorbaciov. Numerosi gli incontri tra l'ultimo leader Urss e il Cav per avvicinare la Russia all'Occidente. Silvio Berlusconi il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Tutti gli uomini liberi stasera sono in lutto, se n'è andato un campione della democrazia. Mikhail Gorbaciov è un uomo che ha cambiato la storia del 20° secolo. Pur essendo cresciuto all'interno dell'apparato comunista ed avendone raggiunto i vertici, ha avuto la lucidità, l'onestà intellettuale e il coraggio politico di porre fine al sistema totalitario sovietico e di scegliere la strada della democrazia e del rispetto della sovranità dei popoli. 

Si è illuso che il sistema comunista fosse riformabile dall'interno, ma ha saputo accettare la volontà dei popoli che ha portato al crollo all'Unione Sovietica. Grazie a lui e a Ronald Reagan si è conclusa la divisione del mondo in blocchi, e si è avviato un processo di avvicinamento della Russia non più comunista all'Occidente. Un processo al quale anch'io ho collaborato da presidente del Consiglio italiano e che si è drammaticamente interrotto negli ultimi anni. 

Anche dopo aver lasciato il potere Gorbaciov è rimasto un osservatore lucido e autorevole della politica mondiale. Ricordo con lui numerosi incontri, occasioni per scambi di vedute di altissimo livello e per me di straordinario interesse. La sua lungimiranza e la sua serenità di giudizio ci mancheranno soprattutto in questo difficile momento della politica internazionale. 

La politica unita: "Ha fatto la Storia". Le reazioni da Salvini a Gualtieri. Redazione il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Da destra a sinistra, la morte di Mikhail Gorbaciov non lascia indifferente la politica italiana, alle prese con la campagna elettorale. Non solo Silvio Berlusconi. Con lui anche gli altri leader del centrodestra, compreso il capo della Lega, Matteo Salvini commentano: «Ci lascia un uomo che ha lasciato un segno importante nel secolo scorso. Buon viaggio, Gorbaciov». Per Mario Lupi di Noi Moderati: «Mikhail Gorbaciov è ora nella storia della libertà dei popoli. La sua politica di Glasnost e Perestrojka, trasparenza e cambiamento, ha liberato dal giogo comunista centinaia di milioni di persone. Cresciuto nel solco dell'ideologia comunista è stato un uomo libero e coraggioso, capace di smantellare, con il suo amico Reagan, la cortina di ferro, che entra di diritto nella storia contemporanea. Il mondo libero gli deve molto, anche l'Italia. Il suo riformismo resta un esempio per tutti».

Commenta anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri: «Con #Gorbaciov se ne va un grande protagonista del '900, leader illuminato e coraggioso che ha saputo dialogare con l'Occidente, mettendo al centro la pace e contribuendo alla fine della guerra fredda. Un uomo che ha saputo coltivare la speranza». Per Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia (FI) e presidente della Commissione esteri a Palazzo Madama: «Gorbaciov è stata una delle personalità più significative del secondo Novecento, l'uomo che, con il suo tentativo riformatore, ha portato a maturazione il processo dissolutivo dell'universo sovietico. Probabilmente, egli avrebbe immaginato una Russia saldamente integrata nelle dinamiche del contesto globale, in rapporto positivo e costruttivo con l'Occidente e con l'Europa, e in chiave diversa dall'approccio regressivo che segna questo tempo storico». Caterina Bini, sottosegretaria di Stato per i rapporti con il Parlamento e senatrice Pd, dà l'addio al «padre della perestroika, ultimo leader dell'Urss, artefice, con la sua politica, della fine della guerra fredda che fu, anche per questo, insignito nel 1990 del Nobel per la pace».

Johnson: "Gorbaciov un esempio, diverso da Putin". ANSA il 31 Agosto 2022.

Il premier britannico Boris Johnson ha reso omaggio a Mikhail Gorbaciov - ultimo leader sovietico morto ieri in Russia all'età di 91 anni - mettendone in contrasto la figura con quella dell'attuale presidente russo Vladimir Putin, sullo sfondo della guerra in corso.

"Sono rattristato - ha scritto Johnson su Twitter - di apprendere della sua morte. Ho sempre ammirato il coraggio e l'integrità con cui portò la Guerra fredda a una conclusione pacifica. In un tempo segnato dall'aggressione di Putin all'Ucraina, il suo impegno senza risparmio per aprire la società sovietica resta un esempio per tutti noi".

"Un uomo di Stato unico, che ha cambiato il corso della storia": così il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha ricordato invece Gorbaciov. (ANSA).

Marco Rizzo festeggia la morte di Gorbaciov: «Era dal 1991 che aspettavo di brindare». Redazione online su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Il segretario generale del Partito Comunista ha commentato la notizia con un post su Twitter. 

«Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo…» è con queste parole che l’ex deputato Marco Rizzo, segretario generale del Partito comunista, ha accolto la notizia della morte di Mikhail Gorbaciov a 91 anni.

Rizzo, tra i fondatori di Rifondazione Comunista e Italia sovrana e popolare, segretario generale del Partito Comunista dal 2009 , ricorda il giorno in cui, da presidente dell’Unione sovietica, Gorbaciov segnò la fine dell’Urss . La dissoluzione fu resa definitiva nella notte tra il 31 dicembre 1991 e il primo gennaio 1992.

Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo?

Gorbaciov, padre della perestrojka e Premio Nobel per la Pace è morto nella notte del 30 agosto. Da anni ormai viveva lontano dai riflettori a causa di problemi di salute. Fu lui che, da ultimo segretario generale del Partito comunista sovietica, pose fine alla Guerra fredda con gli Stati Uniti, senza evitare però il collasso dell’Urss.

Brindando alla morte. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

Marco Rizzo è uomo d’onore (oltre che tifosissimo del Toro, quindi di animo nobile per definizione), però questa pagliacciata della «provocazione dadaista» su Gorbaciov, come la chiama lui, se la poteva risparmiare. Nel dibattito pubblico ridotto a un ruttodromo e solcato da odiatori e infelici di ogni risma, resisteva un ultimo tabù: il silenzio davanti alla scomparsa di qualcuno che ti sta sonoramente sulle scatole. Rizzo è il primo personaggio pubblico ad avere violato questa clausola minima di umanità. Nessuno pretendeva ipocrite beatificazioni a tempo scaduto, solo un dignitoso arrestarsi di fronte al mistero della morte. Rizzo poteva persino insinuare a cadavere ancora caldo che Gorbaciov fosse stato un agente della Cia o un utile idiota al soldo delle multinazionali, ma nel mondo in cui mi piacerebbe vivere non avrebbe mai detto quello che invece ha detto per pura smania di visibilità, e cioè di avere tenuto idealmente in fresco una bottiglia di bollicine per oltre trent’anni, in attesa del luttuoso annuncio che gli avrebbe dato l’occasione di stapparla. Anche perché Rizzo non festeggerebbe mai la morte di un militante di estrema destra (con alcuni di loro si è appena alleato alle elezioni). Come spesso capita ai massimalisti di sinistra, da Robespierre in giù, il suo odio politico lo riserva più volentieri a quelli della sua stessa parte che, per il fatto stesso di preferire le riforme graduali alla rivoluzione permanente, non considera avversari ma traditori. 

Marco Rizzo brinda per la morte di Mikhail Gorbaciov su Twitter: "Dal '91 aspettavo questo momento". Migliaia le reazioni. La Repubblica il 31 Agosto 2022.

"Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettavo di stappare la migliore bottiglia che avevo". É così che Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista ha commentato la notizia della morte dell'ex presidente dell'Urss Mikhail Gorbaciov che mise fine alla guerra fredda. Lo fa con un post su Twitter, sommerso di reazioni.

Rizzo cita la data che segnò la fine dell'Unione Sovietica e pubblica la foto di un tappo che salta da una bottiglia a festeggiare l'occasione. Oltre 2mila i commenti arrivati in poche ore, molti dei quali per criticare l'uscita di Rizzo candidato alle elezioni con la sua lista “Italia sovrana e popolare”.

Marco Rizzo: "La bottiglia stappata per Gorbaciov? Non ce l'ho, ho voluto solo fare baccano". Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Il segretario del Partito comunista: "Non mi vergogno del tweet, queste uscite servono per vedere le reazioni"

Il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, oggi impegnato nel cartello elettorale Italia sovrana e popolare, l'ha rifatta grossa con l'ormai celebre foto dello champagne stappato per festeggiare la morte di Michail Gorbaciov.

Ma la bottiglia alla fine ce l'aveva per davvero?

"Ma noooo, era una voluta provocazione!".

Per dire?

"Gorbaciov è un'icona della globalizzazione, del cambiamento di un'epoca, quella che Francis Fukuyama chiamava 'la fine della storia', che poi non era tale.

Gorbaciov è morto, Marco Rizzo (Partito comunista) brinda: “Dal 26 dicembre ‘91 aspetto di stappare la mia migliore bottiglia”. La Stampa il 31 Agosto 2022.

«Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo…». Fa discutere il tweet di Marco Rizzo che, morto l'ex presidente dell'Urss Mikhail Gorbaciov, posta una immagine di una bottiglia di spumante ricordando la data della dissoluzione dell'Unione sovietica, appunto il 26 dicembre 1991, quando il Soviet delle Repubbliche del Soviet Supremo ratificò le decisioni di Gorbaciov che si era dimesso da presidente il giorno prima, e dissolse formalmente l'Urss. Energica la reazione degli utenti, con decine di tweet di risposta contro l'uscita del leader del Partito Comunista, candidato alla Camera con Italia Sovrana e Popolare.

Morto Mikhail Gorbaciov, Marco Rizzo stappa lo champagne: il comunista travolto sui social. Il Tempo il 31 agosto 2022.

La morte di Mikhail Gorbaciov è arrivata nella serata di martedì 30 agosto e ha colpito molti. Comunquee la si pensi l'ultimo presidente dell'Unione sovietica è stato un vero protagonista del Novecento, che ha traghettato la Russia verso il disgelo. Ma c'è chi attendeva il cadavere dell'ultimo capo del Pcus passare sul fiume della storia da parecchi anni. Come Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista candidato alle elezioni del 25 settembre con Italia Sovrana e Popolare, che nell'apprendere la notizia della morte a 91 di Gorbaciov ha esultato postando la foto di bottiglia di champagne: "Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo....", scrive Rizzo senza citare Gorbaciov e in riferimento al giorno in cui il Soviet supremo ratificò le decisioni del presidente dimissionario e dissolse formalmente l’Urss. 

"Comunisti con lo champagne", "Scusati, fai una figura migliore" scrive il giornalista Pablo Trincia, l'attore Luca Bizzarri twitta: "Ognuno, nella vita, ha i parenti che ha, gli amici che merita e le occasioni per stappare la migliore bottiglia che la miseria emotiva gli regala". Anche il direttore della Stampa Massimo Giannini lo critica, citando I Miserabili di Victor Hugo. Tanti i commenti negativi: "Pensa se un politico può compiacersi per la morte di un uomo. In ogni caso Gorbaciov è morto, un giorno, come chiunque altro, morirai pure tu. E l’URSS non tornerà comunque mai più. Sfigato", "Tanto l'Unione sovietica non te la ridanno", si legge sotto al post insieme anche a qualche raro commento a favore di Rizzo. 

Travolto dai tweet, Rizzo parla di trovata dadaista e attacca i "giornaloni". "Una provocazione dadaista e l’ipocrisia. Ci sono persone che muoiono per guerra, per fame, per infortuni, per vaccini. Ogni sacro giorno. Muore uno della banda dei globalizzatori. Metti una bottiglia di spumante, senza esplicitare un nome. Si scatena l’inferno. Di chi? Dei giornaloni", scrive su Twitter. 

La Sinistra litiga pure sulla morte di Gorbaciov. Lite tra comunisti. Pietro De Leo su Il Tempo l'01 settembre 2022

Fermi tutti, fermiamo la campagna elettorale. Per il gas? Ma no, perché c'è il congresso dei comunisti. Sì. Virtualmente attorno alle spoglie di Michail Gorbaciov si è innescata l'ennesima fase di autocoscienza che chiama nostalgici, reduci, teorici degli anni che furono alla disamina sulle colpe e il profilo dell'ultimo leader sovietico. E così l'attenzione del web vien subito catturata dal tweet di Marco Rizzo, leader del «Partito Comunista», il quale ben consapevole che un contenuto quanto più è dirompente, tanto più diventa virale, la prende con delicatezza e posta la foto di una bottiglia di champagne con il tappo che salta.  «Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo», scrive l'ex parlamentare. Il riferimento è alla data in cui il Soviet Supremo, a seguito delle dimissioni di Gorbaciov da Presidente, dissolse l'Unione Sovietica.

Una posizione, quella di Rizzo, che ha suscitato qui e là indignazione, e che poi lui, forse un po' in correzione di rotta, ha definito una «provocazione voluta, quasi di tipo dadaista». Tra le critiche, tuttavia, si segnala quella di Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione Comunista. In un lungo testo pubblicato su Facebook, dedica a Rizzo il post scriptum, definendolo «caricatura di "comunista" horror che piace ai salotti che frequenta e gli garantiscono visibilità in tv. Uno che ha sostenuto il governo che bombardava la Serbia e si congratulava con Prodi per l'ingresso nell'Euro, poi No Nato, No euro per fessi che abboccano». Comunque, nel resto del suo commiato.

Acerbo osserva: «L'Occidente si spertica in omaggi ipocriti a Gorbaciov però lo ha tradito con l'espansione della Nato a Est e la serie infinita di guerre con cui gli Stati Uniti hanno affermato il loro dominio unipolare».

Invece difende Marco Rizzo il «suo» senatore uscente, Emanuele Dessì, ex Movimento 5 Stelle, che derubrica il tweet a «regolamento di conti tra noi comunisti». E poi argomenta: «Oggi c'è una guerra che è anche frutto degli errori e della incapacità politica di Gorbaciov, della sua incapacità di affrontare la realtà dell'Unione Sovietica. Gorbaciov ha svenduto i valori del socialismo». E si affida ad una citazione eloquente il «Partito Comunista Italiano» che nel suo profilo Facebook, riporta le parole dell'attuale segretario dei comunisti della federazione russa, Ghennadij Zjuganov: «L'ascesa al potere di Gorbaciov segnò l'inizio della distruzione dell'Unione Sovietica. Col pretesto di Slogan su accelerazione, perestrojka e glasnost, i nuovi governanti iniziarono a distruggere metodicamente tutti i pilastri chiave del sistema socialista, dall'economia all'ideologia. Tale processo culminò nella tragedia del 1991».

All'Adnkronos, invece, Mario Capanna, già deputato e segretario di Democrazia Proletaria, esprime il suo «sentimento di grande dispiacere» per la scomparsa di Gorbaciov, che definisce «personalità di primo piano anche per la coerenza dimostrata. Dopo il crollo dell'Urss Gorbaciov crea una sua fondazione che si batte per i temi ambientali, per il disarmo e contro i cambiamenti climatici. Ha commesso però un errore fondamentale: non la Perestroika, la Glasnost, cose giuste, ma di fidarsi della buona fede, presunta, dell'Occidente».

E poi Fausto Bertinotti. Già Segretario di Rifondazione Comunista e Presidente della Camera, oltreché fine e dotto interprete dei cambiamenti epocali con una chiave di lettura ben precisa, ragiona: «Quella di Gorbaciov è una figura tragica, che ha vissuto in un tempo e con una scelta politico strategica impossibile», ossia la «riforma del sistema del Socialismo reale. Il sistema era irriformabile, come dimostrò poi la sua caduta». Dunque, tra l'irruenza di Rizzo e il ragionamento articolato di Bertinotti, emerge la complessità di un'analisi storica con cui la sinistra non solo comunista in realtà - ancora deve compiutamente fare i conti.  

Omonimo di Marco Rizzo insultato per sbaglio sui social dopo la morte di Gorbaciov. Il Tempo il 31 agosto 2022

Dopo la notizia della morte di Mikhail Gorbaciov, il leader di Italia Sovrana e Popolare, ha postato un tweet in cui brindava dicendo : "Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo...".  

Sui social media è scoppiato il putiferio. Il segretario dei Partito Comunista è stato sommerso da insulti per il suo tweet. Ma il problema è che gli insulti non hanno coinvolto solo lui. Ci è finito in mezzo anche un altro Marco Rizzo. Sui social si presenta come "un giornalista, editor e scrittore" che ha passato una brutta giornata. "Fatemi un favore: se dovete insultare me medesimo, però, mettete un disclaimer, siate chiari e soprattutto vi pregherei di trovare dei buoni motivi (ce ne sono eh)". E ancora: "Però "Marco" è il nome che scelse mia mamma. Non lo cambierei mai, anche se dietro quel nome non c'è nessun motivo poetico o nonno Marco: era un nome breve con cui mi avrebbe sgridato in fretta (e così sarebbe stato). Sempre pragmatici, in casa Rizzo". Fino allo sfogo finale: "Ho quasi nostalgia di quando gli insulti per me erano davvero diretti a me (come quello che tengo nella bio, partorito da un seguace di Fusaro e dello pseudo vignettista di quel mondo, ah che tempi signora mia)" e "In questa giornata folle posso capire chi mi tagga per sbaglio, ma chi viene a insultarmi PROPRIO SOTTO i tweet dove preciso che io NON SONO QUELL'ALTRO fa davvero perdere fiducia nell'umanità". Insomma i social hanno colpito ancora...

E il compagno Rizzo stappa lo champagne tra luoghi comuni e luoghi... comunisti. Il coro di indignazione sulla provocazione "dadaista" ma in fondo sincera. Massimiliano Parente l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

È morto Gorbaciov e ok, moriamo tutti prima o poi, e tra l'altro io sono uno di quelli che spesso, come in questo caso, quando non senti nominare persone da molto tempo, mi stupisco al contrario dicendo «ah, era ancora vivo?». Però ieri è successo un casino, altra indignazione, perché se ogni giorno non ci si indigna per qualcosa i vivi che non sono morti non vivono bene.

È successo, per farvela breve, che Marco Rizzo, il comunista Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti rimasti a proclamarsi comunisti, ha twittato (un vero comunista non dovrebbe usare Twitter però) che era contento, e che stappava una bottiglia di champagne (o di quello che era, non so se lo champagne è da comunisti, avrebbe dovuto tagliare un cartone di Tavernello magari), e apriti cielo, anzi apriti social, apriti indignazione, tutti indignati.

A cominciare da Matteo Salvini, perché «quando c'è la morte di mezzo, per me ci sono preghiera e rispetto. Mi spiace che qualcuno riesca a fare polemica anche quando una persona vola in cielo: mi limito a non commentare», e limitandosi a commentare ha commentato. Così migliaia di persone su Twitter. A parte il mio pensiero scientifico sul pregare e volare in cielo (a proposito, la NASA ha rimandato il suo lancio per la Luna, non è più la NASA di una volta), a parte quello che penso di Marco Rizzo e del suo essere comunista, secondo me era l'unica cosa giusta che ha detto Rizzo da quando è Rizzo.

Se non se la fosse rimangiata subito affermando che la sua era solo una provocazione dadaista (come no, l'avevamo tutti scambiato per Marcel Duchamp). Di base c'è il luogo comune, che il luogo comunista aveva smentito, che dei morti non si parla male, ma perché? Anzitutto sono morti, non gliene può fregare di meno a un morto di quello che dici una volta morto, non c'è più. In secondo luogo ci sono morti e morti, non è che quando gli USA hanno sparato un missile in bocca a Al Zawahiri ci siamo indignati (i filoislamici antiamericani magari sì), così come non è che quando morirà Putin io stesso non stapperò una bottiglia (la mia di champagne, non sono comunista). Per quanto mi riguarda se uno odia qualcuno da vivo, non vedo perché non dovrebbe odiarlo da morto.

Io stesso, in trent'anni che faccio lo scrittore, essendomi messo contro tutto l'establishment culturale, ho più nemici che amici: centinaia di autori che ho stroncato, fascisti, comunisti, cattolici, mussulmani, michele murge, e chi più ne ha più ne metta. Quando morirò, per rispetto, mi piacerebbe che stappassero una bottiglia e facessero una festa per essersi liberati di me (tanto restano le mie opere, quelle non riescono a toglierle di mezzo). Anzi, ordino ora dieci casse di Moët & Chandon e ne mando a tutti una in anticipo. Basta che non diciate che sono andato in cielo. Sarò morto e basta.

Le reazioni e l'attacco ai media. Morte Gorbaciov, il brindisi di Marco Rizzo: “Aspettato questo momento, morto uno della banda dei globalizzatori”. Redazione su Il Riformista il 31 Agosto 2022 

C’è chi brinda alla morte di Mikhail Gorbaciov, ultimo presidente dell’Unione Sovietica, è morto all’età di 91 anni dopo una lunga malattia. “Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo…” scrive sui social Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista che ha così commentato la notizia della morte dell’ex presidente dell’Urss che mise fine alla guerra fredda.

Rizzo, candidato alle elezioni del 25 settembre con la lista “Italia sovrane e popolare”, ha pubblicato la foto di una bottiglia appena stappata. Il suo post ha generato migliaia di reazioni, molte delle quali critiche. “Temo di aver capito che si sta brindando alla morte di un uomo o mi sbaglio?” scrive una donna.

C’è chi critica anche l’italiano: “Hai scritto un tweet immondo nella forma (cura l’italiano, diamine!) ma, soprattutto, nella sostanza”.

Lo stesso Rizzo, in un tweet successivo, si scatena ulteriormente, attaccando anche i media e provando a giustificarsi perché non ha esplicitato il nome: “Una provocazione dadaista e l’ipocrisia. Ci sono persone che muoiono per guerra, per fame, per infortuni, per vaccini. Ogni sacro giorno. Muore uno della banda dei globalizzatori. Metti una bottiglia di spumante, senza esplicitare un nome. Si scatena l’inferno.Di chi? Dei giornaloni”.  

Anna Zafesova per “La Stampa” il 2 settembre 2022.

Vladimir Putin che guarda, freddo e scettico, la salma di Mikhail Gorbaciov, per poi farsi il segno della croce davanti alla bara di un ateo. Un'immagine che entra direttamente nella Storia, in quella polemica muta ma molto evidente tra il leader più popolare a livello internazionale che il Cremlino abbia mai avuto, e quello più ostracizzato. 

Il primo che aveva cercato di riportare il suo Paese in Europa, il secondo che si dichiara in guerra con «l'Occidente collettivo», mentre sta restaurando una Unione Sovietica 2.0 che si ispira al 1984, minaccia atomica inclusa. In una giravolta paradossale della storia, Gorbaciov, che ha iniziato la sua carriera politica come dittatore, avrà sabato prossimo a Mosca un funerale quasi da dissidente, e il presidente russo infatti ha scelto di non parteciparvi per un «conflitto di impegni nel calendario», evitando così di scontrarsi con quello che potrebbe diventare una rara occasione di manifestazione di protesta da parte di intellettuali e giovani.

Putin ha preferito un algido commiato privato, con un mazzo di rose rosse depositato accanto al feretro, per poi volare a Kaliningrad a celebrare il primo giorno di lezioni nella scuola russa. 

Il capo del Cremlino ha deciso di dare inizio in persona alle nuove lezioni propagandistiche diventate obbligatorie, le «conversazioni sulle cose importanti» che ogni settimana dovranno indottrinare, fin dalle elementari, i bambini russi.

E per farlo ha scelto l'exclave russa nel Baltico, dalla quale la Russia oggi punta i missili sull'Europa: una regione bottino di guerra, un territorio militarizzato dal quale rivendicare la visione neoimperiale del Cremlino, e oggi anche il punto più a Ovest che il presidente russo riesce a visitare. 

Agli scolari della ex Koenigsberg prussiana Putin ha raccontato la sua visione del mondo e del ruolo della Russia, ripetendo una lezione di quella pseudostoria che è diventata ormai la giustificazione dell'invasione russa: «l'Ucraina non è mai stata uno Stato», «a Kiev c'è un regime golpista» e soprattutto l'incredibile affermazione «gli ucraini credono che noi li abbiamo aggrediti, ma non è vero».

 A sentire Putin, l'esercito russo è andato in Ucraina per «far finire la guerra e difendere la Russia», oltre a portare ai bambini ucraini - che «non sanno nemmeno che siamo stati tutti insieme nell'Unione Sovietica» - la storia patria secondo la visione russa. 

Un discorso che diventa ancora più inquietante nel giorno in cui le scuole iniziano anche in Ucraina, in buona parte con la didattica a distanza perché milioni di bambini sono sfollati e centinaia di istituti sono stati distrutti dalle cannonate e dalle bombe.

Zelensky è andato a sedersi ai banchi delle elementari a Irpin, uno dei sobborghi di Kiev più devastati dall'invasione russa. Facendosi accompagnare come testimonial dall'idolo dei bambini, il famoso cagnetto-sminatore Patron - al quale ieri le poste ucraine hanno dedicato un francobollo che sta già andando a ruba - il presidente ucraino ha ricordato agli allievi delle scuole la prima lezione da imparare, quella di precipitarsi nei rifugi antiaerei al primo suono della sirena.

Ma si è rivolto soprattutto ai bambini ucraini nei territori occupati, costretti ieri a varcare la soglia delle scuole precettate da insegnanti venuti dalla Russia, dove non si insegna più ucraino e i libri di storia e letteratura russi cancellano l'indipendenza dell'Ucraina. Le autorità militari minacciano i genitori che non vogliono mandare i bambini nella scuola russa di togliere loro i figli, e i ragazzi sono costretti ad ascoltare in silenzio la propaganda. Il dilemma scolastico riguarda ora anche molti genitori russi: le "conversazioni sulle cose importanti" sono da ieri obbligatorie, come l'alzabandiera e il canto dell'inno nazionale, spesso in uniformi paramilitari.

Se finora molti genitori erano riusciti a evitare le manifestazioni di zelo nazionalista con varie scuse, ora diventano parte della didattica, in attesa che ogni istituto si doti di uno speciale vicepreside addetto alla «educazione patriottica» e di manuali unici imposti dal governo.

Le nuove linee guida raccomandano di insegnare già a 8 anni «quanto è bello morire per la patria», probabilmente nella speranza di educare una generazione di soldati più motivati di quelli che oggi si rifiutano in massa di andare al fronte ucraino. Un sondaggio dell'indipendente Levada-Zentr conferma che i giovani sono i più contrari alla guerra: tra gli under 39, il 54% ha il coraggio di dichiarare che vorrebbe un negoziato di pace, contro il 37% che chiedono di proseguire i combattimenti, una percentuale che negli over 55 è ribaltata.

CAPIRE LA STORIA ATTRAVERSO PICCOLI FATTI DI 30 ANNI FA. Il matematico ungherese che sapeva perché i russi non amavano Gorbaciov. GIORGIO MELETTI su Il Domani il 02 settembre 2022

Perché i russi non hanno mai amato Mikhail Gorbaciov? Gli occidentali non ne capiscono le ragioni perché non guardano l'universo mentale russo con le lenti giuste, che sono di fabbricazione russa.

Un russo che aveva 18 anni nel 1917, l'anno della rivoluzione di Lenin, nel 1989 ne aveva 90. E non è che prima, sotto lo zar, ci fosse un regime liberale. Per i russi il comunismo non è stato una parentesi, è il mondo in cui sono nati e cresciuti.

Gorbaciov ha smontato tutto ma loro sulla bicicletta liberale non c’erano andati nemmeno da piccoli. E lui non ha indicato al suo popolo "capitalisticamente svantaggiato" un nuovo modello. L’hanno fatto fuori e la strada l'hanno indicata Eltsin e Putin.

Alberto Zanconato per l’ANSA il 3 settembre 2022.

La lunga fila per entrare nella camera ardente si forma al lato del teatro Bolshoi, vira a sinistra e passa sotto un busto di Lenin. Poi scende lungo la Via Bolshaya Dmitrovka, in fondo alla quale, sul palazzo che fu sede della Terza Internazionale, c'è una lapide intitolata a Gramsci. Infine entra nella Casa dei Sindacati. 

L'ultimo omaggio a Mikhail Gorbaciov assomiglia a un pellegrinaggio in ricordo del passato sovietico, che viene sepolto con il suo ultimo leader. A dargli l'estremo saluto alcune migliaia di persone. Poche rispetto al ruolo storico del personaggio e all'impatto che ha avuto sul suo Paese e sul mondo.

L'assente più illustre in questo 'mezzo' funerale di Stato è Vladimir Putin che due giorni fa era passato all'ospedale per deporre un mazzo di rose rosse accanto alla bara del defunto prima di partire per un viaggio a Kaliningrad. Ora è tornato, ma come aveva preannunciato non si fa vedere, limitandosi a inviare una corona di fiori.

Una conferma del disagio che la Russia di oggi, intenta ad inseguire la potenza del passato, prova per l'uomo in cui vede colui che ha fatto crollare sì un regime dispotico, ma ha anche aperto le porte al caos degli anni '90 e inferto un colpo quasi letale alla grandezza e all'orgoglio nazionali. 

E' invece presente l'ex presidente Dmitry Medvedev, ora vice capo del Consiglio di sicurezza nazionale. Così come sono presenti diversi personaggi dello spettacolo tra cui Alla Pugachiova, una delle più famose cantanti russe. Unico leader europeo a recarsi alla camera ardente è stato il primo ministro ungherese Viktor Orban, in linea con la posizione dissidente più volte espressa rispetto alla Ue sui rapporti con Mosca.

Ma nessun incontro è in programma con Putin, ha fatto sapere il Cremlino. Gli altri Paesi dell'Unione hanno inviato gli ambasciatori, così come la Gran Bretagna e gli Usa. Per l'Italia era presente l'incaricato d'affari Guido De Sanctis, che si è intrattenuto brevemente con l'unica figlia di Gorbaciov, Irina. Quest'ultima ha risposto con un "grazie", detto in italiano, alle condoglianze del diplomatico. Alla cerimonia ha presenziato un picchetto d'onore militare.

Due soldati in alta uniforme rossa e blu, sull'attenti ai lati di una fotografia del defunto, accoglievano i cittadini che entravano nella Casa dei Sindacati. Poi un lungo percorso nelle sale del palazzo decorate con stucchi color verde pallido. 

Infine, l'entrata nella grande Sala delle Colonne. La stessa dove furono resi gli ultimi onori a tutti i leader sovietici a partire da Stalin, eccetto Khrushov, morto quando era già stato deposto. A riportare al presente era un'enorme scritta su un telo posto sulla facciata di un palazzo di fronte: 'Zadachu vypolnim', assolveremo al nostro compito. Lo slogan della cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina.

Uno dopo l'altro, al suono di musica classica, i visitatori sono passati davanti alla salma, molti lasciando piccoli mazzi di fiori. Per loro Gorbaciov resta comunque il leader che ha portato la libertà. "Grazie a lui ho potuto leggere i libri che volevo e viaggiare all'estero", dice una signora di una settantina d'anni che aspetta in fila. "Pensate soltanto al fatto che è stato lui ad abolire il divieto di espatrio, e il sistema della prapiska, la proibizione di lavorare in regioni dell'Urss diverse dalla propria residenza", sottolinea Marina, una italianista che lo ha incontrato tre volte.

E non è un caso che chi ha reso omaggio all'ex leader scomparso fosse per lo più gente di mezza età, memore della repressione del passato regime. Al termine della cerimonia, il feretro è uscito scortato dai soldati, accompagnato dai familiari e dal Premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, già direttore del giornale indipendente Novaya Gazeta, che da marzo ha sospeso le pubblicazioni per le sue posizioni contrarie all'operazione in Ucraina.

Muratov portava una fotografia di Gorbaciov, mentre la gente applaudiva e gridava "grazie". Poi la partenza per il cimitero monumentale di Novodevichy, dove Gorbaciov è stato sepolto accanto alla moglie Raissa al suono dell'inno nazionale eseguito da una banda militare, dopo che un prete ortodosso aveva recitato una preghiera per lui. 

Gorbaciov, l'omaggio di Novaya Gazeta, il giornale che contribuì a fondare. Vita.it 01 settembre 2022

Novaya Gazeta, il giornale che contribuì a fondare, pubblica un video ricordo di Gorbaciov. In sottofondo l’ultimo leader sovietico canta una delle sue canzoni preferite: “C’è solo un momento tra passato e futuro, proprio questo è ciò che si chiama vita”.

Un articolo di Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta, pubblicato oggi da “La Stampa” di cui vi riproponiamo qualche passaggio.

Gorbaciov disprezzava la guerra. Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta.

Lui disprezzava la guerra. Lui disprezzava la real politik. Era convinto che il tempo in cui l'ordine mondiale poteva venire dettato dalla forza fosse finito. Credeva nelle scelte dei popoli. Aveva liberato i detenuti politici. Aveva fermato la guerra in Afghanistan e la corsa al riarmo nucleare.

Mi aveva raccontato di essersi rifiutato di schiacciare il bottone dell'attacco atomico perfino durante le esercitazioni! Aveva visto i filmati dei test nucleari nei quali il fuoco divorava tutto, case, mucche, pecore, uguali alle pecore della sua Stavropol, delle quali andava tanto fiero. Aveva amato una donna più del suo lavoro. Penso che non avrebbe mai potuto abbracciarla con mani sporche di sangue. Lui non considerava l'omicidio un atto nobile. Aveva dato al comunismo un addio senza sangue. I nostalgici dell'impero continuavano a rimproverargli di aver "dato via" la Germania, la Cechia, la Polonia. Lui replicava con inimitabile sarcasmo: «A chi li avrei dati? La Germania ai tedeschi. La Polonia ai polacchi, la Cechia a cechi. A chi altri avrei dovuto darle?». Qualche anno più tardi, durante una discussione per la Novaya Gazeta sulle nuove dittature, mi disse all'improvviso: «Scrivitelo, così ce lo ricordiamo: un dittatore deve avere una regola, quella di tenere sempre in un aeroporto segreto un aereo con il serbatoio pieno». Il suo humour nero era sempre molto indovinato. Un giorno, un paio d'anni fa, scrisse una relazione molto importante per le Nazioni Unite, che decise di leggerci a una tavolata tra amici. Quando avevamo già sollevato i bicchieri per un brindisi, aveva tirato fuori dalla cartella uno spesso pacco di fogli. Noi ci eravamo preparati educatamente ad ascoltare ma la prima pagina recava una sola frase: «Proibire la guerra»! «Tutto qui?», chiedemmo. «E cos' altro bisognerebbe dire?» ci rispose, e ci permise di iniziare a bere. Tra la pace e l'esplosione nucleare non si interpone più un uomo di nome Gorby. Chi potrà sostituirlo? Chi? Ricordiamocelo sempre: ha amato una donna più del lavoro, ha posto i diritti umani sopra lo Stato, ha preferito un cielo di pace al potere personale. Ho sentito dire che è riuscito a cambiare il mondo, ma non il proprio Paese. Può darsi. Ma lui ha fatto, al suo Paese e al mondo, un regalo incredibile. Ci ha regalato trent' anni di pace. Trent' anni senza la minaccia di una guerra globale e nucleare. Chi altri ne sarebbe stato capace? C'è un ma. Il regalo è finito. Il regalo non c'è più. E nessuno ci regalerà più nulla.

Questo articolo è stato pubblicato da La Stampa il 1 settembre 2022.

Russia, a morte la libertà di stampa: 22 anni di carcere per il giornalista Ivan Safronov e revocata la licenza a Novaja Gazeta. Rosalba Castelletti su la Repubblica il 5 settembre 2022.

Ex corrispondente di Kommersant e Vedomosti giudicato colpevole di "tradimento" sulla base di accuse mai provate. "Vogliono che tutti abbiano paura". Il giornale fondato da Gorbaciov e diretto da Muratov costretto a chiudere: "Hanno ucciso Politkovskaja due volte"

Quanti chiodi si possono mettere su una bara? Quante volte si può recitare un requiem o scrivere un necrologio? Oggi un'altra pietra tombale è stata messa sulla libertà di stampa in Russia. Una morte già annunciata più volte, ma la magistratura russa ha deciso di spostare il limite della repressione e della censura ancora più in là. Un giornalista, Ivan Safronov, è stato condannato a 22 anni di carcere sulla base di accuse inesistenti e un giornale, la Novaja Gazeta, il giornale fondato da un Nobel (l'ex leader sovietico appena scomparso Mikhail Gorbaciov) e diretto da un Nobel (Dmitrij Muratov), il giornale di Anna Politkovskaja e di altri cinque giornalisti uccisi per le loro inchieste scomode, ha perso per sempre la licenza.

"Oggi hanno ucciso il giornale. Hanno rubato 30 anni della loro vita ai suoi dipendenti. Hanno privato i lettori del diritto a essere informati", ha denunciato la redazione di Novaja Gazeta in un comunicato. "Ma non solo. Oggi i nostri colleghi che sono già stati uccisi dallo Stato per aver fatto il loro dovere professionale - Igor Domnikov, Jurij Shchekochikhin, Anna Politkovskaja, Stanislav Markelov, Anastasia Baburova, Natalia Estemirova, Orkhan Dzhemal - sono stati uccisi di nuovo". Ma con la condanna a 22 anni di Sofranov sono stati uccisi anche il diritto alla libertà di stampa e a un processo equo.

La condanna di Safronov: 22 anni di carcere

Al tribunale della città di Mosca succede tutto rapidamente. Insolitamente rapidamente per la giustizia russa. Safronov viene giudicato colpevole di "tradimento" e condannato a 22 anni di carcere "sotto regime severo". Processo chiuso. Il trentaduenne ascolta la sentenza da dietro la gabbia di vetro riservata agli imputati, in tuta, le mani ammanettate. Qualcuno urla "Svoboda", qualcuno applaude. Ma non c'è tempo per reazioni scomposte. Solo per un bacio da dietro al vetro alla fidanzata Ksenia e per urlare ai colleghi e ai sostenitori ammessi in aula soltanto per la sentenza: "Scriverò a tutti. Scrivetemi. Vi amo". Un appello che dice già tutto della solitudine della prigionia.

Ventidue anni sono due terzi della sua vita. Sono quasi l'età della sua fidanzata, Ksenia Mironova. Sono il triplo della pena prevista in Russia per un omicidio. Ma qualsiasi termine, persino un anno, sarebbe stato troppo per un innocente. È un monito, commenta fuori dall'aula l'attivista per i diritti dei detenuti Marina Litvinovich, "perché tutti abbiano paura".

Non ne dubita nessuno. "La ragione per cui Ivan Safronov è stato perseguito non è il 'tradimento', che non è stato provato, ma il suo lavoro di giornalista", hanno scritto varie testate russe - tra cui Meduza, Tv Dozhd, Novaja Gazeta Europa e The Moscow Times - in un comunicato diffuso in mattinata chiedendo il rilascio di Safronov.

"La colpevolezza non è mai stata provata in nessun modo", commenta il capo del partito Jabloko Nikolaj Rybakov davanti al tribunale. Lo ribadisce anche l'avvocato Dmitrij Katchev: "Non riesco a definire questa condanna in altro modo che 'inappropriata'. Niente può resistuire l'assurdità a cui abbiamo assistito. Un giornalista è stato condannato a 22 anni semplicemente per aver fatto il suo lavoro. Fermatevi a pensarci!". Intanto i colleghi si abbracciano, si stringono attorno a Mironova e piangono.

Le "inesistenti" accuse contro Safronov

Ex corrispondente militare di Kommersant e Vedomosti, Safronov è stato arrestato nel luglio 2020 con l'accusa di aver venduto segreti di Stato all'estero. Un'accusa mai dimostrata nei due anni di processo a porte chiuse. Anzi, un'accusa "inesistente". Secondo una recente inchiesta del sito investigativo Proekt che è riuscito a procurarsi gli atti processuali, i documenti classificati venduti da Safronov non sarebbero altro che informazioni disponibili al pubblico. Sulle agenzie di stampa, sullo stesso sito web del Ministero della Difesa russo o su Wikipedia.

Il vero motivo dietro al processo, sostengono legali, colleghi e amici, è la vendetta. Safronov è stato punito per aver fatto il suo mestiere. Nel 2019 era stato licenziato da Kommersant dopo aver preannunciato possibili cambi di personale nel Consiglio della Federazione russa, la Camera alta del Parlamento russo. Un articolo che fece infuriare diversi funzionari pubblici russi e la stessa presidente del Consiglio, Valentina Matvienko. L'intera redazione politica di Kommersant si dimise per protesta, ma non riuscì a scongiurare l'uscita.

Safronov allora si unì alla redazione di Vedomosti, considerato all'epoca il principale quotidiano economico indipendente russo, ma fu costretto ad andarsene sei mesi dopo perché il giornale era finito nelle mani di nuovi proprietari vicini al governo. Finì per il lavorare presso l'agenzia spaziale russa, Roskosmos, come consulente per le comunicazioni dell'allora capo Dmitrij Rogozin.

Un incarico breve. Due mesi dopo, nel luglio 2020, fu arrestato e incarcerato nella famigerata prigione di Lefortovo gestito dal Servizio di sicurezza federale, l'Fsb, erede del Kgb. Primo caso di "tradimento" mosso contro un giornalista da quando Grigorij Pasko fu condannato nel 2001 a quattro anni di carcere per aver rivelato le violazioni ambientali della Marina russa.

Ad aver dato più fastidio, stando alla ricostruzioni di Bbc Russia, sarebbe stata un'inchiest di Safronov che rivelava le trattative per la vendita di nuovi caccia russi Su-35 all'Egitto e che aveva creato non pochi problemi ai ministeri della Difesa di entrambi i Paesi.

Anche il padre di Safronov, Ivan senior, era un corrispondente militare di Kommersant. Morì nel 2007 cadendo da una finestra, come capita a sempre più gente scomoda in Russia. Gli inquirenti liquidarono la morte come suicidio, ma qualcuno contestò la ricostruzione. Ivan Safronov senior stava lavorando a consegne d'armi russe a Iran e Siria.

La stretta alla libertà di stampa

Nei due anni in cui Safronov è stato in custodia cautelare, gli è stato impedito di vedere o chiamare i familiari. Gli è stato proposto di barattare una confessione con una telefonata alla madre, un'ammissione di colpevolezza con una pena dimezzata a 12 anni. Safronov si è sempre rifiutato rivendicando la sua innocenza.

"Vanja non era un uomo di lotta. Tuttavia il suo esempio ci dice che anche una persona normale è in grado di resistere. È stato un uomo eroico perché non ha voluto patteggiare con gli inquirenti, non ha ceduto alle pressioni e questo ha molto valore nei nostri tempi", commenta Litvinovich.

Anche gli avvocati di Safronov sono stati sottoposti a pressioni senza precedenti: sono stati incriminati, incarcerati o sono stati costretti all'esilio. Eppure non si danno per vinti. E invitano tutti a non farlo. "Nessuna metta un punto o la parola 'fine' a questo processo. Noi, legali della difesa, non lo metteremo per niente. Come prima cosa, presenteremo ricorso in appello. Combatteremo per l’abolizione della sentenza con tutti i mezzi possibili", commenta a fine processo l'avvocato Daniil Nikiforov.

La revoca della licenza a Novaja Gazeta

Da quanto Safronov è stato incarcerato, intanto, la maggior parte dei media indipendenti in Russia sono stati etichettati come "organizzazioni indesiderabili" o "agenti stranieri" e costretti a chiudere. La repressione è montata da quando il Cremlino ha lanciato la cosiddetta "operazione militare speciale" in Ucraina il 24 febbraio. Oltre 500 giornalisti sono stati costretti a lasciare il Paese. Decine di siti sono stati bloccati. La radio Ekho Moskvy, Eco di Mosca, è stata costretta a chiudere e tv Dozhd, tv Pioggia, a interrompere le trasmissioni.

Anche il giornale Novaja Gazeta aveva deciso di sospendere le pubblicazioni lo scorso marzo per timore di rappresaglie. Almeno finché sarebbe restata in vigore la cosiddetta "legge sulle fake news" che vieta di dare notizie sull'Ucraina diverse dalle veline del governo. O finché sarebbe proseguita l'offensiva in Ucraina. Parte della redazione si era spostata a Riga e aveva dato vita al progetto online in lingua russa e inglese Novaja Gazeta Europe. Una cautela che non è bastata.

Oggi il tribunale di Basmanny ha revocato la licenza. E domani toccherà alla rivista lanciata lo scorso luglio Novaja Rosskaja Gazeta. È la fine e cade a una settimana dalla morte dell'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov che ventinove anni fa contribuì a fondare il giornale. Politkovskaja è stata uccisa un'altra volta, hanno scritto i suoi colleghi. E anche la libertà di stampa è stata colpita ancora una volta a morte in Russia.

Medvedev alla cerimonia d'addio a Gorbaciov. ANSA il 3 settembre 2022.

Una lunga fila di cittadini comuni ma anche di personaggi noti, come una delle più famose cantanti russe Alla Pugachiova, si è creata fuori dalla Casa dei sindacati a Mosca dove si svolge la cerimonia di addio a Michail Gorbaciov. A dare l'ultimo saluto al leader dell'Urss anche l'ex presidente russo e vicepresidente del Consiglio di sicurezza Dmitri Medvedev.

Il primo ministro russo Mikhail Mishustin e il governo hanno inviato corone di fiori alla camera ardente allestita nella sala delle Colonne. (ANSA).

Gorbaciov, ai funerali una folla silenziosa. Putin non partecipa. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 3 settembre 2022.

Putin non c’è all’estremo saluto per Mikhail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Urss. Ma in migliaia portano il loro piccolo gesto di «dissidenza»

Migliaia di persone comuni, gli ambasciatori dei Paesi occidentali ma quasi nessun personaggio pubblico, a cominciare da Vladimir Putin tenuto lontano da «impegni di lavoro», secondo la spiegazione ufficiale. Mikhail Gorbaciov, l’uomo che diede la libertà ai cittadini dell’Unione Sovietica e dei Paesi dell’Est è stato salutato in una cerimonia dal tono decisamente minore. E anche l’affluenza del pubblico non è stata granché, se si pensa che per l’addio a Stalin, il responsabile delle grandi repressioni sovietiche, arrivarono a Mosca a milioni. Dare l’ultimo saluto a Mikhail Sergeevic nella Sala delle colonne, a due passi dal Bolshoi, è stato per molti anche un piccolo gesto di «dissidenza», visto che manifestare normalmente contro le decisioni del regime è cosa praticamente impossibile.

Niente funerale di Stato, che avrebbe imposto a Putin di essere presente e di invitare dignitari stranieri. Alcuni «elementi» della cerimonia ufficiale, come ha precisato il portavoce del Cremlino Peskov: picchetto d’onore con i tradizionali tre colpi a salve, bandiera russa sulla bara e inno nazionale.

I leader occidentali

Impossibile per i leader occidentali arrivare nella capitale russa, vista la situazione. Così, e la cosa appare ironica, l’unico capo di governo presente era Viktor Orbán, il leader ungherese che tra gli europei è certamente quello più vicino a Putin e alla politica attuata oggi dalla Russia che appare sempre più in diretto contrasto con gli insegnamenti di Gorbaciov. E dei dirigenti russi c’era Dmitrij Medvedev, l’ex braccio destro di Putin che quando fu messo a tener calda la sedia di presidente nel 2008 si presentò come il possibile restauratore della piena democrazia in Russia.

Il continuatore di quella linea liberale e filoccidentale che era stata inaugurata dallo stesso Gorby e poi proseguita (nonostante i contrasti tra i due) dal primo presidente della Russia postsovietica Boris Eltsin. Nel 2011 l’allora presidente conferì a Gorbaciov per i suoi meriti la più alta onorificenza del Paese, l’Ordine di S. Andrea, «per il grande lavoro svolto come capo di Stato». Oggi Medvedev è invece il più falco dei falchi e ieri, dopo aver sfilato davanti alla bara nella grande sala, ha postato un commento per dire che appoggiando l’Ucraina il mondo anglosassone tenta, come nel 1991, di «spingere il Paese verso la disintegrazione… con il sogno segreto di frantumare la Russia, di farla a pezzi». Ma, ha ammonito con tono apocalittico Medvedev, «non si rendono conto che questo vorrebbe dire giocare una partita a scacchi con la morte».

Coloro che volevano lasciare dei fiori ai piedi della bara (aperta, come nella tradizione) hanno potuto continuare a entrare nella Sala delle colonne per altre due ore dopo l’orario di chiusura.

L’iconografia

Poi il corpo è stato portato al cimitero di Novodevichy, dove già si trovano le tombe dell’amata moglie Raissa, di Eltsin e dell’altro segretario generale che negli anni Sessanta avviò il disgelo post-staliniano e tentò di riformare l’Unione Sovietica. Anche Nikita Krusciov fallì nel suo intento; venne defenestrato dagli uomini del Politburo guidati da Leonid Brezhnev che ne prese il posto. E non fu seppellito lungo le mura del Cremlino come i «grandi», almeno secondo l’iconografia comunista: Lenin, Stalin, lo stesso Brezhnev e poi i due vecchi apparatchik che precedettero Gorby, Andropov e Chernenko.

Russia, in fila per l'addio a Gorbaciov: "Cambiò la nostra Storia". Rosalba Castelletti su La Repubblica il 4 settembre 2022.  

Prima in centinaia, poi a migliaia per i funerali senza onori di Stato dell'ultimo leader sovietico: sono gli stessi che a Mosca rischiano il carcere. "Un faro del XX secolo. E non approverebbe tutto ciò"

Ci siamo messi in fila anche noi, con i familiari e gli amici, con la babushka col fazzoletto in testa e il ragazzino con un garofano rosso in mano, e abbiamo gettato anche noi la nostra manciata di terra umida sulla bara di legno chiaro inghiottita dall'oscurità della fossa scavata di fresco. Mikhail Gorbaciov non avrebbe voluto riposare in nessun altro posto che qui. Nel cimitero del monastero di Novodevichij, accanto alla moglie Rajssa, la "donna che amava più del potere" e che piangeva da 23 anni.

Quando l'hanno calato nella nicchia sulle note della Ballata del soldato di Vasilij Soloviov-Sedoj, il pomeriggio si è rannuvolato di colpo e per appena qualche minuto è scesa una pioggerellina sottile, come se neppure il cielo riuscisse a trattenere le lacrime. Quello di Gorbaciov non è stato soltanto il funerale di un uomo che voleva cambiare il suo Paese e ha finito col cambiare il mondo, che era a capo di un Impero e ci ha rinunciato. È stato il funerale di una Russia che già da troppo tempo si sente orfana della libertà e della speranza, ma che almeno per un giorno si è data appuntamento in silenzio.

I russi in fila: "Qui brava gente"

Per l'addio all'ultimo leader sovietico non ci sono stati onori di Stato, né lutto nazionale. E non ci sono state parole. Soltanto una processione di russi composti con i fiori in mano. Si sono messi in fila sin dal mattino al lato del teatro Bolshoj, mentre il traffico del primo sabato di settembre scorreva sonnecchioso. Dapprima poche centinaia, poi qualche migliaio. Non una folla oceanica, ma una moltitudine che a Mosca non si vedeva da tempo.

Evgenija Ganijeva, 40 anni, avrebbe voluto che ce ne fosse ancora di più. "Ma è confortante stare per un giorno in mezzo a brava gente senza rischiare il carcere. Siamo in tanti a non appoggiare quello che accade in Ucraina. Avevo dieci anni quando finì l'Urss. Ricordo la caduta del Muro di Berlino e l'abbattimento del monumento di Felix Dzerzhinskij. Sono quegli eventi ad avermi reso la persona che sono oggi".

Aleksej ha più o meno la stessa età, 36 anni, eppure ricorda - come tanti russi che hanno snobbato il saluto - "la carenza di prodotti, la stagnazione e le file per comprare da mangiare", ma rammenta anche "le trasformazioni, le speranze e l'apertura al mondo che ora non ci sono più" e si commuove.

Vladimir Janitskij, letterato, 68 anni, prima dell'avvento di Gorbaciov - dice - era costretto a scrivere "per il cassetto": "Il potere ci snobbava. Mikhail Sergeevic invece ci ha fatto sentire cittadini. Ci rispettava. E io ho potuto iniziare a scrivere per diverse riviste letterarie".

Elena Ponomariova, 54 anni, indossa i colori della bandiera ucraina gialloblu: "No, che non è un caso. Viviamo in tempi nuvolosi, è vero, ma siamo qui per salutare il nostro sole politico del XX secolo".

Barriere, metal detector, "Z" e "V"

Evgenija, Aleksej, Vladimir ed Elena sono quelli che Vladimir Putin chiama "traditori". Per omaggiare il Nobel per la pace che scongiurò una guerra nucleare, sfilano sotto un telone che ricopre una facciata in ristrutturazione dov'è scritto a caratteri cubitali Zadachu Vypolnim, "Completeremo la nostra missione", con la "Z" e la "V" in caratteri latini simbolo della cosiddetta "operazione militare speciale" in Ucraina. Superano le transenne e i metal detector che li separano dalle spoglie dell'uomo che in vita abbatté il muro di Berlino e la cortina di ferro, le barriere fisiche e virtuali.

Quando infine arrivano nella Casa dei Sindacati, ad accoglierli c'è un ritratto di Gorbaciov in bianco e nero, in piedi e sorridente, a ricordare l'allegro vigore che lo distinse da predecessori grigi e malati. Poi, salito lo scalone monumentale tra stucchi verde pastello e specchi coperti da veli neri d'organza, entrano nella maestosa Sala delle Colonne rischiarata dal fioco bagliore di 54 lampadari dove giace l'ultimo gigante del XX secolo affiancato da una guardia d'onore.

Il volto che sembra di cera: che cosa resta del gigante del XX secolo

Un drappo nero sul catafalco, rose rosse ai piedi della bara e un fiotto di luce bianca che fa di cera il volto largo e disteso. È l'unica cosa che sporga da un lenzuolo di raso bianco damascato. L'ultima immagine che resta dell'uomo che barattò la potenza con le libertà. Da un lato un ritratto e le onorificenze, dall'altro la figlia Irina e le due nipoti sedute tra il gruppuscolo degli amici più cari. Come Dmitrij Muratov, il direttore Nobel per la pace della censurata Novaja Gazeta, avvolto in un cappotto scuro, gli occhi blu sempre chini e l’aria mesta. E i più stretti collaboratori, il portavoce della Fondazione Vladimir Poljakov e l’interprete degli storici vertici con Ronald Reagan Pavel Palazhchenko.

La gente depone fiori e si inchina in silenzio, mentre risuona una musica solenne. In fila c'è anche Serghej Buntman, cofondatore di Eco di Mosca, la "radio della perestrojka" costretta a interrompere le trasmissioni lo scorso marzo: "Gorbaciov ha cambiato le nostre vite. Eravamo soffocati. Ci ha dato il respiro. Spero che quei tempi ritornino". E Jan Rachinskij, capo della storica ong Memorial chiusa dopo trent'anni: "Tutto questo lo rattristava, ne sono sicuro. Ma la sua eredità è impossibile da cancellare".

Andrej Zubov, copresidente del partito Parnas è contento di sfilare con giovani che negli Anni '90 non erano nati, ma rammaricato perché "nel '53 per un dittatore come Stalin c'erano milioni di persone, per l'uomo che ci diede la libertà ce ne sono migliaia". Su una sedia a rotelle arriva anche Suzanne Massie, la storica statunitense che preparò Reagan ai suoi incontri con Gorbaciov e lo guidò verso il disgelo: "Ricordo ancora quella volta che Mikhail Sergeevic intonò alla Casa Bianca Mezzanotte a Mosca".

Gli onori di Stato negati e gli "impegni" di Putin

La sala è la stessa che ospitò i balli della nobiltà sotto gli Zar e i Congressi del Partito sotto l'Urss. E dove giacquero tutti gli altri segretari generali dell'Unione Sovietica per le esequie solenni. Per tutti i suoi predecessori, tranne che per il defenestrato Nikita Krusciov, ci furono funerali di Stato e lutto nazionale, discorsi solenni e la sepoltura nella necropoli all’ombra delle mura del Cremlino. Non per Gorbaciov.

Vladimir Putin ha voluto svilire così il leader che, cambiando l'Urss, ne accelerò la caduta e distanziarsi da quell'eredità controversa: negando gli onori e la sua presenza. Trattenuto, a detta del suo portavoce, dai troppi "impegni": imprecisati incontri di lavoro, una telefonata internazionale e i preparativi per il Forum economico orientale che si terrà la prossima settimana.

Soltanto l'ex premier e presidente Dmitrij Medvedev, oggi vice del Consiglio di sicurezza, porta i suoi omaggi di persona. Tutti gli altri esponenti della nomenklatura, dal premier Mikhail Mishustin in giù, si limitano a inviare una corona. E di tutti i leader stranieri a Mosca arriva solamente il premier ungherese nazionalista Viktor Orbán. Per Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania ci sono gli ambasciatori e per l’Italia il vice Guido De Sanctis.

La cerimonia funebre al cimitero di Novodevichij

Chiusa la camera ardente, salutata da applausi e qualche Spasibo, "Grazie", la bara viene caricata sul carro funebre seguito da una teoria di macchine scure. Ad attenderla tra i viali cosparsi di rami d'abete del cimitero di Novodevichij e tra le tombe dei grandi della letteratura come Checkov e Gogol, c'è un'altra folla commossa. Ancora più raccolta. Non dice una parola.

L'aria si riempie d'incenso e del tintinnio del turibolo mentre il sacerdote Aleksej Uminskij recita sommessamente il servizio funebre sotto un tendone nero allestito, ultima nemesi, proprio davanti alla tomba di Boris Eltsin. Poi la bara viene accompagnata da guardie a passo d'oca al suono dei tre spari di commiato e dell'inno russo che ha la stessa melodia di quello sovietico e calata nella fossa. La gente si rimette in fila. Fa scivolare la terra nella buca. Il posto che Gorbaciov ha scelto per il riposo. E che dice tutto di lui.

L'ultimo saluto a Gorbaciov da parte di chi vuole democrazia. Raffaella Chiodo Karpinsky su Avvenire il 3 settembre 2022.  

Mentre ancora si svolge la “Maratona per Gorbaciov” promossa a Mosca da “Jabloko”, il movimento politico fondato da Gregory Javlinskij, un altro premio Nobel per la pace, Dimitri Muratov lo ha accompagnato aprendo il corteo fino al cimitero Novodevichy. Lì Gorbaciov è stato sepolto affianco a sua moglie Raissa Maximovna. Gesti e fatti che segnano il nostro tempo e la storia. Messaggi rivolti all’opinione pubblica russa e quella di tutto il mondo.

Si chiude una giornata particolare, a suo modo emblematica e che propone diverse riflessioni e interpretazioni. Durante la maratona di testimonianze per ricordare come Mikhail Sergejevich ha cambiato la nostra vita sono intervenuti figure che hanno condiviso le fasi importanti dell’azione politica di Gorbaciov durante la perestrojka e che negli anni a venire hanno portato avanti il cuore di quel processo facendo i conti con una piega sempre più soffocante del potere che si è consolidato fino a esprimersi nella Guerra con l’Ukraina.

Persone che in questi anni e ancora oggi sono il riferimento nella lotta per l’affermazione dei diritti umani, per la libertà di espressione e di parola e che rappresentano l’altra possibile Russia. Le testimonianze si sono dipanate per lunghe ore dalle 13 alle 21 in forma ibrida, in presenza e anche su Zoom. Javlinskij ed altri intervenuti hanno riportato il segno di speranza che deriva da fatto che nella fila per portare omaggio a Gorbaciov nella famosa Sala delle colonne., c’era soprattutto giovani tra i 20 e i 30 anni. Persone nate dopo la fine dell’URSS e che dei 6 anni di governo di Gorbaciov hanno solo potuto sentire parlare alla lontana e spesso in modo negativo quando non con disprezzo.

Più volte in questo incontro si è sentito dire che la speranza della Russia di oggi poggia sul fatto che la percezione più sincera del senso della perestroijka e della glasnost di Gorbaciov è più forte in questi giovani. E’ un messaggio prezioso che ad esempio è stato sottolineato da Jan Rachinskij Jan Rachinskij direttore dell’Ong fondata dal Nobel per la pace Andrej Sakharov che custodisce la memoria di milioni di vittime dei lagher e il registro dei detenuti politici della Russia contemporanea. “Questo ci dice che non è tutto perduto.” Che l’eredità di quanto fatto da Gorbaciov ha lasciato il segno e rappresenta una speranza per il futuro. Considerato che Rachinskij aveva iniziato ricordando la repressione e la chiusura di Memorial proprio poco prima dell’inizio della guerra e del contesto che vede soffocata la libertà di espressione tutto questo assume un peso e un significato degno di alta attenzione.

Dunque non solo membri più o meno noti del Movimento Jabloko ma tanti attori della società civile e della intellighenzia russa come Nadjezhda Azhgikhina, giornalista ed ex vice presidente della Federazione Europea dei Giornalisti, oggi direttrice di PEN Mosca, ha uno dopo l’altro riflettuto sul passato, sulla perestrojka e sul colpo di stato del 1991, forse più di quanto non sia accaduto lo scorso anno in occasione del 30 anniversario, quando prevalentemente passò nell’indifferenza.

Una riflessione che rappresenta pure un’analisi dura e senza sconti verso quanto sia mancata progressivamente l’agibilità politica in Russia, di quanto il mancato sostegno a Gorbaciov a suo tempo da parte dell’Occidente sia simile alla mancanza di investimento nelle relazioni con la società civile russa, soprattutto quando questa richiamava l’attenzione dell’occidente sulla restrizioni degli spazi democratici la repressione spazi di azione per la società civile. Il bisogno di trasparenza era ed è la base per la possibilità di un cambiamento nella società e nel rapporto fra cittadini e istituzioni consolidate. Una giornata che ha offerto la possibilità di ritrovarsi e poter sviluppare la riflessione. Una base per guardare al passato e imbastire il futuro forse con più consapevolezza e determinazione.

Così l’Urss stroncò la Primavera di Praga. Il titolo eclatante della Gazzetta del Mezzogiorno. «Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno» nel 1968: repressione simile all’invasione nazista. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Agosto 2022.

«Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno». Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici sono entrati nella capitale cecoslovacca e hanno messo fine alla Primavera di Praga.  Le truppe del patto di Varsavia, dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria, stroncano il tentativo compiuto da Alexander Dubcek di riformare dall’interno il regime comunista.

«La Cecoslovacchia vive il secondo grande dramma della sua storia. Fu Goebbels che ne annunciò l’invasione nel 1939 quando il nazismo decise di incorporarla nel Terzo Reich di Hitler. Ora è la volta dei Russi che credono di scorgere una nuova minaccia all’ordine in Cecoslovacchia, in un territorio in cui anche essi sono vitalmente interessati», scrive W. Rehaki sul quotidiano.

«Sin da quando Radio Praga, interrompendo la notte scorsa un normale notiziario, ha dato all’intero Paese la drammatica notizia che truppe sovietiche, tedesco orientali, polacche, ungheresi e bulgare avevano, senza alcun preavviso violato le frontiere per occuparlo, da parte responsabile ci si è resi subito conto che l’unica cosa da fare era invitare tutti alla calma ed evitare a qualsiasi costo un confronto violento con le forze di invasione che non avrebbe avuto purtroppo alcun risultato, come a Budapest nel lontano 1956».

Nella notte le truppe sono avanzate in città, infatti, quasi senza incontrare resistenza: la popolazione ha reagito in modo non violento, tuttavia non sono mancati morti e feriti tra i civili. All’alba il primo ministro Dubcek e gli altri membri del governo sono stati arrestati: i sovietici, però, non riescono a dar vita subito a un governo collaborazionista. Salito al potere nel gennaio 1968, Dubcek portava avanti un programma di moderate riforme, basato sul decentramento economico e politico, sulla rinascita dei sindacati e sulla libertà di stampa. I Russi però temono che l’esempio della Cecoslovacchia possa diffondersi nel resto dell’Europa Orientale. In un pezzo di Adam Kennett-Long, corrispondente da Mosca per l’agenzia Reuter, si apprende che la Tass, agenzia di stampa dell’Urss, ha dichiarato che proprio i dirigenti cecoslovacchi avrebbero richiesto l’intervento delle truppe per porre fine alla «contro-rivoluzione».

In pochi mesi le riforme messe in atto dal governo Dubcek saranno annullate. Nel gennaio 1969, il giovanissimo Jan Palach si darà fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, in segno di protesta.

 "Un errore di natura". Quel comunista impotente che mangiava i bambini. Angela Leucci il 16 Agosto 2022 su Il Giornale.

Andrej Čikatilo è passato alla storia come il "Mostro di Rostov": ha ucciso e mangiato 56 vittime in circa 12 anni, terrorizzando il mondo

Quando venne alla luce, la storia di Andrej Romanovič Čikatilo destò profondo sgomento in tutto il mondo, come spesso accade per le vicende che vedono protagonisti i serial killer. Ma qui c’è anche dell’altro, degli elementi che rendono questa storia unica: c’è un’informazione per lungo tempo sommersa - in base alla proverbiale segretezza sovietica di fronte a tematiche potenzialmente esplosive - ci sono delle vittime tra le più deboli della società come i bambini, ci sono delle dinamiche di inchiesta che rappresentano probabilmente un unicum.

A Čikatilo sono stati dati vari nomi dalla stampa: il più celebre è il Mostro di Rostov (o anche il Macellaio di Rostov), ma anche Cittadino X, che ha ispirato un film tra diversi che hanno ritratto l’assassino seriale. La più celebre è una pellicola italiana, Evilenko, scritta e diretta da David Grieco, che l’ha basata sul suo romanzo “Il comunista che mangiava i bambini”. Čikatilo, che nel film ha il nome di Andrej Evilenko appunto, è interpretato dall’attore britannico Malcolm McDowell.

Prima degli omicidi

Un passo indietro: da dove viene il detto in base al quale “i comunisti mangiano i bambini”? Naturalmente questa voce è nata in seno agli oppositori, nel tempo, del regime sovietico, e ha avuto particolare presa durante la Guerra Fredda, come si legge su Focus. Tuttavia la propaganda affonda le sue radici in alcuni episodi storici, più o meno tra il 1921 e il 1941, in cui pare si siano verificate azioni di cannibalismo.

È proprio in questo periodo, nel 1936, che nasce Čikatilo, in una città che oggi fa parte dell’Ucraina, ma un tempo apparteneva all’Unione Sovietica. Quel territorio, nel corso degli anni ’30, come chiarisce Britannica, fu funestato da una grave carestia: è uno di quegli episodi in cui alcune persone ricorsero appunto al cannibalismo. A Čikatilo, da bambino, la madre raccontò che il fratello maggiore era morto proprio in questo modo: mangiato dai vicini di casa, anche se in effetti questo evento specifico è molto difficile da provare con certezza. Quello che si ritiene è che l’immagine del fratello ucciso in questo modo abbia influito fortemente sulla psiche del serial killer.

Čikatilo seguì apparentemente la vita che ebbero in quel momento storico tanti cittadini sovietici: agli occhi del mondo un fedelissimo del comunismo, fece la leva obbligatoria, divenne ingegnere telefonico a Rostov e si sposò nel 1963, avendo poi due figli, un maschio e una femmina. Successivamente, nel 1971, si laureò alla Rostov Liberal Arts University e poi trovò un impiego da insegnante. Insegnò in diverse scuole: veniva cacciato periodicamente, ogniqualvolta i genitori venivano a sapere degli assalti sessuali ai danni dei loro figli. Gli istituti, per evitare scandali, si limitavano a licenziarlo.

I delitti

Il serial killer ha ucciso 56 persone, donne e bambini maschi o femmine, tra il 1978 e il 1990. Tre di esse non gli furono attribuite, anche se confessò: Čikatilo aveva sepolto i corpi, che si presentarono agli inquirenti in avanzato stato di decomposizione e impossibili da identificare. Anche per via di chi erano le vittime preferite dell’assassino.

Certo, le scomparse dei bambini venivano denunciate dai genitori, ma le altre vittime erano donne senzatetto o prostitute, persone disperate, “invisibili”, che Čikatilo incontrava alle fermate d’autobus o in attesa di prendere il treno, e per le quali nutriva profondo disprezzo. Molte delle vittime furono uccise o trovate nei pressi di Rostov, ma anche in altre località in cui Čikatilo si trovava a causa dei suoi continui cambi di lavoro: per lo più Russia meridionale e Uzbekistan oltre che Ucraina, descrivendo questi territori in termini attuali.

Il movente era di tipo sessuale: il serial killer provava piacere fisico nell’uccidere le sue vittime, che poi venivano mutilate o parzialmente divorate. Come riporta La Stampa, lo psichiatra Aleksandr Bukhanovskij che lo incontrò più volte, lo definì come “inibito, normalmente impotente, solitario e senza amici, afflitto da un senso di inutilità” già ancor prima di vederlo. “Esistono predisposizioni biologiche e sessuali per questo tipo di crimini - disse il medico - ma sono le circostanze sociali a determinare se queste predisposizioni si manifestano o no”.

Il riscatto, l'omicidio, i sospetti: il giallo della baby reginetta JonBenet

Le indagini

“Sono uno sbaglio della natura, una bestia pazza”. Queste sono parole dello stesso Čikatilo rivolte agli inquirenti. Ma non fu affatto facile per loro giungere al suo arresto, far finire la mattanza.

Va ricordato che si era ancora in piena Guerra Fredda: non a caso l’arresto di Čikatilo giunge all’indomani della caduta del Muro di Berlino. E, come gli americani descrivevano i russi come “mangia-bambini”, i sovietici dal canto loro liquidavano il fenomeno dei serial killer ascrivendolo esclusivamente alle democrazie occidentali. Ma i serial killer non agiscono mappamondo alla mano. Questo ritardò in effetti la prevenzione di alcuni omicidi: la polizia non poteva avvisare la popolazione che c’era un maniaco omicida a piede libero, che per giunta, oltre a uccidere, mangiava i bambini.

Però nel 1984 la polizia giunse apparentemente a una svolta. Un agente vide Čikatilo molestare una giovane in stazione. Perquisendo la sua valigetta trovò vari strumenti di offesa, come un lungo coltello. Gli fecero un esame del sangue, per controllare se il suo gruppo sanguigno corrispondeva al ricercato: gli inquirenti avevano in mano però il suo sperma, trovato sulle vittime, e Čikatilo rappresentava uno di quei rarissimi casi in cui sperma e sangue non possono essere usati per identificare una persona, perché non corrispondono. Fu rilasciato, ma trascorse comunque un breve periodo in carcere per furto.

Delitto, castrazione e Depp: la vera storia dietro Stranger Things

L’arresto, la confessione, l’esecuzione

Fu arrestato nuovamente nel 1990: la polizia aveva preso a sorvegliare capillarmente stazioni e fermate d’autobus, dove lo trovarono in possesso della stessa valigetta con le stesse armi degli anni precedenti.

Čikatilo confessò in carcere tutti gli omicidi compiuti. Al processo, avvenuto nel 1992, fu ritenuto sano di mente e condannato alla pena di morte. Un colpo alla nuca spense per sempre il Mostro di Rostov il 14 febbraio 1994, anche se le sue vicende continuano a far paura per l’efferatezza dei suoi crimini. Il 16 ottobre 1992, Grieco ha scritto su L’Unità: “Con i suoi 55 omicidi di donne e bambini, Andrej Romanovič Čikatilo è salito di prepotenza in vetta al Guinness dei primati. Speriamo che ci resti il più a lungo possibile”.

Vita, morte e destino di Marina Cvetaeva, la poetessa che fu schiacciata da Stalin. Barbara Castiglioni il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.

Due libri raccontano la disperata esperienza della scrittrice e di suo figlio nell'inferno dell'Urss dove la letteratura divenne un crimine irredimibile.

«Perdonami, ma andare avanti sarebbe stato peggio. Sono molto malata, non sono più io. Ti voglio un bene infinito. Capiscimi: non potevo più vivere. Dì a papà e ad Alja se li vedrai che li ho amati fino all'ultimo momento, e spiega loro che ero finita in un vicolo cieco». Scriveva così, il 31 agosto 1941, Marina Cvetaeva, nel suo biglietto di addio al figlio minore, Mur. Nel biglietto successivo, rivolto agli amici, la preghiera di prendersi cura di lui («I piroscafi sono terribili, vi prego di non farlo partire da solo Per lui non posso fare più nulla. Solo portarlo alla rovina»), ma anche una disperata, lugubre richiesta: «Non seppellitemi viva, controllate bene». C'era voluto molto per piegare la donna «della smisuratezza»: la guerra civile che l'aveva separata dal marito, Sergej Efron, ufficiale dell'esercito «bianco», la carestia, la morte per denutrizione della figlia Irina, la misera emigrazione a Praga e a Parigi, il ritorno in Russia, dopo 17 anni, l'arresto dell'altra figlia, Arianna, e dello stesso Efron. Nel 1939, due anni prima di suicidarsi, però, la donna che non poteva «firmare indirizzi di saluto al grande Stalin, giacché non sono stata io a chiamarlo grande», oppressa dalla miseria, si costrinse a scrivere una lettera, o forse una fiera supplica nella migliore tradizione russa, come ricorda Ezio Mauro nella sua interessante introduzione a Berija, principale collaboratore di Stalin nelle purghe di regime e potentissimo capo del famigerato NKVD.

Nella lettera (Nemico pubblico, De Piante, pagg. 52, euro 20; traduzione di Claudia Sugliano), la Cvetaeva, sempre incapace di scendere a compromessi, parla del marito come di un «uomo di grande purezza», proprio come ne aveva scritto a Stalin, dando la sua inutile «parola di poeta» che Efron che dal 1934 era agente dell'NKVD e aveva avuto un ruolo di primo piano nell'omicidio del disertore dei servizi segreti sovietici Ignatij Rejss fosse «pronto a morire per l'idea di comunismo».

La lettera non ebbe, naturalmente, risposta, e la Cvetaeva, dopo l'inizio dei bombardamenti su Mosca, si rifugiò con Mur a Elabuga. Mur, soprannome in memoria de Il gatto Murr di Hoffmann di Georgij, che, però, era stato «Boris per nove mesi nel mio grembo», come scrisse la Cvetaeva al suo amor de lonh Pasternak, era nato nel 1925, ed è giovanissimo quando scrive i diari che Magog propone, meritoriamente, per la prima volta in Italia (Grida dai tetti il suo amore per me, nella bella cura di Fabrizia Sabbatini e Davide Brullo), agghiacciante testimonianza delle condizioni di vita nell'Unione Sovietica, in cui la più straordinaria poetessa del secolo scorso doveva mendicare un posto di lavapiatti. Mur ha fame, legge Giraudoux, Montherland, Faulkner e Baudelaire, scambia il Decameron con due paia di calzini di lana, vuole andare a scuola, parla, con inesorabile lucidità, del «decadimento, degrado, orrore, miseria» che li circonda, ha bisogno di illudersi che un telegramma della madre a Stalin possa cambiare il loro destino, dice che «vivere così è morire», sopporta a stento la Cvetaeva («Ha perso la testa. Non ne posso più») ed è avvolto da una sorta di disperazione sessuale («Vorrei sapere quando smetterò di essere vergine»). Il figlio accusa la madre di «residuo di ipocrisia borghese» e vorrebbe da lei una «guida», dei «consigli»: un desiderio legittimo, che, però, non poteva essere esaudito dalla donna secondo cui «il sesso è ciò che deve esser sconfitto, la carne è ciò che scuoto da me come polvere», che descriveva l'amore umano «gioco di muscoli, e nient'altro», che si definiva «predatrice di anime» e che visse i suoi più celebri amori quelli con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke da lontano, rifiutando ostinatamente l'incontro e la realtà, perché «si può amare soltanto chi non si è visto mai».

Nonostante il suicidio, Mur, che verrà ucciso tre anni più tardi sul fronte bielorusso, non condanna la Cvetaeva, ma scrive di «capire e approvare completamente la sua decisione». In fin dei conti, nel suo cuore doveva sapere che la donna «per cui la vita quotidiana era tradimento» aveva prolungato fin troppo la sua agonia: «Da un anno misuro la morte. Non voglio morire, voglio non essere».

Le Iene, così Vladimir Putin tortura i prigionieri: "Pestati, stuprati, umiliati con l'urina". Un video-choc. Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.

Chi fa opposizione in Russia rischia molto. Lo confermano i numerosi arresti degli ultimi giorni: i manifestanti vengono portati in carcere per il solo fatto di aver chiesto la fine della guerra in Ucraina. Adesso, grazie a una testimonianza diretta raccolta da Le Iene, si hanno prove reali di quello che succede all'interno delle carceri del Paese: stupri, torture, violenze. I filmati in cui si vede tutto questo sono stati recuperati da Sergey Savelyev, ex detenuto oggi nascosto in Francia, dove ha ottenuto l'asilo politico. Dopo essere riuscito a raccogliere questi video mentre era in cella, li ha poi consegnati alla ong Gulagu.net, che da tempo denuncia le torture sui detenuti. 

In un filmato riproposto da Le Iene si vede un uomo legato al letto mani e piedi che viene violentato da un gruppo di detenuti, i quali - secondo Sergey - agivano per conto dell'autorità penitenziaria. "In un altro un detenuto viene picchiato a calci per poi essere bagnato dall'urina di un altro uomo - spiega l'inviata -. In un altro video ancora, un uomo viene trattenuto, spinto e picchiato dalle stesse guardie del carcere".

Come ha fatto Savelyev a ottenere queste immagini? Quando era in cella, visto che era bravo con i computer, ha avuto un compito particolare affidatogli dalle guardie: archiviare ogni giorno le immagini delle torture, metterle su una penna Usb e consegnarle al direttore del carcere. Una di quelle penne Usb, però, è riuscita a portarla fuori dal carcere. Così ha mostrato a tutti cosa succede realmente ai detenuti. Un rappresentante della ong Gulagu.net ha detto: "Siamo sotto gli attacchi dei servizi segreti, ci vogliono uccidere. La cosa più brutta è che negli ultimi 20 anni di governo di Putin sono stati cancellati i diritti umani sanciti dalla costituzione. Io questo sistema lo chiamo Gulag del XXI secolo".

Orrore nelle carceri russe. Nuovi video inediti delle torture. Il sito Gulagu.net ha pubblicato un nuovo filmato inedito delle violenze e gli stupri nelle carceri russe. In pieno freddo polare, gli agenti portano fuori un detenuto con addosso la sola canottiera. Lo prendono con forza, gli alzano l’indumento e lo sbattono per terra in mezzo alla neve. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 febbraio 2022.

In pieno freddo polare, gli agenti russi portano fuori un detenuto con addosso la sola canottiera. Lo prendono con forza, gli alzano l’indumento e lo sbattono per terra in mezzo alla neve. In un altro filmato, cinque agenti legano un detenuto nudo sulla branda, uno di loro lo violenta sessualmente e scoppia a piangere dalla disperazione. In un altro filmato, un detenuto viene tenuto fermo e l’agente gli urina sul viso. Il tutto con la musica da sottofondo. Gli attivisti di Gulagu hanno pubblicato nuovi video inediti che mettono in luce il raccapricciante sistema penitenziario della Russia di Putin. Un filmato inedito, pubblicato nella mattinata di oggi, che dura un’ora e certifica ancora una volta la tortura in Russia.

Avviso ai lettori: le immagini delle violenze subite dai detenuti sono davvero molto forti e disturbanti. Per questa ragione non abbiamo incluso i video all’interno dell’articolo. Per chi volesse visionarli sono disponibili qui. Lo ribadiamo, si tratta di immagini crude e drammatiche, ma crediamo che la denuncia vada diffusa il più possibile per onorare chi ha avuto il coraggio di filmarle e per provare a smuovere qualcosa nella palude terrificante delle carceri russe.

Come spiega l’attivista dei diritti umani Vladimir Osechkin, il video contiene filmati unici dei videoregistratori del Servizio penitenziario federale russo, il servizio speciale che, sotto il controllo del Dipartimento “M” dell’FSB, sottopone migliaia di prigionieri a trattamenti disumani e utilizza brutali metodi contro di loro. Di norma, gli ufficiali dell’FSIN e dell’FSB cancellano i file video che possono comprometterli ed esporli a gravi reati, ma gli attivisti di Gulagu sono riusciti ad accedere all’archivio video dell’FSIN, inclusa la sua parte segreta, quella che gli agenti dell’FSB e dell’FSIN utilizzano per ricatti e reclutamenti. Il filmato include sia fotogrammi precedentemente presentati, sia nuovi che nessuno ha mai pubblicato prima.

La visione è terribile. Ci sono filmati di perquisizioni nelle celle e quelle complete fatte nei confronti dei detenuti ed espletate da soldati di varie forze speciali in maschera. Quest’ultimi minacciano di stuprare i detenuti, ma ci sono anche filmati dove queste minacce le concretizzano in aree specializzate delle carceri dedicate alla tortura. Aree che, sotto il controllo del Servizio Penitenziario Federale e dell’FSB, avvengono umiliazioni e stupri. Gli agenti hanno appositamente filmato queste torture e sevizie sessuali con l’obiettivo di ricattare successivamente la vittima di tortura e costringendola a “collaborare” e “lavorare sotto copertura”. In poche parole, attraverso le sevizie, arruolano i detenuti.

Il 98% di questo video è composto da filmati dei videoregistratori delle carceri di Saratov, Volgograd, Mosca, San Pietroburgo, Transbaikalia, Krasnojarsk e Kamchatka. «Separatamente – scrive l’attivista Osechkin -, molti fascicoli possono essere considerati una base per procedimenti penali separati, ma insieme costituiscono una prova seria sulla tortura e le umiliazioni sistematiche in Russia». Gli avvocati dell’organizzazione dei diritti umani ci hanno lavorato per due mesi. La data di completamento dei lavori, coincide con la terribile data dell’attacco all’Ucraina da parte delle forze armate della Federazione Russa per ordine di Vladimir Putin. 

Nei media filo-governativi e nell’opinione pubblica filo-Cremlino vengono attivamente divulgate informazioni, presumibilmente sotto il controllo dei servizi speciali russi, che parlano di una vita confortevole e presumibilmente sicura grazie all’invasione russa. «Non siamo paragonabili in potenza e capacità ai servizi speciali russi e alla propaganda di stato – scrive sempre Osechkin dell’ong Gulagu -, ma la forza sta nella verità, nei fatti e in questo video. E le persone in Russia e Ucraina, così come in tutto il mondo, possono guardare questo video sulla base dei dati oggettivi e trarre conclusioni».

Ora c’è il rischio, paventato dagli attivisti dei diritti umani, che i servizi segreti cerchino di impedire l’ampia distribuzione di questo video, che mostra la portata del sadismo che avviene nelle carceri. «Allo stesso tempo, siamo consapevoli del tentativo di screditare noi e il nostro lavoro, ma più sono maggiori gli attacchi su di noi, più rafforza la nostra fiducia di essere sulla strada giusta», chiosa Osechkin. L’ong Gulagu consegnerà tutto questo materiale alle Nazioni Unite e confida sul fatto che saranno utili per una grande indagine da parte del Tribunale Internazionale sui crimini contro l’umanità commessi dai servizi speciali sotto l’egida del presidente Vladimir Putin.

Il team di Gulagu, nel contempo, chiede alle autorità russe di interrompere il sistema di tortura che vige in Russia e ritirare le truppe dall’Ucraina. Chiede con forza di condurre un’indagine completa contro tutti i responsabili della tortura e spendere fondi di bilancio per proteggere i loro concittadini dall’arbitrarietà, dalla tortura e sodomia forzata. Nonostante le denunce passate, tranne qualche direttore silurato, poco è cambiato. Proprio qualche giorno fa, nel carcere della Crimea è avvenuto un furioso pestaggio nei confronti dei detenuti che non solo perché avevano denunciato la morte di un loro compagno di cella per mancata assistenza medica, ma soprattutto perché si rifiutarono di ritrattare. Così come in altre carceri, secondo quanto denunciato sempre da Gulagu, si è verificato il rifiuto delle autorità russe di indagare su queste torture. Rifiuto che, attraverso anche al nuovo materiale, potrebbe portare all’avvio di un’indagine internazionale.

Samuele Finetti per corriere.it l'1 luglio 2022.

Una giornata, ogni giornata, in dodici tweet. Aleksej Navalny, il dissidente numero uno del regime di Vladimir Putin, ha voluto far conoscere al mondo, attraverso il suo profilo Twitter gestito dagli attivisti, come trascorre le ore nel carcere dove è rinchiuso per scontare una condanna a nove anni per frode. Non si sa dove sia, perché il 14 giugno è stato trasferito dal carcere di Pokrov, non lontano da Mosca, a un penitenziario imprecisato. Ora, però, si sa come spende il tempo dietro le sbarre.

«Io vivo come Putin e Medvedev». Così esordisce nel primo dei dodici post, con ironia evidentemente non scalfita dalla reclusione: «O almeno, così mi viene da pensare quando guardo la recinzione che circonda la mia baracca. Tutti qui stanno dentro una normale recinzione, con aste per appendere il bucato. La mia recinzione, invece, è alta sei metri: di simili ne ho viste solo attorno ai palazzi di Putin e Medvedev su cui abbiamo investigato».

Eccolo, il primo paragone con lo Zar: «Putin vive e lavora in un posto del genere. E anche io vivo in un posto simile». Poi, il secondo: «Putin lascia che i ministri siedano in sala d’attesa per sei ore, e anche i miei avvocati devono aspettare cinque o sei ore per vedermi di persona». E il terzo: «Nella mia baracca c’è un altoparlante, trasmette canzoni come “Gloria all’Fsb” (l’Fsb è il servizio di sicurezza interna di Mosca, ndr) e credo che anche Putin ne abbia uno».

«Ma è qui che le similitudini finiscono». Il prigioniero scandisce la sua routine, ora per ora: «Putin dorme fino alle dieci, poi fa una nuotata in piscina e fa colazione con formaggio e miele. Per me, alle dieci c’è la pausa pranzo. Perché il lavoro comincia alle 6:40». La sveglia suona quaranta minuti prima: «Ore 6, sveglia, poi dieci minuti per rifare il letto, lavarsi e radersi. Ore 6:10, esercizio fisico. Ore 6:20, scortato alla colazione. Ore 6:40, perquisito e poi a lavorare».

Al Cremlino, Putin dirige la sua Operazione speciale in Ucraina; in prigione, Navalny ha altre occupazioni: «Dentro la mia baracca, c’è una stanza speciale con tre macchine da cucire. È una zona speciale industriale della mia “prigione dentro la prigione”. Strano che non abbiano messo una macchina da cucire anche vicino alla mia cuccetta». «Lavoro» significa «sette ore alla macchina da cucire, seduto su uno sgabello di legno che non arriva alle ginocchia».

Ci si alza alle 10:20, per una pausa pranzo di 15 minuti. Poi di nuovo seduti «qualche ora su una panca di legno, sotto a un ritratto di Putin. La chiamano “attività disciplinare”: non so chi potrebbe venire “disciplinato” da una cosa simile, se non uno storpio con la schiena malandata». Questo da lunedì al venerdì. E il sabato? «Cinque ore di lavoro, poi di nuovo seduto sulla panca, sotto al ritratto». La domenica è libera: «O almeno, sarebbe il giorno di riposo. Ma chiunque abbia pensato alla mia routine, nell’amministrazione di Putin, è un esperto di relax. Per questo la domenica stiamo seduti dieci ore su una panca di legno».

Eppure Navalny assicura di non avere perduto l’ottimismo. «Sapete, cerco sempre un lato positivo, anche in un’esistenza triste come la mia», scrive, «tento di divertirmi il più possibile: mentre cucio, recito a memoria il monologo dell’Amleto in inglese. Ma i detenuti che lavorano nel mio turno mi dicono che quando chiudo gli occhi e bisbiglio qualche passo in inglese shakesperiano, come “Nelle tue preghiere siano ricordati tutti i miei peccati”, hanno l’impressione che io stia evocando un demone». Ma il prigioniero assicura, sempre con una punta di sarcasmo: «Non ho intenzioni del genere: evocare un demone violerebbe il regolamento interno».

Alessandro Ferro per ilgiornale.it il 2 luglio 2022.

Il dissidente russo Alexiei Navalny, da ormai alcune settimane si trova rinchiuso in una delle prigioni peggiori della Russia centrale, quella di Melekhovo. Con i suoi account social fa sapere come si svolge la sua quotidianità in detenzione e alcuni racconti fanno accapponare la pelle. 

 Il suo percorso "rieducativo", infatti, prevede la macchina da cucire sette ore al giorno ma soprattutto è costretto a sedersi "per diverse ore su una panca di legno sotto un ritratto di Putin". Ammirare lo Zar come punizione o per cambiare idea sul suo conto è, probabilmente, la folle utopia di chi gli ordina di fare queste cose in detenzione. 

La giornata tipo di Navalny

Come scrive dettagliamente su Twitter, Navalny inizia la sua giornata alle 6 del mattino e, dopo una chissà quale tipologia di colazione, viene perquisito, messo su uno sgabello "più basso delle ginocchia" dove trascorre tante ore. Poi, la famosa "attività disciplinare" guardando Putin come fosse un santino. 

Il sabato lavora di meno ma non manca la forzata devozione al presidente russo e la domenica la situazione è sempre quasi uguale. "La domenica sediamo in una stanza su una panca di legno per dieci ore". Anche in questo mondo parallelo, Navalny prova a mantenere allenata la mente riuscendo a memorizzare il monologo dell'Amleto in inglese. L'ironia e riuscire a sdrammatizzare non gli mancano neanche in una condizione del genere."Non so chi possa essere reso disciplinato da queste attività, eccesso che uno storpio con problemi alla schiena. Ma forse questo è l'obiettivo". 

"Una doppia prigione"

La sua cella, poi, è talmente piccola da essere considerata come "una prigione dentro una prigione". Durante la giornata, poi, il dissidente racconta che gli altoparlanti di Melekhovo passano ad alto volume canzoni quali "Gloria al servizio nell'Fbs". 

Navanly fa sorridere e riflettere anche quando scrive, nel 12esimo tweet consecutivo sulla sua prigionìa, che i prigionieri del suo turno "dicono che quando chiudo gli occhi e mormoro qualcosa in inglese shakespeariano come 'nelle tue orisoni tutti i miei peccati siano ricordati' sembra che io stia evocando un demone". La chiusura del suo pensiero è altrettanto ironica: "Ma non ho nemmeno questo in mente: evocare un demone sarebbe una violazione delle regole della casa".

Come abbiamo visto sul Giornale, Navalny è stato arrestato nel gennaio del 2021 dopo essere rientrato Mosca dalla Germania per essere stato curato dall'avvelenamento di una potentissima neurotossina per la quale ha rischiato la vita. Adesso dovrà trascorrere nove anni in questo carcere di massima sicurezza secondo la sentenza di fine maggio stabilita da un tribunale di Mosca, di chiara natura politica.

"Strappano le unghie...": qual è la nuova prigione di Navalny. Alessandro Ferro su Il Giornale il 4 maggio 2022.

A due mesi dalla sentenza in cui è stato condannato colpevole per "frodi e insulti a un giudice", l'oppositore russo Alexey Navalny ha saputo il nome e la tipologia della prigione di massima sicurezza in cui Putin ha deciso di trasferirlo: andrà a Melekhovo, località della Russia centrale. Nulla di straordinario visto che dovrà scontare 9 anni lontano da Mosca se non fosse per le storie che circolano su questo carcere. "Mi stanno attrezzando una prigione nella prigione" twitta Navalny, affermando che circolano "storie di prigionieri su come vengono tirate fuori le unghie". Invece di mostrarsi preoccupato, Navalny ironizza: "Vabbè, così avrò un motivo per usare un'emoji alla moda", pubbicandone una con lo smalto rosso sulle dita.

La portavoce del più celebre oppositore russo, Kira Yarmish, ha spiegato che "la colonia penale dove Putin ha ordinato di trasferire Navalny, è la numero 6 nella città di Melekhovo, nella regione di Vladimir", la quale ha raccolto diverse testimonianze sui trattamenti riservati in quel carcere. "Si tratta di un posto mostruoso anche per gli insani standard delle carceri russe". "Lì non c'è legge", ha sottolineato, aggiungendo che Putin ha intenzione di mandare Navalny laggiù "per non aver paura di lui e per aver detto la verità". La Yarmish su Twitter ha pubblicato la storia relativa a Gor Ovakimyan, prigioniero assasinato nel 2018 dopo aver subìto torture per molti giorni, una delle storie venute a galla sulle atrocità commesse laggiù. "L'amministrazione della colonia ha nascosto la sua morte ai suoi parenti per quasi una settimana. Quando la famiglia ha trovato il corpo di Ovakimian all'obitorio, si sono accorti dei segni di armi da stordimento, dita delle mani e dei piedi rotte, genitali danneggiati e lividi su tutto il corpo", twitta la portavoce di Navalny, pubblicando la lettera della sorella di Ovakimyan, Ani, provando a dare voce a quanto accaduto proprio nella colonia numero 6, la stessa destinata all'oppositore russo.

"È morto di polmonite..."

Come spesso accade in quei territori, invece della verità è venuta a galla la menzogna. Il certificato di morte ha indicato la causa del decesso come "polmonite" mentre Ovakimyan aveva raccontato alla sua famiglia di essere stato torturato, picchiato e "appeso a un rack per essersi rifiutato di collaborare con l'amministrazione e per aver scritto denunce", scrive Kira Yarmish. Nel marzo 2021, però, un ex detenuto ha raccontato di aver collaborato con l'amministrazione della colonia e che, tre anni prima, lui e altri "attivisti" avevano picchiato a morte Ovakimyan. Lo stesso Ivan Formin, la persona che ha raccontato i fatti, fu picchiato e torturato e anche minacciato di stupro "se non avesse collaborato con l'amministrazione. Anche altri detenuti sono stati picchiati e violentati davanti a lui".

"Torture, bullismo e omicidi"

Valery Gorbunov, un attivista per i diritti umani, ha affermato al quotidiano russo indipendente Novaya Gazeta che IK-6 e IK-3 sono considerate le aree carcerarie peggiori di Melekhovo. "Tortura, bullismo e persino omicidi sono in aumento nella regione di Vladimir, e questo accade con una tale regolarità che è persino spaventoso", ha osservato. Secondo lui, coloro che subiscono torture in queste due colonie vengono mandati a "finire" al Vladimirsky Central (T-2), un altro penitenziario federale russo presente in quella regione.

La condanna di Navalny

La portavoce di Navalny, poi, ha passato in rassegna altre storie simili per denunciare quanto accade a Melekhovo per provare a sensibilizzare l'opinione pubblica prima che la stessa sorte possa toccare al dissidente numero uno dello Zar russo Putin. Ricordiamo che Navalny è stato condannato a nove anni di carcere: dopo essere stato avvelenato nell'agosto 2020, la Germania gli ha salvato la vita tenendolo in vita e, al suo rientro in Russia nel 2021, è stato subito arrestato e costretto a due anni e mezzo di carcere. Adesso l'ultima accusa, assurda, di frode e insulti a un giudice.

"Lì non c'è legge". L’ultimo tweet di Navalny: “Verrò trasferito in un carcere di massima sicurezza, dove strappano le unghie”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 4 Maggio 2022. 

“L’ultima sentenza nei miei confronti non è ancora esecutiva ma ho sentito voci che sarò trasferito nel carcere di massima sicurezza di Melekhovo, dove ai detenuti vengono strappate le unghie“. L’oppositore russo Alexey Navalny, attualmente in carcere, ha fatto sapere tramite un tweet quale potrebbe essere la sua prossima destinazione. Senza rinunciare a una nota di sarcasmo, come spesso usa fare:  “Bene, almeno avrò una scusa per usare questa emoji alla moda“, scrive aggiungendo il simbolo che ritrae delle unghie colorate di rosso.

La condanna

Lo scorso 22 marzo Navalny, attivista, politico e blogger russo di origini ucraine da parte di padre, principale oppositore di Vladimir Putin, è stato giudicato colpevole nell’ennesimo processo a suo carico. L’accusa? “Frode e insulti a un giudice”. Per questo dovrà scontare nove anni in un penitenziario di massima sicurezza, lontano da Mosca.

Avvelenato in Russia con l’agente nervino novichok nell’agosto 2020, era stato poi trasferito in coma in Germania, dove gli è stata salvata la vita. Al suo rientro a Mosca, nel gennaio 2021, era stato subito arrestato- ufficialmente per violazione della libertà vigilata in merito a una condanna ricevuta nel 2014– e in seguito di nuovo condannato a due anni e 5 mesi di detenzione.

La portavoce: “Un posto mostruoso”

In un altro tweet la sua portavoce, Kira Yarmish, ha sottolineato che “la colonia penale dove Putin ha ordinato di trasferire Navalny, è la numero 6 nella città di Melekhovo, nella regione di Vladimir“.

Yarmish ha raccolto in un thread varie testimonianze sui trattamenti che avvengono in questo penitenziario, riporta l’Agi. “Si tratta di un posto mostruoso anche per gli insani standard delle carceri russe” ha scritto, denunciando: “Lì non c’è legge, è qui che Putin vuole sbattere Navalny per non aver paura di lui e per aver detto la verità”. Mariangela Celiberti

Da ansa.it il 14 Giugno 2022.

Il leader dell'opposizione russa Alexei Navalny è stato portato via dal carcere vicino Mosca dove era detenuto. 

Né gli avvocati, né i suoi parenti sono stati informati in anticipo del trasferimento. Lo riferiscono sui social il capo dello staff di Navalny Leonid Volkov e la portavoce Kira Jarmysch.

Uno degli avvocati che era andato a trovare il dissidente in prigione è stato trattenuto al posto di blocco fino alle 14, quindi gli è stato detto: "Qui non c'è questo detenuto".

Secondo Jarmysch, "si diceva che sarebbe stato trasferito nella colonia penale di massima sicurezza IK-6 Melekhovo, ma è impossibile sapere quando (e se) vi arriverà effettivamente. Il problema del suo trasferimento in un'altra colonia non è solo che la prigione ad alta sicurezza è molto più spaventosa".

"A Pokrov (il carcere dove era detenuto l'oppositore) hanno detto che Navalny è stato trasferito in una colonia a regime duro", ha detto all'agenzia di Tass uno degli avvocati, spiegando che lo spostamento è legato al fatto che il verdetto sul nuovo caso è entrato in vigore. 

Dagospia il 21 aprile 2022. In seguito all'avvelenamento e al ricovero all'ospedale Charité, a Berlino, Alexei Navalny fa ritorno in Russia e viene immediatamente arrestato il 18 gennaio 2021, all'aeroporto. Quelle che seguono sono alcune sue osservazioni all'udienza di fronte al tribunale di Simonovski (Mosca), il 2 febbraio 

Estratto del libro di Alexei Navalny “Non tacete! Discorsi sulla libertà in Russia” pubblicato da “la Stampa” il 21 aprile 2022.

Nel 2014 sono stato condannato a tre anni e mezzo con la condizionale.

Ora siamo nel 2021, ma io sono ancora davanti a un tribunale. Sono già stato riconosciuto innocente; non c'è alcun reato. Tuttavia il nostro Stato, con una testardaggine quasi maniacale, si adopera per mandarmi in galera per questo caso. Perché proprio questo caso? I procedimenti contro di me certo non mancano, ne è appena stato aperto un altro. 

Ma qualcuno voleva che io fossi arrestato immediatamente dopo il mio ritorno; qualcuno voleva assolutamente che io non facessi neppure un passo da uomo libero nel nostro Paese, voleva che diventassi un detenuto appena avessi oltrepassato la frontiera. E sappiamo tutti chi è. Sappiamo perché è successo. Il motivo di tutto ciò sta nell'odio e nella paura di un uomo che vive nel bunker. In fin dei conti l'ho offeso a morte: sono sopravvissuto, nonostante abbiano cercato di uccidermi su suo ordine. 

Io l'ho offeso mortalmente, perché sono sopravvissuto - grazie a brave persone, grazie a piloti e medici. Poi l'ho offeso ancora di più: non solo sono rimasto in vita, ma non mi sono nemmeno nascosto, non mi sono infrattato chissà dove in un bunker sorvegliato - uno più piccolo, adeguato ai miei mezzi.

E infine, quel che è peggio: non solo sono rimasto in vita e non mi sono lasciato intimorire, ho partecipato all'indagine sul mio avvelenamento, e abbiamo potuto dimostrare che è stato Putin a perpetrare l'attentato con la collaborazione del Servizio federale per la sicurezza. Io non sono stato la sua unica vittima. Molti nel frattempo l'hanno saputo, e molti lo scopriranno, e questo fa impazzire l'omino arraffone nel bunker. Questa rivelazione, il fatto che ora tutto diventi pubblico, capite? Non c'è niente che porti un alto grado di popolarità e un sostegno generale. Adesso lo sappiamo: per combattere un avversario politico - uno che non ha accesso alla televisione e non ha nemmeno un partito dietro di sé - bisogna semplicemente cercare di ammazzarlo con un'arma chimica.

Ovvio che lui vada fuori di testa: adesso tutti possono vedere che è solo un burocrate che è diventato presidente per caso, un uomo che non ha mai preso parte a un qualsivoglia dibattito né a elezioni. Questo è il suo unico metodo di combattimento: cercare di uccidere le persone.

E può anche pensare di farlo come fosse un grande geopolitico, un grande leader internazionale - il mio affronto è che ora passerà alla storia come avvelenatore. Abbiamo avuto Alessandro il Liberatore, abbiamo avuto Jaroslav il Saggio, e ora abbiamo Vladimir l'Avvelenatore di mutande. È così che entrerà nella storia.

Vostro Onore, tutto questo non è assolutamente fuori tema. Io sono qui, sorvegliato dalla polizia; c'è qui la guardia nazionale, e mezza Mosca è transennata perché l'omino nel bunker va fuori di testa, e va fuori di testa perché abbiamo dimostrato che tutta la sua geopolitica consiste nel tenere riunioni nelle quali decide di trafugare le mutande dei suoi avversari politici e cospargerle di agenti chimici con intenzioni omicide.

La cosa più importante in questo processo non è come finirà per me, se andrò in prigione oppure no. È abbastanza facile mandarmi in prigione per un motivo o per l'altro. Quello che conta è perché questo succede - succede per poter incutere paura a più persone possibili. Perché è così che funziona: ne viene rinchiuso uno per intimidirne milioni. Venti milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, molti milioni non hanno prospettive per il futuro. 

Molti milioni nel nostro Paese sono quelli di cui diciamo: «Be', a Mosca va ancora bene, ma se ti allontani di cento chilometri allora buona notte!». Tutto il nostro Paese vive in questa «notte», senza la benché minima prospettiva, con 20 mila rubli . E il Paese tace; processi a scopo propagandistico come questo sono un tentativo di tappare la bocca alle persone. Imprigionare uno per intimidire milioni. E se qualcuno osa scendere in piazza, allora mettono in galera altre cinque persone per intimorirne altri quindici milioni. La cosa più importante che vorrei dire è questa: io spero davvero che le persone in tutto questo non vedano un segnale che le spinga ad avere più paura. 

Tutto ciò - la guardia nazionale, questa gabbia - non è un segno di forza. È un segno di debolezza. Pura e semplice debolezza. Non si possono rinchiudere milioni o anche centinaia di migliaia di persone - e io spero che sempre più persone lo capiranno. Sì, lo faranno. E quando saremo a quel punto, tutto questo semplicemente andrà in frantumi. Alla fine non si può mettere in galera un intero Paese. Tutte queste persone che sono state derubate delle loro prospettive, del loro futuro: vivono in una terra molto ricca e non ricevono niente della ricchezza nazionale.

Non ricevono niente! L'unica cosa che cresce in Russia è il numero dei miliardari; tutto il resto va a picco, capite? Io sto seduto nella mia cella e sento notizie sul burro, la pasta e le uova che diventano sempre più cari. Siamo nel 2021; il nostro Paese esporta gas e petrolio - e noi discutiamo di come possiamo sopravvivere, ora che la pasta aumenta sempre di più! Avete tolto ogni prospettiva a queste persone; volete incutere loro la paura. Io esorto tutti a non avere paura. Questo regime è tutto basato sulla paura.

Quando illegalità e arbitrarietà in uniforme pretendono di essere la legge, è dovere di ogni persona onesta opporvisi e combatterle con tutte le forze. Io le combatto meglio che posso, e continuerò a farlo. Sì, in questo momento mi trovo sotto il controllo di chi ama cospargere ogni cosa di agenti chimici tossici, tanto che nessuno scommetterebbe un copeco sulla mia vita.

Tuttavia, proprio qui e ora dico che continuerò a combattere contro di voi. Io esorto tutti a non avere paura di voi e a fare qualunque cosa affinché vinca la legge, e non persone mascherate con uniformi e toghe. Saluto tutti quelli che continuano a combattere e che non hanno paura, tutte le persone oneste. Saluto e ringrazio tutti i membri della Fondazione anticorruzione, che sono stati a loro volta arrestati, e tutti quelli che scendono in piazza nell'intero Paese senza paura. Queste persone hanno gli stessi diritti che avete voi qui. Il nostro Paese appartiene a queste persone tanto quanto a voi; appartiene a tutti. Anche noi siamo cittadini e cittadine russi, e pretendiamo vera giustizia e pari diritti. Pretendiamo di partecipare a elezioni e alla distribuzione della ricchezza nazionale. Sì, pretendiamo tutto questo!

E lasciatemi ancora aggiungere: oggi c'è molto di buono in Russia. E la cosa migliore in Russia sono le persone che non hanno paura, che non abbassano lo sguardo fissando il tavolo - queste persone non consegneranno mai il nostro Paese a un branco di funzionari corrotti che barattano la nostra patria con palazzi, vigne e discoteche. Io chiedo libertà immediata per me e per tutti gli altri arrestati. Io non accetto questo processo farsa. È pieno di menzogne ed è illegittimo. Io pretendo il mio rilascio immediato.

Mario Platero per “la Repubblica” l'8 aprile 2022.

C'è un nuovo guaio per Vladimir Putin e per il suo controllo del potere a Mosca. Stavolta viene da un film, Navalny, proiettato in anteprima a New York. Protagonista di questo documentario straordinario, un thriller che tiene aggrappati alla sedia, è Alexey Navalny, carismatico oppositore del regime putiniano. L'opera del canadese Daniel Roher ricostruisce le dinamiche dell'attentato a Navalny il 20 agosto 2020 e il suo dramma politico e personale. Ma l'importanza del film è nell'essere il primo documento a darci la misura di quanto forte, determinata, diffusa, pronta a tutto, sia la resistenza russa alla dittatura di Putin. 

Lo avevamo sospettato. Abbiamo visto anche recentemente coraggiose dimostrazioni contro la guerra. Abbiamo seguito alcune voci dissidenti contro Putin e la sua devastante guerra. Ma non avevamo ancora visto, nella coerenza di un'opera a tutto campo, quanto l'ispirazione, l'esempio di un leader d'opposizione come Navalny possa toccare i cuori di milioni di persone. I sondaggi ci raccontano che la maggioranza dei russi è schierata con Putin e che i dissidenti sono una minoranza. Ma da questo documentario si capisce che la minoranza è talmente motivata da rendere possibile un cambiamento al Cremlino. A patto che ai pochi milioni che resistono oggi se ne aggiungano altri.

Ben costruito, con molte immagini inedite, il film parte da un'intervista di Roher a Navalny dopo l'attentato e poco prima del ritorno a Mosca nel gennaio del 2021. All'arrivo l'arresto. 

Da li, un flashback che ci riporta alle battaglie, alle denunce, ai comizi affollatissimi, ai 182mila volontari che lo appoggiano. E ai momenti chiave della sua battaglia: il viaggio a Tomsk, in Siberia, dove gli agenti del Fsb organizzano l'avvelenamento con il Novichok. Le convulsioni in aereo, l'atterraggio di emergenza a Omsk, l'intervento dei medici che gli danno antidoti provvidenziali, il volo in Germania dove viene curato e dove si prova che l'intossicazione è da Novichok.

C'è poi l'incontro con Christo Grozev, il giornalista investigativo di Bellingcat , che riesce a ricostruire alcune dinamiche chiave che puntano il dito direttamente sul Cremlino. Putin nega qualunque coinvolgimento in una conferenza stampa live. Sbertuccia Navalny come un debole. Ma capiamo che la debolezza è da un'altra parte. E quanto la tecnologia possa essere importante: Christo recupera i nomi dei possibili esecutori materiali dell'attentato setacciando biglietti aerei per Tomsk, compra informazioni a buon mercato, riesce a mimetizzare il numero da cui Navalny chiama i suoi attentatori.

E, in un momento chiave, il leader politico si presenta come assistente di uno dei capi della Fsb a Konstantin Kudryavtsev, il chimico nel commando organizzato per avvelenarlo. Assistiamo in diretta alla telefonata. Navalny chiede a Kudryavtsev dettagli su quel che è successo a Tomsk per fare un rapporto sul fallimento dell'operazione e quello, convinto di parlare a un suo superiore, confessa tutto. La registrazione viene messa su Internet. Putin è furioso. Kudryavtsev scompare e non sarà mai più ritrovato. Poi, dopo cinque mesi in Germania per curarsi, la decisione di Navalny di rientrare a casa, a Mosca, dove rischia una condanna per ... violazione della condizionale.

I protagonisti del giallo sono Navalny stesso, la sua assistente Maryia Pevchickh, la coraggiosa moglie Yulia e, nei momenti più intimi, i figli Daria e Zahar. Incontro alcuni di loro al Walter Reade Theater, al Lincoln Center, a un ricevimento dopo l'anteprima. Yulia mi dice che il film «mobiliterà una protesta che porterà alla liberazione di Alexey», condannato giorni fa a nove anni di carcere. Daria, che studia psicologia a Stamford, è commovente nel ricordo del padre in prigione: «Non ho mai avuto dubbi, non gli ho mai chiesto di smettere, anche se ero addoloratissima, perché lui è dalla parte della ragione. E vincerà contro la barriera delle menzogne». Christo mi dice che «ognuno ha la sua versione dei fatti e mente anche senza saperlo.

Ma i dati non mentono mai. E i dati che ho recuperato con Alexey inchiodano Putin alle sue responsabilità ». Daniel, il regista, appena 29 anni, ha cominciato con l'idea di raccontare la storia di Bellingcat : «È stato Christo - rivela - a dirmi due anni fa che stava per scoprire cose importanti sull'attentato a Navalny e ho dirottato il progetto. Ora la sfida è politica». Navalny è anche un film che ci conferma quanto la Russia sia una cugina europea. E che l'Europa - non la Francia, la Germania, l'Italia, ma l'Europa - resta un punto di riferimento chiave per i russi: pur nella loro tradizione, come noi pensano di appartenere alla storia, alla cultura, all'economia europea. Dall'11 aprile il film sarà distribuito in 800 sale in America e in Canada. Presto anche in Italia.

E Daniel, felice per aver vinto al Sundance, a gennaio, il premio per il miglior film votato dal pubblico, mi dice che la grande sfida, anzi la promessa della Warner Brothers, che l'ha prodotto con la Cnn, è trovare il modo di distribuirlo a Mosca: «Spero che in Russia possano vedere in molti il film, anche in modo clandestino, su Internet, via streaming o grazie alle copie private». Se dovesse succedere, se il film sarà davvero visto in Russia, non possiamo non credere, come dice Navalny, che quella minoranza che oggi forma la resistenza a un regime, non possa ingrandirsi davvero, grazie a chi sceglierà di venire allo scoperto. Del resto, la storia conferma: sulle fake news vince l'evidenza dei fatti.  

Da rainews.it il 22 marzo 2022.

Il leader dell'opposizione russa Alexei Navalny - attualmente in carcere - è stato giudicato colpevole nell'ennesimo processo a suo carico per "frode e insulti a un giudice". Ed è stato condannato a 9 anni di carcere. L'accusa aveva chiesto una pena a 13 anni di detenzione, mentre la difesa ha insistito sull'assoluzione, sottolineando l'assenza di reato nelle azioni di Navalny.

Lo riportano le agenzie russe citando la sentenza del tribunale di Lefortovo a Mosca. "Navalny ha commesso una appropriazione indebita, ovvero il furto di proprietà altrui da parte di un gruppo organizzato", ha detto il giudice Margarita Kotova, secondo quanto riporta una giornalista dell'agenzia di stampa Afp presente sul posto. 

Il verdetto è stato annunciato in un'udienza del tribunale fuori sede nella colonia penale N2 nella citta' di Pokrov, nella regione di Vladimir.

"Nove anni. Come dicono i personaggi della mia serie tv preferita 'The Wire': 'Fai solo due giorni, il giorno in cui entri e quello in cui esci'". È il commento dell'oppositore russo, all'ultima condanna a nove anni di carcere "in regime di massima sicurezza".

"Avevo perfino una T-shirt con questo slogan, ma le autorità penitenziarie me l'hanno confiscata, considerandola estremista", si legge nel tweet dell'oppositore gestito dai suoi avvocati.   

Il regime di massima sicurezza, ora, potrebbe privare Navalny anche della possibilità di comunicare col mondo esterno. Questa condanna si va aggiungere a quella che l'oppositore sta scontando, ma potrebbe non essere l'ultima. Da quando Navalny è tornato in Russia, dove è stato fermato al controllo di frontiera all'aeroporto di Sheremetyevo, la sua odissea giudiziaria non si ferma.

Il principale oppositore del Cremlino resterà in carcere a lungo. Navalny condannato a 9 anni, i suoi avvocati fermati (e poi rilasciati) per aver parlato con i giornalisti: “Putin ha paura…” Redazione su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Alexei Navalny condannato a nove anni e i suoi avvocati fermati e portati via dalla polizia dopo aver rilasciato alcune dichiarazioni ai giornalisti all’esterno del tribunale di Mosca. Nella sempre più democratica Russia avviene anche questo. Il leader dell’opposizione di Vladimir Putin, in carcere già da oltre un anno, è stato condannato per “frode” e “oltraggio alla corte” e dovrà adesso scontare nove anni in una prigione di massima sicurezza. I due legali, Olga Mikhailova e Vadim Kobzev, bloccati dalla polizia dopo aver finito di rispondere alle domande dei giornalisti.

Dopo circa due ore, i due avvocati sono stati rilasciati dalla polizia: “Hanno liberato Olga Mikhailova e me – ha detto Kobzev, citato dai media russi – e sono stati così gentili che ci hanno anche riaccompagnato fino a dove erano parcheggiate la nostra macchina“.

Il regime di massima sicurezza, ora, potrebbe privare Navalny, che ha 46 anni, anche della possibilità di comunicare col mondo esterno. I suoi messaggi sui sociale e le bordate contro Putin durante il processo, lo hanno reso una delle voci contro la guerra più importanti in Russia.  Lo stesso Navalny, attraverso Twitter, ha commentato così la sentenza: “Putin ha paura della verità, l’ho sempre detto. La lotta contro la censura, portare la verità agli abitanti della Russia, resta la nostra priorità”. Sulla condanna: “Nove anni. Come dicono i personaggi della mia serie tv preferita ‘The Wire’: ‘Fai solo due giorni, il giorno in cui entri e quello in cui esci’. Avevo perfino una T-shirt con questo slogan, ma le autorità penitenziarie me l’hanno confiscata, considerandola estremista”.

L’oppositore di Putin è stato anche condannato a pagare una multa di 1,2 milioni di rubli, pari a circa 11.500 dollari. L’accusa aveva chiesto una condanna a 13 anni di carcere, anche per aver mancato rispetto alla Corte nella causa per diffamazione contro il veterano di guerra Ignat Artemenko. Il dissidente, che ha respinto le accuse mosse nei suoi confronti affermando che sono motivate politicamente, sta già scontando una pena detentiva di due anni e mezzo per violazione della libertà vigilata in una colonia penale a Pokrov, est di Mosca.

Intanto i suoi collaboratori hanno annunciato il lancio della “Fondazione globale anti-corruzione”, ha scritto su Twitter la portavoce di Navalny, Kira Yarmish. Dal Regno Unito, Downing Street ha affermato che la nuova pena detentiva inflitta all’oppositore russo Alexei Navalny è la continuazione di “accuse inventate che il presidente russo Vladimir Putin usa contro coloro che cercano di fare in modo che risponda delle sue azioni”.

Navalny diventato noto negli ultimi anni come il principale avversario del presidente russo Vladimir Putin. È stato anche Segretario del Partito del Progresso e presidente della Coalizione Democratica. Navalny ha denunciato a partire dagli anni 2000, attraverso i suoi blog, la corruzione dell’amministrazione e dell’ologarchia russa.

Per le sue inchieste è stato denunciato, attaccato e arrestato in diverse occasioni. Un suo documentario, sulla ricchezza presuntamente illecita dell’ex premier Dmitriy Medvedev ha raggiunto un pubblico di 21 milioni di utenti.

La prima condanna, a 5 anni con la condizionale, nel 2013, per un caso di appropriazione indebita che avrebbe danneggiato l’azienda di stato Kirovles. Nello stesso anno la candidatura a sindaco di Mosca: prende il 27%. Nel 2015 raccoglie il testimone del principale avversario di Putin, Boris Nemtsov, con il quale guidava la Coalizione Democratica, assassinato nel 2015. Le condanne e gli arresti, causate spesso per l’organizzazione di manifestazioni di protesta, gli hanno negato la candidatura alle presidenziali del 2018.

Rischia di perdere la vista dopo un’aggressione con sostanze chimiche nel 2017. L’ultimo arresto nel dicembre 2019 dopo la denuncia del sequestro del giovane attivista russo Ruslan Shaveddinov. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che gli arresti ai suoi danni tra il 2012 e il 2014 erano pretesti politici in violazione ai diritti umani.

Ad agosto 2020 è stato avvelenato con un agente nervino, il Novichok, mentre era in volo per Mosca. I sospetti caddero subito sul governo russo. Fu a Berlino per curarsi. In questo periodo, quindi, non aveva potuto rispettare le misure cautelari che prevedevano che si presentasse regolarmente presso il suo agente di custodia: il 2 febbraio scorso un tribunale di Mosca ha modificato una precedente sentenza che non prevedeva carcere con una condanna a due anni e a otto mesi di prigione, in seguito abbreviata di due mesi. Negli ultimi giorni è tornato a far sentire la sua voce parlando di Putin, del suo discorso alla nazione dallo stadio Luzhniki di Mosca, e degli strani tagli che ha definito un possibile “sabotaggio”.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 23 marzo 2022.

Ieri Aleksej Navalny, il più celebre oppositore di Vladimir Putin, è stato condannato per frode a nove anni di reclusione da un tribunale di Mosca. 

Si cominciò a sentir parlare di Navalny, perlomeno qui in Occidente, quando nel giugno del 2013 decise di candidarsi contro quello che già definiva un satrapo. Blogger anti corruzione, lo qualificò l'Ansa.

Un mese e dieci giorni più tardi subì la prima condanna: cinque anni per appropriazione indebita. Da allora, Navalny non ha più avuto requie, è stato avvelenato con un agente nervino, è stato aggredito con un colorante chimico per cui ha quasi completamente perso l'uso di un occhio, è stato ripetutamente arrestato per manifestazioni non autorizzate e ieri, dopo la condanna, ha gridato che Putin ha paura della verità.

Voi che cosa fareste al posto di Navalny? Lo chiedo perché non so se difenderei armi in pugno l'Italia dall'invasore, non so se da ucraino resterei sotto le bombe, penso che la resistenza ucraina più sarà prolungata e più obbligherà Putin a trattare, e penso che un po' ci sfugga l'enormità epica di questi ragazzi che da tutta Europa tornano a casa per morirci dentro, piuttosto di vedere il loro paese ridotto in schiavitù. 

Lo chiedo perché nessuno sa, finché non se le ritrova davanti, se le circostanze più estreme farebbero di lui un eroe o un vile. Non so se, al posto di Navalny, avrei ceduto, se mi sarei arreso in cambio della libertà. So però che non è la libertà a cui Navalny aspira per sé e per la Russia. Perché sia chiaro, non è Putin a rinchiudere Navalny in carcere, è Navalny che decide di resistere in carcere, come gli ucraini sotto le bombe.

Anna Zafesova per "La Stampa" il 23 marzo 2022.

«Il numero nove non significa nulla», scrive sul suo Instagram Yulia Navalnaya, «Nove è soltanto un numero, non ha importanza, è solo la targhetta affissa alla mia branda», replica suo marito da dietro le sbarre. Alexey Navalny reagisce alla condanna con il solito indistruttibile umorismo, e promette che non si limiterà «ad aspettare» la fine della prigionia, nel marzo del 2031, ma continuerà a lavorare per abbattere il regime di Vladimir Putin.

D'ora in poi sarà però molto più difficile: dopo due sentenze congiunte, per «truffa» ai danni dei finanziatori della sua Fondazione anticorruzione, e per offesa alla corte in un altro processo precedente, il leader dell'opposizione russa diventa un «criminale recidivo», e viene condannato a un carcere «severo», dove non potrà comunicare facilmente con la famiglia e gli avvocati come ha fatto finora dalla prigione a "regime comune" di Vladimir.

È evidente che il Cremlino vorrebbe buttare via la chiave - la nuova sentenza impedisce a Navalny di fare campagna alle elezioni presidenziali sia del 2024 che nel 2030, mentre la condanna che sta attualmente scontando l'avrebbe visto tornare in libertà l'anno prossimo - ma soprattutto vuole silenziarlo, proprio mentre i suoi collaboratori sono in testa al movimento contro la guerra in Ucraina. Ed è stata proprio la guerra a oscurare un processo farsa, che si tiene direttamente nel carcere, con i giornalisti a seguire il dibattimento su una tv a circuito chiuso che si guasta ogni volta che parla l'imputato.

Un processo dove due testimoni dell'accusa si sono rimangiati la deposizione in aula, dichiarando di non sentirsi anzi minimamente «truffati» da Navalny. Un processo dove decine di testimoni della difesa hanno cercato di salvare Navalny e la sua fondazione - messa nel frattempo fuorilegge come «estremista» - con deposizioni come quelle della celebre giornalista Evgeniya Albatz, che ha dichiarato i soldi che aveva dato per finanziare le indagini anticorruzione dell'oppositore «il miglior investimento della mia vita».

Una condanna scontata - talmente scontata che l'oppositore aveva chiesto alla moglie Yulia di non venire a sentirla in aula, ma di volare in Germania da figlio Zakhar per fargli coraggio - decisa ancora prima di iniziare il processo da quel «gruppo di nonni impazziti che ci governa», come li ha definiti Navalny nel suo ultimo discorso. Navalny promette che non si fermerà, e devolve il premio Sakharov del Parlamento europeo alla nuova versione internazionale della sua fondazione. E l'ultimo regalo dei navalniani il giorno prima della sentenza, la devastante video inchiesta sul gigantesco "yacht di Putin" ormeggiato a Carrara, dimostra che le cartucce da sparare ci sono.

Le sanzioni contro gli oligarchi e i funzionari del Cremlino, le magioni e gli yacht sequestrati in tutto il mondo, dalla Liguria a Londra, sono tutti colpi messi a segno da Navalny, che con le sue inchieste ha svelato la corruzione dei vertici russi con nomi, cognomi, indirizzi e numeri di conto. La sua idea della lotta alla corruzione come parte integrante della lotta alla democrazia - del resto, già nel 2014, dopo l'annessione della Crimea, la lista degli oligarchi da sanzionare venne stilata in Occidente anche grazie alle dritte di Navalny - ora diventa una delle armi internazionali contro il regime di Putin.

Dalla sua prigione, il leader dell'opposizione russa però incalza, e per la prima volta parla del rischio di una «distruzione del Paese» di una Russia che collassa insieme al regime che l'ha portata in guerra. Potrebbero essere le sue ultime parole, per tanto tempo. Da un carcere severo non potrà più consegnare ai suoi avvocati i suoi post per Instagram, e dirigere la sua rete. Ieri, subito dopo la sentenza, i difensori di Navalny, Olga Mikhailova e Vadim Kobzev, sono stati prelevati dalla polizia mentre parlavano con i giornalisti, in un chiaro segnale di intimidazione.

Le visite regolari degli avvocati e della moglie al carcere di Vladimir erano una fragile garanzia che il regime non avrebbe cercato di distruggere il dissidente celebre in tutto il mondo, ma dopo aver lanciato la guerra il Cremlino ha anche buttato alle ortiche qualunque remora residua al rispetto dei diritti e all'opinione pubblica internazionale. La repressione aumenta ogni giorno: ieri a Mosca è avvenuto il primo arresto per il nuovo reato di «discredito delle forze armate»: un tecnico della polizia di Mosca rischia fino a 10 anni di carcere per aver diffuso informazioni sulla guerra in Ucraina.

E il prossimo nella lista è il famoso giornalista Aleksandr Nevzorov, incriminato per aver raccontato sui suoi canali YouTube e Telegram il massacro di Mariupol. E ieri è stato respinto l'ultimo ricorso per almeno sospendere la liquidazione di Memorial: la più antica ong di diritti umani russa si era appellata al tribunale europeo di Strasburgo, ma la Russia è uscita dal Consiglio d'Europa e non si sente più vincolata dalle regole europee.

Russia, Russia, Alexei Navalny inserito nella lista dei terroristi. Mandato d’arresto anche per il fratello Oleg: violate regole sulla sorveglianza. Durante un controllo a casa sua Oleg, che tempo fa era stato condannato a un anno di reclusione per avere organizzato una manifestazione contro l’arresto del fratello un anno fa, non è stato trovato dagli agenti russi che, così, hanno fatto scattare l'allarme. Non è chiaro se sia ancora nel Paese o se sia riuscito a scappare all'estero. Il Fatto Quotidiano il 26 gennaio 2022.

La Russia di Vladimir Putin continua a infierire su Alexei Navalny e il suo entourage. Dopo che ieri il principale oppositore russo a Vladimir Putin, in carcere da più di un anno, è stato inserito nella lista dei terroristi ed estremisti redatta dall’ente Rosfinmonitoring, il servizio federale per il monitoraggio finanziario, oggi è scattato un mandato d’arresto per suo fratello, Oleg, che tempo fa era stato condannato a un anno di reclusione per avere organizzato una manifestazione contro l’arresto del fratello. Sentenza che, all’epoca, era stata sospesa. Oggi, però, il ministero dell’Interno ha dato ordine di portare in carcere anche Oleg Navalny su richiesta del Servizio penitenziario federale, affermando che il fratello del più famoso attivista ha violato le regole della sorveglianza. Al momento non è chiaro se Oleg Navalny si trovi in Russia o sia riuscito a fuggire all’estero. Il suo avvocato difensore ha spiegato che il mandato è stato spiccato dopo che, in seguito a un controllo, l’uomo non è stato trovato all’interno della sua abitazione: “È stata fatta un’ispezione nel suo luogo di residenza e, a quanto pare, non l’hanno trovato lì”, ha dichiarato Nikos Paraskevov a Interfax, aggiungendo di non essere a conoscenza di dove si trovi il suo assistito. Ieri, invece, a colpire il movimento che fa capo al blogger dissidente era arrivata la notizia dell’inserimento del suo nome nella lista dei terroristi ed estremisti del Paese. Destino condiviso con 6 suoi collaboratori, tra cui il più conosciuto è Lyubov Sobol.

Dagotraduzione dal Guardian il 27 gennaio 2022.

Un film documentario su Alexei Navalny, sopravvissuto per un pelo a un apparente tentativo di avvelenamento con novichok, è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival. 

Il film di 90 minuti, intitolato semplicemente “Navalny”, presenta filmati del leader dell'opposizione russa, girati durante i diversi mesi trascorsi in Germania alla fine del 2020 mentre si riprendeva dall'avvelenamento. Ci sono interviste con Navalny, sua moglie, Yulia e la sua squadra più vicina. 

La sequenza più straordinaria del film è quando, dal nascondiglio di recupero nella Foresta Nera di Navalny, ha fatto una telefonata a uno dei sicari che crede abbia eseguito l'avvelenamento e gli ha fatto rivelare i dettagli del colpo fingendo di essere un arrabbiato capo dei servizi di sicurezza.

«Ricordo di aver detto tipo, “OK, assicurati che stiamo girando, tienilo a fuoco. Questa è la cosa più importante che filmerai in tutta la tua vita”», ha detto il regista Daniel Roher in un'intervista a Hollywood Reporter sul momento della confessione telefonica. 

«In seguito tutti stavano impazzendo. Correvamo come polli con la testa mozzata. Ero tipo, “Scarichiamo il filmato in questo momento. Dovremmo chiamare la polizia? Abbiamo bisogno di protezione a casa?”».

Inizialmente Roher aveva in programma di girare un film su un argomento diverso con Christo Grozev, un investigatore bulgaro che lavora per Bellingcat, la squadra di investigatori online e giornalisti investigativi. 

Tuttavia, dopo l'avvelenamento di Navalny, Grozev ha iniziato a cercare indizi su chi ci sarebbe potuto essere dietro il colpo. Dopo aver acquistato dati telefonici e di volo sul dark web russo, ha trovato un gruppo di otto uomini dei servizi di sicurezza dell'FSB che sembravano aver seguito Navalny nei viaggi attraverso la Russia per diversi anni.

Grozev ha contatto Navalny e si è recato in Germania per incontrarlo e condividere le informazioni che aveva trovato. Roher è andato con lui e ha continuato a filmare. Si è scoperto che Navalny e il suo team stavano già pensando di fare un film ed è iniziata una collaborazione. 

«Quando Alexei si è svegliato dal coma a Berlino, ha avuto due visioni. Uno era di fare questo gigantesco video investigativo sul palazzo di Vladimir Putin e la sua ricchezza illecita. E l'altro era fare questo grande film documentario hollywoodiano, nella sua mente», ha detto Roher.

Navalny si è ammalato nell'agosto 2020 mentre prendeva un aereo da Tomsk in Siberia a Mosca. Grazie alle rapide azioni del pilota, che ha effettuato un atterraggio di emergenza a Omsk, non è morto e in seguito è stato trasportato a Berlino, dove ha fatto un lungo e lento recupero. 

Il Cremlino ha negato il coinvolgimento nell'avvelenamento e il presidente Vladimir Putin si è rifiutato di pronunciare il nome di Navalny in pubblico, riferendosi a lui obliquamente come «quel gentiluomo», «un certo personaggio» o «il paziente di Berlino».

Il film si chiude con il ritorno di Navalny in Russia nel gennaio 2021. È stato arrestato all'arrivo in aeroporto e successivamente condannato a due anni e otto mesi di carcere, per aver presumibilmente violato i termini di una precedente condanna per frode. Sta scontando la pena in una colonia a 60 miglia a est di Mosca. 

Dopo l'avvelenamento di Navalny, la sua Fondazione Anticorruzione è stata dichiarata un'organizzazione estremista e molti dei suoi leader e coordinatori regionali sono stati costretti a fuggire dal paese.

La realizzazione del film è stata tenuta nascosta fino all'inizio di questo mese e la sua presenza nel programma Sundance è stata pubblicizzata solo all'ultimo minuto. La premiere si è svolta online martedì sera, poiché il Sundance di quest'anno è virtuale a causa del Covid. Maria Pevchikh, una stretta collaboratrice di Navalny che era con lui a Tomsk quando è stato avvelenato, è stata la produttrice esecutiva del film. 

Alla fine del film, Navalny risponde alla richiesta del regista di registrare un messaggio per l'eventualità che fosse ucciso al suo ritorno. «Ho una cosa molto ovvia da dirti: non mollare, non ti è permesso. Se hanno deciso di uccidermi, significa che siamo incredibilmente forti e dobbiamo usare questo potere», ha detto.

In un post di Instagram che annunciava il film, Navalny si è lamentato con il suo solito tono irriverente che la biblioteca della prigione dove sta scontando il tempo non ha un abbonamento a HBO Max, quindi non potrà guardarlo.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 27 gennaio 2022.

«L'abbiamo fatto proprio come previsto, nel modo in cui l'abbiamo provato molte volte. Ma nella nostra professione, come sai, ci sono molte incognite e sfumature. Il veleno era nelle mutande». 

In quella che è forse la scena clou di “Navalny”, il film documentario di Daniel Roher che alla fine si è svelato come l’atteso e misteriosissimo evento a sorpresa del Sundance Festival, Konstantin Kudryavstev – uno degli agenti operativi del Kgb che hanno seguito e avvelenato Navalny in Siberia – ammette al telefono, incredibilmente, che sì, lo hanno avvelenato loro, gli sgherri di Putin. 

Ma tutto avviene davanti alla telecamere, come se fosse appunto un film, fiction, invece è purissima, drammatica realtà: Navalny parla (fingendosi un superiore di Kudryavstev), Roher filma tutto, accanto c’è Christo Grozev di Bellingcat, il reporter investigativo bulgaro che ha ricostruito, in collaborazione con The Insider, Cnn e Spiegel tutte le tracce dello squadrone della morte dell’Fsb che ha prima seguito, poi tentato di assassinare Navalny con il novichok, un veleno di grado militare preparato nei Labs russi a San Pietroburgo.

In buona sostanza, dopo quattro telefonate ad altre spie dello squadrone che non hanno risposto o messo giù, Kudryastev sta confessando un omicidio di stato ordinato da uno stato, la Russia, e un presidente, Vladimir Putin. 

"Navalny” era un film necessario, e La Stampa è in grado ora di raccontarvelo. Roher ha incontrato per la prima volta il dissidente più famoso in Russia nel novembre del 2020, tre mesi dopo il suo avvelenamento a Omsk.

Ha iniziato a girare il giorno dopo, in Germania, nella Foresta Nera, dove si trovava Navalny, e l’ha seguito per 500 ore di girato, fino al rientro e all’arresto a Mosca (la Russia lo accusa di aver violato la libertà su parola, in sostanza lo accusa di non essersi presentato davanti all’autorità mentre era in un lettino di ospedale a Berlino, avvelenato appunto dai servizi russi). 

La prima cosa che ha detto a Roher, il regista canadese recente autore di "Once Were Brothers: Robbie Robertson and The Band”, è stata: «Giralo come un thriller». E fin qui i due erano d’accordo. Sul resto, Navalny pensava a qualcosa di gigantesco e hollywoodiano, Roher a un doc scarno e scabro, roba da Sundance, appunto: «Quello che abbiamo capito andando con Grozev a quell'incontro – ha raccontato a Hollywood reporter – è che erano aperti all'idea di fare un documentario, e siamo stati abbastanza fortunati da esserci stati. 

In seguito ho appreso che quando Alexei si è svegliato dal coma a Berlino, ha avuto due visioni: una era quella di realizzare questo gigantesco video investigativo sul palazzo di Vladimir Putin e sulla sua ricchezza illecita. E l'altro era fare questo grande film documentario, che , nella sua mente immaginava stile Hollywood». 

Le cose sono andate diversamente, ma il doc è davvero toccante, anche se non contiene novità rispetto alle investigazioni sul caso. Molti dettagli però sì. Soprattutto, è utile a chiarire per quale motivo Putin teme così tanto quello che si rifiuta di chiamare anche per nome – si riferì a lui dicendo «questo cittadino», oppure «il paziente di Berlino»: «questo paziente della clinica di Berlino sta ricevendo il sostegno della Cia.

Ma ciò non significa che debba essere avvelenato. Chi se ne frega di lui? E poi se i servizi segreti russi avessero voluto ucciderlo, avrebbero portato a termine il lavoro», disse una volta con una inquietante smorfia sul volto. Il motivo per cui lo teme è semplice, e il film lo spiega con un suo portato emotivo: Navalny lo attacca non solo sul piano della democrazia e dei diritti, argomenti ai quali sono sensibili in tanti nelle metropoli russe ma molti meno nella sterminata provincia, quanto sulla corruzione: l’accusa di essere il capo di una cleptocrazia composta dai ranghi dei suoi oligarchi, che fanno la bella vita in Occidente e in Europa (Londra e Italia in primis), senza che l’occidente riesca a combatterlo, insomma, «un ladro».

Ma più che la politica, per esempio la richiesta di sanzionare davero Putin e gli oligarchi, nel documentario prevale il pugno al petto di certi momenti. In una scena di “Navalny” si vede una manifestazione del dissidente prima dell’avvelenamento, in cui arringa la folla: «Le persone al potere sono ladri corrotti. Chi è Vladimir Putin? Chi è Vladimir Putin?». E la gente risponde urlando: «Ladro!». Lo ripetono diverse volte, con lui che grida «Putin!», e le persone «ladro!». «L'avete detto voi, non io. Ora la polizia ci ha filmati tutti». Gli agenti soon effettivamente non lontano.

“Navalny” non fa uso di effetti, mentre attinge a materiale open source o proveniente dai social, per esempio il video ripreso sull’aereo dove crolla, con Navalny che entra in coma e inizia a gridare orribilmente – percependo cosa sta avvenendo, una specie di distacco della sua mente dal suo corpo –, l’atterraggio d’emergenza a Omsk, le scene nervose di sua moglie Julia nell’ospedale in Siberia, con i medici che, si scoprirà poi, parlano quotidianamente con le spie del Cremlino.

 O le ultime scene, con la camicia a scacchi, dalla Colonia penale numero 2 di Pokrov, dove Navalny conserva quel suo umorismo noir quasi di bambini, vista la situazione. «Sarò un specie di martire fino alla fine dei miei giorni», dice all'inizio del film Navalny. Alla fine però «il paziente berlinese» parla in russo. Il suo è una specie di appello all’umanità. Il film neanche traduce le sue parole in inglese.

Il regista dice che la sua vera speranza sarebbe la liberazione di Navalny, le sue speranze subordinate «vorrei che ci fosse indignazione mondiale per la sua detenzione, e anche che si smettesse di fare affari con la Russia». L’indignazione è gratis, e la avrà, la seconda cosa sarà un pochino più difficile da ottenere. 

Richard Sorge, la spia che ha vinto la seconda guerra mondiale. Davide Bartoccini il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Al servizio dei nazisti con il marxismo nel cuore, Sorge rivelò ai generali di Mosca l'informazione strategica più importante, ma venne abbandonato e dimenticato dalla patria comunista che tanto amava.

Molti storici hanno sempre asserito, non a torto, come la Seconda guerra mondiale non sia stata vinta dalle armate composte da milioni di soldati, ma da pochi matematici e fisici. Uomini come Alan Turing, che decifrò il codice Enigma, o come Enrico Fermi e Robert Oppenheimer, che con i loro studi, consentirono lo sviluppo della prima bomba atomica.

Eppure, ci sono uomini che ancora più di loro hanno contribuito al conseguimento della vittoria. Sono le spie come Richard Sorge: l'uomo che ne entrò in possesso e rivelò una delle informazioni strategiche più essenziali di tutta la guerra.

Nato nel 1895 nell'estremità del Caucaso che si affaccia sul Mar Caspio, oggi Azerbaigian, al tempo parte della Russia imperiale, crebbe a Berlino, con una madre russa e un padre tedesco. Nella Germania guglielmina condusse un’infanzia tranquilla e retta, tipica della di quella borghesia fin de siècle. Si tratti di un semplice caso o di quell’indole che si passa attraverso la genetica, si scoprirà idealista e patriota, tanto da attendere la maggiore età con impazienza per arruolarsi volontario e raggiungere le tempeste d’acciaio della Grande Guerra col 3º reggimento artiglieria della Guardia. Tornerà ferito, nell’animo e nel corpo. Durante l’offensiva del 1916 sul fronte occidente, viene investito dallo scoppio di uno shrapnel che lo costringerà ad una lunga degenza. Le sfere di piombo gli amputano tre dita e spezzano entrambe le gambe al punto da renderlo claudicante a vita. Ma non è quello il trauma peggiore: il giovane Richard Sorge è rimasto profondamente turbato dall’ignobile destino di milioni di giovani che spinti dal patriottismo, partirono a caccia di epiche avventure trovando solo la morte nell’impietoso fango della terra di nessuno.

Deluso ma sopravvissuto, con una croce di cavaliere di seconda classe come encomio e il grado di caporale, al suo ritorno da reduce in quella Germania umiliata dalla sconfitta, agli ideali nazionalisti che gonfieranno le fila di Hitler preferisce gli ideali internazionalisti degli spartachisti di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Legge e si appassiona agli scritti del filosofo ed economista Karl Marx, del quale il fratello di suo nonno è stato collaboratore, oltre ad essere stato segretario della Prima Internazionale. Ed è qui che entra in ballo la scelta: indole o semplice caso? Ogni uomo e donna scelgano la propria risposta.

Diventa comunista, pronto a offrire spirito e corpo all’Unione Sovietica nata sulle ceneri dell’impero degli zar. Mosca lo accetterà, assoldandolo prima come agente dell’apparato d’intelligence del Komintern, poi come spia per il servizio informazioni dell’Armata Rossa, quello che oggi è noto con l'acronimo GRU.

Un "giornalista" nazista a caccia di segreti

Con lo pseudonimo di R. Sonter e la copertura di giornalista, l’agente Sorge viene inviato in Inghilterra, Svezia e Danimarca. La sua missione è quella di tastare il terreno per valutare se l’insorgere di rivolte comuniste potrebbero condurre nuovi Paesi sulla via di Mosca.

In seguito, gli viene affidato il compito più pericoloso per la sua reale identità: deve tornare a Berlino e infiltrarsi nel Partito Nazionalsocialista e rche appresenta l’antitesi degli ideali che spronano il giovane Sorge a rischiare la sua vita per la causa comunista. L'uomo si stabilisce con successo nella redazione del quotidiano Getreide Zeitung, ma la sua presenza viene richiesta in Cina, dove il Kuomintang di Chiang Kai-Shek contrasta l’esercito comunista di Mao Tse-Tung. Con la nuova identità di Ramsay opera tra Nanchino e Shanghai e stabilisce una rete informativa degna di nota, che vanta la fiducia delle autorità consolari tedesche e che spingerà i servizi segreti sovietici ad affidargli una nuova impegnativa missione: stabilire una rete spionistica in Giappone. Sarà nella Tokyo dell’imperatore Hirohito che Sorge apprenderà i segreti del nemico.

Sbarcato nell'"Impero dove nasceva il sole", si spaccia per un fervente nazista e inizia a collaborare con diversi quotidiani, compresa la rivista filo-nazista Geopolitik, e stringe una forte amicizia con Ozaki Hotsumi, intimo del primo ministro giapponese Fumimaro Konoe. Il suo obiettivo è accedere all’ambasciata del Terzo Reich per entrare in possesso di quante più informazioni possibili. Grazie alla raccomandazione dell’attaché militare tedesco Eugen Ott del quale si è accaparrato la simpatia, potrà muoversi nei palazzi del potere che hanno scelto di siglare l’Asse Roma-Berlino-Tokyo.

La spia migliore di Stalin

Al Cremlino sono tutti estremamente preoccupati per politica espansionista del Giappone, che potrebbe arrivare a lambire i confini orientali della Russia. Una pedina come l’affascinante ed enigmatico Sorge può rivelarsi non soltanto “utile”, ma addirittura fondamentale, specialmente quando il "giornalista" - descritto nei cablo dell’atteché di Berlino come un "fine conoscitore delle questioni giapponesi" - viene convocato dall’ambasciata del Reich per ricoprire il ruolo di addetto stampa.

In questa posizione, Sorge non solo può veicolare informazioni a Berlino, ma può ascoltare le informazioni che provengono dalla Cancelleria dove Adolf Hitler pianifica le sue manovre di guerra. Nella primavera del 1941, Richard Sorge fa pervenire a Mosca la copia di un telegramma firmato dal ministro degli esteri tedesco Joachim Von Ribbentrop dove si fa riferimento a un "inevitabile attacco all’URSS". Erano coinvolte 190 divisioni già ammassate lungo quello che sarebbe diventato il disastroso il fronte orientale. L’attacco era previsto per la metà di giugno (il ritardo fu dovuto alla punizione che Hitler volle infliggere alla Jugoslavia, ndr). Una simile informazione avrebbe dato a Stalin la possibilità di mobilitare la mastodontica Armata Rossa per tempo, cosa che avrebbe consentito a Mosca di respingere con vigore le divisioni della Wehrmacht. Ma alla preziosa informazione della spia di Tokyo non viene dato credito. Stalin e i suoi consiglieri sono ancora convinti della solidità del patto Molotov-Ribbentrop. Il telegramma tuttavia terminava con le parole: “Non ci saranno né ultimatum né dichiarazioni di guerra; l'esercito russo dovrà crollare e il regime sovietico cadrà entro due mesi”. Conosciamo tutti la prosecuzione della storia.

Una spia alla quale non viene creduto, le cui informazioni vengono sottovalutate se non addirittura ignorate, subisce spesso un trauma professionale, se non una profonda delusione nell'ideale. Ma Sorge non si scoraggia, e anzi, continua a svolgere la sua missione. E per la seconda volta, entra in possesso di un segreto fondamentale per le sorti del fronte dove l’Armata Rossa ha già mandato al sacrificio milioni di uomini. Il suo collega Osaki ha appreso da fonti di alto livello che l’esercito giapponese non intende attaccare l’Unione Sovietica. I generali dell’esercito imperiale sono troppo impegnati nell’occupazione dell’Indocina francese e guardano agli Stati Uniti come avversario principale.

Questa informazione fondamentale consente ai generali di Stalin - che questa volta concede il suo benestare alla spia che era venuta dalla Germania - di smobilitare le divisioni che sono schierate in Siberia e Mongolia, per rinforzare il fronte europeo nel rigido inverno che sta già mettendo a dura prova le armate tedesche. Hitler ha di fatto perso la guerra. Sorge invece, verrà arrestato nell'ottobre del 1941 dal Kempeitai - la polizia militare nipponica - perché sospettato di spionaggio.

L'oblio di un eroe da dimenticare

Rinchiuso nel carcere di Sugamo, Richard Sorge viene condannato a morte per impiccagione. Verrà giustiziato in una grigia mattina del novembre 1944 insieme a Ozaki Hotsumi, l’uomo che gli aveva rivelato una delle informazioni più preziose della guerra. A Mosca nessuno muoverà un dito. La sua storia verrà nascosta al popolo per non mettere in imbarazzo Stalin e gli strateghi del Cremlino. Coloro che, ignorando l’informazione di Sorge, avevano mandato a morire milioni di russi consentendo ai nazisti di radere al suolo Stalingrado, quando potevano essere fermati molto prima.

La spia disconosciuta dai comunisti e non meno dai nazisti, l’affascinante idealista che si era messo a disposizione dei sovietici tradendo la patria per la quale era partito volontario nella Grande Guerra, verrà dimenticato dal mondo. Solo negli anni successivi al conflitto - quando l’Unione Sovietica dovrà rispolverare i suoi miti per contrapporli a quelli del suo nuovo avversario, gli Stati Uniti - Sorge verrà riconosciuto ufficialmente come una spia del GRU. Come un valoroso soldato del popolo meritevole dell'onorificenza di Eroe dell'Unione Sovietica. Passata la destalinizzazione, la Pravda scrisse di lui: "Numerose circostanze impedirono che si dicesse prima tutta la verità sulle imprese immortali dell’agente di intelligence Richard Sorge e dei suoi compagni. L’ora è venuta di parlare dell’uomo il cui nome sarà per le generazioni future un simbolo di dedizione alla grande causa della lotta per la pace, un simbolo di coraggio ed eroismo".

Fino ad allora, a non dimenticare l’uomo che aveva salvato l'Urss dalla sconfitta, cambiando senza dubbio il corso della Storia, era rimasta solo Hanako Ishii, l'amante giapponese che non smise mai di fare visita sulla sua tomba. Pare abbia continuato fino al sopraggiungere della sua morte, nel primo anno del nuovo millennio. Il giovane Richard Sorge, la spia con Marx e Lenin sul cuore, era del resto sempre piaciuto molto alle donne e ha saputo farsi amare. Possiamo vederlo come un cliché se volete. Qualcosa che non di rado appartiene alle spie. O forse come una ricompensa, per il coraggio che mostrano in vita.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

La spia che si credeva l'ultimo degli Zar. Davide Bartoccini il 24 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La migliore spia della Guerra Fredda bruciava la copertura degli agenti sovietici per conto CIA, quando un giorno decise d'essere un Romanov. Così venne "cancellato" dalla storia.  

C’è qualcosa di estremamente controverso e profondamente inquietante nella storia di Michal Goleniewski, forse la più proficua spia doppiogiochista mai arrivata nelle mani della CIA. Un agente che finì per convincersi di essere l’ultimo dei Romanov, unico erede sopravvissuto al mondo dello Zar di tutte le Russie.

Ufficiale dei servizi segreti polacchi e allo stesso tempo alle dipendenze del KGB come informatore di Mosca, Goleniewski era nato a Nieswiez (allora Polonia, oggi Bielorussia, ndr) nel 1922. Non doveva essere uno di quegli uomini che credevano fermamente nella causa comunista a cui il suo Paese aveva dovuto conformarsi al termine del conflitto mondiale. E fu per questo che nel 1958 scelse di offrire - volontariamente - i suoi servigi al blocco occidentale, diventando un agente triplo.

Benché inizialmente volesse comunicare solo in forma anonima con il Federal Bureau of Investigation - dato che era a conoscenza di infiltrati sia nel servizio segreto americano sia in quello britannico, e dunque temeva di essere scoperto ed eliminato - finì per essere utilizzato dalla CIA, prendendo il nome in codice "Sniper", e dallo MI5, il servizio di controspionaggio del Regno Unito, dove era noto con il nome in codice di "Lavinia".

Iniziò così la carriera di agente triplo della gola profonda polacca, che già nel primo anno di servizio bruciò l’identità di un informatore della Esbecja (servizio di controspionaggio polacco, ndr) che si era infiltrato nel servizio informazioni della Royal Navy e minacciavano di svelare i segreti del programma Polaris. Il secondo colpo, fu quello di informare gli inglesi - sempre attraverso la CIA - che nello MI6 si celava una talpa dei sovietici che poteva attingere ad informazioni di altissimo livello.

Questa talpa, che si rivelerà essere il famigerato George Blake, era a sua volta al corrente dell’esistenza di un doppiogiochista di alto livello che andava individuato nei servizi segreti polacchi. L'esistenza di questa informazione spinse Goleniewski, alias Sniper o Lavinia, a disertate dall’Unione Sovietica nel 1961.

Passando dalla Germania Est alla Germania Ovest, che stava per essere separata dal Muro di Berlino, Goleniewski si presenterà in una fredda giornata d’inverno al consolato americano di Berlino. Qui svelò la sua identità di agente triplo e chiese protezione dai sicari dell’Esbcja e dei russi che già lo braccavano e che, una volta catturato, e probabilmente torturato, lo avrebbero certamente eliminato dalla faccia della terra.

Nei libri scritti sul caso, “The Spy Who Was Left Out in the Cold” di Tim Tate e "The Spy Who Would Be Tsar" di Kevin Koogan, viene concordato che a differenza della maggior parte dei disertori, che di solito “cercavano una vita migliore al di fuori dell'Unione Sovietica”, Goleniewski si era reso conto che il sistema comunista era sbagliato e per questo andava contrastato. Nessuno può essere materialmente certo di cosa passasse per la testa di quel tenente colonnello dei servizi segreti polacchi che per ben 33 mesi rischiò la vita come agente doppio nell’Europa divisa dalla cortina di ferro. Ma quello che è certo è che fu di indiscussa utilità per l'Occidente, che attraverso le sue informazioni poté arrestare una lunga lista di agenti al servizio del KGB infiltratisi nell’intelligence tedesca, nella delegazione diplomatica americana e nell’aeronautica svedese. Nel frattempo, scoperta la defezione, in Unione Sovietica veniva condannato a morte per tradimento.

Un asso nella manica di Langley

In seguito alla sua defezione, una volta al sicuro negli Stati Uniti, Goleniewski si rivelerà essere una fonte di prim’ordine per “bruciare” le identità degli agenti doppi alle dipendenze dei sovietici, e non meno, una miniera d’informazioni sui segreti di Mosca. Secondo una valutazione interna consegnata ai piani alti del quartier generale della CIA, a Langley, Goleniewski contribuì a smascherare ben 1693 spie sovietiche che si erano infiltrate nei servizi segreti, nelle forze armate e nei diversi dipartimenti governativi occidentali nel pieno della Guerra Fredda. Guadagnandosi il primato, tuttora imbattuto, di disertore o agente doppio che ha rivelato l’identità di più agenti avversari nella storia. Ma sarà proprio lui, invece, ad essere cancellato dalla storia per volere della stessa agenzia che a lungo lo aveva protetto e osannato, concedendogli addirittura la cittadinanza americana con una legge ad hoc nel 1963.

Anatoliy Golitsyn, il "Rasputin" della CIA

Ma come è possibile che Michał Goleniewski sia passato in meno di un decennio dall'essere una delle migliori spia della Guerra Fredda, ad una minaccia per la sicurezza nazionale? Un folle da rinnegare e ostacolare, che andava letteralmente cancellato dalla storia?

Secondo gli storici che si sono appassionati alla vicenda, sarà un altro disertore a contribuire alla distruzione della reputazione di Goleniewski: Anatoliy Golitsyn. L'uomo, una volta giunto negli Stati Uniti, riuscirà a convincere il capo del controspionaggio della CIA, James Angleton, che solo lui era un vero disertore al servizio dell’Occidente, e che tutti gli altri, compreso e soprattutto Goleniewski, erano ancora agenti doppiogiochisti che passavano informazioni a Mosca. Questo nonostante la CIA e l’MI5 concordassero nel ritenere l'agente polacco “la migliore spia che l'Occidente abbia mai avuto durante la Guerra Fredda”.

Dal 1964 la CIA iniziò a prendere le distanze da Goleniewski, informando gli altri dipartimenti del governo che il loro vecchio e fidato agente doppio giochiate era “impazzito”. La cittadinanza che gli era stata promessa l’anno prima gli venne negata, e i continui cambiamenti di identità di copertura per sfuggire agli agenti di Mosca e Varsavia che volevano “eliminare” la spia, finirono per causare uno stato paranoico nel soggetto che, tra debolezza emotiva e problemi economici, finì per diventare completamente pazzo.

Così la spia volle farsi Zar

Secondo le ricerche effettuate da Tate su documenti desecretati, la CIA dovrebbe essere considerata come “la principale responsabile della pazzia di Goleniewski”. Un uomo tradito e screditato al punto di convincersi di essere in verità lo Zarevich Alexei Romanov, figlio dello Zar Nicola II, sfuggito all’eccidio perpetrato sull’intera famiglia imperiale dai bolscevichi il 17 luglio 1918. Goleniewski iniziò a sostenne pubblicamente di essere stato salvato in segreto da Yakov Yurovsky, il quale lo aiutò loro a scappare in Polonia, passando attraverso Turchia, Grecia e Austria. La CIA non perse tempo nello sfruttare questa tesi stravagante per screditare ulteriormente il suo ex agente. A questo si sommeranno le continue accuse lanciate da Goleniewski ai danni di politici occidentali che lui riteneva essere ex-nazisti o agenti segreti sovietici.

Consegnato alla storia come un impostore

Attraverso un graduale allontanamento dell’agenzia di spionaggio statunitense, che ha contribuito a nascondere e rendere irreperibile ogni traccia del suo contributo nel combattere la guerra di spie della Guerra Fredda, Goleniewski è ricordato per essere l'uomo che asseriva d’essere un Romanov, alla stregue di tutte le finte “Anastasia” che affollarono i rotocalchi con racconti e versioni della loro storia più o meno plausibili.

Goleniewski, che secondo i suoi documenti era nato 18 anni dopo il certamente defunto zarevic Alexei, si appellò sempre a una particolare patologia mai confermata. A metà degli anni ’60, sulla copertina della rivista Life "comparvero" sia Goleniewski che Eugenia Smith, sedicente Anastasia Romanov. In quell’occasione, la Smith affermò di aver riconosciuto in Goleniewski suo fratello Alexei. E la spia affermò di aver riconosciuto nella Smith sua sorella Anastasia. Un test sul DNA effettuato sui corpi riesumati a Ekaterinburg molto dopo la loro morte riveleranno che mentivano entrambi.

Goleniewski morì nel 1993 a New York. Non smise mai di sostenere di essere lo zarevic Alexei. Non venne mai raggiunto dalla vendetta dei sovietici. Tutti segreti che conosceva, e che non rivelò mai né per vendetta, né per necessità di denaro o attenzione che un uomo tradito e rinnegato spesso cerca di ottenere, morirono con lui. L’autore di "The Spy Who Was Left Out in the Cold" ha dichiarato che il controspionaggio britannico continua a negargli l’accesso alla maggior parte dei documenti che potrebbero rivelare il tassello mancante nell’ascesa e nella caduta di colui che reputa essere stato una delle spie più influenti della Guerra Fredda. “Non ha senso tenere segrete informazioni che riguardano un uomo che ha disertato sessant’anni fa dopo tre decenni dalla caduta della cortina di ferro”, afferma. Forse si sbaglia.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Chi sono i fedelissimi di Putin. Francesca Salvatore su Inside Over il 17 febbraio 2022.  

Era il dicembre 1999 quando, dieci anni dopo il crollo del Muro, Boris Eltsin annunciò inaspettatamente le sue dimissioni e nominò Vladimir Putin presidente ad interim. Promettendo di ricostruire una Russia indebolita, l’austero e riservato Putin vinse facilmente le elezioni del marzo 2000 con circa il 53% dei voti. Da subito individuato come un hardliner, nemico giurato di oligarchi e affaristi, ha costruito un’immagine da uomo solo al comando, differente dai leader storici sovietici, così schiavi del partito dei militari. Ma Putin è tutto tranne che solo nel guidare la Russia nel nuovo millennio e il suo cerchio magico ne è la dimostrazione. Mentre ora è all’apice del suo potere come presidente russo, è da lungo tempo circondato da alcuni funzionari, sia dentro che fuori il famoso gruppo di Pietroburgo, chiamato anche dei siloviki, la parola russa per indicare tutti gli uomini e l’intero apparato di agenzie dedite alla sicurezza antioccidentale. Questi uomini potenti – in gran parte nati nell’Unione Sovietica degli anni ’50, hanno stabilito posizioni ancora più reazionarie del loro presidente, e sono in prima linea nella lotta contro presunti nemici in patria e all’estero. L’aria di crisi e il conflitto con l’Occidente non restringe i loro ruoli, anzi, permette loro di estendere la propria rete di hard e soft power.

Sergej Shoigu: il più popolare dopo Putin

Classe 1955, dal 2012 è ministro della Difesa. Il membro di gabinetto più longevo della Russia e il suo secondo politico più popolare dopo Putin, spesso dato come prossimo leader russo. Sergej Shoigu ha avuto un ruolo chiave nel rilancio delle forze armate russe, culminato nel loro dispiegamento “di successo” in Siria. La sua agiografia lo vuole come salvatore dell’esercito, ed è su quello che è stato definito “fenomeno Shoigu” che si fonda il suo potere da tecnocrate. Sebbene Shoigu non sia mai stato un soldato, ha ricevuto la prestigiosa medaglia di Eroe della Federazione Russa (come il suo rivale Chemezov) e la sua frequente apparizione in uniforme aiuta a rafforzare la sua immagine di uomo d’azione e difensore della Patria. Nostalgico della Siberia, ha lanciato un enorme progetto che qui porterà alla costruzione di nuove città.

 Sergej Shoigu  

Il suo nome è tipicamente russo, pur essendo originario di Tuva, una provincia povera abitata da buddisti di lingua turca che confina con la Cina nord-occidentale. Alcuni intellettuali tuvani lo considerano addirittura una reincarnazione di Subedei, un generale mongolo il cui esercito ha devastato quelle che oggi sono Russia e Ucraina otto secoli fa: una mitopoiesi d’eccellenza. Shoigu ha iniziato la sua carriera all’inizio degli anni ’90 come capo del ministero delle Emergenze, rendendolo una struttura militarizzata altamente efficace e in cima a tutte le classifiche politiche anni prima che Putin diventasse presidente. Asseconda l’interesse di Putin per la vita all’aria aperta come presidente della Società geografica russa ed è proprio lui l’uomo che viene ritratto nelle immagini in cui il presidente è a pesca o a caccia nei boschi siberiani, un’unzione simbolica che secondo alcuni lo rende il suo più probabile successore.

Nikolai Patrushev: il nostalgico dell’era sovietica

Classe 1951, ha servito come Direttore del Servizio di sicurezza federale russo (FSB), che è la principale organizzazione succeduta al KGB dal 1999 al 2008, ed è Segretario del Consiglio di sicurezza della Russia dal 2008. Fra i siloviki d’acciaio, Patrushev è uno dei maître à penser della attuale glorificazione del passato sovietico. Patrushev sostiene che il crollo dell’Unione Sovietica “ha completamente sciolto le mani dell’élite neoliberista occidentale”, consentendole di imporre i suoi valori non tradizionali al mondo. Lui e i suoi colleghi hanno definito la Russia una nazione destinata a riconquistare quello status di baluardo contro l’Occidente, con l’Ucraina e altri paesi post-sovietici appartenenti alla legittima sfera di influenza di Mosca. Per questo ha descritto la russofobia in Ucraina come il risultato di una campagna di propaganda occidentale che risale a “scribi europei gelosi” che hanno infangato nientemeno che la figura di Ivan il Terribile.

 Nikolai Patrushev  

Mentre la politica estera russa spetta ufficialmente al ministro degli Esteri Sergey Lavrov, il vero processo decisionale è sempre più guidato da una piccola cerchia di ufficiali dell’intelligence e funzionari della Difesa con stretto accesso a Putin come Patrushev. Con gran parte della sua carriera trascorsa nell’ombra, Patrushev ha poche prove pubbliche del suo coinvolgimento nella politica estera. Ma è noto per essere stato uno del piccolo gruppo di consiglieri vicini a Putin intimamente coinvolti nella pianificazione dell’annessione della Crimea nel 2014. Il profilo crescente di Patrushev nei Balcani è coinciso con l’ aumento dell’attività russa nella regione negli ultimi anni.

Valery Gerasimov: il militare di ferro

Classe 1955, è l’attuale Capo di stato maggiore generale delle Forze armate russe. Ha frequentato la Scuola militare a Kazan e, tra gli Anni ‘70 e ‘80, ha iniziato la carriera nell’Armata Rossa. Shoigu lo ha descritto come “un militare fino alla radice dei capelli”, fin dai tempi del  Northern Group of Forces. Dopo aver prestato servizio nei distretti militari dell’Estremo Oriente e del Baltico, è diventato capo di stato maggiore della 58a armata nel distretto militare del Caucaso settentrionale nel 1999, poco prima dello scoppio della seconda guerra cecena.

Valery Gerasimov

Secondo il servizio di sicurezza dell’Ucraina, Gerasimov è stato il ​​comandante generale di tutti gli elementi delle forze russe e anche dei ribelli filo-russi durante la loro decisiva vittoria strategica nella battaglia di Ilovaisk nel 2014, dove furono uccisi oltre 1.000 soldati ucraini. Per questa ragione, dal 2014 è nel libro nero dell’Unione Europea a causa di “azioni che ledono o minacciano l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina.

Sergei Naryshkin: il depositario della storia russa

Classe 1954, è Capo dell’intelligence straniera (SVR) dal 2016. Sergei Naryshkin è un alleato di Putin di lunga data e, secondo le notizie ufficiali che circolavano al momento della sua nomina, ha servito al fianco del presidente presso il KGB. Sua priorità speciale sembra essere la lotta senza quartiere per la storia russa, intrisa di teorie sul presunto decadimento morale della società occidentale. Non a caso sovrintende alla Russian Historical Society, aiutando a guidare l’istituto nel glorificare – e, secondo i critici, imbiancare – il passato della Russia. Nel 2009 Naryshkin è stato nominato presidente della Commissione russa per la verità storica, istituita per “contrastare i tentativi di falsificare la storia a scapito degli interessi della Russia”. Sotto la sua guida, l’SVR ha raddoppiato la sua campagna di pubbliche relazioni per plasmare la sua nuova immagine di organo potente e professionale, lontano dai metodi del KGB.

Sergei Naryshkin  

L’Ucraina è fra le ossessioni di Naryshkin. Insieme all’FSB, il servizio di sicurezza interna e controspionaggio, l’SVR gestisce da tempo spie e doppiogiochisti in Ucraina e nel mondo, supervisionando al contempo le operazioni di disinformazione globale: “Una specie di macchina del tempo ci sta riportando agli anni peggiori dell’occupazione di Hitler”, ha detto Naryshkin dell’Ucraina nelle scorse settimane, descrivendo il suo governo filo-occidentale come una “vera dittatura”. Dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel marzo 2014, è stato incluso nell’elenco dei funzionari russi sanzionati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Proprio come altri membri della cerchia ristretta di Putin, tuttavia, ha accettato la sanzione come una medaglia sul petto. Da circa un anno i rumors lo vorrebbero come papabile sostituto di Sergey Lavrov agli Esteri.

Aleksandr Bortnikov: l’uomo dell’intelligence

Classe 1951, è Capo del Servizio federale per la sicurezza (FSB), tuttavia si ritiene che abbia meno influenza su Putin di Patrushev o Naryshkin nonostante sia un siloviko. Bortnikov svolge un ruolo chiave nel mantenere il controllo di Putin sul Paese. Il tentacolare apparato di sicurezza che dirige impiega centinaia di migliaia di persone ed è responsabile di tutto, dall’antiterrorismo alla sicurezza delle frontiere, al controspionaggio, alla sorveglianza elettronica e, ufficiosamente, al contenimento dell’opposizione politica. Suo figlio Denis è il vicepresidente del consiglio di amministrazione della banca statale VTB Bank.

Aleksandr Bortnikov  

Il caso dell’avvelenamento di Alexander Litvinenko pose l’FSB sotto i riflettori internazionali. Litvinenko, che aveva ottenuto asilo nel Regno Unito, era stato bollato come “traditore” in Russia. L’inchiesta ufficiale del Regno Unito concluse che gli assassini probabilmente avevano l’approvazione di Putin e dell’allora capo dell’FSB, Nikolai Patrushev. FRANCESCA SALVATORE

Russia Unita, tra Putin e putinismo. Pietro Emanueli su Inside Over l'1 febbraio 2022.

Russia Unita, spesso e volentieri, viene indicata come il “partito di Putin”. Un’affermazione che contiene sicuramente del vero, perché Vladimir Putin è colui al quale si deve la nascita del partito, ma che è al tempo stesso erronea. Perché Russia Unita, più che il partito di Putin, è il partito del putinismo.

Origini e ragioni di Russia Unita

Russia Unita è l’evoluzione naturale di Unità, un blocco rispondente allo Stato profondo e fondato allo scopo di competere contro Patria di Yuri Luzhkov alle elezioni legislative del 1999. I guardiani del Cremlino erano stati testimoni dello scoppio dell’anarchia con Boris Eltsin, che avrebbero detronizzato di lì a breve, e temevano che l’eventuale vittoria di Luzhkov avrebbe potuto peggiorare ulteriormente le cose.

Non Eltsin, che sarebbe stato destituito entro fine anno, ma nuovi personaggi avrebbero dovuto rappresentare Unità, trasformandolo nel partito della sicurezza e dell’affidabilità agli occhi dell’opinione pubblica. Personaggi come Sergej Shoigu, al quale fu affidata la guida del partito, e come Putin, de iure indipendente ma de facto portabandiera del partito.

L’operazione Unità, alla fine, avrebbe avuto successo: il partito dello stato profondo terminò la corsa elettorale in seconda posizione, dietro ai comunisti di Gennady Zyuganov – con una differenza di un solo punto percentuale: 24,3% contro 23,3% – ma davanti ai nazionalisti di Luzhkov – fermi al 13,3%.

A quel punto, complice l’imminente fuoriuscita di Eltsin e l’ascesa di Putin, Unità avrebbe avanzato un’offerta irrefutabile all’ex rivale Patria: fusione in ottica di spartizione del potere e di esclusione dei comunisti dall’esecutivo. Luzhkov, intravista e colta la rilevanza dell’opportunità, avrebbe accettato la proposta, benedicendo, nel 2001, la firma dell’atto di nascita di Russia Unita.

Ascesa e declino

Russia Unita ha egemonizzato in maniera quasi monopolistica il panorama politico russo fino alla prima metà degli anni Dieci del Duemila. Sono gli anni del miracolo economico, almeno fino alla crisi finanziaria globale del 2008, e della guerra del FSB al terrorismo dei separatisti islamisti del Caucaso settentrionale, che vale a Putin la fama di “duro”; una concatenazione dai risvolti positivi, fonte di benessere e sicurezza, che per il partito significa voti. Tanti voti.

Alle legislative del 2003, primo banco di prova elettorale dell’era Putin, Russia Unita ottiene un terzo del favore popolare: il 37,75% dei suffragi – ovverosia più della somma di tutti i voti ricevuti dai quattro successivi partiti. Vero zenit di Russia Unita, ad ogni modo, saranno le legislative del 2007, terminate con un fragoroso 64,3%.

L’elevata popolarità di Putin, il supporto unanime della stampa e l’adozione di politiche economiche e sociali a sostegno del benessere collettivo sono le principali ragioni del successo di Russia Unita. L’involuzione di Putin da stella a meteora, l’avvicinamento di segmenti influenti della stampa all’opposizione e agli oligarchi in esilio – propedeutica alla realizzazione delle prime inchieste giornalistiche contro la corruzione dilagante nelle file del partito – e l’avvento dell’austerità sono i motivi del declino. Un declino cominciato all’indomani della crisi finanziaria globale e divenuto più evidente e grave con lo scorrere del tempo.

Russia Unita oggi

Russia Unita continua ad esistere per due ragioni: è (ancora) il partito dello stato profondo, che fatica a trovare valide alternative, ed è il punto di riferimento di quella parte di elettorato che teme tanto un ritorno all’epoca eltsiniana quanto l’ascesa al potere dei comunisti e che vede in Putin una sorta di uomo della provvidenza.

Perdita di memoria storica – la lenta scomparsa di coloro che hanno vissuto l’Unione Sovietica –, ascesa di una nuova generazione – che non ha conosciuto l’anarchia eltsiniana – e diffusione di sentimenti antisistema – emblematizzati dall’emersione di figure come Aleksei Navalny – hanno poco alla volta ristretto l’utenza di Russia Unita, per la quale il periodo 2011-21 è stato il “decennio della recessione”.

È vero: Russia Unita, nel corso del decennio della recessione, ha terminato in prima posizione la principale gara elettorale, cioè quella legislativa, ma lo ha fatto segnando dei record discendenti – dal 64,3% del 2007 al 49,8% del 2021. E alivello regionale, invece, sono andate aumentando le sconfitte e le cessioni di terreno, o meglio di oblast, ai concorrenti comunisti.

Consapevole della disillusione e del malcontento serpeggianti nell’opinione pubblica, che in maniera crescente associa Russia Unita con la corruzione, Putin si è eloquentemente allontanato dal partito negli ultimi anni Dieci, o meglio ha smesso di esserne il portabandiera, investendo nella costruzione di una nuova immagine pubblica: autonomo e al servizio del popolo, non di un partito. Costruzione divenuta palese nel 2018, quando decise di competere per la presidenza come candidato indipendente.

Una nuova Russia va lentamente prendendo forma, e si schiuderà definitivamente nel dopo-Putin, e diversi elementi sembrano indicare che non vi sarà spazio per Russia Unita, espressione politica di una forza ideologica transitoria – il putinismo – che va esaurendo la sua funzione storica. Ma se e quando l’epopea del partito dello stato profondo avrà fine, sarà soltanto ed esclusivamente lo stato profondo a decidere.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 30 gennaio 2022.

Ora che Joe Biden minaccia di colpirlo «con sanzioni ad personam» si risolleva la questione della ricchezza personale di Vladimir Putin. Negli anni, le rivelazioni degli oppositori - come la Versailles sul Mar Nero - e inchieste come i Pandora e i Panama Papers ne hanno ricostruito alcune propaggini.

Ma tra gli osservatori e le diplomazie occidentali c'è un generale accordo che sia incommensurabile. Fa testo una sola stima. In un'audizione al Senato Usa, nel 2017, l'imprenditore Bill Browder (diventato critico del Cremlino dopo una vita a capo di uno dei più grandi fondi d'investimento in Russia) ha stimato la fortuna di Putin in «200 miliardi di dollari di denaro sporco», occultati all'estero. Fortuna che ne farebbe l'uomo più ricco del mondo, se 4 anni dopo il titolo va a Elon Musk con 238 miliardi. Il Cremlino dichiara proprietà e rendite modeste.

Un salario pubblico di circa 130 mila euro l'anno (dato 2020). Un appartamento da 77 mq, un garage da 18, due auto vintage Volga GAZ M21, un Suv. «Tutte le proprietà di Putin sono in Russia». 

In pochi lo credono. Ancora ieri, un diplomatico britannico sul Times parlava di «Londongrad», alludendo alla collocazione di parte delle ricchezze del presidente nel Regno Unito, con la protezione del governo conservatore, che da Mosca riceve donazioni (2 milioni di sterline nel 2019).

Fortune nascoste

L'elenco del Cremlino non comprende, ad esempio la faraonica villa sul Mar Nero, a Gelendzhik, la cui esistenza è stata svelata un anno fa dai droni della «Rete anticorruzione» dell'oppositore Navalny.

Sopra la villa ci sono diversi km quadrati di «no-fly zone», e il palazzo, 14 mila metri quadri, ha posti di blocco, un porto adiacente, una chiesa. Il parco, grande 39 volte il Principato di Monaco, è gestito dal Servizio Federale per la Sicurezza, organo speciale nato sulle ceneri del Kgb, di cui Putin è stato presidente. La villa sarebbe costata 1,1 miliardi di euro e - secondo l'oppositore - donata a Putin come maxi-tangente.

L'inchiesta di Navalny ricostruisce la storia delle proprietà, elencando i prestanome incaricati di detenerne le chiavi. Formalmente il palazzo appartiene all'uomo d'affari Alexander Ponomarenko. 

Ma nessun imprenditore ha una no-fly zone sulla sua villa, o la guardia presidenziale come security. Già nel 2012, l'oppositore Boris Nemtsov, poi assassinato, aveva redatto un'inchiesta sulla fortuna segreta di Putin. Vi elencava - «sono beni a sua disposizione», fu la difesa del Cremlino - 21 tra ville e palazzi, 15 elicotteri, 43 aerei, due yacht.

Anche nei «Panama Papers» ci sono rivelazioni. Una figura chiave: il violoncellista Sergej Roldugin, amico d'infanzia e «custode» di almeno due miliardi di dollari per suo conto. Più dense le scoperte dei Pandora Papers, nel 2021, ancora a cura dell'International Consortium of Investigative Journalism.

Come sempre il nome di Putin non appare, ma ci sono quelli di molti degli uomini a lui vicini e «miracolosamente» ricchissimi: tra loro, Svetlana Krivonogikh, sua amante, da cui avrebbe avuto una figlia.

Il patto con gli oligarchi

Ma come è stato accumulato questo immenso patrimonio fantasma? È ancora Bill Browder a raccontare, di prima mano, il «patto con gli oligarchi» stretto da Putin dopo l'arresto di Mikhail Khodorkovsky: il presidente pretenderebbe il 50% dei proventi di tutti. Chi si rifiuta, finisce in prigione e - come Khodorkovsky, uomo più ricco di Russia nel 2002 e poi incarcerato ed espropriato - finisce per dargliene il 100%.

Un'altra teoria è quella dell'economista svedese Anders Aslund. Come «scagnozzi mafiosi», scrive, amici e famigliari del presidente si intestano beni al posto suo. Lui li fa prosperare e in cambio pretende un «pizzo». Un esempio: l'ex compagno di judo Arkady Rotenberg, magnate delle Olimpiadi di Sochi.

O l'ex genero Kirill Shamalov, grande dirigente della banca d'affari Gazprombank. Già Barack Obama, quando nel 2016 aveva promesso «una rappresaglia» per l'interferenza russa sul voto Usa, era stato consigliato dagli analisti della sua intelligence a rendere pubblica la grande ricchezza di Putin. Questa operazione non si fece. Ora Biden ha promesso «sanzioni personali»: non è escluso che si basi su informazioni di intelligence raccolte proprio da allora.

Alla scoperta della setta che adora Putin. Pietro Emanueli su Inside Over il 7 febbraio 2002.  

La millenaria civiltà russa presenta un’antica, lunga e radicata tradizione di sovrani e condottieri che vengono investiti di santità, e talvolta beatificati quando ancora in vita, dal popolo e dal clero ortodosso. È una forma di venerazione che affonda le radici nella notte della creazione di quell’universo civilizzazionale che è la Russia e che nei secoli ha condotto alla divinizzazione di Vladimir, il battezzatore della Rus’ di Kiev, alla santificazione di Aleksandr Nevskij e alla canonizzazione degli ultimi Romanov, ai quali è stato riconosciuto il titolo di portatori di passione (страстотéрпец).

Quella che per gli osservatori esterni potrebbe essere una semplice quanto bizzarra forma di idolatria diretta al potente di turno, o ad un capo carismatico del passato, per i russi è una questione di identità. Perché non sono carisma e potere i metri di misurazione impiegati da popolo e clero per la canonizzazione: è l’annullamento totale dell’Io in difesa della Patria, è l’essere ciò che Rudolf Otto aveva definito Totalmente altro (ganz Anderes).

La tradizione della canonizzazione dei grandi condottieri della Terza Roma è sopravvissuta all’erosione del tempo, in quanto componente essenziale e peculiare dell’identità russa, ed è giunta sino a noi. Lo dimostra l’eterna popolarità di Stalin. E lo dimostra la presenza di una setta, la Chiesa della Resurrezione della Russia, che pone Vladimir Putin al centro della propria escatologia.

Lontani e autoreclusi

La Chiesa (o Cappella) della Resurrezione della Russia è stata fondata nel 2007 da madre Fotina, all’anagrafe Svetlana Frolova, ed è una setta ortodossa – bollata come scismatica dal Patriarcato di Mosca – avente la figura di Vladimir Putin al centro del suo insieme liturgico e della sua alquanto balzana visione escatologica.

Composta da sole donne, poiché concepita come un ordine monastico femminile, la Chiesa della Resurrezione vive in una dimensione spaziotemporale a se stante, lontana dal fragore delle grandi città e in una condizione di volontaria autoesclusione dal mondo. Perché le suore di madre Fotina, invero, vivono all’interno di un santuario localizzato in un remoto villaggio, Bolshaya Yelnia, a breve distanza da Nižnij Novgorod.

Tra ortodossia e apocalittismo

Il Patriarcato di Mosca non ha mai avuto dubbi su questa setta: è più che scismatica, è un’eclettica follia in odore di New Age. Non è dato sapere quanti membri abbia la Chiesa della Resurrezione, che non ha mai permesso l’ingresso dei riflettori all’interno del villaggio, ma la sua tavola di credenze è di dominio pubblico: Putin sarebbe la reincarnazione di Paolo l’apostolo, l’Apocalisse sarebbe prossima a materializzarsi.

Secondo madre Fotina, colei che ha forgiato l’intera struttura liturgica e dogmatica della setta, Putin sarebbe la ierofanica metempsicosi di Paolo di Tarso – come lui fu un persecutore di cristiani, in quanto al servizio dell’Unione Sovietica – e sarebbe stato inviato sulla Terra per redimere il popolo russo in vista dell’imminente Fine dei tempi.

Affinché Putin possa espletare il mandato che gli è stato affidato, cioè la preparazione della Russia all’arrivo dell’Anticristo e alla Seconda venuta, le suore di madre Fotina pregano quotidianamente, con lo sguardo rivolto verso una croce affiancata da una sua foto, alternando orazioni ortodosse e canti patriottici.

Malviste dal Patriarcato di Mosca, e ritenute un pittoresco folclorismo dagli abitanti di Nižnij Novgorod, le seguaci della Chiesa della resurrezione sono tutt’altro che sconosciute al Cremlino. Dmitrij Peskov, lo storico portavoce di Putin, nel 2011 si era detto impressionato dalla stima da loro riposta nell’operato di colui che ha ricostruito la Russia nel dopo-Eltsin. Peskov, ad ogni modo, era stato laconico nell’elaborazione di un giudizio finale sulla setta: “uno dei principali comandamenti dice di non adorare i falsi idoli”.

Sposare la figlia di Putin ti cambia la vita. L’archivio di Kirill Shamalov lo dimostra.

ROMAN ANIN, DENIS DMITRIEV, OLESYA SHMAGUN, ROMAN SHLEYNOV, DMITRY VELIKOVSKI, SONYA SAVINA, IRINA DOLININA, ALESYA MAROKHOVSKAYA su Il Domani il 22 Gennaio 2022.

Un archivio di email svela come Kirill Shamalov, che è stato sposato con la figlia di Putin, ha aumentato ricchezza e potere grazie alla relazione a dir poco stretta con il presidente.

Questo articolo è risultato vincitore dello European Press Prize 2021, nella categoria Investigative Reporting, ed è stato pubblicato in origine su IStories e Occrp.

La ripubblicazione in italiano è possibile grazie alla collaborazione tra Domani e lo European Press Prize. Distribuzione e traduzione sono a cura di Voxeurop.

In Russia pochi segreti sono custoditi così gelosamente come le informazioni essenziali sulla famiglia del presidente Vladimir Putin. La sua biografia ufficiale conferma che Putin e l’ex moglie hanno avuto due figlie, Maria e Katerina. Ma né Putin né il suo servizio stampa hanno mai rivelato i nomi completi delle figlie o informazioni sulla loro famiglia o sulla loro carriera.

Tra le poche informazioni che i giornalisti sono stati in grado di ricostruire c’è il fatto che la figlia minore di Putin, Katerina, è stata sposata con un uomo chiamato Kirill Shamalov. Shamalov è chiaramente  un uomo ricco: è diventato il più giovane miliardario della Russia, a soli 32 anni. Eppure il suo nome non è noto ai più, e ci sono poche informazioni su come abbia messo insieme la sua immensa fortuna. 

Ora per la prima volta se ne sa un po’ di più. All'inizio del 2021, i giornalisti di IStories, il partner russo del consorzio giornalistico investigativo Occrp, hanno avuto accesso a un archivio di email di Shamalov, fatto trapelare da fonte anonima. Il leak contiene più di 10mila messaggi che vanno dal 2003 al 2020: una panoramica senza precedenti su un uomo che ha accesso come pochi ai meccanismi interni della vita politica russa. La fonte non ha rivelato come ha ottenuto le email, ma i messaggi stessi suggeriscono una risposta.

UN TESORO DI INFORMAZIONI 

Nel giugno 2019 l'Istituto Hasso Plattner, con sede all'Università di Potsdam in Germania, specializzato in sicurezza informatica, ha inviato a Shamalov un avvertimento: le sue informazioni di accesso sono state rinvenute all’interno di  “Collection No. 1”, un archivio di milioni di password e indirizzi email che era stato compilato e messo in vendita online da un hacker ucraino.

Shamalov non sembra capire il messaggio: inoltra l'email al suo assistente con la domanda «Cos'è questo?».

Pubblicare fughe di notizie da fonti anonime è una decisione difficile. Prima di tutto, l'autenticità può essere discutibile. Il processo di verifica dell'archivio è iniziato con la strutturazione e l’indicizzazione delle email da parte degli analisti di dati dell'Occrp. I reporter di IStories hanno poi trascorso quasi un anno a verificare l’archivio: hanno controllato le intestazioni delle e-mail, hanno parlato con i mittenti e hanno verificato le informazioni nei registri delle aziende, nei database immobiliari, nei social network e in altre fonti pubbliche. La nostra conclusione è che le email sono autentiche. Un'altra questione è la privacy: la scelta è non pubblicare l’archivio in maniera indiscriminata.

Oltre a confermare senza alcun dubbio che Shamalov ha sposato la figlia di Putin, Katerina, che usa il cognome Tikhonova, l'archivio contiene una serie di altre rivelazioni sui vantaggi finanziari che Shamalov ha ottenuto e sull'influenza di cui ha goduto grazie all’ingresso nella “first family della Russia. La sua evidente capacità di gestire le risorse amministrative e le connessioni personali a beneficio finanziario suo, dei suoi amici e partner commerciali, è rivelatore del meccanismo corrotto tra potere e affari che caratterizza la Russia moderna.

Kirill Shamalov e Katerina Tikhonova hanno entrambi rifiutato di commentare questo articolo. Il portavoce di Vladimir Putin, Dmitry Peskov, ha risposto con una frase: «Abbiamo già lasciato diverse volte queste domande senza risposta».

IL CERCHIO MAGICO

A metà degli anni Novanta, Putin e Shamalov “senior” facevano parte di un gruppo di amici che fondò Ozero, una comunità privata di case estive vicino a San Pietroburgo. In seguito all’elezione di Putin i vicini di Ozero sono diventati alti funzionari del governo o si sono trovati alla direzione di aziende statali. Tre dei co-fondatori di Ozero sono stati sanzionati dagli Stati Uniti nel 2014 durante l’invasione della ‘Ucraina da parte di soldati russi.

Il nome di Shamalov è diventato noto ai più nel 2010, quando il suo ex socio d’affari Sergei Kolesnikov ha pubblicato una lettera aperta all'allora presidente, Dmitry Medvedev, denunciando la corruzione nella costruzione di una sontuosa residenza del valore di 1 miliardo di dollari sul mar Nero per Putin, allora premier.

Secondo Kolesnikov, Shamalov era una figura centrale per il funzionamento delle operazioni, sviluppato su volere di Putin: a una azienda  medica venivano offerti lucrosi contratti di sanità pubblica, finanziati da ricchi oligarchi, in cambio della promessa di trasferire oltre un terzo del denaro così ottenuto su conti bancari esteri. Questo denaro è stato poi utilizzato per costruire il "Palazzo di Putin" vicino a Gelendzhik.

Dopo essersi scontrato con Shamalov, Kolesnikov ha lasciato il paese e ha pubblicato la sua lettera aperta a Medvedev. Nonostante la storia sia diventata uno scandalo e nonostante sia stata confermata da documenti e registrazioni che sono arrivati alla stampa, non ci sono state reazioni ufficiali.

Secondo un conoscente, Nikolai Shamalov, che ha compiuto 70 anni nel 2020, si è ritirato dagli affari e dalla vita pubblica e trascorre gran parte del suo tempo andando a caccia. Il figlio maggiore (e fratello maggiore di Kirill)  Yuri, dirige dal 2003 uno dei più grandi fondi pensione privati della Russia.

Kirill Shamalov è il figlio di Nikolai Shamalov, uno dei più vecchi e stretti amici di Putin.

Molti membri dell'élite al potere in Russia sono vecchi soci di Putin che lo hanno seguito a Mosca assumendo, dopo la sua ascesa alla presidenza, posti chiave del governo. Si tratta di vicini di dacia, di casa vacanze insomma, compagni di judo, massaggiatori, funzionari: sono talvolta chiamati “Piterskie”, dalla natale San Pietroburgo. Il termine, per analogia con altri epiteti geografici come Tambovskie o Izmailovskie, odora di crimine organizzato.

Molti di questi personaggi sono ancora in attività. Nei due decenni di presenza al potere di Putin  i loro figli e nipoti hanno accumulato ricchezza e potere, salendo verso le posizioni più elevate. Li possiamo chiamare i "nuovi Piterskie".

I NUOVI PITERSKIE IN ASCESA 

L'archivio email di Shamalov presenta un curioso ritratto di questo gruppo. Molti di loro, come lui stesso, hanno studiato giurisprudenza all'Università statale di San Pietroburgo. Discutono sul fatto di assumere posizioni nel governo, nelle aziende statali e nelle grandi imprese, notando che quando arriveranno a Mosca la città sarà diversa da quella che i loro genitori hanno conquistato.

Ma alcune cose non cambiano. Come nel mondo dei loro genitori, le connessioni personali sono tutto per i nuovi Piterskie. A giugno 2004, quando Shamalov era all'ultimo anno di studi, ha ricevuto una mail da un compagno di classe, Yan Piskunov: «Amico, organizzeremo il tutto nel miglior modo possibile! Sarà bellissimo. La cosa principale è discutere l'organizzazione».

Il messaggio fa riferimento al fatto di aiutare Shamalov a preparare la discussione della sua tesi, e consegnargli un discorso da presentare davanti alla commissione d'esame. Qualche giorno dopo, la presentazione era pronta: scrive ancora Piskunov, «Bozza di discorso allegata». Ed ecco la presentazione di una tesi in diritto immobiliare.

Il gioviale Piskunov aveva davanti a sé una carriera che sarebbe stata il sogno di qualsiasi studente russo. Non molto tempo dopo essersi laureato, all'età di 25 anni, ha avuto accesso a un posto di direzione alla Gazprom-Media, la più grande holding di mezzi d’informazione del paese, diventandone il vicedirettore generale e il capo del dipartimento legale.

Il gruppo, che comprende emittenti popolari come i canali televisivi NTV e TNT e la stazione radio “Eco di Mosca”, appartiene all’istituto bancario privato Gazprombank. Che si tratti di una coincidenza o no, il fratello maggiore di Shamalov, Yuri, siede sia nel Consiglio di amministrazione della holding dei media che in quello della banca. Non ha risposto alle nostre richieste di commento.

Nel settembre 2009, Piskunov è riapparso nella corrispondenza di Shamalov quando un conoscente gli ha scritto, facendogli una richiesta insolita, ma estremamente franca: «Domanda: è possibile cambiare la posizione di Piskunov e Pleshkov nei confronti l'aeroporto di Vnukovo, o neutralizzare le loro attività?».

Un promemoria allegato all'email fornisce il contesto: due dei principali aeroporti di Mosca, Vnukovo e Domodedovo, erano stati coinvolti in una controversia commerciale, che era stata risolta a favore di Domodedovo. Stando alla persona che scrive, i tribunali avevano preso la decisione "sotto la pressione" di Dmitry Pleshkov, che avrebbe agito «per conto di Yan Borisovich Piskunov di Gazprom-Media». Lo scrivente stava chiedendo a Shamalov se questi due uomini potevano essere influenzati in modo da favorire l'aeroporto di Vnukovo.

Non ci sono prove che Shamalov abbia fatto richieste a Piskunov o Pleshkov per intervenire nella disputa. Ma un mese dopo, la Corte federale di arbitrato del distretto di Mosca ha ribaltato la precedente decisione del tribunale, facendo risparmiare milioni a Vnukovo. Esattamente quello che il conoscente di Shamalov aveva chiesto.

Shamalov aveva solo 27 anni in quel momento, ma già un curriculum impressionante: aveva lavorato per Gazprom, Gazprombank, il governo russo e Rosoboronexport, il principale esportatore di armi del paese. Al momento era vicepresidente per il supporto amministrativo a Sibur, la più grande società petrolchimica russa. Ma cose molto più grandi stavano per succedere.

IL MATRIMONIO D’ORO

Nel 2013, come riportato da diverse fonti tra cui Reuters, Shamalov ha sposato una donna, Katerina Tikhonova, descritta come la figlia di Putin. Il Cremlino ha rifiutato di confermare. Le email di Shamalov, comunque, non lasciano dubbi: confermano che Tikhonova e Shamalov si sono sposati nel febbraio 2013. Le prove  indicano che Shamalov conosceva Katerina da quasi tutta la vita.

Nell'estate precedente il matrimonio, la coppia era impegnata a organizzare una vita lussuosa in Russia e in Francia. Il 2 giugno 2012, Shamalov ha ricevuto un'email dalla donna che era incaricata della ricostruzione e della decorazione della casa per la giovane coppia a Usovo, un villaggio in una zona riservata alle élite vicino a Mosca, non lontano dalla residenza del presidente, a Novo-Ogarevo. In allegato alla mail, una lista di acquisti per un piccolo gazebo da esterni da 53mila euro. Ancora più costoso era un tappeto per la biblioteca, che la coppia ha acquistato per 54.300 euro.

Shamalov riceveva frequenti rapporti sui progressi della casa grazie ai quali è possibile stimarne il costo totale. La ristrutturazione, i mobili e le attrezzature sono arrivati a quasi 8 milioni di euro. Aggiungendo il costo stimato del terreno e della casa stessa, il possibile prezzo totale della villa è compreso, circa, tra i 15 e i 17 milioni di euro. Ma la casa di Usovo non era l'unica proprietà costosa della coppia.

Nell'ottobre 2012, attraverso una società di Monaco chiamata Alta Mira, Shamalov ha acquistato una villa nella città turistica francese di Biarritz dalla famiglia di Gennady Timchenko, un amico di lunga data di Putin e un miliardario con interessi nell'energia, nei trasporti e nelle infrastrutture. A giudicare dai documenti, questa villa è costata 4,5 milioni di euro. Anche la decorazione di questa casa rivela i gusti costosi della coppia.

Alla fine di gennaio Shamalov ha iniziato a spedire gli inviti con una descrizione dettagliata dell’elaborato dress code  per i tre giorni e notti di festa. Gli sposi hanno invitato circa 100 ospiti, compresi sei ufficiali del servizio di sicurezza presidenziale che sono rimasti nelle vicinanze a scopo protettivo. Curiosamente, la lista non includeva i genitori della Tikhonova – Putin e la moglie (la coppia all’epoca non aveva ancora annunciato il divorzio) – anche se l’omissione potrebbe essere dovuta a motivi di sicurezza.

Il 1° febbraio Shamalov ha ricevuto il programma definitivo. Il primo giorno includeva un "tea party russo" con un samovar, dolci tradizionali e panini, seguito da una cena pre-matrimoniale. La mattina del secondo giorno era previsto il matrimonio della giovane coppia in chiesa, seguito da festeggiamenti in strada chiamati "festa russa in piazza" e da un banchetto di nozze, poi una cantante famosa.

LA RICCHEZZA ELEVATA A POTENZA

A partire dal periodo successivo al matrimonio la ricchezza di Shamalov è esplosa a livelli stratosferici.

A giudicare dalle email, Shamalov possedeva già una rete di società offshore quando si è sposato. La maggior parte di queste società, gestite da avvocati di diversi paesi, erano registrate a nome di uomini di paglia. Il principale custode dei segreti offshore di Shamalov era Dario Item, ambasciatore del piccolo Stato caraibico di Antigua e Barbuda accreditato in Spagna, Monaco e Liechtenstein. Nel giugno 2013 la società offshore di Shamalov in Belize, Kylsyth Investments Limited, ha acquistato 38mila azioni di una società offshore con sede a Guernsey, Themis Holdings Limited, da un’altra offshore, Volyn Portfolio Corp, con sede nelle Isole Vergini Britanniche. Themis Holdings era, in quel momento, la società madre di Sibur. In altre parole, acquistando le azioni di Themis, Shamalov aveva acquisito il 3,8 per cento della più grande società petrolchimica russa, e lo ha fatto per la sorprendente cifra di 100 dollari. Shamalov ha successivamente stimato il valore di Sibur in 10 miliardi di dollari (dell'epoca), il che significa che la sua quota valeva 380 milioni di dollari. Aveva così acquisito una ricchezza incredibile praticamente per bruscolini. L'ufficio stampa di Sibur dice che «non c'erano condizioni esclusive per Shamalov». Ma il genero di Putin. è stato l'unico che ha usato il programma di stock options per acquisire tanta ricchezza praticamente a nessun costo. E questo è stato solo l'inizio della sua fortuna post-matrimoniale.

Mentre si installava nel suo ruolo e nella sua carriera alla Sibur, Shamalov attirava frotte di consiglieri e assistenti che andavano alla ricerca di progetti in cui investire, scrivevano sunti per i suoi discorsi, proprio come quando era uno studente: ciò gli ha permesso di scegliere dove investire, proprio come noi potremmo scegliere il latte al supermercato. Le migliori menti della Russia erano, evidentemente, desiderose di fare affari con il giovane businessman.

Ad agosto 2014, Shamalov ha registrato una società chiamata Yauza 12 nel suo appartamento di Mosca. Sei giorni dopo, come mostrano le email, la società ha acquisito il 17 per cento di Sibur da Timchenko, portando la sua quota nel gigante petrolchimico a poco più del 21 e portando così il suo patrimonio di 2 miliardi di dollari. Questa operazione ha reso Shamalov il più giovane miliardario in Russia e il secondo maggior azionista della più grande holding petrolchimica del paese, e ha attirato sulla sua persona una considerevole attenzione: l'anno successivo Shamalov ha concesso la sua amichevole intervista a Kommersant. Nell’intervista, il genero del presidente sostiene di aver preso in prestito i fondi per questa acquisizione da Gazprombank (nel cui cda siede il fratello Yuri), usando i suoi beni come garanzia. Non ha spiegato, però, quali fossero. Facendo leva sul 3,8 per cento di Sibur che aveva già acquisito, Shamalov avrebbe potuto, teoricamente, raccogliere circa 500 milioni di dollari. Dove ha trovato la somma rimanente? La storia rimane inspiegabile. Non è dato sapere quando e come la Yauza 12 di Shamalov abbia pagato il suo enorme prestito.

L’EPILOGO

Shamalov conclude la sua intervista con una dichiarazione patriottica: «Sono nato in Russia e anche le mie imprese si trovano qui: tutte nella giurisdizione russa, non offshore. Non è nel mio stile agire di nascosto per organizzare affari all'estero». Naturalmente molti degli affari di Shamalov si trovavano in realtà all'estero: le sue transazioni in Belize, la sua villa francese (allora di proprietà di una società di Montecarlo) e, in più, diversi conti bancari aperti in Svizzera quell'anno.  Dal 2017, quando le sanzioni colpiscono una cerchia sempre più ampia di persone vicine a Putin, gli avvocati di Shamalov hanno cominciato a ridurre le sue attività finanziarie nelle banche europee, aprendo un fondo speciale per lui, il Centurion International Fund, sull'isola di Labuan, un territorio offshore che fa parte della Malesia.

Shamalov rientrava tra le persone più influenti in Russia anche prima del suo matrimonio, e questo grazie all'amicizia di suo padre con il presidente russo e alla sua cerchia di amici e conoscenti, i "nuovi Piterskie". Dopo il matrimonio è diventato un membro della famiglia, con tutte le opportunità che derivano da questa posizione.

All'inizio del 2018, Bloomberg ha riferito che Shamalov e Tikhonova si sono separati dopo circa cinque anni di matrimonio. Sei mesi prima, Shamalov aveva venduto la quota di Sibur che aveva acquisito da Timchenko nel 2013. Le sue email non fanno menzione al fatto che abbia o meno (e quanto) ricevuto qualcosa per la vendita. Timchenko non ha risposto alle richieste di commento.

Dopo essersi separato da Tikhonova, Shamalov ha trovato una nuova partner, l'affascinante e mondana Zhanna Volkova. Nel 2019, la loro relazione sembrava essere ufficiale: in ottobre, Volkova ha inviato documenti a Shamalov sulla registrazione di una società offshore nelle Isole Vergini Britanniche, Kenaston Properties Ltd, di cui è diventata la beneficiaria. Nei documenti, il suo cognome figura come Shamalova.

Nel 2018, Shamalov è stato sanzionato dagli Stati Uniti raggiungendo così «una cerchia selezionata di miliardari dell'entourage di Vladimir Putin» dopo il suo matrimonio. Gli americani sono arrivati tardi: l'ultima email in archivio tra Shamalov e Tikhonova è stata inviata il 15 giugno 2017. In essa, Shamalov inoltrava il messaggio di un famoso architetto di San Pietroburgo con proposte di design per una villa di campagna.

Questo articolo è risultato vincitore dello European Press Prize 2021, nella categoria Investigative Reporting, ed è stato pubblicato in origine su IStories e OCCRP. La ripubblicazione in italiano è possibile grazie allo European Press Prize, nel cui sito troverai molto altro giornalismo di grande qualità. Distribuzione e traduzione sono a cura di Voxeurop.

ROMAN ANIN, DENIS DMITRIEV, OLESYA SHMAGUN, ROMAN SHLEYNOV, DMITRY VELIKOVSKI, SONYA SAVINA, IRINA DOLININA, ALESYA MAROKHOVSKAYA

·        Quei razzisti come i cinesi.

CINA INDIA: I PERCHE’ DEL CONFLITTO INFINITO. Martina Melli su L’Identità il 17 Dicembre 2022

La “Linea di controllo effettivo” è quel tratto di terra al confine himalayano (che separa i territori cinesi e indiani dal Ladakh a ovest, allo stato orientale indiano dell’Arunachal Pradesh) che da decenni innesca tensione e scontri tra i due Paesi.

Dal terribile combattimento di giugno 2020 – in cui entrambi i gruppi militari hanno contato decine di morti – sono trascorsi due anni pacifici, fino allo scorso 9 dicembre.

In quel giorno infatti, i soldati delle due fazioni si sono affrontati nella zona di confine di Yangtze, a nord-est della città monastica di Tawang nell’Arunachal Pradesh (India).

Il “Lac”, il famoso tratto di separazione, non esiste né fisicamente sul territorio né su alcuna mappa (cartacea o meno): è essenzialmente una sorta di linea percepita, sacra a entrambe le nazioni per diversi motivi.

Nell’ottobre 1962 la Cina attaccò l’esercito indiano, facendo scoppiare la famosa guerra Sino-indiana. Il conflitto durò un mese, fino all’annuncio del un cessate il fuoco nel novembre 1962 da parte del Governo cinese che, in quell’occasione, suggerì di concordare una zona demilitarizzata e dei posti di controllo lungo la linea del cessate il fuoco per evitare futuri malintesi sul confine. L’allora primo ministro indiano, tuttavia, non accettò il suggerimento, e il problema al confine continuò ad esistere. Se l’offerta della Cina fosse stata accettata, è possibile che la tratta concordata avrebbe preso la connotazione di una linea di controllo effettivo.

I Paesi non allineati, guidati dal primo ministro dello Sri Lanka, Sirimavo Bandaranaikei, cercarono di riunire i due contendenti al tavolo dei negoziati. Ma gli sforzi non diedero frutti e il problema rimase irrisolto.

La situazione al confine, restando incerta e indefinita, ha creato nel tempo margini per incidenti diplomatici e scontri.

Nell’ultimo quarto di secolo, i due Paesi non sono riusciti a definire lo spazio e ad accordarsi. Questo fallimento testimonia la mancanza di fiducia tra di loro.

È dunque l’assenza di questa linea che sta al centro del problema. Nonostante i diversi cicli di colloqui, tra vari gradi delle istituzioni, i due Paesi rimangono ai ferri corti, e il problema del confine continua a tormentare le loro relazioni. Un esempio alternativo a quest0, è il confine Sikkim-Tibet, delimitato nel 1896, ben definito e riconosciuto da entrambi i Paesi in questione.

Tuttavia, anche in quel caso c’erano ostacoli e frizioni: la Cina non aveva accettato la fusione del Sikkim con l’Unione indiana nel 1975. Fu il primo ministro Atal Bihari Vajpayee a fare in modo che questo cambiasse, durante una sua visita a Pechino nel 2003.

Ciò contribuì a prevenire qualsiasi incidente sulla barriera Sikkim-Tibet dove il confine è oggi saldamente delimitato. I governi successivi, con l’eccezione di quello di Vajpayee, scelsero di seguire la posizione assunta da Jawaharlal Nehru che aveva portato alla guerra del 1962. Diverse opportunità per risolvere la disputa furono dunque sprecate. Rahul Bedi, un analista della difesa con sede a Nuova Delhi, ha detto ad Al Jazeera che l’ultimo scontro sulla Lac è “grave e inquietante”. “È grave nel senso che si prevede che questi scontri si aggraveranno, non scompariranno di certo”.

Ciò che sembra necessario, a questo punto, è un nuovo sguardo alle vecchie politiche.

Nuovi approcci risolutivi devono essere portati al tavolo dei negoziati. È evidente, in un tale scenario, che l’India dovrebbe concedere alcuni luoghi che non sono mai stati in suo possesso, o dove la sua proprietà è solo nominale.

Questo tuttavia, potrebbe causare varie polemiche, tra cui l’accusa di “resa”. La questione è delicata, ma non impossibile. Un problema vecchio di oltre sei decenni che forse potrebbe risolversi con tanta chiarezza, buon senso e buona volontà.

Piedi di argilla. Perché la Cina sta militarizzando i suoi confini. Lorenzo Lamperti su L’Inkiesta il 17 Dicembre 2022.

Le dispute territoriali con Giappone, India e Taiwan hanno alzato il livello di allarme a Pechino: il regime di Xi Jinping sta attuando una politica più aggressiva, convincendo i Paesi vicini ad armarsi di conseguenza

Dentro la Grande Muraglia, la Cina è alle prese con un difficile e pericoloso cambio di percorso sulla sua strategia anti Covid. Fuori dalla Grande Muraglia si moltiplicano e rinfocolano invece diverse sfide che rischiano di produrre scosse telluriche in grado di propagarsi dalle periferie dell’impero. Tra i mari e le vette dell’Himalaya, le dispute territoriali in cui è coinvolta Pechino sono tante e di difficile soluzione. Anzi, la guerra in Ucraina e l’amicizia (presunta) «senza limiti» con la Russia stanno riattizzando micce che per qualche tempo si era riusciti a tenere spente. Un effetto domino che porta i Paesi asiatici ad armarsi. Con effetti anche sulle relazioni con l’Occidente.

Gli scontri al confine con l’India

Se si pensa a un possibile secondo fronte asiatico, il primo luogo che viene in mente è Taiwan. Ancora di più dopo la visita di Nancy Pelosi a Taipei dello scorso agosto e le manovre militari senza precedenti operate dall’Esercito popolare di liberazione. In tanti ritengono invece i rapporti tra Cina e India come l’elemento fondamentale per le future dinamiche asiatiche. E su questo fronte sono arrivati segnali negativi nei giorni scorsi. Il fragile equilibrio lungo l’enorme confine conteso sembra di nuovo sul punto di spezzarsi. Le truppe delle due parti si sono affrontate venerdì scorso a Tawang, nello Stato indiano nord-orientale dell’Arunachal Pradesh, che la Cina rivendica come parte del Tibet nonostante le obiezioni di Nuova Delhi. Gli scontri hanno provocato il ferimento di trentaquattro soldati indiani e di quasi quaranta cinesi. Si è trattato del primo scontro di rilievo lungo gli oltre duemila chilometri di confine da quando, a metà del 2020, sono scoppiati combattimenti corpo a corpo nella valle di Galwan, nel Ladakh orientale. Quel confronto causò la morte di venti soldati indiani e quattro cinesi, diventando così la prima battaglia mortale tra i vicini in quarantacinque anni.

La calma apparente degli ultimi due anni ha lasciato il posto a nuove tensioni negli scorsi mesi. Il confronto tra le due parti sarebbe in corso già dall’inizio di ottobre, quando Pechino ha raddoppiato le sue truppe lungo il suo lato della linea di controllo. La mossa sarebbe stata motivata dall’annuncio, arrivato lo scorso agosto, di esercitazioni militari congiunte tra India e Stati Uniti a circa una cinquantina di chilometri dal confine conteso.

In molti temono che in futuro la tensione possa deflagrare visti i molteplici interessi in gioco, a partire dalla ricchezza di risorse idriche della zona contesa e dalla successione del Dalai Lama. Il leader religioso risiede dagli anni Cinquanta nell’Himachal Pradesh, stato indiano nei pressi del confine. Sia il governo tibetano in esilio sia il governo cinese si arrogano il diritto di scegliere il successore. Nuova Delhi, che punta a sostituirsi almeno in parte alla Cina come nuova «fabbrica del mondo», forte anche dello storico sorpasso demografico che dovrebbe avvenire nel 2023, sembra intenzionata a sostenere le rivendicazioni tibetane. Col rischio che le frizioni si facciano ancora più forti nel prossimo futuro.

Le tensioni col Giappone

Se sul fronte indiano la Cina spera ancora di ricomporre diplomaticamente gli screzi, forte di una postura diplomatica ambigua da parte di Nuova Delhi, sul mar Cinese orientale sa che il Giappone è ormai completamente allineato agli Stati Uniti. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno accelerato la già chiara tendenza giapponese al riarmo. Pechino non ha fatto nulla per far sentire il grande vicino orientale al sicuro. Quattro dei missili che lo scorso agosto sono stati lanciati sopra Taiwan sono caduti nelle acque della zona economica speciale giapponese (non riconosciuta dalla Cina): avvertimento chiaro a non immischiarsi sulla situazione dello Stretto, che invece Tokyo ritiene una priorità della propria sicurezza nazionale. Nel corso del 2022 è accaduto anche sempre più spesso che navi e jet militari cinesi e russi si muovessero insieme nei pressi dell’arcipelago giapponese o attraversassero i suoi stretti strategici, magari in concomitanza di appuntamenti multilaterali come il vertice del Quad dello scorso maggio, al quale ha presenziato anche Joe Biden.

Nelle scorse settimane la Russia ha annunciato lo schieramento di un sistema missilistico su un’isola delle Curili, arcipelago controllato da Mosca e rivendicato nella sua parte meridionale dal Giappone. Se ci si aggiungono le costanti manovre cinesi intorno alle isole contese Senkaku/Diaoyu e i missili lanciati sempre più spesso dalla Corea del Nord, i fronti aperti per Tokyo si moltiplicano. Non a caso, il governo nipponico ha appena approvato una nuova strategia di difesa che prevede un raddoppiamento della spesa militare al due per cento del Pil e fornirà capacità di contrattacco verso basi militari nemiche. Una novità, visto che per ora la dottrina giapponese era fondata sul principio di autodifesa.

Contestato da molti come un ritorno al militarismo e il superamento de facto della costituzione pacifista imposta dagli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, il testo giustifica le disposizioni definendole «minime misure necessarie di autodifesa». Saranno acquistati missili in grado di essere lanciati da oltre il raggio d’azione del fuoco nemico, estendendo la gittata dei missili guidati terra-nave delle Forze di autodifesa, e per acquistare missili da crociera Tomahawk di fabbricazione statunitense con una gittata di circa 1.600 chilometri, dotando di fatto il Giappone delle capacità di contrattacco.

Da parte cinese la mossa è stata molto criticata ma per i giapponesi la guerra in Ucraina ha fatto apparire molto più possibile un’invasione cinese di Taiwan, aumentando la preoccupazione dell’opinione pubblica sulla preparazione militare del Giappone in caso di conflitto regionale.

Taiwan e il mar Cinese meridionale

D’altronde, nonostante l’attenzione su quanto accade sullo Stretto di Taiwan si sia in parte affievolita da parte dei media internazionali, le manovre continuano. Martedì scorso Pechino ha inviato un numero record di diciotto bombardieri a capacità nucleare nella zona di identificazione della difesa aerea taiwanese. I passaggi oltre la linea mediana, il confine non ufficiale ma ampiamente rispettato da Pechino fino all’agosto scorso, sono operati ormai su base quotidiana. Le tensioni militari si sommano a quelle commerciali, con la Cina che ha appena bloccato le importazioni di una serie di alimenti e bevande alcoliche, tra cui il noto Kaoliang, un liquore di sorgo preparato sul mini arcipelago di Kinmen (ex avamposto militare a meno di cinque chilometri di distanza dalla città cinese di Xiamen). Si tratta di un prodotto a forte tasso simbolico, visto che è stato anche bevuto da Xi Jinping e l’ex presidente taiwanese Ma Ying-jeou nello storico vertice di Singapore del 2015, l’unico incontro di sempre tra i leader delle due sponde.

Taiwan, oltre le considerazioni storiche e retoriche, costituisce la porta d’accesso per il Pacifico e il mar Cinese meridionale, dove Washington ha mostrato di voler sostenere tutti coloro che hanno dispute aperte con Pechino. A partire dalle Filippine, che con il presidente Ferdinand Marcos Jr. sembrano aver accantonato la linea filo cinese di Rodrigo Duterte tornando a rafforzare i legami in materia di difesa con gli Stati Uniti. Come Pelosi è stata a Taipei, anche Kamala Harris ha dato un segnale forte visitando a novembre Palawan, la provincia più vicina alle acque contese tra Manila e Pechino. E Washington sembra ora vicina a concludere un accordo di forniture militari persino col Vietnam, ex acerrimo rivale dove governa ancora un Partito comunista che ha forte dialogo commerciale e politico con quello cinese ma anche forti tensioni sul fronte territoriale.

Negli ultimi dieci anni, Hanoi ha consistentemente ampliato l’estensione degli isolotti contesi che controlla nel mar Cinese meridionale. Attraverso lavori di bonifica e dragaggio sono stati creati circa centosettanta ettari di nuovi territori, anch’essi al centro delle tensioni che si rinfocolano all’esterno della Grande Muraglia.

Aspirazione totalitaria. Le innumerevoli contraddizioni della politica estera cinese con Xi Jinping. Lorenza Scaldaferri, Veronica Barfucci su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022

Una sedicente “Repubblica popolare” che prospera nella costellazione capitalista e continua a promuovere un sistema interno chiaramente autoritario. Nel saggio pubblicato per Edifir, Veronica Barfucci e Lorenza Scaldaferri raccontano com’è cambiata, nell’ultimo decennio, la postura di Pechino nel quadro internazionale

“Il tempo e le circostanze sono dalla nostra parte” (时与势在我们 一边 shi yu shi zai womende yibian). Era il 1° luglio 2021, giorno del centesimo anniversario della fondazione del Partito comunista cinese (Pcc), quando Xi Jinping pronunciò questa frase. Poche, semplici parole, che riassumono perfettamente il suo approccio alla politica estera.

Nella stessa loggia da cui nel 1949 Mao Zedong annunciò la nascita della Repubblica popolare cinese (Rpc), Xi ha tenuto un discorso lungo un’ora, celebrando i successi raggiunti dal Partito nei suoi cento anni di storia. Presentandosi con una semplice uniforme grigia, in pieno stile maoista, ha rimarcato più volte la centralità del Partito nella crescita economica e sociale della Repubblica popolare cinese. Rifiutando l’immagine di un Paese arretrato e debole, ha ribadito con forza la volontà di riconquistare la propria posizione sulla scena internazionale.

Già nel 2014, rivolgendosi ai vertici del Partito due anni dopo la nomina a Segretario, Xi aveva dichiarato di voler rendere la politica estera cinese nuovamente proattiva, bilanciata e assertiva. La sua promessa non è stata disattesa. Negli ultimi dieci anni, la Cina ha mostrato un volto sempre più risoluto: meno disposta ad accettare compromessi e interferenze nelle cosiddette questioni interne (core interest), Pechino lavora per posizionarsi, ed essere riconosciuta, al pari delle altre grandi potenze.

Proprio questa volontà di ritrovare centralità nello scacchiere internazionale è motivo di preoccupazione per l’Occidente, dove è diffusa la convinzione che la Cina si ponga in diretta competizione con gli Stati Uniti per ottenere il primato di superpotenza e dare vita a un nuovo ordine mondiale.

Tuttavia, una prospettiva decentrata dalla narrativa occidentale suggerisce come Pechino non aspiri a tale ruolo e come il suo obiettivo non sia quello di rovesciare, quanto quello di reinterpretare dall’interno, alcuni aspetti dello status quo.

Non si tratta tanto di un cambiamento delle regole del gioco, quanto della volontà di ridefinire la propria posizione e il proprio peso all’interno del sistema internazionale. Come dimostra la creazione dell’Asian Infrastructure Investment Bank, che finanzia i progetti della cosiddetta Nuova Via della Seta, la Cina prospera nel sistema capitalista e neoliberale, crea istituzioni a immagine e somiglianza di quelle a guida occidentale, con la differenza fondamentale che le tiene totalmente sotto il proprio controllo.

Diventa quindi necessario provare a ricostruire cosa significhi, e soprattutto cosa implichi, essere una grande potenza dal punto di vista di Pechino. Per farlo, è utile partire proprio dalla figura di Xi, che ha assunto sempre più centralità all’interno del Partito e, di conseguenza, nella vita del Paese. Dal 2018, il “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” è ufficialmente entrato a far parte dello statuto del Partito comunista cinese, conferendo al leader cinese uno status equivalente soltanto a quello del Grande timoniere Mao Zedong.

Tale rilevanza è stata ribadita dal XX Congresso del Pcc, conclusosi il 21 ottobre 2022, che ha confermato Xi per un terzo mandato e consacrato la sua figura come nucleo del Partito. Non si tratta soltanto di un riconoscimento interno al Partito: il suo pensiero permea anche la società cinese. Fin dalla tenera età, bambine e bambini studiano il pensiero di “nonno Xi” (习爷爷 xi yeye): presentato come un “grande amico” dotto e saggio, il leader viene descritto come una figura paterna e un modello da seguire.

Questo percorso continua anche da adulti: all’ingresso delle biblioteche, sulle scrivanie degli uffici universitari e nelle librerie, è spesso presente un volume dalla copertina bianca con al centro il ritratto di un uomo accompagnato da una scritta in rosso. Governare la Cina di Xi Jinping, sbarcato anche in Occidente e tradotto in nove lingue, raccoglie le opere e i discorsi del leader alla guida della principale potenza asiatica. Per comprendere la politica estera cinese degli ultimi dieci anni è quindi necessario sfogliare le pagine di quel libro e tracciare il filo rosso che lega il cosiddetto sogno cinese al “secolo delle umiliazioni”.

Ciò fornisce una chiave di lettura fondamentale per interpretare assertività e contraddizioni della politica estera cinese. La cosiddetta guerra commerciale con gli Stati Uniti, le attività portate avanti nel Mar cinese meridionale e le offensive in numerosi settori economici – come quello dei semiconduttori e quello energetico – sono spesso ritenute un simbolo della rinnovata assertività cinese sotto la guida di Xi.

Allo stesso tempo, Pechino appare sempre più spesso incastrata tra la richiesta di rispetto del principio di non interferenza nei suoi affari interni e la capacità di partecipare attivamente alle relazioni internazionali. Inoltre, vi è una frammentazione a livello di attori statali che mette in discussione la visione della Cina come un blocco monolitico.

Affermare che Pechino voglia sostituire Washington come superpotenza diventa una semplificazione che non permette di esplorare sfaccettature e sfumature della politica estera cinese. Il gioco interno al Partito-Stato, all’apparenza semplice e lineare, è molto più complesso e mette in discussione il grado di “novità” della politica estera di Xi Jinping. È soltanto abbracciando la complessità della politica estera cinese, e non abbandonandosi a narrazioni confortanti perché semplificate, che si possono comprendere i movimenti sinuosi del dragone sotto la guida di Xi.

Il Dragone tra noi. A volte ci sono vicende di nessun rilievo che fanno clamore, mentre altre allarmanti dai contorni oscuri scompaiono mescolandosi nel mare magnum dell'informazione. Augusto Minzolini il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

A volte ci sono vicende di nessun rilievo che fanno clamore, mentre altre allarmanti dai contorni oscuri scompaiono mescolandosi nel mare magnum dell'informazione. Ora la notizia che da noi, come in qualche altro Paese, ci fossero stazioni non ufficiali di polizia del governo cinese (più di cento in tutto il globo) è apparsa nei mesi scorsi su diverse testate giornalistiche ma non ha fatto scalpore. Non è una storia di oggi visto che il primo di questi commissariati «ombra» fu aperto a Milano nel lontano 2016 e ora ce ne sono altri dieci nel Belpaese, specie in quelle aree dove le comunità cinesi sono numerose (Roma, Bolzano, Venezia, Firenze, Prato e in Sicilia). Quello che colpisce è che finora nessuno è andato a vedere cosa facessero i poliziotti «camuffati» di Pechino che in certe occasioni si avvalgono anche della collaborazione della polizia italiana. Secondo il report di un'organizzazione per la difesa dei diritti civili spagnola, «Safeguard Defenders», i poliziotti cinesi oltre ad aiutare i connazionali a sbrigare le pratiche per avere una patente o pattugliamenti con le forze dell'ordine italiane, farebbero altro. E in qualche caso agirebbero da soli perché il loro operato sarebbe tutt'altro che legittimo visto che arriverebbero ad organizzare anche il rimpatrio «forzato» di qualche dissidente.

Insomma, la Cina è tra noi anche se non ce ne siamo accorti. L'intesa con il governo di Xi fu messa in piedi nel 2015 da Paolo Gentiloni, allora ministro degli Esteri del governo Renzi e attuale Commissario Ue. E naturalmente con l'arrivo di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e Luigi Di Maio alla Farnesina, filo-cinesi da sempre, e il ritorno in auge della lobby della Via della Seta (in primis D'Alema), non è mai stata messa in discussione, né tantomeno nessuno è andato a verificare cosa facessero da noi i lontani parenti di coloro che usarono i carri armati contro gli studenti a Piazza Tienanmen. Ma a parte ciò, colpisce che nel Paese dove sono stati processati i servizi segreti per il rapimento e il rimpatrio in Egitto di un terrorista come Abu Omar, dove Salvini è processato per non aver dato accoglienza a dei potenziali richiedenti asilo, dove si parla solo di diritti civili per mettere sul banco degli imputati il centrodestra, possa agire una polizia non ufficiale, con l'accordo del governo italiano, che potrebbe addirittura rispedire in Patria come un pacco chi si ribella al regime di Pechino. Sarebbe un paradosso, una contraddizione, un assurdo che si porterebbe dietro mille congetture, a cominciare dal concetto di sovranità che nel nostro Paese viene utilizzato ogni tre per due. A prima vista appare un'enormità, ma non è la prima volta che in Italia anche l'inverosimile si trasforma in realtà. Tu poni un problema di diritti civili lontano, magari sulle coste dell'Africa e poi senza saperlo te lo ritrovi dentro casa. Sotto le apparenze di un trattato di collaborazione con uno Stato autocratico che spesso fa dimenticare ai suoi interlocutori questioni di diritti o di libertà a suon di dollari, pardon, yuan.

La denuncia approda in Europa. Le stazioni cinesi di polizia una “pratica mafiosa”, l’Europa apre gli occhi contro gli sportelli che ‘educano’ i dissidenti. Claudia Fusani su Il Riformista il 9 Dicembre 2022

Il caso non è chiuso. Anzi, è appena iniziato. Per due motivi: del dossier adesso si occupano la Commissione Ingerenze nei processi democratici del Parlamento europeo e i ministri dell’Interno dei 27 paesi Ue. La cosiddetta “polizia cinese” che si ritiene sia attiva nella più grandi città italiane – quelle dove la comunità cinese è una realtà importante – è una sporca e strana faccenda su cui va fatta urgentemente chiarezza.

La denuncia è della ong per i diritti umani Safeguard defenders basata a Madrid. La responsabile della campagna Laura Harth ha denunciato la presenza di una rete di centri di polizia cinesi in diversi Paesi. Ben undici di questi sarebbero in Italia. Il loro obiettivo è sorvegliare i connazionali presenti all’estero e rimpatriare chi opera in dissenso e contro il regime di Xi Jinping. Il tutto travesitito da “sportello pubblico” in aiuto a cinesi residenti in Italia per le più svariate pratiche amministrative, dal passaporto ai documenti di identità, dai certificati di morte alla patente, una sorta di agenzia di servizi che in realtà si infiltra e sorveglia le comunità cinesi all’estero e, quindi, anche le attività dei paesi ospitanti. Una Spektre con gli occhi a mandorla di cui però nulla è noto ai governi occidentali. La rete si comporrebbe di oltre 100 unità in almeno 53 Paesi sparsi nel mondo.

Ieri Laura Harth è stata sentita dalla speciale Commissione Ingerenze del Parlamento europeo e il presidente, il socialista francese Raphael Gluksman, ha detto alla fine che “è necessario annullare tutti gli accordi di cooperazione bilaterale e multilaterale in materia di polizia con la Cina”. Al di là dei motivi, anche necessari e illuminati per cui questi rapporti sono nati, il tempo e l’abitudine hanno probabilmente fatto abbassare l’attenzione e, anche, il controllo sul reale operato di questi sportelli pubblici che la comunità cinese residente in Italia ha ribattezzato “polizia cinese”. Glucksman ha bollato l’attività di questi “presunti uffici di polizia cinese come una pratica quasi mafiosa al di fuori delle leggi europee”. La Harth ha spiegato che «con questa rete di stazioni di polizia clandestina la Cina promulga un sistema di repressione transnazionale pensato per vessare i dissidenti e imporre il silenzio a chi critica il regime».

Mercoledì il dossier “polizia cinese” è stato oggetto di un question time alla Camera dei deputati. Riccardo Magi (+ Europa) ha citato i tre successivi rapporti pubblicati nel 2022 che hanno portato alla luce l’esistenza di oltre 100 stazioni di “polizia cinese” clandestine aperte dalla Repubblica popolare cinese in diversi Paesi del mondo. L’Italia ne ospiterebbe undici tra Milano, Roma, Bolzano, Venezia, Firenze e, ovviamente, Prato. Quella documentata dalla Ong, e su cui Magi, ha interrogato il ministro dell’Interno, sarebbe una storia in due tempi: i primi uffici si inserivano in un accordo di cooperazione internazionale per realizzare pattugliamenti congiunti, vuol dire che in Italia e in Cina avrebbero operato pattuglie miste di poliziotti cinesi ed italiani. La criminalità e le mafie cinesi sono da anni un problema anche sul territorio italiano.

Dopo questa prima fase, ha spiegato Magi sulla base del Rapporto Safegards, «sarebbero stati aperti altri uffici in numerose città italiane che, secondo le autorità cinesi, dovrebbero svolgere le funzioni di centri servizi». In seguito alla pubblicazione del Rapporto della ong, molti governi, ad esempio Canada, Irlanda, Stati Uniti, Portogallo hanno avviato inchieste per verificare i contorni ed eventualmente i profili di illegalità di questa pratica. Il ministro Piantedosi, rispondendo mercoledì in aula all’interrogazione di Magi, ha chiarito che «presso il Dipartimento della pubblica sicurezza non risulta alcuna autorizzazione all’apertura di centri cinesi per il disbrigo di pratiche in Italia». In ogni modo, ha assicurato il ministro, «le forze di polizia e di intelligence attueranno un monitoraggio con la massima attenzione e non escludiamo provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità riscontrate».

Il ministro ha anche chiarito che cosa diversa sono gli accordi di cooperazione di polizia ed i pattugliamenti congiunti tra Italia e Cina “che si sono svolti dal 2016 al 2019”. Il Covid ha fermato tutto. E da allora l’attività non è più stata ripresa. Diverso ancora il caso di Prato dove a marzo è stata aperta una stazione di polizia cinese. Le indagini hanno dimostrato che in realtà l’ufficio ha seguito “solo” quattro richieste di pratiche amministrative. Il 16 novembre l’ufficiale di collegamento della Repubblica cinese è stato convocato al Viminale ma non ha aggiunto nulla rispetto a quanto avevano già detto i responsabili dell’associazione. La Digos ha fatto rapporto alla procura. E un analogo approfondimento è in corso a Milano.

Per la Harth la risposta «non è stata soddisfacente». «Perché, ad esempio, la polizia italiana era presente all’apertura di almeno una di queste stazioni a Roma?». È vero, poi, che «le autorità cinesi avevano espressamente parlato di queste stazioni in Italia come progetti pilota in Europa installati come uno dei maggiori traguardi delle operazioni congiunte di polizia?». Per Riccardo Magi «il tema esiste ed è serio. E c’è sempre troppo timore, per non chiamarla reticenza, a parlare di tutto quello che riguarda la Cina».

Intanto, su input della presidente Ursula von der Leyen, la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson ieri ha portato il dossier alla riunione dei ministri dell’Interno europei. Il caso è apertissimo. E potrebbe dare presto altre sorprese. Non è un mistero infatti che la comunità cinese in Italia operi già con strutture parallele, nella scuola e nella sanità.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unit

"Quei commissariati non sono clandestini. E attenti ai Confucio". L'ex ministro degli Esteri: "Tutto poggia su una serie di intese strette con Pechino. E negli atenei la propaganda è realtà". Gian Micalessin il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«Bisognerebbe chiedersi in che misura siano veramente clandestini gli 11 centri di polizia cinese che secondo l'inchiesta di Safeguard Defenders opererebbero nel nostro paese. Io in base alla mia esperienza con il Comitato Globale dello Stato di Diritto, un'organizzazione che cerca di far chiarezza sull'influenza del partito Comunista Cinese in Italia ed Europa, ho l'impressione che tutto poggi su una serie di accordi stretti con Pechino. Accordi di cui non abbiamo mai potuto prendere visione». Secondo l'ex-ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata, oggi senatore di Fratelli d'Italia e presidente della Commissione Affari Europei del Senato, per capire come e perché i cinesi abbiano aperto veri e propri «centri di polizia» sul nostro territorio bisogna risalire a una decina di anni fa. Ovvero al periodo in cui lui guidava la Farnesina. «Ricordo - racconta in questa intervista a Il Giornale - che dopo alcuni disordini in quartieri abitati da comunità cinesi arrivò la proposta dell'ambasciata di Pechino di aprire un tavolo comune con le nostre autorità. La bocciai immediatamente, già a livello informale, perché rappresentava un'inammissibile cessione di sovranità nel campo della sicurezza. Però i tentativi sono andati avanti».

Cosa glielo fa pensare?

«Non è che io lo pensi. Lo ha detto in un'intervista al Corriere della Sera, il presidente cinese Xi Jinping quando - alla vigilia della visita in Italia del 2019 - elogiò i pattugliamenti congiunti definendoli uno degli esempi più importanti di collaborazione con il nostro paese. Se tutto si fosse limitato all'assistenza ai turisti non l'avrebbe detto».

E perché erano così importanti?

«Perché Pechino ha tutto l'interesse a evitare che le nostre autorità mettano il naso nei quartieri dove le sue comunità producono sotto-costo, evadono le imposte e calpestano i diritti dei lavoratori. I casi di traffico valutario venuti alla luce negli anni, assieme alle miriade di esercizi commerciali aperti e chiusi nel giro di pochi mesi, avevano già evidenziato la nostra incapacità di esercitare la sovranità fiscale. L'attività dei centri di polizia denunciati da Safeguard Defenders fa temere che queste falle si siano allargate al campo della sicurezza».

Secondo il ministro degli interni Matteo Piantedosi non esiste alcuna relazione tra queste attività e gli accordi sui pattugliamenti congiunti.

«Esatto ed è una precisazione è importante. Per la prima volta nei sette anni trascorsi dalla firma degli accordi un'autorità governativa precisa che le forze di polizia cinesi non hanno alcun titolo per operare fuori dagli spazi turistici previsti dalle intese. E tanto meno possono raccogliere informazioni sui propri concittadini. In base a questo assunto qualsiasi centro di polizia cinese attivo sul nostro territorio è illegale. E quindi perseguibile. E altrettanto illegali e perseguibili diventano le attività informative o d'intelligence esercitate nel nostro paese. Dunque il chiarimento segna un svolta cruciale».

Ma i precedenti governi hanno rinunciato a esercitare un controllo o sono stati ingannati dai cinesi?

«Non spetta a me dirlo. Ma quando un nostro governo ha approvato, unico nel G7, il Memorandum sulla Via della Seta molti alleati si sono detti stupiti e preoccupati. Lo stupore riguardava l'ampiezza di un testo, mai discusso in Parlamento, che concede mano libera alla Cina in settori cruciali come l'informazione. Grazie a quel Memorandum alcuni organi d'informazione collegati al Partito Comunista cinese venivano autorizzati a propagare nel nostro paese informative e notizie non passate al vaglio dai giornalisti italiani».

E continuiamo a non occuparci di organizzazioni come i Centri Confucio attivi a livello accademico.

«Esatto. In Italia ne abbiamo una dozzina, ma pur essendo integrati nelle nostre stesse università finiscono per spodestarne l'autonomia. Per capirlo basta esaminare quel che viene prodotto a livello di Storia Contemporanea cinese. Qualcuno ha mai sentito un accademico legato agli Istituti Confucio menzionare la parola Tien An Men? Ovviamente no, perché qualsiasi ricerca - da quelle sui rapporti tra Cina e Khmer Rossi fino ai rapporti con Taiwan - deve seguire alla lettera il verbo di Pechino».

Il magistrato Luca Tescaroli: «Le stazioni di polizia cinesi in Italia fanno sorgere preoccupazioni». Antonio Fraschilla su L’Espresso l’8 Dicembre 2022

L’aggiunto della procura di Firenze che indaga sulla criminalità cinese: «Non si riesce a comprendere il significato di queste strutture. Registriamo una scarsa collaborazione della Repubblica popolare, nessun aiuto sulle indagini»

«Registriamo una scarsa collaborazione delle istituzioni cinesi e restano una forte omertà e chiusura da parte delle loro comunità imprenditoriali nel nostro Paese. Due elementi che andrebbero affrontati con nuovi trattati tra Italia e Cina di leale collaborazione non solo sul profilo economico ma anche su quello giuridico». Luca Tescaroli, procuratore aggiunto della procura di Firenze che conosce bene le mafie italiane e internazionali, e anche il tessuto economico cinese toscano, auspica un maggiore dialogo con le autorità della Cina e una maggiore chiarezza sugli uffici di polizia cinese aperti nel nostro Paese.

Oggi secondo il suo osservatorio che peso ha la criminalità cinese in Italia?

«Posso dire che la presenza della criminalità organizzata in riferimento alla Cina è una emergenza importante che interessa particolarmente la Toscana, ma non solo. Abbiamo registrato molteplici investigazioni con l’esistenza di un impegno criminale significativo da parte di gruppi appartenenti alla comunità cinese. Questo d’altronde è un territorio nel quale solo a Prato, tanto per dare una idea, abbiamo sei mila imprese cinesi e su Firenze altre quattro mila aziende. E le infiltrazioni sono molteplici, tanto che abbiamo dedicato una intera unità della Dda alla criminalità cinese».

La comunità cinese come vive queste infiltrazioni. Ricevete denunce?

«Qui nessuno vuole criminalizzare la presenza cinese in Italia, anzi c’è una importante integrazione economica qualitativamente cresciuta nel corso del tempo: e questo è un dato importante. Ma l’integrazione deve avvenire anche sotto il profilo giuridico. Occorre a esempio che si attui con il rispetto degli obblighi tributari, per non drenare illecitamente risorse che dovrebbero affluire nelle casse dello Stato. Quello che emerge è l’esistenza di una comunità ancora caratterizzata da una forte omertà e chiusura all’esterno».

Avete avviato delle collaborazioni con le istituzioni cinesi per la lotta all’evasione e alla criminalità organizzata?

«Abbiamo un trattato che prevede una assistenza giudiziaria firmato il 7 ottobre del 2010 e ratificato da entrambi i Paesi. Nelle attività di collaborazione in concreto non abbiamo però trovato molta disponibilità da parte della Repubblica popolare cinese. Sarebbe necessario invece potenziare e migliorare questo rapporto, penso sia di interesse anche dello Stato cinese per migliorare l‘integrazione economica insieme a quella giuridica, e contrastare insieme condotte criminali».

Come dovrebbe avvenire questa collaborazione? Ci fa un esempio concreto?

«Il dialogo costruttivo dovrebbe avvenire con le proiezioni della Repubblica popolare cinese in Italia, e cioè con ambasciata e con i consolati. Ad esempio abbiamo indagato su come siano stati trasferiti all’estero proventi da attività criminali attraverso l’uso di criptovalute che poi sono andate a finire nelle banche di Stato cinesi. Abbiamo chiesto di sapere a chi erano intestati quei conti. Ma non abbiamo ricevuto nessuna risposta. Le faccio un altro esempio: spesso abbiamo difficoltà nella individuazione degli interpreti di lingua cinese. C’è una penuria di interpreti che sono inadeguati e insufficienti rispetto ai nostri sforzi investigativi. Su questi problemi sarebbe auspicabile fruire di una proficua collaborazione».

Che ruolo hanno allora le stazioni di polizia cinese nel nostro territorio aperte dopo un accordo tra governo italiano e quello di Xi Jinping?

«Ecco questo è un altro tema chiave. Non si riesce a comprendere il significato di queste stazioni di polizia: se sono uffici per il disbrigo pratiche amministrative, questa è una attività tipica dei consolati che si prodigano per agevolare i cittadini cinesi anche attraverso il rilascio dei passaporti o delle patenti. L’apertura di queste stazioni di polizia appare una mera duplicazione dei consolati: potrebbe sorgere la preoccupazione che possano essere dei silenti avamposti per controllare i cittadini cinesi che vivono in Italia. Allora questa è una finalità non del tutto commendevole che sembra non inquadrarsi in una ottica di leale collaborazione. Di sicuro da queste stazioni noi come inquirenti non abbiamo tratto alcun beneficio, in termini di dialogo e collaborazione investigativa»

Estratto dell'articolo di Antonello Guerrera e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 6 dicembre 2022.

Centodue "stazioni di polizia" in tutto il mondo. Undici in Italia tra Prato, Firenze, Milano, Roma, Bolzano, Venezia e la Sicilia. […] In tutti gli atti ufficiali è scritto che gli uffici che la Cina ha aperto in tutto il mondo, ma in Italia più che altrove, servono soltanto a velocizzare pratiche burocratiche («facciamo patenti» hanno detto) ma il sospetto comune, anche ai nostri 007, è che quegli uffici servano anche ad altro. 

A spiare i cittadini cinesi all'estero. A controllare i flussi di denaro tra l'Asia e il nostro Paese. Ma in alcuni casi anche a convincere con metodi non legittimi i cittadini cinesi a ritornare in Patria, senza passare dai trattati di cooperazione. […]

A far scoppiare il caso delle stazioni cinesi sparse nel mondo è stata la Ong Safeguard Defenders che ha pubblicato nei giorni scorsi un rapporto - rimbalzato sulle pagine dell'Espresso in Italia e ieri del Guardian - per denunciare quello che da tempo era già esploso: soltanto nel nostro Paese due interpellanze parlamentari erano state presentate. […]

Repubblica è venuta a conoscenza, però, che la nostra intelligence sta compiendo dalla scorsa primavera alcuni accertamenti perché troppe cose non tornano, in Italia come all'estero.  Tutto è nato con la massiccia campagna di Pechino per combattere le frodi da parte di cittadini cinesi residenti all'estero - grazie alla quale già 210mila cinesi sono stati "convinti" a ritornare in patria lo scorso anno - l'Ong ha rintracciato l'origine di queste stazioni. […] Una rete presente ora in 53 Paesi. La stragrande maggioranza degli uffici è stata istituita a partire dal 2016: ben prima, dunque, del Covid.

Tutte fanno capo a quattro dipartimenti di sicurezza di altrettante città cinesi: Nantong, Qingtian, Wenzhou e Fuzhou. Tra le persone costrette a tornare a casa ci sarebbero anche gli obiettivi dell'Operazione caccia alla volpe, la campagna lanciata nel 2014 dal presidente Xi Jinping per andare a riacchiappare i funzionari di Partito corrotti fuggiti all'estero. […] 

Da Pechino è impossibile avere una risposta. […] Repubblica ha contattato quattro numeri del Ministero della Pubblica Sicurezza cinese chiedendo spiegazioni: in due settimane nessuna risposta ai nostri messaggi lasciati in segreteria.

 L'unica, sempre la stessa, l'hanno fornita i vari portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino in alcune conferenze stampa: «Quelle che sono state definite "stazioni di polizia" sono in realtà centri per i servizi per i cinesi all'estero […]: i centri hanno lo scopo di aiutare i cinesi in questioni burocratiche. Le persone che lavorano in queste sedi sono volontari delle comunità locali. […]». Non si capisce però perché questo lavoro non possa essere svolto dalle ambasciate o dai consolati.

Estratto dell'articolo di Andrea Vivaldi per “la Repubblica” il 6 dicembre 2022.

Quartiere di Chinatown. Via Orti del Pero. Appena fuori dalle vie commerciali in cui campeggiano insegne di rosticcerie cinesi e vetrine d'abbigliamento scontato, si scorge un'anonima palazzina di un solo piano. Ha delle tende verdi strappate, sulla facciata laterale strisce di muffa nera. C'è solo una porta. Ampia e in ferro.

Dietro di essa, secondo un'inchiesta internazionale avviata dalla Ong spagnola Safeguard Defenders, si troverebbe una stazione segreta cinese di polizia, camuffata da un centro servizi. […] Impossibile anche scorgere gli interni: le finestre hanno sbarre strette, i vetri sono scuri o coperti con pannelli di plexiglas opachi e sporcati dall'usura. Il campanello è stato sradicato. 

Bussando, al centro culturale, nessuno apre. È così da qualche settimana, quando si è cominciato a parlare per la prima volta di un ufficio di polizia cinese all'interno. Il gestore ha detto di averlo chiuso perché la notizia aveva creato troppo scalpore e ha preferito interrompere l'attività […]

E poi un grande telo bianco con una telecamera collegata, raccontano fonti del Comune, ad alcuni uffici amministrativi in Cina. La Questura di Prato ha già svolto accertamenti, ma non sembrano essere emersi elementi particolari. Il 21 dicembre la deputata Erica Mazzetti (FI), che a ottobre aveva già acceso i riflettori sulla sede di Prato, incontrerà il ministro degli Interni Matteo Piantedosi per discutere di un luogo con ancora molti punti interrogativi. Anche per i residenti e gli stessi negozianti a fianco sembra essere uno spazio fantasma.

A lato dell'Associazione c'è un barbiere a conduzione cinese, come praticamente ogni attività nel raggio di decine di metri. Il titolare, appena menzionato il centro, inizia a scuotere rapido la testa: «Non so nulla», dice. E a un tratto pare non comprendere più neppure quale sia il posto. […] Il copione è lo stesso in ogni attività all'incrocio, dove nessuno sembra avere idea o voglia di raccontare cosa accada dietro quella porta.

Fabio Tonacci,Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 9 dicembre 2022. 

Il caso delle cosiddette stazioni di polizia cinesi non è chiuso. Nonostante le rassicurazioni di Matteo Piantedosi durante il question time in Parlamento, lo scopo e le attività di almeno due degli uffici segnalati dalla Ong spagnola Safeguard defenders (quelli di Prato e di Milano) rimangono avvolti nel mistero. Tanto che, come risulta a Repubblica , il Viminale nelle ultime due settimane ha accelerato l'indagine amministrativa, dando un'indicazione precisa: «Se, come sembra, non hanno le autorizzazioni, bisogna chiuderli». 

Il punto resta però il solito: cosa sono? E quanti sono? Il 16 novembre scorso è stato convocato al Dipartimento di Pubblica sicurezza l'ufficiale di collegamento dell'ambasciata cinese a cui è stato chiesto conto degli uffici. La risposta è stata: sono innocui sbrogliatori di burocrazia adibiti al disbrigo di pratiche fiscali e amministrative quali il rilascio di patenti e documenti.

Per Safeguard defenders, invece, sono antenne estere che il governo cinese utilizza per controllare e riportare in patria i dissidenti. «Abbiamo trovato alcune storie di rientri forzati anche dall'Italia ma non strettamente legati alle stazioni», sostiene Laura Harth, direttrice della ong. «È molto difficile sapere chi è passato».

Polizia e servizi di intelligence italiani da mesi stanno lavorando a un'inchiesta che finora ha dato esito negativo. E tuttavia una pista sembra più promettente delle altre: le stazioni di polizia cinesi potrebbero lavorare anche come centri di informazione finanziaria, attraverso i quali la Repubblica popolare monitora i flussi di denaro in entrata e in uscita dei suoi connazionali. Sullo sfondo il grande tema del riciclaggio dei cittadini cinesi in Italia, oggetto di una recente inchiesta dei pm di Milano.

Anche perché, e questo è il dato da cui è partito il lavoro dei poliziotti della Digos di Prato, da quando è stato aperto nel marzo scorso, lo sportello "Fuzhou police overseas service station" in via Orti del Pero ha avuto solo quattro pratiche. Dunque il dubbio che quella stanza, il cui unico arredamento è un tavolo con una telecamera, serva a qualcos' altro di non chiaro, resta.

Il ministro dell'Interno, rispondendo all'interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi, ha spiegato che «non c'è alcuna autorizzazione alle attività dei centri, sono in corso indagini amministrative per verificare di quali titoli dispongano. Non escludo provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità». Da qui l'ipotesi che possano essere chiusi definitivamente. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha detto che tale rete, se effettivamente risulterà essere una sorta di polizia parallela del regime, «è inaccettabile».

Non è certo neanche quanti siano. Nel report della ong spagnola si citano 102 stazioni di polizia cinese in tutto il mondo, di cui undici sarebbero in Italia. Il Viminale però ne conta solo due, Milano e Prato. Leggendo il documento di Safeguard Defenders, compilato attingendo a fonti aperte e comunicati del governo cinese, si nota però una certa confusione: i due uffici vengono accostati ad associazioni culturali riconosciute e anche alle collaborazioni istituzionali tra polizia italiana e polizia cinese.

Ma, come ha spiegato Piantedosi sono due storie diverse. «Gli accordi di cooperazione internazionale e l'esecuzione di pattugliamenti congiunti tra personale delle rispettive polizie, sospese nel 2020 a causa della pandemia e tuttora inattive, sono un'altra vicenda ».

La Cina avrebbe 11 stazioni di polizia occulte in territorio italiano. Walter Ferri su L'Indipendente il 6 dicembre 2022.

La Cina è vicina, più di quanto non sia lecito pensare, almeno stando ai dati raccolti da Safeguard Defenders. Il gruppo per i diritti civili spagnolo sostiene infatti che Pechino possa vantare almeno 102 “stazioni di polizia” abusive distribuite in molteplici nazioni strategiche, tra cui l’Italia. Sul suolo del Bel Paese vengono riconosciute ben 11 realtà di questo genere, uffici che sorveglierebbero con attenzione le comunità cinesi presenti a Roma, Milano, Bolzano, Venezia, Firenze, Prato e in Sicilia. Come se non bastasse, queste istituzioni ombra sarebbero state consolidate grazie al sostegno di accordi bilaterali.

Non è la prima volta che Safeguard Defenders affronta l’argomento, tuttavia quest’ultimo report aggiornato evidenzia come le centrali semi-ufficiali siano molto più diffuse di quanto non fosse stato riscontrato appena pochi mesi fa. All’epoca, i politici cinesi avevano reagito alle accuse sostenendo che i poli diplomatici esistano esclusivamente al fine di sostenere gli espatriati e i turisti nella gestione delle pratiche burocratiche e nel rinnovo dei documenti, tuttavia è difficile non notare che testate quali l’agenzia di stampa cinese Xinhua abbiano esplicitamente parlato in passato di “pattuglie di polizia sino-italiane”.

Paesi Bassi, Canada, Stati Uniti, Spagna, Portogallo, Regno Unito e Irlanda hanno avviato indagini nei confronti di queste controverse realtà, in alcuni casi si sono persino verificate delle chiusure. L’Italia si è mossa apparentemente in controtendenza: a settembre le Autorità di polizia avevano confessato a Giulia Pompili de Il Foglio di non essere affatto preoccupate poiché i centri incriminati “gestiscono solamente pratiche amministrative, non la sicurezza pubblica”. Il ruolo degli uffici in questione si confonde d’altronde con gli accordi di cooperazione siglati il 27 aprile 2015 dall’allora Ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, il quale aveva assicurato proprio un memorandum per i pattugliamenti congiunti delle due polizie. La scarsa chiarezza nei confronti dei confini e delle modalità degli accordi presi dalle due Amministrazioni non dovrebbe essere però di stimolo a ignorare le accuse, anzi dovrebbe rimarcare la necessità di una maggior attenzione. Una speranza sembra altresì emergere da alcune indiscrezioni raccolte da La Repubblica. Gli informatori del quotidiano hanno infatti confessato che l’intelligence italiana stia scandagliando la vicenda ormai dalla scorsa primavera, un dato auspicabile che però dev’essere ancora confermato dalle istituzioni competenti.

Le rivelazioni esposte da Safeguard Defenders non sono infatti leggere e non andrebbero affatto prese sottogamba: l’indagine identifica in Milano un centro di sorveglianza e spionaggio che Pechino sfrutterebbe per costringere i dissidenti a rientrare nella madre patria. Le pratiche impiegate dalla polizia cinese prevederebbero dunque molestie, minacce, intimidazioni, ma anche adescamenti e rapimenti, tutte le armi di una campagna “persuasiva” che si muove parallelamente ai canali ufficiali e che l’organizzazione spagnola aveva già denunciato in un report pubblicato nel gennaio del 2022. 

Safeguard Defenders è un’organizzazione non governativa nata nel 2016 dalle forze congiunte dello svedese Peter Dahlin e dello statunitense Michael Caster, personaggi che in passato avevano già fondato Chinese Urgent Action Working Group, una ONG specializzata nel promuovere i diritti umani che è stata chiusa dal Governo di Pechino. All’epoca, il sito China Change aveva riscontrato che Dahlin e la sua compagna si fossero trovati a dover subire le attenzioni indesiderate delle autorità locali. [di Walter Ferri]

Operazione Fox Hunt: così la Cina usa le sue spie in Italia per rimpatriare i dissidenti. Veri e propri uffici di polizia nascosti dietro fantomatici centri servizi, in almeno dieci città. Così, nel nostro paese, infiltrati di Xi Jinping hanno stanato e convinto con le minacce a tornare i "fuggitivi".  Gabriele Cruciata su L’Espresso il 2 Dicembre 2022.

W. J. è un cittadino cinese giunto a Prato nel 2002. Arrivato illegalmente in Italia, per anni ha dovuto lavorare in nero con paghe intorno ai 700 euro mensili a fronte di turni massacranti da 15 ore al giorno in fabbrica. Pensava di essersi costruito una vita lontana dal regime cinese. L’illusione è durata fino all’agosto del 2015, quando è stato contattato dai suoi familiari rimasti in Cina, a loro volta contattati da ufficiali del regime.

Dagonews il 7 dicembre 2022.

“Il Foglio” si beve “l’Espresso”! La giornalista Giulia Pompili attacca in un thread su Twitter il (fu) settimanale d’inchiesta di proprietà di Danilo Iervolino. Pompili, esperta di Asia e Cina, spiega che l’articolo di copertina sulle agenzie cinesi sparse per il mondo che catturano i dissidenti è totalmente copiato dal “Foglio” e da altri giornali. 

Il diretto de “L’Espresso”, Lirio Abbate, ha affermato anche che il reportage era una loro esclusiva fatta insieme a “Cnn” e “Le Monde”. Peccato che “Le Monde” abbia ordinato al settimanale italiano di levare la citazione della loro testata, e la “Cnn” non ha mai citato l’Espresso”. 

Dopo la figuraccia Soumahoro, lanciato come il nuovo “leader della sinistra” ai tempi della direzione di Marco Damilano, un altro scivolone.

Thread dell’Espresso su Twitter il 7 Dicembre 2022.

Nei giorni scorsi qui su Twitter  @giuliapompili ha accusato L’Espresso di alcuni comportamenti scorretti legati al nostro articolo di copertina “Caccia alla volpe cinese”. Accuse rilanciate da @_DAGOSPIA_. È doveroso rispondere a queste accuse. Lo facciamo con un thread ? 

Le accuse sono due: aver inventato una collaborazione internazionale con altre testate e aver "copiato" delle sue inchieste senza citarle. 

Sul primo punto, confermiamo di aver avuto accesso in esclusiva per l'Italia a documenti condivisi con altre due testate internazionali 

Per questo abbiamo ritenuto corretto citare le testate in questione. Da questi documenti di partenza ogni testata ha lavorato o sta ancora lavorando in maniera autonoma sul proprio territorio

L'inchiesta del Foglio si fermava a uno stadio antecedente rispetto alla nostra, che svela nuovi scenari ben più gravi e compromettenti. Tanto da accendere i riflettori su una vicenda fin qui ignorata dalla politica.

Confidiamo che dopo queste precisazioni arrivi una rettifica. 

L’Espresso ha una tradizione nel giornalismo d’inchiesta e ha offerto con la massima trasparenza ai lettori anche i documenti a corredo del proprio lavoro, che si trovano qui con l’intera mappa degli atti ufficiali che raccontano dell’operazione Fox Hunt

Riteniamo sia nostro dovere continuare a lavorare sviluppando casi esistenti o scovandone di nuovi, usando il termine "esclusivo" di fronte a notizie nuove, come in questo caso 

Riteniamo inoltre che sia un errore per i giornalisti pensare che essere arrivati per primi su una storia delimiti una sorta di riserva, un territorio inaccessibile ad altri. Se così fosse, su molti scandali persisterebbe ancora il rassicurante oblio invocato dal potere

Stazioni cinesi di polizia in Italia, per von der Leyen è "inaccettabile". Redazione su L’Espresso l’8 Dicembre 2022

Per la presidente della commissione europea ha ha di sollevare il tema al prossimo Consiglio dei ministri dell'Interno dell'Unione, Piantedosi alla Camera: «Monitoraggio con la massima attenzione»

La presenza di undici stazioni di polizia cinesi in Italia, come ha svelato L’Espresso nelle scorse settimane, mappandole e indicandone anche gli indirizzi, per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è gravissimo. «Se si dimostrerà che le notizie sulla presenza di stazioni di polizia cinesi in Ue sono veritiere per noi sarebbe inaccettabile il fatto che un qualunque Paese terzo eserciti qualunque forma di giurisdizione extraterritoriale nel territorio di Stati membri dell'Unione europea senza l'accordo di questi ultimi», così Ursula von der Leyen ha risposto ad una domanda del Corriere della Sera.

In merito a cosa si possa fare a livello europeo, la presidente dell'esecutivo di Bruxelles ha annunciato di aver chiesto alla commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson, «di sollevare il tema al prossimo Consiglio dei ministri dell'Interno dell'Unione europea».

Dopo l’inchiesta di copertina de L’Espresso su “Caccia alla volpe cinese”, il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, ha risposto al question time alla Camera, e ha cercato di dare risposte su quanto è emerso dal rapporto di Safeguard Defenders, che L’Espresso ha avuto in esclusiva per l’Italia, in cui viene denunciata una rete di centri di polizia cinesi in diversi Paesi che hanno lo scopo di individuare i dissidenti che si sono rifugiati in Italia e da qui rimpatriati con il ricatto e l’inganno. I cinesi lo hanno fatto grazie al lavoro di uffici investigativi camuffati da centri di servizio. Così gli agenti di Xi hanno beffato prima l’Italia, poi altri Paesi europei.

Secondo la comunicazione che il ministro Piantedosi ha fatto alla Camera, «presso il Dipartimento della pubblica sicurezza non risulta alcuna autorizzazione in ordine all'attività» di centri cinesi per il disbrigo di pratiche in Italia ed ha aggiunto: «assicuro che le forze di polizia, insieme all'intelligence, attueranno un monitoraggio con la massima attenzione, io lo seguirò personalmente e non escludo provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità riscontrate».

Dove sono le stazioni di polizia cinesi in Italia. Camuffate da uffici di servizi, in realtà sono centri per monitorare la popolazione e rimpatriare i dissidenti. Ecco la mappa. Gabriele Cruciata su L’Espresso il 2 Dicembre 2022

Le autorità cinesi hanno creato in Occidente una fitta rete di stazioni di polizia camuffate da uffici di servizi. In Italia sono state trovate almeno 10 stazioni. Tutto è partito dal progetto cinese di far rientrare i “fuggitivi” nella madrepatria convincendoli personalmente anziché chiederne l’estradizione.

In alcuni documenti pubblici consultati da L’Espresso la rete di stazioni di polizia viene raccontata come un importante risultato dei pattugliamenti congiunti tra Italia e Cina iniziati nel 2016. Le prime sono state aperte a Milano e Roma.

Le stazioni identificate sinora sono sparse su tutto il territorio nazionale, da Bolzano fino alla Sicilia. Tra le città coinvolte ci sono Venezia, Firenze e Prato, tutti luoghi importanti per la comunità cinese in Italia. A Prato ad esempio c’è la più grande comunità cinese d’Europa, attratta intorno al Duemila dal florido tessuto produttivo tessile. Mentre a Venezia il numero di imprenditori cinesì è quasi raddoppiato in dieci anni.

Nel complesso, i cinesi regolarmente censiti in Italia sono circa 300mila. Un bacino importante da dover monitorare per Pechino. Così si è deciso di partire proprio dall’Italia per mettere le mani su mezzo Occidente, controllare l’opinione pubblica dei cinesi all’estero e “persuadere al ritorno” in Cina i dissidenti e i fuggitivi scappati dalle maglie del regime.

Le stazioni di polizia cinesi in Italia sono fuori legge, Piantedosi: "Pronto a sanzionarli". Giuliano Foschini su La Repubblica il 7 Dicembre 2022

Il ministro degli Interni alla Camera parla dello scandalo scoppiato negli scorsi giorni: "L'inchiesta è in corso. Dicono di aver trattato solo quattro casi ma il Dipartimento di pubblica sicurezza non aveva mai dato l'ok". Magi (+Europa): "Caso gravissimo. È un'attività illegale"

L’Italia ha aperto un’inchiesta sulle cosiddette stazioni di polizia cinesi nel nostro Paese. Che, al momento, non sembrano avere alcuna autorizzazione. “Stiamo verificando: non escludiamo sanzioni in caso di irregolarità”. Il ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, ha parlato in aula del caso esploso nelle scorse settimane dopo la denuncia della Ong spagnola Safeguard defenders.

A sollecitarlo nel corso di un question time il deputato di +Europa, Riccardo Magi, che ha chiesto “se il ministero dell'Interno abbia mai autorizzato l'apertura di queste strutture, quali attività svolgano davvero e se sia stata aperta un'inchiesta”. Piantedosi ha confermato, così come riportato da Repubblica, che un’indagine c’è: la sta svolgendo Aisi insieme con la polizia di Stato. E, in un caso, esiste anche un’informativa all’autorità giudiziaria. “La vicenda – ha spiegato il ministro degli Interni - non ha alcuna attinenza con gli accordi di cooperazione internazionale di polizia tra l'Italia e la Cina e con l'esecuzione di pattugliamenti congiunti tra personale delle rispettive polizie. Segnalo che il memorandum d'intesa per la esecuzione di questi pattugliamenti, firmato a L'Aia nel 2015, ha consentito lo svolgimento dal 2016 al 2019 delle attività di pattugliamento in Italia e dal 2017 al 2019 in Cina, per essere poi sospese nel 2020 a causa della pandemia e tuttora inattive”.

Secondo quanto fino a questo momento detto da Pechino, questi uffici aperti in undici posti in Italia, sostiene la Ong, altro non sarebbero che dei centri per sbrigare pratiche amministrative e burocratiche. In particolare – come avevano segnalato il Foglio e Formiche nei mesi scorsi – ne sarebbe stata aperta una a Prato. “La Polizia – ha spiegato in aula il ministro – ha immediatamente avviato accertamenti dai quali è emerso che nello scorso marzo l'associazione culturale della comunità cinese di Fujian in Italia aveva aperto una sorta di sportello per il disbrigo di pratiche amministrative rivolto ai connazionali. Il presidente del consiglio direttivo dell’associazione, sentito negli uffici della prima Questura, ha dichiarato che, oltre alle finalità richiamate, la sua associazione avrebbe fornito un servizio finalizzato ad aiutare i cittadini cinesi, che a causa del protrarsi della pandemia non avevano potuto fare rientro nel Paese d'origine, nel rinnovo di patenti cinesi e in materia di successioni. Ad oggi l’associazione, pur rimanendo formalmente in essere, di fatto non risulta più fornire i servizi, che peraltro avrebbero riscosso anche uno scarso interesse”. Soltanto quattro sarebbero le richieste arrivate.

Perché tenerla aperta allora? La denuncia dell’Ong è che in questi anni sarebbero servite per rintracciare e avvicinare oppositori politici e invitarli, non con le buone, a rientrare in patria. “Il 16 novembre c’è stato nel Dipartimento della pubblica sicurezza un incontro con l'ufficiale di collegamento in servizio presso l'ambasciata della Repubblica popolare cinese a Roma che ha confermato quanto dichiarato dal presidente del consiglio direttivo dell’associazione. Sulle altre città che sarebbero sede di queste associazioni: non risultano al momento cosiddetti centri servizi analoghi a quelli di Prato, né a Roma, né a Firenze, né a Venezia, né a Bolzano. A Milano è stata riscontrata la presenza di un'associazione la Overseas Chinese Center che svolge attività di disbrigo pratiche amministrative per i cittadini cinesi, sulla quale sono in corso approfondimenti”.

In ogni caso, il ministro degli Interni è stato molto chiaro sulla possibilità di movimento che questi centri hanno: nulla, tanto che la Digos di Prato ha già inviato un'informativa in Procura che ha apero un'indagine. “Non c’è alcuna autorizzazione alle attività dei centri in questione - ha detto Piantedosi - In ogni caso sono in corso indagini amministrative per verificare che titoli ci sono. Assicuro che le forze di polizia, in costante raccordo col comparto intelligence, hanno in corso un monitoraggio di massima attenzione sulla questione e che seguirò personalmente gli sviluppi non escludendo provvedimenti sanzionatori in caso di illegalità”.

“Quello cinese è un regime autoritario” ha risposto in aula Maggi, “che opera principalmente con l'intimidazione nei confronti dei propri concittadini, ma anche nei confronti degli altri Stati. È, quindi, importantissimo che gli approfondimenti avvengano con la massima rapidità e con la massima serietà, che oggi il ministro ci ha garantito. Se anche si trattasse di svolgere - da parte di queste associazioni, di queste sedi informali, non so come meglio definirle - dei compiti consolari non autorizzati, si tratterebbe comunque di un'attività illegale. Ci sono poi altri profili che ci preme sottolineare. È necessario rendere pubblici tutti quanti gli accordi che sono stati stipulati negli ultimi anni con la Repubblica popolare cinese. Non per tutti avviene così”.

Poliziotti cinesi terrorizzano l'Italia, la "manina" di Gentiloni dietro lo scandalo. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 07 dicembre 2022

Il primato è nostro, ma c'è poco da andarne fieri. Negli ultimi due anni e mezzo la Cina ha aperto 102 "stazioni di polizia" (le virgolette sono d'obbligo perché l'operazione, messa in questa termini, è tutto fuorché legittima) in almeno 53 Stati: da noi ne ha piazzate ben 11 e non c'è altro Paese, in Europa o in America o in Africa, che ne abbia avute così tante. Lo dicono gli spagnoli dell'Ong Safeguard Defenders che di certo non ce l'hanno coi cinesi, ma che neanche vedono di buon occhio il regime di Pechino. Il punto è che quelle "stazioni di polizia" sono partite ufficialmente come centri per garantire assistenza amministrativa a chi si trovava fuori dai confini del Dragone, ma sono diventate (spiegano dall'Ong) uno strumento per sorvegliare, perseguire e, in alcuni casi, pure rimpatriare esuli e dissidenti, facendosi sponda con accordi bilaterali e, in sostanza, con l'indifferenza dei governi occidentali che, siglata la convenzione e fatta la foto di rito, manco se lo sono ricordato più, di aver autorizzato il progetto.

METODI "CLASSICI"

Prendi l'Italia. Cioè prendi il nostro caso. Ad aprire le danze è stato il dem Paolo Gentiloni, e prima della pandemia: correva l'anno 2015, era il governo Renzi e lui faceva il ministro degli Esteri. Sottoscrisse una cooperazione internazionale con Il 27 aprile 2015 l'allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni firma quattro accordi con Pechino, un memorandum per pattugliamenti (finiti nel 2020 con la pandemia) presentato a Roma e Milano dal ministro dell'Interno Alfa no nel 2016. Obiettivi: «lotta al terrorismo, al crimine organizzato internazionale, all'immigrazione illegale e al traffico di esseri umani». Secondo la ong spagnola Safeguard Defenders, i "commissariati" cinesi sparsi per il mondo sono oltre 100, dei quali 11 in Italia. Wang Yi (il suo corrispettivo cinese) nel quale spiccava un memorandum per il «pattugliamento congiunto delle due polizie» e poi arrivederci.

L'anno dopo (nel 2016) Angelino Alfano presentò le prime squadre a Roma e a Milano e, d'accordo, nel 2020 l'operazione venne formalmente sospesa causa virus dei virus, ma intanto (continua l'Ong spagnola nel suo report) la miccia si era accesa e il modello ha iniziato a replicarsi. Un po' qui e un po' là. In Olanda, in Germania, in Canada, in Brasile, in Croazia, in Serbia. A Firenze, a Bolzano, a Venezia, in Sicilia. L'ultima "stazione di polizia cinese" a Prato ha chiuso i battenti sommersa dalle polemiche a fine ottobre: loro, i cinesi dell'Associazione culturale di Fujian in Italia, hanno giurato e spergiurato che con la ricerca dei dissidenti non avevano nulla a che vedere, che si limitavano a dare supporto a chi non sapeva come muoversi in uno Paese diverso dal proprio, ma ne è venuto fuori un caso politico che la metà basta. Laura Hart, che dirige la campagna di Safeguard Defenders, sostiene che il metodo utilizzato sia sempre lo stesso: «Inizialmente telefonate, poi minacce ai parenti rimasti in Cina, infine l'impiego di agenti sotto copertura all'estero che possono arrivare anche a pratiche di adescamento e rapimento».

FORZATO

Ci sarebbe anche un caso accertato di rientro "intimato" senza passare dal canale (questo sì, legale) dell'estradizione: un operaio cinese accusato, a Pechino, di appropriazione indebita ma residente in Italia, dopo le "pressioni" subite avrebbe deciso di fare rientro nel suo Paese e da allora se ne sarebbero perse le tracce. Il ministero degli Esteri cinese smentisce: «Usare questo come pretesto per diffamare la Cina è inaccettabile», spiega una nota ufficiale, ribadendo che le "stazioni" servono solo come «hub amministrativi». Ma l'Ong spagnola è di diverso avviso.

Cosa fa la polizia di Pechino «infiltrata» a Milano e New York. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022 

L’indagine del Senato Usa: «Controllano il dissenso nella diaspora». Il «Guardian»: «L’Italia il Paese più infiltrato. Spiano gli espatriati, rimpatriano forzatamente i dissidenti»

La polizia cinese è in mezzo a noi, a casa nostra. La presenza di agenti cinesi nei paesi occidentali è nota da anni, spesso è cominciata in epoche in cui rapporti con Pechino erano più distesi o perfino idilliaci. Certi Stati – Italia inclusa – accolsero volentieri la cooperazione fra le proprie forze di polizia e quelle della Repubblica Popolare: poteva essere utile per contrastare la criminalità cinese, disporre di agenti in trasferta che parlano il mandarino, il cantonese, o dialetti delle varie comunità di immigrati. Dai flussi di immigrazione clandestina alle attività illecite delle Triadi mafiose (narcotraffico, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo), il know how delle forze dell’ordine cinesi era benvenuto.

Per lungo tempo i governi occidentali hanno chiuso gli occhi sul «danno collaterale» di questa cooperazione: i poliziotti cinesi che agiscono sul nostro territorio possono anche spiare i loro concittadini, segnalare i dissidenti, reprimere le manifestazioni di protesta. Oggi questo rischio è balzato in primo piano. Dopo che la Repubblica Popolare è stata percorsa da proteste contro i lockdown e le quarantene, la diaspora cinese nel mondo ha visto aumentare i segnali di disaffezione dal regime. Un tempo non era così. Per esempio, tra i numerosi studenti cinesi nelle università occidentali, in passato prevaleva il nazionalismo. Era raro – mi baso anche su esperienza personale – imbattersi in studenti cinesi nelle università americane o europee che avessero opinioni critiche su Xi Jinping. La popolarità del presidente era alta. I quasi tre anni di «Covid zero» hanno intaccato questa fiducia.

Quando hanno cominciato a trapelare le notizie sulle prime manifestazioni di protesta in Cina, nelle comunità di cinesi espatriati c’è stata una diffusa solidarietà. Ma questo rende sempre più controversa la presenza di poliziotti cinesi nei nostri paesi: sono in grado di schedare gli studenti che contestano Xi, segnalarli a Pechino, con conseguenze pesanti per loro e per i loro familiari rimasti in patria. Di colpo, l’esistenza di una vasta rete di “commissariati cinesi all’estero” diventa un problema. Il quotidiano inglese The Guardian ha sostenuto di recente che l’Italia è il paese con il più alto organico di agenti cinesi sul proprio territorio. Secondo The Guardian la città di Milano sarebbe stata un “laboratorio” per le forze dell’ordine cinesi, per operazioni di spionaggio sulla comunità di espatriati e perfino qualche ritorno forzato di dissidenti. La fonte citata dal giornale è una ong spagnola attiva nella tutela dei diritti civili, secondo la quale esisterebbero un centinaio di questi “avamposti esteri” della polizia cinese nel mondo. La stessa fonte cita indagini in corso in almeno dodici paesi occidentali tra cui Canada, Germania, Olanda.

Negli Stati Uniti è l’Fbi ad avere aperto un’inchiesta su un «commissariato di polizia cinese» che sarebbe attivo a New York. Lo ha confermato ufficialmente il direttore della polizia federale, Christopher Wray, aggiungendo che l’obiettivo dell’indagine è «mettere fine alle attività di polizia cinesi sul territorio Usa». Parlando davanti ad una commissione del Senato, Wray ha detto che l’Fbi «è al corrente dell’esistenza di centri di polizia cinesi all’interno degli Stati Uniti». Ha aggiunto che le loro attività «violano la nostra sovranità, aggirano le garanzie del nostro sistema giudiziario, e ignorano le regole sulla cooperazione internazionale tra forze dell’ordine».

La risposta ufficiale delle sedi diplomatiche cinesi negli Stati Uniti, è che questi agenti distaccati all’estero «assistono e aiutano» i propri concittadini in pratiche consolari come i rinnovi di passaporti, carte d’identità e patenti. Il capo dell’Fbi parlando al Senato di Washington ha manifestato invece «profonda preoccupazione» per l’attività degli agenti cinesi. Wray ha detto che la polizia federale americana collabora con diverse altre polizie occidentali in queste indagini, visto che la longa manus del Grande Fratello di Pechino ha una portata globale. Tra i primi governi occidentali a entrare in azione si segnala l’Irlanda che di recente ha intimato alla Cina di chiudere un centro di polizia attivo a Dublino. Il capo dell’Fbi ha confermato che in testa alle missioni dei poliziotti cinesi all’estero c’è la schedatura e la repressione dei dissidenti.

«Il partito comunista cinese – ha dichiarato Wray al Senato – sta esportando la sua repressione nel cuore degli Stati Uniti. Spiano, inseguono, perseguitano e ricattano i loro concittadini che esprimono critiche verso il regime». Tra le prime risposte dell’Amministrazione Biden c’è una revisione delle procedure per la concessione dei visti, nel tentativo di impedire che Pechino assegni poliziotti e spie alle proprie sedi diplomatiche. Una prima incriminazione da parte del Dipartimento di Giustizia Usa ha colpito sette cittadini cinesi accusati di costringere un loro connazionale a tornare in Cina con metodi coercitivi; altri cinque cinesi sono stati incriminati con l’accusa di avere «cospirato per silenziare dissidenti che vivono negli Stati Uniti».

I rimpatri forzati in Cina e il silenzio dell’Italia.  Lirio Abbate su L’Espresso il 2 Dicembre 2022.

Uffici investigativi cinesi truccati da agenzie di servizi. Agiscono nel nostro Paese per "convincere" al ritorno chi è contro il regime con procedure illegali e violazioni dei diritti umani. Viminale e Farnesina tacciono

Com’è possibile che in Italia ci siano decine di uffici investigativi cinesi camuffati da centri per i servizi che hanno lo scopo di rintracciare nel nostro Paese i dissidenti del regime e rimpatriarli?

Formalmente gli uomini di Xi Jinping distribuiti in diverse città non "rapiscono" delle persone da loro "ricercate" che vogliono riportare in Cina. Se queste avessero commesso un reato, con una regolare procedura di estradizione si potrebbe procedere al rimpatrio. Questo invece non viene fatto secondo le normali procedure giudiziarie e così i cinesi hanno purtroppo perfezionato gli errori del passato commessi dagli occidentali nella lotta al terrorismo islamico, vedi la vicenda di Abu Omar. In questo caso non si tratta di "extraordinary rendition", ma dell’accompagnamento dall’Italia a Pechino o a Hong Kong del ricercato che è stato "convinto" con una serie di operazioni violente effettuate in patria, come minacce ai parenti e torture, a lasciare "volontariamente" il nostro Paese. Di queste persone è poi complicato conoscere che fine facciano una volta messo piede in Cina.

Tre anni fa in centinaia di migliaia sono scesi in piazza per protestare contro una proposta di legge che consentiva l’estradizione di sospetti criminali nella Cina continentale, dove i tribunali sono controllati dal Partito Comunista. Ma tutto ciò non è bastato. Adesso un’inchiesta giornalistica internazionale a cui ha partecipato L’Espresso con la Cnn e Le Monde, mette in luce quello che avviene anche nel nostro Paese.

I cinesi l’hanno chiamata operazione "caccia alla volpe". Di tutti i fuggitivi che rientrano in Cina, come svela Gabriele Cruciata sull’Espresso di questa settimana, solamente una percentuale compresa tra l’uno e il sette per cento usa vie ufficiali. Lo affermano i dati forniti dalla Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, il più alto organismo di indagine interno al Partito Comunista Cinese che gestisce la «campagna contro la corruzione», utilizzata dal segretario Xi Jinping per le purghe sia interne al Partito sia a livello internazionale. Gli altri «fuggitivi» sono stati illegalmente «persuasi a tornare», per usare le parole delle stesse autorità cinesi.

L’inchiesta spiega che la preferenza del regime per la "persuasione" è legata alla ritrosia dei Paesi occidentali a rimpatriare i ricercati per metterli nelle mani di Paesi in cui i diritti umani di cittadini ordinari e oppositori politici sono sistematicamente calpestati, come ha affermato di recente la Corte europea per i diritti dell’uomo. Nei documenti pubblici, che pubblichiamo online a corredo dell’inchiesta giornalistica, per concretizzare il desiderio di riportare i fuggitivi in Cina, si legge che l’operazione "Caccia alla volpe" ha avuto inizio nel 2014 e fino allo scorso mese le forze di polizia cinesi hanno condotto più di undicimila operazioni riguardanti talvolta singoli individui e talvolta interi gruppi familiari. Decine di migliaia di persone fuggite nei Paesi occidentali e di cui si sono poi perse le tracce al rientro in Cina.

Visto che in Italia abbiamo scoperto stazioni di polizia cinesi camuffate, ci si chiede se e come è possibile che questo accada, e come sia stato consentito a persone vicine al regime di Xi di lavorare indisturbate e senza autorizzazioni nel nostro Paese seguendo le indicazioni ufficiali della Ccdi (Commissione centrale per l’ispezione disciplinare) applicando la «persuasione al ritorno» (ritorsioni contro i familiari rimasti in Cina), di agenti sotto copertura, di spie, di sistemi di tortura e addirittura di rapimenti come «metodo legale» per convincere i fuggitivi a tornare. Sono domande che abbiamo posto alla Farnesina e al Viminale, che però hanno preferito non rispondere.

In molti Paesi la questione finisce nelle indagini delle Unità antiterrorismo o per la sicurezza nazionale, mentre negli Stati Uniti il direttore dell’Fbi ha dichiarato dinanzi al Congresso di essere molto preoccupato per delle attività così gravi «che violano il principio di sovranità e aggirano gli standard internazionali di cooperazione tra forze di polizia». Sul tema delle stazioni di polizia d’oltremare e la repressione transnazionale, la Commissione speciale sulle interferenze straniere del Parlamento Europeo udirà l’8 dicembre la ong Safeguard defenders che si occupa di monitorare le sparizioni in Cina. Ci piacerebbe sapere come il nuovo governo di Giorgia Meloni vuole affrontare questa questione di diritti civili, ma soprattutto di incursioni di spie cinesi nel nostro Paese.

È MORTO JANG ZEMIN, EX PRESIDENTE DELLA CINA

(ANSA il 30 novembre 2022) – L'ex leader cinese Jiang Zemin è deceduto all'età di 96 anni. Lo riferiscono i media ufficiali.

Da corriere.it il 30 novembre 2022.

L’ex leader cinese Jiang Zemin è morto all’età di 96 anni. Lo riferiscono i media ufficiali, secondo i quali l’anziano presidente — che guidò la Cina in una fase di profonda trasformazione — è deceduto a causa di una leucemia e di una insufficienza multiorgano.

Zemin, che era stato sindaco di Shanghai (1985) e segretario generale del Partito Comunista (1989), è stato presidente dal 1993 al 2003, ed è considerato uno dei massimi artefici della nuova assimilazione dell’economia capitalistica nel sistema comunista cinese. Si deve a lui, tra l’altro, l’ingresso nel Paese nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2001.

Sotto la sua guida, la Cina aveva vissuto un periodo di crescita economica esplosiva, e uscì dall’isolamento internazionale in cui la violenta repressione di piazza Tienanmen l’aveva confinata.

Nonostante le riforme economiche e l’apertura internazionale, Zemin continuò la repressione interna: mise al bando il movimento spirituale Falun Gong e incarcerò attivisti per la democrazia e i diritti umani.

Cina, è morto a 96 anni l'ex presidente Jiang Zemin. Storia di Federico Giuliani su Il Giornale il 30 novembre 2022.

L'ex presidente cinese Jiang Zemin è morto a Shanghai all'età di 96 anni. Ad annunciarlo gli alti organi istituzionali cinesi ripresi dai media di Stato. Presidente della Cina per due mandati, dal 1993 al 2003, Jiang è deceduto a causa di leucemia e insufficienza multiorgano. Nella sua carriera politica ha ricoperto varie cariche rilevanti, tra cui quella di sindaco di Shanghai (1985) e segretario generale del Partito Comunista Cinese (1989).

La figura di Jiang Zemin

Jiang (qui il suo ritratto completo) è considerato uno dei massimi artefici della nuova assimilazione dell'economia capitalistica in un sistema comunista, nonchè il leader più importante della Cina dagli anni '90 all'inizio del Duemila. Si deve a lui, ad esempio, l'ingresso del Paese nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2002. Più in generale, quella dell'ex leader cinese è stata una figura chiave in un'epoca di trasformazione della Repubblica Popolare Cinese, che ha consentito al Dragone di avviare la sua roboante ascesa dalla fine degli anni Ottanta al nuovo millennio.

L'agenzia di stampa Xinhua ha spiegato che Jiang, salito al potere dopo le proteste di piazza Tiananmen, è deceduto poco dopo mezzogiorno ora locale. L'annuncio ufficiale della sua morte è stato diffuso dal Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, il Comitato Permanente dell'Assemblea Nazionale del Popolo della Repubblica Popolare di Cina, il Consiglio di Stato, il Comitato nazionale della Conferenza consultiva politica del popolo cinese e le Commissioni militari centrali.

Il ruolo dell'ex presidente nell'ascesa della Cina

In una nota si legge che "il compagno Jiang Zemin era un leader eccezionale che godeva di un alto prestigio riconosciuto da tutto il Partito, dall'intero esercito e dal popolo cinese di tutte le etnie, un grande marxista, un grande rivoluzionario proletario, statista, stratega militare e diplomatico, un combattente comunista di lunga data e un leader della grande causa del socialismo cinese". Jiang è stato ricordato come "il fulcro della terza generazione della leadership collettiva centrale del Pcc e il principale fondatore della Teoria delle Tre Rappresentanze".

Al di là delle agiografie, dal punto di vista ideologico ha avuto un tuolo di primo piano, avendo ideato la richiamata Teoria delle Tre Rappresentanze, ovvero l'evoluzione diretta della costruzione del cosiddetto "socialismo con caratteristiche cinesi" avanzato dal suo predecessore Deng Xiaoping. Detto altrimenti, il Partito Comunista Cinese, durante la sua presidenza, si è gradualmente aperto agli imprenditori e ai nuovi gruppi sociali emergenti affermatisi nel corso del periodo delle riforme economiche. Fu così che i manager delle imprese private iniziarono a competere per ricoprire ruoli rilevanti.

Come se non bastasse, la leadership di Jiang ha goduto di un periodo di ascesa senza precedenti della Repubblica Popolare Cinese, con tassi di crescita del pil a doppia cifra e altri valori alle stelle. Dal punto di vista politico, infine, sotto Jiang Zemin la Cina ottiene nuovamente il controllo di Hong Kong (1997) e Macao (1999), mentre nel 2000 Pechino si aggiudicò le Olimpiadi che si sarebbero svolte nel 2008.

(ANSA il 30 novembre 2022)  Nuovi scontri sono scoppiati la notte scorsa a Guangzhou, il capoluogo del Guangdong, contro le misure anti-Covid che da settimane stanno interessando la città nell'ambito degli sforzi per contenere i focolai di infezione. In base ai video postati sui social in mandarino, il personale di sicurezza in tuta bianca anti-pandemica ha formato una barriera spalla a spalla, riparandosi sotto gli scudi antisommossa, per proteggersi dal lancio di oggetti e farsi strada nel distretto di Haizhu, con 1,8 milioni di residenti e molti lavoratori migranti. Una decina di persone è stata portata via dalla polizia con le mani legate con fascette.

Si tratta dell'ultimo episodio di insofferenza verso le misure draconiane di contenimento che vengono applicate in Cina dall'inizio della pandemia. Nel weekend si sono avute inedite proteste a Shanghai, a Pechino e in altre grandi città, in quella che è apparsa come la principale ondata di disobbedienza civile in Cina da quando il presidente Xi Jinping ha preso il potere a fine 2012 e dagli eventi sanguinosi di Piazza Tienanmen del 1989.

Lorenzo Lamperti per "la Stampa" il 30 novembre 2022.

Bastone e bavaglio da una parte, un po' di carota dall'altra. Il governo cinese prova a ristabilire l'ordine stringendo ulteriormente le già fitte maglie del controllo fisico e virtuale, mentre inizia a far intravedere la luce in fondo al tunnel delle restrizioni anti-Covid, motivo scatenante (ma non unico) delle proteste.

La commissione centrale per gli affari politici e legali del Partito comunista ha scelto la linea dura disponendo di «reprimere con decisione gli atti illegali e criminali che turbano l'ordine sociale e mantenere efficacemente la stabilità». Sono state rafforzate le misure di sicurezza per prevenire le manifestazioni e la polizia si è attivata in maniera proattiva per controllare il territorio (a partire dalle università) e individuare chi supporta le proteste. Diversi video girati sui social mostrano agenti controllare foto e video sugli smartphone dei cittadini.

Nel mirino anche le app e le vpn utilizzate per aggirare la grande muraglia digitale. La Tsinghua University di Pechino ha chiesto agli studenti di non parlare coi giornalisti stranieri la cui identità non può essere verificata. In tanti segnalano di aver ricevuto telefonate della polizia con la richiesta di smettere di condividere materiale sulle proteste nelle chat. C'è chi racconta che sono stati «avvertiti» anche i propri genitori.

L'obiettivo è duplice: bloccare la diffusione di informazioni giudicate pericolose per la sicurezza nazionale e disconnettere i cittadini scoraggiando nuove azioni di gruppo. Il risultato è che si diffonde un senso di paranoia nel quale diventa difficile fidarsi degli interlocutori, reali o virtuali. Con la paura diffusa di finire nel mirino delle autorità. Il tutto mentre si prova a spingere la retorica delle interferenze esterne. In un video girato durante una delle proteste, si vede un giovane prendere il megafono e chiedere di fare attenzione perché «siamo circondati da forze estere anti-cinesi».

Qualcuno ha replicato: «Intendi Marx ed Engels? Qui siamo tutti patrioti».

Allo stesso tempo, si prova a mostrare di voler aggiustare almeno parzialmente le politiche anti Covid. La commissione nazione per la sanità ha chiesto ieri di revocare «in maniera tempestiva» le misure di controllo qualora possibile e promette di «gestire» le misure considerate «eccessive».

I cittadini sperano non sia solo una promessa fatta per calmare gli animi. Già in passato avevano sperato in allentamenti mai davvero avvenuti. In ogni caso non si parla di una riapertura, ma un'applicazione meno estensiva delle regole da parte delle autorità locali. «Alcune aree hanno ampliato arbitrariamente la portata delle zone e delle persone poste sotto controllo, mentre altre hanno attuato restrizioni per periodi eccessivamente lunghi», ha dichiarato Chenq Youquan del centro di prevenzione e controllo in una conferenza stampa, annunciando la creazione di task force speciali per «rettificare le restrizioni superflue».

Un modo anche per spostare l'attenzione sui funzionari provinciali. Intanto si cerca di dare impulso alla campagna vaccinale dei più anziani. Solo il 65,8 per cento degli over 80 ha ricevuto almeno due dosi. Qualche segnale dai media. Il Beijing News ha pubblicato delle interviste con dei pazienti guariti: interessante shift narrativo per ridurre preoccupazioni e stigma sociale. Ma sull'agenzia di stampa statale Xinhua resta la rivendicazione dell'efficacia della strategia generale, promossa d'altronde da Xi Jinping in persona, e la richiesta di continuare a combattere la «guerra» contro il virus: «La tenacia è vittoria». Tanti cinesi sanno però di non essere inclusi nella lista dei vincitori.

Federico Rampini per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.

Le proteste che agitano la Cina, scatenate dalle tremende restrizioni per la pandemia, in Occidente evocano il ricordo della grande rivolta di piazza Tienanmen nel 1989. I paragoni per adesso sono esagerati. L'occupazione di piazza Tienanmen da parte degli studenti che chiedevano libertà e democrazia, fu preceduta da mesi di manifestazioni con milioni di persone in piazza in tutte le città.

Era una Cina povera, dove le aspirazioni sui diritti si mescolavano a privazioni gravi: una forte inflazione aveva decurtato il potere d'acquisto. I vertici del Partito comunista erano spaccati fra correnti. Il patriarca Deng Xiaoping dovette uscire dal suo semi-pensionamento e orchestrare un golpe militare, per esautorare un premier riformista che cercava il dialogo con gli studenti.

La Cina di Xi Jinping è una superpotenza con una ricchezza economica e un livello tecnologico più vicini agli Stati Uniti. La sua popolazione gode di un benessere che nessuno immaginava 33 anni fa.

Questo progresso spettacolare è un successo dell'intera nazione, dagli operai agli imprenditori, protagonisti di un decollo economico senza precedenti nella storia umana (in queste dimensioni). Il regime si assume il merito di aver governato questo miracolo. Lo ha consentito in tanti modi, per esempio garantendo sicurezza e stabilità.

In nome di queste, ha costruito un formidabile apparato poliziesco: per decenni Pechino ha dedicato alla sicurezza interna perfino più risorse di quante ne dedicasse al riarmo dell'esercito. Le tecnologie del Grande Fratello cinese sono impressionanti. Altrettanto prezioso è il vecchio apparato dei comitati di quartiere, una rete capillare di volontari controllati dal Partito comunista.

Marxista-leninista, confuciano, tecnocratico, ma anche «partito d'ordine». Su questo tema Xi Jinping giustificò il pugno duro contro i manifestanti di Hong Kong: descrivendo quei ragazzi come teppisti anarcoidi al servizio di potenze straniere. È la narrazione revisionista che il regime ha calato sui fatti di Tienanmen: ex post, il massacro compiuto dall'esercito nel 1989 fu legittimato con il rischio che la Cina ricadesse in un disordine sanguinoso simile a quello della Rivoluzione culturale maoista.

Oggi al vertice del partito non sono visibili delle correnti in lotta. Xi ha eliminato i rivali; i fautori di linee politiche alternative sono quasi tutti in carcere, con il pretesto della lotta alla corruzione. Solo al comando, almeno per adesso, è contro se stesso che Xi deve combattere se vuole correggere gli errori che ha accumulato. Il Covid è la sfida più tremenda nell'immediato. Per una nemesi storica, il regime che ha mentito al mondo intero sulle origini della pandemia, ha mentito anche a se stesso. Xi ha descritto la politica «zero Covid» come un trionfo in contrasto con la débâcle dell'Occidente.

Si è infilato in un vicolo cieco perché «zero Covid» implica la paralisi, ripetuta e prolungata, a colpi di lockdown. Se dovesse rilassare quella strategia, in cambio della ritrovata libertà di movimento cosa si può aspettare? Il Covid ha fatto un milione di morti negli Stati Uniti (in linea con la media occidentale), per proporzione demografica dovrebbe farne quattro milioni in Cina. Ma le proporzioni non reggono perché la Cina ha ospedali più arretrati e vaccini meno efficaci.

Pechino dovrebbe replicare una «liberalizzazione controllata» sul modello dei vicini coreani, giapponesi e taiwanesi, campioni del mondo per il basso numero di vittime del Covid. Ma a Tokyo, Seul e Taipei la disciplina sociale, il rispetto delle regole e l'igiene preventiva si accompagnano a sistemi sanitari ben più evoluti. Xi ha promesso al suo Paese qualcosa che forse è impossibile, è prigioniero della sua stessa propaganda.

Gli errori si cumulano. In economia il ritorno allo statalismo coincide con un rallentamento della crescita e l'aumento della disoccupazione giovanile. In politica estera l'appoggio a Putin in Ucraina inasprisce la guerra fredda con gli Stati Uniti e accelera una crisi della globalizzazione che penalizza l'economia cinese. Parlare di un'altra Tienanmen per il momento non ha senso, però qualcuno al vertice del partito comincerà a preoccuparsi per i segnali di esasperazione nel ceto medio e tra gli studenti universitari: due constituency finora fedeli al regime.

Articolo di "The Economist" – dalla rassegna stampa estera di "Epr comunicazione" il 30 novembre 2022.

Ma mantenerla assicura una prospettiva economica negativa per il 2023 – scrive The Economist

Non tutte le aziende hanno lottato nell'era del Covid zero in Cina. Andon Health, una società quotata a Shenzhen che produce test e dispositivi medici per il Covid, ad esempio, ha registrato un aumento del 32.000% dei profitti netti nel terzo trimestre dell'anno, rispetto allo stesso periodo del 2021, grazie alla produzione di dispositivi di analisi per la Cina e l'America.

Le 35 maggiori aziende produttrici di test per il covid-19 hanno registrato un fatturato di circa 150 miliardi di yuan (21 miliardi di dollari) nella prima metà del 2022, dando vita a una nuova generazione di magnati della pandemia.

Ma al di fuori del complesso industriale cinese del covid, l'economia sta soffrendo. Le serrate e le onerose restrizioni alla circolazione hanno bloccato la fiducia dei consumatori e la crescita economica. Negli ultimi quindici giorni hanno ispirato proteste in tutto il Paese, con un'escalation di tensioni nel fine settimana. Il 27 novembre, nelle strade di Shanghai, i giovani hanno respinto la prospettiva di test e chiusure infinite, scandendo: "Non vogliamo i covid test, vogliamo la libertà".

Gli effetti economici del tentativo della Cina di liberarsi del virus non sono mai stati così chiari. La circolazione delle persone è stata severamente limitata. Nella settimana del 14 novembre, con l'aumento dei casi di covid, il numero di voli nazionali è diminuito del 45% rispetto all'anno precedente.

Le tre maggiori compagnie aeree cinesi hanno perso complessivamente 74 miliardi di yuan nei primi nove mesi del 2022. Secondo la banca d'affari australiana Macquarie, il traffico della metropolitana nelle dieci maggiori città cinesi è diminuito del 32% rispetto all'anno precedente. Gli incassi al botteghino, un indicatore della disponibilità delle persone a uscire, sono crollati del 64%. Solo il 42% dei cinema cinesi era aperto il 27 novembre. Alcuni dei cinema più grandi hanno chiuso del tutto.

Le chiusure sono ora in atto in città che rappresentano circa un quarto del PIL cinese, superando il precedente picco di circa un quinto a metà aprile, quando Shanghai fu chiusa, secondo un indice compilato da Nomura, una banca d'investimento giapponese. Il tasso di disoccupazione giovanile in Cina ha raggiunto un livello record a luglio (19,9%). Nella settimana del 25 novembre, il volume di merci trasportate su strada è stato inferiore del 33% rispetto all'anno precedente.

Con le infezioni da Covid che hanno raggiunto livelli mai visti prima, i responsabili delle politiche economiche stanno cercando di stimolare l'economia. La banca centrale ha annunciato una riduzione dei coefficienti di riserva obbligatoria degli istituti di credito. I tecnocrati hanno cercato di ridare vita e fiducia al mercato immobiliare cinese, le cui vendite sono crollate nell'ultimo anno.

Le misure di alleggerimento annunciate a metà novembre hanno cercato di aiutare i costruttori in difficoltà ad accedere al credito, in modo da poter continuare a costruire. Si prevede che il sentimento migliorerà un po' col tempo. Ma le continue chiusure e la scarsa fiducia dei consumatori probabilmente impediranno ai potenziali acquirenti di fare acquisti. E le prospettive per l'economia nel suo complesso nel 2023 appaiono sempre più cupe.

Tenere fuori il Covid una volta sembrava un buon piano. Mentre il resto del mondo soffriva per la diffusione apparentemente inarrestabile delle nuove varianti nel 2021, la Cina sembrava essere tornata in gran parte alla vita normale. I suoi decessi legati al virus sono una minuscola frazione dei decessi legati al virus nel resto del mondo.

Ma anche se altri luoghi hanno imparato a convivere con il virus nel 2022, la politica cinese in materia di Covid, a partire dalla chiusura di Shanghai, il principale centro commerciale del Paese, è apparsa del tutto disorganizzata e repressiva. I cittadini sono stati sottoposti a test infiniti. Le aziende e le aree residenziali possono essere chiuse senza preavviso. Gli spostamenti tra città e province sono diventati gravosi, con ogni governo locale che applica la propria versione di restrizioni coercitive.

Le voci di riapertura si sono rincorse per settimane, mandando in tilt i titoli cinesi. L'11 novembre il governo centrale ha emanato un elenco di 20 misure volte ad allentare le restrizioni relative al covid, come l'eliminazione della necessità di quarantena per i contatti secondari e la riduzione della quarantena per i viaggiatori in entrata da sette a cinque giorni. Le misure sono state accolte dai mercati azionari come un segno che la Cina stava pianificando l'eliminazione graduale del virus zero-covid. Ma la leadership cinese non intendeva inviare un simile segnale.

L'allentamento è stato invece solo una messa a punto della politica, volta probabilmente a renderla più sopportabile per un periodo più lungo. E anche in questo caso, gli allentamenti sono stati attuati in modo disordinato. Con l'aumento del numero di casi in molte città, i funzionari locali sono tornati ad applicare misure di blocco ampie e arbitrarie.

Con la pressione che cresce su molti fronti, i leader di Pechino devono fare i conti con l'idea che alla fine perderanno il controllo sia del virus sia della pazienza del pubblico. Il percorso da seguire è oscuro. Pochi analisti ritengono che la Cina si stia preparando a una riapertura imminente. Al contrario, molti vedono un periodo di confusione e di dolorosi errori politici immediatamente a venire. Per almeno i prossimi quattro mesi, o fino a dopo un'importante riunione politica a marzo, i leader di Pechino dovrebbero sostenere il metodo zero-covid, cercando al contempo di perfezionare i propri metodi. Questa situazione potrebbe protrarsi per gran parte del 2023 se le autorità del governo centrale non riusciranno a elaborare una strategia di uscita.

In queste condizioni, le prospettive per l'economia sono pessime. È probabile che le chiusure di aziende, aree residenziali e persino interi quartieri continuino, anche se potrebbero essere evitate le chiusure totali della città. I funzionari locali potrebbero anche farlo senza annunciare formalmente le chiusure, nel tentativo di sembrare in linea con le nuove misure di allentamento. Questo non farà che aumentare la confusione. Molti degli attuali problemi che affliggono le compagnie aeree e cinematografiche probabilmente continueranno e si estenderanno ad altre attività rivolte ai consumatori.

Le multinazionali possono aspettarsi continue perturbazioni. E anche i consumatori americani che acquistano un nuovo telefono avranno un assaggio di zero-covid. La recente chiusura di uno stabilimento cinese che assembla gli iPhone ha causato gravi disagi ad Apple. La fabbrica, che impiega 200.000 persone ed è di proprietà della Foxconn, un'azienda taiwanese, è stata colpita da un'epidemia in ottobre che ha costretto a una chiusura parziale. Il cibo scarseggiava. I rifiuti si sono accumulati. All'inizio di novembre molti dipendenti si sono dati alla fuga, saltando sui muri e percorrendo le autostrade nel tentativo di tornare a casa.

Con la pressione che cresce su molti fronti, i leader di Pechino devono fare i conti con l'idea che alla fine perderanno il controllo sia del virus sia della pazienza del pubblico. Il percorso da seguire è oscuro. Pochi analisti ritengono che la Cina si stia preparando a una riapertura imminente. Al contrario, molti vedono un periodo di confusione e di dolorosi errori politici immediatamente a venire. Per almeno i prossimi quattro mesi, o fino a dopo un'importante riunione politica a marzo, i leader di Pechino dovrebbero sostenere il metodo zero-covid, cercando al contempo di perfezionare i propri metodi. Questa situazione potrebbe protrarsi per gran parte del 2023 se le autorità del governo centrale non riusciranno a elaborare una strategia di uscita.

C'è anche la possibilità di un 2023 ancora più disordinato, in cui i casi si scatenano e le autorità sono costrette ad abbandonare lo "zero-covid". Molti osservatori cinesi sono stati allettati dalle prospettive di una fine - pianificata o forzata - di questa politica. Alcuni hanno immaginato che il Paese passerà dall'attuale stato sclerotico al business as usual, con interruzioni minime tra le due fasi. Questa prospettiva rosea non tiene conto di quello che potrebbe diventare uno dei più grandi sconvolgimenti della sanità pubblica a memoria d'uomo: una vasta recrudescenza di casi in una popolazione quasi del tutto nuova al virus.

Questo periodo potrebbe includere un rallentamento pervasivo delle attività commerciali. Sia i negozianti che gli acquirenti potrebbero scegliere di rifugiarsi a casa. Le fabbriche potrebbero smettere temporaneamente di funzionare quando le infezioni si diffondono nei reparti di produzione. La confusione politica e le incongruenze tra contee, città e province potrebbero bloccare le catene di approvvigionamento per settimane.

Alcuni funzionari locali, che negli ultimi tre anni sono stati addestrati a evitare a tutti i costi i casi di covid, probabilmente si affiderebbero a chiusure furtive per limitare la diffusione. Queste condizioni, se la trasmissione del virus avviene abbastanza rapidamente, potrebbero durare almeno un trimestre. Secondo Ting Lu di Nomura, le regioni interessate dalle chiusure in questa fase potrebbero rappresentare fino al 40% del PIL, con un calo della produzione nell'arco di uno o due trimestri.

Anche se la Cina dovesse porre fine immediatamente al regime di zero-covid, gli effetti economici positivi non si farebbero sentire prima del 2024, sostengono gli analisti della società di consulenza Capital Economics. Il periodo intermedio sarebbe caratterizzato da turbolenze e instabilità. La crescita sarebbe bassa e, a seconda di come le autorità locali attuano le restrizioni sul covid, le proteste potrebbero continuare.

Cina, traffico di uomini e droga: come fa miliardi Xi Jinping. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 06 novembre 2022

È a Wuhan il centro della produzione mondiale di Fentanyl e di precursori di droghe. Tanto che nel 2020 il virus Sars-Cov 2, dopo essere sfuggito l'anno precedente diffondendo la pandemia, aveva provocato non soltanto la chiusura dei laboratori, ma anche delle industrie chimiche locali, causando una penuria a livello globale di oppiacei e stupefacenti dovuta al blocco delle esportazioni. A distanza di quasi due secoli dalle guerre dell'oppio, il mercato internazionale si è globalizzato: dai singoli mercanti, il controllo è passato alle case farmaceutiche di Stato, talvolta le stesse che mettono in circolazione, attraverso la rete internet e il commercio elettronico, medicamenti falsi o imitazioni di quelli autentici ottenuti tramite la ricerca scientifica. Il che significa giocare con la salute dei consumatori, spesso di quelli più sprovveduti e dei poveri che non possono permettersi i prodotti originali.

TRAFFICI ILLECITI

È solo un aspetto del marcio che si nasconde dietro la Grande Muraglia, messo in luce da un rapporto di un centinaio di pagine, pubblicato da Global Financial Integrity, sul ruolo della Cina comunista nel mondo della criminalità internazionale e della finanza opaca, dal titolo Made in China. China' s Role in Transnational Crime and Illicit financial Flows. Gli autori, Channing Mavrellis e John Cassara, esaminano diversi settori economici che ricadono ditettamente o indirettamente sotto il controllo del governo di Pechino, per quanto riluttante ad ammettere il proprio coinvolgimento in attività illecite. Oltre al traffico di stupefacenti, le principali sfere di attività sono la contraffazione e le violazioni della proprietà intellettuale, il furto di identità digitale, il traffico di esseri umani e di specie animali e vegetali protette, così come i flussi finanziari che ne derivano.

Vacilla, di fronte a certi dati forniti dai ricercatori, anche l'argomento principale utilizzato dalla propaganda comunista, che è solita vantare il successo ottenuto dal regime nella lotta contro la fame a vantaggio di un miliardo di persone. Basta La presidente della Tanzania, Samia Suluhu Hassan, ha concluso ieri la visita di tre giorni in Cina, durante la quale ha ottenuto significativi risultati.

Dopo l'incontro con Xi Jinping, le parti hanno elevato le relazioni bilaterali a livello di partenariato strategico globale e hanno convenuto di rafforzare la cooperazione. Pechino concederà un trattamento esente da dazi per il 98% delle merci importate dal Paese africano. Il cui settore minerario, in particolare le terre rare, contribuisce al 45,9% delle esportazioni. alzare il velo sulle condizioni di lavoro degli addetti alla rinascita economica. In diversi casi, documentati dal dipartimento di Stato Usa nel Rapporto 2021 sul traffico di esseri umani, emergono testimonianze sui lavori forzati nell'industria manifatturiera, nell'edilizia, nella pesca e nell'agricoltura e, in alcuni altri, sulla riduzione in vera e propria schiavitù in campo sessuale. Spesso, il fenomeno si intreccia con la repressione del dissenso e si concretizza in istituzioni come i campi di rieducazione attraverso il lavoro, con lo scopo dell'indottrinamento ideologico nei confronti dei detenuti. A certificare l'efficienza del sistema concentrazionario è uno dei Paesi primi nella classifica del totalitarismo, la Repubblica socialista della Corea del Nord, che si fida così tanto dei compagni da inviare loro decine di migliaia di propri cittadini come "volontari" nei lager gestiti da Pechino specialmente nella regione del Dandong, allo scopo di assicurarsi profitti in valuta straniera, benché rubando gli stipendi alla manodopera deportata. Le tutele sindacali, ovviamente, non esistono e chi si lamenta viene facilmente eliminato. Le autorità cinesi negano anche l'evidenza, come nel caso della disumana persecuzione degli uighuri musulmani dello Xinjiang, salvo poi impedire ogni ispezione di organismi internazionali indipendenti volte ad accertare quale sia la realtà.

RICICLAGGIO DI DENARO

La dottrina rivoluzionaria non si ferma certo davanti alla morale. Per assicurarsi il primato economico, i cinesi non badano a convenzioni e trattati internazionali e, quando si tratta di tecnologie militari, non si fanno scrupoli: rubano dove e appena possono tramite lo spionaggio e i cyberattacchi alle strutture della Difesa, soprattutto statunitensi. Dopodiché, la Cina deve gestire gli enormi guadagni ottenuti sui mercati neri, grigi e opachi. E lo fa riciclando il denaro del quale non vuole far emergere la provenienza: i metodi più comuni sono le frodi doganali e le false fatturazioni, che spesso servono a coprire le centrali del narcotraffico colombiane e messicane. E così si torna al punto di partenza: la droga. 

Saggezza cinese nei 24 termini solari. Cinitalia su Il Giornale l'1 novembre 2022.  

Secondo il calendario tradizionale cinese, l’intero anno è suddiviso in quattro stagioni, ciascuna delle quali ha sei periodi detti anche termini solari. L’autunno è composto da Inizio autunno, Fine del calore, Rugiada bianca, Equinozio d’autunno, Rugiada fredda e Discesa del gelo.

Inizio autunno

L’Inizio autunno è il tredicesimo dei ventiquattro termini solari del calendario tradizionale cinese; indica che l’estate sta per finire e che l’autunno si avvicina. Tuttavia, annuncia solo l’inizio della stagione, ci vorrà del tempo prima che il caldo si dissipi e le temperature si abbassino. Quindi si dice spesso che “l’autunno è iniziato ma fa ancora molto caldo”.

Fine del calore

La “Fine del calore” è il quattordicesimo dei ventiquattro termini solari del calendario cinese, in cinese “Chushu”, significa letteralmente “uscire dal caldo estivo”. Nella Cina settentrionale, questo termine solare simboleggia il fatto che la calda estate è finita e il fresco dell’autunno è ufficialmente iniziato. Ma nella Cina del sud la “calura autunnale” è “feroce come una tigre”.

Rugiada bianca

Durante il periodo solare della “Rugiada bianca”, “Bailu” in cinese, il monsone estivo viene gradualmente sostituito dal monsone invernale e la differenza di temperatura tra il giorno e la notte aumenta gradualmente. Le oche, le rondini e altri uccelli migratori volano verso sud per evitare l’arrivo del freddo.

Equinozio d'autunno

L’Equinozio d’autunno, “Qiufen” in cinese, è il sedicesimo dei ventiquattro termini solari del calendario tradizionale cinese; cade ogni anno solitamente tra il 22 e il 24 settembre del calendario gregoriano. Nell’Equinozio d’autunno, il sole splende direttamente sull’equatore e il giorno e la notte hanno la stessa lunghezza in tutto il mondo. In questo periodo si seguono diverse usanze, come quella di fare offerte in onore della luna e quella di consumare verdure autunnali. Durante l’Equinozio d’autunno non si sente più tuonare. Dopo di esso, i giorni nell’emisfero nord si accorciano sempre più, mentre si allungano le notti.

Rugiada fredda

Hanlu, “Rugiada fredda”, è il quinto termine solare dell’autunno. A differenza di “Rugiada bianca”, in cui la rugiada si condensa e diventa bianca, quando la temperatura scende nella Rugiada fredda, essa per lo più si condensa e forma la brina. In questo periodo, la zona settentrionale della Cina è già entrata nel tardo autunno, con nuvole bianche e foglie rosse, mentre al sud della Cina l’autunno diventa via via sempre più evidente..

Discesa del gelo

Discesa del gelo, in cinese “Shuangjiang”, è l’ultimo termine solare dell’autunno e simboleggia che il clima si fa più freddo e compaiono le prime gelate; indica anche che l’inverno sta per iniziare. Durante il periodo di “Shuangjiang”, la maggior parte della Cina settentrionale è ormai entrata nella fase finale del raccolto delle messi autunnali. Nel meridione invece, i contadini sono molto impegnati perché questo è l’intenso periodo dei “tre autunni”.

I numeri più interessanti: la Cina in cifre. Cinitalia su Il Giornale il 2 novembre 2022.

Di seguito alcune cifre che raccontano le ultime e più interessanti curiosità riguardanti la Cina:

45,30%

In termini di scala industriale, dal 2012 al 2021 il valore aggiunto dell’industria manifatturiera è cresciuto ad un tasso medio annuo dell’8,2%, mantenendo una velocità di crescita medio-alta. Alla fine del 2021 c’erano 105mila 100 imprese al di sopra delle dimensioni designate nel settore degli equipaggiamenti, con un aumento di quasi il 45,30% rispetto al 2012.

40 milioni

Nell’ultimo decennio la Cina ha sostanzialmente istituito un sistema di assistenza sociale con caratteristiche cinesi con una media annuale di oltre 40 milioni di persone coperte da un’assicurazione a basso reddito; lo standard della sicurezza di base del sostentamento è stato continuamente migliorato e la copertura è sempre più ampia; è stato inoltre istituito un sistema di assegni di sussistenza per le persone con disabilità in difficoltà e di assegni di cura per i disabili gravi, di cui beneficiano ogni anno quasi 20 milioni di persone con disabilità.

467,73 milioni

Il numero di lavoratori urbani in Cina è aumentato dai 372,87 milioni nel 2012 ai 467,73 milioni del 2021, con un aumento è dell’88,1%, 23,6 punti percentuali in più rispetto a dieci anni prima; il tasso di consolidamento dei nove anni di istruzione obbligatoria ha raggiunto il 95,4%, 3,6 punti percentuali in più rispetto a dieci anni fa; il tasso lordo di iscrizione all’istruzione liceale è del 91,4%, 6,4 punti percentuali in più; il tasso lordo di iscrizione all’istruzione superiore è del 57,8%, 27,8 punti percentuali in più.

26%

Negli ultimi dieci anni il numero totale degli insegnanti a tempo pieno in Cina è aumentato dai 14 milioni e 629mila del 2012 ai 18 milioni e 444mila del 2021, con una crescita del 26%. Il numero di insegnanti di scuola primaria con laurea o superiore è aumentato dal 32,6% al 70,3%, il numero di docenti in possesso di laurea magistrale nelle università è passato da 229mila a 424mila, mentre il numero di quelli in possesso di un dottorato è aumentato da 69.000 a 132.000.

3.215

Alla fine del 2021 vi erano in Cina 3.215 biblioteche pubbliche, 3.316 centri culturali, 40.200 stazioni culturali e 575.400 centri di servizi culturali complessivi a livello di villaggio. Tutte le biblioteche pubbliche, i centri e le stazioni culturali, le gallerie d’arte e il 91% dei musei sono aperti al pubblico gratuitamente. medio di oltre 13 milioni l’anno. Il tasso di disoccupazione è rimasto basso, mentre la qualità dell’occupazione è stata ulteriormente migliorata e sempre più lavoratori sono stati traghettati da settori a bassa produttività a settori ad alta produttività. Nel 2021 il livello salariale dei lavoratori in città era ormai il doppio di quello del 2012.

1/3

Negli ultimi dieci anni, la capacità installata e la capacità di generazione di energia rinnovabile della Cina si sono piazzate al primo posto nel mondo. Oggi, per ogni tre kwh di elettricità utilizzata nella vita quotidiana, uno proviene da fonti rinnovabili.

60 mila

Negli ultimi dieci anni, più di 50mila villaggi della Cina sono stati collegati al trasporto pubblico e il chilometraggio ferroviario nella regione occidentale del Paese ha superato i 60mila chilometri, circa il 40% del totale nazionale.

530 mila

Ci sono in Cina circa 530mila scuole con oltre 290 milioni di studenti. Il tasso lordo di iscrizione all’istruzione prescolare.

"Letture": alcuni libri consigliati dalla Cina. Cinitalia l'1 Novembre 2022 su Il Giornale.

La rubrica "Letture" propone una serie di libri per capire il mondo seguendo il punto di vista cinese

Di seguito una serie di libri e letture dalla Cina per capire e analizzare il mondo seguendo un punto di vista diverso dal solito.

"Interpretazione dell’economia cinese" di Lin Yifu

Il libro riassume le esperienze della Cina e di altri Paesi e regioni nelle loro attività di sviluppo economico e di riforma, presentando una teoria generale dello sviluppo e della trasformazione economica e utilizzando questa teoria per analizzare i vari risultati ottenuti dalla Cina nel processo di riforma e sviluppo e i principali problemi economici e sociali da affrontare, esplorandone le cause e le soluzioni. Analizzando diversi esempi, il libro ricorda sistematicamente lo sviluppo economico e l’esperienza di riforma della Cina, spiegando in modo approfondito le questioni più interessanti dello sviluppo economico cinese. Di fronte a una serie di nuovi cambiamenti nella nuova situazione, come le crescenti incertezze dell’economia mondiale e lo sviluppo economico cinese che sta entrando in una nuova normalità, il libro discute i contenuti della grande rinascita della nazione cinese e della rinascita culturale cinese e fornisce un’interpretazione approfondita di questioni di interesse come l’attrito commerciale sino-americano, la “Belt and Road” e la costruzione delle zone pilota di libero scambio.

"Rapporto annuale sullo sviluppo dell’Italia (2021-2022)" - Istituto di Studi Europei dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, Ufficio per la Cooperazione Internazionale dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, Istituto di ricerca sull’Italia della Chinese Association for European Studies

Questo rapporto, il terzo di una serie di rapporti annuali sull’Italia, è intitolato “Cercare opportunità dall’emergenza sanitaria pandemica”. Il rapporto fornisce una panoramica dello sviluppo dell’Italia nel 2021 in diversi ambiti, tra cui quello politico, economico, sociale e diplomatico; propone inoltre una valutazione dello sviluppo delle relazioni bilaterali e un’analisi delle relazioni e della cooperazione tra i due Paesi vista da diverse prospettive. Secondo quanto riportato nel Libro Blu, la cooperazione pragmatica rimane nel complesso il pilastro delle relazioni Cina-Italia, con un aumento significativo del commercio bilaterale, in controtendenza rispetto allo scorso anno, che rappresenta uno dei principali punti di forza della cooperazione tra i due Paesi.

"Un Secolo di Dunhuang" di Sun Zhijun

Nel 366 d.C., Le Zun iniziò a scavare la prima grotta di Mogao. Per oltre 1.500 anni, le Grotte di Mogao sono state il crocevia di civiltà, popoli e religioni orientali e occidentali, vivendo ascesa e caduta fino al completo oblio per secoli. Dalla riscoperta della Grotta delle Scritture nel giugno del 1900, la graduale ascesa degli studi su Dunhuang e la trasformazione delle Grotte di Mogao dall’oscurità a gioiello storico del patrimonio mondiale sono avvenute nell’arco di un secolo, con l’erosione delle grotte da parte dei venti, delle piogge, della neve e della sabbia della natura oltre che con l’inquietante distruzione causata da sconvolgimenti nazionali, guerre brutali e altri fattori umani. Confrontando le immagini di un arco di tempo di 120 anni, possiamo vedere quelle lasciate alle spalle, quelle scomparse per sempre, quelle distrutte; possiamo vedere il pulsare della vita delle Grotte di Mogao, sentire il suo battito cardiaco e il suo respiro e vedere ciò a cui generazioni di guardiani di Dunhuang si sono dedicati e da cui sono rimasti affascinati. Ciò che vediamo non sono reliquie e affreschi morti, ma storia viva.

"Questa è la Cina!"

Il libro racconta la storia dei cambiamenti geografici della Cina e delle creazioni del popolo cinese negli ultimi 100 anni. Attraverso immagini fotografiche originali e testi ricchi di emozioni, il libro ritrae i paesaggi naturali e quelli geografici e umani rappresentativi della Cina, permettendoci di comprendere il mondo naturale in cui viviamo e di sperimentare la bellezza della natura. In 100 anni, la Cina è passata dall’assenza di binari in acciaio lungo le ferrovie e ad avere ferrovie e autostrade che corrono in tutte le direzioni, collegando l’intero Paese; dal non avere luce elettrica all’accesso all’elettricità per tutti gli 1,4 miliardi di cinesi; per non parlare dei grandi progetti tra cui il trasporto del gas da ovest a est, il trasferimento dell’acqua da sud a nord, l’ecologizzazione del Paese, il volo spaziale con equipaggio, la navigazione satellitare BeiDou e l’atterraggio su Marte...

Shein, un'inchiesta shock rivela lo sfruttamento della manodopera. Giulia Mattioli su La Repubblica il 24 Ottobre 2022. 

Diciotto ore di lavoro al giorno, nessuna festività, paghe da fame: una reporter è entrata di nascosto nelle fabbriche in cui si producono abiti per Shein, il gigante cinese della moda low-cost, e ha raccolto testimonianze sconcertanti. Da tempo gli attivisti denunciano le modalità di produzione delle catene di abbigliamento a basso costo, ma "Shein è il fast fashion sotto steroidi"

Un algoritmo efficientissimo, una perfetta conoscenza delle dinamiche social, prezzi bassissimi: il successo di Shein, il marchio di fast fashion più lucrativo del mondo (divenuto tale in meno di due anni), non si basa tanto sulla proposta di abbigliamento del brand, quanto sulle strategie utilizzate per venderla. Shein sa cosa l’utente desidera prima ancora che ne sia conscio, e glielo propone attraverso un mix di marketing aggressivo e uso sapiente dei mezzi di comunicazione contemporanei, vendendoglielo in uno schioccar di dita. Questo è l’assunto attorno al quale ruota l’inchiesta Untold: Inside the Shein Machine, realizzata dalla reporter Iman Amrani con Zandland Films, mandata in onda da All4 (la pay-tv del canale britannico Channel4). Ma non è questo ciò che più ha scioccato chi l’ha vista: i punti più oscuri del documentario sono quelli che riguardano la produzione del colosso cinese, basata sull'iper-sfruttamento della manodopera. 

La scoperta dell’acqua calda? In un certo senso, sì: sono anni che chi si occupa di sostenibilità nel mondo della moda denuncia i giganti del fast fashion per lo sfruttamento dei lavoratori nell’intera filiera di produzione e per le politiche ambientali inesistenti. Ma Shein sembra aver toccato il fondo.

Untold mostra alcuni video e audio registrati di nascosto da un collega di Amrani infiltratosi all’interno di due fabbriche che producono abiti e accessori per Shein a Guangzhou. Da essi si evince che gli impiegati degli stabilimenti lavorano 17-18 ore al giorno, e che di media hanno un giorno di riposo al mese (“Non esiste la domenica qui”, afferma un operaio). Il salario base è di 4,000 yuan mensili, circa 540 euro, anche se il primo stipendio è trattenuto dall’azienda. Ai lavoratori e alle lavoratrici è richiesta la produzione di cinquecento capi al giorno. In uno dei due stabilimenti, si viene pagati a pezzo prodotto: circa 40 centesimi l’uno. Ma se uno dei capi risulta fallato, vengono trattenuti al lavoratore due terzi della paga giornaliera. Le telecamere nascoste di Untold riprendono persino operaie che, per mancanza di tempo, si lavano i capelli in fabbrica durante la pausa pranzo. 

Naturalmente tutto questo viola le leggi cinesi, ma Shein è stato veloce a diramare una comunicazione in cui dichiara che si impegnerà ad indagare. Come riporta il Guardian, l’azienda ha dichiarato di avvalersi di agenzie terze per condurre audit regolari, durante i quali viene verificato il rispetto delle leggi e degli standard lavorativi. Se vengono rilevate irregolarità, i fornitori hanno un tempo massimo per rimediare, se non dovessero farlo “Shein prenderà provvedimenti”. Interpellati da Insider, i portavoce dell’azienda si sono dichiarati “Estremamente turbati” da ciò che hanno visto nel documentario, perché quelle politiche aziendali “violano il Codice di Condotta che ogni fornitore Shein sottoscrive, che si basa su convenzioni internazionali e leggi locali”. Se dalle loro verifiche emergerà che il fornitore non rispetta questi regolamenti “chiuderemo la collaborazione che non si adegua ai nostri standard”. 

Il fenomeno Shein, esploso durante la pandemia, rappresenta “L’industria del fast fashion sotto steroidi”, spiega l’inchiesta di Amrani. In effetti, il catalogo si Shein è immenso, pensato per essere scrollato senza arrivare mai a una fine, e i prezzi dei capi sono davvero low-low-cost (fra l’altro, a volte risultano copiati da piccoli brand e designer indipendenti). Valutato intorno ai 100 miliardi di dollari, i suoi introiti superano quelli di Zara e H&M messi insieme. 

Untold non è certo la prima inchiesta sulla produzione della moda fast: in molti hanno denunciato le condizioni di lavoro e l’utilizzo delle risorse da parte di colossi dell’abbigliamento. È impossibile nel 2022 non sapere che dietro una produzione massiva e di costo così basso c’è lo sfruttamento della manodopera e delle risorse: quello di Untold sembra un film già visto, ma, come scrive Jack Seale nel recensire l’inchiesta “Il problema non è che le persone non sanno cosa comprano. Il problema è che non gli interessa”.

La Cina è entrata nel novero dei Paesi innovativi. La posizione e il ruolo della Cina nel panorama dell’innovazione globale sono cambiati, sia come importante protagonista dell’innovazione a livello internazionale sia come importante apportatrice di soluzioni congiunte ai problemi globali. Cinitalia il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Presso l’Istituto di Ottica dell’Accademia Cinese delle Scienze di Shanghai, i ricercatori manovrano il dispositivo Xihe (Xihe, la dea cinese del sole), che è attualmente il dispositivo laser con la potenza più alta al mondo. Situato nel Sichuan, il primo centro nazionale di supercalcolo può raggiungere una potenza aritmetica di 1017 calcoli al secondo, con prestazioni da mainframe che si collocano tra le prime 10 al mondo. Dieci anni fa, alla China Optics Valley a Wuhan, Hubei, c’era solo un piccolo laboratorio rupestre, ora è stato trasformato nella sede di molti laboratori chiave della Cina, dove vengono sviluppati i sensori inerziali spaziali più accurati del Paese. Nel Centro per la protezione della proprietà intellettuale della Cina (Shenzhen), ogni giorno lavorativo vengono espletate in media quasi 500 domande di brevetto. Le zone dimostrative, le basi e le imprese per l’innovazione indipendente della Cina si sono diffuse dalla costa sudorientale a tutte le province, regioni autonome e città del Paese.

Gli investimenti in R&S generano innovazione

L’investimento sociale della Cina in R&S è passato da 1,03 trilioni di RMB nel 2012 a 2,79 trilioni di RMB nel 2021, e l’intensità di R&S è aumentato dall’1,91% al 2,44% del PIL; la classifica dell’indice di innovazione globale è salita dal 34esimo al 12esimo posto nel mondo. Nell’ultimo decennio, la Cina ha attuato una strategia di sviluppo guidata dall’innovazione, ha aderito all’innovazione indipendente ed è entrata con successo nel novero dei paesi innovativi. La posizione e il ruolo della Cina nella mappa dell’innovazione globale sono cambiati, sia come importante protagonista dell’innovazione a livello internazionale sia come importante apportatrice di soluzioni congiunte ai problemi globali.

L’industria high-tech cinese ha visto un rapido sviluppo. Negli ultimi dieci anni, le tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale, i big data, la blockchain e le comunicazioni quantistiche hanno accelerato la loro applicazione, favorendo nuovi prodotti e nuovi modelli di business come i terminali intelligenti, la telemedicina e l’istruzione online. L’economia digitale cinese è la seconda più grande al mondo e anche la dimensione di industrie come il solare fotovoltaico, l’energia eolica, l’illuminazione dei semiconduttori e lo stoccaggio avanzato dell’energia è tra le prime al mondo. TV a schermo piatto, droni, smartphone e altri prodotti sono i favoriti del mercato internazionale; la ferrovia ad alta velocità, l’energia nucleare di terza generazione, il volo spaziale con equipaggio, il sistema della navigazione satellitare Beidou sono diventati i nuovi biglietti da visita del Paese.

Negli ultimi dieci anni, il reddito operativo delle industrie high-tech cinesi è raddoppiato, passando dai 9,95 trilioni di yuan del 2012 ai 19,91 trilioni di yuan del 2021. La percentuale di industrie manifatturiere ad alta tecnologia rispetto al totale del valore aggiunto delle imprese industriali al di sopra delle dimensioni designate è passata dal 9,4% nel 2012 al 15,1% nel 2021 e il numero di imprese manifatturiere high-tech al di sopra delle dimensioni designate è cresciuto da 24.600 nel 2012 a 41.400 nel 2021: si sono inoltre sviluppate numerose imprese leader, innovative e competitive a livello internazionale.

Lo sviluppo dell’industria tecnologica non può avvenire senza investimenti in R&S e infrastrutture. La Cina ha aumentato l’intensità di R&S nelle industrie ad alta tecnologia, passando dall’1,68% del 2012 al 2,67% del 2021. Negli ultimi dieci anni, la Cina ha costruito più di 40 importanti infrastrutture scientifiche e tecnologiche come l’Impianto di radiazione di sincrotrone di Shanghai e ha compiuto ogni sforzo per costruire i centri internazionali di innovazione scientifica e tecnologica a Pechino, Shanghai, Area della Grande Baia di Guangdong-Hong Kong-Macao e i centri scientifici nazionali completi a Huairou, Zhangjiang, Hefei e Area della Grande Baia di Guangdong-Hong Kong-Macao. I finanziamenti per la ricerca di base sono triplicati e il numero di domande internazionali per brevetti di invenzione nazionali è balzato al primo posto nel mondo; è stata costruita la più grande rete 5G del mondo e il numero di utenti Internet è arrivato a 1.032 miliardi nel 2021. La Cina è rimasta il più grande mercato al dettaglio online del mondo per nove anni consecutivi.

Lo sviluppo innovativo favorisce la cooperazione internazionale

Il rapido sviluppo dell’industria cinese della scienza e della tecnologia ha attirato anche una grande quantità di investimenti esteri: da gennaio a giugno 2022, l’uso effettivo di capitali esteri nell’industria high-tech è aumentato del 33,6% su base annua – di cui il 31,1% nell'industria manifatturiera ad alta tecnologia – e il settore dei servizi ad alta tecnologia è aumentato del 34,4%. Di fronte alla crescente domanda di cooperazione scientifica e tecnologica, la Cina ha mantenuto un atteggiamento aperto. La Cina ha attivato meccanismi di dialogo sull’innovazione con molti Paesi e condotto ricerche congiunte con oltre 50 paesi e regioni. Il piano di cooperazione per l’innovazione scientifica e tecnologica “Belt and Road” ha coinvolto più di 8.300 giovani scienziati stranieri a lavorare in Cina e sostiene la costruzione di 33 laboratori congiunti.

Cooperazione tra Italia e Cina nel campo della scienza e della tecnologia

Nel febbraio 2018, il primo satellite di prova cinese per il monitoraggio elettromagnetico, Zhangheng-1, è stato lanciato dal centro di lancio satellitare di Jiuquan ed è entrato nell’orbita prevista. Questo satellite, che può migliorare notevolmente il livello di monitoraggio e previsione dei terremoti in Cina, è dotato di un rivelatore italiano di particelle ad alta energia, che integra il rivelatore cinese con una rilevazione congiunta.

I risultati di un’indagine recentemente pubblicata tra le aziende dell’Ue in Cina mostrano che la maggior parte delle aziende europee in Cina trae vantaggio dalla R&S innovativa nella regione e vede ancora la Cina come una base promettente per la R&S innovativa. Non molto tempo fa, Philips, azienda olandese leader nel settore, ha aperto a Shenzhen il suo primo centro di innovazione nell’Area della Grande Baia, il suo terzo centro di R&S in Cina dopo Shanghai e Suzhou. Il responsabile dell’azienda ha dichiarato che la creazione di un centro di innovazione a Shenzhen permetterà di creare un effetto di innovazione su larga scala, di promuovere lo sbarco simultaneo di prodotti globali sul mercato cinese e di promuovere l'innovazione locale in Cina per dare un contributo al resto del mondo.

L’innovazione della Cina contribuisce allo sviluppo mondiale

La Cina è diventata un Paese innovativo, il che non solo promuove lo sviluppo di alta qualità dell’economia cinese, ma contribuisce anche allo sviluppo del resto del mondo, e al miglioramento della vita delle persone nei Paesi in via di sviluppo. Durante il periodo del 13esimo Piano quinquennale, le imprese cinesi hanno completato un fatturato cumulativo di 825,9 miliardi di dollari in progetti appaltati all’estero e una serie di progetti chiave sono andati avanti senza intoppi, migliorando efficacemente le infrastrutture di questi Paesi e fornendo un forte sostegno allo sviluppo economico e sociale locale. Per consentire alle popolazioni di tutti i Paesi di godere dei frutti della moderna tecnologia spaziale, le imprese cinesi hanno realizzato scambi e cooperazioni con molti Paesi aderenti all’iniziativa “Belt and Road”, tra cui l’esportazione di satelliti, la condivisione di dati, la creazione di strutture e la formazione di tecnologie. Ad oggi, i dati di decine di satelliti di navigazione BeiDou sono stati messi a disposizione del mondo e 120 Paesi utilizzano questo servizio di navigazione di livello mondiale.

In Arabia Saudita, un’impresa cinese ha investito 8,6 miliardi di dollari in una joint venture per la creazione di raffinerie, aiutando questo Paese a trasformarsi da paese esportatore di risorse a paese di lavorazione intensiva delle stesse. L’impresa cinese non solo ha costruito impianti, ma ha anche creato centri di formazione in Arabia Saudita, formando un totale di oltre 60.000 dipendenti sauditi, migliorando la capacità lavorativa dei giovani sauditi e aiutandoli a trovare un impiego, permettendo così che lo sviluppo del progetto soddisfacesse al contempo le esigenze del Paese.

Nel 14esimo Piano quinquennale adottato nel 2021, la Cina propone di aumentare nei prossimi cinque anni l’investimento medio annuo in R&S di oltre il 7%, di aumentare la percentuale che spesa per la ricerca di base occupa nella spesa totale in R&S a più dell’8% e di aumentare il valore aggiunto delle industrie strategiche emergenti a più del 17% del PIL. Si sta delineando un quadro di sviluppo dell’innovazione cinese previsto per i prossimi cinque anni.

Danilo Taino per il “Corriere della Sera” il 20 ottobre 2022.  

A fine settembre, il Global Times - quotidiano del Partito Comunista Cinese - in un articolo in lingua inglese ha parlato di un documento firmato da 70 Paesi nel quale si invitano tutte le nazioni a «smettere di interferire negli affari interni della Cina quando si tratta delle regioni di Xinjiang, Hong Kong e Xizang». Xizang? Di cosa si parla, si sono chiesti in molti. Lo Xinjiang è la regione cinese nota per la repressione di Pechino sugli uiguri, pratica denunciata due mesi fa dal Consiglio dei diritti umani dell'Onu. 

Hong Kong è l'ex colonia britannica che avrebbe dovuto mantenere un sistema di governo autonomo fino al 2047 ma è stata «normalizzata» per la soddisfazione di Xi Jinping. Entrambi casi famosi nel mondo. Ma Xizang? Chi conosce il Pinyin, cioè il sistema di romanizzazione del mandarino standard in Cina, ha chiarito che questa è la rappresentazione in Pinyin di Tibet.

Altra regione che da tempo ha seri problemi di diritti umani. Un cambio di definizione casuale o qualcosa di più significativo? Le novità, nella Repubblica Popolare Cinese, vengono spesso introdotte a piccoli passi, quindi ogni segnale viene analizzato, spesso si contano le volte nelle quali è ripetuto. Il conteggio lo ha fatto il China Media Project, un centro di ricerca condotto da giornalisti che studiano la Cina.

È risultato che fino al 2021 Xizang era usato dal Global Times solo quando era parte di un nome, per esempio «Xizang Minzu University». In ogni caso, l'anno scorso solo tre volte in tutti gli articoli del giornale. Da gennaio 2022, però, il Global Times ha usato il nome in più di 200 articoli in inglese. 

Anche nella titolazione. È una tendenza generale in Cina oppure è una scelta solitaria dell'aggressivo quotidiano che si occupa soprattutto di questioni internazionali, molto letto all'estero? Il resto della stampa cinese finora non ha seguito la stessa strada negli articoli che traduce in inglese. Il China Media Project ha però notato un cambiamento in corso al ministero degli Affari esteri dove il termine Xizang era stato usato una volta sola, nel 2018. 

Ora, invece, sembra che al ministero il nome sia stato standardizzato nei documenti in inglese. Probabilmente, l'obiettivo è ridurre nel mondo l'uso del nome Tibet, in genere associato alla repressione di Pechino e a una delle bestie nere del Partito Comunista Cinese, il Dalai Lama.

La questione tibetana: che cos’è e perché è importante. Federico Giuliani su Inside over il 19 Ottobre 2022. 

La questione tibetana, che sottintende le relazioni tra la Cina e il Tibet, assume una rilevanza internazionale a partire dal 1950. In quell’anno, la Repubblica Popolare Cinese proclama l’annessione del Tibet in seguito alla firma dell’Accordo dei 17 punti tra Pechino e i delegati dell’allora XIV Dalai Lama, capo politico del Tibet.

I cinesi ricordano l’episodio “liberazione pacifica del Tibet”, mentre i rappresentanti tibetani in esilio, fuggiti in India nel 1959 in seguito alla rivolta di Lhasa contro l’esercito cinese, parlano invece di occupazione volta a cancellare l’identità tibetana. Oggi il Tibet è noto con il nome di Regione Autonoma del Tibet ed è una regione autonoma della Cina controllata da Pechino.

Il Tibet e la Cina

Esistono due punti di vista in merito alla questione tibetana. Il primo considera il Tibet uno Stato indipendente, proclamato tale dal XIII Dalai Lama, e conquistato militarmente dalla Cina. Per il secondo, invece, il Tibet è un Paese che tradizionalmente appartiene alla Cina fin dai tempi della dinastia Yuan (1270-1368). Nell’ottobre 1949, i comunisti cinesi, freschi della vittoria contro Chiang Kai Shek, dichiararono di voler considerare il Tibet parte inalienabile della Cina. Il 23 maggio 1951 fu firmato l’Accordo dei 17 punti, con il quale i rappresentanti tibetani riconobbero la sovranità cinese sul territorio tibetano, pur riconoscendo la sua speciale posizione autonoma.

Il 20 dicembre 1961 l’Assemblea generale delle Nazioni unite mise in agenda la discussione sulla questione tibetana. Fu approvata una risoluzione favorevole al principio dell’autodeterminazione per il popolo tibetano che però non ebbe alcun effetto. Il 6 settembre 1965 fu ufficialmente inaugurata la Regione autonoma del Tibet (RAT). Geograficamente parlando, comprendeva il territorio del Tibet centrale e occidentale. Kham e Amdo furono incorporati nelle province cinesi Qinghai, Gansu, Sichuan e Yunnan.

La Rivoluzione culturale cinese, avvenuta tra il 1966 e il 1976, provocò numerose rivolte del popolo tibetano. Proteste e sollevazioni continuarono anche nei decenni successivi, fino al punto cruciale del 1987-89. A cavallo di quel biennio Pechino impose la legge marziale per ristabilire l’ordine. La questione tibetana tornò così ad avere echi internazionali, passando però dal tema dell’indipendenza del Tibet a quello dei diritti umani. Dal canto suo, il governo cinese sostiene che l’appartenenza del Tibet alla Cina abbia consentito alla regione di compiere importanti passi in avanti tanto nello sviluppo economico quanto in quello sociale e culturale.

Tibet fra India e Cina

In epoca recente, possiamo considerare l’indipendenza dell’India l’evento chiave alla base della nascita della questione tibetana. Nel 1947 l’India divenne indipendente e, insieme al complesso dei trattati stipulati dagli inglesi, rilevò anche i loro diritti territoriali sul Tibet del 1904. E così, negli edifici della missione britannica entrarono gli indiani. Il 29 aprile 1954 Delhi rinunciò tuttavia a far valere ulteriormente i propri privilegi, probabilmente pensando che il Tibet sarebbe stato una sorta di “banco di prova” per la Cina di Mao Zedong.

Il 24 novembre 1949, racconta Hegner nel volume Cina: ieri, oggi, domani, in India si capta una radiocomunicazione di Pechino nella quale si asserisce che il Panchen Lama, filocinese, si è appellato a Mao per liberare il Tibet. Il primo gennaio 1950, nella capitale cinese, viene proclamato che uno dei primi compiti del governo è quello di liberare il Tibet “dal giogo dell’imperliasmo indiano” con l’aiuto dell’Esercito Popolare di Liberazione. La Guerra di Corea nel frattempo esplosa fa ritenere opportuno al governo indiano di proporre ai cinesi una soluzione pacifica della questione tibetana.

L’allora primo ministro cinese Zhou Enlai fa comunicare a Delhi che, benché il Tibet sia parte integrante dello Stato cinese, la Cina non ha intenzione di risolvere la controversia usando la violenza. In ogni caso, nel discorso tenuto in occasione del primo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, 1 ottobre 1950, Zhou dichiara che il Tibet va liberato senza indugio.

Liberazione o annessione?

Il 7 ottobre 1950 le forze armate cinesi irrompono oltre la frontiera tibetana, anche se quell’azione fu resa nota all’opinione pubblica tre mesi più tardi. Del resto, all’epoca, senza social network, internet e cellulari, in un paese di montagna situato a 4.000 metri d’altezza, senza telegrafo né telefono, gli spostamenti delle truppe potevano ancora essere tenuti segreti per parecchio tempo. A Nuova Delhi l’avanzata cinese suscita una certa emozione. Gli indiani mandano una nota a Pechino protestando contro l’occupazione militare. Zhou risponde spiegando che la questione tibetana è una questione puramente interna, nella quale la Cina non ammetterà ingerenze straniere.

Il Dalai Lama di Lhasa decide di mandare a Londra una delegazione chiedendo protezione all’Inghilterra. L’India fa notare all’alto potentato religioso tibetano, all’epoca una sorta di re divino di appena 16 anni, che forse sarebbe meglio appellarsi all’Onu. Le Nazioni Unite hanno però altro a cui pensare e rimandano la discussione ad epoca da destinarsi. Ai rappresentanti del Dalai Lama non resta che firmare un accordo di 17 punti con Pechino.

L'Accordo dei 17 punti

Il punto tre dell’accordo precisa che il Tibet gode dell’autonomia, che il sistema politico dello Stato sacerdotale non è mutato, che i poteri resteranno al Dalai Lama, però anche al Panchen Lama filocinese, che non si lederà la libertà religiosa e che le autorità centrali cinesi non eserciteranno pressione alcuna sulle radicali riforme. In quegli anni, però, la Cina era impegnata ad “avviarsi verso un radioso avvenire nel sistema socialista”. Nel Tibet questo “radioso avvenire” si manifestò prima di tutto nella lotta contro il “lamaismo“. Nella primavera del 1955, Mao dice al Dalai Lama che la religione è qualcosa di “deleterio”.

Il Grande Timoniere sostiene che il lamaismo frena il progresso e lo sviluppo del Tibet e che per causa dei numerosi monaci la popolazione diminuisce anziché aumentare. L’assimilazione forzata produce la reazione di una parte della popolazione locale. Nel 1959, dopo l’esplosione di pesanti rivolte, 80.000 tibetani – secondo le stime del Governo tibetano in esilio – fuggirono in India, Nepal, Sikkim e Bhutan. Tra questi vi era l’allora ventiquattrenne Dalai Lama.

In seguito, specialmente dopo la rottura dei rapporti tra il governo cinese ed il Dalai Lama, esponenti del governo tibetano avrebbero denunciato l’unilateralità dell’accordo, stilato dai cinesi senza acconsentire alcun emendamento ai delegati tibetani. Pechino non ha mai deto peso a queste rivendicazioni.

L'importanza geopolitica del Tibet

Per la Cina il controllo del Tibet assume un’enorme importanza strategica, e non solo storica o culturale. Innanzitutto, la condivisione dei confini con India, Nepal, Bhutan e Myanmar, fa sì che per Pechino la sicurezza e la stabilità siano le priorità più elevate. Nel 1962, la Cina ha combattuto una guerra di confine irrisolta con l’India proprio passando dal Tibet, che continua ad essere un contingente chiave nell’ottica della rivalità con Nuova Delhi. Nel 2006 la Cina ha aperto la prima linea ferroviaria nell’area isolata. Nel 2007 si è impegnata a investire 13 miliardi di dollari in Tibet fino al 2010, e a costruire in loco l’aeroporto “più alto del mondo” nel Tibet occidentale.

Come se non bastasse, il Tibet è soprannominato “la torre dell’acqua dell’Asia”. L’altopiano del Qinghai-Tibet è una fonte d’acqua cruciale e un deposito per la Cina, le cui risorse idriche distribuite in modo non uniforme entrerebbero in crisi. I ghiacciai del Tibet e gli altopiani innevati, inoltre, alimentano i grandi fiumi dell’Asia, il Brahmaputra, il Mekong, lo Yangtze, l’Indo, il Fiume Giallo e il Salween.

Il più grande giacimento di rame della Cina si trova nella miniera di rame Yulong, appunto, in Tibet. Nella regione autonoma sono presenti anche grandi giacimenti di ferro, piombo, zinco e cadmio, minerali di cui il Dragone ha bisogno per alimentare la sua economia in forte espansione.

(ANSA il 17 ottobre 2022) - La Commissione centrale per l'ispezione disciplinare, la temuta anticorruzione del Partito comunista cinese, ha svolto indagini su oltre 4,64 milioni di persone negli ultimi 10 anni, da quando il presidente Xi Jinping è salito al potere lanciando una campagna moralizzatrice. Sono i numeri forniti dal vice capo della Commissione Xiao Pei, in una conferenza stampa a margine del XX Congresso del Pcc che conta quasi 97 milioni di iscritti. Degli oltre 4,64 milioni di indagati dal 2012, 553 erano stati nominati dal Comitato centrale e oltre 25.000 mila erano funzionari di dipartimenti e uffici, mentre oltre 182mila i funzionari locali.

L'apertura del XX Congresso del Partito Comunista Cinese. Xi Jinping punta alla riunificazione di Taiwan con la Cina: “Non prometteremo mai di rinunciare all’uso della forza”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Ottobre 2022 

Ha difeso la strategia “Zero Covid” contro la pandemia, ha ribadito le posizioni su Hong Kong e Taiwan, ha esaltato la lotta alla corruzione, ha garantito la crescita economica che ha raddoppiato il Pil in un decennio, ha ribadito l’importanza dell’unità per “costruire un Paese socialista e moderno in tutti gli aspetti e far avanzare il ringiovanimento nazionale su tutti i fronti”. È durato poco più di un’ora e quaranta minuti il discorso con cui il Presidente cinese Xi Jinping ha aperto oggi il XX Congresso Nazionale del Partito Comunista. “Manteniamo la ferma fiducia, restiamo uniti come una sola persona e andiamo avanti con determinazione”.

A cinque anni dall’ultimo Congresso il Presidente sarà confermato per un inedito terzo mandato: diventerà a 69 anni il leader più longevo dai tempi di Mao Zedong. Al Congresso parteciperanno 2.300 delegati da tutta la Cina e saranno scelti i dirigenti e i vertici che guideranno il partito per il prossimo quinquennio. Xi Jinping ha definito come “cruciali” i prossimi cinque anni per la modernizzazione della Cina, che ha fissato al 2035 l’obiettivo di diventare un “grande Paese socialista moderno”, mentre nel 2012, all’inizio del suo primo mandato come segretario generale del Pcc, Xi aveva lanciato il concetto del “rinnovamento cinese”. Il Congresso si svolge nell’auditorium principale della Grande Sala del Popolo in Piazza Tienanmen. I lavori si protrarranno fino al 22 ottobre.

Il Congresso giunge in “un momento critico” per la Cina, ha detto ieri il portavoce, Sun Yeli, segnato dalle incertezze sul piano internazionale, a cominciare dalla guerra in Ucraina, dalle tensioni sulla questione di Taiwan e dai rapporti complessi della Cina con gli Stati Uniti, a cui si aggiungono le difficoltà economiche sul piano interno e la lotta alla pandemia di Covid-19. Xi Jinping ha comunque definito il suo Paese come pronto alle “grandi sfide” da affrontare in futuro: “Dobbiamo il successo del nostro partito e del socialismo con caratteristiche cinesi al fatto che il marxismo funziona, in particolare quando è adattato al contesto cinese e ai bisogni dei tempi”. Il suo discorso è stato preceduto dall’inno nazionale cinese, La marcia dei volontari.

Il Pil cinese è salito da 54.000 miliardi di yuan a 114.000 miliardi (circa 16.000 miliardi di dollari), pesando per il 18,5% dell’economia mondiale (+7,2%). Il presidente Xi Jinping ha detto che la Cina deve puntare allo sviluppo “di altà qualità”, tra “hi-tech di alto livello e meccanismo di innovazione” tecnologica. “Dobbiamo essere consapevoli dei potenziali pericoli e preparati per gli scenari peggiori. Dobbiamo sfruttare il nostro indomabile spirito combattivo per la nostra causa”, avendo presente che il Pcc “ha portato la Cina dal rialzarsi ed essere prospera a diventare forte”.

Altro punto di cruciale importanza nel discorso: la lotta alla corruzione, che ha ha eliminato “gravi pericoli latenti” all’interno del Partito Comunista e dell’esercito, ottenendo “una vittoria schiacciante che è stata ampiamente consolidata” ha detto il presidente, aggiungendo che la campagna da lui promossa contro “tigri e mosche” e “volpi”, ha permesso di eliminare “i gravi pericoli latenti all’interno del partito, lo Stato e l’esercito”. Secondo i critici, tuttavia, l’iniziativa è stata usata per frenare ed eliminare oppositori e il dissenso all’interno del partito. Fari puntati da tutto il mondo sulle dichiarazioni sulla politica estera, viste le tensioni degli ultimi mesi. Su Hong Kong: “È passata dal caos alla stabilità”, “nelle mani dei patrioti”, “abbiamo rafforzato e attuato il modello ‘un Paese, due sistemi'”, “abbiamo aiutato Hong Kong a entrare in una nuova fase”.

Xi Jinping ha quindi avvertito che la “riunificazione” di Taiwan alla Cina si farà, aggiungendo che la Cina promette di “risolvere la questione” e di continuare a impegnarsi per la “riunificazione pacifica”, ma che non intende rinunciare all’uso della forza e si riserva di utilizzare “tutti i mezzi” per la riunificazione. “La questione di Taiwan deve essere risolta dai cinesi. Continueremo a impegnarci per la riunificazione pacifica, ma non prometteremo mai di rinunciare alla forza e ci riserviamo di usare tutti i mezzi” per la riunificazione.

Nessun passo indietro inoltre sulla strategia “Zero Covid” nella lotta alla pandemia: “Abbiamo messo al primo posto le persone e le loro vite, lanciando una ‘guerra del popolo’ contro il virus”. Dopo aver cancellato con una riforma nel 2018 il limite di due mandati per la presidenza, non è chiaro se nel Politburo, l’organo esecutivo tramite il quale il partito governa il Paese, sarà inserito un funzionario-erede destinato alla successione alla carica di segretario generale magari dal prossimo Congresso. “Dobbiamo essere consapevoli dei potenziali pericoli e preparati per gli scenari peggiori. Dobbiamo sfruttare il nostro indomabile spirito combattivo per la nostra causa”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 17 ottobre 2022.

Xi Jinping vede «tempeste pericolose» davanti alla Cina, ma un percorso di «gloria incomparabile» grazie alla guida del Partito comunista. Sono segnali di continuità, non concilianti verso il mondo, quelli mandati con il discorso davanti al XX Congresso chiamato a dargli altri cinque anni di potere. 

L'applauso più potente nella Grande sala del popolo di Pechino è scattato quando il segretario generale ha ripetuto che la Repubblica popolare farà tutto il necessario per la riunificazione di Taiwan, cercando la via pacifica, ma «senza rinunciare mai all'ipotesi di usare la forza per fermare ogni movimento separatista». 

Il monito agli Usa

Un monito, senza citarli, agli Stati Uniti: «La risoluzione della questione taiwanese spetta solo al popolo cinese». Sono parole già pronunciate in passato, i resoconti della stampa cinese non le mettono in primissimo piano. Ma assumono un significato più grave ricordando le grandi manovre di agosto, che hanno simulato un blocco navale dell'isola, e poi i continui voli dei cacciabombardieri cinesi intorno a Taiwan. 

L'offerta di Pechino a Taipei resta quella del modello «Un Paese due sistemi», che fu sottoscritto per riavere Hong Kong. Xi sostiene che grazie all'intervento del Partito la City «è passata dal caos all'ordine e oggi è governata da patrioti». Da Taipei ha risposto l'ufficio della presidente Tsai Ing-wen: «La nostra opinione pubblica ha chiaramente espresso la sua volontà di non rinunciare a sovranità territoriale e democrazia».

Tra i molti applausi dei 2.296 delegati, caldo anche quello che ha sottolineato il passaggio sulle forze armate: Xi si è impegnato ad accelerarne la preparazione, perché siano pronte a proteggere «gli interessi di sviluppo nazionale». Nel discorso di un'ora e mezza in sala, «sicurezza» e «protezione» sono state citate 73 volte. Nella versione scritta, più lunga, il tema è stato citato 89 volte. 

Espressioni da campagna militare sono risuonate anche per il capitolo lotta al Covid-19.

Xi l'ha definita una «guerra popolare totale per arrestare la circolazione del virus» e ha rivendicato che l'inflessibile linea «Zero Covid» è una grande vittoria del Partito-Stato e ha «privilegiato la vita umana».

Il prezzo del successo sono i continui lockdown imposti alle città appena si individuano poche decine di contagi, i tamponi da ripetere ogni tre giorni, il rallentamento dell'economia, l'impossibilità di viaggiare liberamente all'interno della Cina e di fatto la chiusura del Paese al mondo. 

Però, Xi insiste con lo slogan «comunità del futuro condiviso», dice di voler «avanzare mano nella mano con i Paesi del mondo» (a patto che il mondo accetti le sue condizioni). Il comunismo cinese Ai cinesi ha ricordato che «dobbiamo il nostro successo al Partito, al socialismo con caratteristiche cinesi e al fatto che il marxismo funziona».

Ha aggiunto il dato sul Pil, salito in dieci anni (nei suoi dieci anni) a 16 mila miliardi di euro, raddoppiato. «Oggi la Cina conta per il 18% nella ricchezza mondiale», ha osservato. Domani arriveranno i dati del Pil per il terzo trimestre, previsto in calo anche a causa della politica Zero Covid e delle varie crisi autoinnescate cercando di rimettere l'impresa e il capitale privato sotto la tutela e il controllo dello Stato. 

Pechino è convinta che sia un rallentamento passeggero e Xi promette «prosperità condivisa», il nuovo concetto socioeconomico per porre rimedio alla grave diseguaglianza nel tenore di vita: «Assicureremo più reddito attraverso più duro lavoro». Proseguirà anche la campagna contro la corruzione, perché «il Partito dev' essere pulito per restare il cuore della nazione e la corruzione è il cancro». 

Ai 2.296 delegati, Xi ha detto che i 96 milioni di comunisti tesserati debbono affrontare «una auto-rivoluzione», per «rafforzare la fiducia in noi stessi e il senso di missione gloriosa del Partito, in modo di non poter essere intimoriti dalle circostanze avverse o dalle pressioni». Seguendo la via del marxismo, Xi promette che nel 2035 la Cina sarà un Paese a reddito medio-alto e nel 2049, quando la Repubblica popolare compirà cent' anni, sarà una «potenza guida in tutti gli aspetti». Una lunga parte del percorso il segretario generale pensa di poterla guidare.

G. Sant. per il “Corriere della Sera” il 17 ottobre 2022. 

Una pattuglia di «immortali» è comparsa sul primo banco della Grande sala del popolo, alle spalle di Xi Jinping. Sono gli anziani del Partito, pensionati da molto tempo per limiti di età, ma sempre esibiti nelle occasioni cruciali per dimostrare che la Cina comunista onora le voci della saggezza, come ai tempi di Confucio. 

Una volta erano influenti, Xi ha combattuto le fazioni interne, usando anche lo schermo della campagna anticorruzione.

Il posto d'onore è stato riservato a Hu Jintao, predecessore di Xi e ultimo leader della «dirigenza collegiale» ideata da Deng Xiaoping per evitare i rischi del potere assoluto maoista. A 79 anni, Hu ha ricevuto un gesto di cortesia dal segretario generale, che gli ha sfiorato la spalla quasi a sostenerlo mentre si sedeva. L'ex segretario generale è sembrato un po' assente nello sguardo, capelli folti ma bianchi: qualche sinologo ritiene che la rinuncia a tingerseli di nero intenso, come fanno invece i dirigenti in carica, sia quasi un segno di resa.

In prima fila si è rivisto Zhang Gaoli, 75 anni, l'ex membro del Politburo famigerato (in Occidente) per il caso della tennista Peng Shuai, che l'anno scorso scrisse sui social mandarini di essere stata legata a lui da una tormentata relazione, conclusa con l'imposizione di un rapporto sessuale. È stata la prima comparsa di Zhang da quel novembre 2021. Volto inespressivo, sfoggiava una capigliatura nerissima, con riporto. La campionessa Peng è ancora fuori scena, inghiottita dall'omertà del potere. 

Il più vivace degli «immortali» è sembrato Song Ping, che con i suoi 105 anni è più vecchio del Partito comunista cinese, fondato nel 1921. Song a settembre ha mandato un videomessaggio ai compagni ricordando le grandi aperture al mercato di Deng Xiaoping: qualcuno ci ha letto una critica alla linea di Xi. Ma aggrapparsi ai possibili sottintesi di un ultracentenario per leggerci una fronda al segretario generale è una pia illusione.

Anche immaginare correzioni più moderate (almeno nell'economia) in base alla composizione del nuovo Politburo di «Xi III» può ridursi a pura speculazione. 

A marzo 2023 terminerà l'incarico di primo ministro il tecnocrate Li Keqiang, che avrebbe dovuto guidare l'economia ma in questi dieci anni ha visto il suo spazio di manovra sempre più ristretto dall'ingerenza del leader supremo, che ha impresso una svolta verso la sinistra marxista-leninista. 

Due i nomi più accreditati per la sostituzione alla guida del Consiglio di Stato (il governo): Hu Chunhua, 59 anni e Wang Yang, 67. Hu è il più giovane tra i 25 del Politburo e ha diretto la campagna per l'alleviamento della povertà tanto cara a Xi. A luglio ha rafforzato le sue credenziali firmando un articolo di elogio della politica agricola nel quale ha citato Xi Jinping 50 volte.

Wang Yang è catalogato come liberista, ma data l'età servirebbe al massimo per cinque anni, tempo notevole per le democrazie occidentali, quasi un battito di ciglia a Pechino. Andrà in pensione, a 72 anni, la signora Sun Chunlan, in prima linea nella lotta al Covid, unica donna tra i 25 uomini del vertice. Potrebbe sostituirla Chen Shiqin, 62 anni, emersa nel povero Guizhou. Il Partito è e resta un club per uomini.

L'ultimo imperatore. Via al congresso del Partito comunista cinese: a Xi Jinping il terzo mandato consecutivo. Il leader punta all'egemonia di Pechino nel mondo. Ma il fronte interno lo preoccupa. Roberto Fabbri il 16 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Deng Xiaoping, una volta raccolta nelle sue mani l'eredità spaventosamente sanguinosa del maoismo, aveva imposto una regola precisa: per evitare l'affermarsi di pericolosi personalismi, nessun leader del partito comunista (e quindi automaticamente dello Stato) cinese avrebbe potuto rimanere al vertice per più di dieci anni. Regola rispettata per quarant'anni e fino a oggi, quando il ventesimo congresso del Pcc sta per infrangerla con un clamoroso ritorno al passato. E non si tratta solo della terza designazione consecutiva di Xi Jinping a segretario generale dell'onnipotente Partito-Stato per un mandato quinquennale. Perché aspetti ancor più sostanziali sono nel frattempo cambiati in Cina, facendo parlare, se non di resurrezione del maoismo, di pieno recupero da parte del partito comunista del controllo sulla società e sull'economia. Ma, soprattutto, del ritorno in grande stile, grazie a un'apposita modifica costituzionale, al potere assoluto di un uomo solo.

Questa svolta autoritaria, preceduta da anni di purghe inesorabili ai danni di rivali politici interni (su tutti, il caso celebre di Bo Xilai) e di miliardari troppo ambiziosi (esempio principe quello del magnate di Alibaba Jack Ma), si incarna nella figura di un leader le cui ambizioni non sono inferiori a quelle del semidio della Cina Popolare Mao Zedong. Se Mao aveva tritato spietatamente le vite di decine di milioni di connazionali con l'obiettivo di trasformare in tempi il più possibile rapidi il miserabile colosso cinese in una superpotenza in grado di scalzare la preminenza sovietica nel campo comunista, Xi punta addirittura a mettere fine a un'egemonia globale, quella militare ed economica degli Stati Uniti. Ma non vuole farlo con le stesse regole di Washington e dei suoi alleati, bensì sovvertendole. Il leader cinese pretende, alleandosi con altri dittatori come il russo Putin, l'iraniano Khamenei e il venezuelano Maduro, di dimostrare che un'alleanza delle autocrazie possa piegare le democrazie occidentali fino a conseguire una nuova egemonia mondiale che vedrebbe la Cina al suo vertice.

Al Congresso Xi si presenta con il suo programma di rilancio dell'orgoglio nazionale in patria e sulla scena globale, denominato «ringiovanimento». In un'epoca di instabilità mondiale provocata prima dalla pandemia di Covid e poi dall'invasione russa dell'Ucraina, il «nuovo Mao» punta ad accrescere il ruolo internazionale di Pechino, ma dovrà fare i conti con le difficoltà a garantire la crescita economica del suo Paese. Xi potrà vantare successi e tracciare un percorso ambizioso: con la «normalizzazione» di Hong Kong ha posto fine all'«era delle umiliazioni colonialistiche», con la promessa annessione forzosa di Taiwan intende dimostrare che gli Stati Uniti hanno finito di dettar legge in Estremo Oriente. Presa Taiwan, la Cina controllerebbe una via commerciale di assoluta importanza e si aprirebbe per la sua nuova potentissima marina militare l'accesso al Pacifico finora dominato da Washington. Grazie a immensi investimenti, Pechino può inoltre vantare nuove solide posizioni in Asia, in Africa e in America Latina.

Più difficile la gestione del fronte interno. L'obiettivo di crescita annuale del 5,5% appare lontano: la politica zero-Covid, l'appoggio alla Russia e le minacce a Taiwan, il sostegno a imprese statali meno efficienti del settore privato pesano sull'economia cinese. Senza dimenticare il rischio enorme dell'esplosione della temibile bolla immobiliare. Xi potrebbe essere costretto a compromessi, ma non cederà mai sul punto dell'inesorabile compressione delle libertà individuali, senza la quale il regime è perduto. Crescerà ancora la sorveglianza di un Grande Fratello che usa le nuove tecnologie per costringerlo a un conformismo subdolo e senza scampo. Il cittadino cinese del futuro è un soldatino senza diritto di giudizio personale su un sistema totalitario implacabile che aspira a controllare non solo la società in cui vive, ma il mondo intero. È questo il vero programma di Xi Jinping.

Xi Jinping, l'eterno, in una Cina con qualche ombra di troppo. Luciano Tirinnanzi su Panorama il 16 Ottobre 2022.

Nei giorni del Congresso del Partito Comunista Cinese il leader si porta a casa il terzo mandato; un record in un paese dove però i problemi diventano sempre più grandi

Un decennale con molte luci e qualche ombra crescente. Ecco un primo bilancio della Cina sotto la guida di Xi Jinping, che si è presentato quest’oggi al XX Congresso del Partito comunista cinese per ottenere un terzo mandato come segretario generale. Fatto che, in maniera inconsueta e rompendo la tradizione, gli garantisce uno storico risultato in qualità di presidente e capo del partito comunista più longevo dopo Mao Zedong. Xi attualmente ricopre le tre posizioni più importanti in Cina: segretario generale del Partito, capo delle forze armate del Paese e presidente. Dovrebbe rinnovare il suo mandato per i primi due titoli al congresso, anche se nessun leader oltre a Mao - il fondatore della Cina comunista - ha mai osato un terzo mandato.

Quanto alla presidenza, anch’essa aveva un limite di due mandati, secondo la costituzione normata dal riformatore Deng Xiaoping, che intendeva impedire volutamente l’ascesa di una nuova figura maoista in Cina. Ma Xi Jinping è riuscito a eliminare questo requisito nel 2018, quando ha fatto votare al parlamento cinese l’abolizione di tale norma, spalancando le porte per una presidenza che potrebbe anche essere a vita. Oltre a ciò, la Cina attraversa uno dei momenti più difficili della sua storia recente, e Xi deve stare attento a come conserverà il potere e a cosa scriveranno di lui sui libri di storia. Dopo due lustri di crescita economica ed espansione geopolitica, infatti, Pechino ha conosciuto una significativa battuta d’arresto generalizzata, proprio nell’anno della riconferma del leader. Tuttavia, nel suo discorso di fronte ai 2.300 delegati al congresso, Xi Jinping ha minimizzato, rivendicando invece i grandi successi che il Paese ha conseguito sotto la sua guida. A cominciare da Hong Kong, dove il governo ha vinto una delle sue più importanti battaglie, portando la città-Stato definitivamente tra le braccia della legge cinese, senza più deroghe o autonomie. Per dirla con il presidente, è stata portata dal «caos alla governance». Dopo le violente e prolungate manifestazioni a favore della democrazia protrattesi fino al 2019, infatti, Pechino ha imposto qui una legge sulla sicurezza nazionale, e usato il pugno duro sugli studenti universitari affinché demordessero e placassero le loro rivendicazioni da «giovani ribelli». Il pugno di ferro ha funzionato, e così oggi Hong Kong è uno dei trofei che il presidente può sbandierare come suo proprio. La questione di Taiwan Non così con l’isola di Taiwan, dove la temperatura si fa bollente, allorché la Repubblica di Taipei - ostile e antitetica al governo di Pechino - è convinta di poter resistere a oltranza contro le ingerenze della Cina continentale, che invece pretende di averla di nuovo sotto il suo controllo, com’era prima della rivoluzione comunista e della Lunga marcia.

A Taipei, sede non riconosciuta da alcun Paese al mondo, sono convinti che sbandierare un sistema democratico permetterà loro di sopravvivere come entità statuale, nonostante l’accerchiamento e le pretese di Pechino; e magari avverrà con l’aiuto militare degli Stati Uniti. Xi Jinping, invece, si è intestardito nel voler recuperare quell’arcipelago indipendente e lo ha persino fatto scrivere nero su bianco: entro il 2025 Taiwan deve tornare a far parte della madrepatria comunista. Parlando con nettezza anche al congresso, il presidente ha affermato che Pechino «non prometterà mai di rinunciare all’uso della forza», come invece vorrebbe qualcuno in Occidente. Costi quel che costi, «la riunificazione completa del nostro Paese deve e sarà realizzata» ha ribadito, suscitando applausi scroscianti da parte dei delegati. «Le ruote della storia stanno girando verso la riunificazione della Cina e il ringiovanimento della nazione cinese. La riunificazione completa del nostro Paese deve essere realizzata» è il monito del leader, che sottende sia l’urgenza di risolvere la questione sia, con ogni probabilità, il fatto che il dossier sarà in cima agli impegni geopolitici da risolvere entro il quinquennio del suo terzo mandato. E, in effetti, nel discorso di Xi la parola «sicurezza» è stata da lui menzionata oltre 70 volte. «La sicurezza nazionale è la fondazione del ringiovanimento della nazione cinese» e per questo il governo intende rafforzare tale sicurezza in campo militare, economico e in «tutti gli aspetti» sia in patria che all'estero.

Ma l’ottimismo e le certezze cinesi si arrestano qui. Quando poi il presidente ha introdotto altri argomenti, se possibile ancor più spinosi, i volti si sono fatti più tesi: descrivendo gli ultimi cinque anni come «altamente insoliti e straordinari», Xi ha ammesso ad esempio di aver guidato la Cina attraverso «una situazione internazionale cupa e complessa», dove «rischi e sfide enormi si sono presentati uno dopo l’altro». Su tutti, la pandemia, probabilmente il più controverso degli affari correnti del governo di Pechino. La difficile politica dello «zero Covid» Il presidente cinese ha riaffermato che non ci sarà un allentamento immediato rispetto alla sua controversa strategia «zero-Covid», la cui inflessibilità è un marchio di fabbrica della politica rigorista che Xi intende mantenere. Nonostante questo gli abbia alienato le simpatie della popolazione, che è tornata a rialzare a testa e a manifestare in maniera anche violenta, come non si vedeva da decenni. Ma Xi deve pensare ai voti dei delegati del congresso, e poco si cura di cosa pensa il popolo. Lui, che si considera una guida illuminata, ritiene di aver condotto contro il Covid una «guerra popolare per fermare la diffusione del virus» e, pur consapevole che questa politica ha costretto i cinesi a versare un tributo punitivo e l’economia a conoscere una battuta d’arresto, tali sforzi hanno salvato vite. «Che è la cosa più importante». Resta, in ogni caso, un crescente affaticamento della popolazione per i ripetuti lockdown e le restrizioni di viaggio, che non sembrano favorire l’uscita della Cina dall’emergenza sanitaria. I contagi – 333.830 nuovi casi questa settimana, in crescita del 10% – sembrano ormai da tempo pienamente sotto controllo e comunque ampiamente gestibili. Ciò nonostante, la stessa Pechino patisce in questi giorni rigide misure di sicurezza e, appena prima del congresso, la politica «zero-Covid» ha conosciuto un’ulteriore inasprimento per appena 12 contagi registrati in città, con conseguenti proteste spontanee dei cittadini, esplose in particolare nella giornata di giovedì. La sfida economica Infine, pesano sul futuro economico della Cina la grave bolla immobiliare e l’affermazione della Belt and Road Initiative, la strategia per l’espansione economica della Cina e conseguente penetrazione in Africa ed Europa. Quanto al primo, Standard&Poors ha previsto che le «vendite di proprietà nazionali scenderanno entro quest’anno del 28%-33%», segnando un calo doppio rispetto alla stima che la stessa società di rating aveva rilasciato a inizio anno. «Segno inequivocabile che il crollo del mercato sta bruscamente prendendo velocità» dicono gli analisti. Che succede? Pare che i costruttori cinesi non abbiano più liquidità per completare i progetti immobiliari già pagati dai cittadini attraverso l’accensione di mutui privati, e che conseguentemente i clienti fuggano precipitando società e progetti verso il fallimento: crolla l’immissione di liquidità nel sistema, i costruttori non possono onorare nei tempi i contratti con gli acquirenti, e le imprese costruttrici saltano. A questo scenario da incubo, Pechino ha risposto per adesso con maxi piano di salvataggio da 300 miliardi di yuan (circa 44 miliardi di dollari), per i grandi gruppi immobiliari. Ma i risultati ancora non si vedono e i crolli in borsa continuano.

Quanto alla Belt and Road Initiative, che ha portato a significativi risultati nella prima fase, si teme il mancato aggancio della seconda: ovvero finalizzare il corridoio commerciale che dovrà portare merci e beni di ogni sorta dai grandi poli industriali cinesi agli interporti occidentali: la guerra in Ucraina e l’isolamento sino-russo sono un’incognita notevole al completamento del progetto multimiliardario. La via cinese al futuro Nelle indicazioni generali per i prossimi cinque anni, Xi ha indicato la sua via affermando che la Cina si concentrerà soprattutto su «istruzione di alta qualità» e innovazione per «rinnovare la crescita economica» dopo che il Paese è stato colpito dalla crisi. Come a dire, che questa generazione ancora patirà per la battuta d’arresto della tigre asiatica, ma la prossima vedrà i frutti di questi sforzi grazie alla pianificazione quinquennale sotto la guida ancora una volta di Xi Jinping. Intanto, però, il Pil cinese è atteso a + 2,8% a fine anno, rispetto all’8,1% del 2021 e al 4-5% stimato in aprile, secondo la Banca Mondiale. Una frenata grave, cui Pechino intende ripondere «accelerando gli sforzi per ottenere una maggiore fiducia in se stessa nella scienza e nella tecnologia», secondo quanto affermato dal presidente, ormai consapevole che la politica di repressione del settore privato e delle principali società tecnologiche del Paese non gli hanno portato fortuna. Dunque, al XX congresso è in corso una discussione - senza antagonisti - sulla fiducia al leader, che durerà a porte chiuse fino a sabato prossimo, quando una votazione cerimoniale per convalidare il rapporto di Xi Jinping sullo stato della nazione e per approvare le modifiche apportate alla costituzione del partito (per rafforzare ulteriormente il suo potere), incoronerà il terzo atto di un leader capace e determinato. Su di lui pesano, però, le scelte compiute nell’ultimo bienno. Perciò Xi non deve steccare sul rilancio economico né incaponirsi con Taiwan, pena il vanificare gli sforzi enormi fatti dal sistema e dalla collettività cinese per diventare una superpotenza.

Xi Jinping vicino al terzo mandato, dall’infanzia alla metafora dei due bottoni: dieci cose che non sapete. Guido Santevecchi su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022

Il leader di Pechino vicino al terzo mandato di potere assoluto. Figlio di un compagno di Mao, è cresciuto politicamente nella provincia e poi è stato scelto per salvare il comunismo cinese 

Non concede interviste, non accetta conferenze stampa, non usa Twitter (che tra l’altro è oscurato in Cina); i suoi vari uffici, di segretario generale del Partito comunista, di presidente della Repubblica popolare, di capo della Commissione militare centrale non hanno numeri di telefono pubblici ai quali i giornalisti possano rivolgersi per chiarimenti sulla linea della seconda superpotenza mondiale . Nessuno straniero ha mai messo piede nella sua residenza privata, all’interno di Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale di Pechino diventato cittadella proibita del governo della Repubblica popolare.

Resta un segreto di Stato chi sia davvero Xi Jinping e che cosa pensi quest’uomo che ha compiuto 69 anni il 15 giugno e uscirà dal XX Congresso del Partito-Stato che si apre domenica 16 ottobre con altri cinque anni di potere assoluto. Della sua vita la propaganda cinese ha diffuso solo foto (ben selezionate) e memorie agiografiche. Il resto sono aneddoti e testimonianze filtrate dall’ombra, più o meno di nascosto. 

Il principe istruito

È nato a Pechino, figlio di un compagno della prima ora di Mao, quindi è un «principe rosso», membro della nobiltà comunista destinata a posti di comando e prestigio. Però il padre, Xi Zhongxun, fu purgato nelle lotte di potere degli Anni Sessanta e secondo la biografia della Xinhua intitolata «Uomo del popolo», il ragazzo Xi «soffrì umiliazioni pubbliche, la fame, restò senza casa e una volta finì anche in cella». Si dice che in quegli anni terribili una sorella maggiore di Xi si sia tolta la vita, sopraffatta dalle vessazioni pubbliche.

Nel 1969, quando aveva 15 anni, anche Xi fu spedito come «giovane istruito», con decine di migliaia di coetanei a zappare in campagna «per essere rieducato dai contadini più poveri», come ordinava la Rivoluzione culturale. Sette anni in un villaggio sperduto nella provincia nordoccidentale dello Shaanxi, alloggiato in una grotta illuminata dalle candele. Dev’essere stato uno choc: a quanto si dice, durante una rara visita a casa, il giovanotto pensò di imboscarsi a Pechino, ma fu costretto dalla madre a tornare nei campi, per non disonorare la famiglia e per non perdere la possibilità di seguire un giorno il cursus honorum che gli avrebbe consentito di diventare un dirigente della Repubblica popolare.

Xi allora si portò in campagna un paio di grosse valigie piene di libri: i contadini che lo aiutarono a trascinarle pensarono che dentro ci fosse un tesoro. Erano volumi che lo studente-lavoratore divorava la notte, dopo aver vangato: lesse di tutto, da Victor Hugo a Hemingway e tre volte di seguito il «Capitale» di Marx (così raccontò lui). Nel villaggio dello Shaanxi il ragazzo si fece apprezzare dalla gente, lavorando come manovale e poi come meccanico di mezzi agricoli.

Ritorno a Pechino

Nel 1976, finita la Rivoluzione culturale, rientrò a Pechino anche il ventiduenne Xi Jinping. Le amicizie di famiglia gli permisero di riprendere gli studi e di laurearsi in ingegneria chimica alla celebre Tsinghua. Il futuro segretario generale però dovette presentare dieci volte domanda di ammissione al Partito, prima di ricevere la tessera. Un suo vecchio amico di quegli anni giovanili ha raccontato che Xi era «un sopravvissuto della Rivoluzione culturale», uno che aveva deciso di scampare a quegli anni di follia maoista «diventando più rosso del rosso», sempre sostenuto da «un’ambizione straordinaria».

La Xinhua riferisce che «l’affetto maturato verso il popolo lo ispirò: negli Anni Ottanta, quando molti coetanei si davano agli affari o si specializzavano all’estero, Xi rinunciò a un comodo ufficio a Pechino e andò a lavorare da vice capo della sezione di Partito in una piccola contea dello Hebei, poi si trasferì a Ningde nella provincia del Fujian, una delle più povere a quei tempi». Il principe rosso non aveva paura di sporcarsi le mani, per costruirsi il futuro. Restò nel Fujian con incarichi sempre più elevati per quasi diciotto anni, dal 1985 al 2002.

I due matrimoni

Un salto nel privato. Si è sposato due volte: il primo matrimonio è fallito presto. La seconda moglie è Peng Liyuan, cantante con voce da soprano nel coro dell’Esercito popolare di liberazione a Pechino . Quando cominciarono a frequentarsi negli Anni Ottanta, lui era un funzionario del Partito in lenta ascesa, ancora confinato a ruoli di provincia. Lei era molto famosa. Alla festa di nozze nel 1987 parteciparono i compagni burocrati della città di Xiamen nel Fujian dove lui prestava servizio: si narra che un amico impressionato e ignaro chiese a Xi: «Come hai fatto a invitare anche quello schianto di Peng?». Risposta tranquilla del futuro leader supremo: «Doveva venire per forza, è lei che sposo». Pare che all’inizio Peng lo trovasse un po’ noioso, pensava sempre alla politica. Gli ha dato una figlia, Xi Mingze, che ha studiato all’estero ed è tenuta lontana dai riflettori.

Zappa in spalla

Dopo i sette anni passati a zappare nelle campagne della Rivoluzione culturale e la laurea in ingegneria chimica, il primo incarico politico fu procurato a Xi Jinping dal padre, vecchio capo rivoluzionario della Lunga Marcia, riabilitato dopo le purghe maoiste: nel 1979, a 26 anni, entrò nella segreteria particolare di Geng Biao, vicepremier responsabile della difesa nazionale. Siccome «il Partito comanda il fucile», tre anni al seguito di quel mandarino dell’Esercito popolare di liberazione diedero al giovane una visione dall’interno dell’apparato militare e importanti contatti con ufficiali, che gli sarebbero tornati molto utili.

Poi Xi ha scalato la gerarchia in provincia, come tutti i tecnocrati del Partito-Stato. Quando ha bisogno di ricordare il suo impegno anche materiale, Xi fa riemergere sempre dagli archivi della Xinhua una sua foto in bianco: alto e magro, sorriso largo, capelli a caschetto e zappa in spalla. Didascalia: «Anno 1989, l’allora segretario di Partito a Ningde nel Fujian guida oltre mille quadri locali e contadini impegnati a bonificare un canale di scolo per costruire la prima rete fognaria del posto». La battaglia contro la povertà è uno dei punti chiave dell’impegno di Xi anche oggi. I pechinologi osservano che non ha mai dimenticato i sette anni passati da «ragazzo istruito» spedito a vangare nello Shaanxi. E poi, c’è il messaggio politico: a un «principe rosso» serve una copertura popolare e contadina. Nel Fujian, Xi raggiunse il grado di governatore provinciale.

Ripescato per un voto

Nonostante la popolarità conquistata nelle campagne del Fujian, Xi ha rischiato di perdere la grande occasione a Pechino. Nel 1997 risultò il primo dei non eletti nel listone per il Comitato centrale del Partito. Arrivò 151° su 150 posti previsti: un’umiliazione. Aveva molti rivali nel Partito. Ci vollero manovre dietro le quinte per ripescarlo e farlo rientrare nell’élite. Qualcuno al vertice lo proteggeva: si disse il presidente Jiang Zemin.

In quegli anni comunque, nessuno pronosticava che Xi potesse diventare segretario generale. Il predestinato sembrava il compagno Li Keqiang, attuale primo ministro. Tra il 2002 e il 2007 Xi è stato capo del Partito dello Zhejiang: ruolo più importante di quello di governatore. Una provincia che da agricola era diventata fucina di innovazione industriale e tecnologica. Bisognava solo distribuire i capitali per spingere la crescita, e Xi lo fece benissimo. Oggi a Pechino si parla di «Clan dello Zhejiang», in riferimento ai molti uomini che servirono con Xi in quegli anni provinciali e che lo hanno seguito nella capitale quando lui è salito al vertice del Partito e dello Stato.

Il monito alle «pance piane»

Il grande balzo in avanti verso il vertice fu rapidissimo, dopo tanti anni di attesa. All’inizio del 2007 Xi fu mandato a Shanghai come capo del Partito per sanare una situazione di crisi politica nella megalopoli. Un breve passaggio, perché al Congresso dell’autunno 2007 entrò nel Comitato permanente del Politburo e nel 2008 fu nominato vicepresidente della Repubblica: era l’erede designato in attesa di salire al vertice del Partito-Stato cinque anni dopo, nel 2012.

Visto che il padre Xi Zhongxun aveva subìto un paio di purghe per le sue posizioni «liberali» (firmò una lettera che chiedeva comprensione per i ragazzi della Tienanmen) molti pensarono che il nuovo leader potesse essere un riformista che avrebbe allargato alla politica la grande apertura economica di Deng Xiaoping . Gli fu affidato l’ultimo sforzo organizzativo per le Olimpiadi di Pechino del 2008: la celebrazione trionfale della apertura della Cina al mondo. Pochi si annotarono una frase pronunciata dal vicepresidente Xi Jinping nel 2009 durante una visita in Messico: «Alcuni stranieri con le pance piene non hanno niente di meglio da fare se non puntare il dito contro di noi. Dico loro: primo, la Cina non esporta la rivoluzione; secondo, non esporta carestia e povertà; terzo, non perde tempo a giocare con voi. Che altro c’è da dire?».

Salvate il soldato Ryan

Le ambasciate e i servizi di intelligence operativi a Pechino furono messi sotto pressione dai rispettivi governi: bisognava sapere chi fosse davvero Xi e perché il Partito lo avesse scelto. WikiLeaks ha rivelato un dossier classificato, raccolto tra il 2007 e il 2009 dalla sede diplomatica americana. Veniva segnalata con rilievo una confidenza di Xi, una sua simpatia hollywoodiana. Parlando di cinema con l’ambasciatore degli Stati Uniti disse di aver molto apprezzato «Salvate il soldato Ryan» perché «proietta un senso di giustizia». In seguito, Xi ha continuato a giocare sulle sue conoscenze culturali americane: durante la visita di Stato del 2015, ospite di Barack Obama, citò la serie tv «House of Cards», per rassicurare l’uditorio che la Cina non era un luogo di trame oscure all’ombra del potere. Era ancora il leader di una Cina che cercava di affascinare il mondo e fare affari, seguiva la strategia indicata da Deng: «Nascondere la nostra forza e prendere tempo». Un paio di anni dopo sarebbe scoppiato lo scontro politico e ideologico con gli Stati Uniti e l’Occidente.

Due settimane di buco

C’è un modo illuminante per descrivere i rapporti di forza all’interno del ristretto gruppo che governa la Cina, il Comitato permanente del Politburo oggi formato da sette membri: «A Pechino il segretario generale prima viene eletto, poi deve candidarsi per il potere». Xi ha fatto esattamente questo, smantellando pezzo dopo pezzo la «guida collegiale» ideata da Deng . La lotta è stata sicuramente feroce, ha fatto molti prigionieri (finiti in carcere con l’accusa di corruzione e trame oscure) e ha lasciato Xi solo al comando, seguito da una coorte di fidati collaboratori.

In Cina è vietato agli iscritti al partito (sono 96 milioni) discutere con gli stranieri questioni di politica interna. Xi Jinping avrebbe sublimato il sistema tenendo sempre nascoste le sue carte anche ai compagni, fino a quando non è arrivato in cima alla struttura di potere (ancora collegiale nel 2012). Nel settembre 2012, a pochi giorni dall’inizio del XVIII Congresso del partito che doveva incoronarlo, Xi Jinping scomparve. Non partecipò a un colloquio con l’allora segretaria di stato Usa Hillary Clinton che era a Pechino. Dal 1° settembre e per due settimane non fu citato in alcuna notizia della stampa cinese.

Poi, improvvisamente come si era eclissato, tornò in scena in una foto distribuita dalla Xinhua il 15 settembre, mentre visitava l’Università di agraria a Pechino. Non è mai stato chiarito che cosa sia successo in quei quindici giorni. Solo voci: una malattia; uno scontro finale con gli avversari; addirittura una rissa durante una discussione politica per ottenere pieni poteri e non solo un mandato da primus inter pares. La versione più accreditata è che, semplicemente, il futuro segretario generale e presidente della Repubblica Popolare Cinese si fosse stirato i muscoli della schiena mentre giocava a pallone, il suo sport preferito.

L’incubo sovietico

Il motivo per cui Xi è stato scelto dagli anziani dirigenti è che la Cina comunista temeva di fare la fine dell’Unione sovietica. Mao aveva riscattato la Cina dal Secolo dell’umiliazione; Deng Xiaoping l’aveva fatta uscire dal pauperismo ideologico, aprendola al mercato («con caratteristiche socialiste cinesi») e lanciando la grande rincorsa che l’ha portata in quarant’anni al rango di seconda superpotenza economica del mondo.

Serviva un nuovo leader che salvasse il Partito-Stato da sé stesso. Perché il sistema di potere cinese nel 2012 era sull’orlo della delegittimazione, schiacciato da corruzione endemica e mancanza di slancio ideologico. Nella Scuola del Partito si studia la storia dell’Urss e il suo crollo, proprio perché la Repubblica popolare non ne segua il destino. E Xi ha ammonito più volte i compagni in discorsi fatti filtrare sulla stampa statale: «Sapete perché l’Unione Sovietica si è disintegrata? Sapete perché il suo partito comunista è crollato? La ragione è che i loro ideali e le loro convinzioni erano state scosse. L’Urss è caduta perché nel momento cruciale le mancò un vero uomo capace di alzarsi in piedi per difenderla». Xi Jinping è l’uomo a cui ha chiesto di levarsi il «Zhongguó Gongchan Dang» (così si dice partito comunista cinese). Nei suoi appelli a vigilare sulla saldezza ideologica, Xi ha aggiunto altre frasi di battaglia: «Serve coraggio per mordere un osso» e «Bisogna chiudere il potere nella gabbia del sistema». Non tutto è chiaro, ma l’obiettivo al momento è raggiunto: lo Stato comunista fondato da Mao nel 1949 ha superato in longevità l’Urss.

La metafora dei due bottoni

Nei primi dieci anni di potere Xi ha coniato una serie di slogan politici. Le sue frasi celebri meritano di essere decifrate, perché determinano ordini politici ed economici. Ha cominciato con il «Sogno cinese», che all’inizio fu interpretato come promessa di costruire una società inclusiva come quella dell’American Dream. Si trattava invece di saldare i conti con il passato, con il famoso Secolo dell’umiliazione che tra il 1840 e il 1945 aveva trasformato l’impero cinese in terra di conquista per le potenze occidentali e il Giappone. Xi vuole un nuovo ordine internazionale, con Pechino alla guida almeno del Sud del globo.

Subito, nel 2012, ha lanciato una campagna contro la corruzione proclamando la determinazione a «schiacciare le mosche e combattere le tigri», riferendosi ai piccoli burocrati e agli alti dirigenti. Sembrava solo fumo. Ha mantenuto la parola: almeno 1,5 milioni di corrotti (e avversari della sua linea) sono stati puniti; ultima purga a settembre con la condanna di «una cricca» di capi dei servizi di sicurezza e polizia «che intascava tangenti e cercava di rompere l’unità del Partito». La Xinhua lo ha definito «Maestro di metafore». Eccone alcune: «La globalizzazione è stata all’inizio come il tesoro nella grotta di Ali Baba, poi è stata vista da molti come il vaso di pandora delle diseguaglianze»; «la globalizzazione è una spada a doppio filo, quando l’economia è in contrazione è difficile fare la torta più grande perché la spada ne tagli fette che bastino per tutti»; «per crescere bisogna avere l’ardimento di navigare nel vasto oceano dei mercati globali, i timonieri non debbono rifugiarsi nel porto del protezionismo».

Dal podio di Davos invitò i businessmen mondiali: «Salite sul treno espresso dello sviluppo cinese». Xi dunque gioca al capotreno del libero commercio (cinese). Gli piacciono anche i modi dire popolari, da padre della gioventù cinese, come questo rivolto agli studenti per spronarli ad essere diligenti: «Attenti al bottone della vita. È come quando ci si veste e si infila il primo bottone nell’asola sbagliata, tutti gli altri finiranno male. Nella vita bisogna chiudere i bottoni nel modo giusto, fin dall’inizio». Poi ha cominciato a parlare di «nuova normalità» economica quando la crescita della Cina ha perso il ritmo del 10% all’anno ed ha rallentato fino al 3% (non disprezzabile, in tempi di recessione occidentale per la pandemia e la crisi energetica). Ultimamente ha lanciato il tema della «prosperità condivisa»: una promessa di ridistribuire più equamente il reddito nazionale e «mettere un freno al capitalismo disordinato». In Cina qualche commentatore ha previsto una «nuova Rivoluzione culturale» e in Occidente molti analisti finanziari consigliano di non scommettere più sugli investimenti nella seconda economia del mondo, che ha virato di nuovo verso il marxismo-leninismo.

Da liberoquotidiano.it il 22 ottobre 2022.

Sotto gli occhi indifferenti di Xi Jinping, l'ex presidente Hu Jintao, 79 anni e dieci anni ai vertici della Cina, è stato portato a forza, e a sorpresa, fuori dall'aula della Grande Sala del Popolo, su piazza Tiananmen, poco prima che cominciasse la cerimonia di chiusura del ventesimo Congresso del Partito Comunista Cinese. Non è chiaro il motivo del gesto, che non è stato trasmesso dai media statali cinesi. 

Nei video ripresi però tempestivamente dai giornalisti che erano appena arrivati alla cerimonia, si vede Hu, seduto accanto al suo successore al vertice del partito e dello Stato, Xi Jinping, alzarsi in piedi e rivolgersi allo stesso Xi e al primo ministro uscente, Li Keqiang, prima di abbandonare la sala, accompagnato da due assistenti. Dai filmati diffusi on line, Hu appare riluttante ad andarsene.

Una clamorosa uscita di scena, la sua, per la quale non sono state fornite spiegazioni ufficiali: l'allontanamento dall'aula non appare spiegabile soltanto con le condizioni di salute dell'anziano leader, e sembra assumere i contorni di una epurazione. E di una dimostrazione schiacciante di forza del leader attuale, rimasto pressoché impassibile durante il minuto abbondante di durata dell'episodio, a beneficio delle telecamere dei media stranieri, che lo hanno ripreso.

La purga al Congresso per l'ex leader Hu Jintao. Xi è più potente di Mao. L'anziano presidente scortato fuori. Il regime: "Stava male". Da ora ufficiali le mire su Taiwan. Gaia Cesare il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Un finale choc. È andato in scena durante la cerimonia di chiusura del XX Congresso del Partito comunista cinese a Pechino, quando l'ex presidente Hu Jintao, in carica dal 2003 al 2013, è stato scortato fuori dall'aula dopo un brevissimo scambio con il presidente in carica, Xi Jinping. La scena, sulla quale aleggia lo spettro di una purga nei confronti dell'ex capo di Stato che aveva tentato di aprire la Cina al mondo, diventa il simbolo di una nuova epoca che si apre per il regime cinese, quella dell'onnipotenza riconosciuta all'attuale leader Xi, che si è non solo garantito un nuovo mandato di cinque anni ed è ora il leader più longevo della Cina comunista dai tempi del fondatore Mao Tze Tung, ma ha l'obiettivo di farsi presidente a vita della Cina.

Non si conoscono davvero - come spesso accade nel regime cinese - le ragioni che hanno spinto all'allontanamento di Hu, portato fuori dalla sala prima che i 2300 delegati votassero all'unanimità il sostegno alla leadership di Xi. Hu era seduto accanto al presidente Xi quando un commesso ha tentato di farlo alzare prendendolo per un braccio. L'ex leader, 79 anni, sembrava confuso, ha opposto resistenza, e l'intensità inattesa della scena l'ha fatta sembrare più lunga e drammatica. Mentre veniva portato via l'ex presidente ha detto qualcosa al suo successore Xi ed è infine stato allontanato davanti agli occhi e agli obiettivi dei media internazionali. «Non si sentiva bene», ha fatto sapere più tardi l'agenzia di stampa di regime, Xinhua. «Il suo staff, per la sua salute, lo ha accompagnato in una stanza perché potesse riposare. Ora sta molto meglio».

Eppure diversi indizi lasciano pensare che possa essersi trattato d'altro e che la scena nasconda ben di più di un semplice malore, essendo stata così plateale durante un Congresso dove tutto è studiato e preparato per non lasciar trasparire nulla che possa danneggiare il regime. Quella di ieri è la giornata che ha chiuso una settimana cruciale per Xi Jinping. A 69 anni, il presidente non si assicurerà oggi soltanto altri 5 anni al potere, strappando il suo terzo mandato, ma ha aperto la strada a una dittatura a vita, incentrata sulla sua persona o meglio sul culto della sua personalità. Lo ha fatto con il voto unanime dei delegati che hanno cambiato lo statuto del Pcc, la sua Carta fondamentale, inserendo una modifica basata sui cosiddetti «due stabiliti»: il primo fissa che Xi è il «nucleo» del Pcc, il secondo che le sue idee sono i princìpi guida del partito. In sostanza, chi va contro il Leader Supremo, va contro il Partito, cosa che rende molto più complessa una eventuale e pur minima opposizione a Xi.

È in questo contesto che va analizzata la «deportazione» di Hu Jintao fuori dall'aula e lontano dal «nucleo» del Partito assoluto. L'ex presidente rappresenta una leadership gestita in maniera più collegiale e tollerante, per quanto questo possa dirsi di un regime come quello di Pechino. Durante i suoi dieci anni di mandato, la Cina si è aperta al mondo esterno e le Olimpiadi del 2008 mostrarono il volto di un Paese la cui reputazione globale migliorava, fra turisti in arrivo e società straniere che si stabilivano in Cina. È una faccia ben diversa da quella che il Paese mostra oggi, fra quarantene forzate a causa del Covid, marchi internazionali in fuga e purghe feroci contro gli oppositori. Con l'uscita di scena di Hu Jintao si seppellisce l'epoca di un dittatore e si consolida quella, ben più feroce e chiusa, del Leader Supremo Xi, grande regista dell'esclusione di quattro dei sette membri del Comitato permanente del Partito: il premier Li Keqiang, il vice premier Han Zheng, l'ex vicepremier Wang Yang, alla vigilia considerato possibile nuovo capo di governo e di Li Zhanshu, fin qui presidente del Comitato. Un rivoluzione ai vertici, il segnale di una presa assolutista di Xi sul partito.

Quanto a Taiwan, il nodo all'origine di gravi tensioni con gli Stati Uniti e che rischia di portare a una guerra nel Pacifico, il Congresso ha modificato lo statuto anche per inserire l'opposizione all'indipendenza dell'isola nella Costituzione. Taiwan ha risposto a Pechino di «abbandonare la vecchia mentalità di aggressione e confronto» e che è responsabilità di entrambe le parti stabilizzare la situazione e risolvere le divergenze «in modo pacifico, reciproco e pragmatico». Messaggio opposto a quello arrivato da Pechino.

L'imperatore e l'Occidente nel mirino. La Cina sono io. Xi Jinping non deve manco dirlo. Gian Micalessin il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La Cina sono io. Xi Jinping non deve manco dirlo. Per capirlo basta la brutale freddezza con cui volta le spalle all'ex presidente e predecessore Hu Jintao trascinato fuori dalla Grande Sala del Popolo sotto gli occhi impassibili dei 2mila delegati del Ventesimo Congresso. La plateale espulsione, voluta probabilmente dallo stesso Xi, rappresenta il monito finale di un Congresso usato per far pulizia di chiunque non condividesse la linea del nuovo imperatore. Ora quella linea deve far paura soprattutto a noi. I metodi spregiudicati usati sul fronte interno per togliere di mezzo chiunque gli impedisse un totale controllo del Partito o chi, sul fronte economico e finanziario, tentava di sottrarsi alle pastoie della dirigenza comunista sono gli stessi con cui Xi cercherà di piegare il resto del mondo. Per capire quanto siano pericolose le sue ambizioni internazionali basta il «cursus honorum» con cui ha cesellato il proprio potere interno. Dopo aver abolito il limite dei due mandati e trasformato il proprio pensiero, sulla scorta di quanto aveva fatto Mao, in dettame costituzionale ha utilizzato questo Congresso per elevarsi al rango di divinità comunista. I due «fondamenti» e le due «garanzie» approvate nella Grande Sala del Popolo gli assegnano oltre al ruolo di presidente della Cina, segretario del partito e capo dell'Esercito anche il riconoscimento di «nucleo» essenziale del partito ovvero di grande e supremo ideologo. Come dire che è il suo pensiero, e non più quello del partito, a plasmare il futuro della Cina. Un riconoscimento che potrebbe venir suggellato già oggi, con il conferimento a Xi di quel titolo di leader del Popolo riconosciuto fin qui solo a Mao Tze Tung. Questa smodata rincorsa del potere non si esaurirà sui confini interni. Per dimostrare di essere veramente la reincarnazione del Grande Timoniere, Xi deve innanzitutto dar seguito alla promessa di riconquistare Taiwan. Un impegno ribadito anche ieri promettendo «risoluta opposizione e deterrenza nei confronti dei separatisti che cercano l'indipendenza». E visto la spietata determinazione con cui ha schiacciato prima la resistenza del Tibet e poi quella di Hong Kong ben pochi sono disposti a scommettere su atteggiamenti più remissivi su Taiwan. Ma le sue mire non si fermano certo lì. Il «grande ringiovanimento della nazione cinese» auspicato da Xi entro il 2049 indica, per sua stessa ammissione, la volontà di eguagliare e superare gli Stati Uniti sul fronte economico, militare, comunicativo e diplomatico. Ovvero dominare tutti noi.

Chi è Xi Jinping. Federico Giuliani il 22 Ottobre 2022 su Inside Over.   

Xi Jinping è il presidente della Repubblica popolare cinese dal 14 marzo 2013. Il 23 ottobre 2020 è stato confermato per un inedito terzo mandato nel ruolo di segretario generale del Partito Comunista Cinese (PCC). Le sue parole d’ordine sono due: sogno cinese e Nuova Via della Seta. Con il primo termine ha creato una narrazione che allo stesso tempo indica la resurrezione della nazione cinese dopo anni di delusioni e il conseguente miglioramento delle condizioni economiche dei suoi cittadini; con il secondo si riferisce al mastodontico progetto infrastrutturale allestito per unire la Cina all’Eurasia e all’Africa.

I primi anni di vita di Xi Jinping

La data di nascita di Xi Jinping è avvolta nel mistero e la sua biografia è un mix tra realtà e mito. Xi è nato il 15 giugno 1953; questo, secondo lo zodiaco cinese, è l’anno del serpente, l’animale più astuto e intelligente dei 12 segni presenti. Non c’è uniformità di giudizio su dove sia nato. Secondo alcuni sarebbe nato nella contea di Fuping nella provincia dello Shaanxi, altri sostengono sia nato a Pechino.

Xi fa parte della schiera dei “principi rossi” – termine usato per contrassegnare i discendenti degli eroi che combatterono al fianco di Mao Zedong – essendo figlio di Xi Zhongxun, un generale che tra il 1934 e il 1936 prese parte alla Lunga Marcia.

L'ingresso nel Partito comunista cinese

Xi Jinping si forma nelle scuole d’élite pechinesi ma agli inizi degli anni Sessanta suo padre cade in disgrazia, accusato di essere un controrivoluzionario. Il piccolo Xi, durante la Rivoluzione culturale, viene spedito nelle campagne dello Shaanxi in un gruppo di produzione di Liangjiahe.

Nel 1974 entra nel Partito comunista dopo aver fatto parte per tre anni della Lega della gioventù comunista. Da qui inizia la sua scalata verso il potere, assumendo incarichi dirigenziali nelle province di Shaanxi, Hebei, Fujian e Zhejiang. Nel frattempo, nel 1987, sposa in seconde nozze Peng Liyan, una famosa artista e cantante.

La scalata al vertice

Nel 1999 Xi Jinping diventa governatore del Fujian, mentre nel 2008 viene incaricato di presiedere i lavori di preparazione per la XXIX Olimpiade che si tenne a Pechino nel medesimo anno.

Nel 2012 Xi diventa segretario del Partito comunista cinese (PCC) e capo della Commissione militare centrale, un segno evidente che preannuncia l’ascesa della sua nuova leadership. Un anno più tardi, è eletto presidente della Cina, succedendo a Hu Jintao; viene confermato per un secondo mandato nel marzo 2018.

In teoria il secondo mandato avrebbe dovuto coincidere con il limite massimo, ma sempre nel marzo 2018 il Congresso nazionale ha approvato la rimozione del limite ai due mandati presidenziali; Xi Jinping può dunque mantenere l’incarico di presidente a vita. Nell’ottobre 2020 viene, come detto, confermato segretario del PCC e presidente della Commissione Militare Centrale.

Il "sogno cinese"

Xi Jinping ha intenzione di riportare la Cina al centro del mondo, dove era stata per millenni prima che l’Occidente prendesse il sopravvento sull’ex Impero di Mezzo. L’attuale governo cinese intende cancellare il Novecento, considerato il secolo della vergogna, e ridurre il gap tecnologico ed economico con il resto del mondo.

La strada imboccata da Pechino è quella giusta, visto che solo gli Stati Uniti riescono a tenere testa al rampante Dragone, lanciato verso la vetta. Il sogno cinese di Xi altro non è che una narrazione capace di identificare l’aspirazione del popolo cinese con quella della Cina stessa; migliorando la qualità della vita dei singoli cittadini è una missione che coincide con il far diventare la Cina lo Stato numero uno al mondo.

La campagna anticorruzione

Al fine di ristabilire l’ordine all’interno del Partito comunista, Xi Jinping non ha esitato a usare le maniere forti per fare piazza pulita degli elementi considerati nocivi, corrotti e fuorvianti. I media statali e la vulgata popolare descrivono Xi come un autentico condottiero, desideroso di punire i politici manigoldi, mentre alcuni esperti ritengono che il presidente abbia sfruttato i suoi poteri per togliere di mezzo gli elementi a lui avversi.

In ogni caso, Xi Jinping ha fatto cadere diverse teste importanti, tra cui Bo Xilai, ex responsabile della municipalità di Chongqing, Ling Jihua, ex consulente del presidente, Zhou Yongkang, ex capo della sicurezza e Guo Boxiong, ex generale. Secondo alcune statistiche, considerando i pezzi grossi e i funzionari di rango più basso, dall’avvento di Xi alla presidenza della Cina sarebbero stati consegnati alla giustizia 1,3 milioni di pubblici ufficiali.

Analogie e differenze tra Xi Jinping e Mao Zedong

Uno dei soprannomi dati a Xi Jinping è quello di “Nuovo Timoniere” per definirlo erede di Mao Zedong. In realtà l’accostamento tra i due leader cinesi non è affatto corretto. Intanto bisogna considerare il differente contesto storico tra l’epoca attuale e quella in cui visse il Grande Timoniere; inoltre Mao esercitava il suo potere indipendentemente dal Partito, mentre Xi è anima e cuore del PCC.

Mao Zedong (Shaoshan, 26 dicembre 1893 – Pechino, 9 settembre 1976) è stato un rivoluzionario, politico, filosofo e dittatore cinese, nonché portavoce del Partito Comunista Cinese dal 1943 fino alla sua morte 

Ma la differenza più grande sta nel ruolo ricoperto da Xi, che può praticamente essere considerato l’amministratore delegato della Cina. Xi Jinping si affida poi al socialismo con caratteristiche cinesi, un misto tra nazionalismo, confucianesimo e socialismo di Stato; Mao era invece un cieco sostenitore del comunismo agrario. C’è tuttavia una somiglianza tra i due pesi massimi della storia cinese: il pensiero di entrambi è stato inserito all’interno della costituzione cinese.

La famiglia di Xi

Di solito le vite private degli alti leader cinesi sono avvolte nel mistero. Tuttavia, da quando Xi Jinping è salito al potere, il governo ha occasionalmente rilasciato dettagli personali del massimo dirigente della Repubblica Popolare Cinese. Questa strategia, evidente soprattutto durante il primo mandato di Xi, coincide, con ogni probabilità, con la volontà di ravvivare l’immagine del presidente e renderlo più accesibile al popolo cinese.

Nel 2017 l’agenzia cinese Xinhua salutava Xi come “timoniere senza rivali”, termine usato più frequentemente per riferirsi al fondatore della Cina moderna Mao Zedong. I media statali hanno quindi riportato alcuni curiosi aneddoti sul loro leader, come la passeggiata del presidente nel 2014 per i vecchi vicoli di Pechino durante una delle periodiche crisi di smog della città.

Se le testate giornalistiche cinesi hanno svelato molteplici particolari relativi a Xi, i media occidentali hanno scavato più a fondo per offrire uno spaccato della famiglia presidenziale. Il primo matrimonio di Xi fu con Ke Lingling, figlia di Ke Hua, ambasciatore cinese nel Regno Unito all’inizio degli anni ’80. I due divorziarono dopo pochi anni. Nel 1987 Xi si risposò, questa volta con l’importante cantante Peng Liyuan. Miss Peng, nome familiare in Cina, era più nota al pubblico di Xi fino all’ascesa politica del marito.

A quel punto Peng, con Xi in rampa di lancio, divenne una First Lady molto apprezzata e sempre in primo piano nelle uscite istituzionali. Miss Peng, ad esempio, ospitò la First Lady degli Stati Uniti, Michelle Obama, durante la sua visita in Cina nel 2014. Peng e Xi hanno inoltre una figlia di nome Xi Mingze, nata nel 1992, e della quale non si hanno molte informazioni. Da quel poco che è fin qui emerso, la ragazza si sarebbe laureata all’Università di Harvard con uno pseudonimo nella primavera del 2015, dove avrebbe studiato psicologia e inglese.

Il pensiero di Xi

Il cuore del pensiero di Xi Jinping sta tutto in una perifrasi: modernizzarsi senza occidentalizzarsi. Anzi: il vero sogno della Cina resta quello di diventare un punto di riferimento politico ed economico per i Paesi occidentali.

Xi ha parlato espressamente di “pensiero” elaborato per la “nuova era” del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Proprio come accaduto a suo tempo per Mao Zedong, si parla di sixiang (pensiero) o, più precisamente di “Xi Jinping sixiang”, un onore mai capitato neppure a Deng Xiaoping, Jiang Zemin e Hu Jintao, i cui contributi rispondono rispettivamente a “teoria del socialismo con caratteristiche cinesi”, “teoria delle tre rappresentatività” e “visione per lo sviluppo scientifico”.

Detto in altri termini il pensiero di Xi è il trampolino di lancio per portare il Partito comunista cinese a guidare l’intera vita sociale ed economica della Cina. Soltanto così, secondo la visione dell’attuale leader, potranno essere risolte le contraddizioni fondamentali della nuova epoca. In particolare quelle relative a uno sviluppo economico ruggente ma sbilanciato e le richieste di giustizia e partecipazione che stanno prendendo sempre più piede in seno alla popolazione. Detto altrimenti, il pensiero di Xi è definito una continuazione – se non un’integrazione – a tutti gli effetti del marxismo-leninismo, del maoismo e delle altre teorie dei precedenti presidenti cinesi.

Xi nelle scuole

Al fine di rafforzare la “fede marxista”, la Cina insegnerà il pensiero di Xi Jinping nelle scuole. Il pensiero sul socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era di Xi è stato infatti inserito nei programmi scolastici a partire dal primo settembre 2020. Dalle elementari alle università, i ragazzi prenderanno confidenza con alcune linee guida così da rafforzare “la determinazione ad ascoltare e seguire il Partito comunista” e “coltivare sentimenti patriottici”.

Il pensiero di Xi è formato da 14 principi primari che sottolineano gli ideali comunisti, avvanto ad altre indicazioni tra cui l’appello su riforme complete e profonde, la promessa a vivere in armonia tra uomo e natura e la ‘riunificazione con la madrepatria (questione taiwanese). “Le scuole primarie si concentreranno sulla coltivazione dell’amore per il Paese, il Partito comunista e il socialismo. Nelle scuole medie, l’attenzione sarà focalizzata sulla combinazione di esperienza percettiva e studio della conoscenza, per aiutare gli studenti a formare giudizi e opinioni politiche di base”, ha riportato il Global Times, mentre al college, invece, “ci sarà una maggiore enfasi sull’istituzione del pensiero teorico”.

Chi è Wang Huning, lo “zar ideologico” della nuova Cina di Xi. Federico Giuliani il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.    

Pochi ne avranno sentito parlare, ancora meno sono quelli che conoscono la sua figura. Eppure Wang Huning è il più importante teorico politico della Cina di Xi Jinping, nonché uno degli ingranaggi chiave del modello cinese. Wang, ex professore universitario, ha infatti un’enorme influenza su Xi, così come l’ha avuta sui due precedenti presidenti cinesi Hu Jintao e Jiang Zemin.

Ha svariati soprannomi – tra cui il “Rasputin cinese”, “il Cardinale Richelieu alla corte di Xi” o addirittura il “Kissinger” d’oltre Muraglia – parla fluentemente francese ed è sostanzialmente incaricato di scrivere il futuro della Repubblica popolare cinese. Mettendo nero su bianco teorie e ideologie che il Partito Comunista Cinese (PCC) provvederà a mettere in pratica con politiche idonee al loro conseguimento.

Il signor Wang è stato riconfermato nel ruolo di membro della potente Commissione permanente del Politburo, il massimo organo decisionale cinese di sette persone (Xi compreso) che riunisce gli alti funzionari più importanti del Paese. Secondo il SCMP potrebbe ritrovarsi anche a capo dell’Assemblea nazionale del popolo, e cioè la legislatura cinese, solitamente guidata dal secondo o terzo funzionario del partito, e dotata di un grande peso politico.

Questa notizia sottolinea, o meglio rafforza, un aspetto chiave della nuova era di Xi: l’ideologia è tornata a occupare un posto di rilievo. O forse, in Cina, non se n’è mai andata.

Dalla carriera accademica alla politica

Wang Huning è nato a Shanghai il 6 ottobre 1955 anche se le sue origini sono da ricercare nella provincia dello Shandong, la terra di Confucio. Come molti degli attuali dirigenti cinesi ha dovuto fare i conti con la turbolenta epoca maoista. Il padre, ad esempio, subì persecuzioni nei feroci anni della Rivoluzione Culturale. Il giovane Wang riuscì tuttavia a formarsi presso la Shanghai Yongqiang School per poi diplomarsi nel 1972. Divenne apprendista operaio per tre anni e, in seguito, evitò la dura rieducazione nei campi.

Studiò quindi lingua francese come parte del corso di formazione per quadri presso la Shanghai Normal University (1972–77) e frequentò la Fudan University di Shanghai (1978–81), seguendo il programma in politica internazionale. Qui ricevette inoltre una laurea magistrale in giurisprudenza (1981). È stato successivamente visiting scholar negli Stati Uniti presso la University of Iowa, University of Michigan e l’Università della California a Berkeley (1988–89). È stato il più giovane professore associato, specializzato in relazioni internazionali, presso la Fudan University, posizione raggiunta all’età di soli 30 anni.

La visita negli Stati Uniti

Negli Stati Uniti, durante la sua permanenza, trovò molto da criticare ma anche molto da ammirare: dalle università statunitensi al grado di innovazione raggiunto dal Paese, passando per la fluidità attraverso il quale il potere passava da un presidente all’altro. Già noto studioso in patria e autore di molteplici articoli approvati dal PCC (del quale faceva parte dal 1984) Wang, all’epoca 32enne, scrisse che il capitalismo non poteva “essere sottovalutato”.

Wang si trasferì a Pechino nel 1995 e prestò servizio come capo della Divisione Affari Politici del Centro centrale di ricerca sulle politiche (CPRC) del Comitato centrale del PCC (1995–98), seguito dalla carica di vicedirettore del CPRC (1998–2002). Fu eletto per la prima volta nel Comitato Centrale come membro a pieno titolo al 16esimo Congresso del Partito nel 2002.

Il "Kissinger cinese"

Nel 2017, e dopo aver guidato il Central Policy Research Office, un think tank del partito, per 15 anni, Wang ha effettuato un altro grande salto diventando un membro del 19esimo Comitato Permanente del Politburo. Ma questa è soltanto la punta dell’iceberg più visibile agli occhi degli osservatori internazionali. Nel frattempo, infatti, lo studioso era riuscito a ritagliarsi uno spazio di azione sempre più grande, seppur da dietro le quinte.

Non a caso Wang è considerato “il cervello dietro il trono” della politica cinese. A lui è stato attribuito il merito di essere uno degli architetti, se non il principale, del concetto di “sogno cinese” di Xi Jinping, una visione ampiamente promossa dall’attuale presidente per il ringiovanimento della civiltà cinese. Ma Wang ha plasmato la politica cinese ancora più a fondo, risultando l’artefice dei concetti chiave sbandierati dai due predecessori di Xi: la “Teoria delle tre rappresentanze” di Jiang Zemin e la “Prospettiva scientifica sullo sviluppo” di Hu Jintao.

Al fianco di Xi

Come detto, Wang è il demiurgo del pensiero di Xi. Ha accompagnato le idee del presidente, fino a farle inserire prima nello Stato del PCC, poi pure nella Costituzione. L’intelligenza di questo pensatore è fuori discussione, altrimenti difficilmente sarebbe riuscito a sopravvivere a ben tre presidenti cinesi, occupando per altro posizioni rilevanti.

È difficile trovare le giuste parole per tratteggiare il profilo di Wang, un ibrido tra accademico, politico, consigliere per le politiche nazionali, ghost writer dei discorsi presidenziali e pure suo teorico. “Immaginate un intelletto di Henry Kissinger combinato con la resistenza di Margaret Thatcher“, ha scritto di lui, qualche anno fa, il Washington Post.

Chi lo conosce lo descrive come una persona pacata, calma e mite. Accompagna spesso Xi nelle visite di stato e nei viaggi d’ispezione e, oltre ad essere un ideologo (ricordiamo che è un allievo di Chen Qiren, tra i massimi studiosi del Capitale di Marx), Mister Wang è un esperto di relazioni internazionali. A capo dell’Assemblea nazionale del popolo diventerebbe il mandante della realizzazione della grande strategia illustrata da Xi durante l’apertura del XX Congresso del PCC.

Le idee di Wang

Le idee di Xi, di Hu Jintao e di Jiang Zeming sono le stesse che Wang maneggiava, anche se in forma embrionale, da giovane, e sono le stesse che gli hanno consentito di diventare una sorta di suggeritore presidenziale.

Più in generale Wang è considerato l’esponente del cosiddetto neo-autoritarismo, termine indicato per delineare un sistema politico nel quale la stabilità politica è alla base dello sviluppo. Tutto il resto, dalla democrazia in senso occidentale alle varie libertà individuali, sempre nell’accezione occidentale, arriveranno in un secondo momento. Certo, sempre se le condizioni lo renderanno possibile.

Tralasciando la sua tesi di laurea (“Da Bodin a Maritain: sulle teorie della sovranità sviluppate dalla borghesia occidentale“), Wang può vantare una nutrita pubblicazione editoriale, tra articoli e libri. Negli anni ’80 sosteneva che un governo centralizzato sarebbe stato in grado di mantenere la stabilità e guidare la crescita, espandendo i suoi principi democratici interni strada facendo.

Con l’articolo “Analisi sulle vie della leadership politica durante il processo di modernizzazione“, pubblicato per la prima volta nel 1986, Wang fu notato da Jiang, che divenne presidente nel 1989. In questo periodo l’accademico trascorse sei mesi negli Stati Uniti, dove scrisse un libro intitolato America Against America, oggi ricercatissimo e pressoché introvabile. “Il sistema americano è generalmente basato sull’individualismo, l’edonismo e la democrazia, ma sta chiaramente perdendo terreno rispetto a un sistema di collettivismo, altruismo e autoritarismo. Forse gli americani preferirebbero perdere economicamente piuttosto che rinunciare al loro sistema”, scriveva Wang nel capitolo su come gli Stati Uniti sono stati sfidati economicamente dal Giappone. La sua prossima sfida: accompagnare Xi almeno nei prossimi cinque anni.

Chi è Li Qiang, il numero 2 della Cina. Federico Giuliani il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.   

È diventato il numero due nelle gerarchie del Partito Comunista Cinese (Pcc). Sembrava che la gestione della rigidissima politica zero Covid a Shanghai, con la città letteralmente bloccata per oltre due mesi nel tentativo di limitare la diffusione di Sars-CoV-2, con i cittadini imbestialiti per le carenze di cibo e le restrizioni imposte, potesse minare la sua carriera politica. E invece Li Qiang, segretario del Pcc del più importante hub commerciale cinese, è stato nominato membro del Comitato Permanente del Politburo.

Non solo: stando all’ordine gerarchico riportato dai media della Repubblica Popolare Cinese, il signor Li, 63 anni, occupa la seconda posizione alle spalle di Xi Jinping. Tutto questo lascia intendere che sarà proprio il signor Li a sostituire Li Keqiang nel ruolo di premier cinese, il prossimo marzo in occasione del Congresso Nazionale del Popolo.

Il fedelissimo di Xi

Li Qiang è nato il 23 luglio 1959 nella prospera provincia dello Zhejiang, appena a sud di Shanghai. Qui si è fatto strada nella burocrazia provinciale e ha frequentato la Zhejiang Agricultural University, laureandosi in meccanizzazione agricola, per poi conseguire un master in business administration alla Hong Kong Polytechnic University.

È entrato a far parte del PCC nell’aprile 1983. È considerato parte del cosiddetto “esercito dello Zhijiang” di Xi, un gruppo composto da ex colleghi della provincia. Secondo gli analisti della Brookings Institution, Li è uno dei “protetti più fidati” dell’attuale presidente cinese.

La sua carriera ha preso il volo dopo aver servito essenzialmente come capo di stato maggiore di Xi, dal 2002 al 2007 segretario del Partito della provincia. Nel 2012, diventato presidente della Cina, Xi Jinping ha nominato Li governatore della provincia dello Zhejiang. Tre anni dopo è stato promosso diventando segretario del PCC della provincia di Jiangsu, un ricco centro industriale del Paese. L’ultimo grande salto risale al 2017, quando Xi lo ha nominato segretario del PCC di Shanghai, tradizionalmente un trampolini di lancio per entrare nel Comitato Permanente del Politburo. Come in effetti si è verificato.

Il prossimo premier

Molti credono che Li diventerà il prossimo premier, il secondo uomo al comando politico della Cina dopo Xi. Nel caso in cui dovesse sostituire Li Keqiang, allora sarebbe il primo premier dal 1976 a ricoprire quel ruolo senza prima essere promosso vicepremier, così come da tradizione partitica.

Li ha lavorato a stretto contatto con dirigenti di multinazionali e leader aziendali cinesi nelle sue esperienze nello Zhejiang, nello Jiangsu e a Shanghai. Ma non ha mai lavorato a Pechino e non ha esperienza nella supervisione del Consiglio di Stato, del gabinetto cinese o delle decine di ministeri sotto il Consiglio di Stato.

Questa mancanza significa solo una cosa: Li dipenderà fortemente dal continuo sostegno del signor Xi. Anche qualora dovesse diventare effettivamente premier.

Shanghai come trampolino di lancio

La gestione da parte del suo team dell’epidemia di Covid a Shanghai, all’inizio del 2022, è stata a dir poco controversa. Li è finito nel mirino della critica dei cittadini, ed è per questo che il suo futuro politico appariva in bilico. Se non altro, è riuscito a catalizzare su di sé le proteste, poi placate, schermando Xi Jinping da ogni attacco.

Ci sono elementi del passato di Li Qiang che sono anche associati allo sviluppo del settore privato. A Shanghai, la città più grande del Paese e il principale centro finanziario, Li Qiang ha supervisionato la creazione dello STAR Market, un nuovo mercato azionario basato sulla tecnologia che un ex funzionario del mercato ha descritto come un “regalo” di Xi. Ha anche supervisionato la costruzione, in appena dieci mesi, di una fabbrica Tesla.

Schiettezza e pragmatismo

In un incontro nel 2019, ha ricordato il South China Morning Post, Li ha spiegato ai funzionari locali di Shanghai che avrebbero dovuto cambiare atteggiamento e cultura, iniziando a lavorare come “commessi” per attirare le aziende straniere a trasferire la loro sede nella metropoli cinese.

È arrivato a Shanghai in un momento in cui Hong Kong era scossa da disordini sociali, mentre la stessa Shanghai competeva con Singapore per una quota delle società straniere che consideravano un’alternativa.

Li ha seguito le orme di Xi, diventando lui stesso capo del partito di Shanghai nel 2017, un mandato che è stato in gran parte privo di problemi. A differenza del suo predecessore Han Zheng, che è stato promosso a livello locale, Li è stato visto per la prima volta come un “estraneo” dall’affiatata autorità di Shanghai quando è stato paracadutato come capo del partito. Ma li ha rapidamente conquistati con il suo approccio schietto e pragmatico.

Il fattore tecnologico

Un grande fattore che ha lavorato a favore di Li, ha aggiunto il SCMP, è stata la sua attenzione alla tecnologia e all’innovazione all’avanguardia, temi, non a caso, individuati come motori economici chiave nel rapporto di lavoro di Xi al XX Congresso del Partito.

Pare che molti funzionari di Shanghai siano rimasti colpiti dalla spinta di Li a sviluppare industrie hi-tech. “Siamo molto colpiti dal suo stile di lavoro senza fronzoli. Fa spesso tour di ispezione per tenerci all’erta. È pro-business e gli piace sempre sottolineare l’importanza di aprire l’accesso al mercato”.

Un dirigente del settore tecnologico ha riconosciuto a Li Qiang il merito del suo contributo all’industria dei semiconduttori di Shanghai, che nel 2021 ha rappresentato un quarto della produzione correlata del paese in valore nel 2021. Lo stesso dirigente ha affermato che Li ha fatto buon uso della sua istruzione – ha, come detto, un MBA presso l’Università del Politecnico di Hong Kong – e dell’esperienza in scienza e tecnologia.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

Cina, l'ideologia surclassa l'economia. Carlo D'Andrea su Panorama il 04 Ottobre 2022.

La Camera di Commercio dell'Unione Europea in Cina (di seguito denominata “Camera Europea”) ha appena pubblicato lo “European Business in China Position Paper 2022/2023” (di seguito denominato “Position Paper”), il suo rapporto rilasciato su base annua sin dal 2001, anno in cui la Cina ha aderito all'Organizzazione mondiale del commercio (OMC). La prima edizione del Position Paper, pubblicata oltre due decenni fa, ha delineato le sfide che le imprese europee hanno dovuto affrontare durante le proprie operazioni in Cina, fornendo al contempo dei consigli per apportare un miglioramento nel mercato (68 in totale) sia alle autorità cinesi che a quelle europee.

Quest'anno sono stati formulati un totale di 967 consigli che rappresentano le opinioni della Camera di commercio dell'Unione europea e dei suoi numerosi gruppi di lavoro, con più di 1.800 aziende associate a livello nazionale. Dai dati raccolti è chiaro che le aziende vedono sempre meno prevedibilità, affidabilità ed efficienza nel mercato cinese, e prospettano anche un’incertezza nel futuro, visto l’aumento delle tensioni geopolitiche. Nel presente articolo faremo dunque una panoramica di alcuni dei risultati principali e valuteremo il percorso da seguire. Dure misure di controllo COVID che paralizzano l'economia Nel 2022 i lockdown e le rigide quarantene hanno portato il crollo della crescita dell’ economia cinese. L'Ufficio nazionale di statistica cinese ha registrato una crescita dello 0,4% su base annua per il secondo trimestre, la più bassa dal primo trimestre del 2020 quando la Cina ha chiuso quasi completamente le proprie frontiere e ha visto rallentare il proprio sviluppo economico per la prima volta in quasi tre decenni. Nel luglio 2022, il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 19,9% tra i giovani tra i 16 e i 24 anni; e l’indice di occupazione è stato del 48,6% per il settore manifatturiero e del 46,7% per quello servizi, in calo rispettivamente dello 0,1% e dello 0,2% rispetto al mese precedente. Altre difficoltà interne significative per questo paese sono state la crisi del debito, esacerbata dall'accelerazione dei prestiti a supporto delle aziende in ripresa dalla pandemia COVID-19; il disfacimento del settore immobiliare, con un calo previsto del 30% circa sulle vendite di immobili per l’anno 2022; varie turbolenze sociali e il blocco della crescita dei consumi. Inoltre, le finanze dei governi locali sono state prosciugate dai continui tamponi di massa effettuati sui cittadini nel perseguimento della politica "zero COVID". Se la Cina persiste in tale approccio, il contesto imprenditoriale non potrà che diventare sempre più insidioso. Infatti, le restrizioni legate al COVID hanno già avuto un effetto negativo sull'attrazione e la fidelizzazione dei talenti sia stranieri che cinesi, con procedure in continuo cambiamento per visti e permessi di lavoro, nonché limitazioni estreme sui voli nazionali ed internazionali, che hanno accelerato ulteriormente l'esodo dei professionisti europei dalla Cina. Come piu’ volte evidenziato riteniamo che si dovrebbe dare priorità alla vaccinazione completa dell'intera popolazione, prestando particolare attenzione ai soggetti ad alto rischio, in particolare gli anziani ed i malati cronici, consentendo anche l'uso dei mix dei vaccini e richiami vaccinali più efficaci (sebbene i vaccini stranieri non siano stati approvati in Cina continentale almeno per il momento). La Camera Europea teme che la Cina non sarà in grado di riaprire completamente al resto del mondo almeno fino alla seconda metà del 2023, consegnando un ulteriore vantaggio ad altri mercati in grado di fornire maggiore accesso e prevedibilità agli investitori.

Le operazioni delle imprese internazionali in Cina stanno diventando sempre più decentralizzate in quanto i propri dipendenti (sia stranieri che cinesi) non sono in grado di far ritorno alle proprie sedi aziendali all’estero ed effettuare regolari scambi commerciali, networking, formazione e condivisione di esperienze/competenze. D’altre parte, anche i direttori d’azienda nelle sedi centrali vengono privati dalla possibilità di far visita in prima persona alle proprie filiali in Cina, portando così una minore comprensione e un minor desiderio di impegnarsi in tale paese, in particolare in vista di rischi politici, economici e reputazionali in continuo aumento. Per giustificare i propri piani d’investimento, le imprese europee hanno quindi bisogno che la Cina dimostri maggiore trasparenza e prevedibilità, per allineare le proprie operazioni in Cina con gli obiettivi aziendali a livello globale e con la legislazione in continua evoluzione. Nel frattempo, poiché il resto del mondo opera in gran parte ad un livello di apertura pre-pandemico, si sta creando un’opportunità per altri mercati emergenti in grado di fornire ambienti aziendali più prevedibili e affidabili, come India, Vietnam ed Emirati Arabi Uniti, per intervenire ed attirare in maniera aggressiva gli investimenti esteri, inclusi quelli precedentemente vincolati alla Cina.

Un ambiente imprenditoriale sempre più politicizzato Per dimostrare trasparenza nelle proprie operazioni in Cina, le aziende straniere sono sottoposte a una maggiore pressione, sia da parte dei consumatori che dalla nuova legislazione. Ad esempio, l'Unione Europea (UE) sta pianificando di applicare la Direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità aziendale (CSRD), la quale introdurrà rigorosi requisiti di rendicontazione e obbligherà le grandi aziende ad effettuare report in materia di sostenibilità, in particolare sui criteri ambientali, sociali e di governance (ESG) e sulla protezione dei diritti umani. Per poter allineare la realtà delle proprie filiali in Cina ai loro obiettivi di gruppo, le aziende straniere hanno bisogno di un ambiente imprenditoriale trasparente e prevedibile, ovvero che la Cina consenta loro di condurre controlli ad opera di terze parti affidabili per poter essere certificate come pienamente conformi alla legislazione globale, nonché la presenza di partner cinesi disposti a collaborare per ottenere una sostenibilità aziendale in maniera simile. Fino a quando ciò non sarà possibile, le imprese estere dovranno affrontare una crescente pressione con conseguente trasferimento delle proprie operazioni fuori dalle regioni sensibili. Cambiare le strategie di supply chain La posizione della Cina come fulcro delle catene di approvvigionamento globali sembra essere messa in discussione e, pur non essendo previsto un completo abbandono della Cina da parte delle aziende straniere dati la dimensione e il potenziale che questo mercato possiede, saranno tuttavia implementate da quest’ultime delle strategie più variegate.

Prima delle epidemie di Omicron che hanno portato a lockdown totali o parziali in almeno 45 città della Cina, diverse aziende europee hanno notevolmente decentralizzato le proprie catene di approvvigionamento all’interno del paese per servire meglio il mercato interno e isolarsi da potenziali shock globali. Tuttavia, questa strategia non è stata priva di inconvenienti significativi: i costi iniziali sono stati elevati e i flussi di comunicazione e dati tra le sedi centrali e le filiali in Cina hanno subito vari impedimenti. Inoltre, il 31% dei produttori europei è ancora costretta ad importare componentistica fondamentale non reperibile in Cina, rendendo dunque impossibile la costituzione di una catena di approvvigionamento limitata ai confini del paese. Inoltre, diverse aziende europee hanno iniziato (o stavano già esplorando la possibilità) di creare catene di approvvigionamento separate, una esclusiva per la Cina e una per servire il resto del mondo, vista la richiesta di prodotti “non-americani” da parte della clientela cinese e quella di merce “non-cinese” da parte di alcuni consumatori statunitensi, con domanda sia nel settore statale che quello privato. Sebbene la produzione di due prodotti distinti in base al mercato di destinazione può consentire alle aziende di evitare restrizioni all'importazione e all'esportazione, non si può comunque ignorare la presenza di rischi considerevoli come l’aumento dei costi operativi, la diminuzione dell’efficienza ed eventuali cambiamenti delle normative che potrebbero far risultare questa soluzione superflua. Mentre la strategia aziendale denominata “China +1” , ovvero evitare di investire in Cina e diversificare le attività in paesi limitrofi, sembra destinata a continuare per rafforzare ulteriormente il controllo del rischio e ridurre la possibilità di interruzioni nella catena di approvvigionamento, sono in molti a prendere sempre più in considerazione la strategia "China + 1 + 2 + 3" , con imprese europee che cercano di mantenere una forte presenza in questo importante mercato identificando al contempo altre opzioni di riserva valide. Conclusioni L'obiettivo della Cina di conseguire una crescita economica pari al 5,5% nel 2022 ha subito un duro colpo quando il valore totalizzato nel secondo trimestre è risultato solo dello 0,4%. Tale sconfitta è stata attribuita principalmente all'impatto dei lockdown dovuti alla “Zero Covid policy“ e, non essendoci ancora una strategia di uscita in vista, è difficile prevedere se vi saranno cambiamenti nel prossimo futuro. Nonostante le crescenti difficoltà che le imprese europee stanno affrontando in Cina, esse si sono impegnate a mantenere e provare a migliorare il contesto imprenditoriale del Paese, come illustrato nei 967 consigli nella Position Paper di quest’anno. La Camera Europea ritiene che il metodo più efficace per la Cina per restaurare il proprio potenziale economico e ricostruire rapidamente la fiducia degli investitori sia quella di implementare riforme di mercato esaustive. Con il 20° Congresso Nazionale del Partito Comunista che si terrà il 16 ottobre 2022, la Cina ha la possibilità di sfruttare tale occasione per delineare il proprio percorso da seguire e la Camera europea ritiene che, mantenendo aperti i canali di comunicazione con le imprese e prendendo spunto dai suoi 967 consigli, la Cina sarà in grado di ristabilire un mercato prevedibile, affidabile ed efficiente, avviandosi verso nuovi orizzonti ed il raggiungimento del suo pieno potenziale economico. A cura di: Avv. Carlo D’Andrea, Vice Presidente della Camera di Commercio dell’Unione Europea in Cina

Da lastampa.it il 24 settembre 2022.

In Cina l'ex ministro della Giustizia Fu Zhenghua è stato condannato a morte con l'accusa di aver accettato tangenti e di abuso di potere. Lo ha stabilito giovedì il tribunale intermedio del popolo di Changchun, nella provincia di Jilin, stando a quanto riporta il China Daily.

Fu è stato anche capo dell'Ufficio municipale di pubblica sicurezza di Pechino e viceministro della Pubblica sicurezza. Secondo l'accusa, Fu ha approfittato della sua autorità o della sua posizione per garantire guadagno ad altri in operazioni commerciali, situazioni ufficiali e casi legali, accettando in cambio denaro e regali per un valore di 117 milioni di yuan (17,6 milioni di euro) direttamente o tramite i suoi parenti.

Grande purga nella polizia cinese: «Cricca di corrotti e cospiratori». Guido Santevecchi su Il Corriere della Sera il 24 Settembre 2022.

In vista del congresso di ottobre, Xi Jinping fa piazza pulita tra chi riceve tangenti. Tra i condannati, l’ex ministro della Giustizia e l’ex vice capo della Sicurezza

Cinque condanne in due giorni di uomini ai vertici degli apparati di sicurezza, polizia e giustizia della Cina. Cinque processi separati, di fronte a corti diverse, ma legati da un filo conduttore: dietro lo schermo della corruzione endemica a Pechino c’è la «slealtà nei confronti del Partito comunista», il tentativo di metterne in pericolo l’unità «attraverso la costituzione di bande e fazioni» (così ha scritto la stampa cinese presentando i casi criminali).

Hanno ricevuto la condanna a morte, con probabile commutazione al carcere a vita dopo due anni di buona condotta, i due esponenti di maggior spicco: l’ex ministro della Giustizia Fu Zhenghua e l’ex viceministro della Sicurezza Sun Lijun. Pene tra i 15 anni di carcere e l’ergastolo per tre ex capi della polizia nelle megalopoli di Shanghai e Chongqing e nella provincia di Shanxi.

La lotta alla corruzione è stato il primo obiettivo politico dichiarato da Xi Jinping , quando fu nominato segretario generale del Partito nel 2012. Promise di «cacciare le tigri e schiacciare le mosche» che intascavano o pagavano tangenti in cambio di favori (le tigri della metafora erano gli alti funzionari, le mosche i quadri intermedi o bassi). Dieci anni dopo, il Partito si vanta di aver punito un milione e cinquecentomila corrotti a tutti i livelli. E come sempre, alla vigilia del Congresso quinquennale di ottobre, i suoi tribunali saldano i conti con imputati di spicco. Ma dietro questa purga chiusa in due giorni di processi, con gli imputati contriti e rei confessi, c’è l’ombra di una lotta di potere.

L’uomo chiave sarebbe stato Sun Lijun. Un superpoliziotto di 53 anni, così vicino al vertice del Partito-Stato che Xi Jinping lo aveva inviato a Wuhan, nel febbraio nel 2020, al comando di una squadra speciale incaricata di gestire la sicurezza durante la crisi del coronavirus. A marzo, quando Xi visitò Wuhan in lockdown, il fidato Sun era comparso al tg mentre faceva rapporto al presidente sul successo dell’operazione. Ad aprile fu arrestato in segreto.

Diciassette mesi dopo, nell’ottobre 2021, la Commissione centrale di disciplina del Partito comunista annunciò che Sun Lijun era stato espulso dal Partito e consegnato alla magistratura. Ai giornali fu detto che Sun era «un depravato che per anni aveva ricevuto tangenti e favori sessuali, aveva condotto una vita stravagante e nutrito ambizioni politiche estreme, costituendo cricche all’interno di vari dipartimenti del Partito per destabilizzarlo». L’associazione alla «cricca» guidata da Sun compare nelle biografie processuali degli altri quattro alti funzionari condannati.

I capi della condanna di Sun elencano tangenti per 646 milioni di yuan, «manipolazione del mercato azionario», «appoggio a individui e imprese per aggirare la legge a danno degli interessi dello Stato e del popolo», anche il possesso illegale di armi da fuoco (due pistole). Tra le righe il crimine più oscuro: «l’estrema ambizione politica e la slealtà». Il viceministro per la Sicurezza statale aveva «segretamente accumulato una quantità di materiale confidenziale». Si può immaginare che fossero documenti pericolosi per altri personaggi importanti e che Sun li considerasse una polizza d’assicurazione e un mezzo di ricatto: tra le sue colpe c’è aver «espresso critiche senza fondamento» e «diffuso voci politiche» contrarie al Partito.

L’altro condannato a morte «con sospensione», Fu Zhenhua, 67 anni, era salito da capo della polizia di Pechino a ministro della Giustizia. Il punto più alto della carriera nel 2013, quando diresse le indagini che avevano stretto il cappio intorno a Zhou Yongkang, ex membro del Comitato permanente del Politburo e responsabile di tutti i servizi di sicurezza cinesi. Un altro superpoliziotto con molte carte in cassaforte.

ONU: la Cina mette in minoranza gli USA sulla questione uigura. Walter Ferri su L'Indipendente il 12 ottobre 2022.

Qualche giorno fa, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (OHCHR) si è rifiutato di discutere delle sue “preoccupazioni” riguardanti le eventuali violazioni dei diritti umani nello Xinjiang, regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese che è fortemente accusata di perseguitare e sfruttare la minoranza etnica degli uiguri. Sebbene si parli addirittura di vero e proprio genocidio culturale, l’ONU ha voltato le spalle alla faccenda, mettendo in mostra gli equilibri di potere diplomatico e politico che la Cina riesce oggi a esercitare.

Il 6 ottobre 2020 i 47 membri del Consiglio si sono riuniti per votare l’eventuale analisi di un report pubblicato il 31 agosto 2022, un controverso documento in cui gli osservatori dell’organizzazione riportavano il fitto elenco degli abusi che Beijing avrebbe imposto al popolo di prevalenza musulmana uiguri. “Controverso” sia perché le denunce al suo interno, per quanto gravi, sono esposte in maniera estremamente cauta, sia perché le impressioni dei tecnici sono state presentate pubblicamente a pochi minuti di distanza dal termine del mandato di Michelle Bachelet, Commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite. L’impressione generale è che la politica si sia assicurata una gestione delle tempistiche tale da permetterle di svincolarsi dal difficile argomento, una lettura che viene assecondata dunque dalle statistiche riportate dalla UN Watch, organizzazione non governativa che ha riscontrato in Bachelet la tendenza a mostrarsi accomodante nei confronti delle dittature più influenti.

A prescindere che si voglia o meno dubitare della buona fede dell’ormai ex-Commissaria, l’intera faccenda ha minato la credibilità dell’OHCHR, la quale aveva in passato ricevuto pressioni dal Governo cinese per insabbiare le valutazioni espresse a riguardo della situazione in Xinjiang. La votazione tenutasi lo scorso giovedì rappresentava dunque una possibilità di riscatto per il Consiglio, un’occasione per lacerare ogni dubbio che ha ammantato negli anni l’intera faccenda, tuttavia i fatti raccontano un risultato diverso: 17 Governi hanno supportato la discussione, 19 si sono opposti, 11 si sono astenuti. L’ONU ha dunque ripudiato i contenuti di un suo stesso report, mettendo in luce gli effetti di una battaglia che è perlopiù rappresentativa degli scontri tra USA e Cina. 

La mozione era infatti stata fortemente promossa dagli Stati Uniti e dalle nazioni vicine a Washington, ma il Partito Comunista Cinese ha praticato una campagna di lobby di tale efficacia che persino molte nazioni musulmane si sono rifiutate di discutere i contenuti del rapporto. Perché, vale la pena sottolinearlo, il Consiglio per i diritti umani non doveva decidere se aprire o meno un’indagine ufficiale, doveva semplicemente vagliare se fosse il caso di discutere la situazione degli uiguri in vista di quanto l’organizzazione stessa ha riscontrato.

Il riscontro ottenuto dal documento ha mostrato nuovamente la fiacchezza delle Nazioni, offrendo ai detrattori delle Nazioni Unite un arma con cui colpire il ventre molle dell’istituzione stessa. A essere preoccupanti sono anche le possibili ripercussioni all’interno delle nazioni musulmane che hanno ceduto all’influenza cinese: i cittadini di Paesi quali il Kazakistan manifestano vocalmente la loro posizione avversa alle politiche cinesi nello Xinjiang e lo scostamento tra classe dirigente e popolo potrebbe essere facilmente sfruttato dai fondamentalisti d’opposizione, se non direttamente dai terroristi d’ispirazione islamica. La decisione dell’Alto Commissariato di non analizzare la complicata situazione si dimostra dunque un fallimento su ampia scala. Gli unici che possono festeggiare sono forse i politici cinesi.

Stefano Vecchia per “Avvenire” il 2 settembre 2022.

«La portata della detenzione arbitraria e discriminatoria degli uighuri e di altri gruppi a maggioranza musulmana... può costituire crimini internazionali, in particolare crimini contro l'umanità», perché «le accuse di sistemi di tortura o maltrattamenti, compresi trattamenti medici forzati e condizioni critiche di detenzione, sono credibili». 

Queste e altre parti del rapporto sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang diffuso a Ginevra dall'Alto Commissariato Onu per i Diritti umani, indicano come si tratti forse del più severo ma anche articolato e documentato atto di accusa finora contro il governo cinese per le sue azioni nella Regione autonoma dello Xinjiang. Arrivato a una manciata di minuti dalla scadenza del mandato della commissaria Michelle Bachelet, accusata ancora a maggio, dopo il suo viaggio nello Xinjiang a lungo impedito dalle autorità cinesi, di essere troppo accondiscendente verso Pechino. 

Accusa da cui si era difesa affermando che cercare il dialogo «non significa chiudere gli occhi». I lavori del rapporto erano iniziati dopo l'arrivo da fine 2017 all'Ufficio per i Diritti umani delle Nazioni Unite delle prime denunce per il trattamento degli uighuri e di altri gruppi minoritari di fede musulmana nello Xinjiang. 

La posizione strategica della provincia, la presenza di formazioni indipendentiste e il rischio di infiltrazioni jihadiste sono state proposte da Pechino come ragioni per il contrasto a «terrorismo» e «estremismo » attraverso la repressione dei diritti e dell'identità religiosa di una popolazione un tempo maggioritaria e ora soverchiata dall'immigrazione di cinesi Han e di altre etnie.

Durante la sua elaborazione il rapporto ha posto un'attenzione particolare alla credibilità delle fonti e dei documenti disponibili, ma anche alla valutazione del contesto legale in cui si colloca la realtà degli uighuri, in costante contatto con le autorità cinesi. Anche se nel testo viene sottolineata l'urgenza di una evoluzione sotto controllo internazionale non si smentisce la necessità di sostenere la Cina verso una evoluzione positiva. Immediato e elevato è stato l'interesse verso il rapporto, ma immediata e dura è stata anche la reazione cinese.

Pechino ha respinto «con forza» le valutazioni contenute nel documento accusando l'Alto Commissariato per i Diritti umani di «diffamare e calunniare la Cina, interferendo negli affari interni cinesi ». Per Liu Yuyin, portavoce della missione cinese presso le Nazioni Unite a Ginevra, il rapporto è basato «sulla presunzione di colpa, sulla disinformazione e sulle bugie fabbricate dalle forze anti-cinesi come fonti principali». Di un documento che propone «nuove prove» delle «orribili violazioni dei diritti umani» commesse contro «gli uighuri musulmani e altre minoranze nello Xinjiang» ha parlato ieri Liz Truss, ministra degli Esteri britannica.

La candidata favorita a sostituire lunedì Boris Johnson, ha definito «credibili» le prove e rivendicato il merito di Londra per avere imposto per prima «sanzioni contro alti funzionari del governo cinese ». Sulla stessa linea il segretario di Stato Usa, Antony Blinken. «La Cina deve rendere conto del genocidio degli uighuri», ha tuonato. A loro e a molti altri critici ha risposto l'ambasciatore cinese all'Onu, Zhang Jun , parlando di «bugia totalmente inventata e politicamente motivata» per fermare il progresso della Cina e, riferendosi al «cosiddetto problema dello Xinjiang», si è detto «fermamente contrario al rapporto».

Guido Alberto Casanova per “Domani” il 2 settembre 2022.

È stata una corsa dell'ultimo minuto, conclusasi appena prima di mezzanotte dell'ultimo giorno in carica di Michelle Bachelet. Alla fine, il tanto atteso rapporto dell'Onu sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang è stato pubblicato. L'Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani è stata stretta per anni tra due fuochi. 

Da una parte c'erano i gruppi per i diritti umani e la comunità accademica che la accusavano di chiudere gli occhi davanti agli abusi subiti dalle minoranze musulmane nella regione occidentale della Cina. Dall'altra la pressione di Pechino che nega che nello Xinjiang avvengano violazioni dei diritti umani, sostenendo inoltre che la lotta contro il terrorismo è un affare interno in cui la comunità internazionale non dovrebbe essere coinvolta.

Ritardi e rinvii

Lo scorso giugno l'Alto commissario aveva annunciato di voler pubblicare il rapporto entro la fine del proprio mandato, in scadenza il 31 agosto. Il documento è rimasto a lungo in revisione: ancora nel settembre del 2021 Bachelet aveva detto che il testo era in via di rifinitura. In questi continui ritardi molti ci hanno letto una pressione di Pechino e in effetti lo scorso luglio è girata la notizia che la delegazione cinese a Ginevra avrebbe fatto circolare una lettera tra le rappresentanze diplomatiche per cercare sostegno contro la pubblicazione del rapporto.

Secondo fonti giornalistiche, la Cina chiedeva a Bachelet di non procedere con la pubblicazione del rapporto perché «intensificherà la politicizzazione e lo scontro tra blocchi nel campo dei diritti umani, minerà la credibilità dell'ufficio dell'Alto commissario per i diritti umani (Ohchr) e danneggerà la cooperazione tra l'Ohchr e gli stati membri». Le accuse che da più parti sono state lanciate contro la Cina sono quelle di internamento massiccio della popolazione uigura dello Xinjiang e di altre minoranze musulmane della regione. 

Alcune stime calcolano che la campagna «anti terrorista» e di «deradicalizzazione» di Pechino abbia messo circa un milione di persone in centri di detenzione e rieducazione, dove sarebbero praticati torture, lavori forzati e violenze sessuali. Bachelet si era recata nello Xinjiang lo scorso maggio, in quello che da molti era stato giudicato come uno show propagandistico messo in piedi dalla Repubblica popolare.

La stessa commissaria dell'Onu aveva detto di non aver ottenuto accesso senza restrizioni alla regione. Il contenuto del rapporto Nonostante la pressione esercitata dalla Cina nel circuito delle Nazioni unite, alla fine però la pubblicazione è avvenuta. Il documento di 48 pagine contiene numerose conferme di quanto denunciato da ricercatori, attivisti e testimoni. Pur affermando che in Xinjiang sono stati compiute «serie violazioni dei diritti umani», il rapporto è tuttavia molto cauto su diversi punti in mancanza di dati affidabili. 

Ad esempio, per quanto riguarda le accuse di tortura, violenza sessuale e trattamenti medici forzati, si afferma che esse sono credibili dato l'ambiente detentivo non supervisionato e altamente discriminatorio ma che «le informazioni disponibili in questo frangente non consentono all'Ohchr di raggiungere conclusioni definitive sull'esatta entità di questi abusi».

Anche riguardo le accuse di sterilizzazioni forzate e di controllo della natalità imposto sulle donne dello Xinjiang al di fuori dei centri di detenzione, il rapporto ritiene che vi sia un fondamento pur ammettendo anche qui la difficoltà di valutare l'esatta diffusione di queste politiche. Sul tema del lavoro forzato il rapporto usa un linguaggio leggermente più deciso, chiedendo al governo cinese maggiori chiarimenti sulla propria aderenza agli obblighi internazionali. 

Nonostante la necessità di maggiori informazioni riguardo l'assunzione, il collocamento e le condizioni di lavoro dei detenuti, lo stretto legame tra programmi d'impiego e le strutture rieducative pone un serio interrogativo riguardo la volontaria adesione dei detenuti a questi programmi. «Il sistema Vetc (Vocational Education and Training Centres, i centri di rieducazione ndr) costituisce una privazione di libertà arbitraria su larga scala attraverso l'inserimento forzato in strutture residenziali e "formazione" obbligatoria. Gli individui nel sistema sono quindi sotto costante "minaccia di punizione"», dice il documento.

«Per esempio, alcuni detenuti nelle strutture Vetc hanno detto all'Ohchr di aver dovuto lavorare all'interno delle strutture Vetc come parte del proprio "processo di promozione", senza possibilità di rifiutarsi per paura di essere tenuti più a lungo nelle strutture». Detenzioni arbitrarie La parte più corposa però è riservata all'internamento massiccio della popolazione e alle privazioni di libertà. In circa 15 pagine, il rapporto argomenta che «uno schema su larga scala di detenzione arbitraria ha avuto luogo nelle strutture Vetc, almeno tra 2017 e 2019, toccando una porzione significativa della comunità uigura e delle altre minoranze etniche prevalentemente musulmane dello Xinjiang».

Sebbene il governo abbia dichiarato chiuse queste strutture, l'Ohchr ammette di non poter confermare questa informazione ma sottolinea che «rimangono considerevoli preoccupazioni, in particolare per via del fatto che il quadro di leggi e politiche che sostenevano l'operazione del sistema Vetc rimane in vigore». 

Tirando le conclusioni il documento sottolinea che le detenzioni discriminatorie e arbitrarie avvenute in Xinjiang, nel contesto di più ampie negazioni dei diritti umani fondamentali, potrebbero costituire crimini contro l'umanità. Perciò, tra le raccomandazioni, viene suggerito ai paesi membri dell'Onu di non rimpatriare verso la Cina i cittadini di etnie musulmane dello Xinjiang. 

Mentre ora iniziano a volare le accuse tra Pechino e l'occidente, il rapporto segna senza dubbio un punto di svolta (o di non ritorno) per l'Onu, per la comunità internazionale, per la Cina e per lo Xinjiang.

L'Onu accusa la Cina di crimini contro l'umanità: per le torture agli uiguri prigionieri nello Xinjiang. Il rapporto dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. La Repubblica l'1 settembre 2022.

Per l'ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite la detenzione discriminatoria di gruppi musulmani nello Xinjiang rappresenta un crimine contro l'umanità. É quanto emerge dal rapporto pubblicato dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet. L'atteso documento ha menzionato "prove credibili" di torture e violenze sessuali contro la minoranza uigura e invitando la comunità internazionale ad agire. "L'entità della detenzione arbitraria e discriminatoria di membri della comunità uigura e di altri gruppi a maggioranza musulmana può equivalere a crimini internazionali, in particolare crimini contro l'umanità", si legge nel rapporto. Immediata la reazione di Pechino. Liu Yuyin, portavoce della missione cinese presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha dichiarato che la Cina si oppone "con forza" alla "valutazione" rilasciata nella notte e ha accusato l'Ufficio di Bachelet di "diffamazione e calunnia, e interferenze negli affari interni della Cina". Liu ha aggiunto che la "valutazione" - prodotta dopo la missione dei mesi scorsi nello Xinjiang - si basa "sulla presunzione di colpa, sulla disinformazione e sulle bugie fabbricate dalle forze anti-cinesi come fonti principali".

Michelle Bachelet, arrivata all'ultimo giorno di mandato, ha mantenuto in extremis la promessa di pubblicare il rapporto contestato da Pechino, che lo ritiene "una farsa" orchestrata dall'Occidente, Washington in testa. Da parte sua, Bachelet - accusata di essere troppo indulgente nei confronti della Cina - ha risposto che il dialogo con le autorità di Pechino, come ha fatto in particolare durante un controverso viaggio in Cina a maggio, "non significa chiudere gli occhi" di fronte alle violazioni.

Lo Xinjiang, così come altre province della Cina, è stato colpito per diversi decenni, e in particolare dal 2009 al 2014, da attacchi attribuiti a islamisti o separatisti uiguri. Da diversi anni la regione è oggetto di un'intensa sorveglianza: telecamere onnipresenti, cancelli di sicurezza negli edifici, forze armate ben visibili nelle strade, restrizioni al rilascio dei passaporti. Negli ultimi anni sono emerse le accuse a Pechino di aver internato in campi di rieducazione almeno un milione di persone, in maggioranza uiguri, ma anche di effettuare sterilizzazioni e aborti "forzati" o di imporre "lavori forzati". La Cina nega queste accuse. Pechino presenta i "campi" anche come "centri di formazione professionale" destinati a tenere gli abitanti lontani dall'estremismo religioso, e che ora sarebbero chiusi perché tutti gli "studenti" avrebbero "completato la loro formazione".

Per quanto il documento non sembri contenere alcuna rivelazione rispetto a quanto era già noto sulla situazione nello Xinjiang, la sua pubblicazione è ritenuta importante perchè le accuse a Pechino stavolta portano il sigillo dell'Onu. "Le accuse di pratiche ricorrenti di tortura o maltrattamenti, comprese le cure mediche forzate e le cattive condizioni carcerarie, sono credibili, così come le accuse individuali di violenza sessuale e di genere", si legge nel rapporto. "Meglio tardi che mai. Questo momento sarà decisivo", ha detto Sophie Richardson, direttrice dell'ong Human Rights Watch per la Cina.

Parlando prima della pubblicazione del documento, l'attivista ha anticipato che il suo contenuto avrebbe dimostrato "che nessuno Stato è al di sopra della legge". Più del contenuto, è l'esistenza e la pubblicazione che sono importanti, secondo Richardson, perchè obbligheranno il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ad occuparsi del caso. D'altra parte, la Cina ha continuato a ripetere i suoi giudizi negativi sul documento. L'ambasciatore cinese all'Onu, Zhang Jun, ha ribadito "di essere fermamente contrario al rapporto". "Il cosiddetto problema dello Xinjiang è una bugia totalmente inventata e politicamente motivata" che sta frenando lo sviluppo della Cina, ha affermato, accusando Bachelet di "interferire negli affari interni della Cina".

Lorenzo Lamperti per “La Stampa” il 30 Agosto 2022.

Offerte di investimenti con ricchissimi ritorni e promesse di rendimenti annui stellari. Questi i contorni dello scandalo bancario che ha sconvolto lo Henan, provincia centro-orientale della Cina. Dopo mesi di indagini e proteste dei risparmiatori esasperati per il congelamento dei propri conti, la polizia locale ha arrestato ieri 234 persone, coinvolte a vario titolo nella «serie di gravi reati» commessi da «un gruppo di criminali».

A capo della truffa ci sarebbe stato Lu Yiwei, che insieme ai suoi associati «controllava illegalmente» quattro banche regionali. 

I clienti venivano attirati col cosiddetto «schema di Ponzi», strategia ingannevole con cui si promettevano tassi di rendimento annui del 13-18%, ben al di sopra dei livelli generali di mercato. Il tutto con la complicità di alcuni funzionari. 

Una vicenda che mette in evidenza la vulnerabilità del sistema dei circa quattromila istituti di credito rurali, fondamentale per l'ecosistema economico e sociale delle province interne ma poco semplice da controllare per il governo centrale di Pechino. E per questo esposti a manovre di potentati su base locale. 

Nel tentativo di rafforzare la fiducia dei consumatori nel sistema bancario in una congiuntura economica già molto complessa, le autorità dello Henan hanno iniziato a distribuire rimborsi già nel mese di luglio e da oggi comincia un altro round. 

Gli arresti e soprattutto i progressi nel recupero delle perdite rappresentano un sospiro di sollievo per i risparmiatori, che avevano subito il congelamento di depositi per un valore totale di circa 1,5 miliardi di dollari.

Nei mesi scorsi si erano verificante anche proteste di massa davanti alla sede della Banca centrale di Zhengzhou. Coi rimborsi messi in campo, il governo spera di placare la rabbia e le tensioni sociali che si sono diffuse anche sulla questione immobiliare con case acquistate e non terminate a causa della crisi che sta coinvolgendo le aziende del settore. Ingredienti indigesti, soprattutto con l'approssimarsi del XX Congresso del prossimo autunno.

Cina, «Bimbi troppo occidentali nei libri scolastici»: cacciati 27 funzionari. Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022.

Al macero i manuali di matematica per le elementari a causa di alcuni disegni in cui gli scolari potrebbero appartenere a qualunque società avanzata . «Testi contro la morale». 

Mao sosteneva che fosse sufficiente «colpirne uno per educarne cento». Ora, il Partito comunista cinese ha superato il suo fondatore e, pur senza arrivare alle punizioni estreme in uso durante la Rivoluzione culturale (1966-1976), dopo un’inchiesta durata tre mesi, ha redarguito e rimosso 27 dipendenti (tra i quali il responsabile aziendale del Pcc) della Casa editrice scolastica del popolo.

La loro colpa? Aver pubblicato una serie di testi di matematica per la scuola elementare corredati di immagini «pornografiche, vergognose e contrarie all’estetica nazionale». Si tratta di fumetti — molto simili nei tratti ai manga giapponesi — che mostrano bambini e bambine impegnati in giochi e discussioni (ovviamente la parte del leone la fanno i numeri) che, ai nostri occhi, probabilmente appaiono del tutto innocenti. Ma a guardarli bene, in effetti, i fumetti destinati ai bambini del primo ciclo hanno superato un confine invisibile ma ancorato nella tradizione anche nella Cina delle aperture e delle riforme e mostrano scolari «occidentalizzati».

I disegni infatti rappresentano — con una certa accuratezza — giovani che potrebbero appartenere a qualunque società avanzata. Dunque i loro abiti, colorati, spesso riportano disegni che richiamano la bandiera americana a stelle e strisce; fanno gesti come mostrare la lingua e chiudere le tre dita centrali tipiche dei rapper; si inseguono e si afferrano senza troppo preoccuparsi di dove volino le gonne, talvolta mostrando le mutande; e, infine, uno sembra avere addirittura un tatuaggio sulla caviglia mentre la bandiera cinese è disegnata con un errore marchiano: le stelle gialle su campo rosso sono sulla destra del drappo, invece che sulla sinistra.

Lo scandalo è esploso la scorsa primavera, quando i nuovi libri hanno cominciato a circolare su Weibo, il Twitter cinese, suscitando commenti durissimi. «Ma è vero o no che certa gente, abituata da tempo a inginocchiarsi e mettersi in sudditanza, non si vergogna di nulla e si è dimenticata della propria patria?», scrive uno dei tanti anonimi critici. Come la questione è arrivata nei corridoi del ministero dell’Istruzione, a Pechino, è subito scattata l’indagine che ha portato a un’inevitabile conclusione: «Quei disegni non riflettono gli standard educativi della Repubblica popolare cinese e non diffondono un’immagine positiva dei nostri ragazzi».

La Casa editrice, la più grande della Cina, ha subito pubblicato le proprie scuse, annunciando il ritiro dei testi e la sostituzione di tutte le immagini. Ma questo naturalmente non è bastato: tutti i funzionari e i disegnatori coinvolti nel progetto sono stati richiamati e hanno perso il posto.

D’altro canto, in un Paese che, sotto la guida del presidente Xi Jinping, si sta trasformando in una Potenza globale, difficilmente si poteva immaginare come fumetti «americani» potessero arrivare nelle classi dei più piccoli.

«Dobbiamo fornire ai nostri giovani esempi virtuosi tratti dalla millenaria tradizione cinese», ha scritto il Global Times , il giornale di regime che per primo ha dato la notizia. E infatti, i nuovi fumetti rappresentano bambini dai tratti delicati e vestiti con pudicizia: i maschi non fanno la linguaccia, mai, mentre le femmine portano le trecce. Perché, da sempre, nel Celeste Impero, la fantasia (collettiva) deve imporsi sulla realtà.

Mongolia Interna: la prima regione autonoma della Cina. La Regione autonoma della Mongolia interna è stata istituita il primo maggio 1947, cioè prima della fondazione della RPC, costituendo la prima zona in cui è stata attuata l’autonomia etnica locale. Cinitalia il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

La Regione autonoma della Mongolia interna è stata istituita il primo maggio 1947, cioè prima della fondazione della RPC, costituendo la prima zona in cui è stata attuata l’autonomia etnica locale. La Regione è situata nel nord della Cina e confina con la Russia e la Repubblica Popolare Mongola, coprendo una superficie di un milione e 200 mila kq. La popolazione, di più di 23 milioni e 190 mila persone, oltre che da mongoli, è costituita dalle etinie Han, mancese, Hui, coreana, Dahur, Evenk e Olunchu.

Le particolarità della Mongolia Interna

Il capoluogo è Hohhot. La Regione è una delle 5 grandi zone pastorizie del nostro paese, con oltre la metà del territorio costituito da praterie. Il bestiame è composto principalmente da pecore, capre, cavalli e bovini, nonché cammelli, questi ultimi soprattutto nell’ovest della Regione. Tra le colture agricole figurano frumento, miglio, sorgo, granturco, e patate, nonché barbabietole da zucchero, soia, girasoli, semi oleosi e altre colture industriali. La Mongolia interna è ricca di risorse minerarie ampiamente distribuite nella regione. Sono già accertati e in fase di estrazione più di 600 minerali ferrosi e non ferrosi. L’industria laniera, delle pelli e dei tappeti e altre industrie etniche locali si sono sviluppate rapidamente. I prodotti di lana del Guppo Erdos sono molto venduti all’interno del paese ed anche esportati all’estero. Il marchio Erdos è ormai molto famoso in Cina. La produzione di pelle di bue giallo della pelletteria di Hailar è sempre stata al primo posto nel paese.

Yanqing: dalla “bella capitale estiva” alla “più bella città olimpica invernale”. Cinitalia il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

Yanqing è un importante distretto turistico di Beijing. Grazie ai preparativi e allo svolgimento delle Olimpiadi invernali, la "bella capitale estiv"a ha acquisito un altro soprannome: “la più bella città olimpica invernale”

A Yanqing, a nord di Beijing, in un ponte sul fiume Guishui, si trovano incise due parole: “Xiadu” (capitale estiva). Si tratta di un antico soprannome di Yanqing, il cui significato si spiega da solo: le montagne sono verdi, l’acqua è blu e il clima è fresco. È un luogo di villeggiatura estiva. Yanqing è un importante distretto turistico di Beijing, tuttavia, rispetto al fervore delle stagioni di primavera, estate e autunno, quella invernale è sempre stata una stagione molto più fiacca; in inverno c’è solo il Festival delle Lanterne di Ghiaccio Longqingxia. Grazie ai preparativi e allo svolgimento delle Olimpiadi invernali, la bella capitale estiva ha acquisito un altro soprannome importante: “la più bella città olimpica invernale”. La stagione invernale, una volta considerata bassa stagione per il turismo, è oggi diventata gradualmente una stagione calda, proprio come le restanti tre stagioni dell’anno.

Esaminando una cartina geografica del mondo, possiamo trovare innumerevoli località sciistiche di fama mondiale: Chamonix in Francia, St. Moritz in Svizzera, Hokkaido in Giappone... Molte di loro erano una volta sedi delle Olimpiadi invernali; tra queste apparirà a breve anche il nome di Beijing Yanqing. Il 29 aprile, è stato inaugurato lo Yanqing Olympic Park, un’importante eredità dei Giochi olimpici e paralimpici invernali di Beijing 2022, che resterà aperto in tutte le stagioni. Si potrà sciare in inverno, fare visite turistiche, escursioni, usare la teleferica, dedicarsi all’arrampicata su roccia e al campeggio in primavera, estate e autunno. Le persone che visitano questo luogo possono praticare molti sport all’aperto e fare vacanze benessere, cercando di condurre uno stile di vita sano, semplice e non sottoposto a stress.

Le Olimpiadi invernali e Yanqing

Le Olimpiadi invernali di Beijing, descritte come “assolutamente senza precedenti”, hanno lasciato a Yanqing non solo un parco olimpico, ma anche una stazione sciistica a livello nazionale, un gruppo di professionisti del ghiaccio e della neve e una cerchia sempre crescente di amanti dello sci. Dopo 7 anni di preparazione, la zona olimpica di Yanqing ha attirato l’attenzione di tutto il mondo. Oggi, questi stadi e campi sono diventati un ricco dono delle Olimpiadi ai locali. Quando prendi la funivia turistica più lunga della Cina a 4.880 metri e sali in cima all’Haituo Peak, la seconda vetta più alta di Beijing a 2.198 metri sul livello del mare, puoì ammirare i luoghi coperti da lussureggianti tende verdi, 7 piste volano giù dalla cima, a forma di rondini in volo e imponenti come un arcobaleno.

Un’indagine mostra che il tasso di consapevolezza internazionale di Yanqing era solo dell’8,6% nel 2018 e da allora è aumentato di anno in anno fino al 54,63% nel 2022. L’effetto coda lunga delle Olimpiadi invernali sta spingendo Yanqing in una nuova fase di sviluppo. La più bella città olimpica invernale con ecologia, civiltà e felicità sta avanzando a tutta velocità verso il futuro.

Alla scoperta delle meraviglie di Dongtou. Cinitalia il 16 Agosto 2022 su Il Giornale.

Raggiunto l’arcipelago di Dongtou alla ricerca dei suoi rapporti con l’antica Via della Seta Marittima, con la guida degli studiosi locali, ho avuto il piacere di scoprire la realtà variegata e affascinante di queste isole moderne dal cuore antico

Ai lati della diga stradale, lunga 14,5 chilometri, che collega l’isola di Linkun (Wenzhou) a quella di Niyu (Dongtou), approfittando della bassa marea i pescatori avanzano nella melma a forza di gambe su barchette di legno, alla ricerca di molluschi e di piccoli crostacei. Nell’isola di Dongtou, all’inizio di maggio, dopo giorni di pioggia, un gruppo di donne approfitta del bel tempo per far asciugare al sole le alghe “yangxicai”, una coltura tipica dell’arcipelago, appena estratte dal mare. Dopo la lavorazione, esse saranno esportate in Giappone, dove sono molto apprezzate. Nelle loro case, alcuni anziani pescatori dipingono ad acquerello momenti della loro vita nelle isole, testimonianza di tradizioni sconosciute ai giovani, con il risultato di una festa di linee e di colori. Il maestro Yang Songmiao, ex pescatore, che vive sul pendio di un monte a picco sul mare nel solitario borgo di Shanglang, nell’isola di Niyu, utilizza il legno delle vecchie barche da pesca per realizzare delicate sculture rappresentanti i paesaggi e la gente dell’isola, ormai Patrimonio Culturale Immateriale della città di Wenzhou. L’artigiano Fang Guofang realizza speciali terrecotte e ceramiche con la melma argillosa delle coste, sottoposta a uno speciale trattamento che dura ben cinque anni. Per non parlare dell’artigianato della madreperla, una gloriosa tradizione locale, i cui capolavori sono in mostra nel Museo Donghai di Dongtou. Il giovane pittore locale Chen Chengwei, con i suoi delicati dipinti a olio di personaggi, ci presenta un mondo incantato, levitante tra passato e presente.

La bella isola di Zhuanyuandao è anche la terra natale del medico tradizionale Wang Jue (1970-2017), attivo nella vicina isola di Damendao, il quale, con lo pseudonimo di Lanxiaocao (piccola orchidea), per 15 anni ha effettuato donazioni a orfani e vedove e la cui identità è emersa solo dopo la morte prematura per malattia, commuovendo l’intera Cina. Ogni isola è un piccolo mondo: circondata dal mare, che alternativamente la protegge dall’esterno e la assale con la sua furia alimentata dai tifoni, per necessità legate alla sopravvivenza induce alla partenza e alla scoperta di realtà diverse, rimanendo nel contempo un contesto chiuso, che permette la conservazione nel tempo dei dialetti e delle tradizioni. L’isola alimenta il coraggio e l’audacia di affrontare le prove della vita ed è una fonte inesauribile di ispirazione poetica e artistica.

Le 168 isole dell’arcipelago di Dongtou, situato a est della foce del fiume Oujiang, presso Wenzhou, continuano a ispirare Yu Tui e gli altri giovani poeti locali, per la maggior parte figli e nipoti di pescatori e di artigiani delle vele e delle reti. Per il fiorire delle attività poetiche, nel 2017 l’arcipelago di Dongtou ha ricevuto il titolo di “terra della poesia” dalla Commissione per la Poesia dell’Associazione Nazionale degli Scrittori. L’economia di Dongtou, situato all’interno della seconda maggiore area di pesca della provincia dello Zhejiang, ha sempre fatto perno sulla pesca e sul commercio dei prodotti ittici. Da un decennio le isole sono diventate un’ambita meta turistica, viste le belle spiagge sabbiose, la possibilità di piacevoli escursioni in barca e la deliziosa cucina a base di pesce e di frutti di mare. Abitato da pescatori emigrati secoli fa dalle vicine zone di Yueqing e Yongjia e dalla provincia del Fujian, l’arcipelago di Dongtou presenta dialetti e tradizioni sia di Wenzhou (isole di Damendao e Luxidao) sia del Fujian (isola di Dongtou). In particolare, gli emigrati dal Fujian hanno portato con sé il culto di Mazu, la divinità protettrice dei naviganti, a cui è dedicato il Tempio Mazugong di Dongsha, eretto nell’anno 1740, sede ogni anno di speciali cerimonie commemorative, ormai Patrimonio Culturale Immateriale statale.

La storia di Dongtou

Quanto alla storia locale, essa riflette sia le vicissitudini legate alla lotta ai pirati, che infestarono per secoli i villaggi delle isole, sia la prosperità legata al commercio dei prodotti ittici, che generò una notevole ricchezza a cavallo del ventesimo secolo. Sotto la guida di Ke Xudong, studioso di storia e di archeologia locale, ho visitato il porticciolo di Da’ao, nell’isola di Dasanpandao, che ospita uno dei due porti pescherecci locali (il secondo si trova nel sud dell’isola di Dongtou) e la vicina Gilda dei commercianti di meduse, un edificio in pietra dell’inizio del secolo scorso. L’area di Dongtou fu ricca di meduse fino a una cinquantina d’anni fa, quando scomparvero all’improvviso.

L’imponente residenza di Ao’nei della famiglia Ye, arricchitasi negli anni venti-trenta con il commercio con il Giappone e con le Filippine, la piccola e raffinata residenza della famiglia Zhuo a Dong’ao, e l’elegante residenza di Chen Jiyu a Dongsha, la cui famiglia si distinse nella lotta contro i pirati, sono pregevoli esempi di architettura in legno e pietra, di stile misto sino-occidentale, risalenti all’inizio del Novecento. Quanto all’architettura popolare, i borghi delle isole sono costellati di rustiche case di pietra a due piani, risalenti per lo più agli anni sessanta-settanta del secolo scorso, in grado di resistere alla furia dei tifoni: un esempio tipico è il borgo di Huagangcun, nella piccola isola omonima, in cui alcuni edifici sono stati trasformati in guest-house di lusso.

Il borgo di Xiapucun, immerso nel verde, punto di partenza del sentiero Baimagudao che raggiunge il famoso Padiglione Wanghailou, ospita un’ampia residenza di pietra a un piano della fine dell’epoca Qing, dal tipico tetto arcuato. Nell’isola di Niyu, montuosa e scarsamente abitata, il borgo di case di pietra di Xialang, aggrappato al ripido pendio di un monte e pressoché invisibile dal mare, fino a pohi anni fa era raggiungibile solo tramite un ripido sentiero a gradini che parte dalla costa, immerso in boschi di pini e di abeti, un espediente per difendersi dalle scorrerie dei pirati.

Allo stesso scopo, quattrocento anni fa (secondo lo studioso Ke Xudong, forse già in epoca Song), il borgo montano di Shizi’ao si dotò di una muraglia di pietra che blocca del tutto la stretta gola boscosa che conduce al borgo. Dotata di un ingresso ad arco laterale, della rustica muraglia, alta tre metri, ora rimangono solo una ventina di metri, ricordo indelebile di un passato travagliato. Questi vecchi borghi ora sono affiancati da moderni edifici e da superbe ville, segno del benessere acquisito dai locali tramite la pesca e il commercio, una realtà comune all’intero arcipelago. Storicamente, a causa della sua posizione geografica, l’arcipelago di Dongtou ha fatto spesso da supporto al vicino porto di Wenzhou, fornendo servizi di deposito e di trasbordo delle merci e di riparo dalle tempeste e dai tifoni delle navi in arrivo e partenza. Una testimonianza dell’importante ruolo svolto da Dongtou nell’ambito dell’antica Via della Seta Marittima consiste nella scoperta, risalente al 1988, di un deposito di porcellane della fornace di Longquan, di epoca Yuan (1271-1368), sul pendio di un’altura dell’isola di Dongtou, un tempo situata a soli 16 metri di distanza dalla costa. Si tratta di una cinquantina di coppe rialzate e di piatti, piattini e ciotole provenienti dalla fornace di Qiaotou, a Yongjia, destinate all’esportazione, simili come forma, vetrina e decorazione alle porcellane celadon ritrovate in Giappone, Corea ed Egitto (sito di Al-Fustat, presso Il Cairo).

Tra tutte, spiccano sei coppe rialzate di porcellana di colore verde o giallino, considerate le “gemme” della scoperta. Una di queste coppe e una ciotola celadon, entrambe decorate alla base a stampo con motivi di crisantemo, sono state esposte nel 2014 alla “Mostra Congiunta di Sette Province sulla Via della Seta Marittima” tenuta al Museo della Capitale di Beijing. Ora esse sono ospitate presso il Museo di Wenzhou. Secondo Ke Xudong, studioso di storia e di archeologia locale, nelle epoche Song (960-1271) e Yuan (1271-1368), Ningbo e Wenzhou erano i maggiori porti della Via della Seta Marittima dello Zhejiang: Ningbo come porto di trasbordo e Wenzhou come porto di esportazione diretta delle porcellane celadon di Longquan, insieme a ridotte quantità di seta, lacca e tè. L’arcipelago di Dongtou si trova lungo un’importante rotta di navigazione del sudest dello Zhejiang. Circondato dal mare e prossimo a Wenzhou, conta i due principali porti di Sanpandao e di Dongtou, quest’ultimo protetto dai venti dai monti Banpingshan e Daqushan. Le porcellane emerse nei pressi dell’antica banchina di Dongtou potrebbero essere state trasbordate dal porto di Wenzhou, per motivi sconosciuti, in attesa della partenza.

Al 1986 risale la scoperta nell’isola di Niyu di due monete d’argento spagnole, con l’indicazione degli anni 1787 (Carlo III) e 1790 (Carlo IV): il diritto reca l’immagine del re e il rovescio della corona reale. Vista l’impossibilità di contatti diretti con mercanti stranieri degli abitanti di Dongtou, le monete potrebbero essere state trasbordate nell’isola da mercanti di Wenzhou attivi nel commercio internazionale. Inoltre, dal sito di un’antica nave affondata lungo la costa dell’isola di Damendao sono emerse porcellane bianche e blu e resti di legno del fasciame. Nel 1985, nel corso di scavi nella circoscrizione di Beishaxiang, nell’isola di Dongtou, di fronte al porto di Dasanpan, è emerso un vaso di porcellana contenente due spilloni d’argento dorato, un braccialetto e alcuni lingotti d’argento, risalenti all’epoca dei Song meridionali. Di splendida fattura, gli spilloni recano incisi i nomi degli artigiani. I lingotti, provenienti dalla capitale del tempo, Lin’an, potevano essere cambiati in moneta in agenzie semigovernative. Inoltre, nel 2013, sul colle Jiumuqiu dell’isola di Dongtou è emerso il sito delle saline governative delle epoche Song e Yuan, un segno che al tempo le isole erano già popolate.

Un arco roccioso adagiato sull’azzurro del mare

Costellate di fari per la navigazione e di siti di antiche torri di segnalazione con il fumo, parte del vecchio sistema di difesa costiero della zona di Wenzhou, le isole sono un’attraente destinazione turistica per la bellezza del paesaggio costiero. Dall’imbarcadero di Dongtou partono i battelli che circumnavigano l’isola di Banping, le cui pareti rocciose, di un impressionante color rosso sangue, a picco sul mare, sono solcate da ampie fenditure, frutto dell’erosione dei venti e delle maree. La forza delle onde ha addirittura perforato un intero grande scoglio sulla punta sud dell’isola, creando un impressionante arco roccioso adagiato sull’azzurro del mare. Segnate dall’arduo lavoro dell’uomo per adattarle alle necessità della propria sopravvivenza, le isole di Dongtou presentano un alto valore di riferimento per gli studi sulla zona di Wenzhou, con particolare riferimento alla storia delle migrazioni e alla Via della Seta marittima.

Saggezza cinese nei 24 termini solari: dall’Inizio dell’estate al Calore maggiore. Cinitalia il 17 Agosto 2022 su Il Giornale.

Secondo il calendario tradizionale cinese, un anno è suddiviso in 4 stagioni, ciascuna delle quali ha sei termini solari. L’estate è composta da Inizio estate, Germogli di grano, Granaglie nella spiga, Solstizio d’estate, Calore minore e Calore maggiore

L’inizio dell’estate, “Lixia” in cinese, è il settimo dei ventiquattro termini solari del calendario tradizionale cinese. In quel giorno la “coda” della costellazione dell’Orsa Maggiore indica esattamente il sud-est, e tutte le piante crescono. In astronomia, l’inizio dell’estate è il segno che la primavera sta per essere salutata. La gente considera l’inizio dell’estate come un importante termine solare durante il quale la temperatura aumenta in modo significativo: l’estate calda si avvicina, i temporali aumentano e le colture iniziano il loro periodo di picco.

Germogli di grano

Germogli di grano: “Xiaoman” è il secondo termine solare dell’estate e cade ogni anno verso il 21 maggio. Xiaoman significa che i semi delle colture estive cominciano a riempirsi, ma non sono ancora maturi, quindi sono solo “leggermente pieni”, non lo sono ancora completamente. Ciò indica il preludio al raccolto e l’inizio dell’annuale “Raccolto estivo, semina estiva, e gestione estiva del campo”.

Granaglie nella spiga

Granaglie nella spiga: “Mangzhong” è il nono dei ventiquattro termini solari del calendario cinese tradizionale e cade tra il 5 ed il 7 giugno. Il carattere “mang” indica la barba dei cereali come il grano, ed è riferito alla raccolta dei loro chicchi, mentre “zhong” indica l’atto del “piantare”, e si riferisce alla stagione della semina di colture tipo riso, miglio, ecc. “Mangzhong” è il periodo sia della raccolta che della semina, e indica l’inizio di un’intensa attività nei campi.

Solstizio d'estate

Anche il Solstizio d’estate, “Xiazhi” in cinese, è uno dei ventiquattro termini solari e cade ogni anno tra il 21 e il 22 giugno del calendario gregoriano. Nell’emisfero boreale, il Solstizio d’estate è il giorno più lungo dell’anno. In questo periodo, la temperatura nella maggiore parte della Cina è relativamente alta, l’irraggiamento del sole è abbondante e le colture crescono rapidamente. Le precipitazioni di questo periodo hanno un grande impatto sulla produzione agricola e si dice che “la pioggia del Solstizio d’estate vale come oro”.

Calore minore

“Xiaoshu”, il “Calore minore”, è l’undicesimo dei ventiquattro termini solari, e significa che i giorni caldi sono alle porte, ma non è ancora il periodo più caldo dell’anno. Durante il periodo di “Calore minore”, più della metà della Cina è già entrata nel caldo dell’estate. È anche il periodo dell’anno con la più alta quantità di precipitazioni, e le colture in tutto il Paese entrano nella loro fase più florida.

Calore maggiore

Il termine solare “Dashu”, “Calore maggiore”, è il periodo più caldo dell’anno. Le temperature sono alte, le colture crescono ancora più velocemente e il mondo è pieno di vitalità. Secondo un vecchio adagio, durante questo periodo “La gente salta in casa per il caldo”, ma il riso ride nei campi”. L’antico poema che recita: “Il Calore maggiore è come un’officina fumante, il crinale è caldo, il vento è caldo e gli uccelli e gli animali si nascondono” descrive vividamente le caratteristiche climatiche di questo termine solare.

"Letture": alcuni libri consigliati dalla Cina. Cinitalia su Il Giornale l'11 agosto 2022.

Di seguito una serie di libri e letture per capire e analizzare il mondo della Cina seguendo un punto di vista diverso dal solito.

I miei ricordi della vecchia Pechino di Lin Haiyin

Il libro è un capolavoro della Cina di Lin Haiyin che racconta l’infanzia di Yingzi attraverso i suoi occhi di bambina, riflettendo la nostalgia dell’autrice per la sua infanzia e per l’area meridionale di Pechino. Il libro è incentrato sulla vita di una famiglia comune che risiede in uno Siheyuan (casa tradizionale cinese) nel sud di Pechino alla fine degli anni Venti, attraverso gli occhi infantili di Yingzi, si osservano diversi tipi di persone e di eventi della Pechino di quel periodo. I personaggi del testo alla fine lasciano tutti la piccola Yingzi, trasmettendo la tristezza e la nostalgia del dire addio all’infanzia. Il libro ha un grande significato sociale, in quanto riflette l’intero paesaggio storico della Pechino di quel tempo e porta le persone a rivivere una vita avvolta dal dolore e dalla miseria. La piccola Yingzi è uno dei personaggi principali del libro e la sua mente innocente e gentile si indebolisce man mano che scopre l’enorme discrepanza tra le buone intenzioni degli adulti e la realtà, il che rende l’inesorabile ciclo di tragedie del romanzo più sorprendente e stimolante. Da un punto di vista realistico, la maggior parte degli eventi rappresentati nel romanzo sono tragedie causate dai tempi, eppure il tema principale nel suo complesso non è un’accusa al vecchio sistema, ma una riflessione sulla dimensione umana di questi sfortunati personaggi in fondo alla gerarchia vista dall’animo infantile di una giovane ragazza innocente. Il libro si sforza di minimizzare gli standard del bene e del male, trattando le brutture della realtà con un animo gioioso di bambino e preservando un “cielo libero e felice” in mezzo alla pesante realtà. Si può dire che Yingzi introduca una prospettiva che il mondo degli adulti trascura, una prospettiva che tratta le persone con semplicità, innocenza e bontà di cuore. Queste prospettive erano originariamente comuni a noi, ma lentamente sono state dimenticate e perse sotto il controllo degli stereotipi del mondo. In tutta l’opera c’è un’interpretazione di ciò che significa crescere: l’attaccamento alla bella vita dell’infanzia non si adatta ai cambiamenti della realtà.

Duemila anni di sistema Qin di Chen Xubin

Questo è uno dei libri incentrati sulla storia degli antichi sistemi politici cinesi. 16 sezioni storiche sono state selezionate per esplorare la verità storica della vita delle persone dietro il periodo di massimo splendore di ogni dinastia feudale. L’autore va dritto al cuore del concetto di base della dinastia feudale, “Confucianesimo fuori e legge dentro”, rende normale e regolare la complessa storia dell’impero Qin, ne esplora i meccanismi interni del sistema e svela i misteri della sua longevità di oltre duemila anni.

I familiari del paziente sono pregati venire, per favore di Wang Xing

Scritto da un oncologo con esperienza clinica per le famiglie di pazienti oncologici; attraverso un racconto vivido e realistico e una narrazione umoristica ma calorosa, l’autore risponde alle perplessità e alle domande che i pazienti oncologici e le loro famiglie si pongono: come cercare un trattamento medico efficace? Come comunicare con i medici? Come decidere un trattamento adeguato, per evitare di perdere tempo e spendere troppo? Come riconoscere correttamente il cancro? Come modificare il proprio stile di vita e la propria mentalità? Quali competenze infermieristiche possono aiutare i pazienti ad alleviare il dolore e a recuperare il prima possibile? Cosa si deve fare per prepararsi alla possibile morte? ... L’autore non solo condivide consigli medici scientifici e sistematici che i pazienti e i familiari possono consultare e apprendere, ma rivela anche, in modo accessibile e pratico, molti dei segreti, conosciuti solo dai dottori, su questo tema e sui dolori e difficoltà medici in Cina.

Storia dell’arte cinese di Yigongzi

Partendo dalla ceramica della società primitiva, questo libro copre un’ampia gamma di forme d’arte cinesi, tra cui oggetti di ceramica, giada, bronzo, la calligrafia e la pittura di paesaggio, spaziando tra le dinastie Qin, Han, Tang, Song, Yuan, Ming, Qing e il periodo moderno. Attraverso oggetti d’arte noti, l’autore ha saputo raccontare questo magnifico viaggio artistico, con un linguaggio semplice, vivace e umoristico e una ricchezza di immagini suggestive; è riuscito a portare il lettore a ripercorrere lo sviluppo dell’arte cinese e a sperimentare gli stili artistici unici della Cina.

La libertà fa paura. La visita di Nancy Pelosi a Taiwan ha tirato fuori il peggio della Cina. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 4 Agosto 2022.

Pechino ha già interrotto l’export di sabbia naturale verso l’isola per danneggiare la produzione di semiconduttori, annunciando la sospensione di altre importazioni. Il rischio però è un’escalation delle contromisure, tra attacchi militari e guerra dell’informazione

Il coraggioso viaggio della speaker della Camera americana Nancy Pelosi a Taiwan ha fatto infuriare la Cina. È la prima visita a Taipei di un alto rappresentante degli Stati Uniti dal 1997 e l’immediata reazione cinese è stata un’accusa di violazione della sua sovranità. Pechino, infatti, rivendica sovranità sull’isola secondo il principio dell’Unica Cina ed è ostile a qualsiasi gesto diplomatico che possa dare a Taipei dignità di governo autonomo.

Ma non si è limitata alle parole. La ritorsione di Pechino colpirà Taiwan più che gli Stati Uniti: indipendentemente da quali sviluppi ci saranno nelle prossime ore e nei prossimi giorni, la piccola isola che sta tra il mar Cinese Orientale e il mar Cinese Meridionale sarà quella che uscirà peggio da questa storia.

Il governo cinese ha già ordinato alle sue compagnie aeree di evitare lo spazio aereo vicino a Taiwan, provocando l’allarme dei funzionari di Taipei e anche a Tokyo. Ma non solo. La Cina ha già interrotto l’export di sabbia naturale, un colpo durissimo inflitto alla produzione di semiconduttori che regge buona parte dell’economia dell’isola, conosciuta come la fabbrica mondiale dei chip.

Inoltre l’amministrazione generale delle dogane cinese ha annunciato la sospensione delle importazioni di agrumi e di alcuni prodotti ittici da Taiwan a partire dal 3 agosto: la motivazione apparente è che alcuni pesci importati da Taiwan sarebbero risultati positivi al Covid-19. Quindi per «prevenire rischi» è stato lanciato lo stop all’export di quei prodotti.

Pechino ha anche annunciato che si terranno esercitazioni militari al largo di Taiwan dal 4 al 7 agosto, e includeranno lanci di colpi di artiglieria a lungo raggio e di missili nel mare a Est di Taiwan. «Le esercitazioni militari cinesi dovrebbero circondare l’isola nei prossimi giorni», scrive Axios.

Si tratta di reazioni già viste in occasione delle precedenti visite di funzionari stranieri nell’isola. Solo a un livello leggermente più alto. Solo che stavolta c’è di più. Adesso la Cina rischia di far fondo a tutto il suo arsenale di ingerenze e intromissioni nella vita politica e sociale dell’isola. Uno degli aspetti da tenere d’occhio è la disinformazione con cui Pechino potrebbe colpire Taipei. «Le aggressioni online hanno già preso di mira i siti web taiwanesi. Le mosse sono state i primi colpi di quella che sarà una campagna intensificata di guerra dell’informazione», si legge in un’analisi di Foreign Policy.

Lo scorso 16 aprile, la presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha definito l’assalto informativo contro Taiwan come una «tattica di guerra cognitiva», in riferimento a una minaccia infodemica che aleggia da molto tempo sui taiwanesi.

Pechino ha cercato a lungo di sovvertire la democrazia taiwanese, di spegnerne l’afflato indipendentista, di persuadere i suoi abitanti a schierarsi volontariamente – o quasi – a favore dell’unificazione con la Cina continentale. Ma anche, più semplicemente, di creare malcontento e divisioni a Taiwan per renderla un bersaglio più facile dal punto di vista economico, politico e anche militare.

A marzo un documento ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione cinese (Pla) ha tracciato le linee guida per la guerra dell’informazione condotta da Pechino. La cosa più interessante è che, in quelle pagine, assume un ruolo centrale, almeno pari a quello della forza militare convenzionale: l’idea dei vertici del Partito è che la guerra si stia evolvendo e per questo diventa sempre più importante influenzare l’informazione, forse anche più dei sistemi bellici.

Ma questo tipo di guerra non si conduce solo governando i flussi di notizie e informazioni. «L’unica fonte di linea Internet di Taipei è il cavo sottomarino che la collega alla terraferma e la Cina da tempo minaccia di tagliare quell’accesso», si legge su Foreign Policy: sarebbe uno scenario quasi fantascientifico, «con la maggior parte dei dispositivi di comunicazione di Taiwan che si spegnerebbe e con i sistemi di difesa che diventerebbero inutilizzabili».

Tutte queste forme di aggressione o di minaccia nei confronti di Taiwan si inseriscono in una politica estera cinese sempre più influenzata dagli sviluppi del dossier ucraino.

Le conseguenze dell’invasione russa non colpiscono necessariamente la Cina in modo diretto. Ma i vertici del Partito comunista vedono nel conflitto un’esasperazione della separazione tra le democrazie occidentali e altre potenze non democratiche, come appunto Cina e Russia.

«Pechino ha capito che l’ambiente esterno è diventato più pericoloso», scrivono Bonny Lin e Jude Blanchette – rispettivamente direttrice del China Power Project e analista del Center for Strategic and International Studies – su Foreign Affairs. «La Cina teme che gli Stati Uniti possano sfruttare questa crescente frattura per costruire coalizioni economiche, tecnologiche o di sicurezza più solide, e ritiene che Washington e Taipei stiano intenzionalmente fomentando la tensione nella regione collegando direttamente l’assalto all’Ucraina con la sicurezza di Taiwan: questo potrebbe complicare il piano che vorrebbe riportare pienamente l’isola sotto il suo controllo».

La risposta europea e statunitense all’invasione russa dell’Ucraina ha convinto Pechino che l’Occidente non sappia o non voglia considerare legittime le preoccupazioni (o pretese) della Russia in materia di sicurezza: i vertici cinesi temono, di conseguenza, che anche le loro non saranno trattate diversamente.

Taiwan rappresenta in un certo senso la massima espressione di questo timore. Se già prima la questione era delicata, il viaggio diplomatico di Nancy Pelosi ha convinto molti analisti di politica estera cinese che la diplomazia non funzionerà e potrebbe essere necessario ricorrere a soluzioni militari.

«Sarebbe un errore ignorare gli avvertimenti della Cina e le sue minacce di azione militare – si legge ancora su Foreign Affairs – solo perché gli avvertimenti precedenti non si sono concretizzati. Sebbene la prospettiva di un’invasione di Taiwan rimanga ancora remota, Pechino dispone di diversi strumenti da usare prima di passare a un conflitto vero e proprio, incluso l’invio di jet per sorvolare il territorio taiwanese. E se Pechino rispondesse in maniera sempre più drastica potrebbe facilmente provocare una crisi in piena regola».

Marco Respinti per “Libero quotidiano” domenica 24 Luglio 2022.

La Cina sta morendo, e nel frattempo invecchia. Sì, l'«inverno demografico» (come lo definì il teologo belga Michel Schooyans) sta contrastando ovunque il riscaldamento del pianeta, e il declino della popolazione in età lavorativa è da anni una costante di tutta l'Asia Orientale, mala Cina è passata di colpo dal bianco della crescita al nero del crollo ignorando i grigi nel mezzo. Adesso rischia l'implosione. 

 Perché se pure il suo prodotto interno lordo ha superato o è prossimo a quello degli Stati Uniti (dipende dai criteri delle misurazioni), e se la sua aspettativa di vita ha raggiunto quella statunitense nell'anno pandemico 2020 (benché in Cina il reddito pro capite resti molto più basso), la locomotiva della crescita economica cinese, cioè la demografia, non traina più.

La popolazione in età lavorativa (15-64 anni) del Dragone è ora un miliardo di persone, un ottavo degli abitanti del mondo, secondo il World Population Prospects 2022 stilato dal Dipartimento per gli Affari economici e sociali delle Nazioni Unite. Una fetta enorme della popolazione mondiale in età lavorativa, sì. Ma le proiezioni dell'Onu dicono che la popolazione lavorativa cinese calerà rapidamente dagli anni Trenta del secolo, restringendosi di quasi due terzi nel 2100, quando invece gli Stati Uniti si manterranno stabili, più i lavoratori di Canada e Messico: stranieri, che però nuotano nel medesimo mare di libero scambio. 

Questo solo nel più favorevole dei casi. Su Bloomberg Justin Fox (ex direttore editoriale della Harvard Business Review) sottolinea che così si dà per scontato l'aumento del tasso di fertilità cinese, in caduta da anni, che raggiungerà quello statunitense. 

Anche le previsioni Onu sulla fertilità degli Stati Uniti (dice sempre Fox) sono rosee, ma gli Stati Uniti hanno l'immigrazione, mentre in Cina (questo Fox non lo dice) intere popolazioni sono perseguitate sino al genocidio e alcuni gruppi umani servono solo a fornire organi di ricambio al mercato nero dei trapianti. E qualora, dice l'Onu, la fertilità si stabilizzasse invece per entrambi al fondo, la Cina perderebbe più dell'80% della popolazione lavorativa e gli Stati Uniti la sorpasserebbe nel 2097.

Ma sono solo previsioni; e, se una cosa è certa almeno da La macchina del tempo di H.G. Wells, è che il futuro si può pilotare. Il passato, invece, si può solo studiare immobile. Magari per capire come la Cina sia arrivata qui. Il 27 settembre Pechino ha varato misure per migliorare la «salute riproduttiva delle donne», fra cui la drastica riduzione degli aborti per «scopi non medici». 

Da decenni, infatti, quanti figli una coppia cinese possa avere lo decide lo Stato-partito. Tutto inizia però molto prima, fra 1958 e 1961, epoca del «Grande balzo in avanti» con cui Mao Zedong volle trasformare un Paese agricolo in potenza industriale superiore ai rivali occidentali. L'esito fu l'ecatombe per fame. Poi venne la «Rivoluzione culturale»: iniziò nel 1966 e la finì solo la morte di Mao, nel 1976. Doppio disastro umano ma pure economico tale che, nonostante i milioni di morti che non si è ancora smesso di contare, le bocche da sfamare restavano troppe.

Deng Xiaoping impose così il «figlio unico»: ridurre le nascite a ogni costo con aborto, contraccezione, sterilizzazione e infanticidio dei sopravvissuti. Durò dal 1979 al 2015. Un documentario, gratis su Amazon, One Child Nation, mostra un video della propaganda comunista, trasmesso dalla televisione cinese nel 1998, che si vanta di avere impedito la nascita di 338 milioni di bambini. È stato allora, 2015, che lo Stato ha permesso il secondo figlio (e gli altri nel nulla) e poi, il 31 maggio 2021, il terzo figlio (e gli altri nel nulla).

La decisione è stata preparata in due mosse. I risultati del 7° Censimento nel dicembre 2020, resi noti in maniera (ancora) incompleta l'11 maggio 2021, e il rapporto della Banca Popolare Cinese del 26 marzo 2021, reso noto il 14 aprile successivo. Il primo dice che per la prima volta in 60 anni la popolazione cinese è scesa sotto la soglia simbolo di 1,4 miliardi; il secondo che non è vero e che, per la prima volta dal 1955, è calato il tasso delle nascite. 

Mosse timide ma importanti. E la timidezza la sbugiarda una tabella del Censimento. Le nascite cinesi hanno raggiunto il picco e sono inesorabilmente iniziate a calare nel 1982, quando la politica di morte del "figlio unico" è diventata l'articolo 25 dei "Princìpi generali" della quarta Costituzione della Repubblica popolare cinese. Adesso la storia, cavalcando la matematica, passa all'incasso.

Cina, analisi delle onde cerebrali dei burocrati: così Xi Jinping testa la fedeltà al regime. Il Tempo il 07 luglio 2022

Per valutare la fedeltà al leader arriva l'algoritmo che legge le onde cerebrali. La Cina si prepara a una rivoluzione nel controllo del potere attraverso un sistema di intelligenza artificiale che letteralmente permette di leggere nel pensiero dei burocrati e valutare la genuinità del loro supporto allo Stato individuando sorrisi di circostanza e parole a cui, chi le proferisce, non crede davvero. A rivelare l'ultimo progresso del controllo di Xi Jinping nei confronti dell'apparato è la corrispondente del Times a Pechino, Didi Tang, che è riuscita a intercettare un articolo comparso sul web e subito fatto sparire dal regime cinese. 

L'articolo in questione descriveva il sistema realizzato dal Centro Nazionale delle Scienze di Hefei, spiega il Messaggero, e conteneva un video che ricorda il controllo mentale in stile Arancia Meccanica o 1984 di Gerorge Orwell. Nel firmato un volontario leggeva degli articoli che incensavano il regime di Pechino mentre alcuni sensori registravano le espressioni facciali e sensori analizzavano le onde cerebrali  per stabilire se l'individuo condivideva davvero le cose che dichiarava.  

Nell'articolo di Tang di fa riferimento a test su 43 cavie, tutti membri del partito comunista. Ufficialmente l'esperimento era finalizzato a migliorare la comunicazione politica del regime, ma le ricadute etiche e i rischi legati al controllo mentale degli apparati sono evidenti. È possibile che presto tutti i burocrati e gli esponenti del potere di Pechino vengano sottoposti al test che in pratica stabilisce chi crede davvero nella propaganda di governo. Facile prevedere cosa avverrà a chi non accetterà di effettuare il "test della verità" o cosa è successo alle cavie che non hanno superato l'esame dell'algoritmo sperimentale. 

Xi a cerimonia dei 25 anni di ritorno di Hong Kong alla Cina. (ANSA l'1 luglio 2022) - Il presidente Xi Jinping è arrivato alla cerimonia dedicata ai 25 anni del ritorno di Hong Kong dalla sovranità di Londra a quella di Pechino. Xi, al centro congressi della città, ha presieduto al giuramento del nuovo governatore John Lee, un veterano della sicurezza che ha supervisionato la risposta della polizia alle proteste di massa pro-democrazia di Hong Kong del 2019, e del nuovo governo locale. 

Xi, vera democrazia Hong Kong iniziata con ritorno a Cina. (ANSA l'1 luglio 2022) - La "vera democrazia" di Hong Kong è iniziata 25 anni fa, con "il ritorno dei territori alla madrepatria" che ha aperto "una nuova epoca nella sua storia": il presidente Xi Jinping ha affermato che la città ha superato varie difficoltà e sfide, proseguendo con passi costanti "a integrarsi attivamente" nello sviluppo del Paese. Negli ultimi 25 anni, Hong Kong ha goduto di una solida crescita economica e ha mantenuto il suo status di centro finanziario, marittimo e commerciale globale, grazie "alla pratica di 'un Paese, due sistemi' che ha ottenuto un successo riconosciuto da tutti".

Il presidente Xi Jinping ha assicurato che "non c'è motivo di cambiare il modello 'un Paese due sistemi" che da 25 anni regola i rapporti tra Hong Kong e Pechino, perché è "un sistema così buono che deve essere mantenuto a lungo termine". Quanto fatto dal governo centrale è "per il bene di Hong Kong", ha aggiunto Xi , rilevando "la necessità di attuare pienamente e fedelmente la politica 'un Paese due sistemi'". Sostenere sovranità nazionale, sicurezza e interessi di sviluppo sono i principi base: su questo, "Hong Kong e Macao mantengono il loro sistema capitalista a lungo termine e godono di un alto grado di autonomia".

Il presidente Xi Jinping chiede a Hong Kong il rispetto del sistema socialista e della leadership del Partito comunista. "Il sistema socialista è il sistema fondamentale della Repubblica popolare. E la leadership del Partito comunista è la caratteristica distintiva del socialismo con caratteristiche cinesi", ha detto Xi nel discorso per i 25 anni del ritorno a Pechino dei territori. "Tutti i residenti devono rispettare coscienziosamente e sostenere il sistema fondamentale del nostro Paese e la piena e fedele attuazione della politica di 'un Paese due sistemi' creeranno immense opportunità di sviluppo per Hong Kong e Macao".

Mantenere il potere di amministrare Hong Kong "saldamente nelle mani dei patrioti è essenziale per salvaguardare la stabilità e la sicurezza a lungo termine" della città: il presidente cinese Xi Jinping, nel suo discorso per i 25 anni della restituzione dei territori "alla madrepatria", ha ammonito che "in nessun momento questo principio dovrebbe essere compromesso". 

Proteggere il potere di amministrare significa proteggere la prosperità e la stabilità di Hong Kong, nonché gli interessi degli oltre 7 milioni di residenti, ha aggiunto Xi, ricordando che "è fondamentale garantire sia la giurisdizione complessiva da parte delle autorità centrali sia un elevato grado di autonomia".

Le autorità centrali, in questo modo, "esercitano una giurisdizione globale su Hong Kong, che costituisce la fonte di un elevato grado di autonomia. Allo stesso tempo, le autorità centrali rispettano pienamente e salvaguardano con forza l'alto grado di autonomia di cui gode la città come sancito dalla legge". Il rafforzamento della giurisdizione generale delle autorità centrali e il mantenimento dell'alto grado di autonomia di Hong Kong "sono aspetti integranti della stessa politica e solo garantendo entrambi possiamo gestire veramente bene" la città, ha affermato Xi.

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 7 Luglio 2022.

I venti contrari continuano a spirare anche sull'economia cinese, che soffre per i lockdown imposti dal governo all'inseguimento dello Zero Covid . Nell'incertezza, chi ha dei risparmi non li vuole immobilizzare nel mattone, che pure è storicamente l'investimento principale per le famiglie (anche) in Cina. 

Con milioni di metri quadrati invenduti, progetti paralizzati dalla mancanza di credito dopo l'esplosione della bolla Evergrande nel 2021, diversi costruttori di regioni agricole hanno cominciato a proporre pagamenti in natura, con aglio, grano, pesche, cocomeri come moneta. Il primo a offrire il baratto è stato il gruppo Central China, immobiliarista della provincia di Henan, famosa per le coltivazioni di aglio e cereali. Dice la pubblicità: «Portateci il grano e l'aglio dei vostri campi e avrete una casa nuova».

Central China accetta per i suoi appartamenti grano fino a un valore di 160 mila yuan (22.000 euro circa). Nello scambio con il mattone, aglio e grano vengono valutati tra le due e le cinque volte più che sul normale mercato di frutta e verdura. Si tratta quindi, oltre che di un baratto, di uno sconto invitante per le famiglie di campagna. Vale anche per i cocomeri: nel Sichuan un costruttore ne accetta fino a cinque tonnellate per la caparra di un appartamento, valutandole 14 mila euro, cinque volte il valore sul mercato agricolo.

Il settore immobiliare, con l'indotto, conta per circa il 30% nel Pil cinese. Prima è stato colpito dalla crisi di liquidità, innescata dal proclama di Xi Jinping: «La casa serve a vivere, non a speculare» (per questo è stato punito Evergrande che giocava sul debito); poi ha subìto il rallentamento generale per la pandemia.

A maggio, le vendite di appartamenti sono scese del 41% rispetto al 2021. E i risultati della promozione «creativa»? In due settimane Central China ha venduto 30 unità immobiliari, risollevando il fatturato. Un fatturato dall'odore intenso: il pagamento è stato regolato con 430 mila chili di aglio.

Dagotraduzione dal Guardian il 15 giugno 2022.

I nuovi libri di testo delle scuole di Hong Kong insegneranno agli studenti che il territorio non è mai stato colonizzato dagli inglesi. Una scelta in contrasto con la verità storica, che ha visto la città-stato in mano alla corona d’Inghilterra fino al 1997. Con questa riforma, migliaia di giovani verranno avviati a una realtà distorta, secondo cui, inoltre, il movimento di protesta attivo dal 2019 sarebbe stato guidato da misteriose e fantomatiche “forze esterne”. 

Le quattro serie di libri sono state pubblicate online la scorsa settimana, in modo tale da costringere le scuole ad adottare questi testi già da settembre. Serviranno per lo studio di “cittadinanza e sviluppo sociale”, nuova materia che ha sostituito il corso di “studi liberali”, attaccato nel 2020 dalle autorità a favore della Cina perché secondo loro avrebbe avvicinato i giovani al movimento di protesta.

Secondo il capo del dipartimento istruzione di Hong Kong, questa riforma insegna agli studenti come amare la nazione, ma in realtà, leggendo i testi dei libri, emerge un quadro preoccupante. Molti di questi parlano delle leggi che hanno limitato la libertà d’espressione come di «scelte in risposta ad attività terroristiche, che hanno messo in pericolo la sovranità», mentre uno cita la sicurezza nazionale addirittura 400 volte in 121 pagine.

La scelta che uccide la realtà dei fatti è invece osannata dai tabloid di regime cinesi come il Global Times, secondo cui «alcuni insegnanti non saranno più in grado di trasmettere le loro opinioni politiche sbagliate e velenose agli studenti».

Paolo Salom per il corriere.it il 2 giugno 2022.

La questione non è nuova per quanto raccapricciante. Quello che ora è emerso, tuttavia, getta un inedito sguardo su una realtà agghiacciante: per 35 anni, dal 1980 al 2015, la Cina ha permesso l’espianto di organi, da destinare ai trapianti, da detenuti condannati a morte - con o senza il loro assenso.

E - rivela uno studio pubblicato originariamente sulla rivista scientifica American Journal of Transplantation, e firmato dal chirurgo israeliano Jacob Lavee con il ricercatore australiano Matthew Robertson (che ne hanno scritto anche sul Wall Street Journal) - molto spesso la procedura medica aveva inizio prima ancora che il condannato fosse «giustiziato» secondo la procedura prevista dalla legge cinese. 

In altre parole: «Erano i medici stessi a togliere la vita al detenuto con i loro bisturi». 

Gli autori hanno condotto la loro ricerca su 3 mila documenti in lingua cinese redatti dagli stessi medici che effettuavano le «operazioni»: oltre 300 professionisti che hanno portato a termine il loro compito in 56 differenti ospedali della Repubblica Popolare.

I particolari emersi sono al limite del tollerabile, con descrizioni degli interventi redatte in termini scientifici e tuttavia rivelatori. «Spesso - scrivono Lavee e Robertson - sono i chirurghi stessi a spiegare come il paziente fosse ancora vivo al momento dell’intervento, e che era il distacco del cuore pulsante il motivo dell’immediato decesso». 

Questo perché, viene spiegato, dal dettagliato rapporto medico si evince che l’uomo o la donna sul lettino «respirava autonomamente» prima dell’incisione con il bisturi.

Come è noto, il giuramento di Ippocrate è molto chiaro sul fatto che un medico non può causare un danno «volontario» sul paziente. 

Inoltre, l’etica sugli espianti di organi, così come riconosciuta internazionalmente (e sottoscritta anche dalla Cina), impone rigide regole prima di consentire la procedura: una di queste stabilisce che il paziente non deve essere in grado di respirare da solo ma deve essere collegato a un ventilatore meccanico.

La Cina ha affermato di aver vietato queste pratiche dal 2015. Ma, sostengono gli autori, «è altamente probabile che questo genere di operazioni, considerate le statistiche e i brevi tempi di attesa per i trapianti nella Repubblica Popolare, siano in realtà continuate clandestinamente». 

E che, soprattutto, si siano concentrate su un particolare tipo di prigionieri, i membri della setta Falun Gong e gli uiguri dello Xinjiang, minoranza che da anni denuncia i tentativi di «genocidio» nei suoi confronti.

L’Oms, peraltro, ha chiuso da tempo la pratica contro la Cina: l’Organizzazione mondiale della sanità ha al contrario fatto propri i «suggerimenti» di Pechino per contrastare il traffico clandestino di organi e, concludono Lavee e Robertson, «ha attaccato le nostre ricerche» sull’argomento. Ora, prove alla mano, sarà più difficile.

L’ACCUSA DI GENOCIDIO. Consegnate all’Aia nuove prove contro la Cina per la repressione degli uiguri. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 20 giugno 2022

È il terzo dossier che il team di avvocati guidati da Rodney Dixon, che collabora con il governo dell’Est turkestan in esilio, ha inviato all’Aia dal 2020 a oggi e ha l’obiettivo di dimostrare che è in corso un genocidio a danno della minoranza uigura per mano delle autorità di Pechino.

Una volta deportati in Cina gli uiguri vengono rinchiusi in campi e centri di detenzione, dove sono sottoposti a lavori forzati nonché a trattamenti degradanti e a torture.

Secondo la recente inchiesta “Xinjiang police files” pubblicata a maggio del 2022 la strategia repressiva cinese è decisa e approvata direttamente dal presidente Xi Jinping e dal primo ministro Li Keqiang.

Un nuovo dossier di prove contro la Cina è stato sottoposto alla Corte penale internazionale. È il terzo che il team di avvocati guidati da Rodney Dixon, che collabora con il governo dell’Est turkestan in esilio, ha inviato all’Aia dal 2020 a oggi e ha l’obiettivo di dimostrare che è in corso un genocidio a danno della minoranza uigura per mano delle autorità di Pechino.

Gli esperti legali stanno raccogliendo testimonianze per portare davanti la Corte penale internazionale anche gli stati che aderiscono al suo statuto (come il Tagikistan il Kazakistan e il Kirghizistan) e che, secondo l’accusa, deportano gli uiguri in Cina su pressione delle autorità di Pechino. Una volta arrivati nel paese gli uiguri vengono rinchiusi in campi e centri di detenzione, dove sono sottoposti a lavori forzati nonché a trattamenti degradanti e a torture.

Si tratta della politica repressiva di Pechino, denunciata dal parlamento europeo e da diverse organizzazioni internazionali a difesa dei diritti umani, contro la minoranza turcofona e di origine islamica dello Xinjiang. Repressione mascherata da lotta al radicalismo ma che in realtà finisce per colpire circa un milione di persone, che secondo il parlamento europeo sono rinchiusi nei campi di lavoro forzati e centri di detenzione.

Secondo la recente inchiesta “Xinjiang police files” pubblicata a maggio del 2022 la strategia repressiva cinese è decisa e approvata direttamente dal presidente Xi Jinping e dal primo ministro Li Keqiang. 

GLI INTERROGATORI E LE TORTURE

Le nuove prove si basano soprattutto sulla testimonianza di un uiguro che è riuscito a scappare dai campi di detenzione e di lavoro forzato nel 2018. Agli avvocati ha detto che lui e altri detenuti sono stati sottoposti a lunghi interrogatori oltre che a cure forzate con medicinali di cui non ne sapevano il contenuto e gli effetti. Ong e avvocati accusano da anni le autorità di Pechino di controllare le nascite somministrando alle donne e agli uomini uiguri medicinali che provocano l’infertilità.

Il testimone ha detto anche di aver sùbito torture con scosse elettriche e di essere stato sottoposto alla “tiger chair”, una delle forme di tortura più utilizzate e che consiste nell’immobilizzare i sospettati durante gli interrogatori in una sedia con le manette alle gambe per diverse ore o giorni.

All’interno dei centri di detenzione annunci quotidiani minacciavano i detenuti che, se fossero scappati all’estero, non sarebbero potuti sfuggire al controllo dello stato. Sugli schermi dei centri di detenzioni i testimoni raccontano che venivano trasmesse le immagini e i nomi degli uiguri “ricercati” al di fuori del paese. Ai detenuti le guardie promettono ricompense per qualsiasi informazione utile a localizzare e rintracciare i ricercati. Molti di questi si trovavano in Tagikistan, a dimostrazione, secondo gli avvocati, che la Cina sta compiendo deportazioni dai paesi vicini. 

LA PERSECUZIONE ALL’ESTERO

Per chi è riuscito a lasciare il paese prima di essere rinchiuso nei centri di detenzione la vita non è così semplice. C’è un controllo ossessivo da parte dei servizi segreti di Pechino che tentano in diversi modi di riportare gli uiguri in esilio nel loro paese di origine. «Gli informatori ti guardano. Sanno dove vai, cosa compri, come preghi e inviano messaggi in Cina su di te» aveva raccontato una fonte ai legali.

Le autorità cinesi si muovono seguendo uno schema preciso: prima di tutto vengono contattati i famigliari della vittima a cui viene chiesto di fare pressione per far ritornare i loro cari; dopodiché vengono rifiutati i rinnovi di passaporti e visti da parte delle autorità consolari all’estero; e infine vengono minacciati anche i famigliari presenti in Cina.

Altri due uiguri che hanno lasciato il Tagikistan e sono scappati in Uzbekistan hanno descritto il modus operandi degli ufficiali cinesi per fare pressione sugli agenti di frontiera che controllano gli aeroporti in Tagikistan e negli altri stati limitrofi. «Vi riportiamo indietro perché siete uiguri. Non importa se avete un visto valido, noi dobbiamo per forza rimpatriarvi», sono le dichiarazioni di un poliziotto tagiko riportate dal testimone sentito da Rodney Dixon.

LE ACCUSE

Secondo il team legale «questa strategia di “raggruppamento” è tipica delle autorità statali che cercano di distruggere in tutto o in parte un altro gruppo razziale, etnico o religioso. La strategia ha dei parallelismi con i piani di altri genocidi in cui le vittime venivano radunate dal luogo in cui vivevano e deportate nel territorio dei perpetratori, dove dove vivevano e deportate nel territorio dei perpetratori, dove sarebbero state prese di mira».

Lo scorso 8 giugno il parlamento europeo ha pubblicato una proposta di risoluzione in cui condanna il fatto che «la comunità uigura nella Repubblica popolare cinese sia stata sistematicamente oppressa con misure brutali, tra cui la deportazione di massa, l’indottrinamento politico, la separazione delle famiglie, le restrizioni alla libertà religiosa, la distruzione culturale e l’ampio ricorso alla sorveglianza».

Centinaia di prove sono state raccolte negli ultimi due anni, ora spetta alla Corte penale internazionale capire se può procedere contro Pechino. Ma non è semplice, dato che la Cina non ha ratificato lo statuto della Corte e quindi non può essere sottoposta al suo giudizio. Ma dimostrando che i crimini, in questo caso le deportazioni, avvengono in altri stati che sono sottoposti al giudizio della Corte penale internazionale, la Cina può essere perseguibile. 

«Il tempo a nostra disposizione sta per scadere. Se la Corte penale internazionale non agisce presto per aprire questa indagine, potrebbe non esserci più nessun uiguro da salvare», ha detto il primo ministro del governo uiguro in esilio Salih Hudayer. 

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Dagotraduzione dal Guardian il 9 giugno 2022.

Decine di studiosi hanno accusato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani di aver ignorato o contraddetto i risultati accademici sugli abusi nello Xinjiang con le sue dichiarazioni sulla regione. 

In una lettera aperta pubblicata questa settimana, 39 accademici di tutta Europa, Stati Uniti e Australia hanno chiesto a Michelle Bachelet di pubblicare il tanto atteso rapporto delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani in Cina.

La lettera, pubblicata online, è stata firmata anche da alcuni accademici con cui Bachelet si era consultata prima della sua visita nello Xinjiang. I firmatari della lettera hanno espresso gratitudine per questo, ma si sono detti “profondamente turbati” dalla sua dichiarazione ufficiale, pronunciata in una conferenza stampa a Guangzhou al termine del suo tour di sei giorni. 

Hanno affermato che la sua dichiarazione «ignorava e persino contraddiceva i risultati accademici forniti dai nostri colleghi, inclusi due firmatari di questa lettera».

«È raro che un campo accademico arrivi al livello di consenso raggiunto dagli specialisti nello studio dello Xinjiang», si legge nella lettera. «Sebbene non siamo tutti d'accordo sul perché Pechino stia commettendo le sue atrocità nello Xinjiang, siamo unanimi nella nostra comprensione di ciò che lo stato cinese sta facendo sul campo». 

Lo Xinjiang è luogo di una repressione durata anni da parte delle autorità cinesi nei confronti degli uiguri e di altre minoranze musulmane, con politiche radicali di oppressione religiosa, culturale, linguistica e fisica.

Si stima che circa un milione di persone siano state incarcerate in una vasta rete di campi di detenzione e rieducazione, che Pechino chiama “centri di istruzione e formazione professionale”. Le fughe di documenti hanno rivelato che innumerevoli altre persone sono state arrestate o incarcerate per presunti crimini, tra cui lo studio delle Scritture, il farsi crescere la barba o il viaggiare all'estero, e che le autorità hanno stabilito politiche che impongono di "sparare per uccidere" in risposta ai tentativi di fuga. 

Organizzazioni per i diritti umani e diversi governi hanno etichettato la campagna come un genocidio o un crimine contro l'umanità. Pechino nega tutte le accuse di maltrattamento e afferma che le sue politiche sono quelle di contrasto al terrorismo e all'estremismo religioso.

Al termine della sua visita Bachelet ha dichiarato di aver esortato il governo cinese a rivedere le sue politiche antiterrorismo nello Xinjiang e ha fatto appello per avere informazioni sugli uiguri scomparsi. È stata criticata da alcuni gruppi per i diritti umani per aver fornito pochi dettagli mentre ha prontamente risposto ai media cinesi fornito con lunghe dichiarazioni sulle questioni degli Stati Uniti. 

La lettera degli accademici si aggiunge alle crescenti critiche a Bachelet per non essersi espressa con più forza contro gli abusi cinesi, così come per il continuo mancato rilascio del rapporto delle Nazioni Unite, che si ritiene sia stato completato alla fine del 2021. Mercoledì dozzine di gruppi per i diritti umani, prevalentemente ramificazioni nazionali e locali di organizzazioni associate alle campagne uiguri e tibetane, hanno chiesto le sue dimissioni.

Le 230 organizzazioni hanno accusato Bachelet di aver «imbiancato le atrocità dei diritti umani del governo cinese» e di aver «legittimato il tentativo di Pechino di insabbiare i suoi crimini usando la falsa inquadratura 'antiterrorismo' del governo cinese». 

«La visita fallita dell'Alto Commissario non solo ha aggravato la crisi dei diritti umani di coloro che vivono sotto il governo cinese, ma ha anche gravemente compromesso l'integrità dell'Ufficio dell'Alto Commissario per i diritti umani nella promozione e protezione dei diritti umani a livello globale», diceva la dichiarazione.

Hanno anche denunciato che si fosse riferita ripetutamente ai campi di detenzione nello Xinjiang con il termine preferito dal governo cinese: “centri di istruzione e formazione professionale”. 

I firmatari hanno affermato che Bachelet era stata «del tutto silenziosa sulla crisi dei diritti umani che avvolgeva il Tibet» durante i suoi quattro anni in carica e aveva «sottovalutato grossolanamente la repressione» di Hong Kong.

I firmatari hanno anche chiesto il rilascio urgente del rapporto delle Nazioni Unite. «I ritardi ripetuti, a tempo indeterminato e inspiegabili mettono seriamente in discussione la credibilità del suo ufficio di adempiere al suo mandato», afferma la dichiarazione.

Detenzioni, abusi e violenze: cosa rivela l’inchiesta della Bbc sullo Xinjiang. Federico Giuliani su Inside Over il 25 maggio 2022.

Proprio nei giorni in cui l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, si trova in missione Cina, ecco spuntare l’ennesima polemica sulla presunta violazione dei diritti umani perpetuata dalle autorità cinesi ai danni della minoranza etnica turcofona uigura situata nello Xinjiang.

La Bbc ha infatti confezionato un servizio dettagliatissimo, basato su nuovi documenti classificati e pubblicati in esclusiva, che fotograferebbe spaventosi abusi dei diritti umani che si verificherebbero pressoché quotidianamente nell’estrema provincia occidentale cinese. In passato sono emerse altre rivelazioni simili: alcune molto approssimative e faziose, altre più concrete e pungenti. In ogni caso il Dragone ha sempre bollato questi scoop come fake news atti a screditare l’immagine del Paese.

Era anche e soprattutto per smentire notizie del genere che Pechino aveva deciso di invitare Bachelet oltre la Muraglia, in una missione che dal 23 al 28 maggio avrebbe visto l’Alto commissario Onu visitare Guangzhou, ma anche Kashgar e Urumqi, nello Xinjiang, dove le autorità cinesi, come detto, sono accusate di diffusi abusi. La Cina spera che la visita di un Alto commissario Onu per i diritti umani, la prima dal 2005, “possa aiutare a migliorare la comprensione e la cooperazione e chiarire la disinformazione“, ha dichiarato il ministro degli Esteri Wang Y, accogliendo la stessa Bachelet.

Anche perché, ha ribadito Xu Huixiang, portavoce delle autorità cinesi nello Xinjiang, che la Cina non ha nulla da nascondere. “È impossibile simulare una situazione stabile e pacifica nello Xinjiang, non dobbiamo nascondere nulla”, ha dichiarato il funzionario. “Non c’è mai stato un genocidio“, ha aggiunto Xu, negando l’esistenza di campi in cui – secondo denunce sempre respinte da Pechino – verrebbero internati gli uiguri.

L’inchiesta “Xinjiang Police Files”

La premessa era doverosa per arrivare all’inchiesta pubblicata dalla Bbc con il nome di “Xinjiang Police Files“. Il materiale include include trascrizioni di conversazioni tra altri funzionari, migliaia di immagini di detenuti uiguri e informazioni relative a centinaia di ufficiali di polizia. Un cache di file della polizia, presumibilmente ottenuti da hacker e condivisi con i media stranieri, ha rivelato anche i volti di quasi 3.000 persone, compresi bambini, che sembrano essere stati confinati nelle strutture a causa della loro religione. Su questo, l’emittente britannica ha costruito un’analisi approfondita.

Ad esempio, nell’inchiesta si legge che gli ufficiali cinesi nello Xinjiang sono autorizzati ad aprire il fuoco sui prigionieri in caso di fuga. Le “scuole” formalmente istituite dalla Cina nella regione allo scopo di “combattere l’estremismo”, inoltre, sono in realtà campi di prigionia per le minoranze etniche.

Le forze dell’ordine a guardia dei campi devono “essere pronte a usare le armi in caso di fuga” e sono autorizzate a fare fuoco sugli “studenti” che cercano di lasciare volontariamente le strutture, afferma ancora la Bbc, aggiungendo che gli evasori catturati vengono “portati via per essere sottoposti a interrogatorio” mentre i direttori dei campi lavorano per “stabilizzare i pensieri e le emozioni degli altri studenti” per continuare a garantire il buon funzionamento delle “scuole”.

I dettagli dell’inchiesta

I documenti descrivono anche il protocollo da adottare per il trasferimento degli ospiti del campo, che verrebbero condotti da una struttura all’altra con mani e piedi “incatenati” e gli occhi bendati. Nonostante la Cina abbia sempre definito queste strutture funzionali a mettere in guardia la minoranza etnica uigura dai pericoli del terrorismo e dell’estremismo, la Bbc ritiene che le strutture siano state piuttosto “progettate per colpire quasi ogni aspetto dell’identità uigura e sostituirla con una forma di lealtà forzata al Partito comunista”.

Lo stesso protocollo interno della polizia “descrive l’uso di routine di ufficiali armati in tutte le aree dei campi, il posizionamento di mitragliatrici e fucili di precisione nelle torri di guardia e l’esistenza di una politica di sparatorie per chi cerca di scappare”.

La pubblicazione dell’inchiesta ha scatenato le prime reazioni. La ministra degli Esteri britannica, Liz Truss, ha affermato che i file contengono “dettagli scioccanti sulle violazioni dei diritti umani in Cina” e ha auspicato che Bachelet possa avere pieno accesso alla regione dello Xinjiang. Gli Stati Uniti si sono detti “sconvolti” dalle ultime informazioni sugli abusi nello Xinjiang.

Paolo Salom per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2022. 

Xinjiang Police Files. L'ultimo colpo di un gruppo di anonimi hackers accende per la prima volta i riflettori su una realtà sospettata ma mai finora arrivata alla prova dei fatti: la detenzione di massa degli uiguri dello Xinjiang. 

Da tempo le organizzazioni umanitarie internazionali provano a superare il muro - fisico e virtuale - eretto dalle autorità cinesi sulla sorte della minoranza turcofona di religione musulmana. Senza successo: per Pechino nella remota provincia centroasiatica non è in corso alcuna repressione, non ci sono campi di concentramento e gli istituti dove gli uiguri vengono «ospitati» non sono altro che scuole vocazionali dove giovani e meno giovani, uomini e donne, imparano un mestiere e diventano «buoni cittadini», apprendendo leggi e costumi della Repubblica Popolare. 

Ora la Bbc , insieme ad altri media riuniti in consorzio, proprio mentre l'Alto commissario Onu ai diritti umani Michelle Bachelet si trova in visita nella provincia dell'Ovest cinese, pubblica una selezione di storie, con nomi, cognomi, immagini mai viste prima. In un dettagliato reportage, l'emittente britannica spiega come avesse ricevuto il materiale a gennaio, impiegando poi settimane per analizzarlo e verificarne l'autenticità con l'aiuto di Adrian Zenz, ricercatore tedesco già autore di diversi studi sull'argomento.

Ecco le storie di giovani e vecchi, dai 15 ai 70 anni e più, i loro volti (sono 2.884), le circostanze dell'arresto con motivazioni che, in Occidente, sembrano uno scherzo. Ma dalle conseguenze serissime: c'è chi si è beccato una condanna a 15 anni per avere cresciuto una barba islamica e aver trascorso del tempo, un decennio fa, a studiare il Corano. Ci sono madri e padri finiti dietro i reticolati perché un figlio o una figlia aveva sul telefonino immagini «proibite» o semplicemente perché il cellulare non veniva più usato (prova che il «reo» aveva qualcosa da nascondere).

Poi, le scuole vocazionali: certo, esistono anche quelle, e il Corriere ha avuto l'occasione di visitarle, come peraltro ha fatto ieri Michelle Bachelet. E a proposito di questa visita, tenuta in sospeso per lungo tempo dalle autorità cinesi, la coincidenza con le rivelazioni della Bbc ha suscitato una dura risposta da parte di Pechino. «Stati Uniti, Gran Bretagna e altri Paesi hanno fatto di tutto per sabotare la missione - ha detto ieri Wang Wenbin, il portavoce del ministero degli Esteri -. Prima hanno fatto pressioni perché la visita fosse organizzata e poi hanno condotto questa cosiddetta inchiesta dando per scontate le colpe della Cina». 

Quali sono queste «colpe»? Sotto accusa è la reazione del governo centrale agli attentati terroristici portati a compimento da individui di etnia uigura, nelle città cinesi, nel corso di un decennio. Pechino, secondo diverse organizzazioni umanitarie, avrebbe messo fine ad azioni senz' altro sanguinose applicando una politica di repressione di massa, con arresti di interi nuclei familiari, torture, e condanne indiscriminate in campi di concentramento disseminati nello Xinjiang. Questi luoghi non sono mai stati visti da occhi stranieri.

Almeno fino al colpo degli hackers che, penetrando nei computer della polizia cinese, hanno potuto sottrarre migliaia di files criptati che documentano la realtà. Dunque eccoli i campi, le guardie, i corridoi dove uiguri con casacche arancioni camminano verso un destino di cui, fin qui, il mondo non ha mai saputo nulla. 

«L’Onu fermi il genocidio degli uiguri per mano cinese». Dolkun Isa, presidente del World Uyghur Congress, descrive a L’Espresso le prigioni segrete dove è morta sua madre ed è detenuta tutta la sua famiglia. E denuncia: «L’Alto commissario nasconde le accuse contro Pechino. Il lavoro dei giornalisti è importante». Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 26 Maggio 2022.

L'ultima protesta l’ha guidata il 13 maggio scorso a Ginevra, davanti agli uffici dell'Onu, pochi giorni prima del viaggio in Cina dell'Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet, ex presidente del Cile. Dolkun Isa, dal 2017 presidente del World Uyghur Congress (Wuc), era in prima fila ad arringare una folla di 500-600 uiguri, con i loro striscioni disperati: «Cina, stop al terrore», «Stop al genocidio». A protestare contro l’inerzia delle Nazioni Unite c’erano anche alcuni sopravvissuti, con le manette ai polsi, dei «campi di rieducazione», o di concentramento, creati dal regime comunista cinese nello Xinjiang. Erano tutti delusi, spazientiti, indignati.

L'attivista Isa ne spiega così le ragioni a L’Espresso: «L’Unchr, l'organismo dell’Onu diretto dalla signora Bachelet, ci deve ancora consegnare il rapporto finale sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang». È pronto fin dall'agosto 2021. Alla sua stesura, dal 2020 in avanti, hanno contribuito diverse organizzazioni non governative, insieme al Tribunale speciale istituito a Londra, su sollecitazione dello stesso Isa, per indagare su atrocità, persecuzioni e abusi, tanto gravi e sistematici da far ipotizzare l’accusa di genocidio, commessi dalle forze di sicurezza cinesi nei confronti di centinaia di migliaia di uomini e donne della minoranza etica e religiosa degli uiguri. Un trattamento disumano ora documentato dagli Xinjiang Police Files: migliaia di documenti interni della polizia cinese e di fotografie di oltre 2800 detenuti uiguri, rese pubbliche per la prima volta da un’inchiesta giornalistica che ha unito 14 testate internazionali, tra cui L’Espresso. 

Il rapporto dell’Onu sullo Xinjiang doveva essere consegnato nell'autunno 2021, poi la data è slittata al gennaio 2022, ma in realtà non se ne sa più niente, sembra sparito. La ragione è intuibile. Michelle Bachelet probabilmente non voleva urtare la sensibilità del presidente Xi Jinping alla vigilia di una visita storica dell’Unhcr in Cina, dal 23 al 28 maggio, preparata dalla fine di aprile con la trasferta del suo staff e programmata da più di tre anni.

Una simile prudenza è giudicata sospetta dai rappresentanti degli uiguri. Da quando ha preso possesso della carica, nel 2018, la signora Bachelet non ha ancora preso posizione sulle violazioni dei diritti umani in Cina, pur essendosi pronunciata su altri temi, come ad esempio le violenze della polizia francese durante le manifestazioni dei gilet gialli o i reati di stampo razziale collegati all'uccisione dell'afroamericano George Floyd a Minneapolis, negli Stati Uniti. Alle critiche per il suo silenzio pubblico, Michelle Bachelet ha reagito dichiarando al giornale di Ginevra Le Temps: «Quando pensiamo che la nostra voce possa cambiare le cose, lo diciamo forte e chiaro. L'abbiamo fatto con i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite… L'Alto commissario ha affrontato le questioni dei diritti umani in Cina, sullo Xinjiang e su Hong Kong, sia in pubblico che in privato. L'abbiamo fatto direttamente con le autorità, con la società civile, con la diplomazia… Durante la mia visita in Cina, a fine maggio, sarò lieta di sollevare tali questioni in modo aperto con le autorità».

Dolkun Isa esprime un punto di vista ben diverso sugli uiguri e sulle loro condizioni: «Ci sono tre milioni di persone detenute in questi campi di concentramento del ventunesimo secolo. Non ci sono processi o difese legali per loro, solo misure di polizia. Soffrono, perché un giorno ti svegli e non hai più il diritto di guardarti intorno, di parlare, di stare con la gente, devi solo dimostrare lealtà alle autorità cinesi. Vieni privato della tua identità nazionale, religiosa, non puoi esprimerti nella tua lingua, ma solo in cinese. E, se non collabori, vieni sottoposto a torture fisiche, come accade a tutti, studenti, insegnanti, teenager, capi religiosi. Sei controllato con videocamere, giorno e notte. Vivi in celle che possono contenere anche 20 persone, dove non ci sono letti sufficienti, a volte soltanto un cuscino per dormire sul pavimento. Ti ritengono un terrorista. Questo succede perché Xi Jinping vuole sradicare l'etnia uigura con l’indottrinamento. È la politica dell'assimilazione».

Il leader del Wuc, classe 1967, lo ha provato sulla sua pelle, come molti suoi parenti. Leader della contestazione studentesca all'università dello Xinjiang, è stato espulso e si è poi laureato in Turchia e in Germania. Perseguitato dal governo di Pechino, ha dovuto lasciare per sempre la Cina nel 1994 e ha trovato asilo politico proprio in Germania, dove nel 2006 ha acquisito la cittadinanza tedesca. Per lungo tempo è rimasto isolato dalla sua terra d'origine: «Per più di cinque anni non ho più potuto avere contatti con i membri della mia famiglia, li avevo persi». Poi, poco per volta, ha scoperto la triste verità: «Mia madre è morta, nel 2018, dopo essere stata internata in un campo di concentramento. Il mio fratello maggiore è stato condannato a 17 anni di carcere. Di quello minore non ho più saputo niente dal 2016, ma nel giugno del 2021 ho appreso da Radio Free Asia, l’emittente basata negli Stati Uniti, che era stato condannato all'ergastolo. Anche mio padre è morto, ma non so né dove né quando».

«Centro di rieducazione e formazione» è l’eufemismo usato dalle autorità cinesi per indicare strutture che in realtà, come dimostrano gli Xinjiang Police Files, sono prigioni di massima sicurezza, tenute segrete. C'è una data spartiacque, che distingue un prima e un dopo. Con l'avvento al potere di Xi Jinping, presidente della Cina dal 2013, la situazione è andata precipitando per gli uiguri, secondo Dolkun Isa: «Lui ha gettato la maschera. Ora è in atto un vero e proprio genocidio». L'escalation ha un regista, un fedelissimo del presidente: Chen Quanguo, nominato nel 2016 segretario del partito comunista nello Xinjiang, rimasto in carica fino al 2021. È lui l'architetto dei cosiddetti «centri di rieducazione». Il Dipartimento del Tesoro americano, nel documento che lo riguarda, scrive che si deve a lui l’attivazione di «migliaia di nuove stazioni di polizia» e «l'installazione di videocamere e strumenti di sorveglianza ovunque». Per queste ragioni il 9 luglio 2020 Chen è entrato nel mirino dell’Ofac, l'agenzia americana che applica le sanzioni, che lo accusa di essere stato lo stratega della grande repressione degli uiguri. Con lui è stato sanzionato l’intero Ufficio di pubblica sicurezza dello Xinjiang, che ha gestito concretamente «la costruzione di campi di detenzione di massa, chiamati centri di rieducazione».

Già in quei documenti del 2020 l’agenzia americana descriveva l’utilizzo di una speciale piattaforma di intelligenza artificiale per realizzare un immenso «archivio di dati biometrici riguardanti milioni di uiguri nello Xinjiang», spiegando che «le persone così individuate sono state recluse in campi di detenzione e qui trattenute indefinitamente senza accuse, né processo». Molti sono morti dopo essere stati torturati. Più di anno dopo, il 16 dicembre 2021, l’Ofac ha applicato le sanzioni a otto società cinesi specializzate nella produzione di strumenti di alta tecnologia usati per il controllo di massa degli uiguri: riconoscimento facciale, grazie anche a dettagli sulla pigmentazione della pelle; monitoraggio di gruppi etnici; droni. Una di queste aziende ha schedato più di due milioni e mezzo di individui solo nello Xinjiang. Un'altra ha sviluppato un software per la trascrizione e la traduzione della lingua uigura, per permettere alla polizia di esaminare qualsiasi parola sospetta. Come? Nel 2018 gli abitanti di Xinjiang hanno dovuto scaricare nei loro computer una versione di questo programma in grado di rilevare «attività illecite». Si tratta di aziende avanzate, una di queste ha un valore di mercato di quattro miliardi di dollari. Con simili apparecchiature, si legge nel documento dell’Ofac, «nella regione dello Xinjiang si è creato uno Stato di polizia». Le accuse dell’agenzia americana ora risultano confermate dai documenti interni della stessa polizia cinese, anche con riferimento ai programmi di spionaggio informatico della popolazione.

Chen Quanguo è riuscito ad attuare una politica così repressiva, definita «il modello Xinjiang», dopo aver fatto esperienza in un’altra regione cinese, in Tibet, dove era stato segretario del partito comunista nei precedenti cinque anni, dal 2011 al 2016. E dove i provvedimenti di militarizzazione e repressione hanno avuto un grande successo, spianandogli così la strada per la promozione nello Xinjiang. Un successo non del tutto completo, per la verità, perché Chen non è riuscito nel suo intento di favorire i matrimoni misti tra cinesi e tibetani, troppo legati alle loro tradizioni.

Dolkun Isa conosce bene Chen Quanguo e ricorda con commozione il sacrificio di 160 monaci tibetani che si sono immolati, bruciandosi vivi, in segno di protesta contro i sistemi autoritari cinesi. Come conosce bene anche un altro dei protagonisti delle discriminazioni nello Xinjiang, Zhao Kexhi, ministro della pubblica sicurezza dal 2017: «Un politico devoto a Xi Jinping», lo definisce. Un politico citato in uno dei documenti segreti ora trapelati all'esterno, che riassume un suo discorso del 15 giugno 2018, sottoposto anche a Xi Jinping, durante una visita nello Xinjiang. Il suo comizio davanti agli ufficiali di polizia svela le tappe della strategia elaborata da Chen Guanquo durante la sua gestione. Con gli obiettivi da raggiungere, tra il 2017 e il 2022, per stroncare «l’estremismo e il separatismo». Dopo un anno: «stabilità». Dopo due anni: «consolidamento dei risultati». Dopo tre: «normalizzazione». Dopo cinque anni: «stabilità totale».

Per conseguire questi obiettivi il piano quinquennale ha previsto un grande potenziamento delle forze di sicurezza e della vigilanza alle frontiere. Sono state così reclutati decine di migliaia di poliziotti, distribuiti in 7.629 stazioni, per  «aumentare il senso di sicurezza della gente». Ai confini sono state piantate massicce recinzioni in filo spinato per ben 5.700 chilometri. E 60 mila residenti in quelle zone di confine sono stati chiamati a sorvegliare per evitare ingressi o uscite illegali, all'insegna del principio: «Nessuno può uscire, nessuno può entrare». Infine, le prigioni. Già entro la fine del 2018, nel secondo anno del piano, era prevista la costruzione di 27 nuovi centri, per accogliere 57 mila detenuti in più, con una spesa di 2,25 miliardi di yuan, circa 290 milioni di euro. Un piano giustificato dalla «guerra al terrorismo». 

L'Espresso ha già pubblicato una serie di articoli, a partire al 24 maggio, sugli Xinjiang Police Files, cioè sulle migliaia di foto e documenti hackerati da un anonimo e messi a disposizione di 14 testate internazionali, da Der Spiegel a Bbc News, grazie al lavoro di ricerca del professore tedesco-americano Adrian Zenz. In un suo saggio di 56 pagine lo stesso Zenz ha cercato di decodificare il disegno complessivo di Xi Jinping e la «campagna di rieducazione dello Xinjiang».

Secondo lo studioso, che è docente di antropologia, «l’inquadramento di interi gruppi etnici come minacce estreme per la sicurezza» rappresenta un caso di «paranoia politica».

Incurante di queste accuse, proprio il 24 maggio il ministro degli Esteri cinese Wang Li ha offerto a Michelle Bachelet, al suo arrivo a Canton, un libro del presidente Xi Jinping sui diritti umani. E ha fatto precedere l’Alto Commissario dell’Onu da una dichiarazione polemica del suo portavoce, Wang Wenbin: «Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri Paesi occidentali hanno continuato a mettere in scena delle farse politiche riguardanti la visita di Bachelet». Concetti già esposti la sera prima nella replica delle autorità cinesi all’inchiesta giornalistica internazionale, pubblicata anche da l’Espresso: «La regione dello Xinjiang ora gode di stabilità sociale e armonia, così come di sviluppo economico e prosperità. La popolazione locale sta vivendo una vita sicura, felice e piena di soddisfazioni. Questi fatti sono la più potente risposta a ogni sorta di menzogne e disinformazioni sullo Xinjiang. Con gli sforzi concertati di tutti i gruppi etnici noi crediamo che questa regione potrà avere un futuro ancora più luminoso».

Sul fronte opposto, il presidente del World Uyghur Congress, Dolkun Isa, commenta con queste parole il lavoro dei giornalisti: «Per la comunità uigura, queste inchieste sono importanti conferme di una realtà che conosciamo e sperimentiamo da tempo. In particolare, mostrano il funzionamento interno del sistema di repressione cinese e le intenzioni che sono alla sua base. Sono un doloroso promemoria, per noi e per tutti. Per le nostre famiglie e per molti uiguri della diaspora, le immagini e i dati che avete scoperto negli archivi della polizia dello Xinjiang potranno dire finalmente che cosa è successo ai nostri cari. Ciò che la Cina sta facendo al popolo uiguro non ha nulla a che vedere con la lotta al terrorismo. Di fronte a queste nuove e importanti prove, gli uiguri sperano che la comunità internazionale ponga fine al suo approccio business-as-usual con la Cina e agisca finalmente per far cessare questi crimini atroci».

Cina, le foto delle prigioni segrete in cui il regime comunista rinchiude gli uiguri. Migliaia di immagini e documenti delle forze di sicurezza di Pechino mostrano le carceri dove sono segregati centinaia di migliaia di detenuti della minoranza perseguitata. Una fuga di notizie senza precedenti, al centro dell’inchiesta giornalistica di 14 testate internazionali, tra cui L’Espresso. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'espresso il 24 maggio 2022.

Centinaia di migliaia di uomini e donne, selezionati su base etnica e religiosa, che restano reclusi per anni in carceri speciali, senza diritti di difesa, senza poter dire nemmeno di essere detenuti in queste prigioni segrete. Il regime comunista cinese li definisce «centri di rieducazione e formazione». Sono stati creati a partire dal 2017 nella regione dello Xinjiang, dove la maggioranza della popolazione è musulmana, per riportare all'ordine e tenere sotto controllo milioni di uiguri e altre minoranze di lingua turca. Alle accuse internazionali di violazione dei diritti umani, Il governo di Pechino ha finora risposto smentendo qualsiasi abuso e negando l'esistenza stessa di programmi di detenzione di massa: si tratterebbe di istituti di formazione professionale e addestramento al lavoro, dove gli ospiti entrerebbero volontariamente, senza subire coercizioni. A smentire la versione ufficiale ora sono migliaia di documenti e fotografie che mostrano la realtà di questi centri, per la prima volta, dall'interno.

Si vedono prigionieri ammanettati, incatenati, sbattuti a terra, circondati da schiere di poliziotti in tenuta da combattimento. Gli spazi interni sono chiusi con sbarre e recinzioni di ferro, le stanze e i corridoi non hanno finestre, solo lucernari in alto, i cortili sono bloccati da alti muri di cemento, tutto è sorvegliato da squadre di guardie armate. Ci sono foto di persone con le manette ai polsi anche in infermeria durante un'iniezione. Uomini con segni evidenti di percosse e tumefazioni su tutto il corpo. Decine di donne, anche giovanissime. E ragazzini minorenni. Di fronte a tentativi di «evasione» o «ribellione», un documento del funzionario di vertice ordina alle guardie di «sparare per uccidere».

Questa inchiesta giornalistica, chiamata Xinjiang Police Files, ha permesso ai cronisti di 14 testate internazionali, tra cui L'Espresso in esclusiva per l'Italia, di avere accesso a decine di migliaia di atti e immagini usciti dagli archivi informatici delle forze di sicurezza di due prefetture di quella regione cinese. Le fotografie ritraggono più di cinquemila individui sottoposti a schedatura, di cui 2.884 sono registrati come detenuti nei cosiddetti centri di rieducazione. Le carte contengono tutti i dati di circa 20 mila persone tenute sotto stretta sorveglianza: ad ogni nome è associato un numero con un codice identificativo. Per gli internati nei centri di rieducazione viene precisata la durata della detenzione e il tipo di accusa. I documenti, scritti in caratteri cinesi, includono le trascrizioni dei discorsi e delle istruzioni alle forze di polizia impartite dai massimi responsabili del partito nello Xinjiang, che dichiarano esplicitamente di eseguire le direttive centrali, attribuite personalmente al presidente cinese Xi Jinping. Questi e molti altri documenti sono classificati come segreti. Gli atti più riservati in origine erano criptati.

Questa fuga di notizie ha permesso ai giornali internazionali di pubblicare per la prima volta, a partire da oggi, le fotografie scattate all'interno dei centri di rieducazione, senza l'autorizzazione e il controllo delle autorità cinesi. Le immagini evidenziano che si tratta di strutture carcerarie di massima sicurezza sorvegliate da forze militarizzate e mostrano una situazione di detenzione e segregazione, in palese contrasto con le foto diffuse finora dalla propaganda di regime.

Gli Xinjiang Police Files sono stati ottenuti da un professore tedesco-americano, Adrian Zenz, già autore di diverse ricerche sulla persecuzione cinese degli uiguri. Lo studioso scrive di aver ricevuto i dati informatici da «una terza persona», che ha eseguito «sofisticate operazioni di hackeraggio dei computer degli Uffici di pubblica sicurezza dei distretti di Konasheher e Tekes». Le fotografie riguardano due grossi centri di rieducazione, ciascuno con migliaia di detenuti. Il professore specifica che la sua fonte è «un unico soggetto, che ha agito su basi esclusivamente individuali», senza legami con organizzazioni politiche o apparati statali, «non ha posto condizioni per la pubblicazione» e «ha chiesto di restare anonimo per motivi di sicurezza personale».

Zenz è un antropologo, nato in Germania, che ha lavorato per diverse università in Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti, dove è entrato a far parte di fondazioni e think-tank conservatori con base a Washington. Dopo le sue prime pubblicazioni, il governo di Pechino lo ha inserito, insieme ad altri studiosi occidentali, nella lista dei soggetti sottoposti a sanzioni, con l'accusa di aver «diffuso menzogne e disinformazioni danneggiando gli interessi e la sovranità della Cina». Il suo nuovo studio viene pubblicato dal Journal of the European Association for Chinese Studies. Zenz sottolinea che il suo lavoro sugli Xinjiang Police Files ha superato la revisione accademica di altri esperti. 

I documenti più importanti, le fotografie e i loro contenuti sono stati sottoposti a verifiche informatiche e controlli con fonti esterne, durati diversi mesi, da parte dei giornalisti di 14 testate di undici nazioni: Der Spiegel, Bbc News, Politiken, Le Monde, Usa Today, Mainichi Shimbun, International Consortium of Investigative Journalists, Nhk World Japan, Bayerischer Rundfunk, Yle Finnish Broadcasting Company, Dagens Nyheter, Aftenposten, El Pais e L'Espresso.

Oltre a interpellare studiosi indipendenti, ricercatori e professori di altre università europee, americane ed asiatiche, i cronisti sono riusciti a raggiungere alcune famiglie di uiguri, emigrate all'estero, che hanno riconosciuto le foto dei loro parenti e confermato il loro arresto. O la loro sparizione, seguita dalla totale mancanza di notizie ufficiali. Ci sono genitori hanno saputo dai giornalisti, per la prima volta, che i loro figli erano ancora vivi, ma detenuti nelle prigioni segrete dello Xinjiang. Per verificare le informazioni, un gruppo di cronisti ha telefonato a più di 150 ufficiali delle forze di sicurezza, i cui nomi e numeri d’ufficio sono registrati in una lista ricompresa nei files. 

Il programma di controllo della regione speciale, che si trova nella zona nord-ovest della Cina, era stato giustificato dal regime di Pechino con la guerra al terrorismo, dopo una serie di attentati eseguiti da islamisti radicali provenienti dallo Xinjiang. A partire dal 2019 una serie di studi e inchieste giornalistiche internazionali hanno accusato il regime comunista di aver segregato e internato una moltitudine di uiguri, con stime che variano da uno a due milioni di persone. Accuse respinte dalle autorità di Pechino, che le hanno bollate come propaganda politica occidentale contro il partito comunista cinese.

I documenti hackerati sono decine di migliaia e coprono più di un decennio, fino alla fine del 2018. I registri informatici del comando di Konasheher, dove operano almeno due grandi centri, mostrano che le forze di sicurezza hanno sottoposto a schedatura oltre il 95 per cento degli adulti che vivono in quel distretto e che il 13 per cento risulta internato in una struttura di rieducazione o detenuto in un carcere. Applicando la stessa proporzione, ne risultano accreditate (e confermate per la prima volta da riscontri interni) le stime delle principali organizzazioni internazionali che nell'intero Xinjiang possano essere sottoposte alle stesse misure di segregazione più di un milione di uiguri, oltre a un numero indeterminato di kazaki e persone di altre minoranze.

Nei files c'è anche la trascrizione dei discorsi alle forze di polizia tenuti da due rappresentanti di vertice del governo centrale durante una visita nel giugno 2018: Zhao Kezhi, il capo del ministero per la pubblica sicurezza, e Chen Quanguo, membro del Politburo e allora segretario del partito nella regione, che è considerato lo stratega delle politiche di repressione nello Xinjiang e in Tibet.

Nelle trascrizioni, classificate come segrete, Zhao e Chen spiegano che il governo centrale ha deciso di applicare un piano quinquennale, a partire dal 2017, per arrivare alla «normalizzazione» e quindi alla «stabilità generale». Il ministro della sicurezza dice agli ufficiali di polizia, schierati di fronte a lui, che in quel momento nello Xinjiang «ci sono ancora due milioni di persone sotto l'influenza di ideologie estremiste». E aggiunge che l'altro grande nemico sono i «gruppi politici separatisti»: anche loro avrebbero due milioni di seguaci. Chen ammonisce che «queste forze non riconoscono il potere del partito» e «vanno fatte a pezzi». Quindi spiega che di fronte a un tentativo di evasione o di ribellione, le guardie possono fare un richiamo verbale, se possibile, dopo di che hanno l’obbligo di «sparare per uccidere».

Chen Quanguo è stato segretario del partito nello Xinjiang dal 2016 al 2021. Entrambi gli esponenti del governo centrale, mentre impartiscono questi ordini agli ufficiali di polizia della regione, si presentano come fedeli esecutori delle direttive del presidente cinese Xi Jinping, come ripetono loro stessi più volte.

I documenti interni della polizia cinese evidenziano che i detenuti uiguri vengono sottoposti a trattamenti spietati, disumani. Le direttive scritte prevedono che i malati possano essere ricoverati in ospedale sono in casi di «urgente necessità di cure mediche». I pazienti, per quanto gravi, vengono incappucciati e ammanettati durante il trasporto. Ogni malato va sorvegliato da almeno due guardie armate e da un ufficiale, in aggiunta al medico della polizia. Le foto del centro di rieducazione di Tekes, nel secondo distretto colpito dalla fuga di notizie, mostrano un detenuto molto anziano che resta ammanettato anche mentre gli viene fatta un'iniezione, sotto gli occhi delle guardie carcerarie, che impugnano grossi bastoni e manganelli. I documenti interni mostrano che le forze di sicurezza possiedono mitra e fucili di precisione, da usare in caso di ribellioni o tentativi di fuga. Le normali guardie carcerarie, che possono appartenere a minoranze etniche, hanno in dotazione bastoni lunghi circa un metro e mezzo, baionette e scudi. Solo gli ufficiali, tutti di etnia han, quella maggioritaria in Cina, sono forniti di armi da guerra. 

I prigionieri dei centri di rieducazione possono parlare con i familiari solo una volta ogni dieci giorni, per dieci minuti, in una videoconferenza sorvegliata. I parenti devono entrare in un’apposita camera di sicurezza, con portoni blindati e due guardie che ascoltano e registrano il colloquio. I detenuti sottoposti al regime di «sorveglianza aggravata» vengono trasportati nella stanza dei video-colloqui con le manette e la testa incappucciata. A tutti viene intimato di non lamentarsi, non piangere e parlare bene del centro di rieducazione. I prigionieri vengono spiati anche da altri detenuti: i files mostrano che la polizia ne ha reclutati almeno 446 come informatori e che utilizza anche infiltrati, cioè agenti che si fingono reclusi.

Un documento datato 8 ottobre 2018 ha un titolo da gita scolastica: «Piano di sicurezza per la trasferta degli studenti». L'atto descrive le misure adottate per spostare 505 detenuti da un centro di rieducazione a un altro nello stesso distretto: tutti gli «studenti», uomini e donne, devono viaggiare incatenati, incappucciati e ammanettati con le mani dietro la schiena. Ogni prigioniero va sorvegliato a vista da almeno due guardie. Il convoglio di autobus con i detenuti viene scortato da mezzi blindati con poliziotti armati, in stretto contatto con tutti i comandi locali, che bloccano il traffico.

La fuga di notizie al centro dell'inchiesta giornalistica riguarda solo due dei tanti centri di rieducazione creati segretamente in tutto lo Xinjiang. Tra gli oltre 2800 detenuti di cui ora è possibile vedere le foto segnaletiche, che risultano scattate nel 2018, almeno 15 risultano minorenni. Il più anziano ha 73 anni.

Gli Xinjiang Police Files contengono anche un registro informatico con i dati di 330 «persone sottoposte al regime duro per attività illegali collegate alla religione». Pochi di loro vengono però collegati dalla polizia ad azioni terroristiche o a organizzazioni violente. Molti sono accusati soltanto di aver «studiato segretamente il Corano», essersi fatti «crescere la barba sotto l'influenza di estremisti religiosi», di aver «indossato vesti islamiche» o «viaggiato in paesi musulmani». 

Tra le donne detenute, la più giovane ha 14 anni. Il suo internamento nel centro di rieducazione è stato raccomandato nel 2018 dalle forze di sicurezza non per sue presunte colpe, ma perché ha «legami familiari pericolosi»: è la figlia più giovane di un ex ufficiale uiguro, arrestato in precedenza e condannato a 13 anni di galera. Anche la madre è stata incarcerata, lo stesso giorno del marito, e condannata a sei anni di reclusione per un'accusa non meglio precisata di «turbamento dell'ordine pubblico».

Gli Xinjiang Police Files segnalano che almeno diecimila persone, solo nei due distretti di Konasheher e Tekes, sono state schedate come pericolose o direttamente arrestate dalla polizia utilizzando un programma informatico di sorveglianza di massa, chiamato Piattaforma integrata unitaria delle operazioni (in sigla Ijop), che ha la pretesa di prevedere attività illecite future. I documenti confermano così un rapporto di Human Rights Watch, che nel 2019 ha accusato il governo cinese di utilizzare un enorme archivio informatico con tutti i dati personali più intimi, creato utilizzando proprio quella piattaforma, che l’associazione di tutela dei diritti umani definisce «l’algoritmo della repressione». Chi cerca di sfuggire a questo spionaggio di Stato di stampo orwelliano rischia di finire nei centri di rieducazione, come mostrano le carte della polizia di Konasheher: tra il 2017 e il 2018 diversi ragazzi sono stati imprigionati con l’accusa di aver usato un’applicazione per lo scambio sicuro dei file sui telefonini, chiamata Zapya (in cinese Kuaiya).

Nel 2020 gli Stati Uniti hanno sottoposto a sanzioni, in particolare, il presunto stratega della repressione, Chen Quanguo. Nel 2021 il governo di Pechino lo ha rimosso dalla carica di segretario del partito comunista nello Xinjiang. Al suo posto è arrivato Ma Xingrui, che ha promesso però di continuare ad applicare la linea dura. All’inizio di quest’anno il governo centrale di Pechino ha dichiarato concluso il piano quinquennale, dichiarando di aver raggiunto l’obiettivo di riportare la «stabilità» e proclamando che la minaccia del terrorismo «appartiene ormai al passato». Tutti gli esperti consultati dalle 14 testate giornalistiche hanno però avvertito che non c’è alcuna prova che i centri di rieducazione siano stati chiusi. 

I giornalisti che hanno partecipato a questa inchiesta hanno trasmesso una lunga serie di domande alle autorità cinesi, attraverso le ambasciate e il ministero degli Esteri, chiedendo tra l’altro quanti centri o altre strutture detentive siano rimasti aperti e sotto quali denominazioni, se sia ancora valido l'ordine di «sparare per uccidere», o come sia possibile infliggere condanne fino a 25 anni di prigione per una semplice espressione di fede religiosa, come la partecipazione a una preghiera, senza alcuna violenza. Il governo cinese ha risposto alle 23.30 di ieri, 23 maggio, alla vigilia della pubblicazione degli articoli, attraverso una nota firmata da Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese negli Stati Uniti.

Ecco la risposta integrale delle autorità cinesi: «I problemi dello Xinjiang riguardano, in sostanza, la lotta al terrorismo, alla radicalizzazione e al separatismo, non i diritti umani o la religione. Di fronte a una situazione grave e complessa di contrasto al terrorismo, lo Xinjiang ha adottato una serie di misure decisive, forti ed efficaci. Il risultato è che lo Xinjiang da diversi anni non ha più assistito ad alcun caso di violenza terroristica. In anni recenti, è stata diffusa una grande quantità di notizie false sul tema dello Xinjiang. Per avere maggiori informazioni, è possibile consultare le repliche già pubblicate sotto il titolo «Fact check: le bugie sullo Xinjiang a confronto con la verità». 

Continua la nota di risposta del governo cinese: «La regione dello Xinjiang ora gode di stabilità sociale e armonia, così come di sviluppo economico e prosperità. La popolazione locale sta vivendo una vita sicura, felice e piena di soddisfazioni. Questi sono fatti, che riflettono la realtà della situazione dei diritti umani e amplificano gli effettivi risultati dell’azione politica cinese. Questi fatti sono la più potente risposta a ogni sorta di menzogne e disinformazioni sullo Xinjiang. Con gli sforzi concertati delle genti di tutti i gruppi etnici, noi crediamo che questa regione potrà avere un futuro ancora più luminoso».

Le 14 testate che si sono unite in questa inchiesta giornalistica hanno deciso di pubblicare gli articoli lo stesso giorno, martedì 24 maggio, in coincidenza con la visita in Cina dell'Alto Commissario dell'Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, e del suo staff. La missione delle Nazioni Unite, la prima dal 2005, si chiuderà proprio nello Xinjiang.

Torture, pestaggi e armi: gli Xinjiang Police Files svelano le prigioni degli uiguri. L'espresso il 24 maggio 2022. 

Le prime foto delle prigioni segrete create dal regime cinese nello Xinjiang, dove secondo le Nazioni Unite sono detenuti centinaia di migliaia di uiguri, una minoranza perseguitata per motivi etnici e religiosi. Il governo di Pechino ha sempre negato che si tratti di carceri: li definiscono «Centri di rieducazione e formazione». Ora queste foto, uscite dai computer della polizia cinese grazie a una fuga di notizie senza precedenti, documentano la realtà dei fatti: sono prigioni di massima sicurezza, con guardie armate, sbarre e mura invalicabili, dove i detenuti restano ammanettati perfino durante le visite mediche. Le immagini che pubblichiamo fanno parte degli Xinjiang Police Files: migliaia di documenti segreti e foto di oltre 2800 detenuti uiguri, al centro di un'inchiesta giornalistica che ha unito 14 testate internazionali tra cui L'Espresso.

La coppia di uiguri scappati in Italia: «I nostri figli sono imprigionati in Cina, Di Maio ci aiuti». Paolo Biondani e Leo Sisti su L'espresso il 24 maggio 2022.  

L’appello disperato di due genitori fuggiti nel nostro Paese sei anni fa. Il regime di Pechino ha reagito alla fuga internando i loro bambini minorenni. I genitori chiedono al governo di Roma il ricongiungimento familiare, ma la pratica è insabbiata dal 2020.

Una vera odissea, lunga sei anni. Mihriban Kader e Ablikim Memtinin sono due genitori uiguri scappati in Italia per sfuggire alle vessazioni da loro subite quando vivevano nella regione autonoma dello Xinjiang, nel nord-ovest della Cina, dove la maggioranza della popolazione è di origine turca e musulmana. Discriminazioni etniche e religiose, ma anche soprusi e violenze psicologiche, che si manifestavano in vari modi: dal divieto di espatrio con ritiro dei passaporti al rigido controllo delle nascite, fino al punto di verificare sul suo corpo se una donna fosse incinta.

Per la signora Mihriban e il marito Ablikim il 2016 è non solo l’anno della grande fuga, è anche l’inizio del periodo più atroce per gli uiguri, perseguitati fin dal 2014, quando la Cina lanciò la sua «guerra al terrorismo», dopo una serie di attentati di matrice islamica proprio nello Xinjiang. Un'area trasformata in uno stato di polizia a sorveglianza estrema. Dove la coppia ha dovuto abbandonare i suoi quattro bambini, finiti ufficialmente in un orfanotrofio del distretto di Kashgar, in realtà un lager. Da allora non hanno più potuto vederli. 

Ora in questa tragedia familiare potrebbe aprirsi un primo spiraglio di speranza, probabilmente per effetto di un allentamento della morsa repressiva, deciso dalle autorità cinesi alla vigilia della visita dell'Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, prevista dal 23 al 28 maggio, con missione finale proprio nello Xinjiang. Così Mihriban Kader, tramite L’Espresso, rivolge un appello al ministro degli Esteri Luigi Di Maio: «Ho saputo da uno dei miei figli che il governo cinese sarebbe disposto a lasciar venire qui in Italia tutti loro, tutti e quattro, se qualcuno andasse a prenderli e li accompagnasse all'ambasciata italiana per ottenere i visti necessari per l’espatrio». La signora aggiunge un patricolare importante: «La mia figlia più grande ha da poco compiuto diciott'anni e quindi, diventata maggiorenne, potrebbe ricevere da noi una delega per poter partire insieme agli altri tre suoi fratelli». Che ora hanno, rispettivamente, 17, 15 e 13 anni.

Mihriban e Ablikim vivono nel Lazio, a Latina, con altri tre figli, tutti nati in Italia. Nel maggio 2021 sono stati protagonisti di una protesta, con un sit-in organizzato davanti alla Farnesina, sede del ministero degli Esteri, dal “Comitato mondiale per lo stato di diritto-Marco Pannella”, con la collaborazione di Amnesty International, che da tempo si sta prendendo cura di questa famiglia uigura. Che non esita a far sapere all'opinione pubblica che cosa è successo da quando hanno lasciato la Cina da soli, sperando che i quattro bambini potessero raggiungerli in un secondo tempo. È stato invece l'inizio di un incubo.

Dopo la fuga, la polizia ha preso subito di mira i genitori di Mihriban: la madre è stata internata in un campo di rieducazione; il padre, ottantenne, interrogato per molti giorni prima di essere ricoverato in ospedale. E i bambini? Quando a scuola i maestri sono resi conto che nessuno li seguiva, perché gli altri parenti, temendo di essere anche loro deportati, erano spariti, si sono rivolti alle autorità locali. La sentenza è stata veloce: orfanotrofio, un eufemismo per una prigione speciale riservata a tutti quei ragazzi che sono figli di uomini e done considerati «traditori». In quel centro i bambini uiguri vengono sottoposti a controlli continui, 24 ore al giorno. La struttura è popolata di almeno mille bambini o adolescenti, dai 9 mesi di età fino a 21-22 anni, tutti rimasti senza famiglia.

Nel novembre 2019, muore il padre di Mihriban, cioè il nonno dei bambini. Ma poco dopo arriva la prima buona notizia. Il governo italiano ha concesso il permesso per il ricongiungimento familiare in Italia. Però c'è un problema. I quattro bambini dovrebbero raggiungere il consolato di Shanghai, cinquemila chilometri di distanza dalla loro città, Kashgar. Ce la fanno, in mezzo a mille traversie, spesso rifiutati dagli alberghi e ostelli perché uiguri. Quando finalmente giungono a Shanghai con i passaporti, il consolato non li fa entrare: i visti per i ricongiungimenti, sostengono i funzionari, possono essere emessi soltanto dall'ambasciata di Pechino. Quindi, tutto inutile.

Nel frattempo, siamo ormai a giugno 2020, scatta il lockdown per il coronavirus: vietato viaggiare. Sfiduciati, i quattro minorenni girano per Shanghai, fino a quando non vengono notati dalla polizia che li rispedisce nell’orfanotrofio-prigione di Kashgar. Ora in Cina nessun altro può più accoglierli, anche se potessero uscire da quel carcere. La loro nonna, la madre di Mihriban, è sempre a letto, non è più autonoma. Altri parenti non vogliono essere coinvolti, per evitare dei guai con le autorità cinesi. Anche la casa dove era sempre vissuta questa famiglia di uiguri, non c'è più. È stata requisita e concessa ad altre persone cinesi, gradite al regime. 

Da ilmessaggero.it il 14 maggio 2022. 

Il presidente cinese Xi Jinping «soffre di un aneurisma cerebrale mortale». L'indiscrezione arriva dall'agenzia di stampa Ani, secondo cui sarebbe malato dalla fine del 2021. Il 68enne però rifiuterebbe di essere curato con un intervento chirurgico. Le voci sullo stato di salute di Xi girano da anni, con nuove speculazioni innescate dalla sua inspiegabile assenza dalle Olimpiadi invernali di Pechino. Nel marzo 2019, durante una visita in Italia e Francia, Xi è stato visto zoppicare e aveva avuto bisogno di aiuto mentre cercava di sedersi. E rivolgendosi al pubblico a Shenzhen nell'ottobre 2020 - al culmine della pandemia di Covid - gli osservatori hanno notato il suo linguaggio lento e la sua tosse.

I timori di un colpo di stato

Intanto sono aumentati i timori di un colpo di stato dopo le misure estreme di blocco del Covid di Xi. Invece di convivere con il virus, la risposta del regime totalitario alla pandemia aveva come obiettivo quello di avere zero casi con confini chiusi, test di massa e quarantene radicali. La strategia brutale della Cina vede restrizioni estreme imposte a paesi e città con solo una manciata di infezioni, con interi edifici sigillati anche se è stato registrato un solo caso.

Allo stesso tempo, il premier Li Keqiang ha lanciato l'allarme sulla situazione occupazionale «complicata e grave» della Cina causata dalle misure di blocco. E per questo i messaggi contrastanti dei capi di governo cinesi hanno sollevato dubbi sul fatto che ci sia una spaccatura in arrivo ai vertici poiché i punti interrogativi incombono su quanto sia sostenibile la strategia della linea dura di Xi.

Richard McGregor, autore di "The Party: The Secret World of China's Communist Rulers", ha dichiarato: «Probabilmente è esagerato dire che Xi e Li sono personalmente ai ferri corti, ma le loro dichiarazioni rappresentano punti di vista divergenti all'interno del sistema su Covid e i suoi impatti.

Gli esperti hanno già affermato che Xi potrebbe essere estromesso da rivali stufi del regime del Paese entro i prossimi 18 mesi. Roger Garside, autore di "China Coup: The Great Leap to Freedom", ha detto che Xi sarà cacciato da oppositori interni al Partito Comunista Cinese in un colpo di stato a Pechino. L'ex diplomatico ritiene che la principale minaccia per Xi proverrà "dai vertici" del Partito Comunista. Ha affermato che la politica cinese zero-Covid potrebbe essere la rovina di Xi poiché la sua strategia esagerata ha «bloccato il paese in isolamento» dal resto del mondo. 

Ha affermato che la politica intransigente potrebbe infliggere «costi pesanti» all'economia e alla società cinesi mentre i cittadini sono alle prese con epidemie in rapida diffusione e disoccupazione mentre le imprese sono costrette a chiudere. E al Sun ha detto: «È concepibile che la loro strategia Covid-19 possa implodere su di loro o causare una crisi politica».

Lorenzo Lamperti per “la Stampa” il 9 maggio 2022.

Ventitre minuti. È il tempo che è stato necessario per contare i voti e annunciare il vincitore delle elezioni per il capo dell'esecutivo di Hong Kong. D'altronde, il candidato era uno solo: John Lee, 64 anni, ex responsabile della sicurezza che ha guidato la repressione delle proteste del 2019. 

Repressione sfociata in una draconiana legge di sicurezza nazionale e in una riforma elettorale che consente di candidarsi solo ai "patrioti". Le autorità la chiamano «democrazia con caratteristiche di Hong Kong». Si sono schierati con Lee in 1416, il 99,2% dei 1428 votanti.

«Il risultato dimostra che la città lo riconosce a pieno titolo», recita il comunicato dell'ufficio di collegamento con il governo di Pechino. Ma il diritto di voto è concesso a un comitato elettorale che rappresenta solo lo 0,02% dei 7,4 milioni di abitanti dell'ex colonia britannica. L'Unione europea, tramite l'alto rappresentante per gli affari esteri Josep Borrell, sostiene che l'elezione di Lee violi i principi democratici e rappresenti «un altro passo nello smantellamento del principio di un paese, due sistemi». 

Un modello che avrebbe dovuto restare in vigore fino al 2047, a 50 anni dalla restituzione di Hong Kong alla Cina, ma che di fatto è stato pensionato molto prima. Con il passaggio di testimone da Carrie Lam a Lee gli attivisti e l'opposizione ormai disarticolata temono che qualsiasi residuo di autonomia venga cancellato definitivamente. Xi Jinping vede in Lee una figura non solo allineata ma anche più forte di quella di Lam, in grado di tenere sotto controllo la città.

La sua nomina rappresenta un chiaro messaggio agli Stati Uniti, visto che il dipartimento del Tesoro di Washington lo aveva sanzionato per il suo ruolo nella repressione violenta delle proteste. Prima della formalità del voto, Lee ha presentato un progetto di governo di 44 pagine nel quale individua quattro obiettivi principali: risolvere la questione abitativa, tutelare la sicurezza nazionale (e dunque il Partito comunista), rafforzare le capacità di governance e la competitività internazionale di quello che è stato a lungo il ponte tra Cina e occidente. Non sarà semplice preservare il ruolo di centro finanziario globale, visto che Hong Kong è sempre più una città cinese come le altre.

Il ricordo della famiglia americana che ospitò Xi Jinping negli Usa nel 1985. Il Giornale il 27 Maggio 2022.

Nel 1985 Xi Jinping, allora segretario del Comitato della Contea di Zhengding nello Hebei del Pcc, condusse una delegazione di specialisti della coltivazione di mais a visitare lo Iowa, negli Stati Uniti. Xi si recò a Muscatine per condurre delle ricerche sull'agricoltura e sull'allevamento del bestiame locali. Qui, nel suo primo viaggio negli Usa, Xi Jinping trascorse due notti nella casa della famiglia Dvorchak. "Era il 1985 ed era ancora giovane. Mentre oggi, quando lo incontriamo, è il presidente della Cina ma è ancora molto gentile e genuino come quando ha visto per la prima volta i miei genitori. Puoi vedere quel luccichio nei suoi occhi", ricorda Gary, figlio dei signori Dvorchak, gli stessi che ospitarono Xi durante il suo soggiorno negli Stati Uniti. "Sa che quello che sta facendo è importante ma, allo stesso tempo, comprende il senso della storia. Perché in un paese con una storia di 5000 anni progredire è un processo a lungo termine. Con lui, la Cina farà un altro passo avanti sulla strada del miglioramento. È molto modesto, ed è un patriota che dedica la vita al suo Paese", osserva Gary. Il video di un ricordo speciale.

La storia tra Xi Jinping e sua madre. Cinitalia l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.

Qi Xin ha trasmesso ai figli ottimi valori familiari, dando lei per prima, il buon esempio. E ancora oggi Xi Jinping trova il tempo per una passeggiata in un parco mano nella mano con la madre e onorare i suoi insegnamenti.

Sin dall’antichità, la profondità dell’amore materno viene celebrata in tutto il mondo. Qi Xin, madre di Xi Jinping, è una madre tenace che vuole “fare ogni cosa nel migliore dei modi”.

Per quanto riguarda l’educazione dei figli, Qi Xin ha trasmesso loro ottimi valori familiari, dando lei per prima, il buon esempio. Fra le sue aspettative nei confronti di Xi Jinping, vi è un ulteriore senso di responsabilità verso lo Stato e il popolo. Per una madre, la sicurezza e la felicità dei figli sono la maggiore soddisfazione, mentre tra le aspettative circa Xi Jinping, Qi Xin, sua madre, nutre ancora più responsabilità per lo Stato e il popolo. I suoi insegnamenti sono stati utili nel corso di tutta la vita di Xi Jinping.

Quando Xi Jinping aveva 5-6 anni, sua madre lo portava sulle spalle a comprare i fumetti della storia di Yue Fei, noto generale patriottico della dinastia cinese dei Song meridionali. Tornati a casa, sua madre iniziava a raccontare una storia sulla madre di Yue Fei, la quale tatuò quattro caratteri cinesi sulla schiena del figlio: “Jing Zhong Bao Guo”, che vogliono dire “servire lo Stato con fedeltà incondizionata”.

Questi quattro caratteri sono rimasti impressi nella mente di Xi Jinping fino ad oggi, diventando l’obiettivo di tutta la sua vita. Quando Xi Jinping andò a lavorare in una squadra di produzione nel nord della provincia dello Shaanxi, Qi Xin gli cucì con ago e filo una borsa, su cui ricamò tre caratteri cinesi di colore rosso: “Niang De Xin” , che in cinese vogliono dire “Cuore di mamma”.

Durante i giorni trascorsi a Liangjiahe, nel nord della provincia dello Shaanxi, Xi Jinping non deluse la madre. Nei 7 anni trascorsi in campagna, allacciò una profonda amicizia con i residenti locali. Quando lasciò Liangjiahe, disse: “Vado via fisicamente, ma lascio qui il cuore”. E così, Liangjiahe diventò la culla delle intenzioni originarie di Xi Jinping.

Durante la Festa di primavera del 2001, Qi Xin ebbe una conversazione telefonica con Xi Jinping, che allora ricopriva l’incarico di governatore della provincia del Fujian. Per il capodanno cinese di quell’anno, Xi Jinping non riuscì a tornare a Beijing per trascorrere con i genitori la festa. Nel sentire che suo figlio non poteva tornare a casa per motivi di lavoro, Qi Xin si dimostrò ugualmente felice: “L’importante è fare bene il proprio lavoro, il che rappresenta la maggiore forma di pietà filiale verso papà e mamma, nonché una responsabilità verso la propria famiglia e sé stessi. Tra questi aspetti non esistono contraddizioni".

In tutti questi anni, Qi Xin ha vissuto una vita semplice, senza godere di nessun privilegio per essere la consorte di Xi Zhongxun. Non ha mai pensato di sfruttare il potere del marito per trovare un lavoro con sede vicina a casa; partecipò soltanto ad un’attività diplomatica in qualità di consorte del vice premier; anche nei tempi più difficili, Qi Xin ha sempre versato il contributo mensile al Partito.

Fra la primavera e l’estate del 2000, incaricata da suo marito, Xi Zhongxun, Qi Xin si recò nelle province di Shaanxi, Gansu e Ningxia, nel nord-ovest della Cina facendo ispezioni sul posto. Nella cittadina di Zhaojin, nei pressi della vecchia area di base rivoluzionaria, Qi Xin, vedendo che le aule della Scuola elementare della Stella Rossa di Beiliang erano inadeguate e che le strutture erano obsolete, decise di donare 150 mila di RMB per la ricostruzione della scuola elementare.

A maggio del 2018, i bambini della Scuola elementare hanno scritto a Xi Jinping, per raccontargli le loro esperienze di apprendimento della storia rivoluzionaria e parlargli degli sviluppi e dei cambiamenti della Scuola. La settimana successiva hanno ricevuto la risposta di Xi, nella quale il segretario generale li incoraggiava a “trasmettere di generazione in generazione il gene rosso con azioni concrete”.

Nell’ufficio di Xi Jinping vi sono diverse fotografie scattate con i genitori e familiari, tra cui una di una passeggiata in un parco mano nella mano con la madre. Xi Jinping nutre una grande pietà filiale per sua madre. A volte, dopo aver mangiato, Xi Jinping la porta a fare una passeggiata all’aperto, chiacchierando con lei e tenendola per mano. Fin dalla sua giovinezza, non importa quanto lontano vada, guardandosi indietro, tiene sempre le mani dei genitori, le radici sono sempre la famiglia.

Negli anni a seguire, in tutti i suoi lavori e incarichi, Xi Jinping ha sempre tenuto bene a mente le raccomandazioni di sua madre, rimanendo fedele ai suoi principi originali e assumendosi le proprie responsabilità nel servire il popolo, questa è “la più grande manifestazione di pietà filiare” verso la propria madre.

Buona festa alle madri di tutto il mondo!

Con la scusa della corruzione, Xi Jinping in Cina fa piazza pulita degli avversari. Il presidente ha dichiarato “tolleranza zero” contro le mazzette e nel 2021 gli arresti sono stati oltre 627mila. Ma la “mani pulite” asiatica è anche una strategia per eliminare i rivali e ingraziarsi il popolo. Simone Pieranni su L'Espresso il 21 febbraio 2022.

19 gennaio 2022, Commissione centrale per l’ispezione disciplinare del Partito comunista cinese. Il presidente Xi Jinping ringrazia gli sforzi della commissione per combattere la corruzione nel paese e in particolare nel Partito e invita a non abbassare la guardia, anzi. «Tolleranza zero», specifica ai funzionari radunati.

Poco dopo escono alcune cifre che danno l’idea di quanto sia accaduto nell’ultimo anno cinese, un vero e proprio record: per aver «violato la disciplina e le leggi del Partito» nel 2021 sono stati puniti 627mila funzionari.

Copiano i nostri brevetti ma non pagano i diritti. L'Europa contro la Cina. Redazione il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Pechino impedisce alle aziende europee di difendersi in caso di scippo di tecnologia. La proprietà intellettuale è un furto o un risarcimento. Il governo di Pechino non nasconde più il suo volto alle aziende occidentali. L'illusione del grande mercato orientale da colonizzare è svanita da tempo. La preda è in realtà il cacciatore. Il messaggio di Xi Jinping è: qui le regole le facciamo noi e voi non troverete neppure un tribunale a cui appellarvi. Un aspetto che svela bene come funzionano le cose è quello dei brevetti. La Ue ha appena presentato una denuncia all'organizzazione mondiale del commercio, il Wto, per tutelare le imprese europee dallo scippo di tecnologia.

La storia è questa. Le compagnie cinesi copiano i brevetti occidentali e si rifiutano di pagarne i diritti. Questo accade in particolare nel settore dell'intelligenza artificiale, del 5 G e dei telefonini. Quando le aziende si sono rivolte a un giudice hanno trovato solo porte chiuse. C'è stato un tentativo di mediazione. I marchi europei si sono impegnati a concedere le licenze a «condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie». Non è cambiato nulla, anzi le cose sono peggiorate. La Corte suprema, nell'agosto del 2020, ha stabilito che i tribunali cinesi possono vietare ai titolari di brevetti di rivolgersi a una corte straniera. È un provvedimento giuridico conosciuto come anti-suit injunction, una inibizione a pretendere giustizia. Chi si ostina viene condannato a pagare 130mila euro al giorno. In meno di due anni sono state multate già quattro aziende. Se poi la legge non risulta abbastanza convincente ci pensa direttamente il governo, che fa pressioni e «minaccia» le imprese europee che esportano in Cina. È un modo molto convincente per chiarire i rapporti di forza. Ora il Wto può anche decidere che tutto questo sia ingiusto, ma il problema è come far applicare la sentenza. Il sospetto è che l'Europa, sempre più vaso di coccio, possa stracciarsi le vesti e ottenere una bella rassicurazione ma è difficile immaginare un passo indietro di Pechino.

Questa storia non è solo uno dei tanti capitoli di una guerra commerciale che il vecchio continente sta perdendo. È anche la fotografia del nazionalismo cinese, di cui il partito comunista ormai incarna valori e rivendicazioni. È, per capirsi, lo stesso spirito che fa dire a Xi Jinping che il ritorno di Taiwan sotto il potere di Pechino è una priorità assoluta. Non è qualcosa che si può mettere in discussione. Le radici di tutto questo sono lontane e risalgono al 1898. Non è un caso che buona parte dei «ladri di brevetti» risiedano nella regione iper tecnologica dello Shandong. È lì che scoppiò la «rivolta dei Boxer». Per gli europei quello scontro di civiltà è uno dei passi del colonialismo, per i cinesi è ancora ricordata come una sorta di apocalisse. È il tramonto di una civiltà millenaria. È una ferita umiliante che gli anni non hanno mai sanato. È un filo rosso sangue che attraversa la rivoluzione maoista e va al di là delle ideologie. È lì, nello Shandong, la terra dove è nato Confucio, che l'impero celeste si è ritrovato in ginocchio davanti ai barbari. Gli intellettuali vicini al segretario del partito comunista non hanno mai smesso, in questi anni, di evocare la vendetta per quella guerra perduta. La rivolta dei Boxer fu la reazione all'influenza culturale e economica delle missioni cristiane e delle compagnie mercantili europee, che con il loro arrivo stavano cambiando la società tradizionale cinese. A guidare la ribellione c'erano delle società popolari chiamate Yihetuan, gruppi di autodifesa della giustizia e della concordia. I capi erano per lo più maestri di kung fu, che gli europei ribattezzarono pugili. La Cina fu sconfitta e dopo la Grande Guerra fu di nuovo umiliata con i trattati di Versailles che regalarono lo Shandong al Giappone. Gli studenti sfilarono a piazza Tiananmen contro la debolezza del governo cinese. Era il 4 maggio 1919 e tra i leader dei manifestanti c'era Mao Tsê-tung. È da lì che viene la vendetta di Pechino. 

La Festa di primavera. Lanterne rosse invadono le strade, è il Capodanno cinese. Silvia Bellucci su Il Riformista l'1 Febbraio 2022 

È la celebrazione più importante nel calendario cinese, segno di rinascita e crescita: è la Festa di Primavera. «Le celebrazioni durano tantissimo, è quasi un mese di festa. Siamo conosciuti come un popolo laborioso ed è così, ma per il Capodanno cinese tutto si ferma, scuole, banche e negozi chiudono» ci racconta Sophia Huang, la sua famiglia porta avanti le tradizioni cinesi, anche se – ci dice – «Stando lontani qualche usanza si è persa – da quando i suoi bisnonni, tra la Prima e la Seconda guerra mondiale hanno lasciato la Cina per trasferirsi in Italia – Le generazioni nate in Europa conoscono meno le usanze, ma rimane comunque un momento molto sentito».

Per questo 2022 il nuovo anno inizierà il 1° febbraio, in Cina – come in Corea, Mongolia, Singapore, Malaysia, Nepal, Bhutan, Vietnam e Giappone – si segue il calendario lunisolare che vede i mesi iniziare in corrispondenza di ogni novilunio: la data del Capodanno dunque cambia di anno in anno oscillando tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. Inizierà l’anno della Tigre, simbolo di coraggio e sicurezza: «Nella tradizione è un animale nobile, segno di forza e resistenza, fisica e psicologica» spiega Sophia. Secondo l’oroscopo cinese, i segni si accompagnano agli elementi: dopo sessanta anni, tornerà per questo 2022 la tigre d’acqua, segno di un anno molto propizio. L’oroscopo cinese è da anni conosciuto e seguito anche qui in Europa: in occasione del capodanno la casa editrice Watson Edizioni ha dedicato a questo tema il volume Antologia fantastica dello zodiaco orientale a cura di Laura Scaramozzino.

La festa, che muove centinaia di miliardi di Yuan, è celebrata anche nelle innumerevoli comunità cinesi sparse per il mondo. In Italia le due città più attive sui festeggiamenti sono senza dubbio Roma e Milano, dove la celebre via Paolo Sarpi è illuminata da centinaia di lanterne rosse. L’inizio di un nuovo anno è uno dei momenti più importanti:  «Sono tante festività cinesi, ma questa è quella in assoluto più celebrata. – spiega ancora Sophia Huang in compagnia della cognata Giulia Chang, anche lei figlia di una coppia di origini cinesi – «Si festeggia in famiglia, è il fulcro della comunità. In molti, lavorando in altre città, fuori dalla regione o dal paese, tornano a casa. I treni e gli aerei sono presi da assalto. È un esodo di massa».

Come per il Capodanno occidentale, sono tantissimi i riti e le usanze, Sophia e Giulia ci raccontano: «In questi giorni di festa è molto importante andare a trovare i genitori, è fortissimo il senso della famiglia e della casa. Se si hanno dei parenti più grandi di noi, si va a fargli visita come segno di rispetto, portando loro dei doni». «E poi si mangia» aggiunge Giulia Chang. Le tavole si riempiono di Nian Gao, i famosi gnocchi di riso: un piatto ben augurante, come dice il nome – Nian, “anno”; Gao, “più alto” – simboleggiano e augurano un nuovo ciclo, migliore e più prosperoso del precedente. Tra i cibi tipici anche il pesce, il cui ideogramma, Yú, simboleggia la ricchezza: «Succede spesso che si preparino pietanze dai nomi ben auguranti, lo facciamo anche per i compleanni quando si mangiano gli spaghetti lunghi, simbolo di lunga vita» aggiunge Giulia.

Non possono mancare il rosso, colore della festa e delle tante lanterne che illuminano strade e case, e i fuochi d’artificio. Questi due simboli risalgono a un’antica leggenda, quella del demone Nian. Uno spirito malvagio che si presentava tra gli umani una volta all’anno, nutrendosi della loro carne. L’unico modo per liberarsi da Nian era spaventarlo con bandiere rosse e forti rumori. Da qui la tradizione che vede ancora molto presenti questi due rituali per liberarsi dai demoni dell’anno precedente. Sulla tradizione cinese tante cose si possono apprendere dalle pubblicazioni della casa editrice romana Atmosphere Libri, specializzata in letteratura asiatica (cinese in particolare) che ha avuto la meritevole idea di tradurre importanti volumi come raccolta di storie vernacolari del periodo della dinastia Ming di Feng Menglong.

La fine dell’anno, per la tradizione cinese, non è un momento di bilanci personali (economici invece sì, è importantissimo per l’economia cinese chiudere tutte le pendenze prima dell’inizio del nuovo anno): «Non è un’occasione per ripensare a quanto fatto o piangersi addosso – dicono Sophia e Giulia – non si fanno regali, ma consegniamo la famosa busta rossa. Le generazioni di mezzo donano del denaro ai più giovani e ai più anziani, in segno – verso questi ultimi – di rispetto. Ricevere e dare è indice di riconoscenza ed è molto importante per la nostra comunità. Ci si augura il meglio, le feste servono per stare insieme ed essere felici». Silvia Bellucci

Il 2021 e la Festa delle Primavera. Che cosa indica il bue: il significato del simbolo dell’anno 2021 e del Capodanno lunare. Vito Califano su Il Riformista il 12 Febbraio 2021 

Si festeggia il 12 febbraio quest’anno il Capodanno cinese. A celebrarlo milioni di persone in tutto il mondo. È conosciuto anche come Festa di Primavera o Capodanno lunare, la festa più importante dell’anno in Cina. Il 2021 sarà l’anno del Bue.

In occasione dell’evento le strade, la casa, i palazzi dove si festeggia vengono colorati di rosso, colore principale e di buon auspicio. L’anno lunare prevede sette giorni di vacanza, le celebrazioni durano 16 giorni. L’anno lunare è una festa importante anche in Corea, Mongolia, Singapore, Malesia, Nepal, Bhutan, Vietnam e Giappone.

Il Bue (o bufalo) è uno dei 12 segni dell’astrologia cinese. Ogni anno è contraddistinto da uno di questi animali prescelti dal Buddha, che variano a rotazione. Il bue è simbolo di abnegazione e diligenza nel lavoro, di pazienza, forza e testardaggine. Un segno di solidità contrapposto al Topo, che era stato il segno dell’anno scorso, portatore di sconvolgimenti.

Il capodanno lunare ha oltre quattromila anni di storia. Coinvolge quasi un miliardo e mezzo di persone in tutto il mondo con danze, tradizioni, sfilate, parate, lanterne. Quest’anno necessariamente in tono minore viste le restrizioni e le misure per la pandemia da coronavirus. Il Capodanno cinese non ha una data fissa come quello occidentale perché è lunisolare, fondato sul moto della luna. L’evento può quindi avere luogo tra il 21 gennaio e il 19 febbraio.

A aprire il Capodanno la Festa di Primavera, quest’anno dal 12 febbraio al 22 febbraio. A chiudere la Festa delle Lanterne dal 23 al 26 febbraio. Il Capodanno cinese porta sempre un messaggio di risveglio e rinascita, serenità e speranza. È considerata anche la festa della famiglia, ci si riunisce già una settimana prima per i preparativi. Vito Califano

Curiosità e storia del Capodanno cinese: la Tigre torna dopo 60 anni. Il Capodanno cinese vale 800 miliardi di yuan: le aziende della moda accorrono creando collezioni ad hoc. E nelle città si preparano i festeggiamenti in vista di martedì 1 febbraio. Gianluca Modolo da Pechino su La Repubblica il 30 Gennaio 2022.

Una Tigre d’Acqua: un anno sotto questo segno non lo si vedeva da sessant’anni. Quel 1962 si aprì con una delle conferenze più imponenti del Partito comunista, quella dei 7mila quadri, per discutere i disastri del “Balzo in Avanti di Mao”. Il Grande Timoniere fece autocritica, ma non durò molto: la Rivoluzione culturale sarebbe arrivata poco più avanti (nel ’66) e il presidente si sarebbe ripreso la scena.

Capodanno cinese. Tra ravioli portafortuna e lanterne rosse, siete pronti all’anno della Tigre? Giulia Cusumano su L'Inchiesta il 29 gennaio 2022.

Se gennaio non è stato all’altezza delle aspettative, non temete, il mese prossimo avrete una seconda possibilità per ripartire con grinta e determinazione. Il 1° febbraio coincide con la festività più importante della Cina e noi abbiamo provato a capire quali sono i piatti tipici di buon auspicio e dove mangiarli a Milano. 

Il countdown verso il nuovo anno è (ri)cominciato. Se il debutto del 2022 non vi è sembrato poi così entusiasmante, se non avete ancora pensato ai famigerati buoni propositi, se avete la sensazione di non esservi ancora messi in gioco con lo spirito necessario, avete a portata di mano una seconda possibilità. Riavvolgete il nastro, sintonizzatevi sul calendario cinese, praticate un po’ di autoindulgenza e fate coincidere l’inizio del vostro nuovo anno con il 1° febbraio. È questa la data in cui in Oriente – secondo il calendario cinese che si basa sul calcolo dei movimenti della luna e della rotazione terrestre attorno al sole – partirà ufficialmente l’anno della Tigre.

Per i cinesi il Capodanno è una cosa seria. Si chiama anche Festa di Primavera, si celebra per ben 15 giorni consecutivi e si conclude con la Festa delle Lanterne. Come accade in diverse città del mondo in cui le comunità cinesi sono molto radicate, anche Milano è pronta a dare il benvenuto alla Tigre. Via Paolo Sarpi, cuore della Chinatown meneghina, è già da qualche settimana addobbata per l’occasione; dopo lo stop dell’anno scorso a causa della pandemia, lungo la strada che collega piazza Gramsci a piazzale Baiamonti sono tornate a luccicare le lanterne rosse, quest’anno affiancate da fili di luci scintillanti e piccoli lucernari colorati. 

Tradizionalmente, via Sarpi, la domenica più prossima al Capodanno, diventa teatro di una parata trionfale: al centro della scena, protagonista indiscusso della festa, l’enorme dragone colorato, che sorretto da possenti pali portati a braccio avanza lungo la via accompagnato da musiche popolari e performance acrobatiche di danzatori in costume. Una bellissima festa organizzata dalla comunità cinese cui anche i milanesi partecipano con grande trasporto e divertimento. Purtroppo, nemmeno quest’anno si terrà la parata, ma l’atmosfera che si respira in questi giorni lungo la via merita comunque una visita alla ricerca del dim sum portafortuna o dello spaghetto di Capodanno più lungo e benaugurante.

I piatti della fortuna 

La cena di Capodanno in Cina rappresenta una vera e propria invocazione alla dea bendata, un rituale da compiere rigorosamente in famiglia, davanti a una tavola imbandita con specifiche pietanze che assumono significati di prosperità e fortuna. È così che i ravioli, consumati soprattutto nel nord del Paese, diventano simbolo di ricchezza, per via della loro forma simile ai lingotti usati nella Cina imperiale. Con maiale, pollo, manzo, verdure, gamberi, al vapore, alla piastra o fritti: come saprà bene chi frequenta i ristoranti orientali le varianti sono tantissime e una più saporita dell’altra, ma gli ingredienti che non possono assolutamente mancare nei ravioli di Capodanno, pena un anno di scarsa fortuna, sono il cavolo bianco (pak-choi) e l’erba cipollina. Nelle regioni del sud al posto dei ravioli si mangiano gli involtini, anche loro metafora dei lingotti d’oro, apprezzabili nelle varianti con carne, pesce e verdure. Inutile dirlo: più se ne mangiano, più guadagni arriveranno. Molto diffusi anche gli gnocchi di riso, cotti al vapore e conditi con soia e verdure. 

A mettere d’accordo tutti sono gli spaghetti: quelli di Capodanno sono molto lunghi, vanno serviti e mangiati interi, se si desidera una vita longeva e felice. Si possono mangiare saltati o in brodo. Fondamentale poi la presenza in tavola del tofu, la cui pronuncia in cinese ricorda un modo di dire che significa “buona fortuna”, così come il pesce, che simboleggia l’appetito e l’abbondanza: è lui il re della festa, e per questo viene posizionato al centro della tavola intero, con la testa nella direzione dei commensali più importanti. Tra i più apprezzati, la carpa, il pesce gatto e il pesce ragno.

La cena si conclude con la frutta – via libera ad arance, mandarini e pompelmi per un nuovo anno all’insegna del successo – e soprattutto con la torta della tradizione: il Nian gao (dove “gao” significa “alto”, in riferimento a un augurio per un anno più “alto” e migliore rispetto al precedente).  Si tratta di un dolce sottile, di una sostanza simile al budino, a base di farina di riso glutinoso, zucchero di canna, zenzero, melassa, foglie di loto, noci e datteri cinesi.

Dim sum perfetti e dove trovarli in Chinatown

Se volete immergervi nell’atmosfera orientale senza dover prendere un aereo e attraversare l’oceano, dunque, in questi giorni fate un salto in via Sarpi, dove ristoranti e botteghe di street food saranno lieti di servirvi i piatti della tradizione per dare il benvenuto all’anno della Tigre. Jin Yong offre un menù di decine di pagine: oltre agli spaghettoni fatti in casa conditi con verdure e gamberi davvero strepitosi, troverete un’ampia selezione di pesce condito con salse agrodolci o soia, tra cui branzino, rombo, pesce persico e i gamberoni. 

Tra le ultime aperture, non perdetevi I sapori di Shangai arredamento in stile orientale, menù ricco ma non eccessivo, possibilità di ordinare con il tablet: usatelo per prenotare almeno una porzione di ben auguranti ravioli di carne brasati alla Shanganese. Scoprirete così se è vero che “raviolo porta guadagno”. 

Se invece volete provare un menù più sofisticato, pur nel segno della tradizione, spingetevi appena fuori da via Sarpi e raggiungete Bon Wei. Qui dal 1 al 13 febbraio lo chef Zhang proporrà una selezione di piatti – ravioli, riso, pesce, anatra e molto altro – abbinati agli Amarone prodotti dall’Associazione Le Famiglie Storiche. Per un ingresso nell’anno della Tigre davvero gourmet.

Cina, con la campagna contro i corrotti Xi Jinping riprende il controllo dello stato. MICHELANGELO COCCO su Il Domani il 27 gennaio 2022.

Negli ultimi dieci anni, più di 900.000 membri (circa l’1 per cento dei 95 milioni di iscritti) sono stati cacciati dal Partito comunista nell’ambito della campagna contro piccoli e grandi corrotti lanciata da Xi Jinping nel 2013.

In passato, ai cicli di repressione seguivano quelli di liberalizzazione, finché le mazzette ricominciavano a circolare spudoratamente e le manette riprendevano a tintinnare.

Xi invece ha reso l’anticorruzione «permanente» con epurazioni e arresti di massa che sembrano aver rafforzato la legittimità del partito. E dopo i politici adesso toccherà agli imprenditori.

La Cina ora ha la sua capitale dei microchip: è la metropoli di Shenzhen. 03/10/2019 Shenzhen. Spettacolo di luci per le celebrazioni dei 70 anni della Repubblica popolare cinese. MICHELANGELO COCCO su Il Domani il 28 gennaio 2022.

Nel ricordarvi che il prossimo 1 febbraio in Cina scatterà l’anno della Tigre, questa settimana partiamo da un importante progetto del governo di Pechino per tentare di recuperare il ritardo nel settore dei microchip e delle componenti elettroniche più avanzate.

Venti di guerra in Ucraina… e Cina e Russia rafforzano la loro cooperazione politico-militare: in Asia per gli Stati Uniti si annunciano tempi difficili. L’economia cinese rallenta? Il governo vara pesanti sgravi fiscali per le pmi.

Infine un esperimento di (quasi) fantascienza: un robot collaborativo che legge nella mente del compagno (umano) di lavoro e promette di rivoluzionare le catene di montaggio. Per iscriverti alla newsletter clicca qui e segui tutti i contenuti di Weilai. Buona lettura 

MICHELANGELO COCCO.  Analista politico del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. Ex corrispondente da Pechino per il quotidiano il manifesto, è autore di "Una Cina 'perfetta' La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale" (Carocci 2020). Vive tra l'Italia e la Repubblica popolare cinese.

La sfilata di autocrati al banchetto di Xi per l’apertura dei Giochi. Gianluca Modolo su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.  

Nella lista di leader invitati ci sono Al Sisi e Mbs, Vucic e Tokaev. Tutti hanno in comune gli stretti rapporti economici con la Cina. Il russo Putin, l’egiziano Al Sisi, il saudita Bin Salman, il serbo Vucic, il kazako Tokaev: tutti insieme al tavolo di Xi Jinping. Tra boicottaggi diplomatici annunciati da mesi (Stati Uniti in primis) per denunciare gli abusi nel Xinjiang, la stretta su Tibet e Hong Kong e, da ultimo, la vicenda della tennista Peng Shuai, e “gentili” rifiuti data la situazione Covid (Giappone, tra gli altri), al banchetto preparato per l’apertura dei Giochi e sugli spalti dello stadio Nido d’uccello la sera del 4 febbraio per la cerimonia inaugurale, Xi si ritroverà accanto soltanto — e probabilmente non gli dispiacerà — una cerchia ristretta di una ventina di dignitari stranieri fidati: non tutti propriamente...

E Xi usa i Giochi come arma diplomatica "Per Putin ci sarà un occhio di riguardo". Luigi Guelpa il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Diffuso l'elenco dei leader che saranno ricevuti all'inaugurazione delle Olimpiadi invernali. Il Cremlino: "Si parlerà anche della crisi".

Le olimpiadi invernali di Pechino servono a Xi Jinping per mostrare al mondo la rinnovata potenza della Cina. Saranno funzionali a rafforzare il consenso interno, cementare i legami tra il regime e alcuni grandi interessi privati che hanno contribuito a finanziare l'evento, ma soprattutto a irrobustire il dialogo con lo storico alleato russo. Xi osserva con grande attenzione le manovre di Putin nel Donbass, vorrebbe quasi invitare il leader del Cremlino a invadere i confini ucraini per comprendere meglio le eventuali contromosse dell'Occidente, e casomai armare le sue truppe e sbarcare a Taiwan. Saranno quindi giochi politici quelli che si apriranno martedì prossimo, perché a dispetto della retorica le olimpiadi sono un fenomeno politico come pochi altri, con buona pace degli atleti e delle loro gesta.

Non a caso il presidente cinese riceverà oltre venti leader stranieri la settimana prossima. Oltre a Putin ci saranno anche il presidente egiziano, Al Sisi e il principe ereditario saudita Bin Salman. Arriverà anche il discusso presidente kazako Tokayev, e dall'Europa il polacco Duda, il serbo Vucic, il principe Alberto di Monaco e il granduca Enrico del Lussemburgo. Putin sarà l'ospite che riceverà un trattamento di favore. Secondo quanto si legge nel programma, il capo del Cremlino, oltre a partecipare alla cerimonia d'apertura dei giochi nel pomeriggio del 4 febbraio, «terrà un evento con Xi per rimarcare la solidità dei legami», conferma il suo portavoce Dmitry Peskov. «L'incontro sarà a tutto campo - aggiunge - e vedrà impegnati i due Presidenti sia da soli che insieme alle delegazioni. Putin e Xi sincronizzeranno i loro orologi sui settori principali di cooperazione». I due leader discuteranno in particolar modo del dialogo fra Russia e Stati Uniti, tra Mosca e Nato, di garanzie di sicurezza e della stabilità strategica in Europa. Va ricordato che alla delegazione russa, incluso Putin, sarebbe vietato partecipare alle competizioni internazionali dopo lo scandalo del doping di Stato. L'ostacolo è stato aggirato grazie all'invito personale di Xi. Si tratta di uno scambio di favori, visto che proprio Xi si recò nel 2014 a Sochi in occasione dei giochi a cinque cerchi russi. Da quella data sono cambiati gli scenari internazionali, e il rapporto tra Mosca e Pechino si è ulteriormente rafforzato. Il comune fronte anti-occidentale, e una forte sussidiarietà economica, hanno fatto sì che i due Paesi aumentassero notevolmente i loro rapporti commerciali dal 2014 a oggi. Per la Russia la Cina, con le sue necessità di risorse energetiche, rappresenta un mercato enorme, in crescita e vicino. Allo stesso tempo, la Cina fornisce alla Russia beni manifatturieri e investimenti a prezzi competitivi.

Il mondo starà a guardare con grande attenzione al bilaterale Putin-Xi, ma a distanza di sicurezza. La kermesse è segnata dal boicottaggio diplomatico di diversi Paesi occidentali, per le violazioni dei diritti umani sugli uiguri. Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia, Canada e Danimarca non invieranno delegazioni diplomatiche a Pechino. Altri Paesi si aggrapperanno invece alle restrizioni della pandemia per giustificare l'assenza. Luigi Guelpa

Gabriele Carrer per formiche.net il 30 gennaio 2022.

Telefoni e computer di atleti, staff e giornalisti italiani impegnati a Pechino 2022 sono “al sicuro”. I timori di violazioni e sorveglianza sono “infondati”. Per questo, il Coni non ha pensato di mettere a loro disposizione telefoni usa e getta. È quanto spiega l’ufficio stampa dell’organismo a Formiche.net in vista delle Olimpiadi invernali che inizieranno il 4 febbraio nella capitale cinese.

Altre delegazioni, tra cui quella degli Stati Uniti, hanno fatto scelte diverse. 

A differenza delle passate edizioni dei Giochi, per quelli di Pechino non sono attesi grandi attacchi informatici da Paesi culle di hacker come Corea del Nord, Iran e soprattutto Russia per via dei loro legami geopolitici con la Cina.

Piuttosto, hanno avvertito gli esperti della società Recorded Future, bisogna aspettarsi offensive di hacktivisti decisi a prendere di mira la Cina (anche attraverso gli sponsor dell’evento) per i diritti umani violati e tentativi di violare la sicurezza e la privacy degli atleti e ai giornalisti.

La mente corre al precedente delle Olimpiadi estive del 2008 a Pechino, quando i giornalisti hanno scoperto di non poter accedere a molti siti web, nonostante le ripetute promesse del Comitato olimpico internazionale e dei funzionari cinesi di un accesso illimitato. Il Cio aveva poi ammesso di aver stretto un accordo con le autorità cinesi accettando alcune restrizioni.

Questa volta la situazione è, se possibile, ancor più complicata vista la stretta della censura che il governo cinese ha messo in atto negli ultimi anni, in particolare dopo le proteste a Hong Kong e la visibilità internazionale alla situazione degli uiguri nello Xinjiang. 

Questioni che hanno spinto alcuni Paesi al boicottaggio diplomatico dei Giochi. Tra questi, gli Stati Uniti e il Regno Unito. Non l’Italia, che sarà rappresentata dall’ambasciatore a Pechino Luca Ferrari, in assenza di Valentina Vezzali, sottosegretaria allo Sport, risultata positiva al Covid-19, e che sta lavorando con la Cina in vista del passaggio di testimone: tra quattro anni i Giochi invernali si terranno, infatti, a Milano e Cortina.

Pechino ha promesso alle delegazioni libero accesso alle piattaforme di social media e altri siti web nel villaggio olimpico di Pechino aprendo temporaneamente e localmente il suo “Grande firewall”. 

Le autorità cinesi hanno detto che atleti e media avranno accesso illimitato a Internet attraverso speciali carte Sim. Inoltre, tramite le ambasciate cinesi nel mondo, hanno respinto i timori delle delegazioni spiegando che i dati sono “al sicuro”. 

“È un modo per la Cina di diffondere facilmente narrazioni positive sulle Olimpiadi di Pechino, in mezzo a tutte le critiche sui diritti umani”, ha detto Kenton Thibaut, China Fellow presso il Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council al sito Axios.com.

Più duro Victor Cha, vicepresidente del Center for Strategic and International Studies: “Si danno queste arie come se stessero permettendo la libertà di parola e di movimento, cose che sono sinonimo della tradizione liberale delle Olimpiadi.

Ma in realtà, tutto è attentamente monitorato”. Poi ha aggiunto: “Anche se permettono l’accesso ai social media, non credo che nessun atleta twitterà qualcosa su Hong Kong o Taiwan”. Secondo Thibaut, anche il Wi-Fi in dotazione rappresenta un rischio: gli atleti che lo utilizzano “devono semplicemente presumere che tutto ciò che stanno facendo sia monitorato”.

Nelle scorse settimane il New York Times aveva raccolto i timori, sotto anonimato, di alcuni atleti spaventati: criticare il governo cinese pubblicamente potrebbe scatenare dure reazioni. 

Anche perché “il governo cinese ha gli strumenti e le capacità per tracciare e monitorare ciò che gli atleti stanno facendo e ciò che dicono, e non ha paura di usare misure coercitive se lo ritiene necessario”, ha detto Steven Feldstein, senior fellow al Carnegie Endowment for International Peace, a Axios.com.

Gli esperti di sicurezza informatica raccomandano telefoni usa e getta, utilizzo di Vpn, carte Sim non fornite delle autorità cinesi. E nei giorni scorsi gli analisti di Citizen Lab hanno riscontrato problemi di crittografia nell’app My2022, obbligatoria per gli atleti per il monitoraggio delle condizioni di salute e la prevenzione della diffusione del Covid-19.

Molte le delegazioni che stanno correndo ai ripari, come riporta Axios.com. Le autorità olandesi hanno invitato gli atleti a lasciare telefoni e computer portatili a casa. Quelle britanniche hanno messo a disposizione dispositivi usa e getta per gli atleti interessati.

Quelle tedesche hanno fornito smartphone del partner Samsung e invitato gli atleti a utilizzare soltanto l’app My2022, per il monitoraggio delle condizioni di salute. Quelle statunitensi hanno avvertito che “ogni dispositivo e ogni comunicazione, transazione e attività online saranno monitorati” e ha invitato gli atleti a usare dispositivi usa e getta.

Dagotraduzione da Axios il 2 febbraio 2022.

È probabile che il Covid causi un calo del pubblico, della fanfara e del prestigio solitamente associati a chi ospita le Olimpiadi. 

Il quadro generale: stadi vuoti, divieto di visitatori stranieri e una migrazione alimentata dal COVID tra gli spettatori globali lontano dalla TV e allo streaming probabilmente ridurranno l'attenzione che Pechino sperava di raccogliere dai Giochi.

Dettagli: la rigida politica zero-COVID della Cina ha portato i funzionari del paese a vietare gli spettatori stranieri, così come la maggior parte dei fan cinesi. 

Un sistema "a circuito chiuso" isolerà tutti i partecipanti olimpici e il personale dai residenti locali. Alcuni governi hanno affermato che non invieranno delegazioni di funzionari a causa del COVID. 

Il governo cinese ha pianificato di utilizzare le Olimpiadi per il debutto globale della sua nuova valuta digitale nazionale e ha fatto pressioni su McDonalds, Nike e altri grandi marchi affinché accettassero pagamenti nella nuova valuta durante i Giochi.

Ma la mancanza di visitatori stranieri e l'isolamento dei partecipanti alle Olimpiadi intaccheranno il lancio di alto profilo previsto da Pechino. Lo yuan digitale sarà ancora uno dei soli tre metodi di pagamento che gli atleti stranieri potranno utilizzare nelle sedi olimpiche. 

Contesto: il pubblico televisivo statunitense delle Olimpiadi di Tokyo lo scorso anno ha subito il passaggio a piattaforme di streaming come Netflix e Hulu durante la pandemia. La NBC, che ha i diritti statunitensi per trasmettere le Olimpiadi, si affidava ancora principalmente alla TV per la sua trasmissione olimpica e la sua nuova piattaforma Peacock, l'unica piattaforma di streaming per mostrare le Olimpiadi, non ha attirato molti spettatori.

Anche la mancanza di fan sugli spalti, il tifo e il senso di condivisione di accompagnamento, hanno ridotto l'entusiasmo tra gli spettatori. Il che ha anche eliminato quello che di solito è uno degli scatti più importanti e virali delle Olimpiadi, il video dei familiari degli atleti seduti sugli spalti per poi reagire alla vittoria del loro atleta. 

Per affrontare questi problemi alle Olimpiadi di Pechino, la NBC trasmetterà in simultanea i familiari degli atleti che guardano da casa nella speranza di cogliere momenti di gioia ed eccitazione. La società ha anche semplificato la visione dei Giochi su Peacock.

Cosa guardare: Tokyo è stata la prima Olimpiade di TikTok . A Pechino, i video virali di TikTok degli atleti possono aiutare a riportare parte del pubblico e dell'entusiasmo.

Arresti e torture, la Cina vince le Olimpiadi della paura. Pechino pronta a ospitare i Giochi invernali, mentre la repressione colpisce anche donne e bambini. Ma il presidente del Coni boccia il boicottaggio: «Il mio ruolo è solo sportivo». Fabrizio Gatti su l'Espresso il 17 gennaio 2022.

Il regime nazionalcomunista cinese è pronto per il ritorno sul palcoscenico globale. Venerdì 4 febbraio lo stadio nazionale di Pechino ospiterà in mondovisione la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali. È il primo appuntamento internazionale con la Cina, a due anni esatti dallo scoppio della pandemia. L’Italia sportiva parteciperà ai massimi livelli, a cominciare dal presidente del Coni, Giovanni Malagò. 

Dagotraduzione dalla Reuters il 26 gennaio 2022.

Gli organizzatori delle Olimpiadi di Pechino stanno al passo con la tradizione di mettere a disposizione degli atleti i preservativi, nonostante le dettagliate linee guida sul distanziamento sociale volte a frenare la diffusione del COVID-19 all'interno del "circuito chiuso" in cui i Giochi si svolgeranno. 

«Tutte le unità legate alle Olimpiadi forniranno quantità adeguate di preservativi gratuitamente al momento opportuno alle persone che hanno effettuato il check-in per rimanere all'interno del circuito», hanno detto gli organizzatori a Reuters via e-mail martedì.

I Giochi si svolgeranno dal 4 al 20 febbraio a Pechino e nella vicina città di Zhangjiakou all'interno di una bolla che separerà rigorosamente gli atleti e il personale dei Giochi dal pubblico. 

I giornalisti che hanno fatto il check-in al Guizhou Hotel, che si trova all'interno del circuito chiuso, hanno trovato cinque preservativi avvolti singolarmente in ogni stanza. Erano confezionati singolarmente in buste di diversi colori decorate con l'immagine di una lanterna cinese.

Gli organizzatori non hanno detto immediatamente quanti preservativi avrebbero distribuito. 

Nel playbook sulle misure COVID-19 per il personale dei Giochi, agli atleti viene chiesto di ridurre al minimo le interazioni fisiche come abbracci, dare il cinque e strette di mano e di mantenere una distanza sociale di almeno due metri dagli altri concorrenti.

In vista dei Giochi di Tokyo della scorsa estate, gli organizzatori hanno dichiarato di aver pianificato di regalare circa 150.000 preservativi, ma hanno detto agli atleti di portarli a casa piuttosto che usarli nel villaggio olimpico a causa delle regole di distanziamento sociale e delle misure del coronavirus.

Un gran numero di preservativi è stato distribuito ai Giochi dalle Olimpiadi di Seoul del 1988 per aumentare la consapevolezza sull'HIV e l'AIDS, e gli organizzatori di Tokyo hanno affermato che il Comitato Olimpico Internazionale ne aveva chiesto la continua distribuzione.

La Cina delle Olimpiadi alla conquista del mondo. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.

Com’è cambiato il Paese dal 2008 al 2022, e come l’Occidente è rimasto indietro. Da un’Olimpiade all’altra sembriamo più consapevoli delle minacce cinesi. 

Dai Giochi estivi di Pechino nel 2008 alle Olimpiadi invernali del 2022: il confronto tra i due eventi a 14 anni di distanza rivela tutto ciò che è cambiato nel mondo. Quanto è diversa la Cina di oggi, e la percezione che ne abbiamo noi. Quanto è più debole l’Occidente, che diffida di Xi Jinping ma si rivela incapace di ridurre la propria dipendenza dal made in China. Qualche coincidenza è emblematica. I Giochi del 2008 si aprivano mentre l’America stava per sprofondare nella crisi dei mutui, un tornante decisivo del suo declino. E in quei giorni la Russia attaccava la Georgia sotto gli occhi di un George W. Bush impotente perché impantanato in troppi conflitti (Iraq, Afghanistan). 

Ai Giochi del 2008, che seguii come corrispondente da Pechino, nessuno si sognò di immaginare un boicottaggio. La Repubblica Popolare fu omaggiata da delegazioni governative di alto livello e Vip da tutto il mondo. Era il momento in cui «scoprivamo» la nuova superpotenza in tutto il suo fulgore, e per rendersi bella la capitale aveva chiamato archistar internazionali a costruire edifici spettacolari. Gli abusi contro i diritti umani erano già ben visibili: pochi mesi prima dei Giochi c’erano state rivolte in Tibet, schiacciate col pugno duro dell’esercito. Ma il capitalismo occidentale era in piena luna di miele con la «fabbrica del pianeta», dove oltretutto riusciva a delocalizzare le produzioni più inquinanti. In particolare la simbiosi tra l’economia americana e quella cinese sembrava perfetta, una complementarietà armoniosa. Nell’establishment americano molti teorizzavano che a furia di arricchirsi i cinesi sarebbero diventati proprio come noi: più liberi, più democratici. 

I Giochi invernali 2022 si apriranno in un mondo irriconoscibile. La crisi dei mutui, allargatasi fino a diventare uno schianto finanziario globale, fece esplodere contraddizioni enormi dentro gli Stati Uniti: consentì l’elezione di Barack Obama ma alimentò una rabbia operaia contro i danni della globalizzazione, che ci avrebbe dato Donald Trump. La Cina fu l’unica grande economia a salvarsi, usando con vigore tutti gli strumenti del dirigismo e del capitalismo di Stato. Risale al 2008 una sorta di «epifania» cinese: la rivelazione di tutte le fragilità occidentali agli occhi della dirigenza comunista. Cominciò a manifestarsi un complesso di superiorità, e l’ascesa dell’autocrate Xi Jinping dal 2012 ha confermato una classe dirigente sempre più sicura di sé, fino all’arroganza. È nata nella diplomazia cinese la generazione dei «guerrieri lupo», con un linguaggio nazionalista e bellicoso che spazza via le cautele tradizionali. Dalle Nuove Vie della Seta all’espansionismo anche militare in Asia e in Africa, un progetto egemonico ha preso corpo. 

Il Covid poteva deragliare la marcia trionfale della Cina. Il bilancio finale è prematuro, per adesso Xi è convinto di aver trasformato una potenziale débacle in una vittoria. Continua a perseguire una irrealistica politica del «Covid zero», l’estirpazione completa del virus, con costi umani enormi. I Giochi blindatissimi che stanno per aprirsi sono il culmine di questo esperimento estremo. L’apparizione di piccoli focolai di contagio ha fatto scattare nuovi lockdown in grandi città come Xian; restrizioni mirate hanno colpito i porti di Shanghai, Tianjin, Ningbo. La xenofobia viene alimentata dall’alto con fake-news ufficiali sul contagio importato attraverso prodotti stranieri. Atleti e allenatori vivono in una «bolla» isolata. Le vendite di biglietti sono state chiuse. La capitale, sede principale dei Giochi e anche della classe dirigente, è circondata da un cordone sanitario. Gran parte della popolazione cinese, in particolare i migranti delle campagne, subirà divieti di viaggio durante la festività del ricongiungimento familiare, il Capodanno lunare. Ci sono tutte le condizioni perché la società cinese, dopo due anni di restrizioni, sia una «pentola a pressione» pronta a esplodere, ma finora non sono giunti fino a noi dei segnali di tensioni sociali gravi. 

Alla pandemia si aggiungono tutti i problemi antecedenti: la crescita economica continua a rallentare; le bolle finanziarie soprattutto nel settore immobiliare sono mine vaganti; il crollo della natalità e la rapida decrescita demografica provocano un invecchiamento a cui la Cina è impreparata. Affrontare insieme questi problemi sembra quasi impossibile: terapie d’urto contro le bolle speculative, o per la riduzione delle emissioni carboniche, sarebbero un ulteriore freno alla crescita che Xi non si può permettere. 

Alle sue debolezze nascoste la Cina risponde con un’esibizione di autostima, che contrasta con lo stato d’animo dell’Occidente: angosciato e depresso. Da un’Olimpiade all’altra sembriamo più consapevoli delle minacce cinesi, più spaventati, e al tempo stesso più insicuri di noi stessi. Il «boicottaggio diplomatico» di questi Giochi — che significa solo non mandare delegazioni governative di alto rango — vede gli alleati divisi (l’Italia è tra i Paesi che non partecipano). I dazi di Trump, le varie forme di embargo e sanzioni, la strategia delle alleanze di Biden, non hanno scalfito la macchina da guerra delle esportazioni made in China. Al contrario. Le economie occidentali soffrono per scarsità di prodotti e manodopera, inflazione; le penurie vanno dalle navi porta-container ai camionisti. L’unica cosa che non scarseggia sono le importazioni dalla Cina: basta entrare in una farmacia europea a comprare delle mascherine, o navigare nel catalogo di Amazon, per averne conferma. Xi Jinping almeno finora è riuscito in un’impresa inverosimile: ha «sequestrato» 1,4 miliardi di cinesi con la semi-chiusura delle frontiere, senza indebolire l’apparato industriale del suo Paese. 

Xi ha un mare di problemi e il trionfalismo della sua propaganda non deve farci velo. Ma finora quello più facile da gestire siamo noi occidentali. Il record storico dell’attivo commerciale cinese a 676 miliardi di dollari a fine 2021 ha chiuso il secondo anno della pandemia in modo clamoroso. Nello scacchiere geopolitico, Medvedev nel 2008 irritò Pechino guastando l’inaugurazione dei Giochi con l’operazione-Georgia; oggi l’asse tra Cina e Russia si è consolidato e incoraggia le mire di Putin in Europa.

·        Quei razzisti come i nord coreani.

 

Il “cerchio rosa” di Kim Jong Un: le donne più importanti della Corea del Nord. Federico Giuliani il 19 Ottobre 2022 su Inside Over.

Dall’ormai nota Kim Yo Jong alla misteriosa donna con il borsone nero apparsa nelle ultime settimane e ancora da identificare. In Corea del Nord, il cerchio rosa di Kim Jong Un si è arricchito di una new entry della quale non si conosce neppure il nome. Potrebbe trattarsi di Kim Sol Song, una delle due sorellastre del presidente nordcoreano, oppure di Hong Yun Mi, un ex membro della Moranbong Band, gruppo musicale femminile famosissimo oltre il 38esimo parallelo.

L’aspetto più interessante da notare è che a Pyongyang ci sono ormai almeno cinque volti femminili che ricoprono ruoli rilevanti all’interno del sistema politico nazionale. In principio le luci dei riflettori erano solite accendersi sulla citata Kim Yo Jong, sorella minore di Kim che, negli anni passati, in concomitanza con le prolungate assenze del Grande Leader, sembrava potesse essere la candidata principale a succedere al fratello. Adesso Miss Kim è idealmente “affiancata” da altre donne, ciascuna con compiti tanto fondamentali quanto tra loro complementari: supportare Kim e il governo nordcoreano.

Kim Yo Jong

La donna più nota è Kim Yo Jong, la potente sorella del leader nordcoreano entrata nel Comitato centrale. Il volto di miss Kim è apparso sulle televisioni di tutto il mondo in occasione delle Olimpiadi invernali del 2018 a Pyeongchang, in Corea del Sud. Qui ha incontrato l’allora presidente sudcoreano, Moon Jae In, e pure l’ex vicepresidente americano, Mike Pence. In quell’occasione, Miss Kim avrebbe fatto le veci di Kim Jong Un, del quale si pensa inoltre si tutt’ora una delle artefici della sua strategia comunicativa.

Con il passare degli anni la sorella di Kim ha scalato diverse posizioni all’interno del sistema politico nordcoreano, fino a diventare alto funzionario del Comitato centrale (marzo 2014), direttrice del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda del partito (luglio 2015) e membro supplente dell’ufficio politico (2017). Secondo alcune indiscrezioni Kim Yo Jong rivestirebbe anche una carica vice ministeriale non meglio specificata.

Tra le ultime mansioni, Miss Kim sarebbe stata incaricata di dare una risposta pubblica alla nuova amministrazione democratica guidata da Joe Biden. Kim Yo Jong ha infatti invitato il nuovo presidente degli Stati Uniti a evitare di “sollevare un polverone” e ha lanciato altri avvertimenti all’indirizzo di Washington.

Ri Sol Ju

Ri Sol Ju è la moglie di Kim Jong Un e, dal 2018, rispettata first lady. Quando il presidente nordcoreano è arrivato al potere, nel dicembre 2011, ha subito mostrato al popolo e al resto del mondo il volto di Ri. La donna è poi scomparsa nel 2016, per poi tornare dopo nove mesi. Probabile motivo dell’assenza: la nascita di un bambino (o una bambina). La coppia dovrebbe avere due figli, dei quali non si conoscono i nomi.

Sono pochissime le informazioni su Ri Sol-ju, al punto che alcuni analisti ipotizzano che il suo nome sia uno pseudonimo. L’anno di nascita di Ri potrebbe essere compreso tra il 1985 e il 1989. La sua famiglia dovrebbe appartenere all’élite politica. La donna, inoltre, potrebbe aver studiato nella scuola media Geumsung 2 di Pyongyang, ed effettuato studi anche Cina, dove si sarebbe diplomata in canto. Una volta rientrata in patria si sarebbe quindi laureata presso la Kim Il-sung University, ottenendo un dottorato in scienze. Su di lei, sappiamo poco altro. 

Hyon Song Wol

Hyon Song Wol, ex cantante della band musicale delle Moranbong, è stata promossa al grado di vicedirettrice nel Comitato centrale. Già ex famosa cantante nonché leader della band nordcoreana Moranbong, archiviata la professione di cantante, Miss Hyon è scomparsa per poi ritornare nel 2018.

Negli ultimi mesi ha assunto il ruolo di vicedirettrice del Dipartimento di Agitazione e propaganda, il solito, per intenderci, ricoperto a suo tempo da Kim Yo Jong. Il 10 ottobre era seduta alle spalle di Kim Jong Un. A conferma della sua importanza.

Nel dicembre 2015, Hyon si è recata a Pechino per esibirsi con la Moranbong Band in una serie di concerti privati. Nel 2017 è stata nominata membro del Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori della Corea. Ha quindi partecipato a colloqui con la Corea del Sud per prepararsi alla partecipazione della Corea del Nord alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang 2018. La visibilità di Hyon nella politica nordcoreana, come detto, è aumentata nel 2020, quando ha collezionato più apparizioni, inclusa un’ispezione nelle aree nordcoreane devastate dai tifoni, in compagnia di Kim Jong Un.

Choe Son Hui

Choe Son Hui è l’attuale ministro degli Esteri della Corea del Nord. È stata promossa nei mesi scorsi ed è la prima donna del Paese a ricoprire questo ruolo. La signora Choe ha alle spalle una brillante carriera diplomatica e risulta essere una delle più strette collaboratrici del presidente nordcoreano Kim Jong Un. Era già vice ministro degli Esteri all’epoca dei negoziati, poi falliti, con gli Usa guidati da Donald Trump sulla denuclearizzazione della penisola coreana.

Il personaggio di Choe Son Hui – così come quelli della maggior parte dei politici nordcoreani – è avvolto nel mistero, tra indiscrezioni, voci e notizie non sempre confermate. Secondo quanto riportato da fonti sudcoreane, la signora è nata il 10 agosto 1964, presumibilmente a Pyongyang, anche se non ci sono conferme in merito.

Choe vanta un decennio di esperienza nel ministero degli Affari Esteri, all’intero del quale scalerà varie posizioni fino a ricoprire quella di ministro. Non solo: nel corso degli anni ha maturato un’importante esperienza anche nel corso della negoziazione del programma nucleare del suo Paese, e nella negoziazione con gli Stati Uniti. La futura ministra ha infatti lavorato come interprete e aiutante nei colloqui sul nucleare, in particolare sotto il Primo Vice Ministro degli Affari Esteri Kim Kye Gwan.

La donna misteriosa

Da alcuni mesi, nella cerchia ristretta di Kim Jong Un sembra essere entrato un altro volto femminile, il quinto nel complesso, la cui identità resta ancora un mistero. La nuova presunta assistente, visto che è sempre al seguito del supremo comandante con un borsone, è stata ripresa in più occasioni a eventi a cui ha partecipato il leader.

Le immagini diffuse dai media ufficiali del Paese, ad esempio, l’hanno ripresa a breve distanza da Kim con una borsa a tracolla e mentre tiene in mano una cartelletta all’Assemblea suprema del popolo, il parlamento nordcoreano. Oppure in un’altra circostanza del 9 settembre, mentre tiene in man un mazzo di fiori a un concerto per commemorare il 74 anni della fondazione del Paese.

Pare che questa donna abbia tra i 30 e i 40 anni. Due sono al momento le ipotesi più calde. La prima farebbe coincidere la donna con Kim Sol Song, una delle sorellastre di Kim. La seconda, invece, farebbe coincidere la signorina con la 23enne Hong Yun Mi, un ex membro della citata Moranbong Band.

Che cos’è e a cosa serve la Zona Demilitarizzata coreana. Federico Giuliani il 19 Ottobre 2022 su Inside Over.

La Zona Demilitarizzata coreana (Korean Demilitarized Zone, DMZ) è una striscia di terra che taglia a metà la penisola coreana. Questo confine, lascito della guerra di Corea (1950-1953), interseca il 38° parallelo e separa la Corea del Nord dalla Corea del Sud. La zona funge da cuscinetto tra le due Coree e, al suo interno, nessuno dei due Paesi può iniziare qualsiasi atto di aggressione, accumulare armamenti o personale militare o utilizzare armi da fuoco. Per alcuni è considerato il confine più pericoloso del mondo, visto che tecnicamente Pyongyang e Seul sono ancora in guerra tra loro, non essendo mai stato firmato alcun accordo di pace tra le parti ma soltanto un armistizio.

Dal 38° parallelo alla DMZ

Nel periodo precedente alla guerra di Corea, e prima della DMZ, a separare le due Coree c’era il 38°parallelo. Il 10 agosto 1945, in seguito alla capitolazione giapponese e al ritiro dell’armata nipponica dalla penisola coreana, l’intero Paese si ritrovò al centro di un grande gioco globale. Le forze sovietiche si mossero verso il Nord della Corea, mentre la parte meridionale stava entrando nell’orbita statunitense.

Fu in quel momento che a due colonnelli dell’esercito Usa fu ordinato di stabilire una linea capace di delimitare l’area controllata da Washington. Una volta controllata la cartina dell’Asia, essi stabilirono che il 38° parallelo avrebbe dovuto essere la linea divisoria prescelta. Il 15 agosto, Stalin accettò la proposta statunitense di dividere la penisola in due. Per quale motivo? Forse perché, come ha ricordato Steven Hugh Lee nel suo fondamentale volume La guerra di Corea, il leader sovietico pensava che in cuor suo Mosca potesse avere un ruolo attivo in un’ipotetica, futura conquista del Giappone.

Fatto sta che la Corea, da quel preciso istante, fu divisa in due entità distinte. Che avrebbero poi dato vita alla Repubblica Popolare Democratica di Corea e alla Repubblica di Corea. La DMZ fu stabilita soltanto all’indomani del congelamento della guerra di Corea. Venne creata grazie ad un accordo tra Corea del Nord, Cina e comando delle Nazioni Unite, nel 1953. La DMZ è lunga 250 chilometri e larga circa 4 chilometri. Interseca ma non segue esattamente il 38° parallelo.

La storia della DMZ

In un primo momento, come detto, il 38° parallelo divideva a metà la penisola coreana, ed era a tutti gli effetti il confine originale che separava le aree coreane a nord nella sfera d’influenza sovietica da quelle a sud, in orbita Usa. Una volta che, al termine di processi distinti, presero istituzionalmente forma le entità statali della Corea del Nord e della Corea del Sud, il parallelo divenne sostanzialmente un confine internazionale, nonché uno dei punti più caldi dell’allora Guerra Fredda in atto. Nel periodo compreso tra il 1948 e lo scoppio della Guerra di Corea, 1950, le due Coree rimasero indipendenti dagli stati occupanti, pur gravitando in due blocchi diametralmente opposti.

Lo scoppio del conflitto, uno dei più atroci del XX secolo, accelerò le tensioni non solo tra Nord e Sud, ma anche tra l’asse Pechino-Mosca da un lato e Washington dall’altro. Nel 1953 fu firmato l’armistizio che sospese il conflitto. Il 27 luglio 1953 nacque così la DMZ. Ciascuna delle due parti accettò di spostare le rispettive truppe indietro di 2mila metri dalla linea del fronte, in modo tale da creare una zona cuscinetto larga 4 chilometri.

Nel cuore della DMZ troviamo la cosiddetta linea di demarcazione militare (LDM). Si tratta di un confine che attraversa il centro della zona demilitarizzata e indica il fronte quando, nel 1953, fu firmato l’accordo tra le parti. Tra la LDM e il bordo esterno della DMZ troviamo un’area larga 2 chilometri, sia dal lato nord che dal lato sud.

L'importanza della Zona Demilitarizzata Coreana

Poiché la guerra di Corea non è mai ufficialmente cessata, lungo entrambi i lati della suddetta linea troviamo un gran numero di truppe. Ciascuna delle parti è incaricata di proteggere il fronte da eventuali aggressioni rivali. Bisogna tuttavia evidenziare che l’armistizio siglato nel 1953 definisce a chiare lettere l’esatto numero di militari e quale tipo di armi sono permesse nella Zona Demilitarizzata Coreana.

Tra gli altri aspetti da sottolineare troviamo il fatto che i militari delle due fazioni, sudcoreana e nordcoreana, possono pattugliare la DMZ, senza tuttavia poter attraversare la linea di demarcazione militare. Secondo alcune fonti, tra il 1953 e il 1999, a causa di vari attacchi di violenza che hanno interessato l’area, sono morti oltre 500 soldati sudcoreani, 50 statunitensi e 250 nordcoreani.

La Joint Security Area

All’interno della DMZ sorge Panmunjom, la sede della Joint Security Area, ovvero dell’Area di sicurezza congiunta. Si tratta dell’unica connessione tra le due Coree, se escludiamo la linea ferroviaria Donghae Bukbu, chiusa nel 2008 in seguito ad un incidente accorso ad un turista sudcoreano. È nella JSA che sorgono i famigerati edifici blu utilizzati più volte dalle due parti per svolgere negoziati e incontri ufficiali.

La linea di demarcazione taglia letteralmente in due questi edifici, e pure le sale conferenze e i tavoli presenti nelle strutture. È qui dentro che, di tanto in tanto, nordcoreani e Nazioni Unite (quasi sempre americani e sudcoreani) si incontrano faccia a faccia per discutere questioni rilevanti. Tra gli edifici troviamo il Panmungak nordcoreano e la Casa della libertà sudcoreana.

Dal 1953 in poi non sono mancati incidenti sporadici capitati proprio nella JSA. Il primo, risalente al 1976, capità quando il primo tenente Mark Barrett e il capitano Arthur Bonifas tentarono di tagliare un albero con un’ascia. Sorprendentemente tranquilla, la JSA è stata definita “ossessionante” e “inquietante”, in parte a causa delle recinzioni di filo spinato e in parte per via del personale militare, teso e con nervi d’acciaio. Bill Clinton, visitò la zona nel 1993, definì l’area il “posto più spaventoso della Terra”.

I villaggi della pace

Nei pressi della DMZ sorgono villaggi della pace, tanto dal fronte Nord quanto dal fronte Sud. In Corea del Sud troviamo Daeseong-dong. I suoi abitanti sono classificati come cittadini sudcoreani, anche se godono di particolari vantaggi, come l’esenzione dalle tasse e da altri requisiti civici, come il servizio militare. In Corea del Nord, invece, spicca Kijong-dong. Gli abitanti di questi villaggi sono discendenti diretti di persone che possedevano quei territori prima della Guerra di Corea.

Vale la pena, poi, ricordare la “guerra del pennone” a cavallo degli anni ’80. In quel periodo Seul decise di costruire un pennone con bandiera alto 98,4 metri a Daeseong-dong. I nordcoreani risposero costruendo l’asta della bandiera Panmunjeom, di 160 metri, a Kijong-dong. Dal 2014 in poi, il pennone di Panmunjeom – dove sventola una bandiera nordcoreana – è diventato il quarto più alto al mondo, dopo quello di Gedda, in Arabia Saudita (170 metri), l’asta di Duşanbe, in Tagikistan, (165 metri) e il palo nella Piazza delle bandiere a Baku, in Azerbaigian, (162 metri).

1994, quando gli Usa erano pronti ad attaccare la Corea del Nord. Federico Giuliani il 19 Ottobre 2022 su Inside Over.

Nel 1994 gli Stati Uniti avevano deciso di attaccare la Corea del Nord. Bill Clinton, all’epoca presidente, informò l’allora primo ministro giapponese Morihiro Hosokawa delle intenzioni statunitensi, chiedendo il supporto di Tokyo.

Alla fine Clinton non sferrò alcun attacco aereo per due ragioni: il Giappone non avrebbe potuto fornire il supporto richiesto dagli Usa (a Tokyo era costituzionalmente vietato) ma, soprattutto, gli analisti americani pensavano che il Nord sarebbe crollato di lì a pochi anni sotto il peso delle sanzioni.

Nell’ottobre di quell’anno Washington e Pyongyang raggiunsero l’intesa su un accordo quadro. I nordcoreani avrebbero dovuto congelare lo sviluppo delle loro armi nucleari in cambio della consegna americana di forniture annuali di carburante, in modo tale che il Nord potesse continuare ad avere elettricità fino alla costruzione di reattori nucleari ad acqua leggera, meno pericolosi per ipotetici e ulteriori sviluppi bellici dell’arsenale locale.

L’implementazione dell’intesa procedette però a rilento e la Corea del Nord riprese ben presto i suoi programmi. Oggi, 28 anni dopo, la Corea del Nord è ancora in piedi. Ha modernizzato il suo arsenale e si appresta ad effettuare nuovi lanci missilistici e test nucleari. A conferma del fallimento completo della politica di contenimento immaginata da Washington.

Il Piano Operativo 5027

Nel giugno 1994 gli Stati Uniti pensarono di attuare il cosiddetto Piano operativo 5027 (OPLAN 5027), ovvero il piano di guerra da impiegare in caso di un ipotetico attacco della Corea del Nord. La decisione di Washington era dovuta al timore che Pyongyang potesse considerare l’accumulo di truppe Usa nella regione, così come altri movimenti militari statunitensi in corso, come segnali di un imminente attacco americano. In tal caso, pensavano gli alti comandi militari Usa, il Nord avrebbe quasi sicuramente lanciato un’offensiva verso il Sud.

Il Pentagono preferiva in realtà optare per l’opzione intermedia, consistente nello spostare nell’area 10mila truppe, vari F-117A e un gruppo di portaerei. Pare ci fossero anche piani per attaccare, e quindi eliminare, l’impianto nucleare nordcoreano di Yongbyon con gli F-117 e con i missili cruise, così da impedire alla Corea del Nord di creare ordigni nucleari. Era questo, in sostanza, il motivo alla base della decisione Usa. Questo piano fu tuttavia annullato quando l’ex presidente americano Jimmy Carter incontrò Kim Il Sung. I due trovarono una sorta di intesa sulla base di quello che sarebbe diventato l’accordo quadro.

L'obiettivo Usa e le ragioni del mancato attacco

Gli Stati Uniti volevano a tutti costi impedire che la Corea del Nord potesse dotarsi dell’arma nucleare. A quel punto, infatti, la situazione sarebbe cambiata sensibilmente, così come la minaccia di Pyongyang nei confronti di Seoul e di Washington. Clinton era quindi pronto a sferrare un attacco aereo contro il Nord. Gli Usa chiesero al Giappone di partecipare alla sortita, dopo aver messo in disparte lo spinoso nodo dello squilibrio commerciale all’epoca esistente tra i due Paesi. Tokyo rifiutò però per motivi costituzionali.

Come se non bastasse, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite stava iniziando ad esser attraversato da accese discussioni sulle sanzioni che avrebbero dovuto travolgere la Corea del Nord. L’amministrazione Clinton decise così di non portare avanti gli attacchi aerei. Il pensiero da parte degli Stati Uniti era uno soltanto: Pyongyang sarebbe crollata da sola, prima o poi, anche senza l’intervento di Washington. Nel bel mezzo di questa crisi, inoltre, Kim Il Sung morì, rafforzando l’idea che il Nord avrebbe presto dovuto fare i conti con un’implosione.

L'accordo quadro del 1994

A metà ottobre, nel 1994, le delegazioni di Stati Uniti e Corea del Nord raggiunsero un accordo quadro nell’intenzione di allentare le tensioni sui controlli degli impianti nucleari nordcoreani. Il timore di Washington era che il Paese, all’epoca governato da Kim Jong Il, padre dell’attuale presidente Kim Jong Un e da poco succeduto a Kim Il Sung, potesse ben presto dotarsi di armi nucleari capaci, nel medio-lungo periodo, di minacciare tanto la Corea del Sud quanto gli Stati Uniti. Robert Gallucci, a capo della delegazione Usa, definiva l’accordo “ampiamente accettabile e positivo” e in grado di rispondere agli interessi della sicurezza degli Stati Uniti, del Giappone e della stessa Corea del Nord.

La bozza, partendo dalle preoccupazioni sollevate dal programma nucleare perseguito da Pyongyang, sviluppava un precedente accordo raggiunto dalle due parti un mese prima, con il quale il Nord proponeva l’apertura dei suoi impianti nucleari alle ispezioni internazionali. Oltre a questo i nordcoreani si impegnavano ad annullare il programma di sviluppo della produzione di energia atomica per mezzo di una tecnologia antiquata, una tecnica che produceva altro plutonio teoricamente utilizzabile a scopo militare. Washington metteva sul tavolo l’allacciamento di relazioni diplomatiche e aiuti di vario tipo che avrebbero permesso a Kim di ottenere impianti nucleari più sicuri e moderni.

Intesa nel vuoto

Sembrava che l’accordo quadro di ottobre fosse il primo passo verso la distensione e la fine delle tensioni. Così non fu. I passi successivi furono lenti, e neanche troppo convincenti. Gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, per ben due settimane, ispezionarono la maggior parte degli impianti nucleari della Corea del Nord. All’AIEA fu però impedito di monitorare il principale impianto radiochimico nordcoreano usato da Pyongyang per ritrattare il carburante.

I nordcoreani, intanto, riattivarono segretamente il loro programma in materia di armamenti. L’accordo cadde definitivamente nel vuoto, così come i colloqui tra Stati Uniti e il Nord. Washington aveva appena perso un’occasione d’oro per spingere Pyongyang a congelare la sua road map nucleare. Nel giro di pochi anni gli Usa e la Corea del Sud rafforzarono la loro cooperazione militare, chiudendo per sempre la porta al possibile accordo quadro del ’94.

I rischi attuali

L’approccio adottato dagli Stati Uniti si rivelò fallimentare. Non solo a Kim Il Sung successe senza problemi il figlio Kim Jong Il, che a sua volta passò poi il potere al figlio Kim Jong Un nel 2011. La Corea del Nord, al netto delle sanzioni, riuscì a mantenersi in piedi centrando discreti risultati militari. Nei decenni a seguire Pyongyang avrebbe sviluppato il nucleare e modernizzato il proprio arsenale missilistico.

L’attuale situazione ricorda per certi versi la crisi del 1994, con il Nord che continua ad avanzare sulla via della modernizzazione militare. Ci sono tuttavia alcune differenze che rendono lo scenario ancora più pericoloso. Intanto Pyongyang può oggi vantare un arsenale di tutto rispetto. Dopo di che bisogna considerare Cina, che negli anni ’90 non era ancora una grande potenza ma che adesso ha voce in capitolo in merito alla questione coreana. Basti pensare che il bilancio della difesa di Pechino si è moltiplicato di 40 volte in tre decenni, mentre il suo prodotto interno lordo nominale è cresciuto ancora più velocemente.

Ma c’è un altro aspetto da tenere sotto controllo. Il Giappone, quando fu interpellato da Clinton, nel ’94 rifiutò di partecipare allo strike aereo contro il Nord. Ora, la legislazione sulla sicurezza approvata nel 2015 consentirebbe teoricamente a Tokyo di esercitare il suo diritto all’autodifesa collettiva in situazioni ritenute minacce alla sua sopravvivenza. Come se non bastasse, se Washington avesse lanciato attacchi aerei contro la Corea del Nord nel 1994, la Cina non sarebbe stata in grado di fare nulla al riguardo. Che cosa potrebbe succedere, nel worst case scenario, nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero riproporre oggi uno schema simile a quello del ’94?

La provocazione di Pyongyang. La Corea del Nord si autoproclama potenza atomica, la minaccia di Kim Jong-un: “Sì ad attacchi preventivi”. Redazione su Il Riformista il 9 Settembre 2022 

La Corea del Nord si è autoproclamata potenza atomica. Con una legge approvata dal leader di Pyongyang  Kim Jong-un, il Paese ha infatti sancito per legge il suo status di potenza nucleare.

Una questione non da poco, non un semplice auto-riconoscimento per l’ego smisurato del dittatore coreano. La nuova norma consente allo Stato di effettuare un attacco nucleare su un Paese che si ritiene rappresenti una minaccia imminente per Pyongyang. Non solo: consente anche di colpire automaticamente un avversario se il Paese viene attaccato.

“Oggi abbiamo completato una missione storica“, ha commentato il leader nordcoreano Kim Jong-un durante un intervento all’Assemblea Nazionale Suprema, l’organo legislativo nordcoreano.

Kim Jong-un ha sottolineato che la Corea del Nord “non rinuncerà mai alle armi nucleari”, né “cederà alle sanzioni imposte dalla comunità internazionale per il suo sviluppo bellico”. Nessuna apertura dunque ad un eventuale processo di denuclearizzazione, anzi, “il possesso di armi nucleari è un nostro diritto legittimo e inalienabile. Non abbiamo in programma di rifiutare le armi nucleari. La nuova legge rende impossibili i colloqui sulla denuclearizzazione”, ha chiuso il discorso Kim Jong-un.

Secondo quanto riporta l’agenzia stampa Kcna, nella legge approvata viene scritto che “se il sistema di comando e controllo della forza nucleare nazionale rischia di essere attaccato da forze ostili, verrà effettuato automaticamente e immediatamente un attacco nucleare”. Allo stesso tempo la legge impegna la Corea del Nord a non cedere armi e tecnologie nucleari ad altri paesi.

Estratto dall'articolo di Gianluca Modolo per repubblica.it l'11 agosto 2022.

Anche Kim Jong-un è stato colpito dal Covid? Nel giorno in cui la Corea del Nord dichiara “la brillante vittoria nella guerra contro la malattia pandemica maligna”, a suggerirlo è la sorella del Maresciallo, Kim Yo-jong, che all’agenzia di stampa ufficiale del regno eremita Kcna ha dichiarato: "Anche se era gravemente malato con la febbre alta, non riusciva a sdraiarsi un attimo perché pensava alle persone di cui doveva prendersi cura fino alla fine di fronte alla guerra antiepidemica”. Aggiungendo che è colpa del Sud se il virus è entrato nel Paese.

Da quando è scoppiato il primo focolaio, a maggio, Pyongyang ha  - tranne in poche occasioni - sempre parlato di “casi di febbre”, vista la mancanza di test adeguati, e dal 29 luglio non è stato segnalato nessun nuovo contagio. La propaganda di regime dichiara che in totale i casi sono stati 4,8 milioni e appena 74 i decessi. […] 

La rivelazione della malattia di Kim segna comunque un'ammissione insolita per un regime che raramente commenta la salute del leader. Salute che da anni, tuttavia, è al centro di sempre più frequenti speculazioni: il mese scorso il Maresciallo non si è visto in pubblico per ben 17 giorni.

Per la “piccola principessa”, come amava chiamarla il padre Kim Jong-il, il virus sarebbe entrato nel Paese per colpa di “oggetti contaminati” contenuti nei palloni aerostatici  - pieni di volantini, libri, cd, cibo e medicine - che da anni gli attivisti e i disertori al Sud lanciano al di là del confine. Kim si è scagliata contro Seul, definendo tali azioni un “crimine contro l’umanità”, promettendo “ritorsioni”. […] 

Perché Kim vuole "annientare" la Corea del Sud e sfidare gli Usa? Federico Giuliani su Il Giornale il 29 luglio 2022.  

"Abbiamo armi capaci e pronte per rispondere a tutte le crisi". Tradotto: siamo in grado di mobilitare rapidamente la nostra forza di deterrenza nucleare per far fronte a qualsiasi confronto militare con gli Stati Uniti. Era da tempo che Kim Jong Un non entrava a gamba tesa su Washington. Il presidente nordcoreano lo ha fatto lo scorso 27 luglio. Non una data come le altre in Corea del Nord, visto che in quel giorno, ogni anno, Pyongyang celebra l'anniversario dell'armistizio che il 27 luglio 1953 congelò la Guerra di Corea (tecnicamente ancora in corso, visto che non è mai stato firmato alcun trattato di pace). Apparso in pubblico dopo quasi tre settimane di assenza, Kim ha attaccato il suo omologo sudcoreano Yoon Suk Yeol, fresco di elezione, e, come detto, avvertito indirettamente Joe Biden. La Corea del Nord, ha spiegato il leader nordcoreano, non solo è pronta ad un eventuale conflitto con gli Stati Uniti, ma ha pure minacciato di eliminare la Corea del Sud. Kim ha puntato il dito contro la dura dialettica adottata dal conservatore Yoon, successore di Moon Jae In, e fautore di tutt'altra diplomazia intercoreana.

Il nuovo approccio di Seul

Il nuovo presidente sudcoreano, oltre ad aver rafforzato ulteriormente i legami con gli Stati Uniti, ha mostrato fermezza e ben poca voglia di scendere a compromessi con il Nord. Lo stesso Yoon, inoltre, si era impegnato già nei mesi scorsi a normalizzare le esercitazioni militari congiunte tra Washington e Seul, in passato ridimensionate sia in risposta alla pandemia di Covid-19 che ai tentativi di distensione con Pyongyang. Adesso le forze armate di Stati Uniti e Corea del Sud riprenderanno l'addestramento al combattimento a fuoco vivo archiviando le precedenti simulazioni informatiche. Il Ministero della Difesa sudcoreano ha spiegato che la decisione è una forma di adattamento ai progressi dei programmi balistico e nucleare della Corea del Nord. Ma perché Kim ha scelto proprio questo momento per lanciare i suoi avvertimenti? Certo, la risposta a Seul è da mettere in conto, così come bisogna considerare la retorica bellicista una diretta conseguenza dell'anniversario da omaggiare per compattare il popolo. C'è però dell'altro, visto che negli ultimi mesi Pyongyang ha testato missili ipersoniciteoricamente in grado di trasportare armi nucleari tattiche, e di ridurre sensibilmente la possibilità di reazione militare dei sudcoreani in caso di attacco. "Confermo che la Corea è pienamente pronta a rispondere a tutti gli scontri militari con gli Stat Uniti, e se gli Stati Uniti continueranno a ferire l'immagine della Corea del Nord e a minacciare la sua sicurezza e i suoi interessi, dovranno rassegnarsi ad avere maggiori preoccupazioni e crisi", ha sottolineato Kim.

La risposta di Kim

"Il regime sudcoreano e i suoi banditi militari stanno progettando tattiche per affrontarci militarmente", ha proseguito Kim nel suo discorso. "Questi pericolosi tentativi verranno immediatamente puniti dalle nostre potenti forze, e il regime di Yoon Suk-yeol e il suo esercito saranno eliminati", ha aggiunto il leader nordcoreano. Kim ha inoltre accusato "gli imperialisti Usa" di spingere "le autorità sudcoreane verso un confronto suicida" contro la Corea del Nord. Pyongyang ha inoltre messo in guardia Seul e Washington da una possibile "seconda Guerra di Corea". In un comunicato pubblicato sul sito web del ministero degli Esteri nordcoreano, la Nord Corea ha quindi accusato Stati Uniti e Corea del Sud di aver deliberatamente riacceso la miccia delle tensioni nella Penisola Coreana. "Le esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, condotte in una fitta cortina di polvere da sparo, stanno esacerbando la situazione nella Penisola Coreana", si legge nel comunicato del ministero, che definisce le forze armate dei due Paesi "un'orda belligerante.

·        Quei razzisti come i sud coreani.

Da tg24.sky.it il 9 dicembre 2022.

Tutti più giovani di un anno. In certi casi perfino di due. Succederà in Corea del Sud, dove dal 2023 le lancette dell’orologio saranno spostate indietro di almeno 365 giorni per oltre 50 milioni di persone. All’origine del cambiamento alcune leggi di recente approvazione in forza delle quali il metodo internazionale basato sulla data di nascita subentrerà a quello tradizionale che, tra le altre peculiarità, conteggia anche i nove mesi di gestazione del bambino.  

Il metodo usato fino ad oggi nel Paese prevedeva di includere nel conteggio dell’età i nove mesi in cui il bambino è stato nel grembo materno arrotondandoli a 12, di modo che la persona compisse il primo anno di vita proprio in corrispondenza del giorno di nascita.

Non solo: un’altra peculiarità di questo sistema era che, superata la data in questione, l’individuo guadagnasse ogni successivo anno in corrispondenza del Capodanno anziché dell’anniversario di venuta al mondo. Un regime tale da far sì che i bambini nati il 31 dicembre compissero due anni in un colpo solo il giorno successivo. Saranno proprio loro quelli a beneficiare doppiamente del cambio. 

Oltre a quello tradizionale, esisteva in Corea del Sud anche un secondo metodo di calcolo dell’età utilizzato solamente ai fini della coscrizione e per l’applicazione del divieto di bere alcolici e fumare: si trattava di un sistema in cui gli anni della persona venivano calcolati da zero alla nascita per poi aumentare ogni Capodanno.

Durante la sua campagna elettorale, il presidente sudcoreano Noon Suk Yeol aveva promesso un emendamento dell'Atto civile e dell'Atto generale della pubblica amministrazione per unificare i criteri di conteggio del Paese così da rispondere alle critiche dei tanti che si dicevano che diversi regimi potessero causare confusione nella fornitura di servizi assistenziali, medici e amministrativi. "La revisione mira a ridurre i così socio-economici non necessari perché le controversie legali e sociali, così come la confusione, persistono” ha detto al parlamento Yoo Sang-bum del People Power Party al governo.

Antonio Fatiguso per l’ANSA il 30 ottobre 2022.

La Corea del Sud è sotto shock mentre cittadini, media e istituzioni si chiedono come una serata di divertimento per Halloween - la prima dopo oltre due anni di restrizioni per la pandemia di Covid - sia potuta diventare una delle peggiori tragedie nazionali nel cuore della capitale Seul. 

E mentre a Itaewon, il distretto della movida, continuano le indagini sulla calca mortale, salgono le polemiche sulle misure di sicurezza in uno dei luoghi più iconici di Seul, diventato un campo di battaglia in pochi minuti. Il bilancio delle vittime continua a salire (almeno 154, tra cui 98 donne, quasi tutte adolescenti o poco più che ventenni) mentre i feriti sono 132, secondo i dati del Quartier generale per le contromisure ai disastri e per la sicurezza. 

Sono 26, invece, i decessi di stranieri provenienti da 14 Paesi: cinque dall'Iran, 4 da Cina e Russia, due dal Giappone e dagli Usa, altri da Australia, Austria, Francia, Kazakistan, Norvegia, Sri Lanka, Thailandia, Uzbekistan e Vietnam. Una folla di 100.000 persone si è riversata a Itaewon sabato sera con appena 200 agenti (tra i temi più dibattuti sui social) assegnati a pattugliare l'area.

"Una tragedia e un disastro che non avrebbero dovuto verificarsi", ha affermato in tarda mattinata il presidente Yoon Suk-yeol in un discorso alla nazione dopo aver ispezionato i luoghi cordonati dalla polizia. Yoon ha giurato di voler "indagare a fondo" sull'incidente e promesso che adotterà tutte le misure necessarie per evitare tragedie simili, annunciando un periodo di lutto nazionale fino al 5 novembre con bandiere a mezz'asta in tutti gli edifici governativi.

Ma chi ha avuto occasione di visitare Itaewon, non è troppo stupito da quel che è capitato: il quartiere, escluse le vie principali, è un dedalo di viuzze con forti pendenze, stipate di locali che scoppiano di gente soprattutto in estate e nelle ricorrenze speciali, con seri problemi alla circolazione pedonale. La festa di Halloween è diventata sempre più popolare a Seul negli ultimi dieci anni, complice l'ambientazione di 'Itaewon Class' su Netflix, un omaggio alla sua vivace vita notturna internazionale: tanti giovani sudcoreani si riversano nel quartiere per la libertà, l'apertura e l'incontro di culture che si ritrovano lì come in nessun altro posto a Seul.

Il disastro è iniziato poco dopo le 22.00, con le prime richieste di aiuto ricevute alle 22.15: un gran numero di persone è entrato contemporaneamente in una strada stretta, un collo di bottiglia, vicino all'uscita della stazione della metro di Itaewon, larga circa quattro metri. La maggior parte dei morti è stata ritrovata vicino all'Hotel Hamilton, in strette strade pedonali nell'area principale di ristoranti e bar di Itaewon.

La youtuber Seon Yeo-jung, finita nella ressa, ha caricato un post di testimonianza su Instagram, raccontando che alcuni hanno incoraggiato le persone ad andare avanti, spingendole in trappola. L'asfissia traumatica è stata probabilmente la causa della morte nella maggior parte dei casi.

La stradina era in pendenza e le persone "cadevano l'una sull'altra sul ripido marciapiede come pezzi di un domino", hanno raccontato i media di Seul. Il governo metropolitano ha ricevuto migliaia di segnalazioni di persone scomparse (erano schizzate a quota 4.024 nel tardo pomeriggio), mentre sui social sono scattate restrizioni contro la disinformazione e le foto scioccanti postate.

Ampio il cordoglio dei leader internazionali: dal presidente Usa Biden a quelli cinese Xi e francese Macron, dal premier nipponico Kishida a quelli britannico Sunak e italiano Giorgia Meloni. "Preghiamo il Signore risorto anche per quanti, soprattutto giovani, sono morti questa notte a Seul, per le tragiche conseguenze di un'improvvisa calca della folla", ha detto papa Francesco all'Angelus, in un grido di dolore contro una strage che si poteva evitare

Samuele Finetti per corriere.it il 29 ottobre 2022.

Schiacciati dalla folla durante i festeggiamenti di Halloween, a Seul: sono almeno 150 le vittime e un centinaio di feriti di questo drammatico e impressionante incidente verificatosi nella capitale sudcoreana. Il bilancio — provvisorio — è stato diffuso dai Vigili del Fuoco della città. 

La calca si è venuta a creare in occasione di una festa organizzata per Halloween nel quartiere di Itaewon, uno dei più frequentati dai giovani della città. La dinamica non è ancora stata chiarita, quel che è certo è che centinaia di persone sono state coinvolte.

Le prime immagini, impressionanti, hanno iniziato a circolare sui media locali e poi sui social, anche occidentali, nel tardo pomeriggio di sabato (ora italiana) e mostravano decine di persone stese a terra lungo una strada di Seul. Molte sottoposte a manovre di rianimazione cardiaca. 

Stando alle prime ricostruzioni, la calca avrebbe cominciato a spingere in avanti lungo una via stretta poco distante dall’Hamilton hotel. 

Le autorità stimano che nella zona si trovassero circa 100mila persone, per festeggiare il primo evento senza restrizioni dall'inizio della pandemia.

Choi Cheon-sik, un ufficiale dei Vigili del fuoco locali, ha parlato con la stampa e ha riferito che le persone in arresto cardiaco sarebbero almeno 50, i feriti oltre un centinaio. Almeno 81 i casi di cittadini che manifestano «difficoltà respiratorie». 

Alcuni media riportano che a scatenare il marasma sarebbe stata la presenza di una celebrità in un bar poco distante, dove i giovani avrebbero cominciato a precipitarsi finendo per travolgersi a vicenda.

Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol ha istituito lo stato d’emergenza e attivato le procedure seguite normalmente in caso di disastro. Almeno 400 medici, fanno sapere i Vigili del fuoco, stanno accorrendo sul posto e le ambulanze impiegate sono circa 140. 

S u Twitter sono state pubblicate fotografie che mostrano una fila di cadaveri, almeno 30 secondo la testata che l'ha condivisa, stesi sull'asfalto e coperti con un telo blu.

Corea del Sud, 151 morti alla festa di Halloween: sono stati schiacciati dalla folla. Oltre 80 feriti e 350 dispersi. Samuele Finetti su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Decine di persone in arresto cardiaco dopo essere state travolte dalla calca. Il bilancio delle vittime è destinato a salire, avvertono le autorità. È successo in una via di Itaewon, uno dei quartieri di Seul più frequentati dai giovani, durante i festeggiamenti di Halloween 

Erano in centomila, forse di più. Giovani liberi di incontrarsi lungo le strade e nei locali di Seul senza mascherine per la prima volta dopo due anni. Si sono riversati, molti di loro in costume, nel quartiere di Itaewon, popolare centro della vita notturna della capitale sudcoreana, dove molte strade sono strette. Ma nel pieno della festa di Halloween quelle viuzze si sono trasformate in una trappola mortale.

Quanto fosse grave il disastro avvenuto attorno alle 22.20 locali, le 15.20 italiane, lo si è capito prima ancora delle conferme ufficiali. Quando ancora i Vigili del fuoco parlavano di diverse persone in arresto cardiaco, sui social già circolavano video che mostravano decine di ragazzi stesi a terra, circondati da medici e poliziotti impegnati nel tentativo di rianimarli con il massaggio cardiaco. Poco più in là, sotto gli sguardi sgomenti di chi si è salvato, corpi immobili uno sopra all’altro.

Mentre dagli ospedali arrivava la notizia dei primi due decessi, ecco le immagini di dozzine di cadaveri sull’asfalto, disposti a file, coperti da teli blu e gialli sotto la luce dei lampioni e delle sirene delle 140 ambulanze impiegate e di decine di mezzi della polizia.

Il numero, provvisorio, è di 151 morti e almeno 80 feriti, di cui la maggior parte sono ventenni. Tra le vittime - 97 ragazze e 54 ragazzi (tutti con meno di 30 anni) - figurano anche 19 stranieri provenienti da Iran, Uzbekistan, Cina (almeno una vittima secondo l’ambasciata a Seul) e Norvegia. Tra gli 82 feriti, 19 sono in gravi condizioni, ha riferito la Yonhap. Il governo metropolitano di Seul ha detto di aver ricevuto 355 segnalazioni di persone scomparse legate alla tragedia.

Ma il tragico bilancio potrebbe salire ancora, ha affermato il capo dei Vigili del fuoco Choi Seong-beom, perché la prassi richiede che il decesso sia certificato dagli ospedali, dove molti sono stati trasportati in condizioni disperate. E nel cuore della notte sudcoreana oltre 400 medici, nelle vie del quartiere e nelle corsie dei pronto soccorso, erano ancora impegnati per salvare vite. Quasi cinquanta corpi sono stati trasferiti in una palestra, in modo che personale medico e famiglie possano identificarli. La maggior parte sono di ragazze tra i venti e i trent’anni. Tutti gli agenti e i soccorritori della città sono stati mobilitati, in tutto quasi 850. Molti altri sono stati richiamati da ogni zona del Paese. 

Che cosa abbia scatenato la calca sotto cui sono rimasti schiacciati a decine ancora non è chiaro. Le autorità stanno indagando. Alcuni media locali scrivono che il caos è scoppiato quando tra i giovani si è sparsa la voce che una celebrità, per ora non identificata, si trovava in un bar del quartiere. Altre voci si sono spinte all’ipotesi terrorismo, parlano di un gas pericoloso sparso all’interno di un locale che avrebbe provocato la fuga dei clienti.

Parecchi avevano scritto online che l’area attorno al celebre Hamilton Hotel era troppo affollata. Presto le autorità del quartiere hanno avvisato via telefono tutti gli abitanti: tornate a casa il prima possibile, c’è stato un incidente nella zona.

Il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha convocato una riunione con lo staff più stretto e ha proclamato lo stato di emergenza: «Ministeri e agenzie statali in questo momento devono preoccuparsi solo di supportare i soccorsi. Si è avuta una tragedia e un disastro che non avrebbero dovuto verificarsi», ha detto Yoon in un discorso nazionale, giurando di «indagare a fondo» sull’incidente e l’adozione di ogni misura per evitare il ripetersi di una tragedia del genere. Yoon ha inoltre dichiarato un periodo di lutto nazionale. Intanto il sindaco della capitale Oh Se-hoon, intanto, ha interrotto un viaggio in Europa per rientrare in città.

Il governo sudcoreano ha quindi proclamato un lutto nazionale di sette giorni, da oggi a sabato prossimo, ordinando che le bandiere negli edifici governativi e negli uffici pubblici sventolino a mezz’asta in segno di cordoglio. Gran parte di eventi e sfilate di Halloween in programma in Corea del Sud sono stati cancellati.

Strage a Seul, le testimonianze: «Non si respirava. Una ragazza è caduta, l'ho calpestata senza volerlo». Samuele Finetti su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Le parole di un giornalista della «Bbc» che è corso sul luogo del disastro: «Ho visto mentre portavano via i corpi uno alla volta»

«Era una battaglia tra chi cercava di entrare nel quartiere e chi cercava di uscire», racconta un uomo che dalla piccola strada vicino all’Hamilton Hotel di Seul cercava di allontanarsi, mentre attorno a lui si scatenava il panico che ha provocato la morte di 149 ragazzi, travolti e uccisi nella calca. Non si trovava lì per festeggiare Halloween. I giovani attorno a lui sì: «Molti erano già in lacrime», dice.

Chi parla sottolinea come la sensazione di agitazione e insicurezza aumentasse a ogni minuto. Lo dice anche Choi, vent’anni appena: «Tutt’attorno a me c’erano ragazzi che tremavano di paura, altri cadevano per terra. Qualcuno continuava a spingere me e un mio amico: ci siamo persi di vista, ancora non l’ho ritrovato».

Né Choi né altri suoi coetanei riescono a spiegare quale scintilla abbia generato il disastro: «Stavo camminando in una via, ho sentito uno spintone da dietro — spiega ancora terrorizzato Jeon, 31 anni — e mi sono ritrovato in mezzo alla calca, schiacciato tra sconosciuti. Erano circa le 22.30, non ho potuto muovermi per almeno mezz’ora. Mi sono liberato solo dopo le 23.00».

Immobili, mentre affianco a lui una sua amica e altre dozzine di ragazzi venivano schiacciati, «così vicini l’un l’altro da non riuscire a respirare», e travolti. Scene che ha visto anche Kim, 26 anni: «Una ragazza è caduta davanti a me, l’ho calpestata senza volerlo. Ho cercato di aiutarla ad alzarsi, ma non ce l’ho fatta». Perché attorno, nel frattempo, era il panico, molti urlavano «mettiamoci in salvo». In uno dei video poi pubblicati sui social si sente persino una donna urlare in inglese: «Mio Dio, mio Dio, andiamocene da qui».

Un altro testimone ha descritto la tragedia che si è trovato davanti agli occhi: «Le persone erano ammucchiate una sopra l’altra. Alcuni stavano perdendo conoscenza, altri ormai sembravano già morti».

Assieme ai primi soccorritori si è precipitato sul posto Hosu Lee, un giornalista della Bbc : «Ho visto le facce sconvolte di centinaia di giovani in maschere e costumi. Ho visto decine di ambulanze, poliziotti e medici chini sui corpi di chi è stato travolto. Ho visto i teli blu sui cadaveri. Ho visto mentre li portavano via, uno alla volta».

Corea, la strage di Halloween: Seul piange 154 ragazzi tra silenzio e fiori. «Ma la polizia dov’era?» Paola Pollo su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Le vittime della calca alla festa di Halloween a Seul, in Corea, sono oltre 150. Erano tutti giovanissimi: il Paese sarà in lutto per 7 giorni. Scattano le accuse: «Nessuna misura di sicurezza»

Venti metri, cioè venti passi. Se solo fossero riusciti a farli si sarebbero salvati. Perché prima e dopo quel tratto gli altri ce l’hanno fatta. E invece è li che è successo: in un piccolo tratto di una minuscola stradina di 45 metri. Lì sono morti la scorsa notte 154 ragazzi, la maggior parte ventenni, 97 donne e 57 uomini, quasi tutti coreani, soffocati e schiacciati in una calca assurda mentre stavano festeggiando Halloween. Resteranno nell’immaginario di questo popolo così sicuro di sé i flash sfuocati che vanno in loop sulle tv nazionali di decine di braccia che si muovono frenetiche su corpi immobili: i soccorritori hanno provato a rianimarli, fermandosi solo quando qualcuno allungava loro, per coprire quello scempio, i teli blu in segno di resa alla morte. Le ambulanze sono accorse a decine anche se è già polemica per i soccorsi accusati di essere arrivati tardi, come la polizia, che secondo alcuni avrebbe dovuto esserci prima a impedire la ressa. Ma il ministro dell’Interno, Lee Sang-min, difende i suoi: «Era un evento spontaneo, non programmato e delle dimensione cui eravamo abituati prima della pandemia», spiega sottolineando che parte degli agenti erano impiegati in diverse proteste altrove.

Alla luce del sole tutto sembra ancor più beffardo. Quella trappola assurda così vicina alla salvezza e le parrucche e i nasi finti e i cappelli e le stelle filanti ora chiusi nei sacchi trasparenti della spazzatura, accatastati vicino agli alberi. C’è un silenzio surreale per un luogo che è la movida di Seul: street food, sexy shop, negozi di sneaker e di fake. All’alba c’è chi comincia a portare i fiori e li deposita accanto all’uscita della metro, fermata Itaewon, quella che sabato per ore ha sputato fuori ragazzi e ragazze. Sono crisantemi per lo più, e qualche rosa. Un giovane lascia due bicchierini. Un altro del vino, poi dell’acqua, del rum e un paio di birre. Casomai i ragazzi che non ci sono più avessero sete o voglia di bere in un viaggio così ingiusto.

Come sabato notte quando la tragedia si stava consumando e dalle finestre la gente gettava dell’acqua per rinfrescare chi sotto stava cercando di respirare. Ma in nessun modo è stato possibile spegnere quell’inferno. Porta un fiore e piange July, il cappotto perfetto e la cartella rossa del lavoro, non ha un filo di trucco, strano per una coreana, qui le ragazze non escono mai senza make-up. Non questa volta. Troppe lacrime da lasciar scorrere. «Ero qui l’altra notte ma ho avuto paura e me ne sono andata prima». Il kebabbaro, Albedo cucina turca, di fronte alla stradina maledetta conferma: «Sembravano tutti impazziti. Ma già dalla sera prima. Scatenati. Era la prima volta senza restrizioni dopo due anni e mezzo. Avevano una voglia e una energia contagiosa». Raccontano di cavalli al guinzaglio, gente in trampoli, parrucche colorate, abbigliamenti esagerati: ma nessuno si è stupito. I ragazzi coreani sono famosi in tutto il mondo per la loro eccentricità in fatto di moda e musica.

Ieri la zona è rimasta chiusa. Recintata da decine di poliziotti e dai nastri gialli con la scientifica al lavoro per trovare tracce di una spiegazione e dell’esatto momento in cui tutto è degenerato. Regge l’ipotesi che qualcosa abbia convinto tutti a correre verso la stessa direzione. Forse la notizia di un personaggio famoso seduto a uno dei locali sulla strada. E può essere perché i giovani coreani sono fan al limite dell’isteria: segnalare la presenza di una delle Black Pink o dei Bts significa scatenare migliaia di adolescenti. Le immagini che scorrono sui social sono spietate: anche quando gli agenti e i soccorsi arrivano non riescono neppure a prendere i ragazzini per le mani e a tirarli su tanto sono stretti gli uni agli altri. Si vedono i più alti che arrivavano all’aria sopra e i più piccoli e minuti che soccombono.

«La polizia è arrivata tardi. I soccorsi sono arrivati tardi», urla ancora più forte un giovane dai capelli bianchi candidi. Poi c’è una ragazza, in disparte. Con gli occhi sbarrati verso la stradina. Ha due codini e porta ancora le ciabatte di Halloween, con due piccole zucche disegnate. Non parla inglese, un’amica la consola: «Ha in testa le urla di chi chiedeva aiuto». Davanti ai fiori sul marciapiede, un predicatore alza la voce contro tutti ma sopratutto contro la festa di Halloween: «Non è una festa di Gesù e non è la nostra». La beffa delle beffe: la difficoltà dei primi soccorsi e poi dei riconoscimenti è stata anche questa, la festa. Tutti erano travestiti e truccati.

Oggi avrebbe dovuto essere l’ultimo giorno di questa follia. E invece sarà una settimana di lutto nazionale, lo ha deciso il presidente della Repubblica, Yoon Suk-yeol, che è stato fra i primi ad andare di persona nella stradina maledetta. Il governo ha anche ricevuto i manager di Gucci e insieme hanno deciso di annullare lo show che era in programma domani al Gyeongbokgung Palace, con più di 800 persone, in segno di rispetto. Giusto.

Seul, come è potuto succedere? Le cinque ragioni della strage di Halloween. Michele Farina su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Cosa può aver causato il massacro dei giovani in Corea del Sud? I primi elementi, dalla strada stretta solo 4 metri alle autorità che non hanno previsto una folla straordinaria, dall’assenza di piani di emergenza alla spinta dei ragazzi. 

Un vicolo in leggera discesa, 45 metri di lunghezza per 4 di larghezza, una traversa della centrale Itaewon-ro. Questo è il primo elemento da tenere presente per analizzare le cause della strage (qui le notizie in diretta): la viuzza dove centinaia di ragazzi sono morti asfissiati ieri sera a Itaewon, il quartiere dei divertimenti nel centro di Seul, con la musica a palla e i polmoni schiacciati un corpo contro l’altro, è un budello che collega l’Uscita 1 della stazione del metrò alla World Fod Street zeppa di localini. Da una parte il muro dell’hotel Hamilton, dall’altra bar e negozi. Larghezza massima in alcuni punti: appena 4 metri. Beffa della sorte, non un luogo isolato o lontano dai soccorsi. Il centro di pronto intervento più vicino sta a 100 metri, la stazione della metropolitana è a due passi, sull’altro lato di Itaewon-ro.

Primo punto, spazi ristretti e disagevoli. Ma questo non basta certo a spiegare come sia potuto accadere che almeno 153 ragazzi siano morti schiacciati nella calca di una serata che doveva essere di festa. Al momento ci sono più domande che risposte. Ma alcuni elementi emergono con sufficiente chiarezza. 

1. Una folla eccezionale (ma prevedibile)

Mai vista tanta gente a Itaewon, nella prima notte di Halloween libera dalle restrizioni della pandemia. Lo dicono i testimoni, i negozianti, i giornalisti. Le autorità avrebbero dovuto prevedere la presenza di un numero eccezionale di persone (si parla di 100 mila). Il sindaco di Seul, OhSe-hoon, era in Olanda per un tour ufficiale in Europa. La festa di Halloween a Itaewon è un’occasione sempre molto pubblicizzata sui media locali. E dopo tre anni di stop, nel 2022 tornava alla sua (ormai) straordinaria normalità.

2. La polizia ha spostato agenti in un’altra zona

Il ministro dell’Interno e della Sicurezza, Lee Sang-min, ha detto in conferenza stampa che la polizia non si aspettava una folla superiore a quella degli anni passati. Nessun rafforzamento era stato previsto per la serata di Halloween. Non solo: pur senza fornire cifre precise, il ministro ha aggiunto che un certo numero di agenti era stato spostato dalla zona (dove poi sarebbe avvenuta la strage) verso un’altra area della città dove erano in corso delle manifestazioni di protesta. Ecco, questo potrebbe essere un altro punto cruciale. In Corea del Sud, e in particolare nella capitale, la presenza delle forze di sicurezza è spesso massiccia, talvolta giudicata eccessiva, quasi sempre per ragioni di ordine pubblico legate a proteste di carattere politico. I rischi di «crowd crush» a Itaewon sono stati ampiamente sottovalutati.

3. La musica e quei ragazzi che gridavano: «Siamo i più forti, spingiamo»

Itaewon è un luogo pacifico. In passato, occupanti mongoli e giapponesi avevano stabilito nell’area le loro basi per le truppe. Oggi è uno di quei quartieri double-face che esistono in tante città del mondo: di giorno, incrocio logistico e di traffico. Di sera, locali, bar, luogo di aggregazione. Kim Seo-jeong, 17 anni, liceale, era lì come migliaia di coetanei. Lei e un’amica, vestite con tradizionali abiti cinesi e un ventaglio in mano. «Quando siamo arrivati intorno alle 20 — ha raccontato al New York Times — nel vicolo c’era già abbastanza gente da rendere difficile ogni movimento. Un’ora dopo abbiamo desistito e abbiamo cercato di risalire per tornare verso casa. Ma eravamo bloccate. Non si andava né avanti né indietro. Poco dopo, una massa di ragazzi è arrivata da su gridando: “Spingete, spingete. Siamo i più forti”. Una persona è scivolata davanti a me — racconta Kim — poi altre ancora. Come tessere del domino. Abbiamo urlato, chiedendo aiuto, ma la musica era così alta che nessuno sentiva nulla». Degli adulti hanno tirato Kim e la sua amica all’interno di un bar. Salvezza per pochi. Keith Still, professore di Crowd Science (scienza della folla) alla University of Suffolk, sul Washington Post distingue due fenomeni distinti: «stampede» (fuggi fuggi) e «crowd crush» (schiacciamento di persone). Nel primo caso la gente ha vie di fuga, nel secondo no.

Asfissia per schiacciamento: si muore quando i corpi e i polmoni sono così compressi che non si riesce letteralmente a respirare. Ciascuno finisce per combattere una battaglia personale con i vicini, per una boccata d’aria, per qualche secondo di vita in più. Chi cade viene schiacciato. Significativo che il bilancio delle vittime indichi uno squilibrio di genere: le ragazze morte sono quasi il doppio dei ragazzi. Ragazze come Kim, morte asfissiate con il ventaglio in mano.

4. La mancata percezione della tragedia in corso

La strage a pochi passi. In generale, per un tempo tragicamente lungo, la gravità della situazione non è stata colta neppure da chi stava nelle vicinanze, fuori dal budello della morte. Testimoni come Kim Seo-jeong raccontano di gente che filmava la folla. C’era chi continuava a truccarsi per Halloween, chi batteva alle porte dei locali chiedendo l’orario di apertura. Pochi agenti con i giubbotti gialli, armati di fischietti. I video mostrano alcuni di loro che salgono sul tetto dell’auto di ordinanza, fischiando e urlando alla gente di allontanarsi.

5. Nessun piano di emergenza

Brian Higgins, che insegna Gestione delle Emergenze al John Jay College of Criminal Justice a New York, ha detto al New York Times che dai video e dalle testimonianze dei sopravvissuti «è abbastanza evidente che le forze di sicurezza non avevano personale a sufficienza e che non avevano un piano di emergenza. «È più difficile gestire ritrovi spontanei di persone piuttosto che concerti o eventi sportivi. Ma comunque la polizia doveva essere nella condizioni di fendere la folla». Il piano in caso di calca: «Si dovevano prevedere aree dove la gente sarebbe potuta defluire. E un sistema di comunicazione con segnali e annunci che indicassero una via di uscita. Dalle immagini non si percepisce nulla di tutto questo».

Le autorità oggi hanno annunciato quello che a partire da domani mattina sarà il luogo deputato al lutto nazionale: Seul Plaza, vicino al Municipio. Anche i segni del dolore spontaneo devono essere guidati e controllati. Peccato che questo stesso spirito di «ordine» e «controllo» sia mancato totalmente prima della tragedia, in previsione di Halloween. Ragazzi in maschera e ragazze con il ventaglio in mano schiacciati lungo una stradina lunga 45 metri e larga quattro in una notte di festa.

Lorenzo Lamperti per “La Stampa” il 30 ottobre 2022.

Doveva essere la grande festa che avrebbe sancito il ritorno alla normalità. È diventata una delle più grandi tragedie della storia recente della Corea del Sud, con decine di morti schiacciati in una gigantesca e improvvisa calca. Ieri circa centomila persone hanno affollato Itaewon, il distretto più trendy di Seul. Obiettivo: festeggiare Halloween in totale libertà dopo le restrizioni anti Covid degli ultimi due anni. 

Niente più mascherine, né distanziamento sociale. Ma il sabato notte di Seul è diventato un incubo e i vicoletti di Itaewon una trappola. Quando ancora si parlava solo di feriti, foto e video postati sui social facevano presagire un bilancio tragico. Decine e decine di teli blu ai bordi delle strade, che lasciavano intravedere teste e gambe di persone senza vita.

Tanti feriti senza conoscenza, con gli operatori di emergenza che cercano di rianimarli, praticando disperati massaggi cardiopolmonari. Altri soccorritori provavano a liberare persone intrappolate sotto la calca. Tutto intorno, i superstiti camminavano in stato confusionale con i rispettivi travestimenti di Halloween. Mentre le sirene delle ambulanze suonavano senza sosta. 

Nel cuore della notte, in una conferenza stampa convocata poco dopo le due del mattino, le autorità ufficializzano 59 vittime e circa 150 feriti, ma chiariscono subito che i numeri potrebbero aumentare. Ed è così: i numeri continuano a crescere fino all'alba. Prima si parla di 80 persone che avrebbero sofferto «arresti cardiaci» o «difficoltà respiratorie». Una formula alla quale in Corea del Sud gli operatori di emergenza si limitano spesso, finché non viene annunciata la morte da un medico legale. Poi il bilancio cresce a 150 morti e 100 feriti. 

Choi Cheon-sik, funzionario dell'Agenzia nazionale dei vigili del fuoco, spiega che l'incidente è avvenuto quando la folla si è spinta in un vicolo stretto nei pressi dell'Hamilton Hotel, uno dei centri gravitazionali dell'area della movida della capitale sudcoreana.

Non è chiaro che cosa abbia scatenato il panico e la calca, ma di certo il numero dei presenti era molto, troppo elevato. Secondo alcuni media locali, un gran numero di persone si è precipitato in un bar dopo aver saputo che sarebbe stata presente una celebrità non precisata. 

Voce non confermata, ma di certo negli ultimi anni attori e cantanti plasmati dalla fiorente industria dell'intrattenimento sudcoreana sono diventati fenomeni nazionali e globali. Anche grazie al successo planetario di K-Pop e K-Drama, Itaewon ha conquistato ancora maggiore fama. I suoi vicoletti sono popolatissimi dai più giovani e la vicinanza a una base militare degli Stati Uniti lo rende uno dei quartieri più internazionali di Seul.

Per questo è ormai tradizione celebrare qui Halloween, festività che in Asia orientale è divenuta molto popolare ma che allo stesso tempo suscita preoccupazioni di ordine pubblico. Dopo la tragedia, a tutti i telefoni cellulari del distretto di Yongsan è stato inviato un sms in cui si invitavano i cittadini a tornare a casa il prima possibile a causa di un «incidente», ma c'è chi lamenta una gestione forse troppo «morbida» della folla. 

Il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol ha convocato una riunione d'emergenza e ha esortato i funzionari a rivedere i protocolli di sicurezza per i luoghi delle feste di Halloween. Il presidente ha anche ordinato al ministero della Salute di dispiegare squadre di assistenza medica per i disastri e di assicurare posti letto negli ospedali per i feriti.

Oltre 400 operatori di emergenza provenienti da tutto il paese sono stati inviati nella capitale. Il sindaco Oh Se-hoon, in visita ufficiale in Europa, ha cancellato il resto del suo viaggio e sta tornando nella capitale alla luce della tragedia. Non un momento fortunato per Seul, che poco più di due mesi fa ha subito una delle peggiori inondazioni dell'ultimo secolo che ha causato 9 morti e la distruzione di decine dei tradizionali appartamenti sotterranei resi celebri dal film premio Oscar Parasite. Ad attendere il sindaco c'è una città sotto choc.

Tutto quello che sappiamo sulla strage di Seul. Il Domani il 30 ottobre 2022

Sabato sera, durante una festa in occasione di Halloween, circa 100.000 persone si sono riunite nel quartiere di Itaewon: per un motivo ancora da ricostruire la folla si è messa in moto e almeno 153 persone sono state travolte e uccise nella ressa

Sabato sera a Seul sono morte 153 persone durante una festa in occasione di Halloween. La strage si è consumata nel quartiere notturno di Itaewon, in una via stretta e in pendenza, dove si erano raccolte circa 100.000 persone, molte in maschera: a un certo punto, dopo le 10 di sera, la folla si è messa in moto e ha travolto una parte dei presenti. 

In mattinata, i morti erano ancora 151, ma altre due persone sono morte, facendo salire il bilancio finale. Intorno alle 12.30 italiane, il bilancio dei feriti era di 82, di cui 19 sono gravi.

Anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha espresso la propria vicinanza. 

Secondo chi ha assistito alla scena, la via era troppo affollata e c’erano segnali di rischio già prima della tragedia.

Un dato che fa temere che la cifra dei morti possa salire ulteriormente. I morti erano quasi tutti giovanissimi, adolescenti o persone tra i 20 e i 30 anni, secondo le autorità locali.

Era la prima volta che si radunavano per un evento senza le rigide regole anti-Covid che il paese asiatico ha imposto per quasi tre anni, in cui eventi che attirano folle come questi erano vietati.

LA DINAMICA 

Kyodo

Sembra che l’incidente sia avvenuto dopo che le persone correvano in direzioni differenti e alcune sono scivolate a causa della pendenza della strada, causando una sorta di effetto domino. Secondo alcuni media locali, la ragione dello spostamento sarebbe stata l’avvistamento di una celebrità in un bar in fondo alla via. 

I soccorsi hanno subito inviato un gran numero di ambulanze e nei video pubblicati sui social si vedono cittadini e operatori sanitari tentare di rianimare i corpi per strada. 

AP

In altre immagini si vedono gli operatori che portano via morti e feriti. In un edificio sulla via è stato allestito un obitorio temporaneo per raccogliere e identificare i corpi. 

IL LUTTO 

AP

Domenica mattina il presidente Yoon Suk-Yeol ha dichiarato il lutto nazionale per il paese. «Da presidente responsabile della vita delle persone, il mio cuore è pesante e fatico a gestire la mia sofferenza». Governo e opposizione convergono sulla necessità di indagare le cause dell’incidente, il sindaco di Seul ha interrotto un viaggio in Europa per rientrare il prima possibile.

Il presidente Yoon ha anche promesso alle famiglie delle vittime di sostenerle nelle loro necessità, come le spese per i funerali. 

Strage di Seul, parla la testimone: «I ragazzi passeggiavano senza fermarsi neanche a guardare». SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 30 ottobre 2022

Martina, una ragazza di Gallipoli in vacanza, racconta lo shock della serata a Itaewon, dove è arrivata e ha visto le vittime che amici e operatori sanitari cercavano di rianimare dopo che la folla aveva travolto 153 persone

Sono stata a Seul, e più precisamente nel quartiere di Itaewon, a fine agosto, al termine di un viaggio in Corea del Sud durato tre settimane. La morte dei 153 ragazzi durante i festeggiamenti nella notte di Halloween proprio in quel quartiere, trova una spiegazione solo conoscendone la conformazione.

Itaewon è una zona molto diversa rispetto a buona parte della città, una zona di case mediamente basse, di piccole viuzze, di sali e scendi continui tra locali di tendenza, trans e gay bar, ristoranti etnici. Se davvero ieri sera c’erano 100.000 persone concentrate lì e in particolar modo nelle viuzze tra Itaewon-dong e Yongsan-gu, non è difficile capire come sia stato possibile che quegli isolati si siano trasformati in una trappola. 

I video girati dai testimoni, molti dei quali all’interno dei locali al primo piano affacciati sul quelle vie, mostrano una calca sovrumana, persone che cercano di arrampicarsi sui palazzi per cercare aria e salvezza, altre che spariscono in mezzo a corpi che cadono, travolti da chi nel panico tenta di scappare.

Martina, una ventisettenne di Gallipoli che ieri era a Itaewon per festeggiare la notte di Halloween, è ancora sotto shock. «Sono qui a Seul da due giorni, sognavo questo viaggio da tempo perché durante il lockdown ho imparato a conoscere la cultura coreana, ho studiato il coreano, mi sono innamorata a distanza di questo paese».

Cosa è successo ieri sera?

Io e il mio ragazzo eravamo eravamo in zona Myeong-dong, dopo cena ci avviamo andiamo a prendere il taxi esattamente dove lo avevamo preso la sera prima per tornare appunto in zona Itaewon.

Quindi ci eravate già stati.

Sì, la notte prima eravamo in quel quartiere ed è stato tutto perfetto anche se già pieno di gente. L’atmosfera sembrava un film, tanto era divertente. Quindi avevamo deciso di tornarci.

Poi?

Poi, a soli due minuti da Itaewon station, il taxi mette le 4 frecce per rispondere a un collega che lo chiamava e mi dice che dovevamo fare attenzione perché quattro ragazze erano appena state dichiarate morte perché “schiacciate”. Poi scende dall’auto e ci accompagna ad un incrocio dato il traffico ormai in tilt e continua a ripetere 조심하세요 («fate attenzione», ndr) mentre ci allontaniamo.

Che ora era?

Le 23 spaccate. Più ci avvicinavamo più vedevamo il traffico in tilt, infatti ho fatto anche una storia su Instagram. Eravamo convinti che queste quattro ragazze di cui il tassista ci aveva parlato fossero rimaste coinvolte in un incidente, dato che nello stradone adiacente a Itaewon le macchine scorrono molto veloci. Facciamo la stessa strada del giorno prima e fino a un certo punto era tutto normale, i ragazzi intorno a noi ridevano, bevevano, facevano foto, eravamo di nuovo immersi nello stesso clima trovato la sera prima.

Quando vi accorgete che sta succedendo qualcosa?

Il mio ragazzo vede le sirene illuminate al centro del traffico e decide di avvicinarsi per capire. Lo seguo e da lì un inferno.

Cioè?

Un film dell’orrore. La strada era un manto di corpi spogliati, mi devi credere, non sto esagerando. Era una carneficina, camminavamo e c’erano corpi lungo l’asfalto almeno per due chilometri e centinaia e centinaia, giuro, di medici che cercavano di salvare ragazze e ragazzi. Medici davanti a barelle che praticavano il massaggio cardiaco.

Cosa avete capito?

Mi sono fermata davanti a un poliziotto e ho iniziato a piangere, gli chiedevo cosa fosse successo ma lui non mi rispondeva. Nel frattempo, spero di essere creduta, sul marciapiede distante due metri da tutto questo i ragazzi continuavano a passeggiare senza fermarsi neanche a guardare. Ero seduta in lacrime da sola perché il mio ragazzo cercava di aiutare come poteva e accanto a me c’era un tedesco vestito da Gesù, tre ragazze coreane gli hanno chiesto una foto e dopo ci stavano anche provando, ridendo e scherzando. Negli occhi di nessuno c’era preoccupazione, nessuno. Era una carneficina.

Forse non tutti hanno visto o capito, non lo so.

Io però ho visto. Ho visto l’amica di una ragazza praticarle il massaggio cardiaco, ma lei ormai non c’era più, ho visto un ragazzo giovanissimo praticare una tracheotomia a un ragazzo che era vivo, ma è stato dichiarato morto dopo un minuto.

Non sapevamo più da che parte andare, ormai tutto era bloccato e continuavano ad arrivare gruppi infiniti di polizia e medici.

Qualcuno però alla fine vi avrà detto qualcosa.

Arrivavano gli avvisi del governo sul telefono, ma erano confusi. Noi vedevamo la gente che provava ancora a entrare a bere nei locali e veniva cacciata via, quindi pensavamo che ci fosse stato un problema di qualche gas velenoso nell’aria, questa notizia girava nelle chat. Uno degli avvisi del governo diceva di non mangiare dolcetti e di non bere nulla. So che ieri io pensavo fosse una cosa che non stavo realmente vivendo.

Quando siete riusciti ad andare via?

Alle 5, sei ore dopo, abbiamo trovato un taxi libero e siamo tornati in hotel, dopo aver visto sgombrare i locali uno a uno.

I tuoi pensieri oggi?

So che nel 2020 dal letto della mia stanza, in quarantena, mi sono innamorata follemente di questo paese. Amo la loro cultura e ho studiato la loro lingua per capire al meglio in vista di un viaggio. La sera prima ho amato il modo in cui si divertivano, è vero, bevono, ma non danno fastidio a nessuno, non sono molesti e sanno gestire tutto se sono in mezzo alla gente. Ma ieri i coreani mi hanno deluso parecchio perché c’erano 100.000 persone e non ho visto piangere nessuno.

Magari non tutti avevano realizzato l’accaduto.

No, guarda, uscivano dai locali, facevano qualche foto e poi si rimettevano il telefono in tasca per tornare a bere. Era pieno di baracchini di ragazze che facevano i trucchi col sangue finto e loro continuavano a truccare con le spalle a tutto. Spaventoso e agghiacciante.

Qualcosa però le persone si saranno dette per strada, avranno cercato una spiegazione.

I corpi erano tutti in fila quindi non si capiva perché fossero tutti lì, come ci fossero finiti. I primi articoli che spiegavano a grandi linee l’accaduto credo siano arrivati dopo un’ora e mezzo e lì finalmente abbiamo capito le dinamiche, fino a quel momento ci chiedevamo appunto come fosse possibile che i morti fossero sparsi in mezzo all’asfalto. Si erano forse sentiti male tutti nello stesso identico momento in cui attraversavano? Ecco cosa non capivamo.

Qualcuno sostiene che ci fosse stato un falso avvistamento di una celebrità.

Ti dico cosa mi ha detto una ragazza oggi a Hongadae: pare che alcuni ragazzi lì avessero saputo della presenza di un idol nei pressi dell’Hamilton e quindi lo volevano seguire, così si è creato quel tappo in una strada veramente stretta, di solito non molto trafficata, versione sinceramente plausibile perché le ragazze morte erano tutte così giovani e si comportano effettivamente così quando c’è un idol nei paraggi.

Chi era l’idol?

Qui dicono che questo nome non deve venire fuori in nessun modo, anche perché le agenzie proteggono gli idol in maniera ossessiva.

Non avrebbe comunque alcuna colpa.

Ovviamente. Non è colpa di nessuno, se non della voglia di uscire a festeggiare per la prima volta senza restrizioni dopo due anni forse.

Vero, però ero stata a Itaewon anche la sera prima e come ti dicevo situazione era comunque fuori controllo, migliaia di persone, penso ci si potesse aspettare il delirio ad Halloween, anzi, lo sapevano tutti.

Come ti senti oggi?

Appena arrivata in hotel alle 5 del mattino non ti nascondo che mi sono chiusa in bagno a piangere, perché l’unica cosa a cui pensavo erano le famiglie delle vittime e alle probabilità che avevo di assistere a una cosa simile così lontana da casa senza minimamente sapere come gestire una sensazione così grande di impotenza assoluta.

Ho scritto a mia sorella che volevo tornare a casa, ma lei mi ha detto che questo è il viaggio che desidero e pianifico da due anni e che dovevo restare. Ho parlato con il mio ragazzo questa mattina e abbiamo deciso di restare avendo anche voli interni prenotati e la voglia di fare esperienze che sinceramente non vedo l’ora di fare.

Ho lasciato l’hotel in cui eravamo perché non volevo più stare lì e oggi siamo in down completamente. Questo pomeriggio il mio ragazzo è scoppiato a piangere all’improvviso dopo aver visto un notiziario.

L’indifferenza mi ha ferita e vedere quel dolore mi ha fatto capire la cosa più banale del mondo, ovvero il valore che ha ogni vita. Ed è assurdo che lo stesso destino che mi ha impedito di essere lì un’ora dopo l’orario che avevamo deciso, sia stato così crudele con quelle persone. Domani andremo a lasciare dei fiori a Itaewon e e a ricordare quelle anime. Poi continueremo il viaggio, così è la vita.

Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Una settimana di lutto e tante domande sulle morti di Seoul. Marianna Baroli il 30 Ottobre 2022 su Panorama.

Una settimana di lutto e tante domande sulle morti di Seoul

Itaewon-ro: una striscia di terra che è un microcosmo a se stante nel cuore di una metropoli come Seoul. Un luogo il cui il multiculturalismo regna sovrano, in cui gli stranieri si sentono a casa. Dove i bar e i ristoranti si sfidano tra le luci delle insegne notturne prima di trovare pace con il sorgere del sole e lasciare posto a botteghe, negozi e café all'ultima moda. Distinguiamo la strada, quella più nota e gettonata, dal quartiere, che porta lo stesso nome all'interno del'area di Yongsan-gu, a sud di Myeongdong e a nord del fiume Han. Itaewon, la strada, è diventata teatro nelle ultime 24 ore di una strage che ha coinvolto circa 300 persone, 154 delle quali hanno perso la vita in una straziante carneficina indotta - con tutta probabilità - dal panico.

Area di lusso - la zona è una delle più costose a livello di affitti di Seoul, casa di celebrità e idol, amata da tutti e famosa per i suoi partiy. Itaewon è lo sfondo di feste, programmi tv e soprattutto di uno dei K-drama più popolari al mondo, Itaewon Class che, ironia della sorte, al suo interno riproduce una corsa a perdifiato nella via illuminata proprio durante una festa di Halloween. I fatti Sabato 29 ottobre. Come ogni Halloween Itaewon si prepara a festeggiare. Quest'anno, il party per strada ha un sapore diverso. È il primo dopo la pandemia, il primo senza restrizioni di numero di presenti nei locali. Il primo, dopo due anni, senza coprifuoco. Centomila persone - questi i numeri stimati dalla polizia locale - si riversano in questo lembo di terra fatto di piccole stradine che si connettono l'arteria principale al cuore della movida. La folla inizia ad arrivare nel pomeriggio, come testimoniano i tanti presenti e residenti nell'area. Intorno alle 20, la situazione inizia a sfuggire al controllo. Ma si continua a far festa, nei locali la musica rimbomba e tutto intorno è un'esplosione di colori. Alcuni presenti affermano di aver iniziato intorno alle 20.30 a segnalare alle autorità "problemi con la gestione della folla". Invano. Arrivano però le 22.30. E qualcosa cambia. Le fonti ufficiali governative ancora non si sbilanciano su cosa abbia davvero scatenato il massacro. Le agenzie di stampa iniziano a battere la notizia di 50 persone morte di arresto cardiaco nell'area di Itaewon. È panico. Nella fuga, le persone vengono calpestate. Si localizza un punto critico dell'area: un vicolo, in pendenza, largo poco più di 4 metri e lungo 45, in cui centinaia di persone si sarebbero ammassare per circa un'ora e mezza creando un effetto domino letale. A notte inoltrata, il bilancio è di oltre 100 morti, feriti e centinaia di dispersi.

Nella foto in 3D, l'Hamilton hotel e l'area della tragedia Yonhap Le ipotesi - non confermate Come abbiamo detto, nonostante le molteplici conferenze stampa indette dal governo coreano e dalle autorità di Yongsan, ancora è sconosciuta la causa del disastro. Durante le prime ore di panico, sui social sono sbucate molteplici teorie ma nessuna ha trovato ancora un riscontro effettivo. Alcuni parlavano di fentanyl, un potentissimo analgesico oppioide sintetico, sparato nell'aria. Altri di dolci e caramelle contenenti droga. Altri ancora di caramelle con analgesico. E ancora. Un "gruppo" di personaggi famosi in un locale avrebbe scatenato una corsa al vip-watching e il conseguente collasso della circolazione. A oggi, a 24 ore dalla strage, le autorità locali ancora non si sbilanciano sulle cause. Vigili del fuoco e la polizia, tuttavia, hanno riportato di non aver ricevuto segnalazioni in merito al consumo o alla distribuzione sospetta di droga. Il bilancio A 24 ore dalla tragedia il bilancio è dei più tragici. 154 morti, ma il numero - purtroppo - è in continuo aumento. Di questi, 98 erano donne intorno ai 20 anni, 56 gli uomini. Venti in totale gli stranieri che hanno perso la vita e che provengono da Paesi come la Russia, la Norvegia, l'Iran. Centinaia i dispersi, con il centralino allestito per la ricerca delle persone in continuo sovraffollamento di richieste. La critica al governo Sebbene la politica abbia scelto il silenzio e di stringersi nel lutto nazionale fino alla mezzanotte del 5 novembre, non mancano le critiche al nuovo presidente Yoon Suk-yeol reo di aver spostato la sua residenza dalla protetta casa blu alla sua abitazione privata. Secondo i cittadini, la mancanza di dispiego di forze dell'ordine per il controllo della zona di Itaewon durante la festa è stato causato anche dal dispiego massiccio di agenti a protezione degli uffici presidenziali, situati proprio nell'area di Yongsan.

La critica ai presenti. Non sono mancate le critiche anche ai presenti nell'area che, secondo molteplici testimonianze, si sarebbero rifiutati di interrompere i festeggiamenti nei locali adiacenti e non coinvolgi nella tragedia causando ulteriori contrasti. Di particolare impatto un video, che pubblichiamo qui sotto, in cui si sente la folla urlare "Sex on the beach" senza curarsi del caos che si stava consumando davanti ai loro occhi. L'azione del governo Il sindaco di Seoul Oh Se-hoon ha dichiarato che discuterà con il governo centrale la designazione dell'intera area della capitale come zona disastrata speciale che può beneficiare di vari programmi di sostegno. Oh ha annunciato il piano durante una visita al luogo dell'incidente nel centro di Seoul, dove è arrivato dopo aver interrotto il suo viaggio in Europa sulla scia del tragico incidente avvenuto durante i festeggiamenti di Halloween a tarda notte un giorno prima. "Dovremo discuterne ulteriormente, ma dovremmo essere in grado di produrre modi per sostenere anche i non residenti di Seoul quando l'intera capitale sarà designata come zona speciale per i disastri" , ha detto Oh. All'inizio della giornata, il presidente Yoon Suk-yeol aveva designato il distretto centrale di Seoul, Yongsan, dove si trova Itaewon, come una zona

L. Lam. per “la Stampa” il 31 ottobre 2022.

Il giorno dopo è pieno di tristezza e dolore. Ma anche di dubbi e rabbia. Seul è una città sconvolta e alla ricerca di risposte per la tragedia che ha causato almeno 153 morti (quasi tutti under 30) e centinaia di feriti nella calca di Itaewon. Ricostruzioni e testimonianze su quanto successo in quel piccolo vicolo lungo 45 metri e largo 4 si susseguono su media locali e social. 

«Dietro di me, la gente gridava cose come "Spingi! Siamo più forti! Possiamo vincere!". Poi, all'improvviso, si è scatenato il caos e tutti hanno iniziato a spingere avanti e indietro in modo aggressivo, come in un tiro alla fune», racconta Seon Yeo-jung su Instagram.

«Le persone in cima al vicolo hanno iniziato a spingere e quelle in fondo hanno iniziato a cadere come se fossero pezzi di un domino», scrive qualcun altro. C'è chi chiede che i presunti «istigatori» siano identificati attraverso le telecamere di sorveglianza e ritenuti responsabili di «omicidio di massa». Altri dicono di non essersi accorti di nulla fino a quando non è cominciata l'evacuazione. Diverse persone non ascoltavano le indicazioni dei poliziotti, pensando si trattasse di travestimenti di Halloween.

Molti puntano il dito contro le scarse misure di sicurezza. A Seul, gli eventi devono avere piani di sicurezza se si prevede la partecipazione di più di mille persone. Ma questa era una festa "diffusa", senza un organizzatore specifico. E nessuno sembra essersi occupato della gestione e del controllo della folla. 

Gli agenti nella zona erano solo 200, in linea con gli anni pre pandemici. Ma nel 2021 erano addirittura in 4600 a controllare il rispetto delle restrizioni anti Covid. E sabato sera molte unità erano dispiegate a Gwanghwamun per delle manifestazioni di protesta. 

Il ministro degli Interni, Lee Sang-min, ha affermato che la tragedia non si sarebbe potuta evitare con un maggior numero di agenti. Alcuni genitori delle vittime, in preda alla disperazione, hanno inscenato una manifestazione di protesta. Ma i dubbi restano tra chi sottolinea quanta attesa si fosse creata per una festa che doveva segnare il ritorno alla normalità e il riscatto di Itaewon, dopo che tanti ristoranti e negozi avevano chiuso per la pandemia. Ieri molti locali hanno tenuto le serrande abbassate. 

Centri commerciali e catene hanno cancellato le promozioni di Halloween, festival e concerti sono stati annullati in tutta la Corea del Sud. Il presidente Yoon Suk-yeol ha proclamato il lutto nazionale fino a sabato prossimo. Nel 2014 il naufragio del traghetto Sewol causò 304 morti, soprattutto liceali. 

Le critiche per la risposta del governo di allora scatenarono proteste che furono tra gli ingredienti della deposizione dell'ex presidente Park Heun-hye. Yoon dovrà dare risposte convincenti per non lasciare che la tragedia sfoci in una crisi politica.

Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2022.  

È un vicolo in leggera discesa, lungo 45 metri e largo quattro. I ragazzi sono morti asfissiati con la musica a palla e i polmoni schiacciati, in quel budello che collega l'uscita 1 della stazione del metrò alla World Food Street zeppa di localini. Da una parte il muro dell'Hamilton hotel, dall'altra i bar. La stazione dei pompieri è a 100 metri. 

La prima festa di Halloween libera dalle restrizioni della pandemia. Il ministro dell'Interno e della Sicurezza, Lee Sang-min, ha detto che la polizia non si aspettava una folla superiore a quella degli anni passati. Nessun rafforzamento era stato previsto per la serata. Anzi. Il ministro ha ammesso che un certo numero di agenti è stato spostato da Itaewon verso un'altra area della città dove erano in corso manifestazioni di protesta.

In Corea del Sud, e in particolare nella capitale, la presenza delle forze di sicurezza è spesso massiccia, talvolta giudicata eccessiva, e quasi sempre decisa per ragioni di ordine pubblico legate a proteste di carattere politico. Itaewon molti anni fa era un luogo malfamato. In passato, occupanti mongoli e giapponesi hanno stabilito nell'area le loro basi per le truppe. 

Ma oggi è uno di quei quartieri alla moda double-face che esistono in tante città del mondo: di giorno, incrocio logistico e di traffico. Di sera, locali, bar, gente. Kim Seo-jeong, 17 anni, liceale, era lì come migliaia di coetanei. Lei e un'amica, vestite con tradizionali abiti cinesi e un ventaglio in mano.

«Quando siamo arrivati intorno alle 20 - ha raccontato al New York Times - nel vicolo già era difficile muoversi. Un'ora dopo abbiamo cercato di risalire la corrente per tornare verso casa. Ma eravamo bloccate. Non si andava né avanti né indietro. Poco dopo, una massa di ragazzi è arrivata gridando: "Spingete, spingete. Siamo i più forti". Una persona è scivolata davanti a me, poi altre. Come tessere del domino. Abbiamo urlato, chiedendo aiuto, ma la musica era così alta che nessuno sentiva nulla».

Alcuni adulti hanno tirato Kim e la sua amica all'interno di un bar. Salvezza per pochi. Keith Still, professore di Crowd Science alla University of Suffolk, sul Washington Post distingue due fenomeni: «stampede» (fuggi fuggi) e «crowd crush» (schiacciamento di persone). Nel primo caso la gente ha vie di fuga, nel secondo no.

Asfissia per schiacciamento: si muore quando i polmoni sono così compressi che non si riesce letteralmente a respirare. Ciascuno finisce per combattere una battaglia con i vicini per una boccata d'aria, un secondo di vita in più. Chi cade viene schiacciato. Significativo che il bilancio delle vittime indichi uno squilibrio: le ragazze morte sono quasi il doppio dei ragazzi. Giovani come Kim, morte asfissiate con il ventaglio in mano.

Per un tempo tragicamente lungo, la gravità della situazione non è stata colta neppure da chi stava nelle vicinanze, fuori dal budello della morte. Chi filmava, chi continuava a truccarsi per Halloween, chi batteva alle porte dei locali chiedendo l'orario di apertura. Pochi agenti con i giubbotti gialli, armati di fischietti.

I video mostrano alcuni di loro che salgono sul tetto dele auto di ordinanza, fischiando e urlando alla gente di allontanarsi. Brian Higgins, che insegna Gestione delle emergenze al John Jay College of Criminal Justice a New York, ha detto al New York Times che «è abbastanza evidente che le forze di sicurezza non avevano personale a sufficienza e che non c'era un piano di emergenza. È più difficile gestire ritrovi spontanei di massa piuttosto che concerti o eventi sportivi. Ma comunque la polizia doveva essere nelle condizioni di muoversi, fendere la folla. Si dovevano prevedere aree dove la gente sarebbe potuta defluire. E un sistema di comunicazione con grandi segnali e annunci che indicassero una via di uscita. Dalle immagini non si percepisce nulla di tutto questo».

Lorenzo Lamperti per “la Stampa” il 31 ottobre 2022.

«Abbiamo formato una specie di catena in fila indiana per passare. Tutto intorno c'erano centinaia di persone, in un silenzio agghiacciante. Sentivo solo le voci dei poliziotti che ci urlavano di non girarci sulla destra. C'era chi copriva gli occhi agli amici. Lì, sulla nostra destra, c'era un tappeto di cadaveri. Di persone coperte da teli blu». Ileana, 33enne di Alessandria, si trova a Seul. Sabato doveva festeggiare Halloween in uno dei locali di Itaewon, il distretto della movida teatro della strage di giovani che ha sconvolto la Corea del Sud. 

Dove ti trovavi durante la tragedia?

«Avrei dovuto essere in uno dei locali di quel vicoletto. Per fortuna ero in ritardo e ho perso la metropolitana, forse questo mi ha salvata. 

Quando stavo per arrivare a Itaewon un'amica mi ha avvisata che stava succedendo qualcosa di brutto. Sono scesa la fermata prima e ho fatto l'ultimo tratto a piedi». 

Hai comunque raggiunto Itaewon?

«Sì, volevo raggiungere le mie amiche che hanno casa lì, vicinissimo al luogo della strage».

Che cosa hai visto?

«C'erano ambulanze e vigili del fuoco, gente che scappava a piedi nudi piangendo.

Non si capiva bene che cosa fosse successo. A un certo punto mi sono trovata completamente bloccata contro un muro, con persone che scappavano da tutte le parti in preda al panico. 

Ho fatto una videochiamata alle mie amiche che hanno casa proprio dietro il luogo della strage. Sono rimasta lì contro il muro mentre le macchine erano impazzite, i pedoni camminavano come zombie in mezzo alla strada rischiando di essere investiti. Le ambulanze erano bloccate, sia quelle in arrivo sia quelle che cercavano di correre verso gli ospedali».

Poi che cosa è successo?

«Le mie amiche mi hanno trovata e insieme abbiamo cercato di raggiungere l'appartamento. Purtroppo siamo dovute passare da quel vicolo lì. Ovunque mi girassi vedevo gente senza conoscenza. Era uno scenario apocalittico. Ci dicevano di camminare senza voltarci ma anche solo scorgere dei piedi che escono da un lenzuolo azzurro è stato sconvolgente».

Avete trascorso la notte lì?

«Ero sconvolta. Ho aspettato alle 5 e 30 che riaprisse la metropolitana per tornare a casa. Quando sono uscita sono passata di nuovo per il luogo della tragedia.

C'era ancora tanto movimento, diverse persone continuavano a uscire dai club e non si erano ancora rese conto di quanto successo. A quel punto c'erano dei gazebo tirati su per soccorrere i feriti».

Tu o qualcuno dei tuoi amici si è fatto un'idea di che cosa abbia provocato la tragedia?

«C'era chi parlava di un incendio, chi di una fuga di gas. Altri ancora che era stato avvistato un idol in uno dei locali. Difficile saperlo. Ma conoscendo quei vicoli so che basta una piccola miccia, una parola sbagliata, per creare una situazione pericolosa. C'è una discesa prima di entrare nei locali, credo che persone da sopra abbiano spinto quelle che si trovavano sotto. Ma il vero motivo penso sia che c'erano troppe persone in un posto così piccolo». 

Ti è capitato altre volte di vedere situazioni di ressa in quella zona?

«Itaewon è spesso sovraffollata, un po' come tutte le altre zone di Seul celebri per i locali, a partire da Gangnam. Il problema non è la quantità di persone, ma lo spazio così piccolo». 

Hai notato la presenza della polizia?

«Quando sono arrivata all'inizio gli agenti erano pochi, quando sono tornata a casa molto di più. La sensazione generale è che non ci fosse una grande presenza della sicurezza». 

Credi che si potesse fare qualcosa di diverso nella gestione della serata?

«Non lo so, io posso dire che anche nei giorni precedenti c'era parecchio movimento. In Corea del Sud si festeggia Halloween per una settimana, non per una sera. I commercianti stessi erano molto preoccupati per la quantità di persone che ci sarebbe stata a questa festa di cui si parlava da settimane. Dopo tre anni di pandemia e di restrizioni ci si aspettava una grande folla. Non ci si aspettava certo questa tragedia».

(ANSA l'1 novembre 2022) - La polizia sudcoreana ebbe più segnalazioni urgenti di pericolo sabato sera prima che la calca mortale di Itaewon, a Seul, causasse la strage tra adolescenti e poco più che ventenni, con un bilancio di morti appena aggiornato a quota 156. 

Le forze dell'ordine sapevano che "una grande folla si era radunata anche prima che si verificasse l'incidente, indicando l'urgenza del pericolo", ha affermato il capo della polizia nazionale Yoon Hee-keun, definendo "insufficiente" la gestione delle informazioni ricevute. L'ultima vittima dei festeggiamenti di Halloween è una 20enne sudcoreana, ricoverata in gravi condizioni con altre 29 persone.

Per la prima festa di Halloween post-pandemia si stima che circa 100.000 persone avessero raggiunto sabato sera Itaewon, il quartiere della movida di Seul, ma non trattandosi di un evento "ufficiale" con un organizzatore designato, né la polizia né le autorità locali stavano gestendo la folla. 

"Ci sono state diverse segnalazioni alla polizia che indicavano la gravità del sito appena prima che si verificasse l'incidente", ha affermato il capo della polizia nazionale Yoon Hee-keun, secondo cui c'era la conoscenza che "una grande folla si era radunata anche prima che si verificasse l'incidente, indicando l'urgenza del pericolo".

Tuttavia, la gestione delle informazioni fu "insufficiente", ha detto Yoon. La Corea del Sud ha una robusta esperienza in materia di controllo della folla alle manifestazioni, con il numero di agenti che spesso supera quello dei partecipanti. Nel caso di Halloween a Itaewon, non c'era un organizzatore designato, mentre le persone che accorrevano nell'area si disperdevano nella miriade di bar, club e ristoranti delle strette strade. 

La polizia ha riferito ieri che 137 agenti erano stati schierati a Itaewon per Halloween, meno dei 200 inizialmente indicati, con altri 6.500 erano impegnati a una manifestazione a Seul alla quale hanno partecipato circa 25.000 persone, secondo i media locali. Il presidente Yoon Suk-yeol ha dichiarato oggi che il Paese ha bisogno di migliorare con urgenza il proprio sistema di gestione sulla scia del disastro perché "la sicurezza delle persone è importante, indipendentemente dal fatto che ci sia o meno un organizzatore di eventi".

Yoon, in una riunione di gabinetto, ha chiesto di sviluppare "capacità digitali all'avanguardia". 

Tuttavia, la città di Seul è dotata di un sistema di monitoraggio in tempo reale che utilizza i dati dei telefoni cellulari per prevedere le dimensioni della folla: sabato sera, però, non è stato attivato, secondo i media locali. 

E le autorità distrettuali di Itaewon non hanno dispiegato alcuna pattuglia di sicurezza, affermando che Halloween era considerato "un fenomeno" piuttosto che "un festival", che avrebbe invece richiesto un piano ufficiale per il controllo della folla.

Il ministro sudcoreano dell'Interno e della Sicurezza, Lee Sang-min, ha espresso le scuse per la strage causata dalla calca di Halloween che sabato sera ha ucciso almeno 156 a Itaewon, quartiere della movida di Seul. 

La mossa è maturata nel mezzo delle crescenti polemiche sull'inadeguata gestione di polizia e altre agenzie governative, malgrado l'attesa che un'enorme folla si sarebbe riversata nell'area. "In qualità di ministro delle autorità competenti, porgo le mie umili scuse alle persone per l'incidente, sebbene la nazione abbia responsabilità illimitata per la sicurezza delle persone", ha detto Lee in una sessione parlamentare.(ANSA)

Stefano Vecchia per “Avvenire” l'1 novembre 2022

La rabbia e il dolore di Seul per le 155 vittime. Avviata un'indagine sui presunti «agitatori» Dopo una domenica in cui si sono contate le vittime, lunedì è stato il tempo del cordoglio e anche delle accuse contro chi non ha saputo prevenire la strage di sabato notte nella capitale sudcoreana Seul.

Sono 155 i morti accertati finora e 149 i feriti di cui 33 ricoverati in gravi condizioni per il panico che si è scatenato durante la grande festa pubblica di Halloween che aveva richiamato forse 100mila persone nell'area dello svago di Itaewon, un incrocio di vie e vicoli su cui si affacciano locali notturni e ogni genere di ristoranti e ritrovi condivisi dai giovani coreani e stranieri.

Ieri sul luogo della strage è stato un viavai di cittadini che hanno pregato, pianto e deposto crisantemi bianchi sopra e attorno a un memoriale predisposto per l'occasione. Le vittime, quasi tutte decedute per soffocamento, schiacciate dalla massa di persone prese dal panico dopo le prime cadute tra la folla addensata nel vicolo di fronte all'hotel Hamilton, sono in maggioranza giovani donne.

Le testimonianze raccolte hanno evidenziato l'impossibilità di sfuggire a una calca che molti hanno descritto come «un torrente in piena» in cui nemmeno i primi soccorritori sono riusciti a penetrare, ma anche l'incredulità di come una simile situazione non sia stata prevista. Davanti a un'affluenza tanto elevata, poche pattuglie di poliziotti sarebbero state impegnate soprattutto a verificare l'uso di droga tra i partecipanti piuttosto che il loro assembramento senza vie di fuga. 

In un Paese che sa mostrare una incrollabile determinazione quando è toccato nel profondo, ieri molti attraverso i canali social e sui mass media hanno lanciato accuse verso le autorità e chiesto che siano chiarite le eventuali responsabilità. Il primo ministro Han Duck-soo ha garantito indagini approfondite per comprendere «ciò che ha causato questo incidente e per fare del nostro meglio per fare tutti i cambiamenti necessari affinché questo non si ripeta».

Il premier ha confermato 155 decessi e che una vittima resta ancora da identificare. Han ha anche segnalato la diffusione di notizie e di immagini che tenderebbero a dare un'idea distorta degli eventi e a colpevolizzare le vittime. Indagini in proposito sono state avviate nei confronti degli "agitatori" già individuati. Ancora ieri il presidente Yoon Suk-yeol ha fatto visita al memoriale allestito presso il municipio cittadino e ha dichiarato una settimana di lutto nazionale.

Di «disastro che si sarebbe potuto controllare o prevenire» ha parlato in televisione Lee Young-ju, docente del Dipartimento per gli incendi e le calamità dell'Università di Seul, aggiungendo che «così non è stato in questo caso e che nessuno ha ancora ammesso le proprie responsabilità ». Sicuramente la vicenda ha toccato in profondità la società sudcoreana ma ampio è anche il cordoglio internazionale. Tra le vittime vi sono anche 26 stranieri di diverse nazionalità, di cui almeno sei molto giovani, ma il loro numero potrebbe salire ancora.

(ANSA-AFP il 12 agosto 2022. ) - L'erede e leader di fatto del gruppo Samsung ha ricevuto oggi la grazia presidenziale, ultimo esempio di una tradizione sudcoreana di clemenza nei confronti dei grandi patron condannati per corruzione e altri reati finanziari. Il miliardario Lee Jae-yong, condannato per corruzione e appropriazione indebita lo scorso gennaio, sarà "reintegrato" per "aiutare a superare la crisi economica della Corea del Sud", ha affermato il ministro della Giustizia Han Dong-hoon.

Lee, 54 anni, la 278ma persona più ricca del mondo secondo Forbes, era stato rilasciato con la condizionale nell'agosto 2021 dopo aver scontato 18 mesi di prigione, poco più della metà della sua condanna originale. La grazia di oggi gli consentirà di tornare a lavorare a pieno titolo, revocando il divieto di lavoro che gli era stato imposto dal tribunale per un periodo di cinque anni dopo la sua pena detentiva.

"A causa della crisi economica globale il dinamismo e la vitalità dell'economia nazionale sono peggiorati e si teme che la crisi economica si prolunghi", ha affermato il ministero della Giustizia in una nota. Il dicastero spera che l'uomo d'affari possa "guidare il motore di crescita del Paese investendo attivamente in tecnologia e creando posti di lavoro". A Lee Jae-yong è stata concessa la grazia insieme ad altri tre uomini d'affari, tra cui il presidente del gruppo Lotte, Shin Dong-bin, che ha ricevuto una condanna a due anni e mezzo di reclusione con sospensione della pena in un caso di corruzione nel 2018.

Lee è il vicepresidente di Samsung Electronics, il più grande produttore mondiale di smartphone. Le entrate complessive del conglomerato equivalgono a un quinto del prodotto interno lordo della Corea del Sud. È stato incarcerato per reati legati a un enorme scandalo di corruzione che ha fatto cadere l'ex presidente Park Geun-hye. Non è raro che i principali magnati sudcoreani vengano accusati di corruzione, appropriazione indebita, evasione fiscale o altre attività economiche illegali.

·        Quei razzisti come i filippini.

Filippine, Marcos jr verso il trionfo (riscrivendo il passato). Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2022.

La rabbia che cacciò il padre diventa nostalgia dell’«età dell’oro». 

Musica, balli, gag e zero programmi. In migliaia, vestiti di rosso, hanno sfidato il sole cocente e il vento forte ieri per assistere all’ultimo comizio-show di Ferdinand Marcos junior. Trentasei anni dopo aver cacciato il padre con una rivoluzione popolare, i filippini stanno per mettere il figlio alla guida del Paese come successore del controverso Rodrigo Duterte. Bongbong, com’è soprannominato, grande favorito alle elezioni di domani, si avvia a fare il pieno di voti: il 56 per cento, secondo l’ultimo sondaggio di Pulse Asia. Maggioranza assoluta, come non succedeva dai tempi di suo padre. E questo senza aver mai ripudiato quella che nei comizi definisce «l’epoca d’oro del grande arcipelago», ovvero gli anni della dittatura di Marcos senior, segnato da violenze e abusi, oltre che dal saccheggio delle casse dello stato (stimato in 10 miliardi di dollari).

Poi milioni di filippini scesi in strada costrinsero i Marcos all’esilio negli Stati Uniti: la democrazia sembrava aver respinto l’autocrazia. A eroderla, «la dittatura delle dinastie», come la definisce lo scrittore Miguel Syjuco. Nel 2019, in un Paese di 110 milioni di persone, 234 famiglie detenevano il 67% dei posti in Parlamento, l’80% dei governatorati e il 53% dei sindaci.

Non stupisce che una delle prime azioni da presidente di Duterte nel 2016 sia stata quella di trasferire la salma di Ferdinand Marcos dal mausoleo di famiglia al Cimitero nazionale degli eroi di Manila. E quando a fine mandato, non potendosi ricandidare, ha schierato la figlia Sara, lei si è accontentata di correre per la vicepresidenza in modo da non intralciare Marcos junior. 

In un video su YouTube si vedono i due «eredi» ridere e chiacchierare insieme della loro passione per hamburger e frullati di mango e poi dimenarsi a ritmo di un rap scritto apposta per la loro campagna. Coreografie, leggerezza. E revisione del passato attraverso l’uso massiccio dei social media, per spingere slogan che enfatizzano il benessere portato dal regime di Marcos e bollano come invenzione dei mass media fatti incontrovertibili come il debito estero del Paese salito da 800 milioni all’inizio del suo primo mandato nel 1965 a 28,3 miliardi quando fu cacciato nel 1986. È stato stimato che il 47 per cento dei follower di Marcos — un milione su YouTube e tre milioni su Facebook — non sono persone reali, ma profili falsi creati per amplificare i suoi messaggi e prendere di mira giornalisti e «rivali», distorcere la storia. 

Il processo di riabilitazione dei Marcos non è stato affidato al caso. Bongbong si sarebbe rivolto a Cambridge Analytica per «rebrandizzare» l’immagine della famiglia sui social media, ha rivelato una ex dipendente della società britannica, Brittany Kaiser, al sito di notizie Rappler, fondato dal Nobel Maria Ressa. Fatto che lui ha negato. La strategia pare abbia funzionato: la candidata pro democrazia, l’avvocata Leni Robredo, di fatto sua unica sfidante, si fermerebbe al 33%.

Lorenzo Lamperti per “la Stampa” il 10 Maggio 2022.  

In pochi, quel 25 febbraio del 1986, si sarebbero immaginati che un Marcos sarebbe tornato alla guida delle Filippine. Per giunta dopo aver vinto le elezioni presidenziali con una sorta di plebiscito. Eppure, Ferdinand Marcos Jr. ha più che doppiato i voti della principale sfidante, la vicepresidente uscente Leni Robredo, con un vantaggio (a scrutinio non ancora ultimato) intorno ai 30 punti.

Poco più di 36 anni dopo la rivoluzione del Rosario, il figlio del dittatore che governò le Filippine dal 1965 al 1986 si appresta a rientrare al palazzo presidenziale di Manila, lì dove sua madre Imelda conservava tremila paia di scarpe prima dell'esilio forzato alle Hawaii. Marcos Jr., ribattezzato "Bongbong" dal padre per l'abitudine di salirgli sulle spalle (in tagalog il termine identifica un contenitore di bambù che si porta sulla schiena), si è sempre impegnato nel tentativo di riabilitare la reputazione dei genitori.

Accusati di aver depredato tra i 5 e 10 miliardi di dollari di denaro pubblico, Ferdinand Sr.

(morto alle Honolulu nel 1989) e Imelda (oggi 92enne) vengono descritti dal figlio rispettivamente come "genio politico" e "politica suprema". Un processo di revisionismo che non ha trovato ostacoli in un paese dove l'età media è di 26 anni e dunque in pochi conservano il ricordo dei soprusi paterni.

La maggioranza dei filippini ha scelto il 64enne rampollo di mamma Imelda, nonostante il passato di famiglia caratterizzato da un'infinita serie di accuse di corruzione ed episodi mai chiariti come l'uccisione del leader dell'opposizione Benigno Aquino all'aeroporto di Manila. D'altronde è proprio la madre ad averlo spinto alla carriera politica dopo gli insuccessi internazionali, con una laurea e un master mai portati a termine tra Oxford e Usa. Investitori e mondo finanziario temono Marcos. Non tanto per il timore di un ritorno ai tempi autoritari, quanto per un programma economico vago e confuso.

"Bongbong" eredita un Paese caratterizzato da profonde divisioni e ancora scosso dalla violenta campagna anti droga del presidente uscente Rodrigo Duterte, che lo ha definito «debole» e «bambino viziato» durante la campagna elettorale. Ma la vicepresidente sarà proprio la figlia di Duterte, la 43enne Sara, che ha scelto di correre in ticket con Marcos Jr. contro il parere del padre che l'avrebbe invece voluta leader al suo posto. L'erede dell'altra dinastia politica filippina ha stravinto l'elezione separata per la vicepresidenza.

Secondo molti, Marcos Jr. userà il suo potere per fermare le indagini sul patrimonio della sua famiglia, dato che presiederà la commissione che ancora conduce l'inchiesta. L'esito del voto non dispiace alla Cina, visto che si ritiene che "Bongbong" possa proseguire con la linea morbida nei confronti di Pechino adottata da Duterte, nonostante Xi Jinping non abbia mai rispettato una sentenza dell'Aja a favore di Manila sulle dispute territoriali del mar Cinese meridionale.

Marcos Jr., tra l'altro, non può mettere piede negli Stati Uniti a causa di una maxi multa mai pagata da 353,6 milioni di dollari comminata a lui e alla madre dopo una class action contro le violazioni dei diritti umani del regime guidato dal padre. Robredo sembrava invece garantire una postura più in linea col tradizionale alleato americano.

Senza contare le sue posizioni a tutela dei diritti della comunità Lgbt e dei giornalisti spesso vessati durante gli ultimi anni. Anche la chiesa cattolica stava con lei. Non è bastato. I filippini hanno scelto di affidarsi di nuovo a due famiglie che conoscono (fin troppo) bene, i Marcos e i Duterte, che viste le proporzioni della vittoria si sentiranno in diritto di governare pressoché incontrastati.

Manila Alfano per “il Giornale” il 10 Maggio 2022.

Ferdinand Marcos Junior, figlio del defunto dittatore Ferdinand Marcos, si avvia verso una vittoria schiacciante alle presidenziali delle Filippine dopo che quasi la metà dei 70.000 seggi elettorali ha presentato i propri risultati. Marcos Jr ha ottenuto più del doppio dei voti del suo principale rivale, Leni Robredo. Il nuovo presidente succederà al controverso Rodrigo Duterte. Il processo elettorale è stato minato dalle polemiche sulle macchine per il conteggio dei voti, con almeno 1.900 casi di malfunzionamento secondo i media locali, e lunghe code fuori dai seggi.

Il rampollo della dinastia dei Marcos, Ferdinand «Bongbong» Marcos, è il grande favorito alla presidenza, contro la principale sfidante, Leni Robredo, avvocato per i diritti umani e vice presidente in carica. Nelle Filippine si vota anche per il vice presidente: Marcos, che ha dato pochi dettagli sul suo programma, corre con Sara Duterte, figlia del presidente uscente, in un ticket che desta timori per l'inizio di una nuova era di autoritarismo. Lui intanto ha ringraziato i suoi sostenitori nonostante fosse ancora in corso lo spoglio delle schede. 

 «Il mio è un messaggio di gratitudine», ha detto in un video su Facebook. «Voglio ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per noi», ha proseguito rivolto a volontari e supporter, «per avere creduto nel nostro messaggio di unità e nei candidati», citando, oltre a se stesso, anche la figlia del presidente uscente. Eppure Bongbong non sognava di essere presidente, ma per la madre, Imelda Marcos, era chiaro che un giorno lo sarebbe diventato.

La coppia protagonista della «dittatura coniugale» governò le Filippine con il pugno di ferro quasi 40 anni fa. Oggi il passato ritorna. Se vincerà le elezioni, come prevedono i sondaggi, esaudirà il desiderio della madre che la famiglia torni al palazzo presidenziale, avendo fatto dimenticare (senza pagare) i crimini del passato.

Responsabile quanto il marito delle ignominie avvenute durante il mandato presidenziale (dal 1965 fino alla rivolta popolare che li costrinse all'esilio alle Hawaii nel 1986), Imelda è l'ombra dietro la candidatura di Bongbong: unico rampollo maschio della coppia, cresciuto nel lusso sfrenato insieme alle tre sorelle, mentre i genitori depredavano il tesoro pubblico, lasciando un buco tra i 5 e i 10 miliardi di dollari, come accertò una commissione creata dopo il rovesciamento del regime. Improbabile uomo politico per la sua mancanza di carisma se non fosse per il suo illustre cognome. A 64 anni è ancora conosciuto con il soprannome che gli diedero da bambino, quando usava arrampicarsi sulla schiena del padre.

Da giovane si era fatto conoscere soprattutto per organizzare le migliori feste di Manila. Essendo così indaffarato, non stupisce, dunque, che a differenza del padre, prestigioso avvocato prima di diventare presidente, la sua carriera accademica sia stata costellata da una serie di fallimenti. «È pigro e indifferente», scrisse il padre nel suo diario. Una vita godereccia a cui l'eccellenza accademica non gli s' addiceva. Così come la politica. 

Il figlio del dittatore Ferdinand Marcos presidente delle Filippine: i fantasmi del regime su Manila. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Il figlio del dittatore Ferdinand Marcos ha vinto le elezioni presidenziali nelle Filippine. Ferdinand Marcos Jr, noto anche come “Bongbong”, 64 anni, avrebbe ottenuto quasi 31 milioni di voti, circa il 59% delle preferenze. Per i risultati definitivi ci vorrà però ancora tempo. Quello che è certo è che le urne hanno premiato anche Sara Duterte, figlia del presidente uscente Rodrigo Duterte, che sarà vicepresidente. Sulle Filippine aleggia ora l’ombra della dittatura – una delle più sanguinose del Novecento – e degli anni violenti della “guerra alla droga” di Duterte.

Staccati a circa 15 milioni di voti, più o meno il 28%, l’attuale vicepresidente Leni Robredo, e il famosissimo ex pugile, Manny Pacquiao, il campione conosciuto in tutto il mondo che si è fermato al sette per cento. Robredo ha ottenuto comunque un risultato notevole: unica donna tra dieci candidati, avvocata per i diritti umani, è stata una dei protagonisti più influenti dell’opposizione a Duterte. È considerata l’erede dei movimenti democratici che hanno animato la storia del Paese e che si sono opposti al regime di Ferdinand Marcos.

Marcos figlio partiva favorito. Durante la campagna elettorale ha provato a riabilitare i violenti anni di regime del padre – dal 1965 al 1986 – durante i quali decine di migliaia di oppositori politici furono torturati o uccisi. Marcos era entrato in politica poco dopo l’indipendenza dagli Stati Uniti, ottenuta nel 1946. Vinse le elezioni presidenziali nel 1965 con il Partito Nazionalista con lo slogan che voleva rendere “great again” le Filippine. Durante il primo mandato l’economia crebbe grazie alla creazione di debito estero e si configurò il cosiddetto “complesso dell’edificio” che ispirò la realizzazione di opere architettoniche enormi e spesso inutili. La principale promotrice di questa politica fu Imelda Marcos, moglie di Ferdinand, che governò con il marito, famosa per la sua collezione di 3.000 paia di scarpe – aneddoto spesso citato nella descrizione della cleptocrazia filippina.

Dopo la rielezione e la crisi, attentati e proteste, nel 1972 Marcos annunciò l’imposizione della legge marziale in tutto il Paese che restò in vigore per 14 anni. Le Filippine continuavano a godere del sostegno degli Stati Uniti nell’ambito della Guerra Fredda. Secondo una commissione governativa istituita dopo la caduta del regime 2.300 persone furono uccise e 1.900 torturate per ragioni politiche. L’oppositore Benigno Aquino Jr. venne ammazzato mentre scendeva le scalette dell’aereo che lo riportava a Manila per trovare un accordo con Marcos su nuove misure economiche e una transizione politica.

La Rivoluzione del Rosario del 1986, con enormi proteste e boicottaggi, chiarì che il popolo non era più con il potere. Il 25 febbraio del 1986 Marcos e la sua famiglia lasciarono le Filippine per gli Stati Uniti portando con sé beni di lusso e Corazon Aquino, vedova di Benigno, divenne presidente. Le inchieste dimostrarono come la famiglia presidenziale avesse rubato oltre 10 miliardi di dollari allo Stato. Il dittatore morì nel 1989.

Tutto questo non ha impedito a Marcos di presentarsi come un leader unificatore in un momento di grave crisi economica per il Paese. Quando il regime del padre crollò aveva 28 anni ed era stato nominato da suo padre governatore della provincia di Ilocos Norte. Ha descritto quegli anni come una sorta di “Età dell’oro” filippina. La guerra alla droga senza quartiere – e in violazione di molteplici diritti umani – condotta da Duterte ha portato secondo organizzazioni umanitarie a circa seimila vittime tra raid ed esecuzioni. Gli insediamenti di Marcos e Duterte si terranno il prossimo 30 giugno. Potranno governare rispettivamente per massimo uno e due mandati secondo quanto detta la Costituzione filippina.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Quei razzisti come i giapponesi.

Ito Sachio e il tempo dei sentimenti. Che non è mai perduto. Rimembranze leopardiane e narrazioni proustiane nelle prose del poeta giapponese. Daniele Abbiati l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nella lingua giapponese, non esiste il futuro. Per parlare e scrivere del futuro si utilizzano avverbi ed espressioni ipotetiche. Tutto sommato questo, per dirlo brutalmente, potrebbe sembrare un eccesso di prudenza, e la prudenza, anche per il nostro dire e scrivere del futuro, non è mai troppa. Ma nel giapponese, di fatto, non esiste neppure la forma verbale del passato: quando si dice e si scrive del passato, lo si fa proiettando all'indietro la condizione mentale, trasformando il passato in presente. Chissà, forse senza saperlo, Marcel Proust pensava in giapponese...

Poiché il giapponese si esprime sempre al presente, il loro presente i giapponesi lo centellinano nei rituali e lo parcellizzano in una miriade di frammenti dell'anno, a petto dei quali le nostre quattro stagioni risultano tagliate con l'accetta. Infatti le stagioni giapponesi possono durare una decina di giorni, o anche meno, come la fioritura dei ciliegi, che ne dura uno solo (e in Giappone viene stilato un calendario della fioritura prevista, città per città). A chi volesse sapere come ciò influenzi e indirizzi la vita, e conseguentemente la cultura, dei giapponesi, consigliamo due saggi di Terada Torahiko (1878-1935), riuniti sotto il titolo Per un istante fragranza di terra (Lindau, pagg. 81, euro 12, traduzione e prefazione di Marcello Rotondo). Il primo saggio, La visione della natura dei giapponesi, prende in esame la percezione delle condizioni atmosferiche e degli eventi sconvolgenti che in Giappone ricorrono, come tifoni, terremoti e tsunami. Il secondo saggio, Il meteo e lo haiku, si concentra sui kidai, cioè i vocaboli che, per così dire, servono a taggare i componimenti poetici, fornendo inequivocabili indizi sul tempo della loro stesura.

Per avere poi alcuni tra i più chiari esempi non in forma poetica di quello che Basho (1644-94) chiamava, relativamente allo haiku, il «principio di transitorietà e immutabilità», occorre rivolgersi a Ito Sachio (1864-1913). Il grande poeta dell'epoca Meiji, dopo aver letto il romanzo più famoso in Occidente del suo contemporaneo Soseki Natsume, Io sono un gatto, si dedicò anche alla prosa. La tomba del crisantemo selvatico e altri racconti (Lindau, pagg. 123, euro 14,50, traduzione e postfazione di Deborah Marra) è la sua prima raccolta edita in italiano. La transitorietà nell'immutabilità e l'immutabilità nella transitorietà che cosa sono? Semplicemente, la memoria. Questa è la cifra delle storie di Ito in forma di rimembranze, proprio come quelle di Giacomo Leopardi.

E che cosa c'è di più transitorio e immutabile dei sentimenti umani? In La tomba del crisantemo selvatico assistiamo a una storia d'amore tanto intensa, innocente, pervasiva, quanto fluttuante, aerea, in dissolvenza fin dal suo nascere. La madre del quindicenne protagonista Masao è alle prese con i disturbi della menopausa. Per aiutarla nelle faccende domestiche giunge da loro Tamiko, cugina di Masao e pressoché sua coetanea. Fra i due ragazzini c'è subito grande sintonia. Giocano, ridono, scherzano, si prendono un po' in giro. Ma non è il sorgere di un'amicizia. È qualcosa di diverso che i due non hanno mai provato... In famiglia quel legame è visto come peccaminoso, e ciò inquieta e spaventa i giovani. Le piccole spedizioni a raccogliere le melanzane e il cotone sono esperienze di immersione nella natura, parentesi edeniche da cui Masao e Tamiko rientrano a casa più forti eppure più deboli. Saranno gli altri a impossessarsi del loro tenero amore, e a stropicciarlo, rovinandolo per sempre.

Lo schema dell'io narrante alla maniera di Proust, ovvero con un Ito che vive a fianco di un Ito che ricorda, si ripete negli altri tre racconti. In Il fiore della spiaggia c'è la visita a un vecchio amico, e il rammarico nel trovarlo distaccato, freddo, quasi ostile. In La nipote, al contrario, c'è il piacere di scoprire che il matrimonio della giovane si è rimesso in sesto, dopo che il marito ha smesso di bere e di giocare d'azzardo. E in La casa della balia il narratore torna alla sua prima infanzia, a quando aveva quattro anni e il distacco dall'adorata tata gli provocò la prima ferita della sua dolente esistenza. Perché sì, tutto è transitorio, ma tutto resta per sempre.

Giappone, morto a 73 anni il "cannibale di Kobe". Issei Sagawa, conosciuto come il cannibale di Kobe, è morto all’età di 73 anni a causa di una polmonite. Uccise una compagna universitaria in Francia e ne mangiò il cadavere. Valentina Dardari su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

Issei Sagawa, conosciuto come il ‘cannibale di Kobe’, è morto all’età di 73 anni a causa di una polmonite. Aveva ucciso una compagna universitaria in Francia e aveva poi mangiato delle parti del corpo. L’uomo, che non subì mai punizioni per il suo crimine efferato, riuscì a non farsi condannare grazie all’infermità mentale e, una volta tornato in Giappone, divenne famoso.

41 anni fa l'atroce delitto

A dare la notizia della sua morte è stato il fratello minore del 73enne, secondo il quale Sagawa sarebbe deceduto a causa di una polmonite, ed è stato cremato dopo una cerimonia funebre privata alla quale hanno assistito solo alcuni familiari. L’uomo viveva in un appartamento alla periferia di Tokyo. Nel 1981, mentre si trovava nella Capitale francese per studiare, Sagawa invitò la studentessa olandese Renee Hartevelt nel suo appartamento.

Dopo averle sparato al collo, la violentò e consumò parti del suo corpo nell'arco di tre giorni. Una volta scoperto venne arrestato mentre stava cercando di seppellire i resti della sua giovane vittima nel Bois de Boulogne. Durante una perquisizione nella sua casa da parte delle forze dell’ordine, vennero trovati nel congelatore i resti della vittima. Dopo che l’omicida venne scarcerato senza processo sulla base di una perizia psichiatrica, Sagawa trascorse un breve periodo di detenzione all’interno di un istituto mentale, ma il padre riuscì poi a farlo estradare in Giappone.

Perché non venne incarcerato

Le autorità del suo Paese d’origine sentenziarono che l'uomo fosse in grado di intendere e di volere, ma furono comunque costrette a lasciarlo in libertà, dal momento che in Francia le accuse a suo carico erano ormai decadute. Durante gli anni successivi, Sagawa non disse mai di essere pentito per il suo crimine, e anzi trasformò il fatto in una fonte di notorietà, arrivando a scrivere perfino un libro di memorie sulla fine tragica della studentessa universitaria. In un documentario girato nel 2017 e anche in una serie di interviste, l’uomo raccontò per filo e per segno i particolari dell'omicidio commesso 41 anni fa e della sua ossessione per il cannibalismo. Di recente aveva infatti detto in una intervista a Vice di essere"ossessionato dal cannibalismo", affermando che il suo "desiderio di consumare una donna si era trasformato in un obbligo". Inoltre, disse anche che "mangiarla è stato un gesto supremo d'amore".

Klara Murnau per “Libero quotidiano” il 25 ottobre 2022.

35° piano del Cerulean Tokyu Tower, davanti alle luci del famoso incrocio di Shibuya e alla commovente statua di Hachiko - simbolo nazionale e mio punto debole - sorseggio del tè Matcha osservando il sole tramontare dietro il Fujisan. Un clichè necessario per un Paese che è esattamente come ve lo aspettate; soprattutto voi, figli degli anni 80-90 svezzati a pane, Manga e Anime, la vera Bibbia della nostra infanzia e gloriosa adolescenza.

Il Giappone è un'enorme classe media che sorregge una società profondamente piramidale e che a seconda del punto della catena con cui ci si interfaccia, può garantire diversi "trattamenti" compreso quello di avvantaggiare sulla neanche tanto velata "diffidenza" verso i forestieri, che si aggrava a seconda delle nazionalità: cinesi, coreani, russi o africani, hanno da raccontare storie interessanti a riguardo.

Molti dei lati oscuri del Paese non sono un mistero: inquietantemente alto numero di suicidi, bullismo, assoluta non cura per la biodiversità con continui ed insensati massacri di balene e delfini, utilizzo indiscriminato della plastica, mancanza di gender equality: le donne ancora non hanno pari opportunità lavorative, basti ricordare lo scandalo dell'Università di medicina di Tokyo, dove molte specializzazioni venivano precluse alle studentesse e i test d'ingresso modificati.

Una burocrazia complessa e ambigua, ancorata all'uso di timbri per ogni tipo di documento, con figure professionali non necessarie e dipendenti dal buon vecchio fax, rappresentano un altro degli aspetti che fa a pugni con la visione di modernità esportata in occidente. Trovarsi dentro la loro bolla è straniante: fin quando si è al suo interno sembra funzionare tutto, ma la sensazione di fondo è che il mondo, nel frattempo, stia andando a un'altra velocità probabilmente perché trovandoci in un'isola sul Pacifico aperto, rende conto solo a sé stessa.

Uno dei lati nascosti e meno conosciuti del Giappone riguarda il mercato del sesso e la prostituzione. La prostituzione è illegale, ma le leggi nipponiche sono piuttosto controverse in merito, in quanto si limitano a vietare lo scambio di denaro per le prestazioni sessuali che comprendono la penetrazione.

Queste norme vengono facilmente aggirate da ragazze che offrono "massaggi stimolanti", rapporti orali o quant' altro senza che vi sia un rapporto completo. Le ragazze giapponesi che scelgono di mettere in vendita il proprio corpo, generalmente, lavorano a domicilio oppure all'interno di locali come "centri massaggi" o "soapland", a seconda delle tipologie di servizi offerti ai clienti.

In realtà è possibile pagare anche per avere un rapporto completo, ma questo deve avvenire sottobanco in cambio di una somma aggiuntiva di denaro. Prima di acquistare il biglietto per Tokyo, sappiate che la quasi totalità di questi locali è categoricamente vietata agli stranieri (gaijin). Il motivo è dovuto alla convinzione che alcune malattie siano state importate dall'estero e dalla presunta incapacità degli occidentali di parlare la loro lingua.

Ma è nell'ossessione per la giovinezza femminile che si toccano punte di creepy inenarrabili. L'ideale Kawaii (carino, giovane, candido, delicato, femminile e romantico) è il canone imprescindibile a cui attenersi per essere considerate attraenti. La maturità è rispettata, ma privata della sua componente di sensualità e piacere. In questa sessualità un po' twisted purtroppo i casi di pedofilia hanno trovato terreno fertile. 

Due anni fa, un'agenzia conosciuta a livello nazionale per babysitter, rimosse tutti i dipendenti di sesso maschile dopo una serie di scioccanti denunce per episodi di pedofilia verificatisi all'interno delle abitazioni delle famiglie che usufruivano del servizio. L'età del consenso è un altro campanello d'allarme: 13 anni. Questa è un'età nazionale di base stabilita dal Codice penale giapponese. 

Molte prefetture e comuni hanno le proprie leggi locali «contro la corruzione minore» che aumentano l'età de facto a 16-18. Allora perché l'età del consenso sessuale è così bassa quando in realtà non è così? Provate a domandare, otterrete una risposta confusa accompagnata dalla scusante che almeno a Tokyo è di 17 o 18 anni. E che quelle fanciulle che si vedono fuori dai locali per adulti, sembrano solo delle bambine, sono solo vestite da bambine, ma in realtà sono maggiorenni. Forse.

Il Giappone è un Paese sicuro (?). Tra i tassi di microcriminalità più bassi al mondo e le più alte percentuali per molestie sessuali, la nazione fronteggia ogni anno la vergogna di non riuscire a tutelare abbastanza le proprie donne e bambini. I chikan (molestatori) agiscono soprattutto nei treni, metro e ascensori. Sono centinaia i casi riportati in rete e si stima che solo il 10% di tutti gli incidenti di palpeggiamento venga segnalato. Apps, gruppi di supporto, corsi di difesa personale, vagoni della metro solo per donne, sono alcune delle armi messe a disposizione delle ragazze.

Con un tasso di natalità disperatamente basso e i continui incidenti che coinvolgono minorenni, la protezione dell'infanzia dovrebbe essere una delle missioni principali della nazione, ma risulta ancora oggi una sfida insormontabile. Nel 2017, gli uffici di orientamento per l'infanzia hanno riferito di aver fornito supporto in circa 89.000 casi di abuso a livello nazionale, un sorprendente aumento di 90 volte rispetto al 1990, quando i dati sono stati inizialmente compilati.

Ma anche se il problema attira una sempre maggiore attenzione da parte dei media, che offrono un flusso infinito di storie strazianti, in agguato appena sotto la superficie c'è la questione raramente riportata delle scomparse. Nel 1961 si iniziò a registrare i cittadini giapponesi in età da scuola elementare e media che da oltre un anno non vivevano all'indirizzo indicato nel loro registro di residenza ufficiale e di cui non si aveva più traccia. In oltre mezzo secolo l'indagine ha registrato circa 26.000 bambini scomparsi. La domanda ovvia per molti è che fine hanno fatto? Nella maggior parte dei casi il loro destino rimane un mistero. Il governo fornisce assistenza sociale sulla base dei registri dei residenti archiviati presso gli uffici comunali. 

Questi includono programmi di base come l'assicurazione sanitaria nazionale, l'indennità per i figli, il sostegno scolastico e l'assistenza pubblica. Per alcuni, tuttavia, la mancanza di informazioni aggiornate implica che le autorità non sono in grado di tracciare la loro situazione e valutare con precisione se hanno bisogno di assistenza o meno.

Gli uffici giapponesi di orientamento si affidano a un sistema di informazioni sugli abusi sui minori incredibilmente antiquato per condividere le conoscenze sulle sparizioni e vittime di violenze. Le informazioni sui casi prioritari, come pedofilia e bambini che soffrono in condizioni di vita abiette, vengono ancora oggi inviate tramite fax. Inoltre, non esiste un database informativo, né un sistema di archiviazione adeguato. Anche il supporto delle autorità può essere problematico.

Ciò è in parte dovuto alla protezione delle informazioni personali e alla necessità di determinarese sia stato commesso o meno un reato. Alla luce di queste richieste, la polizia in molte situazioni rifiuta di aprire un caso o quando lo fanno, spesso può essere troppo tardi. Nel 2014 i resti di un bambino furono scoperti in un appartamento ad Atsugi, nella prefettura di Kanagawa. Aveva cinque anni al momento della sua morte e avrebbe dovuto iniziare in una scuola elementare locale, ma non si è mai presentato ed è stato considerato disperso. 

L'amministrazione scolastica, il consiglio per l'istruzione e gli uffici locali hanno esaminato la questione, ma non sono stati in grado di confermare dove si trovasse. Quando la polizia è stata chiamata a indagare, erano già trascorsi otto anni. Una bambina di quattro anni nella prefettura di Aichi fu trovata morta per abbandono mentre i genitori tenevano il fratello di sette anni rinchiuso in casa. Nonostante i segnali che qualcosa non andasse, non ci furono denunce dagli uffici competenti.

Tutto questo mentre il padre continuava a ritirare gli assegni familiari per entrambi i figli in municipio. Paese che non sa dire No. E che si lascia immolare. Ma per quanto insensato, questa forzato silenzio forse ha una ragione per noi difficile da digerire; come quando testimoniai attonita nella linea metro JR verso Shinjuku a un uomo che tentava di afferrare una quasi bambina mentre tutti fingevano di non vedere. (So che per molti di noi sembra impossibile pensare di non agire, ma immaginate se in una metropoli di 37 milioni di persone, tutti si comportassero come Italiani: si formerebbe un grande cratere, e bye bye Tokyo). 

Tentai di far notare cosa stesse accadendo nel vagone. Quando mi alzai per allontanare la ragazzina da quell'uomo, una giapponese seduta accanto disse in inglese: «Stai ferma, si conoscono. Non devi fare nulla».

Sato Tetsutaro, il Machiavelli del Giappone Meiji. Pietro Emanueli il 17 Ottobre 2022 su Inside Over.

Il Giappone, il «Paese del Sol levante» i cui abitanti discendono dalla dea Amaterasu, è sempre stato la mosca bianca dell’Asia orientale. Culturalmente appartenente alla sinosfera, eppure spiritualmente unica e identitariamente «isolata» – per dirla alla Samuel Huntington –, la Terra dello shintoismo ha storicamente giocato un ruolo-chiave nella determinazione degli equilibri regionali in virtù della posizione geografica detenuta.

La nazione arcipelago era ieri, è oggi, e continuerà ad essere domani, il contenitore dell’espansionismo russo in Estremo Oriente e il costrittore dell’Impero celeste in una condizione tellurocratica. Un ruolo unico, quello del Giappone, che né la Corea del Sud né Taiwan possono e potranno mai esercitare, e che spiega perché gli Stati Uniti abbiano profittato dell’esito della Seconda guerra mondiale per satellizzarlo.

Lungi dall’essere un satellite come tanti altri, cioè un automa senza autonomia, il Giappone continua a conservare una certa libertà di manovra in vari settori e si muove nel Pacifico nordoccidentale, oltre che per soddisfare le esigenze di sicurezza degli Stati Uniti – la salvaguardia delle catena di isole –, in ottemperanza a fondamentali dottrinali propri. Fondamentali che non nascono oggi, in quanto risalenti al passato imperiale, e alla cui forgiatura ha contribuito in maniera significativa Satō Tetsutarō, il più grande stratega e teorico militare dell’era Meiji.

I primi passi nel mondo militare

Satō Tetsutarō nacque a Tsuruoka il 22 agosto 1866. Figlio di due sudditi agli ordini dei padroni del feudo hōnai, il dominio dell’area di Tsuruoka, Satō fu cresciuto da un signore locale, Yasuyuki Satō, dal quale fu adottato in tenera età e dal quale prese il nome.

Allevato in maniera rigida e marziale, Satō crebbe con due passioni: la storia e la patria. La prima lo rese un divoratore di libri. La seconda lo condusse fino a Tokyo, all’interno dell’Accademia navale imperiale del Giappone. Laureatosi nel 1887, risultando il quinto migliore del corso, Satō avrebbe rapidamente scalato i vertici delle forze armate, passando da mezzomarinaio a primo tenente in soli cinque anni.

Allo scoppio della Prima guerra sino-giapponese, nel 1894, Satō si sarebbe ritrovato improvvisamente a capo della Akagi, causa la morte in combattimento del capitano nel corso della battaglia del fiume Yalu. Ferito, privo di esperienza nel comando di una nave e circondato da un equipaggio in panico, Satō sarebbe riuscito comunque nell’impresa di divincolarsi dalla flotta cinese e di riparare in patria.

Il “miracolo” di Satō non sarebbe passato inosservato ai piani alti. Il tenente aveva delle qualità, tanto strategiche quanto leaderistiche, e sarebbe stata loro premura coltivarle, svilupparle e farle sbocciare. Fu deciso di dare una forma a quel talento grezzo inviando Satō a scuola di strategia navale dalle principali potenze talassocratiche dell’epoca: Inghilterra e Stati Uniti.

Il pensiero 

Tornato in patria nel 1902, dopo quattro anni di intensi studi, Satō si dedicò alla stesura di un trattato concepito come la bussola strategica della Marina giapponese. Influenzato dal pensiero di teorici militari come Alfred Thayer Mahan – il coniatore del concetto di «potenza marittima» –, poi adattato al contesto nipponico, Satō pubblicò la Bibbia dell’epoca Meiji: Sulla difesa dell’Impero.

Satō era dell’idea che il Giappone, in quanto nazione arcipelagica, dunque intrinsecamente marittima, avrebbe dovuto riorientare le spese militari dalla terra all’acqua. L’esperienza britannica insegnava che fortificazioni costiere e una piccola armata erano più che necessarie alla difesa della nazione, ma che per la proiezione oltremare occorreva una flotta grande e possente. Il Giappone, in sintesi, non sarebbe riuscito a stabilire avamposti nei domini russi e cinesi fino a che non si fosse dotato di una flotta capace di vincere la battaglia sulle acque.

La visione di Satō avrebbe avuto un impatto tremendo e tangibile allo scoppio della guerra russo-giapponese. Lo stratega persuase gli ambienti militari a seguire una linea innovativa: logorare il morale e la forza dei russi attraverso una battaglia navale permanente. Russi che, Satō lo aveva appreso in Occidente, erano digiuni di esperienza belligena in acque tanto vaste.

Impossibilitati a battere i giapponesi sulla terraferma, e costretti a subire una sequela di sconfitte ignominiose, i russi si sarebbero arresi dopo un anno e mezzo di combattimenti. La presenza di Satō si sarebbe fatta sentire in maniera particolare durante la battaglia di Tsushima, l’ultima e decisiva, terminata con 117 morti e tre torpediniere affondate da parte giapponese e con circa 5.000 morti e la flotta quasi interamente annichilita da parte russa.

Nel 1905, sconfiggendo l’Impero zarista e consacrandone l’avvio verso l’implosione, l’Impero giapponese sarebbe entrato nella storia, in senso letterale, facendo ingresso nel consesso delle grandi potenze del globo – una prima unica per un attore non occidentale – e gettando le fondamenta di quello che i posteri avrebbero ribattezzato il Nuovo ordine dell’Asia orientale (Tōa Shin Chitsujo).

L'impatto e l'influenza delle teorie di Sato

Il ruolo determinante giocato nella guerra russo-giapponese sarebbe valso a Satō il rispetto in patria e la popolarità all’estero, come dimostrato dal soprannome ricevuto dai cronisti occidentali: il “Mahan del Giappone”.

Satō avrebbe trascorso gli anni successivi ad approfondire la propria dottrina, mettendo la firma su vari libri di strategia navale, e a fare campagna contro il modus cogendi del potente ma miope apparato militare-industriale. Satō era dell’idea, infatti, che la potenza navale dovesse servire al Giappone anzitutto per questioni di autodifesa, in secondo luogo per avere una leva di pressione nei confronti di russi e cinesi e, infine, per dotarsi di una forza di proiezione nell’Indo-Pacifico da utilizzare contro gli Stati Uniti.

Lo stratega, che aveva vissuto e studiato nell’anglosfera, aveva assorbito la forma mentis di britannici e americani. Aveva intuito che il Giappone, una volta raggiunta la maturazione imperiale, sarebbe stato aggredito da quelle stesse potenze che all’epoca lo stavano corteggiando in funzione antirussa. Un destino ineluttabile. E ad aggredirlo, probabilmente, sarebbero stati gli Stati Uniti, da Satō definiti il “nemico ipotetico” dell’avvenire nipponico. E il Giappone, espandendosi in Estremo Oriente con una flotta perlopiù adatta a soddisfare le esigenze securitarie dell’arcipelago, sarebbe andato incontro a una tremenda disfatta.

Coerentemente con il proprio pensiero, che gli avrebbe alienato le simpatie delle alte gerarchie, Satō si sarebbe opposto con forza all’adesione del Giappone al Trattato navale di Washington del 1922. Una trappola che, secondo lo stratega, era stata concepita dagli Stati Uniti allo scopo di cristallizzare gli equilibri del primo dopoguerra a loro favore (e a detrimento di tutte le altre potenze).

Emarginato dalle stanze dei bottoni, e trattato alla stregua di un eroe caduto in disgrazia, Satō morì a Tokyo all’acme della Seconda guerra mondiale, il 4 marzo 1942, solo e inascoltato.

Hiroshima e Nagasaki: il Giappone si era arreso ben prima delle atomiche...Piccole Note il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

Mamoru Shigemitsu, ministro degli esteri giapponese, firma la resa il 2 settembre 1945 davanti al generale Douglas MacArthur

I giapponesi avevano chiesto la resa alcuni mesi prima del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. A rivelare, anzi ricordare, questa pagina tremenda della Seconda guerra mondiale è David Payne sul National Interest, che ripesca dagli archivi una parte di storia dimenticata quanto orribile.

“Uno dei più grandi miti popolari della seconda guerra mondiale –  scrive Payne –  è che Truman non avesse altra scelta che sganciare le bombe atomiche sul Giappone perché i giapponesi erano disposti a combattere fino all’ultimo uomo e che sganciare le atomiche ha salvato la vita a un milione di soldati statunitensi che sarebbero morti in un’invasione delle isole giapponesi”.

“In realtà, l’esercito degli Stati Uniti all’epoca stimò che l’invasione su vasta scala del Giappone avrebbe comportato la morte di 44.000 i soldati. Ma la cruda verità è che i bombardamenti atomici statunitensi sul Giappone non hanno salvato la vita a nessun militare statunitense perché il Giappone aveva tentato di arrendersi già diversi mesi prima dei bombardamenti atomici, dopo la conquista da parte degli Stati Uniti dell’isola delle Marianne e l’inizio della campagna di bombardamenti dei B-29 sulle più grandi città del Giappone del luglio del ’44”,

Il Memorandum MacArthur

“Il generale Douglas MacArthur aveva raccolto cinque diverse richieste di resa di alto livello da parte dei giapponesi, che presentavano condizioni di resa praticamente identiche a quelle che abbiamo imposto loro sette mesi dopo, e le aveva inviate a FDR [Franklin Delano Roosevelt, ndr] nel gennaio 1945, poco prima della Conferenza di Yalta, in forma di un Memorandum di quaranta pagine. Purtroppo FDR le rigettò, osservando che ‘MacArthur è il nostro più grande generale, ma un modesto politico’”.

“Non è chiaro quale fosse esattamente la logica di FDR – aggiunge Payne -, dal momento che la resa del Giappone nel gennaio 1945 sarebbe stata accolta con grande sollievo dall’elettorato statunitense stanco della guerra, ma alcuni hanno ipotizzato che la decisione fosse dovuta al suo desiderio di prolungare il conflitto in modo da consentire ai sovietici di intervenire nella guerra del Pacifico e spartirsi con questi le conquiste territoriali”.

Motivazioni a parte, che potrebbero esser vere oppure no (come potrebbero essercene altre, ad esempio mostrare al mondo la Bomba che avrebbe consegnato l’egemonia globale agli Usa), la rivelazione del gran rifiuto resta ed è talmente sconvolgente che sembrerebbe frutto dell’abbaglio di un cronista che indulga al complottismo. Invece, le fonti che cita Payne sono più che solide.

“L’esistenza del Memorandum MacArthur – scrive Payne – è stata rivelata per la prima volta dal giornalista Walter Trohan sulle prime pagine del Chicago Tribune e del Washington Times-Herald quattro giorni dopo la resa dei giapponesi del 15 agosto”.

[Trohan] “Era stato costretto a tenerlo nascosto per sette mesi a causa della censura propria del tempo di guerra. Gli era stato consegnato in via riservata dal Capo di stato maggiore di FDR, l’ammiraglio William Leahy, il quale temeva che sarebbe stato classificato top secret per i decenni a venire o addirittura distrutto”.

“La sua autenticità non è mai stata messa in dubbio dall’amministrazione Truman. Come scrive l’ex presidente Herbert Hoover nelle sue memorie, Freedom Betrayed: Herbert Hoover’s Secret History of the Second World War and its Aftermath , la sua veridicità è stata confermata in ogni dettaglio dallo stesso generale MacArthur. Ed è stato confermata anche nel libro  How the Far East Was Lost di Anthony Kubek”.

“A parte alcune altre fonti conservatrici dell’epoca, la sua esistenza è stata in gran parte cancellata dai libri di storia approvati dall’establishment liberale, che ha cercato di nascondere verità tanto scomode di un conflitto che ha a lungo raccontato, travisando la storia, come ‘la buona guerra’”.

Payne dettaglia il numero impressionante di morti che la resa anticipata dei giapponesi avrebbe risparmiato: non solo le vittime di Hiroshima e Nagasaky, non solo i soldati americani e giapponesi e i civili nipponici caduti dal gennaio all’agosto del ’45, ma anche tutte le innumerevoli vittime, cinesi, giapponesi e russe, causate dalla guerra che si stava consumando in Cina, dove i cinesi avevano trovato il supporto dei sovietici contro i giapponesi. E probabilmente le vittime successive, causate dalla guerra civile cinese tra comunisti e nazionalisti e tanti altri.

Per non parlare del fatto che il venir meno dell’impegno nel Pacifico avrebbe presumibilmente accorciato i tempi dell’altro fronte, quello occidentale, e magari anche del calvario dei campi di sterminio nazisti, che negli ultimi mesi intensificarono la loro funesta attività…

L’altra guerra, dimenticata, del fronte asiatico

A tale rivelazione Payne fa seguire alcune considerazioni sull’influenza decisiva delle opinioni di MacArthur sul destino successivo del Giappone, al quale fu risparmiata la sorte della Germania, ma soprattutto, più interessante, sul ruolo che i sovietici ebbero sul fronte asiatico, spesso ignorato dai libri di storia.

Appare esagerato quanto scrive Payne, che cioè le atomiche influirono poco sulla decisione di Tokio di arrendersi (in realtà di arrendersi per la sesta volta, a stare ai documenti citati); e che i giapponesi “decisero di arrendersi incondizionatamente agli Stati Uniti il ​​15 agosto dopo la fulminea vittoria sovietica della ‘tempesta d’agosto’ in Manciuria”, che pure accelerò la resa (lo dice la tempistica).

Ma è pur vero che, nonostante fossero stati sconfitti da entrambe le potenze, essi decisero di arrendersi agli Stati Uniti, temendo che il loro Paese finisse smembrato come la Germania. Così i dividendi di quella vittoria, che costò vittime americane, cinesi e russe (e più russe e cinesi che americane), di fatto furono appannaggio soltanto degli Stati Uniti.

Forse è un bene, data la sorte toccata ai Paesi satelliti dell’Unione sovietica, ma insieme alle luci occorre tenere presente anche le ombre, che fanno del Giappone l’unico Paese asiatico a condividere la sorte della sovranità limitata che pesa su tanti Stati europei. Ma con i se non si fa la storia.

Resta che, al netto dei “se e dei ma”, questa pagina dimenticata/cancellata della Seconda guerra mondiale conferma le osservazioni di Hegel sulla tragedia della storia, che riportiamo: “Solo mettendo insieme esattamente le calamità sofferte da quanto di più splendido è esistito in fatto di popoli e di stati, di virtù private e di innocenza, e in tal modo si può spingere il sentimento sino al più profondo e inconsolabile cordoglio, che non è compensato da nessun risultato conciliante, e nei riguardi del quale noi organizziamo la nostra difesa o ricuperiamo la nostra libertà, solo pensando: – è andata così, è il destino; non c’è nulla da farci …”

“Ma pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti così enormi sacrifici”.

Esecuzioni a sorpresa per non turbare i condannati, il boia silenzioso del Giappone. Sandro Barchiesi, Sergio D’Elia su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

La pena di morte è ormai considerata un ferro vecchio della storia dell’umanità. È un ferro arrugginito e per ciò tutti stanno attenti a maneggiarlo: tantissimi Stati l’hanno cancellata dai codici; alcuni non la usano più da decenni; altri si vergognano a usarla e la praticano in segreto; altri ancora l’hanno mascherata con il “fine pena mai”, l’ergastolo senza via d’uscita; in altri luoghi, come da noi, è il carcere, l’istituto strutturale della pena, a compiere l’opera mortifera.

Mentre il mondo tende all’abolizione, il Giappone si ostina a praticarla, ma come una vergogna la copre con un manto di incertezza e segretezza. Non solo l’opinione pubblica, gli stessi condannati nel braccio della morte sono tenuti all’oscuro: la prima la scopre dopo il fattaccio, i secondi qualche ora prima di essere appesi per il collo. Fino alla metà degli anni 70, i condannati a morte e le loro famiglie sono stati informati delle esecuzioni il giorno prima. Oggi, le notifiche arrivano ai detenuti con una o due ore di preavviso; le famiglie e gli avvocati vengono a conoscenza della loro impiccagione solo dopo che è avvenuta. Il governo ha spiegato in parlamento e altrove che notificare in largo anticipo il giorno e l’ora della morte disturberebbe la “stabilità emotiva” del detenuto che verrà giustiziato.

David Johnson, un professore dell’Università delle Hawaii, esperto del sistema capitale nel Paese del Sol Levante, ha definito il metodo di esecuzione giapponese un “attacco a sorpresa (damashi-uchi)”. Lo scopo della segretezza è proteggere “il potere del Ministero della Giustizia di decidere chi morirà e quando – e con poche discussioni pubbliche. In altre parole, questa pratica riguarda la conservazione delle prerogative del potere. Non vi è alcuna giustificazione di principio”. Nel novembre dell’anno scorso, due detenuti avevano annunciato una causa contro il modo in cui le autorità giapponesi applicano la pena di morte. I loro nomi non sono stati resi noti. Il team legale teme ritorsioni. Potrebbero essere giustiziati in qualsiasi giorno, per un motivo sconosciuto. Il 13 gennaio di quest’anno sono cominciate le udienze, che continuano, presso il tribunale distrettuale di Osaka. Gli avvocati difensori Yutaka Ueda e Takeshi Kaneko hanno presentato documenti e testimonianze toccanti.

“Quando l’addetto della prigione apre la porta della cella e annuncia l’esecuzione, il prigioniero viene immediatamente preso, legato, ammanettato e portato con gli stessi vestiti sul posto delle esecuzioni, dove viene impiccato con un cappio”, ha scritto agli avvocati il detenuto del braccio della morte Hiroshi Sakaguchi. Un’altra testimonianza, contenuta in un nastro audio registrato nel 1955, racconta le ultime ore di un prigioniero senza nome in un’epoca in cui i termini di preavviso erano più lunghi. Si capisce che l’uomo riceve tre giorni prima la notifica della sua esecuzione e trascorre il tempo salutando affettuosamente i detenuti e la sorella in visita, che singhiozza. Il nastro include il rumore dell’uomo che viene impiccato mentre i monaci buddisti cantano i sutra.

L’avvocato Yoshikuni Noguchi era presente a un’esecuzione al Tokyo Detention House nel 1971 come ufficiale penitenziario. Il detenuto aveva appreso della sua esecuzione il giorno prima. Quel giorno ha incontrato la sua famiglia e ha scritto delle lettere. Noguchi ha ricordato che il detenuto sembrava calmo quando ha detto alla sua famiglia: “Sono consapevole del mio crimine. È naturale per me prendermene la responsabilità. Non siate tristi”. Proprio alla fine dell’udienza di gennaio, l’avvocato Takeshi Kaneko ha menzionato tre detenuti nel braccio della morte che erano stati giustiziati il 21 dicembre 2021, dopo che i due querelanti avevano intentato causa. Anche loro, come se fossero mucche o maiali portati al macello, sono stati avvisati all’ultimo momento, condotti alla camera dell’esecuzione dove gli hanno stretto una corda intorno al collo.

Questo modo di fare nega ai detenuti anche la possibilità di contattare un avvocato e, quindi, il diritto di appello. Alcuni prigionieri hanno trascorso più di un decennio nel braccio della morte prima di essere uccisi in una data arbitraria. Almeno un prigioniero è stato giustiziato mentre era in corso un appello, ha ricordato Kaneko. Il ministero della Giustizia annuncia il nome e il crimine commesso dal prigioniero ma nient’altro, citando regole di riservatezza e privacy. La segretezza significa che non c’è dibattito pubblico in Giappone sulla pena di morte o su come venga applicata. La causa legale in corso non mira certo a rovesciare la pena di morte. Può renderla però meno crudele. Se il Giappone adottasse un maggiore preavviso, potrebbe consentire ai prigionieri, prima della morte, almeno un piccolo segno di vita e di amore: un’ultima cerimonia del tè e la possibilità di scrivere poesie haiku, vedere le famiglie, comunicare i loro sentimenti, scrivere lettere a persone che gli hanno voluto bene. Sandro Barchiesi, Sergio D’Elia

Paolo Salom per il “Corriere della Sera” il 27 luglio 2022.

Com' è tradizione, la notizia dell'esecuzione di Tomohiro Kato, 39 anni, è arrivata quando il boia aveva già finito il suo lavoro. Si è così chiusa ieri la parabola terrena dell'uomo che nel 2008, quando aveva 25 anni, si era reso responsabile di una delle stragi più sanguinose del Giappone moderno. 

Kato, alla guida di un furgone, era piombato sulla folla uccidendo tre passanti. Fermato il mezzo, era sceso impugnando un coltellaccio con il quale aveva seminato terrore e sangue nel pieno del popolare quartiere di Akihabara, a Tokyo: altri 4 morti e una decina di feriti.

Subito arrestato, aveva dichiarato di aver agito così per «vendetta» visto che era oggetto di «bullismo online». Kato aveva guidato fino al quartiere dell'elettronica della capitale per «uccidere qualcuno, non importa chi». 

Al processo non aveva mostrato alcun segno di pentimento e i giudici, sorpresi dal suo «atteggiamento inumano», si erano convinti ad applicare la pena capitale, confermata poi in appello nel 2015, nonostante l'avvocato della difesa avesse cercato di dimostrare l'infermità mentale del suo cliente. 

Il ministro della Giustizia Yoshihisa Furukawa ha giustificato ieri l'esecuzione, affermando che l'eccidio «ha avuto un impatto significativo sulla società in quanto ha privato sette persone della loro vita preziosa». E ancora: «Ho firmato l'ordine di esecuzione dopo attenta e poi ancora attenta considerazione», ha affermato il ministro, citato dall'agenzia stampa Kyodo.

Stati Uniti e Giappone sono gli unici Paesi del G7 dove vige ancora la pena di morte. Dopo una moratoria di due anni, il Sol Levante ha ripreso le esecuzioni alla fine del 2021, con il nuovo governo di Fumio Kishida. 

A dicembre vi sono state tre impiccagioni e l'esecuzione di Kato, anche lui mandato a morte con questa procedura, è la prima di quest' anno. Altre 106 persone sono in attesa di salire sul patibolo nelle prigioni nipponiche. «La maggioranza del pubblico ritiene che la pena di morte sia inevitabile», ha detto il vice capo di gabinetto Yoshihiko Isozaki.

La normativa giapponese prevista dalla pena capitale è stata spesso criticata anche perché le esecuzioni avvengono con pochissimo o nessun preavviso ai condannati. In questo modo, il detenuto che ha esaurito tutti i possibili gradi di giudizio vive - si ritiene - in uno stato d'ansia permanente proprio perché sa che in ogni momento potrebbe essere condotto alla camera delle esecuzioni. La strage di Akihabara provocò un forte choc in Giappone e un inasprimento delle leggi sul possesso di armi da taglio.

Hirohito, l'umanità dell'ultimo imperatore divino. Matteo Carnieletto il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

La vita dell'ultimo imperatore-divinità del Giappone: come si forgiò e quali furono le persone che plasmarono Hirohito 

Inizia dalla fine di tutto, L’imperatore del Giappone. La storia dell’imperatore Hirohito (L’ippocampo). Dalla fine della Seconda guerra mondiale, pochi giorni dopo che il Paese del Sol levante è stato sconfitto militarmente, umiliato e piegato dagli ordigni atomici di Hiroshima e Nagasaki, inutili da un punto di vista bellico ma fondamentali per mostrare all’Unione sovietica cosa erano capaci di fare gli Stati Uniti, i nuovi padroni del mondo.

Douglas MacArthur, comandante supremo delle forze alleate, lo incontra e, non appena lo vede, lo apostrofa con un Mr Hirohito, come se fosse un lupo di Wall Street qualsiasi. “Hirohito. Sono il 124esimo imperatore del Giappone”, risponde quella che, ancora per poco, sarà una divinità in terra. MacArthur, con la delicatezza di chi ha vinto la guerra, costringe l’imperatore a decine di foto di rito e poi cerca di blandirlo con delle sigarette. Hirohito declina e spiega il motivo dell’incontro: “Oggi sono venuto qui perché volevo parlarle, comandante. Io mi assumo la piena responsabilità di qualunque conseguenza o evento il Giappone possa aver arrecato in seguito alla guerra. Parimenti, mi assumo direttamente ogni responsabilità di merito ad azioni di politici, soldati o vertici militari compiuti in nome del Giappone”. Tutto questo “qualunque sia la sorte che lei riterrà opportuna per la mia persona non sarà un problema è io l’accetterò”. Le parole riportate dal manga de L’Ippocampo riportano fedelmente, seppur con piccole variazioni, il colloquio tra i due. Ancora oggi gli storici dibattono sul ruolo che Hirohito ebbe durante il secondo conflitto mondiale. C’è chi lo accusa di aver coordinato con i vertici militari ogni azione bellica e chi, invece, tende a minimizzare il suo ruolo. Sia come sia. Quel che è certo è che, davanti a MacArthur, il 124esimo imperatore del Giappone pronunciò queste parole. Rivoluzionarie e conservatrici allo stesso tempo. Che però determinarono il “deicidio”, l’uccisione, metafisica, dell’imperatore in quanto divinità.

Ma come è possibile che un imperatore possa pronunciare parole simili? C’entra il modo in cui è cresciuto. Il suo animo. Nel volume, si ripercorre il legame tra il piccolo Hirohito e la sua tutrice, quasi una vera e propria madre, Taka Adachi. Lei non solo si prende cura di Hirohito ma, soprattutto, asseconda le sue inclinazioni. La sua passione per la natura e per gli esseri umani in generale. Non c’è distanza tra lui e le parole di Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”. Sono un uomo, niente di ciò che è umano reputo estraneo a me. Lui la adora, si preoccupa per lei fino a correre al suo capezzale quando Taka ha la febbre alta. Ma sei lei è l’educazione del cuore, fondamentale nella fanciullezza, Jūgō Sugiura è colui che, da addetto all’insegnamento di etica e arte del regnare, forgerà la mente dell’imperatore. Un vecchio professore che spiega a Hirohito i “tre sacri tesori” - ovvero saggezza, benevolenza e coraggio - che ogni buon imperatore deve avere. E che, soprattutto, i sovrani, soprattutto se di discendenza divina, devono dimostrare di “tenere a cuore il popolo”, anche a costo della loro stessa vita.

Non sappiamo se Hirohito, davanti a MacArthur, avesse o meno in mente queste parole. Quel che è certo però è che, in quel momento, dalla bocca dell’imperatore uscì quella “voce degli spiriti eroici” per cui, più di vent’anni dopo, l’ultimo grande cantore del Giappone tradizionale si sacrificò. Quell’uomo si chiamava Yukio Mishima.

I funerali di Abe costeranno più di quelli della regina Elisabetta. Redazione su Avvenire il 26 settembre 2022.

A Tokyo è tutto pronto per i funerali di Stato in pompa magna di domani dell'ex premier Shinzo Abe, assassinato lo scorso 8 luglio all'età di 67 anni, in un clima di crescente contestazione della popolazione per la spesa esorbitante della cerimonia, più costosa di quella sostenuta nel Regno Unito per seppellire la regina Elisabetta II.

Il quotidiano giapponese Asahi Shimbun riferisce dell'evento altamente simbolico come un momento di "diplomazia funeraria" ai vertici per il primo ministro in carica, Fumio Kishida, impegnato da oggi fino al 28 settembre in una trentina di colloqui con importanti leader mondiali.

Secondo i numeri ufficiali, in tutto 4.300 persone prenderanno parte al funerale di Stato - un evento di tre giorni - tra cui 700 responsabili politici e istituzionali stranieri di ben 218 Paesi, organizzazioni regionali ed internazionali. Tra i primi a essere ricevuti all'Akasaka Palace, o State Guest House, una delle due pensioni statali del governo nel quartiere di Minato, saranno la vicepresidente Usa, Kamala Harris, e il presidente del Vietnam, Nguyen Xuan Phuc.

Video correlato: I momenti più significativi dei funerali della regina Elisabetta II

In tutto da oggi vengono dispiegati 20mila agenti di polizia oltre a 17.500 altri uomini della polizia metropolitana di Tokyo, molto di più rispetto al dispositivo di sicurezza predisposto per la cerimonia di insediamento dell'imperatore Naruhito nel 2019 e il vertice Quad dello scorso maggio con Usa, Australia e India. Tutte le strade attorno al Nippon Budokan Hall saranno chiuse così come lo spazio aereo, da oggi a mercoledì.

Mentre il Giappone combatte l'inflazione per la prima volta da decenni, i critici sottolineano che il funerale costerà di più rispetto a quello della regina Elisabetta II - secondo il Daily Mirror's 1,66 miliardi di yen contro 1,3 per quello della sovrana britannica - con il rischio di vedere le spese lievitare ulteriormente rispetto a quanto previsto, ma senza ottenere in cambio la visita dei più grandi leader attualmente in carica. Pertanto sono in tanti ad affermare che i soldi sarebbero spesi meglio per aiutare le famiglie a basso reddito che soffrono di più per la congiuntura economica sfavorevole.

Secondo una serie di sondaggi, tra cui quello svolto dall'Asahi Shimbun, ormai il 56% dei giapponesi è contrario alla celebrazione e ne chiede la cancellazione. Per il 70% degli intervistati dall'agenzia stampa Kyodo il costo è davvero esorbitante. Nei giorni scorsi, in segno di protesta, un uomo si è immolato col fuoco nei pressi dell'ufficio del primo ministro a Tokyo e in 10mila hanno marciato nella capitale chiedendo di annullarlo.

In Giappone i funerali di stato sono una rarità: quelli di Abe saranno i secondi dopo quelli dell'ex premier Shigeru Yoshida, considerato l'artefice della costruzione del Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, deceduto nel 1967.

Abe è stato assassinato a Nara, lo scorso 8 luglio, durante un comizio elettorale per il voto alla Camera Alta da un uomo di 41 anni, Tetsuya Yamagami, che ha usato una sorta di pistola artigianale fatta di legno e ferro. L'episodio ha scioccato l'intera nazione, dove il tasso di criminalità è tra i più bassi al mondo. Sei giorni dopo il tragico fatto, Kishida annunciò la decisione di celebrare un funerale di Stato, facendo subito scattare le critiche di una parte, poi crescente, della popolazione e degli analisti politici secondo i quali il provvedimento del governo non ha basi solide per decretare un funerale di stato.

Media locali, l'ex premier giapponese Shinzo Abe è morto

(ANSA l'8 luglio 2022) Media locali, l'ex premier giapponese Shinzo Abe è morto ++ Media locali, l'ex premier giapponese Shinzo Abe è morto 

Giappone: trasfusione sangue ad Abe per salvargli la vita

(ANSA l'8 luglio 2022) - Shinzo Abe sta ricevendo una trasfusione di sangue in ospedale dove si sta cercando di salvargli la vita. Lo ha detto a Tokyo il ministro della Difesa del governo giapponese Nobuo Kishi, fratello minore di Abe. 

E ha aggiunto che qualunque sia la motivazione di chi ha sparato, l'attacco è un atto imperdonabile. Lo riporta la Bbc. Funzionari giapponesi hanno spiegato che Abe è stato colpito al collo e al petto e ha subito una significativa emorragia interna.

(ANSA l'8 luglio 2022) - L'uomo arrestato in Giappone, accusato di aver sparato all'ex premier Shinzo Abe, è un ex militare delle Forze di autodifesa, cha ha servito per circa tre anni nella Marina, e deciso a uccidere Abe perché "insoddisfatto per l'operato dell'ex capo politico". Lo riporta l'emittente pubblica Nhk, riferendo che il 41/enne Tetsuya Yamagami, è stato bloccato dalle forze dell'ordine subito dopo aver esploso i primi due colpi. L'arma utilizzata dall'uomo, riferiscono i media nipponici, sembra a tutti gli effetti essere di produzione artigianale.

Giappone, ex premier Shinzo Abe ferito da colpi arma fuoco: “è in gravi condizioni”. Da ansa.it l'8 luglio 2022.  

L'ex premier nipponico Shinzo Abe è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco durante un evento elettorale nel Giappone centrale: è "in gravi condizioni". 

Il primo ministro Fumio Kishida, rientrato d'urgenza alla Kantei con tutto il governo dopo aver sospeso con tutti i partiti di opposizione la campagna elettorale per il rinnovo della Camera Alta in programma domenica 10 luglio, ha detto di "augurarsi e di pregare dal profondo del suo cuore che possa sopravvivere", condannando "nel modo più deciso possibile" l'attentato ai danni di Abe, definito come "inaccettabile". 

Shinzo Abe sta ricevendo una trasfusione di sangue in ospedale dove si sta cercando di salvargli la vita: lo ha detto a Tokyo il ministro della Difesa del governo giapponese Nobuo Kishi, fratello minore di Abe.

E ha aggiunto che qualunque sia la motivazione di chi ha sparato, l'attacco è un atto imperdonabile, riporta la Bbc. Funzionari giapponesi hanno spiegato che Abe è stato colpito al collo e al petto e ha subito una significativa emorragia interna. 

Secondo il network pubblico Nhk, Abe è stato visto sanguinare dal torace e che è stato sentito un rumore compatibile a quello di uno sparo. L'ex premier, soccorso, è stato portato subito in ospedale. I media giapponesi citando le autorità locali, hanno riferito che Abe "sembrerebbe non mostrare segnali vitali" nei primi esami fatti sulla funzionalità di cuore e polmoni. 

La polizia nipponica ha arrestato il 41enne Tetsuya Yamagami con l'accusa di tentato omicidio per aver esploso i due colpi di arma da fuoco contro l'ex premier a Nara. L'uomo, un residente locale, era riuscito a eludere la sicurezza e ad avvicinarsi ad Abe, impegnato in un discorso elettorale. Ancora poco chiare le ragioni del gesto. 

Abe è stato colpito al torace da colpi di arma da fuoco, almeno due, sparati alle spalle e a distanza ravvicinata, cadendo a terra sanguinante e privo di sensi. L'episodio è avvenuto intorno alle 11.30 (4.30 in Italia) nella città di Nara, dove Abe era impegnato in un evento elettorale a sostegno di un candidato del Partito Liberal Democratico. Il network pubblico Nhk ha riferito che Abe, 67 anni, è stato subito soccorso e trasportato in ospedale, ma i vigili del fuoco hanno riferito che le sue condizioni sono apparse molto gravi visto che non mostrava "segnali di vita".

LE REAZIONI

L'ambasciatore Usa a Tokyo Rahm Emanuel ha affermato di essere "rattristato e scioccato" per l'attacco contro l'ex primo ministro giapponese Shinzo Abe. "Siamo tutti rattristati e scioccati dalla vicenda dell'ex premier Shinzo Abe. Abe-san è stato un leader eccezionale del Giappone e un alleato incrollabile degli Usa. Il governo degli Stati Uniti e il popolo americano stanno pregando per la vita di Abe -san, la sua famiglia e il popolo giapponese", ha rimarcato Emanuel in una dichiarazione.

Il premier thailandese, Prayut Chan-O-Cha, è rimasto "molto scioccato" dall'attentato all'ex premier giapponese Shinzo Abe: lo ha detto il ministro degli Esteri, Don Pramudwinai, parlando con i giornalisti a Bangkok. "Il primo ministro Prayut Chan-O-Cha è molto scioccato da quello che è successo. Prayut e Abe sono amici e hanno una relazione relativamente stretta", ha affermato il ministro. 

Il premier indiano Narendra Modi si è detto oggi "profondamente addolorato" per l'attentato a Abe, che ha definito un "caro amico". "Profondamente addolorato per l'attacco al mio caro amico Abe", ha scritto Modi su Twitter: "I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con lui, la sua famiglia e il popolo giapponese".

"Assolutamente inorridito e rattristato nel sentire dello spregevole attacco a Shinzo Abe. I miei pensieri sono con la sua famiglia e i suoi cari", ha scritto su Twitter il premier uscente britannico Boris Johnson. 

Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si è detto "scioccato e rattristato dal vile attacco a Shinzo Abe mentre svolgeva le sue mansioni professionali - ha scritto su Twitter -. Un vero amico, strenuo difensore dell'ordine multilaterale e dei valori democratici. L'Ue è al fianco del popolo giapponese e del premier Fumio Kishida in questi tempi difficili. Vicinanza alla sua famiglia".

La Cina si è detta "scioccata" per l'aggressione contro l'ex premier giapponese. "Ci auguriamo che l'ex primo ministro Abe sia fuori pericolo e si riprenda presto", ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian, parlando nel briefing quotidiano. 

Giappone, attentato a Shinzo Abe: l’ex premier ferito da colpi d’arma fuoco, «non dà segni di vita». Arrestato un 41enne ex militare. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.

Shinzo Abe è stato ferito durante un discorso elettorale a Nara: è stato immediatamente trasportato in ospedale. Arrestato il presunto attentatore, Tetsuya Yamagami, ex militare della marina nipponica. Il premier Fumio Kishida: «Stiamo pregando per lui» 

L’ex primo ministro giapponese Shinzo Abe è stato vittima di un attentato. 

Raggiunto da colpi di arma da fuoco durante un evento elettorale nel Giappone centrale, «sembrerebbe non mostrare segnali vitali», secondo quanto riportato dai media giapponesi, che citano fonti delle autorità locali. L'agenzia Kyodo e la tv pubblica NHK hanno riferito che Abe sembrava in arresto cardiocircolatorio quando è stato trasportato in ospedale, dopo essere apparso, in un primo momento, vigile. 

L’ex primo ministro è stato colpito alla schiena e al collo da colpi di arma da fuoco, almeno due, sparati alle spalle e a distanza ravvicinata, cadendo a terra sanguinante e privo di sensi. Secondo la tv TBS, Abe è stato colpito nella parte sinistra del torace e al collo. 

L’aggressione è avvenuta intorno alle 11.30 (4.30 in Italia) nella città di Nara, dove Abe era impegnato in un evento elettorale a sostegno di un candidato del Partito Liberal Democratico. Il network pubblico Nhk ha riferito che Abe, 67 anni, è stato immediatamente soccorso e trasportato in ospedale, ma i vigili del fuoco hanno spiegato che le sue condizioni sono subito apparse molto gravi.

Poco dopo le 7:00 italiane, il Cancelliere dello Scacchiere britannico Nadhim Zahawi ha pubblicato un tweet che annuncia la morta di Abe, ma ancora non ci sono conferme ufficiali. Sempre dal Regno Unito, il primo ministro Boris Johnson si è detto sconvolto da un «attacco deprecabile» e ha espresso vicinanza ai familiari.

La polizia ha riferito che un uomo di 41 anni, il presunto attentatore, è stato arrestato sul luogo dell’attacco, vicino alla stazione Yamatosaidaiji nella città di Nara. A confermare il suo nome - Tetsuya Yamagami - sono state le autorità locali. Yamagami, riferiscono i media locali, ha fatto parte dell’autodifesa marittima nipponica fino al 2005. Pare che abbia riferito ai poliziotti che l’hanno arrestato che era insoddisfatto di Abe e che voleva ucciderlo. Avrebbe sparato con un’arma fabbricata in casa.

Secondo quanto riferito dai media, Yamagami ha utilizzato una specie di doppietta a canne corte di fattura artigianale, occultata in una borsa. L'aggressore si è avvicinato all'ex premier alle spalle, mentre quest'ultimo presentava i candidati locali alle elezioni per il rinnovo della Camera alta in programma domenica 10 luglio.

L’attuale premier Fumio Kishida, che appartiene allo stesso partito di abe, sta volando in elicottero verso Tokyo, così come stanno facendo gli altri ministri che si trovavano lontano dalla capitale. Appena atterrato, Kishida ha parlato alla stampa: «L’ex premier Abe è in gravi condizioni, sto pregando dal profondo del mio cuore che sopravviva. Condanniamo un episodio nella maniera più assoluta. Non possiamo accettare che un attentato come questo sia avvenuto nel pieno di una campagna elettorale, che è la base della democrazia ».

Il segretario di Stato americano Antony Blinken, a Bali per il G20, prima di un incontro bilaterale ha commentato quando accaduto: «Sono profondamente addolorato e preoccupato per l’attentato ad Abe. E’ un giorno davvero triste per il Giappone». Anche l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Indonesia, la Corea del Sud e la Russia hanno espresso vicinanza al Giappone. 

L'aggressione ha gettato nello sgomento i cittadini giapponesi e la classe politica: il Paese è noto infatti per l'estrema rigidità delle sue leggi sul controllo delle armi da fuoco, e le vittime di violenza armata si contano ogni anno sulle dita di una mano. Ottenere un porto d'armi è un processo lungo e complicato, anche per i cittadini giapponesi, che devono prima ottenere una raccomandazione da un'associazione di tiro e poi sottoporsi a rigidi controlli di polizia. 

La violenza politica è estremamente rara. Tra i precedenti, si ricorda l'uccisione del sindaco di Nagasaki, Iccho Itoh, nel 2007, ad opera di un killer della yakuza, e quella del leader del Partito socialista, che fu colpito nel 1960 da un giovane di destra che utilizzò un'arma da samurai. 

Abe è stato il primo ministro politicamente più longevo nella storia del Giappone post-bellico, guidando molteplici governi tra il 2006 e il 2007, e di nuovo dal 2012 al 2020, quando ha rassegnato le dimissioni per motivi di salute. Promotore di una «normalizzazione istituzionale» del Paese, l'ex premier si è battuto per il superamento del pacifismo costituzionale, e ha promosso con convinzione il processo di rafforzamento delle capacità difensive accelerato dall'attuale esecutivo. Il nome dell'ex primo ministro è anche connesso alla cosiddetta «Abenomics»: l'insieme di politiche economiche espansive e di riforma adottate per tentare di superare lo stallo deflattivo della terza economia globale e rilanciarne la crescita. 

L'ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone Rahm Emanuel ha deplorato l'attacco. «Siamo tutti dall'attacco rattristati e scioccati a fuoco contro l'ex primo ministro Abe Shinzo. Abe-san è stato un leader eccezionale del Giappone e un fedele alleato degli Stati Uniti. Il governo e il popolo americani pregano per il benessere di Abe- san, la sua famiglia e il popolo giapponese», ha dichiarato Emanuel in una nota. 

Giappone attentato Shinzo Abe, le ipotesi: l’ombra lunga delle società segrete e dell’estremismo politico-religioso. Paolo Salom su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.

Le piste tra storia del Paese e resistenze alla modernizzazione a tappe forzate avviata con la riforma Meiji. 

Quello che è accaduto in Giappone ha radici antiche. Nel Sol Levante l’assassinio politico per secoli è stato considerato una forma «estrema ma accettabile» di protesta politica. Così scrive il New York Times il 26 febbraio 1936, all’indomani dell’uccisione di Tatsukichi Minobe, docente all’Università Imperiale di Tokyo. La sua colpa? Minobe aveva pubblicamente messo in dubbio lo status di divinità attribuito al Tenno. Più di recente, il 13 ottobre 1960, Inejiro Asanuma, leader dell’opposizione socialista, fu ucciso da un diciassettenne, Futaya Yamaguchi, durante un comizio di fronte a mille persone: l’arma del delitto una spada da samurai.

Quello che accomuna questi episodi è l’appartenenza degli assassini a società più o meno segrete di estrema destra, ovvero a un’origine culturale che — in un ambiente immerso nel fanatismo — da sempre rifiuta la trasformazione del Paese avviata con la riforma Meiji, a partire del 1868. La modernizzazione a tappe forzate, insomma, che ha posto fine allo shogunato (e al Medioevo nipponico), ha avuto come conseguenza una risposta di segno opposto di parte del Paese, quella più legata alle tradizioni indiscusse per millenni.

Ma è questo il caso della tragica aggressione a Shinzo Abe? Per quanto ancora prematuro, è certo possibile inquadrare il gesto in un contesto di estremismo politico-religioso. Tuttavia, Abe non era più al potere dal 2020. E comunque lui stesso — per due volte premier liberal-democratico — ha spesso suscitato l’entusiasmo delle frange più conservatrici del Sol Levante. Per attribuire un significato ai due spari che hanno ridotto in fin di vita Shinzo Abe occorrerà dunque attendere qualche spiegazione da parte delle autorità su motivazioni ed eventuali complicità, senza escludere il gesto di un pazzo. E tuttavia, anche se così fosse, resteranno comunque più domande che certezze in un Paese che nel 1945 ha deciso di archiviare la guerra come strumento politico sulla scena del mondo ma ha lasciato, o non ha potuto eliminare definitivamente, spazio all’idea che la violenza possa talvolta essere l’unica soluzione ai contrasti politici.

Shinzo Abe, il nazionalista delle «tre frecce» che ha riportato il Giappone in primo piano sulla scena politica mondiale. Guido Santevecchi, corrispondente da Pechino, su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.

I tre pilastri della teoria economica dell’ex premier, vittima di un attentato: politica monetaria radicale, stimolo di bilancio e riforme strutturali.

Aveva un sogno Shinzo Abe, vittima di un attentato ad opera di un ex militare : riportare il Giappone in primo piano sulla scena politica mondiale; imporlo come attore ascoltato, sottraendolo al ruolo di comparsa senza voce. Per decenni, dopo la disfatta nella Seconda guerra mondiale, il Giappone, solida terza potenza economica del mondo, era stato chiamato solo a pagare i conti delle imprese (politiche e militari) condotte dall’alleato e protettore americano. 

Abe, con 2.822 giorni alla guida del governo, tra il 2012 e il 2020, era diventato il primo ministro più longevo nella storia giapponese. Era riuscito a stampare la sua immagine nella memoria degli altri leader mondiali, diventando un veterano dei grandi vertici internazionali. Con la sua calma sorridente era riuscito anche a tener testa a Donald Trump, che minacciava di far pagare caro anche al Giappone il suo progetto «America First». 

Aveva anche un altro record Abe: era stato il più giovane premier di Tokyo, nel 2006, quando aveva ottenuto per la prima volta il mandato dal Partito liberaldemocratico che governa quasi ininterrottamente da settant’anni. A 52 anni, Abe sfuggiva alla consuetudine gerontocratica di un Paese che soffre di crisi demografica e continua a invecchiare. Quella prima esperienza al vertice del potere era andata male, si era dimesso nel 2007 dopo un anno segnato a scandali, crisi economica, crollo nella popolarità. Forse per non ammettere il fallimento politico, il giovane leader disse di essere costretto a lasciare per problemi di salute (un’ulcera grave). 

Nato 67 anni fa, era predestinato alla politica. Un nonno e uno zio capi del governo, il padre ministro degli Esteri. Lui era stato eletto per la prima volta alla Dieta (il Parlamento di Tokyo) nel 1993. Il suo nome era stato legato alla Abenomics, il piano di rilancio dell’economia dopo anni di stagnazione. Si componeva di «tre frecce» per rilanciare la crescita: politica monetaria radicale, stimolo di bilancio e riforme strutturali. i critici dicono che in realtà la freccia riformista non è mai stata scoccata, per timore di perdere consenso elettorale con misure impopolari. Da nazionalista pragmatico amico degli Stati Uniti, Abe si era impegnato a fondo in un programma di riforma costituzionale, per porre fine al pacifismo a oltranza abbracciato dopo la guerra mondiale. A chi lo accusava di essere solo un falco nostalgico e di voler riaccendere il militarismo nipponico, il premier rispondeva che bisognava guardare con lucidità e lungimiranza alle minacce nuove che circondano il Giappone, i missili nucleari della Nord Corea e l’espansionismo della Cina. La Costituzione non è stata cambiata, ma «reinterpretata» e ormai è passato il principio che il Giappone non resterebbe a guardare in caso di guerra nel Pacifico, non si limiterebbe a fornire basi agli americani e affidarsi alla loro protezione. 

Un grande successo del suo governo è stata l’assegnazione delle Olimpiadi 2020 a Tokyo. I Giochi, con il loro sforzo organizzativo, avrebbero dovuto segnare l’apoteosi di Shinzo Abe come statista di livello mondiale. Il suo ufficio si era anche già mosso per sollecitare i cronisti stranieri a scrivere nel modo giusto il nome del premier: «Si dice Abe Shinzo, con il cognome prima del nome proprio, come vuole la nostra consuetudine». I piani olimpici e politici furono sconvolti dalla pandemia, che ha portato al rinvio delle Olimpiadi e a una crisi di fiducia dei giapponesi nel loro governo. Nell’agosto del 2020, sfinito da mesi di lavoro senza un giorno di tregua, il primo ministro si dimise per problemi di salute. Da allora aveva però continuato ad esercitare un potere dietro le quinte. Sognando forse un terzo ritorno in scena come leader. Ecco perché questa mattina era impegnato in un comizio elettorale per sostenere i candidati del suo partito.

Gianluca Modolo per corriere.it l'8 luglio 2022.

Il primo ministro più longevo della storia del Giappone. Certamente, uno dei leader più influenti del Paese del Sol Levante dal 1945 a oggi. L'uomo che ha rimesso Tokyo al centro della scena mondiale. "Signore e signori, il Giappone è tornato", disse in un discorso a Washington nel 2013. "Il Giappone non è, e non sarà mai, un Paese di seconda fascia".

A lungo capo indiscusso della Ldp, il partito conservatore che domina la politica nipponica dal 1955, Shinzo Abe, ucciso oggi all'età di 67 anni, fu primo ministro dal 2006 al 2007 (il più giovane del Paese, a 52 anni) e poi dal 2012 al 2020, quando si dimise - ufficialmente - per motivi di salute. Erede di una delle dinastie politiche più importanti della nazione, riuscì nell'impresa di superare il nonno, Nobusuke Kishi (accusato, ma mai processato, di crimini di guerra) che guidò il Giappone dal 1957 al 1960, e pure il padre, Shintaro, potentissimo ministro degli Esteri.

In politica come il padre e il nonno

A fianco del padre, Abe ha iniziato la propria carriera politica da predestinato. "L'amico degli Stati Uniti" dopo essersi laureato alla prestigiosa Università Seikei della capitale Tokyo - dove era nato il 21 settembre 1954 - si trasferisce negli Usa per studiare scienze politiche alla University of Southern California, facendo sbocciare il legame con l'America che poi segnerà la sua carriera politica.

Tornato in Giappone, si unisce alla frangia più nazionalista dell'Ldp fino a diventare nel 2003 segretario del partito. Dieci anni prima si era andato a sedere per la prima volta in Parlamento, nel seggio che fu del padre. Alle elezioni del 2006 succede al popolare Junichiro Koizumi, di cui fu il delfino, con un programma neoliberista. 

Dopo aver lasciato l'incarico nel 2007 (anche allora, come nel 2020, per motivi di salute: rettocolite emorragica della quale soffriva da quando aveva 17 anni), Abe torna in pista cinque anni dopo per il suo secondo mandato e fa conoscere al mondo la sua "Abenomics", politiche economiche che servivano come una terapia d'urto per una economia giapponese che dopo il lungo boom postbellico era diventata ormai stagnante. La cosiddetta "strategia delle tre frecce": allentamento monetario, spesa pubblica e riforme.

Favorito negli otto anni al governo da un'opposizione debole e dall'assenza di veri rivali, Abe - un "falco" nel campo della difesa e della politica estera - non ha mai rinunciato al suo grande sogno - incompiuto - di modificare la Costituzione pacifista imposta dagli americani. In particolare quell'articolo 9 che vieta al Paese di avere un vero e proprio esercito.

 Nel 2015 riuscì comunque a promuovere il cambiamento più drastico nella politica militare giapponese degli ultimi 70 anni, reinterpretando la Carta e consentendo alle truppe giapponesi di impegnarsi in combattimenti all'estero per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale. Le sue posizioni nazionaliste hanno spesso irritato i vicini, soprattutto le visite al santuario scintoista di Yasukuni dove riposano le anime dei combattenti per la Patria. E che, puntualmente, provocano le reazioni di Cina e Corea del Sud che le invasioni giapponesi le hanno subite.

Un'alleanza per contrastare la Cina

Fu lui l'ispiratore, nel 2007, del Quad: l'alleanza che mette assieme Tokyo, Washington, New Delhi e Canberra con l'obiettivo di contrastare l'influenza di Pechino nella regione. Critico negli ultimi anni nei confronti del potente vicino cinese e della sua aggressività nell'Indo-Pacifico, pur non avendo più incarichi di governo Abe ha continuato a far sentire la sua presenza nelle questioni interne e regionali: lo scorso dicembre invitò gli Stati Uniti ad abbandonare la loro decennale ambiguità strategica nei confronti di Taiwan e a impegnarsi a difendere l'isola in caso di un'eventuale invasione cinese.

Fu lui nel 2016 a portare Barack Obama a Hiroshima - prima visita di un presidente Usa nella città simbolo dell'atomica. Amico di Trump, con cui amava giocare a golf, è stato il primo leader giapponese a parlare a una sessione congiunta del Congresso degli Stati Uniti.

Gli scandali finanziari

I suoi governi sono stati segnati anche da alcuni scandali finanziari, tra cui l'accusa di aver gestito malamente i soldi delle pensioni di milioni di giapponesi. Uno dei principali successi interni di Abe è stato quello di assicurarsi le Olimpiadi di Tokyo: fecero il giro del mondo le immagini di lui vestito da Super Mario a Rio nel 2016 quando prese il testimone olimpico. Negli ultimi mesi del suo mandato, Abe ha visto la sua popolarità crollare, anche per i risultati contrastanti della sua Abenomics, e per quella che molti consideravano la sua inadeguata risposta per contenere la pandemia.

Nell'agosto del 2020, ancora per motivi di salute, diede le dimissioni passando le redini del Giappone al suo fidato Yoshihide Suga. "Creeremo un Giappone che brillerà sul palcoscenico del mondo", annunciò due anni e mezzo fa in uno dei suoi ultimi discorsi in Parlamento. Forse un ritorno su quel palcoscenico lo sognava ancora pure lui.

Attentato Shinzo Abe, cosa sappiamo dell’arma utilizzata per colpire l’ex premier giapponese. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.  

Le prime immagini diffuse mostrano che l’attentatore, un ex militare, aveva una sorta di «tracolla» nera: si tratterebbe di due canne tenute insieme e avvolte da nastro isolante nero, quindi un’impugnatura. 

Nell’attacco contro l’ex premier giapponese Shinzo Abe, 67 anni, sarebbe stata usata un’arma rudimentale. Le immagini mostrano che l’attentatore aveva una sorta di «tracolla» nera: si tratterebbe di due canne tenute insieme e avvolte da nastro isolante nero, quindi un’impugnatura. Una sorta di «doppietta», con l’assalitore che ha cercato di mimetizzarla in qualche modo. Capiremo meglio quando avremo maggiori dettagli, tuttavia è ipotizzabile che l’uomo – un ex militare – abbia studiato con cura il piano: ha pensato al modus operandi, ha messo a punto lo «strumento», forse avrà seguito il bersaglio in altre occasioni. Quindi ha escogitato il trucco per avvicinarsi il più possibile al politico e cogliere di sorpresa il servizio di sicurezza. E purtroppo è riuscito nel suo intento a dimostrazione di un gesto di terrore a basso costo ma dall’alto impatto. 

C’è una lunga tradizione di armi fai-da-te impiegate da guerriglieri, ma anche da militanti e gang di strada. A volte semplici tubi con molla e percussore, in altre situazioni qualcosa di più sofisticato. Nel 2019 nell’attacco alla sinagoga di Halle, Germania, un neonazista ha utilizzato una mitraglietta e un fucile a pompa realizzati da lui stesso. Insorti birmani ne hanno sviluppato di diverse, stessa cosa per gruppi criminali che agiscono nelle favelas brasiliane. Nei territori palestinesi in dozzine di episodi è apparso «Carlo», una mitraglietta artigianale che prende il nome dalla svedese Karl Gustav. Famosa poi la vicenda di Phil Luty, estremista di destra britannico che si è specializzato nella progettazione di queste bocche da fuoco rudimentali ed è diventato una fonte di ispirazione per elementi che hanno poi colpito. Alcune, per quanto rudimentali, hanno fatto danni. La qualità dei pezzi cambia ovviamente a seconda delle aree geografiche. Celebri le produzioni nelle zone di confine Afghanistan-Pakistan, ma non vanno sottovalutate le iniziative dei singoli e c’è un crescente timore per il ricorso alle stampanti 3D.

Da corriere.it l'8 luglio 2022.

Ore 15.33 - La polizia: pistola creata con legno e metallo

La polizia ha dichiarato che la pistola usata per commettere il delitto è stata fabbricata con un mix di legno e metallo. Non è ancora possibile affermare se sia stata realizzata con una stampante 3D. 

Ore 15.29 - Il sospettato ha confessato

«Sono stato certamente io», ha detto Yamagami, secondo quanto riferito dalla polizia giapponese. Nella conferenza stampa, inoltre le forze dell'ordine hanno sostenuto che Yamagami non avrebbe detto di far parte di alcuna organizzazione, si pensa quindi che si tratti di un lupo solitario. Inoltre, il killer sarebbe disoccupato.

Ore 15.27 - Biden, l'assassinio di Abe è una tragedia per il Giappone

«La morte di Abe è una tragedia per il Giappone». Lo ha detto il presidente americano Joe Biden definendosi «sbalordito, indignato e profondamente rattristato dalla notizia che il mio amico sia stato colpito e ucciso». 

Ore 15.16 - Obama: «Straordinaria alleanza tra Usa e Giappone»

«Sono choccato e intristito dalla notizia dell'assassinio del mio amico e compagno di lungo corso Shinzo Abe», ha scritto l'ex presidente degli Stati Uniti d'America Barak Obama su Twitter.

«Non dimenticherò mai il lavoro che abbiamo fatto per rinforzare la nostra alleanza, la commovente esperienza del viaggio a Hiroshima e Pearl Harbor insieme», prosegue Obama. «Michelle e io mandiamo sentite condoglianze ai giapponesi che sono nei nostri pensieri durante questo doloroso momento». 

Ore 15.07 - Il Brasile proclama 3 giorni di lutto

Il presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, ha proclamato tre giorni di lutto ufficiale in Brasile per l'assassinio dell'ex primo ministro giapponese Shinzo Abe, ucciso a colpi di arma da fuoco durante un comizio nella città di Nara. «Ricevo con estrema indignazione e tristezza la notizia della morte di Shinzo Abe, un brillante leader che è stato un grande amico del Brasile. Estendo alla famiglia di Abe, così come ai nostri fratelli giapponesi, la mia solidarietà e l'augurio che Dio accolga le loro anime in questo momento di dolore», ha scritto Bolsonaro su Twitter. 

Ore 15.04 - Trovati ordigni nella casa del sospettato, la polizia evacua il quartiere 

Ore 14.58 - La polizia: il presunto killer impassibile durante l'interrogatorio

La polizia ha rivelato che il presunto killer dell'ex primo ministro giapponese Abe durante l'interogatorio è apparso impassibile e ha risposto alle domande in modo calmo.

Ore 14.52 - La polizia: il sospettato ha raggiunto il luogo del delitto in treno

Dopo i primi accertamenti, la polizia ritiene che l'omicida si sia recato sul luogo del delitto in treno. Non è ancora in grado di precisare da quanto tempo fosse nei paraggi prima di sparare ad Abe. 

Ore 14.45 - La polizia ha trovato altre pistole in casa del sospettato

La polizia giapponese sta perlustrando la casa del sospettato dell'omicidio di Abe: sono state trovate altre pistole simili a quella utilizzata per l'attentato all'ex primo ministro. «Potrebbe essere in possesso del permesso di caccia», ma le indagini in questo senso sono ancora in corso.

Riguardo alla pistola utilizzata, le autorità hanno riferito che misura 40cm di lunghezza e 20cm di altezza. Il peso non è noto a causa del «rischio di detonazione» non ancora scongiurato. Gli inquirenti stanno cercando di capire se le parti della pistola siano state acquistate su internet. Non è chiaro se anche i proiettili fossero fabbricati a mano. 

Ore 14.39 - Polizia di Nara: il sospettato aveva rancori contro organizzazione specifica

La polizia della città di Nara ha dichiarato in conferenza stampa che il sospettato dell'assassinio dell'ex primo ministro giapponese Shinzo Abe provava rancori contro un'organizzazione specifica e credeva che Abe ne facesse parte. Al momento, gli inquirenti non sono in grado di dire se l'organizzazione alla quale si riferisce il killer esista davvero. Le autorità hanno inoltre confermato che la pistola utilizzata sia stata fabbricata dallo stesso omicida. 

Ore 13.46 - Alle 14.30 è prevista la conferenza stampa della polizia di Nara

Intanto la giapponese Tv Asahi riferisce che la salma di Abe potrebbe essere trasferita già domani a Tokyo 

Ore 13.25 - Macron: «Shinzo Abe grande premier, ha dedicato vita al Paese»

«Il Giappone perde un grande premier, che ha dedicato la sua vita al suo Paese e ha lavorato per l'equilibrio nel mondo». Lo scrive in un nuovo tweet il presidente francese Emmanuel Macron con le «condoglianze alle autorità e al popolo giapponese dopo l'assassinio» dell'ex premier Shinzo Abe.

Ore 13.12 - Il premier nipponico rafforza sicurezza per ministri e politici

Il Primo Ministro giapponese Fumio Kishida ha ordinato di rafforzare la sicurezza dei ministri del Gabinetto e di altri politici di alto livello in seguito all'uccisione dell'ex Primo Ministro Shinzo Abe, anche in vista delle elezioni della Camera Alta previste per domenica.

Lo scrive l’Nhk. Kishida ha discusso le strategie di risposta all'attacco con il presidente della Commissione nazionale per la sicurezza pubblica Ninoyu Satoshi, e il ministro della Giustizia Furukawa Yoshihisa. Kishida ha detto ai funzionari di non cedere mai alla violenza e al terrorismo, poi ha ordinato a tutti i settori del governo di impegnarsi al massimo per garantire che l'attacco non comporti ritardi nel lavoro dell'amministrazione.

Ore 13.08 - Michel: «Profondo rammarico per uccisione grande uomo»

«È con profondo rammarico che ho appreso della scomparsa di Shinzo Abe. Non capirò mai la brutale uccisione di questo grande uomo. Giappone, gli europei piangono con te». Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in un post su Twitter dopo la morte dell'ex premier giapponese, Shinzo Abe. «Le mie più sincere condoglianze a sua moglie e alla sua famiglia», ha aggiunto Michel. 

Ore 13.02 - L'assassino: «Avevo costruito da solo la pistola e le bombe»

Tetsuya Yanagami, l'uomo arrestato con l'accusa di aver ucciso l'ex primo ministro Shinzo Abe oggi in un attentato a Nara, ha dichiarato di aver costruito da sé «la pistola e diversi ordigni esplosivi» col quale ha condotto l'attacco contro l'ex premier. Lo riferisce la Nhk, la televisione pubblica giapponese. 

«Provavo risentimento per l'ex primo ministro Shinzo Abe e per questo volevo ucciderlo», avrebbe detto agli inquirenti Yamagami. 

Ore 12.50 - Von der Leyen: «Grande democratico»

«Una persona fantastica, un grande democratico e campione del mondo multilaterale ci ha lasciato», ha scritto su Twitter la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, «condoglianze alla sua famiglia, ai suoi amici, e a tutto il popolo giapponese. Questo brutale assassinio ha choccato tutto il mondo». 

Ore 12.20 - Putin, una perdita irreparabile

Anche il presidente russo Vladimir Putin ha definito una «perdita irreparabile» la scomparsa dell’ex premier giapponese Abe. «Vi auguro coraggio di fronte a questa pesante perdita irreparabile», ha scritto Putin in un telegramma di condoglianze alla madre e alla vedova di Abe, secondo quanto ha reso noto il Cremlino. «I bei ricordi di quest’uomo straordinario rimarranno per sempre nei cuori di coloro che lo hanno conosciuto», ha aggiunto. 

Ore 12.12 - Il killer di Abe: «Ero insoddisfatto, ho sparato per ucciderlo»

«Ero frustrato e insoddisfatto di Shinzo Abe, ho mirato per ucciderlo». Queste le parole del 41enne Tetsuya Yamagami che ha sparato all’ex premier giapponese, secondo quanto ha riferito la polizia nipponica citata dalla tv Nhk. 

Ore 12.03 - Le parole del premier Fumio Kishida

Il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha parlato alla stampa al termine della riunione d’urgenza con i ministri: «Non vogliamo piegarci alla violenza, continueremo la campagna elettorale da domani. Non possiamo permettere che quanto accaduto metta a rischio la vita politica quotidiana. Chiedo a tutti i giapponesi di pensare sempre a come difendere la nostra democrazia».

Ore 11.48 - Merkel: sono costernata, nostra collaborazione fu stretta

«Sono costernata per il terribile attacco contro il mio collega per lungo tempo. La nostra collaborazione era stretta e fondata sulla fiducia. Ho sempre avuto piacere a lavorare con lui»: così l’ex cancelliera tedesca, Angela Merkel, in una nota diffusa poco prima della notizia della morte di Abe. 

Ore 11.41 - Presunti esplosivi a casa dell’attentatore

Secondo quanto riferisce l’Nhk, la polizia giapponese avrebbe perquisito la casa di Tetsuya Yamagami , l’uomo che ha assassinato Abe, e ha trovato dei presunti congegni esplosivi 

Ore 11.40 - Il cordoglio di Mario Draghi

«Il Presidente del Consiglio esprime il più profondo cordoglio del Governo e suo personale per la morte di Abe. L’Italia è sconvolta per il terribile attentato, che colpisce il Giappone, il suo libero dibattito democratico. Abe è stato un grande protagonista della vita politica giapponese e internazionale degli ultimi decenni, grazie al suo spirito innovatore, alla sua visione riformatrice. L’Italia si stringe ai suoi cari, al Governo e all’intero popolo giapponese», si legge in una nota della presidenza del Consiglio.

Ore 11.20 - L’ospedale: «Abbiamo cercato di rianimarlo per 4 ore»

Le condizioni dell’ex primo ministro sono apparse immediatamente disperate. «Abbiamo tentato di rianimarlo per quattro ore», ha riferito Nara Hidetada Fukushima, responsabile del Pronto soccorso che è intervenuto assieme a un’equipe di 20 medici. «Abe aveva due ferite sul collo, a 5 centimetri di distanza, che hanno provocato due diverse emorragie. Un proiettile ha penetrato il cuore. Abbiamo cercato di bloccare la perdita di sangue, ma la situazione era molto critica». 

Attentato a Shinzo Abe, così è morto l’ex premier del Giappone. Guido Santevecchi su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022.

Due colpi a pochi metri: così è stato ucciso l’ex primo ministro del Giappone, 67 anni, mentre prendeva parte a un comizio elettorale. L’assassino è stato arrestato: ha colpito con una pistola artigianale. 

L’uomo che era stato protagonista ai vertici dei Grandi del mondo, che era stato ospite alla Casa Bianca di Washington e nella Grande Sala del popolo di Pechino, nella mattinata di venerdì 8 luglio 2022 era in piedi su una piccola pedana rossa in una città lontanissima dalla ribalta internazionale. Stava tenendo un comizio elettorale per un candidato del suo partito liberaldemocratico, sul piazzale della stazione dei treni a Nara, nel sudovest del Giappone. Non c’era folla, la sua presenza avrebbe potuto spostare pochi voti. 

È stato l’ultimo gesto di dedizione politica per Shinzo Abe, l’ex primo ministro del Giappone, assassinato a 67 anni. 

Erano le 11.30 del mattino (le 4.40 in Italia). 

Riferiscono i testimoni: «Si è sentito un bang, abbiamo visto uno sbuffo di fumo bianco alle sue spalle. Tre secondi dopo, una seconda esplosione, solo allora Abe è caduto, uomini in borghese hanno inseguito un tizio in maglietta grigia, con pantaloni larghi da turista e una specie di tascapane a tracolla, lo hanno spinto a terra mentre quello scalciava». 

I filmati mostrano Abe disteso al suolo, la camicia bianca insanguinata all’altezza del collo. Hanno cercato di fargli un massaggio cardiaco, è subito arrivato un defibrillatore. Quaranta minuti dopo era in ospedale, trasportato da un elicottero. Aveva già subìto un arresto cardiocircolatorio, non respirava, i chirurghi hanno rilevato due ferite profonde, una al collo e l’altra all’altezza della scapola: una pallottola aveva toccato il cuore uccidendolo. 

La morte è stata annunciata alle 17.03. 

L’assassino ha usato un’arma artigianale: una sorta di fucile a canne mozze costruito in casa con due tubi utilizzati come canne da fuoco; erano tenute insieme da nastro adesivo scuro e infilate in una borsetta di tela portata a tracolla, che faceva somigliare il congegno a una telecamera. 

La polizia lo ha identificato come Tetsuya Yamagami, 41 anni, disoccupato. Per tre anni, tra il 2002 e il 2005, aveva prestato servizio nella Marina delle Forze di autodifesa nazionali (così si chiamano le forze armate a Tokyo). In casa sono state altre armi rudimentali come quella del delitto. 

Nel primo interrogatorio, Yamagami ha detto di aver voluto uccidere l’ex premier per motivi non legati alla sua azione di governo. Ha sostenuto di essere stato spinto da «un grande risentimento per una specifica organizzazione alla quale Abe era collegato», ha riferito il portavoce degli investigatori. A quanto si sa, lo statista era membro della «Nippon Kaigi», un’associazione patriottica e ultranazionalista di cui fanno parte molti esponenti di governo, compreso l’attuale premier Fumio Kishida. La polizia però non ha citato «Nippon Kaigi». 

Un delitto premeditato, secondo la confessione. Eseguito al penultimo giorno della campagna per la Camera alta della Dieta (il Parlamento di Tokyo), il voto è domenica 10 luglio. 

Ci sono diversi punti da chiarire: la presenza a Nara di Shinzo Abe era stata decisa all’ultimo momento, mercoledì notte. L’assassino dice di averlo scoperto consultando sul web l’agenda dei comizi. È vero o avrebbe sparato a qualunque esponente di spicco del partito di governo? 

L’ex militare, piazzato dietro il podio basso, senza protezione, aveva a disposizione solo due colpi, con quell’arma a doppia canna lunga 40 centimetri secondo i rilievi. Il primo pare aver solo sfiorato Abe, che si è girato dopo quello sparo; il secondo lo ha preso alla scapola e poi è uscito dal collo. È stato devastante per forza d’impatto a quella distanza, quattro o cinque metri secondo i filmati. 

«Ha causato un’emorragia letale», dicono i medici dell’ospedale. «Un atto vile e barbaro», ha detto il premier Fumio Kishida, parole scelte per rimarcare che la violenza nelle strade non è nella cultura giapponese (nel 2021 si sono registrati solo 21 arresti per uso di armi da fuoco, il numero di omicidi è 0,2 per 100 mila abitanti, rispetto a 0,5 in Italia e a 6 negli Stati Uniti). 

È significativo che gli agenti della scorta dell’ex capo del governo non abbiano sparato per arrestare l’assassino. 

Kishida era affranto, vicino al pianto mentre parlava in tv: anche se dal settembre del 2020 si era dimesso per motivi di salute, Abe era rimasto uno dei leader più influenti del partito di governo, guidava la corrente più forte e aveva determinato anche la scelta del nuovo primo ministro.

Gli ultimi sviluppi investivativi

L ’uomo accusato dell’uccisione dell’ex premier giapponese Shinzo Abe intendeva compiere un attentato contro il capo di un gruppo religioso, che in qualche modo riteneva collegato ad Abe. È quanto traspare dai primi interrogatori della polizia nella città di Nara, riportati dai media locali, in cui il 41enne arrestato, Tetsuya Yamagami, ha riferito che sua madre era profondamente coinvolta nell’organizzazione attraverso diverse donazioni di soldi, che avevano causato seri problemi economici alla sua famiglia. La prefettura di Nara, il luogo del Giappone centrale dove si è consumato il tragico incidente, ha detto che metterà a disposizione circa 90 investigatori per seguire le analisi sull’omicidio di Abe, che è stato il premier nipponico piu’ longevo di sempre, e certamente la personalità politica più influente e riconoscibile nel Paese negli ultimi 10 anni. Le dichiarazioni del sospettato, tuttavia, confermano l’attuale disorientamento delle indagini, che vanno di pari passo con il senso di sgomento della intera nazione. Secondo quanto riferisce la polizia, Yamagami nutriva risentimento per una non specifica organizzazione religiosa ma ha escluso di essere stato contrario all’ideologia politica dell’ex premier. Dopo aver scoperto la sera prima su internet che Abe sarebbe arrivato per un comizio nella cittadina, ha deciso di recarsi sul posto in treno. L’arma da fuoco artigianale utilizzata per l’attentato era lunga 40 centimetri e facilmente occultabile in un comizio elettorale in Giappone, paragonabile a una sagra alimentare in termini di sicurezza, e faceva parte di una collezione di esplosivi e altri tipi di armamenti rinvenuti nella sua abitazione.

A Shinzo Abe era stato assegnato un solo agente di scorta, il capo della polizia di Nara: «Il mio più grande rimorso». Guido Santevecchi su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

Novanta poliziotti adesso indagano sulle motivazioni di Tetsuya Yamagami. Voci sulla organizzazione nel mirino del killer dell’ex premier giapponese: la setta di Moon?

Sono novanta i poliziotti che indagano sul passato e le motivazioni di Tetsuya Yamagami, l’ex militare di 41 anni che ha assassinato Shinzo Abe . Ma era solo uno l’agente specializzato che era stato assegnato alla protezione ravvicinata dell’ex primo ministro del Giappone nel viaggio che da Tokyo lo aveva portato a Nara per il comizio elettorale, in uno slargo davanti alla stazione ferroviaria. Quell’agente era armato; ma non lo erano, ed erano schierati male, i pochi poliziotti locali mandati a vegliare sul raduno.

Il comandante dalla polizia

«È innegabile che ci siano state delle falle nella sicurezza», ha ammesso Tomoaki Onizuka, il capo della polizia di Nara, tranquilla città per turisti sull’isola di Honshu, famosa per i suoi templi e per i cervi che pascolano nei boschi. «Sono ufficiale da trent’anni e quello che è successo venerdì è il più grande rimorso della mia carriera, servirà un’inchiesta per capire se sia stato un errore di impostazione o l’incapacità dei singoli», ha concluso il comandante con la voce rotta dal tentativo di ricacciare indietro le lacrime. Spesso nei comizi in strada in Giappone viene usato un furgone con un pianale, che avrebbe permesso agli agenti di controllare da una posizione rialzata l’area intorno. Per Abe non è stato trovato, a causa del pochissimo tempo trascorso tra la decisione di far andare l’ex premier in città e il suo arrivo.

«Chiunque lo avrebbe potuto colpire»

Abe era su un piccolo podio che lo alzava di meno di mezzo metro dal livello stradale, un bersaglio facile a breve distanza. «Chiunque lo avrebbe potuto colpire, in quella situazione, la personalità di spicco dovrebbe essere protetta da ogni direzione, con un cerchio stretto di sicurezza», affermano ora gli specialisti giapponesi.

«Il problema è che in Giappone queste apparizioni di politici sono quasi eventi intimi tra loro e gli elettori, vogliono stare vicini per condividere un senso di appartenenza», spiega Paul Nadeau, che ha lavorato per un parlamentare giapponese e ora insegna alla Temple University di Tokyo: «Non si ha mai la sensazione di un pericolo nel contatto con la gente, non mi era mai venuto in mente che potesse servire un dispositivo di protezione più stretto e imponente».

«Chiunque lo avrebbe potuto colpire»

Dunque, venerdì mattina intorno a Shinzo Abe c’erano il candidato liberaldemocratico Kei Sato, che era venuto a sostenere con il suo prestigio; una quindicina di attivisti locali del partito, l’agente speciale armato di pistola; alcuni normali poliziotti di Nara. A giudicare dalle immagini sull’inseguimento e il placcaggio dell’assassino, prima dell’agguato guardavano solo davanti, non dietro dove si era appostato Yamagami con la sua pistola artigianale fatta da due tubi legati con il nastro adesivo e una impugnatura in legno. Si è visto anche uno dei poliziotti in borghese, riconoscibilissimi per il completo scuro e la camicia bianca, che dopo il primo sparo, mentre si sente l’esplosione della seconda pallottola (che ha centrato e ucciso Abe), alzava una borsetta blindata, ma inutilmente; tra l’altro, quell’agente si è istintivamente girato.

La calma dell’assassino

Nell’interrogatorio, l’assassino si è mostrato calmo e distaccato. Ha parlato ancora del «rancore» che provava per «una certa organizzazione alla quale credeva che Abe fosse legato», ha riferito la squadra di investigatori. Alcuni media giapponesi hanno aggiunto che si tratta di una setta religiosa alla quale la madre dell’ex militare della Marina aveva donato molti soldi, fino a perdere la casa di famiglia. Secondo fonti dell’agenzia Kyodo, Yamagami aveva inizialmente progettato di uccidere un responsabile dell’organizzazione, che avrebbe una sede proprio sul luogo del comizio, ma che siccome non era riuscito a trovarlo ha deciso di farla pagare al presunto sostenitore Abe. La polizia non dà informazioni pubbliche, ma sui social di Tokyo si parla della «Chiesa dell’Unificazione», gruppo religioso fondato dal predicatore sudcoreano Moon negli Anni ‘50. È tutto da chiarire, perché Abe e molti altri politici conservatori sono stati sostenuti da vari gruppi religiosi. Ma un piccolo partito lo aveva accusato pubblicamente di aver appoggiato quella setta «straniera».

Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 9 luglio 2022.

Un ex militare, un'arma rudimentale, un bersaglio di alto livello.

L'attacco contro l'ex premier giapponese Shinzo Abe è chiuso in questo triangolo. Provvisorio. In attesa che gli investigatori ricostruiscono la trama di un evento traumatico e dall'impatto globale.

Il responsabile dell'attentato è Tetsuya Yamagami, 41 anni, un'esistenza qualsiasi, sempre che non nasconda altro. Cresciuto a Nara, ha frequentato un liceo pubblico e non sembra avesse troppi progetti, infatti scriveva di «non avere la più pallida idea» di cosa volesse fare nella sua vita.

Successivamente ha intrapreso la carriera militare e per quasi tre anni - fino al 2005 - ha indossato la divisa della Marina prestando servizio in una base nella regione di Hiroshima. Quindi un altro passaggio nel privato, con un lavoro in un'azienda del Kansai: impiego lasciato in primavera in quanto si sentiva affaticato. È un insieme di frammenti, non sufficienti a spiegare quanto è avvenuto in seguito. Dopo l'arresto ha sostenuto di aver agito non per un movente ideologico, ma piuttosto perché odiava l'organizzazione alla quale apparteneva Abe. Un dettaglio sul quale gli inquirenti hanno mantenuto il riserbo evitando di precisare il nome del gruppo. Affermazioni che andranno ovviamente verificate e filtrate. Se le dichiarazioni sono vere potremmo trovarci davanti a un cittadino in guerra con la società e il mondo, il militante-fai-da-te, un profilo sempre più frequente in molte società dei Paesi sviluppati.

Un individuo che sviluppa una sua rabbia, magari la unisce a sue visioni più o meno politiche, quindi si organizza per sferrare la sua sfida con i mezzi a disposizione, anche rustici.

L'attentatore ha usato un'arma davvero rudimentale. Le immagini lo mostrano con un oggetto a tracolla: due tubi tenuti insieme e avvolti da nastro isolante nero, quindi un'impugnatura. Una sorta di «doppietta» che forse l'assalitore ha cercato di mimetizzarla in qualche modo o era stata celata precedentemente dentro uno zaino. Le perquisizioni in casa dell'uomo hanno poi portato al ritrovamento di esplosivi e di un secondo «fucile» composto da un pezzo di legno, nove piccole «canne» ad un'estremità, fili elettrici. Alcune di queste componenti compaiono in video sul web dove sono disponibili informazioni dettagliate su come trasformare dei semplici tubi in mezzi d'aggressione. Il materiale è reperibile facilmente in quanto è impiegato per attività normali, dai cantieri edili ai laboratori.

Capiremo meglio quando avremo maggiori dettagli, tuttavia è ipotizzabile che l'uomo abbia studiato con cura il piano: ha pensato al modus operandi, ha messo a punto lo «strumento», forse avrà seguito il bersaglio e si era informato su quando Abe sarebbe arrivato per il breve comizio. Quindi si è avvicinato il più possibile al politico e ha colto di sorpresa il servizio di sicurezza. Purtroppo è riuscito nel suo intento a dimostrazione di un gesto di terrore a basso costo ma dalle conseguenze profonde. Da un primo esame dei filmati appare evidente che gli agenti in servizio avevano lasciato un cerchio troppo ampio attorno all'ex premier: dopo il primo sparo, l'ex primo ministro si volta ed è raggiunto dal secondo colpo. C'era in teoria il tempo per cercare di intervenire o di tentare di ostacolare l'aggressore. Le autorità, in risposta alle critiche, hanno precisato che la scorta era assicurata da un poliziotto (armato) arrivato da Tokyo e da elementi locali.

La tragica morte del politico è però la conferma di una carenza nello scudo. Forse hanno sottovalutato i pericoli e si sono «fidati» delle regole: in Giappone è molto complesso ottenere un'arma da fuoco, una persona deve superare infatti tredici passaggi ed è sottoposto a controlli severi. Ecco perché Yamagami ha scelto una strada diversa costruendo lui stesso l'arma. Sistemi adottati a volte da guerriglieri e terroristi d'ogni fede - anche in Europa - che possono comunque fare danni. Conta lo strumento di morte: ma incide molto di più la volontà di agire.

Paolo Salom per il "Corriere della Sera" il 9 luglio 2022.

Quello che è accaduto in Giappone, benché raro, ha radici antiche. Nel Sol Levante l'assassinio politico per secoli è stato considerato una forma «estrema ma accettabile» di protesta politica parallelamente al suicidio rituale (ben più onorevole). Così almeno scrive il New York Times il 26 febbraio 1936, all'indomani dell'uccisione di Tatsukichi Minobe, docente all'Università Imperiale di Tokyo. La sua colpa? Minobe aveva pubblicamente messo in dubbio lo status di divinità attribuito al Tenno, Hirohito.

Più di recente, il 13 ottobre 1960, Inejiro Asanuma, leader dell'opposizione socialista, fu ucciso, al ritorno da un contestatissimo viaggio nella Cina comunista di Mao, da un diciassettenne, Futaya Yamaguchi, durante un comizio di fronte a mille persone: l'arma del delitto una spada corta da samurai, lo strumento che nel passato non troppo lontano serviva per regolare i conti tra fazioni o famiglie nemiche. In anticipo sui tempi, l'attentato contro Asanuma - odiato dai nazionalisti perché aveva indicato negli Stati Uniti il «comune nemico di Cina e Giappone» - fu ripreso in un filmato e dai molti fotografi presenti nella sala.

Quello che accomuna questi episodi, tuttavia, è l'appartenenza degli assassini a società più o meno segrete di estrema destra, ovvero a un'origine culturale che - in un ambiente immerso nel fanatismo - da sempre rifiuta la trasformazione del Paese avviata con la riforma Meiji, a partire del 1868. La modernizzazione a tappe forzate, insomma, che ha posto fine al Medioevo nipponico, ha avuto come conseguenza una risposta di segno opposto di quella parte del Paese più legata alle tradizioni. In questa ottica va poi inquadrato il suicidio del celebre scrittore Yukio Mishima, nel 1970: l'autore di «Confessioni di una maschera» fece seppuku (più elaborato del harakiri perché coinvolge una seconda persona che amministra la decapitazione) per protestare contro l'«occidentalizzazione» del Giappone e l'irrilevanza del Tenno.

Ma è questo il caso della tragica aggressione a Shinzo Abe? Per quanto prematuro, è possibile ipotizzare il gesto in un contesto di estremismo politico-religioso. Tuttavia, Abe non era più al potere dal 2020. E comunque lui stesso - per due volte premier liberal-democratico e quello con la più lunga permanenza al potere - ha spesso suscitato l'entusiasmo delle frange più conservatrici del Sol Levante. Per attribuire un significato ai due spari che hanno ucciso l'ex primo ministro occorrerà dunque attendere qualche spiegazione da parte delle autorità su motivazioni ed eventuali complicità, senza escludere il gesto di un pazzo.

Anche se così fosse, resteranno comunque più domande che certezze in un Paese che nel 1945 ha deciso di archiviare la guerra come strumento politico sulla scena del mondo ma ha lasciato, o non ha potuto eliminare definitivamente, spazio all'idea che la violenza possa talvolta essere l'unica soluzione ai contrasti politici.

Shinzo Abe, le frecce & le donne. Così il premier assassinato ha scosso il suo Giappone. Guido Santevecchi su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.

Figlio di un ex ministro, disse: «Ho fatto e vissuto più di lui». Forse ambiva a ritornare come premier. Era considerato lo shogun nell’ombra. Lo choc per il suo assassinio ne raddoppia l’eredità. 

Il giorno del suo sessantasettesimo compleanno, nel settembre 2021, Shinzo Abe aveva confidato a un collega: «Sono stato capo del governo, mentre mio padre non ci riuscì, fermandosi a ministro degli Esteri, e sono vissuto più a lungo di lui». Ma c’era un’altra cosa: «Voglio fare ancora tutto quello che potrò per il Giappone». Forse, pensava di tornare premier: dopotutto aveva lasciato volontariamente, nel 2020, per una brutta ulcera al colon. Si era fatto curare, aveva rallentato i ritmi di lavoro frenetici (da buon giapponese). La sua corrente era sempre la più forte nel Partito liberaldemocratico. Era considerato da amici e avversari lo «shogun nell’ombra». Insomma, Abe avrebbe avuto ancora un futuro da leader, se uno squilibrato armato di una doppietta fatta in casa l’8 luglio non avesse cambiato la storia. È di eredità politica che si parla 

Una nuova area geopolitica

Politologi e yamatologi (così si chiamano gli studiosi di civiltà giapponese) si chiedono se il Paese sia cambiato irreversibilmente nei nove anni dell’era Abe e per lo choc della sua morte. Nel vocabolario globalizzato ha scritto parole e concetti nuovi. Sua l’idea di «Indo-Pacifico», quell’area geopolitica di libertà e sicurezza che va dal Giappone all’India, dall’Australia agli Stati Uniti: una risposta all’espansionismo del cinese Xi Jinping. Sue le «Tre frecce» della «Abenomics», il piano di rivitalizzazione dell’economia dopo decenni di stagnazione e poi stagflazione aperto dalla prima freccia: l’immissione di un’enorme liquidità sul mercato, che è stata seguita in Occidente.

La moglie Akie, contestatrice in casa

Lascia molti progetti incompiuti. Non è riuscito a cambiare la Costituzione pacifista, ma ha riarmato Tokyo. Aveva promesso di dare il giusto peso alle donne, eppure il Giappone terza potenza economica del mondo è ancora 116° su 146 Paesi nella classifica «gender gap» del World Economic Forum. Ma c’era la moglie Akie, che contestava in pubblico alcune politiche governative, invocava il potere femminile, sosteneva il Gay Pride di Tokyo, criticava l’ampliamento della base Usa a Okinawa. Era nota come «l’opposizione dentro casa», Akie Abe. Anche lei è un’eredità nuova per il Giappone.

Domenico Zurlo per leggo.it il 9 luglio 2022.

L'uomo accusato dell'uccisione dell'ex premier giapponese Shinzo Abe intendeva compiere un attentato contro il capo di un gruppo religioso, che in qualche modo riteneva collegato ad Abe. A quanto traspare dai primi interrogatori della polizia nella città di Nara, riportati dai media locali, in cui il 41enne arrestato, Tetsuya Yamagami, ha riferito che sua madre era profondamente coinvolta nell'organizzazione attraverso diverse donazioni di soldi, che avevano causato seri problemi economici alla sua famiglia. 

La salma torna a Tokyo, martedì i funerali

Torna a Tokyo intanto il corpo di Shinzo Abe, l'ex premier giapponese ucciso ieri durante un appuntamento elettorale a Nara. La salma è stata trasferita da Nara nella residenza di famiglia dell'ex premier nel distretto di Shibuya, riporta la Nhk. Secondo notizie delle scorse ore dei media giapponesi, martedì dovrebbe essere il giorno dell'ultimo saluto ad Abe.

Le indagini sull'omicidio 

La prefettura di Nara, il luogo del Giappone centrale dove si è consumato il tragico incidente, ha detto che metterà a disposizione circa 90 investigatori per seguire le analisi sull'omicidio di Abe, che è stato il premier nipponico più longevo di sempre, e certamente la personalità politica più influente e riconoscibile nel Paese negli ultimi 10 anni. Le dichiarazioni del sospettato, tuttavia, confermano l'attuale disorientamento delle indagini, che vanno di pari passo con il senso di sgomento della intera nazione.

Secondo quanto riferisce la polizia, Yamagami nutriva risentimento per una non specifica organizzazione religiosa ma ha escluso di essere stato contrario all'ideologia politica dell'ex premier. Dopo aver scoperto la sera prima su internet che Abe sarebbe arrivato per un comizio nella cittadina, ha deciso di recarsi sul posto in treno. L'arma da fuoco artigianale utilizzata per l'attentato era lunga 40 centimetri e facilmente occultabile in un comizio elettorale in Giappone, paragonabile a una sagra alimentare in termini di sicurezza, e faceva parte di una collezione di esplosivi e altri tipi di armamenti rinvenuti nella sua abitazione. 

Giappone, Shinzo Abe ferito da colpi di arma da fuoco durante un comizio. Kishida: "È in condizioni critiche". Un arresto. "Nessun segno di vita". Si trovava a Nara, nel Giappone centrale. Fermato il presunto attentatore: il 41enne Tetsuya Yamagami. Blinken: "Stati Uniti sono profondamente preoccupati". Von der Leyen: "Caro Shinzo resisti!". L'attentatore confessa. La Repubblica l'8 luglio 2022.

L'ex primo ministro giapponese Shinzo Abe è stato ferito gravemente durante un evento elettorale nella regione di Nara. Abe "non mostra segnali vitali" dopo essere stato colpito da due proiettili alla schiena mentre stava pronunciando il suo discorso a sostegno di un candidato del Partito Liberal Democratico in vista delle elezioni per la Camera alta di domenica 10 luglio.

Abe aveva iniziato a parlare da pochi minuti, quando si è sentito il rumore di colpi di arma da fuoco, hanno riferito l'emittente nazionale NHK e l'agenzia di stampa Kyodo. Abe, 67 anni, si è accasciato e perdeva sangue dal collo.

L'ex premier è stato portato in ospedale in arresto cardo-respiratorio e dai primi esami eseguiti sulla funzionalità di cuore e polmoni "sembrerebbe non mostrare segnali vitali". A preoccupare i medici è l'emorragia causata dalla ferita". 

Diversi media hanno riferito è stato colpito alle spalle: raggiunto alla schiena da due colpi sparati a distanza ravvicinata, a tre secondi l'uno dall'altro, mentre era in piedi su un piccolo podio e parlava in pubblico, in mezzo alla strada.

Abe, il primo ministro più longevo del Giappone, è stato in carica nel 2006 per un anno e di nuovo dal 2012 al 2020.

Arrestato un uomo armato, ha confessato

Un uomo è stato arrestato. Secondo la Reuters si tratta di un 41enne: Tetsuya Yamagami, residente del posto. È accusato di tentato omicidio. Un'arma è stata sequestrata. L'uomo, secondo l'emittente pubblica Nhk, avrebbe confessato: ha detto alla polizia che era frustrato da Shinzo Abe e per questo voleva ucciderlo.

Stando a un'immagine ripresa dai media giapponesi, l'uomo che aveva nascosto l'arma infilandola dentro quello che sembra una sorta di obiettivo fotografico. L'attentatore, maglietta, pantaloni militari con le tasche, e mascherina sul volto, è stato arrestato e portato via da quattro agenti, mentre a pochi metri di distanza uomini dello staff tentavano di rianimare l'ex premier. 

La prima ricostruzione

Il presunto assalitore, secondo quanto riferito dall'emittente Fuji Tv, sarebbe un militare, membro dell'autodifesa marittima della Japan Self-Defense Forces, la Jietai. La televisione pubblica Nhk ha spiegato che è stato identificato come Tetsuya Yamagami, 41 anni, residente a Nara. Secondo testimoni oculari, si sarebbe avvicinato da dietro mentre l'ex premier stava pronunciando il suo discorso. Il primo colpo che l'assalitore ha sparato, un minuto dopo l'inizio del discorso, non sembra aver colpito nessuno. Dopo il secondo, Shinzo Abe si è accasciato al suolo. La notizia del discorso dell'ex leader del Partito Liberaldemocratico a Nara era stata data solo ieri sera. Yamagami ha utilizzato una specie di doppietta a canne corte di fattura artigianale, nascosta in una borsa. L'aggressore ha eluso la sorveglianza degli agenti di sicurezza e si è avvicinato all'ex premier. In seguito l'uomo ha tentato di allontanarsi, finendo per essere poi bloccato dalla polizia.

La conferma ufficiale

Il governo giapponese ha confermato l'attentato. "L'ex primo ministro Abe - ha riferito ai giornalisti il segretario capo di gabinetto Hirokazu Matsuno - è stato colpito da colpi di arma da fuoco intorno alle 11.30 (4.30 in Italia, ndr) a Nara. Un uomo, ritenuto essere l'attentatore, è stato preso in custodia. Le condizioni dell'ex primo ministro Abe sono attualmente sconosciute". La polizia di Nara terrà a breve una conferenza stampa per fornire aggiornamenti sulla vicenda.

Il premier Fumio Kishida, che si trovava nella prefettura di Yamagata per un evento della campagna elettorale è tornato a Tokyo non appena ricevuta la notizia dell'attentato. Il suo governo istituirà un gruppo di crisi.

Abe si trova in "condizioni critiche" e i medici "in questo momento stanno lavorando molto duramente per salvarlo", ha detto Kishida, in conferenza stampa, condannando "nel modo più fermo" un attacco "barbarico e malvagio" che "non può essere tollerato".

Le cause della sparatoria non sono state ancora chiarite, ha ammesso Kishida. Ancora nessuna decisione è stata presa sulle elezioni di domenica, per il rinnovo della Camera alta del Parlamento. Ma tutti i membri del governo sono stati convocati d'urgenza a Tokyo.

Sospesa la campagna elettorale

Anche i partiti di opposizione hanno deciso di fermare la campagna elettorale in segno di solidarietà e di tornare nella capitale.

Le reazioni internazionali

Gli Stati Uniti sono "profondamente preoccupati" per l'attentato contro Shinzo Abe, ha dichiarato il Segretario di Stato Usa, Antony Blinken. "Siamo in attesa di notizie dal Giappone. Questo è un momento molto, molto triste", ha affermato il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, dopo aver appreso, dalla riunione dei ministri degli Esteri del G20 a Bali, della notizia dell'attentato contro l'ex Premier giapponese Shinzo Abe. "I nostri pensieri, le nostre preghiere, sono per lui, per la sua famiglia, per i giapponesi", ha aggiunto.

"È devastante la notizia dell'attentato all'ex premier Shinzo Abe". Così l'ex presidente Usa, Donald Trump, su 'Truth Social', la sua piattaforma social. "Preghiamo tutti per lui - ha scritto - un mio vero amico e, cosa molto più importante, l'America". "Questo è un duro colpo per il meraviglioso popolo del Giappone, che lo ha amato e ammirato così tanto. Stiamo tutti pregando per Shinzo e la sua bellissima famiglia", ha aggiunto.

"Assolutamente inorridito e rattristato nel sentire dello spregevole attacco a Shinzo Abe. I miei pensieri sono con la sua famiglia e i suoi cari", ha scritto su Twitter il premier britannico uscente Boris Johnson commentando l'attentato.

"Caro Shinzo Abe resisti! I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con la tua famiglia e il con il popolo giapponese", scrive in un tweet la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.

Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si è detto "scioccato e rattristato dal vile attacco a Shinzo Abe mentre svolgeva le sue mansioni professionali - ha scritto sempre su Twitter -. Un vero amico, strenuo difensore dell'ordine multilaterale e dei valori democratici.

L'Ue è al fianco del popolo giapponese e del premier Fumio Kishida in questi tempi difficili. Vicinanza alla sua famiglia". A lui si associa con un tweet la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola: "Assolutamente scioccata... I miei pensieri vanno a lui, ai suoi cari e a tutti coloro che sono in Giappone in questa giornata buia".

Anche l'ambasciatore russo in Giappone, Mikhail Galuzin, ha condannato fermamente il "barbaro" attacco subito dall'ex primo ministro giapponese. "Preghiamo per la salute dell'ex Primo Ministro del Giappone, Shinzo Abe. Condanniamo fermamente il barbaro attentato alla sua vita", si legge nel messaggio pubblicato sui profili sociali dell'ambasciata.

I precedenti

Quello di Abe è solo l'ultimo degli attentati che hanno riguardato politici di rilievo in Giappone.

Nel 1992 un estremista di destra sparò alcuni colpi di arma da fuoco all'allora vice presidente del partito democratico, Kamemaru Shin, nella prefettura di Tochigi, senza tuttavia colpirlo.

Nel 1994, in un hotel a Tokyo il premier Hosokawa Morihiro venne sparato  da un appartenente a un gruppo di estrema destra, ma rimase illeso.

Nel 2007 il sindaco della città di Nagasaki, Ito Itcho, morì durante un attentato organizzato da una banda criminale.

Un altro caso ha riguardato il direttore dell'Agenzia nazionale di polizia, Kunimatsu Takaji, nel 1995, che venne gravemente ferito da colpi di pistola sparati davanti la sua abitazione.

Regole rigide per la vendita di armi

A differenza degli Usa, per acquistare armi in Giappone è necessario passare rigorosi esami per accertare le proprie condizioni mentali, e in commercio sono consentiti soltanto alcuni tipi di fucili e carabine. Secondo i più recenti dati dell'Ocse, il tasso di omicidi in Giappone si assesta a 0,2 su 100.000 abitanti, contro lo 0,5 dell'Italia, e i 6 degli Stati Uniti. 

Edizioni straordinarie e messaggini: così Tokyo ha scoperto l'assassinio di Shinzo Abe. Laura Imai Messina su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

La testimonianza: quella che doveva essere una normale giornata, di colpo si è trasformata in tragedia. Lo shock dei giapponesi Sono in aula. La seconda ora all'Università Seijo è iniziata. C'è stato un incidente su una delle linee principali di Tokyo e continuano ad arrivarmi mail da studenti che sono bloccati. All'ennesima notifica, compare un'ultima ora: attentato all'ex premier Shinzo Abe. Possibile? È quando esco per spostarmi in un'altra università che capisco la gravità della notizia.

La Repubblica il 9 Luglio 2022.  

Ancora una sequenza, ripresa dai molti presenti che hanno realizzato video con gli smartphone , del momento dell’attentato in cui è morto Shinzo Abe ex premier del Giappone durante un comizio nella regione di Nara, per un colpo di un’arma da fuoco rudimentale (l’aspetto è quello di due tubi tenuti assieme da nastro nero) che lo ha raggiunto al cuore, ferendolo mortalmente. Nel video si vede come Abe, circondato da bodyguard e altre persone, si giri dopo aver udito il primo colpo – di cui si sente il rumore e si vede il fumo – e in quel momento arriva, con un rumore di sparo più forte, il secondo colpo che gi è stato fatale. Immediata la reazione delle guardie del corpo che bloccano l’attentatore Yamagami Tetsuya, quarantenne ex militare residente a Nara che poi confesserà di aver ucciso per rancore e insoddisfazione per le politiche dell’ex primo ministro. Ci sono anche polemiche per il comportamento della sicurezza, in diversi video si vede Yamagami Tetsuya seguire da vicino il comizio e in un video anche puntare la sua arma, prima di colpire effettivamente, senza che l’addetto alla sicurezza lo blocchi (complice il fatto che “l’arma” in realtà non si presentava come tale). 

Shinzo Abe, l'assassino voleva uccidere un leader religioso. Le condoglianze di Xi Jinping. Le indagini sull'uccisione dell'ex premier giapponese. Il feretro in viaggio verso Tokio. La Repubblica il 9 Luglio 2022.

Ed è arrivato dal presidente cinese Xi Jinping il messaggio di cordoglio al primo ministro giapponese Fumio Kishida per la morte di Shinzo Abe, mentre continuano le indagini e il feretro dell'ex primo ministro ha lasciato l'ospedale di Kashihara, a Nara, per arrivare a Tokyo. La partenza è avvenuta dopo il completamento dell'autopsia e delle procedure legali. L'auto è arrivata nella residenza di famiglia intorno alle 7 ora italiana.

Xi era l'ultimo tra i principali leader mondiali a non essersi ancora espresso sul brutale assassioni di Abe. "A nome di governo e popolo cinesi e a suo nome, Xi Jinping ha espresso profondo cordoglio per la morte prematura dell'ex primo ministro Shinzo Abe, esteso ai suoi parenti", ha detto l'emittente statale Cctv, aggiungendo che Xi era "profondamente addolorato per la sua improvvisa scomparsa".

L'uomo accusato dell'uccisione, traspare dai primi interrogatori della polizia e riportati dai media locali, intendeva compiere un attentato contro il capo di un gruppo religioso, che in qualche modo riteneva collegato ad Abe. Il 41enne arrestato, Tetsuya Yamagami, avrebbe riferito che la madre era profondamente coinvolta nell'organizzazione attraverso diverse donazioni di soldi, che avevano causato seri problemi economici alla sua famiglia.

La prefettura di Nara ha detto che metterà a disposizione circa 90 investigatori per seguire le analisi sull'omicidio. Ma le dichiarazioni del sospettato non sembrano al momento chiarire il movente dell'attentato. Secondo quanto riferisce la polizia, Yamagami nutriva risentimento per una non specifica organizzazione religiosa ma ha escluso di essere stato contrario all'ideologia politica dell'ex premier. Dopo aver scoperto la sera prima su internet che Abe sarebbe arrivato per un comizio nella cittadina, ha deciso di raggiungere il posto in treno. L'arma da fuoco artigianale utilizzata per l'attentato era lunga 40 centimetri, faceva parte di una collezione di esplosivi e altri tipi di armamenti trovati poi nella sua abitazione.

Il partito Liberal Democratico, guidato per un lungo tempo da Abe, e le altre forze politiche hanno annunciato nel frattempo la ripresa della campagna in vista delle elezioni di rinnovo della Camera Alta in programma domani: "La democrazia non può e non deve fermarsi".

Attentato in Giappone: chi è Tetsuya Yamagami, l'aggressore di Abe. Gianluca Di Feo su La Repubblica l'8 Luglio 2022.  

Ha colpito l'ex premier "per odio" e ha costruito da solo l'arma, assemblando le parti forse seguendo le istruzioni trovate sul web.

Un ex militare ha attentato alla vita del politico che ha rotto il tabù della potenza bellica nipponica, superando i limiti costituzionali e psicologici eredità della Seconda guerra mondiale. Le scarse informazioni sul profilo dell'uomo che ha colpito Shinzo Abe si limitano ai suo trascorsi nelle "forze di autodifesa" come si chiamano le forze armate giapponesi: Tetsuya Yamagami, 41 anni avrebbe prestato servizio nella Marina fino al 2005. Avrebbe colpito l'ex premier "per odio", ma - secondo la polizia - dopo l'arresto Yamagami avrebbe escluso "motivazioni politiche".

Il suo però è stato un rancore così profondo da averlo spinto a costruire da solo l'arma: ha realizzato una "doppietta", assemblando le parti forse seguendo le istruzioni trovate sul web. Le immagini dell'arresto di Yamagami mostrano l'arma avvolta nel nastro adesivo, un metodo per occultarla, ma anche per rinforzarne la struttura. Le dimensioni sono poco più grandi di una pistola: quelle dei fucili "a canne mozze" cari ai rapinatori degli anni Settanta. Difficile capire il calibro: appare però superiore alle cartucce calibro 12 dei fucili da caccia. Due i colpi a disposizione, sparati a distanza ravvicinata. L'attentatore aveva assicurato l'arma al dorso con una tracolla, per compensare il rinculo provocato dall'esplosione del primo colpo. 

In Giappone le armi da fuoco sono molto rare, con una circolazione estremamente limitata e vincoli severi all'utilizzo pure per le forze di polizia: gli agenti circolano con la pistola solo in situazioni straordinarie e anche la scorta di Abe ha affrontato l'attentatore senza usare le armi.

Chi è Shinzo Abe, il predestinato "amico degli Stati Uniti". La Repubblica l'8 luglio 2022.

Vita e carriera dell'ex premier colpito durante un comizio

Membro di una importante famiglia di politici, premier per due volte, l'"amico degli Stati Uniti" e con il desiderio di tornare di nuovo in pista. Shinzo Abe, 67 anni, colpito oggi alla schiena da un attentatore durante un comizio nel nord del Giappone, è il leader predestinato che nella sua lunga carriera politica ha dichiarato guerra al terrorismo interno, gelido verso l'autoritarismo nel mondo e verso la Cina e da sempre uno dei più fedeli alleati degli Stati Uniti.

Il nonno, Kishi Nobusuke, era stato primo ministro dal '57 al '60, e il prozio Sato Eisaku aveva occupato lo stesso ruolo dal '64 al '72. Dopo essersi laureato alla prestigiosa università Seikei di Tokyo, Abe si era trasferito negli Stati Uniti per studiare scienze politiche alla University of Southern California, Los Angeles.

Lì era germogliato il legame con l'America, che poi segnerà la sua carriera politica. Tornato nel 1979 a casa, Abe era diventato molto attivo nel Partito democratico liberale, scalando tutte le posizioni fino a diventare segretario di suo padre, Shintaro Abe, ministro degli Esteri giapponese.

Negli anni '90 erano arrivati i primi incarichi governativi, ma il vero salto di qualità avvenne con la posizione molto dura tenuta nei confronti della Corea del Nord, specialmente dopo che il Paese aveva rivelato di aver rapito tredici cittadini giapponesi tra gli anni '70 e '80.

Nominato segretario generale del partito democratico liberale, prese poi il posto, nel 2006, del premier Koizumi Junichiro, diventando così il primo capo del governo a essere nato dopo la Seconda guerra mondiale. Conservatore, Abe ha sempre cercato di stringere rapporti con gli Stati Uniti, appoggiando tutte le sanzioni delle Nazioni Unite nei confronti della Corea del Nord.

Scandali finanziari macchiarono il suo governo, tra cui l'accusa di aver malgestito i soldi delle pensioni di milioni di giapponesi. Dopo aver lasciato l'incarico nel 2007, Abe tornò in sella nel 2011 con la cosiddetta 'Abenomics', la svolta economica di Abe, che prevedeva misure molto dure, a cominciare dall'aumento dell'inflazione e la svalutazione dello yen rispetto al dollaro e ad altre valute straniere. Le misure lo premiarono: nel 2013 e 2014 l'economia giapponese registrò una forte crescita, seguita a un drastico calo del tasso di disoccupazione.

A quel momento i risultati sono stati altalenanti. Le ultime dimissioni da premier, nell'agosto 2020, furono motivate ufficialmente da problemi di salute, ma Abe non ha mai abbandonato l'idea di tornare alla guida del Paese. (Fonte Agi)

Shinzo Abe, chi era il premier "di ferro" nemico di Cina e Sud Corea. Redazione Tgcom24 l'8 luglio 2022.

Nato in un'importante famiglia politica, Shinzo Abe, è stato il primo ministro più longevo del Giappone. Gli viene riconosciuto di aver portato un certo grado di stabilità al suo Paese dopo un periodo di malessere economico, mentre in politica estera Abe si è inimicato la Corea del Sud e la Cina, insieme a molti giapponesi, per la sua retorica nazionalista e gli appelli a rivedere la costituzione pacifista. Il suo partito, di area conservatrice, Partito Liberal Democratico, è stato alla guida praticamente incontrastata del Paese dal 1955 al 2009, salvo una parentesi di governo dal 1994 al 1996 con il Partito Socialista Giapponese.

Ecco le tappe fondamentali della vita e carriera di Abe

21 settembre 1954: Abe nasce a Tokyo, figlio di Shintaro Abe, ministro degli Esteri del Giappone, e nipote di Nobusuke Kishi, ex primo ministro.

1977: si laurea in Scienze politiche alla Seikei University di Tokyo, poi si trasferisce negli Stati Uniti per studiare Politiche pubbliche all'Università della California meridionale per tre semestri.

1979: inizia a lavorare presso la Kobe Steel mentre l'azienda stava espandendo la sua presenza all'estero.

1982: lascia l'azienda per ricoprire nuovi incarichi alla Farnesina e nel Partito Liberal Democratico al potere.

1993: eletto per la prima volta come deputato di Ldp in rappresentanza della prefettura sudoccidentale di Yamaguchi. Abe, già considerato un conservatore, è un membro della fazione Mori del partito che un tempo era stata guidata da suo padre, morto nel 1991.

2005: Abe viene nominato capo segretario di gabinetto sotto il primo ministro Junichiro Koizumi, durante il quale guida i negoziati per il rimpatrio dei cittadini giapponesi rapiti in Corea del Nord. Lo stesso anno viene eletto capo dell'Ldp, mettendolo in condizione di assumere la carica di primo ministro.

26 settembre 2006: Abe diventa per la prima volta primo ministro del Giappone, supervisionando le riforme economiche mentre prende una linea dura nei confronti della Corea del Nord e cerca di impegnarsi con la Corea del Sud e la Cina.

2007: a seguito delle sconfitte elettorali che hanno visto l'Ldp perdere il controllo della legislatura per la prima volta in 52 anni, Abe si dimette da primo ministro, adducendo motivi di salute. Abe ha sofferto di colite ulcerosa, ma è stato in grado di controllarla con i farmaci.

2012: dopo essere stato nuovamente eletto presidente dell'Ldp, Abe diventa primo ministro per la seconda volta.

2013: cercando di stimolare la crescita, Abe lancia le sue politiche "Abenomics" che prevedono prestiti facili e riforme strutturali. Le relazioni del Giappone con la Cina attraversano un momento particolarmente difficile, ma iniziano a migliorare dopo che Abe incontra il leader cinese Xi Jinping al vertice APEC di Pechino.

2014-2020: rieletto leader dell'Ldp, serve altri due mandati come primo ministro per un totale di quattro, durante i quali sviluppa stretti rapporti con l'allora presidente Donald Trump, tenendo insieme vertici e giocando a golf.

28 agosto 2020: annuncia che si dimetterà dalla carica di primo ministro, ancora una volta adducendo motivi di salute, dopo che la sua colite ulcerosa si è nuovamente infiammata. A quel punto, Abe era già diventato il primo ministro più longevo del Giappone.

2021: nonostante abbia lasciato l'incarico, Abe mostra di poter ancora irritare Pechino con commenti su Taiwan, l'isola autonoma che la Cina rivendica come proprio territorio e minaccia di attaccare. In un discorso, Abe avvertì che "l'avventura militare porterebbe al suicidio economico".

8 luglio 2022: Abe viene colpito da colpi di arma da fuoco durante un evento elettorale nella città di Nara. La polizia arresta un sospetto, non si conosce subito il movente. Dopo alcune ore di agonia l'ex premier muore.

Chi era Shinzo Abe, l’ex premier assassinato in Giappone. Andrea Gebbia e Redazione su Nicolaporro.it l'8 Luglio 2022

L’attentato che ha causato la morte dell’ex primo ministro giapponese, il sessantasettenne Shinzo Abe, o Abe Shinzo come dicono in Giappone (col cognome rigorosamente prima del nome), ha sicuramente scosso il mondo. Durante un comizio politico in favore di un candidato del Partito Democratico Liberale, di cui Abe è stato il leader per lungo tempo, in vista delle elezioni nazionali di domenica, l’ex primo ministro è stato assassinato con due colpi di arma da fuoco.

Conoscendo un po’ il paese del Sol Levante, gli eventi fanno ancora più paura e risultano più sconvolgenti. Nara, che fu anticamente la capitale del Giappone dal 710 al 784, è una città che racchiude in sé molte tipicità del Paese asiatico. Nel sito Unesco World Heritage (patrimonio dell’umanità) Nara compare con 8 monumenti storici, 5 templi buddisti, 2 scintoisti, un antico palazzo e una foresta preistorica. Al primo posto figura il maestoso Todai-ji (grande tempio orientale), a sua volta un complesso di vari templi buddisti, che ospita la statua di bronzo del Buddha più grande del mondo.

Questa aura di pace e serenità è confermata dalla grande quantità di cervi giapponesi che girano indisturbati senza aver paura dell’uomo in molti parchi in cui tali meraviglie architettoniche sono situate. Questi sono i simboli del Giappone: grandi metropoli ultra tecnologiche affiancate da oasi di sublime tranquillità dove il tempo sembra essersi fermato. Questa idilliaca cornice è stata drammaticamente stracciata oggi con due colpi di arma da fuoco, addirittura sparati alle spalle, da un signor nessuno, ex membro della forza marittima di auto difesa, il cui nome potrebbe ricordarci quelli dei personaggi dei cartoni animati giapponesi della nostra infanzia. Questa situazione riassume forse cinicamente la faccia odierna del Giappone: non più il leader asiatico per eccellenza ma ormai un Paese quasi tornato alla normalità e anzi trafelato nel rincorrere il progresso tecnologico di Corea del Sud e Cina in primis.

Abe, come riportato dalla agenzia online Kyodonews, iniziò la sua carriera come segretario del padre, ministro degli Esteri, prima di venir eletto alla Camera dei Rappresentanti (la camera bassa del parlamento) nel 1993. Abe divenne primo ministro nel 2006 all’età di 52 anni, il più giovane premier dalla fine della seconda guerra mondiale, come ricorda Japan News. Nel 2007 si dimise per problemi di salute. Nel dicembre 2012 divenne capo del governo per la seconda volta: il suo secondo mandato ebbe la durata record di 2822 giorni fino al settembre 2020, quando si dovette dimettere definitivamente per il peggioramento della sua colite ulcerosa cronica.

In totale Abe Shinzo ha governato 3188 giorni: questa cifra è da record in Giappone e ha contribuito ad una stabilità politica che ormai mancava da tempo. Nel suo mandato finale, con grande influenza anche all’interno del suo partito, Abe intraprese una politica economica che si potrebbe tradurre in italiano con “Abenomia” (Abe + economia), caratterizzata da un massiccio abbassamento degli interessi per facilitare i crediti, con riforme strutturali per ravvivare la stagnante economia nipponica.

Altra prerogativa di Abe è stata la sua grande attenzione nell’aumentare la sicurezza del Giappone ed innalzarne il profilo politico sul piano internazionale. Come sottolinea il Japan Times, in un periodo di forte crescita economica e militare cinese, Abe è da molti ritenuto l’architetto della cosiddetta struttura “the Quad”, un gruppo di sicurezza che include Giappone, Usa, Australia e India, che, con una diplomazia basata sui valori, vuole promuovere la democrazia, i diritti umani e il rispetto delle leggi.

Nel 2014 l’amministrazione Abe si spinse fino a reinterpretare la Costituzione per rendere possibile l’uso della legittima difesa collettiva (difendere gli Alleati anche senza un attacco diretto al Giappone) ed espanse il ruolo delle forze di autodifesa con una nuova legge sulla sicurezza nel 2016. L’aggressivo conservatore si attirò a volte persino le ire dei suoi vicini (Cina e Corea del Sud) come quando, nel 2013, visitò il santuario di Yasukuni, visto come un simbolo del passato militarismo giapponese, essendo dedicato alle anime dei soldati o civili che combatterono per l’Imperatore dal XIX secolo al secondo conflitto mondiale.

Anche in Svizzera la drammatica notizia dell’attentato ad Abe viene riportata su tutti i media. Sul Blick si dà soprattutto risalto al fatto che Abe tenne un discorso al Forum economico mondiale di Davos nel 2019 e si ricorda il suo tweet in cui sorridente viaggiava in treno dalla stazione di Zurigo fino a Davos quando fuori nevicava abbondantemente. In Svizzera i presidenti compiono regolari viaggi in Giappone. Poco prima del ricordato Forum di Davos del 2019, l’allora presidente Ueli Mauer si recò in Giappone per un summit, l’anno prima Alain Berset, anch’egli in qualità di presidente della Confederazione Elvetica (il presidente si rinnova ogni 12 mesi) era stato a Tokyo. Ignazio Cassis, l’attuale presidente rossocrociato, è stato recentemente in Aprile in visita in Giappone.

I viaggi ufficiali nel paese del Sol Levante non hanno solo carattere di cordialità. Secondo il ministero degli Esteri svizzero, il Giappone, dopo la Cina, è il partner commerciale asiatico principale per la Svizzera. Addirittura nel 2009 la Svizzera fu il primo paese del continente europeo a stipulare un trattato di libero scambio con il Giappone. Il Blick continua, molto ironicamente, che invece l’interesse commerciale dei nipponici verso la Svizzera non è così largamente ricambiato…

Il predestinato che rilanciò il Paese. La sua sfida ai dogmi di economia e difesa. Angelo Allegri il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Figlio di un notabile, è stato il premier più giovane e longevo. La missione: risollevare Tokyo con "Abenomics" e politica militare.

Suo nonno, 62 anni fa, fu più fortunato. Politico controverso come e più del nipote, Nobusuke Kishi, responsabile per gli armamenti durante la seconda guerra mondiale e primo ministro tra il 1957 e il 1960, fu accoltellato per sei volte da un esaltato negli ultimi giorni del suo mandato. Riuscì a sopravvivere. A Shinzo Abe (o Abe Shinzo, come si usa in Giappone, dove il cognome precede sempre il nome) non è stato riservato lo stesso destino. È finito così, tragicamente, il percorso del politico che più di tutti ha definito il Giappone degli ultimi decenni.

La sua carriera di predestinato era iniziata poco dopo la morte del padre, Shintaro Abe, altro uomo di potere, uno dei notabili dell'eterno partito di governo, i liberal-democratici, più volte ministro, arrivato a un passo dall'incarico di premier. Eletto alla Dieta al suo posto e nello stesso collegio con un numero record di voti, si era fatto immediatamente notare per le ambizioni e per le idee che sulla stampa internazionale venivano di solito definite nazionaliste e conservatrici e che erano spesso criticate per le non poche venature populiste. Nel 2006, a 52 anni, divenne per un biennio il più giovane primo ministro della storia giapponese. Poi, tra il 2012 e il 2020 gli altri mandati. Alla fine conquistò il primato: non c'è un altro premier giapponese nel dopoguerra che abbia governato quanto lui. Annunciò lui stesso il suo addio, per ragioni di salute: una colite ulcerosa che gli impediva di proseguire nell'incarico.

A caratterizzare la sua eredità due grandi battaglie: quella sul posizionamento internazionale del Paese e quella contro la stagnazione dell'economia. Su questo fronte un'intera linea di politica economica ha preso il suo nome, la cosiddetta Abenomics, basata in linea generale su due pilastri. Il primo era una politica di contenimento dei tassi condotta dalla banca centrale, in grado di mantenere basso il valore dello yen per sostenere le esportazioni. Il secondo era invece l'elevato livello della spesa pubblica, anche in questo caso sostenuto dalla Banca del Giappone, incaricata di acquistare titoli di Stato a più non posso attraverso le banche. Uno sforzo poderoso, che però non ha inciso, secondo gli analisti, sugli elementi strutturali che condizionano l'economia del Sol Levante: prima di tutto rigidità del sistema produttivo e andamento demografico.

Ancora più profonda è stata la rottura sul piano della politica di difesa. Il grande nemico di Abe in questo campo è stato l'articolo 9 della Costituzione, che dal 1947 impedisce formalmente al Giappone di ricostituire le Forze Armate. Con il tempo le maglie draconiane della disposizione sono state allargate. Tra le ultime battaglie di Abe c'è stata quella a favore della possibilità che il Paese ospiti armi nucleari dell'alleato americano e un innalzamento del livello della spesa militare al 2% del Pil. In parallelo si è evoluto anche il posizionamento internazionale del Paese, rivolto a contenere soprattutto la minaccia di Cina e Corea del Nord. Una maggiore assertività sul piano internazionale non ha mancato di provocare polemiche, come le periodiche visite di Abe al tempio shintoista di Yasukuni, uno dei simboli del nazionalismo giapponese, in cui sono venerati come divinità anche alcuni tra soldati e leader del periodo imperiale, condannati dagli americani come criminali di guerra.

Tra gli avversari del nuovo Giappone da qualche mese Abe, che, sia pure dietro le quinte continuava a tirare i fili del suo partito, aveva messo anche la Russia, verso cui, pure, nel recente passato aveva mostrato un atteggiamento di appeasement, incontrando Vladimir Putin ben 27 volte. «Non ho rimpianti, adesso le cose sono cambiate», aveva detto in un'intervista di qualche settimana fa. Il tema della sicurezza gli stava, però, sempre a cuore. Secondo le indiscrezioni stava facendo campagna per i candidati alle prossime elezioni della Camera alta con due obiettivi: raggiungere la maggioranza necessaria per cambiare quel benedetto articolo 9, e soprattutto, tornare al potere.

"Abe leader del dialogo Il suo omicidio esaspera l'instabilità". Matteo Basile il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'ex ambasciatore italiano a Tokyo: "Un partner fedele degli Usa, ma ha tentato strade nuove".

«Sono molto triste, è un grande dolore. È una persona che ho conosciuto stimato molto e con cui avevo un rapporto di stima e sincera amicizia». Giorgio Starace oggi è ambasciatore italiano in Russia,al lavoro nel tessere la tela della diplomazia alla ricerca di una pace complicata. Per quattro anni, dal 2017 al 2021, è stato ambasciatore d'Italia a Tokyo costruendo un rapporto solido con l'ex premier Shinzo Abe e acquisendo conoscenze profonde di una Paese che per noi occidentali risulta spesso avvolto nel mistero.

Ambasciatore, chi era Shinzo Abe?

«Un giapponese molto internazionale, molto aperto, estroverso. Noi siamo abituati alla discrezione dei giapponesi come tratto identificativo del carattere. Abe era un uomo di grande personalità, istintivamente molto simpatico e anche con un grande senso dello humor».

Un politico che ha fatto molto per il Giappone, anche a livello internazionale.

«Aveva stabilito rapporti di sincera amicizia con i leader del G7 ed era molto stimato da tutti. Ha fatto moltissimo per il Paese, ha assicurato una forte stabilità politica sotto la sua guida».

C'è un aneddoto o un ricordo personale che le viene in mente?

«In ambasciata c'era una poltrona della società italiana Kartell disegnata da Lapo Elkann con la bandiera del Giappone. Abbiamo fatto una foto insieme ed era contento come un bambino. E poi ho un altro ricordo particolare, legato all'Italia».

Ovvero?

«Mi rivelò che lui, a parte i notiziari, non guardava mai la televisione. Faceva un'unica eccezione: ogni sabato guardava un programma su un canale privato giapponese dal titolo come si vive nei borghi italiani, girato da una troupe giapponese nei paesi remoti della nostra Penisola, con musiche di cantanti italiani in sottofondo. Questo per dimostrare quale fosse la sua grande simpatia e la sua attrazione nei confronti dell'Italia».

L'assassinio di Abe sconvolge anche di più perché il rapporto del giapponese medio con la politica è molto differente dal nostro.

«È vero, i giapponesi appaiono abbastanza distanti dalla politica, però sono certo che questo fatto abbia colpito molto la popolazione perché in qualche modo erano tutti legati ad Abe».

Un fatto inaspettato o in qualche preventivabile?

«È un Paese dove da molto tempo non si verificavano episodi di tale gravità. Tra l'altro in una società che in generale non si può considerare affatto violenta e dove vige una strettissima politica delle armi».

Un atto così tragico, può secondo lei cambiare qualcosa a livello internazionale?

«Difficile rispondere. Sicuramente se il caso rientra nella semplice azione di uno squilibrato, lo escluderei. Se invece dietro ci fosse il terrorismo o la politica con una matrice precisa, allora si potrebbero aprire discorsi differenti».

Con il Giappone che storicamente si ritrova ad essere stretto tra la forte alleanza con gli Usa e la vicinanza con la Cina.

«Assolutamente. La politica di Abe da premier si è sviluppata nel solco di una fortissima partnership con gli Stati Uniti ma è stato anche colui che si è speso per tentare di trovare un sistema di dialogo con il difficile vicino cinese. Con esiti non facili, ma per cui lui si è sforzato davvero molto».

Quel che è certo è che il momento geopolitico sia complicatissimo. Dalla guerra in Ucraina, alle dimissioni di Johnson, fino all'assassinio di Abe. Non semplifica...

«È successo di tutto. L'instabilità non aiuta di certo. Personalmente spero nella stabilità, con calma e sangue freddo si può cercare di ricomporre le situazioni».

In questo momento complesso, chi o cosa può fare la differenza per abbassare il livello della tensione?

«Uomini della statura di Shinzo Abe».

Ne vede molti?

«L'Italia, con il nostro Presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri e tutta la struttura della Farnesina sono in prima linea per ottenere il cessate il fuoco e avviare un'attività diplomatica».

Com'è la situazione in Russia?

«Siamo compatti con i nostri alleati e con i nostri partner occidentali. E siamo qui per dialogare e spiegare le nostre ragioni che sono quelle della pace, del cessate il fuoco e del negoziato. Siamo tutti compatti con partner europei ed atlantici per tentare di fare in modo che tutto questo termini».

La diplomazia è la chiave o è un momento troppo complicato per il dialogo?

«Non bisogna rinunciare mai alla diplomazia. Dobbiamo avere pazienza e continuare a testa bassa. La guerra non risolve nulla, è contro la nostra etica e contro l'etica stessa e il fondamento dell'Italia e dell'Europa».

Quelle intuizioni da Taiwan al Pacifico. Vittorio Macioce il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'ex premier capì prima di altri la minaccia cinese. Le reazioni di Pechino.

Due proiettili fatti in casa e un vuoto difficile da decifrare. Il corpo di Shinzo Abe è a terra, senza vita, con una pozza di sangue dove i giapponesi finiranno per specchiarsi, con l'angoscia di chi ha perfino paura a pensare, immaginarsi, un futuro. Non tutti lo amavano, come capita con figure ingombranti che segnano una lunga stagione politica, ma di sicuro il suo assassinio disorienta e arriva in un momento particolare, quando la richiesta più assillante è avere uno straccio di certezze. È una richiesta, economica, politica, sociale e culturale, diffusa in tutte le democrazie liberali. È la preghiera di questo tempo che ti sfinisce e non trova pace. Sembra quasi che il destino si diverta a scrivere una sceneggiatura furba, con colpi di scena più o meno inverosimili, con l'unica traccia di rendere più faticoso l'inevitabile resa dei conti con la Cina. Pechino come convitato di pietra, che apre i giochi con il Covid e promette di chiuderli un giorno con Taiwan. È così che in soli due giorni ti ritrovi con la caduta di Boris Johnson e la morte dell'uomo che non è più premier ma resta il padre nobile del governo conservatore nipponico. Il fato che destabilizza e confonde e lascia però tracce di contro, o per chi, sta giocando.

Shinzo Abe questa guerra di civiltà l'aveva sbirciata da almeno vent'anni, da quando perlomeno impegna il Giappone in alleanze strategiche che guardano lontano. È lui il perno dell'alleanza difensiva nel quadrante del Pacifico che sposta gli interessi statunitensi da Ovest a Est. È lì che si svelerà la partita decisiva sugli equilibri globali. È il senso di quella sorta di Nato che prende il nome di Quad, Quadrilateral security dialogue, che coinvolge Usa, Giappone, Australia e India. Abe si è speso più di tutti per anticipare la questione Taiwan. Pechino, diceva, va contenuta, perché il partito comunista è solo il nome che i cinesi danno a una nostalgia imperiale. Non si accontenteranno della potenza economica e finanziaria. Non accetteranno mai una visione del mondo che ha come cardine i valori «universali» europei o americani. Taiwan, isola dell'altra Cina, sta lì ogni giorno a ricordarglielo.

Abe è l'uomo della scelta di campo definitiva. Ora accade che in questa storia spunta il folle, ma è un folle che mira proprio dove doveva mirare, e già si porta dietro le ombre dell'ex marine Lee Harvey Oswald, l'assassino di J.F. Kennedy. Ma davvero si è costruito da solo l'arma? E non una qualsiasi, ma una macchina fotografica che funziona come una pistola? Un altro ex militare di marina con un movente senza senso, tanto che la prima cosa che si affretta a dire è «non l'ho fatto per motivi politici». Tutto questo alla vigilia del voto per il Senato. Certo, il Global Times, megafono in lingua inglese del Partito comunista cinese, si straccia le vesti per dire che la morte di Abe apre nuove tensioni con Pechino, perché questo delitto in realtà renderà più forte il partito Liberal Democratico (Jiminto) al governo. Saranno ancora più intense le pressioni per un «Indo-Pacifico libero e aperto», slogan della politica estera anti cinese. Non c'è dubbio che i riflessi immediati potrebbero essere questi, ma il dramma di questo assassinio rende ancora più teso lo scontro tra i sostenitori della «Abeconomics» e la rabbia di chi considera il capitalismo il principio di tutti i mali e l'influenza occidentale qualcosa da ripudiare al più presto. La morte di Abe è un attentato alla democrazia. La Cina è innocente, ma anche in questo caso se ne gode i frutti.

Abe, vittima del Giappone profondo. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'8 luglio 2022.

Non esiste nulla di più imprevedibile del domani, ma una cosa appare già da ora più che certa: 8.7.2022 è una data destinata a restare immortalata nei futuri annali di storia del Giappone con un inchiostro indelebile, che non si cancella, che è quello del regicidio. Perché stamane, invero, il Giappone non ha perduto un politico qualsiasi, bensì quello che si suol definire un grande vecchio, un burattinaio o un potere dietro il trono.

Il trapasso violento di Shinzo Abe, brillante statista e architetto dell’incompiuto anelito di un Giappone post-americano – progetto che, ai posteri l’ardua sentenza, potrebbe essere morto col suo ideatore –, era in qualche modo prevedibile, è inquadrabile nel più ampio contesto delle grandi pulizie in corso all’interno dei blocchi e obbligherà i figli del Paese del Sol Levante ad un’analisi introspettiva volta a risalire alle origini di quello che premette e promette di essere l’evento spartiacque della loro contemporaneità.

Vittima del Giappone profondo

Abe è morto, assassinato da un ex militare rispondente al nome di Tetsuya Yamagami a breve distanza dal quarto anniversario dell’esecuzione di Shōkō Asahara, e il Giappone è sotto choc. Era dal 1932, anno dell’uccisione di Inukai Tsuyoshi da parte di un manipolo di soldati, che il popolo giapponese non compiangeva la scomparsa prematura e violenta di un primo ministro.

Novant’anni. Novant’anni esatti separano le morti di Abe e Inukai e le similitudini che le accomunano sono tanto magniloquenti da far sembrare lo spargimento di sangue dell’8.7.2022 un suggestivo déjà-vu del 15.5.1932. Entrambi i regicidi sono stati concepiti in ambienti militari, consumati ai danni di due nazionalisti moderati, compiuti all’interno di una società in fermento – oggi e ieri profondamente divisa tra revanscisti e apatici – e avvenuti in un contesto internazionale conflittuale – oggi la competizione tra grandi potenze, ieri l’antevigilia della Seconda guerra mondiale.

Focalizzarsi sulle somiglianze intercorrenti tra i due regicidi più importanti della storia del Giappone è importante, più che altro per la comprensione di quelle che potrebbero essere le implicazioni della scomparsa di Abe – l’abbandono delle velleità post-americane in favore di un approccio verso Russia e Cina maggiormente confrontazionale e meno improntato all’autonomismo? –, ma non aiuterebbe a spiegarli, a risalire alle loro origini remote. Perché un filo conduttore lega la scomparsa dei due moderati, nonché altre vicende macchiate di rosso – rosso sangue – della storia recente del Paese del Sol Levante, ed è l’eterna voglia di rivalsa del Giappone profondo.

Lo sporco sotto il tappeto uccide

Dicono i saggi cinesi che sia necessaria più di una giornata di gelo affinché si ghiacci un metro di fiume. Un altro modo per dire che, molto spesso – e ciò è particolarmente vero quando si parla di fenomeni politici, culturali e sociali –, dietro la materializzazione di qualcosa c’è stato un lungo periodo di germogliazione.

Abe è morto, ucciso per mano di un nostalgico del Sole nascente, ma le origini e le ragioni dell’omicidio più (geo)politicamente rilevante degli anni Venti del Duemila – insieme a quelli di Du Wei e Jan Hecker – hanno a che fare coi moventi personali di Yamagami soltanto in parte. Perché Yamagami non è che l’ultimo prodotto, per quanto perverso, della resistenza del Giappone profondo al Bunmei Kaika, cioè all’occidentalizzazione, che negli anni ha avuto una prole numerosa: estremisti di destra, rivoluzionari di sinistra, lupi solitari, terroristi apocalittici.

Il denominatore comune che lega Abe a Inukai, unendo – anche se impercettibilmente – le proteste di Anpo al suicidio rituale di Yukio Mishima e la guerriglia dell’Armata rossa giapponese e al terrorismo di Aum Shinrikyō, passando per i casi dimenticati dell’omicidio di Inejirō Asanuma e del tentato assassinio di Hitoshi Motoshima, è uno: il senso di frustrazione, misto a livore e rancore, che attanaglia quel segmento di società che mai ha digerito l’inglobamento forzato del Giappone nell’orbita dell’Occidente. E che vorrebbe tornare indietro nel tempo, preferibilmente tra il periodo Meiji e il primo paragrafo dell’era Shōwa, con l’anelito di restituire il Giappone all’Asia e l’Asia al Giappone.

I detrattori del Giappone americano, al di là del credo professato, vedono nel traumatico e antistorico sganciamento della terra di Amaterasu dall’Asia l’origine di ogni male della contemporaneità: la secolarizzazione di usi, costumi e tradizioni, problematiche sociali come la cronicizzazione del suicidio, la post-sessualità, gli hikikomori, gli johatsu e i karoshi. Una convinzione, la loro, opinabile ma meritevole di ascolto. Ascolto che, però, gli è sempre stato negato – alimentando insofferenza e radicalizzazione.

Capire la morte di Abe

Gli attori dell’ampio e variegato movimento antiamericano del Giappone possono differire nei metodi, talvolta anche nei fini, ma una convinzione viscerale li unisce: se il glorioso Paese del Sol Levante è l’ombra folcloristica, ignominiosa e macchiettistica di ciò che fu – dove anime, eroge, hentai, manga e shokushu goukan hanno sostituito bushido e shinto, e dove anonimi, cosmopoliti, apolitici e pacifisti otaku hanno rimpiazzato i samurai – sarebbe colpa dell’America.

Washington, lobotomizzando ed eunuchizzando i giapponesi, avrebbe conseguito un doppio risultato: la satellizzazione geopolitica di Tokyo e la massificazione dei suoi abitanti. Un esito congeniale al mantenimento di una potenza, geneticamente predisposta all’egemonia tra sinosfera e Pacifico occidentale, in una condizione (perpetua?) di vassallaggio indispensabile per la grand strategy degli Stati Uniti per l’Indo-Pacifico. Un’idea opinabile, di nuovo, ma meritevole di ascolto. E una delle concause di questo regicidio è proprio questa: Abe, come i suoi predecessori, mai ha voluto prestare l’orecchio alla (scomoda) voce dell’elettorato antiamericano.

Se i detrattori del Giappone americano periodicamente escono dall’ombra per uccidere, quando per compiere un regicidio e quando per commettere una strage, è (anche) perché la classe dirigente – di cui Abe era un capofila – è sempre stata sorda alla loro voce stridula. Come quando Abe, nel 2015, ignorò le maxi-proteste popolari contro il possibile invio di militari giapponesi all’estero – a difesa più dell’Interesse di Washington che di Tokyo. E come quando Abe, l’anno successivo, fece orecchie da mercante alla mobilitazione degli abitanti di Okinawa contro la base militare statunitense in loco dal 1945.

Non si tratta di giustificare l’ingiustificabile, ma di provare a comprendere. Comprendere che l’omicidio di Abe non è stato casuale, non è stato il gesto di un folle, e che per ogni giapponese in lutto, uno è in festa. Comprendere che sebbene il grilletto sia stato premuto da Yamagami, e che sebbene la sua scomparsa contenti (enormemente) taluni blocchi geopolitici e alcuni gruppi di interesse giapponesi, a caricare la pistola non sono stati né Yamagami né i nemici di Abe, ma il Giappone profondo dello Yamato-damashii. Comprendere che altri Yamagami e nuovi Asahara nasceranno, inevitabilmente, fino a quando la classe dirigente non prenderà atto della necessità di aprire un dibattito sul posto del Giappone nel mondo.

L'assassinio di Abe e il G-20 asiatico. Piccole Note l'8 luglio 2022 su Il Giornale.

Shinzo Abe è stato assassinato. L’ex premier giapponese era il politico più longevo del Paese, e forse dell’Asia, e il suo omicidio è l’attentato politico più rilevante accaduto in Giappone dalla Seconda guerra mondiale.

Mutatis mutandis, tale omicidio si può accostare a quello dell’onorevole Aldo Moro per ordine di grandezza e, come quello, avrà conseguenze. Se con la morte di Moro morì anche il compromesso storico, sopravvissuto a se stesso solo per alcuni mesi, le ripercussioni dell’omicidio Abe sono ancora tutte da scoprire.

Gli articoli dei media americani, nel ricordare la sua figura, si concentrano giustamente su due direttrici della sua politica pregressa: le Abenomics, cioè il liberismo selvaggio accompagnato da una politica monetaria fondata sull’emissione indiscriminata di moneta, e il revanscismo sul piano nazionalista, che ha portato il Giappone a riarmarsi, anche se si è dovuto fermare sull’ostacolo della Costituzione (non ha potuto cancellare l’articolo sul rigetto della guerra imposto dagli Alleati).

Proprio quest’ultima direttrice nazionalista e militarista potrebbe subire un incremento dopo l’attentato, soprattutto se nelle elezioni politiche, che si dovrebbero svolgere il prossimo 10 luglio, il partito di Abe, i liberaldemocratici, ora al potere, verranno premiati dagli elettori, cosa possibile dopo quanto avvenuto.

Al di là degli effetti sul Giappone, l’attentato cala come una mannaia sul vertice dei ministri degli Esteri del G-20 che proprio oggi, drammatica coincidenza cronologica, è iniziato in Asia, specificatamente in Indonesia.

Un vertice al quale è stato chiamato a partecipare anche il russo Lavrov, nonostante le forti pressioni contrarie degli Stati Uniti (e quelle belanti di Draghi), evidenziando in tal modo l’influenza relativa dell’America sull’Indo-Pacifico, dove anche i suoi più stretti alleati conservano comunque un rapporto più o meno forte con la Cina, che resta la potenza regionale (un’ambiguità che irrita oltreoceano).

Il gesto del folle, Tetsuya Yamagami, un ex militare, diventa così per forza di cose il focus del G-20, obliterando altre tematiche (tra le altre cose, c’era la possibilità di un dialogo a distanza tra Russia e Stati Uniti, trovandosi tanto vicini i due ministri degli Esteri).

E getta un’ombra oscura sulla stessa Asia, dove le tensioni, alimentate dal confronto tra Cina e Stati Uniti (e suoi alleati), potrebbero aumentare, in particolare se il nazionalismo giapponese si farà più assertivo.

Non è la prima volta, né sarà l’ultima, che un gesto di un quisling isolato incide sulla storia. Vedremo.

Ps. En passant, si può ricordare che Abe è stato il premier giapponese più filo-russo della storia, come ricorda Ria novosti, tanto che durante la sua reggenza sembrava potesse risolversi la querelle sulla sovranità delle isole Kurili, pretesa dai due Paesi dalla fine della Seconda guerra mondiale, e riaccesa prepotentemente dal suo successore.

L'omicidio di Shinzo Abe e la svolta del Giappone. Piccole Note l'11 luglio 2022 su Il Giornale.

L’assassinio di Shinzo Abe è stato spiegato come opera di un pazzo isolato che voleva vendicarsi di una setta che aveva rovinato la madre, alla quale, secondo il killer, l’ex premier giapponese sarebbe stato legato.

Secondo Mosca si è trattato di “terrorismo”, che è ben altra cosa, ma nessuno ha chiesto da dove le autorità russe abbiano tratto tale convinzione.

E però le domande poste da Mosca sull’incapacità della scorta dell’ex presidente giapponese sono interessanti. Anche se il Giappone non ha esperienza di attentati  politici, almeno recenti, resta che il killer ha avuto tutto il tempo di estrarre tranquillamente da una borsa il fucile fabbricato in casa (con la stampante 3D, non era un dilettante), dal momento che certo non girava per strada col fucile in bella vista.

Quindi, sempre indisturbato, ha esploso il primo colpo e, dopo qualche secondo, ha esploso tranquillamente il secondo. Ciò senza che nessuno si accorgesse di nulla, come se la Sicurezza fosse imbambolata. Il tutto, peraltro, in piena vista, come si vede nei video dell’attentato, dal momento che l’attentatore non aveva neanche una folla che lo celasse.

Ci si aspetterebbe che un crimine del genere possa essere compiuto contro una persona comune, non certo contro uno statista del calibro di Abe, che gode di un servizio di protezione, che però è entrato in azione solo dopo la consumazione del delitto. Anomalie di sistema.

Il “Trump prima di Trump“, come lo ha definito l’asserito stratega dell’ex presidente Usa Steve Bannon, è stato pianto in tutto il mondo, ma in particolare in Russia, dal momento che l’ex premier giapponese aveva un legame singolare con Putin, avendolo incontrato ben 27 volte nella sua lunga carriera politica.

Non per nulla, a fine maggio, nonostante l’obbligata dichiarazione di obbedienza alla linea dell’Occidente, in un’intervista all’Economist spiegava che Putin non è affatto pazzo, come da report dei media d’Occidente, ma è un “realista”.

“Non è il tipo di persona che persegue gli ideali o fa sacrifici per le idee”, aveva dettagliato, aggiungendo che la guerra si sarebbe potuta evitare, se solo Zelensky avesse dichiarato che il suo Paese non avrebbe aderito alla Nato e avesse dato una certa autonomia al Donbass.

Non solo sulla guerra ucraina, anche su altri dossier Abe aveva dimostrato una certa autonomia di pensiero e azione rispetto ai diktat dei falchi d’Occidente, come dimostra la sua disponibilità a far da paciere tra Usa e Iran sul dossier nucleare.

Nel 2019, infatti, diede la propria disponibilità a Trump per mediare con Teheran (con la quale, in realtà, l’ex presidente Usa non voleva rompere, essendone infine costretto).

Un’opera di mediazione per la quale Abe si spese molto, tanto da recarsi in Iran nel giugno dello stesso anno per incontrare l’ayatollah Khamenei; la missione però naufragò sul nascere a causa dell’attacco a due petroliere, che navigavano nello Stretto di Hormuz dirette in Asia, avvenuto mentre parlava con la guida spirituale dell’Iran.

Tant’è: Shinzo è morto e riposi in pace, come si dice in questi casi, anche con le contraddizioni del caso. Come avevamo preventivato, sull’onda dell’omicidio i partiti di governo hanno fatto il pieno di voti nelle elezioni parlamentari, ottenendo quella maggioranza dei due terzi necessaria a cambiare la Costituzione.

Un obiettivo che era stato prospettato da Abe, che voleva obliterare il rigetto della guerra inscritto sulla Carta, posto nel dopoguerra a presidio di un ritorno del Giappone a una politica estera aggressiva, che tanti danni ha fatto (non è molto noto, ma nella Seconda guerra mondiale, in cui nel versante del Pacifico proseguiva senza soluzione di continuità l’aggressione del Giappone alla Cina, furono uccisi 19 milioni e 600 mila cinesi: in tal modo, dopo la Russia, la Cina è la nazione che ha registrato il maggior numero di vittime nel conflitto mondiale).

Ora, sotto la spinta del delitto, i liberaldemocratici e i loro alleati, grazie alla maggioranza bulgara conquistata alle urne, saranno quasi costretti a cambiare la Costituzione, perché sono in qualche modo obbligati a coronare il sogno di Abe, che potrebbe diventare incubo per tanti.

Un’iniziativa che incontrerà il plauso del mondo proprio perché sarà venduta come una reazione positiva all’attentato – di fatto una vittoria sulla Paura -, mentre dalla Paura discende e tale Paura rischia di dilatare.

Così è dei delitti politici: che siano opera di pazzi isolati, come per Rabin o Abe, o di organizzazioni agguerrite, come nel caso di Aldo Moro, troppo spesso hanno un’incidenza sulla storia. In genere nefasta.

Tetsuya, il disoccupato fanatico delle armi. L'ipotesi lupo solitario e l'ombra della setta. Fabio Polese il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Yamagami, 41 anni, è subito stato fermato. Ora rischia la pena di morte. Ha agito da solo ma c'è un filo che lo lega agli attentati a Tokyo del 2005

Chiangmai (Thailandia). Tetsuya Yamagami, 41 anni, un passato nelle Forze di autodifesa, ha ammesso subito di essere l'assassino dell'ex primo ministro giapponese Shinzo Abe. L'uomo, residente proprio a Nara, la cittadina dove è avvenuto l'attacco mortale, sarebbe arrivato in treno e ha utilizzato una specie di doppietta a canne corte di fattura artigianale lunga circa 40 centimetri e alta 20, assemblata e camuffata con dello scotch nero e tenuta a tracolla, come fosse una borsa o una macchina fotografica professionale. Nei video apparsi in rete l'attentatore si vede più volte intento ad ascoltare il comizio dell'ex primo ministro. In un fotogramma, addirittura, è proprio dietro di lui e sembra applaudire. Poi sferra l'attacco. Fa partire i due colpi a disposizione e lentamente prova ad allontanarsi.

Subito bloccato dagli uomini della sicurezza, ha dichiarato di non far parte di nessuna organizzazione e di voler uccidere Abe perchè frustrato e insoddisfatto del suo operato politico. Ha poi aggiunto di «nutrire rancore contro un gruppo specifico», che sarebbe stato collegato proprio all'ex leader. Non è stato specificato di quale organizzazione si tratti e la polizia al momento non ha voluto commentare. Abe, però, era noto per essere un appartenente alla Nippon Kaigi, la più grande associazione patriottica del Giappone. A fine aprile ha visitato il santuario Yasukuni di Tokyo, dedicato ai soldati che morirono combattendo al servizio dell'Imperatore. Ogni sua visita provoca le proteste da Cina e Corea. Ma nella conferenza stampa fatta dalle autorità il nome Nippon Kaigi non è stato fatto e attualmente non è chiaro se Yamagami si riferisse ad essa oppure no.

La perquisizione nella casa dell'attentatore ha portato al ritrovamento di esplosivi e altre armi rudimentali, proprio simili a quella usata nell'attacco. Probabilmente costruite con l'ausilio di tutorial presenti sul Web. In alcuni video caricati su internet, infatti, si trovano informazioni molto dettagliate su come trasformare dei semplici tubi e altri materiali facilmente reperibili sul mercato in vere e proprie macchine per uccidere.

Durante il suo servizio nella marina giapponese dal 2003 al 2005, Yamagami ha ricevuto un addestramento sulle armi da fuoco e ha ricoperto diversi ruoli, tra cui quello di ufficiale dell'autodifesa e membro dell'equipaggio della nave di scorta Matsuyuki. Non si hanno notizie sugli anni successivi. Secondo quanto riportano i media locali l'attentatore avrebbe lasciato l'ultimo lavoro in una società di spedizioni nella regione del Kansai lo scorso maggio, dopo due anni, con la motivazione di sentirsi «stanco». «Non ho mai sentito che avesse convinzioni politiche», ha detto un suo ex collega di lavoro. «Non riesco a collegarlo all'attacco», ha aggiunto.

Le informazioni trapelate fino a questo momento sono ancora troppo poche per scoprire il vero movente che ha spinto l'attentatore al folle gesto. Ma non si può escludere nessuna pista. Potrebbe trattarsi di un'azione isolata fatta da un lupo solitario, oppure potrebbe tornare l'incubo del fanatismo politico-religioso che in Giappone si chiama Aum Shinrikyo. Tre giorni fa ricorreva il quarto anniversario della morte di Shoko Asahara, pseudonimo di Chizuo Matsumoto, uno dei fondatori della setta. Nel 2004 Asahara era stato riconosciuto colpevole di essere stato mente e mandante dell'attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995. La sua condanna a morte è stata eseguita l'8 luglio 2018, proprio quando al governo c'era Shinzo Abe. Ora anche Tetsuya Yamagami potrebbe fare la stessa fine. Il Giappone, infatti, nonostante le critiche internazionali e l'opposizione degli attivisti, mantiene la pena di morte. E può essere inflitta anche in casi di omicidi singoli, qualora l'attacco portato dall'assassino venga considerato particolarmente efferato. Proprio come quello di ieri.

Giappone sotto choc. Mea culpa della polizia: "Falle nella sicurezza". Fabio Polese su Il Giornale il 10 luglio 2022.  

Chiang Mai (Thailandia). Ieri mattina il corpo dell'ex primo ministro nipponico Shinzo Abe, assassinato venerdì durante un comizio elettorale a Nara, nella parte occidentale del Giappone, è arrivato nell'abitazione di famiglia a Tokyo. Ad accompagnarlo nel viaggio dall'ospedale di Kashihara, dove un'équipe di oltre venti medici ha fatto di tutto per cercare di salvargli la vita, c'era sua moglie Akie. Ad attendere il feretro, invece, c'erano numerosi dirigenti del Partito Liberal Democratico (Lpd), incluso l'attuale premier Fumio Kishida. Vestiti di nero in segno di lutto, si sono messi in fila per rendergli omaggio. Più tardi il governo ha annunciato che oggi si terranno comunque le elezioni per il rinnovo della Camera Alta, per dimostrare che la migliore risposta all'assassinio è quella di far continuare «il corso della democrazia».

La polizia sta ancora cercando di chiarire i motivi che hanno portato Tetsuya Yamagami a compiere questa follia che segnerà per sempre il Paese asiatico. L'uomo, 41 anni, ex militare delle Forze di autodifesa, che ha servito nella Marina dal 2003 al 2005, e attualmente disoccupato, è stato fermato sulla scena del crimine pochi istanti dopo l'attacco. Il killer intendeva compiere un attentato contro il capo di un gruppo religioso, che in qualche modo riteneva collegato ad Abe. Yamagami ha riferito alle autorità che sua madre era profondamente coinvolta in questa organizzazione e che avrebbe fatto grosse donazioni di denaro. Questo avrebbe causato seri problemi economici alla sua famiglia. Non è stato specificato di quale organizzazione si tratti e al momento non sono trapelati altri dettagli. Precedentemente aveva dichiarato di essere insoddisfatto dell'operato dell'ex primo ministro.

Intanto Tomoaki Onizuka, capo della polizia di Nara, mentre gran parte del Paese si sta domandando come sia stato possibile uccidere un politico a colpi di arma da fuoco in pieno giorno in una delle società che fino a venerdì sembrava una delle più sicure al mondo, ha ammesso che ci sono state notevoli falle nella protezione dei Abe. «È innegabile che ci siano stati problemi nella sicurezza. Faremo di tu tutto per scoprire cosa non ha funzionato», ha detto in conferenza stampa. Va considerato che nel Paese del Sol Levante i raduni elettorali non sono normalmente presieduti dalle forze dell'ordine. Solitamente vengono solo assistiti dalle scorte degli agenti personali. Anche perché in Giappone esistono rigorosi controlli per la vendita e il possesso di armi. Ma a quanto pare, si sono rivelati insufficienti. Adesso basta fare delle ricerche su internet per scoprire come trasformare dei tubi in veri e propri marchingegni per uccidere. Proprio come ha fatto Yamagami venerdì, quando utilizzando un'arma costruita in modo artigianale, ha sparato due colpi a distanza ravvicinata, centrando a morte Abe. Però prevenire che qualcuno possa realizzare armi fai da te è complicato. Secondo Nobuo Komiya, docente di Criminologia alla Rissho University di Tokyo, «al momento non ci sono contromisure efficaci». E non sarà facile, a meno che «le autorità non controllino sistematicamente tutte le persone che abusano delle nuove tecnologie», ha spiegato.

I funerali dell'ex primo ministro giapponese, il più longevo della storia del Paese si terranno lunedì e martedì. Domani si terrà una veglia funebre, seguita da una funzione commemorativa il giorno successivo. Secondo quanto riportano i media locali il funerale sarà celebrato dalla vedova Akie in un tempio della capitale e la partecipazione sarà limitata ai membri della famiglia e alle persone più vicine.

Cose strane. Augusto Minzolini il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi.

Diceva Giulio Andreotti, una personalità politica che si è formata e ha vissuto negli anni della Guerra fredda, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi. L'Occidente europeo, impegnato ad appoggiare l'Ucraina contro l'aggressione russa, da un momento all'altro si è scoperto debole nei suoi governi di riferimento (lo abbiamo scritto sul Giornale proprio ieri): a Parigi, Berlino e Roma la situazione è delicata; a Londra addirittura è stato silurato Boris Johnson, il grande alleato di Zelensky, per cui il Paese avrà un vertice dimezzato per qualche mese. Una manna per Vladimir Putin. Sempre ieri è stato reso noto un rapporto dell'Fbi e del servizio segreto inglese MI5, che descrive nel Pacifico una situazione da pre-guerra, legata, ovviamente, alle mire espansionistiche di Pechino su Taiwan.

Ebbene, 12 ore dopo, l'ex-premier giapponese Shinzo Abe, uno degli avversari della Cina, il «costruttore» della cosiddetta Nato del Pacifico, l'uomo che più di tutti aveva messo sotto i riflettori la questione Taiwan, il padre politico dell'attuale primo ministro, è stato ucciso durante un comizio. L'assassino è Tetsuya Yamagami, un ex-militare come quel Lee Harvey Oswald che uccise John Kennedy e che, secondo le ultime carte desecretate a Washington alla fine dello scorso anno, incontrò un agente del Kgb prima dell'attentato. Dicono che sia un pazzo, ma è la versione di comodo che si usa quando non si riesce a spiegare o non si vuole spiegare un gesto. L'assassino, però, deve avere un minimo di cervello se è riuscito a costruire con le sue mani un'arma da fuoco camuffata da obiettivo fotografico: un manufatto complicato che ricorda la cinepresa usata dagli inviati di Bin Laden per uccidere il Leone del Panshir, Massud, prima di impadronirsi dell'Afghanistan. Roba da servizi segreti.

Ma, a parte le congetture, la morte di Abe destabilizza il Paese di riferimento degli Stati Uniti nel Pacifico e elimina dalla scena politica un personaggio che ha passato i suoi ultimi anni a dare l'allarme al Giappone e agli alleati sulle vere finalità della politica cinese. Al di là che ci sia un piano dietro a tutto questo o meno, si può constatare che l'obiettivo di indebolire l'Occidente in quella parte del mondo è stato centrato. Così Pechino può affidare la condanna dell'attentato ai «portavoce» dei ministeri competenti, mentre Xi resta in silenzio.

Detto questo, al netto di ogni sospetto, non ci si può nascondere che nell'epoca della guerra ibrida avvengono cose davvero strane. Prima c'è stata una moria di oligarchi russi, casualmente tutti quelli che non condividevano la politica dello Zar. Ora i governi dei Paesi più alleati a Washington, in Europa come nel Pacifico, hanno problemi. E, come un tempo, ora ci sono pure gli attentati eccellenti. Della serie le verità nascoste. Se non c'è un'intelligenza in tutto questo poco ci manca, anche perché, come si dice, un indizio è un indizio, due sono una coincidenza, ma tre sono una prova. Ciò che è avvenuto è un monito all'Occidente a stare in allerta perché il mondo cambia ma non sempre come vorremmo.

Maurizio Stefanini per “Libero quotidiano” l'11 luglio 2022.

l delitto di Shinzo Abe resta pieno di interrogativi: ne parliamo con Pio D'Emilia, yamatologo e corrispondente di Sky News dall'Asia Orientale. Residente in Giappone da 30 anni, è talmente inserito nella realtà locale che ha fatto anche il traduttore e il ghost writer per leader politici nipponici. 

Tetsuya Yamagami l'assassino: davvero era solo un pazzoide?

«Come sempre in questi casi, si stanno scatenando un po' tutti. Ne ho lette di tutti i colori. Ma l'ipotesi più accreditata è che Yamagami fosse convinto che Abe fosse legato alla Chiesa dell'Unificazione del reverendo Moon. Sua madre ne era adepta, e sarebbe andata fallita per tutte le donazioni fatte. In realtà questo contatto tra Abe e la chiesa di Moon non risulta da nessuna parte, e poi questa setta era in auge 30 anni fa.  

Altri hanno addirittura detto che voleva celebrare l'anniversario dell'esecuzione per impiccagione di Shoko Asahara: il capo di quella setta Aum Shinriky che aveva usato il sarin nel 1995 per l'attentato alla metropolitana di Tokyo che provocò 13 morti e 6200 intossicati». 

Solo speculazioni?

«Giornalisti locali, polizia, autorità hanno tutto il diritto di speculare e andare avanti con le loro ipotesi, ma per noi osservatori stranieri esterni è più importante concentrarsi su due elementi. Primo: come è stato possibile arrivare così semplicemente a un ex-premier, che in qualunque altro Paese del mondo sarebbe stato protetto adeguatamente? 

Nel video si vede roba da cartone animato. Le guardie del corpo, che sono prese da una sezione speciale della polizia, stanno ferme! Tra il primo e il secondo colpo, quello micidiale e definitivo, è passato quasi un minuto. Ma gli hanno dato tutto il tempo possibile per sparare di nuovo. In Italia lo avrebbero bloccato, negli Stati Uniti gli avrebbero sparato, in Giappone sono rimasti con le mani in alto come a dire "calmi, calmi, che succede?".  

A parte il fatto che in altri Paesi nessuno si sarebbe potuto avvicinare con un ordigno, sia pure rudimentale. Lo avrebbero perquisito. E qui c'è il secondo punto: come ha fatto questo signore a procurarsi un'arma in un Paese dove anche procurarsi una semplice pistola è difficilissimo? Qui gli unici ad avere le armi da fuoco sono i poliziotti, e neanche tutti, e i mafiosi. Ma né gli uni né gli altri le usano». 

Ci sono speculazioni su come abbia costruito l'arma.

«Addirittura c'è chi sostiene che se la sia fatta in casa con due tubi e un'altra parte prodotta con le famose stampanti a 3D. In un Paese tranquillo la scorta non si aspettava di dover agire.

Ma in un Paese tecnologico in fondo fabbricarsi un'arma in casa con stampanti laser di nuova generazione non dovrebbe essere una cosa straordinaria». 

Ci sono polemiche?

«Sì. In un Paese dove un fatto del genere era assolutamente improponibile e impensabile, ciò potrebbe portare a un ripensamento già a livello politico. Già qualcuno dice che bisognerebbe adottare un nuovo sistema. Questo è un Paese dove molta gente esce senza chiudere la porta. Le macchine non vengono chiuse, le biciclette hanno delle catenine che in Italia ti ci puliresti i denti. Siamo rimasti comunque tutti molto scioccati e rattristati, aldilà di alcune sue posizioni politiche che non condividevo». 

Qual è l'eredità politica di Abe?

«Ovviamente, adesso è in corso una santificazione, sulla quale io non mi adeguo assolutamente. Io continuo a ritenere che sia stato un pessimo leader, che ha portato il Giappone indietro invece che avanti. Lo ha allontanato dalla comunità internazionale. Ha fatto tabula rasa dei rapporti con la Corea e la Cina. Ha fatto calare il Pil, nonostante tutta la pubblicità che è stata fatta alla sua Abenomics. Ha fatto aumentare la disoccupazione. 

Però come persona in privato era assolutamente gradevole, simpatica. Io lo ho conosciuto appunto anche fuori dalla politica, e ci dispiace molto, ripeto, perché era comunque un grande leader, ed era sempre pronto sia a discutere, sia alla battuta. Cosa non comune tra la tribù politica giapponese».  

Non è mancato chi ha tirato in ballo tutti gli scheletri nell'armadio del Giappone. Dalle mancate scuse per la Seconda Guerra Mondiale alla natura oligarchica della società. 

«Ma questo che c'entra? L'assassino è una persona fuori di testa del tipo di cui purtroppo tutto il mondo pullula, che ha agito in un Paese dove al massimo finora ci si ammazzava con armi da taglio. Certo, la stampa si interroga. Siamo alla vigilia di possibili azioni del genere? Allora sì che l'humus armonico della società giapponese potrebbe essere messo in difficoltà. Ma i dibattiti sulla Seconda Guerra Mondale o la democrazia incompiuta, che pure è giusto farli, non c'entrano con questo squilibrato. Non è un comunista, non è un terrorista, non ha un gruppo dietro».  

Ci fu il caso di Shoko... 

«Quello però era più politico. Era una setta con migliaia di sostenitori. Qua non ci vedo nessuna programmazione, nessun rischio di attentato alla democrazia. Si tratta semmai di disagio sociale. In Giappone c'è più gente che muore di karoshi, cioè per il troppo lavoro, che di incidenti automobilistici».

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 12 luglio 2022.

Se l'ex marinaio giapponese di 41 anni diventato operaio, poi disoccupato «perché ero stanco», infine giustiziere e assassino di Shinzo Abe dice tutta la verità, la fine dell'ex premier del Giappone è stata decisa da una lite familiare a lui ignota, causata dal denaro donato a una setta religiosa. 

Alla polizia che lo interroga dall'8 luglio, Tetsuya Yamagami ha raccontato «con calma e distacco» una storia intricata e sconcertante. «Mia madre era seguace di un'associazione religiosa alla quale aveva donato molto denaro, tutta l'eredità ricevuta da mio padre... ho pensato di dover punire i responsabili... però non riuscivo a trovare il capo di quella setta e così ho deciso di uccidere Shinzo Abe, perché sapevo che era legato a loro».

Gli investigatori non hanno fatto il nome del gruppo religioso, definendolo «una certa organizzazione». Ma la stampa di Tokyo l'ha identificata nella " Chiesa dell'Unificazione ", che fu fondata nel 1954 dal predicatore sudcoreano Sun Myung Moon, il quale sosteneva di essere una sorta di Messia nato in tempi di Guerra fredda. 

Ieri il capo della sezione giapponese della "Chiesa dell'Unificazione", Tomihiro Tanaka, ha confermato che la madre di Yamagami era una grande devota, veniva spesso in chiesa e aveva fatto un'importante donazione, ma ha negato che sia pratica comune sollecitare denaro: «Chi crede, può fare donazioni piccole o grandi, ma niente è chiesto né tantomeno imposto... Non riesco a capire come sia sorto quest' odio che forse ha portato al delitto, come religioso sono sconvolto di fronte alla perdita di un politico così amato e rispettato».

Tanaka ha concluso che Shinzo Abe «non è mai stato un membro registrato o un consigliere della nostra organizzazione religiosa, anche se aveva espresso sostegno al nostro impegno per la pace mondiale». 

In Asia, ma anche negli Stati Uniti, la Chiesa dell'Unificazione ha preso piede e si è radicata, svolgendo attività di proselitismo religioso e di sostegno a politici conservatori e nazionalisti. 

Il «reverendo Moon» è diventato celebre nell'America degli Anni 70 perché organizzava matrimoni di massa tra adepti, spesso spingendo all'unione seguaci di differenti nazionalità con lo scopo dichiarato di «costruire un mondo religioso multiculturale».

Il luogo delle cerimonie nuziali combinate era il celebre Madison Square Garden di New York e gli sposi adepti si chiamavano Moonies. In Italia, il reverendo Moon salì alla ribalta nel 2001, quando officiò le nozze tra l'ex vescovo cattolico zambiano Emmanuel Milingo e una donna sudcoreana aderente alla setta. 

Nella casse della " Unification Church" arrivavano tante donazioni che nel 1982 si potè permettere di fondare il quotidiano conservatore "Washington Times", che nel corso degli anni ha sostenuto i presidenti Reagan, Bush padre e figlio e Donald Trump. 

In Giappone la associazione religiosa ha almeno 300 mila proseliti (qualcuno dice 600 mila), un interessante gruppo di consenso corteggiato anche dalla politica. Ha appoggiato anche il liberal-nazionalista Shinzo Abe, che l'anno scorso, come ha confermato Tanaka, aveva ringraziato mandando un videomessaggio a una convention dell'associazione religiosa.

Il collegamento finisce qui: in Giappone molti politici conservatori sono stati sostenuti da vari gruppi religiosi. Ma un piccolo partito aveva accusato pubblicamente l'ex primo ministro di aver molto appoggiato quella setta «straniera». Nel clima avvelenato dei social media, Yamagami forse ha trovato ispirazione. 

La "Chiesa dell'Unificazione" ha una sede a Nara, la città dove è stato assassinato Abe. Si trova vicino al luogo dell'ultimo comizio elettorale.

Yamagami sostiene di essere andato sul posto ancora con l'idea di punire con la sua doppietta artigianale un «capo della setta che aveva rovinato mia madre». Non avendolo trovato, avrebbe deciso di sparare al politico. Però, Yamagami aveva seguito da tempo altri spostamenti di Abe in altre città. Non gli ha sparato per caso, decidendo all'ultimo. 

Giappone, Fumio Kishida ha cacciato i ministri vicini alla Chiesa dell’Unificazione. DANIELE ERLER su Il Domani il 10 agosto 2022

A un mese dall’omicidio di Shinzo Abe, il primo ministro cerca di contrastare il crollo di consenso con un rimpasto del governo. E allontana tutti i ministri vicini alla setta fondata dal reverendo Sun Myung Moon

In una nazione ancora scossa dall’omicidio di Shinzo Abe, l’attuale primo ministro giapponese, Fumio Kishida, ha deciso di rimescolare le posizioni apicali del suo governo. Lo ha fatto nel tentativo di allentare una volta per tutte i legami con la Chiesa dell’Unificazione. Ovvero con quella sorta di setta fondata dal reverendo Sun Myung Moon e molto vicina ad Abe. Sarebbe stato proprio questo il movente che avrebbe spinto il suo assassino ad agire.

Ma al di là della morte di Abe, la vicinanza con la Chiesa dell’Unificazione è comunque un motivo di imbarazzo per Kishida. E da qui deriverebbe anche un grosso calo nei consensi. Un fatto di cui tenere conto, visto che il suo predecessore – Yoshihide Suga – era stato costretto alle dimissioni proprio per un crollo dei consensi.

I LEGAMI 

Sono passati solo 10 mesi da quando Kishida è primo ministro ma questo è già il secondo rinnovo del suo governo. I legami fra il potere e la Chiesa dell’Unificazione non sono una novità. Risalgono quanto meno al nonno di Abe, Nobusuke Kishi, che è stato anche lui primo ministro. Negli anni Sessanta il Giappone viveva un periodo di forti rivolte sindacali e la preoccupazione – condivisa con gli Stati Uniti – era che il comunismo prendesse il potere. 

In questo contesto, Kishi aveva deciso di appoggiare la Chiesa dell’Unificazione che ne condivideva gli ideali anti comunisti. Il legame ovviamente superava questo sostrato ideologico, tanto che l’adesione era rivendicata con orgoglio. Ci sono foto scattate insieme al reverendo Moon.

Nel tempo la Chiesa dell’Unificazione ha fatto da bacino sicuro di voti per il Partito liberal democratico giapponese, guidato prima da Abe e poi da Kishida. Ma i legami si sono fatti meno trasparenti, mentre la Chiesa veniva accusata di pratiche di “lavaggio del cervello” dei propri adepti, convinti a fare grosse donazioni. «Dopo l’omicidio di Abe, il rapporto della chiesa con le fazioni di destra dell’Ldp e l’influenza sulle fazioni più estremiste del partito rischiano di essere molto criticate», spiega Koichi Nakano, professore di politica internazionale alla Sophia University di Tokyo.

UN PROBLEMA DI FIDUCIA

In questo contesto, martedì Kishida ha detto ai giornalisti martedì che servirà una «revisione rigorosa» della classe dirigente del partito. Ha detto di aver incaricato i suoi ministri e altri alti funzionari di chiarire il loro legame con la Chiesa dell’Unificazione. Con lo scopo principale di «riguadagnare la fiducia» dei cittadini.

Ufficialmente Kishida ha detto che il rimpasto è anche un modo per affrontare al meglio «una delle più grandi crisi del Dopoguerra», riferendosi alla pandemia da Covid-19, alle tensioni a Taiwan e alla guerra fra Russia e Ucraina. Ma sono soprattutto i sondaggi a preoccuparlo. Come quello mostrato lunedì dalla televisione pubblica Nhk: il sostegno al governo di Kishida sarebbe sceso dal 59 al 46 per cento.

IL RIMPASTO

Il capo di gabinetto, Hirokazu Matsuno, ha mantenuto il suo incarico e ha annunciato mercoledì il rimpasto. Sono stati rimossi sette ministri che hanno ammesso i loro legami con la Chiesa dell’Unificazione. Fra loro, il ministro della Difesa Nobuo Kishi, fratello minore di Abe, e il presidente della Commissione di pubblica sicurezza Satoshi Ninoyu.

Kishi è stato sostituito dall'ex ministro della Difesa Yasukazu Hamada e Taro Kono, già ministro degli Esteri e della Difesa nonché uomo simbolo della campagna di vaccinazione contro il Covid, è tornato al governo come ministro per il digitale. Hanno mantenuto il loro incarico il ministro degli Esteri Yoshimasa Hayashi, il ministro dell'Economia Daishiro Yamagiwa, il ministro dei Trasporti Tetsuo Saito e il ministro delle Finanze Shunichi Suzuki.

TUTTI MASCHI

Il ministro dell'Economia e del Commercio, Koici Hagiuda, che ha anche lui ammesso i legami con la Chiesa dell’Unificazione, è stato spostato a capo del comitato di ricerca sulla politica del partito e sostituito dall'ex ministro dell'Economia Yasutoshi Nishimura. Katsunobu Kato è stato nominato per la terza volta ministro della Salute, con una specifica delega per le misure di contrasto al Covid-19.

Fra le nuove nomine ci sono Sanae Takaichi, un ultraconservatore vicino ad Abe che è stato nominato ministro della Sicurezza economica, e Keiko Nagaoka nuovo ministro dell'istruzione che sostituisce Shinsuke Suematsu, che ha anche lui riconosciuto i legami con la Chiesa dell'Unificazione.

Anche dopo questo rimpasto, la maggior parte dei membri del governo ha ancora più di sessant’anni. E ci sono solo due donne.

Shinzo Abe, servizi segreti e Cina: tutte le piste dietro al suo assassinio. Renato Farina su Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

L'agghiacciante assassinio di Shinzo Abe sta passando serenamente come un episodio di tipico stampo giapponese. La persistenza in quella società di oscure sacche di perversioni, dove si mescolano tradizione e follia, sarebbe il bosco predestinato alla nascita di questo fungo velenoso. Nessuna trama. Una faccenda locale, che non c'entra con le onde sismiche che stanno travolgendo l'ordine mondiale. A costo di passare per complottisti, non la beviamo. È vero, tutto cospira a chiudere il caso come un episodio da manuale del vizio giapponese di usare la spada per risolvere le divergenze politiche. La figura dell'attentatore, Tetsuya Yamagami, con le sue dichiarazioni da squilibrato, la confessione teatrale, l'arma del delitto confezionata artigianalmente, eppure la presenza di un arsenale nella sua minuscola dimora nella stessa città di Nara dove si è consumato l'attentato, sembrano costruite su misura per chiudere il caso, confinandolo nella mente di un invasato di miti medievali e sconfitte personali, caso psichiatrico, senza complici.

I primi riscontri ufficiali, e persino quelli informali dei servizi segreti di Tokyo ai colleghi della Nato, di cui sono partner esterni, non si discostano da questo cliché francamente un po' troppo folkloristico per essere convincente. Insomma, saremo dei matti anche noi come Tetsuya Yamagami, il killer, ma costui ha funzionato come un missile molto più intelligente di quelli che vediamo all'opera nello scenario ucraino. Cacio sui maccheroni per le strategie di chi? Seneca è ancora lì a proporci l'eterna domanda: a chi giova? Abe sulla scacchiera era il cavallo che poteva tentare mosse imprevedibili. Nemico aperto della Cina per le sue pretese di egemonia su Asia e Oceania, ma amico di India e in passato della Russia (a suo tempo aveva concesso a Putin aperture simili a quelle di Silvio Berlusconi), guardato come un rompiscatole da Joe Biden, che Abe ad aprile di quest'anno criticò ruvidamente per la sua «ambiguità strategica» in un articolo che ebbe diffusione mondiale (in Italia su Repubblica). È un caso se pochi giorni dopo, non si sa se convintamente o meno, gli Usa gli obbedirono con un certo fastidio per non trovarsi contro l'uomo ancora oggi - anzi ieri! - più influente del Giappone, dalle tante, forse troppe vite.

SEGUITE IL DENARO

Qui formuleremo alcune ipotesi, come dicevano gli investigatori di una volta, senza trascurare alcuna pista esterna o interna. Oltre a Seneca, ci soccorre Giovanni Falcone che diceva: seguite il denaro. Vale per i singoli ma anche per gli Stati e chili comanda. Diciamo subito che due fatti ci hanno iniettato il dubbio a proposito della esagerata evidenza dell'assenza di complotti. Il primo è stato il fiorire su molti siti occidentali dell'aneddotica sui delitti politici in cui quest'ultimo si incastrava millimetricamente come tessera di un mosaico progettato da secoli dal fato. Fino a incorrere in errori madornali per l'esagerazione entusiasmo. Cosi corriere.it arriva a inventarsi un omicidio con tanto di citazione del New York Times, lo precedono o seguono a ruota i siti più disparati (insideover.com). Scrivono e diffondono da via Solferino: «Nel Sol Levante l'assassinio politico per secoli è stato considerato una forma "estrema ma accettabile" di protesta politica. Così scrive il New York Times il 26 febbraio 1936, all'indomani dell'uccisione di Tatsukichi Minobe, docente all'Università Imperiale di Tokyo. La sua colpa? Minobe aveva pubblicamente messo in dubbio lo status di divinità attribuito al Tenno». Una notizia forse esagerata, molto utile a confermare la teoria. 

Piccolo controllo. Pag.10 del NYT del 21 febbraio 1936: «Il liberale giapponese, dr. Minobe, è stato colpito. Il padre della teoria dell'imperatore come "organo dello Stato", che aveva suscitato polemiche, è stato leggermente ferito». Secondo la Treccani, in realtà Minobe morì placidamente dodici anni dopo. Vero è che la spada in Giappone è sempre stata considerata una extrema ratio persino nobile per risolvere conflitti politici. Ma qui gatta ci cova. La seconda spina nel fianco delle certezze arriva da Mosca. Dove la arci-famosa Maria Zakharova, portavoce di Sergej Lavrov, si lascia andare, prima ancora che Abe sia dichiarato morto, a due formule: «crimine mostruoso» e «atto di terrorismo». Anche le parole di Vladimir Putin appaiono tese a suscitare interrogativi sul mandante: «perdita irreparabile» quella di Abe. Che cosa sanno i servizi russi? Oppure più banalmente vale l'adagio popolare «la gallina che canta ha fatto l'uovo»?

MEGLIO DEI SICARI

I pazzi funzionano meglio di killer professionisti, specie se magari individuati, discretamente pilotati, controllati e poi lasciati liberi di agire da forze di sicurezza corrotte o infiltrate... Possibile sia stato lasciato a tal punto alla mercé in un momento di conflitto ormai mondiale dove la vittima si era esposta come non mai. Dal Giappone spiegano che la violenza è rara nelle strade e nei dibattiti pubblici del Giappone di oggi. La stampa locale riferisce: «Nel quartiere di Shibuya, dove vive, Shinzo Abe è stato visto spesso con la moglie e il loro cane, senza alcuna particolare sicurezza. "Lo vedevamo spesso per le strade di Tokyo. Una volta, mia figlia era tra i bambini che portavano il tempio portatile a una festa locale. Distribuiva dolci con sua madre, senza che ci fosse la polizia", ricorda un ex vicino di casa». Poteva sfuggire ai servizi delle super-potenze tanta superficialità? Senza escludere nulla, nemmeno la casualità, notoriamente sempre dalla parte dei cattivi, l'a-chi-giova-di-più chiama in causa la Repubblica popolare cinese, magari attraverso gli specialisti della Corea del Nord, arcinemica di Abe e della sua determinazione a organizzare una capacità di resistenza e di replica alle minacce comuniste cino-coreane assai maggiore dell'attuale premier nipponico, l'alquanto moderato Fumio Kishida. Il quale temeva che il suo antico sponsor Abe gli facesse le scarpe, anzi le pantofole.

Giappone, Shinzo Abe aggredito a colpi di pistola al comizio: in fin di vita. Libero Quotidiano l'08 luglio 2022

Il Giappone sotto choc: l'ex primo ministro Shinzo Abe è stato colpito da colpi di arma da fuoco durante un comizio elettorale e ora è ricoverato d'urgenza in stato di arresto cardiorespiratorio, una formula che in Giappone precede solitamente l'annuncio formale del decesso. Lo ha confermato il governo giapponese, che però non ha fornito dettagli in merito alle condizioni di salute dell'ex premier. L'aggressione è avvenuta attorno alle ore 11.20: Abe era impegnato in un comizio a Nara, capoluogo dell'omonima prefettura, in vista delle elezioni per il rinnovo della Camera alta in programma domenica 10 luglio. Secondo testimonianze dirette raccolte dalla stampa giapponese, un uomo ha esploso almeno due colpi di arma da fuoco in direzione dell'ex premier, che si è accasciato al suolo con una apparente ferita al collo.

Il responsabile dell'aggressione ha utilizzato un'arma di evidente fattura artigianale occultata in una borsa, come emerge dalle immagini dell'aggressione che circolano sui media giapponesi. L'uomo, un 41enne di Naha, si è avvicinato all'ex premier alle spalle, mentre quest'ultimo presentava i candidati locali. Per colpire l'ex premier, l'uomo ha utilizzato una sorta di doppietta a canne corte "fatta in casa". L'aggressione ha gettato nello sgomento i cittadini giapponesi e la classe politica: il Paese è noto infatti per l'estrema rigidità delle sue leggi sul controllo delle armi da fuoco, e le vittime di violenza armata si contano ogni anno sulle dita di una mano.  

Il 67enne Abe è stato il primo ministro politicamente più longevo nella storia del Giappone post-bellico, guidando molteplici governi tra il 2006 e il 2007, e di nuovo dal 2012 al 2020, quando ha rassegnato le dimissioni per motivi di salute. Promotore di una "normalizzazione istituzionale" del Paese, Abe si è battuto per il superamento del pacifismo costituzionale, ed ha promosso con convinzione il processo di rafforzamento delle capacità di difesa nazionale accelerato dall'attuale esecutivo. Il nome dell'ex premier è anche associato alla cosiddetta "Abenomics": l'insieme di politiche economiche espansive e di riforma adottate dall'ex premier per tentare di superare lo stallo deflattivo della terza economia globale e rilanciarne la crescita.

Tetsuya Yamagami, cosa spunta dal passato dell'assassino di Shinzo Abe. Libero Quotidiano l'08 luglio 2022

Si chiama Tetsuya Yamagami, l'uomo che nella mattinata di venerdì 8 luglio ha ucciso Shinzo Abe. L'ex primo ministro giapponese, 67enne, è stato colpito da un proiettile durante un evento elettorale. Le sue condizioni sono apparse fin da subito gravissime e il suo cuore ha smesso di battere una volta arrivato in ospedale. Ma chi è il 41enne responsabile dell'attentato subito intercettato e fermato dagli agenti? Dalle prime indiscrezioni sembra che Yamagami abbia prestato servizio nella fanteria di Marina dal 2002 al 2005. L'uomo, dalle prime parole pronunciate, non avrebbe agito per motivi ideologici quanto più per rabbia.  

In ogni caso secondo gli inquirenti Yamagami avrebbe meditato l'attacco, tanto che nella sua abitazione sono stati rinvenuti diversi esplosivi. La stessa arma utilizzata per colpire Shinzo Abe era rudimentale. Le immagini mostrano che il 41enne aveva una sorta di tracolla nera, ossia due canne tenute insieme e avvolte da nastro isolante nero, quindi un'impugnatura. Un'arma simile a una doppietta, costruita - è l'ipotesi - seguendo tutorial online.

A differenza degli Stati Uniti in Giappone è molto complesso ottenere un'arma e per farlo serve iscriversi a un club di caccia o di tiro al bersaglio, poi superare un esame scritto e sottoporsi a una perizia mentale e a un controllo su eventuali precedenti penali. Ma non solo, perché seguono alcune lezioni sul come maneggiare l'arma e diverse domande della polizia, che verifica condizioni di lavoro, condizioni economiche ed eventuali precedenti dei familiari. Infine, superato il tutto, il richiedente dovrà dotarsi di cassaforte e farla ispezionare dagli agenti. Abe sarebbe stato nel mirino del suo assassino da tempo. Si presuppone infatti che il 41enne abbia seguito il bersaglio in altre occasioni e piano piano compreso come avvicinarsi a lui il più possibile. 

Shinzo Abe? Una scoperta inquietante: "A chi era legato". Omicidio, tutto torna? Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 07 agosto 2022

«Non l'ho ucciso perché ero contrario alle sue convinzioni politiche, ma a causa dei suoi legami con la Chiesa dell'Unificazione»: così spiegò alla Polizia Tetsuya Yamagami, assassino dell'ex-primo ministro giapponese Shinzo Abe. Una setta fondata dal coreano Reverendo Sun Myung Moon che avrebbe fatto il lavaggio del cervello alla madre dell'omicida, spingendola a donarle tutte le sue proprietà. Nell'immediato la tesi fu giudicata demenziale. I media osservarono come Abe fosse un devoto scintoista e non risultassero legami di questo tipo e comunque, a 10 anni dalla morte del fondatore la Chiesa ha perso gran parte della sua importanza. Anzi, dal 2005 ha pure cambiato nome, in Federazione delle Famiglie per la Pace e l'Unificazione nel mondo, Adesso, però, arrivano alcune conferme.

Va detto che la Chiesa dell'Unificazione è nota per il suo anticomunismo militante, e l'informazione che avrebbe avuto rapporti non solo con Abe ma anche con altri 97 parlamentari del suo Partito Liberale Democratico viene da una inchiesta del Partito Comunista Giapponese. Dunque, va presa con un minimo di molle. Però a Nara la sede della Federazione è a due passi dalla stazione dove è avvenuto il delitto. Sarebbe dunque possibile che Abe volesse rivolgere un messaggio ai "moonies". La cui influenza e i cui legami nei partiti sono stati studiati in particolare da Koichi Nakano, docente di Scienze Politiche all'Università Sophia di Tokyo. Secondo lui, il fatto stesso che i media giapponesi non abbiano menzionato il nome della setta fino a dopo le elezioni dimostrerebbe l'influenza dei "moonies". 

Nell'analisi, questo e altri gruppi religiosi avrebbero perso importanza negli anni '80 e '90 per via della copertura mediatica negativa sui loro eccessi, culminati nell''attacco al sarin della setta Aum nella metropolitana di Tokyo nel 1995. Ma dal 1996 l'adozione di un nuovo sistema elettorale ha reso di nuovo le sette importanti, per la loro capacità di offrire pacchetti di voti decisivi. 

Maurizio Stefanini per “Libero quotidiano” il 26 agosto 2022.

Sembrava la botta di un matto, ma l'uccisione di Shinzo Abe da parte di un uomo furioso per i suoi legami con quella Chiesa dell'Unificazione che avrebbe prosciugato i risparmi della madre sta avendo in Giappone un'onda lunga di cui sono ora effetto le dimissioni del capo della Polizia e una grave crisi di popolarità per il primo ministro e il partito al governo. 

Itaru Nakamura ha infatti annunciato in conferenza stampa che si dimetterà da commissario generale dell'Agenzia nazionale di polizia del Giappone, riconoscendo la sua responsabilità per il clamoroso flop della sicurezza durante l'attentato in cui lo scorso 8 luglio è stato ucciso l'ex primo ministro Shinzo Abe. 

«Ci sono state falle sia nei piani di sicurezza che nelle valutazioni dei rischi su cui questi erano basati», «la risposta delle forze dell'ordine durante l'attentato è stata insufficiente», ha ammesso. In realtà, non ha ancora specificato quando le dimissioni saranno effettive. Ma riconosce che l'attuale sistema di sicurezza della polizia ha grossi limiti e che l'organizzazione ha bisogno di «un nuovo inizio». 

Abe fu ucciso dopo essere stato ferito con due colpi di una bizzarra arma da fuoco fatta in casa mentre stava tenendo un discorso pubblico a Nara, vicino a Kyoto. L'uomo che gli aveva sparato, Tetsuya Yamagami, era stato subito arrestato. I media hanno subito riferito che nel corso degli interrogatori Yamagami aveva detto alla polizia di aver ucciso Abe per via delle sue relazioni con un un gruppo religioso molto influente che a suo dire aveva impoverito la sua famiglia, convincendo sua madre a dare loro tutti i loro risparmi.

Solo dopo un po' fu riferito che si riferiva alla Chiesa dell'unificazione del Reverendo Moon. Ma tutti i commentatori riferivano che era chiara follia, perché la cosa non risultava. Invece il Partito Comunista, all'opposizione, ha poco dopo reso nota una sua indagine da cui tali legami risultavano: non solo con Abe, ma anche con altri esponenti del suo Partito Liberale Democratico. 

Il primo ministro Fumio Kishima, che pure ha criticato duramente Nakamura, prima ha detto che legami «organizzativi» tra partito e chiesa non ci sono; poi li ha in pratica ammessi, esortando i membri specie più anziani del partito a troncare i loro legami con i Moonies «in futuro»; ha però negato che l'organizzazione avesse influenzato la politica del governo; poi il 10 agosto ha fatto un rimpasto di governo, rimuovendo ministri considerati legati ai Moonies. 

Sull'onda dell'emozione per il delitto il Partito Liberale Democratico aveva avuto un grande successo nelle elezioni che si erano tenute subito dopo, ma con le rivelazioni in molti si sono anche messi a criticare l'impiego di denaro pubblico per il funerale di Stato di Abe, e la popolarità dello stesso Kishida è crollata di 16 punti in appena tre settimane, dal 52% al 36. Il livello più basso da quando l'anno scorso si è insediato nella carica.

Secondo i sondaggi, l'87% degli intervistati ritiene che il rapporto tra l'Ldp e la chiesa sia «estremamente» o «piuttosto» problematico. Il segretario capo del gabinetto, Hirokazu Matsuno, ha detto ai giornalisti: «dovremmo prestare sufficiente attenzione alle relazioni con le organizzazioni che sono state oggetto di critiche nella società e affrontare le preoccupazioni delle persone». 

Il segretario generale del partito Toshimitsu Motegi ha suggerito che un nuovo codice di condotta richiederebbe ai membri di porre fine alla loro relazione con i Moonies. «Sembra però che almeno cinque membri dell'attuale gabinetto abbiano legami con l'organizzazione, compresi i ministri della salute e degli affari interni, insieme a dozzine di altri alti funzionari.

L'agenzia di stampa Kyodo ha rivelato che 106 dei 712 legislatori giapponesi hanno avuto qualche legame con il gruppo. Quasi l'80% appartiene al Partito Liberale Democratico.

Choc in Giappone: ucciso Shinzo Abe, l’ex primo ministro che amava gli Usa. Il suo assalitore è stato arrestato: la polizia è riuscita a fermare il sospetto tiratore con l'accusa di omicidio, si tratta di un ex militare di 42 anni. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 9 luglio 2022.

È morto dopo quattro ore di agonia con i medici che hanno tentato inutilmente di rianimarlo. L’ex premier giapponese Shinzo Abe ha concluso i suoi giorni mentre interveniva in un comizio elettorale nella città di Nara in vista delle elezioni senatoriali di domenica.

Due colpi d’arma da fuoco lo hanno raggiunto da dietro il palco, un proiettile gli ha trapassato il collo, l’altro lo ha colpito dritto nel cuore. Il killer, che non ha fatto nulla per fuggire, è stato immediatamente arrestato dalle forze di sicurezza: si chiama Tetsuya Yamagami, ha 41 anni ed è un ex militare delle forze di autodifesa nazionali. È riuscito a nascondere l’arma, una doppietta a canne mozze assemblata da lui stesso, dentro un obiettivo fotografico, poi indisturbato si è avvicinato all’ex primo ministro e ha aperto il fuoco. Secondo le autorità nipponiche non si tratterebbe di un attentato politico ma del gesto di uno squilibrato che non avrebbe alcun legame con gruppi organizzati: interrogato dalla polizia Yamagami ha spiegato di essere «frustrato e insoddisfatto» del comportamento di Abe pur affermando di condividere la sua linea e di averlo sostenuto quando era al governo.

Un “lupo solitario” assediato dalla follia, dunque, che ha approfittato dei blandi controlli disposti dalle forze dell’ordine durante i comizi politici per compiere il tragico assassinio. Probabilmente nelle prossime ore verrà fatta più chiarezza sul profilo psicologico di Yamagami e sulle sue motivazioni. Shinzo Abe è stato il premier più longevo nella storia del Giappone: ha governato dal 2006 al 22007 e poi dal 23012 al 2020 quando si è dimesso per motivi di salute a causa di una infiammazione cronica dell’intestino.

Leader del partito liberal democratico (centrodestra nazionalista), grande alleato degli tati Uniti e delle democrazie occidentali, Abe è passato alla storia grazie alle politiche economiche che ha sostenuto quando era a capo del governo: la cosiddetta abenomics, una serie di misure per fare uscire il Paese dalla stagnazione in cui era precipitato dopo la recessione mondiale del 2008-2009. Semplici ma efficaci i pilastri dell’ abenomics: aumento della spesa pubblica da una parte e deflazione dello yen dall’altra, una cura che ha rilanciato la crescita (oggi al 3,5%) e le esportazioni. Secondo gli analisti le riforme di Abe sono state incomplete e non hanno ottenuto tutti gli obiettivi prefissati, ma è innegabile che sotto la sua guida l’economia si sia nettamente risollevata, almeno fino allo scoppio della pandemia di Covid 19.La sua drammatica scomparsa ha generato in Giappone un’ondata di choc. Non solo la violenza politica ma la violenza tout court è infatti molto rara nel paese nipponico che può vantare il più basso tasso di reati al mondo. Secondo le statistiche disponibili nel 2015 le persone che hanno perso la vita per arma da fuoco erano appena sei; nello stesso periodo negli Stati Uniti erano oltre 33mila. Solamente lo 0,5% della popolazione ne possiede una, in Italia è poco oltre il 10%, in Francia il 14%, negli Usa, manco a dirlo, il 90%.

Alla base c’è una legge severissima che risale al 1958 e che rende praticamente impossibile acquistare una pistola sul territorio nazionale. Bisogna innanzitutto avere una fedina penale immacolata, non appartenere a organizzazioni politiche, superare un test psicologico che attesti la sanità mentale, la non dipendenza da alcol o droghe e verificare le risposte del richiedente tramite colloqui con familiari, amici e colleghi di lavoro. È inoltre necessario frequentare un corso composto da un esame scritto e da un’esercitazione al poligono di tiro in cui il candidato deve colpire almeno il 95% dei bersagli.

Chiunque sia in possesso di una licenza deve poi indicare alla prefettura il luogo dove è riposta l’arma che deve essere separata rigorosamente dalle scatole delle munizioni. Non sono infrequenti i controlli e le revoche delle poche licenze in caso di violazioni dei protocolli. Infine il porto d’armi ha una validità legale di tre anni al termine dei quali è obbligatorio ricominciare da capo tutta la trafila. Insomma, per inventarsi giustizieri a Tokyo ci vogliono tenacia e motivazioni fuori dal comune. Peraltro le stesse forze dell’ordine sono molto restie a tirare fuori dal fodero i revolver automatici che utilizzano solo in casi estremi, nelle accademie vengono infatti addestrate a contenere gli eventuali malviventi tramite le arti marziali. È mai portano la pistola con sé quando non sono in servizio ma sono obbligati a lasciarle in caserma prima di tornare a casa.

Gli spari sopra il Giappone. L’ex premier Shinzo Abe è stato ucciso durante un comizio. L'Inkiesta l'8 Luglio 2022.

È morto in seguito a due colpi d’arma da fuoco mentre parlava nella regione di Nara, nella parte occidentale del Paese 

È morto l’ex primo ministro del Giappone, Shinzo Abe. Era stato ferito poche ore fa con due colpi di arma da fuoco durante un evento elettorale nella regione di Nara. Secondo un alto funzionario del Partito Liberaldemocratico, l’ex premier è morto all’ospedale della città di Kashihara, nella prefettura di Nara, come ha riportato l’emittente nipponica Nhk.

«Non mostra segni vitali», aveva detto Seigo Yasuhara, un funzionario del centro di comando dei vigili del fuoco di Nara dopo il primo soccorso. Abe, 67 anni, stava pronunciando il suo discorso a sostegno di un candidato del Partito Liberal Democratico in vista delle elezioni per la Camera alta di domenica, quando si è sentito il rumore degli spari. Subito dopo gli spari, Abe si è accasciato e perdeva sangue dal collo, secondo la ricostruzione di NHK, emittente pubblica giapponese. Ma per Kyodo News sarebbe stato colpito al petto.

La polizia ha arrestato Tetsuya Yamagami, 41 anni, residente nella città di Nara (da cui prende il nome la prefettura), con l’accusa di tentato omicidio alle 11:32 di venerdì mattina. Stando a un’immagine ripresa da alcuni media giapponesi, l’uomo che ha sparato aveva nascosto l’arma infilandola in quello che apparentemente sembra un obiettivo fotografico. L’attentatore è stato arrestato e portato via da quattro agenti, mentre a pochi metri di distanza uomini dello staff tentavano di rianimare l’ex premier.

Seigo Yasuhara, dei vigili del fuoco, dice che Abe è in arresto cardiopolmonare e che era stato portato da un’ambulanza su un elicottero di evacuazione medica. Ed è stato trasportato al Nara Medical University Hospital. Il suo appuntamento a Nara per la campagna elettorale era a supporto di Kei Sato, 43 anni, un attuale membro della Camera alta in corsa per la rielezione a Nara.

Tutte le campagne elettorali sono state temporaneamente sospese dopo la sparatoria, hanno detto funzionari giapponesi.

Abe è stato il primo ministro più longevo del Paese e ha servito due mandati, dal 2006 al 2007 e dal 2012 al 2020. Si era dimesso nel 2020 a causa di problemi di salute.

Fumio Kishida, l’attuale primo ministro, era in campagna elettorale nella prefettura di Yamagata e doveva tornare a Tokyo, per un incontro con i media. Ma il suo segretario capo di gabinetto, Hirokazu Matsuno, ha detto che nell’ufficio del primo ministro sono stati cambiati tutti i piani e adesso è stato istituito un centro di controllo delle crisi.

 Samurai, l’anima antica del Giappone. Con il «Corriere» un libro sui guerrieri. MARCO DEL CORONA su Il Corriere della Sera il 22 giugno 2022.

Una storia affilata, quella del Giappone. Una storia in equilibrio tra contraddizioni apparentemente inconciliabili. La lama della katana, la micidiale spada del guerriero nipponico, offre una calzante metafora del crinale lungo il quale si dispiegano tanti aspetti della cultura dell’arcipelago. E a impugnare la metafora è il samurai. Perché è la tensione degli opposti il destino dei samurai.

L’origine di una figura assurta, anche fuori dallo stesso Giappone, a esempio del guerriero dotato di moralità affonda nel corpo di un Medioevo turbolento. L’uomo combattente che pare simboleggiare l’universo estetico e di valori del Paese costituisce — e ai nostri occhi pare già un paradosso — uno degli snodi decisivi del rapporto tra Giappone e Cina. Fu sul modello della corte e delle istituzioni Tang, guardando persino alla conformazione urbanistica della capitale Chang’an (la Xi’an di oggi), che a cavallo tra VII e VIII secolo dopo Cristo l’imperatore del Giappone avviò riforme che plasmarono la nazione. Scrittura, fede buddhista, burocrazia nipponiche seguirono l’illustre esempio cinese. L’esercito, anche. Con l’avvio di una «professionalizzazione» del mestiere delle armi che portò alla costituzione di clan guerrieri al servizio dei signori, gli shogun, che a loro volta erano sia vassalli sia avversari dell’imperatore.

La copertina del libro di Leonardo Vittorio Arena dal 24 giugno in vendita con il «Corriere» a 7,90 euro più il prezzo del quotidianoÈ qui, durante lo shogunato di Kamakura (tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIV) che ha inizio la storia dei samurai, un’avventura durata sette secoli fino allo scioglimento dell’istituzione nella seconda metà dell’Ottocento, quando la restaurazione Meiji e il primo slancio modernizzatore provavano a inseguire i successi dell’Europa e degli Stati Uniti. Non una semplice epopea, quella dei samurai, dunque, ma un affollarsi di elementi e dettagli che tengono insieme tutta la società giapponese medievale e moderna, come illustra Leonardo Vittorio Arena in Samurai. Ascesa e declino di una grande casta di guerrieri, secondo titolo di «Giappone. Storia, cultura, stile di vita», la collana del «Corriere della Sera» in collaborazione con «Io Donna». Il volume segue l’affermarsi, il consolidarsi e il tramonto di una tradizione costretta alla fine a fare i conti con le «nere navi» da guerra dell’ammiraglio americano Matthew Perry, nel 1853. Eppure la chiusura dell’era dei samurai coincise con l’avvio di una leggenda che, inevitabilmente semplificata se non banalizzata, sarebbe comunque approdata ovunque. Fino all’ingresso della parola samurai nei dizionari delle lingue di tutto il mondo.

Il laborinto chiamato Giappone

La facilità con la quale la figura — l’icona, la maschera — del samurai ha attecchito qua e là va forse rintracciata proprio nella sua capacità di armonizzare valori altrove dissonanti. La determinazione — la ferocia, anche, come testimoniato dall’iconografia e dalla letteratura — nei combattimenti conviveva con l’aderenza a codici morali mutuati dai classici del pensiero cinese. La prosaica immersione nelle cose del mondo aveva comunque un sponda nell’adesione alle rarefatte sfere del buddhismo zen (anche questo di matrice cinese) o alla pratica della poesia. La lealtà nei confronti del signore non era slegato dal senso di comunità. Il buono, il bello, il giusto: un analogo, se si vuole, della kalokagathía dell’antica Grecia. Con una coda contemporanea: con la sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale dopo la doppia apocalisse nucleare di Hiroshima e Nagasaki, dopo la demolizione dello status divino dell’imperatore, il samurai come orgoglioso custode dell’onore, pronto a immolarsi bagnando la lama nel proprio sangue, diventa il rifugio estremo della tradizione e del nazionalismo. Un’interpretazione che lo scrittore Mishima Yukio nel 1970 abbracciò con il suo spettacolare suicidio in nome della purezza perduta del suo Paese.

La costellazione di valori che sovrasta il samurai feconda l’immaginario popolare. Se un maestro del cinema come Kurosawa Akira attinge a un immenso patrimonio di storie e di immagini per raccontare I sette samurai (1954), Hollywood ghermisce subito la trama — i guerrieri che si schierano con il popolo vessato contro i cattivi — e nel 1960 I magnifici sette di John Sturges trasformano le katana di Mifune Toshiro & C nelle Colt di Yul Brynner & C. Da lì una ricca produzione cinematografica, alla quale non si sottrae, per dire, neppure Tom Cruise (L’ultimo samurai, 2003). Generazioni di gangster letterari, e non, mischiano rettitudine e abomini, l’ecosistema criminale della yakuza emula codici cavallereschi degni di miglior causa e persino l’universo dei robottoni anni Settanta — Goldrake e i suoi fratelli — è debitore dei samurai. La katana non perde il filo. È l’ennesima contraddizione e anche la prova della vitalità del mito: l’aura aristocratica del samurai si fa pop, e facendosi pop sopravvive alla propria morte.

La serie: ogni venerdì a 7,90 euro. Prossimo titolo: il pensiero giapponese

È in edicola dal 24 giugno il secondo numero della collana «Giappone. Storia, cultura, stile di vita», nuova iniziativa del «Corriere della sera» in collaborazione con «Io Donna», in uscita ogni venerdì: si tratta di una selezione di venti saggi scelti per avvicinarsi alla cultura giapponese e comprendere le mille sfaccettature di un mondo tanto enigmatico quanto affascinante. Dopo essere partiti con , saggio dell’antropologo e storico Alan Macfarlane, ora tocca a acquistabile in edicola a 7,90 euro oltre al prezzo del quotidiano. Questo secondo volume penetra nel mondo dei guerrieri ed è firmato da Leonardo Vittorio Arena (Ripatransone, Ascoli Piceno, 1953), docente di Religioni e filosofie dell’Asia orientale e Storia della filosofia moderna e contemporanea all’Università di Urbino. Nel suo saggio racconta la casta di guerrieri che tennero in soggezione un intero popolo con le armi, pur essendo anche poeti, filosofi, cultori del pensiero zen. Scrive l’autore: «Do loro la parola in questo libro perché siano in grado di difendere la propria causa dalle accuse più prevedibili e dai che non rendono loro giustizia. Ne ripercorro la vita pubblica e privata, fatta di intrighi, tradimenti e brama di potere» ma anche «il feticismo della spada, il fratricidio, la perversione sessuale ne accompagnano le vicissitudini, ma pure la spiritualità, l’estetismo e, perché no?, la compassione. Furono guerrieri e servitori». Il 1° luglio, si procede con la terza uscita, dedicata a della scrittrice Le Yen Mai, di origini vietnamite ma nata e cresciuta nella Svizzera tedesca.

Chloé Jafé: «Così ho convinto le donne della yakuza a spogliarsi per fotografare i loro tatuaggi segreti». Una carpa, una fenice, un drago. La fotografa francese ha immortalato i segni legati alla mitologia incisi sui corpi femminili di una potente famiglia mafiosa di Tokyo. Il progetto “I give you my life” esposto a Reggio Emilia. Antonia Matarrese su L'Espresso l'1 giugno 2022.

«Stavo per rinunciare a questo progetto fotografico quando ho deciso di darmi un’ultima possibilità e partecipare a un famoso festival giapponese dove gli yakuza possono mostrare i loro tatuaggi. Proprio lì, dopo una lunga giornata, ho incontrato casualmente il boss. Doveva andare così».

Chloé Jafé, fotografa francese che si è formata all’École de Condé di Lione e alla Ual Central Saint Martins School di Londra, racconta il suo paziente e particolarissimo lavoro in mostra fino al 12 giugno a Reggio Emilia (Chiostri di San Pietro) nell’ambito del festival “Fotografia Europea 2022-Un’invincibile estate”, promosso e prodotto da Fondazione Palazzo Magnani insieme al Comune e alla Regione Emilia Romagna. Protagoniste degli scatti le donne della yakuza, mafia giapponese del XVII secolo, tra le più potenti al mondo. 

Come è strutturato il progetto di “I give you my life” che ha portato in Italia?

«Si basa principalmente su una famiglia di Tokyo, quella del capo, e su figure femminili indipendenti legate in qualche modo all’ambiente. Questo lavoro è il primo capitolo di una trilogia che comprende “Okinawa mon amour”, realizzato su un’isola bellissima poco conosciuta dagli europei e “Osaka Ben”, dedicato al mio incontro con Jiro, già aggregata alla yakuza, di cui sono diventata amica».

In che modo è riuscita a entrare in contatto con il mondo yakuza, notoriamente maschile e quanto tempo ha impiegato per realizzare le foto?

«Ho tentato diverse strade. I primi tempi ero basata nel quartiere a luci rosse di Tokyo, Shinjuku, ma non vedevo progressi. Le notti finivano inevitabilmente con qualche bicchiere di troppo (lo Shōchū, un distillato giapponese, ndr) e poche informazioni. Mi imbattevo in delinquenti vari ma nessuno di loro era uno yakuza. Finalmente un giorno mi invitarono a fotografare un gruppo di hostess in una zona elegante della città: in quel momento capii che dovevo essere una di loro e dimenticare per un po’ la macchina fotografica. Questo tipo di attività è generalmente in mano alla yakuza ma non ha nulla a che vedere con la prostituzione. Ho imparato molto: delle donne, degli uomini, delle serate a Ginza, della società giapponese nel suo complesso».

Da dove nasce l’interesse verso il Giappone e la sua cultura?

«Penso sia iniziato da una scommessa con un’amica in un bar di Parigi: all’epoca lavoravo come assistente di studio e non vedevo l’ora di scappare. Lei aveva rotto con il suo ragazzo. Decidemmo di partire alla volta del Giappone. Amore a prima vista. Sicuramente tornare è stato più difficile che andare: ho impiegato un po’ di tempo per riconoscere il mio paese e riconnettermi al mio io francese».

Ma chi sono davvero e come vivono le donne che ha fotografato?

«Sono mogli, figlie, fidanzate o compagne di lavoro di un yakuza: forti, coraggiose e con un senso dell’onore innato. Il mondo sotterraneo a cui appartengono è patriarcale come il resto del Giappone. Quindi devono attenersi alle regole. Non hanno un modello di riferimento. I loro bellissimi tatuaggi, detti Irezumi, sono legati alla mitologia: una carpa, una fenice, un drago. Simbolo di determinazione e di resistenza al dolore. E hanno una matrice spirituale».

Quali sono stati i luoghi in cui ha ambientato gli scatti?

«Molte foto sono impostate, una sorta di diario personale. Per esempio, ho fotografato il boss ovunque mi chiedesse di incontrarlo: nei ristoranti, in ufficio, a casa sua. Alcuni ritratti di donne svestite li ho realizzati nei sentō, i bagni pubblici giapponesi: un luogo dove ci si spoglia comunque ed è naturale mostrare i tatuaggi. E poi l’inchiostro sotto la pelle diventa ancora più bello e sensuale immerso nell’acqua calda». 

E per il futuro, a cosa sta lavorando?

«A un’edizione speciale del terzo capitolo di questa trilogia giapponese che vede protagonista Osaka, la città con il più alto tasso di criminalità: senzatetto, prostitute, ex criminali, transessuali, anarchici ed emarginati di ogni età popolano il quartiere di Nishinari o Kamagasaki, controllato dalla yakuza. Lontano dalle tradizioni e dai giudizi conformisti, Nishinari ha le sue leggi. È l’altra faccia del Giappone».

(ANSA-AFP il 28 maggio 2022) - Fusako Shigenobu, la fondatrice dell'Armata rossa giapponese (Jra), un movimento che seminava terrore negli anni '70 e '80 in nome della causa palestinese, è stata rilasciata oggi dopo aver scontato una pena detentiva di 20 anni in Giappone. Quella che oggi ha 76 anni e che un tempo era soprannominata la 'Regina rossa' o 'L'imperatrice del terrore', era stata arrestata nel 2000 nel suo paese natale dove era tornata illegalmente dopo aver vissuto per trent'anni nel Vicino Oriente. Aveva proclamato lo scioglimento della Jra dalla sua cella nel 2001. 

La Shigenobu ha lasciato la prigione dove era detenuta a Tokyo in un'auto nera con sua figlia. Erano presenti una trentina di suoi sostenitori, con uno striscione con la scritta 'We love Fusako', oltre a un centinaio di giornalisti. "Risale a mezzo secolo fa, ma la nostra lotta, inclusa la presa di ostaggi, ha causato sofferenza a persone innocenti", ha detto la Shigenobu pochi minuti dopo. "Mi scuso" per questo, ha aggiunto.

Questa figura di estrema sinistra che sosteneva la rivoluzione mondiale attraverso la lotta armata è stata condannata nel 2006 in Giappone a vent'anni di reclusione per aver organizzato una presa di ostaggi presso l'ambasciata francese nei Paesi Bassi nel 1974, durata cento ore. Diversi agenti di polizia rimasero feriti e la Francia fu costretta a rilasciare un membro della Jra.

Scarcerata la «regina rossa» Fusako Shigenobu, fondatrice dell’Armata rossa giapponese. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.  

Libera dopo 20 anni. Il gruppo terroristico diventato negli anni ‘80 braccio armato dei palestinesi e poi di Gheddafi. Le scuse per il dolore provocato.

La regina rossa è libera. Fusako Shigenobu, co-fondatrice dell’Armata rossa giapponese , gruppo terroristico tra i più letali, è uscita dalla prigione dove è stata rinchiusa per 20 anni. L’estremista, 76 anni, ha rappresentato uno dei simboli della lotta violenta per un lungo periodo, a cavallo e dopo la Guerra Fredda. Donna affascinante, decisa, ha ereditato dal padre – uomo di destra – la determinazione e la tenacia. Da ragazza ha fatto molti lavori per pagarsi gli studi all’università ed è negli atenei nipponici scossi dalle proteste studentesche che si è unita al primo nucleo di futuri terroristi. Fusako si è poi staccata per scegliere la via internazionalista, mossa che l’ha portata in Medio Oriente, al fianco della resistenza palestinese (ascolta il podcast sull’Armata rossa giapponese con Guido Olimpio). 

Con lei un gruppo di fedelissimi. Il nucleo si è allea al Fronte popolare di George Habbash, ne diventa uno dei bracci operativi. Inizia un lungo percorso di sangue dell’Armata. Il 30 maggio del 1972 un commando sbarca all’aeroporto di Tel Aviv, i militanti hanno nascosto i mitra in custodie per violini, sparano sui passeggeri. Ventisei le vittime. Seguiranno dirottamenti, attacchi, prese d’ostaggi, operazioni dall’Asia all’Europa. 

Sotto la guida di Fusako i killer colpiscono due volte in Italia, con gesto clamorosi. Nel giugno 1987 Junzo Okudaira, ancora oggi latitante, lancia razzi rudimentali contro l’ambasciata Usa a Roma e fa detonare un veicolo. Il 14 aprile dell’anno dopo un’autobomba preparata dai terroristi esplode davanti al circolo americano a Napoli: 5 morti. Sono attentati che l’Armata esegue per conto della Libia di Gheddafi. La Shigenobu, nel tempo, ha trasformato i suoi irriducibili in mercenari al servizio dei regimi arabi. 

Non solo. Fusako sarebbe stata anche una fonte-agente della Stasi, nome in codice Bettina. La campagna dell’Armata è andata poi progressivamente scemando. Aveva meno fondi, l’Urss era evaporata, i dittatori che la sponsorizzavano erano più cauti e molti appartenenti alla fazione erano finiti in prigione, catturati in Sud America, nell’Est Europa, a Parigi. 

La stessa Fusako è stata arrestata nel 2000 ad Osaka, dove viveva sotto falsa identità. Non c’era più spazio per altre «campagne», erano lontani i tempi di quando diceva che appoggiando l’orecchio a terra sentiva la rivoluzione pulsare. 

All’uscita dal carcere la militante ha chiesto scusa per le vittime e il dolore provocati. La chiusura di un’epoca, non per tutti. Una mezza dozzina di suoi seguaci restano nell’ombra, sono ancora ricercati mentre altri, autori di un dirottamento di un jet giapponese, sono ospiti di Kim in Nord Corea. Restano ancora angoli oscuri su cui indagare, la Procura di Napoli un anno fa ha riaperto il dossier sul massacro. Chissà che prima di morire Fusako non decida di raccontare qualcosa. Il pentimento postumo ha scarso valore.

 Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2022.

Fine maggio del 1972. Una donna giapponese arriva in treno a Roma dalla Svizzera, potrebbe essere una turista. Attorno al 28 incontra tre connazionali in un hotel vicino alla Fontana di Trevi, i camerieri ricorderanno poco di loro, tranne che faticavano ad arrotolare gli spaghetti. Osservazioni ininfluenti da vacanze romane. Quello fu l'ultimo meeting prima dell'attacco. Il terzetto raggiungerà il 30 l'aeroporto di Tel Aviv e, appena sbarcato dal jet, tira fuori delle mitragliette dalle custodie per violini. In un attimo è l'inferno: 26 morti tra i passeggeri. Crepano due killer, un terzo, Kozo Okamoto, sarà catturato.

La strage è stata coordinata da Fusako Shigenobu, la misteriosa donna di Roma. Ieri, a pochi giorni da quell'anniversario, con ben poca sensibilità ma nel rispetto della Legge, Tokyo ha rimesso in libertà Fusako. Un rilascio dopo aver scontato i vent' anni di galera alla quale era stata condannata. E, non appena ha messo il piede fuori, quella che per lungo tempo è stata definita la regina rossa ha chiesto scusa per le vittime causate. Parole sempre insufficienti perché arrivano dopo una vita passata ad uccidere. 

Fusako è cresciuta in una famiglia dove il padre, un ex ufficiale diventato droghiere, era un ultranazionalista. Uomo molto severo, mai domo, dal quale ha ereditato la tempra ridipinta però con i colori del marxismo. Si mantiene all'università facendo la cameriera in ristoranti e - forse - in locali più «esotici», ha un bell'aspetto, tutti la descrivono affascinante e decisa.

In quell'epoca tumultuosa delle proteste contro la guerra in Vietnam entra in contatto con ambienti radicali, elementi pronti alla violenza e malati di settarismo. La Shigenobu litiga con Tsuneo Mori, capo di Rengo Sekigum, non condivide la scelta di concentrare la lotta all'interno del Paese, forma una sua ala internazionalista e troverà lo spazio ideale in Medio Oriente, al fianco della resistenza palestinese. 

La combattiva studentessa diventa leader dell'Armata rossa, si trasferisce a Beirut, offre il suo braccio al Fronte di Wadi Haddad e George Habbash, i professori del terrore. È da questo patto che nasce l'idea di colpire Israele, una cooperazione tra alti e bassi, con risvolti anche personali. Fusako avrà una figlia da un feddayn, May, una giovane altrettanto combattiva che l'ha accolta all'uscita di prigione.

In Libano guida poche decine di seguaci, compreso il marito Tsuyoshi Okudaira che muore nella missione a Tel Aviv, il cognato Junzo, Kunio Bando e pochi altri. Per gli arabi è Samira o Mariam, per la Stasi, la polizia segreta della Germania, è l'agente Bettina, nome in codice a indicare una relazione di lavoro.

Progressivamente l'Armata si tramuta in un'agenzia terroristica. Lavorano in proprio, prendono ostaggi, dirottano aerei, agiscono insieme alla rete di Carlos lo Sciacallo, si prestano a manovre di regimi arabi, Gheddafi in particolare. Creano basi ovunque, ricevono finanziamenti e fanno anche traffici, colpiscono. Sono presenti anche in Italia, dove hanno appoggi, affari e complici (mai scoperti), spediscono - da Livorno - una delle loro riviste. 

Nel giugno 1987 Junzo Okudaira lancia due razzi rudimentali contro l'ambasciata Usa a Roma e fa detonare un veicolo. Il 14 aprile dell'anno dopo un'autobomba preparata dai terroristi esplode davanti al circolo americano a Napoli: 5 morti. Operazioni che l'Armata esegue per conto della Libia. Sono gli ultimi fendenti, il mondo sta cambiando, i «guerrieri» nipponici non servono più.

Ora devono sopravvivere. In Nord Corea abitano ancora alcuni ex dirottatori, ospiti di Kim, mentre altri sono catturati in Europa e Sud America. Fusako, dopo un lungo peregrinare, è scoperta a Osaka nel 2000. Okamoto, invece, tornato libero con uno scambio di prigionieri, ha scelto come casa il Libano. Rimane una mezza dozzina di ricercati, compreso Okudaira, l'attentatore di Napoli: il suo volto invecchiato al computer è sul poster della polizia giapponese. È lontano il tempo in cui lei, la Shigenobu, affermava che appoggiando l'orecchio sul terreno sentiva la rivoluzione pulsare. A 76 anni, malata, afferma di voler riflettere sul suo passato.

Dopo vent'anni libera l'"imperatrice del terrore" "Mi scuso, la nostra lotta ha causato sofferenze". Redazione il 29 Maggio 2022 su Il Giornale.

Fusako Shigenobu fondò l'Armata rossa giapponese. Ieri è stata scarcerata.

È tornata libera dopo vent'anni di carcere Fusako Shigenobu, fondatrice dell'Arj, l'Armata rossa giapponese, movimento che ha seminato il terrore negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo in nome della causa palestinese e che lei stessa aveva proclamato disciolto nel 2011 dalla sua cella.

La donna, soprannominata «regina rossa» o «l'imperatrice del terrore», ha 76 anni: era stata arrestata nel 2000 a Osaka, in Giappone, dove aveva fatto ritorno clandestinamente dopo trent'anni. Era rinchiusa in un carcere di Tokyo da cui è uscita ieri mattina accolta, oltre che dalla figlia, da una trentina di suoi seguaci che esponevano uno striscione con su scritto «Amiamo Fusako» e da un centinaio di giornalisti. L'anziana attivista ha però rifiutato di rivangare il suo passato. «Tutto questo risale a mezzo secolo fa, ma la nostra lotta, con i rapimenti, ha fatto soffrire degli innocenti», ha dichiarato Shigenobu, con tono di scusa.

Nel 2006 la militante giapponese che predicava la rivoluzione mondiale attraverso la lotta armata, era stata condannata a vent'anni di reclusione per aver organizzato il sequestro, durato un centinaio di ore, di alcuni ostaggi all'ambasciata francese nei Paesi Bassi nel 1974. L'ex terrorista non aveva partecipato direttamente all'azione, che aveva causato numerosi feriti tra le forze di polizia e costretto la Francia a liberare un membro dell'Arj. Shigenobu è anche sospettata di aver pianificato l'eccidio all'aeroporto Lod di Tel Aviv, in Israele, compiuto da un commando dell'Arj nel 1972, un'azione suicida con mitragliette e granate che causò un tragico bilancio di 26 morti e quasi 30 feriti fra i civili.

Due anche le operazioni compiate dall'Arj anche in Italia, quando i guerriglieri agli ordini di Shigenobu erano diventati mercenari che agivano per conto dei Paesi arabi. Nel giugno 1987 Junzo Okudaira lanciò dei razzi rudimentali contro l'ambasciata statunitense a Roma e fece esplodere un'autovettura. Più grave quello che accadde un anno dopo a Napoli, dove agendo per conto della Libia di Gheddafi i militanti dell'Arj fecero esplodere un'autobomba davanti al circolo americano provocando cinque morti. Il movimento da lei fondato era «gemellato» con il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp).

Nata a Tokyo nel 1945, Shigenobu era diventata una militante dell'estrema sinistra nel 965 in circostanze quasi casuali. Era una giovane intelligente e intraprendente che si manteneva agli studi facendo mille lavoretti quando era stata invitata a un sit-in contro la guerra del Vietnam e il trattato di sicurezza nippo-americano nel pieno dell'ondata di contestazioni giovanili che a metà degli anni Sessanta aveva interessato il Giappone, e si era rapidamente appassionata alla causa palestinese e poi radicalizzata, scegliendo la strada della internazionalizzazione delle sue battaglie. Non solo. Shigenobu fu anche una fonte-agente della Stasi, nome in codice Bettina.