Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI EUROPEI

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI EUROPEI

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        I Muri.

Da "la Stampa" il 26 gennaio 2022.

È già stato ribattezzato dall'opposizione il «muro della vergogna», quello che Varsavia ha iniziato a costruire al confine con la Bielorussia per fermare i migranti. Ad annunciare l'avvio del cantiere è stata la Guardia di frontiera: si tratta della barriera che il governo di Varsavia vuole alzare per «proteggere il Paese dall'ondata di profughi usati come un'arma» dal dittatore Lukashenko.

Uomini, donne e bambini che, a piedi, tentano di raggiungere l'Europa, attraversando boschi, paludi e il fiume che separano i due Stati, sfidando in questi mesi anche il gelo. Le vittime sono già oltre venti, ma il bilancio è parziale, dal momento che la zona cuscinetto è interdetta a ong e giornalisti.

L'esecutivo ha stanziato investimenti senza precedenti per blindare 186 chilometri di frontiera a un costo enorme, oltre 350 milioni di euro, ed è finito nel mirino delle opposizioni che lo accusano di rendere la Polonia un simbolo della mancanza di solidarietà con i migranti in fuga da guerre e povertà. Ma contro il muro si sono levate anche le proteste degli ambientalisti, inorriditi da una barriera di ferro e cemento che taglierà in due la Foresta di Biaowiea, l'ultima foresta primordiale d'Europa.

Fortezza Europa: i muri non hanno fermato i migranti. Ecco quanti ne sono passati. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.

«I muri sono immorali» (David Sassoli)

Quasi la metà degli Stati dell’Unione Europea vuole che Bruxelles paghi la costruzione di barriere fisiche per frenare la migrazione irregolare. Lo hanno chiesto il 7 ottobre 2021 con una lettera di 4 pagine alla Commissione europea i ministri degli interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia. I ministri sostengono che una recinzione è «un’efficace misura di confine che serve l’interesse di tutta l’Unione, non solo degli Stati membri del primo arrivo» e che andrebbe «adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria». Il ministro degli interni austriaco, Karl Nehammer, ha anche dichiarato che il sistema di quote dell’UE per la distribuzione dei richiedenti asilo sarebbe «inutile» fino a quando le frontiere esterne non saranno «rigorosamente» protette. Sono passati 22 anni dall’accordo di Schengen e l’inversione di tendenza è iniziata con la crisi in Siria del 2012. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri: a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri, tutti di difesa territoriale, a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Oggi ne conta 16 per oltre mille km, tutti in chiave anti-migranti. 

I muri in Europa

La costruzione di muri e recinzioni anti-migranti è iniziata negli anni ‘90, con il caso della Spagna a Ceuta (1993) e Melilla (1996), per bloccare gli arrivi dal Marocco, ma è dal 2012 con la crisi siriana che il fenomeno è esploso in Europa. Comincia la Grecia con una barriera di fossati e doppio filo spinato di 150 km e alta 4 metri lungo le rive del fiume Evros, al confine con la Turchia, per arginare la fuga dei siriani diretti in Europa. Poi è stata la volta della Bulgaria, sempre al confine con la Turchia per bloccare i profughi siriani: il muro è stato definitivamente concluso nel 2017 per una lunghezza complessiva di circa 200 km, con filo spinato, torrette presidiate da soldati e guardia di frontiera con camere a infrarossi e sensibili al calore. La rotta balcanica, percorsa dai profughi in fuga dai conflitti in Medio Oriente e Afghanistan, è stata via via chiusa dal 2015. L’Ungheria ha prima bloccato quasi tutto il confine con la Croazia (300 km di barriera su 329) e nei due anni successivi ne ha alzato un’altra lunga tutti i 151 km di confine con la Serbia. La Macedonia ha blindato 33 km al confine con la Grecia, l’Austria ha disposto 3,7 km di filo spinato lungo il confine con la Slovenia che, a sua volta, ha chiuso 200 dei 670 km che li divide dalla Croazia. A quel punto la rotta da oriente verso l’Europa si è spostata più a nord, e così nel 2016 la Norvegia ha eretto una barriera di 200 km e alta 4 metri lungo il confine con la Russia; lo stesso hanno fatto nel 2017 la Lituania e la Lettonia. Lituania, Lettonia e Polonia hanno anche annunciato nuove barriere di 508, 134 e 130 km lungo il confine con la Bielorussia. 

I muri non servono

Scelte che non hanno funzionato, come dimostrano i dati di Iom. Gli arrivi via terra sono stati 26.395 nel 2016, 15.662 nel 2017, 31.257 nel 2018, 24.636 nel 2019, 13.666 nel 2020 e 33.296 nel 2021: per una media di 24.152 all’anno. Quelli via mare, invece, sono stati 363.581 nel 2016, 171.837 nel 2017, 115.399 nel 2018, 103.836 nel 2019, 85.809 nel 2020 e 111.144 nel 2021: per una media di 158.601 all’anno. Costruire muri ha però alimentato la strumentalizzazione politica, cavalcata dai partiti xenofobi che sono cresciuti in popolarità ed esercitano pressioni che limitano le soluzioni. Oggi tra i 28 membri dell’UE ci sono 39 partiti politici che promuovono una violenta retorica anti-migranti, e in dieci Stati membri (Austria, Danimarca, Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Italia, Ungheria, Polonia e Paesi Bassi) hanno una forte presenza in Parlamento. 

Italia: abbiamo bisogno di migranti

Però poi i migranti servono. Se n’è accorto il Regno Unito dopo la Brexit, rimasto senza camionisti che distribuissero le merci ed è stato costretto a mettere in campo l’esercito. Se ne accorge l’Italia: le nostre imprese hanno bisogno di braccia che sostengano la crescita ed hanno chiesto a Draghi di rivedere la politica migratoria. A dicembre il Governo ha deliberato il nuovo Decreto Flussi che disciplina l’ingresso dei lavoratori stranieri. Per il 2022 il numero è fissato a 69.700 per sostenere i settori agricolo, turistico-alberghiero, autotrasporto merci ed edilizia. Una svolta rispetto agli ultimi sei anni, quando il numero complessivo era sempre rimasto costante a quota 30.850. 

Le altre barriere nel mondo

Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno delle grandi divisioni. Oggi esistono 70 muri nel mondo: 40 mila chilometri di recinzioni, quanto basta per coprire l’intera circonferenza della Terra secondo i calcoli di Elizabeth Vallet dell’Università di Montreal. Undici furono costruiti tra il 1947 e il 1991, durante la guerra fredda, sette tra il 1991 e il 2001, ventidue tra il 2001 e il 2009. E ben 30 negli ultimi 10 anni. Senza considerare altri 7 già finanziati e in via di completamento. L’Asia è quella che ne ospita di più, 36, ma è anche il continente più esteso al mondo. Fra i più importanti ci sono quelli tra Macao, Hong Kong e la Cina, la barriera tra Israele e Cisgiordania, quella tra Corea del Nord e Corea del Sud e i muri tra India e Pakistan, tra Iran e i Paesi confinanti. Nessuno ha mai realmente funzionato, se non là dove sparano dalle torrette di controllo (Corea del Nord). Chi vuole fuggire trova sempre un modo, a costo della propria vita, basta leggere i numeri degli annegati sulla rotta mediterranea. Anche qui parlano chiaro i dati (fonte Unhcr): nel 2010 i richiedenti asilo e rifugiati nel mondo erano 16 milioni, saliti a 24,2 nel 2015 e diventati 34,4 nel 2020. Lo stesso trend è stato seguito dal numero e dalla percentuale dei migranti totali. 

La politica europa è un boomerang, ma non cambia

La scelta dell’Unione Europea in questi anni è stata quella di cercare di frenare i flussi migratori prima dell’ingresso, pagando, e gestire i rimpatri. In questa chiave vanno tutti gli accordi firmati con i Paesi satelliti, come quello del 2016 con la Turchia alla quale sono stati già destinati 6 miliardi di euro per evitare le partenze irregolari verso tutti gli Stati membri. Altri 3,5 miliardi arriveranno ad Erdogan nei prossimi quattro anni, mentre 2,2 miliardi andranno in Siria, Libano, Giordania e Iraq. Anche la sorveglianza è aumentata, con i sistemi informatici utilizzati per controllare la migrazione, come il sistema d’informazione visti, il sistema d’informazione Schengen e il sistema di archiviazione dei dati Eurodac. Per pagare tutti questi controlli e sorveglianza, il bilancio di Frontex è passato da 6,2 milioni nel 2005 a 543 milioni nel 2021. 

Scelte che hanno consegnato un’arma di ricatto in mano ai leader politici più spregiudicati: lo fa il Marocco con la Spagna, lo sta facendo la Turchia di Erdogan, e da ultimo la Bielorussia di Lukashenko, che sta agevolando l’ingresso di profughi iracheni per poi spingerli sul confine europeo allo scopo di ottenere le cancellazioni delle sanzioni. Non si è percorsa, invece, la strada di aprire e gestire i flussi in maniera regolare, ma nemmeno quella di applicare uno schema di ridistribuzione dei migranti tra i diversi Paesi membri. La Commissione non ci è riuscita, come non è riuscita a fa passare l’idea di un contributo economico per i rimpatri da parte dei Paesi che rifiutano la redistribuzione verso quelli, come l’Italia, che si trova ad essere il primo Paese d’ingresso dalla rotta africana. In sostanza se ogni Paese pensa a sé, per quale ragione gli africani, iracheni, afgani, siriani, pakistani non dovrebbero pensare a loro stessi, e fermarsi di fronte ad un filo spinato? 

·        Quei razzisti come gli italiani.

Antonio Giangrande: A proposito di Sarri. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Gli interisti sono come i comunisti: quando perdono è perchè gli altri rubano (così risuccederà con la Juve) o gridano al "razzista" per farli degradare, come succede al Napoli. Se poi i media sono in mano a giornalisti di sinistra o comunque del nord è tutto dire. I salottieri si scandalizzano del "Frocio" dato a al furbo Mancini, ma si sbrodolano con la parola "terrone" dato a destra ed a manca in ogni tempo e in ogni dove. E' vero che ormai il potere è gay (vedi le leggi in Parlamento) e le femministe si sono prostate all'Islam (vedi le reazioni su Colonia), ma frocio è una offesa soggettiva. Terrone è una offesa ad un intero popolo. Ma tutti tacciono, anche i meridionali coglioni. Se "Terrone" vuol dire cafone ignorante: bèh , non prendo lezioni dai veri razzisti e ignoranti. (Se qualcuno ha qualche commento fuori luogo. Gli consiglio di leggere il mio libro "L'Italia Razzista"!

Antonio Giangrande: A proposito del Titolo di Libero sui “Terroni”.

Gli opinionisti del centro-nord Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Ergo: COGLIONE. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come prossimo passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine. 

Razzismo e Disastri Ambientali.

Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.

Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.

Per i media prezzolati e razzisti.

Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili dovuti al cambiamento climatico in conseguenza del riscaldamento globale e causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.

Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.

“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.

Sud in affanno tra colpe altrui e nostre. Insomma ci si è convinti che il Sud vive male per colpa del Nord, assolvendo una classe dirigente locale spesso inconcludente, incapace, affamata di potere fine a se stesso, propensa alle magagne. Roberto Calpista su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 ottobre 2022.

Perché tanta gente del Sud che vive al Nord parla sempre di come il Sud sia migliore e che si viva meglio ma continua a vivere al Nord? Forse perché al Sud - lo dice l’Istat - si vive meno. Abbiamo il mare, il sole, le orecchiette. Non bastano, e inoltre il mare ce l’hanno pure i mangiapolenta.

Il dato che andrebbe analizzato senza isterismi è che secondo il report dell’Istat «Misure del Benessere equo e sostenibile» la speranza di vita alla nascita nel 2021 era al di sotto di Roma di circa un anno e sette mesi inferiore a quella al di sopra della Capitale, con 81,3 anni a fronte degli 82,9 dell’Italia centrosettentrionale.

La notizia ha creato non poco scetticismo. Eppure anche la forbice che si era ristretta all’inizio della pandemia con il Nord colpito più duramente nel 2020 con un picco di decessi, l’anno successivo si è riallargata con il Nord che ha recuperato quasi un anno di speranza di vita e il Sud che ha perso altri sei mesi. Siamo campioni: è come se in una gara sui 100 metri di corsa il meridionale partisse con un vantaggio di metà percorso per poi perdere con uno scarto di 50 metri. Resta fermo.

Vita e lavoro: il distacco tra la provincia con il più alto tasso di occupazione (Bolzano, 75,8%) e quella con il più basso (Caltanissetta, 40,8%) è nel 2021 di 35 punti percentuali in calo dai 40,5 nel 2019, ma un lavoratore dipendente nel 2020 aveva un reddito medio nella provincia di Milano di 29,631 euro, 2,7 volte quello di Vibo Valentia.

Quindi. Perché quelli del Sud che vivono al Nord parlano sempre di come il Sud sia migliore e che si viva meglio ma continuano a vivere al Nord? Magari, in tema di sanità ci sono disparità nell’offerta di servizi e nei risultati di salute raggiunti a livello territoriale e sociale. Per esempio tra Milano e Napoli sussiste una differenza di quasi tre anni in termini di speranza di vita, mentre tra le fasce sociali più povere del Sud e quelle più ricche del Nord la differenza arriva a dieci anni. Un dato allarmante è l'offerta di servizi e l’ammontare delle risorse destinate alla salute che differiscono in maniera notevole tra aree diverse. La spesa sanitaria pubblica pro capite, per esempio, pari in media a 1.838 euro annui, è molto più elevata al Nord rispetto al Sud: si va dai 2.255 euro a Bolzano ai 1.725 euro in Calabria.

L'aspettativa di vita è una presa d'atto di una situazione, ma non si ha la sicurezza dei meccanismi che portano a tali risultati; possiamo però estrapolarli indirettamente: la possibilità di vivere in maniera più o meno sana, la sanità, l'inquinamento e il tipo di alimentazione, sia dal punto di vista qualitativo sia quantitativo. Ma rilevante è anche la presenza di adeguate strutture sanitarie. E questo significa non solo che al Nord ci sono più strutture, ma anche che funzionano meglio di quelle del meridione, dove esiste una cronica carenza di personale. Basta guardare le statistiche di sopravvivenza post-operatoria o l'accesso ai farmaci salvavita o ancora la gestione delle malattie croniche in età avanzata per vedere numeri nettamente divergenti.

Però è anche vero che non è possibile che prima lo Stato lo riduca in quelle condizioni, e poi ci si accorga che il Sud è sempre ultimo. Non si parla di spesa pubblica per sprecare, ma di spesa per i servizi. O almeno dovrebbe essere così sulla carta. A cominciare da sanità, scuola, trasporto, assistenza sociale. Proprio quei fattori che più incidono sulla qualità della vita e magari sulle aspettative della stessa.

Insomma ci si è convinti che il Sud vive male per colpa del Nord, assolvendo una classe dirigente locale spesso inconcludente, incapace, affamata di potere fine a se stesso, propensa alle magagne.

Eppure su quell’anno e sette mesi in meno resta lo scetticismo. Fin quando si aggiunge la notizia che l’ospedale «Dimiccoli» di Barletta sarebbe regolarmente operativo nonostante da giorni, in seguito ad un incendio, sia chiusa la terapia intensiva. E lo scetticismo d’improvviso scompare.

Da bologna.repubblica.it il 12 dicembre 2022.

Ha definito pubblicamente in rete, per due volte, "scimmie urlatrici" i tifosi del Marocco che festeggiavano le vittorie della loro Nazionale ai Mondiali in Qatar. Le parole del consigliere leghista di Santarcangelo, Marco Fiori, sono state diffuse dal sindaco di Rimini, Jamil Sadegholvaad, aggiungendo: "Non so se a una persona, a qualsiasi persona, capace di scrivere cose come queste debba essere rivolta più indignazione o pietà umana". 

Gli fa eco il segretario provinciale Pd di Rimini, Filippo Sacchetti: "Dispiace" che quelle frasi "vengano da una persona di una cittadina aperta e inclusiva che non ha niente da condividere con la discriminazione e gli insulti verso altre persone che stavano esultando per un risultato calcistico". Invece, va avanti il segretario dem riminese, "non mi sorprende la provenienza politica di chi usa da anni la cultura dell'odio per alimentare il consenso elettorale". Fiori si scusa pur non ritenendo l'espressione offensiva: "Frase stupida, ma innocua".

Le vittorie del Marocco, la vera outsider fra le 4 squadre approdate alle semifinali, hanno suscitato grandi festeggiamenti in strada, anche a Bologna, fin dal passaggio agli ottavi, un entusiasmo condiviso da molti italiani, anche con un pizzico di invidia. Ma certo fra di questi non vi è il consigliere del Carroccio Marco Fiori, che a Santarcangelo è appena stato eletto segretario del partito. Il 7 dicembre, dopo la vittoria del Marocco contro la Spagna, ha scritto: "Spero il Marocco venga eliminato dal Mondiale, così finalmente smetteremo di vedere scimmie urlatrici far casino per strada". Poi, dopo la vittoria nei quarti sul Portogallo, ha ribadito il concetto: "Attenzione, previsti assembramenti di scimmie urlatrici anche stasera". Sempre su Facebook, postando un video, aveva scritto: "I tifosi marocchini ci insegnano a vivere rispettosi. Queste risorse sono da rispedire immediatamente al loro paese d'origine". 

La replica: "Non è un'offesa. Frase stupida ma innocua"

A polemica scoppiata, Marco Fiori scrive un messaggio di scuse per quello che definisce però un "inutile clamore" per un commento "che, sbagliando, non credevo potesse essere considerato così offensivo. Sono rimasto colpito, in questi giorni, da certe manifestazioni anche di carattere violento capitate in città italiane e all'estero. La vandalizzazione di piazza Gae Aulenti a Milano, dopo la vittoria della squadra del Marocco, l'intervento delle forze dell'ordine, addirittura una persona che cercava di sedare una rissa accoltellata, hanno motivato il mio sconcerto e un'opinione critica su quanto avvenuto". 

Scuse poco convincenti. "Scimmia urlatrice - insiste Fiori - non è di per sè un'offesa. Viene usata comunemente per definire persone urlanti che fanno casino. Mi scuso certamente se qualcuno si è sentito colpito ma la frase in sè non offende nè va ad intaccare alcuna sfera sensibile. Ribadisco le scuse sincere, pur evidenziando che emerge ancora una volta una certa strumentalità unidirezionale di chi si attacca a frasi magari stupide ma del tutto innocue pur di farne un caso politico".

Sono razzisti, non fascisti. Il Corriere della Sera l’8 Dicembre 2022. L’eco è propagata sui cellulari della comunità marocchina veronese poco prima delle 2o dell’altra sera. E il messaggio non lasciava adito a dubbi: «Non vi consigliamo di uscire e di andare in centro città. Ci sono bande che attaccano chi festeggia, chi sventola la bandiera marocchina e chi va in macchina con la musica ad alto volume». Il prodomo dell’ennesima ordinaria serata razzista e violenta nel cuore di Verona è stato quanto mai vaticinante. Con i festeggiamenti per quei tre rigori centrati del Marocco e l’accesso ai quarti di finale dei Mondiali in Qatar diventati l’alibi per l’ennesima «caccia allo straniero» portata avanti a furia di colpi di manganelli e catene. Ma con il branco che questa volta non ha però fatto i conti con le forze dell’ordine. E quella Digos, la divisione investigazioni generali e operazioni speciali, che i suoi «clienti» li conosce alquanto bene, tanto da poterne intuire le mosse. Tanto da identificare, fermare e denunciare i 13 componenti - tutti militanti in una delle sigle dell’estrema destra tra le più «attive» in città - di quella mandria che la sua furia identitaria la stava scaricando tra via Battisti e corso Porta Nuova, sulle auto di chi quella vittoria stava festeggiando.

La festa dei tifosi marocchini in piazza Bra, nel centro di Verona

Si erano radunati in piazza Bra, i tifosi marocchini. Ci sono arrivati in fretta e furia, dopo il fischio finale di quella partita che per loro rappresenta un’impresa non solo calcistica, ma storica. In molti sono arrivati in auto, qualcuno in bicicletta. Tanti con la famiglia. Tutti sui gradini della Gran Guardia, a sventolare e a ammantarsi con la bandiera rossa e il pentagramma verde. I «servizi di controllo» intensificati delle forze dell’ordine erano già in atto. La polizia locale ha interrotto il traffico nella piazza e fatto deviare gli autobus in piazza Cittadella. Sono passati pochi minuti e alla centrale operativa della questura sono iniziate ad arrivare varie chiamate che segnalavano la presenza di un gruppo di giovani. Tutti vestiti di nero e con il volto coperto dai cappucci delle felpe o da cappelli. E tutti che cercavano di avvicinarsi a chi stava festeggiando.

L’agguato alle auto che festeggiavano per la vittoria ai Mondiali

Ma la presenza delle forze dell’ordine deve averli fatti desistere dall’agire in piazza. Il tempo di svicolare in via Battisti, dove transitavano le auto dei tifosi marocchini e l’agguato è stato partorito, a colpi di catene e manganelli sulle vetture che transitavano. Quattro, quelle danneggiate. Su quelle macchine c’erano anche dei bambini. Che hanno visto l’odio di quelle sprangate. A una, in particolare, sono stati infranti i finestrini e le schegge hanno leggermente ferito la moglie del guidatore. Per lei ferite lievi, ma la furia del branco è stata fermata solo dall’intervento della polizia. Presi con in mano le spranghe e i metalli, i tredici. Tutti conosciuti dalla Digos e molti con precedenti. Tutti usciti per quell’«azione estemporanea» da uno dei loro abituali «ritrovi» dove avevano visto la partita.

Gli estremisti di destra già conosciuti dalla polizia: indagini in corso

Sono stati segnalati alla procura. Per loro i reati ipotizzati al momento sono quelli di violenza privata e danneggiamento aggravato. Ma la Digos sta vagliando i filmati sia delle telecamere della zona che quelli girati con i cellulari - e che hanno fatto il giro dei social - per attribuire nel dettaglio le «responsabilità soggettive». Quelle che potrebbero sfociare anche in una denuncia per la legge Mancino. E quelle che potrebbero implicare anche un Daspo, il divieto di assistere alle manifestazioni sportive, che viene comminato dal questore. «Misura» che molti dei componenti del branco, legati agli ultrà dell’Hellas, hanno già avuto modo - per incidenti allo stadio - di sperimentare. E che in questo caso sarebbe possibile applicare perché il raid è avvenuto a margine di un evento sportivo.

Il messaggio circolato nelle chat della comunità marocchina

Tra chi ha ricevuto quel messaggio che invitava i marocchini a non uscire di casa c’è anche Samira Chabib, anima dell’associazione SaaDia. «Non voglio pensare che dietro a quanto accaduto ci sia una regia - dice -. Non voglio pensare che ci sia odio e che questo crei una frattura tra le comunità. L’altra sera tutti noi marocchini volevamo festeggiare. È giusto che sia così. Dovrebbe essere una festa per tutti». Che non sia così lo hanno dimostrato i fatti. Ma Samira usa parole che fanno liquefare qualsiasi violenza: «L’altra sera a festeggiare c’erano anche italiani. Perché i nostri figli e molti di noi sono italiani. Era un momento di felicità. Anch’io ho esultato, come esulto quando vince l’Italia. Questa, è vero, è casa vostra. Ma è anche casa nostra...».

Verona e la «caccia» ai tifosi marocchini aggrediti: i 13 fermati sono tutti di CasaPound. Tra gli estremisti di destra anche due minorenni: il raid contro i tifosi del Marocco che festeggiavano la vittoria della loro nazionale contro la Spagna ai Mondiali in Qatar. Angiola Petronio su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022

Tredici. Undici sono maggiorenni, due minorenni. E tutti sono militanti di CasaPound. Alcuni con precedenti penali «specifici», legati alla «caccia» di qualcuno da colpire. E taluno che nel suo palma res di reati e pene sconta anche il Daspo, il divieto di assistere a manifestazioni sportive, «guadagnato» per incidenti dentro o fuori lo stadio. È la composizione del branco, quello che martedì 6 dicembre ha aggredito i tifosi marocchini che festeggiavano la vittoria della loro squadra nazionale ai Mondiali.

Il raid contro i tifosi marocchini

Un raid eseguito con una precisa tattica. La stessa usata molte volte fuori dal Bentegodi. Quella che nel caso non sia possibile attaccare frontalmente un gruppo, prevede di sparpagliarsi per strade e vicoli e colpire i singoli. Per poter comunque aggredire, ma anche per diventare più sfuggevoli alle forze dell’ordine. Cosa che, però, martedì sera al branco non è riuscita. Perché il centro città era già stretto nella maglia di controlli «rafforzati» proprio in vista delle partite e degli eventuali festeggiamenti per Qatar 2022. Sono arrivati alle 19 e 1o minuti i tifosi marocchini in piazza Bra. Chi in auto, chi in bici, chi con la famiglia e i figli piccoli. A cantare e sventolare le bandiere sotto la Gran Guardia. Pochi minuti dopo il gruppo è stato individuato da una pattuglia in una strada a ridosso della piazza. Si stavano «bardando» i tredici. A tirar su i cappucci delle felpe, a mettere i cappelli per nascondere la faccia nella puerile idea di sfuggire all’identificazione. Ad impugnare chi le catene, chi i manganelli. Tutto immortalato dalle telecamere seminate in centro città.

Come hanno progettato l’aggressione

Ci ha provato, il branco, a raggiungere la Gran Guardia. Ma le forze dell’ordine - mentre la polizia locale chiudeva l’area al traffico deviando i bus in piazza Cittadella - hanno organizzato un cordone di protezione per chi stava festeggiando. Così ai tredici non è rimasto altro che iniziare la «caccia solitaria». Si sono sparpagliati tra le vie dietro la Bra per sbucare poi in una strada limitrofa, via Battisti, dove c’erano alcune auto con esposta la bandiera marocchina. Lì è iniziato lo sciabordio di catene e spranghe contro le carrozzerie. Quelle che hanno colpito anche una vettura in transito, infrangendo i finestrini le cui schegge hanno leggermente ferito una donna che era seduta sul lato passeggero. E poi il tentativo di fuga, anche quello messo in atto con la tattica da stadio. Disperdersi. Giusto il tempo di tirare un colpo di manganello sulla testa di un’altra donna marocchina anche lei solo lievemente ferita. Ma il branco non ce l’ha fatta. Quelle maglie dei controlli rafforzati, anche con il personale della Digos, gli si sono chiuse addosso.

I tredici estremisti di CasaPound

Presi, i 13 di CasaPound, con ancora i «ferri del mestiere» in mano. Fermati, portati in questura e identificati. Segnalati alla procura che dovrà decidere le ipotesi di reato. Fondamentali saranno i filmati. Quelli delle telecamere, quelli delle forze dell’ordine durante l’assalto, quelli girati dagli stessi tifosi marocchini. Necessari per attribuire le responsabilità di ciascuno. Le ipotesi spaziano dalla violenza privata al danneggiamento aggravato. Ma non è esclusa l’applicazione della legge Mancino, per quell’agguato che ha uno sfondo razziale. E su tutto potrebbe pesare l’aggravante associativa. Quella che prevede «oltre all’intenzionalità, la conoscenza da parte del reo dello scopo e dell’attività generale dell’organizzazione criminale o dell’intenzione di quest’ultima di commettere i reati in questione». Quella che colpisce al cuore la filosofia del branco. Intanto oggi, 9 dicembre, Verona scende in piazza in «solidarietà alla comunità marocchina» e «contro la violenza razzista». Lo fa proprio in Bra, dalle 15 alle 18.

Da calcionapoli24.it il 19 settembre 2022.

Episodio vergognoso al termine di Milan Napoli 1-2, partita di Serie A ieri sera allo stadio Giuseppe Meazza di San Siro. Nel post partita di Milan-Napoli, il giornalista napoletano Marco Lombardi, inviato di CalcioNapoli24 a Milano, è stato avvicinato da un tifoso del Milan che ha provato ad intimidirlo ed ha tentato il contatto fisico. 

Il tifoso del Milan si è avvicinato con la scusa di un'intervista ed ha inveito contro il nostro giornalista, urlandogli frasi razziste e venendo portato via con la forza dai propri amici quando stava per succedere il peggio.

Complimenti al nostro Marco Lombardi e all'operatore di ripresa Emanuele Bernardo per come hanno gestito la situazione. Denunceremo l'accaduto alle autorità competenti, affinché non debba accadere mai più una cosa del genere

Tommasi “Aggressione non rispecchia i valori inclusivi della città. Ivano Tolettini su L’Identità il 10 Dicembre 2022

“Questi fatti non rispecchiano certo l’anima democratica di Verona e i responsabili vanno perseguiti secondo le norme della Repubblica. Si tratta di un piccolo gruppo di persone che fa molto rumore, ma i veronesi non sono certo questi, anzi, la nostra gente ha sempre fatto dell’accoglienza un valore”. Damiano Tommasi, il sindaco ex campione della Roma tricolore, non l’ha proprio digerito il raid di Casapound martedì sera dopo Marocco-Spagna, contro i supporter nordafricani che festeggiavano. Tommasi non ci sta oltre che per la violenza gratuita in sé a carico di cittadini, immigrati marocchini e figli di immigrati nati a Verona, cui ha dato la sua solidarietà e della città, che avevano l’unica colpa di festeggiare per il successo della loro nazionale, anche perché ancora una volta Verona torna all’attenzione delle cronache nazionali per violenze legate all’estrema destra. Negli anni Novanta del secolo scorso erano state più d’una le indagini contro i naziskin aperte della magistratura veronese, senza tornare indietro alla strategia della tensione e alla Rosa dei Venti che a Verona avevano scritto pagine poco commendevoli per la nostra democrazia. In epoca più recente ci sono state aggressioni, alcune delle quali anche con esito tragico. Su tutte quelle costata la vita a a Nicola Tommasoli.

Si comprende perché il sindaco-calciatore era molto deluso, anche se osserva che si tratta di poche persone rispetto al tessuto democratico di una città che ha la forza di emarginare chi non rispetta le regole della dialettica democratica. “Naturalmente mi dispiace per quello che è successo, sebbene sia l’opera di una piccola minoranza di persone – ha spiegato ai cronisti nei giorni scorsi -, anche perché si è turbata la festa di una comunità che vive Verona con gli stessi diritti e doveri degli altri cittadini “. Il sindaco si è complimentato con l’operato delle forze dell’ordine ed ha ribadito che la forza dello sport dev’essere quella di mettere in minoranza i violenti. Ieri pomeriggio alla manifestazione democratica contro il pestaggio di martedì erano presenti anche rappresentanti dell’amministrazione comunale. A cominciare dalla vicesindaca Barbara Bissoli.

«Il mio intervento – ha detto – vuole sottolineare e rimarcare quanto già ribadito dal nostro sindaco

Tommasi e dall’assessore alle Politiche giovanili e Pari opportunità, Jacopo Buffolo, cioè testimoniare la vicinanza e la solidarietà dell’Amministrazione comunale e di tutta la città . Verona non è quella dei fatti di martedì scorso, perché è una città che ha girato pagina ed è inclusiva. Voglio sottolineare la riprovazione per quanto accaduto, assolutamente fuori luogo perché la violenza non è mai motivata ed è sempre esecrabile”. Da parte sua il primo cittadino ha osservato che parlerà in giunta dell’eventuale costituzione del Comune come parte civile al processo contro i responsabili del pestaggio e dei danneggiamenti. Tommasi e la sua giunta vogliono ribadire a chiare lettere che Verona non solo è una città inclusiva, ma che l’utilizzo degli spazi pubblici da parte di tutti per iniziative culturali e politiche è nel dna della sua amministrazione.

Da leggo.it il 17 novembre 2022.

Rebecca Pavan è un'atleta della nazionale italiana di atletica e la sua denuncia riaccende i riflettori su un ennesimo caso di razzismo. Mercoledì 16 novembre mattina, insieme a sua madre, ha deciso di fare un giro al centro commerciale, poi hanno fatto ritorno a casa in bus. E proprio sul mezzo di trasporto si è verificato l'episodio che le due hanno voluto denunciare: la madre è salita a bordo senza problemi, ma il controllore appena ha visto la ragazza le ha intimato di timbrare il biglietto o di far vedere l'abbonamento. La differenza? Rebecca è adottata e quindi non ha lo stesso colore di pelle della madre.

«Questo comportamento ha un nome: si chiama razzismo», spiega Rebecca Pavan a Il Corriere. La giovane ha 21 anni ed è di Verona ed è un prospetto della nazionale di atletica ed è rimasta sconcertata da quanto accaduto. «Non l’ha chiesto a mia madre, ma solo a me, che ero dopo di lei - racconta -. Certo chiedere di validare i biglietti è giusto, ma a farmi stare male sono stati lo sguardo schifato e il tono scocciato di una persona che ha visto una ragazza di colore salire sull'autobus». La giovane è sicura del fatto che il controllore è partito con l'idea che volesse fare la furba e non pagare. E non sarebbe nemmeno la prima volta che riceve un trattamento del genere.

Nella lunga intervista, Rebecca racconta come non sia l'unico episodio che le è capitato e che già in passato le è capitato di dover ignorare i razzisti, ma sua madre non vuole passarci sopra. Ed è proprio la signora, dopo essersi seduta a bordo dell'autobus, ad andare su tutte le furie. «Lei la conosco, la signorina invece non l’avevo mai vista quindi le ho chiesto il biglietto, tutto qui…», ha provato a difendersi il controllore.

 «Ma cosa vuol dire? Solo perché è nera? E me, mi aveva mai vista prima? Questa è una bugia bella e buona, io qui non ci salgo mai». Una storia che grazie ai profili social delle due è diventata presto di dominio pubblico, giungendo fino all'azienda di trasporti che ha subito fatto capire di voler andare fino in fondo alla vicenda.

L'azienda di trasporti ha risposto facendo capire di voler chiarire, quanto prima, l'accaduto. «Abbiamo avviato un'indagine interna - fanno sapere dagli uffici di Arriva Italia -. Se saranno accertate le responsabilità del nostro dipendente agiremo di conseguenza sul fronte disciplinare. Ovviamente condanniamo qualsiasi forma di razzismo e discriminazione e la nostra massima solidarietà va comunque alla ragazza e a sua madre». 

Camice nero. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 15 novembre 2022.

Il medico del paese va in pensione e al suo posto arriva un dottore africano, Enok Rodrigue Emvolo. Vive in Italia dal 2005 e nessuno ha mai avuto nulla da ridire sulle sue qualità professionali. Eppure, tra i pazienti c’è chi gli suggerisce di andare a pascolare le pecore e chi, anziché «dottore», lo chiama con disprezzo «il senegalese», lui che tra l’altro è nato in Camerun, esasperandolo al punto da indurlo a manifestare il desiderio di trasferirsi altrove. Solo una minoranza dei pazienti di Fagnano Olona lo discrimina, ci mancherebbe, ma la tutela del buon nome di una comunità giustamente preoccupata di non passare per razzista non sembra il tema principale di questa storia, che ha piuttosto a che fare con il racconto dominante sull’immigrazione. Che cosa dice quel racconto? 1. Se i migranti africani vengono mal sopportati da una parte dei residenti, non dipende dal colore della pelle, ma solo dal fatto che non sanno integrarsi. Ebbene, il dottor Emvolo si è laureato in Italia e parla l’italiano anche meglio di alcuni sottosegretari. 2. Quando non delinquono o non vivono a ufo, i migranti accettano lavori infimi e paghe al ribasso che finiscono per impoverire tutti quanti. Ebbene, il dottor Emvolo esercita con successo una professione prestigiosa da parecchi anni (ne ha 48). Dunque, quei tanti o pochi che gli mancano di rispetto non gli contestano la preparazione o l’integrazione, ma la pigmentazione. Come si dice? Loro non sono razzisti, è proprio lui che è nero.

Da lastampa.it il 15 novembre 2022.

I pazienti non vogliono farsi curare dal medico di base perché è africano. Succede a Fagnano Olona, cittadina di dodicimila abitanti in provincia di Varese. Il dottore, Enock Rodrigue Emvolo, camerunense, ha sostituito il collega neo-pensionato Giacomo Navarra. Ha conseguito la laurea nel 2013 all'università La Sapienza di Roma, ma i cittadini non lo considerano all’altezza perché nero.  

Lo chiamano «il senegalese» e mai dottore. C’è chi sua usa espressioni come «Torna a pascolare le pecore». Sui social piovono insulti razzisti. E subito dopo il suo arrivo in Paese, Enock Rodrigue Emvolo diventa un bersaglio, non solo online. Ma lui non ci sta e dice di essere pronto ad andarsene: «Il mio mestiere è curare le persone, se in paese non mi vogliono sono pronto ad andarmene. Parlerò con i miei superiori di Ats e in caso farò le valigie». 

Sul caso interviene anche il sindaco Marco Baroffio. In un video postato su Facebook il primo cittadino chiede scusa al medico ma aggiunge che la decisione di andare via dipende da problemi pratici, uno su tutti la mancanza di attrezzature. «Ho parlato con il dottore, prima di tutto gli ho portato la solidarietà mia e di tutta la comunità. Dopo aver ascoltato la sua amarezza per quanto accaduto negli ultimi giorni e la sua volontà di voler lasciare, gli ho chiesto di pensarci e di restare. Con Ats e Asst stiamo anche lavorando per mettere il dottore nelle condizioni di lavorare al meglio», spiega il sindaco. 

Per ora il medico resta. «Questo pomeriggio si è tenuto l'incontro con il direttore di ASST Valle Olona e il dottor Emvolo, che ha confermato che resterà a Fagnano come sostituto fin quando non arriverà il titolare», dice il sindaco Baroffio -. Ci ha spiegato quello che è successo, ed è molto amareggiato per essere divenuto noto per questa vicenda, tanto che non desidera parlarne». Secondo il sindaco, «due idiozie hanno etichettato tutta Fagnano Olona, che è un comune che accoglie da sempre, rifugiati dalla guerra».

Il primo a far notare il cuore «razzista» della vicenda, è stato l'ex sindaco di Fagnano Olona, Elena Catelli, che in un post di Facebook ha parlato proprio della definizione di «senegalese» data al medico camerunense da un utente dei social: «Trovo gravi certe espressioni usate su un gruppo a commento dei medici arrivati a Fagnano, non per i giudizi sull'operato professionale, ma per la precisione nel puntualizzare la nazionalità». «Emvolo ci ha raccontato di aver subito episodi di discriminazione a Roma, quando qualche paziente si è rifiutato di farsi toccare, ma mai qui - ha aggiunto Baroffio -, domani lo accompagneremo nel nuovo studio, dove sarà dotato di pc, collegamenti e tutto ciò che è necessario per lavorare bene».

Il medico respinto per razzismo ci ripensa: "Spero che chi mi insulta non abbia bisogno di dottori". Il sindaco pasticciere: "L'ho convinto, gli ho promesso dolci". Silvia Scotti su La Repubblica il 15 Novembre 2022.

A Fagnano Olona, vicino a Varese, c'è stata una rivolta dopo il pensionamento del collega che lo ha preceduto nel ruolo

Il pianto di una bambina che si agita perché non vuole essere visitata è straziante: "Basta tenerla ferma. Non sono mai loro il problema, sono gli adulti". Enock Rodrigue Emvolo è in ospedale, ha il tono sbrigativo di chi si vorrebbe occupare solo dei propri pazienti. Avrebbe cose più importanti di cui preoccuparsi: "Mi sono davvero stufato, anche di parlare di razzismo, di insulti, di tutto. Si trovino un altro medico, io avevo dato la mia disponibilità perché avevano bisogno: ora lì non metto più piede. Per me questa storia è chiusa". Lo sfogo è amaro, ma il sindaco della cittadina Marco Baroffio è pasticciere: "Gli ho chiesto di restare, gli ho promesso dolci tutti i giorni. L'ho convinto". Così il ripensamento.

In realtà Baroffio, sindaco di Fagnano Olona, vicino a Varese, dove c'è stata una rivolta contro il medico nero, insulti razzisti, proteste sui social non ha dovuto faticare molto: "Sapevo che voleva restare. Sa che questo non è un posto razzista e che solo qualch idiota sui social lo è. E infatti resterà: continuerà i suoi studi di medicina d'urgenza e farà il medico di base. O meglio, il sostituto, il titolare arriverà tra qualche mese. Certo, però è amareggiato". Infatti il dottor Emvolo è entusiasta dell'incarico ma ancora avvilito per quello che ha letto e sentito: "Inaccettabile. È imbarazzante che nel 2022 ci si trovi davanti a questo, che si debba parlare di questo. Vuol dire che non abbiamo capito niente. Sono camerunense, arrivato in Italia nel 2005. Ho studiato qui. Mi sono laureato qui. Lavoro qui. Salvo vite qui". La ferita è grande, quelle che un medico non sa curare: "Salvare le persone, questo facciamo noi dottori. Ed è bruttissimo sentirsi insultare dagli stessi di cui ti prendi cura, che sei disposto ad assistere, ad accudire. Non lo dovrei dire, ma sono arrabbiatissimo. Mi occupo di tutti, di chiunque abbia bisogno. Ho visto e sentito di tutto, ma basta insulti razzisti. Assurdo che non si impari dai propri errori. Auguro a queste persone e ai loro parenti di stare bene e di non aver bisogno di medici. Così non dovranno sceglierlo".

“E’ ANCHE UN PO' COLPA DI MARADONA SE I MERIDIONALI CE L’HANNO CON IL NORD” – IL PIEMONTESE CAZZULLO RISCRIVE A SUO PIACIMENTO LA "QUESTIONE MERIDIONALE" E L'INTERA STORIA D’ITALIA: "DIEGO AVEVA INTUITO IL RISENTIMENTO DELLA CITTÀ VERSO IL RESTO D'ITALIA, IN PARTICOLARE IL NORD. L'HA RINFOCOLATO ALLA VIGILIA DELLA SEMIFINALE DI ITALIA '90. E SE ORA MOLTI SUDISTI SONO ANIMATI DA UNO SPIRITO ANTI-SETTENTRIONALE UGUALE E CONTRARIO A QUELLO CHE COVA NELL'ANIMO DI MOLTI NORDISTI, LA COLPA È ANCHE UN PO’ SUA”

Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 16 dicembre 2022. 

(…) Nessuno nega il legame sentimentale di molte tifoserie italiane con gli argentini: Zanetti è il simbolo dell'Inter, Batistuta è stato prezioso per Fiorentina e Roma, Maradona a Napoli è giustamente un mito. 

Ma Diego aveva intuito il risentimento della città verso il resto d'Italia, in particolare il Nord. L'ha rinfocolato alla vigilia della storica semifinale di Italia '90. E se ora molti sudisti sono animati da uno spirito anti-settentrionale uguale e contrario a quello che cova nell'animo di molti nordisti, la colpa è anche un po' sua.

Giornalista insultato dopo Milan-Napoli, «Terrone di m...». Le scuse dei rossoneri. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2022.

«Esprimo solidarietà e mi scuso con il collega Marco Lombardi e con Calcio Napoli 24: tutti dovremmo lavorare con serenità, rispetto e sicurezza». Lo scrive su twitter Pier Donato Vercellone, capo ufficio stampa del Milan, commentando un video in cui si vede l'inviato dell'emittente partenopea in diretta venire aggredito da uno pseudo tifoso con frasi come «Terrone di m...».

Lombardi, giornalista del quotidiano online CalcioNapoli24, stava facendo delle interviste in diretta tv all’uscita da San Siro dopo la vittoria del Napoli per 2-1 sui rossoneri, quando è stato insultato da un ultrà.

«Che degrado», «una vergogna senza fine», sono alcuni dei numerosi messaggi di solidarietà inviati al cronista. «E tra 20 anni sono sicura che - purtroppo - ci ritroveremo nuovamente a condannare (giustamente) questi episodi», si legge in un altro post su Twitter.

«Ecco perché non si può tollerare la canzoncina su #Vesuvio: nonostante qualcuno dica sia solo sfottò da stadio, tanta gente fa della discriminazione territoriale il proprio credo», è un altro commento ancora. «Come per l'aggressione alla collega toscana palpeggiata mentre era in onda, anche qui andrebbe punito l'aggressore con un #daspo», si legge in un post che ricorda l'aggressione alla giornalista toscana Greta Beccaglia di Toscana Tv, palpeggiata mentre era in onda all'esterno dello stadio Castellani di Empoli al termine della partita con la Fiorentina.

Anche la politica è scesa in campo sull'argomento con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha commentato su Facebook la vicenda: «Solidarietà a Marco Lombardi, il giornalista aggredito. Rispetto per Napoli, rispetto per tutto il Sud!».

Altro che servizio pubblico, la Rai ghettizza il Sud. Ricordiamo che un terzo del canone incassato dalla Rai proviene dalle Regioni del Mezzogiorno. Si torni allo spirito di "Non è mai troppo tardi". PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 9 Settembre 2022. 

Il maestro Alberto Manzi, con la sua trasmissione "Non è mai troppo tardi" alfabetizzò milioni di italiani

Dal 1960 al 1968 la Rai mandò in onda un programma televisivo per combattere l’analfabetismo tra gli adulti. “Non è mai troppo tardi” si chiamava il programma, e chiamò a condurlo non un qualunque maestro di scuola elementare, ma Alberto Manzi scrittore insegnante e pedagogista romano.

L’esperimento andato in onda sulla Rai per ben otto anni aiutò 1 milione e mezzo di studenti a conseguire la licenza alimentare. Perché ricordare questo progetto? Per dimostrare che la televisione pubblica prima aveva chiaro di avere un ruolo nel nostro Paese totalmente diverso rispetto alla cosiddetta televisione commerciale.

Per tale motivo è previsto il pagamento di un canone, peraltro con la previsione di un prelievo automatico ed in ogni caso ad un costo indipendente dal reddito di ciascuno.

Per cui considerato che ormai il televisore entra in tutte le famiglie si può ritenere, senza timore di errore, che un terzo del canone complessivo, incassato dalla Rai, provenga dal Mezzogiorno d’Italia, come la popolazione.

Questo investimento che il Sud ogni anno fa si può affermare che torni con un servizio corrispondente alle risorse impiegate? In realtà in molti ritengono che la Rai sia funzionale al cosiddetto Partito Unico del Nord, e che si sia posta in modo strabico rispetto ad una parte del Paese.

Ad un occhio attento non può sfuggire il fatto che nella sua programmazione la presenza di opinion leader appartenenti al nord del Paese sia assolutamente prevalente.

Come pure la dimensione delle realtà produttive della stessa, in termini di fiction e di programmi, sia prevalentemente oltre che a Roma come è naturale poi a Milano, mentre tutto ciò che c’è da Napoli in giù è assolutamente trascurato.

In un processo nel quale si insegue, come forse è giusto che sia, lo spettacolo più cool, la mostra più ricca, il festival di successo, l’evento internazionale più importante, la concentrazione di attenzione rispetto al nord del Paese diventa quasi fastidiosa.

Ma anche laddove il tema diventa quello del confronto scientifico su temi riguardanti la medicina, l’economia, la fisica o le scienze varie la concentrazione degli opinionisti fa riflettere molto sullo strabismo della Rai.

Gli ultimi due anni di pandemia ci hanno fatto apprezzare moltissimo i tanti virologi esistenti in Italia. Molto strano è che tutti quanti avessero sede presso un policlinico o un’università al di sopra di Bologna.

E se poteva essere comprensibile, quando i collegamenti via web erano più complicati, che la scelta avvenisse in realtà più servite e più vicine ai centri di produzione, stupisce notevolmente che invece si è continuato a coinvolgere professionalità, pur di rilievo, del Nord, lasciando totalmente marginale tutte le realtà scientifiche che avessero sede a Napoli, Bari, Palermo o Catania ora che la dislocazione geografica diventa indifferente.

In una forma di discriminazione che se fatta dalla televisione commerciale, pur se non condivisibile, può trovare motivazione nelle cordate e nei gruppi prevalenti, ma che non può essere assolutamente condivisa se portata avanti dalla televisione pubblica.

La spiegazione di tale comportamento è molto semplice. Poiché la televisione pubblica è lottizzata dal Partito Unico del Nord, non è strano che esso promuova i propri “aficionados”, dando quei contentini che poi servono a lanciare libri a coloro che sono più vicini, se si tratta di giornalisti ad avere spazi televisivi pagati molto bene, se si tratta di divulgatori ad aver affidate trasmissioni da gestire.

Ovviamente si tratta di un tradimento assoluto degli obiettivi che dovrebbe porsi un servizio pubblico. Che, come fece nel 1960 quando cercò di unificare l’alfabetizzazione del Paese, negli anni 2000 dovrebbe aiutare a rilanciare le realtà marginali, aiutandole a promuovere le loro attività turistiche, i loro grandi concerti, le loro attività culturali che il Paese conosce poco, da quelle che si svolgono al teatro greco di Siracusa, alla Sagra del mandorlo in fiore della Valle dei templi, fino al festival della Taranta. Ovviamente non solo trasmettendole ma, cosa ben diversa, promuovendole.

Un’attenzione particolare dovrebbe essere rivolta anche all’informazione che arriva da queste realtà ed evitare che sia predominante quella che vuole far passare la parte dirigente dominante del Paese.

Le rassegne stampa che danno prevalenza ai giornaloni nazionali, per altro di proprietà degli imprenditori che indirizzano non solo l’economia ma anche il pensiero della gente, diventa una forma di lavaggio del cervello, per cui se un investimento non è congeniale all’indirizzo prevalente viene criminalizzato e coloro che lo sostengono spesso ridicolizzati.

Quello che è accaduto e che accade ancora con il progetto del ponte di Messina è illuminante di come investimenti importanti vengano trattati. Se poi si pone a confronto con la pubblicistica relativa al Mose di Venezia e alla TAV ci si accorge che quando si tratta di indirizzare le risorse per le infrastrutturazione del Sud del Paese tutto diventa assolutamente spesa sprecata.

Per cui il Mezzogiorno, che non ha voci autorevoli nella panoramica nazionale, sia per quanto riguarda la carta stampata che per quanto riguarda le televisioni generaliste, viene assolutamente silenziato nelle pagine regionali di media marginali e periferici.

Per cui mentre i media privati continuano a perseguire gli obiettivi legittimi che si sono proposti, l’unico media pubblico, che dovrebbe equilibrare in parte il rapporto di forza esistente, non fa altro che aiutare quella concentrazione di posizione dominante per cui una parte del Paese non riesce più ad avere voce.

Tale approccio si ritrova anche rispetto al Governo del Paese, per cui anche se vi dovessero essere ministri con provenienza meridionale, e non dovessero allinearsi rispetto alle posizioni dominanti prevalenti, vengono maltrattati quando non capita quello che è accaduto al presidente Leone, napoletano, costretto a dimettersi da un’inchiesta profondamente ingiusta. Mentre l’energia diventa costosissima ed i tassi esplodono potrebbe sembrare quello trattato un problema minore, ma la democrazia è fatta di pesi e contrappesi, di equilibri anche nell’informazione.

Diritti civili negati al Sud, così l'Italia viola la Costituzione e ora ci mette anche il sigillo. Ma voi ditemi perché io di Foggia devo essere curato peggio e meno di uno di Pavia. Ma voi ditemi perché io di Matera devo avere meno bus di uno di Verona. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Settembre 2022.

Ma voi ditemi perché io di Foggia devo essere curato peggio e meno di uno di Pavia. Ma voi ditemi perché io di Matera devo avere meno bus di uno di Verona. Ma voi ditemi perché io di Avellino devo avere minore assistenza sociale di uno di Parma. Ma voi ditemi perché io di Crotone devo avere meno ore di scuola di uno di Alessandria. Ma voi ditemi perché io di Campobasso devo avere meno asili nido di uno di Arezzo. Per lo Stato italiano i cittadini hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali. Ma voi ditemi perché non sono uguali a seconda di dove sono nati. E ditemi perché lo Stato italiano continua a violare la sua stessa Costituzione a danno dei meridionali nati nel posto sbagliato. Ditemi perché dobbiamo avere uno Stato ingiusto e razzista.

Voi dovete dirmi anche perché io non nato a Varese o a Padova devo avere meno lavoro e più povertà, meno benessere e più emigrazione. Problema vostro, è stata finora la risposta, vostro difetto di capacità e di modernità. E se insistete vi rinfacciamo anche di essere nati così. Mentre lo stesso incostituzionale Stato italiano, che fa un colpo di Stato verso se stesso riguardo al Sud, lo ammette nei suoi conti: io spendo molto meno per un cittadino meridionale rispetto a uno centrosettentrionale.

Perché? Perché ci sono italiani e diversamente italiani. E perché c’è un federalismo fiscale che da almeno 21 anni (per parlare solo degli ultimi) continua a derubare il Sud. Lo dicono i Conti pubblici territoriali del Mise (Ministero sviluppo economico, evidentemente sviluppo del solo Centro Nord).

Ma se questo divario di ricchezza è inaccettabile, addirittura immorale è quello dei diritti di cittadinanza, appunto quei servizi che fanno la qualità della vita. Appunto sanità, scuola, trasporti, sostegno agli anziani. E che non possono dipendere dalle condizioni economiche, anzi le determinano. Servizi che danno o non danno dignità all’esistenza. Voi del Sud dovete vivere con meno dignità. Dovete vivere peggio solo perché del Sud. Condannati a morire prima. La Questione Etica di uno Stato non etico, altro che Questione Meridionale. E non meraviglia sapere chi sia stato a sollevarla in una campagna elettorale che di Sud parla solo per bacchettarlo, eh dovete darvi da fare. Rapinati e dileggiati.

Monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio, è vicepresidente dei vescovi italiani e delegato al Mezzogiorno. In Italia il divario civile, ha detto, è più accentuato di quello economico, ed anche più preoccupante. Meno accettabile. Meno accettabile che un calabrese ammalato non possa curarsi nella propria città con la stessa tempestività ed efficacia di un lombardo. Che c’entra una malattia con tutto il resto? Che c’entrano i servizi alla persona, che c’entra l’umanità col conto in banca? Tutto ancora meno accettabile che un calabrese abbia un reddito di appena la metà di quello medio dei lombardi. Perché lo Stato italiano non ha mai calcolato i bisogni civili dei meridionali tanto quanto ha calcolato (e con che fretta) quelli dei settentrionali. Anzi siccome ai settentrionali ha sempre storicamente dato di più, continua storicamente a darlo. Giusto? Ah, ora pensiamo al gas.

Monsignor Savino non cita i neoborbonici in questa sua denuncia dal sapore dell’intemerata nell’indifferenza generale. Cita, fra le altre, Caritas e Legambiente. Su questo scandalo europeo di un Paese neanche lontanamente europeo, ora le forze politiche si accingono a mettere il sigillo definitivo. E lo fanno a destra, a sinistra, al centro: tanto perché nessuna ne perda il merito. Si accingono a sancire una volta per tutte che i più fragili diventino sempre più fragili. L’autonomia differenziata chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia vuole cristallizzare e legittimare questo golpe continuato. E lo sarebbe quand’anche non pretendessero (come pretendono) di trattenersi le loro tasse perché i ricchi devono essere trattati meglio per un merito: essere ricchi. Anche se per i servizi che vogliono gestire spendessero quanto attualmente spende lo Stato, quella spesa è la spesa storica. Cioè una spesa in più di quanto gli spetterebbe e che viene sottratta ogni anno ai malati, agli studenti, agli anziani del Sud.

Udite, udite: chi nel 2009 denunciò questo colpo di mano continuativo e aggravato ai danni del Sud fu un certo Caldarola, big della Lega Nord. Era indignato anche lui, figuriamoci. Ora deve essere un vescovo a dire che non si venga, per carità, a parlare di vangelo. E biblicamente che non si dica Signore Signore violando la dignità dei più deboli.

LA RIFLESSIONE. Settentrione e Meridione: le ciabatte rubate dalle onde e un mare di differenze. L’altro giorno, in un mare a nord di Roma, ho perduto le mie ciabatte...Marcello Veneziani su la Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Agosto 2022

L’altro giorno, in un mare a nord di Roma, ho perduto le mie ciabatte. Il mare era agitato, con onde anomale, e una mareggiata ha sommerso lo scoglio dove le avevo parcheggiate e le ha trascinate in acqua, portandole velocemente al largo e a picco, fino a perderle di vista.

Sono tornato dal mare scalzo ma nessuno dei presenti al mare o delle persone che ho incontrato lungo la strada mi ha chiesto perché camminassi a piedi nudi. Allora ho pensato: se fosse successo da noi, al Sud, o perlomeno nel Sud che io ricordo, le persone presenti o incontrate avrebbero reagito diversamente. Sarebbe nata una rappresentazione teatrale, una pantomima collettiva.

Il primo mi avrebbe chiesto perché vado scalzo, si sarebbe fatto raccontar tutto e poi mi avrebbe detto che la stessa cosa era successa a suo zio quando lui era piccolo, e sarebbe nata una discussione collettiva sulle scarpe perdute.

Il secondo si sarebbe tuffato subito in acqua per ripescarle e riportarmele.

Il terzo si sarebbe tuffato subito dopo in acqua per ripescarle e portarsele lui.

Il quarto si sarebbe messo a coglionarmi insieme ad altri, trovando argomento di conversazione e derisione.

Il quinto avrebbe approfittato della confusione, cercando di farmi sparire, con la scusa dei flutti, pure l’orologio e il portafogli.

Il sesto avrebbe piantato una lamentela sul mare che non è più quello di una volta, e come il governo ladro, si arruba tutto.

Il settimo avrebbe cercato di vendermi le sue vecchie ciabatte a caro prezzo, approfittando dello stato di necessità.

L’ottavo, invece, mi avrebbe offerto le sue scarpe, dicendo che ne porta sempre un paio di riserva nel borsone.

Il nono per solidarietà avrebbe buttato in mare pure le sue ciabatte, tanto per creare un movimento di carmelitani scalzi, lanciando una moda, una setta, un partito a piede libero.

Il decimo, mosso a pietà, avrebbe convocato il suo parentado per portarmi sulle spalle, a cavacece o in processione, fino a casa sua, dove mi avrebbe offerto un ristoro per consolarmi della perdita e farmi raccontare la disavventura anche ai nonni e alle zie.

L’undicesimo, invece, sarebbe stato zitto, ma io che sono meridionale gli avrei chiesto il perché del suo silenzio: perché era settentrionale, in vacanza da noi.

Questa parabola estiva, poco evangelica e molto pedestre, racconta la differenza tra Nord e Sud, ma non stabilisce supremazie. Sono meglio i settentrionali che si fanno i fatti loro o noi che ci facciamo i fatti degli altri?

Farsi i fatti loro può essere segno di civiltà e discrezione, non voler disturbare o intromettersi; ma può essere anche un fregarsene degli altri, diffidare del prossimo, badare solo ai propri interessi. Così, farsi i fatti degli altri, come succede da noi, può voler dire essere pettegoli, invadenti, furbi e molesti ma anche generosi, socievoli, consorti e più dotati di umanità.

Da noi non esistono i diritti ma i favori, si tira sul prezzo e si vorrebbe vivere gratis. Niente ti spetta per legge o per averlo meritato, tutto è al buon cuore o alla buona creanza; tutto accade per fortuna, malocchio o provvidenza.

È un pregio, è un male? Tutt'e due. Dipende dai punti di vista, in assoluto non si può dire e tantomeno stabilire differenze di razza e di civiltà. Diciamo solo che i nostri comportamenti sono più vari e più fantasiosi rispetto a quelli settentrionali. Da noi è più complicato vivere, ma forse è più divertente.

Però forse vi sto parlando di un Sud che non c'è più, sparito nel mare come le mie ciabatte.

P.S. A chi fosse interessato sapere come è finita, perché è un curioso meridionale, tre giorni dopo il mare ha restituito le ciabatte. Integre. Si erano fatte un giro in mare per conto loro e sono tornate ai miei piedi, prostrate.

Giulia Zonca per “La Stampa” il 17 ottobre 2022.

Roma nord, esterno notte. Zaynab Dosso la miglior velocista azzurra, bronzo con la 4x100 agli ultimi Europei, festeggia la nuova casa con la sorella e le amiche e l’incontro gira storto perché le ragazze vengono avvicinate e poi insultate da una donna che chiede soldi e nessuno interviene. Dosso posta gli insulti ricevuti: «Puttana straniera, torna al tuo Paese». Il suo paese è l’Italia, i suoi genitori sono nati in Costa d’Avorio. 

Scrive «non mi sento tutelata, ho paura di uscire di casa».

«Questa storia mi ha stravolto, ho il cuore spezzato, mi sento violata». 

Una donna in cerca di monete vi ha insultate?

«Direi aggredite, violenza verbale e senza motivo. Siamo state gentili, non avevamo monete e basta. Lei si è messa a bisbigliare crudeltà, mi sono avvicinata e le ho detto “ripeti” e lei lo ha fatto, a voce alta, in mezzo ai tavoli. Era un locale affollato, tutti hanno sentito e nessuno ha reagito». 

Neanche una parola? Qualcuno è venuto almeno da voi, a parlarvi?

«Zero, la mia amica Johanelis Herrera si è messa a piangere e qualcuno ha pure buttato lì “non è successo niente”. Io e Luminosa Bogliolo, compagne di allenamento, ci siamo alzate per calmarla. Era tutto molto evidente e la gente zitta, anzi, certi sfottevano pure. Quella signora si è fermata lì, a chiedere soldi e a ridere di noi». 

È l’episodio di razzismo più duro che ha vissuto?

«Così, in pubblico, sì. Deprimente, disperante. Io tendo a credere che le cose con il tempo cambino, ma adesso la vedo proprio buia. Mi sono chiesta: dove viviamo?». 

Dopo il post ha ricevuto messaggi di solidarietà?

«L’ho scritto e sono uscita da Instagram, non me la sento ancora di guardarci. Ho bisogno di tempo. Volevo denunciare e scrivere era l’unico modo. Che altro fare? Se avessi riportato l’episodio ufficialmente avrebbero aperto una segnalazione e basta. Non è nemmeno la prima brutta cosa che capita da quando ci siamo trasferite. Ci hanno tirato un sasso».

Un sasso?

«Sì, durante il trasloco. Da un balcone. Non per prenderci, per spaventare, ma non ho voluto credere che fosse mirato. Ho detto a mia sorella: “Sono dei balordi , lasciamo perdere”». 

Adesso la pensa diversamente?

«Sì, non mi ero mai sentita così sola. Quando Jo è scoppiata in lacrime, ci siamo calmate tra noi. E neanche una frase, il tentativo di un sostegno. Mi dicono “brutta negra” e va bene così. Non può essere». 

Le viene la tentazione di andare a vivere altrove?

«Il mondo è tutto uguale, bisogna trovare antidoti a certe reazioni indegne, fermare a questi attacchi. Mi aspetto che la politica lo faccia». 

In che modo?

«Sarebbe bello che chi ha vinto le elezioni desse un segnale forte contro il razzismo. Se i beceri oggi si sentono più forti, si credono liberi di alzare la voce e restare impuniti, serve che chi starà al governa dica forte e chiaro non è così». 

Se succedesse si sentirebbe più tutelata?

«Ora resto sconvolta, credo solo che chi ha voce in capitolo non possa stare in silenzio. So bene che è un momento delicato e non mi va proprio che questa situazione venga strumentalizzata. Io mi aspetto delle risposte dalla politica. Non posso venire insultata e maltrattata nel mio nuovo quartiere tra gli sberleffi di chi guarda. Così fa schifo».

Francesco Calvi per gazzetta.it il 20 Ottobre 2022. 

“Da qui non si passa”. Sui campi da calcio gliel’avrà detto qualche difensore, adesso è toccato… alla security della sua banca. Duvan Zapata è stato protagonista di un inconveniente nel pieno centro di Bergamo, mentre si recava a un appuntamento con il suo consulente finanziario. 

Il 31enne colombiano, infatti, è stato bloccato all’ingresso di Fideuram, private banking con sede in piazza Matteotti. Il calciatore dell’Atalanta è stato “tradito” dal suo outfit, che ha impedito agli agenti di riconoscerlo in un primo momento: pantalone di tuta e felpa con cappuccio e una... "sospettosa disinvoltura". Quando Zapata si è avvicinato alle porte della banca, la security l’ha respinto: “Dove pensa di andare?”. L’attaccante ha provato a identificarsi, spiegando chi fosse e perché volesse entrare. Il dialogo è proseguito per qualche istante, fino all’intervento del responsabile di Fideuram: “Duvan è un nostro cliente, ma la security non lo poteva sapere. Gli addetti stavano semplicemente facendo il loro lavoro, garantendoci un servizio di vigilanza in un interspazio tra l’ingresso e la strada”.

(ANSA il 17 ottobre 2022) - Gli Allievi del Cas Sacconago (quartiere di Busto Arsizio, centro in provincia di Varese) sono usciti dal campo ieri, prima del fischio finale, per solidarietà nei confronti di un ragazzo di origine marocchina di 16 anni che sarebbe stato chiamato "negretto" dall'allenatore del Gallarate, la squadra avversaria. Il fatto, riportato oggi dal quotidiano La Prealpina, è successo nelle battute conclusive del match di calcio degli Allievi provinciali tra Gallarate e Cas. 

La squadra di casa stava conducendo 3-1 e mancava pochissimo alla fine quando, raccontano i dirigenti del Cas, l'allenatore del Gallarate avrebbe apostrofato col termine "negretto" un ragazzo della squadra ospite. Il ragazzo si è offeso, ne è scaturito un momento di tensione al termine del quale l'allenatore gallaratese è stato espulso. "A quel punto la partita è passata decisamente in secondo piano - ha spiegato Massimo Di Cello, tecnico del Cas -. Tutta la nostra squadra, per solidarizzare col nostro ragazzo, ha deciso di uscire dal campo. Abbiamo voluto dare un segnale perché reputiamo molto brutto ciò che è successo. Speriamo che la Federazione prenda provvedimenti".

"Se qualcuno ha sbagliato - ha sostenuto il presidente del Gallarate - pagherà, ma questo verrà stabilito solo dal referto dell'arbitro e dai comunicati federali. Per noi conta questo. Il resto lascia il tempo che trova". Il presidente non ha voluto entrare nel merito dell'epiteto che sarebbe stato proferito dall'allenatore del Gallarate: "Ribadisco che per noi vale quello che emergerà dai comunicati della Federazione. Se qualcuno ha sbagliato pagherà, chiunque egli sia. Per il resto, ognuno può dire quello che vuole. Noi ci atteniamo alle decisioni ufficiali". 

Per il Cas gli aspetti legali non sono importanti: "Ci interessa solo che il loro mister si scusi col nostro giocatore - sottolinea l'allenatore -. Per ora non abbiamo ricevuto scuse da parte di nessuno. Non ci interessa avere eventualmente la vittoria a tavolino, anzi se ci assegnassero i tre punti preferiremmo non accettarli".

Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 18 ottobre 2022. 

Mohamed, 16 anni, non vuole più giocare a calcio. Il pallone era la sua passione da sempre, ma due giorni fa è tornato a casa dicendo alla famiglia che ha chiuso. Ad infrangere il sogno, una parola: «Negretto». È stato chiamato così dall'allenatore degli avversari domenica mattina, durante quella che doveva essere una tranquilla partita di calcio fra ragazzini.

La squadra del giovane, il Cas Sacconago quartiere di Busto Arsizio, in provincia di Varese ha abbandonato il campo a cinque minuti dal fischio finale per solidarietà. E quella giornata, in cui il problema più grande doveva essere l'imminente sconfitta contro il Gallarate - altra squadra del Varesotto -, si è trasformata nell'ennesimo grave episodio di razzismo nel mondo dello sport. 

LA QUERELA Dopo il recente caso della pallavolista della Nazionale, Paola Egonu, che si è sfogata alla fine di una partita per le varie offese razziste ricevute, ad essere discriminato per il colore della pelle stavolta è un ragazzo giovanissimo di origine marocchina.

«Nelle prossime ore sporgerò denuncia, non starò zitto - dice il padre Abdelkhalek - La società deve mandare a casa l'allenatore che si è rivolto a lui in quel modo». Espulso dal terreno di gioco subito dopo che all'arbitro è stato riferito quanto accaduto, il mister non avrebbe mai chiesto scusa a Mohamed né alla sua squadra. 

«Mio figlio ci è rimasto malissimo, ha detto che non vuole più giocare - spiega amareggiato il papà - Lo hanno sentito tutti, anche gli altri ragazzi di colore che fanno parte della formazione. Ce ne sono cinque originari del Marocco, ma un episodio del genere non era mai successo». Il Cas Sacconago stava perdendo 3-1, quando quella parola è rimbombata nel campo sollevando l'indignazione di tutti. «Ero in tribuna a fare il tifo per mio figlio e a un certo punto mi sono accorto che era arrabbiato. Quando sono andato a chiedergli cosa fosse successo, non potevo crederci». La tensione scaturita dal grave epiteto proveniente dalla panchina ha immediatamente spazzato via la serenità di quella domenica mattina.

L'arbitro era troppo distante in quel momento, ma Mohamed ha sentito benissimo e non ha certo fatto finta di niente. Il mister e i compagni di squadra, poi, non ci hanno pensato due volte: dovevano andarsene. Anche a scapito del risultato e di eventuali provvedimenti. «I ragazzi hanno semplicemente abbandonato il campo e sono andati via, alcuni non si sono nemmeno fatti la doccia», spiega Abdelkhalek. 

LA SOLIDARIETÀ Il gesto di solidarietà è stato mosso anche dalla volontà di «dare un segnale forte alla squadra avversaria», come spiega l'allenatore del Cas Sacconago, Massimo Di Cello. «Abbiamo preso l'iniziativa tutti insieme: io, i ragazzi e il dirigente. Non si poteva andare avanti dopo quello che è successo». I giovani della formazione avversaria non avrebbero protestato. «Probabilmente hanno capito la gravità dell'episodio e sono rimasti fermi in mezzo al campo, tranquilli. 

Dopo di noi, se ne sono andati anche loro». Ciò che al momento sta più a cuore alla squadra del quartiere di Busto Arsizio «è che il mister avversario si scusi con Mohamed e con tutti gli altri. Non ci interessa nemmeno avere eventualmente la vittoria a tavolino», spiega il tecnico. «Anzi, se ci assegnassero i tre punti per vincere preferiremmo non accettarli». Per il resto, «speriamo che la Federazione prenda provvedimenti». Sconvolti anche i fratelli maggiori di Mohamed, studenti universitari, ai quali «non è mai capitato un episodio così».

Il 16enne, nato in Italia e residente a Busto Arsizio con la famiglia, gioca a calcio da 11 anni e mai avrebbe potuto immaginare di finire per sentirsi discriminato proprio in quello che da sempre è il suo posto sicuro, il campo da calcio. «Ieri mattina è andato a scuola, ma era tanto arrabbiato e triste», dice il papà. «Conosco benissimo gli italiani: lavoro con loro, mangio con loro. Nessuno aveva mai detto prima questa parola né qualsiasi altra espressione a sfondo razzista». Il presidente del Gallarate sottolinea che «se qualcuno ha sbagliato, pagherà. Ma questo verrà stabilito solo dal referto dell'arbitro e dai comunicati federali. Per noi conta questo. Il resto lascia il tempo che trova». Su quanto accaduto non si sbilancia: «Ci atteniamo alle decisioni ufficiali».

Pippo Russo per tag43.it il 18 ottobre 2022.

La rabbia, l’orgoglio e una decisione emotiva. Per una volta le cronache sportive del weekend non sono state monopolizzate dal calcio ma dal volley femminile. E non per questioni legate alla sfera agonistica ma per un episodio che rimette al centro del dibattito la banalità del razzismo italico, quel coacervo di pregiudizi e ignoranza che va oltre l’intolleranza pura e finisce per ferire anche di più. 

Al centro della vicenda si ritrova Paola Egonu, la volleista più mediatizzata d’Italia. Un ruolo che ha saputo conquistare sia grazie al talento che ne fa una delle migliori giocatrici di questa generazione, sia per il suo profilo da neo-italiana che incarna il mutamento socio-culturale cui il Paese stenta a adeguarsi. Nata a Cittadella da immigrati nigeriani, Paola ha ottenuto la cittadinanza italiana soltanto all’età di 16 anni, dopo che il padre ha acquisito il passaporto del nostro Paese. Ma evidentemente ciò non basta per tutta quella parte d’Italia ai cui occhi avere la pelle nera sarebbe ancora un requisito escludente dall’italianità. E un episodio dopo l’altro Paola ha esaurito la capacità di sopportazione.

L’episodio che ha colmato la misura è stato rivelato dalla stessa Egonu, durante uno sfogo colto da una videoripresa a margine della finale dei Mondiali per il bronzo. Qualcuno le avrebbe chiesto perché mai sia italiana, ciò che l’ha ferita fino a farla scoppiare in lacrime e l’ha convinta a lasciare la Nazionale. L’episodio e la scelta di Egonu hanno immediatamente scatenato reazioni, con messaggi di solidarietà che sono giunti anche dal presidente del Consiglio dimissionario Mario Draghi e dal presidente del Coni, Giovanni Malagò. Per il momento non è dato sapere se l’intenzione di non rispondere alle convocazioni della Nazionale sia definitiva o momentanea. Ma al di là della volontà che Egonu ha rispetto a ciò, sarebbe il caso di mettere a fuoco l’aspetto decisivo della questione. 

Premessa: Paola Egonu ha diritto di agire come meglio crede e di reagire secondo emotività e sensibilità proprie rispetto a comportamenti infami come quelli che le vengono rivolti. Perché infine si sta parlando di episodi che feriscono la persona nella sua identità, dunque è giusto che in termini personali si reagisca almeno in prima battuta. E tuttavia, superato il livello della prima battuta, sarebbe il caso di fare altre considerazioni e assumersi il proprio grado di responsabilità sociale.

Nel caso di un personaggio pubblico di altissimo impatto qual è Paola Egonu, la responsabilità sociale raccomanderebbe di fare altre scelte. Lo voglia o no, Egonu è un simbolo. Lo è per il mondo dello sport, lo è per tutta la vasta leva di italiane e italiani di seconda generazione che quotidianamente si trovano a affrontare pregiudizi odiosi e atti spregevoli, lo è per la cultura di un Paese che sta affrontando un lento mutamento culturale il cui esito non è nemmeno scontato. 

Per questo Egonu farebbe bene a compiere una scelta opposta a quella annunciata: affrontare il razzismo italiano diventando un simbolo delle campagne antirazziste, anziché optare per una rinuncia che in queste condizioni sa molto di diserzione. E comprendiamo bene che servano molta forza e molto coraggio per affrontare un impegno così pesante. Ma visto il profilo pubblico di Egonu, e considerata anche l’ondata di solidarietà che il suo caso ha animato, sarebbe bene che la ragazza ci ripensasse.

Balotelli ha sciupato una grande occasione

In questo senso, la volleista che da questa stagione gioca nel campionato turco col VakisBank di Istanbul dovrebbe guardare al precedente di Mario Balotelli, altro neo-italiano che negli anni è stato costretto a affrontare gli effetti del razzismo. L’attaccante attualmente in forza al Sion (Svizzera) ha spesso reagito a quegli insulti, talvolta anche in modo clamoroso come accadde allo stadio Bentegodi durante un Verona-Brescia del novembre 2019, quando scagliò il pallone verso gli spalti e minacciò di abbandonare il campo.

Ma al di là delle reazioni anche animose, Balotelli non ha mai provato a essere un simbolo della lotta contro il razzismo italiano, nello sport come nella società. Ha sempre scelto il piano della guerra personale anziché farsi testimonial. Sciupando così una grande occasione per se stesso e per tutti coloro che si sarebbero giovati di una sua assunzione di responsabilità sociale. Paola Egonu non faccia altrettanto. E, sbollita la rabbia, torni a giocare in Nazionale. Perché è italiana a tutti gli effetti, come tanto italiani dalla pelle non bianca che quotidianamente mandano avanti questo Paese. E perché questa battaglia non è soltanto sua. Ne prenda coscienza.

Paola Egonu, "schiacciata sul centrodestra": la verità che nessuno dice. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 18 ottobre 2022

La campagna elettorale è finita, caratterizzata da una sinistra che per mesi ha assoldato qualsiasi vip potesse aiutare a gettare fango sul centrodestra, ma pure in questi delicati giorni che precedono la formazione del nuovo governo il copione non sembra cambiato. Qualsiasi pretesto torna utile per addossare palesemente o velatamente le responsabilità delle brutture che accadono nel Paese al "clima" che ha permesso alla destra di vincere le elezioni (vinte solo ora perché per anni il voto è stato evitato come la peste). L'ultimo caso riguarda Paola Egonu, 23enne fenomeno della pallavolo italiana nata a Cittadella da genitori nigeriani. Dopo la recente sconfitta dell'Italvolley durante la semifinale dei mondiali, sull'Italia, su Paola Egonu e sul ct Davide Mazzanti sono piovute sonore critiche. E al termine della "finalina" vinta contro gli Usa, Egonu si è abbandonata a un duro sfogo con il suo manager pescato dalle telecamere. «Non puoi capire, mi chiedono perché sono italiana. È la mia ultima partita con l'Italia», ha detto l'opposto azzurro, lasciando intendere di aver ricevuto invettive di carattere razzista e xenofobo (da non meglio precisati hater).

SOLIDARIETÀ BIPARTISAN - Nonostante la sua parziale rettifica («mi prenderò una pausa»), il caso è montato comunque proprio nelle ore in cui alla Camera e al Senato venivano eletti i nuovi Presidenti Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa. Così è l'arruolamento di Paola come vittima dell'odio diffuso dalla destra italiana. Uno dei primi a lanciare il sasso è l'ex ct dell'Italvolley maschile fresco di elezione a Montecitorio col Pd: «Sorridi Paola, un momento difficile per tutti, ma passerà. E festeggeremo insieme», ha scritto su Twitter. Quel «difficile per tutti» vuol dire in realtà per tutti quelli di sinistra, che difatti poche ore prima twittava contro Fontana dicendosi «indignato» perla sua nomina: «Da Parlamentare sono pronto a fare qualsiasi cosa serva per fermare questa vergogna», ha aggiunto.

La solidarietà a Paola Egonu è stata ovviamente bipartisan, comprese le frasi di Matteo Salvini, Giuseppe Conte ed Enrico Letta, per quanto il social media manager di quest' ultimo abbia sbagliato il nome sui social, chiamandola "Enogu", a riprova del fatto che in fretta e furia la sinistra si sia interessata solo ora che può cavalcare l'onda un profilo che probabilmente ignorava fino a ieri. Persino Mario Draghi ha manifestato sostegno, tramite l'account ufficiale di Palazzo Chigi.

TENSIONE NELLO SPOGLIATOIO - Per quanto siano avvolti nel mistero i dettagli delle frasi contro Egonu, che queste non abbiano ovviamente nulla a che fare con la vittoria elettorale del centrodestra lo dimostrano le parole del ct Mazzanti, che aveva palesato pubblicamente ciò che gli addetti ai lavori sanno da tempo, e cioè che lo spogliatoio dell'Italvolley non sia troppo coeso e che lo stress e la pressione per una vittoria iridata che tutti si aspettavano erano altissimi. Specie sulla Egonu: «Non ci nascondiamo, ci sono problematiche che vanno superate col buonsenso, vanno migliorate col dialogo, pezzo per pezzo», ha confessato.

Anche il presidente Federale Manfredi ha lasciato intendere qualcosa di simile, aggiungendo che le ondate di insulti sono arrivate «sui social da qualche cretino» e che però allo stesso tempo «in 6 mesi di ritiro alcuni problemi di convivenza possano esserci». Oltre agli esponenti del Pd, che scientemente ignorano il contesto, e che soprattutto non hanno avuto gli stessi tempi di reazione davanti alle minacce di morte rivolte a La Russa (per l'esponente di FdI la solidarietà della sinistra è arrivata in differita di quasi 24 ore, dopo che il silenzio è stato fatto notare dalla coalizione), l'odiatrice di professione Rula Jebreal ha provveduto a mistificare l'accaduto per di più in inglese e all'estero: «Dopo che il governo di estrema destra ha confermato un razzista (che sosteneva i neonazisti) come speaker della Camera L'eroe sportivo italiano #PaolaEgonu ha lasciato la nazionale, spiegando in lacrime che la sua decisione è stata guidata dal razzismo: le chiedevano regolarmente se fosse una 'vera italiana'». Rula una cosa lo è di certo: anti-italiana. 

Il video dello sfogo della campionessa. Paola Egonu lascia la Nazionale: “Mi hanno chiesto perché sono italiana, questa è la mia ultima partita”. Redazione su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

A fine partita, in lacrime a bordo campo, la pallavolista Paola Egonu, la più forte atleta italiana, una delle azzurre più forti di sempre, e una delle più forti al mondo si è lasciata andare a uno sfogo che sarebbe una notizia clamorosa: “È stancante. Mi hanno chiesto perché sono italiana. Questa è l’ultima partita che faccio con la Nazionale”. Una dichiarazione parzialmente smorzata alla Rai ai cui microfoni Egonu ha detto: “Sono molto stanca adesso, potrei prendermi una pausa dalla nazionale, non dico però di lasciarla. La prossima estate si vedrà”.

Lo sfogo è arrivato a fine partita, dopo il 3-0 agli Stati Uniti. Le Azzurre hanno conquistato così il bronzo al Mondiale di volley. Al margine della zona mista Egonu è crollata in lacrime con il suo procuratore Marco Reguzzoni: “Mi hanno chiesto anche se fossi italiana … questa è la mia ultima partita in Nazionale, sono stanca. Non puoi capire. Vinciamo grazie a me, ma soprattutto quando si perde è sempre colpa mia …”. Il video è stato rubato da un tifoso e ha fatto rapidamente il giro dei social network. Un altro video molto visualizzato ha ripreso invece Egonu mentre abbracciava lungamente in campo il libero della nazionale Monica De Gennaro.

Egonu gioca da questa stagione al VakifBank Istanbul, dov’è arrivata dopo aver vinto tutto con la maglia dell’Imoco Conegliano. “Per ora sono felice di vivere questo Mondiale, poi si vedrà. Sono fiera e sono grata ad avere le mie compagne che mi sopportano”, ha detto invece ai giornalisti nelle interviste post-gara Egonu. È anche grazie a lei se l’Italia negli ultimi anni è diventata una potenza nella pallavolo femminile: con la schiacciatrice in campo le azzurre hanno conquistato un argento al Mondiale 2018 e l’oro agli Europei l’anno scorso. Non è chiaro chi le avrebbe rivolto la frase e in quale contesto. “Dovete chiedere a chi l’ha detto”, ha commentato l’atleta a una domanda della Rai.

“Sono fiera della squadra, del gruppo e di me stessa. Perché oggi è stato veramente difficile scendere in campo. Sempre un onore portare addosso la maglia azzurra, vorrei però tanto avere un’estate libera per riposare come persona, per la mia testa. Non voglio togliere meriti alle mie compagne, ma ogni volta a essere presa di mira sono sempre io e si va a vedere come io ho sbagliato e come avrei potuto fare meglio“, ha detto in un’intervista a Sky. Potrebbe trattarsi anche di un semplice sfogo per il rimpianto di non essere riuscite a raggiungere la finale Mondiale, dove le Azzurre si presentavano da favoritissime.

A fine partita è arrivato infatti anche il commento di Raguzzoni, il procuratore che aveva raccolto lo sfogo di Egonu: “Paola è italiana al 100 per cento, nel 2022 è assurdo sentire ancora queste cose. Ma è stato lo sfogo di un momento. La pausa dall’azzurro? È normale, nella pallavolo di oggi i tornei si susseguono in maniera incessante, tra una settimana c’è già il campionato. Ma, assicuro, Paola non lascerà l’azzurro”.

Pierfrancesco Catucci per corriere.it il 16 ottobre 2022.

È stanca, turbata, esausta Paola Egonu dopo la vittoria con gli Stati Uniti che chiude con un bronzo mondiale una lunghissima estate azzurra: cinque mesi, poco meno della stagione di un club. Tanto da annunciare il ritiro dalla Nazionale, poco più tardi ridimensionato in una pausa. C’è anche questo nel calderone delle emozioni a cui la campionessa azzurra si lascia andare con il suo procuratore Raguzzoni nel video «rubato» da un tifoso e pubblicato su Twitter. 

Ci sono le critiche per quegli errori nella semifinale col Brasile lasciata scappare senza mai dare l’impressione di averla in mano. E poi quelle parole («Mi hanno addirittura chiesto: perché, sei italiana?»), ricevute tra i mille messaggi e commenti sui social e buttate fuori tutto d’un fiato tra le lacrime. Parole becere, razziste, che aggiungono ulteriore carico emotivo su una donna che il prossimo 18 dicembre compirà solo 24 anni. 

Il razzismo

«Mi fa ridere pensare a persone che mi hanno chiesto perché sono italiana — spiegherà più tardi — mi chiedo perché con la maglia della Nazionale dovrei rappresentare chi mi scrive queste cose. Io ci metto l’anima e il cuore, non manco mai di rispetto a nessuno. Così fa male». Il messaggio è chiaro e fa riferimento ai tanti leoni da tastiera che, dopo l’errore nel set point del terzo parziale della semifinale persa con il Brasile, l’hanno presa di mira sui social. 

Stavolta, però, oltre alla cattiveria gratuita di taluni messaggi, c’è stato anche chi ha utilizzato espressioni razziste. E tornano alla mente le parole della stessa Egonu in un’intervista al Corriere di tre anni fa. Rispondendo alla domanda sul perché della frase di Mandela pubblicata sul suo profilo Instagram («nessuno nasce odiando un’altra persona per il colore della sua pelle…»), lei spiega: «Perché è la realtà. Il bimbo non s’accorge del colore che ha finché, a scuola, una maestra dice che è nero o giallo». 

Le critiche social

Il tema dei social, già dibattuto a lungo dopo la delusione olimpica di un anno fa, torna di attualità. Perché, come spiega il suo procuratore Raguzzoni che ha raccolto lo sfogo a fine partita, «lei dice che è stanca di essere pesantemente criticata ogni volta che sbaglia una partita come se avesse ammazzato qualcuno. 

Ha 24 anni e subire tutte queste critiche quando non rende al meglio in una gara è un peso pesante da sopportare. Gli ultimi giorni sono stati molto difficili e lei è provata da tutto questo». Qui si apre il tema della campionessa (quella abituata ad attaccare tutti i palloni che scottano) e della sua sovraesposizione agli occhi dei tifosi. Egonu è nella ristrettissima élite delle giocatrici più forti al mondo e, quando le cose non vanno bene, diventa il primo bersaglio delle critiche. 

«Il passo indietro può mandare un messaggio»

«La mia — spiega ancora Egonu — è una risposta alle critiche. Dopo le sconfitte si esagera sempre. Sentirmi dire che non merito questa maglia mi fa molto male. Io amo questa maglia e spero di indossarla ancora per l’Europeo, l’Olimpiade e negli anni futuri, ma se fare un passo indietro può servire a mandare un messaggio, allora lo faccio. Purtroppo, il nostro sport non ti permette di avere il tempo di metabolizzare tutto perché il giorno dopo sei di nuovo in campo. Questo è il pensiero della Paola ferita, una decisione a mente calda, sulla quale ho bisogno di riflettere nei prossimi mesi. Ho bisogno di capire quanto sono forte e quanto posso essere utile a questa squadra». 

Come Roberto Baggio dopo Usa 94

Tanti, però, i messaggi di solidarietà ricevuti nelle ore successive. Dalla politica allo sport, con il presidente della Lega pallavolo femminile Mauro Fabris che fa un salto indietro di 28 anni: «Un altro veneto, Roberto Baggio, in occasione dei Mondiali di calcio di Usa 1994, ai rigori finali sbagliò il suo. E perdemmo. Contro il Brasile, tanto per rimanere in tema. Subì di tutto. Anche per il fatto di essere di religione buddista, cacciatore e portare il codino. Ma era e rimase, ancora oggi lo è, un grande campione amato dagli italiani. Noi ti ammiriamo e ti vogliamo bene. Lascia stare il resto. Torna presto in serie A. Già ci manchi». 

Il futuro di Egonu

Difficile dire adesso cosa accadrà nel 2023, quando l’Italia affronterà l’Europeo (con un girone in casa) e la qualificazione all’Olimpiade di Parigi 2024. «La prossima estate si vedrà — spiega Egonu — spero di ripensarci perché abbiamo ancora tanto da fare con questa Nazionale. A gennaio vi farò sapere». Due mesi per pensarci. Due mesi per andare a giocare in Turchia, nel club più prestigioso della pallavolo mondiale, assieme a tante altre campionesse (come Gabi, per esempio, stella del Brasile che ci ha eliminato in semifinale). 

Due mesi per cominciare a respirare un’aria nuova e ripensare a mente fredda a tutto quello che è successo. Potrebbe essere anche una pausa di un anno: «Ho bisogno di riposare un attimo, di prendermi una pausa da me stessa e tornare a dare il meglio in campo. C’è chi dice che non merito la Nazionale, invece il mio sogno è essere qui sul podio con questa squadra». Anche perché «non è stato semplice scendere in campo. Suonava l’inno e piangevo. Per il dolore, ma anche per quanto sono ferita». 

La posizione della Federvolley

In tutto ciò, anche la Federazione dovrà fare qualcosa. Per ora non c’è stata una presa di posizione, anche se Paola ha detto di non aver ancora parlato con la Fipav di questa intenzione. Indipendentemente da tutto, però, bisognerà tutelare lei, un patrimonio per tutto lo sport italiano, e ritrovare un equilibrio che sembra saltato dopo una delusione così grande. Per il momento alla guida della Nazionale resta Mazzanti (con il contratto in scadenza dopo l’Olimpiade di Parigi), ma il prossimo consiglio federale metterà sul piatto tutto quello che è successo in questo 2022 e potrebbe ripartire da un cambio in panchina per dare un segnale nuovo. Il c.t. (chiunque sarà) dovrà cominciare riprendendo per mano tutta la squadra e aiutandola a ritrovare quella sintonia nello spogliatoio che ora fatica a digerire i privilegi concessi all’opposta. E allo stesso tempo, dovrà anche aiutare Egonu a essere ancora di più dentro il gruppo. 

Da lastampa.it il 16 ottobre 2022.

«Piena solidarietà alla campionessa di volley Paola Egonu dal Presidente Draghi nella telefonata di questa mattina. L'atleta azzurra è un orgoglio dello sport italiano, avrà future occasioni per vincere altri trofei indossando la maglia della Nazionale». Lo si legge in un tweet di Palazzo Chigi. 

Le reazioni del mondo dello sport e della politica

«Paola Egonu è attaccatissima alla maglia azzurra, il suo è stato uno sfogo a caldo determinato da quattro imbecilli da social». Giuseppe Manfredi, presidente della Federazione pallavolo, tiene a «riportare l'episodio di ieri, che ha oscurato l'ennesima impresa di queste ragazze capaci di andare a conquistare il bronzo mondiale, alle sue reali dimensioni». «Paola veniva da sei mesi di ritiro, era normale che fosse stressata. Adesso ci calmiamo tutti, la prossima convocazione è ad aprile 2023 e non ho motivo di pensare che lei non ci sarà: tra l'altro, la pallavolo propone integrazione piena altro che razzismo».

«Sorridi Paola, è un momento difficile per tutti, ma passerà. E festeggeremo insieme»: così attraverso i suoi canali social l'ex ct azzurro del volley, ora parlamentare del Partito Democratico, Mauro Berruto si rivolge a Paola Egonu, la schiacciatrice azzurra che ieri ha annunciato di volersi prendere una pausa dalla nazionale. «Grazie Paola, orgoglio italiano – prosegue – Grazie a te, alle tue compagne, al tuo staff per questa ennesima medaglia che solo chi non ha mai alzato il fondoschiena dal divano non apprezza».

«Grandissime le ragazze italiane della pallavolo per la medaglia di bronzo. Un abbraccio più forte a Paola Egonu, campionessa in campo e fuori, cui auguriamo ancora tante vittorie col Tricolore sul petto». Scrive, invece, su Twitter il segretario della Lega, Matteo Salvini. 

«Grazie, quello che fai tu va sempre bene. Sempre. Un altro veneto, Roberto Baggio, in occasione dei Mondiali di calcio di USA 1994, ai rigori finali sbagliò il suo. E perdemmo. Contro il Brasile, tanto per rimanere in tema. Subì di tutto. Anche per il fatto di essere di religione buddista, cacciatore e portare il codino. Ma era e rimase, ancora oggi lo è, un grande campione amato dagli italiani. Noi ti ammiriamo e ti vogliamo bene. Lascia stare il resto. Torna presto in Serie A. Già ci manchi». Così ancora Mauro Fabris, presidente della Lega Volley femminile in una nota in merito allo sfogo di Paola Egonu che ha deciso di prendersi una pausa dalla Nazionale, dopo la vittoria della medaglia di bronzo ai mondiali conquistata ieri.

«Solidarietà a Paola Egonu, orgoglio italiano, fuoriclasse dentro e fuori il campo di volley. Le becere parole che le sono state rivolte non qualificano lei ma gli squallidi individui che le hanno pronunciate. Il Movimento 5 Stelle e tutta Italia sono dalla tua parte, avanti Paola!». Lo scrive su Twitter il presidente del M5s, Giuseppe Conte.

«Fa male sentire lo sfogo di Paola Egonu che, dopo aver trascinato la nazionale al bronzo mondiale, dice di essere stanca, di sentirsi chiedere “perché sei italiana?” e di voler lasciare la maglia azzurra», scrive su Facebook il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. «Non so cosa sia accaduto e chi le abbia rivolto una domanda tanto insultante» prosegue il parlamentare di Verdi e Sinistra. «Questa è purtroppo la condizione di molti italiani nel nostro Paese, che per qualcuno italiani non sono. E le lacrime di Paola sono le lacrime di tante e tanti. Si dovrebbe essere solo grati alla più forte pallavolista del mondo. Forza Paola Egonu – conclude Fratoianni – hai sempre onorato la tua maglia e la tua nazione». 

«Un abbraccio forte a Paola Egonu, la nostra campionessa di volley, orgoglio per il nostro Paese. Le sue lacrime di ieri sono una ferita per l'intera comunità. Gli episodi di razzismo sono purtroppo ancora frequenti e sono intollerabili in una società che deve essere coesa. Quante donne e uomini devono ancora subire insulti e discriminazioni per il colore della propria pelle? È compito di tutti noi dare messaggi forti e chiari contro ogni discriminazione e forma di intolleranza». Così, infine, Roberto Fico sui suoi profili social.

Da nextquotidiano.it il 6 settembre 2022.  

Ha pubblicato un video sulla sua pagina Facebook. Un filmato che deve essergli piaciuto talmente tanto da auto-mettersi un like sulla sua pagina social. Poi la modifica (dopo alcune ore) con il riferimento al reato di “accattonaggio molesto”. Il tutto, però, mentre immortala una donna rom che stava camminando per le strade di Firenze. Questa “opera Pia” è stata pubblicata dal capogruppo della Lega nel capoluogo toscano Alessio Di Giulio e utilizzata come “spot elettorale” in favore del Carroccio in vista del voto per le Politiche del prossimo 25 settembre. 

Il rappresentante della Lega, come si vede dal filmato che lui stesso ha pubblicato, si è avvicinato a una donna rom in una delle strade del centro di Firenze e, con volto sorridente e fare sornione, le si avvicina mentre pronuncia questa frase: “Il 25 settembre vota Lega per non vederla mai più. Per non vederla mai più”.

La donna, che all’inizio salutava e sorrideva non avendo intuito l’obiettivo di quel filmato, gli ha replicato: “No, non dire così”. E Alessio Di Giulio, ancor più sorridente ribadisce il suo spot elettorale: “Sì! Il 25 settembre vota Lega in modo che lei a Firenze non ci sia più”. 

Poi, sempre sorridente, si allontana e termina le riprese. E sui social, inizialmente, aveva condiviso questo filmato con l’appello al voto. Poi, oltre sei ore dopo, ha modificato quel post con il riferimento al reato di “accattonaggio molesto”.

Peccato che il filmato non mostri alcun tipo di reato da parte della donna che stava camminando per le strade del centro di Firenze. Inoltre, quelle parole sferzanti rivolte alla donna rom non possono che riportare alla memoria – per dialettica e toni – alla persecuzione che in quell’epoca storica condizionata da fascismo e nazismo veniva denominata “Porajmos” e provocò lo sterminio di circa 500mila persone (tra la Germania e i suoi alleati).

 Da “La Zanzara - Radio 24” il 6 settembre 2022.

Il Consigliere fiorentino della Lega Di Giulio non si pente dopo il video con la rom e a La Zanzara rilancia: “Pure lei rideva. Mi ha inseguito da Piazza della Signoria, potremmo mandarla via con un decreto di espulsione. Mi ha molestato. Io razzista? La mia ragazza è nigeriana. Dimettersi? No” 

Dopo il video che ha fatto il giro del web, il consigliere leghista Alessio di Giulio non si pente di quanto fatto. I social si sono scatenati dopo che il rappresentante di quartiere fiorentino aveva postato un filmato dove riprendendo una signora di etnia rom diceva: “Il 25 settembre vota lega per non vederla mai più” 

A La Zanzara su Radio 24, il rappresentante del Carroccio dichiara: “Non mi sembra di aver usato tutta questa maleducazione. Era fatto in maniera scherzosa, pure lei rideva. Io razzista? La mia ragazza è nigeriana”.

“Forse ho sbagliato i modi - continua Di Giulio a La Zanzara - ma io sono uno di strada. Ero in piazza della Signoria a prendere un aperitivo con la mia fidanzata e ci ha inseguito fino a Via Calzaiuoli. Lei voleva i soldi, mi ha molestato, l’accattonaggio è illegale e io sono per la legalità. Potremmo mandarla via con un foglio di decreto espulsione, come tanti che creano problemi in città". E a chi ha chiesto le sue dimissioni, il consigliere Di Giulio risponde: “Ma dai”

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 9 giugno 2022.

Nessuno meglio di lei può spiegare il valore dell'educazione e dello studio, «che poi sono l'unico antidoto all'ignoranza, da cui deriva il razzismo», dice Clementine Pacmogda. Ha 44 anni, è cresciuta in Burkina Faso, dal 2008 vive nel nostro Paese e dal 2015 è cittadina italiana. 

Linguista, scrittrice, insegnante e molto altro. Ma in pochi la conoscevano prima di sabato scorso, quando, dopo un incontro con gli studenti in una scuola di Barga, provincia di Lucca, due ragazzini l'hanno avvicinata per regalarle una foto offensiva: una donna con dei genitali maschili disegnati in faccia e una svastica sul braccio.

«Continuo a chiedermi il perché, vorrei parlare con loro per capire - dice Clementine - ma è la dimostrazione che nelle scuole c'è tanto lavoro da fare». 

Torna sempre lì, all'importanza dell'istruzione, al filo conduttore della sua vita. Come l'immigrazione: «Ce l'ho incollata sulla pelle dalla nascita», racconta, perché è venuta al mondo in Costa d'Avorio, dove i suoi genitori erano emigrati dal Burkina Faso. Non è cresciuta con loro, Clementine.

Ha perso il padre da piccola ed è stata allontanata dalla madre a causa di dissidi familiari, poi ospitata dalla zia del padre nella capitale Ouagadougou. 

«Ero la bimba di tutti e di nessuno - ricorda - buona per lavorare, ma a nessuno importava del mio futuro». Nessuno, infatti, si preoccupa di iscriverla a scuola quando compie 6 anni. «Bisognava mettersi in fila di notte, perché c'erano troppi bambini e pochi posti, ma per me non l'hanno fatto, per due anni sono rimasta a casa».

A 8 anni finalmente riesce a iscriversi, segue le lezioni in un'aula ancora in costruzione, «c'erano solo il tetto e i muri esterni, poi avevo un quaderno, una matita, due gessetti e una lavagnetta di cartone». 

Ma i parenti non vogliono versare la tassa scolastica da mille franchi locali, meno di 2 euro: «Così ogni giorno gli insegnanti mi cacciavano dalla classe - prosegue Clementine - io però stavo lì, sotto un albero, e ascoltavo la lezione dalla finestra, così ho fatto tutte le elementari».

I pensieri tornano spesso a quella bambina «sporca, mal vestita, affamata», che sapeva leggere bene, ma alla quale «non hanno mai comprato un libro, per fare i compiti dovevo imparare a memoria i testi a scuola». Ora di libri ne ha scritti due, autobiografici, e sta lavorando a un terzo. 

Clementine ha alle spalle un dottorato in Linguistica alla Normale di Pisa ed è insegnante di sostegno alle superiori in un liceo di Borgo Val di Taro, il paese in provincia di Parma dove vive con il marito Dario, medico, sposato nel 2012. E con la figlia Eufrasia, 7 anni, che non può nemmeno immaginare quanto sia preziosa l'opportunità di andare tranquillamente a scuola tutte le mattine.

«Anche alle medie ho perso un anno, perché l'iscrizione costava troppo - continua - poi uno zio mi ha fatto trasferire da lui, faceva l'economo in una scuola e mi ha consentito di andare avanti fino alla maturità». 

Si diploma nel 2000, ha quasi 23 anni, ma nessuna intenzione di fermarsi. Torna a Ouagadougou, dove c'è l'unica università del Paese, ma dove nessuno è disposto ad aiutarla: «I parenti mi dicevano che il diploma superiore era già molto per una donna». 

Cerca lavoro, inizia a fare le pulizie in una copisteria, mette da parte i soldi, per entrare alla facoltà di Linguistica risparmia su tutto, «anche sul mangiare». Nel 2005 riesce a discutere la sua tesi e a laurearsi, inizia a lavorare in una scuola fuori città, sembra finita lì.

E, invece, i suoi insegnanti la convincono a proseguire con la laurea specialistica, anche se non ha i soldi per arrivare in fondo. Nel 2008 Clementine riesce a concludere il terzo ciclo di studi. 

Quello stesso anno arriva la svolta: la candidano, unica della sua università, per una borsa di studio alla Normale di Pisa. Appena mette piede in Toscana, per iniziare il dottorato, Clementine capisce che la sua vita è cambiata, che ora può avere «un letto tutto per me, un computer mio, qualunque libro a disposizione». 

C'è una domanda che si è fatta in questi anni e continua a farsi ora che insegna: «Come si fa a non riuscire negli studi in Italia? Mi sembra impossibile». È questo che dice durante gli incontri nelle scuole, dove la invitano spesso per raccontare la sua storia. 

La storia della bambina senza libri, che seguiva le lezioni sotto un albero in Burkina Faso ed è diventata professoressa e scrittrice in Italia. Una storia che sarebbe bene conoscessero anche quei due ragazzini di Barga.

(AGI il 29 Luglio 2022) – Un Nigeriano di 39 anni è stato ucciso questo pomeriggio da un italiano, che avrebbe reagito a un apprezzamento che l'uomo avrebbe fatto alla sua fidanzata. A quanto si è appreso, l'aggressore avrebbe usato una stampella per colpire a morte la vittima, Alika Ogorchukwu che è un'ambulante. 

Il presunto omicida è stato fermato. La scena del crimine è il centralissimo Corso Umberto I e l'aggressione è avvenuta intorno alle 14, davanti a diversi testimoni che hanno chiamato i soccorsi: il personale del 118 ha cercato di rianimare il Nigeriano, che è deceduto in strada.

(AGI il 29 Luglio 2022.) - Le indagini sull'omicidio del nigeriano di 39 anni ucciso a bastonate in strada a Civitanova Marche sono guidate dal procuratore Claudio Rastrelli e affidate alla squadra mobile: gli agenti stanno ascoltando alcuni testimoni dell'aggressione, alcuni dei quali avrebbero ripreso la scena con i cellullari, e visionando le telecamere della zona per ricostruire quanto è accaduto. 

L'aggressore è stato subito individuato e, da quanto hanno riferito alcuni testimoni, avrebbe detto agli agenti: "Ha importunato la mia fidanzata"; tra i due ci sarebbe stato prima un diverbio, finito poi con i colpi ripetuti di stampella che hanno ridotto senza vita lo straniero, ambulante, molto conosciuto tra i frequentatori del principale corso di Civitanova. 

Da Ansa il 31 luglio 2022.

"Le scuse di Ferlazzo non bastano, ora serve solo giustizia e non vendetta. E' difficile riuscire a comprendere quello che è successo".

E' questo il commento della famiglia di Alika Ogorchukwu - l'ambulante nigeriano ucciso a Civitanova Marche - affidato all'avvocato Francesco Mantella. 

"Se c'è un risvolto psichiatrico che si inserisce nelle cause dell'omicidio di Alika, serve riflettere: se Ferlazzo aveva un amministratore di sostegno, pare fosse la madre, perché questi non era vigilato? Bisognerà avviare una serie di verifiche". Così l'avvocato Francesco Mantella, legale della famiglia di Alika Ogorchukwu, l'ambulante nigeriano ucciso a Civitanova Marche da Filippo Ferlazzo. "Abbiamo piena fiducia nell'operato della Procura di Macerata", aggiunge il legale.

Inseguito e colpito a mani nude nel pieno centro di Civitanova Marche, pestato e schiacciato a terra per tre quattro minuti fino alla morte dal suo aggressore, un operaio di 32 anni - Fabrizio Ferlazzo, salernitano - che dal carcere prova a chiedere scusa, dopo aver mentito sulle circostanze del pestaggio al momento dell'arresto, e per il quale i legali stanno valutando se chiedere la perizia psichiatrica. Pare che abbia piccoli precedenti e problemi di instabilità mentale. Così è stato ucciso il venditore ambulante nigeriano 39enne Alika Ogorchukwuch - un uomo tranquillo che aveva appena ottenuto il rinnovo del permesso di soggiorno, claudicante per aver subito un investimento - nel pomeriggio di ieri lungo Corso Umberto, senza che nessuno dei passanti abbia mosso un dito. 

"Ora voglio solo giustizia per mio marito" ha detto piangendo Charity Oriachi, la moglie di Alika rimasta sola con il loro bambino di otto anni, durante la protesta della comunità nigeriana raccoltasi sul luogo dell' omicidio. Lunedì il fermato comparirà davanti al gip. Contro di lui le tante immagine che riprendono il pestaggio e il racconto di due turiste: 'il cittadino nigeriano chiedeva l'elemosina poi si è allontanato, lui lo ha inseguito, picchiato col bastone e poi a mani nude'. Un film dell'orrore di 4 minuti. 

E' sull'assordante indifferenza che insieme alla violenza ha tolto la vita ad Alika- l'autopsia stabilirà se è morto per asfissia o soffocamento, ipotesi emerse dalle immagini della videosorveglianza acquisite dalla polizia - che puntano il dito le reazioni all' omicidio efferato. "L'assassinio di #AlikaOgorchukwu lascia sgomenti. La ferocia inaudita. L'indifferenza diffusa. Non possono esserci giustificazioni. E nemmeno basta il silenzio. L'ultimo oltraggio ad #Alika sarebbe quello di passare oltre e dimenticare", twitta il segretario del Pd, Enrico Letta. Per Roberto Speranza, leader di Articolo 1, "l' indifferenza è grave e ingiustificabile quanto la violenza". 

L' uccisione di Alika Ogorchukwu "ci lascia attoniti", scrive su Fb il leader M5s Giuseppe Conte che domanda "ma tutti i presenti che hanno ripreso con i loro smartphone la colluttazione senza provare a intervenire cosa faranno? ". Antonio Tajani coordinatore nazionale di Fi esprime dolore e cordoglio ai familiari di Alika per un "evento estraneo alla natura di Civitanova Marche, da sempre una città aperta, pacifica ed accogliente". Scambio polemico tra Corrado Formigli, conduttore di Piazza Pulita, Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

"Nigeriano invalido massacrato a bastonate da un italiano a Civitanova Marche. Attendiamo post indignati di @MatteoSalvini e @GiorgiaMeloni", ha twittato il giornalista. "Prima di usare la morte del povero Alika per la tua penosa propaganda, non potevi almeno esprimere solidarietà alla famiglia? Come puoi verificare, io la mia condanna verso questo brutale omicidio l'ho espressa e subito. Sciacallo", replica la leader di Fdi. 

"Penoso. Sciacallo. Così parla un'aspirante leader di governo. Chapeau. Felice comunque di aver contribuito col mio tweet a farle scrivere due parole per quella povera vittima", controreplica Formigli. Per Matteo Salvini "Non si può morire così. Una preghiera per Alika e un abbraccio alla sua famiglia, per l'assassino pena certa fino in fondo. Città allo sbando, violenze di giorno e di notte, non se ne può più: la sicurezza non ha colore, la sicurezza deve tornare ad essere un Diritto". 

"Una brutalità orrenda e scioccante. Tutta la solidarietà di Azione alla famiglia", dice il leader di Azione, Carlo Calenda. "E' la morte della pietà", scrive la comunità di Sant'Egidio sottolineando "un episodio accaduto alle 14.30 in una strada normalmente affollata di gente, nel pieno centro di Civitanova Marche. C'è chi ha anche filmato ciò che accadeva, qualcuno ha urlato contro l'aggressore, nessuno è intervenuto". La Regione Marche, guidata dall'Fdi Acquaroli, si costituirà parte civile.

(ANSA il 6 ottobre 2022) - Un'operatrice culturale romena trentenne, Roxana Elena Iftime, da un mese cerca casa in affitto a Firenze ma non ci riesce perché quando gli agenti immobiliari, sia uomini sia donne, approfondiscono la sua origine di straniera dell'Est tagliano corto e interrompono la conversazione. La vicenda viene riportata dal Corriere Fiorentino. Lei cerca un monolocale in affitto su una disponibilità fra 300 e 850 euro al mese. 

"Mi discriminano a Firenze per le mie origini - afferma -. E' stato un mese lungo e demoralizzante", "ricevo rifiuti a ripetizione, domande stupide, osservazioni razziste sulla mia origine", "mi riattaccano il telefono quando scoprono che sono romena". Gli interlocutori infatti le chiedono di scandire bene il cognome straniero e quando hanno chiaro l'origine interrompono la trattativa appena partita.

Ma anche l'attività professionale sembra contribuire a mettere ostacoli. Roxana Iftime fa la regista di una compagnia teatrale e quando gli agenti immobiliari appurano anche questo si ritirano ritenendola non in grado di pagare l'affitto oppure "mi propongono di andare a vivere con un anziano da accudire ma fare la badante è un lavoro che deve essere retribuito".

(ANSA l'1 agosto 2022) - Convalidato l'arresto di Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, l'operaio di 32 anni che venerdì scorso ha pestato a morte l'ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu in strada, a Civitanova Marche (Macerata). 

Davanti al gip di Macerata Claudio Bonifazi, nell'udienza di convalida che si è tenuta nel carcere anconetano di Montacuto, Ferlazzo, assistito dall'avv. Roberta Bizzarri, ha "collaborato, ha chiesto scusa e ha chiarito che non c'è stata alcuna motivazione di tipo razziale". Lo ha riferito la legale di difesa al termine dell'udienza.

(ANSA l'1 agosto 2022) - E' un soggetto "violento e con elevata pericolosità sociale" Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, l'operaio di 32 anni che venerdì scorso ha pestato a morte l'ambulante nigeriano 39enne Alika Ogorchukwu in strada, a Civitanova Marche (Macerata). 

Lo scrive il gip di Macerata Claudio Bonifazi nell'ordinanza che ne dispone la custodia in carcere. La misura è prevista anche con riferimento ad "evidenti gravi indizi di colpevolezza": in attesa dei risultati dell'autopsia, osserva il gip, sembra evidente che il decesso sia dovuto all'aggressione. Il gip fa riferimento a un "disturbo bipolare" per il 32enne che dovrà essere approfondito.

(ANSA l'1 agosto 2022) - La Procura di Macerata non contesta alcuna aggravante di tipo razziale a Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, l'operaio di 32 anni che venerdì scorso ha pestato a morte l'ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu in strada, a Civitanova Marche (Macerata) e che è stato arrestato per le accusa di omicidio volontario e rapina. 

Lo ha riferito la legale di difesa, Roberta Bizzarri, al termine dell'udienza di convalida davanti al gip di Macerata Claudio Bonifazi che si è tenuta nel carcere di Montacuto (Ancona) dove Ferlazzo è recluso. L'arresto è stato convalidato. Il 32enne, ha spiegato l'avv. Bizzarri, visibilmente emozionata, "ha chiarito che non c'è stata alcuna motivazione di tipo razziale" nell'aggressione.

Ferlazzo ha spiegato al giudice che "a prescindere dal colore della pelle avrebbe comunque commesso quel gesto 'bruttissimo'". "Anche la Procura concorda in questo - ha proseguito l'avvocatessa a proposito all'assenza di una motivazione di tipo razziale - e non ha contestato alcuna aggravante di questo tipo". All'udienza di convalida davanti al gip Bonifazi era presente anche il pm e procuratore di Macerata facente funzione Claudio Rastrelli.     

(ANSA l'1 agosto 2022) - Saranno effettuati nelle prossime ore approfondimenti sulla situazione sanitaria legata allo stato di salute mentale di Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, l'operaio che ha ucciso l'ambulante nigeriano a Civitanova Marche. 

Allo stesso tempo verrà valutata la posizione dell'amministratore di sostegno di Ferlazzo, ovvero la madre, e sul perchè si trovasse a così tanta distanza dal giovane, sempre tenendo presente quali fossero gli effettivi compiti del suo ruolo. Il profilo dell'aggravante razziale è escluso. Lo ha riferito Claudio Rastrelli, sostituto procuratore di Macerata, che indaga sulla vicenda. 

Riccardo Bruno per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2022.

È accaduto tutto alle due e mezza del pomeriggio, in Corso Umberto I, la via dei negozi di Civitanova Marche. Era pieno di gente, qualcuno ha preso il telefonino e ha filmato la lite, ci sono le immagini tremende che mostrano la violenta aggressione che è costata la vita ad Alika Ogorchukwu. In uno scatto si vede la vittima, un nigeriano di 39 anni, a terra, la stampella con cui si aiutava a muoversi accanto, e sopra di lui, seduto come per schiacciarlo, un uomo che gli cinge il collo e lui che cerca disperatamente di divincolarsi. Hanno gridato: «Così lo uccidi!». 

E lui, Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, 32 anni, operaio, originario di Salerno ma che vive a Civitanova, qualche piccolo precedente, lo ha ucciso davvero. Poi si è allontanato, con il telefonino della vittima, ma è stato fermato dagli agenti della polizia in una via poco distante. Si sarebbe giustificato: «Chiedeva con insistenza alla mia fidanzata l'elemosina». E la donna, 45 anni, ha confermato.

Saranno gli uomini del commissariato di Civitanova e della Squadra mobile di Macerata guidati da Matteo Luconi, coordinati dal procuratore facente funzioni Claudio Rastrelli, a chiarire i dettagli di una reazione così brutale da provocare la morte di un uomo.

Ogorchukwu abitava a San Severino con la moglie, un figlio di 8 anni e un'altra ragazzina di 10. Era un ambulante, vendeva piccoli oggetti, accendini e fazzoletti, offerte ai passanti che spesso finivano nella richiesta di un aiuto. Andava quasi tutti i giorni a Civitanova perché lì aveva più opportunità di racimolare qualcosa, e nel salotto della cittadina lo conoscevano in molti. 

Da un anno, dopo un incidente, si muoveva con una stampella e con questa l'aggressore, togliendogliela di mano, l'ha prima colpito, anche alla testa. Ogorchukwu è caduto a terra, ma Ferlazzo ha continuato ad accanirsi contro di lui, schiacciandolo con il suo corpo, e forse è stato proprio questo a provocarne la morte come dovrà stabilire l'autopsia che sarà eseguita nei prossimi giorni dal medico legale Ilaria De Vitis.

Il corpo senza vita per effettuare tutti i rilievi è rimasto sul marciapiede coperto da un telo fino alle 7 di sera, davanti a un negozio di intimo.

«L'aggressione è avvenuta mentre noi eravamo chiusi, quando siamo arrivati ci siamo trovati davanti questa scena terribile - dice ancora scossa la signora Paola, la madre della titolare -. In molti conoscevano la vittima, frequentava il bar qui vicino. È stato straziante vedere la moglie in lacrime davanti al cadavere, e attorno l'indifferenza della gente, come se tutto quello che è successo fosse la normalità, senza alcuna pietà». Gli inquirenti hanno sentito i testimoni e acquisito tutte le immagini. Ferlazzo è stato arrestato con le accuse di omicidio volontario e rapina, per aver sottratto il cellulare della vittima. «Ciò che è accaduto oggi è un fatto di una violenza inaudita - ha commentato il sindaco di Civitanova Fabrizio Ciarapica -. Lontano dalla normalità della nostra comunità, conosciuta da tutti per essere da sempre accogliente e tranquilla».

Riccardo Bruno per il "Corriere della Sera" il 30 luglio 2022.  

«Alika era una persona positiva, sempre sorridente, allegra. Era bravo, bravo, bravo». Ha le lacrime agli occhi questa donna che a San Severino Marche, il paese dove viveva Ogorchukwu con la sua famiglia, conoscono tutti come Pastore Faith: è la guida della chiesa evangelica che tiene insieme la piccola comunità nigeriana. Molti di loro sono qui con lei, a stringersi attorno alla moglie di Alika, in questo sabato sera di lutto davanti all'obitorio di Civitanova. «Con Alika e sua moglie ci conosciamo da tempo. Prima seguivano un pastore italiano ma negli utimi mesi si erano uniti alle nostre funzioni perché noi le teniamo in inglese e loro si trovavano meglio».

La moglie di Alika è accanto, ma non ha parole, soltanto dolore. Lavora per una ditta che fa le pulizie nelle stazioni ferroviarie, hanno un figlio di 8 anni nato in Italia, e con loro vive anche una ragazzina di 10, che è come un’altra figlia.

«Ancora loro non lo sanno che è morto il padre, ora toccherà a noi andare a dirglielo» dice con un filo di voce Pastore Faith. La moglie di Alika le ha raccontato l'ultimo saluto, la mattina prima andare a lavoro. «Lui si è preoccupato che non si stancasse troppo e che mangiasse, le ha raccomandato di portarsi un panino». Poi Pastore Faith aggiunge: «Alika era una persona generosa, quel poco che aveva lo divideva con tutti. Ogni volta che discutevamo, mi ripeteva sempre la stessa frase, era il suo motto: "Quello che Dio non può fare non esiste". Era ottimista, diceva una soluzione si trova sempre».

Un ritratto di Alika Ogorchukwu che si rispecchia nelle parole dell'avvocato Francesco Mantella, che lo conosceva da tempo. «Avevo seguito l'iter per il rilascio del permesso di soggiorno della moglie, poi l'anno scorso l'ho assistito quando era stato investito». Era in bicicletta, un'auto lo ha travolto, è rimasto claudicante, per questo per muoversi aveva bisogno di una stampella. «Aveva ottenuto anche un risarcimento dall'assicurazione - aggiunge l'avvocato Mantella -, stava aspettando l'inizio del processo all'investitore, si sarebbe costituito parte civile». Ogorchukwu era in Italia da una decina d'anni, era sempre rimasto nella zona del Maceratese, prima a Tolentino, poi si era trasferito a San Severino, ma per lavoro andava a Civitanova.

«Era una persona mansueta - prosegue l'avvocato Mantella -. Non aveva precedenti, viveva con dignità e rettitudine. Con gli anni si erano creati con lui rapporti che andavano oltre l'aspetto professionale, che si reggono sulla solidarietà. Quando mi hanno detto che avevano ucciso a bastonate un uomo di colore con la stampella, ho temuto subito che fosse lui. Non era una persona che cercava guai, adesso gli inquirenti dovranno capire perché quell'uomo si è scagliato contro di lui con tanta violenza».

La moglie di Alika in lacrime: «Quel video è terribile, intorno c’era tanta gente, perché nessuno l’ha aiutato?». Riccardo Bruno, inviato a San Severino Marche (Macerata), su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.

Charity Oriachi e Alika Ogorchukwu, entrambi nigeriani, hanno avuto un bambino che oggi ha 8 anni. A Civitanova lui faceva l’ambulante mentre lei l’addetta alle pulizie a San Severino Marche, nel Maceratese. 

Al figlio Emmanuel di 8 anni glielo ha detto soltanto la mattina del 30 luglio che il padre non c’era più. «Gli è venuto il freddo, tremava tutto, si è dovuto mettere una giacca» dice Charity Oriachi e indica il piumino blu che è ancora sul divano. Lei è seduta a terra, si mette le mani alla testa e si asciuga continuamente le lacrime, nel salottino di questa abitazione al primo piano di un palazzotto nelle campagne alla periferia di San Severino dove da quattro anni abitava con Alika Ogorchukwu, ucciso venerdì per aver chiesto l’elemosina. La stanza è spoglia, un alberello di Natale nell’angolo, il mobile con la televisione e una bibbia e dietro attaccata al muro una foto di Alika di qualche anno fa. «Qui era molto più giovane» e a Charity scappa l’unico sorriso.

L’appello

Suo marito non c’è più e lei non sa darsi una ragione. «Adesso voglio giustizia, I need justice» ripete in italiano e in inglese. Il video che mostra la brutalità con cui è stato ucciso non è riuscita a vederlo fino alla fine. «Nel momento in cui quell’uomo gli stringe le mani al collo ho girato la testa dall’altra parte». Fa una pausa, poi riprende: «C’era tanta gente in quel momento, perché nessuno è intervenuto, perché nessuno lo ha aiutato. Forse adesso il mio Alika sarebbe ancora qui con me». Si erano conosciuti una decina di anni fa a Prato. «Io allora abitavo a Ferrara, un’amica mi portò a una festa e così lo vidi per la prima volta». Lui era appena arrivato dalla Nigeria, lei era in Italia già da tempo. Si trasferirono nelle Marche, poi nacque Emmanuel, formarono una famiglia a cui si è aggiunta Praise, 10 anni, una nipote che è come una figlia. «Alika era un padre meraviglioso — ricorda Charity —. Faceva tutto per la famiglia e per i suoi figli, di tutto si occupava lui, non ci faceva mancare niente. Quando arrivava in stazione comprava sempre il gelato e glielo portavo, non vedevano l’ora tornasse a casa. Adesso non so come faremo». Gli altri nigeriani della zona, una comunità ristretta ma molto unita, vengono a trovarla e a passare qualche ora con lei. C’è anche l’avvocato Francesco Mantella, che negli anni è diventato un amico di famiglia. Le fa sapere che in molti si sono fatti avanti per aiutarla, le chiede se può dare l’Iban del suo conto (IT 85 N 02008 69201 000106469918). Lei lo ringrazia e continua a parlare del suo Alika.

Il ricordo

«Era generoso con tutti. Per questo mi sono innamorata di lui, perché scherzava e giocava sempre, era allegro». Anche dopo l’incidente dell’anno scorso. Tornava come sempre dalla stazione in bicicletta, un autista ubriaco lo mise sotto proprio nella curva che si vede dal balcone di casa. Era rimasto claudicante, per questo era costretto a usare la stampella. «Io ogni giorno gli massaggiavo la gamba sinistra con acqua calda. Certi giorni gli faceva più male». Era riuscito a ottenere un risarcimento dall’assicurazione che lo aveva fatto respirare un po’. Lei da qualche mese aveva trovato lavoro in una ditta di pulizie. Sembrava che tutto potesse riprendersi bene, domenica scorsa alla celebrazione della chiesa evangelica, dove i nigeriani si ritrovano per pregare e stare insieme, li avevano visti felici e sorridenti. Adesso si alternano in questa casa semplice ma decorosa, per riempire un vuoto che Charity e i suoi figli non riescono ancora ad accettare.

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 31 luglio 2022.

«L'ho visto arrivare verso di me sporco di sangue, con un cellulare in mano che non era il suo. Gli ho detto: Filippo che hai fatto, che hai combinato? Lui mi ha risposto piano all'orecchio, quasi sussurrando: "andiamo, ho picchiato uno"...».

Elena D. 45 anni, è la compagna di Filippo Ferlazzo. Una donna minuta di Civitanova, con i capelli neri, gli occhiali, che adesso si fa ancora più piccola mentre racconta agli uomini di Matteo Luconi, il capo della Squadra Mobile di Macerata, quegli attimi spaventosi, «io ferma là in Corso Umberto I davanti a quell'uomo per terra che i medici stavano cercando disperatamente di rianimare. Pregavo dentro di me che si risvegliasse, ma poi ho capito che non c'era più niente da fare. E ora la nostra vita, il nostro amore, è distrutto per sempre».

Elena, ex cameriera in un ristorante del centro di Civitanova, conosceva i problemi psichiatrici di Filippo o perlomeno li aveva intuiti, ma nonostante questo aveva scelto di vivere con lui da qualche mese. Neanche la differenza di età, lui più giovane di 13 anni, si faceva sentire.

«Non era geloso, piuttosto era protettivo verso di me - racconta agli investigatori -.

Non tollerava l'idea che qualcuno o qualcosa potesse farmi del male. Questo però ingenerava a volte la sua aggressività, la sua iracondia. Ma mai fino a questo punto».

Fino a venerdì pomeriggio, quando le strade di Alika Ogorchukwu e Filippo Ferlazzo sono arrivate infine a un incrocio senza ritorno. Alika, conosciuto da tutti tra Civitanova e Macerata, perché entrava nei negozi e fermava la gente per chiedere l'elemosina con il suo fare chiassoso e un po' invadente, ha incontrato Filippo ed Elena a passeggio dalle parti della stazione ferroviaria, duecento metri dal punto in cui poi è successo tutto. 

«Quel signore con la stampella è venuto verso di noi e ci ha chiesto dei soldi, mi ha preso per un braccio - racconta la donna, sentita a verbale come testimone -. Ma lì per lì non è successo niente, io mi sono divincolata senza problemi, non ero affatto sconvolta e così siamo andati avanti per la nostra strada, fino a un negozio di abbigliamento. Insomma, sembrava davvero finita lì. Noi stavamo cercando dei pantaloni per lui, allora io sono entrata a vedere, Filippo è rimasto fuori, ma quando poi mi sono affacciata per chiamarlo, perché finalmente avevo trovato il modello, lui non c'era più. Ho iniziato a guardarmi intorno, ma niente, come svanito...».

Perché Filippo intanto aveva già concepito il suo piano, rimuginando dentro di sé, senza che lei minimamente se ne accorgesse, il progetto assurdo di vendicare l'insulto insopportabile per lui, ricevuto appena qualche minuto prima, nei pressi della stazione: la sua donna strattonata da uno sconosciuto per strada, che adesso però necessitava di una lezione.

Le telecamere della via, poste più avanti, hanno inquadrato nitidamente le ultime scene: il ragazzo che raggiunge Alika e lo aggredisce, colpendolo prima con la stampella dell'uomo e poi saltandogli sopra e finendolo a mani nude. Senza pietà.

Elena D., venerdì sera, ha atteso più di un'ora prima di essere sentita dai poliziotti, chiusa nel suo silenzio, nel suo dolore. Ma poi quando gli agenti si sono avvicinati, lei è come se non aspettasse altro. Ha iniziato a parlare, a sfogarsi, a raccontare «il bene» che si volevano loro due, un «amore sincero», ha detto, più forte di tutto, dei problemi, delle difficoltà anche economiche. In questi casi, dicono in Questura, può succedere che le persone legate affettivamente agli arrestati cerchino in qualche modo di giustificarli. Ma Elena no, venerdì sera non ha avuto dubbi, non ha cercato scuse, mai una volta si è appellata al concetto di follia: «Ora sapete, sono molto arrabbiata con lui - ha confidato ai poliziotti -. In un attimo Filippo ha distrutto tutto, sogni e progetti. Spero che in carcere un giorno si renda conto che ci siamo rovinati la vita. Io e lui».

Fa. C. per il "Corriere della Sera" il 31 luglio 2022.

«Sono invalido civile al 100 per cento, avvocato, ho problemi psichiatrici, mia madre Ursula ha tutti i documenti del Tribunale di Salerno, se li faccia mandare, mi hanno giudicato bipolare e border-line». Filippo Ferlazzo ieri ha passato due ore e mezza a colloquio con l'avvocato d'ufficio Roberta Bizzarri nel carcere di Montacuto, ad Ancona, lo stesso dov' è recluso in via definitiva Luca Traini, che sparò a caso contro un gruppo di extracomunitari nel 2018 per vendicare - a modo suo - l'omicidio di Pamela Mastropietro. Non è chiaro se il racconto di Ferlazzo celi in realtà una strategia, comunque l'avvocato Bizzarri ha già annunciato la sua propensione a chiedere presto per il suo assistito una perizia psichiatrica. Da fonti sanitarie emergerebbe comunque la conferma che l'uomo che ha ammazzato di botte Alika Ogorchukwu sarebbe uno «psicopatico antisociale» già diagnosticato dai medici in gioventù a Salerno, dove viveva con i genitori, ora separati.

Già in precedenza, secondo queste fonti, il ragazzo avrebbe mostrato «episodi di aggressività» tanto che il Tribunale di Salerno lo affidò a un'amministratrice di sostegno, proprio sua madre Ursula, «che però a 400 km di distanza non poteva certo controllare che suo figlio si curasse», fa notare uno psichiatra ben informato di Civitanova.

Nato in Austria 32 anni fa, Ferlazzo viveva nelle Marche da qualche mese ed aveva un contratto a tempo determinato (per un mese) come operaio della fonderia Steve Stampi, a Civitanova Alta. All'avvocato Bizzarri, Ferlazzo - che non è in isolamento - ha spiegato che la molla dell'omicidio sarebbe stata «lo strattonamento» ricevuto dalla sua compagna, Elena, da parte del nigeriano che aveva chiesto loro l'elemosina in strada, prendendola anche per un braccio.

«Voleva far capire a quell'uomo che non ci si comporta così, impartirgli una lezione», dice l'avvocato Bizzarri, che però resta a sua volta turbata mentre pronuncia queste parole. Ai poliziotti della volante accorsi ad ammanettarlo, venerdì, Ferlazzo ha consegnato il cellulare di Alika: «Questo è della persona che ho picchiato», le sue parole a caldo. Al legale d'ufficio ieri ha aggiunto: «Dopo la colluttazione ho raccolto degli oggetti da terra tra cui quel telefonino scambiandolo per il mio, ma non l'ho rapinato».

L'avvocato Giancarlo Giulianelli, l'ex legale di Luca Traini, il «Lupo» condannato a 12 anni per strage, oggi fa il garante regionale dei diritti dei detenuti: «Luca - dice - ormai è molto cambiato e ripete sempre di voler scontare il debito che ha con la società, di certo non giustificherebbe in alcun modo quello che è successo a Civitanova». Domani ci sarà l'interrogatorio di garanzia per la convalida del fermo di Ferlazzo, martedì l'autopsia sul corpo di Alika, che sarà eseguita dal medico legale Ilaria De Vitis per capire se sia morto per strangolamento. «Io ho paura del carcere avvocato - ha detto ieri l'uomo mentre la Bizzarri lasciava la sala colloqui - . Ho paura che adesso la mia vita sia finita».

Civitanova, la vita in bilico di Ferlazzo tra Tso, droga, psicofarmaci. La madre: provo dolore per la vittima. di Riccardo Bruno, Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 31 luglio 2022 

La madre dell’assassino di Alika: è sempre stato un ragazzo difficile. Elena, la fidanzata: non pensavo arrivasse a tanto.

Con lei Filippo sembrava rinato, Elena l’aveva ripescato dall’abisso, dopo averlo incontrato un giorno per caso alla mensa della Caritas di via Parini 13, il centro «don Lino Ramini», cibo pronto per i vagabondi come lui, senza tetto né legge, randagio e feroce. Ma questa non è una favola, questa è una tragedia e non è mai facile convivere con i propri fantasmi. E così Filippo Ferlazzo, 32 anni il prossimo dicembre, alla fine è diventato un assassino , l’assassino di Alika che a lui e a Elena venerdì scorso aveva solo chiesto di acquistare un pacco di fazzolettini o di avere una moneta.

La compagna: sono una donna distrutta

Ma prima di questo, prima della fine, aveva trascorso un anno orribile di peregrinazioni, Tso, frequenti stati d’agitazione, controlli al pronto soccorso. Due volte addirittura in rapida successione ad aprile, qui a Civitanova, la prima era fuggito dall’ospedale, la seconda l’avevano accompagnato i poliziotti ed era stato visitato da uno psichiatra. Elena comunque è sempre al suo fianco. Da due giorni però la vita della donna è stata stravolta, giornalisti e telecamere hanno iniziato ad assediare la sua abitazione al pian terreno dove da qualche mese si era trasferito anche Ferlazzo. Lei ieri è rimasta sempre chiusa dentro. «Sono una donna distrutta, sono veramente vicina alla famiglia della vittima. È stato un fulmine a ciel sereno, io ero in un negozio altrimenti l’avrei fermato. Il razzismo non c’entra nulla, è stato un evento fuori controllo per la sua malattia» ha risposto e poi ha chiesto di essere lasciata tranquilla.

Un ragazzo difficile

Ferlazzo più di un anno fa era andato via di casa da Salerno, dalla madre Ursula che era stata nominata dal tribunale del capoluogo campano sua amministratrice di sostegno, la tutor che doveva controllare i suoi eccessi. Ora lei si dispera: «Povero figlio mio. È sempre stato un ragazzo difficile, ha avuto un’adolescenza terribile e problemi uno dopo l’altro». Già, ma come faceva a controllarlo a 400 chilometri di distanza? Per ovviare all’instabilità della terapia, data la sua vita ormai inquieta, i medici gli avevano prescritto farmaci a lento rilascio, ma chissà se li prendeva con regolarità. Il suo viaggio all’inferno era iniziato da tempo: genitori separati, da adolescente un ciclo di cure di due anni in una comunità di Lecce per liberarsi dalla tossicodipendenza, poi un Tso a Salerno per sindrome bipolare con comportamenti psicotici e disturbo borderline di personalità. La signora Ursula ha già mandato via email all’avvocata di suo figlio Roberta Bizzarri tutte le cartelle cliniche che oggi stesso saranno presentate al giudice nell’udienza di convalida dell’arresto per chiedere una perizia psichiatrica.

La sindrome bipolare

Il disturbo borderline ti fa passare in un attimo dall’essere tranquillo ad improvvisi impulsi di aggressività, è una sindrome che ti rende intollerante ai fattori stressanti. Una bomba a orologeria col timer innescato. Eppure negli ultimi mesi Filippo Ferlazzo sembrava un uomo nuovo, Elena l’aveva aiutato anche a trovare lavoro in un’azienda di Civitanova Alta che produce lame e stampi metallici. Il sogno di una vita finalmente normale è franato di fronte a un pretesto banale, la semplice insistenza di un venditore ambulante. L’ha seguito, colpito e finito a mani nude. Anche la madre Ursula, che pure conosceva i suoi tormenti, dice adesso: «Non avrei mai pensato che potesse arrivare a tanto. Mi dispiace per quella famiglia». Ma resta sempre la madre: «Sono molto preoccupata adesso che si trova in carcere».

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2022.

Con lei Filippo sembrava rinato, Elena l'aveva ripescato dall'abisso, dopo averlo incontrato un giorno per caso alla mensa della Caritas di via Parini 13, il centro «don Lino Ramini», cibo pronto per i vagabondi come lui, senza tetto né legge, randagio e feroce. Ma questa non è una favola, questa è una tragedia e non è mai facile convivere con i propri fantasmi. E così Filippo Ferlazzo, 32 anni il prossimo dicembre, alla fine è diventato un assassino, l'assassino di Alika che a lui e a Elena venerdì scorso aveva solo chiesto di acquistare un pacco di fazzolettini o di avere una moneta.

Ma prima di questo, prima della fine, aveva trascorso un anno orribile di peregrinazioni, Tso, frequenti stati d'agitazione, controlli al pronto soccorso. Due volte addirittura in rapida successione ad aprile, qui a Civitanova, la prima era fuggito dall'ospedale, la seconda l'avevano accompagnato i poliziotti ed era stato visitato da uno psichiatra. 

Elena comunque è sempre al suo fianco. Da due giorni però la vita della donna è stata stravolta, giornalisti e telecamere hanno iniziato ad assediare la sua abitazione al pian terreno dove da qualche mese si era trasferito anche Ferlazzo. Lei ieri è rimasta sempre chiusa dentro. «Sono una donna distrutta, sono veramente vicina alla famiglia della vittima. 

È stato un fulmine a ciel sereno, io ero in un negozio altrimenti l'avrei fermato. Il razzismo non c'entra nulla, è stato un evento fuori controllo per la sua malattia» ha risposto e poi ha chiesto di essere lasciata tranquilla.

Ferlazzo più di un anno fa era andato via di casa da Salerno, dalla madre Ursula che era stata nominata dal tribunale del capoluogo campano sua amministratrice di sostegno, la tutor che doveva controllare i suoi eccessi. 

Ora lei si dispera: «Povero figlio mio.È sempre stato un ragazzo difficile, ha avuto un'adolescenza terribile e problemi uno dopo l'altro». Già, ma come faceva a controllarlo a 400 chilometri di distanza? Per ovviare all'instabilità della terapia, data la sua vita ormai inquieta, i medici gli avevano prescritto farmaci a lento rilascio, ma chissà se li prendeva con regolarità.

Il suo viaggio all'inferno era iniziato da tempo: genitori separati, da adolescente un ciclo di cure di due anni in una comunità di Lecce per liberarsi dalla tossicodipendenza, poi un Tso a Salerno per sindrome bipolare con comportamenti psicotici e disturbo borderline di personalità. La signora Ursula ha già mandato via email all'avvocata di suo figlio Roberta Bizzarri tutte le cartelle cliniche che oggi stesso saranno presentate al giudice nell'udienza di convalida dell'arresto per chiedere una perizia psichiatrica.

Il disturbo borderline ti fa passare in un attimo dall'essere tranquillo ad improvvisi impulsi di aggressività, è una sindrome che ti rende intollerante ai fattori stressanti. Una bomba a orologeria col timer innescato. Eppure negli ultimi mesi Filippo Ferlazzo sembrava un uomo nuovo, Elena l'aveva aiutato anche a trovare lavoro in un'azienda di Civitanova Alta che produce lame e stampi metallici. 

Il sogno di una vita finalmente normale è franato di fronte a un pretesto banale, la semplice insistenza di un venditore ambulante. L'ha seguito, colpito e finito a mani nude. Anche la madre Ursula, che pure conosceva i suoi tormenti, dice adesso: «Non avrei mai pensato che potesse arrivare a tanto. Mi dispiace per quella famiglia». Ma resta sempre la madre: «Sono molto preoccupata adesso che si trova in carcere».

Fa. C. per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2022.

L'udienza di convalida dell'arresto davanti al Gip nel carcere di Montacuto ad Ancona deve ancora iniziare - oggi alle 10 - ma è già battaglia. Il legale della famiglia di Alika Ogorchukwu, Francesco Mantella, si opporrà con forza alla richiesta della collega Roberta Bizzarri, difensore d'ufficio di Filippo Ferlazzo, di una perizia psichiatrica per il proprio assistito. 

«Qualora si adombrasse l'incapacità di intendere e di volere - ragiona Mantella - allora andrebbe chiarito se è stato fatto tutto il possibile per evitare quello che è poi accaduto. Mi chiedo: se la madre che era l'amministratrice di sostengo di Ferlazzo viveva a Salerno, come poteva controllarlo quotidianamente, avendo poi il dovere di riferirne al Tribunale? Bisognerà accertare tutte le responsabilità». 

L'autopsia sul corpo dell'ambulante nigeriano verrà eseguita domani all'ospedale di Civitanova e dovrà chiarire cosa ne ha causato la morte, se i colpi inferti da Ferlazzo con la stampella dopo avergliela strappata di mano, oppure le botte ricevute a mani nude. Una reazione brutale e spropositata, soltanto perché Alika aveva chiesto forse con troppa insistenza di vendergli qualcosa.

Intanto, per sgombrare il campo dalle polemiche sulla presunta indifferenza, Civitanova si mobilita per mostrare in pieno il suo volto solidale. Venerdì pomeriggio, mentre si consumava il massacro su Corso Umberto I, è vero che il killer poteva essere fermato, ma ad assistere all'aggressione c'erano solo quattro persone, non una folla. 

Tra loro una ragazza moldava di 28 anni che ha ripreso tutto col telefonino e gli investigatori l'hanno già ringraziato per il contributo alla ricostruzione della dinamica. E gli altri tre, due anziani e un impiegato dell'ufficio dogane, chiamavano aiuto e gridavano «Fermati» a Ferlazzo. 

Così ieri la Giunta comunale, presieduta dal sindaco Fabrizio Ciarapica, ha stanziato un fondo di 15 mila euro a sostegno della famiglia di Alika. Germano Ercoli, imprenditore locale nel settore delle calzature, donerà 10 mila euro, mentre una raccolta fondi che confluisce direttamente sul conto della vedova è stata promossa dall'avvocato Mantella. Sabato prossimo, infine, è in programma una nuova manifestazione in città, primo appuntamento del neonato «Comitato 29 luglio» nato per condannare la violenza e il razzismo. I promotori hanno chiesto al Comune di offrire un lavoro stabile alla vedova di Alika. 

Omicidio Civitanova, Filippo Ferlazzo resta in carcere: «Ciò che ho fatto è la mia condanna». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.

Il giudice: «È violento, può uccidere ancora» e convalida il fermo per l’omicidio di Alike. Al vaglio la posizione della madre, sua tutrice legale.

«Non sono razzista, non ho picchiato quell’uomo per il colore della pelle, ho amici extracomunitari, tante volte mi è capitato di offrir loro un caffè…». Filippo Ferlazzo non ha mai pianto, ieri mattina, durante l’ora d’interrogatorio in carcere ad Ancona davanti al Gip Claudio Bonifazi, ed è sembrato sincero quando ha detto: «Quello che è successo per me è già una condanna». Si è dichiarato più volte «costernato» per la morte di Alika Ogorchukwu, l’ambulante nigeriano che ha massacrato venerdì su Corso Umberto I (oggi l’autopsia), chiedendo anche scusa alla vedova Charity, ma ha aggiunto: «Io mi sono difeso, mi aveva strappato l’orologio, abbiamo avuto una colluttazione perché aveva preso la mia ragazza per un braccio chiedendole qualche soldo. Allora gli ho detto: lei non la devi toccare, capito? E lì è cominciato tutto. Ma non pensavo di averlo ucciso, prima di allontanarmi respirava. È stata una disgrazia, una tragedia».

Il gip Bonifazi, però, nell’ordinanza con cui ha convalidato l’arresto per omicidio aggravato e rapina — quella del cellulare dell’ambulante — non sembra credergli. E scrive: «La legittima difesa viene contraddetta dalle testimonianze e dai video» e ci sarebbero anzi «evidenti gravi indizi di colpevolezza». Il Gip nelle 6 pagine di provvedimento lo descrive come un «soggetto violento e con elevata pericolosità sociale», che può uccidere ancora, con un «impulso immotivato mostrato nel reagire» e invita le parti ad approfondirne il profilo psichiatrico in relazione al «disturbo bipolare» di cui si parla nelle cartelle cliniche prodotte dall’avvocata d’ufficio, Roberta Bizzarri. La sua storia di sofferenza psichica in effetti, è lunga: Tso a Salerno, la città d’origine, poi la presa in carico a fine aprile scorso presso il Csm di Civitanova e la decisione di nominare amministratrice di sostegno sua madre, Ursula Loprete, 50 anni, architetta molto nota a Salerno, candidata alle comunali un anno fa con una lista civica. «Mia madre mi ha partorito in Austria a 18 anni», ha raccontato ieri Ferlazzo, che sui social si faceva chiamare col nickname «Filippo Figo». E ancora: «Ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Torino, mi piace dipingere e so suonare Beethoven al pianoforte…». «La tela per me è come un baratro dove rinchiudo i miei demoni», scrisse un giorno su Facebook.

La sua compagna, Elena D., 45 anni, però è netta: «Ha sbagliato, deve pagare, anch’io chiedo perdono alla famiglia di Alika, dev’essere fatta giustizia. Sapevo che lui aveva dei disturbi, ma non mi sono mai sentita in pericolo perché il vero Filippo non è la persona che avete visto». Parole comprensibili, dato l’affetto che li lega. Anche mamma Ursula, che non è indagata ma presto sarà sentita a verbale, da Salerno dice: «Verrò presto a trovare mio figlio in carcere e resterò sempre vicina a lui». Il procuratore facente funzioni di Macerata, Claudio Rastrelli, dopo l’interrogatorio ha spazzato ogni dubbio: «Non ci sono elementi di prova per ritenere la condotta dettata da razzismo». Ma Stefano Mantella, l’avvocato della famiglia di Alika, non fa sconti: «La famiglia non vuole le scuse di quell’uomo, chiede solo giustizia e non vendetta». Dopo l’autopsia, arriverà il nulla-osta della Procura per la sepoltura della salma, che sarà portata in Nigeria per i funerali con il rito pentecostale.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 2 agosto 2022.  

Stefano Cesca, 58 anni, di Recanati, si fa chiamare Steve all'americana e Steve Stampi è il nome della fonderia di alluminio di cui è titolare da quasi 30 anni in via Cianfrocchi.

Nella sua fabbrica di profilati lavoravano fino a giovedì scorso 7 operai, uno di questi era Filippo Ferlazzo, da venerdì in carcere ad Ancona, accusato dell'omicidio di Alika Ogorchukwu.

Se l'aspettava, signor Cesca?

«Ma come si fa a dirlo? Certo, a pensarci bene, il giorno prima c'era stato un precedente». 

Racconti.

«Giovedì qui in fabbrica ha avuto un'esplosione d'ira: da giorni mi veniva dietro in preda all'ansia per chiedermi di rinnovargli il contrattino di un mese che sarebbe scaduto il 31 luglio. E io gli dicevo: stai tranquillo, non c'è fretta, ne parliamo quando scade. Ma lui, all'improvviso, ha dato un calcio terribile alla porta del mio ufficio e poi è rimasto là fuori in silenzio, balbettando qualcosa mentre mi fissava».

Ha avuto paura?

«No, perché io sono forte, robusto, lavoro in fonderia da una vita e mi sono sempre saputo difendere. Non vede? Ho muscoli, tatuaggi, piercing ovunque, gli ho detto a brutto muso: ora calmati, vai a casa e torna lunedì. E l'ho cacciato». 

Gliel'avrebbe rinnovato il contrattino?

«Ma sì, l'ho detto anche oggi al mio commercialista, perché Filippo era un operaio bravo, affidabile, ci teneva a questo lavoro. Si era presentato un mese fa qui da solo e io l'avevo assunto senza problemi, aveva imparato subito il mestiere, svuotava i bidoni, martellava per ore il materiale, sembrava instancabile. Anche se alla Croce Verde dove faccio il volontario mi avevano detto di stare all'erta». 

Cioè?

«Dei miei colleghi pare lo conoscessero, mi raccontarono che lui aveva mostrato già qualche squilibrio in passato, si parla di una panchina danneggiata in centro, di denunce arrivate ai carabinieri». 

E lei?

«Io niente, gli ho dato fiducia e posso dirvi anche ora che Filippo, nonostante tutto, non è un mostro. Certo, ignoravo che fosse invalido civile al cento per cento per i suoi disturbi psichici e adesso mi chiedo se per la legge abbia sbagliato ad assumerlo. Non so se potrò avere delle conseguenze. Ma come facevo a saperlo? Lui mica me l'ha detto quando si è presentato».

Nei suoi confronti ora prova più pena o rabbia?

«Di sicuro, almeno io, ho conosciuto un'altra persona: sempre educata, gentile, molto seria. Però si vedeva che soffriva. Mi diceva che in vita sua tanta gente l'aveva sfruttato. Poi era geloso, gelosissimo della fidanzata. Aveva sofferto molto per un litigio avuto con lei qualche settimana fa».

Con Elena?

«Sì, mi aveva raccontato che una sera lei voleva uscire a divertirsi, voleva andare a ballare fuori, Civitanova in questo periodo è piena di discoteche e locali sul mare frequentati da tanta gente, lui però voleva restare in casa e andare a dormire presto, perché il giorno dopo doveva essere in fabbrica. E questo, vi garantisco, non è un lavoro facile. Anzi è anche pericoloso e Filippo il mattino dopo voleva arrivare al lavoro fresco di testa ed efficiente. Così alla fine bisticciarono. Ma in una coppia è normale, o no?».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2022.

I passanti invece di intervenire filmavano la scena con il telefonino. Molti tg hanno mandato in onda frammenti di questa terribile scena: quattro interminabili minuti in cui Alika Ogochukwu è rimasto in balia della furia di Filippo Ferlazzo, che l'ha prima colpito con la stampella che gli aveva tolto di mano, poi una volta a terra lo ha picchiato e schiacciato «a mani nude», fino a soffocarlo. 

Non so perché quelle persone non siano intervenute, non so come mi sarei comportato. So che  il nesso tra la morte e la sua rappresentazione in diretta è uno dei temi cruciali che da tempo attraversano le riflessioni sui media, uno di quei temi cui il cinema ha dedicato attenzione, a partire da L'asso nella manica di Billy Wilder a La morte in diretta di Bernard Tavernier, da Dentro la notizia di James L. Brooks ai cosiddetti «snuff movie», filmati amatoriali in cui vengono esibite torture con inevitabile epilogo.

Grazie alla rete, la morte non è più un tabù: dev'essere raccontata, mostrata, esibita quasi per la paura che una tragedia non vista resti invisibile, cioè inesistente. Ma i media siamo noi, sempre più pornograficamente addestrati a pedinare la morte in diretta. Inutile dare la colpa ai social, alla mania narcisistica di dover certificare la nostra giornata con foto, video, messaggi. 

Da molto tempo (per noi, almeno dalla tragedia di Vermicino) qualcosa si è spezzato per sempre, la morte si è fatta spettacolo, il nostro occhio si è indurito. Il catalogo delle atrocità è così sterminato che le domande legittime rattrappiscono sul nascere: un «accrescimento senza progresso», diceva Musil, che si risolve nella tranquilla connivenza della tragedia e del suo contrario.

La tragedia diventa abitudine per assuefazione, per indifferenza. La rete è il nostro nuovo ambiente di socializzazione, «luogo» in cui impariamo a comportarci, a divertirci, a soffrire. Persino a filmare un omicidio.

Sara Marino per mowmag.com l'1 agosto 2022.

Dopo l’omicidio di Alika Ogorchukwu, 39 anni, ammazzato a mani nude in pieno centro a Civitanova Marche fra la totale indifferenza dei passanti, ci si interroga su come sia possibile che un episodio così violento sia potuto accadere senza che nessuno intervenisse. Anche perché i video della sua straziante agonia sono diversi e testimoniano come l’ambulante, da qualche tempo anche disabile a causa di un incidente, sia stato finito da Filippo Ferlazzo, 32 anni, dopo una colluttazione e una agonia di almeno 4 minuti.

E mentre viene smentito il movente dell’operaio ora in carcere, e cioè che Alika abbia fatto degli apprezzamenti poco graditi verso la sua compagna, la comunità di Civitanova si mobilita almeno per dare sostegno alla famiglia del nigeriano. Alla moglie Charity Oriachi, distrutta dal dolore, e al figlio della coppia di soli 8 anni che, come vi abbiamo raccontato, è in stato di choc. Così, per uscire dal dibattito social e dalle contrapposizioni politiche, abbiamo chiesto il parere della scrittrice Barbara Alberti, una delle menti più lucide del nostro Paese, anche in momenti così bui. Allargando il discorso alla nostra società “di razzisti e consumisti fottuti” - ha tuonato – si è scagliata contro l’indifferenza di chi non ha fatto nulla per evitare la tragedia. 

Barbara Alberti come è possibile che si sia consumato un omicidio così feroce nell’indifferenza di chi si è limitato a riprendere la scena col cellulare senza intervenire?

È l’atroce simbolo di quello che siamo diventati, dei guardoni impotenti e assassini, perché chiunque assiste a questo e non aiuta si unisce all’assassino. Tutte le persone che non l’hanno soccorso sono complici di questo assassinio, questo non è l’assassinio di uno solo è un linciaggio, è come se gli altri avessero preso parte all’omicidio perché è proprio questo che hanno fatto. Tutti coloro che non sono intervenuti sono complici e sono sotto uomini. Ormai l’omicidio è diventato spettacolo, noi non siamo persone, siamo non persone.

In un’intervista in proposito, Don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capodarco nelle Marche, da sempre impegnata nella tutela dei più deboli, riportava le confessioni di una ristoratrice che parlava di come spesso le persone di colore non potessero essere impiegate come camerieri perché sgradite ai clienti.

Perché siamo razzisti. Discriminare chi non è come te è una forma di paura, di diffidenza.

Eppure spesso si dice che la società civile è più avanti della politica ….

Siamo noi che ci chiamiamo civili, ci chiamiamo società civile, ma perché? Perché abbiamo dei diritti? Questo episodio cancella completamente la retorica della società civile, questa è la scena di un linciaggio a cui hanno partecipato con il cinismo addirittura del godere dello spettacolo.

Lei pensa che questa intolleranza montante nei confronti delle persone di colore derivi da un senso di impoverimento che pervade la società?

Cosa si odia? Si odia il povero. Si sono sempre odiati i poveri se poi hanno un colore della pelle diverso è una scusa maggiore. Noi terra di migranti non vogliamo i migranti evidentemente anche perché la cosa è organizzata malissimo dallo Stato. Basti prendere come esempio la continua criminalizzazione del presidio umanitario Baobab Experience che opera a Roma, associazione di santi laici, che fanno ciò che lo Stato dovrebbe fare. Ma d'altronde frustrati come siamo, noi che non siamo più uomini siamo consumisti. Abbagliati da un mondo che non possiamo avere ci scanniamo fra di noi, siamo diventati dei materialisti fottuti.

Siamo in piena campagna elettorale. E mentre la destra è sotto attacco di chi la accusa di aver soffiato sul fuoco dell’intolleranza, la sinistra arranca sui temi che dovrebbero esserle propri. Come vede il prossimo futuro?

La sinistra non c’è, la sinistra ha tradito, è diventata un’altra cosa. Magari ci fosse una sinistra ispirata, vera, magari ci fosse un partito radicale, un Marco Pannella! Non ci sono persone ispirate, non ci sono persone invasate, è venuta a mancare questa logica che il bene dell’altro è anche il proprio bene, è una logica della sopravvivenza, non è una massima cristiana, noi siamo dei suicidi.

E a destra cosa vede?

In assenza della sinistra la destra cresce, se non sai esprimere un ideale, un progetto, un programma… La destra che parla di sostituzione razziale e di irricevibilità di una legge sullo Ius soli è una destra che mi spaventa, è una destra aggressiva, che sta dalla parte del più forte e con gli ideali di sempre. D’altronde è tutto un grande omicidio.

Chiara Gabrielli da La Nazione l'1 agosto 2022.

«Oddio, questo è matto». Sono state le ultime parole di Alika Ogorchukwu, venditore ambulante, sposato e padre di un bimbo di otto anni, mentre scappava lungo il corso Umberto I, pochi attimi prima di finire ammazzato per mano di Filippo Ferlazzo. Massacrato a mani nude in pieno giorno. «Ho visto che il mendicante veniva inseguito da un altro uomo - racconta una testimone, Sara G. -, che cercava di colpirlo con quello che da lontano sembrava un bastone o una spranga. 

L'aggressore era una furia, gridava e colpiva con forza l'altro ragazzo, tanto che poi hanno ritrovato, vicino al corpo, la stampella curva a causa della forza dei colpi dati. La gente piangeva, è stato terribile». Alika, quel pomeriggio intorno alle 14, è entrato nella libreria del corso, ha chiesto di cambiare gli spicci, come sempre.

«È stato più gentile del solito - ricorda la commessa -, mi ha detto, in italiano, che aveva tanto caldo e che quel giorno gli faceva molto male la gamba. L'ho visto veramente affaticato».

Cinque minuti dopo, Alika era morto. Una follia, come ha detto anche lo stesso Alika pochi istanti prima di essere ucciso. 

Ma, se era instabile mentalmente, perché non era controllato come si deve? «Se c'è un risvolto psichiatrico che si inserisce nelle cause dell'omicidio di Alika, serve riflettere - sottolinea Francesco Mantella, avvocato di Ogorchuckwu -, se Ferlazzo aveva un amministratore di sostegno, pare fosse la madre, perché questi non era vigilato?

Bisognerà avviare una serie di verifiche». Così l'avvocato Francesco Mantella, legale della famiglia di Ogorchukwu: «Le scuse di Ferlazzo non bastano - incalzano i familiari di Alika -, ora serve solo giustizia e non vendetta. È difficile riuscire a comprendere quello che è successo». «Ferlazzo era invalido al cento per cento - tiene a dire Roberta Bizzarri, avvocato dell'omicida, che ha subito diversi Tso e ad aprile era stato visitato in psichiatria a Civitanova -. Questa vicenda è dolorosissima, mi dispiace moltissimo per la moglie e il figlio di Alika, ma è giusto che l'imputato abbia una condanna che tenga conto delle sue condizioni.

La vendetta non aiuta nessuno, una sentenza giusta sì». Per questo l'avvocato Roberta Bizzarri, difensore d'ufficio di Filippo Ferlazzo, oggi chiederà subito una perizia psichiatrica sul 32enne, depositando tutti i documenti che attestano il suo stato di salute al giudice Claudio Bonifazi, nell'udienza di convalida dell'arresto che si terrà in carcere a Montacuto. Il 32enne è accusato di omicidio volontario e rapina. All'uomo, nato in Austria ma residente a Salerno, era stato diagnosticato un disturbo bipolare e borderline.

Ci sarebbe dunque questo all'origine della follia omicida? La fidanzata di Ferlazzo, chiusa in casa nel dolore e sconvolta per quanto accaduto, dice: «Mi dispiace per tutto - le sue parole al Tg1, dietro le persiane chiuse -, è difficile da spiegare, sono in stato di choc in questo momento. Non ero proprio fisicamente presente (al momento dell'omicidio, ndr). Mi sono allontanata, è successo tutti in pochi minuti. Quando Filippo è tornato indietro era sporco di sangue. Pregavo per quell'uomo», ma Alika giaceva ormai senza vita. Una raccolta fondi a favore di Charity Oriachi, la vedova di Alika, è stata lanciata intanto a Civitanova in queste ore. Il sindaco Fabrizio Ciarapica ha assicurato che i familiari della vittima avranno il supporto necessario, dal punto di vista del sostegno economico: «Non ti lasceremo mai sola», ha detto il primo cittadino alla vedova. I servizi sociali di Civitanova si sono coordinati con quelli di San Severino, dove Alika risiedeva con la famiglia. Il sindaco ha deciso che proclamerà il lutto cittadino nel giorno del funerale. 

Estratto dell’articolo di Benedetta Lombo per “Il Messaggero” il 31 luglio 2022.  

Ad aprile scorso il 32enne era andato in ospedale a Civitanova, non si sentiva bene e lo avrebbero sottoposto a visite psichiatriche.

Il ricovero

Da quanto emerso il 32enne non seguiva una terapia farmacologica, era stato in una comunità a doppia diagnosi per un paio di anni, e da qualche mese si era trasferito a Civitanova, sembra per questioni di cuore. «Sono straziata da quanto accaduto e vicino al dolore della famiglia della vittima», ha detto la madre di Ferlazzo all’avvocato Bizzarri. «Le ho chiesto la documentazione sull’invalidità e le patologie - afferma il legale -. Ha chiesto del figlio, cosa poteva fare per incontrarlo». Per martedì, intanto, è stato fissato l’esame autoptico sulla salma del 39enne, a eseguire l’accertamento irripetibile sarà il medico legale Ilaria De Vitis.

Civitanova Marche, il luogo in cui è avvenuto l'omicidio del nigeriano ucciso a bastonate. Civitanova Marche, uccide un ambulante in strada mentre i passanti lo filmano. Rosario Di Raimondo su La Repubblica il 29 Luglio 2022. 

Civitanova Marche, la vittima è un nigeriano di 39 anni. Un operaio italiano arrestato con le accuse di omicidio e rapina. "Una reazione per le avance alla fidanzata", ma gli investigatori non ci credono. Il migrante pestato con la sua stessa stampella.

"Fermati, lo ammazzi così", gridavano i passanti. Ma Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, 32 anni, non si è fermato. Ha picchiato l'ambulante con la sua stessa stampella, che lo aiutava a camminare dopo un incidente. Lo ha colpito più volte in tutto il corpo. E quando la vittima è caduta per le bastonate, gli è salito sopra, tenendogli la testa schiacciata per terra. 

Omicidio di Civitanova Marche, l'urlo della moglie di Alika: “Voglio guardarlo in faccia e chiedergli: perché?”. Luca Monaco su La Repubblica il 30 Luglio 2022.

“Io sono arrivata dal nostro Paese dopo di lui e qui è nato il nostro Emmanuel”.

"Voglio guardare quell'uomo negli occhi e chiedergli perché l'ha fatto. Perché ha ucciso mio marito". Si porta una mano alla fronte Charity Oriachi. Si sente mancare. A 35 anni gli è caduto il mondo addosso. Suo marito, Alika Ogorchukwu, 39 anni, un venditore ambulante nigeriano di accendini e fazzoletti, non c'è più. Adesso come farà, con il poco che riesce a guadagnare come donna di servizio a ore nelle case delle famiglie di San Severino, a garantire un...

Omicidio a Civitanova Marche, quegli spettatori incapaci fermare la violenza. Chiara Valerio su La Repubblica il 30 Luglio 2022. 

È morto un uomo che aveva un figlio, che non aveva neppure quarant'anni, che aveva deciso di vivere e lavorare - come poteva, come gli riusciva - nel nostro Paese. E ciò che ha trovato è stata la mancanza della possibilità di un avere un domani.

Mentre leggo le prime notizie che arrivano da Civitanova Marche, sull'assassinio brutale, in pieno sole, in pieno centro, lungo Corso Umberto I nell'ultimo venerdì di luglio, temo ciò che diremo, penseremo, ascolteremo sulle ragioni per le quali ciò che è accaduto, è accaduto. Alika Ogorchukwu è stato ammazzato con la stampella che gli reggeva i passi in seguito a un incidente d'auto, così ha dichiarato il suo avvocato.

M.n.d.l. E R.d.r. Per "la Repubblica" il 31 luglio 2022.

«Basta, smettetela di dire che nessuno è intervenuto per salvare Alika, smettetela di accusarci di indifferenza, io c'ero mentre quell'energumeno uccideva Alika, ho provato a fermarlo, non ci sono riuscito, però ho chiamato la polizia e l'ho fatto arrestare».

L'uomo che ci si avvicina davanti all'altare di fiori e fotografie che ricordano l'ambulante nigeriano assassinato si chiama Mariano M., lavora all'ufficio dogane di Civitanova, è emigrato qui 15 anni fa da Caserta. È uno dei testimoni oculari della strage.

Quindi lei ha visto tutto?

«Ero alla fermata dell'autobus, con le spalle al corso, non mi ero accorto di nulla, finché non ho sentito le urla disumane di Alika. Mi sono girato e ho visto Ferlazzo che lo massacrava a colpi di stampella». 

E cosa ha fatto?

«Era impossibile dividerli, quel tipo era feroce. Gli gridavo: basta, lo ammazzi, mi sono avvicinato e con un calcio ho allontanato la stampella con cui stava colpendo Alika. Inutile, perché Ferlazzo lo stava finendo a mani nude. Per poi alzarsi e andare via». 

Quando ha chiamato la polizia?

«Subito dopo aver allontanato con un calcio la stampella. Quando ho visto Ferlazzo andare via, dopo aver ucciso il povero ambulante, ho temuto che non sarebbero arrivati in tempo per arrestarlo. Così, appena ho visto avvicinarsi la macchina, mi sono buttato in mezzo alla strada per fermarli».

Ferlazzo, però, era riuscito ad allontanarsi.

«Si sentiva così impunito che non si era nemmeno messo a correre.Ho indicato l'assassino agli agenti e l'hanno arrestato. Bravissimi. Sapete quanto è durato questo incubo? Diciassette minuti». 

Come ha fatto a calcolarli?

«Perché ero alla fermata dell'autobus alle 14 e 2 minuti, e in quel momento alle mie spalle Ferlazzo aggrediva Alika. Ho chiamato la polizia pochissimi minuti dopo, e alle 14,20 sono riuscito a salire sul mio bus». 

Chi c'era con lei al momento dell'assassinio di Alika?

«Eravamo in quattro, così ho ricostruito anche dal video: una signora anziana, una ragazza, un uomo anch'egli d'età con il cane e io. Come avremmo potuto fermare quell'uomo? Per questo rifiuto le accuse di razzismo e di indifferenza». 

La polizia ha verbalizzato il suo racconto?

«Certo, sono venuti nel mio ufficio in dogana». 

Come si sente?

«Sconvolto. Devo confessare anche un po' di paura: l'ho fatto arrestare, ma uscirà presto per infermità mentale. Vorrà vendicarsi?».

Omicidio Civitanova Marche, con Emmanuel nella sua stanza: “Papà non torna più per giocare?” Maria Novella De Luca su La Repubblica il 31 luglio 2022 

Emmanuel palleggia in giro per la casa. Bum, pallone contro la porta. Risata. Strillo di Charity: "Emmanuel, rompi tutto". Un attimo di vita normale che s'incunea nel lutto, nel corpo inquieto di Emmanuel, ha saputo che suo padre non c'è più, Alika non tornerà, "era malato, è morto all'ospedale", è stata la bugia triste di Charity. Per questo Emmanuel tira calci, contro quel dolore che gli ha bucato il cuore, a otto anni è così, mancano le parole si lanciano pallonate. Bum, contro la porta. "Cosa vuoi fare da grande?" "Il calciatore e giocare nella Juve, sono bravissimo". "Cosa ti piace della scuola?", "Ginnastica e italiano". Parla un italiano perfetto Emmanuel, figlio di Alika e Charity, è alto e sottile, simbolo di una integrazione possibile, mentre mostra orgoglioso i nuovi scarpini bianchi regalo dell'avvocato Francesco Mantella, i suoi libri di scuola, il suo computer, le sue costruzioni.

Charity, ruvida, se lo stringe addosso: "Non posso dirgli che suo padre è morto peggio di un cane, ammazzato con le mani da un italiano che adesso farà finta di essere pazzo. Se un africano uccide uno di voi finisce subito dentro, se un italiano uccide uno di noi direte che è malato. Razzismo, tanto razzismo. Senza Alika non abbiamo più niente, quando tornava dal lavoro giocava sempre con Emmanuel, per lui volevamo un futuro migliore del nostro, lui è quello che mi resta, good boy, ora per Emmanuel l'Italia deve aiutarmi". Charity parla e piange, seduta per terra, il via vai della comunità nigeriana è incessante in questa casa pulita ed essenziale nella campagna intorno a San Severino.

Bisogna infatti venire qui, mentre Emmanuel ci porta, orgoglioso, nella sua stanza, mostra i peluche, il computer con Fortnite, per sentire e vedere che cosa la furia bestiale di Filippo Ferlazzo ha cancellato assassinando Alika Ogorchukwu, tre giorni fa a mani nude, nel centro di Civitanova. Ha ucciso il sogno di due immigrati più poveri dei poveri: dare a Emmanuel un po' di benessere e un domani. Euro su euro, con Alika che cercava di vendere fazzoletti e accendini e Charity che si spezza la schiena facendo (saltuariamente) le pulizie alla stazione di San Severino.

Charity mescola inglese e italiano, è disfatta, si arrabbia, grida, però chiede alla nipote di 10 anni che vive con lei, di inserire un Dvd nella tv: "Ecco il video del nostro matrimonio, eravamo già in Italia, belli vero, ci siamo conosciuti a Prato, io vengo da Benin City, anche Alika, laggiù non si poteva vivere, è l'inferno, a scuola ero brava ma siamo dovuti andare via, non c'erano soldi, cibo, vestiti, per noi l'Italia era la speranza". Scorrono le immagini di Charity vestita da sposa, i fiori nei capelli e Alika in giacca e cravatta, sembra un'altra vita. "Vorrei che Emmanuel potesse allenarsi, è la sua passione, ma i campetti sono lontani, non ho la macchina, magari qualcuno mi aiuterà a fare felice il mio bambino".

Il fratello di Charity, che vive a latina e lavora nei campi racconta che quando ha saputo della morte di Alika, "Emmanuel si è messo sotto una coperta tremando, come avesse la febbre". "Mi ha chiesto: Papà non torna più per giocare a calcio con me?". Niente lacrime, quelle verranno, per questo Emmanuel continua a palleggiare e sfogarsi facendo goal tra le porte di casa. "Il mio mito è Ronaldo anche se è andato via dalla Juve, puoi chiedergli una maglietta con l'autografo?". Le maestre: "Mi piacciono, sono gentili, però preferisco la cucina nigeriana a quella italiana".

Emmanuel guarda il video del matrimonio: "Mamma eri magra, papà era bello". Avrà bisogno ancora e ancora di guardare i momenti felici dei suoi genitori. L'avvocato Francesco Montella è seduto nella piccola cucina dove chiunque arriva porta cibo, bibite, conforto. "Per Alika, Emmanuel rappresentava un futuro migliore. Ha avuto un trauma, temo il giorno in cui scoprirà su Internet cosa è successo a suo padre. I servizi sociali di San Severino dovrebbero attivare subito un supporto psicologico sia per Emmanuel che per la sua cuginetta, che invece ha già saputo tutto".

Charity si prende la testa tra le mani. "Troppo dolore, troppo dolore. Adesso dov'è l'assassino? Mio marito lo aspettavo qui, come ogni sera, una doccia, la cena, Emmanuel, il pallone, un po' felici eravamo anche noi. Chiedo a Dio di aiutarmi, mio figlio avrà un futuro felice, nel mio cuore l'ho promesso davanti al corpo di Alika". 

Rosario Di Raimondo e Dario Del Porto per “la Repubblica” l'1 agosto 2022.

C'è un ricovero in Tso nel recente passato di Filippo Ferlazzo, in carcere per l'omicidio di Alika Ogorchukwu. Appena un anno fa il trentaduenne ha subito un trattamento sanitario obbligatorio con la diagnosi di tossicodipendente aggressivo con disturbo di personalità, una sindrome bipolare, comportamenti psicotici. 

Lo spiegano fonti sanitarie di Salerno, la città dove l'uomo viveva con la madre Ursula, sua amministratrice di sostegno. Che ora si dispera: «Non avrei mai pensato che potesse arrivare a tanto. Non ho parole, mi dispiace molto per quella famiglia e sono preoccupata per mio figlio».

Un aspetto, quello della salute mentale di Ferlazzo, che apre molti interrogativi mentre oggi è atteso l'interrogatorio di convalida dell'arresto davanti al giudice. «Perché non era vigilato? Bisognerà avviare una serie di verifiche», dice l'avvocato Francesco Mantella, legale della famiglia di Alika. «Le scuse di Ferlazzo non bastano, ora serve solo giustizia e non vendetta».

Roberta Bizzarri, legale dell'uomo in carcere, ha annunciato la richiesta di una perizia psichiatrica. Il suo assistito ha un'invalidità civile riconosciuta al 100% oltre a essere «bipolare e borderline». Dopo quel Tso poteva essere libero di muoversi? O doveva essere seguito, per esempio da una struttura specializzata? Di certo c'è che da poco aveva cominciato a lavorare come operaio. Non si può escludere che i magistrati decidano di ascoltare la madre e fare verifiche, anche aprendo un fascicolo, sul suo ruolo nei confronti del figlio di cui era "tutor". 

E che viveva a più di 400 chilometri da Salerno, a nord di Civitanova, quartiere Fontespina. Qui, in una palazzina rosa non lontana dal mare, abita ancora Elena, 45 anni, la fidanzata di Ferlazzo. Piange da dietro le persiane marroni: «Mi dispiace per tutto, è difficile da spiegare, sono sotto choc.

Non ero lì quando è successo, non avevo capito fosse morto », dice con un filo di voce ai microfoni del Tg1 . Venerdì pomeriggio, attorno alle 14, lei e il suo compagno erano insieme lungo corso Umberto I. Hanno incrociato Alika, che a dire di entrambi ha chiesto l'elemosina con molta insistenza. Ferlazzo lo ha seguito, picchiato con la sua stessa stampella e finito a mani nude in 4 minuti. 

L'autopsia, domani, chiarirà le cause della morte. «Ma cosa hai fatto?», ha urlato poi Elena a Filippo, mentre lui si allontanava. 

La libraia di corso Umberto, che preferisce restare anonima, ha visto Alika pochi minuti prima che morisse. È una delle ultime persone che gli ha parlato: «Era venuto per cambiare dei soldi. Aveva caldo e sentiva dolore alla gamba. Più o meno erano le 14. L'ho visto uscire e andare a destra». Alle 14.11 la prima telefonata alla polizia per una violenta lite.

«Ma non è vero che nessuno ha fatto niente», scrive su Facebook una testimone, Sara, in un post diventato virale. Ha visto quell'uomo colpire «ferocemente» l'ambulante. «Ho chiamato il 113, un'altra ragazza il 118, un giovane dottore in vacanza ha provato a rianimarlo». La stessa sera, sempre in corso Umberto, un'altra violenta lite: due italiani a massacrarsi di botte, con uno che schiacciava a terra l'altro. Gli altri a guardare e filmare 

L'ossessione di Ferlazzo per la difesa personale: "Chi ti passa vicino può sempre farti del male, dobbiamo essere pronti a tutto..." Dario del Porto su La Repubblica il 2 Agosto 2022.  

Il racconto a "Repubblica" di un volontario del centro di ascolto. L'assassino di Civitanova Marche è sotto processo per violenza sessuale per le accuse di una 19enne. Fu archiviato invece il fascicolo per maltrattamenti in famiglia aperto dopo la denuncia della madre nel giugno 2021

Un uomo affetto da problemi psichici che faceva uso di droghe e aveva l’ossessione per la difesa personale. Già sottoposto a tso, aveva costretto la madre a denunciarlo per maltrattamenti ed è tuttora sotto processo per un presunto episodio di violenza sessuale. L’ultima, scioccante, immagine di Filippo Ferlazzo è quella che lo ritrae mentre uccide a mani nude, a Civitanova Marche, l’incolpevole nigeriano di 39 anni Alika Ogorchukwu.

"A un certo punto della mia vita ho dovuto scegliere se, trovandomi davanti a un bivio, volevo percorrere una strada più lunga, che però portava all'inferno, o se invece volevo percorrere una strada più breve che mi avrebbe portata qui a Basilea". A parlare è Elena, malata terminale a cui circa un anno fa è stato diagnosticato un male incurabile, e che oggi ha scelto di morire in Svizzera. "Non ho nessun supporto vitale per vivere - spiega - solo una cura a base di cortisone". 

Per questo, come spiega nel suo ultimo videomessaggio, ha deciso di rivolgersi all'associazione Luca Coscioni: "Ho deciso di mettere in pratica una convinzione che avevo già in tempi non sospetti - assicura - Mi sono rivolta a Marco Cappato perché non volevo che i miei cari potessero essere accusati di avermi istigata a prendere una decisione che è solo mia". 

È stato un viaggio lungo oltre otto ore, dal Veneto alla Svizzera, un viaggio reso necessario dal fatto che Elena non avrebbe potuto ottenere questa possibilità in Italia perché la sentenza della Corte costituzionale esclude che possano essere aiutate a morire persone che non siano tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale."Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola"

Dario Del Porto per repubblica.it il 4 agosto 2022.

Treno regionale Napoli-Salerno, la fine di novembre 2018. Una studentessa di 19 anni sale sul convoglio diretta a Portici. Lo scompartimento è vuoto. Poco dopo, sopraggiunge un giovane. «Posso sedermi qua vicino?», le chiede. 

Domanda insolita, perché in quel momento tutti gli altri posti sono liberi. Pur stupita, la ragazza annuisce con un cenno del capo. L’uomo dice di essere un pittore e che gli piacerebbe dipingere anche lei come modella. Mentre parlano, lei scorre il profilo Facebook del suo interlocutore. Si chiama Filippo Ferlazzo. È lo stesso che quasi quattro anni più tardi, venerdì scorso, a Civitanova Marche, ucciderà a mani nude l’incolpevole ambulante nigeriano 39enne Alika Ogorchuckwu. 

Quando incontra la studentessa sul treno, Ferlazzo ha già alle spalle un complicato percorso di problemi psichici e consumo di stupefacenti. E nel bel mezzo del colloquio, tenta di abusare della diciannovenne. La spinge contro il finestrino tenendola per la spalla. Lei resiste e cerca di allontanarsi. Per un attimo teme di non riuscirci.

Però accade l’imprevisto. Sul treno c’è un altro passeggero. È un uomo che si accorge della situazione e interviene. Si avvicina alla ragazza. «Tutto ok?», domanda. Poi la prende per mano e l’accompagna in un altro scompartimento. La tranquillizza. «Adesso non si preoccupi, non le può succedere più nulla», assicura. Arrivati alla stazione, la “scorta” fino all’uscita. 

Anche se quanto accaduto in quel momento non è paragonabile alla tragica aggressione costata la vita ad Alika, su quel treno viaggiava una persona che non si è mostrata indifferente e non si è nascosta dietro la tastiera del cellulare. È intervenuta, ha aiutato la vittima e poi è andata via.

Tornata a casa, la diciannovenne ha sporto denuncia ai carabinieri di Portici e la storia, così come ve l’abbiamo raccontata, è agli atti del processo che ha portato, un anno fa, al rinvio a giudizio di Ferlazzo con l’accusa di violenza sessuale disposto dalla giudice Chiara Bardi. L’indagine è stata coordinata dal pm Luigi Santulli, del pool Fasce deboli coordinato dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone. 

La vittima, assistita dall’avvocata Gilda Facciolla, ha ricostruito i fatti nel corso dell’incidente probatorio tenuto in contraddittorio con la difesa dell’indagato, in quel momento non ancora finito al centro del drammatico episodio di cronaca di Civitanova Marche. 

A giugno 2021, Ferlazzo sarà poi denunciato per maltrattamenti in famiglia dalla madre, fascicolo poi archiviato dal giudice di Salerno, su richiesta della Procura, che valuterà i comportamenti come conseguenza dei problemi psichici dell’uomo e del consumo di droghe, e privi dei requisiti di «abitualità» richiesti dalla legge. 

Il processo per la violenza sessuale è fissato per il 26 ottobre prossimo, davanti alla sesta sezione penale del tribunale di Napoli presieduta dal giudice Antonio Palumbo. «Ho voluto sporgere denuncia - dice la vittima attraverso l’avvocata Facciolla - per riaffermare il diritto di tutte le donne a viaggiare liberamente senza rischiare di subire violenza da parte di sconosciuti». 

Quando ha visto in televisione il delitto di Civitanova Marche, racconta l’avvocata Facciolla, la ragazza (che oggi ha 23 anni) è rimasta scioccata dall’episodio che ha risvegliato la ferita di quanto subito il 30 novembre 2018. E l’uomo che è intervenuto per aiutarla? La studentessa non l’ha più visto e non sa come si chiama.

«Per me è un eroe - è il pensiero affidato alla sua legale - si è comportato come dovrebbe fare chiunque. Spero che, leggendo queste parole, possa trovare il modo di contattarmi». Rosario Di Raimondo per “la Repubblica” il 2 agosto 2022.

«Sto soffrendo, sono mortificata. Anch' io penso che giustizia deve essere fatta. Filippo ha sbagliato e per questo dovrà pagare». Elena D. chiede scusa. Il suo compagno, Filippo Ferlazzo, è stato arrestato per aver ucciso l'ambulante Alika Ogorchukwu, colpevole di aver insistito nel chiedere soltanto l'elemosina. E ieri il giudice ha confermato il carcere. 

Perché, come ha scritto in sei pagine di ordinanza, ha «un'indole incline alla violenza», una «pericolosità sociale» che potrebbe portarlo a commettere reati simili, visto «l'impulso immotivato» che, venerdì scorso, lo ha portato a uccidere Alika.

Elena e Filippo convivevano in una palazzina a nord di Civitanova. Le persiane marroni al piano terra restano chiuse. La donna, 48 anni, parla attraverso l'avvocata Carlotta Cerquetti. «Voglio isolarmi da una pressione mediatica così forte. Ma sono vicina alla famiglia della vittima. Chiedo scusa anch' io per quello che è successo. 

Prendo le distanze da quello che Filippo ha fatto, non me lo spiego. Mai avrei pensato che potesse arrivare a tanto, non avevo percepito il pericolo, pur conoscendo i suoi problemi psichiatrici».

Problemi che lo stesso gip ritiene «da approfondire» in relazione al disturbo bipolare di cui sarebbe affetto Ferlazzo. «È stato uno shock - continua la donna - ha sbagliato e dovrà pagare. Per me Filippo non è quello che tutti hanno visto nel video. Sono legata a lui, resta il mio compagno, ma non posso non prendere atto di quello che è successo. Non lo vedo da quel giorno». 

Ferlazzo è in carcere ad Ancona. Ieri davanti al gip Claudio Bonifazi ha ammesso: «L'ho colpito più volte. Ma non l'ho strangolato. Quando sono andato via era vivo, non pensavo di averlo ucciso. E il colore della sua pelle non c'entra». Ha chiesto «scusa », ha raccontato che tutto sarebbe cominciato quando Ogorchukwu «ha strattonato la mia ragazza. Lei si è divincolata ed è entrata nel negozio, lui se n'è andato velocemente.

Io l'ho seguito. Ed è successo tutto». 

Lì, in corso Umberto I, è successo che una moglie è rimasta vedova e un bimbo orfano. Nelle carte si parla dei testimoni, da chi è intervenuto alla ragazza moldava che ha fatto il video dell'aggressione. «Ferlazzo ha chiarito che non c'era nessuna volontà razziale - ribadisce la sua avvocata, Roberta Bizzarri - Purtroppo, a prescindere dal colore, il gesto, bruttissimo, è stato quello». 

«Ti starò sempre vicino, presto verrò a trovarti», è il messaggio che da Salerno ha fatto arrivare a Filippo la madre Ursula Loprete, architetta, conosciuta per l'impegno in politica e per un b&b di lusso, amministratrice di sostegno del figlio, il quale per la sua invalidità riceverebbe una pensione di 600 euro al mese. Il pm Claudio Rastrellli valuterà la sua posizione, visto che mamma e figlio vivevano a 400 km di distanza.

Ferlazzo, che l'anno scorso aveva subito un Tso e aveva anche problemi di droga, a fine aprile era stato visitato in ospedale a Civitanova. Sarebbe dovuto partire un percorso con il centro di salute mentale: così non è stato. Su Facebook si chiamava "Filippo Artista Figò". Amava dipingere: «La tela per me è come un baratro dove rinchiudo i miei demoni». 

Oggi ci sarà l'autopsia di Akila. La sua salma sarà portata in Nigeria. «Oddio, questo è matto», le sue ultime parole, sentite da una testimone, mentre scappava. Continua la processione davanti al luogo dov' è stato ucciso. Amar, senegalese, indossa una maglietta con scritto: «Chi ha assistito senza intervenire è complice». 

Da repubblica.it il 2 agosto 2022.

Le cause della morte di Akila Ogorchukwu sarebbero compatibili con lo schiacciamento del corpo, da cui sarebbe probabilmente scaturito anche un soffocamento. E' quanto trapela dai primi dati dell'autopsia, effettuata oggi, sul corpo dell'ambulante nigeriano, ucciso venerdì scorso a Civitanova Marche da Filippo Ferlazzo. Non è ancora chiaro se lo schiacciamento abbia causato traumi di organi vitali decisivi per il decesso.

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 2 agosto 2022.  

Poche parole con un filo di voce spezzato dalla commozione: «Sono distrutta, come donna e come madre. Penso e ripenso che ora c'è un bambino rimasto senza padre a soli 8 anni e a una moglie rimasta senza marito. Ma mi sconvolge anche l'idea che mio figlio Filippo rischia l'ergastolo. Lui non è razzista, è malato, è bipolare e io ho tutti i documenti medici che lo possono provare». 

Ursula Loprete, 50 anni, architetto specializzata come interior designer, è la madre di Filippo Claudio Ferlazzo, 32 anni, salernitano, in carcere da venerdì scorso per aver ucciso a botte il mendicante e ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu, che aveva chiesto l'elemosina alla sua fidanzata Elena, in mezzo ai passanti che riprendevano la scena con il telefonino a Civitanova Marche.

Ursula, raggiunta al cellulare nella sua casa di Salerno, aggiunge che «dopo il Tso che gli avevo imposto un anno fa pensavo non potesse essere più violento». Poi crolla per la tensione e passa l'apparecchio al suo compagno. «È veramente affranta - dice lui -, dovete provare a mettervi nei suoi panni per capire cosa si prova. Sapeva che Filippo stava male ma mai avrebbe immaginato un epilogo del genere. Ora è in atto un'enorme campagna mediatica e si stanno facendo molte speculazioni, ma noi saremo in grado di provare i disturbi psichici di cui soffre da anni a Filippo e tutto l'impegno di sua madre, con ricoveri anche in comunità, per cercare di curarli».

Ursula Loprete era stata nominata "amministratore di sostegno" del figlio e ora la Procura di Civitanova Marche avvierà tutte le verifiche, a partire dal suo interrogatorio, per accertare la sua posizione e sul perché si trovasse a così tanta distanza dal giovane. È stata già assegnata una sub delega alla polizia di Salerno che a breve sentirà la donna, ma intanto si precisa che il suo ruolo di amministratore di sostegno non comportava un controllo quotidiano e vicino. […]

(ANSA il 3 agosto 2022) - E' stato causato da una "asfissia violenta con concomitante choc emorragico interno" il decesso del venditore ambulante nigeriano 39enne Alika Ogorchuckwu ucciso a Civitanova Marche a seguito di una violenza aggressione, dopo che aveva chiesto l'elemosina, dal 32enne operaio salernitano Filippo Ferlazzo poi arrestato per omicidio volontario aggravato da futili motivi e rapina. Lo fa sapere "in via preliminare" il procuratore di Macerata facente funzione Claudio Rastrelli "in attesa del deposito della consulenza tecnica autoptica, al fine di una corretta informazione, tenuto conto della particolare gravità e rilevanza del caso".

Autopsia Alika Ogorchuckwu: morto per “asfissia violenta con concomitante choc emorragico interno”. Giampiero Casoni il 03/08/2022 su Notizie.it.

Dopo tre ore di autopsia ecco il terribile esito dell'esame sul corpo di Alika Ogorchuckwu: morto per “asfissia violenta con concomitante choc emorragico" 

L’autopsia sul corpo di Alika Ogorchuckwu è abbastanza chiara, chiara e tremenda: il 39enne nigeriano è morto per “asfissia violenta con concomitante choc emorragico interno” dovuta all’aggressione di Filippo Ferlazzo a seguito pare di una richiesta di elemosina alla sua ragazza.

Il procuratore facente funzioni di Macerata Claudio Rastrelli illustra l’esito dell’esame che verrà ufficializzato nei tempi previsti.

Il requirente lo ha precisato perché tecnicamente sarebbe un atto irrituale: “In attesa del deposito della consulenza tecnica autoptica, al fine di una corretta informazione, tenuto conto della particolare gravità e rilevanza del caso”. I primi risultati dell’autopsia su Alika, aggredito a colpi di stampella e non solo dal 32enne salernitano Ferlazzo, erano trapelate già nelle ore scorse per sommi capi.

Il dato tecnico è quello per cui nei prossimi giorni il medico-legale Ilaria De Vitis depositerà agli atti del fascicolo la sua relazione.

Il dato cruciale dell’orario esatto della morte

E in quel referto ci saranno anche gli esiti degli ulteriori accertamenti sull’orario della morte di Alika. Perché sono così importanti? Perché Ferlazzo avrebbe detto agli inquirenti che dopo aver picchiato Alika lo aveva lasciato vivo a terra.

Il 32enne era stato fermato alle 14.11, mentre i soccorritori avrebbero dichiarato morto il trentanovenne alle ore 15. L’esame tanatologico ha avuto un precedente straziante: il riconoscimento della salma fatto dalla moglie, Charity Oriachi. L’avvocato Francesco Mantella, che ha in carico le sorti legali della famiglia dell’ambulante ucciso a Civitanova, ha parlato di “profonda disperazione”.

Da fanpage.it il 3 agosto 2022.

"Il corso era deserto, non c'è stata indifferenza, anzi, abbiamo fatto tutto ciò che potevamo". Continua a ripeterlo a chiunque Mariano Mosconi, testimone oculare dell'omicidio dell’ambulante Alika Ogorchukwu da parte del 32enne Filippo Ferlazzo. 

Mariano Mosconi, impiegato all’agenzia delle dogane e dei monopoli di Civitanova, lo scorso venerdì pomeriggio si è ritrovato suo malgrado sul luogo della tragedia. Un caso: Mosconi di solito va in auto al lavoro ma quel giorno l'aveva portata a riparare. Ha visto Filippo Ferlazzo prendere a bastonate Alika e inizialmente ha provato a intervenire, togliendogli la stampella. 

Poi però Ferlazzo rincorre Alika, iniziando a riempirlo di botte. E camminando di nuovo lungo il corso, Mosconi ogni giorno ha davanti agli occhi quel terribile momento. "Non pensavo che si potesse uccidere una persona così, a mani nude.. ora lo so", racconta. 

"Quel pomeriggio – spiega Mosconi – eravamo solo in quattro. Oltre a me una donna, una ragazza e un anziano. I negozi erano chiusi, il corso deserto. Cosa avremmo potuto fare? Io gli ho detto di smetterla, la voce che nel video dice ‘Fermo, così lo ammazzi' è la mia. Poi ho chiamato il 112. Facile parlare da dietro un computer, in certe situazioni ti devi trovare". 

E lui che si è ritrovato in mezzo ha collaborato insieme ad altri all'arresto di Ferlazzo, seguendolo a distanza subito dopo l'aggressione e indicando alla polizia dove si trovava. "Gli agenti mi hanno detto che ho fatto quello che dovevo fare, continua, certo ci ho riflettuto molto, la notte non ci ho dormito ma non avrei potuto fare diversamente".

Il dibattito si è diviso anche sulla ragazza che ha ripreso la scena con il telefonino. Ma anche su questo Mariano Mosconi non ha dubbi: "Io non ci sarei mai riuscito, ma alla fine ha fatto una cosa buona, perché serve agli inquirenti per risalire a tutto quello che è successo".

Grazia Longo per “La Stampa” il 3 agosto 2022.

Il salottino, arredato in modo essenziale ma dignitoso, si affaccia su un balcone di fronte alle colline in cui è immersa San Severino Marche, a circa 45 chilometri da Civitanova, dove venerdì scorso è stato picchiato a morte il mendicante e ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu, 39 anni. Sua moglie e connazionale Charity, 36 anni, rimane quasi sempre seduta sul divano, sopraffatta da un dolore che le chiude la gola fino a impedirle addirittura di bere un bicchiere d'acqua. 

Parla a tratti, circondata da amici e parenti, un po' in italiano e un po' in inglese, tra le lacrime, mentre il figlio Emmanuel, 8 anni, gioca nel corridoio con un bambino nigeriano che indossa la maglietta della Juventus. «Mio figlio è rimasto senza padre, io senza marito e ora chiedo giustizia», racconta la donna. «Ho bisogno di una giustizia vera: l'assassino dice di essere pazzo ma io non ci credo. I pazzi non vanno in giro liberi a fare shopping. Quell'uomo deve stare in carcere tutta la vita, se no può fare del male a qualcun altro».

Filippo Claudio Ferlazzo è stato ricoverato in comunità sia per i disagi psichici sia per la sua tossicodipendenza. Secondo lei non doveva circolare liberamente?

«Se davvero aveva tutti questi problemi, perché nessuno lo ha fermato prima che diventasse tanto violento? Questa storia è terribile da tanti punti di vista, compreso il fatto che in tanti hanno ripreso la scena con il telefonino invece di intervenire. Penso che se per terra ci fossero stati due bianchi, la gente sarebbe intervenuta. Ma invece mio marito era nero e quindi nessuno lo ha aiutato. E pensare che abbiamo fatto molti sacrifici per creare una famiglia». 

Quando vi siete sposati?

«Il 29 giugno scorso abbiamo festeggiato tre anni di matrimonio. Ci siamo sposati in Comune qui a San Severino. Io avevo messo il vestito bianco, lui un abito elegante come si usa in Italia. Poi abbiamo festeggiato con gli amici vestiti con i nostri costumi tipici della Nigeria». 

Quando siete arrivati in Italia?

«Tanti anni fa. Prima sono arrivata io su un barcone, poi lui». 

E dove e quando vi siete conosciuti?

«A Prato, 10 anni fa. Io in quel tempo lavoravo come badante a Ferrara e quindi facevo avanti e indietro con Prato con il treno. Poi siamo andati a stare insieme a Padova, dove è nato nostro figlio. Quando Emmanuel aveva 6 mesi siamo venuti qui a San Severino Marche. La nostra era una vita semplice ma eravamo felici. Venerdì è finito tutto, in un attimo la mia vita è cambiata per sempre. 

Alika è stato ammazzato in modo crudele e dire che era tanto buono, tanto gentile. La mattina io uscivo prima di lui per andare a fare le pulizie alla stazione ferroviaria. Poi lui arrivava per prendere il treno delle 8,30 per andare a lavorare a Civitanova Marche e mi portava un panino. "Mangia che devi stare in forze", mi diceva e poi partiva. La sera quando rientrava portava sempre qualcosa: biscotti, dolci, gelati. E adesso invece non vedrò più il suo sorriso». 

Ha deciso dove far celebrare il funerale?

«Domani (oggi per chi legge, ndr) arriva dalla Nigeria il fratello di mio marito e vedremo se fare il funerale a San Severino o in Nigeria. L'avvocato Francesco Mantella, che aveva seguito Alika dopo che era stato investito da un'auto, ci sta aiutando a capire come organizzarci e anche tanta altra gente italiana ci è vicina. Ma io sto troppo male al pensiero di come ha sofferto mio marito mentre veniva ammazzato di botte». 

E in effetti l'autopsia, ieri mattina, ha stabilito che le cause della morte sono compatibili con lo schiacciamento del corpo, da cui probabilmente è scaturito anche un soffocamento. Una fine atroce.

"Inseguito e poi finito a mani nude". Così è morto il nigeriano. Fondamentali le testimonianze dei passanti e i filmati. Gli inquirenti: "Nessun odio razziale, ma futili motivi". Rosa Scognamiglio il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Alika Ogorchukwu, l'ambulante nigeriano di 39 anni, aggredito e ucciso ieri pomeriggio in pieno centro a Civitanova Marche, è stato inseguito e poi "finito a mani nude, fino alla morte". Lo ha detto il dirigente della Squadra Mobile di macerata Matteo Luconi durante una conferenza stampa in corso presso il Commissariato di Polizia locale. Fondamentali per la ricostruzione del drammatico accaduto sono state le testimonianze dei passanti che hanno ripreso la scena dell'aggressione con lo smartphone e i filmati estrapolati dalle telecamere di sorveglianza cittadina.

Il movente dell'aggressione

Non ci sarebbero motivi legati all'odio razziale nell'omicidio di Alika Ogorchukwuch, ucciso dal 32enne italiano Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo. "Le indagini sono in corso, ma la situazione è abbastanza chiara - hanno detto il dirigente della Squadra Mobile di Macerata Matteo Luconi e quello del commissariato di Ps di Civitanova Marche Fabio Mazza, durante una conferenza stampa - tutto sembra essere nato da una lite per futili motivi, con una reazione abnorme da parte dell'aggressore nei confronti della vittima che gli stava chiedendo l'elemosina". È stata smentita, dunque, l'ipotesi delle presunte avances rivolte dalla vittima alla moglie dell'aggressore.

La ricostruzione dei fatti

Le testimonianze e i filmati estratti dalle telecamere di sorveglianza sono serviti per chiarire la dinamica della brutale aggressione. L'ambulante nigeriano sarebbe stato inseguito dal 32enne campano e poi "colpito fino alla morte". Nello specifico, Ferlazzo (l'aggressore ndr) ha rincorso l'uomo, gli ha strappato la stampella dalle mani e, dopo averla impugnata come un'arma, lo ha colpito. Quando il 39enne era a terra, l'aggressore lo ha schiacciato col proprio corpo e "lo ha finito a mani nude", hanno spiegato gli agenti della squadra mobile.

La perizia psichiatrica

Giuseppe Ferlazzo è stato fermato subito dopo il violento pestaggio dai poliziotti della Squadra Volante di Civitanova Marche. L'operaio 32enne, originario della Campania, è in stato di fermo con l'accusa di omicidio e rapina. Stando a quanto riferiscono fonti legali all'Ansa, i difensori di Ferlazzo avrebbero intenzione di chiedere una perizia psichiatrica per l'assistito per accertare eventuali problemi psichiatrici, forse già emersi in passato. Ferlazzo sarà interrogato dal gip lunedì mattina.

"Chiedo scusa alla famiglia". Parla l'assassino del nigeriano ucciso. Ferlazzo, l’uomo fermato dalle forze dell’ordine per l’omicidio di Alika Ogorchukwu, il 39enne ambulante nigeriano ucciso in centro a Civitanova, ha chiesto scusa alla famiglia della vittima. Valentina Dardari il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, l’uomo fermato dalle forze dell’ordine per l’omicidio di Alika Ogorchukwu, il 39enne ambulante nigeriano ucciso in centro a Civitanova, ha chiesto perdono alla famiglia della vittima. "Chiedo scusa alla famiglia della vittima”, queste le parole che Ferlazzo ha affidato ai suoi legali nel corso di un colloquio. Secondo la ricostruzione fornita dall'uomo, tra lui e il cittadino nigeriano sarebbe nata una lite in quanto "l'ambulante chiedeva insistentemente l'elemosina e ha anche tenuto per un braccio la mia fidanzata". Ferlazzo lavorava da poche settimane in una fonderia di Civitanova Alta.

La violenta aggressione

Fin dall’inizio l’uomo non aveva negato nulla, e ha sempre ammesso di aver aggredito Alika. Durante l’interrogatorio aveva però affermato di aver reagito agli apprezzamenti che l'ambulante nigeriano aveva fatto alla sua donna e di averlo preso a bastonate, senza però pensare di ucciderlo. Nei vari filmati in mano agli investigatori si vede chiaramente il presunto omicida cavalcare l’ambulante già a terra e spingere violentemente la sua testa contro l’asfalto. Ferlazzo, che si trova in stato di fermo, è accusato di omicidio volontario aggravato dai futili motivi.

L'urlo della moglie del nigeriano ucciso: “Voglio guardarlo in faccia

Intanto non si dà pace la vedova 35enne, Charity Oriakhy, che ancora non capisce perché suo marito sia stato ucciso, dopo che lo aveva visto uscire di casa per prendere il treno e andare a lavorare nella cittadina che dista circa una cinquantina di chilometri dalla loro abitazione. La donna deve adesso spiegare al loro bambino che il padre è morto e dovrà poi crescerlo da sola, senza il marito.

I testimoni chiave

Sono due turiste in vacanza a Civitanova Marche le testimoni determinanti nella ricostruzione della dinamica dell'omicidio dell'ambulante nigeriano. Le due donne avrebbero assistito al primo incontro tra Alika e Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, avvenuto nei pressi della stazione, in un punto non coperto dai sistemi di videosorveglianza. Alika avrebbe chiesto all'uomo, che si trovava in compagnia della fidanzata, alcuni soldi. In quel momento non ci sarebbero stati né contatti fisici né apprezzamenti nei confronti della donna. Alika si è quindi allontanato, ma a quel punto Ferlazzo lo avrebbe inseguito e aggredito, colpendolo prima con la stampella dell’ambulante, che è caduto a terra, e poi colpendolo ancora a mani nude per almeno 3-4 minuti fino a ucciderlo.

La polizia è arrivata subito dopo e una delle due turiste ha indicato agli agenti la direzione in cui era andato l’aggressore. Anche la fidanzata del 32enne è stata sentita come testimone di quanto avvenuto, ma solo per quanto riguarda la parte relativa all'incontro con l'ambulante. Non avrebbe invece assistito all'aggressione. Adesso Ferlazzo chiede perdono ai familiari dell’uomo che ha aggredito in modo letale.

"Chiedeva soldi, poi Claudio...". Parla la fidanzata dell'assassino di Civitanova. La fidanzata dell'uomo che ha ucciso Alika Ogorchukwu ha spiegato che Ferlazzo ha perso le staffe per la "grande invadenza" del nigeriano. Francesca Galici il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Quanto è accaduto a Civitanova Marche è ancora al vaglio degli investigatori, impegnati a ricostruire l'esatta dinamica del pestaggio che costato la vita ad Alika Ogorchukwu, venditore ambulante di 39 anni di origine nigeriana. A massacrarlo di botte è stato Filippo Claudio Ferlazzo, 32enne salernitano residente in città con piccoli precedenti penali. Gli investigatori hanno raccolto numerose testimonianze da parte di chi in quei momenti si trovava su corso Umberto I, uno dei principali viali della città. Tra queste, c'è anche quella della fidanzata dell'uomo, presente sul luogo del delitto.

L'urlo della moglie del nigeriano ucciso: “Voglio guardarlo in faccia

"Quell’uomo chiedeva i soldi con insistenza. Si è avvicinato a me con grande invadenza e il mio compagno ha perso le staffe", ha spiegato la donna, una 45enne civitanovese. Alika Ogorchukwu era molto piuttosto noto in quella zona, dove si recava quasi ogni giorno per tentare di guadagnare quanti più soldi possibili per la sua famiglia. Un anno fa era stato vittima di un incidente: era stato investito in bicicletta dall'auto di un uomo ubriaco. A causa di questo, era costretto a utilizzare una stampella perché aveva riportato danni permanenti a una gamba. Ed è con la sua stessa stampella che Filippo Claudio Ferlazzo l'ha prima colpito al fianco e poi assalito. Una volta a terra, gli ha immobilizzato le braccia e ha proseguito nel suo brutale assalto.

L'orrore a Civitanova Marche: l'aggressione filmata, ma nessuno interviene

Delle diverse persone che si trovavano in quel momento sul corso Umberto I, nessuno è intervenuto per fermare la furia del 32enne. Qualcuno, anzi, ha estratto i telefoni e ha girato i video che poi sono rimbalzati sui social. Un passante si è limitato a urlare "così lo uccidi" ma nessuno è intervenuto concretamente per fermarne la furia omicida. Inoltre, non pago, Filippo Claudio Ferlazzo ha tentato la fuga dal luogo dell'omicidio ma prima di provare a scappare ha sottratto il telefono cellulare ad Alika Ogorchukwu, che giaceva ormai esanime sul marciapiede.

Le parole della fidanzata, se mai ce ne fosse bisogno, confermano l'omicidio per futili motivi. Saranno fondamentali, insieme a quelle degli altri testimoni, ai video girati con gli smartphone e a quelli delle telecamere di videosorveglianza per stabilire l'esatta dinamica di un pomeriggio di follia a Civitanova Marche.

Accusato di omicidio e rapina: chi è l'uomo che ha ucciso il nigeriano. A distanza di ventiquattr’ore, emergono i motivi del folle gesto; lo straniero avrebbe chiesto con troppa insistenza l’elemosina, tanto da provocare la reazione smodata del suo assassino. Ignazio Riccio il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

C’è sgomento e incredulità a Civitanova Marche. Il giorno dopo l’omicidio del 39enne di origine nigeriana Alika Ogorchukwu, nella città del Maceratese si parla solo della brutale aggressione subita dall’ambulante straniero, ospite in Italia da ben sedici anni. Un video realizzato da un passante mostra le immagini raccapriccianti della colluttazione, con il nigeriano che soccombe, dopo aver tentato di resistere in ogni modo, sopraffatto dalla maggiore forza del suo aggressore. Tutto questo nell’indifferenza generale dei presenti. A distanza di ventiquattr’ore, emergono i motivi dell’omicidio; Alika, sposato con un figlio, avrebbe chiesto con troppa insistenza l’elemosina, tanto da provocare la reazione smodata del suo assassino.

Ad essere indagato per omicidio volontario e rapina è l’operaio metalmeccanico Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, 31 anni, di origine campana, ma residente a Civitanova Marche. Sarebbero stati alcuni cittadini a indicare Ferlazzo alle forze dell’ordine, dopo il loro intervento in corso Umberto I. Ogorchukwu insisteva nel proporre i suoi calzini un po’ a tutti, ma la reazione dell’operaio sarebbe stata esagerata. Secondo il racconto dei testimoni, come riporta il Quotidiano Nazionale, il 31enne si sarebbe prima impossessato del telefonino del nigeriano e poi l’avrebbe colpito al corpo con la stampella utilizzata dall’ambulante in seguito a un incidente.

Successivamente, lo avrebbe immobilizzato a terra e strangolato. Nessuno dei presenti è intervenuto per fermare Ferlazzo, il quale ha cercato di fuggire quando sono arrivati i poliziotti. Alcuni testimoni lo hanno indicato come l’autore dell’aggressione e l’operaio è stato immediatamente bloccato e portato in commissariato. I sanitari del 118, giunti sul posto, non sono riusciti a rianimare l’ambulante nigeriano che è deceduto mezz’ora dopo essere stato malmenato. Sarà l’esame autoptico a rivelare la causa precisa della morte di Ogorchukwu. Per il presunto assassino ci sarà il processo, dopo che il giudice avrà deciso se tenerlo in stato di fermo o meno. Per il momento l’uomo è in carcere.

L'orrore a Civitanova: l'aggressione filmata, ma nessuno interviene. Alika Ogorchukwu è stato picchiato a lungo da Filippo Ferlazzo prima di essere ucciso senza che qualcuno lo fermasse e salvasse la vita al nigeriano. Francesca Galici il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'assassinio di Alika Ogorchukwu, ucciso a Civitanova Marche perché pare abbia fatto un apprezzamento a una ragazza, lascia l'amaro in bocca. Oltre ai futili motivi, che sono ora oggetto di indagine da parte degli agenti della squadra mobile di Macerata, a lasciare senza parole è il fatto che l'uomo sarebbe potuto essere probabilmente salvato, se qualcuno fosse intervenuto. Alle 14.30 il corso Umberto I, nel cuore della città marchigiana, non era deserto: c'erano diverse persone che hanno assistito alla furia omicida di Filippo Ferlazzo, che afferrata la stampella di Ogorchukwu, l'ha colpito ripetutamente fino a ucciderlo.

L'omicidio e poi la rapina

Sono numerosi i testimoni che erano presenti quando l'uomo di origine salernitana ha ucciso il venditore ambulante e che hanno raccontato la dinamica dei fatti ma nessuno di loro è intervenuto per fermarlo. Anzi, sono stati girati dei filmati, in cui si vede Ferlazzo che infierisce sull'uomo, invalido a seguito di un incidente stradale accaduto lo scorso anno, già a terra. In alcuni frangenti qualcuno si è limitato a urlare "così lo uccidi" ma nessuno ha tentato di fermarlo, nemmeno quando Ferlazzo ha gridato "pezzo di merda" alla sua vittima. Qualcuno si è però fermato a guardare cosa stesse succedendo. Ovviamene, i video sono stati consegnati alla polizia, che ci sta ora lavorando. Dopo aver ucciso Alika Ogorchukwu, Filippo Ferlazzo è riuscito a fuggire ma non prima di avergli rubato il telefono, quando ormai il nigeriano era esanime sul marciapiede dove, fino a pochi minuti prima, si era fermato per chiedere l'elemosina. Alika Ogorchukwu lascia una moglie e un figlio di 8 anni.

Chi è Filippo Ferlazzo

L'assassino di Alika Ogorchukwu è un 32enne nato in Austria, residente a Salerno ma domiciliato a Civitanova Marche, dove lavora come operaio in una ditta metalmeccanica. Ha precedenti penali e ha ricevuto un legale d'ufficio. Si trova ora recluso nel carcere di Monteacuto in attesa della convalida del fermo. È accusato di omicidio e di rapina. "Bella compra i miei fazzoletti o dammi un euro", sarebbe stata la frase di Alika Ogorchukwu che ha fatto scattare l'ira di Ferlazzo, secondo il quale l'uomo avrebbe importunato la sua fidanzata. Dopo averlo colpito al fianco con la stampella, l'ha scaraventato a terra bloccandogli il braccio e, probabilmente, facendo pressione sul collo.

I testimoni: "Ecco perché non siamo intervenuti". Parlano le persone che hanno assistito al pestaggio di Alika, il 39enne ambulante nigeriano: "Abbiamo avuto paura, quell'uomo era una furia". Rosa Scognamiglio il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

Rabbia, sgomento ma soprattutto "tanta paura". Cinque persone hanno assistito al pestaggio di Alika Ogorchukwu, l'ambulante nigeriano massacrato in strada, a Civitanova Marche, dal 32enne campano Filippo Ferlazzo. Due di loro hanno ripreso l'aggressione con il telefonino e poi hanno consegnato le registrazioni alla polizia. I filmati sono stati "fondamentali" - hanno spiegato ieri gli investigatori - per ricostruire la dinamica dell'accaduto. Eppure non si placano le polemiche nei confronti dei testimoni, accusati di voyeurismo e indifferenza. "Ho provato a fermarlo ma non ci sono riuscito. Eravamo in quattro, così ho ricostruito anche dal video: una signora anziana, una ragazza, un uomo anch' egli d'età con il cane e io. Come avremmo potuto fermare quell'uomo? Per questo rifiuto le accuse di razzismo e di indifferenza", racconta chi ha assistito alla tragedia.

Il racconto del pestaggio

La verità ha sempre due facce, una è il volto della paura. Lo sa bene Mariano M. che venerdì pomeriggio, quando si è consumata la brutale aggressione, era a pochi passi dalla scena del crimine. "Ero alla fermata dell'autobus, con le spalle al corso, non mi ero accorto di nulla, finché non ho sentito le urla disumane di Alika. - spiega il testimone del pestaggio a La Republica - Mi sono girato e ho visto Ferlazzo che lo massacrava a colpi di stampella". Ha urlato a Ferlazzo di fermarsi: "Gli gridavo: basta, lo ammazzi, mi sono avvicinato e con un calcio ho allontanato la stampella con cui stava colpendo Alika. Inutile, perché Ferlazzo lo stava finendo a mani nude. Per poi alzarsi e andare via". Seppur terrorizzato, Mariano ha allertato immediatamente la polizia: "Subito dopo aver allontanato con un calcio la stampella. Quando ho visto Ferlazzo andare via, dopo aver ucciso il povero ambulante, ho temuto che non sarebbero arrivati in tempo per arrestarlo - spiega -. Così, appena ho visto avvicinarsi la macchina, mi sono buttato in mezzo alla strada per fermarli". Il 32enne, però, era riuscito ad allontanarsi. "Si sentiva così impunito che non si era nemmeno messo a correre - continua il testimone -. Ho indicato l'assassino agli agenti e l'hanno arrestato. Bravissimi. Sapete quanto è durato questo incubo? Diciassette minuti".

Tra le cinque persone che hanno assistito al pestaggio c'era anche una ragazza moldava di 28 anni. Ha ripreso la scena con lo smartphone nonostante le tremassero le mani per la paura. "Ero terrorizzata davanti a quella scena di Ferlazzo che picchiava il mendicante, pietrificata dalla paura - ha raccontato in Questura venerdì sera, quando è stata sentita come testimone -. Ho ripreso tutto col mio cellulare per farlo vedere a mia madre, l’ho girato in preda all’orrore". Il video, che è diventato poi virale su internet, è servito "per ricostruire la dinamica dell'aggressione. Ci ha dato una grossa mano", hanno spiegato gli investigatori. Respinge l'accusa di indifferenza, dunque, la comunità di Civitanova Marche per l'omicidio in diretta di Alika.

"Andiamo via, ho picchiato uno". E ora l'operaio dice di essere bipolare. Per l'assassino di Civitanova Marche si prospetta una perizia psichiatrica chiesta dal suo legale: l'uomo sarebbe "invalido al 100%" e "psicopatico antisociale".  Francesca Galici il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

La morte di Alika Ogorchukwu, ucciso a Civitanova Marche venerdì pomeriggio da Filippo Ferlazzo nel corso principale della città, ha lasciato un profondo segno nella comunità e in tutto il Paese. La fidanzata dell'assassino non cerca giustificazioni per l'uomo, non cerca scuse per quel gesto atroce ma spiega lucidamente agli investigatori cosa è accaduto in quei minuti che hanno cambiato per sempre la vita di molte persone. Ma soprattutto ha cambiato quella di Alika Ogorchukwu, morto per mano dell'operaio salernitano che ora, dalla cella del carcere di Monteacuto piange per quanto ha fatto e si professa "invalido al 100%" per problemi psichiatrici.

La ricostruzione della fidanzata

Elena D., fidanzata e convivente di Ferlazzo, ha raccontato con precisione la dinamica di quanto accaduto prima e dopo il pestaggio, durante il quale lei non era presente. "Quel signore con la stampella è venuto verso di noi e ci ha chiesto dei soldi, mi ha preso per un braccio. Ma lì per lì non è successo niente, io mi sono divincolata senza problemi, non ero affatto sconvolta e così siamo andati avanti per la nostra strada, fino a un negozio di abbigliamento", ha spiegato la donna, sentita come testimone, nel suo racconto messo a verbale dagli inquirenti riportato dal Corriere della sera. A quel punto, Elena è entrata all'interno del negozio per acquistare un paio di pantaloni per Ferlazzo, che non è entrato.

Nel momento in cui lei è uscita per chiamarlo, perché aveva trovato quello che cercavano, lui non c'era più. "L'ho visto arrivare verso di me sporco di sangue, con un cellulare in mano che non era il suo. Gli ho detto: Filippo che hai fatto, che hai combinato? Lui mi ha risposto piano all'orecchio, quasi sussurrando: 'Andiamo, ho picchiato uno'...". A quel punto, la donna ha spiegato di aver capito cosa fosse successo: "Io ferma là in Corso Umberto I davanti a quell'uomo per terra che i medici stavano cercando disperatamente di rianimare. Pregavo dentro di me che si risvegliasse, ma poi ho capito che non c'era più niente da fare. E ora la nostra vita, il nostro amore, è distrutto per sempre".

I pianti in carcere

Filippo Ferlazzo in carcere sarebbe disperato. Così riferisce il Messaggero, riportando le parole dell'avvocato Roberta Bizzarri, difensore d'ufficio dell'uomo. "È veramente addolorato, ha pianto sempre, non si capacita che quell'uomo è venuto a mancare", spiega il legale. Oltre che di omicidio, Ferlazzo è accusato anche di rapina per aver sottratto il telefono all'uomo ma il suo avvocato spiega: "Era quello della vittima, ma lui non se n'è neanche accorto, pensava fosse il suo". Ora, l'avvocato Bizzarri sta preparando la difesa di Ferlazzo ed è pronta a chiedere la perizia psichiatrica. "Sono invalido civile al 100 per cento, avvocato, ho problemi psichiatrici, mia madre Ursula ha tutti i documenti del Tribunale di Salerno, se li faccia mandare, mi hanno giudicato bipolare e border-line", ha spiegato l'assassino al suo legale.

Le dichiarazioni dell'uomo vanno ancora verificate ma il Corsera spiega che, da fonti sanitarie emergerebbe il quadro di un uomo "psicopatico antisociale", diagnosi effettuata in gioventù a Salerno. In passato, Ferlazzo aveva mostrato anche altri episodi di aggressività tanto che sua madre era stata nominata sua amministratrice di sostegno. Il messaggero, inoltre, riferisce che l'uomo era stato ricoverato lo scorso aprile a Civitanova Marche, dove sarebbe stato sottoposto a visite psichiatriche.

"Polveriera" Marche, regione ad alta tensione. Da Traini in poi una scia di aggressioni. Don Albanesi: "Una società chiusa". Il governatore Acquaroli: "Noi solidali". Lodovica Bulian il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

Poche ore dopo l'uccisione di Alika Ogorchukwu, massacrato per futili motivi dal 32enne italiano Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, un'altra brutale aggressione, un tentato omicidio. Ancora nelle Marche. Ancora per futili motivi.

A Recanati, provincia di Macerata, un 22enne nato in città ma di origini marocchine è stato accoltellato da un operaio italiano di 47 anni. Il giovane, ricoverato in prognosi riservata all'ospedale regionale di Torrette, è scampato alla furia dell'uomo grazie all'intervento del titolare di un bar che ha assistito alla scena. L'una di notte circa: alcuni ragazzi stavano festeggiando la chiusura di un campus scolastico, quando l'operaio ha intimato loro di spostarsi per la confusione. I giovani si sono spostati ma lui li ha seguiti, continuando a litigare. Poi ha tirato fuori un coltello e ha colpito il 22enne al torace e alla schiena, mentre gli altri cercavano invano di bloccarlo. È intervenuto il gestore di un locale che ha sentito le urla del giovane ed è riuscito a sottrarlo ad altri fendenti. Il 47enne, Omar P., è stato fermato e portato al carcere di Montacuto, in attesa dell'udienza di convalida dell'arresto. L'accusa è tentato omicidio aggravato da futili motivi e porto abusivo di arma da taglio. Nello stesso penitenziario è recluso anche l'omicida dell'ambulante nigeriano Alika Ogorchukwu.

Gesti efferati che scuotono la comunità marchigiana, che in queste ore ricorda i precedenti sul territorio. Emmanuel Chibi Namdi, nigeriano, aveva 36 anni quando nel 2016 ha perso la vita a Fermo, dopo una colluttazione con un ultrà della Fermana che aveva insultato la sua compagna. È morto mentre difendeva la donna dagli insulti razzisti di Amedeo Mancini, che ha patteggiato una condanna a 4 anni per omicidio preterintenzionale da scontare ai domiciliari. Emmanuel lo aveva aggredito e Mancini aveva reagito con un pugno: il 36enne era finito a terra, battendo la testa sull'orlo del marciapiede. Il giudice ha riconosciuto l'attenuante della provocazione, ma anche l'aggravante dell'odio razziale. La stessa attribuita anche alla folle furia di Luca Traini, oggi 33 anni. Il 3 febbraio 2018, a Macerata, era salito in macchina e aveva iniziato a sparare a caso alle persone di colore che incontrava sulla sua strada, ferendo sei migranti. Aveva dichiarato di volere così vendicare la 18enne Pamela Mastropietro, la giovane uccisa e fatta a pezzi da un pusher nigeriano. Traini è stato condannato a 12 anni di carcere per strage e porto abusivo d'arma.

Si parla già di un caso Marche, si cercano ragioni e condizioni che possano aver alimentato in questo anni l'odio e l'intolleranza. Ma secondo monsignor Vinicio Albanesi, fondatore della comunità di Capidarco, che ha assistito Emmanuel e altri richiedenti asilo, le Marche non sono razziste, quanto invece «una società chiusa, familista, che non accetta l'estraneo». Il governatore Francesco Acquaroli intende far costituire la Regione parte civile nel processo per la morte di Alika «per difendere l'identità, i valori e l'immagine dei marchigiani e delle Marche. Siamo da sempre una comunità solidale, inclusiva e vogliamo rimanere tale, con l'impegno di tutti».

La verità sulle Marche “razziste” (da uno che ci vive). L’omicidio di Civitanova Marche subito usato per cercare il movente razzista. Ma non è così. di Max Del Papa su Nicolaporro.it il 30 Luglio 2022.

Un paio di cose, per amor di verità, sull’omicidio di Alika Ogorchukwu, l’ambulante nigeriano invalido, subito colto al balzo dai propagandisti di sinistra, da Formigli all’ossessivo in camicia rossa Berizzi alla solita Lucarelli, immancabile, per dare addosso a Giorgia Meloni; la quale, tuttavia, finalmente ha risposto, bollando il delfino di Santoro come sciacallo: più che giusto, non si può sempre far finta di niente, ci piace anzi pensare che la leader di Fratelli d’Italia ci legga; quanto a quell’altra, non merita risposta perché si aggrappa pure agli asciugamani degli alberghi per far parlare di sé.

L’omicidio di un nigeriano, senza tanti giri di parole, figlio del razzismo instillato da Meloni e Salvini: questa la lettura, più imbecille ancora che squallida, della sedicente informazione di sinistra, quella controllata dal PD. Col corollario: Marche razziste e criminali.

Razzista, la piccola regione marchigiana al centro dell’Italia? Chi scrive ci vive (e la racconta) da 40 anni e si sente di rispondere: non più che altrove. Se proprio vogliamo buttarla in politica, ci sono enclave come Ascoli, dove certo razzismo di destra estrema senza dubbio alligna. Ma il grosso della regione è storicamente controllato dalla sinistra, i Comuni quasi tutti a guida Pd, si veda per tutti il sindaco di Pesaro, Ricci, un provax forsennato al limite della provocazione, autore di incredibili svariate uscite punitive, quasi oltre Speranza. Solo nell’ultimo mandato l’ente regionale è passato a Fratelli d’Italia, ma la regione, in sé, è sempre stata rossa come la Rivoluzione d’Ottobre. Quindi, se razzismo c’è, occorre ricondurlo a contesti storicamente inequivocabili.

Ma di razzismo nelle Marche non ce n’è se non in dosi fisiologiche. C’è, invece, una propensione alla violenza non solo spicciola, da meridione arretrato, machista, questo sì, sulla quale tutti glissano; e c’è da almeno trent’anni, con massicce infiltrazioni di forme di criminalità più o meno organizzata che poi hanno tracimato, venendo in parte scalzate dalle mafie straniere. Due i punti critici: l’Hotel House di Porto Recanati, fin troppo famigerato, e Lido 3 Archi di Fermo, dove, per limitarci alla cronaca delle ultimissime ore, la polizia ha faticato ad arrestare un nucleo di spacciatori nordafricani con tanto di sentinelle armate e cani pericolosi sedati: erano imbottiti di ovuli di droga, da espellere a suo tempo. Roba che qui non stupisce nessuno, perché si ripete quotidianamente. A Lido 3 Archi la casistica delle violenze, degli omicidi, delle aggressioni, dello spaccio, o legata al racket della prostituzione intersessuale, è praticamente indescrivibile negli ultimi 40 anni.

Quanto a Civitanova Marche, teatro dell’omicidio infame, il sindaco Ciarapica (al secondo mandato, Forza Italia, alleato nazionale del Pd), deve smetterla di dichiarare ai 4 venti “noi siamo una comunità pacifica e operosa”: sa benissimo che la sua è una piazza che preoccupa le forze dell’ordine per il dilatarsi di episodi critici, dalle risse, non solo giovanili, allo spaccio, fino a situazioni apparentemente futili, da marciapiede, che rischiano di sfociare in tragedie come quella di cui parliamo; e siamo all’altro elemento di cui nessuno vuol parlare.

Se gli agit prop di sinistra si scannano a definire le Marche violente, razziste, fasciste, dovrebbero però considerare che a far fuori il poveretto, con la sua stessa stampella, è stato un balordo trentenne pregiudicato, legato ad ambienti malavitosi napoletani, accoppiato con una di quasi 50 che subito lo ha difeso. Talmente farabutto da andarsene dopo aver rubato il telefono della sua vittima. Quindi, se bisogna scomodare il razzismo acritico, in questo caso bisogna rivolgerlo contro: certo Mezzogiorno, certa mentalità a questo legata, il mondo operaio (l’assassino questo, saltuariamente, faceva), insomma le categorie che la sinistra tende a difendere per sua stessa natura con argomenti-cliché. Lo sanno: ma svicolano. Perché non gli conviene. Tanto ci sono Salvini & Meloni che giustificano qualsiasi cialtronata.

Quando, qualche anno fa, Pamela Mastropietro, la giovanissima sbandata romana, venne fatta fuori e poi smembrata nella vicina Macerata da elementi legati alla mafia nigeriana, non risulta che i vari Formigli, Lucarelli e compagnia cantante si siano minimamente scomposti: l’hanno buttata nel solito luogo comune del “caso isolato”, del non criminalizzare, ossia hanno agito esattamente come oggi imputano ai loro bersagli; qualcuno ha trovato la faccia di incolpare, e ti pareva, i soliti Meloni e Salvini in quanto responsabili di “un clima di odio e di violenza” che avrebbe originato la reazione da parte di Oseghale e i suoi presunti complici. E invece era una banda di spacciatori mafiosi che avevano messo le mani su una tossica e poi avevano litigato fra loro perché, dopo averla fatta a pezzi, non se l’erano mangiata (sta agli atti).

Allo stesso modo, quando un violento di Fermo, Amedeo Mancini, ammazzò con un pugno il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, al culmine di un litigio da strada, l’intera città si schierò dalla parte del locale, incluso il Pd che governava (“la comunità sta tutta con Mancini”, ebbe a dichiarare il sindaco, con una frase che suonava come qualcosa in più di una asettica constatazione); che il responsabile provenisse da ambienti legati a Forza Nuova, servì solo ai 4 gatti di un centro sociale per inscenare una protesta “contro le destre fasciste”, ma così, tanto per abbaiare alla luna: dal responsabile, “figlio della nostra terra”, nessuno si dissociò sul serio, e a difendere Emmanuel restammo il sottoscritto e don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco: puntualmente coperti di minacce da destra e da sinistra al grido: “Fermo non si tocca”. Più che razzismo, un campanilismo inverecondo e arretrato. Tutto questo sulle testate engagée, ormai specializzate in gossip militante, non lo troverete: ma è la pura verità, e non teme smentite.

Max Del Papa, 30 luglio 2022

Quanti giudizi alla Pasolini. Secondo molti Filippo Ferlazzo rappresenta una figura tipica dei nostri tempi, ma non è così. Filippo La Porta su Il Riformista il 3 Agosto 2022 

Siamo sicuri che Filippo Ferlazzo, l’assassino di Civitanova, rappresenti una tipica figura dei nostri tempi, l’epitome di una società fondata sui consumi, l’indifferenza e una sistematica xenofobia, la conseguenza inevitabile di un sistema di vita che ha sostituito la compassione con la (feroce) competizione e una elementare umanità con la prepotenza e una paura isterica dell’altro? Ho letto che per qualcuno Ferlazzo, nella sua irrefrenabile furia omicida, si sarebbe sentito in qualche modo giustificato, “autorizzato” da una mentalità oggi dominante. Non si cela in queste analisi un cattivo estremismo, una qualche tentazione apocalittica, e insomma un Pasolini andato a male?

Nel 1993 lo scrittore e sociologo Gianfranco Bettin pubblicò L’erede, sulla vicenda di Pietro Maso, che nel Profondo Nord della provincia veneta uccise i propri genitori, con l’aiuto di alcuni amici, per intascare prima l’eredità. Un reportage bellissimo e penetrante, alla maniera di Truman Capote. Però assumere Pietro Maso, con il suo orrendo gesto omicida, come “l’erede” in fondo più coerente di una intera cultura e società, dei messaggi che questa società ogni giorno ci invia (soprattutto attraverso la pubblicità), conteneva un rischio interpretativo, e in un certo senso tendeva a svalutare la “dismisura” pure contenuta in quel gesto, il suo essere un gesto deviante e inassimilabile a modelli di comportamento correnti. Sì, Pietro Maso era anche espressione di un orrore ordinario e riconoscibile, di una mostruosità che ci è familiare (il male è sempre anche banale) e che appartiene allo Spirito del tempo, ma non possiamo trascurare del tutto la curvatura psicopatologica che quello Spirito del tempo ha preso dentro la sua mente.

Già Pasolini quindici anni prima, polemizzando con Calvino sul delitto del Circeo, aveva obiettato che i suoi artefici non erano semplicemente dei neofascisti, dei pariolini violenti abituati all’impunità, il “frutto marcio” della borghesia italiana (Calvino aveva messo in analogia la loro criminalità sessuale con quella politica), ma quasi l’avanguardia (perversa) di una intera generazione, ormai dedita solo ai consumi, di una umanità mutante interclassista, e dunque anche popolare e non solo borghese, del tutto sradicata e priva di valori. Le cose stanno proprio così? Sì e no.

Omicidio di Civitanova, il disturbo bipolare e la rabbia della famiglia di Alika: “Aveva un tutor, perché non era vigilato?”

Sì, perché è vero che la nostra cultura, la Tv, i media, i social, etc. sembra aver smarrito ogni senso della misura, ed è da molto tempo impregnata di odio, di fanatismo e di morte (solo aver messo in Rete i 40 secondi dell’assassinio è pura barbarie necrofila), e certamente non possiamo minimizzare gli effetti della “mutazione” antropologica degli ultimi decenni (peraltro studiata ed indagata in innumerevoli libri). Per altre culture, come quella islamica, l’Occidente si riassume nel famigerato video fatto da un gruppo di marines nel carcere di Abu Ghraib: pornografia e spettacolo.

No, perché non è che se uno entra in uno shopping mall, anche smanioso di acquistare l’ultimo iPhone o di accaparrarsi l’ultimo prodotto della Nike, ha la vocazione del serial killer! Non è che se uno che, vivendo in periferia, nutre qualche timore per la sciagurata gestione dei flussi migratori, approvi il genocidio! Ripeto: non vanno sottovalutati gli inviti – anzi gli imperativi – della pubblicità ad assecondare acriticamente qualsiasi desiderio, senza alcun freno (proprio la Nike: “Just do it!”), o a viversi ansiosamente tutte le chance del presente, sotto un cielo abbandonato dagli dei (slogan, che considero vagamente angoscioso, di uno shampoo per schiarire i capelli: “Hai una sola vita, perché non viverla da bionda?”). Però, contro ogni determinismo sociologico, credo che l’immaginario della stragrande maggioranza delle persone non sia occupato solo dalle merci e che, per fare un esempio, ognuno sa bene distinguere gli “amici” di Fb dai propri amici reali!

Il nostro presente ci invia continuamente messaggi contraddittori, che occorre decifrare con pazienza: c’è la omologazione pasoliniana ma al tempo stesso si tratta di una omologazione differenziata, dato che perfino per la pubblicità conta il profilo altamente individualizzato delle persone. Va bene, la criminalità si è diffusa pervasivamente nelle nostre metropoli, impadronendosi di bar, pizzerie, ristoranti, palestre, etc. (e la sua violenza è spesso sommersa), però quando avevo dieci anni mi capitava spesso di vedere due persone fare a botte per strada per futili motivi, oggi quasi mai.

Voglio dire: la norma resta comunque – almeno nel nostro paese – quella di una convivenza abbastanza pacifica e di una quieta tolleranza. Filippo Ferlazzo, come abbiamo appreso, è un ex tossico con disturbi bipolari, con un passato di Tso, ricoveri urgenti, fughe dagli ospedali… (non discuto qui se questa sia un’attenuante). E anzi: il fatto che nessuno sia intervenuto per fermarlo (chissà però a parti invertite: nigeriano che ammazza di botte un italiano…) testimonia paradossalmente di una conquista civile credo irreversibile. Abbiamo tutti così espulso la violenza dal nostro orizzonte che quando invece la violenza dovremmo usarla per difendere un aggredito ci sentiamo impotenti, rammolliti, imbelli.

Senza per questo trascurare il “romanzo criminale” continuamente intrecciato alla nostra vita quotidiana, vorrei concludere con i versi di una poesia civile di Hans Magnus Enzensberger, peraltro intellettuale scettico e non particolarmente ottimista, del 1999. Si intitola “Canzoncina ottimistica”: “Qui e là si dà il caso / che qualcuno gridi e chiami aiuto, Subito un altro si butta in acqua, /assolutamente gratis/ (…) / La mattina le strade son gremite / d’individui che senz’estrarre coltelli, /vanno avanti e indietro in tutta calma / per acquistare latte e rapanelli. / Come nella pace più totale. / è un gran bel vedere”. 

Filippo La Porta

Giorgia Meloni furiosa contro Corrado Formigli sul nigeriano ucciso a Civitanova Marche. Il Tempo il 30 luglio 2022.

"Sciacallo, la tua propaganda è penosa". Meloni furiosa contro Formigli. L'ambulante nigeriano ucciso in strada a Civitanova Marche fa esplodere la polemica social tra Giorgia Meloni e il conduttore di "Piazza Pulita". Subito dopo la notizia dell'omicidio in strada, infatti, la leader di Fratelli d'Italia ha pubblicato un tweet in cui condannava l'aggressione e l'omicidio dell'ambulante. "Non ci sono giustificazioni per tale brutalità - aveva scritto la Meloni - Mi auguro che l’assassino la paghi cara per questo orrendo omicidio. Una preghiera per la vittima". Formigli, però non ha perso l'occasione di attaccare in modo pretestuoso il centrodestra. E in un tweet ha chiesto la condanna dell'omicidio proprio da parte di Meloni e Salvini. "Nigeriano invalido massacrato a bastonate da un italiano a Civitanova Marche.  

Ma lo scontro era appena iniziato. Meloni non gliel'ha fatta passare liscia e ha pubblicato un tweet infuocato in cui disintegra senza mezze misure la "penosa" propaganda del conduttore di La7. "Prima di usare la morte del povero Alika per la tua penosa propaganda, non potevi almeno esprimere solidarietà alla famiglia? - ribatte la leader dei Fratelli d'Italia a Formigli - Come puoi verificare, io la mia condanna verso questo brutale omicidio l’ho espressa e subito. Sciacallo". Formigli colpito e affondato.

Formigli guida gli sciacalli rossi. Sfrutta la tragedia contro i sovranisti. Salvini e Meloni condannano l'episodio, ma l'assassinio di Ogorchukwu viene strumentalizzato lo stesso, senza neanche una parola di cordoglio. Solo Renzi ragiona: "Questo clima mi fa orrore". Fausto Biloslavo il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

Per sgombrare subito il campo da qualsiasi dubbio l'assassino dell'ambulante nigeriano, Alika Ogorchukwu, deve venire condannato non solo in maniera esemplare, ma poi sarebbe meglio buttare via la chiave. I precedenti di rabbia brutale che stanno emergendo sull'omicida, Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, fanno sospettare che se il povero mendicante fosse stato bianco, giallo o verde la violenza sarebbe risultata la stessa.

Non solo per questo è indecente cavalcare una storia così triste e tragica a fini elettorali utilizzandola come l'ennesimo «proiettile» politico in chiave razzista, mangia migranti e così via. Ovviamente i bersagli sono sempre gli stessi: Salvini, Meloni ed il centro destra in genere accusati di fomentare azioni del genere. Si spera che uguale sdegno e attenzione da parte della sinistra venga riservato a un altro episodio folle. Ieri in provincia di Avellino un migrante nigeriano, Robert Omo, ha ammazzato a martellate un negoziante cinese, mandato in coma un cliente e tentato di aggredire una donna e una bimba.

Forse ci spiegherà questo assurdo episodio l'assessore della regione Toscana, Stefano Ciuoffo, che sul delitto di Civitanova Marche ha sentenziato: «Il tragico e tremendo fatto è figlio di una cultura intollerante e xenofoba nei confronti del diverso, sia esso per motivi di etnia, di credo religioso o di orientamento sessuale, che in questi anni ha agito in modo latente e costante». Oppure monsignor Vinicio Albanesi convinto che Alika sia stato ucciso «perché era disabile, nero, mendicante». Sarà così, ma inzupparci il pane come ha fatto Corrado Formigli, conduttore de LA 7, è almeno discutibile. «Attendiamo post indignati di @matteosalvinimi e @GiorgiaMeloni» ha scritto su twitter. La leader di Fratelli d'Italia ha risposto dandogli dello «sciacallo» perché aveva già parlato chiaro sui social: «Non ci sono giustificazioni per tale brutalità. Mi auguro che l'assassino la paghi cara per questo orrendo omicidio. Una preghiera per la vittima». L'altro bersaglio classico è Matteo Salvini, che ha espresso lo stesso sdegno, ma viene considerato per la sua politica sui migranti il responsabile di tutti i mali e sotto sotto, almeno indirettamente, della tragica fine del nigeriano. Nicola Fratoianni di Sinistra italiana tuona che «inondare la nostra società di propaganda tossica fatta di istigazione a farsi giustizia da soli, di pregiudizi sul colore della pelle e su ogni differenza, di indifferenza ed egoismo e portata alle estreme conseguenze prima o poi scatena la violenza fino all'omicidio su un marciapiede». Matteo Renzi è in controtendenza: «Anziché riflettere tutti insieme su cosa stiamo diventando la politica litiga e strumentalizza. Mi fa orrore questo clima da campagna elettorale. Un pensiero ad Alika e alla sua famiglia». Una volta tanto le prime parole dell'immancabile comunicato dell'Associazione nazionale partigiani centrano l'obiettivo: «Una violenza che non ha fermato nessuno». Invece che intervenire per salvare un essere umano i passanti hanno filmato tutto con i telefonini e qualcuno è riuscito a dire «se fai così l'ammazzi» senza muovere un dito, ma continuando a girare il video. Non servirà ad arginare l'ondata propagandistica neppure la dichiarazione della Polizia che smentisce la matrice razziale e parla di «una lite per futili motivi, con una reazione abnorme da parte dell'aggressore».

Razzismo o meno il tragico episodio di Civitanova, come il nigeriano impazzito che uccide gente a martellate, devono farci capire che l'immigrazione non può essere incontrollata con sbarchi continui. Alika non doveva mendicare per vivere e arrivare in Italia per problemi economici. E ancora meno il suo connazionale assassino di Avellino doveva essere ospitato da noi dove ha aggredito pure gli operatori di un dormitorio della Caritas. L'Italia, non senza difficoltà, deve ospitare i veri profughi, quelli di guerra, che dimentichiamo facilmente come gli afghani, garantendo a tutti una vita dignitosa.

Corrado Formigli, Alessandro Sallusti: vilipendio di cadavere, uno squallido tentativo. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 31 luglio 2022

Povero Alika, prima è stato ucciso a botte da un italiano poi il suo cadavere ancora caldo è stato oltraggiato dalla sinistra, che lo ha sequestrato ed esibito come un trofeo di guerra al mondo intero. Ecco, vedete cosa succede - è il senso del coro progressista diretto per l’occasione da un maestro di eccezione, Corrado Formigli - se Giorgia Meloni andrà al potere. E già, ovvio, se il Centrodestra vincerà le elezioni per i nigeriani non ci sarà scampo, sarà caccia all’uomo ovunque e le città intitoleranno una piazza a Filippo Ferlazzo, gigante buono ingiustamente arrestato dagli sbirri di Mario Draghi per aver fatto il suo dovere di buon cittadino: ammazzare a pugni e calci il primo nero che ti viene a tiro.

Corrado Formigli si chiede: cosa hanno da dire adesso la Meloni e Salvini? Raramente ho ascoltato domanda più stupida e traboccante di odio. Cosa vuoi che pensino Salvini e Meloni quando un uomo, bianco o nero che sia, viene ucciso da un altro uomo, bianco o nero che sia? Perché accade spesso anche l’inverso, cioè che immigrati di colore si uccidano tra di loro o uccidano e stuprino bianchi e bianche indigeni con la stessa feroce violenza messa in campo da quel delinquente del Ferlazzo. Pensano, conoscendoli mi arrogo il diritto di svelarvelo, che un uomo non deve uccidere e che se lo fa deve passare il resto dei suoi giorni in galera, indipendentemente da quale sia il suo orientamento politico, il colore della sua pelle e il suo status civile.

E pensano anche, offro gratis a Formigli un altro scoop, che non è bello che dei cittadini, come è successo in questo caso, assistano immobili a un omicidio come se fossero al cinema, ma che nessuno, neppure il Pd, può dare il coraggio a chi non c’è l’ha, ammesso e non concesso che mettersi in mezzo a mani nude tra due bestioni, di cui uno impazzito, che si menano a bastonate fosse la cosa più intelligente da fare in quel momento.

Questo vilipendio di cadavere è un sacrificio pagano della sinistra sull’altare della campagna elettorale, uno squallido tentativo di ingraziarsi gli dèi in vista del 25 settembre, giorno del giudizio, se non universale certamente, almeno per Enrico Letta, tombale.

Civitanova Marche, nigeriano ucciso in strada a stampellate: la foto choc in strada. Giovanni Torelli su Libero Quotidiano il 30 luglio 2022.

Un caso di cronaca nera ha sconvolto ieri le Marche sia per la gravità dell'episodio che perla futilità delle ragioni che hanno causato la tragedia. Un uomo nigeriano è stato aggredito e ucciso ieri a colpi di stampella, la sua, in pieno centro a Civitanova Marche in provincia di Macerata.

La vittima si chiamava Alika Ogorchukwu, aveva 39 anni e abitava con la sua famiglia (moglie e un bambino) a San Severino Marche. Era un venditore ambulante di fazzoletti e piccoli accessori che vendeva per strada, all'uscita dei negozi, e qualche volta chiedeva una moneta. Un uomo claudicante, perché l'anno scorso era stato investito mentre era in bici e quindi si aiutava con una stampella.

Secondo una prima ricostruzione, l'ambulante avrebbe fatto un apprezzamento a una donna, fidanzata dell'uomo che lo ha poi aggredito e ucciso. Ma secondo gli investigatori sarebbe stato forse troppo insistente nel tentare di vendere la sua merce o nel chiedere soldi, suscitando l'ira del fidanzato, Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, operaio di 32 anni, salernitano ma domiciliato a Civitanova Marche, arrestato poi dalla polizia del Commissariato di Civitanova per omicidio volontario e rapina. Dopo il pestaggio a morte, infatti, Ferlazzo gli ha anche rubato il cellulare.

LA DINAMICA - Di una violenza inaudita le modalità dell'omicidio: l'aggressore, che ha piccoli precedenti penali, si è scagliato contro Alika che provava a scappare e lo ha colpito con la stampella alla testa e in tutto il corpo, né si è fermato quando il 39enne nigeriano era già caduto a terra ed era rimasto immobile. Anzi, gli si è seduto sopra, tenendogli la testa schiacciata per terra.

All'episodio hanno assistito diversi testimoni, dato che corso Umberto è la strada principale del centro. «Così lo uccidi» gli hanno infatti gridato.

Le immagini terribili del pestaggio sono state riprese dalle telecamere di sicurezza che si trovano lungo il corso e sono subito acquisite dai poliziotti della Squadra mobile di Macerata. L'aggressore intanto si era allontanato, ma è stato rintracciato poco lontano.

A quel punto l'uomo avrebbe riferito la versione di presunte molestie alla sua fidanzata.

La polizia lo ha portato al Commissariato per le procedure e formalizzare l'arresto, domani dovrebbe essere trasferito nel carcere di Montacuto. «Alika non era una persona molesta, era buono, non cercava mai guai. Dopo l'incidente che aveva avuto aveva preso anche dei soldi dall'assicurazione ed economicamente non stava male», riferisce l'avvocato del nigeriano. «Quello che è accaduto oggi nella nostra città è un fatto di una violenza inaudita che ci ha lasciato attoniti». dice il sindaco di Civitanova Marche, Fabrizio Ciarapica.

POLEMICHE STERILI - Qualcuno prova a fare polemica politica come il giornalista Corrado Formigli avvertendo «Nigeriano invalido massacrato a bastonate da un italiano a Civitanova Marche. Attendiamo post indignati di Salvini e Meloni». O come il parlamentare ex forzista Elio Vito che punge: «Meloni e Salvini hanno già fatto un post di solidarietà e condoglianze per l'uomo nigeriano barbaramente ucciso a Civitanova Marche? No, perché se "il nero" fosse stato l'assassino avrebbero le bacheche piene di odio e demagogia!». Peccato che siano proprio due esponenti di Fdi e Lega a esprimere dolore e sconcerto per l'accaduto. «Sono sconvolto e addolorato per quanto è accaduto oggi pomeriggio», nota Francesco Acquaroli, governatore delle Marche di Fdi. «Esprimo profondo cordoglio alla famiglia e ai cari del cittadino nigeriano, brutalmente ucciso». Mentre il commissario della Lega Marche, Riccardo Augusto Marchetti commenta: «È vergognoso che nel pieno centro di una città turistica e molto frequentata come Civitanova Marche si assista a episodi del genere». Niente polemiche, insomma, lasciamo spazio solo al dolore.

Da open.online.it il 30 luglio 2022.

«Quell’uomo chiedeva soldi con insistenza. Si è avvicinato a me con grande invadenza e il mio compagno ha perso le staffe». La compagna di Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, civitanovese di 45 anni, attribuisce così a una richiesta di elemosina troppo insistente il movente che ha scatenato l’efferata violenza del 32enne che, nel pomeriggio di ieri 29 luglio, ha ucciso davanti agli occhi dei passanti Alika Ogorchukwu, un venditore ambulante nigeriano di 39 anni. Smentita quindi l’ipotesi iniziale secondo cui la donna aveva ricevuto apprezzamenti o molestie sessuali da parte di Ogorchukwu. 

Anche la dinamica dell’omicidio, al vaglio degli inquirenti, è stata rivista: rispetto a quanto detto in precedenza, sembrerebbe che Ogorchukwu sia stato seguito dall’aggressore, che l’ha colpito con la sua stessa stampella, di cui aveva bisogno per camminare in seguito a un incidente stradale, l’ha fatto cadere a terra e poi l’ha picchiato «a mani nude fino alla morte».

Quando i primi agenti sono arrivati sul posto, ha spiegato il dirigente della squadra mobile di Macerata Matteo Luconi, era già «cristallizzato» quel che era accaduto, portando così l’arresto immediato in flagranza di reato per Ferlazzo, ora accusato di omicidio volontario e rapina, dal momento che ha anche sottratto il telefono cellulare alla vittima prima di allontanarsi. Sono diverse le domande a cui devono ancora rispondere gli inquirenti, che per il momento non procederanno con i test tossicologici né hanno sottoposto l’uomo al test alcolemico, ritenendolo in stato di lucidità. Aiuteranno a ricostruire l’esatta dinamica dell’omicidio i numerosi testimoni e le immagini delle telecamere di videosorveglianza, che ben coprivano l’area dove è avvenuto l’episodio di violenza. 

La manifestazione in onore di Alika

È in corso una manifestazione della comunità nigeriana di Civitanova, proprio nel punto di corso Umberto dove ieri Alika è stato ucciso. Un centinaio di persone hanno affollato la strada, esibendo una foto della vittima e anche uno degli scatti dell’aggressione da parte di Ferlazzo. Una delegazione, tra cui la moglie della vittima Charity Oriachi e l’avvocato Francesco Mantella, legale prima di Alika e ora della sua famiglia, è stata ricevuta in comune dal sindaco Fabrizio Ciarapica.

Si respira tanta rabbia tra i manifestanti per la mancanza di reazione da parte dei cittadini presenti al momento dell’omicidio: nessuno infatti è intervenuto per trattenere Ferlazzo, mentre molti si sono limitati a a riprendere la scena con i telefonini.

Fermato aggressore: è il fidanzato della donna. Ucciso con una stampella dopo apprezzamenti a una donna: orrore in strada a Civitanova Marche. Redazione su Il Riformista il 29 Luglio 2022. 

Colpito più volte alla testa con una stampella perché colpevole di aver fatto apprezzamenti a una donna. E’ morto così, in pieno giorno, un uomo di 39 anni, Alika Ogorchukwu, di nazionalità nigeriana e ambulante nella zona, nel centro cittadino di Civitanova Marche, in provincia di Macerata.

L’aggressione è avvenuta intorno alle 14 lungo corso Umberto I quando la vittima è stata affrontata da un uomo, italiano di origini campane, che si trovava in compagnia della donna oggetto di apprezzamenti.

Soccorso da alcuni passanti prima e dal 118 dopo, per l’uomo non c’è stato nulla da fare. Troppo gravi le ferite riportate. Sul posto gli uomini della Squadra mobile della Questura di Macerata e il magistrato Claudio Rastrelli. L’aggressore è già in stato di fermo e sotto interrogatorio negli uffici di polizia.

La persona fermata, ritenuta responsabile dell’omicidio, è un 32enne che si sarebbe “difeso” sostenendo che la vittima avrebbe importunato la sua fidanzata. L’aggressore è inizualmente fuggito ma è stato rintracciato dalle forze dell’ordine nel giro di pochi minuti.

La polizia sta raccogliendo varie testimonianze dalle persone presenti al momento dell’aggressione per ricostruire con esattezza quanto accaduto. Al vaglio anche le immagini delle telecamere presenti nel centro cittadino. Sotto approfondimento anche i video girati da alcuni presenti.

Secondo alcuni negozianti, l’ambulante era una presenza abituale e inoffensiva nel centro città e sarebbe stata sua la stampella usata per colpirlo. Alika Ogorchukwu si aiutava con la stampella utilizzata per massacrarlo e ucciderlo dopo esser rimasto vittima in passato di un incidente stradale. Il 39enne viveva a San Severino Marche e saltuariamente lavorava anche come ambulante: era sposato ed era padre di un bambino. 

“Il brutale omicidio, avvenuto oggi a Civitanova, mi lascia sconcertato. Non esistono giustificazioni per la violenza, qualsiasi essa sia“. Scrive così  in un post su Facebook, il vicepresidente della giunta regionale Mirco Carloni. “Mi auguro che sia fatta luce su quanto successo – scrive Carloni -, che il tema della sicurezza in qualsiasi sua forma torni ad essere al centro dell’attenzione e che giustizia sia fatta per questo gesto così disumano“.

Quattro minuti di follia e indifferenza. La morte in diretta di Alika, la ragazza che ha girato il video: “Dovevo mandarlo a mamma”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 31 Luglio 2022 

Morto in diretta nel centro cittadino di Civitanova Marche nella tarda mattinata di venerdì 29 luglio. Morto tra l’indifferenza dei passanti. Morto mentre a pochi metri di distanza un signore, di spalle, era seduto su una panchina e niente ha fatto. Morto mentre una ragazza riprendeva la scena in video. Morto mentre un passante chiedeva all’operaio omicida di smetterla “perché così lo uccidi” salvo poi aggiungere “ho chiamato polizia e carabinieri”. Morto mentre un altro uomo, così come emerge dal video, urlava “e basta”.

Alika Ogorchukwu, 39enne ambulante nigeriano è volato via nel giro di appena 4 minuti. Tanto è durata l’agonia dell’uomo aggredito a mani nude e con una stampella da Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, 32enne operaio di origine salernitana attualmente in stato di fermo. Ferlazzo ha rincorso Alika, lo ha braccato, gli ha strappato la stampella con cui ha iniziato a picchiarlo, poi lo ha atterrato e schiacciato col suo peso, colpendolo e uccidendolo a mani nude secondo la ricostruzione ufficiale della polizia. Una agonia durata circa quattro minuti, come emerge dalle registrazioni delle telecamere del Comune presenti sulla strada del delitto. Sarà ora l’autopsia a cristallizzare le cause del decesso.

La giovane che ha girato il video è una 28enne moldava ripresa dalle telecamere di sicurezza con il telefono in mano, ascoltata dagli agenti della squadra mobile come persona informata sui fatti. A loro ha spiegato che “volevo far vedere a mia mamma l’orrore che stava avvenendo davanti ai miei occhi. Ma non sono intervenuta, ho avuto paura”.

Dopo aver girato il video, l’ha inoltrato a una amica italiana che ha poi diffuso il filmato facendolo diventare virale e sollevando le polemiche della comunità nigeriana che ieri ha protestato nel centro cittadino di Civitanova per “l’indifferenza della cittadinanza”.

La moglie di Alika, Charity Oriachi, vuole guardare in faccia l’assassino del marito e “chiedergli perché ha ucciso un padre di famiglia”. La coppia ha un bambino di otto anni. Charity ricorda l’ultima volta che ha visto il marito. Erano alla stazione di San Severino Marche dove lei lavora come addetta alle pulizie. “Gli ho dato una brioche, l’ho salutato e non l’ho visto più vivo”.

Ferlazzo al momento in stato di fermo in carcere con le accuse di omicidio volontario e rapina, per aver sottratto il cellulare della vittima.

La difesa e le scuse di Ferlazzo

Ferlazzo che dal carcere, tramite l’avvocato Roberta Bizzarri che ha incontro questa mattina, si difende e chiede scusa alla famiglia di Alika. “È in stato di confusione – dice il suo legale – è un ragazzo con problemi psichiatrici. Ha un’invalidità civile riconosciuta al 100% . È da tempo sottoposto ad amministrazione di sostegno. L’amministratrice è la mamma che abita a Salerno. È bipolare e borderline“.

A Civitanova, ha spiegato il suo avvocato, era arrivato da pochi mesi e conviveva con la compagna, trovando un lavoro a tempo determinato in una fonderia. “È addolorato per l’accaduto e chiede scusa“, spiega ancora l’avvocato. “In merito alla rapina sostiene di aver raccolto da terra i suoi effetti personali tra cui il suo orologio rotto e ha preso il cellulare nella convinzione fosse il suo. Solo dopo si è reso conto che non lo era”. La legale chiederà una perizia psichiatrica. La convalida dell’arresto è prevista per lunedì mattina.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Flavia Amabile per “la Stampa” il 26 agosto 2022.

A quasi un mese dall'omicidio, il cadavere di Alika Ogorchukwu, l'ambulante nigeriano ucciso in pieno centro a Civitanova Marche, è ancora in una cella frigorifera dell'obitorio della cittadina marchigiana. 

Nessun funerale, né una previsione - almeno approssimativa - di quando si potrà dare sepoltura all'uomo morto soffocato e schiacciato mentre chiedeva l'elemosina, dopo essere stato inseguito e buttato a terra nel centro della cittadina da Filippo Ferlazzo e ammazzato a mani nude in un corpo a corpo durato diversi minuti e filmato da svariati passanti, nessuno dei quali era intervenuto suscitando molte polemiche.

La cerimonia si svolgerà a San Severino Marche dove l'uomo abitava da sei anni con la moglie Charity e con il figlio. Era stata proprio lei a chiedere che fossero presenti anche i fratelli del marito che vivono in Nigeria. Una richiesta più che legittima ma che sta diventando un ostacolo che rischia di creare un caso diplomatico. 

I funerali erano stati dapprima rinviati a dopo Ferragosto. Il Ferragosto, però, è arrivato ed è andato via senza novità. E la vicenda sta creando un forte imbarazzo.

«Siamo tutti attoniti , anche questore e prefetto confessa la sindaca di San Severino Marche, Rosa Piermattei - Siamo in attesa di risposta. Per ora possiamo solo dire che non si terranno di sicuro entro agosto. Speriamo che possano svolgersi nella seconda settimana di settembre. Noi però non possiamo fare altro che aspettare». 

E sperare che la data non sia troppo vicina al 25 settembre altrimenti la campagna elettorale rischierebbe di provocare un'ulteriore cannibalizzazione del dolore di una famiglia. «I fratelli di Alika Ogorchukwu non avevano il passaporto - spiega Francesco Mantella, avvocato della famiglia -.Hanno ottenuto finalmente il documento qualche giorno fa. Ora speriamo che si possa accelerare, purtroppo non è facile. Ho ricontattato il consolato italiano a Lagos, e ho cercato di capire a che punto fosse la procedura.

Ho anche spiegato ancora una volta che la loro richiesta di visto non può seguire l'iter normale, complesso, farraginoso, altrimenti non riusciranno mai a venire. Devono essere sottoposti a un iter diverso. Chiamerò per l'ennesima volta il consolato italiano, speriamo di avere finalmente dei tempi definiti e brevi. Non è possibile aspettare sine die». 

Né l'avvocato intende farlo, in realtà, «Se non dovessero arrivare risposte concrete mi rivolgerò al ministero degli Esteri e porrò a loro la questione. Non mi resta altra strada». 

Il 9 agosto la moglie di Alika Ogorchukwu aveva incontrato la sindaca di San Severino Marche per definire i dettagli della cerimonia. Si erano messi d'accordo per una cerimonia all'aperto, al campo sportivo di San Severino per accompagnare l'ultimo saluto al marito con canti tipici della Nigeria a cui prenderà parte la comunità nigeriana delle Marche. In caso di maltempo - aveva riferito l'avvocato - la cerimonia si sarebbe tenuta all'interno del palazzetto dello sport di San Severino.

Lo slittamento dei tempi rischia di far saltare l'accordo raggiunto e di rendere necessario trovare il modo di far accettare alla donna un funerale diverso da come lo aveva immaginato ma su questo, in assenza di tempi certi, nessuno in queste ore è disposto a sbilanciarsi . Sul fronte giudiziario, invece, il prossimo passaggio importante sarà la richiesta di perizia psichiatrica che la difesa di Filippo Claudio Giuseppe Ferlazzo, in carcere con l'accusa di omicidio volontario di Alika, presenterà al gip di Macerata.

Il male assoluto non ha colore. Ieri, in prima pagina, la notizia di un uomo ammazzato a bastonate mentre, da ambulante, cercava di vendere ai passanti qualche piccola cosa. Stefano Zecchi il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.  

L'altro ieri in prima pagina de «Il Giornale» c'era la notizia di un cane ammazzato a fucilate in provincia di Foggia; non faceva male a nessuno, lo chiamavano «il cane di Padre Pio» perché a San Giovanni Rotondo, dove si trova il santuario dedicato al prete di Pietrelcina, si avvicinava ai pellegrini, quasi accompagnandoli al Convento dei Cappuccini.

Ieri, in prima pagina, la notizia di un uomo ammazzato a bastonate mentre, da ambulante, cercava di vendere ai passanti qualche piccola cosa.

Un uomo non è un cane, ma la crudeltà che li ha ammazzati è la stessa. Una crudeltà che si esprime con la violenza più bieca, quella che uccide. Talvolta con abili o ipocriti esercizi retorici giustifichiamo la violenza come una condizione di necessità per difenderci dal sopruso. Ma nessuna retorica riuscirà a giustificare la crudeltà, perché sarebbe come ammettere che il sentimento dell'amore ha un valore inferiore all'essere crudele.

La crudeltà è subdola, ubiqua, mostra le sue innumerevoli forme, dalle sofisticate tecnologie degli armamenti, agli stupri, alle esecuzioni di massa, al piacere di sopraffare il più debole. Ci indigniamo degli atti violenti provocati dalla crudeltà dell'uomo, come se quell'uomo non appartenesse a quello stesso nostro genere che si mostra impotente di fronte alla violenza. Il male non è banale, come scriveva Hannah Arendt, osservando quel piccolo uomo, Adolf Eichmann, che ascoltava impassibile le accuse del tragico sterminio di ebrei, di cui era responsabile. Eichmann poteva apparire un uomo insignificante, banale, ma nel suo agire non c'era banalità, ma un'immane crudeltà.

Di fronte alla violenza ci indigniamo e puntiamo il dito contro l'altro, perché l'altro è il violentatore, sempre l'altro: noi ci indigniamo, e così siamo salvi. Ci indigniamo per il fatto che nessuno si è messo di mezzo per cercare di aiutare quel povero nigeriano mezzo zoppo che vendeva fazzoletti di carta. E intanto fiorisce la speculazione politica che trova spazio tra tanta ipocrisia e stupida propaganda. In realtà non ci si guarda dentro, si cerca di salvare se stessi da quella crudeltà che drammaticamente ci appartiene come un principio costitutivo dell'esperienza umana. Si possono trovare mille motivi per spiegare (non necessariamente giustificare) l'aggressione omicida verso il venditore ambulante nigeriano, e altrettanti motivi per l'uccisione di quel povero cane di San Giovanni Rotondo. Argomenti del tutto inutili: perché, in questo caso sì, la loro colpa è banale. Davano fastidio. Alla banalità di questa colpa si è contrapposta la crudeltà del male: bastava dire al venditore ambulante di andarsene; al cane dargli una pacca sul sedere (era buono, non aveva mai fatto male a nessuno) per mandarlo via. Invece esce prepotente, inarrestabile il piacere di fare del male, di aggredire oltre ogni limite del buon senso.

Il rimedio? È sempre lo stesso: comprendere la fragilità dell'amore, non pensandolo come un'invincibile potenza contro la crudeltà del male. Educare alla bellezza, insegnare a riconoscere la bellezza: questo è davvero un impegno politico. Essere responsabili della bellezza del mondo, saperla proteggere, saperla difendere, saperla creare. Dove c'è bellezza, il male arretra, non è sconfitto, ma trova un antagonista difficile da sopraffare.

Luca Josi per Dagospia il 31 luglio 2022.  

Ricordate queste due immagini? Più o meno, quel racconto è cominciato così.

Forse, in una caverna. Accadde che per vanità, testimonianza di un’impresa o per far ingelosire il suo vicino di grotta, qualcuno decise di fissare su una parete un racconto di una vicenda di cui era stato spettatore o protagonista. In questo caso, si tratterebbe di una pittura rupestre di 45.000 anni, australiana, la più antica del mondo (fino a quando non se ne troverà una più antica e via dicendo; un po’ come la misurazione del debito pubblico o dell’origine dell’universo).

Poi l’uomo è andato avanti con invenzioni straordinarie e ha conosciuto la parola al posto del verso, poi la scrittura del pensiero, rischiando ogni volta la perdita di qualcosa (per Socrate quella parola scritta avrebbe impigrito la memoria, per l’uomo primitivo, forse, il linguaggio si è manifestato come un dispositivo di comunicazione che atrofizza  e poi nebulizza una capacità e altri talenti che l’uomo poteva avere dentro di sé e cominciava a delocalizzare in un’infinita delega di un’infinita “cloud”; tipo Wikipedia rispetto al nostro archivio mentale).

Nel novecento una scoperta ha teletrasportato le emozioni della grotta, smaterializzandole e delocalizzandole. Quando l’uomo cominciò ad assistere a ripetizioni del reale e a confonderle con quelle teatrali che ammirava da qualche millennio - pensate a quante vendette, assassini e stragi si narravano in quelle rappresentazioni - qualche geniale intellettuale cominciò a descrivere i rischi di questo futuro (e da Benjamin a Pasolini troverete quello che vi serve; ma io qui mi fermo, perché pur rispettando la mia solida incompetenza, che di questi tempi candida a parlare e occuparsi di quasi tutto, esistono esperti, intellettuali e filosofi, che vi sapranno descrivere tutto questo molto meglio). 

Ma sostanzialmente, potrebbe essere andata così, per mitridatizzazione (da Mitridate, che ingurgitava una goccina di veleno al giorno per immunizzarsi dai rischi di corte).

Quando l’uomo cominciò a perdere il contatto con la concatenazione degli altri sensi, a mangiare animali che non aveva visto soffrire, a vincere guerre che non aveva combattuto, a emozionarsi per eventi che, a lotteria, gli si presentavano sotto i suoi occhi - uno per migliaia di quelli che si consumavano nel reale e che beneficiavano di documentazione - l’uomo iniziò a stararsi dal suo sé. Vedendo sangue e stragi nei film, alternate a stragi e sangue nella realtà, ma veicolate dallo stesso strumento, quanto sarebbe risultato facile distinguere, non coinvolgersi, partecipare e contemporaneamente essere trascinati da quelli reali?

È accaduto per queste generazioni di bambini, me compreso (quando lo fui), cresciuti tra peluche di animali umanizzati e parlanti nei loro cartoni, che poi mangiano regolarmente nei loro piatti perché, forse, loro immaginano nati direttamente negli scaffali e sui banconi di qualche supermercato avvolti in  una placenta di cellophane e prezzata (e non è un sermone da vegetariano, ma un assurdo di una società che rimuove la morte, non comprende la vita e pensa che gli animali li si possa solo mangiare e non ammazzare; perché se ne occuperà qualcun altro. Forse). 

Così, dopo aver letto qualche chilo di articoli sullo stordimento di un mondo che s’interroga sul suo piano inclinato di devastazione per l’assassinio di quel uomo di colore da parte di un uomo bianco (c’è anche questo) e degli uomini, prevalentemente bianchi, che riprendevano la scena, mi è tornato il flash di quelle due immagini: quella prima grotta e quell’anziana che fotografa il suo Cristo morente (Dago, onore a Dago, fu il principale editore di quella immagine). 

Nella retorica dei palinsesti non lineari - la tv generalista era quella dei contenuti decisi da altri e tu sceglievi quali scelte seguire secondo gli orari decisi da loro, mentre le piattaforme decidono cosa tu puoi guardare e tu decidi quando - siamo passati a quella del contenuto autoprodotto.

Così, accade che non riconoscendo più una strage vera da una di finzione, una guerra cinematografica da una dietro casa, l’uomo contemporaneo ascolti un solo imperativo: quello di testimoniarla in primis a se stesso per poi raccontarla ad altri.

Quindi, nella miliardaria storia della terra, il recente uomo è ancora, semplicemente, quella bestia che disegna. E fotografa (e commenta molto; a partire dal sottoscritto). A Civitanova, non c’è nessuna città nuova. C’è solo il solito uomo. Forse.

La barbara uccisione di Civitanova Marche. Da Alika a Willy, la lunga scia di sangue degli uccisi a mani nude olocausto della solidarietà. Alberto Cisterna su Il Riformista il 2 Agosto 2022 

Il corpo in terra di Alika Ogorchukwu, tempestato di pugni, stritolato dai colpi del suo assassino ci trascina negli anfratti più bui dell’umanità. Quando l’unica arma di cui si disponeva erano le nude mani, capaci di fracassare le ossa, deturpare i visi, sbriciolare le membra dell’avversario. Si torna a uccidere con le mani, con le mani spoglie, senza alcuna arma che possa agevolare il desiderio di morte o che possa mitigare l’agonia della vittima. Era già successo con Willy Monteiro, massacrato a pugni in una strada di Colleferro; a Marco Ruggeri, finito a pugni in faccia per un debito davanti a un bar a Roma; ad Augusto Bernardi, il 10 luglio scorso, ucciso a Torino per un futile diverbio e tante volte ancora. Una scia di sangue, lunga, sempre uguale, sempre raccapricciante.

A rendere tutto più terribile, più doloroso la teoria dei video di passanti e vicini che subito dopo inondano la rete e popolano le tv. Non esiste alcuna relazione apparente tra chi adopera le mani dell’Homo faber per togliere la vita e chi le impegna febbrilmente, spasmodicamente per immortalare la morte inflitta impugnando il proprio smartphone. Eppure, eppure. Al di là dell’abissale differenza tra chi uccide a mani nude e chi assiste alla violenza, c’è qualcosa che agita, qualcosa che non persuade. L’intima convinzione, il tormento che si potesse fare qualcosa, che si potesse intervenire, che fosse possibile ancora prestare soccorso, aiutare. Un conto è il colpo di pistola, il fendente di un coltello, l’esplosione di una bomba, altro è la morte inferta con le sole mani, dove pugno dopo pugno la vita si spegne e abbandona il corpo esangue; dove solo l’ultimo cazzotto consegna al buio la luce terrorizzata degli occhi, l’affanno del respiro e smorza ogni speranza.

Guardare, filmare e non intervenire. Certo la violenza paralizza, lascia storditi, increduli, attoniti. Soprattutto quando è inattesa, si consuma per strada, in una calda giornata d’estate in cui nulla ti aspetti e tutti passeggiano tranquilli. Ma chi prende il telefono e inizia a filmare, a documentare a mano fredda, con razionale precisione i dettagli di una morte non è né attonito, né sorpreso. Superato lo smarrimento iniziale, c’è sempre chi non esita e ritiene che non sia suo dovere rendersi “prossimo”, avvicinarsi a chi sta soccombendo, ma piuttosto pensa che il destino lo abbia chiamato al ruolo di cinico e freddo reporter di un’uccisione.

Di fronte alla violenza, al lutto che si sta consumando, si assumono le spoglie di un reporter di guerra, di quella minuscola, orrida guerra che si sta consumando innanzi ai nostri occhi. Neanche fossimo Robert Capa che immortala in Spagna l’istante preciso della morte del miliziano o Nick Ut che sconvolse il mondo con la foto della bambina vietnamita devastata dal napalm americano, ci si improvvisa passivi documentaristi, cinici osservatori di una violenza che attraversa per caso la nostra esistenza. Tra l’eroismo di chi si lancia in soccorso della vittima, anche a rischio della propria vita, e la codardia di chi assiste impotente o, addirittura affretta il passo per sottrarsi all’orrore, la modernità ci ha consegnato un’inattesa, ancor più cinica, terza via. La possibilità di trasferire il nostro impulso dall’azione alla documentazione; dall’omissione alla trasmissione. Non si racconta, si trasferisce da un apparato all’altro, da un sito all’altro perché tutti possano assistere alla rappresentazione del male. Forse è un episodio di razzismo quello di Civitanova Marche, forse l’assassino è un disturbato mentale. Si vedrà. Ma non possiamo non volgere lo sguardo a quanti hanno assistito e, soprattutto, a coloro che hanno freddamente filmato quella morte. La Documanità è davvero la “filosofia del mondo nuovo” (Maurizio Ferraris, Laterza, 2021) e ha preteso il suo ennesimo olocausto, il sacrificio di una vita che dia prova, ancora una volta, una volta di più, che importa esserci e non agire, che conta raccontare e non intervenire, che l’importante è aver congelato l’adrenalina della violenza e non aver provato a mitigarla. Alberto Cisterna

Solita litania razzista di chi “bruschia” (gli rode) per Invidia.

Maturità farsa: tutti promossi E i 100 al Sud umiliano il Nord. Matteo Basile i 24 Luglio 2022 su Il Giornale.  L'esame non fa più paura: il 99,9% degli studenti lo passa. La manica larga del Meridione, fioccano i voti più alti

«Quest'anno c'è la maturità, non si scherza!». Ansia, brividi, notti insonni, brutti pensieri, panico. Alzi la mano chi almeno una volta nella vita non ha provato almeno una di queste emozioni al sentire i professori scandire questo mantra minaccioso recitato con continuità da settembre in poi. Così era, per tutti. Dagli scansafatiche ai secchioni. Non si scappava. Era. Perché adesso l'esame di maturità altro non è una banalissima formalità. Il 99,9% degli studenti italiani ammesso all'esame di Stato ha infatti superato la prova. Altro che paturnie: una passeggiata di salute. I dati forniti dal ministero dell'Istruzione parlano chiaro. E nulla è cambiato con il ritorno dell'esame in presenza dopo le restrizioni dovute al Covid negli ultimi due anni. Ma c'è un altro dato che fa riflettere: al Sud i voti e in particolare i 100 e i 100 e lode sono molto più numerosi rispetto che al Nord.

Se si considera che, già prima della prova, ben il 96,2% dei candidati scrutinati era stato ammesso all'esame, il 99,9 di diplomati certifica che il tanto temuto ultimo anno con il tremendo esame che fu adesso è poco più che un atto di presenza puro e semplice per tutti quanti. Anche perché quest'anno le prove erano complete, in presenza sia per gli scritti che per gli orali. Eppure i promossi sono gli stessi dello scorso anno quando gli esami si tennero a distanza. Aumentano anche i diplomati con lode: sono il 3,4% rispetto al 3% di un anno fa, mentre calano gli studenti che hanno ottenuto il 100 tondo: il 9,4% rispetto al 13,5% dell'anno scorso. La maggioranza assoluta degli studenti, il 51,2% tra studentesse e studenti, si colloca nella fascia di valutazione tra il 60 e l'80. Calano invece i 60, quelli che una volta venivano ribattezzati «promossi con un calcio nel sedere», che passano dal 4,8% al 4,1%. Una volta ammessi, quindi, si arriva al traguardo. A far riflettere sono altri numeri.

Perché tra i 16.510 studenti che in totale hanno raggiunto il 100 e lode, le percentuali sono completamente differenti tra Nord e Sud. La manica più larga in percentuale si registra in Calabria con il 6,6% dei promossi con lode. Seguono Puglia col 6,3%, Umbria (5%) e Sicilia (4,8%). Nulla a che vedere con il Nord: solo l'1,5% nella rigidissima Lombardia, il 2,1% in Piemonte e il 2% in Veneto. Anche alle scuole medie, i numeri del ministero sembrano incoraggianti: il tasso di ammissione all'esame finale è stato del 98,5% anche in questo caso il 99,9% delle ragazze e dei ragazzi ammessi ha superato la prova. In due regioni, Molise e Basilicata, registrato il 100% di promossi. E anche per i più piccoli, voti più alti assegnati al Sud in Puglia, Calabria e Molise dove più di un candidato su due ha ottenuto una votazione superiore all'8. Facile ipotizzare che non ci sia stato una fuga di cervelloni nelle regioni del Meridione, quanto l'evidenza di criteri di giudizio molto più severi al Nord. Va bene che, almeno in teoria, una maggior severità possa essere più funzionale per prepararsi a un futuro universitario prima e lavorativo poi, ma sicuramente la disparità è evidente e penalizzante, per esempio nell'accesso alle facoltà a numero chiuso e per accaparrarsi le borse di studio del primo anno. Un divario che altro non fa che aumentare le perplessità sul nostro sistema scolastico.

Perché oltre alla palese disparità territoriale, i numeri dei promossi infatti cozzano terribilmente con i dati dei test invalsi forniti non più di un tre settimane fa. Un elemento su tutti: per quanto riguarda le competenze in lingua italiana, appena il 52% per cento degli studenti dell'ultimo anno infatti raggiunge il livello minimo di competenze, con punte del 60 per cento in Campania, Calabria e Sicilia. Più di un ragazzo su due quindi, ha problemi di comprensione e di espressione nella propria lingua. Tutti promossi, però. Siamo abbastanza asini, quindi, ma la tanto attesa e temuta notte prima degli esami adesso si può vivere senza ansie. E poi? Io speriamo che la cavo...

LA RIFLESSIONE. Se i ragazzi del Sud osano superare gli studenti del Nord agli esami di maturità. Manica larga dei professori, la prima spiegazione dei giornali di su (e di qualche preside invelenito). Al Sud oltre mille lodi in più. Con media italiana del 3,4 per cento. Lino Patruno su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 luglio 2022.

Scandalo al sole. Ma come osano i ragazzi del Sud essere più bravi di quelli del Nord agli esami di maturità? Manica larga dei professori, la prima spiegazione dei giornali di su (e di qualche preside invelenito). Al Sud oltre mille lodi in più. Con media italiana del 3,4 per cento, ma con la Calabria al 6,6 e la Puglia (seconda) al 6,3. Lombardia 1,5. Quando solo poco prima le rilevazioni Invalsi avevano certificato tutto il contrario: studenti del Sud meno preparati di quelli del Centro Nord. Con Puglia e Calabria in posizioni invertite: penultima e ultima. Qualcuno gioca sporco?

Allora. Se Atene piange, Sparta non ride. Se i ragazzi del Sud erano ultimi in Italia, quelli del Centro Nord erano ultimi in Europa. Con una media italiana del 55 per cento di impreparati. Altro che polemiche parrocchiali. E con i test Invalsi che sono come le tre scimmiette: non vedo, non sento, non parlo. Che vale ripeterli ogni anno, se servono solo a lasciare tutto come sta? Mai che i governi abbiano detto: data la situazione, aumentiamo la spesa per la scuola. Che invece è più inossidabile di un profilato dell’Ilva: sempre ultima in Europa.

E la didattica a distanza, che ha notoriamente penalizzato il Sud con meno computer e tablet? Non c’entra, la risposta: tutto cominciato già dieci anni fa. Aggravante, per chi non ha rimediato. Ma allora, se così è, non si sfugge. O i ragazzi del Sud sono più scemi in partenza, ma va certificato con uno screening di massa. O il Sud, quand’anche fosse, soffre di condizioni che lo portano a quei risultati. E’ notorio che alla nascita i bambini del Sud piangono più di quelli del Nord: capiscono subito di aver aperto gli occhi nel posto più bello ma più ignorato d’Italia. Avranno meno asili nido, meno tempo prolungato, meno biblioteche scolastiche, meno mense, meno scuolabus. Come se, a parità di anni frequentati, ne frequentassero uno in meno. E poi vieni a fare l’Invalsi e, invece di chiedergli scusa, vorresti farli vergognare. La colpa è loro e non di uno Stato che non li tratta come gli altri. Scambio fra vittima e carnefice.

Su dati Istat e del ministero Economia e Finanza, il fabbisogno scolastico riconosciuto dallo Stato per ogni ragazzo di Milano è di 1.446 euro l’anno, per un ragazzo di Bari di 784. Non dovrebbe essere il contrario? E no, si segue la spesa storica: dare più a chi ha sempre avuto più, dare meno a chi ha sempre avuto meno. Finché non si calcoleranno i fabbisogni (i famosi Lep, Livelli essenziali di prestazione) andrà sempre così. Per gli asili nido, l’ex ministra Carfagna aveva avviato una più giusta via: una tomba con la caduta del governo. Per il resto, almeno dal 2009 l’Italia continua a violare la sua stessa Costituzione. Paese anticostituzionale verso il suo Sud.

Finché si arriva alla maturità. A parte il fatto che la sorpresa comincia già alla terza media: divario fra Nord e Sud, ma Puglia prima per «10 e lode», record nazionale. E a parte il fatto che alla fine dei licei si vanno a conteggiare buoni e cattivi, ma nessuno valuta un dato nazionale: 99,9 per cento dei promossi. Magari anche qui manica larga, essendo la percentuale più alta d’Europa. Ma la domanda è: cosa c’entra l’Invalsi con gli esami di Stato? Con i quali si valuta un percorso di tre anni. E si valutano anche tutte le altre materie e non solo italiano, matematica e inglese. E non certo con i quiz a campione, più adatti alla Settimana Enigmistica. E forse con una abitudine del Sud di fare il più col meno. Con la serietà della privazione e delle difficoltà future. E con gli esaminatori (non tutti locali) che lo colgono a differenza dei quizzettari una tantum dell’Invalsi.

E poi la dispersione scolastica, l’abbandono. Più alta al Sud, come avviene nel ritardo di sviluppo: povertà non fa rima con scolarità. Una selezione dei più deboli (anche loro malgrado) che lascia in aula i meno deboli pure culturalmente, quelli dei 100 e lode. Allora un Paese serio cosa fa invece di stilare classifiche manco fossero Inter e Juventus? Cerca di eliminare la dispersione. Ultimi stanziamenti: 255 milioni per il Sud, 244 per il Centro Nord. Embè, dispersione eguale quando sappiamo che non è così?

In dettaglio: Puglia 43,1 milioni, Basilicata 5,3. Ma in Puglia escluso dalla prima assegnazione il 66 per cento delle scuole. E poi meccanismo (parossistico se non patologico, secondo la Cgil) che, su indicazione del solito Invalsi, inventa una dispersione «implicita», quella di chi non raggiunge le competenze necessarie. Suggerendo di escludere anche quelle scuole, invece di aiutarle. L’Invalsi, una società privata. Come dire: Sud, se sei trattato così, è perché te lo meriti. Almeno questo imparalo.

Da repubblica.it il 25 luglio 2022. 

Il campione di basket, oggi vice allenatore dei Wizards dopo una lunga carriera in Italia, si sfoga su Instagram dopo un episodio di razzismo nella "sua" Pesaro mentre era con i tre figli: "Chiedono i documenti solo se non sei bianco. Non voglio crescerli in un mondo del genere, come esseri umani siamo migliori di così. E se non fossi stato famoso?" 

"La polizia mi ha lasciato andare perché sono un ex giocatore di basket, ma se fossi stato solo una persona nera in giro per la città, cosa sarebbe successo? Cerchiamo di essere migliori come umani, dai". Pesaro, fuori da un locale dove le girano le asciugatrici dei vestiti sono seduti quattro uomini. Due di carnagione più scura: l'ex giocatore di basket di Biella, Pesaro e Olimpia Milano Joseph Blair, oggi assistant coach dei Washington Wizard in Nba, e il figlio Jourdyan. Con loro due persone dalla pelle più chiara, cioè i figli Joseph jr e Jaeson, nati dalla relazione con la compagna italiana Paola.

Questa fastidiosa distinzione serve per capire cosa è successo domenica a Pesaro. Un fatto di razzismo che lo stesso Blair ha raccontato su Instagram. "Ciao a tutti i miei amici italiani, io sono qui fuori dalle asciugatici. Fa troppo caldo dentro, quindi ci siamo seduti fuori. È passata la polizia, si è fermata ed è scesa dalla macchina per chiederci i documenti. Ce li hanno chiesti a noi due (a Blair e al figlio Jourdyan, ndr). A loro (Joseph jr e Jaeson, ndr) hanno detto che non serviva". 

Blair: "Se fossi stato solo un nero, cosa sarebbe successo?"

È la prima volta che Blair è vittima di un episodio di razzismo, nella città marchigiana. "A Pesaro non ho mai avuto problemi di questo tipo e mi dispiace tanto perché come sapete un gran pezzo del mio cuore è in questa città. Però ragazzi, così non si può. Nel mondo in cui viviamo non si può fare questo. Ho dato loro la mia patente americana, perché ovviamente non porto con me il passaporto quando vengo ad asciugare i vestiti. Dopo il controllo mi hanno detto: 'Ma tu sei l'ex giocatore, ti lasciamo andare'. E se non fossi stato un ex giocatore? Se fossi stato solo una persona di colore in giro per la città è un problema?"

Blair: "Non voglio crescere i miei figli in un mondo così"

Blair ha concluso il proprio racconto con un auspicio. "Possiamo essere meglio di così come umani. Spero che chi guarda questo video pensi che cose così non debbano succedere. E che controlli che non le facciano neanche le persone vicine. Voglio crescere i miei figli in un mondo dove questa roba non esiste".

Ygnazia Cigna per open.online il 7 agosto 2022.  

È diventato virale un video di Chen Chaohao, 22 anni, titolare di un negozio di Frattamaggiore, nel Napoletano, in cui viene aggredito dalla Polizia. Come riporta il Mattino, nel filmato, ripreso dalle telecamere e diffuso dal ragazzo sul suo account Instagram, si vedono le autorità che lo scaraventano in macchina mentre lui continua a urlare per chiedere aiuto. 

 Poi, grazie all’intervento di una connazionale, esce dalla volante, ma viene placcato a terra con il volto rivolto sul cemento. Il ragazzo, secondo quanto ha mostrato sui suoi canali social, ha riportato diversi lividi dopo lo scontro con gli agenti. La Questura di Napoli al momento non avrebbe aggiunto commenti alla vicenda, spiegando che per ora il ragazzo risulta indagato per resistenza pubblico ufficiale.

Le versioni discordanti

L’episodio risale al pomeriggio del 4 agosto in cui una donna, di nazionalità italiana, ha chiamato il 112 perché lamentava di dover pagare una bomboniera che il figlio aveva accidentalmente rotto nel negozio di Chen. Una volta arrivata la polizia, secondo il racconto del 22enne, hanno chiesto il nome alla donna e a lui i documenti. Chen, in quel momento, ne era sprovvisto, ma aveva una foto sul cellulare, secondo quanto riferisce. 

Loro non li avrebbero accettati insinuando che potevano essere falsificati, «considerato che si trattava di uno straniero». Secondo quanto riferisce, invece, la Questura di Napoli Chen si sarebbe rifiutato di mostrare i documenti opponendo resistenza durante l’identificazione. Secondo il ragazzo si tratta di un’aggressione a tutti gli effetti di stampo razzista. 

«L’ufficiale ribadiva che un italiano può girare senza documenti, io no», scrive su Instagram. «Sarei entrato in auto senza esitare se non mi fosse stata esplicitata una differenza razziale». Poi spiega di essere stato aggredito e portato al commissariato, dove gli avrebbero sequestrato il cellulare per controllare se avesse registrato. «Mi hanno chiamato cinese di merda», conclude.

Bakayoko fermato e perquisito dalla polizia. Il Domani il 18 luglio 2022

Contro le accuse di profilazione razziale la Questura ha risposto dicendo che «il controllo è scattato perché Bakayoko e l’altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c’entrava».

In queste ore sta circolando sui social network un video che ritrae Tiémoué Bakayoko, il giocatore di Serie A del Milan, fermato per strada (tra piazza Gae Aulenti e corso Como) da alcuni agenti di polizia durante un posto di blocco con tanto di pistole puntate contro.

Nelle immagini, riprese con lo smarphone di un cittadino che si trovava sulla scena, si vede una poliziotta puntare la pistola contro una persona seduta all’interno di un suv da dove è stato fatto scendere il calciatore, mentre un suo collega stava effettuando un’attenta perquisizione. Ma dopo poco meno di un minuto un altro agente fa notare al collega che il ragazzo che stava perquisendo non era un criminale ma Bakayoko, il giocatore del Milan, che viene così rilasciato dopo diverse scuse.

Il video risale al 3 luglio scorso ma è stato pubblicato soltanto nelle ultime ore. La notte precedente, ha fatto sapere la questura, a Milano c’erano state delle risse con colpi d’arma da fuoco per questioni di spaccio. E la polizia, che per questo motivo operava con le pistole in pugno, stava cercando un’auto scura con a bordo due uomini, uno dei due di colore e con una maglietta verde. Bakayoko e l’altra persona corrispondevano alle descrizioni.

LE REAZIONI 

Il video sta facendo molto discutere. «Lo fermano perché nero, si scusano perché ricco. Questa è profilazione razziale, condita dall’inaccettabile impreparazione dell’agente che punta un’arma ad altezza uomo. Succede in centro a Milano, non in Texas, e ne stiamo parlando solo perché dall’altra parte c’era Bakayoko», si legge sui social.

La Questura ha minimizzato sull’accaduto: «Sono commenti fuori luogo, il controllo è scattato perché Bakayoko e l’altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c’entrava».

Il caso Tiémoué Bakayoko dimostra che anche l’Italia ha un problema con la profilazione razziale. Nello stesso Paese che applaude Paola Egonu, le forze dell’ordine fermano il calciatore del Milan solo perché nero. L’identificazione etnica è un problema ma non lo raccontiamo. «Rappresentare la comunità in maniera diversa, è l’unico modo per rompere i pregiudizi che alimentano il razzismo». Simone Alliva su L'Espresso il 18 Luglio 2022.

Sembra il fermo immagine di un video che arriva dagli Stati Uniti. C’è un uomo nero che viene fermato dalla polizia mentre si trova sulla sua auto, mani ben in vista. L’uomo viene perquisito da un poliziotto mentre un’altra agente punta la propria pistola all’interno dell’auto, dove si trova un’altra persona.

A un certo punto un terzo poliziotto si avvicina al collega che sta effettuando la perquisizione e gli rivela l’identità del perquisito. Termine dell’operazione.

Siamo a Milano, pieno centro. L’uomo è il calciatore del Milan, Tiémoué Bakayoko.

«Nella stessa Italia in cui si elogia Paola Egonu, avviene la profilazione razziale per Tiémoué Bakayoko (e molte altre persone non famose il cui nome non è altisonante, benché condividano la stessa melanina)” è il commento secco di Oiza Queens Day Obasuyi, ricercatrice e giornalista- Ci troviamo di fronte a un caso di profilazione razziale confermata dal fatto che la polizia pensava che Bakayoko fosse coinvolto in una sparatoria/rissa avvenuta molto prima tra cittadini di origine africana».

Con profilazione razziale si indica la pratica delle forze dell’ordine di procedere a operazioni di controllo o sorveglianza mosse soprattutto da pregiudizi fondati su colore della pelle, lingua, nazionalità. L’accusa non è mossa soltanto dalla saggista Obasuyi. Sui social molti utenti hanno criticato l’operato degli agenti accusandoli anche di "razzismo", o al contrario, di "mollare tutto" appena scoperto che il perquisito era un calciatore. 

«Sono commenti fuori luogo - spiegano in Questura - il controllo è scattato perché Bakayoko e l'altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c'entrava". Secondo quanto precisato dalla Polizia di Stato, infatti, la notte precedente c'erano state risse, anche con colpi d'arma da fuoco (poi rivelatasi non di pistola) tra stranieri, e si cercava un suv scuro con a bordo due uomini, uno dei due di colore con una maglietta verde». 

Non è la prima volta. A fine giugno 2021, intorno all’alba, un gruppo di ragazzi e ragazze poco più che maggiorenni e per la maggior parte afrodiscendenti si trovava fuori dal McDonald's di Piazza XXIV Maggio, a Milano. All’improvviso sul posto era arrivato un gran dispiegamento di carabinieri, alcuni in tenuta antisommossa. Ne è seguito un intervento di identificazione piuttosto violento, documentato da diversi video pubblicati sui social. 

«L’identificazione etnica è poco trattata in Italia ma è reale. Molto spesso le persone nere vengono fermate dalla polizia senza aver commesso nulla, camminano per strada, viaggiano in macchina e vengono fermate perché sono nere». A spiegarlo a L’Espresso è Triantafillos Loukarelis ex Direttore generale dell’UNAR (Ufficio Antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri) e presidente del comitato direttivo Antidiscriminazione, diversità e inclusione del Consiglio d’Europa.

«Non facciamo tutta l’erba un fascio rispetto ai corpi di polizia ma è una questione che esiste. A livello mondiale si è creata una certa sensibilità e anche voglia di affrontarla, pensiamo al movimento Black Lives Matter. La Commissione Europea con il nuovo piano di azione europeo contro il razzismo chiede agli Stati membri azioni specifiche per contrastare l’identificazione etnica. L’UNAR da un paio di anni sta lavorando a un piano nazionale italiano e abbiamo previsto. in collaborazione con 120 associazioni in Italia, un lavoro specifico che tramite l’OSCAD attivi corsi di formazione presso tutte le forze dell’ordine affinché si capisca che questi tipi di stereotipi sono inaccettabili». 

La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) parla di “pratica persistente,” compiuta dalle forze dell’ordine senza “alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole” quando procedono a operazioni di controllo o sorveglianza, mosse soprattutto da “pregiudizi fondati sulla razza, il colore della pelle, la lingua, la nazionalità. 

Dalla ricerca - condotta tra il 2015 e il 2016 attraverso interviste mirate a quasi seimila afrodiscendenti in dodici diversi Paesi, Italia inclusa – emerge infatti che un quarto del campione era stato fermato da forze di polizia nei cinque anni precedenti, e in quattro casi su dieci legava il fermo più recente a profilazione. Tra le persone fermate nei 12 mesi prima dell’indagine, il 70 percento del campione italiano parlava di profilazione razziale. 

«È la generalizzazione verso la comunità nera in Italia che porta, non solo forze dell’ordine, ma anche altri cittadini ad avere un atteggiamento che discrimina» a spiegarlo Mehret Tewolde Direttrice Esecutiva presso IABW – Italia Africa Business Week. «Dovremmo riflettere su questo episodio e chiederci: avrebbe avuto lo stesso impatto mediatico se invece di Tiémoué Bakayoko fosse capitato uno studente nero italiano al 100 per cento? In Italia non c’è il riconoscimento di una cittadinanza che non sia bianca. Questo è uno dei problemi. Poi c’è una crescente rassegnazione nei confronti di aggressioni e micro-aggressioni, non si denuncia mentre si dice troppo che soffriamo di vittimismo, così serpeggia questo sentimento di arrendevolezza alle discriminazioni, non ci si sente tutelati, ascoltati ma neanche rappresentati. La rappresentazione è fondamentale. Raccontare l’Italia multiculturale e non parlare di persone nere solo come persone che hanno bisogno di essere accudite o che delinquono. Bisogna uscire da questi ghetti mentali. Allarghiamo lo sguardo, interroghiamoci su come mai la società plurale e multiculturale ben presente nelle nostre scuole, scompare finito il ciclo scolastico. Tutta una questione di narrazione. I mass media chiamano le persone nere soltanto quando si tratta di questioni che riguardano principalmente la comunità nera: migranti, razzismo, cittadinanza. Possibile che in due anni di pandemia non siamo riusciti a vedere scrittori o medici di origine diversa da quella caucasica? Eppure ce ne sono. Rappresentare la comunità in maniera diversa, aderente al reale è l’unico modo che abbiamo per rompere stereotipi e pregiudizi che alimentano il razzismo». 

Dello stesso parere Kwanza Musi Dos Santos, co-fondatrice di “Questa è Roma-associazione di giovani di seconda generazione” e consulente in Diversity Management: «Quello dell’under-reporting è un problema reale. Inoltre bisogna dire che la polizia in Italia gode di uno status abbastanza protetto e quindi è difficile denunciare un sistema che continua ad autoassolversi. Quello del razzismo e della profilazione razziale è la realtà dei fatti. Non abbiamo bisogno ogni volta di episodi così eclatanti per aprire gli occhi. C’è una questione di mancanza di formazione, sensibilità, valori condivisi. E dentro questo scenario il problema è sistemico: c’è una categoria principale che definisce i principi e valori per tutti».

Lo scambio di persona e le scuse degli agenti. Bakayoko perquisito in strada come un narcos dalla polizia: pistole puntate contro il giocatore del Milan. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Luglio 2022. 

Pistole puntate in una perquisizione in strada degna di un’operazione anti-narcos, di un film d’azione e criminalità. Non era però un criminale, un trafficante di droga che la polizia ha fermato ma Tiémoué Bakayoko, centrocampista francese del Milan protagonista di uno scambio di persona ad alta tensione ripreso da un telefonino, immagini che stanno facendo il giro dei social.

È successo a Milano, al ritorno del calciatore dall’amichevole vinta contro il Colonia e valida per la Telekom Cup. Il centrocampista è stato fermato in zona Corso Como da almeno tre agenti, quelli che si vedono dalle immagini, e fatto scendere dall’auto. Due di questi hanno puntato le pistole verso l’interno dell’automobile di grossa cilindrata del calciatore, dove doveva presumibilmente esserci qualcuno, un altro agente intanto si occupava di Bakayoko. Quest’ultimo: le mani contro la volante, veniva perquisito con veemenza.

A un certo punto si vedono i due agenti abbassare e rimettere le armi in fondina. Uno dei due si avvicina all’agente impegnato nella perquisizione e verosimilmente lo informa dell’identità dell’uomo. La reazione è eloquente: frustrazione, senso di colpa. I poliziotti si sarebbero allora scusati con il centrocampista e lo avrebbero lasciato andare. La sequenza video è stata ripresa da altri automobilisti in coda, evidentemente sconcertati dalla scena.

Bakayoko ha 28 anni, francese di origini ivoriane. Gioca nel Milan, fresco campione d’Italia, in prestito dai londinesi del Chelsea, con il quale nel 2021 ha vinto la Supercoppa Uefa. Non ha rilasciato alcuna dichiarazione sulla sua disavventura. Qualcuno ha ricordato in queste ore l’episodio che mesi fa a Londra ha coinvolto la sprinter britannica Bianca Williams e il fidanzato Ricardo Dos Santos. I due furono fermati, strattonati e ammanettati dalla Metropolitan Police.

L’atleta aveva fatto esplicitamente riferimento in quel caso alla natura razzista di quella vicenda. “È sempre la stessa cosa con Ricardo – commentò la sprinter – Pensano che stia guidando una macchina rubata o che abbia fumato cannabis. È una schedatura razziale”. La Questura ha intanto chiarito all’Ansa la natura dell’episodio. “Sono commenti fuori luogo – hanno spiegato in merito alle accuse di razzismo sollevate nelle scorse ore – il controllo è scattato perché Bakayoko e l’altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c’entrava“.

Secondo quanto precisato dalla Polizia di Stato la notte precedente c’erano state risse, anche con colpi d’arma da fuoco (poi rivelatasi non di pistola) tra stranieri, e si cercava un suv scuro con a bordo due uomini, uno dei due di colore con una maglietta verde. Corrispondendo all’alert, alle 6 del mattino successivo, lo scorso 3 luglio, le Volanti hanno effettuato il controllo e trattandosi di una segnalazione che faceva seguito a un episodio con possibili armi da fuoco, gli agenti hanno operato con le pistole in pugno. La Questura avrebbe avuto un chiarimento anche con la società rossonera.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Suore, poliziotti e pregiudizi. Concita del Gregorio su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

Il video del controllo a Bakayoko è diventato presto virale

Sul pregiudizio, sull’intolleranza. C’è qualcosa in comune fra la suora che a Napoli ferma le due modelle che si baciano per uno spot, circondate da telecamere – era chiaramente un set -  e i poliziotti di Milano che fermano il giocatore del Milan Bakayoko con le pistole spianate, lo perquisiscono chino sul cofano, non lo riconoscono ma è nero, viaggia su un’auto di lusso, perciò sospettano e intervengono.

Entrambi, la suora e i poliziotti, non hanno percepito la realtà. Però alla suora non importava niente che quelle due donne stessero recitando o facessero sul serio: in ogni caso incarnavano il demonio, “Satana”, ha detto. Molto motivata, diciamo così, dalle sue convinzioni. Motivata a prescindere. I poliziotti invece hanno mostrato di avere molto chiaro cosa convenga e cosa no, pazienza per quello che è giusto, è il loro compito, il loro mestiere. Non appena hanno capito di chi si trattasse ci è scappato prima un improperio, poi lo hanno rilasciato con tante scuse.

Allora ci si domanda: è la procedura standard, non c’è stato eccesso di zelo e di modi? Allora dovevano proseguire la perquisizione come avrebbero fatto con chiunque: è nero, ricco, quindi forse un criminale – giusto? Se non è la procedura, non bastano le scuse. I due episodi nascono da un riflesso automatico nei confronti di chi non è “nella norma”: bianco, eterosessuale. Solo che la suora agisce in nome di Dio e non è munita di pistola. I poliziotti agiscono in nome degli uomini, sono armati per difendere la collettività. Qui il sospetto fondato sull’intolleranza - sull’ignoranza - è inammissibile. “Non in mio nome”, si dice in casi come questo. Non nel nostro nome né in nome di nessun dio. Giù le mani, giù le armi.

Luca Bottura per “la Stampa” il 19 luglio 2022.

Milano, esterno giorno. Tre luglio scorso. Un ragazzone nero è appoggiato di forza alla portiera di una volante: il cofano era evidentemente non fungibile. Mentre l'agente perquisisce il sospetto, una sua collega tiene la pistola a due mani e la punta in direzione dell'uomo che siede in auto, una grossa auto, insieme al giocatore. Anche lui particolarmente pigmentato.

La scena va avanti per alcuni interminabili secondi finché scende in campo un terzo poliziotto, il quale comunica ai colleghi che stanno verosimilmente ballando il flamenco su una deiezione canina - grossa, pure quella - dacché il ragazzone è un giocatore francese dell'Ac Milan e si chiama Tiémoué Bakayoko. Il perquisitore cambia a sua volta colore (schiarisce di colpo), abbassa il braccio che teneva sul collo del presunto reprobo, gli tira un'amichevole pacca sulla schiena. Dissolvenza a nero. Fine. La vicenda, emersa solo ieri grazie a un video non autorizzato pubblicato sui social, propone tre considerazioni.

La prima è che da Serpico a Commissario Lo Gatto è un attimo, a volte, a dimostrazione che Nanni Moretti aveva ragione: non solo ci meritiamo Alberto Sordi, ma probabilmente lo custodiamo all'interno di ogni maschio italiano adulto. Scrivente compreso, ovvio. 

La seconda è la confessione di un pregiudizio. Il mio. Sulla versione della Polizia, ossia che Bakayoko fosse incappato per errore nelle indagini susseguenti a una sparatoria tra nordafricani e senegalesi. Ero pronto a spargere amenità su un conflitto a fuoco misteriosamente tenuto segreto fino all'incidente col vip, quando ho avuto la bella idea di verificare la notizia: il 3 luglio scorso è avvenuta, in Corso Como, una sparatoria tra nordafricani e senegalesi. I giornali ne hanno scritto. Tutto vero.

La terza ha a che fare con un altro pregiudizio, quello comunque rilevato da Amnesty International, non esattamente un circolo di burraco: la profilazione etnica di Bakayoko and friend. Ossia il modo tra il paternalistico e il minaccioso col quale non solo le forze dell'ordine ma noi italiani in genere ci rivolgiamo a chi ci pare "ospite". Un'accusa apparentemente ingenerosa, anche contando che negli Usa staremmo probabilmente piangendo un talento del football silenziato nel sangue. Eppure in quella clip mi è parso di udire distintamente i pensieri dell'agente sfortunato: «Oddio, adesso che cazzo mi succede?».

Se Bakayoko avesse militato, chessò, nella Ternana, sarebbe stato congedato con qualche scusa in meno. Ma tanto è bastato perché l'operazione venisse sospesa all'istante. Voglio dire: ma se il giocatore o il suo amico fossero stati davvero pistoleri? Negli anni Settanta pure il proprietario del Monza, per dire, si faceva fotografare con una Beretta sul tavolo. 

Tra le molte branche di cui non m' intendo (una lista per difetto: politica, giustizia, economia, abbigliamento, relazioni internazionali, piccolo bricolage, termodinamica non lineare) c'è la sociologia. Ma se posso permettermi una postilla all'assunto di Amnesty, non credo si tratti di profilazione etnica. Quantomeno non solo. 

Penso che abbiamo assistito, grazie a un telefono malandrino, a un tipico caso di profilazione sociale. Questo perché Federico Aldrovandi, di cui ieri ricorreva l'uccisione da parte di quattro agenti, Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, tutta la nutrita pattuglia dei Tso finiti male, non erano neri ma attenevano a una categoria precisa: i sincopati. Quelli capitati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nelle mani, soprattutto, di chi non sapeva come trattarli con congruità. O forse non ne aveva alcuna intenzione. Il problema è dunque culturale.

Quella vecchia e inaudita teoria che i cittadini sono uguali e come tali andrebbero trattati. Possibilmente con più perizia. Senza spianare le pistole quando magari non è necessario, senza ritrarle di scatto perché il tizio perquisito è in prestito dal Chelsea. Dal "tu" indiscriminato agli stranieri, agli abusi veri, è tutta discesa. E quando qualcuno formerà a tappeto i controllori, sarà sempre troppo tardi.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 19 luglio 2022.  

A Milano i poliziotti hanno fermato, immobilizzato e perquisito il guidatore di colore di un'auto di lusso. Poi hanno scoperto che era Bakayoko, il centrocampista del Milan, e si sono scusati: si trattava di uno scambio di persona. L'avranno preso per un attaccante dell'Inter.

Monica Serra per “La Stampa” il 19 luglio 2022.  

Una rissa con pistolettate all'alba in corso Como. Un gruppo di senegalesi si scontra con uno di nordafricani, sembrerebbe per questioni legate allo spaccio, nella strada dei locali della movida milanese. Uno di loro, di 27 anni, finisce in ospedale lievemente ferito.

Alcuni testimoni descrivono i giovani fuggiti prima dell'arrivo della polizia e viene diramata una «nota di ricerche».

Tra i coinvolti c'è un africano alto con una maglietta verde che si è allontanato con un altro uomo a bordo di un suv scuro. Meno di un'ora più tardi, alle sei del mattino, un'auto che corrisponde alla descrizione viene fermata a cinquecento metri di distanza, in via Giuseppe Ferrari. Il conducente viene fatto scendere e perquisito dagli agenti della Questura: alto, maglietta verde, cappello alla pescatora. Tutto coincide. Ma quell'uomo non è il pusher che stanno cercando: è il centrocampista francese del Milan, Tiémoué Bakayoko. 

Un altro automobilista riprende la scena col cellulare e il video, pubblicato solo ieri, quindici giorni dopo i fatti che risalgono al 3 luglio, presto diventa virale portandosi dietro molte polemiche.

Le parole più pesanti le scrive su Twitter Amnesty International: «Le immagini del fermo di Bakayoko fanno pensare a una profilazione etnica. Una pratica discriminatoria che su una persona non famosa avrebbe potuto avere conseguenze gravi». 

Nel filmato, rimbalzato sul web, si vede il calciatore ventisettenne di spalle con le mani sulla volante. Un agente lo sta perquisendo da testa a piedi mentre un'altra poliziotta punta la pistola contro l'uomo che viaggia con lui, ancora sul sedile passeggero. Dopo aver verificato l'identità del giocatore, un terzo agente si avvicina e sussurra qualcosa all'orecchio del collega. Che, col volto incredulo e dispiaciuto, interrompe il controllo.

Bakayoko non protesta, non lo fa neanche l'Ac Milan, che viene avvisata dalla Questura. Ma quelle immagini scatenano il dibattito con commenti di ogni tipo.

C'è chi paragona il calciatore a George Floyd, ucciso dalla polizia il 25 maggio 2020 a Minneapolis. Chi parla di razzismo, chi invece dice che alla fine è stato trattato con «favore» solo perché «ricco e famoso». Chi aggiunge: «Se hai la pelle chiara certe cose non ti succedono». 

C'è anche chi sdrammatizza e prova a scherzarci su: «Tutta colpa dei poliziotti interisti», o ancora «è vero che non hai convinto in questa stagione ma Maldini ha un po' esagerato a disfarsi di te facendoti arrestare». Anche per i radicali: «Bakayoko è stato vittima di profilazione razziale da parte della polizia, con pistola puntata e perquisizione veemente. Sembra l'America più profonda, invece è Milano».

In difesa degli agenti interviene il loro sindacato, il Siulp: «Operazione meticolosa che ha coinvolto poliziotti giovanissimi ma preparati: come da regolamento avevano le armi in pugno e tenevano sotto tiro i due uomini fermati». 

La Questura chiarisce in una nota: dopo la rissa e la sparatoria, «il contesto operativo del controllo giustificava l'adozione delle più elevate misure di sicurezza, anche in funzione di autotutela, e si è svolto con modalità assolutamente coerenti rispetto al tipo di allarme in atto. Identificata la persona e chiarita la sua estraneità, il servizio è ripreso regolarmente, senza alcun tipo di rilievo da parte dell'interessato». Ma la spiegazione non spegne le polemiche.

Bakayoko perquisito: gli sproloqui antirazzisti che infangano la polizia. Giannino della Frattina il 19 Luglio 2022 su Il Giornale.

Un normale controllo di polizia eseguito dagli agenti rispettando rigorosamente tutti i crismi del protocollo, diventa l'occasione per metterli in croce solo perché il perquisito è di colore. Ed essendo personaggio discretamente noto, il tutto diventa un caso mediatico e un'occasione per agitare i fantasmi del razzismo che continuerebbero ad avvelenare la nostra società. In realtà solo l'ennesima detestabile montatura, come dimostra il semplice racconto dei fatti nei quali è stato coinvolto Tiemoué Bakayoko, il giocatore del Milan fermato lo scorso 3 luglio in una zona classica della movida milanese. Ma ieri il video girato da un automobilista è sbarcato su internet, diventando immediatamente virale e ovviamente occasione delle più ingiustificabili strumentalizzazioni. Nelle immagini si vede Bakayoko appoggiato alla «volante», mentre un poliziotto lo perquisisce e una collega tiene sotto controllo, impugnando la pistola, l'altro passeggero. Tutto documentato dal video e tutto assolutamente svolto senza nessun eccesso e secondo le più normali procedure, fino a quando gli agenti lo riconoscono e rendendosi conto dello scambio di persona, fanno prendere all'operazione tutt'altra piega. Poco, ma abbastanza per scatenare la polemica sui social e consentire ad Amnesty Italia di sproloquiare, dicendo che «le immagini del fermo di Bakayoko fanno pensare a una profilazione etnica. Una pratica discriminatoria che su una persona non famosa avrebbe potuto avere conseguenze gravi». Ma allo stesso tempo accusando i poliziotti di aver avuto un atteggiamento eccessivamente remissivo una volta compreso l'errore di persona. Come a dire che in ogni caso il loro comportamento merita censura. Una ricostruzione ancor più ingiustificata e soprattutto ingiustificabile dopo aver letto la nota della Questura di Milano che spiega che l'intervento della pattuglia era stato reso necessario dopo che, nella stessa zona, erano stati segnalati dei colpi di arma da fuoco. Di lì l'allerta alle «volanti» e l'inizio della caccia a due persone descritte dai testimoni come di etnia centrafricana, una delle quali vestita con maglietta verde e a bordo di un Suv. Proprio quello che si sono trovati di fronte gli agenti alle 5,45 in zona Porta Garibaldi. Dal momento che la descrizione corrispondeva perfettamente (oltre a guidare un Suv, Bakayoko indossava proprio una maglietta verde), la pattuglia è intervenuta come da prassi, compresa l'estrazione delle armi dalle fondine di fronte ai possibili sospettati. «Con riferimento al video diffuso - specifica la Questura in una nota ufficiale - e relativo a un controllo effettuato da un equipaggio dell'Upgsp a carico del giocatore del Milan Bakayoko, si rappresenta che lo stesso, occorso in un contesto operativo che giustificava l'adozione delle più elevate misure di sicurezza anche in funzione di autotutela, si è svolto con modalità assolutamente coerenti rispetto al tipo di allarme in atto. Identificata la persona e chiarita la sua estraneità ai fatti per cui si procedeva, il servizio è ripreso regolarmente senza alcun tipo di rilievo da parte dell'interessato». Abbastanza per coprire di ridicolo i professionisti dell'allarme razzismo, gente che lucra ed è ancor più odiosa quando a essere tirati in ballo sono i poliziotti. Gente che per pochi euro rischia la vita per difendere la nostra e che non sembra davvero giusto vedere affiancata a chi nel 2020 a Minneapolis uccise George Floyd. E colpisce che a dire queste cose non sia stato anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala che ieri se l'è cavata con un pilatesco: «Ho visto il video, ma non ho parlato con il questore quindi non saprei commentarlo e non vorrei dire cose improprie. Sentirò il questore». Con Paolo Magrone, segretario del Siulp Milano che «si congratula» per «la meticolosità dell'operazione che ha visto coinvolti poliziotti giovanissimi, ma preparati e ha mostrato ancora una volta» quanto «sia importante il fattore umano per la sorveglianza del territorio. Ci ricordiamo ancora di quando, tempo fa, nei pressi della stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni, una pattuglia si scontrò con un pericoloso terrorista, poi rimasto ucciso. Allora vennero chiamati eroi, oggi sono diventati dei razzisti. Per di più sprovveduti».

Da repubblica.it il 20 luglio 2022.  

"Le autorità milanesi hanno dichiarato che l'arresto è stato un errore. L'errore è umano, non ho alcun problema con questa cosa, ma il modo e la metodologia utilizzati sono un problema, per me". Tiemoué Bakayoko torna sul fermo di polizia di qualche giorno fa, la pistola puntata verso la sua macchina, le polemiche per il video virale.

Il centrocampista del Milan ha affidato i propri pensieri ai social network, attraverso una serie di Instagram stories in cui ha spiegato l'accaduto in francese: "Penso che si sia andati oltre il dovuto. Perché non mi hanno fatto un controllo adeguato chiedendomi i documenti del veicolo, semplicemente comunicando? Nel video che è stato pubblicato sui social network, non vediamo tutto. Questa è la parte più tranquilla di tutto ciò che è successo. Ho avuto una pistola a un metro di distanza da me, sul lato del finestrino del passeggero. Hanno chiaramente messo le nostre vite in pericolo.

Qualunque siano le ragioni che li hanno spinti a fare questo, è un errore sapere che non si ha alcuna certezza circa i sospetti arrestati. Le conseguenze sarebbero potute essere molto più gravi se non avessi mantenuto la calma, se non avessi avuto la possibilità di fare il lavoro che faccio ed essere riconosciuto in tempo. Quali sarebbero state le mosse successive? Mi avrebbero portato alla stazione? Dà luogo a un sacco di domande. Non è accettabile mettere in pericolo vite in questo modo".

Bakayoko contro la polizia: "Ho rischiato la vita, cosa non hanno mostrato nel video". Libero Quotidiano il 20 luglio 2022

Il caso Bakayoko è tutt'altro che chiuso. Pochi giorni fa Tiemoué Bakayoko, centrocampista francese di origini ivoriane del Milan, è stato fermato dalla polizia in centro a Milano per uno "scambio di persona". Gli agenti lo hanno bloccato contro la volante, tenendogli le mani dietro la schiena, mentre una collega puntava la pistola su un passeggero dell'auto su cui viaggiava il calciatore. Una volta svelata la sua identità, gli agenti gli hanno chiesto scusa, addirittura con una pacca sulla spalla, e poi si sono complimentati per il suo comportamento "da cittadino modello", sottolineandone la calma e pacatezza in una situazione estrema. 

Ora però Baka, in prestito al Milan dal Chelsea (e secondo radiomercato vicino al ritorno in Francia, al Marsiglia), si sfoga sottolineando che no, non è andato tutto liscio. "Errare è umano, non ho problemi a dire questo – spiega il giocatore ai suoi follower sui social -. Il problema sono i modi e la metodologia e penso che si sia andato oltre il dovuto". La Questura di Milano aveva spiegato a Fanpage.it che Bakayoko era stato fermato in quanto lui e l'altra persona a bordo combaciavano con l'identikit di due responsabili di una sparatoria in Corso Como, due persone di origine centro-africana a bordo di un Suv. "Perché non mi hanno semplicemente chiesto il nome e i documenti? – domanda ora Bakayoko -. Nel video che è stato postato sui social non si vede tutto. Questa è la parte più tranquilla di tutto ciò che sarebbe potuto accadere. Mi sono ritrovato con la pistola a un metro da me, sul finestrino lato passeggero. Hanno messo chiaramente le nostre vite in pericolo".

"Qualunque siano le ragioni che li hanno spinti a farlo - prosegue riguardo agli agenti -, è un errore sapere di non avere certezze sui sospetti arrestati. Ci potevano essere conseguenze molto più gravi se non avessi mantenuto la calma, se non avessi avuto la possibilità di fare il lavoro che faccio ed essere riconosciuto in tempo".

 Bakayoko dopo la perquisizione della polizia: «Se non fossi stato un calciatore?». Il Domani il 20 luglio 2022

Tiémoué Bakayoko, il giocatore di Serie A del Milan, affida i suoi pensieri alle stories Instragram e racconta le vicende dietro al video diventato virale qualche giorno fa in cui viene perquisito dalla polizia: «Se non avessi avuto la possibilità di fare il lavoro che faccio ed essere riconosciuto in tempo, quali sarebbero state le mosse successive? Mi avrebbero portato alla stazione?»

«Le conseguenze sarebbero potute essere molto più gravi se non avessi mantenuto la calma, se non avessi avuto la possibilità di fare il lavoro che faccio ed essere riconosciuto in tempo», sono le parole di Tiemoué Bakayoko centrocampista del Milan, fermato qualche giorno fa dalla polizia che gli ha puntato contro una pistola durante una perquisizione avvenuta per uno scambio di persona.

Il calciatore ha affidato il suo sfogo ai social network, attraverso delle Instragram stories in cui ha spiegato l’accaduto in francese: «Penso che si sia andati oltre il dovuto. Perché non mi hanno fatto un controllo adeguato chiedendomi i documenti del veicolo, semplicemente comunicando?».

LA RISPOSTA DELLE AUTORITÀ

In un primo momento la Questura ha minimizzato sull’accaduto: «Sono commenti fuori luogo, il controllo è scattato perché Bakayoko e l’altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c’entrava».

Per le autorità milanesi l'arresto è stato un errore, ma come precisa Bakayoko il problema sta nel modo e la metodologia utilizzati.

LA VICENDA

Le immagini del fermo, riprese con lo smartphone da un cittadino che si trovava sulla scena, mostrano una poliziotta puntare la pistola contro una persona seduta all’interno di un suv da dove è stato fatto scendere il calciatore, mentre un suo collega stava effettuando un’attenta perquisizione. Ma dopo poco meno di un minuto un altro agente fa notare al collega che il ragazzo che stava perquisendo non era un criminale ma Bakayoko, il giocatore del Milan, che viene così rilasciato dopo diverse scuse.

Il video risale al 3 luglio, ma è diventato virale pochi giorni fa. «Nel video che è stato pubblicato sui social network, non vediamo tutto. Questa è la parte più tranquilla di tutto ciò che è successo. Ho avuto una pistola a un metro di distanza da me, sul lato del finestrino del passeggero. Hanno chiaramente messo le nostre vite in pericolo» così conclude Bakayoko nel suo sfogo sui social.

 

La paura dei profughi ferma i giovani padani. La prima pagina della «Gazzetta» del 17 luglio 1999. Giovinazzo, choc ai campionati di pattinaggio. Una «lettera aperta» scritta da Oscar Iarussi, il 17 luglio 1999, invita a riflettere su un incredibile fatto di cronaca. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Luglio 2022.

Una «lettera aperta» nella omonima rubrica pubblicata su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 17 luglio 1999 getta luce e invita a riflettere su un fatto di cronaca che ha dell’incredibile. Si svolgono in quei giorni a Giovinazzo i campionati italiani di pattinaggio: circa 120 atleti, quasi tutti del Nordest, hanno disertato la manifestazione. Il motivo? «Il palazzetto di Giovinazzo sarebbe invaso dai profughi kosovari, neanche fossero il flagello di fine millennio e non gente in cerca d’aiuto».

La lettera è di Oscar Iarussi: «Caro pattinatore lombardo-veneto, lei oggi forse sarebbe salito sul podio pugliese di Giovinazzo, dove si concludono i campionati italiani di pattinaggio artistico. Gara che lei, amico padano, ha disertato alla pari di 119 giovani atleti suoi conterranei, evadendo l’onere di un viaggio al Sud con un certificato medico che a mala pena nasconde, e di fatto tradisce, il vero motivo della sua assenza: razzismo. Già, come questo giornale – e non molti altri – ha ben messo in rilievo, l’episodio sconcertante prende le mosse dalla paura dei Kosovari che, nonostante la fine del conflitto balcanico, “infesterebbe ancora” le nostre contrade, non esclusa la dolce ma dinamica Giovinazzo, cento chiese e un glorioso liceo classico, patria dell’hockey e del pattinaggio. Gli atleti responsabili della defezione, tutti tra i 13 e i 26 anni, parteciperanno tranquillamente ai prossimi campionati, penalizzati – male che vada – da una multa di cinquantamila lire…Che cosa saranno mai cinquanta, persino centomila lire, se servono ad acquistare la tranquillità di non imbattersi nel pericolo dell’“Altro”? [...] Tuttavia, caro amico del Nord, vogliamo dirle grazie per questa sua assenza da Giovinazzo, lei ha palesato ancora una volta che il razzismo non è quel sentimento lontano nel tempo e nello spazio, accreditato su libri di scuola fermi alle intolleranze tra neri e bianchi nell’America di Martin Luther King. Grazie perché lei ci ha mostrato la quintessenza del razzismo: silenziosa, ottusa, immotivata, finanche surreale eppure realistica, concreta, veritiera [...] Altrove, nei vicini Balcani, il sangue e il suolo urlano ancora tanto forte da legittimare la bestia che nell’uomo divora l’umano. Ma anche da noi, ai semafori presidiati dai marocchini, sulle spiagge dei vu’cumprà o su una pista di pattinaggio la “tolleranza” si mostra come una corda logora, quando non spezzata, che a stento ci lega alla speranza della convivenza». 

Accadeva questo in Puglia, nella calda estate di ventitré anni fa, quasi alle soglie del nuovo millennio.

"Scavalco per protesta i tornelli della metro. Perché i neri sì e io in giacca e cravatta no?" Luigi Mascheroni il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

A Milano la mancanza di senso civico dilaga. E l'Atm rimane a guardare.  

Il lettore scuserà il racconto in prima persona. Ma a volte è dai casi individuali che possono nascere piccole battaglie civili, anzi di disobbedienza civile. Quale la Free turnstile - «tornello libero» - che intendo lanciare a partire da oggi.

Tutto, però, è accaduto ieri.

Milano, giugno, un normale giorno settimanale, anzi quasi sera: ore 20.30, circa. Esco dal Giornale, la cui sede è - nemesi della storia - Via Gaetano Negri, toponimo che a breve sarà purtroppo trasformato in via Gaetano Neri. Scendo in metropolitana, fermata Cordusio. Non ho un biglietto nuovo, fa caldo, sono in ritardo su un altro appuntamento, l'edicola è chiusa, ci sono due macchinette self service. Facendo appello a tutta la mia pazienza e al mio notoriamente esemplare senso civico, mi metto in coda, aspettando il mio turno. Poi, improvvisamente, mi accorgo di due persone di colore che con assoluta tranquillità, parlottando, davanti al gabbiotto dell'Atm, dove ci sono due agenti di stazione, saltano i tornelli. E passeggiano placidamente verso le scale che portano ai binari.

A capo.

Prendo fiato. Con un autocontrollo di cui vado fiero, con la stessa loro tranquillità, abbandono la coda alla macchinetta, mi avvicino al gabbiotto, batto la mano sul vetro, indico i due che stanno già scendendo le scale, e urlo, rischiando la legge Mancino: «I due neri hanno saltato i tornelli. Salto anch'io!». Cosa che faccio. Non senza una certa eleganza, nonostante siano trascorsi ormai molti anni da quando portavo gloria e medaglie alla squadra di atletica del liceo, specialità corsa a ostacoli.

Comunque. Nell'immediato penso a una reazione dei due agenti, fra i compiti dei quali c'è anche - leggo dal regolamento Atm - la «Verifica del rispetto di tutte le norme di comportamento dei clienti» e la «Verifica dei titoli di viaggio e gestione delle eventuali infrazioni». Invece nulla. Non escono dal gabbiotto. Non verificano i biglietti né ai due neri né a me. Non multano nessuno.

Ipotesi. Gli agenti di stazione hanno un ordine, non scritto, di non intervenire nei confronti di soggetti potenzialmente pericolosi: o per non rischiare aggressioni o per non scatenare reazioni incontrollate. Oppure: in questo momento, grazie alle telecamere, l'Atm è già sulle tracce dei trasgressori - loro e me - e saremo presto tutti debitamente sanzionati (più facile che capiterà solo a me, che mi sto autodenunciando). Oppure la cosa è talmente diffusa, e accettata, da non costituire un problema per l'azienda di trasporti, e per il Comune di Milano. Oppure ancora, l'infrazione è accettata con fatalismo per alcune categorie di persone, e io rappresento solo una curiosa eccezione.

Resta il fatto che, da frequentatore non abituale ma neppure occasionale della rete metropolitana, non ho mai visto, a parte me stesso, signori cinquantenni in giacca e cravatta saltare i tornelli, o signore in sandali. Ma solo ragazzi, di colore o latinos o rom (si può scrivere «latinos»? E «rom»?). Sì, dài: anche qualche italiano...

Ed ecco la mia personalissima forma di protesta per sensibilizzare l'Atm e il Comune di Milano sui temi dei diritti civili e del razzismo. Per combattere una sgradevolissima forma di discriminazione - solo loro possono saltare i tornelli senza conseguenze: perché io no? - da stasera, ogni volta che dovrò servirmi della rete metropolitana, salterò i tornelli. Io non voglio e non posso essere considerato diverso da loro.

Belluno, «Un marocchino non merita l’esercito»: condannato il sergente degli Alpini. La Cassazione: insulti razzisti all’ufficiale d’origine maghrebina. Il reato è diffamazione aggravata per le finalità di discriminazione, di odio etnico, nazionale e razziale. Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022.

Karim Akalay Bensellam, padre marocchino, fin da bambino ha avuto un sogno: entrare nell’Esercito italiano. S’è impegnato con tutto se stesso, ha frequentato l’accademia di Modena e, dopo la scuola d’addestramento a Torino, è stato finalmente destinato a Belluno. E ha fatto carriera: è diventato il primo ufficiale degli Alpini di origini maghrebine. Al Settimo Reggimento era il capitano Bensellam, al comando di 120 uomini. Poi, maggiore ad Aosta. E può vantare anche varie missioni all’estero, soprattutto in Afghanistan dove veniva utilizzato come uomo di contatto con la popolazione locale.

«Ruba il posto agli italiani»

Sembra una bella storia, di resilienza e integrazione. Ma a quanto pare c’è chi non ha mai sopportato che a uno come lui, con le sue origini, fosse dato il diritto di indossare la divisa. Perché così «rubava il posto agli italiani». La Cassazione ha condannato un sottoufficiale di stanza a Belluno, a un anno e tre mesi di reclusione militare per il reato di diffamazione continuata, con l’aggravante «dell’avere commesso il fatto per finalità di discriminazione, di odio etnico, nazionale e razziale». Trova così conferma la sentenza della Corte militare d’Appello di Roma, che nel gennaio 2021 aveva stabilito la stessa condanna nei confronti di Carmelo Lo Manto, 47enne sergente maggiore originario di Canicattì (Agrigento) ed effettivo al Settimo Reggimento Alpini. L’unica concessione fatta dalla Suprema Corte, riguarda la possibilità che ora i giudici possano rivalutare l’opportunità di concedergli la sospensione condizionale della pena.

Non correva buon sangue

I fatti risalgono al periodo che va dalla fine del 2014 alla prima metà del 2017. Ma tra Lo Manto e il suo superiore non correva buon sangue già da parecchio tempo. C’erano state delle zuffe e pure Bensellam era finito sotto processo con l’accusa di aver aggredito il sergente: la vicenda si era chiusa con un proscioglimento per «particolare tenuità del fatto». Eppure era stata proprio quella prima sentenza a innescare l’indagine per razzismo. Perché alcuni colleghi avevano rivelato gli insulti che Lo Manto era solito rivolgere al capitano, ovviamente stando ben attento che lui non lo sentisse.

Le frasi

Stando all’accusa, «durante le cerimonie dell’alzabandiera e durante gli addestramenti, alla presenza di numerosi militari» il sergente aveva «offeso la reputazione del capitano Bensellam» con frasi come: «Sto marocchino di m. gliela farò pagare in un modo o nell’altro», «Sto marocchino non è degno di stare nell’esercito italiano», «Ha rubato un posto in Accademia a un italiano», «È un meschino»... Il sergente maggiore ha sempre negato ogni responsabilità, sostenendo di avere le prove della propria innocenza. Ma contro di lui c’erano quattro testimonianze, sufficienti, secondo la Cassazione, a dimostrarne la colpevolezza.

Conduttrice tv di Vicenza irride bimbo tifoso del Cosenza: "Tanto verrete qui a cercare lavoro". La Repubblica il 29 Maggio 2022.

Bufera social su Sara Pinna, conduttrice della trasmissione "Terzo tempo - diretta biancorossa", trasmesso dall'emittente veneta Tva. Tutto nasce da una risposta data in diretta ad un bambino, tifoso del Cosenza, al termine della partita dei playout di serie B che ha visto i calabresi battere per 2-0 il Vicenza, decretando la retrocessione dei veneti in serie C. L'inviato di Tva era fuori dallo stadio "Marulla" di Cosenza per raccontare gli umori dei tifosi. Davanti al suo microfono, un piccolo tifoso cosentino - incitato dal padre - ha detto con orgoglio: "Lupi si nasce". A questo punto, dallo studio Sara Pinna ha replicato: "Ma gatti si diventa, tanto verrete tutti in pianura a cercare lavoro". Quando il video ha iniziato a circolare, il padre del bimbo ha scritto un post sui social, rivolgendosi alla conduttrice accusandola di essere vittima di "non pochi pregiudizi": "Lei ha dimostrato di essere anzitutto poco sportiva", ha scritto.

La conduttrice veneta al bambino tifoso del Cosenza: «Prima o poi verrete tutti qui a chiedere lavoro». Il padre del piccolo su Fb: «Ignorante». Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2022.

Le parole durante il collegamento post-partita.

Poco dopo la partita che ha determinato la retrocessione del Vicenza e la salvezza del Cosenza durante un collegamento della televisione locale veneta Tva, l'inviato Andrea Ceroni ha lasciato il microfono ad un piccolo tifoso calabrese, Domenico: «Lupi si nasce», ha detto il bambino facendo riferimento all’animale simbolo della squadra. Piccata la risposta della conduttrice Sara Pinna: «E gatti si diventa. Non ti preoccupare che venite anche voi a cercare qui lavoro».

L’uscita dal tenore razzista della conduttrice ha provocato reazioni sui social e la risposta polemica del papà del piccolo tifoso. Su Facebook il post di fuoco dal titolo: Lettera di un padre a una conduttrice razzista. Così recita il post: « Alla gentilissima Sara Pinna Sono il papà di Domenico, il bambino che nel post partita Cosenza-Vicenza esultando per la vittoria della sua squadra ha detto “lupi si nasce” sotto consiglio del papà e con non poco orgoglio. Con la sua risposta, cito Sue parole “eh ma gatti si diventa sai? Intanto prima o poi venite in pianura a cercare lavoro” Lei ha dimostrato di essere anzitutto poco sportiva oltre che ignorante e con non pochi pregiudizi.

Prima di parlare è necessario pensare bene a cosa si dice - prosegue il lungo post- perché lei non sa cara Sara Pinna, che Domenico è figlio di due imprenditori calabresi che amano la propria terra e che certamente con non poca fatica dimostrano quotidianamente di voler contribuire per migliorarla e supportarla nel pieno delle proprie possibilità. Lei con la sua qualifica da Giornalista dovrebbe ben sapere e dimostrare a coloro i quali si rivolge cosa sono etica e morale. Due qualità a lei sconosciute a quanto pare. In ogni caso, qualora nella propria terra mancasse lavoro non ci sarebbe comunque da vergognarsi a cercarlo altrove. Dovrebbe saperlo, perché la storia lo insegna se lei avesse avuto modo di studiarla, che la Padania deve tanto ai meridionali e a molti di loro deve il suo sviluppo dal punto di vista lavorativo.

Poi la chiusura che è un segnale di pace: « La invito, senza rancore, a visitare la Calabria così che possa anche lei capire che terra meravigliosa è e quanta bella gente la abita, noi a differenza Sua, detestiamo i pregiudizi e il razzismo proprio non ci appartiene. Nascere lupi vuol dire amare i colori della propria squadra e supportarla in tutto e per tutto. Nessuno invece nasce ignorante, alcuni ahimè decidono di diventarlo. Vorrei ricredermi e sperare che non sia il suo caso. Il papà di Domenico».

Da Corriere.it il 30 maggio 2022.

L’uscita dal tenore razzista della conduttrice ha provocato reazioni sui social e la risposta polemica del papà del piccolo tifoso. Su Facebook il post di fuoco dal titolo: Lettera di un padre a una conduttrice razzista. Così recita il post: «Alla gentilissima Sara Pinna  Sono il papà di Domenico, il bambino che nel post partita Cosenza-Vicenza esultando per la vittoria della sua squadra ha detto “lupi si nasce” sotto consiglio del papà e con non poco orgoglio. Con la sua risposta, cito Sue parole “eh ma gatti si diventa sai? Intanto prima o poi venite in pianura a cercare lavoro” Lei ha dimostrato di essere anzitutto poco sportiva oltre che ignorante e con non pochi pregiudizi. 

Prima di parlare è necessario pensare bene a cosa si dice - prosegue il lungo post- perché lei non sa cara Sara Pinna, che Domenico è figlio di due imprenditori calabresi che amano la propria terra e che certamente con non poca fatica dimostrano quotidianamente di voler contribuire per migliorarla e supportarla nel pieno delle proprie possibilità.

Lei con la sua qualifica da Giornalista dovrebbe ben sapere e dimostrare a coloro i quali si rivolge cosa sono etica e morale. Due qualità a lei sconosciute a quanto pare. In ogni caso, qualora nella propria terra mancasse lavoro non ci sarebbe comunque da vergognarsi a cercarlo altrove. Dovrebbe saperlo, perché la storia lo insegna se lei avesse avuto modo di studiarla, che la Padania deve tanto ai meridionali e a molti di loro deve il suo sviluppo dal punto di vista lavorativo. 

Poi la chiusura che è un segnale di pace: « La invito, senza rancore, a visitare la Calabria così che possa anche lei capire che terra meravigliosa è e quanta bella gente la abita, noi a differenza Sua, detestiamo i pregiudizi e il razzismo proprio non ci appartiene. Nascere lupi vuol dire amare i colori della propria squadra e supportarla in tutto e per tutto. Nessuno invece nasce ignorante, alcuni ahimè decidono di diventarlo. Vorrei ricredermi e sperare che non sia il suo caso. Il papà di Domenico».

Renato Piva per corrieredelveneto.corriere.it il 30 maggio 2022.

«Sono molto serena, perché so come ho agito...». La bufera soffia ormai da 48 ore. Sara Pinna, conduttrice per TvA Vicenza di «Terzo Tempo», trasmissione dedicata al Lanerossi e ai suoi tifosi, è accusata di razzismo o, meglio, di antimeridionalismo. Al cuore della polemica c’è lo scambio in diretta con un piccolo tifoso del Cosenza e il suo papà del 20 maggio scorso, in coda alla partita che ha sancito la retrocessione in C del Vicenza, sconfitto dal Cosenza. 

«Lupi si nasce», aveva riversato il bambino nel microfono di Andrea Ceroni, inviato di Tva allo stadio Marulla. Da studio, Pinna aveva replicato: «E gatti si diventa. Non ti preoccupare che venite anche voi in Pianura a cercare qualche lavoro». La polemica, in sordina per qualche giorno, è divampata con la pubblicazione, sullo spazio Facebook del gruppo meridionalista «Movimento 24 Agosto», della lettera firmata dal padre del bambino, in cui Pinna viene accusata di nutrire «l’antico pregiudizio» contro la Calabria e tutto il Sud. Il video della diretta pos- partita è diventato virale e la conduttrice è finita in croce, via social. Ecco la sua versione di quanto accaduto.

Sara ha capito di aver sbagliato?

«Sì, nell’istante stesso in cui facevo quell’affermazione avevo capito che era fuori luogo». 

Ha provato a ricontattare il padre e il bambino dello scambio in diretta?

«La lettera l’ho letta il giorno seguente, il 21 maggio. E il 21 maggio ho contattato il genitore, mi sono fatta dare il suo telefono e l’ho chiamato: telefonata di cinque minuti e 11 secondi, che ho registrato. Ci tenevo particolarmente a scusarmi con lui e con bambino.

Nella telefonata ho detto: “Sono mortificata per quelle parole, che non sono state appropriate. Per la verità andrebbe capito il senso in cui volevo dirle, ma qui è secondario: quel che mi interessa è sapere come sta il bambino”. Questo per quanto mi renda conto benissimo di come, se le cose non vengono manipolate dagli adulti, i bambini siano sereni...». 

Com’è finita tra di voi? Che cosa vi siete detti?

«Il padre di Domenico mi ha risposto: “Non si preoccupi, signora. Sono anch’io un po’ choccato... Mi hanno un po’ obbligato a scrivere questa cosa. Piuttosto, sono mortificato per i fiumi di parole che sta ricevendo lei”. Mi ha comunque assicurato che il bambino era sereno e, quanto a lui, ha capito che non c’erano cattive intenzioni da parte mia». 

Non è un automatismo ma il suo cognome - Pinna - rimanda chiaramente alla Sardegna: un motivo in più per escludere un sentimento antimeridionale dietro le sua parole...

«Sono sarda e questo cognome, in realtà, riporta anche alla motivazione della frase infelice che mi è uscita. Mio nonno paterno è di Taranto ed è venuto qui a fare il ferroviere... Noi, famiglia sarda, siamo venuti in Veneto per lavorare e ho cambiato tifo, diventando tifosa del Vicenza piuttosto che del Cagliari. Era questo il senso...» 

Ha accennato ad offese: il «solito» muro di insulti? Il social l’ha travolta di reazioni negative?

“Enormemente, a mio avviso più del dovuto... Più del peso di quanto ho asserito». 

Sono arrivate anche molte minacce: si tutelerà in sede legale?

«Sicuramente».

Da un gruppo Facebook molto partecipato a Cosenza, dopo le sue scuse, c’è stata la riappacificazione coi tifosi e le sono arrivate parole di stima. Se visiterà la città le offriranno un gelato e le faranno da Ciceroni...

«Sì, assolutamente sì. Tutto avvenuto il 21 maggio. Ci tengo a sottolineare questa cosa, perché tutto quello che è stato fomentato dopo è derivato da persone che non sanno come ho agito in precedenza». 

Anche il papà del piccolo Domenico l’ha invitata in Calabria: ci andrà?

«Ci andrò sicuramente».

Al di là della frase infelice, che ha ammesso, perché una polemica così accesa e perché a distanza di tempo? Si è fatta queste domande? C’è la politica di mezzo?

«Sicuramente politica, cento per cento. Poi il bisogno di visibilità di alcune persone, quindi anche un disagio umano per un divario che, evidentemente, viene vissuto in maniera molto forte tra Nord e Sud e sicuramente di più al Sud. Per questo ogni cosa, anche minima che tocchi marginalmente questi aspetti, viene amplificata per rivendicare quelli che sono dei sentimenti che posso capire e posso accettare. Certo, se devono massacrare una persona per questo, non mi pare corretto». 

Ultima cosa: l’hanno bacchettata anche in quanto giornalista. Lei è tale?

«No, non sono giornalista. Conduco programmi televisivi da vent’anni ma quella è una strada che non ho mai voluto percorrere». 

Nota: Videomedia, l’editore di TvA Vicenza, ha immediatamente confermato la fiducia in Sara Pinna: «Le parole finite nell’occhio del ciclone sono state pronunciate durante il “Terzo tempo” di una partita meritatamente vinta sul campo dal Cosenza - la nota dell’azienda - a cui vanno i complimenti e gli auguri per un altro campionato ricco di soddisfazioni e successi da tutto il team di Diretta Biancorossa, trasmissione sportiva di punta di TvA Vicenza, regina degli ascolti e punto di riferimento per il tifo biancorosso. Dopo un confronto interno, i vertici di Videomedia hanno accolto le scuse e hanno confermato la fiducia nella professionalità di Sara Pinna».

Sara Pinna: "Venite qui a trovar lavoro". Il dramma dopo lo scivolone: "Adesso i miei figli...", com'è ridotta. Hoara Borselli su Libero Quotidiano l'01 giugno 2022

Tanto si sta dicendo di Sara Pinna, la presentatrice dell'emittente locale Tva Vicenza che durante la trasmissione "Terzo Tempo - Diretta Biancorossa", dopo la sconfitta del Vicenza (retrocesso) nello spareggio contro il Cosenza, si è lasciata andare a una battuta rivolta a untifoso cosentino, Michele, che aveva in braccio il figlio Domenico di sette anni. «Lupi si nasce» ha detto il piccolo Domenico, «...e gatti si diventa» ha risposto Sara. Aggiungendo: «Non ti preoccupare, che venite anche voi in pianura acercare qualche lavoro». Sui social si è scatenato il consueto delirio, con lei accusata di razzismo.

Sei in mezzo a una gogna mediatica. Come ti senti?

«So di avere agito in maniera giusta. Mi sono accorta subito di avere usato parole sbagliate. Il 21 maggio, prima che si scatenasse il putiferio mediatico, ho presentato le mie scuse ai diretti interessati».

Raccontami com' è andata.

«Io già mentre pronunciavo quelle parole mi sono accorta che la frase era infelice, però ho proseguito perché il Vicenza era retrocesso e io ho pensato che il mio pubblico non si indignasse, anche perchè sanno che sono sarda e che quindi sono io la prima ad essere una ragazza del Sud che si trova al nord per lavorare. La battuta era riferita anche a me stessa: "venite anche voi a lavorare in Veneto potete diventare Mangiagatti, come successo anche a me": questo volevo dire. In un clima e con uno spirito scherzoso. Poi è accaduto che dal giorno dopo mi sono cominciati ad arrivare dei messaggi privati da parte di alcuni cosentini che si erano sentiti offesi, e quindi ho pensato che fosse immediatamente doveroso scusarmi. E così ho fatto: ho chiesto scusa a questi tifosi che si erano scagliati anche con parole non proprio carine nei miei confronti, e loro mi hanno ringraziato pubblicamente per il coraggio che ho avuto nel fare un passo indietro rispetto a quello che avevo detto».

Tu precisamente cosa volevi dire, quando hai pronunciato quella frase?

«In realtà io stavo pensando alla mia esperienza personale, mio padre, militare sardo venuto in Veneto per cercare lavoro, io tifavo il Cagliari, e poi sono diventata tifosa del Vicenza. Quindi se un bambino mi dice: "lupi si nasce", io rispondo: gatti si diventa. E ho aggiunto quella frasetta incriminata sul lavoro al Nord».

Hai letto il post molto duro che ha scritto il padre del bambino? Aveva un titolo assai aspro: «Lettera di un padre ad una conduttrice razzista». Il padre del ragazzo afferma che l'etica e la morale sono due valori a te totalmente sconosciuti.

«Io ho cercato immediatamente di contattarlo. Ci sono riuscita tramite Messenger e gli ho chiesto d parlargli. Ci siamo sentiti al telefono proprio il 21 maggio. Mi sono scusata e ho ribadito che non avevo in alcun modo intenzione di urtare la sensibilità di suo figlio o di offenderlo in qualsiasi modo. Il padre mi ha ribadito frasi simpatiche: tipo, ma si figuri, stia tranquilla, anzi ci dispiace, sono mortificato molto per le offese che sta ricevendo. Noi abbiamo delle case vacanza giù al sud quindi si figuri se abbiamo la necessità di venire a cercare lavoro a Vicenza... Ho ribadito al padre che non ero preoccupata per le offese che ricevevo ma che volevo sapere come stesse il ragazzo e se in qualche modo fosse rimasto provato da ciò che gli avevo detto. Anch' io sono mamma di tre figli di 9,12 e 13 anni».

In quel momento non ti sei accorta che la tua risposta non era rivolta ad un tifoso adulto bensì a un bambino?

«Assolutamente no. C'era una grande confusione fuori dallo stadio e in quel momento non ho fatto caso a chi mi stessi rivolgendo».

Una delle tante cose che ti stanno rimproverando è quella di aver voluto sottolineare con la tua frase la differenza sostanziale che c'è tra Sud e Nord e il fatto che per lavorare le persone del sud debbano trasferirsi al Nord.

«Lungi da me voler offendere i cosentini. Tutto volevo tranne che fare politica o lanciare un messaggio politico in un contesto di calcio».

Hai anche accennato alla possibilità di lasciare il tuo lavoro. A fronte delle polemiche che hanno suscitato le tue parole è arrivatala decisione di abbandonare?

«No, perché tutta l'azienda mi si è stretta intorno , mostrandomi grande vicinanza e solidarietà: mi hanno convinto che avrei sicuramente sbagliato a lasciare. Io lavoro in quest' azienda da vent' anni, mi conoscono, sanno la persona che sono e ho dimostrato di essere una persona di valore, di etica e morale».

Ritieni che oggi ci sia un'esasperazione del politicamente corretto e che si dia troppo peso alle parole e troppo poco alle intenzioni? È stato gridato nei tuoi confronti al razzismo... «Io non sono razzista. Assolutamente no. Per me siamo tutti uguali, Non ci sono razze, classi, sessi... E non ho alcun pregiudizio nei confronti delle persone del sud anche perché mia madre e mio nonno sono di Taranto, la famiglia di mio padre, come ti ho detto, è sarda. Io le mie le mie origini le amo».

C'è qualche attacco particolare che ti stanno rivolgendo le persone che ti ha colpito maggiormente?

«Io tendenzialmente cerco di evitare di leggere i social anche perché lavorando nel mondo del calcio sono abituata ad un linguaggio anche abbastanza crudo. Le cose che mi fanno più male sono le minacce di morte che mi stanno arrivando. Poi, mi hanno mortificato dei post tipo quello di Scanzi ("alla gentile intellettuale: attendiamo sempre con affetto e con fiducia il licenziamento in tronco")».

Hai avuto modo di sentire di nuovo il padre dopo quello che era accaduto?

«Sì, l'ho sentito questa mattina e ci siamo dati appuntamento telefonico per questo pomeriggio. Gli ho chiesto se poteva ripetere le dichiarazioni che mi aveva fatto al telefono durante la prima telefonata».

Qual è la cosa che ti dispiace di più venga associata la tua persona? L'essere definita razzista o il fatto di essere stata insensibile di fronte ad un bambino?

«La cosa che mi fa più male sono le parole di quelli che chiedono: cosa può insegnare questa ai suoi tre figli? Volete sapere cosa gli insegnerò? Gli insegnerò che si può sempre chiedere scusa, che si può sbagliare e si può rimediare».

Hai paura che questa gogna mediatica che ti sta travolgendo possa in qualche modo ricadere sui tuoi figli?

«Sì. Sono stati loro a chiedermi di voler vedere il video. Gli ho fatto sentire la frase incriminata e loro mi hanno detto: mamma, ma per questo che ti stanno dicendo tutte queste brutte cose? È per questo che poi ti vogliono uccidere?...».

Perché ti sono arrivate anche delle minacce di morte?

«Sì. Mi hanno scritto: ti taglio la gola cagna in calore. Vedi Hoara loro mi stanno accusando di razzismo per la frase che io ho detto scherzando. Ma allora io cosa dovrei dire rispetto a persone che dicono di volermi scannare?». 

Alberto Abburrà per “la Stampa” il 31 maggio 2022.  

Abraham Lincoln amava ripetere che nella vita l'importante non è vincere o perdere, ma accettare la sconfitta. A giudicare da quel che si è visto e sentito nel post partita di Cosenza-Vicenza, la conduttrice Sara Pinna dell'emittente veneta Tva ha ancora molta strada da fare in questo percorso di maturità. Altrimenti dopo la retrocessione in Lega Pro non avrebbe detto in diretta a un piccolo e serafico tifoso calabrese «non ti preoccupare, prima o poi venite anche voi qua in pianura a cercare lavoro».

Una riuscitissima sintesi di snobismo, pregiudizio e antisportività che nemmeno le scuse postume sono riuscite ad attenuare. L'editore della sua emittente si è affrettato a difenderla confermandole il posto, altrimenti oggi quella in cerca di occupazione potrebbe essere lei. Magari accetterebbe l'invito del sindaco di Cosenza che la vuole ospitare in Calabria «per conoscere il territorio e superare i luoghi comuni». E magari proprio al Sud troverebbe un Lincoln qualunque disposto a offrirle perdono e un nuovo lavoro.

Il nonno di Taranto. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.

«Io contro il Sud? Ma se ho un nonno di dopo essere stata trascinata sulla pira dell’indignazione collettiva per una battuta infelice sui meridionali. (A un piccolo tifoso del Cosenza, contento per avere appena battuto il Lanerossi Vicenza nello spareggio-salvezza, aveva detto in diretta che prima o poi anche lui sarebbe salito al Nord a cercare lavoro). Sara Pinna - cognome sardo, ma forse la Sardegna non era abbastanza a Sud per fornirle un alibi - si è poi profusa in mille scuse. Perciò ci scuserà a sua volta se useremo il suo avo pugliese - il quasi metafisico Nonno di Taranto - per rimarcare il vezzo giustificazionista con cui molti, quando scivolano sulla buccia del politicamente scorretto, cercano di ricucire l’orlo del baratro. C’è il sovranista antisbarchi che asserisce di avere un genero marocchino simpaticissimo. Il negazionista dell’Olocausto che va sempre in vacanza a Tel Aviv. Il moltiplicatore di battute omofobe che ha un migliore amico gay. E poi ancora il razzistone compulsivo che giura di avere adottato un bambino nero a distanza, il bestemmiatore seriale che organizza la giornata del sorriso in parrocchia, per finire con il contestatore della Nato che ha la colf ucraina. Medaglie al merito non richieste che sembrano suggerire: giudicateci da ciò che facciamo, anziché da ciò che diciamo. Ma non riescono a sciogliere il dubbio che ciò che dicono assomigli molto di più a ciò che pensano.

Sara Pinna e l’offesa al piccolo tifoso: «Mi sono subito scusata. Io contro il Sud? Ho un nonno di Taranto». La conduttrice veneta nella bufera per il commento «razzista» dopo Cosenza-Vicenza: «Col padre del bambino ho parlato il giorno dopo e ha capito. Dai social anche minacce: inaccettabile. L’invito in Calabria? Andrò sicuramente». Renato Piva su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.

«Sono molto serena, perché so come ho agito...». La bufera soffia ormai da 48 ore. Sara Pinna, conduttrice per TvA Vicenza di «Terzo Tempo», trasmissione dedicata al Lanerossi e ai suoi tifosi, è accusata di razzismo o, meglio, di antimeridionalismo. Al cuore della polemica c’è lo scambio in diretta con un piccolo tifoso del Cosenza e il suo papà del 20 maggio scorso, in coda alla partita che ha sancito la retrocessione in C del Vicenza, sconfitto dal Cosenza. «Lupi si nasce», aveva riversato il bambino nel microfono di Andrea Ceroni, inviato di Tva allo stadio Marulla. Da studio, Pinna aveva replicato: «E gatti si diventa. Non ti preoccupare che venite anche voi in Pianura a cercare qualche lavoro». Il caso, in sordina per qualche giorno, è esploso con la pubblicazione, sullo spazio Facebook del gruppo meridionalista «Movimento 24 Agosto», della lettera firmata dal padre del bambino, in cui Pinna viene accusata di nutrire «l’antico pregiudizio» contro la Calabria e tutto il Sud. Il video della diretta post partita è diventato virale e la conduttrice è finita in croce, via social. Ecco la sua versione di quanto accaduto.

Sara ha capito di aver sbagliato?

«Sì, nell’istante stesso in cui facevo quell’affermazione avevo capito che era fuori luogo».

Ha provato a ricontattare il padre e il bambino dello scambio in diretta?

«La lettera l’ho letta il giorno seguente, il 21 maggio. E il 21 maggio ho contattato il genitore, mi sono fatta dare il suo telefono e l’ho chiamato: telefonata di cinque minuti e 11 secondi, che ho registrato. Ci tenevo particolarmente a scusarmi con lui e con bambino. Nella telefonata ho detto: “Sono mortificata per quelle parole, che non sono state appropriate. Per la verità andrebbe capito il senso in cui volevo dirle, ma qui è secondario: quel che mi interessa è sapere come sta il bambino”. Questo per quanto mi renda conto benissimo di come, se le cose non vengono manipolate dagli adulti, i bambini siano sereni...».

Com’è finita tra di voi? Che cosa vi siete detti?

«Il padre del piccolo mi ha risposto: “Non si preoccupi, signora. Sono anch’io un po’ choccato... Mi hanno un po’ obbligato a scrivere questa cosa (Michele ha smentito la circostanza e ribadito: la lettera è stata scritta in piena libertà, ndr) . Piuttosto, sono mortificato per i fiumi di parole che sta ricevendo lei. Mi ha comunque assicurato che il bambino era sereno e, quanto a lui, ha capito che non c’erano cattive intenzioni da parte mia».

Il post di Sara Pinna con le scuse ai cosentini e la risposta conciliante dei gestori del sito

Il suo cognome racconta origini sarde: è corretto? Allora perché quell’espressione di antimeridionalismo?

«Sono sarda e questo cognome, in realtà, riporta anche alla motivazione della frase infelice che mi è uscita. Mio nonno paterno è di Taranto ed è venuto qui a fare il ferroviere... Noi, famiglia sarda, siamo venuti in Veneto per lavorare e ho cambiato tifo, diventando tifosa del Vicenza piuttosto che del Cagliari. Era questo il senso...».

Ha accennato ad offese: i social l’hanno travolta di reazioni negative...

“Enormemente, a mio avviso più del dovuto... Più del peso di quanto ho asserito».

Sono arrivate anche molte minacce: si tutelerà in sede legale?

«Sicuramente». 

Da un gruppo Facebook molto partecipato a Cosenza, dopo le sue scuse, c’è stata la riappacificazione coi tifosi e le sono arrivate parole di stima. Se visiterà la città le offriranno un gelato e le faranno da Ciceroni...

«Sì, assolutamente sì. Tutto avvenuto il 21 maggio. Ci tengo a sottolineare questa cosa, perché tutto quello che è stato fomentato dopo è derivato da persone che non sanno come ho agito in precedenza».

Anche il papà del piccolo l’ha invitata in Calabria: ci andrà?

«Ci andrò sicuramente». 

Al di là della frase infelice, che ha ammesso, perché una polemica così accesa e perché a distanza di tempo? Si è fatta queste domande? C’è la politica di mezzo?

«Sicuramente politica, cento per cento. Poi il bisogno di visibilità di alcune persone, quindi anche un disagio umano per un divario che, evidentemente, viene vissuto in maniera molto forte tra Nord e Sud e sicuramente di più al Sud. Per questo ogni cosa, anche minima che tocchi marginalmente questi aspetti, viene amplificata per rivendicare quelli che sono dei sentimenti che posso capire e posso accettare. Certo, se devono massacrare una persona per questo, non mi pare corretto».

Ultima cosa: l’hanno bacchettata anche in quanto giornalista. Lei è tale?

«No, non sono giornalista. Conduco programmi televisivi da vent’anni ma quella è una strada che non ho mai voluto percorrere».

Nota: Videomedia, l’editore di TvA Vicenza, ha immediatamente confermato la fiducia in Sara Pinna: «Le parole finite nell’occhio del ciclone sono state pronunciate durante il “Terzo tempo” di una partita meritatamente vinta sul campo dal Cosenza - la nota dell’azienda - a cui vanno i complimenti e gli auguri per un altro campionato ricco di soddisfazioni e successi da tutto il team di Diretta Biancorossa, trasmissione sportiva di punta di TvA Vicenza, regina degli ascolti e punto di riferimento per il tifo biancorosso. Dopo un confronto interno, i vertici di Videomedia hanno accolto le scuse e hanno confermato la fiducia nella professionalità di Sara Pinna».

Conduttrice tv si scusa con piccolo tifoso che aveva offeso dopo la vittoria del Cosenza sul Lanerossi Vicenza: “Ho mancato di tatto e gentilezza”. La Stampa il 30 maggio 2022.

«E' stata un battuta infelice che potevo evitare e che ha dimostrato una mancanza di tatto e di gentilezza. Mi scuso con il bambino, con la famiglia e con tutti coloro che si possono essere sentiti offesi». Così Sara Pinna, conduttrice della trasmissione «Diretta Biancorossa» sull'emittente Tva Vicenza, ha espresso le sue scuse sui canali social dopo la risposta data a un piccolo tifoso del Cosenza. Parole che hanno innescato una bufera sui social. Al termine della partita dei playout di Serie B del 20 maggio, che ha visto i calabresi battere il Lanerossi Vicenza 2-0, sancendo la retrocessione dei biancorossi in Serie C, il giovanissimo tifoso aveva commentato «Lupi si nasce...». «Ma gatti si diventa, tanto verrete tutti in pianura a cercare lavoro», aveva risposto dallo studio Pinna. La conduttrice ha riconosciuto «l'errore in modo chiaro ed evidente», scrive in una nota l'emittente. «Scuse accettate dal padre del bambino e da alcuni gruppi di tifosi cosentini, come dimostrano i post sui social network». «Ribadisco le mie scuse al bambino, alla sua famiglia, ai tifosi del Cosenza e a tutti coloro che si sono sentiti offesi per una frase sbagliata che non rispecchia in alcun modo il mio pensiero e la mia sensibilità», le parole di Sara Pinna. «Io stessa sono di origini sarde, in Veneto per lavoro dei miei genitori, quindi non vi erano in me le intenzioni maligne che mi vengono attribuite dai numerosi commenti sui canali social, molti dei quali hanno oltrepassato ogni limite di decenza e di legge, ma di questo si occuperà nelle sedi opportune la magistratura». «Le parole finite nell'occhio del ciclone - si legge ancora nella nota di Tva - sono state pronunciate durante il 'Terzo tempo' di una partita meritatamente vinta sul campo dal Cosenza, a cui vanno i complimenti e gli auguri per un altro campionato ricco di soddisfazioni e successi da tutto il team di «Diretta Biancorossa», trasmissione sportiva di punta di TvA Vicenza, regina degli ascolti e punto di riferimento per il tifo biancorosso». Dopo un confronto interno, informa ancora l'emittente, «i vertici di Videomedia hanno accolto le scuse e hanno confermato la fiducia nella professionalità di Sara Pinna».

"Non ti preoccupare, che venite anche voi in Pianura a cercare qualche lavoro”. Chi è Sara Pinna, la conduttrice che ha umiliato il bambino in diretta: scuse e origini non coprono la figuraccia. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 30 Maggio 2022. 

“Avete ragione, battuta infelice che potevo evitare e che ha mostrato una mancanza di tatto e di gentilezza. Mi scuso per questo, dato che nell’istante stesso in cui facevo tale affermazione mi accorgevo della cattiva gestione delle mie parole e del momento.” Parole di scuse pubblicate su Facebook dopo le polemiche che l’hanno travolta. Sara Pinna, conduttrice tv vicentina del programma calcistico ‘Terzo tempo’ in onda su Tva Vicenza, è stata accusata di razzismo e ‘antimeridionalismo’ per lo ‘scivolone’ avuto nei confronti di un bambino calabrese di 7 anni, al termine del playoff di serie B.

Era il 20 maggio: Cosenza salvo, Vicenza retrocesso in C. Il bimbo aveva esultato davanti alle telecamere per la vittoria della sua squadra, esclamando al microfono di Andrea Ceroni, l’inviato allo stadio Marulla: “Lupi si nasce!” E la Pinna, in diretta, aveva risposto: “E gatti si diventa. Non ti preoccupare, che venite anche voi in Pianura a cercare qualche lavoro”.

L’episodio, passato inizialmente in sordina, è poi finito sulla pagina Facebook  ‘Movimento 24 Agosto’, che ha rilanciato sul popolare social network la lettera indignata del papà del piccolo tifoso. Scatenando la bufera sulla conduttrice.

La lettera del papà e le polemiche

“Alla gentilissima Sara Pinna Sono il papà di Domenico, il bambino che nel post partita Cosenza-Vicenza esultando per la vittoria della sua squadra ha detto ‘lupi si nasce’ sotto consiglio del papà e con non poco orgoglio– si legge sulla lettera indirizzata alla presentatrice. –Prima di parlare è necessario pensare bene a cosa si dice perché lei non sa cara Sara Pinna, che Domenico è figlio di due imprenditori calabresi che amano la propria terra e che certamente con non poca fatica dimostrano quotidianamente di voler contribuire per migliorarla e supportarla nel pieno delle proprie possibilità. Lei dovrebbe ben sapere e dimostrare a coloro a cui si rivolge cosa sono etica e morale – prosegue l’uomo – Due qualità a quanto pare a lei sconosciute“. Per poi aggiungere: “La invito, senza rancore, a visitare la Calabria così che possa anche lei capire che terra  meravigliosa è e quanta bella gente la abita, noi a differenza Sua, detestiamo i pregiudizi e il razzismo proprio non ci appartiene.”

Dai social la polemica è finita sui media nazionali: la Pinna ha iniziato così a ricevere insulti e critiche. E anche l’Ordine dei Giornalisti del Veneto ha annunciato che “i video con la frase a sfondo razzista – ma anche la battuta di rincalzo dell’inviato di Tva, ‘non male, Sara’ – sono stati acquisiti e inviati ai Consigli di disciplina territoriali, che istruiranno le pratiche“. Una vicenda che ha coinvolto anche il presidente della Calabria, Roberto Occhiuto. Il governatore ha infatti chiesto al presidente dell’Odg, Carlo Bertoli, di intervenire sull’accaduto.

Le scuse

Sara Pinna- che però non è una giornalista, come da lei stessa sottolineato in un’intervista al Corriere della Sera, ma una conduttrice- dopo essersi scusata telefonicamente con il papà del bimbo, ha pubblicamente ammesso lo sbaglio commesso. “Ribadisco le mie scuse al bambino, alla sua famiglia, ai tifosi del Cosenza e a tutti coloro che si sono sentiti offesi per una frase sbagliata che non rispecchia in alcun modo il mio pensiero e la mia sensibilità –ha dichiarato – io stessa sono di origini sarde, in Veneto per lavoro dei miei genitori, quindi non vi erano in me le intenzioni maligne che mi vengono attribuite dai numerosi commenti sui canali social, molti dei quali hanno oltrepassato ogni limite di decenza e di legge, ma di questo si occuperà nelle sedi opportune la magistratura.” 

Nell’intervista al Corriere, la Pinna ha inoltre spiegato: “Sono sarda e questo cognome, in realtà, riporta anche alla motivazione della frase infelice che mi è uscita. Mio nonno paterno è di Taranto ed è venuto qui a fare il ferroviere… Noi, famiglia sarda, siamo venuti in Veneto per lavorare e ho cambiato tifo, diventando tifosa del Vicenza piuttosto che del Cagliari. Era questo il senso…”

L’emittente veneta ha fatto sapere di aver chiarito con la conduttrice, confermando la fiducia nella sua professionalità. “Subito dopo la puntata di Diretta Biancorossa, andata in onda il 20 maggio, Sara Pinna ha espresso le sue scuse sui canali social, riconoscendo l’errore in modo chiaro ed evidente– si legge in un comunicato pubblicato sul sito.- Scuse accettate dal padre del bambino e da alcuni gruppi di tifosi cosentini”.  Mariangela Celiberti 

Scuola, un veronese su due si ferma alle medie. E in Veneto 160mila sono analfabeti. Valeria Zanetti su Larena.it il 02 giugno 2022.

Più diplomati tra gli uomini e più laureate tra le donne. Ma nel Veronese a sorprendere è la percentuale ancora elevatissima di popolazione che ha in tasca al massimo il diploma di scuola media inferiore, il 47 per cento dei maschi ed oltre i 48 tra le femmine. Sono alcuni dei dati messi in luce dal più recente censimento permanente della popolazione dell’Istat per il Veneto, che prende in considerazione la rilevazione svolta nel 2020. I residenti censiti in provincia di Verona sono stati 927.810; il campione su cui è stato valutato il livello di scolarizzazione è composto dai chi ha un’età superiore ai nove anni. In regione il quadro evidenziava, ancora due anni fa, una componente di oltre 160 mila analfabeti (3,6 per cento), 736mila (16,28) residenti che hanno completato solo il ciclo della scuola primaria, 1,3milioni (29 per cento) che hanno conquistato la licenza media.

La pattuglia più numerosa è costituita dai diplomati, 1,6milioni (37 per cento). Le lauree sono appannaggio del 13,5 per cento dei residenti (183mila in possesso di triennale e 427mila di magistrale specialistica o laurea del vecchio ordinamento). Infine solo 17.211 veneti hanno conseguito un diploma di alta formazione o hanno concluso un dottorato di ricerca. Nel Veronese il 2,97 per cento degli abitanti non è in possesso di nessun titolo, il 16,44% dei residenti con più di nove anni ha concluso soltanto le elementari, il 28 ha superato l’esame di terza media. Qui si poteva lasciare la scuola solo fino a quando l’obbligo scolastico non è stato innalzato, a partire dai primi anni 2000, ai 16 anni. Il 52 per cento di chi risiede in provincia ha ottenuto la maturità (37,84) o la laurea (14,7).

Gli uomini si sono fermati più spesso al diploma (39,7% contro il 36,1% delle donne) e hanno cercato successivamente di inserirsi nel mondo del lavoro. Mentre le donne, soprattutto negli ultimi decenni, hanno superato il numero dei colleghi «dottori», completando gli studi universitari: il 4,83 per cento ha una triennale (3,5 la percentuale di maschi) ed il 10,1 una magistrale (o vecchio ordinamento) contro il 9,27 della popolazione maschile.

Risultati superiori rispetto alla media veneta, ma allineati o leggermente inferiori al dato nazionale. Al dottorato di ricerca arriva lo 0,36 per cento dei maschi e lo 0,37 delle femmine. Elevata anche la quota di stranieri, che abita sul nostro territorio, in possesso del titolo di scuola superiore (38,65 per cento) o di laurea (11,19). Un dato da leggere comunque incrociando le fasce di età e Paesi di provenienza.

Prendendo la lente di ingrandimento e scorrendo la situazione Comune per Comune, il capoluogo che due anni fa aveva superato i 259mila abitanti, conta 77.648 diplomati italiani e 13.407 stranieri, mentre i laureati connazionali che risiedono in città sono quasi 46mila e gli stranieri 4.186, per un totale di oltre 141mila residenti in possesso di un’istruzione almeno superiore, contro 99mila veronesi che arrivano al massimo alla terza media.

A Villafranca, al secondo posto per numero di abitanti, oltre 33mila, si contano più di 11mila diplomati italiani, 1.345 stranieri; 3.747 laureati connazionali e 370 di origine estera, per un totale di popolazione con un livello di istruzione, almeno superiore, pari a 16.462 unità, contro i 14.296 concittadini che al massimo hanno conseguito la licenza di scuola media inferiore. Più in generale nei Comuni meglio serviti dalla rete di scuole secondarie superiori, è già avvenuto da tempo il sorpasso di diplomati e laureati sul numero dei residenti meno istruiti. A San Bonifacio le cifre si equivalgono, oltre 9.700 abitanti nelle pattuglie dei più e meno istruiti. A Legnago, 25.443 residenti censiti, i cittadini più scolarizzati sono 12.133 contro gli 11.573 che hanno finito le elementari e medie. A San Pietro In Cariano oltre 6.800 abitanti hanno diploma o laurea contro i 5.220 che si sono fermati alla licenza media. Ma a Casaleone, per fare un esempio, i primi sono solo 2.044; i secondi, 3.153. Idem a Gazzo Veronese, dove chi ha titoli di studio più elevati è una minoranza di 1.893 cittadini, contro 2.961 abitanti che hanno interrotto prima. Il copione si ripete in alcune località della montagna veronese o dell’entroterra gardesano, ma ad incidere nei contesti esaminati è anche l’età media della popolazione residente. Più è elevata la concentrazione di anziani e più frequentemente i titoli di studio sono bassi. Valeria Zanetti

GUERRA E FAME, E LORO PENSANO ALL'AUTONOMIA. Le Regioni del Nord vogliono la secessione. Così rendono ingovernabile il Paese e scatenano un'altra guerra: quella civile. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 3 Giugno 2022. 

Ma davvero i Capi delle Regioni del Nord pensano di continuare a chiedere al bilancio pubblico nazionale, con i soldi di tutti gli italiani, di coprire i loro buchi di bilancio, dal trasporto pubblico locale alla sanità, tenendosi il privilegio della spesa storica che rende i loro cittadini di serie A e quelli del Sud di serie B, senza neppure porsi il problema di dovere fare i conti con la situazione di delicatezza estrema della nostra finanza pubblica e dei mercati? Invece di tirare la carretta per fare correre gli investimenti pubblici, a partire dal Sud, e avanzare sulle strade delle riforme del Pnrr, capi partito e mandarini regionali tirano a campare come se nulla fosse, vanno avanti fino a quando si va alle elezioni per vedere che cosa succede. La capacità di ricatto politico che hanno i capi delle Regioni supera quella di qualsiasi grande azienda e di lobby molto potenti ed è una mina vagante per il futuro del Paese

Sono caduti tutti, quasi tutti, nell’irrilevanza del dibattito politico demagogico tra pace o non pace, che invece è una cosa seria, mentre i furbetti dei capi delle Regioni del Nord cercano di fare gli interessi concreti dei loro elettori per pagare qualcosa in più alle loro clientele. Stanno tagliando il ramo su cui sono seduti, perché il mondo di oggi non ha più nulla a che fare con quello di ieri, ma loro nemmeno se ne accorgono e, dunque, brigano per l’ultima devolution che dovrebbe servire a soddisfare le rendite da preservare e le ultime prebende da distribuire dei nuovi capi bastone delle burocrazie regionali.

Questa ultima devolution si chiama Autonomia differenziata e ha le potenzialità, a scoppio ritardato, della vera secessione del Nord che diventa tutta una grande regione ad autonomia speciale rendendo impossibile governare il Paese già oggi cosa complicatissima e ponendo le basi di una nuova guerra civile italiana. Si rimette il Nord contro il Sud e viceversa, dentro una stagione da nuovo ’29 mondiale segnata da una guerra (vera) nel cuore dell’Europa e da tre grandi shock di tipo inflazionistico, energetico e alimentare che pongono la coscienza del mondo intero a fare i conti con la fame crescente e quella italiana con l’immoralità persistente di miopi saccheggi dei bilanci pubblici.

Si fa di tutto per fare l’Europa unita, con un solo ministro dell’economia e un solo debito, con un esercito e una politica estera comuni, e noi complici sottobanco la ministra Gelmini e i Presidenti delle grandi Regioni del Nord e di una parte del Centro, di destra e di sinistra ma tutti uniti dal desiderio bramoso di tenersi un po’ di Iva in più a scapito di chi ha ingiustificatamente meno, vogliamo spezzettare ancora in più macro e micro aree un Paese di 60 milioni scarsi di abitanti, afflitto peraltro da un problema demografico pazzesco? Ma davvero davvero i Capi delle Regioni del Nord pensano di continuare a chiedere al bilancio pubblico nazionale, con i soldi di tutti gli italiani, di coprire i loro buchi di bilancio, dal trasporto pubblico locale alla sanità, solo per fare qualche esempio, tenendosi il privilegio della spesa storica che rende i loro cittadini di serie A e quelli del Sud di serie B, senza neppure porsi il problema di dovere fare i conti con la situazione di delicatezza estrema della nostra finanza pubblica e dei mercati?

Si pongono per lo meno il problema di come reagiranno i cittadini umbri, marchigiani e dell’intero Mezzogiorno? Ma a chi vogliono fare credere che faranno subito dopo i livelli essenziali di prestazione (Lep) finalmente uguali per tutti i cittadini della Repubblica italiana quando costano decine e decine di miliardi che il bilancio pubblico italiano non ha e che potrebbero uscire solo se si ridiscutessero le erogazioni singole per ogni singolo cittadino togliendo a chi riceve infinitamente di più (Nord) per dare a chi riceve infinitamente di meno (Sud)?

Anche questa ultima devolution all’italiana, si chiama autonomia differenziata, come accadde con le leggi Bassanini e Calderoli, prende forma sempre a fine legislatura, ma almeno questa volta – lo gridiamo con forza – è bene che il blitz non passi mai, che sparisca tutto immediatamente dal tavolo, che si chiuda il capitolo prima di aprirlo con molto rossore di vergogna sulla faccia di chi si è permesso di riproporlo.

È uno dei frutti più avvelenati del dramma politico di questo momento dove tutti invece di tirare la carretta per fare correre gli investimenti pubblici, a partire dal Sud, e avanzare sulle strade delle riforme di sistema superando la prova europea decisiva del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr), tirano invece a campare come se nulla fosse, vanno avanti fino a quando si va alle elezioni per vedere che cosa succede. L’Italia della politica e dei suoi mandarini burocratici è un Paese sospeso. Aspettano come andranno le amministrative e poi come andranno le elezioni nazionali. Siamo, per la precisione, un Paese a tre velocità.

Abbiamo Mattarella e Draghi che vogliono fare correre l’Italia in Italia e in Europa e hanno il rispetto per loro e per noi del mondo. Abbiamo i partiti che sono alla ricerca spasmodica di un elettorato e fanno pasticci. Infine, abbiamo una struttura amministrativa dello Stato che non si sa da che parte va, con le burocrazie delle regioni che sono un altro enorme centro di corporativismo abbondantemente governato dai capi dei partiti a livello locale ma che è a sua volta capace di montargli sopra. A ognuno di loro interessa che cosa arriva a loro, non al proprio Paese. L’unità nazionale non esiste più tranne che dove non puoi fare proprio nulla a livello locale come accade per le ferrovie e le risorse energetiche. Con il vizietto in più poi delle Regioni di decidere e di spendere come e dove vogliono loro e poi portare il conto allo Stato chiedendo di fare nuovo debito pubblico che non può che accrescere le diseguaglianze con i rendimenti dei decennali oltre il 3,3% e un’esposizione complessiva di oltre 2700 miliardi.

Tutto questo avviene nonostante che Capi, capetti e mandarini vari avrebbero dovuto almeno imparare la lezione del Trentino che ha fatto e vinto l’ultima battaglia dell’autonomia. Ha detto: lasciateci almeno i nostri soldi. Poi, hanno dovuto chiedere più soldi allo Stato e giustamente non li hanno avuti. Il Trentino ha voluto l’autonomia e ora l’università di Trento ogni volta che batte cassa a Roma come ha sempre fatto in passato, si sente dare la solita risposta: andate dal vostro Stato che è la provincia autonoma.

La capacità di ricatto politico che hanno i capi delle Regioni supera quella di qualsiasi grande azienda e di lobby molto potenti ed è una mina vagante per il futuro del Paese perché, come minimo, ne indebolisce la sua capacità di governo. Non sono state mai messe in campo, anche questo è grave, strutture realmente indipendenti di controllo sulla presunta efficienza di questa o quella Regione su temi decisivi come quelli sanitari dove il Covid ha riservato non poche sorprese e demolito molti luoghi comuni.

Nel momento più difficile della Repubblica italiana alle prese con emergenze globali di ordine economico, sociale, militare evitiamo almeno di percorrere sentieri maledetti già maledettamente percorsi con il groviglio di ricorsi e contro ricorsi alla Corte costituzionale che sono fuori della civiltà giuridica dell’efficienza e della solidarietà e sono, quindi, fuori della storia. Sono altre le cose a cui deve pensare oggi il Paese, altro che autonomia differenziata. Nelle tragedie come quelle che stiamo vivendo esiste anche il senso del ridicolo. Speriamo di non superarlo.

Benedetta Centin per corrieredibologna.corriere.it il 21 aprile 2022.

Muore un 47enne il giorno di Pasquetta tentando di rubare delle bottiglie d’acqua sul retro di un supermercato di Cattolica (Rimini), e venendo investito da un bancale di nove quintali, e sui social si rincorrono commenti inquietanti contro la vittima. Non senza spiazzante ironia ed emoticon fuori luogo. Leoni da tastiera che hanno fatto indignare il vice sindaco di Rimini, Chiara Bellini, che parla di un «bieco frasario dell’orrore» e di «un dramma che, invece di destare pietà e compassione, ha scatenato il peggio da alcune persone, che dietro la tastiera si sono sentite libere di poter dar fondo ad un registro spietato di volgarità, disumanità e violenze verbali di ogni tipo».

Volgarità e ironia (ed errori grammaticali)

Non solo: quel che è peggio appunto «Davanti a una persona morta – prosegue l’assessore -. Senza più pietà, in uno scenario di impoverimento anche linguistico che non è mai solo una questione personale, ma anche e soprattutto di etica democratica o più brutalmente di cosa stiamo diventando e siamo già diventati».

 Bellini riporta anche un estratto di quanto è stato pubblicato, senza troppe riserve, sui social contro Umberto Sorrentino, questo il nome della vittima, un disoccupato, filmato dalle telecamere di videosorveglianza del supermercato mentre cerca di appropriarsi delle bottiglie e viene schiacciato dal pesante carico.

Ecco alcuni dei commenti degli utenti online che l’amministratrice comunale ha voluto citare: «L’ennesima morte sul “lavoro”, “altissima purissima levissima”, “se l’ha proprio cercata’ (sì, avete letto bene, proprio così …”se l’ha…”), e poi un susseguirsi di faccine sorridenti e pollici in su, qua e là inframezzato dal classico “basta buonismo” – scrive il vicesindaco che commenta - Un crescendo indegno in cui, per parafrasare un canto partigiano di Nuto Revelli, viene da commentare “pietà l’è morta’”». Per Bellini, che precisa come ha riportato «per pudore e sintesi solo una piccola parte», si tratta di «un bieco frasario dell’orrore».

La furia del vicesindaco: «Bestie»

E il vicesindaco qui si interroga: «Viene da chiedersi da dove provenga questo livore spropositato, ma soprattutto, da interrogarsi per capire i motivi della deriva di una società che non esita neanche più un secondo a condividere pubblicamente parole che non si sa da quale antro personale provengano». Per Bellini «La pietà, o la compassione – ovvero il “patire insieme” – si sono tramutate, prima nel linguaggio e poi nei comportamenti, in una ricerca ossessiva dello “star bene da soli”, senza gli altri, anzi, contro gli altri».

 Insomma, un odio che va combattuto «per sradicare modelli culturali violenti, ma anche per dare rispetto alla vita umana e un senso al sentirsi e percepirsi come comunità». Il modo per attuare tutto questo per l’assessore di Rimini è chiaro: «Cominciando a riprenderci cura delle parole, ridandogli valore, significato, peso e quella misura senza la quale, insieme alla pietà, rischieremmo di perdere definitivamente anche le fondamenta della nostra convivenza civile». 

Scimmie calabresi, il video del tifoso del Vicenza che offende Cosenza. Il Quotidiano del Sud il 15 Maggio 2022.

STA CIRCOLANDO un video su YouTube, passato però dalla modalità pubblica a quella privata, in cui un tifoso del Vicenza, durante la partita dei biancorossi con il Cosenza di giovedì scorso, insulta pesantemente la tifoseria avversaria, la città e la Calabria.

Una sequela continua di scimmie calabresi, Morite Terroni di merda, riccaciamoli in Africa, bomba in Calabria, la Calabria è mafia e via di questo passo.

Ovviamente sui social la polemica è esplosa, ma dalle tastiere alla carta bollata il passo può essere breve.

L’avvocato Massimiliano Granata, presidente dell’associazione Legalità democratica, ha scritto sul suo blog di “valutare l’opportunità di una denuncia alla Procura di Vicenza e per conoscenza al Ministero della Giustizia” ritenendo che la Procura debba procedere per verificare se sussista il reato di istigazione a delinquere con violazione dell’art. 414 del codice penale. “Questi fatti – spiega ancora Granata – non possono più essere tollerati”.

Il soggetto in questione, sul suo canale YouTube, di nome “L’Ultrà dei poveri”, sostanzialmente pubblica video a tema calcistico facendo comunque spesso ricorso a insulti e turpiloquio in genere.

Insulti ai calabresi, Daspo di 5 anni all'autore del video. Il Quotidiano del Sud il 16 Maggio 2022.  

stato individuato dalla Digos di Vicenza e dalla Polizia Postale l’autore delle video registrato allo stadio Menti con frasi le frasi razziste e insulti rivolti ai calabresi durante il match Vicenza-Cosenza.

Si tratta di un 22enne vicentino senza precedenti che ha già ottenuto nel pomeriggio di oggi un Daspo di 5 anni da ogni evento calcistico e il divieto di avvicinarsi allo stadio di Vicenza nel raggio di 500 metri. Sul fronte penale invece la Procura avvierà un’indagine per il tenore delle espressioni pronunciate nel video poi rimosso dai social.

La notizia è stata confermata dal questore di Vicenza, Paolo Sartori, che ha evidenziato: «Ho disposto il Daspo per la

durata di cinque anni in considerazione della gravità dei fatti, del contesto in cui il giovane ha espresso quelle frasi deplorevoli, delle modalità attuate e dei toni che ha usato, con il serio rischio di creare problemi di ordine e sicurezza pubblica».

Il provvedimento è stato accolto favorevolmente anche dal presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto: «Identificato lo pseudotifoso del Vicenza che ha insultato i calabresi. Per lui Daspo ha sottolineato – per 5 anni e indagine penale della Procura. Bene così. Adesso, in vista della partita di venerdì, si abbassino i toni e si pensi ad una gara che deve essere solo competizione sportiva e nulla più».

Sulla vicenda è intervenuto anche il parlamentare azzurro vicentino Pierantonio Zanettin, tra i primi a biasimare l’accaduto: «Faccio i complimenti al questore ed alla polizia di Stato di Vicenza che hanno immediatamente individuato e sanzionato con Daspo l’incivile tifoso biancorosso che ha pronunciato le gravissime offese al Cosenza ed ai calabresi diventate virali nei social. Lo stadio non può essere considerato una zona franca e simili inaccettabili comportamenti vanno puniti con la massima severità».

Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022. Il video postato sui social in cui, dagli spalti dello stadio di Vicenza, insulta senza ritegno e a più riprese i supporter del Cosenza, etichettandoli come «scimmie calabresi», costa ad un tifoso biancorosso di 22 anni un Daspo della durata di cinque anni. Il giovane avrà il divieto quindi di assistere da qui al 2027 a ogni partita di calcio, di ogni categoria, che sia giocata in Italia o all’estero.Stando al provvedimento firmato dal questore Paolo Sartori il supporter, mai un problema con la giustizia finora, non potrà inoltre avvicinarsi allo stadio di Vicenza nel raggio di 500 metri in occasione degli incontri casalinghi. E non è tutto perché il ragazzo, individuato dai poliziotti della Digos con i colleghi della Postale, rischia anche una denuncia per discriminazione razziale in violazione della legge Mancino e per diffamazione a mezzo social.

Video rimosso

Il video incriminato era stato registrato in occasione della gara di andata dei play out giocata tra il Vicenza e il Cosenza. Il 22enne urla e non risparmia attacchi anche pesanti ai tifosi avversari. «Morite Terroni», «Ricacciamoli in Africa», «Scimmie calabresi, bomba in Calabria» e ancora «la Calabria è mafia» il contenuto del filmato che lo stesso giovane ha provveduto a rimuovere (ma è presente ancora in Rete). Inevitabili critiche e polemiche. A scendere in campo anche il Governatore della Calabria Roberto Occhiuto. «Ho visto il video dello pseudotifoso del Vicenza che insulta Cosenza, la Calabria, e i calabresi. Mi sembra palese - ha scritto su twitter - che si tratti di un cretino. Ma questo non rende meno gravi le sue deliranti affermazioni. Che venga identificato e punito con strumenti adeguati: Daspo e codice penale». E che il giovane venga «punito penalmente» lo aveva chiesto anche la capogruppo della Lega alla Regione Calabria Simona Loizzo.

La condanna

Il sindaco di Vicenza, Francesco Rucco, fin da subito aveva preso le distanze dal tifoso biancorosso. «Va condannata ogni forma di razzismo, quindi condanno il gesto» il commento sul filmato dato in pasto alla Rete che ha ulteriormente «surriscaldato» il clima tra le due tifoserie in vista del retourn-match di venerdì a Cosenza. «Chiedo a tutti di abbassare i toni, Vicenza e Cosenza si stanno giocando una salvezza importante, ma una partita di calcio non può diventare una battaglia dentro e fuori dal campo, con interferenze da parte del mondo della politica» ancora le parole di Rucco in riferimento alle dichiarazioni, rilasciate da Anna Laura Orrico, deputata del Movimento 5 stelle che ha aperto un caso politico parlando «di ingiustizie sportive e di disparità di trattamento a favore di chi ha un Pil più elevato». Di qui la richiesta del primo cittadino: «Chiedo che ci sia rispetto per Vicenza e per i vicentini – ha sbottato Rucco - non trovo corretto che un deputato vada ad interessarsi di vicende calcistiche».

Vittoria a tavolino

Dal canto suo anche il sindaco di Cosenza Franz Caruso ha invitato a non creare disordini. Motivando la richiesta ai supporter locali. «Siamo una città ospitale, siamo una città civile, sportiva. Ai tifosi dico: sappiamo quali sono le finalità del Vicenza ed anche la storia che ha caratterizzato molte loro partite. Non cadiamo in tentazione, rifuggiamo da qualsiasi tentativo di estremizzare il nostro supporto alla squadra – l’appello - Evitiamo petardi, invasioni di campo, atti di violenza perché lo scopo degli avversari potrebbe anche essere quello di ottenere non una vittoria sul campo, ma una vittoria a tavolino».

Vittorio Feltri controcorrente: "Perché dico sì al saluto romano, giù le mani da Donna Assunta". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Donna Assunta Almirante, morta a cento anni al termine di una vita intensa (era considerata la madrina della destra nazionale) a conclusione del suo funerale svoltosi la scorsa settimana, è stata omaggiata dai dolenti con l'ormai famoso saluto romano, braccio destro proteso in avanti. E giù polemiche come se quel gesto innocuo simboleggiasse un rifiuto della democrazia, un insulto alla Costituzione e chi più ne ha ne metta. Non sono mancati commenti giornalistici grondanti indignazione, e numerose sono state le proteste, quasi che le esequie fossero state una manifestazione indegna di nostalgia per il ventennio di Mussolini.

L'antifascismo di maniera è entrato nel costume italiano come il raffreddore, basta uno starnuto e subito parte l'allarme Covid. Il conformismo è talmente diffuso che la gente lo ha acriticamente digerito quale caffè. Non c'è verso di raddrizzare le gambe ai cani, per cui non ci illudiamo che i progressisti e gli amanti del politicamente corretto si diano una regolata e capiscano di essere talmente regressisti da non rendersi conto di avere la testa bacata da un passato che la gente di oggi neppure conosce. Un piccolo dettaglio merita di essere citato in proposito. Il saluto romano usava ai tempi di Giulio Cesare e dell'imperatore Adriano, un grande, quando la stretta di mano, poco igienica, non era stata inventata.

Pertanto se il suddetto saluto è definito romano che cavolo c'entra con il fascismo, che nacque qualche anno dopo rispetto alla gloriosa epoca imperiale? Siamo talmente rimbambiti da attribuire a un gesto storico e classico l'abitudine poi divenuta cara alle camicie nere non si sa bene perché, anche se il duce non ha mai nascosto le sue simpatie per la romanità. In conclusione, la stretta di mano tanto amata e frequente sarebbe da abolire. Non solo poiché favorisce la trasmissione di ogni microbo e impone lavaggi ripetuti. C'è di più: è sgradevole l'umidità trasmessa dalle dita. Saluto romano tutta la vita. 

Vittorio Feltri, al Sud ci sono più disoccupati che in tutta Europa? Le colpe della politica. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Alcuni giornali ci informano che nel Sud italiano ci sono più disoccupati che nel resto d'Europa. Lo provano le statistiche. Io, un paio di anni fa, durante il programma televisivo di Mario Giordano, affermai senza alcuna acrimonia che gran parte del Meridione è inferiore al Nord, dove per "inferiore" intendevo ovviamente riferirmi non certo al cervello di chi è nato sotto Roma, bensì alla organizzazione economica e sociale. Un problema questo che non avevo inventato io per denigrare i cosiddetti "terroni", ma che vari valenti meridionalisti avevano esaminato in un remoto e anche recente passato. Non so perché mi viene in mente Corrado Alvaro, grande scrittore che analizzò in modo mirabile la situazione calabrese. Rammento il titolo di un suo capolavoro: «Gente d'Aspromonte». Chi non lo ha letto si appresti a farlo.

Oggi l'inferiorità del Mezzogiorno in confronto al Settentrione è dimostrata da copiosi dati relativi alle difficoltà di questa nostra amata e vituperata parte d'Italia. Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, purtroppo, sono in fondo alla classifica della occupazione patria. Non è per me una novità, e non dovrebbe esserlo per qualunque italiano che abbia a cuore lo sviluppo omogeneo della Nazione. Certamente non ho la bacchetta magica per risolvere il dramma della arretratezza di alcune zone per altri versi brillanti della penisola. Tuttavia qualche suggerimento in proposito si può avanzare. La disoccupazione non nasce per caso, bensì dalla scuola e dall'apprendistato, che non funzionano più. L'istruzione professionale oramai è tramontata e i ragazzi di 15 anni non frequentano più le botteghe allo scopo di imparare un mestiere. È del tutto evidente che un giovane il quale non sappia fare un qualsivoglia lavoro non ne trovi uno che gli consenta di vivere decentemente. Questo è un concetto facile da digerire benché nessuno se ne renda conto. Un cenno particolare poi merita l'artigianato, adesso incomprensibilmente trascurato nonostante sia noto a qualunque imbecille che il nostro Paese sia il secondo in Europa nell'ambito della manifattura.

Ciò specificato, c'è poco da aggiungere per illustrare le pene del Sud, al quale non mancherebbe nulla per crescere, se soltanto disponesse di una classe politica attenta a incrementare il tessuto produttivo anziché badare esclusivamente a interessi di casta. Sono consapevole che è più agevole raccattare voti elargendo il reddito di cittadinanza a chiunque, anziché predisporre le condizioni per favorire la cultura del lavoro, danneggiata più che mai da un assistenzialismo interessato e demotivante.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 21 aprile 2022.

Sono convinto che tutti noi in qualche modo e in qualche circostanza abbiamo avuto contatti, magari casuali, con alcuni rom e non ne abbiamo ricavato una buona impressione. 

Normalmente i cosiddetti nomadi indossano abiti sdruciti, abbastanza sporchi, cosicché il loro aspetto non è rassicurante e genera il sospetto in molti cittadini di trovarsi di fronte a uomini, donne e perfino bambini per nulla affidabili.

Questi pregiudizi ormai si sono affrancati, anche perché una minoranza di zingari, essendo ridotta in miseria, si dedica ad attività illecite, borseggi, furti in appartamenti, addirittura spaccio di stupefacenti. 

In pratica si fa di ogni erba un fascio: se in una comunità di poveracci c'è un ladro, chissà per quale ragione coloro che condividono con lui l'indigenza sono considerati tutti ladri.

I campi rom in Italia si assomigliano in toto, costituiscono ammassi di catapecchie, roulotte sgangherate, la cura e l'igiene non rappresentano regole rispettate. Non pochi osservatori distratti della realtà sono così portati a ritenere che gli zingari abbiano dato vita a bande di farabutti intente soltanto a commettere reati. In verità, la tendenza a delinquere si registra in ogni categoria sociale, come si evince esaminando le carte giudiziarie. 

E poiché i nomadi hanno le stigmate dei poveracci sono sospettati di essere più furfanti di altri abitanti della penisola che pure realizzano abusi benché prediligano il doppiopetto di sartoria.

Se consultiamo le statistiche ci rendiamo conto che in molti ghetti trionfano usanze un po' tribali che si spiegano col fatto che coloro i quali dimorano nelle baracche sono distanti culturalmente da chi risiede nei quartieri alti, e anche bassi, delle metropoli.

È ovvio che l'isolamento produca fenomeni di arroccamento pure delle peggiori tradizioni, che impediscono l'evoluzione dei costumi. Tuttavia risultati del genere non si evidenziano solamente nell'ambiente zingaresco. Prendiamo l'istruzione scolastica.

Non è vero che i bambini e i ragazzi baraccati non frequentino in assoluto le aule dell'obbligo. Una grande quantità di questi si presenta, magari malconcia, negli istituti delle primarie e spesso delle secondarie. 

Eppure, in questo settore, non disponiamo di una elaborazione statistica, in quanto manca il numero base, e cioè quanti siano in Italia i rom e i loro eredi. Questo rende impossibile una analisi accurata della questione legata all'educazione.

In passato, senza dubbio, i rom erano ostili a qualunque tipo di scolarizzazione in quanto temevano che le loro abitudini arcaiche venissero contaminate dalla modernità. Ma oggi le cose sono cambiate radicalmente. 

Si dà il caso che vari zingari campino ancora di espedienti, per necessità, il recupero dei ferri vecchi, per esempio, e altresì il furto non sono estranei alle loro "imprese". Tuttavia una fetta di popolazione rom lavora regolarmente nelle imprese di pulizia, nelle stazioni di lavaggio automobili e in altri settori dove l'occupazione si trova non per vie ufficiali, sindacali. Ciò avviene perché il rom, essendo spesso riconoscibile dall'aspetto, non gradisce essere giudicato "speciale". Il vero dramma è un altro. 

I campi di concentramento zingari sono ancora numerosi purtroppo perché nessuno della pubblica amministrazione se ne interessa fornendo a questa gente alternative decenti. La quale è oggetto non solamente di discriminazione ma addirittura di razzismo.

Non è sempre stato così. Diciamo pure che la situazione è involuta e non di poco. Circa cinquant'anni orsono, quando scrivevo per la Notte di Nino Nutrizio, fui inviato al cimitero di Trescore Balneario (provincia di Bergamo) per descrivere un settore del camposanto riservato agli zingari. Osservando le tombe rimasi di stucco. Era una più ricca e curata dell'altra.

La più importante e sontuosa era quella del re degli zingari, sulla quale troneggiava la gigantografia del monarca. Quale sia lo status quo oggi è difficile dire, ma non è arduo informarsi per avere le idee chiare. 

È sufficiente infatti leggere un libro uscito di recente, Editore Carocci, firmato da un genio: Sergio Bontempelli, studioso del ramo emarginazioni. Titolo: I rom. Una storia. Da cui ho rubato tante informazioni.

P.s.: Vorrei sottoporre alla generale disattenzione un piccolo grande elemento, ossia che i campi di sterminio nazisti erano gremiti di zingari, ma di queste vittime - chissà per quale oscuro motivo - non ci rammentiamo mai, quasi come se non fossero degne di nota. Un'ultima considerazione abbastanza curiosa. Nella comunità rom non si registrano femminicidi. Sarà proprio un caso?

“Ci chiamavano terroni…abbiamo fatto successo!”. Edoardo Sylos Labini il 16 Aprile 2022 su Culturaidentita.it

La storia del fondatore di Asacert è quella di tante orgogliose famiglie del Made in Italy.

La storia di Fabrizio Capaccioli, fondatore di Asacert azienda leader in italia nelle certificazioni, non passa solo attraverso i numeri di bilancio ma fonda le sue radici, come scrive nel sito della sua società, nella valorizzazione e nella crescita del personale. Senza dimenticarsi però mai di suo nonno, minatore maremmano della Montecatini. Ecco il racconto del successo di una orgogliosa famiglia del Made in Italy.

Fabrizio, uno dei temi portanti di CulturaIdentità sono le nostre radici, le radici culturali, storiche. Le tue radici familiari ti hanno portato al compimento di un grande percorso imprenditoriale.

Sì, assolutamente ed ho piacere di ricordarle perché sono passaggi importanti della mia vita. Ricordare il vissuto lavorativo in un Paese che dimentica la propria identità. Il comparto minerario e chimico è stato completamente abbandonato: abbiamo venduto tutto – penso oggi all’evoluzione della Montecatini – e non abbiamo più investito in questo settore.

Tuo nonno era un minatore?

Era un minatore della Montecatini che poi si trasferì a Milano quando il comparto venne completamente dismesso intorno alla fine degli anni 60. Pensa a quanti italiani nel corso del Novecento hanno dovuto lasciare la propria terra cambiando vita e quanti hanno saputo dare un contributo lavorativo nelle città che li ospitava. Devo a mio nonno quella capacità di resilienza che mi ha fatto costruire un’azienda che oggi dà un futuro a me e alle persone che ci lavorano. Le mie radici affondano lì da dove partirono i nonni, dalla provincia di Grosseto nella Maremma.

Un’altra città identitaria per te è Milano?

La prima cosa che ho pensato era che ci chiamavano terroni, ma eravamo italiani. A Milano ci siamo dovuti ricostruire una vita, un’identità, una capacità di essere conosciuti ed integrati sviluppando ciò che Milano in quel tempo era: una città industriale. C’erano la Pirelli, l’Eni, le acciaierie Falck e c’era una fortissima cultura industriale ed il senso di appartenenza ad un’azienda che ti garantiva lo stipendio. Milano è oggi il motore economico del nostro Paese grazie anche al sacrificio di famiglie come la mia.

Un paese che però sta svendendo le proprie aziende?

Purtroppo è così! Nel corso degli ultimi 30 anni abbiamo disinvestito sulla cultura e sulla tecnologia in ambito industriale, perché secondo alcuni era più conveniente commercializzare prodotti provenienti da altri Paesi ed immetterli direttamente nel nostro mercato. Come è successo con la Montedison, uno dei più grandi poli chimico farmaceutici ed energetici, ceduta ai francesi nel 2012. Fino ad arrivare ad oggi, senza investire sulla produzione di energia da fonti rinnovabili perché qualcuno era convinto, come diceva Papa Francesco ,“di essere sano in un mondo malato”. 

Tornando indietro nel racconto familiare: arrivano gli anni 80 e la Milano da bere.

Sì, c’è stata la trasformazione in città dei servizi e della finanza con la chiusura di grandi centri industriali come alla Bovisa o a Sesto San Giovanni e in quel contesto, grazie ad un’iniziativa lungimirante e all’epoca di nicchia per i servizi, cioè i controlli e le certificazioni che alla fine degli anni ’90 venivano richiesti dal nascente apparato normativo europeo, è nata la mia azienda: Asacert

La tua creatura oggi è uno dei player più importanti

Asacert, nel mondo dei servizi, in Italia ma con una buona diffusione all’estero, sta ottenendo grandi risultati. Offre servizi di ispezione, certificazione e valutazione per supportare le aziende di qualunque settore e dimensione, in tutte quelle basilari attività di controllo.

Sei inoltre vicepresidente di Green Building Council Italia, la più grande organizzazione internazionale per il mercato delle costruzioni sostenibili.

La nostra mission è essere garanti nelle certificazioni nel mondo delle costruzioni, dove il prodotto finale dev’essere affidabile per la garanzia dell’utente che lo andrà a vivere.

Si parla tanto di sostenibilità, girano molti soldi, ma si fanno poche cose. Gestione “all’italiana”?

Spendere ogni euro pubblico vuol dire spenderlo in maniera coscienziosa e virtuosa. Abbiamo previsto grandi disponibilità economiche per il contenimento di energia ma non abbiamo pensato ad esempio ad altri fattori come l’aria e l’acqua che rendono necessari, sopratutto dopo 2 anni di covid, il contenimento delle malattie respiratorie all’interno degli edifici. Aver completamento omesso investimenti sulla ventilazione e purificazione dell’aria è un modo sbagliato di fare sostenibilità. Al momento tutte le procedure di controllo della spesa della finanza pubblica su queste iniziative sono solamente formali. Stanno emergendo gravi frodi ai danni dello Stato proprio perché nessuno controlla ciò che viene realizzato. Siamo un paese in cui si vive di passaggi di carte e da queste muoriamo soffocati.

Quale può essere una soluzione?

Dal mio punto di vista bisognerebbe incentivare in maniera tempestiva gli investimenti puntando sulle rinnovabili. Immagina se riuscissimo a coprire tutti i tetti d’Italia con impianti fotovoltaici, riusciremmo a coprire buona parte del fabbisogno energetico. Non il totale, ma potrebbe essere un grande passo in avanti. Noi ricordiamo nel 2011 un forte incentivo, poi tagliato da una scellerata scelta di un ministro che evidentemente riteneva non fosse più il caso di investire su queste tecnologia ed oggi ci troviamo a dire che dipendiamo troppo da energie provenienti dall’estero e che non siamo autosufficienti. Ora siamo in una condizione in cui, anche grazie ai fondi del PNRR, bisognerebbe investire in quella direzione. Dare contributi per la produzione di energia.

Ultima domanda, ma è su una parte importante della tua vita. Sei presidente di un Rotary, il Passport Innovation. Cosa vuol dire essere “rotariano”?

Vuol dire capacità di coesione con il contesto sociale con cui si opera, ma vuol dire anche pensare anche a chi ha meno di noi. Siamo fortunati di poter vivere in un importante realtà come il Rotary grazie anche alle relazioni e alle opportunità di business che si creano, ma dobbiamo pensare anche agli altri, come ci insegnò il nostro fondatore Paul Harris. Oggi a distanza di 100 anni dobbiamo tornare a quei valori. E con la guerra in Ucraina praticamente alle porte i nostri club devono dare un grande segnale di solidarietà alle popolazioni che stanno soffrendo.

La vera diseguaglianza che penalizza il Sud. Carlo Lottieri il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.

Recatosi nel capoluogo campano per presentare il cosiddetto "piano per Napoli", il premier Mario Draghi si è soffermato sull'esigenza di colmare insopportabili divari territoriali.

Recatosi nel capoluogo campano per presentare il cosiddetto «piano per Napoli», il premier Mario Draghi si è soffermato sull'esigenza di colmare insopportabili divari territoriali, sottolineando in particolare che il reddito pro capite del Mezzogiorno è ormai poco più della metà di quello del Centro-Nord, mentre il tasso di disoccupazione è più del doppio. Questo modo di comunicare volto a contrapporre Nord e Sud, però, è sbagliato e poggia su una prospettiva discutibile.

I problemi del Mezzogiorno, in effetti, non sono da ricondurre al suo dislivello rispetto alla Lombardia, alla Baviera o all'area londinese, ma semmai al fatto che il Sud ha seri problemi in tema di produttività, occupazione e redditi. Il costante rinvio retorico alla diseguaglianza tra aree stavolta da parte di Draghi, ma prima di lui da parte di tanti altri non è utile e neppure opportuno. A essere «insopportabile», in effetti, non è questo o quel divario, ma semmai l'arretratezza di molte infrastrutture e l'ostilità verso l'impresa che s'incontra in larga parte del Meridione.

Serve davvero a poco addebitare al Nord le difficoltà dell'economia campana o calabrese e il fatto che dal dopoguerra in poi il tasso di crescita di questa parte del Paese sia stato così basso. Se la società settentrionale ha avuto una colpa è stata soprattutto quella di accettare passivamente politiche volte a redistribuire risorse, che hanno tolto al Nord senza realmente aiutare la crescita del Sud. Al massimo, hanno sovvenzionato pure qualche impresa parassitaria settentrionale.

Nel programma annunciato da Draghi ci sono progetti per migliorare alcune infrastrutture pubbliche: dai trasporti ferroviari al porto partenopeo. Se i soldi saranno utilizzati bene e alla svelta, questo potrà aiutare a vivere e fare impresa. Al momento non si può quindi dire che, nel contesto attuale, tutto sia da rigettare.

Quella che manca, però, è una prospettiva orientata davvero alla crescita del Mezzogiorno. Non soltanto vanno accantonate le rivendicazioni basate sull'invidia o sul vittimismo, ma soprattutto si deve puntare a una piena responsabilizzazione dei territori, che li porti a gestirsi in autonomia e li metta in grado di sfruttare al meglio le loro potenzialità. In modo tale che quelli che oggi sono problemi possano trasformarsi in punti di forza.

Se al Sud vi fosse un vero autogoverno dei territori, questa o quell'area adotterebbero presto bassa tassazione e poche semplici regole. Il loro successo creerebbe fenomeni di imitazione, che potrebbero anche fare leva su un basso costo del lavoro. Si riuscirebbe a innescare un circolo virtuoso, basato sulla produzione e non sull'aiuto, sulla capacità di fare da sé e non su piani d'intervento predisposti a Roma oppure a Bruxelles.

Tra le altre cose, il patto per Napoli siglato ieri servirà a salvare il bilancio della municipalità, che altrimenti sarebbe andata in default. Non si tratta per nulla di un buon segnale, né di un'inversione di tendenza.

Da corriere.it il 19 agosto 2022.

Un medico di origini camerunensi, in servizio al pronto soccorso di Lignano Sabbiadoro (Udine) è stato bersaglio di insulti razzisti da parte di un paziente che ha rifiutato di farsi visitare proprio per via del colore della pelle del dottore. «Non toccarmi, sei nero!» è stata una delle frasi che si è sentito rivolgere Andi Nganso. é stato quest’ultimo a raccontare l’episodio sul suo profilo Facebook. Nganso ha ricevuto numerosi attestati di solidarietà tra i quali quello dal governatore del Veneto Luca Zaia.

«Nella notte del 17 agosto, mentre ero di turno al punto di primo intervento di Lignano, ho subito la violenza verbale razzista più feroce della mia vita e ho deciso, di concerto con il mio legale, di sporgere denuncia» è il racconto del medico. «Voglio poter condividere - spiega il medico - che la necessità di farlo non è legata al desiderio di una giustizia unicamente personale, ma è l’esigenza di manifestare un atto di resistenza a un odio e a un razzismo che non solo esistono in questo Paese ma che si fanno forti quando la prossimità di un appuntamento elettorale suggerisce che certe posizioni saranno tutelate».

«Intorno alle 4 di notte - ecco il dettaglio del racconto - entrava al presidio un’ambulanza con un paziente 60enne che riportava presunte lesioni multiple, conseguenti a una lite avvenuta poco prima in centro città. Dopo aver ricevuto le consegne dall’infermiera che lo aveva soccorso e che già lamentava di aggressioni verbali misogine nei suoi confronti, ho provato a entrare in comunicazione con il paziente e da lì una brutale e violenta valanga di insulti e minacce razziste di ogni tipo è iniziata». «Mi attacchi le malattie, non toccarmi, preferivo due costole rotte piuttosto che un negro di m...» sono alcune delle frasi pronunciate. Il medico, laurea in economia aziendale e medicina conseguita all’università di Varese, a quel punto ha deciso di chiamare le forze dell’ordine. Nel suo sproloquio il paziente ha tirato in ballo anche il presidente del Veneto (ma Lignano si trova in Friuli): «Se lo sa Zaia ti elimina...».

Il presidente della Regione Veneto Zaia ha subito condannato l’accaduto: «Va necessariamente fatta chiarezza assoluta su questo episodio, sul quale mi auguro ci sia modo di andare a fondo. Se un cittadino va in giro facendo il nome del Presidente della sua regione non significa che sia legittimato a parlare in nome e per conto del Presidente della sua regione. Soprattutto con simili affermazioni. Io ripudio nel modo più totale ogni forma di razzismo e di violenza sia verbale che fisica».

Cori razzisti contro Napoli: 12mila euro di multa al Verona. Supplemento d'indagine per i buuu a Osimhen. La Repubblica il 16 Agosto 2022.

Al Bentegodi si è ripetuta la vergogna degli insulti a sfondo razziale. Altri tremila euro per il lancio di oggetti in campo

Il giudice sportivo della Serie A, dopo la prima giornata di campionato, ha inflitto una multa di 12mila euro al Verona per i cori discriminatori dei tifosi nei confronti dei sostenitori del Napoli. Per i cori razzisti contro Osimhen dopo il gol del momentaneo 2-1, invece, il giudice sportivo ha chiesto un supplemento d'indagine perché "ritiene necessario che venga specificato" dalla procura federale "sentiti se del caso anche i responsabili dell'ordine pubblico, i sotto settori della curva sud, ove individuabili, da cui partivano i primi cori di discriminazione razziale". Altri 3mila euro di multa sono stati inflitti al Verona per lancio di oggetti. Dello stesso importo le multe all'Inter e al Lecce per lancio di bottigliette d'acqua in campo.

"Vesuvio lavali con il fuoco", nuove gravi offese contro i napoletani. Ignazio Riccio l'11 Aprile 2022 su Il Giornale.

Una domenica da dimenticare per i tifosi partenopei, i quali hanno mal digerito la vittoria della Fiorentina e soprattutto le frasi razziste di alcuni supporter viola.  

Non solo la sconfitta sul campo, con un 2 a 3 che rende in salita il cammino del Napoli verso lo scudetto, ma anche gli ennesimi cori contro i napoletani giunti dal settore ospiti dello stadio. Una domenica da dimenticare per i tifosi partenopei, i quali hanno mal digerito la vittoria della Fiorentina al “Maradona”. Ancora una volta, la squadra viola ha messo i bastoni tra le ruote agli azzurri, che viaggiavano spediti alla conquista della vetta della classifica con una serie di risultati positivi consecutivi. Ma a far male ai napoletani sono stati i soliti cori offensivi ascoltati prima dell’inizio della partita.

Alcuni pseudo tifosi della Fiorentina avrebbero urlato all’indirizzo dei 50mila supporter del Napoli frasi come: “Vesuvio lavali col fuoco”, le stesse utilizzate in occasione di Atalanta-Napoli appena una settimana fa. Sembra essere diventata un’abitudine quella dei tifosi delle squadre del nord di inveire contro i napoletani usando espressioni discriminatorie e razziste. Adesso le immagini delle telecamere dovranno essere vagliate per identificare gli autori dei cori offensivi che potrebbero essere puniti con il Daspo.

Purtroppo, come riporta il quotidiano napoletano Vesuvio live, non sono solamente i tifosi del nord a prendersela con gli abitanti della città partenopea. Anche in Campania ci sono ultrà di squadre della regione che offendono il popolo partenopeo. È accaduto, infatti, che cori razzisti si sono sentiti anche dagli spalti dello stadio di Avellino, dove i tifosi della compagine locale hanno attaccato gli avversari della Turris, la squadra di calcio di Torre del Greco, città proprio del Vesuviano.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 14 marzo 2022.

Stavolta il calcio, la partita, la classifica viene dopo. Qualcuno - oltretutto firmandosi - ha deciso di oltrepassare un limite che ritenevamo invalicabile, quello del male assoluto. Per cui penso che la cosa non possa essere risolta con la classica parentesi di web-indignazione o con una multa del giudice sportivo: che prezzo, quale valore economico potrà mai attribuire allo striscione esposto nella notte tra sabato e domenica all’esterno del Bentegodi? Non faccio il moralista professionista, Dio me ne scampi, e con gli anni ho maturato una preoccupante forma di disillusione, che non significa resa però: credo di interpretare l’irritazione non solo di una città, ma di un Paese nel quale non tutto può essere permesso. Non oggi, non con i bombardamenti e i profughi alle porte di casa.

Non è stato semplice passare sopra “Lavali col fuoco” o “terroni, puzzate di merda”, alcuni dei messaggi più infami esposti dalle nostre curve. Anche cori come “devi morire” rivolti all’avversario a terra sono entrati purtroppo nella penosa treccani degli sfottò da stadio, ma tra “Lavali col fuoco”, che ebbe in risposta “Giulietta è una zoccola”, e le coordinate per bombardare Napoli corre una differenza sostanziale che non può essere ignorata neppure dal più demente dei tifosi.

Perché non si tratta più di tifo, ma di estremismo. E l’estremismo non sollecita la risata, anche la più idiota. È benzina sul fuoco della violenza. È violenza chiamata, cercata. Se poi aggiungo che si tratta di estremismo idiota non pensate che intenda fornire attenuanti tipo “infermità mentale”, come vorrebbe il giurista, o accolga il suggerimento di certi maestri dei social che ricorrono al paradosso o alla satira per giustificare gli eccessi. No. Trovo invece imbarazzante per i veronesi “normali” il confronto con lo humour partenopeo ormai diventato leggenda.

Gli ultrà del Bentegodi continuano a sparare idiozie e nessuno di loro, in decennali battibecchi, ha mai pensato a difendere Giulietta. La poverina è rimasta una zoccola e come tale è stata arruolata. E con Romeo, come la mettiamo? 

PS. La presa di distanza del Verona è stata tanto opportuna quanto debole poiché generica. Questo il testo del tweet postato nel pomeriggio sul profilo ufficiale: «Hellas Verona FC si fa portavoce, oggi come sempre, di un messaggio di pace, condannando qualsiasi atto, gesto ed esternazione che possano generare - in qualsiasi forma e misura - incitamento all’odio, alla violenza e alla discriminazione».

Nessun riferimento allo striscione e a chi se l’è attribuito. Conosco il presidente Maurizio Setti da molti anni, lo considero un amico, ma conosco anche il nostro calcio, le relazioni spesso non volute, subite, che lo complicano e lo insudiciano: so che è un mondo governato dalla paura e la paura è la camera oscura dove si sviluppa il negativo.

Maurizio De Giovanni per il “Corriere della Sera” il 14 marzo 2022.

Bisogna resistere alla solita tentazione, quella di ignorare. Perché le ragioni di voltarsi dall'altra parte sarebbero tante, e tutte buone: non dare rilevanza, non regalare pubblicità, non alimentare risentimenti anche se giustificati, non farci andare di mezzo i tanti, tantissimi (sperabilmente la stragrande maggioranza) che non condividono. Tutto giusto, per carità. 

Però a volte la creatività malata degli imbecilli si sposta talmente in là da richiamare inevitabilmente l'attenzione. E si scopre, una volta di più, che stare in silenzio con un condiscendente sorrisetto di superiorità può diventare autolesionista in maniera irreparabile. Lo striscione comparso nella notte a Verona appartiene alla categoria dei messaggi che allargano il territorio dell'idiozia. Non facile, a dire il vero: bisogna avere una certa dose di fantasia, ed essere pronti ad applicarla con pertinace faccia tosta. In sintesi, sullo striscione compaiono le bandiere di Russia e Ucraina, nobilmente affiancate sopra le coordinate geografiche della città di Napoli, come a indicare un opportuno bersaglio missilistico. 

 La firma «Curva sud» è esplicita, e chiude questa interessante breve narrativa per immagini. Ora, è un fatto che da molti anni la città di Napoli è il bersaglio preferito dell'imbecille ottusità delle peggiori curve d'Italia. Non è necessario che sia in campo la squadra azzurra, né che sia in ballo un risultato sportivo di particolare importanza. Non di rado addirittura le due tifoserie coinvolte si uniscono in beceri cori ostili, che invocano eruzioni vulcaniche, terremoti e malattie epidemiche che possano finalmente cancellare un popolo dalla faccia della terra. In alternativa e più bonariamente, si fa riferimento chissà perché all'igiene personale e al cattivo odore che noi napoletani emaneremmo, da far scappare perfino i cani. Questo malcostume è avallato dalle istituzioni sportive, che arrivano al massimo a comminare una multa di una decina di migliaia di euro alla società ospitante: meno che per un fumogeno, assai meno che per un ululato razzista che pure ha esattamente gli stessi contenuti.

Figurarsi poi lo Stato, sempre così pronto a voltarsi dall'altra parte in territori di altrui stretta competenza. Così, di domenica in domenica, la pancia razzista e vigliacca di questo Paese erutta i propri miasmi senza che nessuno alzi un dito. Tanto, si sa, i napoletani sono abituati a essere insultati da sempre. Goliardia, si dice con un'alzata di spalle. Simpatici sfottò, qualche volta appena sopra le righe. Perfino importanti esponenti di forze politiche, che adesso si propongono come nazionali, tendono a rubricare così questi insulti e questi auguri di sterminio. A noi, francamente, sfugge l'ironia: colpa nostra, evidentemente. Adesso però i limiti della cosiddetta goliardia sono stati frantumati. Con ammirevole precisione, e un aggiornamento invidiabile rispetto alla stretta attualità, chi ha redatto quello striscione scomoda una guerra in corso. Morti, feriti. Bambini straziati, donne incinte sanguinanti.

Colonne di persone in fuga verso l'ignoto, e dietro di loro colonne di carri armati all'inseguimento. Tutto documentato con rigore da televisioni, siti web e radio. La guerra, quella vera. Perché non sfruttarla per questa meravigliosa occasione, avranno pensato gli allegri burloni della curva sud. Conosciamo e amiamo Verona, una delle città più belle e colte d'Italia. Una città che ospita templi dell'arte e della musica, piena di storia. Non possiamo credere che si accetti, in quel luogo splendido, che il nome amato da Shakespeare sia insozzato da questi imbecilli. La guerra è l'apoteosi della stupidità umana. Si combatte in genere per i confini. State tranquilli, ragazzi, voi non correte questo rischio. La vostra stupidità di confini non ne possiede.

Da video.corriere.it il 10 febbraio 2022.  (LaPresse) Scambio di battute fra il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, catturato da LaPresse al termine della conferenza stampa di presentazione dell'accordo fra A2A e Politecnico. Il governatore, rivolto al primo cittadino, dice: «Caro Beppe, è un casino il Pnrr e noi mettiamo a terra un ca**o». E Sala risponde: «È questo, adesso va bene tutto. 

Noi dobbiamo farci un po' più furbi su questa cosa e fare un po' più di sistema obiettivamente tra tutti. Io sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud, ho capito, ma l'innovazione… Però io non ho veramente niente da contestare. Voglio chiarezza, perché è evidente che noi abbiamo una progettualità…». Quindi, il presidente della Lombardia conclude: «Voi siete in grado, perché il Comune di Busto Arsizio che ca**o fa? Che non è un Comune piccolo quello di Busto Arsizio…».

DAL PENSIERO MERIDIONALE DI DON LUIGI STURZO. Michele Eugenio Di Carlo il 3 marzo 2022.

Nel famoso discorso che tiene a Napoli il 18 gennaio 1923 , in occasione del quarto anno della fondazione del partito, don Luigi Sturzo afferma subito con orgoglio che nel programma del Partito Popolare, sin dalla fondazione, era indicata «come affermazione fondamentale», e per la prima volta in Italia, «la risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno». Altri partiti avevano manifestato la stessa volontà, ma solo sul piano teorico e senza entrare nel merito degli «aspetti tecnici, finanziari, economici, morali».

Nei 30 anni precedenti sulla questione meridionale si era prodotta una «larga e vasta» letteratura, ma non un’ «impostazione politica» vera e propria, tentata solo da «voci isolate, inascoltate» a cui non aveva fatto seguito «un’azione concorde e forte», poiché non era mai stato superato lo «stato psicologico» di inferiorità di attesa di una risoluzione esterna, mentre – secondo Sturzo – toccava ai meridionali creare «un programma politico della questione meridionale», al di là dei partiti politici disgreganti, facendolo «divenire, con la efficacia delle minoranze concrete, un pensiero generale degli italiani».

L'attualità di queste parole dimostra che la conoscenza della storia passata è fondamentale per capire il presente e progettare un futuro migliore. A cura di Michele Eugenio Di Carlo

Lessico meridionale: Una moneta per una parola d’argento. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 febbraio 2022.

Non si può scrivere un libro al giorno, né leggere un libro al giorno. Questione di ozi troppo risicati che non permettono dibattiti o riflessioni prolungati. Ma un giornale, sì, si può leggere giorno per giorno. Si deve farlo. E benedicendo l’industrie genialità dell’orafo Gutenberg si può anche scriverlo e stamparlo. Se si è in molti. E in molti che non vadano troppo d’accordo, così discutono a maggior vantaggio per la verità.

Il giornale che stiamo leggendo si chiama «La Gazzetta del Mezzogiorno»: sono stato invitato a scrivervi e il direttore mi propone di scegliere, ogni domenica, una parola su cui meditare liberamente e scegliere la via dell’etimologia o quella della stimolante riflessione sugli usi del lemma.

Ho scelto la parola «Gazzetta» per cominciare, anzi, per ricominciare. L’etimo è molto dibattuto: la parola gazzetta, per come la usiamo, nasce nella seconda metà del 1500, dal nome del giornale veneziano «La gazeta dele novità» che prese questo nome perché costava giusto una gazeta che era una monetina d’argento.

Nel tempo moderno gazzetta divenne un nome comune di periodico, di giornale, in tutta Italia. La nostra è «La Gazzetta del Mezzogiorno», bello! E lo Stato Italiano addirittura promulga le sue leggi pubblicandole sulla Gazzetta Ufficiale.

Ed è ingente l’editoria di giornali che difendono il nome Gazzetta (segue il nome di una o più città). Più che un nome, una graziosa antonomasia. I giornali erano gli altri, quelli nazionali, che si stampavano in altre città o i periodici. Me li ricordo bene perché io, da bambino, ho sognato di fare il giornalaio. Non il giornalista, il giornalaio. Volevo troneggiare su di uno scranno in mezzo alla carta di tutti i colori e di inebriarmi di quel profumo scomparso che allora aveva la carta stampata. Pensavo: «Leggerò gratis tutti i giornali e i giornalini». Mio padre comprava «La Gazzetta del Mezzogiorno» tutti i giorni andando al lavoro e la portava a casa all'ora di pranzo ancora intatta. Era il segno certo che mio padre in ufficio lavorava. Forse dopo aver dato solo una «scorsa» ai titoli della prima pagina. Il mio turno per sfogliarla veniva dopo la sua siesta. Leggevo i titoli, mi avventuravo anche nella lettura di qualche articolo, guardavo le fotografie, soprattutto quelle che riprendevano fatti e persone stranieri e mi soffermavo sulle locandine dei cinematografi tutte incastrate in un ben ordinato cartellone: prima, seconda e terza visione.

Anche il mio maestro di scuola, un uomo buono e saggio munito di alteri baffi da bersagliere ciclista, comprava la «Gazzetta» che lui chiamava, per antonomasia irremovibile, «il giornale». L’acquistava e la riponeva nella tasca laterale della giacca, maestosamente informe anche di inverno. Il giornale, ripiegato in quattro, trovava posto verticalmente sempre nella stessa posizione e io potevo leggere la parte finale della testata: «iorno». Ricordo di aver letto talora «La Gazz», il che voleva dire che il maestro una squadernata sbrigativa al giornale l’aveva data. «La gazzetta» nostra ha un nome così lungo che, comunque la pieghi, riconosci la testata.

Più tardi scoprii che quel giornale si «faceva» in un bel palazzo vicino alla stazione dei treni. A me sembrava un vanto della città con quell’aria cosmopolita e quella cupola maestosa.

Ora quel palazzo magniloquente non c'è più. Peccato. Ricordo dei Telamoni pletorici e raccolti nello sforzo tremendo di reggere le finestre del primo piano e delle bocche di lupo a filo della strada da cui si vedeva il lavoro dei tipografi che si davano da fare intorno a macchine nere e lucide. Pensavo che reggessero tutta la «Gazzetta del Mezzogiorno». E al bimbo che ero, sfuggiva la metafora. Sono certo che, oggi, «La Gazzeta» farebbe una campagna per salvare quell’opificio.

Capitò anche a noi, giovanissimi teatranti, di aspettare lì davanti, con ansia, la critica ai nostri debutti tirando tardi la notte per gettarci sulle prime copie della «Gazzetta» e leggere e commentare. Eravamo cresciuti: la leggevamo da cima a fondo. Eravamo cresciuti e, finché si fosse rimasti a Bari, allora lo sapevamo bene, nessuno ci avrebbe fatto sconti. Oggi i teatranti sanno fare i conti.

Dopo, solo dopo, una volta partiti per la vita, saremmo stati benvoluti e aspettati: non rese di conti, ma rimpatriate. Capita di leggere, infatti, e sorrido di cuore, del «nostro Michele Mirabella». Ci tengono alla «Gazzetta». E, detto apertamente, ci tengo tanto anch'io

Quanti comizi sul Mezzogiorno. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 febbraio 2022.

Che bella parola: «Mezzogiorno». Evoca scampanii e luce. Prelevata dalla rosa dei venti, ci ricorda il sole a picco e ombre cortissime. Sull’orologio delle devozioni domestiche indica ore preziose di un tempo perduto in cui la giornata cominciava all’alba e si chiudeva al tramonto ed era il tempo della fatica umana.

Il mezzogiorno segnava la metà di un orario che non aveva sirene né allarmi o sveglie: era scandito dal sole e dalla notte. Pascoli acquerella il «santo desco fiorito d’occhi di bambini» cui il suono delle campane di mezzodì chiamava radunando al «rezzo, alla quiete».

La mia generazione ha famigliarizzato con questa parola in un suo versatile sfruttamento geopolitico che stava ad indicare il Sud d’Italia. Dal dopoguerra si parlò di Mezzogiorno in questa accezione non astronomica, ma sociale ed economica e io ne ho un ricordo bizzarro legato ad un aneddoto che vissi da adolescente.

In una piazza di Bitonto, durante un’ennesima campagna elettorale, un tale si infervorava sul palco per un comizio. A quel tempo pretelevisivo i comizi erano un passatempo per molti, me compreso, e nelle piazze si avvicendavano tribuni d’ogni tacca e rango, sullo stesso palco cui venivano cambiati il panneggio, le bandiere e i cartelli secondo i partiti di turno. Si cambiava anche l’inno e lo spettacolo proseguiva per l’identico pubblico che celebrava, così, non l’appartenenza personale, ma solo una rustica democrazia appena ritrovata. Coppole, dunque, a profusione e cappe scure di braccianti delusi dal «compratore».

La musica era gracchiante, ma l’effetto dell’Inno dei Lavoratori o di Bianco fiore garantito. Il MSI aveva rinunciato al repertorio del bieco ventennio e optava per un Inno a Roma di Puccini, allusivo, ma inoffensivo: bellissimo. I comunisti ostentavano il loro Bandiera Rossa. Il comizio cominciava con entusiasmo. Rarissime le intemperanze, ma frequenti le interruzioni, anche pittoresche.

Una sera parlava un rappresentante dei lavoratori (se lo disse da solo) e delle donne. Anche questo titolo se lo attribuì lui, senza alcuna tema di essere smentito dato che di donne non ve n’erano che tre o quattro: taciturne e un poco spaesate: al tempo, era raro che assistessero ai comizi. Incipit protocollare: ringraziamenti alle locali autorità del partito. Seguì la parte più politica nella quale il nostro sembrò accalorarsi, individuando il nodo dei problemi da risolvere: il «Mezzogiorno».

Notai il comico stridore tra la prosa marmorea e tribunizia e l’inconfondibile dizione pugliese così cantilenante e piena di o strette e di e spalancate dove non ci vogliono che funestava l’affabilità dell’oratore.

«La questione del Mezzogiorno è in testa ai programmi del partito che rappresento» avvertiva, rude. E poi ammoniva «Se non si risolve il dramma del Mezzogiorno non si risolve il dramma del Paese». E proseguiva con esempi efficaci avviandosi a concludere con un commovente «Per le famiglie del Mezzogiorno arrivano solo fame e povertà», destinato ad infiammare gli animi.

Un tale che aveva ascoltato sotto il palco, col naso all’insù per tutto il tempo, non perdendo una parola, una minaccia, un auspicio, alzò la mano e disse «Scusa compare!». Cortese, ma perentorio. Ottenuto il silenzio, proseguì in un dialetto italianizzato che traduco: «Il Mezzogiorno ancora ancora arrangiamo. È la sera che non teniamo niente da mangiare». La questione meridionale era servita.

Mi sono chiesto, anni dopo, cosa pensasse l’anonimo bracciante della «Cassa per il Mezzogiorno». Anche lui, come tanti, avrà trovato obliquamente iettatoria la denominazione. Da noi, popolo frugale, si sa, la cassa di rado è quella cui si erano riferiti De Gasperi e Saraceno. Più tardi alcuni vollero equivocare e la chiamarono «Cassa DEL Mezzogiorno».

Ancora si torna a parlare del Mezzogiorno e ancora con il codazzo di sigle e parole d’accompagnamento: tavolo, agenzia, piano per il Mezzogiorno. E si parla, si parla e si discute. Qualche volta si evita di discutere per evitare di litigare, più spesso si litiga e basta. E rispuntano polemiche, dispute, conflitti di competenza. Spariti i comizi. Ci sono i «social». Meno attendibili e molto meno divertenti.

E se questa volta il Sud cominciasse a fare da sé preoccupandosi di far da mangiare al mattino, al Mezzogiorno e alla sera?

Mi risulta che lo stia cominciando a fare. Con coraggio e allegria. Il titolo di questo giornale, oggi, vuol dire anche questo. Se si lavorerà con quella convinzione e quella tenacia che i meridionali dimostrano quando vanno a lavorare a casa d’altri, potremo invitare a pranzo i detrattori e i litigiosi. Scelgano loro: di sera o a mezzogiorno.

Luca Zaia: «Noi veneti nei film eravamo solo storditi o cameriere ingenuotte». Luciano Ferraro su Il Corriere della Sera il 26 febbraio 2022.

Viene da una famiglia povera e ha cominciato a lavorare da bambino («passavo l’estate nell’officina di mio padre e lui mi pagava»), poi è arrivata la politica. «Da ragazzo ho organizzato un baccanale in discoteca e ho visto che funzionava, quei soldi mi servivano per l’università». 

Luca Zaia, 53 anni, governatore del Veneto ed ex ministro. Il suo debutto in politica è datato 1993, quando fu eletto consigliere comunale della Lega . Nella foto in piazza San Marco il 15 novembre 2019 quando una marea record sommerse quasi tutta Venezia (foto Agf)

Ha lavorato 20 ore al giorno da febbraio a giugno 2020, «senza tregua e sotto stress. Come ho fatto? Ho resistito grazie all’amore per il Veneto». Dorme due o tre ore a notte. E come accade a tutti gli insonni, nel buio si affollano i ricordi. Che hanno preso la forma di un libro, Ragioniamoci sopra (da un tormentone di Crozza, che lo diverte quando lo imita). Editore rigorosamente veneto, Marsilio. Non poteva essere altrimenti, perché per il governatore Luca Zaia, il Veneto è il centro del mondo. Ne parla come la regione del fare, ed è il primo ad aver fatto: meccanico con il padre, manovale, produttore di creme anti dermatiti, istruttore d’equitazione, pr per discoteche, raccoglitore di capi per le lavasecco. Poi politico. «No, amministratore», precisa. Rieletto con quasi il 77% dei voti, domina nello Zaiastan (copyright Massimo Cacciari). Con i “suoi” sindaci comunica in dialetto, sciorinando proverbi (uno sempre buono: Scoa nova, scoa mejo , scopa nuova, scopa meglio). Non ha visto La sposa , la fiction Rai in cui un rozzo veneto “compra” una sposa-schiava in Calabria. «Un fenomeno inesistente nel Veneto», si arrabbia «pura invenzione».

Nessun arrivo di lavoratori dal Sud?

«Qui non c’erano grandi industrie. Il modello è stato il metalmezzadro, l’operaio-contadino. Piccole aziende, 2,5 ettari in media. E poi un formicaio di micro industrie, un’economia diffusa, l’opposto del gelo della grande Torino. I lavoratori del Sud sono arrivati sì, ma negli uffici pubblici, scuole e Poste».

«NOI VENETI SIAMO STATI VITTIME DEGLI STEREOTIPI DEL CINEMA». LA FICTION RAI IN CUI UN ROZZO VENETO “COMPRA” UNA SPOSA-SCHIAVA IN CALABRIA?. «UN FENOMENO INESISTENTE NEL VENETO, PURA INVENZIONE»

Lei viene da una famiglia di migranti.

«Mio nonno Enrico andò a lavorare in Brasile. C’è stato un grande flusso a fine Ottocento: ci sono più veneti fuori dal Veneto che nel Veneto».

È vero che lei ha tenuto un comizio in Brasile parlando in dialetto?

«C’erano tremila persone. In alcune zone la lingua ufficiale è il talian , il dialetto arcaico. E quando mangiano la minestra ci versano il vino, come mio nonno. Nel Dopoguerra i veneti sono migrati in tutto il mondo, dal Belgio all’Australia».

Suo nonno diceva che dove passavano loro la giungla era bonificata.

«È ancora così, dove non hanno lavorato è rimasta la giungla».

Anche sua madre è migrata per lavoro?

«Mia mamma Carmela è andata a servire, ha fatto la colf e la tata, si direbbe ora».

Come nelle commedie all’italiana degli Anni 60.

«I veneti sono stati a lungo vittime degli stereotipi: nei film erano veneti i carabinieri un po’ storditi e le cameriere ingenuotte. Grandi diffamatori nazionali ci hanno descritto per decenni come abitanti della periferia dell’impero».

«MIA MADRE VIVEVA CON DIECI FRATELLI: IN MEZZO ALLA TAVOLA C’ERA UN SOLO POLLO, CHE DOVEVA BASTARE PER TUTTI»

Sua madre ha raccontato di aver visto per la prima volta un piatto di carne a 18 anni. Cosa si mangiava a casa?

«Pochi giorni fa, al compleanno degli 80 anni di mio padre, l’abbiamo ricordato. I miei nonni, polenta e latte. Oppure zampe di gallina. Mia sorella ha chiesto: ma con una famiglia così grande quando mangiavate il pollo, quanti polli c’erano a tavola?. E mia mamma: uno».

«La sposa», quella fiction Rai che non piace a Veneto e Calabria, di Marzio Breda, Antonio D’Orrico, Renato Franco

Televisione, «La sposa» a Vicenza. Fiction con polemiche da Nord a Sud, di Alice D’Este

Luca Zaia: «Draghi resti. Lui eletto al Quirinale? Solo con tanti voti al primo scrutinio»

di Cesare Zapperi

Luca Zaia sprona la Lega a fare i congressi: «Impensabile non celebrarli» di Martina Zambon

Zaia: «Le mie dirette sul Covid? Presidio contro le fake news» di Marco Cremonesi

Zaia: «Cambiamo strategia sul Covid, immunità di gregge raggiunta. E il 31 marzo finisca l’emergenza» di Mauro Giordano

Quanto era grande la famiglia?

«Mia nonna aveva 11 figli. Sua sorella, che ne aveva 6, morì giovane. E la nonna li adottò tutti».

Cosa si impara da una famiglia così?

«La solidarietà e l’umanità, valori che mi porto dentro».

Valori condivisi nel Veneto degli schei ?

«I veneti sono gran lavoratori, gente per bene. Uno su 5 fa volontariato. Siamo primi per donazioni di organi a livello nazionale. Abbiamo dimostrato ingegno per arrivare all’attuale benessere. Negli Anni 50 eravamo era un popolo di contadini, alfabetizzazione quasi zero. Ora ci sono 600 mila imprese, 180 miliardi di fatturato, anche la più innovativa delle idee qui mette radici».

Ora il Veneto è ricco.

«Tutto il mondo si rifornisce da noi perché siamo bravi nel saper fare. Un grande industriale mi ha raccontato: costruisco macchinari da milioni di euro, ma quando devo montarli mi serve un veneto. Uno che se manca una rondella si guarda in giro e la trova. Dopo lo sdoganamento economico c’è stato quello culturale. C’è una generazione di super laureati con il master».

Le credono quando racconta che in prima elementare facevate i turni per alimentare la stufa a legna?

«Era la normalità. Eravamo poveri, ma ho avuto un’infanzia felicissima. La stufa in classe era una prova d’abilità, lo sportello era rovente, dopo che il primo bambino si è scottato, abbiamo imparato la lezione».

«ABBIAMO PROFONDE RADICI CATTOLICHE, IL BIGOTTISMO NON C’ENTRA. HO FATTO IL CHIERICHETTO FINO A 14 ANNI, MI ANNOIAVO MAHO RESISTITO»

Poi ha fatto il chierichetto, per un bambino veneto era quasi obbligatorio?

«Sì, abbiamo profonde radici cattoliche. Il bigottismo non c’entra. La solidarietà e la compassione vengono da questa cultura. I chierichetti erano tanti, riempivano tutto il retro altare. Mi annoiavo, ma ho resistito fino a 14 anni. E distribuivo Famiglia cristiana e giornale parrocchiale. In bici, con un carretto. Che serviva anche per la questua, raccoglievamo salumi e formaggi per i preti».

E il primo lavoro com’è arrivato?

«Da una festa di classe. Ho organizzato un Baccanale in una discoteca. Ho capito che poteva diventare una opportunità. Era un Veneto in cui bastava uno spunto per trovare un lavoro. Ho inventato gli inviti da distribuire sulle spiagge e tra i ragazzi al bar. Il guadagno serviva a pagarmi gli studi. In quel periodo ho conosciuto tante persone che ho ritrovato come avvocati, medici, imprenditori. E tanti personaggi: Amadeus, Fiorello, Albertino...».

«A 8 ANNI LAVORAVO D’ESTATE NELL’OFFICINA DI MIO PADRE... QUANDO ARRIVAVA IL MEDICO DEL PAESE, PULIVO I VETRI DELL’AUTO. SIAMO STATI EDUCATI COSÌ, AD AVERE RISPETTO»

Nel libro ha scritto che la laurea è stata il «riscatto sociale di un figlio del popolo».

«Della mia famiglia sono il primo laureato. Lavoravo tutte le estati nell’officina di papà. Conservo ancora l’agendina in cui segnavo le ore: papà era molto rispettoso, mi pagava, certo una cifra simbolica, avevo 8 anni».

Cosa faceva?

«Quando arrivava il medico del paese, pulivo i vetri dell’auto. Siamo stati educati così, ad avere rispetto».

Il medico era la star del paese.

«Come il maestro, il prete e il geometra. E anche il norcino, il porzeler , una vera autorità alla quale si affidava il bene più prezioso per un famiglia da sfamare, il maiale».

A proposito di proverbi, spesso cita “anno bisesto, anno senza sesto”.

«I proverbi sono filosofia popolare, imparati dai contadini che non citano Platone e Socrate. All’anno bisesto e funesto non ho mai creduto, non sono superstizioso: ma il 21 febbraio 2020 con iI primo morto di Covid in Veneto ho pensato che eravamo entrati nell’anno più buio».

Già prima, per lei, non erano stati anni allegri.

«Nel 2010 l’alluvione a Vicenza, 270 Comuni sott’acqua. Nel 2019 la tempesta Vaia, 100 mila ettari di alberi a terra. Nello stesso anno l’acqua alta a Venezia come non accadeva da 50 anni. Poi è arrivata la pandemia».

Aveva detto, ricordando un detto della Serenissima, che sarebbe durata «do Pasque e un Nadal».

«È durata un po’ di più. Nella pandemia del 1630 solo a Venezia morirono 80 mila persone. Questa volta in tutto il Veneto ne sono morte 13.500. Grazie alla sanità veneta e ai vaccini. E anche alle decisioni sulle chiusure e sui tamponi a tappeto che ho preso da solo, mentre molti mi attaccavano».

Le Dolomiti (dove è riuscito a portare le Olimpiadi) o le colline del Prosecco per cui vi siete battuti con l’Unesco, ora promosse a Patrimonio dell’Umanità. A cosa tiene di più?

«Ma dove trovi un posto dove in due ore di auto passi dallo sci sul ghiacciaio della Marmolada ai bagni a Jesolo? Il Veneto è talmente bello che è quasi difficile da credere, per fortuna i turisti lo capiscono: 72 milioni di presenze l’anno».

Ad emergenza finita, dove andrà in ferie?

«Penso di restare nel Veneto. Al massimo stacco una settimana l’anno. Con me la Regione è sempre aperta, anche a Ferragosto. Avevo un cavallo e mi piacevano le escursioni, è morto durante la pandemia. Ma resto ottimista, solo i pessimisti non fanno fortuna. Dopo la pioggia viene il sereno».

La ‘vera’ Sposa calabrese (dopo la miniserie con Serena Rossi): «Vidi il mio futuro marito in foto, non mi piacque». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.  

La miniserie di Rai1 «La Sposa» ha raccontato i matrimoni combinati tra Nord e Sud. Abbiamo chiesto a Salvina, che ha 74 anni e fu una delle “fidanzate” spinte alle nozze, di dirci come andò: «Arrivai nelle Langhe e fu durissima. Non parlavo il dialetto, ero sola e mi sembrava che la gente mi guardasse in modo velenoso». 

Valerio Giordano e Salvina Mustica durante la cerimonia in chiesa, il giorno del loro matrimonio a Lequio Berria, nelle Langhe: era il 13 agosto 1967

«Quella mattina sono arrivata davanti alla chiesa e ho sentito addosso gli occhi della gente. Mi fissavano tutti in un modo che mi faceva sentire straniera. Camminavo e pensavo: chissà che commenti velenosi staranno facendo...» Perché velenosi? «Perché non ero una di loro, ero una terrona. Avranno avuto da ridire sul vestito, sulla pettinatura, sul fisico... Sono rimasta a testa bassa per tutto il tempo. Mi sono sentita triste, è stato un giorno brutto. E si vede anche nelle fotografie, non ce n’è una in cui sorrido». Ma era il giorno del suo matrimonio! «Eh... appunto». Lei si chiama Veneranda Salvina Letizia Mustica, per tutti Salvina, classe 1947, ultima di 10 figli. È nata e cresciuta a Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria, ma la sua vita è nelle Langhe da quando aveva 18 anni. Nel piccolo Comune montano in cui si sposò dopo averci messo piede un paio di volte - Lequio Berria - quelle come lei le hanno sempre chiamate “calabrotte”.

Il destino di una «calabrotta»

Per capirci: se sei una calabrotta sei una giovane calabrese che negli Anni 50, 60 o all’inizio dei 70, ha accettato un matrimonio combinato con un ragazzo delle Langhe, magari visto una sola volta in fotografia. Calabrotta vuol dire che per combinare il tuo incontro con il futuro marito si è mosso quasi certamente un “bacialè”, che nel dialetto langarolo sarebbe un “ruffiano” ma che negli usi e costumi di quegli anni e di quei luoghi era una specie di mediatore matrimoniale: uno che - dietro compenso o regali - si dava da fare per trovare «una signorina», come si diceva allora, a un ragazzo da maritare. Sepolto dal tempo, il tema dei matrimoni combinati si è affacciato di recente sulla scena televisiva con la fiction di Rai 1, La sposa, molto gradita al pubblico (a giudicare dallo share) ma diventata spunto di polemiche sia in Calabria sia in Veneto, dov’era ambientata.

Le reazioni di Zaia e Spirlì

«Un fenomeno da noi inesistente», se l’è presa il presidente del Veneto Luca Zaia, infastidito dalla rappresentazione del veneto rozzo che «compra» una sposa-schiava calabrese. «Continuano a sfornare fiction trattandoci come orangutan», ha commentato dal versante Sud l’ex collega Nino Spirlì, arrabbiato per un bel po’ di dettagli che a suo dire non tornano nella sceneggiatura e convinto che a quei tempi il Veneto fosse «più depresso della Calabria». Può darsi. Ma se sul fronte Nord-Est si fatica a trovare tracce di quella migrazione matrimoniale, chiamiamola così, su quello Nord-Ovest si inciampa nelle tracce, per quante se ne trovano: in Piemonte - soprattutto nelle Langhe - le calabrotte sono un esercito e ci sono associazioni culturali che chiedono per loro l’onore di un monumento .

Signora Salvina, lei lo sa, vero, che vi chiamano calabrotte?

«Certo. Non credo che sia detto in termini offensivi».

No. Ma si intende quasi sempre una ragazza sposata con un matrimonio combinato. Il suo fu un matrimonio combinato?

«Beh, sì. Avrei potuto rifiutarmi, certo. Ma è stato 55 anni fa, a quei tempi ci si pensava mille volte prima di dare un dispiacere ai genitori, ed era dispiacere anche dire un semplice no...».

L’attrice Serena Rossi nella locandina della mini serie fiction andata in onda su Rai1 che racconta la storia di un matrimonio combinato tra una calabrese e un veneto 

Cosa successe esattamente?

«C’era una paesana sposata, qui nelle Langhe. Un ragazzo che cercava moglie disse a suo marito: ti sei trovato una bella ragazza, nel paese di tua moglie non ce n’è un’altra che vuole venire al Nord e sposare me? E così il marito di quella donna si mise in contatto con un mio zio che faceva il bacialè e che viveva in Calabria: se qualcuno aveva bisogno di una ragazza da sposare, lui tesseva la rete dei rapporti, si dava da fare e guadagnava qualche soldo. Dalle mie parti si dice “cumpare”».

«LA MIA FAMIGLIA PROVÒ A CONVINCERMI IN TUTTI I MODI, ERO ACCERCHIATA. PRIMA DI SPOSARMI INCONTRAI VALERIO UN PAIO DI VOLTE»

Quindi furono messe in contatto le famiglie?

«Esatto. E l’aspirante sposo venne in Calabria a conoscere l’aspirante fidanzata e la sua famiglia. La sposa promessa era mia sorella Caterina, che aveva 24 anni ed era analfabeta. Mio padre le disse: pensaci stanotte e domani gli diamo una risposta. “Faccio che andare, va...” fu la sua decisione finale al mattino dopo. Era agosto del 1966, a settembre si sposarono».

Da sinistra Teresa (1940), la mamma Caterina (1907) il padre Gaetano (1902), Caterina (1942) e Salvina, nata nel 1947. La famiglia Mustica viveva a Rizzicoli, in provincia di Reggio Calabria 

Così, su due piedi?

«Beh...prima di concederla in sposa mio padre, mia madre, lei stessa e un’altra mia sorella, Giovanna, vennero qui nelle Langhe a vedere com’erano i posti in cui sarebbe venuta a vivere... Fu allora che entrò in scena mio marito Valerio».

Cioè? 

Valerio Giordano, nato nel 1940. Prima ha lavorato come contadino poi è stato assunto come operaio alla Ferrero

 «Cioè l’uomo che sposava mia sorella aveva un fratello scapolo che poi è diventato mio marito. Sa com’è: all’epoca c’era la grande occupazione nelle fabbriche, le donne piemontesi preferivano andare in città a sposare l’operaio e nelle campagne le ragazze scarseggiavano. Così sono venuti in tanti in Calabria a prenderle. Noi eravamo grandi lavoratrici, braccia buone per la campagna, donne devote ai figli e alla famiglia e senza troppi fronzoli per la testa».

Stava dicendo di suo marito.

«Sì. Quando mio padre venne a vedere com’erano le Langhe il papà dello sposo gli disse: ho ancora un figlio da maritare, non hai un’altra figlia? E mia sorella Giovanna prese dalle sue mani una fotografia di Valerio per me».

Così lo vide la prima volta in fotografia?

«Esatto. Venne da me quel mio zio bacialè. Mi disse: se te ne vuoi andare al Nord guarda che bel ragazzo! Io presi la fotografia e la buttai per terra: non lo voglio, perché non gli dai tua figlia? Risposi furente. Il mio cuore batteva per un fidanzatino di cui i miei non sapevano nulla e certo non potevo dirlo».

Bastava dire un “non lo sposo” e nessuno insisteva più?

«Macché! Insistevano eccome, anche se non ti costringevano. Da quella foto in poi è stato un continuo insistere. Un tormento. Tutti a dirmi: fai male, fallo per tua sorella. Quando Caterina si è sposata ha fatto una cerimonia in Calabria e un’altra nelle Langhe. Quindi in quell’occasione l’ho conosciuto. È venuto a prendermi alla stazione di Alba con i genitori. Lui sembrava dolce, gentile ma non mi piaceva. Ho pensato: io questo non lo sposo manco morta».

E invece... 

Salvina negli Anni Settanta: si è sposata poco prima dei 20 anni: ha passato la vita tra i campi e il lavoro domestico 

«Invece alla fine mi sono sentita accerchiata e non sono riuscita a dire di no. Mentre eravamo al matrimonio di mia sorella è venuta una specie di delegazione a provare a convincermi. Ho ceduto dopo tre giorni. Ci siamo sposati che avevo quasi vent’anni, ad agosto del ‘67. Fra il primo incontro e il matrimonio ci siamo visti ancora un paio di volte ma ci siamo scritti lunghe lettere. Lui sempre romantico, io un po’ meno. Oggi ho due figli e quattro nipoti e con il senno del poi dico che sono contenta della vita che ho fatto. Valerio è sempre stato un brav’uomo, mi ha voluto bene e anche questa terra e la sua gente, alla fine, mi hanno accettata e voluto bene. Ora il dialetto piemontese è la mia lingua e non tornerei a vivere in Calabria».

All’inizio è stata dura, però.

«Durissima. A parte il lavoro in campagna, ero lontana dalla mia famiglia, non conoscevo una sola parola di dialetto e qui parlavano solo quello, non avevo un’amica con cui confidarmi, mi sembrava che tutti mi giudicassero, vivevo con la sua famiglia in una cascina con spazi comuni. Avevo mia sorella vicina ma anche lei era nelle mie condizioni...».

«RICORDO LA STORIA DI UN’ALTRA RAGAZZA, AVEVA 16 ANNI, POVERISSIMA, LA CONVINSERO A VENIRE QUI DA UN UOMO CHE VIVEVA NEL BOSCO»

Non ha mai pensato di tornare indietro?

«Una volta, sì. Ricordo che mi sono sentita così depressa e scoraggiata che ho scritto una lettera a mio padre per dirgli “vieni a prendermi che non ce la faccio più”. Ero disperata. Ma piano piano mi è passata».

Lei fu la prima calabrotta di Lequio Berria?

«No. Prima di me c’è stata una signora che conosco. La sua famiglia era poverissima, pativano la fame. Quando aveva 16 anni un bacialè aveva convinto il padre e lei stessa a sposare un uomo che viveva qui in mezzo ai boschi. Dopo quattro mesi il padre venne a vedere dove si era sistemata. Arrivò qui con una fotografia di lei fra le mani e andava chiedendo per strada: conoscete mia figlia Anna? È sposata a un certo Pietro...».

Veneranda Salvina Letizia Mustica oggi nella sua casa, mentre mostra le foto di famiglia. Nata nel 1947, compirà 75 anni a settembre. Madre di due figli, vive in un appartamento a Lequio Berria con il marito Valerio (foto Francesco Anselmi) 

La trovò?

«Lo mandarono verso una collina. Lui saliva e urlava il nome di sua figlia. Lei stava raccogliendo fagioli quando sentì la sua voce. Gli corse incontro e ancora oggi lei racconta con emozione quel momento. Si abbracciarono, piansero insieme. Lei dice che suo padre ripeteva: dove ti ho mandato figlia mia... Ti ho rovinato. Ma quando racconta la sua storia alla fine aggiunge sempre che ha fatto una vita accettabile. Tutto è relativo al mondo. Se vieni dalla miseria nera anche un casolare sperduto nelle Langhe ti può sembrare una reggia».

Zaia: «Non ci sono più tabù, l’autonomia è di tutti. Questo Parlamento può scrivere la storia». Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 21 Febbraio 2022.  

Il governatore: illuminanti le parole di Mattarella sui territori. «Sergio Mattarella ha indicato la strada. E io spero che Mario Draghi la voglia percorrere». Luca Zaia non ha mai smesso di parlare delle autonomie regionali. Ma ora lo fa con un appello alle massime cariche dello Stato.

Che cosa le fa pensare che possa essere la volta buona?

«Noi veneti negli ultimi 25 anni abbiamo chiesto tre volte di votare sull’autonomia. Il consiglio regionale ha votato una legge per il referendum, che fu impugnata dal governo Renzi nel 2014. Dopo un anno di battaglie, la Corte costituzionale ci ha dato ragione: il referendum si può fare. In quella corte, sedevano Marta Cartabia e, appena prima dell’elezione al Colle, Sergio Mattarella».

E come mai non è successo niente?

«Che dice? Il Veneto e la Lombardia hanno votato nell’ottobre del 2017. In Veneto sono andati alle urne in 2 milioni e 273mila. Il dar voce al popolo è stato determinante: questo non è più il dossier di Luca Zaia, ma quello di milioni di cittadini che si aspettano che la loro voce sia ascoltata».

Eppure, il 2017 è ormai lontano…

«Sono passati quattro anni, di cui due di Covid, e quattro governi. Però, mi faccia dire: se c’è una ricaduta positiva dell’immane catastrofe che ci ha colpito, possiamo dire che ha dimostrato che le regioni sono perfettamente in grado di gestire il più delicato dei temi, quello sanitario».

Che cosa vi ha spinto a tornare alla carica?

«Noi non abbiamo mai smesso. Ma le parole di Sergio Mattarella su questo tema sono state illuminanti e anche dirimenti. Il presidente non solo ha riconosciuto il valore delle amministrazioni territoriali, ma soprattutto ha fatto crollare l’ultimo tabù, il pensare alle autonomie come a qualcosa di sovversivo».

Nel senso che l’autonomia non è più considerata cripto separatismo?

«Appunto, l’autonomia è assunzione di responsabilità, finalmente non si sentono più certe fandonie, non si sente più parlare di secessione dei ricchi, di apoteosi dell’egoismo o, come diceva lei, di un modo subdolo per dividere il Paese».

Non teme che le divisioni, quando si andrà a stringere, riemergeranno in tutta la loro evidenza?

«Io sono davvero convinto che questo governo e questo parlamento abbiano la possibilità di scrivere una pagina di storia. Se riuscissimo a mettere sul binario giusto l’autonomia prima delle elezioni dell’anno prossimo, sarebbe un fatto poderoso che darebbe il senso a tutta la legislatura. Questo parlamento potrebbe essere ricordato come quello costituente, e come il primo che ha rispettato il dettato dei padri fondatori della Repubblica».

Eppure, questo governo ha già moltissima carne al fuoco…

«Questo è certamente vero, ma io credo che i tempi siano maturi. Tra l’altro, alle tre regioni che hanno avviato il percorso - Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna - se ne sono aggiunte parecchie altre. E c’è un punto che io credo fondamentale: dopo 75 anni si darebbe finalmente attuazione alla Costituzione. Si ricorda il piemontese Luigi Einaudi? “Ad ognuno verrà data l’Autonomia che le spetta”. Si ricorda il siciliano, conterraneo del nostro presidente, Don Luigi Sturzo, che nel 1949 si diceva “federalista impenitente”? La spinta era al Nord ed era al Sud».

Resta il fatto che dopo il referendum del 2017 tutti i dubbi possibili delle forze politiche sono stati espressi.

«Io penso che se tutte le forze politiche volessero essere coerenti, la fase post referendaria oggi potrebbe dirsi conclusa e oggi l’autonomia è di tutti. Non si può essere federalisti sui territori e centralisti a Roma».

Lei pensa che il premier Mario Draghi sia sensibile all’argomento?

«Lo dico a un presidente del Consiglio che ben conosce i modelli federali internazionali, e dunque siamo pronti a una legge quadro che confermi le nostre aspettative. Di certo, non andrà incontro a imboscate. Io credo che sia inutile pensare al futuro, al Pnrr, alla modernità se non costruiamo un Paese in grado di affrontare le sfide. Non credo proprio che si possa pensare al futuro con un centralismo medievale».

Il presidente della Lombardia Fontana ha delle perplessità sulla legge quadro in gestazione. Sbaglia?

«Io condivido le sue preoccupazioni, la Costituzione prevederebbe intesa diretta tra Stato e Regioni. Però, se il punto di caduta è il passaggio parlamentare, lo affronteremo. Ma solo se sarà rispettoso delle istanze delle Regioni». 

 Da corrieredellosport.it il 3 aprile 2022.

Ancora un episodio di razzismo nei confronti di Kalidou Koulibaly. Il difensore del Napoli è stato preso di mira da alcuni tifosi dell'Atalanta che, al momento dell'uscita dal campo, lo hanno preso di mira con vergognosi insulti razzisti. L'episodio, arrivato al termine della gara vinta 3-1 dagli uomini di Spalletti, è stato immortalato in un video che ha in breve fatto il giro dei social. "Negro di m****", si sente chiaramente urlare dagli spalti. Insulti anche per Dries Mertens: "M***, bast***". Il 30enne senegalese era stato denigrato anche a Firenze ad ottobre, quando un tifoso aveva rimediato 5 anni di Daspo per averlo insultato con epiteti di matrice razzista.

“Non ci siamo. Evidentemente la decisione di chiudere la curva veronese dopo il match con il Napoli non è stata sufficiente. Prima a Bergamo poi a Genova razzisti travestiti da tifosi ultra hanno dato il peggio di sé. Con Kalidou Koulibaly che a Bergamo ha lasciato il campo con il “ne*o di m**a” e a Genova i tifosi romanisti con “Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta”. 

Non c’entra la goliardia, non c’entra la discriminazione territoriale. È razzismo. Alle autorità del calcio e alla ministra dell’interno Lamorgese chiediamo: identificazione e daspo a vita per i razzisti. Se i cori sono percepiti distintamente in tutti i settori dello stadio se cioè non è una esigua minoranza di tifosi a incitare all’odio razziale, squalifica del campo”. Così in una nota Sandro Ruotolo, Maurizio de Giovanni e Gaetano Quagliariello.

 

(ANSA il 3 aprile 2022) -  Gli organizzatori dei Razzies, i premi che dal 1981 fanno la parodia degli Oscar, hanno revocato il riconoscimento affibbiato l'anno scorso a Bruce Willis alla luce del recente annuncio che l'attore ha smesso di recitare perche' malato di afasia. I premi vengono assegnati a quelli che i giurati giudicano i peggiori film e le peggiori interpretazioni dei mesi precedenti e quest'anno era stata creata una categoria speciale: "Peggior performace di Bruce Willis in un film del 2021". 

Willis era stato candidato in tutto ben nove volte e aveva vinto per la performance nel film di fantascienza "Cosmic Sin". Era stato proprio pochi giorni dopo la cerimonia dei Razzies che la famiglia aveva annunciato il ritiro di Bruce dalle scene. "Dopo molte considerazioni i Razzies hanno deciso di rescindere il premio a Bruce Willis alla luce della diagnosi", hanno detto i co-fondatori John Wilson e Maureen Murphy che inizialmente avevano invece resistito all'idea, polemizzando con la famiglia dell'attore: "Non avrebbero dovuto permettergli di lavorare tanto in cosi' poco tempo, specialmente se erano al corrente della situazione".

Insulti razzisti a Koulibaly dopo Atalanta-Napoli. Il Tempo il 03 aprile 2022.

Cori razzisti verso Kalidou Koulibali dopo Atalanta-Napoli. I tifosi dell'Atalanta hanno urlato "Negro di m***a" e "bastardo" all'indirizzo del difensore della squadra partenopea. E subito si sono levati gli scudi contro un comportamento davvero inqualificabile. «Che vergogna gli insulti razzisti di alcuni tifosi dell’Atalanta oggi allo stadio. I pochi che hanno urlato non ci rappresentano, ma riescono a farci fare una pessima figura. Le scuse mie e dei bergamaschi sani agli amici del Napoli». È il tweet di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, dopo gli odiosi cori razzisti rivolti a Koulibaly al Gewiss Stadium, in occasione della sfida fra Atalanta e Napoli.

«Non ci siamo. Evidentemente la decisione di chiudere la curva veronese dopo il match con il Napoli non è stata sufficiente. Prima a Bergamo poi a Genova razzisti travestiti da tifosi ultrà hanno dato il peggio di sè. Con Kalidou Koulibaly che a Bergamo ha lasciato il campo con il "ne**o di m***a" e a Genova i tifosi romanisti con "Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta". Lo affermano in una nota i senatori Sandro Ruotolo e Gaetano Quagliariello e lo scrittore Maurizio de Giovanni. "Non c’entra la goliardia, non c’entra la discriminazione territoriale. È razzismo - denunciano - Alle autorità del calcio e alla ministra dell’interno Lamorgese chiediamo: identificazione e Daspo a vita per i razzisti. Se i cori sono percepiti distintamente in tutti i settori dello stadio, se cioè non è una esigua minoranza di tifosi a incitare all’odio razziale, squalifica del campo".

Varese, così funzionava la «fabbrica» dei falsi invalidi: 8 mila euro per un certificato. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.  

Sette medici specialisti e una coppia di coniugi sono considerati i promotori dell’organizzazione, che aveva «clienti» anche nel Sud Italia. False commissioni Inps di valutazione istituite solo sulla carta.  

Menomazioni. Sordità e cecità. Handicap o disabilità varie: il «sistema» garantiva di poter arrivare a ogni genere di risultato con percentuali che permettevano di far salire fino al 100% il livello di invalidità, così da beneficiare di indennità riconosciute dalla legge. Il tutto però a carico dello Stato. Un vero e proprio sistema criminale portato alla luce da un’inchiesta della Guardia di finanza di Varese coordinata dalla procura del capoluogo prealpino per la quale è stata comunicata la conclusione delle indagini a 39 persone coinvolte a vario titolo in quella che per gli investigatori è una associazione a delinquere, con reati contestati che vanno dalla truffa ai danni dello Stato alla corruzione.

Degli indagati, 32 risultano essere i «clienti» mentre 7 fra medici (specialisti in psichiatria, neurochirurgia od ortopedia e traumatologia) e una coppia di coniugi considerati i promotori dell’organizzazione. L’indagine è partita nel 2019 e quanto contestato riguarda le annualità precedenti, almeno fino al 2015. Ciascun soggetto aveva un compito predefinito nell’organizzare i servizi illeciti a clienti disposti a pagare mazzette fino a 8 mila euro a seconda della prestazione: una sorta di investimento per garantirsi un futuro tranquillo fatto di indennità illecite.

Il pacchetto era «all inclusive»: c’era chi assisteva il paziente nella presentazione della domanda di invalidità, chi lo metteva in contatto con gli specialisti compiacenti e chi lo accompagnava di fronte alle commissioni valutatrici. Al richiedente venivano poi consegnati dei certificati medici contenenti diagnosi ed informazioni rituali che enfatizzavano la condizione medica, certificati redatti senza visitare il paziente e che confluivano nella sua cartella personale esibita alla commissione valutatrice Asl (poi Ats), e in caso di revisione a quella dell’Inps. Sempre secondo le indagini dei finanzieri di Varese è stato possibile dimostrare che due medici convenzionati (accusati di far parte dell’associazione criminale) procedevano autonomamente a istituire, solo sulla carta, false commissioni Inps di valutazione, senza che gli altri componenti ne fossero al corrente. Poi, riportando gli esiti di malattie e menomazioni permanenti o croniche inventate, avviavano telematicamente la procedura che serviva al richiedente per ottenere i benefici della falsa invalidità.

L’associazione a delinquere operava non solo nel Varesotto o in Lombardia ma aveva interessi e ramificazioni estese sino al Sud Italia, infatti nel corso delle indagini è stato accertato che alcuni richiedenti, seppur residenti fuori regione, venivano fatti trasferire temporaneamente in zona presso il domicilio di altri falsi invalidi così da consentire di presentare la domanda di invalidità proprio a Varese. L’importo delle tangenti pagate e suddivise tra tutti i componenti dell’associazione ammonta a circa 400.000 euro mentre i benefici economici illegittimamente garantiti corrisponde nel solo periodo di indagine a circa 600.000 euro, senza calcolare quelli fiscali e previdenziali ancora in fase di quantificazione, tenuto conto che almeno tre indagati sono riusciti ad andare in pensione anticipatamente rispetto ai limiti previsti. In seguito alle contestazioni emerse a 13 beneficiari sottoposti a visita di revisione straordinaria da parte dell’Inps è stata revocata la percentuale d’invalidità inizialmente riconosciuta, mentre per gli altri 19 è stata sensibilmente diminuita.

Bolzano, provveditore agli studi fa alzare i voti al figlio: «Sono adirato, cambiate». La Procura lo indaga. Sotto la lente il sovrintendente, il dirigente scolastico e un insegnante: «Se non modificate le valutazioni vi mando gli ispettori per fare una verifica». Chiara Currò Dossi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.

Vincenzo Gullotta, 51 anni, è sovrintendente scolastico dal 2019. 

Errore determinato dall’altrui inganno, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e induzione indebita a dare o promettere utilità. Sono queste, «in concorso morale e materiale», le ipotesi di reato a carico del sovrintendente scolastico Vincenzo Gullotta, del dirigente della scuola media «Ugo Foscolo» di Bolzano Franco Lever e del professore Francesco Migliaccio, per il presunto «ritocco» ai voti del figlio del sovrintendente, nella pagella di seconda media. La Procura ha concluso le indagini a loro carico, ritenendo fondata l’ipotesi di accusa, e ora le controparti avranno venti giorni di tempo per presentare eventuali memorie e chiedere di essere sottoposte a interrogatorio. Nel frattempo, la Procura dovrà decidere se chiedere l’archiviazione per i tre indagati o, in alternativa, il rinvio a giudizio.

Il passaggio da 7 a 8

L’episodio risale al 12 giugno di due anni fa, ultimo giorno di scuola per le scuole medie e superiori in provincia di Bolzano. Poche ore dopo la pubblicazione delle pagelle, il consiglio di classe della sezione alla quale era iscritto il figlio di Gullotta era stato riconvocato, come era emerso dal verbale, pubblicato da Salto.bz, «a seguito delle comunicazione telefonica ricevuta dalla famiglia» per correggere un errore formale. Migliaccio, infatti, aveva chiesto di modificare la propria valutazione in tecnologia, facendola passare da 6 a 8, incontrando il parere favorevole del consiglio di classe. Consiglio che aveva votato, a maggioranza, anche una seconda modifica: il passaggio da 7 a 8 della valutazione in musica, nonostante il docente titolare della cattedra non fosse d’accordo, ribadendo che quello attribuito era il voto risultante dalla media aritmetica delle valutazioni dell’alunno del secondo quadrimestre.

Le difese

Che ci fosse stato un contatto telefonico con la scuola, il sovrintendente non l’aveva mai negato. «Sento i dirigenti scolastici quasi quotidianamente — aveva dichiarato in una lettera aperta — soprattutto in questo periodo di emergenza, in particolare quelli che fanno parte della task force per la riapertura della scuola a settembre». E proprio di questo aveva parlato con Lever, il 12 giugno. «Prima di salutarci — aveva scritto Gullotta — abbiamo parlato anche delle schede di valutazione e ho appreso che erano state appena pubblicate, così ho subito aperto la scheda di mio figlio. A questo punto ho preso atto del documento, compresi i voti di tecnologia e musica, che apparivano diversi rispetto al primo quadrimestre. Non ho fatto alcuna pressione per modificare i voti di mio figlio. Non ho chiesto né di riconvocare il consiglio di classe né di cambiare i voti».

Adirato per i voti

Ma la Procura la pensa diversamente. In base a quanto ricostruito nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, infatti, Gullotta avrebbe chiamato Lever «affermando di essere adirato per i voti attribuiti al figlio, minacciando di inviare gli ispettori e chiedendo una verifica delle valutazioni» effettuate dal docente di musica. In qualità di sovrintendente «e, quindi, di pubblico ufficiale, abusando della propria qualità e dei propri poteri», avrebbe indotto Lever e Migliaccio «ad attestare falsamente nell’ambito dell’assemblea» del 12 giugno «che il voto riportato dall’alunno nella materia di tecnologia era stato determinato da errore formale, nonché a prospettare la necessità di una variazione del voto riportato dal medesimo alunno nella materia di musica, in maniera tale da ottenere una rettifica della votazione». Di qui l’ipotesi di reato di induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319 quater del codice penale). «In concorso morale e materiale tra loro», Gullotta , Lever e Migliaccio avrebbero quindi indotto in errore i docenti della classe del ragazzo, «che deliberavano nel relativo verbale l’aumento del voto da 6 a 8 in tecnologia e da 7 a 8 in musica e conseguentemente riportavano nel registro elettronico di classe una votazione non corrispondente a quella effettiva, rilasciando in tale maniera una pagella riportante un’attestazione falsa». E quindi, facendo prospettare agli inquirenti l’ipotesi di reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (articolo 479).

La decisione ai colleghi

Nei confronti di Gullotta e Lever, la Procura prospetta anche l’ipotesi di reato di delitto tentato (articolo 56) per avere, sempre «in concorso morale e materiale tra loro», e «abusando delle rispettive qualità e poteri, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco a indurre» il docente di musica «a variare il voto riportato dall’alunno in musica, in maniera tale da ottenere una rettifica della votazione». Dopo la telefonata con Gullotta, infatti, il dirigente lo avrebbe a sua volta contattato, riferendo della telefonata col sovrintendente e del suo contenuto, «chiedendo una verifica della valutazione assegnata all’alunno» Richiesta, tuttavia, «non accolta» dall’insegnante che, davanti al consiglio di classe, «dichiarava che la votazione attribuita in pagella era in realtà 7 in quanto risultante dalla media aritmetica delle valutazioni attribuite dall’alunno nel corso del secondo quadrimestre». E rimettendo la decisione ai colleghi.

Lo sviluppo del Sud passa anche dall’accessibilità dei territori. In Italia, l’alta velocità è stata realizzata da Roma in su, in periodi di vacche grasse. Se ai progetti già completati si sommano quelli in via di realizzazione, il costo totale per l’alta velocità italiana è stato finora di circa 42 miliardi di euro per 1.280 chilometri di linea. Angela Stefania Bergantino su la Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2022.

La nuova linea ferroviaria Napoli-Bari è qualcosa di cui si discute da decenni. Negli anni ha cambiato percorso e caratteristiche: non è più la cosiddetta alta velocità ma è diventata alta capacità. La differenza non è irrilevante. L’alta velocità prevede tempi di percorrenza che superano i 250 km/h (arrivano anche a oltre 300 km/h) e reti dedicate con raggi di curvatura molto ampi. L’alta capacità si realizza in buona parte adeguando linee preesistenti, mediante rettifiche di tracciato e con la dotazione di opportune apparecchiature tecnologiche. Di norma la velocità su queste tratte non è superiore a 200 km/h. In termini di minuti di tempo risparmiato, è relativamente poco su un percorso attualmente di 219 km, in termini di costi un abisso.

In Italia, l’alta velocità è stata realizzata da Roma in su, in periodi di vacche grasse. Se ai progetti già completati si sommano quelli in via di realizzazione, il costo totale per l’alta velocità italiana è stato finora di circa 42 miliardi di euro per 1.280 chilometri di linea. Un investimento, dunque, di 0,46 euro per km pro-capite per ogni cittadino italiano: un costo sostenuto anche dai cittadini del Sud, che non possono tuttavia usufruire di questa forma moderna e sostenibile di mobilità nei loro territori.

L’ultimo sforzo è stato fatto per collegare Napoli alla capitale. Una distanza di 211 km che si copre in un’ora e 13 minuti. Praticamente si può vivere a Napoli e metterci meno a raggiungere il cuore di Roma di chi vive nelle periferie romane. I baresi però, ancora per diversi anni si dovranno accontentare di vivere a oltre quattro ore di treno dalla capitale, pur trovandosi a 374 km da essa, meno del doppio della distanza che separa Napoli da Roma. Per non dire degli altri pugliesi e dei lucani. Le compagnie aree ringraziano.

Il vero punto della Bari-Napoli non è tuttavia il mero collegamento, pur importantissimo, tra le due città/metropoli del sud. È piuttosto il rapporto tra Bari, Napoli e Roma e la direttrice ferroviaria che dal Nord arriva fino al capoluogo campano, è il passaggio fondamentale per collegare la Puglia e la Basilicata al resto d’Italia.

Per tanti anni si è detto che per tale salto di qualità non c’era sufficiente domanda interna, che l’investimento era eccessivo per territori con un Pil così basso rispetto al Nord. Qualche economista ha persino ipotizzato che potesse costare di meno trasportare i pugliesi in taxi a Napoli e Roma piuttosto che realizzare questa linea ad alta velocità. Se si ragiona con in mente uno scenario di breve periodo, cinque anni, questo è probabilmente vero, ma le infrastrutture non possono essere considerate con uno sguardo miope.

A viaggiare sono le persone: i lavoratori, i turisti, i migranti di ritorno. Sono gli stessi che viaggiano da Roma verso il Nord e lo fanno su «materiale rotabile» moderno, confortevole, veloce. È vero che «viaggiatori» del Sud hanno un reddito medio più basso, una propensione alla spesa diversa, ma si tratta di una causa o di una conseguenza? Come si può affermare con certezza che non siano stati i divari di accessibilità a creare o mantenere tali limiti? Le evidenze, al momento, vanno tutte nella stessa direzione: bisogna colmare il gap di accessibilità per rendere il Mezzogiorno competitivo e rendere i suoi territori sostenibili e attrattivi. Il Pnrr ha questa missione, bisogna vigilare affinché la riduzione dei divari non rimanga uno slogan ma si declini attraverso la messa a terra di progetti finalizzati all’inclusione delle persone, delle imprese e dei territori. Non c’è più la scusa che mancano i finanziamenti.

I miliardi del Pnrr adesso scatenano la guerra Nord-Sud. Pasquale Napolitano l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il ministro Carfagna replica al sindaco Sala: "I fondi al Meridione aiutano anche voi..."

La torta Pnrr (222,1 miliardi di euro) riaccende lo scontro Nord-Sud. Stavolta l'affondo contro il dirottamento di risorse verso Mezzogiorno non arriva dal leghista di turno. Ma dal fronte progressiva: Beppe Sala, sindaco di Milano e aspirante leader della sinistra del «domani», in un fuorionda - catturato da Lapresse - si lamenta con il governatore della Lombardia Attilio Fontana della «pericolosa» concentrazione delle risorse del Pnrr al Sud. Il primo cittadino di Milano sintetizza i malumori che da tempo serpeggiano tra i ministri del Nord nel governo Draghi. Giancarlo Giorgetti, numero due della Lega e titolare dello Sviluppo economico, intravede da mesi le difficoltà soprattutto nel settentrione nell'attuazione dei progetti legati ai fondi del Pnrr. Di contro, il ministro del Sud Mara Carfagna, che gode della totale copertura politica da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi, fa notare come la suddivisione delle risorse sia chiara: 40% al Sud e 60% al resto.

Anzi, al netto del fair play pubblico tra Carfagna e Sala, dall'entourage del ministro del Sud provocano: «Se si vuole ridurre la quota del 40% al Sud, abbiano il coraggio di chiederlo pubblicamente». E infatti un tentativo, nelle settimane scorse, di bypassare la ripartizione (60/40%) c'è stato con i fondi destinati alle Università. Quelle del Mezzogiorno sono finite sotto la soglia del 40%. Dopo la protesta dei rettori, il ministro Maria Cristina Messa si è giustificata con una «svista di un funzionario». Sala nella conversazione con il governatore Fontana lamenta: «Io sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud. Però io non ho veramente niente da contestare. Voglio chiarezza, perché è evidente che noi abbiamo una progettualità». La risposta del ministro è affidata a un tweet: «Caro Beppe Sala, il Pnrr al Sud-Sud-Sud è un'opportunità anche per il Nord. L'innovazione facciamola insieme. Parliamone». Il tema è ufficialmente sul tavolo. Sala ribatte: «Destinare al nostro Sud il 40% delle risorse italiane è una giusta, incontestabile decisione. Sul restante 60% i bandi a volte funzionano con parametri che tendono ancora a favorire le aree più arretrate. Per cui è certo che alla fine al Sud andranno più del 40% delle risorse. Il mio non è egoistico campanilismo. È ora di dire che il Pnrr non sarà la soluzione di tutti i nostri mali, che più della metà di quelle risorse dovranno essere restituite, che la solidità dei progetti presentati è quindi fondamentale».

Si inserisce il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi: «Abbiamo un grosso gap infrastrutturale e di servizi che non consente all'Italia di crescere. C'è una clausola di salvaguardia che prevede che il 40 percento delle risorse almeno vengano destinate al Meridione. Non credo che la frase di Sala abbia fondamenti anti-meridionali, ma mi confronterò con lui». Ritorna sul tema anche il presidente Fontana: «Sul Pnrr l'unica preoccupazione è cercare di fare in modo che i soldi non vengano sprecati, non siano restituiti all'Europa, bisogna fare in modo che non si verifichi quanto accaduto per tanti anni con i trasferimenti ordinari dell'Europa. Il sindaco Sala, credo, volesse dire proprio questo: noi abbiamo delle progettualità, se qualcuno non ha gli strumenti per realizzarle, si ricordi che noi siamo pronti».

La guerra Nord-Sud è ufficialmente iniziata. Pasquale Napolitano

Fuorionda tra Sala e Fontana sul Pnrr: “Sud, sud, sud”. Esplode la polemica. Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.

UN microfono lasciato acceso e alcune frasi “intercettate” tra il sindaco di Milano Beppe Sala e il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Al centro della discussione tra i due i fondi del Pnrr, la quota che spetta al Sud e la gestione dei Comuni.

Il video con la discussione tra i due è stato pubblicato dall’agenzia LaPresse ed è stato registrato al termine di una iniziativa pubblica.

“Caro Beppe, è un casino il Pnrr e noi mettiamo a terra un c…”, dice Fontana. Il sindaco di Milano risponde: “È questo, adesso va bene tutto. Noi dobbiamo farci un po’ più furbi su questa cosa e fare un po’ più di sistema obiettivamente tra tutti. Io sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud… ho capito, ma l’innovazione…”.

Dopo qualche parola incomprensibile Sala conclude: “Però io non ho veramente niente da contestare. Voglio chiarezza, perché è evidente che noi abbiamo una progettualità”. La replica di Fontana è la seguente: “Voi siete in grado, perché il Comune di Busto Arsizio che c… fa? Che non è un Comune piccolo quello di Busto Arsizio”.

Parole che hanno subito scatenato la reazione del ministro per il Sud, Mara Carfagna, che ha risposto con un tweet: “Caro Beppe Sala, il Pnrr al Sud-Sud-Sud è un’opportunità anche per il Nord. L’innovazione facciamola insieme. Parliamone!”. Al termine un messaggio chiaro con tanto di hashtag: “Se cresce il Sud cresce l’Italia”.

Controreplica social di Sala: “Destinare al nostro Sud il 40% delle risorse italiane è una giusta, incontestabile decisione”, ha premesso Sala, aggiungendo però “che sul restante 60% i bandi a volte funzionano con parametri che tendono ancora a favorire le aree più arretrate. Per cui è certo che alla fine al Sud andranno più del 40% delle risorse”.

Sala ha definito il suo non un “egoistico campanilismo” e ha evidenziato il rischio che oltre la metà delle risorse del Pnrr vada restituito. Infine ha messo a disposizione del resto del Paese le modalità con cui Milano “lavora allo sviluppo del suo sistema”.

Anche Fontana ha cercato di spegnere le polemiche in una intervista a Rainews24, sostenendo di essere preoccupato perché il Pnrr è stato “pensato sulle spalle dei comuni, ma non tutti i comuni hanno le strutture tecniche per svolgere queste compiti”. Per il governatore leghista “i soldi non devono essere sprecati” e bisogna “cercare di non fare in modo che i soldi ritornino in Europa”.

PNRR, Mastella: “Sala più leghista di Fontana”. Redazione Labtv il 10 Febbraio 2022.  

“Non è la prima volta che il collega Sala si esercita scaricando strali polemici sul Sud. Evidentemente non sa che l’Italia ha avuto tante risorse europee proprio per il Mezzogiorno e la sua condizione di difficoltà. A ciascuno il suo. Al Sud tocca, senza se e senza ma, il 40% degli investimenti. Piuttosto il Governo dia ai comuni personale qualificato che aiuti tante realtà locali dove manca il necessario a poter partecipare

ai bandi del Pnrr. Non conoscessi Sala direi che gli sfuggono spesso frasi un po’ razziste. Probabilmente la sua conversazione con il governatore Fontana lo ha portato culturalmente ad essere più leghista dello stesso Fontana”. Così il sindaco di Benevento e segretario nazionale di Noi Di Centro, Clemente Mastella. 

PNRR, Fontana e Sala pensano a come prendere i soldi del Mezzogiorno: “Tutto Sud, Sud Sud. Dobbiamo farci furbi”. Da Francesco Pipitone il 10 Febbraio 2022 su vesuviolive.it.

A pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina. LaPresse ha catturato un fuorionda tra il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Era in corso la conferenza stampa di presentazione dell’accordo fra A2A e Politecnico quando i due hanno avuto uno scambio di opinioni circa il Pnrr: i due hanno espresso la propria preoccupazione sulla distribuzione delle risorse per le quali priorità è stata data al Sud.

“Caro Beppe è un casino il Pnrr e noi mettiamo a terra un ca***” – ha detto Fontana. La risposta di Sala è eloquente: “È questo, poi va bene tutto. Noi dobbiamo farci un po’ più furbi su questa cosa e fare un po’ più di sistema obiettivamente tra tutti. Io obiettivamente sono preoccupato del fatto che Sud, Sud, Sud. Ho capito, ma l’innovazione… Però io non ho niente da contestare. Voglio chiarezza perché è evidente che noi abbiamo una progettualità”.

Diventare furbi, fare sistema, espressioni che lasciano intendere l’intenzione di prendere più denaro possibile dai fondi del Pnrr. Non è tra l’altro la prima volta che Sala si esprime in questi termini, essendosi sostanzialmente augurato, a dicembre, che Il Mezzogiorno non spendesse tutti i soldi affinché potesse trarne vantaggio Milano. “È molto giusto – dichiarò Sala – il principio di cercare di allargare a tutti e di dare a tutti la possibilità di partecipare. Questa è una grande opportunità per risolvere il problema del Sud”. Ma poiché nella storia d’Italia molte risorse alla fine non sono state utilizzate “ci candidiamo, qualora ci siano realtà non in grado di garantire la possibilità di investire nei tempi corretti, a utilizzare i residui che ci saranno”.

Eppure il Nord ha già ottenuto miliardi che non gli spettano. Il 70% del Recovery Fund è stato assegnato all’Italia a causa dlele condizioni di grave e drammatica arretratezza del Mezzogiorno, ma il Governo ottenuti i fondi ne ha dirottato il 30% verso le altre aree del Paese. Al Sud è stata assegnata una quota del 40% (sulla carta, a meno di ulteriori furti) con uno scippo che potrebbe essere di addirittura 140 miliardi di euro.

Francesco Pipitone. Non dovrei leggere, non dovrei scrivere, non dovrei star troppo dietro al cinema d'essai. Ogni tanto dovrei vietarmi di non vietarmi di fare queste cose, ma non lo faccio mai

Quei 62 miliardi dirottati al Nord che hanno allargato la distanza tra le due Italie. I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2 per cento degli italiani, portano a casa appena il 27,8 per cento dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. VINCENZO DAMIANI su Il Quotidiano del Sud l'11 febbraio 2022.

Al governatore Fontana e al sindaco Sala devono essere sfuggite le molteplici sentenze della Corte costituzionale, l’ultima è la 65 del 2016: è indispensabile – è stato accertato – determinare i livelli essenziali delle prestazioni per garantire servizi uguali da Trieste a Palermo. Per evitare, cioè, che, come accade ormai da almeno due decenni, i soldi per gli investimenti prendano una sola direzione, quella del settentrione.

Vale per la sanità, come per l’istruzione, gli asili e le infrastrutture. Basti pensare che ogni giorno il Mezzogiorno “perde” circa 170 milioni. A tanto ammonta, su base giornaliera, il bottino da 62,3 miliardi che ogni anno, dati del Sistema dei conti pubblici territoriali alla mano, viene sottratto al Sud e dirottato verso il Nord. Parliamo di circa 5,2 miliardi al mese di spesa pubblica allargata, non solo statale. Lo ha svelato il nostro giornale con l’Operazione verità, è stato certificato dalla Corte dei Conti, e lo ha ammesso anche la commissione parlamentare d’inchiesta.

I cittadini del Sud, vale a dire il 34,2% degli italiani, portano a casa appena il 27,8% dei trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. Il Centro-Nord, invece, riesce ad accaparrarsi molto più di quello che l’aritmetica consentirebbe: il 65,7% della popolazione accede al 72,1% delle risorse statali. Per un cittadino del Nord lo Stato spende in media 17.506 euro all’anno; per uno del Sud appena 13.144. Sanità, infrastrutture, istruzione, ricerca: sono i settori nei quali le disparità sono accentuate e palesi. Nell’ultimo ventennio, lo Stato ha investito più al Nord che al Sud, lasciando che l’Italia si spaccasse in due.

I numeri sono sotto gli occhi di chi vuol vedere, il primo è il più macroscopico: 62,5 miliardi. Sono le risorse che solo nel 2017 sono state dirottate dall’Italia meridionale a quella del Centro-Nord. Risorse che avrebbero potuto garantire asili nido, cure mediche dignitose, un welfare più equo. Il calcolo è messo nero su bianco dai Conti pubblici territoriali, istituto statistico facente capo all’Agenzia per la Coesione territoriale, che si occupa di misurare e analizzare i flussi finanziari di entrata e di spesa delle amministrazioni pubbliche e di tutti gli enti appartenenti alla componente allargata del settore pubblico. Quei 62,5 miliardi rappresentano uno scarto del 6,4%, in crescita dello 0,4% rispetto al triennio precedente, fra quanto le regioni meridionali avrebbero dovuto ricevere in termini di spesa pubblica, sulla base della popolazione residente, e quanto hanno avuto in realtà. Scendendo più nel dettaglio, ad esempio la spesa per investimenti in sanità è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno.

In termini pro-capite, significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4 euro, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro, il Lazio 22,3 euro, l’Abruzzo 33 euro. Asili e welfare: per ogni bambino da 0 a 5 anni un sindaco calabrese può investire, mediamente, circa 126,8 euro per garantire i servizi per l’infanzia. In Liguria, la spesa pro capite dei Comuni per ogni bimbo della stessa età è, invece, di 1.377,9 euro, ben undici volte superiore. Se nasci al Nord, asili, assistenza, welfare, cure non ti mancheranno. Se vieni alla luce nel Mezzogiorno, beh, la strada potrebbe essere in salita. Si perché lo Stato non ti garantirà lo stesso livello di servizi, né qualitativamente né dal punto di vista della quantità: è la Corte dei Conti, nella “Memoria sul bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale”, a ricordare che viviamo in un Paese che viaggia a velocità diverse.

Dagli asili alle strade: è sufficiente osservare la curva degli investimenti pubblici destinati allo sviluppo infrastrutturale del Mezzogiorno per individuare la causa principale di una Italia spaccata in due. Fra il 1950 e il 1960 la dote era pari allo 0,84% del Pil; tra il 2011 e il 2015 è crollata a uno striminzito 0,15%. Nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Mezzogiorno da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. Nel Mezzogiorno si contano meno autostrade, a discapito di cittadini e del tessuto produttivo nazionale: nel Meridione ogni impresa può contare su poco meno di 20 chilometri di reti, la metà di quelle a disposizione nel Nord-Ovest. Sulla ricerca la storia non cambia: nella ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario per le Università, nonostante l’introduzione di un fondo perequativo, il 42,3% dei trasferimenti finisce nelle casse degli Atenei del Nord, al Sud il 21,4% (sommando anche Sicilia e Sardegna si tocca il 32,4%), il restante 25,3% al Centro. Se il sistema del federalismo fiscale fosse stato equo, il Comune che avrebbe guadagnato di più sarebbe stato quello di Giugliano, in Campania, dove oggi mancano all’appello 33 milioni di euro (270 euro pro capite). Reggio Calabria avrebbe dovuto ricevere 41 milioni in più, 229 euro a testa. Seguono Crotone (3 milioni, 206 euro a cittadino), Taranto (39 milioni, 198 euro pro capite).

Investire sul Sud è un guadagno per tutto il Paese: ma il Nord non lo capisce. ADRIANO GIANNOLA, Presidente Svimez, su Il Quotidiano del Sud il 12 febbraio 2022.  

Il nervoso Sud-Sud-Sud del “fuori onda” del sindaco Sala rivolto al presidente Fontana viene da persona a conoscenza dei fatti (e delle intenzioni). A noi, accuratamente all’oscuro soprattutto delle intenzioni, tutto ciò suona come un rassicurante indizio del buon lavoro che il governo sta facendo nella allocazione delle risorse del Pnrr.

Il che, forse, è un eccesso di ottimismo, visti vari incidenti di percorso che sembrano dire altro e la fumosità su priorità e impianto strategico. Ma vogliamo credere fino in fondo alle preoccupazioni di Sala, in attesa che un conforto inequivocabile venga da un’informativa puntuale su numeri e – soprattutto – progetti.

MA DI COSA SI LAMENTA SALA?

Sperando che il lamento del sindaco sia pienamente giustificato, viene da chiedergli: di che si lamenta? E anche da chiedergli perché, facendo buon viso a cattivo gioco, con malcelato supponente paternalismo, propone il dialogo alla ministra del Sud con argomenti e autocertificazioni che avocano al nord illuministiche virtù?

Il fuori onda e il post segnalano quanto sia preoccupato il sindaco in nome e per conto del Nord, oltre che di Milano.

Se tutto fosse vero sarebbe da dire che “finalmente” la forza delle cose, e cioè la Ragione, sta andando in soccorso dei governi come ai tempi di Filangieri fece la filosofia. Un ravvedimento che, con venti anni di ritardo, prende atto non solo del disastro italiano ma anche di quella sua singolare dinamica che – imputata al Mezzogiorno- l’Operazione verità conduce invece a Nord, tanto da indurre finalmente l’ Europa a intimarci di ridurre le disuguaglianze e aumentare la coesione sociale.

Ebbene, per questo percorso di salvataggio una sola cura è possibile: Sud-Sud-Sud, non per altro, perché non ci sono altri spazi praticabili per un Paese che non può accontentarsi di riprendere a crescere con una sia pur eccezionale manutenzione smart e green ma deve, invece, letteralmente “rinascere” a scadenza 2026-2030 sia al Nord che al Sud.

Sala elenca le “sue” virtù ancor fidando sulla autorevole diagnosi Bocconiana che la priorità dell’Italia è far correre Milano e lasciare indietro Napoli. Non la pensano così in molti e, particolarmente, l’ Europa.

Conforta davvero se il Pnrr, macinando Sud-Sud-Sud, affianca con realismo, senza illusioni, la manutenzione dell’ opulento e immobile Nord e punta a mettere in moto al Sud una reazione a catena che lo liberi da venti anni di ghettizzazione. Sarà un’impresa difficile anche a causa di come è ormai il Sud, ma indispensabile per avviare un progetto che metta in moto il “secondo motore”, iniziando a disegnare un Southern Range porta d’ingresso da Sud in Europa e – con ciò – alla fruizione della Rendita Mediterranea da conquistare dopo venti anni di dissipazione.

LA VISIONE DI SISTEMA

Un’opportunità che oggi è una necessità di tale evidenza e semplicità che stupisce non sia illustrata agli angoli delle strade che contano e discussa in Parlamento.

Certo, i problemi ci sono, per primo le persistenti illusioni delle classi dirigenti. Al Nord, sedicente ricco e trainante, ancora si celebra come una vittoria la disarticolazione del sistema distrettuale, costretto con sempre minore autonomia strategica all’integrazione di lusso nelle catene del valore mitteleuropee. Al Sud la desertificazione ha inaridito anche la percezione di una visione di sistema. Ogni presidente-governatore, orbo di sane politiche nazionali, trae ruolo e capacità di azione dalla sedicente politica di coesione per costruire il “suo” progetto.

Ben venga una rigorosa organica disciplina-progetto del Pnrr che orienti e motivi gli illusi e i deserti alla cogenza della prospettiva mediterranea.

INFRASTRUTTURE ORGANICHE AL SUD: UNICA CHANCE PER L'ITALIA. Il gap territoriale va colmato al più presto: il treno dell’economia può marciare solo se tutti i vagoni viaggiano alla stessa velocità. Sono sterili le polemiche sui fondi assegnati al Sud tramite Pnrr: solamente grazie al Mezzogiorno il Paese ha ricevuto così tante risorse dall’Europa. ERCOLE INCALZA su Il Quotidiano del Sud il 12 febbraio 2022.  

Ritengo opportuno e indispensabile fare una precisazione: le considerazioni che seguiranno sono essenzialmente una forte provocazione generata da una consuetudine ormai cristallizzata su alcuni presupposti. Ecco quali.

I PRESUPPOSTI DELLA CONSUETUDINE CRISTALLIZZATA

• Il Sud ha ricevuto tante risorse, molte di più delle percentuali più volte condivise a livello parlamentare; ciò è vero ed è vero anche che tali assegnazioni purtroppo non vengono spese e rimangono solo riferimenti percentuali.

• Le risorse assegnate al Sud dal Pnrr sono davvero rilevanti e questo convincimento però non tiene conto che il rilevante contributo comunitario è motivato essenzialmente dall’urgenza di superare, in modo organico, l’eterno gap che allontana sempre più il Mezzogiorno dal resto del Paese e che rischia di compromettere la crescita dell’intero sistema socio economico nazionale.

• La riconosciuta ormai da tutti assenza di organicità sia nelle scelte che nelle opere da avviare nel Sud; una organicità richiesta più volte formalmente dalla Unione europea e disattesa proprio nella definizione delle proposte.

• La necessità di prospettare un’ impostazione programmatica che, senza chiedere risorse aggiuntive ma utilizzando quelle del Pnrr e quelle non spese del Programma 2014 2020 del Fondo di coesione e sviluppo, possa prospettare una possibile iniziativa da assumere in occasione del previsto tagliando al Pnrr che si farà agli inizi del 2023.

Può sembrare, quindi, un titolo folle e, al tempo stesso, utopico ma, per evitare di cadere in facili equivoci, pongo alcuni interrogativi e, al tempo stesso, tento, in modo asettico ed obiettivo, di fornire alcune risposte.

Perché la Ue ha dato un volano di risorse così rilevante all’Italia?

Nell’autunno 2019 si tenne a Palermo un’assemblea di tutte le Regioni periferiche della Unione europea; questa occasione la richiamo sempre perché il Direttore generale delle Politiche regionali della Ue, Marc Lemaitre, precisò: «Spesso ci sentiamo dire che la politica di coesione non produce nulla di positivo per lo sviluppo del Sud. Ma voglio richiamare l’attenzione sulla consistente riduzione degli investimenti nazionali al Sud fino al punto di neutralizzare e rendere vano lo sforzo europeo nelle politiche regionali nel Mezzogiorno. Addirittura l’Italia si era impegnata a realizzare investimenti nel Sud, nel periodo 2014-2017, per un importo pari allo 0,47% del Pil delle Regioni del Mezzogiorno, ma non siamo andati oltre lo 0,38% (cioè il 30% in meno)».

Ho ritenuto opportuno ricordare questo intervento perché Lemaitre è il massimo livello dei funzionari della Ue e, leggendo ancora il suo intervento, rimaniamo colpiti dalla sua ulteriore denuncia: «I Mezzogiorni d’Europa sono vere zavorre per la crescita di tutti i Paesi dell’Unione europea».

Per cui, secondo Lemaitre, sarebbe stato opportuno dare vita ad interventi articolati non in due distinte aree: una nel Centro-Nord e una nel Sud, ma tutto e solo nel Sud. Infatti solo una operazione forte in un arco temporale di 5-7 anni può davvero trasformare questo vincolo alla crescita dell’intero Paese.

Quindi questo grave handicap alla uniformità socio economica di un Paese chiave dell’intero sistema comunitario necessariamente dovrà essere, secondo Lemaitre, «un riferimento determinante nella definizione dei trasferimenti di risorse dall’Unione europea al Sud».

Eravamo nell’autunno del 2019, quindi non c’era ancora il Covid e non si parlava ancora di Pnrr. Tuttavia l’analisi di Lemaitre e il grave peso del Mezzogiorno nell’assetto economico dell’Italia nell’estate 2020 porteranno l’Unione europea a privilegiare in modo davvero imprevedibile il nostro Paese nella assegnazione delle risorse necessarie per attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Perché la Ue ha posto linee guida così vincolanti con un vincolo temporale, il 2026, così forte?

La Ue, in più occasioni, ci ha ufficialmente ricordato la nostra incapacità nell’attuazione dei Programmi supportati con risorse comunitarie; in particolare, sempre Lemaitre ribadì nell’Assemblea di Palermo, che era davvero inconcepibile che del Fondo di coesione e sviluppo 2014-2020, del valore di 54 miliardi, in cinque anni fossimo riusciti a impegnare solo 24 miliardi di euro e spenderne solo 4.

In realtà dare respiro temporale lungo ai programmi significa offrire una assurda opportunità: programmare, assegnare le risorse e non trasformare le progettualità in opere.

Purtroppo questa soglia del 2026 nel 2020 sembrava quasi accettabile, ma oggi stiamo capendo che, in realtà, siamo incapaci a dare consistenza concreta agli atti programmatici; dopo 21 mesi, almeno per quanto concerne le infrastrutture, non è partito ancora alcun cantiere e al 31 dicembre 2026 rimangono solo quattro anni e mezzo.

Tra l’altro sarebbe bene ricordare anche due altre scadenze: entro il 31 dicembre 2023 dobbiamo spendere 30 miliardi di euro del Programma supportato dal Fondo di coesione e sviluppo 2014-2020 e, entro il 31 dicembre 2027, dobbiamo spendere le risorse relative al Programma supportato dal Fondo di coesione e sviluppo 2021- 2027 che dovrebbe essere di circa 73 miliardi di euro.

Queste scadenze, lo ha ribadito proprio ultimamente la Ue, non potranno essere in alcun modo disattese o prorogate e, quindi, la scadenza temporale diventa finalmente un chiaro e improcrastinabile vincolo a fare e, al tempo stesso, una chiara denuncia nei confronti di chi utilizza le assegnazioni solo come annuncio, solo come promessa politica e non come misurabile occasione di riassetto socio economico.

Qual è l’indicatore più preoccupante che l’azione del Pnrr dovrebbe affrontare in modo organico?

Senza dubbio l’indicatore primario sono i Livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi (Lep) che vanno garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale. Questo perché riguardano diritti civili e sociali da tutelare per tutti i cittadini. La Costituzione affida allo Stato, come competenza esclusiva, il compito di definire i Lep (Articolo 117 comma 2 lettera m della Costituzione).

Al netto di quelli già impliciti nelle normative vigenti, sono ancora molti i settori in cui i Lep devono essere definiti, dai servizi sociali al trasporto locale. Ciò rappresenta una questione istituzionale di primaria importanza, perché significa che il dettato costituzionale resta inattuato su un punto dirimente: la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni consegue necessariamente un aggravio di spesa per le casse dello Stato.

In realtà definire i Lep significa stabilire quali servizi e prestazioni devono essere offerte in tutto il Paese, per garantire i diritti sociali e civili dei cittadini. Oggi già disponiamo di dati che denunciano in modo davvero tragico la distanza tra due Regioni come l’Emilia Romagna e la Calabria; in particolare la distanza relativa ai servizi socio educativi adeguati: in Emilia Romagna l’89% dei Comuni garantisce tali servizi, in Calabria solo il 22,8%.

Potrei continuare a elencare queste tragiche distanze ma penso che sia inutile ricordare a noi stessi ciò che conosciamo da sempre. Penso però che sia sufficiente un dato per convincersi che il Pnrr si configura come l’unica ultima occasione per rendere nel nostro Paese, nell’arco di un decennio, omogenei i dati relativi al Prodotto interno lordo pro capite; non possiamo avere un Pil pro capite in una città della Sicilia o della Calabria o della Puglia pari a 17.000-18.000 euro e un Pil pro capite di un Comune della Lombardia o del Piemonte pari o, addirittura, superiore ai 40.000 euro.

Sono queste distanze che dovrebbero davvero farci capire quanto da sempre si sia sottovalutata l’azione “organica” dello Stato nei confronti di una parte essenziale del Paese.

Cosa si intende per “organicità” nell’azione attivata dalla Ue con il Pnrr?

Pensare all’avvio di lotti, anche se funzionali, dichiarare che finalmente è partito qualcosa, rassegnarsi al fatto che l’avvio alla realizzazione di un lotto “è meglio di niente”, sono comportamenti tipici della rassegnazione di una parte del Paese che, con il passare del tempo non sta più mantenendo il suo ruolo di “parte del Paese” ma sta sempre più caratterizzandosi come un “altro Paese”: un Paese del sottosviluppo, un Paese dell’irreversibile immobilismo economico.

Dichiarare che in fondo, però, si è realizzato nell’ultimo ventennio l’autostrada Palermo -Messina o l’autostrada Salerno -Reggio Calabria, significa giustificare e ammettere che contemporaneamente non si è fatto altro, non si è cioè, data “organicità” alla offerta, a quell’offerta infrastrutturale che i cittadini del Sud chiedevano e chiedono da sempre.

L’Unione europea, il Commissario Gentiloni in più occasioni ci hanno ricordato formalmente che le opere del Pnrr devono rispondere prioritariamente alla logica della “organicità funzionale”.

Mi chiedo cosa ci sia di organico nella proposta di un lotto ferroviario ad alta velocità nella linea Salerno-Reggio Calabria, cosa ci sia di organico nella realizzazione di un lotto dell’asse ferroviario Taranto-Metaponto-Potenza-Battipaglia, cosa ci sia di organico nella realizzazione di un lotto della Roma-Pescara o del sistema ferroviario ad alta velocità Palermo-Messina-Catania.

LA PROVOCAZIONE

Purtroppo la risposta è banale: non vi è alcuna organicità ma solo una assurda soddisfazione mediatica, un gratuito recupero di consenso. Voglio per questo fare una provocazione: l’organicità e, al tempo stesso, la possibilità davvero di dare adeguata risposta alla tragica emergenza del Sud, alla tragica assenza di un’offerta infrastrutturale adeguata poteva e doveva contenere il quadro programmatico riportato di seguito. Molti diranno: ma in tal modo avremmo assegnato quasi tutte le risorse per la infrastrutturazione al Sud. La mia risposta è scontata: solo grazie al Sud il nostro Paese ha ottenuto un volano di risorse così elevato.

Sicuramente, di fronte a una simile proposta, o meglio di fronte a una simile provocazione, prenderà corpo un’immediata critica. Molti, infatti, diranno: in fondo questo volano di risorse utilizzerebbe tutte le risorse a fondo perduto del Pnrr. In realtà non si tiene conto che sarebbe opportuno rivedere integralmente l’utilizzo dei 30 miliardi di euro non spesi del Programma del Fondo di coesione e sviluppo 2014-2020 e in tal modo non ci sarebbe bisogno di aggiuntività.

Tuttavia, anche se in tal modo il Sud fagocitasse tutta la quota a fondo perduto del Pnrr saremmo però in grado di:

• Riconoscere finalmente al Mezzogiorno la rilevanza del ruolo posseduto nell’ottenimento delle risorse.

• Dare attuazione completa a un processo di infrastrutture e di azioni organiche.

• Abbattere in otto-dieci anni quell’assurda distanza legata al Pil pro capite tra Centro Nord e Sud.

Questa mia ipotesi, ripeto questa mia assurda provocazione, sarà ritenuta sicuramente utopica, ma spero che almeno che il presidente Draghi e la ministra Carfagna entrino nel merito, perché prima o poi qualcuno chiederà per quale motivo si sia preferito, proprio nel Mezzogiorno, sposare la vecchia logica che trasferisce al futuro la soluzione delle emergenze, la soluzione delle criticità.

Solo oggi abbiamo questa occasione carica di risorse e solo fra dieci mesi faremo un primo tagliando al Pnrr. Ebbene, siccome fra otto mesi non sarà partito ancora nulla, il presidente Draghi mediti sull’opportunità di rileggere integralmente l’approccio seguito nella redazione del Pnrrper gli interventi nel Sud.

È l’ultima occasione che non possiamo e non dobbiamo perdere.

LA POLEMICA. «Cari Sala e Fontana, è giusto che i fondi vadano al Sud». Cerco di astenermi sempre dalle polemiche ma questa volta davvero non resisto. Scrivo per il profondo imbarazzo istituzionale che ho avvertito sulla mia pelle a seguito della pubblicazione del fuo…Pubblicato il 10/02/2022 da Paolo Pappaterra, direzione regionale Pd, su corrieredellacalabria.it.

Cerco di astenermi sempre dalle polemiche ma questa volta davvero non resisto. Scrivo per il profondo imbarazzo istituzionale che ho avvertito sulla mia pelle a seguito della pubblicazione del fuorionda tra il sindaco Beppe Sala e il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana su una loro discussione sul PNRR.

Trovo disdicevole ed imbarazzante non la discussione in sé ma l’idea di Paese che si ha. In quelle parole emerge una forte – ancora – ed anacronistica contrapposizione tra due parti di territorio Nazionale. Scandalizza l’idea delle troppe risorse del PNRR destinate al Sud.

Pensate un po’, noi siamo scandalizzati del fatto che ne vorremmo ancora di più. Non è in gioco la quantità ma la qualità. Ebbene, nel Mezzogiorno d’Italia abbiamo dimostrato più volte di saperci fare autogol clamorosi: mancata programmazione, inefficienza della pubblica amministrazione, una difficile cultura nella cooperazione imprenditoriale e per non farci mancare nulla inefficienza della spesa sui Fondi Europei. Abbiamo avuto i nostri limiti (tanti e gravi), non li nascondiamo. Ma questo non giustifica l’idea di Paese che avete.

Il Mezzogiorno d’Italia ha più risorse sul PNRR per il mero motivo che vi state “impoverendo”, state arrivando al vostro grado di stagnazione economica.

Il moltiplicatore di sviluppo del nord cresce se la ricchezza prodotta nel Mezzogiorno aumenta. Le risorse sono destinate al Sud perché chiediamo ancora l’alta velocità (per voi qualcosa ormai banale). Le risorse maggiori sono destinate al Sud perché abbiamo aziende di eccellenza che non vogliono delocalizzare e vogliono rimanere qui chiedendo sacrosanti diritti, servizi, per creare opportunità occupazionali. Le risorse maggiori sono destinate al Sud perché abbiamo fame di riscatto, sappiamo essere resilienti e perché nel momento di difficoltà sappiamo unirci e dimostrare di essere grandi. Le risorse sono destinate al Sud perché abbiamo dimostrato, nella storia, di essere straordinari innovatori. Le risorse sono destinate al Sud perché sarà l’ultima chance per metterci all’opera e cercare di rimediare agli errori del passato dandoci la possibilità di chiedere scusa ai tanti giovani che sono stati costretti a scappare via dalle nostre meravigliose Regioni. In ultimo, la maggior parte delle risorse sono destinate al Sud, perché forze più lungimiranti di noi – la madre Europa – ha scelto che dovrà essere il Sud a crescere.

Forse ho sbagliato a scrivere, dando l’idea differenziata tra “noi” e “voi”, ma a volte credo sia giusto far notare le differenze di vedute. Noi vogliamo che l’Italia cresca, partendo dal Sud. Voi, non so.

Non sarà uno scontro istituzionale ma è arrivato il momento di combattere marcature politiche che riteniamo fuori luogo ed appartenenti a vedute del passato. In ultimo, se “volete farvi furbi” iniziate a mandarci i tanti ingegneri figli del Sud che si trovano al nord, gli economisti, ragionieri, geometri, personale scolastico, marketing manager, architetti, sviluppatori turistici, etc., perché a noi mancano e ci servono per mettere a terra le risorse del PNRR e magari sceglieranno di rimanere qui, con la loro famiglia, per un’equa distribuzione di chi ha tanto avuto e di chi non ha mai ottenuto.

Se cresce il Sud, cresce l’Italia. Non è una frase fatta o ad effetto ma la banale, semplice e cruda verità.

Ora a lavoro che in questo mese e nel prossimo scadono una marea di Bandi per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e sì, destinati per il Sud.

Disuguaglianze, la questione meridionale non è solo il divario tra nord e sud. EMANUELE FELICE, economista, su Il Domani il 15 gennaio 2022.

La questione meridionale, il più grande nodo irrisolto del nostro paese, non è solo un problema di disuguaglianze fra Nord e Sud. Ma è anche un problema di disuguaglianze dentro il Mezzogiorno, sin dalle origini.

Le classi dirigenti «estrattive» meridionali, trasformatesi nel tempo (dai possidenti terrieri ai mediatori politici), sono storicamente le principali responsabili dell’arretratezza del Mezzogiorno.

Il miracolo economico è stato anche l’unico periodo di convergenza del Sud Italia. Negli ultimi decenni, l’arenarsi e la deriva del Mezzogiorno si accompagnano al declino del paese. 

EMANUELE FELIC, Eeconomista. Professore ordinario di politica economica all'università "G. D'Annunzio" di Chieti-Pescara.

«La sposa», quella fiction Rai che non piace a Veneto e Calabria.  Marzio Breda, Antonio D’Orrico, Renato Franco su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Ascolti & polemiche, un classico della tv

La fiction di Rai1 «La sposa» per una volta ha unito Nord e Sud, unanimi nell’eccepire su una finzione che è diventata troppo romanzata (e non senza pregiudizi). Il presidente del Consiglio regionale del Veneto Roberto Ciambetti si è infuriato: «La serie è un falso storico che nuoce invece al racconto di una tragedia vissuta da molte italiane: paradossalmente i suoi cliché grotteschi e stereotipati mettono in ridicolo non solo i vicentini o i veneti, ma anche i calabresi e le donne calabresi e chi visse quella stagione». Strali sono arrivati anche da Nino Spirlì, ex presidente facente funzioni della Regione ed esponente del Carroccio: «Parlano una strana lingua che non corrisponde a nessuna delle lingue di Calabria. I matrimoni per procura si facevano al limite per terre lontane (Americhe, Australia, Belgio... ). Forse, alcune delle nostre donne sono partite per il Piemonte, o la Valle d’Aosta e la Liguria, dove si erano già installati gruppi di calabresi, ma certamente non per il Veneto, che era regione depressa più della Calabria».

Veneto: cliché e retorica, di questa terra si sa ancora poco

C’è il tintinnio dei bicchieri nell’osteria, che fa passare l’idea di un’umanità rintronata dall’alcol. C’è il dialetto nelle varianti grevi e quasi impronunciabili. C’è il lavoro vissuto come un’ossessione (Ferdinando Camon dice che la gente del Nordest ha il «complesso del bue», perché non sta bene se non è sotto sforzo). Ci sono le donne nella loro dimensione più umile, ma viste non come le vezzeggiate camerierine goldoniane, quanto come serve trattate peggio delle bestie. C’è il padre-padrone anaffettivo, che domina sulle proprie terre con pugno barbarico. E c’è una nebbia perenne, case umide e sporche, miseria. Mancano le sfilate di preti, utili a rafforzare l’immagine di una comunità arcibigotta. E pure gli alpini, con la loro epica del sacrificio, meglio se inutile. Per il resto, però, c’è l’intero catalogo dei luoghi comuni sul Veneto nella fiction tv La sposa ambientata tra la Calabria e la provincia di Vicenza sul finire degli anni Sessanta. Storia carica di stereotipi e inverosimile. È curioso, ma nel 1957 il romanziere vicentino Guido Piovene compì un «Viaggio in Italia» in cui descrisse con ammirazione queste campagne. «C’è qui un ottimismo morale, sociale, progressista che si nutre dell’ottimismo veneto che non cede all’ostacolo…». Possibile che, pur essendo concentrato su una realtà in trasformazione, non avesse colto tracce del mondo arcaico, misogino e violento descritto nel film? Possibile che neppure un poeta sensibilissimo alla sfera contadina come Andrea Zanzotto, vissuto a pochi chilometri, abbia mai evocato brutalità e scelleratezze come quelle su cui è costruita la storia della donna «comprata» come una fattrice attraverso un matrimonio per procura? Certo, nel Veneto di allora resistevano ancora parecchie arretratezze e la secolare emigrazione restava un fenomeno socialmente rilevante. E sì, si affacciavano anche forme di xenofobia poi esasperate dal protoleghismo. Il problema è che, bollati come rancorosi e avidi, i «polentoni» veneti si sono guadagnati l’antipatia di molti italiani. I quali magari sanno poco della storia di questa terra, cui è stato facile assegnare il marchio di «deserto morale». Si sa, la letteratura, come il cinema, autorizza qualsiasi invenzione e la censura è sbagliata per principio. Ma non sarebbe male ricordare che il popolo del Cadore, quando nel 1420 scelse di farsi governare dalla Serenissima, chiuse la propria assemblea proclamando «Eamus ad bonos venetos». Perché questa era la reputazione di questa gente: bonos, buoni…Marzio Breda

Calabria: in tante vendute, il vero errore è la rimozione

No, le statuette della Madonna di Lourdes in plastica (non compostabile, ritengo) c’erano in Calabria negli anni Sessanta. Le ricordo benissimo. Si svitava la testa, che faceva da tappo, e si beveva l’acqua miracolosa. Sbaglia quindi il leghista Nino Spirlì, ex presidente facente funzioni della Regione Calabria, quando polemizza contro La sposa, la fiction di RaiUno sui matrimoni combinati di ragazze locali con maschi settentrionali, e sghignazzando («Ahahahahahahahah») accusa il regista Giacomo Campiotti e la sua troupe di aver commesso «errori di trovarobato», tipo appunto: «la Madonnina di Lourdes in plastica??????». E sbaglia ancora il facente funzioni (funebri??????, viste le condizioni della regione) quando dice che i matrimoni per procura nella Calabria anni Sessanta non si facevano con la gente del Nord Italia. Si facevano eccome. Esiste in materia una vasta letteratura: dagli studiosi Nuto Revelli e Laura Marchesano al collettivo di scrittori Lou Palanca, autore del romanzo Ti ho vista che ridevi (Rubbettino 2015) che racconta la storia delle centinaia di «calabrotte» (così venivano chiamate), che in cambio di denaro andarono spose dalla metà degli anni Cinquanta alla metà dei Settanta a contadini delle Langhe grazie all’intermediazione di ruffiani professionisti (i cosiddetti bacialè). C’era un protocollo imposto dal sensale: si cominciava con uno scambio di fotografie, poi di lettere e infine, raggiunto l’accordo economico, si convolava a nozze nel paese della sposa. A volte nascevano dei gemellaggi. Giovanni Fiorita, componente dei Lou Palanca, racconta che le ragazze di Amantea, paese sul Tirreno cosentino, preferivano i mantovani e molti furono i matrimoni combinati in questo senso. L’alta Liguria, in particolare Imperia, come segnala l’antropologo Mauro Francesco Minervino, fu la meta di tante ragazze della piana di Gioia Tauro e dell’Aspromonte costrette dalla miseria alle migrazioni nuziali. La fiction La sposa avrà tutte le colpe del mondo (accade con una certa frequenza alle fiction della Rai: qui hanno girato alcune scene in Puglia) ma non racconta un falso storico come accusano sui social calabresi indignatissimi. Il sindaco di Alba risarcì simbolicamente le calabrotte delle Langhe, onorandole alla festa delle donne l’8 marzo del 2016. In Calabria, invece, le rinnegano come fa Spirlì per questioni di immagine (cancel culture alla ’nduja?). È un modo per mandarle via ancora una volta. Antonio D’Orrico

La produzione: «Molti si riconoscono, è una storia di emancipazione»

Italia, fine degli anni Sessanta. Un periodo di cambiamenti e di trasformazioni, dal costume alla politica. Ma in alcune zone del Paese sono ancora diffuse pratiche arcaiche (ne parlava anche la Bibbia) come i matrimoni per procura, in cui giovani donne del Sud vengono date in spose a uomini del Nord, per lo più agricoltori. È quello che succede a Maria (interpreta da Serena Rossi) che, per garantire un futuro ai fratelli e alla madre, accetta un matrimonio al buio trasferendosi a vivere con un uomo che non conosce, Italo (l’attore Giorgio Marchesi). Il patto prevede che il marito ogni mese spedisca del denaro alla famiglia della sposa. Insomma un vero contratto. Coprodotta da Rai Fiction e Endemol Shine Italy, La Sposa (in onda per tre domeniche) ha fatto il botto di ascolti (quasi sei milioni di telespettatori, il 26,8% di share, 62.700 interazioni social) e polemiche. L’accusa di aver fatto ricorso a troppi stereotipi, di essere un azzardo lontano dalla realtà storica. Endemol Shine Italy respinge le accuse al mittente e spiega «che la serie si ispira a fatti documentati storicamente. Lo confermano anche le tantissime testimonianze che in questi giorni sono arrivate, anche sui social, di persone che si riconoscono, o riconoscono le storie delle loro famiglie, in quelle situazioni e in quegli anni. La Sposa è un racconto di fiction che vuole dare risalto a una storia di emancipazione e riscatto, con personaggi tutt’altro che stereotipati ma molto complessi e soggetti a una profonda evoluzione nel corso degli episodi». In sede di presentazione il vice direttore di Rai Fiction Francesco Nardella aveva sottolineato di «essersi riconosciuto pensando alle nostre nonne e zie a metà degli anni Sessanta, al rapporto con le donne nella società di allora. Qui c’è il racconto di un’Italia che cambia». Renato Franco

"Quello è un falso storico": scoppia la bufera sulla fiction Rai. Carlo Lanna il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Nonostante il grande successo, La Sposa non regalerebbe al pubblico un ritratto veritiero e realisto del Veneto degli anni '60. Ed è bufera sulla fiction Rai.

Lo scorso 16 gennaio ha debuttato su Rai Uno la nuova fiction con Serena Rossi. L’attrice, nata a Un posto al sole, diventata poi attrice di spicco del cinema e della tv di oggi, è la protagonista de La Sposa. Il nuovo fuelletton della Rai mette in scena il dramma umano di una donna che si sposa per procura con un uomo rozzo (ma dall’oscuro passato) che vive al Nord, in Veneto. La Sposa del titolo è una donna della Calabria con tanti sogni e tante speranze, costretta a lasciare la sua città solo per il bene della famiglia. Neanche a dirlo, la fiction ha ottenuto un grande successo. Prima della seconda puntata – che arriva su Rai Uno domenica 23 – La Sposa è stata colpita da diverse critiche, dove sono intervenuti anche diversi esponenti politici del Veneto e persino la presidente di Confindustria Vicenza.

"Un falso storico che nuoce al racconto di una tragedia vissuta da molte italiane", afferma Roberto Ciambetti, il presidente del consiglio regionale del Veneto. Il Gazzettino riporta l’affondo del politico della Lega nei riguardi della produzione Rai. "Paradossalmente i suoi clichè grotteschi e stereotipati mettono in ridicolo non solo i veneti ma anche i calabresi". La fiction de La Sposa regalerebbe al pubblico un ritratto misogino e troppo barbaro del Veneto. "Pensare a un matrimonio per procura a fine anni sessanta è a dir poco un azzardo – aggiunge -. Una provocazione senza senso e lontanissima dalla realtà storica. La Sposa non regge il confronto con tutto quello che stava accadendo nel vicentino, quando gli operai di Schio, Arzignano e Valdagno vivevano la stagione della battaglia per i diritti".

Al coro degli oppositori si unisce anche Laura della Vecchia, presidente di Confindustria Vicenza. "Siamo una regione di lavoratori che hanno costruito una grande economia grazie all’impegno delle persone – afferma -. Questo è un Veneto che non conosco". La stoccata arriva anche da Giustina Destro, responsabile della Fondazione Bellisario per il Nordest. "Tutto questo è inconcepibile. Il Veneto è un territorio in cui l’Università di Padova compie 800 anni e dove ci sono state le prime donne laureate. Nonché la prima donna ingegnera – ammette –. Tutto questo lo trovo inaccettabile". Sulla questione si esprime anche Nino Spirlì, ex presidente di regione ed esponente del Carroccio. "I matrimoni per procura si facevano al limite delle terre lontane, come America e Australia. Forse alcune donne sono partite per il Piemonte ma certamente non in Veneto”.

Serena Rossi indossa il vestito da "Sposa" "Affronto tanti guai per salvare la famiglia"

C’è chi però difende La Sposa, come Simone Toffanin, attore che nella fiction interpreta Umberto, il barista sposato con una calabrese. "Bisogna distinguere la storia dall’ambiente e sono sicuro che se la vicenda fosse stata ambientata in un’altra regione le cose non sarebbero andate diversamente – dice -. La sposa stigmatizza una famiglia dove c’è ancora la figura del padre-padrone. Non si scopre niente di nuovo. Nel Veneto c’era molto maschilismo". Il primo episodio, al netto delle polemiche, è stato seguito da sei milioni di telespettatori.

Carlo Lanna. Nasco a Caserta, vicino Napoli, più di trent'anni fa. Fin da ragazzino ho sempre avuto l'amore per la scrittura, che sono riuscito a declinare negli studi e nel lavoro. Al secondo anno di università ho cominciato a scrivere per un blog e da quel momento in poi non mi sono più fermato, racimolando collaborazioni per magazine online e cartacei. Il cinema, le serie tv e la letteratura sono la mia passione (e ossessione). Amo la fotografia e viaggiare, oltre che la buona cucina. Seguo 30 serie tv all'anno, leggo due libri a settimana e vado a caccia di news e indiscrezioni su tutti - o quasi - gli attori di Hollywood. Da tre anni collaboro con IlGiornale.it per la sezione spettacoli. Nella vita di tutti giorni sono anche scrittore (a giugno del 2021 esce il mio quarto romanzo). Sono consulente e beta-reader per la Milena Edizioni

Calabresi indignati per "La sposa" calabrese su Raiuno. Ma la fiction è stata un successo di audience. ISABELLA MARCHIOLO su Il Quotidiano del Sud il 17 Gennaio 2022.

A MOLTI calabresi non è piaciuta la fiction “La sposa” con Serena Rossi. In onda ieri sera su Raiuno, la prima delle tre puntate del film tv diretto da Giacomo Campiotti ha suscitato più dissensi che gradimento, almeno stando ai commenti postati sui social dai telespettatori delle nostre latitudini. Al contrario, la maggior parte degli italiani ha premiato con ascolti record (quasi sei milioni e il 26,8% di share) la storia della contadina calabrese venduta a un marito veneto.

Cose che accadevano qui alla fine degli anni Sessanta, secondo la sceneggiatrice Valia Santella, già premio David di Donatello.

Peccato che la volitiva Maria-Serena Rossi lasci un imprecisato paesino della Calabria per trasferirsi non a Parigi ma diretta verso una landa altrettanto periferica nella provincia veneta, dove l’attende uno sconosciuto mezzadro sposato per procura. Insomma, anche il profondo Nord rappresentato nella fiction non brilla per modernità e i malumori calabresi si concentrano proprio su questo: perché proporre, nel solco di un racconto sulle lotte contadine e l’emancipazione femminile, un’iconografia così impietosa connotandola soltanto alla Calabria? Un nome, quello della regione, che è ripetutamente pronunciato con disprezzo dal tracotante sensale veneto che “scende” fino alla punta dello Stivale alla ricerca di ragazze giovani, sane e vergini da comprare per conto dell’ignaro nipote, impazzito dopo la scomparsa della prima moglie. Ormai un po’ ce lo aspettiamo, ma la delusione colpisce ugualmente.

L’ambientazione delle scene calabresi (girate però in Puglia) è un’accozzaglia di stereotipi storico-sociali: le capre, i manifesti funebri in piazza, le vecchie vestite di nero che lavorano all’uncinetto davanti alle porte delle case. E poi l’atavico handicap del dialetto, che pure stavolta sbiadisce in un indistinto macondo meridionale dove prevale la sonorità più popolare e mediatica. Di solito ci confondono con i siciliani, qui il timbro è vagamente napoletano (complici le origini dell’attrice protagonista). Zerocalcare docet: nelle arti il linguaggio è terreno di scontro culturale accesissimo. Ma come sempre, il vernacolo calabrese non lo conosce e non lo studia nessuno.

Potrebbe sembrare un cavillo campanilista, invece è una questione di identità – soprattutto per questa permalosissima e orgogliosa gente. E’ vero, in termini di immagine la ‘ndrangheta è una condanna che forse non finiremo mai di scontare. Compensiamo però con terre di bellezza magnifica e un idioma potente e musicale: niente di tutto questo si vede o si scorge nella fiction. Dove purtroppo, persino quando la vicenda si sposta in Veneto, la Calabria è evocativa di arretratezza e inciviltà. E non assolve la facile obiezione del set temporale, ovvero il 1967, epoca in cui – come insegna, per restare in tema cinematografico, il mitico “Bello onesto emigrato Australia…” di Luigi Zampa con Alberto Sordi – era radicata consuetudine l’offerta di donne illibate che si sistemavano per scappare alla miseria del paese nativo e, dopo il matrimonio di convenienza, mandare soldi alle famiglie. In questo caso si racconta di un vero e proprio commercio organizzato, con il rischio che lo spettatore medio pensi a costume specificamente locale: l’agricoltore veneto infatti si fa un migliaio di chilometri per approdare a colpo sicuro proprio nel borgo calabro dove una coppia di anziani papponi (uno è l’attore reggino Saverio Malara) espone la mercanzia delle ragazze da vendere come spose – e si allude persino ad altre compaesane felicemente accasate.

Lo stesso regista Campiotti in diverse occasioni ha ribadito che la trama è strettamente legata alla Calabria e lo dimostra il fatto che, non essendo riuscito a trovare la congiuntura giusta per girare qui, non ha traslocato, insieme al set, pure la storia in Puglia. Ma a quali fonti hanno attinto gli sceneggiatori per documentare in modo così geograficamente netto questa tratta di giovani donne?

Piuttosto “La sposa” ricorda moltissimo la trama di un bel romanzo del collettivo Lou Palanca, edito da Rubbettino, “Ti ho vista che ridevi”. E’ la storia di una contadina di Riace emigrata nelle Langhe, costretta a nozze riparatrici di una maternità irregolare – e c’è anche un “bacialé”, ruffiano combinatore delle unioni miste tra ragazze meridionali e uomini del Nord. Un libro pubblicato nel 2015 e vincitore di molti premi letterari, che però sembra non avere attinenza (nonostante le palesi similitudini narrative) con la fiction di Giacomo Campiotti e non viene citato neppure come ispirazione.

Intanto l’eco della prima polemica arriva da Vieste, nel Gargano, uno dei set della fiction. La Pro Loco ha obiettato che la targa “Calabria 1967” nei primi fotogrammi della puntata potrebbe generare un equivoco sui luoghi effettivi. Ovvero: non importa che la storia sia calabrese, il pubblico deve sapere che quella in realtà è Vieste. O meglio, in una disputa tra poveri, è bene precisare che “quelle cose” non avvenivano in Puglia, a cui però deve restare il merito delle location.

Grattacapi di marketing da maneggiare con estrema cura, come il cinema sa ormai molto bene.

Location, dialetto, identità calabrese. Perché si discute della fiction "La sposa". PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 22 gennaio 2022.

COSENZA – È uno dei temi caldi di questa settimana in Calabria. Da quando è andata in onda, domenica sera, la fiction “La sposa” su Raiuno, la Rete si divide tra pro e contro sulle vicende di Maria, la bravissima Serena Rossi, giovane e bella calabrese che per motivi economici salva la sorella da un matrimonio aggiustato da un sensale locale e dal sole della sua terra accetta di andare in sposa per procura nelle nebbie del Veneto con un marito che non ha mai visto.

L’intreccio ben costruito è quello di un melò alla Materazzo (regista molto amato dai nostri genitori negli anni Cinquanta per i film di Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson) con colpi di scena avvincenti che avvolgono una storia ambientata nel 1967 in pieno boom economico.

Fiction è finzione per antonomasia, e su dati di contesto si sviluppa una storia inventata secondo le regole di genere. Il cattivo affidato al ricco veneto che mette “gli sghei” (il denaro) sopra ogni cosa, il fratello che ha visto scomparire la moglie amata in circostanze misteriose, il bambino che cresce come un ragazzo selvaggio, la Calabria amara e povera, l’emigrazione. Sono presenti in modo esiziale i grandi fermenti di quel periodo che pur animavano la provincia italiana negli anni Sessanta. La musica dei giovani (ormai una costante di film e fiction), una giovane comunista in Veneto che aiuta Maria contro il razzismo e i pregiudizi locali e qualche altra venatura di progressismo.

L’audience ha premiato “La Sposa” in modo netto e inequivocabile. Sei milioni di spettatori e uno share del 26,8 per cento per un prodotto popolare di buona fattura che ha catturato il pubblico generalista televisivo di Raiuno grazie ad attori in forma, un regista di grande capacità come Giacomo Campiotti e una produzione internazionale, la Endemol, che prepara con straordinaria cura la sua library di audiovisivi.

Ma nel gradimento sulle latitudini che affrontano la storia della Sposa Maria è scoppiata la polemica social. 

Le tre puntate della fiction ambientate tra Calabria e Veneto sono state girate in Puglia e in Piemonte. Uno dei primi elementi di frizione di protesta urlata. È un tema ricorrente, che si fa fatica a far capire al pubblico. Il cinema gira e realizza le sue opere nei territori dove le condizioni economiche e di tempo sono le migliori possibili. In questo caso la produzione e il regista hanno deciso di ricostruire il paese di Calabria de “La sposa” tra Monte Sant’Angelo, Vieste e Vico del Gargano.

Si poteva girare in Calabria? Certamente sì. Tra l’altro il regista ha lavorato in passato nella nostra regione decantandone in diverse interviste la meravigliosa accoglienza: nel recente sceneggiato d’impegno civile “Liberi di scegliere” e nella fiction dedicata a Moscati, guarda caso di ambientazione napoletana e girata tra i vicoli di Cosenza, per merito dell’organizzatore calabrese Pasquale Arnone.

È noto agli addetti ai lavori che una delle scene madri de “I vitelloni” di Fellini, che celebra la solitudine delle spiagge di Rimini, è stata girata sul Tirreno; e per stare ad un recente film di successo, “Il potere del cane” di Jane Campion ambientato nel Montana nel 1925, la regista ha preferito girare nella sua Nuova Zelanda per motivi artistici ed economici. Gli stessi che hanno indotto Endemol a preferire il Piemonte al Veneto, regione dove opera una delle migliori film commission d’Italia.

Sulla questione Calabria il regista Campiotti ha ingenerato molta confusione. Intervistato dalla nostra collega Isabella Marchiolo, ha dichiarato: «Avrei voluto girare in Calabria, come ho fatto due volte con grande sostegno da parte della precedente Film Commission, che funzionava benissimo. Ma in questo caso il supporto lo ho avuto dalla Puglia, mentre in Calabria ci sarebbero stati problemi organizzativi legati alla mancanza di strutture».

Per fare chiarezza in Calabria non mancano strutture. E abbiamo verificato che alla Calabria Film Commission non è stata presentata mai nessuna richiesta di finanziamento o assistenza logistica da parte della Endemol, che evidentemente avrà avuto le sue ragioni per girare in Puglia. Forse Campiotti ha voluto concedere un aiutino al vecchio management della film commission locale, cui si sente particolarmente legato. Ma ha peccato di chiarezza dichiarando una cosa non vera.

Altra questione molto accesa quella del dialetto calabrese adoperato nella fiction. “È siciliano”, “parlano così a Catanzaro”, “ma chi vi capisce”. Sul punto invece Campiotti è stato molto chiaro: «Abbiamo fatto un lavoro imponente con un coach, Serena Rossi è stata bravissima. Del resto le chiamavano le Calabrie, basta spostarsi di un chilometro per trovare parole e accenti diversi».

Siamo ancora le Calabrie. Non abbiamo un dialetto unico. A mio parere la scelta, sempre complessa, funziona se sei milioni d’italiani sono rimasti incollati al video.

Quando si racconta una finzione nel proprio territorio, il pubblico generalista si aspetta di sentire l’idioma del proprio borgo. Sono le stesse polemiche che ho registrato a Matera per “Imma Tataranni, sostituto procuratore” in cui la pugliese Vanessa Scalera, affidata ad una coach materana, viene accusata di parlare con inflessione barese. E a Bari si sono invece lamentati che Luisa Ranieri, nei panni di Lolita Lobosco, non parla pugliese. È una convenzione linguistica il dialetto nel cinema e in tv. Un argomento su cui la teoria si esercita da decenni.

E poi l’argomento più divisivo. Quello dell’identità e se dal punto di vista storico la Calabria raccontata da “La sposa” sia falsa, razzista e raccontata per stereotipi. È una questione nodale dei giorni nostri che va oltre la fiction in programmazione. Mi soccorre l’antropologo calabrese, Vito Teti, che sull’identità calabrese ha scritto: «Spesso la nostra è un’identità costruita per reazione, ci concentriamo sull’essere chi siamo perché qualcuno ci racconta così. Siamo dipendenti dallo sguardo esterno». Insomma “pare brutto” che gli altri ci raccontino anche per come siamo stati. E molti si arrabbiano.

Che nel 1967 ci fossero donne vestite in nero, società maschilista, povertà in Calabria non è una forzatura de “La sposa”. I manifesti dei morti sono ancora attaccati ai nostri muri, e per quanto mi riguarda non è un dato negativo. Poi una fiction, per motivi di spettacolo, esaspera alcuni dati del reale. Come accade nella scena iniziale quando il sensale calabrese mostra al cliente veneto le ragazze del paese tastandole e mostrandole come una sorta di bestiario umano femminile.

Ma i matrimoni combinati fanno parte della nostra storia. Il fenomeno è bene raccontato nel bel romanzo dei Lou Palanca “Ti ho vista che ridevi”, epopea delle donne calabresi verso le Langhe piemontesi. E sull’onda delle polemiche di queste ore Domenico Lanciano, ha segnalato che a Badolato è ancora visibile una pietra parlante del 1979 su cui sta scritto: “Vinna nu bellu giuvinottu da campagna e Verona e sa levau”, frase che potrebbe essere un incipit de “La sposa”.

Ma dati storici inoppugnabili hanno lo stesso indignato in Calabria. Per la politica bipartisan abbiamo registrato le prese di posizioni di Nino Spirlì, anche autore di spettacolo, che senza mezzi termini ha definito la fiction di Campiotti «una cagata» di fantozziana memoria, prendendo anche le distanze dall’ormai celebre cortometraggio di Muccino. Da sinistra ha risposto Santo Gioffrè, anch’egli autore, un suo libro è stato alla base della fiction “Artemisia Sanchez”, che ha dichiarato: «Da romanziere storico io non contesto la fiction ma l’indicazione di un luogo e un periodo precisi senza contestualizzarli ed estrapolando un solo terribile aspetto, che dà l’idea della Calabria come di un mondo perduto in un’epoca irreale».

E per alzare lo sguardo, le polemiche non hanno risparmiato la Puglia che, vendendo la propria location, ha fatto sapere di non voler essere equiparata alla Calabria, e soprattutto il Veneto dove il presidente del consiglio regionale, il leghista Roberto Ciambetti, ha sottolineato «i cliché grotteschi che mettono in ridicolo sia i veneti che le calabresi», unendo gli scontenti delle due regioni.

È ora che lo spettacolo continui. Domani sera, 23 gennaio 2022, seconda puntata. La Calabria continuerà ad essere protagonista de “La sposa”. Una buona occasione di intrattenimento e si spera di dibattito.

Il federalismo è fallito, il Veneto rifletta sui perché: basta rivendicazioni, è l’ora della responsabilità. Quella che per Zaia era la “madre di tutte le battaglie” ha mostrato i suoi limiti: ci si concentri sugli spazi di autonomia vera che è possibile conquistare qui e ora Ivo Rossi, Ex sindaco di Padova, su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

A quattro anni dalla celebrazione del referendum per l’autonomia del Veneto e a ben sette anni dall’approvazione da parte dell’assemblea regionale di quattro proposte referendarie, una delle quali, cassata dalla Corte costituzionale, significativamente titolata “Per l’indipendenza del Veneto”, è utile e necessario fare un primo bilancio dei modesti risultati conseguiti e ragionare sulle difficoltà incontrate nel corso del negoziato che ha visto variamente impegnati ben quattro governi di diversa composizione politica.

Per quanto la politica possa interpretare come successi anche esiti di tutt’altro segno, e attribuire ad altri le responsabilità degli insuccessi, credo si possa dire che, sul piano dei risultati conseguiti, la “madre di tutte le battaglie” abbia mostrato limiti significativi che dovrebbero indurre a ragionare sulle cause e sui necessari aggiustamenti di approccio.

IL NEGOZIATO

Va riconosciuto comunque a questa iniziativa il merito indiretto di aver fatto uscire il regionalismo italiano dal cono d’ombra in cui era precipitato a causa di una innumerevole serie di scandali, non ultimo quello del Mose, con la riaffermazione del ruolo fondamentale delle autonomie locali nel concorso alle politiche nazionali e alla ripresa del Paese. La stessa gestione dell’emergenza Covid, pur dentro un altalenante quadro conflittuale alimentato da esigenze di schieramento, ha mostrato quanto sia stato importante il contributo delle Regioni nell’organizzazione delle campagne vaccinali e nel rafforzamento dei presìdi di sanità pubblica.

Va ricordato come il negoziato, improntato alla leale collaborazione, a partire dal confronto avviato dal sottosegretario Bressa negli ultimi mesi di vita del governo Gentiloni, abbia portato alla sottoscrizione di un “pre accordo” contenente i principi generali e la definizione di un numero limitato di materie da devolvere, condiviso, assieme al Veneto, anche dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna.

Dibattito ripreso nel corso di questa legislatura, dal governo Conte 1, in cui un’ipotesi di lavoro predisposta dal ministro Stefani ha impegnato ben tre sedute monotematiche del Consiglio dei ministri, fino al naufragio sulla spiaggia del Papeete ferragostano che ha travolto quella compagine governativa.

MATERIE IN DISCUSSIONE

La questione ha avuto una sua centralità anche durante il governo Conte 2, in cui il ministro Boccia, fautore di una convergenza di tutte le Regioni attorno a una norma-quadro, attenta sia al trasferimento delle competenze, sia alla dimensione perequativa e solidale fra le diverse aree del Paese. Norma-quadro indicata fra gli obiettivi anche dal governo Draghi il cui dibattito è inevitabilmente ancora in fieri a causa della pandemia e della priorità necessariamente assegnata al Pnrr.

Alla situazione di stallo negoziale hanno concorso alcuni limiti della riforma costituzionale del Titolo V del 2001, e in particolare l’aver considerato fra le materie concorrenti, di cui all’articolo 117 della Costituzione (solo per citare alcuni commi) “le grandi reti di trasporto e di navigazione”, così come “la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, che già nella definizione indicano l’ambito necessariamente nazionale delle relative politiche e, dunque, l’impossibilità di una loro totale devoluzione alle regioni. Per questi aspetti, così come per altre materie su cui è stata richiesta la competenza regionale esclusiva, una discussione che non si limiti all’onnicomprensività della parola “autonomia” e alle suggestioni romantiche a cui rimanda, probabilmente farebbe bene al Veneto e a tutte le sue articolazioni sociali, economiche e culturali, fino a oggi assai poco coinvolte nell’analisi degli aspetti di merito e dunque dei vantaggi davvero conseguibili.

IL CONSENSO

Allo stesso tempo, una comunità che rivendichi una maggiore autonomia, nell’ambito della legge e in un quadro di unità nazionale, non può trascurare il fatto che il conseguimento dell’obiettivo passa attraverso il raggiungimento di un largo consenso parlamentare. La Costituzione afferma infatti che «La legge è approvata dalla Camera a maggioranza assoluta dei componenti», il che rimanda non solo al necessario largo consenso politico, ma anche alla sua variegata articolazione territoriale.

Detto più esplicitamente, senza il consenso dei parlamentari eletti in quasi tutte le regioni, e in particolare nelle regioni meridionali, il traguardo rischia di diventare un miraggio.

Se a questo si aggiunge il complicato processo di formazione dell’ “Intesa” fra lo Stato e la Regione, e il ruolo del Parlamento nella formazione dell’atto, si può ragionevolmente cogliere l’importanza fondamentale della costruzione del consenso e di come un racconto da primi della classe, che ha caratterizzato il dibattito pubblico nel Veneto, spesso inutilmente conflittuale e liquidatorio nei confronti di altre regioni, non abbia aiutato nell’individuazione delle soluzioni possibili.

A fronte e nonostante l’impegno dei diversi governi appare del tutto evidente che le difficoltà incontrate nella costruzione di una maggioranza parlamentare in grado di fornire una risposta positiva alla domanda di autonomia differenziata rimandino ad aspetti diversi da quelli squisitamente tecnici e costituzionali e attengano al racconto politico che ha caratterizzato gli ultimi anni.

La proposta dell’autonomia differenziata, definita da Zaia «la madre di tutte le battaglie», indicante come obiettivo primario il recupero del cosiddetto “residuo fiscale” (come se la fiscalità riguardasse i territori anziché i cittadini), con il presidente che in un’intervista, replicando a suggestioni catalane, si dice pronto anche a «farsi arrestare», ha generato nelle regioni del sud una contro narrazione, da “secessione dei ricchi”, sentimento già latente che inevitabilmente ha finito per orientare, assieme ai cittadini, anche i rappresentanti eletti in quei territori.

La lettura dei quotidiani del sud è a questo proposito esemplare.

In questo senso anche l’insistenza di Zaia sulle cosiddette 23 materie (tutte, non una di meno, indipendentemente dal valore delle stesse), è apparsa come un’indiretta affermazione di una sovranità distinta dal resto del Paese, una sorta di “specialità”, diversa dalla differenziazione, non prevista dall’arrticolo 116 della Costituzione.

L’ORA DI CAMBIARE REGISTRO

Liberare il campo da tutte le tossine immesse in questi anni, affrontare questioni irrisolte e rimaste sotto traccia come l’indipendentismo, entrare pubblicamente nel merito delle competenze richieste e sugli effetti attesi, diventa essenziale per allargare l’area del consenso nel Paese ed evitare, allo stesso tempo, il rischio di alimentare aspettative continuamente frustrate fra quanti hanno creduto all’autonomia come a una sorta di anno zero del calendario veneto.

Quando l’assessore regionale Marcato afferma che sarà difficile raggiungere l’autonomia anche se governasse il solo centro destra, coglie un punto essenziale che attiene al patto costituzionale e allo stesso tempo alla natura dei partiti di quella coalizione e ai materialissimi interessi in gioco.

Per questo, a quattro anni di distanza, è venuto il momento di cambiare registro. È tempo per il Veneto tutto di uscire da una logica rivendicativa e isolazionista per assumere una responsabilità in concorso con le altre Regioni per una ripresa economica dell’Italia e la ricucitura delle fratture sociali che covano sotto traccia.

E allora, per prima cosa, per favorire una ripresa vera e condivisa del dibattito, il campo va liberato dal diktat sulle 23 materie. Così come fatto dall’Emilia Romagna, e in parte anche dalla Lombardia, ci si concentri sugli spazi di autonomia vera che è possibile conquistare qui e ora, sapendo che si tratterà di un allargamento delle responsabilità, che come dimostrano le Regioni a Statuto speciale, non si otterrà tutto in una sola volta.

Vittimismo e negazionismo dopo la grande puntata del divulgatore scientifico. Napoli non è solo Gomorra, ci voleva Alberto Angela per farci scoprire la storia e le bellezze della città. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 26 Dicembre 2021. Un autentico successo l’omaggio della Rai e nello specifico di Alberto Angela alla città e alla storia di Napoli. La puntata di “Stanotte a Napoli“, andata in onda la seria del 25 dicembre, ha conquistato la leadership del prime time con oltre 4 milioni di spettatori di media e uno share che supera il 23%.

E’ stato, in sintesi, il programma più visto in televisione la sera di Natale. Un racconto inedito quello quello del 59enne paleontologo, divulgatore scientifico, conduttore televisivo, giornalista e scrittore italiano. Un viaggio notturno nei luoghi inesplorati e famosi della città, in un percorso scandito da ricordi, suggestioni e naturalmente musica con la partecipazione di Giancarlo Giannini, Serena Autieri, Serena Rossi, Massimo Ranieri, Marisa Laurito e Salvatore Bagni che hanno perfezionato l’opera divulgativa di Alberto Angela.

Lo stesso conduttore, che nel 2018 ha ricevuto la cittadinanza onoraria dall’ex sindaco Luigi de Magistris, ci tiene a ringraziare tutti “per averci seguito così numerosi nella puntata di ‘Stanotte a Napoli’ di ieri sera. Sono felice che le famiglie italiane la notte di Natale abbiano scelto la divulgazione e la grande cultura. E’ un bellissimo regalo per il nostro paese e per il nostro futuro”.

Un racconto che ha inorgoglito e non poco i napoletani. Si sono sprecati i paragoni con la serie Gomorra che mette in cattiva luce la città e con altri racconti nazionali e internazionali (l’ultimo è quello del giornale francese Le Figaro).

Ma la realtà è proprio questa: Napoli ha una storia, un patrimonio, una cultura inestimabile, che attrae ogni anno turisti da tutto il mondo, ma ha anche problemi cronici che si porta indietro da decenni e che, ad oggi, vuoi per irresponsabilità del Governo centrale e per inadeguatezza delle amministrazioni locali, sono ancora presenti e affliggono quotidianamente una delle città più belle del mondo.

Negare Gomorra, dove tra l’altro la mission degli autori e dello stesso Roberto Saviano è ben precisa (raccontare il male della città mettendo in un angolo lo Stato, in tutte le sue forme, colpevole di aver abbandonato nel degrado intere zone), o indignarsi per il lungo elenco di disservizi è diventato quasi lo sport preferito degli abitanti di questa città.

Basti pensare alle recenti celebrazioni in pompa magna della riapertura della Galleria Vittoria, chiusa per ben 15 mesi creando disagi enormi alla circolazione. Oppure al trasporto pubblico che continua a non offrire (sia sotto la gestione Eav che Anm) i servizi minimi con soppressioni, ritardi e treni in fumo che lasciano a piedi i pendolari sui binari. E poco importa che abbiamo le stazioni più belle del mondo se poi per raggiungere il luogo desiderato bisogna armarsi di una pazienza infinita.

Va bene esaltare il racconto di un grande divulgatore come Alberto Angela ma negare (o indignarsi per chi racconta) l’abbandono delle periferie, la dispersione scolastica dilagante (così come l’assenza dei controlli), la latitanza cronica dei servizi minimi che la terza città d’Italia dovrebbe offrire ai suoi cittadini e tanto altro (l’elenco è davvero lungo) è, parafrasando politici-giornalisti ma soprattutto influencer, è da cialtroni.

Andate, ad esempio, a leggere i commenti lasciati sotto al post pubblicato su Facebook dalla pagina “Anm Napoli“, ovvero l’azienda che si occupa del trasporto pubblico in città. “É con orgoglio che ringraziamo Alberto Angela per aver scelto ancora una volta di raccontare la nostra città anche dalla stazione Toledo della metropolitana dell’arte” scrive Anm venendo letteralmente travolta da decine di commenti che sottolineano, guarda caso, l’odissea quotidiana che continua ad offrire agli utenti.

“Parlare di orgoglio con la metropolitana chiusa il pomeriggio di Natale e Capodanno, tra un ‘limita alla tratta Piscinola-Dante e ‘un sospeso il servizio sull’intera tratta’ è oltremodo singolare” replica Adolfo Vallini, sindacalista Usb. Altri rimarcando come addirittura nella serie Gomorra la linea 1 della metro si è superata, passando ben due volte nel giro di pochi minuti.

Insomma prendersela con chi racconta anche il male di questa città non va bene. La camorra qui c’è e, stando alle cronache (sia recenti che degli anni passasti) è ben più cruenta ed efferata di quello che vediamo in televisione. Così come va bene raccontare il tesoro dal valore inestimabile di San Gennaro, le mille chiese preziose, tutte le grandi opere realizzate sotto il regno Borbonico (dalla Galleria sottoterra, utilizzata poi per i rifugi durante le Guerre o come deposito di auto e moto sequestrate negli anni Sessanta, alla Galleria Umberto), i quadri e le sculture uniche presenti al MANN e al Museo di Capodimonte, la storia del Teatro San Carlo (il più antico d’Europa).

Queste bellezze ci sono da sempre. Eppure sembra che molti napoletani le abbiano scoperte dopo il racconto di Alberto Angela, indignandosi per chi mette in luce anche le tante ombre della città.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Quel Giorgio Bocca che andò contro i terroristi rossi. Marco Gervasoni su Culturaidentità il 24 Dicembre 2021. Ho un vago ricordo di ragazzo. Metà anni ottanta, una delle tv di Berlusconi di allora. Dialogano Indro Montanelli e Giorgio Bocca. Il secondo confessa al grande Indro più o meno che “noi in teoria dovremmo essere nemici, tu di destra io di sinistra, ma in realtà la pensiamo allo stesso modo su quasi tutto”.

Ecco, in attesa delle rievocazioni che, per il decimo anno della scomparsa di Bocca (25 dicembre 2011, n.d.r.), lo dipingeranno come il grande antifascista, compagno, militante, esempio di “giornalismo civile”, pietra miliare di “Repubblica”, vogliamo dire che questo ritrattino sarebbe un santino, ingeneroso per lo stesso Bocca.

Che certo alla sinistra italiana apparteneva ma, come Montanelli, era prima di tutto un giornalista. E ai suoi amici non risparmiò mai nulla. Bocca fu infatti sempre un acerrimo critico del Partito Comunista e dal gruppo suo dirigente fu scarsamente amato. Fin dagli anni Sessanta, con le sue straordinarie cronache de “Il Giorno”, mostrava che l’Italia andava in una direzione del tutto diversa da quella raccontata da Togliatti, Longo e Berlinguer.

Poi cominciò la violenza politica: e mentre il Pci e i giornalisti “democratici” dell’eskimo in redazione e del “Corriere della sera” ottonizzato parlavano delle Br come “infiltrati fascisti”, Bocca ebbe il coraggio di scrivere che il terrorismo rosso era figlio legittimo di decenni di propaganda comunista – quello che poi tempo dopo Rossana Rossanda avrebbe chiamato “l’album di famiglia”.

Anche sulla storia del Pci, Bocca provocò non pochi grattacapi a Botteghe oscure, pubblicando nel 1973 una biografia di Togliatti che metteva in mostra i lati più oscuri del Migliore. E l’anno dopo, un rapporto sull’Urss di Breznev da far accapponare la pelle. Pure sulla “fermezza” contro il terrorismo che il PCI, per far dimenticare tutto, sposò con rigore leninista e ben poco garantista, Bocca ebbe molto da ridire, fino ad essere persino troppo indulgente nei confronti dei terroristi.

Antifascista certo. Bocca rimase molto legato alla sua esperienza partigiana a cui arrivò dopo una prima adesione alla Repubblica sociale. Ma nei suoi libri sulla Resistenza e sul fascismo, tutti lavori documentati, da storico sopraffino, non andò molto lontano dal “revisionismo” che Renzo De Felice, negli stessi anni, certo con altro peso e forza, imprimeva. Fino a ricordare, nel 1981, scrivendo un libro sul Mussolini socialista, che “il socialismo reale non è fascismo ma come gli somiglia”, come recava il sottotitolo. E la mitologia operaista della Cgil? Fatta a pezzi nel volume I signori dello sciopero (Milano, Longanesi, 1980), una dura requisitoria conto la casta sindacale.

Si dirà che negli anni Ottanta, con “Repubblica”, a cui aveva aderito fin dalla fondazione, Bocca fosse diventato il giornalista democratico perfetto. Niente affatto: mentre il suo giornale e la sinistra spingevano, di fronte alle prime ondate di immigrazione, per un lassismo generalizzato, Bocca raccomandava di controllare le frontiere e rimandava al mittente l’idea che gli italiani fossero razzisti, in un libro del 1988.

Egli vedeva una Italia in sfacelo, rosa dalla partitocrazia, ovviamente quella di governo (era stato simpatizzante di Craxi ma se n’era allontanato all’inizio degli anni Ottanta) ma anche quella del Pci. Mentre le sue cronache e commenti sulla lunga svolta che avrebbe portato al Pds erano colmi di scetticismo, riguardo alla identità comunista che il nuovo partito non aveva intenzione di abbandonare. Per un certo periodo, si infatuò persino di Bossi e della Lega. Faceva impressione, quando all’inizio degli anni Novanta tutti ma proprio tutti i giornali demonizzavano il Senatur, leggere i commenti pro leghisti di Bocca, E su “Repubblica”!

Si, ma almeno contro il Caimano? Certo, dopo il 1994 un Bocca ormai anziano si intruppò nella Armata (Brancaleone) rossa anti Cav, ma fino al 1992 lavorò nelle televisioni del Biscione ed ebbe parole di grande elogio per Berlusconi imprenditore.

Decisamente, il vecchio Bocca era cosa ben diversa rispetto ai giornalisti oggi embedded nel Pd, sugli yacht degli Ingegneri e sugli elicotteri degli Avvocati e nei circoli più o meno svizzeri: in cui il “provinciale” si sarebbe trovato irrimediabilmente a disagio. 

Dieci anni fa moriva a Milano Giorgio Bocca, "L'antitaliano". Il giornalista, per tanti anni firma di punta de Il Giorno, si spegneva a 91 anni il giorno di Natale del 2011, dopo una breve malattia. Il Giorno il 25 dicembre 2021. Era il giorno di Natale del 2011: Giorgio Bocca, 91 anni, si spegneva a Milano, dopo una breve malattia. Sono passati dieci anni, ma del giornalista piemontese rimane un ricordo più vivido che mai.

Nato a Cuneo il 28 agosto del 1920, dopo l'8 settembre '43 Bocca aderì alla lotta partigiana nella zona della Val Grana come comandante della decima Divisione Giustizia e Libertà. Giornalista di razza, ha vissuto il mestiere come una vera e propria vocazione: dopo aver iniziato la sua carriera nella seconda metà degli anni Trenta, alla fine della guerra ha scritto per il giornale 'Giustizia e Libertà', venne assunto alla 'Gazzetta del Popolo' di Torino per andare poi, nel 1954, a 'L'Europeo'. 

Ma è sulle colonne de 'Il Giorno' che Bocca ha firmato una lunga serie d'inchieste e si è affermato anche come inviato speciale seguendo ad esempio la Guerra dei Sei Giorni. E' stato tra i fondatori insieme a Eugenio Scalfari de 'La Repubblica'. Ma è stato anche una firma di punta del settimanale L'Espresso per il quale ha curato la rubrica 'L'antitaliano'.

Non solo carta stampata per Bocca: dal 1983 ha condotto una serie di programmi per le reti Fininvest tra cui 'Prima pagina', 'Protagonisti', '200 e dintorni', 'Il cittadino e il potere'. E si è dedicato all'attività di scrittore occupandosi di terrorismo e, tra le altre cose, della questione meridionale. 

Memorabili, a questo proposito, i suoi giudizi senza appello sul Meridione, che gli hanno attirato un vespaio di critiche, argomentati anche nel libro del 1992 'L'inferno profondo Sud, male oscuro'. Bocca, d'altra parte, ha espresso giudizi pungenti anche quando ha giudicato la cosiddetta 'Milano da bere' degli anni Ottanta o quando ha proposto un parere molto negativo nei confronti dell'ascesa politica di Silvio Berlusconi. Ma non è da meno quando si è prestato a battagliare con Giampaolo Pansa con cui ha condiviso gli anni de 'Il Giorno', de 'La Repubblica' e de 'L'Espresso'. 

Una polemica nata dai libri in cui Pansa rilegge la Resistenza che Bocca ha considerato utili soltanto ad aprire una pagina revisionista che accomunava la Resistenza e il fascismo'.

Tanti i libri che Bocca ha pubblicato. Si possono ricordare, per iniziare, 'Storia dell'Italia partigiana,' del 1966 e 'Il terrorismo italiano' 1970-1978, 1978). Negli anni Novanta ha esercitato una forte critica del mondo economico e politico pubblicando ad esempio 'Il secolo sbagliato' (1990) mentre, negli anni successivi, ha scritto

'L'Italia l'è malada' (2005), 'Napoli siamo noi' (2006), 'Le mie montagne' (2006), 'È la stampa bellezza! La mia avventura nel giornalismo' (2008), 'Annus horribilis' (2010), 'Fratelli coltelli' (2010). Nel gennaio 2012 è stato pubblicato postumo il volume 'Grazie no. Sette idee che non dobbiamo più accettare', che costituisce una

sorta di testamento ideale di Bocca.

Giorgio Bocca, dieci anni fa la morte: il giornalista censore degli sprechi meridionali. Il Mattino, Mercoledì 22 Dicembre 2021. È stato tra i fondatori insieme a Eugenio Scalfari del quotidiano La Repubblica. Ma è stato anche una firma di punta del settimanale L'Espresso per il quale ha curato la rubrica L'antitaliano. Giornalista, allievo ufficiale degli alpini all'inizio della Seconda Guerra mondiale, partigiano dopo l'8 settembre del 1943 nella zona della Val Grana come comandante della decima divisione giustizia e libertà.

Giorgio Bocca, di cui il 25 dicembre cadono i dieci anni dalla morte, avvenuta il giorno di Natale a Milano del 2011 a 91 anni dopo una breve malattia, è stato un giornalista a tutto tondo. Si potrebbe dire che, in qualche modo, è passato dall'adesione alla Resistenza alle polemiche con il collega Giampaolo Pansa legate all'eredità storica della Resistenza. «La sostanza del giornalismo - raccontò a Fabio Fazio negli studi di Che tempo che fa - è cercare di capire quello che sta succedendo al mondo. E allora scrivi la storia cercando di capire che cosa accade intorno a te. Questo è abbastanza semplice, credo che tutti i giornalisti lo vogliano fare. Poi alcuni si vendono e non lo fanno». 

Parole che hanno guidato sempre la mano del giornalista nato a Cuneo il 28 agosto del 1920 e che, nel tempo, si sono trasformate in una sorta di legge non scritta alla quale aderire senza esitazione. Testimone fin da adolescente della realtà che lo ha circondato e che ha raccontato su periodici locali, Bocca ha vissuto il mestiere come una vera e propria vocazione: dopo aver iniziato la sua carriera nella seconda metà degli anni Trenta, alla fine della guerra scrive per il giornale Giustizia e Libertà, viene assunto alla Gazzetta del Popolo di Torino per andare poi, nel 1954, a L'Europeo.

Ma è sulle colonne del quotidiano Il Giorno che Bocca ha firmato una lunga serie d'inchieste e si è affermato anche come inviato speciale seguendo ad esempio la Guerra dei Sei Giorni. Non solo carta stampata per Bocca: dal 1983 ha condotto una serie di programmi per le reti Fininvest tra cui Prima pagina, Protagonisti, 200 e dintorni, Il cittadino e il potere. E si è dedicato all'attività di scrittore occupandosi di terrorismo e, tra le altre cose, della questione meridionale. Memorabili, a questo proposito, i suoi giudizi senza appello sul Meridione, che gli hanno attirato un vespaio di critiche, argomentati anche nel libro del 1992 L'inferno profondo Sud, male oscuro.

Tanti i libri che Bocca ha pubblicato. Si possono ricordare, per iniziare, Storia dell'Italia partigiana, del 1966 e Il terrorismo italiano 1970-1978. Negli anni Novanta ha esercitato una forte critica del mondo economico e politico pubblicando ad esempio Il secolo sbagliatò mentre, negli anni successivi, ha scritto L'Italia l'è malada, Napoli siamo noi, Le mie montagne, È la stampa bellezza! La mia avventura nel giornalismo, Annus horribilis, Fratelli coltelli. Nel gennaio 2012 è stato pubblicato postumo il volume Grazie no. Sette idee che non dobbiamo più accettare, che costituisce una sorta di testamento ideale di Bocca.

Quando i "barbari" di Umberto Bossi sono arrivati a governare Milano. Giorgio Bocca su La Repubblica il 24 dicembre 2021. Il 25 dicembre del 2011 moriva Giorgio Bocca: lo ricordiamo con una selezione dei suoi articoli per Repubblica, come questo pubblicato il 22 giugno 1993. Nel 1993 Milano, scossa da Tangentopoli, elegge il suo primo e finora unico sindaco della Lega, Marco Formentini. Una rivoluzione nel salotto buono della città. Che Giorgio Bocca racconta, il 22 giugno del 1993, sulle pagine di Repubblica. E così i 'barbari' sono arrivati nel Municipio di Milano e metto barbari fra virgolette perché se no Umberto Bossi prende la parola alla lettera. Penso che il fatto abbia o possa avere una valenza positiva perché il nuovo della politica italiana deve uscire dai pregiudizi e dalle fobie, dalle chiacchiere populistiche o localistiche e misurarsi con i grandi problemi della modernizzazione. E amministrare Milano è qualcosa di diverso che amministrare Cene nella bergamasca o Meda in Brianza, è misurarsi con la capitale economica, finanziaria, terziaria, informativa del Paese. Il Municipio di Milano non è stato conquistato dalla Lega come mostra di pensare il suo leader storico che forse dovrebbe darsi una regolata politica e culturale. Più correttamente sei milanesi votanti su dieci hanno scelto la Lega come il segnale più chiaro del non ritorno al passato, come la delega più chiara a un'amministrazione positiva e civile della città. Delega temporanea, ritirabile fra quattro anni ove l'Amministrazione non desse buona prova, una regola fondamentale della Democrazia che i nemici fobici della Lega considerano come una consegna della città al demonio.

Le ragioni per cui penso che l' amministrazione di Marco Formentini abbia o possa avere una valenza positiva sono le seguenti: Formentini e i dirigenti della Lega, e anche Bossi se saprà liberarsi del suo protagonismo rumoroso, sanno, devono sapere che la loro amministrazione sarà sotto il controllo dei milanesi non leghisti, sanno, devono sapere che i quattrocentocinquantamila da cui Formentini è stato votato e gli altrettanti che con le loro astensioni e voti bianchi hanno dato via libera alla vittoria non sono leghisti e nemmeno lombardisti perché per almeno un terzo sono dei meridionali o come chi scrive consapevoli che culture o lingue o folklori lombardi non hanno alcun bisogno delle cure leghiste per esistere: o ci sono e hanno ancora un valore e allora appartengono alla cultura milanese o non c'è nessuna Lega al mondo che possa risuscitarli. Questi sei milanesi votanti su dieci che hanno portato la Lega a palazzo Marino chiedono delle cose molto precise: la prima, di cui la Lega sembra forte garanzia, è che il passato prossimo non si faccia più vedere in piazza della Scala. E poi che si torni alle non trascendentali pratiche della buona amministrazione e a quell'amore per la città che negli ultimi anni era come sparito, come vergognoso di dimostrarsi e di rivelarsi.

Nelle lettere di critica che ho ricevuto non potevano mancare accenti antisvizzeri: sì, magari questo Formentini farà funzionare le poste e il traffico, ma è ben altro che noi vogliamo da una città. Spiacenti ma noi ci accontentiamo, noi pensiamo che il compito di un buon sindaco non sia quello di procurare ai cittadini la soluzione dei problemi esistenziali, del rapporto con la morte, della ricerca della felicità della speranza nell'aldilà ma il buon funzionamento dei servizi e un rapporto civile fra amministratori e amministrati. Sotto questo aspetto il compito di Formentini è facile se confrontato al disastro delle precedenti amministrazioni, difficile e difficilissimo rispetto a tutto ciò che non si è fatto negli ultimi venti anni e che dovrà essere fatto nei prossimi venti.

Le elezioni amministrative di Milano sono state un fatto positivo come una svolta da elezioni ideologiche a elezioni anglosassoni. Nella sostanza gli elettori hanno pensato agli uomini che gli davano più affidamento e che ritenevano più congeniali. Ma vizi cinquantennali non cambiano da un giorno all' altro, da una parte come dall' altra si è ancora caduti nelle false rappresentazioni. Nando Dalla Chiesa si è talmente fatto prendere dalla sua, di un concerto di forze democratiche tolleranti, civili, riformiste, progressiste, da dimenticare che il gruppo più forte dei suoi sostenitori, quello di Rifondazione comunista, è composto da persone che non si sono ancora accorte che il comunismo è morto persino in Cina, e che l'altro suo grande supporter, il Pds è così nuovo da avere molte decine di persone inquisite per 'Mani pulite'. Si è talmente fatto prendere dal suo seguito di sessantottini e figli di sessantottini da accusare sei milanesi su dieci di essere dei biechi trasformisti che hanno con la Lega fatto rinascere il craxismo e altre amenità piuttosto melanconiche. Entrambi i personaggi, Nando Dalla Chiesa e Umberto Bossi, devono ancora imparare che la democrazia consiste nel saper perdere come nel saper vincere e forse gli gioverebbe andare a ripetizioni dal sindaco di Torino, Castellani, che ha saputo perdere il 6 giugno e vincere il 20. Comunque qualcosa si è messo in marcia e non saranno i centoquaranta zombi di Pannella a fermarlo. Si è messo in marcia il nuovo della Lega e della Rete e di Segni e il similnuovo del Pds. 

I vecchi partiti del quadripartito hanno assistito impotenti o distrutti a questa prima uscita delle forze politiche che dovranno assumersi il governo del Paese. In nessuna di queste forze noi vediamo degli alieni, nessuna di queste forze ci incute paure e fobie. Ma come si può ancora dubitare dell'attaccamento degli italiani, di tutti gli italiani alla democrazia? Come si può vedere la violenza e l'intolleranza in una Italia ricca e avanzata che ha digerito le grandi ondate migratorie? Violenti e faziosi ce ne sono da una parte come dall' altra, vedi quelli che hanno incendiato l'auto dell'assessore alla cultura Philippe Daverio, ma non per questo si può dire che ci sia stata violenza nell'una come nell'altra parte. Ci auguriamo che Bossi faccia l'uomo di governo con maggiore responsabilità verbale e che Nando Dalla Chiesa sappia fare, senza vani furori, il capo dell' opposizione.

Se Giorgio Bocca era antimeridionalista lo sono anche io. Gesellschaft su L'Inkiesta il 25 Dicembre 2011. Da poche ore è morto Giorgio Bocca. Un normale "coccodrillo" lo avrebbe definito come giornalista, scrittore e partigiano. E invece gli strepiti di chi vuol dire la sua sulla biografia e la vita de... 

Da poche ore è morto Giorgio Bocca. Un normale “coccodrillo” lo avrebbe definito come giornalista, scrittore e partigiano. E invece gli strepiti di chi vuol dire la sua sulla biografia e la vita degli altri non si sono fatti aspettare. In poche ore sono comparsi in Rete post, articoli, status, tweets che identificavano il noto giornalista come un anti-meridionalista, uno che odiava città come Napoli o Palermo. Altri ancora si sono spinti oltre addirittura definendolo come razzista.Accuse che nascono da dichiarazioni come questa: 

Le forme di complicità con la Camorra sono innumeri e spesso inconsapevoli. Si vede semplicemente entrando nei negozi, negli uffici, guidando l’automobile, in questa lotta di tutti contro tutti che cerca la protezione dei più violenti. La Camorra ha avuto nella grande città una funzione decisiva: assicurare la sopravvivenza dei marginali ma impedire che essi dessero l’assalto ai regolari. I marginali sono massa, centoquarantaseimila famiglie hanno fatto domanda per il sussidio di povertà, solo ventimila l’hanno ottenuto, un esercito permanente di poveri di fronte ai quali sta la grossa minoranza dei ricchi che fanno politica, accumulano enormi patrimoni senza produrre sviluppo, senza cambiare i rapporti sociali.

Ebbene Bocca aveva ragione, e non solo perché vivo il contesto da lui descritto così amaramente. Bocca aveva ragione perché le sue posizioni erano analisi antropologica e non deliri di un vecchio nei suoi ultimi anni di vita. Il più delle volte accompagnate da buone dosi di ironia e provocazione ma che davano comunque un senso di verità al suo pensiero.

Certo verrebbe da dire che “non tutti i napoletani fanno schifo” o che “non tutta Palermo è collusa con la mafia”, ma sono dichiarazioni che lasciano il tempo che trovano ed evidenziano una totale assenza di contenuti circa la storia del meridione, e soprattutto una totale ignoranza sia del personaggio – provocatore e tagliente – che dei suoi scritti.

Ma “anche le pulci hanno la tosse” ed è davvero grottesco veder confondere l’intellettuale con l’opinionista, il giornalista con il “cane mediatico” di qualche partito o qualche politico. Bocca era altro.

In Italia ormai abbiamo la cattiva abitudine di vivere in barricate culturali e politiche, su Bocca in poche ore non ci siamo smentiti.

Bocca non era la verità assoluta, ci mancherebbe. Tantomeno voglio applicare il buonismo post-mortem. Giorgio Bocca era deluso da una umanità imbarbarita, imbruttita dentro. Nessuno può negare il contrario.

Ormai il “sacro fuoco” che lo accompagnava qualche anno fa lo aveva abbandonato.

Bocca era deluso dell’Italia che ne è venuta fuori dopo aver combattuto per costruirla. E sono d’accordo con lui. Città come Napoli o Palermo hanno contribuito alla resistenza più di molte altre e oggi sono solo meravigliose cornici tornite da una umanità repellente.

Se Bocca era antimeridionalista lo sono anche io.

Il razzismo antimeridionale di Vittorio Feltri non è nuovo: anche Giorgio Bocca e Indro Montanelli manco scherzavano…Ignazio Coppola il 23 aprile 2020 su inuovivespri.it. 

La storia del razzismo contro il Sud Italia e i suoi abitanti – di cui Vittorio Feltri è solo uno dei tanti ‘protagonisti’ – comincia nel 1860. Inizia con i Savoia, con l’odio e l’astio dei generali e dei politici piemontesi, prosegue con i positivisti di fine ‘800 (Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri) e arriva fino ai nostri giorni. Basta andare a rileggersi cosa hanno detto e scritto dei meridionali Giorgio Bocca e Indro Montanelli…

La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica viene oggi drammaticamente riproposta dalle farneticanti affermazioni razziali dei deliri antimeridionali del “giornalista” Vittorio Feltri, che raccoglie l’eredità di tanti suoi illustri colleghi giornalisti del Nord, come, tra gli altri, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, di cui parleremo più avanti, che verso i meridionali hanno sempre avuto parole di disprezzo e di repulsione. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia.

ACREDINE VERSO IL SUD – Le parole di Feltri di questi giorni non sono solo il frutto di una demenza senile razziale, ma sono il punto di arrivo di un’acredine e di una ipocrisia nei confronti del Sud che trova appunto le sue radici nelle bugie e nelle falsità che, a dosi massicce, ci sono state propinate, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua infatti ad ignorare che, alla base di una mala unità d’Italia, vi fu, come del resto continua ad esserci – retaggio del passato – un’ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud.

In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva:

“In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”.

Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato ed allora capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini:

“Senti che puzza, scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”.

Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Feltri docet. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie, tra l’altro così scriveva:

“Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

CIALDINI: “QUESTA E’ AFRICA!” – Ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva:

“Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”.

Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene:

“Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”.

Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”.

E dire che del nome di Cialdini, criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. Ed ancora , a ulteriore testimonianza di questi propugnatori del razzismo antimeridionale, quanto scriveva all’alba dell’Unità d’Italia il generale conte Luigi Menabrea comandante del genio del corpo d’armata piemontese di stanza nell’ex Regno delle Due Sicilie, alla baronessa Olimpia Savio Rossi dal comando di Castellone di Gaeta il 26 dicembre del 1860:

“I meridionali sono simili agli ottentotti (si riferiva ai Boscimani la popolazione che abitava l’Africa meridionale), nonostante il loro bel paese e le loro grandi memorie. L’abbassamento del senso morale e della dignità personale della popolazione sono le cose che colpiscono di più. Sotto gli stracci disgustosi che coprono le contadine non si riconosce più questa belle razza italiana, che sembra finire nel territorio romano”.

Il conte piemontese Luigi Menabrea sarà poi dal 1867 al 1869 presidente del Consiglio dei Ministri del nuovo regno d’Italia e, non perdendo la sua propensione razzista nei confronti dei meridionali, si distinguerà nella spasmodica ricerca, nella sua qualità di capo del Governo, di territori fuori dall’Italia, in Patagonia (Argentina) prima e nell’isola di Socotra (Portogallo) in cui deportare – essendo le carceri italiane strapiene – miglia e miglia di prigionieri meridionali. Per fortuna il criminale disegno di Menabrea e del governo sabaudo non andò a buon fine per la decisa opposizione dell’Argentina e del Portogallo, che eccepirono problemi di sovranità che giustamente rivendicavano sui propri territori.

GOVONE: “LA SICILIA? BARBARI!” – E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia, un militare che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani: anch’egli non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in Parlamento:

“Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”.

Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli:

“La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”.

E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, scrittore e ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia:

“Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”.

LOMBROSO, FERRI, NICEFORO – Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero – a spese del Sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti . l’Unità d’Italia. Grazie anche a questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione.

Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene:

“La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano – afferma Gramsci – che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”.

L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale.

Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dellUnità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882:

“Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. Infatti, negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali.

Riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente.

Lo scrittore ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio scrive un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia:

“Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”.

Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 160 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori”quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista di Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale.

Cesare Lombroso antropologo e criminologo, nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore.

Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze: quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore!

Niceforo, in un suo libro del 1898, L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa – sostiene ancora Gramsci – in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione.

Il Mezzogiorno è la palla al piede – si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. O dei posteggiatori abusivi come delira oggi Vittorio Feltri.

“NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI” – Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi:

“Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. O, ancora:

“Non si affittano case ai meridionali”.

Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura con Vittorio Feltri e i suoi sodali, ancora sino ai nostri giorni. Fra i detrattori dei Siciliani e dei meridionali, visti, nel loro insieme, come un popolo di “terroni” e di “mafiosi”, non sono poi mancati “ giornalisti famosi come dicevamo all’inizio, i “compianti” Indro Montanelli e Giorgio Bocca, che più di una volta ebbero a sottolineare la condizione di inferiorità delle popolazioni meridionali rispetto a quelle del Nord.

Nel 1960, al tempo della guerra d’Algeria, in una intervista rilasciata al giornalista francese Weber per “Le Figaro Litteraire” (la notizia fu riportata dal quotidiano “L’Ora” di Palermo del 25 ottobre del 1990) Montanelli disse testualmente:

MONTANELLI: “VOI AVETE L’ALGERIA, N LA SICILIA” – “Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia, ma voi non siete costretti a dire che gli algerini sono francesi, mentre noi, circostanza aggravante, siamo costretti ad accordare ai siciliani la qualifica di italiani”.

Molti siciliani insorsero deplorando quella frase oltraggiosa, da cui si ricavava che Montanelli considerava gli Algerini un popolo di serie B e i Francesi un popolo di serie A, così come i Siciliani rispetto agli Italiani. In un articolo di risposta a quella intervista un magistrato di Caltanissetta (Salvatore Riggio) si domandava:

“Ma che cosa ci facevano i Francesi in casa algerina? I Francesi non erano forse gli sfruttatori, gli oppressori, i colonizzatori, gli illegittimi occupanti mediante violenza bellica dell’Algeria? Gli Algerini non avevano il sacrosanto diritto di cacciare dalla loro Terra i colonizzatori francesi e reclamare la propria indipendenza? Secondo l’ottica razzista del Montanelli parrebbe di no, perché secondo lui forse la Provvidenza Divina aveva assegnato agli Algerini come angeli custodi i Francesi e secondo la stessa ottica la medesima Provvidenza Divina avrebbe designato i «Fratelli d’Italia» al di là dello Stretto custodi dei Siciliani, considerati dal Montanelli «Esseri» distinti dagli «Italiani» perché posti nella scala di una presunta gerarchia in un gradino inferiore”.

Il magistrato citava poi un altro episodio analogo in cui Montanelli (era il 1967) se la prendeva con tutti gli avvocati siciliani accusandoli indiscriminatamente in massa di avere connivenze e collusioni con la delinquenza. Gli avvocati siciliani reagirono proponendo una querela per diffamazione contro di lui. “Ma dove voleva arrivare questo signore?”, si domandava il magistrato. “Voleva forse proporre anche la fornitura di avvocati nordisti per la difesa dei delinquenti siciliani, così come i nordisti ci forniscono giornalmente i loro prodotti per la nostra vita dato che ormai il Sud e la Sicilia in particolare sono stati ridotti soltanto a vaste aree di mercato di consumo interno?”.

Ma non finisce qui. L’autore dell’articolo (apparso sulla rivista Il Domani) ricordava che nel 1970 Montanelli aveva scritto che, alla Sicilia, mancava da sempre una coscienza civile e sul Corriere della Sera del 9 Gennaio 1971 scriveva che in Sicilia non v’era traccia di pensiero illuministico. Gli rimproverava poi di non conoscere la storia, l’arte, il pensiero, la letteratura della Sicilia, e persino la geografia, avendo scritto che “il 26 Maggio 1860 tre ufficiali della flotta inglese erano sbarcati a Misilmeri” (Montanelli e Nozza, Garibaldi, 1963, pag. 372), mentre Misilmeri non è sul il mare.

Il magistrato poi citava anche il caso di Moravia, che sull’Espresso del 3 Ottobre 1982 a pag. 37 in un articolo intitolato “Siciliano = mafioso?” ad un certo punto aveva scritto:

“Il Siciliano in quanto tale, anche il galantuomo, è tendenzialmente mafioso”.

Con tutto ciò, concludeva il magistrato, nel 1986 i “sicilioti” di Agrigento (affetti dalla sindrome di Stoccolma) assegnarono a Moravia il Premio Pirandello per la narrativa e il 28 novembre 1990 un’Associazione Culturale di Caltanissetta conferiva a Montanelli il Premio Internazionale Castello di Pietrarossa per la sezione giornalismo. “Cupidigia di servilismo”,così titolava l’articolo il magistrato.

E presi da questa cupidigia di servilismo e affetti dalla sindrome di Stoccolma che, alla fine, i palermitani di corta memoria hanno addirittura dedicato a questo illustre giornalista – loro costante denigratore – addirittura una strada: appunto via Indro Montanelli, sita in una traversa della Via Tasca Lanza. E giunti a questo punto, speriamo per l’avvenire che il sindaco Leoluca Orlando o chi gli succederà non si convincano a dedicare come per Indro Montanelli una strada a un razzista seriale antimeridionale come Vittorio Feltri.

"Bocca razzista e omofobo". Gli insulti postumi su Twitter. Il cronista d'Italia divide la rete. Nel mirino le frasi su Pasolini e sul Sud. Ma in tanti lo omaggiano. Gabriele Martini il 26 Dicembre 2011 su La Stampa. Di qui la beatificazione, di là gli insulti postumi. Giorgio Bocca ci aveva visto giusto: «Sono certo che morirò avendo fallito il mio programma di vita: non vedrò l'emancipazione civile dell'Italia», diceva nel 2007 in un’intervista a L’Espresso. La scomparsa del giornalista è diventata subito "trend" su Twitter. Sui social network trovano sfogo rabbia, rancori e invidie: «Omofobo», «razzista», «fascista». Certo, si tratta di una minoranza. In tantissimi salutano il gigante del giornalismo, l’intellettuale sincero. L’anti-italiano, provocatorio e contraddittorio. Ma le critiche non mancano. I passaggi dell’intervista-fiume “La neve e il fuoco” fanno il giro della rete: «Insomma, la gente del Sud è orrenda (…). C’era questo contrasto incredibile fra alcune cose meravigliose e un’umanità spesso repellente. Una volta, a Palermo, c’era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie». «Vai a Napoli ed è un cimiciaio, ancora adesso – continuava Bocca nel documentario prodotto da Feltrinelli Real cinema - . Una poesia il modo di vivere di quelle parti? Per me è il terrore, è il cancro. Sono zone urbane marce, inguaribili». «Bocca era un nemico del Sud», scrive Medoro. Anche il sindaco di Napoli De Magistris ne denuncia «l'antimeridionalismo». La politica non sta a guardare. Arrivano i messaggi di Napolitano, Fini e Schifani. Anche qui c’è chi si smarca. «In queste ore tutti si sperticano ad esaltare il suo antifascismo, ma fino al 1942 non era esattamente così....», scrive Storace su Facebook. « Bocca fu un convinto assertore dell'antisemitismo», attacca il deputato Pdl Giancarlo Lehner. «Mi chiedo quanti ebrei italiani non ebbero l'opportunità di defungere a 91 anni come il giornalista». In rete si assiste ad un arruolamento-lampo tra gli schieramenti: guelfi o ghibellini, «il migliore» o «il peggiore». Finiscono nel mirino anche le parole di Bocca su Pasolini: «Avevo paura di lui, della sua violenza. Pasolini è morto perché (…) era di una violenza spaventosa nei confronti di questi suoi amici puttaneschi. Poi mi dava noia questo: ho un po' di omofobia, che poi è una cosa militare, come i bei fioeu va a fer il solda' e i macachi resta a ca', i macachi restano a casa. Il mio concetto piemontese è che gli uomini veri vanno a fare il soldato. Quindi anche questa faccenda dei suoi rapporti con questi poveretti che manipolava...». Bocca «è stato un becero leghista voltagabbana ipocrita», scrive Massimo su Twitter. Per Mimmo rappresenta «l’anello di congiunzione tra razzismo risorgimentale e razzismo leghista». Altri lo difendono, ma sui blog alcuni si spingono ad esultare per la sua morte. Sisetta su Twitter fotografa la situazione stupita: «Vi eccitate tutti perché così avete qualcosa su cui litigare, và che siete degli strani animali eh…». Resta quella frase di Bocca, quasi un testamento: «Morirò avendo fallito il mio programma di vita: rendermi tanto antipatico da evitare di essere adulato da morto».

Le verità scomode su Giorgio Bocca.  Le commemorazioni e il ricordo di Giorgio Bocca fatte molto benevolmente da Giulio Ambrosetti credo per rispetto a verità scomode che riguardano questo mostro sacro della cultura italiana, meritino delle opportune riflessioni. La benevolenza sul giornalista e sull'uomo che ha caratterizzato, in queste ore e a caldo, i giudizi espressi nei suoi confronti da certa stampa ad usum delphini credo vada stemperata per la contraddittorietà, per l'incoerenza e per la vis polemica, molto spesso a sproposito, dimostrata dal personaggio in questione nella sua lunga esistenza.

In una cosa, Gorgio Bocca è stato coerente nella sua lunga vita: in quella di essere stato costantemente razzista. Prima antiebreo e poi antimeridionale. Come quando, giovane fascista assieme a tanti altri gerarchi del regime e molti intellettuali dell epoca, nel 1938, sottoscrisse il manifesto della razza , documento base delle leggi razziali fasciste contro gli ebrei. Contro gli ebrei prima e contro i meridionali dopo. Una costante razzista che ha caratterizzato da sempre la sua vita.

Ecco quanto scrisse sul giornale La Provincia Grande nel lontano 4 agosto del 1942 in un articolo nel quale imputava il disastro della guerra alla congiura ebraica, scrivendo tra l altro: Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa della guerra attuale. A quale ariano, fascista e non fascista, può sorridere l idea di essere lo schiavo degli ebrei? . Esattamente un anno dopo avere scritto queste ripugnanti frasi, e precisamente il fatidico 8 settembre del 1943, Giorgio Bocca avvertendo l odore della sconfitta da fervente e convinto fascista fa il salto della quaglia e diviene partigiano, addirittura come comandante della decima divisione di Giustizia e Libertà e poi, nei primi mesi del 1945, fa parte dei giudici dei tribunali del popolo, firmando, a guerra conclusa, la condanna a morte del tenente Adriano Adami e di altri 4 prigionieri della Repubblica Sociale Italiana, gente che in passato la pensava come lui e la qual cosa non andava perdonata.

Ecco, dal Fascismo alla Resistenza, chi fu Giorgio Bocca, il fustigatore dei meridionali nei sui numerosi libri tra i quali il recente La neve sul fuoco (Feltrinelli) in cui definisce la gente del Sud orrenda e repellente, con particolare riferimento a due città - Napoli e Palermo - e con ciò suscitando la giustificata indignazione di tanti meridionali stanchi di essere offesi e vilipesi nelle loro tradizioni, nella loro storia e nella loro cultura.

Non è, del resto, la prima volta. E accaduto spesso che Giorgio Bocca, con stomachevoli venature razziste, si sia scagliato contro i meridionali, come quando - riferendosi alla capitale della Campania - si lasciò andare a frasi come questa: Napoli è tuttora un cimiciaio come lo era prima . E i territori del Meridione definiti: Zone urbane marce ed inguaribili.

Ricordando le prime volte che ebbe a visitare il Sud affermava. C era sempre un contrasto tra i paesaggi e questa gente orrenda: un contrasto incredibile fra cose meravigliose ed una umanità ( la gente del Sud, ovviamente ndr) repellente . E come se non bastasse, in un altro suo libro - Aspra Calabria - con il suo sprezzante ed acclarato nordismo (simpatie nei confronti del partito di Bossi? il dubbio è legittimo), percorrendo la Calabria con il naso arricciato dallo schifo nei confronti delle popolazioni locali non perdeva l occasione di gettare discredito e fango su di esse definendole barbare e incivili.

Queste affermazioni razziste di Bocca e quanto riportato nei suoi scritti non hanno fatto altro che attagliarsi e portare acqua al mulino secessionista di Umberto Bossi, mortificando, tra l altro, quella verità storica per la quale all'Unità di questo Paese diedero il loro peculiare e fondamentale contributo le tanto vituperate e vilipese popolazioni meridionali.

Ecco perché per quanto detto non avremmo mai potuto accettare lezioni di civiltà da uno come Giorgio Bocca che, anziché riesumare nei confronti dei meridionali giovanili rigurgiti razzisti, avrebbe dovuto pensare più opportunamente a trarre, per restare in pace con se stesso e con la sua coscienza, un bilancio della sua intensa, lunga, discussa e controversa vita. Ma ormai è troppo tardi è un peso questo e un rimorso che certo si porterà nella tomba.

Ed è anche per questo che i meridionali e i siciliani, resi consapevoli di tali poco onorevoli trascorsi di questo mostro sacro della cultura italiana, di sicuro non si listeranno a lutto e non si strapperanno le vesti per la sua morte.

Le verità scomode su Giorgio Bocca. Un odiatore tribale e razzista dei meridionali. Pietrangelo Buttafuoco il 27 dicembre 2011 su Il Foglio.

Razzista. Non nel senso del ragioniere che se ne va ad ammazzare senegalesi. Ma razzista con l'idea che quelli del sud – e i siciliani in particolare – fossero gente non evoluta, non emancipata, non civile, insomma, gens inferiore rispetto al nord, in questo senso, sì. Lo era.

Razzista. Non nel senso del ragioniere che se ne va ad ammazzare senegalesi. Ma razzista con l'idea che quelli del sud – e i siciliani in particolare – fossero gente non evoluta, non emancipata, non civile, insomma, gens inferiore rispetto al nord, in questo senso, sì. Lo era.

Giorgio Bocca – buonanima – aveva un'idea precisa dell'Italia e riteneva che “l'Inferno”, ovvero quella categoria dello spirito che fece da Ur-Gomorra a Roberto Saviano, fosse, appunto, il “cimiciaio” di un vasto sud abitato da belve meridionali. Se ne andava in giro per Palermo e se ne ritraeva come se fosse nella plaga flatulenta di un'umanità sciancata.

Antonio Di Grado, presidente della Fondazione Sciascia, giustamente non se lo può scordare di quella volta quando Bocca, inviato in Sicilia, raccontò di un Leonardo Sciascia in abito bianco, con la paglietta da avvocaticchio, immerso in ragionamenti mafiosi. Ancora oggi nessuno, neppure tra i più devoti innamorati di Bocca, può credere ad una scena simile. Non è possibile che Gian Antonio Stella creda a tutto ciò, né Ezio Mauro che lo ha eletto a bussola. Forse tanti lettori avranno creduto a quel racconto, ma chi è del mestiere sa quanto fosse scivoloso il patto del cronista con la verità. E quello di Bocca è stato un negoziato marchiato dal pregiudizio. Razzista, certo. Bocca viaggiava in Italia e cercava solo ciò che voleva trovare. E fu così che s'inventò uno Sciascia con la coppola. Se solo avesse avuto la convenienza – polemica, per carità – perfino di Saviano avrebbe fatto un camorrista. E non ha avuto tema di consegnare in una delle sue ultime interviste, edite in un video Feltrinelli (“La Neve e il fuoco” di Maria Pace Ottieri e Luca Masella), una sequela di luoghi comuni sul sud degne delle sagre padane, giusto quelle tribù nelle cui vallate avrebbe saputo attingere umori, spurghi e bestemmie. E pubblico.

Seguì la prima Lega, lavorò per Silvio Berlusconi e il nord è stato la sua platea ideale, un nord speciale dove abitava il “ceto medio riflessivo”, “il girotondo” e “il cattolico adulto”. Era quel mondo tutto sbrigativo e rapace della sinistra conformista, un mondo addolcito dalla convinzione di stare dalla parte giusta ma pur sempre duro nel giudicare quell'umanità lazzarona da redimere a colpi di manette, di tasse e di Costituzione.

Razzista, Bocca, lo fu non perché si ritrovò ad essere fascista in gioventù ma per quell'azionismo dell'età matura che lo teneva avvinto all'idea di aggiustare l'umanità malata degli italiani.

Non ebbe la possibilità di fare il salto nel vuoto e ritrovarsi – come Oriana Fallaci, da lui ribattezzata con stizza e genio “Oliala” – tra gli applausi della peggiore destra. Razzismo per razzismo avrebbe potuto uscirsene anche lui con la difesa dell'occidente. Sarebbe bastato sostituire la parola “meridionali” con “musulmani”. Tutto qua. 

Pietrangelo Buttafuoco. Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.

·        Quei razzisti come i tedeschi.

Esplode l'acquario dei record "È stato come un terremoto". Storia di Luigi Guelpa su Il Giornale il 17 dicembre 2022. 

Erano le 5.45 di mattina quando i 350 ospiti dell'hotel Radisson Collection di Berlino, di fronte ad Alexanderplatz, si sono svegliati di soprassalto. È accaduto per l'esplosione del più grande acquario indipendente al mondo, situato nella hall.

«Abbiamo sentito un'onda d'urto nella stanza. All'inizio, naturalmente, pensi a che cosa può essere stato. Poi hai paura, sei sotto choc, e ti viene in mente che potrebbe trattarsi di terrorismo», spiega Paul Maletzke, che ha soggiornato al Radisson con la sua ragazza. Paul, così come gli altri ospiti della struttura, si sono lanciati fuori dalla camera, vedendo l'acquario distrutto. «C'erano pesci e spazzatura ovunque. Si sentivano urla, non riuscivi a capire cosa fosse successo e non sapevi cosa fosse davvero accaduto, ma era il buio a far più paura», racconta Sandra Weeser, deputata del Bundestag, che si trovava nell'hotel. Al netto del racconto dei testimoni, l'AquaDom, l'acquario cilindrico più grande al mondo, ieri si è sbriciolato come un biscotto, provocando il ferimento di due persone colpite dalle schegge dell'enorme struttura, alta 25 metri e con un diametro di 11,5, al cui interno si trovava circa 1 milione di litri d'acqua. L'incidente per fortuna si è verificato prima dell'alba, diversamente sarebbe stata una tragedia. L'AquaDom infatti era dotato di un ascensore che permetteva ai turisti di ammirare i pesci al suo interno, senza contare che ogni giorno si immergevano diversi subacquei per pulirne la superficie. L'acquario ospitava oltre 1.500 esemplari, circa un centinaio di specie tropicali che si sono trovati disseminati nella hall dell'albergo, per strada, fino al vicino museo della Ddr in Karl-Liebknecht-Strasse, in parte allagato.

I vigili del fuoco e la polizia sono arrivati tempestivamente, con un totale di 200 uomini per gestire l'emergenza, ma l'atrio era così pieno di detriti e di vetri rotti che hanno dovuto prima far perlustrare l'area ai cani da salvataggio. I dipendenti del Radisson Collection non sono stati raggiungibili per ore, come descritto da diversi ospiti. «Non c'era modo di parlare con il personale dell'hotel», rivela la turista scozzese Rachel Clark. La reception non era accessibile tramite rete fissa. «Dopo le 8 è arrivata l'informazione che potevamo uscire, ma per oltre due ore è stato panico totale», dice la musicista Iva Yudinski. Nella tarda mattinata tutte le persone registrate al Radisson si sono radunate con i loro bagagli di fronte all'edificio distrutto per essere portate in autobus in altri hotel. Resta ora da capire le ragioni del cedimento strutturale, visto che è stata esclusa fin da subito la matrice terroristica. L'AquaDom era stato inaugurato nel 2004 ed era costato circa 12,5 milioni di euro. Aveva riaperto al pubblico la scorsa estate, dopo un periodo di ristrutturazione e ammodernamento durato quasi tre anni e costato 2,6 milioni. Gli interventi avevano riguardato il rafforzamento della base e il montaggio di una nuova guarnizione. Per il portavoce dei vigili del fuoco James Klein «forse si è trattato di un difetto della vetrata, esplosa a causa della pressione esercitata dall'enorme mole d'acqua. Le telecamere di sorveglianza potrebbero darci una mano». Il sindaco di Berlino, Franziska Giffey, ha visitato il luogo del disastro nel pomeriggio. «Si è riversato un vero e proprio tsunami sui locali dell'hotel e sui ristoranti adiacenti. Occorre ora esaminare come ciò sia potuto accadere».

Uski Audino per “la Stampa” il 17 dicembre 2022. 

Un enorme scheletro di metallo nero che gronda acqua. È quel che rimane dell'Aquadom di Berlino, il più grande acquario cilindrico al mondo, andato in pezzi alle 5,45 di ieri mattina. Collocato al centro di una corte, all'interno dell'edificio che ospita il museo marino Sea Life e l'hotel Radisson Blue, l'acquario sospeso era una delle attrazioni della capitale tedesca.  

Un tempio alle magnifiche sorti e progressive da un milione di litri di acqua distribuiti su 16 metri di altezza e 11 di diametro al centro del quale un'ascensore dalle pareti di vetro trasportava i visitatori del museo Sea Life all'ultimo piano. In una sorta di viaggio spettacolare attraverso le acque tropicali abitate da 1.500 pesci di 97 specie diverse.

 Ieri mattina prima dell'alba una scossa violenta ha svegliato gli ospiti dell'hotel dietro il duomo di Berlino. «Verso le sei ho sentito un'enorme esplosione, un tuono. Non capivo cosa stesse succedendo. Ho chiamato la mia amica e sono andata nella sua stanza. Da lì abbiamo visto l'acquario e la distruzione intorno a noi. Tutto era sommerso dall'acqua» ha detto la musicista israeliana Iva Yudinski, ospite dell'Hotel a Bild. Come in una scena di uno 007, un milione di litri di acqua salata con un peso di 1.000 tonnellate sono piombati a terra, riversandosi dappertutto, in parte penetrando in basso verso il garage sotterraneo, in parte travolgendo il piano terra.  

Porte, finestre, tavoli, sedie, l'albero di Natale, tutto è stato proiettato per la violenza della pressione sulla strada adiacente, la Karl-Liebcknecht strasse, arteria di comunicazione centrale che congiunge Alexanderplatz con Unter den Linden, nel centro storico della città. Fortunatamente deserta a quell'ora del mattino. «Ci ha svegliato un forte crepitio, mia moglie è corsa alla finestra, io sono uscito dalla porte» racconta Christian, un altro ospite dell'albergo.

«Sembrava che fosse scoppiata una bomba». Qualcun altro invece, dopo la scossa, non sentendo scattare l'allarme, ha ripreso a dormire fino a quando la direzione ha chiesto a tutti di lasciare l'albergo, due ore più tardi. L'impatto del crollo è stato così forte da essere registrato dalle stazioni sismografiche di Rudow e di Lankwitz. «Tutto è distrutto dentro. Ci sono pesci morti. Mobili divelti. Finestre in pezzi. Macerie ovunque» raccontano due ospiti svizzere lasciando l'hotel.

L'impressione è quella di un paesaggio dopo un cataclisma naturale, un «vero e proprio Tsunami» è il commento della sindaca della città Franziska Giffey, arrivata sul posto nelle prime ore del mattino, insieme a un centinaio di vigili del fuoco. «Se non fosse successo alle 5,45 ma anche solo un'ora più tardi, ci sarebbero stati danni spaventosi anche alle persone» ha aggiunto la sindaca. «Una fortuna nella sfortuna».

Complice l'orario solo due persone sono rimaste ferite dalle schegge di vetro dell'esplosione e portate in ospedale, in condizioni non serie. Solo una dozzina di pesci su 1.500 dell'intero acquario sono riusciti a sopravvivere all'incidente, ha detto il portavoce dei vigili del fuoco. La ricerca delle cause della sciagura è iniziata ma i risultati per ora sono scarsi. Secondo la polizia di Berlino non c'è «nessuna prova di reato» e l'incidente potrebbe essere stato causato da un cedimento della struttura dovuto a usura. 

Particolare inquietante dal momento che i lavori di restauro dell'acquario erano stati completati quest' estate dopo due anni e mezzo di cantieri costati in totale 2,6 milioni di euro. Né il gestore dell'acquario Sea Life né la proprietà Union Investment sanno offrire al momento una spiegazione di quanto accaduto. Ma Sea Life, catena mondiale dell'intrattenimento scientifico, 8 siti in Germania e uno in Italia a Gardaland, prende le distanze da quanto avvenuto. 

 L'Aquadom è «un'attrazione indipendente e non è di proprietà di Sea Life Berlin, né la manutenzione e la cura sono di sua responsabilità» fa sapere in una nota, sebbene la visita al grande acquario sia inclusa nei biglietti d'ingresso e nelle sue attività di marketing. Forse nell'era del cambiamento climatico e dell'estinzione delle specie potremmo fare anche un passo avanti rispetto al godimento della natura alla Jurassic Park?

Anche i tedeschi sbagliano. Il caos elettorale di Berlino e il mito appannato dell’infallibilità teutonica. La Corte costituzionale locale ha annullato le elezioni per il parlamento statale della capitale dopo una serie di errori ai seggi nel settembre 2021. Edoardo D’Alfonso Masarié Linkiesta il 10 Dicembre 2022.

Klaus Wowereit, sindaco-governatore socialdemocratico di Berlino dal 2001 al 2014, rimarrà nella memoria collettiva per la frase-bomba con cui nel 2001 ruppe il tabù dell’omosessualità nelle prime fila della politica tedesca: «Sono omosessuale, e va anche bene così». Non tanto l’essere omosessuale in sé, ma il suo “e va anche bene così”, ovvero l’inversione concettuale dell’omosessualità da stigma da nascondere a motivo di orgoglio personale, fu senza precedenti e senza dubbio un atto di grandissimo coraggio che ha cambiato la cultura politica tedesca.

Come scrisse Manzoni: Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare. Così Wowereit osò pochi mesi prima del suo celeberrimo outing una manovra politica non meno coraggiosa: da capogruppo della SPD nel parlamento cittadino convinse il suo partito a mollare la coalizione di governo insieme alla democristiana CDU, sfidò tramite il meccanismo della sfiducia costruttiva il governatore in carica Eberhard Diepgen (CDU), battendolo e facendosi eleggere a capo di una coalizione di minoranza rosso-verde tollerata attivamente dai post-comunisti della PDS. Correva l’anno 2001. Wowereit mandò poi poco dopo, per cementare la propria svolta politica, il Land Berlino alle elezioni anticipate, dalle quali uscì vincitore e sulla cui base formò un governo cittadino rosso-rosso proprio con la PDS che durò diec’anni, fino al 2011.

L’avvento al potere di Wowereit segna una svolta nella politica cittadina berlinese, che da allora ha visto non solo una ininterrotta continuità socialdemocratica sullo scranno più alto del municipio (a Wowereit sono succeduti poi i compagni di partito Michael Müller e Franziska Giffey), ma anche e soprattutto ha sancito l’avvio della primazia politico-culturale della metà sinistra dello schieramento politico nella città-stato. Così a parte il quinquennio 2011-2016, in cui la SPD preferì una coalizione con la CDU, i tre partner del primo governo Wowereit (2001) sono ancora oggi nella stessa posizione, ormai dal 2016 come alleati di e nel governo.

Nel suo decennio rosso-rosso Klaus Wowereit coniò (era il 2003) un’altra frase efficace ed incisiva: la celebre definizione di Berlino quale “arm, aber sexy”, povera ma sexy. Wowereit voleva probabilmente con quella frase dare coraggio ad una città nel pieno di un difficile processo di trasformazione, indicandone al contempo la direzione. La caduta del muro (9 novembre 1989) e la riunificazione tedesca (3 ottobre 1990) travolsero identità e modello di sviluppo tanto della ex capitale realsocialista Berlino-Est quanto della fu enclave liberal-capitalista Berlino-Ovest. Se “povera” era una fotografia della città in un momento per tanti difficile, “ma sexy” era la direzione di marcia verso l’obiettivo di diventare una metropoli attrattiva, innovativa, cosmopolita e libertina. I tanti, tantissimi che dall’ “arm, aber sexy” in poi si sono trasferiti a Berlino anche sull’onda di questa idea hanno cambiato la città rafforzandone il profilo economico, culturale e sociale.

Come tutte le cose, anche questa della città “sexy” è però una medaglia con più facce. La crescita economica e culturale ha fatto non solo crescere la popolazione, ma anche esplodere gli affitti, finendo per prosciugare uno dei più importanti canali attraverso cui Berlino ha acquisito nei decenni passati popolazione giovane ed attiva, cioè un mercato immobiliare che vent’anni fa era estremamente abbordabile ed ora è solo estremo. Un tema su cui torneremo.

Un altro lato altrettanto problematico della medaglia è che la “amministrazione” in senso classico, la parsimoniosa ed affidabile cura dell’esistente per fare in modo che nella macchina pubblica tutto funzioni come deve, non è certo stato il tratto distintivo di quella che è e vuol essere la città più progressista di Germania. Così si è venuta a cementare nell’ideale collettivo l’idea di una Berlino sì sexy, ma incapace di gestire con oculatezza risorse economiche, una città-catastrofe quando si parla di realizzazione di opere pubbliche, pianificazione degli stradari scolastici o gestione di anche semplicissimi procedimenti amministrativi: a Berlino può ben capitare di ottenere solo dopo diversi mesi un appuntamento all’anagrafe per fare la carta d’identità o dichiarare un cambio di indirizzo, anche se la legge punisce il cittadino che non lo faccia entro due settimane. O che l’ufficio competente lasci per due mesi un cadavere in camera ardente perché manca il personale per compilare il certificato di morte.

Così il 26 settembre 2021 la città “sexy ma inefficiente” ha presentato il conto. Quel giorno si sono tenute in tutta le Germania le elezioni federali, in più a Berlino le elezioni per il parlamento cittadino e per le assemblee dei dodici distretti cittadini – in realtà vere e proprie città nella città, giacché il più “piccolo” dei distretti può contare su ben 250.000 abitanti. In contemporanea si è svolto anche un referendum cittadino sulla possibilità di espropriare le grandi società immobiliari che possiedono decine di migliaia di abitazioni, i cui affitti sono ormai per molti abitanti a livelli inaccettabili.

Insomma, un vero e proprio election day, come diremmo in Italia, complicato non solo dalla quantità di schede (5 diverse) ma anche dalle diversità nel diritto al voto: mentre per il Bundestag possono votare “solo” i tedeschi maggiori di 18 anni, per il parlamento berlinese ed il referendum cittadino votano tutti i maggiori di 16 anni, purché tedeschi, mentre per le assemblee distrettuali, in quanto comuni, anche i cittadini di altri paesi UE over 16 hanno diritto al voto. Corsi o serate di formazione per gli scrutatori ed il personale elettorale non sono pressoché stati fatti, rimandando in gran parte a qualche link e alla buona volontà.

Continua a leggere su Kater un blog collettivo che parla di Germania – o almeno ci prova – al di là di semplificazioni, stereotipi e luoghi comuni. 

Voti a Berlino e poi muori.

Il caos amministrativo nella capitale tedesca, città-stato che si auto-governa, ha raggiunto il suo culmine con una decisione della locale Corte costituzionale, che ha annullato completamente le ultime elezioni cittadine.

Klaus Wowereit, sindaco-governatore socialdemocratico di Berlino dal 2001 al 2014, rimarrà nella memoria collettiva per la frase-bomba con cui nel 2001 ruppe il tabù dell’omosessualità nelle prime fila della politica tedesca: “Sono omosessuale, e va anche bene così”.

Non tanto l’essere omosessuale in sé, ma il suo “e va anche bene così”, ovvero l’inversione concettuale dell’omosessualità da stigma da nascondere a motivo di orgoglio personale, fu senza precedenti e senza dubbio un atto di grandissimo coraggio che ha cambiato la cultura politica tedesca. Come scrisse Manzoni: Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare. Così Wowereit osò pochi mesi prima del suo celeberrimo outing una manovra politica non meno coraggiosa: da capogruppo della SPD nel parlamento cittadino convinse il suo partito a mollare la coalizione di governo insieme alla democristiana CDU, sfidò tramite il meccanismo della sfiducia costruttiva il governatore in carica Eberhard Diepgen (CDU), battendolo e facendosi eleggere a capo di una coalizione di minoranza rosso-verde tollerata attivamente dai post-comunisti della PDS. Correva l’anno 2001. Wowereit mandò poi poco dopo, per cementare la propria svolta politica, il Land Berlino alle elezioni anticipate, dalle quali uscì vincitore e sulla cui base formò un governo cittadino rosso-rosso proprio con la PDS che durò diec’anni, fino al 2011.

L’avvento al potere di Wowereit segna una svolta nella politica cittadina berlinese, che da allora ha visto non solo una ininterrotta continuità socialdemocratica sullo scranno più alto del municipio (a Wowereit sono succeduti poi i compagni di partito Michael Müller e Franziska Giffey), ma anche e soprattutto ha sancito l’avvio della primazia politico-culturale della metà sinistra dello schieramento politico nella città-stato. Così a parte il quinquennio 2011-2016, in cui la SPD preferì una coalizione con la CDU, i tre partner del primo governo Wowereit (2001) sono ancora oggi nella stessa posizione, ormai dal 2016 come alleati di e nel governo.

Nel suo decennio rosso-rosso Klaus Wowereit coniò (era il 2003) un’altra frase efficace ed incisiva: la celebre definizione di Berlino quale “arm, aber sexy”, povera ma sexy. Wowereit voleva probabilmente con quella frase dare coraggio ad una città nel pieno di un difficile processo di trasformazione, indicandone al contempo la direzione. La caduta del muro (9 novembre 1989) e la riunificazione tedesca (3 ottobre 1990) travolsero identità e modello di sviluppo tanto della ex capitale realsocialista Berlino-Est quanto della fu enclave liberal-capitalista Berlino-Ovest. Se “povera” era una fotografia della città in un momento per tanti difficile, “ma sexy” era la direzione di marcia verso l’obiettivo di diventare una metropoli attrattiva, innovativa, cosmopolita e libertina. I tanti, tantissimi che dall’ “arm, aber sexy” in poi si sono trasferiti a Berlino anche sull’onda di questa idea hanno cambiato la città rafforzandone il profilo economico, culturale e sociale.

Come tutte le cose, anche questa della città “sexy” è però una medaglia con più facce. La crescita economica e culturale ha fatto non solo crescere la popolazione, ma anche esplodere gli affitti, finendo per prosciugare uno dei più importanti canali attraverso cui Berlino ha acquisito nei decenni passati popolazione giovane ed attiva, cioè un mercato immobiliare che vent’anni fa era estremamente abbordabile ed ora è solo estremo. Un tema su cui torneremo. Un altro lato altrettanto problematico della medaglia è che la “amministrazione” in senso classico, la parsimoniosa ed affidabile cura dell’esistente per fare in modo che nella macchina pubblica tutto funzioni come deve, non è certo stato il tratto distintivo di quella che è e vuol essere la città più progressista di Germania. Così si è venuta a cementare nell’ideale collettivo l’idea di una Berlino sì sexy, ma incapace di gestire con oculatezza risorse economiche, una città-catastrofe quando si parla di realizzazione di opere pubbliche, pianificazione degli stradari scolastici o gestione di anche semplicissimi procedimenti amministrativi: a Berlino può ben capitare di ottenere solo dopo diversi mesi un appuntamento all’anagrafe per fare la carta d’identità o dichiarare un cambio di indirizzo, anche se la legge punisce il cittadino che non lo faccia entro due settimane. O che l’ufficio competente lasci per due mesi un cadavere in camera ardente perché manca il personale per compilare il certificato di morte.

Così il 26 settembre 2021 la città “sexy ma inefficiente” ha presentato il conto. Quel giorno si sono tenute in tutta le Germania le elezioni federali, in più a Berlino le elezioni per il parlamento cittadino e per le assemblee dei dodici distretti cittadini – in realtà vere e proprie città nella città, giacché il più “piccolo” dei distretti può contare su ben 250.000 abitanti. In contemporanea si è svolto anche un referendum cittadino sulla possibilità di espropriare le grandi società immobiliari che possiedono decine di migliaia di abitazioni, i cui affitti sono ormai per molti abitanti a livelli inaccettabili. Insomma, un vero e proprio election day, come diremmo in Italia, complicato non solo dalla quantità di schede (5 diverse) ma anche dalle diversità nel diritto al voto: mentre per il Bundestag possono votare “solo” i tedeschi maggiori di 18 anni, per il parlamento berlinese ed il referendum cittadino votano tutti i maggiori di 16 anni, purché tedeschi, mentre per le assemblee distrettuali, in quanto comuni, anche i cittadini di altri paesi UE over 16 hanno diritto al voto. Corsi o serate di formazione per gli scrutatori ed il personale elettorale non sono pressoché stati fatti, rimandando in gran parte a qualche link ed alla buona volontà.

Alle cinque schede ed ai tre diritti al voto diversi si è andato a sommare lo stesso giorno un evento sportivo di portata internazionale, uno di quelli che fanno Berlino così “sexy”: la maratona. Inutile specificare che non solo per far svolgere la maratona sia stato necessario chiudere al traffico i 42,195 chilometri delle strade interessate dalla corsa e di fatto tutte quelle da queste incrociate, ma anche che il percorso ad anello al centro della città abbia di fatto spezzato la città in due, rendendo l’interno dell’anello pressoché inaccessibile dall’esterno e viceversa. Non esattamente le condizioni ideali per lo svolgimento di un cinque elezioni contemporaneamente.

Il risultato di tutto questo? Errori madornali, come schede sbagliate ai seggi (schede del collegio elettorale X nel collegio Y), schede date a chi non aveva diritto al voto, seggi nei quali sono finite le schede anzitempo e dove nuove schede non sono arrivate per ore perché i mezzi erano bloccati (o imprigionati) dalla maratona, schede bianche fotocopiate a mano dagli scrutatori, code davanti e nei seggi che si sono protratte per ore, fin oltre l’orario di chiusura, finendo per far votare non pochi berlinesi quando ormai tutta la Germania e tutta Berlino avevano già exit polls e proiezioni, e quindi compromettendo irrimediabilmente la libertà di scelta dell’elettore. Tutte cose documentate subito e con sconcerto da elettori, scrutatori e personale dei seggi e dalla stampa. Una catastrofe della democrazia così grande, che la Corte costituzionale del Land Berlino ha deciso lo scorso 16 novembre – con una sentenza che non ha paragoni storici – di annullare in toto le elezioni del parlamento cittadino e quelle di tutti i dodici distretti, ordinandone la ripetizione. Perché gli errori, già gravi in sé, sono stati in una quantità tale da intaccare in modo significativo il risultato elettorale.

Così nel 2023 in Germania oltre alle elezioni regolari nei Länder Brema (a maggio), Assia e Baviera (ad ottobre) si rivoterà daccapo anche a Berlino, stavolta il 12 febbraio. Dal momento che di ripetizione trattasi, candidati e collegi elettorali dovranno essere gli stessi, aspetto non senza problemi giacché qualcuno nel frattempo è morto, ha cambiato partito e più semplicemente è andato a vivere fuori Berlino, perdendo così l’elettorato passivo. E il parlamento ri-eletto non durerà in carica cinque anni, ma si limiterà a completare il quinquennio già iniziato a settembre 2021.

Una ripetizione totale invece non avrà luogo per il Bundestag, o meglio per i suoi collegi berlinesi. Qui gli errori, pur analoghi, non hanno lo stesso peso quantitativo rispetto al totale della Germania – gli aventi diritto al voto a Berlino sono 2,5 milioni contro i 61 milioni del Paese intero. Il Parlamento federale si è dunque deciso per la ripetizione delle operazioni di voto in “soli” 431 seggi. La decisione, pur se plausibile, rischia di innescare una piccola reazione a catena con seggi di parlamentari non berlinesi, nei cui collegi non v’è stato però alcun problema, poiché il sistema elettorale tedesco per mantenere la proporzionalità del risultato e fra le diverse regioni del paese prevede meccanismi di compensazione fra circoscrizioni diverse. Una situazione complicata e non simpatica, che rischia di scatenare cause su cause fino alla Corte costituzionale federale.

La morale della favola è stata tratta, esattamente con la stessa scelta lessicale, da due capi opposti del dibattito pubblico. Tanto la TAZ, giornale-bandiera della sinistra alternativa ed intellettuale, quanto il segretario generale della CSU, il partitone democristiano bavarese, hanno parlato di Berlino come di un failed state, uno stato fallito, cioè non in grado di esercitare le proprie funzioni essenziali (i link qui e qui). La critica, per quanto aspra, coglie nel segno. A testimoniarlo sta una dichiarazione della direttrice facente funzioni dell’ente berlinese deputato all’organizzazione delle elezioni, la quale in audizione davanti al Bundestag il 24 maggio scorso ha dichiarato: il Land Berlino si aspettava che le elezioni nazionali sarebbero state posticipate o anticipate per evitare una collisione con la maratona in città. Cioè, forse occorre ripetersi un paio di volte in testa la frase, in caso di dubbio fra le elezioni parlamentari, evento cardine della democrazia, ed una maratona sono le elezioni a dover essere spostate. Maratona che, infatti, quel maledetto 26 settembre 2021 s’è svolta senza intoppo alcuno. Uno stato ed una città (Berlino è entrambi) che, nel dubbio fra cosa sacrificare fra esercizio della democrazia ed un grande evento internazionale, sceglie di sacrificare il primo non è certo “sexy”. Ed economicamente povera Berlino non è lo più da un pezzo. Quando la incapacità amministrativa arriva a falsare la veridicità dei risultati elettorali e ad impedire l’esercizio del diritto al voto, beh… non fa più ridere né sorridere nessuno. Voti a Berlino e poi muori.

Edoardo D’Alfonso Masarié

Daniel Mosseri per “il Giornale” il 10 dicembre 2022.

La Germania ha digerito l'arresto, mercoledì, di una cellula di terroristi reazionari senza troppe emozioni. Complice forse il temperamento più flemmatico dei tedeschi o la scarsa credibilità del gruppo di Reichsbürger, i nostalgici del Reich guglielmino, guidati da un aristocratico 71enne con la giacca di tweed, il paese non si è spaventato troppo. Più preoccupanti, forse, sono state le sirene e gli squilli assordanti di milioni di cellulari giovedì mattina. Nessun allarme però: si è trattato solo di un test del sistema di allerta che la Protezione civile (Bbk) intende utilizzare nei casi di alluvione, incendio o altri eventi catastrofici.

Al netto delle sirene e dell'abbaiare dei cani, calma e gesso come sempre. Ma con i Reichsbürger non si scherza, ha invece insistito il numero uno della polizia criminale (Bundeskriminalamt), Holger Münch, osservando che è difficile immaginare una trentina di individui davvero capaci di mandare in frantumi lo stato tedesco.

Ma è parimenti vero «che siamo di fronte a un pericoloso miscuglio di persone con convinzioni irrazionali, alcune con molto denaro e altre in possesso di armi, e con un piano che vogliono portare a termine. Questo ha reso la situazione pericolosa - ha sottolineato il capo del Bka - ed è per questo che siamo intervenuti con un chiaro segnale di stop». Münch ha informato la stampa che il numero dei sospettati è salito a 54, ma altri ancora sono stati identificati.

La polizia, ha aggiunto Münch, ha perquisito 150 obiettivi rinvenendo armi in 50 di questi.

Fra le reazioni dei politici si segnala quella del premier del Nord Reno-Vestfalia, Hendrik Wüst (Cdu). Parlando con Dlf, Wüst ha definito «molto inquietante» la circostanza che persone che hanno ricevuto un addestramento militare e abbiano accesso alle armi siano sospettate di far parte della cellula eversiva. 

Münch gli ha risposto a mezzo stampa riconoscendo la necessità di effettuare maggiori controlli sul retroterra dei membri delle forze di sicurezza. «In tempi come questi, in cui le forze di sicurezza sono in prima fila, dobbiamo poter contare sul fatto che tutti sostengano l'ordine democratico», ha spiegato Münch. 

Centrale resta la figura del principe Enrico XII dell'antico casato dei Reuss. Il nobiluomo discendente dalla famiglia che ha regnato sulla Turingia fino al 1815 sarebbe diventato il nuovo leader della Germania dopo la destituzione di Olaf Scholz e forse avrebbe governato anche con il consiglio della Russia grazie alla mediazione della sua compagna, russa, Vitalia B. Le indagini hanno svelato che Enrico metteva a disposizione dei cospiratori il suo villino di caccia. 

«Eravamo noti per essere una famiglia tollerante, ora siamo tacciati di essere reazionari, questa è una macchia per tutti noi». Con queste parole pronunciate al canale televisivo Mdr, il capo di casa Reuss, Enrico XIV, ha preso le distanze dal lontano cugino golpista. «Secondo la legge non siamo neppure parenti: il nostro comune antenato era Enrico LXIII, nato nel 1786». Il lettore si tenga forte: una regola non scritta di casa Reuss vuole che tutti i figli maschi siano chiamati Enrico.

La numerazione va avanti per alcuni rami mentre altri ricominciano da I appena raggiunto un traguardo numerico predeterminato. Dal numero 13 di questa generazione, il numero 14 aveva già preso le distanze nel 2020 con una lettera rivolta al premier della Turingia dopo che il parente non ancora golpista aveva pronunciato un discorso antisemita nel 2019.

 A un meeting di businessmen a Zurigo il principe aveva accusato la famiglia Rotschild di aver fatto truffato i suoi avi Enrico XXVII ed Enrico XLV, le cui proprietà furono peraltro sequestrate dai sovietici. «Io non ho più alcun rapporto con lui» ha insistito Enrico XIV in tivù, «l'ultima volta l'ho visto al funerale di sua madre, ma non gli ho rivolto la parola». «E nessun altro in famiglia ha rapporti con lui?» chiede l'anchorman. «Macché: Enrico XIII è già uscito da tempo dall'associazione di famiglia. Siamo 60 persone e in 30 ci chiamiamo Enrico».

Da gazzetta.it l’11 Dicembre 2022. 

Non sono giorni di normale routine per David Alaba. Il difensore austriaco, infatti, si stava allenando col Real Madrid, ma è rimasto sconvolto da una notizia: l'arresto di suo suocero, Frank Heppner, nel tentato colpo di Stato che in Germania stavano organizzando alcuni individui appartenenti all'associazione terroristica "Cittadini del Reich". Heppner è un rinomato chef stellato, padre della compagna del difensore austriaco, Shalimar. L'obiettivo del gruppo, costituito da circa 25 individui, era di rovesciare lo Stato federale e restaurare il Reich, l'Impero.

Un gruppo che aveva già pianificato il post-colpo di Stato, secondo il procuratore generale Peter Frank: "Alcuni degli arrestati erano considerati già come nuovi membri del governo. Il gruppo aveva anche istituito un ramo militare che doveva costituire un nuovo esercito tedesco". E la cellula era diffusa su larga scala: la polizia ha infatti dovuto organizzare una maxioperazione attraverso lo stanziamento di 3mila agenti che hanno fatto irruzione in più di 130 abitazioni disseminate in 11 Lander su 16 della Germania.

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2022.

Il contatto con i russi c'è stato. Heinrich XIII Prinz Reuss, l'aristocratico tedesco accusato di aver organizzato una rete cospirativa di estrema destra che pianificava l'assalto armato al Bundestag e il sovvertimento dell'ordine costituzionale, ha incontrato diplomatici di Mosca in Germania. Secondo gli investigatori tedeschi, è stato lo stesso principe ad avvicinare il consolato generale della Russia a Lipsia, grazie ai buoni uffici della sua convivente, una cittadina russa identificata come Vitalia B. 

L'incontro è poi avvenuto durante un ricevimento nella sede diplomatica, in occasione della festa nazionale russa, al quale Heinrich XIII e la donna erano stati invitati. Una fonte dell'ambasciata russa di Berlino ha negato che diplomatici di Mosca abbiano avuto contatti consapevoli o ufficiali con persone legate alla rete golpista, ma non ha voluto commentare l'incontro nel consolato in Sassonia.

Anche se dalle intercettazioni non ci sono indizi concreti che la Russia abbia offerto appoggio all'organizzazione eversiva, l'iniziativa di Heinrich XIII, che avrebbe dovuto guidare un governo di salute pubblica sostenuto da una struttura militare, conferma che gli aspiranti golpisti cercavano a Mosca una sponda d'appoggio. 

Secondo il deputato cristiano-democratico Günter Krings, l'incontro è un «segnale d'allarme» e bisogna subito verificare che «tipo di contatti erano stati stabiliti tra l'organizzazione e le autorità russe». La retata del 7 dicembre ha portato in carcere 25 persone, arrestate in undici Länder tedeschi, in Italia e in Austria.

Il gruppo, oltre 50 accusati, aveva compilato liste di esponenti politici, giornalisti e altre figure pubbliche da uccidere o arrestare. Uno degli aspetti più curiosi dell'indagine è la passione per l'esoterismo e l'astrologia di molti membri della rete golpista, di cui fra gli altri erano parte un giudice, alcuni ex ufficiali delle forze speciali e della polizia, un cuoco stellato e un medico.

Chi è Heinrich XIII, l'artistocratico che sognava il ritorno del Reich. L'aristocratico faceva era la figura centrale di una rete eversiva di estrema destra che ambiva a rovesciare il sistema politico della Germania pianificando un colpo di Stato. Rosa Scognamiglio l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Aveva pianificato un colpo di Stato e aveva anche immaginato di entrare con la forza nel Bundestag. Heinrich XIII Prinz Reuß non è semplicemente un "nostalgico" del Reich ma la figura centrale di una frangia eversiva, di estrema destra, che ambiva a rovesciare il sistema politico della Germania. Da ieri mattina, l'artistocratico 71enne - possedeva anche un castello in Turingia - è finito in manette assieme ad altre 25 persone dopo la maxi retata della polizia federale tedesca per sgominare un'organizzazione di stampo terroristico.

L'ultradestra, il golpe, la russa in manette: chi muove il complotto tedesco

Chi è Heinrich XIII

"La monarchia? Distrutta dalla finanza ebraica. La prima guerra mondiale? Innescata dalla massoneria straniera. Hitler? Sostenuto dal capitale americano", scrive il giornalista Paolo Valentino sulle pagine del Corriere della Sera. A 24 ore dal blitz della Bundespolizei, trapelano le prime informazioni su leader dei Reichsbuerger - letteralmente "cittadini del Reich" - che sognano il ritorno all'impero e non riconoscono l'autorità tedesca. L'obiettivo del gruppo sarebbe stato un golpe.

Stando a quanto riporta l'inviata in Germania dell'Ansa Rosanna Pugliese, i Reichsbuerger si preparavano a governare mettendo in conto che "l'agognata rivoluzione potesse avere in bilancio anche dei morti". Heinrich XIII sarebbe stato il Deus ex machina dell'organizzazione criminale. Per certo non era nuovo alle autorità federali tedesche. Anzi: da anni era noto all'Ufficio per la difesa della Costituzione, l'intelligence civile, dell'Assia. Era molto attivo: organizzando chat di affini e sognava future rivolte. Da circa un anno era passato dalla teoria ai fatti. O almeno, quelle sarebbero state le intenzioni se le autorità federali tedesche non lo avessero stanato.

La maxi retata

Nella maxi-retata sono finite in manette 25 persone. Tra gli arrestati sono tre i profili che svettano sugli altri: quello di Heinrich XIII, un'ex deputata dell'ultradestra in servizio fino ad oggi come giudice a Berlino, nonché compagna dell'aristocratico 71enne, e un ex militare del reparto speciale della Bundeswehr. Stando a quanto riferito dal procuratore generale una caratteristica comune dei fermati "è il rifiuto delle istituzioni statali e l'adesione a miti derivanti da teorie del complotto: sono intrisi di ideologia del Reich e di QAnon".

Al blitz, realizzato all'alba di ieri in ben 11 regioni della Repubblica federale, hanno partecipato 3.000 agenti delle forze dell'ordine. Sono stati eseguiti anche due arresti all'estero: uno in Austria e l'altro in Italia, a Perugia, dove è stato catturato un ex ufficiale dei Reparti speciali.

Angela Merkel spende troppo, il governo tedesco la riprende: «Più disciplina di bilancio».Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022. 

L’ex cancelliera deve risparmiare, riducendo le spese per l’ufficio e il personale che le spettano per legge e sono pagati dal denaro dei contribuenti

Dopo aver per anni predicato e imposto l’austerità finanziaria ai governi dell’Europa, Angela Merkel subisce un contrappasso. L’ex cancelliera deve risparmiare, riducendo le spese per l’ufficio e il personale che le spettano per legge e sono pagati dal denaro dei contribuenti. Il governo tedesco ha esortato Merkel a una maggiore (sic) «disciplina di bilancio», invitandola a ridimensionare la struttura che l’assiste da quando ha lasciato il Kanzleramt.

Lo rivela Der Spiegel, citando un rapporto del Ministero delle Finanze. Secondo il documento, l’ufficio e i benefit da ex cancelliere non sono legati allo status, ma «all’adempimento di compiti e doveri istituzionali», quindi «non possono essere usati a fini privati, tantomeno al conseguimento di redditi aggiuntivi», come compensi per discorsi. Di più, il rimborso dei costi di viaggio può essere richiesto «solo quando l’ex cancelliera viaggia per conto e nell’interesse della Repubblica Federale». Il rapporto non cita esempi, ma è noto che il primo viaggio di Merkel dopo la fine dell’incarico fu un «tour» culturale privato a Firenze.

Merkel (qui la prima intervista da ex cancelliera) dispone attualmente di nove tra assistenti, segretarie e autisti, i cui stipendi costano all’erario intorno a 50 mila euro al mese. Sin dall’inizio, la dotazione è stata oggetto di critica, anche perché senza precedenti: il predecessore Gerhard Schröder si era fermato infatti a 7 collaboratori. Ma è stata proprio la vicenda personale di quest’ultimo a far tornare Merkel nel mirino. L’ex cancelliere è stato infatti privato dell’ufficio e del personale a causa dei suoi rapporti privilegiati con Putin e la Russia, decisione contro la quale egli è ricorso in giudizio. Contemporaneamente, il Bundestag ha deciso che, in futuro, gli ex cancellieri avranno diritto solo a 5 collaboratori, ridotti a 4 dopo cinque anni. La regola vale a partire da ora, quindi non si applica a Merkel.

Ma sull’ex cancelliera crescono le pressioni perché anche lei dia l’esempio. In fondo, mutatis mutandis, è la stessa cosa che chiedeva alla Grecia.

(ANSA il 4 novembre 2022) - Il presidente Xi Jinping ha invitato la comunità internazionale a "rifiutare l'uso e la minaccia delle armi nucleari" per prevenire una "crisi nel continente eurasiatico", nelle sue osservazioni più dirette sulla necessità di impedire l'escalation della guerra russa in Ucraina. Nel suo incontro con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, Xi ha anche parlato della necessità congiunta di garantire la stabilità delle catene di approvvigionamento alimentare ed energetico, entrambe interrotte dall'invasione dell'Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin.

(ANSA il 4 novembre 2022) - Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto al presidente Xi Jinping di usare "la sua influenza sulla Russia" per porre fine alla "guerra di aggressione" ai danni dell'Ucraina. "Ho detto al presidente cinese che è importante che la Cina usi la sua influenza sulla Russia", ha affermato Scholz. "Questo riguarda la necessità di rispettare i principi della Carta dell'Onu che tutti abbiamo sottoscritto. Si tratta di principi come quello della sovranità e dell'integrità territoriale, importanti anche per la Cina", ha osservato il cancelliere in un incontro con i media a Pechino.

(ANSA il 4 novembre 2022) - Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha sollecitato il presidente russo Vladimir Putin a prolungare l'accordo che consenta il passaggio sicuro delle spedizioni di grano dall'Ucraina per evitare una seria crisi alimentare. "Esorto il presidente russo a non rifiutare di estendere l'accordo sul grano che scade tra pochi giorni", ha affermato il cancelliere incontrando i media a Pechino dopo aver incontrato il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang, nell'ambito della sua missione di un giorno in Cina. "La fame non deve essere usata come arma", ha aggiunto Scholz. (ANSA).

(ANSA il 4 novembre 2022) - La Germania, così come gli Stati Uniti e molti altri Paesi nel mondo, segue la politica della Unica Cina, in merito alla vicenda di Taiwan: lo ha affermato il cancelliere tedesco Olaf Scholz, parlando a Pechino con i media dopo gli incontri avuti con il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang. Tuttavia, ha aggiunto Scholz, parte della Unica Cina è anche che "qualsiasi cambiamento dello status quo delle relazioni nello Stretto di Taiwan deve essere pacifico e consensuale".

SCHOLZ VEDE XI E FA INFURIARE GLI ALLEATI DI GOVERNO. Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2022.

Dura appena undici ore, più il tempo di viaggio, la visita di Olaf Scholz in Cina. Ma sicuramente suscita più polemiche in Germania e all'estero delle dodici missioni che scandirono i sedici anni al potere di Angela Merkel. Scholz è il primo leader del G7 a recarsi in Cina dallo scoppio della pandemia e il primo a incontrare il presidente cinese dalla sua recente riconferma al vertice da parte del Congresso del Partito comunista, che ne ha fatto il dominus incontrastato della Superpotenza asiatica. 

Il cancelliere è accompagnato da una delegazione di imprenditori, fra cui i capi di Siemens, Basf, Bmw e Volkswagen, scelta che secondo molti osservatori tradisce la volontà di mantenere intensi rapporti economici con Pechino, che ormai da sei anni è il primo partner commerciale della Germania.

Mentre gli Stati Uniti si proiettano verso una netta separazione della loro economia da quella cinese e l'Europa cerca faticosamente di prendere insieme le distanze da un regime sempre più totalitario ed economicamente aggressivo, Berlino sembra privilegiare nei confronti del Dragone un «business as usual» intriso di mercantilismo, ingenuità ed egoismo. 

Il cancelliere è bersaglio di «fuoco amico» perfino a casa sua, da parte degli alleati verdi e liberali. La spaccatura interna alla maggioranza è diventata pubblica la scorsa settimana, quando Grünen e Fdp si sono formalmente dissociati dal via libera dato da Scholz all'acquisto da parte del gruppo cinese Cosco del 25% di uno dei terminali del porto di Amburgo.

Martedì poi la ministra degli Esteri, la verde Annalena Baerbock, ha espresso esplicite riserve sull'opportunità del viaggio a Pechino, già pronta a sfruttare la visita come prova delle divisioni interne all'Occidente. Scholz ha provato a difendere le sue scelte in un editoriale pubblicato sulla Frankfurter Allegemeine Zeitung. 

Secondo il cancelliere, la Germania deve cambiare il suo atteggiamento verso la Cina, nel momento in cui questa torna verso l'ortodossia marxista-leninista, centralizzata in economia e ancora più autoritaria sul piano politico. Scholz ha messo in guardia però dal rischio di isolare Pechino, perché «con i suoi 1,4 miliardi di abitanti e il suo potere economico continuerà a svolgere un ruolo chiave sulla scena mondiale anche per il futuro».

Federico Rampini per corriere.it il 4 novembre 2022.

Il cancelliere tedesco fa sorgere legittimi dubbi sulla tenuta dell’Occidente, con una visita a Pechino che molti suoi connazionali giudicano inopportuna e che irrita anche tanti alleati: dalla Casa Bianca all’Eliseo. 

Ma il viaggio di Scholz fa il paio con l’omaggio che i potenti di Wall Street rendono indirettamente a Xi Jinping, partecipando a un importante forum finanziario a Hong Kong.

La stessa Hong Kong è stata il teatro di una brutale repressione da parte del regime di Pechino, ormai dimenticata perché di mezzo abbiamo avuto una pandemia. Non la dimenticano però i duecento giovani di Hong Kong che sono dietro le sbarre e rischiano di passarci la vita: condannati al carcere per aver difeso uno Stato di diritto, un’autonomia amministrativa, la libertà di stampa, la magistratura indipendente.

Chi pensava che dopo il pugno duro liberticida Hong Kong si sarebbe condannata al declino come piazza finanziaria globale, faceva i conti senza il cinismo di Wall Street. Quando questa settimana Xi Jinping ha deciso di rilanciare la “sua” Hong Kong normalizzata come porta d’accesso per i capitali occidentali, al raduno promozionale si sono presentati i top manager di BlackRock, Goldman Sachs, JPMorgan Chase, Morgan Stanley. Da Wall Street nessuno si sognerebbe di fare la morale al cancelliere tedesco: così fan tutti.

La visita di Scholz in Cina, in corso oggi, può essere vista in due modi. E’ la conferma di una pericolosa dipendenza: l’industria tedesca non riesce a fare a meno della Cina né come mercato di sbocco né come fornitrice di minerali e componenti essenziali; rischia di ripetersi in futuro un film già visto nel caso della Russia. 

Ma il viaggio ufficiale del cancelliere è anche l’occasione di un acceso dibattito in Germania, con delle divergenze sulla politica cinese che spaccano in due perfino la Confindustria. Intanto questa visita avviene mentre rimbalzano nuove voci su un possibile allentamento della politica “zero Covid” da parte di Xi Jinping. 

Nei giorni scorsi quelle voci hanno scatenato un rialzo alla Borsa di Hong Kong, per la quale un ritorno alla normalità sarebbe prezioso. La vicenda della fabbrica Foxconn a Zhengzhou, dov’è scattato un nuovo lockdown per qualche caso positivo al test Covid, è una lezione che tutti gli investitori stranieri sono costretti a meditare.

La Foxconn di Zhengzhou è il principale stabilimento di assemblaggio dei nuovi iPhone per Apple, multinazionale che negli ultimi anni si è legata moltissimo alla Cina. Ma che scopre quali prezzi può pagare per la sua dipendenza da un regime autoritario. La durezza del lockdown ha spinto qualche centinaio di operai della Foxconn alla fuga. 

Le immagini video di questi operai e operaie che trascinano le loro valigie su un’autostrada, scappando dal luogo di lavoro, hanno fatto il giro del mondo. Sarebbe ora che Xi rivedesse la politica sanitaria, ma le sue decisioni sono imperscrutabili, circondate dalla massima opacità.

Apple sta cominciando a diversificare una parte della sua produzione dalla Cina verso l’India e il Vietnam. E’ un messaggio che l’industria tedesca vuole ascoltare? Una novità che salta agli occhi in questa visita di Scholz a Pechino, rispetto alle precedenti visite di Angela Merkel, sono le assenze. Riprendo qui un’osservazione dei colleghi del settimanale tedesco Der Spiegel. Un tempo tutti i maggiorenti dell’industria tedesca si facevano un punto d’onore di accompagnare la cancelliera in Cina, anche perché far parte di quelle delegazioni ufficiali era un modo per ingraziarsi le autorità cinesi. Stavolta invece brillano le defezioni importanti.

Dalla delegazione industriale che accompagna Scholz mancano i capi di Mercedes Benz, Thyssenkrupp, Deutsche Post, tre pezzi da novanta, più qualche altro. E’ il risultato della spaccatura che si è aperta in seno alla Confindustria tedesca (BDI), tra un’ala che vorrebbe continuare a praticare “business as usual” con la Cina, e chi pensa che i rapporti con quel paese siano diventati sempre più rischiosi e quindi vadano ridimensionati con particolare attenzione alla sicurezza nazionale.

Tra i falchi, che vogliono una politica più dura verso la Cina, ci sono fra l’altro molti industriali del settore macchine utensili, vittime sistematiche di spionaggio industriale e furti di proprietà intellettuale. Già da qualche anno la Confindustria tedesca cominciò ad accendere un faro sul celebre piano di politica industriale di Xi Jinping con cui ambiva a costruire una leadership nazionale nelle tecnologie avanzate, dopo averle importate (e spesso copiate) dalla Germania per anni. 

Ho già rilevato che anche il linguaggio di Xi all’ultimo congresso comunista era apertamente protezionista e autarchico, evocava lo spettro di una Cina trasformata in una fortezza economica, sempre più autosufficiente. Per adesso però per molte aziende tedesche rimane uno sbocco essenziale. L’esempio chiave è la Volkswagen. In Cina ha trenta fabbriche e novantamila dipendenti.

Su tutte le vetture Volkswagen vendute nel mondo intero (Germania inclusa), una su tre viene venduta sul mercato cinese. Nessun altro paese dà un simile contributo ai profitti dell’azienda automobilistica tedesca. E’ chiaro che disimpegnarsi dalla Cina, finché questi sono i numeri, appare autolesionista ai vertici della Volkswagen. Lo stesso discorso vale per il colosso chimico Basf, o la Siemens, o la Merck, i cui chief executive fanno parte della delegazione di Scholz.

Però se lo sguardo si spinge verso il futuro, l’importanza della Cina è un’arma a doppio taglio. Già oggi la dipendenza dell’industria tedesca dalla Cina per le terre rare supera quella che era la dipendenza dal gas russo. Poiché le terre rare sono essenziali per molte tecnologie verdi, a cominciare dalle batterie per auto elettriche, la futura Germania a “zero emissioni” che sognano gli ambientalisti sarebbe schiava della Cina. 

Del resto all’ultimo salone dell’auto di Parigi si è notata l’avanzata delle marche cinesi nelle auto elettriche. E’ una delle tante ragioni per cui il partito dei Verdi a Berlino è molto più severo verso Xi Jinping e ha criticato la missione di Scholz; così come l’hanno criticata anche gli altri partner dell’alleanza di governo, i liberali.

Il cancelliere ha fatto una concessione ai falchi della sua coalizione, quando si è occupato dell’ingresso cinese nel porto di Amburgo. Ne ho già scritto in questa rubrica, si tratta della controversa acquisizione di una partecipazione in un terminal del porto da parte della società di trasporto navale cinese Cosco. 

Scholz ha posto come condizione che Cosco compri solo una quota di minoranza, non superiore al 25%, e che il controllo dell’infrastruttura resti in mano all’ente pubblico portuale. Il compromesso non ha veramente rassicurato i suoi partner di governo, che continuano a considerarlo troppo morbido verso Pechino.

Le critiche dei Verdi e del partito liberale sono molto simili a quelle di altri paesi occidentali, Stati Uniti in testa, preoccupati per l’ennesima sbandata a Est della Germania. Però spicca su tutti l’ineffabile Emmanuel Marcon: per attenuare i sospetti e le riserve sull’intesa tra Berlino e Pechino, il presidente francese ha tentato d’imbucarsi, cioè ha proposto a Scholz di andare con lui. Trasformando la delegazione tedesca in una visita bilaterale franco-tedesca, sempre secondo Macron, i due avrebbero mostrato un fronte unito europeo. Alla faccia degli altri 25 membri dell’Unione…

Le colombe come Scholz ora focalizzano molte delle loro speranze sul nuovo astro nascente al vertice del regime cinese: il 63enne Li Qiang (pronuncia: ciang), che Xi ha scelto come il suo numero due, e potrebbe diventare premier. Li Qiang è un fedelissimo del presidente, con cui ha condiviso un’alleanza politica da un quarto di secolo.

Ma è anche considerato un pragmatico, con buoni rapporti negli ambienti del capitalismo privato caduti in disgrazia per la sterzata statalista di Xi. A conferma del suo pragmatismo si narra che Li Qiang sarebbe stato favorevole all’acquisto di vaccini americani contro il Covid, che avrebbero potuto evitare le restrizioni eccessive inflitte ai cinesi. Se è vero, però, Xi non ha ascoltato quei consigli e Li Qiang si è allineato disciplinatamente con il suo capo e protettore. Il futuro dirà se il nuovo numero due possa avere un’influenza moderatrice su Xi, sia nell’ambito della politica anti-Covid sia per la politica economica, oppure se sarà anche lui uno yesman.

Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica – Affari & Finanza” il 24 Ottobre 2022.

"La Cina ci procurerà ancora molti guai". L'ex capo dei servizi segreti tedeschi, August Hanning, non ha dubbi. "Mai abbiamo visto una tale corsa al riarmo nel Mar della Cina". E dopo il Congresso del partito comunista cinese che ha cementato la postura militare più aggressiva e la stretta autoritaria di Xi Jinping, l'ex numero uno dell'intelligence tedesca ha incontrato la settimana scorsa un numero ristretto di giornalisti. E ha avvertito che un ripensamento tedesco dei rapporti con la Cina "è più che urgente".

Tanto più alla luce del rischio di un'invasione di Taiwan e di un collasso dei rapporti tra Occidente e Pechino. Per dirla con l'attuale capo dei servizi segreti interni, Thomas Haldenwang, "se la Russia era la tempesta, la Cina è il cambiamento climatico". In realtà il ministero degli Esteri guidato dalla verde Annalena Baerbock ci sta lavorando da settimane. Sta preparando il primo documento strategico sui rapporti Germania-Cina, volto a imprimere un deciso cambio di traiettoria alle relazioni con Xi.

E il motivo lo esplicitato la ministra, anche di recente: "Dobbiamo imparare dai nostri errori nella politica verso la Russia". Il documento, che nelle intenzioni di Baerbock dovrebbe essere interministeriale, vuole mettere in evidenza la "debolezza strategica" dell'Europa nella scelta di dipendere dalle importazioni cinesi, riporta una fonte autorevole. Secondo l'istituto economico Ifo, il 46% delle imprese tedesche dipendono dall'arrivo puntuale di merci cinesi.

Nel caso di una crisi con Pechino, insomma, metà delle fabbriche tedesche rischierebbe la paralisi. E l'autorevole think tank Merics ritiene che un eventuale conflitto tra la Cina e Taiwan potrebbe rendere molto concreto uno scenario così apocalittico. Quanto sia complicato cambiare scenario quando la Cina è diventata ormai da anni il principale partner commerciale di Berlino lo dicono anzitutto i numeri. Il volume degli scambi supera i 200 miliardi di euro all'anno, colossi della chimica come Basf o dell'auto come Daimler e Volkswagen dipendono mostruosamente dal mercato cinese. 

L'obiettivo di Baerbock è dunque spingere le imprese tedesche a diversificare di più - non solo sulle importazioni, ma anche sull'export e gli investimenti verso Pechino. Il ministero è in un dialogo riservato e costante con l'industria per definire il documento strategico favorire un cambio di rotta. Ma un ripensamento è complicato, le resistenze grandi. La presa di posizione decisa verso la Cina di Baerbock discende anche da una tradizionale posizione molto più dura dei Verdi rispetto alla Spd verso Pechino.

Ma fa anche i conti "su molti nemici", rivela la fonte. Anzitutto - a proposito dei socialdemocratici - alla cancelleria. L'esempio più clamoroso di questa (ennesima) spaccatura in seno alla maggioranza "semaforo" del governo Scholz è la querelle sul porto di Amburgo e sull'imminente viaggio del cancelliere in Cina, previsto per il 4 novembre. Scholz sarà il primo leader occidentale a stringere la mano a Xi Jinping dall'inizio della pandemia. Ma le due vicende, peraltro intrecciate, del viaggio a Pechino e del possibile accordo sul secondo più importante porto d'Europa, rappresentano l'ennesima fuga in avanti di Berlino anche per la Commissione europea. 

Che in primavera aveva già fatto pervenire un parere negativo a Berlino sulla cessione del porto anseatico, ricordando a Scholz che attraverso quell'hub passano "molti dati sensibili". E l'irritazione è grande anche per la visita di Stato, con tanto di delegazione economica, a Pechino.

In un momento delicatissimo dei rapporti dell'Occidente con Xi. La Cina vuole rilevare attraverso Cosco una quota della società che gestisce il porto anseatico HHLA ma anche il 35% di Tollerort che amministra il terminal dei container. E vuole sedere nei consigli di amministrazione delle aziende portuali. Il 30% delle merci in Germania che partono per la Cina o arrivano da lì passano attraverso Amburgo. Ma i sei ministeri coinvolti nell'analisi dell'accordo - Interni, Esteri, Infrastrutture, Economia, Finanze e Difesa - hanno unanimemente espresso parere contrario.

Anzitutto il dicastero dell'Economia, guidato dal verde Robert Habeck. Che ha sentenziato che il Porto di Amburgo è un'infrastruttura strategica che non può essere ceduta a Pechino. Tanto più che l'ingresso di Cosco nel terminale per l'arrivo delle merci Tollerort produrrebbe "un potenziale di ricatto" sugli affari del porto. La Cina è il cliente più importante del porto di Amburgo. Habeck, dunque, ha tentato di porre il veto. Ma Scholz non ha messo il suo parere all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri, dove dovrebbe essere votato. Se non lo farà per la fine di ottobre, l'accordo passerà automaticamente. Ma sulla vicenda, nel frattempo, è scoppiata una bufera.

Nella maggioranza i malumori sono enormi. La responsabile della difesa della Fdp, Marie-Agnes Strack-Zimmermann, ha twittato: "Cosa deve accadere nel mondo perché la Germania smetta di inchinarsi ai nemici del mondo libero e democratico? Vendere infrastrutture critiche alla Cina è un errore clamoroso. Chi consiglia il cancelliere?". E per il verde Anton Hofreiter "la Germania non deve ripetere con la Cina l'errore fatto negli ultimi anni con la Russia". Soltanto il sindaco della città anseatica, Peter Tschentscher, spinge per l'intesa con Pechino, e supporta il suo predecessore, Olaf Scholz.

Che è stato primo cittadino di Amburgo fino al 2018. Sui media tedeschi sono rimbalzate notizie anche su un parere contrario dei capi dell'intelligence tedesca, oltre all'irritazione della Commissione Ue. Ma anche dall'esperto di sicurezza Roderich Kiesewetter, presidente della Commissione parlamentare di controllo dei servizi segreti - il Copasir tedesco - arriva un avvertimento inequivocabile. 

A Repubblica, il politico Cdu spiega che "nel medio termine, il Porto di Amburgo non è un buon investimento economico. Perché conterà sempre meno, negli scambi globali. E allora perché i cinesi lo vogliono, si dirà? Perché ha una grande importanza strategica, perché darà la possibilità ai cinesi di influire sulla nostra economia, di sorvegliarla, di sapere cosa fanno le navi taiwanesi".

Cosco, totalmente controllata dallo Stato cinese, è già presente in sette importanti porti europei. Secondo Kiesewetter la Germania "deve diversificare di più, in futuro, collaborare con i Paesi che soffrono le pressioni della Cina: India, Giappone, Corea del Sud, Indonesia, Australia, Filippine. Altrimenti non controlleremo, ma subiremo il rapporto con la Cina".

 Polonia chiede a Germania i danni di guerra: 1.300 miliardi di euro. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.

La nota diplomatica verrà consegnata domani - 4 ottobre - nel corso di un incontro tra ministri degli esteri. Varsavia: «È una cifra prudenziale». Ma per Berlino un trattato del 1953 ha chiuso la partita 

La Polonia si appresta a presentare alla Germania il «conto» dei danni patiti durante l’occupazione da parte dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. La richiesta bsarà avanzata domani - 4 ottobre - in occasione di un vertice tra i ministri degli esteri di Varsavia e Berlino. A fare scalpore è soprattutto l’ammontare della cifra pretesa dai polacchi: 1.300 miliardi di euro, frutto di un calcolo compiuto da una commissione parlamentare. Una cifra che però i tedeschi contesteranno - come hanno già fatto n altre circostanze - sostenendo che una serie di trattati internazionali firmati negli ultimi 70 anni avrebbero messo una pietra tombale su ogni pretesa legata ai danni di guerra.

La Polonia , attraverso il suo ministro degli esteri Zbigniew Rau ha firmato una nota diplomatica in cui descrive la richiesta. «Le parti dovrebbero adottare misure immediate per risolvere in modo permanente ed efficace... la questione delle conseguenze dell’aggressione e dell’occupazione tedesca» ha detto Rau in una conferenza stampa a Varsavia. «Un simile accordo ci consentirebbe di basare le relazioni polacco-tedesche sulla giustizia e la verità e chiudere capitoli dolorosi della storia». La lettera verrà consegnata in occasione delle celebrazioni per l’unità tedesca domani a Varsavia alla presenza della ministra degli esteri di Germania Annalena Baerbock.

La cifra di 1.300 miliardi di euro, secondo la commissione parlamentare polacca, tiene conto dei danni subiti dai bombardamenti, dalla perdita di vite umane , di sovranità politica e integrità territoriale patite tra il 1939 e il 1945 da parte dei nazisti. «Si tratta di una richiesta prudenziale» si è spinto a dire Jaroslaw Kachinski, leader del partito sovranista Pis, al potere in Polonia. Il Paese contò in quel quinquennio circa 6 milioni di morti e la capitale venne rasa al suolo. la cifra richiesta ha comunque dimensioni mostruose: per fare un paragone, corrisponde a circa la metà del debito pubblico italiano.

La replica della Germania alla nota diplomatica al momento non è arrivata ma Berlino ha da tempo chiarito la sua linea sulla spinosa questione. Un trattato sottoscritto dalla Polonia nel 1953 rinunciava a qualunque pretesa, volontà ribadita nel 1990 quando dopo la riunificazione tedesca vennero stabiliti in maniera definitiva i confini tra i due stati. Ma, ecco l’argomento che fa da appiglio per i polacchi, il tratto del 1953 venne da loro accettato con il fucile puntato alla schiena» da parte dell’Urss che non voleva mettere in difficoltà l’allora Ddr.

Nonostante i trattati internazionali, nonostante il tempo trascorso e nonostante i 70 anni di pace garantita dalla Ue, le cicatrici lasciate dall’ultimo conflitto mondiale tornano a farsi dolorosamente sentire periodicamente. Nel 2019 toccò alla Grecia - che stava vivendo gli anni dell’austerity imposto su spinta della Germania - avanzare la richiesta di riparazione dei danni di guerra. Il governo di Atene calcolò per l’occasione 289 miliardi di euro. Anche in quella circostanza Berlino si appellò a precedenti trattati che avevano chiuso la partita, in particolare quello del 1960 proprio tra governi tedesco ed ellenico.

Letta cavalca il pregiudizio anti italiano dei tedeschi. La stampa tedesca dipinge la Meloni come la "donna più pericolosa d'Europa", mentre l'Spd rilancia il pericolo fascismo. Letta gongola ma così presta solo il fianco alle ingerenze di Berlino. Andrea Indini il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.  

C'è un solo Paese in tutta l'Unione europea ossessionato dalle elezioni italiane e, in modo particolare, dall'eventualità che Giorgia Meloni possa diventare presidente del Consiglio: è la Germania. E c'è un solo leader politico che, dopo essere stato in gita a Berlino per intrattenersi con gli alleati dell'Spd, gongola dei continui attacchi tedeschi: è Enrico Letta. Come se il profluvio di editoriali contro la leader di Fratelli d'Italia o l'endorsement del presidente socialista Lars Klinhgbeil (sconosciuto dalla stragrande maggioranza degli italiani) possano portare qualche voto in più al Partito democratico. Quello che il segretario dem non coglie è che il provincialismo con cui lui e una certa stampa progressista italiana rilanciano le ingerenze di un altro Stato europeo non mina la credibilità del centrodestra ma la considerazione che all'estero hanno del nostro sistema democratico.

I tedeschi non sono nuovi a certi pregiudizi. Nell'aprile del 2020, all'inizio della crisi pandemica, Die Welt invitava la Merkel ad ergersi a paladina del rigore contro l'Italia dove "la mafia stava aspettando i soldi di Bruxelles come una manna" dal cielo. Anni prima lo Spiegel, invece, se ne uscì in edicola con una pistola su un piatto di spaghetti per copertina. Non deve stupire, quindi, se giorni fa lo stesso settimanale ha pubblicato un articolo in cui la Meloni veniva bollata come "l'erede di Mussolini", una "neofascista" che contrasta l'Unione europea e "detesta la Germania". Lo Spiegel non è il solo giornale tedesco a vederla così. Già a inizio settembre la Sueddeutsche Zeitung descriveva la volubilità degli italiani, ora "appassionati" per la leader di Fratelli d'Italia, con una metafora (volgare): "fugace come una scoreggia". Poi, da quando durante un comizio la Meloni ha avvertito che col centrodestra al governo finirà "la pacchia per l'Unione europea", l'allarmismo tedesco si è fatto sempre più pressante. Ieri, ultima in ordine temporale, è arrivata la copertina del settimanale Stern dedicata alla "donna più pericolosa d'Europa". La Meloni viene dipinta come il "veleno biondo" che "vuole trasformare l'Italia in uno stato autoritario, se vincerà le elezioni".

È in questo clima profondamente anti italiano che nei giorni scorsi Letta è andato in pellegrinaggio a Berlino. "Non è andato certo a ottenere un tetto al prezzo del gas", ha spiegato nei giorni scorsi la stessa Meloni. "È andato a barattare l'interesse nazionale italiano con l'interesse del suo partito". Ed è stato, infatti, in quell'occasione che ha incassato l'endorsement di Klinhgbeil. "Sarebbe davvero un segnale importante se Letta potesse vincere - aveva detto, in quell'occasione, il presidente dell'Spd - e non la Meloni che, come partito post fascista, porterebbe l'Italia in una direzione sbagliata". Una scelta o, meglio, un'ingerenza di campo ribadita anche oggi in un'intervista al Corriere della Sera.

Letta, dal canto suo, gongola per tutti questi attacchi alla Meloni. "Non sono andato a Berlino per chiedere un endorsement", ha ribattuto oggi su Rtl 102.5. "Ma per parlare con uno dei nostri principali partner europei sul tema dell'energia e per difendere l'interesse dell'Italia e dell'Europa". Peccato che i suoi commensali, il cancelliere Olaf Scholz in testa, siano i meno allineati a difendere l'interesse dell'Italia e dell'Europa e anzi, dall'inizio della crisi energetica, abbiano più volte tentennato dimostrandosi i più teneri nei confronti di Putin, tentando vie secondarie per mantenere gli accordi con la Russia e opponendosi al price cap. E che dire delle lezioni impartite dall'Spd, se non che in Europa è probabilmente il partito con maggiori interessi (personali) sul gas russo. Insomma, i testimonial del Pd non sono così affidabili e prestargli il fianco finisce solo per minare la stabilità del Paese.

Emanuele Bonini per lastampa.it il 2 settembre 2022.

L’Europa torna a fare i conti col proprio passato, quello meno virtuoso. Proprio di conti si tratta, perché la Polonia di oggi calcola quanto la Germania nazista di ieri è costata al Paese. Non meno di 6,2 trilioni di zloty, l’equivalente di circa 1,3 trilioni di euro, che Varsavia chiede a Berlino a titolo di compensazione dell’occupazione che fu. L’attuale leadership polacca li vuole. «E’ il nostro obiettivo», riconosce Jaroslaw Kaczynski, leader partito di governi Diritto e giustizia (PiS). Sa perfettamente, parole sue, che «non sarà facile», ma in occasione dell'83° anniversario dell'invasione della Polonia, dice questo ai suoi connazionali.

E’ più di un’esternazione figlia di ferite comunque dolorose. Sei milioni di morti, Varsavia ridotta ad un cumulo di macerie, e le immagini del rastrellamento del ghetto ancora impressa nella memoria. Ma il passato non è lasciato alle spalle. L’esecutivo del Paese dell’est ha prodotto un rapporto dettagliato sull’accaduto, ed è da qui che arriva la cifra che ora si sottopone alla cancelleria di Berlino.

Con tanto di postilla che recita che il conto è per difetto, e quindi il computo totale potrebbe anche lievitare all’insù. E’ convinzione del primo ministro Mateusz Morawiecki che «le vittime meritino giustizia», e per questo «oggi siamo obbligati a fare questi calcoli nel modo più accurato possibile e presentare il conto a chi di dovere».

Alla fine della seconda guerra mondiale la Germania non sottoscrisse un trattato di pace, bensì l’armistizio. Questo è l’accordo tra Paesi che serve a deporre le armi e cessare le ostilità, con il mutuo riconoscimenti di un vincitore e di un vinto. I tedeschi riconobbero la sconfitta, ma non dovettero sottostare alle condizioni dei vincitori. Queste fanno parte del trattato di pace, arrivato solo nel 1990, all’indomani della caduta del muro di Berlino e della riunificazione. 

In quel frangente le vecchie potenze vincitrici decisero di «abbonare» le spese di riparazione. Una decisione avallata dall’allora Comunità economica europea, in quel momento storico composta da 12 Stati, di cui la Germania federale faceva parte. La Polonia nell’Ue è entrata solo nel 2004, ma soprattutto non ebbe mai modo di avanzare pretese per via del nuovo assetto post-bellico. Satellite sovietico, il governo comunista filo-Mosca si rifiutò di chiedere il risarcimento danni alla Germania federale, anch’essa sotto sfera d’influenza sovietica.

La Germania ritiene la questione un capitolo ormai chiuso, ma così non è per i vicini polacchi. Così mentre a Berlino si tende a non dare seguito a questa iniziativa polacca, a Varsavia invece si procede in tutt’altro modo. I vecchi rancori sono alimentati dalle nuove ruggini, rappresentate dalla risposta all’aggressione russa in Ucraina. 

Mentre la Polonia ha fin da subito sposato la linea dura e intransigente, i partner vicini una ritenuta molle. L’ultimo oggetto del contendere la politica sulla concessione dei visti. La Polonia avrebbe voluto impedire ogni tipo di ingresso, la Germania invece no e ha spinto per l’accordo trovato in sede Ue per la sospensione del regime agevolato.

In ogni caso la mossa polacca rischia di scoperchiare il classico vaso di Pandora. Altri potrebbero essere tentati di giocare la stessa carta. Basti pensare che in Grecia non si è mai smesso di pensare che la Germania avrebbe dovuto offrire un risarcimento per circa 289 miliardi di euro. L’Europa che seppe scegliere l’integrazione si specchia pericolosamente sull’immagine di sé stessa ai tempi della dolorosa e violenta scelta della divisione.

Dalla Polonia l’europeista Donald Tusk censura l’operato del suo governo. «Non c’è alcuna questione di riparazioni, è solo una mossa per accrescere i consensi», dice scagliandosi quella che non esista a bollare come «campagna politica anti-tedesca». Tusk oggi è leader di Piattaforma civica, partito di opposizione interna. Ma prima di questo ruolo ha rivestito quelli di presidente del Consiglio europeo e del Partito popolare europeo. Sa cosa si rischia, sa cosa c’è in gioco. Qualcun altro a Varsavia probabilmente no.

Monaco 1972, quando morì l’Olimpiade. La strage firmata «Settembre nero». Annabella De Robertis La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 settembre 2022.

«L’Olimpiade è morta con loro»: il 7 settembre 1972 «La Gazzetta del Mezzogiorno» dedica la prima pagina alla strage consumatasi a Monaco durante la XX edizione dei moderni Giochi olimpici per mano di un commando palestinese. Due giorni prima, i membri dell’organizzazione terroristica denominata “Settembre nero” hanno fatto irruzione nel villaggio olimpico: due atleti israeliani sono stati subito uccisi – dopo essere stati brutalmente torturati – e altri nove presi in ostaggio. In cambio della loro liberazione, “Settembre Nero” ha chiesto il rilascio di oltre 200 detenuti palestinesi. La Repubblica Federale Tedesca aveva scelto di alleggerire le misure di sicurezza per mostrare al mondo un Paese diverso da quello del 1936, anno in cui a Berlino si tennero le Olimpiadi di Hitler: le forze di polizia sono pertanto del tutto impreparate e male equipaggiate per affrontare un attacco terroristico. Una serie di errori strategici portano al tragico epilogo. Dopo fallite negoziazioni, un ultimo accordo prevede la partenza del commando per il Cairo con un aereo messo a disposizione dai tedeschi; all’aeroporto di Fuerstenfeldbruck, però, la polizia apre il fuoco, innescando un lungo conflitto a fuoco.

«I nove ostaggi israeliani sono tutti morti durante l’attacco della polizia bavarese ai fedayn nell’aeroporto militare di Fuerstenfeldbruck. Ma il bilancio è ancor più spaventoso. Un poliziotto tedesco ucciso ed altri feriti, il pilota di un elicottero in gravissime condizioni e solo stamattina sul tardi dichiarato fuori pericolo. Poi i terroristi: cinque morti, tre catturati; due subito, sulla tragica pista, dopo la furiosa battaglia e l’ultimo nelle prime ore del mattino dopo una lunga caccia all’uomo. Sono 17 dunque le vittime della folle giornata di odio e di sangue che ha sconvolto Monaco e sgomentato il mondo intero. Undici gli israeliani che hanno pagato con la vita l’illusione di poter vivere all’Olimpia Park un’avventura di pace».

«L’Olimpiade è morta con loro», si legge, dunque sulla Gazzetta. In realtà, il grande evento sportivo, mai interrotto neanche durante il sequestro, andrà avanti tra mille polemiche anche dopo la cerimonia funebre. Nell’ottobre 1972, i Fedayn palestinesi dirotteranno il volo Lufthansa 615 in servizio da Damasco a Francoforte e in cambio otterranno il rilascio dei due terroristi di Monaco arrestati dalle autorità tedesche. Ciò provocherà la definitiva reazione del Governo israeliano, che lancerà l’operazione “Collera di Dio”, con cui nei vent’anni successivi darà la caccia agli autori e ai mandanti della strage olimpica.

Daniel Mosseri per “il Giornale” l'1 settembre 2022.

A pochi giorni dal 50esimo anniversario del massacro di Monaco, Germania e Israele hanno raggiunto un accordo sulle compensazioni che Berlino verserà alle famiglie degli atleti uccisi. 

Era l'alba del 5 settembre del 1972 quando un commando di terroristi palestinesi di Settembre nero, un'organizzazione nata da una costola di al-Fatah, si infiltrò nel villaggio olimpico appena costruito presso la capitale bavarese dove si svolgeva l'ultima Olimpiade estiva celebrata in Germania.

La Repubblica federale tedesca aveva inteso i giochi come celebrazione della rinascita post-bellica; e per allontanare le memorie ancora vicine di un paese dispotico e militarizzato aveva allentato le misure di sicurezza attorno alle Olimpiadi. Al loro avvio, in tutto il villaggio olimpico c'erano 34 poliziotti di cui solo due armati: una circostanza che aiutò grandemente i terroristi nella loro impresa. 

Dopo la tortura e l'uccisione di due atleti e il mancato intervento di commando israeliani messi a disposizione dalla premier israeliana Golda Meir ma respinti dal cancelliere tedesco Willy Brandt, la vicenda si concluse in un bagno di sangue dopo l'intervento, il 6 settembre, della polizia tedesca: morirono anche gli altri 9 atleti-ostaggio, 5 terroristi e un poliziotto.

L'accordo siglato ieri permetterà al capo di stato tedesco Frank-Walter Steinmeier di ricordare le vittime di Monaco assieme al suo omologo israeliano Isaac Herzog, la cui presenza in Germania non era confermata. Herzog non avrebbe potuto recarsi alla cerimonia contro la volontà dei familiari degli atleti e soprattutto contro quella di Ilana Romano e Ankie Spitzer, due vedove che per mezzo secolo hanno combattuto contro le umiliazioni subite.

Dalla mancata sicurezza nonostante, rivelerà la stampa tedesca, i numerosi avvertimenti dei servizi alle autorità su come il terrorismo palestinese avrebbe potuto usare i giochi per un'azione o il permesso concesso a solo due agenti israeliani di mettere piede in Germania una volta che il commando di Settembre nero entrò in azione. O ancora l'uso di soli cinque cecchini contro un commando di otto feddayin o la non interruzione dei Giochi ad attacco iniziato.

Oltre ai 28 milioni di euro che andranno agli eredi degli sportivi massacrati, l'accordo prevede, scrive la dpa, «la rivalutazione degli eventi da parte di una commissione di storici tedeschi e israeliani, la divulgazione di documenti in conformità con la legge, l'assunzione di responsabilità». 

«Siamo lieti e sollevati hanno commentato Herzog e Steinmeier che sia stato raggiunto un accordo sul chiarimento storico, sul riconoscimento e sul risarcimento poco prima del 50° anniversario.

L'accordo hanno aggiunto i due capi di stato non può sanare tutte le ferite». Come la strage di ebrei sul suolo tedesco nelle Olimpiadi volute per cancellare la memoria di quelle celebrate dal nazismo nel 1936 a Berlino. 

(ANSA il 5 settembre 2022) - Ai parenti delle vittime di Monaco 1972 "chiedo perdono a nome della Germania". "Gli atleti israeliani non sono stati sicuri, non sono stati protetti, sono stati uccisi da terroristi nel nostro Paese. Il nostro Paese non è stato pronto". 

Lo ha detto oggi il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, alla cerimonia di commemorazione per la strage delle Olimpiadi di Monaco 1972. Il 5 settembre di 50 anni fa, 11 membri della squadra olimpica israeliana furono trucidati durante l'attacco del gruppo terroristico palestinese 'Settembre Nero' e il successivo fallimento dell'operazione di liberazione da parte della polizia tedesca. 

"Vi chiedo perdono come Capo di Stato di questo Paese e a nome della Repubblica federale di Germania, chiedo perdono per la mancanza di protezione degli atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco e per la mancanza di chiarimenti successivi su come sia stato possibile quello che è successo", ha detto Steinmeier, sottolineando così anche l'importanza di un ulteriore chiarimento dei fatti del 1972, previsto dal nuovo accordo con i familiari degli uccisi. 

Alla celebrazione per i 50 anni della strage del 1972, a Fuerstenfeldbruck, Steinmeier ha parlato alla presenza del presidente israeliano Isaac Herzog e dei parenti delle vittime. Steinmeier li ha ringraziati: "senza tutti voi, senza i parenti, senza la presenza dello Stato di Israele, non potrei immaginare una commemorazione dignitosa". Il presidente tedesco ha sottolineato come la Germania abbia nel 1972 tradito l'incredibile fiducia data da chi, da Israele, era venuto a partecipare ai Giochi Olimpici nel "paese dei colpevoli dei crimini contro l'umanità della Shoah". 

Nel suo discorso Steinmeier ha sottolineato come nel 1972 la Germania dell'Ovest sognasse di presentarsi al mondo come un nuovo paese democratico e pacifico, facendo dimenticare le Olimpiadi di Berlino 1936. Questo sogno, si è invece trasformato in un incubo. Steinmeier ha anche ricordato il poliziotto tedesco ucciso durante il fallito tentativo di liberazione degli atleti israeliani. Pochi giorni fa Berlino ha annunciato un accordo di risarcimento di 28 milioni di euro ai parenti delle vittime e la creazione di una commissione di storici tedeschi e israeliani che dovranno analizzare di nuovo quanto accaduto.

Monaco ‘72, 50 anni fa il massacro dei terroristi di Settembre nero. Le scuse della Germania: «Sbagliammo tutto». Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.  

Cinquant’anni dopo l’attacco agli atleti israeliani alle Olimpiadi, Berlino offre agli eredi 28 milioni 

5 settembre 1972: un terrorista palestinese su un balcone del Villaggio olimpico

Le Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972 si volevano come i «giochi della gioia». Nelle intenzioni della Repubblica Federale sorta dalle ceneri del nazismo, avrebbero dovuto far dimenticare l’unico precedente in terra tedesca, quelle cupe e marziali del 1936 a Berlino che avevano celebrato la gloria del regime hitleriano. 

Invece diventarono e passarono alla Storia come i «giochi del terrore». 

La mattina del 5 settembre, un gruppo di otto terroristi palestinesi di «Settembre Nero», approfittando delle misure di sicurezza volutamente lasche per dare un’immagine di rilassata serenità, fece irruzione nel villaggio olimpico e prese in ostaggio undici atleti e tecnici della delegazione israeliana. 

Due di loro vennero uccisi quasi subito, perché provarono a opporre resistenza. Fu solo il prologo del massacro. 

Meno di ventiquattrore dopo, un maldestro tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca, che sulla pista dell’aeroporto di Fürstenfeldbruck aprì il fuoco contro i terroristi mentre cercavano di portare gli ostaggi su un aereo che avrebbe dovuto condurli al Cairo, finì in tragedia, causando la morte di tutti gli atleti israeliani, un poliziotto e cinque palestinesi. 

Eppure, tra polemiche e proteste, le Olimpiadi continuarono. 

Sono passati esattamente cinquant’anni. 

E questa mattina, nello stesso scalo bavarese dove si consumò il dramma, il presidente della Repubblica Federale, Frank-Walter Steinmeier, chiederà per la prima volta ufficialmente scusa a nome della Germania per tutti gli errori compiuti allora e soprattutto per il lungo rifiuto delle autorità tedesche di fare piena chiarezza sui fatti e riconoscere le proprie responsabilità, indennizzando adeguatamente i parenti delle vittime. 

Ad ascoltarlo ci saranno il capo dello Stato d’Israele Yitzhak Herzog e i rappresentanti delle famiglie, che per anni hanno condotto una lunga battaglia legale contro Bonn e poi Berlino scontrandosi contro un muro di gomma. Un accordo è stato infatti raggiunto, dopo che questi avevano minacciato di boicottare la cerimonia, gesto che se messo in pratica avrebbe costretto anche Herzog a disertare. 

Dopo lunghe trattative, lo Stato tedesco ha offerto di pagare a parenti ed eredi degli atleti uccisi 28 milioni di euro, di cui 22 milioni saranno versati dal governo federale, 5,5 milioni dal Land della Baviera e 500 mila dalla città di Monaco. 

Ma ben oltre il denaro, sono il risarcimento morale e l’ammissione di una condotta tedesca imperdonabile prima, durante e dopo i fatti a chiudere in ritardo una ferita che ha continuato a sanguinare per mezzo secolo. 

Già prima dell’inizio delle Olimpiadi, infatti, le autorità tedesche avevano ignorato gli avvisi dei servizi israeliani sulla possibilità concreta di un attentato. 

Quando poi l’attacco ebbe luogo, rifiutarono ogni offerta di aiuto da parte di Tel Aviv, che aveva inviato anche una squadra di teste di cuoio specializzate nella liberazione di ostaggi. 

Come ricorda Zvi Zamir, allora capo del Mossad, che seguì personalmente tutte le fasi del dramma, «ogni nostra proposta o obiezione venne respinta, non ci fu alcun tentativo di salvare vite umane, l’unica cosa che volevano era mettere in qualche modo fine alla cosa per poter continuare i giochi». Invece, sulla pista dell’aeroporto a sparare furono unità della polizia bavarese, mal equipaggiate e che non avevano mai affrontato un attacco terroristico. Meno di tre mesi dopo, al danno si aggiunse la beffa: nella trattativa che seguì il dirottamento di un aereo Lufthansa da parte di un altro gruppo palestinese, il governo tedesco liberò i tre terroristi sopravvissuti, che volarono a Tripoli dove vennero accolti come eroi da Gheddafi e da migliaia di persone in delirio. 

Il peggio venne dopo, quando per anni ministri e burocrati tedeschi reagirono con arroganza e fastidio alle richieste dei familiari, offrendo solo nel 2002 un indennizzo di 5 milioni come gesto umanitario e rifiutando di ammettere errori, negando l’accesso a documenti e cartelle mediche, cercando di nascondere tutto sotto il tappeto. 

Come scrive Klaus Hillenbrand sulla Taz, «nessuno si dimise, non ci fu alcuna commissione d’inchiesta, alcuna autocritica e soprattutto nessuno si è mai scusato. Abbiamo dato l’impressione che la vita di queste persone non avesse troppo valore. Era tempo di correggerla».

Monaco 50 anni dopo. Il 5 settembre 1972 un commando palestinese entrò in azione alle Olimpiadi bavaresi e massacrò undici atleti israeliani. Il Cio decise che i Giochi dovessero andare avanti. Fiamma Nirenstein il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

Avrebbe dovuto essere l'Olimpiade che cancellava quella delle svastiche nel 1936; a meno di un trentennio dalla Shoah, la Germania Occidentale stabiliva che il motto sarebbe stato «i Giochi felici». Questa «felicità» per cui i controlli furono diminuiti e le informazioni (che pure riguardavano la banda Baader Meinhof , oltre ai palestinesi) diluite, fu una delle ragioni che condusse al massacro antisemita di Monaco di Baviera. Alle quattro di mattina del 5 settembre 1972 otto terroristi coi Kalashnikov e le granate, membri di Settembre Nero, affiliato dell'Olp, su ispirazione di Abu Mazen (sì, lo stesso che oggi è il presidente dell'Autorità Palestinese) e di Abu Yihad, il vice di Arafat, fecero irruzione nelle stanze in cui 11 atleti israliani riposavano. Due che si opposero lottando, Moshe Weinberg e Yosef Romano, furono uccisi subito. Dire quello che accadde nelle ore successive in quelle stanze e sul breve spazio prospicente non somiglia a un film d'azione ma da un lato al più orribile massacro, che condusse alla morte disumana degli undici sportivi, uno fu perfino evirato. E dall'altro a un balletto senza senso di decisioni mancate, di conferenze stampa degli assassini che mangiano e ridono per i fotografi, senza che le forze dell'ordine tedesche cerchino di fermarli. In un film una poliziotta tedesca flirta con un terrorista, mentre dentro le stanze gli atleti vengono fatti a pezzi. 

I palestinesi comunicarono che il loro scopo era liberare 234 prigionieri palestinesi in Israele e, in Germania, i leader della Baader Meihof. Anche questo attentato, come quello che a Roma uccise il bambino Stefano Tache alla Sinagoga di Roma nel 1982, era stato concepito da Mohammad Daoud Oudeh, «Abu Daud»: il terrorista ha raccontato come la cosa gli balenò in un caffè della capitale, e di come addestrò in Libia i palestinesi. Lui stesso si stabilì, pronto, a Monaco. 

Durò 19 ore il balletto con cui la Germania, invece di bloccare a ogni costo l'orrore contro gli ebrei sulla sua terra, fece di tutto per tenere basso il volume, cosicché il terrore risuonò alto nel mondo. La Germania non consentì agli israeliani di far intervenire gli uomini di Ehud Barak allora capo dell'unità speciale Saieret Matkal; confusi, incerti, inventarono un piano di trasporto in elicottero a una base aerea Nato per evacuare terroristi e ostaggi, e causarono la strage definitiva di tutti gli ostaggi, oltre a uccidere cinque terroristi e un ufficiale tedesco. 

Tre terroristi catturati furono liberati in uno scambio che coinvolgeva, guarda caso, un aereo della Lufthansa. Fantastico ancora, a ripensarci, che con un lacrimoso discorsetto di circostanza Avery Brundage, presidente del Comitato Olimpico, spiegasse che le Olimpiadi non sarebbero state interrotte. Di nuovo a Monaco si andava avanti sul corpo straziato del popolo ebraico, e così ha fatto per anni anche il Cio. La solitudine è durata nel tempo nel rifiuto alle famiglie dei trucidati che ogni Olimpiade dovesse contemplare una cerimonia in memoria. Schultz ha adesso finalmente trovato un accordo per una ricompensa che testimoni la responsabilità tedesca, e le famiglie degli uccisi sono in visita col presidente Herzog per commemorare il 50° anniversario. Stravolta non sarà affondato nella burocrazia, nell'occultamento dei documenti legati alla storia, nella sostanziale naturalezza con cui si guarda spargere il sangue dei cittadini israeliani ed ebrei innocenti. 

Mentre scriviamo, ci giungono le notizie di un attentato a un autobus di linea israeliano con sette feriti. Allora, al centro stampa delle Olimpiadi su 14 schermi, 11 mostravano le gare e 3 l'edificio del sequestro in diretta; 900 milioni di persone nel mondo hanno guardato l'evento. I terroristi sequestrarono i video di tutto il mondo e li fecero loro. Un magnifico successo. Non hanno più smesso. Nel 1968 c'erano circa 11 gruppi terroristici internazionali. Dopo il massacro di Monaco, salirono a cinquanta. Ora, sono centinaia. E mentre da subito, per iniziativa di Golda Meir, Israele prese la decisione di impegnare tutta se stessa per affrontare questa piaga, l'attacco è sempre uno dei peggiori pericoli che il mondo corre.

I 50 anni dalla strage dell'olimpiade di Monaco. Piccole Note il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il 5 settembre ricorrevano i cinquant’anni della strage di Monaco, l’attacco al Villaggio olimpico da parte dei terroristi di Settembre nero che costò la vita a 11 atleti israeliani, due uccisi dai terroristi e gli altri morti nel corso di una disastrosa operazione di salvataggio da parte delle teste di cuoio tedesche. 

L’anniversario è stato ricordato con la solennità del caso, in una cerimonia alla quale hanno assistito anche i presidenti della Germania e di Israele. Nella commemorazione si è ovviamente sorvolato sulle tante ombre che ancora aleggiano su quella triste vicenda, ma è bene ricordarne alcune perché istruttive delle dinamiche del Terrore e del contro-Terrore.

Così ripubblichiamo una vecchia nota del nostro sito, del 23 luglio 2012, che ne accennava alcune, in particolare la strana prossimità dei neonazisti tedeschi con la cellula terroristica palestinese.

Il Corriere della Sera del 23 luglio riprende un’inchiesta apparsa su Der Spiegel dedicata alla strage di Monaco del ’72, che getta una luce nuova sull’eccidio (undici atleti israeliani uccisi nel villaggio olimpico dai terroristi di Settembre nero).

«Documenti inediti – rivela Der Spiegel – dimostrerebbero come i tedeschi abbiano sottovalutato una soffiata arrivata da un informatore libanese e abbiano usato i decenni successivi alla strage per coprire gli errori commessi. Dalle prime ore dopo il massacro, i resoconti ufficiali descrivono i palestinesi di Settembre Nero come un commando che ha condotto l’operazione con ‘precisione’”.

“L’obiettivo era cercare di dimostrare che era stato fatto tutto il possibile, che il raid era troppo ben congegnato. In realtà i servizi segreti sono consapevoli – scrive Der Spiegel – che il gruppo era tanto impreparato da non riuscire quasi a trovare delle stanze d’albergo a Monaco: non riuscirono a prenotare e la città era invasa per l’Olimpiade, così furono costretti a stare in hotel diversi”.

“Un mese fa, sempre la rivista tedesca, ha rivelato che i palestinesi furono assistiti da un neonazista locale. Willi Pohl li ha aiutati a procurarsi i passaporti falsi e ha scorrazzato Abu Daoud, il capo che aveva pianificato il raid, in giro per la Germania”.

“Due mesi prima dell’attacco un telex della polizia di Dortmund aveva segnalato i rapporti tra Pohl e Daoud. Il messaggio era intitolato: ‘Presunta attività cospiratoria di terroristi palestinesi’. Pohl fu arrestato solo nell’ottobre del 1972, mentre si nascondeva nella casa di un ex ufficiale delle Waffen-SS, in valigia aveva un arsenale: tre kalashnikov, munizioni, tre pistole, sei granate”.

“Adesso che è diventato un romanziere di successo – scrive polizieschi con lo pseudonimo Willi Voss – sostiene di essere stato usato ‘inconsapevolmente’ nell’organizzazione del raid al villaggio olimpico”.

“Secondo l’inchiesta di Der Spiegel i servizi di sicurezza tedeschi avrebbero ignorato un dispaccio proveniente dall’ambasciata tedesca di Beirut che preannunciava l’operazione. E, un altro segnale d’allarme, proveniente stavolta dall’Italia: un articolo pubblicato sulla rivista Gente il 2 settembre avvertiva che terroristi di Settembre Nero progettavano «un’impresa clamorosa ai Giochi”.

Titolo dell’articolo «Monaco ’72, quarant’anni di bugie. Il dossier nascosto dai tedeschi».

Abbiamo messo a posto un pochino l’articolo di Piccolenote che, riportando l’originale del Corriere della Sera, ne conservava alcune  piccole tortuosità. Interessante, in questa vicenda il ruolo dei neonazisti, sia di Pohl  che dell’ex ufficiale che lo nascose, particolare che fa intravedere una rete di ex nazisti operanti allora in Germania (e altrove). 

All’articolo originale ci permettiamo di aggiungere che la stralunata giustificazione di Pohl fu creduta dai giudici, dal momento che fu condannato a soli due anni per possesso illegale di armi per poi diventare un informatore della Cia. 

Von Braun nel suo ufficio alla Nasa. Dietro di lui i modelli dei missili da lui progettati dalle Vi e V2 all’Apollo 11

Tale arruolamento non è un caso: gli ex nazisti sono stati utilizzati massivamente dall’Agenzia, che hanno usato questa rete per contrastare il comunismo in Europa, almeno questa la motivazione ufficiale (nella nota alla quale rimandiamo si accenna anche alla rete di opposizione ucraina controllata dalla Cia dell’era sovietica, guidata anch’essa – come rivelato da un’inchiesta di un media americano – da un ex criminale di guerra nazista).

Particolare curioso anche il relativo successo letterario di Pohl, che lo associa ad altri terroristi che hanno goduto di tale sorte, come ad esempio Cesare Battisti, terrorista rosso la cui penna è stata molto apprezzata dagli editori transalpini. La militanza in certe reti evidentemente porta fortuna..

Il dubbio sopra Berlino. Fallito il modello Merkel, la Germania non ha una nuova visione. Carlo Panella su L'Inkiesta il 18 Agosto 2022

Ormai il pluridecennale modello tedesco basato su bassi costi energetici e ipertrofico export non funziona più. Il Cancelliere Scholz non ha individuato mercati alternativi per sopperire al calo delle esportazioni in Russia e in Cina. Ed è costretta a rincorrere l’emergenza con provvedimenti tampone. Questa incertezza rischia di avere un impatto negativo sull’Europa e sull’Italia

È ormai patrimonio comune in Germania un giudizio durissimo sulle politiche di Angela Merkel, rivelatesi disastrose a partire dalla sua fiducia strategica nei commerci e nelle buone relazioni con la Russia di Vladimir Putin e con la Cina di Xi Jinping, per finire con una miope politica energetica largamente dipendente dalla Russia che oggi ha conseguenze micidiali sulla economia tedesca. È contemporaneamente anche diffusa una radicale diffidenza nella leadership del nuovo Cancelliere Olaf Scholz che appare scialba, indecisa e persino ipocrita quanto a una Ucraina alla quale gli armamenti tedeschi vengono forniti col contagocce. 

In realtà però Olaf Scholz paga il prezzo politico di un vuoto strategico che non è non solo suo, ma che riguarda tutto il sistema Germania, in tutte le sue componenti e che è ingiusto attribuire solo alla sua leadership. Il fatto è che è che, fallito il pluridecennale modello tedesco basato su bassi costi energetici e ipertrofico export (in violazione aperta ma mai sanzionata dei parametri di Maastricht), la Germania brancola nel buio. Non ha un modello economico alternativo. Addirittura non ha neanche un rigassificatore per aprire nuove linee di rifornimento di metano dal Golfo o dall’Africa. Men che meno non ha mercati alternativi per sopperire al calo delle esportazioni in Russia e in Cina. È costretta a rincorrere l’emergenza con provvedimenti tampone. Non ha una nuova visione.

Un quadro sconcertante che porta a un enorme impatto negativo sull’Europa e sull’Italia. In questo contesto l’allarme è diffuso e Clemens Fuest, presidente dell’Ifo che monitorizza le aspettative per il futuro di 9.000 aziende tedesche, lo ha così sintetizzato: «La Germania è alle soglie della recessione». La ragione di tanto pessimismo è presto detta: nel secondo trimestre del 2022 il Pil tedesco è stato stagnante rispetto al primo trimestre  (in Italia invece è aumentato dell’1%) e secondo il FMI, su base annua si incrementerà solo dell’1,2%, contro il 3,4% dell’Italia. Le ragioni della stasi economica di quella che è stata per sessanta anni la locomotiva d’Europa sono note: la crisi di approvvigionamento di metano conseguente all’invasione russa dell’Ucraina, le difficoltà nei rifornimenti di componentistica, non solo per il settore automobilistico, e la diminuzione dell’export tedesco in Russia (e Cina). Tutti elementi non congiunturali, ma ormai strutturali.

Il risultato di queste interazioni è stato efficacemente sintetizzato da Robert Hoeck, ministro Verde dell’Economia e dell’Ambiente che ha liquidato la fine di un sistema economico tedesco basato sull’importazione di energia a basso costo: «Il nostro modello energetico è fallito e non tornerà più». 

Per suggellare questa affermazione Hoeck ha annunciato una nuova tassa di 2,4 centesimi per Kilowattora a carico dei consumatori i cui proventi serviranno a non fare fallire le aziende tedesche di distribuzione del metano i cui bilanci sono devastati. Una crisi che rischia di innescare un effetto Lehman Brothers sull’economia tedesca e che ha spinto il governo tedesco al salvataggio di Uniper, la principale importatrice di metano russo, con l’acquisto del 30% delle azioni e con un prestito di 7,7 miliardi di euro in azioni convertibili più una estensione sino a 9 miliardi di euro della linea di credito del gruppo con la banca statale Kfw.

Dunque, il governo tedesco ha deciso di percorrere la strada impopolare di riversare i costi della crisi dei grandi gruppi di distribuzione dell’energia sui consumatori e sulla fiscalità generale, con un incremento ulteriore dell’inflazione che è già all’8,9%. Non stupisce in questo quadro che ben il 66% dei tedeschi sia favorevole alla apertura del metanodotto North Stream 2 e quindi di fatto alla fine delle sanzioni contro la Russia. Un segnale politico pericoloso. 

Una frode fiscale inguaia Olaf Scholz. La polizia ha già sequestrato le sue mail. Si indaga su possibili favori da parte di esponenti dell'Spd di Amburgo tra il 2011 e il 2018, quando era sindaco. Lui: niente da nascondere. Manila Alfano il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Non è un buon momento per Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, alle prese con un vecchio scandalo politico che ritorna a perseguitarlo e rischia di macchiare anche lui. Non bastasse, deve anche fare i conti con i sondaggi del suo partito, l'Spd in picchiata al 18 per cento. La polizia tedesca ha esaminato le e-mail del cancelliere dal 2015 in poi, nell'ambito delle indagini sul caso «CumEx Files», una frode fiscale commessa da alcune banche. I fatti risalgono a quando Scholz era ancora sindaco di Amburgo, carica che mantenne fino alla sua nomina nel 2018 a ministro delle Finanze nel governo di Angela Merkel. «Non c'è nulla da nascondere», ha negato lui.

Il portavoce del governo Steffen Hebestreit ha confermato intanto che Scholz tornerà a dichiarare davanti alla commissione d'inchiesta di Amburgo. In questa trama, in cui si è vista coinvolta la banca, gli operatori di Borsa utilizzavano una lacuna nella legge per scambiare azioni a grande velocità tra varie parti nel momento in cui si pagavano i dividendi, al fine di ricevere dal Fisco restituzioni di imposte che non avevano pagato. Per molto tempo non è stato chiaro se lo scambio di Cum-Ex significava semplicemente sfruttare un buco nella normativa o se invece è un reato. L'anno scorso il Tribunale Supremo della Germania ha stabilito che la manovra è illegale, cosa che ha dato luogo ad una serie di cause. Lo scandalo si è complicato per il ritrovamento di una grande somma di denaro in contanti nel domicilio di uno dei compagni di Scholz nell'Spd, l'ex deputato Johannes Kahrs. Secondo Norbert Hackbusch, della Linke, i risultati delle indagini di cui dispone la commissione mostrano che sono stati trovati oltre 200mila euro in contanti nella cassaforte di Kahrs. La Procura non ha sequestrato i soldi perché non è illegale accumulare somme in contanti, gli osservatori considerano il caso Kahrs dubbio, come minimo, e di fatto sta aggiungendo non poco imbarazzo nel partito.

Ma cosa c'entra il Cancelliere? La commissione parlamentare d'inchiesta tenta di chiarire se ci sia stata qualche influenza politica nelle decisioni fiscali durante il mandato di Scholz come sindaco di Amburgo.

Poco dopo le riunioni tra Scholz e il comproprietario della banca Warburg, Christian Olearius, le autorità fiscali rinunciarono inizialmente a riscuotere imposte per decine di milioni di euro. Più tardi, tuttavia, la banca dovette restituire oltre 176 milioni di euro in imposte erroneamente restituite, dopo una sentenza giudiziaria. Nella sua prima apparizione davanti alla commissione dell'aprile 2021, Scholz ha negato qualunque influenza politica nel caso. «Il cancelliere tedesco Olaf Scholz non sapeva niente dei 200.000 euro in contanti trovati in una cassetta di sicurezza dell'ex deputato Spd Johannes Kahrs», ha ribadito il portavoce del governo.

Gli inquirenti stanno cercando di scoprire se le autorità, incluso Scholz, abbiano fatto pressioni sugli organi fiscali comunali affinché non riscuotessero le tasse oggetto dello schema. Karhs è indagato per sospetto di favoritismi. A settembre è stato perquisito il suo appartamento e, come si è saputo ora attraverso gli archivi, è stata trovata la cassaforte. È certo che non si può stabilire alcun collegamento tra la banca e il denaro ritrovato, ha detto Hackbusch, ma ha aggiunto che le agende di Olerarius mostrano che Kahrs ha realizzato gestioni per lui, pur sapendo che «era indagato per sospetta evasione fiscale grave». Secondo questi diari, Kahrs fu anche colui che agevolò le riunioni del banchiere con Scholz nel 2016 e nel 2017. 

Roberto Giardina per italiaoggi.it il 27 luglio 2022.

Prigioniero in Germania. È la prima volta, dopo decenni di vita da emigrato, che ho questa sensazione. Aeroporti presi d'assalto da decine di migliaia di vacanzieri, come ogni anno, ma in questa estate i voli vengono cancellati, manca il personale di terra, si minacciano scioperi, si attende per ore ai controlli dei bagagli, se li consegni non sei sicuro di trovarli all'arrivo. 

Grazie al biglietto a 9 euro valido per un mese, a giugno, luglio e agosto, in treno si viaggia in piedi e la Deutsche Bahn, le ferrovie, è in crisi, vengono cancellati migliaia di collegamenti. Un tempo scendevo in Italia con l'auto, ma per il prossimo week end sono annunciate code di decine di chilometri. Le autostrade sono in rifacimento, si rimane imbottigliati nei cantieri. 

Certamente, avviene anche altrove, a Parigi, a Bruxelles, e a Londra, negli aeroporti si sfiora il caos, ma non è tutto un paese a rischiare la paralisi. La Germania paga il prezzo dell'ossessione per il bilancio in pareggio a tutti i costi, il risparmio imposto anche ai suoi partner europei. Gli investimenti urgenti sono stati rinviati, le ferrovie sono antiquate, come ho già scritto, i treni non sono puntuali, gli Ice, i treni superveloci, hanno trent'anni. 

I nostri Freccia Rossa sono più moderni, comodi, eleganti, e costano la metà. Le Autobahnen, le autostrade, anche quelle costruite dopo la riunificazione, non hanno retto al traffico. Uno Streik, lo sciopero, era in passato un evento rarissimo, oggi i tedeschi hanno imparato a incrociare le braccia. Agitazioni che andavano previste e prevenute, i dipendenti chiedono aumenti per fronteggiare l'inflazione.

I responsabili del nuovo aeroporto di Berlino, nato vecchio, dichiarano che è andata bene in confronto agli altri scali. Tutto è relativo, bisogna intendersi sul concetto di normalità. Vengono cancellati non più di cinque voli al giorno in media, e il 45% è puntuale. Si vede che a me è andata male. Il 19 giugno sono arrivato in largo anticipo, il tassista mi ha lasciato agli arrivi, sostenendo che alle partenze sarebbe rimasto imbottigliato.

Ho scoperto che le scale mobili sono solo in discesa, e c'era fila ai tre ascensori che accoglievano pochi passeggeri alla volta. Dovevo andare al gate A38, cioè l'ultimo, poi spostato all'A7, andata e ritorno pari a un chilometro e mezzo, e i tapis roulant non funzionano da un anno e mezzo. Poco male, anche se l'aria condizionata è simbolica. Poi il volo è stato rimandato, quindi cancellato, dopo cinque ore di attesa, sono tornato a casa, ma mancavano i taxi.

Un caso? No, l'aeroporto si trova per pochi chilometri nel Brandeburgo, e solo 500 tassisti del land sono autorizzati a prendere i passeggeri, quelli di Berlino non si possono fermare, tornano vuoti. Mio figlio è venuto a trovarmi la settimana scorsa, il volo da Roma giovedì è stato cancellato, venerdì è partito con grande ritardo alle 22, invece che alle 17, ma l'aeroporto di Berlino chiude alle 23,30. È riuscito ad atterrare fuori tempo massimo a mezzanotte meno dieci, e ha atteso la scaletta per mezz'ora, eppure gli addetti sapevano da un paio d'ore del volo in ritardo.

Non ho diritto di lamentarmi. Altrove va peggio. All'aeroporto di Bonn/Colonia, un passeggero ha atteso per sette ore al controllo dei bagagli a mano, la fila cominciava già fuori dallo scalo. Quasi tutti hanno perso il volo, o le coincidenze. Vacanze rovinate. Stessa scena a Düsseldorf. Il responsabile dello scalo si difende: non è colpa mia. Di chi allora? Manca il personale di terra, e le compagnie non avevano previsto che dopo la pandemia i tedeschi avessero voglia di partire. I voli sono al completo. Le ferrovie non avevano previsto che con i biglietti a nove euro i pendolari sarebbero rimasti a terra.

Venerdì cominciano le grandi vacanze in Baviera e nel Baden-Württemberg e quasi tutti partiranno in auto per il Sud. E la Lufthansa annuncia scioperi in agosto. I dipendenti chiedono aumenti del 9,5%, almeno 350 euro a testa, l'azienda ne offre 150 fino a Natale, e poi aumenti del 2. Per fortuna a Berlino in estate fa fresco. I berlinesi dicono di no, ma tutto è relativo per me nato a Palermo.

Droga dello stupro al party Spd: 9 donne denunciano i sintomi. Francesca Galici il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Alla festa dell'estate svoltasi vicino alla cancelleria era presente anche Olf Sholz: mancanza di memoria e vertigini i sintomi della droga utilizzata.

Il gruppo parlamentare Spd, i socialdemocratici tedeschi, organizza ogni anno la festa dell'estate, un appuntamento diventato una consuetudine che, però, quest'anno si è trasformato in un dramma per diverse donne. L'evento è stato organizzato mercoledì a Berlino, vicino alla cancelleria e, oltre ai deputati, ha partecipato anche il cancelliere Olaf Scholz insieme ad altre 1000 persone. Subito dopo la festa diverse donne hanno denunciato di essere state stordite come le cosiddette gocce KO, una droga liquida insapore facilmente mescolabile alle bevande. I suoi effetti principali sono la perdita di memoria a breve termine fino allo svenimento. Anche per questo rientra nel novero delle cosiddette "droghe dello stupro".

Sarebbero poco meno di 10 le donne che finora hanno segnalato sintomi compatibili con l'ingestione delle gocce KO. In un caso, un test ha certificato l'origine del malessere ed è stata sporta denuncia contro ignoti. "Suggeriamo a persone eventualmente colpite di sporgere subito denuncia alla polizia", si legge in una nota del direttore generale dell'Spd, pubblicata anche dalla Dpa, che conferma l'accaduto. Ovviamente è scattata l'indagine della polizia per aggressione aggravata. L'obiettivo è individuare i responsabili, quindi per ora la denuncia è contro ignoti.

La prima a segnalare il fatto è stata una donna di 21 anni che si è sentita male, con vertigini e perdita di memoria, dopo aver partecipato alla festa. Secondo la polizia, la donna ha mangiato e bevuto ma non ha consumato alcolici. Intorno alle 21.30 ha accusato i primi sintomi, mentre la mattina dopo non riusciva a ricordare nulla della sera precedente. Entro la mattinata di oggi la polizia è venuta a conoscenza di altri quattro casi con sintomi simili. "L'apprensione è abbastanza forte", ha detto un portavoce del gruppo parlamentare socialdemocratico, mentre Katja Mast, funzionaria del gruppo, ha rivolto un invito su Twitter "a tutti gli interessati" a denunciare quanto avvenuto durante la festa di partito.

Finora si contano nove denunce, ma il portavoce dell'Sdp non ha escluso che vi siano altre vittime. In una e-mail indirizzata ai partecipanti alla festa estiva il Partito socialdemocratico ha condannato "un atto mostruoso che noi abbiamo subito denunciato alla polizia del Bundestag". La portavoce della polizia ha indicato che, comunque, non vi sono elementi che indicano che le donne siano state vittime di aggressioni. sessuali o furti.

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 7 Luglio 2022.

La «Goldene Kartoffel», la patata d'oro, è un premio negativo, da qualche anno assegnato in Germania ai media che si sono distinti per articoli o servizi dai toni apertamente o anche solo velatamente razzisti. Chi se ne rende responsabile, viene cioè bollato con l'antico stilema e luogo comune che da sempre accompagna i tedeschi: Kartoffel. 

A inventarselo è stata Ferda Ataman, 43 anni, tedesca di madre turca, giornalista attivamente impegnata contro ogni discriminazione e protagonista di campagne di denuncia molto aggressive verso ogni atteggiamento in odore di razzismo. Ora però la Goldene Kartoffel si sta rivelando il tubero della discordia nazionale.

A innescare una polemica che taglia trasversalmente la classe politica, spacca la coalizione del semaforo e suscita riserve perfino nella comunità musulmana, è la decisione del governo di nominare Ataman commissario federale contro la discriminazione, affidandole un compito di monitoraggio, protezione delle minoranze e, non ultimo, riconciliazione. Oggi il Bundestag è chiamato ad approvarne la nomina, ma l'esito non è scontato e la ratifica viene considerata come uno stress test per l'esecutivo del cancelliere Scholz.

«Chi insulta i tedeschi definendoli Kartoffel divide più che unisce e non può diventare commissario contro la discriminazione», dice Linda Teuteberg, deputata liberale, decisa a votare contro la sua stessa maggioranza. Secondo lei, «Ataman rappresenta una politica identitaria divisiva, diffama chi la pensa diversamente e si mostra incapace di differenziare». L'accusa insomma è che Ataman sia razzista al rovescio e che il suo Kartoffel sia uguale e contrario all'insulto «Kanake», tipica espressione dispregiativa dei tedeschi razzisti contro gli immigrati.

«Un'attivista di sinistra che attraverso pure provocazioni cerca di seminare discordia tra i gruppi sociali», dice un deputato della Csu bavarese. Ma anche un giornale progressista come la Süddeutsche Zeitung considera Ataman una «scelta sbagliata», a causa del suo approccio aggressivo e militante al tema. E cita l'assegnazione della patata d'oro del 2020 a Spiegel TV, «colpevole» di un servizio sui clan criminali arabi, che secondo la giornalista avrebbe avuto toni razzisti. «Chi ha visto il reportage può solo scuotere la testa», chiosa il giornale.

Che un problema esista, ne ha contezza anche l'interessata, visto che appena la nomina è stata resa ufficiale, ha ben pensato di cancellare ben 12 mila post molto aggressivi dal suo account Twitter, dove ha 33 mila follower, nel tentativo di addolcire la propria immagine. «Come nomina la trovo problematica», dice Ahmad Omeirate, musulmano, studioso di Islam e antisemitismo, secondo il quale Ataman indulge in stereotipi e linguaggi che «sono propri dei gruppi estremisti, a cominciare dai Fratelli musulmani» e si fondano sulla falsa convinzione che «la società occidentale sia per sé ostile all'Islam».

Qualcuno la difende, come il sociologo Albert Scherr, dell'Università di Friburgo, che ha lavorato con lei e definisce Ataman «intelligente, competente e non divisiva». Ma la patata, più che d'oro, è ormai bollente.

I documenti nella macchina e la pista dell'odio anti-turco. Daniel Mosseri il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il killer è un tedesco di origini armene. Nell'auto materiale su Ankara. Le tensioni tra immigrati.

«Siamo sotto shock per un gesto che ci riporta alla memoria l'attacco di Breitscheidplatz e anche perché non conosciamo le motivazioni di quanto è successo oggi». Nelle parole pronunciate dalla sindaca di Berlino, la socialdemocratica Franziska Giffey, c'è tutto lo sgomento di una Germania di nuovo alle prese con un incubo ricorrente: quello del terrore. Una paura che la mancanza di indicazioni rende solo più grave. Al mercatino di Natale di Breitschadplatz, la pista del terrorismo di matrice islamica era apparsa con chiarezza: i tedeschi hanno fatto i conti con un radicalismo di importazione spesso coltivato nelle numerose moschee del paese. Nel passato anche recente della Repubblica federale, si sono registrati scontri violenti infracomunitari: su tutti gli attacchi di nazionalisti turchi legati ai Lupi grigi della madrepatria a danno della comunità curda. La Germania, d'altronde, è un paese ad alto tasso di immigrazione. Nel 2021, secondo l'Ufficio federale di statistica (Destatis), 22,3 milioni di persone - ossia il 27,2% della popolazione tedesca - aveva «un background migratorio», come si dice in tedesco. E i numeri sono in salita, come riporta lo stesso Destatis ricordando che nel 2020 i tedeschi di origine straniera erano 21,9 milioni. Il dato non sorprende: al di là della molto contestata apertura delle frontiere ai profughi mediorientali decretata dall'ex cancelliera Angela Merkel nell'agosto del 2015, la Germania è la quarta economia globale e una meta ambitissima dell'immigrazione economica mondiale. È dunque fisiologico che alcune delle tensioni che esistono in altre aree del mondo si riverberino nel paese d'arrivo, soprattutto là dove la presenza di stranieri è più forte, nei Länder occidentali dove nel 2020 il 29,8% delle persone aveva un background migratorio contro il 9,1% nei territori dell'ex Ddr.

Ma se le tensioni fra curdi e turchi non fanno quasi più notizia, la violenza fra armeni e turchi rappresenterebbe un'amara conferma per le autorità tedesche. Nel dicembre del 2020, il vescovo di Colonia della Chiesa apostolica armena in Germania, Serovpe Isakhanyan, aveva scritto una lettera al governo della Renania Settentrionale-Vestfalia avvertendo che «circoli ultranazionalisti turco-azerbaigiani» stavano usando il conflitto nel Nagorno-Karabakh (una regione caucasica contesa da armeni e azeri) come un'opportunità per «trasferire il conflitto anche in Europa e incitare i loro sostenitori contro gli armeni locali». «Prendiamo particolarmente sul serio le minacce di questo gruppo violento e ultranazionalista, che generalmente persegue un'ideologia fascista, antisemita e anticristiana», aveva aggiunto preoccupato il vescovo. Un riferimento diretto alle minacce dei Lupi Grigi in Germania, considerati una delle più estese organizzazioni estremistiche nella Repubblica federale, contro la locale comunità armena. L'attacco di ieri potrebbe essere il segnale di una reazione violenta di uno squilibrato che ha preso di mira i passanti sul Ku'damm per manifestare il proprio odio contro Ankara e i suoi alleati azeri, anche perché - ha riferito all'Ansa la portavoce della polizia Anja Dierschke - «nell'auto, intestata alla sorella dell'uomo alla guida, sono stati rinvenuti alcuni cartelloni di quelli che si espongono alle manifestazioni, i cui contenuti fanno riferimento alla Turchia». Le autorità non escludono dunque la pista antiturca: in serata il Comando della polizia per le operazioni speciali (Sek) ha fatto irruzione nella casa di Gor H. con un ariete e un robot da ricognizione per trovare nuovi indizi su un possibile movente.

Dagospia il 6 maggio 2022. TOM LEONARD da dailymail.co.uk.

Al volante di una Volkswagen, BMW o Porsche, quando stipuli una polizza assicurativa con Allianz o anche solo assapori una pizza surgelata Dr Oetker o un biscotto Bahlsen Choco Leibniz, sappi che sei direttamente connesso a una azienda che si è ingrassata a causa della corruzione e della crudeltà nazista.  

I proprietari di tali aziende facevano parte di un gruppo di industriali che sostenevano il regime di Adolf Hitler. Nel febbraio 1933, subito dopo essere stato nominato cancelliere, Hitler convocò una riunione segreta dei più potenti industriali tedeschi , chiedendo loro di accumulare tre milioni di Reichsmark per la campagna elettorale del suo partito.

Le due dozzine di uomini d'affari presenti non esitarono a tirare fuori i loro libretti degli assegni. Molti sarebbero diventati i principali sostenitori del Terzo Reich, non solo tedeschi patriottici, ma membri impegnati del partito nazista e persino delle SS. Tipini che decorarono le loro dimore con dipinti rubati a ricchi ebrei inviati nei campi di concentramento.  

La narrativa convenzionale è che non erano in realtà nazisti, ma stavano semplicemente facendo il loro dovere di tedeschi. È anche generalmente accettato che, insieme al resto del paese, abbiano espiato la loro parte in uno dei capitoli più oscuri della storia. Incredibilmente, nessuno dei due presupposti – rivela un nuovo libro – è vero.  

Alcune delle famiglie più ricche della Germania oggi rimangono beneficiarie dell’attività di mostruosi collaboratori nazisti che non furono mai puniti e la cui orribile eredità continua a essere taciuta.  L'intera portata di questa terribile e persistente macchia sulla storia aziendale tedesca è esposta in Nazi Billionaires - The Dark History Of Germany's Wealthest Dynasties.  

Il suo autore, il giornalista finanziario olandese David de Jong, si concentra su alcuni dei peggiori trasgressori, cinque dinastie i cui prodotti sono ancora famosi in tutto il mondo: i Quandt della BMW; i Flick che un tempo controllavano la Daimler-Benz (ora Mercedes-Benz); la famiglia Porsche-Piech che controlla il colosso automobilistico Volkswagen; i von Fincks, finanziatori che hanno co-fondato Allianz, la più grande compagnia assicurativa del mondo; e gli Oetkers, il cui impero commerciale si estende dalla pizza surgelata del Dr Oetker alle torte.  

L'uomo che gestiva l'impero Oetker durante la seconda guerra mondiale era un ufficiale delle Waffen SS che si addestrava nel campo di concentramento di Dachau e riforniva le forze naziste di budino istantaneo. Non lo troverai scritto sull'etichetta di un vasetto di Fairy Sprinkles del dottor Oetker. 

De Jong scrive: 'I loro nomi adornano edifici, fondamenta e premi. In un paese che è così spesso elogiato per la sua cultura del ricordo e della contrizione, un riconoscimento onesto e trasparente delle attività in tempo di guerra di alcune delle famiglie più ricche della Germania rimane, nella migliore delle ipotesi, un ripensamento». 

Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia meritano parte della colpa, dice. Per motivi di "opportunità politica" e per contrastare la "minaccia incombente del comunismo", gli alleati vittoriosi hanno restituito la libertà alla maggior parte dei magnati tedeschi, il che ha permesso alla maggior parte di loro di camminare liberi.  

Anche i pochi che hanno trascorso alcuni anni in prigione sono tornati presto a gestire le loro attività. Ferdinand Porsche è ricordato come il designer dell'iconico Maggiolino Volkswagen e il nome di alcune delle più belle auto sportive. 

Fino a quando non è stato rivelato in un documentario televisivo nel 2019, la società da lui fondata ha taciuto sul fatto che avesse avuto un partner e co-fondatore ebreo, il pilota da corsa Adolf Rosenberger. L'omissione non era difficile da capire.  

Rosenberger aveva lasciato l'azienda nel 1935, costretto a vendere la sua partecipazione per una frazione del suo vero valore a Porsche e al co-fondatore Anton Piech, in base a una spietata politica nazista nota come "arianizzazione", progettata per impedire agli ebrei di possedere imprese.  

Quando Rosenberger è stato portato in un campo di concentramento, Porsche non ha fatto nulla per farlo rilasciare anche se, per fortuna, un altro dirigente della società lo ha fatto ed è fuggito senza un soldo negli Stati Uniti.  

Dopo la seconda guerra mondiale, la società rifiutò di risarcirlo, contestando la sua richiesta in tribunale. (Porsche ha anche rifiutato di alzare un dito per un altro collega ebreo che ha chiesto il suo aiuto ma è finito per morire nel campo di sterminio di Bergen-Belsen).  

Ferdinand Porsche divenne l'ingegnere preferito di Hitler e si unì al partito nazista. La sua azienda è passata dalla produzione di auto civili alla progettazione di armi e carri armati. Hanno utilizzato circa 20.000 lavoratori forzati o schiavi, portati dai paesi occupati o dai campi di concentramento.

La maggior parte erano donne, comprese le madri che hanno dovuto lasciare i loro figli in un asilo nido dove le condizioni, ha detto un pubblico ministero britannico, "sfuggono a ogni immaginazione".  

Il figlio e successore di Ferdinando, Ferry Porsche, divenne un ufficiale delle SS (in seguito affermando falsamente di essere stato costretto a unirsi a lui da Himmler) e, dopo la guerra, istituì una politica di reclutamento attivo di altri ex ufficiali delle SS nella compagnia.  

Uno è diventato il suo capo delle PR globali, mentre un altro - un comandante di carri armati delle SS che aveva massacrato 84 prigionieri di guerra statunitensi nel famigerato massacro di Malmedy - è stato nominato capo della promozione delle vendite. In una memoria del 1976, Ferry fece osservazioni antisemite su Rosenberger. 

Le famiglie Porsche e Piech ora valgono insieme $ 20 miliardi e controllano il gruppo Volkswagen, che comprende Bentley, Audi, Lamborghini, Seat e Skoda. 

Non hanno mai affrontato pubblicamente le attività dei loro antenati sotto i nazisti il che, data l'intensa pressione su aziende e individui nel Regno Unito e negli Stati Uniti per scusarsi per peccati storici molto più antichi e tenui, è uno stato di cose sorprendente.  

Invece, nel 2018 hanno creato la Ferry Porsche Foundation per rafforzare l'impegno dell'azienda nei confronti della responsabilità sociale. 

Sotto la pressione dell'opinione pubblica, ha finanziato uno studio dell'Università di Stoccarda sul periodo nazista dell'azienda che, sospettosamente, ha minimizzato i maltrattamenti di Rosenberger. 

Anche adesso, il sito web della Ferry Porsche Foundation non contiene alcuna biografia dell'uomo delle SS da cui prende il nome. 

Poi ci sono i Quandt, ancora più ricchi delle Porsche grazie a una partecipazione di controllo in BMW, Mini e Rolls-Royce, oltre a cospicui interessi chimici e tecnologici. 

Due degli eredi, Stefan Quandt e Susanne Klatten, fino a poco tempo fa erano la famiglia più ricca della Germania e hanno il controllo quasi maggioritario (47%) della BMW. (Un altro ramo della famiglia vale altri $ 18 miliardi.  

I fratelli sono nipoti dell'industriale Gunther Quandt la cui seconda moglie, Magda, era una "groupie" nazista che attirò l'attenzione di Hitler ma in seguito sposò il principale propagandista di Hitler Joseph Goebbels. 

Sia Gunther che suo figlio maggiore Herbert erano membri del partito nazista e molto più entusiasti della sua politica ripugnante di quanto non avessero mai ammesso, dice de Jong. Gunther si è affrettato a cacciare gli ebrei dai consigli delle sue compagnie non appena i nazisti hanno introdotto politiche antisemite. 

Quandt sfruttò anche "viziosamente" la politica di arianizzazione del regime, acquisendo varie società di proprietà di ebrei e altre sequestrate dai tedeschi nei paesi occupati per prezzi stracciati.  

Come i Porsche-Piech, la famiglia fece un uso massiccio di sfruttamento del lavoro: circa 57.000 lavorarono in condizioni spaventose nelle loro fabbriche. 

I Quandt costruirono anche il loro piccolo campo di concentramento in loco in modo da poter ospitare più lavoratori.

Paolo Valentino per corriere.it il 12 aprile 2022.

Quattro mesi fa Anne Spiegel era entrata a far parte del governo di Olaf Scholz , come donna-modello e speranza dei Verdi. Quarantenne, moderna, quattro figli piccoli, era la perfetta incarnazione di come fosse possibile conciliare carriera e famiglia. Ma la sua è stata una favola breve. 

Lunedì Spiegel ha annunciato le sue dimissioni dal ministero federale della Famiglia. È la prima crisi politica della coalizione del semaforo tra socialdemocratici, liberali e Grünen, che guida la Germania dallo scorso dicembre. Spiegel è stata costretta a lasciare per i gravi errori commessi nel suo incarico precedente, quando era ministra dell’ambiente nel Land del Nord Reno-Vestfalia.

Secondo recenti rivelazioni, durante le catastrofiche inondazioni dell’estate 2021, che causarono la morte di 135 persone nelle regioni renane, Spiegel sottovalutò infatti il rischio dell’alluvione prima e si dimostrò clamorosamente inadeguata nella gestione della crisi dopo, incapace di coordinare i soccorsi e perdendo di fatto il controllo della situazione. Ci sono perfino dubbi su dove si trovasse la notte del dramma.

Inoltre, alcuni Sms ai suoi portavoce nelle ore della tragedia mostrano che Spiegel sembrava preoccupata soprattutto della sua immagine.

La goccia che l’ha travolta è stata la rivelazione della Bild am Sonntag, che pochi giorni dopo il disastro, mentre ancora si contavano le vittime e le persone scavavano tra le rovine di casa, la ministra si concesse una vacanza di quattro settimane in Francia con la sua famiglia, interrotta soltanto per mezza giornata per visitare uno dei villaggi colpiti dalla catastrofe. 

Ma a precipitarne la caduta, moltiplicando la pressione esterna e interna al suo partito perché rassegnasse le dimissioni, sono state probabilmente le sue dichiarazioni di domenica sera, quando Spiegel ha convocato una conferenza stampa in un ultimo tentativo di salvarsi.

Con toni molto emotivi e ricchezza di dettagli personali, la ministra ha cercato di spiegare il perché si fosse decisa a partire in vacanza nonostante tutto, rivelando che il marito aveva avuto un infarto nel 2019 e non poteva più dedicarsi a tempo pieno ai figli, che la pandemia aveva stressato i bambini, che insomma la famiglia aveva urgente bisogno di una pausa per ritrovarsi e rilassarsi. E fin qui poteva starci.

Ma sottoposta a una raffica di domande la ministra ha anche aggiunto di aver assolto comunque i suoi doveri politici e istituzionali, prendendo parte in video a tutte le sedute del gabinetto di crisi del governo regionale, cosa che a una semplice verifica è risultata non vera. Non è chiaro se sia stata una cosciente bugia o il risultato dello stato emotivo della ministra, che durante l’incontro con i giornalisti ha spesso perso il filo, cercando l’aiuto dei suoi collaboratori e dando l’impressione di non rendersi conto che la cosa veniva filmata dalle televisioni. «È doloroso vedere qualcuno in quelle condizioni, a prescindere da ogni considerazione politica, ma in un ministero federale non può regnare questa confusione», ha commentato la Sueddeutsche Zeitung, secondo cui le dimissioni «erano necessarie».

L’uscita di scena di Anne Spiegel, una donna che per anni si è battuta per i diritti dei bambini e della famiglia, rilancia il Germania il dibattito sulla possibilità concreta di conciliare in generale lavoro e famiglia e in particolare quello sulla presenza di donne con figli ai livelli più alti della politica.

Nel caso specifico, con tutte le giustificazioni possibili, Spiegel si è dimostrata inadeguata alla sfida dell’incarico. Ma come scrive l’opinionista Florian Harms, «se vogliamo che ogni cittadino o cittadina della Repubblica possa assumere responsabilità pubbliche, oltre a pretendere competenza e integrità personale, dobbiamo anche essere più tolleranti di fronte a debolezze o errori. Questo significa, con tutte le critiche necessarie, anche comprensione per una responsabile politica che è madre di quattro figli, ha un marito malato a casa ed ha superato con danni la pandemia».

Uski Audino per “la Stampa” il 13 aprile 2022.

A quattro mesi dalla sua nascita il governo Scholz perde il primo pezzo. Lascia l'incarico la ministra della Famiglia Anne Spiegel, esponente dei Verdi e madre di quattro figli, nel corso di una resa dei conti a un tempo personale e politica.

Il motivo tecnico alla base delle dimissioni è la scelta di non rimandare le vacanze di quattro settimane in Francia con la famiglia nonostante l'emergenza estrema provocata dalla più catastrofica alluvione del secolo in Germania, con 134 morti accertati nella notte tra il 14 e 15 luglio scorso, soprattutto considerato il suo ruolo di ministra dell'Ambiente del Land della Renania-Palatinato. «È stato un errore protrarre così a lungo le vacanze e chiedo scusa» ha detto Spiegel in uno stato di evidente tensione emotiva durante una conferenza stampa domenica sera.

La ministra dei Verdi ha raccontato alle telecamere il suo precario equilibrio familiare: un marito malato di cuore, dopo un infarto subito nel 2019, tre bambini in età da scuola elementare e uno all'asilo, l'emergenza coronavirus con il suo portato di scuole chiuse e un triplo incarico professionale - come ministra della Famiglia, ministra dell'Ambiente e capolista alle elezioni del 2021 del suo Land. «Era troppo e questo ci ha portato come famiglia oltre il limite», ha ammesso. Avevamo bisogno di vacanze, mio marito non ce la faceva più, ha detto senza mezze parole. Se non tutti, in molti, l'avrebbero capita.

Forse non gli abitanti della valle dell'Ahr, la più colpita dalle esondazioni del piccolo ma ruggente fiume Ahr. 

Ma l'opinione pubblica avrebbe potuto accettare, se non perdonare, l'ammissione di colpa davanti al sovraccarico di impegni, tanto comune nelle donne in perenne equilibrismo tra carriera e famiglia. Inammissibile invece è mentire. Ed è su questo che la pressione politica e mediatica ora dopo ora si è fatta insostenibile.

La ministra Spiegel ha dichiarato sabato a Bild am Sonntag di aver seguito in video-conferenza dal luogo di vacanza le sedute dell'esecutivo di Magonza nella fase successiva all'alluvione in luglio. Per seguire da vicino le operazioni di salvataggio. In conferenza stampa domenica sera invece è stata pubblicamente smentita dai giornalisti che le hanno presentato i verbali di quelle riunioni dai quali risultava la sua assenza. Sbagliare è umano, mentire è diabolico. 

Soprattutto a certe latitudini. Più di un ministro in Germania è stato costretto alle dimissioni per questo, da ultima Franziska Giffey, ora sindaca di Berlino ed ex ministra della Famiglia, costretta a lasciare il suo incarico poco meno di un anno fa per aver mentito e cambiato versione dei fatti sulla sua tesi di dottorato. Ieri sono quindi arrivate le dimissioni. «Ho deciso di rimettere il mandato da ministra della Famiglia per la pressione politica» ha detto Spiegel. 

Accanto alle responsabilità personali e ai grossolani errori di autodifesa di Anne Spiegel si colloca però la partita politica quotidiana, fatta di colpi e contraccolpi.

Solo pochi giorni fa, infatti, la ministra dell'Ambiente dell'altro Land colpito dall'alluvione, il Nordreno-Vestfalia, è stata costretta alle dimissioni per una regione analoga: a poche ore dalla tragica esondazione l'esponente della Cdu Ursula Heinen-Esser era partita per Mallorca per festeggiare il compleanno del marito. I socialdemocratici ne avevano chiesto a gran voce le dimissioni, anche alla luce delle prossime elezioni del 15 maggio in Nordreno-Vestfalia.

«Heinen-Esser si è assunta la responsabilità perché era in vacanza dopo il disastro dell'inondazione, ma la signora Spiegel è ancora in carica, perché?» ha detto la ex ministra dell'esecutivo Merkel e presidente della Cdu in Renania-Palatinato, Julia Klöckner, al settimanale Spiegel. Che sullo sfondo si sia trattato anche di un regolamento di conti tra maggioranza e opposizione? Il partito più colpito, i Verdi, dopo la rovinosa conferenza stampa e l'ammissione della menzogna ha deciso di abbandonare la sua ministra, pur mostrando comprensione. «Anne Spiegel ha attraversato un momento estremamente duro dal punto di vista personale e incredibilmente difficile» ha detto la collega di partito e ministra degli Esteri Annalena Baerbock, a margine di una riunione a Lussemburgo.

«Oggi per lei non è solo un passo politico, ma anche personale che penso renda chiaro quanto possa essere brutale la politica» ha aggiunto Baerbock, la prima ad essere finita sotto i raggi-x per il suo essere madre ed esponente politica di punta. La Germania torna quindi a chiedersi «è consentito nei fatti alle donne di fare politica?».  

Merkel derubata del portafoglio in un supermercato di Berlino. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 25 febbraio 2022.

L’ex cancelliera si trovava in un negozio del quartiere Charlottenburg. Nel borsellino carta d’identità, tessera bancomat, patente e denaro in contanti. 

Angela Merkel è stata derubata mentre stava facendo la spesa giovedì mattina in un supermercato di Berlino. A quanto riferiscono i media tedeschi, l’ex cancelliera 67enne si trovava in un negozio nella Morsestrasse del quartiere Charlottenburg, accompagnata da «almeno» un agente di sicurezza. 

A quanto scrive la Bild, il borsellino — con carta d’identità, tessera bancomat, patente e denaro in contanti — si trovava all’interno della borsa di Frau Merkel, appesa al carrello. La polizia ha solo confermato che «una signora di 67 anni ha denunciato un furto presso il commissariato della Friedrichstrasse». La polizia di Berlino ha confermato al giornale che l’incidente è avvenuto intorno alle 11.40 di giovedì. Merkel non ha chiamato gli agenti dal negozio, ma si è recata nella vicina stazione di polizia per denunciare l’incidente. 

È possibile che il ladro si sia reso conto di chi fosse la vittima del furto solo quando si è trovato tra le mani i suoi documenti. Anche durante il primo lockdown, aveva fatto il giro del mondo la foto della cancelliera in fila con il carrello davanti alla cassa di un negozio, con in mano il bancomat. Tra gli acquisti frutta, verdura, un bagnoschiuma e anche alcune bottiglie di vino italiano.

L’affermazione del cibo italiano in Germania è l’ultima conquista del Novecento. VERONICA CIRILLO E FERNANDO D'ANIELLO su Il Domani il 07 febbraio 2022

Con Dieter Richter, autore di Con gusto, ricostruiamo prima la repulsione dei tedeschi e poi la riscoperta e l'affermazione della cucina italiana.

«Per digerire questa pizza ci vuole lo stomaco di un lazzarone». Non erano teneri i tedeschi e gli altri stranieri in viaggio in Italia verso il cibo italiano. Anzi: erano convinti che il cibo italiano fosse qualcosa di immangiabile. Così, se il Grand Tour in Italia è stato qualcosa che per secoli doveva essere presente nel curriculum di ogni intellettuale europeo che volesse definirsi tale, circostanza che segnava la centralità culturale del nostro paese, lo stesso non può dirsi per il lato gastronomico. Anzi: appena arrivati in Italia la stragrande maggioranza dei visitatori tedeschi cercava la cucina di casa, una osteria tedesca dove liberarsi dal cibo italiano.

È così che comincia la storia di oggi che i Barbari raccontano con il professor Dieter Richter, autore di Con gusto, libro uscito per la casa editrice Wagenbach, un'autentica istituzione per tutti quelli che, tedeschi o italiani, si interessano dei rapporti tra i due paesi. Dieter Richter, inoltre, ha all’attivo molti libri proprio sull’Italia ed è curatore di una mostra che aprirà i battenti a Monaco il prossimo ottobre dedicata al Vesuvio.

Puoi ascoltare il podcast direttamente qui o sui canali social dei Barbari.

STORIA DI UNA DIFFIDENZA

Una storia che comincia, dunque, con una diffidenza verso la cucina italiana. A guidare gli intellettuali tedeschi, e di tutto il Nord Europa, è una sorta di “nazionalismo gastronomico”, come lo chiama Richter: nell’Ottocento la Germania ancora non esiste come realtà politica unitaria e i primi liberali con l’idea di una unificazione nazionale s'incontrano proprio a Roma, nelle osterie dove si mangia tedesco, e forse sono tra i primi a esporre il tricolore tedesco, simbolo di quella unificazione che arriverà solo nel 1871 ma con le guerre di Bismarck ed escludendo l’Austria.

Passa un secolo e nel Novecento le cose cambiano. Richter ci accompagna tra le strade di Brema dove arriva il primo gelataio italiano. Con il suo carretto con i vari gusti era a suo modo un pioniere: convincere i tedeschi che fosse possibile (e non ci fosse nulla di male) mangiare per strada. Era iniziata, anche in Germania, la moda dello street food.

Che sarà inarrestabile con l’arrivo, dopo la Seconda guerra mondiale, dei Gastarbeiter, i lavoratori ospiti. A quel punto l’Italia è sinonimo di buona cucina, di clima mite e di vita tranquilla. Pizza e gelato s’impongono in pochi anni come espressione più tipica del made in Italy. È il fenomeno che Richter chiama la meridionalizzazione del Nord.

Non ne è esente nemmeno il ‘68: presi dal voler contestare le generazioni più anziane, accusate di aver quantomeno taciuto di fronte al Nazionalsocialismo, gli studenti decidono che persino la cucina vada de-nazionalizzata. Mangiare tedesco, in quegli anni, soprattutto a sinistra, è connivenza con il nemico. Sempre la casa editrice Wagenbach, ricorda Richter, pubblica un libro di ricette per le Comuni e le case occupate: gli spaghetti italiani non possono mancare.

Oggi il fenomeno si è in parte interrotto, perché la globalizzazione cambia la prospettiva e ne impone di nuove. Il gelato ad esempio si è internazionalizzato: non è più un fenomeno solo italiano o che deve necessariamente rimandare all’Italia, come aveva pensato l'inventore dello Spaghetti-Eis, che proprio per dare ulteriore italianità al suo gelato, con uno schiacciapatate ricavava da una pallina di vaniglia una sorta di spaghetti su cui versava una salsa di fragole, per dare l’idea di un classico e italianissimo piatto di spaghetti.

Tutto finito? In realtà no: «In Germania l’italiano è una lingua utilizzata moltissimo, il rapporto tra i due paesi è ancora molto, molto forte».

VERONICA CIRILLO E FERNANDO D'ANIELLO.

Veronica Cirillo, classe 1980, giornalista. Ha abitato in molti posti e vissuto in pochi. Ama l'autunno, ma ora vive un'emozionante primavera.

Fernando D'Aniello, nasce a Scafti nel 1982. Da dieci anni vive a Berlino. Annoia i suoi amici straparlando di politica tedesca.  

Daniel Mosseri per "il Giornale" l'8 febbraio 2022. 

Famosa per il suo imponente duomo in stile gotico, con le due torri che ne fanno una delle chiese più alte al mondo, Colonia sarà presto riconosciuta anche per il canto del muezzin dai minareti delle sue moschee. 

L'amministrazione comunale ha confermato che il progetto per permettere il richiamo alla preghiera islamica sta prendendo forma. «Al momento sono state depositate due richieste ma su nessuna delle due è stata ancora presa una decisione - ha confermato al Giornale un portavoce del governo cittadino - poiché mancano ancora documenti utili per l'esame, come lo studio sulla protezione dall'inquinamento acustico.

La Ditib (l'Unione turco-islamica per gli affari religiosi) ha però dichiarato di aver presentato una domanda per la moschea centrale». La forma deve essere regolarizzata ma la sostanza c'è tutta: nella grande città sul Reno risuonerà presto il richiamo con cui il muezzin invita i fedeli islamici alla preghiera. Per adesso l'invito sarà riservato alla Jumu' a, la preghiera del primo pomeriggio del venerdì (la più importante della settimana), e per soli cinque minuti. «Sono lieta che con questo progetto si tenga conto degli interessi religiosi dei molti musulmani della nostra città cosmopolita, dando così un segno di accettazione reciproca della religione e a favore della libertà di credo protetta dalla Legge fondamentale». 

Così lo scorso ottobre la sindaca Henriette Reker aveva annunciato il progetto-pilota. Candidata indipendente eletta per due volte con i voti della Cdu e dei Verdi, Reker è nota per essere sopravvissuta all'attacco di un terrorista di destra anti-immigrati che la accoltellò durante la campagna elettorale del 2015: rimase a lungo in terapia intensiva, poi fu eletta.

Il suo progetto ha sollevato molte polemiche: in Germania come in tanti paesi europei molte moschee sono finanziate da governi e guidate da imam stranieri, sostenitori di una versione ora estremista ora politica dell'islam. Dottrine comunque incompatibili con i valori di uguaglianza fra i sessi e le religioni tutelati dalla stessa Costituzione tedesca invocata dalla sindaca Reker. 

È lampante il caso della moschea centrale di Colonia: il più grande luogo di culto islamico in Germania è targato Ditib, ossia il braccio religioso del governo turco. Fondata dal leader della Turchia laica, Kemal Ataturk, per controllare eventuali derive estremiste degli imam, sotto la guida presidente islamico Recep Tayyip Erdogan la Ditib è diventata uno strumento di diffusione dell'agenda dei Fratelli Musulmani. 

Insomma, prima ancora che religiosa la questione è politica. In secondo luogo, che dalle moschee finanziate da Ankara, Riad e Doha parta il richiamo Allahu Akhbar non piace ai tanti musulmani tedeschi lontani da ogni forma di radicalismo. 

A Focus, l'intellettuale Ahmad Mansour ha osservato che questi gesti «liberali» servono da un lato ai progressisti a credersi «più tolleranti» anche se poi sostengono una versione maschilista, identitaria, illiberale, e antisemita dell'islam; dall'altro si fomenta così il razzismo di chi considera la stessa presenza di musulmani in Germania una provocazione.

UNA SERIE DI SCANDALI. Germania, un’altra grana per i Verdi: i vertici sono indagati per appropriazione indebita. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 20 gennaio 2022.

Lo Spiegel ha anticipato mercoledì sera che i vertici dei Verdi sono indagati per appropriazione indebita. Gli inquirenti hanno rivolto la loro attenzione al bonus Covid che i dirigenti si sono autoassegnati.

Lo scandalo è solo l’ultimo di una serie di sbagli, soprattutto comunicativi, che il partito ha commesso dalla campagna elettorale ad oggi. In tutte le vicende, dei piccoli errori sono stati ingigantiti dal fatto che il partito non ha comunicato immediatamente il passo falso.

Durante il prossimo congresso, l’aspirante segretaria Ricarda Lang, indagata, dovrà convincere il partito di saperne tutelare l’integrità.

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

La stampa locale tedesca è un buffet aperto a tutti, ma continua a essere la più acquistata. MICHELANGELO FREYRIE su Il Domani il 10 gennaio 2022. Delle 12 milioni di copie quotidiane acquistate dai tedeschi nel terzo quadrimestre del 2021, ben 10 milioni appartenevano a giornali a tiratura locale. 

L’influenza degli editori, una preoccupazione che tocca anche le redazioni più indipendenti, è particolarmente marcata nel contesto tedesco. Non esiste una legge federale che protegge l’autonomia dei giornalisti; dall’altro, la legislazione attuale concede ai proprietari il diritto di assumere giornalisti discriminando secondo le loro convinzioni politiche e religiose.

Lo strapotere degli editori impedisce ai quotidiani locali di “controllare i controllori”, cioè i giornali nazionali con il potere di influenzare la politica del paese-guida dell’Unione Europea. 

MICHELANGELO FREYRIE. Laureato presso l'Università Bocconi e la Hertie School of Governance di Berlino, ha lavorato per un'agenzia del ministero della Difesa tedesco. Scrive di Germania e sicurezza europea.

Abusi sessuali e razzismo alla Rai tedesca. Ma chi denuncia viene licenziato. Amélie Baasner su L’Espresso il 28 dicembre 2021. Dipendenti a contratto mandati via a raffica dalla redazione Medio Oriente della tv pubblica. E un audit interno assolve i capi. Il giornalista messo alla porta: «Ci invitarono a segnalare ciò che non andava e poi ce la fecero pagare».

Il 27 dicembre dell’anno scorso era uno di quei giorni d’inverno berlinesi in cui quasi non c’era luce. Bachir S. Amroune aveva fissato l’appuntamento al Tempelhofer Feld, il parco più grande della città. Voleva un incontro all’aperto, concordato dopo una serie di messaggi spediti da un account anonimo. Parlò per quasi tre ore, camminando su e giù nel freddo. Ma gli ci volle più di un anno prima di accettare l’idea di rendere pubblica la propria storia. Quella di un giornalista stritolato dall’ingranaggio in uno dei templi della democrazia tedesca, l’emittente radiotelevisiva pubblica Deutsche Welle. Un presidio di libertà agli occhi del mondo, viziato al suo interno da un clima avvelenato da accuse di sessismo, antisemitismo e razzismo che Bachir S. Amroune e altri suoi 3 colleghi hanno contribuito a denunciare. Rimettendoci il posto di lavoro. Non una sortita donchisciottesca la loro, ma l’adesione a un progetto di trasparenza che la stessa azienda aveva voluto ma i cui esiti ha fatto di tutto per tenere nascosti. Il giorno in cui Bachir S. Amroune accetta finalmente di portare all’esterno quella che non è solo una vertenza di lavoro, fissa un altro appuntamento all’aperto. Questa volta però solo per stare lontano dalla sua famiglia che non approva la sua scelta di venire allo scoperto. Inizia così la sua ricostruzione dei veleni della Deutsche Welle, la cosiddetta onda tedesca sorretta da 400 milioni di euro versati annualmente dallo Stato per tenerla in vita e «far conoscere la Germania come nazione culturale, libera e democratica, radicata nell’Ue», come recita la legge istitutiva rinnovata nel 2004 e come si sforzano di fare i 3000 dipendenti dislocati in 60 sedi internazionali che producono programmi in trenta lingue.  

A guidarla è Peter Limbourg, nato a Bonn, cresciuto tra Roma, Bruxelles e Atene, considerato uno dei più potenti giornalisti tedeschi che ha fatto dell’emittente un vessillo di democrazia: «Il vento contrario dei regimi autoritari mette le ali alla Deutsche Welle», ha proclamato in una comunicazione dell’azienda. Tentando di far dimenticare gli scandali interni che di tanto in tanto affiorano comunque dalle cronache. Sono infatti quasi tre anni che vengono rivelati casi di abuso sessuale (Zeit, 2019), razzismo (The Guardian, 2020), abuso di potere (Süddeutsche Zeitung, 2021) ed antisemitismo (Süddeutsche Zeitung, 2021). Al centro delle accuse di abusi sessuali una star della redazione, Yosri Fouda. Avrebbe invitato a casa alcune donne molestandole fino allo stupro. Poi ci sono omofobia e razzismo, all’ordine del giorno, hanno raccontato alcuni lavoratori. Minacce e ritorsioni sugli straordinari, la regola. Ma in generale le contestazioni riguardano la linea in politica estera: collaborazioni con emittenti antisraeliane e affiliati ad Hezbollah in Libano e Giordania, ma anche con giornalisti dichiaratamente antisemiti o vicini al regime siriano di Assad. 

Tutte le accuse riconducono alla redazione del Medio Oriente, dove lavorava Bachir S. Amroune, gestita da Naser Shrouf. Tanto Limbourg quanto Shrouf sono passati indenni dalla tempesta, liquidando le rivelazioni dei giornali come casi isolati per nulla spie di un ambiente impossibile. Intervistato da Die Welt all’inizio del mese, Limbourg ha anche liquidato tutto come critiche costruttive alla sua gestione. Ma Bachir è lì a raccontare un’altra storia e dall’interno. Almeno fino a quando gli è stata lasciata la possibilità di frequentare Deutsche Welle. Si accalora e si innervosisce mentre la colazione che ha ordinato resta intatta. Poi cede alla nostalgia delle origini. Che lo riportano con la mente alla sua Algeria dove è nato e cresciuto e da dove è fuggito a 14 anni in piena guerra civile, riparando con la famiglia in Germania.

Nutrito a ideali e opportunità da costruire con il sacrificio, insegue il sogno di diventare giornalista. Nel 2010 approda a Deutsche Welle. Due anni dopo strappa un contratto. Stipendio dignitoso ma a tempo determinato. «Una condizione comune alle emittenti pubbliche tedesche che a Deutsche Welle riguarda più della metà dei dipendenti», spiega Christian Hoppe, rappresentante dal sindacato Ver.Di. Precari, come in tutto il mondo, fa rima con deboli e ricattabili. «Sono i primi ad essere licenziati, hanno pochi diritti e sono facilmente sostituibili. La pressione su di loro è enorme», aggiunge Hoppe.

Bachir fa della sua instabilità un’arma. Diventa un jolly della redazione Medio Oriente, forte della capacità di esprimersi in tre lingue, gioca su più ruoli: redattore, reporter, autore e news-producer. E si impegna anche nel sindacato interno a difesa dei contrattisti a termine come lui. Niente barricate ma molta solidarietà e una sfibrante opera di mediazione con i capi. «Volevo veramente cambiare le cose, credevo nei valori della Deutsche Welle», racconta oggi. Tutto fila liscio fino al lungo del 2018 quando, in piena onda Me Too, Peter Limbourg e la manager Barbara Massing, fanno un giro per la redazione aprendo un dialogo franco sul sessismo in redazione. Quel giorno d’estate segna la vita di Bachir. «Ci chiesero di mostrare coraggio civile e di indicare eventuali abusi alla direzione. Risposi apertamente, davanti a tutti che ne avevo sentite tante di storie, soprattutto di abusi di potere. Dissi che me ne sentivo responsabile, dato che non tutti i miei colleghi conoscevano i loro diritti». La sortita viene accolta con molta freddezza. E il dialogo si interrompe. Il vertice del settore Medio Oriente fa quadrato intorno al capo e dall’alto non giungono segnali di apertura. Insieme con altri tre giornalisti Bachir però non molla. Raccoglie denunce e  le condensa in una lettera aperta che raccoglie subito una ventina di adesioni manifeste e molte di più anonime. «I colleghi avevano paura di esporsi, allora pensavo fosse irrazionale ma adesso li capisco», commenta Bachir. La lettera viene depositata al sindacato ma alla fine di agosto il capo del Medio Oriente Naser Shrouf passa al contrattacco. Allude alla petizione e innalza il livello dello scontro. «Disse che aveva sentito parlare di un’azione clandestina contro la direzione. Poi spiegò che solo dalla nostra redazione dipendeva il destino di 100 famiglie che nessuno avrebbe voluto mettere a repentaglio», ricostruisce Bachir.

Fiutando l’aria pesante, nonostante una vaga disponibilità di Shrouf a proseguire il dialogo sui diritti all’interno del settore, Bachir e gli altri tre promotori rilanciarono a loro volta inviando la petizione al piano più alto: Limbourg e Massing. Per tutta risposta, siamo già al 28 settembre del 2018, Shrouf convoca un Bachir sempre meno utilizzato nella produzione quotidiana. Il giornalista va insieme con il sindacalista Hoppe a quell’incontro che di fatto segna l’avvio dell’allontanamento suo e degli altri quattro. Il colloquio è teso. Il capo la mette sul piano della perdita di fiducia. Parla di «colpo basso» che ha incrinato il rapporto. Nega qualsiasi trasparenza alle denuncia dei venti firmatari, liquidandola come una manovra al limite della cospirazione, isola Bachir ritenendolo il sobillatore e lo congeda dicendosi «molto deluso». Ogni possibilità di andare sul concreto delle contestazioni è stoppata giocando sul piano dei sentimenti di colleganza. È poco meno di un processo senza possibilità di difesa. E la sentenza è l’annuncio del mancato rinnovo del contratto in scadenza il 31 maggio del 2019. Per addolcire la pillola e prendere tempo, l’ufficio del personale fa sapere che probabilmente dopo uno stop Bachir potrà riprendere, magari in un altro settore, magari già dopo qualche mese. Con la prospettiva imminente di essere ormai fuori, Bachir e i colleghi più esposti invocano la direttrice dell’amministrazione, facendo leva ancora una volta sui valori della Deutsche Well. Raccontano del clima dispotico che regna nella redazione del Medio Oriente, di come i colloqui individuali di fronte a una manifestazione di dissenso si trasformino in forme non tanto velate di repressione. Massing sembra prestare ascolto. Convoca Bachir e il sindacalista e dà ampie rassicurazioni sul fatto che nessuno dovrà temere per il proprio posto. Parla anche di workshop che serviranno a disinnescare la tensione crescente e a ristabilire nell’ambiente di lavoro un clima più tranquillo. «Alla fine, eravamo ancora a gennaio e io già sapevo che il mio contratto scadeva dopo 4 mesi, mi disse di non preoccuparmi e mi strinse la mano sorridendo». Poi va già come ampiamente previsto. A metà maggio dell’offerta di un incarico altrove non c’è più traccia e Bachir capisce di essere tagliato fuori. Alla scadenza del contratto divide il destino con gli altri tre che gli sono stati più vicino.  

A distanza di tempo Christian Hoppe si infervora ancora come in quei giorni: «È incredibile. Un lavoratore che subisce un torto, invoca i vertici di un’azienda pubblica che internazionalmente pretende di rappresentare i valori democratici tedeschi per essere tutelato e viene buttato fuori brutalmente senza spiegazioni. Dopotutto Bachir e gli altri tre hanno fatto gli interessi aziendali mettendo in guardia su episodi che sicuramente stanno nuocendo alla credibilità di Deutsche Well. Loro replicano solo che avevano facoltà di interrompere il rapporto. Ma a tutt’oggi non hanno spiegato». Oggi il percorso di Bachir e dei suoi colleghi licenziati si è diviso. Loro sono ancora in causa con l’azienda. Lui ha dovuto rinunciare. Questione di costi che non poteva sostenere, spiega amareggiato.

L’elenco dei licenziati si è allungato. Solo uno accetta di parlare, ma in forma anonima. Racconta che dopo l’addio di Bachir la situazione è peggiorata. Discriminazioni nella distribuzione dei servizi sono la regola per sanzionare chi prova a mettere in discussione quanto è accaduto. E le minacce di licenziamento si sono fatte esplicite anche nella corrispondenza ufficiale. E quando il Guardian rilancia le accuse di abusi interni, il direttore Peter Limbourg annuncia finalmente un’inchiesta. Sembra la svolta. Ma a occuparsene sono due interni. Chi prova a ribellarsi, come capita al testimone anonimo, finisce fuori. «Il contratto in scadenza non mi verrà rinnovato, mi dicono. Ma da subito mi tolgono sedia, scrivania, posta elettronica e accesso alla sede».

Intanto l’audit interno assolve la gestione Shrouf saldamente al comando di un settore che ha guidato dopo un passato nella distribuzione, in forza dei suoi contatti con il mondo arabo. E Limbourg può dire in giro che il caso è chiuso. Anzi, non c’è mai stato. 

·        Quei razzisti come gli austriaci.

Estratto dell’articolo di Rita Monaldi e Francesco Sorti per “la Repubblica” il 28 novembre 2022.La sua storia è scritta a lettere d'oro perfino nell'Enciclopedia Britannica: battezzata nel lontano 8 agosto 1703, la Wiener Zeitung è uno tra i più longevi quotidiani al mondo. Ancora per poco, tuttavia: a fine anno anche questo autentico pezzo di cultura mitteleuropea se ne va in pensione.

Lo Stato austriaco, azionista unico del quotidiano viennese, ha deciso di trasferire nel web il foglio nato durante il regno di Leopoldo I d'Asburgo, il nonno di Maria Teresa, col nome di Wiennerisches Diarium (Diario viennese) e il pomposo sottotitolo deliziosamente barocco "Contenente ogni cosa notevole, di giorno in giorno, sia in questa residenza imperiale di Vienna che in tutti i luoghi del mondo". 

Della Wiener Zeitung resterà quindi dal 2023 un notiziario online, e una edizione cartacea mensile. Forse nell'era del digitale non è uno scandalo. Eppure la reazione in Austria è stata forte, con tanto di sollevazione del consiglio comunale di Vienna, petizioni di protesta e così via. Perché non è solo un antico e blasonato giornale che se ne va: tutti i rintocchi fatali della storia austriaca (anzi europea) hanno suonato all'unisono con la Wiener Zeitung.In epoca rococò subì i capricci dei Kaiser, che le imponevano tasse inverosimili. Durante la restaurazione il principe Metternich (che guarda caso possedeva un giornale concorrente), spediva i suoi questurini a intimidire il direttore. Dopo l'Anschluss i nazisti chiusero il giornale (a malincuore, perché guadagnava bene): un ex-stato non poteva certo possedere giornali statali. Poi arrivarono le bombe del 1945, che distrussero redazione e rotative. Le pubblicazioni ripresero con otto pagine, nel dopoguerra di miseria, macerie e stipendi da fame così ben evocato dai romanzi di Heinrich Böll.

Tra le firme ci sono stati pionieri dell'estetica musicale come Eduard Hanslick, drammaturghi engagé come August von Kotzebue, guru dell'orientalistica come Joseph von Hammer-Purgstall, cavalli di razza della musica novecentesca come Ernst Krenek, poeti lirici di primo livello come Theodor Kramer. […]

Dopo ogni crisi, la Wiener Zeitung si è rialzata. Riuscendo anche a evitare di "ingessarsi" nel ruolo di media statale: durante il periodo dell'austrofascismo anni Trenta osò lodare marxisti come Brecht o Ernst Bloch. E ai nostri giorni non ha paura di scrivere chiare e tonde verità scomode, ad esempio che in Austria «senza contributi pubblici chiuderebbero immediatamente tutti i media ».

La sua ottima scuola giornalistica non a caso teneva bene: finora ogni giorno uscivano 24mila copie con una foliazione generosa. Il governo però ha tagliato le ali, abolendo l'obbligo di pubblicazione sulle sue pagine degli annunci a pagamento (fallimenti, costituzioni e scioglimenti di società etc.), che costituiva la sua forza economica e anche di diffusione: per decenni la classe media ha iniziato la giornata spulciando le pagine di bandi e annunci della Wiener Zeitung per sapere se il nuovo partner di lavoro è affidabile, se quel tale cantiere aprirà, se quel finanziamento pubblico verrà concesso. Ora è vittima della crudele ristrutturazione di tutto il comparto mediatico pubblico. […]

Chi era Sissi? Ecco la sua vera storia. Carlo Lanna il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La "nuova" Sissi è stata campione di ascolti su Mediaset ma criticata sui social. Storicamente l'imperatrice d'Austria era una donna vanitosa, poco incline al rispetto delle regole e... poco innamorata del suo Franz.

Su Canale 5, appena una settimana fa, si è conclusa la prima stagione di Sissi. La fiction prodotta in Germania e arrivata in prima serata sulla rete ammiraglia di Mediaset è stato un successo senza precedenti. Sono quasi 4 milioni i di telespettatori che hanno seguito con dedizione i tre episodi Sissi, la ricostruzione storica (e molto romanzata) sulla vita personale e politica dell’Imperatrice d’Austria. Un successo che è stato trainato anche da una forte interazione sui social, soprattutto su Twitter, dove il pubblico ha potuto commentare in tempo reale le vicissitudini di Sissi (Dominique Devemport) e dell’imperatore Franz (Jannik Schumann).

A una prima stagione di discreta fattura in cui si apre una parentesi sulla giovinezza e i primi anni del regno della duchessa in Baviera, è stata già confermata la realizzazione di un secondo capitolo (Covid permettendo) che arriverà in tv e su Canale 5 il prossimo anno.

La fiction storica ha avuto il pregio di umanizzare ancor di più il mito di Sissi, un mito che è rimasto cristallizzato nel tempo grazie alle tante biografie dedicate all’imperatrice e, soprattutto, grazie alla serie di film del 1955 con Roy Schneider. Questo adattamento, però, anche se è stato seguitissimo dal pubblico e apprezzato per una regia patinata, per un cast molto valido e per un’ottima ricostruzione degli usi e costumi dell’epoca, è stato ampliamente criticato per una visione moderna e poco storicamente attendibile sulla vita di Sissi. Oltre la fiction, chi era la vera imperatrice d’Austria? Nella realtà era una donna che voleva opporsi ai pragmatismi di corte.

Sissi è la serie che fa il "verso" alla saga di Bridgerton

Pomposo, eccessivo, spregiudicato, poco regale ma di grande impatto visivo. La versione a puntate di Sissi segue alla lettera il nuovo modo in cui il piccolo schermo cerca di raccontare un drama storico. Nel ricostruire la vita della duchessa in Baveria, l’unica che è riuscita a stregare il cuore di Francesco Giuseppe d’Austria, la serie si sofferma su alcune tappe salienti della storia e degli assetti geo-politici dell’Europa. Affronta di petto la seconda Guerra d’Indipendenza ma sbaglia l’approccio, e mostra una versione edulcorata e poco veritiera dei menage di corte. La fiction mostra una Sissi – il cui vero nome era Elisabella Amalia Eugenia di Wittelsbach – molto anticonformista, impudente, sfacciata, che arriva ad assumere una prostituta come dama di compagnia pur di compiacere a letto il marito. Un fatto che storicamente non è attendibile.

Un po’ come è avvenuto con la saga di Bridgerton, la serie tv sull’imperatrice racconta di una sovrana che ha a cuore il popolo, che si batte per il suo regno, che affronta il suo ruolo a corte come donna rivendicando il posto d’onore; si delinea una donna audace, che ama e che sa amare, e si tratteggia la figura di una regnante che nelle pratiche di Stato era quasi più brava e attenta rispetto al marito. Una serie storica ma che rivolge, ovviamente, uno sguardo alla modernità. Alcuni aspetti corrispondono alla realtà. Altri, invece, sono pura invenzione. Proprio per questo, molte scelte non sono state apprezzate dal pubblico.

Moderna, complessa, sexy e influencer... L'imperatrice Sissi ai tempi delle serie tv

Sissi, la nobildonna che era insofferente alla disciplina viennese

Storicamente è stata una nobildonna che è cresciuta libera da vincoli sociali. Anche se apparteneva per ramo di madre alla mittleuropa del diciannovesimo secolo, una volta che si è sposata con Francesco Giuseppe e si è trasferita a Corte, Sissi non ha mai apprezzato né tollerato le condizioni di vita di palazzo. Nella fiction si delinea una Sissi troppo giovane per essere un’imperatrice, quando in realtà era una donna libera e fuori dalle regole per indossare i panni di una monarca. Questo perché è cresciuta con dettami poco seri quando era una ragazzina.

Il padre, che discendeva da un ramo collaterale dei duchi in Baviera, ha sempre professato un’educazione più moderna, poco incline al rispetto delle regole. Tutto ciò ha creato molto attriti in famiglia. La madre di Sissi, sorella di Sofia che a sua volta era la madre di Francesco Giuseppe, era una persona dai sani principi che rincorreva solo l’appagamento sociale. La giovane imperatrice, cresciuta tra l’incudine e il martello, si è formata seguendo gli insegnamenti del padre e "sfidando" il buon costume della madre. 

Una sovrana che "cercava" la sua identità

Sissi nascondeva molto bene le sue debolezze. Nella fiction è una sovrana di "ferro", nella realtà era una donna molto tormentata che si domandava spesso se fosse adatta per il ruolo di imperatrice. È grazie ai suoi diari che si tratteggia l’immagine di una Sissi bella ma inquieta, che desiderava fuggire da Vienna e seguire la sua missione di essere solo una madre per i suoi figli. Durante tutto il suo regno ha continuato a cercare una propria identità e una propria stabilità emotiva per mettere a tacere l’inquietudine che si portava dietro. Il suo dramma era quello di non sentirsi realizzata e di convivere con una grande solitudine interiore. Per questo si dedicò alla scrittura, alla lettura e alla cura del suo corpo.

Con Franz non era mai stato vero amore

La fiction, come i film, si soffermano molto sul rapporto amoroso tra Sissi e Franz. Innamorati al primo sguardo, lui che è stato sedotto dai suoi modi poco regali e lei ammaliata dalla profondità del suo sguardo, storicamente le cose non sono andate proprio così. Nella vita di coppia, Sissi si sentiva in trappola e costretta a sposare un uomo poco affettuoso, che pensava solo agli affari di Stato, con una mentalità troppo ristretta. Infatti a corte si sentiva un’outsider, costretta a vivere lontano dai suoi affetti familiari. La perdita di Sophie (evento che chiude la prima stagione della serie) acuisce ancor di più il senso di inettitudine della sovrana.

Sissi era ossessionata dalla cura del suo corpo

Una donna che si sentiva fuori posto a corte, ma era una donna molto vanitosa con un ottimo gusto in fatto di moda. Un altro aspetto che nella fiction passa inosservato è l’ossessione che Sissi aveva per il suo corpo. Soprattutto per i capelli. Dotata di una lunghissima chioma, trascorreva molte ore in compagnia della sua parrucchiera. Fanny Angerer, questo era il suo nome, curava in maniera magistrale i capelli dell’imperatrice. Quasi tre ore impiegava per rispettare i canoni imposti da Sissi. Ma non è tutto. La sovrana aveva anche strane abitudini alimentari. Ad esempio, non rinunciava mai al latte fresco e, durante i viaggi di Stato, voleva che le mucche e le capre partissero insieme a lei. 

La visione politica di Sissi, l’imperatrice che non condivideva la prospettiva degli Asburgo

Era un dato di fatto che Sissi non amasse la condizione di aristocratica in cui viveva, ma in pochi sono a conoscenza della sua contrarietà alle politiche di Vienna e alla visione di Francesco Giuseppe. È una recente scoperta, si parla del 1998, in cui la sovrana sul suo diario annotava le condizioni sociali, per nulla egualitarie, in cui viveva l’Austria e l’Ungheria. Considerava il popolo come "gente oppressa da un ordine stabilito", detestando le ricchezze e i piaceri offerti dall’Europa. Si considerava una donna da liberare, tanto è vero che nelle sue memorie ha espresso il desiderio di essere lei stessa l’unica sovrana e di ambire alla morte del marito.

Jannik Schumann, l’attore che ama un altro… principe, la verità sul giovane Franz

C’è un pettegolezzo dal set della fiction che non può essere ignorato. Il giovane attore di Amburgo, che in patria ha una buona carriera alle spalle ed è diviso tra cinema e tv, è balzato agli onor di cronaca dopo la pubblicazione di una foto sul suo profilo Istagram. Nella fiction interpreta Francesco Giuseppe, bello come il sole e innamorato della sua Sissi. Nella realtà, invece, l’attore è legato sentimentalmente a un uomo. Felix Kruck, così si chiama il suo compagno. E come si nota dalle foto che pubblica sui social, i due hanno da tempo una stabile relazione d’amore. Pubblicamente ha fatto il suo coming out nel febbraio del 2020.

Carlo Lanna. Nasco a Caserta, vicino Napoli, più di trent'anni fa. Fin da ragazzino ho sempre avuto l'amore per la scrittura, che sono riuscito a declinare negli studi e nel lavoro. Al secondo anno di università ho cominciato a scrivere per un blog e da quel momento in poi non mi sono più fermato, racimolando collaborazioni per magazine online e cartacei. Il cinema, le serie tv e la letteratura sono la mia passione (e ossessione). Amo la fotografia e viaggiare, oltre che la buona cucina. Seguo 30 serie tv all'anno, leggo due libri a settimana e vado a caccia di news e indiscrezioni su tutti - o quasi - gli attori di Hollywood. Da tre anni collaboro con IlGiornale.it per la sezione spettacoli. Nella vita di tutti giorni sono anche scrittore (a giugno del 2021 esce il mio quarto romanzo). Sono consulente e beta-reader per la Milena Edizioni

·                   Quei razzisti come i danesi.

Danimarca: pale eoliche & monarchia, il Paese dove anche una regina si scusa. Michele Farina su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022

Margrethe II ha deciso di “declassare” da principi a conti i figli del suo secondogenito. Si sono arrabbiati tutti ma lei, pur sorpresa, andrà avanti lo stesso per modernizzare il regno 

Al centro Joachim di Danimarca, 53 anni, in alta uniforme con la moglie Marie Cavallier, 46 anni, e i figli Nikolai, 23 anni (a sinistra), e Felix, 20, nati dal primo matrimonio del principe, qui durante le celebrazioni per i 50 anni di regno della regina Margrethe di Danimarca, 82 anni

Il brutto anatroccolo o Hans il testardo: chi incarna meglio la grande anima della piccola Danimarca? Il diplomatico Bo Lidegaard, autore di una pregevole storia del suo Paese che fino a poco fa albergava polverosamente sui piani alti della mia libreria, per definire lo spirito danese cita due dei tanti personaggi usciti dalla favolosa penna di Hans Christian Andersen. E tra i due sceglie quello da noi meno popolare: il giovane popolano Hans, che usando ciò che trova a portata di mano (un vecchio zoccolo, un corvo morto, una capra al posto del cavallo) cocciutamente riesce a conquistare il cuore della principessa e metà del suo regno. Una storia che per vie traverse ci porta dalle fiabe all’attualità: in questi giorni di inizio autunno l’appartata, peninsulare e ingegnosa Danimarca si è ritrovata al centro dei notiziari europei per motivi assai poco “danesi”. Non perché sia il regno delle pale eoliche (qualche anno fa ne visitai decine girando da Sud a Nord) o quello che produce più formaggio pro-capite (78 chili, contro i 23 dell’Italia che è quindicesima nella classifica mondiale) o perché sia al primo posto nella digitalizzazione dei servizi (e-government).

Primati che non fanno rumore, come l’ultima decisione di Copenaghen (annunciata in occasione della recente riunione dell’Assemblea Generale dell’Onu) in tema di cambiamento climatico: diventare il primo governo mondiale a stanziare denaro sonante (un piccolo inizio: 13,5 milioni di euro) per il fondo di compensazione a favore dei Paesi poveri danneggiati dalle emissioni di quelli più ricchi. No, la Danimarca prima della classe non fa notizia. Certo, se i pennuti ci potessero mettere il becco, sarebbero un’ottima lobby per il popolo della Sirenetta: il governo della premier Mette Frederiksen ha annunciato pochi giorni fa che a partire dall’anno prossimo sarà proibito installare nuovi allevamenti di galline ovaiole in gabbia. I produttori avranno 12 anni per smantellare quelli esistenti. Nel 2010, il 60% delle uova danesi veniva scodellato dietro le sbarre. Nel 2021 solo il 13%. Un bel progresso. Ma chi ci bada? 

L’intrigo

Questa volta è diverso. La Danimarca è finita sugli scudi della politica internazionale e delle saghe reali. Prima con l’intrigo del sabotaggio dei gasdotti, con le esplosioni registrate poco lontano dalle coste della perla danese di Bornholm, che secondo le classifiche di Big Seven Travel è l’isola più bella della Scandinavia (e la quindicesima nel mondo). E poi con le mosse a sorpresa della sua regina, l’imprevedibile Margrethe II: tornando da Londra e dal funerale della cugina di terzo grado Elisabetta, l’ottantaduenne sovrana artista e fumatrice ha annunciato di essersi presa il secondo Covid dell’anno (il primo a febbraio). I festeggiamenti per il mezzo secolo di regno (che dopo la scomparsa di Elisabetta ne fanno la sovrana “politicamente” più longeva d’Europa) erano stati ridotti al minimo, per rispetto nei confronti dei sudditi d’Oltremanica.

Le cannonate a salve (o quasi) sono arrivate subito dopo: dall’isolamento forzato nel palazzo di Amalienborg, con un comunicato lungo una paginetta, la regina ha scatenato un terremoto senza precedenti nelle placide acque della monarchia di Danimarca. Nonna Margrethe ha “declassato” di punto in bianco, senza preavviso, quattro dei suoi otto nipoti, ovvero i figli del secondogenito Joachim, che dall’anno prossimo non potranno più fregiarsi dell’appellativo di “principe” e “principessa”. Saranno conti e contesse, saranno chiamati “eccellenze” e non “altezze reali”. In sostanza, dovranno andare a lavorare senza abbeverarsi alle patrie prebende.

Più che una punizione, la regina la vede come una liberazione, un regalo ai ragazzi: la nonna vuole che i nipoti «possano plasmare le loro vite senza essere limitati dagli aspetti e dagli obblighi che una formale appartenenza alla Casa Reale comporta». La linea di fondo, già adottata dalla vicina famiglia reale svedese e agognata a Londra anche da Carlo III, è far “dimagrire” la monarchia per renderla alla lunga più sostenibile e dunque duratura anche agli occhi dell’opinione pubblica. L’opinione dei diretti interessati non è stata neppure presa in considerazione? La nuora della regina, Marie, ha parlato nelle interviste di una decisione choc: «I ragazzi si sentono esclusi». La principessa si riferisce soprattutto ai figli Henrik, 13 anni, e Athena, nata nel 2012.

«La piccola», ha raccontato la madre, «è stata bullizzata a scuola» dopo l’annuncio fatto dalla nonna. I due (ex) principini più grandi, che Joachim ha avuto da un precedente matrimonio, sono di fatto già fuori dal cono di luce reale: Nikolai, 23 anni, e Felix, 20, bazzicano il mondo della moda, il più grande è già un affermato modello, il piccolo sta per seguirlo in passerella. Ma la loro mamma, Alexandra, ha reagito con malcelata durezza: «È stata una sorpresa. Siamo tristi e sotto choc. I ragazzi si sentono emarginati. Non riescono a capire perché gli venga loro tolta l’identità». Anche il padre dei quattro ex, il cinquantatreenne principe Joachim, ha attaccato la madre sovrana: «Non è mai divertente vedere i tuoi figli maltrattati in questo modo», ha detto al giornale Ekstra Bladet. Dopo una settimana la nonna ha chiesto scusa, «per aver sottovalutato le reazioni in famiglia». Ha ribadito il suo amore per tutti: «Nessuno può dubitare che i miei figli, le mie nuore e i miei nipoti siano il mio orgoglio e la mia gioia». Ma ha ribadito che la decisione è presa e non si torna indietro. «Dobbiamo stare al passo con i tempi. Spero che potremo ritrovare il modo di andare avanti in pace».

Pace mica tanto. Per ora il gelo è calato tra i due tronconi della famiglia. Il primogenito della regina, il principe ereditario Frederik, è tranquillo e silenzioso. Sua moglie, la principessa Mary, ha pubblicamente sostenuto la mossa della suocera: «Il cambiamento può essere difficile e doloroso. Ma questo non vuole dire che la decisione non sia quella giusta». Quando Margherita salì al trono 50 anni fa, la monarchia era piuttosto impopolare nel Paese di Amleto.

La regina ha portato l’indice di approvazione dal 45 al 75%. Con il suo tocco eccentrico (artista, illustratrice, ha curato la copertina dell’edizione danese del Signore degli Anelli, lavorando come coreografa per il teatro e per il balletto) e la sua condotta normalissima da “regina in bicicletta”, Daisy incarna oggi (forse più di Hans il Testardo) l’anima di un Paese che guarda avanti senza perdere di vista il passato. Copenaghen è la città numero uno per i mercatini d’antiquariato.

Ma è anche un motore di energia pulita: la Danimarca raddoppierà a 3 gigawatt la produzione da fonti eoliche. Una linea sottomarina di 470 km passerà dall’isola di Bornholm (la perla della Scandinavia) alle coste settentrionali della Germania, rifornendo di energia elettrica 4,5 milioni di case europee. Non è “la” soluzione alle sfide imposte dalla nuova Guerra Fredda, ma una strada concreta da copiare.

La monarchia più popolare d’Europa guida uno dei Paesi dove la disuguaglianza tra ricchi e poveri (coefficiente di Gini alla mano) è minore. Se questa non è una contraddizione in termini, lo si deve anche a nonna Margrethe. Che per tutta la vita rifiutò di dare il titolo di “re consorte” al marito Henrik. Lui se lo segnò. E per questo motivo, quando morì nel 2018, lasciò scritto nel testamento di non voler essere sepolto accanto alla moglie. Le sue ceneri sono state sparse in mare e nel giardino del palazzo reale. La regina non se l’è presa. Lei comprende tutti. Il marito come i nipoti. Comprende e va per la sua strada.

Michele Farina per corriere.it il 29 agosto 2022.

I mattoncini rossi, i campi curati, i laghetti, i quasi 500 anni di storia, gli insegnanti selezionatissimi, l’atmosfera egalitaria, la retta che vola dai seimila ai ventimila euro all’anno. E poi il bullismo. Abusi sessuali, botte, studenti appena arrivati costretti a bere l’urina dei più anziani. 

Nonnismo da caserme di una volta, pesante e non si sa bene quanto inaspettato per le famiglie ricche e nobili che vi mandano in collegio i rampolli destinati ai piani più alti della società: Herlufsholm, 80 chilometri a sud di Copenaghen, è la scuola più esclusiva di Danimarca.

E lo scandalo che l’ha travolta macchia la pagella di uno dei Paesi più quotati nel campo dell’istruzione (metà dei suoi ragazzi si laureano), dove il dogma dell’anti-gerarchia è un principio molto sentito a ogni livello, compreso quello delle scuole riservate alla créme della créme. Eppure, da quando fu fondato tra le mura di un antico monastero nel lontano 1565 il super istituto che prepara gli studenti all’università (e dove anche la famiglia reale manda i suoi ragazzi) non ha vissuto anno peggiore di questo.

La mamma principessa che combatte i violenti

Che abbia un problema di immagine è dire poco: il principe Frederick, futuro re di Danimarca, e la moglie principessa Maria, dopo aver ritirato dal collegio il primogenito Cristiano a giugno, hanno annunciato che per il prossimo autunno la secondogenita Isabella non verrà iscritta a Herlufsholm. In un comunicato, i reali hanno espresso il loro sconcerto. Che paradosso: la principessa Maria dirige una fondazione che ha l’obiettivo di combattere il bullismo e favorire il benessere dei ragazzi.

Imperdonabile

Lo scandalo era scoppiato a maggio, con un’inchiesta di TV2: filmati di abusi tra studenti, bulli e vittime, il branco e i singoli. Gli studenti intervistati hanno raccontato di un «sistema esclusivo e oppressivo», come minimo tollerato dalle autorità scolastiche. Un caso nazionale. Una storia «imperdonabile», l’ha definita la premier Mette Frederiksen. I licenziamenti e le dimissioni in tronco del preside e del Consiglio di amministrazione non hanno chiuso la questione.

Il ministero dell’Istruzione, che dopo aver saputo dell’inchiesta giornalistica nel 2021 aveva avviato un’indagine interna, chiede che il collegio rimborsi le rette alle famiglie, e che lo Stato tagli i finanziamenti pubblici all’istituto. Misure che vedono in disaccordo il nuovo direttore: a un giornale danese Tim Petersen ha detto che il problema non era generalizzato ma legato a «una subcultura circoscritta ad alcuni studenti».

Le famiglie

Ecco, la narrativa delle mele marce. Ma fin dove affondano le responsabilità? Solo nella scuola o anche nelle famiglie? Interessante è notare quanto ha detto al New York Times Peter Allerup, professore emerito all’Istituto danese di Pedagogia. «In Danimarca non amiamo la gerarchia.

L’idea di una società orizzontale è il mantra nazionale. Ma chi sta in alto, nei circoli delle élite, non ha la minima simpatia per le strutture non gerarchiche». Come dire: una certa durezza militaresca è tollerata. Il nonnismo di Herlufsholm tempra il carattere? Bere la pipì dei compagni «anziani» fa parte del curriculum non scritto dei futuri re e dirigenti?

L’ULTIMO ATTACCO NEL 2015. Sparatoria a Copenaghen, tre morti in un centro commerciale. Il Domani il 04 luglio 2022

Altre tre persone in gravi condizioni. Un 22enne è stato arrestato. La polizia dice che avrebbe agito da solo dice e che non si può escludere che le sue motivazioni fossero di natura terroristica

Tre persone sono state uccise e altre sono rimaste ferite e si trovano in condizioni critiche dopo una sparatoria in un centro commerciale di Copenaghen, in Danimarca. Un 22enne è stato arrestato e la polizia dice di non potere escludere che l’attacco sia un atto di terrorismo.

Il sospetto è stato descritto dalla polizia come un «danese etnico». Era armato di fucile. Il suo primo interrogatorio davanti a un giudice si svolgerà oggi. Per il momento non sembra che il razzismo fosse tra le sue motivazioni, ma «questo potrebbe cambiare», ha detto il capo della polizia. 

«Il nostro paese è stato colpito da un grave attacco», ha detto la prima ministra danese Mette Frederiksen. Copenaghen è una delle capitali più sicure d’Europa, secondo le statistiche. L’ultimo grave attacco avvenuto in città è stata una sparatoria nei pressi di una singagoga, in cui sono rimaste uccise due persone.

(ANSA-AFP il 3 luglio 2022) - E' di tre morti e diversi feriti tra cui tre gravi il bilancio della sparatoria commessa ieri in un centro commerciale di Copenaghen, ha annunciato la polizia danese. Il 22enne arrestato dopo l'accaduto è noto alle forze dell'ordine "ma solo marginalmente", ha detto l'ispettore capo Soren Thomassen in conferenza stampa. 

Il giovane, armato secondo i testimoni di un grosso fucile, è stato fermato senza violenza poco dopo l'arrivo della polizia nei pressi del grande centro commerciale Fields, situato tra il centro cittadino e l'aeroporto della capitale danese. 

Le motivazioni del sospettato, descritto dalla polizia come un "danese etnico" di 22 anni, restano poco chiare. È noto alla polizia "ma solo marginalmente", ha detto Thomassen: "Non è qualcuno che conosciamo particolarmente". Le tre vittime sono un uomo sulla quarantina e due giovani la cui età non è stata specificata. 

"Sui social vediamo scrivere che si tratterebbe di un movente razzista, ma non posso dire che in questo momento abbiamo qualcosa che supporti" tale ipotesi, ha precisato il capo dell'inchiesta. La polizia ha invece confermato che sta indagando su video pubblicati online che mostrano il sospettato mentre si punta armi alla tempia e che metterebbero in discussione le sue condizioni psichiatriche. Poco prima, gli inquirenti si erano rifiutati di escludere un atto di terrorismo.

Monica Perosino per “La Stampa” il 3 luglio 2022.  

Il berretto da baseball messo al contrario, pantaloni corti militari e una maglietta nera senza maniche. Un ragazzo normale, come tanti, che passeggia in un centro commerciale la domenica pomeriggio. Normale, se non fosse che imbraccia un fucile e a un certo punto comincia a sparare sulla folla.

Nell'affollato mall di Copenaghen, il Field's, il più grande della Danimarca, nessuno si chiede cosa stia succedendo quando esplodono i primi colpi, tutti cominciano a correre, qualcuno urla, altri, troppo lontani dall'uscita, si nascondo nei negozi, dietro abiti, sotto i tavoli dei ristoranti. Chi si nasconde riprende il killer con il telefono mentre spara, cerca le prossime vittime, corre, si ferma, punta il fucile di fronte a sè. 

Pochi minuti, eterni, e la polizia riesce a fermarlo: «Abbiamo arrestato un cittadino danese di 22 anni», dice il capo della polizia di Copenaghen Søren Thomassen, in una concitata conferenza stampa. «Ci sono diversi morti e molti feriti», aggiunge, senza specificare il numero delle vittime, ma le parole della sindaca di Copenaghen Sophie H. Andersen lasciano prevedere che il bilancio sarà pesante: « È una situazione grave». Nessuna ipotesi nemmeno sul movente - «è troppo presto» -, ma si indaga per terrorismo e, dalle prime informazioni, per capire se il killer abbia agito da solo. 

«È puro terrore» ha detto Hans Christian Stoltz, un consulente IT di 53 anni, che stava portando le sue figlie a vedere Harry Styles esibirsi al concerto in programma ieri sera proprio nell'arena del centro commerciale. «Potresti chiederti come una persona possa fare questo a un altro essere umano, ma è al di là di qualsiasi comprensione». 

 I testimoni oculari parlano di 15 colpi esplosi, ma le versioni tendono a contraddirsi: «Rimbombavano nelle orecchie, per me potrebbero essere stati quattro o centinaia», ha detto una ragazza che è riuscita a salvarsi nascondendosi dentro il camerino di un negozio. In molti stavano facendo shopping nel centro commerciale, tantissimi i bambini. 

Nessuno si aspettava il dramma che da lì a poco avrebbe sconvolto le loro vite. Erano passate da poco le 17 quando si sono sentiti alcuni spari. Ed è iniziato l'incubo. Diverse persone vengono colpite, i testimoni parlano di un via vai continuo di ambulanze, con medici e paramedici che intervengono sul posto per dare soccorso ai feriti. «Mi hanno urlato "sdraiati, sdraiati. Qualcuno sta sparando".

Sono andato sotto il bancone del bar e mi sono sdraiato e sono rimasto lì immobile, fino all'arrivo della polizia», ha raccontato - secondo quanto riporta il sito danese Jylland Post - una delle persone che era nel centro commerciale. «Ho sentito almeno 15 spari, era tutto irreale, come in un film». Copenaghen è ripiombata nella paura, e nel terrore che piombò sulla città il 14 e 15 febbraio del 2015, quando una serie di sparatorie di matrice islamista aveva provocato due morti e cinque feriti.

Sparatoria in un centro commerciale di Copenaghen: ci sono vittime. Francesca Galici il 3 Luglio 2022 su Il giornale.

Un uomo ha aperto il fuoco in un centro commerciale del capoluogo danese uccidendo diverse persone: la polizia è sul posto. 

Sono ancora frammentarie le notizie che arrivano da Copenaghen, dove un uomo ha aperto il fuoco sulla folla all'interno di un centro commerciale. Non se ne conosce ancora il numero esatto, ma i media locali parlano di diverse vittime tra i presenti. Stando a quanto si apprende dai social, la sparatoria è avvenuta in un mall nei pressi dello stadio, dove questa sera si dovrebbe tenere l'attesissimo concerto di Harry Styles. Dopo qualche ora di indecisione, anche a seguito dell'arresto del sospetto, il concerto alla Royal Arena di Copenaghen p stato confermato. Le operazioni di ingresso sono già cominciate e più della metà del pubblico si trova già dentro lo stadio, in accordo con la polizia che ha dato il suo benestare all'evento.

"Io e il mio amico eravamo all'ultimo piano del ristorante Sunset Boulevard, quando abbiamo visto molte persone correre all'improvviso verso l'uscita, e poi abbiamo sentito un botto", ha raccontato una testimone della sparatoria al mall Field's. La donna ha poi spiegato che mentre correva verso l'uscita ha sentito altri due colpi nel centro commerciale e ha visto tutte le persone nelle vicinanze precipitarsi fuori il più velocemente possibile, tanto che sarebbero stati circa in 100 radunati fuori dall'edificio. Si è poi rifugiata in un appartamento vicino a Field's.

"Mi hanno urlato 'sdraiati, sdraiati. Qualcuno sta sparando'. Sono andato sotto il bancone del bar e mi sono sdraiato e sono rimasto lì immobile, fino all'arrivo della polizia", racconta un altro testimone del mall al sito danese Jylland Post. "Ho sentito almeno 15 spari, era tutto irreale, come in un film", ha aggiunto in evidente stato di choc.

La polizia, dopo una caccia all'uomo al tappeto che ha coinvolto decine di agenti che si sono precipitati nella zona del mall, ha arrestato l'uomo che sarebbe responsabile della sparatoria. Per il momento non sono state date ulteriori informazioni, probabilmente le forze dell'ordine saranno più precise nelle prossime ore, quando il quadro sarà più chiaro.

In sindaco di Copenaghen, Sophie H. Andersen, che sta seguendo da vicino la vicenda, ha annunciato via Twitter di avere attivato il piano di crisi: "Arrivano rapporti terribili sulla sparatoria al Fields. Non sappiamo ancora con certezza quanti siano rimasti feriti o morti, ma è molto grave. Attivato il piano di crisi. Siamo in stretto contatto con la polizia".

Così la Danimarca separò i bambini Inuit dalle loro famiglie. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.

L’esperimento sociale fallito degli ex colonizzatori che trapiantarono 22 piccoli: le vittime ora vogliono una compensazione.

Helene Thiesen aveva 7 anni e gli occhi gonfi di lacrime quando, a bordo della nave MS Disko, si chiedeva perché sua mamma avesse deciso di spedirla via lontano quel giorno, tristissimo, del 1951. «Ero così affranta», ha rievocato Thiesen, ora 77enne, parlando con la Cnn. Thiesen era tra i 22 bambini Inuit che furono prelevati dalle loro case nell’Artico, tra i ghiacci della Groenlandia, senza sapere che sarebbero finiti per mano dei colonizzatori danesi a far parte di un esperimento sociale poi fallito. Bambini tra i 5 e i 9 anni che in molti casi non avrebbero mai più rivisto le loro famiglie.

A quel tempo, la Groenlandia era una colonia danese e gi Inuit erano afflitti da grande povertà e alti tassi di mortalità. L’obiettivo era quello di portare i bambini a Copenaghen per farne dei «piccoli danesi che sarebbero poi diventati classe dirigente di riferimento in Groenlandia», ha spiegato ha spiegato Einar Lund Jensen, ricercatore del progetto al Museo Nazionale di Danimarca e co-autore di un recente rapporto sull’esperimento. Il governo danese tentò così di modernizzare la colonia artica, sperando di riuscire a mantenere i propri interessi mentre in tutto il mondo si stavano diffondendo i movimenti di decolonizzazione. 

Molte famiglie acconsentirono malvolentieri a mandare i propri bambini: lo fecero soltanto con la promessa che avrebbero avuto condizioni di vita migliori. Le cose però non andarono così: i piccoli finirono spesso in famiglie poco accoglienti, isolati sia tra di loro che dalle famiglie di origine.

Al loro arrivo in Danimarca, per quattro mesi, prima di essere affidati alle famiglie, i bambini sono stati ospitati a Fedgaarden, il campo di villeggiatura di Save the Children nella penisola meridionale di Feddet.

Dopo un anno e mezzo, la maggior parte dei bambini è stata rispedita in Groenlandia in un orfanotrofio gestito dalla Croce Rossa Danese, a Nuuk, separata dai groenlandesi e dalle loro famiglie e con il divieto di parlare la propria lingua. Visti come stranieri dai groenlandesi, molti di questi bambini da adulti sono tornati in Danimarca. La metà di loro crescendo ha sofferto di malattie mentali o avuto problemi di abuso di sostanze. 

«Ci hanno portato via la nostra identità e la nostra famiglia» denuncia Kristine Heinesen, 76 anni, che, insieme a Thiesen, è una delle sei persone ancora vive tra quelle coinvolte nell’esperimento sociale. 

Dopo diverse pressioni, soltanto nel 2000 sono arrivate le scuse del governo danese, ma senza alcun riferimento a possibili risarcimenti . Tre settimane fa, a fine dicembre l’avvocato delle vittime, Mads Kroger Pramming, ha presentato presso il tribunale distrettuale di Copenaghen una richiesta di risarcimento pari all’equivalente di 33.000 euro ciascuna. I sei accusano lo Stato danese di aver agito «in violazione dell’attuale legge danese e dei diritti umani». 

Il ministro danese degli Affari sociali interpellato dalla Cnn ha fatto sapere che il governo sta esaminando la richiesta di risarcimento: «L’aspetto più importante per il governo danese sono state le scuse ufficiali ai bambini ormai adulti e alle loro famiglie per il tradimento che hanno subito. Una responsabilità che nessun governo precedente si era assunto» ha osservato Astrid Krag. 

Thiesen è stata arrabbiata con sua madre per gran parte della sua vita. «Pensavo che non mi volesse», ha spiegato. Fu solo nel 1996, quando Thiesen aveva 46 anni, che scoprì la verità. Fu Tine Bryld, assistente sociale danese, scrittore e personaggio radiofonico a rivelargliela. La verità non ha cancellato il danno enorme subito ma ha come mitigato il dolore iniziato a bordo della MS Disko nel 1951. Almeno ora sa perché sua madre l’aveva mandata via. 

·                   Quei razzisti come i norvegesi.

Klara Murnau per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2022.

Un popolo di Poeti, di Artisti, di Esterofili. Questo dovrebbe essere scritto a lettere cubitali sul nostro palazzo della civiltà di Roma, a monito di ciò che in Italia da sempre è cuore della cultura nazionale: mistificare ciò che si trova Oltralpe. Al quarto giorno senza valigia per l'incapacità dell'aeroporto di Bergen di fare due più due e recapitare i miei averi nell'hotel sustainable immerso tra le insenature del Bjornafjord, rifletto sull'infinità di incongruenze che qui, nelle civilizzate lande del mare del nord, scandiscono la vita quotidiana.

I media del Bel Paese da sempre amano osannare le terre natìe vichinghe, e se approdando entro i loro confini vi stupirete del cambio di narrativa, comprenderete perché io non sia qui a raccontare della bellezza dei paesaggi, dell'incredibile sensazione delle estati miti mentre a Milano si boccheggia e dello straniamento del sole di mezzanotte, perché amici carissimi, per queste meraviglie basta googlare e comunque hanno valore solo nei termini di una vacanza. Breve.

 C'è un motivo per cui nessuno al di fuori della Norvegia ha mai pensato di andare a mangiare in un ristorante norvegese. La colazione è basata su un semplice principio: pane con sopra roba, come ad esempio uova di pesce, affettati, formaggio o sottaceti dolci. Il pranzo è composto da pane con roba sopra. La cena potrebbe essere qualcos' altro, generalmente insipido con a lato qualche salsa indecifrabile.

Qualcuno di voi dirà: c'è il salmone. Di salmoni la Norvegia è piena. Ecco come il primo baluardo della cultura norrena viene accoppato sotto l'onta degli allevamenti intensivi. Potrebbero quindi informarvi che nell'ultimo rapporto del NorVet 2020 è assicurato come il 99% dei pesci nelle farm non venga trattato con antibiotici. Al loro posto, ipervaccinazioni e pidocchi di mare a divorarli vivi, ma l'uso di sostanze chimiche e coloranti è finalmente out.

Come non menzionare poi la carne di balena, uno dei piatti più inutili della cucina mondiale? Contando i forse 5 milioni e mezzo di individui nei suoi 1.700 km di lunghezza, in questo lembo di terra si contano pochissimi estimatori di questa pietanza. Eppure, ogni anno centinaia di balene vengono massacrate in onore dei loro antichi Dei. Scherzo. Forse.

Chi avesse bisogno di rimettersi in forma per la prova costume, provi con 20 giorni in Scandinavia, tra ricette di dubbio gusto e l'altissima percentuale di obesità dei loro abitanti, la voglia di mangiare vi passa sicuro. Solo a guardarli. Nel frattempo, la nazione promotrice della cura del pianeta, continua la lotta intestina con Greenpeace, nemico pluridecennale che tenta malignamente di bloccare l'estrazione del petrolio artico e cancellare le baleniere.

Un paese in un cortocircuito d'ipocrisia, che si riconosce nei valori eletti alla consegna del Premio Nobel per la Pace, ma che nel 2021 sigla con gli Usa un trattato per lo stazionamento di bombardieri a vasto raggio e l'attracco di sottomarini nucleari nel bel mezzo del porto di Tromsø. Pace sì, ma col culo degli altri. 

Che siano convinti di posappare. L'eguaglianza sociale coincide con l'appiattimento e la rinuncia. A quelle latitudini, si noterà, non capita mai nulla, se non qualche sporadica ma intensa esplosione di violenza, segno che qualcuno ogni tanto perde il controllo. E decide di uscire con il botto dal sistema sociale, economico e politico costruito per favorire la tolleranza.

Sedere una sorta di superiorità morale perché consapevoli del loro benessere, dell'assistenza sanitaria gratuita, di politiche ambientali progressiste (sic!) e una buona rete di sicurezza sociale, è un fatto, dimenticando però che è una realtà presente in praticamente tutta Europa. Eppur si muove - poco. Dal trasporto pubblico alla burocrazia, tutto è lentissimo. Non è raro trovarsi in situazioni paradossali dove barche scordino la vostra prenotazione o tassisti con vetture inadeguate consiglino di lasciare le valige a terra e recuperarle in seguito.

Anche il tanto osannato nord è la prova di una fratellanza universale nell'inadeguatezza umana. Omologazione è la parola d'ordine, uguale è cosa buona e giusta. Di socialmente accettabile controcorrente c'è solo il salmone, il Death Metal, i culti pagani, il bruciare qualche chiesa, andare in giro con arco e frecce mirando alla gente o dichiararsi neo nazista. Insomma con o senza satanismo, la domenica sarà un'escursione nei boschi e ad una certa età, una capanna nella natura come desiderio più grande.

OMOLOGATI

E l'istruzione? L'Università di Oslo ci regalò un esempio divertente quando si definì "Università leader in Europa". Alla domanda su quali fossero i parametri visto che come istituzione non rientrava tra le top 100, chiarirono che la loro era la migliore università Europea in Norvegia. Messa giù così, sicuramente un risultato. Una delle cause principali dell'alto tasso di abbandono dello studio sembra essere la discriminazione razziale e la possibilità di accesso a facili sussidi statali. Nelle scuole superiori norvegesi uno studente su tre lascia entro i cinque anni. 

Se non vi è mai capitato di perdervi in discorsi culturali con uno di loro, ora sapete il perché. Tutto è ingiustificatamente costoso. Dai beni di prima necessità all'alcool, abbigliamento, elettrodomestici, qualunque cosa sarà un aspiratore dei vostri guadagni. Prendere una patente può costare quasi 8.000 euro, certo non mi stupisco del basso tasso di incidenti stradali. E anche i salari proporzionati ai costi, non sempre sono una realtà. Chi ha un "buon lavoro" ha un potere d'acquisto relativamente inferiore che altrove.

In cambio, coloro più in basso nella "catena alimentare" hanno un potere d'acquisto migliore. Insomma un'inculata, lavorare tanto per ottenere medio. Con una continua propaganda volta all'equo e politicamente corretto, si è contribuito all'evidente disagio che ha incastrato la popolazione in un senso di repressione, condannandola a una forzata sobrietà e malcelata invidia sociale, nonché a un orrido stile personale.

Non pensiate che io stia tentando di dissuadervi dal visitare una nazione benedetta da una natura incredibile, incastonata in orizzonti commoventi o che voglia impedirvi di mangiare il vostro salmoncino imbottito di steroidi, no. Quel che son qui a suggerirvi, è la possibilità domattina di svegliarvi nella vostra patria imperfetta sorridendo allo smog di antiche città piene di bellezza, addentando qualcosa di davvero buono, ammettendo a voi stessi che si, alla fine tutto mondo è paese.

Norvegia, a dieci anni dal massacro Breivik chiede la liberà vigilata. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.

L’estremista di destra che nel 2011 uccise 77 persone vuole uscire dal carcere. 

A dieci anni anni dal massacro del 22 luglio 2011 in Norvegia, l’estremista di destra Anders Behring Breivik intende chiedere al tribunale la libertà vigilata, richiesta che ci si aspetta venga negata. Le famiglie delle sue vittime temono che l’uomo userà l’udienza come un palcoscenico per esternare le sue opinioni politiche, e per questo motivo invocano che sia privato dell’attenzione mediatica. Per ragioni di sicurezza, il tribunale distrettuale della regione meridionale di Telemark ascolterà la richiesta di Breivik di libertà condizionata nella palestra della prigione di Skien, dove è incarcerato. Breivik, che ha ucciso 77 persone durante il massacro, è stato condannato a 21 anni di prigione, che possono essere estesi a tempo indeterminato finché è considerato una minaccia per la società. All’epoca, questa era la sentenza più severa della Norvegia, anche se la legge è stata modificata per consentire la possibilità di concedere pene più lunghe.  

Oslo dice no all'ergastolo. Perché Breivik non è stato condannato all’ergastolo, al terrorista norvegese il massimo della pena: 21 anni. Matteo Angioli su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

Non meritano indifferenza due recenti decisioni in tema di giustizia penale. In base alla legge britannica sul terrorismo, ad agosto, un 22enne inglese, Ben John, era stato condannato a due anni di carcere per aver scaricato migliaia di testi antisemiti e di suprematismo bianco. Il giudice aveva però sospeso la pena puntando a un percorso davvero alternativo, “condannando” il giovane alla lettura di classici come Shakespeare, Austen e Dickens, e verificandone periodicamente l’auspicata graduale rieducazione. «Sei una persona solitaria con pochi o nessun vero amico», aveva detto all’imputato, descritto come «facilmente influenzabile».

Per il giudice era un incidente isolato che non aveva recato nessun danno. Il 4 gennaio, nella prima udienza di verifica, lo stesso giudice si era detto incoraggiato dai progressi iniziali compiuti da John. Di diverso parere l’Avvocato Generale del Regno Unito e deputato conservatore, Alex Chalk, autore di un ricorso contro la sentenza ritenuta eccessivamente indulgente. Il ricorso, sollecitato dall’associazione Hope Not Hate (Speranza Non Odio) che aveva inviato una lettera aperta a Chalk, è stato accolto dalla Corte d’Appello il 19 gennaio, mettendo fine alla libertà condizionale del giovane imputato per il quale si sono aperte le porte del carcere. Chalk ha dichiarato che il governo «è impegnato a interrompere le attività degli estremisti più pericolosi e a sostenere chi contrasta la retorica dell’odio e a proteggere le persone vulnerabili che vengono trascinate nel terrorismo.» È lecito chiedersi allora se la forma di protezione migliore per una persona “facilmente influenzabile”, altrettanto vulnerabile, come Ben John, sia il carcere e se non sia sufficiente la libertà condizionale.

Secondo il suo avvocato, John è «un bambino» con una «biblioteca elettronica» che include anche testi marxisti, e la sentenza di custodia cautelare era «del tutto sensata, costruita con cura e appropriata» proprio perché abbinata a un programma di riabilitazione “serio” che aveva già prodotto effetti tangibili. Hope Not Hate esulta per l’annullamento della “sentenza allarmante” perché non è possibile evitare il carcere per reati che comportano una pena detentiva massima di quindici anni. Ma, se la speranza di superare l’odio passa per il carcere, non c’è speranza. Negli stessi giorni è stato un “vero” terrorista a far parlare di sé. Il 18 gennaio è scoccato il decimo anno di detenzione di Anders Breivik, l’uomo che nel 2011 compì un doppio attentato in Norvegia uccidendo 77 persone. Breivik si è avvalso del diritto, maturato dopo dieci anni di detenzione, di chiedere la libertà vigilata. In tribunale ha affermato di aver rinunciato alla violenza ma non alle idee di ostentata ispirazione nazista.

Non avendo mostrato dunque nessun rimorso, il primo febbraio, il giudice ha negato la libertà condizionale e confermato la sentenza di reclusione di 21 anni, pena massima in Norvegia, dove non esiste l’ergastolo. Esiste però una disposizione che consente di prolungare la detenzione, finché il detenuto non sia più giudicato un pericolo.

Breivik si è presentato facendo il saluto nazista e mostrando un cartello con un messaggio inneggiante alla supremazia bianca. Aveva già utilizzato precedenti udienze come piattaforma per denunciare un genocidio dei bianchi in Occidente. Aveva perfino tentato di fondare, dal carcere, un partito fascista contattando per posta i vari Ben John, ma quelle lettere sono state sequestrate dagli agenti penitenziari e aggiunte alle prove del suo mancato ravvedimento.

Giusto, dunque, riflettere sul rischio che tali apparizioni ispirino individui “facilmente influenzabili”.

Tuttavia, molti norvegesi sono convinti che il modo migliore per sconfiggere la sua visione del mondo non sia tappargli la bocca, ma dimostrare che il sistema da cui Breivik sostiene di essere oppresso, in realtà, gli sta dando tutte le possibilità di esprimersi, attraverso canali legali attentamente governati. Lo credo anch’io. In Norvegia perfino un criminale come Breivik ha gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino detenuto, inclusi quelli di pensiero e parola.

Di fronte all’efferatezza del crimine commesso e orgogliosamente rivendicato, la società norvegese – tutt’altro che ingenua – si è chiesta, non senza dolore e aspri confronti, se riformare il codice penale introducendo l’istituto dell’ergastolo. Risposta? No, non permetteremo a Breivik di vincere manomettendo i principi e le leggi alla base della nostra democrazia. Matteo Angioli

L'udienza a 10 anni dalla condanna. Breivik in aula per la libertà vigilata, il terrorista di Utoya tra saluti nazisti e richiami al ‘genocidio dei bianchi’: “Non sono un pericolo”. Redazione su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.  

Dice di non essere più un pericolo per la società e per questo, presentatosi oggi davanti alla Corte distrettuale di Telemark nel carcere di Skien, dopo dieci anni di reclusione, ha chiesto la libertà vigilata. Ma nel farlo Anders Behring Breivik, l’estremista di destra che il 22 luglio 2011 fu responsabile di un duplice attentato ad Oslo e sull’isola di Utoya in cui morirono 77 persone, ha compiuto il suo personale “show” con saluto nazista e un cartellone su cui scritto “Fermate il vostro genocidio contro le nostre nazioni bianche”.

È la scena allucinante avvenuta questa mattina nel tribunale norvegese dove si dovrà decidere sull’istanza di libertà vigilata chiesta da Breivik, oggi 42enne: l’estremista di destra sta scontando una pena di 21 anni di carcere, il massimo previsto dalla legislazione norvegese.

Una pena che però può essere prorogata se l’imputato viene riconosciuto come una minaccia o un pericolo per la società. Proprio per questo una prima richiesta di rilascio era stata negata lo scorso anno da un pubblico ministero di Oslo.

Oggi Breivik ci riprova, ripresentandosi davanti ai giudici con un completo nero, testa rasata e barba corta. Nel chiedere di riesaminare la richiesta di rilascio anticipato per buona condotta, che era stata già respinta il 2 gennaio scorso, gli avvocati di Breivik hanno spiegato che il loro assistito “non rappresenta più alcun pericolo per la società”. “Come in qualsiasi altro stato di diritto, un detenuto ha il diritto di richiedere la libertà condizionale e Breivik ha deciso di avvalersene“, ha spiegato l’avvocato Oystein Storrvik.

Una richiesta che, secondo i media norvegesi, non ha alcuna chance di essere accolta dal tribunale, col giudice ha tempo fino a giovedì 20 gennaio per valutare la richiesta, anche se ci vorranno diverse settimane prima che la sentenza venga annunciata. Breivik, come emerso chiaramente anche oggi col suo saluto nazista e il cartellone sul “genocidio contro le nazioni bianchi”, non ha mai mostrato alcun segno di pentimento.

Le stragi a Oslo e Utoya e il processo

Era il 22 luglio 2011 quando, dopo mesi di meticolosi preparativi, Breivik fece esplodere un’autobomba davanti alla sede del governo di Oslo, uccidendo otto persone e ferendone decine. Poi guidò fino all’isola di Utoya, dove aprì il fuoco contro il campo estivo annuale dell’ala giovanile del partito laburista: 69 persone vennero uccise, la maggior parte adolescenti, prima che Breivik si arrendesse alla polizia.

Nel 2012 fu condannato e il tribunale lo definì capace di intendere e di volere, respingendo la tesi della procura che fosse psicotico; Breivik non presentò ricorso. Durante il processo del 2012 entrò in aula ogni giorno facendo un saluto a pugno chiuso e dicendo ai genitori delle vittime che avrebbe voluto uccidere più persone.

·        Quei razzisti come gli svedesi.

Alle origini della guerra della droga svedese. Emanuel Pietrobon il 7 Novembre 2022 su Inside Over.  

Personaggi pubblici assassinati. Proliferazione di quartieri ad accesso vietato nei quali entrare con una divisa potrebbe significare morte. Stragi con armi da fuoco e attentati dinamitardi. Proteste della cittadinanza contro il gangsterismo. E tanti, tanti innocenti caduti a causa di scambi di persone, coincidenze sfortunate e proiettili vaganti.

La descrizione appena letta calza a pennello con la Chicago degli anni Trenta, col Bronx degli anni Settanta, con la Palermo degli anni Ottanta, ma anche con l’insospettabile Svezia degli anni Dieci e Venti del Duemila. Una pericolosa e triste deriva, quella della fu oasi del liberal-progressimo europeo, che da tempo è riconosciuta da tutti: dalla grande stampa internazionale alla classe dirigente svedese.

Risalire alle origini e capire le ragioni della guerra della droga svedese, tema centrale di ogni competizione elettorale degli ultimi anni e musa ispiratrice dell’industria dell’intrattenimento, non è una missione ardua: i suoi fattori scatenanti e facilitanti sono facilmente rintracciabili. Lecito è chiedersi perché, dunque, non vengano considerati dalla politica e siano ignorati da società e stampa.

Gli errori che la Svezia non vuole vedere

Indagare origini e ragioni della guerra della droga svedese equivale a raccontare una storia noir la cui trama è il risultato di miopia politica, lassismo giudiziario e, ultimo ma non meno importante, peccati di una società corrotta che vuol apparire perfetta.

La guerra della droga svedese non è che uno dei tanti fenomeni perversi scaturiti dal divenire dell’Europa il secondo mercato di cocaina più grande del mondo. La Svezia come la Spagna, la cui Costa del Sol è divenuta Costa de la sangre. O come il Belgio, cuore pulsante del progetto europeo e principale porta d’accesso della bianca nel continente. O come i Paesi Bassi, altro laboratorio di esperimenti sociali di stampo progressistico che oggi è dilaniato dall’ascesa di cartelli della droga. O come la Francia, dove tra le cellule del narcobanditismo è guerra permanente, specie in quel di Marsiglia.

Gli errori della Svezia sono gli stessi che hanno commesso Belgio, Francia, Paesi Bassi e Spagna: politiche migratorie prive di lungimiranza, sistemi giudiziari senza i mezzi necessari ad affrontare le sfide del crimine organizzato di importazione, società immature nella misura in cui non accettano prese di responsabilità. L’errore del non voler accettare la propria parte di colpevolezza.

Sangue e kalashnikov lungo la Belgrado-Stoccolma

Snabba cash, viaggio nella Svezia criminale

In Svezia va crescendo il sostegno a forze aliene alla tradizione della morigeratezza, come i Democratici svedesi, perché è naturale, prevedibile e, in un certo senso, inevitabile, che qualcuno raccolga lo scomodo malcontento popolare che nessun altro vuole ascoltare. Come il malcontento degli abitanti di Södertälje, contea di Stoccolma, che il 10 ottobre 2022 sono scesi in piazza per protestare contro il gangsterismo. Scene da Sicilia anni Novanta.

In Svezia è epidemia di criminalità, con organizzazioni la cui pericolosità viene ritenuta in grado di minare lo stato di diritto, perché le forze dell’ordine sono alle prese con una sfida del tutto nuova e perché il sistema giudiziario tende a non comminare pene severe. E anche perché le bande ricorrono ad ogni sotterfugio per aggirare le maglie della giustizia, ad esempio reclutando minorenni non imputabili per legge – anche di 6/7 anni – per compiere crimini di gravità variabile.

La Svezia è cieca davanti al problema del gangsterismo, che ha peraltro origini simili ad altri fenomeni perversi come l’attecchimento dell’Islam radicale nelle stesse zone, perché la riguarda soltanto quando le faide provocano vittime nei quartieri bene – dato che oltre la metà delle sparatorie avviene nelle cosiddette aree vulnerabili. Ignorando che la violenza promani (anche) dal fatto che alle politiche migratorie non abbiano fatto seguito agende di integrazione, ma di segregazione spaziale, e che sia il fisiologico ritorno di fiamma dei peccati di droga degli svedesi – i cui morti per overdose sono aumentati del 600% dal 2000.

L’alba di un narco-stato

Se è vero che la matematica non è un’opinione, i numeri globali – arresti, attentati, feriti, morti, sparatorie – suggeriscono che la Svezia, dove i maschi in età 15-29 anni corrono un rischio 10 volte maggiore di essere sparati rispetto ai coetanei tedeschi, abbia un problema di gangsterismo non indifferente.

I numeri e i fatti della guerra della droga svedese, che il moderato Ulf Kristersson ha definito una “seconda pandemia”, sono da tragedia chicagoana e spiegano perché il governo miri a rafforzare le forze dell’ordine con 10mila nuovi agenti entro il 2024:

Nei primi nove mesi del 2022 sono state uccise più persone che nell’intero 2021 – 48 contro 46;

Le morti annuali sono saldamente nell’ordine della quarantina dal 2015;

Il ricorso agli esplosivi, complice il prezzo medio di una granata – poco meno di dieci euro, l’equivalente di un pasto al McDonald’s –, è aumentato del 140% nel periodo 2012-18;

Più di 400 detonazioni nel periodo 2018-2021: 90 compiute, 52 sventate e 154 tentate nel 2018; 133 compiute, 82 sventate e 242 tentate nel 2019; 107 compiute, 89 sventate e 209 tentate nel 2020; 79 compiute, 69 sventate e 158 tentate nel 2021;

1.674 sparatorie nel periodo 2017-21, che hanno provocato più di 220 morti e oltre 600 feriti;

L’intensità della guerra della droga ha reso Svezia l’unico paese UE dove le sparatorie mortali sono aumentate in maniera costante dal 2000, determinandone una scalata senza precedenti nella storia criminale del continente: 18esima per tasso di violenza con armi da fuoco nel 2000, seconda nel 2014, prima a partire dal 2018;

L’intensità della guerra della droga ha posto la Svezia in cima alla classifica dei paesi UE per morti da armi da fuoco: 4 ogni milione di abitanti, a fronte di una media comunitaria di 1,6;

40 famiglie criminali e 500 bande, per un totale di 9.000-12.000 gangster attivi in tutto il paese;

Molteplici e variegati gli affari illeciti ai quali si dedicano le bande, dall’estorsione ai piccoli e medi imprenditori dei centri urbani ai furti in casa – 81.000 soltanto nel 2020.

Un gangster su due è nato all’estero e, nel complesso, otto su dieci non sono svedesi etnici;

46 persone innocenti finite sotto il fuoco dei commandos tra il 2011 e il 2020, otto delle quali non ancora adolescenti – come la dodicenne uccisa da un proiettile vagante il 3 agosto 2020.

60 aree vulnerabili in tutto il paese, 22 delle quali “ad alto rischio”, che concentrano il 5,4% della popolazione nazionale e più della metà delle sparatorie;

Arrestare ed espellere. Nella grand strategy di Stoccolma si intravede soltanto repressione. Ma non saranno i manganelli a risolvere un cancro radicato e le cui cellule tumorali sono sparse in tutto il paese, e non soltanto nelle no-go zone. La repressione è utile, certamente, ma è un palliativo. La sola-e-unica cura è e sarà rappresentata da un ripensamento integrale del modello Svezia che investa giustizia e società e che trasfiguri in egual misura centri e periferie.

Svezia verso la stretta sull'immigrazione: addio alle politiche buoniste. Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 16 ottobre 2022.  

Tutto pronto, in Svezia, per la formazione del nuovo esecutivo di centrodestra che, per la prima volta, avrà il sostegno ufficiale dei Democratici svedesi. Il nuovo governo, che sarà costituito da Moderati, Cristiano Democratici e Liberali, prevede di tagliare le tasse, avviare il processo per la costruzione di nuove centrali nucleari, limitare i benefici, inasprire le regole sull'immigrazione e dare più poteri alla polizia. I Democratici svedesi saranno tecnicamente fuori dal governo che sarà presieduto da Ulf Kristersson, ma nella pratica godranno di un ampio potere e di una influenza rilevante, per via dei numeri in Parlamento su cui possono contare a seguito del boom alle ultime elezioni politiche. "I Moderati, i Cristiano Democratici e i Liberali costruiranno un esecutivo e coopereranno con i Democratici Svedesi in Parlamento", ha annunciato Ulf Kristersson. "Il cambiamento non è solo necessario, il cambiamento è anche possibile e noi quattro partiti insieme possiamo offrire quel cambiamento", ha detto ai giornalisti il futuro premier, 58 anni.

Innanzitutto, il nuovo governo svedese "3+1" inasprirà radicalmente le regole sull'immigrazione, dicendo addio alle politiche "Open borders" della sinistra. Secondo il programma di governo stipulato fra le forze politiche di centro e i Democratici svedesi, infatti, i richiedenti asilo potranno presentarsi e presentare una richiesta, ma rimanendo solo temporaneamente nel Paese. Le autorità regionali, riporta euronews citando i contenuti del patto della coalizione - siglato in un luogo simbolico come il castello di Tidö, a 140 km chilometri a ovest di Stoccolma - potranno lanciare delle campagne per incoraggiare i migranti a tornare a casa volontariamente.

Il nuovo governo vuole approvare il ricongiungimento familiare per i richiedenti asilo solo dopo due anni di residenza permanente, il che separerà le famiglie dei richiedenti asilo per un lungo periodo prima che possano essere di nuovo insieme. Chiunque voglia rimanere in Svezia più a lungo "deve assumersi la responsabilità di diventare parte della società svedese", il che significa, come minimo, imparare la lingua prima di poter ottenere la cittadinanza. A questo si aggiunge la proposta di sottoporre le persone al di fuori dell'Ue al test del Dna, con i profili genetici "memorizzati in registri ricercabili". Inoltre, la Svezia ridurrà la quota di rifugiati da 5.000 persone all'anno a sole 900 e taglierà il budget degli aiuti internazionali del Paese dall'1% del PIL allo 0,85%. Nel patto di coalizione, ampio spazio alla lotta alla criminalità che sta affliggendo le periferie delle città svedesi, a cominciare dalla multietnica Malmö: previste sanzioni più dure per i membri delle bande criminali, per chi commette stupri, mentre anche l'accattonaggio per strada sarà classificato come un reato. L'esecutivo vuole inoltre stanziare più soldi e dare più poteri alla polizia.

Anche la sinistra cambia idea sull'immigrazione

Fuori tempo massimo anche la sinistra - non solo svedese, ma scandinava - si è accorta del fallimento delle politiche buoniste sull'immigrazione e della fine dell'utopia del multiculturalismo. La Svezia, ha sottolineato lo scorso aprile l'ex premier social democratica Magdalena Andersson a seguito dei disordini scoppiati nella città di Malmö, non è riuscita a integrare il vasto numero di immigrati che ha accolto negli ultimi due decenni, portando alla creazione di "società parallele e violenza tra bande". La svolta della sinistra svedese è talmente significativa che la stessa Andersson, non più tardi di poche settimane fa, ha sottolineato che lo svedese dovrebbe essere parlato in tutte le aree del Paese. Caso isolato? No: negli ultimi anni, anche il governo danese di centro-sinistra ha imposto una linea dura nei confronti dei profughi, avanzando, ad esempio, una proposta di legge per obbligare una buona parte degli immigrati che ricevono sussidi statali a lavorare 37 ore a settimana per aver diritto al contributo. L'unica che sembra vivere su Marte sembra essere la sinistra italiana, anziché imparare la lezione dai colleghi europei.

"Non funziona". Così la sinistra svedese smonta il buonismo sull'immigrazione. La sinistra svedese ha cambiato radicalmente posizione negli ultimi tre anni sul tema dell'immigrazione e dell'integrazione. Un cambio di prospettiva profondo rispetto al buonismo di alcuni anni fa. Roberto Vivaldelli il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Giuseppe Prezzolini diceva che se il "progressista è l’uomo di domani", il "conservatore è l’uomo di dopodomani". Ne sanno qualcosa in Svezia, dove il sogno progressista-multiculturale di integrazione e inclusione di migliaia di immigrati si è trasformato in incubo fatto di periferie fuori controllo, per stessa ammissione dei rappresentanti della sinistra svedese. L'ascesa dei Democratici svedesi alle recenti elezioni politiche è la prova che qualcosa nel Paese scandinavo non ha funzionato sotto il profilo dell'integrazione e che le ripercussioni sulla società di un'immigrazione fuori controllo sono tangibili. La Svezia, ha sottolineato lo scorso aprile, fuori tempo massimo, la premier social democratica Magdalena Andersson a seguito dei disordini scoppiati nella città di Malmo, non è riuscita a integrare il vasto numero di immigrati che ha accolto negli ultimi due decenni, portando alla creazione di "società parallele e violenza tra bande".

Fine dell'utopia del multiculturalismo

Sempre Prezzolini affermava che "il conservatore è un freno all'utopia e agli utopisti, che s'innamorano di cose e di idee mai sperimentate e che, quando si realizzano, si rivelano ben diverse da come se le immaginavano". Forse la sinistra sperava che il multiculturalismo producesse una sorta di paradiso terrestre, ma la società liberal-progressista svedese si è presto scontrata con un'amara realtà dei fatti, anche in termini valoriali, con un'immigrazione che ha riprodotto, soprattutto nelle periferie, le dure leggi (conservative in senso islamico) della shari'a, con buona pace dei diritti Lgbt e dell'emancipazione femminile. Per non parlare del salafismo, in costante crescita. Quando la sinistra svedese ha capito l'errore storico che ha commesso, era troppo tardi.

La svolta della sinistra scandinava

"C'è stata una profonda evoluzione del Partito socialdemocratico svedese negli ultimi tre anni" spiega a LeFigaro Tino Sanandaji, l'economista svedese di origine curda che ha scritto "Mass Challenge", citato dal Foglio. Fino al 2019, sottolinea, la posizione ufficiale del partito era che l'immigrazione non avesse alcun impatto, "che fosse necessario salvare lo stato sociale e che coloro che ritenevano i tassi di immigrazione più elevati come la causa del drammatico aumento della violenza fossero dei razzisti". Ora, "la posizione ufficiale dei Socialdemocratici è di ammettere che l'immigrazione contribuisce alla segregazione". La Svezia, afferma l'economista, "è una società del consenso: quasi l'intero spettro politico, a eccezione di una piccola minoranza, era favorevole all'apertura delle frontiere nel 2015 o nel 2016, e l'intero spettro politico, a eccezione di una piccola minoranza, ora sostiene la limitazione dell'immigrazione".

La svolta della sinistra svedese è talmente significativa che la stessa Magdalena Andersson, non più tardi di poche settimane fa, ha sottolineato che lo svedese dovrebbe essere parlato in tutte le aree del Paese, aggiungendo: "Non vogliamo avere Chinatown in Svezia, non vogliamo avere Somalitown o Little Italy". Si potrebbe obiettare che quello svedese è un caso isolato, un'anomalia. E invece no, perché, negli ultimi anni, anche il governo danese di centro-sinistra ha imposto una linea dura nei confronti dei profughi, avanzando, ad esempio, una proposta di legge per obbligare una buona parte degli immigrati che ricevono sussidi statali a lavorare 37 ore a settimana per aver diritto al contributo. Chissà se la sinistra "fucisa" italiana imparerà qualcosa dai colleghi svedesi e danesi che hanno testato con mano la follia della loro utopia multiculturale o proseguirà nella sua retorica open borders.

C’era una volta la tollerante Svezia prigione a vita per un adolescente. Fabian Cederholm condannato all'ergastolo per l'omicidio di due insegnanti. Ma non aveva precedenti. Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 9 settembre 2022.

Ergastolo. E la sentenza del tribunale svedese che ha giudicato Fabian Cederholm, il diciottenne colpevole del duplice omicidio, nel marzo di quest’ anno, delle due insegnanti, Victoria Edstrom e Sara Book, dell’istituto d’arte Malmo Latin School. In Svezia il caso ha scosso il paese innanzitutto per la sua efferatezza, le vittime infatti, ambedue cinquantenni, sono morte sotto i colpi di ascia e coltello. La stessa primo ministro svedese Magdalena Andersson era intervenuta sull’accaduto esprimendo «tristezza e sgomento».

La giovane età dell’assassinio ha scatenato il dibattito su un’ondata di violenza che anche nella democratica e tollerante nazione scandinava sta preoccupando le autorità. Quello di Malmoe è il terzo attacco eseguito con armi da taglio in una scuola nella regione di Skåne nell’ultimo anno, anche se la polizia non ha mai stabilito alcun legame tra questo episodio e i precedenti incidenti non mortali. Inoltre lo stesso processo non è riuscito a stabilire il movente del gesto.

Cederholm non aveva precedenti penali. Un motivo sconosciuto con assenza di prove di un legame insolito tra l’assassino e due insegnanti dunque, che rimarrà tale a meno di una dichiarazione del diciottenne che intanto sconterà la prigione a vita. Anche il fatto che lo stesso studente ha chiamato la polizia, arrivata dieci minuti dopo la strage, contribuisce ad aumentare l’alone di mistero che circonda questo caso. La pena dell’ergastolo è stata spiegata dal giudice Johan Kvart che ha emesso la sentenza con il solo fatto che «questi sono due omicidi molto brutali in cui le vittime hanno sofferto molto e sperimentato una grave paura della morte».

Si tratta della persona più giovane mai condannata all’ergastolo nella storia della Svezia. Il ragazzo si è dichiarato subito colpevole, ha affermato che per lui non esiste posto nella società e credeva di rimanere ucciso durante l’attacco agli insegnanti. Gli esami psichiatrici hanno mostrato che soffre di una forma di autismo, ma secondo il tribunale non di un grave disturbo psichiatrico.

Svezia, obbligati a tacere e il vortice dell'alcol: quello che nessuno vi racconta. Klara Muranau su Libero Quotidiano il 24 luglio 2022

La Svezia, si sa, è uno dei migliori paesi al mondo. Spesso ai vertici di classifiche varie ed eventuali, è la stella polare a cui riferirsi come modello di civiltà e progresso. Ne siamo ben consapevoli noi italiani, che da sempre nei nostri media riportiamo le virtù dell'Eden nordico, la notoriamente pacifica e neutrale terra portatrice di fondamentali contributi allo sviluppo mondiale, attraverso i suoi grandi assets: Ikea, H&M e la vendita di armi. 

La Svezia è un paradiso per davvero, soprattutto per gli introversi più accaniti e per cui dovrebbe essere una scelta naturale trasferirsi lassù. Restare in casa tutto il tempo a causa del brutto tempo, non incontrare mai nessuno e non ricevere mai un invito neanche per un caffè grazie alla loro avanzata cultura sociale, è puro oblìo.

Puoi facilmente passare mesi senza parlare, tranne che per dire "Ciao" quando vai a fare la spesa: "Ciao" quando vai a pagare. "Grazie", quando ricevi il resto. "No", quando viene chiesto se si desidera la ricevuta. In Svezia c'è una legge per cui ogni negozio deve chiedere ogni volta a ogni singolo cliente, se vuole uno scontrino. Un ottimo modo per aumentare il numero medio delle parole pronunciate ogni giorno e non rischiare così di far atrofizzare la lingua. Puoi dire anche "Sì" se vuoi la ricevuta, ovviamente. Tutto questo vale fino al sabato sera, quando troverete orde di bionde fanciulle in minigonna incuranti delle temperature sotto zero, ubriache e urlanti fuori dai locali, pronte a tutto a seconda della gradazione di alcool in corpo ma, come confermatomi in patria, disponibili in base alla proporzione taglia/bicchieri.

Più sono belle, più drink dovrete offrire per un giro in slitta. Fair enough. E non preoccupatevi della qualità del bere perché non faranno tanto gli/le schizzinosi/e. Tanto per darvi un'idea, la Svezia è il più grande consumatore al mondo di vino in scatola. Il Tavernello non è mai sembrato così romantico.

È anche uno dei pochi luoghi in tutto il pianeta in cui è più facile andare senza problemi a letto con qualcuno piuttosto che diventarci amico. Mai più "friendzone". Le persone non fanno amicizia semplicemente perché non hanno bisogno di amici. Basta internet a tamponare ogni carenza affettiva e per il resto si aspettano che sia il governo a prendersi cura di loro in caso di necessità. Anche i genitori incoraggiano i figli adulti a chiedere soldi allo Stato se non possono pagare l'affitto. Già vedo i miei vicini di casa massacrati da quegli indolenti inutili della loro progenie, chiedersi perché non si siano trasferiti in Svezia prima.

TURBE PSICHICHE 

E se qualche turbamento dovesse accadere per la via, non preoccupatevi sarete in buona compagnia: un'alta percentuale dei nostri belloni ha problemi di salute mentale. In particolare negli ultimi 10 anni dove un incremento considerevole si è registrato tra i giovani adulti- sottolineano i professori Schierenbeck e Karlsson dell'Università di Göteborg. Il 70% delle giovani donne trai 18 e i 24 anni ha dichiarato di non stare bene a causa di stress e insicurezza, riscontrando gravi problematiche del sonno, riferisce il Servizio sanitario Nazionale. Sicuramente un modo per risolvere con più incisività questa tematica, sarebbe parlarne. Mala maggior parte delle conversazioni tra la classe media restano più superficiali, perché gli svedesi hanno tanta, ma tanta paura dei conflitti.

Non si può discutere nulla di sensibile, quindi gli argomenti sono limitati a cose su cui quasi tutti possono essere d'accordo, come: "Poveri i poveri!"; "Sembra talco ma non lo è, serve a darti l'allegria!" o "la Russia è pericolosa!". Su questo vi vedo scuotere la testa in segno di approvazione, sono riuscita finalmente a mettervi tutti d'accordo.

Anche per questo la Svezia è tra i posti più sicuri al mondo. Ma con eccezioni. Per esempio le zone periferiche di Stoccolma, dette Baghdad e Kabul. Anche là, alcuni svedesi iniziano a tirare la testa fuori dal sacco, ma sono comunque ben tollerati dalla comunità islamica locale che pur non condividendone le abitudini culinarie e l'eccessiva freddezza (come non capirli?), permette loro di stazionare in alcuni quartieri delle loro colonie chiamate Göteborg e Malmö.

Ma non solo di kebab è fatta oggi la Svezia e se si ha voglia di visitare altre meraviglie del paese, consiglio di andare leggermente più a Nord. Menzione speciale va sicuramente a Gävle, cittadina interessante con tradizionale caprone gigante di paglia posizionato nella piazza centrale, a cui spesso si dà fuoco per poi incidere ai suoi piedi i consueti simboli satanici tanto amati da quelle parti. Folklore. Ma è durante l'emergenza Covid che hanno saputo dimostrare la loro superiore moralità e pragmaticità: «Morire è nell'ordine delle cose no!? » dichiarò il bartender circondato da amici nell'unico locale di Malmö aperto dopo le 21. «Il governo non ha fatto storie inutili, perché in maggioranza hanno notato che questo virus ammazza i vecchi.

Quando finalmente toglieranno questi 2 metri di distanza da mantenere, potremo tornare a starne lontani 5 come nostro solito e i contagi non saranno più un problema». Gli altrui annuirono. Duri ma giusti. Poi ho compreso il senso delle loro sagge parole e l'ho collocato in un piano più grande. Quello del loro sistema sanitario nazionale ad esempio, supportato dalle notoriamente alte tasse ed uguale per tutti: dai giovani agli over 50, chiunque è lasciato equamente ad aspettare mesi prima di veder concessa la possibilità di qualsiasi tipo di visita specialistica, sempre che non venga addirittura scoraggiata, spostando e diminuendo cosi, ogni possibile richiesta di assistenza. Saggia mossa.

DISTANZE GENETICHE

Ed è nel tacito compiacimento che gli Svedesi realizzano la loro opera più grande. Molti degli abitanti della Svezia hanno un'idea di se stessi molto alta. Ecco perché è stato facile per anni supportare senza troppe domande anche il castello del paese umanitario e aperto a tutti, che accoglieva centinaia di immigrati ogni giorno per poi chiuderli in ghetti senza una prospettiva di sviluppo. Nel crogiolarsi su quanto fossero fantastici e superiori, hanno rimandato al domani che è diventato oggi, la gestione del problema. 

Alcuni dicono che tanta saggezza sia dovuta a una qualche loro genetica superiore o così almeno suggeriscono gli esponenti di un partito che va abbastanza forte: il Sverigedemokraterna, e che nasce dalle ceneri del Neo Nazi Nordic Realm Party, che manco a inventarmelo un nome così didascalico mi sarebbe mai venuto in mente. Ora vi sembrerà che io abbia esagerato un pochetto e che nutra qualche atavica antipatia verso i nostri eroi, ma la realtà è sempre più semplice. Chi si somiglia si piglia dicono e la sottoscritta con la Svezia condividono più di qualche semplice similarità. Siamo due facce bianchicce della stessa medaglia sporca, perché l'immagine che la Svezia ha di se è la stessa immagine che io ho di me stessa: modesta, ordinata, giusta, progressista ed equa e che gratta che ti rigratta è una gran paraculata. Dedicato al mio amato amico Andrea che a ragione con passione e veemenza ha odiato - finché ha vissuto - la Svezia. 

·        Quei razzisti come i Finlandesi.

L’unica popolazione indigena europea continua a lottare per l’autodeterminazione. Sara Tonini su L'Indipendente l’8 dicembre 2022.

Un controverso disegno di legge sull’unica popolazione indigena riconosciuta in Europa, i sami, è stato inviato dal governo finlandese alle commissioni parlamentari per esaminare la sua legittimità. Non è la prima volta che la Finlandia viene criticata per il trattamento riservato alle popolazioni native sul territorio: negli ultimi anni, le Nazioni Unite hanno esortato più volte il governo ad apportare modifiche alla legge per garantire il diritto dei sami all’autodeterminazione. Lo scorso giugno, inoltre, una commissione delle Nazioni Unite ha rilevato che la Finlandia ha violato una convenzione internazionale sui diritti umani per discriminazione etnica dei sami in ambito politico. “I popoli indigeni hanno il diritto di autodeterminare la propria identità o appartenenza in conformità con i loro costumi e le loro tradizioni” si legge negli Articoli 3 e 4 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni “e di determinare le strutture e di scegliere i membri delle loro istituzioni in conformità con le loro procedure”.

I sami abitano in zone ancora incontaminate di Finlandia, Norvegia, Svezia e Russia, dove riescono a mantenere intatte le loro antiche tradizioni e la loro cultura, resistendo ad un’assimilazione totale con il mondo moderno. Spesso chiamati erroneamente lapponi, sono l’unico popolo indigeno d’Europa ufficialmente riconosciuto e contano una popolazione di più di 75.000 persone totali, 10 dei quali vivono in Finlandia.

La controversa legge in questione riguarda la composizione del Parlamento sami in Finlandia, è stata approvata nel 1996 e stabilisce che coloro i cui antenati cacciavano, pescavano, allevavano renne e, soprattutto, che pagavano le tasse lapponi, possono votare e candidarsi al Parlamento sami, anche se sono etnicamente finlandesi e non indigeni. Ma questo violerebbe i trattati sui diritti umani, perché non garantirebbe il diritto del popolo indigeno all’autodeterminazione attraverso un organo rappresentativo autogestito. Attualmente, questo criterio secondo cui chiunque abbia pagato le tasse lapponi può autodichiararsi sami, è “molto problematico” per Aslak Holmberg, presidente del Consiglio sami, perché i documenti fiscali parlano solo delle attività legali e professionali e non dell’etnia delle persone che erano contribuenti. “Questo parametro include sia i finlandesi, che erano coloni, sia i sami, che erano gli indigeni. Questo è l’aspetto problematico della legislazione che l’opposizione sembra non voler abbandonare, anche se non ha alcuna motivazione legale”, ha detto Holmberg. “Il Parlamento sami dovrebbe rappresentare la cultura e la lingua sami“, ha aggiunto. In questo modo, secondo Holmberg, la Corte amministrativa suprema della Finlandia starebbe compromettendo la legittimità del Parlamento sami e indebolendo i rappresentanti e la autorità indigena nel Paese, poiché coloro che “sostengono le strutture coloniali” e coloro che “non sono disposti a lottare per i diritti dei sami” vengono messi a capo dei loro affari ed interessi. 

Lo scorso mese si è nuovamente acceso il dibattito pubblico sulla legge, cosa che ha causato forti attriti all’interno della coalizione di governo finlandese tanto da far parlare di una possibile caduta della premier Sanna Marin, e da far inviare il disegno di legge alla Commissione per il diritto costituzionale del Parlamento per un esame. 

Nel Paese ci sono stati numerosi tentativi di riformare la legge sui distretti sami per oltre un decennio, ma niente è cambiato. I maggiori oppositori sono il Partito di Centro, che ha bloccato qualsiasi cambiamento per paura di “perdere il sostegno” in Lapponia da parte di coloro che saranno colpiti dalla legge. “C’è molta frustrazione per il fatto che non siamo riusciti a rinnovare questa legge per più di 10 anni” ha dichiarato Holmberg, secondo cui una nuova legge riformata rafforzerebbe il parlamento sami e il loro diritto all’autodeterminazione. Per gli attivisti e politici indigeni si tratta di una battaglia “anticoloniale”, in cui i sami cercano di avere “più voce in capitolo sulle nostre questioni invece che sul governo finlandese”, ha aggiunto.

“Non chiediamo molto: solo il diritto di determinare la nostra identità e appartenenza secondo i nostri costumi e tradizioni, come è nostro diritto in quanto popolo indigeno secondo il diritto internazionale”, ha aggiunto Pirita Näkkäläjärvi, membro del Parlamento Sámi. [di Sara Tonini]

Da today.it il 18 agosto 2022.

La premier finlandese Sanna Marin, dopo aver partecipato in shorts e anfibi al festival rock di Helsinki nei giorni scorsi, è tornata a scatenarsi al suono della musica. Questa volta a un party privato a casa con amici. La premier della Finlandia, 36 anni, nel video pubblicato sui social balla e canta con gli amici. 

Ovviamente il video trapelato dai social media ha messo in imbarazzo il primo ministro finlandese criticata per l'atteggiamento un po' troppo fuori dal ruolo. Marin viene vista bere con un gruppo di amici, ballare e cantare le canzoni del rapper finlandese Petri Nygård e del cantante pop Antti Tuisku. 

Secondo il quotidiano Iltalehti, nel video si possono vedere diversi personaggi pubblici finlandesi tra cui la cantante Alma, l'influencer Janita Autio, la conduttrice televisiva Tinni Wikström, la YouTuber Ilona Ylikorpi, la conduttrice radiofonica Karoliina Tuominen, la stilista Vesa Silver e la deputata Ilmari Nurminen.

L'anno scorso Marin è stata costretta a scusarsi per essere uscita in discoteca fino alle 4 del mattino dopo essere entrata in contatto con un caso Covid. Marin aveva spiegato di non aver visto il messaggio di testo che era stato inviato al suo telefono del governo e non al telefono personale che aveva con sé. I critici del Primo Ministro hanno affermato che avrebbe dovuto avere sempre il telefono del governo con sé per motivi di sicurezza nazionale in caso di emergenza. 

Ma l'atteggiamento della Marin la colloca tra la leader dei Millennial: il quotidiano tedesco Bild questa settimana ha descritto Marin come la "politica più cool del mondo". 

Marin è stata una voce schietta contro il presidente russo Vladimir Putin dall'invasione dell'Ucraina a febbraio e ha guidato il suo paese - insieme alla leader svedese Magdalena Andersson- all'adesione alla NATO della nazione storicamente neutrale. All'inizio di questa settimana, la Finlandia ha annunciato un'altra mossa contro la Russia tagliando drasticamente i visti turistici aumentandone anche il costo da 35 a 80 euro.

Finlandia: spunta un secondo video di Sanna Marin in un club. (ANSA il 19 agosto 2022) - In Finlandia è emerso un nuovo video che ritrae la premier Sanna Marin in atteggiamenti intimi con un uomo "sconosciuto" mentre balla nel prive di un club di Helsinki. L'episodio dovrebbe risalire al 6 agosto, nel corso dello stesso fine settimana in cui è avvenuto il party privato al centro del primo video, apparso ieri. 

Un testimone ha raccontato al tabloid Seiska di aver visto la premier ballare in modo intimo con almeno "tre uomini diversi". Alcuni media fanno notare che quel weekend la premier era nel pieno delle sue funzioni - avrebbe dovuto andare in vacanza ma poi ha cancellato - e dunque non aveva passato i poteri al ministro della Difesa, come fatto in altre occasioni. Il caso sta scatenando forti polemiche in Finlandia, con molti commentatori schierati dalla parte della premier. 

Forti critiche invece da parte delle opposizioni. L'esperto di cybersicurezza Petteri Järvinen ha evocato, su Iltalehti, la possibilità che i russi abbiano hackerato il telefono o gli account social di qualcuno che fa parte del circolo stretto di Marin; anche se, a quanto pare, il video di ieri è apparso per la prima volta su un profilo Instagram di un conoscente di Marin.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2022.

C'è una sola legge che regola il diritto dei politici di partecipare a party, festini, bagordi, ed è la legge di Murphy: se qualcosa può andare storto, lo farà. 

Se una festa è «privata», o peggio segreta, come i party in pieno lockdown che hanno dato una spallata finale al governo Johnson in Regno Unito, diventerà di dominio pubblico; se ci sono entraîneuses pagate per la discrezione, qualcuno le pagherà di più per parlare; se si confida che gli ospiti non gireranno né pubblicheranno video compromettenti, ecco i video sui social poche ore dopo. 

È successo ora alla premier finlandese Sanna Marin, 36 anni, nell'occhio di un ciclone domestico e internazionale per una serie di filmati su Instagram: si vede lei ballare a una festa sfrenata con amici famosi (popstar, influencer, altri deputati), e nessuno ha l'aria lucidissima. 

Tra festival rock e vacanze italiane (sulle colline del Prosecco, con amici), l'estate defatigante di una tra i più giovani capi di governo in carica si era appena meritata gli elogi della stampa internazionale, che applaudiva a una premier «moderna, rilassata e sicura, la più cool del mondo» (così ad esempio la Bild ) tanto da andare ai concerti in shorts e paillettes. 

Ora tutti i siti di informazione finlandesi, a partire dal tabloid Iltalehti che ha dato per primo la notizia, aprono con la vicenda, e su Twitter - dove i video della premier danzante sono stati visti già due milioni di volte, e l'hashtag #SannaMarin è in tendenza da ieri - sostenitori e detrattori si scannano: c'era cocaina? 

Si è bevuto pesante? Serve un test antidroga? Non poteva restarsene a casa? Ieri, dopo 24 ore che il caso montava, la premier ne ha risposto alla stampa da Kuopio, dove è in corso il tradizionale congresso estivo del suo partito, i socialdemocratici. «Non ho nulla da nascondere», ha detto. «Ho danzato, cantato, fatto festa, cose lecite», e bevuto «non so quanto, ma moderatamente».

Ma a imbarazzare la premier non sono pose e mossette, quanto una frase in sottofondo: qualcuno sembra parlare di « jauhojengi », la «gang della farina», cioè - in slang - della coca; poco dopo si menziona qualcosa «che ti fa stare benissimo»; tanto basta, sui social, per dividersi tra chi pensa che si parlasse di droghe e chi invece pensa che la parola usata fosse tutt' altra. 

«Sarebbe inaccettabile che la premier si fosse trovata a una festa con narcotici», scrive il tabloid Iltalehti. 

«Non ho preso droghe, ho solo bevuto», ha detto Marin alla conferenza stampa, e alla tv Yle, che qualche ora dopo la incalzava, ha concesso che «se necessario posso fare i test». Lo chiedono del resto i parlamentari d'opposizione. Dai suoi arriva a Marin «sostegno», così il socialdemocratico Antti Lindtman. «Non vedo scandali».

Ma chi ha pubblicato i video? «Confidavo che restassero privati, anche perché sono girati in una casa dove festeggiavamo, sì, in modo un po' grezzo. Sono delusa», ha detto la premier. 

A diffonderli - tra gli amici - era stato l'account Instagram privato della fotografa Janita Autio, grande amica della premier e già autrice del ritratto di lei in shorts al festival Ruisrock. Poteva fare più attenzione? E perché nei video uno degli ospiti ha la faccia pecettata, e la premier no? 

C'è chi pensa all'ombra degli hacker russi: Sanna Marin è del resto la premier che ha traghettato la Finlandia verso la storica svolta dell'adesione alla Nato, ed è espressamente a favore del bando dei turisti russi. 

Già l'autunno scorso la premier aveva invitato amici a casa, violando protocolli di sicurezza; a dicembre era andata a ballare senza il telefono presidenziale; allora si era scusata con i finlandesi «per la leggerezza». Per i suoi (molti) sostenitori, comunque, la caratteristica migliore di una premier-ragazza.

Irene Soave per corriere.it il 19 agosto 2022.

La premier finlandese Sanna Marin ha dichiarato di avere sostenuto un test antidroga venerdì, in piena polemica per una serie di video, trapelati sui social network, che la ritraggono mentre balla sfrenata a una festa, insieme a molti altri personaggi pubblici finlandesi. 

L’esito del test, sostenuto venerdì 19 agosto, arriverà «la settimana prossima», ha dichiarato la premier, 36 anni, aggiungendo — nella seconda conferenza stampa sull’argomento in poche ore — di non aver «fatto nulla di illegale. Anche durante la mia adolescenza non ho usato nessun tipo di droga». E ha fatto riferimento alla «presunzione di innocenza».

Il test antidroga è stato ripetutamente chiesto alla premier da alcuni parlamentari di opposizione. In un video si sente anche qualcuno che, durante i balli scatenati, farebbe riferimento alla «banda della farina» — espressione associata all’uso di cocaina. Molti, sui social — dove i video sono stati visti più di due milioni di volte — sostengono però che la parola usata non sia «farina». 

«Non ho idea del perché qualcuno ha utilizzato questa espressione e a che cosa si riferisca», ha detto Marin già giovedì. «Non ho assunto alcuna sostanza diversa dall’alcol, né mi sono trovata in una situazione in cui abbia visto o saputo di altri che stessero consumando droghe. 

Ho ballato, cantato, fatto festa, abbracciato i miei amici — tutte cose perfettamente legali. Non ho nulla da nascondere, e ho tutta l’intenzione di rimanere quella che sono stata fino ad ora. Quando ho del tempo libero, lo spendo con i miei amici: e credo che sia lo stesso anche per altre persone della mia età».

Ma le domande dei giornalisti, anche oggi, sono state incalzanti. C’è chi le ha chiesto, ad esempio, se il suo stato di lucidità sia sempre stato tale da garantire «la possibilità di prendere decisioni governative tempestive», se necessario. 

«Non ricordo una sola volta che ci sia stata una situazione improvvisa nel cuore della notte per andare al Palazzo del Consiglio di Stato» ha risposto lei. «Penso che la mia capacità di funzionare fosse ottima. 

E non c’erano riunioni nei giorni prima e dopo quella festa». «Confido», ha aggiunto, «che le persone capiscano che il tempo libero e il tempo di lavoro possono essere separati».

Estratto dell'articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 19 agosto 2022.

Sanna Marin che ancheggia al ritmo di un brano hiphop, che abbraccia i suoi amici, che mima, sensuale, una popolare canzone finlandese. 

Il video a una festa di amici della prima ministra «più cool del mondo», come l'ha ribattezzata di recente la Bild, ha sollevato un polverone ribattezzato dai media finlandesi il suo "Partygate". 

E i connazionali meno spiritosi, ma anche una fetta del mondo politico, hanno cominciato a chiedersi se sia opportuno sorprendere un primo ministro in preda a una dionisiaca euforia da alcol e musica. 

[…] La leader dell'opposizione, Riikka Purra, ha chiesto che si sottoponga a un test antidroga. E la stessa suggestione è arrivata da alcuni esponenti della sua maggioranza. 

[…] Anche ieri le reazioni meno scandalizzate si sono registrate sui Twitter e Facebook e Instagram nostrani, soprattutto tra i meno giovani che si ricordano gli scatenati balli in discoteca negli anni Ottanta di uno dei più brillanti ministri degli Esteri della Prima Repubblica, Gianni de Michelis.

Insomma, molto rumore per nulla? Non proprio, a leggere i commentatori finlandesi. Qualcuno ha moralisticamente sottolineato che il brano mimato dalla giovane premier, un successone hip hop di Petri Nygårdha, parli di alcol a fiumi e "serate da leoni". 

Altri hanno elencato le star presenti alla festa echeggiando un famoso commento uscito l'inverno scorso su un giornale finlandese dal titolo "Perché Sanna Marin lecca il culo ai vip?". E c'è chi le ha ricordato l'"incidente" dello scorso inverno, quando era andata a ballare in disoteca dopo essere entrata in contatto con un ministro risultato positivo al Covid. [...]

Anche stavolta qualcuno ha gettato un'ombra più cupa sulla spensierata festa tra amici: sempre in sottofondo, ad un certo punto del video di sente un'urlo: «viva la banda della farina». Un'osanna alla cocaina.

La premier si è difesa a stretto giro: «sono delusa che (i video, ndr) siano diventati di pubblico dominio. Ho passato una serata con i miei amici. Ci siamo divertiti, sì, e in maniera un po' selvaggia. Abbiamo ballato e cantato» ha fatto sapere all'emittente pubblica YLE. 

E la 36enne ha allontanato da sé ogni altra insinuazione: «non ho usato droghe, e nient' altro che alcol. Ho fatto cose perfettamente legali. E non sono al corrente che altri abbiano fatto altre cose». 

Nel frattempo sul web sono cominciati a circolare, del tutto anonimi e non confermati da fonti ufficiali, maldestri complottismi sull'origine del video. Il quotidiano Italehti, fonte dello scoop, ha chiarito di aver ricavato gli spezzoni semplicemente da storie postate su Instagram. Ma qualcuno ci vede una "manina russa".  […]

Finlandia, la premier Sanna Marin negativa al test anti-droga. La Repubblica il 22 Agosto 2022.  

La leader si era sottoposta al test il 19 agosto dopo la diffusione del video che la mostrava ballare a una festa

La premier finlandese, Sanna Marin, è risultata negativa al test antidroga cui si era sottoposta il 19 agosto dopo la diffusione del video che la mostrava ballare a una festa. Lo ha annunciato il governo finlandese.

Le immagini della premier danzante durante il party privato aveva suscitato un certo clamore in Finlandia e le richieste di alcuni parlamentari finlandesi per farla sottoporre al test.

Venerdì, Marin aveva detto di aver bevuto leggermente, di non aver assunto droghe e di essere sempre in condizioni adeguate per "guidare il paese".

Marin ha pagato lei stessa il test antidroga "completo", secondo il comunicato stampa del governo.

Da tg24.sky.it il 23 agosto 2022.  

Dopo il polverone scatenato dalla diffusione di video privati che la ritraevano protagonista delle feste che tante polemiche hanno scatenato, per Sanna Marin sono arrivati i risultati del test anti-droga. 

La premier finlandese è risultata negativa agli esami a cui si era volontariamente sottoposta lo scorso 19 agosto in risposta a chi agitava il sospetto che potesse avere assunto sostanze illecite nei party finiti nella bufera. 

Test pagati dalla premier di tasca propria

"Non ho mai assunto nulla di illegale", aveva risposto Marin per difendersi dalle accuse lanciate dall'opposizione. Nell'annunciare la negatività del primo ministro, il governo finlandese ha reso noto che Marin ha pagato il test di tasca propria.

Da Ansa il 23 agosto 2022.

Nuovi imbarazzi e nuove scuse per la premier finlandese Sanna Marin. La primo ministro scandinava, fresca delle polemiche per i balli scatenati, oggi si è scusata per una foto in topless di due note influencer che lei stessa aveva invitato nella sua residenza ufficiale. Lo riporta la Bbc. 

Marin ha ammesso che "l'immagine non è appropriata" e si è scusata. Nell'immagine, diffusa sui social, si vedono due donne che si baciano coprendosi il seno con un cartello con la scritta "Finlandia". Secondo i media finlandesi la foto è stata scattata nei bagni della residenza usata dagli ospiti. 

"Abbiamo fatto la sauna, nuotato e passato del tempo insieme", ha detto Marin. "Quel tipo di foto non avrebbe dovuto essere scattata, ma per il resto non è successo nulla di straordinario", ha aggiunto.

DAGONEWS il 23 agosto 2022.

Siete pronti per la nuova puntata della serie tv più intrigante dell’estate? È spuntato un nuovo video di Sanna Marin! La trama è sempre la stessa degli episodi precedenti: la premier finlandese balla scatenata. 

Il filmato probabilmente risale alla stessa sera del secondo video, quello pubblicato dal tabloid Seiska, in cui Sanna si avvinghiava a un uomo in discoteca (che poi si è scoperto essere la pop star Olavi Uusivirta. 

Questa volta però Marin non si abbarbica a un uomo, ma sculetta e ancheggia insieme all’amica Sabina Sarkka, 33 anni, professione influencer: si abbracciano con movenze provocanti, saltano e le loro gambe quasi si toccano.

Secondo il “Daily Mail” il secondo e il terzo video risalirebbero alla stessa serata del primo: la prova è l’abbigliamento di Sanna Marin – pantaloni bianchi e top nero senza maniche. 

Insomma, se la leader del partito socialdemocratico pensava di porre fine alle polemiche con il test antidroga, risultato negativo, si sbagliava di grosso. 

La domanda a questo punto è: quanti altri video ci saranno ancora di quella notte da leonessa? Ci sarà qualcosa di davvero scottante?

Michele Serra per “la Repubblica” il 23 agosto 2022.  

Lo sapevate che le persone possono ballare anche senza essere drogate, o ubriache? Detta così sembra la frase di uno scemo, tanto lasca è la sua logica. 

Ma questo scemo - uno scemo collettivo, impersonale - è tra noi, ed è così presente, e importante, che nessuno può dirsi al riparo dalla sua influenza. Sto parlando dell'evento che mi ha più colpito, nel mezzo agosto trascorso a leggere (troppo) e a guardare le nuvole (troppo poco). 

La premier finlandese Sanna Marin è stata costretta a fare un test antidroga per dimostrare a ciò che una volta si chiamava pubblica opinione di avere ballato, sì, ma non perché era drogata, no.

Ha ballato e basta, come capita a centinaia di milioni di persone, ogni giorno, nel mondo. Di ogni età, di ogni religione o idea politica. Ho sperato fino all'ultimo che Sanna Marin scegliesse di non replicare allo sguardo bigotto delle reti sociali, perfidamente alimentato dai suoi nemici politici. 

Ma sapevo che era una speranza disperata (ossimoro), perché le persone pubbliche, più delle altre, allo scemo collettivo devono pagare pegno: è il prezzo che l'epoca chiede per farne parte, le dimissioni dall'epoca sono consentite solo a monaci, eremiti, sconosciuti fuggiaschi. 

E così una giovane signora sulla trentina, in omaggio al senso dello Stato, si è piegata alla turpe inquisizione pop: il nuovo Bellarmino. 

Vergognarsi di quello che si è fatto e si è detto. E tornare, molto presto, a farlo in privato, di nascosto, perché ogni atto, ogni parola, per quanto fuggevole o innocente, presto ci saranno rinfacciati: e dovremo chiedere scusa. Bellarmino non avrebbe mai potuto sperare altrettanto.

 Dagospia il 23 agosto 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Ma il Michele Serra di oggi è lo stesso direttore di ‘Cuore’ e di quella simpatica setta di satiri che indugiavano sulla fisicità, non premiante, di Gianni De Michelis, sui suoi capelli definiti, pregiudizialmente, “oleosi” e su enne catervate di luoghi comuni che oggi ti condannerebbero al rogo della santa inquisizione del politicamente corretto? 

Dovevamo aspettare trent’anni per scoprire che si può ballare, scodinzolare, sbaciucchiare, strusciare la propria epidermide senza per questo essere ricondotti alla categoria degli “avanzi di balera" - copyright Enzo Biagi - o tutto questo è consentito solo per signorine assai piacevoli e democratiche del mondo nuovo? 

E una volta che si comprende di aver detto e scritto cose sciocchissime - e violentissime (anche per degli insensibili come quei porci dei socialisti - si possono premettere le proprie riflessioni precisando quanto si sia stati, trent’anni prima, idioti? Non guasterebbe.

Riaverceli quegli anni ’80! 

E pace all’anima di De Michelis. Balla lieve. 

(ANSA il 24 agosto 2022) - La premier finlandese torna a difendere il suo diritto a divertirsi e parlando ai giornalisti, in occasione della conferenza del suo partito socialdemocratico, ha detto che lavora sodo come primo ministro ma che dovrebbe anche avere diritto a una vita privata. 

"Sono umana", ha detto Marin sul punto di piangere, descrivendo la scorsa settimana come "piuttosto difficile". 

Le parole della premier, riportate dal Guardian, seguono l'ennesima polemica dopo la pubblicazione di una foto di due donne in topless che si baciano ad una festa nella residenza ufficiale di Kesaranta, a luglio. Visibilmente scossa, la 36enne, la più giovane capo di governo del mondo quando è stata eletta nel 2019, ha aggiunto: "Non ho perso un solo giorno di lavoro.

Voglio credere che le persone guarderanno a ciò che facciamo al lavoro piuttosto che a ciò che facciamo nel nostro tempo libero. Non ho mai lasciato un singolo compito incompiuto. Sto imparando. 

Ma sto facendo il mio lavoro bene come ho fatto fino ad ora. Sto pensando all'Ucraina e sto facendo il mio lavoro". 

Sanna Marin si è scusata per la fotografia, apparsa per la prima volta sull'account TikTok della modella e influencer Sabina Särkkä che mostra lei e un'altra donna - non Marin - che si baciano e sollevano un cartello con la scritta ' Finlandia' davanti al seno nudo. "Penso che la foto non sia appropriata, me ne scuso.

Una foto del genere non avrebbe dovuto essere scattata", aveva detto ieri Marin, aggiungendo comunque che quella sera non era accaduto "niente di straordinario" alla festa nella residenza di Kesäranta dopo il festival di musica Ruisrock l'8 luglio.

Da liberoquotidiano.it il 24 agosto 2022.

Nel caso dei video privati di Sanna Marin emergono nuovi imbarazzanti dettagli. 

La premier finlandese è sì risultata negativa al test anti-droga a cui si è sottoposta volontariamente per allontanare le accuse degli oppositori politici, ma resta un grosso problema di immagine: nella sua casa, al di là di balletti sexy e clima effervescente, c'era anche qualche amica un po' troppo su di giri. 

Nella residenza di Helsinki della Marin, al party privato (in un weekend, sottolineano gli avversari, di piena operatività di governo), c'erano anche due amiche influencer che hanno avuto la bella idea di farsi scattare una foto in topless, mentre si baciano.

Maglietta alzata, seno esposto e coperto da un allusivo cartello "Finland". E la stessa leader che ha contribuito a portare la Finlandia nella Nato, generando una ulteriore crisi internazionale, non può che riconoscere che "in effetti l'immagine non è appropriata". 

"Abbiamo fatto la sauna, nuotato e passato del tempo insieme - è la ricostruzione della premier finlandese -, ma per il resto non è successo nulla di straordinario durante l'incontro. La festa avrebbe avuto luogo subito dopo il festival musicale Ruisrock a cui la Marin ha partecipato in pantaloncini corti. Troppo, secondo i più severi censori. Secondo i media finlandesi, le due donne ospiti della premier si sono fotografate nei bagni del piano inferiore, quelli appunto degli invitati.

Greta Privitera per corriere.it il 24 agosto 2022.

Non c’è giorno che passi senza che Sanna Marin, 36 anni, non si debba scusare o giustificare per qualcosa. I pantaloncini corti al concerto rock, il party troppo party con gli amici che l’ha portata a dover presentare (volontariamente) un test antidroga risultato negativo, e ora il topless, non suo, ma comunque topless. 

Il nuovo «scandalo» made in Finlandia nasce da una foto scattata nella residenza di Helsinki. Uno scatto che nelle ultime 24 ore sta circolando moltissimo sui social. La scena incriminata è questa: si vedono due ragazze bionde — due influencer — con la maglietta alzata che si coprono il seno con un cartello con su scritto «Finland» e che si danno un bacio. 

«In effetti l’immagine non è appropriata», ha commentato una delle più giovani prime ministre del mondo, aggiungendo che quella foto non avrebbe nemmeno dovuto essere scattata: «Abbiamo fatto la sauna, nuotato e passato del tempo insieme, ma per il resto non è successo nulla di straordinario durante l’incontro».

Sempre Marin ha fatto sapere che la festa a casa sua è avvenuta dopo il festival musicale Ruisrock (quello dei pantaloncini troppo corti), a luglio. I media finlandesi scrivono che le due donne ospiti si sono fotografate nei bagni del piano inferiore, quelli dedicati agli invitati.

Sono momenti faticosi questi per la prima ministra che da giorni schiva accuse sulla sua vita giudicata da alcuni poco consona al ruolo politico e da altri (molte donne che la sostengono) una normale vita di una giovane al potere. 

Sta di fatto che, a torto o a ragione, si trova a dover spiegare come balla mentre la Finlandia ha appena ricevuto il suo «sì» dalla Nato, o mentre, accanto ad altri Paesi europei, anche lei chiede di negare i visti turistici ai cittadini russi (anche qui, a torto o a ragione). 

Ma la sua vita personale ha preso il sopravvento. Si aspetta, ansiosi, di vedere la prossima mossa della bella premier, l’enfant prodige diventata prima ministra nel 2019, a 34 anni, che fino a ieri ha ammaliato l’Europa e che oggi si trova a difendersi da parole come quelle della vice Annika Saarikko. Secondo la Saarikko, lo stile di vita trasmesso dalla foto non corrisponde all’esperienza di molti finlandesi alle prese con una crisi del costo della vita.

Non sappiamo come abbia risposto Marin a questo commento, ma riportiamo quello che ha detto qualche giorno fa: «Spero che nel 2022 si possa accettare che anche una persona che prende le decisioni per un Paese possa ballare, cantare e andare alle feste».

Sanna Marin: «Sono umana e a volte ho bisogno di gioia e divertimento». Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera su il 24 Agosto 2022.

La premier si commuove alla conferenza del partito socialdemocratico: «Non ho perso un solo giorno di lavoro». Il pubblico ha accolto le sue parole con una standing ovation. 

«Sono umana e anche io a volte ho bisogno di gioia, divertimento e allegria nel mezzo di queste nuvole buie». Così la premier finlandese Sanna Marin torna sulla polemica scatenata da alcuni video in cui balla e si diverte. «Non ho perso un solo giorno di lavoro e non ho lasciato incompiuto nessun incarico — ha rivendicato, in occasione della conferenza del suo partito socialdemocratico a Lahti, a nord di Helsinki — sto imparando e sto svolgendo il mio lavoro bene come sempre». Parole pronunciate con le lacrime agli occhi che sono state accolte da una standing ovation del pubblico. E c’è da dire che non sono state poche in questi giorni le persone che hanno manifestato solidarietà alla premier anche postando sui social dei video in cui ballano. Come a dire che anche i politici hanno diritto a divertirsi.

Marin ha ammesso che gli ultimi giorni non sono stati facili per lei, aggiungendo di avere fiducia nel fatto che i finlandesi giudichino i politici per il loro lavoro e non per la loro vita privata.

Ieri la premier aveva chiesto scusa per una foto definita «inappropriata» scattata nella sua residenza ufficiale di Kesaranta durante una festa organizzata a luglio dopo un festival rock. Nella foto si vedono due donne, che sono due note influencer, che nascondono il seno scoperto con un cartello con la scritta «Finlandia» mentre si baciano. «Penso che la foto non sia appropriata, me ne scuso. Una foto del genere non avrebbe dovuto essere scattata», aveva detto ieri Marin, aggiungendo comunque che quella sera non era accaduto «niente di straordinario».

Non solo Sanna Marin: Obama, Zelensky, Johnson, Merkel, tutti i balli dei capi di Stato.

"Anche i politici hanno bisogno di divertirsi". Sanna Marin e la doppia morale dei suoi fan. La premier: "Giudicateci per il nostro lavoro". Giusto, ma in Italia non accade. Tony Damascelli il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

Consigli per gli acquisti a Sanna Marin: Dove andiamo a ballare questa sera?, euro 40, per i tipi di Mondadori, prefazione di Gerry Scotti, opera prima e ultima di Gianni De Michelis, vicepremier e ministro di dicasteri vari. Bei tempi quelli, i migliori anni della vita politica, pretangentopoli. Ballava il veneziano De Michelis e non era affatto uno scandalo il suo ma provocò invidie e gelosie tra i bigottoni, su vari canali, non soltanto quelli di Venezia.

Oggi il caso Marin sta occupando le chiacchiere di mezzo mondo, perché è tutto ammesso ma che un politico, addirittura un primo ministro, possa concedersi la pazza gioia, giammai, i cronisti riportano che la finlandese fosse «scatenata», se si fosse trattato di un liscio nessun problema ma quello che lady Marin si è permessa non rientra nella correttezza politica che imperversa anche nelle peggiori balere di Caracas. Pure un test per verificare se fosse sotto effetto di canne e simili. E così Sanna Marin continua a chiedere scusa, quasi a pentirsi tra le lacrime, in genuflessione per le mosse danzanti manco fosse una coribante orgiastica e non una semplice persona, non una persona semplice, in una serata di relax. Il Papeetismo non è uguale per tutti, ci sono i diavoli colpevoli di questo reato infame e ci sono gli angeli che possono fare quello che vogliono, la questione morale è bipolare, la Marin si aggrappa alle emozioni di giornata: «Non ho perso un solo giorno di lavoro, sto pensando all'Ucraina», beh non era proprio necessario ricorrere all'alibi del cordoglio ma il problema che i politici devono stare ben attenti alla loro vita privata che, oggi, è pubblica a tutti gli effetti, l'occhio del Grande Fratello è sopra la sala da ballo, scruta anche un topless.

Qualche mese fa Boris Johnson è stato beccato mentre in pieno lockdown se la spassava a Downing Street, lo hanno filmato anche fradicio d'alcool e ballerino in un party, non per questo è stato dimesso dall'incarico però aiuta. Ora la mite e stakanovista Marin si ritrova nuda, non c'entra il topless delle sue amiche, ha sbagliato il percorso, lo ha fatto in onore di Letta Enrico che potrà ribadire «viva le devianze». Tutta roba piccola che nulla ha a che fare con la politica, quella seria, quella vera, non la propaganda di feste e sagre di partito. Eppure il dibattito è aperto, le fazioni si stuzzicano sul tema, c'è la corsa allo sputtanamento del politico, ognuno con il proprio filmato, ciascuno con il proprio tweet, a destra, a sinistra, al centro. Si prosegue. E si replica.

Caso Sanna Marin, Decaro: «Moralisti della domenica, anche io canto». Il sindaco di Bari e Presidente Anci, «mi autodenuncio, canto tra amici e mi diverto». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Agosto 2022.

«Non credo che Sanna Marin, ex vicepresidente del suo partito, ex ministra, ora premier, debba essere giudicata per come balla durante una serata tra amici. Si può essere sindaci, ministri, premier, amministratori, ma siamo prima di tutto donne e uomini che hanno il diritto di godersi le proprie passioni». In un lungo post su facebook, il sindaco di Bari e presidente Anci Antonio Decaro interviene sulla polemiche degli ultimi giorni che hanno travolto la premier finlandese Sanna Marin, fino a chiederne le dimissioni, e si «autodenuncia" pubblicando un video nel quale canta una canzone di Pino Daniele.

«Sento il dovere di autodenunciarmi. Confesso di aver cantato - scrive Decaro - , in luoghi, modi e situazioni improponibili e di aver rivisto con fierezza le testimonianze filmate di tali imbarazzanti esibizioni che sono state pubblicate. Devo essere giudicato per questo? Devo vergognarmi del fatto che nel tempo libero faccio il karaoke con gli amici? Devo provare pudore per qualche momento di relax, magari dopo una lunga giornata di lavoro? Non credo. E siccome non siamo a Sanremo, io credo di dover essere giudicato per come guido l’amministrazione della mia città, non per come interpreto 'Je sò pazzò in un concerto improvvisato».

«Quindi - continua - , mi autodenuncio, ma vi avverto (è una minaccia) che continuerò a cantare. Così come Sanna Marin, ne sono certo, continuerà a ballare con gli amici, spensierata, in una sera d’estate qualunque. Per tornare, il giorno dopo, a guidare il suo Paese, come io torno ogni giorno a incontrare i miei concittadini che mi aspettano, agguerriti, nell’androne del Comune. Con buona pace dei moralisti della domenica, finlandesi o baresi che siano». 

Era necessaria quella lagna della Marin per spiegarci che per una donna divertirsi è un diritto e non un reato? Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 25 Agosto 2022 

Veramente avevamo bisogno dei piagnistei della leader finlandese Sanna Marin per dire al mondo che per una donna divertirsi è un diritto e non è un reato?

Siamo così sicure noi donne di volerci riconoscere in quell’immagine, in quella voce rotta, in quell’atteggiamento vittimistico di chi si presenta alla Nazione per scusarsi di un qualcosa che avrebbe invece dovuto rivendicare?

Quando ho visto la Marin davanti ai microfoni non nego per un attimo di aver desiderato sentirle pronunciare a gran voce e a testa alta queste parole: “Per una settimana sono stata bersaglio di critiche, accuse ed illazioni semplicemente rispetto a comportamenti che per molti sono stati definiti eccessivi, fuori luogo e per taluni deplorevoli per chi riveste il mio ruolo. Ecco, sono qui per dirvi che non ho nulla di cui dovermi giustificare. È vero, sono a capo di una Nazione, siete abituati a vedermi sempre composta, elegante, misurata e mai eccessiva. Questo fa parte della mia vita istituzionale, quella che richiede una forma, un rigore che ho sempre dimostrato. Ma non dimenticate che sono anche e soprattutto una donna, una giovane donna che fuori dai palazzi del potere ha una vita che è fatta anche di balli, di leggerezza, di tutti quei comportamenti goliardici che fanno parte della realtà di ogni uno di noi. Perché mi dovrei sentire in colpa? Di cosa dovrei chiedere scusa? Perché dovrei essere diversa da ciò che sono? E soprattutto dove sta il reato da condannare? Rivendico con fierezza ciò che sono, con la mia forza che amate e le mie debolezze che forse amate meno. Ma questa sono io, che vi piaccia o no!”. Questo mi sarei aspettata da lei.

Invece davanti a quei microfoni una persona fragile, addolorata, con una voce rotta dal pianto. Ecco le parole che non avrei voluto sentire e che invece ha pronunciato: “Finlandia, Sanna Marin risponde (ancora) alle polemiche: Sono umana. Anche io a volte desidero gioia e divertimento. Non ho lasciato un solo compito in sospeso. Posso onestamente dire che quest’ultima settimana non è stata la più facile della mia vita. Anzi, è stata abbastanza difficile. Voglio fidarmi e credere che le persone guarderanno a ciò che facciamo al lavoro piuttosto che a ciò che facciamo nel nostro tempo libero”.

Quanto ha inciso il Me too in questo atteggiamento che hanno oggi le donne? Secondo me tanto. Questo movimento ha detto alle donne che la loro unica arma di cui dispongono è il pianto. Ha detto che se sei donna sei vittima per definizione. Ci ha spogliate della capacità di reagire, di ribellarci ad un sistema che chiede alle donne di essere diverse da ciò che sono. E la Marin si è piegata, succube, al sistema. Si è sottoposta ad un inutile test antidroga e ha dovuto regalare le sue lacrime alla Nazione.

Ha sicuramente compiaciuto le masse ma ha deluso chi, come me, crede che se noi donne tutte, non ci sbrighiamo a recuperare le “palle” smarrite, ci troveremo un ammasso di rammollite capaci solo di frignare.

Il ballo libero di Sanna (alla faccia dei moralisti). Bufera sulla giovane premier per il video di un party sfrenato. Ma sono immagini innocue. Valeria Braghieri il 19 Agosto 2022 su Il Giornale.  

La bella premier finlandese ha trentasei anni e non è una che vede la vita da un divano nell'angolo. Lo si è capito quando si è trattato di prendere posizione sull'ingresso del suo Paese nella Nato, quando è stato il momento di schierarsi contro la Russia («La Ue dovrebbe chiudere le porte ai suoi turisti») e quando è stato necessario gestire la pandemia di Covid. Allenata a pronunciare parole non facilmente negoziabili, è più che normale che, per quanto riguarda la sua vita privata, non sia una disposta a chiedere permesso. Sanna Marin non si è lasciata impressionare dalle critiche che le sono state mosse dopo la sua partecipazione a un festival di musica rock ad Helsinki dove si è presentata in shorts, chiodo e anfibi e ha domato anche i commenti riguardo la scollatura che ha scelto di sfoggiare sulla copertina del magazine femminile finlandese Trendi. Occhio blu fisso in camera e avanti dritta come un treno. D'altra parte è cresciuta in una famiglia composta da due mamme, probabile che abbia sviluppato una salvifica sordità selettiva nei confronti del vociare altrui. Ed è normale, quindi, che ieri, quando un suo video a un party con amici ha fatto il giro del globo, lei abbia risposto rivendicando il suo diritto a divertirsi nel tempo libero. «Si tratta di immagini private che non dovevano essere rese pubbliche», ha detto al quotidiano finlandese Iltalehti, esprimendo anche il suo disappunto per il fatto che il video fosse trapelato. Allo stesso tempo «non ho nulla da nascondere e non ha fatto nulla di illegale». Ha sentito il dovere di specificare che non aveva assunto droghe ma che aveva solo bevuto un po'. In effetti nelle immagini (che secondo alcuni potrebbero essere state rese virali nientemeno che da hacker russi per vendetta nei confronti delle posizioni della Marin), uno degli amici della premier (il parlamentare Ilmari Nurminen, anch'egli del Partito socialdemocratico) culla un cocktail proprio davanti alla telecamera, mentre sullo sfondo Sanna balla con un gruppo di amiche. Mosse audaci, cromate, decisamente allegre. Ma niente di che. Nel video, Marin, con gli altri, beve, balla e canta sulle note del rapper finlandese Petri Nygrd e del cantante pop Antti Tuisku. Sempre secondo il tabloid Iltalehti, tra gli ospiti del party si possono riconoscere: la cantante Alma, l'influencer Janita Autio, la conduttrice televisiva Tinni Wikstroem, la YouTuber Ilona Ylikorpi, la conduttrice radiofonica Karoliina Tuominen, la stilista Vesa Silver. Un manipolo di famosi in patria, insomma, che si riprende durante una festa che si è svolta prima in una casa privata e poi è proseguita in due differenti bar. Se da un lato, questo genere di cose, sono quelle per cui Sanna è adorata dall'elettorato Millenials che la considera la leader più cool del mondo, dall'altro accade che le ringhino contro di tutto «disdicevole» sono arrivati a definirla. A noi sembra che la premier più giovane di sempre, quella il cui governo ha deciso un cambiamento epocale negli equilibri delle alleanze tra Est e Ovest in Europa, possa ben meritarsi di cantare, ballare e farsi un drink. A trentasei anni non sarebbe credibile altrimenti, se non altro perché, in fin dei conti, governa il Paese più felice del mondo.

Sanna Marin, i video e la doppia morale delle femministe democratiche. Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 19 Agosto 2022

Care femministe democratiche, possibile che non perdiate mai occasione per non cadere nel solito doppiopesismo, quella doppia morale che si manifesta ogni qualvolta venga sfiorata una che fa parte di voi? Una progressista diciamo così.

Vi siete palesate anche in merito alle polemiche nate intorno alla premier finlandese Sanna Marin e ai video emersi in rete mentre lei balla e si diverte “sguaiata”. Partendo dalla premessa che una persona nel suo privato può fare quello che vuole, visto che fino a prova contraria la libertà se non lede gli altri non è reato, mi ha fatto sorridere leggere tweet a difesa della Marin da parte di una pletora di donne PD che ne hanno preso le parti con uno spiccato lancio ideologicamente ipocrita. Una donna se “democratica” va giustificata e difesa senza se e senza ma.

La Morani, colei che per il bene del Paese (sue parole), è tornata sui suoi passi ed ha accettato la candidatura, in un tweet ha scritto: “Una donna che balla e si diverte. Una parentesi di normalità per una persona piena di impegni e responsabilità. Il divertimento fa parte della vita. Non c’è proprio niente di male”. Subito le ha fatto eco la deputata Gribaudo: “La premier finlandese è Marin Sanna 36 anni. In questi mesi ha compiuto scelte fondamentali in patria e in politica estera. Eppure media e politici di dx parlano di lei per il look, se va a un festival o a una festa privata. Quanto rosicano a vedere una donna così brava e libera?”.

Eh no cara Gribaudo, io per prima in quanto donna di destra non ho puntato nessun dito, non siamo soliti salire in cattedra a giudicare lo sa? Lo stesso Salvini ha scritto che pur avendo idee differenti non è giusto criticare un ballo tra amici. Mi fa sorridere leggere questi messaggi perché se alla stessa festa avesse partecipato una politica o politico di destra sarebbe decaduta la liberalità, la privacy. Si sarebbero levati messaggi di dissenso sul pericolo istituzionale di certe persone. Si sarebbe messa subito in dubbio la credibilità e non faccio fatica a pensare che se ne sarebbero chieste le immediate dimissioni.

La caccia alle streghe sarebbe partita immediata. Invece con la Marin, essendo dalla parte ‘giusta’ perdonano tutto. E ribadisco non esserci nulla da dover perdonare.

Lasciatemi però dire che il vostro doppiopesismo è imbarazzante. Sulla stessa scia la Piccolotti di Sinistra Italiana: “Ho ballato come #sannamarin un sacco di volte. Non capisco perché non dovrebbe farlo lei. Non esiste nessun divieto di divertirsi per le giovani Premier. In un mondo normale la polemica non sarebbe sul ballo, ma sulla privacy mancata della prima carica dello Stato Finlandese”.

In un mondo normale saremmo felici se la privacy valesse come diritto per tutti, donne e uomini. Perché per Berlusconi questo principio non è valso care amiche democratiche? Ah giusto era di destra!

Finlandia, jet russi sconfinano: cosa è successo in soli due minuti. Libero Quotidiano il 18 agosto 2022

Il video pubblicato online in cui appare il primo ministro finlandese, Sanna Marin mentre balla e si muove in modo sensuale ad una festa, ha fatto in poche ore il giro del mondo. Il premier ha dovuto parlare in pubblico della sua vita privata affermando di non aver assunto droghe durante la serata sopra le righe che racconta proprio quel video. E immediatamente sono partiti dei sospetti sugli hacker russi che avrebbero tentato di minare la credibilità della Marin pubblicando il video in rete.

Ma subito dopo la divulgazione di quelle immagini che hanno fatto il giro di tutti i siti del mondo, la Russia ha tentato un blitz nei cieli della Finlandia. Due caccia russi infatti, due MiG-31, avrebbero violato lo spazio aereo finlandese vicino alla città costiera di Porvoo, nel Golfo di Finlandia. A darne notizia sono stati Bloomberg Reuters online, citando il governo di Helsinki.

La sospetta violazione è avvenuta stamane: i jet erano diretti a ovest, ha detto il portavoce del ministero della Difesa Kristian Vakkuri, aggiungendo che gli aerei sono rimasti nello spazio aereo finlandese per due minuti. "Sono entrati nello spazio aereo finlandese per un chilometro", ha detto Vakkuri. L'aviazione finlandese ha inviato "una missione di volo operativa" e ha identificato i jet MiG-31.

Klara Murnau per “Libero quotidiano” il 7 Luglio 2022.

Stanchi della pressione sociale che porta a dover essere sempre sul pezzo, presentabili, simpatici, sorridenti, ben vestiti, attraenti? Stanchi di ricevere inviti a pranzi, cene, organizzare i weekend fuori con gli amici? Stanchi della vita? Ho la soluzione che fa per voi. Un biglietto per la Finlandia e andate in pace. In autunno, ma anche in primavera, credetemi non cambierà poi tanto. - Ninetta mia crepare di maggio ci vuole tanto troppo coraggio. Cantava De Andrè.

Ma non a Kuopio. Nona Rovaniemi, non a Oulu. Lì di coraggio ne basta poco anche in piena estate. Non vedrete l'ora. La Finlandia è quel meraviglioso paese in cui voi sociopatici o aspiranti suicidi, potrete stare soli tutto il tempo a meditare, sulle vostre modalità di decesso preferite ad esempio.

Sarete soli perché al finlandese medio non interesserà mai fare la vostra conoscenza, tantomeno dedicarsi a futili convenevoli quali salutarvi anche se abiterete l'uno davanti all'altro per anni.

Conoscete la differenza tra un finlandese introverso e uno estroverso? Quello introverso parlerà guardando le proprie scarpe, quello estroverso guardando le vostre. Detto del luogo che racchiude uno dei loro valori più saldi: il silenzio. I nostri tanto amati "Small talk" non sono proprio una cosa scandinava, ma ad essere onesta non sono sicura di quanto sia effettivamente "a thing" anche il solo parlare da queste parti.

In caso tu sia un norvegese in visita, ovviamente non sarà un problema. Tu ed il tuo amico finnico potrete rimanere comodamente seduti ad osservarvi, chiusi in un religioso (Luterano) silenzio e totalmente a vostro agio. Dopotutto nessuno vuole usare il Suomi per comunicare, neanche i nativi.

Parlando di stranieri, se pensi che il nord sia quel bastione della libertà liberale a cui aspirare, vi sembrerà una doccia fredda scoprire il risultato di uno studio sul tasso di emarginazione delle minoranze e razzismo all'interno dei vari stati in Europa. Infatti, secondo il report "The Being Black in Eu" la Finlandia si è guadagnata il peggior posto dove vivere se provenienti dal Mare Nostrum in giù.

Il rapporto, il secondo nel suo genere pubblicato dalla FRA (EU Agency for Fundamental Rights) ha esaminato le esperienze di quasi 6.000 persone di origine africana in 12 stati dell'UE. Ha inoltre raccolto dati da oltre 25.500 persone, immigrati o di minoranze etniche, inclusi rom e russi, in tutti gli Stati membri dell'UE più UK. Tra gli stati occidentali nel sondaggio, la Finlandia è in cima alla lista per discriminazione razziale percepita tramite discorsi e gesti molesti.

Circa il 14% degli intervistati neri in Finlandia ha affermato di essere stato vittima di un attacco fisico, la cifra più alta tra tutti i paesi in generale. Nota stonata per uno Stato che si fregia di essere portabandiera del culto dell'uguaglianza, ma che in realtà sembra essere diventato un eufemismo per mediocrità, passività e la bassa ambizione coltivata dal governo.

Basta camminare per una delle strade di una qualunque città della penisola per rendersi conto del tasso di sciatteria e inadeguatezza presente, ahimè, nella popolazione. Sforzarsi per l'uguaglianza universale comporta anche un mercato del lavoro fortemente regolamentato e burocratico. Trovare un impiego (soprattutto per gli immigrati) può essere estremamente difficile. Tuttavia ci sono così tanti vantaggi legati al basso/nessun reddito che alla fine la differenza di fondo non è così grande, motivo per cui in tanti si arrendono non avendo motivo di preoccuparsi.

Stessa cosa per quanto riguarda il livello di reddito e di conseguenza, le differenze di stile di vita tra i redditi più bassi e quelli più alti che non sono così grandi. Mentre è decisamente positivo per i più poveri non preoccuparsi di morire di fame o diventare senzatetto, è piuttosto demotivante per quelli nella metà superiore: ogni passo successivo della carriera fa a malapena la differenza in quello che poi potrai permetterti.

Mi chiedo se questo sia il motivo per cui giocare alla lotteria è un passatempo così popolare: le probabilità di diventare milionario (e non che con un milione si possa andare lontano in Finlandia) attraverso la carriera/l'imprenditorialità e vincendo una lotteria sono praticamente le stesse. Questo è anche ciò su cui spesso si basano gli annunci pubblicitari del gioco: «La tua vita può cambiare» ovvero «è l'unico modo per cambiare veramente la tua vita».

 Tra tutte le assurdità su tasse e pagamenti, le multe per violazione del codice stradale toccano vertici altissimi: divenne celebre la storia dell'uomo che nel 2002 venne multato di 116.000 euro - proporzionato al suo reddito annuo di 7 milioni. Qui si trovano servizi molto costosi ma piuttosto spartani e se avete mai provato uno dei loro hotel sapete a cosa mi riferisco. Anche la maggior parte dei quartieri, la maggior parte dei condomini, delle strade, hanno lo stesso aspetto e stile.

Questo forse è dovuto anche ad una mancanza di profondità storica nell'ambiente creato dall'uomo, poiché la maggioranza assoluta delle strutture attualmente esistenti, è stata costruita ben dopo il 1955. Per fortuna però si mangia bene, ah no. Oltre al clima intollerabile e l'oscurità ad essere davvero lacerante è soprattutto la cucina locale. Intendiamoci: se siete votati alla sopravvivenza, non farete differenza tra gli hamburger di sangue di maiale e i blini alla renna più insulsi del mondo, ma avrete la percezione di come la natura tutta sia piegata davanti l'orrore di quel che sono capaci di servirvi con i relativi ed ingiustificati prezzi. Ad Helsinki, dove si mangia leggermente meglio, l'alba a Natale è intorno alle 09.30 e il tramonto intorno al 15.30. Il sole sorge a soli sette gradi sopra l'orizzonte, uno spiraglio di luce in questa valle di lacrime.

Tra buio e completa assenza di gusto, l'alcolismo trova il suo spazio tra i problemi della nazione e non escludo che possa diventare anche uno dei vostri, e non preoccupatevi di venire giudicati, perché a nessuno importerà nulla. Non è raro vedere persone ubriache a metà giornata in un giorno feriale. 

Sono per lo più innocui, un po' verbalmente rumorosi ma per il resto direi inoffensivi. Almeno fino a quando non decidono di togliersi i pantaloni ed arrotolarsi nella neve. Ho assistito più volte a scene del genere da parte di donne, giovani donne, di uomini e- non sono sicura che fossero giovani uomini invecchiano così male che è impossibile dirlo.

Insomma bene, ma non benissimo. In caso vogliate evitarvi una cirrosi epatica, c'è una valida alternativa: con una media di 12 kg all'anno, i finlandesi bevono più caffè a persona di chiunque altro al mondo. Una bella gastrite e via, pronti per l'assistenza medica peggiore mai sperimentata in Europa. Formalismi e sanità sono due note dolenti che ho potuto testare in prima persona. La burocrazia ha un processo lungo e tortuoso e a volte può essere profondamente inefficiente. 

Sono passati 5 mesi dalla mia errata diagnosi di possibile tumore, che ancora continuo a ricevere questionari sempre con la stessa domanda, dalla clinica privata in cui la qui presente malcapitata, si era recata per un checkup. E se il loro sistema sanitario è un pericoloso scherzo da cui consiglio di stare alla larga, è sulle competizioni random che la Finlandia va forte: corsa con trasporto della moglie, lancio di telefoni cellulari e di stivali o della chitarra. Sarà che di quest' ultime ne hanno in abbondanza.

Pensate che è lo stato con al mondo più band Heavy e Black Metal: ben 53 ogni 100.000 mila persone. Satana ringrazia. Se nonostante tutto avete deciso quasi per dispetto di trasferirvi in Finlandia, per poi realizzare di aver fatto una cazzata non preoccupatevi: l'istituzione della Giornata nazionale del Fallimento nasce proprio per questo. Dal 2010 ogni anno il 13 ottobre, si festeggia la possibilità di accettare ed imparare dai propri errori. Forse il segreto sta tutto lì, nell'aprire la porta all'imperfezione che conduce al podio, quasi meritato, di Nazione più felice al mondo.

·        Quei razzisti come i Belgi.

Belgio fuori controllo. Emanuel Pietrobon il 4 dicembre 2022 su Inside Over.

Novembre è stato un mese particolarmente caldo per il Belgio, il cuore pulsante dell’Unione Europea, e non per l’anomalia climatica che ha avvolto il continente nel corso dell’autunno, rendendolo un prolungamento dell’estate.

Novembre è stato un mese caldo per il Belgio, particolarmente sentito ad Anversa e Bruxelles, per via dell’aggravamento dello scontro frontale tra le autorità e la mafia marocchina, delle guerre urbane che hanno contraddistinto i Mondiali di calcio e del brutale omicidio di un poliziotto in una no-go zone della capitale. Eventi che parlano del Belgio, il tetto delle principali istituzioni europee, come di un paese fuori controllo.

Il novembre caldo di Bruxelles

I belgi ricorderanno novembre come il mese più bollente del 2022. Un mese iniziato nel sangue e finito in rivolta. Tre sono le date più significative del novembre rosso belga e, cioè, i giorni del 10, del 27 e del 28.

La sera del 10 novembre, nell’area più problematica della multietnica municipalità di Schaerbeek, ovvero nelle vie della porzione turco-marocchina, una pattuglia viene assalita da un cittadino belga di origini arabe, con alle spalle sei anni di prigione, che risultava inserito nell’elenco dei “potenziali estremisti violenti” dell’Unità di coordinamento per l’analisi delle minacce (CUTA). L’attacco termina con la morte di un poliziotto e con il ferimento di un altro.

Bruxelles, la capitale (dei reati) d’Europa

Il pomeriggio del 27 novembre, a Belgio-Marocco ancora in corso, per le strade dei quartieri difficili di diverse municipalità di Bruxelles e Anversa esplode la guerra urbana. Durerà ore, fino a tarda sera, richiedendo il dispiegamento di un centinaio di poliziotti in tenuta antisommossa, l’utilizzo di lacrimogeni e cannoni ad acqua e il congelamento temporaneo del trasporto urbano via metropolitana. Un déjà-vu: una simile rabbia esplose anche nel 2017, in occasione della qualificazione del Marocco ai Mondiali di calcio, lasciando a terra più di venti poliziotti feriti.

Il pomeriggio del 28 novembre, nelle stesse ore in cui gli operatori ecologici sono impegnati a ripulire le strade e gli arredi urbani vandalizzati dalla follia degli ultrà marocchini, migliaia di poliziotti, appartenenti a quattro sindacati, si recano silenziosamente in marcia verso il Palagiustizia. Chiedono all’esecutivo di affrontare il problema della violenza antipoliziesca, che ritengono sia in crescita da un ventennio e che a inizio mese ha fatto un morto.

La sfida della mafia marocchina

Nata nelle periferie multietniche dei Paesi Bassi, poi espansasi nell’intero Benelux e infine nel mondo, la mafia marocchina è oggi una delle principali organizzazioni criminali del Belgio, dei cui porti è proprietaria informale, i cui abitanti riempie di cocaina e le cui istituzioni ha infiltrato e incancrenito.

Della mafia italiana per antonomasia – Cosa nostra – non ha la struttura piramidale, perché soltanto una parte dei tanti clan marocchini operanti in Europa risponde direttamente al comando di Ridouan Taghi, ma ha indubbiamente l’acume imprenditoriale, un simile codice d’onore e la propensione alla violenza. Nei Paesi Bassi, dove l’organizzazione criminale è più radicata che altrove, le minacce di Taghi hanno giustificato l’adozione di misure protettive nei confronti di Mark Ruffe e della principessa Amalia.

Anversa, capitale (mondiale) della cocaina

Belgio, viaggio nel “triangolo infernale della criminalità”

La mafia marocchina è padrona indiscussa del mercato olandese della droga, che ha dimostrato di voler proteggere a mano armata dalle indagini di inquirenti e giornalisti investigativi – come il compianto Peter de Vries –, e da qualche anno ha messo gli occhi su quello che è diventato il principale punto di ingresso della cocaina latinoamericana in Europa: il porto di Anversa.

Il novembre belga è stato rovente anche per via del surriscaldamento della questione mafia marocchina, la cui caratura globale, oramai consolidata, è stata confermata da nuove operazioni di polizia:

Due arresti in relazione al prosieguo delle indagini del caso SkyECC – che, esploso nel marzo 2021, nel solo Belgio ha comportato l’apertura di oltre 700 fascicoli penali e interrogatori a più di 1200 persone;

Dieci arresti nel corso dell’operazione multinazionale Desert Light, coordinata dall’Europol, che ha sgominato il primo “super cartello” d’Europa – con la mafia marocchina nelle vesti di socio di maggioranza. Dieci arresti su un totale di quarantanove effettuati in sei paesi – evidenza della centralità del Belgio nelle nuove geografie del narcotraffico;

L’ascesa della mafia marocchina ha contribuito in maniera determinante alla trasformazione di Anversa nella prima e principale porta d’accesso della cocaina latinoamericana al Vecchio Continente. Cocaina che entra in quantità tanto elevate – 89,5 tonnellate sequestrate nel solo 2021 – che, nel novembre di quest’anno, secondo il procuratore cittadino Franky De Keyser, ha mandato in tilt gli inceneritori. Perché ad Anversa viene sequestrata, fra porto e strade, più bianca di quanta se ne riesca a distruggere.

I sequestri di sostanze stupefacenti ad Anversa sono tanti e frequenti, ma, secondo le stime delle forze dell’ordine, non verrebbe intercettato che un decimo di tutta la droga in entrata dall’America centromeridionale. Ragione che, sempre in novembre, ha convinto le autorità a varare un nuovo piano di assunzioni per potenziare il personale doganale del porto e ad investire nella costruzione di nuovi e più avanzati dispositivi di scannerizzazione dei container.

La lotta tra le autorità belghe e la mafia marocchina è appena cominciata e, sebbene non manchino i pareri di chi la ritenga una causa persa in partenza e di chi indichi il Belgio come un “narco-stato”, una sola cosa può dirsi certa: durerà a lungo. E sta silenziosamente trascinando il Belgio in un vortice di violenza gangsteristica dal sapore messicano. Ne sa qualcosa l’attuale ministro della giustizia, Vincent van Quickenborne, che nel settembre di quest’anno è stato salvato da un tentativo di rapimento ordito dai narcos marocchini.

Un dente d’oro è tutto ciò che resta di Patrice Lumumba? Gianluca Mercuri su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.

L’uomo che ebbe il coraggio di dire, davanti al re del Belgio, che il suo popolo era stato schiacciato da «un’umiliante schiavitù», dai belgi venne torturato, ucciso e sciolto nell’acido. Ma qualcosa di lui rimase. E oggi trova sepoltura. 

«Un’umiliante schiavitù ci è stata imposta con la forza». 

Quando sentì pronunciare queste parole, Baldovino ebbe un sussulto. Il re dei belgi, quando era toccato parlare a lui, aveva usato tutt’altro tono. Aveva definito il suo antenato Leopoldo II «un civilizzatore». Leopoldo II non era un civilizzatore ma uno sterminatore. Tra il 1884 e il 1908 sfruttò il Congo in quanto suo dominio personale, beffardamente denominato «Stato libero del Congo». In quegli anni praticò il genocidio: milioni di congolesi schiavizzati nella produzione del caucciù, trattati brutalmente, mutilati quando non raggiungevano i quantitativi previsti. Morirono oltre dieci milioni di persone. 

Ma il Belgio non era pronto a fare i conti col suo piccolo Hitler incoronato, e forse non lo sarà mai del tutto. 

Chi era prontissimo a dire la verità, quel 30 giugno 1960, era il giovane primo ministro del Congo finalmente davvero libero, almeno in teoria. 

Patrice Lumumba aveva 34 anni ed era stato eletto una settimana prima, negli ultimi giorni dell’amministrazione coloniale, perché dopo il 1908 il Congo era diventato una colonia belga, non più una proprietà privata del re. 

Nel proclamare l’indipendenza aveva raccontato la vera storia di quella dominazione, interrotto più volte dagli applausi e salutato alla fine da una standing ovation. 

I belgi rimasero interdetti e con loro tutti gli europei, perché fino a quel giorno nessun africano aveva mai osato denunciare i crimini del colonialismo. Per questo Patrice Lumumba divenne un simbolo prima ancora di diventare uno statista, ruolo che non fece in tempo a perfezionare. Un simbolo della lotta per la libertà, della ribellione dei popoli schiavizzati dai bianchi, del terzomondismo. 

Di tutte quelle cose, insomma, che oggi sono demodé, che nel discorso pubblico davvero imperante non si possono nemmeno menzionare perché sennò si passa per nemici dell’Occidente. 

Lumumba fu il primo a criticare. Gli storici sono portati a pensare che quel giorno, con quelle parole, si autocondannò a morte. 

Gliela giurarono tutti: i belgi, gli americani sospettosi dei suoi flirt con i sovietici, gli inglesi che nella storia deprecata da Lumumba vedevano la loro storia. E, certamente, altri africani, altri congolesi, perché nel momento stesso in cui finiva il colonialismo altri mali cominciavano a flagellare l’Africa, la corruzione, la lotta per accaparrarsi le risorse, il tribalismo, la tendenza all’eccidio feroce, la conflittualità endemica, l’instabilità perenne: mali seguenti al colonialismo, vai a capire quanto conseguenti o quanto da attribuire solo a quei popoli finalmente «indipendenti», loro senza più l’alibi del dominio straniero e noi senza più colpe. 

Fatto sta che Lumumba rimase per quarant’anni il primo e unico leader democraticamente eletto del Congo; che il Belgio fomentò subito la secessione del Katanga (la regione più ricca di miniere); che Lumumba entrò subito in conflitto col presidente; che in dicembre, solo sei mesi dopo l’indipendenza, il generale golpista Mobutu lo fece arrestare; che in gennaio fu trasferito con due fedelissimi in Katanga; e che lì fu torturato e massacrato. 

A massacrare Lumumba furono i belgi. Se il contributo del governo di Bruxelles fu tacito, furono sicuramente mani belghe a compiere lo scempio. 

Quelle del commissario di polizia Gerard Soete e dei suoi sottoposti, come lui stesso ammise quattro decenni dopo dinanzi alla commissione parlamentare belga incaricata di fare luce sull’assassinio: «Avevamo fucilato Lumumba nel pomeriggio. Poi tornai nella notte con un altro soldato, perché le mani dei cadaveri spuntavano ancora dal terriccio. Prendemmo l’acido che si usa per le batterie delle automobili, dissotterrammo i corpi, li facemmo a pezzi con l’accetta; poi li sciogliemmo in un barile, facendo tutto di fretta, perché non ci vedesse nessuno». 

Altre testimonianze parlano di uno spostamento del cadavere in una zona a 200 chilometri dal luogo della fucilazione, prima della riesumazione e della liquidazione. Di certo, nelle intenzioni degli assassini, di Lumumba non dovevano restare tracce. Ma ne restarono. Due dita e due denti, che Soete conservò — disse lui stesso in un documentario del 1999 — come «una specie di trofeo di caccia». 

Aggiunse di essersene poi sbarazzato. Tranne di un pezzo. Un dente d’oro. Soete morì nel 2000 e del dente si riparlò solo nel 2016, quando la figlia ne ricordò l’esistenza durante un’intervista. C’è voluta una battaglia legale di quattro anni perché un tribunale ne disponesse la restituzione alla famiglia. 

Nel frattempo la figlia di Lumumba, Juliana, che quando il padre fu ucciso aveva 5 anni, era stata costretta a scrivere una lettera aperta al re Filippo perché intervenisse. 

Quel dente è l’unica cosa rimasta di Lumumba e il 20 giugno, in una cerimonia ufficiale al Palazzo di Egmont a Bruxelles, il Belgio l’ha restituto alla sua famiglia, rappresentata da Juliana. 

La reliquia è stata esposta all’interno di una bara, dal 27 al 30 giugno, al Palais du Peuple, sede del Parlamento congolese. 

Il 30 giugno, nel 62esimo anniversario della nascita della Repubblica Democratica del Congo, si terrà la cerimonia ufficiale di sepoltura di ciò che resta di Patrice Lumumba, in un mausoleo costruito per lui nella periferia orientale di Kinshasa. 

Il Belgio, l’Occidente, noi, abbiamo fatto i conti con tutto questo? È un processo faticoso. 

La commissione parlamentare, dopo due anni di lavoro, scrisse che all’epoca del massacro «le norme del pensiero internazionale politicamente corretto erano diverse», il che fa sobbalzare per un paio di motivi: per come ancora all’inizio di questo millennio si tendeva a ridimensionare la portata di un orrore come quello con una imbarazzata e imbarazzante contestualizzazione storica; ma anche per il riconoscimento di come il tanto deprecato «politicamente corretto» sia stato necessario, nella sua versione originaria, a ricostruire verità storiche rimosse o taciute per decenni o secoli. 

Quanto alla matrice dell’assassinio, la commissione concluse che alcuni membri del governo belga erano «moralmente responsabili delle circostanze che portarono alla morte di Lumumba». 

Un passo in più l’ha fatto all’inizio di giugno re Filippo, che è andato per la prima volta in Congo e ha definito il colonialismo belga «un regime caratterizzato da relazioni ineguali, di per sé ingiustificabili, segnate da paternalismo, discriminazione e razzismo», per poi aggiungere: «Qui, davanti al popolo congolese e a coloro che ancora oggi ne soffrono, desidero ribadire il mio più profondo rammarico per queste ferite del passato». 

Un po’ poco forse.

E forse si potrebbero dire molte cose sulle lentezze e sulle reticenze dei belgi, e sulla tentazione di catalogarle come difetti cronici. 

Ma sarebbe politicamente scorretto. 

Dente per dente. Come il Belgio sta affrontando il suo travagliato passato coloniale. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.

Un discorso di scuse del Re Filippo in Congo e due restituzioni simboliche sono gli ultimi episodi di un processo difficile nel Paese che deve confrontarsi con violazione dei diritti umani perpetrati nel passato, assumendosi le proprie responsabilità storiche in Africa

Il cofanetto blu passa di mano in modo solenne, in una cerimonia sobria alla presenza del Primo ministro, trasmessa in diretta televisiva. Chi la riceve non proferisce parola. Dentro c’è un dente, vecchio di 61 anni. Apparteneva a un giovane politico africano, assassinato in circostanze poco chiare ancora oggi, ma per tutto questo tempo è rimasto conservato in Europa. Il Belgio lo ha restituito alla Repubblica democratica del Congo: un gesto che rivela l’impegno delle autorità di Bruxelles a fare i conti con il passato coloniale del Paese.

Il dente era di Patrice Émery Lumumba, protagonista dell’indipendenza e primo Primo Ministro nella storia congolese. Non un mandato lungo, per la verità: Lumumba annunciò la nascita del nuovo Stato il 30 giugno del 1960, ma il 5 settembre dello stesso anno era già stato destituito e il 17 gennaio di quello successivo, assassinato.

Gli anni turbolenti a cavallo dell’indipendenza sono raccontati minuziosamente nel libro «Congo» del giornalista e scrittore David Van Reybrouck. Quel giovedì di giugno del 1960 Lumumba, appena proclamato Primo ministro dopo le prime elezioni della neonata repubblica, pronunciò un discorso storico, molto critico nei confronti della dominazione belga, durata in totale 75 anni. Nelle sue parole, il regime coloniale veniva associato alla schiavitù, al saccheggio, al lavoro estenuante e alla discriminazione razziale: il Congo era stato governato fino ad allora con una legge «crudele e disumana» per i suoi abitanti indigeni e «accomodante» per i bianchi colonizzatori.

Il discorso, intriso di rabbia e rivendicazioni e dal tono poco riconciliatorio, non piacque alle autorità belghe, che avevano appena concesso l’indipendenza al Paese. Lo stesso Re Baldovino, presente alla cerimonia, restò interdetto. Pochi mesi dopo, Lumumba sarebbe stato costretto a rimangiarsi quelle parole: in senso letterale, visto che fu obbligato a inghiottire una copia del testo.

I primi mesi di vita della Repubblica democratica del Congo furono infatti molto tormentati. Come ricostruisce Van Reybrouck, Lumumba procedette in maniera troppo rapida all’«africanizzazione» dell’esercito nazionale, trasformando la Force Publique dell’epoca coloniale nell’Armée Nationale Congolaise e sostituendo gli alti ufficiali belgi con impreparati militari del luogo. Una decisione forse motivata da intenzioni lodevoli, ma dagli effetti nefasti, visto che tolse al neonato governo un esercito efficiente con cui affermare il monopolio nell’uso della forza.

In pochi giorni, il Paese fu travolto da violenze e tumulti: alcuni fra i soldati che si erano ammutinati per ottenere promozioni e aumenti salariali attaccarono i civili europei ancora presenti in una città congolese, Thysville. La cosa provocò l’intervento dell’esercito belga, deciso a salvare i propri connazionali e l’esodo degli europei tolse al nuovo Stato anche il personale amministrativo, prima che si fosse pronti a sostituirlo.

La situazione degenerò presto, con due regioni meridionali, il Katanga e il Kasai del sud, che dichiararono a loro volta l’indipendenza dal Congo. Il caso congolese assunse subito una dimensione internazionale, con l’intervento delle Nazioni Unite, le pressioni del Belgio e degli Stati Uniti e la richiesta di aiuto inviata da Lumumba all’Urss: una mossa probabilmente dettata dall’inesperienza del governo, ma destinata ad aprire un fronte africano nella Guerra fredda.

Il 5 settembre Lumumba fu destituito dal Presidente della Repubblica, Joseph Kasavubu e il 14 si verificò il primo colpo di Stato, ad opera di Joseph-Désiré Mobutu, ex segretario e amico di Lumumba. Il primo risultato di questo caos governativo fu l’arresto ai domiciliari di Lumumba da parte del nuovo leader Mobutu, il cui governo provvisorio venne riconosciuto dalla Nazioni Unite. L’ex Primo ministro tentò la fuga dalla capitale Léopoldville verso l’Est del Paese, dove i suoi sostenitori avevano allestito un governo parallelo. Ma fu intercettato, incarcerato, torturato e infine trasferito nella regione del Katanga.

Qui trovò la morte, insieme a due fedelissimi, per mano delle autorità katanghesi, in un luogo sperduto nella foresta. I funzionari dei governi di Belgio e Stati Uniti, decisi a disfarsi di lui politicamente, non fecero nulla per impedire la deportazione di Lumumba, pur consci che ne avrebbe messo in pericolo la vita. Per questo i due Paesi sono considerati coinvolti, anche se non direttamente responsabili, nell’omicidio politico.

Storia di un dente

Racconta nel suo libro Van Reybrouck: «I tre prigionieri furono condotti, uno alla volta, sul bordo della fossa. A meno di quattro metri di distanza c’era il plotone d’esecuzione: quattro militari katanghesi con una mitragliatrice. Per tre volte una salva assordante risuonò nella notte. Lumumba fu l’ultimo a essere giustiziato. Alle 21.43 il corpo del Primo ministro eletto democraticamente del Congo rotolò nella fossa».

Viene ricordata anche la sottrazione del dente, operata dal vice-ispettore generale della polizia katanghese, un belga. «L’assassinio di Lumumba fu tenuto nascosto a lungo. Gerard Soete segò in pezzi i corpi e li sciolse in un barile di acido solforico. Dalla mascella superiore di Lumumba estrasse due denti rivestiti d’oro, dalla sua mano mozzò tre dita. Nella sua casa di Bruges conservò per anni una piccola scatola che mostrava talvolta ai visitatori: conteneva i denti e un proiettile».

Solo alla fine degli anni ‘80, Soete confessò il suo ruolo nell’occultamento dei cadaveri e la refurtiva trafugata. Ne scaturì un’inchiesta del parlamento belga, a cui dichiarò di aver gettato i resti di Lumumba nel Mare del Nord. 

Ma nel 2016, sedici anni dopo la sua morte, la polizia belga sequestrò a casa della figlia di Soete un dente, che ora è stato consegnato alla famiglia di Lumumba e alla Repubblica democratica del Congo. Con tanto di scuse dell’attuale Primo ministro di Bruxelles, Alexander De Croo, non solo per l’appropriazione indebita. «Abbiamo riconosciuto la responsabilità morale del governo belga. Vorrei qui, alla presenza della sua famiglia, presentare a mia volta le scuse per il modo in cui il governo belga all’epoca ha pesato sulla decisione di uccidere Patrice Émery Lumumba».

I conti con il passato

La restituzione segue di pochi giorni quella, altrettanto simbolica, di una grande collezione di maschere africane finora conservate nel museo di Tervuren, alle porte di Bruxelles. Un gesto realizzato nell’ambito di una visita diplomatica molto importante, effettuata dal Re dei belgi Filippo e dalla regina Mathilde, accompagnati da rappresentanti del governo, nelle città di Kinshasa, Lubumbashi e Bukavu.

In quell’occasione, dal sovrano belga sono arrivate parole di rammarico, se non proprio scuse esplicite, per gli anni della dominazione coloniale, causa di «ferite profonde». Filippo ha evocato una relazione tra belgi e congolesi «ineguale, ingiustificabile, segnata da paternalismo, discriminazione e razzismo». Toni simili erano stati utilizzati in una lettera ufficiale indirizzata al presidente congolese Félix Tshisekedi due anni fa, per celebrare i 60 anni dall’indipendenza del Paese.

Il trisnonno di Filippo, Leopoldo II di Sassonia-Coburgo-Gotha, si appropriò nel 1885 del territorio che corrisponde all’incirca all’attuale Congo. Per oltre due decenni, si trattò di un dominio «personale». Leopoldo era a capo dell’Associazione Internazionale del Congo, nata in teoria per garantire il libero commercio in quello che era appunto chiamato «Stato Libero del Congo», sulla carta escluso dai confini coloniali africani delle potenze europee. In pratica, il Congo fu amministrato da funzionari belgi come un possedimento personale di Leopoldo: monarca costituzionale in patria, dove doveva rendere conto al Parlamento, e sovrano assoluto in una terra grande 80 volte il Belgio, dove tra l’altro non mise mai piede.

Il Congo di Leopoldo fu segnato da uno sfruttamento intensivo delle materie prime: inizialmente l’avorio, che però non permise al sovrano di rientrare dagli investimenti iniziali, poi la gomma, molto richiesta alla fine diciannovesimo secolo con l’invenzione dello pneumatico. Proprio in questo periodo si verificarono grandi atrocità nei confronti della popolazione locale, costretta a raccogliere gomma incidendo le liane come forma di tassazione e punita severamente quando non in grado di consegnare alle autorità i quantitativi richiesti. 

Rapporti, testimonianze, fotografie e un’inchiesta internazionale dell’epoca hanno evidenziato trattamenti disumani, frustate, amputazioni di arti e omicidi punitivi perpetrati da belgi sadici o sorveglianti locali incaricati dai superiori di ottenere i pagamenti. Le stime, molto complicate per la mancanza di cifre affidabili, parlano di milioni di morti per la «politica della gomma»: non solo a causa delle punizioni inflitte, ma anche e soprattutto per le condizioni insalubri di lavoro e il generale impoverimento dei villaggi congolesi, condannati alla malnutrizione, alle epidemie e allo spopolamento.

La pressione internazionale suscitata da tali atrocità costrinse Leopoldo a rinunciare al suo territorio d’oltremare, che dal 1908 divenne ufficialmente una colonia del Belgio. Diminuirono gli episodi cruenti, ma la dominazione restò segnata da profondi squilibri, una politica commerciale di rapina (soprattutto mineraria) e la discriminazione perpetrata dagli europei nei confronti dei locali, che vivevano in una situazione di apartheid di fatto e potevano al massimo aspirare al rango di évolué (evoluti), ovvero neri che provavano a imitare i costumi dei bianchi ed essere ammessi ai loro consessi sociali. 

L’incidenza negativa negli anni della colonizzazione e in quelli successivi all’indipendenza, con le redini economiche del Paese in mano alle élite belghe e l’intromissione nella politica nazionale, sono state causa di tensione nella seconda parte del ‘900 tra Bruxelles e Kinshasa, come fu ribattezzata nel 1966 la capitale Léopoldville, in un tentativo di africanizzare la toponomastica del Paese che trasformò persino il Congo in Zaire. 

Oltre alla freddezza tra i due governi, si è registrato per anni il silenzio della monarchia belga sul passato coloniale, rotto solo di recente da Filippo. Secondo la stampa nazionale, nel 2020 il movimento Black Lives Matter ha favorito il riemergere del dibattito sulle responsabilità del Belgio in Congo, culminato con la lettera di rammarico inviata dal sovrano e l’istituzione di una nuova commissione parlamentare per indagare sui crimini dell’epoca coloniale, che presenterà le sue conclusioni alla fine dell’anno. Con queste iniziative, forse tardive, il Belgio cerca di riconciliarsi con il Congo sul passato comune, con la speranza esplicita di rafforzare i legami per il futuro. 

Mercenari, dittatori, sangue. Il Congo di Lumumba e Mobutu. Marco Valle su Inside Over l'8 maggio 2022.

Léopoldville, 30 giugno 1960. In quel giorno torrido, Re Baldovino scese — abbastanza malvolentieri — dal piccolo Belgio nel cuore dell’Africa per concedere l’indipendenza all’immensa colonia creata dal suo avo Leopoldo II. Una folla enorme lo accolse, acclamandolo. Vive le Roi, vive Lumumba. Un trionfo, apparentemente. Ma lungo il percorso, un manifestante si affiancò alla vettura e strappò la spada dal fianco del giovane sovrano. Un gesto fulmineo, provocatorio e terribilmente simbolico che colse di sorpresa il monarca e il suo seguito. Poco dopo, Baldovino dovette subire, al momento della cessione dei poteri, un’arringa confusa quanto violenta di Patrice Lumumba sulle colpe dell’amministrazione coloniale. Terrorizzati dall’eccitazione della folla, i dignitari belgi imposero al loro sovrano un’apparenza di tranquillità e rassegnazione. Poche ore dopo la duplice umiliazione, mentre il Re — furibondo e mortificato — s’involava per la sicura Bruxelles, le milizie lumumbiste iniziavano i saccheggi devastando i quartieri della città europea. Il Congo era indipendente. Un’epoca complessa e contradditoria si chiudeva e una terribile tragedia aveva inizio.

A luglio l’esercito si ammutinò, gli ufficiali belgi furono rimossi ed espulsi e l’intero paese piombò nel caos. L’11 luglio Moise Tshombe (il nome viene a volte italianizzato in Ciombe) dichiarò la secessione del Katanga, la più ricca regione del Congo. A settembre dello stesso anno, il presidente Kasavubu impose le dimissioni a Lumumba. L’uomo, ormai in piena deriva filo-comunista, in dicembre venne arrestato e, due mesi dopo, ucciso in circostanze oscure. La mattanza aveva inizio.

Le ingerenze internazionali sul Congo si fecero sempre più pesanti, causando l’intervento dell’Onu e dei principali attori della Guerra fredda, Stati Uniti e Urss, che trasformarono la crisi “interna” in un vero e proprio campo di battaglia globale. Per una volta sincero, John Kennedy nel marzo del 1962 chiariva, a chi ancora dubitava, i contorni della micidiale partita: “quello che faremo — o non riusciremo a fare — in Africa entro il prossimo anno o i prossimi due anni avrà grandi conseguenze per gli anni venire […]  Riteniamo che l’Africa sia forse il più grande campo di manovra della competizione su scala mondiale fra il blocco comunista e il mondo non-comunista”.

Un meccanismo infernale a cui anche l’Italia pagò un tributo crudele. L’11 novembre 1961 a Kindu due equipaggi dell’Aeronautica militare, assegnati al contingente delle Nazioni Unite, furono selvaggiamente trucidati da insorti locali. I corpi straziati dei tredici aviatori, malamente sepolti in una fossa comune, vennero ritrovati solo dopo quattro mesi. Dal 1962 le salme riposano nel Sacrario dei caduti di Kindu, all’ingresso dell’aeroporto militare di Pisa. A ricordo del sacrificio dei due equipaggi una stele si staglia all’ingresso dell’aeroporto intercontinentale “Leonardo Da Vinci” di Fiumicino.

In questa follia assassina s’inserì più tardi la prima incursione comunista nell’Africa della decolonizzazione. La spedizione, guidata da Ernesto “Che” Guevara, si rivelò un fallimento pieno: i comunisti congolesi si rivelarono “un esercito di parassiti” (Che dixit), un’armata stracciona che i mercenari europei— gli affreux, ruvidi reduci di ogni guerra — sbaragliarono con facilità, cancellando le velleità dell’argentino che preferì levare il disturbo e partire, dopo qualche tappa altrettanto deludente, verso la fatale Bolivia.

La secessione del Katanga si concluse solo nel 1963 e l’anno successivo Tshombe venne nominato primo ministro ma la guerra civile e gli odi tribali non si arrestarono. Nel 1965 gli Usa, assai preoccupati per la situazione ormai fuori controllo, appoggiarono il golpe del “generalissimo” Joseph-Désiré Mobutu Sese Seko. Un regime spietato. A scanso d’equivoci, il primo atto del nuovo presidente fu la plateale fucilazione dei principali oppositori nello stadio della capitale.

Alla trentennale dittatura cleptocratica di Mobutu seguirono l’opaco regime della famiglia Kabila e la presidenza di Félix Tshisekedi, eletto più o meno pacificamente nel 2019. Ma l’attuale uomo forte di Kinshasa ha poco da celebrare e nulla di cui sorridere. Dopo la fresca condanna ai lavori forzati di Vital Kamerhe, il suo braccio destro reo d’aver intascato 50 milioni di dollari destinati all’edilizia popolare, il governo naviga a vista, l’esercito resta inquieto e le proteste montano in tutto il Paese. Sullo sfondo una miseria dilagante: malgrado le sue enormi ricchezze minerarie (che ogni anno rendono allo Stato 15 miliardi di dollari), il Congo — questo formidabile “scandalo geologico” — rimane uno dei dieci paesi più poveri del pianeta.

Il 30 giugno 2020, nell’anniversario della fine della presenza belga in Congo, monsignor Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa non ha avuto peli sulla lingua e ha tracciato un amarissimo bilancio del fatidico sessantenario:

“Contrariamente ai paesi vicini, l’indipendenza è stata una indipendenza più sognata che ponderata: mentre altri riflettevano sul significato dell’indipendenza e preparavano le persone alle sue conseguenze; noi, in Congo, sognavamo l’indipendenza con emozione, passione, irrazionalità, tanto che quando il momento è giunto non sapevamo che cosa sarebbe accaduto. Le conseguenze si vedono ancora oggi. Per i congolesi dell’epoca sognare l’indipendenza significava sognare di occupare i posti dei bianchi, sedersi sugli scranni dei bianchi, godere dei vantaggi riservati ai bianchi e non agli indigeni dell’epoca. Per molti l’indipendenza era vista come la fine di tutti i lavori pesanti. Quando saremo indipendenti diventeremo tutti capi. Occuperemo i posti dei bianchi. Tutto ciò si è verificato: i congolesi hanno occupato i posti dei bianchi. Ma dato che non capivano niente di quello che facevano i bianchi, dato che non capivano l’esercizio dell’autorità o l’esercizio delle cariche, qualunque compito politico o incarico è stato visto come l’occasione di godere dei vantaggi dei bianchi. Si cercava di accedere al potere non per rendere servizio a coloro che si trovano sotto la propria responsabilità ma per avere i privilegi dei bianchi. Ma questi, mentre erano seduti sulle loro sedie, non se la spassavano e basta. Lavoravano anche. Comprendevano il senso del loro lavoro. Noi invece abbiamo messo da parte l’idea del servizio da rendere agli altri e abbiamo posto l’accento sul piacere”. Parole su cui riflettere.

Daesh e superpotenze: Il tesoro conteso della miniera d’Africa. Jihadisti e milizie puntano ai giacimenti della Repubblica democratica del Congo. Il Paese insanguinato dove è atteso Papa Francesco. Daniele Bellocchio su L'Espresso il 20 Giugno 2022.

La notte sta accomiatandosi con lentezza dalla Repubblica democratica del Congo. Le nere montagne del massiccio del Rwenzori appaiono ancora indefinite all’orizzonte; in cielo persiste il profilo di una luna trasparente ma, poco a poco, la delicata luce dell’albeggio svela la città di Beni, incastonata a 1.100 metri d’altezza tra il lago Alberto e il lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, tra anatemi esiziali e malvagità politiche. È qui, infatti, che nel 2019 si è consumata la prima epidemia di Ebola in una zona di conflitto e la più feroce per numero di bambini colpiti, e oggi è sempre questa città, nell’estrema parte settentrionale della provincia del Nord Kivu, ad essere l’epicentro della guerra tra la formazione jihadista degli Adf e l’esercito governativo.

Il bailamme che sveglia e infetta di una vitalità febbrile il centro cittadino nel giorno di mercato è stato sovvertito da un silenzio inquietante. Nel vicino villaggio di Mutuej, nella notte, è stato compiuto un massacro da parte di una colonna islamista e la notizia, che si diffonde in breve tempo attraverso le frequenze delle radio locali, paralizza e ammutolisce il capoluogo. Le strade vengono subito occupate dai soldati governativi che immediatamente allestiscono posti di blocco, dispongono i blindati, effettuano perquisizioni e controllano ossessivamente i documenti: tutti imbracciano i kalashnikov, alcuni celano la tensione dietro le scure lenti dei Ray-Ban, altri invece la ostentano, appoggiando l’occhio nella scanalatura del mirino e tenendo sotto tiro chiunque si aggiri per le vie di Beni.

Per avere piena comprensione di ciò che è avvenuto occorre dirigersi all’obitorio dove si rimane sconvolti di fronte al delirio di odio che è stato perpetrato. Dozzine di corpi sono ammassati nella piccola camera mortuaria. Alcuni hanno impressi gli inequivocabili segni dei colpi degli Ak-47, altri sono stati mutilati con i machete, altri ancora barbaramente decapitati. La commistione tra l’afrore di morte e l’umidità rende l’aria irrespirabile ma, nonostante ciò, centinaia di persone, stravolte e immobili, vegliano le salme. «Non ne possiamo più! Ogni giorno avvengono massacri e il mondo dov’è? Ci mandate sacchi di farina anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a queste stragi. Noi vogliamo soltanto la pace»: mentre il parente di una vittima sfoga la sua collera demolendo le consunte e sfiduciate parole d’ordine della carità internazionale, intanto gli infermieri trasportano dei cadaveri appena rinvenuti nella boscaglia.

Due barellieri avanzano lentamente: il lenzuolo che copre la salma che stanno trasportando scivola e, in quel momento, si svela il corpo di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, con la testa riversa e la gola recisa. Un silenzio assoluto, livido di paura e impotenza, cala su una folla attonita e sconvolta che osserva quell’ennesimo assassinio senza ragione e senza risposte. Si odono solo i rintocchi ferali delle campane dell’ospedale che, oltre a informare la comunità della tragedia, forse suonano anche per esortare Dio a essere testimone delle azioni dell’uomo e, nel vederle, soffrire per la sua creazione.

Quanto avvenuto nel piccolo villaggio della Repubblica democratica del Congo è infatti solo l’ultimo di una serie di massacri perpetrati dagli Adf, Allied democratic forces, un gruppo jihadista, nato in Uganda e che nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh, ribattezzandosi Iscap: Provincia dello Stato islamico in Africa centrale. I ribelli che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti e reclutamento di bambini soldato, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali del Paese ma, secondo analisti e giornalisti locali, il vero obiettivo, più che la guerra santa, sarebbe quello di mettere le mani sulle ricchezze del Congo.

La formazione terroristica è passata alla ribalta delle cronache perché è una delle prime formazioni di matrice islamica ad aver dato vita a una ribellione in Congo ma, soprattutto, perché è il gruppo più spietato presente nel Paese e che fa dell’uso sistematico della violenza contro i civili lo strumento per prendere controllo del territorio. Per provare a respingere l’avanzata delle bandiere nere l’esecutivo congolese ha chiesto supporto al governo dell’Uganda che, da dicembre, ha inviato le proprie truppe in appoggio a quelle di Kinshasa. Nelle province orientali dello Stato africano però non si annovera solo la ribellione degli jihadisti: sono oltre 130 le formazioni armate e, da aprile, nella parte meridionale del Nord Kivu, è divampata la guerriglia del gruppo filo-ruandese M23 che nel 2012 aveva dato origine all’ultimo conflitto su vasta scala in Congo. A causa del cristallizzarsi dei conflitti, si è aggravata anche la crisi umanitaria: i profughi interni, secondo l’ultimo report dell l’Unhcr, son più di 5 milioni e il World food programme ha dichiarato che sono 27 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo, 3,4 milioni i bambini malnutriti e, dall’inizio dell’anno ad oggi, nelle sole province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1.800, stando a quanto riporta il Kivu security tracker.

Tra le vittime della violenza che impera nell’est del Congo si annovera anche l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso a soli 44 anni, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo, la mattina del 22 febbraio 2021 a Kibumba, piccolo villaggio distante 20 chilometri dal capoluogo Goma, mentre stava viaggiando su un fuoristrada del Programma alimentare mondiale all’interno di un convoglio composto da un’altra jeep del Pam. Secondo le ricostruzioni e le dichiarazioni rilasciate dalle autorità congolesi si sarebbe trattato di un tentato rapimento a scopo di riscatto finito tragicamente, ma molti interrogativi e ombre ancora avvolgono la vicenda. Da quel che si è potuto apprendere, infatti, stando alle indagini condotte dalla procura di Roma, il nome dell’ambasciatore non sarebbe stato inserito, dai funzionari del Pam, tra i membri del convoglio e la Monusco (la Missione dei Caschi Blu in Congo) non sarebbe stata preventivamente avvisata del viaggio che il diplomatico e il militare italiano stavano per intraprendere.

La figura del diplomatico sarà ricordata anche da Papa Francesco durante il suo viaggio nel Paese africano, programmato a luglio e posticipato per motivi di salute. Il Pontefice ha annunciato che celebrerà una messa a Chegera, proprio vicino al luogo in cui si è registrato il tragico agguato. Nella visita del Santo Padre in Repubblica democratica del Congo, a 42 anni esatti da quella compiuta da Giovanni Paolo II, missionari e vescovi locali hanno visto la ferma volontà da parte di Francesco di esporsi in prima persona perché la violenza cessi nella nazione. Il Papa negli anni ha infatti più volte invitato a pregare per il Congo denunciando anche lo sfruttamento del sottosuolo che alimenta gli endemici conflitti. 

L’ex Zaire, pur occupando il 175esimo posto su 189 Paesi nell’Indice dello sviluppo umano, è una delle nazioni maggiormente ricche di materie prime al mondo. Qui si trovano metà dei giacimenti planetari di cobalto; l’ex colonia belga è il quarto produttore di diamanti, possiede l’80 per cento delle riserve mondiali di coltan oltre a immensi giacimenti di rame, uranio, oro, cassiterite e petrolio. Ed è proprio questa ricchezza ad aver attirato gli appetiti di potenze internazionali e locali ed essere alla base delle guerre che dal’96 ad oggi hanno insanguinato la regione provocando oltre 6 milioni di morti.

«Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo. Il popolo congolese muore di fame e stenti per arricchire il resto del mondo. Questo è il grande paradosso del mio Paese». Le parole di Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu, anticipano quanto si scopre all’indomani nelle miniere di cassiterite di Nyabibwe, nel Sud Kivu, dove, nella cornice di un paesaggio empireo, tra montagne e foreste smeraldine, si consuma un inferno terreno. Centinaia di persone lavorano nelle cave, senza sosta, per pochi dollari al giorno. Un gruppo di donne caracolla dal pendio di una montagna trasportando gerle che pesano più di 50 chili; dei bambini, badili alla mano, setacciano per ore, con i piedi nell’acqua, il materiale estratto dalle miniere separando i minerali dalle pietre grezze; uomini dai volti deformati dalla fatica, con le mani granitiche e gli occhi gonfi, scavano senza sosta e senza nemmeno la consolazione di un raggio di sole, nella speranza di trovare una nuova vena. I minatori, che spesso muoiono sepolti sotto i crolli improvvisi, vengono pagati in base a quanto estraggono e se al termine della giornata non trovano nulla, non percepiscono nessuna paga.

Da decenni il popolo congolese, sotto il maglio dell’indifferenza globale, balsamo per coscienze e interessi, è costretto quindi a calarsi continuamente nelle miniere e a precipitare negli abissi di uno sfruttamento talmente disumano e inintelligibile che non consente né di vivere e neppure di morire, ma solo di consumarsi poco a poco, nelle viscere di una terra che appartiene a tutti, eccetto che ai congolesi.

·        Quei razzisti come i francesi.

Macron, il leader capace che non ha catturato il cuore della Francia. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2022. 

L’indagine che coinvolge il presidente e lo scandalo dei finanziamenti di McKinsey mettono in luce la disaffezione verso l’Eliseo: Macron è considerato da metà del Paese il candidato delle multinazionali

L’inchiesta sui finanziamenti di McKinsey è una bella grana per Macron. Non giudiziaria: il presidente ha l’immunità. Politica. Il problema non sono i soldi. In Francia, come in Italia, l’opinione pubblica è convinta che un po’ tutti i leader abbiano denaro da parte, e da più parti ne ricevano.

Di Macron poi non si può certo dire che qualcuno gli abbia comprato l’Eliseo. Ha vinto due campagne elettorali senza troppi patemi: sempre in testa al primo turno; ballottaggio comodo contro una rivale che gli lasciava il centro del sistema politico. E i soldi li ha presi prima dai russi, poi dagli ungheresi.

Il problema è McKinsey.

Questa inchiesta concretizza il fantasma che da sempre aleggia sul presidente. Dà forma al pregiudizio che cova in almeno metà dei francesi: che Macron sia una sorta di «Manchurian candidate», di leader eterodiretto, creato ad arte.

Nel 2017 Marine Le Pen l’aveva detto apertamente al Corriere, attribuendo il pregiudizio addirittura al Papa: «Francesco ha detto di Macron “non lo conosco, non so da dove viene”. E sa cosa dice il Vangelo? (Le Pen cercò la citazione sul suo tablet). Ecco qui: Luca, 13, 25: “Quando il padrone di casa chiuderà la porta, comincerete a bussare, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete”. Il Papa non parla a caso — proseguì Marine —. Il Papa non si riconosce nel candidato ultraliberale che sostiene la precarizzazione del lavoro, nell’uomo della grande finanza…».

Al di là delle evocazioni evangeliche, da mezza Francia Macron è considerato proprio questo: il candidato delle multinazionali, della finanza anglosassone, dei padroni della globalizzazione, venuti a smantellare «l’eccezione francese», una nazione statalista e sociale che pur perdendo colpi ancora funziona. Ovviamente, questa non è la verità; è una narrazione. Che però affascina e persuade.

Non sappiamo se Macron abbia favorito McKinsey in cambio di qualcosa. Di sicuro i rapporti con la multinazionale della consulenza sono cominciati quando era un giovanissimo ministro delle Finanze. E ha consultato McKinsey sul tema tabù della politica francese da trent’anni a questa parte: la riforma delle pensioni.

Sulle pensioni Chirac perse le elezioni legislative del 1997; anche a causa delle pensioni Macron quest’anno non ha conquistato la maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale. Porta male toccare quelli che le élites definiscono privilegi e il popolo diritti. Soprattutto se la riforma non è affidata solo alla burocrazia francese, di alto livello e gelosissima del proprio ruolo, ma coinvolge appunto una multinazionale. Che, come tutte le multinazionali, versa in Francia una quota di tasse preferibilmente vicina allo zero.

Nella realtà, Macron non è al servizio di nessun interesse estero. Anzi, ha dimostrato di saper difendere l’interesse nazionale francese, com’è inevitabile fino a quando non avremo un presidente europeo eletto dal popolo, che non risponda solo agli elettorati nazionali; che è poi il suo sogno politico.

Non è in dubbio l’intelligenza di Macron, né la sua intuizione: l’alternanza tra destra e sinistra poteva essere spezzata con uno schema nuovo. I confronti tv con Marine Le Pen sono stati imbarazzanti: da una parte un uomo dal curriculum internazionale, che padroneggiava numeri e dossier; dall’altra una capopopolo a suo agio nei comizi, nel marasma più completo di fronte a un esperto di economia e finanza. Eppure Macron non è mai davvero riuscito a conquistare il cuore della Francia, a indurre i compatrioti a riconoscersi in lui, a dissipare quel dubbio sull’uomo del mistero, spuntato dal nulla, legato all’establishment internazionale, discusso anche per la sua grande storia d’amore, che è autentica ma viene giudicata pure quella posticcia.

La legge lo proteggerà per altri quattro anni; però l’aura sacrale che circonda la presidenza si è dissolta da tempo.

Charles De Gaulle disprezzava il denaro: «L’Intendance suivra», prima veniva l’esercito poi l’intendenza, prima la politica poi l’economia. Ma dopo di lui arrivò Georges Pompidou: un banchiere, ex direttore generale di Rothschild (anche se era stato professore di liceo, come Ciampi). François Mitterrand lo chiamavano Dieu. Jacques Chirac è stato condannato perché faceva stipendiare dal Comune di Parigi uomini del suo partito, Nicolas Sarkozy è stato anche fermato, con accuse infamanti: circonvenzione di incapace dell’anziana Liliane Bettencourt, la donna più ricca del mondo; finanziamenti da Gheddafi, poi fatto bombardare anche per cancellare le tracce.

François Fillon è stato messo fuori gioco da uno scandalo piccolo ma imbarazzante, soldi pubblici alla moglie Penelope per un impiego fittizio; e il giudice che l’ha incastrato, Serge Tournaire, è lo stesso che aveva indagato Sarkozy e investiga ora su Macron.

François Hollande non ha particolari grane giudiziarie; ma nessuno ha fatto più di lui per banalizzare l’Eliseo, desacralizzare l’istituzione presidenziale.

Emmanuel Macron resta una speranza per la Francia e per l’Europa; ma da ieri è forse iniziata la sua parabola discendente. E non è affatto detto che dopo di lui verrà uno migliore.

Francia, indagine sui conti della campagna elettorale di Macron. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2022.

La notizia del Parisien: le indagini riguarderebbero i legami tra Macron e la società McKinsey, che avrebbe finanziato in maniera occulta la campagna elettorale del 2017 e del 2022 e a cui sarebbero state assegnate consulenze a condizioni poco limpide

La giustizia francese indaga sui conti delle campagne elettorali del presidente Emmanuel Macron del 2017 e 2022. Dopo una prima inchiesta preliminare aperta nel marzo scorso a carico della società di consulenza McKinsey per frode fiscale, ieri si è avuta notizie di altre due indagini aperte il 20 e il 21 ottobre: una per «conservazione non conforme dei conti di campagna e sottostima di elementi contabili», riguardo alla partecipazione di McKinsey nella corsa di Macron all’Eliseo del 2017 e del 2022; l’altra per «favoritismi e occultamento di favoritismi». In pratica, i magistrati vogliono verificare la regolarità dei rapporti tra i consulenti McKinsey e il candidato poi presidente Macron.

La presidenza francese ha dichiarato in serata di aver «preso atto della comunicazione della Procura finanziaria nazionale relativa all’apertura di due indagini a seguito di denunce presentate da personalità elette e associazioni». E ha aggiunto: «Spetta alla magistratura condurre queste indagini in totale indipendenza».

Tre sono i giudici di istruzione incaricati dell’inchiesta, tra i quali Serge Tournaire, noto per avere indagato sull’ex premier François Fillon e sugli impieghi fittizi di sua moglie Penelope (scandalo che era costato a Fillon l’Eliseo), e per l’inchiesta sull’ex presidente Nicola Sarkozy protagonista del caso Bygmalion.

Macron è protetto dall’immunità fino alla fine del suo mandato (2027). Le nuove indagini lo mettono comunque in imbarazzo dal punto di vista politico perché già nella primavera scorsa, alla vigilia del voto presidenziale, aveva dovuto smentire qualsiasi favoritismo nei confronti di McKinsey, ricordando che il governo era soggetto alle «regole degli appalti pubblici». Ciò nonostante l’inchiesta si allarga, a partire dal fatto che i contratti tra lo Stato francese e le società di consulenza sono più che raddoppiati tra il 2018 e il 2021, raggiungendo la cifra di un miliardo di euro lo scorso anno. Tra queste aziende c’è McKinsey, che non ha pagato alcuna imposta sulle società in Francia tra il 2011 e il 2020, nonostante un fatturato stimato in 329 milioni di euro nel 2020 in Francia.

Nel marzo 2022 il giornale d’inchiesta Mediapart ha raccontato come McKinsey avesse sostenuto Emmanuel Macron già da ministro dell’Economia, ancor prima che si dichiarasse candidato alle elezioni presidenziali del 2017. McKinsey potrebbe avere offerto i suoi servizi pro bono, in modo gratuito e senza contratto, a Macron, in vista di guadagni futuri nel caso fosse in effetti riuscito a conquistare l’Eliseo? Alcuni membri di McKinsey hanno partecipato al lancio del movimento En Marche!, base del futuro partito presidenziale oggi ribattezzato Renaissance. E sempre nel marzo scorso un rapporto del Senato ha denunciato gli eccessi del ricorso alle società di consulenza esterne, citando, tra i contratti più controversi, quello tra McKinsey e il ministero dell’Istruzione per la fornitura di un «rapporto sull’evoluzione del mestiere di insegnante», pagato mezzo milione di euro.

La società McKinsey poi è intervenuta nella gestione della crisi del Covid, e il presidente della regione Hauts-de-France, Xavier Bertrand ha ipotizzato mesi fa «un trattamento di favore nei confronti di McKinsey rispetto ad altre società di consulenza», alludendo a una sorta di ricompensa per il ruolo dei suoi uomini nelle campagne elettorali di Macron. Il presidente in quell’occasione si era difeso con forza: «Si dà l’impressione che esistano combine, ma è falso».

Un’inchiesta di Le Monde ha documentato i legami tra McKinsey e Macron: in particolare avrebbero partecipato in modo informale alla campagna elettorale del 2017 Karim Tadjeddine, responsabile del «settore pubblico» del gruppo, Eric Hazan del settore digitale e Guillaume de Ranieri (spazio e difesa).

Dopo la vittoria di Macron, la consulente Ariane Komorn ha lasciato McKinsey per un ruolo nel partito presidenziale, mentre un altro consulente, Mathieu Maucort (McKinsey dal 2013 al 2016) è stato poi vicecapo gabinetto del segretario di Stato per il digitale Mounir Mahjoubi. Le indagini vogliono appurare se i legami tra McKinsey e Macron e il suo entourage siano leciti o meno.

Macron finisce sotto inchiesta, per finanziamento illecito. Luciano Tirinnanzi su Panorama il 24 Novembre 2022.

 Il leader del progressismo e della nuova sinistra europea sarebbe indagato dalla Polizia per i suoi legami con McKinsey e consulenze esterne alla politica da milioni di euro Macron finisce sotto inchiesta, per finanziamento illecito.

 Doveva fare da paciere tra Zelensky e Putin, e invece si ritrova sotto indagine per finanziamento illecito. Parliamo del presidente francese Emmanuel Macron, e la notizia è di quelle che fanno rumore. Già, perché secondo Le Parisien – che ha lanciato per primo lo scoop – vi sarebbero «rapporti da chiarire» tra Macron stesso e la McKinsey, società internazionale di consulenza manageriale che affianca imprese, organizzazioni e molte istituzioni in Europa e nel mondo, compresa la Francia ovviamente. Le indagini delle autorità transalpine, in particolare, puntano a scoprire se la McKinsey abbia o meno finanziato in maniera occulta la campagna elettorale del 2017 di En Marche, il partito del presidente, in cambio di ricche consulenze in seguito assegnate dal governo francese alla società di New York, attraverso procedure definite «poco limpide». La notizia in realtà non è nuova: già a pochi giorni dal voto (quattro, per la precisione) lo scorso aprile, la Procura nazionale delle finanze francese aveva annunciato l’apertura di un’istruttoria su un’eventuale evasione fiscale da parte proprio di McKinsey. «È molto positivo che la giustizia si occupi di questo caso» aveva commentato allora Macron, plaudendo all’indipendenza dei giudici e rimarcando come lui stesso si fosse sforzato nell’ambito del suo mandato di costringere le grandi multinazionali a non evadere le tasse: «Questa è la lotta che conduco da cinque anni, che abbiamo condotto in Europa. Sotto la presidenza francese dell’Unione Europea, nelle prossime settimane, potremo finalmente far passare questa misura di una tassa minima». All’epoca, stampa e opinione pubblica francese si stavano interrogando sull’opportunità che le autorità pubbliche facciano così spesso ricorso alle consulenze di esperti e studi privati per questioni inerenti il servizio pubblico e le politiche nazionali: da qui ne era discesa una commissione d’inchiesta del Senato della repubblica, dove il presidente e senatore Arnaud Bazin e la senatrice Éliane Assassi avevano argomentato le storture del sistema pubblico, che usa con disinvoltura gli studi privati per colmare le lentezze della macchina burocratica dello Stato. «Scegliere imprese private a scapito della nostra funzione pubblica, quando è stato accertato che in molti casi si stanno sostituendo i funzionari della nostra amministrazione, è una scelta politica che si assumono il Presidente della Repubblica e i membri del Consiglio di amministrazione del Governo» dice il rapporto. «I servizi informatici non possono essere utilizzati come pretesto per giustificare l’aumento del ricorso a imprese private dopo l'elezione di E. Macron nel 2017, per due motivi. In primo luogo, perché questi sono ministeriali, mentre la spesa per le consulenze con una forte dimensione strategica è triplicata dall’inizio del quinquennio, raggiungendo i 445,6 milioni di euro nel 2021. La consulenza strategica e organizzativa è addirittura quadruplicata». Interessato a non perdere voti per garantirsi la rielezione, Macron aveva sorriso alla querelle e al canale TF1, interrogato sui fornitori di servizi esterni per l’Eliseo, il capo di Stato aveva sostenuto molto serenamente: «È normale […] Se questo ricorso sia eccessivo in Francia lo vedremo», argomentando che Germania e Regno Unito impiegano il doppio delle società di consulenza rispetto alla Francia. Eppure, adesso il presidente ha poco da stare allegro. Vero è che, godendo dell’immunità presidenziale, Emmanuel Macron non può essere ascoltato dai tribunali. Ma il punto è che l’opposizione oggi ha molti argomenti in più per criticare il leader di Renaissance (il partito politico che ha preso il posto di En Marche nel 2022): spendere troppo denaro pubblico per consulenze ad aziende internazionali che non pagano le tasse in Francia, è un regalo a chi vuole vedere il presidente fuori dai giochi. «L’unica certezza in questa fase è che ci sono legami tra il capo di Stato, il suo entourage e la società americana» ammette Le Parisien. E dunque è presto per parlare di un vero pe proprio scandalo all’Eliseo. Piuttosto, è in corso un’abile manovra politica per delegittimare – o quantomeno depotenziare – il ruolo di leadership che il numero uno francese si è intestato in Europa, così come nella trattativa con la Russia per la fine delle ostilità in Ucraina.

Ironia della sorte, è di poco fa la notizia (l’ha battuta il quotidiano Le Monde) che la Francia lavora alla concezione di nuovi telefoni ultra-criptati specificatamente destinati al presidente Emmanuel Macron. Una beffa per i giudici transalpini, che hanno messo nel mirino il presidente anche per altre vicende poco chiare, dove Macron - anche se non direttamente coinvolto – è più volte lambito da accuse di non poco conto a danno dei suoi collaboratori. La Corte di giustizia della Repubblica ha indagato, ad esempio, l’ex ministro della salute Agnès Buzyn per «aver messo in pericolo la vita degli altri» durante la gestione della pandemia, dal luglio 2020. Così come il ministro della Giustizia Eric Dupond-Moretti è indagato per conflitto di interessi in una sorta di «regolamento di conti» tra toghe, avendo allontanato alcuni magistrati dopo essere divenuto Guardasigilli. Insieme a lui, figurano nel registro degli indagati anche il ministro d’Oltremare Sébastien Lecornu e il segretario di Stato per la funzione pubblica Olivier Dussopt, entrambi sotto inchiesta con accuse simili. Altro ambito riguarda invece Alexis Kohler, braccio destro di Emmanuel Macron e suo segretario generale alla presidenza: è stato indagato per traffico di influenze dalla Procura nazionale finanziaria dopo la denuncia di un’associazione per la lotta alla corruzione, che lo ha messo in relazione con l’armatore della MSC, gruppo italo-svizzero con il quale lo Stato francese ha importanti partite aperte. Ma il caso più eclatante (e imbarazzante) per il presidente è certamente quello di Alexandre Benalla, incaricato di missione all’Eliseo ed ex bodyguard personale di Macron: è stato riconosciuto colpevole di violenze e usurpazione della funzione di poliziotto e per questo condannato a tre anni di carcere. Una serie di video diffusi dai media francesi lo aveva mostrato con indosso un casco da poliziotto in mezzo ad alcuni agenti, intento a manganellare i manifestanti durante una manifestazione a Parigi nel maggio 2018. Colpevole anche di detenzione illegale di armi e di uso impropri di passaporti diplomatici, lo scandalo di Benalla aveva messo in cattiva luce il presidente, senza però scalfirne realmente il potere o l’immagine. Forse perché non vi erano di mezzo dei soldi pubblici. Cosa che invece il caso delle consulenze alla McKinsey potrebbe far emergere. E, in quell’ipotesi, i francesi non saranno così divertiti nello sbeffeggiare apertamente il rapporto tra Macron e Benalla, che molti hanno additato come suo amante segreto. Anche se in definitiva, come dimostra il ritorno di Benjamin Netanyahu in Israele (dove il premier è ancora accusato di frode e corruzione) la ragion di Stato prevale sempre.

Dopo 9 anni di fallimenti termina l’operazione antiterrorismo francese nel Sahel. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 12 novembre 2022.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha ufficialmente decretato la fine dell’Operazione Barkhane in Sahel. La Francia continuerà comunque ad essere presente militarmente nella zona, con circa 3000 soldati ancora schierati in Niger, Ciad e Burkina Faso, e «a combattere il terrorismo nel Sahel, in collaborazione con i nostri partner africani e internazionali». La fine di Barkhane sancisce tuttavia definitivamente il fallimento delle operazioni nell’area, dove, nonostante la decennale presenza delle forze di Parigi, il numero di attentati terroristici è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni. Nei mesi scorsi il popolo maliano in particolare era sceso diverse volte in piazza per chiedere a gran voce la cacciata dei francesi, espellendone anche l’ambasciatore con appena 72 ore di preavviso.

Il 15 agosto, appena tre mesi fa, la Francia aveva annunciato di aver completato il ritiro di uomini e mezzi dal Mali, ponendo fine alla propria presenza nel Paese. Le operazioni erano iniziate con il presidente Hollande quando, nel 2013, il governo di Bamako aveva chiesto aiuto per contenere l’offensiva del movimento separatista Tuareg, affiliatosi ad al-Qaeda. Al culmine dell’operazione, la Francia contava 5000 soldati schierati nei diversi Paesi del Sahel, ma negli ultimi anni l’influenza francese nell’area è molto diminuita, complici anche gli scarsi risultati ottenuti in termini di contrasto all’attività terroristica nella zona. Tra le motivazioni principali vi è la conoscenza pressoché nulla dell’esercito francese del territorio, delle sue dinamiche interne e delle lotte inter-etniche che lo attraversano.

Così, ad oggi, la situazione in Mali e in Burkina Faso è notevolmente peggiorata per quanto riguarda la sicurezza interna e lo stesso vale per il Niger. Dal 2016, gli attentati terroristici nel Sahel sono di fatto quintuplicati, prendendo di mira obiettivi civili ma anche militari. Basti pensare che, secondo il Global Terrorism Index del 2021, Burkina Faso, Mali e Niger sono tra i primi 10 Paesi al mondo maggiormente colpiti dagli attentati terroristici. In Burkina Faso, in particolare, i gruppi Iswap e Aqim (affiliati rispettivamente a Stato Islamico e al-Qaeda) controllano il 60% del territorio nazionale e si stanno lentamente espandendo in direzione dei Paesi della costa, motivo per il quale Benin, Togo, Ghana e Costa d’Avorio hanno alzato quest’anno il proprio livello di allerta interna.

Sono numerosi i regimi nella regione che sono stati rovesciati, negli ultimi anni, proprio perché incapaci di garantire la sicurezza interna nonostante l’appoggio straniero: tra questi, quello di Ibrahim Boubacar Keïta (“l’uomo” di Parigi), presidente del Mali rovesciato nel 2020, e Roch Marc Christian Kaborè, presidente burkinabè rovesciato nel gennaio di quest’anno. Il “regime dei colonnelli” (così chiamato perché tutti i golpisti hanno la carica di colonnello) ha messo a dura prova la presenza francese nella regione, nonostante disponga esso stesso di scarse probabilità di porre una soluzione al problema del terrorismo.

Le proteste più accese si sono verificate quest’anno in Mali, ma non sono mancate iniziative di contestazione anche in altre zone: convogli francesi sono infatti stati bloccati in Niger e in Burkina Faso, nella cui capitale bandiere tricolore sono state date alle fiamme alla notizia del colpo di Stato. I sindacati nigeriani hanno chiesto l’allontanamento dei francesi e anche in Ciad, considerato il principale alleato di Parigi nella regione, i cittadini hanno manifestato forti sentimenti anti-francesi. Alla luce della crescente insoddisfazione popolare e dei puntuali insuccessi dell’Operazione Barkhane, oltre che del succedersi di colpi di Stato, il governo francese ha quindi optato per una ritirata volontaria che somiglia molto di più a un’evacuazione, per uscire nel minor tempo possibile dal conflitto nella quale è rimasto invischiato.

Recentemente, inoltre, l’impegno dell’esercito di Parigi sembra rivolto più che altro a contrastare la presenza russa nella regione che non quella islamica: secondo un rapporto dell’Istituto strategico di studi militari (Isrem) del ministero della Difesa francese, in Mali (ma anche in Burkina Faso) si starebbe assistendo ad una “proliferazione di contenuti propagandistici e di disinformazione online, il più delle volte volti a denigrare la presenza francese e a giustificare quella russa”. La comprovata presenza del gruppo Wagner nel Paese avrebbe, anche secondo le analisi statunitensi, peggiorato la situazione della sicurezza nel Paese e nella regione, nonostante il governo di Bamako da mesi sostenga di star portando avanti con successo numerose operazioni anti-terroristiche, proprio grazie all’aiuto dei combattenti russi.

[di Valeria Casolaro] L'Indipendente 

Parigi val bene una governabilità. Macron grazie a De Gaulle ha sterilizzato il populismo di destra e di sinistra. Carlo Panella su L’Inkiesta l’11 Novembre 2022.

La costituzione francese riformata tra il 1958 e il 1962 garantisce al presidente di evitare lo scenario dell’«anatra zoppa», tipico del presidenzialismo americano, grazie a un rafforzamento dei poteri attribuiti all’Eliseo

Il gran parlare di «anatra zoppa», di un Presidente americano bloccato da una maggioranza del Congresso controllata dall’opposizione, nei giorni scorsi a proposito del possibile esito delle elezioni americane di midterm, può essere una buona occasione per discutere dei pregi e dei difetti del presidenzialismo.

Soprattutto perché la cronaca politica delle scorse settimane in Francia ci presenta un caso interessante di un presidente, Emmanuel Macron, che invece riesce a governare, sia pure con molte mediazioni, a non essere quindi un’anatra zoppa, pur dovendo far passare le sue leggi e i suoi provvedimenti in una Assemblea Nazionale nella quale le sue opposizioni sono maggioranza.

Questo perché Charles De Gaulle, tra il 1958 e il 1962 ha riformato la Costituzione francese in senso presidenzialista, avendo ben presente appunto l’esperienza americana dell’anatra zoppa, di un presidente eletto dal popolo che però di fatto è privato però di iniziativa legislativa a causa di un Congresso in cui la sua opposizione è maggioranza.

Due sono le chiavi di volta dell’innovazione presidenzialista introdotta da De Gaulle in Francia. L’articolo Costituzionale 49.3 e il potere presidenziale di scioglimento del Parlamento. Entrambe non previste dalla Costituzione americana.

Grazie all’articolo 49.3 in Francia il governo nominato dal presidente della Repubblica, eletto direttamente dal popolo, può dare per approvata, pubblicare sul Journal Officiel e quindi fare entrare in vigore una legge senza alcun passaggio o approvazione del Parlamento.

Contro la decisione del presidente e del suo governo di applicare l’articolo 49.3 nella Costituzione gollista francese è previsto che l’opposizione possa reagire mettendo ai voti una mozione di censura su quella legge. Mozione che, se approvata a maggioranza, fa decadere la legge contestata con conseguenza immediata di crisi del governo.

Ma per evitare questo esito negativo, il presidente francese può minacciare l’opposizione di sciogliere il Parlamento e di indire nuove elezioni.

È esattamente quanto ha fatto esplicitamente Emmanuel Macron che ha così ottenuto più volte che leggi governative – inclusa la legge di bilancio – entrate in vigore senza passaggio parlamentare grazie all’articolo 49.3, non venissero colpite dalle mozioni di censura, tutte non approvate a maggioranza dall’Assemblea Nazionale.

Infatti, queste mozioni di censura nelle scorse settimane sono state votate più volte dall’estrema destra del Rassemblement National di Marine Le Pen e dalla Nupes di Jean Luc Mélenchon, ma non dai neo gollisti Les Républicains, che peraltro, in cambio del loro voto di astensione, sono riusciti a contrattare col governo l’approvazione di alcuni emendamenti.

Dunque, la minaccia di uno scioglimento del Parlamento ha pienamente funzionato.

Soprattutto, Emmanuel Macron, grazie mille alla Costituzione di De Gaulle, è così riuscito a sterilizzare sul piano legislativo, sia il populismo di destra che quello di sinistra.

Di fatto, grazie a questi poteri presidenziali, la Francia, si garantisce una ininterrotta stabilità di governo dal 1958 ad oggi.

Naturalmente si può ben discutere se questa grande concentrazione di poteri nel presidente e, di riflesso, nel suo governo non sia eccessiva e se non sia quindi eccessivamente penalizzante per i poteri effettivi di un Parlamento, anch’esso eletto direttamente dal popolo.

Questa, ad esempio era la posizione della Bicamerale per le riforme costituzionali presieduta da Massimo D’Alema che nel 1997 approvò una proposta di elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma non gli conferì affatto il potere di applicare un meccanismo uguale a quello dell’articolo 49.3 della Costituzione francese.

Di fatto, in quella proposta della Bicamerale, i poteri del presidente della Repubblica eletto dal popolo erano previsti uguali a quelli della Costituzione del 1948.

Non sarebbe male se, un giorno, di questi temi, si potesse discutere con relativa tranquillità anche in Italia.

Chi è Jordan Bardella, a 27 anni il nuovo presidente del partito di Marine Le Pen. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2022.

 «Prenderemo il posto di Emmanuel Macron», dice sicuro Jordan Bardella dal palco del congresso del Rassemblement National, che lo ha appena eletto nuovo presidente del partito. Grazie al sostegno di Marine Le Pen, sabato 5 novembre Bardella ha ottenuto l’84% dei voti, una maggioranza enorme, contro l’altro candidato Louis Aliot, sindaco di Perpignan (nel Sud della Francia) ed ex compagno della stessa Marine Le Pen.

Bardella è il primo leader del partito nato cinque decenni fa a non portare il nome Le Pen del fondatore, e a soli 27 anni si mostra determinato a raggiungere l’obiettivo di conquistare il potere facendo del Rassemblement National un «partito di governo, al di là della divisione destra-sinistra».

Nato nella banlieue di Parigi, a Drancy, nel suo discorso Bardella ha ringraziato la Francia per avere accolto la sua famiglia di origine italiana, e la madre Luisa «che faticava ad arrivare alla fine del mese». I suoi genitori si sono separati quando lui era piccolo. Il padre, Olivier Bardella, nato in Francia da genitori italiani, gestisce una piccola attività di distributori automatici nella cittadina di Montmorency, nella Val d’Oise. La madre, Luisa Bertelli, arrivata in Francia da Torino nel 1963, è una dipendente pubblica specializzata in asili nido. Il presidente del Rassemblement National è cresciuto con lei, vivendo con il padre il mercoledì (giorno spesso senza scuola in Francia) e nei fine settimana. Bardella rivendica le sue origini italiane assieme al patriottismo francese, ponendosi come esempio di una integrazione riuscita. Dopo la maturità economico-sociale al liceo privato Jean-Baptiste-de-La-Salle di Saint-Denis, Bardella ha studiato geografia all’Università di Parigi-Sorbonne, poi ha interrotto gli studi dedicandosi alla politica. Vive in coppia con Nolwenn Olivier, nipote di Marine Le Pen in quanto figlia di Marie-Caroline Le Pen (la sorella maggiore di Marine). Cosa che gli ha attirato qualche critica e sospetti di favoritismi in virtù della frequentazione famigliare con la leader del movimento.

Appena eletto presidente del Rassemblement National, Jordan Bardella ha dovuto affrontare la protesta di Steeve Briois, il sindaco di Hénin-Beaumont che sosteneva l’altro candidato Louis Aliot. Escluso dall’ufficio esecutivo del partito, Briois ha evocato una «purga» degli oppositori. Briois si ritiene espressione di una delle due anime del partito, quella «sociale» che ha come priorità il potere d’acquisto e la difesa delle condizioni economiche delle classi popolari; a suo dire Bardella rappresenterebbe invece l’anima «identitaria», più incentrata sulla difesa dei valori tradizionali francesi minacciati dagli stranieri. Bardella ha dalla sua il tempo e un consenso schiacciante nelle istanze del partito. Spetterà a lui, nei prossimi mesi e anni, conciliare le due anime e non vanificare, come teme Briois, anni di sforzi per normalizzare un partito che dall’estrema destra ha cercato di spostarsi su posizioni «né di destra né di sinistra».

La ripartizione dei ruoli con Marine Le Pen, che lo ha scelto, promosso e aiutato, è chiara: a Bardella la guida del partito, a lei il controllo degli 89 deputati all’Assemblea nazionale — una enorme novità nella storia del Front/Rassemblement — e il ruolo di futura probabile candidata per l’Eliseo. In un’intervista al , Marine Le Pen ha evocato apertamente la possibilità di correre di nuovo: «Avendo già fatto tre campagne presidenziali, avevo detto che a priori non ne avrei fatta una quarta, salvo eventi eccezionali. Se fossi in posizione di vincere, mi batterei per assolvere al mio dovere». Il tentativo di prendere il posto di Emmanuel Macron, nel 2027, dovrebbe toccare di nuovo a lei. A meno che Jordan Bardella non bruci le tappe. Cosa che, a quattro anni e mezzo dal voto, non si può escludere del tutto.

La maschera di ferro: sulle tracce del prigioniero senza volto. Il detenuto misterioso, che affascinò Voltaire come Napoleone, ha ispirato romanzieri e tormentato teorici del complotto, storici e ricercatori, è esistito. Ma nessuno sembra essere giunto alla risoluzione dell'enigma. Davide Bartoccini il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Al largo di Cannes, distante appena qualche pagaiata dalla costa, è l'Isola di Santa Margherita, dove sorge, celato da pini e eucalipti e proteso sul golfo della Napoule, Fort Royal. Eretta nel 1637 dagli spagnoli e terminata dai francesi, questa fortificazione di tipo “Vauban” rappresenta più che un sistema difensivo degno di nota per qualche fatidica battaglia, una delle fondamenta storiche del mito che ha ispirato i romanzieri di tre secoli: la storia di un prigioniero misterioso il cui volto, per ignoti motivi, era celato da una maschera di ferro. Ancora oggi uno dei più curiosi misteri di Francia.

Era la “fin du siècle de Louis XIV” - precisamente il 1687 - quando in un documento ufficiale comparve traccia del trasferimento di un particolare prigioniero nel carcere di Santa Margherita dopo una breve sosta nell’inospitale Château d’If: il carcere dove avrebbe dovuto scontare il resto dei suoi anni il redivivo Conte di Montecristo uscito dalla penna di Alexandre Dumas. Il prigioniero della nostra storia era stato posto sotto la stretta custodia di Benigne de Saint-Mars, gentiluomo che aveva servito nei moschettieri della guardia reale, e proveniva da un lungo periodo di detenzione trascorso nella fortezza alpina di Exilles, nella Val di Susa, e prima ancora a Pinerolo.

Sia in Francia che nel nord Italia iniziarono a circolare voci e racconti sul conto di un uomo che era stato rinchiuso nelle segrete di impenetrabili fortezze con una maschera sul volto affinché si mantenesse nascosta l’identità. Ciò accadeva nel 1681 - data del trasferimento, si ritiene, nella fortezza di Exilles. Ulteriori tracce dell’uomo con la maschera di ferro comparvero ancora nel 1698, in seguito per un trasferimento alla Bastiglia: famosa prigione-fortezza parigina di cui Saint-Mars era stato fatto governatore. Per culminare nelle memorie scritte da un ufficiale di servizio alla Bastiglia che facevano cenno di un detenuto "che il governatore teneva sempre mascherato, e il cui nome non veniva mai pronunciato". L'uomo sarebbe morto appena cinque anni dopo, il 19 novembre 1703, per essere seppellito sotto falso nome nel cimitero di cimitero di Saint-Paul-des-Champs a Parigi. Lì dove sovente venivano traslate le spoglie dei prigionieri che avevano trovato la morte nella Bastiglia.

Ma chi era l’uomo con la maschera di ferro?

La leggenda dell’uomo con la maschera di ferro si diffuse essenzialmente dopo il 1717, in seguito alle fascinazioni che avevano pervaso l’illuminista Voltaire, al secolo François-Marie Arouet, anch'esso "ospite" della Bastiglia per aver vergato dei versi da satira considerati troppo audaci riguardo Filippo d’Orleans e sua figlia e la duchessa di Berry. Egli aveva udito delle indiscrezioni sulla triste vita e il peggior epilogo dello sventurato, per poi concludere, dopo alcune ricerche più o meno adeguate, che poteva essersi trattato del fratello di re Luigi XIV. Tale voce, in virtù del tentativo di screditare i reggenti di Francia, pare venne diffusa dagli olandesi durante la Guerra dei nove anni (1688-1697). Mentre altre ipotesi e dicerie sostenevano che il prigioniero costretto a portare la maschera altro non era che lo scomodo amante della regina madre, il quale dopo aver espletato i doveri coniugali che il re non era in grado di portare a termine con successo per dare alla Francia un erede, si era abbandonato al ricatto trovando una pena esemplare.

Nel libro Il secolo di Luigi XIV (1751) Voltaire alimentò questa leggenda scrivendo che un prigioniero "di statura più alta rispetto alla media, giovane e dalla figura nobile e bella", ritenuto un uomo “senza dubbio importante” e “dai modi raffinati”, cui veniva “servito dell’ottimo cibo”, era tenuto lontano da ogni altro detenuto e aveva il volto coperto da una pesante maschera provvista di “molle di acciaio che gli permettevano di mangiare”. Seguendo questi tratti, il celebre scrittore Alexandre Dumas darà vita a un personaggio secondario che compare ne Il visconte di Bragelonne (1848). Un romanzo che traccerà le linee romantiche del mito popolare arrivato fino ai nostri giorni. Mito che a lungo vide celarsi dietro la maschera il volto del fratello gemello di Luigi XIV che poteva "compromettere la legittimità” di quello che sarebbe divenuto noto come il Re Sole. Una storia affascinante, senza dubbio, ma più degna di un romanzo che della realtà.

Le ricerche storiche più accreditate hanno sempre ridotto la rosa dei possibili “prigionieri” celati dalla maschera - che secondo documenti ufficiale era stata di ferro nel 1687 e di solo velluto nero dal 1698 - a tre principali identità. Primo di questi era Nicolas Fouquet, sovrintendente alle finanze del regno di Francia, condannato per tradimento e corruzione, imprigionato nella fortezza di Pinerolo quando Saint-Mars ne era carceriere. Non si spiegherebbe per quale motivo, tuttavia, la sua identità dovesse rimanere segreta. Un secondo candidato alla famigerata maschera potrebbe essere stato il principe italiano Ercole Antonio Mattioli. Considerato una spia doppiogiochista, dopo aver rivelato informazioni di una certa importanza agli spagnoli, si era guadagnato la vendetta dei francesi. Incarcerato sotto falso nome nella fortezza di Pinerolo, sarebbe stato trasferito a Fort Royal senza però passare - come si ritiene dovrebbe essere stato - da Exilles insieme all’inseparabile carceriere Saint-Mars, il quale nella sua corrispondenza iniziò a riferirsi al prigioniero con il suo vero nome. Mattioli sarebbe morto - secondo documenti ufficiali - mentre si trovava sull’isola di Santa Margherita nel 1694. Questo spiacevole inconveniente gli avrebbe dunque impedito di soggiornare nelle segrete della Bastiglia: prigione dove Voltaire avrebbe appreso i fondamentali di questo enigma.

Vi era in fine un tale Eustache Danger, valet de chambre presso la corte del Re Sole e protagonista ai suoi tempi di numerosi scandali sessuali. Dopo aver sottratto alcuni documenti segreti che rivelavano l’esistenza di un negoziato diplomatico in corso tra Francia e Inghilterra, l'audace valletto sarebbe stato incarcerato a Pinerolo per diretto ordine di re Luigi. Il nome di Danger compare per intero nella corrispondenza intrattenuta tra Saint-Mars e il ministro della guerra Louvois; e alla base della necessità di costringerlo alla maschera di ferro - o di velluto che fosse - ci sarebbe uno scambio di persona che riporta l’attenzione sul corrotto Fouquet. Al quale era stato concesso Danger come valletto.

A testimoniare la reale esistenza di un misterioso prigioniero costretto a indossare per un periodo più o meno lungo una maschera che ne nascondeva l'irrivelabile identità, esistono una serie di documenti ufficiali, periziati, che testimoniano date e trasferimenti da Pinerolo alla Bastiglia, passando per due lunghi soggiorni nella fortezza di Exilles e sull'isola di Santa Margherita. Esiste inoltre un certificato di morte e una serie di testimonianze, scritte e non scritte, che riportano di un uomo che per colpa o infausto destino non poteva essere visto in volto per volere diretto del re. Ancora oggi non esiste una tesi ufficiale che possa essere confermata o smentita da prove certe. Pare anzi che lo stesso Napoleone Bonaparte, una volta diventato imperatore dei francesi, abbia mostrato un certo interesse per questo mistero, tentando di conoscere l'identità dell'uomo con la maschera di ferro senza ottenere alcun successo. L'ideatore di questo sinistro occultamento d'identità ha senza dubbio raggiunto il suo scopo.

Lola Daviet, arrestata una clochard per l’omicidio della ragazzina ritrovata in un baule fuori Parigi. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022.  

La pista privilegiata dagli investigatori per il momento è l’atto insensato senza altro movente se non la follia. Il quartiere sotto choc 

La principale indiziata per la tortura, lo stupro e l’uccisione della dodicenne Lola Daviet è Dahbia B., 24enne algerina senza fissa dimora e con problemi psichiatrici. Arrestata sabato mattina, è indagata assieme a un altro algerino di 43 anni, che l’avrebbe accompagnata in auto.

L’evocazione del traffico di organi, fatta dalla stessa presunta assassina parlando con un testimone, sarebbe priva di fondamento. L’inchiesta è aperta per «uccisione e stupro con atti di tortura e barbarie su minore di 15 anni». Dopo qualche esitazione che stava provocando polemiche, il governo ha reagito, tornando in sintonia con la grande emozione nel Paese. Il ministro dell’Istruzione, Pap Ndiaye, ha fatto visita alla scuola media George Brassens dove Lola studiava, incontrando compagni e insegnanti sotto choc. La première dame Brigitte Macron, nel corso di una visita già programmata in un’altra scuola, ha parlato di una dramma «intollerabile» e «abominevole»: «Siamo a fianco degli allievi, degli insegnanti e naturalmente delle famiglie. Non dovrà accadere mai più». 

Lola Daviet, studentessa della scuola media, è stata ritrovata alle 23 e 20 di venerdì sera rinchiusa in un baule nella corte interna del condominio dove abitava con i genitori e il fratello, in un quartiere popolare e tranquillo del XIX arrondissement di Parigi, nel Nord-est della capitale, vicino al parco delle Buttes Chaumont. 

Aveva profonde ferite alla gola, mani e gambe legate, scotch sul viso, e i numeri «1» e «0» appoggiati sulle gambe. 

Lola è stata vista viva per l’ultima volta nel filmato della videocamera di sorveglianza, alle 15 e 20 di venerdì, nell’androne del suo palazzo dopo essere uscita da scuola alle 15, in compagnia della presunta assassina Dahbia B., che le faceva segno di seguirla. 

Lola appariva «titubante e impaurita», secondo una vicina di casa che ha visto il filmato. 

L’inchiesta deve chiarire quando e come è avvenuto l’assassinio, e anche lo svolgimento del pomeriggio di venerdì, che presenta tuttora alcuni misteri. 

La bambina è uscita da scuola, l’istituto Georges Brassens che si trova a due minuti esatti a piedi da casa, alle 15. Alle 15 e 20 arriva nel suo palazzo, viene ripresa all’entrata dalla videocamera, ma non salirà mai in casa. Dahbia B. l’ha avvicinata durante il brevissimo cammino da scuola a casa? Si conoscevano da prima? 

I genitori hanno dato immediatamente l’allarme quando hanno visto che la bambina non era arrivata in casa, il padre – custode in un palazzo vicino - ha verificato subito la videocamera e la madre si è precipitata dalla polizia. Le ricerche sono scattate subito, eppure i testimoni hanno raccontato di avere visto Dahbia B. restare a lungo davanti al condominio. «Ho visto questa donna dall’aspetto disturbato, ho notato che era senza scarpe, camminava per strada in calzini – dice una vicina -. Poi a un certo punto si è messa a correre tenendo il telefonino in mano e gridando “L’ha fatto! L’ha fatto!”». 

Un altro testimone dice che Dahbia B. gli ha offerto molti soldi, «parlava di traffico di organi, e mi ha chiesto di aiutarla a trasportare il grosso baule di plastica». 

Altri hanno visto lo stesso baule sporco di sangue, «a un certo punto lei lo ha abbandonato davanti al caffè, è andata a comprarsi un croissant alla panetteria davanti, poi è tornata, faceva avanti e indietro, aveva l’aria confusa, era truccata dappertutto sul volto». 

Mentre erano scattate le ricerche e i genitori disperati mettevano online la foto di Lola e il fotogramma della sorveglianza che riprendeva Dahbia nel portone del condominio, la bambina era probabilmente già stata uccisa e il suo corpo stava in quel baule di plastica che Dahbia B. cercava di trasportare, in pieno giorno e alla vista di molti testimoni, e che poi sarebbe riuscita infine a caricare su un’auto. 

Il baule è stato però ritrovato, alle 23 e 20, nella corte interna del condominio, segnalato da un clochard che è tra i quattro fermati. 

Nella notte la polizia ha controllato le videocamere che controllano Parigi, ha seguito il tragitto della Dacia, e l’ha trovata a Bois-Colombes, nella periferia Ovest della città, dove ha trovato Dahbia B. nella casa di un amico, anche lui arrestato.

Lo spaventoso crimine ai danni di una bambina ha suscitato grande emozione nel quartiere, dove la famiglia Daviet è conosciuta e amata: davanti a casa i vicini e i compagni di scuola lasciano disegni, fiori, messaggi destinati a Lola e ai genitori rinchiusi nell’appartamento. 

Sui social media molti hanno accusato il governo di non avere reagito subito e di non tenere conto dell’emozione popolare per un delitto atroce. Il ministro dell’Interno, Gerard Darmanin, in particolare è stato criticato per avere pubblicato un tweet su tutt’altro argomento, consigliando una pièce teatrale al teatro Antoine di Parigi, invece di esprimersi su quanto era accaduto nel quartiere delle Buttes Chaumont. 

Gli esponenti di estrema destra, in particolare nel partito Reconquête di Eric Zemmour, denunciano un’eccessiva cautela delle autorità e la mettono in relazione con la nazionalità algerina degli arrestati. Zemmour ha pubblicato un messaggio - «Ritrovata in un baule, sgozzata da barbari, Lola aveva solo 12 anni… I miei pensieri ai genitori. Per loro e per Lola, dovrà essere resa giustizia #Francocide» - con l’hashtag Francocide, traducibile più o meno con Francocidio, cioè uccisione di francesi, usato anche nei messaggi di commemorazione per Samuel Paty, il professore di storia e geografia decapitato da un islamista due anni fa. 

Calcato su «femminicidio», cioè l’uccisione di una donna perché donna, il neologismo «francocidio» sottolinea che la vittima è francese e i presunti assassini stranieri, in questo caso algerini. 

Molti altri, al contrario, attaccano Zemmour e l’estrema destra accusandoli di strumentalizzare a fini politici il dramma di Lola. 

L’interrogatorio di Dahbia B. nelle prossime ore potrebbe chiarire i tanti aspetti ancora oscuri della morte di Lola Daviet.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 18 ottobre 2022.

La principale indiziata per la tortura, lo stupro e l'uccisione della bambina di 12 anni Lola Daviet è Dahbia B., 24enne algerina senza fissa dimora e con problemi psichiatrici. Arrestata sabato mattina, è indagata assieme a un uomo di 43 anni, marginale algerino senza documenti, che l'avrebbe accompagnata in auto dopo il delitto. L'evocazione del traffico di organi, fatta dalla stessa presunta assassina parlando con un testimone, sarebbe priva di fondamento, secondo gli investigatori. 

Dopo qualche esitazione che stava provocando polemiche, il governo ieri ha reagito in sintonia con la grande emozione nel Paese. Il ministro dell'Istruzione, Pap Ndiaye, ha fatto visita alla scuola media Georges Brassens dove Lola studiava, incontrando compagni e insegnanti sotto choc. La première dame Brigitte Macron ha parlato di una dramma «intollerabile» e «abominevole»: «Siamo a fianco degli allievi, degli insegnanti e naturalmente delle famiglie».

Lola Daviet è stata ritrovata alle 23 e 20 di venerdì sera rinchiusa in un baule nella corte interna del condominio dove abitava con i genitori e il fratello, in un quartiere popolare e tranquillo del XIX arrondissement di Parigi, nel Nordest della capitale, vicino al parco delle Buttes Chaumont. Era stata vista viva per l'ultima volta nel filmato della videocamera di sorveglianza, alle 15 e 20 di venerdì, nell'androne del suo palazzo dopo essere uscita da scuola alle 15, in compagnia della presunta assassina Dahbia B., che le faceva segno di seguirla. Lola appariva «titubante e impaurita», secondo una vicina di casa che ha visto il filmato.

Secondo la procura di Parigi, Dahbia B. avrebbe convinto la bambina a seguirla nell'appartamento di sua sorella, che abita nello stesso condominio. «Le avrebbe imposto di fare una doccia prima di commettere delle violenze di carattere sessuale e non, che hanno provocato la morte della bambina. Poi il corpo è stato nascosto nel baule».

L'autopsia indica ferite sul volto e la schiena e tagli profondi sulla gola. Sulla pianta di un piede la scritta in rosso «1», sull'altra «0».

È possibile che l'assassina e la bambina si conoscessero, visto che la sorella di Dahbia B. è una vicina di casa della famiglia Daviet. La donna potrebbe averne approfittato per convincere Lola a non salire subito in casa dai genitori che la stavano aspettando, ma a passare prima con lei nell'altro appartamento. 

Mentre erano già scattate le ricerche e i genitori disperati mettevano online la foto di Lola e il fotogramma che riprende Dahbia B. nel portone del condominio, la bambina era probabilmente già stata uccisa e il suo corpo stava nel baule di plastica che l'assassina ha cercato a lungo di trasportare, in pieno giorno e alla vista di molti testimoni, e che poi è riuscita infine a caricare su un'auto Dacia Lodgy.

Il baule è stato poi ritrovato, alle 23 e 20, nella corte interna del condominio.

Il quartiere è sotto choc: davanti a casa e a scuola i vicini e i compagni lasciano disegni, fiori, messaggi destinati a Lola e ai genitori, custodi di un palazzo vicino, da sabato rinchiusi in casa.

Sui social media molti accusano il governo di non avere reagito subito, ignorando l'indignazione dei cittadini per un delitto atroce. L'esponente di estrema destra Eric Zemmour parla di francocide : un neologismo ispirato a «femminicidio», cioè l'uccisione di una donna perché donna, per sottolineare che la vittima è francese e la presunta assassina una straniera, nel secondo anniversario della decapitazione del professore di storia Samuel Paty a opera di un islamista ceceno.

 «Un giorno bisognerà andare fino in fondo alle inchieste», dice poi Marine Le Pen, «per trovare non solo i colpevoli diretti ma anche per fermare le follie politiche che rendono possibili questi crimini». Altri accusano l'estrema destra di strumentalizzare a fini politici la morte violenta di Lola.

Lola Daviet, dietro il delitto forse una lite tra la donna arrestata e la madre della dodicenne seviziata. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022.

Dahbia B. davanti agli inquirenti ha prima confessato il crimine poi ha ritrattato: «È fredda, non emotiva, in preda a problemi psichici».

Durante gli interrogatori Dahbia B. ha confessato il crimine poi ha ritrattato. Gli inquirenti la descrivono come fredda, non emotiva, ma anche confusa e in preda a problemi psichici. La 24enne senza fissa dimora potrebbe avere violentato, torturato e ucciso Lola Daviet, 12 anni, per vendicarsi dopo una discussione con la madre della bambina. La presunta assassina nelle ultime settimane ha frequentato il condominio di rue Manin, nel XIX arrondissement di Parigi, perché talvolta era ospite nell’appartamento della sorella, Friha B, di due anni più grande.

Nello stesso palazzo vive la famiglia Daviet: Lola, suo fratello e i genitori, che fanno i custodi di quel condominio e di altri immobili vicini. Un giorno Dahbia ha chiesto alla madre di Lola, Delphine Daviet, un badge «Vigik», usato di solito dai custodi per aprire i portoni. La donna ha rifiutato e ne è nato uno screzio, che al momento è l’unico legame tra Dahbia B. e Lola. Venerdì alle 15 e 17, appena uscita da scuola, Lola è entrata nel portone di casa e Dahbia B. le ha fatto segno di seguirla. La bambina è sembrata titubante e impaurita ma la ragazza l’ha convinta a non andare subito in casa dove l’aspettavano i genitori, e a salire invece con lei nell’appartamento della sorella Friha B., che in quel momento era al lavoro.

Secondo la procura di Parigi, una volta nell’appartamento Dahbia B. ha costretto Lola a fare una doccia, poi le ha fatto subire sevizie sessuali e le ha fatto tagli su tutto il corpo, in particolare sulla schiena e la gola. Dopo la morte per asfissia, ha scritto in rosso «1» sulla pianta di un piede e «0» sulla pianta dell’altro. Poi ha messo il corpo in un grosso baule di plastica, e lo ha portato con sé quando è uscita dal palazzo, intorno alle 17. Molti testimoni hanno visto Dahbia B. in stato confusionale chiedere aiuto per trasportare il baule. La ragazza entrava e usciva da un bar, a un certo punto è andata dal panettiere accanto a comprarsi un croissant, poi è tornata nel caffè con un uomo, al quale ha offerto denaro dicendo di essere una trafficante di organi.

L’uomo ha messo una mano dentro il baule, ha pensato di riconoscere un arto umano e ha sentito un forte odore di sangue e candeggina. Uscito dal bar è andato alla polizia, ma intanto la donna ha trovato aiuto in Rachid N., 43 anni, un autista sua vecchia conoscenza, che ha caricato il baule nella sua auto e ha accompagnato Dahbia B. nel suo appartamento, a Asnières-sur-Seine. Circa due ore dopo, quando ormai la polizia stava cercando Lola e i genitori avevano messo la sua foto sui social media nella speranza di ritrovarla, Dahbia B. ha chiamato un Uber e si è fatta riaccompagnare, sempre con il baule, sul luogo del delitto.

Il baule con il corpo è stato poi ritrovato intorno alle 23 e 20, a 200 metri dal palazzo di Lola, da un clochard che ha avvertito la polizia. Dahbia B. poi ha passato la notte a casa di Amine K., a Bois-Colombes, dove è stata arrestata all’alba. Nel rapporto di polizia si indica una «facilità inaudita nel passare all’atto», e una assoluta freddezza: gli agenti le hanno mostrato le foto di Lola seviziata, e lei ha risposto «non mi fa né caldo né freddo. Anche io sono stata violentata e ho visto i miei genitori morire davanti a me». Dopo avere ammesso il crimine, alla fine dell’interrogatorio ha fatto marcia indietro dicendo «è impossibile che io uccida una bambina».

La sorella Friha B. ha detto agli inquirenti che Dahbia da qualche anno vive ai margini della società ed è solita dire frasi sconnesse con un’ossessione per l’«amore» e il «cielo». Nel 2018 Dahbia B. è stata oggetto di violenze coniugali, secondo i registri della polizia. Il martirio di Lola ha provocato enorme emozione in Francia e anche una polemica politica. Dahbia B. è un’algerina senza permesso di soggiorno, in agosto era stata fermata all’aeroporto a Parigi e le era stato notificato un obbligo di lasciare il territorio francese entro 30 giorni. Anche l’uomo che l’ha aiutata e che è per questo indagato, Rachid N., è un algerino in situazione irregolare.

L’estrema destra, da Eric Zemmour a Marine Le Pen, ha denunciato il lassismo delle autorità e anche il loro silenzio. Il delitto è avvenuto venerdì sera, ma la prima reazione pubblica è arrivata lunedì con la visita del ministro dell’Istruzione, Pap Ndiaye, alla scuola media della bambina, e poi con una frase della première dame Brigitte Macron che ha definito «abominevole e intollerabile» la sorte toccata a Lola. Intanto il presidente Emmanuel Macron ha ignorato la vicenda, scrivendo invece un tweet in ricordo della strage degli algerini a Parigi nel 1961, e il ministro dell’Interno Gérald Darmanin ha pubblicato un altro tweet in cui lodava una pièce teatrale al teatro Antoine, passando sotto silenzio il crimine di cui stava parlando tutta la Francia. Martedì mattina Darmanin si è difeso dalle accuse dicendo di avere parlato con i genitori di Lola e accusando di «indecenza» i politici tentati dallo strumentalizzare la sua morte: «Penso che i responsabili politici, o in ogni caso quelli che si definiscono come tali, dovrebbero riflettere alle conseguenze delle loro parole, non fosse altro per le famiglie che vedono la foto della loro bambina circolare ovunque. Oltre al dramma che si abbatte su una famiglia, c’è l’indecenza delle persone che trasformano questa storia in un volantino elettorale».

Ma anche da sinistra arrivano critiche a quel che sembra imbarazzo da parte del governo, mentre l’inchiesta continua, con nuove perizie psichiatriche, per accertare se l’unica pista al momento, quella della vendetta dopo la lite tra Dahbia B. e la mamma di Lola, sia davvero il movente del delitto.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2022.

Il volto di Dahbia B., senzatetto algerina di ventiquattro anni, principale indiziata per l'assassinio atroce della piccola Lola Daviet, è apparso all'improvviso giovedì sui social network: attraverso il profilo TikTok della giovane, scoperto da alcuni utenti che lo hanno immediatamente condiviso sul web. Quattro giorni prima della tragedia avvenuta a rue Manin, nel Diciannovesimo arrondissement, Dahbia B. pubblicava ancora video su TikTok, mostrandosi mentre ascoltava musica pop spagnola o rap, ballando e sorridendo.  

Nella descrizione del profilo TikTok, oggi sospeso, figuravano diversi simboli: una tigre, una bandiera nera, un teschio e la sigla "DZ", che fa riferimento alla pronuncia della parola Algeria in arabo algerino. In un video postato il 5 ottobre, la si vede camminare nella hall d'ingresso dell'edificio in cui viveva Lola e in cui si trova l'appartamento della sorella, Friha B., dove avrebbe stuprato, torturato e ucciso la studentessa dodicenne. 

Fra gli account seguiti da Dahbia B., come riportato dal Figaro, figuravano calciatori, attori, rapper, beauty influencer ma anche alcuni personaggi legati all'islam. Dettaglio inquietante: uno degli ultimi account ai quali si è abbonata è "Hamza - actu faits divers", consacrato agli affari criminali e seguito da più di due milioni di persone. Di certo, l'immagine della giovane sul web sembra ben lontana da quella di un'emarginata senza fissa dimora. Secondo alcune conoscenze, Dahbia B. «ha perso la testa dopo la morte della madre». 

Da repubblica.it il 17 Ottobre 2022. 

C’è una giovane donna di 24 anni al centro del mistero di Lola, la 12enne ritrovata morta venerdì sera a Parigi in un baule nel cortile del proprio palazzo. La donna è una delle persone fermate venerdì sera. Ma mentre degli altri non è nota la posizione, lei invece è tra i sospettati dell'omicidio. 

È ancora in stato di fermo con la sorella che i gendarmi hanno portato via dalla casa di Bois Colombe ieri all'alba, insieme all'altra donna. In stato di fermo anche i 4 uomini, il cui ruolo nella vicenda non è al momento ancora chiaro. 

Tutto è avvenuto nello stabile in cui viveva la famiglia e dove il papà fa il custode. Una famiglia tranquilla, i Daviet, che con i loro due figli spesso il venerdì pomeriggio partivano per andare dai nonni in campagna, vicino a Parigi.

La scomparsa di Lola

Lola venerdì pomeriggio tornava da scuola. Alle 15 è uscita dalla scuola media Georges-Brassens, ma a casa non è arrivata. Il padre si è allertato, ha chiesto a tutti i vicini e a chi incontrava davanti al portone se avessero visto la piccola, pensando fosse andata a giocare nel vicino giardino con le amiche. Niente. 

Della bambina bionda non c'era nessuna traccia e la prima idea del papà è stata controllare la registrazione della videocamera di sorveglianza: le immagini mostravano Lola, nell'androne del palazzo, una giovane donna che le si avvicinava e la prendeva per un braccio facendole segno di seguirla. La bambina aveva l'aria preoccupata ma la seguiva. 

E subito è scattata l'allerta rapimento, i messaggi drammatici della madre sui social, gli interrogatori della polizia, a tappeto, prima agli abitanti del palazzo, poi ai commercianti.  

Il ritrovamento del corpo

Prima di mezzanotte, il corpo di Lola è stato ritrovato, nascosto in un baule trasparente nel cortile del palazzo stesso, da un clochard: la piccola era tutta raggomitolata, con i polsi e le caviglie legati, ormai cadavere con una ferita profonda alla gola, la testa quasi staccata. Sul suo corpo, secondo fonti dell'inchiesta, sarebbero state "apposte" due cifre, un 1 e uno 0. Lola, sarebbe morta per soffocamento e sgozzata soltanto dopo il decesso. Il contenitore di plastica era coperto alla meno peggio da pezzi di stoffa, nel cortile interno del condominio. Accanto c'erano due trolley. 

Il "traffico d'organi"

Del fatto che si trattasse di un rapimento c'è stata subito certezza, scotch e un taglierino sono stati trovati poco lontano. Poi è arrivata la testimonianza di un vicino, al quale la donna che aveva parlato con Lola aveva chiesto aiuto per trasportare una valigia molto pesante. Aveva un "comportamento strano" - è emerso - e l'uomo ha esitato ad aiutarla ma lei gli ha promesso un mucchio di soldi provenienti "da un traffico di organi". 

L'arresto

Il vicino si è rifiutato di trasportare la valigia. Poco dopo, si è allontanata. Non su un'auto Dacia - come sembrava ieri - ma chiamando un'auto a noleggio con conducente. Attraverso la quale gli inquirenti l'hanno poi localizzata in poche ore: i gendarmi l'hanno rintracciata a Bois-Colombes, nella banlieue nord-ovest di Parigi. Nessun dubbio sul suo coinvolgimento, le hanno anche sequestrato materiale simile a quello usato per il rapimento di Lola. È stata arrestata, insieme alle altre persone, che però sono soltanto in stato di fermo per le indagini. Fra queste, il clochard che ha ritrovato il baule con il cadavere della bambina, non sospettato. 

La donna, che ha 24 anni e sarebbe di aspetto maghrebino, è apparsa in condizioni tali da consigliare agli inquirenti di sottoporla a perizia medica prima di interrogarla. Tutti i fermati compariranno lunedì mattina davanti al giudice istruttore per l'eventuale arresto e apertura di un'inchiesta a loro carico.

Il dolore del quartiere e dei compagni di scuola

Nel quartiere, una zona residenziale della capitale, a due passi dal parco de Buttes-Chaumont, lo shock è profondo. La striscia di giardino attorno all'immobile, dove i genitori di Lola sono portieri, è pieno di fiori bianchi e di cartelli che ricordano la bambina, che tutti conoscevano. Una compagna di scuola ha lasciato un messaggio commovente, scritto su un foglio bianco con tanti cuori disegnati: "Tu, Lola, la mia amica fin dall'asilo, tutti quei ricordi che tornano in mente. Quanto ci piaceva indossare quegli abiti da principessa e far arrabbiare tuo fratello...". 

Tante lacrime, tante candele e tanta emozione intorno al memoriale improvvisato, dove si fermano passanti e dove fanno tappa decine e decine di genitori di bambini della vicina scuola media Georges-Brassens, dove Lola frequentava la 5E (corrispondente alla nostra seconda media). Nella scuola è stato organizzato un servizio di sostegno psicologico per i bambini.

"Lola uccisa e fatta a pezzi e la sinistra tace". È bufera in Francia. Roberto Vivaldelli il 17 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Lola è stata soffocata, poi sgozzata e il suo cadavere chiuso in un contenitore di plastica sotto casa. La maggiore indiziata è l'algerina Dahbia, 24 anni, una senzatetto con precedenti psichiatrici. Polemica in Francia 

È polemica in Francia sullo scioccante e brutale omicidio di Lola Daviet, la studentessa di dodici anni trovata morta in un baule di plastica nel cortile interno del suo palazzo, nel 19esimo arrondissement della capitale francese. Secondo quanto riferito dai media francesi, sono due le persone indiziate: una donna di 24 anni, una senza tetto con problemi psichiatrici, che secondo diversi testimoni quel pomeriggio camminava in stato confusionale per il quartiere parigino, e un uomo, sospettato di aver aiutato la donna ad aver spostato il corpo dell'adolescente. Come riportato dall'Ansa, secondo quanto si apprende da fonti degli inquirenti, la sospettata si chiama Dahbia ed è di origine algerina: è proprio il fattore etnico a scatenare il dibattito politico nel Paese d'Oltralpe. Secondo quanto ricostruito Lola è stata soffocata, poi sgozzata e il suo cadavere chiuso in un contenitore di plastica.

L'accusa della destra e l'hashtag #Francocide

La destra francese accusa il governo Macron di non voler parlare del terribile omicidio della minorenne per via della nazionalità straniera dell'indagata. "Trovata in un baule sgozzata dai barbari, Lola aveva solo 12 anni. Il mio pensiero va ai suoi genitori. Per loro e per Lola bisogna fare giustizia" ha twittato Eric Zemmour, candidato sovranista alle ultime elezioni presidenziali, che ha aggiunto al suo tweet l'hashtag #Francocide ("Francocidio"). "Lola, 12 anni, brutalmente assassinata nel 19° arrondissement di Parigi. Quattro algerini in custodia. I nostri giovani vengono massacrati mentre i professionisti in lutto inseguono un'islamofobia immaginaria" ha sottolineato il senatore Stéphane Ravier, eletto proprio con il partito di Zemmour. Replicando a un tweet del presidente Macron in cui si citava la repressione di una manifestazione algerina avvenuta a Parigi, 61 anni fa, Ravier ha aggiunto:

"Non una parola per Lola. Perché i sospettati sono forse algerini? Questo individuo odia la nostra gente". "Ancora un dramma. Un'altra atrocità. Nessun perdono. È davanti a questi barbari che dobbiamo essere uniti. Mostriamo loro che non lo lasceremo perdere, mostriamo loro che molti di noi li stanno combattendo" ha poi dichiarato Stanislas Rigault, presidente di Génération Zemmour, commentando l'omicidio della giovanissima Lola. "Stuprata, torturata, massacrata abbandonata in un baule da 4 algerini nell'indifferenza e nel silenzio politico-mediatico" accusa infine Agnès Marion, presidente di Cercle Fraternité. Polemiche anche sul ministro dell'interno, criticato per avere pubblicato un tweet su tutt’altro e non essersi espresso sull'omicidio della giovane.

Giallo sull'omicidio della giovane

I contorni della vicenda, per il momento, appaiono poco chiari. Lola Daviet era studentessa delle medie, vista viva per l’ultima volta nel filmato della videocamera di sorveglianza, alle 15 e 20 di venerdì, in compagnia della presunta assassina Dahbia B., che le faceva segno di seguirla, riporta il Corriere della Sera. La giovane è stata ritrovata alle 23 e 20 di venerdì sera rinchiusa in un baule nella corte interna del condominio dove abitava con i genitori e il fratello, in un quartiere popolare del XIX arrondissement di Parigi. Aveva profonde ferite alla gola, mani e gambe legate, scotch sul viso, e i numeri "1" e "0" appoggiati sulle gambe. L’inchiesta dovrà apparire come e quando è avvenuto il barbaro assassinio, che presenta ancora molto punti oscuri. Secondo un testimone, a cui Dahbia B. avrebbe offerto molti soldi, "parlava di traffico di organi, e mi ha chiesto di aiutarla a trasportare il grosso baule di plastica". Una vicenda a dir poco torbida, ora al centro del dibattito politico.

La lite poi la brutalità sulla bimba: cosa c'è dietro il massacro di Lola. La principale indiziata del delitto di Parigi è una senzatetto algerina con problemi psichici. La confessione è arrivata subito dopo l’arresto. Ignazio Riccio il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Emergono nuovi dettagli del brutale omicidio di Lola, la 12enne trovata morta sgozzata in un baule a Parigi. Il movente del delitto potrebbe essere legato a un diverbio tra la madre della bambina e la principale sospettata, la 24enne algerina Dahiba, una senzatetto con problemi psichici. A confermare la lite, come riferisce l’emittente televisiva francese BfmTv, è stata proprio la clochard durante l’interrogatorio degli inquirenti dopo il suo arresto. La donna ha dichiarato di essere stata ospitata dalla sorella nel palazzo dove abitava Lola e la sua famiglia. Proprio nel cortile dello stabile è stato rinvenuto il corpo della ragazzina il 14 ottobre scorso. La madre dell'adolescente, portinaia del palazzo insieme al marito, avrebbe rifiutato alla donna il pass per accedere all'immobile. Sembra essere questa la pista seguita dagli investigatori, anche se per il momento non ci sono conferme ufficiali.

Parigi, omicidio e tortura. Lola uccisa senza movente

I fatti

Lola, venerdì scorso, è stata soffocata, poi sgozzata e il suo cadavere è stato chiuso in un contenitore di plastica sotto l’edificio in cui abitava con la famiglia. Era uscita da scuola ed è stata avvicinata davanti al portone di casa dalla 24enne algerina indagata insieme a un altro dei sei sospettati di omicidio fermati negli ultimi giorni. Dahiba ha diversi precedenti psichiatrici; chi l'ha vista nel pomeriggio di venerdì, quando ormai la bimba era già scomparsa, ha raccontato di una persona che parlava da sola, camminando scalza nelle vicinanze di un negozio di un fornaio e una tabaccheria. Vicino a lei, c'era il contenitore in plastica, pesante, che non riusciva a trasportare dopo aver chiesto, invano, l'aiuto di alcuni passanti.

"Lola uccisa e fatta a pezzi e la sinistra tace". È bufera in Francia

L’autopsia

Dall'esame autoptico eseguito sabato, sarebbe emerso che Lola è morta per soffocamento, con profonde ferite al collo. Delle sei persone poste in stato di fermo nel quadro dell'inchiesta, quattro sono state lasciate libere di andare. Il sindaco di Parigi, Anne Hidalgo e il ministro dell'Istruzione, Pap Ndiaye, si sono recati nella scuola media Georges-Brassens, dove Lola frequentava la 5E. Nell’istituto scolastico è stata attivata una cellula di sostegno psicologico, come anche per tutti gli abitanti del quartiere, ancora sotto choc per l’efferato episodio.

"Tardi per tornare indietro". Cosa c’è dietro il massacro che sconvolge la Francia. Matteo Carnieletto su Il Giornale il 18 ottobre 2022. 

Aveva solo 12 anni, Lola, la piccola francese stuprata e uccisa da una 24enne algerina, senzatetto e con precedenti psichiatrici, di nome Dahbhia. Poi, non contenta, ha lasciato il corpo, in un contenitore trasparente coperto da stracci e stoffe, di fronte alla casa dei genitori. Sui social francesi dominano indignazione e rabbia. Il governo nicchia. Solo Brigitte Macron ha parlato di “delitto abominevole e intollerabile”. Poi il silenzio. Laurent Obertone, autore di Guerriglia. Il giorno in cui tutto si incendiò (Signs Publishing), definito da Michel Houellebecq “il polemista di domani”, non usa mezzi termini per commentare questa vicenda.

Come ha reagito la Francia di fronte al barbaro omicidio di Lola?

La mancanza di reazione da parte delle autorità contrasta con il sentimento di orrore che ha colpito il Paese. Raramente ho visto un sentimento di rabbia così generale e potente. Come se Lola fosse la vittima di troppo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Il governo francese ha davvero cercato di minimizzare questo omicidio?

Si è comportato come al solito e non ha fatto niente. Non ha nemmeno "condannato" l’accaduto. Non c’è stata la minima reazione. Senza una forte mobilitazione sui social – che i soliti censori hanno cercato di sminuire - Lola sarebbe già stata dimenticata. Non possiamo più tollerarlo.

Come hanno trattato questa notizia i giornali francesi?

Servizi ridotti al minimo, come sempre. Ancora una volta, sono stati costretti a parlare a causa della pressione dell'opinione pubblica. E questo fa sì che lo Stato sia costretto ad assumersi le proprie responsabilità. Perché un irregolare obbligato a lasciare il territorio era ancora in Francia? Perché solo il 10% di chi dovrebbe lasciare il nostro Paese viene allontanato?

Dahbhia non era una semplice senzatetto, ma una irregolare con il foglio di via. Il governo francese, con le sue politiche sull’immigrazione e il suo buonismo di facciata, è in qualche modo responsabile della morte di Lola?

Assolutamente. Questa immigrazione di massa avviene da decenni contro la volontà del popolo francese. Centinaia di migliaia di immigrati clandestini vivono in questo Paese nella più totale impunità. Migliaia di stranieri sovraffollano le nostre carceri. La legge non viene più applicata e le sanzioni vengono sistematicamente ridotte. La sicurezza e l'immigrazione sono i maggiori fallimenti dello Stato. E il popolo francese è collettivamente responsabile per aver lasciato che lo Stato facesse o non facesse ciò che voleva su questi temi.

Zemmour ha parlato di "francocide" - un termine, coniato sul modello di “femminicidio”, inventato per indicare l'omicidio di un francese da parte di una persona straniera. È esagerato?

È bene definire questo male che cerchiamo sistematicamente di nascondere. Io preferisco parlare di "xenocriminalità" poiché questa barbarie non colpisce solo gli autoctoni. Quello che è importante sottolineare è che questa violenza è in gran parte il risultato dell'immigrazione e che il potere si sta rifiutando di rispondere a questa emergenza in modo strutturale.

Sempre più spesso, di fronte a reati come quello commesso contro Lola, si sente parlare di "disturbi mentali". È davvero così o è un'etichetta usata per minimizzare la brutalità della violenza?

Si presenta come una giustificazione pratica ma a mio avviso è un'aggravante: gli studi dimostrano che i "migranti", in particolare quelli di origine nordafricana e subsahariana, presentano disturbi mentali molto più frequenti degli autoctoni, al punto che diventa difficile per i tribunali distinguere chi sia realmente pazzo. Riempire le nostre strade di pazzi instabili è quanto di peggio si possa fare per la coesione sociale.

Nella trilogia Guerriglia, il cui secondo volume uscirà presto in Italia per Signs Publishing, immagina l'esplosione delle periferie francesi e un Paese messo a ferro e fuoco da immigrati di prima e seconda generazione. Ci stiamo davvero avvicinando a quello scenario?

Lo Stato ha gli occhi chiusi, i media mainstream guardano altrove… Da una settimana, un liceo di Nanterre, ad esempio, ha condotto una vera e propria guerriglia per imporre l'uso di abiti islamici. Lo scenario che sto descrivendo è già lì. La Francia ha battuto tutti i record storici sotto Macron per aggressioni, percosse e violenze sessuali. Centoventi accoltellati al giorno. E non parlo solo dei fatti osservati dalla polizia. Il nostro Paese è una tanica di benzina, manca solo una scintilla per farlo incendiare.

L'immigrazione e il fondamentalismo non sono più nell'agenda dei media, anche se restano problemi concreti. Come mai?

Per codardia, perché la pressione antirazzista è diventata un ricatto che pesa su ogni francese. Dire la verità è pericoloso, l'ho pagato io stesso dieci anni fa con un libro per denunciare l'insicurezza. L'ideologia della convivenza è tale che i suoi seguaci preferiscono sacrificare persone innocenti piuttosto che metterla in discussione e persino ammettere che le cose non stanno andando come dovrebbero. Il cambiamento demografico e le sue conseguenze rappresentano il dibattito più importante e vitale che il nostro Paese però vieta.

Anche l'Italia ha le sue banlieue. Rischiamo anche noi uno scenario simile a quello che lei descrive in ​​Guerriglia?

Sì, è certo che vivrete eventi violenti. Le stesse cause producono gli stessi effetti. Ovunque.

Il presunto assassino di Lola ha parlato di "traffico di organi". Pensa che questo sia una pista da seguire per gli investigatori?

No, è un'atrocità più banale: stupro, forse vendetta contro la madre della vittima, con un'inclinazione mistica delirante, poiché l'imputata ha ammesso, di fronte alla polizia, di aver bevuto il sangue della sua vittima.

Se chiude gli occhi come immagina la Francia e l'Europa di domani?

Preferisco non immaginarlo. Se nessuno reagisce, se questo Paese continua a guardarsi morire, allora, come scriveva Baudelaire, ogni giorno scenderemo di un gradino verso l'inferno. E sarà troppo tardi per tornare indietro.

Lola morta per vendetta. L'imbarazzo di Macron per l'espulsione mai fatta. Francesco De Remigis su Il Giornale il 19 ottobre 2022. 

Prima la confessione, poi la marcia indietro. In mezzo, la cronistoria di quei terribili minuti che venerdì scorso hanno visto una ragazzina francese di 12 anni finire in un baule, martoriata, sgozzata e infine abbandonata nell'androne di un palazzo di Parigi; nello stabile dove la piccola Lola Daviet viveva con la madre, e dove l'incriminata per l'omicidio, un'algerina 24enne senza fissa dimora, andava a dormire di tanto in tanto ospite della sorella.

Da quando è emerso che la 24enne aveva ricevuto un foglio di via lo scorso 22 agosto, senza dar seguito all'ordine, il caso è deflagrato in un maxi-affaire politico imbarazzante per il presidente della Repubblica. Macron si era limitato a definire la morte di Lola «abominevole e intollerabile», evitando di scavare. E ieri in Assemblée l'esecutivo è stato bersagliato dai neogollisti e da Marine Le Pen, per cui «la sospettata di quest'atto barbaro non sarebbe dovuta essere in Francia da almeno tre anni (era entrata con visto studentesco nel 2016, ndr), troppi crimini e delitti sono commessi da clandestini non rimpatriati, è l'ennesimo caso».

La premier Elisabeth Borne chiede «decenza»: «Lasciamo la polizia fare il suo lavoro e rispettiamo il dolore della famiglia». La cronaca torna così a infrangersi su una Francia già scossa dalle minacce di matrice islamica a un insegnante, solo pochi giorni prima dell'uccisione di Lola. Nell'interrogatorio, la presunta assassina con supposti problemi psichici ha raccontato di tutto e di più. Avrebbe invitato la 12enne di fare una doccia prima di abusare di lei. «L'ho presa per i capelli, le ho messo la testa tra le gambe, ho avuto un orgasmo». Poi, in una sorta di delirio tra desideri infranti e atroce realtà, ha spiegato d'aver messo il sangue della vittima in una bottiglia prima di berlo: ma non c'è traccia del contenitore.

Scansata la pista del satanismo, si prendono con le pinze certe dichiarazioni. La sospettata, dalla cella d'isolamento, dice d'aver «combattuto contro un fantasma», poi un gelido commento davanti alla foto della ragazzina seviziata: «Non mi fa né caldo né freddo, anche io sono stata violentata». Resta la domanda: il dramma era evitabile? I lepenisti parlano di fiasco giudiziario, i neogollisti di lassismo nella politica di immigrazione, tacciando il ministero della Giustizia d'esserne responsabile, perché circa l'80% delle espulsioni non vengono eseguite.

Il Guardasigilli Éric Dupond-Moretti accusa le opposizioni di «servirsi della bara di una ragazzina come marciapiede, una vergogna». E il ministro dell'Interno Gérald Darmanin chiede rispetto per il caso «trasformato in volantino elettorale». Il tema però esiste. Macron si era impegnato a rimpatriare il 100% degli espulsi, in campagna elettorale. E a distanza di cinque mesi non è cambiato granché. Agli inquirenti sta scremare la realtà dei fatti contestati a Dahbia B. dai suoi agghiaccianti resoconti: Lola, uscita da scuola, è nel portone di casa e la donna le fa un cenno con la mano come a dire «vieni qui», convincendola a entrare nell'appartamento della sorella e non nel suo. Il movente resta incerto. Un solo episodio le collega: l'algerina aveva chiesto alla madre della 12enne il Vigik, il badge magnetico per aprire il portone. Il rifiuto, un diverbio. Poi un buco nero. Vendetta, follia omicida o traffico di organi, altro che problemi mentali, tuona Le Pen, citando la «facilità inaudita nel passare all'azione» evidenziata dagli inquirenti.

Macron, tallonato, ieri si è piegato a un gesto, ricevendo i genitori della piccola all'Eliseo garantendo «sostegno totale». 

Quando è una donna a commettere reati a sfondo sessuale. Cristina Brasi il 18 Ottobre 2022 su Panorama.

La terribile vicenda di Lola Daviet a Parigi porta a analizzare un fenomeno dai risvolti psicologici molto particolari. Venerdì 14 ottobre, alle ore 23.30, all’interno di una valigia abbandonata nel cortile interno di un edificio nel nord-est di Parigi, rinvengono il corpo Lola Daviet. La salma ha piedi e polsi legati, del nastro adesivo sulla bocca e diversi tagli alla gola. Sul corpo mutilato sono stati trovati i numeri “1” e “0” , impressi sul petto con un “dispositivo” non meglio precisato. La madre ne aveva denunciato la scomparsa solo poche ore prima. Le riprese di una telecamera a circuito chiuso avrebbero mostrato l’offender, ossia la persona che ha commesso l’atto delittuoso, insieme alla vittima mentre entrano in un palazzo accanto al condominio dove la dodicenne viveva con i suoi genitori, nel 19esimo arrondissement della città. Si vede chiaramente Lola, con indosso un abito bianco, e in mano quello che parrebbe essere uno zainetto, parzialmente oscurata dalla porta mentre segue l’offender vestita con un maglione grigio, leggings bianchi e scarpe da ginnastica. L’esito dell’autopsia condotta sabato 15 avrebbe indicato la morte per asfissia a seguito di un attacco fisico e avrebbe attribuito le ferite da arma bianca all’utilizzo di un coltello. Un residente avrebbe riferito di aver visto la persona sospetta trascinare la valigia circa due ore prima della scomparsa di Lola: «L'abbiamo vista entrare nell'edificio e stava trascinando la valigia con sé». La polizia avrebbe indicato ai media francesi di aver rilevato i segni del rapimento nel seminterrato dell'edificio e di aver avviato un'indagine per omicidio per cui sarebbe stata arrestata Dahbia B, una senzatetto di 24 anni, ora in custodia con l’accusa di omicidio, stupro e tortura a danno un bambino di età inferiore ai 15 anni L’idea che una donna possa compiere violenza sessuale a carico dei minori è un elemento che viene tendenzialmente negato al pensiero comune. Alla donna sono infatti legati generalmente i concetti di cura e di “istinto di maternità”. L’associazione della donna come un essere appartenente al “sesso debole” , oltre che le differenze anatomiche genitali, sono elementi che fanno sì che, anche in caso di evidenze o elementi sospetti, lo stereotipo risulti più forte della perspicuità. I “sexual offender” sono quella specifica categoria di autori di reato che commettono crimini di tipo sessuale. Se nel linguaggio giuridico si parla di sex offender, ossia di persone che commettono violenza sessuale su minori, o stupro, dal punto di vista psicologico questa visione differisce per vari aspetti. Una persona infatti potrebbe commettere un reato di violenza sessuale, ma non possedere quelle caratteristiche psicologiche che contraddistinguono questa categoria di persone. Parliamo quindi di “sexual offender” quando è presente un disequilibrio che rende impossibile alla persona agire comportamenti adattivi. Per distinguere si farà riferimento a quelle che vengono definite parafilie, ossia delle componenti ossessive e rigide che inficiano la qualità della vita del soggetto per un lungo periodo di tempo e che prevedono l’uso della coercizione e della violenza su soggetti non consenzienti. Il fenomeno che vede coinvolte le “sexual female offender” , ossia le donne “sexual offender” , è in realtà molto più diffuso di quanto si possa immaginare e, i dati di “Childline” , un’associazione di sostegno all’infanzia, evidenziano a tal proposito come, negli ultimi anni, il numero di bambini che denunciano abusi nei loro confronti da parte di donne, sia cresciuto del 132%, raggiungendo un 25% di donne abusanti sul totale delle denunce a loro giunte. Pur essendo un argomento ancora poco studiato, risulterebbe che, tutte le “female sexual offender” , avrebbero nel loro passato esperienze traumatiche infantili, elemento che non si discosterebbe dalle invece molte evidenze scientifiche relative ai “male sexual offender” , ossia gli uomini “sex offender”. Quello che differenzierebbe i due sessi sarebbe il bisogno che si andrebbe a soddisfare con l’azione delittuosa. Nel caso delle donne sarebbe prevalente la necessità di gestire il potere e il controllo, ossia la ricerca di una dominanza dopo essere state vittimizzate. Le “female sexual offender” risponderebbero così al loro bisogno di vendetta per l’abuso che esse stesse hanno subito. Sarebbero spinte dalle loro fantasie a vendicare gli umilianti traumi infantili da loro vissute. I “moral disingagement” , ossia i meccanismi di disimpegno morale che consentono all’individuo di disinnescare temporaneamente la propria coscienza personale mettendo in atto comportamenti inumani o lesivi, senza sentirsi in colpa, utilizzati, sarebbero quelli della deumanizzazione e della colpevolizzazione della vittima. La forza dell’autocensura per le pratiche dannose dipenderebbe dal modo in cui i perpetratori considererebbero le persone che maltrattano. Il fatto di percepire un’altra persona come un altro essere umano senziente dotato di bisogni di base uguali ai propri, è ciò che fornirebbe l’indice di empatia e di compassione, producendo preoccupazione per la sua sorte attraverso il senso di umanità comune. L’autocensura per una condotta crudele può essere disimpegnata o attutita negando agli altri le loro qualità umane, una volta deumanizzate, le persone non verrebbero più viste come individui dotati di sentimenti, speranze e preoccupazioni. La deumanizzazione, nello specifico caso delle “female sexual offender” , verrebbe compiuta durante la fantasia o l’atto perverso. L’attribuzione della colpa alla persona maltrattata  sarebbe un altro dei meccanismi autoassolutori in azione nel locus della vittima. La colpevolizzazione della vittima consentirebbe infatti di attenuare il senso di colpa mediante il ribaltamento della situazione, meccanismo per mezzo del quale la responsabilità dell’offesa viene imputata al destinatario di essa. I meccanismi che interverrebbero a livello di informazioni pertinenti la vittima, contribuirebbero alla definizione della responsabilità del soggetto nella situazione. L’atto verrebbe quindi visto, da chi l’ha compiuto, come una logica conseguenza d’azione, giustificando in tal modo la condotta reprensibile. Sarebbe presente una percezione distorta del desiderio di affetto del minore che farebbe sì che la decodifica disfunzionale vada a rappresentare elementi di affiliazione come interesse sessuale. Così ogni esperienza di vicinanza, di contatto fisico, ogni richiesta di rassicurazione, verrebbero lette come desiderio di vicinanza sessuale. La percezione distorta ed erotizzata dei bambini avrebbe radici nelle esperienze di abuso vissute dalle offender nella propria infanzia. In questa maniera l’abusatrice troverebbe soddisfatti i propri bisogni emozionali di supporto, affetto e vicinanza. Nell’attribuzione della colpa, le vittime verrebbero giudicate responsabili di attirare su di sé il maltrattamento e, questo stratagemma assolutorio, farebbe delle vittime, nella concezione dell’offender, i veri colpevoli. Un altro elemento pregnante è relativo al fatto che il minore verrebbe percepito come una proprietà dall’offender. L’emozione di base sarebbe quella della rabbia, orientata dall’abusante sia verso sé stessa, a causa del riconoscimento della propria fragilità, che verso la propria vittima che, con la sua richiesta di autonomia, metterebbe a rischio il suo equilibrio e il suo fittizio benessere, facendo scattare i comportamenti lesivi ad opera dell’offender stesso. Nel caso in questione saremmo di fronte a una modalità definita come “Forced Assault” , ovvero “Assalto Forzato” , una modalità abusiva caratterizzata dalla costrizione fisica ad opera di un “Psychotic Abuser” , una donna abusante con problematiche psichiatriche che, a causa di ciò, metterebbe in atto comportamenti sessuali con i minori (questa tipologia riguarderebbe solo il 7.5% della popolazione); un soggetto che non sarebbe quindi in grado di controllare gli impulsi libidici al momento dell’abuso sessuale. L’offender in questione rientrerebbe nella categoria dell’abusante sadico-aggressiva, che manifesterebbe piacere nel provocare dolore agli altri. Gli obiettivi del sadico sarebbero l’annientamento, fisico e psichico, la deumanizzazione della vittima e la sofferenza. Il soggetto sadico godrebbe nel forzare la propria vittima alla sottomissione, in quanto, tale atto, gli fornirebbe un senso di appagamento. Il sadismo rappresenterebbe una necessità di affermazione dell’Io, si sarebbe di fronte difatti a una sovversione del trauma di un soggetto che ha subito abusi vivendoli con un senso di impotenza disorganizzante, ove quindi l’agire e il perpetrare la stessa tipologia di violenza gli consentirebbero di agire un controllo e uscire dall’abuso come vincitore. Alla base del comportamento distruttivo vi sarebbe sempre un background (un passato) di aggressività, frustrazione e impotenza, un sentimento di svalutazione di sé e degli altri. Nel caso specifico, l’abusante omosex (che sceglie una vittima del proprio sesso) trasferirebbe le sue attenzioni su una bambina perché si identificherebbe con essa, rivedendo sé stessa e riversandole addosso tutto l’amore di cui dispone e tutta la colpa che prova.

DAGONEWS il 5 settembre 2022.

La domanda corre veloce nei corridoi dell’Eliseo. Cosa ha in mano Trump su Emmanuel Macron? L'ex presidente degli Stati Uniti afferma di avere in mano le carte di un potenziale scandalo sessuale che travolgerebbe il presidente francese. 

L'8 agosto, l'FBI ha fatto irruzione nella casa di Trump a Mar-a-Lago, in Florida, sequestrando scatole di documenti riservati. Tra questi ci sarebbero dei fogli scottanti sulla vita sessuale di Macron che già in passato era finito al centro di diversi pettegolezzi per presunte relazioni omosesssuali. 

Durante la campagna per diventare presidente nel 2017, Macron è stato costretto a negare di far parte di una "ricca lobby gay", negando di avere una relazione appassionata con Mathieu Gallet, l'allora capo 40enne di Radio France.

Apertamente gay, Gallet era una figura di spicco nei media francesi ed era noto per aver incontrato Macron in varie occasioni. Le voci iniziarono a diventare talmente insistenti che Macron fu costretto a dichiarare: «Dicono che ho una doppia vita con Mathieu Gallet, ma non sono io. Sono quello che sono, non ho mai avuto niente da nascondere. Sento persone dire che ho una vita segreta o qualcosa del genere. Non è carino per Brigitte, perché condivido tutti i miei giorni e le mie notti con lei». 

Un anno dopo esplose il pettegolezzo secondo cui Macron andava a letto con il suo ex agente di sicurezza e poi vice capo di stato maggiore, Alexandre Benalla. 

Cos'altro potrebbe spiegare il trattamento clemente del presidente verso Benalla dopo che era stato filmato mentre picchiava un cittadino francese? Era il primo maggio del 2018 e Benalla non subì conseguenze per il suo comportamento fino al luglio 2018 quando il presidente dovette spiegare non solo perché Benalla aveva ancora un lavoro, ma perché aveva ancora una macchina con l’autista e un appartamento pagato dallo stato.

Benalla venne licenziato in ritardo scatenando la domanda sul perché Macron non lo avesse fatto in tempo. Una situazione che costrinse ancora una volta il presidente a intervenire per dire: «Non era mai stato il mio amante». 

Nel febbraio 2017, Macron aveva ribadito: «Se fossi omosessuale, lo direi e lo vivrei. Due cose sono odiose di questa allusione: dire che un uomo che vive con una donna più grande non può che essere omosessuale. E insinuare che qualcuno sia un gigolò. È solo omofobia».

La stessa Brigitte si è lamentata di aver ricevuto una telefonata anonima nel 2017 nella quale la informavano che il marito stava "vedendo un altro uomo". Nonostante gli sforzi dei servizi segreti francesi, chi ha chiamato non è mai stato identificato. 

E anche su Brigitte non sono mancati i pettegolezzi maligni. I giornalisti di estrema destra dicono che sia nata uomo nell’aprile del 1953 e che si chiami  Jean-Michel Trogneux: avrebbe subìto un intervento chirurgico di riassegnazione di genere all'inizio degli anni '80. Le piattaforme collegate al partito di Marine Le Pen, i no vax e il movimento dei Gilet Gialli hanno diffuso queste voci.

Ma perché così tanti francesi credono ai pettegolezzi? In parte dipende dalle scorribande dei predecessori di Macron che si portano dietro un bel bagaglio di scandali. Ma chi critica Macron è arrivato a una considerazione ancora più feroce: «Forse la relazione extraconiugale più intensa che Macron abbia mai avuto è quella con lo specchio».

Danilo Ceccarelli per “la Stampa” il 22 agosto 2022.

Le fiamme divampate più di tre anni fa siano ormai un brutto ricordo, ma le cause del disastro che ha semidistrutto la cattedrale di Notre-Dame restano avvolte dal mistero. Il rischio è che alla fine non si trovi alcun colpevole, né tantomeno l'origine dell'incendio dell'aprile del 2019. 

Secondo un magistrato citato in forma anonima da Le Canard Enchainée, sarebbero troppo pochi gli elementi a disposizione dei suoi tre colleghi responsabili dell'inchiesta in corso. Escluso il movente criminale, gli inquirenti negli ultimi anni hanno concentrato l'attenzione su due piste: i mozziconi di sigaretta lasciati dagli operai impegnati all'epoca nei lavori di ristrutturazione o il corto circuito di un impianto elettrico legato alle campane elettrificate dieci anni prima (su richiesta del vescovo e in barba alla regole, sempre secondo il Canard). 

In entrambi i casi, si tratterebbe di negligenze che metterebbero in forte imbarazzo le autorità. Il prossimo autunno, però, il fascicolo dovrebbe essere archiviato senza un nome a cui dare la colpa. «Se ci fossero state vittime, la situazione sarebbe diversa, ci sarebbero state delle persone indagate», ha specificato la fonte al settimanale, che ricorda come molti degli operai attualmente impegnati nella ricostruzione erano già sulle impalcature quando scoppiò il rogo. Anche se la Procura di Parigi si mostra rassicurante, e ribatte spiegando che le indagini vanno avanti, soprattutto dopo le nuove perizie lanciate quattro mesi fa.

Lo sfregio delle fiamme viene giorno dopo giorno cancellato, in una corsa contro il tempo per mantenere fede alla promessa fatta da Emanuel Macron sulla riapertura di Notre-Dame entro il 2024, lo stesso anno in cui si terranno i Giochi Olimpici di Parigi. Un cantiere titanico che coinvolge l'intero Paese in uno sforzo corale, con il grande organo restaurato negli atelier di Lodève (sud), le pietre necessarie a sorreggere la volta estratte dalle cave della Croix Huyart (nord) e più di 1.300 alberi abbattuti su tutto il territorio per rifare il tetto. La nuova guglia invece, spiccherà a partire dalla metà del prossimo anno. L'impresa è sostenuta soprattutto dagli 846 milioni di euro proveniente dalle donazioni arrivate da 150 Paesi in tutto il mondo. 

Una scommessa pericolosa quella del presidente, annunciata sull'onda dell'emozione mentre le ceneri nella cattedrale erano ancora calde, il cui risultato influirà sul bilancio del secondo mandato. Durante l'ultima visita effettuata lo scorso aprile in piena campagna elettorale tra i due turni delle presidenziali, linquilino dell'Eliseo ha incensato il «progresso straordinario» fatto nella ricostruzione delle parti andate distrutte.

A fargli eco a fine luglio la sua ministra della Cultura, Rima Abdul-Malak, che si è detta «fiduciosa» sul completamento della maggior parte del progetto anche se ci saranno «certamente altri lavori» da compiere. Ma per il generale Jean-Louis Georgelin, responsabile dei lavori, l'obiettivo resta «complicato». Quello che invece appare più difficile, è la ricostruzione di quegli attimi che hanno commosso la Francia intera e per i quali forse nessuno dovrà mai pagare.

Danilo Ceccarelli per “Specchio – la Stampa” il 22 agosto 2022.

“Mi è passato sopra il piede!». Ad urlarlo, all'improvviso, una ragazza, mentre una piccola ombra nera schizza via a rintanarsi in un cespuglio. Intanto, uno dei suoi amici stappa l'ennesima birra senza neanche ascoltarla, sdraiato sul lungosenna dell'Ile-de-la-Cité, l'isola dove un tempo sorgeva Lutezia, l'antenata di Parigi. Il giovane, poco più che ventenne, segue con lo sguardo uno degli ultimi bateaux mouches della giornata. Il battello solca le tranquille acque del fiume carico di turisti impegnati a fotografare quel che resta della cattedrale di Notre Dame, ancora in ricostruzione dopo l'incendio del 2019.

A caccia di rimasugli Una scena come tante, soprattutto nelle calde serate estive, quando al crepuscolo i quais del fiume cominciano a svuotarsi, diventando territorio di caccia dei ratti in cerca dei resti di cibo lasciati a terra o nei cestini della spazzatura. Rimasugli dei tanti pic-nic improvvisati ogni giorno da chi cerca refrigerio sulle rive della Senna e lascia inconsapevolmente dei fast food a cielo aperto per i roditori, che la notte escono dalle fogne per approfittare di quel ben di dio. Quando ad una certa ora cominciano a sfrecciare impunemente a destra e a sinistra, la maggior parte delle persone si dà alla fuga disgustata. «Che schifo...», sussurra stizzito un signore raccogliendo in fretta e furia le sue cose, con quella che probabilmente è la sua compagna già scappata lontano.

I più giovani restano accampati sulle banchine a chiacchierare e ad ascoltare musica fino a tardi, senza nemmeno farci caso. Di giorno, poi, tutto sembra tornare alla normalità, almeno a sentire chi sull'isola ci lavora da più di venti anni. «Mai visto topi nel mio negozio o nei dintorni», garantisce il proprietario di una vecchia cartoleria. «Con il tribunale accanto, qui vengono avvocati, notai e qualche giudice: nessuno si è mai lamentato di questo problema», spiega il cinquantenne, forse per non fare cattiva pubblicità a una delle zone più turistiche del mondo.

Triste primato Ma a Parigi ormai è difficile non rendersi conto di una presenza che diventa sempre più ingombrante. Stime precise sul numero di esemplari che popolano le fogne della capitale francese non ce ne sono, anche se l'Accademia della medicina ne calcola tra 1,5 e 1,75 a persona. Un tasso che porta la Ville Lumière dritta nella top ten delle città più infestate del pianeta. Un fenomeno amplificato dai recenti scioperi della nettezza urbana, dai tanti lavori pubblici degli ultimi anni che hanno portato in superficie i ratti e dall'incuria di alcune zone.

All'Hotel de Ville, sede del municipio guidata dalla sindaca socialista Anne Hidalgo, ricordano le massicce campagne di derattizzazione e gli investimenti già sbloccati. Tuttavia qualcuno preferisce vedere il problema da un'altra prospettiva, aggiungendo polemiche su polemiche.

Il dibattito lessicale Come la consigliera animalista Douchka Markovic, che rispondendo alle critiche dell'opposizione durante una riunione del Consiglio di Parigi a inizio luglio ha scatenato un putiferio proponendo l'utilizzo del termine "surmolotti" al posto di ratti, per dare una «connotazione meno negativa» all'animale. Una bomba lanciata in un campo di battaglia già abbastanza infuocato: sui social sono fioccati i commenti, tra chi ironicamente si è raccomandato di non «urtare la sensibilità» dei roditori e chi invece ha chiesto «un po' più di serietà e di efficacia». Le opposizione, invece, sono insorte costringendo il vice-sindaco Emmanuel Gregoire a prendere le distanze.

"Rimandarli nelle fogne" «Stiamo parlando di un tema politico, spesso strumentalizzato dalla destra», si difende la co-presidente del Partito Animalista, spiegando che è stato estrapolato il passaggio «meno importante» del suo intervento. «Gli uomini hanno sempre cercato di sterminare i ratti senza mai riuscirvi», adesso è necessario un «cambio di paradigma» nell'affrontare la questione. Insomma, se non puoi batterli magari non unirti a loro, ma almeno impara a conviverci.

Per questo Markovic preferisce impiegare il «nome scientifico» per evitare quelle «fobie e tensioni» che in genere emergono ogni volta che si tratta l'argomento. L'obiettivo, garantisce la consigliera, è quello di «rimandarli nelle fogne, dove sono più utili», anche se a suo dire i rischi sanitari sono «bassissimi».

La scelta del XVII «È una posizione aberrante! Significa disconoscere le regole della biosicurezza per la salute pubblica», secondo la veterinaria Jeanne Brugère-Picoux, che ha partecipato alla stesura di un comunicato diffuso dall'Accademia della medicina, di cui è membro, subito dopo le dichiarazioni della consigliera animalista, dove si condannava «l'ingenuità» delle sue parole.

E mentre il dibattito continua, nel XVII arrondissement, uno dei più borghesi della città, c'è chi si rimbocca le maniche e si organizza nelle "Brigate cittadine": un'iniziativa nata quattro anni fa da un'idea di Sylvain Clama, che nella vita fa l'attore ma nel tempo libero gira nel suo quartiere insieme ad una decina di altri "colleghi", tutti volontari, per ripulire i giardini e i palazzi infestati. «Non ne potevo più di vedere questi animali scorrazzare liberi nelle strade, così mi sono rivolto al sindaco dell'arrondissement, Geoffroy Boulard, che ha sostenuto il progetto e ha lanciato l'applicazione signalerunrat.paris (segnala un ratto, in italiano), dove i cittadini possono indicarci i luoghi più infestati nei quali intervenire», racconta durante una delle sue ronde. 

Mille e una trappola Con Sylvain c'è Jacques D'Allemagne, esperto di trappole, che durante il giro butta un occhio tra le aiuole per controllare che non ci siano nuove tane. La tecnica utilizzata è quella del ghiaccio secco, per evitare alle bestie una morte meno brutale: «Una volta individuato il buco nella terra ne inseriamo una quantità sufficiente, che con il calore torna alla sua forma gassosa andando in fondo fino a far perdere i sensi al ratto prima di ucciderlo».

Ogni tanto qualche commerciante li ferma per salutarli, qualcuno è preoccupato dalla situazione: «Può capitare che i clienti seduti ai tavoli all'esterno del locale si vedano passare queste bestiole tra le gambe mentre stanno cenando», riconosce Florian, proprietario di un bistrot. Il giro continua fino a quando Jacques non trova nascoste dietro ad un cespuglio alcune cassette di frutta e verdura. «Sono dei venditori abusivi, le abbandonano qui a fine giornata con dentro quello che è andato a male, i ratti ne vanno ghiotti». Neanche il tempo di finire la frase, che un topolino schizza via da un mucchio di mele marce, come un Ratatouille qualsiasi.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 23 luglio 2022.

«Occupazione in corso al centro di accoglienza per i rifugiati ucraini della Porte de Versailles. Bisogno di sostegno sul posto per appoggiare le nostre rivendicazioni: documenti e case per tutti indipendentemente dalla nazionalità!». E ancora: «Questo centro di accoglienza da 550 posti, riservato ai rifugiati ucraini, è quasi vuoto da diverse settimane, mentre migliaia di persone vivono per strada nell'Île-de-France (la regione di Parigi, ndr)». Prima di concludere: «Occupiamo questo centro perché incarna la politica di accoglienza segregazionista condotta dallo Stato francese».

Con queste parole, il collettivo pro migranti francese La Chapelle Debout ha annunciato lo scorso 17 luglio l'occupazione di un centro di accoglienza di rifugiate e rifugiati ucraini situato nella Hall 2 di Porte de Versailles, a sud di Parigi. Al grido di «Nous sommes tous des Ukrainiens!», siamo tutti ucraini, più di trecento persone, provenienti in maggioranza dall'Africa dell'Est, hanno invaso i luoghi con modi aggressivi, accusando la Francia di «razzismo» e di «discriminazione» a favore delle ucraine e degli ucraini.  

«Vogliamo: case per tutta la vita per gli abitanti dell'Ambassade des immigré.e.s (rifugiati in gran parte di origini africane che occupano un edificio al 17 di rue Saulnier, ndr) per quelli degli accampamenti di Bagnolet, Bastille e Libérté, per le famiglie del centro sociale di Montreuil e tutti quelli che sono ancora senza tetto; documenti per tutti», hanno chiesto durante l'assemblea generale improvvisata all'interno della Hall 2 di Porte de Versailles. Prima dell'associazione La Chapelle Debout, un altro collettivo, Utopia 56, aveva portato avanti queste rivendicazioni.

LA SINISTRA APPLAUDE 

Sabato 9 luglio, i militanti di Utopia 56, che invitano lo Stato francese a «uscire da questa politica differenzialista», hanno organizzato un raduno a Parigi e una marcia dalla Porte de Versailles fino agli uffici del prefetto della regione Île-de-France. «Una casa per tutte e per tutti, a prescindere dalla nazionalità!», è stata la parola d'ordine, intonata durante la manifestazione. 

Ian Brossat, assessore in quota Partito comunista alle Politiche abitative di Parigi, ha ricevuto nel suo ufficio il collettivo La Chapelle Debout. Con l'abituale retorica goscista cui ha abituato i parigini la sindaca Anne Hidalgo, il suo giannizzero Brossat ha ricordato che «la sistemazione delle persone che vivono per strada è di competenza dello Stato e non della città di Parigi». «Quando ci sono dei posti liberi, devono essere utilizzati!», ha aggiunto l'assessore alle Politiche abitative parigino, parlando di «doppiopesismo» nell'accoglienza dei rifugiati. 

Dall'inizio dell'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, lo scorso 24 febbraio, la Francia ha accolto circa 92mila rifugiati ucraini. A Parigi, oltre al centro di Porte de Versailles, sono stati messi in piedi un centro dedicato alle famiglie, due per i primo-arrivanti all'interno di altrettante palestre e punti informazioni per facilitare l'accoglienza nelle stazioni ferroviarie.  

«Le autorità ci hanno sempre ripetuto che non ci sono soldi né personale. Ed ecco che ora, nel giro di pochissimo tempo, viene messo in piedi un ottimo dispositivo», ha denunciato Paul Alauzy, capo progetto a Médecins du Monde, prima di aggiungere: «Nel giro di un'ora, un rifugiato ucraino può fare domanda d'asilo, ottenere un alloggio, avere la tessera sanitaria, senza passare nemmeno una notte per strada. Tutte cose che altri impiegano sei mesi e a volte un anno intero a ottenere». 

Lo stesso Alauzy ha affermato che, pur essendo «estremamente felice che i profughi ucraini siano ben accolti», il dispositivo «deve essere allargato a tutti». La situazione tra rifugiati ucraini e rifugiati africani, a Parigi, è molto tesa: ma lo è anche in altri Paesi.

RAZZISMO E MINACCE 

In Svizzera, per esempio, alcune donne ucraine arrivate con la prima ondata, hanno denunciato episodi di razzismo e minacce nei loro confronti. «Non ci sentiamo in sicurezza in questo posto. Impossibile lasciare le proprie cose in camera, perché i furti sono all'ordine del giorno», ha raccontato Anna al sito Blick.ch.  

«Siamo stati anche vittime di violenze razziste da parte di altri rifugiati, davanti a degli agenti di sicurezza rimasti impassibili...». Lubov, un altro rifugiato proveniente dall'Ucraina, ha rivelato che «alcune comunità qui presenti, come le persone algerine, purtroppo, sostengono in blocco la Russia. Sono poche, ma ci hanno già minacciato e insultato».

E il «caso Dreyfus» sconvolge ancora la Francia e l’Europa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Luglio 2022.

«La macchia di cui si copre la Francia non si cancellerà mai»: così si legge nella rubrica di «Monos» in prima pagina sul «Corriere delle Puglie» del 12 luglio 1898. Nel Paese d’Oltralpe è tornato d’attualità il caso Dreyfus, «che da anni commuove profondamente tutto il mondo civile».

Nel 1894 l’ufficiale francese di origine ebraica Alfred Dreyfus fu accusato di tradimento per aver fornito documenti militari segreti ai tedeschi. La vicenda godette di grande attenzione mediatica: la condanna del capitano, unico ufficiale dello Stato maggiore di origine ebraica, rientrava in un contesto antisemita e fortemente nazionalistico. La sua innocenza fu sostenuta da un vasto movimento d’opinione e da una straordinaria mobilitazione di intellettuali: durante il processo furono, in effetti, volontariamente occultate le prove sui veri responsabili dello spionaggio.

«In base a documenti falsi si condanna un uomo a morire di dolore sotto l’onta infame del tradimento e si condanna il più universale noto scrittore francese, che onora il mondo, perché chiede la luce». Nel luglio 1898 Émile Zola è infatti, condannato nel processo per diffamazione in cui è coinvolto per aver pubblicato sul quotidiano francese «L’Aurore», il 13 gennaio 1898, il celebre «J’accuse», la lettera indirizzata al presidente della Repubblica per la riapertura del processo.

«Forse il condannato all’isola del Diavolo potrà essere reo di tradimento – non noi possiamo affermarlo o negarlo – ma il solo dubbio che egli possa essere innocente, e questo dubbio è nell’animo di tutti, il solo pensiero che a lui è stata negata la prova, la difesa è tale un orrore da commuovere profondamente ogni anima onesta», si scrive sul «Corriere».

Il capo del controspionaggio francese Georges Picquart, in possesso di prove che scagionano Dreyfus, darà un contributo decisivo per l’accertamento della verità, ma la strada è ancora molto lunga.

«Non è più il capitano Dreyfus che addolora il mondo, ma il veder così violentemente negata la luce, quella luce che si chiede per solo amore di giustizia, per amore di un principio sacro che non è francese, non è tedesco, non è di alcuna nazione, ma è o dovrebbe essere di ogni paese, dovrebbe essere universale.[...] Dica pure il ministro della guerra che la Francia è libera di far come crede in casa sua, ma non è possibile, né alla Francia né all’universo, impedire che un grido di nobile sdegno si levi dall’anima di chi vede così vergognosamente soffocata la luce. Dreyfus appartiene alla Francia, ma la giustizia appartiene all’umanità; e quella nazione che ad essa violentemente si ribella, segna a caratteri neri un periodo di grande decadenza o di aberrazione nella storia».

La Torre Eiffel, da scommessa a monumento nazionale storia di un progetto incredibile. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Giugno 2022.

Fu una vera e propria battaglia quella di Gustave Eiffel per realizzare la Torre simbolo di Parigi.

La battaglia di un uomo per costruire il suo sogno. Di fronte Eiffel aveva tutte le avversità e gli ostacoli possibili che rendevano il sogno impossibile.

Tuttavia la Torre Eiffel è lì, a Parigi, e come l'ingegnere Gustave Eiffel sia riuscito ad erigerla nel cuore della capitale francese con la sua una gigantesca mole di ferro, mentre nessuno voleva sentir nemmeno parlare della monumentale opera, sarà oggetto del programma di Alessandro Barbero e Davide Savelli: Torre Eiffel. Storia di una scommessa incredibile in onda questa sera alle 21,10 su Rai Storia.

La Torre fu completata nel 1889 in vista dell'esposizione universale di Parigi e fu aperta al pubblico nove giorni dopo l'inizio della manifestazione.

Delle polemiche che accompagnarono la sua costruzione si è appena accennato. Val la pena ricordare che consultando tutti i testi che parlano della famosa Torre si troverà più di un cenno agli scontri ingaggiati da tanti artisti contro Eiffel e il gruppo che con lui coraggiosamente intraprese l'opera, diventata poi simbolo non solo della città di Parigi, ma della Francia tutta.

Val la pena citare la lettera c che molti intellettuali e artisti francesi, a partire da Guy de Maupassant, scrissero parlando di vera e propria «minaccia al buon gusto» rappresentata dalla creazione della Torre nel cuore di Parigi e l'orgogliosa risposta di Gustave Eiffel: «Sono convinto che la torre possegga una sua intrinseca bellezza».

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 5 luglio 2022.  

Il mediocre risultato dei macronisti alle legislative di giugno con la bocciatura di alcuni ministri ha obbligato il presidente Emmanuel Macron e la premier Élisabeth Borne a un rimpasto di governo. 

Nella nuova squadra, presentata ieri, alcuni ritorni, metà donne - 21 su 42, ma tante sottosegretarie e poche ministre di peso - e un'assenza notevole: quella di Damien Abad, che pure era stato protagonista di un'ottima affermazione venendo rieletto deputato senza difficoltà. L'ormai ex ministro (Solidarietà, autonomia e persone disabili) 42enne è stato costretto a dimettersi perché accusato di violenze sessuali. 

La prima ministra Borne dice che «i politici hanno un dovere di esemplarità» e che «le testimonianze delle donne meritavano di essere tenute in conto». Lui, nel discorso di commiato, parla di «calunnie ignobili», promette che lotterà «contro questo movimento funesto che relega la presunzione di innocenza al rango di arnese del passato», e conclude con una citazione di Montesquieu: «Un'ingiustizia commessa contro uno solo è una minaccia nei confronti di tutti». 

La situazione di Abad era difficile da giorni a causa di molte testimonianze e di una denuncia per una tentata violenza nel 2010. Ieri mattina, a poche ore dal rimpasto, un'altra donna ha raccontato in televisione di un'aggressione avvenuta nel 2013: «Nel bar dove ci siamo incontrati mi ha offerto da bere e a un certo punto ho cominciato ad avere le vertigini e a sentirmi svenire, ci vedevo male. 

Il giorno dopo è stato il gestore dell'albergo a svegliarmi. Mi trovavo nel letto, senza vestiti, confusa, poi ho avuto dei flash della sera precedente: lui era nella mia camera, e nel mio letto, ne sono certa». Nelle scorse settimane Abad si è difeso dalle varie accuse dicendo tra l'altro che «si parla di azioni o gesti che mi sono semplicemente impossibili a causa del mio handicap». L'ex ministro è affetto da artrogriposi congenita, una malattia che provoca malformazioni agli arti.

Accuse di aggressione sessuale sono formulate anche contro il nuovo presidente di estrema sinistra della importante commissione Finanze dell'Assemblea nazionale, Éric Coquerel, denunciato da un'ex militante della gauche passata nel movimento dei gilet gialli, Sophie Tissier. Un caso che indebolisce l'azione della Nupes, la Nuova unione popolare ecologista e sociale fondata da Jean-Luc Mélenchon. 

Quanto alla maggioranza di governo, il presidente Macron prende atto «del rifiuto dei partiti di entrare a fare parte di una coalizione», in particolare della destra gollista dei Républicains, e quindi proverà ad andare avanti con la sola maggioranza relativa. La France Insoumise (parte della coalizione Nupes) ha annunciato che presenterà una mozione di sfiducia contro la premier Borne, ma i deputati lepenisti hanno già chiarito che non la voteranno. Quindi la mozione non passerà, e Borne resterà alla guida del (debole) governo. 

Da “Sette - Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.  

Sono le 10.30 del mattino del 14 luglio 2002, e il presidente francese Jacques Chirac sfila sugli Champs Elysées a bordo di una jeep scoperta nel giorno della commemorazione della presa della Bastiglia. Tra la folla dietro le transenne un 25enne con simpatie neonaziste, Maxime Brunerie, apre una custodia per chitarra e tira fuori una carabina: prende la mira per sparare al presidente ma sbaglia.

Tra il pubblico qualcuno comincia a gridare, lui punta il fucile su se stesso per togliersi la vita ma altre persone gli si avventano addosso. Arrivano due agenti, Brunerie viene fermato e arrestato: farà solo 7 anni di carcere per i problemi psichiatrici accertati dai periti.

Anche a Parigi la magistratura ha ucciso carriere e deciso presidenti. Da Strauss-Kahn a Fillon passando per Sarkozy. Quando le inchieste cambiano il corso politico. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 24 giugno 2022.

Prima di finire ammanettato in mondovisione dalla polizia di New York che lo trascinava nel carcere di massima sicurezza di Rickers Island, Dominique Strauss-Kahn (DSK) non era solamente il prestigioso direttore del Fondo Monetario Internazionale, ma anche il presidente francese in pectore. Era il 2011, pochi mesi dopo si sarebbe votato per l’Eliseo e tutti sondaggi attribuivano al leader socialista un vantaggio incolmabile sull’allora capo di Stato Nicolas Sarkozy.

Le accuse rivolte a DSK erano pesantissime: violenza sessuale nei confronti di Nafissatou Diallo, impiegata delle pulizie al Sofitel di Manhattan. Inizialmente le prove sembravano schiaccianti, poi però le tesi dell’accusa hanno perso consistenza, soprattutto per le tante contraddizioni emerse negli interrogatori di Diallo che viene a sua volta denunciata dagli avvocati di Dsk per diffamazione. Il procuratore decide allora di prosciogliere l’imputato che poi si accorda co Diallo nel processo civile versandole 1,5 milioni di dollari. Al ritorno in Francia DSK è un politico finito che trova una magistratura che prova a metterlo alla sbarra per altre due vicende legate ai suoi “appettiti sessuali”. L’affaire Tristan Bannon, la scrittrice e giornalista che lo accusa di un tentato stupro e il caso Carlton di Lilla, dal nome dell’hotel in cui secondo i pm sarebbe avvenuto un traffico di prostituzione di lusso, che avrebbe coinvolto i notabili della regione con al centro sempre lui. Entrambe le vicende si sono sgonfiate: prosciolto senza andare a processo nella prima, assolto per non avere commesso il fatto nella seconda.

Ma ormai era un appestato, come era chiaro a tutti che non sarebbe mai più stato un protagonista della vita politica francese. Ad approfittare della discesa agli inferi di Strauss Kahn avrebbe dovuto essere Sarkozy, diventato il gran favorito dei sondaggi, che invece viene sconfitto a sorpresa dal grigio ma astutissimo François Hollande il quale aveva sostituito all’ultimo momento proprio DSK. E guarda un po’, le inchieste giudiziarie che avrebbero flagellato la sua esistenza negli anni successivi hanno cominciato a lievitare proprio allora. Anche quella di Sarko è infatti una carriera politica andata in pezzi sotto le bordate delle procure, in particolare a per il famoso affaire des écoutes: lo scorso marzo Sarko è stato condannato in primo grado per traffico di influenze, ossia per aver promesso una promozione a un giudice (che poi non è mai avvenuta)in cambio di informazioni riservate su un’altra inchiesta che lo riguardava. I metodi impiegati dagli inquirenti che il ministro della giustizia Dupond Moretti ha definito «da spioni» sono un campionario di sconcezze: dalle intercettazioni tra avvocato e cliente, alle perquisizioni selvagge degli studi legali, a una sorveglianza di mail e telefoni e corrispondenza privata durata anni all’insaputa dell’indagato. Probabilmente Sarzozy, oggi entrato nell’orbita macroniana, riuscirà a ribaltare la sentenza in appello, ma anche lui è ormai un corpo estraneo alla vita politica transalpina.

L’ultimo a finire nella tagliola delle inchieste giudiziarie è un altro uomo politico di centrodestra, compagno di partito a amico personale di Sarkozy: François Fillon, travolto dal cosiddetto penolopegate. Poche settimane prima delle presidenziali del 2017 che segnarono l’ascesa di Emmanuel Macron, il favorito era senz’altro l’ex premier, trionfatore delle primarie dei neogollisti. Ma l’offensiva dei pm, coordinata dalle inchieste del giornale Canard enchaîné lo ha stroncato con timing degno di una serie tv: Fillon è accusato di aver fatto assumere la moglie Penelope Clarke come assistente parlamentare per 500mila euro annui senza che lei mettesse effettivamente piede nel suo ufficio. Le indagini si allargano e coinvolgono i figli della coppia, Marie e Charles, anche loro assunti come assistenti parlamentari per circa 85mila euro all’anno. Il clamore del penelopegate funesta la campagna elettorale di Fillon che da favorito passa la quarto posto, superato anche da Mélenchon e Le Pen. Fillon, denunciando «il killeraggio mediatico e l’assassinio politico» che avrebbe subito è stato condannato in primo grado per traffico di influenze e a dieci anni di ineleggibilità. Anche il questo caso il processo di appello potrebbe rovesciare la sentenza ma anche in questo caso siamo di fronte a una carriera politica stroncata.

Nei primi anni duemila era andato in scena un altro ruvido scontro tra il presidente Jacques Chirac e la procura della capitale che lo accusava di false assunzioni al Comune di Parigi nel periodo in cui era sindaco. La responsabile dell’inchiesta, Eva Joly ha tentato in tutti i modi di interrogare Chirac rimettendo pubblicamente in causa l’immunità presidenziale sancita dalla Costituzione. Da comune cittadino Chirac viene prosciolto dall’accusa di traffico di influenze ma riconosciuto colpevole di falso ideologico. Ma non di fronte a Joly: la magistrata aveva infatti abbandonato la toga per candidarsi alle presidenziali con il partito ecologista.

Da ilnapolista.it il 9 giugno 2022.

Le Parisien raccoglie la testimonianza di un tifoso disabile del Liverpool che era presente allo Stade de France la sera della finale di Champions. Si chiama Ted Morris, ha 58 anni, è costretto su una sedia a rotelle. Racconta la terribile esperienza che ha vissuto. Di lui avrebbero dovuto prendersi cura steward e polizia, invece racconta di aver «temuto per la sua vita». 

Allo stadio è arrivato presto, già intorno alle 15, in compagnia della moglie e di due figlie e già a quell’ora iniziavano le prime rapine ai tifosi. Alle 18 ha iniziato le procedure per il controllo dei biglietti. 

«C’erano già molti giovani locali che cercavano di intrufolarsi nel cordone di sicurezza. Non c’era quasi nessuno della polizia. C’erano cinque poliziotti armati, ma che non facevano nulla per intervenire». 

Morris è stato portato all’ingresso riservato alle persone con mobilità ridotta. Avendo già viaggiato in giro per l’Europa al seguito dei Reds, si è reso subito conto che qualcosa non andava. Davanti a lui c’erano tre persone in sedia a rotelle che aspettavano da più di un’ora perché «Nessuno si era preso cura di loro». 

Le persone erano in fila con biglietti validi ma gli steward non li scansionavano.«Sembravano completamente persi. Nessuno sapeva come reindirizzare le persone i cui biglietti non funzionavano». 

Ad un’ora dall’inizio della partita, la tensione, davanti allo stadio, continuava a salire. Per sua fortuna, Morris è stato aiutato ad entrare da personale interno al club, ma gli altri non sono stati così fortunati. 

«Nell’associazione di cui faccio parte abbiamo avuto un bambino disabile di 8 anni che è stato colpito dai gas lacrimogeni dalla polizia, così come un altro uomo su una sedia a rotelle. I tifosi ciechi sono stati separati dal loro accompagnatore e si sono trovati soli sul piazzale. È stato terrificante». 

Dopo la partita, Ted Morris e la sua famiglia hanno lasciato lo Stade de France in un’atmosfera che ha descritto come «tossica». Mentre si dirigevano verso una stazione della RER, sono stati attaccati da centinaia di giovani locali. «Correvano contro di noi da tutte le parti cercando di derubare la gente. È stato pazzesco. E non c’erano più poliziotti a proteggerci. Perché?». 

Arrivato alla stazione, Ted pensava di essere al sicuro. Invece no. «La polizia ci ha sparato contro gas lacrimogeni e spray al peperoncino. Ci ha messo in pericolo».

Finalmente è riuscito a tornare sano e salvo al suo hotel e poi a casa, ma è ancora sotto choc. «Abbiamo avuto donne disabili che sono state aggredite sessualmente, abbiamo avuto tifosi disabili che hanno avuto paura per le loro vite, e non sto esagerando. È stato il momento più traumatico della mia vita». 

Continua: «Quello che la polizia ha fatto quel giorno è una vergogna per il popolo francese e per il popolo di Parigi. Siamo venuti a vedere una partita di football. Immagina di essere totalmente cieco e di essere premuto contro le griglie, agitando il bastone in aria chiedendo aiuto. E sai qual è la parte peggiore? La polizia rideva. Non gli importava di noi, come se fosse solo un gioco».

Punta il dito contro il ministro dell’interno francese, Gerald Darmanin, che ha parlato di circa 40mila tifosi inglesi senza biglietto o con biglietti falsi. 

«Quello che voglio dirgli è che dovrebbe dimettersi. Ha detto bugie su bugie. Siamo tutti sotto shock psicologicamente e sta peggiorando le cose. Dovrebbe assumersi la responsabilità! Ammettere la colpa! E assicurarsi che nessuno che venga nel vostro paese debba passare attraverso tutto questo. Quando penso che la Coppa del Mondo di Rugby si svolgerà lì, le Olimpiadi… Non riesco nemmeno a immaginare come la Francia… E se hanno intenzione di farlo, hanno seriamente bisogno di guardarsi allo specchio e mettere in atto misure per proteggere le persone».

Da ilanpolista.it il 9 giugno 2022. 

Il capo della polizia di Parigi Didier Lallement ha riconosciuto il “fallimento” dell’organizzazione della sicurezza la sera della finale di Champions League. Si è scusato per aver usato lacrimogeni contro i tifosi che cercavano di entrare allo stadio, e ha anche ammesso la “bugia” dei 30.000 tifosi con biglietti falsi.

“È ovviamente un fallimento”, ha detto Lallement rispondendo ad una commissione del Senato francese che indaga su quella che solo per un caso non si è trasformata in una strage: “È stato un fallimento perché le persone sono state spinte e attaccate. È stato un fallimento perché l’immagine del Paese è stata minata. Chiediamo scusai ai tifosi inglesi e spagnoli”. I lacrimogeni? “Non dovevamo usarli, ma non c’era altro modo per contenere la pressione della gente”.

“La cifra dei tifosi senza biglietto – ha ammesso – non aveva una basi scientifiche, ma semplicemente veniva dal riscontro di informazioni essenziali. Forse mi sbagliavo sui 30-40.000, ma non ho mai affermato che la cifra fosse perfettamente corretta. Che fossero 40.000, 30.000 o 20.000, non cambia il fatto che c’erano decine di migliaia di persone. Le 30-40.000 persone che ho citato non erano nelle immediate vicinanze dello stadio, erano oltre i posti di blocco. Ovviamente non c’erano dalle 30.0000 alle 40.000 persone davanti ai cancelli dello stadio. È ovvio, nessuno l’ha mai detto, non so da dove provenga questo dibattito”.

Da ilnapolista.it il 3 giugno 2022.

«Allo Stade de France i francesi ci hanno aggredito coi machete dopo la partita. Polizia zero», Rmc Sport intervista Paddy Pimblett, un campione di arti marziali MMA: tifosissimo del Liverpool, era allo Stade de France, sabato sera, per la finale di Champions League. Dice di non avere mai avuto più paura per la sua vita di quella sera. 

«Quando abbiamo lasciato lo stadio, c’erano gruppi di trenta persone che correvano ovunque. Alcuni di loro avevano armi, machete, coltelli, sbarre di ferro… Dovevamo solo cercare di andarcene da quel posto. Le persone sono buttate a terra, derubate dei loro orologi e degli effetti personali. Ad alcuni hanno strappato le borse. Prima della partita, ho visto anche persone alle quali sono stati strappati biglietti. Ma è stato dopo la partita, all’uscita dallo stadio, il peggio. Entrare allo stadio è stato già complicato. La polizia lanciava gas lacrimogeni contro tutti. Nel percorso che abbiamo attraversato per arrivare allo stadio, hanno bloccato e schiacciato migliaia di persone. E quando abbiamo chiesto agli agenti di polizia cosa stava succedendo, ci hanno riso in faccia. Come ho detto, non ho mai avuto più paura per la mia sicurezza e la sicurezza delle persone intorno a me di quando sono uscito da quello stadio sabato sera». 

Come sei riuscito a evitare gli assalti all’uscita dello stadio?

«Ero con mio zio e i miei amici. Uno di loro aveva 50 anni, gli altri 19 e 23. Abbiamo deciso di attaccarci l’un l’altro per proteggerci. Un gruppo di irlandesi mi ha riconosciuto, erano in sei, e si sono uniti a noi. Siamo stati fortunati ad essere una dozzina perché queste bande, e non lo so se erano locali ma erano persone che vivevano intorno a Saint-Denis, ci hanno guardato e quando hanno visto quanti eravamo non sono venuti a disturbarci. Correvano davanti a noi e gridavano ‘Hala Madrid!’. Non aveva alcun senso perché erano francesi! Abbiamo continuato a camminare e un vecchio e i suoi due amici si sono avvicinati noi e hanno chiesto se potevano accompagnarci. Quando gli ho chiesto se stava bene, ha detto, ‘Non proprio’. Gli ho chiesto perché e lui ha detto: “Sono stato gettato a terra, uno di questi cani mi ha strappato la borsa e mi ha svuotato le tasche”». 

Qual è la cosa peggiore che hai visto, sabato sera?

«C’erano persone che correvano ovunque con i machete! L’ho detto per alcuni giorni: l’unica cosa che posso paragonare a questo è il film American Nightmare. Hai visto questo film? Quello in cui possiamo fare tutto per dodici ore? Sembrava così. Questa è stata la mia impressione. Non c’erano più leggi, potevi fare quello che volevi». 

Hai visto agenti di polizia sulla strada tra lo stadio e la stazione della metropolitana?

«Ad essere onesti, no, non ne ho visti molti. La prima volta che ho visto la polizia era accanto agli autobus per i tifosi del Liverpool, che si trovavano a venti minuti a piedi. Era pazzesco perché c’era un gruppo di una cinquantina di uomini intorno a un autobus che cercava di andarsene ma non glielo lasciavano fare. I tifosi sono andati davanti al bus per cercare di spingerli via, ma lui non riusciva a partire. 

La finestra della porta dell’autobus era stata rotta e l’autista non sapeva cosa fare perché li avrebbero schiacciati se si fosse spostato in avanti e ovviamente non voleva farlo. Queste persone erano in piedi di fronte all’autobus e penso che volessero che le persone che erano dentro uscissero per aggredirli e rubare le loro cose. E quando la polizia è arrivata, invece di venire nel luogo in cui stava accadendo per fermare tutto questo, ha continuato la loro strada lungo la strada passando davanti come se nulla fosse». 

Secondo te quello che dice il ministro degli Interni francese, Gerald Darmanin, sulla responsabilità dei tifosi del Liverpool sono bugie?

«Una bugia totale ed enorme. Quest’uomo dovrebbe dimettersi perché è disgustoso e spregevole. È così facile usare i tifosi del Liverpool come capri espiatori… Quando sono arrivato con il mio biglietto, che avevo ricevuto direttamente dal club di Liverpool, lo steward ha cercato di dirmi che il mio biglietto era falso! Lo ha scansionato e mi ha detto che era un falso. Ho reagito dicendogli che non era possibile perché lo avevo ottenuto attraverso il club. Lui mi ha risposto: ‘Oh, sì, ok… e me l’ha restituito. Penso che sia successo a molte altre persone: erano spaventati, non reagivano, lo steward tratteneva il biglietto e lo rivendeva a qualcun altro».

Ci sta dicendo che gli steward hanno rubato i biglietti ad alcuni tifosi del Liverpool?

«Sì. Hanno preso i biglietti della gente dicendo loro che erano falsi quando non lo erano. Penso che sia quello che è successo a Andy Robertson e al suo amico a cui aveva dato un biglietto. Non ho mai sperimentato nulla di simile prima».

Racconta le aggressioni in metropolitana.

«Una persona che conosco, che era con suo figlio quattordicenne, era nella stazione della metropolitana e un uomo si è presentato davanti a lui e ha iniziato a parlargli male. Lo ha spinto via, ma quello ha cercato di schiaffeggiarlo. È riuscito ad evitarlo facendo un passo indietro ma quando gli è passata la sua mano davanti ha visto che aveva la lama di un rasoio conficcata tra le dita! Gli ha mancato la faccia di pochi centimetri». 

Il problema, sabato, non erano i tifosi del Liverpool, come vogliono far credere i francesi, dice, ma una cattiva organizzazione della polizia.

«Sabato sera il problema è stato una cattiva organizzazione della polizia, che non sapeva cosa stava facendo e mancava di agenti sul posto. Nel complesso, l’organizzazione è stata terribile». 

Tornerai allo Stade de France se il Liverpool giocherà di nuovo lì in futuro?

«No. Non tornerò mai più in questo stadio. Mai. Non andrò nemmeno a Parigi con la mia fidanzata dopo quello che ho passato. Al massimo uno o due giorni di permanenza nel centro della città, giusto il tempo di andare a vedere la Torre Eiffel e il Louvre». 

Il governo francese parla dei tifosi inglesi come dei teppisti che vanno a vedere le partite, come reagisci? Come sono rimasti segnati i tifosi dal dramma di Hillsborough?

«È pazzesco perché la gente guarda vecchi film e pensa che il teppismo sia ancora una cosa nel calcio attuale quando non lo è. Nessuno va più a una partita di calcio per combattere, tranne forse nei piccoli campionati. Se ti beccano a combattere in una partita di calcio, prendi una condanna a cinque anni. Queste cose non accadono più in Gran Bretagna. Quando vado ad Anfield o in qualsiasi altro posto, non lo vedo mai. E le dichiarazioni che ho visto negli ultimi giorni in bocca ai politici francesi sono semplicemente disgustose. Quel politico sul palco che dice solo cazzate…. Mentono». 

Continua: «Queste persone stanno coprendo le cose. Pensavo che l’avessimo superato. Ho pensato che dal 2000, con la migliore tecnologia a nostra disposizione, il governo non sarebbe più stato in grado di coprire cose come questa. Ma lo fanno ancora, nonostante tutte le prove che sono uscite, i video, ecc. Alcuni dicono anche che solo i tifosi del Liverpool hanno avuto problemi. Non è vero. Ho visto un sacco di discussioni su Twitter di tifosi fan che dicevano che la loro auto era stata rubata, che erano stati attaccati fuori dallo stadio. Tutto questo mi sta facendo impazzire. Sto pensando di fare un podcast su questa finale, invitando le persone che hanno avuto momenti difficili lì a raccontarli». 

Continua a rimarcare la cattiva organizzazione della partita.

«Mi ci è voluto un tempo pazzesco per arrivare alla zona riservata ai tifosi, perché la polizia non permetteva di attraversare certe strade. Ma quando sei arrivato allo stadio, era solo il caos. Era come se nessuno sapesse cosa stava facendo». 

Hai avuto problemi all’interno della metropolitana dopo la partita?

«Non sono riuscito a prendere la metropolitana. E sono felice di non esserci riuscito. Tutti quelli con cui ho parlato mi hanno detto che c’erano molti borseggiatori, che i loro telefoni erano stati rubati e cose del genere, che le persone venivano attaccate o che gli veniva puntato contro un coltello. Sono felice di averlo evitato. La nostra idea era di partire il prima possibile. Non siamo riusciti a trovare un taxi, così abbiamo camminato per un’ora. Quando ci siamo girati, potevamo ancora vedere lo stadio, era pazzesco, ma abbiamo camminato il più lontano possibile dallo stadio in modo da poter trovare un taxi. Credo di averne trovato uno all’1.30 del mattino. E prima, ci siamo guardati continuamente attorno mentre camminavamo. Avevo il mio orologio addosso e mi tiravo giù le maniche in modo che non fossero visibili perché temevo che mi avrebbero tagliato la mano per prenderlo».

Dice di non aver mai vissuto niente del genere.

«Non posso paragonarla a nessuna partita a cui sia stato in vita mia. Non avevo mai sperimentato qualcosa di simile prima. Anche col Benfica, dove non siamo riusciti ad entrare nello stadio fino a un quarto d’ora dopo il calcio d’inizio e la polizia non era molto accogliente, non è stato così. All’uscita dello stadio del Benfica ci hanno fatti camminare come un gregge di pecore, ma è sempre meglio che essere attaccati da un gran numero di persone». 

Da quello che hai visto, è possibile che ci fossero 30.000 tifosi con biglietti falsi o senza biglietti, come sostiene il governo francese?

«È assolutamente impossibile. Non riesco nemmeno a capire come qualcuno avrebbe potuto avere 40.000 biglietti falsi fatti in tre settimane! Chi fa questi biglietti falsi?». 

Il ministro dello Sport francese ha detto che uno dei problemi è stato conoscere il nome delle due finaliste solo all’inizio di maggio. Che ne pensi?

«Tutto questo non ha nulla a che fare con quello che è successo. Niente. È la vostra organizzazione che ha fatto un casino. E la Francia ospiterà la Coppa del Mondo di rugby il prossimo anno e le Olimpiadi nel 2024? Non possono farcela. O almeno, non organizzate partite in questo stadio! Non potevo credere a quello che stavo vedendo quando sono arrivato. Non mi aspettavo che questo posto assomigliasse a questo». 

Conclude: «Quando sono uscito dallo stadio sabato, era come se fosse appena scoppiata una guerra. Non c’erano più leggi. Era così».

François Fillon condannato al carcere. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.

Quattro anni in appello (uno senza condizionale) all’ex premier francese per gli stipendi fittizi alla moglie. Lui: innocente

Fino al 24 gennaio 2017 François Fillon conduce una vita di successo, oltretutto vicina alla consacrazione definitiva. Sessantadue anni, felicemente sposato alla moglie gallese Penelope Clarke, cinque figli con buoni studi e prospettive, una casa a Parigi e un castello poco lontano da Le Mans, una carriera politica di alto livello in Parlamento e da primo ministro di Sarkozy. E dopo la vittoria alle primarie della destra, Fillon sembra destinato a vincere la corsa all’Eliseo e a diventare presidente della Repubblica.

Ma il 25 gennaio 2017 il foglio satirico Le Canard Enchaîné pubblica un articolo sulla sua assistente parlamentare ombra, la moglie: 500 mila euro di stipendi pagati con il denaro pubblico, senza che lei si sia mai fatta vedere in Parlamento.

È la fine, inattesa e brutale, di un mondo. Spuntano altre malversazioni, Fillon è messo sotto inchiesta, perde le elezioni e ieri — oltre cinque anni dopo quell’articolo — arriva la sentenza di condanna in appello: quattro anni di carcere di cui uno senza condizionale, 375 mila euro di multa, 800 mila euro da rimborsare all’Assemblea nazionale, 10 anni di ineleggibilità. Salvo la decisione contraria della cassazione, all’ex premier toccherà, invece degli sperati cinque anni all’Eliseo, un anno di braccialetto elettronico.

La caduta di Fillon rappresenta una drammatica vicenda personale, e anche un colpo dal quale la destra gollista dei Républicains non si è mai più ripresa, come dimostra il misero 4% raccolto da Valérie Pécresse alle ultime elezioni. Ma le rivelazioni del Canard Enchaîné hanno avuto anche l’effetto collaterale di liberare la strada per Emmanuel Macron, che all’inizio del 2017 era appena all’inizio della sua manovra di avvicinamento all’Eliseo, finendo per conquistarlo due volte.

Anche la moglie Penelope Fillon ieri è stata condannata — due anni con la condizionale, 375 mila euro di multa e due anni di ineleggibilità —, come pure Marc Joulaud, il deputato supplente che a sua volta assunse la moglie di Fillon (tre anni con la condizionale).

Gli imputati non erano presenti alla lettura della sentenza, ma Fillon non ha mai smesso di proclamarsi innocente, e di protestare perché «quarant’anni di impegno politico sono stati cancellati da un articolo di un giornale satirico e da un’inchiesta condotta con l’obiettivo di condannare più che di trovare la verità. Mia moglie ha lavorato al mio fianco, questo è incontestabile». Fillon ha cercato di dimostrare che la moglie fosse un elemento essenziale della sua équipe, la consigliera più ascoltata anche se non frequentava l’Assemblea nazionale. I giudici non si sono lasciati convincere, perché Penelope non era pagata dal marito come consigliera privata, ma dai contribuenti francesi come assistente parlamentare.

In questi anni Fillon si è riciclato nei consigli di amministrazione di alcune società russe, ma dopo l’invasione dell’Ucraina si è dimesso dagli incarichi in Sibur (petrolchimica) e Zarubezhneft (idrocarburi).

Elezioni Francia 2022, la diretta. Rieletto Macron, Draghi: «Splendida notizia». Chiara Severgnini, Greta Sclaunich e Redazione Online su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.

Risultati definitivi: a Macron 18,7 milioni di voti (58,55%). Per Le Pen hanno votato 13,3 milioni di francesi (41,45%). Astensione record: 28,01%, la più alta da 1969

 • Emmanuel Macron è stato rieletto all’Eliseo: le proiezioni (alle 20.45) lo danno al 58,2%; Marine Le Pen si ferma al 41,8%.

• Il presidente uscente era dato per favorito per un secondo mandato, ma mai prima d'ora l'estrema destra era arrivata così vicina ad una possibile elezione all'Eliseo.

• I risultati delle elezioni, in ciascun dipartimento, nella mappa interattiva

Ore 11:15 - Le Pen ha votato nel seggio di Henin-Beaumont

Marine Le Pen, candidata del Rassemblement national alle presidenziali, ha votato nel suo collegio di Henin-Beaumont, nel nord della Francia, intorno alle 11. Lo riferiscono i media francesi.

Ore 12:04 - Affluenza alle urne al 26,4%

Alle 12 l'affluenza alle urne è al 26,41%, più bassa rispetto a quella del ballottaggio del 2017, quando alla stessa ora aveva votato il 28,23% degli aventi diritto. Si tratta di due punti in meno rispetto al ballottaggio 2017 , ma anche di un punto in più rispetto a due settimane fa, in occasione del primo turno delle elezioni, quando era stata del 25,48%.

Ore 13:12 - Bagno di folla per Macron al seggio di Le Touquet

Il presidente francese uscente, Emmanuel Macron, e sua moglie Brigitte hanno votato contemporaneamente nel loro seggio a Le Touquet, nel nord della Francia, nello stesso dipartimento (Pas-de-Calais) dove ha già votato la sua avversaria Marine Le Pen. All'uscita della sua abitazione e all'arrivo al seggio, Macron, accompagnato da Brigitte e circondato da decine di telecamere, si è concesso a centinaia di sostenitori che lo hanno salutato stringendogli la mano, abbracciandolo, baciandolo e scattando selfie accanto a lui.

Ore 14:00 - Le Pen: «Sono serena, ho fiducia nei francesi»

«Sono serena, ho fiducia nel popolo francese» è apparsa serena e sicura di sé Marine Le Pen, candidata del Rassemblement national alle presidenziali, mentre votava nel suo collegio di Henin-Beaumont, nel nord della Francia, dove non si è risparmiata diversi selfie con i suoi sostenitori.

Ore 15:22 - L’importanza del meteo

Chi vincerà le elezioni? La risposta a questa domanda potrebbe essere influenzata dal meteo. I sondaggi sembrano unanimi nell’indicare il netto vantaggio del presidente uscente: è dato tra il 42,5% (Ipsos) e il 47 (Odoxa), passando dal 45 di Ifop e dal 44,5 di Elabe.

L’unico pericolo per Macron è rappresentato dall’astensione. Ed è qui che, come ha spiegato Aldo Cazzullo, il meteo può fare la differenza: «Oggi piove sulle città del Nord-Ovest e del Sud-Ovest serbatoio di Macron: gli anziani di Brest e di Rennes, di Bordeaux e di Tolosa potrebbero essere indotti a restare a casa».

Ore 17:01 - L’affluenza alle 17.00

Alle 17, l’affluenza è del 63,23%, in calo rispetto al primo turno (quando, alla stessa ora, aveva votato il 65% degli elettori): lo comunica il ministero dell’Interno. Nel 2017, alla stessa ora, l’affluenza era stata leggermente più alta, e per la precisione al 65,30%.

Secondo un sondaggio appena stilato da Elabe per BFMTV e L’Express, il secondo turno delle presidenziali francesi potrebbe far registrare un tasso di astensione del 28%: se la previsione si rivelasse giusta, sarebbe il tasso di astensione più alto dal 1969.

Ore 18:03 - Dove festeggeranno Macron e Le Pen, in caso di vittoria

Dove celebrare una — eventuale — vittoria? Ognuno dei candidati al secondo turno se lo è dovuto chiedere per tempo, così da poter programmare al meglio spostamenti e logistica. E così già sappiamo quali saranno le mete scelte da Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il presidente uscente ha programmato di parlare a Parigi ai piedi della Torre Eiffel. Nel 2017 Macron voleva parlare già sotto al monumento simbolo della Ville Lumiere ma alla fine aveva dovuto pronunciare il discorso della vittoria dalla piramide del Louvre, dopo il rifiuto del Comune della capitale di accogliere la sua richiesta. La sua sfidante, invece, ha programmato di raggiungere a Boulogne i tredici autobus della sua campagna per poi convergere con il convoglio a Parigi. «L’idea è che i tredici autobus rappresentino ciascuno una regione francese e che seguano l’auto di Le Pen, secondo un percorso pianificato intorno ai maggiori monumenti parigini e quindi francesi della capitale», ha confermato a Franceinfo un dirigente del Rassemblement national.

 Ore 18:27 - Ambasciata Usa: rischio disordini dopo elezioni

L’ambasciata americana in Francia mette in guardia da eventuali «rischi di terrorismo e di disordini», ma anche di eventuali «manifestazioni violente», a partire dalle 20 di questa sera, una volta reso noto il risultato delle elezioni presidenziali. «Manifestazioni spontanee nelle grandi città francesi dopo le ore 20 potrebbero diventare violente» di legge in una nota. L’ambasciata ha quindi invitato i suoi concittadini a evitare i luoghi delle manifestazioni. Tra quelle segnalate quella a Lione e quella prevista nella piazza della stazione a Strasburgo.

Ore 18:36 - Media belgi: in quattro sondaggi Macron fra 55% e 58%

Il presidente uscente Emmanuel Macron si conferma in testa negli ultimi sondaggi, realizzati dalle principali società di indagine francesi: la forbice del suo vantaggio è compresa fra il 55% e il 58% dei voti. È quanto si legge sulla stampa belga francofona, autorizzata a diffondere sondaggi anche in fase di silenzio elettorale: la sfidante Marine Le Pen raccoglierebbe tra il 42 e il 45% dei voti.

Ore 19:22 - Chiusa maggior parte seggi, restano grandi città

Pochi minuti fa, alle 19, gran parte dei seggi elettorali per le elezioni presidenziali francesi hanno chiuso le porte. Restano ancora aperti fino alle 20 i seggi nelle grandi città come Parigi, Marsiglia, Strasburgo, Bordeaux, Lione e Nizza. Questa mattina hanno aperto tutti alle 8.

Ore 19:39 - Svela risultati territori d’oltremare: gaffe giornalista durante diretta tv francese

Gaffe di un giornalista francese che nel corso di una diretta sul canale all news francese «Lci» ha svelato in anticipo i risultati nei territori di oltremare francesi che, secondo i media belgi, vedrebbero la candidata del Rassemblement National, Marine Le Pen in testa. «Se ci basiamo sui risultati dei Dom - Tom c’è un voto massiccio per Marine Le Pen», ha affermato Szafran prima di essere interrotto dai conduttori del canale francese che hanno cercato di rimediare alla gaffe. Sui social in Francia è già iniziata la polemica.

Ore 19:44 - Ultimi minuti di attesa per i due candidati

La candidata di estrema destra alle elezioni presidenziali francesi, Marine Le Pen, è arrivata al Pavillon di Armenonville, alle porte di Parigi, per seguire i risultati del ballottaggio. Ad attenderla una folla di giornalisti. Intanto, al Campo di Marte — location scelta da Macron per la serata elettorale — sono già arrivati centinaia di sostenitori: sventolando bandiere della Francia e dell’Ue, si sono assiepati davanti al palco allestito in mezzo ai giardini.

Ore 20:00 - Le prime proiezioni: Macron in vantaggio su Le Pen

Secondo le prime proiezioni, diffuse pochi secondi dopo la chiusura dei seggi nelle città principali, Macron si attesta tra il 57,6 e 58,2%; Le Pen non supera il 42.0%. Nel quartier generale del comitato elettorale del presidente uscente si sono già levate grida vittoriose.

Ore 20:14 - Macron rieletto presidente

Il presidente uscente Emmanuel Macron è stato eletto presidente della Francia per il secondo mandato consecutivo. La sua sfidante, Marine Le Pen, ha riconosciuto la sconfitta, rivendicando di aver comunque raggiunto un risultato di rilievo: «Con oltre il 43% dei voti, il risultato è per lui stesso una vittoria eclatante», ha detto. Nel frattempo, arrivano le prime congratulazioni indirizzate al presidente ri-eletto. «Un caloroso ”bravo” caro Emmanuel Macron. In questo periodo tormentato abbiamo bisogno di un’ Europa solida e di una Francia impegnata nella maniera più assoluta per una Ue più sovrana e più strategica. Possiamo contare sulla Francia per altri 5 anni», twitta il presidente del Consiglio Ue Charles Michel.

Ore 20:30 - Le Pen: «Non abbandonerò mai i francesi»

«Un grande vento di libertà avrebbe potuto alzarsi sul Paese. Il destino delle urne ha deciso diversamente». Lo ha dichiarato Marine Le Pen, commentando l’esito del ballottaggio delle presidenziali francesi. A proposito del suo risultato, superiore al 42%, Le Pen ha parlato di «vittoria eclatante». «Lancio stasera la grande battaglia delle legislative», ha poi annunciato rivolgendosi ai suoi sostenitori riuniti nel quartier generale al Bois de Boulogne. Per le legislative di giugno, che devono rinnovare il parlamento, Le Pen ha lanciato «un appello a tutti quelli che vogliono unirsi a noi per opporsi alla politica di Macron». Le Pen ha concluso il suo discorso promettendo: «Non abbandonerò mai i francesi».

Ore 20:41 - Cosa significa la vittoria di Macron

(Aldo Cazzullo) La Francia che ha scelto di nuovo Emmanuel Macron è più divisa che mai. Parigi lo acclama a gran voce. Se il voto fosse dipeso dalla capitale francese, avrebbe ottenuto il 90 per cento dei voti, non il 58. Al contrario, la Francia delle periferie avrebbe portato alla vittoria la sua avversaria Marine Le Pen. Il divario sociale è preoccupante, quello che spetta al presidente è un compito difficile: la questione non è solo francese, la guerra sta esasperando gli animi e l’antieuropeismo dilaga. Leggi qui l’articolo completo.

Ore 20:46 - Draghi: «La vittoria di Macron è una splendida notizia per tutta Europa»

«La vittoria da parte di Emmanuel Macron nelle elezioni presidenziali francesi è una splendida notizia per tutta l’Europa»: sono le parole con cui il presidente del Consiglio Mario Draghi ha commentato la rielezione del presidente francese, assicurando che «Italia e Francia sono impegnate fianco a fianco, insieme a tutti gli altri partner, per la costruzione di un’Unione Europea più forte, più coesa, più giusta, capace di essere protagonista nel superare le grandi sfide dei nostri tempi, a partire dalla guerra in Ucraina». «Al Presidente Macron vanno le più sentite congratulazioni del Governo italiano e mie personali», aggiunge Draghi.

Ore 21:02 - Zemmour: «Costruiamo una coalizione delle destre»

La destra si deve unire in vista delle elezioni legislative del prossimo giugno: è l’appello lanciato da Eric Zemmour, ex polemista e candidato di estrema destra al primo turno delle presidenziali, commentando i risultati del ballottaggio.

«Si stanno costituendo due blocchi», ha detto, «quello di Macron e di Melenchon. Il blocco nazionale si deve riunire. La nostra responsabilità è grande. Mi appello all’unione nazionale in vista delle elezioni legislative: dobbiamo dimenticare i nostri dissidi e unire le nostre forze. Costruiamo al più presto la prima coalizione delle destre e dei patrioti». Un appello evidentemente indirizzato alla “collega” di destra Marine Le Pen, leader del Rassemblement National.

Ore 21:05 - Mélenchon: «Non rassegnatevi, stasera inizia il terzo round»

Anche Jean-Luc Mélenchon lancia la sua campagna per le elezioni legislative, con la sua «nuova Unione Popolare», che «deve allargarsi». «Non rassegnatevi, agite francamente, in modo massiccio. La democrazia può darci i mezzi per cambiare nuovamente rotta, stasera inizia il terzo round», ha detto rivolgendosi ai suoi sostenitori. «Il 12 e 19 giugno, alle elezioni legislative, possiamo battere Macron», assicura: «Un altro mondo è ancora possibile.

Ore 21:23 - Proteste a Parigi, la polizia carica

L’agenzia Reuters riferisce di una protesta in corso nel centro di Parigi, dopo la rielezione di Macron: la polizia, fa sapere l’agenzia di stampa, ha caricato i manifestanti e usato i lacrimogeni.

Ore 21:28 - Conte fa i complimenti a Macron

«Congratulazioni e buon lavoro al Presidente Macron», scrive l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte su Twitter. Solo pochi giorni fa, il leader del M5S aveva titubato nel rispondere alla domanda di Lilli Gruber «Chi sceglierebbe tra Macron e Le Pen se fosse leader di un partito francese?». «Non partecipo alle elezioni francesi… Siamo distanti da Le Pen, ma i temi che pone vanno affrontati», aveva poi detto: una risposta che Gruber aveva subito giudicato «ambigua». Oggi Conte scrive: «Le sfide sono molteplici ed è importante che non abbia vinto una destra di ispirazione xenofoba, che specula sui problemi senza essere capace di offrire soluzioni adeguate». L’articolo completo qui.

Ore 21:36 - Macron è arrivato alla Tour Eiffel per il suo discorso

Macron, appena rieletto presidente della Repubblica francese, è arrivato alla Tour Eiffel dove lo attendono migliaia di suoi sostenitori per celebrare la rielezione. Insieme a lui, i principali consiglieri, la première dame, Brigitte Macron, e alcuni nipoti. Intanto, risuona l’Inno alla gioia di Beethoven, l’inno dell’Europa unita. Qui la diretta.

Ore 21:45 - Il discorso di Macron: dovremo rispondere alla rabbia del Paese

Emmanuel Macron, fresco di rielezione, ringrazia tutti coloro che gli hanno dato fiducia. «Grazie amici: la maggioranza dei francesi ha scelto di darmi fiducia per cinque anni a venire. Dopo 5 anni di trasformazione e di crisi mi avete scelto per altri 5 anni, sarò il presidente di tutti», promette. Macron promette «una nuova era» in Francia che non sarà «il proseguimento dei 5 anni che si chiudono». E poi: «Nessuno sarà lasciato indietro, dovremo rispondere alla rabbia del Paese», aggiunge il presidente rieletto affermando di sperare che si possa «vivere più felici in Francia». Macron ha auspicato anche «l’invenzione collettiva di un nuovo metodo per 5 anni migliori al servizio del nostro Paese, dei nostri giovani».«Viva la Repubblica, viva la Francia», è la sua conclusione. 

Ore 22:38 - Brigitte Macron: «Onore immenso»

Brigitte Trogneux, coniugata Macron, ha assunto da subito un ruolo defilato. Vestito blu, circondata da figli e nipoti, ha accompagnato il presidente rieletto alla festa sotto la Tour Eiffel. Le sue prime parole, dopo la ri-elezione del marito, sono state di ringraziamento: «È un immenso onore, ringrazio tutti i francesi che gli hanno dato fiducia». Eppure, secondo le persone che le sono vicine, la signora Macron non avrebbe voluto un secondo mandato all’Eliseo.

Ore 23:15 - Zelensky: congratulazioni a Macron, andremo verso vittorie comuni

«Congratulazioni a Emmanuel Macron, un vero amico dell’Ucraina, per la sua rielezione. Gli auguro nuovi successi per il bene del suo popolo. Apprezzo il suo sostegno e sono convinto che avanzeremo insieme verso nuove vittorie comuni. Verso un’Europa forte e unita». Ad affermarlo in un tweet è il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky commentando l’esito delle elezioni in Francia e la rielezione di Macron.

Ore 00.46 - 97% schede scrutinate: Macron 57,41%, Le Pen 42,59%

Con il 97% delle schede scrutinate a livello nazionale, rende noto il ministero dell’Interno francese, il presidente Emmanuel Macron ottiene il 57,41% dei consensi nel ballottaggio per le presidenziali, mentre la sua avversaria Marine Le Pen si ferma al 42,59%. L’astensione è pari al 27,63%.

Ore 01.07 - Parigi, polizia spara contro auto: due morti

La polizia ha sparato ieri sera nel centro di Parigi contro un veicolo che ha cercato di colpirli, uccidendone due occupanti e ferendone un terzo. Lo rende noto una fonte di sicurezza. I fatti sono avvenuti sul Pont-Neuf, nel centro della capitale francese. Secondo quanto ha riferito la polizia all’Afp, il veicolo avrebbe accelerato verso gli agenti che sono stati costretti ad aprire il fuoco.

Ore 01.25 - Blinken si congratula con Macron: continuare stretta cooperazione

Il segretario di Stato americano Antony Blinken si è congratulato con il presidente francese Emmanuel Macron per la sua rielezione. «Non vediamo l’ora di continuare la stretta cooperazione con la Francia sulle sfide globali a sostegno della nostra lunga e duratura Alleanza e amicizia», ha aggiunto Blinken in un post sul suo account Twitter.

Ore 01.35 - Macron rieletto, tafferugli a Parigi e altre città

Alcune centinaia di manifestanti, soprattutto giovani dei gruppi `antifas´ hanno dato vita a cortei a Parigi e in altre città francesi per protestare contro la rielezione del presidente Macron. Subito dopo l’annuncio della vittoria, nel centro di Parigi - il quartiere di Les Halles - fra i 250 e i 300 manifestanti antifas hanno sfilato al grido di «Macron vattene», scontrandosi con la polizia. Il corteo è arrivato fino a place de la Republique. Sul percorso, lanciati oggetti e pietre contro gli agenti, rovesciati cassonetti e motorini parcheggiati. Violenze a Rennes, nel nord-ovest, dove 250 persone si sono riunite nel centro dietro a uno striscione con la scritta «Quello che non avremo dalle urne, lo avremo dalla piazza». Sette manifestanti sono stati fermati. Incidenti anche nel centro di Nantes, durante un corteo di protesta di 400-500 persone, così come a Tolosa, al grido di «Né Macron, né Le Pen, rivoluzione». In 200 hanno sfilato a Caen, un centinaio a Strasburgo, senza incidenti.

Ore 01.48 - Francia, risultati definitivi: Macron vince col 58,55% à

Terminato lo spoglio dei voti, il ministero dell’Interno francese ha diffuso i risultati definitivi del secondo turno delle presidenziali. Il presidente uscente Emmanuel Macron ha ottenuto 18,7 milioni di voti, il 58,55% di quelli espressi. Per la sfidante Marine Le Pen hanno votato 13,3 milioni di francesi, una percentuale del 41,45% dei voti. L’astensione ha fatto segnare il livello più alto per un ballottaggio dal 1969, con il 28,01%.

Ore 2.18 - Biden: «Con Macron cooperazione per difesa democrazia»

«Congratulazioni a Emmanuel Macron per la sua rielezione. La Francia è il nostro più vecchio alleato e un partner chiave nell’affrontare le sfide globali. Non vedo l’ora di continuare la nostra stretta cooperazione - anche per sostenere l’Ucraina, difendere la democrazia e contrastare il cambiamento climatico». Lo scrive su Twitter il presidente degli Stati, Joe Biden, commentando la rielezione del presidente francese.

(ANSA il 25 aprile 2022) - Terminato lo spoglio dei voti, il ministero dell'Interno francese ha diffuso i risultati definitivi del secondo turno delle presidenziali. 

Il presidente uscente Emmanuel Macron ha ottenuto 18,7 milioni di voti, il 58,55% di quelli espressi. Per la sfidante Marine Le Pen hanno votato 13,3 milioni di francesi, una percentuale del 41,45% dei voti. L'astensione ha fatto segnare il livello più alto per un ballottaggio dal 1969, con il 28,01%.

(ANSA il 25 aprile 2022) - Alcune centinaia di manifestanti, soprattutto giovani dei gruppi 'antifas' hanno dato vita a cortei a Parigi e in altre città francesi per protestare contro la rielezione del presidente Emmanuel Macron. 

Subito dopo l'annuncio della vittoria di Macron, nel centro di Parigi - il quartiere di Les Halles - fra i 250 e i 300 manifestanti antifas hanno sfilato al grido di "Macron vattene", scontrandosi con la polizia. Fra gli slogan, "Marine Le Pen fa schifo" e "Manu Macron, fa schifo". 

Il corteo è arrivato fino a place de la République. Sul percorso, lanciati oggetti e pietre contro la polizia, rovesciati cassonetti e motorini parcheggiati. Violenze a Rennes, nel nord-ovest, dove 250 persone si sono riunite nel centro dietro a uno striscione con la scritta "Quello che non avremo dalle urne, lo avremo dalla piazza".

Fra gli slogan, "Macron ci fa la guerra con la sua polizia" e "Abbasso lo stato, i poliziotti e i fascisti". Incendiati cassonetti con intervento a più riprese dei pompieri. Sette manifestanti sono stati fermati. Incidenti anche nel centro di Nantes, durante un corteo di protesta di 400-500 persone, così come a Tolosa, al grido di "Né Macron, né Le Pen, rivoluzione". In 200 hanno sfilato a Caen, un centinaio a Strasburgo, senza incidenti.

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2022.  

Prima l'inno europeo, poi la Marsigliese cantata da una mezzo soprano egiziana.

Emmanuel Macron esulta sullo sfondo della Tour Eiffel. Ma l'europeismo ha vinto un

a battaglia, non la guerra. Marine Le Pen è sconfitta; il populismo e il sovranismo, no. 

Più che una festa di popolo, questo ai Campi di Marte è un set per i media. Più che un boato, è un frastuono di fotografi e cameramen ad accogliere la notizia che corre sul maxischermo: Macron rivince con il 58,5%; altri cinque anni all'Eliseo, e poi il sogno di diventare il primo presidente eletto degli Stati Uniti d'Europa.

Miracolo e delusione

Il pubblico intona una Marsigliese fiacca, presto sovrastata dalla musica techno del dj. Ad attendere Macron sotto il palco ci sono più giornalisti che militanti con bandierine tricolori: mai visti tanti reporter tutti insieme, neppure da Trump nel 2016; code infinite per entrare nel parco, con i cani campioni di caccia all'esplosivo ad annusare gli zaini («portatevi il cibo da casa, non è previsto buffet» avvisava prudentemente lo staff dell'Eliseo).

Nel Paese, l'entusiasmo è tale che l'ambasciata americana avvisa su Twitter del pericolo di moti spontanei di protesta; non è difficile prevederne nei prossimi mesi, soprattutto se Macron tenterà di realizzare la riforma delle pensioni. Il 58,5% è meglio dei sondaggi della vigilia; ma è peggio di cinque anni fa. 

Non è una vittoria di conquista, ma di risulta. Un mezzo miracolo, in tempo di rivolta contro l'establishment; una mezza delusione, con la destra populista al massimo storico. Macron lo sa: «Molti mi hanno votato non per sostenere le mie idee, ma per opporsi all'estrema destra. Vorrei dire loro che apprezzo questo senso del dovere, l'attaccamento alla Repubblica, il rispetto delle differenze».

I Campi di Marte erano il luogo delle ultime passeggiate di Mitterrand, come da titolo di un film struggente; ma appartengono allo scenario monumentale e destrorso di Parigi, a un passo dalla tomba di Napoleone. Nel 2007 Nicolas Sarkozy cantò - malissimo - la Marsigliese con Mireille Mathieu in Place de la Concorde, prima di infilarsi nello sventurato party al Fouquet' s, locale vip poi devastato dai Gilet gialli. 

Nel 2012, François Hollande fu conteso sul palco della Bastiglia tra la madre dei suoi quattro figli, Ségolene Royal, che lo baciò sulla guancia, e dalla compagna di allora Valérie Trierweiler («baciami sulla bocca!»). Cinque anni fa, Macron scelse uno scenario neutro e centrale: il Louvre, culla della cultura. Stavolta arriva a piedi sotto la Tour Eiffel, mano nella mano con la moglie Brigitte, che ha compiuto 69 anni in campagna elettorale.

Fa suonare ancora una volta l'inno europeo. E parla senza iattanza, cercando la solennità ma anche un tono preoccupato per il disagio sociale, attento ai francesi che non si sono riconosciuti in lui. «I prossimi cinque anni non saranno una continuazione dei precedenti. Si apre un'era nuova. Dobbiamo liberare le forze creatrici, culturali, imprenditoriali.

Dobbiamo promuovere l'invenzione collettiva di un metodo rifondato, al servizio dei giovani, del Paese». È una serata di sollievo, più che di gioia. Ha il sapore dell'impresa il fatto che a conquistare per la seconda volta l'Eliseo sia un europeista laureato all'Ena, la grande scuola dell'amministrazione francese, formatosi alla banca Rothschild, benedetto dall'establishment parigino, appoggiato dai media, non ostile agli immigrati: tutte le cose - l'Europa, l'Ena, le banche, l'establishment, Parigi, i media, gli immigrati - che la Francia profonda detesta di più. 

E in effetti, se avesse votato soltanto la capitale, Macron sarebbe quasi al 90%; ma se avessero votato soltanto il Nord de-industrializzato o il Sud terra d'approdo per l'immigrazione, avrebbe vinto Marine Le Pen. È questa la mezza delusione per il presidente che si riproponeva di ridurre la frattura sociale, riunire i francesi, ridimensionare l'ondata populista. 

Così Macron saluta anche chi ha votato la rivale, e ferma i buu che arrivano subito dalla platea: «Vi ho sempre chiesto di non fischiare. Mai. Non sono più il candidato di uno schieramento, sono il presidente di tutte e di tutti. Alla collera e al disaccordo darò una risposta». In termini assoluti, gli mancano tre milioni di voti rispetto al 2017.

L'astensione arriva al 28%; ma poteva andare peggio. Sceneggiata fuori dal seggio di Jean Lassalle, candidato situazionista che al primo turno ha superato il milione di voti, celebre per le sue improvvisate (da ragazzo si imbucò nel coro dell'Armata Rossa per cantare davanti al leader dell'Unione Sovietica Leonid Brenev); stavolta ha ritirato la scheda, l'ha lasciata bianca e l'ha mostrata alle telecamere.

Le schede bianche e nulle alla fine saranno più di due milioni e mezzo. Il presidente ha una parola anche per chi non ha scelto: «So che dovrò rendere conto di ciò che farò anche a voi. Nessuno sarà lasciato indietro. Mi impegnerò sull'ecologia, sul lavoro, sulla parità tra uomo e donna».

La citazione

L'altra volta, Macron chiuse la campagna elettorale con una bellissima citazione dei Miserabili di Victor Hugo: «Tentare, osare, insistere, perseverare, essere fedeli a se stessi, affrontare il destino corpo a corpo, tener duro, tener testa; ecco l'esempio di cui i popoli hanno bisogno, ecco la luce che li elettrizza» (prudentemente omesso il seguito: «La stessa luce formidabile va dalla torcia di Prometeo alla pipa di Cambronne», quello della parolaccia a Waterloo).

Stavolta lo dice con parole sue: «Viviamo tempi tragici. La guerra in Ucraina è lì a ricordarcelo. Al di là dei dubbi e delle divisioni, dovremo essere forti. Ognuno di noi avrà una responsabilità, ognuno di noi conta più di se stesso, perché tutti insieme siamo un unico popolo. E io sono così fiero di tornare a servire il popolo francese». Ricorre più volte la parola Europa, «la nostra Europa». Con lui ha vinto la Francia che crede nella costruzione europea, che trae profitto dalla globalizzazione e pure dall'immigrazione. 

Con il presidente uscente era schierato l'intero apparato produttivo, dai missili ai macaron, da Le Figaro , controllato dai Dassault (armi), a Françoise Holder, proprietaria delle pasticcerie Ladurée. 

Ma contro di lui si è espressa la Francia che dall'Europa si sente sopraffatta, dalla globalizzazione tradita, dall'immigrazione assediata. 

La sfida delle politiche

La battaglia non finisce qui, prosegue con la scelta del primo ministro - probabilmente una donna, difficilmente Christine Lagarde, che serve alla Bce - e con le legislative di giugno. Il presidente faticherà ad avere una maggioranza all'Assemblea nazionale, forse cercherà un accordo con quel che rimane della destra repubblicana. 

Si giocherà con altre regole: va al secondo turno chi supera il 12,5% degli iscritti: in molti collegi ci saranno al ballottaggio tre o quattro candidati - il mélanchonista, il macronista, il repubblicano, il lepenista - e si vincerà per un pugno di voti. Ieri i mélenchonisti in maggioranza hanno sostenuto Macron, almeno nelle grandi città; meno in provincia e in banlieue. Saint-Denis, feudo del tribuno rosso, è il dipartimento che ha votato meno.

I territori d'oltremare, retaggio dell'impero, hanno scelto in massa Marine Le Pen. Cinque anni fa, la Francia ha fatto una scommessa coraggiosa su un trentanovenne di bell'aspetto, che entrò all'Eliseo senza mai essere stato eletto neppure in consiglio comunale. 

Ieri la seconda potenza europea ha ridato fiducia a un presidente che ha saputo andare contro lo spirito del tempo - il pessimismo, il populismo - contro il vento della storia che dopo la Brexit e Donald Trump pareva spirare in tutt' altra direzione. La pandemia prima, la guerra poi hanno suonato un richiamo all'ordine. Eppure la Francia ha davanti cinque anni duri; e l'Europa pure. Chiusura con Marsigliese affidata alla cantante lirica egiziana Farrah El Dibany. Macron ha accennato a seguirla a mezza voce, poi si è vergognato.

Giovanni Diamanti per “il Messaggero” il 26 aprile 2022.  

Dal voto francese emergono diverse indicazioni interessanti, utili a spiegare la vittoria oltre le previsioni di Emmanuel Macron, Manu per molti suoi sostenitori. Anzitutto, la chiave del suo successo va trovata nel voto al secondo turno degli elettori di Mélénchon, il vero target per entrambi gli entourage nelle ultime settimane di campagna. 

Alla fine hanno preferito confermare il Presidente piuttosto che dare fiducia alla leader del Rassemblement con un margine importante: secondo Ifop, il 42% ha scelto Macron, mentre il 45% è rimasto a casa. Gli elettori di sinistra, quindi, hanno seguito le indicazioni del proprio leader, che aveva chiesto che nemmeno un voto della France Insoumise andasse a Le Pen.

A premiare il presidente sono anche le grandi città: a Parigi arriva all'85%, supera il 75% a Lione e Lille, ma tocca il 60% anche a Marsiglia. È la riproposizione della frattura tra città e campagna: la Francia urbana sceglie Macron con margini enormi, mentre la Francia rurale rimane fedele a Marine Le Pen, che cresce nel Sud-Ovest del Paese e rimane forte nel Nord-Est.

È interessante notare come, nelle città, la vittoria di Macron non avvenga solo nei centri storici, ma si estenda anche in tutte le periferie e le banlieues, dove Mélénchon ha mostrato due settimane fa un importante radicamento. Se al primo turno il presidente era stato spinto soprattutto da anziani, pensionati e cittadini ad alto reddito, al ballottaggio la sua base sociale si evolve, senza modificarsi radicalmente. 

I dati di BVA mostrano infatti un Macron che vince in tutte le classi d'età, ma se tra i cinquantenni e nella fascia 25-34 assistiamo a un testa a testa, la sfida tra gli over-70 ha un esito molto più netto, con il presidente al 74% dei consensi. 

Le Pen è spinta da impiegati e operai, con il 57% dei voti dei primi e il 58% tra i secondi, e ottiene percentuali bulgare tra i simpatizzanti dei gilet gialli, il movimento di protesta contro il costo della vita e l'aumento dei prezzi nato nel 2018 proprio in antitesi a Macron. È la Francia a basso reddito, più popolare e fuori dalle città quella che sceglie la destra di Le Pen, che perde nettamente ma parla di vittoria, rivendicando gli otto punti in più ottenuti rispetto al ballottaggio di 5 anni fa, una crescita di quasi tre milioni di voti. Il distacco è ancora troppo grande per festeggiare davvero, ma racconta una sfida sicuramente più equilibrata e tesa tra due visioni opposte della Francia.

La crescita di Le Pen, tra l'altro, avviene tra i cittadini di tutte le confessioni religiose: per l'istituto Ifop all'interno dell'elettorato cattolico conquista il 45% dei voti, sette punti in più rispetto al 2017, e pur rimanendo fortemente minoritaria tra gli elettori delle altre confessioni, supera il dato di cinque anni fa sia tra i protestanti (35% contro il 33% del 2017) sia tra i musulmani, dove ottiene un 15% a fronte del precedente 8%.

Quadri dirigenziali, cittadini ad alto reddito, minoranze e residenti nelle città da un lato; operai, impiegati, lavoratori a basso reddito ed elettori rurali dall'altro. La Francia sceglie ancora nettamente Macron ma mostra una frattura sociale evidente: il compito del Presidente, ora, sarà quello di lavorare per sanarla.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 26 aprile 2022.  

«È l'ottava volta che il cognome Le Pen subisce una sconfitta». Il messaggio forse più potente del secondo turno delle elezioni presidenziali francesi lo ha lanciato domenica sera Éric Zemmour dopo la chiusura delle urne, quando ancora una volta Marine Le Pen, leader del Rassemblement national (Rn), ha dovuto commentare una sconfitta, l'ennesima della sua carriera, dopo quelle raccolte dal padre.

Certo, non si tratta di una sconfitta come le altre, anzi: da quando è diventata presidente del principale partito sovranista francese ha allargato incessantemente il suo bacino di voti, trasformando una forza politica di protesta in una formazione "presidenziabile". 

Nel 2012, anno della sua prima candidatura alle presidenziali con i colori del Front national, Marine raccolse 6,4 milioni di voti, ma si fermò al primo turno; cinque anni fa, è andata al ballottaggio, e il totale delle preferenze è stato di 10,6 milioni; allo scrutinio di domenica, gli elettori che hanno preferito lei al suo rivale, Emmanuel Macron, sono stati 13,2 milioni, ben 2,8 milioni in più rispetto al 2017. Ma l'impressione è che sia stato raggiunto l'apice, che più di così la madrina del sovranismo francese non possa fare.

«La sconfitta di Marine Le Pen era prevedibile da anni», ha sentenziato Zemmour, che ha sempre messo in dubbio la capacità della leader Rn di unire le destre, anche per via di quel cognome ingombrante. Ieri pomeriggio, tuttavia, l'ex giornalista del Figaro ha provato a lanciare un messaggio di apertura a Le Pen in vista del cosiddetto "terzo turno" delle presidenziali, ossia le elezioni legislative per il rinnovo dell'Assemblea nazionale che si terranno i prossimi 12 e 19 giugno.

«Marine Le Pen, accettando la mano che le porgo, avrà l'occasione di porre fine al cordone sanitario che sterilizza le possibilità del campo della nazione da quarant' anni a questa parte. Colga l'occasione, non per noi, ma per la Francia. Facciamolo. Assieme», ha twittato il presidente di Reconquête!, che al primo turno ha raccolto il 7,1% dei suffragi. Sul suo account, un tweet esorta alla creazione di un'«Unione nazionale in vista delle legislative». «Dobbiamo dimenticare i nostri dissidi e unire le nostre forze. È possibile. È indispensabile. È il nostro dovere», si legge.

Sempre su Twitter, si è espressa anche la vicepresidente di Reconquête!, Marion Maréchal, la nipotina Le Pen passata tra le braccia della concorrenza, che ora, però, vuole ricucire i rapporti per il bene della Francia. «Senza coalizione, Macron avrà i pieni poteri e Mélenchon disporrà del primo gruppo di opposizione; con una coalizione, possiamo rendere il campo sovranista la prima forza dell'Assemblea nazionale! 

Chiediamo dunque un incontro con i responsabili di Rn», ha scritto l'ex deputata frontista. Jordan Bardella, delfino di Marine Le Pen e presidente ad interim di Rn, ha chiuso per ora la porta a qualsiasi alleanza con la formazione di Zemmour, ma nei prossimi giorni le cose potrebbero cambiare, visto che l'alternativa è facilitare la costruzione di una maggioranza allargata macronista e offrire un boulevard alla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, presidente della France insoumise (Lfi).

Quest' ultimo, forte dei suoi 7 milioni di voti al primo turno, punta a essere il rassembleur delle sinistre francesi, socialista, ecologista e comunista, e a "imporre" a Macron la sua nomina a primo ministro. «Non rassegnatevi. Il terzo turno comincia questa sera. Il 12 e il 19 giugno un altro mondo è ancora possibile se eleggerete una maggioranza formata dai deputati della nuova Unione popolare (il nome scelto da Lfi per la campagna delle presidenziali, ndr), che deve ampliarsi», ha dichiarato domenica sera rivolgendosi agli elettori del suo schieramento.

Le Monde, ieri, ha parlato di una «vittoria senza trionfo» per Macron e del rischio di un «terzo turno sociale», oltre a quello politico, con l'estrema sinistra nelle piazze contro il progetto di riforma delle pensioni (aumento dell'età pensionabile da 62, a 65 anni), e un ritorno dei gilet gialli. La Francia uscita domenica dalle urne è un Paese diviso, frammentato e soprattutto arrabbiato.

Da una parte una Francia metropolitana, borghese, che beneficia dei vantaggi della globalizzazione e che ha votato in massa Macron, dall'altra una Francia periferica, profonda, vittima della deindustrializzazione e dell'indebolimento del potere d'acquisto, inquieta per la propria identità e per il proprio futuro. Il più grande fallimento del primo quinquennio è stata la mancata riconciliazione di queste due France. Senza un radicale cambiamento di paradigma, le conseguenze, nei prossimi cinque anni, potrebbero essere drammatiche.

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 26 aprile 2022.

Dal dodicesimo piano della sua casa di Montparnasse, e più ancora dall'alto dei suoi 97 anni ad agosto, si può spaziare per tutta Parigi - le chiese, la storia - e avere la sensazione che il mondo possa ancora essere studiato, pensato, forse capito. 

Professor Alain Touraine, la vittoria di Macron è stata netta? O di risulta?

«Vittoria netta. Quasi venti punti: di cosa stiamo parlando? Un europeista che vince due volte in Francia al tempo di Brexit, Trump e della rivolta contro la globalizzazione è una pagina di storia politica». 

Però l'estrema destra è al massimo storico.

«Certo. In Francia esiste un forte sentimento antieuropeo. Come esiste la xenofobia.

Marine Le Pen ha fatto una campagna sociale di sinistra, su lavoro e salari. Ma i francesi non sono idioti: sanno che il fondo del suo pensiero resta xenofobo. E anche antisemita.

Di estrema destra, appunto». 

I partiti tradizionali sono stati travolti.

«All'apparenza, è impressionante: la candidata socialista Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, non arriva all'1,8%... In realtà, è del tutto normale». 

Perché?

«Perché quando cambia il tipo di società, cambiano gli attori politici. Nel 1848 fecero irruzione nella storia gli operai: i moti di Parigi deposero l'ultimo re, Luigi Filippo. Cominciava la lotta di classe con i padroni, la storia del socialismo e della destra borghese. Ora quel mondo è finito». 

Ma resta la frattura tra chi sta sopra e chi sotto, chi vive in città e chi in provincia, chi vota Macron e chi Le Pen.

«Vede, la Francia fu uno Stato prima di essere una società; e questo è un problema che non abbiamo ancora risolto. La Francia nasce dall'alleanza tra il re e la borghesia contro gli aristocratici: Il Re Sole e il gran borghese Colbert contro la Fronda. Ma ancora oggi l'alta amministrazione - il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, le grandi scuole della capitale, insomma il mondo da cui viene Macron - è considerato dai francesi come la corte del re; quindi nemica del popolo». 

Emmanuel Carrère ha detto al «Corriere» che, a differenza dei socialisti, la destra repubblicana esiste ancora; perché la destra repubblicana è Macron.

«La vera domanda dovrebbe essere: chi è Macron?». 

Appunto: chi è? Lei ha scritto un libro su di lui. Ce lo dica.

«Macron non viene da destra. Il suo maestro è stato Paul Ricoeur, il più importante filosofo della propria generazione, cresciuto in contatto con i grandi che avevano pochi anni più di lui: Jean-Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty, Simone de Beauvoir. Anche gli uomini che hanno inventato Macron sono di sinistra».

In che senso inventato?

«Macron ha fatto studi umanisti, letterari. Poi gli è stato spiegato che per fare politica occorreva denaro; per questo è entrato nella banca Rotschild. Prima ha distrutto il partito socialista, con un colpo di Stato non tanto contro il presidente Hollande quanto contro la sinistra interna. Poi dall'Eliseo ha distrutto il partito neogollista. Macron è un grande tattico. Ma quale sia il suo progetto politico, oltre a distruggere, non è chiaro». 

L'Europa, no?

«Certo: gli Stati Uniti d'Europa, o almeno un nocciolo duro che comprenda Germania, Italia, Spagna. E l'Olanda, grande potenza finanziaria. Il momento è propizio perché la Germania non è troppo forte: la Merkel è uscita di scena, il suo bilancio è in discussione; e quando la parola tocca alle armi, come in Ucraina, la Germania è ancora debole». 

La guerra ha influito sulle elezioni?

«Avrebbe potuto: Marine Le Pen è un'amica di Putin, ha preso soldi dalla Russia. Putin se l'è comprata».

Come mai allora i francesi le hanno dato oltre 13 milioni di voti?

«Perché rivendicano di poter scegliere il proprio presidente. Pensi del resto a quanti politici europei si sono comprati gli americani L'elezione non è stata decisa dalla guerra, ma dalla pandemia». 

Perché?

«Nel 2021 stavo scrivendo un capitolo di un libro molto critico verso Macron, e mi sono fermato: pensavo ci fosse davvero il pericolo di una vittoria dell'estrema destra. Poi però il presidente ha fatto la mossa giusta. Ha rifiutato un secondo lockdown. Non ha dato retta alla comunità medico-scientifica, che chiedeva nuove restrizioni. Ha liberato i francesi. È stato allora che ha vinto le elezioni. Il resto l'ha fatto Marine Le Pen, che si è mostrata non all'altezza, non abbastanza colta».

La cultura è così importante?

«Non siamo mai stati una grande potenza industriale. Il nostro impero faceva ridere rispetto a quello inglese. Il nostro esercito da tempo non è più così potente. Il potere culturale, la lingua, la letteratura è l'unico motivo per cui la Francia resta un Paese importante nel mondo». 

Però gli studenti della Sorbona scrivevano «né con Macron né con Le Pen».

«La Sorbona è da sempre una pessima università. Era buona nel XIII secolo, forse nel XIV. L'ultimo studente che ha imparato qualcosa alla Sorbona è stato Dante. Eppure è proprio nelle università che Macron può lasciare un segno di sé nella storia di Francia». 

Perché?

«Ogni secolo ha la sua istituzione necessaria. L'Ottocento ha avuto le grandi banche commerciali: in Italia sono nate a Milano, che per questo è tuttora la capitale economica. Il Novecento ha avuto la grande industria. Questo è il secolo delle "research university". Macron dovrebbe dare alla Francia grandi università di ricerca. Per realizzare il progetto del mio compagno all'École Normale, Michel Foucault». 

Andava all'università con Foucault?

«Entrò un anno dopo di me. Diceva che l'università deve essere il luogo in cui si trasforma un giovane in un soggetto umano; vale a dire un dio».

Il mondo della scuola non ama Macron.

«Lo detesta. In particolare gli studenti della materie umanistiche. E i professori delle materie scientifiche: pagati troppo poco rispetto ai compagni di corso assunti dalle imprese private. Tutti costoro hanno votato Mélenchon. Come dice il giovane Piketty». 

Piketty ha 52 anni.

«Appunto: giovanissimo. Piketty fa notare che la forza motrice della sinistra un tempo erano i militanti, gli operai; oggi è la gente dell'università». 

La Francia è sull'orlo di una nuova rivolta sociale?

«Il pericolo c'è, e Macron farebbe bene a negoziare la sua riforma delle pensioni, anziché imporla. Ma il motivo per cui da vent' anni esplodono le rivolte e si combattono le guerre non sono le pensioni, né l'economia». 

Qual è allora?

«La religione. E religione, in uno Stato laico come la Francia, vuol dire Islam. Ricordo che con mia sorella più grande, Jeanne». 

Quanti anni ha sua sorella?

«Cento. Andammo a vedere i leader mondiali venuti a sostenere la Francia dopo il Bataclan. Abbiamo avuto stragi terribili, da Charlie Hebdo al 14 luglio a Nizza. Eppure il Paese ha tenuto». 

Nel dibattito con Marine Le Pen, Macron ha parlato di rischio di guerra civile.

«La guerra con l'Islam dura dai tempi delle crociate. Perché non possono intendersi i fedeli di una religione come il cristianesimo - per cui l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, e Dio si è fatto uomo - e l'Islam, per cui Dio è tutto e l'uomo è nulla». 

Grazie professore, io e i lettori del «Corriere» la ascolteremmo ancora; ma il pomeriggio è finito, la pagina pure.

«Grazie a voi per avermi ascoltato parlare sulla società francese. Che, come spero abbiate capito, non esiste».

Macron, cosa non ci dicono i giornali italiani. Il risultato elettorale, i precedenti all’Eliseo e gli scambi economici con l’Italia. Antonio De Filippi su Nicolaporro.it il 27 Aprile 2022.

Caro Nicola, avevo concluso il mio precedente articolo con una opinione che oggi è un fatto : “Macron sarà eletto per un secondo mandato! l’Europa sarà salva e i francesi continueranno a chiedersi perché Macron sia il Presidente”.

Prevedere che fosse eletto era facile per chiunque conoscesse il sistema elettorale della V° repubblica; che l’UE ne avrebbe beneficiato era ovvio, visto che avere un Presidente che si è fatto prestare del denaro da una banca russa senza che questa lo chiedesse indietro alla scadenza sarebbe stato piuttosto pericoloso; l’insoddisfazione per Macron Presidente è la stessa frustrazione che generazioni di francesi vivono, grazie all’inutile presenza della famiglia Le Pen che li obbliga a votare troppo spesso turandosi il naso. Non vorrei essere frainteso non sono contrario a che i Le Pen si candidino, sono avvilito dal vedere come i francesi cadano sempre nella stessa trappola privandosi del diritto di scegliere.

Macron e i suoi predecessori

Per inciso la V° repubblica ha avuto 8 Presidenti, 4 sono riusciti ad essere eletti per la seconda volta e, se escludiamo il Generale de Gaulle personalità a parte nel pantheon francese, oltre a Macron gli eletti al secondo mandato sono stati Mitterand e Chirac (segnalo che entrambi nel corso del primo mandato hanno perso le legislative costringendoli alla coabitazione, Mitterand anche nel secondo). Macron è il solo ad aver governato con la sua maggioranza per tutto il suo primo mandato e se dovesse riuscire a confermare la maggioranza alle prossime elezioni, i suoi due mandati sarebbero un capolavoro di successo e stabilità (i super esperti mi obietteranno la differenza tra il mandato di 7 anni e l’attuale di 5, la realtà è quella che ho scritto).

La verità sulle elezioni francesi

Macron ha vinto e in Francia chi vince prende tutto perciò l’abitudine, molto italiana, di applicare criteri proporzionalisti al risultato elettorale è un esercizio del tutto superfluo. I voti in Francia sono decisivi molto più di quanto non avvenga in Italia, 5 minuti dopo la chiusura delle urne sapevamo che Macron sarebbe stato il nuovo Presidente, in Italia sono passati 3 anni dalle elezioni e ancora non si capisce una fava su chi le abbia vinte.

Questa abitudine all’analisi proporzionalista è evidente sui giornali italiani, dove sembra quasi che Macron abbia perso, che la sua sarà un’elezione dimezzata, che abbia contro la maggioranza dei Francesi, che abbia vinto solo nella ridotta parigina. Caro Nicola sono tutte cazzate! Nel tuo editoriale hai commentato i risultati elettorali e analizzato le relazioni economiche italo-francesi, forse mancava qualche numero:

I risultati politici in Francia

Nantes: M 80% LP 19%, Lille: M 77% LP 23%, Nizza: M 55% LP 45%, Lione: M 80% LP 20%, Marsiglia: M 60% LP 40% e ancora Macron a Montpellier 72%, Tolosa 77%, Strasburgo 78%, Bordeaux 80%. Come vedi la Francia, e non Parigi, è con Macron. Hai giustamente osservato che Le Pen è aumentata di 3 milioni di voti ed ha raggiunto percentuali mai viste nelle zone rurali. E chissenefrega: gli strateghi della compagna di Macron hanno realizzato una strategia perfetta concentrando gli sforzi del Presidente uscente (per inciso impegnato da una pandemia, una guerra e Presidente di turno della UE) sui grandi centri abitati, rivolti al solo obiettivo della rielezione, obiettivo ampiamente centrato senza quasi campagna al primo turno e poca, molto mirata, al secondo.

L’interscambio economico

Secondo il Ministero degli esteri italiano e l’Ambasciata francese in Italia, i due Paesi rappresentano reciprocamente il secondo partner commerciale, con un avanzo strutturale a beneficio dell’Italia di 13,54 miliardi di euro nel 2020. Nel primo semestre del 2021 l’interscambio, quasi 42 miliardi di euro, é tornato a livelli pre-Covid con un saldo positivo per l’Italia di 3,5 miliardi di euro.

Complessivamente, sono più di 1.700 le imprese italiane presenti in Francia e circa 2.000 le imprese sotto controllo francese in Italia per un totale di circa 4mila imprese “bi-nazionali” (e oltre 100 miliardi di euro di investimenti incrociati).

Forse non lo sapete ma la Francia è il primo fornitore di energia elettrica in Italia (14,5 TWh, il 38% delle importazioni italiane), ed è il primo investitore, con uno stock di 66,6 miliardi di euro nel 2020, nonché il primo datore di lavoro estero in Italia, con 280.000 posti di lavoro. A proposito dello shopping le aziende italiane tra il 2007 e il 2020 hanno fatto acquisizioni in Francia per un valore pari a 47,3 miliardi di euro, e più di 2.000 filiali italiane si sono stabilite in Francia con un totale di oltre 80.000 posti di lavoro. Sicuramente nello stesso periodo molti imprenditori italiani hanno deciso di vendere ai francesi. Io sinceramente ne sono felice vuol dire che li hanno ben pagati e che l’Italia è ancora un paese dove gli imprenditori sono liberi di fare i propri interessi con quello che gli appartiene (spero tu sia ancora d’accordo su questo).

Insomma Macron ha vinto una prima volta e governato sufficientemente bene da vincere nuovamente e se vincerà le prossime politiche sarà un capolavoro.

Prevedo che per vincere comincerà con un totale rinnovamento al Governo (in sei giorni e non sei mesi), mentre le parole elettorali saranno: giovani, ecologia, Europa e potere d’acquisto. Intanto già oggi i suoi strateghi elettorali stanno preparando una serie di accordi locali, con i residui dei Repubblicani e dei Socialisti, per vincere una quantità sufficiente di collegi da assicurargli la maggioranza parlamentare.

Concludo ricordando il recente Trattato del Quirinale che ha aperto straordinarie opportunità alla partnership Italo-Francese equiparandola a quella Franco-Tedesca. Grazie a questo se nel 2023, primo anno del secondo mandato di Macron, saremo capaci di eleggere un Parlamento meno ridicolo di quello attuale, forse si parlerà non più di un’Europa a trazione franco Tedesca ma a trazione Franco Italiana, e non vedo alcun futuro significativo per l’Italia al di fuori dell’Europa.

Buon lavoro Direttore e, ricordando vecchie conversazioni, spero che abbandonerai certi tratti populisti e protezionisti che proprio non si addicono al tuo essere un sincero e vero liberale.

P.S.: Per la cronaca Chirac raggiunse il ballottaggio per il suo secondo mandato con il 19,88% dei voti totali contro il 16,86% di Le Pen padre, come vedi ben più vicino di quanto sia arrivata la figlia a Macron.

La decisione del Governo Francese di bloccare la cessione a Fincantieri del 66,66% di Stx per 79,5 milioni di euro, oltre a non avere nessun impatto sull’interscambio italo – francese forse non deve evocare complesse strategie protezionistiche, ma un piccolo problema di soldi e relazioni personali (è in corso un processo per traffico di influenze illecite in Francia ai danni del segretario generale dell’Eliseo Alexis Kohler, chissà a volte le spiegazioni semplici sono anche quelle giuste). Antonio De Filippi, 27 aprile 2022

Dalla rubrica delle lettere di “Repubblica” il 26 aprile 2022.

Caro Merlo, lei lo aveva scritto che il Conte di "né con Macron né con Le Pen" avrebbe sciolto la riserva domenica sera e si sarebbe schierato con il vincitore. Lo ha fatto con un tweet macroniano senza se e senza ma, non appena sono stati resi noti i risultati. E al congresso di Leu si è nuovamente vestito da leader di sinistra con quest' ennesima supercazzola su se stesso: "C'è una strada per fare questo percorso insieme, per essere progressisti insieme, lo abbiamo già sperimentato nel Conte 2". Angela Dato - Teramo

Risposta di Francesco Merlo

Devo dare atto al collega Alessandro Barbano che da molto tempo si chiede come sia possibile che gli italiani non si accorgano quanto la comicità di Giuseppe Conte somigli a quella del conte Mascetti di Tognazzi. Eppure, "non siamo pretermessi", "io sono l'inteleguzione" e "salvo intese" sono capolavori più efficaci non solo della supercazzola, ma anche della carta d'indindirindà di Pappagone.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 27 aprile 2022.  

Il bello dei repertori digitali sta anche nella pronta e agile disponibilità di espressioni che sintetizzano eterni vizi di casa nostra; per cui Cesare Marchi usa "salire", Ennio Flaiano "correre" e Bruno Barilli addirittura "volare", ma il carro resta sempre quello del vincitore.

A tale proposito, dopo la vittoria di Macron, varrà qui la pena di segnalare l'immediatezza con cui le piattaforme social hanno consentito al leader cinque stelle Giuseppe Conte e al vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani di entrare nel palmares dell'opportunismo e del provincialismo all'italiana col lieto e festoso aggravio della faccia tosta. 

Nel primo caso si ricorderà in tv, pochi giorni orsono, il faticoso e plateale inerpicarsi fra ritrosie e dinieghi dell'ex Avvocato del Popolo dinanzi al dilemma, invano postogli da Lilli Gruber, su quale dei due candidati francesi avrebbe, nel suo piccolo, preferito. Bene, ieri Giuseppi è stato lestissimo a felicitarsi con Macron augurandogli buon lavoro e, visto che c'era, ha assestato pure un calcetto alla "destra xenofoba che specula sui problemi senza essere capace di offrire soluzioni adeguate".

Quanto a Tajani, che proprio oggi a nome dell'ala fusionista di Forza Italia sta stringendo un accordo con Salvini su una lista denominata "Prima l'Italia", si è catapultato sul carro macroniano con il soccorso dell'iconografia, dal che su Facebook lo si può ammirare vis-à-vis con il presidente transalpino che gli pone la mano sinistra su una spalla mentre lui afferra la destra fra le sue manone. Con tanto di traduzione in francese, insieme alle congratulazioni, dispensa un perentorio giudizio: "Il voto conferma che la destra sovranista non vince". 

Per maliziosa, ma ragionevole esperienza, il sospetto è che in caso di vittoria lepenista, sia l'uno che l'altro avrebbero fatto lo stesso, magari Conte cavallerescamente esaltando la sua provvida tele-riluttanza e Tajani insistendo, anche senza foto, sul valore di un accordo con la destra sovranista che l'attualità avrebbe reso ancora più necessario.

Ma anche senza fare processi alle intenzioni, e per quanto ormai rassegnati sull'inutilità di procedere a meticolosi controlli di coerenza, è pur vero che i due - e non solo loro per la verità - nel corso degli ultimi anni a seconda dei momenti e delle convenienze sono stati falchi e colombe, europeisti ardenti, tiepidi e anti, oltre a dire e sostenere pubblicamente tutto e il contrario di tutto; questione che in verità trascende il loro tenue ed eventuale macronismo di seconda mano, adattabile, multiuso e parassitario. 

Ciò che accade all'estero troppo spesso diventa in Italia bene di rapido consumo, spunto e pretesto per lo più ornamentale, donde l'avvicendamento di emuli blairiani, sarkozisti scravattati e securitari, scopiazzatori di Merkel e Zapatero, pappagalli obamiani e improvvisati trumpisti - anche se dopo un po' comunque gli passa e i politici nostrani ricominciano a battagliare sulle leggi elettorali e altre inutili beghe con i risultati che ognuno può giudicare.

Così, senza stracciarsi le vesti, né perdersi in valutazioni strategiche o di cultura politica (!), l'attitudine ad accorrere in soccorso dell'ultimo vincitore mette piuttosto a nudo il vuoto di credibilità di un ceto politico in stato di conclamata, prolungata e accentuata dissoluzione. 

Con tale premessa, e tanto più rispetto al governo tecnico che fa i progetti, dà i soldi, fa le nomine e la politica estera, più che un caso di bracconaggio politicante la foga furbastra di Conte e Tajani assomiglia a una specie di innocua birbonata di cui a Parigi nemmeno si accorgeranno; ma che qui in Italia suona come l'ennesima conferma di un processo cataclismatico: la trasformazione dei partiti e dei loro periclitanti leader in puri soggetti esteriori, esseri apparenti che fluttuano senza prospettive, contenitori disponibili a riempirsi di ogni possibile mercanzia sulla base dell'eterno presente, l'abolizione del passato e la scomparsa del futuro.

Naturalmente le persone di Conte e Tajani, intesi come individui alle prese con la vita, hanno meno responsabilità dei processi che li spingono a muoversi in modo così goffo - però se in pochi vanno a votare, ci sarà pure qualche ragione.

Perché Macron non è di destra, risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 28 aprile 2022

Caro Aldo, Macron ha vinto, evviva Macron, ma Macron cos’è? È l’antipopulismo che ferma la deriva sovranista in Francia e soprattutto in Europa? Mario Taliani

Caro Mario, A questa domanda — chi è Macron? — Emmanuel Carrère ha risposto: Macron è la destra repubblicana. Quella tradizionale, neogollista. Le confesso però che non sono d’accordo con il grande scrittore. E non soltanto perché Macron è un europeista, e nelle file della destra repubblicana ci furono grandi oppositori dell’Europa, come Charles Pasqua e Philippe Séguin; e lo stesso de Gaulle vedeva più un’Europa delle nazioni che un’Europa federale, come quella che sta nascendo. Non è vero che destra e sinistra non esistano più. Esistono, anche in Paesi meno sensibili della Francia alle ideologie, come gli Stati Uniti. Barack Obama non era George W. Bush e Joe Biden non è Donald Trump. Destra e sinistra, però, sono concetti relativi. Biden è a sinistra di Trump; ma è a destra di un socialista europeo. Emmanuel Macron non è di destra. Almeno non nell’accezione che il termine ha assunto negli ultimi anni. Anni in cui in Occidente si è affermata una nuova destra populista e sovranista. Un presidente che fa suonare l’inno europeo — composto da un tedesco — prima della Marsigliese non è di destra. Un presidente che annuncia un piano ecologista contro il riscaldamento del Pianeta non è di destra. Un presidente che parla di un’«Europa indipendente» in grado di tenere testa tutta insieme alla Russia, alla Cina e pure agli Stati Uniti d’America non è di destra. Poi, certo, un po’ tutti i francesi sostengono che Macron, pur venendo da sinistra — era membro del partito socialista, e con il presidente socialista Hollande fu per due anni vicesegretario generale all’Eliseo e per altri due anni ministro dell’Economia — abbia governato a destra. In particolare, ha abolito la gravosa imposta sui patrimoni (pur mantenendo ovviamente la tassazione sugli immobili). Ma solo un malato di ideologia — o un dirigente del Partito democratico italiano — può pensare di inasprire oggi le tasse sui ceti medi e medioalti, che arrivano a versare allo Stato tra tasse e contributi anche il 70% di quello che guadagnano, mentre i veri ricchi sono spesso al sicuro nei paradisi fiscali. Una politica fiscale equa oggi può passare solo attraverso accordi europei che impediscano ai vari Stati di farsi concorrenza sleale. E anche questo non è di destra.

Articolo di Michel Houellebecq per Der Spiegel pubblicato da Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Nei sondaggi, ho sempre sentito una certa affinità con gli agnostici assoluti, quelli che dopo avere esaminato, e senza dubbio soppesato, tutte le opzioni proposte sbarrano ogni volta l'ultima casella: «Non si pronuncia». Per quest' ultima elezione, un istituto di sondaggi francese, non ricordo quale, ha innovato proponendo, in risposta alla domanda «Andrà a votare domenica prossima?», dopo le classiche Sì e No una terza risposta così formulata: «Lo prendo in seria considerazione».

«Lo prendo in seria considerazione». Ecco qualcosa che fa riflettere. Come se il comportamento normale, saggio e prevedibile fosse d'ora in poi l'astensione, ma rimanendo concesso al cittadino, al termine di una difficile riflessione personale, di fare valere una clausola di mancato rinnovo. 

Riguardo a queste elezioni, sarò costretto ad auto-congratularmi un po' facendo osservare che, finora, tutto succede come previsto nel mio ultimo romanzo (Annientare , La Nave di Teseo, 2022). Era facile, è vero: diciamo che si è trattato di una profezia minore.

Compenserò questo momento di immodestia tessendo una corona di lodi allo Spiegel . Questa splendida copertina è apparsa al momento del mio ultimo soggiorno in Germania, in occasione della Fiera del Libro di Francoforte, che è stata l'occasione della mia ultima vera intervista, con domande e risposte etc. (anche quella nello Spiegel , del resto). 

La bellezza di questo Ich bin nicht arrogant («Io non sono arrogante», ) deriva dal fatto che la foto dice esattamente il contrario, ma anche dal fatto che una contro-verità assoluta, pronunciata con aplomb sufficiente, può produrre, al di là di un primo stupore, qualcosa di simile a una rivelazione.

Ne abbiamo avuto un altro esempio, più di recente, in Francia, quando Marion Maréchal Le Pen ha affermato in un'intervista (compiacendosene) che le persone «non votano più in funzione dei loro interessi, ma delle loro convinzioni». Poche frasi altrettanto false sono state pronunciate in Francia, negli ultimi anni, da una personalità pubblica. Il voto è sempre stato, più o meno, un voto di classe; ma non lo era mai stato a tal punto. Sul piano sociologico, la lezione delle elezioni è di una chiarezza assoluta, e può riassumersi in una frase: i ricchi votano Macron, i poveri votano Le Pen, quelli in mezzo votano Mélenchon. È una griglia di lettura, semplice, brutale, e funziona alla perfezione.

Sul piano delle «fasce di età», bisogna essere appena un po' più sottili. Il mio amico Jean-Pierre Dionnet mi riassumeva una volta la vita adulta in tre fasi. Nella prima (corrispondente alla carta di riduzione giovani delle ferrovie, e di altri organismi), ci si gode la vita, ci si diverte, etc. Dura più o meno fino ai 26 anni. 

Nell'ultima fase («carta senior»), a partire dai 60 anni, ovvero un po' meno dell'età della pensione nel momento in cui scrivo, le cose in linea di principio sono uguali: ci si gode la vita, ci si diverte (beh, meno in effetti; si fa un po' finta). Tra queste due fasi, c'è l'età seria della vita. Si lavora, o ci si prova; si fa funzionare il mondo, o ci si prova. Alcuni tentano di avere successo, altri fondano una famiglia, talvolta entrambe le cose. Insomma, ogni giorno non è uno spasso.

I giovani votano Macron o Mélenchon, i vecchi votano Macron; quelli che lavorano votano Le Pen. È vero, o quasi; ma il più importante, il più decisivo, resta il voto di classe.

A forza di insistere sulla nozione di classe rischio di essere accusato di eccessiva sottomissione ai concetti marxisti; non è del tutto falso, ma introduco una sfumatura. Esiste un fenomeno, del quale Marx non capiva quasi nulla, fenomeno trascurabile dal punto di vista sociologico, ma talvolta fondamentale negli individui (e l'elezione presidenziale consiste, prima di tutto, nell'eleggere un individuo), che è quello del tradimento di classe; e noi ne abbiamo avuto, nel corso dell'ultima elezione, due esempi spettacolari.

Cresciuta nell'opulenza, dopo una giovinezza da frequentatrice di night club (non proprio il jet-set, ma non ci siamo lontani), Marine Le Pen è stata colta dalla rivelazione presso i poveri di Hénin-Beaumont. È un fenomeno che si è verificato più volte nella storia: san Francesco d'Assisi, san Vincenzo de' Paoli, etc. 

Senza puntare così in alto, Marine Le Pen si è accorta che le piaceva di più chiacchierare con una cassiera del Lidl che tornare a passare il pomeriggio nella proprietà del padre.

Marine Le Pen ha tradito la sua classe sociale di origine.

Eric Zemmour ha percorso il cammino inverso. Nato in una di quelle famiglie di ebrei obbligati dalla necessità a sopravvivere in mezzo ai musulmani (ne resta qualcuno, sempre meno, ma ne resta), si è ubriacato della frequentazione dei ricchi, degli importanti e dei celebri; più di recente, ha provato la gioia di suscitare entusiasmo nelle folle di giovani.

Questo era, in effetti, inatteso e meraviglioso, e può essere scusato, ma Zemmour è stato nondimeno all'origine di un fenomeno che non renderà più semplice la situazione del nostro infelice Paese. Da tempo in Francia avevamo due sinistre irriconciliabili (pro e contro woke , per semplificare); la destra cercava di recitare il ruolo della coppia che resta insieme per i figli, ma non aveva figli. 

Eric Zemmour ha forse creato le condizioni per la nascita di due estreme destre irriconciliabili; cosa che sarebbe una vera novità. Ma il pubblico non si inganni: una parte e l'altra dirà un sacco di stupidaggini; ma la vera opposizione sarà, come sempre, un puro e semplice conflitto di classe.

Marion Maréchal Le Pen, per esempio, non ha mai tradito la sua classe sociale.

Abbiamo appena offerto all'opinione pubblica internazionale, che ha la bontà di seguire le nostre dispute, uno spettacolo ben mediocre. È abbastanza normale: quando il risultato è acquisito in anticipo, diventa difficile interessarsi alla partita. Non so se le previsioni del mio romanzo si avvereranno; tornare a demonizzare il Rassemblement national sarà sempre più difficile, ci sono forse (o forse no) dei limiti alla stupidità della gente. Posso solo promettervi una cosa, caro pubblico tedesco: faremo di meglio nel 2027. E posso aggiungere (cosa meno allegra) che la riconciliazione non è, da noi, all'ordine del giorno.

Risultati francesi. Macron, il terribile sospetto sul trucco delle sinistre. Le elezioni francesi sono l’esempio di come la sinistra imposti le competizioni elettorali sulla demonizzazione dei “populisti”. Dino Cofrancesco su Nicolaporro.it il 27 Aprile 2022.

Se avessi la cittadinanza francese, avrei votato anch’io per Emmanuel Macron ma non mi associo ai festeggiamenti per la sua vittoria. Macron, infatti, è poco amato dai francesi, ha uno scarso seguito e solo lo spettro del presunto sovranismo lepeniano (sovranismo sta per fascismo) lo ha riportato all’Eliseo. Mi chiedo, allora, ma che democrazia è quella in cui vince solo chi rimane l’unico candidato presentabile in campo perché l’avversario politico non è considerato un avversario “normale” ma un nemico, l’incarnazione di Satana?

Ho un terribile sospetto: che le sinistre di governo, perdenti su tutta la linea (gli operai francesi hanno votato per Marine), abbiano trovato il modo di rimanere per sempre in sella. Basta evocare “Annibale alle porte” per ottenere un’assicurazione sulla vita ovvero una facile maggioranza elettorale. Non a caso leader postcomunisti che non hanno nessun serio e realistico progetto in mente, che sono a rimorchio, in Italia e in Europa, dei “poteri forti”, dedicano tutte le loro energie alla demonizzazione dei “populisti”, sostenuti da giornali che sono “fogli d’ordine” al servizio dello squadrismo intellettuale che caratterizza ormai gran parte della political culture – forse non soltanto nel nostro paese.

Un giornalista non certo wertfrei come Gianni Riotta, in un articolo del 22 aprile, “Tribalisti contro globalisti” (“la Repubblica”) si è quasi compiaciuto per il fatto che alla divisione tradizionale “destra/ sinistra” si sia sostituita quella tra patrioti, “rinchiusi in confini ancestrali”, e globalisti “che guardano al mondo”. Nessun sospetto che mettendo, da una parte, gli ”scalmanati che detestano emigranti, culture e identità diverse”, i nostalgici dello “Strapaese italiano, del protezionismo economico” gli odiatori della “cultura digitale delle piattaforme sociali” e, dall’altra, i cittadini responsabili e assennati, che non hanno paura della globalizzazione ma la giudicano un’opportunità, non stia descrivendo il mondo ma stia facendo il ritratto di Dorian Gray, allo scopo di mettere in guardia contro gli appestati. È la fine della dialettica politica e dello stesso spirito – tante volte chiamato in causa retoricamente – dell’Occidente, impensabile senza la consapevolezza che, nel conflitto politico e sociale, ci sono “verità” sia in uno schieramento che nell’altro.

Che dialogo ci può essere, infatti, tra i “virtuosi” globalisti, esaltati da Riotta, e i perversi “tribalisti”? I primi, a suo dire, hanno contribuito “a sradicare la miseria da sterminati Paesi ma contraendo lo status di ceti medi e lavoratori” e tuttavia solo loro sanno come porvi rimedio e come si possa essere “veri patrioti, sereni della propria identità, lingua, classici, tradizioni” ma “curiosi di incrociarla con altri, senza paure o nevrosi”. Insomma tutti i civilizzati sulla stessa barca e i barbari buttiamoli pure in mare. Non può esserci vera partita tra il Bene e il Male giacché il secondo va espulso (almeno moralmente) dal campo di gioco.

In realtà, in una vera democrazia liberale quanti competono per il potere non si dividono in eletti, da una parte, e dannati, dall’altra. Se i secondi ottengono voti, vuol dire che vengono incontro a interessi, bisogni, paure – ossessioni, se si vuole – che sono da tenere in seria considerazione giacché si richiamano pur sempre a valori diversi ma tutti in sé rispettabili (anche se i modi per metterli in pratica trasformano il vino in aceto). In una società aperta, non si vince mai per ko ma solo ai punti. Avrei preferito Macron a Le Pen non perché la seconda è una creatura satanica (come credono al “Foglio”) ma perché, pur non nascondendomi le poche buone ragioni del Rassemblement National, il Presidente uscente mi dava più affidamento in politica estera, oggi divenuta di cruciale, drammatica, importanza.

Sono disposto ad ammettere che i populisti e i sovranisti italiani – per i quali non ho mai votato -ingenerino non poche riserve ma i loro avversari sono forse migliori? Discendono dai lombi di Cavour, di Giolitti, di De Gasperi? Ormai persino nei salotti liberali fare i nomi di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni è come fare il nome di Silvio Berlusconi negli stessi salotti di trent’anni fa. Non parliamo dei Dipartimenti universitari. Se si chiede, però, quali battaglie sovraniste sono intollerabili per un paese civile – quando non si tirano in campo le solite politiche di limitazione dell’immigrazione, ribadite da Trump come da Biden, che non ha tolto un mattone dal muro fatto  costruire dal primo – si ottengono risposte vaghe e generiche che alludono a presunti razzismi (sull’antirazzismo leggere il grande Pierre-André Taguieff), alla persecuzioni dei “diversi”, alla bocciatura – che peraltro ho salutato con un sospiro di sollievo della legge Zan, all’apologia di fascismo (che spesso consiste nel riproporre verità scontate per la storiografia revisionista).

Vero è che lo snobismo etico-estetico con cui si guarda alla destra italiana ha una sua funzione precisa: quella di farci sentire parte di una “comunità di linguaggio” che ci consente di venir tollerati (se si è liberalconservatori) nei circoli che contano. Dino Cofrancesco, 27 aprile 2022

Elezioni presidenziali in Francia, il retroscena sulle manovre delle logge: "I massoni transalpini tifano Le Pen". Luigi Bisignani Il Tempo il 24 aprile 2022.

Caro direttore, massoneria sempre più arrembante e sugli scudi a Parigi. E se Parigi non ride, Roma piange in compagnia del Vaticano e del cavallo incappucciato della Rai.

Iniziamo dalla Francia dove, nel duello tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen è in corso una guerra di grembiulini. A sorpresa il Grande Oriente di Francia-GOF (80 mila logge circa) e la Gran Loggia Nazionale Francese-GLNF (40 mila logge), si sono spaccate su Macron il quale, secondo il GOF, ha "eluso" molte aspettative. Marine Le Pen  ha trovato quindi un appoggio insperato, ma non le basterà per vincere, nella potente loggia della California “La grande madre della terra”.

Se il caos regna tra le logge francesi, in Italia, il Grande Oriente - fondato a Milano nel 1805, con oltre 23.000 iscritti distribuiti in 862 logge - non se la passa meglio. Dopo quasi dieci anni di mandato, il Gran Maestro senese Stefano Bisi, che fu accolto con entusiasmo dopo il regno assoluto di Gustavo Raffi, è criticato per aver paralizzato l’Istituzione in questi anni di pandemia ma soprattutto per aver disatteso l’ideale del “fai agli altri tutto il bene possibile”, come recita il motto impresso, già nel 1700, nel testo degli “antichi doveri del libero muratore”.

La situazione è talmente delicata che alcuni “osservatori” sono giunti dagli Stati Uniti e perfino dall’Inghilterra per capire meglio ed evitare, in primis, che ancora una volta la magistratura civile venga a ficcare il naso soprattutto ora che nelle segrete stanze del GOI è in corso la resa dei conti, con Bisi caduto nella stessa tentazione di Raffi, ossia di farsi rinnovare per la terza volta, nonostante il divieto statutario.

Per rendere più facile l’operazione, Bisi ha aperto delle “tavole d’accusa” contro alcuni “fratelli” non allineati, come Tonino Salsone, Presidente del collegio circoscrizionale della Lombardia, biasimato per aver osato parlare, in un blog privato, dell’inopportuna rielezione del Presidente della Repubblica. Pare, e c’è da crederci, che lo stesso  Mattarella non abbia gradito di vedere il suo nome finire all’interno di un procedimento istruito presso la corte centrale massonica. A ruota, anche il  Gran Maestro aggiunto, il filosofo Claudio Bonvecchio, si è autodenunciato schierandosi con Salsone.

Ma il vero rischio per Bisi è che ci finisca lui davanti alla magistratura. Infatti, per un altro caso di censura, sollevato per una manifestazione non autorizzata da Bisi e organizzata dal Gran Maestro romagnolo Mario Martelli, quest’ultimo è stato fatto decadere da Presidente del collegio circoscrizionale dell’Emilia-Romagna. Nei sussurri sotto i cappucci sembra che sarebbe intenzione di Martelli impugnare la sentenza di condanna massonica davanti al giudice civile ordinario di Roma, ai sensi dell’articolo 23 del codice civile (annullamento e sospensione delle deliberazioni dell’assemblea) con tanto di richiesta di risarcimento del danno nei confronti di quei ‘fratelli’ che l’hanno decisa. Per non parlare della ridicola sospensione dell’opinionista tv Alessandro Cecchi Paone reo di  aver rilasciato un’intervista al ‘Fatto Quotidiano’.

Ma non è l’unica nube sulla testa di Bisi da quando l’Agenzia delle Entrate si è interessata alla neo Fondazione immobiliare del Grande Oriente, di cui si è ‘autoproclamato’ presidente e nella quale sono affluiti più di cento immobili per un valore di circa mezzo miliardo di euro. 

Anche in Vaticano, ormai, si parla spesso di compassi e cappucci. Dopo l'imbarcata di esperti finanziari anglosassoni portati  per riordinare i conti d’Oltretevere, i grembiulini hanno finalmente riconquistato attenzione e sospetti dentro le mura leonine in seguito alla decisione dell'Ad della Rai, Carlo Fuortes, di seppellire tutta l'informazione religiosa nel cosiddetto genere "cultura ed educational". Ed a dirigere ha chiamato i più convinti laicisti e anticlericali dell'emittenza pubblica da Silvia Calandrelli a Rosanna Pastore e Lorenzo Ottolenghi - denominati scherzosamente "il trio falce e martello", ironia della sorte  tutti ‘amici’ di Paolo Ruffini, ex direttore di Rai Tre e di Andrea Tornielli, entrambi ‘magna pars’ del Dicastero per la comunicazione di Bergoglio.

Secondo Enzo Biagi, nel mondo dei media internazionali  il core business dell'Italia erano il calcio e il papato. La Rai, dopo essere riuscita ad uccidere definitivamente il calcio, allontanando anche un volto storico dai grandi ascolti come quello di Paola Ferrari, forse perché troppo cattolica e di destra, adesso riserva la medesima sorte al Papa. Una delle vulgate massoniche, difatti, vuole che tutto quello che si riferisce alla fede religiosa non produca niente di utile e a questo la Rai si starebbe adeguando. Tuttavia per la Chiesa è un déjà-vu, avendo già vissuto una storia analoga in Irlanda, Olanda, Belgio e Germania, dove però almeno i massoni ci mettevano la faccia. In Italia, invece, si nascondono dietro un vero o presunto appoggio vaticano. Pessimo segnale per Papa Francesco, il quale ormai viene tirato sempre più per la tonaca da quel ‘cerchio gaucho’ che sempre meno segue il suo apostolato in nome della Misericordia.

SISTEMA ELETTORALE. Come si elegge il presidente della Repubblica francese. Il Domani il 07 aprile 2022.

Il presidente gode di poteri esclusivi e condivisi con la restante parte dell’esecutivo. Viene eletto ogni cinque anni a suffragio diretto e universale con due turni di votazioni

Nel fine settimana del 9 e 10 aprile si terrà in Francia il primo turno delle elezioni presidenziali. I sondaggi vedono come favoriti l’attuale presidente Emmanuel Macron, e la candidata del Rassemblement National Marine Le Pen. Qualora si vada al ballottaggio, il secondo turno è previsto per il week end del 23 e 24 aprile, ma come funziona il sistema elettorale francese?

La repubblica francese è di tipo semipresidenziale, questo significa che il potere è condiviso dal presidente che viene eletto a suffragio universale e dal primo ministro, il quale è invece scelto dal primo sulla base del risultato elettorale.

Può capitare che ci sia un caso di coabitazione, ovvero quando presidente e primo ministro, le due massime cariche dell’esecutivo, sono di due formazioni politiche diverse. Si tratta, comunque, di un evento raro e nella storia repubblicana francese è accaduto solo tre volte: tra il 1986 e il 1988, quando il primo ministro era Jaques Chirac, leader neogollista e il presidente era il socialista François Mitterand; tra il 1993 e il 1995, quando alla presidenza c’era sempre Mitterand mentre come primo ministro c’era il capo dell’opposzione Edouard Balladur; e infine tra il 1997 e il 2002, con ancora una volta Chirac presidente e Jospin Period (socialista) primo ministro.

IL VOTO

Il voto presidenziale si struttura in due parti. Nel momento in cui il candidato ottiene la maggioranza assoluta al primo turno è automaticamente eletto, altrimenti si tiene un ballottaggio con i due nomi che hanno ottenuto il maggior numero di voti.

Il presidente francese gode di diversi poteri oltre alla nomina del primo ministro. È infatti il capo della diplomazia e delle forze armate, e presiede il Consiglio superiore della difesa e il Consiglio superiore della magistratura. Ma a differenza del presidente della Repubblica italiana quello francese gode del potere di indirizzo politico.

Qualora lo ritiene necessario può esercitare dei poteri esclusivi che prevedono, per esempio, il ricorso al referendum su proposta del governo o delle camere; il diritto di sciogliere l’Assemblea; la nomina di tre membri e del presidente del Consiglio costituzionale; il controllo di legittimità costituzionale preventivo. In caso di emergenza nazionale il presidente può anche legiferare attraverso i decreti.

Ci sono poi altri poteri condivisi con l’esecutivo, ovvero la nomina/revoca di ministri su proposta del primo ministro; la promulgazione di leggi deliberate dal Consiglio dei ministri e la negoziazione e ratifica di trattati internazionali.

L’ELEZIONE DEL PARLAMENTO

L’ultima riforma elettorale ha ridotto il mandato dell’Assemblea a cinque anni, uniformandolo quello della presidenza.

I 577 seggi parlamentari vengono eletti in 577 collegi uninominali con un sistema maggioritario a doppio turno. Per essere eletti al primo turno di voto il candidato deve ottenere la maggioranza assoluta dei voti e almeno il 25 per cento degli aventi diritto. Nel caso in cui nessuno riesca a ottenere la maggioranza si va al ballottaggio tra i candidati che hanno superato la soglia di sbarramento del 12,5 per cento al primo turno.

Per quanto riguarda il Senato, invece, è composto da 348 senatori ed è eletto a suffragio indiretto. Il suo potere è di secondo piano e ha mandato di sei anni con un rinnovo parziale ogni tre.

IL DIBATTITO IN ITALIA

Con le ultime elezioni del presidente della Repubblica in Italia diversi esponenti del mondo politico hanno parlato di un semipresidenzialismo alla francese. Tra questi c’è il ministro leghista dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti che in un’intervista aveva evocato la possibilità che il presidente del Consiglio Mario Draghi potesse continuare a governare dal Quirinale. «Draghi potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole», aveva detto Giorgetti suscitando un acceso di battito anche all’interno della coalizione di centrodestra (Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega).

Semipresidenzialismo e crisi della rappresentanza. Perché il modello francese non va preso ad esempio. Salvatore Curreri su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Domenica prossima gli elettori francesi non eleggeranno solo il Presidente della Repubblica. Voteranno anche per il destino dell’Europa. E come nel 2005, quando respinsero per referendum il progetto di Costituzione europea, potrebbero invertirne l’indirizzo politico. Quella tra la Le Pen e Macron, infatti, è competizione non solo tra centro-destra e centro sinistra (e già la difficoltà ad inquadrarli entro tali categorie tradizionali dovrebbe far riflettere sulla capacità interpretativa di tale esclusiva chiave di lettura) ma anche quella, rispetto alla prima trasversale, tra nazionalismo ed europeismo. Ma se così è, vale la pena chiedersi se una simile posta in gioco possa essere conquistata attraverso un sistema semipresidenziale, quale quello francese, che – come osservato su queste colonne da Mannheimer e P. Pasquino lo scorso 15 aprile – tende a trasformare la maggiore minoranza in maggioranza.

Questo esito, se probabile – ma non certo – nelle elezioni legislative (dato che i collegi sono uninominali ed il secondo turno è aperto non ai primi due candidati ma a tutti quelli che ottengono almeno il 12,5% dei voti degli aventi diritto), è sicuro nelle elezioni presidenziali, dove il ballottaggio è ristretto ai primi due candidati del primo turno. In tal modo, la frammentazione politica in partenza (ben rappresentata dalla presentazione di ben dodici candidature) e l’assetto politico sostanzialmente tripolare (la sinistra di Mélenchon, la destra-centro della Le Pen e il centro/destra-sinistra di Macron) viene bipolarizzato nel turno di ballottaggio, da cui scaturisce il Presidente eletto. A ben riflettere, è lo stesso meccanismo previsto dall’Italicum che, in presenza di un analogo assetto tripolare (centro destra, centro sinistra e M5S), prevedeva un secondo turno di ballottaggio tra i primi due partiti al vincente del quale sarebbe andato il premio di maggioranza alla Camera, unica camera politica.

Il problema però che pone il semipresidenzialismo francese è però ora duplice. Innanzi tutto, proprio perché gli elettori, in forza del “voto utile” indotto dai sondaggi (profezia che si auto avvera?), hanno sùbito al primo turno scartato i candidati socialisti e repubblicani, si può ragionevolmente supporre che la loro forza politica sia stata di fatto sottorappresentata. Non è affatto detto, dunque, che essi non recuperino consensi e seggi nelle elezioni legislative, anche in virtù della loro forte presenza nei territori, testimoniata dal controllo di regioni e dipartimenti. Per sua natura, il secondo turno premia i partiti maggiori e penalizza i minori, ma non è certo che assicuri al partito di maggioranza relativa la maggioranza assoluta dei seggi in Assemblea. Questo si poteva verificare quando vi era la cosiddetta quadriglia bipolare, per cui al secondo turno i voti dei comunisti confluivano sui socialisti, e quelli dei liberali-centristi sui gollisti. Ciò si è verificato nelle elezioni del 1993 (con il centro destra passato dal 43% del primo turno al 58% del secondo, conquistando così ben l’84% dei seggi) del 2002 (centro destra dal 33 al 47% dei voti, grazie a cui ha ottenuto il 62% dei seggi), nel 2012 (centro sinistra dal 29 al 41% con il 48,5% dei seggi) e nel 2017 (En Marche dal 28,2 al 43,06% dei voti con il 53,4% seggi).

Oggi però il quadro politico è completamente cambiato. Il che aumenta la possibilità che il Presidente che sarà eletto domenica non abbia la maggioranza nell’Assemblea nazionale e quindi debba nominare come Primo ministro un esponente di un partito a lui avverso. Per evitare tale cosiddetta coabitazione (breve tra Mitterrand–Chirac 1986-1988 e Mitterrand-Balladur 1993-1995, lunga tra Chirac–Jospin 1997-2002) la Francia nel 2008 ha modificato la propria Costituzione riducendo il mandato presidenziale da 7 a 5 anni per allinearlo a quello della legislazione così da votare nel breve volgere di un paio di mesi, sia (prima) per il Presidente che (poi) per il Parlamento, confidando nel trascinamento dell’esito della prima elezione sulla seconda (cosiddetto effetto luna di miele). Nulla però ovviamente assicura che tale effetto trascinamento si realizzi e quindi che il Presidente abbia la maggioranza in Assemblea nazionale, tanto più in presenza di un quadro politico così frammentato. Tale possibile coabitazione, da taluni considerata positivamente quale elemento di equilibrio del sistema, da altri viene considerata negativamente per i rischi di continui contrasti tra le due “teste” dell’Esecutivo (Presidente della Repubblica e Primo ministro) peraltro nel caso francese acuiti dagli ampi poteri che il Presidente ha. Molti suoi atti, infatti, non devono essere controfirmati dal Primo Ministro (a partire dallo scioglimento delle Camere).

Inoltre egli può presiedere il Consiglio dei ministri e considera riservati al suo domaine réservé i poteri in materia di politica estera e difesa, a cominciare dalla scelta dei relativi Ministri (come dimostra l’attivismo di Macron in queste settimane sulla scena internazionale). Le difficoltà di coabitazione tra personalità ingombranti furono rappresentate plasticamente dalla imbarazzante compresenza di Chirac e Jospin, nella rispettiva veste di Capo dello Stato e di Primo ministro, negli incontri internazionali. Tale coabitazione sarebbe oltremodo difficile se venisse eletta la Le Pen. E qui tocchiamo il secondo aspetto del problema. Come detto all’inizio, nessuno può ragionevolmente negare che l’elezione della Le Pen infliggerebbe un colpo, quasi mortale, all’Unione europea come comunità sovranazionale governata dal metodo comunitario. L’idea gollista del Presidente quale rassembleur al di sopra delle parti che “garantisce il rispetto della Costituzione” la lasciamo volentieri a chi crede ancora alle retoriche dichiarazioni serali del vincitore che vuole essere il “Presidente di tutti”. Di fatto il nuovo Presidente è e sarà il vertice dell’esecutivo eletto per realizzare il proprio programma politico.

Un programma politico che, nel caso della Le Pen, nasce dalle profonde fratture che percorrono la società francese non per superarle in senso inclusivo ma per in certo senso aggravarle tramite scelte di parte: una concezione ancor più escludente e negativa della laicità dello Stato, con il conseguente divieto del velo perché considerato uniforme islamista anziché simbolo religioso; il populismo che contrappone la Francia rurale e genuina alla Parigi dei potentati economico-finanziari; la collocazione internazionale della Francia nella risorta logica dei blocchi contrapposti causata dalla guerra ucraina (con gli inquietanti prestiti che Le Pen ha ricevuto dalla Russia per la sua campagna elettorale); infine, da ultimo ma non per ultimo, giustappunto il destino dell’Europa, con il ritorno a logiche sovraniste e nazionaliste che segnerebbero a voler essere ottimisti quantomeno una battuta d’arresto nel processo d’integrazione europeo.

Di fronte a tale scenario, confidare nel “fronte repubblicano” che permise vent’anni fa a Chirac di sconfiggere Le Pen (padre) agevolmente (82,2 contro 17,8) è un azzardo storico, visto che oggi esso è sempre più debole, a destra come a sinistra. Forse vale la pena allora chiedersi se un sistema come quello semipresidenziale a preminenza del Presidente, non finisca per acuire, anziché superare, le profonde fratture esistenti nel sistema politico e sociale francese (e non solo), radicalizzandole e così rischiando di spaccare il Paese proprio quando esso avrebbe bisogno piuttosto di essere “rammendato”. Salvatore Curreri

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 12 aprile 2022.

«Ho davvero creduto di poterla battere». Questa frase amara Jean-Luc Mélenchon l'ha pronunciata tante volte nella sua lunga carriera politica. Anche domenica notte, a urne chiuse da ore, quando lo spoglio dei voti gli ha regalato un'ultima crudele speranza.

All'improvviso, attorno alla mezzanotte, è sembrato che il leader della sinistra radicale potesse sorpassare Marine Le Pen, già sicura della qualificazione al ballottaggio. Sarebbe stato un colpo di scena clamoroso, lui è uscito dal Cirque d'Hiver per salutare con il pugno chiuso la folla pazza di gioia che gli gridava merci!, come se questa potesse essere la volta buona. Invece, Le Pen 23,1%, Mélenchon 21,9%.

La rincorsa della tartaruga, come Mélenchon ama definirsi, si è fermata a un passo dal trionfo. Per il settantenne ex impiegato delle poste, correttore di bozze, giornalista, insegnante di francese e ministro socialista, il nome Le Pen al secondo turno è un incubo che dura da vent' anni.

Quando il 21 aprile 2002 Jean-Marie Le Pen si piazzò davanti al socialista Lionel Jospin e arrivò inaspettatamente al duello finale contro Jacques Chirac, Mélenchon non la prese bene. Cadde in depressione, «piangevo di continuo, il corpo non ce la faceva più, non riuscivo a lavorare». 

Ma quella fu l'occasione di una delle tante rinascite: Mélenchon smise di fumare, si dedicò all'agopuntura e alla pittura di paesaggi, e si dette una missione esistenziale e politica: battere Le Pen.

All'elezione presidenziale del 2012, la prima per entrambi, Mélenchon arriva quarto dietro all'erede del partito di estrema destra. Secondo tentativo nel 2017, ma anche stavolta Mélenchon non ce la fa: arriva terzo, dietro a Marine Le Pen che si qualifica al ballottaggio per soli 600 mila voti. Quei 600 mila voti mancanti sono stati l'incubo degli ultimi cinque anni. Terza corsa all'Eliseo domenica: stavolta le schede che lo separano da Le Pen sono appena 400 mila, ma bastano a tenerlo lontano dalla sfida decisiva del 24 aprile contro Macron.

Tutto separa Mélenchon dalla grande rivale: lui è nato nel 1951 a Tangeri, in Marocco, da un impiegato delle poste e un'insegnante entrambi originari dell'Algeria francese; lei nel 1968 nel sobborgo chic parigino di Neuilly-sur-Seine, e ha ereditato non solo il partito ma anche gli agi del padre Jean-Marie. 

Mélenchon stavolta però si pone come una specie di beautiful loser , è lo splendido perdente di queste elezioni.

Sarà decisivo per designare il vincitore finale - e lui ha subito chiarito che «non un solo voto dovrà andare a Marine Le Pen» -, e poi ha trovato i toni giusti nel discorso di accettazione della sconfitta, davanti ai tanti giovani che lo adorano riuniti al Cirque d'Hiver: «Ho il dovere di dirvi, visto che sono il più anziano, che l'unico nostro compito è quello del mito di Sisifo: il macigno ricade, e noi allora lo spingiamo di nuovo su (...). Non siete né deboli né privi di mezzi, potete combattere questa battaglia, e la successiva, e quella dopo ancora! Guardate me, non ho mai mollato, non ho mai abbassato lo sguardo. Ora tocca a voi». 

Capace di paurosi scatti di collera passati alla storia - come quando urlò «La repubblica sono io!» in faccia al poliziotto venuto a perquisire la sede del partito della France Insoumise -, e di molti sorrisi affettuosi, a 70 anni Mélenchon è il nonno burbero che affascina i nipoti. Se votassero solo i giovani tra i 18 e i 24 anni, Mélenchon sarebbe largamente il presidente della Francia. I video efficaci e divertenti su TikTok e Instagram e anche l'appoggio in extremis all'Ucraina sono riusciti anche a mettere in secondo piano una vita di alleanze internazionali regolarmente sbagliate, dal Venezuela di Chávez alla Russia di Putin.

La lotta contro le diseguaglianze, il sogno di un mondo meno spietato, l'idea un po' improvvisata della «creolizzazione», del miscuglio di etnie da contrapporre all'ossessione identitaria di Le Pen e Zemmour, hanno fatto di Mélenchon il più votato non solo tra i giovani ma anche nella regione dell'Île de France, quella di Parigi, la più ricca di Francia ma anche la più attraversata da tensioni tra centro e periferia, e tra maggioranza e minoranze etniche. «Vado a votare per lei», gli ha detto domenica Emmanuelle Béart quando lo ha incontrato sul treno da Marsiglia (dove è deputato) a Parigi. Lui, quasi sordo dalla nascita, le ha sorriso dopo avere letto le parole sulle labbra, come fa sempre. «Ma la sordità per me è un vantaggio - si è confidato una volta -, mi tiene più all'erta. E chi mi parla non sa con chi ha a che fare».

La lunga lista delle indagini su Marine Le Pen per finanziamenti illeciti. Il Domani il 19 aprile 2022.

La recente accusa di appropriazione indebita di fondi europei nei confronti della leader francese di Rassemblement National è solo l’ultima di diverse inchieste simili.

Marine Le Pen è al centro di un nuovo scandalo. In vista del ballottaggio contro l’attuale presidente Emmanuel Macron che si svolgerà il 24 aprile, la leader francese del Rassemblement National deve difendersi delle accuse di appropriazione indebita di fondi europei.

UFFICIO ANTI FRODI

Il sito di giornalismo investigativo francese Mediapart ha pubblicato un documento dell’ufficio anti frodi dell’Unione europea dell’11 marzo scorso. Secondo il rapporto, Le Pen si sarebbe appropriata di quasi 137mila euro dal 2004 al 2017, negli anni in cui è stata europarlamentare. L’avvocato della politica francese, Rodolphe Bossolut, ha negato ogni accusa. E anzi ha contrattaccato, dichiarando la malafede dell’ufficio europeo che ha favorito la diffusione del documento a pochi giorni dal turno decisivo delle presidenziali.

Tra l’altro il rapporto di Mediapart tira in mezzo anche il padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, fondatore del Front National, poi convertito in Rassemblement National. Tra lui, l’ex vicepresidente del partito Bruno Gollnisch e l’ex partner Louis Aliot, si sarebbero appropriati di circa 486mila euro.

FONDI EUROPEI

Non è l’unico scandalo in cui è finita Le Pen. Già nel 2017 infatti era stata accusata di aver usato i soldi europei per necessità del suo partito a livello nazionale. Avrebbe infatti stipulato dei falsi contratti dentro al parlamento europeo per alcuni suoi collaboratori impegnati, però, a lavorare al di fuori del contesto dell’europarlamento. 

Tra i dipendenti finanziati da Bruxelles, infatti, risultavano anche la sua guardia del corpo Thierry Legier e una sua assistente personale Catherine Griset, poi apparsa anche nell’organizzazione della campagna elettorale delle presidenziali del 2017. Il tribunale dell’Unione europea aveva stabilito che Le Pen dovesse rimborsare circa 340mila euro. 

Nella stessa indagine, erano rimasti coinvolti altri 28 funzionari del suo partito. Il caso, poi, era passato anche sotto la lente della giustizia francese, che nel luglio del 2018 aveva deciso il blocco di due milioni di euro dei finanziamenti pubblici verso il partito di Le Pen per la durata dell’inchiesta. Ai tempi, il parlamento europeo ha stimato in circa sette milioni di euro di danni arrecati dal sistema di frode del partito Rn tra il 2009 e il 2017.

FINANZIAMENTI ILLECITI

Attorno al partito di Le Pen, inoltre, tra il 2012 e il 2015 era arrivata l’ombra dei finanziamenti illeciti. Durante lo scontro familiare tra Marine e il padre Jean-Marie, scoppiò l’inchiesta che vide coinvolta la leader con due suoi collaboratori David Rachline e Nicolas Bay.

Le Monde aveva spiegato come i compensi per le due figure si potevano configurare come «donazioni dissimulate ai candidati» nelle elezioni presidenziali e legislative del 2012.

Matteo Ghisalberti per “la Verità” il 19 aprile 2022.

La giustizia fa di nuovo irruzione nella campagna elettorale delle presidenziali francesi. A meno di una settimana dal secondo turno, che si svolgerà domenica 24 aprile, l'ufficio europeo per la lotta alle frodi (Olaf) ha accusato Marine Le Pen e alcuni altri ex deputati europei del Rassemblement National (Rn) di appropriazione indebita di circa 600.000 euro. Secondo l'autorità europea si tratterebbe di soldi pubblici europei impiegati dalla stessa candidata dell'Rn, nonché da suo padre, Jean-Marie Le Pen; dal suo ex compagno Louis Alliot, e da Bruno Gollnisch, quando erano europarlamentari. 

Con insolito zelo, l'informazione è stata trasmessa dall'istanza Ue anche alla Procura di Parigi, come confermato da quest' ultima all'agenzia di stampa France Presse.

La notizia dell'accusa dell'Olaf è stata pubblicata dal media online d'inchiesta Mediapart fondato e diretto da Edwy Plenel, che in gioventù ha fatto parte della Lega Comunista Rivoluzionaria. Lo stesso direttore aveva invitato a votare per Emmanuel Macron, tra i due turni delle elezioni presidenziali del 2017. In occasione della stessa campagna, Mediapart aveva anche pubblicato delle informazioni che, insieme alle rivelazioni del settimanale satirico Le Canard Enchainé, avevano contribuito a escludere dalla corsa all'Eliseo l'allora candidato della destra moderata François Fillon. 

È forse anche a causa di questi precedenti che l'entourage della candidata di Rn ha reagito rapidamente alle accuse dell'Olaf. L'avvocato Rodolphe Bosselut, legale di Le Pen ha parlato di «strumentalizzazione» e si è detto «sorpreso della tempistica relativa alla rivelazione» nonché «costernato del modo in cui agisce l'Olaf senza contraddittorio» e su «vicende che risalgono a più di dieci anni fa».

In effetti, secondo il legale, l'ufficio europeo contro le frodi avrebbe aperto l'inchiesta nel 2016 e ha interrogato per iscritto la candidata del Rn, nel marzo del 2021. Per questo non si capisce l'interesse di rilanciare la vicenda proprio nel mezzo della campagna elettorale per le presidenziali, che nei sondaggi di ieri segnava per il presidente uscente una intenzione di voto pari al 54,5% mentre per Marine del 45,5. Per il presidente dell'Rn, Jordan Bardella, l'Olaf è «un ufficio contro il quale abbiamo già sporto denuncia in due occasioni» e che ce ne sarà «evidentemente una terza». 

Nel frattempo anche il Parlamento europeo ha rapidamente reagito all'informazione resa nota da Mediapart e ha annunciato che richiederà «il rimborso delle somme pagate indebitamente».

Il dossier aperto dall'Olaf non è la sola vicenda a sfondo giudiziario che ha investito la campagna elettorale francese.

Il 5 aprile scorso il capo della Procura Nazionale Finanziaria francese (Pnf), Jean-François Bohnert, ha annunciato che il 31 marzo 2022 era stata aperta un'inchiesta preliminare nei confronti di McKinsey e di altre società di consulenza ampiamente utilizzate dallo Stato francese, soprattutto nell'ultimo quinquennio. L'Eliseo è risultato essere uno dei più assidui utilizzatori di tali società. McKinsey è stata accusata di «riciclaggio aggravato da frode fiscale». La società americana, con sede nello Stato del Deleware noto per la bassissima imposizione fiscale, è finita sotto inchiesta anche per la «questione del suo regime fiscale in Francia». 

L'inchiesta era nata dal rapporto di una commissione del Senato francese sull'influenza delle società di consulenza sulle politiche pubbliche d'Oltralpe. Nel rapporto si leggeva che sebbene McKinsey fosse «fiscalmente soggetta all'imposta societaria (Is) in Francia» i versamenti da essa effettuati erano «pari a zero euro da almeno 10 anni». In seguito i senatori avevano anche fatto appello alla giustizia per un «sospetto di falsa testimonianza» da parte di Karim Tajeddine, direttore di McKinsey Francia e vicino a Macron. Il 18 gennaio scorso, durante un'audizione sotto giuramento davanti alla commissione senatoriale, il manager della società di consulenza aveva dichiarato: «Lo dico molto chiaramente, abbiamo pagato l'imposta societaria in Francia e tutti i dipendenti sono in una società di diritto francese».

Più o meno negli stessi giorni in cui esplodeva l'affaire McKinsey, un documentario realizzato dal media francese indipendente Off Investigation aveva sollevato dubbi sul patrimonio di Macron. 

Questa inchiesta giornalistica non ha avuto seguiti giudiziari. Ma nell'attesa che i dubbi sulle possibile usi indebiti di soldi pubblici da parte della presidenza Macron e dell'ex eurodeputata Le Pen, numerosi intellettuali, sportivi, politici francesi hanno lanciato appelli per denunciare un presunto ritorno del fascismo, in caso di vittoria della candidata Rn. 

Dopo i 500 artisti, i 50 sportivi e i politici «trombati» come Valérie Pécresse, Anne Hidalgo, Nicolas Sarkozy e altri, sabato scorso è arrivato l'appello-insulto di Mourad Boudjellal, imprenditore attivo nell'editoria e nello sport. Dal palco del meeting organizzato da Macron a Marsiglia, Boudjellal si è rivolto agli elettori di Le Pen dicendo loro: «Guardatevi, siete razzisti!».

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2022.

Per capire a cosa potrebbe assomigliare una Francia tutta a sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon, leader della France insoumise (Lfi) ed ex ministro dell'Istruzione del governo Jospin, è sufficiente ascoltare le parole di Aymeric Caron, ex opinionista televisivo che ha deciso di candidarsi sotto la bandiera mélenchonista alle prossime elezioni legislative (si terrano il 12 e il 19 giugno per rinnovare la composizione dell'Assemblea nazionale, la Camera bassa francese). 

In un estratto televisivo circolato ieri sui social network, e che ha creato una valanga di polemiche a Parigi, Caron invoca l'idea di un "permis de voter", una patente per votare da concedere soltanto a una parte dei francesi (quelli che votano a sinistra, va da sé) e affinché «il cittadino incolto e irresponsabile» non possa più avere «voce in capitolo». Candidato della France insoumise nel Diciottesimo arrondissement, Aymeric Caron è un pazzo pericoloso. Vuole delle patenti per votare per i cittadini che ne sono ritenuti degni. Chi decide? «La società». «È ignobile questo eugenismo civico», ha commentato in un tweet al vetriolo Emmanuelle Ducros, giornalista del quotidiano L'Opinion. 

L'estratto televisivo risale al 2017, ma la proposta è contenuta in un libro-programma che il neomélenchonista Caron ha pubblicato un po' di anni fa, "Utopia XXI": libro che è ancora disponibile sugli scaffali francesi e che è il manifesto del suo pensiero. 

Contattato da Tf1, il candidato alle legislative di Lfi ha detto di «non rinnegare le sue dichiarazioni», spiegando che «il criterio dell'età non basta» per il diritto di voto. «È questo dunque il nuovo progetto della Nuova unione popolare ecologica e sociale, un progetto estremista che porta alla morte della democrazia!», ha commentato la deputata della République En Marche Laëtitia Romeiro Dias, in riferimento alla coalizione dei partiti progressisti (socialisti, ecologisti e comunisti) guidata da Mélenchon che si presenterà compatta alle legislative. «Il candidato Lfi Aymeric Caron vuole instaurare "una patente per votare" contro i "cittadini incolti e irresponsabili".

Chi deciderà? Lui, immaginiamo», ha twittato Florian Philippot, ex braccio destro di Marine Le Pen, oggi presidente di Les Patriotes. Quando Caron dice che spetta alla "società" decidere, intende questo: «Così come la nostra società decide chi può essere medico e chi può essere avvocato, noi stessi abbiamo creato delle istanze con dei saggi per consegnare diplomi agli uni e agli altri. Allo stesso modo, spetta alla società decidere chi può condurre un'auto». Perché dunque non aggiungere anche il "patentino di voto"? L'idea fa rabbrividire chiunque abbia a cuore la democrazia. Non sorprende, tuttavia, che venga da un partito presieduto da un leader che ha come modello Maduro.

Chi è Jean-Luc Mélenchon, il volto nuovo della sinistra francese. David Romoli su Il Riformista il 13 Aprile 2022. 

Chi è Jean-Luc Mélenchon, il leader che per un pelo non ha soffiato a Marine Le Pen il ballottaggio e il cui peso, o almeno quello dei suoi elettori, deciderà la sorte della Francia e dell’Europa domenica 24 settembre? Sulla soglia dei 71 anni Mélenchon è prima di tutto un “ragazzo di Movimento”, un figlio non degenere del ‘68. Eletto per la prima volta senatore nel 1986 a 35 anni, allora il più giovane senatore della storia, la parabola di Mélenchon è stata dal 1976 al 2008 indistricabilmente intrecciata a quella del Partito socialista, nel quale ha sempre rappresentato l’ala sinistra: tra i primi a denunciare, sin dal 1993, il ruolo crescente del “capitalismo finanziario transnazionale”, ecologista e favorevole alla totale fuoriuscita dal nucleare, primo propositore, agli inizi degli anni ‘90, della legge sulle unioni civili che ha portato poi, alla fine di quel decennio, ai Pacs.

Cresciuto politicamene sotto l’ala di Mitterrand, a cui è sempre stato vicinissimo, è stato protagonista di tutti i numerosi scontri all’interno di quel partito che oggi non c’è più: vicino a Lionel Jospin, come lui un ex trotzkista, nel cui governo è stato dal 2000 al 2002 delegato all’insegnamento professionale nel ministero dell’Educazione, eterno rivale dell’ex presidente Francois Hollande e poi di Ségolène Royal. Oratore brillante e tempestoso, emotivo e secondo gli avversari iracondo, riservatissimo nella vita privata, abituato a circolare solo in autobus e metropolitana, il fondatore nel 2009 del Parti de Gauche, il partito della Sinistra e poi nel 2016, di France Insoumise è stato per tre volte consecutive candidato alla presidenza della Repubblica ma anche senatore, deputato, eurodeputato, consigliere nell’Essonne. Ma nonostante il cursus honorum che più istituzionale non si può è davvero rimasto sempre, nelle idee e nei comportamenti un ragazzo del ‘68, anche se ha sempre sostenuto di essere stato influenzato, nelle sue scelte politiche, più dall’agosto di quell’anno, l’invasione della Cecoslovacchia che lo ha sempre tenuto lontano dai partiti comunisti, che dal maggio, il mese della grande rivolta, quasi una rivoluzione, in Francia.

Forse anche perché la passione del maggio, l’allora diciassettenne Jean-Luc la ha vissuta lontano dal suo incandescente centro, Parigi, come giovane militante già attivo ma in un liceo di provincia, nel dipartimento dello Giura. In Francia era arrivato solo nel 1962 dopo essere nato e cresciuto a Tangeri, Marocco, da una famiglia di pieds-noir, i francesi d’Algeria, con tre nonni spagnoli e la quarta algerina di origini siciliane: un melting pot mediterraneo. Nella madre patria Mélenechon torna a 11 anni, dopo il divorzio dei genitori. Scopre la politica al liceo e se la porta dietro anche quando si trasferisce a Besancon, nel 1969, come studente di filosofia. La formazione politica del futuro leader di France Insoumise è quella tipica di un militante della sinistra rivoluzionaria di quegli anni: gli scontri e le divisioni all’interno dell’Unef, il sindacato studentesco che era stato tra i principali protagonisti del maggio poi l’adesione all’Oci, Organisation communiste internationaliste, gruppo trotzkista guidato da Pierre Boussel, ebreo russo che col nome di Pierre Lambert è stato uno dei principali esponenti trotzkisti sin da prima della guerra mondiale.

Esperienza superata da molti decenni eppure formativa: “Oggi Jean-Luc non è più trotzkista ma si dice Lambertista un giorno, lambertista per sempre. Ha conservato quel modo di procedere: se si convince che un’idea è buona non cambia più strada”, ricordava qualche tempo fa un amico di lunghissima data. Non che la vita di Mélenchon si esaurisse nelle estenuanti discussioni che costellavano la vita dei rivoluzionari degli anni ‘70. Si guadagna da vivere come correttore di bozze, operaio, benzinaio in una stazione di servizio, poi professore di liceo e giornalista. Si sposa e nel 1974 nasce la sua unica figlia, Maryline Camille. Della sua vita privata dopo il divorzio dalla moglie il leader della sinistra francese è estremamente geloso. Ha sempre smentito e negato ogni voce su sue presunte relazioni al punto da denunciare la Mondadori, editrice del periodico Closer, per aver pubblicato una sua foto in un momento privato con Sophia Chikirou, la consigliera per la comunicazione, già indicata da diversi giornali come sua compagna. Nell’agosto 2019 il giudice ha però dato ragione alla Mondadori e a pagare i danni è stato il denunciante.

Che l’uomo sia collerico, facile alle lavate di capo e alle reazioni forti pare assodato. Le risposte sprezzanti, a volte insultanti ai giornalisti sono all’ordine del giorno. Gli intimi garantiscono però che l’uomo è solo estremamente suscettibile, facile a sbotti d’ira che però sbolliscono rapidamente. Forse è davvero così, o almeno questo sembra testimoniare il noto filmato girato il 18 ottobre 2018, quando la polizia perquisì la sede di France Insoumise nel quadro di una doppia inchiesta sull’uso indebito dei fondi europei e di un presunto finanziamento illecito. Mélenchon si presentò con tanto di fascia tricolore, accompagnato da un gruppo di militanti del partito. Si scagliò contro gli agenti che non lo facevano entrare nella sede urlando “La République c’est moi”, ordinò ai suoi di abbattere la porta. Il video però mostra chiaramente che ai momenti più agitati si alternano quelli nei quali il leader rassicura gli agenti “Tranquilli, qui nessuno è violento”. Per quella rissa sfiorata, Mélenechon è stato condannato a 3 mesi di detenzione e 8mila ero di multa. Il fattaccio gli è anche costato la sospensione dalla massoneria nella quale era entrato, come suo padre e suo nono prima di lui nel 1983. Nel 2020 è stato poi lui stesso a chiudere i rapporti con la loggia Grande Oriente.

Oltre e più che nelle sezioni del movimento trotzikista, Mélenchon si è fatto le ossa, nei primi anni ‘70, nel vivo dei conflitti allora frequenti e a volte molto tesi nel Giura. E’ stata proprio l’esperienza interna alle lotte operaie ad allontanarlo dal leninismo e dunque dall’Oci, per aderire al Partito socialista di Mitterrand, che resterà per sempre il suo vero leader, amato anche nei momenti di dissenso. Mitterrand ricambiava: Mélenchon fu uno dei pochissimi che l’ex presidente accettava di incontrare anche nei mesi prima della morte, nel 1995. Tre giorni fa Mélenchon ha mancato per pochissimo il ballottaggio, che avrebbe conquistato senza il piccolo Partito comunista non si fosse presentato, a differenza dl 2017, da solo. In compenso ha restituito una fisionomia di sinistra a un partito di massa nel cuore dell’Europa e porta a casa una soddisfazione significativa. Gli elettori di Macron hanno in media oltre 60 anni, il grosso di quelli di Le Pen sta fra i 35 e i 50. Gli elettori al di sotto dei 35 anni invece hanno votato per l’attempato ragazzo del ‘68. David Romoli

La Waterloo (annunciata) della sinistra francese. Marco Valle su Inside Over l'8 aprile 2022.

C’era una volta la gauche francese. Un galeone apparentemente inaffondabile e invincibile. Sulla tolda troneggiava il potente Partito Socialista di François Mitterrand, alle vele manovrava l’arcigno Partito comunista di Georges Marchais mentre nelle stive e sentine si agitavano i vari coriandoli trotskisti, maoisti, operaisti. Poi iniziò una serie di naufragi e disastri assortiti aggravati dai tanti incapaci al comando.

Nella sensazionale discesa verso l’insignificanza politica i socialisti gallici hanno guadagnato la palma d’oro. Una lunga caduta iniziata con Jospin (battuto al primo turno delle presidenziali del 2022 da un sorprendente Jean Marie Le Pen), proseguita con Ségolène Royal (sconfitta da Sarkozy nelle presidenziali del 2007) e sigillata dallo schianto dell’incredibile François Hollande. Un raro esempio d’imperizia e superficialità. Nel 2012 l’occhialuto segretario del PS arrivò fortunosamente all’Eliseo e in un quinquennio fu capace di distruggere ciò che restava dell’antico partito di Leon Blum. Oltre alle sue disastrose politiche fiscali e sociali, celebri rimasero le sue fughe con le diverse amanti — con tanto di memoriali al cianuro delle ex… — e le sue battute irridenti verso le classi più disagiate, per lui nulla più che una massa di “sdentati” e falliti. Risultato: il record assoluto d’impopolarità per un presidente (l’80 per cento di opinioni sfavorevoli).

Archiviato nel 2017 l’imbarazzante Hollande il partito si affidò all’ex ministro Benoit Hamon. Peggio che mai. Alle presidenziali Hamon fu subito stroncato dall’emergente Emmanuel Macron che inchiodò il rivale a un mesto 6,36 per cento. Da allora il PS sopravvive malamente e oggi si affida per le presidenziali ad Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, nei sondaggi costantemente galleggiante attorno all’1,5-2 per cento.

Altrettanto triste la parabola del PCF. A partire dal 2000 il partito è crollato nei consensi e oggi naviga attorno al 3,3 per cento con soli dieci deputati. Poca roba ma sempre meglio dei risultati di Philippe Poutou del Nouvelle Parti Anticapitaliste e di Nathalie Artaud di Lutte Ouvrière, due figuranti del vecchio militantismo dell’ultrasinistra e ambedue inchiodati su percentuali irrisorie. Deludente altresì l’effimera parabola dei verdi francesi raggruppati in Europe Ècologie – Les Verts. Dopo un’ascesa impetuosa giocata sull’onda delle mobilitazioni dei Friday for Future e un ottimo 13,5 alle ultime elezioni europee, la formazione di Yannik Jadot è ora in affanno e i sondaggi si fermano a un modesto 5,3.

L’unico a svettare in questa triste palude è Jean-Luc Mélenchon, un personaggio indubbiamente interessante. Già trotskista in gioventù e poi ministro socialista con Jospin nel 2008 rompe con il P.S e costruisce un suo partito personale (dal 2016 La France Insoumise) con cui si candida alle presidenziali nel 2012 arrivando quarto con 11,1 per cento dei voti e nel 2017, sempre quarto ma con il 19,58.

Grazie alla sua oratoria travolgente e una grande spregiudicatezza l’uomo è capace d’interpretare il malcontento di diversi (e disomogenei) segmenti della frammentata società francese: ex comunisti e radical chic ma anche parte dei “gilets jaunes” della Francia rurale, tribù multietniche delle banlieue, no vax, militanti woke e altri grumi mal assortiti di disperazione urbana.  Nella sua narrazione tutti loro sono il “popolo della Francia creola”, quell’altro “popolo francese” ancora senza rappresentanza, diritti e potere. Una visione demagogica ma certamente pagante. Dopo una partenza in sordina, Mélenchon oggi viaggia attorno al 15,1, sotto Macron (27,4) e Le Pen (21,0) ma decisamente sopra Zemmour (10,2) e Pècresse (9,7).

In più a, differenza dei suoi rivali destristi, il tribuno gauchista sembra non pagare dazio per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina e continua a sostenere una posizione equidistante e, non velatamente, critica verso la Nato e l’America. Da qui le accuse di una stizzita Hidalgo a Mèlenchon reo, a suo avviso, d’essere “come Zemmour e Le Pen un agente di Putin, un complice dell’attacco all’Europa e ai nostri modelli democratici”. Strali che però non colpiscono il leader di France Insoumise. Il candidato sa bene che il suo pubblico, il suo elettorato è indifferente a ciò che sta avvenendo ai limiti dell’Europa e palpita invece per altri temi: il costo del gas e dell’elettricità, il potere d‘acquisto, i prodotti di prima necessità, la disoccupazione, la povertà degli ultimi.  Il cuore del messaggio di Mélenchon è la rabbia sociale. Un fattore, elezioni o meno, mai da sottovalutare.

La morte del giovane ebreo pestato nella banlieue indigna la Francia. Alessandra Benignetti su Inside Over il 6 aprile 2022.

La sera del 16 febbraio un uomo di trent’anni viene portato in ospedale in fin di vita a Bobigny, una delle banlieue parigine più difficili. Quelle in cui il separatismo islamista, lo spaccio e la violenza si fanno strada tra i casermoni delle case popolari. Il paziente condotto d’urgenza al pronto soccorso è stato travolto da un tram. Le sue condizioni sono disperate: ha un grave trauma cranico e ha subito un arresto cardiocircolatorio. I medici cercano di rianimarlo ma qualche minuto dopo la mezzanotte la sua vita si spegne a causa delle gravi lesioni riportate nell’incidente.

Per gli inquirenti a provocare la morte di Jérémie Cohen, ragazzone francese di origine ebraica che viveva nella cittadina del dipartimento della Seine-Saint-Denis, è stata una tragica fatalità. Un attraversamento avventato, fuori dalle strisce pedonali. Ma la realtà potrebbe essere ben diversa. Ed è per questo che il caso è finito al centro del dibattito politico francese a pochi giorni dall’apertura delle urne per il primo turno delle presidenziali. A mettere tutto in discussione è un video diventato virale nei giorni scorsi sui social network e poi censurato.

Le immagini, riprese dall’alto, inquadrano Jérémie che attende davanti ad un negozio di articoli sportivi. Si vede un uomo che corre verso di lui e lo colpisce. Si aggiungono altre persone e inizia un vero e proprio pestaggio. Lui, che ha un lieve handicap psico-motorio, cerca con difficoltà di fuggire. Corre a fatica e riesce a ripararsi in mezzo a due auto. Da lì, senza guardare davanti a sé, scatta verso le rotaie per attraversare la strada in cerca di salvezza. Ed è a quel punto che il tram lo travolge senza lasciargli scampo.

Accanto al corpo della vittima è stata ritrovata una kippah. Un particolare che fa pensare ad una possibile matrice antisemita dell’aggressione. Non sarebbe una sorpresa in una periferia dove le scorribande violente sono all’ordine del giorno. Il procuratore di Bobigny, Eric Mathais, citato dai media francesi, precisa però che attualmente “non c’è alcun elemento che permette di stabilire con certezza se la vittima portasse visibilmente la kippah al momento dell’aggressione” e, di conseguenza, se la violenza sia scattata o meno per “motivi discriminatori”.

La famiglia di Jérémie, però, vuole vederci chiaro. È proprio grazie agli sforzi dei fratelli del giovane, che dopo la tragedia hanno fatto appello alla cittadinanza per recuperare testimonianze sull’accaduto, che è spuntato fuori il video che incastra il gruppo di violenti. E ora Gérald Cohen, il papà del giovane ucciso, chiede che l’inchiesta non venga insabbiata. Per questo, dai microfoni di Bfmtv e della seguitissima trasmissione Touche pas à mon poste!, condotta da Cyril Hanouna su C8, si è rivolto direttamente Eric Zemmour per chiedergli di impegnarsi affinché l’indagine non venga “chiusa” o “soppressa”.

Il candidato dell’estrema destra ha subito raccolto la sfida. “È morto perché è ebreo? Perché vogliono soffocare l’inchiesta?”, ha scritto Zemmour su Twitter. Intervistato da France 2 denuncia il silenzio attorno al caso e promette che non volterà le spalle al papà del ragazzo “picchiato da una banda di teppisti”. Dopo l’aggressione in carcere per mano di un giovane detenuto radicalizzato costata la vita all’indipendentista corso Yvan Colonna, con il caso Cohen il tema della sicurezza torna alla ribalta nella campagna elettorale. Anche la leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, evoca l’antisemitismo parlando di “atto criminale”. Intervistata da France-Inter, ha accusato i media di voler minimizzare o addirittura nascondere l’accaduto per non mettere in imbarazzo l’Eliseo a poche settimane dal voto.

Nicolas Dupont-Aignan, capo del partito neogollista Debout la France, parla di “aggressione antisemita” e di “orrore assoluto”. Anche la sinistra calca la mano, con il candidato comunista Fabien Roussel e Jean-Luc Mélenchon di La France Insoumise, che sposano la stessa tesi e chiedono che sia fatta chiarezza sui reali motivi dell’aggressione. Qualche giorno fa anche il presidente Emmanuel Macron si è interessato alla vicenda, facendo contattare i genitori di Jérémie dai suoi uffici. “Nel rispetto dell’indipendenza della giustizia, tutti i mezzi saranno messi in atto per identificare gli autori di questa aggressione e fare piena luce sulla vicenda”, hanno assicurato dalla presidenza della Repubblica. Del caso, fanno sapere dall’Eliseo, si starebbe occupando personalmente il ministro della Giustizia, Eirc Dupont-Moretti. E Macron, precisano, “viene tenuto personalmente informato”.

Morto Yvan Colonna, rischio caos in Corsica. Fabio Polese il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.

Yvan Colonna, per oltre quattro anni l'uomo più ricercato di Francia, è morto lunedì in un ospedale di Marsiglia dopo 19 giorni di coma.

Yvan Colonna, per oltre quattro anni l'uomo più ricercato di Francia, è morto lunedì in un ospedale di Marsiglia dopo 19 giorni di coma. Storico militante dell'indipendentismo corso, stava scontando l'ergastolo ad Arles, in Provenza, per l'omicidio del prefetto Claude Erignac avvenuto nel 1998.

Il nazionalista, che si è sempre dichiarato innocente, è deceduto a seguito del violento attacco subito in carcere il 2 marzo scorso, quando nella palestra dell'istituto penitenziario, è stato picchiato per otto minuti - senza che nessuna guardia carceraria intervenisse - da un camerunense islamista condannato a nove anni di reclusione per terrorismo, dopo aver combattuto gli occidentali in Afghanistan. «Yvan Colonna, patriota corso, vive per l'eternità. Noi saremo sempre al tuo fianco», ha twittato in corso il partito «Femu a Corsica» di Gilles Simeoni, il presidente autonomista del Consiglio esecutivo dell'isola. Poco prima la famiglia aveva confermato il decesso, chiedendo riservatezza. «Yvan Colonna, morto per la Corsica», ha postato sui social «Core in Fronte», il principale partito indipendentista, accompagnando il messaggio con una foto del militante. All'annuncio della morte, alcune decine di persone si sono riunite a Bastia davanti al Palazzo di Giustizia, appendendo striscioni con lo slogan «Statu francese assassinu». L'aggressione di marzo ha scatenato la rabbia del movimento indipendentista, che nelle ultime due settimane ha manifestato e messo a ferro e fuoco diverse città della Corsica. Dopo le violenze, il presidente Macron, che oggi ha esortato alla «calma e responsabilità», ha promesso l'autonomia e ha spedito sull'isola il ministro dell'Interno Gérald Darmanin, con la speranza di calmare i nazionalisti. Le trattative dovrebbero iniziare ad aprile, ma con la morte di Colonna la situazione potrebbe infiammarsi velocemente. Nuovi raduni di protesta sono già stati indetti ad Ajaccio e Bastia per i prossimi giorni. E come se questo non bastasse, è tornato anche lo spettro del conflitto armato. Il 16 marzo il Fronte di Liberazione Nazionale della Corsica - discioltosi nel 2014 - con una lettera al quotidiano Corse Matin, ha annunciato la ripresa della lotta clandestina, lodando i giovani che negli ultimi giorni sono scesi in piazza. Yvan Colonna, che dalla stampa francese veniva chiamato «il pastore di Cargèse», non sapendo però, che in Corsica «u pastore» è considerato soprattutto un uomo libero, non c'è più. Ma per i nazionalisti, che amano chiamare i fratelli di lotta semplicemente con il loro nome, rimarrà sempre Yvan, martire della causa corsa. Mentre per tutti gli altri resterà l'assassino del prefetto Erignac.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 18 marzo 2022.

Il disastro ucraino, come è normale che sia, distrae dal resto del mondo. Pochi per esempio sapranno della Corsica di nuovo infiammata dagli indipendentisti. Le sommosse antifrancesi sono ricominciate da un paio di settimane, dopo che Yvan Colonna - campione dell'indipendentismo recluso in carcere per l'omicidio di Claude Érignac, prefetto della Corsica del sud ammazzato con un colpo in nuca nel 1998 ad Ajaccio - è stato ridotto in coma da un compagno di detenzione, un islamico radicalizzato. 

Colonna doveva essere guardato a vista per il suo particolare status, ma tutti se lo sono dimenticato per il tempo necessario all'aggressore di devastarlo di botte. Le proteste hanno portato all'incendio del palazzo di giustizia di Ajaccio, a prefetture bersagliate di molotov, a scontri di piazza con centinaia di feriti.

So poco dell'indipendentismo córso, ma sono un fan del generale Pasquale Paoli (maestro di Napoleone e da cui fu poi tradito) che conquistò l'indipendenza all'isola nel 1755 e, quarant' anni prima della Rivoluzione francese, la dotò di una Costituzione che dichiarava gli uomini liberi, uguali e titolari del diritto alla felicità, ed estese il suffragio alle donne, due secoli prima dell'Italia. 

Ora Emmanuel Macron promette l'autonomia, ma son questioni interne qui poco rilevanti. È invece interessante spiegare chi sono i massimi avversari del sovranismo córso: i sovranisti francesi. E cioè Marine Le Pen e Éric Zemmour, scandalizzati alla sola idea di una lesione all'integrità del territorio nazionale. E questo è il succo dei sovranisti: che gli preme soltanto il sovranismo loro e detestano quello altrui.

Ghjustizia è verità. I giovani della Corsica vogliono più autonomia dalla Francia. Lucio Palmisano su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.

Da un paio di settimane in tutta l’isola i separatisti chiedono maggiori libertà a Parigi, con manifestazioni e scontri che finiscono in numerosi arresti. L’Eliseo adesso sembra disposto al dialogo: il tema potrebbe accendere una campagna elettorale finora anestetizzata dal conflitto in Ucraina. 

La Festa della Madunnuccia nel momento più particolare della storia della Corsica. Tra il 17 e il 18 marzo ad Ajaccio, capoluogo dell’isola, si festeggia la santa patrona della città, quella che nel XVII secolo salvò la città e l’isola dalla peste polmonare in arrivo da Genova.

Dopo due anni di assenza, causa Covid, la statua della Madonna è tornata a sfilare in città, in uno dei suoi rari momenti di calma: da un paio di settimane in tutta l’isola i separatisti tengono manifestazioni di piazza chiedendo, al grido di «Statu francese assassinu», l’indipendenza dalla Francia.

Arresti, feriti ed episodi come quello di domenica 13 marzo a Bastia, dove i manifestanti hanno lanciato molotov contro la prefettura, sono ormai all’ordine del giorno. Per questo è giunto sull’isola il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin con l’obiettivo, dichiarato in maniera formale, «di aprire un ciclo di discussioni con i rappresentanti e le forze vive dell’isola e discutere anche di un’eventuale autonomia».

Un tema che può accendere una campagna presidenziale finora anestetizzata dal conflitto in Ucraina.

L’origine della vicenda ha un nome e un cognome: Yvan Colonna, personaggio mitico dell’indipendentismo còrso. Colonna era in carcere ad Arles, in Provenza, per l’omicidio del prefetto Claude Erignac, avvenuto con colpi di arma da fuoco alla schiena in pieno centro ad Ajaccio il 6 febbraio 1998. Una pena simile a quella degli altri indipendentisti còrsi, arrestati e condannati tutti a scontare la propria pena lontano dall’isola in regime di stretta sorveglianza, nota in Francia come DPS (Détenu particulièrement signalé).

Nonostante i rigidi controlli lo scorso 2 marzo Franck Elong Abé, già condannato a 9 anni per associazione criminale terroristica e adesso accusato anche di tentato omicidio, è riuscito ad avvicinarsi a Colonna e a strangolarlo per 8 minuti senza che nessuna guardia intervenisse.

Il detenuto còrso è finito in coma all’ospedale di Marsiglia e questo ha scatenato la rabbia degli indipendentisti locali, che si sono chiesti come sia stato possibile che un detenuto sotto stretta sorveglianza sia stato aggredito senza che nessuno intervenisse. «Ti rendi conto, sono passati otto minuti prima che i servizi di emergenza intervenissero con lui. Quando conosci la centrale di Arles come me, la sua organizzazione molto sicura, è impossibile. È un vero e proprio scandalo di Stato. Dovremo fornire risposte concrete», ha dichiarato Jean-Felix Acquaviva, deputato del Partito autonomista Femu a Corsica.

Su Twitter il collettivo separatista Ghjuventù Libera ha indicato quali sono gli obiettivi di coloro che manifestano: la verità sul caso Colonna; il rilascio immediato dei prigionieri politici e l’inizio di un processo di riconoscimento dell’indipendenza còrsa da parte dello Stato francese.

«Il modo in cui si è strutturata questa rivolta non ha precedenti poiché è scoppiata all’interno di una giovane generazione che non era ancora nata quando il prefetto Erignac fu assassinato nel 1998 e che oggi glorifica uno dei suoi assassini, Yvan Colonna. Questi ragazzi sono vicini ai movimenti indipendentisti, hanno vissuto anche le loro vittorie, ma si definiscono delusi. Questa generazione che grida contro l’ingiustizia e sfila sotto lo stendardo “Statu francese assassinu” è determinata e non vuole che la sua vittoria venga rubata», racconta a Linkiesta Paul Ortoli, giornalista corrispondente del quotidiano Le Monde in Corsica e giornalista di Radio France RCFM.

Mentre migliaia di persone sfilano in piazza è tornato a farsi vivo anche il Flnc (Fronte di Liberazione Nazionale della Corsica), discioltosi nel 2014, che, al grido di «A ragione hè a nostra forza», ha annunciato la ripresa della lotta clandestina, lodando i giovani.

«Per questo è un movimento di protesta diverso dai precedenti: questi ragazzi sono esperti in tecniche di guerriglia urbana e conoscono i social. Faranno sentire la loro voce fino alla fine», sostiene Ortoli.

La trattativa politica

In un simile contesto quasi sorprende la volontà di parlare da parte delle istituzioni. Da giorni è infatti presente sull’isola il ministro degli Interni francese Gérald Darmanin, mandato dal presidente della Repubblica Emmanuel Macron con l’obiettivo di trovare una convergenza politica con le istituzioni còrse, in primis con il governatore Gilles Simeoni, e trattare su temi anche scottanti, come l’autonomia.

«Siamo pronti a spingerci fin lì, ma poi dobbiamo discuterne e capire cosa significa. Prima di ogni possibile dialogo, va detto che un ritorno alla calma è conditio sine qua non. Il presidente Macron è pronto ad aprire un fronte di dialogo che si protenderà ovviamente in caso di vittoria alle elezioni, nei prossimi cinque anni», ha dichiarato il ministro degli Interni in un’intervista su Corse Matin, quotidiano di lingua francese della Corsica.

A queste parole Parigi ha fatto seguire anche altri fatti: infatti ha revocato lo status di “sorvegliato speciale” non soltanto a Colonna ma anche a Alain Ferrandi e Pierre Alessandri, gli altri due indipendentisti còrsi accusati dell’omicidio di Erignac e in carcere a Poissy, comune francese nella regione dell’Ile-de-France.

«Siamo in attesa di un calendario e di un vero metodo di lavoro per discutere intorno ad un tavolo come ci ha annunciato il Ministro Darmanin. La firma di un protocollo per ratificare tutte le nostre richieste e per stabilire un metodo di lavoro dovrebbe avvenire oggi. Resteremo vigili sul contenuto di questo protocollo», dichiara a Linkiesta il deputato del Pnc (Partito della Nazione Còrsa) all’Assemblea Nazionale, Paul-André Colombani.

Richieste che non sembrano assolutamente trattabili e su cui servirà una lunga e faticosa discussione: secondo Ortoli, «la presenza di Darmanin ha certamente un po’ sedato le rivolte. La questione però resta soprattutto politica: sono proprio i nazionalisti, capeggiati dal governatore Simeoni, a non volere la trattativa. Il loro sogno è un modello di indipendenza simile a quello sardo o siciliano».

Le elezioni presidenziali

La improvvisa disponibilità al dialogo da parte del governo francese sembra a molti sospetta, soprattutto vista la tempistica. Il 10 aprile si terrà infatti il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, alle quali il presidente Macron è candidato. «Servono risposte concrete, non annunci a vuoto. La Corsica ha combattuto democraticamente per decenni per ottenere uno status autonomo e per anni abbiamo lavorato sia nelle istituzioni locali che in quelle nazionali per far avanzare politicamente la questione còrsa. È un rammarico dover arrivare a questo punto per farci ascoltare dal governo», dichiara Colombani.

Ciò che preme soprattutto ai nazionalisti è una sorta di vero e proprio riconoscimento dello status della Corsica, vicino magari al modello polinesiano, «che significherebbe sancire il valore del popolo dell’isola e la coufficialità delle due lingue, il còrso e il francese. Ad oggi la Corsica continua ad avere la sensazione di non essere ascoltata da parte di Parigi. È vero, sull’isola ci sono soltanto 240 mila elettori su diversi milioni a livello nazionale, e oggi l’attenzione dei media è su ciò che succede in Ucraina, ma le cose stanno pian piano mutando. Ciò che succede in Corsica comincia a sentirsi a Parigi», evidenzia Ortoli.

Le promesse di Darmanin sono subordinate a quello che succederà nelle urne ma anche gli avversari politici non stanno a guardare. Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, ha dichiarato che se verrà eletta «proteggerà l’integrità francese», mentre Valerie Pécresse ha attaccato il presidente Macron, sostenendo che in questo modo «legittima soltanto le violenze».

Discorso diverso invece per Éric Zemmour: da un lato rimarca come «la vita della Corsica non sia per forza legata alla morte della Francia», sostenendo difatti una qualche forma di autonomia dentro il quadro francese, ma dall’altro sottolinea l’origine islamista dell’aggressore.

Difficile capire, a questo punto, cosa accadrà alle urne. «È molto probabile che ci sia un’alta astensione», sostiene Ortoli che però indica anche un’altra possibilità. «Di sicuro le schede che porteranno il nome di Yvan Colonna saranno tantissime». 

"Il velo in campo? Un diritto". Se i macronisti difendono l'islamizzazione dello sport. Alessandra Benignetti il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.

È polemica in Francia per la bocciatura da parte dei deputati del partito di Macron di un emendamento presentato dai Républicains per vietare il velo nelle competizioni sportive. E nel Paese monta la protesta delle Hijabeuses.  

La lotta al separatismo di Emmanuel Macron si è fermata sul campo da calcio. È questa l’accusa che da settimane parte dell’opinione pubblica francese muove al suo presidente. Nel mirino c’è la bocciatura all’Assemblée Nationale di un emendamento dei Républicains per chiedere di vietare "simboli o indumenti" che ostentino la propria appartenenza religiosa durante le manifestazioni sportive, approvato al Senato lo scorso 19 gennaio.

Per il promotore della misura, il senatore repubblicano Michel Savin, intervistato di recente da La Stampa, il velo rappresenta un simbolo controverso, spesso imposto alle donne e alle bambine contro la propria volontà. Per questo bisogna far sì che "il campo dove ci si affronta sportivamente non diventi un luogo dove s' impongono fedi religiose o idee politiche". Il principio è quello della laicità che permea le istituzioni francesi e che secondo la destra gollista dovrebbe essere rispettata anche nello sport.

Ma la decisione ha provocato la rivolta di un gruppo di atlete musulmane, le Hijabeuses, che hanno lanciato una mobilitazione per chiedere il ritiro del provvedimento e rivendicare il proprio diritto di poter indossare il velo durante le partite di calcio ufficiali, come succede dal 2014 a livello internazionale, dopo il via libera della Fifa. "Che cos'hanno contro il mio velo e contro la mia libertà di credere e scegliere?", si legge in un appello lanciato ai parlamentari dell'Assemblée Nationale, chiamati ad esprimersi sul provvedimento. E ancora: "Perché devo essere costretta a scegliere tra il mio credo religioso e il mio desiderio di essere un'atleta".

Tra le prime a raccogliere il grido delle calciatrici velate c'è stata la ministra delle Pari Opportunità del governo francese, Élisabeth Moreno, che ha difeso "il diritto a portare il velo per giocare". "Sostengo la possibilità per le ragazze di fare sport senza essere discriminate – ha aggiunto, citata da Le Figaro – la legge dice che queste giovani possono portare il velo e giocare a calcio". E alla fine come lei si è espressa anche la maggioranza dei deputati macronisti, rigettando l'emendamento proposto dalla destra.

A dire il vero, però, la decisione non è stata univoca. Anche nella stessa maggioranza, infatti, sembra esserci un dibattito aperto tra i sostenitori di una laicità dai confini più ampi e gli intransigenti. Rientrano in questa categoria i sei deputati della Republique en Marche non hanno seguito le indicazioni di voto arrivate dal partito. "La religione non ha niente a che vedere con lo sport", ha spiegato nell’emiciclo Aurore Bergé, parlamentare di Lrm. Ma è significativo che anche due ministri, Bruno Le Maire e Marlène Schiappa, si siano dichiarati favorevoli al divieto di esporre simboli religiosi durante le partite di calcio e in generale in tutte le competizioni sportive, dissentendo dalla collega Moreno.

Intanto l’opinione pubblica si divide tra chi grida al razzismo – è di qualche settimana fa l’appello di 50 sportivi tra cui Eric Cantona e Lilian Thuram a sostegno delle Hijabeuses– e chi chiede al governo di prendere posizione per non lasciare sole le federazioni sportive che promuovono la "neutralità ideologica". Il sito di informazione Causeurs, ad esempio, accusa i macronisti di voler "proteggere l’islamizzazione dello sport anziché proteggere lo sport dall’islamizzazione", strizzando l’occhio ai "movimenti sempre più virulenti delle Hijabeuses, che vogliono esibire il loro stendardo islamista ovunque e in qualsiasi circostanza".

Il velo, si legge ancora sul sito del mensile fondato dalla giornalista francese Élisabeth Lévy, non è un semplice "indumento ma un segno ostentato di supporto a un'ideologia militante e portatrice di un progetto di società profondamente malsano, che rifiuta l'uguaglianza dei diritti civili tra uomini e donne, tra musulmani e non musulmani, che rifiuta la libertà di coscienza, la libertà di pensiero, la libertà d'espressione". "E pensare – attacca ancora la rivista - che alcuni credono ancora, contro ogni evidenza, che Macron sia pronto a difendere la Repubblica e la laicità dall'islamismo".

"L'emendamento dei senatori Lr era più che benvenuto, perché avrebbe permesso di sottolineare in maniera chiara la nostra determinazione collettiva a rifiutare che gli islamisti continuino a infiltrarsi negli ambienti sportivi per indottrinare i giovani e diffondere il loro veleno ideologico", continua l’articolo, che denuncia come ormai chi critica l’Islam in Francia abbia bisogno di essere messo sotto scorta.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" il 4 febbraio 2022.

Tre persone vivono da giorni nascoste e sotto la protezione della polizia per le minacce ricevute dopo unA trasmissione sugli islamisti a Roubaix. La Francia si preoccupa per la loro sicurezza e si interroga sulla possibilità di raccontare e denunciare ancora le derive dell'Islam radicale senza rischiare la vita. Inchiesta tv su Roubaix, nel Nord della Francia, al confine con il Belgio.

La conduttrice Ophélie Meunier presenta il reportage realizzato dalla regista Michaëlle Gagnet per la serie dellA rete M6 «Zone interdite», zona proibita. Un giovane avvocato del posto, Amine Elbahi, racconta delle lezioni coraniche camuffate da corsi di recupero (forse con la complicità del municipio), poi la telecamera nascosta entra in un negozio per bambini dove si vendono bambole senza volto, per non fare dispiacere ad Allah, e una ragazza velata racconta che quei pupazzi vanno a ruba e alle bambine in fondo non dispiacciono, «basta non dare tante spiegazioni».

In giro molte donne quasi totalmente coperte dal velo, alcuni quartieri sono visibilmente in mano ai musulmani radicali e Amine Elbahi denuncia l'inazione dei politici e il proselitismo degli islamisti, che sei anni fa sono riusciti ad arruolare sua sorella, partita per la Siria.

La trasmissione provoca subito forti polemiche anche perché la questione dell'islamismo è al cuore della campagna elettorale per l'Eliseo (si vota ad aprile), con il candidato di estrema destra Éric Zemmour che punta tutto sulla promessa di salvare la Francia dal presunto grand remplacement, la «grande sostituzione» dei francesi a opera degli immigrati in maggioranza musulmani teorizzata anni fa dallo scrittore Renaud Camus (e mai confortata dai numeri).

Zemmour non si lascia sfuggire l'occasione e definisce la Roubaix raccontata da «Zone interdite» come «l'Afghanistan a due ore da Parigi». Poche ore dopo la messa in onda del programma, domenica scorsa, arrivano le minacce di morte.

Da allora Ophélie Meunier, celebre volto della tv francese, Michaëlle Gagnet e Amine Elbahi vivono sotto protezione. Dopo un paio di giorni di distrazione generale, la questione diventa di primo piano perché riguarda non solo le tre persone minacciate ma i media in generale e tutta la società francese: impossibile fare informazione, descrivere la realtà mostrando i pericoli dell'islamismo radicale, se gli autori delle inchieste rischiano la vita.

Le minacce di Roubaix servono a intimidire chiunque abbia in mente di seguire l'esempio di «Zone interdite». Un giornalista che testimonia durante la trasmissione, Bruno Renoul del giornale regionale La Voix du Nord, dice che «indagare sull'islamismo equivale a farsi bollare immediatamente di islamofobia, accusa non facile da digerire».

In difesa di Ophélie Meunier e degli altri minacciati e sotto protezione, molti media francesi si stanno mobilitando. Sul Figaro 160 personalità, tra le quali gli scrittori Boualem Sansal, Frédéric Beigbeder e Michel Onfray, firmano un intervento nel quale si legge «Siamo in Francia, nel 2022. Che cosa resta dello spirito Charlie (in riferimento al giornale Charlie Hebdo, bersaglio dell'attentato islamista del 7 gennaio 2015, ndr)? Siamo abituati ai giornalisti in pericolo nelle zone di guerra e negli Stati totalitari. Dobbiamo abituarci anche a leggere che giornalisti francesi sono costretti a essere protetti dalla polizia perché hanno svolto un'inchiesta nel loro Paese?».

Guerra di religione in Francia: tra i musulmani dilaga l'antisemitismo. Alessandra Benignetti su Il Giornale il 30 gennaio 2022.

Il 45 per cento degli ebrei francesi preferisce nascondere la propria appartenenza religiosa per evitare di essere aggredito o insultato. È il dato choc che emerge da un’indagine commissionata dall'American Jewish Commettee (Ajc) e dalla Fondation pour l'Innovation Politique all’istituto Ifop, pubblicata in esclusiva da Le Parisien. Nella settimana in cui si celebra la giornata della memoria, il quotidiano parigino lancia l’allarme sulla diffusione dell'antisemitismo nel Paese e sulle contraddizioni di una società che spesso ha paura di denunciare i crimini d’odio contro le persone di religione ebraica per non offendere altre confessioni.

La ricerca, infatti, si focalizza su due gruppi di intervistati, cristiani e musulmani. Questi ultimi indicano come responsabili dell’odio contro gli ebrei i movimenti di estrema destra, mentre per i primi ad avere un ruolo sempre più importante nella diffusione dell’antisemitismo è l’avanzata dell’islam radicale. Nelle moschee francesi, infatti, i discorsi anti-ebraici sono sempre più frequenti. C’è chi non si fa troppi problemi a dichiararsi antisemita o antisionista, con riferimento al conflitto israelo-palestinese. E il 61 per cento dei musulmani praticanti pensano che gli ebrei siano "troppo potenti".

Un’opinione, questa, scrive Ève Roger nell’editoriale pubblicato sul quotidiano parigino, condivisa dal 22 per cento dei francesi. Per il 48 per cento dei cittadini che vivono Oltralpe, inoltre, gli ebrei avrebbero "un rapporto particolare con il denaro". Sono "stereotipi veicolati dall'estrema destra", nota la giornalista, che però hanno presa anche tra i musulmani più ortodossi. Spesso, però, come nota Mauro Zanon su Libero, la sinistra francese fatica a denunciare il fenomeno per non passare per "islamofoba".

Eppure non sono rari i casi di moschee chiuse a causa di sermoni che prendono di mira gli ebrei. L’ultimo caso risale al 12 gennaio scorso, a Cannes. Senza considerare l’attacco del gennaio del 2015 all’Hypercacher di Porte de Vincennes, quello del 2012 nella scuola ebraica di Tolosa, dove il 23enne franco-algerino Mohammed Merah ha ucciso quattro persone tra cui tre bambini, o l’omicidio della professoressa 65enne Sarah Halimi. La donna è stata uccisa nel 2017 da uno squilibrato, Kobili Traoré. Inizialmente era stata riconosciuta l’aggravante dell’antisemitismo perché l’uomo avrebbe gridato Allah è grande e "ho ucciso un demone", mentre si accaniva sulla vicina di casa.

Secondo l’indagine dell’Ifop, in Francia il 68 per cento dei cittadini di religione ebraica ha subito umiliazioni, mentre il 20 per cento, uno su cinque, è stato vittima di violenza fisica. Succede specialmente quando l’appartenenza religiosa si manifesta con simboli evidenti, come la kippah o la stella di David. La maggior parte delle aggressioni avviene nelle aule scolastiche, dalle elementari all’università. È il 18 per cento dei genitori, infatti, a confessare che i propri figli sono stati aggrediti fisicamente almeno una volta, proprio perché ebrei.

E l’antisemitismo è protagonista anche nelle manifestazioni anti-governative di queste settimane. Nelle proteste contro il green pass spuntano liste di nomi di personalità di origine ebraica (vera o presunta) accusati di essere i "responsabili della pandemia". "Gli storici hanno dato una chiave di lettura: - scrive Roger su Le Parisien – ogni volta che si presenta una crisi, quando dubbio e incertezza prevalgono, queste tesi nauseabonde riemergono dal fondo del complottismo". E così gli ebrei che "tirerebbero le fila grazie al loro potere occulto" su Big Pharma e sui vaccini, finiscono ancora una volta nel mirino.

Fine di un amore: in Francia è crisi tra intellettuali e sinistra. Lorenzo Vita l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

C'è una classe politica che in Francia che viene esclusa dalla nuova sinistra ma non si considera di destra. E in larga parte è testimone della tradizione repubblicana d'Oltralpe.

Dov'è finito il classico intellettuale francese di sinistra? Probabilmente non più a sinistra, e tantomeno a destra. È questa la tesi di un articolo apparso su Le Figaro e tradotto per Il Foglio in cui si descrive una particolare realtà del mondo intellettuale di Francia. Quello che un tempo era il gotha della cultura della sinistra d'Oltralpe, e che ha vissuto per decenni in simbiosi con i partiti che rappresentavano questo mondo, ora non si riconosce più in quella stessa area politica. I partiti sembrano non avere più bisogno di quei rappresentanti intellettuali che per diversi anni hanno rappresentato la difesa del laicismo di Parigi e dell'universalismo. E chi è rimasto fedele alle tesi che hanno reso la Francia il faro della cultura illuminista nel mondo, oggi, o vengono bollati come "di destra", oppure si devono semplicemente autoescludere dall'essere "di sinistra".

Quello che sembra accadere nel Paese è un processo di polarizzazione che è frutto anche di un certo modo di intendere la sinistra. Escluso il nodo del "mondo operaio", spesso utilizzato come clava per dividere una sorta di "vera" sinistra da un'altra che non rappresenterebbe più i ceti popolari, il tema di fondo è che oggi chi era di sinistra non è più assimilabile alla gauche che impazza sui social o che sembra avere successo a livello mediatico. Un processo che è frutto di una spaccatura molto importante e che può farsi risalire addirittura allo scorso millennio, quando in Francia si iniziò a discutere del velo islamico nelle scuole pubbliche. Una parte di sinistra, a quel tempo molto agguerrita e che tutt'oggi si considera tale per i valori che esprime, si prodigò per evitare che le ragazze musulmane indossassero il velo che imponeva loro la famiglia. Si diceva che lo Stato era superiore a tutto, lo Stato laico, frutto di una visione illuminista che ha permea la Francia dalla Rivoluzione. Quindi qualcosa di assolutamente lontano dalle logiche del mondo conservatore o cattolico. Ma in quel momento, iniziava a sorgere un'altra sinistra, che invece di difendere quei tipici dogmi della cultura repubblicana francese, iniziò a imporre una visione multiculturale che oggi ha largamente soppiantato quella tradizionale.

Così oggi, spiega Le Figaro, si è formata una classe di intellettuali che di fatto non è considerata più "di sinistra" ma rifiuta categoricamente l'essere considerata "di destra". Un ceto intellettuale che rimane spesso il vero testimone di una Francia che è stata per molto tempo il simbolo del laicismo e dell'universalismo illuminista, dove anzi l'imposizione della cultura francese nel mondo - come accadeva nell'ex impero coloniale - era il segno di un desiderio di educare i popoli. Lo racconta in questo articolo Marco Valle.

Oggi, investiti dal multiculturalismo e dalla cosiddetta "cancel culture", i valori che formavano quella classe culturale e politica sono arretrati. E quegli intellettuali sono diventati politicamente apolidi. A destra non possono essere di casa, mentre la nuova sinistra li respinge o li etichetta come alieni, se non addirittura "fascisti". Jacques Julliard eminente storico, dice una frase interessante: "Non sono gli intellettuali che hanno abbandonato la sinistra, è la sinistra che ha abbandonato gli intellettuali". Forse proiettata su altri lidi fatti di politicamente corretto e distruzione del passato.

Un segmento culturale da non sottovalutare, specialmente se messo in parallelo con i cambiamenti politici in corso nel Paese. La Francia ha una forte componente di destra, divisa tra diversi partiti, ma che si presenta a queste urne sicura di mandare un rappresentante al ballottaggio con Emmanuel Macron. Eric Zemmour, che probabilmente non arriverà al secondo turno, è stato già per certi versi la spia di questo strano cambiamento intellettuale d'Oltralpe visto che l'opinionista, considerato l'astro nascente della destra radicale francese, è un uomo che per anni è stato una penna dei più importanti quotidiani nazionali. Se dunque c'è una parte del mondo culturale che non si riconosce più a sinistra, ce n'è un'altra, a destra, che sta provando a strappare spazi. E il centro di Macron, soprattutto con la sua battaglia all'islamismo ma anche con una novella battaglia rispetto ai modelli che vogliono abbattere il passato, potrebbe diventare l'approdo naturale degli ultimi eredi della vecchia sinistra francese. Sempre che la "gauche" non cambi registro e si ricordi di chi era nel suo pantheon: Simone de Beauvoir, Claude Levi-Strauss, Michel Foucault, Jean-Paul Sartre... oggi completamente dimenticati.

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho trasformata in lavoro. Così, nel 2017, sono entrato nella redazione de ilGiornale.it. Vivo diviso tra Roma e Milano, nell'eterna lotta tra cuore e testa. Ho scritto un libro: "L'onda turca"

Chi è Christiane Taubira, l’ennesima candidata della sinistra francese alle presidenziali. Il Domani il 31 gennaio 2022

L’ex ministra della Giustizia del governo Hollande è un’icona della sinistra: tra le sue priorità ci sono l’integrazione e la difesa degli omosessuali. Ha battuto il Verde Jadot e la sindaca di Parigi Hidalgo

La sinistra francese ha una candidata in più alle elezioni presidenziali: l'ex ministra della Giustizia Christiane Taubira, unica candidata consenziente e di conseguenza vincitrice delle primarie organizzate dal basso, le “primarie popolari”. L’esperimento, che ha coinvolto oltre 392mila votanti, in teoria serviva per compattare il fronte progressista e organizzare una candidatura unica. Ma gli altri frontrunner non hanno sostenuto l’iniziativa, dunque sono stati votati loro malgrado: dopo Taubira, si è posizionato il verde Yannick Jadot, secondo, e Jean-Luc Mélenchon, terzo. Anne Hidalgo, sindaco di Parigi, è arrivata solo in quinta posizione, dietro a Pierre Larrouturou. In sintesi la vittoria di Taubira non unisce il fronte ma semmai rafforza una ulteriore candidatura e quindi ulteriore frammentazione, o almeno questa è la lettura prevalente in Francia. 

L’ex ministra della Giustizia del governo socialista di François Hollande, si era candidata con un tweet inatteso, molto recitato e seduttivo ma di tono austero, ha comunicato ai francesi che sta «considerando» di candidarsi alla presidenza della Repubblica per rimediare l’impasse della sinistra, ma che non intende essere «una candidata di più».

LE PRIORITÀ

Nel 2016 si era dimessa per la sua posizione contraria alla cancellazione della cittadinanza francese per i terroristi condannati. Taubira era l’icona dell’ala sinistra del governo di allora, tra le sue priorità c’era anche il matrimonio per gli omosessuali. È stata candidata alle presidenziali già nel 2002. 

Taubira proviene dalla Guyana, dipartimento d’Oltremare da mesi in grave agitazione per il dilagare della povertà e del contagio di Covid. Durante il suo discorso ha parlato di una coesione sociale «senza esclusiva né esclusione». Probabilmente una posizione di apertura nei confronti dell’immigrazione e dell’Islam, le due bestie nere della destra.

Le elezioni sono in programma per la prossima primavera. Per il momento nei vantaggi è primo il presidente uscente Emmanuel Macron, ma insieme le due candidate di destra Valérie Pécresse e Marine Le Pen raccolgono quasi un terzo delle preferenze. 

Marion, Marine, Jean Marie: la dinasty dei Le Pen continua. Con tanti retroscena. Marco Valle su Inside Over il 29 gennaio 2022.

Il prossimo passaggio di Marion Maréchal Le Pen al campo di Eric Zemmour agita una volta di più le già tormentate acque della destra francese. L’arrivo della bionda signora, dopo la freschissima adesione di Guillaume Peltier (proveniente da Les Répubblicans) e Jérome Rivière e Gilbert Collard (ambedue deputati lepenisti), confermerebbe significativamente le potenzialità del sorprendente candidato all’Eliseo. Marion è infatti un nome pesante, nelle sue vene scorre potente il sangue dei Le Pen, difficile inquadrarla, impossibile farla tacere.  Nonostante il suo apparente ritiro dalla politica, la sua proposta “liberale, conservatrice, identitaria” risulta, come notava il sondaggio IFOP dello scorso luglio, molto apprezzata dal 66% per cento dei simpatizzanti dei LR e dall’86% dei militanti del Rassemblement National. Il più l’ex deputata del Vaucluse porterebbe in dote a Zemmour un pacchetto di firme di notabili a suggello della sua candidatura.

Fin qui la cronaca politica. Ma dietro a tutto ciò vi è altro. Ben altro. Ovvero una storia clanica degna di un romanzo gotico, una dinasty impastata di veleni, rancori, odi. Inestirpabili.

Tutto ebbe inizio dopo le presidenziali del 2012. Per dare un segnale di forte discontinuità rispetto al passato Marine (presidente dell’allora Front National dal 2011 per volontà del padre Jean Marie) si rifiutò di partecipare ai grandi cortei organizzati dall’associazione Manif pour Tous per protestare contro i matrimoni tra omosessuali. Un colpo duro per i frontisti storici che iniziarono a denunciare sul settimanale destrista “Minute” l’esistenza di una “lobby gay” ai vertici del partito. A sua volta la ventiduenne nipote Marion — appena eletta deputa e da allora la musa degli identitari — scese in piazza con i contestatori.  Una prima frattura (apparentemente ricomposta) a cui seguì la “grande pulizia” del 2014 con cui Marine e il fidanzato Louis Alliot (soprannominato per l’occasione “Loulou la purge”) espulsero gran parte dei militanti meno allineati. Marion protestò ma, a parte il nonno, nessuno le diede retta. A parte l’ingombrante nonno.

Non a caso. I rapporti tra padre e figlia si erano man mano raffreddati, per poi peggiorare irrimediabilmente. Secondo voci vicine al clan, fu fatale nel 2015 una convivenza forzata, quando, a causa di un banale incidente domestico – un incendio in cucina – Jean Marie e la sua seconda moglie furono costretti a trasferirsi da Marine; in quei tempestosi giorni l’invasivo patriarca cercò di “rimettere in riga” figlia e nipoti nel segno della sua assoluta primazia clanica, politica e finanziaria. Poi l’ultimatum contro Philippot, l’inviso numero due del partito, un frutto prezioso dell’ENA (la super scuola dei tecnocrati gallici) ma anche fan di De Gaulle, già sostenitore del sovranista Jean Pierre Chevènement e gay dichiarato. O lui o io. Nulla di nuovo sotto il sole: ancora una volta tutto si giocava attorno ad amore, gloria, gelosia, rivalità, potere e denaro. Insomma, ti abbraccio per strozzarti meglio… Jean Marie però sottovalutò il carattere roccioso della padrona di casa (la mela non cade lontana dall’albero…) e fissò così una spaccatura inesorabile e non più ricomponibile.

Non sappiamo se la vicenda è vera, ma di certo è verosimile. Di certo, nella primavera del 2015 il genitore, sempre più insofferente del “nuovo corso”, ritornava provocatoriamente sulla polemica sulle camere a gas – per lui sempre un “dettaglio della storia” – ed elogiava l’operato del maresciallo Petain, il controverso simbolo della collaborazione con la Germania nazista. La classica goccia nel classico vaso. La presidentessa aprì un procedimento disciplinare contro Jean Marie e, pochi giorni dopo, l’Ufficio politico sospendeva il “presidente onorario” dalla sua carica. Le Chef, furente, si appellava allora alla mai amata magistratura che congelava il provvedimento, ma il 20 agosto 2015 il Front congedava per sempre il suo fondatore.

Consumato il parricidio e ordinata l’ennesima purga, Marine si preparò alla famosa campagna elettorale del 2017 contro Macron. Tutto sembrava funzionare, almeno apparentemente. L’esclusione di Jean Marie – da sempre tesoriere del partito e uomo di riferimento per i finanziatori – obbligò madame ha cercare urgentemente nuove risorse. Dopo aver incassato una serie di rifiuti dagli istituti di credito francesi ed europei (e qui molti hanno visto una zampina del sulfureo babbo…) alla fine fu costretta a chiedere un prestito di 9 milioni di euro da una banca considerata vicina al Cremlino, la First Czech Russian Bank. Un’operazione del tutto normale, con un regolare tasso di interesse a debito, ma subito trasformata dagli avversari in uno scandalo internazionale.

Accanto alle difficoltà finanziarie divenne sempre più evidente il distacco della nipote. Nei mesi di campagna Marion marcò costantemente la sua distanza dalla zia, organizzando riunioni in suo nome ma evitando d’incontrarla (e intanto riannodava i rapporti con il nonno). Attendeva il suo momento. Una freddezza ostentata che fece nuovamente arrabbiare Marine che alla prima occasione – per l’esattezza in un’intervista a “Femme Actuelle” – sparò a palle incatenate sull’inquieta parente: “Mia nipote? È deputata, voilà, non gli devo nulla”, per poi concludere che mai la nominerebbe ministro in un eventuale governo frontista. «È inesperta, deve crescere». Nulla di più, niente di meno.

La risposta arrivò due giorni dopo il verdetto delle presidenziali. Il 9 maggio Marion annunciò il suo ritiro dalla politica e dimissionava da ogni carica elettiva. Il freddo scese di colpo sui rapporti interfamiliari. Complice il nonno (buon amico di Zemmour…), la nipote iniziò ad avvicinarsi allora al polemista ed a invitarlo a Lione per le convention del suo Institut de sciences social, economique et politique, il laboratorio culturale “marionista”. Dopo aver escluso il suo voto al Rn alle elezioni europee del 2019 Marion organizzò il 28 settembre 2019 la Convention de la Droite, escludendo qualsiasi “marinista” e affidandone la regia ad Eric. In quell’occasione la Maréchal esordì con una domanda provocatoria: “Chi può seriamente immaginare che le nostre idee vincano se non rompiamo le barriere partigiane del passato?”. Parole definitive che infastidirono terribilmente Marine che, sospettosa come il padre, ne intuì la pericolosità e ruppe definitivamente i rapporti.

Il resto è noto. A settembre scorso Marine disertò platealmente il matrimonio di Marion con l’eurodeputato italiano Vincenzo Sofo e il 14 novembre la novella sposa rispondeva ad Europe 1 di sperare in una “candidatura unica a destra” senza mai pronunciare il nome della zietta.  Poi il desiderio annunciato pochi giorni fa a Le Figaro di rientrare nell’agone politico con vesti nuove e la gelida tristezza della zia. Insomma un vero casino in cui l’unico che sembra divertirsi è ancora il novantenne Jean Marie che ha subito ordinato pubblicamente alle due rivali di venire a rapporto da lui, il “grande Menhir” della dinasty lepenista. Qual è il crocevia del mondo di domani?

"Islamizzazione inquietante": schiaffo al buonismo della sinistra francese. Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 10 gennaio 2022.

Jean Daniel è un mostro sacro del giornalismo francese. Morto lo scorso anno all'età di 99 anni, nacque nel 1920 a Blida, nell'allora Algeria francese da famiglia ebraica algerina e fu grande amico dello scrittore Albert Camus, con il quale lavorò al quotidiano Combat prima di fondare il settimanale Le Nouvel Observateur. Soprattutto, Jean Daniel è un intellettuale di riferimento di tutta la sinistra d'oltralpe, e non solo. A maggior ragione sorprendono i contenuti del suo saggio postumo, con prefazione del presidente Emmanuel Macron, Réconcilier la France. Une histoire vécue de la nation letto in anteprima e sviscerato dalla scrittrice e filosofa Bérénice Levet per Le Figaro, come riporta Il Foglio. Da parte dell'intellettuale fondatore de Le Nouvel Observateur arrivano inedite bordate sul buonismo della sinistra rispetto a temi cruciali quali l'immigrazione e l'integrazione e un prezioso monito contro la perdità d'identità.

Jean Daniel contro il buonismo della sinistra gauche caviar

"Non perdonerò mai alla sinistra, alla mia famiglia di non essere inquieta per ciò che sta diventando il volto stesso della Francia" scrive Jean Daniel nel suo saggio postumo. La sinistra, scrive, "non ha solo perso il popolo nel senso sociologico del termine, e non lo ha perso soltanto come realtà politica, comunità storicamente costituita e cementata dai ricordi, da una lingua, da una serie di tradizioni, ha perso anche l'uomo, gli uomini, deridendo il bisogno di storia e di storie, di passato, di radici, di continuità storica". Il libro, scritto quando l'autore era ancora in vita e appena pubblicato in Francia, si presenta come una raccolta di scritti che coprono quattro decenni di carriera, frutto del lavoro realizzato da Benoît Kanabus che ha ordinato i testi, dividendoli per i vari temi toccati da un intellettuale fra i più importanti del '900 francese. La prefazione, come già accennato, è affidata al presidente Emmanuel Macron, il cui partito, En Marche, forse per sottrarre un po' di voti alla destra in vista delle prossime elezioni presidenziali, non ha risparmiato critiche all'isterismo woke, ad esempio criticando la scelta, da parte del più importante dizionario francese, di inserire il pronome neutro nel vocabolario.

"Islamizzazione inquietante"

Dagli scritti di Daniel emerge una critica al lassimo della sinistra nei confronti dell'islamizzazione del Paese, della perdita d'identità, come se fosse qualcosa a cui è possibile rinunciare nel nome di un multiculturalismo ideologico che, a conti fatti, non funziona e non può funzionare. "In questo momento - sottolinea - in occidente, c'è un'islamizzazione della vita quotidiana la cui espansione è inquietante. Una Francia conquistata, fagocitata da un modello non solo straniero ma anche contrario al genio francese - genio nel senso di spirito: il modello comunitarista importato dai paesi anglosassoni". Jean Daniel parla a cuore aperto, senza alcun tipo di censura, criticando la sinistra su più fronti - quella in cui lui ha sempre creduto e si è sempre riconosciuto - che sembra aver perso la bussola, fagocitata dal politicamente corretto e dalla deriva woke che proviene dal mondo anglosassone. "Ho iniziato a pormi certe domande un giorno mentre guardavo alcuni giovani giocare a calcio, che parlavano in arabo e ignoravano i francesi accanto a loro", racconta. Uno schiaffo al mondo del progressismo da uno dei maestri del giornalismo mondiale.

Chi era François Mitterrand. Andrea Muratore su Inside Over il 13 gennaio 2022.

François Mitterrand è stato il presidente più celebre della Quinta Repubblica francese dopo Charles de Gaulle, il più longevo, con quattordici anni consecutivi di permanenza al potere (1981-1995) e il primo socialista a ricoprire l’incarico dopo la riforma costituzionale promossa dal Generale. Figura politica di spessore nella sinistra transalpina, risultò inoltre centrale nel processo di integrazione europea compiutosi a cavallo tra gli Anni Ottanta e Novanta.

Il partigiano contro Vichy

Nato a Jarnac, in Aquitania, nel 1916 Mitterrand, figlio di una famiglia borghese, cattolica e tradizionalista, discendente da un padre ferroviere divenuto poi produttore di aceto compì i suoi studi nella capitale Parigi: nel 1936 si laurea in lettere e nel luglio 1937 si diploma all’École libre des sciences politiques, la futura Sciences Po. Sempre nel 1937, consegue il diploma di studi superiori in diritto pubblico.

Nel 1939 la Seconda guerra mondiale lo vide arruolato per diversi mesi in fanteria nelle sonnolente opere di guarnigione al confine con la Germania nazista sulla Linea Maginot e poi, un anno dopo, fu fatto prigioniero durante l’invasione tedesca della Francia e la disfatta dell’esercito parigino. In prigionia abbandonò gradualmente la sua impostazione cattolica e tradizionalista cominciando ad abbracciare il socialismo che, dopo la sua liberazione, lo coinvolse emotivamente e politicamente tra il 1942 e il 1943, anni in cui Mitterrand divenne un giovane e promettente funzionario del nuovo regime di Vichy che governava la parte di Francia non occupata nel 1940 dai tedeschi. Le funzioni di Mitterrand, oltre a essere marginali, non comportavano rapporti diretti o indiretti con i nazisti, ma avevano a che fare con il reinquadramento e il ritorno al lavoro dei prigionieri di guerra. Negli stessi anni Mitterrand iniziò a fiancheggiare la Resistenza francese e, dopo aver conservato le sue funzioni per diversi mesi su ordine di Jean-Pierre Bloch, capo della sezione non militare del Bureau central de renseignement et d’action (BCRA, servizi segreti della France libre), all’inizio del 1943 entrò in clandestinità.

Divenuto noto col nome di battaglia “Morland”, Mitterrand viaggiò per conto della Resistenza in tutta la Francia cercando di organizzare gli ex prigionieri di guerra e ad Algeri ebbe anche un fugace incontro con de Gaulle.

Il protagonista della Quarta e della Quinta Repubblica

Dopo la Liberazione e il governo provvisiorio di De Gaulle, Mitterrand si lanciò a tutto campo in politica. Dal 1946 fu membro dell”Unione Democratica e Socialista della Resistenza, partito di centro-sinistra fondato nel 1945 da esponenti non comunisti del Movimento di liberazione nazionale, la Resistenza interna. Il progetto era di creare un Partito Laburista francese che ricomprendesse anche altre formazioni non comuniste ma il piano fallì a causa della nascita della Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (Sfio), antesignana del Partito Socialista attuale, e dell’affermarsi del Movimento Repubblicano Popolare, d’ispirazione democristiana, che guidò i governi della Quarta Repubblica con figure del calibro di Robert Schuman, Georges Bidault e Pierre Pflimlin.

A partire dal 1946 Mitterrand iniziò una carriera istituzionale che, prima dell’elezione all’Eliseo, lo avrebbe portato a ricoprire per ben undici volte incarichi ministeriali. A soli trentuno anni fu, nel 1947, scelto come ministro degli ex Combattenti e delle Vittime di guerra di Francia dal premier socialista Paul Ramadier e mantenne l’incarico fino al 1948 anche durante il governo Schuman. In quegli anni, la coalizione che andava dal centro democratico all’Udrs ebbe modo di esprimere, per poco più di un anno, come premier un esponente del partito di cui faceva parte Mitterrand, René Pleven, in carica dal 1950 al 1951.

Pleven nominò Mitterrand ministro della Francia d’Oltremare e, soprattutto, promosse la poi non concretizzatasi Comunità europea di Difesa (Ced) assieme ad Alcide de Gasperi e Konrad Adenauer, profondamente avversata dai sostenitori di de Gaulle. Mitterrand ebbe modo dunque di conoscere con mano la situazione del mondo coloniale al tramonto, che presto si sarebbe manifestata con le guerre di indipendenza di Algeria e Indocina e con il flop franco-britannico a Suez, e di iniziare a cancellare dalla sua visione politica il mito del Generale, di cui sarebbe presto diventato avversario.

Mitterrand criticò l’uso della tortura in Algeria, chiese condizioni di trattamento più umane per gli africani governati dalla Francia, soprattutto si schierò contro il richiamo al potere di de Gaulle, da lui paragonato a un dittatore in fieri, nel 1958. La nascita della Quinta Repubblica lo colse nel pieno della polemica col Generale, ma isolato nel suo ambiente di cui era una voce critica. Il 1959 vide Mitterrand respinto dall’associazione al Partito Socialista Autonomo (Psa), una nuova formazione politica promossa da personalità fuoriuscite dalla SFIO come Michel Rocard, futuro maestro del presidente Emmanuel Macron, in disaccordo con i cedimenti dell’ex presidente del Consiglio Guy Mollet nei riguardi di De Gaulle, alla quale aderì pure un alleato di Mitterand, l’ex presidente del Consiglio radicale Pierre Mendès France sotto cui il politico aquitano era stato titolare della Giustizia. Lo stesso anno, subì un attentato fallimentare dell’Oas, l’organizzazione terroristica che difendeva il controllo francese sull’Algeria.

Sconfitto da de Gaulle nel 1965 al ballottaggio nelle elezioni presidenziali, guidò la reazione politica alle istanze della protesta studentesca tre anni dopo, facendo sì che dal Maggio Francese si avviasse l’onda lunga per l’uscita dell’anziano Generale dal potere. Eletto nel frattempo sindaco di Château-Chinon, in Borgogna, carica che manterrà fino al 1981, Mitterrand fu chiamato a essere membro del neonato Partito Socialista e a guidarlo nel 1971. Da segretario operò una svolta netta a sinistra, interiorizzando una critica al capitalismo e al sistema di potere repubblicano che consolidò l’alleanza a Sinistra col Partito Comunista. Ciononostante, le elezioni del 1974 videro Mitterand nuovamente sconfitto di misura alle elezioni presidenziali contro Valéry Giscard d’Estaing, ma raccogliendo il 49,2 % dei voti al secondo turno il leader socialista si convinse che il gioco maggioritario del presidenzialismo ptoesse consentire alla sua formazione di arrivare al potere favorendo un’alternanza nel bipolarismo non conosciuta in altri Paesi europei. Nel 1981 tale previsione si sarebbe avverata.

L'elezione alla presidenza

Mitterrand riuscì a essere eletto nel 1981 cavalcando la protesta elettorale contro la fine del lungo trentennio di ripresa postbellica, la crescente conflittualità sociale, il graudale declino a sinistra del Partito Comunista che rese le ricette socialiste sempre più popolari. La sostanziale rottura del fronte comune delle sinistre, la necessità di risposte concrete sul lavoro, la crescita, l’inflazione, l’esaurimento dell’onda lunga del gollismo favorirono Mitterand nella seconda sfida con Giscard. L’ex ministro socialista, vinto il congresso di Metz del 1979 contro Roccard, non lo mise all’angolo ma incorporò dalla destra socialista un richiamo esplicito alla conquista dei voti moderati e centristi, soprattutto extraurbani, decisivi per la vittoria al ballottaggio. Mitterand si servì del consiglio di un esperto pubblicitario come Jacques Séguéla, che gli suggerì lo slogan divenuto famoso della sua campagna elettorale: “La forza tranquilla”, formula presa da un celebre discorso di Léon Blum del 1936.

A fianco del futuro presidente iniziò ad affermarsi come “eminenza grigia” il banchiere ed economista 38enne Jacques Attali, che in precedenza ispirò sottobanco la finta candidatura del comico Coluche, una sorta di antesignano transalpino del grillismo, che con la sua polemica incendiaria tra fine Anni Settanta e inizio Anni Ottanta concentrò il fuoco delle critiche contro l’establishment gollista, favorendo dunque la creazione della figura di Mitterrand come alternativa credibile.

Mitterrand nel maggio 1981 battè in volata Giscard con un margine di poco ampio a quello con cui aveva perso sette anni prima: il 51,76% contro il 48,24% dello sfidante, a cui aveva fatto difetto il sostegno del rivale in campo di centrodestra Jacques Chirac. Alle successive elezioni legislative i Socialisti, a cui si erano aggiunti i radicali di sinistra nelle liste, stravinsero conquistando la maggioranza assoluta dei seggi, 283 su 488, dell’Assemblea Nazionale, che sommati ai 44 del Partito Comunista Francese oramai subalterno a Mitterrand consentiva al presidente una navigazione di governo tranquilla.

I quattordici anni di Mitterrand

Nominando il socialista moderato Pierre Mauroy, sindaco di Lille, a capo di un governo allargato ai comunisti Mitterrand dimostrò la sua volontà di tenere dentro alla sua attività operativa tutte le anime della sinistra. L’agenda presidenziale partì spedita: tra il 1981 e il 1984 fu abolita la pena di morte, si procedette alla nazionalizzazione di banche e di grandi gruppi industriali, alla rinegoziazione dei contratti di lavoro con ritocchi al rialzo dei salari nel lavoro pubblico, al potenziamento del welfare. In campo economico e finanziario, però, Mitterrand iniziò a abbracciare la dottrina economica del neoliberismo trionfante nel Regno Unito thatcheriano e negli Usa reaganiani provando a governarli da sinistra con il ministro dell’Economia, e futuro presidente della Commissione Europea, Jacques Delors.

Delors inizialmente promosse una serie di nazionalizzazioni, previste dal programma di governo concordato con il Partito comunista. In seguito sulla scia dell’aumento dell’inflazione e della presa di forza delle tesi neoliberali favorì una politica di rigore, abolendo la scala mobile dei salari nel 1982. Si venne perciò a creare uno strano ibrido: un governo di sinistra che a seconda delle dinamiche dominanti promuoveva contemporaneamente misure stataliste e misure in controtendenza con tale dettame.

In campo di politica estera, Mitterrand in questa fase preparò il terreno e fu tra i protagonisti assieme a Helmuth Kohl e Bettino Craxi del percorso che nel 1987 portò all’Atto Unico Europeo, premessa per Maastricht e la nascita dell’Unione europea. Parallelamente, sostenne assieme agli Usa la forza multinazionale inviata in Libano per calmare il Paese dopo la guerra civile.

Nel 1984 i comunisti ruppero con Mitterrand e due anni dopo le elezioni legislative sancirono una vera e propria disfatta per la sinistra: i socialisti, pur rimanendo partito di maggioranza relativa, persero 70 seggi e il centro-destra a trazione gollista potè formare una maggioranza parlamentare autonoma. Chirac, volto più riconosciuto nell’opposizione, formò un governo di coabitazione col presidente e nel 1988 fu il suo sfidante alle elezioni presidenziali: Mitterrand vinse (54% contro 46%) ma la sua azione di governo nel secondo mandato fu fortemente condizionata dalla capacità di mediazione andata via via sfarinandosi dentro al partito e dalla precaria condizione di salute legata all’aggravarsi del cancro alla prostata che lo affliggeva dal 1982.

Affidato all’ex rivale Rocard la guida del governo (1988-1991) aperto a tecnici e centristi che spostarono verso il liberalismo le proposte politiche dei socialisti Mitterrand a livello internazionale vide il crollo del Muro di Berlino coglierlo impreparato. Per un anno e mezzo il presidente temette l’ipotesi della riunificazione tedesca oscillando tra disegni antitedeschi non sostenuti dalla storia e la volontà di rendere l’Europa postcomunista un feudo francese. L’unificazione fu dunque concessa a patto di un’accelerazione sul processo di creazione dell’Unione Europea. La Germania europea, però, creò un’Europa tedesca negli anni successivi all’uscita di scena di Mitterrand.

La Francia di Mitterrand operò inoltre un processo di riavvicinamento geopolitico agli Usa partecipando alla Guerra del Golfo nel 1991 e alle missioni jugoslave per la pacificazione dei Balcani. Fu fortemente accusato, invece, per il sostegno dato nel 1994 al regime Hutu che si macchiò del genocidio ruandese e per una politica africana fortemente “neocoloniale” che contraddiceva le illuminate critiche verso tali mosse promosse da giovane ministro.

Gli ultimi anni di presidenza, tra il 1992 e il 1995, furono segnati dalla frantumazione della compattezza socialista, da una serie di scandali, da una difficoltà nella crescita economica, dalle incertezze sociali e da un calo della popolarità del presidente: Mitterrand provò a nominare la prima donna premier, Edith Cresson, per segnare una discontinuità, ma il suo governo naufragò in dieci mesi tra il 1991 e il 1992 dopo una serie di disfatte politiche ai voti locali. Fine ancor più tragica fece l’ex ministro dell’economia Pierre Bérégovoy chiamato a sostituirla tra il 1992 e il 1993. L’acutissima campagna di stampa contro la presidenza, le tensioni del dibattito post-Maastricht, le accuse di indecisione rivolte al malato Mitterrand e al suo capo di governo acuirono la depressione di Berégovoy che, dopo una durissima batosta subita dalla maggioranza presidenziale alle legislative del marzo 1993 (la destra vinse oltre l’80% dei seggi dell’Assemblea Nazionale) fu accusato di essere il responsabile della debacle e si suicidò nel maggio successivo.

Mitterrand lasciò il potere nel maggio 1995, quando a succedergli fu Chirac, vincitore delle elezioni presidenziali. E proprio Chirac, appena otto mesi dopo, annunciò alla nazione il decesso dell’80enne ex presidente avvenuto nel gennaio 1996. Con Mitterrand la Francia perdeva un presidente significativo, un leader che aveva avuto l’indubbio merito di mantenere la protesta della sinistra contro l’era gollista entro canali democratici e di aver dimostrato empatia verso le richieste della popolazione resa insicura dai mutamenti politici, sociali economici, pur con tutte le indecisioni che ne avevano costellato il cammino. Mitterrand è tuttora oggi, dopo de Gaulle, ritenuto il più significativo presidente della Quinta Repubblica. Ma la durata ultradecennale del suo mandato segnala le strettoie a cui possono andare incontro, sul lungo periodo, uomini investiti dell’autorità totale garantita al “monarca repubblicano” dell’Eliseo.

L’OAS, l’organizzazione che sfidò de Gaulle durante la guerra d’Algeria. Pietro Emanueli su Inside Over il 6 febbraio 2022.

L’età dell’imperialismo ha plasmato la storia dell’umanità, e quella dell’Africa in particolare. Saccheggiato, invaso e spartito, il continente nero è stato l’ombelico del mondo dal 1885 al 1914, periodo della corsa all’Africa, e continua a rivestire un ruolo-chiave negli affari internazionali in ragione dei tesori contenuti nel sottosuolo.

La competizione tra grandi potenze per l’egemonizzazione del continente nero, che non ha mai realmente conosciuto una tregua, ha portato ad un paradosso: non esiste luogo più ricco dell’Africa, eppure nessuno è più povero degli africani. E se tale paradosso è venuto a costituirsi, diventando elemento caratterizzante del continente, è anche perché alcune potenze hanno intravisto in questo luogo, più che un domicilio temporaneo, una vera e propria seconda residenza. Come la Francia, la cui storia e la cui perseveranza l’hanno resa la prima e unica potenza eurafricana.

A rendere la Francia una potenza eurafricana sono, oggi, la sua cangiante demografia, il possesso di strumenti come il Franco CFA e l’esistenza di realtà come la Françafrique, ma, per lungo tempo, il cordone ombelicale che l’ha unita al continente è stato rappresentato dal delta del Maghreb: l’Algeria. Un cordone che non avrebbe mai voluto tagliare, come rammentano la sanguinosa guerra  d’indipendenza algerina e l’epopea della temibile Organizzazione dell’Armata Segreta. Il legame con l’Algeria era talmente profondo che non veniva considerata una semplice colonia ma bensì uno dei dipartimenti dello Stato che aveva sul suo suolo almeno un milione di francesi chiamati “pied-noirs”. 

Il contesto storico e le origini

L’Organizzazione dell’Armata Segreta (OAS, Organisation de l’Armée Secrète) è stata un’organizzazione paramilitare diventata poi un’entità terroristica sanguinaria, nonché culturalmente influente, della Francia gollista.

Fondata a Madrid nel 1961 da un manipolo di ex ufficiali dell’esercito francese, tra i quali Raoul Salan – co-autore del putsch di Algeri –, Pierre Lagaillarde – carismatico capo dell’assedio di Algeri – e Jean-Jacques Susini, l’OAS fu la risposta dei revanscisti e degli oltranzisti del colonialismo al referendum sull’autodeterminazione dell’Algeria avvenuto a inizio anno, supportato dal neo Presidente Charles de Gaulle

Il trio voleva impedire l’indipendenza dell’Algeria – colonia in guerra dal 1954 –, combattendo al tempo stesso contro la classe dirigente francese – ritenuta responsabile della liquefazione dell’impero coloniale –, e avrebbe fatto leva sul proprio capitale sociale, fatto di legionari, militari in servizio e agenti segreti, allo scopo di radunare un esercito parallelo, un esercito segreto, con cui combattere dall’una e dall’altra parte del Mediterraneo.

Dopo aver lanciato un appello dall’eco internazionale, al quale avrebbero risposto reduci dell’Indocina, petainisti, franco-algerini, ebrei algerini, soldati regolari e segmenti deviati dell’apparato di sicurezza nazionale – in combutta, sembra, con Gladio –, stabilito una gerarchia e assegnato i ruoli, l’OAS avrebbe dichiarato guerra ad Algeri e a Parigi.

Guerra in Algeria, guerra alla Francia

La prima vittima eccellente dei sicari dell’Oas fu l’avvocato Pierre Popie, assassinato a pochi giorni di distanza dalla nascita dell’organizzazione terroristica. Popie, presidente del Movimento Repubblicano Popolare, era uno dei più noti patrocinatori della causa dell’indipendenza ed era l’autore dell’iconico motto della guerra civile “L’Algérie française est morte“.

A maggio, quattro mesi dopo l’eliminazione di Popie, l’OAS avrebbe mietuto un’altra vittima eccellente: Roger Gavoury, capo della polizia francese nella capitale algerina e uomo di punta dell’Eliseo in loco. Il movente? Una soffiata aveva avvertito Salan, Lagaillarde e Susini che Gavoury aveva cominciato ad indagare sulle ramificazioni dell’Oas in Algeria.

Entro l’aprile 1962, in un solo anno e mezzo di attività – attentati, bombe, omicidi mirati, sparatorie indiscriminate – , l’OAS sarebbe stato responsabile di almeno duemila morti e oltre quattromila feriti. Numeri indicativi di qualcosa: era in corso una guerra nella guerra.

A partire dal 17 marzo 1962, data dell’omicidio dell’intellettuale e capo spirituale della guerra civile algerina Mouloud Feraoun, le attività dell’OAS nel fronte algerino avrebbero cominciato ad incontrare una più dura e violenta opposizione da parte dei locali. E a partire dal 22 agosto dello stesso anno, data di un fallito attentato ai danni di Charles de Gaulle, per l’OAS sarebbe stato l’inizio della fine.

Segno del mutamento dei tempi, dell’avvio ineluttabile del tramonto, fu la condanna a morte di Jean Bastien-Thiry, l’attentatore di de Gaulle. Bastien-Thiry, giustiziato l’11 marzo 1963, sarebbe passato alla storia come l’ultimo detenuto di Francia a morire per fucilazione.

La fine

All’indomani del cessate il fuoco stabilito tra l’Eliseo e il Fronte di Liberazione Nazionale dell’Algeria, suggellato dagli accordi di Évian del 18 marzo 1962, l’OAS avrebbe dato il via ad una campagna martellante ed impressionante di attentati dinamitardi sul suolo algerino nella speranza-aspettativa di boicottare quella pace di piombo precorritrice di indipendenza.

La campagna di attentati, contrariamente alle aspettative dell’OAS, non avrebbe fatto che unire ulteriormente Parigi e Algeri, tanto a livello di politica quanto a livello di simpatia popolare, privandola di quel (poco) consenso di cui ancora godeva presso frazioni di opinione pubblica e dell’apparato securitario. Troppi attentati – una media di cento esplosivi al giorno nel mese di aprile –, troppi obiettivi insensati – come ospedali e scuole – e troppe vittime innocenti – 62 in un solo giorno ad Algeri il 2 maggio.

Il 5 luglio 1962, alla fine, l’Algeria avrebbe ufficialmente conseguito l’indipendenza dalla Francia, mettendo la parola fine alla guerra civile e destinando l’OAS, nel frattempo annichilita da arresti e omicidi mirati, alla storia. Quei mesi di fuoco, sangue e odio, però, avrebbero lasciato una cicatrice indelebile ed una voglia di vendetta incontenibile tra gli algerini. Una voglia di vendetta che avrebbe assunto la forma del tragico massacro di Orano, cioè i due giorni di linciaggio e violenze iniziata sullo sfondo dei festeggiamenti per l’indipendenza e consumata da orde di nazionalisti algerini ai danni di centinaia di pied-noirs, costretti a fuggire in Francia malgrado gli accordi di Evian prevedessero una protezione ai coloni francesi rimasti sul suolo algerino. 

De Gaulle decise di farsi da parte. Le dimissioni rassegnate il 29 aprile 1969. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Aprile 2022.

«Perché l’ha fatto» è il titolo dell’articolo di fondo de La Gazzetta del Mezzogiorno del 29 aprile 1969. Si riferisce alle dimissioni del presidente della Repubblica francese Charles De Gaulle, rassegnate all’indomani della diffusione dei risultati del referendum sulla riforma del Senato e la regionalizzazione dello stato. Il Generale – simbolo dell’intera Resistenza Francese, colui che il 25 agosto 1944 aveva potuto proclamare con orgoglio «Paris! Paris outragé! Paris brisé! Paris martyrisé! mais Paris libéré!» – ha deciso di farsi adesso da parte dopo dieci anni. Nel ‘58, dopo un periodo lontano dalla politica, era stato eletto per la prima volta presidente della Repubblica e nel ‘62 era riuscito a far approvare la riforma con cui l’elezione del presidente era demandata al suffragio universale e diretto. Violando la stessa Costituzione che egli ha creato, leggiamo sulla «Gazzetta», nell’aprile ‘69 non ha atteso però la proclamazione ufficiale dell’esito del referendum da parte della Corte Costituzionale: ha cessato nell’immediato di esercitare le sue funzioni, come, prima del voto, aveva solennemente annunciato di voler fare, in caso di sconfitta. «Ponendo ancora una volta il dilemma tra il suo potere personale e il caos, De Gaulle ha confessato quasi ingenuamente che il suo era un obiettivo ancora una volta rivoluzionario: nelle pieghe dei due disegni di legge erano state insidiosamente inserite modifiche costituzionali, destinate ad imprimere un carattere maggiormente autoritario al regime», scrive Basilio Cialdea. Ha investito tutto il suo potere nell’approvazione di una revisione dell’ordinamento delle Regioni, intese come collettività territoriali, e del Senato, che nel suo progetto avrebbe perso la sua influenza determinante nell’esercizio del potere legislativo: circa il 53% dei francesi ha, tuttavia, rifiutato le sue proposte di riforma.

«Il gollismo brillante della liberazione della Francia dall’inefficienza della Quarta Repubblica, il De Gaulle cui è spettato il grande merito di aver posto fine alla tragedia algerina – per dirla con uno dei più fini scrittori politici francese, Maurice Duverger – aveva già lasciato il posto ad un gollismo scolorito, salvato nel giugno scorso soltanto dal grigio partito della paura, dopo le rivolte e le agitazioni del maggio rossonero», conclude il giornalista.

Nel giugno del ‘69 verranno indette nuove elezioni presidenziali in Francia: vincerà il gollista George Pompidou. De Gaulle, ritiratosi a vita privata, si spegnerà l’anno successivo.

Chi era Charles de Gaulle, l’ultimo grande di Francia. Andrea Muratore su Inside Over il 5 Gennaio 2022. Militare e statista, Charles de Gaulle è stato nel corso del Novecento l’uomo-simbolo della Francia passata dalla Terza fino alla Quinta Repubblica, da nazione imperiale con volontà di potenza globali a Stato a vocazione continentale, dall’occupazione tedesca alla riscossa. Il simbolo della resistenza ai nazisti, della Liberazione, del potere non caduco e duraturo delle autorità più importanti di Francia. Ultimo grande riformatore delle leggi e della costituzione della Republique, il “Generale” per antonomasia ha condotto nella contemporaneità la Francia dopo i traumi del secondo conflitto mondiale, della disgregazione dell’Impero coloniale, della perdita dell’Algeria. E messo in piedi un sistema che dura tutt’ora.

Un soldato di valore

Charles de Gaulle fu, prima di tutto, un soldato, e lo fu dal suo ingresso nell’età matura sino all’ultimo giorno della sua vita, iniziata a Lille il 22 novembre 1890. Terzo di cinque figli nati da una famiglia profondamente cattolica e filo-nazionalista nel pieno del Dipartimento del Nord De Gaulle, formatosi come studente in un liceo gesuita, iniziò nel 1909 la sua carriera militare all’École spéciale militaire de Saint-Cyr, la prestigiosa accademia fondata da Napoleone Bonaparte nel 1802 per plasmare i quadri delle sue armate.

Terminata brillantemente la formazione, de Gaulle, che si era distinto per acume intellettuale, determinazione e coraggio e era stato ironicamente chiamato dai suoi compagni “il grande asparago” per la sua altezza fuori media (196 cm) nell’ottobre 1912 fu promosso sottotenente e assegnato al 33º reggimento di fanteria dell’Esercito Francese. 

Basato ad Arras, il reggimento era un’unità storica che aveva in passato ottenuto vittorie importanti a Austerliz, Wagrem e Borodino in età napoleonica e nel 1912 era comandato da un ambizioso colonnello cinquantaseienne, Philippe Petain, con la cui traiettoria personale quella di de Gaulle si sarebbe fatalmente legata. A detta dello stesso de Gaulle, proprio il futuro leader del regime di Vichy fu l’uomo che per primo gli insegnò le doti del comando.

Allo scoppio della Grande Guerra, due anni dopo, il 33° reggimento, ritenuto uno dei corpi combattenti migliori di Francia, fu inviato al fronte contro le forze tedesche. Il 15 agosto de Gaulle, comandante di plotone, ebbe il suo battesimo del fuoco sul fronte belga nella battaglia di Dinant, ove riportò una ferita alla caviglia.

Al contrario di Petain, che nella guerra si sarebbe più volte distinto come flagello delle truppe tedesche, de Gaulle riteneva pericolosa la tattica degli eserciti dell’Intesa di logorarsi nella guerra di trincea e di sacrificare migliaia di vite senza fini tattici o strategici chiari. Preferiva l’idea di una guerra di movimento fatta di colpi di mano e azioni sistemiche, che provava a mettere in atto guidando incursioni nella terra di nessuno, azioni a sopresa, ricognizioni volte a capire le forze messe in campo dall’esercito del Kaiser nei settori del fronte belga di sua competenza, guadangandosi la Croix de Guerre nel gennaio 1915 e una serie di promozioni culminate nella nomina a capitano nello stesso anno.

La Grande Guerra di de Gaulle finì però nel marzo 1916, quando fu preso prigioniero dai tedeschi nel terribile carnaio della battaglia di Verdun. Prigioniero per trentadue mesi in sei diversi campi in Germania, passò la maggior parte del tempo a studiare il tedesco e a discutere con altri ufficiali prigionieri delle lezioni apprese nel conflitto: a Ingolstadt, in particolare, incontrò il futuro maresciallo sovietico Michail Tuchačevski, fautore del superamento della guerra di trincea, delle operazioni manovrate, della motorizzazione degli eserciti.

Tra le due guerre: de Gaulle ufficiale

Rientrato in Francia nel dicembre 1918, tra il 1919 e 1920 de Gaulle tornò subito al fronte e partecipò alla campagna di Polonia con il generale Maxime Weygand e prese parte alle operazioni militari condotte dal generale polacco Edward Rydz-Śmigły come istruttore e consigliere strategico. Questa esperienza gli valse una citazione da parte del ministero della Guerra francese e la Virtuti militari polacca, e lo portò indirettamente a scontrarsi proprio con quel Michail Tuchačevski le cui opinioni sul futuro della guerra de Gaulle aveva ascoltato con passione e interesse.

Tornato in patria, de Gaulle approfondì gli studi come docente associato a Saint-Cyr prima e come allievo dell’alta scuola dello Stato Maggiore, l’Ecole de Guerre, tra il 1922 e il 1924. In questa fase de Gaulle si scontrò spesso con i generali della vecchia guardia, perorò l’introduzione del carro armato come futuro mezzo decisivo per le battaglie, criticò l’eccessiva esposizione dei militari francesi all’idea di un predominio della fanteria in battaglia, ma fu più volte coperto dalla protezione di Petain, divenuto un vero e proprio eroe nazionale dopo la guerra.

Dal 1925 al 1928 De Gaulle fu il ghost-writer di Petain, di cui però disapprovò la scelta di imbarcarsi come comandante nella missione militare francese in Marocco, finendo per rompere con il maestro dopo che l’anziano maresciallo si rifiutò di garantire a De Gaulle crediti per la pubblicazione del saggio Le Soldat e di accettare il testo del futuro capo di Stato per l’elegia funebre al maresciallo Ferdinand Foch.

Promosso da capitano a colonnello, nel frattempo, de Gaulle aveva ottenuto una serie di incarichi da addestratore che lo portarono da Metz, al confine franco-tedesco, fino alla città germanica di Treviri e a Beirut, in Libano. Negli Anni Trenta aggiunse alla sua continua focalizzazione sulla guerra corazzata anche un tema fondamentale, quello del rafforzamento della professionalizzazione dell’esercito, per il quale si spese nelle sue esperienze allo Stato maggiore. Nel 1932 pubblicò “Il filo della spada”, una sorta di arte della guerra moderna, in cui sintetizza la sua complessa visione della leadership militare. “Al capo – si legge nel libro – non basta legare gli esecutori con un’obbedienza impersonale. È nelle loro anime ch’egli deve imprimere il suo marchio vitale. Colpire la volontà, impadronirsene, indurle a volgersi da se stesse verso il fine che egli si è stabilito, ingigantito e moltiplicare gli effetti della disciplina con una suggestione morale che superi il ragionamento, cristallizzare attorno a sé tutto quanto nelle anime esiste di fede, di speranza, di devozione latenti, tale è questo dominio”. Questa lezione sarebbe stata applicata da de Gaulle nel quadro della sfida decisiva della sua vita: la Seconda guerra mondiale.

La Francia Libera

Nel maggio 1940 le truppe corazzate tedesche di Erwin Rommel e Heinz Guderian penetrarono come coltelli nel burro nelle difese alleate schierate tra Francia e Belgio. La Germania attaccò la Francia a pochi mesi dalla dichiarazione di guerra avverando ai danni di Parigi la lezione perorata da de Gaulle per la difesa del Paese. Il grande sistema di difesa della Linea Maginot fu aggirato, risultando inutile. Le truppe francesi e britanniche risultarono accerchiate dalle puntate corazzate della Wehrmact, il fronte crollò e in poche settimane la Francia fu costretta alla resa. Promosso generale nel pieno della battaglia, de Gaulle tra fine maggio e inizio giugno si distinse come comandante di divisione, salvo poi essere richiamato a Parigi per motivi politici.  Il primo ministro Paul Reynaud lo nominò il 5 giugno 1940 sottosegretario alla Difesa con delega ai rapporti coi britannici. Quattro giorni dopo de Gaulle era a Londra a incontrare Winston Churchill per coordinare le ultime mosse per difendere la Francia non occupata, la sacca di Dunkerque, la possibilità di sfidare i nazisti.

Dopo che il 16 giugno 1940, a seguito del deterioramento della partita militare, l’84enne Petain fu chiamato a formare il governo destinato a trattare la pace coi tedeschi de Gaulle volò a Londra e il giorno successivo lanciò un caloroso appello via radio trasmesso dalla Bbc invitando tutti i francesi nelle colonie, nell’impero e fuori dai confini raggiungibili dalla Germania a resistere ai nazisti annunciando la nascita del movimento della Francia Libera.

Partito con un movimento non riconoscibile in alcun governo nazionale, formalmente fuorilegge (uno Stato francese esisteva, ed era quello che a fine giugno avrebbe firmato l’armistizio con la Germania) e minoritario, de Gaulle a partire dal 1940 si presentò al mondo come l’anti-Petain. Dopo che Petain si ritirò a Vichy a guidare, con poteri semidittatoriali, la parte non occupata della Francia, focalizzandosi sull’idea di una Francia che avrebbe dovuto ritirarsi dal mondo, vivere nella neutralità e non rischiare ulteriormente, de Gaulle iniziò a controbattere con l’idea di una Republique libera, democratica, inclusiva, capace di proiettarsi come potenza nel mondo. E passo dopo passo, partendo dall’Africa e dall’Oriente riuscì a far passare con la Francia Libera molte truppe stanziate in aree coloniali.

Il Liberatore

Carismatico e magnetico, de Gaulle divenne un punto di riferimento sia per i militari francesi che per gli esponenti della Resistenza. Riuscì a giocare con forza il ruolo di punto di riferimento per questi mondi anche davanti agli Alleati, superando le resistenze di Churchill (che nutriva dubbi sulla sua capacità di guidare la Francia) e di Roosevelt (che lo detestava) grazie a un gioco di sponda notevole col dittatore sovietico Stalin.

De Gaulle ottenne dagli americani la possibilità di trasferire all’amministrazione diretta della Francia Libera i territori conquistati dopo il D-Day, evitando di soggiacere al governo militare anglo-americano, e a partire dal 1943 seguì da Algeri la preparazione allo sbarco in Normandia. Nel 1944 sulla scia delle truppe alleate de Gaulle ottenne una crescente capacità di controllo sulla Francia e, quando il 14 giugno 1944 ritoccò nuovamente dopo quattro anni il suolo patrio, proclamò Bayeux capitale provvisoria. Il 25 agosto 1944, sulla scia della 2° Divisione corazzata di Philippe Leclerc, de Gaulle fece finalmente ritorno a Parigi, insediandosi come capo dello Stato.

Il contributo francese alla Liberazione contribuì a rendere de Gaulle uno dei protagonisti del conflitto e Parigi una delle vincitrici della guerra. Il Generale partecipò alla spartizione della Germania in zone occupate dopo la vittoria sui nazisti nel 1945 ma subito dopo il conflitto, nel 1946, cedette improvvisamente tutte le cariche politiche di fronte al naufragio della coalizione di unità nazionale estesa a moderati, socialisti e comunisti. Fautore di un potere presidenziale forte, de Gaulle si trovò in frizione con la politica dei partiti. La Quarta Repubblica nacque fragile e fu funestata dalla rotta in Indocina e dalla durissima crisi d’Algeria. De Gaulle si ritirò dal 1946 al 1958 lontano da ogni incarico politico nella piccola cittadina di Colombey-les-deux-eglises, vicino Lilla. La sua lunga “traversata del deserto” sarebbe stata interrotta solo quando la Francia lo chiamò di nuovo come salvatore.

Il "monarca repubblicano"

Nel 1958 la Quarta Repubblica era allo sfascio, in Algeria crescevano le tensioni e gli scontri tra i filo-francesi Pied Noirs e il Fronte di Liberazione Nazionale e si potenziava la resistenza di coloro che erano restii ad abbandonare una colonia annessa da tempo al territorio metropolitano francese.

Quando ad Algeri, nel maggio 1958, i generali Raoul Salan e Jacques Massu guidarono un putsch militare chiedendo una transizione di potere a favore di un’autorità più rappresentativa e gruppi di paracadutisti vennero lanciati in Corsica e nel territorio metropolitano i partiti politici della Quarta Repubblica si liquefarono. Con poche, notabili eccezioni (François Mitterrand, Pierre Mendès France, Alain Savary e l’intero Partito Comunista) i leader politici ed economici in coro si unirono per richiamare l’unico uomo capace di incarnare l’unità nazionale nel quadro del sistema-Paese francese: Charles de Gaulle.

Il 68enne generale fu nominato primo ministro da Rene Coty e accettò dietro l’impegno delle forze politiche che sostenevano il suo governo di sicurezza e unità nazionale a promulgare una nuova costituzione.

Vero e proprio “regista” della sua stesura fu il geniale legislatore e eminenza grigia del gollismo, Michel Debré, che nel 1945 aveva coordinato la formazione dell’Ecole nationale de Administration, fucina dell’elite francese.

Con la scrittura della costituzione della Quinta Repubblica Debré creò un sistema semipresidenziale che dava al Presidente i poteri di un vero e proprio “monarca repubblicano”. Debré provò a conciliare in un unico corpus giuridico l’eredità delle grandi tradizioni politiche della Francia: da un lato, il principio monarchico, sostanziato nell’autorità sovrana di un presidente “gioviano” nelle sue prerogative e nel suo rapporto con gli altri apparati; dall’altro, il principio giacobino centralista fondato sull’irradiamento del potere pubblico in tutto il Paese.

La costituzione fu approvata a ottobre con una schiacciante maggioranza e nel gennaio 1959 entrò in vigore, con de Gaulle come primo presidente. Il capo dello Stato sarebbe stato eletto nel 1965 con il voto diretto della popolazione francese introdotto nel 1962 battendo al ballottaggio un suo futuro erede, François Mitterrand.

La presidenza di de Gaulle

Capo dello Stato per dieci anni, de Gaulle trasformò radicalmente la Francia alla testa della presidenza amministrata dal suo partito, l’Unione per una Nuova Repubblica.

Tra il 1958 e il 1962 de Gaulle chiuse la partita coloniale con pragmatismo e realismo. All’Algeria fu concesso un percorso guidato verso l’indipendenza, mentre la Francia lasciava gradualmente il resto dell’impero coloniale africano mantenendo, in cambio, un controllo indiretto attraverso la moneta, i commerci e il governo delle élite locali.

Sul fronte interno all’Europa, de Gaulle promosse una politica di grandeur rilanciando il complesso militare-industriale nazionale, promuovendo l’entrata della Francia nel club delle potenze atomiche, siglando l’intesa con la Germania di Konrad Adenauer nel 1963, opponendosi strenuamente all’ingresso britannico nella Comunità economica europea.

“C’è un patto di duemila anni tra la grandezza della Francia e la libertà del mondo”, amava ripetere de Gaulle. E mentre Mitterrrand e gli oppositori di sinistra denunciavano uno stile di governo ritenuto plebiscitario e cesaristico, una sorta di “colpo di Stato permanente” il Generale promuoveva una politica fatta di grandi investimenti strategici nell’economia, colbertismo di Stato, ideologia conservatrice sul fronte sociale.

Centrale in de Gaulle fu l’impegno volto a mantenere intatta e stabile la sovranità della Francia e l’indipendenza della propria politica estera, che il Generale tradusse in diverse decisioni che destarono scalpore nell’epoca tesa della Guerra Fredda.

La visita storica di De Gaulle a Mosca nel 1966 segnò in tal senso uno dei massimi trionfi di una politica originale che portò la Francia a essere la prima tra le nazioni occidentali a ricucire i propri rapporti con l’Unione Sovietica nonché, in seguito, a riconoscere il governo della Cina comunista (1964) snobbata ai tempi dal resto delle nazioni della Nato. Un anno dopo l’apertura a Pechino, de Gaulle ritirò la Francia dal comando integrato della Nato, iniziò una durissima critica alla guerra in Vietnam e in campo economico criticò il cosiddetto “esorbitante privilegio”, la natura dominante del dollaro in campo valutario.

Primo grande alfiere del multipolarismo, De Gaulle non rinnegò la vicinanza preminente di Parigi al campo occidentale ma allo stesso tempo non accettò mai la logica imperante della deferente e incondizionata omologazione delle nazioni europee ai dettami degli Usa e fu sempre un acceso sostenitore dell’idea di un’Europa indipendente (a guida francese) che sapesse mantenere la propria autonoma influenza a livello internazionale, prendendo coscienza tanto del substrato comune sociale e storico tra i diversi paesi quanto delle fisiologiche differenze che le varie nazioni presentavano.

De Gaulle, insomma, pensava a un’Europa libera che sapesse essere l’Europa delle nazioni, della quale anche la Russia avrebbe dovuto essere considerata come parte integrante. Non a caso anche Vladimir Putin ha più volte ripreso nei suoi discorsi questo concetto riguardante il Vecchio Continente compreso tra “Lisbona e Vladivostok” tanto caro al Generale.

Nel quadro della polemica con gli Usa nel 1967 de Gaulle dichiarò l’embargo contro Israele per la guerra dei sei giorni fulmineamente condotta (e vinta) contro l’Egitto, la Siria e la Giordania; tuttavia le più gravi problematiche per il Generale sarebbero venute dal fronte interno.

Conservatore e figlio di un’altra epoca, de Gaulle criticava le richieste dei gruppi giovanili e gli appelli libertari dominanti nei movimenti studenteschi e nelle università. L’esplosione del Maggio francese del 1968 lo colse completamente impreparato. Di fronte alle proteste dei giovani e alle manifestazioni con centinaia di migliaia di persone, erroneamente de Gaulle temette che nei giovani vi fosse una malcelata volontà di conquista illegale del potere o di slittamento del Paese verso la guerra civile. Il Generale  inizialmente prese la decisione di allontanarsi da Parigi per incontrare a Baden Baden il suo antico alleato Jacques Massu, comandante delle forze francesi in Germania mentre a Parigi il primo ministro Georges Pompidou riuscì a padroneggiare la situazione. Al rientro di de Gaulle dalla sua visita sul Reno un milione di sostenitori del gollismo sfilò per Parigi mentre dopo aver sciolto l’Assemblea nazionale le forze conservatrici vicine al presidente stravinsero le elezioni del giugno 1968, con il partito gollista che ottiene 294 seggi su 487 e una maggioranza presidenziale di 394 deputati.

Ma de Gaulle era oramai divenuto figura divisiva. Non più simbolo dell’unità nazionale, aveva in fin dei conti logorato la sua leadership. Un anno dopo una banale questione, un referendum sul futuro assetto del Senato francese, fu con la sconfitta della tesi governativa il grimaldello con cui la posizione di potere di de Gaulle si deteriorò. A 79 anni il presidente passò la mano decidendo di dimettersi in maniera altrettanto sorprendente di come aveva fatto 23 anni prima. Fu il canto del cigno: un anno dopo, il 9 novembre 1970, de Gaulle morì nella sua casa a Colombey, ove si era ritirato in seguito alle dimissioni. Nell’annunciare la sua morte in televisione, il nuovo presidente della Repubblica Georges Pompidou pronunciò la frase: «La France est veuve» (” La Francia è vedova”). A testimonianza del legame inscindibile tra il padre della Quinta Repubblica e la Francia odierna. Tra il soldato divenuto liberatore e capo di Stato e la nuova fase della storia del Paese. Tra de Gaulle e l’eterna rincorsa tra identità e storia che guida la Francia verso l’inesauribile sete di grandeur.

Parigi, arrestato il magistrato che aveva sequestrato due donne in un negozio. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 20 dicembre 2021. Dopo 17 lunghe ore, liberata anche la figlia della proprietaria di un bazar a Parigi. L’uomo, un algerino già noto per problemi psichiatrici, voleva ridiscutere un caso giudiziario. PARIGI - Dopo 17 lunghissime ore, il sequestro è finito: l’aggressore è stato arrestato senza spargimento di sangue. L’uomo, un ex magistrato algerino ieri pomeriggio aveva preso in ostaggio armato di un coltello due donne in un negozio della rue d’Aligre, nel XII arrondissement di Parigi. Poi intorno alle 22 aveva liberato la madre, che gestisce il bazar Go Shop vicino alla Bastiglia, e trattenuto la figlia 23enne . La BRI (Brigata di ricerca e intervento) della polizia francese era intervenuta ieri circondando il negozio e avviando la trattativa. Stamattina l’irruzione delle forze dell’ordine che hanno liberato la giovane e arrestato l0ex magistrato. L’esito dell'operazione, condotta in successo senza spargimento di sangue, è stato annunciato dal ministro dell’Interno francese Gérard Darmanin. 

Il sequestratore nato a Tunisi 56 anni fa è noto nel quartiere e alla polizia per problemi psichiatrici. La pista terroristica è stata esclusa.

Abderaman B.J. (questa sarebbe l’identità secondo la radio Europe 1), magistrato, voleva discutere del celebre caso di Omar Raddad, difeso dall’avvocata Noachovitch. È possibile che Abderaman sia rimasto suggestionato dalla riapertura del caso Raddad, giovedì 16 dicembre, 27 anni dopo i fatti.

Omar Raddad è stato il protagonista di una delle vicende giudiziarie più complesse e controverse di Francia. Nel 1991 il cadavere di Ghislaine Marchal, una ricca vedova sessantenne, venne ritrovato nella sua villa La Chamade sulle alture di Mougins, nel Sud della Francia. Sulle porte della cantina e del locale caldaia, vicino al corpo, vennero ritrovate due scritte con le stesse parole: “Omar m’a tuer”, Omar mi ha ucciso (ma con un errore ortografico relativamente diffuso in Francia, tuer, all’infinito, al posto del participio passato tuée che sarebbe stato corretto).

Nel 1994 venne condannato a 18 anni di reclusione Omar Raddad, il giardiniere marocchino della vittima, al termine di un processo molto seguito. L’avvocato star Jacques Vergès, legale tra gli altri del terrorista Carlos, del criminale nazista Klaus Barbie o del leader khmer Kieu Samphan, prese le difese di Omar Raddad e cercò, come sempre, di trasformare il dibattimento in un atto d’accusa contro il colonialismo e le tentazioni razziste della Francia. Raddad venne incolpato del delitto sulla base di una scritta sgrammaticata, che quindi secondo l’avvocato Vergès veniva addossata facilmente al giardiniere marocchino. Dopo decine di perizie e una sentenza molto contestata, nel 1996 il presidente Chirac graziò parzialmente Omar Raddad in virtù anche di un intervento personale del re del Marocco.

La riapertura del caso, giovedì scorso, con la richiesta di nuove perizie grafologiche, potrebbe avere ispirato l’aggressore a prendere le donne in ostaggio per riuscire a parlare con la nuova avvocata di Omar Raddad, Sylvie Noachovitch, che ha preso il posto di Jacques Vergès morto nel 2013. Si parla di una interruzione improvvisa di una terapia psichiatrica, che potrebbe avere contribuito alla crisi.

·        Quei razzisti come gli spagnoli.

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 6 dicembre 2022.

Nei giorni più sanguinosi della guerra civile, un soldato marocchino che combatteva con i franchisti fu sorpreso da un ufficiale con la testa di un nemico repubblicano nascosta nei pantaloni; spiegò che non aveva avuto tempo di cavargli i denti d’oro, e intendeva farlo con calma.

L’ufficiale lo fece fucilare.

Il suo attendente gli chiese spiegazioni: «In fondo anche noi uccidiamo i repubblicani».

«È vero – rispose l’ufficiale -. Ma era pur sempre uno spagnolo. Ammazzato da un marocchino». 

(Testimone dell’episodio fu un giovane volontario italiano, Edgardo Sogno, che l’avrebbe raccontato molti anni dopo). 

Non esistono nella storia due popoli che si siano affrontati per altrettanti secoli e con altrettanta ferocia come marocchini e spagnoli; e per quanto si annunci intenso oggi l’ottavo di finale dei mondiali, a Doha , non sarà che una pallida parvenza dei duelli combattuti dagli antenati dei calciatori in campo.

Francisco Franco si temprò nella guerra contro i marocchini, conquistando quell’aura fortunata – la baraka — che ne farà il Caudillo di Spagna. All’inizio della guerra civile, porterà dal Marocco sugli aerei tedeschi il nerbo del proprio esercito, tra cui le truppe coloniali del Tercio. Ma erano mille anni, dai tempi del Cid Campeador, che spagnoli e mori incrociavano le lame; e proprio davanti a un quadro del Cid (che poi sarebbe Sidi, signore, in arabo) che faceva strage di infedeli Franco maturò la convinzione di combattere una battaglia per la civiltà cristiana occidentale. 

Se è per questo, il Cid non faceva che replicare il modello di Santiago Matamoros: san Giacomo, quello del pellegrinaggio, sarebbe intervenuto personalmente a cavallo nella battaglia di Clavijo (23 maggio 844), massacrando i mori e dando la vittoria ai cristiani.

Ovviamente sarebbe improprio identificare direttamente quelli che gli spagnoli chiamavano mori con quelli che oggi chiamiamo marocchini. Ma già Dante, nel raccontare il «folle volo» di Ulisse, cita la Spagna e il Marocco, Siviglia e Ceuta, i confini occidentali del mondo conosciuto. E certo i califfi di Cordova e di Granada, contro cui i castigliani combatterono le battaglie della Reconquista, erano imparentati con i sovrani di Fes e di Marrakesh (da cui deriva appunto il nome Marocco).  

Dopo la caduta di Granada, avvenuta in quello stesso fatale 1492 in cui Cristoforo Colombo sulla rotta dell’Ulisse dantesco approdò in America, i mori furono costretti alla conversione o alla fuga. 

Con il tempo, gli spagnoli portarono la guerra in Africa. Parte del Marocco divenne una loro colonia. E quando gli europei si ritirarono, il re Hassan II ordinò la «marcia verde»: un’onda di marocchini preceduti dal Corano invase il Sahara spagnolo, strappandolo ai nomadi saharoui. 

Ancora oggi i due Paesi separati dallo stretto di Gibilterra hanno un contenzioso aperto: la Spagna conserva sul territorio marocchino le enclave di Ceuta e Melilla, difese spesso a fucilate dai migranti che cercano di penetrarvi ed essere accolti in Europa. 

Per il Marocco è un problema vedere la bandiera spagnola su due piazzeforti che considera proprie, e pure essere attraversato da carovane in arrivo dall’Africa nera che a volte, non riuscendo a passare la frontiera, finiscono per accamparsi fuori dalle città marocchine e a vivere di espedienti.

Di tutto questo a Gavi, Pedri e agli altri ragazzini spagnoli cresciuti a pallone e playstation non potrebbe importare di meno (anche se Gavi è andaluso e Pedri delle Canarie, quindi del Marocco sono dirimpettai). 

È possibile invece che i loro colleghi marocchini metteranno nella storica sfida di oggi qualche stilla di energia e di rabbia in più. 

Spesso gli scontri mondiali ispirano una duplice retorica: quella che li carica di significati politici, culturali, letterari; e quella che riduce tutto a una partita di calcio. 

Tra poco vedremo se Spagna-Marocco è solo una partita di calcio.

La Spagna del 1975 con l’addio a Franco e sulla Gazzetta i funerali del dittatore. Cronaca di un momento storico per la Spagna e per l’Europa intera. Due giorni prima, il 20 novembre 1975, è morto dopo una lunga malattia il «caudillo», l’ultimo dei grandi dittatori europei. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Novembre 2022.

«A Madrid fila di 5 chilometri per l’addio a Franco»: è il 22 novembre 1975 e su La Gazzetta del Mezzogiorno si legge la cronaca di un momento storico per la Spagna e per l’Europa intera. Due giorni prima, il 20 novembre 1975, è morto, infatti, dopo una lunga malattia il «caudillo», l’ultimo dei grandi dittatori europei. Macchiatosi di migliaia di crimini durante la guerra civile e dopo l’instaurazione del suo regime assoluto, Francisco Franco è rimasto al potere per quasi quarant’anni: a garantirgli longevità di governo era stata la decisione di non entrare in guerra al fianco di Hitler e di Mussolini.

In seguito, nonostante l’isolamento del regime, il Paese era entrato nell’orbita degli Usa, con cui, nel corso della guerra fredda, aveva stabilito accordi militari.

«Primo giorno senza Franco», scrive il cronista Pietro Gargano, «Al Palazzo d’Oriente di Madrid migliaia di persone sfilano davanti alla bara scoperta del generalissimo. Davanti alle Cortes è stato eretto un enorme baldacchino rosso con lo stemma reale e, sul bordo, gli scudi di tutte le province. [...] Le file cominciano e si snodano per centinaia di metri: tante donne, pochi giovani, qualche legionario decorato con un cammello d’osso, fiori infiocchettati di rosso e di giallo, i colori nazionali. Sulle chiare mura del Palazzo d’Oriente, costruito sui ruderi dell’antico Alcazar degli Asburgo, sono fissati altoparlanti che ripetono senza soste la messa di requiem di Haydn».

Fortunatamente «le dittature non hanno eredi», come afferma il Partito socialista popolare in un comunicato, ma quel giorno, dando seguito alle stesse disposizioni del «caudillo», viene ripristinata la monarchia in Spagna: nominato da Franco suo successore già nel 1969, Juan Carlos di Borbone ha giurato fedeltà ai principi del franchismo.

«Si dice che re si nasce, ma oggi che Juan Carlos sale sul vecchissimo trono di Spagna, bisogna dire che a volte re si diventa. Per il giovane monarca, alle prese con un Paese irretito da 40 anni di tirannia, non poteva esserci partenza peggiore», scrive sul quotidiano P. Patruno, definendolo un «re triste». «Ora che sale al trono, gli avversari del regime l’hanno già definito re Franco II: gli hanno rimproverato di non aver mai rinnegato la dittatura. Gli hanno rimproverato di essersi mostrato al balcone al fianco di Franco quattro giorni dopo le fucilazioni. Tra falchi e colombe, questo re di Spagna nato ai Parioli è un re nudo».

La fase di transizione fra franchismo e democrazia sarà complicatissima e ricca di contraddizioni, ma la scomparsa del «caudillo» segnerà, comunque, un’inedita esplosione di libertà sociale, culturale, politica.

Storia e importanza della guerra civile spagnola. Pietro Emanueli il 19 Ottobre 2022 su Inside Over.

Per alcuni è stata l’anticamera della Seconda guerra mondiale. Per altri, invece, ne è stata la prima battaglia. Ha attratto combattenti volontari da tutto il mondo, segnando profondamente l’immaginario collettivo europeo degli anni Trenta, ed è stata soprattutto una “guerra delle idee”. Perché i soldati esperti e improvvisati che la combatterono non si fronteggiarono per ricevere una medaglia al valore, e neanche per questioni territoriali, ma per permettere alla propria visione del mondo di prevalere su tutte le altre.

Questa guerra, alla quale è stata dedicata una delle opere d’arte più struggenti della storia contemporanea – il Guernica di Pablo Picasso –, falcidiò la Spagna per tre anni, dal 1936 al 1939, e questa è la sua storia.

Il contesto storico e le cause

La guerra civile spagnola fu il parto inevitabile di quasi un secolo e mezzo di fermento popolare, diffuso malcontento interclasse e lotte tra poteri per il potere. Era dal 1812, anno della proclamazione della Costituzione di Cádiz, che tra conservatori e liberali vigeva uno stato di guerra fredda per il controllo del trono. Guerra che nell’arco di sessant’anni, dal 1814 al 1874, produsse ben dodici colpi di Stato e tre guerre civili su piccola scala.

Sarebbe sbagliato veicolare l’idea, però, che in Spagna esisteva un mero problema di contrapposizione ideologica. Perché la battaglia tra conservatori e liberali, via via più ideologizzata con il passare degli anni e dei colpi di Stato, non era che la punta di un iceberg costituito da un vasto malessere popolare provocato dal sistema latifondista, dalla perdita delle colonie e dall’inabilità dei governanti di trovare rimedi all’arretratezza dell’economia nazionale.

Quanto fosse profondo il problema, quanto divisa fosse la società spagnola, l’Europa poté comprenderlo fra gli anni Trenta e gli anni Settanta dell’Ottocento: quarantennio contrassegnato dall’esplosione di tre mini-guerre civili di natura politico-ideologica – conservatori contro liberali –, altresì note come le “guerre carliste”. Preludio di ciò che sarebbe accaduto nel Novecento.

La Spagna fece ingresso nel XX secolo in qualità di ventre molle d’Europa. Reduce da tre episodi prodromici di guerra civile, in possesso di un record senza pari di colpi di stato riusciti o tentati e con uno stato di salute estremamente precario, emblematizzato dalle rivolte popolari a cadenza regolare; la Spagna era un paese in guerra con sé stesso. Lacerata dagli opposti estremismi, e sul perenne punto del tracollo economico, la Spagna non poté che optare per la neutralità durante la Grande guerra. Decisione saggia, data dalla consapevolezza dell’élite della situazione, ma non risolutiva: la detonazione della bomba fu rimandata, non impedita.

Il generale Miguel Primo de Rivera provò a ristabilire l’ordine nel 1923, consumando un golpe e attraendo a sé ogni potere. Per sette anni, dal 1923 al 1930, la Spagna visse sotto una dittatura militare, di carattere simil-fascista, governata col pugno di ferro e tenuta insieme dallo spauracchio della minaccia comunista. Ma quando, nel 1931, il re decise di porre fine all’esperienza dittatoriale, chiamando il popolo alle urne per scegliere il nome di colui che avrebbe dovuto guidare la rinata repubblica, l’odio, le divisioni e il malcontento riemersero con inaspettata celerità e con inaudita violenza.

Verso la guerra

Malcontento dei ceti bassi, divisioni ideologiche ai piani alti e inabilità dei governanti; la triade alla base dell’Ottocento dei golpe e della guerra civile del Novecento. E fu proprio uno di questi tre elementi, l’inabilità dei governanti, a gettare concretamente le fondamenta della guerra civile spagnola.

Il governo repubblicano di Manuel Azaña Diaz, formato nell’ottobre 1931, fu il catalizzatore (in)consapevole di una guerra civile da molto tempo in fermento. Sceneggiatore di una costituzione (il)liberale e anticattolica avente come modello quella del Messico postrivoluzionario – fonte, non a caso, della rivolta cristera –, Diaz fu l’iniziatore di una impopolare campagna inquisitoria nei confronti della Chiesa, privata di proprietà e perseguitata coi mezzi legali promananti dalla nuova carta fondamentale, che fu sapientemente sfruttata dai conservatori per paventare l’imminente arrivo del comunismo in Spagna. A fare da sfondo, agendo come benzina sul fuoco, l’abolizione della monarchia e la nascita della Seconda repubblica.

L’eco della chiamata alle armi dei conservatori, facilitata dalla nolontà di Diaz di dialogare con le forze sociali e con l’opposizione, fu sentita in ognidove: dalle campagne alle caserme. In molti avevano dei motivi per detronizzare Diaz: i chierici per il trattamento vessatorio e persecutorio subito – denunciato pubblicamente da Pio XI –, i militari per le antipatiche riforme in seno l’esercito, i latifondisti per la riforma della terra, la gente comune per il modo di fare autoritario dell’esecutivo.

L’emersione di un governo di destra all’indomani delle elezioni del 1933, paradossalmente, non avrebbe inciso minimamente, in nessun modo, sulla traiettoria ormai seguita dalla Spagna. Al contrario, i ripetuti tentativi del blocco di potere repubblicano/socialista di boicottare l’agenda della destra avrebbero alimentato la tensione dalle aule parlamentari alle strade.

Alcuni movimenti di resistenza all’egemonia politico-culturale del variegato fronte di sinistra (anarchici, repubblicani, socialisti), con la Falange in prima fila, cominciarono ad applicare la legge dell’occhio per occhio, a rispondere pan per focaccia a vessazioni, violenze e persecuzioni. Un circolo vizioso di scontri in strada, rivolte nei sobborghi e assalti organizzati di alto livello contro obiettivi istituzionali.

Eventi realmente antesignani della guerra civile furono la tentata rivoluzione del fronte di sinistra del 1934, sedata soltanto dall’intervento delle forze armate, e i gravi disordini post-elettorali del 1936. Questi ultimi, innescati dal ritorno al potere della sinistra (e di Diaz) e caratterizzati da un’epidemia di chiese bruciate e attivisti conservatori assassinati, avrebbero traghettato la nazione nella guerra civile entro l’estate. Perché in luglio, invero, il tentativo di un manipolo di militari di esautorare il governo avrebbe liberato gli opposti estremismi da ogni freno inibitorio e portato il mondo a Madrid.

Tutto il mondo a Madrid

La guerra civile spagnola viene universalmente ricordata come l’evento precorritore della Seconda guerra mondiale. E lo fu. Perché un conflitto domestico, apparentemente e originariamente circoscritto alla lotta di potere tra liberali e conservatori, nell’arco di breve tempo catalizzò un afflusso abnorme di combattenti da ogni parte del Vecchio Continente – e non solo.

I liberali, cioè i repubblicani e la sinistra, presentarono lo scontro come una questione di libertà contro tirannide. I conservatori, dai cattolici ai nazionalisti di destra, lo dipinsero in termini di resistenza dell’Europa cristiana contro l’anarco-comunismo giudeo-sovietico. Entrambi i fronti, le cui voci furono amplificate dalla grande stampa dell’epoca, magnetizzarono combattenti volontari, denaro e consiglieri militari dall’estero.

All’interno della Spagna, dilaniata dal fratricidio, la chiamata alle armi ebbe come effetto una mobilitazione (ed una polarizzazione) pressoché totale della popolazione. Nei primi mesi di guerra civile, stando alle stime degli storici, il fronte repubblicano spalancò le porte a circa 120mila combattenti volontari connazionali e quello nazionalista a circa 100mila. Numeri che sarebbero aumentati di pari passo con l’avanzare della guerra, affiancati dall’afflusso di volontari dall’estero.

A migliaia, da tutta Europa e (anche) dal resto del mondo, si calamitarono nell’Iberia insanguinata dalla guerra civile per assistere l’una o l’altra parte. A migliaia, dai giovani idealisti ai “divi”, come George Orwell – che tramutò l’esperienza in loco nel libro Omaggio alla Catalogna – e il padre della guerra irregolare Yank Levy.

La fine

Entro la metà del 1937, complice l’afflusso incessante di volontari dalla patria e dall’estero, la guerra civile spagnola sarebbe diventata una “guerra mondiale di volontari”. Oltre 35mila, provenienti da più di 52 Paesi – dalla Francia al Messico, passando per l’Unione Sovietica –, soltanto quelli arruolatisi nella Brigata Internazionale affiliata ai repubblicani. Più del doppio, grosso modo di origine europea – con in testa Italia, Germania, Portogallo –, quelli partiti per dare manforte ai nazionalisti capeggiati da un giovane e carismatico generale rispondente al nome di Francisco Franco.

Senza il supporto dell’asse italo-tedesco, appoggiato pubblicamente dall’internazionale fascista e velatamente dall’Anglosfera, è altamente probabile, o meglio è certo, che la guerra civile sarebbe terminata a favore dei repubblicani. Ma la pioggia di armi, mezzi, consiglieri e volontari, alla fine, giocò un ruolo determinante nel ribaltamento delle sorti del conflitto e nell’ascesa di Franco.

La disparità di forze sul campo, data dal rovesciamento della supremazia numerica trainato dagli ingressi di volontari – iniziale rapporto di 10 a 1 a favore dei repubblicani diventato di 4 a 1 a favore dei monarchici in un anno e mezzo di ostilità –, avrebbe permesso a Franco di avanzare dalle campagne ai centri urbani, conquistando il principale ed ultimo fortino repubblicano, la rossa Catalogna, ai primordi del 1939.

Il mese seguente, in febbraio, senza attendere la fine della campagna di reconquista e a dimostrazione delle simpatie riscosse dalla causa conservatrice nei circoli angloamericani – da leggere in chiave anticomunista –, il Regno Unito avrebbe riconosciuto la neonata giunta franchista. Il resto è storia.

A Lloret de Mar, tra gare di sesso, droghe low cost e niente regole: «Qui ci sfasciamo». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.

Tra gli italiani a Lloret de Mar, in Costa Brava (Spagna): «Con 100 euro ci stiamo per giorni». E i genitori assoldano gli investigatori privati

Ragazzi in pausa durante la «movida» a Lloret de Mar (foto Gorka Loinaz)

Il loro sfascio, il nostro sfascio. Per conoscerci meglio bisogna andare all’estero. Tipo a Lloret de Mar.

Nel 1975 un operatore turistico milanese sponsorizzava questo antico villaggio di pescatori: «La Costa Brava è il proseguimento della Costa Azzurra: scogliere a picco e arenili sabbiosi».

Ad agosto una settimana tutto compreso costava 98 mila lire. Oggi costa molto meno. Quasi niente.

Lloret de Mar, 75 chilometri da Barcellona, i palazzi della speculazione edilizia in fila sul mare e le pubblicità delle discoteche in formato gigante, è un discount. Appunto dello sfascio.

I posti letto? In cantina

Spacciatori multilingue offrono pallini di cocaina — droga presunta, le truffe sono pratica costante — anche a 5 euro. Nordafricani, gli spacciatori sono ragazzi come i clienti. Del resto qui a trent’anni uno lo battezzano già vecchio, figurarsi oltre: tolti i poliziotti e i netturbini, i «vecchi» sono o predatori o investigatori privati o rappresentanti dell’umanità d’ogni nazione in cerca di un lavoro stagionale. In nero. Lavapiatti, addette alle pulizie. Romeni, albanesi, ucraine. Dopodiché l’apertura di plurimi uffici di plurime agenzie di sicurezza, incaricate dai genitori di sorvegliare i figli previo solido acconto, potrebbe apparire un errore in una cittadina di nemmeno 40 mila abitanti.

Non fosse che da giugno Lloret de Mar moltiplica per X le presenze. Se gli alberghi son pieni, li sostituisce il mercato immobiliare. Ci danno notizia di affitti di cantine e posti-letto in terrazza (su sdraio o stesi sul pavimento). Ma poi, posti-letto: si vive di notte. Infatti le creme solari non sono oggetto d’acquisto.

Video (forse) intimi

In pausa a rollarsi una sigaretta, un farmacista dice che i prodotti più venduti sono i profilattici ultra-sensibili. Siccome i presenti o futuri fidanzati si vergognano, a comprarli sono le ragazze, principali clienti pure dei numerosi sexy-shop dove scelgono oggetti che diversificano il piacere.

Stando sul tema del sesso ci sono gare in spiaggia: vince la lei che permette a lui di superare numericamente gli avversari; si filmano video, nei patti vincolati a diffusioni interne sui cellulari. Di tutto questo le ragazze non parlano. Parlano però — ne incontriamo della provincia di Varese, Parma, Brescia, Padova — di una crescente abitudine nelle discoteche, disposte in sequenza come i benzinai in Canton Ticino: «Maschi sconosciuti ci avvicinano e dicono “Ti pago cinquanta euro, andiamo?”». Lasciando ai sociologi ogni interpretazione, bisogna registrare come questi nostri giovani mostrino una propensione a raccontarsi. A farsi ascoltare. «Devo mandare di continuo la localizzazione alla mamma sennò va in sbatti. Il problema è che me la chiede anche papà, sono separati e non comunicano. L’altro giorno ha chiamato il tipo di mamma. Aspetto una telefonata dall’ultima tizia di papà. Mio padre... Si allena di boxe, ha cominciato a depilare il petto. A sessant’anni...».

Spremuta e vodka

La «Platja de Lloret de Mar» è la spiaggia più frequentata, punto di ritrovo, partenza, ritorno; spiaggia basica, nulla di paragonabile alle calette che — dieci minuti a piedi — regalano bagni in un’acqua pulita dalle gelide correnti, esplorazioni di snorkelling, una natura selvaggia. Non fosse che il comandamento è quello di non spostarsi dal centro per avere garantito l’immediato accesso alle discoteche. Ovvero luoghi dai nomi inglesi, onerosi sistemi di luci e audio, dee-jay di fama; sono luoghi, le discoteche, avviluppati in una faida di promozioni fra ingressi gratuiti per le ragazze, schiuma-party, serate a tema «Playboy», drink paghi uno consumi due o tre.

Questo all’interno dei locali.

Un netturbino al lavoro a Lloret de Mar (foto di Gorka Loinaz)

Fuori, se mai avevamo visto una gestione della cosiddetta «movida» come a Lloret de Mar — la polizia che governa la piazza sul modello dei tifosi allo stadio —, ecco, i veri santi restano in ogni modo i netturbini. Ovunque ragazze e ragazzi (con selfie) fan pipì e vomitano l’anima. Il farmacista di prima dice che anziché medicinali per regolarizzare i disordini corporali, questi se la sbrigano da soli. Cioè i liceali metodi di curare la sbronza bevendoci sopra al risveglio. Spremute con un tocco di vodka, anzi vodka con un tocco di spremuta, e caffè con abbondanti punte di liquore che innescano da capo il cortocircuito.

Nel mentre, tornando ai netturbini, essi avanzano con fare zen dovendo difendersi da insulti, ubriachi che saltano loro addosso volendosi mettere al volante, si catapultano contro il mezzo rischiando l’investimento, duellano a chi centra il medesimo autista a sputi.

Ora, pur risultando un’operazione pietosa intervistare persone deliranti, dobbiamo capire. E capiamo che «qui possiamo sfasciarci. Ti fanno fare tutto. La gente non è come in Italia, che si stanca e chiama i carabinieri. La gente è tollerante. Se uno si ingegna, e becca in anticipo il volo low-cost al minimo, se salta i pranzi, con cento euro ti fai un bel po’ di giorni di vacanza».

In Italia, in Grecia, in Portogallo: ne esistono altri, di posti così, questa non è una missione premeditata contro Lloret de Mar.

Eppure Lloret de Mar per noi è un luogo maledetto. Due nomi: Federica Squarise , che nel 2008 aveva 23 anni; Niccolò Ciatti , che nel 2017 aveva 21 anni.

Federica fu uccisa da un barista uruguayano, Victor Diaz Silvia alias «El gordo», il grasso.

Niccolò fu assassinato dal picchiatore ceceno Rassoul Bissoultanov, di recente scappato, in un iter della giustizia spagnolo lassista, offensivo, vergognoso, evitandosi la galera.

Sull’omicidio di Ciatti, all’epoca Roberto Saviano aveva scritto che «la realtà è più complessa di quanto raccontato... La Costa Brava è controllata dalle organizzazioni mafiose dell’Est, in particolar modo russe».

In Spagna la legislazione e di conseguenza le azioni anti-mafia sono primitive.

La stessa Costa Brava, fin dai tempi dei Di Lauro, è un territorio popolato e spolpato anche dalla camorra. Un avamposto per i traffici di droga nel triangolo Sudamerica-Nordafrica-Europa. Una geografia di nascondigli di latitanti in ville con piscine, statue pacchiane, postazioni play-station.

L’area di Barcellona è una Gomorra, ripetono in articoli e libri i giornalisti. Ogni tipologia di reato ha una sua narrazione. Dato del ministero dell’Interno: «Nel 2022 i furti in casa a Lloret de Mar sono cresciuti del 115%». In divenire le statistiche sull’incubo contemporaneo: le «pinchazos». Una «droga dello stupro» somministrata con una rapida puntura durante i balli in discoteca. Si precipita in uno stato di semi-incoscienza. Difese? «Cerchiamo di star vicine. Però si legge che adesso pungono anche all’aperto».

Sicché una domanda viene, una domanda beninteso da vecchi: ma davvero, con tutte le alternative sul pianeta, perché proprio Lloret de Mar?

«Barra libre»

In Spagna un’espressione azzera gli interrogativi. «Barra libre». Letteralmente: open bar, bere gratis. In senso ampio significa zero freni, massima libertà, niente norme pertanto niente denunce. Una preventiva accettazione dello stato dei fatti — e dei rischi — per dominare da forestieri, se volete da invasori, una cittadina dove, qualora le condizioni lo permettano, gli abitanti d’estate spariscono.

A Lloret de Mar le regole d’ingaggio sono pacifiche. La si sceglie apposta come approdo vacanziero. Aspettando in spiaggia l’alba — senza chitarre da vecchi, falò da vecchi, bagni nudi al buio da vecchi —, la lercia distesa sabbiosa pare la sala d’attesa d’un pronto soccorso.

Svenimenti, dolori alla schiena e lividi in seguito a cadute delle quali non si ha ricordo, lancinanti mal di testa, ovviamente piogge di vomito. Camicie di lino, minuscoli tatuaggi, raffinati sandali, beveroni energetici in borracce griffate. Rari gli spinelli, come le sigarette mollate per quelle elettroniche.

Uno attacca a spiegare come funziona il cuore, avendo il test d’ammissione a Medicina, ed è un piacere ascoltarlo. Parecchi gli italiani, e poi francesi, scandinavi. A un netturbino africano cinque ragazzi danno del «negro di m...» e lui alza il dito medio. A un rivoluzionario che sfreccia correndo in divisa da runner danno del «drogato»: uno si lancia all’inseguimento annunciando che cercherà di agguantare il corridore per tirargli giù i pantaloni; applausi ma più che altro sbadigli dalla platea, intenta a tratteggiare con una pietra un gigantesco fallo sulla battigia, lamentando l’assenza di un drone che garantirebbe magnifiche fotografie dell’opera. Ne segue navigazione su Amazon con l’idea di farsi consegnare il drone nel tugurio affittato. O preso in sub-affitto. O perfino in sub-sub-affitto. Chi se ne frega, non fa differenza a Lloret de Mar. Barra libre siempre.

Suona un cellulare, i Rolling Stones cantano. «Dio, è mia madre che pretenderà una videochiamata alle quattro di notte».

«E che ti costa, rispondile, falla contenta».

«Ciao ma’, dimmi».

Estratto dell’articolo di Mic. All. per “il Messaggero” il 21 agosto 2022.  

Sono state spintonate e insultate da un ragazzo fuori da una discoteca a Valencia. La situazione rischiava di diventare critica: lui era fuori di sé, continuava a urlare e voleva aggredire quel gruppo di amiche, arrivate da Firenze per una vacanza in Spagna. Quando hanno visto arrivare la polizia, le ragazze si sono sentite sollevate[…] Invece, sono state fermate e sbattute a terra e sono finite all'ospedale con «paio di costole incrinate, sangue dal naso, e dolori al petto». È la denuncia social fatta da Ambra Morelli, 22 anni, di Firenze, pallanuotista della Rari Nantes Florentia.

I fatti risalgono al 9 agosto. La giovane era insieme ad altre sette amiche […] in una discoteca, la Marina Beach. All'uscita dal locale, la paura: prima lo scontro con un gruppo di ragazzi ubriachi, poi l'arrivo della polizia e la nuova aggressione. 

[…] Davanti alla discoteca erano presenti molte persone, «ma nessuno è intervenuto», […] All'improvviso è arrivata la polizia, probabilmente chiamata da qualche cliente della discoteca. Le ragazze hanno pensato che tutto si sarebbe sistemato in pochi minuti, ma non è andata così. «L'unica cosa che hanno saputo fare è stata lasciare andare il ragazzo e spingerci con forza a terra nella sabbia.

La mia amica era di schiena, io avevo la faccia nella sabbia - prosegue Ambra - Sentivo dei colpi sulla parte superiore del corpo. […] C'erano almeno cinque pattuglie, 10 agenti, ci hanno accerchiate come criminali». […] Per ora le giovani hanno deciso di non sporgere denuncia, perché, nonostante le ricerche, non sono stati trovati video chiari dell'episodio, solo uno spezzone prima dell'arrivo delle forze dell'ordine. 

Non è la prima volta che la polizia spagnola viene accusata di avere comportamenti violenti. Nel 2020 aveva fatto scalpore un filmato in cui si vedevano gli agenti del Mossos d'Esquadra, il corpo di polizia regionale della Catalogna, sparare con un taser a una ragazza di 26 anni nella città di Sabadell.

Nel 2017 era invece circolato un video in cui un agente picchiava con uno schiaffo violentissimo una donna, durante un controllo nel quartiere Barona di Valencia. E ancora: i genitori di Martina Rossi, la studentessa genovese morta a Palma di Maiorca nel 2001 dopo essere precipitata dal balcone mentre cercava di sfuggire a un tentativo di stupro, avevano raccontato di essere stati trattati quasi come criminali dalla polizia che, inizialmente, aveva archiviato il caso come suicidio.

"Ci hanno picchiate fuori da una discoteca a Valencia, la polizia non ha preso le nostre difese", il racconto di una ragazza di Firenze. Chiarastella Foschini La Repubblica il 20 Agosto 2022.

Ambra Morelli, ha 22 anni ed è pallanuotista della Rari Nantes: "Abbiamo le costole incrinate"

"Siamo scosse e con un paio di costole incrinate". Ambra Morelli, 22 anni, fiorentina, pallanuotista della Rari Nantes Florentia e studentessa di psicologia a Padova, chiude così la sua testimonianza dell'ultima notte di vacanze in Spagna a Valencia sul suo account Instagram, nella quale racconta di essere finita in ospedale dopo un intervento della polizia spagnola in seguito a una lite fuori da una discoteca.

La notte del 10 agosto intorno alle 4,00, come scrive lei stessa sui social, la ragazza è fuori la discoteca Marina Beach, che ha chiuso alle 3,30. Si trova lì insieme a sette amiche con cui ha passato le ferie e racconta di essere stata molestata e aggredita senza alcun motivo da un gruppo di ragazzi e da un ragazzo in particolare, un episodio che riporta alla mente la terribile morte di Niccolò Ciatti, assassinato a 22 anni  con un calcio in testa durante un pestaggio in discoteca a Lloret De Mar.

"Vola una scarpa dal gruppo di ragazzi e atterra vicino a noi - scrive la 22enne-. In totale tranquillità prendo la scarpa e ridendo faccio per riportargliela. Un ragazzo arriva me la strappa da mano e inizia a insultarmi. Una mia amica arriva in mio soccorso e dice al ragazzo di andarsene, ovviamente un po' innervosita ma sempre a debita distanza. Questo individuo allora le tira un calcio forte sugli stinchi e comincia a sputarci addosso, non una ma ripetute volte con insulti irripetibili annessi". Secondo il racconto di Ambra Morelli nessuno dei presenti sarebbe intervenuto in soccorso delle ragazze per salvarle dalla violenza gratuita e inattesa dopo una notte di divertimento in discoteca. "Poi abbiamo capito il perché. Quando è arrivata la polizia nazionale spagnola l'unica cosa che ha saputo fare è lasciar andare il ragazzo e spingerci con forza a terra nella sabbia".

La giovane ha poi raccontato l'accaduto in un'intervista in cui dice che quando è intervenuta la polizia nazionale spagnola: "siamo state picchiate e accusate di essere ubriache quando eravamo noi a essere state molestate da un gruppo di ragazzi e avevamo chiesto aiuto". La denuncia di Ambra Morelli sui social prosegue: "Sentivo solo forti colpi su tutta la parte superiore del corpo. Mi hanno raccontato che gli agenti hanno tirato fuori anche il manganello. La mia amica penso che abbia perso i sensi e quando ci siamo rialzate ci volevano dividere, hanno separato le nostre mani incrociate con un forte colpo e hanno cominciato a minacciarci che ci avrebbero portato via con le manette. In tutto ciò abbiamo sempre tenuto le braccia alte chiedendo aiuto e dicendo che ci avevano picchiato e importunato. C'era un'agente donna a cui ci siamo appellate che ci ha trattato peggio degli uomini. Eravamo spaventate, deluse, sole e umiliate". E aggiunge: "Siamo riuscite a fuggire da questa situazione non abbiamo capito ancora bene come, dopo che hanno visto il mio documento". 

Quando la polizia è andata via, i presenti hanno tentato di calmare il gruppo di amiche: "Ci hanno raccontato che in Spagna queste cose succedono ogni giorno, succede anche di peggio e non può essere così, ma i loro volti atterriti e rassegnati ci hanno lasciato poche speranze per il futuro. State attenti se andate in Spagna, tenete sempre un profilo basso" scrive Ambra Morelli.

Le giovani si sono poi recate in ospedale a Valencia per essere medicate, ma hanno deciso di non sporgere denuncia.

«Picchiate dalla polizia in Spagna», la denuncia di 8 ragazze italiane. L'incubo fuori da una discoteca. Redazione Web su Il Mattino il 20 agosto 2022.

«Molestate da un giovane nella movida spagnola ma all'arrivo della polizia siamo state picchiate noi», tanto da dover ricorrere alle cure dell'ospedale con un «paio di costole incrinate, sangue dal naso, e dolori al petto». E in quei momenti di paura, anche se in contesti diversi, davanti alla violenza il pensiero corre verso la tragedia di Niccolò Ciatti. È la denuncia di Ambra Morelli, 22enne fiorentina, pallanuotista della Rari Nantes Florentia, che il 9 agosto si trovava in vacanza a Valencia, in Spagna, insieme ad altre sette amiche, tutte provenienti da Firenze. Al loro ultimo giorno di vacanza le otto ragazze hanno deciso di andare in discoteca, ma all'uscita dal locale quella che doveva essere una serata spensierata si è trasformata in paura. Prima il brutto incontro con un gruppo di ragazzi ubriachi, poi l'arrivo in forze della polizia che ha accerchiato il gruppo di ragazze. «All'uscita io e la mia amica Matilde stavamo parlando, quando ci è arrivata addosso una scarpa - racconta Ambra, che ha voluto rendere nota la brutta avventura sui social -. Pensavamo volessero attaccare bottone ma quando gliela abbiamo restituita uno di loro, che aveva bevuto, mi ha tirato un calcio, poi ha iniziato a insultarci in spagnolo e a sputarci».

«Sanguinavo dal naso. Avevamo paura»

La salvezza si chiama polizia, arrivata sul posto, «probabilmente chiamata da qualche cliente della discoteca». «Abbiamo pensato: ora tutto si sistema. Non è andata così, e questa è la cosa che mi fa più male - dice ancora la 22enne -. Un ragazzo può sbagliare, la polizia no. Abbiamo provato a spiegare agli agenti cosa era accaduto, anche in spagnolo: eravamo con le mani in alto. A loro non è importato niente». Ripercorrendo i fatti di quella sera la ragazza spiega che «c'erano almeno cinque pattuglie, 10 agenti, ci hanno accerchiate come criminali, invece eravamo noi le vittime. Ci hanno spinto nella sabbia, avevo la faccia per terra e non riuscivo bene a respirare. A un certo punto è spuntato fuori un manganello». Poi un clima che diventa sempre più pesante di minuto in minuto: «Dopo poco ci hanno alzato con forza - continua Ambra -. Io e la mia amica Matilde ci siamo prese per mano ma ci hanno diviso con violenza. Lì mi è venuto in mente Niccolò Ciatti, ho pensato a cosa deve aver provato lui anche se la situazione era diversa. Ma sono sempre botte e tanta indifferenza da parte di coloro che vedono ma non agiscono». È Valencia ma, racconta, sembra Lloret de Mar, la cittadina catalana dove Niccolò Ciatti, il 22enne di Scandicci (Firenze) fu ucciso nell'agosto del 2017 in un pestaggio in discoteca.

«Qualcuno può pensare che magari avevamo bevuto - spiega Ambra - ma non è così. Dopo alcune persone ci hanno detto che in Spagna queste cose accadono. Sembra la normalità e invece è gravissimo». Le ragazze poi sono andate all'ospedale con addosso i segni della violenza: «Ho avuto danni fisici - spiega Ambra -. Un paio di costole incrinate, sangue dal naso, dolore al petto: sto prendendo ancora antidolorifici. Tutte eravamo paralizzate dalla paura, ho visto alcune mie amiche nel panico, non si muovevano». Proprio per l'ospedale, la ragazza esprime «una nota di merito. Ci hanno accolte, capite e visitate subito e con la massima discrezione e gentilezza». Di questa vacanza, fa capire Ambra, resta la rabbia. E, nonostante le ricerche per ora non ci sono video chiari dell'episodio, solo uno spezzone prima che arrivasse la polizia. Da qui la volontà di non denunciare perché «sarebbe tutto a nostre spese e, diciamolo, inutile. La mia parola contro quella di un agente di polizia». «Io continuo a sentire la mia voce che urla disperata - dice l'amica Matilde. Siamo state aggredite, non siamo noi le colpevoli dicevamo agli agenti. E poi uno sguardo, quello dell'agente donna che faceva parte della squadra di polizia. L'ho fissata chiedendo aiuto, comprensione. E invece in cambio abbiamo solo ricevuto botte».

Investito a Palma di Maiorca, le accuse del giornale locale: «Non è stata detta la verità». Federico Thoman su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2022.

«Non è tollerabile che, tre giorni dopo, non si sappia ancora se la tragedia è dovuta a una tremenda casualità o a un’imprudenza spericolata che richiede un’assunzione di responsabilità». In un duro editoriale uscito sul , uno dei quotidiani più letti dell’isola, si chiede conto alle autorità locali della gestione del caso della morte del 37enne originario della Sardegna. Il fatto che l’articolo non sia firmato significa poi che esprime nel merito, in tutto e per tutto, la linea del giornale. Le reazioni locali.

Anche a livello locale la vicenda sta scatenando parecchie reazioni. Un editoriale (non firmato) molto duro è uscito sul , uno dei quotidiani più letti sull’isola. Il fatto che non sia firmato significa che esprime in tutto e per tutto la linea del giornale. L’articolo contiene frasi molto nette: «La cittadinanza, i familiari delle vittime e gli amici continuano ad aspettare una spiegazione. Oltre al dolore che provoca una tragedia di queste dimensioni, la gestione dell’accaduto suscita stupore. L’assessora comunale alla Sicurezza, Joana Adrover, e la commissaria della polizia locale Antonia Barceló hanno confermato di aver parlato con le due persone coinvolte (un agente di lunga esperienza e una in fase di addestramento) e di aver ottenuto un risultato frustrante perché i due agenti non hanno specificato quale emergenza stavano andando ad affrontare quando hanno travolto tre persone uscite dal lavoro e che erano in una zona pedonale». «Nessuna emergenza»

È stato proprio il giornale maiorchino a rivelare che, stando ai tabulati della centrale operativa, non è partito nessun ordine d’intervento d’emergenza per la pattuglia che ha poi travolto Decandia e i suoi due colleghi. Un altro tassello che, nell’editoriale odierno, spinge a chiedere con fermezza la verità: «Perché non è stato riferito questo dato così facile da verificare durante la conferenza stampa? Non è tollerabile che, tre giorni dopo, non si sappia ancora se la tragedia è dovuta a una tremenda casualità o a un’imprudenza spericolata che richiede un’assunzione di responsabilità. Come accade coi guidatori che provocano incidenti con morti e feriti. A maggior ragione trattandosi di agenti di un corpo che, tra le varie cose, vigila sul rispetto delle norme del codice stradale». Nell’editoriale, poi, il Diario de Mallorca dà un’altra notizia: nonostante il loro coinvolgimento in un incidente mortale, i due agenti sono ancora in servizio e non sono stati sospesi nemmeno in via cautelare. «Serve credibilità»

Nella parte finale l’editoriale, per mostrare le incongruenze e i punti oscuri nella gestione del caso da parte della polizia locale di Palma e dell’assessorato alla sicurezza, spiega che «l’area in cui è avvenuto il sinistro mortale è competenza della polizia locale di Palma. Ciononostante, il magistrato che sta guidando le indagini ha stabilito che a doversi occupare del caso è la Guardia Civil, proprio per evitare ogni minimo rischio di corporativismo». Certo, i primi rilievi sono stati fatti dai colleghi dei due agenti coinvolti nell’incidente ma gli uomini della Guardia hanno già raccolto gli elementi disponibili. La chiosa dell’articolo d’opinione è emblematica: «Andare fino in fondo non riparerà il danno causato, ma contribuirà alla credibilità del sistema».

Quello che non torna

La dinamica di quello che all’inizio sembrava un tragico incidente sta mostrando, col passare dei giorni, diversi punti oscuri. I familiari di Decandia — a partire dallo zio e avvocato che al che ha investito e ucciso il nipote — vogliono poter rendere gli onori funebri a Mario (attualmente, tra autopsia e rilievi vari, la salma non può ancora essere rimpatriata in Italia) ma soprattutto capire esattamente cosa è successo. Decandia era appena uscito dal suo luogo di lavoro, un ristorante di una grossa catena tedesca, e stava camminando in una zona pedonale in compagnia di due colleghi, un cittadino svizzero di 25 anni e una polacca di 35. Una pattuglia della polizia locale di Palma li ha travolti a gran velocità: Mario Decandia è morto mentre gli altri due sono rimasti feriti in modo grave. Sono ricoverati in ospedale ma non soni in pericolo di vita. 

Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 5 giugno 2022.

La magistratura di Palma di Maiorca ha deciso: sarà la Guardia Civil a condurre le indagini sul caso di Mario Decandia, maître di Tempio Pausania travolto e ucciso nella notte tra mercoledì e giovedì scorso da un'auto della polizia locale a forte velocità mentre camminava con due amici, un uomo a una donna (gravi ma non in pericolo di vita) al Paseig Cabrera, isola pedonale nel cuore di Palma di Maiorca. 

Decandia, 37 anni, era appena uscito dal lavoro. Sull'«omicidio stradale» aveva effettuato i primi accertamenti la polizia locale, ma il magistrato ha revocato l'incarico per garantire «un'inchiesta rigorosa e imparziale». Il comando della locale, riferiscono i media dell'isola, ha definito la decisione «sorprendente». 

Prima, in conferenza stampa, lo stesso comando della polizia locale e l'assessora comunale alla sicurezza avevano sottolineato che l'agente alla guida dell'auto era risultato negativo all'alcoltest e che la pattuglia stava intervenendo per un'emergenza. 

Ma un giovane inglese ha riferito di una seconda auto della polizia locale, giunta subito dopo l'incidente e ha affermato di aver «visto portare via dalla vettura una bottiglia di vodka».

Il teste è andato dalla Guardia Civil dopo essersi accorto che nel verbale compilato dagli agenti locali - forse per difficoltà di traduzione - della bottiglia di vodka non v' era traccia. In una successiva replica, la polizia locale ha detto che si trattava di un thermos, ma questo è uno dei punti ancora da chiarire. Il giornale locale Diario de Mallorca scrive, poi, di aver potuto verificare «che la centrale operativa non aveva chiesto all'agente alla guida del veicolo di intervenire su alcuna emergenza».

Anche due avvocati spagnoli e uno italiano, Dino Selis - zio della vittima - sono al lavoro su quelle che reputano incongruenze dei verbali e sui primi risultati dell'autopsia, assistiti dal consolato italiano nelle Baleari. Un altro zio di Decandia, Enea Selis, chiarisce che la famiglia vuole che sia dissipata ogni ombra: «Mario era un ragazzo d'oro. 

"Qui mi sono ambientato - scriveva - e sono come a casa". Una morte assurda. Ci hanno detto che l'auto andava a fortissima velocità in una zona interdetta al traffico.

C'era molta gente, un miracolo che non abbia fatto una strage. Nei verbali c'è scritto che una panchina in cemento armato è stata scagliata a decine di metri. Ci sono tanti punti oscuri e vogliamo sapere la verità». 

I genitori della vittima, Maria Piera e Piero, vivono a Tempio, un fratello è impiegato in banca. Sono affranti e per ora non andranno a Palma: «Non potremo vederlo fino a che non si concluderanno gli accertamenti. Andremo quando si potrà riportarlo a casa». I due colleghi di Mario Decandia sono ricoverati in terapia intensiva, gravi ma in lieve miglioramento. Il maître sardo lavorava per un ristorante di una catena tedesca.

(ANSA il 2 maggio 2022. ) - Gli hacker che hanno "infettato" il telefono cellulare del premier spagnolo Pedro Sánchez con il software Pegasus hanno sottratto dal dispositivo oltre 2,7 gigabytes di dati, secondo quanto affermato da fonti del governo del Paese iberico a El País e altri media nazionali. L'attacco è avvenuto in due occasioni a maggio e giugno 2021, aggiunge Madrid. Nel caso della ministra della Difesa Margarita Robles, anche lei — stando al governo spagnolo — spiata con Pegasus a giugno 2021, la quantità di dati sottratta corrisponde a 9 megabytes.

La crisi diplomatica tra la Spagna e il Marocco, segnata da episodi come l'arrivo in incognito del leader saharawi Brahim Ghali o l'entrata in massa di oltre 8.000 migrante nell'enclave di Ceuta, e la maturazione della decisione di concedere la grazia ai leader catalani condannati al carcere sono i fatti d'attualità più rilevanti avvenuti nel periodo in cui Sánchez e Robles sono stati spiati. Ghali, ricordano i media iberici, arrivò in Spagna ad aprile, mentre la crisi migratoria di Ceuta avvenne a partire dal 15 maggio.

L'indulto ai leader catalani venne concesso il 22 giugno, anche se Sánchez li aveva preannunciati giorni prima. A maggio 2021 ebbero luogo anche la vittoria della popolare Isabel Díaz Ayuso alle elezioni regionali di Madrid e la formazione dell'attuale governo catalano di Pere Aragonès con un accordo tra i partiti indipendentisti Esquerra Republicana e Junts per Catalunya. Il ministro della Presidenza, Félix Bolaños, ha dichiarato che il governo preferisce evitare "illazioni" sui motivi del presunto spionaggio

Vincenzo Genovese per it.euronews.com il 2 maggio 2022.

I telefoni cellulari istituzionali del Presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez e della ministra della difesa Margarita Robles sono stati oggetto di spionaggio illegale tramite il software israeliano Pegasus. È quanto denuncia l'esecutivo di Madrid, per bocca del ministro alla Presidenza Félix Bolaños.  

L'intrusione illegale sarebbe avvenuta nei mesi di maggio e giugno del 2021 e avrebbe provocato la sottrazione di un'enorme quantità di dati dai due dispositivi, oltre due gigabyte e mezzo nel caso di quello del Presidente. 

Il governo spagnolo non è al momento in grado di stabilire il grado di riservatezza delle informazioni ottenute dagli autori dello spionaggio, ma assicura che dal mese di giugno a ora non si è prodotta nessuna nuova introduzione.

Responsabili ignoti

"L'hackeraggio di questi telefoni è risultato da una verifica, che è tuttora in corso, sui dispositivi di tutti i membri del Governo. Riportiamo informazioni verificate e attendibili, non supposizioni. Sono fatti estremamente gravi, che confermano intrusioni illegali e non riconducibili alle istituzioni statali", ha spiegato Bolaños in una conferenza stampa nella mattinata di lunedì 2 maggio. 

Il governo spagnolo assicura che l'utilizzo di Pegasus in questo caso è avvenuto senza autorizzazione giudiziaria e a opera di attori esterni: non c'entra quindi il Centro Nacional de Inteligencia (CNI), i servizi segreti spagnoli, che hanno a propria disposizione il software. 

"Ci sono prove che Pegasus sia stato utilizzato illegalmente in almeno venti Paesi e che tra le vittime di questi interventi ci siano governi, rappresentanti della società civile, giornalisti, e figure di varia natura". Le prove di queste violazioni sono state inoltrate all'Audiencia Nacional, il tribunale nazionale spagnolo, dall'Avvocatura generale dello Stato. 

Nessuna ipotesi, al momento, sugli autori dello spionaggio, che assumi contorni molto incerti: Il software Pegasus in teoria viene venduto solo a organismi governativi e, dato che il governo stesso eslcude la pista interna, i responsabili sarebbero da ricercare o tra agenzie governative di Paesi stranieri oppure o tra enti non statali. 

Il caso Pegasus e il Catalangate

Proprio il software Pegasus, noto per un grande scandalo di spionaggio illegale con migliaia di telefoni sotto controllo, è in questi giorni al centro di un' altra questione delicata in Spagna, ribattezzata Catalangate. 

Si basa su un'indagine realizzata dal centro studi canadese The Citizen Lab e pubblicata a metà aprile. I dispositivi di 63 attivisti, giornalisti ed esponenti politici legati all'indipendentismo catalano sono stati hackerati tramite il noto spyware, e altri quattro con uno simile, Candiru.

I loro proprietari sono quindi stati controllati, grazie alla possibilità di geolocalizzarli, leggerne le  conversazioni, ascoltarne le telefonate e sottrarre dati e fotografie. Probabilmente, le vittime reali sono molte di più, specificano gli autori della ricerca.  

Tra le vittime figurano l’attuale presidente della Generalitat de Catalunya, Pere Aragonès, e quella del parlamento catalano Laura Borràs, entrambi spiati prima di assumere le rispettive cariche. Ma anche gli europarlamentari indipendentisti catalani, fra cui Carles Puigdemont, presidente della Generalitat de Catalunya al momento del tentativo di secessione dalla Spagna, nell'ottobre 2017.  In questo caso, però, a essere «infettati» dallo spyware sono stati i telefoni della moglie, del suo avvocato e di membri del suo staff.

Il Catalangate ha provocato un vero e proprio terremoto politico in Spagna, visto che gli autori dello spionaggio sono i servizi segreti di Madrid, che però sostengono di aver utilizzato il software sempre sotto controllo giudiziario.  

Lo stesso governo di Sánchez ha difeso in una sessione parlamentare l'operato del Cni, che avrebbe agito ”in maniera conforme alla legge”. In quel frangente, una delle voci più decise fu proprio quella di Margarita Robles. ”Cosa deve fare uno Stato quando qualcuno viola la Costituzione e dichiara l’indipendenza?” 

Ora chi ha avallato l'operazione di spionaggio è a sua volta vittima di una situazione simile. Toccherà alla magistratura spagnola stabilire se il quadro legale è stato violato e accertare i responsabili in entrambi i casi. 

Dal “Giornale” l'11 maggio 2022.

La direttrice dei servizi segreti spagnoli, Paz Esteban, è stata rimossa dopo giorni di forti polemiche legate alle accuse di spionaggio nei confronti dei separatisti catalani. Lo riferiscono i media locali, citando fonti governative, mentre El Pais riporta che al ministro della Difesa Margarita Robles, che ha nominato Esteban nel 2020 è stato chiesto di fare una dichiarazione.

Giovedì scorso Esteban ha ammesso che i telefoni di almeno 18 separatisti catalani, incluso il presidente regionale Pere Aragones, erano stati monitorati utilizzando il software israeliano Pegasus. Ma non solo, anche il cellulare del ministro dell'Interno spagnolo, Fernando Grande-Marlaska, è stato spiato con il software Pegasus tra il 7 e il 26 giugno con l'estrazione di 6,3 gigabyte di dati.

La vicenda, nota come «Catalangate» e rivelata dal New Yorker sulla base di uno studio del gruppo canadese Citizen Lab, ora minaccia la stabilità del governo di minoranza guidato dal primo ministro Pedro Sanchez. Governo che dipende in Parlamento dai voti dei separatisti catalani, i quali hanno chiesto il licenziamento di Esteban e anche di Robles e si stanno interrogando sulla possibilità di continuare a sostenere l'esecutivo.

Intanto i rappresentanti dei gruppi parlamentari spagnoli hanno stabilito che il premier Pedro Sanchez dovrà sottoporsi a fine maggio a un «question time» sul cosiddetto caso Pegasus che sembra essere una bella rogna per l'esecutivo.

L'ex re Juan Carlos rischia il processo in Uk. Molestie, milioni e 007: rovinato dall'ex amante Corinna Larsen? Il Tempo il 24 marzo 2022.

Niente "scudo" per l'ex re di Spagna Juan Carlos. Una Corte della Gran Bretagna ha stabilito che le leggi sull’immunità reale non coprono l'ex sovrano della causa legale avviata contro di lui dalla sua ex amante Corinna Larsen con l’accusa di molestie. Il giudice Matthew Nicklin dell’Alta Corte britannica ha scritto che dal momento che l’accusa coinvolge azioni di Juan Carlos in ambito privato, nell’ambito di una relazione sentimentale, e dunque non nello svolgimento delle sue funzioni di rappresentanza, non gode di immunità né per la legge spagnola né per quella britannica.

Corinna Larsen, danese, è stata per anni partner non ufficiale di Juan Carlos. Nel 2020 lei gli ha fatto causa accusandolo di avere orchestrato minacce e ordinato la sua sorveglianza a partire dal 2021. Juan Carlos ha abdicato nel 2014 e al suo posto è diventato re il figlio Felipe VI. 

La vicenda è piuttosto intricata.  Corinna Larsen coniugata zu Sayn-Wittgenstein - questo il nome completo della donna - sostiene di essere stata messa illegalmente sotto sorveglianza in Gran Bretagna, per di più con la collaborazione fattiva dei servizi segreti spagnoli.  Nel 2012 Juan Carlos avrebbe versato a Sayn-Wittgenstein la ragguardevole cifra di 65 milioni di euro, che poi  il re avrebbe chiesto indietro il denaro. Al rifiuto della donna sarebbe iniziata una controversia arrivata fino a oggi. 

Spagna: archiviate le inchieste sul re emerito Juan Carlos. ANSA su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.

I pm spagnoli che indagavano su presunte irregolarità fiscali del re emerito Juan Carlos hanno archiviato le inchieste ancora aperte sull'ex monarca: lo rendono noto i principali media iberici.

La decisione comporta che Juan Carlos non è più al centro di cause aperte, situazione che potrebbe favorire un suo ritorno in Spagna. Il padre dell'attuale re Felipe VI lasciò infatti il Paese ad agosto 2020, inseguito da notizie e indiscrezioni sulle sue presunte irregolarità. Da allora vive ad Abu Dhabi.

I motivi dell'archivio delle inchieste aperte sono, a seconda dei casi, la prescrizione dei reati contestati, l'insufficienza di prove o il fatto che le presunte irregolarità indicate risalgano a periodi in cui Juan Carlos godeva di immunità essendo ancora sul trono di Spagna (ovvero fino a giugno 2014). (ANSA).

Michele Farina per il "Corriere della Sera" il 23 febbraio 2022.

Lo sconosciuto più famoso di Spagna è un detective privato. Si chiama Julio Gutiez e da 35 anni si fa per lavoro gli affari degli altri. Il contratto che lo ha reso improvvisamente celebre è rimasto sulla carta. 

Ma al direttore dell'agenzia Mira (Guarda) è bastato quell'incarico mancato per innescare un terremoto all'interno del primo partito d'opposizione del Paese. Si sapeva che alla testa dei Popolari spagnoli ci fossero leader ai ferri corti in cerca di un'occasione buona per una resa dei conti. Ma nessuno avrebbe mai immaginato una simile scintilla.

Isabel Díaz Ayuso, stella crescente dei Popolari e dal 2019 presidenta della Comunità di Madrid, ha accusato il leader del partito Pablo Casado di aver orchestrato un'operazione di spionaggio interno per rovinarla politicamente.

Il quarantunenne presidente dei Popolari, già pupillo di Aznar e dal 2018 successore di Mariano Rajoy, giura che né lui né i suoi fedelissimi hanno mai pensato di sguinzagliare gli 007 dell'agenzia Mira sulle tracce di quella commessa di mascherine dalla Cina ordinate all'inizio della pandemia (aprile 2020) dalla Comunità di Madrid con i buoni uffici e il coinvolgimento del fratello di Isabel Díaz Ayuso, Tomás, che lavora da anni nel settore.

Un affare da 1,5 milioni di euro sul quale ora indaga la Procura Anticorruzione, dopo le denunce avanzate nei giorni scorsi da tre partiti di sinistra (socialisti in testa). Mentre i magistrati indagano, il partito Popolare implode. 

Dalla Colombia, dove è volato per lavoro e forse per sfuggire alle pressioni in patria, il detective Julio Gutiez ha raccontato ai media di non aver accettato l'incarico perché «illegale». 

Il 16 febbraio è stata la stessa Isabel Díaz Ayuso a raccontare nei dettagli quella che ha definito «una campagna crudele e ingiusta». Sotto la lente dei detective ingaggiati dal suo partito, sarebbero dovuti finire anche l'ex marito e l'ex compagno della Presidenta, che alle elezioni del maggio scorso aveva riconquistato la regione di Madrid raddoppiando i seggi dei Popolari e arrivando a un soffio dalla maggioranza assoluta.

Mascherine e lunghi coltelli: la presidenta ha deciso di contrattaccare prendendo di petto Pablo Casado, già indebolito dai risultati non esaltanti alle elezioni amministrative del 13 febbraio nei bastioni della Castiglia e Leon, dove per governare i Popolari avranno bisogno dei voti di Vox.

Le parole pronunciate ieri da Ayuso, considerata un ponte verso l'estrema destra, sono risuonate come una dichiarazione di guerra per i vertici attuali del partito: «Continuerò a lavorare per ricostruire il partito dalle fondamenta». Ovvero dalla testa.

Casado è sulla difensiva. Per il primo di marzo il leader zoppo ha annunciato un Congresso straordinario. Secondo quotidiani di orientamento conservatore come Abc e El Mundo Casado starebbe preparando un'uscita di scena «il meno dolorosa possibile».

Alcuni dei fedelissimi si sono già dimessi. La spy story sulle mascherine non è piaciuta all'elettorato: i sondaggi danno il partito in discesa di due o tre punti. Davanti alla sede dei Popolari a Madrid, il popolo di Isabel ha manifestato chiedendo le dimissioni di Casado.

A beneficiare di questa faida, almeno per il momento, non sarà la presidenta della Comunità di Madrid. Nel toto-leader salgono le quotazioni dell'attuale presidente della Galizia, Alberto Núñez Feijóo, 60 anni, che ieri ha annunciato: «Tutti dovremo prendere delle decisioni». 

(ANSA il 19 maggio 2022) - È previsto per oggi il primo ritorno in patria del re emerito spagnolo Juan Carlos da quando lasciò il proprio Paese per trasferirsi negli Emirati Arabi, ad agosto 2020: lo ha reso noto in un comunicato la Casa Reale di Spagna. L'ex monarca, 84 anni, ha intenzione di trascorrere il weekend nella regione nord-occidentale della Galizia: per la precisione, è atteso nella località turistica di Sanxenxo, dove è in programma una regata di vela. 

Lunedì, poi, si terrà a Madrid l'atteso incontro con il figlio Felipe VI, attuale re di Spagna, con la moglie Sofía (rimasta in Spagna in questi due anni) e con "gli altri membri della famiglia", secondo la nota della Casa Reale. Lo stesso giorno, l'ex monarca tornerà negli Emirati. Dopo che la giustizia ha archiviato le inchieste aperte su sue presunte irregolarità fiscali, a marzo scorso Juan Carlos ha manifestato l'intenzione di tornare in Spagna "con frequenza", pur mantenendo la propria residenza ad Abu Dhabi.

L’Infanta di Spagna tradita. Il marito: «Sono cose che succedono». Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

A riaccendere i riflettori su Cristina di Borbone e il consorte Iñaki Urdangarin, una foto pubblicata dal settimanale Lecturas con lui che passeggia in riva al mare, mano nella mano, con una «collega».

L’Infanta di Spagna tradita e il marito ai domiciliari che, «pizzicato» con l’amante, con disarmante nonchalance ammette pubblicamente: «Sono cose che succedono». Una nuova bufera per la casa reale spagnola, dopo lo tsunami di pochi anni fa: l’inchiesta per frode, malversazione ed evasione fiscale partita proprio dalla coppia ora in crisi era infatti arrivata fino al re, che aveva poi scelto di abdicare in favore del figlio Felipe. A riaccendere i riflettori su Cristina di Borbone e il consorte Iñaki Urdangarin è ora una foto pubblicata dal settimanale spagnolo Lecturas che ha paparazzato l’ex atleta mentre passeggiava in riva al mare, mano nella mano, con una bionda che non è la figlia di Juan Carlos: è l’avvocatessa Ainhoa Armentia, anche lei sposata con due figli adolescenti, sua collega nello studio legale Imaz&Asociados, nella città basca di Vitoria.

La fotografia è stata scattata a 150 chilometri dall’ufficio, a Bidart, località di mare francese dove la famiglia di lui ha una proprietà. Un’immagine che metterebbe la parola fine alle speculazioni sullo stato di salute del matrimonio della secondogenita dell’ex re Juan Carlos. Anche perché non si tratterebbe di una semplice scappatella: ora emerge che non è la prima volta che la coppia di «colleghi» appare insieme in pubblico. Dopo lo scatto della passeggiata romantica sul lungomare,Telecinco ha mostrato alcune foto scattate a settembre con Iñaki Urdangarin e Ainhoa che si guardano e parlano in strada, ma soprattutto quelle che li ritrae a cena insieme una sera di novembre in un ristorante di Biarritz, sul mare, a due ore d’auto dall’ufficio. 

L’entourage di Cristina ha assicurato al settimanale Hola che queste immagini non hanno colto di sorpresa l’Infanta. «Lo sapeva già. Sta bene e serena. Si preoccupa solo dei suoi figli», hanno riferito i ben informati. 

Del resto da quando, nella primavera del 2020, Iñaki è uscito dal carcere e ottenuto una sorta di semilibertà, molti in Spagna avevano trovato strano che avesse scelto di scontare la sua pena a Vitoria, lontano dalla moglie e dai loro quattro figli: Cristina vive a Ginevra con la minore, Irene, di 16 anni; Miguel, 19enne, è in Inghilterra, Juan, 22, a Madrid e Pablo, 21, a Barcellona. A Natale la famiglia si è riunita, ai primi di gennaio erano di nuovo insieme in vacanza sui Pirenei catalani. Ma a quanto pare ormai era da tempo che il matrimonio era appeso a un filo. Tempo fa Cristina era stata avvistata da un avvocato divorzista, riportano i media spagnoli. Durante lo scandalo finanziario che aveva portato anche lei sul banco degli imputati, aveva difeso il marito e resistito alle pressioni della monarchia perché chiedesse il divorzio. Per questo suo fratello, re Felipe, l’ha eliminata dalla linea di successione e ha tolto alla coppia il titolo di Duchi. Dopo vari tradimenti, forse Ainhoa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

(ANSA il 24 gennaio 2022.) - Cristina di Spagna, sorella maggiore del re Felipe VI, e il marito Iñaki Urdangarín hanno deciso "di comune accordo", di "interrompere la loro relazione matrimoniale. Lo riporta l'agenzia di stampa Efe.

I due si sono sposati nel 1997. La notizia "dell'interruzione della relazione matrimoniale" tra 'l'infanta' Cristina — secondogenita del re emerito Juan Carlos e della regina emerita Sofia di Grecia — e il marito arriva dopo che, giorni fa, la rivista iberica 'Lecturas' ha pubblicato foto che hanno immortalato Urdangarín a passeggio in compagnia di Ainhoa Armentia, una collega dello studio legale in cui lavora.

"Le cose succedono, affronteremo la situazione nel miglior modo possibile", ha affermato lui, assediato da cronisti nei giorni successivi. Urdangarín, ex giocatore di pallamano poi condannato nel 2018 a oltre cinque anni di carcere per un caso di corruzione (mentre la moglie, inizialmente coinvolta, è stata assolta), attualmente sta scontando la pena in un regime simile alla semilibertà nella città basca di Vitoria.

Cristina è invece residente in Svizzera. La coppia ha quattro figli, nei confronti dei quali l'impegno di entrambi "rimarrà intatto", secondo il comunicato diffuso dall'Efe.

La strage delle Rambla: le accuse ai servizi segreti spagnoli. Piccole Note il 14 gennaio 2022 su Il Giornale.

Una bomba scuote la Spagna, ma stavolta non si tratta di un attentato, anche se ha a che fare con un’azione terrorista, quella che, nell’agosto del 2017, che vide un camion falciare 13 persone sulla Rambla di Barcellona, vittime alle quali va aggiunto il conducente del veicolo, ucciso per rubarglielo, e una donna assassinata il giorno seguente da un altro commando – o lo stesso non si sa ancora – nella vicina cittadina di Cambrils.

Jose Manuel Villarejo, un ex commissario di polizia che ha seguito le indagini, ha dichiarato che dietro l’operazione rivendicata dall’Isis c’era la mano dei servizi segreti spagnoli, i quali hanno lasciato fare campo libero alla cellula terrorista perché l’attentato gli avrebbe fatto gioco in vista del referendum sull’indipendenza della Catalogna, svoltosi due mesi dopo (The National).

Un’accusa che non arriva a ciel sereno, dato che da tempo in Spagna c’è polemica  sul ruolo allora svolto dal Centro Nacional de Inteligencia (CNI). Da quando cioè Publico ha rivelato, con tanto di documenti allegati, che l’uomo identificato come la mente dell’attentato, l’imam Abdelbaki es Satty, era in rapporti stretti con l’Agenzia di spionaggio, con l’ultimo contatto rilevato a soli due mesi dalla strage, quando già fervevano i preparativi per metterla in atto.

L’articolo di Publico rivelava l’esistenza di una corrispondenza via e-mail tra l’imam e qualcuno dei servizi segreti spagnoli, intrattenuta con il metodo della “lettera morta”, che si basa su uno scambio di messaggi scritti su una e-mail di comune accesso e registrati in bozza per essere visualizzati dall’interlocutore (non si invia nulla, quindi non c’è modo di intercettarli).

E pubblicava una serie di documenti interni ai servizi che evidenziavano come questi tenessero sotto stretta sorveglianza la cellula terrorista, anche a ridosso dell’attentato (viaggi, mezzi usati per gli spostamenti, contatti con altri jihadisti etc).

L’imam è morto insieme a un complice nell’esplosione che la notte precedente la strage ha sventrato una palazzina ad Alcantar, deflagrazione attribuita agli ordigni che i due stavano fabbricando manipolando allo scopo le usuali bombole a gas (come quelle che i ribelli moderati siriani cari all’Occidente hanno fatto piovere per anni sulle teste dei civili siriani, bimbi compresi, ma questo è un altro discorso… forse).

Sullo strano imam delle Rambla anche le pregresse dichiarazioni di Jaume Alonso Cuevillas, avvocato di Javier Martínez – padre quest’ultimo di un bambino ucciso nell’attentato -, che in base a documenti e testimonianza ha ipotizzato che il predicatore non sia  morto nell’esplosione (Diario 16).

Secondo tali documenti, nella palazzina di Alcantar ci sarebbero state circa quattro o cinque persone, ma “dopo l’esplosione sono stati trovati solo i resti di due persone, di cui uno è stato identificato e l’altro no”. Infatti, mentre l’identificazione di uno dei corpi è certa (si tratta di uno jihadista), le perizie della magistratura non hanno dato “certezze concrete” sul fatto che l’altro fosse effettivamente l’imam.

Inoltre, secondo l’avvocato, “ci sono testimoni che affermano di aver visto il suo furgone lasciare la scena subito dopo l’esplosione. Furgone che è stato poi ritrovato davanti alla porta di una macelleria di un paese vicino che l’imam frequentava”.

Inoltre, “secondo Cuevillas, i telefoni cellulari dei due presunti autori degli attacchi sarebbero stati registrati all’aeroporto di El Prat la notte prima degli attacchi”, cioè al momento dell’esplosione di Alcanar. Ubicazione che spiegherebbe anche perché tra le macerie di Alcantar non sia stato trovato il cellulare dell’Imam assassino.

Infine, sempre secondo l’avvocato, “la nipote dell’imam avrebbe comprato due biglietti aerei per quella notte del 16 agosto”.

Ovviamente, sebbene il rapporto tra l’imam e la CNI sia stato confermato, le accuse mosse contro l’intelligence spagnolo sono state bollate come complottismo, limitandosi il tribunale semplicemente a rilevare l’anomalia.

D’altronde quasi tutti gli attentati che hanno insanguinato l’Europa nel corso di questi ultimi anni hanno visto protagonisti jihadisti in rapporti o attenzionati dai servizi segreti dei vari Paesi.

La rabbia dei parenti delle vittime della Rambla è stata incrementata dalla decisione dei giudici, che nel formulare i capi di accusa degli unici componenti della cellula terrorista arrestati – gli altri sono stati uccisi nell’esplosione di Alcantar o dalle forze dell’ordine – hanno escluso il reato di omicidio, optando per reati più lievi (associazione a organizzazione terrorista e altro). Da cui le pene corrispondenti, che hanno evitato l’ergastolo ai rei.

Leonor di Borbone, non tutte rose e fiori. Sedici anni, timida e riservata, talmente bella che sembra uscita da una favola. La Spagna conta sulla principessa delle Asturieper risollevare le sorti di una casa reale che non se la passa benissimo. Ma per ora, nella sua vita, di fiabesco c’è poco. CÉSAR ANDRÉS BACIERO su Vanity Fair.it il 15 gennaio 2022.

La cartolina natalizia del 2021 della casa reale spagnola con il re Felipe VI, Letizia e le due figlie, la principessa Leonor e la principessa Sofia. 

Questo articolo è pubblicato sul numero 2-3 di Vanity Fair in edicola fino al 19 gennaio 2022

Quando Leonor di Borbone y Ortiz è nata nella clinica privata Ruber Internacional di Madrid, il 31 ottobre del 2005, suo padre Filippo era talmente emozionato che ha dimenticato di chiedere se sua moglie Letizia avesse dato alla luce, con parto cesareo, un maschio o una femmina. Solo quando un’infermiera gli ha chiesto di ridarle la bambina, il futuro re di Spagna si è scosso: «Mi scusi, di che sesso è?», ha chiesto. Pochi minuti dopo, al popolo spagnolo veniva data la notizia. Dopo Filippo, non ci sarebbe stato un re, ma una regina. Ed è esplosa la gioia.

Alta, bionda e con gli occhi chiari. Talmente bella che sembra uscita da una favola. Ufficialmente Leonor è diventata erede al trono di Spagna il 19 giugno del 2014, quando suo padre è stato proclamato re dopo l’abdicazione di Juan Carlos I. Quel giorno, dopo aver ricevuto il titolo di principessa delle Asturie, la nipote della regina Sofia ha capito che di fiabesco nella sua vita ci sarebbe stato poco, almeno per il momento: è su lei, più che su suo padre, che il popolo spagnolo conta per risollevare le sorti della casa reale più antica d’Europa, messa a dura prova dagli scandali provocati da alcuni membri della famiglia e soprattutto da suo nonno, l’ex re Juan Carlos, costretto all’esilio dopo un’accusa di evasione fiscale e corruzione. È Leonor che la Spagna ama, per il suo carattere timido e riservato e anche per quel filo di sangue non reale che scorre nelle sue vene e che, agli occhi dei sudditi, la rende più vicina, più «normale»: sua madre Letizia è un’ex giornalista figlia di un reporter, Jesús Ortiz, e di una infermiera sindacalista, Paloma Rocasolano.

Che la vita di Leonor non sarebbe stata tutta rose e fiori si è capito dal giorno in cui è venuta al mondo, quando in Spagna si è aperto il dibattito sull’opportunità di modificare la Costituzione nel punto in cui prevede la legge semisalica, che pone le donne dietro ai propri fratelli, per quanto minori di età, nel cammino verso il trono. Un anno e mezzo dopo, quando Letizia è rimasta incinta di nuovo, la situazione è stata chiara: «Se nascerà un bambino, diventerà lui il primo nella linea di successione», hanno fatto notare gli esperti di legge reale. Il 29 aprile del 2007 è nata la sorellina di Leonor, Sofía, che oggi è la sua migliore amica. E subito si è messa in moto la macchina che porterà Leonor dritta al trono: entrambe le bambine sono state iscritte al collegio privato Santa María de los Rosales. Poi, lo scorso settembre, la principessa delle Asturie si è trasferita in Galles, dove frequenta il liceo internazionale Uwc Atlantic College, un istituto d’élite scelto anche dalla principessa Alexia dei Paesi Bassi. Il prezzo per ogni alunno sfiora i 76 mila euro per due anni, ma la formazione promessa è quella ideale per una futura regnante che già oggi, a sedici anni, ha capito quali e quante rinunce richiederà il suo ruolo. 

In un periodo storico in cui le ragazzine sognano di diventare tiktoker – la cugina di Leonor, Victoria de Marichalar y Borbón, ha da poco avviato la sua attività di influencer –, Leonor sta ben lontana dai social network, almeno ufficialmente. Un po’ perché sua madre vuole proteggerla da una eccessiva esposizione mediatica, ma soprattutto perché certe cose non si confanno a una futura regina. Leonor avrà un account Instagram privato, magari sotto falso nome? Impossibile saperlo, così come non si sa se abbia già avuto un fidanzato. 

Di certo c’è che la principessa ama la cucina, pratica vari sport ed è appassionata di danza classica. Ma sono tutte cose che hanno ben poco a che fare con la vita che l’aspetta e con le responsabilità che già cominciano a pesare sulle sue spalle, rischiando di incupire gli anni più belli della sua giovinezza. Il tutto mentre la stampa mondiale indaga tra le sue amicizie, le sue uscite e le sue conoscenze a caccia di indiscrezioni su una possibile storia d’amore. Leonor s’innamorerà di un giovane di sangue blu oppure farà come papà Filippo, che ha perso la testa per una borghese divorziata? 

Comunque vada, la stampa, che ogni anno fa analizzare la grafia della sua firma sui biglietti di Natale inviati dalla casa reale, non aspetta altro che trasformarla in una regina di cuori. «Il modo in cui scrive rivela che la principessa è una persona prudente, riservata, molto attenta al dettaglio, affettuosa e organizzata», dicono i media. Ma tutta questa attenzione spaventa Leonor e i suoi genitori. Non a caso, forse, la ragazza abbandonerà il suo Paese anche durante gli studi universitari. Lontana dalla Spagna, e dai media, cercherà di vivere la sua vita in anonimato, fatte salve le occasioni istituzionali dove la sua presenza è necessaria. Come quella vissuta per il suo decimo compleanno, quando è stata insignita del Toson d’Oro, uno dei più antichi e importanti ordini cavallereschi d’Europa, le cui origini risalgono al XV secolo. 

Il riconoscimento, in realtà, non le è stato consegnato fino al gennaio del 2018, quando suo padre Filippo VI, nel metterle il collare appartenuto al suo bisnonno paterno, don Giovanni di Borbone, pretendente all’estinto trono di Spagna durante la dittatura franchista, le ha detto: «D’ora in poi le tue azioni saranno guidate da dignità ed esemplarità, onestà e integrità, dalla capacità di rinuncia e sacrificio e dalla dedizione senza riserve per il tuo Paese e il tuo popolo». Pochi giorni dopo, per festeggiare i cinquant’anni del re, la casa reale ha diffuso un video con scene quotidiane della famiglia, dove la principessina appariva come una bambina timida mentre recitava la tavola periodica. Una timidezza che appare come una sorta di corazza, pretesa o autoimposta, in un palazzo dove la norma ereditata dalla trisavola di Leonor, la consorte Victoria Eugenia di Battenberg, è quella secondo cui «le regine non piangono».

Le apparizioni istituzionali si sono poi moltiplicate. Il 31 ottobre 2018, lo stesso giorno in cui compiva 13 anni, Leonor ha letto in pubblico il primo articolo della Costituzione spagnola, in vista delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario della sua approvazione. I media hanno constatato che ha ereditato la dizione di sua madre, che è stata presentatrice del telegiornale della Televisión Pública Española fino al 2003, quando è stato annunciato il suo fidanzamento con Filippo di Borbone. Ma Leonor dal 2014 è anche presidentessa d’onore della Fundación Princesa de Asturias. Nel 2019, nel pronunciare il suo primo discorso durante la cerimonia di consegna dei premi di questa istituzione, ha ammesso di vivere «un momento indimenticabile». E ha aggiunto: «Come ha detto mio padre, essere qui oggi, alla mia età, è un’esperienza che porterò per sempre nel profondo del cuore». 

Le regine in Spagna si contano sulle dita di una mano. La prima fu Isabella I di Castiglia, chiamata «La cattolica». Ha regnato dal 1474 al 1504 dopo un periodo di intense guerre, prima contro il suo fratellastro Enrico IV e poi contro i sostenitori della figlia di lui, Giovanna. 

La successiva fu Giovanna I, figlia di re cattolici, sovrana di Castiglia dal 1504 al 1555 e di Aragona dal 1516 al 1555. A partire dal 1506 non governò direttamente, poiché il compito fu assunto da suo marito Filippo d’Asburgo, poi da suo padre Ferdinando II d’Aragona, e infine da suo figlio, Carlo I di Spagna e V del Sacro Romano Impero Germanico. Prima di Leonor c’è stata la regina Isabella II, salita al trono nel 1833, quando non aveva ancora compiuto tre anni. Lo zio, l’infante Carlo Maria Isidoro, non la riconobbe come monarca in quanto donna e avviò la Prima Guerra Carlista. Nel 1868 fu detronizzata.

Chissà quali sfide e tiri mancini dovrà affrontare Leonor in futuro. Mentre il 39,4% degli spagnoli spera in una terza Repubblica, un’altra parte della popolazione si chiede semplicemente con quale tiara debutterà la principessa il giorno che diventerà maggiorenne.

Ley de prensa. In Spagna continuano a circolare libri e film censurati dal regime franchista. Giuseppe Luca Scaffidi su L'Inkiesta su l'Inkiesta il 15 Gennaio 2022.

A 47 anni dalla morte del Generalísimo buona parte dei romanzi e delle pellicole espurgati sono ancora reperibili sul mercato. La sottovalutazione delle revisioni imposte dalla dittatura è una delle conseguenze più tangibili di un Paese che non ha mai tagliato del tutto i ponti con la scomoda eredità della guerra civile.

Sono trascorsi 47 anni dalla morte del generale Francisco Franco, ma le scorie della censura che il Caudillo de España impose a partire dal 1938 – l’anno in cui il ministro degli Interni Ramón Serrano Súñer promulgò la prima famigerata Ley de prensa, imponendo un primo, deciso giro di vite alla libera circolazione delle idee – continuano a colonizzare buona parte dell’industria culturale spagnola, facendo capolino nelle pagine dei romanzi che hanno fissato il canone della lettura occidentale e nelle scene più iconiche dei classici del cinema americano.

Dall’entrata in vigore della legge sulla stampa fino al 1966, ogni singola opera introdotta nel mercato librario spagnolo è stata sottoposta al vaglio severo di un comitato nazionale di censura per subire l’esame preventivo delle forbici di Stato. I membri della delegazione disponevano di un arbitrio illimitato sulle sorti dei testi provenienti dall’estero, potendo decidere di modificarli, amputarne alcune parti o vietarne del tutto la pubblicazione.

Un simile destino ha interessato anche la produzione cinematografica, costantemente sottoposta all’attività di vigilanza del Departamento Nacional de Cinematografía, un organismo istituito al fine di accertare che le pellicole proiettate non incentivassero comportamenti eversivi, soprattutto quando i soggetti riguardavano temi delicati come la religione, la politica, i militari, la prostituzione, il divorzio e l’adulterio – una realtà fotografata alla perfezione da Benvenido Llopis nel suo saggio “La censura franquista en el cartel del cine”.

L’attività dei censori non fu arrestata neppure dopo il 1966, quando una nuova legge sulla stampa allentò (parzialmente) i limiti imposti alla libertà d’espressione: le autorità del regime continuarono a disporre di un sostanziale diritto di vita e di morte sulle opere reputate contrarie ai principi del franchismo, mantenendo intatta la facoltà di ritirare dal mercato libri e film forieri di ideali eccessivamente “democratici”.

Ecco perché, in Spagna, il tema della sopravvivenza della censura franchista continua a occupare uno spazio di rilievo nel dibattito pubblico: ancora oggi buona parte dei romanzi e delle pellicole espurgati dal regime continuano a rimanere perfettamente reperibili sul mercato.

Ad esempio, basta recarsi in una libreria per entrare in possesso dell’edizione edulcorata di uno dei romanzi fondanti della narrativa afroamericana, “Gridalo forte” di James Baldwin, che i censori tagliuzzarono minuziosamente per cancellare ogni possibile riferimento alle abitudini sessuali dei protagonisti.

Non dovesse bastare, è sufficiente entrare in una biblioteca civica per chiedere in prestito una versione “riveduta e corretta” di “Di là dal fiume e tra gli alberi” di Ernest Hemingway, in cui l’uso del termine «lesbiche» è sostituito da un più cortese «buone amiche».

Come evidenziato da Jordi Cornellà-Detre, docente di studi ispanici presso l’Università di Glasgow, in un approfondito articolo pubblicato su The Conversation, la lista delle opere passate al setaccio e manipolate dal comitato di censura è sconfinata e comprende, tra le altre cose, 20 diverse edizioni spagnole di “Rosemary’s Baby” di Ira Levin (compreso un e-book che non contiene due interi passaggi che, a detta dei censori, «glorificavano Satana»), tutte le versioni di “Giorni in Birmania” di George Orwell e “Thunderball, Operazione Tuono” di Ian Fleming in vendita nelle librerie e oltre il 90% delle copie de “La paga dei soldati” di William Faulkner concesse in prestito dalle biblioteche pubbliche.

La questione torna a imporsi all’attenzione mediatica a intervalli regolari, proprio come accaduto la scorsa settimana, quando la Asociación para la Recuperación de la Memoria Histórica ha chiesto a Pedro Sánchez di delegare al Ministro della Cultura, José Manuel Rodríguez Uribes, la conduzione di un’indagine indirizzata a determinare l’effettiva portata della censura e a ripristinare le versioni originali delle opere manipolate.

La richiesta è stata avanzata dal presidente dell’associazione, il giornalista e storico Emilio Silva, il giorno dopo la messa in onda di una trasposizione censurata del film “La vita è meravigliosa” su un canale della televisione pubblica spagnola.

Intervistato dal Guardian, Silva ha spiegato che la versione ritoccata omette diverse scene – per un totale di circa 7 minuti – che fanno riferimento a una cooperativa abitativa, dato che «durante l’era franchista, tutto ciò che rimandava alle cooperative era assimilabile alla propaganda comunista». La presenza di una versione espurgata del capolavoro di Frank Capra nel catalogo di un’emittente nazionale è l’ennesima dimostrazione di come la censura dell’era franchista continui a essere ben presente all’interno dei palinsesti televisivi.

Un’anomalia che rappresenta il sintomo più evidente di una falla di sistema che ha caratterizzato il difficile percorso di transizione compiuto da una democrazia giovanissima come quella spagnola: infatti, anche se le leggi a sostegno della censura sono state abrogate, per effetto dell’applicazione del cosiddetto “Patto dell’oblio” – una legge di amnistia introdotta nel 1975 per proteggere i responsabili dei crimini passati e agevolare il percorso della Spagna verso la democrazia – non è mai stato istituito un apposito organismo incaricato di porre fine alla circolazione delle opere sottoposte alle mutilazioni compiute dalle forbici di Stato nell’arco di quasi quattro decenni di dittatura.

La sottovalutazione della persistenza della censura franchista è una delle conseguenze più tangibili di un Paese che non ha mai tagliato del tutto i ponti con la scomoda eredità della guerra civile spagnola.

Inoltre, come ha sottolineato Cornellà-Detre, la maggior parte di queste opere non è rimasta relegata nei confini domestici, ma è stata esportata in diversi Paesi dell’America Latina, dove i testi sono stati ripubblicati con tanto di parti censurate ancora intatte.

Di conseguenza, la mancata volontà di affrontare il problema è esacerbata in una discriminazione culturale a tutti gli effetti, dato che a una parte abbastanza consistente della popolazione mondiale viene regolarmente negato l’accesso alla letteratura nella sua essenza.

Ecco perché, secondo Silva, «possiamo dire che anche James Baldwin, Ernest Hemingway o Frank Capra sono stati vittime della dittatura, perché qualcuno ha censurato le loro opere e nessun governo democratico in Spagna ha riparato questo danno». Francesco Cundari

·        Quei razzisti come gli olandesi.

Klara Murnau per “Libero quotidiano” il 18 Dicembre 2022.   

Tulpen e Mulini a Vento. Questa la motivazione che all'età di 20 anni mi spinse al tentativo di trasferirmi in Olanda. Ma dopo averla girata in lungo e largo, capii che no, non era il posto per me. Non fu neanche il posto per nessuno dei miei amici: né per quelli Italiani, né per gli Indiani, né per gli Inglesi. Anche qualche Olandese stesso optò per nuovi lidi. Con una popolazione di 17,4 milioni di persone, su una superficie totale di circa 41800 chilometri quadrati - i Paesi Bassi sono il 12º Paese più densamente popolato del mondo e il 2º Paese più densamente popolato d'Europa.

Negli ultimi 20 anni l'occasione di tornare per periodi più o meno lunghi non è mancata, e ogni volta ha riconfermato la mia scelta: non si può vivere a pane e Gouda. E neanche a Calvinismo - regole e conformismo - pilastro della società Olandese. Negozi che chiudono alle 17:30 nelle città più piccole, un solo pasto caldo al giorno (generalmente alle 18:00 in punto), una cucina locale praticamente inesistente dove il frikandel (simil salsiccia fatta con avanzi di carne) viene trattata come prelibatezza.

Una mancanza di stile, per una società strutturata con grande civiltà- dobbiamo ammetterlo - e con un occhio rivolto a favore delle categorie fragili. Tutto è efficienza e standardizzazione. Tutto è chiaro e visibile. Pensate all'assenza di tende nelle abitazioni. Come dicevamo, i pilastri del calvinismo - duro lavoro, disciplina e moderazione - hanno influenzato la vita della popolazione, per cui mostrare la frugalità dei propri comportamenti è stata ritenuta una questione fondamentale. A differenza della curia cattolica che nel XVI secolo godeva di benefici da custodire a porte e tende chiuse, la mentalità calvinista si è affidata alla politica trasparente delle tende aperte, ovvero del niente da nascondere. Anche la questione dell'eguaglianza sociale rappresenta una chiave di lettura.

Qualsiasi comportamento che suggerisca che si è migliori degli altri è fortemente disapprovato. E questo vale anche nel mostrare oggetti personali come vestiti, gioielli o mobili sfarzosi. Ecco perché il "Tenda Gate" non è affatto un semplice dettaglio curioso: studi accademici e convegni sono stati dedicati all'argomento. Nel 1991 il filosofo van Hooff e altri studiosi, ne sottolinearono la necessità come tratto distintivo della cultura olandese. Tra i vari miti popolari uno su tutti mi fa sorridere, ovvero quello che riguarda la "paura marinara" delle genti d'Olanda. 

Poiché un tempo gli uomini stavano via in mare lontano dalle rispettive mogli, le finestre aperte servivano per comprovare la fedeltà coniugale e mettere a tacere ogni pettegolezzo. Con buona pace dei miei colleghi. Non è che sia tutto malaccio in questa patria di libertà presupposta e concreta: alcune Droghe libere, Sesso Libero, Ingresso Libero. Ehm, almeno fino a poco tempo fa. I nostri eroi sono noti per battersi giustamente per i diritti della comunità Lgbtqia+ e per quelli in favore di una prostituzione sicura e consapevole. 

 Oggi un po' meno in materia di immigrazione. Eppure circa il 20% dei residenti sono immigrati o figli di immigrati. In base alle statistiche, il 19,3% della popolazione è considerata alloctona, il 10,6% sono "non occidentali", il 9,8% sono nati all'estero e il 6,2% non hanno cittadinanza olandese.

Ma andiamo per gradi: Paese commerciale e marinaro all'avanguardia della modernità, i grandi Paesi Bassi furono inoltre un antesignano della libertà religiosa: certo i non calvinisti venivano considerati cittadini di serie B, ma anche pienamente tollerati. Per questo vi emigrarono ad esempio molti ebrei sefarditi espulsi dal Portogallo, tra cui gli avi di Baruch Spinoza e di David Ricardo. E anche la famiglia di Anna Frank vi era arrivata in fuga dalla Germania nazista. 

Nel XIX secolo la popolazione si organizzò secondo un sistema in cui calvinisti, cattolici, socialisti e liberali avevano non solo partiti distinti, ma strutturavano tutta la loro vita in modo separato. Proprio perché gli olandesi erano abituati ad avere molti stranieri e trovavano normale rinchiudersi in microcosmi ideologico-religiosi, per molto tempo non hanno considerato importante che gli immigrati si inserissero. L'accesso alla cittadinanza era facile e a chi aveva problemi con la lingua, il governo forniva servizi e documenti tradotti. 

Questa stessa mancanza di assimilazione però, ha favorito l'emarginazione, soprattutto economica. L'emarginazione ha alimentato i risentimenti ed è proprio con la percezione di una minaccia islamista che si è dato vita a partiti e posizioni che hanno chiesto di rivedere la politica tradizionale.

Il 6 maggio del 2002, l'assassinio di Pim Fortuyn, sociologo apertamente omosessuale fondatore di un partito repubblicano per molti aspetti di sinistra, ma molto critico verso l'immigrazione indiscriminata in generale e l'islam in particolare (tacciato di omofobia), ha cambiato la storia.

Il 2 novembre del 2004 ad Amsterdam, il regista Theo van Gogh (discendente del fratello di Vincent), autore del cortometraggio contro il maltrattamento delle donne nell'islam "Submission", veniva ucciso da un'estremista con doppia cittadinanza olandese e marocchina. Dopo avergli sparato otto volte e tagliato la gola, due coltelli nello stomaco trattenevano un documento di cinque pagine con minacce ai governi occidentali, agli ebrei, al deputato Geert Wilders e ad Ayaan Hirsi Ali, coautrice del film. In seguito all'omicidio, l'artista Chris Ripken dipinse un murales: un angelo con la data dell'assassinio e la scritta Gij zult niet doden: "Non uccidere".  

Una moschea vicina lo denunciò per offese, e partì l'ordine di cancellarlo. Quando la Polizia venne ad eseguire l'ordinanza, il reporter Wim Nottroth tentò di impedirla, ma fu arrestato. Quanto a Hirsi Ali, dopo l'assassinio di Van Gogh venne messa sotto scorta, cosa che però "disturbava i vicini" che decisero di rivolgersi al tribunale e nel 2006 la Corte di Appello dell'Aja le ha ordinato di cambiare domicilio. Le dimissioni come deputata e la fuga negli States, sono state la scelta più sicura e sensata ed hanno concluso la diatriba.

Dieci anni dopo, nel 2017, entra in Parlamento il partito Denk: (in olandese "Pensiero", in turco "Eguaglianza") Fondatori Tunahan Kuzu and Selçuk Öztürk: due deputati di origine turca che hanno lasciato il partito laburista accusandolo di essere diventato ostile verso gli stranieri.

Rivolgendosi principalmente ad immigrati, il Denk è stato accusato di non essere altro che uno strumento della politica turca data la controversia delle sue posizioni, come la negazione del genocidio armeno.

I Paesi Bassi cambiano rotta, e iniziano a rifiutare almeno un quinto dei siriani che l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati aveva chiesto loro di accogliere. Motivo: idee religiose estremiste; o l'impossibilità di inserirsi nella società olandese data dall'avversione delle idee base della cultura occidentale.  

Per lo meno il 20% degli intervistati è stato ritenuto inadeguato: per il pericolo che rappresenta per la sicurezza o per le difficoltà che la loro visione della società creerebbe nella loro integrazione. Tra le dichiarazioni fatte al giornale olandese De Volkskrant, un fattore del rifiuto d'ingresso veniva indicato come il diniego dei richiedenti «ad accettare l'eguaglianza tra uomini e donne».

Secondo l'ACNUR, nel 2018 i Paesi Bassi sono arrivati ad ammettere solo 288 dei siriani rifugiati in Turchia, contro i 2100 del 2017.

Paese diviso tra necessità di sicurezza e politicamente corretto, dove gli stessi tribunali si trovano al centro di decisioni azzardate. Un caso non isolato quello del giudice che ha garantito una pena ridotta per dei giovani balordi che in gruppo aggredirono, senza motivo e ferendolo gravemente, uno sventurato passante, perché la loro privacy era stata violata mostrando in tv frammenti del video della violenza ripresa da telecamere di sorveglianza per cercare di rintracciarli. Tutela dell'aggressore che ha scatenato non poche polemiche.

E una delle ultime arriva da Amsterdam, dove il sindaco Femke Halsema presa da un tema abbastanza "caldo" cerca una soluzione ad un problema annoso: quello della prostituzione legalizzata che catalizza caos. Un "centro erotico" a più piani proposto per sostituire il quartiere a luci rosse della città sembra essere la soluzione, ma ha un grosso problema: nessuno lo vuole nel cortile di casa.  

L'anno scorso il sindaco e il consiglio comunale hanno concordato i piani per spostare e reinventare il famigerato quartiere a luci rosse di Amsterdam dopo anni di deterioramento della qualità di vita della zona, della criminalità e dei pericolosi livelli di folla (turismo) nel centro antico. Un elegante edificio alla Moulin Rouge stile Baz Luhrmann con 100 stanze per prostitute, bar, ristoranti, spazi di intrattenimento e un centro sanitario hanno pensato potesse essere la giusta soluzione. Ma c'è un ma: la stridente opposizione dei residenti locali, così come delle prostitute che non vogliono lasciare le finestre del loro bordello in una delle parti più belle del centro città.

«Spero che sia possibile creare un centro erotico che abbia una certa classe e distinzione e non sia un luogo dove si riuniscono solo i piccoli criminali e le donne più vulnerabili, ma mi rendo anche conto che c'è ancora molta strada da fare perché la maggior parte delle persone associa il lavoro sessuale alla criminalità e alla vulnerabilità delle donne, alla violazione dei diritti umani» ha dichiarato Halsema, facendo alzare più di qualche sopracciglio e magari anche "l'interesse" di chi non vede l'ora di immergersi tra i suoi canali pittoreschi, tutti allineati, tutti liberi, tutti uguali.

Gregorio Spigno per corriere.it il 5 ottobre 2022.

Il siparietto nello spogliatoio dell’Arena di Amsterdam dopo la sfida di Champions vinta dal Napoli. Il magazziniere olandese accoglie la richiesta di quello azzurro, poi però gli dice: «No, nessuno scambio» 

Un «no» secco. È quanto ha dovuto incassare martedì sera uno dei magazzinieri del Napoli, al termine della partita stravinta ad Amsterdam contro l’Ajax, da un rappresentante dello staff olandese. La questione riguardava lo scambio di maglie tra i calciatori (negli anni in Champions è diventato un rito tra squadre avversarie, a prescindere dal risultato) azzurri e i padroni di casa, che si erano accordati in precedenza. 

Il risultato tennistico maturato sul campo in favore degli uomini di Spalletti, però, ha fatto cambiare idea ai lancieri — è stata la peggiore sconfitta casalinga in campo europeo per il club di Amsterdam, per trovare una scoppola simile in tutte le competizioni bisogna tornare indietro di quasi 60 anni: era il novembre 1964 quando perse 9-4 in campionato col Feyenoord — che hanno declinato la proposta di scambio rispedendo al mittente le maglie azzurre (nel caso di ieri, grigie).

Sui social è girato anche il video dell’episodio. «Sono quattro maglie di loro (riferendosi ovviamente ai giocatori ospiti, ndr)» dice il magazziniere del Napoli. «Lo scambio va bene con chi capita. Se c’è Blind…». L’uomo olandese raccoglie le maglie del Napoli, rientra nello spogliatoio dell’Ajax e dopo qualche secondo esce di nuovo: «No, no». «Ah nessuno vuole scambiare? — replica l’azzurro — Va bene…».

Il re d'Olanda rinuncia alla carrozza "razzista e colonialista". Gerry Freda il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La carrozza in questione, denominata Gouden Koets, ha un pannello su cui sono dipinte immagini che sono state contestate.

Il re dei Paesi Bassi, Guglielmo Alessandro, ha deciso di rinunciare all'utilizzo della storica carrozza impiegata dalle teste coronate orange nelle cerimonie ufficiali. Il motivo di tale decisione è il fatto che il mezzo di trasporto incriminato tende a esaltare il passato coloniale del Paese, in quanto presenta un pannello su cui sono dipinte "immagini discriminatorie verso neri e asiatici". Il monarca 54enne, sul trono dal 2013, è considerato tra i regnanti europei più informali e progressisti: non ha mai indossato la corona e, nel 2021, ha annullato le tradizionali cerimonie solenni in programma ad Amesterdam in occasione del compleanno del sovrano.

Con un videomessaggio rivolto ieri ai sudditi, Guglielo Alessandro ha reso nota la sua rinuncia alla carrozza reale dorata, denominata Gouden Koets. Quest'ultima era un regalo fatto nel 1898 dalla città di Amsterdam alla principessa Guglielmina, è in stile rinascimentale olandese ed è stata realizzata in legno di teak proveniente dall'isola indonesiana di Giava, allora colonia orange. La Gouden Koets, rivestita di foglie d'oro e sontuosamente decorata, era solita circolare lungo le strade della capitale per trasportare re e principi in occasione di cerimonie ufficiali come matrimoni e battesimi, oppure per condurre il monarca al Parlamento per il suo discorso annuale di apertura dei lavori delle Camere.

A spingere l'attuale re a lasciare parcheggiata la carrozza è stato un controverso dipinto presente su un pannello posizionato sulla fiancata sinistra del mezzo di trasporto. La raffigurazione incriminata è intitolata Tributo dalle colonie e mostra persone nere e asiatiche inginocchiate nell'atto di offrire merci, come cacao e zucchero di canna, a una giovane donna bianca, che personifica l'Olanda, seduta su un trono. Nel dipinto si nota anche un ragazzo bianco che consegna un libro a un bambino nero, quale atto di "civilizzazione".

Anche se Guglielo Alessandro ha espresso in questi giorni la volontà di fare a meno della Gouden Koets, in realtà quest'ultima era inutilizzata dal 2015 per via di lavori di restauro. Attualmente, la pregiata carrozza è esposta ad Amsterdam nell'ambito di una mostra dedicata al passato coloniale dell’Olanda.

La decisione del re dei Paesi Bassi di non utilizzare più la carrozza "razzista" sarebbe stata dettata, evidenziano i commentatori, su impulso del dibattito in corso nel Paese sul passato coloniale e sulla schiavitù e sviluppatosi per effetto delle manifestazioni indette dal movimento Black Lives Matter.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Simona Verrazzo per “Il Messaggero” il 30 gennaio 2022.

Simbolo di razzismo, del passato colonialista e dell'ostentazione della ricchezza a danno delle popolazioni indigene. È con queste motivazioni che nei Paesi Bassi è stata definitivamente ritirata la carrozza reale dorata, utilizzata da re Guglielmo Alessandro nelle occasioni pubbliche ufficiali. La decisione è stata presa dallo stesso sovrano con l'obiettivo di riconciliare la monarchia con i propri sudditi.

Nota come Gouden Koets, letteralmente “Carrozza Dorata”, è stato il mezzo di trasporto che, secondo protocollo, il monarca utilizzava nel giorno del discorso per l'apertura dei lavori al Parlamento de L'Aja, a cui si aggiungono le cerimonie della famiglia reale. Da tempo, però, questo simbolo della casata d'Orange-Nassau, è finito al centro di dure polemiche. 

Tra le accuse rivolte c'è anche quella di razzismo, tanto da portare alla decisione di ritirarla dalla scena pubblica. Nel mirino è finita la decorazione di uno dei pannelli laterali, intitolato Tributo dalle colonie' e raffigurante uomini e donne di colore e asiatici che portano doni e si inginocchiano davanti a una figura femminile bianca che rappresenta la monarchia.

La scena è stata additata come razzista e simbolo della sottomissione delle popolazioni indigene delle colonie sotto la dominazione dei Paesi Bassi, con le terre spogliate dei loro beni. Oltre alla figura femminile, ci sono anche altri personaggi criticati, come l'uomo bianco che consegna un libro a un bambino di colore oppure, ancora di più, l'uomo bianco anziano che mostra il pugno a un ragazzo di colore che porta un carico pesante.

La carrozza, regalo della città di Amsterdam alla principessa Guglielmina per la sua investitura del 1898, è in stile rinascimentale olandese e in legno di teak, gran parte del quale è ricoperto di foglia d'oro. Già nel 2011 due deputati proposero di rimuovere il pannello della discordia. 

Ferma dal 2015 perché complice un restauro, è stata anche accusata di rappresentare la ricchezza e il lusso della famiglia reale, e polemiche ci sono state quando si è deciso di metterla in mostra all'Amsterdam Museum.

Ora la scelta definitiva del re. Nel corso dei secoli, i Paesi Bassi hanno avuto un impero coloniale che ha toccato quasi tutti i continenti, dall'isola di Giava, oggi Indonesia, all'attuale Sudafrica con la sua popolazione di boeri. Oggi il Regno dei Paesi Bassi conta quattro nazioni indipendenti, Paesi Bassi, Aruba, Curaçao e Sint Maarten, quest'ultime tre isole del Mar dei Caraibi.

Da tempo la società olandese si interroga sul suo passato colonialista e sul ruolo svolto dalla madre patria, e in questo processo il sovrano olandese ha deciso di impegnarsi in prima persona. «Non possiamo riscrivere il passato. Possiamo cercare di accettarlo insieme. Questo vale anche per il passato coloniale ha detto in un messaggio video ufficiale re Willem-Alexander, 55 anni, dal 2013 sul trono.

Fin quando ci saranno persone che nei Paesi Bassi avvertono quotidianamente il dolore della discriminazione, il passato getterà ancora la sua ombra sul presente». Il dibattito nella società civile e nelle istituzioni locali non è privo di contrasti.

Lo scorso anno la sindaca di Amsterdam, Femke Halsema, si è pubblicamente scusata con il ruolo svolto dalla sua città nella tratta degli schiavi. Una decisione che ha spaccato la politica, con il primo ministro, Mark Rutte, che invece si è rifiutato di fornire le scuse formali da parte dello Stato.

La mossa del sovrano olandese viene letta come un gesto di riconciliazione anche per le tensioni sociali scatenate dalle restrizioni dovute alla pandemia e le violente proteste che ne sono seguite. Nell'ottobre 2020, mentre il paese era in pieno lockdown, la coppia reale partì per una vacanza in Grecia: le critiche sono state così feroci da costringere il re e la regina Maxima a rientrare in patria il giorno dopo con un volo di linea. 

·        Quei razzisti come gli inglesi.

L’Inghilterra è attraversata dalla più grande ondata di scioperi dagli anni ’80. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 14 dicembre 2022. 

L’Inghilterra è attraversata da un’ondata di scioperi senza precedenti potenzialmente in grado di paralizzare il Paese. L’astensione dal lavoro del personale delle ferrovie, degli autobus e della metropolitana – che ha letteralmente bloccato la circolazione nel Regno Unito – è la risposta all’inflazione alle stelle che attanaglia l’Inghilterra, a cui non corrisponde un aumento salariale – richiesto a gran voce dai lavoratori – in grado di compensare l’aumento dei prezzi, ma non solo: le cause delle profonde proteste che lacerano il Paese sono anche da ricercare nella crisi energetica, con milioni di persone che non riescono a pagare le bollette i cui costi sono aumentati in modo esponenziale e che sono destinati a crescere ulteriormente visto il gelo che si è abbattuto sul Paese, scatenando quella che i tabloid inglesi hanno definito una “tempesta artica”. A causa di questi fattori, la Gran Bretagna sta vivendo una delle più grandi crisi economiche degli ultimi decenni, aggravata non tanto dalla Brexit – come sostiene buona parte del circuito “mainstream” – bensì dalle rigide politiche di austerità messe in atto dal primo ministro conservatore, vicino alla banca americana Goldman Sachs, Rishi Sunak.

Nelle ultime settimane prima di Natale, è previsto che gli scioperi si estendano ad altre categorie di lavoratori, quali il personale sanitario, autisti di ambulanze, addetti ai bagagli, personale delle poste ed esaminatori di guida. Secondo il Guardian, «Il risultato sarà una delle interruzioni più significative per l’economia britannica nella memoria recente». A fronte di questi avvenimenti, il governo in carica non pare avere la minima intenzione di ascoltare le proteste dei lavoratori, attraverso il dialogo con le parti sociali, bensì minaccia di reprimere gli scioperi, allertando l’esercito, dopo aver convocato una riunione del “Cobra” – Cabinet Office Briefing Rooms di Whitehall (Cobr) – il Comitato per le emergenze nazionali.

Sempre il Guardian riporta che «I prezzi dell’energia elettrica nel Regno Unito hanno raggiunto livelli record, poiché un’ondata di freddo gelido e un calo delle forniture di elettricità generata dall’energia eolica hanno contribuito a far salire i costi all’ingrosso. Nel frattempo, questa settimana sono previste ulteriori interruzioni dei viaggi con temperature che dovrebbero rimanere ben al di sotto dello zero durante la notte». Secondo The Indipendent, invece, anche molte industrie sono pronte ad organizzare i propri scioperi questo mese e il personale della Royal Mail – la più importante azienda postale britannica – è deciso ad unirsi ai ferrovieri nelle proteste. Il prestigioso quotidiano britannico riferisce anche che, in media, la decrescita delle risorse a disposizione dei cittadini britannici si attesterà quest’anno al 3%, la contrazione maggiore dal 1977.

Nonostante ciò, l’amministrazione di Rishi Sunak non ha alcuna intenzione di “scendere a compromessi” per placare la rabbia sociale scatenata dalle politiche economiche restrittive e dalle congiunture geopolitiche. Ha anzi minacciato di chiamare l’esercito per coprire almeno in parte i disservizi provocati dagli scioperanti e per garantire la continuità del National Health Service (il Servizio sanitario nazionale). In questo, Sunak si sta mostrando uno dei leader più duri dopo Margaret Thatcher e Ronald Reagan, entrambi pionieri delle politiche di austerità di cui Sunak pare l’erede più diretto. Il neo primo ministro di origini indiane ha affermato, del resto, che il governo non cambierà la sua posizione sui salari e che, dunque, lo sciopero terminerà solo se i sindacati faranno un passo indietro. «Mentre il governo farà tutto il possibile per ridurre al minimo le interruzioni, l’unico modo per fermarle completamente è che i sindacati tornino al tavolo e annullino questi scioperi», ha dichiarato.

Si tratta, dunque, della più grande lotta dei lavoratori del Regno Unito dagli anni Ottanta, resa possibile anche grazie alla Brexit che ha ridotto la concorrenza con i lavoratori stranieri, aumentando le possibilità di rivendicazioni salariali da parte degli inglesi. Come su L’indipendente avevamo già spiegato nel febbraio scorso, una delle conseguenze della Brexit – ovvero quella di generare una stretta del mercato del lavoro con la diminuzione della manodopera proveniente da paesi terzi – si è rivelata un’ottima notizia per i lavoratori inglesi, che hanno visto crescere il loro potere contrattuale dato che non esiste più alle loro spalle una grande mole di forza lavoro disoccupata disposta a prenderne il posto accettando condizioni peggiorative. Certo, è presto per prevedere quali risultati potrà dare il braccio di ferro cominciato tra sindacati e governo, ma il fatto stesso che il Regno Unito sia alle prese con la più grande ondata di scioperi operai dall’era di Maragaret Tatcher è sintomo di un cambiamento. [di Giorgia Audiello]

Maria Gabriella Pasqualini per formiche.net il 13 dicembre 2022.

Il Financial Times ha pubblicato di recente un piacevole articolo sulle vite segrete delle più importanti attuali agenti donne di MI6 (Secret Intelligence Service). Non ha ricordato colei che nel 1991, divenne direttore generale di MI5 (Security Service – controspionaggio), prima donna a raggiungere la posizione apicale in tutto il settore informativo britannico: Stella Rimington. 

È molto interessante leggere la sua autobiografia. Stella non aveva iniziato questo lavoro a Londra, né era stata reclutata come agente. Fu un caso della vita. 

Moglie di un diplomatico, aveva accompagnato nel 1965 il consorte in India a New Delhi. La vita diplomatica l’annoiava profondamente. Accettò molto volentieri l’offerta di un primo segretario accreditato in ambasciata presso il governo indiano. In realtà “il diplomatico” era un agente del controspionaggio. Avendo bisogno di una segretaria dattilografa, propose la posizione a Stella ancora all’oscuro del concetto defence forces for the realm, alla base dell’esistenza di MI5 e MI6. 

Ottenuto facilmente il nullaosta di sicurezza, entrò dunque in questo mondo segreto, iniziando a prenderne confidenza. 

Nel 1969, finito il periodo all’estero del marito, Stella tornò a Londra e prese contatto con il suo ex capo di New Delhi.

Dopo un favorevole colloquio attitudinale con due funzionari del Servizio, fu assunta come segretaria a livello amministrativo iniziale, come le altre. Il massimo ottenibile erano mansioni dirigenziali in Archivio governato solo da donne. 

Comprese subito che le donne erano viste solo assistenti degli agenti, collaborando in ufficio, non partecipando alla raccolta informativa sul campo e mai a operazioni di intelligence mentre gli uomini erano da subito reclutati come agenti. Né alle donne era garantita una progressione di carriera. Molto interessanti nella sua autobiografia le notazioni su come la donna era considerata nei Servizi: una “segretaria, governante di casa” ad alto livello! 

Dopo un primo periodo, fu destinata, sempre come assistente, al reparto che si occupava dei Servizi informativi dell’Unione Sovietica, una notevole prova di fiducia. Era il periodo della Guerra Fredda e i Servizi britannici temevano, a ragione, infiltrazioni di agenti doppi. Stella ricorda che tutti lavoravano con il timore che uno dei colleghi potesse essere una spia del blocco sovietico, per cui era applicato il concetto del “non tutti devono sapere tutto”. Dopo la pericolosa vicenda dei “Cinque di Cambridge”, tra cui Kim Philby, già capo della sezione controspionaggio MI6 per due anni e poi ufficiale di collegamento a Washington, vi erano regole ferree per evitare l’uscita di notizie sensibili da quelle strutture. 

I tempi stavano cambiando. Con grande decisione, agli inizi degli Anni Settanta, gli elementi femminili del Servizio chiedevano di essere meglio utilizzate in settori anche operativi. Fu proprio Stella, in occasione del suo incontro annuale con il capo del personale, a chiedere con decisione le ragioni per le quali le donne non potessero diventare agenti. Anche all’interno del Servizio si iniziava a percepire la necessità di affiancare agli uomini, alcune donne, per efficientare il Servizio, in quel momento in una fase assai difficile di seri problemi con l’Irlanda. 

Stella si era fatta conoscere per la sua intelligenza e quindi promossa agente. Il suo avanzamento di carriera contribuì a rompere una consolidata prassi. Iniziò in quella fase il reclutamento di elementi femminili anche come agenti. 

Rimington: una donna che aveva chiare idee sul futuro delle sue simili. Riteneva che un Servizio di intelligence avesse bisogno anche nel settore operativo di donne con la loro sensibilità e potere di sintesi. 

Era convinta che almeno per i primi tempi, i Servizi informativi nemici non avrebbero mai potuto sospettare di un agente donna, perché allora non era pensabile che un elemento femminile potesse essere impiegato nel settore operativo o dare ordini come capo di dipartimento. L’idea della spia donna era legata allo stereotipo di escort prezzolata, donna di facili costumi; al massimo era una ammirata nobildonna, se spinta da motivi ideologici. Il “mito” di Mata Hari, non spia ma escort di altobordo, ha giocato negativamente per lungo tempo su una seria presenza femminile nell’intelligence.

Stella si fece notare nel contrasto all’eversione divenendo prima direttore della sezione contro terrorismo e nel 1986 direttore del controspionaggio. Nel 1991, direttore generale di MI5, incarico che tenne fino al 1996, quando lasciò il Servizio per limiti di età. 

La sua stagione dirigenziale dovette spesso affrontare sia il terrorismo irlandese sia quello che si affacciava nel panorama internazionale, con dirottamenti di aerei e forme di lotta cruenta, come sequestri e finale uccisione di ostaggi. Il che comportava la ricerca di un nuovo approccio per fronteggiare le sfide alla sicurezza internazionale. 

Ebbe, dunque, nuove relazioni più strette con i direttori dei Servizi segreti europei. Un grande impegno per Rimington, che impose un nuovo approccio di MI5 all’intelligence, soprattutto quello di condividere informazioni importanti con gli Stati oltre confine, per allertare qualsiasi territorio stesse sotto minaccia terroristica, partecipando a quasi tutte le riunioni dei direttori dei Servizi informativi occidentali, attuando la nuova filosofia operativa di MI5.

Una vera pioniera, non molto conosciuta in Italia, nel settore intelligence, favorendo, con l’esempio della sua serietà e del suo spessore professionale, l’inserimento femminile anche in uno dei settori tradizionalmente appannaggio solo all’elemento maschile. 

In Italia, il 12 maggio 2021 l’ambasciatore Elisabetta Belloni ha assunto l’incarico apicale di direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS). Altre donne hanno incarichi rilevanti nei nostri Servizi informativi per la sicurezza dello Stato. I tempi sono cambiati.

Crabb, l'uomo rana che sparì nel nulla. Nel quieto imperversare della Guerra fredda, Lionel Crabb, uno dei sommozzatori più esperti e ammirati nella Royal Navy, scomparve nel nulla. Stava "spiando" una nave da guerra sovietica. Davide Bartoccini l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

 Alle sei del mattino di fine aprile, l’acqua di mare bagna Portsmouth è scura e gelida, mentre il sole si attarda a rivelare un grigioverde che già viene rigato del bianco di schiuma di quell’andirivieni che imbarcazioni da diporto d'ogni genere si tirano dietro. Il 19 aprile del 1956, sulla lancia che lascia senza fretta l’imbocco di Sally Port Inn, un uomo rana della Royal Navy che s’era guadagnato una certa fama con il soprannome di “Buster”, Lionel Kenneth Crabb, aspira pacioso il fumo di una sigaretta turca accanto al suo "traghettatore" yankee, un americano che secondo la cronaca avrebbe risposto al nome Bernard Smith.

Il comandante Crabb, “sminatore” che si era fatto le ossa nella Marina nella seconda guerra mondiale come parte del poco noto Underwater Working Party (UWWP), era un sommozzatore esperto, forse il più esperto di tutta l’Inghilterra, e aveva un rendez-vous nei pressi della HMS Vernon, stabilimento costiero un tempo noto come la "fregata di pietra". Nella foschia dell’alba che pian piano si diradava, un secondo sommozzatore, il tenente George Franklin della Royal Navy che due notti prima aveva accettato di fare da gregario a Crabb, lo attendeva per portare a termine una missione “clandestina” voluta dall'MI6. Perché il servizio segreto britannico all’occorrenza sapeva (e sa) pescare nelle forze armate quando ha bisogno di operatori esperti per azioni non convenzionali. Gli 007 tuttofare, nella realtà, non esistono. Sono fascinazioni.

Il piano era semplice: Crabb, che aveva trascorso gran parte della guerra a disinnescare le mine magnetiche che venivano piazzate dai nostri uomini Gamma sul naviglio inglese alla fonda a Gibilterra, doveva immergersi furtivamente e nuotare sino allo scafo dell'incrociatore sovietico Ordzhonikidze - temporaneamente attraccato nel porto di Portsmouth - per scattare le fotografie che avrebbero permesso all'intelligence britannica di scoprire cosa poteva nascondersi sotto chiglia. Qui doveva concentrarsi sulle eliche e sul timone e verificare - ove presente - di quale tipo di equipaggiamento fossero dotate le unità antisommergibile sovietiche. Un’operazione di spionaggio a tutti gli effetti nel pieno della Guerra Fredda.

L’Ordzhonikidze, mastodontico incrociatore della classe Sverdlov, era giunto il giorno precedente nelle acque della Manica per accompagnare niente di meno che il Primo segretario del partito comunista Nikita Khrushchev e il fidato Nikolaj Aleksandrovič Bulganin, in visita presso il governo britannico che, su suggerimento degli alti papaveri di Whitehall, teneva a distogliere l’attenzione del mondo dalla crisi di Suez. In virtù degli occhi del mondo puntati sul Regno Unito, alla Sezione 5 e alla Sezione 6 del Military Intelligence, rispettivamente addette alle sicurezza e alle azioni di spionaggio all’interno e al di fuori dei confini del regno, viene impartito l'ordine di non condurre alcun genere di operazione per scongiurare il rischio di una crisi planetaria.

I fatti - almento secondo alcune teorie - dimostreranno che tale ordine, se non completamente ignorato, venne quanto meno bypassato. Perché il comandante Crabb, in congedo da quasi un decennio ma spesso “richiamato ufficiosamente all’ordine” per missioni che passavano dalla ricerca di un galeone della Invincibile Armada forse affondato al largo della Scozia a quella di eventuali superstiti rimasti intrappolati del sottomarino HMS Affray, dopo essere giunto su una seconda lancia alla distanza di una nuotata dall'incrociatore sovietico, si era tuffato con tutto l'equipaggiamento ben fissato al suo fisico di quarantasettenne. Appena qualche minuto prima delle sette del mattino.

La genesi di un mistero

Crabb era stato eroe di guerra ed esperto sommozzatore al servizio del ministero dell'Interno britannico. Un dandy dal sorriso sgangherato e beffardo, che fuori dall’acqua prediligeva indossare abiti in tweed e un singolare monocolo per assomigliare a un eccentrico lord inglese. Ma allo stesso tempo, egli era anche un uomo di mezza età afflitto da una profonda depressione che - come di consueto - veniva combattuta con l'alcool, la compagnia femminile e il gioco d’azzardo. Fumatore impenitente nonostante l'occupazione chi gli dava da vivere, i giornali scriveranno che la sera prima della missione aveva mandato giù almeno cinque whisky doppi prima di tornare al suo albergo - dove non resterà traccia né dei suoi effetti personali, né la della pagina del registro dell’albergo che aveva visto segnare la sua presenza.

Scorreranno venti minuti dall'ora X, prima che dai flutti riemerga “Buster” Crabb lamentando un freddo inteso e una visibilità proibitiva. Chiedeva un altro chilo di zavorra per rimanere a fondo più agevolmente. Controllati i livelli di ossigeno venne accontentato dal gregario che lo assisteva. Neanche un istante dopo il vecchio temerario che verrà bollato dai tabloid come “old and sick”, scompare tra i flutti per l’ultima volta. Nessuno lo vedrà mai più riaffiorare. Alle 9 la lancia che lo aveva portato fin lì fa diètro frónt con una pessima notizia per i cocciuti servizi segreti britannici: nessuna informazione richiesta, un disperso.

Inizia così un mistero che non ha ancora trovato soluzione, lasciando spazio a teorie del complotto, intrighi, e fascinazioni da cultori dello spionaggio che non potevano non condizionare anche il prolifico immaginario di Ian Fleming; che pensando proprio a Crabb, pare abbia scritto più di una riga nel suo romanzo “Thunderball” (pubblicato nel 1961). Ma cosa ne era stato davvero di Lionel Kenneth Crabb?

Avvistato o tradito, una spia era scomparsa nel nulla

Secondo testimonianze reperite solo in seguito, intorno alle otto del mattino alcuni marinai russi avrebbero avvistato un sommozzatore che nuotava in prossimità dell’incrociatore sovietico. L’avvistamento venne segnalato - ufficiosamente - dall’ammiraglio Kotov, comandante della nave, al comandante in capo della base navale di Portsmouth. Ma l’avvistamento non ebbe riscontro. L'Ammiragliato rilasciò tuttavia una dichiarazione relativa ad un sommozzatore disperso durante un’immersione condotta in una baia vicina per testare delle attrezzature. Una versione di comodo nel caso fosse riaffiorato il corpo di uno sommozzatore nei giorni successivi?

Mentre in Unione Sovietica la Pravda denunciava "una vergognosa operazione di spionaggio subacqueo diretta contro coloro che vengono nel Paese in visita amichevole", l’allora primo ministro britannico Anthony Eden, ripetutamente messo alle corde dalla stampa inglese che era venuta a conoscenza della misteriosa sparizione, continuò ad affermare che "se era realmente accaduto qualcosa nelle acque di Portsmouth", l’azione era stata condotta "senza l'autorità o la conoscenza dei ministri di Sua Maestà", e che per tale ragione sarebbero state prese "misure disciplinari appropriate". Le dimissioni dell’allora capo dell’MI6 John Sinclair non si fecero attendere.

Col passare del tempo l'interesse per l'affaire Crabb era scemato. Quasi dimenticato. Almeno fino al giugno del 1957, quando un pescatore trovò impigliato nelle sue reti il cadavere senza testa e mani di un uomo ancora dotato di uno scafandro Heinke. Era al largo di Chichester, a poche miglia nautiche da Portsmouth. Si trattava di Crabb? Secondo sua madre e un commilitone che aveva servito con lui a Gibilterra non poteva trattarsi di lui. L'opinione pubblica, che si era appassionata al caso, trovò ancora una volta l'occasione per accampare teorie e congetture.

Un mistero mai risolto

Applicando la filosofia di Occam molti conclusero che Crabb era semplicemente affogato: rimasto vittima di un malore o di un problema con l'attrezzatura. Altre teorie - sempre rimaste prive di riscontri decisivi - ipotizzeranno che Crabb, sorpreso in prossimità della nave da guerra sovietica alla fonda, venne catturato per essere interrogato e poi brutalmente giustiziato, o che un cecchino schierato sul ponte - come era uso fare al tempo - una volta avvistato un "uomo rana" avrebbe sparato. Sopprimendo sul nascere un potenziale atto ostile mosso nei confronti dell’Unione Sovietica.

Altri sosterranno la tesi della diserzione. Non può essere tralasciato infatti lo scenario della Guerra Fredda e il gioco di spie che imperversava silenziosamente tra i due blocchi. Considerate i suoi rapporti con i servizi segreti, Crabb poteva aver fatto conoscenza con agenti doppiogiochisti come Kim Philby e Anthony Blunt, due dei cinque di Cambridge che potevano averlo reclutato, “venduto” al controspionaggio inglese, o ai compagni sovietici che potevano tranquillamente aver deciso di portarlo in Russia con loro per non destare scalpore in attesa di prendere decisioni.

Nessuna verità

La teoria della defezione venne sostenuta e messa nero su bianco solo negli anni settanta da una fidanzata di Crabb, la quale sosteneva che Lionel fosse ancora vivo e stesse addestrando uomini rana della Marina sovietica. Altre voci, prive di documentazione come la precedente, lo segnalarono imprigionato nel carcere di massima sicurezza di Lefortovo a Mosca. Solo nel 2006 un vecchio commilitone che aveva escluso l'ipotesi che i resti del sommozzatore recuperato nel '57 appartenessero a Crabb, diffuse l’informazione - mai confermata - che la "missione Ordzhonikidze" non era altro che una messa in scena per impedirgli di disertare. Una trappola pianificata dal controspionaggio inglese.

Nel 1987 il governo britannico ha deciso di rimandare la declassificazione dei documenti relativi al caso. Il destino di Crabb, nato a Londra nel 1909 da umili origini, né atleta né nuotatore provetto, ma solo un temerario che era riuscito a cavare dal suo fisico l'audacia che sommata all’esperienza e all’istinto può valere una medaglia al valore, ci verrà svelato - forse - solo nel 2056. Dopo un secolo preciso. Per adesso, non possiamo contare su nessuna verità.

La svolta confessionale in Inghilterra e Galles. Adesso i cristiani non sono più maggioranza. Per la prima volta sotto il 50% della popolazione. Aumentano gli islamici. Erica Orsini il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Inghilterra e Galles non sono più Paesi a maggioranza cristiana. Per la prima volta infatti, i nuovi dati del censimento 2021 rivelano una riduzione del 17% nel numero di persone che si definiscono cristiane, pari a 5.5 milioni di abitanti. Aumenta invece il numero dei credenti islamici, che va dal 4,9% al 6,5%, portando la popolazione musulmana a 3.9 milioni. Nelle due Nazioni del Regno, che costituiscono circa il 90% della popolazione pari a 67 milioni di soggetti, i cristiani osservanti raggiungono ora il 46,2% degli abitanti rispetto al 59,2 rilevato dieci anni fa. Il 37,2% dei soggetti dichiara infine di non avere religione facendo registrare un aumento del 22% nell'ultimo decennio. Un risultato che fotografa una società da una parte sempre più multietnica e multiculturale e dall'altra sempre più distante dalle pratiche religiose.

«Questi ultimi dati ci invitano a fare la nostra parte nel far conoscere Cristo - ha commentato ieri l'arcivescovo di York, Stephen Cottrell - ci siamo lasciati alle spalle l'era in cui la maggioranza delle persone si definivano automaticamente come Cristiani, ma altri studi mostrano in modo consistente come queste stesse persone siano ancora alla ricerca di un verità una saggezza spirituale e di una serie di valori a cui ispirarsi e secondo cui vivere». «Uno degli aspetti più eclatanti che emergono dal censimento - ha sottolineato il direttore esecutivo di Humanist UK, Andrew Copson - è quanto siano in contrasto i dati con il nostro Stato. Nessuno stato in Europa ha un'impostazione religiosa come la nostra in termini di legislazione eppure allo stesso tempo abbiamo un rilevante fetta di popolazione non religiosa». Una seconda analisi fatta dal quotidiano Guardian mostra come le aree con una proporziona più alta di minoranze etniche risultano essere anche quelle più religiose mentre le zone dove la popolazione bianca è la maggioranza hanno anche una prevalenza di atei e si trovano tutte nel sud del Galles e, per quanto riguarda l'Inghilterra, nelle aree di Brighton, Hove e Norwich.

In luoghi come Bristol e Hastings più della metà della popolazione dichiara di non essere religiosa e le zone dove si concentra la maggior parte dei credenti, con una percentuale vicina ai due terzi della popolazione appartenente alle minoranze etniche, sono Harrow,Redbridge e Slow. L'ultimo censimento prende in considerazione differenti gruppi di età, combina indici diversi (fertilità, mortalità, migrazione) e indica un serie di fattori possibili che possono aver contribuito all'inversione di tendenza nel profilo religioso del Paese. In Inghilterra e in Galles, attualmente la popolazione di maggioranza bianca, anche quella non britannica, appare in leggera discesa mentre risultano in aumento le minoranze etniche che in alcune grandi città inglesi hanno ormai preso il sopravvento. Ne è un esempio Leicester, dove il 59,1% della popolazione appartiene a gruppi di minoranza etnica, un cambiamento enorme rispetto al 1991 quando questi gruppi costituivano appena un quarto dei residenti. La stessa cosa accade anche a Luton e a Birmingham dove le percentuali si sono rovesciate e le minoranze sono divenute maggioranze.

Scozia infelix. Martina Melli su L’Identità il 24 Novembre 2022 

Il Parlamento Scozzese non potrà tenere un secondo referendum sull’indipendenza, senza l’approvazione di Westminster. Lo hanno deciso all’unanimità i giudici della Corte Suprema inglese ieri mattina, nella frustrazione generale del parlamento nazionale di Holyrood che avrebbe voluto si andasse al voto consultivo ad ottobre del 2023. Dietro la volontà di un nuovo referendum, non solo i nazionalisti che detengono la maggioranza dei seggi in Parlamento ma anche il partito dei verdi scozzesi.

In un’udienza storica presso la più alta corte del Regno Unito, si è discusso se Holyrood avesse o meno l’autorità legale di legiferare su un referendum indipendentista senza che Westminster gli concedesse i poteri richiesti.

Subito dopo la sentenza, il primo ministro, Nicola Sturgeon, leader dello Scottish National Party (Snp), ha dichiarato: "La democrazia scozzese non sarà negata", e ancora" La sentenza di oggi blocca una strada per far sentire la voce della Scozia sull’indipendenza – ma in una democrazia la nostra voce non può e non sarà messa a tacere".

Pur rispettando la decisione dei giudici, la Premier non si è risparmiata nei confronti di Westminster, che, ha commentato, "mostra disprezzo per la volontà democratica della Scozia".

"Questa sentenza conferma che l’idea del Regno Unito come partenariato volontario di nazioni, se mai sia stata una realtà, non è più una realtà", ha spiegato, affilata, in conferenza stampa.

Ha poi continuato dicendo che il suo governo cercherà di utilizzare le prossime elezioni generali come un "referendum de facto" sulla separazione dal resto di Uk dopo oltre 300 anni.

"Dobbiamo e troveremo un altro mezzo democratico, legale e costituzionale con cui il popolo scozzese possa esprimere la propria volontà. Dal mio punto di vista, questa può essere solo un’elezione".

Pronunciando la sentenza inequivocabile, il presidente della corte suprema, Lord Reed, ha detto che il parlamento scozzese non ha il potere di legiferare per un referendum sull’indipendenza perché un tale disegno di legge riguarderebbe il futuro dell’unione del Regno Unito, una questione riservata a Westminster.

Dichiarazioni da teatro dell’assurdo. Non solo gli scozzesi non possono emanciparsi; neppure esprimere una preferenza in merito senza il "permesso" ufficiale di Londra. Forse la Scozia dovrebbe ambire a godere di maggiore considerazione, prima dell’indipendenza.

Il referendum in questione sarebbe il secondo, dopo quello del 2014 in cui aveva prevalso il "no" rispetto alla volontà di uscire dal Paese.

Quattro primi ministri consecutivi hanno rifiutato le richieste di Sturgeon di concederle un ordine della sezione 30, quella dello Scotland Act del 1998 – legislazione istituita dal parlamento scozzese – che consente a Holyrood di approvare leggi in aree che sono normalmente riservate a Westminster, come l’unione.

Boris Johnson nel 2019 aveva dichiarato che questo tipo di referendum vanno indetti una volta ogni generazione; la Truss, durante il suo breve Governo, ha avuto addirittura modo di dire che la Sturgeon "andasse semplicemente ignorata".

Se sono sempre stati così convinti, perché otto anni fa hanno votato per il "no"?

Gli scozzesi, due anni prima del referendum sulla Brexit, non volevano rinunciare a far parte dell’Unione Europea. Quando è arrivato il momento di esprimere la propria preferenza, il "remain" di Edimburgo è stato solido e compatto. Eppure, anche in quell’occasione la Scozia ha subito una sorte non voluta e non scelta. Oggi torna a farsi sotto in un clima molto più instabile e frastagliato di quello che c’era nel 2014: non solo la crisi economica e politica che imperversa, anche la morte di Elisabetta, una sovrana che col suo regno lungo 70 anni ha saputo unificare il Paese conferendogli stabilità e cifra identitaria.

 Il premier, il sindaco. Gemelli diversi d’Inghilterra. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022.

Uno è conservatore, l’altro laburista. Uno è un golden boy, l’altro un attivista. Uno è figlio di indiani, l’altro di pachistani. Rishi Sunak, primo ministro britannico, e Sadiq Khan, sindaco di Londra, con le loro vite parallele raccontano che cosa sia oggi l’ex potenza imperiale

A sinistra, Rishi Sunak, nato a Southampton nel1980 da genitori indù. E’ stato eletto primo ministro del regno unito il 25 ottobre. Conservatore, di religione induista, la sua ricchezza supera quella di re Carlo .

A destra, Sadiq Khan, nato a londra nel 1970 da immigrati pachistani. E’ stato eletto sindaco di Londra nel 2016 e ha ottenuto il secondo mandato nel 2021. Laburista, di religione musulmana, da giovane viveva in una casa popolare

Il primo ministro e il primo cittadino, Rishi Sunak e Sadiq Khan: l’uno il contraltare dell’altro, entrambi specchio delle loro comunità, quella indiana e quella pachistana di Gran Bretagna. Perché il capo del governo conservatore di Sua Maestà e il sindaco laburista di Londra raccontano meglio di chiunque altro, con le loro vite parallele, cosa sia oggi l’ex potenza imperiale che fu della regina Vittoria e di Winston Churchill.

Sunaq e Khan sono tutti e due figli di immigrati, i primi non bianchi a ricoprire le rispettive cariche: i genitori del premier, originari del Punjab, arrivarono in Inghilterra dalle ex colonie dell’Africa orientale, mentre quelli del sindaco giunsero dal Pakistan. Ma le somiglianze finiscono qui: perché i Sunak erano esponenti della solida media borghesia (lui medico, lei farmacista), mentre i Khan erano membri della classe lavoratrice più umile (lui autista d’autobus, lei sarta).

Orizzonti classisti

E infatti le strade di Rishi e Sadiq divergono subito: il primo viene mandato a studiare al prestigiosissimo Winchester College, una scuola privata che da secoli rivaleggia con Eton e che costa 50 mila euro l’anno, mentre il secondo frequenta una mediocre scuola statale della capitale. Ed è così che Sunak viene ammesso a Oxford, l’ateneo più famoso del mondo, a studiare filosofia, politica ed economia, il corso fucina dei leader, mentre Kahn va a seguire i corsi di legge alla University of North London, oggi London Metropolitan University, una delle università più scadenti di tutta l’Inghilterra.

20% DEGLI IMMIGRATI PACHISTANI E’ IMPEGNATO IN LAVORI QUALIFICATI. LA PAGA ORARIA DEI MUSULMANI BRITANNICI E’ LA PIU’ BASSA E LA RICCHEZZA MEDIA DELLE FAMIGLIE PACHISTANE E’ MENO DELLA META’ DI QUELLA DELLE FAMIGLIE INDIANE 

È la Gran Bretagna classista di sempre che si riflette nei loro percorsi, indipendentemente dal fatto che sono entrambi figli di immigrati: il rampollo della famiglia agiata viene avviato a un futuro luminoso, quello svantaggiato si trova a battere una strada più accidentata. Pertanto anche le loro carriere iniziali si vanno a collocare ai poli opposti dello spettro professionale. Dopo aver conseguito un master in amministrazione aziendale in California, a Stanford, una delle migliori Business School del mondo, Sunak entra nell’universo rarefatto dell’alta finanza, lavorando prima a Goldman Sachs, la più importante e influente banca d’affari del pianeta, e poi in diversi hedge fund, i fondi d’investimento speculativi; Khan, invece, diventa avvocato specializzato in diritti umani e si distingue nelle cause anti-discriminazione.

Boris Johnson esce da Downing Street con l’ex cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, nell’ottobre del 2020

Scelte di campo opposte

Il golden boy e l’attivista, insomma: e dunque non fa meraviglia che il primo si avvicini ai conservatori mentre il secondo ai laburisti. Una divaricazione che riecheggia anche nelle scelte private: Kahn sposa una avvocatessa come lui (un matrimonio militante, come si sarebbe detto una volta?), mentre Sunak impalma una ereditiera miliardaria, figlia di uno dei magnati più ricchi d’India. Ed è così che mentre il futuro sindaco continua a condurre una vita modesta, il futuro premier diventa il “maharaja dello Yorkshire”, con una magione imponente nel nord dell’Inghilterra e case sparse in tutto il mondo, oltre a una fortuna privata stimata in oltre 800 milioni di euro, cosa che lo rende ricco il doppio di re Carlo. Uno stile di vita riflesso nel look che tuttora si portano dietro: Sunak è stato definito il premier meglio vestito di sempre, con i suoi abiti di sartoria da migliaia di euro e i mocassini di Prada, mentre Khan fa il sindaco del popolo e non lo si è praticamente mai visto con una cravatta.

60% DEGLI INDU’ BRITANNICI E’ LAUREATO. IL 40% HA UN LAVORO ALTAMENTE QUALIFICATO. SONO PIU’ DI UN MILIONE E LA META’ VIVE NELLA CAPITALE. SONO LA COMUNITA’ DI IMMIGRATI DI MAGGIOR SUCCESSO

Una cosa però li accomuna (oltre a una certa arroganza di carattere): la sentita fede religiosa. Il premier è un devoto induista e ha giurato da parlamentare sui testi sacri indù, mentre il sindaco di Londra è un musulmano praticante che digiuna durante il Ramadan e va regolarmente in moschea. Un tratto, questo, che li radica nelle loro comunità, delle quali sono in qualche modo uno specchio fedele.

Come ha detto lo scrittore anglo-indiano Abir Mukhjeree, gli indù britannici sono gli eredi dei vittoriani, disciplinati, dediti allo studio e a lavoro: ormai sono più di un milione, la metà dei quali vive a Londra, di cui rappresentano il 5% della popolazione. E sono la comunità di immigrati di maggior successo dai tempi degli Ugonotti arrivati dalla Francia alla fine del ‘600: gli indiani britannici sono al 60% laureati (il doppio dei cristiani) e il 40% di loro è impiegato in lavori altamente qualificati (battuti soltanto dagli ebrei). Anche la ricchezza familiare degli indiani, a Londra, è seconda solo a quella degli ebrei. Gli indiani sono pure rispettosi della legge: sono il gruppo etnico con la più bassa percentuale di carcerati.

Indiani conservatori

Non meraviglia dunque che da un punto di vista politico, mentre i gruppi di immigrati erano tradizionalmente vicini ai laburisti, gli indiani si siano progressivamente spostati verso i conservatori: e dunque un personaggio come Sunak è davvero un esempio paradigmatico della sua comunità.

Sul fronte opposto i pachistani, anche loro più di un milione, restano un serbatoio garantito di consenso per i laburisti. La loro comunità è decisamente più working class : solo poco più del 20 per cento è impegnato in lavori qualificati, peggio perfino dei bianchi, che vengono battuti da ogni altro gruppo etnico. E così, a livello di istruzione universitaria, in Gran Bretagna i pachistani sono dietro non solo agli indiani e ai cinesi, ma anche ai neri africani e ai bengalesi (anche se fanno meglio dei bianchi). Quanto alla paga oraria, i musulmani britannici (che sono in gran parte pachistani) si collocano in fondo alle classifiche e la ricchezza media delle famiglie pachistane è meno della metà di quelle indiane.

Contrapposizione pericolosa

Fra le due comunità non corre ultimamente buon sangue e si sta affacciando il timore che la Gran Bretagna possa ritrovarsi in casa il conflitto che oppone India e Pakistan nel sudest asiatico. Le avvisaglie si sono viste a settembre a Leicester, quando per giorni centinaia di giovani di origine indiana e pachistana si sono affrontati nelle strade, con bandiere bruciate e moschee imbrattate: il timore è quello di una possibile radicalizzazione, in senso islamico da un lato e nazionalista-indù dall’altro. I disordini di Leicester hanno riportato a galla il dibattito sulla effettiva integrazione delle comunità di immigrati: specialmente nelle città dell’Inghilterra centro-settentrionale, come Bradford o Birmingham, i pachistani (ma in parte anche gli indiani) vivono in comunità-ghetto segregate dal resto della società.

Un orizzonte dal quale sono sfuggiti sia Sunak che Khan: e forse una loro stretta di mano potrebbe suggellare la distensione fra i due gruppi che, anche grazie a loro, hanno ormai scalato il tetto di quello che fu l’Impero britannico.

Sergio Romano per il Corriere della Sera il 13 novembre 2022.

In altri tempi i mutamenti di nazionalità erano prevalentemente il risultato delle migrazioni. L'industrializzazione di un Paese attraeva mano d'opera da Paesi più o meno vicini e l'immigrato, dopo essersi installato nel Paese che sarebbe diventato la sua nuova patria, decideva di cambiare la sua nazionalità. Era un processo che richiedeva mediamente qualche anno. Oggi i tempi si sono accorciati soprattutto nella Unione Europea dove le diverse nazionalità sono unite da una relazione ormai quasi federale. 

Secondo Denis MacShane, già ministro per gli Affari europei nel governo britannico all'epoca di Tony Blair, i parlamentari del Regno Unito (membri della Camera dei Comuni e della Camera dei Lord) che hanno anche un passaporto irlandese, erano 47 nel 2016, ma erano diventati 227 nel 2021 e sarebbero 321 nel 2022. Sono inglesi e non perderanno la loro nazionalità. 

Ma la Gran Bretagna, dopo Brexit (l'uscita dall'Unione Europea il 24 giugno 2016 ) con il 51,89% dei votanti contro il 48,11%, non può più garantire ai suoi cittadini i diritti di cui godono i membri dell'Ue, fra i quali l'Irlanda.

Una persona che ha avuto l'occasione di frequentare molti Parlamenti, mi ha detto che con il passaporto irlandese i vantaggi sono considerevoli: «La protezione diplomatica di qualsiasi Paese europeo; I' ingresso agevolato nell'Unione e l'apertura facilitata di un conto bancario in qualsiasi Paese dell'Ue; un contratto facilitato con una società telefonica per godere di tariffe più basse; facilitazioni al momento dell'eredità nel caso di proprietà immobiliari collocate in diversi Paesi membri; 

protezione sanitaria ed eventualmente pensionistica in un qualsiasi Paese membro; rette universitarie agevolate, partecipazione al programma Erasmus che permette di proseguire gli studi a carico della Ue in un altro Stato membro. Per la verità molte di queste facilitazioni dipendono più dalla residenza che dalla cittadinanza: ma la residenza nell'Unione è più facilmente concessa a chi ha già la cittadinanza di un Paese membro». 

Grazie a tutte queste agevolazioni, l'Europa parlamentare è ormai una grande famiglia , una comoda casa in cui è lecito scegliere la camera più calda e accogliente. Potremo quindi vivere in una grande democrazia dove ogni cittadino europeo può liberamente trasferirsi da un Paese all'altro. E le nostre piccole patrie diverranno le province di una più grande Provincia che sarà l'Europa. 

Se questo è il nostro futuro, mi spiace soltanto che di questi vantaggi godranno anche quei cittadini britannici che il 23 giugno 2016, scegliendo la Brexit, avevano votato per il nazionalismo britannico contro l'unità dell'Europa.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 9 novembre 2022.

Un delitto, un Lord svanito nel nulla, tre carte del Cluedo. E un esperto di intelligenza artificiale che sostiene di aver risolto il caso: dopo quasi cinquant' anni, il giallo che circonda Lord Lucan si sta avvicinando alla soluzione? 

L'unica certezza è che siamo di fronte a un mistero che da decenni affascina gli inglesi. Gli ingredienti ci sono tutti: l'aristocrazia, il sangue, la caccia all'uomo, sullo sfondo di vite privilegiate. I fatti risalgono al 1974, quando la baby sitter 29enne di Lord Lucan viene uccisa nella casa della moglie del nobile, colpita con un tubo di piombo: lui è accusato del delitto, ma si dilegua nel nulla. 

Il Lord è un personaggio da romanzo: educato a Eton, dopo una iniziale carriera nella finanza diventa un giocatore d'azzardo professionista. 

Ha una predilezione per le Aston Martin e i motoscafi veloci: tanto che viene preso in considerazione per interpretare la parte di James Bond al cinema. 

Dopo l'uccisione della giovane baby sitter, i suoi amici sostengono che Lucan, preso dal rimorso, si sia suicidato gettandosi nelle acque della Manica: ma il suo corpo non è mai stato ritrovato e nel corso degli anni si susseguono gli avvistamenti in ogni parte del mondo. Chi dice di averlo incontrato in Portogallo, chi in Sudafrica, chi sostiene che si sia rifugiato in una comunità hippy in India. Come che sia, c'è il sospetto che i suoi amici influenti lo abbiano aiutato a farla franca.

Solo nel 2016 il Lord viene dichiarato ufficialmente morto (e l'anno successivo sua moglie si uccide nella sua casa londinese): ma non tutti sono convinti. E qualche giorno fa riemerge dal passato una rivelazione stupefacente: nella sua auto, abbandonata nel Sussex dopo il delitto, erano state ritrovate tre carte del Cluedo, il gioco da tavolo che replica un giallo poliziesco, sottratte dalla scatola in possesso di Lucan. 

Il dettaglio non era mai stato rivelato prima dalla polizia: le tre carte erano il colonnello Mustard, la hall e il tubo di piombo, cioè proprio l'arma usata per uccidere la baby sitter. Secondo gli investigatori, potrebbe essersi trattato di una sorta di confessione, oppure di un macabro scherzo, se non di un tentativo di incastrare il Lord. 

Ma la soluzione del mistero potrebbe arrivare dalla tecnologia contemporanea. Un esperto di riconoscimento facciale, che in passato ha aiutato a identificare gli agenti russi avvelenatori degli Skripal e gli assassini sauditi del dissidente Khashoggi, è certo oggi di aver individuato Lord Lucan: sarebbe un pensionato che vive in una comunità buddista in Australia. 

A fornire al professor Hassan Ugail, matematico all'università di Bradford, le immagini dell'uomo in Australia è stato il figlio della baby sitter uccisa, che da anni si è impegnato in una caccia al Lord scomparso. 

Lo scienziato ha usato l'Intelligenza Artificiale per incrociare tre immagini del misterioso pensionato con quattro vecchie foto di Lucan: «Sulla base dell'algoritmo del computer - ha concluso il professore - queste immagini appartengono allo stesso individuo o a qualcuno che gli assomiglia estremamente, come gemelli identici. Questa è scienza e fatto matematico: non puoi ingannare l'algoritmo». 

Se fosse vivo, Lord Lucan avrebbe oggi 87 anni, la stessa età del buddista australiano.

«Ho passato nove anni a cercare di provare che quest' uomo è Lord Lucan - ha detto al Sunday Mirror il figlio della baby sitter uccisa -. Adesso, con questa nuova informazione scientifica, la polizia deve agire: queste non sono emozioni, sono fatti». Ma non tutti ci credono. Una esperta britannica che ha lavorato con il ministero dell'Interno ha concluso che ci sono sufficienti differenze nelle immagini da «eliminare» ogni possibilità che l'australiano sia Lord Lucan. Il giallo continua.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” l’8 novembre 2022.

Churchill dalle stelle alla polvere: almeno nell'opinione dei giovani britannici.

Perché i risultati di un sondaggio condotto dal think thank conservatore «Policy Exchange» sono sorprendenti: soltanto un quinto dei ragazzi fra i 18 e i 24 anni ha un'opinione positiva del grande statista, contro il 58% degli over 65. La ragione? Il vecchio Winston è visto dai più giovani sostanzialmente come un razzista e un colonialista, piuttosto che come il leader che sconfisse il nazismo.

È un'inversione di tendenza clamorosa, se si pensa che vent' anni fa un sondaggio della Bbc aveva visto Churchill votato come il più grande britannico di tutti i tempi, addirittura al di sopra di William Shakespeare. Sic transit gloria mundi : anche fra il pubblico generale solo il 36% ha un'opinione decisamente positiva di Churchill, a fronte di un 20% che ha «vedute miste» e un 7% che ne dà un giudizio negativo. Ma molto dipende dall'orientamento politico: fra gli elettori conservatori Sir Winston riceve il plauso di oltre il 60%, mentre fra i laburisti il gradimento scende al 22%. Appena quattro anni fa, in un sondaggio analogo, il 47% di tutti gli interrogati si professava invece deciso ammiratore dell'ex premier.

È un revisionismo storico, quello che ha investito la figura di Churchill, che va di pari passo con il riesame critico del passato imperiale della Gran Bretagna. E se è vero che cinque anni fa un film come The Darkest Hour - L'ora più buia , dedicato alla lotta dello statista contro la Germania nazista, strappava applausi e lacrime durante le proiezioni nei cinema londinesi, è anche vero che nel 2020 la statua di Churchill davanti al Parlamento venne imbrattata da graffiti che gli davano del «razzista»: tanto che le autorità dovettero proteggerla con un paravento per un certo periodo, nel timore di ulteriori sfregi. Ed è un'onda lunga che ha investito anche le istituzioni, se si pensa che pure il Fondo alla Memoria di Winston Churchill, un'ente di beneficenza, ha deciso di recente di cambiare nome e rimuovere le sue foto dal sito web.

Ma quello che colpisce è soprattutto la disaffezione delle giovani generazioni verso figure che fino ai ieri erano percepite come gli indiscussi grandi del passato: e il motivo è rintracciato nel fatto che ormai nelle scuole ci si concentra soprattutto sugli aspetti negativi della storia, in particolare sulle malefatte del colonialismo. Jeremy Black, docente all'università di Exeter, ha detto di sospettare che i risultati del sondaggio mostrano «il malaugurato impatto della cattiva storia».

«Churchill è stato il più grande primo ministro che questo Paese abbia visto», ha detto al Mail on Sunday lo storico Sir Anthony Seldon. «Lui è stato, più di ogni altro, responsabile della resistenza a Hitler e alla minaccia posta alla Gran Bretagna e all'Europa. Qualcosa è andato decisamente storto se i giovani la pensano diversamente. O non gli viene insegnato, o vengono insegnate loro le cose sbagliate».

E Chris McGovern, ex consigliere del ministero per l'Educazione, ha aggiunto che molti professori «non lo considerano una figura eroica. Se viene trattato, è spesso in termini delle sue vedute razziste». Che Churchill indubbiamente aveva, ma che andrebbero piuttosto collocate nell'ottica del suo tempo.

"Razzista e colonialista": i giovani britannici scaricano Churchill. Andrea Muratore su Il Giornale l’8 novembre 2022.

Winston Churchill? Razzista, colonialista, imperialista. Così lo bollano buona parte dei giovani britannici di oggi. Durante l'ora più buia del Regno Unito che combatteva la Germania nazista, Winston Churchill era un faro di speranza. Da allora, tuttavia, la sua reputazione è svanita. I più giovani cittadini del Paese considerano il leader del tempo di guerra e famoso oratore come poco più di un razzista coloniale le cui politiche hanno esacerbato la carestia del Bengala del 1943 in cui morirono circa tre milioni di indiani.

A rilevarlo un sondaggio commissionato dal think tank di centro-destra Policy Exchange che ha segnalato come solo un quinto dei giovani del Regno veda positivamente l'operato del vincitore della Seconda guerra mondiale. Le persone di età compresa tra i 18 e i 24 anni hanno un terzo in meno di probabilità rispetto agli over 65 di dire di ammirare Churchill, mentre solo il 36% del pubblico in generale ha riferito di pensare bene di lui. Il sondaggio, che è stato condotto tra un campione rappresentativo a livello nazionale di 1.260 cittadini all'inizio di questo mese da parte del noto centro studi vicino al Partito Conservatore.

"È un'inversione di tendenza clamorosa, se si pensa che vent' anni fa un sondaggio della Bbc aveva visto Churchill votato come il più grande britannico di tutti i tempi, addirittura al di sopra di William Shakespeare", nota il cronista del Corriere della Sera Luigi Ippolito. Churchill è da tempo uno dei bersagli preferiti della mobilitazione woke e di Sinistra radicale che ta 2020 e 2021 è emersa in particolar modo per la tendenza a dare l'assalto alle statue. Winston Churchill, il primo ministro britannico che per molti “era solamente un razzista” è diventato il più noto dei bersagli della cancel culture assieme a Cristoforo Colombo e a nel settembre 2020 le immagini del vandalismo subito dalla statua dell’ex primo ministro di fronte al Parlamento inglese hanno aperto a molti gli occhi sulla deviazione delle proteste verso l’iconoclastia.

Molti storici inglesi, primo fra tutti Nial Ferguson, da tempo provano a compiere l'impresa di storicizzare la partita globale dell'Impero britannico senza scadere in giudizi semplicistici di valore. Ma Jeremy Black, docente all'università di Exeter, ha detto di sospettare che i risultati del sondaggio mostrano "il malaugurato impatto della cattiva storia" insegnata ai giovani britannici, che dà più priorità a esprimere un giudizio di valore piuttosto che a storicizzare gli avvenimenti.

L'assalto della sinistra a Churchill

Secondo Tariq Ali, collaboratore di lunga data del Guardian e redattore della New Left Review, a lungo il Regno Unito avrebbe coltivato un'eccessiva ammirazione per Churchill, che paragona a un culto della personalità, che non sarebbe il risultato della sua leadership in tempo di guerra nel 1940, ma è stata deliberatamente coltivata, in Gran Bretagna e nel più ampio mondo di lingua inglese, dai suoi successori Conservatori sulla scia della guerra delle Falkland del 1982. Per Ali, giornalista e regista formatosi a Oxford e figura di spicco della sinistra internazionale, il culto riflette una nostalgia per l'impero. Ora, sostiene nel suo libro Winston Churchill - His Times, His Crimes, è praticamente incontestato con il sostegno di "tutti e tre i partiti politici [del Regno Unito] e dei grandi sindacati".

Ali propone un revisionismo storico che è molto accettato nel mondo letterario britannico e, secondo The Conversation, mira a "decostruire il mito di Churchill" puntando sul tema della sua retorica imperialista e della sua visione razzista, imputandogli direttamente la Grande carestia del Bengala e la brutale repressione della resistenza greca ai nazisti, in gran parte comunista. Stalin e Churchill avevano concordato che la Grecia dovesse rimanere all'interno della sfera di influenza occidentale dopo la seconda guerra mondiale, ma questa decisione portò allaguerra civile greca, che infuriò dal 1944-49 e costò oltre mezzo milione di vite.

Ma questa lettura moralistica non permette di capire quanto Winston Churchill sia da leggere come figlio del suo tempo. Esponente, durante la sua carriera, dei due partiti che hanno fatto l'Impero, i Liberali e i Conservatori, ne fu indubbiamente un alfiere. Sulla cresta dell'onda per mezzo secolo, compì errori spesso macroscopici di valutazione: pensiamo, per fare un esempio, alla decisione di procedere con lo sbarco di Gallipoli nel 1915 durante la Grande Guerra. Ma questo riduzionismo che appiattisce le decisioni di un sistema politico democratico su un solo uomo e trae giudizi morali non è storia, ma partigianeria politica. Il fatto che una generazione britannica intera, in una fase in cui il Paese avrebbe bisogno di simboli, ne sia stata affascinata dà l'idea del problema educativo insito nel sommare moralismo ed educazione. Un vulnus di sistema che troppo spesso si ha la tentazione di importare dal mondo anglosassone all'Europa continentale.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2022.

Che la Gran Bretagna, a differenza dell'Italia, sia un Paese multietnico non è una scoperta per nessuno: ma i dati dell'ultimo censimento, appena pubblicati, sono stati comunque una sorpresa. Viene fuori che in Inghilterra e Galles ben dieci milioni di persone (ossia un abitante su 6) sono nate all'estero; a Londra addirittura il 40% dei residenti è nato in un Paese straniero, con punte superiori al 50% in alcuni quartieri. Di tutti questi immigrati, oltre il 40% è arrivato negli ultimi dieci anni: 680 mila solo nel 2020, anno precedente al censimento, nonostante le restrizioni ai viaggi dovute al Covid.

Quanto alle nazionalità di origine, in testa ci sono gli indiani, a quota 920 mila (e fra di loro c'è pure Akshata Murty, la moglie del primo ministro Rishi Sunak). Seguono i polacchi a 743 mila, i pachistani a 632 mila, i romeni a 538 mila e gli irlandesi a 324 mila. Ma la vera sorpresa sono gli italiani, che entrano per la prima volta nella top ten e si piazzano sesti a quota 276 mila: una comunità variegata, dai baristi agli sportivi come Antonio Conte, dai banchieri alle scrittrici come Simonetta Agnello Hornby.

In totale, gli europei sono quasi 4 milioni, meno dei 5 milioni e mezzo che avevano fatto domanda per la residenza permanente post Brexit: segno che tanti sono tornati in patria a seguito del Covid. 

L'immigrazione nell'ultimo decennio è stata comunque più contenuta che nel decennio precedente e quella dall'Europa è crollata dopo la Brexit. Ma le cifre del censimento indicano comunque uno smottamento sismico nella composizione sociale dell'Inghilterra e rilanciano il dibattito sull'immigrazione, reso già incandescente dagli arrivi (quest' anno già 40 mila) di migranti sui barchini che attraversano la Manica.

Il governo di Rishi Sunak è sotto pressione: secondo un sondaggio, quasi il 60% dell'opinione pubblica ritiene che le autorità abbiano perso il controllo dei confini, che era tra l'altro uno degli obiettivi sbandierati della Brexit. Al ministero dell'Interno c'è Suella Braverman, detta «Crudelia», esponente della destra dura del partito conservatore e fautrice di un contenimento drastico dell'immigrazione: l'altro giorno in Parlamento ha addirittura parlato di «invasione», suscitando un coro di critiche per un linguaggio giudicato «incendiario».

 Ma in realtà ha toccato un nervo scoperto. Il premier è però stretto tra l'ala «salviniana» dei conservatori e il mondo delle imprese, che chiede ancora più immigrati per venire incontro alla carenza di manodopera. E il portavoce di Sunak ha salutato positivamente i risultati del censimento, affermando che «il Regno Unito è sempre stato il Paese della diversità e noi celebriamo questo fatto». Non c'è dubbio che la Gran Bretagna sia stata resa grande dall'immigrazione: lo testimoniano premi Nobel come Kazuo Ishiguro, nato in Giappone, e Abdulrazak Gurnah, nato a Zanzibar, campioni dello sport come Mo Farah, che è somalo, o popstar come Rita Ora, che è kosovara.

E il fatto che il primo ministro sia di origine indiana sta lì a dimostrarlo (così come la stessa Braverman e il ministro degli Esteri Cleverley sono figli di immigrati, mentre il Cancelliere Hunt, unico bianco fra i ministri-chiave, ha una moglie cinese). Ma non sono soltanto i tabloid di destra come il Daily Mail a denunciare la pressione insostenibile sul sistema sanitario e scolastico, oltre che sulla coesione sociale. Già il governo di Boris Johnson aveva messo in campo soluzioni drastiche, come la deportazione in Ruanda degli immigrati che arrivano illegalmente: ma il piano era stato bloccato dalla Corte Europea per i Diritti Umani.

Ora la ministra Braverman starebbe cerando accordi con Paraguay, Perù e Belize per mettere in piedi uno schema simile. Quello che sembra escluso è il blocco dei gommoni nella Manica, considerato illegale: piuttosto, si cerca di raggiungere un'intesa con le autorità francesi (che al momento chiudono un occhio) per impedire le partenze.

Estratto dell’articolo di Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 3 novembre 2022.

La polizia inglese ha accettato candidati condannati per rapine, esposizione indecente e abusi domestici. Tra gli altri, scrive il Times, perfino un protettore di prostitute, insieme a chi ha mentito su coinvolgimenti delle proprie famiglie in crimini seri, come il traffico di droga. 

È questo il quadro allarmante emerso dall'ultima indagine del His Majesty' s Inspectorate of Constabulary and Fire and Rescue Services, ovvero un'autorità che vigila sulle forze di polizia. Nel suo rapporto ha concluso, pur senza andare nel dettaglio dei singoli corpi analizzati, che centinaia se non migliaia di poliziotti corrotti stanno lavorando in Inghilterra e Galles.

Su 725 casi esaminati, in 131 la decisione di assumere è stata giudicata «nel migliore dei casi discutibile». Di questi, gli ispettori hanno ritenuto che 68 avrebbero dovuto essere respinti a titolo definitivo. Per fare qualche altro esempio, un capo della polizia ha permesso il trasferimento di un ufficiale accusato di aver aggredito sessualmente giovani ufficiali e un membro del pubblico, perché riteneva che avrebbe «reso il corpo di polizia più diversificato». 

Nel documento, inoltre, è sottolineato che le ufficiali donne e il personale femminile sono state regolarmente esposte ad atteggiamenti sessisti e a comportamenti predatori, in una cultura dominante misogina. (…)

Paola De Carolis per corriere.it il 2 ottobre 2022.  

L’ascesa del Partito Comunista Italiano e di Enrico Berlinguer negli anni 70 preoccupava Londra al punto che un’unità del ministero degli Esteri, l’Information Research Department (IRD), passò informazioni a giornalisti internazionali per cercare di screditare il politico e il suo partito. La notizia emerge dopo che è scaduto il periodo di segretezza su alcuni documenti che indicano l’esistenza di una campagna per influenzare il risultato delle elezioni del 1976, una campagna che venne attuata solo in parte perché non trovò l’appoggio politico necessario nel governo laburista di James Callaghan.

Nei documenti resi pubblici un funzionario dell’IRD, Peter Joy, si complimenta con un collega distaccato a Roma in seguito a un’intervista rilasciata da Berlinguer a Panorama, programma della Bbc. In particolare cita una frase utilizzata dal giornalista Richard Lindsey – «’legame d’acciaio»’, un riferimento alla formula attribuita a Palmiro Togliatti sul rapporto tra il PCI e il partito comunista sovietico – come prova che il giornalista era stato guidato dal Foreign Office nella scelta delle domande poste all’uomo politico italiano. Lindsey aveva incalzato Berlinguer sull’indipendenza del partito da Mosca, sulla repressione politica nell’Unione sovietica, sull’impegno del PCI con la Nato e, nel caso dell’arrivo di una seconda guerra fredda, sulle lealtà del partito.

Se altre inchieste hanno dimostrato, come ha precisato ieri l’Observer, che l’IRD ha avuto una parte in eventi politici in Indonesia e in Kenya, ecco ora la prova dell’operato in Italia, messo in atto assieme all’MI6, ovvero l’intelligence del Regno Unito. Stando all’allora capo dell’IRD, Ray Whitney, a giornalisti considerati influenti veniva passato un dossier con informazioni anonime, un fascicolo che - facevano capire le autorità – era inteso per l’utilizzo dei diplomatici di Sua Maestà ma che veniva mostrato «a una manciata di altre persone che avrebbero potuto trovarlo interessante». Tra questi, oltre a Lindsey, il corrispondente del Financial Times e del Washington Post.

Mentre in Italia si avvicinavano le elezioni, nell’aprile 1976 il neo primo ministro Callaghan nominò agli Esteri Anthony Crosland. Stando ai documenti visti dall’Observer il Foreign Office spiegò al ministro entrante che «’non era troppo tardi»’ per «prevenire l’arrivo al potere in Italia dei comunisti». Diverse opzioni vennero presentate a Crosland: un «’intervento chirurgico e pulito» venne bocciato perché «irrealistico». Il Foreign Office caldeggiò invece «una campagna» contro Berlinguer e il PCI basata su «una maggiore attività nel campo della propaganda segreta e meno». 

In attesa del nullaosta di Corsland, una squadra partì per l’ambasciata di Roma per ««scoprire come influenzare l’opinione pubblica italiana». L’obiettivo era quello di minare la credibilità del partito. Tra le possibilità discusse c’era quella di fare credere alla gente che l’Alto Adige sarebbe tornato indipendente o all’Austria nel caso di una vittoria del partito comunista. A Roma però i diplomatici britannici avevano paura che troppi documenti avrebbero potuto imbarazzare il governo di Londra provando il suo coinvolgimento. Ecco allora che l’operazione passò alle spie dell’MI6.

Il capo del bureau svizzero, Terry O’Bryan-Tear, reclutò il politico svizzero Franco Masoni il quale si impegnò a stampare materiale anticomunista nella Gazzetta Ticinese e a farne circolare 60.000 copie oltre le Alpi. A un mese dalle elezioni, però, Crosland non si disse convinto dei meriti dell’operazione, cui non diede il via. Sembra così che l’IRD abbia continuato ad agire in modo indipendente. Un documento del 3 giugno del 1976 indica che la trasmissione di opinioni anonime non necessitasse del permesso del ministro. Alla fine, la temuta vittoria del PCI non si materializzò e la propaganda in Italia fu l’ultima «avventura nera» dell’IRD, chiuso l’anno successivo dal nuovo ministro degli Esteri, David Owen. 

La pentola di monete d’oro di re Giorgio I? Era nascosta sotto il pavimento. Redazione Buone Notizie su Il Corriere della Sera il 21 settembre 2022.   

A volte per trovare la famosa pentola d’oro non è necessario andare a cercarla alla base di un arcobaleno: basta guardare sotto il pavimento. È successo a una coppia inglese che appunto ha trovato 260 monete d’oro britanniche, dei tempi di Giacomo I e Giorgio I, nascoste in una piccola pentola di metallo proprio sotto le assi del pavimento di casa. Il loro valore nominale è di 100mila sterline, ma sul mercato delle reliquie numismatiche antiche possono fruttarne - secondo gli esperti immediatamente consultati - fino a 250mila. La scoperta è avvenuta durante i lavori di ristrutturazione della dimora del XVIII secolo in cui la coppia si era trasferita. A Ellerby, nel North Yorkshire. Il banditore Gregory Edmund, della casa d’aste londinese Spink & Son, ha detto che il piccolo tesoro non è in sé particolarmente strano: sono monete di uso «quotidiano» per una famiglia come quella che nel Settecento abitava in quella proprietà nota come Ellerby Hoard, abitata in origine da Joseph e Sarah Fernley-Maisters che si sposarono nel 1694 e diedero vita alla famiglia mercantile più influente della zona.

Evidentemente diffidavano della neonata Banca d’Inghilterra e preferivano tenersi i soldi in casa. Solo due tra le 260 monete sono particolari: una ghinea in cui per un errore di conio manca la testa di re Giorgio e una moneta d’oro brasiliana che a quanto pare era arrivata fino all’Inghilterra. Entrambe portano la data del 1720. E per due anni quindi rientrano ora sotto la legge del tesoro varata nel 1996 in base alla quale qualsiasi moneta d’oro o d’argento vecchia di oltre 300 anni deve diventare proprietà del Governo, che la acquista da chi l’ha trovata a un prezzo di mercato per poterla mettere in un museo. Le altre possono andare tranquillamente all’asta per i collezionisti.

 "Credo che lei stia cercando dei titoli". Il Liverpool ai tifosi: “Bevete e mangiate in hotel a Napoli”. Klopp: “Città pericolosa? Mica ci vivo”. Redazione su Il Riformista il 6 Settembre 2022

Napoli è una città pericolosa? “Io non lo so, non ci vivo, lei è di Napoli? Pensa sia pericolosa”. Jurgen Klopp, allenatore del Liverpool, non cede alle provocazioni e rispedisce al mittente la domanda sull’allarme sicurezza lanciato dal suo club ai tifosi in vista dell’arrivo a Napoli dove mercoledì 7 settembre si giocherà al Maradona la prima partita della fase a gironi della Champions League.

“Credo che lei stia cercando dei titoli, lei è di Napoli? Io non lo so, non ci vivo, io vengo protetto con la scorta, ho la sensazione che lei non sappia cosa chiedermi – la risposta al giornalista -. Lei sa a cosa era riferito? C’è il rischio per gli scontri tra i tifosi, ma io non conosco la città, non ci vivo, non sono qui per darvi titoli, io vorrei solo andare in albergo e concentrarmi sulla partita. Voi non sapete cosa chiedermi” ha tagliato corto.

Il riferimento è alla raccomandazione rivolta dai Reds ai tifosi per la loro sicurezza una volta giunti in città. In realtà oltre ai soliti consigli, che valgono per tutte le città d’Europa, il Liverpool ha rincarato la dose suggerendo addirittura ai propri tifosi di non uscire dall’albergo ma di bere e mangiare lì, quasi fossero in guerra. “I tifosi in arrivo a Napoli prima della giornata dovrebbero rimanere nei rispettivi hotel per bere e mangiare. Si consiglia vivamente di non indossare i colori della squadra durante il viaggio” si legge.

“Raccomandiamo ai fan di non visitare il centro città. Se desiderate farlo, dovreste rimanere vigili ed essere consapevoli del fatto che potreste essere presi di mira per piccoli furti, rapine e aggressioni”. Parole che non sono affatto piaciute ai tifosi partenopei e che in breve hanno scatenato le reazioni sdegnate di diversi utenti sui social.

“Secondo le autorità italiane, si consiglia di portare sempre con sé un documento d’identità valido con foto. Consigliamo ai tifosi di scattare una foto del passaporto e della patente in caso di smarrimento o furto. Questo aiuterà con l’ottenimento di un passaporto sostitutivo, se necessario” conclude il club inglese.

Ma Napoli è una città pericolosa? Stando a quello che scriviamo e registriamo quotidianamente la risposta, purtroppo, è si. Soprattutto negli ultimi mesi sono numerose le denunce di scippi e rapine ai danni di cittadini e turisti. Sono numerose le denunce di commercianti piegati oltre che dal caro bollette anche dagli episodi di violenza che avvengono mentre lavorano. Solo per restare a qualche giorno fa, è diventato virale il video di persone in fuga dai tavolini dei bar durante una stesa. Tanti episodi allarmanti che riducono sensibilmente la percezione di sicurezza dei cittadini.

Allarme Reds. I pigri stereotipi inglesi sulla criminalità a Napoli e la dura verità sulle gang di Liverpool. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 7 Settembre 2022.

Il club britannico ha avvisato i suoi tifosi in trasferta nel capoluogo campano di rimanere in hotel a bere e mangiare. Un messaggio esagerato che contiene un po’ di banalizzazione e molti luoghi comuni

Visitate le zone del centro, assaggiate i piatti tradizionali in un ristorante tipico, scoprite la città di Napoli in tutte le sue sfumature. Se fosse stato così, il messaggio del Liverpool ai suoi tifosi sarebbe stato un piacevole ed efficace consiglio al popolo dei Reds arrivato in Campania per vedere Salah, Firmino e van Dijk allo stadio Diego Armando Maradona. Invece, per preparare i propri sostenitori, il club inglese ha voluto mettere tutti in guardia attraverso l’account Twitter: «Rimanete nei vostri hotel per bere e mangiare». E poi: «Si consiglia vivamente di non indossare i colori della squadra quando andate in giro».

Napoli non è certo un’oasi estranea alla criminalità, ma forse neanche quel «paradiso abitato da diavoli», come ricorda un’espressione erroneamente attribuita a Johann Wolfgang von Goethe e a Benedetto Croce.

Anzi, non è nemmeno nella top ten delle città più pericolose d’Italia, secondo l’indice di criminalità stilato dal Sole 24 Ore, che fotografa le denunce registrate relative al totale dei reati commessi sul territorio. Napoli è al 14esimo posto nella classifica nazionale, mentre nel ranking dei furti è al nono posto, dietro Milano, Rimini, Bologna, Roma, Firenze, Modena, Venezia, Livorno. C’è un triste primato alla voce “furti con strappo”, “rapine” e “furti di motociclo” e questo può legittimamente tenere in allerta i turisti quando passeggiano per i vicoli della città.

La cronaca locale, su qualsiasi giornale napoletano, racconta quasi quotidianamente scippi e rapine, denunce di commercianti per episodi di violenza e altri casi di microcriminalità che riducono la percezione di sicurezza.

«La criminalità a Napoli c’è, ma si potrebbe fare lo stesso discorso per Parigi, Londra e qualsiasi altra grande città nel mondo», dice a Linkiesta Giacomo Di Gennaro, docente di Sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale alla Federico II e co-autore da tre anni del rapporto “Criminalità e sicurezza a Napoli”.

«Tutte le città metropolitane – aggiunge Di Gennaro – hanno un certo livello di insicurezza». È quasi fisiologico, naturale, inevitabile per i centri con centinaia di migliaia di persone (il Comune di Napoli conta circa un milione di abitanti, il triplo se si considera l’area metropolitana).

Ma gli avvertimenti fatti circolare dal club di Liverpool, spiega ancora il professor Di Gennaro, vanno presi con le dovute accortezze: «Dovrebbero alludere ai potenziali scontri tra tifoserie organizzate, perché sappiamo che nella dimensione collettiva non è facile controllare i tifosi, ma ovviamente queste informazioni non rispecchiano in maniera fedele lo stato della criminalità in città».

Il messaggio dell’account di assistenza del Liverpool, ad esempio, suggeriva di non allontanarsi dalla zona portuale, dove verosimilmente alloggia la maggior parte dei tifosi provenienti da Liverpool. Tra l’altro un suggerimento doppiamente infelice in questi giorni in cui la zona intorno alla Stazione Marittima di Cesare Bazzani è circondata dalle delimitazioni del cantiere per i lavori in corso.

Quel suggerimento equivale a dire a un turista che proprio lì, poco distante, a pochi minuti di cammino dal suo albergo, c’è il centro storico di Napoli, c’è via Toledo con la fermata della metro più bella del mondo, Piazza del Plebiscito, Palazzo Reale e il salotto buono della città, ma non ci può andare. Perché potrebbe essere pericoloso.

Tra l’altro nemmeno Liverpool, come Napoli, è un luogo estranea alla criminalità. Il sito inglese Crime Rate stima che la città attraversata dal fiume Mersey abbia fatto registrare 128 reati ogni 1.000 persone nel 2021: 12,8 crimini ogni 100 abitanti, cioè un tasso di criminalità superiore a quello di Napoli.

Sia chiaro, i problemi di una città non contrastano con quelli di un’altra, né fanno a gara – non sono certo in competizione. E ancor meno l’eventuale percezione di pericolo o insicurezza a Liverpool può servire a rivalutare le strade di Napoli.

Anzi, sarebbe altrettanto sgradevole se l’account Twitter della Ssc Napoli a novembre – in occasione della partita di ritorno – pubblicasse avvertimenti con lo stesso tono, dimenticando che Liverpool ha uno dei porti più importanti del Regno Unito, è la casa dei Beatles, del loro museo e di altri luoghi di interesse. Nonostante si tratti di una città che nelle ultime settimane ha visto il sindaco della metropolitana, la polizia del Merseyside, il commissario alla criminalità e il sindaco di Liverpool lanciare un appello senza precedenti ai capi della criminalità della città: «Niente più violenza. Non possiamo più chiudere gli occhi. Niente più vite innocenti rovinate».

Gli allarmi sono risuonati anche a Londra. A fine agosto, in risposta a quattro omicidi in una settimana, il governo centrale ha annunciato lo stanziamento di 500mila sterline per la lotta al crimine, in una città che, secondo le stime del 2020 della National Crime Agency, raccoglie il 70% delle armi presenti su tutto il territorio nazionale.

Il 31 agosto il giornale UnHerd ha pubblicato un articolo firmato dal professor Robert Hesketh – docente della School of Justice Studies alla Liverpool John Moores University – intitolato “Liverpool è stata sedotta dalle gang”. Nell’introduzione Hesketh scrive: «Oltre a vivere qui, ho trascorso l’ultimo decennio a studiare il mondo criminale della città e ho intervistato più di 50 giovani coinvolti in gang violente in tutto il Merseyside. E se c’è una cosa che ho imparato, è che quando una comunità crolla, la criminalità organizzata spesso riempie il vuoto».

Gli stessi tifosi del Liverpool negli ultimi anni non si sono dimostrati particolarmente attenti all’ordine pubblico e al decoro quando sono andati in trasferta in altre città europee. Nel 2019, in occasione della partita d’andata della semifinale di Champions League a Barcellona, sono arrivate notizie di tifosi arrestati per aggressione, altri che hanno spinto i passanti in una fontana, dipendenti di un hotel feriti. Eventi che avevano convinto l’amministratore delegato del club, Peter Moore, a fare appello via Twitter ai tifosi Reds chiedendo di non comportarsi male.

Napoli ha certamente un problema di microcriminalità legata a furti e rapine, e come tutte le metropoli può restituire un senso di insicurezza diverso da altri luoghi più piccoli e accoglienti. Ma il messaggio diffuso da uno dei club più importanti d’Inghilterra e del mondo ricalca in pieno uno stereotipo,  stigmatizza e appiattisce la realtà di una città – con i suoi cittadini – che ne esce danneggiata.

La risposta del Napoli, anzi di Napoli, sta nella semplicità delle parole del suo primo cittadino, il sindaco Gaetano Manfredi: «Napoli è una città di grande accoglienza. Dico a tutti i tifosi del Liverpool che possono venire con grande tranquillità ma chiedo loro di rispettare le nostre regole e le regole della pacifica convivenza perché i napoletani lo faranno. Mi auguro che sia una grande giornata di sport e una grande giornata di amicizia tra la città di Napoli e quella di Liverpool». 

Ha fatto anche cose buone. La nuova vita di Boris Johnson è una fondazione a sostegno dell’Ucraina. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 2 Novembre 2022

Il nuovo governo deve ribadire la «relazione speciale» con Kyjiv, dove l’ex primo ministro è considerato un eroe. Sunak è costretto a inseguirlo, anche sulla partecipazione alla Cop27

Boris Johnson ha fatto anche cose buone. Non molte, in effetti. Ma nella politica estera, e in particolare nel sostegno all’Ucraina, può annoverare gli unici successi di un premierato burrascoso. La seconda (o terza) vita dell’ex primo ministro, che vanta una bromance con il presidente Volodymyr Zelensky, potrebbe passare proprio da Kyjiv, dove gli hanno già dedicato dolcetti e una targa. Dopo la fallita scalata ostile alla leadership dei conservatori, vinta da Rishi Sunak, starebbe lavorando a una fondazione per raccogliere fondi per ricostruire il Paese invaso.

La rivelazione è del Telegraph, di cui Johnson è stato corrispondente da Bruxelles e firma illustre, che per posizionamento politico è una fonte autorevole di informazioni sulla galassia Tory. L’ex premier, tornato in città quando ha creduto (brevemente) di potersi riprendere il partito, non avrebbe dismesso la sede lavorativa. Un ufficio a Westminster per lanciare «un piano Marshal per l’Ucraina», così lo definiscono nell’inner circle di Boris. Lo stesso Sunak, al momento della rinuncia del rivale, ha auspicato che il suo «contributo alla vita pubblica» non finisse lì e, a 58 anni, eccolo di nuovo protagonista.

Di fatto, si tratta di un sequel di quanto Johnson ha fatto negli ultimi mesi a Downing Street. È stato tra i più convinti fautori della coalizione internazionale per difendere la democrazia aggredita da Vladimir Putin. Non solo a parole, pure con l’invio di armi e addestrando i soldati ucraini sul suolo britannico. Le prossime mosse saranno delicate, anche per evitare incidenti diplomatici e non sorpassare il governo. Per questo, la ragione sociale della fondazione sarà la «ricostruzione» del Paese.

L’annuncio dovrebbe arrivare durante un viaggio negli Stati Uniti, entro la fine dell’anno, con un discorso a Washington. Nella capitale, Boris incontrerà alcuni senatori americani. Punta a ravvivare l’adesione di quella parte dei repubblicani che subordina l’impegno al rigore fiscale. Non ci si può permettere arretramenti, né abbassare la guardia, è il mantra di quello che, almeno fino all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, non rinnegava la nomea di «clone di Donald Trump». Potrebbe rispolverarla, anzi, se gli servisse a farsi ascoltare nel partito cannibalizzato dal tycoon.

In patria, è tornato deputato semplice, per il seggio di Uxbridge, ed è affezionato a quel ruolo. Non lascerà il Parlamento. Il congresso dei Tories l’ha eletto presidente dei «Conservative friends of Ukraine». È (anche) un modo per rassicurare gli alleati: dopo l’uscita di scena di quello che Kyjiv considera un eroe, non è in discussione l’aiuto del Regno Unito. Vanno in questa direzione pure la conferma di Ben Wallace come ministro della Difesa e la prima chiamata di Sunak da premier, a Zelensky prima che a Joe Biden.

La nuova «relazione speciale» di Londra è questa, oltre a quella storica con la Casa Bianca. Sunak deve scrollarsi i pregiudizi che lo vorrebbero più «tiepido» dei predecessori sul dossier. Ha fama di essere più interessato ai soldi, e al bilancio dello Stato, che alla geopolitica. Non sembra favorevole a spingere l’aumento delle spese militari sopra il tre percento, già sottoscritto da cancelliere dello Scacchiere. Alle dimissioni di Liz Truss, un meme che recitava «Better call Boris» era stato twittato e poi sùbito cancellato dal profilo ufficiale dell’Ucraina.

Lì Johnson è più popolare del nuovo primo ministro: in questa fase storica, sono credenziali spendibili sulla scena mondiale. Per restare al suo posto in futuro, Sunak dovrà provare ad attirare su di sé questa attenzione. La Brexit ha reso agli occhi di molti osservatori la politica inglese una barzelletta, negli anni di Boris questa reputazione ha traslocato dentro Downing Street, ma l’ha smentita a partire dal 24 febbraio. A Kyjv l’hanno apprezzato anche per i suoi «difetti», per gli slanci che hanno preceduto il calcolo politico del resto del continente.

Sulla Cop27 potrebbe ripetersi una dinamica simile, con Sunak costretto a inseguire il suo ex datore di lavoro. Truss aveva ostacolato i piani di un blitz a Sharm-el-Sheikh di Re Giorgio III, ambientalista da prima che fosse mainstream. Il neopremier vorrebbe ribadire il divieto e non è chiaro se volerà in Egitto per un summit dove, almeno all’apertura, si raduneranno i principali leader planetari, tra cui Biden. Ci andrà pure Emmanuel Macron, ma a convincere il primo ministro a un ripensamento non è il competitor di sempre, cioè la Francia, ma quello interno al suo partito.

Di nuovo Johnson. Ha fatto filtrare che lui andrà alla Cop. Disertare la ventisettesima edizione dopo aver ospitato quella precedente a Glasgow sarebbe una figuraccia, anche se motivata con la «ragion di Stato». Un tradimento delle ambizioni globali del Regno Unito. La linea ufficiale, ora, è che Sunak presenzierà se avrà sbloccato alcune decisioni economiche che ritiene cruciali. Una retromarcia. Certo, non all’altezza di quella con cui Truss si è rimangiata la manovra incenerita dai mercati, ma è l’indizio che i conservatori non hanno archiviato la stagione del caos e, soprattutto, non si sono ancori liberati dall’eredità ingombrante di Boris.

«ThisEngland», la pandemia e le strategie per contrastarla del premier Boris Johnson. Marina Sanna su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Settembre 2022.

Sui titoli di testa appare la scritta: un’opera di finzione tratta da eventi reali ma ThisEngland, dal 30 settembre in streaming su Sky e Now, è di più: una serie sorprendente di agghiacciante attualità su Boris Johnson e la sua gestione della pandemia. Un ritratto personale e pubblico dell’ex premier britannico, interpretato magnificamente da Kenneth Branagh e diretto da Michael Winterbottom. Che incomincia con il suo avvento, dopo essere stato sindaco di Londra per due mandati. La prima cosa di cui si occupa è la Brexit, con uno dei tanti slogan (e promesse) che guideranno la sua comunicazione, ottiene il risultato di far uscire la Gran Bretagna dall’Unione Europea. Circondato da uno staff ben addestrato, Johnson si appresta a cavalcare la vittoria che ahimè coincide con i fatti di Wuhan, la prima ondata di Covid-19. Dal racconto di Winterbottom viene fuori un personaggio sconcertante, arrogante e razzista, che nonostante il dilagare del virus ripete: non c’è nulla da temere, basta lavarsi bene le mani. I test, in mancanza di tamponi, sono fatti solo a persone con sintomi, i casi aumentano e gli scienziati guardano preoccupati all’Italia. L’immunità di gregge e i risultati di tanta superficialità li conosciamo. Il «come» forse no. Le sue battute passeranno alla storia. Donne? Pupe sexy. Gay? Sodomiti in canottiera. L’Islam? La più crudele e settaria di tutte le religioni per la sua intolleranza. Winterbottom, che ha co-sceneggiato la serie, si è avvalso della consulenza di Tim Shipman, redattore del Sunday Times e delle testimonianze di persone che hanno lavorato con lui o al Dipartimento di salute o negli ospedali.

Il messaggio “segreto” nel discorso di congedo di Boris Johnson. Andrea Muratore il 7 Settembre 2022 su Inside Over.

Boris Johnson ha passato il testimone a Liz Truss come primo ministro britannico dopo la fine delle primarie del Partito Conservatore nella giornata del 6 settembre. E visto alla luce della nomina dei ministri da parte dell’ex segretario del Foreign Office del governo di Johnson, neoconvertita alla causa della Brexit divenuta figura di punta tra i suoi fedelissimi e autrice di una fulminea scalata a Downing Street, il discorso di congedo alla carica di primo ministro pronunciato prima di volare a Balmoral per presentare alla Regina Elisabetta II le dimissioni appare come un arrivederci, non un addio.

Il governo di Liz Truss è un governo di Brexiter duri e puri. Falchi neoliberisti e thathceriani, dunque più radicali sul tema economico-fiscale di BoJo, ma prima di tutti fautori della sovranità della Gran Bretagna e ostili all’Unione Europea. Tanto che la Truss, a mo’ di spot personale, negli ultimi giorni del governo Johnson insisteva per stracciare il protocollo nordirlandese che crea una dogana interna al Regno. Soprattutto, è un governo che rimescola molto le carte spostando diversi ministri di secondo piano dell’era Johnson a ruoli primari ma in generale premia chi a luglio non ha abbandonato Johnson pur dimissionario. Prima fra tutti la Truss, rimasta al Foreign Office e vincitrice delle primarie da ministro degli Esteri in carica.

Johnson nel suo discorso ha in particolar modo elogiato chi è rimasto fino in fondo. Insieme, ha dichiarato, “abbiamo gettato le basi che resisteranno alla prova del tempo” per un nuovo Regno Unito, sia “riprendendo il controllo delle nostre leggi che avviando nuove infrastrutture vitali”. Edificando, in definitiva, “una grande muratura solida su cui continueremo a costruire insieme, aprendo la strada alla prosperità ora e per le generazioni future”. Johnson ha aggiunto: “sosterrò Liz Truss e il nostro nuovo governo in ogni fase del percorso”. Perché, in fin dei conti, è un po’ anche il suo governo. Un governo johnsoniano, in tutto e per tutto. In cui scompare la vecchia guardia dei Conservatori liberali e emergono i Conservatori “sovranisti”. Di cui Johnson si ritiene ancora il leader legittimo.

Johnson rivendica i successi di chi sottolinea la necessità di chiudere una parte della sua carriera, ma non il suo cursus honorum politico. Rivendica, dopo molte fughe in avanti da uomo solo al comando, il lavoro di squadra compiuto, orgoglioso di aver governato con ” persone che hanno portato a termine la Brexit”, per poi consegnare “il primo vaccino anti-Covid in Europa” e “organizzare quelle prime forniture di armi alle eroiche forze armate ucraine, un’azione che potrebbe benissimo aver contribuito a cambiare il corso della più grande guerra europea degli ultimi ottant’anni”. Johnson sa che il governo Truss non avrà veri frontman e mira a esserlo lui stesso, dettando l’agenda alla sua storica fedelissima che gli succederà: consolidamento della ripresa economica, ferreo sostegno a Kiev con una scelta vigorosamente atlantica e nessun arretramento sul governo delle conseguenze della Brexit.

Johnson rivendica il patto Aukus, il fatto di aver reso, a sua detta, il Regno Unito un Paese i cui diplomatici, servizi di sicurezza e forze armate sono ammirati a livello globale, i piani ambiziosi su tecnologia e ambiente. Sa che Liz Truss dovrà necessariamente partire dalla sua agenda di governo e che i paragoni con la sua leadership saranno inevitabili. E con una dotta metafora lascia intendere che ci sarà un secondo tempo per lui in politica. “Ora sono come uno di quei razzi booster che ha adempiuto alla sua funzione”, ha scherzato: “rientrerò dolcemente nell’atmosfera e ammarerò invisibilmente in qualche angolo remoto e oscuro del Pacifico”, aggiungendo poi che “come Cincinnato sto tornando al mio aratro, e offrirò a questo governo nient’altro che il più fervente sostegno”.

Amante degli studi classici, Johnson non può però non sapere che dopo aver guidato i Romani nella Battaglia del Monte Algido (458 a.C.) contro gli Equi e aver riportato una vittoria schiacciante da dittatore pro-tempore il comandante Lucio Quinzio Cincinnato decise di tornare al suo aratro, cioè al governo delle sue tenute agricole, salvo poi accettare un secondo mandato emergenziale per salvare, una volta di più, Roma, diciannove anni dopo. Nel 439 a.C. Cincinnato, su indicazione del fratello Tito Capitolino Barbato al suo sesto consolato, venne eletto dittatore per un incarico semestrale per la seconda volta al fine di parare il tentativo del ricco plebeo Spurio Melio di farsi nominare “re” (titolo aborrito dai romani dopo la caduta dei Tarquini). Cincinnato, forte del sostegno di Gaio Servilio Strutto Ahala, nominato magister equitum, eliminò la minaccia posta da Spurio Melio alle istituzioni repubblicane, con l’usurpatore che finì sconfitto e ucciso. Johnson, come Cincinnato, lascia intendere che è pronto a tornare al suo aratro ma si prepara al ritorno in  campo qualora il Regno Unito avesse nuovamente bisogno di lui.

E – metaforicamente – appare chiaro che a suo avviso il momento potrebbe arrivare presto. Con un Partito Conservatore spaccato e che dovrà lottare per arrivare integro al voto del 2024, un governo fragile e i Laburisti dieci punti oltre i Conservatori (40% contro 29%) nei sondaggi Johnson è certo che presto Roma, ovvero il suo partito, lo cercherà nuovamente per fermare il suo declino. E la dinamicità del discorso di congedo lo lascia intendere. Johnson lascia a un governo più “johnsoniano” dell’esecutivo che ha guidato fino alle dimissioni di massa dei ministri a luglio e studia da novello Cincinnato. Pronto a essere richiamato se la situazione politica per un Partito Conservatore ormai plasmato a sua immagine in assenza dello stratega della Brexit dovesse farsi pericolante.

Intervista a Donald Sassoon: “Liz Truss è una parodia venuta male della Thatcher”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

“Vorrebbe imitare Margareth Thatcher, ma di Iron lady, Liz Truss è una parodia venuta male”. Così a Il Riformista uno dei più autorevoli storici inglesi: il professor Donald Sassoon, allievo di Eric Hobsbawm. già ordinario di Storia europea comparata presso il Queen Mary College di Londra.

Proclama di voler abbassare le tasse ai super ricchi, fa crollare la sterlina, s’impenna lo spread, la recessione bussa alle porte, poi fa mezza marcia indietro. Così la premier britannica Liz Truss. Professor Sassoon, ma che sta accadendo al Regno Unito?

Bisognerebbe ribattezzare il Regno unito in Regno disunito. Perché tra l’Irlanda del Nord, la Scozia, la profonda spaccatura interna al Partito conservatore, il fatto che circa 200mila iscritti al Labour party sono andati via perché detestano Keir Starmer, non è esattamente il Regno dell’unità. Passiamo alla signora in questione…

La nuova inquilina del 10 di Downing Street, Liz Truss.

Lei ha fatto dietrofront su una cosa sola: l’abbassamento della tassa ai super ricchi. Per super ricchi s’intende quelli che guadagnano più di 150mila sterline all’anno. Ha fatto dietrofront perché lo scandalo era tale che la sua stessa base, che l’aveva appena eletta per la promessa da lei fatta che avrebbe abbassato le tasse, si è rivoltata. Perché lei non aveva mai detto che avrebbe abbassato le tasse soprattutto ai super ricchi. E anche se la sua base è benestante non lo è al punto tale di far parte dello 0,1% della popolazione. Davanti a una mini sommossa interna, davanti al vilipendio della stampa conservatrice, davanti ad articoli come quelli di Martin Wolf, il commentatore economico del Financial Times, una delle firme più prestigiose e autorevoli del giornale, che ha detto di lei che è “bad, mad and dangerous”, davanti a tutto questo e dopo aver continuato a sostenere, assieme ai suoi più stretti seguaci, che era tutta colpa di Putin, di fronte a questa valanga di critiche per non esserne travolta, doveva fare un passo indietro su qualche cosa. Tanto più che già qualcuno dei super ricchi da lei beneficiati aveva perfino detto: ma io veramente sono già ricco e non ho bisogno di altre 5mila sterline che darò in beneficenza, allora la signora Truss ha fatto marcia indietro. La tassa sui ricchi era un fatto simbolico. Ma tutto il resto del suo programma non lo è. È un fatto politico, economico, sociale, sostanziale. Ed è la follia a cui si riferiva Martin Wolf. E cioè che se si abbassano le tasse anche per i ceti medi, si fa in modo che ci sia un blocco dell’aumento dei prezzi dell’energia, dando dunque soldi alle compagnie petrolifere ed energetiche perché il prezzo è fissato in dollari e il dollaro sta andando su, e così facendo la spesa pubblica britannica arriverà a dei livelli assolutamente inauditi. E questo da un Governo conservatore che di solito pensa che la spesa pubblica sia una cosa satanica e che bisognerebbe ridurla ai minimi termini visto che non la si può cancellare del tutto. Per riparare all’enorme deficit della spesa pubblica esiste una sola soluzione una volta che non si possono aumentare le tasse e anzi s’intende diminuirle. E questa soluzione è prendere i soldi in prestito. Ma la Banca d’Inghilterra ha aumentato i tassi per fare fronte all’inflazione e dunque il deficit aumenterà ulteriormente. Questa è la situazione attuale del Regno Unito. Alcuni di noi pensano di chiedere rifugio nella Corea del Nord.

Il suo predecessore al 10 di Downing Street, Boris Johnson, aveva come modello di riferimento Winston Churchill…

Ed era già una cosa che faceva ridere…

La signora Truss pensa o spera di poter essere una nuova Thatcher?

È quello che lei cerca di dire. Ma oltre al fatto che indossa vestiti simili a quelli che indossava la signora Thatcher, tra di loro non c’è assolutamente niente in comune. Perché Margareth Thatcher era graniticamente rigida sulla spesa pubblica, lei la voleva tagliare, non aumentare. E dunque anche questo riferimento personale è malamente simbolico. Tutti i leader che non sono un granché cercano un rifugio nella storia. Come ho detto altre volte, è come uno quando va al supermarket sceglie le cose che più gli fanno comodo. Per Boris Johnson era Churchill e per Liz Truss è la signora Thatcher. E per Starmer è senza dubbio Tony Blair.

Questo mezzo terremoto politico avviene con un nuovo inquilino regnante a Buckingham Palace: re Carlo III. Conoscendo i trascorsi “interventisti” dell’allora principe del Galles, cosa ci si può aspettare ora che è Re?

Che si comporti in modo intelligente e che faccia come sua madre e dunque stia zitto. Non può dire nulla che sia polemico, certamente non può dire nulla contro il Primo ministro. Pare dalle voci di Buckingham Palace e dunque lasciate filtrare dallo stesso re Carlo, che lui volesse partecipare al Cop 27 e che la Liz Truss abbia detto di no.

Queste uscite contraddittorie e traumatiche della premier conservatrice, possono rimettere in gioco e dare nuove chance al Partito laburista?

Senza dubbio sì. Keir Starmer non poteva sperare in una cosa migliore dell’elezione di Liz Truss. Gli ultimi sondaggi danno il Labour party con 35 punti in più del Partito conservatore. Se ci fossero elezioni oggi il Partito conservatore quasi sparirebbe dal Parlamento. Per questo che c’è una specie di sommossa all’interno dei Tories. Perché hanno il terrore di perdere i seggi, di perdere tutto. Le cose potrebbero cambiare, se non ci saranno elezioni per i prossimi due anni, a meno che non avvenga un colpo di palazzo nel Tory, ma se pure ci fosse dovrebbero mettere un nuovo Primo ministro, che sarebbe il quinto negli ultimi cinque anni, che però non dovrebbe andare alle elezioni perché le perderebbero. Quanto al numero di primi ministri in Gran Bretagna stiamo facendo concorrenza all’Italia.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Liz Truss terza donna premier in Gran Bretagna dopo Thatcher e May: chi è l’ultra conservatrice che vuole processare Putin. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

Come previsto, sarà Liz Truss - il segretario del Foreign Office - il nuovo leader del partito conservatore britannico e quindi primo ministro del Paese. Lo ha annunciato al termine della votazione Sir Graham Brady, presidente del comitato esecutivo della formazione politica. 

E fanno tre: dopo Margaret Thatcher e Theresa May, la Gran Bretagna ha un’altra premier donna. Sarà infatti la ministra degli Esteri Liz Truss (47 anni) a insediarsi domani a Downing Street al posto del dimissionario Boris Johnson: l’annuncio è arrivato oggi, quando sono stati proclamati i risultati della sfida per la leadership del partito conservatore.

Truss ha battuto con un margine di 57 a 42 il rivale Rishi Sunak, l’ex Cancelliere dello Scacchiere (ossia il ministro del Tesoro): lei ha avuto buon gioco nel presentarsi come la vera erede di Boris – «il mio amico», ha detto - , che resta popolare fra quella platea di 172 mila iscritti al partito cui è toccato scegliere il nuovo leader (e dunque il nuovo capo del governo). Ma Liz non è semplicemente la candidata della continuità: lei è una Boris col turbo, molto più oltranzista e ideologica. «Governerò come una conservatrice», ha detto subito dopo la proclamazione. E come ha scritto il settimanale New Statesman, questo sarà il governo più di destra che ci si possa ricordare: la Truss è una neo-thatcheriana di ferro, ultraliberista, fautrice dello Stato minimo e del taglio delle tasse per aziende e ceti più abbienti. Sul piano internazionale, è ancora più massimalista di Johnson nel sostegno all’Ucraina e considera la Cina una minaccia da fronteggiare con fermezza. Quanto all’Europa, Liz è pronta a sfidarla stracciando gli accordi sull’Irlanda del Nord. Se Johnson non aveva vere convinzioni e andava dove tirava il vento, Truss ne ha fin troppe.

Chi la conosce bene dice che con lei non ci saranno manovre sottobanco: Liz dice e fa quello che pensa. Eppure la sua irresistibile traiettoria ha avuto più di un elemento di improbabilità. Figlia di due militanti di estrema sinistra, da bambina veniva portata dai genitori alle marce anti-nucleari dove le facevano scandire slogan contro la Thatcher. Per ragioni ideologiche, venne mandata in una scuola statale invece che in uno degli istituti privati frequentati dall’élite britannica: nonostante ciò, riuscì a essere ammessa a Oxford, dove ha studiato Politica, Filosofia ed Economia al Merton College, il più rigorosamente accademico di tutti. Ma anche all’università continuava a militare nel campo progressista, nelle file dei liberaldemocratici: e in quella veste tenne pure un discorso in cui propugnava l’abolizione della monarchia. È solo da adulta che Liz viene folgorata sulla via di Damasco e si converte al credo thatcheriano: e nel partito conservatore in cui fa ingresso si distingue presto come un’esponente di primo piano dell’ala liberista. La sua è una carriera notevole: otto anni fa diventa la più giovane donna ministra di sempre (oggi di anni ne ha 47) e da allora non si è più schiodata dall’esecutivo. Si è imposta all’attenzione del pubblico in qualità di ministra del Commercio Internazionale: in quella veste ha girato il mondo come una trottola infaticabile, per concludere in pochi mesi decine di trattati commerciali con altrettanti Paesi. Liz si è trasformata così nella portabandiera della Global Britain, quella Gran Bretagna globale che grazie alla Brexit ha recuperato una politica commerciale autonoma, fuori da quella Unione europea che lei bolla come «protezionista».

E dire che Liz al referendum del 2016 aveva votato per restare nella Ue: ma poi si è rapidamente riposizionata ed è diventata una delle più ardenti sostenitrici della Brexit. Da ministra degli Esteri, si è schierata su posizioni più che bellicose riguardo all’Ucraina: «Questa è la nostra guerra», ha dichiarato, esortando i britannici ad arruolarsi come volontari al fianco delle forze di Kiev. E ha ventilato un processo a Putin in stile Norimberga. Il suo è un successo ottenuto anche grazie a una presenza constante sui social media, in primo luogo su Instagram: i suoi selfie in tutte le situazioni sono diventati celebri, che fosse circondata da foche fra spruzzi di onde o in bicicletta con un ombrello-bandiera britannica. Attentissima al look, spesso fasciata in abiti dai colori vistosi, negli ultimi tempi ha preso a vestirsi come la Thatcher: e al pari della Lady di Ferro si era fatta pure fotografare alla guida di un carro armato, tanto per far capire cosa pensa dei pacifisti. Liz Truss da vicino non proietta tuttavia grande calore e i suoi discorsi sono a volte impacciati, un po’ robotici: ma a questo sopperisce con una grinta e una determinazione senza pari.

Le uniche concessioni «leggere» sono la passione per il karaoke e la musica techno. A differenza di Boris, però, lei è una che studia e si prepara: anche se chi la conosce meglio la definisce «una tipa strana» e per i detrattori è sostanzialmente una mezza matta. Sul piano personale, è uscita indenne anni fa dalle rivelazioni su una sua relazione extra-coniugale con un collega di partito molto più anziano di lei, per il quale aveva tradito il marito, un grigio contabile dal quale ha avuto due figlie. Ma adesso, da premier, avrà subito da affrontare ben altre grane: con l’inflazione alle stelle e l’economia alle soglie di una recessione, tenere dritta la barra del Regno Unito sarà un’impresa da far tremare chiunque.

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “Il Foglio” il 6 settembre 2022.

Liz Trus […] è stata repubblicana prima di essere monarchica, liberaldemocratica prima di essere conservatrice, remainer prima di essere una brexiteer convinta, borisjohnsoniana fino alla cacciata del suo mentore e predecessore. Non temono le scelte eccentriche. 

Il Regno Unito ha le bollette su dell'80 per cento, un'inflazione che a gennaio potrebbe toccare il 20 per cento, infrastrutture dei trasporti bloccate dagli scioperi, una crisi della finanza pubblica che tocca drammaticamente scuole, ospedali, assistenza, un commercio internazionale appena ingentilito da accordi con l'Australia e l'India e gli Stati Uniti ma devastato dalla separazione che affligge lo scambio con il possente mercato unico europeo.

La promessa della neothatcheriana Truss è meno tasse, meno stato, rivalutazione del profitto, della caccia agli investimenti esteri e della libera impresa, accipicchia. 

[…] E' la terza donna premier nel Regno, avrà da dirne alla prima donna premier nella Repubblica italiana e ai suoi alleati kagebisti. Non è tremontiana, è addirittura ottimista. A Londra e nel resto del reame amano l'eccentrico, il diverso, il farlo strano. […] Per due anni, secondo programma, la nuova premier reaganiana guiderà l'Inghilterra attraverso l'inflazione, abbastanza grande per badare a sé stessa, no new taxes, e farà come al solito un appello accorato agli animal spirits del liberalismo, in un mondo pickettiano dove non senza ragioni si ragiona della crisi della globalizzazione, della crescita delle diseguaglianze, del riscaldamento globale (leggi: temperature elevate) e si teme il casino dei mercati a fronte di pandemia e conseguenze, guerra e conseguenze, blocco delle materie prime e conseguenze. Non c'è niente da fare, è un popolo non solo eccentrico, è intrepido.

Estratto dall'articolo di Vittorio Sabadin per “Il Messaggero” il 6 settembre 2022.

Per avere un'idea di come Liz Truss guiderà la Gran Bretagna basta vedere come fa con le sue figlie, Liberty e Frances. Invece di stare ogni volta a discutere su quanto tempo possono passare sugli smartphone, glieli sequestra e li rinchiude a chiave in una scatola. In famiglia la chiamano la carceriera dei telefonini, ma il metodo funziona e non si perde tempo in chiacchiere. 

Truss sogna di diventare come Margaret Thatcher, un'altra che non perdeva tempo in chiacchiere. Come la Thatcher ha un marito molto paziente, che saprà stare al suo posto a Downing Street. Di Hugh O' Leary, un commercialista, si sa pochissimo: persino la sua età è ancora incerta, anche se dovrebbe essere vicina ai 47 anni della moglie. 

Si sono sposati nel 2000, dopo essersi incontrati a un convegno di conservatori. Ha provato anche lui a farsi eleggere nel 2002, ma è stato sonoramente bocciato e ne ha dedotto che la politica era più adatta alla moglie.

Tutto è andato bene fino al 2004, quando Liz ha incontrato Mark Field, un parlamentare che il partito le aveva assegnato come mentore, avendo visto in lei una ragazza promettente, ma bisognosa di una guida. Pigmalione e la sua allieva si innamorano sempre, nella vita reale come nelle fiabe, e la relazione clandestina è durata 18 mesi prima di essere scoperta da rivali politici e da quei ficcanaso del Daily Mail. Hugh non ha fatto una piega. 

Ai giornalisti ha detto di non avere commenti da fare, e Liz ne ha fatto uno solo: «Sono felicemente sposata». All'epoca, il partito conservatore la bollò come «una merce troppo danneggiata», ma oggi queste cose, dopo la spensierata vita coniugale di Boris Johnson, non fanno più effetto nemmeno a Downing Street.

Truss è felice che O' Leary sia rimasto al suo fianco, perché, ha detto, «ogni volta che voglio discutere a tarda notte di econometria c'è qualcuno a disposizione». La famiglia è molto unita e tutela con cura la propria privacy. Vivono in una casa di tre camere da letto nel Norfolk, nel collegio nel quale lei si è sempre fatta eleggere. Hanno anche un appartamento a Londra, che ora affitteranno. I tabloid britannici, che non si fanno sfuggire nulla, hanno calcolato che il suo patrimonio netto è di 8,4 milioni di sterline, quasi 10 milioni di euro. […]

Estratto dall'articolo di Angela Napoletano per “Avvenire” il 6 settembre 2022.

Quando aveva dieci anni diceva che da grande avrebbe fatto politica. A 18 che sarebbe diventata primo ministro. Mary Elisabeth Truss, detta Liz, ci è riuscita. Ieri, i Tory l'hanno incoronata nuovo capo dei conservatori e del governo britannico. 

A decidere che sarebbe stata lei, già ministro degli Esteri, a prendere il posto del dimissionario Boris Johnson sono stati i 172.437 tesserati del partito che l'hanno preferita al rivale, Rishi Sunak, ex Cancelliere dello Scacchiere. Truss sapeva da settimane di avere la vittoria in pugno. Si aspettava, dicono, qualcosa in più del 57,4% delle preferenze (il rivale si è fermato al 42,6%). Ma il discorso era già pronto: lo teneva in mano il marito, Hugh O' Leary, seduto accanto a lei in prima fila, al Queen Elisabeth Center, in attesa della proclamazione.

La neo-leader Tory, in tubino viola, caschetto biondo non fresco di piega, glielo ha preso dalle mani quando, ingoiato un lungo respiro, si è alzata per salire sul palco a riscuotere il tributo della platea: «Governerò da conservatrice - ha promesso - e vinceremo le elezioni del 2024». […] 

La lista dei ministri che si metterà al fianco per affrontare la sfida verrà resa messa a punto tra oggi e domani. Lo si capirà presto, dai nomi che verranno fuori, quanto nuovo sarà il neonato esecutivo rispetto al precedente. E soprattutto quanto è davvero disposta a riconciliare il partito diviso prima dalla Brexit poi dal Partygate. 

Offrirà, ci si chiede, una poltrona a Sunak, il rivale anti- Johnson? La formazione della squadra dirà molto anche su quanto il nuovo esecutivo rischia, come si dice, di scivolare ancora più a destra (se possibile). Tra gli incarichi chiave c'è quello che lei stessa lascia agli Esteri: metterà qualcuno a soffiare (o meno) sul fuoco incendiario lanciato nei giorni scorsi a Russia e Cina? Amici, collaboratori e conoscenti parlando di lei come di una donna ambiziosa e intelligente, «più di quanto possa sembrare », dal carattere camaleontico.

Pare inoltre che non ami perdere. Il fratello maggiore, Francis, ha raccontato che, da piccola, quando giocava a Monopoli, spariva piuttosto che ammettere la sconfitta. È cresciuta in una famiglia di sinistra ma ha sempre subito il fascino della Lady di Ferro, la donna dura di cui ha copiato guardaroba e pose fotografiche. Lei stessa ha ricordato di recente di averla interpretata quando si trovò, a scuola, a simulare una campagna elettorale. «Non ottenni un solo voto», ci ha riso su, «neppure il mio.

Londra, inizia l'era Truss tra guai e l'ombra di BoJo. "Taglierò tutte le tasse". La terza donna della storia diventa premier. "Risolverò i problemi". Gli inglesi sono freddi. Erica Orsini il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.

E il nuovo slogan è: «we'll deliver», faremo quello che abbiamo detto. Previsioni confermate nella corsa alla leadership dei Conservatori britannici: il nuovo primo ministro è Liz Truss, terza donna a ricoprire questa carica nella storia della politica inglese. Dopo Margaret Thatcher e Theresa May, Truss si è aggiudicata la vittoria con 81mila preferenze contro le 60mila ottenute dal suo avversario Rishi Sunak. Un trionfo comunque meno eclatante di quanto avevano previsto i sondaggi che offre la misura delle divisioni interne di un partito ormai in cerca d'identità.

Truss è stata eletta con il 57,4% dei voti, il margine di vittoria più ristretto di qualsiasi altro leader del passato ed è ben consapevole di avere di fronte a sé una strada tutta in salita. Lo si è potuto capire dal suo discorso tutto teso verso un'idea di riunificazione delle diverse anime conservatrici. Nel suo abito viola in stile Iron Lady, la candidata su cui pochissimi avrebbero scommesso e che ancora oggi molti ritengono inadeguata al compito, ha promesso di voler «governare come una conservatrice» e di voler mettere in atto, nei prossimi due anni un piano di taglio delle tasse e di incentivi per l'economia nazionale. «Risolverò il problema della crisi energetica, di breve e lungo termine e quello del servizio sanitario nazionale - ha dichiarato Truss - e nel 2024 porteremo a casa una grande vittoria per il partito». Prima di mettere a tacere le indiscrezioni su possibili elezioni anticipate a dicembre, la nuova leader ha voluto rendere omaggio al suo predecessore e «amico», Boris Johnson. Una manciata di frasi a testimonianza di un'ammirazione e lealtà che non sono mai venute meno e che potrebbero altresì rivelarsi il suo tallone d'Achille. «Boris tu hai ottenuto la Brexit, hai surclassato Jeremy Corbyn, hai avviato la campagna vaccinale. Tu hai affrontato Vladimir Putin. Ti hanno ammirato da Kiev a Carlisle».

Adesso lo scettro passa a lei, con BoJo, forse, condividerà il volo che oggi porterà entrambi dalla Regina a Balmoral dove Boris consegnerà le sue dimissioni e Liz verrà incoronata nuovo capo del governo. Vedremo nei prossimi giorni se la composizione dell'esecutivo sarà nel segno della continuità oppure se, più saggiamente, includerà anche alcuni ministri da sempre critici nei confronti di Johnson. La seconda alternativa, probabilmente, garantirebbe a Truss maggiore stabilità e collaborazione, la prima la renderebbe più vulnerabile di fronte ad eventuali attacchi.

Tra i ministri più probabili comunque, già si fanno i nomi di Kwasi Kwarteng come prossimo Cancelliere e di James Cleverly come ministro degli Esteri. E mentre si tentano d'individuare gli altri componenti dell'esecutivo arrivano già le prime richieste. Come quella della leader nazionalista scozzese Nicola Sturgeon che ieri ha chiesto a Truss di congelare i costi dell'energia. Lei, che con la Thatcher di cui ha spesso scimmiottato mosse e immagine, condivide forse solo l'instancabile impegno lavorativo, fa sapere di volersi metter subito al lavoro e di voler illustrare alcune iniziative già giovedì. L'attende però un autunno dello scontento. Ieri persino gli avvocati penalisti hanno iniziato uno sciopero a tempo indeterminato ed altri ne sono previsti nei trasporti e tra i lavoratori delle poste. «E se Truss vuole risollevare il Paese dalla crisi - spiegava ieri Simon Jenkins sul Guardian - dovrà voltare le spalle a tutto quello in cui ha sempre creduto. Dopo 12 anni di governo Tory sarà costretta a ricorrere all'aiuto dell'interventismo statale di stampo laburista».

Liz Truss, la nuova lady di Ferro: perché per Vladimir Putin sono guai. Nicholas Farrel su Libero Quotidiano il 07 settembre 2022

E così, al posto del nuovo Winston Churchill manqué Boris, la Gran Bretagna ora ha una nuova Dama di Ferro Liz. Prego che non sia manqué pure lei. Liz Truss è stata eletta ieri leader del partito Conservatore, e quindi sarà tra poco il nuovo premier britannico al posto di Boris Johnson quando riceverà l'incarico dalla Regina Elisabetta al castello di Balmoral in Scozia. Sarà la terza donna inglese - tutte conservatrici - a ricoprire il ruolo. Figlia di genitori laureati della sinistra esaltata - padre professore di matematica, madre infermiera - la Truss negli anni Ottanta partecipava da ragazzina con loro a manifestazioni contro la Thatcher gridando: «Maggie! Maggie! Maggie! Out! Out! Out!» («Maggie! Maggie! Maggie! Via! Via! Via!»). Come studentessa era molto abile ma pure da persona «completamente ordinaria» riuscì a superare l'esame per andare all'Università di Oxford dove si sarebbe laureata in PPE (Filosofia, Politica e Economia), abbandonando la sinistra a favore dei Tories, La Thatcher è presto diventata la sua figura ispiratrice. Si qualificava come commercialista, e lavorava per la Shell. «Lei crede che la gente di sinistra» - secondo uno che la conosceva a Oxford - «Deve per forza essere vittima di un lavaggio del cervello». Suo padre soffriva davvero tanto - una miscela di tristezza e rabbia - così si diceper la scelta politica di sua figlia. La madre meno. Durante la lunga e aspra campagna per diventare leader dei Tories che è durata due mesi e che ha visto lei sconfiggere lo straricco Rishi Sunak di origini pakistane, lei si vestiva spesso in maniera identica alla Thatcher.

SUL TANK Da Ministro degli Esteri, lo scorso novembre nel corso di una visita in Estonia imitava la sua eroina facendosi fotografare vestita da soldatessa seduta sulla torretta di un carro armato. Boris, anche se è tanto depresso perché ha perso quello che considerava il lavoro dei suoi sogni e comunque determinato nonostante tutto a tornarci un bel giorno, sarà contento che sia stata Truss a prendere il suo posto perché è stato proprio Sunak a giocare il ruolo di Bruto nei suoi confronti. Truss lavora come una matta - a workaholic come si dice in inglese - ma quando finisce di lavorare ama bere - vino bianco, oppure whisky - ballare su musiche pop anni Ottanta - e cantare kareoke. È una bravissima cuoca ma una pessima autista. Ama anche mangiare, tanti carboidrati, ma senza paranoia, e beve tanto caffè. Un segno della sua ossessione per il lavoro? Andava in travaglio con il suo primo bambino nel corso di una riunione di lavoro. Ha una voce metallica irritante ma questo potrebbe essere un bel segno perché la Thatcher aveva una voce roca. Ma possiede anche una risata come una mitragliatrice che potrebbe essere problematico. Il suo mantra che ripete a se stessa ad esempio quando si guarda nello specchio prima di rilasciare un discorso è: "Believe in yourself" (Credi in te stesso).

LA GRANA MACRON Nel 2004-5, ha avuto una storia d'amore con un altro deputato cosa che ha rovinato il matrimonio di questo, e quasi anche il suo con Hugh O' Leary, commercialista come lei. Hanno due figlie teenager Frances e Lìberty. Il primo leader straniero cui il nuovo premier britannico ha intenzione di telefonare - secondo fonti vicine a lei - non sarà come di consueto il presidente americano Joe Biden ma il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Truss è stata una dei sostenitori più convinti della politica di Johnson di mandare delle armi - armi come si deve - all'Ucraina. Una strada di Odessa è stata rinominata Via Boris Johnson, e una brioche battezzata col nome La Johnson, Gli ucraini si preoccupano che senza Boris i flussi di armi britannici finiranno. Ma con la Truss al comando non succederà mai - malgrado la crisi economica in parte causata da Putin e il suo gas. I propagandisti russi dicono che la Truss non appartiene alla politica ma alla cucina. Sempre un bel segno quando prendono di mira qualcuno. Altro segno, molto bello. Ha già fatto incazzare la eurocrazia e il euro-fanatico Presidente francese Emanuel Macron perché a domanda di un giornalista se il presidente francese fosse un amico o un nemico della Gran Bretagna giustamente replicava : «Beh, la giuria deve ancora decidere». Tra le tante, la Francia - da secoli nemico e solo da un secolo alleato riluttante - fa poco per bloccare i flussi di migranti illegali che attraversano la Manica per raggiungere la Gran Bretagna dove è molto più facile trovare sia lavoro che welfare. E Macron sta sempre cercando di trovare la strada per abbandonare l'Ucraina. Ma torniamo a Liz. Si sa che faceva campagna a favore di Remain però, come tanti conservatori, e con passione e grinta. Dopo la Brexit si convertiva in credente devota della Brexit e alleato stretto di Boris. Si può credere in una conversione giovanile da comunista a conservatrice. Ma una conversione da Remainer a Brexiteer? Questo è - diciamola - un po' sospetto. Vedremo. La aspirante Dama di Ferro 2.0 arriva al potere in un momento storico ancora più grave e pericoloso del 1979 quando fu eletta premier la Thatcher per la prima volta. Avrà bisogno di essere in possesso se non delle palle di ferro - almeno delle tette di ferro. Come la Regina britannica Boudica che ha combattuto - anche se alla fine invano - così gloriosamente e tenacemente per respingere l'invasor Giulio Cesare nel 55 e 54 avanti Cristo. 

Conservatrice e tifosa del mercato libero. Chi è Liz Truss, la nuova premier britannica e leader dei tories. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 6 Settembre 2022 

Credevate di esservi liberati di un conservatore paradossale e pericoloso come Boris Johnson? Certamente Liz Truss, che oggi sarà chiamata dalla regina, immobilizzata in Scozia, per ricevere l’incarico di governo, è diversissima da lui, benché sia stata il suo fedele ministro degli Esteri e venga da un severo rodaggio in diplomazia. Tutt’altro carattere, rispetto a quello del flamboyant Boris (che tra l’altro è un newyorchese riciclato a Cambridge) ma certamente non più morbido e accomodante. Liz è apparsa ieri davanti ai giganteschi pannelli azzurri su cui era scritta soltanto la parola “Conservatives”, con un discorso squillante e studiato per confermare la sua immagine sicura di sé, ferma nei principi e flessibile quanto basta per governare.

Nata nel 1975, già ministro degli Esteri del Regno Unito, da ieri è il nuovo Prime Minister, la terza donna dopo Margareth Thatcher e Theresa May, tre donne estremamente conservatrici e con idee chiare – almeno così sembra – in un momento di massima crisi col Regno Unito che dà segnali di rivolta nelle strade per i rincari e la crisi energetica e impegnatissimo nel sostenere con forniture di armi l’esercito territoriale ucraino che contende palmo a palmo la sua terra all’invasione russa. Il suo primo obiettivo dichiarato è del tutto simile a quello di un altro odiato campione della destra anglosassone, il presidente Donald Trump, il quale annunciò appena eletto che il suo primo strumento sarebbe stato lo shock fiscale. E lo fece. E funzionò. Per due anni. Praticò infatti, come dice di voler fare oggi la Truss, un abbattimento delle tasse dei ricchi, i quali risposero, con deprecabile simmetria, diventando più ricchi. Ma lo fecero espandendo le proprie aziende grazie alle nuove disponibilità, con conseguente shock positivo sulla disoccupazione e con l’aumento dei salari, visto che le aziende si contendevano i lavoratori. Mai gli afroamericani e poi le minoranze etniche, specialmente messicane-americane furono più felici economicamente. L’operazione trumpiana funzionò finché dalla Cina non arrivò il coronavirus.

Quello è il modello cui si è richiamata la Truss appena eletta dall’assemblea dei conservatori che l’hanno dichiarata vincitrice nel duello finale con l’ex ministro delle Finanze Rishi Sunak. A causa dello stato di salute della regina Elisabetta ci sarà una curiosa novità nella proclamazione del primo ministro perché la sovrana non si può muovere a causa dell’età dal suo castello in Scozia. E dunque per la prima volta un primo ministro dimissionario e uno entrante dovranno fare una lunga gita fuori Londra. Boris Johnson chiederà di essere ricevuto per presentare formalmente le sue dimissioni. Secondo la tradizione inglese, un primo ministro non si dimette finché il suo successore non è stato trovato. Una volta terminata l’udienza del primo ministro dimissionario, accaduto dopo una raffica di scandali che ne hanno deteriorato l’immagine, sarà la volta di Liz Truss che busserà alla porta della regina perché la regina l’avrà convocata. Così vuole il cerimoniale della prima democrazia monarchica della storia: il re non può entrare in Parlamento se non dopo aver bussato tre volte per mostrarsi sottomesso all’aula dei Comuni, ma sarà lui o lei a convocare il nuovo primo ministro, o ministra, per chiedere la cortesia di trasferirsi al numero 10 di Downing Street a Londra. C’è voluto poco più di un mese dalle dimissioni di Johnson alla scelta della Truss, ma non ci sono stati vuoti di potere.

Le condizioni del Regno Unito sono le peggiori: all’inflazione galoppante come e peggio che da noi si affianca quello spirito ribellista e stradaiolo dei londinesi in questo del tutto simili ai parigini, pronti a fare le barricate. Tuttavia, da decenni il Regno Unito vota conservatore e quindi tocca ai Tories scegliere il loro campione. E hanno scelto una donna cresciuta nella diplomazia e che poi ha guidato la politica estera di un Regno che mezzo secolo fa era ancora un impero. Ieri ha detto con un tono deciso e sorridente -per non dire sfrontato- che risponderà alle sfide economiche in maniera decisa, con le idee chiare, confermando di voler difendere la totale autonomia della Banca d’Inghilterra, cosa che ha già fatto fuggire molti investitori e danneggiato la sterlina e ha detto che si farà tutto il possibile – il che è molto vago – per soccorrere gli inglesi travolti dalla crisi economica. Il governo di Boris Johnson in questo senso ha fatto finora una figura pessima ed è stato chiamato dagli stessi conservatori un governo zombie, di morti viventi ma senza un’idea.

Molti conservatori che hanno votato per lei hanno citato l’Italia come un caso esemplare avendo il nostro governo impegnato 52 miliardi soltanto in aiuti. E viene citato il caso della Francia (dotata di centrali nucleari dove l’energia elettrica costa pochissimo) che ha messo un tappo sugli aumenti energetici. E poi il caso della Germania che ha speso 65 miliardi per mettere in sicurezza consumatori e produttori. E il Regno Unito? Il Regno Unito non ha fatto granché ma ha proceduto a zig-zag con strategie confuse fin dall’inizio della guerra, aprendo quando si doveva chiudere e viceversa. Questa schizofrenia del governo Johnson è stato il maggior fattore di crisi di fronte agli occhi del paese e dei media britannici. D’altra parte, Johnson non è un conservatore canonico e probabilmente non è neppure un vero politico essendo stato per tutta la vita un buon giornalista economico e un brillante polemista privo però di vere esperienze di governo.

La Truss è al contrario una donna che si è fatta sui dossier ma anche sull’ideologia. Crede fermamente nel libero mercato ma altrettanto fermamente nell’assoluta indipendenza della banca d’Inghilterra, cosa che ha provocato i malumori di cui dicevamo perché l’idea di una banca centrale totalmente disconnessa dai programmi del governo e da un controllo che nasca dalla democrazia istituzionale spaventa tutti quei cittadini del Regno unito che negli anni si erano molto più adattati al modello dell’Unione europea. Con la Truss l’Inghilterra recupera un altro elemento d’identità storica. E che cosa ne sarà del sostegno militare all’Ucraina? Liz Truss non è scesa in particolari ma soltanto perché come ex ministro degli Esteri è evidente che ha condiviso energicamente la politica del suo predecessore consistente nel fornire all’Ucraina insieme agli Stati Uniti quei particolari tipi di armi usate dalla nuova artiglieria consistenti in gruppi lancia razzi velocissimi e precisi capaci di sfuggire dopo aver sparato il nodo da non subire il contrattacco nemico.

Si tratta di armi ad altissima tecnologia che a quanto pare hanno soltanto inglesi e americani. E i russi, naturalmente, anche se a quanto pare la loro artiglieria è tecnologicamente inferiore e gradualmente perdente rispetto a quella fornita dai britannici e dagli americani. Si tratta come evidente di una questione politica perché il rifornimento continuo di questo genere di armi impedisce alla Russia di vincere, anche se è poco probabile che possa essere costretta a tornare dietro le frontiere varcate il 24 Febbraio scorso. La Truss ha ricordato che la crisi dipende dalla guerra e che la guerra ha dei responsabili.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

In her shoes. La nuova premier inglese è la cosplayer di Thatcher, ma senza il suo carisma. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 6 Settembre 2022.

Fin da piccola Liz Truss sognava di essere la nuova Lady di ferro, ma accostarsi agli antenati illustri può essere controproducente. Oltre a ereditare un partito diviso, dovrà seguire dossier critici, dalla Scozia all’Irlanda del Nord, l’inflazione, i rincari energetici e un sistema sanitario in affanno

Ha sette anni Liz Truss quando interpreta Margaret Thatcher in una recita scolastica. Esattamente quarant’anni dopo, ricalca in un dibattito tv l’outfit sfoggiato dalla Lady di ferro nel 1979. In mezzo, simpatie giovanili per i libdem e la campagna per restare nell’Unione europea al referendum della Brexit. Il blazer nero e la camicia bianca con un vistoso fiocco esemplificano una corsa per la successione a Downing Street giocata con toni da «ritorno al passato», a prima di Boris Johnson, sopravvissuto all’ordalia della sfiducia ma affossato dai potentati di un partito diviso su tutto tranne che nella volontà di cacciarlo. La nuova prima ministra gli è rimasta fedele, ora dovrà ricostruire sulle macerie.

Che fosse la favorita lo si capiva sfogliando, in questi giorni, le homepage dei giornali britannici. Le ricette per l’economia, il taglio alle tasse, i piani contro il caro-bollette, la lista di possibili ministri. Il suo nome campeggiava persino sotto gli articoli impaginati con la foto dello sfidante Rishi Sunak. L’ex cancelliere dello Scacchiere è rimasto in testa a tutti i cinque turni di votazioni interni ai parlamentari Tory. Piaceva alla City e ai circoli più posh, ma il Paese reale è un’altra cosa. Per 81.326 voti (il 57%) a 60.399, la base del partito ha incoronato a 47 anni Truss come 56esima premier del Regno Unito. È la terza donna, tutte dallo stesso partito.

Le origini

Mary Elizabeth nasce a Oxford nel 1975 da una famiglia “di sinistra”, il padre insegna matematica, la madre infermiera partecipa alle manifestazioni per il disarmo nucleare, contro la possibilità che il governo Thatcher permetta agli Stati Uniti di installare testate atomiche nella base di Greenham Common, vicino a Londra.

La famiglia si trasferisce prima a Paisley, in Scozia, e poi a Leeds. All’università va a Oxford, dove studia Filosofia, politica ed economia. Si avvicina all’attivismo, inizialmente per i liberaldemocratici. Al congresso del 1994 a Brighton sostiene l’abolizione della monarchia: «Crediamo nelle opportunità per tutti e non che ci sia qualcuno nato per regnare». Chissà come lo spiegherà alla Regina, quando oggi le “bacerà le mani” nel rituale in cui da secoli vengono nominati i primi ministri di Sua Maestà.

Poi la conversione ai conservatori. Dopo la laurea lavora come contabile per la Shell, nel 2000 sposa il collega Hugh O’Leary, hanno due figli. Nel 2001 e 2005 si candida senza successo a Westminster, ricomincia dalla politica “locale” per quanto può esserlo la capitale, dove viene eletta consigliera per Greenwich. Nel 2008 comincia a lavorare per l’influente think tank di centrodestra Reform e nel 2010 il premier David Cameron la vuole in un collegio blindato. Viene indicata per South West Norfolk. Sembra tutto facile, ma il circolo locale si ribella contro la «paracadutata» anche per le voci di una vecchia storia con il deputato Mark Field. Lei vince lo stesso.

È tra gli autori di Britannia Unchained, un libro-manifesto sulla deregulation, il libero mercato e lo Stato leggero che avrà una certa influenza culturale nella galassia Tory. È l’inizio della sua ascesa: nel 2012 è promossa ministra dell’Istruzione, nel 2014 dell’Ambiente. Il referendum secessionista della Brexit la vede tra le file del Remain, come buona parte della squadra di Cameron. Lasciare l’Unione europea, scrive sul Sun, «sarebbe una tripla tragedia: più regole, più scartoffie e più ritardi nel commercio». Dopo la sconfitta, cambia idea, anche per sopravvivenza politica, alla pari di numerosi conservatori della sua generazione. La «tripla tragedia» diventa un’«opportunità per cambiare le cose».

Il dopo Brexit

Non è la sola a doversi riposizionare. La stessa Theresa May è una remainer, ma si impegna a rispettare il «volere del popolo». Negli esecutivi, continua la scalata di Truss, che siede prima alla Giustizia poi ai vertici del Tesoro. La gavetta è finita, ma questo apprendistato lungo un decennio non sembra ancora averla resa «leadership material», direbbero gli inglesi. Nel 2015, al congresso dei Tory si infiamma perché «importiamo due terzi del nostro formaggio, è una vergogna!».

Un virgolettato che anticipa quelli – di un’altra categoria, come l’apologo di Peppa Pig – della stagione di Johnson, intento in questi giorni a magnificare i risparmi energetici di poche sterline all’anno se si cambia il bollitore del tè.

Nel 2019 Truss rinuncia a candidarsi per il dopo-May e viene ricompensata da BoJo con il dicastero del Commercio internazionale, una casella chiave nei disegni della Global Britain. Nel 2021, infine, la consacrazione agli Esteri, di fatto la terza carica più importante dello Stato. In questa veste, ottiene lo screen time fondamentale per consolidare il rango di figura di primo piano nel panorama politico nazionale. Le minacce di riscrivere il protocollo sull’Irlanda del Nord (ci torneremo) riaccendono frizioni con Bruxelles, ma passano in secondo piano per l’attivismo prima durante e dopo l’invasione russa dell’Ucraina, tra lo scontro duro in un bilaterale con Sergej Lavrov e il sostegno ai foreign fighters inglesi in difesa di Kyjiv.

Nel discorso della vittoria, da un podio su cui risalta lo Union Jack, Truss ringrazia «my friend, Boris», dice che lo ammirano «da Kyjiv a Carlisle» (una città della Cumbria) e la sala applaude. È un intervento un po’ floscio, persino nello slogan scandito tre volte: «We will deliver», cioè l’impegno pragmatico di fare le cose e di realizzare le promesse agli elettori del 2019. «Ho fatto campagna come conservatrice e governerò da conservatrice!», scandisce. In platea, Sunak è tetro, visibilmente deluso, la sedia che gli hanno assegnato era persino meno illuminata dai riflettori di quella dell’avversaria. Truss chiude vaticinando «una grande vittoria nel 2024». Impossibile sapere, dalle riprese televisive, quanti in platea abbiano fatto gli scongiuri di fronte a uno slogan che potrebbe invecchiare male.

Il difficile compito del nuovo governo

Il suo sarà il primo esecutivo della storia a non avere bianchi nelle tre cariche più importanti. Kwasi Kwarteng, di origini ghanesi, sarà il prossimo Cancelliere. Al prestigioso Foreign Office andrà James Cleverly, con mamma della Sierra Leone, che di fatto era già il vice di Truss al ministero. Agli Interni approda Suella Braverman: la procuratrice generale, genitori dalle Mauritius e dal Kenya, era uscita al secondo turno delle primarie dei conservatori. Alla Difesa verrà confermato Ben Wallace. Anche il falco johnsoniano Jacob Rees-Mogg è in lizza come Business secretary.

Come da cerimoniale, stamattina ci sarà il discorso di congedo da Downing Street di Boris Johnson. Sarà meno acrimonioso di quello delle dimissioni. Poi volerà ad Aberdeen. Truss si imbarcherà su un altro aereo per la stessa destinazione. Una logistica poco eco-friendly, soprattutto per una tratta così breve, ma la Regina – le cui condizioni di salute scricchiolano – non si muoverà dalla tenuta di Balmoral, in Scozia. Johnson rimetterà il suo mandato a Elisabetta II, che incontrerà Truss per la nomina formale. Nel pomeriggio, il ritorno a Downing Street per la prima orazione alla nazione.

Nei suoi editoriali, Boris ha invitato all’unità. Chissà quanta boria e quanta onestà c’erano in quell’«Hasta la vista, baby» pronunciato nell’ultimo Question time in aula. Truss segna la continuità politica, ma l’eredità dell’ex capo sarà difficile da smaltire, specie in caso di naufragi elettorali dopo il trionfo del 2019. Alcuni giornali hanno speculato su manovre di sabotaggio da parte dei suoi fedelissimi, ma nella categoria rientra la nuova inquilina di Downing Street. Cameron si era dimesso due mesi dopo la caduta, invece May è rimasta in Parlamento per il collegio di Maidenhead, che rappresenta dal 1997 e dove è stata confermata alla scorsa tornata.

Il seggio di Johnson, Uxbridge, è considerato contendibile. Senza lo stipendio da premier, dovrà trovare il modo di rimpolpare le sue finanze asfittiche, con sei figli e tre matrimoni alle spalle. Nel 2015 ha ricevuto mezzo milione di sterline dall’editore Hodder and Stoughton per una biografia di William Shakespeare, mai scritta. Potrebbe tornare, come commentatore, al primo amore: il giornalismo. Oppure lucrare con le conferenze, che a May sono valse un milione tra dicembre 2019 e marzo 2021. Si ipotizza, infine, una sua nomina a inviato speciale in Ucraina, per via della sua bromance con Volodymyr Zelensky.

Truss eredita un partito diviso. Le truppe parlamentari le hanno preferito Suank in ognuno dei 5 voti, prima del ballottaggio riservato agli iscritti. In quella fase, è rimasta a lungo terza, per sorpassare Penny Mordaunt solo all’ultimo round. Un test significativo sarà l’eventuale voto sui risultati della commissione d’inchiesta sul Partygate: dovrà decidere se lasciare libertà di voto ai deputati oppure dare indicazioni – e in ogni caso scontenterà qualcuno. Non finisce lì: l’inflazione galoppante, il piano contro i rincari energetici da 100 miliardi di sterline che ipotecherà la spesa pubblica per anni, il servizio sanitario nazionale uscito in ginocchio dalla pandemia.

Non bastassero i dossier critici, c’è quello scozzese. La premier Nicola Sturgeon marcia verso un secondo referendum d’indipendenza, da tenersi nel 2023. «Una malata d’attenzione, meglio ignorarla» l’ha bollata Truss, ma dai rapporti con Edimburgo passa il futuro dell’unità territoriale del Regno. Tanto che May andò in Scozia fresca di nomina, al secondo giorno di mandato. A ottobre, la Corte Suprema dirà se Holyrood (il parlamento scozzese) ha o meno il potere di indire una nuova consultazione. Non ci si arriva con un clima di distensione.

Infine, l’Irlanda del Nord. È paralizzata dopo le elezioni vinte da Sinn Féin, perché il Democratic Unionist Party (Dup) rifiuta di formare un governo – l’Accordo del Venerdì Santo prevede la coabitazione al potere – finché non sarà rivisto il protocollo che ha lasciato la regione nel mercato unico comunitario. Truss ha paventato di riscriverlo unilateralmente e di attivare il famigerato «articolo 16» per sospendere i controlli doganali. Non è un segreto che l’obiettivo di Londra sia rinegoziare le condizioni, ma procedere in questa direzione vorrebbe dire ipotecare le relazioni con l’Unione europea mentre c’è una guerra nel cuore dell’Europa.

Il fantasma della Thatcher è un alleato da evocare nella campagna elettorale, ma infesta le stanze di Downing Street. Come Churchill per Johnson, accostarsi agli antenati illustri può essere controproducente se poi non si è alla loro altezza. Buona fortuna, Liz.

Niccolò Di Francesco per tpi.t il 21 Ottobre 2022

La copertina dell’Economist in cui l’ormai ex premier britannica Liz Truss era raffigurata con alcuni stereotipi italiani, tra cui pizza e spaghetti, ha provocato la reazione di numerose persone, tra cui quella dell’ambasciatore italiano a Londra Inigo Lambertini, che ha scritto una lettera allo storico settimanale britannico di proprietà della famiglia Elkann-Agnelli.

“Sebbene spaghetti e pizza siano i cibi più ricercati nel mondo, in qualità di secondo maggiore produttore in Europa, per la prossima copertina suggerirei di scegliere tra i settori dell’aerospazio, della biotecnologia, dell’automotive e della farmaceutica. Qualsiasi sia la scelta fornirebbe un più accurato quadro dell’Italia, tenuto conto anche della vostra, non così segreta, ammirazione per il nostro modello economico” ha scritto l’ambasciatore. 

“Leggere l’Economist è un piacere per ogni diplomatico – ha aggiunto – a maggior ragione dal momento che dedicate un’attenzione costante all’Italia, tanto amata dai britannici”, ma l’ultima copertina è “purtroppo ispirata agli stereotipi più vecchi”. 

Nell’ultimo numero, l’Economist ha commentato il caos politico britannico paragonandolo all’instabilità italiana con accezione negativa. Nella copertina, dal titolo “Welcome to Britaly”, l’ormai ex premier inglese Liz Truss è vestita da centurione romano con l’elmo di Scipio, una pizza tricolore a mo’ di scudo e una forchetta che avvolge degli spaghetti come lancia.

Vitalizio a Liz Truss, nel Regno Unito scoppia la bufera. Alessandra Zavatta su Il Tempo il 21 ottobre 2022

Liz Truss ha guidato il governo britannico per soli 44 giorni ma avrà una maxipensione. Centoquindicimila sterline all’anno. Tanto prevedono le normative del Regno Unito. Che, però, in questo caso ha suscitato molte polemiche. Perché il governo Truss è stato il più breve della storia della Gran Bretagna. È stata infatti nominata primo ministro il 6 settembre scorso dalla regina Elisabetta per poi rassegnare le dimissioni il 20 ottobre.

Per tutta la vita, indipendentemente dai ruoli che svolgerà, incasserà 115mila sterline ogni anno. Niente male per aver lavorato appena un mese e mezzo. Ma le regole per il vitalizio assegnato agli ex premier queste sono. Anche se Truss può, comunque, rinunciare all’indennità. Al momento non ha fatto sapere nulla in merito.

The Economist fa la caricatura dell'Italia per criticare Liz Truss. Pizza, spaghetti e instabilità. Il Tempo il 20 ottobre 2022

L'Economist mette alla berlina l'Italia con un colpo "di rimbalzo". Il settimanale finanziario prende di mira la premier britannica Liz Truss, che ha sostituito Boris Johnson a Downey Street. "Benvenuti a Britaly"; titola la rivista britannica che in copertina pubblica un’immagine della premier raffigurata con degli spaghetti arrotolati su una lancia a forma di forchetta, un elmo romano e uno scudo a forma di pizza con il disegno della Union Jack. Insomma, l'Italia  spaghetti, mandolino e instabilità politica...

"Un paese di instabilità politica, bassa crescita e subordinazione ai mercati obbligazionari", scrive The Economist ricordando come nel 2012, proprio Liz Turs e l’ex Canelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, avevano usato l’Italia come monito in un opsucolo intitolato ’Britannia Unchained’. "Servizi pubblici gonfi, crescita bassa, scarsa produttività: i problemi dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale erano presenti anche nel Regno Unito", avevano avvisato Truss e Kwarteng. Ora, a dieci anni di distanza "Truss e il signor Kwarteng hanno contribuito a rendere il confronto inevitabile".

"La Gran Bretagna è ancora segnata da una crescita deludente e dalla disuguaglianza regionale. Ma è anche ostacolato dall’instabilità politica cronica e sotto il controllo dei mercati obbligazionari. Benvenuti in Britaly", si legge ancora nell’articolo dell'Economist. "Il confronto tra i due paesi è inesatto. Tra il 2009 e il 2019 il tasso di crescita della produttività del Regno Unito è stato il secondo più lento del g7 , ma quello italiano è stato di gran lunga peggiore. Il Regno Unito è più giovane e ha un’economia più competitiva. I problemi dell’Italia derivano, in parte, dall’essere all’interno del club europeo; quelli del Regno Unito, in parte, dall’essere fuori", scrive ancora il settimanale finanziario. 

L'insopportabile spocchia degli inglesi: fanno i superiori pure se affondano. Pietro De Leo su Il Tempo 21 ottobre 2022

Ci risiamo, con quel veleno sotto la maschera del sorriso, che dietro la satira nasconde tanto tanto pregiudizio. Ne sparge ampie gocce l'Economist, magazine britannico mai troppo placido rispetto la politica e la società italiana. Vedasi, in archivio, la famosa copertina di qualche lustro fa in cui Berlusconi venne definito "unfit", non adatto al ruolo di Presidente del Consiglio. Stavolta, però, è diverso. Stavolta il grafico si è buttato nello stereotipo più dozzinale, quello dell'Italia pizza, pasta e tanto caos. E così, il Belpaese viene innalzato ad unità di misura dell'instabilità politica. In questa chiave di lettura viene così raffigurata in caricatura Liz Truss, Primo Ministro conservatore, con tanto di elmo di Scipio ed espressione accigliata. Regge con il braccio destro una pizza a mo' di scudo, da cui è caduto uno spicchio (tanto per sottolineare il senso di disfacimento). Il braccio sinistro, invece, impugna una mega forchetta a mo' di lancia su cui è attorcigliato un rocchetto di spaghetti. Titolo: «Welcome to Britaly», locuzione eloquente per sottolineare che, oramai, la Gran Bretagna si è trasfigurata nell'Italia, e non è un complimento.

L'ambasciatore italiano a Londra, Inigo Lambertini ha diramato una dichiarazione (rilanciata sui social da Giorgia Meloni), che con eleganza ed ironia spiega: «Sebbene spaghetti e pizza siano il cibo più ricercato al mondo, per la prossima copertina vi consigliamo di scegliere tra i nostri settori aerospaziale, biotecnologico, automobilistico o farmaceutico». Tornando alla copertina, mancava qualche riferimento alla mafia, pratica su cui è inarrivabile il tedesco Spiegel con la famosa fotografia, rimasta nella memoria collettiva, della P38 appoggiata sul un piatto di spaghetti (a riprova della scarsa conoscenza della materia dimenticarono la canonica salsa di pomodoro). E come non aggiungere, al campionario di malignità, lo spot televisivo della francese Canal + nelle prime settimane del Covid, con un pizzaiolo che sputava su una funghi e peperoni prima di servirla ai clienti? In quei giorni, drammatici, il virus veniva percepito solo come una questione per lo più cinese e di un'Italia incapace di fronteggiare l'emergenza. Poi si è visto com'è andata.

Perché, in fin dei conti, il tema è sempre quello: lo stereotipo è un comodo rifugio per buttarla in confusione. Magari abbassando l'intensità di un'autoanalisi che non farebbe mai male, prima di guardare in casa altrui. Nel caso specifico, quasi come una nemesi qualche ora dopo l'anticipazione della copertina dell'Economist Liz Truss si è dimessa, gravata dal frontale su progetto di riforma fiscale che ha rischiato di innescare uno tsnunami finanziario, indebolita irrimediabilmente dalle dimissioni di alcuni ministri e sconfessata dal suo partito in un voto sul fracking. Il suo gabinetto è durato appena 44 giorni. E a sua volta subentrò a quello di un Boris Johnson. Anch'egli "smontato" dall'addio di mezzo governo e per di più fiaccato dagli strascichi politico-giudiziari del «party gate», uno scandaletto non devastante (aperitivi interni a Downing Street durante il lockdown) ma sfruttato dagli avversari interni e dagli oppositori. E se si affiancano a tutto ciò un Macron con un supporto parlamentare flebile, un Biden la cui popolarità in caduta, unendo i puntini si ottiene una crisi politica assai diffusa nei governi occidentali. Un tema ben più profondo rispetto all'indigestione da spaghetti. 

Britaly, l'ambasciatore italiano scrive all'Economist: "Vecchi stereotipi". Il Tempo il 21 ottobre 2022

"Leggere l'Economist è un piacere per ogni diplomatico. E, come ambasciatore italiano nel Regno Unito, a maggior ragione dal momento che dedicate un'attenzione costante all'Italia, tanto amata dai britannici. Ma l'ultima copertina sfortunatamente è ispirata a vecchi stereotipi". Lo ha scritto Inigo Lambertini, ambasciatore italiano nel Regno Unito, in una lettera indirizzata all'Economist, uscito in edicola con il titolo Benvenuti a Britaly e l'ormai ex premier Liz Truss raffigurata con una forchetta con gli spaghetti arrotolati e uno scudo di pizza. "Nonostante gli spaghetti e la pizza siano gli alimenti più ricercati al mondo, come seconda industria manifatturiera d'Europa, vi suggerisco per la vostra prossima copertina di effettuare una scelta tra i nostri settori aerospaziale, biotecnologico, automobilistico o farmaceutico. Qualunque sia la scelta, accenderà un riflettore più accurato sull'Italia, anche tenendo conto della vostra non tanto segreta ammirazione per il nostro modello economico", ha scritto l'ambasciatore Lambertini.

L'Economist scherza con la "Britaly". Ma l'Inghilterra sta peggio di noi. Gli errori della Truss e il cliché di pizza e spaghetti per ritrarla. Economia e stabilità politica: Regno Unito in crisi. Davide Zamberlan su Il Giornale il 21 Ottobre 2022.  

Londra. Ha vinto l'insalata. La sfida lanciata venerdì scorso dal Daily Star su chi sarebbe durato più a lungo tra un cespo di iceberg e la prima ministra inglese Truss si è conclusa ieri poco dopo pranzo. Le dimissioni giungono dopo meno di 24 ore da quando la stessa Truss ha dichiarato in parlamento «sono una lottatrice, non una che molla».

Il valore delle parole nella politica inglese degli ultimi mesi è crollato a un tasso enormemente più veloce del livello di inflazione attuale, attestato secondo gli ultimi dati usciti mercoledì al 10,1%, il più alto degli ultimi 40 anni. Il Paese si sta avvitando in una spirale negativa che, agli occhi dell'Economist, vuol dire Italia. Una Truss marziale in posa da dea classica, in una mano una forchetta impugnata a mo' di lancia con spaghetti penzolanti, all'altro braccio una pizza usata come scudo, il titolo «Benvenuti in Britaly»: è la copertina dell'ultimo numero del settimanale inglese, uscito prima delle dimissioni della prima ministra. Che l'Economist usi l'Italia come metro di paragone delle disgrazie inglesi potrà irritare molti commentatori al di qua delle Alpi ma illustra chiaramente il nodo della questione: Londra ha ora un grave problema di credibilità internazionale, simile a quello con cui convive l'Italia da molti anni.

Si potrebbe cominciare a fare il confronto economico dei due Paesi ed evidenziare come il debito pubblico italiano sia del 50% più alto di quello inglese in rapporto ai rispettivi prodotti interni lordi; obiettare che la dinamica dei conti è forse più favorevole a Roma che prevede un deficit al 5.6% per il 2022 contro un 2.6% acquisito per il primo trimestre di quest'anno da Londra a fronte però di un grande punto di domanda per il deficit sull'intero 2022 dovuto alle politiche annunciate e subito ritirate dal governo Truss; si potrebbe sottolineare che la bilancia dei pagamenti italiana è in positivo mentre quella inglese in profondo rosso; evidenziare però che la produttività è più alta oltremanica, così come la dinamica demografica nettamente più favorevole.

Confronti giusti ma che allontanerebbero dal cuore del problema che non è tanto economico quanto politico. O, meglio, di instabilità politica. Quello che succederà a Liss Truss sarà il quinto primo ministro inglese a partire dal 2016, la stessa progressione che si è registrata in Italia nello stesso periodo. La questione Brexit ha esacerbato le divisioni politiche nel Paese, lo ha infettato con i germi del settarismo politico, lo ha avvicinato alle dinamiche politiche italiane senza peraltro averne l'abitudine nè gli anticorpi. La mancanza di una credibile e coerente politica economica, l'incompetenza e la supponenza dimostrate dal governo Truss nel rendere pubbliche le proprie proposte hanno decretato la perdita di fiducia da parte dei mercati, degli elettori, dei parlamentari e minato fortemente la credibilità del partito conservatore e del Paese. Lunga sarà la strada per restituire a Britannia il tridente di Nettuno.

La famiglia Agnelli minaccia la Meloni? Cosa sta succedendo, il sospetto. Libero Quotidiano il 24 ottobre 2022

Fuoco amico sull'Italia. Non è passato inosservato l'attacco del settimanale britannico The Economist al nostro Paese. In prima pagina infatti è spuntata la copertina dal titolo "Britaly". Un chiaro riferimento alle dimissioni della premier Liz Truss dopo nemmeno due mesi di mandato, additando la tradizione d'instabilità attribuita all'Italia come una sorta di termine di paragone standard negativo. 

Eppure per Affaritaliani.it ci sono proprio degli italiani dietro, ossia la finanziaria di casa Agnelli, la Exor. "Naturalmente in Italia si è puntato il dito contro la denigrazione all’estero del nostro Paese, cosa del resto a cui siamo purtroppo abituati - si legge -, ma nessuno si è soffermato sul fatto che questa volta non sono gli inglesi a prenderci in giro ma direttamente un italiano". Da qui la frecciata: "Seppur dal cognome strano infarcito di k e nato a New York, come da tradizione radical–chic", il mittente sembra a dir poco scontato, così come il suo destinatario: Giorgia Meloni. 

Più difficile, invece, capire le motivazioni. In tanti lo hanno definito "un avvertimento su fatti economico–finanziari", ma nulla è ufficiale. Per Affaritaliani.it si potrebbe presupporre che l'attacco è arrivato a supporto del "direttore Maurizio Molinari che da giorni attacca la Meloni su Repubblica". Anche questa teoria non trova al momento riscontro. Certo però è che la risonanza internazionale non è da poco. E chiunque abbia voluto mandare quel messaggio lo sa benissimo. "Il messaggio - è la conclusione - è diretto al nuovo governo che fa bene a prestarci attenzione perché questa volta la solita pizza potrebbe essere infarcita di milioni di sterline". 

Dagospia il 20 ottobre 2022. E QUESTI SAREBBERO QUELLI "AUTOREVOLI"? - L’ECONOMIST, SETTIMANALE DI PROPRIETÀ DELLA FAMIGLIA AGNELLI, FA UN’ORRENDA COPERTINA CON UNA CARICATURA DI LIZ TRUSS, CHE TIENE IN MANO UNA FORCHETTA CON SPAGHETTI E PIZZA, E TITOLONE “WELCOME TO BRITALY”. IL SIGNIFICATO È CHIARO: IL REGNO UNITO È RIDOTTO MALE, MALISSIMO, COME L’ITALIA - JE PIACEREBBE! AVREMO PURE I NOSTRI GUAI, MA LA BREXIT L’HANNO VOLUTA LORO, MICA NOI: ORA ATTACCATEVE AR CAZZO (E TIRATE FORTE)

«WELCOME TO BRITALY»: LA COPERTINA DELL’ECONOMIST CHE SFOTTE IL REGNO UNITO PARAGONANDOLO ALL’ITALIA. Da open.online il 20 ottobre 2022.

La frase «Welcome to Britaly». E una caricatura di Liz Truss che tiene in mano una forchetta con spaghetti e una pizza. Le copertine dell’Economist hanno spesso fatto la storia (come quella su Berlusconi «unfit to lead Italy»). 

Ma nell’occasione l’obiettivo è il nuovo governo conservatore nato dopo l’addio di Boris Johnson. La nuova premier ha annunciato un taglio delle tasse che ha messo a rischio i conti del paese. E poi se l’è dovuta rimangiare. 

Insieme a gran parte del pacchetto fiscale che doveva costituire il cuore della sua politica economica. 

E mentre si rincorrono le voci sul governo già al capolinea, l’Economist ricorda che proprio Truss, insieme a Kwasi Warteng, era stata l’autrice di un opuscolo chiamato “Britannia Unchained“, nel quale metteva in guardia dal rischio di diventare un paese come l’Italia. Ovvero con crescita bassa, scarsa produttività e conti in disordine. Ebbene, chiosa l’Economist, tutto questo si sta avverando proprio mentre Truss è al governo. Non certo un buon inizio per la premier. E il rischio che la fine sia vicina si fa sempre più reale.

WELCOME TO BRITALY. Articolo di “The Economist” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 20 ottobre 2022.  

Un paese caratterizzato da instabilità politica, bassa crescita e subordinazione ai mercati obbligazionari

 Nel 2012 Liz Truss e Kwasi Kwarteng, due degli autori di un pamphlet intitolato "Britannia Unchained", hanno usato l'Italia come monito. Servizi pubblici ingolfati, bassa crescita, scarsa produttività: i problemi dell'Italia e di altri Paesi dell'Europa meridionale erano presenti anche in Gran Bretagna. 

Dieci anni dopo, nel loro tentativo malriuscito di tracciare un percorso diverso, la Truss e Kwarteng hanno contribuito a rendere il paragone ineludibile. La Gran Bretagna è ancora afflitta da una crescita deludente e da disuguaglianze regionali. Ma è anche frenata da una cronica instabilità politica e sotto il tiro dei mercati obbligazionari. Benvenuti in Britalia – scrive The Economist.

Il confronto tra i due Paesi è inesatto. Tra il 2009 e il 2019 il tasso di crescita della produttività della Gran Bretagna è stato il secondo più basso del G7, ma quello dell'Italia è stato molto peggiore. La Gran Bretagna è più giovane e ha un'economia più competitiva. I problemi dell'Italia derivano, in parte, dall'essere all'interno del club europeo; quelli della Gran Bretagna, in parte, dall'esserne fuori. 

Il confronto tra i rendimenti obbligazionari dei due Paesi è fuorviante. La Gran Bretagna ha un debito più basso, una propria moneta e una propria banca centrale; il mercato pensa che abbia molte meno possibilità di andare in default rispetto all'Italia. Ma se la Gran Bretagna non è una verità statistica, coglie qualcosa di reale. Negli ultimi anni la Gran Bretagna si è avvicinata molto all'Italia sotto tre aspetti.

In primo luogo, e ovviamente, l'instabilità politica che prima contraddistingueva l'Italia ha completamente contagiato il Regno Unito. Dalla fine del governo di coalizione nel maggio 2015, la Gran Bretagna ha avuto quattro primi ministri (David Cameron, Theresa May, Boris Johnson e la signora Truss), come l'Italia. 

È probabile che i Paesi rimangano uniti nel prossimo futuro. Giorgia Meloni dovrebbe prestare giuramento come nuovo primo ministro a Roma; il futuro della signora Truss non potrebbe essere più precario. La longevità dei ministri si conta ormai in mesi: da luglio la Gran Bretagna ha avuto quattro cancellieri dello scacchiere; il ministro degli Interni si è dimesso questa settimana dopo soli 43 giorni di mandato. La fiducia nella politica è diminuita di pari passo con l'aumento del caos: Il 50% dei britannici si fidava del governo nel 2010, oggi meno del 40%. Il divario con l'Italia su questa misura si è ridotto da 17 punti percentuali a quattro.

In secondo luogo, proprio come l'Italia è diventata il giocattolo dei mercati obbligazionari durante la crisi dell'eurozona, così ora sono visibilmente al comando della Gran Bretagna. 

I conservatori hanno trascorso gli ultimi sei anni inseguendo il sogno di una maggiore sovranità britannica; invece hanno perso il controllo. Silvio Berlusconi è stato rimosso dal potere in Italia nel 2011 dopo essersi scontrato con Bruxelles e Berlino; Kwarteng è stato cacciato dal suo incarico di Cancelliere dello Scacchiere a causa della reazione del mercato al suo pacchetto di tagli fiscali non finanziati. 

I trader di titoli di Stato sono gli arbitri della politica del governo britannico in questo momento. Jeremy Hunt, il nuovo cancelliere, ha eliminato la maggior parte dei tagli fiscali e ha giustamente deciso di ridisegnare il sistema di garanzia dei prezzi energetici del governo a partire dall'aprile 2023. Le decisioni che dovrà prendere per colmare il buco rimanente nelle finanze pubbliche sono state progettate tenendo conto dei mercati.

Proprio come gli italiani si preoccupano dello spread tra i titoli di Stato di riferimento e i Bund, così i britannici hanno avuto un corso accelerato su come i rendimenti dei titoli di Stato influenzino tutto, dal costo del mutuo alla sicurezza delle loro pensioni. In Italia istituzioni come la presidenza e la banca centrale hanno a lungo agito come baluardi contro i politici. Ora è così anche in Gran Bretagna. 

Ponendo fine all'acquisto di obbligazioni di emergenza il 14 ottobre, la Banca d'Inghilterra ha costretto il governo a invertire la rotta più rapidamente. Non c'è spazio per il signor Hunt per dissentire dall'Office for Budget Responsibility, un organo di vigilanza fiscale. Prima queste istituzioni erano dei vincoli per i parlamentari eletti, ma ora le catene sono strette e visibili.

In terzo luogo, il problema della bassa crescita in Gran Bretagna è diventato più radicato. La stabilità politica è un prerequisito per la crescita, non un "nice-to-have". I governi italiani faticano a portare a termine qualcosa; lo stesso vale per le amministrazioni brevi in Gran Bretagna. Quando i cambi di leader e di governo sono sempre dietro l'angolo, la pantomima e la personalità sostituiscono la politica. Johnson è stato soprannominato "Borisconi" da alcuni; continuando ad aleggiare sulla scena politica, potrebbe rendere questo paragone ancora più netto.

E anche se la disciplina fiscale dovrebbe calmare i mercati obbligazionari, non aumenterà di per sé la crescita. Hunt sta correndo per far quadrare i conti nell'ambito di un piano fiscale a medio termine che sarà presentato il 31 ottobre. Risparmiare denaro spendendo meno in infrastrutture andrebbe bene per i rendimenti dei titoli di Stato, ma non aiuterà l'economia a crescere. 

C'è poco spazio per tagli drastici ai servizi pubblici. È meglio eliminare gradualmente il "triplo blocco", una formula generosa per aumentare le pensioni statali, e raccogliere fondi in modi più sensati: eliminando lo status di "non-dom", ad esempio, o aumentando le tasse di successione. Un aumento dell'imposta sul reddito sarebbe meglio che ripristinare l'aumento dei contributi all'assicurazione nazionale, che ricadono esclusivamente sui lavoratori.

Per ora, la situazione sta diventando sempre più Britaliana. I deputati Tory sono in disordine, come dimostra il voto caotico sul fracking e le voci di ulteriori dimissioni, e sono di nuovo consumati dall'intrigo su quanto possa durare il loro primo ministro. La signora Truss è diventata l'equivalente umano di Larry il gatto, che vive a Downing Street ma non esercita alcun potere. Se i deputati Tory decidono di eliminarla, devono trovare un sostituto da soli piuttosto che affidarlo ai membri del Partito Conservatore. Le probabilità che le loro fazioni in lotta si accordino su una figura unificante sono basse.

Spaghetti junction

Di conseguenza, si sta rafforzando l'ipotesi di elezioni generali anticipate. È improbabile che ciò accada: perché i deputati Tory dovrebbero votare per la loro stessa fine? L'argomentazione secondo cui la signora Truss o qualsiasi successore non ha un mandato è errata in un sistema parlamentare. Ma se il Parlamento non è in grado di produrre un governo funzionante, allora è il momento di rivolgersi agli elettori. Quel momento si sta avvicinando.

Le elezioni non hanno risolto i problemi dell'Italia. Ma c'è motivo di essere più fiduciosi per quanto riguarda la Gran Bretagna, dove l'instabilità politica è ormai una malattia del partito unico. 

I Tories sono diventati quasi ingovernabili, a causa della corrosione della Brexit e del puro esaurimento di 12 anni di potere. La signora Truss ha ragione nell'individuare nella crescita il problema principale della Gran Bretagna. 

Tuttavia, la crescita non dipende da piani fantasiosi e da grandi colpi di scena, ma da un governo stabile, da una politica ponderata e dall'unità politica. Nella loro attuale incarnazione, i Tories non sono in grado di fornirla. 

Estratto dell’articolo di Luca Cifoni per “il Messaggero” il 22 ottobre 2022.

Britaly? Vi piacerebbe. O meglio, ci piacerebbe. La risposta all'Economist, che nella sua copertina aveva usato il paragone con l'Italia per descrivere gli attuali guai economici e politici della Gran Bretagna, viene sempre da Londra: è il Financial Times a evidenziare una fitta serie di dati che rendono il confronto decisamente sfavorevole per Londra, soprattutto in questa fase. [...] 

E i numeri parlano, soprattutto quelli che invece di supportare le tesi dell'Economist, raccontano una storia un po' diversa. Tanto per cominciare: l'instabilità politica sarà una vecchia tradizione italiana, ma un governo costretto a dimettersi dopo 44 giorni come quello di Liz Truss non si trova nemmeno nel repertorio dei nostri ormai mitologici esecutivi balneari, che comunque avevano ottenuto la fiducia dalle Camere.

[...] Il lassismo fiscale di cui si è resa protagonista Truss [...] si misura sul piano storico soprattutto in termini di saldo primario. Ovvero lo scarto tra entrate e uscite del bilancio pubblico, senza contare gli interessi sul debito. 

A differenza di quanto è accaduto nel Regno Unito, quel saldo per noi è sostanzialmente in avanzo dagli anni Novanta, con limitate eccezioni in corrispondenza dell'esplosione della grande crisi finanziaria e di quella pandemica. Ma proprio nel 2020 il disavanzo primario britannico è stato quasi doppio di quello tricolore e anche quello assoluto è risultato superiore di oltre un terzo. 

Certo, sui conti pubblici italiani pesa l'eredità del passato, ma proprio questa consapevolezza ha portato il nostro Paese su un percorso di rigore, probabilmente inevitabile ma in alcune fasi ovviamente penalizzante per la crescita. 

Il fatto che i problemi italiani vengano da lontano è evidenziato dal primato sullo stock del debito pubblico (con l'eccezione della Grecia). É un indicatore rilevantissimo che nessun governo si può permettere di non tenere sotto controllo. Esiste però anche il debito privato, quello accumulato da imprese e famiglie.

Nel nostro Paese è tradizionalmente contenuto, il che di per sé è una risposta, almeno parziale, all'accusa tradizionalmente rivolta agli italiani di vivere al di sopra delle proprie possibilità. 

Se questo è il metro, il rimprovero andrebbe più correttamente fatto ai sudditi di Sua Maestà: le sole famiglie britanniche hanno un indebitamento che in rapporto al Pil arriva all'85%, contro il 43% del Belpaese. 

La solidità di una nazione non si misura solo dai conti pubblici.

L'Italia soffre da tempo di bassa crescita, è vero, e questo in parte dipende [...] dalla stessa necessità di tenere i Btp al riparo dalle tempeste. Guardando però all'economia reale, l'Italia resta la seconda potenza industriale europea, sebbene la Francia tenti di insidiarla. E la minaccia su questo fronte non viene certo da Londra, che ha partire dagli anni 80 ha rinunciato a una parte del proprio sistema manifatturiero per puntare le sue carte sui servizi.

[...]  Nel confronto con la Gran Bretagna, il nostro Paese si colloca meglio anche per quanto riguarda export e posizione finanziaria netta sull'estero. Indicatori di cui l'Economist non ha tenuto conto. Se osserviamo in particolare il peso delle due economie nel commercio mondiale l'Italia [...] si avvicina ancora ad una quota del 3%, decisamente più rilevante di quella del Regno Unito. La Brexit, che nel 2016 nella propaganda del leave doveva rappresentare la soluzione ai mali della nazione, si è rivelata finora una fase difficilissima da gestire. Forse anche dall'Italia si può imparare qualcosa.

Rishi, il primo figlio delle Colonie ad alloggiare a Downing Street. Tony Damascelli il 25 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Circola a Londra una battuta che riassume lo stato della politica inglese e dice: «Mio figlio ha potuto vedere quattro ministri del tesoro, tre ministri dell'interno, tre primi ministri e due sovrani. Mio figlio ha quattro mesi». Rishi Sunak è dunque il terzo primo ministro di questi ultimi centoventi giorni ed è il cinquantasettesimo premier della storia inglese. La sua campagna elettorale era composta da tre parole: «Pronti per Rishi». La risposta degli elettori era stata: «No, please». Per grazia ricevuta, Sunak si ritrova a Downing street dopo le rinunce di Boris Johnson e di Liz Truss, in pochissimi avrebbero scommesso un penny su di lui (non lady Penny Mourdant, che si è ritirata avendo capito di non potercela fare) ma Sunak ha lavorato con le mezze luci ed è la nuova bandiera dell'integrazione, primo ministro di origine asiatica meridionale, nato a Southampton da genitori indiani emigrati dall'Africa orientale, Yashvir, il padre, nato in Kenya, è medico, Usha, la madre è farmacista ed è nata in Tanzania, i nonni erano del Punjab. Un fratello di Sunak, Sanjay, è psicologo, la sorella lavora per le Nazioni Unite come responsabile per l'impegno e le strategie contro il Covid. 

Infanzia con qualche nube grigiastra per il solito vociare razzista nei confronti dello straniero ma il censo benestante della famiglia Sunak gli ha permesso un'integrazione veloce. Qualche lavoretto da cameriere e poi studi al Winchester College, corsi di economia e filosofia al collegio Lincoln di Oxford e la svolta all'università di Stanford dove incontrò Akshata Murthy, poi sua sposa. La Murthy gode di una sontuosa eredità donatagli dal padre Nagavara Ramarao Narayana Murthy, miliardario proprietario della Infosys, impresa di servizi informatici, una delle più grandi compagnie in India. È evidente che mister Sunak non abbia bisogno di vitalizi governativi, si scrive e si narra che il patrimonio della coppia superi gli 800 milioni di euro, doppiando il portafoglio a disposizione del re e della regina consorte. Possiedono casa a Santa Monica in California, una dimora nel quartiere londinese di Kensington e preferiscono vivere nel nord Yorkshire, villa sul lago privato. In verità lady Sunak-Murthy ha fatto scrivere di sé per non avere versato il dovuto all'erario inglese, trattavasi di elusione e non evasione, tutto previsto dalla legge. Dicono che abbia poco dell'immigrato, anzi una sua dichiarazione, riportata da un documentario del 2007 su Bbc, aveva provocato reazioni nette nell'opposizione: «Non ho amici nella classe operaia». In Inghilterra l'affermazione, sgradevole e inopportuna, è stata letta come il superiority complex tipico dei conservatori, il partito che fu di Disraeli, di Churchill, di Margaret Thatcher.

C'è un però nella carriera di Sunak, non riguarda soltanto il suo malefico apprezzamento alla riforma fiscale della Truss: «Roba da fiaba», ma il fatto che sia stato tra i presenti al party in Downing street organizzato da Boris Johnson durante il lockdown, con susseguente inchiesta della polizia e avviso di accertamento anche per il nuovo primo ministro. Si continua a ballare sul Titanic, Sunak, già cancelliere, non ha dimostrato grande saggezza nei conti, forse dovuta al personale benessere finanziario. Ma questo è il passato. Rishi Sunak si è presentato: «Uniti o morire». Sembra Shakespeare, to be or not to be?

Marco Benedetto per blitzquotidiano.com il 31 ottobre 2022.

Un primo ministro britannico di origine indiana non è la favola del povero migrante sceso dal barcone che scala le vette del Paese che lo ha accolto. Rishi Sunak, indiano di religione induista al 10 di Downing Street, ha fatto le scuole giuste, si è laureato a Stanford, Usa, ha lavorato per Goldman Sachs come Draghi e ha sposato la figlia di un tecnologo indiano che vale 4,5 miliardi di dollari. 

Pertanto non è l’aggiornamento post coloniale del sonetto di Giosuè Carducci che canta i generali della rivoluzione francese. “Son della terra faticosi i figli che armati salgon le ideali cime gli azzurri cavalier bianchi e vermigli che dal suolo plebeo la patria esprime”. 

Meno che mai lo è la scalata al potere, un po’ effimera per ora, di Kwasi Kwarteng, nero del Ghana, un bello schiaffo per gli inglesi. Era arrivato al ruolo di ministro delle finanze, numero due della premier Liz Truss, autore di un piano economico talmente di destra da terrorizzare i mercati e far crollare la sterlina.

Oggi, a differenza di tutta la storia della umanità, non è solo la guerra che permette a un povero pastorello come Davide di diventare re. Ed è altrettanto possibile che il figlio di una emigrante capace solo di cucire stoffe sia tra i fondatori di Intel, la casa del microchip. Grazie a un sistema di borse di studio che permette anche ai più poveri di frequentare le migliori università. Ma questa è l’America, un Paese tutto di immigranti (indigeni a parte). Capite quanto sono lontani nel grande mondo dalle pippe ideologiche su merito e sovranismo.

La Gran Bretagna non è gli Usa. È un sistema razzista e classista che si regge da mille anni su una monarchia installatasi esattamente nel 1064. Fino a poco più di un secolo fa i cattolici, anche se nobili, erano esclusi dal governo. Viziati dal benessere importato dallo sfruttamento coloniale, corroborato con gin e birra, blindato da un sistema sindacale quasi sovietico, gli inglesi sono in generale dei grandi fannulloni ben più di noi southern europeans che tanto disprezzano. Ne è conseguenza e simbolo il fatto che la loro grande industria non ci sia più. La loro auto simbolo, la Mini, è diventata tedesca. 

In genere detestano gli stranieri, cosa che fa capire Brexit, indiani inclusi. Niente di diverso rispetto agli italiani. Italiani e inglesi, come peraltro tedeschi e francesi e rumeni, e forse un po’ tutte le regioni del mondo, sono Paesi non omogenei sotto il profilo delle nazionalità, che hanno contribuito a formarle nei millenni.

Con gli indiani per gli inglesi è un po’ diverso. Gli indiani, parte dell’impero ai tempi del Raj, furono deportati in Africa per dotare quelle colonie di una classe media di funzionari e commercianti che integrasse la primitività della popolazione locale. (Non va dimenticato che quando ancora oltre Manica vivevano nelle caverne gli indiani erano una grande civiltà da un migliaio di anni). 

Premio era la garanzia della cittadinanza britannica, una cambiale che gli indiani hanno incassato nel dopoguerra quando vivere in Africa era diventato difficile se non impossibile. Nel 1972 il dittatore Idi Amin ne espulse dall’Uganda decine di migliaia. Arrivarono in Gran Bretagna senza un penny sulla pelle, come gli italiani espulsi dalla Libia da Gheddafi. Una vasta rete di consanguinei e il duro lavoro consentirono loro la rapida conquista del benessere. Gli inglesi si chiedevano smarriti come avessero fatto.

Ma attenzione non erano quei disperati che arrivano con i barconi in Italia. Erano gente esperta nel commercio o professionisti come il padre e la madre di Rishi Sunak erano rispettivamente medico e farmacista. E i genitori di Kwasi Kwarteng? Anche loro di provenienza africana, laureati in Inghilterra. Lei avvocato, lui esperto di economia. 

Cosa accomuna indiani e africani ai vertici britannici? Elemento fondamentale è il percorso scolastico. I genitori si sono svenati per mandare i figli alle scuole più esclusive come Eton (dove fino a poco fa i ragazzi venivano puniti a colpi di canna sul sedere, se non peggio). Questo vale anche per gli equivalenti femminili tipo Priti Patel. Università rigorosamente Oxford o Cambridge. 

Risultato. Militano nel partito conservatore. Anzi, Kwasi Kwarteng era fautore di una politica finanziaria tanto di destra dà essere buttato giù, insieme alla britannicissima Liz Truss dai moderati del suo stesso partito.

Dalla vicenda inglese si possono trarre due lezioni. Una è che l’istruzione paga: non quella scaciata e ugualitaria del pubblico e nemmeno quella in mano alle mamme del privato. Ma quella selettiva e anche un po’ classista che da noi non c’è più. Le classi definiscono la società. Era così anche nella Unione Sovietica. Gli indiani, gli africani, i neri delle West Indies, non abbattono le classi, le scalano.

L’altra è che gli immigrati sono iniezioni di vitalità. Senza immigrati la popolazione della vostra bella Italia sarà dimezzata fra qualche decennio, tornerete al medio evo. E nel frattempo chiuderanno fabbriche e ristoranti perché nessuno vorrà lavorare più, indigeni italiani e migranti, grazie alla estensione indiscriminata del reddito di cittadinanza. Ma non tutti gli immigrati sono equivalenti. Ce ne sono di provenienza da Paesi ad alto livello di educazione, altri peggio dei nostri peggiori.

E' più ricco di re Carlo. Chi è Rishi Sunak, l’ex Cancelliere di Johnson favorito per diventare premier in Inghilterra: il primo di origine indiana. Chiara Capuani su Il Riformista il 24 Ottobre 2022

Nessun BoJo bis a Downing Street. Nonostante abbia ricevuto l’appoggio di 60 deputati conservatori, l’ex primo ministro Johnson si è ritirato dalla corsa e la palla, ora, passa in mano a Rishi Sunak, ex cancelliere dello Scacchiere. Classe 1980, di origini indiane, Sunak è nato Southampton il 12 maggio, da genitori immigrati in Gran Bretagna dall’Africa orientale. Il padre, Yashvir, medico, è nato in Kenya, la madre, Usha, farmacista, in Tanzania. È il maggiore di tre fratelli: Sanjay – che svolge la professione di psicologo – e Raakhi, responsabile per l’impegno e la strategia delle Nazioni Unite contro il COVID-19.

Sunak, che  si è definito sempre inglese al 100% poiché nato e cresciuto in Inghilterra, ha mostrato fin da piccolo una passione per i numeri e per la matematica, tanto che ha poi deciso di studiare economia all’Università. Ha frequentato prima il Winchester College e ha poi completato la sua formazione al Lincoln College di Oxford dove si è laureato in Economia. Infine è volato negli States per un corso a Stanford, ed è lì che ha conosciuto la moglie Akshata Murthy, figlia del sesto uomo più ricco dell’India. I due hanno due figlie e una fortuna stimata di quasi 800 milioni di sterline, cifra che supera anche i possedimenti di re Carlo.

Sunak ha iniziato la sua carriera politica nel 2015. Proprio in quell’anno è stato nominato parlamentare della Camera dei Comuni; nel 2018 è stato rieletto e ha ricoperto il ruolo di sottosegretario parlamentare per il Governo locale. Molto vicino a Boris Johnson è stato nominato ministro dell’Economia nel 2020, durante il mandato di BoJo. Ma è stato proprio lui il 5 luglio 2022 a dimettersi, contribuendo alla caduta del governo. Di Liz Truss, che aveva sfidato a fine luglio per la guida dei Tories e per diventare Premier (ha perso per circa 20mila voti), ha criticato fin da subito la proposta della manovra del taglio delle tasse ai ricchi (che è stato poi motivo di dimissioni per Truss).

Sunak è l’ideatore della campagna “Eat out to Help out“, in cui chiedeva al popolo inglese di mangiare fuori per aiutare i ristoratori in difficoltà a causa dei continui lockdown imposti durante l’avanzare della pandemia di Covid-19. Un’iniziativa che è stata accolta favorevolmente dagli inglesi. L’ex ministro dell’Economia, inoltre, è a favore del conservatorismo fiscale e per limitare la spesa pubblica. Si è opposto all’idea di introdurre una carbon tax per ridurre le emissioni di CO2 perché, a suo dire, “andrebbe a colpire le famiglie a basso reddito“. Se diventasse premier sarebbe il primo di origine indiana. Chiara Capuani

Alessandra Rizzo per “la Stampa” il 26 ottobre 2022.

Ha promesso di «rimediare» agli errori commessi in precedenza e restituire fiducia ad un Regno Unito in crisi. Nel suo primo discorso da premier, Rishi Sunak ha usato toni sobri, in linea con il momento che il Paese sta vivendo. «Metterò la stabilità economica e la fiducia al cuore dell'agenda di questo governo», ha detto dal podio fuori da Downing Street pochi minuti dopo l'insediamento ufficiale. «È un lavoro che comincia immediatamente». 

Sunak, eletto leader del Partito Conservatore lunedì pomeriggio, è diventato ieri il premier numero 57 del Paese, il primo capo di governo britannico d'origine indiana e il primo insediato da re Carlo III dopo la successione a Elisabetta. Il passaggio di consegne da Liz Truss a Sunak è avvenuto a Buckingham Palace con una coreografia collaudata: la premier uscente si è congedata dal re, quello entrante ha avuto l'incarico durante un'udienza privata col monarca. Altre ne avrà ogni settimana, per tutta la durata della sua premiership. 

Poi subito al numero 10 di Downing Street. Quasi a sottolineare la gravità del momento, Sunak ha rotto con alcune consuetudini tipiche dei neo-premier: non ha radunato i sostenitori davanti al podio fuori dal famoso portoncino nero e non ha portato la moglie al suo fianco. «Sono qui per affrontare una profonda crisi economica», ha detto. 

E «voglio fin da subito porre rimedio agli errori commessi», riferendosi a Truss e alla sua manovra economica a base di tagli fiscali senza copertura immediatamente bocciata dai mercati. Ha sottolineato come l'obiettivo della crescita economica perseguito dalla ex premier fosse «nobile» e come gli errori siano stati in buona fede. «Eppure - ha aggiunto - sempre errori sono». 

Sunak ha poi annunciato un esecutivo che sembra dare seguito alla ricerca di unità in un partito lacerato dalle correnti, che non si è mai riavuto dalla spaccatura della Brexit. E che poi ha dovuto in qualche modo gestire l'ingombrante figura di Boris Johnson, amato e disprezzato in egual misura. Tornano nell'esecutivo alcuni dei lealisti di Johnson, resta qualcuno nominato da Truss, e c'è spazio anche per i moderati.

Tra i ministri di peso, Jeremy Hunt resta al Tesoro, il dicastero in cui Sunak stesso si è fatto un nome e cui Hunt, Tory moderato di lungo corso, era stato chiamato da Truss per arginare i danni della sua manovra. Ma era già troppo tardi. Resta alla Difesa Ben Wallace, politico popolare sempre in testa ai sondaggi di gradimento tra la base Tory: ha gestito benissimo la crisi Ucraina, posizionando il Regno tra gli alleati più sicuri di Kiev.

Torna Dominic Raab, peso massimo nel partito, al dicastero della Giustizia e come vice-premier. Ma Sunak non dimentica l'ala più fortemente conservatrice, e riporta al cruciale ministero degli Interni Suella Braverman, stella nascente della corrente di destra interna al partito, che nelle poche settimane del governo precedente si era distinta per la linea durissima sull'immigrazione. 

Difende, come del resto anche Sunak, la controversa politica di spedire in Ruanda i richiedenti asilo: Braverman aveva addirittura espresso il «sogno» di vedere sulla prima pagina del «Telegraph» la foto di un aereo pieno di immigrati partire per il Ruanda. Resta anche James Cleverly agli Esteri. 

Ma la sorpresa forse più grande dell'esecutivo è il ritorno di Michael Gove, mente politica finissima, alleato di Johnson ma da lui cacciato nelle ore finali della sua premiership. Gove avrà nuovamente il compito di attuare politiche per lo sviluppo economico e sociale del nord-Inghilterra, in quello che era un cavallo di battaglia dell'ex premier. E proprio da Johnson, che prima ha tentato un clamoroso ritorno e poi ha gettato la spugna, arrivano le congratulazioni a Sunak, a suggellare forse una ricucitura. 

In un tweet assicura di volerlo sostenere «in pieno e con tutto il cuore». E congratulazioni sono arrivate da tutti i leader, da Biden a Macron a Giorgia Meloni, che su Twitter scrive: «Non vedo l'ora di collaborare con lui e il suo gabinetto sulle sfide comuni, sostenendo i nostri valori condivisi di libertà e democrazia». Ora comincia il difficile. Sunak è atteso da una crisi economica, inflazione alle stelle e clima sociale teso, tra proteste e scioperi diffusi da parte di categorie le più disparate. E da una guerra in Europa.

L’India “conquista” Downing Street: con Sunak l’alba di un nuovo Regno Unito. Andrea Muratore, Emanuel Pietrobon il 26 Ottobre 2022 su Inside Over. 

24.10.2022; questa è la data alla quale i posteri guarderanno per capire quando è cominciata ufficialmente l’era post-anglosassone dell’Impero britannico. Data coincidente con la vittoria di Rishi Sunak nella corsa a eliminazione per la leadership del Partito Conservatore britannico, che lo ha reso, sostituendo Liz Truss, il primo capo di governo di origine indiana della storia del Paese.

Più British che mai, ex banchiere di Goldman Sachs, una carriera nella City a cui è seguita una scalata fulminea ai vertici dei Tory, passata per la carica di Cancelliere dello Scacchiere nell’era del Covid e dell’edificazione della Global Britain, Sunak impone un mutamento strutturale. Ché Sunak, invero, non è altro che la personificazione del Regno Unito che cambia, o meglio che è già cambiato: post-anglosassone e multirazziale, ma non post-imperiale.

Indiano, sì, ma british

Il neo-premier nato a Southampton il 12 maggio del 1980 è figlio di genitori di etnia indiana, nati in Kenya e in Tanzania, trasferitisi nel Regno Unito negli anni Sessanta. Su tutti i fronti è un figlio, se non un nipote dell’Impero che fu, divenuto alfiere della Global Britain da lui pensata come centrata su Londra, nuova “Singapore sul Tamigi”, quale arrembante piazza finanziaria di riferimento mondiale.

Sunak è il primo premier nominato da Re Carlo III, un sovrano più complesso di quanto la vulgata lo rappresenta: colto, istruito più di ogni suo predecessore, primo Re a ricevere una formazione non militare ma politica, letteraria e sociale. Sovrano post-imperiale e post-coloniale per definizione, Carlo è nato nel 1948, un anno dopo la fine del dominio coloniale di Londra nel subcontinente, ed è ora il monarca sotto il cui trono il primo premier incaricato è una figura tanto simbolica.

Il pragmatico Sunak incarnerà il Regno Unito post-britannico? La nazione che ha visto l’Inghilterra affermare la Brexit come ultima epopea imperiale verso i popoli di casa conoscerà le sue stesse turbolenze nelle periferie interne? E come governerà il primo figlio dell’Impero salito al potere? Sunak sarà più globale che britannico nelle scelte sulla politica economica – non iperliberista, è però un liberoscambista convinto –, sull’identità – è assai meno oltranzista di molti colleghi di partito – e sulla politica estera? Che ne sarà della relazione speciale con Washington ora che Londra si è mostrata, innanzitutto, vulnerabile sul fronte interno? E che ne sarà del rapporto con l’India, ora che a guidare il Paese c’è un discendente dell’ex colonia? Tutte queste domande sono legittime.

La rivalsa della periferia sul centro

La storia, si sa, ama farsi beffe dell’Uomo. Il 24 ottobre, mentre gli induisti e i gianisti di tutto il mondo erano impegnati a celebrare il Diwali – una delle più importanti festività dell’indoverso, momento di giubilo in cui i fedeli ricordano che il Bene vince sempre sul Male –, a Londra accadeva qualcosa di epocale: un indiano naturalizzato britannico, Rishi Sunak, diventava primo ministro. Coincidenza, oppure destino, a seconda dei punti di vista.

Si parlava di un governo Sunak da mesi, sin dai tempi della crisi di BoJo, perciò non si è davanti a quello che solitamente si definirebbe un fulmine a cielo sereno. Ma ciò non toglie nulla alla memorabilità dell’evento. Primo ministro di origini indiane. Emblema dell’ingresso del Regno Unito in una nuova era, peraltro irreversibile – poiché la demografia è destino –, dai caratteri post-anglosassoni e multirazziali. L’avveramento della profezia di Macaulay.

Sunak non è meno british di chi lo è di nascita, e il suo curriculum è autoesplicativo a tal proposito, ma innegabile è che rappresenti, allo stesso tempo, la rivalsa delle periferie sul centro e il simbolo di una nuova nazione, multinazionale, protagonizzata dall’assertività e dall’attivismo dei figli delle ex colonie e, sebbene impercettibile, dal pervasivo e influente lobbismo dei membri del Commonwealth.

La scalata di Sunak è avvenuta alla luce del Sole, si scriveva, e questo si ricollega direttamente al discorso del crescente potere di condizionamento delle periferie (e della loro prole) nelle dinamiche interne della scombussolata metropoli. Una scalata ampiamente pronosticata perché accompagnata da trame e sabotaggi alle spalle di BoJo, della cui caduta Sunak è stato l’artefice – innescando la crisi governativa di luglio – e che mai sarebbe stata possibile se il “partito delle minoranze” di Downing Street, capeggiato dai pakistani Sajid Javid e Saqib Bhatti, l’iraqeno Nadhim Zahawi e le indiane Priti Patel e Suella Braverman, non l’avesse supportata e popolarizzata. Trame e sabotaggi successivamente riorientati a danno di Liz Truss, anch’ella boicottata domesticamente dalle primule rosse del partito indiano – in particolare il ministro Braverman – e, a livello esterno, messa in ulteriore affanno da un curioso braccio di ferro con Nuova Delhi.

Uomo di Londra o uomo di Nuova Delhi?

Tre sono le possibili ragioni alla base dell’impetuosa arrampicata di Sunak, il primo ministro britannico venuto dal Gioiello della corona, alla luce di quanto avvenuto nel dietro le quinte di Downing Street.

La prima ha il taglio meno dietrologico: Sunak ha intuito le potenzialità del partito delle minoranze, sempre più numeroso e influente, sfruttandole a proprio vantaggio per sferrare i colpi di grazia agli impopolari rivali. La rivincita (genuina e priva di malizia) del Commonwealth su Londra.

La seconda e la terza sono simili eppure differenti: l’ascesa di Sunak come parte di un disegno intelligente sceneggiato da menti raffinate con base in Inghilterra, e perciò stabilizzativo, oppure in India, e dunque in potenza preoccupante.

Il primo caso. Si potrebbe trattare di un tentativo, originatosi nelle stanze dei bottoni, di riportare la quiete nella tormentata Britaly in modo tale da permetterle di inseguire il sogno post-brexitiano della Global Britain, il cui coronamento passa inevitabilmente dal suggellamento di una special relationship con l’India – missione fallita da BoJo, persa in partenza dalla Truss e che soltanto un uomo come Sunak, parto autentico del Gange, avrebbe concrete possibilità di portare a compimento. L’ingresso di Londra nell’età post-anglosassone in funzione propedeutica ad un ritorno imperiale.

Il secondo caso. Si sarebbe davanti a un fenomeno eccezionale: la trasformazione di Nuova Delhi in un giocatore determinante per gli equilibri interni britannici. Giocatore in grado di consolidarli o spezzarli, a seconda dell’interesse e della contingenza, con l’aiuto della sua progenie inserita nei posti-chiave di economia e politica. La metropoli ostaggio della (fu) periferia.

Al di là di quanto durerà effettivamente il mandato di Sunak, la trama che ne ha permesso il successo non passerà alla storia come un episodio estemporaneo, ma come un evento spartiacque – spartiacque tra due ere. Ci saranno un prima e un dopo Sunak. Con il dopo-Sunak coincidente ad un Regno Unito pienamente consapevole della sua multirazzialità e della progressiva erosione della stessa idea di britannicità. La domanda è se e quanto questa trasformazione avrà ripercussioni significative sul piano internazionale e, soprattutto, a beneficio di chi.

Dopo 180 anni Gibilterra è ufficialmente britannica. Redazione su Il Giornale il 30 agosto 2022.

Gibilterra, territorio della corona britannica vanamente rivendicato per secoli dalla Spagna (visto che si trova all'estremità meridionale della penisola iberica dove il Mar Mediterraneo si incontra con l'Oceano Atlantico), è da oggi ufficialmente inserita nelle lista delle città del Regno Unito. L'atto è stato formalizzato a margine del Giubileo di Platino dei 70 anni sul trono della 96enne regina Elisabetta II col placet entusiasta del governo Tory e del premier uscente Boris Johnson. La decisione sana un ritardo di ben 180 anni. Lo status urbano era stato infatti concesso fin dal 1842 su iniziativa di un'altra sovrana di grande longevità, la regina Vittoria. Ma per un banale disguido non era poi mai stato trascritto nell'elenco ufficiale delle città britanniche. Una «dimenticanza» che viene adesso cancellata, come ha esultato in un messaggio di benvenuto Johnson, felice di poter rimarcare ancora una volta sulla scia di questo atto «il legame inscindibile» fra Gibilterra e il Regno: anche dopo la Brexit e le fibrillazioni della separazione dall'Ue segnate almeno sulla carta da una qualche cesura nei confini fisici del territorio, stretto fra mare e terra spagnola. Fabian Picardo, capo del governo della Rocca, ha da parte sua rivolto un «ringraziamento sentito» a BoJo attraverso la Bbc, notando come la trascrizione abbia un importante valore «simbolico», per quanto sia destinata a «cambiare assai poco sul piano pratico»: tenuto conto che il riconoscimento era già applicato di fatto da Londra dal 1842 e che la denominazione di Gibilterra come «Città» era stata poi recepita nel testo della Costituzione locale in vigore da dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Piloti ubriachi, molestie e bullismo: le Frecce Rosse britanniche rischiano lo scioglimento. Enrico Franceschini su La Repubblica il 25 Agosto 2022 

Scandalo nella squadriglia acrobatica della Raf: un rapporto sui "comportamenti inappropriati", che sta per essere pubblicato, potrebbe portare allo smantellamento del gruppo di "top gun" dell'aviazione militare

La squadriglia acrobatica che nel giugno scorso ha volato sopra il balcone di Buckingham Palace in occasione del Giubileo di Platino della regina potrebbe essere smantellata per le accuse di abusi sessuali, bullismo e ubriachezza nei confronti dei piloti. Un’indagine sulle Red Arrows (Frecce Rosse), il nome dell’equivalente britannico delle Frecce Tricolori italiane, è stata ordinata la primavera scorsa dal generale Mike Wingston, il capo della Roayl Air Force o Raf come è comunemente conosciuta, dopo il moltiplicarsi delle voci sul comportamento inappropriato dei suoi membri.

La riscossa dell'Impero: il colpo dei Vulcan. Da Ascensione alle Falkland: nel 1982 i britannici col raid "Black Buck" guidato dai bombardieri Vulcan colpirono a sorpresa gli argentini. Andrea Muratore l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'Isola di Ascensione è un punto nell'Atlantico, apparentemente privo di ogni valore strategico o geopolitico, un sonnolento scoglio a 1.600 km dalle coste africane, a metà strada tra l'Angola e il Brasile e a Sud dell'Equatore, che nel pieno della Guerra delle Falkland si trovò, per alcune settimane, a essere un crocevia militare. Da Ascensione le forze armate britanniche fecero partire a più riprese i raid dei bombardieri Avro Vulcan che contribuirono a danneggiare le forze di occupazione argentine che il 2 aprile 1982 erano sbarcate nelle Isole Falkland.

Il governo britannico di Margareth Thatcher, deciso a riconquistare le isole occupate per iniziativa della Giunta militare di Leopoldo Galtieri, non lasciò nulla di intentato. Due settimane dopo l'invasione, la task force navale britannica era già in navigazione per l'Atlantico del Sud. E oltre alla Royal Navy, la cui partenza fu omaggiata da Newsweek con una copertina dal titolo Empire Strickes Back! ("L'Impero colpisce ancora", citazione del recente film di Star Wars), si mosse anche la Royal Air Force. Il cui contributo sarebbe stato decisivo e veicolato principalmente attraverso l'Operazione Black Buck ("Cervo Nero") che ebbe il suo crocevia proprio ad Ascensione. Ad aprile 1982 la Raf accumulò una serie di mezzi decisamente importante, schierando il 44esimo Squadrone: fiore all'occhiello della sua forza furono i bombardieri Avro Vulcan, vecchie glorie dell'aviazione britannica pensate per l'utilizzo in un conflitto nucleare con l'Unione Sovietica come vettori dell'arsenale nucleare britannico e riproposti per il bombardamento convenzionale. Ad essi si aggiungevano dei vecchi bombardieri Handley Page Victor convertiti in aerocisterne.

Dal 30 aprile la base di Ascensione all'aeroporto di Wideawake, data in prestito agli Stati Uniti e tornata in periodo bellico a disposizione di Londra, iniziò ad animarsi con il volo dei Vulcan e dei Victor. A coppie, in cinque diverse occasioni, i bombardieri decollavano da Ascensione verso le Falkland contribuendo a mettere in campo quelle che fino ad allora divennero le più lunghe missioni di bombardamento della storia dell'aviazione. Sommando andata e ritorno i Vulcan dovevano percorrere 12.200 km per arrivare da Ascensione alle Falkand, colpire gli obiettivi e tornare alla base. Per sostenerli fu organizzata un'imponente catena di rifornimento: i Victor furono schierati a distanza graduale in volo per intercettare i Vulcan in volo sopra l'Oceano Atlantico e rifornirli di carburante e, a loro volta, operavano scambi di posizione per rifornirsi a vicenda. La singola pista di Wideawake vide continuamente alternarsi in volo i velivoli. Come richiesto dal viceammiraglio Sandy Woodward, comandante del gruppo di portaerei dell'Atlantico Meridionale, i bersagli divennero in primo luogo le installazioni aeroportuali, radar e militari degli argentini.

Dei cinque raid Black Buck, tre furono portati contro l'aeroporto militare di Stanley, capoluogo dell'isola, attaccato dai Vulcan che trasportavano 21 bombe da 1000 libbre (454 kg) ciascuna nella stiva interna, e gli altri due furono missioni anti-radar con missili anti-radiazione Shrike. Tra il 30 aprile e il 12 giugno, intervallato dallo sbarco britannico alle Falkland (21 maggio), il raid Black Buck martellò a più ripetizioni le installazioni aeroportuali, contribuendo a ridurre notevolmente l'operatività dell'aviazione argentina. Soprattutto, produsse un durissimo effetto deterrente. La capacità dei britannici di colpire le Falkand fu letta dagli argentini nel modo migliore sperato dal governo Thatcher: Galtieri ordinò di ritirare parte delle forze aeree operanti nell'Atlantico Meridionale per spostarle a difesa della capitale Buenos Aires, teoricamente raggiungibile da analoghi raid dei Vulcan. A essere spostati furono i preziosi caccia Dassault Mirage III, che duellavano con i Sea Harrier britannici sulle isole contese. Fino alla fine della guerra, a fine giugno, la pista di Port Stanley rimase agibile, anche se solo per gli aerei tattici come i Pucará e gli Aermacchi MB339, oltre che per i C130 Hercules da trasporto. I caccia supersonici Mirage, invece, però, non poterono più usare la pista come punto di appoggio, e furono costretti a partire dalla terraferma, aumentando inoltre la loro esposizione agli Harrier, che nei duelli furono talmente in superiorità da essere soprannominati Muerte Negra dagli argentini.

Black Buck segnò un momento simbolicamente importante nella riscossa britannica. Più ancora dei danni materiali inflitti agli argentini, sorprese per la capacità di proiezione che Londra aveva dimostrato e per il sistema efficace e vincente di coordinamento ottenuto. Soprattutto, segnò il dominio psicologico britannico nonostante il numero ridotto di forze impegnato: agli argentini, colpiti dai raid dei servizi segreti, dalle forze speciali, dalle incursioni navali e dal cielo, l'occupazione sembrò essere l'inizio di un vero e proprio accerchiamento da parte britannica. L'Impero alle Falkand colpì ancora, ma fu l'ultima volta, il canto del cigno in un contesto di declino della proiezione globale britannica iniziato col flop di Suez del 1956 e proseguito a lungo. Di cui le Falkland furono il maggiore sussulto. Lo stesso 44esimo Squadrone fu sciolto solo sei mesi dopo la fine della Guerra delle Falkland: Black Buck fu, come la guerra al cui successo contribuì, un'ultima esibizione per la potenza globale britannica. L'anacronistica uscita di scena di un grande impero che accettava, con pragmatismo, il ruolo di media potenza nell'Occidente a guida americana.

Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 20 agosto 2022.

C'è un grande malato in Europa e la guarigione non sarà rapida. Le previsioni della Banca d'Inghilterra dicono che il Regno Unito entrerà in recessione nel quarto trimestre di quest' anno e che sarà probabilmente il più lungo periodo di contrazione dell'economia dalla grande crisi finanziaria globale del 2008 a oggi. 

Le statistiche dipingono un quadro che non concede speranze di smentita: in luglio l'inflazione ha superato il 10 per cento per la prima volta in 40 anni, il volume dei consumi è diminuito del 3,4 per cento e nei tre mesi da aprile a giugno il prodotto interno lordo si è ristretto dello 0,1 per cento. Ieri l'indice che riflette la fiducia del consumatore è calato a quota meno 44, il livello più basso da mezzo secolo ovvero da quando si è iniziato a calcolare questo termometro dell'umore popolare.

Il Financial Times predice che a partire dall'autunno lo stato d'animo nazionale peggiorerà ulteriormente con i già previsti aumenti delle bollette per l'energia elettrica, che cresceranno mediamente del 75 per cento, portando entro fine anno l'inflazione al 13 per cento. Gli economisti si aspettano che la gente reagirà spendendo ancora di meno e cercando di risparmiare, due classici atteggiamenti che contribuiscono a spingere un Paese in crisi economica.

Insieme alla crisi energetica, gli scioperi del settore dei trasporti, che in questi giorni stanno paralizzando treni, metropolitana e autobus a Londra, con i sindacati che chiedono salari più alti per affrontare il vertiginoso aumento del costo della vita, trasmettono l'immagine di una nazione in difficoltà. 

E tutto questo succede mentre il palazzo del potere è praticamente vuoto: Boris Johnson ha annunciato le dimissioni il 7 luglio scorso dopo avere perso la fiducia dei propri parlamentari, le primarie del partito conservatore riveleranno soltanto il 5 settembre chi è il nuovo primo ministro fra gli ultimi due candidati rimasti in gara, la ministra degli Esteri Liz Truss, ultra favorita dai sondaggi, e l'ex-ministro del Tesoro Rishi Sunak, ma intanto nessuno prende decisioni per cercare di arginare la crisi.

«Non è questo il metodo per scegliere un nuovo leader», commenta il quotidiano della City, sostenendo che una democrazia del G7 non può rimanere due mesi senza una guida politica. Le foto di Johnson in vacanza in Grecia con la famiglia mentre la Gran Bretagna va a fondo ricordano l'orchestrina del Titanic che suona mentre la nave affonda. 

Naturalmente la situazione economica suscita preoccupazione anche nel resto d'Europa, ma qui appare più grave. La nazione con la ripresa più forte del continente, l'inflazione più bassa, la minore disoccupazione: questo è stato a lungo il Regno Unito, nel decennio al potere del laburista Tony Blair ma anche negli anni successivi, attraversando con meno danni di altri la tempesta del crash finanziario del 2008.

La Brexit ha sicuramente influenzato il declino: la decisione di uscire dall'Unione Europea, presa con il referendum del 2016, sei anni più tardi risulta un tragico errore. Al quale si sono poi aggiunti altri problemi su cui Londra non ha responsabilità: la pandemia e la guerra in Ucraina. 

Gli esperti calcolano che la recessione potrebbe durare circa un anno, come minimo fino all'estate 2023. L'opposizione laburista chiede misure urgenti, e perfino la riconvocazione urgente del parlamento dalle ferie estive, per rispondere all'aumento dei prezzi dell'energia. Ma per ora bisogna aspettare il prossimo premier, nella consapevolezza che se questa per gli inglesi è l'estate dello scontento, l'autunno e l'inverno saranno ancora peggio.

"Gli inglesi? Degli sfaticati". L'ultima gaffe di lady Truss. Tony Damascelli su Il Giornale il 17 agosto 2022.

Liz Truss sarebbe un personaggio ideale per la nostra politica. Cambia idea ogni due per tre. L'Inghilterra ripensa alla lady di ferro ma si ritrova con lady mensola, da una traduzione di truss. La probabile erede di Boris Johnson, lady Truss, non garantisce solidità di progetti e di strategie. I media britannici l'hanno colta in flagrante per le parole di un libro «Britannia Unchained», Britannia Liberata, scritto da cinque rappresentanti del partito conservatore, Kwasi Kwarteng, Priti Patel, Dominic Raab,Chris Skidmore e Liz Truss per l'appunto. «Il Regno Unito ha uno stato gonfio, con tasse elevate e regolamentazione eccessiva e gli inglesi sono tra i peggiori fannulloni del mondo. Lavoriamo con orari limitati rispetto ad altri Paesi, andiamo in pensione presto e la nostra produttività è scarsa. Mentre i bambini indiani aspirano a diventare medici o uomini d'affari, gli inglesi sono più interessati al calcio e alla musica pop». Lady Truss, in un recente dibattito tv, ha detto che quel capitolo non era roba sua ma di Raab che oggi sta sostenendo l'altro candidato a Downing Street, Rishi Sunak. Lo stesso Raab ha respinto l'insinuazione: «Spetta a Liz spiegare perché ha cambiato idea».

La campagna elettorale di Liz Truss si sta complicando, un mese fa ha cambiato incredibilmente idea sul progetto di un taglio dei salari del servizio civile, dopo essere stata attaccata all'interno del proprio partito. Già in avvio della sua carriera politica lady Truss aveva dovuto fare i conti con un imprevisto franco tiratore, suo padre John Kenneth, che si era rifiutato di appoggiarla nella corsa al parlamento mentre sua madre Priscilla era stata tra le più fervide sostenitrici. Liz si è distinta per alcune gaffe geografiche e politiche durante i colloqui con il rude russo Lavrov che l'ha definita «sorda e muta». Il passato è alle spalle ma non si sa bene che cosa sia il presente, gli allibratori britannici la danno ultrafavorita, la sua quota è passata da 10 contro 1 a meno 1 mentre il suo rivale, Rishi Sunak, detto Dishy Rishi, l'attraente Rishi, è dato a 11. Nell'aria di Londra volano i pensieri verso Margaret Thatcher e cadono le foglie su Theresa May. Che sarà di Liz Mensola?

Antonio Riello per Dagospia il 9 agosto 2022.  

Il traballante governo di Sua Maestà non ne azzecca molte negli ultimi tempi, ma una piccola cosa positiva stavolta sembra spuntare. 

Sta per essere approvata una legge che regola la condotta e la responsabilità civile e penale dei ciclisti sulle strade Britanniche. Il regolamento attualmente in vigore per i ciclisti risale al 1861 nel quale gli stessi sono equiparati ai cocchieri e dove si cita (letteralmente) un'eventuale "condotta furiosa o maligna...". In effetti era ora di aggiornare 'sta legge: i ciclisti saranno finalmente trattati come se fossero dei motociclisti (curiosamente nella lingua Inglese il termine "biker" viene ambiguamente spesso usato per entrambi). Le Civiltà si misurano anche dal loro Codice della Strada... 

Tutto sta accadendo grazie ad una attiva campagna esercitata dai parenti di alcuni pedoni uccisi da ciclisti sconsiderati e imprudenti. Il Parliamentary Advisory Council for Transport Safety riporta che 1 incidente pedonale mortale su 100 è causato dall'impatto con una bicicletta (mentre 65 su 100 sono quelli causati da automobili). In altri termini, le statistiche ufficiali (2019) parlano di 7 morti all'anno causate da ciclisti a fronte di 720 vittime causate da altri veicoli.

Fatto sta che comunque, lentamente ma inesorabilmente, la classica conflittualità auto/bicicletta si sta spostando verso quella pedone/ciclista. Vi sono delle città come Cambridge dove i mezzi meccanici (anche quelli ibridi e/o elettrici) sono sempre più rari mente quelli a pedale sono ormai padroni incontrastati della strada. Essere investiti (magari in maniera leggera) da una bici nel centro della città universitaria è, di fatto, un evento abbastanza frequente. 

Sfrecciano velocissimi e silenziosi i ciclisti anche nelle aree manifestamente assegnate a chi si sposta a piedi (a volte si finisce per rimpiangere quasi le auto perchè almeno si notavano e si sentivano meglio). In realtà nemmeno i marciapiedi offrono sempre un rifugio veramente sicuro. 

Certo, guai se non ci fosse la bici! Una grande invenzione, intelligente e piena promesse: il cicloturismo è il futuro del tempo libero e la logistica urbana ha nella bici un enorme punto di forza. Non ci sono dubbi. E poi tutta la affascinante mitologia ciclistica: dalle masse cinesi in sella per decenni alle loro Flying Pigeon nere (un modello prodotto dal 1936 sempre uguale in circa 600 milioni di esemplari, oggi fuori produzione) alle epopee dei tour e dei giri con i loro fantastici eroi. E naturalmente film e tante canzoni...

Però....però semplificando ci sono fondamentalmente tre tipi di ciclisti: quelli occasionali che pedalano per ragioni economiche e pragmatiche, quelli che lo fanno per Sport e quelli, sempre più numerosi, che la intendono come una questione squisitamente ideologica. Per questi ultimi, molto spesso assai arroganti, il problema va ben oltre la sicurezza stradale. A loro sembra di essere testimoni attivi di una straordinaria mutazione antropologica: dopo l'Homo sapiens sapiens ecco l'ora dell'Homo cyclo sapiens. 

Questa gente si sente parte di un'élite esclusiva che considera gli automobilisti dei barbari in via di estinzione e i pedoni dei poveracci destinati anch'essi comunque ad una rapida scomparsa (e in ogni caso dei paria indegni della benchè minima considerazione). Per questo aggressivo (e non-inclusivo) club di eletti solo il "ciclista consapevole" ha capito per davvero la complessità e la sostanza della Modernità: andare in bici è prima di tutto un atto politico. Sognano di imporre  obbligatoria la pedalata a tutti e si eccitano - intellettualmente - pensando a forme di "ciclocrazia" degne addirittura di visioni distopiche stile fantascienza.

In pratica, più prosaicamente, si strutturano in gruppi di pressione politica e cercano di influenzare i risultati delle elezioni locali. In parecchi casi il loro peso elettorale è decisivo. A Cambridge (e non solo) sulla viabilità stradale comandano loro. Londra è ancora auto-centrica e i mezzi pubblici sono quelli che fanno la differenza, ma anche qui la "lobby dei ciclisti" è al lavoro da tempo e un po' alla volta si sta affermando. Boris Johnson, quando era sindaco, flirtava con questa lobby e si faceva volentieri fotografare in sella. Al momento l'attuale primo cittadino, Sadiq Khan, sembra un po' meno affascinato/ossessionato dalle due ruote. 

C'è comunque il paradosso urbano di chi possiede un'auto e si vergogna, facendo finta con gli amici di non averla. Non è affatto trendy. Le cose vanno solo un po' meglio se la macchina è elettrica...

La recente variante "monopattino" non ha ideologicamente la stessa presa della bici.  Suona più come un gadget  tecnologico  per ragazzini che una reale alternativa etico-ecologica. Chi si sente "impegnato" nel Regno Unito su questo campo preferisce ancora la costosa Brompton pieghevole (si parte dalle 1200 Sterline): sembra sia proprio il semplice e duro atto di pedalare quello in grado di nobilitare, a livelli superiori e definitivi, la specie umana.

Rodolfo Parietti per “il Giornale” il 9 agosto 2022.

Sul calendario, la data del prossimo primo ottobre è cerchiata in rosso. Quella è la dead line, a indicare il tempo della pazienza ormai scaduto. Squilli di rivolta contro il caro-energia. Arrivano dal Regno Unito, lì dove l'inflazione è a un passo dalla vetta del 13%. È un Everest buca-tasche e fa paura. Così, oltre 75mila sudditi di Sua Maestà hanno già detto basta. Ponendo un ultimatum al governo: se entro la fine di settembre non verrà fatto nulla per tutelare i consumatori, scatterà lo sciopero della bolletta.

Le fatture della luce e del gas non saranno più pagate.

Promossa da «Don't Pay», un gruppo anonimo che incita alla disobbedienza civile, l'iniziativa è per ora una piccola palla di neve. Ma i promotori sperano, in meno di due mesi, di trasformarla in una valanga formata da almeno un milione di inglesi pronti alla ribellione. 

Il tam-tam mediatico, a colpi di raffiche sparate su Twitter, TikTok, Instagram e Telegram, è già stato messo in moto. Ma più che sui video e sui cinguettii, il movimento spera di far leva sui 6,3 milioni di cittadini britannici che potrebbero scivolare il prossimo anno nella povertà proprio a causa dell'insostenibile pesantezza delle fatture domestiche. Il peggio, infatti, non è ancora dietro le spalle.

Dopo aver alzato in aprile del 54% il tetto massimo del prezzo dell'energia, Ofgem ha già preannunciato nuovi aumenti. La Bank of England, impegnata a suon di rialzi dei tassi a contrastare l'inflazione malgrado i crescenti segnali di recessione, ha calcolato che con l'inizio dell'autunno le famiglie pagheranno in media 300 sterline al mese solo per illuminare la casa, tenere acceso il frigorifero e far funzionare la lavatrice. È la normale quotidianità che rischia di essere sconvolta dalla brutalità degli aumenti. 

Anche perché, a fronte della crescita negativa dei salari reali, altre stime fanno tremare portafogli già esausti: l'importo totale delle bollette da saldare, a cominciare da quella per il metano, potrebbe infatti schizzare nel 2023 a 4mila sterline. Proprio a causa del combinato disposto di rincari e nascente movimento di boicottaggio, il governo di Londra non dorme sonni tranquilli.

Forse temendo una rivolta fiscale su larga scala. Come quella che all'inizio degli anni '90 vide 17 milioni di contribuenti rifiutarsi di pagare la «Poll Tax» introdotta da Margaret Thatcher. Un prolungato e collettivo sentimento di ribellione, contrassegnato dai tumulti di piazza fra manifestanti e polizia (tristemente celebri gli scontri, con oltre 200 feriti, a Trafalgar Square), costato il posto a Lady Iron e la fine del governo conservatore.

Ora resta da vedere in quanti aderiranno a Don't Pay Uk. Per molti il timore è quello di restare al buio, o senza gas, dopo essere finiti nel girone degli insolventi. E' il motivo per cui i promotori dell'iniziativa puntano ad avere almeno un milione di sottoscrittori, in modo da avere una massa d'urto capace di mandare in tilt le società fornitrici. Che prima di staccare la spina sarebbero costrette a offrire un piano rateale di azzeramento dei debiti. Ultima spiaggia, i tribunali. Col rischio però di intasarne le aule e creare una coda di arretrati lunga mesi. 

Carlo Tarallo per “La Verità” il 19 aprile 2022.

«Non conosco i dettagli dell'accordo tra Ruanda e Regno Unito, ma in base all'annuncio pubblico sembra essere un buon passo avanti»: è il commento del ministro per l'Immigrazione e l'integrazione della Danimarca, Mattias Tesfaye, in riferimento al piano del governo britannico per contrastare l'immigrazione illegale, che prevede, fra l'altro, che alcuni dei richiedenti asilo sbarcati sulle coste inglesi siano trasferiti in Ruanda per la gestione dell'iter burocratico relativo alle loro richieste. Le parole di Tesfaye sono destinate a far venire il mal di testa ai sedicenti progressisti di tutta Europa, e in particolare ai paladini della immigrazione senza regole.

Tesfaye, infatti, non è un politico di destra, ma l'esatto contrario: il babbo, Tesfaye Momo, è un rifugiato etiope, mentre il ministro, prima di aderire al Partito Socialdemocratico della premier Mette Frederiksen, è stato un esponente di primo piano del Partito Popolare Socialista e prima ancora dell'Alleanza Rosso-Verde e dell'ormai disciolto Partito Comunista Marxista-Leninista della Danimarca.

Dunque, siamo di fronte a un politico di sinistra radicale, che però non ha alcun problema a definire interessante il piano di Boris Johnson per contrastare l'immigrazione clandestina: «Spero», ha aggiunto Mattias Tesfaye, a quanto riferisce il Guardian, «che più Paesi europei nel prossimo futuro sosterranno la visione di affrontare la migrazione irregolare attraverso partenariati impegnati con Paesi extraeuropei".

Il piano di Boris Johnson, la cui realizzazione pratica è affidata al ministro dell'Interno britannico Priti Patel, prevede che venga sottoscritto col governo del Ruanda un accordo da 120 milioni di sterline che prevede in alcuni casi rimpatri rapidi per i richiedenti asilo arrivati nel Regno Unito e la gestione dell'intero processo burocratico nel Paese africano.

Johnson nei giorni scorsi ha sottolineato che la situazione degli sbarchi clandestini è diventata insostenibile per la Gran Bretagna: arrivano anche 600 persone al giorno su gommoni e piccole imbarcazioni che attraversano il canale della Manica, e il totale dall'inizio dell'anno supera le 5.000 persone. 

Johnson ha accusato i trafficanti di esseri umani, sottolineando che Londra non può tollerare queste azioni illegali: «La nostra compassione può essere infinita», ha commentato il primo ministro inglese, «ma la nostra capacità di aiutare le persone non lo è».

In sintesi, il piano di Johnson prevede che ogni immigrato clandestino che verrà pizzicato mentre tenta di sbarcare sulle coste britanniche o che è entrato in maniera irregolare sul territorio dall'inizio dell'anno verrà imbarcato su un aereo e trasferito in Ruanda, stato dell'Africa orientale con poco più di 11 milioni di abitanti. Ottenuto l'asilo, i rifugiati saranno accolti in ostelli e sostenuti per cinque anni dal governo locale, con fondi inviati appositamente da Londra, per costruirsi una vita e trovare una attività lavorativa: sono stati già stanziati 140 milioni di euro. Il piano prevede anche il dispiegamento della Royal Navy, la Marina militare, per intercettare, identificare e bloccare i barconi degli scafisti.

Il ministro Patel, nei giorni scorsi, è volata a Kigali per sottoscrivere il patto tra Gran Bretagna e Ruanda: «Si tratta di un Paese», ha evidenziato Johnson, «che ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».

Da corriere.it il 14 aprile 2022.

Il governo britannico guidato da Boris Johnson ha lanciato un controverso piano per contrastare l'immigrazione illegale. Il progetto dell'esecutivo conservatore prevede che alcuni dei richiedenti asilo entrati illegalmente in Gran Bretagna possano essere mandati in Ruanda per la gestione delle loro richieste — senza alcuna certezza di poter tornare indietro.

Non ci sono limiti numerici al piano, ha detto il governo di Londra, che quindi potrebbe riguardare migliaia di persone che hanno attraversato la Manica per entrare in Gran Bretagna. 

Il piano è stato formalizzato oggi dopo la sigla, a Kigali, di un'intesa con il Ruanda chiamata «Partnership per lo sviluppo economico». 

Secondo Londra, la situazione migratoria è diventata «insostenibile»: oltre 600 persone sono arrivate solo ieri dopo aver attraversato su barchini e gommoni il Canale della Manica, portando il totale a oltre 5.000 quest'anno. 

Lo scorso anno le persone entrate in territorio britannico attraverso la Manica su imbarcazioni di fortuna sono state almeno 28000 (contro le 8.500 nel 2020). Decine i morti: l'incidente più grave fu registrato nel mese di novembre, e a morirono furono 27 migranti.

L'intenzione dichiarata da Johnson è quella di porre fine al traffico di esseri umani. «Chi cercherà di saltare la coda (per entrare nel Paese) o prendersi gioco del nostro sistema» sarà «rapidamente, e in modo dignitoso, mandato in un Paese terzo sicuro» (cioè il Ruanda) o «nel loro Paese d'origine».

Le ong hanno fortemente criticato il piano, definendolo «crudele»; l'opposizione laburista l'ha bollato come «impraticabile e immorale». Il piano — per ammissione dello stesso Johnson — sarà probabilmente contestato legalmente, e non entrerà in vigore subito. 

«Noi siamo convinti che il nostro piano rispetti appieno i nostri obblighi internazionali ma nonostante questo ci aspettiamo dei ricorsi legali - ha riconosciuto Johnson - e se questo Paese è considerato debole verso l'immigrazione illegale da alcuni nostri partner è a causa di una schiera di avvocati politicizzati che per anni fatto affari ostacolando le deportazioni e limitando l'azione del governo». 

Il piano annunciato oggi da Londra prevede anche che sia la Royal Navy — la marina militare britannica — a pattugliare il canale della Manica per frenare l'impennata di sbarchi di immigrati illegali.

Il Ruanda è lo stato più densamente popolato del continente africano; le tensioni etniche e politiche hanno scatenato, nel 1994, un genocidio tra le etnie Hutu e Tutsi.

Il piano choc di Johnson: gli immigrati clandestini deportati in Ruanda. Erica Orsini il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

Intesa Londra-Kingali sui richiedenti asilo. Critiche al premier: "Una scelta immorale".

Londra. Un biglietto di sola andata per il Ruanda.

È quello che intende regalare il governo di Boris Johnson ai migranti clandestini che hanno attraversato la Manica cercando rifugio e una nuova patria nel Regno Unito. La decisione, annunciata ieri in una conferenza stampa dallo stesso Primo Ministro britannico rientra nell'ambito del pacchetto di nuove politiche sull'immigrazione che già aveva suscitato reazioni polemiche nel mondo politico.

«Questo tipo di schema si è reso necessario per mettere fine ai mezzi usati nel traffico di esseri umani, così sarà possibile salvare innumerevoli vite» ha spiegato Johnson nella conferenza svoltasi in Kent.

Il Premier ha spiegato di aver raggiunto un accordo con quello ruandese che accoglierà un numero ancora non fissato di clandestini, attualmente detenuti nel Regno. Il ministro degli Interno, Priti Patel, si è infatti recata a Kigali per sottoscrivere il patto tra i due Paesi nell'ambito delle collaborazioni di sviluppo economico. L'idea dell'Home Office è infatti di portare gli immigrati in Runanda, «incoraggiandoli» a rimanere e a rifarsi una nuova vita lì. «Quel Paese - ha proseguito Johnson - ha la capacità di sistemare decine di migliaia di persone negli anni a venire. E fatemi essere chiaro, il Ruanda è uno dei Paesi più sicuri al mondo, globalmente riconosciuto per i suoi sistemi di accoglienza e integrazione migratoria».

Ai giornalisti che gli hanno fatto presente il triste record di violazioni dei diritti umani perpetrate in quei territori e le numerose torture alle quali vengono sottoposti i detenuti il Primo Ministro ha risposto: «Il Ruanda ha subito una trasformazione completa e negli ultimi decenni è diventato un Paese diverso da quello che era». Nel costo totale dell'operazione sarà compreso un iniziale pagamento di 120 milioni di sterline, una cifra già contestata dall'opposizione che ha definito l'intero sistema «non fattibile e non etico». «L'attuale sistema di accoglienza che prevede la sistemazione negli alberghi ci costa già un miliardo e mezzo ogni anno - si è difeso Johnson - la permanenza negli hotel si aggira intorno ai 5 milioni quotidiani ed è destinata ad incrementare». I migranti che arriveranno in Ruanda verranno prima sistemati in un ostello del quartiere Gasabo di Kigali che al momento funge da albergo per turisti e che il governo africano intende acquistare in leasing dall'attuale proprietario. Al momento non è ancora chiaro se verranno spediti in Africa soltanto uomini, se laggiù sarà possibile ricorrere in appello e se il sistema sarà destinato ai soli migranti «economici». Johnson ha anche dichiarato che dalla prossima settimana la Royal Navy assumerà il comando operativo nel Canale per assicurare che «nessun barcone arrivi clandestinamente nel Regno Unito». Lo scorso anno hanno attraversato la Manica in imbarcazioni di fortuna 28,526 persone secondo i dati ufficiali, ma il numero potrebbe essere molto più alto. Decine hanno perso la vita tentando di raggiungere le coste inglesi.

Il ministro Patel aveva dichiarato in Parlamento che «il 70% degli immigrati clandestini che arrivano a bordo dei barconi sono migranti economici» ma i dati ottenuti dal Guardian dallo stesso Home Office evidenziano che il 61% degli immigrati arrivati via mare hanno poi ricevuto il permesso di rimanere come rifugiati.

Cuore di tenebra. Il modello Brexit dell’immigrazione? Appaltare l’accoglienza dei rifugiati al Ruanda. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.

Il premier Johnson ha deciso di spedire a Kigali i migranti maschi single che arrivano nel Regno Unito. I primi trasferimenti partiranno a maggio. Londra pagherà i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza, spendendo tra le 20mila e 30mila sterline a persona.

Aiutiamoli a casa loro. Anche se non è casa loro. Basta che non sia casa nostra. In una riga, è questo il piano del governo inglese per spedire – e quindi deportare, accusano opposizione e ong – in Ruanda i migranti illegali. Inizialmente verranno respinti così solo i maschi adulti senza figli, a prescindere dalla nazionalità: chi scappa dall’Afghanistan potrebbe trovarsi su un volo per Kigali. Più di esternalizzare l’accoglienza, si tratta di pagare per lavarsi la coscienza. Da Londra, il Ruanda riceverà subito 120 milioni di sterline. Benché più avanzata di altri Stati africani, la repubblica guidata da Paul Kagame è criticata per come reprime il dissenso.

Il primo ministro Boris Johnson combatte l’immigrazione, anche quella regolare, da quando è a Downing Street. Ha reso più difficile ottenere un visto per gli europei, con un sistema a punti. Ha pagato la Francia per pattugliare le coste normanne. Ha varato una legge, il Nationality and Borders Bill, che prevede il carcere per chi arriva illegalmente. Sono aumentati gli sbarchi via mare: 28 mila persone nel 2021, ventimila più del 2020. I numeri di quest’anno, con più di 5mila ingressi, hanno convinto i conservatori all’ennesima stretta. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza, in Italia l’anno scorso sono approdate 67mila persone.

Chi cerca salvezza nel nostro Paese proviene soprattutto da altre nazioni del Mediterraneo, in testa Tunisia ed Egitto. La maggior parte dei profughi diretti verso l’Inghilterra, invece, arriva da più lontano. Iran, Iraq, Eritrea, Siria, Vietnam, Afghanistan. È prevalente il Medio Oriente, non l’Africa, eppure è qui che i richiedenti asilo verranno mandati.

Il criterio per il trasferimento in Ruanda, risparmiato a donne e bambini, è che i maschi single siano prima transitati dalla Francia o da altri «Paesi sicuri». Difficile non passarci per salpare su un barchino di fortuna o rischiare la vita nascosti nel retro di un camion.

Johnson ha promesso che i primi transfert saranno a maggio. Verranno imbarcati i migranti arrivati da inizio gennaio. Downing Street si aspetta di riuscirne a rilocare – la terminologia dei Tories si addice più alle merci che agli esseri umani – «decine di migliaia» nei prossimi anni. Sarà il governo a pagare i biglietti aerei e i primi tre mesi di permanenza in Ruanda, dove si potrà chiedere asilo a patto di rinunciare alla domanda nel Regno Unito. Il Times ha stimato che la spesa oscillerà dalle 20 alle 30mila sterline a persona.

Cosa succede dopo? A Londra non interessa troppo, non lo ritiene più un suo problema. I tre mesi coperti dai fondi britannici sono quelli in cui, in teoria, la repubblica africana esaminerà le domande d’asilo. In caso positivo, verrà concesso un permesso di soggiorno di cinque anni. In caso di diniego, per esempio per precedenti penali, di fatto scatta il rimpatrio nel Paese d’origine. Se la trafila burocratica si ingolfasse, questa triangolazione rischia di trasformare il Ruanda nell’ultima fermata del viaggio della speranza.

Il Regno Unito non solo esternalizza l’accoglienza, come ha fatto l’Unione europea con la Turchia, ma paga un Paese terzo per accollarsi le responsabilità. Una specie di export di disperati. Ci sono gravi storture: un profugo partito dall’Afghanistan o dall’Iraq, per l’attuale normativa, può chiedere asilo solo dal suolo britannico, ma raggiungere l’isola, in base ai nuovi criteri, equivale a rendere inammissibile la domanda. È un vicolo cieco. In linea d’aria, Londra dista da Kigali 6,591 chilometri: mille più di Kabul, duemila più di Teheran e il doppio di Aleppo.

Perché proprio il Ruanda, allora? La risposta più semplice è che è l’unico Paese ad aver accettato. Ha negoziato il patto Priti Patel, ministra dell’Home Office dell’ala destra dei conservatori. La repubblica è entrata nel 2009 nel Commonwealth, di cui ospiterà il summit a giugno, e può darsi voglia compiacere Londra. Ma le ragioni sono soprattutto economiche. Kigali conta sull’afflusso di denaro stabile da una superpotenza finanziaria. Le cifre non sono ancora pubbliche, ma saranno legate al numero di trasferimenti e c’è già un fondo da 120 milioni di sterline per progetti educativi.

«Il Ruanda somiglia alla Svizzera dell’Africa, ma è un posto estremamente repressivo e spaventoso», ha detto alla BBC Michela Wrong, autrice di un libro sul Paese. C’è il W-iFi, una copertura vaccinale della popolazione al 60% e un parlamento a maggioranza femminile, è vero, ma vengono pure messi in galera gli Youtuber che criticano il presidente Kagame, al potere dal 2000, fine della guerra civile. Con percentuali plebiscitarie, ha modificato la costituzione per candidarsi dopo il secondo mandato, scaduto nel 2017, ed è stato regolarmente rieletto.

I sostenitori di Kagame spiegano i risultati con l’ascendente popolare di uno «statista», ma gli analisti sollevano dubbi sul funzionamento della democrazia ruandese. «Nel corso degli scorsi decenni – ha scritto per esempio Amnesty International – lo spazio politico e il processo elettorale in Ruanda sono stati caratterizzati da restrizioni delle libertà di associazione e assemblea, attacchi mirati contro i leader dell’opposizione, omicidi, sparizioni e processi politici che hanno indebolito la società e i media».

Una delle figure più note del Paese è Paul Rusesabagina, che ha salvato più di mille persone negli anni del genocidio dei Tutsi. Hollywood nel 2004 gli ha dedicato un film, Hotel Rwanda, con diverse nomination agli Oscar. Nel 2020, secondo quanto denuncia la sua famiglia, Rusesabagina è stato rapito da Dubai e portato in Ruanda, dove è stato condannato a 25 anni di carcere per il presunto sostegno a un gruppo ribelle. «Il Ruanda è una dittatura, non c’è libertà di parola, non c’è democrazia», ha detto alla Bbc sua figlia, Carine Kanimba.

«Siamo un posto sicuro, teniamo al rispetto dei diritti umani come ogni altra nazione» ha assicurato ai media inglesi il portavoce di Kigali. Il Paese africano più densamente popolato, per ora, ha solo 50 stanze per chi atterrerà dal Regno Unito. Possono accogliere al massimo cento persone. Un nuovo complesso di palazzine dovrebbe triplicare questa (scarsa) capacità ricettiva. Il paradosso è che proprio l’anno scorso il governo inglese ha espresso le sue preoccupazioni davanti all’Onu per «le continue limitazioni ai diritti civili e politici e alla libertà di stampa», testuale, nel paese dove ora intende spedire i migranti.

Il Regno Unito non è il solo, né il primo, a varare strategie simili. Ci ha provato anche la Danimarca, proprio con il Ruanda. «Tentativi xenofobi e inaccettabili» li ha definiti l’Unione africana. Ha protestato anche la commissione europea. Così il memorandum firmato dal ministro socialdemocratico Matthias Tesfaye è rimasto lettera morta: finora, zero trasferimenti in Africa. La Danimarca, in compenso, ha revocato il permesso di soggiorno a migliaia di siriani, sostenendo che possano tornare a Damasco, mentre si prepara ad accogliere centomila profughi ucraini.

Tra respingimenti e centri di detenzione, l’Australia ha fatto scuola negli ultimi vent’anni. Queste politiche sono costate, solo nel 2021, 460 milioni di sterline a Camberra, ma sono state spostate solo 239 persone. Una spesa media di quasi due milioni ciascuna. Anche Israele ha un accordo con due paesi: i nomi sono secretati, ma secondo i media si tratta proprio di Ruanda e Uganda. Chi viene respinto da Tel Aviv può scegliere se tornare a casa o accettare un pagamento di 3,500 dollari e un biglietto aereo per l’Africa.

Secondo un sondaggio di YouGov, il provvedimento di Johnson piace solo al 35% degli elettori ed è avversato dal 43% di loro. Anche l’esecutivo si è spaccato, se per farlo passare Patel ha dovuto usare un meccanismo che scavalcasse l’opposizione dei funzionari dell’Home Office. I conservatori potranno anche stanziare 50 milioni di sterline per armare la marina e intercettare i barchini sulla Manica, ma – secondo una proiezione in esclusiva del Telegraph – il partito crollerà alle elezioni locali di maggio, perdendo più di ottocento seggi a favore dei laburisti.

La guerra ai migranti. Profughi deportati in Ruanda, la barbarie di Boris Johnson. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Ho letto tre volte la nota di agenzia. Perché non ci credevo, ero convinto che ci fosse un errore o di non aver capito io. Invece è proprio così. Boris Johnson, il premier britannico, ha annunciato che schiererà la marina militare inglese – storicamente la più potente marina del mondo – per impedire gli sbarchi di profughi. La Royal Navy, una volta catturati i nemici, li stiperà in alcuni aerei messi a disposizione dall’aeronautica militare e con un volo di poche ore li trasporterà in Ruanda. Qui saranno accolti e sistemati, si immagina, in appositi campi di concentramento. Poi, del loro destino non si saprà più nulla.

Al Ruanda sono destinati non solo tutti i profughi che verranno catturati da oggi in poi. La caccia è aperta. Ma anche tutti quelli sbarcati in Gran Bretagna dal primo gennaio. Insieme alla marina, spalla a spalla, lavorerà la polizia. Sarà una deportazione di massa. Come quella che gli europei qualche secolo fa realizzarono con il percorso inverso. Allora andavano a prendere gli africani e li portavano in America. Li vendevano come schiavi al mercato di Charleston. Ora invece prendono i profughi e li portano in Africa. Anzi, per essere precisi, li portano in uno dei paesi più poveri dell’Africa. Il Ruanda è uno stato piccolissimo, molto popoloso, governato da una dittatura. Ha un reddito medio inferiore ai due dollari al giorno. Medio: vuol dire che ci sono alcuni milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno o forse un po’ meno. Nelle classifiche ufficiali del Pil pro-capite il Ruanda sta intorno al 175° posto su 190. I poveri sono la maggioranza della popolazione, e muoiono letteralmente di fame. Il regime è dominato da un signore che si chiama Paul Kagame.

Governa dal 2003 e le previsioni (dopo una serie di ben studiate riforme costituzionali) dicono che governerà fino al 2034. Le ultime elezioni le ha vinte ottenendo il 99 per cento dei voti. Una percentuale leggermente superiore a quella ottenuta da Kim Jong Un nella Corea del Nord. Agli oppositori è stato proibito di presentarsi alle elezioni, per evitare confusione. Il Ruanda è il paese del quale si parlò molto negli anni novanta per lo sterminio di una delle due etnie, i Tutsi, che erano una etnia di minoranza e furono annientati dagli Hutu. Il problema razziale fu risolto in quel modo. Si trattò, effettivamente in quel caso, di genocidio. Magari va segnalato a Biden. Boris Johnson ha pensato che il luogo migliore dove mandare i migranti che non vuole più fosse proprio il Ruanda. E ha sborsato circa 120 milioni di sterline per realizzare questa operazione. Più o meno il prezzo che la Juventus ha pagato qualche anno fa per comprare Cristiano Ronaldo già a fine carriera.

Non sappiamo a cosa serviranno questi dollari. Probabilmente a blindare il potere di Kagame. Ma Londra non era nemica delle dittature? Si, si, è vero, ma non stiamo lì a fare troppe polemiche, in fondo questo Kagame è stato eletto dal popolo, no? Non sappiamo a cosa serviranno i soldi inglesi ma sappiamo cosa, con baldanza e tranquillità, ha dichiarato Johnson nell’annunciare questa operazione inglese. Ha detto che “la compassione degli inglesi non ha limiti ma la possibilità di accogliere migranti invece ne ha”. Il ragionamento del primo ministro del Regno Unito è abbastanza semplice. In questi giorni in Gran Bretagna ci sono stati 600 sbarchi al giorno. Siamo oltre i limiti della possibile accoglienza. L’Inghilterra è un paese abbastanza ricco, è vero, è tra i cinque o sei paesi più ricchi del mondo, ma anche la ricchezza ha un limite, no? Molto meglio mandare i migranti in un paese poverissimo, dove in fondo è quasi impossibile aumentare la povertà. In Ruanda ci sono 11 milioni di persone (circa un sesto degli abitanti dell’Inghilterra) e come dicevamo un reddito medio di circa 600 euro all’anno a testa: non sarà un gran problema se a un esercito di morti di fame si aggiunge qualche altro migliaio o centinaio di migliaia di persone.

Infatti Johnson ha parlato esplicitamente di “approccio innovativo, guidato dal nostro condiviso impulso umanitario”. Si, Johnson ha detto proprio così. Non dovete pensare che sio sia impazzito o sia travolto dal mio ben conosciuto spirito anti-inglese. Johnson ha usato esattamente queste parole: innovativo, umanitario, impulso.

Tutto questo succede in un periodo un po’ particolare nella storia dell’Europa e dell’Occidente. E cioè nei giorni nei quali tutti, i grandi giornali in testa, e i politici, e gli intellettuali più lucidi, ci spiegano che noi siamo gente che può rinunciare a tutto, ma non ai propri valori occidentali. I nostri valori occidentali sono superiori a tutti gli altri valori. Indipendenza, libertà, giustizia.

Ci hanno anche chiesto di rinunciare ai condizionatori per difendere la nostra libertà. E noi abbiamo battuto le mani: si, si, siamo gente di tempra idealista. Chissà se Johnson ha chiesto anche ai cittadini del Ruanda di rinunciare ai condizionatori. È probabile – credo – che loro accettino senza fiatare. Per fortuna i laburisti inglesi hanno protestato un po’. E hanno protestato un po’ più vigorosamente le organizzazioni umanitarie che ancora esistono, anche se governi e magistratura stanno tentando di annientarle, magari solo perché hanno l’impressione che queste organizzazioni non conoscano bene i valori occidentali. Io però mi chiedo: ma se l’Occidente è questa roba qui, se i suoi valori sono questi, se i suoi leader ragionano come Boris Johnson, vale la pena difendere a spada tratta questa follia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Estratto dell’articolo di Vittorio Sabadin per “il Messaggero” l'1 luglio 2022. 

Scotland Yard, il corpo di polizia più famoso e celebrato del mondo, ha bisogno di «interventi speciali» perché «non è adatto allo scopo» è «istituzionalmente inetto» e non sa più rispondere alle esigenze dei cittadini. L'Inspectorate of Constabulary di Sua Maestà, che ha potere di ispezione sulle forze di polizia, ha redatto un rapporto che condanna senza riserve l'attuale capacità operativa della polizia metropolitana, accusata di continui fallimenti nelle indagini, di trascuratezza, di abusi e di razzismo.

[…] Gli ispettori hanno evidenziato 14 carenze significative nella lotta alla criminalità e nell'assistenza alle vittime, delineando un quadro agghiacciante che è notevolmente peggiorato negli ultimi anni sotto la gestione di Cressida Dick, la prima donna al comando del corpo. Dick si è dimessa nel febbraio scorso […] 

Da tempo i cittadini lamentavano che telefonare a Scotland Yard non serviva a nulla […]  In troppi casi c'è stata una mancata valutazione della vulnerabilità, una carenza di consulenze e una totale incapacità di consigliare le vittime su come conservare le prove. Solo metà dei crimini vengono registrati entro le 24 ore previste e oltre 69.000 ogni anno non vengono registrati affatto.

Nessuno avvisa le vittime quando le indagini sulla loro denuncia vengono abbandonate e non si presta attenzione alle loro esigenze. Numerose segnalazioni di abusi online sui minori sono state lasciate cadere. Fermi e perquisizioni vengono spesso effettuati senza essere registrati, e non è possibile accertare se fossero giustificati. 

[…] La colpa, scrivono i giornali di Londra, è di Theresa May, che prima come ministro dell'Interno e poi come primo ministro, ha tagliato drasticamente i fondi […]

Gb: dopo ondata di scandali Scotland Yard ha un nuovo capo. ANSA l'8 luglio 2022.

E' sir Mark Rowley, 57 anni, funzionario di lungo corso ed esperto di terrorismo, il nuovo comandante di Scotland Yard (o Metropolitan Police), principale dipartimento di polizia britannico che sovrintende alla sicurezza nella tentacolare area metropolitana di Londra e coordina la risposta alla minaccia terroristica in tutto il Regno Unito. Rowley è stato designato da Priti Patel, ministra dell'Interno del governo Tory del premier uscente Boris Johnson, d'intesa con il sindaco laburista della capitale, Sadiq Khan, per rilanciare il corpo dopo l'ondata di scandali su vicende di discriminazione, sessismo, insabbiamento, negligenza e coinvolgimento di poliziotti in clamorose vicende criminali che negli ultimi tempi ne hanno pesantemente compromesso la reputazione dinanzi all'opinione pubblica.

Rowley ha fatto carriera nella polizia del Surrey, per poi salire ai vertici della stessa Scotland Yard fino all'incarico di vicecomandante generale e responsabile dell'antiterrorismo. Incarico da cui si era infine dimesso 4 anni fa, rinunciando alla divisa e riconvertendosi all'attività di analista e saggista, quando in occasione della precedente scelta del numero 1 gli era stata preferita dame Cressida Dick: prima comandante donna (oltre che omosessuale dichiarata) nella storia della Met Police. Dick si è in seguito dimessa nei mesi scorsi, non senza polemiche, dopo essere stata accusata di non aver saputo districarsi tra scandali e lacune del dipartimento, né indicare un piano di riforma ritenuto accettabile dagli organismi politici di controllo. Accuse sostenute in particolare dal sindaco Khan, che pure all'inizio aveva sostenuto dame Cressida a spada tratta. Sia la ministra Patel, sia lo stesso Khan, in due annunci paralleli hanno oggi additato Rowley come "la scelta migliore" per garantire a Scotland Yard "la leadership necessaria a fronteggiare un tempo di grandi sfide" e cambiamenti, sottolineando di aver concordato in piena sintonia sull'opportunità di richiamarlo in servizio. (ANSA).

Quell'esplosione che mutilò la Royal Family. Angela Leucci il 5 Giugno 2022 su Il Giornale.

L'attentato all'imbarcazione Shadow V provocò la morte di Lord Louis Mountbatten, ammiraglio della Royal Navy e cugino della Regina Elisabetta II

Ci sono episodi storici diventati molto celebri fuori dal Regno Unito e tra le giovani generazioni grazie a The Crown. Uno in particolare riguarda l’attentato subito da Lord Louis Mountbatten, che il 27 agosto 1979 rimase vittima di un’esplosione che coinvolse la sua imbarcazione durante la pesca delle aragoste.

La scena che la serie ha proposto è di fortissimo impatto. Si mostra Lord Mountbatten, che in una bella mattinata a Mullaghmore, dove soggiornava spesso, si apprestava a prendere il largo con la sua barca: ma proprio mentre sceglie di restituire al mare aragoste troppo piccole per essere mangiate, la sua imbarcazione esplode. Tuttavia la storia che c’è dietro a questo evento luttuoso è molto più interessante di quella raccontata nella fiction.

Chi era Lord Mountbatten

Classe 1900, Lord Mountbatten era pronipote della Regina Vittoria: questo lo rendeva cugino di secondo grado della Regina Elisabetta II. Dopo l’esilio dalla Grecia della famiglia del Principe Filippo di Edimburgo, Lord Mountbatten ne era diventato il mentore, lo “zio Dickie” che l’ha accompagnato lungo tutta la vita, presentandogli tra l’altro quella che sarebbe stata la sua futura moglie e sovrana.

Lord Mountbatten ebbe un ruolo in molte vicende della Royal Family. E in particolare, dopo che Filippo divenne adulto, lo zio Dickie divenne una guida anche per il Principe Carlo, che gli era molto affezionato.

Tra il 1913 e il 1965, Lord Mountbatten fece parte della Royal Navy, partecipando attivamente a entrambi i conflitti mondiali e conseguenti il titolo di ammiraglio. Tra i vari ruoli ricoperti, oltre quello di vicerè dell'India, c’è stato per lui anche quello di capo di Stato Maggiore della Difesa. Era un vero lupo di mare, e il mare lo avrebbe inghiottito per sempre in quel giorno di agosto.

L’incidente

Come ricorda History, quel 27 agosto 1979 era un giorno pieno di sole: il bel tempo era giunto dopo molti giorni di pioggia. Louis Mountbatten si trovava al castello di Classibawn, ovvero nella sua casa delle vacanze a Mullaghmore, nella contea di Sligo in Irlanda del Nord. Così partì con la sua imbarcazione, la Shadow V, per la pesca delle aragoste. Con lui la figlia Patricia, il marito di questa Lord John Brabourne, i loro figli gemelli Timothy e Nicholas e Lady Doreen Brabourne, consuocera di Mountbatten. Nell’equipaggio figurava il 15enne Paul Maxwell, amico di famiglia.

Quindici minuti dopo la partenza, una bomba da oltre 22 chili e mezzo esplose, distruggendo la barca e uccidendo sul colpo Mountbatten, il giovane nipote Nicholas e Maxwell. Lady Brabourne è morta il giorno dopo a seguito delle gravi ferite riportate. Tutti gli altri a bordo sono infatti risultati feriti gravemente: il loro corpo ce la fece, ma rimasero a tutti le cicatrici interiori. “Cinquanta libbre di gelignite sono esplose, mandando in aria piogge di legno, metallo, cuscini, giubbotti di salvataggio e scarpe - scrisse per la Bbc Andrew Lownie - Poi ci fu un silenzio mortale”.

Secondo BritishHeritage, i pericoli dei viaggi di Mountbatten a Mullaghmore erano minimi: l’uomo era pensionato e quindi non rivestiva più ruoli politici o militari, inoltre le persone del luogo lo amavano molto. Spesso tuttavia le guardie del corpo accompagnavano Mountbatten nelle sue uscite con la Shadow V, tuttavia in quel caso restarono a terra. Pare che fu lo stesso nobiluomo a richiedere una sicurezza minima da alcuni anni.

Elle ricorda le parole di un’intervista rilasciata nel 2008 da Patricia Knatchbull, figlia di Louis Mountbatten: “Ricordo la visione di una palla che esplode verso l'alto e poi si getta in mare e mi chiesi se sarei stata in grado di raggiungere la superficie prima di svenire. Ho ricordi molto vaghi, di tanto in tanto, di fluttuare tra il legno e i detriti, di essere stata trascinata in un piccolo gommone prima di perdere completamente conoscenza per giorni”.

La rivendicazione dell’Ira

L’attentato fu rivendicato dall’Ira, l’organizzazione terroristica indipendentistica dell’Irlanda del Nord. L’Ira, nello stesso giorno, uccise 18 soldati britannici al confine irlandese di Warrenpoint. Per l’Ira, spiega History, l’omicidio di Mountbatten rappresentava “un atto discriminatorio per portare all'attenzione del popolo inglese la continua occupazione del nostro Paese. La morte di Lord Mountbatten e gli omaggi a lui tributati saranno visti in contrasto con l'apatia del governo britannico e del popolo inglese per la morte di oltre 300 soldati britannici e la morte di uomini, donne e bambini irlandesi per mano delle loro forze”.

Fu condannato all’ergastolo Thomas McMahon, ritenuto l’esecutore materiale per aver realizzato la bomba che distrusse la Shadow V nell’attentato, mentre l’attivista Ira, indagato, Francis McGirl fu invece assolto. Dopo 19 anni in prigione McMahon fu rilasciato.

Le reazioni e i posteri

Nel 2015 il Principe Carlo ha parlato pubblicamente dell’avvenimento luttuoso che gli aveva portato via il suo amato “zio Dickie”: “All’epoca, non potevo immaginare come avremmo fatto i conti con l'angoscia di una perdita così profonda poiché, per me, Lord Mountbatten rappresentava il nonno che non ho mai avuto. Quindi è stato come se le fondamenta di tutto ciò che ci era caro nella vita fossero state irrimediabilmente dilaniate. Attraverso questa terribile esperienza però, ora comprendo in modo profondo le agonie sopportate da tanti altri in queste isole, di qualunque fede, denominazione o tradizione politica”.

Tempo dopo l’attentato, si scoprì tra l’altro che anche Lord Mountbatten fosse un sostenitore delle teorie indipendentiste nordirlandesi. Secondo il nobiluomo, l’Irlanda avrebbe dovuto tornare a essere unita e indipendente dal Regno Unito. Tuttavia, storicamente, i membri della Royal Family sono tenuti a non parlare pubblicamente delle proprie posizioni politiche: forse è questa la ragione di tanta segretezza che, se fosse stata prima palesata, forse avrebbe evitato la tragedia.

All’epoca la reazione di Margareth Thatcher fu, perfettamente in linea con la sua azione politica, molto dura nei confronti dell’Iea. Ma sempre Carlo, nel 2015, a margine dell’incontro avuto con la madre di Maxwell Mary Hornsey, disse ancora che quell’appuntamento con la parente di un’altra vittima fu “una delle esperienze più meravigliose che ho avuto, un’esperienza che ha trasformato un momento molto tragico in qualcosa che guarisce e perdona”.

Si dice che il terzogenito del Principe William e Kate Middleton, il Principe Louis, sia stato chiamato in questo modo come omaggio a Lord Mountbatten. Così, forse, la famiglia reale britannica continua a ricordare lo zio Dickie.

Vittorio Sabadin per “il Messaggero” il 7 giugno 2022.

Nemmeno l'ultimo scandalo, quello delle feste organizzate a Downing Street quando al resto del paese si chiedeva di restare confinato in casa, ha chiuso la carriera politica di Boris Johnson, salvato da compagni di partito più attaccati alla poltrona di lui e non ancora pronti a individuare un successore. Non c'è precedente, nella storia della Gran Bretagna, di un premier sopravvissuto a così tante tempeste: solo la resurrezione di Lazzaro, notava The Atlantic, è stata più clamorosa delle sue.

Tutta la vita pubblica e privata di Johnson è stata infatti disseminata di incidenti e di bugie: è stato licenziato dal suo giornale, cacciato dal suo partito, mandato via di casa da una delle mogli, costretto ad ammettere di avere usato cocaina, obbligato mille volte a balbettare scuse per avere scritto cose inventate, o pronunciato battute infelici quando è stato ministro degli Esteri, il peggiore, dicono tutti, che la Gran Bretagna abbia mai avuto.

I PROGETTI Nato a New York nel 1964 da una madre 22enne, Charlotte, e da un padre, Stanley, che frequentava ancora la Columbia University, Alexander Boris de Pfeffel Johnson già da bambino voleva diventare il re del mondo e aveva un solo obiettivo: vincere sempre.

Doveva saltare più in alto, correre più veloce e avere i capelli più biondi. Sveglio e molto intelligente, è uscito dal college di Eton convinto che gli inglesi sono superiori a qualunque straniero e che le regole non devono sempre essere uguali per tutti. A Oxford è entrato nell'esclusivo Bullingdon Club, ritrovo della futura classe dirigente britannica e covo di bevute e spedizioni vandaliche contro gli altri studenti.

Assunto al Times grazie ai parenti della prima moglie, Allegra Mostyn-Owen, ne è stato cacciato subito per essersi inventato una dichiarazione di Sir Colin Lucas, illustre storico e suo padrino, su inesistenti amori gay di Edoardo II, che gli servivano per rendere più piccante il pezzo. Nel 1990 scriveva da Bruxelles corrispondenze per il Telegraph piene di facili ironie sulle inefficienze dell'Europa, ma divenne famoso per avere offerto a un amico la possibilità di fornirgli l'indirizzo di un cronista che l'amico voleva punire facendogli due occhi neri, perché aveva rivelato una sua truffa alle assicurazioni.

Appena entrato in politica, Johnson fu cacciato dal partito conservatore per aver mentito al leader Michael Howard su una sua storia con Petronella Wyatt, una collega dello Spectator che si disse fosse stata costretta a un aborto. Diventato sindaco di Londra, ha avuto un legame con Jennifer Arcuri, una imprenditrice americana alla quale ha procurato lucrosi contratti e passaggi gratis sui voli ufficiali. Si è fatto eleggere sindaco per due volte, la prima con un programma di sinistra favorevole all'Europa, la seconda con idee completamente opposte: visto che David Cameron era per il Remain, se voleva prenderne il posto doveva sostenere la Brexit.

Nella campagna per l'uscita dall'Europa ha mentito spudoratamente, sostenendo che la Ue riceveva da Londra 350 milioni di sterline la settimana, più del doppio della cifra effettiva.

Si è fatto pagare da misteriosi finanziatori la carta da parati dorata dell'appartamento di Downing Street e le vacanze ai Caraibi. Ha ingannato la regina Elisabetta facendole firmare una proroga del Parlamento vietata dalla Costituzione e si è dovuto scusare anche di questo: mentire al sovrano è ancora alto tradimento, reato per il quale una volta si veniva impiccati.

LE MULTE Multato per i party a Downing Street, Johnson è il primo premier britannico sanzionato per avere violato una legge da lui stesso approvata. Ha detto che non si era accorto che a casa sua si organizzavano feste e ci si domanda come potesse affrontare i gravi problemi del momento se non vedeva neppure quello che accadeva sotto il suo naso. Max Hastings, suo ex caporedattore, ha detto: «Molti politici sono ambiziosi e spietati, ma Johnson è la medaglia d'oro degli egomaniaci». Ora sarà più difficile convincerlo a farsi da parte, ma se non vuole morire con lui, il partito conservatore dovrà riprovarci.

Gran Bretagna, l'addio al veleno di Boris Johnson dopo il caso Pincher: ha prevalso la mentalità del branco. Il Tempo il 07 luglio 2022

Boris Johnson alla fine ha capitolato e rassegnato le dimissioni da primo ministro della Gran Bretagna. C’era anche Carrie Symonds, la moglie di BoJo, all’esterno di Downing Street, quando il premier britannico ha annunciato l'addio, con in braccio, in un marsupio, la secondogenita della coppia, Romy, "Voglio ringraziare Carrie, i nostri figli e tutti i componenti della nostra famiglia che hanno dovuto sopportare così tanto per così tanto tempo", ha detto Johnson nel suo discorso. Tra l'altro nelle ultime settimane era emerso che l'ormai ex premier aveva pensato a lei per un incarico di governo o presso la Famiglia reale da 100mila sterline l’anno (richiesta accantonata con imbarazzo considerato l’evidente nepotismo). 

 È la mentalità del "branco" che ha prevalso a Westminster, ha detto lo stesso premier britannico uscente, accusando i deputati conservatori di ignorare il suo mandato elettorale e le dimensioni relativamente ridotte del vantaggio laburista nei sondaggi. "Come abbiamo visto a Westminster, l’istinto del branco è potente. Quando il branco si muove, si muove", ha detto. 

L’annuncio di Johnson è giunto dopo ore concitate: a partire da martedì, circa una sessantina tra ministri e membri del governo hanno dato le proprie dimissioni per spingerlo a lasciare l’incarico, un’ondata di defezioni che è proseguita anche la notte scorsa. A sancire la fine politica del premier, una serie di scandali che hanno fatto crollare i consensi dei tory: prima il "partygate", ossia l’accusa di aver organizzato dei festini nei mesi in cui il Regno Unito era piegato dalla pandemia di Covid-19, e poi di recente lo scandalo sessuale che ha colpito il "deputy chief chip" Chris Pincher, tra i fedelissimi del premier. Non solo nei giorni scorsi Pincher è stato denunciato per aver molestato due uomini in un locale, ma sarebbe stato accusato di non essere nuovo a questo tipo di comportamenti, e secondo molti Johnson ne era a conoscenza quando gli ha affidato l’incarico. 

"Mi dispiace rinunciare al più bel lavoro del mondo, grazie per l’immenso privilegio che mi avete dato. Nessuno però è indispensabile", ha detto Johnson annunciando le sue dimissioni da capo del partito dei Conservatori, in un discorso fatto alla stampa fuori dal civico 10 di Downing street. Johnson, come preannunciato nelle ultime ore, resterà in carica finché non sarà scelto un nuovo leader del partito che andrà anche a ricoprire la carica di premier, presumibilmente in autunno. Le consultazioni inizieranno immediatamente. "Ho nominato un gabinetto e continuerò a servire (il paese, ndr) fino a quando non sarà in carica il nuovo leader", ha detto Johnson rivendicando i risultati raggiunti, tra cui "il completamento della Brexit, il superamento della pandemia e la guida dell’Occidente nella resistenza all’invasione dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin". 

Boris Johnson, "persino la Regina Elisabetta". Il retroscena assurdo svelato da Caprarica. Il Tempo l'08 luglio 2022

“La Regina Elisabetta rimproverata per colpa di Boris Johnson”. E’ Antonio Caprarica, scrittore e storico inviato Rai nel Regno Unito, a tirare fuori un retroscena sui rapporti tra il primo ministro dimissionario e Sua Maestà. In collegamento con il programma Omnibus, venerdì 8 luglio, su LA7, Caprarica ha fatto un liscio e busso mica da ridere a Boris Johnson: “Lascia un cumulo di macerie.

A Londra, era considerato un Trump de ‘noartri, come si direbbe a Roma. A fronte di questo politico arrogante, bugiardo e inaffidabile, c’è stata una rivolta del Parlamento. Alle ripetute bugie e alla realtà parallela che costruiva ogni volta che parlava, il suo stesso partito, quello dei conservatori, ha detto basta. E’ anche da vedere se resta davvero a interim fino a settembre”.

Alla domanda su come Buckingham Palace stia vivendo la crisi, l’esperto royal non ha esitato: “In modo costituzionalmente inappuntabile come nello stile della Regina, ma naturalmente in privato si sta studiando la situazione”. E qui Caprarica svela un dietro le quinte che deve aver indispettito non poco Elisabetta II: “La Regina ha visto passare 15 Primi ministri, ma Johnson è stato l’unico che le ha procurato una reprimenda della Corte suprema.

Come è noto, la Regina deve firmare qualunque atto il Primo ministro le sottoponga e lui le ha fatto firmare la proroga del Parlamento per far passare la sua forzatura sulla Brexit violando tutte le norme e guadagnando a Sua Maestà un rimprovero della Corte suprema”. Un unicum considerando che nessuno può dire cosa fare a the Queen, una macchia sui 70 anni di regno difficile da perdonare. E che i rapporti tra la monarchia e l’inquilino del numero 10 di Downing street fossero sfilacciati, se non strappati, arriva da un’altra rivelazione del giornalista: “A quanto detto, aggiungete che più recentemente il principe Carlo ha detto di trovare ‘in an apalling’ cioè spaventoso, il piano di Johnson per deportare gli immigrati clandestini in Ruanda”.

DAGONEWS l'8 luglio 2022.

Molti inglesi ieri hanno stappato la bottiglia buona e brindato alle dimissioni di Boris Johnson, ma nessuno era felice come Theresa May. 

L’ex premier, fatta fuori proprio da “BoJo”, è stata avvistata ieri mentre ballava scatenata a un festival musicale nell’Oxfordshire. 

La May è nota per la sua passione per la danza: già in passato era stata ripresa mentre ancheggiava nel solito modo goffo. 

Ma questa volta, la solitamente mita Theresa, ha mollato i freni inibitori dalla gioia per le disgrazie del suo successore, sulle note di “Nothing like this” di Craig David.

Estratto dell’articolo di Vittorio Sabadin per “il Messaggero” l'8 luglio 2022.  

[…] Per tutta la vita (Boris Johnson, ndR) ha usato inganni e menzogne per la sua carriera e ha sempre cercato di farla franca. È stato spesso costretto a scusarsi, ma non si è mai pentito, perché non ritiene che le leggi che gli altri rispettano debbano valere anche per lui. 

[…] Perfino un atteggiamento da clown maldestro ispira a volte simpatia e porta consensi. Quello che i britannici invece non tollerano è che un primo ministro sia scoperto a mentire o si conceda privilegi che nega ai cittadini. 

[…] Il rapporto di Sue Gray ha rivelato che cosa avveniva in queste feste alle quali Johnson partecipava «ignorandone l'esistenza»: risse, vomito, muri imbrattati di vino, maleducazione con i domestici e disprezzo per la gente comune, che non poteva neppure andare a trovare i parenti che morivano in ospedale.

È stato questo a scatenare un'ondata di disgusto collettivo, una rottura del rapporto di fiducia che dovrebbe instaurarsi tra chi viene eletto e chi lo ha votato. Sono stati i party a Downing Street a decidere il destino di Johnson, l'uomo che sognava di essere uguale a Churchill senza averne la statura politica e morale, e che è riuscito ad avvicinare forse solo nel consumo quotidiano di alcol. 

La gente aveva perdonato al premier molte cose: la nuova tappezzeria di Downing Street pagata da chissà chi, le vacanze ai Caraibi offerti da anonimi sostenitori, la protezione istintivamente data a tutti i collaboratori scoperti a violare le regole, come Dominic Cummings durante il Covid, o come il ministro Matt Hancock, filmato con la mano sul sedere della sua amante nelle ore d'ufficio. Ma le feste durante il lockdown non si potevano tollerare.

[…] Johnson è vissuto di tempo preso in prestito: se non ci fosse stata la vicenda di Chris Pincher, il pizzicatore di maschi, con nuove bugie del premier e nuove goffe scuse al Parlamento, ci sarebbe stata qualche altra cosa. Il suo destino era segnato. Il problema ora non sarà solo quello di trovargli un successore. […]

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.  

Già il nome è lungo. E la dice lunga: Alexander Boris de Pfeffel Johnson. Giornalista, istrione, politico, adultero seriale, sindaco di Londra, primo ministro: Boris Johnson è stato tutto questo e molto di più. Quando era bambino, aveva proclamato di voler diventare «il re del mondo». 

Ma Boris era in realtà il suo secondo nome: per i suoi familiari lui è sempre stato semplicemente Al. Boris Johnson è un nome d'arte, un vestito di scena, un personaggio inventato per venire a capo di un'infanzia caotica e fuori dal comune. Al-Boris era nato a New York e nei primi 14 anni di vita aveva già cambiato casa 32 volte attraverso due continenti. 

Il piccolo Alexander, fino all'età di otto anni, era stato quasi sordo. Un tratto che lo aveva isolato dagli altri bambini e che aveva acuito la sua sensibilità e la sua intelligenza. Per sopravvivere, a Eton aveva cominciato a sviluppare la sua personalità eccentrica e vistosa, facendo infuriare i professori per il suo atteggiamento «disgraziatamente arrogante». Come scrisse un professore, era convinto che le regole a lui non si applicassero. Ed è allora che cambiò il suo nome in Boris, appellativo molto più ad effetto.

A Oxford, dove studiava Lettere classiche, si candidò a presidente dell'Unione studentesca: non fece campagna, convinto di dover vincere per il solo fatto di essere Boris. 

Perse. Allora decise di riprovarci, questa volta contando su uno stuolo di sostenitrici adoranti (aveva scoperto il potere sulle donne che dà il potere): e conquistò lo scettro.

Era nato Boris Johnson.

È sempre a Oxford che muove i primi passi nel giornalismo: una carriera che decolla quando negli anni Novanta il Telegraph lo manda a fare il corrispondente da Bruxelles. Qui si afferma come una delle penne più euroscettiche basate nella capitale d'Europa e Margaret Thatcher lo elegge a suo giornalista preferito. E i suoi articoli al vetriolo contro la Commissione Delors contribuiscono a esacerbare quell'euroscetticismo che ha condotto fino alla Brexit. 

Ma è tutto il suo modo di stare al mondo che è quanto meno disinvolto: celebre il ritardo con cui mandava i pezzi ai giornali, costringendo le redazioni a lunghe serate per metterli in pagina. Per non parlare delle multe accumulate quando provava automobili per conto della rivista GQ . 

E le cose non migliorano quando diventa direttore dello Spectator , dove lo ricordano per le assenze, le riunioni mancate e il lavoro lasciato fino all'ultimo momento. 

Altrettanto sbadato mostra di essere nella vita privata: (perde l'anello di nozze un'ora dopo la cerimonia, neanche fossimo a «Quattro matrimoni e un funerale»). Intreccia una relazione con la columnist dello Spectator Petronella Wyatt, affare che gli costa la poltrona di ministro ombra conservatore della Cultura. 

Un disordine nella vita privata che lo vede accumulare amanti e figli illegittimi, fino alla separazione dalla sua seconda moglie a causa della relazione con la giovane Carrie Symonds, che diventa poi la sua terza consorte. 

Johnson alla carriera giornalistica aveva presto affiancato quella politica, culminata nel 2008 nell'elezione a sindaco di Londra (con successiva riconferma nel 2012).

Anche in questo ruolo si fa subito riconoscere: quando va a Pechino a raccogliere la bandiera olimpica, fa infuriare i cinesi perché si presenta con la giacca sbottonata. 

Eppure i londinesi lo apprezzano, anche perché da sindaco della capitale si sposta su posizioni più liberali, in sintonia con lo spirito della metropoli. E soprattutto cura maniacalmente la propria immagine, fino a scompigliarsi i capelli apposta prima di apparire in pubblico. «Un buffone, snob, sociopatico, egocentrico e mentitore seriale», lo ha definito la rispettata commentatrice del Guardian Polly Toynbee. 

Quando il premier David Cameron indice nel 2016 il referendum sulla Brexit, Boris si lancia nella sua scommessa più rischiosa, l'uscita della Gran Bretagna dall'Europa.

Forse più per opportunismo che per convinzione: tanto che aveva scritto due editoriali per il Telegraph , uno a favore e uno contro la Brexit. 

Ma poi capisce che se cavalca l'euroscetticismo può arrivare fino a Downing Street: ed è una scommessa vinta. Tramontato lo sfortunato interregno di Theresa May, si installa come primo ministro nell'estate di tre anni fa. Con un solo punto nel programma: «Get Brexit done», portare a termine la Brexit. E ci riesce, grazie a una vittoria elettorale che come dimensioni trova precedenti solo in Margaret Thatcher. 

Molti lo hanno paragonato a Trump. Ma non è così: Boris è sempre stato un internazionalista liberale, che ha visto la Brexit non come un riflesso di chiusura ma come la rinascita della Global Britain, aperta al mondo. Ed è per questo innato spirito libertario che, di fronte alla pandemia, ha resistito fino all'ultimo prima di imporre misure restrittive.

Salvo poi riuscire ad attuare il più rapido programma di vaccinazione in Europa. 

Alla fine è stato perso non dalle sue scelte politiche, ma dal suo carattere (o mancanza di). Boris ha perso la poltrona per la sua personalità tarata, quella maschera clownesca che si è costruito fin da ragazzo e che si esprime in un tratto disordinato e amorale. 

Qualche anno fa i giornali inglesi avevano pubblicato una foto dell'interno della sua macchina che diceva tutto: cartacce, bottigliette vuote, avanzi di cibo, spazzatura di ogni tipo. E si erano chiesti: può un pasticcione simile guidare il Paese? La risposta c'era già, ma non volevano ammetterlo. 

Un traditore seriale, dunque, un mentitore incallito, che è andato avanti a far carriera ostentando un rapporto più che elastico con la verità. 

E dunque gli deve essere sembrata una bazzecola fare festa a Downing Street mentre il resto della Gran Bretagna era agli arresti domiciliari durante il lockdown o negare l'evidenza di fronte agli scandali nel suo partito. Sul suo epitaffio politico si potrà scrivere che era un cialtrone di genio: la cui genialità è stata sopraffatta dalla sua irrimediabile cialtronaggine.

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.

Boris Johnson? «Un opportunista che non crede in nulla, che è privo di ideologia e che al massimo ha qualche debole preferenza». Simon Kuper, scrittore e giornalista del Financial Times, ha studiato la vita, la carriera e l'ambiente in cui il premier si è formato per il libro Chums (Come una piccola casta di conservatori di Oxford ha conquistato il Regno Unito, il sottotitolo del volume): ha inquadrato il privilegio e l'indistruttibile autostima di una rete di giovani e ricchi rampolli sicuri che prima o poi sarebbero arrivati al potere. «L'avventura politica del primo ministro - racconta - è sempre stata solo un progetto personale. Non aveva un obiettivo se non fosse quello che arrivando a Downing Street qualcuno prima o poi gli avrebbe fatto un monumento. È un narcisista».

Johnson ha caro il confronto con Winston Churchill: c'è nel Regno Unito un politico a cui è paragonabile?

«Ho letto con interesse ciò che ha scritto su Twitter Petronella Wyatt, sua ex compagna: che Boris non ha mai provato alcun rispetto per l'elettorato conservatore. Ha manipolato la gente, intenzionalmente, con la spavalderia di chi si crede superiore. Non si è curato di niente e di nessuno. In questo non esiste nella storia di questo Paese un politico paragonabile a lui». 

Crede che abbia cambiato il Paese e il panorama politico per sempre?

«Ha fatto danni irreparabili. Prima di tutto la Brexit. Johnson si ostina a citarla come un traguardo ma i numeri parlano chiaro. Non ci sono vantaggi e il costo sta diventando chiaro a tutti. Johnson lo sa. Non parla più di opportunità o di Gran Bretagna globale. Servono regole più severe su chi mente al Parlamento e sui finanziamenti. Sinora ci siamo affidati a un sistema basato sul buon senso e l'onestà. Johnson ha dimostrato che non funziona». 

Quali sono le sue armi segrete?

«Qui la gente prova ancora deferenza verso uomini bianchi che parlano come Boris, che hanno studiato a Eton e Oxford e che sembrano nati per comandare. Ha conquistato la gente con il senso dell'umorismo - sa essere spiritoso - e il suo ottimismo. Il premier è un uomo che in tutto ciò che fa esprime la certezza che tutto andrà bene. Se la gente ha votato per la Brexit è stato anche perché il progetto nella retorica di Johnson era accompagnato da una visione positiva del futuro, anche se falsa». 

Ha fatto qualcosa di buono, secondo lei? Per cosa sarà ricordato?

«Sarà ricordato per la Brexit, ma no, non credo che abbia fatto qualcosa di positivo.

Il vaccino e la pandemia? Il governo ha sprecato 37 miliardi di sterline con un sistema di tracciamento che non ha mai funzionato e che Johnson, come suo solito, ha messo in mano a una compagna di università, Dido Harding. Il vaccino lo abbiamo avuto grazie a Kate Bingham, non a lui. Il sostegno all'Ucraina? L'avrebbe fatto qualsiasi premier britannico».

Cosa farà ora Johnson?

«È nato per essere un intrattenitore. Tornerà a dedicarsi al progetto che gli sta più caro: il suo successo. È un narcisista. Non lo immagino felice in campagna con moglie e figli. Non ha mai prestato grande attenzione alla famiglia. Credo che con le sue dimissioni sia finita l'epoca degli etoniani».

Boris Johnson si sposa ma è dimissionario: niente gala nella residenza da primo ministro. Antonello Guerrera su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

La data scelta è il 30 luglio ma bisognerà cambiare location, nessun ricevimento a Chequers  

Londra. Questo matrimonio non s'ha da fare, perlomeno a Chequers. Ovvero la maestosa residenza di campagna dei primi ministri britannici, eretta nel XVI secolo, con piscina interna e gentilmente donata allo Stato da Lord e Lady Lee of Fareham nel 1917. Boris Johnson e sua moglie Carrie avevano in mente di festeggiare proprio a Chequers il matrimonio celebrato religiosamente con soli 30 intimi (causa restrizioni Covid) l'anno scorso alla cattedrale di Westminster, cattolica come Carrie, a differenza della anglicana Abbazia di Westminster.

Clownfall. Il lungo addio al potere di Boris Johnson. Matteo Castellucci su L'Inkiesta l'8 Luglio 2022.

Il premier inglese si è dimesso, ma rimarrà a Downing Street fin quando il partito conservatore non eleggerà il suo successore. Ci vorranno almeno due mesi, a meno che i laburisti non riescano a far votare a maggioranza la mozione di sfiducia

Checkmate, Boris. Arruffato e ritardatario anche nei momenti migliori, per il discorso più difficile della sua carriera Johnson spacca il secondo. Il primo ministro varca la porta nera di Downing Street, quella sognata per una vita, alle 13.31 in punto. Sembra un sosia, anche per le parole misurate, le poche sbavature. Non si sottrae al cerimoniale di una democrazia vecchia di secoli che però funziona. Non ha ceduto a tentazioni trumpiane: o, meglio, è stato un golpista solo immaginario, quando ha cercato di restare aggrappato al potere nonostante le defezioni di massa e le pressioni dei superstiti. 

Recita la parte dello statista, il momento lo richiede. È un sottogenere della politica britannica: prendere atto (un po’ in ritardo, in questo caso) nel momento in cui un ciclo si è chiuso, lasciare la carica e gli affari in ordine, prestarsi alla transizione, mentre nel partito conservatore – che per archiviare le sue stagioni conosce un solo modo, il regicidio – i congiurati ricominciano a dividersi, e scannarsi, nella corsa alla successione. La rabbia traspare, eppure lui ha quell’aria da non è successo davvero. L’ultimo atto l’ha subito, più che viverlo da protagonista, ma al di là del fair play proverà fino all’ultimo a cambiare il finale, o ad allungarlo il più possibile. Come in una «soap opera di cattivo gusto», il copyright è della premier scozzese Nicola Sturgeon, che invoca le elezioni con vista su un secondo referendum di indipendenza.  

Con la Regina Elisabetta, Johnson aveva esaurito il credito. Il colloquio è stato decisivo. Si era già dovuto scusare con lei perché la movida illegale nei palazzi del governo non si era fermata neppure alla vigilia dei funerali del principe Filippo e, prima, perché la suprema magistratura aveva contestato la chiusura del Parlamento, fatta controfirmare alla sovrana dai conservatori per imporre le loro condizioni di uscita dall’Unione europea. Ha dovuto cedere: il numero di ministri, minori e maggiori, che si era dimesso aveva superato la cinquantina. Nonostante l’elefantiasi degli esecutivi britannici, a Tony Blair era bastato ricevere una trentina di «lettere» per arrendersi. Meno di 20 e David Cameron e Gordon Brown hanno capito che era finita. 

Andarsene con una missiva formale è un altro dei particolarismi un po’ passatisti del Regno Unito. Come il cerimoniale della rinuncia: la posizione da cui ci si dimette è quella di leader dei conservatori, che dà diritto a entrare a Downing Street. Finché i Tories non avranno scelto il prossimo capo, Boris non si muoverà. Almeno, questo è quello che vorrebbe fare lui. L’ha detto davanti a reti unificate: l’esecutivo andrà avanti finché il congresso, magari con tempistiche accelerate, non avrà incoronato il futuro inquilino, che riceverà tutto il suo sostegno. 

Dall’opposizione, i laburisti minacciano una sfiducia in aula, a Westminster, per sfrattarlo se non se ne va subito da solo. Due vecchie glorie dei conservatori come Theresa May e John Major gli intimano di mollare, di «non mettere in pericolo la democrazia». La base potrebbe tollerare una sua occupazione abusiva solo il tempo necessario a riorganizzare le truppe. Il voto, sulla carta, è lontano, a gennaio 2025. Andarci in anticipo, dopo il crollo nei sondaggi, sarebbe un naufragio. Johnson farà altri danni al brand dei conservatori da qui all’autunno? Due mesi sono un’eternità, ma la guerra non permette un vuoto di potere ai vertici di una potenza del G7. 

Johnson è il più fedele e attivo alleato dell’Ucraina, che già lo rimpiange, e l’arcinemico della Russia, che ora festeggia. Nei mesi del conflitto, è riuscito a ricostruirsi una credibilità internazionale malgrado i disastri domestici. La Global Britain è rimasta uno slogan, ma forse è sulla Politica Estera che il premier dimissionario si è mosso meglio. In una telefonata all’amico Zelensky ha promesso: il sostegno non verrà mai meno, continuerò a lavorare per sbloccare i corridoi del grano. Lo spazio di manovra è però ridimensionato, come i suoi poteri ad interim. È quanto hanno promesso i ministri che hanno colmato i vuoti della great resignation degli ultimi giorni. Scorrendo l’account Twitter ufficiale di Downing Street c’è una rassegna di volti, più simile a come le squadre di calcio comunicano gli innesti del calciomercato che non a un nuovo assetto governativo. 

La faida adesso trasloca dai corridoi al corpo del partito, dove tutti i big spergiurano che non si candideranno, per non scoprire le carte. Mentre il pubblico è distratto dal «sacrificio» del leader, è l’ora delle grandi manovre e dei tradimenti. Con questa accusa, Johnson ha voluto togliersi la soddisfazione di licenziare l’ex alleato e compagno di Brexit, Michael Gove. Anche il lessico di questo finale è quello della farsa, del partygate, dell’infedeltà di cui il primo ministro era specialista, come nei divorzi, fossero ex mogli o l’Europa. La domanda è se gli addii saranno sufficienti a restaurare la reputazione di chi li ha commessi. E quanto ci si può fidare di un mentitore seriale.  

Boris Johnson sognava di ripercorrere le orme del suo idolo, Winston Churchill. O di restare al governo a lungo come Margaret Thatcher. Altro che un decennio, la sua parabola politica si chiude come una delle più corte degli ultimi cinquant’anni, dopo il laburista Gordon Brown. D’altronde sia Churchill sia Thatcher erano stati costretti alle dimissioni dal partito, che divora – questo sì – solo chi poi resta nella sua storia. Resta ancora qualche pagina da scrivere, Boris, e sarà pirotecnica come tutte le altre. 

BoJo si dimette: "Ma non avrei voluto". Affondato dalla fronda conservatrice. Boris Johnson travolto dallo scandalo delle molestie di Chris Pincher si dimette, annuncia la Bbc. Si apre la partita per la successione. Andrea Muratore su Il Giornale il 7 luglio 2022.

Boris Johnson getta la spugna e si dimette. Il premier britannico, come ha anticipato la Bbc in mattinata, ha voluto anticipare la fronda del Partito Conservatore pronto a rimuoverlo forzando la modifica delle regole del 1922 Committee, che non avrebbero permesso per un anno nuove votazioni sulla fiducia nei suoi confronti.

"È ora chiara la volontà dei deputati del Partito conservatore che ci sia un nuovo leader di partito e quindi un nuovo primo ministro. Sono d'accordo con Sir Graham Brady, il processo di scelta del nuovo leader dovrebbe iniziare ora", ha detto nel suo discorso alla nazione dopo aver incontrato la Regina, "Lascio. Ma non avrei voluto farlo". Johnson ha poi spiegato che resterà in carica fino all'autunno, quando cioè non sarà eletto un nuovo leader. Per questo, il nuovo governo nominato per rimpiazzare i ministri dimissionari è "a termine". "Darò tutto il mio sostegno al nuovo leader". ha assicurato, "Molti saranno sollevati da questa notizia (delle dimissioni) altri si rallegreranno ma sono triste a dovere rinunciare al migliore lavoro del mondo. Ma nella politica nessuno è indispensabile".

La slavina dello scandalo delle presunte molestie compiute verso colleghi Tory dall'ex Whip Chris Pincher, fedelissimo di BoJo, di cui il primo ministro sarebbe stato a conoscenza si è rivelato la pietra tombale per il governo nato col travolgente successo elettorale del 2019. Johnson, si noti, si dimetterà da leader del Partito Conservatore, non da Primo ministro come fatto, nel 2019, da Theresa May. La differenza è tutt'altro che formale: questo consentirà all'ex sindaco di Londra di guidare il governo fino all'autunno, quando il Congresso conservatore sceglierà il suo successore al termine delle primarie, che in caso di caduta dell'esecutivo avrebbero luogo in un lasso di tempo ben più stretto.

Da statuto il leader conservatore è anche capo del governo quando i Tory hanno la maggioranza ai Comuni. Ed è proprio da una congiura interna ai Conservatori che è iniziata la caduta di Johnson. Sfiduciato dal suo partito pur avendo la maggioranza a Westminster: le dimissioni del ministro della Salute Savid Javid e del Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak nella giornata di martedì hanno dato inizio a una slavina. In 24 ore, 26 membri del governo, tra ministri e sottosegretari, avevano lasciato l'esecutivo. Alla mattinata di oggi, il numero di dimissioni aveva toccato quota 50 unità, un settimo del gruppo parlamentare di maggioranza. Ieri Johnson ha silurato il suo fedele alleato Michael Gove, sottosegretario ai rapporti con le comunità interne del Regno Unito e pasdaran della Brexit, dopo che aveva esplicitato il suo invito al premier a dimettersi.

Johnson ha scelto la strada dell'uscita dalla guida del partito che fu di Winston Churchill e Margareth Thatcher dopo aver ricevuto nella giornata del 6 luglio una delegazione di ministri conservatori comprendenti Piri Patel, ministro dell'Interno, e Nadhim Zahawi, scelto al posto di Sunak per gestire le finanze del Regno Unito. Zahawi, conservatore divenuto celebre per aver gestito la campagna vaccinale, era atteso oggi al fianco del premier per annunciare un poderoso piano anti-inflazione, ma nella giornata di ieri, riporta il Guardian, era dato come uno dei Tory più impegnati a far pressione sul premier per dare le dimissioni dal partito. Oggi ha rotto gli indugi. Zahawi ha pubblicato una lettera pubblica dicendo che aveva il "cuore spezzato" per il fatto che Johnson non stava ascoltando il suo consiglio di amico da oltre trent'anni e che doveva dimettersi per il bene del Regno Unito. “Primo ministro", ha scritto, "questo non è sostenibile e non potrà che peggiorare: per lei, per il partito conservatore e soprattutto per tutto il Paese. Devi fare la cosa giusta e andartene subito.

Zahawi ha rotto gli indugi dopo che in mattinata Michelle Donelan, la segretaria all'istruzione nominata questa settimana, si è dimessa, dicendo che il gabinetto doveva forzare la mano a Johnson, e poco dopo era stata seguita da Brandon Lewis, il segretario dell'Irlanda del Nord. Ora è dato come uno dei favoriti per la successione al premier: se la potrebbe vedere con Sunak e Javid, in un'insolita contesa tra tre leader della destra rispettivamente di origine irachena, indiana e pachistana, e con il Ministro degli Esteri Liz Truss. Ma la partita più importante sarà sui tempi. Sia la Bbc che il Guardian notano che molti Conservatori vogliono accelerare anche l'uscita di Johnson da Downing Street, per evitare un clima di incertezza al Regno Unito. Su questo punto BoJo non vuole mollare, dato che la resa dei conti interna consentirebbe un'uscita di scena meno spiazzante della caduta dell'esecutivo nel suo complesso. Ma ora dopo ora il governo che si è installato nel 2019 è franato e già adesso non esiste più: sarà un'impresa per Johnson anche solo riempire le fila delle uscite per proseguire un'esperienza oramai giunta al capolinea nelle sue fasi di agonia conclusiva.

Gian Micalessin per “il Giornale” l'8 luglio 2022.  

«Noi non gli piacciamo molto, ma nemmeno lui piace molto a noi». Le parole con cui il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov commenta la metamorfosi di Boris Johnson trasformatosi da portabandiera dell'«atlantismo» in «anatra zoppa» di Downing Street la dice lunga sul ruolo di BoJo nel conflitto ucraino. E sulle conseguenze che il suo ridimensionamento può avere per Kiev e Volodymyr Zelensky.

Perché se Boris non avesse dato carta bianca alla propria «intelligence» e alle proprie «forze speciali», Zelensky non sarebbe certo sopravvissuto al «pronunciamento» dei generali ucraini che il 24 febbraio scorso doveva garantire - nelle previsioni (sbagliate) dell'Fsb - l'instaurazione di un governo filo russo. E se non fosse stato per Boris il presidente ucraino avrebbe probabilmente dato ascolto a chi da Washington suggeriva di portarlo via dalla capitale. 

Grazie all'insistenza di un BoJo convinto di essere un novello Churchill, il presidente-comico non solo respinse le profferte Usa restando al proprio posto, ma si trasformò in un leader-guerriero capace di galvanizzare i propri combattenti. Non a caso, ieri, uno dei primi a farsi sentire è stato proprio Zelensky ricordando l'amico e l'alleato dei «momenti più difficili».

Un alleato impareggiabile nel pretendere non solo dall'Europa, ma anche dalla Casa Bianca, un atteggiamento inflessibile nei confronti di Mosca. Ed infatti, in questi mesi, è stato proprio il furore anti-russo di Johnson a trasformare la Nato in un’alleanza bicefala dominata da una parte dalle strategie degli 007 britannici e, dall'altra, dalle forniture militari per oltre 5 miliardi e 300 milioni di dollari garantite dalla Casa Bianca. Ora però Zelensky e i suoi si chiedono se tutto ciò sopravvivrà non solo a BoJo, ma anche ai «mal di pancia» di Joe Biden e degli alleati europei alle prese con gli effetti boomerang delle sanzioni.

Più s' avvicinano le elezioni di «mid-term» di novembre e più le preoccupazioni dell'opinione pubblica Usa per il prezzo del carburante e il peso dell'inflazione promettono di trascinare il presidente americano lontano dal solco tracciato con Downing Street. E in Europa va anche peggio. Le trincee della fermezza disegnate durante il summit di Madrid potrebbero venir ben presto abbandonate. Anche perché se BoJo è un'«anatra zoppa» i suoi omologhi europei non sono né scattanti centometristi, né campioni di resistenza.

Per capirlo bastano le agitate cronache dei loro parlamenti. Mario Draghi, presentatosi a Madrid come il più convinto sostenitore della linea anglo-americana, è costretto a vedersela con le resipiscenze di Conte e dei Cinque Stelle da una parte e con quelle della Lega dall'altra. Ma se Roma piange, Parigi non ride. Emmanuel Macron, un presidente già assai distante dalla linea della fermezza pretesa da Londra e Washington, fa i conti con la nuova dimensione dell'Assemblea Nazionale. Un'Assemblea in cui i banchi, assai affollati, dell'«Union Populaire» di Jean-Luc Mélenchon a sinistra e del «Rassemblement National» di Marine Le Pen a destra, minacciano di travolgere un «governo del presidente» privo di una maggioranza assoluta.

Tutti elementi che promettono di ammorbidire ancor di più la determinazione di Macron. Anche perché già a settembre dovrà vedersela con il malessere di una piazza francese dove l'eterna diffidenza nei confronti degli Usa unita al malcontento per crisi energetica ed inflazione minaccia d'innescare miscele esplosive. 

A Berlino l'esitante cancelliere tedesco Olaf Scholz non ha davanti mesi migliori. Costretto a riaprire le centrali a carbone e quelle nucleari per fronteggiare il prevedibile blocco delle forniture di gas russo, il Cancelliere rischia di fare i conti con l'uscita dalla coalizione di governo dei Verdi del ministro degli esteri Annalena Baerbock.

La caduta di Boris rischia insomma di essere soltanto il prologo di un ciclone capace di travolgere tutte le capitali europee e lasciare assai isolata l'Ucraina di Zelensky. Un Zelensky che, non a caso, vorrebbe chiudere la guerra prima di dicembre. Ma l'unico modo per farlo, come continua a ripetere il 99enne veterano della diplomazia Henry Kissinger, è aprire un tavolo negoziale con Mosca. Peccato che fin qui nessuno si sia premurato di ascoltarlo. Né a Kiev, né a Londra, né nel resto d'Europa.

Sui generis. Andrea Muratore il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.

Istrionico, naif e in grado di attrarre l'attenzione per motivi extra-politici: Boris Johnson si lancia come personaggio da jet set

Istrionico, naif e in grado di attrarre l'attenzione per motivi extra-politici:Boris Johnson, dopo le dimissioni da leader del Partito Conservatore, sembra essersi messo al centro della scena britannica più per ricordare alla sua popolazione la sua natura di figura sui generis, capace di sparigliare e, tutto sommato, estranea ai rituali tradizionali della dialettica del sempre più incerto bipolarismo britannico.

Johnson ha sparigliato, ha cambiato gli assi della politica andando oltre la faglia destra-sinistra, ha aperto al tema del dualismo tra apertura all'Europa e Global Britain, ha ridato fiato alle trombe euroscettiche dei Tory, ha perfezionato la Brexit dopo aver portato, da etoniano trasformatosi in working class hero, il suo partito a sfondare il Muro Rosso dei Laburisti nel Nord dell'Inghilterra. Ha unito, nei tempi, miseria e nobiltà: l'ex ministro degli Esteri divenuto premier che postava orgolgioso le foto degli operai coi cartelli "Boris We Love You!" è diventato l'uomo caduto per la somma di piccoli scandali partiti dalla scarsa corrispondenza con le regole anti-Covid che nel maggio 2020 hanno portato al Partygate; il fautore del "nuovo impero romano" e della Global Britain si è visto affossato per i palpeggiamenti di Chris Pincher, suo fedelissimo.

Da interprete di un'Inghilterra, a suo modo, vecchio stampo Johnson non è parso scomporsi eccessivamente mentre il Paese arrivava a assistere alla quarta crisi di governo in sei anni. Anzi, ne ha approfittato per mostrarsi con quel volto genuino e di discontinuità rispetto all'immagine tipicamente algida dei politici britannici che hanno contribuito alla sua popolarità. Nei giorni scorsi, ad esempio, è apparso un video-selfie di Johnson direttamente dalla cabina di pilotaggio di un Eurofighter Typhoon. A Johnson è stata data una dimostrazione di un caccia Typhoon dai piloti e dagli equipaggi aerei alla base della Raf (Royal Air Force) del Lincolnshire, sita a Coningsby. In visita per dare un'occhiata alle due stazioni di allerta rapida della Raf che proteggono lo spazio aereo del Regno Unito, Johnson ha detto che quando l'allora Wing Commander Paul Hansen gli ha chiesto: "Vuoi provare?", ha risposto dicendo: "Sei sicuro? Mi sembra molto costoso. Penso che ne abbiamo solo 148 e costano 75 milioni di sterline a pezzo". La replica: "Non preoccuparti, non puoi romperlo. Quindi ho pensato: Oh beh, ultime parole famose". Oltre a questa istrionica mossa, suo personale tributo alle forze armate Johnson ha utilizzato il canale ufficiale del Premier britannico per lanciare un messaggio "unitario" via Twitter: augurare un felice festeggiamento di Eid Mubarak ai musulmani del Regno Unito. Una manovra che va in discontinuità con chi identifica BoJo e la Brexit con una sorta di visione reazionaria, chiusa se non addirittura razzista e che è stata smentita dalla forte diversità interna all'esecutivo di un premier che, peraltro, da sindaco di Londra ha in passato promosso

Ma il vero colpo di teatro si è avuto nella giornata del 20 luglio: Johnson, dimissionario tanto da leader Tory quanto da premier britannico, ha tenuto il suo ultimo discorso a Westmeinster per fare una sorta di sunto della sua esperienza triennale alla guida di Downing Street. Nel suo ultimo question time di fronte a maggioranza e opposizione laburista, Johnson ha parlato con un tono disteso e in un'atmosfera tutt'altro che conflittuale, parlando idealmente al suo erede in casa conservatrice: "Stai vicino agli americani, sostieni gli ucraini, sostieni la libertà e la democrazia ovunque […] e ricorda più di ogni cosa che non è Twitter che conta, ma le persone che ci hanno mandato qui". Da lì, poi, la chiusura: Johnson ha finito il suo discorso citando Arnold Schwarzanegger nel film Terminator 2 e chiudendo con un iconico "Hasta la Vista, Baby!". Saranno con ogni probabilità queste le ultime parole con cui Johnson avrà parlato nel tempio della democrazia britannica da capo del governo. E si tratta di un'uscita di scena nello stile di chi, da sindaco di Londra e giornalista, si divideva tra la scrittura di una biografia di Winston Churchill e una comparsata a Top Gear. E si prepara al ritorno in scena da protagonista dell'opinione pubblica nel suo stile: anticonformista e da battitore libero.

L'obiettivo è promuovere anche il personaggio di "Billion Dollar Boris", come lo ha chiamato il Daily Mail, dato che dopo l'uscita da Downing Street BoJo potrebbe apertamente monetizzare la sua fama. Come scrive Today, infatti, Johnson potrebbe arrivare a 10-20 milioni di sterline di entrate e "guadagnare facilmente" 400mila sterline a discorso, mentre le sue memorie potrebbero essere vendute per almeno 1 milione di sterline". Inoltre, "potrebbe anche avere il tempo di scrivere la sua biografia di William Shakespeare, a lungo rimandata. Johnson ha già firmato un contratto con Hodder & Stoughton per il libro 'Shakespeare: The Riddle of Genius' (L'enigma del genio) a metà 2015 e ha ottenuto un anticipo di 500mila sterline. La casa editrice confida di poter ripetere il successo dell'altra biografia scritta dall'ex sindaco di Londra", dedicata a Winston Churchill. Anche per questo l'idea di un Johnson uomo trasversale, protagonista della vita pubblica e del jet-set, conviene al premier molto più di quella di un "kingmaker" zoppo nel partito. A 58 anni, Johnson è pronto a tornare in pista più ambizioso che mai. Nel suo stile di sempre. Decisamente impolitico.

Ascesa e declino di Boris Johnson. Andrea Muratore, Giovanna Pavesi su Inside Over il 7 luglio 2022.  

Boris Johnson è diventato primo ministro del Regno Unito il 24 luglio 2019 e nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 2019, con il suo partito, i Tory ha vinto la competizione elettorale, aggiudicandosi la maggioranza assoluta. Sembrava l’inizio di una lunga epopea di governo, ma soli due anni e mezzo dopo, nel luglio 2022, Johnson si è dovuto dimettere.

Prima di ricoprire questo incarico è stato sindaco di Londra (per due mandati, dal 2008 al 2016), capo del dicastero degli Affari Esteri, giornalista e scrittore. Al suo nome corrisponde immediatamente l’immagine pubblica di un uomo di 55 anni dalla capigliatura eccentrica e una personalità politica atipica. Ha preso il posto di Theresa May ed è stato eletto capo del Partito conservatore dei Tory dopo un lungo processo interno il giorno prima della sua nomina a premier. La sua posizione sulla Brexit è sempre stata chiara: ostinatamente favorevole, ha sostenuto di riuscire a completare il corso dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea per il 31 ottobre 2019. E, a poche ore dal suo insediamento, nel suo primo discorso da premier Tory di fronte alla Camera dei Comuni, ha dichiarato di voler rendere la Gran Bretagna “il miglior Paese in cui vivere sulla Terra: verde, prospero, fiducioso e ambizioso”. Un Paese che, secondo lui, potrebbe diventare “la prima economia in Europa”. È laureato in Lettere classiche e in molti lo definiscono un uomo (e un politico) imprevedibile.

Boris, il bambino che voleva essere il "re del mondo"

Alexander Boris de Pfeffel Johnson non è nato nel Regno Unito, ma in America, a New York, nel 1964. La sua famiglia, appartenente all’alta borghesia britannica, che l’Associated Press definisce “molto estroversa e competitiva”, ha origini inglesi, turche, ottomane, russe, ebraiche, francesi e tedesche. Essendo nato negli Stati Uniti, ha mantenuto a lungo la doppia cittadinanza, anche se nel 2006 aveva comunicato l’intenzione di mantenere un solo passaporto, quello inglese. Nel 2016 ha scelto di rinunciare al documento americano. A David Letterman, in un’intervista rilasciata nel 2012, aveva detto ironicamente che, essendo per metà americano, in un certo senso, sarebbe potuto diventare presidente degli Stati Uniti. Ma, secondo quanto testimoniato dalla sorella Rachel (alla quale sarebbe legatissimo nonostante le diverse posizioni politiche), le ambizioni del fratello (almeno da bambino) miravano a un posto ben più in vista: quello da “King of the world” (il re del mondo). 

L'istruzione e la carriera da giornalista

L’istruzione che gli fu garantita fu una delle più esclusive: prima di accedere alla prestigiosa Università di Oxford, si formò all’Eton College e – nel periodo in cui il padre, Stanley Johnson, lavorò nella Commissione Europea – andò a studiare a Bruxelles. Lì ci tornò anni dopo, per fare l’unico mestiere svolto nella sua vita (se si esclude la carriera pubblica e politica): il giornalista. Scrisse per il Daily Telegraph, fu direttore dello Spectator e lavorò anche per il Times, che però lo licenziò con l’accusa di aver inventato un virgolettato. Iniziò ad attaccare l’Europa, le sue istituzioni e le sue politiche proprio durante gli anni della carta stampata.

Gli inizi, gli anni da sindaco e la politica "green"

Al Parlamento britannico, per il collegio di Henley, venne eletto nel 2001, mentre si candidò per la prima volta alle elezioni amministrative di Londra (che vinse con una buona percentuale di preferenze) nel maggio del 2008. In quella circostanza riuscì a sconfiggere il laburista Ken Livingston e il 2 maggio divenne il primo cittadino della capitale del Regno Unito. Centrale la scelta di una “politica verde” del traffico, promossa attraverso l’installazione di diverse stazioni di ricarica per le auto elettriche e la realizzazione delle “cycle superhighways”, simili ad autostrade, ma riservate esclusivamente alle biciclette. Alle elezioni generali britanniche è stato rieletto il 7 maggio 2015, questa volta, però, per il collegio di Uxbridge and South Ruislip.

Negli anni, la personalità politica di Johnson è cresciuta e si è imposta sulla scena pubblica. È stato criticato, studiato e osservato. Dopo le dimissioni del premier May alla guida del Partito Conservatore e Unionista, Johnson ha scelto di candidarsi alla leadership del gruppo, contrapponendosi al candidato Jeremy Hunt. Il voto degli iscritti ha decretato una vittoria dell’ex primo cittadino con il 66% delle preferenze degli iscritti.

Le "gaffes"

Sono state diverse le esternazioni di Johnson che hanno suscitato curiosità, qualche volta ilarità e critiche. In tanti non hanno dimenticato quando definì gli abitanti della Papua Nuova Guinea dei “cannibali” o quando sostenne che l’ex presidente Barack Obama, essendo “parzialmente kenyota”, avesse una particolare e ancestrale antipatia nei confronti del Regno Unito. O, ancora, quando paragonò le donne musulmane che indossavano il velo a delle “cassette delle lettere”.

Un politico controverso e non classificabile

Durante il periodo in cui ha ricoperto il ruolo di ministro degli Esteri (dal 2016 al 2018), i rapporti con gli omologhi degli altri Paesi dell’Unione non sono stati semplici. Ma, se da una parte la figura di Johnson è stata spesso percepita come inafferrabile, dall’altra ha sempre esercitato uno strano ascendente su chi ha avuto a che fare con lui. Secondo due giornalisti del Wall Street Journal, Max Colchester e Laurence Norman, la figura di Johnson ha procurato, nel tempo, allarme e interesse tra i politici. Perché, se da una parte l’ex sindaco di Londra paragonava gli obiettivi dell’Unione europea a quelli di Adolf Hitler, dall’altra sosteneva di avere bellissimi ricordi del periodo trascorso a Bruxelles. Nell’agosto del 2008 scelse di rompere il protocollo osservato dai politici inglesi in carica e commentò le elezioni americane, auspicando la vittoria di Obama (salvo poi attribuire alla sua nazionalità il suo parere contrario alla Brexit). Sono state tante le personalità politiche che, negli anni, lo hanno voluto conoscere o anche solo incontrare. Secondo quanto riferito da alcuni suoi ex collaboratori al Wall Street Journal, “Boris” piace a molti anche per le sue doti da intrattenitore, fra l’altro esperto e molto appassionato di storia antica (romana e greca). È diventato celebre l’episodio di quando, durante un incontro con alcuni funzionari di Cipro, si lanciò in una discussione su chi avesse davvero vinto le guerre combattute nel V° secolo a.C. tra Atene e Sparta.

La Brexit e gli incarichi

Nel 2016 Johnson annunciò il suo appoggio alla campagna referendaria per far uscire il Paese dall’Unione. In molti lessero la sua mossa come un espediente per sostituire l’allora premier, David Cameron. Come andò lo dice la storia recente: la vittoria del referendum da parte dei favorevoli alla Brexit, il 23 giugno 2016, spinse l’ex Primo Ministro alle dimissioni e Johnson sembrava il candidato ideale a prendere il suo posto, sia nella leadership Tory, sia nel governo nazionale. Ma l’annuncio di Michael Gove (tra i suoi più stretti alleati nella campagna del “Leave”) di volersi presentare e le critiche di Theresa May alla sua ipotetica decisione, spinsero l’ex sindaco di Londra a tirarsi indietro. Sorprendendo tutti. Eppure, fu proprio durante il governo della leader conservatrice che Johnson venne nominato segretario di Stato per gli Affari Esteri e del Commonwealth. Incarico che lasciò il 9 luglio 2018 perché in contrasto con la linea, ritenuta troppo morbida, del governo nei confronti dell’Europa.

Il "metodo" Johnson

Johnson, essendo da sempre un fervente sostenitore dell’uscita del Regno Unito dall’Ue, non ha escluso nemmeno l’ipotesi del “no deal”, ovvero “nessun accordo” tra le parti. Secondo la sua visione piuttosto radicale, l’ipotesi potrebbe concretizzarsi solo nel momento in cui l’Europa non si dovesse dimostrare disposta a rinegoziare l’accordo concluso con l’esecutivo di Theresa May (che, per altro, lo stesso Johnson ha sempre ritenuto insoddisfacente). Non è un diplomatico e tutti sanno che le sue tecniche di rinegoziazione non somigliano a quelle del suo predecessore. Secondo quanto riportato da Il Post, dopo la sua nomina a ministro degli Esteri, Johnson incontrò l’allora ministro dello Sviluppo Economico italiano, Carlo Calenda, dicendogli che l’Italia avrebbe dovuto fare pressioni sui suoi alleati europei affinché il Regno Unito ottenesse un accesso speciale al mercato unico (possibilità esclusa fin dall’inizio). In quella circostanza, Johnson avrebbe “minacciato” Calenda affermando che, se non avesse seguito le sue indicazioni, il Regno Unito avrebbe cominciato a importare meno prosecco dall’Italia.

La (movimentata) vita privata di Boris Johnson

Johnson si è sposato due volte: nel 1987 con Allegra Mostyn-Owen, figlia della scrittrice italiana Gaia Servadio e dello storico dell’arte William Mostyn-Owen. Poco tempo dopo la fine di questa prima relazione ufficiale, nel 1993, si è risposato con l’avvocato Marina Wheeler. Da lei ha avuto quattro figli. Ma il quinto è nato nel 2009, da una relazione extraconiugale con Helen MacIntyre, una consulente d’arte. Nel settembre del 2018, Johnson e Wheeler hanno annunciato la loro separazione e hanno avviato il processo di divorzio. Nel 2021, dopo una lunga liason, si è sposato con Carrie Symonds, ex responsabile della strategia e della comunicazione dei Tories.

Dal trionfo al declino

Nel marzo 2020, poco dopo la travolgente vittoria elettorale, il Regno Unito fu colpito dalla pandemia di Covid-19: inizialmente Johnson ha scelto la strategia del “contagio graduale” e della ricerca dell’immunità di gregge, poi invertita di fronte alla marea montante di contagi e morti.

La gestione della fase iniziale della pandemia è stata ritenuta confusionaria, mentre invece il Regno Unito ha ottenuto unanime consenso, a inizio 2021, per una campagna vaccinale contro il Covid condotta a tamburo battente che ha permesso una graduale e sostenuta riapertura delle attività economiche e il ritorno a una piena normalità per il giugno dello stesso anno.

Johnson da premier in politica estera ha promosso l’espansione delle prospettive geopolitiche di Londra: pur con diversi inciampi, come la debacle afghana del 2021, il Regno Unito ha perseguito la strategia di promozione della Global Britain concludendo, nel 2020, il processo di uscita dall’Unione Europea, saldando l’asse con gli Stati Uniti nella nuova “relazione speciale”, promuovendo una dura contrapposizione alla Russia e sganciandosi gradualmente dalla Cina. Nel settembre 2021 Londra è tornata protagonista dell’Indo-Pacifico siglando il patto Aukus con Stati Uniti e Australia.

A partire dal febbraio 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina, Johnson è stato il leader atlantico più ostile alla Russia di Vladimir Putin e ha promosso consistenti invii di armi a Kiev e un solido appoggio alla resistenza ucraina, sostenuto in questo obiettivo da Polonia e Paesi baltici. Ha dichiarato di voler promuovere la vittoria sul campo dell’Ucraina e attaccato con forza il presidente russo, inserendo il contrasto a Mosca nel quadro della strategia per la Global Britain.

Lo zelo antirusso di Johnson ha coinciso, però, con una fase politica in cui la sua presa sul Partito Conservatore e il governo si è avvitata per una serie complessa di scandali: nel maggio 2020, ha rivelato l’ex consigliere Dominic Cummings, Johnson avrebbe tenuto durante i mesi del lockdown britannico dei party a Downing Street contrari alle norme anti-Covid. Questo ha causato lo scandalo del Partygate. La stessa caduta di Cummings, silurato in ritardo a novembre 2020 dal ruolo di consigliere per aver violato le restrizioni nella primavera precedente, ha gettato ombre su BoJo che, in ultima istanza, ha perso la fiducia del suo partito.

A giugno 2022 Johnson è sopravvissuto a una mozione di sfiducia presentata da una fronda di deputati Tory. Un mese dopo Rishi Sunak, Cancelliere dello Scacchiere, e Savid Javid, titolare della Sanità e predecessore di Sunak nel ruolo, due degli uomini più vicini a Johnson, si sono dimessi dal governo o negando le giustificazioni di BoJo sull’ennesimo scandalo piovutogli addosso.

Questo faceva riferimento al caso dell’ex Government Deputy Chief Whip (pontiere tra governo e maggioranza parlamentare) Chris Pincher, deputato Conservatore dal 2010.

Pincher è stato accusato di aver avuto atteggiamenti molestatori nel 2019 nel corso di un evento in un club, in cui da ubriaco avrebbe palpeggiato due uomini, fra cui un collega deputato. Johnson ha dichiarato di non ricordarsi se le abitudini di Pincher gli fossero note, ma è stato accusato di esserne ampiamente a conoscenza e, anzi, avrebbe definito Pincher “un palpeggiatore per natura” operando un gioco di parole sul suo cognome (“Pincher by name, pincher by nature“). Questo ha creato un crollo verticale della fiducia del Partito verso Johnson: a  Sunak e Javid ha fatto seguito la fuoriuscita di cinquanta esponenti Tory dal governo in meno di quarantotto ore tra il 5 e il 7 luglio 2022, la più grande emorragia di ministri della storia del Regno Unito. Al termine della quale, nella giornata del 7 luglio, è emersa la notizia delle dimissioni dello stesso Johnson. Giunto al capolinea a meno di tre anni dal trionfo elettorale.

Johnson e il sogno (geopolitico) di un “nuovo impero romano”. Andrea Muratore su Inside Over il  luglio 2022.

L’eredità dell’Impero Romano? Ha plasmato l’Europa e l’Occidente. La Res Publica? Ha reso realtà l’ideale e pluribus unum, l’unità nella diversità. Il Vecchio Continente? Nella sua grandezza e tragicità, l’ha plasmato Roma. Tanto che “se le legioni avessero varcato il Reno, il fiume non avrebbe avuto un ruolo così tragico nella storia del nostro continente, e non sarebbe stato teatro di orribili massacri fra germanofoni e francesi. […] È proprio a causa di quei massacri che siamo tuttora impegnati nella grande impresa che è l’Unione Europea, il cui scopo dichiarato, nel 1957, era che Francia e Germania si legassero indissolubilmente, tanto da non entrare mai più in guerra”. Chi scriveva queste parole, nel 2006, era l’attuale premier britannico Boris Johnson, allora ex editorialista dello Spectator e del Daily Telegraph membro della coalizione parlamentare del Partito Conservatore e prossimo a preparare l’ascesa alla carica di Sindaco di Londra.

Johnson si è sempre definito molto più “europeo” che europeista: lo storico caporedattore del conservatore Telegraph aveva più volte, da Bruxelles, criticato l’Unione Europea che si limitava a legislazioni pedisseque spronandola a pensare in grande, riscoprendo il sogno di grandezza di Roma. E proprio Il sogno di Roma è il nome del saggio del 2006 con cui BoJo promosse la sua riflessione sull’eredità romana del Regno Unito e dell’Europa, mettendo da parte ogni richiamo all’ascendenza anglo-sassone del suo Paese e immaginando che l’Ue, da lui poi combattuta durante il referendum della Brexit dieci anni dopo, si proiettasse come “nuovo impero” nel Mediterraneo e a Oriente. Arrivando, perfino, a accogliere al suo interno la Turchia per consolidare l’identificazione tra spazio romano e spazio europeo.

Tali discorsi sembrerebbero lontani anni luce. Ma Johnson, premier che sull’onda lunga della Brexit ha consolidato il suo successo, che ha concretizzato alle urne prima e nei palazzi poi il progetto di distacco da Bruxelles e che anche solo negli ultimi giorni ha minacciato strappi sul memorandum sull’Irlanda e sulle forniture di gas, ai margini del recente summit Nato di Madrid ha rispolverato, in un certo senso, la sua idea “romana”. Boris Johnson ha dichiarato di essere desideroso di stringere un’alleanza politica libera tra leader europei, mediterranei e nordafricani, paragonandola all’Impero Romano nel suo fasto e di superare le ristrettezze dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) ostacolata, a suo avviso, dalla presenza della Russia al suo interno.

Boris Johnson ha seguito e reso più immaginifica la proposta di Emmanuel Macron per creare nella regione una Comunità politica europea suggerendone la creazione sotto forma di una visione moderna dell’impero romano, che comprenda la Turchia e altri stati chiave del Nord Africa, nel tentativo di rafforzare l’unità regionale.

Al vertice del G7 in Germania, nota il Financial Times, “l’Eliseo ha dichiarato che il primo ministro britannico aveva mostrato interesse per il piano del presidente francese durante un incontro bilaterale”. Immaginazione politica e ragioni geopolitiche e strategiche si saldano apertamente in questa scelta entusiasta di BoJo di dare semaforo verde all’idea di Macron di consolidare i rapporti tra l’Europa e il Mediterraneo includendo quel Regno Unito che dall’Ue è uscito senza fare complimenti.

Il primo obiettivo è di consolidamento del contenimento antirusso. Johnson sa che solo plasmando attorno al blocco occidentale i destini di sviluppo e di crescita dell’area mediorientale e mediterranea si potrà tagliare l’accesso della Russia ai mari caldi e confinarla entro il Mar Nero e l’Est.

Il secondo obiettivo è quello di presentare la sua capacità d’azione nel quadro del rinnovato attivismo della Nato. Da cui Johnson vuole trarre dividendi strategici per il suo progetto di una Global Britain. La quale vuole rimettere piede anche nel Mediterraneo dopo aver toccato il Medio Oriente, l’India, l’Indo-Pacifico con Aukus. La Comunità Politica Europea può parafrasare il senso della Nato consentendo di tenere i russi fuori, i britannici dentro (al concerto politico europeo) e i franco-tedeschi con i loro sogni di autonomia strategica sotto sorveglianza.

Il terzo punto è quello legato all’obiettivo di “rinverdire” i fasti imperiali. Johnson si vede nuovo Winston Churchill chiamato a ridare a Londra una missione. E la Gran Bretagna imperiale, nell’era dell’espansione globale non poteva fare a meno di guardare a Roma, rispetto alla quale non gli riuscì di plasmare a una narrazione comune le nazioni del Vecchio Continente: “da qualsiasi prospettiva la si guardi Waterloo non significherà mai la stessa cosa per un britannico e per un francese. Per tutto il mondo romano, invece il nome di Azio – la battaglia navale che concluse la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio – significava la stessa cosa: aveva un unico, chiaro e immutabile valore politico e questo grazie all’operato di Virgilio e dei poeti auguste”, scriveva nel saggio su Roma BoJo.

Infine, Johnson, che guida il campo degli antirussi anche sul fronte retorico, sa che il blocco occidentale deve garantire un’unità di intenti per persuadere le nazioni neutrali e riluttanti a sposare il distacco da Mosca. E quale scelta migliore, pensa il premier, di un asse politico, strategico e diplomatico con chiari richiami storici e ideali per rivitalizzare questo processo? L’idea di Johnson è ambiziosa e con chiari richiami strumentali. Ma mostra l’indubbia capacità del premier di pensare in grande anche in una fase di acuta difficoltà sul fronte interno ed internazionale. Forza di un leader con mille vite politiche che con l’agenda globale vuole far dimenticare le debolezze dell’agenda nazionale del suo governo, in un continuo gioco al rialzo delle ambizioni che ritiene fondamentale per rendere Londra in grado di essere all’altezza della sua storia.

Cose che succedono nel Regno Unito. Orlando Sacchelli su Inside Over il 7 luglio 2022.

I politici di Sua Maestà hanno tanti difetti ma un merito indubbio: quando decidono che è arrivato il momento di aprire le finestre e cambiare aria lo fanno. E così nelle stanze dei bottoni di Downing Street si materializza il cambiamento, che può essere deciso dagli elettori con le elezioni, nel migliore dei casi, ma in casi eccezionali anche dai partiti stessi. È già avvenuto in passato varie volte, basti pensare a Margaret Thatcher, per citare uno dei casi più famosi. È avvenuto poi con Theresa May, David Cameron e oggi con Boris Johnson. Le ragioni sono diverse, ovviamente, ma non cambia la sostanza: il partito decide che sia utile imprimere una svolta e il leader viene invitato (più o meno bruscamente) a farsi da parte. Non esistono, nel Regno Unito, leader eterni. Il cambiamento non è inteso come un disvalore o un’onta ma una possibilità.

Se gli inglesi non hanno sentito ragioni mandando a casa anche un gigante come Winston Churchill, vincitore della Seconda guerra mondiale con gli Alleati (fu sconfitto nelle elezioni del 1945 dal partito laburista di Clement Attlee), sono più numerosi i leader pensionati in anticipo dai loro stessi partiti. Prima accennavano alla Lady di ferro, Margaret Thatcher, che nel 1990 fu costretta a dimettersi dopo essere stata messa in minoranza nel partito conservatore, con Michael Heseltine che prese le redini dei Tory e John Major che fu mandato al numero 10 di Downing Street. Nonostante i profondi cambiamenti impressi al suo Paese, e pur essendo divenuta un’icona del mondo conservatore a livello mondiale, insieme al presidente Usa Ronald Reagan, la Thatcher non riuscì a superare l’ondata di impopolarità derivante dall’introduzione di una nuova tassa fissa comunale, la poll tax, e pagò anche le sue posizioni sulla Comunità europea non condivise da tutti nel suo partito.

La leadership di un partito nel Regno Unito viene decisa democraticamente. Occorre un certo numero di firme da parte di colleghi deputati (i conservatori ne prevedono otto) per potersi candidare come leader, poi decidono i delegati una volta riunitisi in assemblea. I tempi sono abbastanza veloce, si parla di qualche settimana. E non c’è alcun bisogno di tornare alle elezioni. Una volta regolati i conti all’interno del partito, il nuovo leader incaricato si presenta dalla regina e riceve l’incarico di formare il nuovo esecutivo. Tutto con estrema semplicità e trasparenza.

Ovviamente non mancano le faide interne e i giochi di potere, come in ogni sistema politico. Ma, a differenza del nostro Paese, i bizantinismi e le giravolte fini a se stesse sono ridotte ai minimi termini. Così come sono pressoché inesistenti le “sceneggiate”. Se un leader viene sconfitto ed esce dalla porta non rientra dalla finestra, magari con un’altra casacca, facendo finta di nulla. Se vieni mandato a casa difficilmente torni in pista come se nulla fosse. Anche questa è un’altra delle grandi differenze tra il sistema britannico e il nostro. Se Churchill fu mandato a casa dopo aver sconfitto i nazisti, Johnson viene fatto accomodare fuori dalla porta dopo aver sconfitto il Covid. Corsi e ricorsi della storia. Non importa ciò che hai fatto di buono, la politica britannica ha un tasso di ricambio altissimo. Questo genera anticorpi potenti contro ogni malattia.

Come è nato il “golpe” per far fuori Boris Johnson. Andrea Muratore su Inside Over il 7 luglio 2022.  

Boris Johnson appare vicino al capolinea politico dopo che la Bbc ha annunciato la sua imminente fuoriuscita dalla leadership del Partito Conservatore britannico e di conseguenza dal ruolo di premier. La tempesta è iniziata martedì 5 luglio quando Rishi Sunak e Savid Javid, rispettivamente Cancelliere dello Scacchiere e Ministro della Sanità del governo conservatore da lui presieduto, sono usciti dall’esecutivo britannico. Lo scandalo legato all’ex Government Deputy Chief Whip, Chris Pincher, delle cui attitudini di molestatore sessuale Johnson sembra fosse a conoscenza da anni, potrebbe essere la pietra tombale sul suo governo.

Johnson sotto assedio

Nei mesi scorsi, BoJo era parso prossimo alla caduta, ma mai quanto in queste ultime giornate si è concentrata la tempesta perfetta su Downing Street. L’uscita di due degli uomini di peso del Partito conservatore dal governo ha prodotto una vera e propria slavina: nella giornata del 6 luglio si è registrata un’emorragia di esponenti conservatori dal governo, 32 per la precisione, tra cui diversi sottosegretari. L’uscita di un’altra ventina di membri ha portato, a inizio giornata del 7 luglio, l’emorragia a 50 esponenti.

Mike Freer ha lasciato il Ministero del commercio estero, contribuendo alla slavina. “Il Paese merita di meglio”, ha dichiarato il sottosegretario al Tesoro, John Glen, nella sua lettera di dimissioni.  A Glen hanno fatto seguito i sottosegretari Jo Churchill (all’Ambiente) e Stuart Andrew (all’Edilizia). “Possiamo e dobbiamo fare meglio di così”, ha aggiunto nella sua lettera di uscita dal governo la viceministra alla Giustizia responsabile per le carceri britanniche, Victoria Atkins, sottolineando come nel governo Johnson siano stati messi sotto terra, a suo avviso, “valori come integrità, rispetto e professionalità”. Il Guardian nota poi come i Conservatori stiano avendo grandi difficoltà a trovare parlamentari per ricoprire l’emorragia di ruoli nell’esecutivo che si sta aprendo ora dopo ora. Tanto che Nadhim Zahawi, chiamato ieri come Cancelliere dello Scacchiere al posto di Sunak, è dato addirittura in una delegazione arrivata a Downing Street per convincere BoJo alle dimissioni.

Rivolta contro Johnson

Tra i Conservatori è partita la rivolta di una schiera di parlamentari che fino a ieri erano fedeli alla leadership di Johnson, sono emersi sondaggi che vedrebbero il 69% dei cittadini britannici e la maggioranza assoluta degli elettori conservatori ostili alla sua permanenza a Downing Street, si è aggiunta alle critiche anche quella di Michael Gove, veterano della battaglia per la Brexit.

Gove, sottosegretario per le comunità e i governi locali del Regno Unito e per il miglioramento degli standard, ha esortato Johnson a dimettersi e non ha poi partecipato al question time alla Camera dei Comuni con il primo ministro che ha escluso nuove elezioni e ha dichiarato di voler continuare il suo mandato, in scadenza nel dicembre 2024.

La via per la caduta di Johnson potrebbe essere una convocazione del 1922 Committee che giudica i leader del partito e può forzare alle dimissioni un Primo ministro. Il Guardian rivela che il presidente della commissione, Sir Graham Brady, potrebbe convocare presto una riunione del comitato per far sì che le regole che impediscono una nuova votazione sulla fiducia prima di giugno 2023 siano modificate. All’inizio del mese scorso, infatti, Johnson aveva superato un voto di fiducia tra i parlamentari Tory con 211 voti favorevoli, ricevendone ben 148 contrari.

Se le regole fossero modificate in corsa presto un nuovo voto potrebbe esser convocato, e Johnson difficilmente sopravvivrebbe alla conta. Ma come si è arrivati fin qui? Dopo la schiacciante vittoria del dicembre 2019, il record dai tempi di Margareth Thatcher per i Conservatori, Johnson ha iniziato fin dai primi mesi della pandemia di Covid-19 a perdere colpi. E la crisi sul caso Pincher è solo l’ultima di una serie di picconate all’esecutivo.

Le dimissioni di Cummings, l’inizio di tutto

Dominic Cummings, nominato dal premier britannico suo Chief Advisor (capo consigliere) dopo l’ascesa al governo, e stratega della Brexit è stato il primo fuoriuscito eccellente. Si è dimesso da Downing Street nel novembre 2020, accusato di aver violato le regole anti Covid per andare a trovare la famiglia, dopo mesi in cui Johnson aveva con forza preso le sue difese.

Il 26 maggio 2020 il sottosegretario per la Scozia, Douglas Ross, si è dimesso dal governo in segno di protesta contro le mancate dimissioni di Cummings e, in quest’ottica, la strenua difesa di Cummings da parte di Johnson ha alienato diverse simpatie tra i Tory tradizionali nel partito. In seguito, il siluramento del “Bannon britannico” ha, a detta di molti, aperto la strada alla fuoriuscita delle rivelazioni più scabrose che hanno travolto il premier. Tra queste, il discusso Partygate.

Il caos Partygate

Il Partygate è stato rivelato nei mesi scorsi dopo lo scoop delle agenzie mediatiche britanniche che parlavano di feste e cocktail illegali organizzate nella sede del governo nel maggio 2020, mentre il Paese era nel pieno delle restrizioni anti-Covid. Cummings, a gennaio, ha dichiarato di aver avvertito BoJo in particolar modo su un cocktail organizzato il 20 maggio 2020 e a cui il premier avrebbe partecipato per circa una mezz’ora.

La dichiarazione di Johnson di aver mentito sul tema presentata alla Camera dei Comuni ha scatenato a inizio anno un terremoto politico. E tra fine 2021 e inizio 2022 si pensava che proprio il Partygate potesse essere la pietra tombale sul premier. La sconfitta alle suppletive di North Shropshire nel dicembre scorso, le dimissioni del ministro per la Brexit David Frost, suo storico fedelissimo, e una misteriosa rimozione di Johnson dal gruppo WhatsApp del gruppo parlamentare Tory già a dicembre hanno portato molti analisti a presagire tempi bui per il primo ministro. Scampato pericolo, in una prima fase, ma solo per poco.

La “strategia Thatcher” non paga

La reazione di Johnson è stata quella di spostare sul fronte esterno le tensioni. Contrasto totale alla Russia in Ucraina; sogno di una Global Britain autonoma e strategicamente capace di agire nel mondo nel quadro dell’alleanza con i Paesi anglofoni e la Nato; proiezione del contenimento a Mosca in ogni scenario di confronto; braccio di ferro con l’Unione Europea sull’accordo per la Brexit, proposta di modifica unilaterale del protocollo irlandese e sparate su possibili embarghi energetici; da ultimo, presentazione del sogno di un “nuovo Impero Romano” euromediterraneo centrato sull’alleanza con la Gran Bretagna dei Paesi mediorientali e nordafricani. Tutto ha cospirato perché BoJo provasse a seguire sul suo terreno la mossa di Margareth Thatcher di usare nel 1982 la Guerra delle Falkland per il consenso interno.

Non ha funzionato e, anzi, Johnson è stato travolto dalle critiche per il carovita, l’inflazione, il calo dei commerci, il rischio recessione. Questo ha inoltre dato il via libera a un’atomizzazione del Regno Unito sotto il profilo politico: la batosta presa da Johnson nel voto nordirlandese che ha premiato il Sinn Fein e la proposta di un referendum di indipendenza da parte della Scozia sono andati di pari passo con le critiche a BoJo dei conservatori operanti oltre il Vallo di Adriano.

Pincher, il colpo di grazia

Interrogato ai Comuni nel Question Time dal leader dell’opposizione, il laburista Keir Stramer, sulla sua conoscenza delle abitudini discutibili dell’ex Whip del Partito Conservatore Chris Pincher, Johnson oggi non ha risposto al leader della sinistra britannica sulla fiducia accordatagli nonostante avesse informazioni precise sul comportamento passato del suo ex pretoriano, accusato di aver molestato nel 2019 due colleghi in un club per uomini.

Johnson è stato accusato da Starmer di aver definito Pincher come “un palpeggiatore per natura” giocando sul suo cognome (“Pincher by name, pincher by nature“), ma non ha confermato né smentito sottolineando di non “voler trivializzare” la vicenda. L’imbarazzo tradisce che forse potrebbe essere troppo tardi per rimediare.

Il governo Johnson tramonta per implosione, e il premier non riesce a contenere i cocci dopo aver, per due anni e mezzo, parato ogni colpo. Ora la partita più importante sarà quella per capire chi, in ultima istanza, prenderà il posto di BoJo.

Per il premier inglese destino segnato. Chi è Boris Johnson, il premier che voleva essere Churchill ma è stato travolto dagli scandali. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 7 Luglio 2022 

Voleva passare alla Storia come il “Churchill del XXI secolo”, colui che aveva guidato il mondo libero contro l’Hitler di Mosca, Vladimir Putin. Invece, passerà alla cronaca come il Primo ministro del “Partygate”. Potrà forse durare giorni, forse ore. O anche trascinarsi fino alle prossime elezioni. Ma il destino politico di Boris Johnson è segnato. Il problema, ormai, non è se, ma come e quando uscirà di scena. L’ennesima mazzata micidiale sull’inquilino del 10 di Downing Street è arrivata ieri mattina con altre due dimissioni nel suo governo, sulla scia dei contraccolpi per la gestione del premier Tory britannico dello scandalo Pincher, ultimo di una lunga serie. Uno scandalo pesante, perché il protagonista era stato nominato da Johnson il vice “chief whip”, colui che indica e disciplina i voti del gruppo conservatore alla Camera dei Comuni, che si è dimesso giovedì scorso dopo una serata vergognosa al club preferito dei tory, il Carlton a Mayfair, durante la quale, ubriaco, ha molestato con avance sessuali due giovani attivisti conservatori.

Il problema per Johnson è che Pincher cose del genere le avrebbe fatte per anni, secondo vari resoconti delle sue presunte vittime. Boris ne era stato informato più volte, sia da ministro degli Esteri che poi da capo di governo. Ciononostante, Johnson ha nominato Pincher “vice chief whip” solo qualche mese fa. Per poi mentire pubblicamente, più volte, sul fatto che fosse a conoscenza delle accuse contro di lui. Ad annunciare ieri la loro uscita dalla compagine sono stati Will Quince, viceministro responsabile finora del dossier della Famiglia e dell’Infanzia, e Laura Trott, finora ministrial Aide (qualcosa di meno di sottosegretario) ai Trasporti. Posizioni che il 57enne inquilino di Downing Street ha ricoperto subito con un immediato mini rimpasto, deciso per ora – come ribadito oggi dal nuovo cancelliere Nadim Zahawi -a cercare di andare avanti. Messo sulla graticola, Johnson ha in ogni caso negato la prospettiva di elezioni politiche anticipate: “Non credo che nessuno le voglia in questo momento” di crisi globale, ha detto. “Credo invece che noi dobbiamo andare avanti, servire gli elettori e affrontare le priorità che stanno loro a cuore”.

“Il compito di un primo ministro nelle difficili circostanze attuali è di andare avanti come io intendo fare, avendo ricevuto un mandato popolare colossale” alle elezioni di fine 2019, ha tagliato corto Johnson di fronte alle nuove sollecitazioni a dimettersi. In un successivo passaggio ha poi detto che “vi è una semplice ragione per cui” i laburisti “mi vogliono fuori” da Downing Street: perché “sanno che altrimenti il governo attuerà il suo programma” sul rilancio economico e sul dopo Brexit, e i conservatori “vinceranno anche le prossime elezioni politiche”. Quanto al caso Pincher, egli è tornato a esprimere “profondo rammarico” e a scusarsi per il comportamento del suo ex alleato di governo e per il fatto che egli fosse rimasto nella compagine malgrado precedenti segnalazioni. Ma non ha risposto a Starmer sul perché lo abbia promosso alla fine a deputy chief whip a dispetto delle informazioni che – dopo le mezze smentite inizialmente fatte diffondere da Downing Street – ha dovuto ammettere di aver avuto sul comportamento passato del suo ex pretoriano.

Incalzato dal leader laburista a confermare o smentire se abbia a suo tempo definito egli stesso Pincher come “un palpeggiatore per natura” giocando sul suo cognome (“Pincher by name, pincher by nature”), BoJo ha tuttavia glissato dicendo non “voler trivializzare” la vicenda. Mentre ha rivendicato di aver alla fine escluso dal governo e dal gruppo Tory l’ex viceministro, trincerandosi per il resto “sull’indagine indipendente” aperta intanto su di lui e sulla riservatezza che essa impone. “Chiunque si sarebbe dovuto dimettere da tempo nella sua posizione”, tuona il leader dell’opposizione laburista, Keir Starmer, durante il Question Time alla Camera dei Comuni rivolgendosi al premier conservatore. Ha poi attaccato il primo ministro per aver promosso “un predatore sessuale”, riferendosi al recente caso Pincher, e poi per gli altri scandali come il Partygate. Starmer ha parlato di “comportamento patetico” di Johnson mentre la “nave affonda e i topi scappano”, ricordando la raffica di dimissioni nell’esecutivo Tory e puntando il dito contro la “disonestà” di tutto il partito di maggioranza. Starmer in un suo intervento ha fatto una ricostruzione molto cruda e dettagliata dello scandalo Pincher, con una descrizione esplicita della molestia che una delle vittime ha denunciato di aver subito da parte dell’ex deputy chief whip.

Per poi ricordare come la vicenda sia stata gestita dai vertici Tory, ignorando le accuse contro l’ex viceministro e la testimonianza di chi si era fatto avanti per denunciarne il comportamento. “Sono tutti seduti lì come se questo fosse normale”, ha affermato il leader laburista riferendosi ai banchi occupati dalla maggioranza. Ha quindi dichiarato nel suo affondo finale, sempre prendendo di mira l’insieme dei deputati conservatori e in particolare quanti sostengono ancora il “bugiardo” Johnson: “Nel bel mezzo di una crisi il Paese non merita di meglio di pupazzi di cani che fanno di sì con il muso dietro i vetri delle automobili?”. “Il troppo è troppo”. Con queste parole Sajid Javid ha motivato ieri alla Camera dei Comuni in un discorso dai toni devastanti per Johnson – paragonato da qualcuno a quello del ministro Douglas Hurd che precedette la caduta di Margaret Thatcher – le sue dimissioni di martedì scorso da ministro della Sanità dopo lo scandalo Pincher. Javid ha detto di aver in passato concesso più volte “il beneficio del dubbio” al premier su altri sospetti di scandalo, ma di essersi ora convinto che il problema è “al vertice” e che Johnson “non cambierà”. Ha quindi invitato con accenti accorati gli altri colleghi Tory a riflettere, sostenendo che la questione “non è solo personale”, ma che ha a che fare con “il rispetto del rule of law” da parte del Partito Conservatore e con la necessità che la formazione di maggioranza “recuperi la fiducia” del popolo britannico se vorrà vincere anche le prossime elezioni.

In precedenza, altri due deputati conservatori, incluso l’ex ministro pro Brexit ed ex candidato leader David Davies, avevano avanzato o rinnovato durante il Question Times inviti espliciti a Johnson a dimettersi. Inviti peraltro respinti dal premier, che rivolgendosi in particolare a Davies lo ha “ringraziato” per la sua franchezza, ma ha insistito di “non poter essere più in disaccordo con lui” questa volta. Il “disperato di Downing Street” prova ad arginare lo tsunami politico. Ma oramai la diga è saltata. Perché è in corso una valanga di dimissioni: sono 27 i rappresentanti del governo Johnson che hanno lasciato nelle ultime ore, ossia circa il 20% dell’esecutivo. Nelle loro lettere di dimissioni, tutti gli ex componenti del governo evidenziano come sia “impossibile andare avanti così” e che “il Primo ministro purtroppo non ha più la mia fiducia”. All’interno del partito conservatore da tempo era scattata la rivolta, che il 6 giugno ha portato a un voto di sfiducia che Johnson ha vinto di stretta misura. Il 41% dei deputati Tory gli ha votato contro. Negli ultimi mesi ben due responsabili dell’etica hanno dato le dimissioni, oltre al presidente del partito Oliver Dowden, che aveva dichiarato che «non possiamo andare avanti come se niente fosse».

Il partito conservatore ha clamorosamente perso una serie di elezioni suppletive in circoscrizioni che fino a poco fa erano considerate feudi inespugnabili dei Tories. I sondaggi rivelano che la popolarità del premier è ai minimi storici, come confermato dai fischi della gente quando appare in pubblico. È stata una caduta verticale per Johnson, che nel 2019 aveva trionfato alle urne, conquistando una larghissima maggioranza in Parlamento per i Tories grazie alla promessa di «concludere Brexit». Dice a Il Riformista Donald Sassoon, tra i più autorevoli storici inglesi: “Che se ne vada subito o tra qualche settimana o che non se ne vada, la cosa che sembra al momento meno probabile, e rimanga fino alle elezioni del 2024, resterà senza dubbio uno dei pezzi di grande folklore della storia britannica. Perché abbiamo a che fare con una persona che diventa Primo ministro per il voto dei suoi deputati e poi per quello degli iscritti al Partito conservatore, contro una Prima ministra come Theresa May, anche lei Tory, che aveva fatto del proprio meglio per rimediare al catastrofico voto per il Brexit. Johnson diventa Primo ministro e d’allora non ci sono altro che guai”. “Alcuni – prosegue Sassoon – dovuti a fatti con cui lui non c’entra, come il Covid. Ma in altri il suo marchio è indelebile.

All’inizio, quando pensava che il Covid non fosse una cosa seria. Poi quando ha detto a tutti che bisognava stare chiusi in casa mentre lui organizzava feste a Downing Street.. E così via. Fino all’ultimo scandalo, quello per molestie sessuali, l’affaire Pincher. Un affare squallido. È come se Johnson avesse fatto di tutto per non azzeccarne una. Anche i primi ministri più catastrofici una volta su due l’azzeccano. Invece lui niente. È andato contro anche al calcolo delle probabilità. Per questo rimarrà nella storia. Né come un grande Primo ministro né come il peggiore. Ma come il Premier più folkloristico, più ridicolmente catastrofico che ci sia mai stato”. Ma questo, conclude il professor Sassoon, “era prevedibile. Perché già da giornalista era catastrofico. Tutto quello che ha fatto prima è stato catastrofico. L’unica cosa sorprendente è che la gente ne sia sorpresa. Parafrasando il titolo di un gran film di Bernardo Bertolucci, quella che si sta consumando a Londra è la tragedia di un Premier ridicolo”.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Yascha Mounk: «Boris populista? Sì, sulla Brexit. Ma riconosce l’opposizione, non è Trump». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 7 luglio 2022.

Il politologo, autore di «Il grande esperimento» e «Popolo vs Democrazia»: «Johnson non è stato una minaccia alla democrazia quanto Trump. Alla fine, sotto pressione del partito se n’è andato. Trump invece è un populista puro che dice che solo lui è legittimo e gli altri no». 

«Quand’ero in collegio a Cambridge, se facevi qualcosa contro le regole dovevi andare a vedere il senior tutor che ti diceva: “Questo non lo devi fare, se continui ci saranno delle conseguenze”. Ma alla fine dell’anno la festa più bella del college era riservata agli studenti che avevano dovuto vedere il senior tutor. Era un modo per premiare anche chi non rispetta le regole, e questa è una cosa molto britannica, un amore per chi non ascolta e fa le cose un po’ di testa sua. Ma dev’essere un gentleman, non deve violare le regole in modo immorale», racconta Yascha Mounk, uno dei maggiori studiosi della crisi della democrazia liberale e dell’ascesa del populismo, autore del recente Il grande esperimento: etnie e religioni minacciano la democrazia? (Feltrinelli).

Questo spiega parte dello charme di Boris Johnson. Ma poi cos’è successo?

«Durante la pandemia ha approvato norme molto rigorose per cui per esempio se ti moriva un parente non potevi andare al suo funerale e lui, che non rispettava le sue stesse regole, faceva feste col suo staff. Non è un modo di violare le regole accettabile per i britannici e c’è stata una ribellione di tutta l’opinione pubblica contro di lui. Questa è una fondamentale differenza con Trump, che ha conservato sempre i suoi fan in America, un Paese molto più polarizzato della Gran Bretagna».

L’altro ieri quando Boris sembrava deciso a restare al potere a ogni costo, è stato paragonato a Trump...

«È un egocentrico che punta ai suoi interessi. Ma non una minaccia alla democrazia quanto Trump. È arrivato a sospendere il Parlamento per passare la Brexit, ma allo stesso tempo rispetta le tradizioni politiche più fondamentali, capisce che l’opposizione è legittima e perciò non è capace di infrangere la democrazia stessa. Alla fine, i suoi colleghi gli hanno detto di andarsene e lo ha fatto. Trump ha perso le elezioni e molti nella sua cerchia gli hanno detto di accettarlo: invano».

C’entra anche la tenuta delle istituzioni?

«È più una differenza di cultura politica. Le istituzioni britanniche sono deboli perché molto informali, se un premier ha il supporto del Paese in teoria può fare quasi tutto. In America molte istituzioni possono limitare il potere del presidente, ma la nazione è tanto polarizzata che il leader repubblicano o democratico mantiene comunque un sostegno illimitato del 30% del popolo. In Inghilterra, invece, una volta che Boris ha perso la sua popolarità, le istituzioni hanno potuto fare il loro lavoro».

Ci sono differenze nel populismo dei due leader?

«Il populismo implica l’idea che le mie forze politiche sono legittime e le altre no. Il momento del populismo britannico è stato legato alla Brexit, e su quei temi Johnson è stato un populista: c’era l’idea che il popolo ha deciso la Brexit e tutto ciò che serve per realizzarla è legittimo e tutto ciò che viola la mia interpretazione di cos’è la Brexit è illegittimo. Ma dopo l’uscita dalla Ue, questa dinamica è un po’ passata. L’intuizione di Johnson è che la ricetta di essere tollerante sui temi culturali in maniera conservatrice e di abbandonare il thatcherismo per una politica economica di sinistra può vincere le elezioni, solo che poi non ha mantenuto le promesse. Trump invece è un populista puro: diceva che il presidente Obama era illegittimo, che la sua rivale Hillary Clinton doveva andare in carcere, che solo lui era legittimo e gli altri no».

Nella successione a Boris Johnson, ci sono molti rappresentanti di etnie e minoranze. In questo il partito conservatore britannico è diverso dal partito repubblicano in America?

«Dal punto di vista della democrazia multietnica, Boris Johnson non è mai stato una minaccia. Lui viene da un ambito molto snob ma anche molto cosmopolita. Il partito dei Tories è uno dei grandi esempi nella democrazia occidentale di come un partito di destra può trasformarsi in vero partito multietnico. In un certo senso quasi tutti i ministri erano immigrati e non bianchi — in particolare immigrati dall’India che in Inghilterra votano per il partito conservatore in maggioranza. In questo senso è un partito che deve darci la speranza che l’idea che i democratici saranno sempre il partito dei non bianchi e i repubblicani dei bianchi — una sconfitta fondamentale della politica — non debba essere vero. Anche negli Stati Uniti non è del tutto vero».

Perché la ricetta di Boris Johnson può vincere le elezioni?

«Si è spesso parlato della sua popolarità a causa della sua personalità e del suo charme, sembrava essere ideologicamente un po’ vuoto, era un buffone e nessuno ha preso sul serio il suo contenuto politico. Ma quando è arrivato al potere, Johnson era molto popolare perché aveva capito il momento politico molto meglio di tanta altra gente. Su temi culturali lui era chiaramente di centrodestra, un critico dell’ideologia ultra-puritana di sinistra che ora domina le élite anglofone (in Inghilterra e negli Stati Uniti siamo a un punto in cui le persone vengono licenziate per una parola sbagliata in un talk show, una cultura in cui certi temi sono tabù) ma senza odio e senza essere razzista, e sull’economia dopo decenni di thatcherismo nel partito ha parlato di espandere la sanità e aiutare i più poveri. Pur essendo un prodotto di Eton e della cultura aristocratica che ha grandi problemi, ha saputo vincere in circoscrizioni nel nordest dell’Inghilterra molto povere e da cent’anni nelle mani del Labour, per la distanza culturale del partito laburista e dell’élite intellettuale del Paese dalla classe proletaria e perché non ha mantenuto le promesse di aiutare, Le sue debolezze personali sono state troppo grandi e non ha fatto quello che prometteva sull’economia, ma il suo orientamento politico rimane significativo perché risponde alle opinioni della maggioranza della popolazione, che è di centrodestra sulla cultura e vuole uno Stato che aiuti la gente dal punto di vista economico».

Enrico Letta sfotte il Boris Johnson "caduto": ecco lo stile della sinistra. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 10 luglio 2022

Se Enrico Letta avesse dato del pagliaccio a Boris Johnson prima che questi rassegnasse le dimissioni si sarebbe trattato soltanto (si fa per dire) della scompostezza di un povero burino che non sa stare al mondo. E invece l'ha fatto dopo, quando il leader britannico ha gettato la spugna; e l'ha fatto servendosi della vignetta di un settimanale che appunto dava del clown al primo ministro, come l'ultimo attivista di un circolo di periferia che fa le pernacchie al militante avversario.

Il segretario del Pd è stato presidente del Consiglio - un'esperienza non memorabile, salvo forse che per il modo sereno con cui è stata interrotta - e ci si domanda come si sarebbe sentito se un capo di governo di un altro Paese l'avesse preso per il culo quando tutto ingrugnito cedeva il campanello al suo più brillante successore. Avrebbe pensato - e avrebbe avuto ragione che così ci si comporta allo stadio o nei dibattiti trash del giornalismo strapaesano che va per la maggiore, e che infatti Enrico Letta frequenta con fervida assiduità: ma non tra colleghi, per quanto su fronti opposti, ai vertici della politica occidentale.

Questo modesto burocrate, tanto accreditato quanto sprovveduto di effettiva sostanza, ha dato davvero la miglior prova di sé canzonando lo statista di un Paese alleato che decide di dimettersi.

Loro sono finiti, il populismo no. Boris Johnson e Giuseppe Conte, come hanno potuto due tipi così diventare premier? David Romoli su Il Riformista l' 8 Luglio 2022 

Nella stessa giornata precipita Boris Johnson, appena tre anni dopo la folgorante vittoria elettorale, e affonda nelle sabbie mobili nelle quali lui stesso si è infilato Giuseppe Conte, meno di due anni dopo i giorni del trionfo, della popolarità più da star dello spettacolo che da leader politico, dell’infatuazione cieca che portò innumerevoli esponenti della sinistra a definirlo “insostituibile”. Difficile immaginare figure più diverse: l’oscuro avvocato di Volturara Appula (Foggia) catatapultato a palazzo Chigi come un signor Nessuno e il rampollo dell’aristocrazia Alexander Boris de Pfeffel Johnson con alle spalle una brillante carriera di giornalista e due mandati come sindaco di Londra. Invece qualcosa in comune i due ce l’hanno. Sono entrambi figure improbabili, l’avvocato premier per caso, capace di cambiare ruolo politico e immagine come ci si cambia d’abito, buono per tutte le stagioni, e l’istrione rumoroso, sempre sopra le righe, di proverbiale inaffidabilità, pittoresco ma nulla di più. Ritrovarli in ruoli chiave della politica europea desta lo stesso stupore, suscita identiche domande su cosa sia la politica nel XXI secolo ormai avanzato.

BoJo è il giornalista licenziato dal Times per l’uso di citazioni false, l’opinionista che sulla Brexit aveva preparato per il Telegraph due articoli, un a favore e l’altro contro la Brexit, tanto per essere certo di non sbagliare. Tre mogli, una quantità di figli tra legittimi e non, una fama leggendaria nelle redazioni londinesi per l’abitudine di mandare pezzi in clamoroso ritardo e una nomea altrettanto discutibile nei salotti della politica per la capacità di inanellare gaffes una via l’altra e per il disordine caotico. Tutto un altro stile dall’avvocato Conte, sempre in perfetto ordine, abilissimo nell’usare sempre il tono giusto a seconda degli interlocutori, attento al dettaglio come solo un leguleio può essere. Ma anche qui qualcosa di simile, anzi identico c’è: una cura per l’apparenza tanto meticolosa quanto eloquente. BoJo è noto per scompigliarsi apposta il ciuffo, curando nel dettaglio l’immagine noncurante. L’eleganza un po’ provinciale di Conte è celebre, con quella pochette sempre ben piegata che per un po’ ha fatto epoca in Italia. Sono arrivati alla carriera politica per sentieri opposti, ma scommettendo sulle stesse carte: l’immagine che ormai in politica è tutto, l’apprezzamento dell’elettorato femminile, che entrambi possono vantare a ottimo diritto.

BoJo deve l’inatteso sbarco a Downing Street alla Brexit e al fallimento di Theresa May. Si presentò agli elettori con promessa solo, quella di portare la Brexit a compimento e fu plebiscitato. Conte fu spinto dalla stessa onda che aveva riempito il Parlamento di deputati e senatori per caso. Anche se lui non faceva parte del plotone. L’Italia si accorse della sua esistenza solo il 21 maggio 2018, uscito fuori a sorpresa dal cilindro di Luigi Di Maio, “capo politico” del M5S, che lo aveva proposto a Sergio Mattarella come futuro capo di un governo M5S-Lega. Non era il primo presidente del consiglio non parlamentare. Il predecessore si chiamava Carlo Azeglio Ciampi, governatore di Bankitalia, insomma non certo uno sconosciuto.

Conte invece sconosciuto lo era davvero. Ed eccolo di colpo capo del governo, con aria modesta e eloquio sin troppo umile, consapevole all’apparenza di essere quasi un prestanome sotto tutela stretta dei veri potenti, i vicepremier e ministri di gran peso Gigi Di Maio e Matteo Salvini, futuri arcinemici. Faceva persino un po’ di tenerezza. Quando le telecamere lo sorpresero a colloquio con Frau Merkel, a notte inoltrata, in occasione di un vertice internazionale, l’inesistente considerazione della potentissima faceva quasi stringere il cuore.

BoJo danzava al suono della musica opposta. Arrogante, rumoroso, clownesco, eccentrico, convinto di essere destinato alle vette più alte e di non dover dunque concedere nulla alle forme e alla diplomazia. Ma del resto anche per Conte umiltà e modestia erano solo di facciata. La competizione tra i due soci della maggioranza gialloverde gli offrì l’occasione di emergere e smarcarsi. Salvini correva come un treno ad altissima velocità, lievitava nei sondaggi. I 5S masticavano amaro, subivano l’iniziativa del tribuno che rubava scena e consensi. Conte si autonominò l’anti-Salvini. Agli occhi dei già tramortiti 5S chiunque sembrasse in grado di frenare il leghista sembrava il redentore. Si innamorarono dell’ex anonimo prestanome.

Ma non furono solo i grillini smarriti a guardare con interesse all’uomo che si contrapponeva all’impeto leghista. Anche i poteri italiani ed europei che lo avevano sino a quel momento considerato meno di zero si chiesero se non fosse proprio lui lo sconosciuto inviato dalla Provvidenza per domare e normalizzare i pargoli del “Vaffa”, quella variabile impazzita che stava facendo saltare ogni equilibrio. Proprio l’opposto dello sguardo sempre più preoccupato con cui guardavano al rumoroso Boris e alla sua fermezza nel difendere le linee guida della Brexit. Per Bruxelles il populista pericoloso era lui, non il premier insediato in Italia dal partito del “Vaffa”.

Conte capì l’antifona, rispose alle aspettative. Con una manovra astuta spostò i voti determinanti dei 5S ex anti Ue a favore della nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea. Tenne all’oscuro del progetto gli alleati leghisti che si ritrovarono così soli a difendere i bastioni del sovranismo antieuropeo mentre i 5S slittavano verso l’immagine di forza europeista, responsabile e ragionevole, Accettabile.

Lo scontro con Salvini era a quel punto inevitabile. Il corpo a corpo parlamentare con il truce leghista gli valse un vero e proprio miracolo: la riconferma alla guida del governo successivo, con maggioranza opposta, fondato sull’asse Pd-M5S. Spuntò un Conte “di sinistra“, l’uomo giusto per realizzare l’impensabile: un’alleanza non più coatta ed effimera ma stabile e progettuale tra il Movimento e il nemico di sempre, il Pd.

Miracolato in realtà Conte lo fu due volte. Pochi mesi dopo averlo confermato sul trono di palazzo Chigi, Matteo Renzi si preparava già a disarcionarlo. Poi arrivò il Covid e con il coronavirus arrivò anche l’apoteosi di “Giuseppi“, come da definizione trumpiana. Con la regia di un Rocco Casalino scatenato, Conte fu superlativo sul piano dell’immagine ma decoroso, date le immense difficoltà del momento, anche nella sostanza. Non che siano mancati errori anche gravi nella gestione della pandemia e la missione Recovery Fund non sarebbe andata lontana senza la pressione delle aziende tedesche, che avevano bisogno della componentistica italiana, e di conseguenza di Angela Merkel. Ma nel complesso Conte in quell’anno difficilissimo ha tenuto botta davvero e ha offerto al Paese l’immagine di cui aveva bisogno: quella di un governo rassicurante, decisionista e davvero partecipe del dramma che viveva il Paese.

Non si può dire altrettanto di BoJo. Il Covid ha segnato per lui l’inizio della fine politica. L’inquilino di Downing Street lo ha preso sotto gamba, è apparso oscillante, poco adeguato, soprattutto distante dal suo popolo. Del tutto incapace di costruire quel legame tra potere e popolo come invece è riuscito per un po’ a fare da noi l’omologo italiano.

Le quotazioni di Giuseppe Conte, già perfetto sconosciuto, s’impennarono. Difficile ricordare un’ascesa altrettanto folgorante nei consensi popolari. Non bastò. Gli giocavano contro l’abilità manovriera di Renzi, la diffidenza degli Usa, che lo consideravano troppo corrivo con la Russia e con la Cina, l’ostilità di Di Maio, che lo costrinse a dimissioni tutt’latro che dovute quando una mozione di sfiducia stava per abbattere il ministro della Giustizia Fofò Bonafede. Ma gli giocavano contro anche, forse soprattutto i suoi limiti. Tra le tante immagini di Giuseppe Conte nessuna è più lontana dal vero di quella del decisionista. L’uomo, al contrario, è tra i più indecisi e privi di audacia. Accerchiato dalla manovra di Renzi non ebbe né il coraggio di rompere per primo né la determinazione nell’imporre elezioni, come avrebbe potuto fare, dopo la defenestrazione. Non se la sentì neppure di fondare un proprio partito per capitalizzare l’enorme consenso di cui godeva in quel momento.

Tutte le differenze tra lui e l’aristocratico inglese si ricompongono qui. Perché anche BoJo paga i soli limiti di carattere: la superficialità, l’assenza di metodo, l’incapacità di guidare un Paese e un partito, la leggerezza che lo rende un grande personaggio ma anche un pessimo leader.

Del resto proprio i difetti di carattere, non più controbilanciati dalla rendita di posizione garantita da palazzo Chigi, hanno reso per Conte un calvario l’esperienza di leader del M5S: un titolo al quale non ha mai corrisposto la sostanza. Il quadro del Conte capo di partito. Costretto dagli eventi prova ora a cambiare ruolo e immagine: dopo essere stato il normalizzatore dei 5S tenta di trasformarsi nel leader che li riporta alle origini, alla grinta populista, all’integrità fortemente venata di integralismo. Non è la sua parte in commedia. E’ la più distante dalla sua personalità, quella più ostica persino per un leader “buono per tutte le stagioni“. Per questo non è escluso che sia l’ultima incarnazione di Giuseppe Conte sia anche quella finale.

Ma la domanda iniziale resta: come è possibile che simili figure siano arrivate in tempi rapidissimi al vertice delle istituzioni di Paesi importanti come il Regno Unito e l’Italia? Difficile evitare il dubbio che sia proprio la politica in sé ad aver perso buona parte del proprio ruolo, in una dinamica in cui i poteri reali la vivono sempre più come un impaccio e una formalità necessaria ma fastidiosa, alla quale rendere tutt’al più qualche omaggio formale. In un quadro complessivo dove la politica conta pochissimo nessuna figura è troppo improbabile, purché sappia dispiegare un’immagine almeno per qualche tempo seducente. David Romoli

Cose strane. Augusto Minzolini il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi.

Diceva Giulio Andreotti, una personalità politica che si è formata e ha vissuto negli anni della Guerra fredda, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi. L'Occidente europeo, impegnato ad appoggiare l'Ucraina contro l'aggressione russa, da un momento all'altro si è scoperto debole nei suoi governi di riferimento (lo abbiamo scritto sul Giornale proprio ieri): a Parigi, Berlino e Roma la situazione è delicata; a Londra addirittura è stato silurato Boris Johnson, il grande alleato di Zelensky, per cui il Paese avrà un vertice dimezzato per qualche mese. Una manna per Vladimir Putin. Sempre ieri è stato reso noto un rapporto dell'Fbi e del servizio segreto inglese MI5, che descrive nel Pacifico una situazione da pre-guerra, legata, ovviamente, alle mire espansionistiche di Pechino su Taiwan.

Ebbene, 12 ore dopo, l'ex-premier giapponese Shinzo Abe, uno degli avversari della Cina, il «costruttore» della cosiddetta Nato del Pacifico, l'uomo che più di tutti aveva messo sotto i riflettori la questione Taiwan, il padre politico dell'attuale primo ministro, è stato ucciso durante un comizio. L'assassino è Tetsuya Yamagami, un ex-militare come quel Lee Harvey Oswald che uccise John Kennedy e che, secondo le ultime carte desecretate a Washington alla fine dello scorso anno, incontrò un agente del Kgb prima dell'attentato. Dicono che sia un pazzo, ma è la versione di comodo che si usa quando non si riesce a spiegare o non si vuole spiegare un gesto. L'assassino, però, deve avere un minimo di cervello se è riuscito a costruire con le sue mani un'arma da fuoco camuffata da obiettivo fotografico: un manufatto complicato che ricorda la cinepresa usata dagli inviati di Bin Laden per uccidere il Leone del Panshir, Massud, prima di impadronirsi dell'Afghanistan. Roba da servizi segreti.

Ma, a parte le congetture, la morte di Abe destabilizza il Paese di riferimento degli Stati Uniti nel Pacifico e elimina dalla scena politica un personaggio che ha passato i suoi ultimi anni a dare l'allarme al Giappone e agli alleati sulle vere finalità della politica cinese. Al di là che ci sia un piano dietro a tutto questo o meno, si può constatare che l'obiettivo di indebolire l'Occidente in quella parte del mondo è stato centrato. Così Pechino può affidare la condanna dell'attentato ai «portavoce» dei ministeri competenti, mentre Xi resta in silenzio.

Detto questo, al netto di ogni sospetto, non ci si può nascondere che nell'epoca della guerra ibrida avvengono cose davvero strane. Prima c'è stata una moria di oligarchi russi, casualmente tutti quelli che non condividevano la politica dello Zar. Ora i governi dei Paesi più alleati a Washington, in Europa come nel Pacifico, hanno problemi. E, come un tempo, ora ci sono pure gli attentati eccellenti. Della serie le verità nascoste. Se non c'è un'intelligenza in tutto questo poco ci manca, anche perché, come si dice, un indizio è un indizio, due sono una coincidenza, ma tre sono una prova. Ciò che è avvenuto è un monito all'Occidente a stare in allerta perché il mondo cambia ma non sempre come vorremmo.

(ANSA il 3 luglio 2022) - Sono emerse sei nuove denunce di comportamento inappropriato da parte dell'ex vicecapogruppo (deputy chief whip) del Partito Conservatore alla Camera dei Comuni britannica Chris Pincher, pochi giorni dopo essere stato sospeso come parlamentare conservatore dopo le accuse di aver palpato due uomini. 

Si tratta di accuse che risalgono a più di un decennio fa e cui fanno riferimento oggi diversi domenicali nel Regno Unito. 

Pincher ha da parte sua affermato che cercherà aiuto medico professionale ma che non ha intenzione di dimettersi da deputato.

Nello specifico, le accuse includono tre casi in cui si presume che Pincher abbia fatto avances indesiderate a parlamentari maschi, anche in un bar in parlamento e nel suo stesso ufficio parlamentare. Non sono tuttavia mai state presentate denunce ufficiali. 

Dalle ricostruzioni della stampa emerge che lo scorso febbraio uno dei parlamentari interessati abbia contattato Downing Street per riferire quanto gli era accaduto e manifestare preoccupazione per l'incarico a Pincher - all'epoca ancora in fieri - di vicecapogruppo.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 5 luglio 2022.

 Ma è un partito politico o un club di depravati? La domanda sorge legittima, se si pensa che negli ultimi mesi nei ranghi dei conservatori britannici un deputato è stato condannato per violenza sessuale nei confronti di un ragazzo 15enne, un altro si è dimesso perché guardava video porno nell'aula di Westminster, un altro ancora è stato arrestato per stupro e uno infine è stato sospeso per molestie.

L'ultimo scandalo esploso in questi giorni non arriva dunque come una sorpresa: solo che questa volta minaccia direttamente la posizione di Boris Johnson. Succede che il vice-capogruppo conservatore sia stato accusato di aver palpeggiato due uomini al Carlton, lo storico club dei conservatori a St James, un luogo di saloni ovattati e divani di pelle: e il problema è che sulle prime Johnson ha provato a far finta di niente. Solo dopo che è venuta fuori una denuncia formale, il premier si è deciso a rimuovere dall'incarico il molestatore.

Ma intanto in questi giorni è emersa una litania di accuse contro il vice-capogruppo che risalgono addietro negli anni: in tutti i casi, avrebbe molestato giovani deputati e attivisti del partito. E il guaio è che, a quanto pare, Johnson sapeva tutto: il dirigente conservatore di cognome fa Pincher, che vuol dire Pizzicatore, e hanno riferito che già due anni fa Boris avrebbe detto «quello è un manolesta, Pizzicatore di nome e Pizzicatore di natura». 

Nonostante ciò, il premier lo ha nominato al delicato incarico di vice-capogruppo, superando le perplessità di altri colleghi. Un'ennesima riprova della mancanza di giudizio di Johnson, accusano i critici, già venuta alla luce con la faccenda delle feste a Downing Street durante il lockdown: e come in questo caso, la gestione dello scandalo è stata pessima, con dinieghi e marce indietro che hanno solo peggiorato le cose.

L'ultima sceneggiata però rischia di fare danni ben più gravi della sola reputazione dei conservatori. Johnson è uscito azzoppato da un voto di sfiducia, quattro settimane fa, che ha visto il 41 per cento del suo gruppo parlamentare votargli contro: e adesso i suoi avversari interni sentono di nuovo l'odore del sangue. 

Boris è stato ulteriormente indebolito dalla doppia, pesante sconfitta subita dieci giorni fa in due elezioni suppletive, vinte rispettivamente dai laburisti e dai liberal-democratici: il suo tocco magico elettorale sembra ormai svanito per sempre. 

In base alle regole del partito, non sarebbe possibile per un anno tenere un altro voto di sfiducia: ma già questo mese la norma potrebbe essere cambiata per andare di nuovo alla conta entro fine luglio. Se così accadesse, questa volta per Boris ci sarebbero poche speranze di cavarsela: il disagio si è esteso dai ranghi dei deputati alle stesse file del governo e non si vede come Johnson possa risalire la china. Il premier rischia di cadere alla fine per un pizzicotto di troppo.

Erica Orsini per “il Giornale” il 2 luglio 2022.

Qualcuno lo ha già soprannominato il Weinstein di Poundland, come a dire un molestatore da quattro soldi, con il vizio del bere e la passione per i ragazzi muscolosi. A vederlo, Chris Pincher, ex vice capogruppo parlamentare dei Tories, con quei suoi completini grigi stazzonati e lo sguardo malinconico, non si direbbe proprio nasconda un'anima ambigua. Invece, giovedì sera, quando i tabloid nazionali erano pronti a diffondere la notizia, quest' ometto dall'apparenza innocua ha rassegnato le dimissioni dicendo di «aver messo in imbarazzo se stesso e le persone intorno a lui».

Che era successo? Lo ha subito raccontato il Sun, il primo giornale a riportare la notizia delle dimissioni. Mister Pincher, mercoledì si trovava al Carlton Club, l'esclusivo club riservato ai membri del partito, dove, in preda ai fumi dell'alcol, ha molestato due persone. Secondo una fonte di Sky News uno è un collega e anche l'altro potrebbe lavorare ai Comuni. 

Alcuni testimoni hanno poi spiegato alla BBC che il deputato era stato visto «estremamente ubriaco», nella piccola sala dotata di bar in cui si trovavano anche altri parlamentari, ministri e membri dello staff che lavorano nel settore delle pubbliche relazioni. Nella lettera in cui annunciava la sua volontà di andarsene Pincher aveva scritto al Primo Ministro: «la scorsa notte ho bevuto troppo.

Credo che la cosa giusta da fare sia dimettermi, lo devo a te a tutte le persone a cui ho causato disagio». In un primo momento, a Downing Street non è rimasto che rilasciare uno scarno comunicato interlocutorio descrivendo Pincher come «un leale Conservatore che ha riconosciuto la sua malacondotta». Certamente il governo Johnson, già massacrato da diversi scandali di natura sessuale che avevano colpito i suoi deputati, avrebbe preferito glissare sulla questione, ma non c'è stato verso. 

Gli stessi colleghi conservatori hanno tempestato di telefonate preoccupate le alte sfere e l'opposizione ha colto la palla al balzo per sparare sull'esecutivo. «Mister Johnson ci deve delle risposte - ha dichiarato la vice leader laburista Angela Rayner - su come sia stato possibile che a mister Pincher sia stato dato quest' incarico e come possa rimanere un membro del partito». 

Alla fine, dopo che erano stati presentati dei reclami formali, il capogruppo dei Tories si è visto costretto a sospendere Pincher dalla sua attività parlamentare in attesa che l'inchiesta interna aperta sul caso sia conclusa. Un epilogo ormai quasi scontato, visto che non è la prima volta che il deputato eletto nel collegio di Tamworth nello Staffordshire, si caccia in guai simili.

Nel novembre 2017 infatti, aveva lasciato lo stesso ufficio e si era autodenunciato alla commissione parlamentare preposta e alla polizia, dopo aver fatto delle avances troppo spinte a Alex Story, ex vogatore olimpionico e attivista del partito. La storia era accaduta nel 2001, ma il campione sportivo l'aveva raccontata dalle colonne del Mail on Sunday soltanto 16 anni dopo, nell'ambito di alcune testimonianze sulla disinvolta condotta sessuale di alcuni deputati a Westminster. Una condotta a cui Pincher sembra non aver mai rinunciato.

Storie di sessismo a Westminster: Angela Rayner la deputata «senza qualità». Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 21 Maggio 2022.

Accusata di «non avere altre doti» e quindi di accavallare le gambe «alla Basic Instinct» per distrarre il premier Boris Johnson, la deputata laburista ha portato allo scoperto l’altissimo tasso di misoginia che intossica la politica britannica. Cambierà qualcosa? 

Il caso della deputata laburista Angela Rayner accusata di «accavallare le gambe per distrarre Boris Johnson» — nella foto qui sopra, il momento incriminato durante la seduta a Westminster — ha scatenato in rete una pioggia di meme

Alla Camera dei Comuni, 225 dei 650 deputati sono donne. Tra i Members of Parliament eletti nel 2019, le donne erano il 41%, un totale più o meno in linea con i parlamenti dell’Unione europea. La rappresentanza diretta dei cittadini, il question time settimanale, i due schieramenti in aula, governo e opposizione uno di fronte all’altra, la storia: stando alla definizione coniata dal politico John Bright nel 1865, Westminster è «la madre di tutti i parlamenti», un sistema ammirato e copiato in molti Paesi del mondo, eppure i problemi sussistono. Sono 56 i deputati britannici colpiti da accuse di molestie sessuali e sotto inchiesta da organi parlamentari, mentre il caso di Angela Rayner, vice leader del partito laburista, mostra che sessismo, misoginia e discriminazione non sono difficoltà che appartengono al passato.

L’attacco dei conservatori sul Mail on Sunday

Attraverso le pagine del Mail on Sunday alcuni deputati conservatori hanno accusato Rayner di sfoderare in aula «tattiche da Basic Instinct », accavallando le gambe in modo provocante: una visione «alla Sharon Stone» di fronte alla quale il povero Boris Johnson non può che confondersi e perdere il filo del discorso. «Angela sa di non poter contare sulla formazione di Boris, ma ha altre doti», ha scritto il domenicale, ricordando che Rayner, 41 anni, «già nonna, è una socialista che lasciò la scuola a 16 anni quando rimase incinta e che non ha qualifiche». Un articolo sconcertante sotto diversi aspetti, sessismo e classismo in prima fila, che oltrepassando i confini della decenza ha scatenato una minirivoluzione: da Johnson in poi, il parlamento si è per la maggior parte schierato con Rayner, il leader dei Comuni, Sir Lindsay Hoyle, ha chiesto di incontrare il direttore del giornale e l’autore dell’articolo, il giornalista Glen Owen (i due non hanno raccolto l’invito) e le tante donne di Westmister hanno detto stop. «Queste sono dichiarazioni umilianti per il parlamento», ha sottolineato Harriet Harman, la deputata con maggiore anzianità che ha rivelato di aver considerato varie volte le dimissioni per via del trattamento ricevuto e che ha chiesto che venga introdotta una nuova regola, ovvero che i deputati trovati colpevoli di misoginia siano immediatamente sospesi.

WESTMINSTER È UN LUOGO DOVE UN MINISTRO DELL’ATTUALE GOVERNO SI CREDE LIBERO DI DIVIDERE LE GIORNALISTE IN DUE CATEGORIE: «WITCHES OR BITCHES», STREGHE O STRONZE

Microaggressioni quotidiane, discriminazioni, abusi

Se è ancora presto per dire se porterà a cambiamenti duraturi, il caso Rayner ha sicuramente innescato un periodo di introspezione e riavviato il dibattito, permettendo a decine di donne di raccontare le proprie esperienze. Microaggressioni quotidiane, commenti inappropriati, discriminazioni, abusi. Un’infinità di storie. Come quella del ministro per il Commercio internazionale Anne-Marie Trevelyan, premuta contro un muro da un (ex) collega con le parole «so che mi vuoi, sono un uomo potente». O di Sonia Parnell, giornalista, biografa del premier Johnson, scrittrice di successo (il suo A woman of no importance è stato sulla lista dei bestseller del New York Times) che pochi secondi prima di andare in onda in tv si è sentita sussurrare oscenità dal deputato conservatore che aveva accanto. Caroline Nokes, presidente della commissione parlamentare sulle donne e l’uguaglianza, ha ricordato i palpeggiamenti e le toccatine “accidentali” dei colleghi, le loro occhiate denudanti e l’ostracismo che segue qualsiasi denuncia. Alice Thomson, giornalista politica del Times , ha precisato di non aver mai conosciuto un ambiente misogino e sessista come Westminster, un luogo dove qualsiasi scoop viene qualificato da insinuazioni («con chi sei andata a letto per avere queste notizie?») e dove un ministro dell’attuale governo si crede libero di dividere le giornaliste in due categorie: witches or bitches , streghe o stronze.

Le «Blair babes» etichettate per sminuirne il valore

Come ha sottolineato Gaby Hinsliff del Guardian , la componente presente in quasi tutti i casi è il divario di potere tra aggressori e vittime. Se non sono immuni deputate, presidenti di commissioni e viceleader di partiti, è più a rischio chi occupa i ranghi più bassi della gerarchia parlamentare: segretarie, ricercatrici, assistenti (il fenomeno riguarda anche gli uomini, ma in modo minore). Nel 1997, quando il partito laburista di Tony Blair si distinse per l’elezione di un numero insolitamente alto di deputate (101), diversi conservatori salutarono l’arrivo delle colleghe al grido di «meloni» (nel senso di seni) e «mutande». La portata di un risultato storico venne sminuita dal termine affibbiato al gruppo, Blair Babes , le bimbe di Blair, a dimostrazione che la misoginia non si ferma di fronte al conseguimento di traguardi importanti. Con David Cameron arrivarono le Cameron Cuties , le belle di Cameron, e così via.

Con il MeToo, molestie e abusi spostati online

Oggi termini del genere sono inaccettabili: grazie anche al movimento MeToo, è più chiaro cosa rappresenta un abuso di potere, una molestia, un’intimidazione. Le donne, e tanti uomini, hanno maggiore consapevolezza, sanno l’importanza di denunciare alcuni comportamenti, eppure l’ambiente rimane ostico: come precisa la parlamentare laburista Jess Phillips, il grosso degli abusi oggi si è spostato online, se lei stessa riceve a volte anche 600 minacce di stupro al giorno attraverso i social. La politica? «Può avere le dinamiche di una relazione tossica: ti isola, ti sminuisce e ti sfinisce per farti stare zitta». «L’impressione è che le donne a Westminster, che siano deputate, assistenti o segretarie, siano tollerate più che integrate e rispettate», ha sottolineato una parlamentare in forma anonima. L’Independent Complaints and Grievance Scheme venne creato da Theresa May nel 2018 sulla scia del MeToo per raccogliere denunce di qualsiasi tipo. Se ha ricevuto più di 70 segnalazioni, rimane da accertare se avrà il potere di punire i responsabili. «Al momento se dici qualcosa non sai se verrai presa sul serio, o chi sarà a finire nei guai, se tu o l’altro», ha precisato la parlamentare. La linea politica a volte conta più della decenza, così che le accuse contro Neil Parish, deputato conservatore costretto a dimettersi recentemente per aver guardato filmati pornografici ai Comuni (e non solo, si apprende: è successo più di una volta e in altri contesti) sono state portate ad esempio da David Canzini, stratega di Johnson, come un attacco «inaccettabile», «blu contro blu», ovvero tra gli stessi conservatori.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 19 maggio 2022.

Un nuovo scandalo sessuale - questa volta di una gravità inaudita - scuote le aule di Westminster: un deputato conservatore è stato arrestato martedì sera per stupro e poi rilasciato ieri mattina su cauzione. 

Per ragioni legali non è stato rivelato il suo nome, ma si sa che si tratta di un cinquantenne che è stato accusato dalla polizia anche di assalto indecente, abuso di posizione di fiducia e cattiva condotta in ruolo ufficiale. 

I fatti risalgono a due decenni fa, ma quel che è peggio è che sono andati avanti per ben sette anni, dal 2002 al 2009: e gli investigatori lo hanno incolpato al termine di una indagine durata due anni.

È una ulteriore picconata alla reputazione del Parlamento britannico, già seriamente compromessa. Sono ben 56, si è scoperto appena qualche settimana fa, gli onorevoli denunciati per abusi sessuali: cioè quasi uno su dieci. 

E un altro deputato, Neil Parish, è stato da poco costretto a dimettersi perché sorpreso a guardare video porno sul telefonino durante i dibattiti; mentre un altro ancora, Imran Ahmad Kahn, si era appena dimesso dopo una condanna per molestie sessuali nei confronti di un ragazzo quindicenne.

Si tratta, in tutti questi casi, di politici conservatori: che sembrano essere particolarmente inclini alle malefatte sessuali, forse perché educati in maggioranza nell'atmosfera repressiva dei college privati inglesi. 

Di recente hanno avuto un loro deputato sospeso dal partito sulla scorta di accuse di molestie e uso di cocaina; un altro è uscito dai Tories dopo aver molestato un'assistente, ma siede ancora in Parlamento come indipendente; ancora un ex onorevole era stato condannato per stupro e maltrattamenti nei confronti della moglie; e un altro, incarcerato per due anni per aver aggredito sessualmente tre donne, è stato difeso dalla moglie che siede ora a Westminster al suo posto.

Pure i laburisti non sono senza peccato, ma sembrano essere casi più isolati: perché va ricordato che anche nel primo scandalo di questo genere, nel 2017, fu l'allora ministro della Difesa conservatore a essere costretto a dimettersi per molestie, così come il vice-premier perse il posto dopo che vennero trovati video porno sul suo computer d'ufficio, mentre un altro membro del governo venne accusato dalla sua segretaria di averle chiesto di acquistare giocattoli sessuali. 

Come ha ammesso qualche settimana l'attuale ministro della Difesa, Ben Wallace, c'è «un problema fondamentale» con la cultura imperante a Westminster; e la procuratrice generale, Suella Braverman, era andata oltre, denunciando che in Parlamento ci sono «uomini che si comportano come animali».

Sono atmosfere e vicende che ormai riecheggiano anche nelle serie televisive: come «Anatomia di uno scandalo» con l'attrice Sienna Miller, appena messa in onda, nella quale la moglie di un deputato scopre che lui ha una relazione con una assistente e il politico viene pure accusato di stupro. 

Molto si è detto e scritto su cosa si dovrebbe fare per porre rimedio a una situazione vergognosa: ad esempio, aumentare la rappresentanza femminile in Parlamento, introducendo le cosiddette quote rosa.

Ma il problema sembra essere alla radice: come fa notare Hannah White, vice-direttrice dell'Institute For Government , uno dei maggiori think tank londinesi, chi entra in politica ha una personalità particolare, egocentrica e narcisista, con la tendenza a comportamenti rischiosi che sfocia nella convinzione di essere al di sopra delle regole che vincolano le persone comuni. 

A questo si aggiunge il Palazzo di Westminster, la cui stessa storia e architettura sono di una tale peculiarità da incoraggiare comportamenti fuori dalla norma. Insomma, quella che è detta la «Madre di tutti i Parlamenti» sembra fatta apposta per partorire uno scandalo dopo l'altro.

Vittorio Sabadin per “il Messaggero” il 31 maggio 2022.

Jeremy Wright, autorevole esponente del partito conservatore britannico, già procuratore generale del governo con David Cameron e Theresa May, ha chiesto che Boris Johnson si dimetta per il bene del Paese e per ridare dignità alle istituzioni che così malamente rappresenta. Il primo ministro è in un angolo, ma non si arrende: sa che prima che il partito si metta d'accordo su un successore passerà molto tempo e potranno accadere molte cose.

I PARTY Ma lo scandalo delle feste organizzate al numero 10 di Downing Street, mentre nel resto del Paese la gente non poteva uscire di casa, ha ormai le dimensioni di una valanga. I cittadini che si apprestano a festeggiare giovedì i settant' anni di regno della Regina, la più amata per la sua correttezza e per l'esemplare contegno, sono sconcertati da quello che leggono.

Non è solo la violazione delle regole che il governo stesso aveva stabilito a fare imbestialire i britannici: è l'arroganza dimostrata nel violarle, la convinzione di appartenere a una élite che si può concedere qualunque cosa. Il rapporto di Sue Gray, la funzionaria incaricata di indagare, ha svelato particolari sconcertanti. 

Gli incaricati delle pulizie hanno trovato nelle stanze dell'abitazione del premier macchie di vino sui muri, vomito sulla moquette, bottiglie vuote, avanzi di cibo, segni di risse.

Niente del genere era mai accaduto prima al numero 10, sotto qualsiasi altro primo ministro. La mattina dopo, le stesse persone dicevano alla gente che era vietato recarsi in ospedale ad assistere un parente che stava morendo. 

IL RAPPORTO Ma per evitare lo scandalo si è fatto anche di peggio. Secondo quanto riferito dal Times, tre segretari di Johnson hanno esercitato pressioni su Sue Gray perché ammorbidisse il suo rapporto, cancellando la metà dei nomi delle persone che vi comparivano, circa quindici su trenta. Tra i nomi da cancellare ci sarebbe stato anche quello della moglie di Johnson, Carrie Symonds, organizzatrice di due feste: una per il compleanno del marito, l'altra per celebrare la vittoria sull'odiato consigliere del premier, Dominic Cummings, appena licenziato. Al termine della baldoria due coppie avrebbero pure fatto sesso, dicono le voci a Westminster, ma nei rapporti non se ne parla.

Anche Scotland Yard ha cercato di dare una mano a Johnson, conducendo un'indagine che si è conclusa con poche multe da poche sterline, una sola per il primo ministro. Nel rapporto di Gray sono evidenziate almeno dodici occasioni in cui i partecipanti ai party hanno violato la legge sapendo di farlo e scambiandosi consigli al telefono su come non essere scoperti. Johnson era presente per celebrare eventi o salutare funzionari in uscita. Si giustifica dicendo che ci andava per fare un brindisi e scappare via, e non sapeva nulla di quello che accadeva dopo.

Ma nessuno gli crede: complessivamente sono state considerate colpevoli 83 persone, facendo del numero 10 di Downing Street l'indirizzo del Regno Unito nel quale si è violata di più la legge sul Covid. 

DIMISSIONI Se si votasse oggi, il partito conservatore perderebbe 85 degli 88 seggi che sono abitualmente in bilico con i laburisti e il premier non sarebbe rieletto nel suo collegio. Non se ne può più, ma non si riesce a mandarlo via. «Johnson ha scritto Wright nel chiederne le dimissioni - ha fatto un danno reale e duraturo alla reputazione non solo di questo governo ma alle istituzioni e all'autorità del governo più in generale».

Una considerazione espressa domenica sull'Observer, in toni molti più crudi, anche da Andrew Rawnsley, principale commentatore politico del settimanale: «Puoi pulire le macchie di vino sui muri e pulire il vomito sul tappeto, ma sono le nostre istituzioni che avranno bisogno di una pulizia profonda una volta che il festaiolo del numero 10 sarà finalmente portato fuori con la spazzatura».

Consegnato il 'rapporto Grey' a Downing Street. Partygate, Boris Johnson e le feste con ‘eccessivo consumo di alcol’ durante la pandemia: “Volevo stare vicino allo staff”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

La bufera Partygate travolge (di nuovo) il governo inglese. Dopo mesi di attesa, il rapporto indipendente sullo scandalo, realizzato dall’Alta funzionaria Sue Gray, è stato infatti consegnato Downing Street in forma integrale.

Il documento è di 37 pagine, con 9 immagini. Quindi molto più lungo rispetto a quello pubblicato il 31 gennaio scorso, in forma ridotta e con molti omissis, così come richiesto da Scotland Yard per non interferire sulla sua indagine, che si è conclusa con diverse multe, una delle quali inflitta a Boris Johnson.

Il rapporto contiene nuovi imbarazzanti dettagli sui party avvenuti nelle sedi istituzionali durante il lockdown e la pandemia Covid tra il 2020 e il 2021.

Johnson: “Mi assumo la piena responsabilità”

“Possiamo confermare che Sue Gray ha fornito il suo rapporto finale al primo ministro” è stato poi comunicato da un portavoce di Downing Street. Secondo alcuni media britannici, il rapporto sarebbe arrivato da tempo ai funzionari del n.10. Il premier Boris Johnson l’ha esaminato prima di riferire alla Camera dei Comuni, dove si è scusato assumendosi la ‘piena responsabilità’ per il Partygate. Il primo ministro ha riconosciuto le conclusioni del rapporto e le tante rivelazioni emerse che lo hanno lasciato, ha sottolineato, ‘sorpreso e deluso’. Ha infatti preso le distanze dagli eventi più problematici descritti nel documento, come le feste fino a tarda notte, gli uffici pieni di immondizia e bottiglie vuote la mattina dopo, oltre che ‘i molteplici esempi di maleducazione e mancanza di rispetto verso gli addetti alle pulizie e alla sicurezza‘ di Downing Street.

BoJo ha poi aggiunto di non aver fuorviato in maniera consapevole il Parlamento in passato ricostruendo i vari eventi che, com’è stato poi appurato, erano in aperta violazione delle restrizioni anti Covid in quel momento vigenti. Il premier si è inoltre giustificato per la sua partecipazione ad alcune di queste feste, pur riconoscendo che “questi incontri sono andati molto oltre del necessario e hanno chiaramente violato le regole”. La motivazione? Voleva manifestare la sua ‘vicinanza’ allo staff di Downing Street che in quel periodo “stava lavorando duramente e per molte ore“. Johnson ha quindi concluso affermando di ‘aver imparato la lezione’ , dicendosi fiducioso rispetto ai cambiamenti fatti e alle nuove strutture introdotte al n.10, con l’idea di dover superare lo scandalo e guardare avanti.

“Consumo eccessivo di alcolici”

Molti dei party e degli eventi finiti sotto accusa, a cui hanno partecipato sia alti dirigenti che funzionari, ‘non sarebbero dovuti accadere’, si legge nel rapporto. Condannato inoltre il consumo eccessivo di alcolici nelle sedi istituzionali. ‘Molti rimarranno sgomenti per il fatto che un comportamento di questo tipo abbia avuto luogo su questa scala nel cuore del governo’ e ‘quello che è successo è andato ben al di sotto degli standard previsti” si legge ancora.

Tra le 9 immagini allegate al documento, quattro riguardano la festa per il compleanno del premier del giugno 2020 alla Cabinet Room, per cui sia Boris Johnson che il Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak sono stati già multati dalla polizia. Le altre cinque foto fanno riferimento alla ‘festa di addio’ organizzata a novembre 2020 per l’allora direttore della Comunicazione del governo, l’ex giornalista Lee Cain, a cui ha preso parte il primo ministro (e per cui non è stato sanzionato). Quattro di queste immagini, che mostrano Johnson brindare circondato da altre persone, sono state pubblicate il 23 maggio da Itv.

Le richieste di dimissioni

È ora che il premier conservatore Boris Johnson ‘faccia i bagagli’ e si dimetta perché ‘il gioco è finito’. Parole del leader d’opposizione laburista, Keir Starmer, in un duro intervento alla Camera dei Comuni dopo la pubblicazione del rapporto sul Partygate. Starmer ha aggiunto che non può restare al suo posto chi pretende di fare le leggi e allo stesso tempo le viola.

“Io devo continuare ad andare avanti e il governo deve continuare ad andare avanti” ha dichiarato il primo ministro britannico rispondendo alle accuse in conferenza stampa. “Tutto quello che posso dire è che penso davvero, dato tutto quello che sta succedendo in questo momento, che sia mio compito portare avanti e mantenere gli impegni del nostro programma politico“, ha aggiunto.

“Non sono un bugiardo” ha sottolineato inoltre. “Guardate cosa ho detto al Parlamento e guardate cosa ha detto Sue su ciò che è accaduto e sul mio ruolo. Okay, sono stato nella cabinet room per un breve periodo in piedi alla mia scrivania il 19 giugno 2020 e alcune persone sono venute a congratularsi con me per il mio compleanno. Non sono stati moltissimi e allora non mi era venuto in mente che si trattasse di una violazione delle regole“, ha concluso. Mariangela Celiberti

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 26 maggio 2022.

La sensazione è che il «maialino unto» - così l'ex premier David Cameron aveva definito Boris Johnson - sia sfuggito alla presa ancora una volta. Ieri mattina è piombato su Westminster l'atteso rapporto finale dell'inchiesta sul Partygate, lo scandalo delle feste a Downing Street durante il lockdown: ma più che un botto, è stata una mezza cilecca.

Certo, il documento di 37 pagine redatto dalla temuta funzionaria governativa Sue Gray contiene 9 fotografie e tanti dettagli succosi: durante quei ripetuti baccanali nella residenza del primo ministro, c'era chi, ubriaco, finiva a vomitare sul pavimento, mentre altri, sempre in preda ai fumi dell'alcol, arrivavano ad accapigliarsi.

Poi c'era il vino versato dovunque, anche sulle fotocopiatrici, e le insolenze contro lo staff delle pulizie e della sicurezza. I collaboratori del premier erano consapevoli delle marachelle, tanto che i più alticci venivano fatti uscire alla chetichella dalla porta di servizio.

Ma la realtà è che la sostanza non cambia di molto: erano mesi che si sapeva cosa era successo a Downing Street mentre il resto del Paese si dibatteva nelle spire del Covid, le foto più imbarazzanti erano già circolate e lo stesso rapporto Gray era stato in parte già anticipato a gennaio, quando Johnson era stato accusato di un «fallimento di leadership» per aver presieduto a una simile cultura del disprezzo delle regole. In più, Scotland Yard aveva concluso la sua inchiesta criminale infliggendo a Boris una sola multa da 50 sterline, invece della grandinata di provvedimenti che molti si aspettavano.

E quindi quando ieri, poco prima dell'una, Johnson ha preso la parola di fronte a un'aula di Westminster stipata di deputati, ha avuto buon gioco a deflettere gli attacchi.

Il capo del governo ha parlato di bagno di umiltà, ha detto di aver imparato la lezione, ma si è mostrato ben poco contrito: anzi, ha fatto di tutto per minimizzare i fatti e ha finito sostanzialmente per autoassolversi. Era suo dovere, ha detto Boris, presenziare ai party di saluto per i membri dello staff che lasciavano l'incarico: e in ogni caso si era affacciato solo per pochi minuti, trovando deplorevole che poi quei festaioli fossero andati avanti in qualche caso fino alle 4 del mattino.

Un aiuto glielo ha offerto la stessa Sue Gray, che nel suo rapporto ha ammesso che ci sono stati di recente dei miglioramenti nella gestione interna di Downing Street. E sicuramente la posizione di Johnson è stata alleggerita dal fatto che anche il leader dell'opposizione laburista, Keir Starmer, è finito impigliato in uno scandalo di violazione del lockdown a base di birra e cibo indiano. Così J0hnson ha potuto concludere che è venuto il momento di «andare avanti» e concentrarsi sui veri problemi del Paese, a partire dall'impennata del costo della vita: concetto ribadito anche in una conferenza stampa televisiva tenuta nel pomeriggio.

Dunque, che succede ora? Poco o nulla, probabilmente: ieri in Parlamento non c'erano segni evidenti di ammutinamento sugli scranni dei conservatori. Per andare a un voto di sfiducia contro il premier occorrono 54 lettere di deputati del suo partito: le fonti meglio informate dicono che se ne sono già accumulate oltre 40, ma se pure si andasse alla conta Johnson se la caverebbe, perché non c'è accordo su un eventuale successore. Quindi è probabile che arrivi a guidare i conservatori alle elezioni politiche del 2024: con la possibilità di vincerle di nuovo.

Certo, Boris non è del tutto fuori pericolo: pende sul suo capo l'inchiesta parlamentare per stabilire se abbia mentito al Parlamento, un «crimine» che in Gran Bretagna comporta le dimissioni. Ma è un procedimento che andrà avanti per mesi, almeno fino all'autunno. Nel frattempo, lo spettacolo continua. 

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 3 maggio 2022.

Non conosce colore politico il Partygate, lo scandalo delle feste in pieno lockdown in Gran Bretagna.

Dopo la valanga di rivelazioni su Boris Johnson e le sue allegre riunioni conviviali a Downing Street, da giorni sono i laburisti a essere sulla graticola: il Daily Mail , tabloid cane d'attacco dei conservatori, sta conducendo una campagna martellante contro Keir Starmer, il leader del Labour che è stato filmato mentre l'anno scorso si scolava una birra con i colleghi, in un momento in cui le norme sul Covid vietavano qualsiasi socializzazione che non fosse strettamente di lavoro.

La polizia inglese, quando il video era emerso un paio di mesi fa, aveva detto che non c'era niente su cui indagare: ma domenica Starmer è stato messo in difficoltà nei programmi politici televisivi e la storia sta cominciando a prendere piede. I laburisti insistono a dire che nessuna regola è stata violata perché si trattava di una riunione di lavoro, ma adesso anche giornali che non sono il Mail scrivono che la loro linea è «insostenibile» e che è difficile scorgere differenze con la condotta di Boris e soci.

La cosa imbarazzante, per il Labour, è che Starmer ha più volte chiesto le dimissioni di Johnson a causa del Partygate: ma ora appare come uno che predica bene e razzola male.

Per di più, i laburisti si sono avviluppati in una serie di giustificazioni improbabili e palesi menzogne nel tentativo di scagionare il loro leader: hanno sostenuto che le bevute di birra erano solo una breve pausa durante una sessione di lavoro, ma è emerso che il video incriminato è stato girato dopo le 22 di un venerdì sera, il che rende la tesi assai implausibile; inoltre, in un primo momento avevano negato che fosse presente Angela Rayner, la vice di Starmer: ma poi è emerso che era una bugia, perché c'era pure lei. Dunque ci si chiede: stanno cercando di nascondere altre cose?

La polemica ha chiaramente dietro una manovra elettorale: giovedì si svolge una importante tornata amministrativa e per i conservatori si prospetta un bagno di sangue. Gli elettori sono disgustati dal Partygate, hanno perso la fiducia in Johnson e si apprestano a punire il suo partito: i giornali raccontano addirittura che in certi posti la gente ha bruciato i poster dei candidati conservatori. Per Boris è un affare serio: un risultato disastroso ridarebbe fiato a quanti, all'interno del suo stesso partito, vogliono mettere in questione la sua leadership, nonostante il delicatissimo momento internazionale.

Ecco allora che, puntuale come un orologio, è arrivata la campagna del Mail contro i laburisti: un modo per fare di tutt' erba un fascio e dire che non c'è ragione di voltare le spalle ai conservatori, perché in fin dei conti così fan tutti. Il rischio, però, è di dare ancora di più l'impressione di un'intera classe politica ipocrita e insensibile alle sofferenze della gente. E non è detto che Johnson ne tragga davvero sollievo: all'indomani di un risultato elettorale che potrebbe essere catastrofico, Boris rischia di essere raggiunto da nuove multe a causa delle festicciole cui ha partecipato; ed è in dirittura d'arrivo il rapporto finale della commissione d'inchiesta sullo scandalo. Insomma, il mal comune con Starmer potrebbe non rivelarsi un mezzo gaudio.

Antonello Guerrera per repubblica.it il 2 maggio 2022.

Sarà anche la “culla della democrazia dell’Occidente”, ma oggi è sempre più associato a scandali sessuali, sessismo, machismo, misoginia, bullismo. Il glorioso Parlamento britannico di Westminster non solo dovrà essere ristrutturato dal prossimo autunno (dopo lo splendido Big Ben appena rimesso a nuovo), ma dovrà presto rifarsi anche la reputazione visti gli avvenimenti delle ultime settimane e le macchie che si stanno spargendo sulla sua leggendaria storia. Non a caso, per Westminster, a Londra è sempre più in voga il suo soprannome dispregiativo: “Pestminster”. O "Pornminster".

Un luogo speciale

Chi scrive ha accesso libero a Westminster da oltre tre anni in quanto giornalista parlamentare, e ci sono pochi luoghi politicamente più emozionanti. È un labirinto di fascino borgesiano, tra i suoi infiniti corridoi, piani, stanzone e stanzette, scalette, scantinati segreti, cripte, la maestosa terrazza sul Tamigi, l'irta torretta dove fino al Covid ci si incontrava con i portavoce del primo ministro. E ovviamente la Camera dei Comuni, con la sua spettacolare teatralità e i dibattiti unici al mondo, ma anche le stanze delle commissioni, gli arredamenti, la moquette verde e i rivestimenti di Pugin, le tantissime convenzioni non scritte ma che bisogna rispettare, come per esempio le foto vietate o il tenere le mani in tasca per far capire al deputato che si parla “off the record". Fino alle statue di Lloyd George, Churchill, Attlee e Thatcher dopo il colossale atrio della Westminster Hall, la dorata Camera dei Lord, la cosiddetta Gallery (gli invisibili spalti della Camera dei Comuni per giornalisti), la Lobby (cioè l'atrio dove bazzicano e si può approcciare i deputati all’uscita dal portone dell’aula del Parlamento).

Il "dark side"

Poi c’è il lato oscuro di Westminster. Non la Congiura delle Polveri di Guy Fawkes ma quello che accade intorno al lavoro quotidiano. Che è di certo tanto: i deputati lavorano quasi tutta la giornata e quando il Parlamento non si riunisce (come in questi giorni fino al discorso della Regina del 10 maggio che inaugurerà la nuova sessione dei Comuni e dei Lord) tornano nelle loro circoscrizioni per incontrare costantemente gli elettori locali nelle cosiddette “surgery”. Perché qui il sistema elettorale è uninominale secco e quindi, al di là dell’etica del lavoro, tocca davvero spendersi e impegnarsi per la collettività altrimenti si rischia di non venire rieletti al prossimo giro.

L'alcol e il bar "degli sconosciuti"

Qualcuno ha giustificato errori e malefatte dei deputati anche per il troppo lavoro. Che però non può essere certo una scusante per ciò che sta avvenendo e gli scandali di queste settimane. Un’altra possibile causa dei disdicevoli comportamenti nel Parlamento britannico, secondo altri, è la cultura dell’alcol. È infatti quotidiano che giornalisti, deputati, consiglieri e portavoce si ritrovino informalmente nel tardo pomeriggio per bere pinte e alcolici al cosiddetto bar 'The Strangers' ('gli sconosciuti' o 'gli estranei'). Che oltre ad avere una bellissima terrazza sul Tamigi, è anche l’unica zona franca in cui i giornalisti possono passare del tempo (sempre tutto "off the record") con i deputati e i rappresentanti dei partiti. 

Tutti gli altri bar e locali (a parte quelli della luminosa estensione moderna Portcullis House del Parlamento, sempre sulla sponda nord del Tamigi ma dall’altra parte di Bridge Street) sono divisi per classi: ci sono solo quelli per politici, quelli solo per giornalisti, e quelli esclusivamente per visitatori. 

Molestie e palpeggiamenti

Durante il dopolavoro alcolico in Parlamento possono succedere tante cose. Molto spesso ci si diverte e soprattutto si approfondiscono conoscenze professionali utili per il proprio lavoro. Altre volte, però, possono accadere episodi inquietanti. Qualche giorno fa la ministra del Commercio internazionale britannica, Anne Marie-Trevelyan, ha rivelato che una volta un ex anonimo deputato, dopo qualche birra, l’avrebbe palpeggiata più volte e spinta verso il muro, prima che la parlamentare tory riuscisse a divincolarsi. Oggi il deputato laburista e attivista gay Chris Bryant ha raccontato come, soprattutto all’inizio della sua carriera in Parlamento dopo essere stato appena eletto vent’anni fa, sia stato molestato da “alcuni deputati più anziani mai dichiaratisi omosessuali”. 

I giornalisti vittime

Lo stesso è capitato, secondo il suo stesso resoconto, a un giornalista dello Scotsman, Alexander Brown, che ha accusato un altro anonimo deputato anche di avergli rivolto offese antisemite. Mentre un altro reporter parlamentare e di famiglia con origini cinesi, Henry Dyer di Business Insider, ha denunciato affermazioni e gesti razzisti e sinofobi contro di lui da parte di un deputato laburista, Neil Coyle, proprio sulla terrazza dello Strangers. Coyle si è scusato e ha conservato il posto, ma questo caso ha fatto molto discutere. L’altro giorno il ministro della Difesa britannica, Ben Wallace, ha esortato i suoi colleghi a Westminster “a rinunciare all’alcol dopo le 18 e tornare a casa in famiglia”. 

Il caso 'Basic Instinct'

Non solo. Ovviamente è in corso il Partygate, il grave scandalo delle feste proibite in lockdown che ha coinvolto e che potrebbe far cadere il primo ministro, Boris Johnson. Ma la settimana scorsa è stata la volta del caso 'Basic Instinct'. Tutto è nato da un articolo del Mail On Sunday di due domeniche fa che ha destato scandalo e scalpore per un racconto firmato dal capo della redazione politica, l'esperto Glen Owen. Il quale ha riportato, senza filtro e apparentemente dando credito alla ricostruzione, i rumor e i pettegolezzi misogini e sessisti di alcuni anonimi deputati conservatori. Secondo questi ultimi, Angela Rayner, vice del leader del partito laburista Keir Starmer, nel question time alla Camera dei Comuni mercoledì scorso "avrebbe volontariamente accavallato più volte le gambe dai banchi dell'opposizione di fronte a Boris Johnson, mentre quest'ultimo parlava, per distrarre il primo ministro nella sua esposizione. Insomma, come Sharon Stone in Basic Instinct".

L'illazione ha scatenato un putiferio sin dalle anticipazioni di sabato sera, e il Mail On Sunday è stato travolto da sdegno e proteste durissime su Twitter, da lettori, cittadini comuni ma anche dai colleghi di altri giornali, e soprattutto colleghe. Tra le altre, Kate McCann, una delle giornaliste più rispettate nella cerchia dei reporter parlamentari (ex SkyNews, ora capo del politico della nuova TalkTv di Murdoch), ha subito twittato: "Vedete tutte le donne e le giornaliste furiose contro quell'articolo? Ecco, è perché quasi ognuna di noi nella sua carriera è stata prima o poi vittima di qualcosa del genere, e più di una volta. Sinceramente, siamo stufe, disgustate e non ne possiamo proprio più”. 

Decine di deputati sotto accusa

Tra l'altro, il caso di misoginia contro Rayner è arrivato nel giorno di uno scoop del Sunday Times che, paradossalmente, è stato oscurato da questa vicenda ma che contiene accuse gravissime. Secondo il settimanale della domenica, addirittura 56 deputati del Parlamento britannico sono stati segnalati nei mesi scorsi per "comportamento sessuale inappropriato" all'Independent Complaints Grievance Scheme (piattaforma nata dopo lo scandalo #MeToo). Addirittura, tra loro ci sarebbero tre ministri in carica e due ministri "ombra" dell'opposizione laburista. 

John Bercow e il bullismo

Insomma, lo scandaloso caso occorso a Rayner sembra purtroppo essere solo la punta dell’iceberg. E un’altra polemica è esplosa per alcune recenti denunce per bullismo di donne che però sono state rese pubbliche dalle autorità di Westminster senza schermare i loro nomi, esponendo così le vittime anche a possibili vendette e ritorsioni da parte dei loro datori di lavoro in Parlamento. E se non fosse abbastanza, l’ex speaker della Camera, l’istrionico e celebre John Bercow, è stato condannato pure lui per ripetuto bullismo verso i suoi collaboratori da una inchiesta interna di Westminster, che ha intimato all’ex presidente dei Comuni di non mettere più piede in Parlamento. 

Il porno in aula

Ma, tornando agli scandali sessuali, il partito conservatore non ne è nuovo a Westminster. La settimana scorsa è stato beccato a guardare porno in aula il 65enne deputato conservatore ed ex contadino Neil Parish, che ha provato a giustificarsi dicendo di stare googlando la ricerca di un trattore "Dominator" e di essere finito per sbaglio su un sito porno. Un alibi inconsistente, tanto che ieri Parish ha annunciato le sue dimissioni “dopo la vergogna causata anche a mia moglie”. Nel 2017, per fare un altro esempio, il “primo segretario di Stato” Damian Green, 66 anni e uno dei più fedeli alleati di Theresa May, venne beccato a guardare porno sul suo computer di lavoro nell’ufficio del Parlamento, e poi costretto a dimettersi per aver detto il falso.

Il deputato tory e le molestie a un 16enne

Non solo. Solo tre settimane fa un altro deputato conservatore inglese, il 48enne Imran Ahmad Khan, è stato sospeso e si è dimesso dal suo seggio di Wakefield per essere stato giudicato colpevole in primo grado di aver molestato sessualmente un ragazzino 16enne a una festa nel 2011. Khan ha promesso di fare ricorso, ma il suo caso ha scatenato polemiche anche contro un altro parlamentare tory.

Ovvero il 61enne Crispin Blunt, gay come Khan e a capo della Commissione anti discriminazioni sessuali e di genere, che ha definito il processo contro il suo collega una farsa e “l’ennesima caccia alle streghe contro la comunità omosessuale”. Parole che hanno provocato una furia di polemiche da parte di associazioni e genitori, fino alle scuse di Blunt. Lo stesso che oggi ha annunciato di non ricandidarsi alle prossime elezioni per la sua circoscrizione di Reidgate, che sinora lo ha eletto ininterrottamente addirittura dal 1997, per lasciare per sempre la politica.

Sesso e coca

Non è finita qui. Perché fino a qualche giorno prima a Westminster non si parlava d'altro che del 56enne deputato tory David Warburton, anche lui protagonista di uno scandalo nazionale che sta facendo molto discutere, con tuttora molti lati oscuri: accuse di molestie sessuali da due donne, una foto con quella che sembra cocaina in cucina, il ricovero in ospedale psichiatrico, il sospetto di qualche esponente conservatore che sia una trappola di qualche "potenza straniera maligna", le indagini dell’MI6.

Ecco perché il nuovo speaker della Camera, il 64enne Sir Lindsay Hoyle, ha chiesto una urgente review interna per cercare di salvare la reputazione di Westminster, prima che diventi un covo di scimmie, come nella straordinaria opera del misterioso artista Banksy Devolved Parliament. Uno dei primi provvedimenti potrebbe essere il divieto di alcol in Parlamento. Ma, a vedere la valanga di casi degli ultimi giorni, il problema sembra ben più ampio, esteso e culturale. Dio salvi la Regina, ma anche Westminster. 

Inghilterra sotto choc per l’ospedale degli orrori: “In 20 anni di negligenze oltre 200 morti di bambini evitabili”.  La Stampa il 30 marzo 2022.

Un rapporto sulle «catastrofiche» carenze dei reparti maternità di un'azienda ospedaliera nell'Inghilterra centrale, il Shrewsbury and Telford Nhs Trust, ha rivelato che le morti di almeno 201 bimbi e di 9 madri erano «evitabili» qualora fossero state seguite le procedure mediche in modo corretto. Sono emersi errori e negligenze nell'arco di 20 anni (2000-2019), che costituiscono uno dei più gravi scandali di malasanità avvenuti nel Regno Unito. L'elenco di pratiche andate del tutto contro le regole è impressionante e comprende un ostinato rifiuto dei cesarei, la mancanza di cure adeguate, con centinaia di parti che non sarebbero stati trattati in modo appropriato. Numerosi anche i casi di neonati che hanno subito gravi danni cerebrali a causa della carenza di ossigeno durante la nascita. Di fronte alle tante inefficienze, che possono avere diverse cause, fra cui le stringenti esigenze di budget del servizio sanitario pubblico (Nhs), il ministro delle Sanità, Sajid Javid, si è scusato in Parlamento rivolgendosi alle quasi 1.500 famiglie coinvolte. Mentre il premier Boris Johnson ha sottolineato l'importanza di investimenti «sostanziali» nella maternità.

(ANSA il 12 aprile 2022) - C'è anche il nome della consorte di Boris Johnson, Carrie, fra le persone che Scotland Yard ha deciso di multare nell'ambito delle indagini sul cosiddetto Partygate per i ritrovi organizzati a Downing Street fra il 2020 e il 2021 in violazione delle norme Covid allora in vigore nel Regno Unito.

Lo ha confermato una portavoce, rendendo pubblico il coinvolgimento anche della first lady - pur non trattandosi di un'esponente di governo - "nel rispetto della trasparenza". La riesplosione dello scandalo sta intanto accendendo di nuovo il dibattito sulle possibili dimissioni del primo ministro conservatore, invocate a gran voce dalle opposizioni.

Dimissioni che alcuni osservatori tendono tuttavia a escludere nel pieno della crisi scatenata dall'invasione russa dell'Ucraina. 

E che anche uno dei deputati Tory ribelli più ostili a BoJo, Roger Gale, il quale in passato non aveva esitato a chiederle, ha affermato di ritenere al momento fuori questione. "Non possiamo fare un favore a Putin", ha tagliato corto Gale, né rischiare di destabilizzare "il fronte degli alleati Nato" (in seno al quale Johnson si è rilanciato nelle ultime settimane in veste di punto di riferimento della linea dura nel sostegno a Kiev e nella risposta a Mosca); pur non senza sottolineare come il premier abbia il dovere di "ammettere ora di fronte al Parlamento le violazioni" di legge commesse a Downing Street nell'ambito del Partygate, violazioni che nei mesi scorsi aveva ripetutamente detto di non aver colto.

Da ilmessaggero.it il 12 aprile 2022.  

Il famoso Partygate costa caro a Boris Johnson. Il primo ministro inglese e il cancelliere Rishi Sunak saranno multati dalla polizia per aver partecipato a delle feste durante il lockdown.

Lo riferisce la Bbc, anticipando quella che è una tegola pesantissima per il governo Tory. La coppia ha ricevuto una notifica dalla polizia che preannuncia loro le multe. Le indagini riguardano presunte violazione delle norme anti-Covid in dodici raduni a Whitehall e Downing Street per le quali finora sono state comminate più di 50 sanzioni.

Scotland Yard ha assicurato di essere impegnata a «compiere il massimo sforzo per portare avanti l'inchiesta con rapidità» e non ha escluso la possibilità di imporre nuove multe. Johnson dovrebbe aver partecipato a 6 degli almeno 12 eventi sotto indagine. 

Le multe

«Il primo ministro e il cancelliere dello Scacchiere hanno ricevuto oggi la notifica che la Metropolitan Police intende comminare loro delle multe» per la partecipazione ai ritrovi organizzati a Downing Street e nei palazzi governativi fra il 2020 e il 2021 in violazione delle restrizioni anti-Covid imposte dallo stesso esecutivo nel Regno Unito e allora in vigore, ha confermato un portavoce di Johnson. «Al momento non abbiamo altri dettagli, ma li diffonderemo non appena li avremo», ha aggiunto.

L'annuncio arriva a margine della comunicazione con cui la Metropolitan Police (nome ufficiale di Scotland Yard) aveva informato stamane dell'arrivo di altre 30 ammende nell'ambito delle indagini sul Partygate, oltre alle prime 20 inflitte ad altrettanti funzionari nelle settimane scorse. 

Una comunicazione che aveva già spinto i leader dei maggiori partiti d'opposizione - dal laburista Keir Starmer al liberaldemocratico Ed Davey - a rilanciare la sollecitazione al premier Tory a dimettersi: cosa che peraltro Johnson - già costretto a scusarsi per lo scandalo in questione - ha ripetutamente dichiarato di non ritenere di dover fare. 

Il leader laburista: si dimettano

Il leader dell'opposizione laburista britannica, Keir Starmer, ha invocato via Twitter le dimissioni del premier conservatore Boris Johnson e del suo ministro Rishi Sunak dopo la notizia del loro coinvolgimento nelle multe inflitte dalla polizia di Londra nell'ambito dell'inchiesta sul cosiddetto scandalo Partygate. 

Starmer aveva già sollecitato nei mesi scorsi Johnson a farsi da parte, accusandolo di aver mentito in parlamento sullo scandalo, ma successivamente aveva messo di fatto in standby la richiesto a causa della crisi internazionale scatenata dall'invasione russa dell'Ucraina.

Un libro svela chi è (davvero) Carrie Johnson, la “first lady” britannica. Un nuovo libro getta una luce intrigante sul premier Boris Johnson e sulla moglie Carrie Symonds, additata come la vera eminenza grigia del governo. Ma in molti la difendono insinuando fastidiose accuse di sessismo e di discriminazione. Identikit della più influente inquilina nella storia di Downing Street. MICHAELA K. BELLISARIO su iodonna.it il 13 marzo 2022.  

Urla, piatti in frantumi. E poi grida: «Get off me!» («Stai lontano da me»). Il 21 giugno 2019 la polizia viene chiamata dai vicini di casa di un appartamento nel quartiere di Camberwell, nella zona sud est di Londra: un uomo e una donna stanno litigando vivacemente. «Lascia stare il mio computer!» risponde lui. «Sei un viziato» ribatte lei. Dopodiché si sente il fragore di qualcosa che cade, racconteranno i testimoni. Una lite come tante. Odiosa e passionale, come sono spesso i litigi tra coppie.

Coppia di potere

Il giorno dopo i cronisti scoprono, però, che i duellanti erano il candidato di punta a premier del partito conservatore, Boris Johnson, 57 anni, e la sua nuova scoppiettante compagna, Carrie Symonds, 33, nel curriculum un passato come potente capo delle comunicazioni dei Tories e oggi animalista e attivista green. Da “first girlfriend” a “first lady” Da allora, nel giro di tre anni, la coppia ha fatto un salto quantico: Boris Johnson è diventato premier, i due si sono sposati nel maggio 2021 e hanno avuto due bambini in piena pandemia, Wilfred e Romy.

E insieme hanno raggiunto pure vari record statistici: Johnson è il primo premier pluridivorziato dal 1721 (ha due ex mogli e altri cinque figli), lei è la più giovane partner in 173 anni. Ma soprattutto sono diventati i protagonisti di una serie di scandali. Lui è sotto inchiesta per il “partygate”, ovvero le feste in pieno lockdown nel giardino di Downing Street, al vaglio di Scotland Yard.

La chiamano Carrie Antoinette

Lei è l’imputata principale della costosa ristrutturazione dell’appartamento “governativo” per il quale si è guadagnata il nomignolo di “Carrie Antoinette” come la superficiale Maria Antonietta di Francia. Uno dei tanti “titoli”, per la verità, che le sono stati attribuiti da stampa e detrattori insieme a ” e Unelected” (la non eletta), Anna Bolena, Lady Macbeth, Princess Nut Nut (principessa del cavolo), Miss Machiavelli.  Sì, perché nel frattempo le sono state imputate accuse di ogni genere: sarebbe stata ritenuta la mente dietro l’allontanamento dal cerchio magico del marito, nel novembre 2020, di Dominic Cummings, il suo più stretto consigliere politico, autore della campagna per la Brexit, e ora diventato suo nemico giurato.

La mente dietro la strategia politica del marito (manderebbe messaggini ai suoi più stretti collaboratori). E di essere, più in generale, l ‘eminenza grigia dietro alla “corte del caos” di Boris Johnson, così come è stata definita. Una narrativa confermata adesso anche da un libro esplosivo, in uscita il 29 marzo, scritto dal miliardario e lord inglese Michael Ashcroft, First Lady – Intrigue at the Court of Carrie and Boris Johnson, e anticipato a puntate dal Mail on Sunday. 

Dove la Symonds viene descritta, di fatto, come la “burattinaia della marionetta Boris”. Una “Lady Macbeth”, insomma, “potente” e “manipolatrice” (si è guadagnata anche la cover di Tatler, la bibbia degli aristocratici nell’aprile 2021). Ma è davvero tutto vero?

Chi è Carrie Johnson?

Chi è nella realtà Carrie Johnson?  «Va inquadrata, non è la semplice moglie di un politico. Figlia di uno dei fondatori dell’ Independent, è esperta e navigata, era consulente dei Tories già a vent’anni, capo ufficio stampa. Nel tempo si è creata un profilo autonomo, sa cosa significa il potere, era già nella campagna di Boris Johnson a sindaco di Londra» racconta Luigi Ippolito, corrispondente da Londra del Corriere della Sera.

«Certo è una “first lady” anomala e ambiziosa. Nessun’altra “moglie di” in passato è stata influente come lei ora. La verità è che si colpisce lei per colpire lui, Boris Johnson, fa parte della politica. È ingenuo, però, anche pensare il contrario. Di fatto la festa di compleanno nel giardino di Downing Street in pieno lockdown l’ha organizzata lei».

Presente nelle riunioni di Downing Street

«Di fatto è spesso presente nelle riunioni del marito. E i suoi contrasti con Cummings sono stati reali. Insomma, informalmente, lei c’è». Le anticipazioni del libro hanno suscitato una levata di scudi a suo favore. Tanto che un portavoce della Johnson ha parlato di «una brutale campagna a base di menzogne». Samantha Cameron, moglie dell ‘ex-premier conservatore David, è stata la prima a intervenire osservando che «sono insinuazioni con una base sessista e discriminatoria». Se un uomo sbaglia «è troppo facile dare la colpa a una donna» ha aggiunto la giornalista Sarah Vine, ex-moglie di Michael Gove, ministro e braccio destro di Johnson.

«Lasciatela stare»

«Attaccate quanto volete un politico, ma lasciate stare il suo consorte» ha rimarcato il ministro della Sanità Sajid Javid. «Non la conosco personalmente, ma le accuse nei suoi confronti sono sgradevoli e meschine» chiosa la scrittrice e avvocato Simonetta Agnello Hornby da Londra, dove vive da cinquant’anni. «Però devo anche aggiungere che le altre “first lady” non hanno fatto così tanto clamore. Ad esempio Cherie Blair, che invece conosco bene, quando era a Downing Street ha continuato a lavorare nell’ombra senza creare tutto il caos provocato da questa coppia.

«Ero molto amica anche di Gaia Servadio (la nota giornalista e scrittrice scomparsa nel 2021, ndr) che è stata la prima suocera di Boris Johnson. Lui aveva sposato la figlia Allegra Mostyn-Owen, un matrimonio finito ancora prima di iniziare. Detto questo, sono contraria a questi attacchi solo perché donna e moglie del potente di turno».

Animo green

Cherchez la femme! si dice da sempre. «Se mai il marito finisse messo da parte, sono curiosa di vedere se lo seguirebbe nella cattiva sorte» aggiunge Ornella Tarantola dell’Italian Bookshop, libreria seguitissima a Londra. Lo scrittore e giornalista Tom Quinn (ha scritto molto su Lady Diana negli anni Novanta) osserva che nel Regno Unito la storia si ripete. «Anche negli anni Sessanta e Settanta qualunque errore commesso dall’allora primo ministro Harold Wilson veniva attribuito alla sua segretaria, Marcia Williams» .

«Veniva descritta come una specie di strega assillante e Carrie viene trattata in modo simile. A volte ho il sospetto che al governo di Boris Johnson faccia quasi comodo deviare le critiche su di lei. Comunque Carrie piace ai giovani per le sue posizioni sui diritti degli animali e sull’ambiente».

Carrie Johnson ama gli Abba

Curioso che tra le critiche più pesanti nei suoi confronti ci sia anche quella di aver favorito il trasporto dei cani di un rifugio di animali di Kabul in piena emergenza Afghanistan… «Boris Johnson ha promesso ora di mettere ordine a Downing Street con Sir Lynton Crosby, maestro della comunicazione politica. E per Carrie Johnson cambieranno le cose» continua Ippolito, che racconta come del marito di Margaret Thatcher, Denis, si dicesse “always present, never there” (sempre presente, ma mai lì), così come del consorte dell ‘ex premier Theresa May. Ce la farà a mettersi da parte Carrie? Di lei dicono che adori gli Abba. La sua canzone preferita? The winner takes it all (Il vincitore prende tutto). Ovvio.

La misteriosa morte del "Principe dimenticato". Davide Bartoccini il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La scomparsa del duca di Kent fu veramente legata al volo "segreto" di Rudolf Hess? Il delfino di Adolf Hitler volò in Scozia per mettere fine alla guerra

È rimasta avvolta da un velo di mistero la scomparsa di sua altezza reale George Edward Alexander Edmond, quartogenito di re Giorgio V, titolato Duca di Kent, ufficialmente morto nell'incidente che coinvolse l’idrovolante Short S.25 Sunderland sul quale viaggiava il 25 agosto del 1942 alla volta di Terranova.

Secondo la cronaca, era passato mezzogiorno quando il mastodontico idrovolante, da poco decollato dalle acque di Invergordon, si schiantò contro una verde collina della contea di Caithness lasciando un solo superstite tra l'equipaggio di una dozzina di uomini. Tra loro - si crede proprio ai comandi - era il "principe perduto" che la storia ricorderà come un simpatizzante filo-nazista invischiato in quei piani segreti che ambivano al raggiungimento di una pace separata con il nemico.

Il filo rosso che conduce al piano di Hess

Una missione così delicata doveva essere condotta nella massima segretezza, e non sarebbe stata dissimile da quella che avrebbe cercato di portare a termine un anno prima il gerarca Rudolf Hess. Braccio destro di Adolf Hitler, era decollato su di un cacciabombardiere Bf-110 (modificato con due serbatoi di carburante aggiuntivi, ndr) per raggiungere la Scozia dove lo attendeva il Duca di Hamilton - massone, anch’esso filonazista - per portare a termine un incontro segreto, e allearsi, come i nazisti speravano, contro i bolscevichi. Era il 10 maggio del 1941.

Con un passato ambiguo e un futuro insidioso, il principe George, fratello minore dell'erede al trono e dell'abdicatore Edoardo, Duca di Windsor, incline all’uso della cocaina, bigamo e di orientamento bisessuale, si sarebbe imposto come pilota dell’imponente nave volante della RAF - quadrimotore lungo 26 metri con peso a pieno carico di oltre 26 tonnellate. Ma la storia narra non avrebbe raggiunto la quota adeguata per superare le colline che circondavano la pista liquida da cui si era staccato a pieni motori. Forse la nebbia, che tutto intorno saturava il cielo e non consentiva di scorgere alcun ostacolo, fu complice del disastro. Non appena toccata terra con la chiglia, i serbatoi carichi di benzina esplosero fragorosamente, riducendo l'idrovolante a una palla di fuoco che cospargerà di detriti il picco di Eagle's Rock.

Per il principe e gli altri membri dell’equipaggio, tra i quali erano il suo attendente, il tenente John Lowther, il nipote del primo visconte Ullswater, il pilota tenente Frank Goyene, e gli eventuali passeggeri “non registrati”, non ci sarà nulla da fare. Il sergente Andrew Jack, operatore wireless e mitragliere di coda, che verrà ricoverato con gravi ustioni, sarà l'unico superstite. Sua altezza George diventerà così il primo reale a morire in "servizio attivo" da quando Giacomo IV di Scozia perì nella battaglia di Flodden, nel lontano 1513.

Incidente o sabotaggio?

Nessuno conosce o ha mai rivelato la natura della missione, e perché il quarto figlio di Giorgio V dovesse prendervi parte se mai ne fosse esistita una. La presenza di un reale nelle remote lande del regno poteva essere un'occasione per alzare il morale dei sudditi e delle truppe. Ma quella che rimane l’unica certezza è che il playboy al quale si attribuivano relazioni extraconiugali come con la ballerina Jessie Matthews, il rampollo che si dilettava con droghe pesanti e cattive amicizie (come Kiki Preston, detta “la ragazza con la siringa d’argento”), ma anche l'uomo selezionato come futuro reggente del Regno - perse la vita insieme a nove dei membri dell’equipaggio. L’unico superstite non rivelò mai nessuna informazione su quel giorno. E questo non fece che alimentare numerose teorie del complotto su quella che fu a tutti gli effetti una morte misteriosa.

Se si vuole dare conto alle diverse teorie del complotto, George non sarebbe rimasto vittima di una manovra errata, spinta dalla sua cocciutaggine nel voler pilotare l’enorme idrovolante in una giornata con condizioni meteorologiche sfavorevoli, bensì dalla sua scarsa propensione alla riservatezza. Secondo taluni infatti, venne assassinato dei servizi segreti britannici a causa delle sue amicizie pericolose, onde evitare che informazioni sensibili potessero finire nelle mani dell’Abwehr, il servizio segreto tedesco.

Secondo Charles Higham, autore di The Duchess of Windsor: The Secret Life, sarebbe stato lo Special Operations Executive (SOE) a sabotare l’idrovolante sul quale viaggiava il principe. Un modo per evitare che in una fase così delicata della guerra, una fonte di altissimo livello potesse mettere in pericolo la sicurezza nazionale con le sue "chiacchierate amichevoli", o peggio, con i suoi "piani politici". Ma non è tutto. Secondo ulteriori teorie, ancora più diffamanti per la reputazione del principe, George non mirava solo a trattare una pace separata con la Germania - cosa che avrebbe consentito al Reich di concentrare tutte le forze contro i sovietici - ma sarebbe stato una pedina in una cospirazione ai danni del primo ministro Winston Churchill. Secondo quanto riportato da Lynn Pickett, Clive Prince, Stephen Prior, John Harris e Richard Wilbourn nei libri Double Standards: The Rudolf Hess cover-up e War of the Windsors e Rudolf Hess: Treachery and Deception, al principe spettava il ruolo di pedina fondamentale nella ricerca della pace separata da trattare con i nazisti. Nelle intenzioni di Sua altezza reale però, c’era quella di lasciare alla famiglia Windsor ogni merito. Estromettendo il carismatico primo ministro, simbolo dell’Inghilterra che aveva saputo rialzarsi per combattere e vincere dopo la ritirata di Dunkerque.

Una pace, quella da trattare con Hitler e i suoi attaché, che Churchill non avrebbe mai accettato pur odiando i comunisti quanto i nazisti. Del resto, quando Hess si paracadutò in Scozia per combinare un incontro tra i vertici tedeschi e la famiglia reale, che in fondo discendeva dalla casata tedesca Sassonia-Coburgo e Gotha e dunque appartenente alla stessa “razza”, Churchill lo bollò come un folle da rinchiudere nella torre di Londra come Maria Stuarda, regina di Scozia.

Sempre secondo le fonti degli autori sopra citati, l’ambasciatore tedesco presso il Portogallo, Barone von Hoyningen-Huene, confidò al ministro degli Esteri del Reich Joachim von Ribbentrop come "la comunità britannica di Lisbona mormorasse riguardo il sabotaggio dell’idrovolante sul quale viaggiava il principe per evitare la pace con la Germania". (Si tenga conto che Lisbona e il Portogallo in generale, tra il 1939 e il 1943 erano crocevia dello spionaggio internazionale, ndr).

Il Principe dimenticato

La tragica morte del principe George non ricevette la copertura mediatica adeguata alla figura di un'altezza reale. Il SOE, benché possa apparire una forzatura citarlo in questi termini, era un'organizzazione di sabotatori concepita proprio da Churchill dopo la disfatta di Dunkerque. L'eliminazione di una figura di alto rilievo come un membro della famiglia reale necessitava il suo ordine diretto, senza dubbio l'esistenza di lunghi dossier (mai trovati) sulla personalità e le sue eventuali amicizie.

Il principe George sembrò condividere più che spesso la compagnia del Duca di Hamilton, da sempre considerato il collegamento di Hess sul suolo britannico (o spia scelta dall'MI5 per attirare Hess in una trappola, ndr). I primi soccorritori che giunsero sul posto quel giorno di agosto rinvennero tra i rottami indumenti e calzature femminili da attribuire probabilmente a passeggeri non dichiarati. Nessun documento ufficiale, o ufficioso, venne mai in possesso di alcun ricercatore, né al tempo, né negli ultimi settant'anni. Nulla dunque ha suffragato la tesi di una cospirazione sedata da Churchill in persona per mano di agenti dell'intelligence.

Per quanto ne sappiamo, l'idrovolante Short Sunderland sul quale volava il principe non riuscì a guadagnare quota e velocità sufficienti per oltrepassare la sommità della collina dopo il decollo. A causa del peso del pieno carico, di una rincorsa troppo breve e della ridotta visibilità che impedì di individuare il rilievo, l'aereo si schiantò. Le tesi di una cospirazione, alimentate dal silenzio dell'unico superstite che non rilasciò mai dichiarazioni riguardanti l'accaduto, rimangono sospese. George Edward Alexander Edmond, duca di Kent, uno degli uomini più eleganti e chiacchierati della Famiglia Reale, invece, resta un principe "dimenticato" dagli inglesi e ricordato solo dai cacciatori di segreti.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare.  

Alessandra Rizzo per "la Stampa" il 12 febbraio 2022.

Travolta dalle polemiche su bullismo, razzismo e misoginia tra gli agenti di polizia, Cressida Dick, prima donna a capo di Scotland Yard, è stata costretta alle dimissioni. Gli scandali degli ultimi anni, dall'omicidio di una giovane donna per mano di un agente in servizio alla gestione maldestra del »partygate», hanno minato la fiducia dei cittadini nella forza di polizia più antica del mondo, che con i suoi celebri bobby è un'istituzione simbolo del Regno Unito.

«Non ho avuto altra scelta se non farmi da parte», ha detto Dick dopo essere stata messa alla porta da un sindaco di Londra spazientito. La Metropolitan Police, per tutti semplicemente il Met, è in crisi da tempo, e Dick è stata accusata di non aver saputo eliminare forme di razzismo e misoginia istituzionale al suo interno. «Il sistema di valori e la condotta degli agenti sono finiti giustamente sotto osservazione. Il nuovo commissario è atteso da un duro compito», ha ammesso Priti Patel, la ministra degli Interni che con il sindaco Sadiq Khan nominerà il prossimo capo.

Intanto Scotland Yard si ritrova senza un leader in un momento delicatissimo, nel bel mezzo di un'indagine, quella sui festini proibiti di Downing Street durante il lockdown, che tocca il primo ministro e il cuore delle istituzioni britanniche. L'ultima macchia sulla reputazione della polizia di Londra è arrivata dalla pubblicazione di una serie di messaggi tra agenti, molti dei quali ancora in servizio, su Whatsapp.

Conversazioni sul picchiare mogli e fidanzate, costringendole a rapporti sessuali per «farle stare zitte»; la parola «gay» usata come insulto; commenti razzisti con persone di colore equiparate a «ladri», e anche peggio; offese all'Olocausto. «Disgustoso», aveva commentato Khan; «rivoltante», aveva fatto eco Patel. E quel che è peggio, l'organo di controllo della polizia che ha svelato i messaggi ha detto chiaramente che non si è trattato di «incidenti isolati o di poche mele marce», ma di una cultura diffusa. 

Con i suoi agenti disarmati, Scotland Yard, fondata nel 1829 da Sir Robert Peel (da lui prendono nome i bobby), gode tradizionalmente del rispetto dei cittadini. Ma la sua reputazione aveva subito un duro colpo con lo scandalo delle intercettazioni telefoniche, con giornalisti dei tabloid scoperti a pagare poliziotti corrotti per avere informazioni.

Dick, 61 anni, già a capo della sicurezza per le Olimpiadi di Londra del 2012, è diventata nel 2017 la prima donna, e la prima persona apertamente gay, a diventarne capo. Sotto la sua guida, il Met ha dovuto gestire attacchi terroristici e l'incendio alla Grenfell Tower in cui hanno perso la vita 72 persone. L'anno scorso l'omicidio di Sarah Everard per mano di un poliziotto ha sconvolto il Paese. Il colpevole, Wayne Couzens, ha fermato la giovane donna mostrandole il distintivo e fingendo di arrestarla. Couzens, che è stato condannato all'ergastolo, aveva lavorato come guardia a Westminster e subìto denunce per atti di esibizionismo, ma la polizia non era intervenuta. 

Dick è stata inoltre accusata di aver avuto la mano pesante nel gestire le manifestazioni di migliaia di donne seguite all'omicidio. Da ultimo il pasticcio del «partygate»: per settimane la polizia si è rifiutata di indagare; poi ha annunciato un'indagine, ma impedendo la pubblicazione integrale delle conclusioni di un'inchiesta interna separata e politicamente molto attesa per il futuro di Boris Johnson.

Un intervento, volto a «evitare qualsiasi pregiudizio alla nostra indagine», che ha tuttavia suscitato le perplessità dei giuristi, con Dick accusata di aver voluto insabbiare il caso. «I fatti parlano da soli», ha detto Dal Babu, ex sovrintendente di Scotland Yard. «La fiducia nella polizia è ai minimi storici».

Da "il Giornale" l'11 febbraio 2022.

Aveva smentito categoricamente le voci che la volevano in uscita già ieri pomeriggio, poi in serata l'annuncio ufficiale e definitivo, anche se probabilmente non proprio frutto di una mossa spontanea ma di una serie di pressioni ormai insostenibili. 

Cressida Dick, prima comandante donna della storia di Scotland Yard, il dipartimento di polizia di Londra con competenze nazionali su alcuni dossier investigativi importanti, ha annunciato ieri sera le proprie dimissioni.

Si tratta di un gesto a sorpresa, seguito alle polemiche di una serie di scandali che avevano coinvolto il corpo di polizia, sulla scia di un rapporto che ha messo in evidenza razzismo, misoginia e omofobia (emerse da una serie di messaggi scambiati tra agenti) e discriminazione da parte dei poliziotti della Metropolitan Police della capitale britannica, uno dei quali si è macchiato dello stupro e dell'uccisione della giovane Sarah Everard, un omicidio che ha shockato il Regno Unito. 

Il sindaco di Londra, Sadiq Khan, le aveva dato un ultimatum perché avviasse una riforma interna ma Dick ieri ha dichiarato di non avere «altra scelta che dimettersi». Khano «non ha più sufficiente fiducia nella mia leadership», ha spiegato Cressida Dick. Nel suo messaggio di saluto, l'ex regina di Scotland Yard ha ricordato le sfide e i successi degli ultimi anni.

«Ci sono state molte chiamate difficili. E tante sfide. Gli attentati terroristici del 2017, l'incendio di Grenfell, le proteste difficili, la pandemia, l'omicidio di ufficiali in servizio. Sono incredibilmente orgoglioso della mia squadra e di tutto ciò che hanno ottenuto». 

A proposito del caso Everard: «L’omicidio di Sarah e molti altri casi terribili di recente, lo so, hanno danneggiato la fiducia in questo fantastico servizio di polizia. C'è molto da fare e so che la Metropolitan Police ha rivolto tutta la sua attenzione alla ricostruzione della fiducia e della fiducia del pubblico.

Per questo motivo sono molto ottimista sul futuro della Met e di Londra». Il sindaco Khan ha spiegato di aver «chiarito la scorsa settimana al commissario della polizia metropolitana l'entità del cambiamento che ritengo sia urgentemente necessario per ricostruire la fiducia dei londinesi nel Met e per sradicare il razzismo e il sessismo, l'omofobia, il bullismo, la discriminazione e la misoginia che ancora esiste». 

Che cos’è il Partito Conservatore britannico. Andrea Muratore su Inside Over il 7 febbraio 2002.  

Il Partito Conservatore è stato, in oltre un secolo e mezzo, un protagonista assoluto della politica britannica e dunque globale. La formazione che è stata di Benjamin Disraeli, Winston Churchill e Margareth Thathcer, oggi guidata dal premier Boris Johnson, ha segnato nei suoi anni di governo buona parte delle pagine storiche del Paese: l’età dell’imperialismo, la lotta contro il nazifascismo nella Seconda guerra mondiale, la rivoluzione neoliberista, la Brexit. Nato nel 1834 e per questo legittimamente considerato il più antico partito attivo nel Regno Unito e uno dei più longevi al mondo assieme ai democratici e ai repubblicani americani il Partito Conservatore può vantare di avere alle sue spalle una storia decisamente coerente con gli ideali che ne animarono la nascita.

Il partito più fedele a Sua Maestà

Il Partito Conservatore nacque alla vigilia dell’età vittoriana e dell’epopea imperiale della Gran Bretagna nel XIX secolo e ne fu alfiere, custode e orientatore politico. Con un’attenzione forte ai valori nazionali, al ruolo unificante della Corona, alle istanze economiche delle borghesie mercantili in continua crescita e degli industriali, il Partito Conservatore si strutturò a partire dalla scissione del gruppo dei Tory interni al partito Whig. Erede della corrente sviluppatasi attorno a William Pitt il Giovane (primo ministro britannico nei periodi 1783-1801 e 1804-1806), il partito nacque nel 1834 sotto la direzione di Robert Peel, che fu il primo a condurlo al governo dopo le elezioni del 1841.

Nel corso dei decenni il Partito Conservatore si strutturò soprattutto nel corso dei governi di Benjamin Disraeli su un trittico di strategie che, in larga misura, sono durate fino all’era Thatcher come stella polare del partito: in primo luogo, coniugando conservatorismo sociale e moderato riformismo economico il Partito Conservatore inserì definitivamente nella storia quelle masse non più proletarie che nelle città e nei borghi inglesi si erano strutturate come produttrici, imprenditoriali, partecipi dei destini del Regno. Il Reform Act del 1867, ad esempio, estese il diritto di voto a tutti i capifamiglia maschi, eliminando nel contempo i sobborghi cittadini con meno di 10.000 abitanti e garantendo quindici nuovi seggi elettorali dei quali le rappresentanze maggiori furono Liverpool e Manchester. Anticipando quanto sarebbe stato fatto da Otto von Bismarck in Germania, Disraeli intuì che la via maestra del riformismo avrebbe contribuito a lenire il risentimento delle classi lavoratrici verso il sistema, sanando le contraddizioni della rivoluzione industriale e disinnescando la bomba della contestazione socialista. I governi Disraeli furono segnati da un vero e proprio diluvio di riforme normative sulla salute pubblica e la regolamentazione dei rapporti di lavoro, come l’Artisan’s and Labourers’ Dwellings Improvement Act del 1875, il Public Health Act del 1875, il Sale of Food and Drugs Act del 1875 e l’Education Act del 1876. Il suo governo introdusse inoltre un nuovo Factory Act per la protezione dei lavoratori, il Conspiracy and Protection of Property Act del 1875 e l’Employers and Workmen Act del 1875

In secondo luogo, il Regno Unito governato dai conservatori vide la strategia imperialista utilizzata per compattare all’interno le diverse nazionalità dello Stato. La dominazione degli inglesi nella politica britannica era palese, ma a scozzesi, gallesi e, in misura minore, irlandesi fu garantita la possibilità di compartecipare all’epopea imperiale in qualità di mercanti, coloni, funzionari.

In terzo luogo, il Partito Conservatore scalò gradualmente, dalla metà dell’Ottocento fino alla Grande Guerra, il Partito Liberale suo principale rivale nel bipolarismo nazionale, introducendo una forma di difesa dei diritti individuali e del mercato mediati dall’accento posto sul ruolo unificante delle istituzioni britanniche e della Corona. Questo contribuì a strutturare, a partire dagli Anni Venti, il bipolarismo con il Partito Laburista che conosciamo tuttora.

I Tory di Winston Churchill

Nel Novecento spiccò una figura nella galassia conservatrice, quella di Winston Churchill. Fortemente accentratore, più volte in contrasto col suo stesso partito, da cui fu “esule” per vent’anni (1904-1924) in cui fu uno dei protagonisti tra i leader liberali della Grande Guerra, Churchill riconquistò dall’interno i Tory sino a divenire il premier che, tra il 1940 e il 1945, condusse il Regno Unito nella tempesta bellica. Riuscendo infine a ritornare al governo nel 1951 dopo sei anni di purgatorio in cui il timone dell’esecutivo era passato ai laburisti di Clement Attlee.

Churchill ereditò, in tal senso, lo spirito di Disraeli e fu l’ultimo grande statista della Gran Bretagna imperiale e il primo di quella contemporanea. La sua visione di un conservatorismo “illuminato” aprì la strada, nel dopoguerra, all’accettazione del consenso keynesiano per la ripresa dell’economia, a una stagione di pacificazione del conflitto sociale, a una presa di responsabilità da parte del governo.

Il Churchill che vinse la guerra è noto ed è legittimamente ricordato come una delle figure simbolo del Novecento, oltre che il padre nobile del Partito Conservatore odierno. Ma altrettanto grande fu il Churchill che vinse la pace dopo il ritorno al governo nel dopoguerra. L’obiettivo di garantire sicurezza sociale per combattere efficacemente la povertà e ridurre la criminalità, oltre alla promozione misure economiche finalizzate ad una significativa redistribuzione della ricchezza e la regolazione del mercato nell’interesse di produttori e consumatori, a metà fra il laissez-faire ed il radicalismo britannico, moderò e di fatto consolidò l’agenda radicale di Attlee che aveva causato sconcerto nella middle class britannica e rese patrimonio condiviso alcuni totem del welfare britannico come il Sistema sanitario nazionale (Nhs).

La "rivoluzione thatcheriana"

La complessa fase vissuta dal Partito Conservatore tra il 1964 e il 1979, anni in cui ebbe solo quattro anni di governo in una fase di egemonia laburista, coincise con la fine della stagione di Churchill e dei suoi epigoni e con una lunga traversata del deserto. L’accesso al mercato comune europeo, la crisi del sistema keynesiano dovuto alla stagflazione e il ritiro definitivo della Gran Bretagna dalle antiche posizioni imperiali crearono una crisi politica a cui i Tories risposero con la rivoluzione di Margaret Thathcer.

Prima donna a ricoprire l’incarico di premier nel Regno Unito, in sella dal 1979 al 1990, la Thatcher sdoganò in Occidente i venti della rivoluzione neoliberista. Il suo obiettivo era quello di ridurre il ruolo del governo nell’economia, e a questo fine loro supportavano i tagli nella tassazione diretta, la privatizzazione delle industrie nazionalizzate e una riduzione nella dimensione e nello scopo del welfare state. I sostenitori del mercato libero furono chiamati “thatcherites” e con la loro egemonia il Partito Conservatore vide la saldatura tra l’ala più socialmente attenta ai principi guida dell’ordine sociale e quella libertaria, individualista, anti-Stato. Un’amalgama complessa che però ha formato l’asse dominante su cui la formazione britannica si è stabilizzata fino alla Brexit.

Sfondando nella middle class, esausta dopo anni di inflazione galoppante e crisi economica, la Thatcher condusse i conservatori a due nette vittorie, in occasione delle elezioni generali del 1983 e nelle elezioni generali del 1987. Complici riforme che trasformarono in proprietari di casa milioni di cittadini britannici, mantenne a lungo una base di consenso importante ma era anche fortemente impopolare in certi settori della società, in parte a causa dell’alta disoccupazione che seguì le sue riforme economiche. E non a caso solo cambiando, in parte, linea il Partito Conservatore ha potuto sfondare nell’Inghilterra profonda devastata dalle riforme degli Anni Ottanta.

Brexit e Global Britain

Il 23 giugno 2016 è stato uno spartiacque non solo per il Regno Unito ma anche per i Tory. Quel giorno, la vittoria del Leave al referendum sulla Brexit travolse l’ala europeista del partito gudiata dal premier David Cameron, la cui carriera politica fu bruscamente interrotta nonostante due brillanti vittorie alle elezioni politiche del 2010 e del 2015. Promosso per sfondare nell’elettorato dell’United Kingdom Independence Party di Nigel Farage, il referendum sulla Brexit fece saltare la saldatura dell’era Thathcher e portò allo scoperto una nuova categoria di conservatori, aventi il proprio simbolo nel sindaco di Londra, e attuale premier, Boris Johnson.

Dall’epoca di Disraeli e Churchill questo gruppo di Tory riprendeva l’idea dell’epopea imperiale: la Brexit era da intendersi, in primo luogo, come fenomeno legato alla volontà del popolo inglese di dominare il suo impero interno e come punto di partenza del rilancio della Global Britain. Parimenti, i Brexiters hanno impostato negli anni post-referendum, specie dopo l’ascesa di Johnson a premier nel 2019, un’agenda che mescola proposte radicalmente thatcheriane (come l’idea della “Singapore sul Tamigi”, ovvero di una Tortuga finanziaria deregolamentata da edificare nella Londra post-Brexit) a proposte economiche di investimenti nei settori strategici, rafforzamento del welfare, aumento del salario minimo.

Le elezioni del 2019, in tal senso, hanno segnato una svolta. L’etoniano e oxfordiano Johnson ha sottratto al socialista Jeremy Corbyn lo scettro della working class impoverita che nel 2016 ha funto da spina dorsale per il consenso alla Brexit: dalle aree del Northumberland alle Midlands e allo Yorkshire sono gli abitanti della Gran Bretagna profonda a spingere i Tory verso la maggioranza assoluta. A risultare decisiva la popolazione dimenticata, lontana dalla scintillante City di Londra, narrata nel momento della sua crisi più nera dal genio artistico del regista Ken Loach. I Tories hanno vinto trainati dai consensi degli sconfitti della globalizzazione che il partito ha contribuito, trent’anni prima, a sdoganare: e questo è un punto politico fondamentale. Dopo la pandemia di Covid-19, il rilancio della strategia Global Britain e il perfezionamento della Brexit la sfida per il partito che ha costruito l’attuale consenso sociale su cui si fonda lo Stato britannico e ha legittimato parte delle riforme delle componenti rivali del sistema nazionale sarà il bilanciamento di quella che può apparire una contraddizione. Ma nei grandi momenti della storia britannica è proprio il Partito Conservatore chiamato a un ruolo di sintesi. E dunque a farsi interprete dei mutamenti d’orientamento dlela nazione.

Fuga da Johnson, via anche i suoi strateghi. Caos in Irlanda del Nord: il premier si dimette. Gaia Cesare il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Altri quattro lasciano Downing Street. Brexit, l'annuncio di Paul Givan

Boris Johnson perde pezzi e rischia di cadere a pezzi. Il capo del govern.o inglese ha assistito ieri all'addio di quattro cruciali collaboratori in una sola giornata: il capo dello staff Dan Rosenfield, il segretario privato Martin Reynolds ma soprattutto il capo delle Comunicazioni di Downing Street, Jack Doyle, e nel giro di qualche ora anche la stratega Munira Mirza, una delle sue responsabili politiche, tra l'altro vicina al ministro delle Finanze Rishi Sunak, il più pericoloso sfidante alla leadership di Johnson. Tutto accade per colpa di una battuta del premier considerata triviale, definita «inappropriata e partigiana», e diretta al leader dell'opposizione laburista, Keir Starmer. Boris l'ha pronunciata lunedì, quando è finito sotto pressione dopo aver ricevuto il report di Sue Gray, la funzionaria indipendente che indaga sulle feste del governo in lockdown e ha riscontrato «comportamenti non giustificabili» e fallimenti di leadership e di giudizio «da parte del n. 10 di Downing Street e del Cabinet Office». Così quando Starmer, che sta galoppando nei sondaggi, ha esortato i deputati Tory a «chiudere questa farsa» e a cacciare Boris, BoJo ha replicato seccato con un colpo basso: Starmer - ha detto il premier - «ha trascorso la maggior parte del suo tempo a perseguire i giornalisti e a non perseguire Jimmy Savile», il dj della Bbc, conduttore radiofonico e televisivo, che in 50 anni di attività ha violentato indisturbato oltre 200 vittime, il 70% delle quali minori di 18 anni. Peccato che il leader laburista Starmer, avvocato, quando era capo della pubblica accusa, in realtà, non abbia avuto alcun ruolo personale nelle decisioni relative al caso di Savile. Johnson non si è scusato, ha precisato che l'attacco «riguardava le responsabilità» di Starmer per l'intera organizzazione» ma la sua stratega Mirza, al fianco del premier da 14 anni, da quando Boris era sindaco di Londra, ha deciso che la misura era colma.

La sensazione è che si tratti delle avvisaglie del golpe che potrebbe consumarsi entro qualche settimana ai danni di BoJo. Il rischio è che le dimissioni accelerino la resa dei conti tra il capo di governo e il Partito conservatore, sempre più preoccupato che Boris abbia perso il tocco magico e che la sua posizione sia sempre più compromessa con il partygate. Ecco perché una frase degenerata in un attacco personale, ma improprio, al leader del principale partito di opposizione, ingigantisce il rischio di una sfiducia al primo ministro già ferito dal partygate, dopo che altri 5 deputati Tory hanno deciso di inviare lettere al Comitato 1922 per arrivare a un voto che stronchi la carriera del premier. In tutto ne servono 54 ma il numero sale di giorno in giorno. E ieri a guastare la giornata del premier sono arrivate altre conseguenze della Brexit. Il First Minister unionista dell'Irlanda del Nord, Paul Givan, ha annunciato le dimissioni a causa del controverso protocollo allegato agli accordi tra il Regno Unito e la Ue. Gaia Cesare

Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 5 Febbraio 2022.  

«Traditrice». Nei corridoi di Downing Street, qualcuno sostiene di avere sentito Carrie Symonds, moglie del primo ministro, troncare così la discussione con Munira Mirza, consigliera di lungo corso di Boris Johnson, quando nei giorni scorsi ha dato le dimissioni. È vero che Munira era rimasta al fianco di Boris per quattordici anni. Ma l'epiteto suona melodrammatico, teatrale. 

D'altra parte, l'edificio dietro il celebre portone con il numero 10 sembra sempre più un palcoscenico, il dramma che vi si recita potrebbe essere scritto da Shakespeare e non è la prima volta che la first lady viene paragonata a lady Macbeth. Si dice che sia stata lei a rompere il patto fra Johnson e Dominic Cummings, artefice prima della vittoria di Boris nella campagna per il referendum sulla Brexit, poi del trionfo alle elezioni di due anni fa: una foto li ritrae tutti e tre che esultano insieme attorno a un tavolo, quando la Bbc diede le prime proiezioni del voto. 

Poi però i rapporti fra consorte e super consigliere si sono guastati e le indiscrezioni dicono che fu Carrie a orchestrare l'umiliante allontanamento di Dom, senza pensare che avere un nemico a conoscenza di vizi e segreti del marito sarebbe stato politicamente rischioso. Se in un primo tempo Lady Macbeth ha sconfitto Rasputin, soprannome di Cummings a Downing Street, da allora quest' ultimo diffonde imbarazzanti rivelazioni su Johnson: «È mio dovere - dichiara - fargli perdere il potere». 

La storia si ripete con l'uscita di scena di Mirza, andata via definendo «un'insinuazione falsa e scurrile» l'accusa di Boris al leader laburista Keir Starmer di non avere indagato un noto pedofilo quando era procuratore capo d'Inghilterra. Viene da chiedersi se in questi conflitti pesino anche differenze di classe: come Boris, Carrie proviene dall'alta borghesia, sebbene nel caso di lei i genitori fossero di sinistra; Mirza e Cummings sono invece figli della classe operaia. 

Di certo c'è che ai party illegali a Downing Street c'era anche la first lady: anzi uno, per il compleanno per Boris, l'ha organizzato di persona. Chissà se ieri è stata Carrie, magari ispirata da un cartone animato appropriato al loro primo figlio, a suggerire a Johnson una citazione dal musical Il Re Leone , «cambiare è un bene» (nel film pronunciata da un mandrillo), per minimizzare l'ondata di dimissioni nel suo staff dopo quelle di Mirza. 

L'avvertenza, in questa recita shakespeariana, è che in vita sua Boris Johnson ha dimostrato di riuscire a cacciarsi nei guai senza bisogno di dare la colpa a una lady Macbeth. E che il vento del cambiamento potrebbe soffiare anche per lui.

(ANSA il 29 gennaio 2022) - Sue Gray dovrebbe consegnare il suo rapporto sul 'partygate' a Downing Street nelle prossime ore senza aspettare la conclusione dell'inchiesta della polizia. Lo ha appreso la Bbc. 

La Metropolitan Police ieri aveva chiesto all'alta funzionaria che ha compiuto l'accertamento interno sulle feste sotto accusa nelle sedi istituzionali di fare "riferimenti minimi" proprio su quegli eventi su cui è concentrata l'attenzione dei detective per comprendere se siano state violate o meno le normative anti-Covid vigenti. Questo per "evitare qualsiasi pregiudizio alla nostra indagine".

La polizia ha precisato di non aver chiesto a Gray di ritardare l'uscita del rapporto. Ma è probabile che quella che sarà consegnata e poi pubblicata prima che l'indagine della Met sia conclusa possa essere una versione edulcorata, senza elementi che risulterebbero fortemente dannosi per il premier conservatore Boris Johnson, finito al centro dello scandalo.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 29 gennaio 2022. 

Un complotto per salvare Boris? Il sospetto è stato sollevato, dopo l'intervento di Scotland Yard che ha di fatto insabbiato il rapporto di Sue Gray, l'alta funzionaria incaricata di indagare sul Partygate, le feste a Downing Street in pieno lockdown. Le conclusioni dell'inchiesta Gray erano attese per questa settimana: e probabilmente avrebbero condotto a un voto di sfiducia contro Johnson.

Martedì invece il colpo di scena: Scotland Yard annuncia che ha aperto una sua indagine criminale sui party. Apparentemente una brutta botta per Boris, in realtà la sua salvezza: perché ieri la polizia ha chiesto che il rapporto Gray faccia solo «riferimenti minimi» agli eventi in questione per evitare di «pregiudicare le indagini». In altre parole, se il rapporto finalmente verrà pubblicato la prossima settimana, lo sarà in versione totalmente annacquata: e a questo punto potrebbe non vedere neppure la luce prima della fine dell'indagine di Scotland Yard, che potrebbe richiedere mesi.

«Questo puzza totalmente di montatura», ha twitatto la deputata laburista Alex Davies-Jones; «la cosa diventa più torbida di minuto in minuto - le ha fatto eco la premier scozzese, Nicola Sturgeon - la sequenza degli eventi crea il sospetto che il processo dell'inchiesta stia aiutando Johnson».

L'ufficio del primo ministro è stato costretto a negare che ci siano stati contatti con i vertici di Scotland Yard, ma ieri le illazioni si moltiplicavano: anche perché la responsabile della polizia, Cressida Dick, è da mesi nel mirino con accuse di incompetenza e anche richieste di dimissioni, dunque non esattamente in una posizione di forza. Il risultato è che ora appare improbabile che si raggiunga il numero necessario di «ribelli» nel partito conservatore per andare a un voto di sfiducia contro Johnson: che invece già annuncia una controffensiva con nuove iniziative politiche per placare l'opinione pubblica.

Irlanda, quando gli scrittori hanno "creato" una nazione. Andrea Muratore l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'Irlanda, dominata dall'Impero britannico, divenne indipendente nel 1921. Ma era già "rinata" grazie a scrittori e poeti come Joyce e Yeats.

Nel dicembre scorso l'Irlanda ha celebrato un secolo di indipendenza dalla corona britannica, che il 6 dicembre 1921 concesse allo Stato Libero d'Irlanda la separazione definitiva dal Regno Unito. Trattata a lungo come prima e più prossima colonia di Londra, popolata da centinaia di migliaia di coloni unionisti, ancora oggi maggioritari nelle contee del Nord, terra a lungo poverissima, travolta nell'Ottocento da carestie e emigrazioni di massa, l'Irlanda è potuta resistere e, dunque, esistere solo grazie a un forte e deciso spirito identitario.

In particolare, l'Irlanda dell'inizio del Novecento conobbe una vera e propria fioritura culturale che fece da preambolo all'indipendenza e a una storia vissuta, nei decenni successivi, pericolosamente tra la neutralità nella seconda guerra mondiale, i conflitti interni nell''Ulster britannico con l'Irish Republican Army, infine la Brexit che ha riportato allo scoperto la profonda ferita aperta nell'isola celtica dalla divisione tra una nazione ben definita e l'antico colonizzatore. "Ciò che credo vi avvenne fu visione", dice dell'Irlanda un verso di Séamus Heaney, il poeta premio Nobel 1995. L'Irlanda è terra di visioni, di sogni, di racconti, terra di un popolo paziente e tenace quanto vasti sono i suoi cieli. Luogo tranquillo e delicato, segnato da una storia difficile, fatta di sfruttamento e povertà, sfociata in un'indipendenza ancora relativamente recente, negli ultimi tempi appiattita sull'edonismo tipico del paradiso fiscale rampante che Dublino è diventata.

Ma questa Irlanda, con tutte le contraddizioni e le complessità di una nazione moderna, non esisterebbe senza i suoi bardi contemporanei, senza gli alfieri della fase tumultuosa del Rinascimento celtico figlii della cultura identitaria irlandese e suoi "bardi" nel mondo. A cavallo tra il tardo Ottocento, età in cui il nazionalismo romantico sfociava nel positivismo, e il Novecento, secolo di idee assassine, di nazionalismi sangue e suolo, di neo-giacobinismi bolscevichi e di iper-individualismi neoliberali, l'Irlanda conobbe uomini che seppero cantarne le bellezze, le specificità, la storia prendendo spunto dai suoi luoghi più simbolici. Fabrizio Pasanisi ha sottolineato ne L'isola che scompare il legame organico nato tra l'Irlanda e i suoi cantori. Nel suo libro che unisce cronache di viaggio e escursioni nella storia, Pasanisi esprime un vero e proprio atto d'amore per la terra delle verdi brughiere, isola "percorsa dalle storie, non meno dell’Italia, storie che vengono dalla terra, storie che riempiono l’aria, tra una pioggia e l’altra, storie che nascono dalla fantasia – e da dove sennò -, dalla fantasia e dalla vita – e da dove sennò -, e restano per noi, che ci rechiamo lì, e riconosciamo i luoghi, i personaggi, in un volto, tra le rive di un fiume".

I grandi letterati, gli scrittori, i poeti, gli autori di teatro riscattarono l'Irlanda dopo il secolo delle umiliazioni, delle grandi carestie, delle fughe in massa oltre Atlantico che costituirono la grande comunità di americani di origine celtica. William Butler Yeats (Nobel per la letteratura nel 1923) e la sua antologia Poems and ballads of Young Ireland (1888) furono il calcio d'inizio del Rinascimento celtico. A Yeats, celebrato ideologo di questo movimento culturale, espressione di patriottismo e nazionalismo intriso di suggestioni decadentiste e simboliste, si devono la creazione prima della National Literary Society di Londra (1892), poi dell'Irish Literary Theatre (1897) e successivamente dell'Irish National Theatre Society (1902). Istituzioni che ricordarono agli irlandesi il loro ruolo non solo in seno all'Impero britannico ma anche nella storia d'Europa. Yeats fu premiato dall'Accademia del Nobel per "la sua poetica sempre ispirata, che con alta forma artistica ha dato espressione allo spirito di un'intera nazione", e nel libro di Pisanesi appare assieme ai suoi versi ai piedi del Ben Bulben, mentre le sue parole riecheggiano tra il fruscio del vento che sferza la sua casa-torre a Thoor Ballylee.

Cinico e critico verso la società irlandese del tempo fu invece James Joyce, romanziere cosmopolita e perennemente attivo nel Vecchio Continente, ramingo tra Parigi (epicentro della Belle Epoque e capitale culturale d'Europa), Trieste (Atene mitteleuropea nell'ultima era austroungarica), Zurigo (polo di scienza e conoscenza), sardonico nei suoi libri, da Gente di Dublino a Ulisse, contro una presunta vena bigotta e reazionaria della società irlandese. Anticonformista e graffiante, Joyce contribuì però a storicizzare con le sue contraddizioni il popolo irlandese. Pasanisi si cimenta e bene nel genere del dialogo immaginario, facendogli dire cose molto divertenti, evidenziandone il lucido disincanto, come se il grande scrittore fosse, ancora in attesa, seduto a un pub della vecchia Dublino a contemplare gli idealtipi sociali nella forma dei suoi cittadini. Oggigiorno zelantemente progressisti, liberal, cosmopoliti come fino a ieri erano stati ferventi cattolici, più papisti del Papa. “Se riesco a raggiungere il cuore di Dublino, riesco a raggiungere il cuore di tutte le città del mondo”, scrisse Joyce, lucido e lungimirante.

Pasanisi guida poi lungo la frastagliata costa irlandese, da Cork a Limerick, da Galway a Sligo, tocca l'antica capitale culturale, e odierna capitale della birra, di Kilkenny. Assieme ai due giganti, altri autori hanno contribuito a consolidare il recupero dell'identità irlandese come cifra distintiva della nazione nel mondo. Flann O'Brien (Una pinta d'inchiostro irlandese) e Samuel Beckett, futuro premio Nobel nel 1969 (Aspettando Godot), sono tra questi. Premio Nobel per la letteratura (1925) fu anche George Bernard Shaw, altro grande irlandese che segna il passaggio dal XIX al XX secolo.

L'Irlanda nacque politicamente negli Anni Venti, ma era già nata da tempo nella testa e nel cuore dei suoi grandi narratori. Che riconsegnarono alla storia la nazione, la idealizzarono e la resero un'idea materiale al tempo stesso. Un secolo dopo, possiamo parlare di un'impresa che unisce Dante e Manzoni assieme, e di un progetto culturale capace di avere fini sistemici e politici. Quando si dice che la penna è più potente della spada, basta pensare all'isola celtica che si fonde con i suoi narratori e cantori.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Chiara Bruschi per "Il Messaggero" l'1 febbraio 2022.

«Fallimenti seri nella leadership e nel giudizio», «eccessivo consumo di alcol non appropriato a un luogo di lavoro», «incontri difficili da giustificare» e altri «che non sarebbero mai dovuti avvenire». 

E ancora: «Troppo poca attenzione a quello che stava accadendo nel Paese, considerando i rischi per la salute pubblica di alcuni di questi incontri e come sarebbero potuti apparire agli occhi della popolazione». E poi: N10 non è stato «all'altezza degli standard che il popolo britannico si aspetta e che merita».

Il rapporto conclusivo dell'indagine sul partygate condotta da Sue Gray, seppur reso pubblico in minima parte per volere di Scotland Yard, che ha aperto un'inchiesta a sua volta, è impietoso. 

L'atteso documento è stato recapitato a Boris Johnson nella mattinata di ieri e il primo ministro si è presentato nella Camera dei Comuni nel pomeriggio per rispondere alle accuse che il dossier ha inevitabilmente sollevato.

Nell'estratto, la funzionaria ha confermato di aver analizzato sedici eventi organizzati negli uffici governativi durante i lockdown degli ultimi due anni, dodici dei quali sono al momento sotto la lente di ingrandimento della Metropolitan Police, a dimostrazione del fatto che in tutte quelle occasioni potrebbe esserci stata una seria violazione delle limitazioni anti-Covid allora in vigore.

Tre di questi coinvolgono Boris Johnson in prima persona: il famigerato garden party organizzato dal suo segretario Martin Reynolds, la festa di compleanno allestita a sorpresa dalla moglie Carrie nella Cabinet Room e un altro ritrovo risalente al 13 novembre 2020, questa volta non negli uffici di Downing Street, ma al primo piano, nell'appartamento privato del primo ministro e della sua famiglia. 

Una data che non è casuale: in quel giorno Dominic Cummings - diventato il nemico numero uno di Johnson - si era dimesso puntando il dito contro il primo ministro, e secondo le voci di corridoio la festa era stata organizzata proprio per celebrare la sua rocambolesca uscita di scena.

Nel frattempo la Met ha reso noto di aver ricevuto da Sue Gray oltre 300 foto di feste organizzate a Downing Street. Ci sono poi le versioni di oltre settanta persone intervistate, numerose email, messaggi WhatsApp e documenti che provano gli ingressi e le uscite dagli uffici. 

Una situazione non certo facile per Johnson, che ha dribblato le richieste di dimissioni arrivate dall'opposizione, rimandando la decisione alla pubblicazione completa del rapporto e alle conclusioni dell'inchiesta di Scotland Yard.

Il leader laburista Keir Starmer ha citato Margaret Thatcher nel sottolineare come «il primo dovere di un governo sia quello di rispettare la legge» e ha criticato Johnson per la sua «mancanza di onestà, integrità e autorità morale». 

Uno degli attacchi più duri è arrivato da Theresa May, collega di partito ed ex capo del governo: «Il primo ministro non stava osservando le regole che aveva imposto al resto del popolo. Non le aveva lette o non le aveva capite? Oppure pensava che non valessero per lui?».

Aaron Bell, sempre dai banchi dei Tory, ha ricordato il funerale della nonna, in cui potevano partecipare solo dieci persone e durante il quale non aveva potuto «abbracciare i parenti». «Pensa quindi che sia uno stupido?» per aver rispettato le regole, ha concluso. 

«Voglio scusarmi - ha detto Johnson, che non ha alcuna intenzione di dimettersi - per quello che abbiamo sbagliato e per il modo in cui la situazione è stata gestita. Questa pandemia è stata dura per chiunque e capisco la rabbia delle persone», ha aggiunto, per poi precisare: «Ho capito la situazione e metterò le cose a posto».

E per farlo ha annunciato alcuni cambiamenti strutturali all'intento del suo staff: ha detto che creerà un Ufficio del primo ministro, metterà mano al codice di condotta per i dipendenti e introdurrà nuove misure per migliorare il lavoro del governo. 

Misure che Johnson si augura possano bastare a convincere gli scettici del suo partito. Per la mozione di sfiducia nei suoi confronti servono 54 richieste e fino ad alcune settimane fa erano, pare, una ventina. Se dovesse aprirsi una mozione di no-confidence, sarà il voto segreto a decidere il suo destino.

Il rapporto parla di un "fallimento di leadership". Partygate, l’inchiesta inglese affossa Johnson: “Comportamenti ingiustificabili, consumo alcolici inappropriato”. Redazione su Il Riformista il 31 Gennaio 2022. 

E’ stato pubblicato l’atteso rapporto di Sue Gray, l’incorruttibile funzionaria britannica ultrasessantenne che conduce l’inchiesta sul Partygate, lo scandalo delle feste a Downing Street in pieno lockdown. La donna –  che per i parlamentari britannici è colei che governa davvero il Paese – rischia di annientare il destino politico del premier britannico Boris Johnson.

Nell’analisi lunga 12 pagine, Sue Gray stronca il governo del partito conservatore, sottolineando una “mancanza di leadership e mancanza di adeguato giudizio” sia a Downing Street che nell’ufficio di gabinetto. Il giudizio di Gray è negativo: i comportamenti durante questi incontri sono difficili da giustificare. “Durante la pandemia, quando il governo chiedeva ai cittadini di accettare restrizioni di enorme portata, i comportamenti avvenuti durante questi incontri conviviali sono difficili da giustificare”, si legge.

Nero su bianco Gray, che ha già avuto modo di interrogare il primo ministro Johnson, condanna l’atteggiamento che i membri di Downing Street hanno avuto durante il lockdown a causa della pandemia di coronavirus: durante le restrizioni nel corso della prima ondata di Covid che ha colpito il paese, al numero 10 di Downing Street non si sarebbe dovuto organizzare alcun tipo di incontro. “Si ha la sensazione che non si sia tenuto in considerazione ciò che stava accadendo in tutto il Paese durante la pandemia nel valutare se questi incontri conviviali dovessero avere luogo. Non si è considerato i rischi che presentavano per la salute pubblica e come avrebbe potuto prenderli la gente”. E’ uno dei passaggi delle conclusioni del rapporto finale di Gray, che condanna il “consumo eccessivo di alcol” nella sede del governo.

“Almeno alcuni dei raduni in questione rappresentano una grave mancanza nell’osservare non solo gli alti standard che ci si attendono da coloro che lavorano nel cuore del governo, ma anche degli standard che ci si attendeva all’epoca dall’intera popolazione britannica”, si legge ancora nel documento, che sarà oggetto dell’intervento che il premier Johnson farà alla Camera dei Comuni nel pomeriggio.

Dal rapporto emergono anche dettagli imbarazzanti per il premier britannico. E sicuramente faranno indignare la Regina Elisabetta. Secondo l’analisi, una valigia piena di alcolici è stata portata a Downing Street durante una festa avvenuta la sera prima dei funerali del consorte della Regina, il principe Filippo. Durante lo stesso party, l’altalena del figlio di Boris Johnson, che si trovava in giardino, è stata spaccata durante i festeggiamenti.

Nel delineare un profilo di irresponsabilità dell’esecutivo, Gray ha puntato il dito anche su chi ha osservato un atteggiamento di omertà o di incapacità nel denunciare quanto stava accadendo a Downing Street, mentre i cittadini vivevano una vita condizionata da stringenti limitazioni.

La funzionaria britannica, nel corso del suo lavoro di inchiesta, ha però avuto le mani legate. Le indagini sono parallelamente condotte anche da Scotland Yard. Tuttavia Gray ha affermato nel rapporto di aver esaminato 16 incontri, fra il 2020 e il 2021, alcuni dei quali si sono tenuti nello stesso giorno. Almeno 12 di questi incontri sono oggetto di indagine da parte della polizia inglese: tra questi spicca anche la festa di compleanno di Boris Johnson, tenutasi il 19 giugno 2020 nella Cabinet Room a Downing Street, per presunta violazione delle regole anti-Covid.

Ma nel rapporto viene fatta un’affermazione molto importante che potrebbe avere ricadute sul futuro del premier conservatore: “C’è un insegnamento significativo da trarre da questi eventi che devono essere affrontati immediatamente in tutto il governo. Per questo non è necessario attendere la conclusione delle indagini di polizia”.

Il premier Johnson dovrà quindi affrontare la bufera che si sta scatenando in parlamento. E difficilmente riuscirà a sedarla. Dall’analisi della funzionaria britannica, il primo ministro Johnson ne esce a pezzi.

Lord Haw Haw, il più arcigno traditore d'Inghilterra. Davide Bartoccini il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'ascesa e la caduta di Lord Haw Haw, il controverso e talentuoso broadcaster filo-nazista che intratteneva gli inglesi con propaganda e disinformazione.

29 maggio 1945, Flensburg, Germania. Nel retro di un’ambulanza militare con le grosse croci rosse nei necessariamente vistosi cerchi bianchi, giace un uomo magro e dal volto assai arcigno, segnato da una lunga e profonda cicatrice sulla guancia destra che ricorda quelle da mensur degli ufficiali nazisti le cui gesta ha lungo osannato alla radio. Indossa un pigiama a righe ed è contornato da alcuni fucilieri di sua Maestà con i mitra Sten spianati. Il suo nome è William Joyce, ma è più famoso con il nomignolo di Lord Haw Haw. La voce di “Germany calling”, trasmissione di propaganda filo nazista che ha intrattenuto o disturbato l’intero regno con il suo accento britannico molto upper-class, è agli arresti dopo essere stato inseguito e anche ferito da una raffica di mitra. Gli avvertimenti non erano stati sufficienti, e una mano in tasca suggeriva l'intenzione di estrarre un'arma per l'ultimo tentativo di una difesa disperata.

”Nei paesi civilizzati gli uomini feriti non sono dei peep-show”, incalza con sarcasmo il fotografo che vuole immortalare la scena una volta giunto al quartier generale della Seconda Armata inglese. Il volto arcigno si contrare in una risata amara. Una delle ultime della sua lunga e “disonorevole” carriera. Appena un mese prima, nell'ultima puntata della sua trasmissione, si era abbandonato a una folle e sconclusionata tirata che metteva in guardia tedeschi e inglesi dalla minaccia dei bolscevichi, che come un'orda di barbari avrebbero travolto quel che restava del Reich per attentare al Regno Unito: colpevole di non essersi alleato con i tedeschi quando poteva, per arginare l'espansione del comunismo.

Sull'orlo dell'esaltazione mistica, Lord Haw-Haw concluse le trasmissioni con un tetro "Heil Hitler" seguito da un "addio". Appena qualche ora dopo Adolf Hitler si sarebbe sparato un colpo in testa nella Berlino assediata dall'Armata Rossa. Radio Amburgo, da cui Joyce trasmetteva, sarebbe stata sequestrata dagli alleati nei giorni successivi.

Un improbabile fascista

Figlio di una coppia di irlandesi stabilitasi negli Stati Uniti alla fine dell’800, Joyce nacque a Brooklyn, New York, nell’aprile del 1906, ma tornò in Irlanda quando aveva appena tre anni. I suoi genitori, entrambi fedeli unionisti contrari a un'Irlanda sovrana, incoraggiarono fin dall’infanzia il piccolo Joyce a mantenere le medesime convinzioni, tanto da vederlo impegnato come corriere per i servizi segreti dell'Esercito britannico durante la guerra d'indipendenza irlandese.

Questo suo servigio, ispirato dalla simpatia per l’ideologia unionisti lo portò nel circolo dei Black and Tans: formazione paramilitare voluta da Winston Churchill che inquadrava veterani dell’esercito che avevano servito nella Grande Guerra intesi a combattere contro i nazionalisti dell’Esercito Repubblicano Irlandese (il neonato IRA, ndr). La guerra condotta dai Black and Tans degenerava sovente in atti di terrorismo. Essi erano noti per la brutalità che non di rado sfociava in esecuzioni extragiudiziali, incendi dolosi e ogni altro tipo di violenza.

Sarà proprio la passione per le formazioni miliari che porterà Joyce, trasferitosi in Inghilterra, ad arruolarsi nell’University of London Officer Training Corps, del quale indossava fieramente l’uniforme ad ogni occasione possibile, e ad appassionarsi alla politica reazionaria, che non era ancora vista come un pericolo da debellare nel Regno che voleva quietare il laburismo.

Iniziò così il suo longevo flirt con il fascismo, culminato nel 1932 con l’adesione al British Union of Fascists, il partito fondato da Sir Oswald Mosley che date le sue ottime qualità di oratore, lo vedrà nominato direttore della Propaganda nel 1934. Se la sua retorica, benché violenta, rimase sempre brillante e molto apprezzata, le sue radicali posizioni antisemite e filonaziste finirono per provocarne l’espulsione dal partito per volere di Mosley - che simpatizzava con le marce, le tirate e le uniformi delle Camicie Nere e delle SA, ma puntava alla prosperità economica attraverso il corporativismo, restando fedele alla Corona; non all’antisemitismo e al germe del collaborazionismo.

Quando nell’agosto del 1939 le rivendicazioni sullo stretto di Danzica mosse da Adolf Hitler minacciavano lo scoppio di un nuovo conflitto in Europa, Joyce decise di rinnovare il suo passaporto e abbandonare il Regno Unito che in qualche modo aveva ripudiato lui e i suoi ideali, partendo alla volta di Berlino con la sua seconda moglie. Nel suo libro, “Twilight over England”, scriverà: "L'Inghilterra stava per entrare in guerra. Per ragioni di coscienza sentivo di non poter combattere per lei, per questo dovevo lasciarla per sempre".

Al servizio del Reich, per abbassare il morale di sudditi di sua Maestà

Joyce divenne cittadino tedesca nel 1940, quando la Wehrmacht travolgeva i primi eserciti e Londra si ostinava a combattere quella “strana guerra” che i tedeschi chiamavano Sitzkrieg: la guerra “seduta”. Considerati i suoi talenti, divenne annunciatore radiofonico per alcune trasmissioni in lingua inglese della Reichsrundfunk. La fama lo avrebbe raggiunto presto, almeno nella sua vecchia patria, attribuendogli il nome di "Lord Haw-Haw”; nomignolo datogli dal giornalista britannico J. Barrigton che lo immaginava come un gentiluomo che parlava un inglese del genere haw-haw (dunque contrassegnato dall'uso frequenta di “haws” abitudine associata a dell'alta borghesia britannica, ndr). "Il suo forte è l’indignazione", diceva Barrington, “dal suo accento e dalla sua personalità, Lord Haw Haw lo immagino con un mento sfuggente, un naso interrogativo, capelli biondi e sottili pettinati all'indietro, un monocolo e una gardenia all’occhiello".

E in effetti il mento sfuggente lo aveva, e aveva anche una profonda cicatrice che ricordava quelle degli junker prussiani che si erano misurati della duello alla Mensur; ma che in realtà gli aveva procurato un fendente inflitto con un rasoio in una rissa avuta con alcuni militanti comunisti nel 1924. Il taglio impose sul suo viso una profonda cicatrice che correva dal lobo dell'orecchio destro all’angolo della bocca.

Tutte le trasmissioni di Joyce, che non era l’unico conduttore che padroneggiava la lingua inglese, ma che resterà l’unico a passare alla storia, iniziavano on l'annuncio "La Germania chiama, la Germania chiama”, e proseguivano con una lettura beffarda e pungente delle notizie, che miravano sempre a esortare gli inglesi a riconsiderare le loro posizioni nei confronti del nemico germanico. Incolpando i "sionisti" dello scoppio di quella nuova ennesima guerra. Ascoltare quel genere di trasmissioni radio non era considerato illegale, ma era fortemente sconsigliato dalle autorità che pure non riuscirono ad impedire a ben sei milioni di ascoltatori “fissi” - e oltre 18 milioni di ascoltatori occasionali - di sintonizzarsi sulla frequenza e rispondere in qualche modo alla quella Germania che chiamava per i primi otto mesi di guerra.

Informazione o disinformazione? Un vecchio pericolo mai sopito

Il successo delle trasmissioni condotte da Joyce nelle sua nuova veste di arma della propaganda nazista fu tale da destare la preoccupazione dell’intelligence britannica che non poteva ignorare l’interesse che il popolo nutriva per questo singolare avversario. Nessuno inoltre conosceva la vera identità di questa “voce” che disinformava il 50% degli inglesi con notizie a volte false e tendenziose, a volte lievemente distorte per insinuare il dubbio negli ascoltatori.

Alle speculazioni sulla sull’identità di Lord Haw Haw mise fine la lettera del signor M. Kelly di Galway, dove Joyce aveva frequentato il collegio gesuita: “Sono abbastanza certo che si tratti di Joyce. L’annunciatore inglese delle 21:15 e delle 23:15 da Amburgo, Brema, ecc. Sono rimasto colpito dalla familiarità di quella voce. Ho detto spesso che avevo già sentito quella voce ma non riuscivo a collocarla.. poi ho capito che era Willie”, aggiungendo “..anche da bambino era così velenoso, beffardo e sarcastico quando parlava di qualsiasi cosa riguardasse irlandese o Galway”. Così l’intelligence potè dare un nome a quello che sarebbe stato senza dubbio iscritto nella lunga lista dei nemici da mettere a tacere.

Il ministero dell’Informazione, con l’ausilio della BBC, aveva nel frattempo intrapreso una serie di azioni per contenere il fenomeno “Haw Haw”, dopo aver analizzato con attenzione i risultati di alcuni sondaggi che si erano rivelati a dir poco inquietanti. Secondo una larga parte degli intervistati, inizialmente entusiasti della trasmissione tedesca, Lord Haw Haw appariva come “un uomo estremamente simpatico”, di cui venivano particolarmente apprezzati i “giochi di parole astuti” e i modi. Spesso il popolo di ceto più basso, invece che provare antipatia, ne rimaneva affascinato. “Sento che è un gentiluomo”, rispondevano alcuni, “anche se non conosciamo il significato di alcune parole”, aggiungevano altri.

Secondo la maggioranza degli ascoltatori la trasmissione meritava di essere seguita per ascoltare il punto di vista tedesco. Altri invece speravano di ”ricevere più notizie". Notizie che Londra non voleva condividere con il suo popolo, innescando un neonata sindrome complottista. Il rischio era - allora come ora - quello di far prendere per buone molte delle invenzioni propagandistiche di Lord Haw Haw. Un pilota della Royal Air Force che aveva preso parte attiva nella campagna di Francia risposte lapidario: “Dice un sacco di cazzate. Il 75% delle sue affermazioni sono bugie o propaganda, ma a volte colpisce nel segno. È allora che ti fa pensare. Ti chiedi se anche molte delle sue affermazioni siano vere”. Un bibliotecario invece affermava: “Ci sintonizziamo quasi sempre alle 9.15 per cercare di raccogliere alcune notizie che il ministero dell'Informazione ci nasconde. È interessante ottenere le opinioni della BBC e i resoconti della radio tedesca sugli stessi impegni aerei”.

Oltre al Regno Unito, Lord Haw Haw aveva una nutrita schiera di ascoltatori negli Stati Uniti e in Canada, dove vennero reclutati conduttori radiofonici che avevano il preciso compito di rispondere alle sue parole, confutando ogni informazioni false o tendenziosa. Sebbene il progetto fosse intelligente, nessuno di questo conduttori raggiunse nel primo anno di guerra il successo di Lord Joyce. Considerato dai suoi avversari come "uno dei migliori broadcaster di sempre”.

La caduta del Lord beffardo

La popolarità di Joyce diminuì drasticamente con il progredire della guerra che finiva di essere “seduta” e contava già decine di migliaia di morti. L'invasione tedesca di Danimarca e Norvegia, l'attacco contro i Paesi Bassi e infine la conquista della Francia, con la bruciante ritirata di Dunkirk, minarono il successo di Lord Haw Haw, che nel frattempo aveva cambiato approccio, incentrando la sua trasmissione su degli appelli diretti al popolo inglese affinché si arrendesse ai nazisti. Il corrispondente radiofonico americano che aveva incontrato Joyce a Berlino durante l'inverno del 1940 riportava: “Cominciava ad inasprirsi. Aveva perso il senso dell'umorismo e con esso, credo, quale influenza della quale aveva goduto”.

La battaglia d’Inghilterra aveva senza dubbio influito più di ogni racconto radiofonico. Dimostrando che il morale degli inglesi non si piegava nemmeno di fronte alle bombe che incendiavano ogni notte i centri delle città. Nel corso del conflitto le trasmissioni di Joyce divennero sempre più monotone e deliranti. Dopo aver registrato le ultime puntante, Lord Haw Haw preferì fuggire dalla scena per rifugiarsi con sua moglie in un piccolo villaggio nei pressi di Flensburg, al confine con la Danimarca. Proprio dove l’Ammiraglio Donitz, raccolto il testimone del defunto Hitler, si preparava a firmare la resa con gli Alleati. Joyce - nella lista dei servzi segreti che avevano iniziato a rastrellare i territori liberati in cerca di criminali di guerra, ed erano stati informati di una “tranquilla coppia britannica” che si era appena trasferita in un cottage - venne sorpreso mentre era nella boscaglia, pronto ad esibire un documento falso che non ebbe il tempo di estrarre dalla tasca. Identificato, venne riportato nel Regno Unito dove sarebbe stato processato per tradimento.

Traditore “fino a prova contraria”

Consegnato alla polizia militare britannica, gli vennero contestate tre accuse di alto tradimento. Sorsero immediatamente però delle questioni inerenti la giurisdizione e la cittadinanza di Joyce. L'uomo era nato negli Stati Uniti, aveva vissuto in Irlanda, rimasta neutrale, era diventato cittadino tedesco, ma pur non dichiarandosi un suddito britannico, possedeva un passaporto emesso dal Regno Unito.

Quando nel 1922 i genitori di Joyce si rifugiarono in Inghilterra per sfuggire alle vendette dei nazionalisti irlandesi, il futuro Lord Haw Haw avrebbe dichiarato: "Sono nato in America, ma da genitori britannici”. Una falsa dichiarazione confermata da suo padre che gli costerà la vita. Il procuratore generale, Sir Hartley Shawcross, sostenne le sue accuse dichiarando che Joyce possedeva un passaporto britannico. Dunque, dovendo la sua fedeltà alla Gran Bretagna, doveva essere processato per tradimento qualunque fossero le sue dichiarazioni in merito. Assolto da due delle tre accuse, fu comunque condannato a morte per tradimento.

Senza mostrare alcun rimorso Joyce concluse la sua vita con dichiarazioni antisemite: "Nella morte come nella vita, sfido gli ebrei che hanno causato quest'ultima guerra e sfido il potere delle tenebre che rappresentano. Avverto il popolo britannico contro l'imperialismo schiacciante dell'Unione Sovietica.” Dichiarandosi orgoglioso di morire per i suoi ideali, mostrò poi “dispiacere” per quei “figli della Britannia” che erano morti senza conoscere un “misterioso perché”.

Il 3 gennaio 1946, presso il carcere di Wandsworth, William "Lord Haw-Haw" Joyce venne impiccato. Il corpo fu sepolto in una tomba senza nome. Trent’anni dopo venne esumato e traslato in Irlanda per volere di sua figlia. Secondo il giornalista William L. Shirer, durante tutta la durata della guerra nessuno dei suoi celeberrimi rivali, nemmeno Tokyo Rose o Axis Sally, aveva mai raggiungo il suo talento. Lord Haw Haw era stato, e sarebbe rimasto, il più eccezionale “traditore radiofonico della guerra”.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Tony Blair, il cavaliere dimezzato. Perché l’uomo che la regina ha premiato fa pensare a Gorbaciov. Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2022. 

La decisione di Elisabetta di conferirgli il più alto riconoscimento pubblico ha portato a una contro petizione da 1 milione di firme. Colpa della guerra in Iraq o degli errori nella gestione della sua immagine? Il suo destino ricorda l’ultimo leader sovietico, osannato all’estero quanto detestato in patria 

Cavaliere del Bene o strumento del Demonio? A quindici anni dalla sua uscita da Downing Street, l’ex primo ministro britannico Tony Blair continua a dividere le menti e i cuori. A riattizzare la contesa è stata, involontariamente, la stessa regina Elisabetta: che a Capodanno ha conferito a Blair l’eminentissima onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Giarrettiera, il più alto riconoscimento pubblico di cui si possono fregiare non più di 24 persone, oltre a reali britannici e stranieri, e che viene assegnato direttamente dalla sovrana, senza consultare il governo. C’è da dire che il sigillo di approvazione reale è giunto con un notevole ritardo: si diceva che Elisabetta avesse il dente avvelenato con Blair per come era stata trattata nei giorni della morte di Diana. Ma alla fine la regina ha deciso di seppellire i rancori e ha concesso la Giarrettiera a Blair, come già aveva fatto col suo immediato predecessore, John Major.

La rivolta di popolo contro l’ex premier

Le reazioni, però, sono state furibonde: una petizione popolare per toglierli il titolo ha raccolto in pochi giorni un milione di firme. «Tony Blair» si leggeva «ha causato un danno irreparabile alla costituzione del Regno Unito e al tessuto stesso della nostra società. È personalmente responsabile per aver provocato la morte di innumerevoli innocenti, vite civili e militari, in diversi conflitti. Solo per questo dovrebbe essere giudicato per crimini di guerra». Il riferimento, ovviamente, è soprattutto all’invasione dell’Iraq nel 2003, nella quale Blair trascinò la Gran Bretagna grazie anche alle menzogne sulle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein: e gli attivisti pacifisti hanno definito l’onorificenza «un calcio nei denti» per i popoli dell’Iraq e dell’Afghanistan, mentre le madri dei soldati caduti hanno minacciato di restituire le decorazioni ricevute.

Vite parallele

Il destino di Blair ricorda un po’ quello di Mikhail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Unione Sovietica: osannato all’estero quanto vituperato in patria. Perché se in Europa, e soprattutto in Italia, è rimasta una sorta di fascinazione per l’inventore della Terza Via che aveva rifondato la sinistra e l’aveva ricondotta trionfalmente al potere, per anni a Londra l’ex premier laburista è stato un personaggio “tossico”, quasi un innominabile, uno che doveva evitare di farsi vedere in pubblico e che non poteva neppure andare al ristorante perché rischiava il “citizen arrest”, l’arresto da parte di un cittadino comune per presunti crimini di guerra. D’altra parte Blair ci aveva messo del suo, con la sua carriera post-governativa, per non farsi proprio benvolere.

Un salotto non buono

Dopo aver lasciato Downing Street è diventato multimilionario grazie a una assidua attività di conferenziere ma soprattutto di super-consulente per regimi di dubbie credenziali democratiche, dalla dittatura egiziana di Al-Sisi a quella del Kazakistan, che in queste settimane si è distinta per il massacro della propria popolazione. Gli stessi laburisti, negli ultimi dieci anni, avevano preso nettamente le distanze dal blairismo: un atteggiamento che, durante la leadership di ultra-sinistra di Jeremy Corbyn, fra il 2015 e il 2020, era arrivato fino alla demonizzazione. Il Labour aveva seppellito la Terza Via e riscoperto le lusinghe del socialismo, laddove Blair negli Anni Novanta era stato l’artefice del ripudio del marxismo e dello statalismo. Ma col naufragio alle urne della deriva estremista di Corbyn, in tempi più recenti si è avviata una sorta di riabilitazione di Blair e della sua eredità.

Il nuovo leader laburista, Keir Starmer, ha riposizionato il partito verso il centro e ha apertamente rivendicato i meriti di governo del New Labour blairiano: «Capisco che ci siano forti opinioni riguardo la guerra in Iraq» ha detto Starmer «ma questo non toglie il fatto che Tony Blair sia stato un primo ministro di grande successo che ha fatto una grande differenza per le vite di milioni di persone in questo Paese». I laburisti si sono resi conto che, se vogliono tornare al potere, devono in qualche modo riscoprire le ricette dell’unico leader della sinistra che è stato capace di vincere tre elezioni di seguito, grazie a una coalizione che metteva insieme il più tradizionale elettorato working class con quel ceto medio che era emerso prepotentemente sull’onda della rivoluzione thatcheriana. Soprattutto, Blair era riuscito a tradurre in linguaggio politico le aspirazioni di una società che ambiva al rinnovamento: quella Cool Britannia degli Anni 90.

Contraddizioni

Si è così fatta strada una valutazione più bilanciata dell’operato di Blair, che ne mette in luce anche gli indubbi meriti: sotto il suo governo è stato introdotto il salario minimo, sono stati aumentati gli investimenti nel sistema sanitario, migliorate le scuole, è stato dato via libera alle unioni civili (anche se si è dovuto aspettare i conservatori di David Cameron per avere i matrimoni gay), è stato introdotto il ruolo di sindaco di Londra che tanto ha giovato alla rinascita della capitale. Ma forse il successo più grande che va ascritto a Blair è qualcosa che entra in diretta contraddizione con la sua fama di guerrafondaio: ossia la pace in Irlanda Del Nord. Gli accordi del Venerdì Santo del 1998 misero fine a trent’anni di guerra civile e hanno garantito un equilibrio nella tormentata provincia che solo adesso è stato rimesso a dura prova dalla Brexit. Allo stesso modo, Blair aveva tentato di prevenire le spinte secessioniste delle diverse nazioni del Regno Unito dando luogo alla devoluzione dei poteri a favore della Scozia e del Galles (anche se c’è chi ritiene che abbia così aperto il vaso di Pandora dell’indipendentismo).

Il ritorno sulla scena pubblica

Lo stesso Blair ha dato il via a un suo progressivo ritorno sulla scena pubblica. Il primo tema che lo ha visto protagonista - ancora dietro le quinte - è stata la Brexit: dopo il voto che aveva decretato l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, lui e il suo entourage si sono attivati per mobilitare la campagna a favore di un secondo referendum. Un obiettivo fallito, anche perché percepito come un tentativo da parte di un’élite di sovvertire la volontà popolare.

Divenuta irrevocabile la Brexit, Blair ha colto l’occasione del Covid per rientrare nel dibattito: è stato uno dei primi propugnatori del green pass — tema che in Gran Bretagna è particolarmente controverso e attira ostilità bipartisan — e non ha mancato di dispensare consigli al governo di Boris Johnson. Tanto che qualcuno si è chiesto che cosa possa avere mai in mente: domanda cui ha dato risposta qualche suo fido alleato, secondo cui sarebbe il momento che Blair riprendesse la guida del Labour e lo conducesse a una nuova vittoria. Scenario possibile? Al momento, sembra più che altro fantapolitica: non ci sono strade per un grande ritorno, che dovrebbe in primo luogo passare per la rielezione in Parlamento (a Londra i leader non eletti non sono contemplati). Forse è meglio che per il futuro l’incanutito Tony si limiti a gingillarsi con la sua nuova Giarrettiera.

Il leader socialista inglese Corbyn fu sabotato dal suo stesso partito. Michele Manfrin su L'Indipendente l’11 novembre 2022.

Jeremy Corbyn, ex leader del partito laburista inglese, fu chiaramente sabotato dal suo stesso partito. Una gigantesca fuga di notizie di due anni torna ancora a galla con un documentario, The Labour Files, pubblicato dall’emittente araba Al Jazeera. I dati trapelati comprendono 500 gigabyte di documenti, e-mail, file video e audio del Partito Laburista, risalenti al periodo 1998-2021. Nello specifico della questione, nei documenti viene alla luce la “militarizzazione dell’antisemitismo” da parte della corrente moderata e liberista del Partito Laburista per ostacolare le possibilità di Jeremy Corbyn di diventare Primo Ministro. Documenti che svelano come vi sia stata una macchinazione ampia e sistematica che ha coinvolto i media per fare in modo che Corbyn, socialista e critico di Israele, potesse diventare Primo Ministro dell’impero britannico.

L’indagine di Al Jazeera ha portato al grande pubblico le false accuse scagliate contro i sostenitori di Corbyn per farli sospendere o espellere dal partito. Al quartier generale laburista, i funzionari del partito sono stati incaricati di setacciare i post sui social media dei membri per trovare qualcosa di incriminante, in particolare qualsiasi materiale che potesse essere considerato “antisemita”. L’informatore Halima Khan, che lavorava come ufficiale investigativo del Partito Laburista, ha detto ad Al Jazeera che “Palestina” era uno dei termini di ricerca più utilizzati per trovare prove incriminanti. Una volta che il piano di manomissione della leadership di Corbyn è divenuto realtà, alla guida dei laburisti è arrivato Keir Starmer. Ben documentato è l’appoggio incondizionato di Starmer ad Israele e il suo completo rifiuto di considerare lo “stato di apartheid” denunciato anche da Amnesty, Human Rights Watch e persino B’Tselem. Stessa cosa vale per la forza lobbistica israeliana all’interno del Partito Laburista.

L’élite burocratica del Partito Laburista ha iniziato la sua lotta contro Jeremy Corbyn appena egli è divenuto il leader del partito nel 2015, venendo inaspettatamente eletto quando faceva parte dell’ala molto minoritaria del Socialist Campaign Group. Già l’anno seguente, il leader socialista dovette affrontare una lotta interna che non solo lo vide vincitore ma vide anche espandere la base del partito fino a superare il mezzo milione, rendendo il Labour Party inglese il più grande partito dell’Europa occidentale. Nel 2017 venne poi presa la decisione di appoggiare il disegno di legge sull’Unione europea, ovvero, a sostegno della Brexit. I politici all’interno del partito mostrarono una spaccatura tra chi era per una Brexit morbida e chi invece invocava un secondo referendum. Così, a causa della posizione assunta dal partito, 7.000 membri che erano a favore di un secondo referendum lasciarono in segno di protesta. L’elettorato del Partito Laburista, invece, cresceva a dismisura. Sempre nel 2017, le elezioni regionali fecero registrare un risultato storico per i laburisti che si videro assegnare il 40% dei voti dopo che negli anni precedenti molti voti erano andati persi; era il miglior risultato dal 2001.

Appena due anni dopo, però, alle elezioni generali del 2019, il Partito Laburista scese di ben otto punti percentuali e Jeremy Corbyn decise di annunciare le sue dimissioni da leader del partito. Cosa era successo? In quella il Partito Laburista si presentò con un programma ritenuto a tratti radicale ma, a differenza della campagna precedente, non era più chiaro sulla questione Brexit con molti del partito che sostenevano il secondo referendum o il Remain. La parte profonda del partito aveva lavorato contro il leader stesso, contribuendo in maniera decisiva alla sonora sconfitta che delegittimava la guida di Corbyn.

La campagna di screditamento e sabotaggio della leadership di Corbyn era inziata già nel 2015 ma si è intensificata alla luce del grande risultato elettorale del 2017. Il pericolo reale per l’élite del partito, e del Paese, era quello di vedere un socialista – con programmi di nazionalizzazioni e di spesa sociale – e critico nei confronti dello stato di apartheid adottato da Israele come Primo Ministro dell’impero Britannico.

Nel luglio 2022 è stato pubblicato il rapporto redatto nel 2020 dall’avvocato Martin Forde, incaricato da Starmer di indagare sul frazionismo all’interno del Partito Laburista. Il rapporto interno trapelato è composto da 860 pagine ed è intitolato “Il lavoro dell’unità di governance e legale del Partito laburista in relazione all’antisemitismo, 2014-2019”, di cui Sky News aveva dato notizia dell’esistenza già nello stesso 2020. Il rapporto includeva moltissimi scambi di e-mail e WhatsApp tra funzionari laburisti che esprimevano disprezzo per Corbyn e chiunque lo sostenesse, compresi altri membri dello staff laburista, parlamentari laburisti e persino per i loro stessi elettori. Sebbene vi fosse una caccia al razzismo antisemita che veniva visto in ogni minima critica ad Israele, ed in cui i mass media hanno avuto un ruolo centrale, “The Labour File” dimostra come il partito fosse veramente intriso di razzismo, specie nei confronti dei musulmani. Un caso recente e di grande rilievo è stato quello della sospensione di 5.000 membri del partito a Newham, nella zona est di Londra, quasi tutti musulmani.

Insomma, Jeremy Corbyn, e tutta l’ala socialista del Labour Party, è stato osteggiato fin dalla sua inaspettata acquisizione della leadership, nel 2015, e soprattutto, dopo i grandi risultati (2017) che stava ottenendo in termini di espansione della base dei membri del partito stesso, oltre che gli enormi consensi che stava ottenendo sulla base di programmi di redistribuzione economica, nazionalizzazioni e spesa sociale, oltre che a favore di una “Brexit morbida” e contro l’imperialismo e il colonialismo, come contrario allo stato di apartheid di Israele. L’élite britannica, e la colonna portante del potere profondo del Labour Party, ha invece deciso che non si poteva fare.

[di Michele Manfrin]

Un anno dopo. La sindrome degli inglesi: delusi ma non pentiti della Brexit. Matteo Castellucci su L'Inkiesta l'11 Gennaio 2022.

A dodici mesi dall’uscita formale dall’Unione europea, 6 elettori britannici su 10 pensano che la vittoria del Leave sia andata peggio delle aspettative, e non hanno tutti i torti. Ma se si votasse di nuovo oggi non è detto che l’esito sarebbe diverso da quello del 2016. 

Delusi, ma non pentiti. Una specie di sindrome dove Stoccolma è sul Tamigi. A un anno dall’uscita formale dall’Unione europea, secondo un sondaggio dell’Observer, sei elettori britannici su dieci pensano che la Brexit sia andata peggio delle aspettative. Non era facile. Persino tra i Leavers, chi votò a favore della secessione, il 42% è scontento. Complessivamente, solo il 14% degli intervistati pensa sia stata un successo.

Eppure, come ha scritto anche il Times, dati simili non si traducono in un pentimento per il voto al referendum, un dato che è rimasto stabile nel tempo, con scostamenti nell’ordine di grandezza di un solo punto percentuale. Tradotto: se gli inglesi potessero rivotare sulla madre delle loro tragicommedie nazionali, non è detto che l’esito sarebbe diverso da quello del 2016. Un Paese diviso è la vera eredità della Brexit, o viceversa.

Una delle ultime ricerche, uscita sul Journal of Elections, Public Opinion and Parties, di Martin Ejnar Hansen, che insegna Comparative European Politics and Public Policy alla Brunel University di Londra, riguarda proprio questo tema. Il titolo: Still dividing the electorate? Brexit and voter evaluation of candidates. Si conclude che, in pratica, nel Regno Unito il giudizio sulla Brexit è diventato un driver politico forte quasi quanto le vecchie appartenenze ai partiti. Non più – o, meglio, non solo – laburisti e conservatori: anche Leaver e Remainer sono diventate etichette che definiscono l’identità politica.

«Ci sono conservatori – spiega Hansen – che nel 2016 hanno scelto il “Remain” e ora non hanno un posto dove andare, però non votano contro il partito. I laburisti sotto Corbyn non hanno fatto campagna quanto ci si aspetterebbe da un partito di sinistra. Ci hanno messo quattro anni ad accettare l’esito del referendum e, quindi, la volontà popolare. La Brexit aveva il potenziale per far saltare il sistema dei partiti: con un’altra legge elettorale, come quella proporzionale, sarebbe avvenuto. È stata anche la risposta alla globalizzazione, molti si sono sentiti lasciati indietro e le élites non sono riuscite a spiegare i benefici di restare parte di una comunità europea, o non hanno voluto farlo. C’era una tendenza non a ignorare l’euroscetticismo, ma a dire “Tanto non succederà mai”. È questa la lezione che l’Europa dovrebbe imparare».

Un dato che non si è mai spostato riguarda l’operato del governo. Anche nei momenti di maggiore euforia, secondo l’opinione pubblica l’esecutivo guidato da Boris Johnson stava gestendo male il dossier. C’è un paradosso, simile a quello sul referendum: con un margine molto ampio, 57% contro 9%, un anno fa gli intervistati speravano che il parlamento ratificasse alla svelta il compromesso con Bruxelles del Natale 2020. Ma solo il 17% di loro lo considerava un accordo positivo per la Gran Bretagna. Possono aver inciso la sovracopertura mediatica, o la proverbiale cocciutaggine dei sudditi di Sua Maestà, ma sarebbe troppo banale giustificare la politica con gli stereotipi nazionali.

«L’idea dell’euroscetticismo non è nuova – ragiona il professore –, ce n’è un sacco anche in Europa. In Inghilterra ce n’è di più, e da tempo, le frizioni interne al partito conservatore hanno permesso che passasse in primo piano. Il Paese era diviso anche prima della Brexit: se un giorno si rivotasse e prevalesse il “Rejoin”, non sarebbe mai con una vittoria schiacciante, le percentuali sarebbero le stesse, ma invertite. Ma in poche nazioni europee vedremmo una maggioranza netta in un ipotetico referendum per restare dentro all’Unione. Rispetto agli altri Stati, però, nel Regno Unito temi come la Brexit e l’Europa hanno una centralità che non hanno altrove, dove di solito le priorità sono la sanità, la disoccupazione o la scuola. Qui, la Brexit e lo standing nella comunità internazionale sono cose molto importanti per le persone. Parte dell’identità britannica, direi».

Di solito, si ricorda solo il primo slogan elettorale di Johnson. «Get Brexit Done», che è l’unico che ha realizzato. Ma in quella campagna del 2019 faceva ticket con «Unleash Great Britain potential». Un potenziale che finora non s’è visto.

Per quanto riguarda l’economia, la Brexit sul lungo periodo costerà una contrazione strutturale di importazioni ed esportazioni del 15% rispetto a uno scenario dove l’isola restava parte dell’Unione. La Global Britain è riuscita, certo, a chiudere accordi commerciali separati: l’anno scorso con Australia e Nuova Zelanda, l’anno prossimo con Canada, Messico e India, mentre sono in corso i negoziati per entrare nell’Accordo globale e progressivo per il partenariato transpacifico (Cptpp). Ma, spogliati dalla retorica, sono accordi poco remunerativi: quello con la Nuova Zelanda farà salire il prodotto interno lordo dello 0,01% entro il 2035, quello con l’Australia dello 0,08%. Un doppio zero che è licenza di uccidere le promesse.

A livello diplomatico, la Brexit ha causato inevitabili frizioni con il continente. Per ammissione degli addetti di lavoro, sono ai minimi storici postbellici le relazioni con Irlanda, Francia e Germania; irrisolte quelle con gli Stati Uniti. Londra può ora concentrarsi su altre aree del mondo, come Giappone, India e Australia, ma non viene percepita come una superpotenza se il nuovo cancelliere tedesco, Olaf Scholz, corso a Parigi e poi a Roma, non ha sentito il bisogno di conversare con il primo ministro prima di due settimane dopo essere entrato in carica.

«Tante promesse erano “ambiziose”, per essere gentili – continua Hansen – ,a non basta dire “voglio correre una maratona” per riuscirci senza allenamento. Serve tempo. Il governo inglese è fortunato che ci sia la pandemia a prendersi i titoli dei giornali invece dei disagi causati dalla Brexit. Perché la gente non è stata avvertita di ciò che sarebbe successo, ma soprattutto non abbiamo ancora visto le sue reali conseguenze: saranno quelle a lungo periodo. I viaggiatori con passaporto britannico subiranno visti per andare in Europa. Molti cittadini europei sono tornati a casa: un po’ perché i lavori non sono più pagati così bene, un po’ per evitare le procedure burocratiche per ottenere il settled status. Ciò ha creato problemi. Spesso, nei pub e nei ristoranti, i gestori dicono che hanno problemi a trovare staff».

Un tempo quello londinese era un parente minore del grande sogno americano. Intere generazioni sono volate nella metropoli, o nella periferia dell’ex impero, a cercare fortuna, o più prosaicamente di sbancare il lunario. Ma il Regno Unito di oggi non è più così attraente.

Per la prima volta da decenni, il numero di cittadini comunitari che lascia il Paese ha superato quello di chi si trasferisce. Il saldo tra chi parte e chi arriva l’ultimo anno è stato di -94mila persone. Persino le gite con finalità linguistiche, un evergreen delle scuole di tutta Europa, sono diminuite drasticamente. In entrambi i casi, non può essere colpa «solo» della pandemia, ma anche del sistema di visti e delle barriere all’ingresso.

«Per chi vuole restare, anche senza cittadinanza come me, il sistema funziona bene finora – conclude il professore – ma sono un accademico, prima ordinavo spesso libri dalla Germania o dalla Danimarca, ora è quasi impossibile, perché la burocrazia lo rende troppo difficile. Penso che la Brexit sia una perdita anche culturale. Se le scuole vorranno andare in una nazione dove si parla inglese, andranno in Irlanda. Il programma Turing non funzionerà mai bene quanto l’Erasmus di cui dovrebbe prendere il posto. Il mondo accademico è aperto per natura, ma vanno considerati anche gli aspetti tecnici. Temo un approccio più isolazionista, in futuro».

Boris si scusa per i party ma non convince nessuno. Tutti chiedono dimissioni. Gaia Cesare il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Johnson: "Credevo fosse un evento di lavoro". Fronda anti premier pure tra i Conservatori.  

È sopravvissuto, fin qui, all'emergenza Covid, alla crisi del carburante legata alla Brexit, allo scandalo per la ristrutturazione di Downing Street e a quello sui favori all'ex amante Jennifer Arcuri. Ha superato, indenne, le conseguenze per il discorso improvvisato su Peppa Pig e la perdita, dopo 200 anni, dello storico seggio conservatore di North Shropshire. Ma stavolta Boris Johnson, 57 anni, da due e mezzo primo ministro del Regno Unito e leader che ha traghettato Londra fuori dall'Unione europea, dopo aver stravinto le elezioni, rischia davvero grosso con il «partygate», lo scandalo per la festa tenuta il 20 maggio 2020 nel giardino di Downing Street, nonostante il Paese fosse in lockdown e ai cittadini fosse vietato di vedere, anche all'aperto, più di una sola persona alla volta. Il pericolo che il primo ministro britannico venga defenestrato è reale e sempre più serio, persino dopo le scuse offerte ieri da Bojo al Parlamento. A chiederne le dimissioni non è più solamente il leader dell'opposizione laburista Keir Starmer, ma anche, apertamente, alcuni colleghi Tory, tra cui il deputato William Wragg, convinto che «Johnson stia danneggiando la reputazione del partito» e persino il leader dei Conservatori di Scozia, Douglas Ross, e oltre la metà dei deputati del Parlamento scozzese.

Le parole di Johnson a Westminster non sono piaciute a molti e sono sembrate l'ennesima strategia del premier: scusarsi per non scusarsi. Boris ha offerto, in un primo momento, le sue «scuse di cuore» per aver partecipato all'evento, al quale sono state invitate un centinaio di persone, anche se presenti erano una trentina, tra cui il capo di governo e l'allora fidanzata Carrie Symonds. «So che molti hanno sofferto e perso persone a loro care e per questo mi scuso a nome del governo. Capisco la rabbia verso di me e il mio staff per non aver rispettato regole che noi stessi abbiamo imposto», ha detto contrito BoJo. Salvo poi precisare che credeva si trattasse di «un evento di lavoro», che «potrebbe tecnicamente rientrare nelle linee guida», anche se «milioni di persone non la vedrebbero così». Per provare la sua buona fede, il premier ha spiegato di essersi fermato una ventina di minuti, «per poi tornare in ufficio a fare il mio lavoro». Parole che non sono piaciute in primis ai parenti delle vittime di Covid: «Non contento di prendere a calci nei denti le famiglie in lutto come la mia, infrangendo le regole da lui stabilite e poi mentendoci al riguardo, ora sta prendendo per scemo il pubblico britannico facendo finta di non sapere che fosse una festa», ha commentato Hannah Brady, portavoce dell'associazione Covid-19 Bereaved Families for Justice. A seguire sono arrivate le reazioni, ben più preoccupanti per il premier, di molti esponenti Tory. È soprattutto la ribellione interna dei deputati conservatori la vera minaccia alla permanenza di Johnson a Downing Street. Alcuni colleghi di partito lo vogliono fuori subito, convinti che la pezza messa da Johnson in Parlamento sia peggio del buco. L'invito al party era in effetti esplicito: «Portate una bottiglia». Per questo il leader dei Tory scozzesi annuncia di voler scrivere al Comitato 1922, composto da deputati che non ricoprono alcun ruolo nel governo ma che possono chiedere, con il 15% dei loro voti, di avviare una mozione di sfiducia. La poltrona di Re Boris vacilla e già si fa il nome del ministro delle Finanze, Rishi Sunak, come possibile successore. Chi si gode lo spettacolo e liquida come «cavolate» le giustificazioni del premier è Dominic Cummings, ex braccio destro di Johnson, cacciato da Boris e da mesi in cerca di vendetta. C'è lui dietro le rivelazioni e potrebbe averne in serbo altre dopo esser finito nel tritacarne anche lui per aver violato il lockdown, prima di essere messo alla porta. D'altra parte, per non aver rispettato le regole sono stati costretti all'addio il ministro della Salute, Matt Hancock, che baciò l'amante contro le norme anti-Covid, e la portavoce del governo Allegra Stratton, dopo un altro party in lockdown. Gaia Cesare

·        Quei razzisti come i cechi.

Dagospia il 9 gennaio 2022.  Pubblichiamo un estratto da un articolo che sarà pubblicato su Vita e Pensiero, bimestrale culturale dell’università cattolica del Sacro Cuore, in uscita il 13 gennaio. L’articolo, intitolato Scrittori fra Est e Ovest da Havel a Kundera, ripercorre la polemica avvenuta nel 1968 tra il futuro presidente ceco e il drammaturgo autore del famoso romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere. 

Testo di Maurizio Cecchetti pubblicato da "la Verità" il 9 gennaio 2022.

Da almeno vent' anni Milan Kundera prova il sentimento malinconico del rimpatrio, del nostos. Nel 2019 gli è stata restituita la nazionalità ceca, che gli era stata tolta nel 1975. Eppure, nonostante ci sia in patria un clima istituzionale favorevole al suo ritorno, esiste anche una opinione pubblica, forse maggioritaria, che nutre risentimenti perché lo considera un «traditore» non soltanto per aver abbandonato la Cecoslovacchia nel 1975, ma - come insinua un voluminoso saggio biografico di Jan Novák uscito lo scorso anno dall'editrice ceca Argo, Milan Kundera. eský ivot a doba (Milan Kundera. La sua vita e i suoi anni cechi) - anche perché crede che possa aver svolto da Parigi una funzione ambigua di informatore segreto per il governo filosovietico sulla vita di altri cechi emigrati all'estero.

La tesi di Novák, causa di accese polemiche in patria, poggia sul passato di ex comunista di Kundera e sullo scandalo creato nel 2008 dalla scoperta di un documento «imbarazzante», risultato poi autentico, che sembra accusare di «delazione» lo scrittore il quale nel 1950, all'epoca ventunenne, risulta aver denunciato un ceco rientrato clandestinamente in patria al servizio degli occidentali, Miroslav Dvoáek, che fu condannato a 22 anni di lavori forzati nelle miniere di uranio, uscendone 13 anni dopo ma sotto sorveglianza speciale. 

Kundera all'epoca respinse l'accusa infamante, dichiarando che si trattava di un colpo basso, un attentato alla sua figura di scrittore. Per Novák, la giovanile infatuazione per il comunismo, fino a scrivere poesie che inneggiavano a Stalin - Kundera non ha mai voluto che fossero ripubblicate, considerandole uno stupido errore di quella che definisce «l'età dell'idillio» -, e la presunta «delazione» emersa nel 2008 non si possono cancellare con un colpo di spugna considerando l'atteggiamento critico che lo scrittore prese successivamente a favore di un socialismo dal volto umano. Secondo Novák è solo fumo negli occhi, e si dice convinto che lo scrittore sia un lupo che ha perso il pelo ma non il vizio.

posizioni riformiste

È da quelle posizioni «riformiste» sul socialismo che vogliamo ripartire per analizzare il «caso Kundera». Tra la fine del 1968 - qualche mese dopo l'invasione sovietica della Cecoslovacchia - e l'inizio del 1969 - mentre è ancora viva l'emozione dei cechi per il sacrificio di Jan Palach - su alcune riviste cecoslovacche si svolse quello che fu certamente uno dei più importanti dibattiti europei sulla libertà e sul ruolo morale degli intellettuali rispetto al totalitarismo. 

Protagonisti del dibattito: Milan Kundera e Václav Havel. Ad aprire la riflessione fu Kundera il 19 dicembre 1968 sul numero di Natale del settimanale dell'Unione degli scrittori cecoslovacchi Literární Listy con un articolo intitolato eský Ud l: Il destino ceco.

Nella sua laconicità, il titolo testimoniava di una continuità storica nella tragedia che il popolo cecoslovacco stava vivendo. Kundera era già intervenuto nel dibattito che la rivista aveva aperto nei mesi precedenti l'entrata a Praga delle truppe del Patto di Varsavia con l'articolo Il piccolo e il grande, nel quale si legge: «Mi irrito moltissimo quando sento adoperare la vecchia locuzione alata: da pari a pari. Perché il nostro rapporto con l'Unione sovietica non è mai stato di tal genere e non lo è nemmeno oggi […] i nostri rapporti non solo non sono rapporti da pari a pari, ma non siamo nemmeno più in grado di immaginarceli tali». 

[…]Mentre si trova a casa di un amico il 24 agosto, a invasione già avvenuta, Kundera sente esplodere alcuni spari; ha fra le mani uno dei testi fondamentali dell'identità nazionale, quello dove, nel 1633, l'emigrante evangelico Pavel Stránský, affrontando la questione dello Stato ceco e del dominio tedesco sulla Boemia, osserva: «E anche se si ammettesse che gli imperatori tedeschi hanno esercitato ed esercitano la più alta sovranità sui paesi cechi e che i cechi hanno rifiutato loro ubbidienza, gli imperatori tedeschi non dovevano preferire, contro coloro che opponevano il rifiuto, la via dei fatti e delle armi rispetto alla dovuta applicazione del diritto.

È infatti accettato che chi rivendica con la violenza quel che gli spetta, senza curarsi dell'applicazione delle norme, perde tutto il diritto che aveva, e che inoltre non si deve ricorrere alla pressione dove si può trattare secondo le leggi». 

[...] il «destino ceco»

Ma al nucleo della Primavera praghese (repressa dai carri sovietici) viene nuovamente alla luce, argomenta Kundera, la questione del destino ceco, nel «tentativo di creare finalmente (e per la prima volta nella storia mondiale) un socialismo privo dell'appoggio dell'onnipotente polizia segreta, con la libertà di parola scritta e stampata, con un'opinione pubblica che viene ascoltata e con una politica che si appoggia a essa, con una cultura moderna che si sviluppa liberamente e con uomini finalmente liberi dalla paura un tentativo con cui i cechi e gli slovacchi per la prima volta dalla fine del Medioevo 

[…] si sono posti di nuovo al centro della storia e hanno rivolto al mondo il loro appello». Parole indubbiamente commoventi, per quanto venate di romanticismo. A questo punto, ci si potrebbe aspettare una presa di posizione, senza se e senza ma, contro l'invasione sovietica, invece Kundera confessa: «Ma io mi rifiuto di chiamarla una catastrofe nazionale, come oggi fa comunemente la nostra opinione pubblica, piuttosto lamentosa. Oso addirittura dire, a dispetto dell'opinione corrente, che forse il significato dell'Autunno cecoslovacco è perfino superiore al significato della Primavera cecoslovacca è successo infatti qualcosa che nessuno si aspettava: la nuova politica ha retto al terribile conflitto ha cementato dietro di sé l'intera nazione, poiché era interiormente più forte di quanto non fosse prima di agosto» coltivando così «un'immensa speranza per il futuro».

Kundera lancia infine il suo strale contro i disfattisti (strano aggettivo, tipico del linguaggio dei regimi autoritari): «Lo spirito ceco oggi ha due forme. In una, diventa un vizio che rifiuta qualunque speranza e approva tutte le disperazioni: è lo spirito dei deboli degenerato in puro e semplice pessimismo che costituisce il clima ideale per preparare la sconfitta. C'è poi il vero spirito critico, che sa smascherare le illusioni e le presunte certezze, ma al tempo stesso ha un'estrema sicurezza di sé, perché sa di essere una forza, un valore, un potere su cui si può costruire il futuro. Questo senso critico, che prima ha suscitato la Primavera cecoslovacca e poi in Autunno ha resistito agli attacchi delle menzogne e dell'irrazionalità, non è la proprietà di una élite ma è la più grande virtù di tutta la nazione». 

la reazione di havel

Senza queste ultime affermazioni, Václav Havel forse non avrebbe preso carta e penna per replicare a Kundera, il quale aveva rivolto una subdola domanda ai cechi emigrati all'estero che rifiutarono l'invito dei dirigenti comunisti a rimpatriare, perché non si fidavano delle garanzie offerte dal regime: «Davvero un cittadino ceco non è in grado di rischiare quello che rischia un suo uomo di Stato? Davvero è capace di vivere senza mai correre rischi?».

Se pensiamo che soltanto sei anni dopo quelle parole, nel 1975, proprio Kundera emigrerà in Francia senza più ritornare in patria, più che il biasimo per simili argomentazioni si dovrebbe compatirne la debolissima resistenza che altri, invece, opposero al regime fino a subire il carcere o a morire per mano della polizia politica, come il filosofo di «Charta 77», Jan Patoka.

Tocca quindi ad Havel. Dopo che il giornale Host do domu (L'ospite in casa) si rifiuta di pubblicarlo, Havel fa uscire in febbraio sulla rivista Dnesek e sulla rivista Tvar un articolo in risposta a Kundera. Il titolo è lo stesso dell'articolo di Kundera, però con un punto interrogativo: Il destino ceco? Fin dalle prime righe si capisce che sarà una critica anche ironica ma sferzante alle idee di Kundera, «questo viveur intellettuale moderatamente scettico che è stato sempre incline a vedere soprattutto i nostri difetti».

Havel sostiene che di fronte al senso d'impotenza l'animo dei cechi tende a rivolgersi al passato per evitare di prendere posizioni decise sul presente. Ma questo, osserva Havel, testimonia una carenza di senso critico: «Quando il patriota ceco non ha abbastanza coraggio (e senza coraggio il vero spirito critico è impensabile) di guardare in faccia il presente, crudele ma aperto [] si volge verso un passato migliore ma ormai chiuso, un passato nel quale si era tutti uniti»; così però «dalla critica fugge verso l'illusione». [...]

La critica a Kundera risuona forte e chiara: «Quanto è più facile assumere tatticamente una vaga posizione attendista (protetta da un'astratta ammirazione per la nazione), adottando un po' lo spirito critico nazionale (quello "positivo") e un po' condannandolo (quello "negativo") e, soprattutto, non bruciare le tappe per potersi tenere le mani libere per ogni eventualità».

[...]

Havel sottolinea [] che nella protesta d'agosto contro la normalizzazione sovietica c'era «qualcosa di più del semplice dissenso rispetto all'intervento militare: c'era anche una sorta di referendum non ufficiale di tutto il popolo su quali avrebbero dovuto essere i rapporti nel paese: c'era la grande promessa reciproca che da certi valori non ci saremmo mai allontanati». 

Per Havel «il ritorno al passato ha senso solo come appello all'azione nel presente». E rigira la questione a Kundera: si può sperare ancora nella libertà di parola e di riunione; in una politica aperta e controllata dall'opinione pubblica e in un governo realmente democratico; in un pluralismo politico legale; in una ristrutturazione economica, ovvero in una politica estera sovrana? Domande semplici e legittime per poter affermare che un Paese sia capace di pensare sé stesso e autodeterminarsi. [...]

·        Quei razzisti come gli ungheresi.

(ANSA il 25 luglio 2022) - Una "mescolanza di razze" è il vero pericolo della migrazione di massa. Lo ha detto il premier ungherese Viktor Orban al Tusvanyos Summer, in Romania, secondo il testo del suo intervento pubblicato dal giornale Nepszava. 

La migrazione incontrollata rappresenta una minaccia permanente, ha sostenuto Orban, secondo cui i popoli dell'Europa occidentale ormai "si mescolano" con razze extra-europee, mentre gli ungheresi "non vogliono mescolarsi. Entro il 2050, in Europa occidentale non esisteranno più nazioni, ma solo una popolazione incrociata. Noi, qui, nel bacino dei Carpazi, lottiamo contro un destino simile".

"Se non avremo una svolta demografica, la nostra popolazione sarà sostituita presto da stranieri", ha aggiunto Orban. Nella prospettiva del premier ungherese, l'Occidente è in declino, la sua spinta propulsiva si starebbe esaurendo, mentre "il vero Occidente, l'Europa cristiana" sarebbe rappresentata da politici sovranisti come lui.

"È un vero discorso nazista", ha commentato lo storico Krisztian Ungvary. "Orban vuole far restare l'Ungheria fuori dalla guerra in Ucraina, dalle migrazioni, dalla tassa minima globale e dalla recessione economica, ma con questi interventi razzisti può finire solo presto fuori dall'Ue", ha rilevato il noto esperto di affari internazionali Istvan Szent-Ivanyi.

Danilo Taino per il "Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.

Il 53% di Viktor Orbán ha scioccato l'Europa. E il suo ringraziamento agli ungheresi, nella notte delle elezioni, ha aggiunto sconcerto: ha detto di avere vinto anche contro Zelensky, nelle ore in cui si scoprivano gli orrori di Bucha. 

Come ce la si cava, ora, in Europa, con un primo ministro da 12 anni che trionfa per la quarta volta, con il 53% dei voti, sulla base di politiche illiberali, contro la Ue e con una posizione gradita a Putin sull'invasione dell'Ucraina?

La questione è seria e a Bruxelles e nelle cancellerie europee si è aperta la riflessione sull'atteggiamento da tenere. 

Duro, più duro di prima, nel timore che Orbán possa essere una quinta colonna di Mosca tra i 27? Oppure prendere atto del risultato di domenica scorsa a Budapest e tenere una posizione articolata, pragmatica se si vuole, nel momento in cui non ci si deve dividere e distrarre di fronte all'aggressione del Cremlino?

Un dato di fatto è che Orbán non ha rubato la vittoria. Meglio: in anni di potere, ha preso il controllo, anche con la collaborazione dei suoi soci, del sistema dei media; ha depotenziato l'indipendenza della magistratura; ha ridisegnato i collegi elettorali a favore del suo partito, Fidesz; ha creato un sistema di corruzione e di potere illiberale, come egli stesso si vanta di avere fatto. 

E per queste ragioni la Ue ha con Budapest un contenzioso aperto che l'ha portata a non erogare all'Ungheria i denari del Recovery Fund. Questa struttura di potere ha certamente determinato la dimensione della sua vittoria, ha reso ciclopica l'impresa dell'opposizione che l'ha sfidato. 

Ma chiunque abbia seguito la campagna elettorale e il voto ha constatato che frotte di ungheresi lo seguono, che il suo consenso popolare è reale. 

Ora, dal punto di vista dell'Unione europea, decidere di sanzionare ulteriormente Orbán significherebbe sanzionare l'Ungheria che lo ha votato in massa. Quando la Ue fece qualcosa del genere, nel 2000, contro l'Austria che aveva nel governo l'estrema destra di Jörg Haider, dopo pochi mesi dovette battere in ritirata: due terzi degli austriaci si opposero alle sanzioni.

C'è un'altra considerazione che Bruxelles dovrebbe forse fare. Il fatto che gli ungheresi abbiano votato Orbán nonostante sia il politico europeo più vicino a Vladimir Putin è un'eccezione magiara (e serba, come si è visto sempre domenica alle elezioni a Belgrado) oppure è il segno di un desiderio esteso anche in altri elettorati di tenersi lontani dalla guerra in Ucraina? Difficile rispondere: probabilmente, le elezioni francesi di questo aprile diranno qualcosa. Ma la questione esiste.

Ciò non significa che il «democratico illiberale» di Budapest vada lasciato correre nei corridoi della Ue. Per quanto forte sia in patria, quasi padrone dell'Ungheria, Orbán è isolato fuori dal Paese: la sua posizione sull'invasione dell'Ucraina gli ha tolto anche l'alleanza con la Polonia e con i Paesi del gruppo di Visegrád. Il primo obiettivo - si dice a Bruxelles - è continuare a isolarlo e impedire che interferisca su ciò che al momento più conta, le decisioni europee sulle sanzioni a Mosca, rispetto alle quali è contrario ma finora non ha messo veti. 

Se lo facesse, diventerebbe davvero una quinta colonna di Putin, il quale ieri si è congratulato con lui per la vittoria e si è augurato «lo sviluppo ulteriore delle relazioni». 

Sarebbe da neutralizzare. Per il resto, i prossimi quattro anni saranno segnati da un rapporto difficile tra Budapest e Bruxelles, senza una soluzione a breve. Per parte sua, Orbán, rischia di chiudersi ulteriormente in un nazionalismo apprezzato solo dai non certo affidabili uomini forti di Mosca e Pechino, con i quali ha ottime relazioni. Anni complicati, quelli in arrivo. D'altra parte, lo saranno per tutto e tutti. Altro che Orbán.

L'accusa di Kiev: "L'Ungheria sapeva in anticipo dell'invasione russa". Federico Giuliani il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il capo del Consiglio di Sicurezza di Kiev, Oleksiy Danilov, accusa l'Ungheria: sarebbe stata informata in anticipo dalla Russia della sua volontà di invadere l'Ucraina. Budapest avrebbe addirittura valutato un'operazione per annettere la Transcarpazia.  

Arrivano importanti novità da Mariupol, dove alle 7 ora locale (le 8 in Italia) verrà aperto un nuovo corridoio umanitario per evacuare i civili rimasti in loco. Intanto gli Stati Uniti hanno analizzato gli ultimi movimenti dei russi sul campo di battaglia parlando di "progressi minimi" nel Donbass, mentre Kiev ha lanciato pesanti accuse all'indirizzo dell'Ungheria.

L'evacuazione di Mariupol

Andiamo con ordine. A notte fonda il consiglio municipale di Mariupol ha informato che verrà aperto un nuovo corridoio umanitario per evacuare i civili dalla città. "Con il sostegno delle Nazioni Unite e della Croce rossa, il governo ucraino continuerà a evacuare i civili a partire dalle 7:00 ora locale", hanno affermato le autorità ucraine.

Nel frattempo i primi 100 ucraini evacuati dall'acciaieria Azovstal sono arrivati, nella tarda serata di ieri, nella città di Zaporizhzhia. "Si tratta - viene spiegato in un comunicato diramato dai media - principalmente di donne, bambini e anziani, che ora avranno accesso a cure mediche, cibo, medicine e assistenza psicologica".

Gli Stati Uniti hanno accolto con favore le notizie secondo cui "alcuni civili sono stati in grado di evacuare Mariupol" e stanno incoraggiando "i continui sforzi" per consentire ai cittadini di lasciare la città portuale meridionale e altre città sotto assedio da parte delle forze russe. "Vogliamo assicurarci che il limitato accesso umanitario che abbiamo visto nelle ultime ore non sia fugace. Ciò dimostrerebbe che potrebbe esserci un genuino intento umanitario dietro questa evacuazione e non solo un altro vile tentativo da parte del Cremlino di cambiare la narrativa, per ottenere una vittoria di pubbliche relazioni", ha spiegato alla stampa il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ned Price.

L'accusa di Kiev all'Ungheria

Intanto, secondo quanto riportato dal Kyiv Independent, l'Ungheria sarebbe stata informata in anticipo dalla Russia della sua volontà di invadere l'Ucraina. Il media ucraino ha citato il capo del Consiglio di Sicurezza di Kiev, Oleksiy Danilov, facendo notare come il primo febbraio scorso Viktor Orban si sia recato a Mosca in visita da Vladimir Putin.

Successivamente, le autorità ungheresi si sono pubblicamente opposte all'imposizione di sanzioni alla Russia. Danilov, poi, a una domanda sulla possibilità che Budapest blocchi un'eventuale adesione di Kiev alla Nato, ha risposto che non solo il premier magiaro Orban, sarebbe stato informato in anticipo da Putin dell'invasione ma che addirittura l'esercito di Budapest avrebbe valutato un'operazione per annettere la Transcarpazia nel caso di un rapido successo della campagna russa.

"L'Ungheria, che dichiara apertamente la sua cooperazione con la Russia, era stata avvertita in anticipo da Putin che ci sarebbe stato un attacco al nostro Paese", ha detto Danilov, "per qualche ragione, pensava di poter impadronirsi di parte del nostro territorio". Alcuni media ucraini hanno ricordato che il 1 febbraio, tre settimane prima dell'invasione dell'Ucraina, Putin aveva accolto Orban al Cremlino e che il 22 febbraio, due giorni prima dell'attacco russo, l'Ungheria aveva annunciato un trasferimento di truppe al confine occidentale dell'Ucraina.

Le informazioni in mano agli Usa

Sul campo di battaglia, le forze russe nella regione del Donbass starebbero compiendo "progressi minimi, hanno il morale basso e continuano ad avere problemi logistici". Lo sostiene un altro funzionario del Pentagono, che ha inoltre aggiunto come gli ucraini abbiano ancora il controllo di Kharkiv. Le forze di Kiev "hanno svolto un ottimo lavoro nelle ultime 24-48 ore e sono riusciti a spingere i russi a circa 40 km a est di Kharkiv", ha spiegato la fonte. Quanto a Mariupol, il Pentagono ha constatato che la città continua a subire attacchi aerei da parte delle forze russe.

Sempre gli Stati Uniti sarebbero inoltre in possesso di informazioni di intelligence "altamente credibili" secondo cui la Russia cercherà di annettere le regioni ucraine di Donetsk e Luhansk "all'incirca entro metà maggio". Secondo Michael Carpenter, ambasciatore Usa presso l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), Mosca avrebbe intenzione di creare una repubblica popolare sul modello di quelle nel Donbass anche nella regione di Kherson.

Si può essere espulsi dall’Ue? Gli strumenti contro stati come l’Ungheria. VITALBA AZZOLLINI, giurista, su Il Domani l'08 giugno 2022

Qualcuno si è chiesto se l’Ungheria, Paese che si pone frequentemente in contrasto con i principi fondanti e l’azione dell’UE, possa esserne estromesso. Non esiste un meccanismo giuridico per espellere uno Stato membro. Ma vi sono altri rimedi.

In diversi casi, l’Ungheria è stata oggetto di procedura di infrazione. Siccome è difficile che tale procedura porti a risultati, l’UE ha elaborato un meccanismo di “condizionalità”, che subordina il beneficio di finanziamenti dell’UE al rispetto da parte di un Paese membro dei principi dello stato di diritto

Un ulteriore meccanismo – denominato opzione “nucleare” - permette di sospendere alcuni diritti di uno Stato membro, incluso il voto nel Consiglio, in caso di violazioni dei Trattati. Per attivarlo serve un voto all’unanimità: Ungheria e Polonia si sono finora “scudate” a vicenda.

Orban, il Cavallo di Troia di Putin per scardinare l’Europa. Il presidente ungherese difende gli interessi dello “zar”. E fino ad ora sembra esserci riuscito in maniera egregia. Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 02 giugno 2022.

Proprio quando sembrava raggiunto l’accordo politico sul sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia da parte dell’Ue, l’Ungheria ha dato un nuovo stop, dichiarandosi contraria alle sanzioni contro il patriarca della chiesa ortodossa russa, Kirill, definito dallo stesso Papa Francesco “chierichetto di stato”, che ha in comune con Putin l’amore per i patrimoni nascosti all’estero, e lo sfoggio di beni di lusso, salvo poi farli sparire con ritocchi nelle foto ufficiali. E alla fine è riuscita a spuntarla: niente sanzioni per Kirill che è stato risparmiato.

Va detto che se da una parte le motivazioni dell’Ungheria per contrastare l’embargo europeo nei confronti del petrolio russo avevano qualche fondamento tecnico, certamente è meno comprensibile il rifiuto di sanzionare un personaggio oggettivamente discutibile, che invece di richiedere la pace, come fanno i massimi esponenti di tutte le religioni, approva la guerra, e la definisce addirittura giusta, manco fosse un islamista estremista invocante la jihad.

Certo è che se nei giorni precedenti i partner europei dell’Ungheria non avevano avuto troppe difficoltà ad accettare le ragioni addotte da Orban per porre il veto sull’embargo, basate sul fatto che l’Ungheria non ha sbocchi sul mare, e quindi non può ottenere facilmente il greggio da altri fornitori, e sulla circostanza che le raffinerie ungheresi sono tarate sull’Urals, ossia il petrolio proveniente dai giacimenti russi, per cui l’utilizzo di altri greggi avrebbe posto non pochi problemi di raffinazione, prevedendo di conseguenza una deroga all’embargo del petrolio russo, quando proveniente con oleodotti, come è il caso dell’Ungheria, questa volta la mancata adesione alle sanzioni contro Kirill, previste dal 6° pacchetto, sarà più difficile da gestire, non essendoci motivazioni tecniche.

Di conseguenza, il sospetto che Orban stia diventando l’uomo all’Havana (ossia nell’Ue) della Russia, così come pare esserlo Erdogan nella Nato, diventa sempre più legittimo. Un mese di ritardo nell’approvazione delle sanzioni contro la Russia, che era stato proposto dalla Commissione europea il 4 maggio, è stato già un regalo di non poco conto alla Federazione Russa, la quale, nel frattempo, non esita ad applicare le sue sanzioni, che consistono nel blocco della fornitura di gas, già applicato contro Polonia, Bulgaria, Finlandia, e con Olanda e Danimarca ora nel mirino. Per sapere quali saranno effettivamente le nuove sanzioni del 6° pacchetto occorrerà attendere alcuni giorni, necessari per la modifica del Regolamento Ue 833/2014, che con le sue oltre 170 pagine, contiene tutte le sanzioni comunitarie contro la Russia, le prime delle quali furono emanate nel 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa.

Va detto che i precedenti pacchetti avevano sanzionato quasi tutto il sanzionabile, colpendo 1.091 individui, tra cui gli stessi Putin e Lavrov, 80 società e banche russe, i cui capitali e beni in Europa erano stati congelati. Inoltre, è stato impedito l’accesso alle risorse finanziarie provenienti dall’Ue, sequestrati i fondi della Banca centrale Russa (che ha perso buona parte delle sue riserve valutarie), vietato l’accesso all’Ue ad aerei, navi e camion russi, bloccati l’import e l’export tra Ue e Russia di molte merceologie (tra cui i beni di lusso, pane quotidiano per i ricchi amici di Putin), che poi è stato esteso al carbone russo, e con il sesto pacchetto, anche al petrolio, con alcune eccezioni però, come è stato sopra ricordato.

Nonostante gli eventi di queste ore, si può però affermare che raramente in passato i paesi membri dell’Ue si sono trovati così uniti. L’unico precedente è stata la Brexit, che ha visto una compattezza straordinaria, tutta tesa a sostenere l’Irlanda, che era quella che veniva maggiormente colpita dall’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, per via delle conseguenze sul confine con l’Irlanda del Nord. Per rendersi conto di quanto l’Ue stia funzionando bene, basta immaginare che cosa accade in Italia quando vi è una riunione di condominio con circa 25 inquilini: non solo è inimmaginabile l’unanimità, ma spesso anche la semplice maggioranza è molto difficile da raggiungere.

La compattezza politica va considerata, in momenti di crescente difficoltà, un asset da valorizzare al massimo. Infatti, visto lo sganciamento totale dalla realtà della maggioranza del popolo russo, visibile anche nei nostri canali, in cui sempre più di frequente propongono interviste a cittadini russi, che ribadiscono che l’esercito di Putin è in Ucraina per dare la caccia ai nazisti di quel paese (e meno male che non si sono accorti che in tanti paesi europei, inclusa l’Italia, ce ne sono probabilmente di più che in Ucraina), è ragionevole attendersi una continuazione del conflitto, e quindi un ulteriore deterioramento dei rapporti con la Russia, tanto che non si può escludere che Putin, con un vero harikiri economico, decida di bloccare le forniture di gas a tutta l’Ue, mettendo in crisi energetica quest’ultima, ma privando al tempo stesso l’economia russa dell’unica fonte di reddito esterno rimasta.

Budapest, migliaia in piazza. Esplode la rabbia anti Orbán. Daniel Mosseri il 18 Luglio 2022 su Il Giornale.

Da cinque giorni la Capitale contesta il premier per la riforma fiscale. È la prima volta dalla sua rielezione.

Le prime proteste sono iniziate martedì scorso, quando alcune centinaia di persone si sono assembrate su un ponte sul Danubio, dove si affaccia anche l'Országház, il fastoso palazzo gotico del Parlamento. Allora i manifestanti avevano bloccato il traffico nel centro di Budapest per tre ore. Ieri invece a dimostrare contro il governo del premier Viktor Orbán erano alcune migliaia di ungheresi nel quinto giorno consecutivo di proteste.

A portare i magiari per strada è una nuova legge voluta dal primo ministro nazionalista e conservatore. Il provvedimento è destinato ad appesantire il carico fiscale per centinaia di migliaia di commercianti e lavoratori autonomi, sostengono i manifestanti che hanno innalzato cartelli e urlato slogan pesanti all'indirizzo del capo del governo.

Le proteste segnano un inaspettato calo di popolarità per Orbán, la cui Unione civica ungherese (Fidesz) ha vinto con un ampio margine le elezioni legislative lo scorso aprile. In molti, soprattutto in Europa, avevano sperato nella vittoria dello sfidante di Orbán, quel Peter Marki-Zay che oggi cerca di cavalcare le proteste, postosi alla guida di una eterogenea coalizione di centristi, socialdemocratici, ecologisti ed ex estremisti di destra. Tre mesi fa, invece, il premier al potere senza soluzione di continuità dal 2010 è stato confermato con un ampio 52% dei consensi. Orbán aveva condotto l'ennesima campagna elettorale in rottura con l'Unione europea, dimostrando l'indisponibilità di un'Ungheria dipendente dagli idrocarburi russi a rompere con la Russia di Vladimir Putin.

Curiosamente il suo governo affronta adesso la più forte ondata di proteste proprio a causa dell'energia: il parlamento controllato da Fidesz ha fatto piazza pulita delle categorie protette stabilendo che chi consumi più energia della media dovrà pagarla al prezzo di mercato e non più sulle base delle tariffe sovvenzionate dallo stato. A poco è servito l'intervento del primo ministro venerdì alla radio che ha difeso la legge come «buona e necessaria». Due giorni prima il governo aveva dichiarato lo «stato di emergenza energetica», annunciando un maggior ricorso al carbone e invitando le famiglie a moderare i consumi. A fine maggio Orbán ha anche bloccato il progetto dell'Ue per un embargo totale e immediato contro il petrolio russo. L'atteggiamento controcorrente di Budapest non ha però impedito un forte indebolimento del fiorino alla vigilia del conflitto ne servivano 367 per acquistare un euro, oggi ce ne vogliono 410. Associato all'aumento di gas e petrolio sul mercato globale, il calo della valuta nazionale ha precipitato l'Ungheria in una crisi inflazionistica che sta costando a Orbán molta popolarità.

Secondo il Központi Statisztikai Hivatal (l'ente nazionale di statistica), il tasso d'inflazione in Ungheria è salito all'11,7% annuo a giugno, in netta crescita rispetto al 10,7% di maggio e al 9,5% di aprile. A fine gennaio il governo ungherese aveva imposto un tetto ai prezzi di sei prodotti alimentari (zucchero semolato, farina di grano, olio di semi di girasole, carne di maiale, petto di pollo e latte) fra il 1 febbraio e il 1 maggio 2022. Annunciata dallo stesso Orbán, la misura ha aiutato il premier a vincere le elezioni. Sopravvivere agli scossoni economici di una guerra vicinissima Ungheria e Ucraina sono paesi confinanti è una nuova sfida.

GLI AFFARI ANCORA APERTI CON MOSCA. Viktor Orbán trasforma Budapest nel varco di Russia e Cina in Europa. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 07 aprile 2022

Davanti a un gruppo di media internazionali, Orbán fa dichiarazioni di lealtà all’occidente. Ma non ha chiuso le porte né a Putin né tantomeno a Xi Jinping. «Se Putin vuole che paghiamo in rubli, pagheremo in rubli», dice. Più delle parole, a Budapest sono i luoghi a raccontare chi è davvero Orbán. Al ministero degli Esteri c’è una porta molto speciale che è rimasta aperta al Cremlino: è il sistema informatico del governo. Da lì Putin ha potuto aprirsi un varco sull’Ue.

A meno di cinquecento metri dall’ex monastero dove Orbán si è fatto intervistare, c’è la International investment bank: è un avamposto finanziario russo in Europa, e l’Ungheria vi partecipa nonostante la guerra. Vale anche per il progetto nucleare condiviso con la Russia, Paks II: per il premier ungherese si esce dalla dipendenza dal gas di Mosca con il nucleare di Mosca.

Intanto la guerra rende i rapporti con Pechino sempre più validi agli occhi di Orbán, che punta a una «alleanza di regimi illiberali». La città porta i segni anche di questo: 10mila posti letto per gli studenti verranno cancellati per far spazio a una università cinese, Fudan, e a tal fine il governo ungherese è pronto a indebitare le prossime generazioni.

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Gemelle diverse. Perché la Commissione blocca i fondi Ue all’Ungheria (ma non alla Polonia). Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Bruxelles attiverà contro Budapest il meccanismo che lega l’esborso dei finanziamenti europei al rispetto dello Stato di Diritto. Il governo di Varsavia, che suscita analoghe preoccupazioni a Bruxelles, non sarà per ora colpito dalla procedura.

L’Ungheria batte la Polonia nella gara a un non invidiabile primato, quello dell’unico Paese europeo soggetto al meccanismo di blocco dei fondi dell’Ue. Per entrambi gli Stati, la Commissione europea ha individuato casi di possibili violazioni che «mettono a rischio gli interessi finanziari dell’Unione», ma solo nei confronti di Budapest procederà per ora al passo successivo: l’attivazione della procedura che, se portata a termine, negherà al governo di Viktor Orbán i finanziamenti comunitari. 

Botta e risposta

La notifica formale che attiva ufficialmente il meccanismo di condizionalità arriverà al governo ungherese nei prossimi giorni, conferma il portavoce della Commissione europea a Linkiesta. L’annuncio era stato dato direttamente dalla Presidente Ursula von der Leyen al Parlamento di Strasburgo: una decisione necessaria perché il governo di Budapest non ha risposto in maniera soddisfacente alle 16 preoccupazioni sollevate dalla Commissione, soprattutto in merito alla corruzione dilagante nel Paese, che coinvolge anche la distribuzione dei fondi europei.

La risposta non si è fatta attendere: i ministri Gergely Gulyás e Judit Varga hanno accusato la Commissione di «punire i cittadini ungheresi» per il supporto espresso al partito di governo nelle recenti elezioni. Ma le prime conseguenze si sono sentite anche sui mercati, con il fiorino ungherese che ha perso in una giornata il 2% sull’Euro, riporta Bloomberg.

Come funziona il meccanismo di condizionalità

Il rischio per l’economia ungherese, infatti, è alto. Se la procedura prevista dal Regolamento 2092 del 2020 andrà fino in fondo, potranno essere congelati i fondi europei che spetterebbero al Paese: circa 40 miliardi di euro, compresi i 7,2 previsti dal Next GenerationEu.

La comunicazione formale attesa a Budapest individua un nesso effettivo tra la violazione di un principio dello Stato di Diritto in Ungheria e un danno o un rischio di danno alla gestione dei fondi europei. Tra il governo ungherese e la Commissione comincerà poi un dialogo che può durare dai tre ai cinque mesi e se l’esecutivo comunitario non è soddisfatto dell’esito del confronto, potrà proporre misure punitive, sospendendo determinate quote del budget del Paese.

Le misure devono essere «strettamente proporzionate all’impatto della violazione contestata sul bilancio dell’Unione» e vanno approvate dal Consiglio dell’Unione europea: l’autorizzazione è concessa con un voto a maggioranza qualificata, cioè con il sostegno del 55% degli Stati membri che abbiano almeno il 65% della popolazione europea. La votazione deve tenersi al massimo tre mesi dopo la presentazione delle misure da parte della Commissione.

È proprio questo criterio di voto a rendere lo strumento particolarmente efficace per l’Ue e particolarmente pericoloso per l’Ungheria: tanto che il governo di Budapest, insieme a quello polacco, ha prima provato in tutti modi a evitare l’adozione del meccanismo e poi presentato un ricorso alla corte di Giustizia europea per contestarne la validità, respinto lo scorso febbraio.  

Quando le decisioni del Consiglio vengono prese all’unanimità, invece, ogni Paese detiene di fatto un diritto di veto. Grazie a tale dinamica, da anni i governi di Polonia e Ungheria si difendono a vicenda da un’altra procedura: quella della «clausola di sospensione» prevista dall’Articolo 7 del Trattato sull’Unione europea, e attivata nei confronti della Polonia nel 2017 dalla Commissione e nei confronti dell’Ungheria nel 2018 dal Parlamento europeo.

Se portata a compimento, toglierebbe ai due Paesi il diritto di voto in Consiglio per un determinato periodo, ma è altamente improbabile che ciò accada: al momento rimane formalmente aperta, pur senza registrare sviluppi positivi nel dialogo tra Commissione e governi, come ha ammesso la commissaria ai Valori e alla trasparenza Věra Jourová nella recente audizione sul tema al Parlamento. 

Polonia salva (per ora)

L’Articolo 7 è uno dei punti in comune tra Polonia e Ungheria nel loro lungo confronto con le istituzioni europee. Gli altri sono le procedure di infrazione che la Commissione ha comminato a entrambe, le numerose risoluzioni dell’Eurocamera sulle violazioni in corso e una tendenza dei rispettivi governi ad accusare Bruxelles di «interferenza» nei propri affari interni. 

Budapest e Varsavia preoccupano allo stesso grado la Commissione per le violazioni dello Stato di Diritto, anche se nel primo caso il problema principale è la corruzione endemica, nel secondo la mancanza di indipendenza della magistratura rispetto al potere politico, come ha spiegato von der Leyen agli eurodeputati. 

Nel novembre 2021, entrambi i governi erano stati raggiunti dalla lettera che segnalava loro le rispettive carenze: nel caso dell’Ungheria si menzionavano le indagini dell’Ufficio anti-frode europeo (Olaf), le ingenti somme comunitarie versate ad amici e parenti di Orbán e i conflitti di interesse dei suoi ministri. Ma pure la questione dell’indipendenza della magistratura, problematica condivisa con la Polonia, a cui venivano rimproverate mancanza di imparzialità ed efficacia nei processi giudiziari, condizioni in grado di danneggiare gravemente la gestione dei fondi europei.

Il destino dei due Paesi dell’Est, tuttavia, al momento diverge: per la Polonia non è prevista nell’immediato l’attivazione del meccanismo di condizionalità. «Si tratta di due casi separati, con motivazioni differenti e procedure differenti», conferma la Commissione a Linkiesta, senza specificare se e quando replicherà la misura nei confronti dei polacchi e se la risposta di Varsavia alla lettera è invece ritenuta soddisfacente.

Sulla scelta pesa probabilmente un’attitudine più collaborativa da parte del governo polacco, che ha annunciato una legge per smantellare la Camera disciplinare per i giudici, uno dei punti della riforma della giustizia contestata da Bruxelles, e risolto un’annosa controversia con la Cechia pagando una compensazione da 45 milioni di euro.  

Tra le ragioni, però, c’è l’ipotesi di una lettura politica legate alla guerra in Russia. L’Ungheria è il Paese europeo più recalcitrante nell’imporre sanzioni al governo di Putin, ha condannato l’invasione ma non manda armi agli ucraini, è disposta a pagare in rubli il gas di Mosca e sembra fare di tutto per mantenersi estranea al conflitto. Orbán ha ricevuto al telefono i complimenti di Putin per la sua rielezione e il suo ministro degli Esteri ha perfino convocato l’ambasciatore ucraino, protestando contro gli attacchi ricevuti dall’esecutivo ungherese per la sua posizione equidistante. 

La Polonia, invece, sostiene la linea più dura possibile nei confronti dei russi, sia a livello economico che militare, e sta accogliendo oltre due milioni di profughi ucraini con generosità, mostrando in questo senso un’inconsueta sintonia con le istituzioni dell’Ue. Che, visto il momento storico, non sembra il caso di incrinare. 

Le conseguenze del conflitto in Europa. Orbaniani d’Italia: al grido di pace e bollette ecco il Pup, il partito unico del populismo. Vittorio Ferla su Il Riformista il 6 Aprile 2022. 

“Bravo Viktor!” Nel giorno in cui arrivavano le notizie del massacro di Bucha, il primo pensiero di Matteo Salvini è andato all’amico Viktor Orbán, riconfermato primo ministro dell’Ungheria dopo l’exploit elettorale di domenica scorsa. “Da solo contro tutti, attaccato dai sinistri fanatici del pensiero unico, minacciato da chi vorrebbe cancellare le radici giudaico-cristiane dell’Europa, denigrato da chi vorrebbe sradicare i valori legati a famiglia, sicurezza, merito, sviluppo, solidarietà, sovranità e libertà, hai vinto anche stavolta grazie a quello che manca agli altri: l’amore e il consenso della gente. Forza Viktor, onore al libero Popolo ungherese”.

Così ha scritto il leader della Lega sul suo profilo Facebook. Nulla di nuovo sotto il sole. Salvini e Orban amoreggiano da sempre. Il leader magiaro – cattivissimo con gli immigrati e con l’Europa – è un punto di riferimento stabile per il capo del Carroccio. Negli anni in cui il sovranismo populista sembrava un cavallone inarrestabile – non molto tempo fa, a dire il vero – Orbán era certamente il capo di governo nazionalista più rappresentativo d’Europa, alla guida del gruppo dei paesi di Visegrad. Le sue politiche conservatrici e illiberali, in aperto contrasto con le regole dell’Unione europea, scatenavano brividi di piacere e di invidia lungo la schiena dei populisti nostrani: non solo Salvini, ma anche Meloni. La sua feroce opposizione contro la redistribuzione dei migranti alle porte dell’Europa e la totale indisponibilità all’accoglienza sul suolo patrio erano, per la Lega e per Fratelli d’Italia, il format delle politiche che anche l’Italia avrebbe dovuto adottare per governare l’emergenza degli sbarchi. Salvini ha condiviso con Orbán anche la sfegatata ammirazione per Vladimir Putin, considerato come il faro globale della nuova destra ultranazionalista, nemica delle mollezze e dei cedimenti delle democrazie occidentali.

Nel frattempo, però, l’imbarazzo tra i partner europei è cresciuto. Via via, gli omologhi popolari di Fidesz, il partito di Orbán, hanno cominciato a percepirlo ben poco democratico e cristiano. Così, prima di esserne cacciato, nel marzo dell’anno scorso è stato lo stesso Orbán a sganciarsi dal gruppo parlamentare del Ppe. Da quel momento sono cominciate le trattative con Marine Le Pen, con i polacchi del Pis e con il nostro Matteo Salvini per la costruzione di un nuovo raggruppamento sovranista e populista. Negli ultimi anni, però, le fortune politiche di Salvini sono state altalenanti. Tutto comincia dallo stordimento da Papeete che lo porta al suicidio politico proprio mentre stava al governo. L’ultimo infortunio è la figuraccia internazionale rimediata in Polonia dove il sindaco ultranazionalista di Przemysl gli ha rinfacciato le relazioni con Vladimir Putin. In questo marasma mentale e politico, la Lega vive una crisi di identità e di leadership, combattuta tra un’ala governista e moderata rappresentata da Giancarlo Giorgetti e dai presidenti di regione e la scapigliatura movimentista del “Capitano”, sempre in preda al parossismo demagogico. Ecco perché oggi, di fronte all’aggressione russa dell’Ucraina, il nuovo Matteo Salvini in versione ‘mansueta pecorella’ fa un po’ sorridere.

L’uomo che voleva armare fino ai denti i gioiellieri del nord per consentirne la difesa dai rapinatori temerari e che andava a caccia di tossici citofonando casa per casa, di fronte ai bombardamenti russi e ai massacri di civili ucraini è cambiato: organizza pellegrinaggi ad Assisi, diffonde il verbo di Papa Francesco, non applaude Draghi quando promette di fornire armi alla resistenza ucraina. Ma non bisogna stupirsi. Sparare al rapinatore o all’immigrato, ma non volere la guerra in casa sono due facce della stessa medaglia: il qualunquismo del proprio “particulare”. Su questi umori così terra terra la demagogia populista costruisce da sempre le sue fortune.  Ne sa qualcosa Viktor Orbán che ha vinto la sua campagna elettorale con lo slogan “Pace e bollette”. Tradizionalmente interprete di una retorica militaresca, anche il leader ungherese si è riscoperto alfiere della pace e dell’imparzialità quando ha dovuto schierarsi sulla questione ucraina. Troppo forte il legame con Putin, troppi interessi comuni per bruciarli sull’altare della libertà del popolo ucraino. In più, Orbán si è qualificato in campagna elettorale come il garante della lotta contro l’inflazione e, soprattutto, del contenimento delle tariffe dell’energia.

Pace e bollette: ecco la ricetta facile e ideale per assicurare il quieto vivere degli ungheresi. E che cosa ha fatto Salvini negli ultimi mesi? Esattamente la stessa cosa. “Stiamo lavorando su provvedimenti concreti, a fronte di una vera e propria emergenza nazionale che impone scelte rapide. L’Italia è in pericolo: queste bollette frenano la ripresa e mettono in ginocchio famiglie, artigiani, commercianti e imprese. Bene che tutti i partiti siano d’accordo con la Lega”, diceva Salvini a febbraio, poco prima dell’inizio della guerra. Una tiritera rafforzata anche dopo l’aggressione dell’Ucraina. “Bene i miliardi già stanziati dal governo per aiutare famiglie e imprese a pagare e rateizzare le bollette di luce e gas, ma bisogna fare di più”, ha ripetuto Salvini di recente. Certo, famiglie e imprese vanno aiutate. Ma la demagogia del Capitano, fin dai tempi di Quota mille e del Reddito di cittadinanza, non ha limiti. Mettere le mani nel portafogli dello stato per accontentare ogni richiesta che proviene dal proprio elettorato è una strategia facile. Ma dimentica un busillis: il portafoglio dello stato attinge ai portafogli dei cittadini.

Su questa linea, però, Salvini non agisce da solo. In Italia, Pace e bollette potrebbe essere il nuovo nome del Pup, il partito unico del populismo, di cui fa parte anche, a pieno titolo, il M5s. A differenza di Salvini, Giuseppe Conte non indossa felpe ed è molto più abile del collega nel far perdere le tracce delle proprie posizioni. Né si è mai schierato apertamente con Orbán. Abbiamo notato tutti, però, che il capo politico dei grillini non ha ancora pronunciato una sola parola contro Vladimir Putin. I forti legami intrattenuti dal suo partito e dai suoi governi con la Russia, lo portano oggi ad assumere posizioni assai blande rispetto all’enormità dei fatti. Sull’Ucraina Conte ha assunto una postura terzista, tiepidissima verso l’Ue e verso la Nato, che lo colloca sulla stessa linea della Cina, non a caso il principale alleato di Putin: “Uscire dalla logica dei due blocchi”, è diventato il mantra dell’avvocato di Volturara Appula. E proprio sulle spese militari è scattato il riflesso condizionato del populismo: non possiamo spendere per la sicurezza, quando le priorità dei cittadini sono sociali ed economiche. Pace e bollette, appunto. Ma non basta.

Da qualche settimana Conte ha deciso di giocare fino in fondo la sua partita di destabilizzatore: dopo le spese militari ha messo nel mirino il governo su Def e riforma della giustizia. Per ora, per fortuna, c’è ancora il povero Draghi che tiene a bada le mattane degli orbaniani italiani. Ma quanto durerà? Fuori della maggioranza di governo, anche Giorgia Meloni, dopo una improvvisa svolta atlantista, è tornata a esultare domenica per la vittoria del primo ministro magiaro. Sia che si calcolino i numeri del parlamento attuale, sia che si calcolino i numeri dei sondaggi, una cosa appare chiara: oggi l’Italia è ancora dominata da una variegata maggioranza orbaniana (e putiniana) trasversale che avvicina in modo preoccupante il nostro paese all’Ungheria. Il problema è che nel 2023 si vota. E potrebbe non esserci più Draghi, finora l’unico adulto capace di governare gli scalmanati.

Vittorio Ferla.  Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient

·        Quei razzisti come i rumeni.

Nadia Comaneci. Il salto più lungo. Così decisi di fuggire dalla Romania del dittatore Ceaușescu. Nadia Comăneci su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.

Nel libro “Lettera a una giovane ginnasta” (pubblicato dal Saggiatore), la campionessa olimpica Nadia Comăneci racconta la sua carriera atletica, le soddisfazioni e le difficoltà quotidiane di un’epoca complicata. Fino al momento in cui scelse, rischiando, di lasciare il suo Paese.  

Più volte durante il resto delle sei ore mi sentii schiacciata dal peso di ciò che stavo facendo. Non riuscivo a credere che avessi preso la decisione di defezionare, che stavo rischiando la vita e di non rivedere più i miei genitori e mio fratello. Tuttavia, non ho mai pensato di tornare indietro. Dove sarei tornata? In casa mia dove a fatica riuscivo a pagare il riscaldamento? A un lavoro senza prospettive, per farmi trattare come se non avessi mai fatto nulla per il mio paese? Incontro a un futuro che non esisteva? Non equivaleva a morire?

Ci furono vari momenti in cui non credetti alle indicazioni della nostra guida. Diceva: «Se non teniamo la sinistra» finiremo un’altra volta in Romania. Tenete la sinistra, che razza di indicazione era? Volevo vedere una bussola, una cartina o qualcos’altro. Tuttavia non c’era altro da fare nell’oscurità che seguire quel tipo e sperare che sapesse dove stesse andando. Ci disse che dopo aver attraversato cinque metri di terra sporca e nera ci saremmo ritrovati nei pressi della frontiera. Attraversammo tanto sporco, ma nessun confine. È tutto così stupido, ricordo di aver pensato. Finirò ammazzata e tutto per seguire un tipo che non ha il senso dell’orientamento. Tuttavia non dissi nulla, nessuno poteva rompere il silenzio e parlare. Mi concentravo unicamente per evitare che mi battessero i denti.

Ci sono molti luoghi non recintati lungo il confine e liberi da guardie. Un paese non può controllare ogni centimetro quadrato del proprio confine. Avremmo dovuto attraversare la frontiera con l’Ungheria in uno di quei varchi. Così la nostra guida ci avrebbe portati fino alla strada dove ad attenderci con una macchina ci sarebbe stato Constantin. Ma non trovammo mai il punto esatto dove saremmo dovuti passare. Non trovavamo la strada, figuriamoci Constantin! Non ci rendemmo nemmeno conto di aver attraversato la frontiera ungherese, finché non scorgemmo una targa con un lungo nome e tante zeta ed esse. Certamente non si trattava di un nome rumeno. Il nostro gruppo inzaccherato camminava, camminava e camminava, dritto verso due agenti di polizia. Constantin ci disse che, una volta in Ungheria, se avessimo incontrato la polizia dovevamo dire l’unica parola che ci aveva insegnato, ovvero hello. Il fatto è che le guardie vollero andare ben oltre il nostro hello, cominciarono a fare domande e noi li guardavamo come idioti. In più, era abbastanza sospetto vedere un gruppo di sette individui camminare in una strada deserta alle due di notte. Dove diavolo stavamo andando? Le guardie ci chiesero di seguirli. Ci misero in una macchina e ci portarono al commissariato di polizia ungherese. Nel tragitto non volava una mosca. Non perché non potessimo parlare, ma perché eravamo ammutoliti dal terrore. Ciascuno di noi veniva interrogato separatamente.

Quando la polizia vide i miei documenti, mi offrirono immediatamente ospitalità in Ungheria. Ero una ginnasta famosa quindi, ai loro occhi, una bella preda. Quando ripenso oggi a quel momento mi domando perché valessi tanto per loro. La mia carriera era finita e sebbene fossi considerata un’allenatrice molto brava, cos’altro potevo dare all’Ungheria? Anche ad altri due del nostro gruppo venne offerto asilo. Agli altri invece venne detto che sarebbero dovuti rientrare il giorno dopo in Romania. Scoppiarono a piangere. «Ascoltate» dissi alla polizia «rimango solo a condizione che nel vostro paese possa restare l’intero gruppo.» Queste parole uscirono dalla mia bocca prima ancora che potessi soppesare davvero la situazione. La ginnastica mi ha insegnato a fare squadra, in questo caso la mia squadra era composta dai miei compagni di defezione. Ho solo pensato che non fosse giusto. Avevamo corso tutti gli stessi pericoli e attraversato il confine, dovevamo poter rimanere tutti. «Siamo arrivati insieme e insieme resteremo» dichiarai. Con mia totale sorpresa la polizia acconsentì. Non solo, ma a tutti offrirono una sistemazione in hotel per una settimana, finché non ci saremmo ripresi, buoni pasto e persino un aiuto per trovare lavoro. Sapevo che non saremmo rimasti in Ungheria, ma accettammo questa cortesia dal governo, poiché eravamo stremati dal freddo, affamati e avevamo un disperato bisogno di dormire.

Nel frattempo Constantin, vedendo che il piano era andato storto, ci intercettò un attimo prima che lasciassimo la stazione di polizia, disse ai poliziotti che ci avrebbe portato lui in albergo. Tuttavia, ne scelse un altro. Sapeva che i media e la polizia ci avrebbero trovati presto e voleva darci un po’ di tempo extra per riflettere sulla prossima mossa. 

Vedi, amica mia, l’Ungheria non era la nostra destinazione finale. Era troppo vicina alla Romania. Decidemmo tutti assieme di provare a varcare il confine con l’Austria e di chiedere asilo lì.

Passammo una notte insonne, tutti ammassati in una stanza. Al mattino seguente, notai la mia foto sulla prima pagina di un giornale, ma non potevo capire cosa dicesse l’articolo. Sebbene non avessi bisogno di leggere, era abbastanza chiaro che ero già «ricercata» in Romania. Vai avanti, mi dissi, se non vuoi che la logica antidefezione comporti la tua riconsegna da parte degli ungheresi alla Romania. Più tardi quel mattino, il gruppo si divise in due macchine. Constantin ne guidava una e il suo amico l’altra. Eravamo diretti verso la frontiera con l’Austria.

C’erano sei ore di macchina per arrivare al confine austriaco. Nessuno stava seguendo né tenendo d’occhio le nostre macchine. Eravamo un passo avanti agli ungheresi e ai rumeni. Alla frontiera, gli austriaci fermavano le macchine a campione, per controllare i documenti. Constantin decise di lasciarci in un bar mentre avrebbe passato il confine per vedere se veniva fermato.

Al suo ritorno ci disse che era stato fermato e che sarebbe stato troppo rischioso tentare di passare con noi a bordo. Avremmo attraversato il confine da un’altra parte, di notte.

Che posso dire di quel momento? Semplicemente vai avanti e provaci. L’idea di passare un’altra notte nel tentativo di attraversare un confine non era il massimo, ma che altro potevo fare? Constantin ci disse che ci avrebbe atteso ancora una volta oltre il confine. Dovevo credergli, perché non c’erano alternative.

In ginnastica, potevo in qualche misura avere il controllo delle cose, se facevo bene venivo premiata, con l’apprezzamento del mio paese. Ma la vita era un’altra storia e il processo disumanizzante in Romania, nonché i pericoli e le incertezze della defezione mi dimostravano quanto fosse irrisorio il controllo che avevo sulle circostanze della mia vita.

Constantin ci disse dove attraversare la frontiera. Aspettammo il buio per essere pronti e iniziare a camminare. Ero più impaurita della prima volta, forse perché ero a un passo dal mio obiettivo e mancarlo ora sarebbe stato ancora più devastante che l’essere catturati in Romania. Rimani tranquilla, dicevo a me stessa. Concentrati sulla respirazione, sul silenzio e non perderti. Concentrati nel rimanere vigile. C’erano sette reticolati di filo spinato da superare e benché io non ricordi di aver sentito graffiare, il mio corpo si ricoprì di tagli da punte metalliche affilate. Sono incredibilmente coordinata ma è impossibile non restare feriti attraversando del filo spinato. La maggior parte del gruppo era coperto di sangue. Ci vollero circa due ore per superare tutti quei reticolati. Ero stravolta quando raggiungemmo la strada dove avrebbe dovuto raccoglierci Constantin. Ci aveva istruito a restare nascosti poiché sarebbero potute transitare macchine della polizia. Constantin disse che aveva progettato di rompere un faro in ognuna delle macchine, affinché potessimo capire quando uscire dal nascondiglio.

Sdraiati a pancia sotto, nascosti nell’erba, guardavamo ogni macchina che passava, attenti a quella con un faro rotto. Quando ne vedemmo due in fila con un solo faro, saltammo in piedi e ci infilammo nelle macchine. Quella notte, dormimmo tutti sul pavimento in un’unica stanza d’albergo. L’atmosfera in quella stanza, però, non poteva essere più diversa da quella dell’albergo in Ungheria. Finalmente stavamo festeggiando. C’era un’aria di sollievo generale e di gioia piena. Una volta in Austria, tutti tranne me andarono per i fatti loro. La maggior parte del gruppo andò in rifugi per senzatetto. Veniva dato loro un posto dove stare e dormire, in attesa che venisse qualcuno a offrire un lavoro. Una volta ottenuto un lavoro, con un garante, potevano fare richiesta al governo per ottenere la cittadinanza. Ero grata di non trovarmi da sola in un paese straniero di cui non conoscevo la lingua.

Da “Lettera a una giovane ginnasta”, di Nadia Comăneci, Il Saggiatore, 2022, pagine 224, euro 21

Storditi dalla colla per dimenticare la fame: la favela dei bambini rom nell’ex eldorado romeno. In quello che fu il ricco distretto minerario di Baia Mare sorgono le baraccopoli di Craica, il ghetto romanì. La scuola è un miraggio e i piccoli sniffano sostanze tossiche. “Qui lo Stato non mette piede”. Alissa Claire Collavo da Baia Mare - Romania su L'Espresso il 13 giugno 2022.

C’è una linea ferroviaria dismessa che taglia a metà la periferia di Baia Mare, capoluogo della contea di Maramures, terra di confine tra le più povere d’Europa, fino a una ventina di anni fa leggendario eldorado, traino economico dell’intera Romania per via delle risorse minerarie.

Lungo le rotaie, baracche fatiscenti di legno e lamiera, ognuna con la propria recinzione sgangherata, i panni stesi e l’antenna parabolica, dalle quali sbucano curiosi tanti piccoli dai capelli arruffati, sporchi, il volto intenso, corrucciato, a un primo impatto diffidente. Sono i bambini della baraccopoli di Craica, ghetto di lingua e cultura romanì dove i sogni, i progetti e le ambizioni, anche le più semplici, non esistono perché l’infanzia termina presto, soffocata dall’odore dei rifiuti e della colla. «Eppure basterebbe poco, un’istruzione continua, un’applicazione costante», spiega suor Gabriela, insegnante carismatica e appassionata, che ha fatto del futuro scolastico e della crescita personale di questi bambini la sua missione.

Nicoleta saltella con spavalderia tra le assi del binario, dice di avere otto anni, «nu…noua», no nove, si corregge, aiutandosi con le dita delle mani, ma non ne è così tanto sicura. Quando vede la macchina fotografica, si ferma e si mette in posa davanti all’obiettivo, mani sui fianchi e bocca a cuore, come a imitare le it-girl dei social. A scuola non ci va, «nu…nu», ripete stizzita scuotendo il capo, allungando le vocali quasi a volerne allontanare l’idea, «nuuu…nuuu»; dopotutto, non ci vanno nemmeno i suoi coetanei. «È normale». Daniel siede invece su un muretto, la schiena appoggiata a una parete di lamiera, la felpa nera di una squadra americana di basket e l’espressione mogia, triste, lo sguardo perso. Non ha molta voglia di parlare. «Non mi sento bene», sono le uniche parole che riesce a dire; ha appena inalato della colla. Nella baraccopoli la usano in tanti, sollievo istantaneo e dilaniante che permette ad adulti e bambini di evadere per qualche ora da una quotidianità amara fatta di miseria e degrado, abbandono ed emarginazione sociale. Saper leggere e scrivere non serve a nulla; a Craica si impara a sopravvivere. Chi ci vive si trascina dietro, spesso inconsapevolmente, il peso di una storia lunga oltre cinquecento anni, quella dei romanì, «gli zingari», schiavi da sempre, dal 1385, stando ad alcune testimonianze storiche, quando in Europa la schiavitù era ancora una pratica diffusa e legale.

«Gli zingari sono nati per essere schiavi - stabiliva il Codice della Valacchia nel XIX secolo - e chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo». Un destino al quale ancora oggi sono condannati.

«Questa di Craica è una delle sei baraccopoli di Baia Mare», racconta suor Gabriela, mentre costeggia il binario, circondata da decine di bambini: «Viene considerata la più selvaggia per via della droga. Qui sniffano tutti, adulti, bambini, adolescenti; non solo colla, anche le etnobotaniche», ovvero allucinogeni ricavati dalle piante. È una catena difficile da spezzare, lo sa bene il ragazzino che barcolla in punta di piedi sulla barra destra della rotaia, ogni tanto improvvisa un inchino, incrociando le gambe, la destra dietro la sinistra, il cappuccio della felpa a nascondere capo e fronte, le mani e le narici screpolate. Avrà quindici anni, ne dimostra trentacinque. Succede sempre così, «attorno ai dodici, tredici anni, con l’arrivo delle prime mestruazioni, le ragazzine si sposano e fanno figli presto, alcune vengono anche costrette a prostituirsi; i ragazzini iniziano a rubare e ad avvicinarsi alla malavita». Non ci sono regole, «qui lo Stato non mette piede, nessuno viene a controllare e loro non devono rendere contro a nessuno»; e poi «mancano modelli da seguire».

Dopo la caduta di Ceausescu e la fine del regime comunista si è infatti persa una grande occasione per favorire l’integrazione dei rom alla società romena che, d’altro canto, è rimasta diffidente. «Lo Stato non ha fatto nessuna politica di integrazione c’è soltanto un accordo riguardo l’accesso all’istruzione superiore, una sorta di quota che consente a 2-3 ragazzi di etnia romanì di poter frequentare liceo e università anche con voti bassi», spiega suor Gabriela.

Ma non è così semplice, a quei livelli non ci arriva quasi nessuno. Quei pochi che riescono a studiare arrivano alla seconda forse anche terza elementare, ma non hanno vita facile: «Vengono emarginati e presi di mira dagli altri studenti» e finiscono per abbandonare quella che sembra essere una scommessa già persa in partenza. «Qui la gente ha poca fiducia nelle istituzioni», spiega George Jiglau, politologo e professore di scienze politiche all’università Babes-Boyai di Cluj-Napoca, tra le più prestigiose della Romania: «In questa regione c’è ancora un rapporto molto problematico tra cittadini e Stato e le istituzioni più in generale, incluse quelle scolastiche, vengono percepite in maniera negativa». Non è solo un fattore etnico-culturale, ma anche storico dato che nell’era comunista nelle scuole veniva fatta propaganda politica: «Oggi poi c’è un populismo molto diffuso, uno degli strascichi del comunismo».

Nel 2011, dopo quasi un decennio di dibattito politico, è entrata in vigore una legge che porta da otto a quattordici gli anni di scuola dell’obbligo ma il tasso di analfabetismo rimane sempre elevato, soprattutto tra la popolazione rom delle aree rurali. «Sarà un lavoro lungo, i risultati certo non si possono vedere adesso, ma solamente con le prossime generazioni. Servirà molto tempo», puntualizza suor Gabriela. La formula dell’istruzione come strumento di emancipazione e riscatto sociale, unico appiglio salvavita capace di regalare un’opportunità ai bambini di Craica e chissà, «magari anche ai loro figli e ai figli dei loro figli». Con questa motivazione, suor Gabriela, arrivata a Baia Mare sette anni fa da Roman, una cittadina del nord-est della Romania a settanta chilometri dalla ben più nota Iasi, dopo essere stata responsabile di un centro diurno per ragazzi poveri e anziani, trascorre tutti i pomeriggi nelle aule de “La Centrale”, una scuola di strada allestita grazie all’interessamento e alla collaborazione della Fundatia de voluntari somaschi, un centro di educazione per l’integrazione sociale diretto da padre Albano Allocco, torinese, con alle spalle una lunga esperienza in situazioni di emarginazione, definite «difficili». Quest’anno sono riusciti a coinvolgere ottanta bambini: «Alcuni di loro la mattina frequentano persino la scuola ufficiale, ce ne sono due, tre in terza media e sette o otto in seconda media», dice orgogliosa. Suor Gabriela fa quel che può, consapevole che partecipare alle attività, fare gruppo, a questi bambini apre la mente, allarga gli orizzonti ma «non basta» perché molto, se non tutto, «dipende poi dalle famiglie, dall’ambiente circostante».

Nelle baraccopoli le famiglie si amalgamano tra di loro, diventano clan, nuclei ramificati, caotici e complessi dove i padri spesso sono assenti per lavoro o per aver commesso qualche reato, oppure si sono allontanati, anche se di poco, per formare altre famiglie; difficile contarne con esattezza i figli. Qui sono tutti fratelli, supporto e punto di riferimento uno dell’altro, soprattutto i più piccoli, nella buona e nella cattiva sorte. Alle donne, il compito di tenere assieme questa realtà cruda e frammentata, non semplice da gestire, che scivola via, sfugge di mano e per questo diventa più facile sniffare, vendersi, dimenticare. Suzana ha trent’anni e cinque figli, «tre maschi e due femmine», dice indicandoli uno ad uno, dalla maggiore di tredici anni alla più piccola di due. A Craica ci è arrivata giovanissima, «sedici anni fa, dopo essermi sposata con un ragazzo del posto», racconta col sorriso che le illumina il volto, pieno, un fazzoletto bianco a farne il contorno e lo sguardo buono e risolto di chi ha accettato il proprio destino. Eppure sembra avere qualcosa di speciale che la distingue dalle altre donne della baraccopoli e che è riuscita a trasmettere ad almeno due dei suoi ragazzi, Maria e Gageo, «straniero» in lingua romanì, nome, forse solo un soprannome, che gli è stato dato per via degli occhi azzurri, da straniero, appunto. Li manda a scuola, giusto? «Sì, li mandavo fino a qualche mese fa. Ma adesso sono riuscita a comperare loro dei vestiti nuovi, puliti, allora presto ci torneranno», dice. Ma cosa desidera per i suoi figli? «Non so. Difficile immaginare una vita diversa, un futuro fuori da qui».

·        Quei razzisti come i maltesi.

Il gasdotto che unisce l’Italia a Malta e ai misteri del caso Caruana Galizia. FILIPPO TAGLIERI, RECOMMON su Il Domani il 17 ottobre 2022

Il Melita Gas Pipeline è un nuovo gasdotto che partirebbe da Gela, in Sicilia, per finire la sua corsa di 159 chilometri nell’area di Marsaxlokk, sull’isola di Malta.

L’Italia potrebbe vendere a Malta 2 miliardi di metri cubi di gas metano l’anno. Ma c’è anche il risvolto green. Melita dovrebbe gradualmente trasportare anche idrogeno verde e il flusso sarebbe bidirezionale.

Le accuse di Matthew Caruana Galizia, figlio di Daphne: «Il gasdotto è legato all’omicidio di mia madre. Anche a causa di quel progetto, mia madre mi è stata portata via».

Nell’immaginario collettivo Malta è vista come una gemma nel cuore del Mediterraneo, grazie alle sue spiagge meravigliose e alla natura incontaminata. Ma nel sud dell’isola c’è una località che è l’esatto contrario di questa narrazione.

Marsaxlokk è un villaggio, una volta popolato da soli pescatori, dove ora si trova uno dei porti commerciali più grandi del Mare Nostrum. Di fronte al porto c’è una gigantesca nave gasiera (Floating Storage Unit) collegata a terra da un tubo che trasporta il gas liquido verso un rigassificatore. Una volta ritrasformato, il metano viene trasferito nel nucleo principale della Delimara Power Station, che lo brucia per produrre energia per l’isola. A pochi chilometri da Marsaxlokk, dall’altro lato della scogliera, è tutto un trionfo di spiagge e turismo. 

MELITA GAS PIPELINE

Non è detto che questo paesaggio, già di per sé piuttosto inquietante, non possa peggiorare ulteriormente. Proprio nell’area di Marsaxlokk, infatti, dovrebbe approdare il Melita Gas Pipeline. Un nuovo gasdotto che partirebbe da Gela, in Sicilia, per finire la sua corsa di 159 chilometri sull’isola e rifornire la già menzionata centrale elettrica.

L’Italia potrebbe vendere a Malta 2 miliardi di metri cubi di gas metano l’anno. Quasi un paradosso, in un momento in cui il nostro paese è alla ricerca disperata di gas. Ma c’è anche il risvolto green.

Melita dovrebbe gradualmente trasportare anche idrogeno verde, fino al 100 per cento della sua portata. Motivo per cui è entrato nella linea di finanziamento dei progetti di interessi comunitario. In questo caso il flusso sarebbe bidirezionale, ovvero di import ma anche di export. Peccato che nessuno sappia dove e come sarà prodotto l’idrogeno.

Meno dubbi e incertezze ci sono sul fatto che per far registrare un ritorno sull’investimento il gasdotto potrebbe funzionare fino al 2050. I lavori non sono ancora iniziati, dopo la valutazione d’impatto ambientale in Italia sono state segnalate problematiche relative ai fondali di Gela che sarebbero fortemente inquinati anche con presenza di materiale radioattivo.

IL PROGETTO

Secondo i proponenti, però, la costruzione dovrebbe partire a inizio 2023, per una consegna dell’opera prevista nel 2024. Come è facile immaginare, l’italiana Snam è coinvolta nel progetto. Rispondendo alle nostre domande, prima dell’assemblea degli azionisti del 2021, la multinazionale italiana ha detto che «l’intervento di Snam riguarda la sola costruzione dell’impianto di interconnessione con l’opera promossa dal trasportatore maltese. L’opera, sostenendo il phase out dal carbone della generazione elettrica maltese, ha come obiettivo primario la riduzione delle emissioni climalteranti e inquinanti». A Malta, però, non si brucia carbone, né è mai stato usato in passato.

NON SOLO GREENWASHING

Purtroppo la gestione del gas a Malta non è solo un’operazione di greenwashing. Matthew Caruana Galizia è il figlio di Daphne Caruana Galizia, giornalista maltese assassinata esattamente cinque anni fa, oggi guida una fondazione che combatte la corruzione e contrasta le pressioni che i privati esercitano sugli stati. «Dopo aver iniziato a lavorare come programmatore, mi sono dedicato al giornalismo – dice – Mentre seguivo l’inchiesta sui Panama Papers insieme a mia madre, ci siamo imbattuti in una fuga di notizie che riguardava il settore dell’energia a Malta e, in particolare, la privatizzazione della società elettrica maltese».

Il progetto su cui stavano indagando era proprio quello relativo alla centrale a ciclo combinato di Delimara. «Mia madre – continua Caruana Galizia – ha sospettato fin dall'inizio che nel progetto fossero coinvolti la Socar, l’azienda statale azera del petrolio e del gas, e alcune persone di spicco del Partito laburista allora al governo, note per essere corrotte. Anche alcune famiglie di imprenditori di Malta, gli Apap Bologna, i Gasan e i Fenech avevano le mani in pasta, sebbene fossero privi di esperienza nel settore dell’energia». I Fenech sono particolarmente coinvolti nella vicenda dell’uccisione della giornalista, visto che Yorgen Fenech, arrestato nel novembre 2019 mentre cercava di lasciare l’isola sul suo yatch, è accusato di essere il mandante dell’omicidio.

«Mia madre aveva trovato la pistola fumante della corruzione – dice il figlio a distanza di cinque anni dall’attentato – C’era una società di comodo, un’impresa usata solo per veicolare tangenti e nascondere denaro a Dubai per i politici maltesi. La scoperta di questa società, a nostro avviso, ha portato direttamente al suo assassinio nell’ottobre del 2017».

Purtroppo c’è ancora molta strada da fare per arrivare alla verità. «Ci sono tre procedimenti penali: nei confronti dei sicari, delle persone che hanno fornito la bomba e della mente che ha pagato per l’omicidio. Per noi tuttavia ci sarà vera giustizia solo quando saranno trovati i mandanti e coloro che si sono macchiati della corruzione su cui mia madre stava indagando. Altrimenti, si potrebbero ripetere altri omicidi».

Quanto accaduto ha almeno contribuito a smuovere le coscienze. «Durante questi anni ci sono state varie proteste, come nel 2019, quando in tanti sono scesi in piazza perché indignati per il modo in cui i politici locali sono del tutto subalterni agli interessi privati, in particolare dalle famiglie di imprenditori che sono state collegate al progetto della centrale elettrica di Malta», aggiunge Caruana Galizia.

LE ACCUSE

Sulla carta il Melita Gas Pipeline non è collegato agli scandali precedenti, ma per il figlio della compianta giornalista maltese non è così: «Il gasdotto è legato all’omicidio di mia madre. Anche a causa di quel progetto, mia madre mi è stata portata via, perché parliamo di un’opera che non è stata ideata sei mesi fa a causa della guerra in Ucraina, faceva parte del piano fin dall’inizio.

Malta non avrebbe mai avuto un progetto di gasdotto se non fossimo passati al gas. Prima sono arrivati la centrale a gas e poi la nave cisterna, che doveva essere una soluzione a breve termine, o almeno questo è quello che ci hanno detto. Di fatto è stato creato un mercato per giustificare il gasdotto. Quando le persone dietro l’affare hanno coinvolto Siemens e le famiglie d’affari maltesi, hanno fatto in modo di ottenere un pagamento di 100 milioni di euro da dividere tra loro allorché fosse stato realizzato il gasdotto». Accuse che gettano un’ombra su un progetto che vede coinvolte aziende e interessi del nostro paese.

Daphne Caruana Galizia, a  cinque anni dalla sua morte Malta ha ancora un problema di libertà di stampa. BEATRICE PETRELLA su Il Domani il 15 ottobre 2022

La giornalista maltese Daphne Caruana Galizia è stata uccisa il 16 ottobre 2017 da un’autobomba per le sue inchieste sui legami fra il partito laburista e il malaffare locale

Un’inchiesta indipendente ha riconosciuto che il governo laburista ha creato un clima di indebolimento della democrazia che ha avuto un ruolo nell’assassinio

Il governo maltese ha annunciato solo il 28 settembre una riforma che inserirà la libertà di stampa nella costituzione

Cinque anni fa Daphne Caruana Galizia è stata fatta saltare in aria da 400 chili di tritolo nascosti sotto il sedile della sua Peugeot 108. La giornalista è stata uccisa a causa delle sue inchieste sulla politica maltese, in particolare sul partito laburista e i suoi legami con il malaffare locale.

Sul blog Running Commentary ha denunciato per anni la cultura dell’impunità e la corruzione che dilagavano nell’isola: dalla compravendita dei passaporti a imprenditori cinesi e oligarchi russi, alle tangenti che il governo laburista avrebbe incassato per realizzare nuovi progetti energetici.

Caruana Galizia aveva sempre pagato caro il prezzo delle sue inchieste con querele e minacce di morte online e offline. Il 16 ottobre di cinque anni fa stava andando in banca a combattere l’ennesima vessazione: le avevano congelato i conti.

L’IDENTITÀ DEI KILLER 

Due mesi dopo la sua morte sono stati arrestati i killer: sono i fratelli Alfred e George Degiorgio e Vincent Muscat, che ha confessato l’anno scorso in cambio di una riduzione di pena.

Passarenno ancora due anni prima che l’intermediario Melvin Theuma faccia il nome del mandante: Yorgen Fenech, proprietario della 17Black, un’azienda fantasma con sede a Dubai su cui Caruana Galizia aveva indagato otto mesi prima di essere uccisa. 

La giornalista riteneva che Fenech usasse 17Black per versare tangenti milionarie a due società offshore di Panama di proprietà di Keith Schembri e Konrad Mizzi, all’epoca dei fatti rispettivamente ministro dell’Energia e capo di gabinetto di Muscat.

In seguito alle dichiarazioni di Theuma ci sono state proteste in tutto il paese per chiedere le dimissioni di Muscat, che nel 2020 ha ceduto l’incarico all’avvocato laburista Robert Abela.

Oltre a Muscat si sono dimessi anche Keith Schembri, Konrad Mizzi, diventato ministro del turismo del governo Muscat, e Chris Cardona, ministro delle finanze. In passato sono stati tutti oggetto di indagini da parte di Caruana Galizia e in più occasioni l’hanno insultata, se non apertamente minacciata.

RESPONSABILITÀ DELLO STATO

Nel 2021 un’inchiesta indipendente di 437 pagine portata avanti dai giudici maltesi Michael Mallia, Joseph Said Pullicino e Abigail Lofaro non lascia spazio a interpretazioni: il governo laburista di Joseph Muscat ha creato un clima che ha portato al progressivo indebolimento della democrazia.

«Si è creata un’atmosfera di impunità, generata dalle più alte sfere dell’amministrazione all’interno della Castiglia, i cui tentacoli si sono poi estesi ad altre istituzioni, come la polizia e le autorità di regolamentazione, causando il crollo dello stato di diritto» spiega la commissione.

IL FUTURO DELLA LIBERTÀ DI STAMPA A MALTA

Nonostante le raccomandazioni per tutelare la libertà di stampa contenute all’interno dell’inchiesta, i giornalisti continuano a non essere protetti adeguatamente. Nella classifica del World Press Freedom Index, Malta è passata dalla 81esima posizione alle 78esima.

Non si tratta però di un risultato accettabile: mancano ancora cambiamenti strutturali che tutelino i giornalisti. A fine settembre, il primo ministro Robert Abela ha annunciato una riforma costituzionale per proteggere la libertà di stampa.

Il ministro della giustizia Jonathan Attard l’ha definita una decisione storica, che invierà un messaggio forte: in uno stato democratico la libertà di stampa deve essere sempre protetta.

Non tutti sono così entusiasti come Attard. «La riforma è preoccupante e deludente», dice Manuel Delia, attivista e fondatore del blog Truth Be Told. Si limita a considerare il giornalismo il quarto pilastro della democrazia, ma è collocata in una parte della costituzione non applicabile: rimane una dichiarazione. «Riflette molto bene l’atteggiamento del governo nei confronti della stampa: critico e per niente aperto al dialogo» racconta l’attivista amareggiato.

L’EREDITÀ DI DAPHNE CARUANA GALIZIA

Cinque anni dopo l’omicidio la famiglia Caruana Galizia continua a battersi perché la giornalista riceva finalmente giustizia. Così ha organizzato il Daphne Festival, una rassegna di due settimane che si è svolta tra Londra e Malta e che si concluderà oggi con una veglia presso la chiesa di St. Jones a Waterloo dove saranno presenti Reporters without Borders, Article 19, Pen International e Commonwealth Journo. A Malta ci saranno la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, le ong Repubblika, Occupy Justice e il blog Truth Be Told.

L’obiettivo del festival è unire le voci di giornalisti e attivisti da tutto il mondo che continuano a essere vittime di violenze. In occasione di questo anniversario l’eredità di Caruana Galizia è più chiara che mai. «Daphne era una dei pochi giornalisti a fare inchiesta a Malta e la sua morte ha lasciato un grande vuoto», racconta Delia, «ma giornalisti e giornaliste in tutto il mondo hanno voluto portare avanti le sue inchieste all’interno del collettivo Forbidden Stories».

Ma soprattutto «Ha dato nuova energia alla stampa maltese e alla società civile che insieme hanno scoperto un nuovo modo di fare attivismo e di lottare non solo per la verità, ma anche per uno stato democratico che si comporti come tale». BEATRICE PETRELLA

Malta, la Ue e la morte impunita di Daphne Caruana. Manfred Weber su Il Giornale il 18 ottobre 2022. 

Era un pomeriggio maltese altrimenti normale. Una di quelle belle giornate miti, tipiche di fine estate, caratterizzate dal sole, circondate dalla poetica bellezza del cielo azzurro. Era cinque anni fa oggi.

Ha postato un post sul blog dal suo salotto, ha preso le chiavi, è uscita di casa, è entrata nella sua auto, ha guidato per pochi metri e poi è successo. L'esplosione ha attraversato l'isola e ha viaggiato in lungo e in largo anche oltre la nostra immaginazione più sfrenata. La giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia è stata assassinata, ma la sua leggenda continua a vivere. Quello potrebbe essere stato il suo ultimo post sul blog, ma non era certamente l'ultima parola. Un Primo ministro socialista maltese ha dovuto dimettersi da allora a causa sua e così hanno fatto due dei suoi ministri. Eppure, in quel fatidico giorno, una ferita si spezzò; una ferita aperta nell'inconscio collettivo maltese.

Sotto il governo socialista, Malta è diventata un problema strutturale dello stato di diritto per l'Europa. Giustizia ritardata, giustizia negata. La sua famiglia e i suoi amici, Malta e l'Europa, hanno atteso risposte per cinque lunghi anni. Cinque anni dopo, non siamo al corrente delle indagini sul coinvolgimento dei politici maltesi nell'omicidio. Non sappiamo se la polizia maltese abbia confiscato il telefono cellulare e il computer del vice capo della polizia maltese che avrebbe trasmesso informazioni sull'omicidio al presunto assassino stesso. Nonostante la copertura politica che i socialisti al Parlamento europeo hanno dato al governo maltese, ci sono ancora troppe domande senza risposta. Il silenzio è assordante. La verità e la giustizia a Malta rimangono ancora bloccate e il puro ostruzionismo alla giustizia è sistematico e soffocante. Poi c'è la questione spinosa dell'impunità ai massimi livelli.

Nel corso degli anni, Daphne Caruana Galizia aveva scoperchiato una montagna di prove sulla corruzione dell'ex Primo ministro socialista maltese Joseph Muscat, il suo capo di gabinetto, Keith Schembri e un suo ministro, Konrad Mizzi. Eppure sembrano ancora fare i loro affari come se nulla fosse accaduto. Perché non c'è stato un solo procedimento giudiziario? Ha detto la verità al potere. Era impavida e oggi sappiamo che è stata assassinata per il suo lavoro investigativo sulla corruzione dentro al governo maltese. Quando Malta si libererà dell'impunità? Più di un anno fa, un'inchiesta indipendente a Malta ha rilevato che lo Stato di Malta è esso stesso responsabile dell'assassinio di questa giornalista. Uno Stato ritenuto responsabile dell'assassinio di un giornalista indipendente è, per definizione, in grave violazione dello Stato di diritto, che è tra i valori sanciti dall'articolo 2 del Trattato sull'Unione europea.

Lungi dall'assumersi alcuna responsabilità, lo Stato maltese non ha intrapreso alcuna azione significativa per attuare le numerose raccomandazioni derivanti dall'inchiesta. Come possiamo guardare dall'altra parte? Malta non è anche un paese dell'Unione europea? E che dire dei socialisti al Parlamento europeo? Non hanno un ruolo da svolgere? Sono a loro agio con il Partito Socialista Maltese tra le loro fila? L'ultima volta che la loro leader Iratxe Gárcia Pérez si è recata a Malta, ha evitato di menzionare Daphne Caruana Galizia quando si trovava accanto al Primo ministro Abela. E il Commissario europeo socialista Frans Timmermans? Quando ne ha parlato l'ultima volta? Il Gruppo PPE rimane fermo nella sua ricerca di giustizia per Daphne e per porre fine all'impunità a Malta una volta per tutte. Ecco perché continueremo a iscrivere la questione all'ordine del giorno del Parlamento europeo come faremo questa settimana, per tutto il tempo necessario, per trovare giustizia per Daphne.

*presidente del gruppo del Partito popolare europeo e presidente

del Partito popolare europeo

**capo delegazione di Forza Italia al Parlamento europeo

La giornalista uccisa con una bomba sulla sua auto nel 2017. Omicidio Daphne Caruana Galizia, condannati a 40 anni di carcere i fratelli Degiorgio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Ottobre 2022 

I fratelli George Degiorgio e Alfred Degiorgio sono stati condannati a 40 anni di carcere nel processo sull’omicidio della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia. La giornalista era stata uccisa da una bomba collocata sulla sua auto il 16 ottobre 2017, aveva 53 anni. Caruana Galizia era una delle giornaliste più conosciute a Malta.

La professionista aveva realizzato diverse inchieste sulla corruzione e soprattutto sull’evasione fiscale internazionale sull’isola. Del tema se ne era parlare molto per via dei Panama Papers, i documenti riservati che avevano rivelato una rete internazionale di società offshore e loro beneficiari. Caruana Galizia era stata la prima a rivelare il coinvolgimento di importanti membri del governo dell’allora primo ministro Joseph Muscat.

La sentenza, a poche ore dall’inizio del processo, è stata emessa dalla giudice Edwina Grima. A fare notizia l’ammissione di colpevolezza dei due fratelli di 59 e 57 anni visto che solo ieri mattina si erano proclamati non colpevoli. Hanno evitato così l’ergastolo: con la buona condotta potrebbero tornare in libertà dopo aver scontato 25 anni

Lo scorso 5 luglio George Degiorgio aveva confessato di aver avuto un ruolo nell’attivazione della bomba, era accusato di aver eseguito l’omicidio su mandato dell’imprenditore maltese Yorgen Fenech. A proclamarsi colpevole, già nel 2020, era stato Vince Muscat che aveva collaborato con gli inquirenti e ottenuto una pena di 15 anni di carcere.

L’imprenditore Fenech è stato rinviato a giudizio nell’agosto 2021 con la richiesta di ergastolo da parte dell’accusa cui vanno aggiunti i trent’anni di carcere per l’accusa di associazione a delinquere. Resterà in carcere fino alla sentenza.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Omicidio Caruana Galizia: sicari confessano, condannati a 40 anni. Massimo Balsamo il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.

I fratelli George Degiorgio e Alfred Degiorgio piazzarono la bomba che fece saltare in aria l'auto della giornalista il 16 ottobre 2017. Il premier Abela: “Sarà fatta piena luce su tutto”

Un’altra importante sentenza per la morte di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese uccisa il 16 ottobre 2017. I fratelli George Degiorgio (59 anni) e Alfred Degiorgio (57 anni) hanno ammesso la loro colpevolezza e sono stati condannati a 40 anni di reclusione. I due sicari hanno confermato di aver fabbricato, piazzato e fatto esplodere l’ordigno che cinque anni fa uccise la cronista 53enne.

40 anni ai sicari di Daphne Caruana Galizia

Come riportato dal Times of Malta, George e Alfred Degiorgio hanno ritirato la dichiarazione di “non colpevolezza” per strappare una sentenza più clemente (rischiavano due ergastoli). Il tribunale maltese ha confermato la sentenza proposta dalle parti: 40 anni dietro la sbarre - con l'ipotesi di future riduzioni per buona condotta - e il pagamento di 42.930 euro ciascuno.

Un altro passo verso la giustizia per la morte della Caruana Galizia, uccisa per le sue inchieste sulla corruzione tra i circoli politici ed economici del Paese, noto paradiso fiscale nel Mediterraneo. Nel 2015 la giornalista aveva acceso i riflettori su un patto corruttivo tra il tycoon Yorgen Fenech, l'ex capo di gabinetto Keith Schembri e l'ex ministro dell'energia e del turismo Konrad Mizzi.

Salgono così a quattro i colpevoli materiali accertati per l’omicidio di cinque anni fa. Oltre ai fratelli Degiorgio, sono già stati condannati il complice Vince Muscat (ha patteggiato a 15 anni) e il mandante Yorgen Fenech (il processo partirà entro la fine dell’anno). Condono tombale, invece, per l’intermediario Melvin Theuma: come ricordato dall’Ansa, è stato lui a “consegnare” il tycoon.

“Un altro passo verso la giustizia”

Tra i primi a commentare la sentenza, il premier maltese Robert Abela si è detto soddisfatto: "La sentenza di oggi è un altro importante passo avanti verso la giustizia per la famiglia Caruana Galizia. Ora ci sono tre persone condannate per questo omicidio e tre altre in attesa di processo. Restiamo determinati a far sì che piena giustizia sia fatta, per la famiglia e per Malta". La condanna ai fratelli Degiorgio è solo un piccolo passo secondo Roberta Metsola: “Ora avanti con quelli che hanno ordinato e pagato l'omicidio, con chi li ha protetti e quelli che hanno passato due anni facendo tutto il possibile immaginabile per cercare di insabbiare tutto”, le parole della presidente del Parlamento europeo. I figli di Daphne Caruana Galizia hanno accolto con favore la sentenza. “Cinque anni sono troppo, cinque anni sono troppi”, il breve commento di Matthew all’uscita dal tribunale, in riferimento al tempo trascorso dall’omicidio alla condanna.

·        Quei razzisti come i greci.

Stefano Lepri per lastampa.it il 16 agosto 2022.  

Il caso greco è chiuso. Dopo oltre 12 anni dallo scoppio della crisi che più ha invelenito gli europei gli uni contro gli altri, terminerà il 20 agosto la «sorveglianza rafforzata» delle autorità europee sulla Grecia. E uno studio dall'America ci dice, inaspettatamente, che alla fine la soluzione è convenuta a tutti, nordici rigoristi e meridionali indulgenti.

Alla Germania mandare la Grecia in fallimento avrebbe addossato, come Angela Merkel seppe capire, un costo superiore. Da parte loro, i greci si devono rendere conto che ai pesanti sacrifici da loro sopportati ha corrisposto un soccorso imponente dagli altri Paesi dell’area euro, molte volte superiore a quello offerto agli altri Paesi in crisi, Irlanda, Portogallo, Cipro. 

Ad Atene, un cerchio si chiude: il primo ministro che si onora dell’annuncio, Kyriàkos Mitsotakis, appartiene allo stesso partito di centro-destra, Nuova Democrazia, che al governo nel 2009 spinse il Paese sull’orlo del baratro con spese pazze, nel tentativo fallito di non perdere le elezioni. Dopo i continui rovesciamenti negli anni della crisi, la politica greca pare stabilizzata. Tre anni dopo il voto, Mitsotakis pur avendo ridotto il deficit pubblico mantiene lo stesso livello di consenso; una decina di punti sotto resta la principale forza di opposizione, Sýriza, guidata da Alexis Tsipras.

«Grazie ai sacrifici e alla capacità di recupero del suo popolo, il futuro della Grecia nel cuore della nostra Unione è assicurato» ha twittato il commissario europeo agli Affari monetari, Paolo Gentiloni. Di rancori ne rimangono; ma ci sono le condizioni perché la solidarietà tra le nazioni dell’euro torni a prevalere. In Germania si è attenuato il ricordo delle esagerazioni demagogiche sul costo degli aiuti; la Grecia ancora non ha recuperato tutto quello che ha perso nella crisi, ma è comunque circa al livello di 20 anni fa, non peggio dell’Italia insomma.

Significativo è appunto lo studio pubblicato la settimana scorsa dalla Federal Reserve, la banca centrale americana, opera di Pierre-Olivier Gourinchas, francese, ora capo economista del Fmi, e di due colleghi. Conclude che la maniera migliore, o meno peggiore, di tenere insieme l’area euro è proprio quella che è stata, tra incertezze ed errori, adottata: decidere il salvataggio dei Paesi indebitati caso per caso, e in cambio di condizioni. 

Alla nascita dell’euro si era proclamato che i Paesi troppo indebitati non sarebbero stati soccorsi. Se si fosse mantenuto l’impegno, la Grecia sarebbe fallita provocando una rottura dell’euro e gravi danni per tutti i Paesi. Se al contrario si stabilisse in anticipo che i salvataggi si fanno, i governi sarebbero indotti all’irresponsabilità. Meglio dunque, affermano Gourinchas e coautori, cercare una linea intermedia.

Nei calcoli dello studio Fed, il trasferimento reale di risorse dagli altri Paesi euro (Italia compresa) alla Grecia è stato pari al 43,7% del Pil ellenico; mentre il Portogallo ha avuto appena il 3%. Logico che ai greci si chiedesse di fare la loro parte. Al di là delle esagerazioni mai provate sui malati lasciati morire senza medicine a causa dell’austerità, l’errore ormai riconosciuto è che si chiese un risanamento di bilancio troppo brusco. Nella pesantissima recessione si arrivò quasi a un 28% di disoccupati. Ora, nonostante i tristi ricordi di quegli anni, in Grecia c’è una solida maggioranza di europeisti. E, guarda un po’, lo “spread” è suppergiù allo stesso livello dell’Italia.

Francesco De Palo per “il Giornale” il 21 agosto 2022.  

La Commissione Europea plaude ad Atene che finalmente esce dal monitoraggio previsto dal protocollo dei salvataggi, ma l'austerità ha comunque lasciato dei segni sul circuito sociale del paese: ecco le luci (geopolitica e hub energetico) e le ombre (iva alle stelle e inflazione) del panorama greco. 

La Grecia ha regolarmente pagato la tranche di agosto al Fondo Monetario Internazionale e, nonostante il programma di emissione obbligazionaria sensibilmente «ridotto» rispetto allo scorso anno a causa della crisi, i fondi disponibili ammontano a ben 37 miliardi di euro. Grandi riserve di liquidità, quindi, sono un buon viatico per affrontare il prossimo periodo, che si caratterizza per l'aumento del costo della vita: il governo ha così deciso, all'interno del bilancio per il 2023, di stanziare un accantonamento per interessi da 4,5 miliardi.

A mordere le caviglie dei cittadini c'è l'inflazione che è al livello più alto degli ultimi 30 anni, con i salari ancora bassi. Buone le performance economiche, come il livello di disoccupazione sceso al 12,8% mentre durante la crisi era giunto al record del 28%. La Commissione Europea prevede una crescita del 4% nel 2022 e del 2,4% nel 2023 mentre il PIL quest' anno supererà i 200 miliardi e il rapporto debito/PIL scenderà al di sotto del 180%. 

Per questa ragione il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, per la prima volta dopo due lustri, ha promesso di aumentare le pensioni dopo il caos finanziario.

Altro punto forte il turismo, che quest' anno dovrebbe sfondare i numeri record del 2019, superando i 30 milioni di visitatori: si tratta di una delle migliori stagioni turistiche di tutti i tempi che dà lavoro a più di un milione di greci, anche se proprio in quel settore rimane alto il tasso di evasione fiscale con il governo che impiega finanche i droni su alcune isole per controllare chi non emette scontrini e ricevute.

Oltre alle congratulazioni di Ursula von der Leyen e Charles Michel, anche il commissario all'Economia, Paolo Gentiloni, ha festeggiato l'uscita della Grecia dal regime di vigilanza rafforzata: «Grazie ai sacrifici e alla perseveranza del suo popolo e alla determinazione delle autorità, la Grecia chiude oggi un capitolo difficile della sua lunga e orgogliosa storia. Atene ha attuato efficacemente riforme chiave per rafforzare la sua economia e le finanze pubbliche. I suoi risultati sono tanto più lodevoli dato che questo periodo è stato caratterizzato da due gravi shock esterni: la pandemia di COVID-19 e l'invasione russa dell'Ucraina».

Grazie alle riforme del governo conservatore si moltiplicano le presenze internazionali, con colossi come Tesla, Pfizer e Snam che investono massicciamente nell'Egeo. Alla voce geopolitica ci sono altri positivi dividendi: la Grecia, sotto l'ombrello di Washington, è diventato uno strategico energy-hub con l'isola deposito di Revithoussa dove arriva il Gnl americano e per via della centrale ad Alexandroupolis da dove passa l'interconnector Grecia-Bulgaria (IGB), l'interconnector Grecia-Macedonia del Nord e il TAP. Proprio nel momento in cui la Turchia fa uno sgarbo agli Usa annunciando l'acquisto di un secondo lotto di S-400 dalla Russia, ecco che Atene può ergersi a piattaforma ideale per gli interessi a stelle e strisce tanto nel Mediterraneo orientale quanto nel costone balcanico.

Lo dimostra, ancora di più, la recente visita al porto di Alexandroupolis del presidente della Commissione Relazioni Estere del Senato Usa, il repubblicano Robert Menendez. Il senatore, accompagnato dall'ambasciatore americano ad Atene, George Tsounis, ha visitato il sito portuale diventato strategico sia per il dossier energetico, che per l'utilizzo da parte di truppe della Nato osservando che «gli Usa devono essere chiari: qualsiasi ampliamento dei legami della Turchia con il settore della difesa russo sarebbe un errore».

IL SACRIFICIO DI UNA GENERAZIONE. La crisi del debito è finita. Dopo 12 anni la Grecia  esce dalla sorveglianza Ue. VITTORIO DA ROLD Il Domani il 12 agosto 2022

Da sabato prossimo, 20 agosto, la Grecia uscirà dal regime di sorveglianza rafforzata Ue a cui è sottoposta dal salvataggio del 2010. Dopo 12 anni di austerità, tagli al welfare e scontri di piazza con banche bruciate e impiegati morti all’interno, la decisione segna la fine della crisi del debito.

Atene ha ottenuto prestiti per un totale di oltre 260 miliardi di euro, dall'Ue e dal Fmi tra il 2010 e il 2015. Una cifra enorme che non è mai arrivata nelle mani dei greci, ma è stata solo una partita di giro, per pagare i debiti sovrani, cioè privilegiati.

La verità storica è che il pesante sacrificio sociale di una intera generazione della Grecia ha salvato l’euro dalla disintegrazione  e posto le basi del Next Generation Eu. 

Estratto dall’articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 9 agosto 2022.

Per Kyriakos Mitsotakis è scattata l'ora più buia. Il primo ministro greco festeggiato per anni in Europa come l'enfant prodige dei conservatori, è apparso ieri in tv con aria mesta e si è trincerato dietro l'unico sottile muro che lo separa ormai dalle dimissioni: «Non ne sapevo niente». Il leader di Nea Dimokratia è sospettato di aver architettato una rete di spionaggio talmente estesa da rasentare la paranoia. 

Quattordicimila persone sarebbero finite, ignare, nel mirino di un Grande fratello greco. Impigliate nella colossale tela della sorveglianza di Stato attraverso un combinato disposto di intercettazioni "classiche" dell'intelligence e tentativi di estorcere ulteriori informazioni attraverso un software pirata con un nome che è già un programma, "Predator".

Tra le vittime eccellenti di questa inquietante Spectre ci sono il leader del Pasok, Nikos Androulakis, e un giornalista d'inchiesta, Thanais Koukakis. Il terremoto ha già costretto alle dimissioni il capo dei servizi segreti, Panagiotis Kontoleon, e il capo di gabinetto di Mitsotakis, Grigor Dimitriadis. Ma che quest' ultimo sia nipote del premier sembra ormai il dettaglio più innocuo di questa "Watergate greca", come l'ha battezzata l'ex premier e leader di Syriza, Alexis Tsipras.

Interpellato da Repubblica , il parlamentare del Pasok, George Kaminis, si infuria: «Come fa Mitsotakis a non sapere? Appena nominato premier, nel 2019, ha avocato a sé la delega ai servizi segreti. E la scorsa primavera ha varato una legge che cancella l'obbligo di avvertire gli intercettati che finiscono nel mirino dei servizi. Uno scandalo nello scandalo ». Anche l'ex premier, George Papandreou definisce "inaccettabile" l'atteggiamento di Mitsotakis. […] 

In questo 2022 funestato dalla guerra alle porte d'Europa, in Grecia sembra scoppiata però la più oscura storia di spionaggio dai tempi della dittatura dei colonnelli, quando la sorveglianza era un'invasiva prassi di Stato. Ed è una storia cominciata quasi per caso.

Nel 2021 l'europarlamentare Androulakis, all'epoca solo candidato alla leadership dei socialisti greci, consegna il suo telefonino ai tecnici del Parlamento di Strasburgo. È un controllo di routine per capire se il cellulare è sorvegliato; un servizio di cui possono approfittare i parlamentari Ue. I tecnici lanciano immediatamente l'allarme: trovano un link sullo smartphone che nasconde il virus- spia "Predator", capace di infestare le sue mail, le sue chat, i suoi social media. […]

Il 29 luglio il capo dell'intelligence Kontoleon ammette in un'audizione a porte chiuse che anche l'intelligence sta spiando i greci, e ammette in particolare di aver messo nel mirino Androulakis e il giornalista Koukakis. Sul leader dei socialisti, insomma, è scattata una doppia sorveglianza. E fonti governative, per giustificarla, adducono una motivazione incredibile. L'incursione ai danni di Androulakis sarebbe stata ordinata da servizi segreti stranieri, in particolare ucraini e armeni, preoccupati dei suoi presunti legami con la Cina. […]

Svelò la Sanitopoli di Atene. Dopo 5 anni la vendetta e la pm è finita sotto accusa. Elena Kaniadakis su L'Espresso il 9 Agosto 2022 

Eleni Touloupaki ha condotto l’indagine sulla rete di tangenti pagate da Novartis Hellas a trentamila sanitari e amministratori per far lievitare i prezzi e imporli nella Ue. Ma i politici l’hanno fatta franca

Il primo gennaio del 2017 un manager di Novartis saliva sulla terrazza panoramica dell’hotel Hilton di Atene e minacciava di gettarsi nel vuoto, prima di essere dissuaso dall’intervento della polizia. Poco dopo, la procura anticorruzione rendeva noto di stare indagando su un presunto sistema di tangenti grazie al quale Novartis Hellas, la filiale greca della potente casa farmaceutica con sede a Basilea, avrebbe corrotto medici e politici per aumentare la prescrizione dei propri farmaci e mantenere alto il loro prezzo. Lo scandalo ottenne presto risonanza internazionale poiché all’epoca la Grecia era il Paese di riferimento per fissare il prezzo dei farmaci in 30 Stati, tra cui quelli europei. 

 In quegli anni il Paese stava attuando le riforme imposte dalla Troika con conseguenze drammatiche sul sistema sanitario nazionale: negli ospedali i medici denunciavano di non avere il filo per le suture e di essere a corto dei macchinari per eseguire le Tac.

Da allora sono passati cinque anni: la Grecia si è lasciata alle spalle gli anni bui della crisi del debito, ma il caso Novartis rimane aperto. Quello che per il partito di sinistra Syriza è «il più grande scandalo della storia dello Stato moderno» di cui ancora non si conoscono i colpevoli, per il governo conservatore di Nea Dimokratia è, al contrario, «una cospirazione», ordita da giornalisti e procuratori per infangare gli avversari politici. Il caso è tornato a infuocare il dibattito parlamentare e promette di alimentare lo scontro tra i partiti in attesa delle elezioni della prossima primavera. 

 Tra i protagonisti di questa storia figura la procuratrice più famosa di Grecia: Eleni Touloupaki, chiamata a guidare dal 2017 al 2020 l’unità anticorruzione con l’obiettivo di fare luce sullo scandalo. Accusata dagli esponenti del governo di avere agito in combutta con la sinistra, per molti cittadini rappresenta invece il volto nobile di un Paese a lungo incapace di fare i conti con la propria corruzione endemica. Nello studio del suo avvocato di Atene, la procuratrice si dice convinta di come la strategia criminale di Novartis abbia leso il diritto alla salute di tutti i cittadini europei.

«Migliaia di greci sono stati privati dell’assistenza sanitaria», racconta la procuratrice. «Ma anche l’Unione europea ha subito un durissimo colpo poiché all’epoca la Grecia era il Paese di riferimento per definire il costo dei medicinali: il sovrapprezzo dei farmaci ha quindi gravato sui bilanci degli Stati membri. Questa è stata l‘intuizione geniale di Novartis: provocare l’impennata dei prezzi in Grecia in modo da arricchirsi anche negli altri Paesi». 

 Fondamentali alle indagini sono state le rivelazioni di due ex dirigenti della casa farmaceutica, ancora oggi protetti dall’anonimato, e di un consulente del ministero della Salute. I programmi aziendali denunciati dagli informatori celavano dietro a nomi come «Exactly» e «Harvard» un’inquietante strategia con la quale Novartis sarebbe riuscita a affermarsi come la prima casa farmaceutica in Grecia negli anni più duri della crisi. Caposala, professori universitari, dottori di studi privati: l’azienda avrebbe intessuto a partire dal 2006 una rete di 30mila medici da corrompere con il pagamento di tangenti per ottenere la prescrizione di medicinali come il Diovan, farmaco per la pressione alta, o il Lucentis, con cui curare malattie dell’occhio. Secondo gli informatori, i medici sarebbero stati incentivati a prescrivere i farmaci anche a pazienti che non ne avevano bisogno. Le rivelazioni, però, non hanno travolto solo il mondo sanitario: anche ministri e politici sarebbero stati corrotti per mantenere alto il prezzo di molti farmaci. Grazie al sistema delle tangenti, inoltre, quando nel 2013 la Troika vietava al Paese di omologare nuovi medicinali per via dei tagli alla spesa pubblica, la Novartis sarebbe riuscita a fare introdurre nel mercato dieci suoi prodotti.

Quando nel 2017 Touloupaki è stata chiamata a guidare la procura anticorruzione aveva fama di essere una strenua combattente dell’evasione fiscale: documenti fondamentali come la «lista Lagarde» e i «Panama papers» avevano occupato la sua scrivania negli anni precedenti. Nel 2018, quando il partito di Syriza era al governo con Alexis Tsipras, le indagini della procura si sono concentrate su dieci politici, soprattutto ex ministri, appartenenti a Nea Dimokratia e al partito socialista del Pasok. Poi sette casi sono stati archiviati per mancanza di informazioni e nel 2020, un anno dopo la salita al governo del partito conservatore, l’unità anticorruzione è stata chiusa per legge. Oggi l’unico politico accusato di avere ricevuto tangenti è Andreas Loverdos, ex ministro della Salute eletto nel Pasok, il quale si professa innocente e attende di scoprire se verrà rinviato a giudizio o se il suo caso sarà archiviato. 

 Oltre l’Oceano Atlantico, invece, le indagini hanno preso una piega diversa. Prima di essere chiamati a testimoniare dalla procura greca, gli informatori avevano denunciato il sistema alle autorità statunitensi, autorizzate a indagare sull’operato di Novartis poiché la casa farmaceutica è quotata nella Borsa di New York. Le indagini dell’Fbi si sono concluse due anni fa, quando l’azienda ha ammesso di avere pagato tangenti ai medici, ha puntato a un accordo extragiudiziale e ha versato un risarcimento di 345 milioni di dollari alle autorità statunitensi per avere violato il Foreign corrupt practices act, la legge che vieta alle aziende di corrompere funzionari all’estero. Nell’accordo si menzionava il pagamento di tangenti ai medici, ma non ai politici greci.

 Poi, lo scorso gennaio, nel Paese che si fregia del titolo di culla della democrazia, gli accusatori si sono trasformati in accusati: quattro giornalisti greci noti per essersi occupati a lungo dello scandalo, Touloupaki e l’ex ministro della giustizia di Syriza Dimitris Papangelopoulos sono stati indagati per «cospirazione», «associazione per delinquere» e «abuso di potere». 

 Un’intimidazione politica, per gli accusati: «Fin dall’inizio, quando le indagini si sono concentrate sui piani alti delle istituzioni, l’intero sistema si è mobilitato per ostacolarle» sostiene Touloupaki. «Lo scandalo doveva essere coperto a tutti i costi perché la posta in gioco è enorme: le persone ritenute colpevoli sarebbero chiamate a rispondere delle loro azioni anche in altri Stati».  

A inizio luglio, infine, i giornalisti sono stati assolti da tutte le accuse; tra questi c’era Kostas Vaxevanis, editore del principale settimanale d’inchiesta greco, Documento, secondo il quale «queste intimidazioni sono la prova evidente del coinvolgimento della classe politica: altrimenti perché gli stessi testimoni ritenuti fondamentali dall’Fbi nel nostro Paese vengono definiti dei millantatori?».

La sentenza ha anche stabilito che le indagini di Touloupaki sul caso Novartis sono state condotte legittimamente, ma la procuratrice è ancora accusata di abuso di potere per non aver trasmesso in modo tempestivo al Parlamento un fascicolo relativo a un’altra vicenda: «Un’accusa palesemente infondata», per la procuratrice: «Destinata a cadere nel vuoto come tutte le altre». Anche all’ex ministro di Syriza si contesta l’abuso di potere per vicende non correlate a quella di Novartis; nel commentare la sentenza in Parlamento il premier Kyriakos Mitsotakis ha ribadito: «Syriza ha tentato di interferire nel sistema giudiziario per colpire gli avversari politici, ma la democrazia ha resistito».

 Il primo ministro ha poi chiarito come per Nea Dimokratia il caso sia «chiuso» ma ora le ultime mosse dell’esecutivo potrebbero riaprire la vicenda: un mese fa il governo ha annunciato di avere fatto causa al gigante farmaceutico con l’obiettivo di ottenere un risarcimento di 214 milioni di euro per i «danni non patrimoniali subiti a seguito delle azioni che la stessa Novartis ha ammesso, negli Stati Uniti, di aver compiuto e che riguardano il pagamento dei medici».

Interpellata, Novartis Hellas fa sapere attraverso il suo ufficio stampa che l’azienda «continua a collaborare con le autorità greche nelle indagini. L’accordo del 2020 tra la casa farmaceutica e il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha posto fine alle indagini ai sensi della legge statunitense, e l’azienda si riserva il diritto di difendersi da eventuali accuse in modo conforme all’ordinamento giudiziario greco. Novartis ribadisce il suo impegno a garantire l’accesso alle cure ai pazienti bisognosi».

 Per Touloupaki la mossa del governo è dettata dalla necessità di riscattare la propria immagine a livello internazionale dopo anni di inazione. L’esito dell’iniziativa è ancora incerto, ma ciò di cui la procuratrice è convinta è che la recente assoluzione di giornalisti e procuratori traccia una strada a senso unico per la ripresa delle indagini. «Se il sistema responsabile di avere favorito e poi tentato di nascondere lo scandalo non verrà smantellato continuerà a erodere le istituzioni e, di conseguenza, a danneggiare l’economia dell’Unione europea. La sfida di Davide contro Golia – sostiene la procuratrice – non è finita».

·        Quei razzisti come i serbi.

Il feroce assedio di Sarajevo raccontato da chi c'era. Fausto Biloslavo l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.

In quattrocento pagine l'orrore della guerra in Bosnia. E tutto l'odio che cova ancora sotto la cenere della pace.

«Una volta dentro bisogna diventare bestie per scoprire di cos'è capace la razza umana () Le pareti d'argilla nera sudano e fumano. E i corpi sputano umido e sudore piegati sotti i basti () Gli uomini stringono la sigaretta tra i denti, come gli asini da soma il morso». Così viene descritto in Maledetta Sarajevo il tunnel che ufficialmente non esiste scavato sotto la pista dell'aeroporto. Un budello sotterraneo di 760 metri, martellato inutilmente dall'artiglieria serba, che è la vena giugulare della città nei tre anni di assedio. Il canale di rifornimento segreto dove entrano armi, munizioni, il carburante prezioso come l'oro, viveri e generi di prima necessità della borsa nera per la sopravvivenza dei fantasmi di Sarajevo. Ed escono, dalla trappola della prima guerra in Europa dopo il 1945, qualche ferito, pochi profughi grazie a mazzette di marchi tedeschi e pure l'ambasciatore americano.

Nel maggio del 1995, verso il tragico epilogo della guerra in Bosnia, mi infilo nel tunnel scavato dalle talpe di Allah assieme a Marzio Mian, coautore con Francesco Battistini di Maledetta Sarajevo (Neri Pozza, euro 19). Quattrocento pagine scritte da giornalisti di razza sul carnaio scoppiato, trent'anni fa, nel cuore della Jugoslavia di Tito che si sgretola alle porte di casa nostra.

«Il Vietnam d'Europa» recita il sottotitolo, ma il libro non è solo un resoconto di guerra. Le pagine scorrono immergendoti nel sangue versato a fiumi e pure nella storia e psicologia dei protagonisti sia boia, che vittime. Il doctor K è Radovan Karadzic, lo psichiatra, poeta e fautore dell'incendio di Sarajevo, ducetto politico dei serbi di Bosnia durante l'assedio e pure dopo, per qualche anno, nonostante il mandato di cattura del Tribunale de L'Aja sull'ex Jugoslavia per genocidio e crimini di guerra. Doctor K, lo chiamano così i secondini del supercarcere dell'isola di Wight, dove sconta l'ergastolo. Lo scoop del libro sono le risposte scritte, disseminate fra le pagine, e inviate da Karadzic agli autori proprio dalla sua cella di due metri per tre. Il genocidio di Srebrenica lo nega ancora, ma qualche rivelazione si mescola a frasi a effetto, che fotografano perfettamente il punto di non ritorno del 1992 a Sarajevo. «A un certo punto ci accorgemmo che nemmeno i gatti dei musulmani andavano d'accordo con i gatti dei serbi - scrive il doctor K - Non potevamo permettere che i turchi ci tagliassero la gola».

La galleria degli orrori serbi è ben documentata: da Arkan, il capo delle Tigri, paramilitari che massacrano i civili a Bjielina in favore di macchina fotografica al ponte della morte di Visegrad, dove i tagliagole lanciano i figli nel vuoto davanti alle madri facendo tiro a segno con i corpi portati via della corrente della Drina. Se i serbi si sporcano le mani di sangue più di altri, croati e musulmani compiono pure le loro porcherie. Vicino a Sarajevo c'è il lager di Celebici, dove le vittime di torture, stupri e giochi sadici sono serbe. Slobodan Praljak, croato dell'Erzegovina con tre lauree in ingegneria, filosofia e arte drammatica dà l'ordine di frantumare a colpi di cannone il ponte di Mostar. Il gioiello architettonico turco era composto solo da pietre, ma è carne viva quella dei prigionieri musulmani «in uno stato terrificante: scheletrici, la pelle butterata, gli occhi sbarrati». I più fortunati muoiono subito colpiti dalle raffiche che ogni tanto le guardie croate sparano a casaccio nel campo di concentramento di Dretely. Altri sono condannati a scavare trincee allo scoperto fino a quando non crollano per sfinimento o per un colpo di mortaio.

Nell'entroterra di Mostar il battaglione al Mujaheddin composto da volontari arabi e afghani della guerra santa non sono da meno e filmano compiaciuti le esecuzioni dei soldatini croati che si arrendono tremanti alzando le mani chiedendo pietà in lacrime.

Nessuno in Bosnia è senza peccato e può scagliare la prima pietra, ma sicuramente i serbi vengono demonizzati in abbondanza e non mancano insopportabili discriminazioni. I bambini di Sarajevo colpiti da schegge o cecchini valgono di più sui media internazionali e di conseguenza agli occhi dell'opinione pubblica del ragazzino serbo con le gambe tranciate da un colpo di mortaio. Un capitolo tutto da leggere è «il pane altrui» sui profughi in fuga dal sanguinoso baratro jugoslavo che «non ci facevano paura».

Maledetta Sarajevo arriva fino al fuoco che cova sotto la cenere della Bosnia di oggi con l'attuale leader dei serbi, Milorad Dodik, che per gli autori è un mini-Putin. In realtà era un pupillo americano sedotto e abbandonato, come Slobodan Milosevic con la pace di Dayton, che dopo 1.395 giorni e 11.541 morti scrive la parola fine all'assedio di Sarajevo.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.