Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

IL TERRITORIO

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

IL TERRITORIO

PRIMA PARTE

 

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede nel Trentino Alto Adige.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Friuli Venezia Giulia. 

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Veneto.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Lombardia.

Succede a Milano.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Torino.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Liguria.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA. (Ho scritto dei saggi dedicati)

Succede in Emilia Romagna.

Succede a Parma.

È morto Calisto Tanzi.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Toscana.

SOLITA SIENA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Siena.

SOLITA SARDEGNA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Sardegna.

SOLITE MARCHE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede nelle Marche.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Umbria.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede nel Lazio.

Succede a Roma.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO ABRUZZO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Abruzzo.

SOLITO MOLISE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Molise.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Campania. 

Succede a Napoli.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Basilicata.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Calabria.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Sicilia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede in Puglia.

Succede a Bari.

La Banca Popolare di Bari. La mia banca è differente…Jacobini story.

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Foggia.

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Taranto.

Succede a Manduria.

Succede a Maruggio. 

Succede ad Avetrana.

SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Succede a Brindisi.

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Tarantismo.

Succede a Lecce.

 

 

 

IL TERRITORIO

TERZA PARTE

 

SOLITA BARI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede in Puglia.

Piano regolatore i baresi esultarono. Approvato nel ‘31, ma poi venne la guerra. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Ottobre 2022

Il Consiglio dei Ministri approva il piano regolatore della città vecchia di Bari: con questa notizia si apre «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 13 ottobre 1931. «Allo scopo di dare una sistemazione igienico-edilizia alla parte vecchia della città, rimasta nettamente distinta dai nuovi quartieri», si legge sul quotidiano, «erano stati affidati lo studio e la compilazione del relativo progetto di piano regolatore ad una Commissione di esperti, la quale si è ispirata al concetto di riallacciare il vecchio quartiere con la parte più moderna dell’abitato, di valorizzare i monumenti e il loro caratteristico ambiente edilizio e di migliorare le condizioni igienico-sociali della zona».

Si tratta del “Piano regolatore e diradamento edilizio della città vecchia” redatto da Concezio Petrucci, riprodotto nella sua integrità nelle pagine interne della «Gazzetta», che segue i numerosi tentativi bocciati negli anni precedenti dalla Commissione edilizia dell’Amministrazione comunale e dalla Sovrintendenza ai Monumenti. Il progetto di Forcignanò e Palmiotto, datato 1926, prevedeva in particolare la quasi totale distruzione dell’antico abitato, fatta eccezione per il Castello, la Cattedrale, San Nicola e il complesso di San Pietro, incastonati all’interno di una rigida scacchiera, che richiamava la configurazione del borgo nuovo. Petrucci, docente di Edilizia urbana ed arte dei giardini alla Scuola di Architettura di Firenze, è stato chiamato da Araldo di Crollalanza, ministro dei Lavori Pubblici ed ex podestà di Bari, a dirigere la Sezione Edilizia del Comune e a risolvere il problema del collegamento delle due anime della città.

«Non è completamente ingiustificato il detto che il corso Vittorio Emanuele segna quasi il confine di due mondi e di due civiltà. Non v’è dunque chi non veda la necessità di riavvicinare questi due mondi, stabilendo tra loro più armonici rapporti. E ciò bisogna fare senza togliere all’antico le sue buone caratteristiche, mettendo anzi in evidenza i suoi aspetti più suggestivi, migliorando le condizioni di vita e valorizzandone i monumenti». Annuncia trionfante il cronista della «Gazzetta»: «Il problema del risanamento della città vecchia, i cui studi furono iniziati sin dal 1852, può finalmente considerarsi integralmente e definitivamente risolto».

Il piano Petrucci, dunque, prevede la realizzazione di due grandi arterie: un prolungamento di via Vittorio Veneto – l’attuale via Sparano – verso il porto nuovo e una strada trasversale tra il porto vecchio ed il Castello. L’attuazione del piano di diradamento, a causa delle difficoltà economiche del Comune e al successivo scoppio della guerra, non verrà mai portata a compimento.

Amarcord Fiera: quella fiaba perduta ci apriva al mondo (e poi di nuovo paesani). La Fiera del Levante era per noi pugliesi dell’antichità la globalizzazione portata direttamente a casa nostra. Marcello Veneziani su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Ottobre 2022

La Fiera del Levante era per noi pugliesi dell’antichità la globalizzazione portata direttamente a casa nostra. Tu uscivi di casa, prendevi il motorino, la macchina o la Marozzi, il pullman dell'epoca, sostituito poi dalle Autolinee Scarcia, e andavi a vedere il mondo che si esibiva a due passi dallo Stadio della Vittoria, alle porte di Bari. Un corso breve ma intensivo di sprovincializzazione, un giro del mondo in ottanta stand; e tornavi a casa che ti sentivi uomo di mondo, con l’aria vitazzuola di chi ne ha viste di tutti i colori, facendo un giro a piedi in quel mappamondo virtuale.

Mi ricordo da bambino cos'era per noi di paese quella festa non patronale, non civile, ma giocosa e commerciale, che si teneva sul lungomare a Bari. La gioia di andare a Bari, e di varcare la Porta d'Oriente delle Meraviglie, e visitare tutti i desideri. Il paese dei balocchi. L’invidia per chi riusciva ad accaparrarsi il biglietto gratis o aveva comunque il privilegio dell'ingresso libero per via di parenti o conoscenti. Gli apprensivi che già cominciavano a comprare roba prima di entrare nella fiera dai vu'cumprà del posto; e s'incrociavano con i pentiti che insoddisfatti degli scarsi acquisti fatti in fiera si rifacevano in extremis, comprando le ultime cose nella corte d'appello dei rivenditori ambulanti.

Ma dentro le fauci della Fiera era tutta una magia, uno spettacolo. Appena varcata la soglia dei cancelli, ti sentivi entrato in un film o in una leggenda, incluso in un mondo festoso; cercavi cappellini, zucchero filato e pop corn – come gli ammericani – per integrarti nella fiction levantina. Persino gli altoparlanti che spacciavano messaggi pubblicitari sembravano introdurti in un mondo favoloso e parallelo, inaccessibile nella vita quotidiana. Ti muovevi seguendo le folle, o se misantropi scansandole, seguendo itinerari alternativi e andando contro corrente. Ma ti muovevi soprattutto sentendo gli odori, perché la fiera era oflattiva. Le merendine Aida avevano un successo strepitoso; deludenti nel sapore, ma l'odore ti stregava, come la catena di montaggio delle merendine. Ma forte era pure l'odore delle patate fritte, dei pop corn, delle mandorle pralinate, dei gelati appena sfornati. Obbligato era il pellegrinaggio al padiglione della Germania per accaparrarsi il sontuoso panino col wurstel, senape e crauti.

Poi t'imboscavi nelle nazioni esotiche, viaggiavi dai Caraibi all'India, passando per l'Africa e per la Russia con le sue matrioske. C'erano nazioni affollate e altre desolate, anche sfigate. Non mancava la fiera dei luoghi comuni: la Svizzera con gli orologi a cucù e la cioccolata, l'Olanda coi tulipani e gli zoccoli, la Francia coi formaggi e la coppa di champagne, il Giappone coi transistor e le macchine fotografiche, la Spagna coi tori, l'Egitto coi cammelli, il Brasile col caffè. Non c'era ancora la Colombia con la droga, ma si sentivano le prime sniffate. Ricordo il quartiere dei trattori e degli attrezzi agricoli che ti facevano sentire nei documentari agricoli dell'Unione Sovietica. E poi le novità tecnologiche, e tutti quegli attrezzi che tritavano carote e ortaggi e la gente che stava a sentire i piazzisti e gli imbonitori come se fossero predicatori e narratori. Benché inventata sotto il regime fascista, voluta da don Araldo di Crollalanza, la Fiera del Levante era per noi una full immersion d'americanizzazione e di mondialismo; e un incentivo al consumismo militante, compulsivo. Quel che faceva più impressione a noi bambini era trovare il riassunto dell'umanità, neri, gialli, nordici, una volta perfino due esquimesi in un finto igloo ed un mezzo Tarzan scappato dalla giungla o da un manicomio. Più qualche bonazza, svedese o brasiliana.

Ma anche nelle case, la Fiera compiva un miracolo a distanza. La televisione che di giorno solitamente dormiva, cominciando i suoi programmi il pomeriggio e finendoli poi in serata, nei giorni della Fiera compiva un prodigio: trasmetteva ogni mattina film vecchi, soprattutto americani. Era tra le cause più rilevanti di fruscia o assenteismo sociale (a scuola si andava solo il 1 ottobre, a Fiera finita). Poi quando chiudeva i battenti, ci riscoprivamo paesani, baresi, pugliesi, mangiatori di cozze pelose. E ci chiedevamo come fosse possibile che tutto quel bendidio sparisse da un giorno all'altro, e finita la fiaba felliniana, restasse solo un cancello e un vuoto immenso al posto di quel mondo alternativo. La Fiera era il sogno collettivo di fine estate. Madò che sogno.

La «prima volta» della Fiera del Levante. L’editoriale sulla «Gazzetta» del 1930. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Agosto 2022

È il 31 agosto 1930: mancano pochi giorni all’inaugurazione della prima edizione della Fiera del Levante. Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» firma l’editoriale, intriso di retorica nazionalista e fascista, Leonardo D’Addabbo, deputato ed ex segretario della Federazione provinciale del Pnf. «Il recinto della Fiera in questi giorni è un immenso risonante cantiere. L’opera è quasi a compimento. Mille, duemila artieri di Bari e provincia lavorano incessantemente di giorno e di notte in un ultimo fervore per presentare al Sovrano la nuova creatura, espressione genuina della Bari di Mussolini.

Questa del Levante non è una delle tante fiere, non rappresenterà il solito centro di affari e del mondo moderno meccanico e industriale; ma sarà un centro nazionale di volontà soprattutto: un organismo propulsore di attività. Fiera non so del deteminarismo economico, ma del volontarismo. La Fiera dell’economia corporativa: la Fiera dell’avvenire». Obiettivo della manifestazione, il cui progetto iniziale risaliva ai primi del Novecento, era avviare scambi commerciali col vicino Oriente, compito che solo Bari, per la sua posizione strategica, poteva assolvere.

«Costruita sul mare, quest’opera di pace e di civiltà corona gli sforzi compiuti in Bari e riallaccerà con vincoli più solidali la Patria nostra al vicino Oriente. È un prodigio! A Bari di incanto è sorto un nuovo quartiere. Attrezzatura moderna completa, secondo la linea unitaria armonica, curata nei minimi dettagli con passione filiale e con intelligenza pugliese», continua D’Addabbo.

La campionaria barese fu inaugurata il 6 settembre 1930 alla presenza del re Vittorio Emanuele III.

Il successo delle prime dieci edizioni della Fiera – che tuttavia fu incrinato dalla guerra d’Etiopia e dalla decisione di alcuni Stati africani di disertare la campionaria barese – ebbe ripercussioni positive su tutto l’ambiente economico pugliese: anno dopo anno la Fiera vedeva crescere gli espositori italiani e stranieri, aumentava il numero dei padiglioni ed estendeva l’area del suo quartiere. Aprendosi alle nazioni d’Oriente, la campionaria finì per rappresentare una smentita della politica ufficiale del regime, incline al protezionismo economico più che ai liberi scambi internazionali. Dopo lo scoppio della guerra gran parte del quartiere fieristico fu occupato dalle autorità militari: l’area si trasformò in un vastissimo deposito di materiale bellico e fu requisito, nel settembre 1943, dalle truppe alleate. Dopo la guerra, ridotta a un campo di macerie, la Fiera fu rimessa in piedi solo nel settembre 1947 e poté dare un nuovo avvio alla sua storia.

La Fiera «risorge», Bari è in fermento. La XII edizione dopo la 2ª Guerra mondiale. Annabella De Robertis il 04 Settembre 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

È il 4 settembre 1948: la città di Bari è in fermento per l’inaugurazione della XII edizione della Fiera del Levante. Si tratta di un appuntamento molto atteso, che segna l’avvio definitivo di una nuova stagione di scambi commerciali e culturali: soltanto l’anno precedente la campionaria era stata rimessa in piedi in soli 87 giorni dopo sei anni di interruzione a causa degli eventi bellici. «Oggi l’apertura della Fiera significa la riconferma che quel miracolo era necessario, che la tenacia degli organizzatori e delle categorie economiche baresi avevano saputo guardare da lontano con la tradizionale accortezza dei naviganti e la sagacia degli imprenditori», si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno». Turchia, Jugoslavia, Ungheria, Polonia, Danimarca e Olanda hanno annunciato mesi prima la loro presenza alla campionaria barese, sebbene il problema irrisolto del porto di Bari – non ancora integralmente funzionante dopo aver subito ingenti danni tra il 1943 e il 1945 – impedisca nei fatti un ripristino degli antichi traffici internazionali «che formarono le fortune di Bari mercantile».

La partecipazione dei paesi dell’Oriente europeo che si trovano al di là della cortina di ferro pone la campionaria barese sullo stesso livello di quella milanese. La Fiera si ripropone come centro propulsore dell’economia del Mezzogiorno e al suo interno si anima lo spazio di riflessione sui temi riguardanti l’industrializzazione del Sud e l’utilizzo delle risorse americane. In quei mesi del ‘48, infatti, è entrato nel vivo il dibattito sull’attuazione del Piano Marshall, il piano di aiuti per la ricostruzione europea promosso dagli Stati Uniti. Molte volte sulle pagine de «La Gazzetta del Mezzogiorno» intellettuali, meridionalisti, esperti e industriali sottolineano l’importanza della Fiera per la ripresa dei traffici: la riattivazione degli scambi con l’estero è la condizione essenziale, insieme agli aiuti americani, per la ricostruzione interna del Paese, dal momento che la produzione è in quel periodo priva di mercati di sbocco.

«L’Europa, pur divisa in due blocchi non soltanto economici, mostra già di non poter fare a meno della naturale interdipendenza che è stata sempre alla base dei suoi scambi. Da questa Fiera si leva oggi la voce dell’Italia che vuol tornare a vivere in un mondo concorde, ma soprattutto quella del Mezzogiorno che attraverso le tradizioni mercantili, antiche e recenti, dei suoi centri più vivi, vuol tornare a reinserirsi nelle grandi correnti dei traffici internazionali, dai quali si attende la spinta più attiva al suo progresso», scrive Arnaldo di Nardi in prima pagina.

Dalla Fiera si alza la voce per la pace. La prima pagina della «Gazzetta del Mezzogiorno» del 5 settembre del 1948

Il 5 settembre del 1948 sulla «Gazzetta»: la Campionaria del Levante aperta dal 5 al 21. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Settembre 2022.

«Da Bari si leva la voce dell’Italia per la pace e un lavoro fecondo» titola La Gazzetta del Mezzogiorno del 5 settembre 1948. Il giorno prima si è aperta la XII edizione della Fiera del Levante, alla presenza dell’on. Giovanni Porzio, vicepresidente del Consiglio dei Ministri: «Illustre avvocato e uomo politico, figura eminente del Mezzogiorno», è il ritratto del senatore. La visita alla campionaria diretta da Leonardo Azzarita, presidente dell’Ente Fiera a partire dal 1947, è iniziata dai padiglioni della Galleria delle Nazioni, in cui è allestita la mostra sul piano Marshall e sull’attività svolta dall’America a favore dell’economia europea.

«Ieri mattina si aveva più che mai l’impressione che Bari e la sua Fiera sono veramente una cosa sola, hanno un’anima sola, ed anche se la Fiera incontra intorno a sé soltanto una volta l’anno l’attenzione degli italiani e degli stranieri, la città l’ha sempre amorosamente nel suo seno questa sua creatura che presenta al mondo come la manifestazione più viva della sua laboriosità e della sua iniziativa». È presente anche il sottosegretario agli Esteri Aldo Moro, il quale, visitata la campionaria, dichiara: «Oggi la Fiera si presenta magnificamente, più che mai ricca nella partecipazione italiana e straniera. È una grande Fiera internazionale. [...] La ripresa dei traffici ed il loro sviluppo non sono soltanto un contributo alla vita economica del mondo e al benessere di tutti i popoli. Essi dimostrano che su questa base i popoli facilmente si intendono, tanto che dalla reciproca comprensione ed integrazione nascerà quella pace duratura che tutti cercano ed alla quale il governo italiano intende dare il suo cordiale contributo».

C’è grande entusiasmo nel capoluogo pugliese: «La città che già da alcuni giorni aveva cominciato a respirare aria di Fiera, ieri pulsava di una vita quanto mai intensa. Dalle prime ore della mattina e sino a tarda notte a diecine i grossi autocarri si succedevano per le strade verso la Fiera, a scaricare gli ultimi arrivi delle merci che dovranno figurare nelle varie esposizioni. Congestionati gli scali ferroviari e le agenzie di autotrasporti, affollati i marciapiedi della stazione, dalla quale a frequenti intervalli venivano fuori i forestieri, gente d’affari e turisti, richiamati a Bari dal grande avvenimento». I cancelli della Fiera resteranno aperti fino al 21 settembre. «Come per una rapida trasformazione Bari ha preso l’aspetto della città cosmopolita, ha ritrovato la sua vera fisionomia del grande centro mercantile», si legge sulla Gazzetta.

Fiera del Levante, una nascita «reale». La Gazzetta del Mezzogiorno di 92 anni fa. Sulla «Gazzetta» del 6 settembre 1930 la Prima edizione della Campionaria con Vittorio Emanuele. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Settembre 2022.

«Il Re ha inaugurato solennemente la Fiera del Levante» è il titolo che compare in prima pagina sull’edizione straordinaria della sera de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 6 settembre 1930. Dopo la sfilata per le vie principali della città, Vittorio Emanuele III è stato ricevuto in Prefettura e dal balcone del palazzo del Governo si è affacciato per salutare la folla acclamante: nella rotonda della Fiera si è poi tenuta la solenne cerimonia della «consacrazione regale».

All’apertura degli ingressi monumentali una grande folla si è riversata con entusiasmo e curiosità all’interno. I cronisti della «Gazzetta» riportano ogni dettaglio della cerimonia e guidano i lettori alla scoperta del quartiere fieristico. Subito ci si imbatte nel Palazzo della Puglia: «Il grandioso edifizio, che è stato ideato dall’architetto comm. Corradini e rappresenta il punto di partenza per tutta la geniale ideazione planimetrica della Fiera, è stato costruito in poco più di tre mesi per merito dell’ing. Rizzi che, coadiuvato dai suoi giovani collaboratori, ha vinto le difficoltà dipendenti dalla scioltezza del terreno di fondazione costruendo colossali piattaforme di sostegno in cemento armato».

L’itinerario continua con la mostra dell’Acquedotto Pugliese, il padiglione del Banco di Napoli, opera dell’architetto Dioguardi, e quello delle Assicurazioni Generali ideato dall’arch. Farcignano. Si prosegue con la mostra dell’abbigliamento e quella ortofrutticola, il padiglione delle macchine agricole, dei generi alimentari, dell’artigianato, dell’arredamento, dell’edilizia.

Saverio Dioguardi, si apprende dal quotidiano, ha firmato il progetto dell’immenso Salone dell’Automobile; si arriva poi al Palazzo della Musica, ideato dall’arch. Signori di Milano. Il Salone dell’Aviazione è una costruzione in legno e acciaio «con intonazione adeguata alla fattura audace e leggera che contraddistingue gli strumenti di volo che nel padiglione sono ospitati».

La Fiera ospita anche una Mostra del turismo pugliese. Grande attenzione merita, naturalmente, il Padiglione della “Gazzetta del Mezzogiorno”, «che l’ing. Rizzi ha concepito dandogli una forma architettonica intonata ad una visione modernistica delle masse e dei volumi e contestandola di spigoli angolari policromi e di una cupola prismatica luminosa e multicolore». Nel piazzale Roma vi è, infine, la monumentale fontana dell’Acquedotto: da qui si arriva ai padiglioni delle nazioni estere, a cui l’ing. Minale di Milano ha donato elementi di sapore orientale. Comincia, così, novantadue anni fa, la lunga storia della Fiera del Levante.

Fiera del Levante 1948 tra industria e rinascita. Piano Marshall e ricostruzione: gli incontri. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2022.

«Zellerbach apre il Congresso Erp»: con questa notizia titola in prima pagina La Gazzetta del Mezzogiorno del 15 settembre 1948. I grandi nomi del sistema finanziario europeo si riuniscono a Bari per partecipare a un incontro organizzato nell’ambito della XII edizione della Fiera del Levante. In quei mesi del ‘48, infatti, è entrato nel vivo il dibattito sull’attuazione del Piano Marshall, il piano di aiuti per la ricostruzione europea promosso dagli Stati Uniti.

Il convegno, dunque, è concepito come luogo di discussione sulle modalità di utilizzo dei fondi americani nel Sud Italia e sull’opportunità che l’European recovery program (Erp) può costituire per una definitiva risoluzione della questione meridionale.

Il vicepresidente della Fiera del Levante, Vittorio Emanuele Atlante, ha incaricato Michele Cifarelli, segretario regionale del Partito repubblicano, dell’organizzazione scientifica della manifestazione. La Fiera si propone, pertanto, come centro propulsore dell’economia del Mezzogiorno e al suo interno si anima lo spazio di riflessione sui temi riguardanti l’industrializzazione del Sud e l’utilizzo delle risorse americane.

Il Congresso si è aperto – si legge nella cronaca della Gazzetta con il saluto del sindaco di Bari Vitantonio Di Cagno al ministro James D. Zellerbach, capo della Missione americana in Italia per la Cooperazione economica: il Sindaco ha ricordato il gran numero di emigrati italiani, in particolar modo meridionali, presenti negli Stati Uniti, i quali sono diventati «un motivo vivente per dare a questo Mezzogiorno d’Italia una vita economica più intensa e quindi maggiori possibilità di lavoro». Zellerbach è giunto il giorno prima a Bari insieme al consigliere per gli affari economici dell’Ambasciata degli Stati Uniti Walmsley e ad altri sette esperti e ha annunciato ai giornalisti: «Grande sarà il contributo che il Congresso potrà recare ad indicare la via per la soluzione delle difficoltà che ostacolano una stabile ripresa nel Mezzogiorno d’Italia, se esso considererà problemi del Meridione non separati dai generali problemi italiani, e questi non scissi dai problemi europei».

Il congresso vedrà coinvolti come relatori, alcuni tra i più noti esperti di questioni agrarie, finanziarie e industriali del Paese e darà un significativo contributo al dibattito sulla ricostruzione post-bellica: nei tre intensi giorni di lavori si affronterà per la prima volta il tema dell’industrializzazione di un’area che, fino a quel momento, aveva visto nell’agricoltura la propria unica risorsa.

Il profumo di Puglia è nei vicoletti: il racconto di un flâneur. Che meraviglia essere «flâneur» in Puglia. Il Romanico t’abbraccia da ogni parte, in un gioco composito di spigoli, bifore, cornicioni, rosoni, ballatoi, ippogrifi, leoni lucidi di grasso secolare. Claudio Mezzina su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Agosto 2022

Verde, azzurro, fili d’oro e di nichel su scogli riluccicanti, piscine comunali senza cloro, piedi impanati a guisa di pollo, turchese, nuvole alla Constable, calce viva, portoni cobalto, carta indurita dal sale, spiegazzata, bimbi che passano e t’impataccano d’acqua di braccioli e di chiasso, persiane di amazzonite, siesta, panama bianchi, pinocchietti, pelle arsa, schiene sinuose, monoliti proteici ed eteroliti «pasticciottici», tentacoli crudi, birre bisbiglianti, grondaie di sudore piene di melanina e «Bilbao»: estate.

Maledetta estate. Pietosa estate.

Io «ipersudo», per cui agosto è un nemico crudele. Pur sempre il migliore dei miei nemici.

Una canzone strilla: «che figata andare al mare quando gli altri lavorano…». È un po’ perfida. Tiro fuori dalla tasca, allora, le mie cuffie da quattro scellini e mezzo e comincio a camminare con Duke Ellington nelle orecchie. Ho lasciato i miei amici in spiaggia, tra un tressette e un goccio di cocomero e, con la camicia inzaccherata di salsedine, mi metto a scivolare, come Fred Astaire, sul selciato di chianche della città vecchia.

Qui il caldo è più clemente e, i miei occhi, fatti più dolci lontani dal barbaglio, cominciano a soffermarsi sulle cose: è tutto calcareo, anche il naso «triste da italiano allegro» dei signori, tufo giallognolo ricolmo di fossili, il tufo meno ottuso che abbia mai visto.

Mi becco una doccia, che non fa mai male, causa signora che innaffiava gerani, fiori di cera e basilico: «mi scusi, mi scusi… Sono mortificata! La vulit ‘na tazzuliell ‘e cafè? Salit! Salit!».

Donna Ernesta, di Salerno, una domina sulla settantina, luminosa e riccioluta, scende ogni anno giù in Puglia, controtendente: «sapit, accà, ma mo’ parl italian ca m’so scucciat… Qua il vento è così indulgente, i vicini dolci come il latte di mandorla, le parole lambiscono… E, soprattutto, posso permettermi di stare sola, in santa pace, col mio bel libro di Tolstoj, le mie piantine che mi consigliano senza interesse e mio marito Massimo. Ci godiamo la vecchiaia! Sapit… Io ho fatto, per una vita, la gioielliera ma avrei voluto fare l’università! Lettere! Come mi piace stare sulla veranda, col mare che mi scruta il respiro e mi tiene compagnia, a leggere… E voi, voi che fate? Chi siete? Mi sembrate nu brav waglion…».

Le racconto bonariamente di me, mentre bevo uno dei caffè più densi e ammutolenti che abbia mai bevuto: «Sono Claudio signora, uno dei tanti esistenti sulla terra, Claudio come Baglioni, Claudio come Villa ma se doveste volermi associare ad un imperatore, ve ne prego, a Claudio il Gotico!». La signora scoppia in una risata roboante. Scopro che è una grande appassionata di storia romana (mi racconta che casa sua, su al sud, infatti, si erge su dei resti del I secolo d.c.) e mi dice: «battute di un certo spessore, fate eh!» mentre io tento di spiegarle che l’unico spessore che mi contraddistingue è quello della mia pancia anti-passerella marina.

Mi congedo di lì a poco per non disturbare oltre e lei decide di regalarmi, ancora chiedendo perdòno per un peccato già assolto in partenza, un vassoietto di sfogliatelle che s’era portata giù. Che persone straordinarie i campani.

Riprendo a camminare. Che meraviglia essere «flâneur» in Puglia. Il Romanico t’abbraccia da ogni parte, in un gioco composito di spigoli, bifore, cornicioni, rosoni, ballatoi, ippogrifi, leoni lucidi di grasso secolare: un rinascimento opacizzato. Ci si imbatte in tele seicentesche, reti da pesca, candele di porpora, ossari di gente buona, Pino Pascali, persone valorose, mosaici narranti, abbazie diroccate, cannoni di decorazione, come dovrebbero essere tutti i pezzi da artiglieria, chiesette barocche, pulpiti settecenteschi e signore rococò. Sì, rococò, bellissime, sedute su sedie di legno e spago, seggiole di vimini, «ciane» le definiva fiorentinamente Campana, a ciancicare: «u chenusc a cur, a ci appartën?» – «sacc… Però ten ne facc ca nen m cnveng…», con quelle mani nerborute, caravaggesche, «strascinate», sempre risaltate da qualche oro antico, la permanente, lo sguardo astuto, le labbra pungenti e quei vestitini lunghi a fiori che farebbero invidia anche a Marilyn Monroe.

Il sole apre i palazzi in due come fossero albicocche e mette in scena l’animo umano con una tale franchezza… Mi fermo su di una scalinata e, con l’arsura che mi scava dentro, scribacchino, prendo appunti. I cistercensi avevano tutto chiaro.

Sono un po’ malinconico. Francesca è coi marmocchi a San Gregorio del Matese e mi manca talmente la sua voce che vado a recuperare, su WhatsApp, audio già ascoltati pur di sentirla vicina. Lì un latitante sarebbe al sicuro: non piglia manco l’antenna della tv. Non vedo l’ora che torni. Ci sono le stelle da vedere. Che poi è una frase buffa… Come se le stelle d’inverno non pagassero la bolletta (coi prezzi di oggi, porelle, le capirei) e fossero impervie all’occhio.

D’inverno sono più belle, secondo me, come il mare. Sono solo tue. È solo tuo quando, prepotente, ti nebulizza l’aria dei pesci. In estate, di particolare, c’è solo la sfida di tuffi annuale del 10-11-12 agosto: «Capriole in atmosfera». Un evento curato magistralmente dalla società antinquinamento luminoso «Sciame meteorico». Una bella iniziativa. Abbiamo, noi due, un posto tutto nostro dove vederle: c’è una caletta, fra Giovinazzo e Santo Spirito, dimenticata anche dagli ossi di seppia. Lì, lontani dal baccano dei gelatai, degli spritz, del reggaeton, ci godiamo il profumo delle stelle, che dal borgo non si sente.

Concludo la mia «passiata» sotto l’arco quadrupede di Traiano, lì accendo uno zampirone di tabacco che mi protegge, per qualche minuto, dalle zanzare e osservo: «acchjemendo» (occhio + mente: «squadro») i passanti, sgocciolanti come dipinti di Dalì ma felicissimi, felici di essere pugliesi, felici di esserlo anche solo pro tempore. Qualcuno ha fra i denti le orme inconfondibili della focaccia, altri giocano a nascondino con gli impegni che, così ingenti e senza salario minimo, non meritano, non meritiamo.

In fondo anche al sud, terra della lentezza, elogio della quiete, mosaico di popoli, sono sicuro che se non dovessimo faremmo comunque, tesi costantemente, da secoli, a dare il nostro contributo a questa fetta di globo, perché ci va. Siamo belli noi al sud, mai languidi. Sono belli tutti al sud perché, immersi in questa cartolina che dovrebbe essere anche sostanza, perché la materia prima c’è, eccome, l’anima si gonfia e diventa invincibile. Terra del cuore. Terra di verità. Unica terra possibile.

Valentina Iorio per corriere.it il 3 agosto 2022.

Il mare più pulito d’Italia si trova in Puglia, al secondo posto c’è la Sardegna e al terzo la Toscana. A stilare la classifica è il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, sulla base del monitoraggio effettuato dal personale delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell’ambiente, gli enti pubblici che, insieme a Ispra, formano il sistema.

Arpa Puglia: «Controlli periodici»

«Ogni anno le acque di balneazione vengono sottoposte a periodici controlli per garantire la salute dei bagnanti — spiega Vito Bruno, direttore generale di Arpa Puglia — e siamo lieti di constatare che anche quest’anno la Puglia è prima in Italia per la qualità delle acque balneabili. Non solo. È prima anche per il numero di campioni analizzati in laboratorio e seconda solo per il numero di punti monitorati, dopo la Sicilia che gode di un litorale molto più esteso».

La classifica

Anche quest’anno sono molte le regioni in cui oltre il 90% di acque è considerato eccellente, sommando anche le buone, si arriva a livello nazionale al 94%. In particolare la Puglia ha il 99% di acque eccellenti, la Sardegna il 97,6% e la Toscana il 96%. Seguono Emilia-Romagna con il 93,8% di acque eccellenti, Veneto con il 91,4%, Friuli- Venezia Giulia con il 90,9%. Tra le regioni che hanno oltre l’80% di acque eccellenti ci sono: Marche (89,8%) Basilicata (86,7%), Liguria (86,3%) , Calabria (85,5%), Lazio (84,1%), Molise (83,3%), Campania (82,8%) e Sicilia (80,6%). In fondo alla classifica c’è l’Abruzzo con il 71,9%. 

Come vengono fatte le analisi

In totale ogni anno vengono effettuate le analisi su circa 30.000 campioni prelevati nei mari e nei laghi italiani, spiega il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente. I dati del quadriennio 2018-2021, pubblicati sui siti delle diverse Arpa/Appa, sul portale acque del Ministero della Salute e dalla Agenzia Europea dell’ambiente, che ha realizzato anche una mappa interattiva, hanno portato al giudizio che resterà in vigore per tutta la stagione balneare 2022: da scarso (meno del 2% dei casi) a eccellente (89%). 

Con i controlli della balneazione vengono monitorare anche le alghe potenzialmente tossiche, la cui presenza è correlata al riscaldamento globale. I controlli sulle acque di balneazione riguardano anche laghi e (in pochi casi) fiumi, dove alcune regioni raggiungono il 100% di acque eccellenti.

Puglia prima in Italia per la qualità delle acque di balneazione, eccellenti al 99%. L'esito del monitoraggio Snpa e Arpa Puglia. La regione è seguita da Sardegna (97,6%) e Toscana (96%). Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022.

La Puglia si conferma prima in Italia per l’eccellenza delle acque di balneazione, seguita da Sardegna e Toscana: i dati rilevati da Snpa e Arpa Puglia. Le acque di balneazione sono eccellenti al 99%, seguita da Sardegna (97,6%) e Toscana (96%).

È quanto emerge dal lavoro di controllo e monitoraggio condotto dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente  la rete che coordina le varie Agenzie regionali per l’ambiente presenti sul territorio nazionale tra cui l’Arpa Puglia. Una attività disciplinata dalla direttiva comunitaria 2006/7/CE, che stabilisce le regole della classificazione in tutta la Comunità Europea delle acque di balneazione nelle quattro classi di qualità: eccellente, buona, sufficiente e scarsa.

“Accogliamo con soddisfazione gli esiti del monitoraggio delle acque di balneazione pugliesi – ha detto l’assessore regionale all’Ambiente, Anna Grazia Maraschio -, condotto in maniera efficiente e preziosa da Arpa Puglia, riferimento  per le politiche ambientali della Regione Puglia, risultate "eccellenti" per il secondo anno consecutivo e prime in Italia per qualità. Siamo consapevoli che questi risultati non si raggiungono per caso o per fortunate congiunture, ma sono frutto di anni di programmazione ed attuazione, in piena collaborazione con tutti gli Enti coinvolti: da Acquedotto Pugliese ad Autorità Idrica Pugliese fino ad Arpa che non smetteremo mai di ringraziare per professionalità ed  abnegazione nella tutela della nostra Regione. Siamo altrettanto consapevoli però che la tutela e la valorizzazione delle risorsa idrica non possono conoscere punti di arrivo nella politica regionale ma sono il faro della nostra missione per la nostra terra”.

“Ogni anno le acque di balneazione vengono sottoposte a periodici controlli per garantire la salute dei bagnanti – spiega Vito Bruno, direttore generale di Arpa Puglia - . Siamo lieti di constatare che anche quest’anno la Puglia è prima in Italia per la qualità delle acque balneabili. Non solo. È  prima anche per il numero di campioni analizzati in laboratorio (4056, ndr), e seconda solo per il numero di punti monitorati (676, ndr), dopo la Sicilia che gode di un litorale molto più esteso”.

A livello nazionale anche quest’anno sono numerose le regioni in cui oltre il 90% di acque è nella classe eccellente; sommando anche le buone, si arriva a livello nazionale al 94%. I controlli sulle acque di balneazione riguardano anche laghi e (in pochi casi) fiumi, dove alcune regioni raggiungono il 100% di acque eccellenti.

Lungo i 1000 km circa di costa pugliese la Regione Puglia ha individuato, ai sensi dell’attuale normativa di riferimento, ben 676 “acque” (tratti) destinate alla balneazione, che corrispondono ad un totale lineare pari a circa 800 km: in particolare sono state individuate n. 254 acque di balneazione in provincia di Foggia, n. 46 in provincia di Bat, n. 78 in provincia di Bari, n. 88 in provincia di Brindisi, n. 139 in provincia di Lecce e n. 71 in provincia di Taranto (gli elenchi di tali acque, distinti per provincia, sono riportati nelle delibere di Giunta regionale dal n. 2465 al n. 2470 del 16 Novembre 2010 e s.m.i.). Arpa Puglia effettua il monitoraggio delle acque di balneazione regionali controllandone la qualità. Durante il periodo stagionale di monitoraggio in ogni “punto stazione” sono misurati in campo diversi parametri meteo-marini, mentre in laboratorio sono analizzati i campioni per la determinazione della carica batterica, calcolata rispetto a valori soglia di due parametri microbiologici: “Enterococchi intestinali” ed “Escherichia coli”, indicatori di inquinamento di origine fecale; in relazione ai campioni raccolti, si stima che ogni anno l’Agenzia regionale per la prevenzione e la protezione dell’ambiente effettui circa 8.500 determinazioni analitiche di laboratorio.

Per quanto riguarda la Puglia, l’1% di acque di balneazione in classe di qualità “non eccellente” riguarda i monitoraggi dei seguenti siti: tre nel territorio di Lesina (classificazione ‘Buona’ per il canale La Fara, ‘Sufficiente’ per la Foce De Pilla e ‘Buona’ per Foce del Canale La Fara), tre di San Nicandro Garganico (classificazione ‘Buona’ per Fiume Lauro e Foce Zanella, ‘Sufficiente’ per Foce Fiume Lauro) e uno di Manfredonia (classificazione ‘Sufficiente’ per il tratto in prossimità della Foce del Fiume Candelaro). Si fa comunque notare che dei sette siti sopra descritti solo uno riguarda le acque marino-costiere (la foce del fiume Candelaro), gli altri sei fanno invece riferimento ad acque di transizione (nella fattispecie la laguna di Lesina).

Tutti i dati sono comunque disponibili sul sito istituzionale di Arpa Puglia dove è possibile, utilizzando una mappa interattiva, visualizzare la localizzazione geografica delle acque di balneazione nonché dei singoli punti di monitoraggio, a cui sono associati i risultati analitici più aggiornati; alla stessa pagina web sono inoltre riportati i dati, in forma tabellare e sotto forma di bollettino mensile, anche per i periodi precedenti a quello visualizzato. Proprio in virtù del monitoraggio effettuato, Arpa Puglia ha in disponibilità e elabora una notevole mole di dati, che consente di fornire un quadro sulla situazione annuale e sulla serie storica (quadriennale) a proposito dello stato di qualità delle acque di balneazione pugliesi.

Puglia regina del turismo, ma per gli inglesi è tra le mete più costose al mondo. La classifica del Post Office britannico che fa dire addio ai turisti. Secondo il report dell’agenzia britannica, la regione si piazza appena due posti dopo New York e uno da Vancouver. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022.

La Puglia indossa la corona di regina del turismo, ma allo stesso tempo conquista un primato particolare: secondo l'agenzia britannica del Post Office Travel Money, il Tacco d'Italia è tra le mete più costose al mondo. A far riflettere il terzo settore sono stati i dati di luglio, con un calo rispetto alle previsioni del 30% circa, ma nelle ultime settimane, gli sfoghi dei turisti sul caro prezzi sono diventati virali sul web e hanno puntato i riflettori sull'aumento costante dei prezzi a fronte di servizi sempre più scarsi e inadeguati. 

Secondo quanto riportato dall'agenzia inglese (e come ricostruito dal Corriere della Sera) in questa classifica vengono omologate le varie mete delle vacanze in base a un carrello della spesa che comprende otto voci, tra beni e servizi, uguali per tutte: un caffè, il ristorante, una birra, la crema solare, il vino, una lattina di coca cola, una bottiglia d’acqua. 

Stando a questa classifica la meta più cara è Reykjavik, la capitale dell’Islanda media di 188,4 euro. Seguono le Barbados, Dubai e Caraibi, e ai margini della top 10 ci sono New York e Vancouver. Poco sotto, la Puglia, decima con una spesa media singola di 126.25 euro, dietro di due posti rispetto a Orlando, in Florida, dove si spende di meno.

La pandemia che ha bloccato le attività turistiche assottigliando i profitti delle imprese non giustifica - secondo gli utenti - in Puglia degli aumenti così spropositati e non giustificati come se gli stipendi degli italiani e degli stranieri fossero nel frattempo stati adeguati a questi incrementi nei prezzi. La Puglia non compare infatti tra le 19 località al mare più convenienti d’Europa. L'agenzia Post Office Travel Money le ha elencate in base ai prezzi medi giornalieri per due persone, pernottamenti, pasti e prodotti essenziali per il viaggio. Così nella classifica stilata la prima meta – e quindi la più economica – è Sunny Beach, sul mar Nero in Bulgaria, dove due persone spendono 44 euro al giorno, poi Algarve, Costa del Sol, Marmaris, Cipro, la prima a superare i 100 euro è Majorca (105), Sorrento è 18esima con 140 euro.

Un primato che non giova affatto all'immagine di regina del turismo che la regione si è costruita negli anni. Un paradosso visto che secondo i dati odierni il mare pugliese è uno dei più belli e più "sani" d'Italia. Che sia l'inizio di una controtendenza per il turismo internazionale verso il Salento, la Valle d'Itria e il Gargano? Ai turisti l'ardua sentenza.

L'hotel a Vieste non era come nelle foto su internet: giudice dà ragione a turista, sarà rimborsato. L'uomo, 44 anni, nel 2018 aveva sborsato in anticipo 2.250 euro per alcuni giorni di relax e benessere. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022

Piscina e palestra dell’hotel sono diverse dalle immagini pubblicate sul sito di prenotazioni, così il turista milanese decide di fare ricorso e il giudice di pace gli dà ragione e la vacanza in Puglia gli viene rimborsata.

E’ la vicenda, riportata oggi dal Corriere della Sera, di un turista milanese che, arrivato in Puglia nel giugno del 2018 nell’hotel che aveva prenotato sulla piattaforma Booking, ha trovato al posto di una piscina una vasca poco profonda e nella palestra un solo attrezzo e un tapis roulant sotto il sole. Così l'uomo, 44 anni, che aveva sborsato in anticipo 2.250 euro per alcuni giorni di relax e benessere a Vieste, nel Foggiano, ha annunciato al titolare dell’hotel la sua intenzione di andarsene e l’albergatore gli ha risposto che avrebbe potuto cambiare aria ma così facendo avrebbe perso i suoi soldi. Il rimborso sarebbe arrivato infatti solo in caso di nuova prenotazione della sua camera, nel frattempo rimessa su Booking.

Il turista ha rifiutato l’offerta della piattaforma di prenotazioni, che ha messo sul piatto 100 euro, e ha deciso di appellarsi alla magistratura per riavere il suo denaro e dopo un contenzioso di tre anni, il giudice di pace di Milano Alexia Dulcetta ha accolto il ricorso e ordinato alla struttura di rimborsare i sette giorni già pagati e non goduti, oltre alle spese processuali.

ACCADDE OGGI. S’insedia in Puglia il nuovo parlamentino. Alle Regionali grande trionfo della Dc. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Luglio 2022.

È il 14 luglio 1970. Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» la foto-notizia in prima pagina titola: «Si è insediato il Primo parlamentino di Puglia». La stampa e i lettori devono ancora prendere dimestichezza con il nuovo glossario dedicato alla nuova istituzione regionale. Il 16 maggio 1970, infatti, con circa vent’anni di ritardo dalle prescrizioni della Costituzione, sono nate finalmente le Regioni a Statuto ordinario.

Nel giugno si sono svolte le elezioni per le composizioni dei primi Consigli regionali: in Puglia grande, naturalmente, è stato il trionfo della Dc. La storica foto dello studio di Michele Ficarelli immortala la prima riunione del Consiglio regionale della Puglia nel salone dell’Amministrazione provinciale di Bari. In mancanza di una propria sede ufficiale, le riunioni dell’assemblea regionale, infatti, saranno spesso ospitate nei luoghi istituzionali dei due enti locali già esistenti: il Comune e la Provincia. Passerà ancora un po’ di tempo prima che gli uffici e l’aula consiliare si trasferiscano, rimanendovi per diversi anni, nel palazzo dell’estramurale Capruzzi.

«Cinquanta nomi, cinquanta “presente!”. “La seduta è valida”, ha detto l’avv. Abbadessa, chiamato a presiederla come consigliere più anziano. Si è avviata, così con solennità nell’aula della Provincia di Bari (sovraffollata e accomodata alla meglio), la vita della regione Puglia», si legge sulla «Gazzetta». Il capogruppo democristiano Matteo Fantasia, anche a nome degli altri gruppi del centrosinistra, ha chiesto la sospensione della riunione, che è stata aggiornata al lunedì successivo: all’ordine del giorno ci sarà la costituzione dell’ufficio di presidenza.

I rappresentanti della Dc, del Psi e del Pri hanno affermato la volontà politica di dare vita ad un governo regionale organico di centrosinistra, «che affronti i problemi pugliesi con programmi che abbiano contenuti avanzati capaci di rinnovare le strutture socio-economiche della Regione». Il primo presidente del Consiglio regionale pugliese sarà il socialista Beniamino Finocchiaro. Sulla «Gazzetta», oltre all’elenco completo dei consiglieri, si riportano le parole commosse del democristiano Abbadessa: «Il 13 luglio è una data non solo indimenticabile per coloro che la vivono, ma storica per la Puglia e per le popolazioni che guardano con fiducia al nuovo Ente. Il Consiglio regionale potrà far valere le sue qualificanti doti di esperienza e di dottrina per rendere la Regione una vera società intermedia tra gli Enti locali e lo Stato, sì da risultare organo di autogoverno popolare, di effettiva sburocratizzazione, di partecipazione della base alla formazione della volontà di Governo».

Lettere anonime e veleni i gialli del processo Sud-Est il caso. Udienza preliminare a carico dei vertici Bnl accusati di bancarotta. La difesa del manager Pignataro: ecco cosa accadde davvero il crac della ferrovia pugliese. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Giugno 2022 

Chi scrisse la lettera anonima che innescò l’indagine sui vertici di Bnl? E chi incaricò una società romana di pubbliche relazioni di sondare le intenzioni di voto dei creditori nel concordato di Ferrovie Sud-Est? Martedì, davanti al gup Isabella Valenzi, riprenderà l’udienza preliminare per il secondo filone dell’indagine sul crac Fse, quello che coinvolge l’ex numero uno dell’azienda ferroviaria, Luigi Fiorillo, e 19 persone tra dipendenti e amministratori dell’istituto bancario francese, accusati a vario titolo di concorso in bancarotta. L’uomo chiave della vicenda, il manager Giuseppe Maria Pignataro (all’epoca responsabile dei rapporti con i clienti della pubblica amministrazione), ha depositato una memoria che rilegge i fatti e li avvolge in un alone di mistero: Ferrovie Sud-Est - è la tesi di Pignataro - non era in stato di decozione, eppure fu presentato un concordato preventivo per caricare sui creditori il costo del salvataggio. E Bnl alla fine fu costretta a votare a favore del piano di concordato...

DOPO 17 ANNI. Soldi al partito di Fitto, nessun danno alla Regione Puglia. Per la Corte Appello di Bari, «il finanziamento illecito non alterò elezioni». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022.

L’europarlamentare di Fratelli d’Italia Raffaele Fitto non dovrà risarcire la Regione Puglia per l’illecito finanziamento di 300 mila euro al partito "La Puglia Prima di Tutto" erogato dalla società Tosinvest dell’imprenditore romano Gianpaolo Angelucci. Il reato di illecito finanziamento è stato dichiarato prescritto in sede penale anni fa e risale al 2005, quando Fitto era presidente uscente della Regione, ricandidato. Il «no» al risarcimento lo ha stabilito, 17 anni dopo i fatti, la terza sezione civile della Corte di Appello di Bari, pronunciandosi in sede di rinvio, dopo l’annullamento parziale da parte della Cassazione nel 2017. «A differenza della somma di 200 mila euro (anch’essa erogata da Tosinvest e per la quale vi è già stata condanna al risarcimento, ndr) in cui vi è la prova dell’elemento soggettivo, ossia della consapevolezza da parte di Fitto di ricevere una erogazione per interposta persona - scrivono i giudici - , per le ulteriori erogazioni per 300 mila euro non risultano elementi da cui desumere tale consapevolezza». Nella sentenza i giudici, rigettando il ricorso della Regione, motivano anche la insussistenza di un danno non patrimoniale. La Regione sosteneva che «la violazione delle norme sul finanziamento dei partiti, commessa da Fitto in occasione delle elezioni regionali pugliesi dell’anno 2005, avrebbe alterato le regole della sana competizione democratica tra i partiti e avrebbe arrecato un grave danno sia quale ente destinatario di quelle elezioni, sia quale ente rappresentativo dell’intero elettorato attivo pugliese».

Secondo la Corte di Appello di Bari, però, «manca la prova di tale danno effettivo perché, nonostante il finanziamento illecito, le elezioni regionali del 2005 furono vinte dal candidato del centrosinistra, Nichi Vendola, il quale, facendo riferimento a un partito alquanto marginale ed estremo (Prc), attraverso il metodo innovativo e democratico delle primarie, si affermò nella propria coalizione e sconfisse un candidato certamente autorevole come Fitto, già da 10 anni presidente della Regione, così rendendo evidente il fatto che la sperequazione di mezzi non abbia svolto alcun ruolo inquinante della competizione, e tanto meno del suo risultato elettorale». «Risulta, peraltro, - aggiungono i giudici - che i pagamenti ricevuti dal partito "La Puglia prima di tutto", da parte delle società del gruppo Tosinvest, furono erogati nel periodo compreso tra il 4 aprile 2005 e il 4 maggio 2005, durante il cosiddetto "silenzio elettorale", per cui difetterebbe anche la prova del nesso eziologico tra le suddette erogazioni e il lamentato danno da alterazione delle regole della competizione elettorale»

“Zero danni da Fitto”. La Corte di Appello assolve Raffaele Fitto dalle accuse di aver danneggiato la Regione Puglia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Giugno 2022.

La vicenda giudiziaria risale al 2004, quando Raffaele Fitto era presidente della Regione Puglia. la sentenza di ieri ha posto definitivamente la parola fine su un'accusa che si protraeva da diciassette anni, attestando la correttezza con la quale l'onorevole Raffaele Fitto ha amministrato la cosa pubblica, durante il suo mandato di rappresentante regionale

La Corte d’Appello Civile di Bari nel collegio presieduto dal giudice Vittorio Gaeta, relatrice la giudice Paola Barracchia, chiamata dalla Corte di Cassazione a pronunciarsi sul potenziale danno causato alla Regione dalla condotta di Raffaele Fitto quando presiedeva la Regione Puglia, ha ritenuto che non vi fu alcuna illegalità nella gestione del fondo di rappresentanza in quanto le scelte furono tutte compiute nell’ambito dell’esercizio di un potere discrezionale, e quindi in modo non imputabile. La Corte d’ Appello ha anche sentenziato come le iniziative ritenute meritevoli di sostegno regionale non siano apparse “inutili o comunque non prioritarie rispetto a spese più urgenti, oppure non equilibrate quanto ai profili del rapporto costi-benefici o qualità-prezzo o disponibilità di migliori soluzioni alternative“.

I difensori di Raffaele Fitto hanno sottolineato con soddisfazione “la qualità della valutazione e conseguente decisione della Corte, che con la sentenza di ieri ha posto definitivamente la parola fine su un’accusa che si protraeva da diciassette anni, attestando la correttezza con la quale l’onorevole Raffaele Fitto ha amministrato la cosa pubblica, durante il suo mandato di rappresentante regionale“. 

La vicenda giudiziaria risale al 2004, quando Raffaele Fitto era presidente della Regione Puglia. Nel procedimento penale intrapreso per iniziativa della Procura della repubblica di Bari a carico dell’onorevole Fitto, come si legge nella sentenza, veniva contestata una condotta di peculato in concorso con le funzionarie regionali Colafati e Marzo “perché con più atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, il Raffaele Fitto nella qualità di Presidente della Regione Puglia, pubblico ufficiale, titolare del potere di autorizzazione delle spese, la Colafati Anna Maria quale dirigente dell’Area Gabinetto della Regione Puglia, Giovanna Rita Marzo quale funzionario istruttore, si appropriavano della complessiva somma di euro 189.700,00, facente parte del Fondo di rappresentanza del Presidente della Giunta regionale di cui avevano la disponibilità per ragione del loro ufficio“.

In particolare secondo la Procura “in violazione delle norme sulla contabilità, autorizzavano a partire dal 4 febbraio 2005 sino al 30 marzo 2005 periodo della campagna elettorale per le lezioni amministrative regionali l’attribuzione in favore dei soggetti elencati nelle determine dirigenziali della complessiva somma suindicata, per finalità private e, comunque, estranee a quelle previste dalle norme regionali e dello Stato sulle spese di rappresentanza”. Comportamento, che, invece, per i giudici della Corte d’Appello civile non prefigurava alcun danno per l’ente, anzi rientrava fra le prerogative proprie del presidente. Ed ancora una volta le iniziative delle toghe “rosse” di turno della Procura di Bari naufragano sugli scogli della giustizia “giusta” e non politicizzata. Redazione CdG 1947

Puglia, processo ad Emiliano: «Togliete il nome del governatore dalla fattura». Il riferimento è a una ricevuta fiscale nella campagna elettorale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Settembre 2022.

Eliminare il riferimento a Michele Emiliano da una fattura: questa fu la richiesta che da un collaboratore di Margherita srl, azienda foggiana che opera nel settore delle energie alternative, venne rivolta a Eggers, la società di Torino che nel 2017 curò la campagna elettorale del presidente della Regione Puglia alle primarie del Pd. Il particolare è stato rievocato oggi in tribunale nel capoluogo piemontese al processo in cui Emiliano è chiamato a rispondere di finanziamento illecito insieme a suo capo di gabinetto Stefanazzi e agli imprenditori Giacomo Mescia (responsabile per Margherita) e Vito Ladisa (dell’omonima azienda barese di ristorazione).

A parlarne è stato uno dei luogotenenti della guardia di finanza che svolsero l’indagine. Sostiene l’accusa che Margherita e Ladisa si accollarono due fatture emesse da Eggers, che aveva curato la campagna elettorale di Emiliano. Il sottufficiale della guardia di finanza ha fatto riferimento in particolare a una fattura da 24mila euro che la società torinese indirizzò a Margherita: «Nella prima email l’oggetto era "consulenza comunicazione Michele Emiliano". Un commercialista di Margherita rispose chiedendo se si poteva modificare. Nel messaggio successivo il nome di Emiliano non compariva più».

Le lamentele di Emiliano perché riteneva che la campagna elettorale fosse stata scopiazzata 

Dopo il voto per primarie del Pd nel 2017 Michele Emiliano «si lamentò della qualità del lavoro svolto da Eggers», la società torinese che aveva svolto una consulenza per la sua campagna elettorale. A riferire il particolare è stato oggi in tribunale nel capoluogo piemontese un sottufficiale della Guardia di Finanza che svolse le indagini: l’occasione è stata la ripresa del processo in cui il presidente della Regione Puglia è chiamato a rispondere di finanziamento illecito insieme ad altre tre persone.

Rispondendo a una domanda dell’avvocato difensore, Gaetano Sassarelli, il sottufficiale (richiamandosi al contenuto di messaggi acquisiti nel corso degli accertamenti) ha detto che "Emiliano riteneva che la campagna fosse stata scopiazzata da quella di un altro candidato in una diversa occasione elettorale». Quindi ha precisato che questo personaggio era "Debora Serracchiani».

Tangenti e voto di scambio. Crolla il "sistema Emiliano". Annarita Digiorgio l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.  Dimissioni, arresti per mazzette, concorsi truccati: ma il governatore pugliese e la sinistra tacciono.  

Il primo a sentire puzza di bruciato era stato il professor Pierluigi Lopalco, che dopo aver fatto per quasi due anni l'assessore alla sanità della Regione Puglia, decise improvvisamente di rassegnare le dimissioni e allontanarsi dal sistema Emiliano.

Pochi giorni dopo venne arrestato il capo della protezione civile regionale mentre prendeva una tangente nascosta in una fetta di manzo. Secondo la procura speculava sia sui migranti che sui malati Covid. Come accaduto con l'ospedale della Fiera del Levante dove i costi degli affidamenti diretti in forza dello stato d'emergenza sono lievitati dai 9 milioni previsti a 25. Ma mentre tutta Italia attaccava la Lombardia per colpire il centrodestra, gli scandali che vedono protagonista la politica di centrosinistra vengono trattati come una questione locale per nasconderli.

Così è per l'ennesima inchiesta che in questi giorni ha travolto uomini nominati da Michele Emiliano: concorsi pubblici truccati in cambio di voti e posti di lavoro, ma anche sesso, aragoste, cozze, e orate.

L'indagine è stata svelata proprio mentre Enrico Letta e Giuseppe Conte erano a Bisceglie ospiti del delfino di Emiliano, Francesco Boccia. Ma non una parola è arrivata dai progressisti, così intenti a combattere le destre che tacciono su ciò che li riguarda.

«È strano, quasi incredibile, che il Pd, a cominciare dall'onorevole Boccia, continui a non esprimersi sul sistema Emiliano ha detto l'onorevole Mauro D'Attis di Forza Italia Lo stesso sistema che impedisce lo svolgimento di elezioni libere dalla maglia clientelare e che sbarra la strada alle altre forze».

L'ordinanza parla di «desolante panorama di sistemica corruttela che prospera negli affari della Regione Puglia» e spiega che oltre la sanità coinvolge i consorzi di bonifica, carrozzoni con un buco di bilancio di 160 milioni in cui venivano assunti «amici» truccando i concorsi.

«Il silenzio di Emiliano è imbarazzante ha detto Raffaele Fitto e sarei molto curioso di conoscere il giudizio di tante anime belle che in passato, alla semplice notizia di un avviso di garanzia, si ergevano a giudici supremi sputando sentenze e che ora sono diventati afoni».

Rispondono da sinistra i vendoliani: «In Regione Puglia serve una profonda bonifica amministrativa e politica. C'è un pezzo di classe dirigente convinto di una sostanziale impunità». Il gip infatti scrive nell'ordinanza: «Sui criteri di scelta della misure cautelari deve rilevarsi come le richieste formulate dalla procura di Lecce appaiono ben al di sotto della linea di adeguatezza e proporzionalità in relazione alle cogenti esigenze preventive da fronteggiare».

Non a caso proprio in questi giorni Emiliano, che del pm conserva solo il ruolo e l'impunità, ha chiesto di spostare su una procura pugliese il processo per cui è imputato a Torino per finanziamento illecito durante le primarie contro Renzi. «Se la stessa condotta l'avesse avuta un presidente di centrodestra, a quest'ora l'avremmo visto lapidato in pubblica piazza dice Gemmato da Fratelli d'Italia Emiliano sa vincere le elezioni? Col suo metodo saprebbero vincerle tutti».

Le stesse critiche della destra arrivano anche dalla Cigl: «È assordante il silenzio delle più alte cariche politiche. La giustizia deve far il suo corso ma fra documenti e intercettazioni parliamo di inchieste solide dice il segretario regionale del sindacato Al di là della questione penale preoccupa una politica che abbandona gli ideali e cerca solo il consenso elettorale, e cura solo l'interesse particolare se non criminale».

Il sottosegretario all'Interno Ivan Scalfarotto chiede se «davvero Michele Emiliano pensa che il suo metodo di costruzione del consenso sia quello giusto per la Puglia e per il Paese».

Ma da Bisceglie, Letta e Conte dicono di sì. Col solito spauracchio: «Altrimenti arrivano le destre».

Emiliano a processo per diffamazione: “Insinuò legame tra criminalità e l’ex consigliere Cipriani”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Aprile 2022.  

Il governatore pugliese, in occasione della trasmissione televisiva "Viva l' Italia" trasmessa su Rete 4 il 13 settembre 2018, commentando la visita a Bari proprio quel giorno dell'allora ministro dell'Interno Matteo Salvini, avrebbe diffamato l'ex consigliere comunale Luigi Cipriani responsabile del movimento "Riprendiamoci il futuro

Il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano è stato mandato a processo dinanzi al Tribunale Penale di Bari, accusato del il reato di diffamazione a mezzo stampa ( 595 co. 3) . La prima udienza del processo è fissata dinanzi al giudice monocratico Mario Mastromatteo per il prossimo 22 settembre.

Stando al capo d’ accusa imputato dal pm Marcello Quercia, il governatore pugliese, in occasione della trasmissione televisiva “Viva l’ Italia” trasmessa su Rete 4 il 13 settembre 2018, commentando la visita a Bari proprio quel giorno dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, avrebbe diffamato l’ex consigliere comunale Luigi Cipriani responsabile del movimento “Riprendiamoci il futuro” , il quale accolse Salvini nella sede del movimento, nel quartiere Libertà, dove l’ex ministro tenne anche un comizio, “insinuando negli spettatori l’esistenza di un legame tra Cipriani, il suo movimento politico e la criminalità organizzata”.

Luigi Cipriani assistito dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, querelò per tali affermazioni il presidente Emiliano ed adesso nel processo, che si svolgerà a seguito di citazione diretta a giudizio, potrà costituirsi parte civile. Redazione CdG 1947

Emiliano a processo per diffamazione a ex consigliere comunale. Il governatore è stato citato a giudizio dinanzi al Tribunale di Bari. L’udienza dinanzi al giudice monocratico Mario Mastromatteo è fissata per il 22 settembre prossimo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Aprile 2022.

Per il reato di diffamazione a mezzo stampa il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, è stato citato a giudizio dinanzi al Tribunale di Bari. L’udienza dinanzi al giudice monocratico Mario Mastromatteo è fissata per il 22 settembre prossimo.

Stando all’imputazione formalizzata dal pm Marcello Quercia, il presidente Emiliano, nel corso di una trasmissione televisiva in onda su Rete 4 il 13 settembre 2018, commentando la visita dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, a Bari proprio quel giorno, avrebbe diffamato l'ex consigliere comunale e responsabile del movimento "Riprendiamoci il futuro» Luigi Cipriani, che accolse Salvini nella sede del movimento, nel quartiere Libertà, dove l’ex ministro tenne anche un comizio, «insinuando negli spettatori l'esistenza di un legame tra Cipriani, il suo movimento politico e la criminalità organizzata».

Cipriani, assistito dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, querelò il presidente per quella affermazione e nel processo, dopo la citazione diretta a giudizio, potrà costituirsi parte civile contro di lui. 

Migranti: nel 2020 in Puglia vivevano 135mila stranieri. I dati della Cgil: i cittadini stranieri provengono da 167 paesi diversi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.

Erano 135.356 i cittadini stranieri presenti in Puglia al 31 dicembre 2020. Il dato è contenuto nel rapporto sull'immigrazione 2021 presentato dalla Cgil Puglia. La provincia in cui vive il maggior numero di cittadini stranieri è Bari con 40.955, seguita da Foggia con 31.180, Lecce con 26.206, Taranto con 14.405, Brindisi con 11.707 e la Bat (Barletta-Andria-Trani) con 10.903.

Secondo il censimento della sigla sindacale, i cittadini stranieri provengono da 167 paesi diversi: il 54,8% è di origine europea di cui il 33,9% proviene da paesi aderenti all’Ue.

Il secondo continente di provenienza - si apprende dal report della Cgil - è l’Africa con il 23,7% delle presenze, seguito dall’Asia con il 18,1%. La pandemia da Covid - emerge - ha inciso notevolmente sulle dinamiche migratorie regionali. Diminuiti infatti gli spostamenti dall’estero verso la Puglia. Nel 2020 le iscrizioni anagrafiche dall’estero sono diminuite di 2564 unità (-27%) passando da 9501 dell’anno precedente alle 6937 del 2020; così come è calato il numero del rilascio dei permessi di soggiorno. Nel 2019 i permessi rilasciati per la prima volta erano 4909 mentre nel 2020 sono scesi a 3716 con una contrazione del 24%.

«Puglia autentica meraviglia», lo spot è costato 340mila euro. Zullo: «Soldi erogati con affidamento diretto». La replica: «C'era avviso pubblico». Il capogruppo di Fratelli d’Italia nel Consiglio regionale chiede audizione del direttore di Pugliapromozione, Luca Scandale, perché rendiconti nel dettaglio la spesa sostenuta e l’iter del finanziamento. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.

Lo spot promozionale 'Puglia autentica meraviglia' sarebbe costato circa 340mila euro. Soldi pugliesi, di cui 247,8mila con procedura negoziata senza previa autorizzazione, e quindi con affidamento diretto ad una società di produzione audiovisiva leccese, la 'Passo Uno'. La soglia massima per gli affidamenti diretti per i servizi è 215mila euro più Iva, una soglia che permette a Pugliapromozione, ma non solo, di affidare finanziamenti cospicui». A sostenerlo è Ignazio Zullo, capogruppo di Fratelli d’Italia nel Consiglio regionale pugliese. «Un metodo - prosegue - che in Regione Puglia viene tantissimo utilizzato, per cui il sospetto che possano essere sempre gli stessi, o questi più di altri, è forte. Siamo certi che, con una procedura aperta - fermo restando la regia di Sergio Rubini - non si sarebbero potuti scegliere progetti di promozione turistica con più meraviglia?». "Per questo - annuncia Zullo - abbiamo chiesto al presidente della commissione regionale al Turismo, Francesco Paolicelli, di audire il direttore di Pugliapromozione, Luca Scandale, perché venga a rendicontarci nel dettaglio la spesa sostenuta e l’iter del finanziamento».

LA REPLICA: NESSUN AFFIDAMENTO DIRETTO

Per la realizzazione dello spot promozionale della Regione Puglia «non c'è stato affidamento diretto, tutto è stato realizzato con avviso pubblico» e «la documentazione è on line». Così Pugliapromozione replica alle dichiarazioni di questa mattina del capogruppo di Fratelli d’Italia, Ignazio Zullo, che ha sostenuto che «lo spot Puglia autentica meraviglia è costato circa 340mila euro», «soldi pugliesi, di cui circa 250mila euro, esattamente 247,8mila, con procedura negoziata senza previa autorizzazione e quindi con affidamento diretto». «La società di produzione Passo Uno Cinema srl - risponde Pugliapromozione - ha risposto ad un avviso pubblico di Pugliapromozione per la produzione di contenuti multimediali e audiovisivi coerenti con il brief di comunicazione, anch’esso pubblico e, come tale, aperto a tutti gli operatori economici interessati, che l’Agenzia intende mettere in atto. A seguito della presentazione di quattro proposte di differenti operatori economici, si è riunita una commissione tecnica che ha proceduto ad un’articolata valutazione delle stesse, ritenendo la proposta della predetta società congrua ed efficace per la realizzazione dello spot scritto e diretto da Sergio Rubini». «L'affidamento e l'acquisizione di servizi di produzione artistica - spiegano ancora dall’Agenzia regionale - non è avvenuta, dunque, attraverso un affidamento diretto, come sostiene il consigliere Zullo, bensì attraverso una procedura negoziata, nel rispetto dei principi pubblicistici come auspicato proprio dal consigliere Zullo».

IL COMMENTO DI ZULLO

“Ringraziamo PugliaPromozione per la solerzia con la quale ha risposto. Ma i nostri dubbi restano per questo è bene che il confronto avvenga nella sede istituzionale della Commissione regionale dove abbiamo già presentato la richiesta di audizione del direttore Luca Scandale”, ha commentato così il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia, Ignazio Zullo, all’ente regionale.

«Puglia buona a tutto ma prima in nulla». La piaga secolare del clientelismo. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2022.

«Su questa terra di Puglia regna il grigio della mediocrità»: tuonano pesanti in prima pagina sul «Corriere delle Puglie» del 12 aprile 1922 le parole dello studioso Giuseppe Alberto Pugliese, insigne avvocato, nato a Toritto, deputato per diverse legislature.

Le forze della gente di Puglia sono ottime, varie, numerose, esse dovrebbero conseguire un prodotto eccellente, un risultato ottimo: e, invece, scarso è il rendimento nelle arti, nelle scienze, nelle lettere, nelle industrie. «Mai un genio, buoni a tutto, in nulla teniamo il primo posto». Come si spiega tutto questo? Col predominio delle consorterie, delle fazioni, delle clientele, che eliminano i migliori e accolgono i peggiori, tessono una così fitta rete d’intrighi e di interessi da soffocare ogni libertà e indipendenza. Il clientelismo divide per regnare, domina tutto. Per fare l’Italia, conclude il giurista, occorre disfare le clientele politicanti, le consorterie regionali, «bisogna aprire le finestre per dare aria alla casa, promuovere legami liberi, spontanei, onesti, non catene di interessi fra gli individui, i gruppi, i partiti, lo stato».

Esiste una Puglia letteraria? Almeno in campo letterario, Mario Colucci prova a difendere in terza pagina l’onore dei pugliesi.

I settentrionali – che definiscono la nostra regione «la terra di Salandra», facendo riferimento all’illustre presidente del Consiglio nato a Troia – sanno per caso che il celebre commediografo Luigi Chiarelli è di Trani? Che Carlo Veneziani, autore de La finestra sul mondo, non è napoletano, come si crede, ma tarantino? Che il musicista Umberto Giordano ha mosso i suoi primi passi a Foggia?

Ma forse, conclude amaro Colucci, non è da prendersela con i forestieri, piuttosto con questi stessi autori, che sembrano aver dimenticato le proprie origini, tanto vivono lontano dalla loro terra. Rimangono qua e là, «come fari non nel deserto, ma tra gli uliveti e le vigne e le ridenti case del Salento», alcuni solitari innamorati dell’arte. Chi sono?

Romolo Caggese, storico nato ad Ascoli Satriano, autore di una fortunata storia di Firenze; Michele Saponaro, romanziere leccese, diventato celebre con il suo «Fiorella». Ci sono poi il poeta di Rodi Alfredo Petrucci, il tarantino Cesare Giulio Viola, e molti altri autori all’attivo in Puglia nel ‘22. Vale, infine, la pena di citare il filologo ed erudito Nicola Zingarelli, nato a Cerignola, ma stabilitosi a Milano: diventato celebre per la monumentale opera del «Vocabolario della lingua italiana», ha in preparazione, rivela l’elzevirista, anche una nuova edizione dell’opera dantesca.

Ecco la parentopoli dell’Arpal Puglia dove lavorano politici e parenti alleati di Massimo Cassano. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2022. Sul profilo Facebook di Massimo Cassano, direttore generale dell’Arpal, c’è un post del 10 marzo in cui «il coordinamento regionale di Italia Popolare ed il sen. Massimo Cassano salutano l’ingresso in Italia Popolare del quinto Municipio» di Bari. Ed è da questo post che conviene partire per raccontare cosa sta avvenendo da mesi nell’Agenzia per il lavoro della Regione Puglia.

La foto che ritrae il quartetto di appartenenti a Puglia Popolare è infatti scattata all’interno della direzione generale dell’Arpal. E tra i quattro, non citato nel post, c’è Alessandro Lapenna, avvocato, consigliere al Municipio Palese, di cui è stato candidato presidente per la Lega. Lapenna è anche cugino della moglie del senatore Cassano, e lavora in Arpal tramite una agenzia interinale.

Perché mentre tutti guardano ai concorsi organizzati dall’Arpal (oggetto di polemiche infinite) nessuno si accorge che l’agenzia, attraverso una Ati tra due enti di formazione (Epcpec e Ageform) e una società interinale (Job Italia) impiega a chiamata diretta quasi 500 persone. È il personale addetto ai centri per l’impiego con i relativi formatori. E tra loro tanti sono «amici di» o «parenti di».

Prendiamo un’altra foto, sempre del 21 marzo. Ritrae due dei tre consiglieri del Comune di Bari che quel giorno sono ufficialmente transitati nel partito di Cassano: Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio (eletto con Sud Al Centro, che fa capo al marito dell’assessore regionale Anita Maurodinoia) e Giuseppe Neviera (eletto nella lista dell’ex assessore regionale Alfonso Pisicchio). Di Giorgio ha due figli, entrambi assunti tramite Ecpep: Annamaria, assegnata alla direzione generale Arpal, e Pasquale (detto Livio), «collaboratore mirato», quest’ultimo peraltro collega di lavoro di Alessandro D’Ambrogio, cugino del direttore generale anche lui preso tramite Ecpep. Neviera ha una figlia, si chiama Gaia: è stata assegnata al Centro per l’impiego di Rutigliano.

Già senza addentrarsi troppo, chi conosce le cose della politica ha ben chiaro un punto: in Arpal hanno trovato spazio i quadri dirigenti della formazione politica fondata dal direttore generale dell’agenzia. Puglia Popolare a Bari ha un coordinatore provinciale, Simona Vitucci, che è anche consigliere comunale a Modugno. L’avvocato Vitucci (che nel frattempo ha presentato le dimissioni da coordinatore provinciale della lista) risulta assunta, tramite Ecpep, nella direzione generale dell’Arpal. Cassano ha poi uno storico riferimento politico a Terlizzi, il vicesindaco Francesco Tesoro detto Franco: la figlia, Mariangela, è stata assegnata al Centro per l’impiego di Bitonto. A Triggiano il riferimento politico di Cassano si chiama Mauro Battista, consigliere comunale già candidato alle elezioni regionali: anche lui lavora nella direzione generale dell’Arpal, fianco a fianco con il direttore.

Torniamo al Comune di Bari che è - per ovvi motivi - il cuore dell’attività politica sul territorio. Nella segreteria cittadina di Puglia Popolare c’è l’ex consigliere comunale Mimmo Sciacovelli. Il figlio si chiama Michele, consigliere del Primo Municipio, che è stato assunto al Centro per l’impiego di Barletta. Un altro ex consigliere è Francesco De Carne, ora nella segreteria cittadina di Puglia Popolare: il figlio Gaetano ha avuto un contratto interinale nella sede di Molfetta. Tra gli interinali (che politicamente valgono meno, perché i contratti sono a scadenza e quasi certamente non verranno rinnovati) ci sono diversi altri rappresentanti cittadini di Puglia Popolare della provincia di Bari (Mola, Santeramo), ma non solo: assunzioni interinali sono state fatte in tutte le province. Ad esempio a Lecce dove, ad esempio, ci sono quattro residenti dell’area di Copertino, il feudo elettorale dell’assessore al Lavoro, Sebastiano Leo, che oltre ad essere l’alleato di Cassano alle Regionali è anche l’assessore da cui dipende l’agenzia Arpal. Lui, però, smentisce ogni collegamento e del resto nulla autorizza a fare illazioni sulla paternità delle assunzioni: «Copertino è un paese piccolo - dice - ma di quello che accade in Arpal non so assolutamente niente. I somministrati termineranno tra un mese perché ormai non ci sono più risorse».

In queste assunzioni formalmente non c’è alcuna irregolarità, anche perché non sono assunzioni dirette in Arpal e gli enti di formazione hanno assoluta autonomia. E alcune delle persone di cui abbiamo parlato hanno partecipato ai concorsi pubblici e non sono risultate idonee. Certo, attraverso l’accordo con Epcpep-Ageform è stata allargata la platea dei formatori storici, passata da 77 a 120 dipendenti: quelli della vecchia guardia aspirano alla pensione, i nuovi invece puntano all’assunzione in Arpal. Che non potrà prescindere da un nuovo concorso pubblico, quello per «orientatori», bandito con le procedure semplificate (prova unica) e soprattutto con la valutazione dei titoli: e chi ha lavorato in un centro dell’impiego ottiene punti in più. L’affidamento a JobItalia della fornitura del personale somministrato è avvenuta (almeno in parte) senza gara d’appalto. Il «sales manager» di JobItalia è Paola Scrimieri, sorella di Pietro Scrimieri, direttore delle risorse umane di Acquedotto Pugliese, manager molto stimato anche da Cassano che presta la sua opera come presidente di alcune commissioni di concorso dell’Arpal (oggi, 12 aprile, ha comunicato la rinuncia agli incarichi). Entro aprile nell’agenzia prenderanno servizio oltre 1.000 vincitori di concorso tra tempi determinati e indeterminati. Ma i concorsi Arpal (così come alcuni appalti) meritano un’altra puntata di questa interessante storia.

CONSIGLIERI DI MAGGIORANZA: FAR CADERE DG ARPAL

Dopo l’inchiesta pubblicata stamattina dalla “Gazzetta” il centrosinistra chiede di cacciare il direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. E lo fa nel modo più violento possibile. Depositando una proposta di legge (primo firmatario Antonio Tutolo, poi Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea del Pd) con cui chiede la decadenza del dg e la nomina di un amministratore unico alla guida dell’agenzia regionale. La proposta di legge vuole evitare che Cassano possa rimanere alla guida dell’Arpal: impone che l’amministratore unico abbia un "titolo culturale" più aderente alla competenza in diritto del lavoro (laurea in giurisprudenza o economia) e l’esperienza per oltre cinque anni come dirigente nella pubblica amministrazione ("che peraltro è il criterio minimo d’esperienza per la partecipazione ai concorsi pubblici afferenti la dirigenza”, dicono i firmatari), o all’incarico di professore universitario di ruolo nelle materie giuridiche o l’iscrizione da almeno dieci anni nell’elenco degli avvocati cassazionisti.

Bufera parentopoli Arpal Puglia, ai politici pure incarichi legali. Spunta una consulenza al consigliere barlettano Bufo: la figlia presa come interinale. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Aprile 2022.

La prima coincidenza è stata già raccontata negli scorsi giorni. Teresa Rita Bufo, figlia del consigliere comunale barlettano Giuseppe Bufo, è una delle 230 persone che hanno superato la selezione interinale indetta dall’agenzia per il lavoro pugliese Arpal. La seconda coincidenza riguarda il padre, uno degli esponenti politici che hanno aderito alla lista Puglia Popolare del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. Anche il padre, come la figlia, ha ottenuto un incarico dall’Arpal.

Coincidenze. O, per dirla con il presidente della Regione, Michele Emiliano (che giorni fa ha minimizzato il caso delle parentele rinvenute nelle liste del personale Arpal), «ricorrenze». Fatto sta che il 22 febbraio scorso l’avvocato Giuseppe Bufo ha ottenuto dal direttore generale Cassano l’incarico per assumere il patrocinio legale dell’Agenzia davanti alla sezione Lavoro del Tribunale di Trani, in un procedimento (udienza prevista il 13 giugno) di accertamento tecnico preventivo attivato da un dipendente, procedimento in cui è parte anche la stessa Regione.

Dal punto di vista tecnico si tratta di una consulenza professionale da circa 1.016 euro, in sé assolutamente legittima. Resta, appunto, la doppia coincidenza. Giuseppe Bufo è passato con Puglia Popolare il 7 agosto 2021, quando ha esordito nel nuovo ruolo politico con la richiesta di azzeramento della giunta. Tre mesi dopo, il 13 ottobre 2021, il sindaco di Barletta, Mino Cannito, è stato sfiduciato con il voto decisivo dell’avvocato 58enne eletto nel 2018 con la coalizione di maggioranza. Il 9 novembre 2021 l’agenzia interinale JobItalia pubblica il bando per la ricerca del personale da impiegare in Arpal (un bando che doveva rimanere aperto 4 giorni ma che poi è stato prorogato dopo la pubblicazione di un articolo su «Repubblica»): tra i vincitori c’è appunto Teresita Bufo, 25 anni, laureata, assunta con contratto di somministrazione di categoria D, che è stata destinata al Centro per l’impiego di Corato e che ora potrà partecipare a un concorso propedeutico alla stabilizzazione. L’8 febbraio l’Arpal chiede all’avvocato Bufo un preventivo «per affidamento di incarico di rappresentanza e difesa in giudizio» dell’agenzia davanti al Tribunale di Trani. L’incarico si perfeziona quattro giorni dopo, giusto in tempo per il deposito della memoria in Tribunale.

Il caso della Parentopoli, con l’assunzione in Arpal (tramite agenzia interinale, o nelle liste dei «formatori» dell’ente di formazione Epcpec) di consiglieri comunali, circoscrizionali (o loro parenti) che hanno aderito alla lista di Cassano, è stato sollevato la scorsa settimana dalla «Gazzetta». L’elenco delle coincidenze è lungo. A partire dal Comune di Bari, dove Puglia Popolare ha costituito il gruppo politico a Bari: all’Arpal sono entrati come formatori i due figli del consigliere Giuseppe Di Giorgio (Annamaria, in direzione generale, e Pasquale detto Livio, «collaboratore mirato») e la figlia del consigliere Giuseppe Neviera, Gaia (al Centro per l’impiego di Rutigliano). Al 5° Municipio la lista di Cassano può contare sul consigliere Alessandro Lapenna (cugino della moglie del dg), che ha avuto un contratto interinale così come il consigliere Michele Piscopo. Anche la (ex) segretaria provinciale barese di Puglia Popolare, Simona Vitucci, che è anche consigliere comunale a Modugno, ha un avuto un contratto da formatore con Epcpep, così come Mauro Battista, consigliere comunale di Triggiano, e Mariangela Tesoro, figlia del vicesindaco di Terlizzi, Franco. Tutti esponenti politici che hanno aderito alla lista di Cassano. Situazioni simili ci sono anche in altri Comuni dove si voterà a giugno, e dove Puglia Popolare presenterà le liste. Anche per questo, quattro consiglieri regionali di maggioranza (Tutolo, Amati, Mazzarano, Mennea) hanno presentato una proposta di legge per far decadere Cassano. Emiliano, a prescindere dalle «ricorrenze», ha aperto alla possibilità che l’Arpal possa essere affidata a un consiglio di amministrazione.

I NODI DELLA POLITICA. Arpal, quelle assunzioni dopo i cambi di casacca. Oltre a Bari anche Barletta: piazzata pure la figlia di Bufo (passato con Cassano) che ha sfiduciato il sindaco Cannito. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.

Il 13 ottobre 2021 il sindaco di Barletta, Mino Cannito, è stato defenestrato con una mozione di sfiducia. A risultare decisivo è stato il voto di Giuseppe Bufo, consigliere all’epoca appena transitato dalla maggioranza in Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. Anche la figlia di Bufo, Teresita, come i figli dei due consiglieri comunali baresi che a marzo hanno scelto di passare con Cassano, ha ricevuto un contratto interinale all’Arpal.

Nulla autorizza a ipotizzare nessi di causa ed effetto, e tantomeno accordi illeciti. Ma dall’esame delle liste delle persone che - tramite due enti di formazione, o attraverso una agenzia interinale - stanno lavorando in Arpal, emerge forte la coincidenza già evidenziata ieri: tanti esponenti politici (o loro parenti) che aderiscono alla formazione politica di Cassano hanno trovato posto nell’agenzia per il lavoro.

Della giovane Teresita Bufo si ricorda, a dicembre 2019, l’assunzione nella Barsa, la municipalizzata di Barletta, con la mansione di netturbino. I social restituiscono tante foto della 25enne barlettana ai concorsi di bellezza, mentre le cronache locali raccontano che a luglio 2020 la Barsa ne ha disposto il licenziamento per giusta causa: avrebbe abusato dei permessi ex legge 104. Poco dopo, tramite una società interinale, la dottoressa Bufo è entrata in Arpal, assegnata al centro per l’impiego di Corato. Il padre, nel frattempo ricandidato al consiglio comunale di Barletta, nei giorni scorsi ha annunciato che Puglia Popolare sosterrà il candidato sindaco del Pd. Nel frattempo, in parallelo al licenziamento dalla Barsa, Teresita Bufo è stata rinviata a giudizio per truffa aggravata ai danni dell'Inps: il processo davanti al Tribunale di Trani partirà il 17 maggio.

Anche a Bari, a marzo, Puglia Popolare ha costituito il suo gruppo. Ne fanno parte la capogruppo Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio e Giuseppe Neviera. All’Arpal sono entrati come formatori i due figli di Di Giorgio (Annamaria, in direzione generale, e Pasquale detto Livio, «collaboratore mirato») e la figlia di Neviera, Gaia (al Centro per l’impiego di Rutigliano). Ma a Bari è ancora più particolare quanto avvenuto nel 5° Municipio, dove - anche grazie alla campagna acquisti di Cassano - il centrosinistra non ha più opposizione. Con Puglia Popolare sono passati la grillina Teresa Valerio e i meloniani Michele Piscopo e Alessandro Lapenna: l’accordo è stato suggellato con una foto nella sede dell’Arpal. Di Lapenna, candidato presidente per il centrodestra e cugino della moglie di Cassano, abbiamo detto ieri: contratto interinale. Stessa cosa è avvenuta per Piscopo: anche per lui contratto interinale, sempre a Bari. Entrambi, a febbraio, sono stati espulsi da Fratelli d’Italia.

Il direttore Cassano si è difeso dicendo che Epcpec è un «ente privato» e assume chi vuole, mentre la società interinale ha fatto regolari selezioni di cui il direttore generale non si è interessato. Ma Cassano ha detto che non poteva impedire ad esempio a suo cugino, Alessandro D’Ambrogio, di presentare il curriculum.

Ieri i formatori assunti da Epcpep-Ageform per prestare servizio in Arpal erano riuniti in assemblea. L’agenzia ha comunicato loro che il contratto di appalto (6 milioni l’anno) scadrà il 22 maggio e non verrà rinnovato. Dovrà essere la Regione adesso a occuparsi del futuro dei 140 formatori, che hanno la clausola sociale: l’argomento finirà sul tavolo della task force per l’occupazione. I formatori storici temono - con qualche ragione, visto ciò che è emerso - che l’inserimento nei ranghi di persone collegate alla politica induca la Regione a non rifinanziarne l’attività, con il rischio di rimanere senza lavoro. I 236 interinali, invece, termineranno il servizio alla fine della prossima settimana, senza possibilità di rinnovi: sono stati scelti attraverso una selezione lampo, pubblicata l’11 novembre e chiusa due giorni dopo: il requisito principale per partecipare era proprio sapere della selezione...

Arpal Puglia nel caos Parentopoli: spunta bando su misura per assumere parenti. Ma Tutolo attacca: «I politici assunti? Uno schiaffo ai disoccupati pugliesi». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.

Michele Emiliano difende l’operato del direttore generale Massimo Cassano ma allo stesso tempo apre alla possibilità di affidare l’Arpal a un consiglio di amministrazione. La risposta del presidente della Regione sul tema della parentopoli nell’agenzia per il lavoro viene letta come un tentativo di mediare con il Pd, che ha depositato una proposta di legge per la decadenza di Cassano e che - non a caso - ha rinviato ogni decisione sul punto a martedì prossimo.

Emiliano ha preferito parlare di concorsi, che sono una questione diversa: «Come sempre in questi casi - ha detto Emiliano - ci sono delle ricorrenze, io me le ricordo per tutte le agenzie della Regione Puglia, me le ricordo in ogni situazione, noi stiamo cercando di fare in modo che ci sia la trasparenza e la regolarità più assoluta. Dopodiché non so se ci sono parentele, amicizie, connessioni di partito all’interno di questi concorsi. Credo che la cosa più importante sia rispettare il principio dei concorsi, in ogni caso ho visto anche che molti dei soggetti che avevano avuto contratti interinali non hanno superato il concorso pubblico, quindi questo mi dice che la legge funziona». Emiliano ha poi detto di non avere «cognizione» della proposta di legge firmata dal civico Antonio Tutolo e dai dem Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea. «C’è una discussione aperta - ha aggiunto Emiliano - sulla possibilità di costituire un consiglio di amministrazione dell’Arpal e poi di individuare un amministratore delegato o un direttore generale all’interno del consiglio. Nella fase fondativa abbiamo adottato per l’Arpal le regole che sono proprie anche di altre agenzie, non c’è nulla di male se si ritiene di inserire anche un consiglio di amministrazione nell’Arpal e se questo tranquillizzerà tutti quelli che si sentono inquietati dal fatto che obiettivamente abbiamo assunto tantissime persone». Infine, sulle assunzioni, un messaggio che va interpretato: «Anche in sanità stiamo assumendo migliaia e migliaia di persone. Anche lì non escludo che ci siano parenti di sindacalisti, di politici. Può essere, anche perché non esiste la regola che la parentela impedisca la partecipazione a un concorso pubblico».

Le decisioni sono rinviate a dopo Pasqua. Ma se si dovesse trovare l’accordo sull’istituzione di un cda, la difesa formale dell’operato di Cassano fatta da Emiliano non ne potrebbe impedire l’avvicendamento o la «sterilizzazione». Perché il malcontento del Pd sulla gestione dell’Arpal fa il paio con i mal di pancia più o meno espliciti del centrodestra. E con il voto segreto tutto può accadere.

«Non mi innamoro delle mie proposte - è il commento del consigliere Tutolo, primo firmatario della legge per la decadenza di Cassano -, ma quello che è accaduto in Arpal è offensivo per le decine di migliaia di disoccupati della Puglia. Se si vuole immaginare un nuovo modello di governance per l’agenzia, possiamo discuterne. Ciò che non è derogabile sono le competenze, perché chi guida l’Arpal non può essere un politico». Tutolo insiste sulla Parentopoli: «Quello che è accaduto - dice - è davvero brutto: una enorme schifezza. Cosa pensano di noi i disoccupati? Mi vergogno e chiedo scusa io ai pugliesi per quello che sta accadendo. L’Arpal doveva occuparsi di gestire gli uffici di collocamento ma è diventata l’ufficio di collocamento dei figli dei consiglieri comunali. I casi sono documentati. E non so come faccia Emiliano a definirli “ricorrenze”».

I formatori presi in Arpal attraverso l’ente Ecpep termineranno il servizio il 22 maggio, mentre per gli interinali la scadenza dei contratti è la prossima settimana. È tra questi circa 500 lavoratori che si concentra il maggior numero di politici e loro parenti, e forse anche per questo l’orientamento della Regione è di non concedere ulteriori proroghe. Ma sembrerebbe che l’Arpal abbia già aperto una porta secondaria per sistemarne alcuni. Il 3 marzo è stato infatti pubblicato un bando per assumere a tempo indeterminato 6 «orientatori specialisti», funzionari che (è scritto proprio nel bando) sono equivalenti allo «specialista in mercato e servizi per il lavoro». Per questo ultima figura, giusto cinque giorni dopo il nuovo bando, l’Arpal ha pubblicato la graduatoria del concorso bandito ad agosto 2020: contiene 178 vincitori e 90 idonei. Vista l’equivalenza tra le due figure, sarebbe stato più logico (e più economico) far scorrere la graduatoria già vigente e assumere come «orientatori» i primi sei idonei del concorso per «specialisti»: l’Arpal si è accorta di avere bisogno degli «orientatori» proprio cinque giorni prima che uscisse la graduatoria degli «specialisti», ed evidentemente nessuno si è reso conto che sarebbe bastato aspettare. Ma a guardare bene, tra i due bandi c’è una differenza non secondaria. Quello per gli orientatori, infatti, assegna fino a 30 punti ai titoli. E di questi, 15 punti sono riservati all’esperienza lavorativa. Ogni trimestre trascorso come formato- re in Arpal vale un punto. Se dunque gli interinali dovranno accontentarsi di uno o due punti, i formatori ex Epcpep ne avranno otto (quelli storici anche 15). E otto punti, in un concorso pubblico, sono un bel vantaggio.

IL BANDO. Arpal Puglia, a Bari c'è un altro concorso per aiutare i «politici». In palio 31 posti a tempo determinato, previsti punti in più per chi ha lavorato come interinale o formatore. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Aprile 2022.

C’è un bando dell’Arpal Puglia, appena scaduto, che mostra plasticamente il possibile percorso disegnato per consentire ai lavoratori interinali e ai formatori (i cui contratti sono in scadenza) di avere un posto stabile all’interno dell’agenzia per il lavoro. Si tratta, come è facile verificare, di una procedura assolutamente legittima, che consente a chi è stato selezionato con modalità discrezionali di avere una chance in più degli altri partecipanti ai concorsi pubblici.

Negli scorsi giorni è infatti scaduto il termine per partecipare al concorso per 31 posti di funzionari e impiegati a tempo determinato. Si tratta di uno di quei concorsi «semplificati» (previsti dalle nuove normative) in cui la selezione avviene per titoli e colloquio. Sui 70 punti complessivi per i titoli, quelli riservati ai «titoli di carriera» sono 40. E - proprio come per l’altro concorso di cui la «Gazzetta» ha parlato ieri - anche in questo caso c’è un consistente premio: 2 punti per ogni bimestre, pari a 12 punti l’anno, per chi ha già lavorato in Arpal «con contratti di lavoro flessibile (a tempo determinato, di formazione e lavoro, di somministrazione, di collaborazione)», 3 punti l’anno per chi ha fatto il formatore nelle società di formazione professionale.

Negli scorsi giorni la «Gazzetta» ha mostrato la presenza, negli elenchi di interinali e formatori, di consiglieri comunali e municipali (e relativi parenti) che aderiscono a Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale di Arpal, Massimo Cassano. Situazioni che il presidente della Regione ha definito «ricorrenze» (coincidenze), pur mostrandosi disponibile ad affidare l’agenzia a un consiglio di amministrazione che «sterilizzi» il ruolo di Cassano. Interinali e formatori possono legittimamente partecipare ai bandi dell’Arpal, come quello per i 31 posti, e infatti lo hanno fatto (le liste degli ammessi sono pubblicate su Internet). Tra i concorrenti (ripetiamo: legittimamente) ammessi al concorso ci sono ad esempio Teresa Rita Bufi, figlia del consigliere comunale di Barletta che ha aderito alla lista di Cassano e ha poi fatto cadere il sindaco Cannito, o anche Simona Vitucci, consigliere comunale di Modugno e segretaria provinciale (ex, secondo Cassano) di Puglia Popolare, o anche Cosimo Boccasile, consigliere del 1° Municipio di Bari, altro fedelissimo di Cassano.

Il concorso avrà il suo iter, senza ombra di dubbio regolare, con la commissione che sarà individuata dopo la girandola di rinunce degli ultimi giorni. Sono in palio contratti di 18 mesi. Ma mentre interinali e formatori stanno per tornare a casa, chi entrerà a tempo determinato grazie a questo concorso potrà poi essere prorogato e (dopo 36 mesi) anche stabilizzato. E chissà se quei punti in graduatoria conquistati grazie ai titoli di carriera faranno la differenza nella conquista dell’agognato posto di lavoro. 

Il Distretto aerospaziale pugliese, eccellenza italiana sul canale televisivo Chilevisión. Da oggi a venerdì la troupe dell’emittente cilena si muoverà tra l’aeroporto di Grottaglie, il porto di Brindisi e Bari per la realizzazione di sei servizi. la Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.  

C’è la Puglia dell’aerospazio nel racconto che il canale televisivo nazionale cileno Chilevisión, su iniziativa dell’Ambasciata d’Italia e in collaborazione con la Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sta realizzando sulle eccellenze tecnologiche e produttive dei distretti industriali italiani.

Oltre al Distretto aerospaziale pugliese, gli altri distretti industriali coinvolti nel progetto, selezionati  in collaborazione con Confindustria nazionale, sono: in Lombardia, la filiera Design-Arredo e  il distretto della Cosmetica; nel Veneto  il distretto dell’Occhialeria e il distretto della Giostra del Polesine; in  Emilia Romagna la Motor Valley e la Food Valley: nelle regioni Marche e Umbria il distretto Calzaturiero Fermano-Maceratese e  la filiera del Cachemire; in Campania il distretto Orafo/Corallo e il distretto della Pasta.

PERCHE' LA PUGLIA - La Puglia contribuisce in maniera determinante al significativo ruolo che il nostro Paese svolge nel settore aerospaziale. Lo descrivono i numeri delle aziende (oltre 80), degli addetti (inclusi i ricercatori oltre 7.000) e il valore delle esportazioni che nel 2018 è stato di 561,6 milioni di euro, con un'incidenza sull'export nazionale che ha superato il 9,7%, e nel 2019 un fatturato export di 738 milioni di euro, in crescita del 31,8 per cento nel 2019 rispetto all’anno precedente e un’incidenza sul risultato delle esportazioni nazionali dell’11,9% Grazie all'alto livello di competenza le imprese pugliesi sono presenti in molti dei programmi internazionali sia di natura industriale che istituzionale. Le competenze riguardano la progettazione, costruzione, integrazione e supporto a sistemi complessi di aeromobili ed elicotteri; la progettazione e manutenzione di propulsori per l’aeronautica militare e civile e lo spazio; la progettazione e lo sviluppo di componentistica hardware e sistemi software avanzati per applicazioni aerospaziali, civili e militari, la progettazione e produzione di microsatelliti, lo sviluppo di applicazioni nel settore dell’osservazione della Terra, della navigazione satellitare e le telecomunicazioni. Ricerca, innovazione e formazione sono stati determinanti per la crescita ed il consolidamento dell’aerospazio pugliese ed hanno contribuito a rafforzarne la reputazione a livello internazionale.

Il programma di Chilevisión si struttura in 6 episodi della durata di 30 minuti ciascuno, articolati in visite in loco presso stabilimenti produttivi dal Nord al Sud del Paese, con interviste a imprenditori e lavoratori. La missione  pugliese della Tv cilena è cominciata oggi, 6 aprile, a Grottaglie, e si concluderà a Bari venerdì, 8 aprile. Nella prima giornata le riprese della Tv cilena hanno riguardato l’aeroporto di Grottaglie « Marcello Arlotta », dove Giuseppe Acierno, presidente del  Distretto Tecnologico Aerospaziale,  è stato intervistato e ha raccontato delle attività svolte per rafforzare il sito in una attività di sistema. “Siamo oltremodo soddisfatti per essere stati individuati da Confindustria nazionale come una delle eccellenze italiane da presentare nei servizi sul Made in Italy per la televisione cilena  e per essere stati indicati come l’eccellenza pugliese”, sottolinea Acierno. “Si tratta di un riconoscimento per  la crescita ottenuta nel corso degli anni dal  settore aerospaziale pugliese che, seppure colpito dagli effetti della pandemia, conferma il suo alto tasso di dinamismo e di innovazione, e continua a operare in una logica di sistema per raggiungere obiettivi sempre più ambiziosi a livello nazionale ed internazionale”, conclude il presidente del Dta.

“La troupe cilena ha visitato successivamente  lo stabilimento di Leonardo, dove sono stati intervistati: Jimmy Pelaez, Senior Manager di  Boeing Global Field Operations per l’area Emea e della catena di approvvigionamento per l’Europa ; Raffaele Gargiulo, vicepresidente dei programmi Boeing di Leonardo che a Grottaglie realizza le fusoliere per il Boeing 787. Sono state programmate anche attività di volo di droni, posto che Grottaglie è stato riconosciuto come airport test bed per le attività dei velivoli senza pilota, e dell’idrovolante con le ali ripiegabili “Seagull” che  sta realizzando Novotech, azienda con stabilimento produttivo ad Avetrana. L’idrovolante in questo periodo sta effettuando proprio presso l’aeroporto di Grottaglie le prove per ottenere le certificazioni alle attività di volo. Le attività di volo dei droni e del Seagull sono programmate per oggi pomeriggio.

Domani, giovedì 7 aprile, in mattinata, la troupe della Tv cilena sarà a Brindisi, dove è stato organizzato un tour nell’area portuale con l’obiettivo di rappresentare al meglio le potenzialità dello scalo sul piano delle infrastrutture, della logistica e delle attività turistico-culturali collegate. Sarà anche l’occasione per far conoscere ai cileni alcune imprese del territorio. Al tour parteciperanno; Alessandro Delli Noci, Assessore regionale allo Sviluppo Economico; Giuseppe Danese, presidente del  Distretto  della Nautica Pugliese;  Teo Titi, Presidente Nazionale della sezione Yacht di  Federagenti.   Venerdì, ultimo giorno  dedicato all’aerospazio pugliese, la troupe cilena si sposterà a Bari per una intervista a Mariella Pappalepore, presidente di Planetek, azienda barese che si occupa tra l’altro di: Elaborazione di dati satellitari, aerei e da droni per la produzione di cartografia e informazioni geografiche e di progettazione e sviluppo di infrastrutture di dati spaziali (SDI) per l'archiviazione dei dati geospaziali e la loro gestione e condivisione.

Teatro Petruzzelli a Bari, quando il pm scrisse «Ricostruzione, costi gonfiati». Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 aprile 2022.

Che il teatro Petruzzelli fosse privo del certificato di agibilità era cosa nota anche alla Procura di Bari. La circostanza spunta da un fascicolo impolverato aperto nel lontano 2014 a seguito di un esposto dei Messeni sulla asserita «sistematica lievitazione esponenziale dei costi» per ricostruire il politeama.

Il pm procede così per abuso d’ufficio. Nel mirino della magistratura inquirente barese finisce l’operato del Commissario delegato alla ricostruzione, Angelo Balducci. Diciamolo subito, le posizioni di quest’ultimo, della delegata al Commissario e dell’allora responsabile del procedimento in relazione ipotesi inizialmente formulate sono state a suo tempo tutte archiviate. Il decreto a firma dell’allora gip del Tribunale di Bari Roberto Olivieri del Castillo, firmato nel lontano 26 luglio 2016, va in questa direzione. La prescrizione, infatti, ha estinto l’eventuale reato, sempre ammesso fosse stato commesso.

«Gli elementi acquisiti integrano gli estremi del reato» di abuso d’ufficio «con il requisito della cosiddetta doppia ingiustizia», scriveva anche il pm Domenico Minardi nella richiesta di archiviazione «ma il reato è estinto per decorso del termine di prescrizione».

Recuperare quanto la Procura aveva ricostruito nel fascicolo iscritto al numero 17422/2014 delle notizie di reato, diventa interessante alla luce di quanto la Gazzetta ha raccontato ieri sulle complesse vicende urbanistiche e catastali che ruotano intorno al teatro. Ad oggi, infatti, il politeama è accatastato come «unità collabente», ovvero un rudere. Inoltre, dal 2010, quando il Consiglio comunale deliberò in autotutela di revocare unilateralmente la propria adesione al Protocollo d’Intesa del 2002 sulla ricostruzione, il bene è rimasto in un limbo, dal momento che, annunci a parte, non è mai diventato demaniale. Del resto, nonostante il proclama dell’allora sindaco Michele Emiliano («Il Consiglio comunale di Bari ha affermato che il Petruzzelli è di proprietà pubblica e che appartiene al Comune di Bari»), non sarebbe mai potuto diventarlo. Avvocatura dello Stato e Agenzia delle Entrate hanno frenato sul punto sin da subito. Facile intuire che una delibera di Consiglio comunale non è sufficiente per andare in Conservatoria dei registri immobiliari e intestare un bene. Ma, soprattutto, il politeama è tuttora privo di agibilità edilizia e urbanistica.

Quanto alla «assenza tout court del certificato di agibilità», si legge nella richiesta di archiviazione del vecchio fascicolo, nessun rilievo penale. Al massimo la fattispecie è prevista come un mero «illecito amministrativo». Illecito che, però, non risulta sia stato mai perseguito né sanzionato, come prevede il Testo unico sull’edilizia. In teoria, chi doveva perseguirlo sarebbe stato lo stesso Comune che faceva e fa usare tuttora il teatro Petruzzelli alla Fondazione.

Per ricostruire quella lontana vicenda, la guardia di finanza sente all’epoca alcune persone informate sui fatti. Tra i testimoni figurano naturalmente alcuni dirigenti del Comune. A fine ottobre 2015, il responsabile della Ripartizione urbanistica ed Edilizia privata spiega: «Questo ufficio, per quanto rilevabile in atti, non ha rilasciato alcun certificato di agibilità relativamente alla parte del compendio che costituisce il teatro Petruzzelli né tanto meno, dalla consultazione al data base dell’Amministrazione, risultano pervenute istanze in tal senso». Il tenore è identico a quanto due settimane fa lo stesso dirigente ha scritto alla famiglia proprietaria del teatro. I militari sentono anche il dirigente della ripartizione Infrastrutture, Viabilità e Opere pubbliche. Chissà che loro non ne sappiano qualcosa. Macché. «Questo ufficio non ha svolto alcun ruolo nell’ambito di riqualificazione e risanamento del teatro Petruzzelli e, nello specifico, non ha rilasciato alcun certificato di agibilità», dichiara il dirigente interpellato nel novembre 2015.

Gli investigatori ricostruiscono in quel fascicolo anche gli appalti e la messa in opera di arredi, attrezzature, impianti di illuminotecnica e macchina scenica. Il pm, nella richiesta di archiviazione annota: «I lavori di ricostruzione, osservava la guardia di finanza nella analitica nota d’indagini, erano proseguiti a totale carico dello Stato, con aggravi di spesa correlati alle varianti in corso d’opera in assenza della detta copertura finanziaria con un significativo danno erariale». Sarebbe, dunque, spuntato persino un profilo suscettibile d’interesse da parte della corte dei Conti.

Ma se, tornando al profilo penale, non è stato possibile approfondire i sospetti visto il decorso del tempo, fa riflettere che, tra i 41 milioni di euro che i proprietari debbono restituire allo Stato come stabilito dalla Corte d’Appello, c’è una quota che, per la Procura venne gonfiata illecitamente. E pensare che proprio gli stessi Messeni, assistiti dall’avvocato Ascanio Amenduni, nel lontano 2007, avevano invitato tutti i soggetti coinvolti ad «evitare danni per il pubblico erario».

A Bari hanno lo stesso Codice Penale di Perugia?. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Aprile 2022. 

Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi ?

Ieri pomeriggio alle 16:33:32 l’ AGI, Agenzia Italia ha diffuso una notizia dal titolo: “Pubblicazione verbale, procura Perugia apre fascicolo” , scrivendo” “Questa mattina il quotidiano Libero ha pubblicato un articolo in cui erano riportati stralci di dichiarazioni rese da Fabrizio Centofanti in data 31/03/2021 a questo ufficio pubblicando anche la foto della prima pagina del relativo verbale. Siccome non risulta che copia del verbale sia mai stata rilasciata ad alcuno, si e’ ritenuto necessario iscrivere un fascicolo contro ignoti per rivelazione di notizie riservate per accertare se l’atto sia giunto legittimamente alla stampa“. L’articolo in questione riportava la firma di Filippo Facci.

Lo ha reso noto la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone. Il verbale di dichiarazioni riguarda l’inchiesta sull’Acqua Marcia, di cui Fabrizio Centofanti era all’epoca responsabile delle relazioni istituzionali e degli affari legali. 

Resta da chiedersi come mai in altre procure, fra cui il primato quella di Bari, città in cui negli ultimi tempi esce di tutto e di più… dagli uffici giudiziari per la gioia dei cronisti giudiziari locali diventati ormai portavoce-ventriloqui dei magistrati “amici” titolari dei vari fascicoli d’indagine, non si proceda come a Perugia . Sarà forse perchè il procuratore Roberto Rossi è troppo occupato ad intervenire in qualche forum giornalistico “amico” o ad apparire in interviste video, rifiutandosi di parlare con il nostro giornale “reo” di aver rivelato un suo vecchio procedimento dinnanzi alla sezione disciplinare del Csm ?

Basti pensare che in una vicenda processuale dinnanzi al Tribunale Penale di Bari, ancor prima che Rossi diventasse procuratore capo, nella quale era coinvolto il quotidiano La Repubblica, proprio per violazione del segreto istruttorio, un giudice barese si appropriò della competenza territoriale sostenendo che a suo dire l’edizione pugliese era stampata a Bari si appropriò di una competenza che era del foro di Bari. Infatti, piccolo particolare, il quotidiano romano è registrato a Roma e viene stampato a Roma. E non a Bari! 

Per non parlare poi delle fughe di notizie avvenute durante l’asta giudiziaria per La Gazzetta del Mezzogiorno, in cui i curatori della società editrice Edisud fallita con una massa di oltre 40milioni di euro di debiti, l’ avvocato Castellano ed il commercialista Zito erano (persino dichiarandolo al Tribunale ) sul libro paga del gruppo CISA spa di Massafra, attuale socio-co-editore al 50% del quotidiano barese, senza che questa società abbia mai partecipato all’ asta pur versando oltre un milione di euro dal proprio conto corrente societario, e quindi illegalmente. Inquietante fu la presenza del procuratore Rossi all’udienza di convalida dell’assegnazione dinnanzi al Tribunale Fallimentare di Bari in cui depositò una relazione preliminare delle Fiamme Gialle che documentava la provenienza dei 4 assegni circolari per un milione di euro totale dal conto bancario della società massafrese. Dopodichè il silenzio più assoluto. Ed ancora più imbarazzante l’operato in aula del giudice che convalidò l’asta, il quale è l’ ex-marito della cognata dell’attuale amministratore delegato (socio al 50%) della Gazzetta. Conflitti d’interesse ? Coincidenze ? Vallo a capire!

Che fine hanno fatto le inchieste sulle fughe di notizie pubblicate sulla Gazzetta del Mezzogiorno dai cronisti Massimo Scagliarini e Nicola Pepe indagati e perquisiti nel 2019 ( cioè tre anni fa !) per la fuga di notizie che permise al governatore della Regione Puglia Michele Emiliano di sapere in anticipo di una indagine a suo carico

Tutto regolare ? Chissà… ! Nel frattempo la Procura Generale di Bari dorme sonni indifferenti…Legittimo chiedersi quando arriverà anche in Puglia un procuratore rigoroso come Raffaele Cantone, o almeno qualcuno che si vada a rileggere il Codice Penale e finalmente lo applichi?

Redazione CdG 1947

Aziende pugliesi sul tetto d’Europa: ecco la classifica del Financial Times. Sono dieci le imprese con la crescita più rapida entrate nella top 1000. Antonio Galizia su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Marzo 2022.

Il quotidiano economico-finanziario britannico Financial Times ha inserito 10 aziende pugliesi nella sua classifica FT1000 che ogni anno individua le mille aziende europee con la crescita più rapida. L’ultima edizione registra l’ingresso della Pegaso Security di Molfetta al 23° posto (azienda pugliese e tra le italiane più performanti), mentre la Pharma Grin di Lecce si è piazzata al 291°, la Kuadra cucine di Modugno (Ba) al 367°, la Prometeo Telecomunicazioni di Locorotondo (Ba) al 430°, la società ingegneristica Selfberg con sedi a Bari e Matera al 553°, la Sidea Group di Fasano (Br) al 603°, la Manelli Costruzioni di Monopoli al 626°, la Brainpull di Conversano al 739°, il Gruppo Gda di Galatina (Le) al 752° e la società di ingegneria New Euro Art di Grumo Appula all’832°. La lista, realizzata dal quotidiano in collaborazione con l’azienda tedesca Statista, ha analizzato i dati pubblici di decine di migliaia di imprese in tutta Europa. Alla fine sono state incluse le realtà più dinamiche, il cui tasso annuo di crescita composto (CAGR – Compounded Average Growth Rate) è superiore al 36,5%, un punto in più rispetto al criterio usato per lo scorso anno. In termini assoluti, le 10 eccellenze pugliesi hanno messo a segno una straordinaria crescita di fatturato e occupazione nel periodo preso in esame dal Financial Times, dal 2017 al 2020, che comprendono il periodo pandemico. Essere inclusi in una classifica europea è un riconoscimento importante alla qualità del lavoro di queste aziende, che in molti casi non si fermano al solo mercato regionale e nazionale.

Ma quali sono le ricette che hanno permesso a queste aziende resilienti di accelerare la propria crescita, in un momento sfavorevole per la maggior parte delle imprese italiane? Dal report di Financial Times e Statista emerge che in realtà non c’è alcun segreto, se non quello di credere nel valore generato dall’innovazione e dalla trasformazione digitale. Ciò ha permesso alla Pegaso di Molfetta, società specializzata nella gestione dei sistemi di video-sorveglianza, di segnare una straordinaria crescita del fatturato, pari all’85,59 per cento. E’ una start up, invece, la Pharma Grin di Lecce che segna il più 85,9 per cento, nata nel 2015 e già conta su 21 dipendenti che si occupano di marketing e logistica in campo sanitario. Cresciuta del 74,92 per cento la Kuadra Cucine di Modugno, azienda giovane, fondata sei anni fa occupa 20 dipendenti rispetto ai 9 iniziali. Si occupa di telecomunicazioni la Prometeo, sede a Locorotondo (Ba) azienda che, negli anni presi a riferimento dal report, nel suo specifico settore ha fatto registrare la crescita più rapida in Europa: più 67,16 per cento. Selfberg è invece un’impresa, con sedi a Bari e Matera, specializzata nella riqualificazione ambientale e nella realizzazione di impianti fotovoltaici ed eolici per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Occupa 60 dipendenti ed è cresciuta del 56,78 per cento. I cambiamenti dell’era digitale sono alla base del successo di due aziende che si occupano di marketing e comunicazione, la Sidea Group di Fasano (Br) segna una crescita del 52 per cento e occupa 49 dipendenti e Brainpull di Conversano con filiale a Milano (azienda nata in un garage dalla condivisione tra 10 amici) che registra una crescita da 1,3 a 4,3 milioni di euro (più 46 per cento) e occupa 29 dipendenti. Non mancano esperienze di successo nel campo ingegneristico e delle costruzioni: la Manelli di Monopoli (Ba), società impegnata nei settori delle infrastrutture e delle costruzioni civili e industriali, ha fatto segnare il più 53,36 per cento per un fatturato di 42 milioni; la New Euro Art di Grumo Appula (Ba) ha registrato il più 42,36 per cento (9,3 milioni di fatturato e 77 dipendenti). Nel campo della produzione di dispositivi medici e test rapidi per la diagnosi del Covid, il Gruppo Gda di Galatina (Le) ha registrato un incremento di fatturato del 46per cento (20,7 milioni e 205 dipendenti). Questo è quanto emerso dalla classifica annuale che dimostra quanto, queste aziende, nonostante le restrizioni e la pandemia, abbiano acquisito nuovi clienti, segnando una crescita importante.

Emiliano perde la "Disfida di Barletta" e la segreteria regionale. GABRIELE DE CAMPIS su Il Foglio il 23 marzo 2022.

Il Nazareno aveva chiesto che si lavorasse per una coalizione modello “campo largo progressista” ma il governatore ha presentato il candidato del Pd e dei civici che avevano governato cinque anni con la destra. Ora il Pd Puglia è commissariato: potrebbe arrivare l’ex ministro Boccia

Costa cara la “Disfida di Barletta” a Michele Emiliano. Il governatore, ignorando gli inviti alla prudenza giunti dal Pd nazionale - con interventi di Francesco Boccia, responsabile Enti locali, e Marco Meloni, coordinatore della segreteria - ha imposto nella città del nord Barese un candidato sindaco non condiviso con Roma, proponendo una coalizione dei dem solo con i civici transfughi dal centrodestra (vicini storicamente al capogruppo regionale Pd Filippo Caracciolo), senza però ricevere sostegno da sinistra e M5s. Da qui il braccio di ferro con il Nazareno, costretto alle maniere forti per affermare il centralismo democratico in una Puglia finora autogestita dagli emilianisti come un emirato autonomo: in arrivo c’è il commissario, che potrebbe essere proprio Francesco Boccia.  

La reazione di Enrico Letta, dopo la sconfessione dei suggerimenti nazionali - non si è fatta attendere e così il segretario regionale uscente, invece di essere defenestrato, ha preferito comunicare sui social il suo “passo indietro”, gesto che non aveva ritenuto opportuno fare nei mesi scorsi, quando era stata commissariata (con un ignoto funzionario romano) la procedura congressuale per gravi irregolarità che ne limitavano partecipazione e pluralismo. Lacarra, punto d’incontro tra Emiliano e il sindaco di Bari Antonio Decaro, ha giustificato la sua uscita di scena spiegando che il suo è stato un gesto “utile a favorire un percorso chiaro verso la celebrazione dei congressi e affinché questi possano svolgersi in un clima di sano e sereno confronto e di ampia partecipazione”.    

La realtà è differente: il partito nazionale aveva chiesto che anche a Barletta si lavorasse per una coalizione sul modello del “campo largo progressista” indicato da Enrico Letta, ma Emiliano - affiancato dal segretario Lacarra e dal sottosegretario Assuntela Messina - ha accelerato e presentato il candidato del Pd (l’ex dirigente comunale Santa Scommegna) e dei civici che avevano governato cinque anni con le destre. “Una forzatura”: hanno tuonato in coro M5s con il senatore Ruggiero Quarto, ma anche Sinistra italiana e Articolo Uno. Sul tema Boccia si era speso con una lettera aperta ai vertici dem pugliese, auspicando che ci fosse una concertazione con il Pd nazionale, e soprattutto si evitasse la “degenerazione” politica praticata dando spazio alle civiche trasformiste. Marco Meloni era stato altrettanto tranchant sulla querelle barlettana, parlando di “un confuso coacervo di liste civiche”. Parole cadute nel vuoto. 

Sullo sfondo c’è il tentativo del Pd nazionale di regolamentare la cosiddetta “coalizione dei pugliesi”, ovvero l’invincibile armata di Michele Emiliano, fondata su uno schema politico ampio che va dal sindaco di destra di Nardò Pippi Mellone agli ex berlusconiani come il neoassessore alla Sanità Rocco Palese, alla sinistra identitaria e antifascista. Emiliano, però, non se ne cura e tira dritto, perché, sussurrano dal suo entourage, con questo schema “si vincono regionali e amministrative da più di dieci anni di fila…”.

Il Pd del mezzogiorno succube di De Luca e Emiliano. Puglia è una Repubblica autonoma di Emiliano, Letta prova a riprendersi il Pd. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 24 Marzo 2022.

Enrico Letta vuole finalmente dare un nuovo ruolo alla segreteria nazionale, e prendere in mano la situazione del Pd al mezzogiorno succube dei potentati di De Luca ed Emiliano, i quali hanno già annunciato il loro terzo mandato. Alcuni intellettuali partenopei nei giorni scorsi hanno inviato una lettera molto forte al segretario nazionale chiedendo di aprire un dibattito sul deluchismo, e Letta ha fatto sapere di occuparsene presto. Dopo qualche giorno il segretario regionale del Pd campano Leo Annunziata si è dimesso. A distanza di due giorni, ieri, lo ha fatto anche Marco Lacarra segretario del Pd Puglia, già commissariato dallo scorso anno per violazione allo statuto nazionale.

A differenza di De Luca qui Michele Emiliano non può partecipare al partito, perché Csm e Corte Costituzionale glielo hanno vietato essendo ancora magistrato. Eppure continua a presenziare a tutte le riunioni nonostante sia dentro che fuori dal Pd sono tutti uomini suoi. Solo qualche mese fa infatti il governatore ha ufficializzato, alla presenza di Francesco Boccia, la federazione delle civiche a lui riconducibili formate o da fuoriusciti del Pd per frizioni locali, o da uomini di centrodestra cooptati dal suo sistema di potere. Alle amministrative in molti Comuni queste civiche si presentano contro il Pd. Il casus belli è scoppiato a Barletta, città della disfida. Emiliano ha prima provato a sostenere il sindaco di centrodestra uscente, poi ha costruito una coalizione con parte di quell’amministrazione mascherata nei simboli della sua federazione, ma senza i 5 stelle e la sinistra.

In questo limbo si è trovato incastrato Francesco Boccia, in Parlamento perché inserito nel listino bloccato in quota Michele Emiliano, ma ora responsabile degli enti locali nominato da Enrico Letta che gli ha dato mandato di costruire il famoso campo progressista con i 5 stelle in tutta Italia. Boccia, famoso per il suo “combattere le destre”, ha inviato una lettera al circolo di Barletta per “sospendere ogni ulteriore iniziativa contraria all’alleanza progressista voluta dal Pd nazionale” e sottolineando che “alcuni movimenti civici ritengono di poter agire come se la Puglia fosse un territorio a parte”. Come se non bastasse Letta ha fatto intervenire direttamente il suo braccio destro Marco Meloni: “Riteniamo sia un grave errore che a Barletta si tenti di intraprendere una strada fondata su un confuso coacervo di liste civiche che sembrano prescindere da qualsiasi discrimine tra centrosinistra e centrodestra, e dunque privo di alcuna connotazione progressista”. La risposta del segretario regionale Lacarra a Letta era scontata: “Sono 15 anni che con questo metodo in Puglia vinciamo tutte le elezioni”.

E così il giorno dopo, come se nulla fosse, Emiliano, Lacarra e la sottosegretaria Assuntela Messina hanno presentato il loro candidato sindaco di Barletta, ignorando anzi sfidando il richiamo della segreteria nazionale. Ieri Letta ha incontrato Lacarra, che non ha potuto far altro che mettere a disposizione il mandato.

Ora pare che Letta voglia nominare commissario del Pd pugliese Francesco Boccia, che però è sempre stato complice di questo sistema e fedelissimo di Emiliano. Cosa cambia? Sarebbe come se in Campania togli Enzo De Luca e metti il figlio Piero. Infatti la corrente Orlando chiede che, come si è sempre fatto, il commissario sia uno di fuori. Anche perché nessuno crede alla messa in scena della lite tra Boccia ed Emiliano sull’altare di Barletta o delle amministrative, che è piuttosto un gioco dei ruoli per dimostrare autonomia a Roma e poi gestire in autonomia la vera posta in gioco: il listino per le politiche.

Infatti nella guerra è intervenuto anche Articolo1: «Merita attenzione la nota romana sulle scelte politiche del PD pugliese, perché evidenzia che in Puglia il PD non sta lavorando alla costruzione di un progetto politico e sta prediligendo alleanze occasionali senza alcun discrimine tra centrosinistra e centrodestra». Emiliano infatti oltre a decidere i candidati del Pd, e delle sue civiche, come a Taranto mette uno dei suoi anche come sindaco del centrodestra. E mentre Letta sembra prenderne le distanze, la (finta) opposizione pugliese ne condivide i candidati e il metodo, e il Governatore se ne vanta: “Il centrodestra ha preso questa abitudine di candidare a sindaco uno di noi cercando di imitare il metodo Emiliano”. Terzo mandato garantito. Annarita Digiorgio

Lessico meridionale: Una moneta per una parola d’argento. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 febbraio 2022.

Non si può scrivere un libro al giorno, né leggere un libro al giorno. Questione di ozi troppo risicati che non permettono dibattiti o riflessioni prolungati. Ma un giornale, sì, si può leggere giorno per giorno. Si deve farlo. E benedicendo l’industrie genialità dell’orafo Gutenberg si può anche scriverlo e stamparlo. Se si è in molti. E in molti che non vadano troppo d’accordo, così discutono a maggior vantaggio per la verità.

Il giornale che stiamo leggendo si chiama «La Gazzetta del Mezzogiorno»: sono stato invitato a scrivervi e il direttore mi propone di scegliere, ogni domenica, una parola su cui meditare liberamente e scegliere la via dell’etimologia o quella della stimolante riflessione sugli usi del lemma.

Ho scelto la parola «Gazzetta» per cominciare, anzi, per ricominciare. L’etimo è molto dibattuto: la parola gazzetta, per come la usiamo, nasce nella seconda metà del 1500, dal nome del giornale veneziano «La gazeta dele novità» che prese questo nome perché costava giusto una gazeta che era una monetina d’argento.

Nel tempo moderno gazzetta divenne un nome comune di periodico, di giornale, in tutta Italia. La nostra è «La Gazzetta del Mezzogiorno», bello! E lo Stato Italiano addirittura promulga le sue leggi pubblicandole sulla Gazzetta Ufficiale.

Ed è ingente l’editoria di giornali che difendono il nome Gazzetta (segue il nome di una o più città). Più che un nome, una graziosa antonomasia. I giornali erano gli altri, quelli nazionali, che si stampavano in altre città o i periodici. Me li ricordo bene perché io, da bambino, ho sognato di fare il giornalaio. Non il giornalista, il giornalaio. Volevo troneggiare su di uno scranno in mezzo alla carta di tutti i colori e di inebriarmi di quel profumo scomparso che allora aveva la carta stampata. Pensavo: «Leggerò gratis tutti i giornali e i giornalini». Mio padre comprava «La Gazzetta del Mezzogiorno» tutti i giorni andando al lavoro e la portava a casa all'ora di pranzo ancora intatta. Era il segno certo che mio padre in ufficio lavorava. Forse dopo aver dato solo una «scorsa» ai titoli della prima pagina. Il mio turno per sfogliarla veniva dopo la sua siesta. Leggevo i titoli, mi avventuravo anche nella lettura di qualche articolo, guardavo le fotografie, soprattutto quelle che riprendevano fatti e persone stranieri e mi soffermavo sulle locandine dei cinematografi tutte incastrate in un ben ordinato cartellone: prima, seconda e terza visione.

Anche il mio maestro di scuola, un uomo buono e saggio munito di alteri baffi da bersagliere ciclista, comprava la «Gazzetta» che lui chiamava, per antonomasia irremovibile, «il giornale». L’acquistava e la riponeva nella tasca laterale della giacca, maestosamente informe anche di inverno. Il giornale, ripiegato in quattro, trovava posto verticalmente sempre nella stessa posizione e io potevo leggere la parte finale della testata: «iorno». Ricordo di aver letto talora «La Gazz», il che voleva dire che il maestro una squadernata sbrigativa al giornale l’aveva data. «La gazzetta» nostra ha un nome così lungo che, comunque la pieghi, riconosci la testata.

Più tardi scoprii che quel giornale si «faceva» in un bel palazzo vicino alla stazione dei treni. A me sembrava un vanto della città con quell’aria cosmopolita e quella cupola maestosa.

Ora quel palazzo magniloquente non c'è più. Peccato. Ricordo dei Telamoni pletorici e raccolti nello sforzo tremendo di reggere le finestre del primo piano e delle bocche di lupo a filo della strada da cui si vedeva il lavoro dei tipografi che si davano da fare intorno a macchine nere e lucide. Pensavo che reggessero tutta la «Gazzetta del Mezzogiorno». E al bimbo che ero, sfuggiva la metafora. Sono certo che, oggi, «La Gazzeta» farebbe una campagna per salvare quell’opificio.

Capitò anche a noi, giovanissimi teatranti, di aspettare lì davanti, con ansia, la critica ai nostri debutti tirando tardi la notte per gettarci sulle prime copie della «Gazzetta» e leggere e commentare. Eravamo cresciuti: la leggevamo da cima a fondo. Eravamo cresciuti e, finché si fosse rimasti a Bari, allora lo sapevamo bene, nessuno ci avrebbe fatto sconti. Oggi i teatranti sanno fare i conti.

Dopo, solo dopo, una volta partiti per la vita, saremmo stati benvoluti e aspettati: non rese di conti, ma rimpatriate. Capita di leggere, infatti, e sorrido di cuore, del «nostro Michele Mirabella». Ci tengono alla «Gazzetta». E, detto apertamente, ci tengo tanto anch'io

Quanti comizi sul Mezzogiorno. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 febbraio 2022.

Che bella parola: «Mezzogiorno». Evoca scampanii e luce. Prelevata dalla rosa dei venti, ci ricorda il sole a picco e ombre cortissime. Sull’orologio delle devozioni domestiche indica ore preziose di un tempo perduto in cui la giornata cominciava all’alba e si chiudeva al tramonto ed era il tempo della fatica umana.

Il mezzogiorno segnava la metà di un orario che non aveva sirene né allarmi o sveglie: era scandito dal sole e dalla notte. Pascoli acquerella il «santo desco fiorito d’occhi di bambini» cui il suono delle campane di mezzodì chiamava radunando al «rezzo, alla quiete».

La mia generazione ha famigliarizzato con questa parola in un suo versatile sfruttamento geopolitico che stava ad indicare il Sud d’Italia. Dal dopoguerra si parlò di Mezzogiorno in questa accezione non astronomica, ma sociale ed economica e io ne ho un ricordo bizzarro legato ad un aneddoto che vissi da adolescente.

In una piazza di Bitonto, durante un’ennesima campagna elettorale, un tale si infervorava sul palco per un comizio. A quel tempo pretelevisivo i comizi erano un passatempo per molti, me compreso, e nelle piazze si avvicendavano tribuni d’ogni tacca e rango, sullo stesso palco cui venivano cambiati il panneggio, le bandiere e i cartelli secondo i partiti di turno. Si cambiava anche l’inno e lo spettacolo proseguiva per l’identico pubblico che celebrava, così, non l’appartenenza personale, ma solo una rustica democrazia appena ritrovata. Coppole, dunque, a profusione e cappe scure di braccianti delusi dal «compratore».

La musica era gracchiante, ma l’effetto dell’Inno dei Lavoratori o di Bianco fiore garantito. Il MSI aveva rinunciato al repertorio del bieco ventennio e optava per un Inno a Roma di Puccini, allusivo, ma inoffensivo: bellissimo. I comunisti ostentavano il loro Bandiera Rossa. Il comizio cominciava con entusiasmo. Rarissime le intemperanze, ma frequenti le interruzioni, anche pittoresche.

Una sera parlava un rappresentante dei lavoratori (se lo disse da solo) e delle donne. Anche questo titolo se lo attribuì lui, senza alcuna tema di essere smentito dato che di donne non ve n’erano che tre o quattro: taciturne e un poco spaesate: al tempo, era raro che assistessero ai comizi. Incipit protocollare: ringraziamenti alle locali autorità del partito. Seguì la parte più politica nella quale il nostro sembrò accalorarsi, individuando il nodo dei problemi da risolvere: il «Mezzogiorno».

Notai il comico stridore tra la prosa marmorea e tribunizia e l’inconfondibile dizione pugliese così cantilenante e piena di o strette e di e spalancate dove non ci vogliono che funestava l’affabilità dell’oratore.

«La questione del Mezzogiorno è in testa ai programmi del partito che rappresento» avvertiva, rude. E poi ammoniva «Se non si risolve il dramma del Mezzogiorno non si risolve il dramma del Paese». E proseguiva con esempi efficaci avviandosi a concludere con un commovente «Per le famiglie del Mezzogiorno arrivano solo fame e povertà», destinato ad infiammare gli animi.

Un tale che aveva ascoltato sotto il palco, col naso all’insù per tutto il tempo, non perdendo una parola, una minaccia, un auspicio, alzò la mano e disse «Scusa compare!». Cortese, ma perentorio. Ottenuto il silenzio, proseguì in un dialetto italianizzato che traduco: «Il Mezzogiorno ancora ancora arrangiamo. È la sera che non teniamo niente da mangiare». La questione meridionale era servita.

Mi sono chiesto, anni dopo, cosa pensasse l’anonimo bracciante della «Cassa per il Mezzogiorno». Anche lui, come tanti, avrà trovato obliquamente iettatoria la denominazione. Da noi, popolo frugale, si sa, la cassa di rado è quella cui si erano riferiti De Gasperi e Saraceno. Più tardi alcuni vollero equivocare e la chiamarono «Cassa DEL Mezzogiorno».

Ancora si torna a parlare del Mezzogiorno e ancora con il codazzo di sigle e parole d’accompagnamento: tavolo, agenzia, piano per il Mezzogiorno. E si parla, si parla e si discute. Qualche volta si evita di discutere per evitare di litigare, più spesso si litiga e basta. E rispuntano polemiche, dispute, conflitti di competenza. Spariti i comizi. Ci sono i «social». Meno attendibili e molto meno divertenti.

E se questa volta il Sud cominciasse a fare da sé preoccupandosi di far da mangiare al mattino, al Mezzogiorno e alla sera?

Mi risulta che lo stia cominciando a fare. Con coraggio e allegria. Il titolo di questo giornale, oggi, vuol dire anche questo. Se si lavorerà con quella convinzione e quella tenacia che i meridionali dimostrano quando vanno a lavorare a casa d’altri, potremo invitare a pranzo i detrattori e i litigiosi. Scelgano loro: di sera o a mezzogiorno.

Auguri, vecchia mia: la Gazzetta del Mezzogiorno compie 135 anni. La Gazzetta è una comunità, crediamo fermamente sia così, noi tutti e Lei. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Novembre 2022

C’è Aldo Moro nel piccolo slargo davanti alla chiesa di Bari Santo Spirito, due campanili, una strada dritta in salita verso la stazione e un borgo di pescatori. Metà anni Sessanta, noi bambini delle Elementari siamo lì a festeggiare il passaggio o la visita del presidente del Consiglio con le bandierine tricolore di carta, senza enfasi né polemiche, perché era l’Italia ancora memore della guerra, divisa da grandi passioni, ma sempre felice di esserci. Lui ha il ciuffo bianco, il cappotto di lana pesante (in quel tempo esisteva il freddo) e, piegata sotto un braccio, La Gazzetta del Mezzogiorno. Molti alunni conoscono la Gazzetta, in casa la leggono i padri, cercando innanzitutto i necrologi e la squadra di calcio o il partito politico del cuore; anche le madri, certo, ma spesso non prima della sera. La lettura, una tregua. Sì, la Gazzetta è una questione di famiglia e non è solo un giornale, è una certezza, una tradizione, una serie di racconti rituali persino quando suonano beffardi. «Ci incarto le cozze», dicono qualche volta pensando di offendere. Ma dai, le cozze, è un onore…

Passa il Giro d’Italia, maglia rosa Felice Gimondi, chi altri in quegli anni? Vinceva persino in salita sulle montagne di Coppi, in pianura era un lampo di colore sotto lo striscione bianco e nero teso tra una casa e l’altra lungo la strada principale dei paesi, un nastro dal Salento al Gargano, ai borghi fra i calanchi lucani: La Gazzetta del Mezzogiorno. “Buongiorno Luna”, il titolo leggendario della Gazzetta nel luglio 1969, la notte in cui nessuno andò a dormire per aspettare il futuro. E arriva il 1978, rapiscono e assassinano Moro, insieme agli uomini della scorta l’agnello sacrificale di un’Italia che cambiava, assemblee nei licei e nelle scuole, cortei, nell’eskimo Lotta Continua e la Gazzetta. Corrono «gli anni di piombo», l’Italia martoriata dalle stragi di Ustica e Bologna, quando Pietro Mennea trionfa a Città del Messico e a Mosca, record del mondo e oro olimpico sui 200 metri, un dito alzato verso il cielo, il riscatto da Barletta all’eternità. Trema il Sud, 23 novembre 1980, i giornalisti della Gazzetta accorrono e raccontano - anche con le telecamere - le rovine e il coraggio, la disperazione e la tenacia. 11 luglio 1982, Italia-Germania a Madrid, «campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo!» urla Nando Martellini: la corsa impazzita di felicità di Tardelli e un popolo intero in campo. 1991, in estate la nave “Vlora” nel porto di Bari con ventimila albanesi a bordo, prima avvisaglia dell’esodo, delle migrazioni in arrivo, del Mediterraneo via di fuga, esilio e speranza. Poi in autunno il Petruzzelli in fiamme, uno choc. La Gazzetta c’è sempre stata, anche prima delle esperienze di ciascuno… Oggi accenniamo ai nostri ricordi per festeggiare senza retorica e presentarvi questo fascicolo da conservare, se vorrete.

«C’è sempre stata» non è una formula cerimoniale. Lo scrive lo storico della stampa Paolo Murialdi: «A Bari, nel clima di grande confusione dell’8 settembre 1943, e nonostante i gravissimi scontri accaduti subito dopo il 25 luglio tra antifascisti e badogliani, La Gazzetta del Mezzogiorno era riuscita a non interrompere le pubblicazioni neppure per un giorno. Un caso unico» (Laterza 1995). L’avventura s’inizia 135 anni fa oggi con un editoriale non firmato del fondatore, il ventiseienne Martino Cassano, un tipo che «non scrive né parla molto» secondo l’amico Armando Perotti. Il titolo è “Ho l’onore” e appare sul Corriere delle Puglie del 1° novembre 1887. Leggiamone un breve stralcio: «Ma, se il giornale nuovo non crea la vita nuova, non è a dirsi per questo che un nuovo giornale quotidiano in Bari, non possa né debba riuscire del tutto inutile agl’interessi, alle ragioni, alle aspirazioni e ai bisogni del grande pubblico”. Così è stato lungo l’intero ‘900 e oltre, per Bari, la Puglia e la Basilicata.

La Gazzetta del Mezzogiorno, che dal 1928 in avanti raccoglie l’eredità del Corriere delle Puglie e della Gazzetta di Puglia, è una storia di cittadini e di istituzioni, di protagonisti e di famiglie legate al giornale. Una bella impresa meridionale cui tutt’oggi contribuiscono in tanti a cominciare dagli editori: i giornalisti e i poligrafici, la stampa e la distribuzione, le edicole e la pubblicità, il marketing e la comunicazione sui social. E naturalmente i Lettori. Dietro ogni notizia e analisi c’è il lavoro, un lavoro da tutelare al pari di qualsiasi altro, evitando lo sfregio della pirateria e della diffusione gratuita della informazione. La Gazzetta del Mezzogiorno è rinata lo scorso 19 febbraio dopo il trauma del fallimento e quasi sette mesi di assenza dalle edicole e dal web, una notte unica in rotativa insieme ai vecchi tipografi con le lacrime agli occhi e l’alba magica del ritorno. La Gazzetta è una comunità, crediamo fermamente sia così, noi tutti e Lei. Auguri, vecchia mia!

Buon compleanno Gazzetta: lo storico quotidiano di Puglia e Basilicata. Cassano e il «Corriere» così inizia 135 anni fa la storia della «Gazzetta». Il 1° novembre 1887 è dato alle stampe il primo numero de «Il Corriere delle Puglie. Giornale quotidiano di Bari». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Novembre 2022

N.1, Anno I. Il 1° novembre 1887 è dato alle stampe il primo numero de «Il Corriere delle Puglie. Giornale quotidiano di Bari». «Ho l’onore di presentare al pubblico il nuovo Corriere»: così esordisce il direttore Martino Cassano. Nato dalle ceneri del periodico «La Settimana», fondato due anni prima dallo stesso Cassano appena ventiquattrenne, il «Corriere» si propone come un giornale indipendente e imparziale, che non sia espressione di una particolare fazione politica, che raccolga le voci della città, della provincia, della regione, rispecchi le profonde trasformazioni socio-economiche del territorio e rappresenti gli interessi della società civile. Il primo vero quotidiano barese in senso moderno. Un obiettivo ambizioso per il giornalista che - nato a Bari nel 1861 - dopo aver rifiutato la carriera forense cui era destinato, si era formato a Roma nella redazione della «Gazzetta d’Italia» e di altre fortunate testate nazionali. Come molti suoi conterranei, però, nonostante il successo nella capitale, Cassano aveva deciso di tornare nella sua città natale, dove ancora non avevano preso piede veri e propri quotidiani, ma solo esperienze effimere, perlopiù legate a partiti. «Il Corriere delle Puglie è l’unico giornale quotidiano che si pubblica nelle Puglie: ha speciali corrispondenti dai centri più importanti delle province di Bari, Foggia e Lecce», si legge in ultima pagina. La prima sede dell’amministrazione e della direzione è nel borgo nuovo, in via Abate Gimma 59. «Il nostro», scrive Cassano, «è un molto modesto Corriere. […] Si propone di vivere dal pubblico e per il pubblico; quindi non è disposto ad arruolarsi sotto nessuna bandiera di condottiero».

Il giornale presenta, nella sua prima edizione, notizie di politica nazionale e internazionale e dedica un approfondimento allo sviluppo industriale di Bari degli ultimi trent’anni. Si occupa, naturalmente, di cronaca locale e ospita anche la recensione di un concerto in cui si è esibita la giovane pianista Eugenia Castellano: la quarta e ultima pagina è riservata agli annunci commerciali, tra i quali compare quello dello «Stabilimento musicale Fratelli Giannini di Angelo». Cassano dirigerà il giornale fino al 1921, anno in cui subentrerà Leonardo Azzarita. Nel ‘22, dopo una travagliata crisi che porterà il «Corriere» a chiudere i battenti, la redazione verrà assorbita da «La Gazzetta di Puglia», fortemente voluta da Raffaele Gorjux, già condirettore di Cassano nella prima testata. Solo nel 1928 il quotidiano assumerà definitivamente il nome attuale. Centotrentacinque anni fa iniziava, così, la lunga storia di queste colonne, che ancora oggi raccontano con passione la città, la regione, il Mezzogiorno.

“Giù le mani della Gazzetta” ? Per gestirla come vuole il nuovo “padrone” e fare carriera…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Maggio 2022.

Che fine hanno fatto quegli accertamenti della Guardia di Finanza di Bari sull'asta fallimentare per l'assegnazione della Gazzetta del Mezzogiorno, piena di conflitti di interesse e presunte irregolarità. Asta in cui sono comparsi assegni per un milione di euro tratti illegalmente dai conti della CISA spa che non partecipava all'asta, la cui assegnazione è stata deliberata da un giudice ex-cognato dell' attuale amministratore delegato della nuova società editrice di cui Albanese detiene il 50%.

Vi ricordate le manifestazioni dell’ Assostampa di Puglia e dei sindacalisti della Gazzetta del Mezzogiorno durante la fase di assegnazione post-fallimento ? Gli striscioni “Giù le mani dalla Gazzetta” erano solo tentativi di ostacolare la gara fallimentare sulla quale secondo fonti confidenziali del Palazzo di Giustizia di Lecce sarebbe in corso un’indagine della magistratura salentina competente sugli eventuali reati d’ufficio della magistratura barese. Anche perchè ci risulta che un giornalista-sindacalista che votava nel comitato creditori del fallimento, abbia fatto più di qualcosa di anomalo, come la stessa Assostampa di Puglia denunciava in una mail in nostro possesso. 

Nel frattempo accadeva di tutto e di più, e cioè che i due curatori fallimentari della EDISUD spa, ex-società editrice della Gazzetta del Mezzogiorno fallita con un passivo di oltre 40 milioni di euro operavano indisturbatamente nonostante avessero rapporti professionali ed economici con le attività societarie del rag . Antonio Albanese presidente della CISA spa di Massafra, , diventato socio al 50% della EDIME srl, la nuova società editrice del quotidiano barese dal modesto capitale sociale di appena 10mila euro.

Il vero obiettivo di Albanese nell’entrare nel capitale sociale, era quello di “piazzare” ai vertici un giornalista da sempre a lui molto “vicino”, l’attuale capo redattore centrale Cosimo (Mimmo) Mazza, che addirittura voleva imporre come vicedirettore a Giovanni Valentini, l’ ex-direttore del settimanale L’ ESPRESSO e condirettore del quotidiano LA REPUBBLICA (sotto la direzione di Eugenio Scalfari) a cui Albanese aveva proposto la direzione del quotidiano barese, ricevendo un garbato ma secco rifiuto con l’aggiunta “il mio vice me lo sono sempre scelto io”.

Ed infatti sin dal primo giorno dalla ripresa delle pubblicazioni la Gazzetta del Mezzogiorno, giornale che anni fa proprio il quotidiano LA REPUBBLICA definì con un proprio titolo”la Mazzetta del Mezzogiorno”, ha iniziato ad attaccare Michele Emiliano e la Regione Puglia. Il motivo ? I più maliziosi ma bene informati sostengono che sia una ripicca conseguente al nuovo piano regionale dei rifiuti che di fatto ha estromesso ogni appetito di allargamento o apertura di nuove discariche che sono il “business” principale di Albanese. 

Se ne è accorto persino il FATTO QUOTIDIANO che proprio ieri nella rubrica “Fake news” ha smascherato un articolo imbarazzante della Gazzetta del Mezzogiorno scrivendo testualmente:

“Parte da oggi 25 maggio il “reddito energetico” in Puglia, la prima in Italia ad applicarlo, stanziando 6,8 milioni a fondo perduto a favore dei nuclei familiari al di sotto dei 20 mila euro annui, per incentivare l’acquisto ed installazione di impianti per la produzione di energia rinnovabile fino ad un contributo di 8.500 euro. Un provvedimento che si ispira al modello del “reddito di cittadinanza” caro al M5S. Si apre così una fase di sviluppo delle energie “pulite” in una regione particolarmente ricca di sole e di vento. Ma proprio alla vigilia di questa operazione La Gazzetta del Mezzogiorno ha sferrato un duro attacco al progetto di un parco di pale off shore con un titolo sparato in prima pagina: “Eolico nel mare del Salento, anche Legambiente dice no“

“Il piano presentato da Odra Energia” – continua l’articolo – “prevede l’installazione di turbine galleggianti fra Otranto e Santa Maria di Leuca, per una potenza di 1300 megawatt. Naturalmente il progetto è sottoposto all’esame ed eventuale approvazione del Ministero per la Transizione Ecologica. Un altro parco eolico intende realizzarlo la Kaila Energia al largo di Brindisi. Entrambi i progetti fanno capo alle società Falk Renewables e BlueFloatEnergy.“ 

In realtà però scrive il Fatto Quotidiano, Legambiente non ha emesso finora nessun “no“, ne ha preso posizione. I suoi dirigenti regionali hanno presentato osservazioni puntuali chiedendo al ministero di approvare una procedura per i progetti offshore. Mancano infatti, il piano per delimitare lo spazio marittimo, le linee guida per i progetti e l’introduzione di una procedura per il confronto con i territori. Al momento dunque si tratta di una questione di metodo più che di merito.

“Perchè allora questa “guerra sulle rinnovabili” in Puglia ?” aggiunge il Fatto Quotidiano. “E perchè la Gazzetta forzando la mano a Legambiente ha sparato a zero ? Si da il caso che il giornale sia passato in mano a due imprenditori locali, uno dei quali è Antonio Albanese, considerato il “re dei rifiuti” in Puglia: a suo carico sono stati aperti due processi dalla Procura di Taranto e da quella di Lecce” processi dei quali il quotidiano barese, sotto la nuova gestione “monnezzara”, finge di non conoscerne l’esistenza e non informa i suoi lettori non scrivendo nulla, preferendo attaccare il suo ex editore Ladisa (famiglia che controlla la Ledi srl) inventando fatti e circostanze inventate di sana pianta dal giudice barese De Benedictis (arrestato e condannato) assolutamente prive di alcun fondamento alle quali nessuna procura ha dato alcuna credibilità.

“Da tempo Albanese vuole realizzare un inceneritore nel “tacco d’ Italia” – spiega il Fatto Quotidiano – ma la Regione finora non ha concesso l’autorizzazione. E nell’attesa, il quotidiano di Bari non ha risparmiato critiche ed attacchi al governatore Emiliano. C’ è chi pensa, perciò, che l’eventuale installazione di un grande parco eolico, al largo del Salento, cioè a 10-12 miglia dalla costa, potrebbe interferire con il progetto e la realizzazione dell’inceneritore di Albanese”. 

Quello che però ci chiediamo noi, è che fine abbiano fatto quegli accertamenti della Guardia di Finanza di Bari sull’asta fallimentare per l’assegnazione della Gazzetta del Mezzogiorno, piena di conflitti di interesse e presunte irregolarità. Asta in cui sono comparsi assegni per un milione di euro tratti illegalmente dai conti della CISA spa che non partecipava all’asta, la cui assegnazione è stata deliberata da un giudice ex-cognato dell’ attuale amministratore delegato della nuova società editrice di cui Albanese detiene il 50%. Ma forse qualcuno in Procura a Bari, particolarmente sensibile ad apparire sui media locali, è distratto…ed allora per fare clamore si indaga l’editore Mario Ciancio di Sanfilippo. Redazione CdG 1947

Il caso Martellotta: il “giornalista…sindacalista” che invoca il reato di opinione. Povero giornalismo! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Aprile 2022.

Archiviato dall’Ordine il suo esposto nei confronti del collega Antonello Valentini, che era molto bene informato in quanto la nuova proprietà aveva proposto la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno, a suo fratello Giovanni, già condirettore del quotidiano La Repubblica (direttore Eugenio Scalfari) e del settimanale L' Espresso, anticipandogli però che avrebbe dovuto avere come vice-direttore il suo caro "amico" e sodale Mimmo Mazza ed a caporedattore Bepi Martellotta. Ottenendo un cortese ma secco rifiuto.

Il consiglio di disciplina dell’ Ordine dei giornalisti del Lazio ha archiviato l’esposto presentato nei mesi scorsi contro Antonello Valentini, dal giornalista Giuseppe Martellotta, da qualche settimana promosso come per incanto vice capo redattore della nuova gestione de La Gazzetta del Mezzogiorno sindacalista militante… e presidente dell’ Assostampa di Puglia, cioè l’organismo che dovrebbe rappresentare la categoria sul fronte sindacale pugliese, ma che in realtà pensa più alle carriere che all’occupazione. 

Martellotta aveva accusato Valentini denunciandolo al Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio sostenendo di aver violato alcune norme di carattere professionale perché in alcuni post su Facebook aveva scritto a suo tempo (a novembre del 2021) che si prospettava per lui e di un altro suo collega sindacalista in carica, Mimmo Mazza, la promozione nel nuovo organigramma della Gazzetta, nell’ambito di una trattativa sindacale con i nuovi editori.

Come si legge nella motivazione della decisione dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio “Valentini si sarebbe limitato a esprimere la sua opinione personale in merito alla vicenda legata alla Gazzetta del Mezzogiorno”. E per questi motivi il Collegio “votando all’unanimità, decide di archiviare il procedimento”. “Il disinformato Valentini…” scriveva Martellotta nel suo esposto . Invece Antonello Valentini era molto bene informato in quanto la nuova proprietà aveva proposto la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno, a suo fratello Giovanni, già condirettore del quotidiano La Repubblica (direttore Eugenio Scalfari) e del settimanale L’ Espresso.

Secondo una nostra fonte bene informata il “re della monnezza“ pugliese Antonio Albanese (meglio noto come Tonino o “Surgicchio“) socio al 50% della nuova società editrice de La Gazzetta del Mezzogiorno, si sarebbe presentato a Roma con una fiammante Lamborghini per convincere Giovanni Valentini ad assumere la direzione del giornale barese propostagli, anticipando però che avrebbe dovuto avere come vice-direttore il suo caro “amico” e sodale Mimmo Mazza ed a caporedattore Bepi Martellotta. Richieste che erano state peraltro fatte dai sindacalisti al precedente editore della Gazzetta del Mezzogiorno Ladisa durante la votazione per accettare le proposte durante l’asta fallimentare (nella quale Mazza votava…)

Le anticipazioni di Antonello Valentini che era molto bene informato hanno trovato pieno riscontro nei fatti: Bepi Martellotta, presidente del sindacato regionale, è stato promosso vice capo redattore; Mimmo Mazza ( allora componente del CdR, il sindacato interno della Gazzetta) è stato promosso redattore capo centrale, cioè al momento n.2 del giornale, continuando a essere il “vice” di Martellotta nell’ Assostampa di Puglia. Una vita da “gregario”. 

Nel suo post su Facebook, Valentini così commenta l’ archiviazione dell’esposto di Martellotta nei suoi confronti: “Su queste vicende avevo espresso -e confermo- la mia opinione: nessuna illegittimità nelle promozioni, ma una questione che attiene all’opportunità, all’immagine della categoria giornalistica, in particolare quando si ricopre un ruolo sindacale. Esposto quindi archiviato dall’Ordine, ma resta una grande amarezza e uno sconcerto profondo. Non avevo mai visto che un reato di opinione venisse invocato e sostenuto da un sindacalista, per giunta presidente dell’Associazione regionale di categoria. Con quale faccia e quale coerenza, Martellotta si è schierato in sostanza contro tutte le battaglie durissime e coraggiose della Federazione Nazionale della Stampa contro politici o editori che chiedevano di perseguire i giornalisti anche in tribunale con l’arma arcaica e fascista dei reati di opinione, cioè contro le idee e la libertà di pensiero garantita dalla Costituzione? E di fronte a questa sentenza dell’Ordine, qual è la reazione e quali sono saranno i comportamenti e le decisioni di Martellotta ?“

Richiesto il processo per Antonio Albanese nuovo co-editore de La Gazzetta del Mezzogiorno. Che tace…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2022.

Migliaia di tonnellate di rifiuti trattati con un'autorizzazione illegittima. Richiesto il processo per Antonio Albanese, 58 anni di Massafra (Taranto), legale rappresentante della Progetto Ambiente Bacino Lecce Tre (società del gruppo CISA spa di Massafra) co-editore della Gazzetta del Mezzogiorno

Era l’ 11 luglio dello scorso anno quando i procuratori aggiunti di Lecce Elsa Valeria Mignone e Guglielmo Cataldi, che hanno chiuso le indagini svolte dalla Polizia Provinciale e con i Carabinieri della sezione di polizia giudiziaria distaccata in Procura, sui presunti illeciti commessi nell’impianto “Ecolio 2” di Presicce – Acquarica in provincia di Lecce che aveva recuperato e smaltito migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi e non pericolosi senza una regolare autorizzazione 

Il prossimo 13 settembre si svolgerà dinnanzi al Tribunale di Lecce l’udienza preliminare dell’inchiesta condotta dal procuratore aggiunto di Lecce, Elsa Valeria Mignone, con le indagini per verificare la fondatezza dell’accusa che la società Ecolio 2 di Presicce-Acquarica (Lecce). La tesi accusatoria avanzata dalla Procura di Lecce è che l’autorizzazione integrale ambientale rilasciata a Ecolio 2 con la determina regionale del 18 maggio del 2011 fosse macroscopicamente illegittima, poichè sempre secondo la Procura , avrebbe dato per certo l’esistenza di condizioni, prescrizioni e adempimenti richiesti.

Sarà il Gip del Tribunale di Lecce Sergio Tosi a valutare e decidere se mandare a processo i 16 imputati, fra i quali titolari di aziende del settore rifiuti e vari tecnici, nonché le istanze delle difese di non luogo a procedere. Le contestazioni riguardano Italo Forina, 73 anni di Canosa di Puglia (Bari), legale rappresentate della società Ecolio 2 ; Toni Fernando Alfarano, 52 anni di Racale (Lecce), quale responsabile tecnico dell’impianto; Andrea Giubileo, 52 anni di Milano, vice presidente dell’impianto di estrazione trattamento idrocarburi ENI di Viggiano (in provincia di Potenza), e Walter Rizzi, 61 anni di San Donato Milanese, vice presidente dell’ ENI di Viggiano; Attilio Dabbicco, 55 anni di Bari, direttore tecnico della Siderurgica Signorile; Maurizio Cianci, 63 anni di Bari, dirigente di Aqp, amministratore unico dello stabilimento Aseco Spa di Ginosa (Taranto) ; Vittorio Petrucco, 63 anni di Trieste, legale rappresentante della Icop di Basiliano (Udine); Antonio Albanese, 58 anni di Massafra (Taranto), legale rappresentante della Progetto Ambiente Bacino Lecce Tre (società del gruppo CISA spa di Massafra) , che gestisce la discarica “Burgesi” di Ugento ; il direttore tecnico dello stesso impianto Carmine Carella, 68 anni di Bari; Mario Montinaro, 76anni di Campi Salentina (Lecce), legale rappresentante della Monteco; Antonio Saracino, 47 anni di Soleto, responsabile tecnico dell’Area 2 Discarica di Ugento; Antonio Leone, 45 anni di Manduria (Taranto) , responsabile tecnico dell’impianto Eden 94, e poi Uber Barbier, 69 anni di San Martino in Rio, presidente della società Manduriambiente; l’ad Luca Galimberti, 52 anni di Fosnovo (Massa Carrara) ed il direttore generale Antonio Morea, 52anni di Noci. 

Secondo la Procura di Lecce sarebbe mancata l’approvazione del progetto di variante da impianto di trattamento di acque di vegetazione a impianto di smaltimento di rifiuti, una delle circostanze che dovrà analizzare il giudice per l’udienza preliminare. Altra circostanza su cui si basera l’accoglimento o meno della richiesta di rinvio a giudizio è l’accusa di carenze strutturali, emissioni maleodoranti e smaltimento dei rifiuti in violazione alle prescrizioni fra i quali l’omessa copertura delle vasche di trattamento, l’instabilità del processo di combustione e l’impossibilità di garantire le verifiche sui fumi, l’insalubrità dei luoghi di lavoro, acque piovane stagnanti, sforamento dei limiti di emissione dell’azoto e del mercurio.

Consentita la costituzione parte civile del Comune di Presicce-Acquarica e di Salve, della Provincia di Lecce, della Regione Puglia, del ministero dell’Ambiente e della Lilt-Lega italiana per la lotta ai tumori. 

Incredibilmente mentre nel luglio 2021 sotto la direzione di Michele Partipilo e la gestione editoriale della Ledi srl, la notizia dell’ avviso di conclusione delle indagini, venne pubblicata anche dalla Gazzetta del Mezzogiorno, oggi che il ragionier Antonio Albanese da Massafra è entrato come socio nell’ azionariato della Edime, la nuova società che insieme al gruppo Miccolis di Castellana Grotta, attraverso la partecipata Ecologica s.p.a., edita il quotidiano barese, la notizia viene nascosta ed autocensurata.

E meno male che la redazione della Gazzetta inneggiava alla libertà di stampa ed al diritto dei lettori di Puglia e Basilicata ad essere informati…evidentemente oggi i soldi provenienti dalle discariche di Albanese profumano di sopravvivenza, e certe notizie non si danno. E’ la stampa “monnezza” ! Redazione CdG 1947

Il lavoro che uccide: nel 2021 in Puglia 96 morti e 24mila infortuni. I dati della Cgil e la proposta per i giovani: «Costruiamo una carta dei diritti degli studenti in alternanza». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2022.

Di lavoro si continua a morire.  È un bilancio drammatico quello fornito dalla Cgil Puglia. Nel 2021 in Puglia ci sono stati 65 infortuni al giorno e complessivamente 96 morti sul lavoro in un anno. I numeri sono emersi nel corso dell’iniziativa «Al Sicuro!» promossa dalla Cgil Puglia nel dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Bari. Hanno partecipato, tra gli altri, il segretario della Cgil Puglia, Pino Gesmundo; la segretaria confederale nazionale della Cgil, Rossana Dettori; e Maria Giorgia Vulcano, coordinatrice del Nidil Cgil Puglia. 

«Fermare la strage sui luoghi di lavoro. Favorire una giusta transizione tra istruzione, formazione e luoghi della produzione», è il sottotitolo dell'evento promosso nell’ambito della mobilitazione nazionale lanciata dalla Cgil dopo le morti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, due giovani di 18 e 16 anni, che hanno perso la vita rispettivamente durante un percorso di alternanza scuola lavoro e durante un tirocinio. «Numeri e storie - ha detto Gesmundo - che ci dicono quanto urgente sia, e questa è la proposta che avanziamo, un osservatorio permanente su formazione e lavoro, coinvolgendo le associazioni studentesche, per monitorare un fenomeno che oggi sfugge alla conoscenza e valutazione».

Dettori ha sottolineato l'importanza di «confrontarci con le scuole e le università per comprendere diversità dei bisogni formativi e gli studenti devono poter decidere percorsi. Lavoriamo a costruire una carta dei diritti degli studenti in alternanza: ai ragazzi dico conquistiamo insieme questi diritti». 

Maria Giorgia Vulcano, coordinatrice del Nidil Cgil Puglia, ha ricordato che risultano non in regola con percentuali che oscillano tra il 60 e l’80 per cento, le aziende «del trasporto e magazzinaggio, attività di servizi, alloggio e ristorazione, attività sportive e di intrattenimento, attività professionali, scientifiche e tecniche e commercio». 

Le mille consulenze della Regione: venti pareri costano 1,6 milioni. Amati «Eccessivo il costo di quel comitato, è necessario trovare una soluzione». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Marzo 2022.  

Certo fa effetto, in cima all’elenco delle 1.052 consulenze che la Regione e le sue partecipate hanno affidato nel 2021, leggere nove nomi da 126mila euro e uno da 144.900 euro. Sono il presidente e i nove componenti del Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici, un organo inventato da Vendola nel 2007, che ogni triennio costa ai pugliesi (lo prevede la delibera 37 del 12 marzo 2021, in cui è definito lo stanziamento) un milione e 600mila euro. E non è ben chiaro a cosa serva.

Va però detto che la responsabilità non è né del presidente Vito Rocco Peragine, docente universitario, né dei suoi colleghi. Che documentano pubblicamente l’attività di analisi e approfondimento svolta sui progetti finanziati dalla Regione. Un’attività complessa e (si suppone) approfondita che però all’atto pratico non incide, visto che ai circa 20 pareri (quelli su cui il Nucleo sta lavorando in questo momento) la legge regionale attribuisce un valore obbligatorio ma non vincolante: a prescindere da ciò che dicono i professori (42mila euro lordi l’anno per tre anni ai componenti, 48.300 al presidente per un totale di 1.278.900 euro), insomma, la politica può andare avanti lo stesso. «Tempo fa - dice il consigliere regionale Fabiano Amati (Pd), che ha da sempre nel mirino i vari comitati della Regione - con una legge ho ridimensionato i pareri del nucleo, che con le loro lungaggini servivano solo a disinvestire e perdere finanziamenti. Non ho mai creduto negli organismi consultivi, soprattutto se così onerosi, anche se resta da risolvere il problema relativo alle previsioni della legge statale. Ma di fronte a questo tipo di costi di funzionamento, credo sia necessario trovare una soluzione».

Le consulenze affidate nel 2021 dalla Regione e dalle partecipate e controllate ammontano in totale a poco più di 7 milioni di euro. Nell’elenco, ottenuto dall’estrazione dei dati dal sito della Funzione pubblica su cui vanno riversati per legge, c’è ovviamente di tutto: dagli incarichi legali a quelli artistici, dalle commissioni di gara ai «co.co.co.» degli assessorati. Nel registro delle consulenze finiscono tutti i contratti che, a vario titolo, non costituiscono lavoro subordinato. Detto della mancanza dei dati di PugliaPromozione (turismo), mentre Ager (rifiuti) non rientra tecnicamente nel perimetro delle agenzie regionali, l’agenzia che spende di più è la Apulia Film Commission (877mila euro per 161 contratti), seguita da Puglia Sviluppo (761mila euro per 428 consulenti, alcuni dei quali ricevono poco più di un gettone di presenza). I contratti più ricchi sono quelli stipulati dall’Aress, l’agenzia per la sanità guidata da Giovanni Gorgoni (ne ha fatti 20 per 472mila euro), davanti a quell dell’Asset, l’agenzia per il territorio, che ne ha fatti 9 (ma per un totale di 219.800 euro), quasi tutti collegati ai laboratori urbani di Taranto.

Il consulente più «ricco» è Leo Caroli, ex assessore ed ex consigliere regionale, che riceve 91.678 euro come presidente del Sepac (il tavolo per le «aree di crisi», i cui 11 componenti costano in totale 211mila euro), davanti a una giornalista di Mesagne, Serena Mingolla, che sommando tre incarichi dell’Aress e uno del progetto Interreg lo scorso anno ha portato a casa 89.475 euro lordi. Al terzo posto l’avvocato salentino Giovanni Maglio che ha ricevuto 72mila euro dall’Aress per una consulenza sulle nuove tecnologie collegate alla sanità. I consulenti con il maggior numero di incarichi sono, ovviamente, gli avvocati: l’amministrativista Guido Rodio (sei cause da InnovaPuglia per 30.246 euro), il civilista Luca Vergine (quattro fascicoli da Arca Sud Salento e uno da Arpa per 23.897 euro) e via via tutti gli altri. In totale la spesa per il contenzioso (nel senso di incarichi affidati nel 2021) è di poco più di 1,1 milioni di euro per 116 fascicoli (tra Regione, Aqp, Puglia Sviluppo, Aeroporti...), pareri pro-veritate e consulenze stragiudiziali. Altri 560mila euro si spendono per il supporto alla gestione del Piano di sviluppo rurale (i finanziamenti europei dell’agricoltura), per il quale c’erano 20 contratti da 28mila euro ciascuno. La presidenza della Regione, infine, spende 30mila euro ciascuno per Mino Borracino e Angelo Riccardi, non eletti alle Regionali e finiti a fare i consiglieri del governatore Emiliano.

Lopalco: "Ospedale in Fiera e vaccini, gli scivoloni di Emiliano. Ecco perché serve la commissione d'inchiesta". Antonello Cassano su La Repubblica il 2 marzo 2022.

L'ex assessore regionale alla Sanità non risparmia critiche al governatore: "Serviva più condivisione. Non mi ha coivolto e sulla campagna vaccinale mi ha commissiarato, uno sgarbo nei miei confronti".  

Una commissione d'inchiesta sulla gestione dell'emergenza pandemica può essere utile a fare chiarezza anche sulle vicende giudiziarie della Protezione civile. Quanto al presidente Michele Emiliano, avrebbe dovuto garantire maggiore collegialità per limitare i danni. Ne è convinto Pier Luigi Lopalco, che da assessore regionale alla Sanità ha gestito il periodo più difficile dell'emergenza pandemica: dai primi mesi del 2020 fino a novembre scorso, quando si è dimesso in polemica con la linea del governatore.

Prefetto Bari: «L’ospedale in Fiera va chiuso». Abusivo dal 1° aprile se cessa stato d'emergenza. La lettera alla Regione: «L’autorizzazione è temporanea e provvisoria, vale soltanto per il periodo in cui vige lo stato di emergenza». Massimiliano Scagliarini il 03 Marzo 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Se non ci saranno proroghe dello stato di emergenza (che al momento scade il 31 marzo) l’ospedale in Fiera dovrà essere smantellato. Il prefetto di Bari, Antonella Bellomo, lo ha ribadito ieri al governatore Michele Emiliano e al nuovo capo della Protezione civile, Nicola Lopane. Lo ha fatto in risposta a una lettera con cui la Fiera del Levante il 15 febbraio aveva chiesto il rimborso di oltre 1,2 milioni di euro per le spese di acqua ed energia elettrica.

La questione non è nuova (il prefetto aveva scritto una nota di senso analogo già a luglio) ma rischia di creare gravi difficoltà amministrative anche alla stessa Regione.

Bari, «Così hanno truccato l’appalto per l’ospedale della Fiera». Le carte dell’indagine sulla Protezione civile: «Favoriti gli amici di Lerario». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Marzo 2022.

L’appalto dell’ospedale della Fiera del Levante come un enorme puzzle. Un disegno in cui i pezzi centrali sembrano sapientemente predisposti. Gli atti che la Procura di Bari ha depositato al Tribunale del Riesame permettono di illuminare i contorni dell’indagine sugli appalti della Protezione civile della Regione Puglia, quella che il 23 dicembre ha portato in carcere (dove tuttora si trova) l’ex dirigente Mario Lerario, preso in flagrante mentre incassava la mazzetta natalizia da 10mila euro. Spiccioli, in confronto ai milioni di cui parliamo.

Il sospetto del procuratore Roberto Rossi e dell’aggiunto Alessio Coccioli è che gli appalti dell’emergenza affidati da Lerario e dall’ex responsabile del procedimento Antonio Mercurio (indagato per concorso in falso e turbativa d’asta) rispondano soprattutto all’esigenza di accontentare gli amici. 

«Io, magistrato, ho vissuto l’onta del carcere e la ferocia della giustizia». Parla Michele Nardi, condannato dal Tribunale di Lecce a 16 anni e 9 mesi per concorso morale in corruzione in atti giudiziari, con una sentenza poi annullata in appello. Valentina Stella su Il Dubbio il 10 luglio 2022.

Qualche mese fa la Corte d’appello di Lecce, dichiarando la propria incompetenza territoriale in favore della Procura di Potenza, ha annullato la sentenza di primo grado con la quale il magistrato Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per concorso morale in corruzione in atti giudiziari, nell’ambito di una inchiesta che ha visti coinvolti altri magistrati, avvocati, poliziotti. Difeso da Domenico Mariani e Carlo Taormina, Nardi si proclama innocente.

Chi era Michele Nardi prima di questa vicenda?

Ho vinto il concorso in magistratura a 24 anni. Sono figlio di un magistrato, diventato a fine carriera Procuratore generale di Cassazione. Ho dedicato circa 30 anni della mia vita a questo lavoro: sono stato pretore, poi giudice a Trani fino al 21 febbraio 2006 quando mi sono trasferito a Roma. Lì sono stato il più giovane ispettore generale del Ministero della Giustizia, poi nel 2012 sono passato alla Procura di Roma.

Passiamo al momento dell’arresto.

Il 14 gennaio 2019 mi stavo recando in auto a Scandicci (FI) per un corso di aggiornamento. All’uscita del casello autostradale sono stato accerchiato da diverse auto dei carabinieri che, armi in pugno, mi hanno arrestato.

L’hanno trattata come Carminati.

Sì, come se fossi il peggiore dei criminali. Avrebbero potuto convocarmi in caserma e notificarmi il provvedimento. Hanno preferito fare questa sceneggiata. Poi mi hanno condotto in macchina al carcere di Lecce dove sono rimasto in isolamento per una settimana perché lì ci sono diversi ergastolani condannati da me nel maxiprocesso Dolmen contro la mafia pugliese. Poi mi hanno trasferito nel carcere di Matera: sono rimasto in cella oltre un anno senza quasi mai uscire per l’ora d’aria perché non potevo condividerla con gli altri detenuti. Dopo un mese di detenzione mi hanno certificato uno stato di depressione con pericolo suicidario e trasferito per 30 giorni nel reparto psichiatrico del carcere di Taranto in una cella di 5 mq insieme ad altre due persone, talmente piccola che dovevamo fare a turno per stare in piedi. Fuori intanto i miei figli ricevevano minacce sui social: “vi bruceremo vivi”. Per non parlare del linciaggio massmediatico subìto da me e dalla mia famiglia. Addirittura prima ancora che finisse una perquisizione a casa della mia ex moglie, che fu negativa, in alcune emittenti avevano detto che erano state trovate ingenti somme di denaro in contanti.

Lei ha scritto dal carcere anche una lettera al Presidente Mattarella.

Sì, dopo oltre un anno di custodia cautelare gli scrissi per descrivergli che girone infernale fossero le nostre carceri. Le condizioni di detenzione in Italia sono a dir poco vergognose. Mi sono convinto che il carcere nella maggior parte dei casi è inutile, non ha alcuna funzione risocializzante né incide sulla deterrenza. E poi è inconcepibile che il 30% dei reclusi non abbia una condanna definitiva ma sia comunque ristretto in attesa di giudizio.

Lei è stato 30 mesi in custodia cautelare, di cui 18 in carcere.

Si tratta di un record: dalla fondazione dello Stato italiano, 1861, nessun magistrato è stato trattenuto in custodia così tanto tempo. Il gip ha ritenuto che io dovessi stare in carcere perché avrei potuto uccidere i testimoni! Non ho ancora capito sulla base di quale elemento probatorio abbia ritenuto una cosa del genere. Ed infatti La Cassazione ha annullato per ben tre volte la misura cautelare ma il Tribunale del Riesame, presieduto sempre dallo stesso giudice, per due volte l’ha reiterata. Alla terza volta si sono arresi, ma c’era già stata la sentenza di primo grado.

Entriamo nell’inchiesta e nel processo. Quali sono le anomalie dal suo punto di vista?

Le anomalie sono talmente tante che sono state oggetto di una istanza di rimessione del processo ad altra sede per legitima suspicione. Vengo indicato come capo di una associazione a delinquere ma agli atti non risultano contatti tra me e questi associati. Lavoravo e vivevo a Roma quando i fatti contestati si sarebbero svolti a Trani a partire dalla fine del 2010, cioè cinque anni dopo che ero andato via da quel Tribunale. Nessuno mi ha visto con gli altri associati né ci sono intercettazioni fra me e loro. Tenga conto che sono stato intercettato sia nella mia autovettura che per telefono per circa un anno ma non è emerso nulla di rilevante. Inoltre non ho mai firmato alcun provvedimento a favore dei corruttori. Hanno analizzato i beni patrimoniali miei e della mia famiglia e non hanno trovato nulla. Hanno persino fatto due rogatorie internazionali perché il presunto corruttore aveva riferito che mi accompagnava allo Ior in Vaticano per depositare valigette colme di mazzette di denaro. Ovviamente non è emerso nulla di tutto ciò.

Sta parlando del suo grande accusatore, Flavio D’Introno.

Si tratta di un testimone, anzi di un correo, le cui dichiarazioni andrebbero vagliate con la massima attenzione cercando i riscontri. Appartiene ad una famiglia di imprenditori che ho avuto modo di conoscere e apprezzare quando ero pretore a Corato. Con lui avevo rapporti personali perché era inquilino di una villa della mia ex moglie. Questo signore è stato condannato in via definitiva per usura. Il giorno in cui è arrivata la condanna definitiva invece di presentarsi in carcere si reca dai carabinieri di Barletta – e lui abita e vive a Corato! -e lì inizia una presunta collaborazione fatta di continui interrogatori in cui, cambiando anche spesso versione, costruisce un quadro accusatorio contro di me. Nel frattempo evita di finire dietro le sbarre perché produce documentazione medica da cui risulta che è un alcolista cronico e affetto da sindrome paranoica. Durante il processo abbiamo dimostrato che ha mentito su 135 circostanze fattuali. Ad esempio, si è inventato che mi aveva regalato un Rolex ma poi in aula è venuta la sua amante e lo ha mostrato dicendo che le era stato regalato al suo 40° compleanno. Gli accertamenti bancari hanno dimostrato che non aveva le ingenti disponibilità di denaro per corrompere me ed altri come da lui riferito.  Eppure è stato ritenuto credibile.

Però i suoi colleghi l’hanno condannata.

Voglio credere con tutte le mie forze nella loro buona fede. Anche se in questa vicenda ci sono molte cose incomprensibili. In una intercettazione del 2015 a carico di un soggetto a me sconosciuto, viene detto da costui che D’Introno aveva rapporti con un magistrato “alto e brizzolato”. I carabinieri di Barletta scrivono che l’unico magistrato con quelle caratteristiche, da loro conosciuto, sono io. Ma già da dieci anni lavoravo e vivevo a Roma. Non basta: un anno prima, nel 2014 un compagno di scuola di mio figlio gli profetizzò che sarei stato arrestato per corruzione proprio dai Cc di Barletta, come poi avvenuto. Mio figlio nel 2021 ha poi registrato di nascosto quel compagno di liceo, nel frattempo diventato sottufficiale dei carabinieri, che alla fine della conversazione ammette che il padre aveva amicizia con un carabiniere di Barletta. Questo elemento sarà oggetto del nuovo processo ed è stato già segnalato nella istanza di remissione inviata alla Corte di Cassazione.

Quando inizia?

Ancora non ho ricevuto alcun avviso di conclusione indagine. Non punto alla prescrizione perché sono innocente e voglio difendermi nel processo convinto delle mie ragioni, perchè le evidenze probatorie sono a mio favore. Le dico solo questo: nella sentenza di primo grado c’è scritto che non ci sono prove a mio carico perché sono un magistrato troppo intelligente e scaltro per lasciare tracce.

Però se avesse ragione lei sarebbe preoccupante essere condannati senza prove.

Lei crede che il mio sia l’unico caso?

Ma alla sua difesa è stato consentito di effettuare il controesame?

Come denunciato nell’atto di appello, il Presidente del collegio si è costantemente inserito durante l’esame e il controesame ammonendo i testimoni che non dicevano quello che voleva la Procura spezzando anche il ritmo del controesame.

Come si spiega tutta questa vicenda?

All’inizio ho pensato che eravamo dinanzi ad un eccesso di zelo, come se i magistrati leccesi volessero dimostrare di non fare sconti ai colleghi. Poi ho visto un accanimento che non mi spiego. Le faccio un esempio: nel periodo covid dal Dap chiedono di segnalare detenuti a rischio sanitario. Vengono fatti 4 nomi, tra cui il mio, ma mentre venivano scarcerati boss mafiosi in tutta Italia per via del Covid io sono stato lasciato in carcere a rischio della mia vita.

Magistrati arrestati: in appello annullata condanna Nardi. ANSA l'1 aprile 2022. La Corte d'appello di Lecce, dichiarando la propria incompetenza territoriale in favore della Procura di Potenza, ha annullato la sentenza di primo grado con la quale l'ex gip tranese Michele Nardi era stato condannato dal Tribunale salentino a 16 anni e 9 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Nardi era accusato di aver garantito esiti processuali favorevoli in più vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini dei pm di Trani in cambio di danaro, gioielli e varie utilità. La sentenza è stata annullata anche nei confronti degli altri 4 imputati. La Corte d'appello di Lecce, presidente Vincenzo Scardia, ha così accolto una delle eccezioni preliminari presentate nella scorsa udienza dal legale di Nardi, Domenico Mariani, e contestate dalla pubblica accusa. Tra queste c'era la competenza territoriale con la quale si chiedeva di spostare a Potenza il procedimento perché collegato - secondo la difesa - alle funzioni di Carlo Maria Capristo, l'ex procuratore di Trani e di Taranto, indagato nel capoluogo lucano. Oltre a Nardi il Tribunale di Lecce, il 18 novembre 2020, aveva condannato a 9 anni e 7 mesi di reclusione l'ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice dell'ex pm tranese Antonio Savasta (condannato in primo grado con rito abbreviato in un processo-stralcio a 10 anni); 6 anni e 4 mesi erano stati inflitti all'avvocatessa barese Simona Cuomo; 5 anni e 6 mesi a Gianluigi Patruno; 4 anni e tre mesi a Savino Zagaria, cognato di Savasta. (ANSA).

Giustizia truccata, a Lecce annullata la condanna a Nardi: «Processo da rifare a Potenza». Oggi davanti alla Corte d’appello era prevista la requisitoria del procuratore generale di Lecce che avrebbe concluso per la conferma della condanna. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Aprile 2022.

Il processo a carico dei giudici di Trani non doveva svolgersi a Lecce. Per questo, accogliendo la questione di competenza territoriale avanzata dagli avvocati dell’ex gip Michele Nardi, la Corte d’appello di Lecce ha annullato la sentenza di primo grado che aveva condannato il magistrato a 16 anni e 9 mesi di reclusione, disponendo la trasmissione degli atti a Potenza dove si dovrà ricominciare da capo. Nardi, presente in aula al momento della lettura del dispositivo, è scoppiato in lacrime. La sentenza è stata annullata anche nei confronti degli altri quattro imputati.

Nel processo di appello di Lecce erano imputati anche l'ex ispettore di Polizia, Vincenzo Di Chiaro (9 anni e 7 mesi), l’avvocato barese Simona Cuomo (condannato in primo grado a 6 anni e 4 mesi), l’ex cognato dell’ex pm Antonio Savasta, Savino Zagaria (4 anni e 3 mesi) e Gianluigi Patruno (5 anni e 6 mesi).

«Sono stato trattenuto due anni e mezzo in custodia cautelare in carcere da una Procura e un Tribunale incompetenti territorialmente, così come avevo eccepito sin dal primo momento dell’arresto, anzi ancora prima, in una memoria difensiva che è stata definita un tentativo di depistaggio e, invece, avevo ragione io». Lo afferma in lacrime l'ex gip di Trani, Michele Nardi, commentando la decisione della Corte d’appello di Lecce che oggi ha annullato, rilevando l'incompetenza territoriale della magistratura salentina in favore di quella di Potenza, la sentenza di primo grado con la quale Nardi era stato condannato a 16 anni e 9 mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.

«E' stata distrutta la mia vita, quella della mia famiglia - accusa - da un Tribunale, una Procura che non aveva alcuna competenza in materia. Io voglio far emergere la verità perché la verità è dalla mia parte. Io sono innocente, l’ho sempre urlato e, nonostante 30 mesi di custodia cautelare, non mi sono mai piegato ad ammettere qualcosa che non avevo fatto perché io non l’ho fatto, perché non ho commesso reati e ho avuto il coraggio di andare avanti e di testimoniarlo sulla mia pelle, con 30 mesi di tortura».

LA DIFESA: CONDANNA IGNOBILE - «Queste decisioni si prendono quando si è convinti che nel merito le cose non stanno come dice l'accusa, altrimenti non si arriva a queste conclusioni che riportano il processo alle sue fondamenta». Lo dicono i legali dell’ex giudice di Trani Michele Nardi, Domenico Mariani e Carlo Taormina. I difensori si riferiscono alla decisione della Corte d’appello di Lecce che oggi ha annullato la sentenza di primo grado a carico dell’ex magistrato e di altri quattro imputati rilevando l’incompetenza territoriale dei magistrati salentini. I giudici hanno quindi trasmesso gli atti alla Procura di Potenza, ritenendola competente ad indagare. "Noi combatteremo in questo processo per far emergere l’assoluta innocenza del dottor Nardi, a cui dovrà essere restituita la dignità che gli è stata tolta senza un fondamento, da una sentenza ignobile». 

La Corte d’appello di Lecce: “ Incompetenza territoriale”. Annullata la condanna dell’ex magistrato Michele Nardi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Aprile 2022.  

Nardi era presente in aula a Lecce sia il 18 novembre 2020, quando i giudici lo avevano condannato, che ieri, quando la Corte d’appello ha sovvertito la decisione di primo grado annullandola per incompetenza territoriale disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Potenza, che adesso dovrà ricominciare tutto da capo, celebrando un'eventuale ma necessaria udienza preliminare per poi incardinare un nuovo processo

Il collegio presieduto da Vincenzo Scardia ha annullato la sentenza di primo grado “per incompetenza funzionale del tribunale di Lecce” accogliendo le eccezioni e richieste dai difensori Avv. Carlo Taormina e Avv. Domenico Mariani dell’ex gip Nardi magistrato sospeso dal Csm e che non si è mai dimesso. L’annullamento della Corte di Appello di Lecce riguarda l’intera sentenza, comprendendo anche anche le posizioni degli altri quattro imputati: l’avvocatessa Simona Cuomo assistita dagli avvocati Luca Bruno e Andrea Sambati, che era stata condannata a 6 anni e 4 mesi; il poliziotto Vincenzo De Chiaro condannato a 9 anni e 7 mesi, assistito dall’avvocato Mauro Giangualano , Gianluigi Patruno la cui pena era di 5 anni e 6 mesi; l’ex cognato del pm Antonio Savasta, Savino Zagaria condannato a 4 anni e 3 mesi, assistito dall’avvocatessa Antonella Parrotta. 

I difensori di Nardi hanno eccepito che, poichè la vicenda Nardi è in qualche modo collegata a un’altra inchiesta simile, quella che ha riguardato l’ex procuratore della Repubblica di Trani Carlo Maria Capristo, nel frattempo diventato procuratore a Taranto, dovessero occuparsene i colleghi di Potenza. La questione è a dir poco complessa: si parla di “competenza funzionale“, cioè delle competenze territoriali delle varie procure, che stabiliscono chi deve procedere nel caso in cui sia un magistrato ad essere indagato o persona offesa . Per il foro di Trani e Bari è competente Lecce. Per quello di Taranto, Brindisi e Lecce è competenza di Potenza. Quindi tutte da rifare le precedenti indagini condotte dalla procura salentina che adesso dovranno ripartire dal principio, ma a Potenza.

Il procedimento nei confronti del magistrato in quiescenza Capristo è radicato a Potenza in quanto è stato considerato il luogo in cui il magistrato esercitava le funzioni al momento dell’apertura dell’inchiesta (nel caso che lo riguarda Taranto) e non il luogo invece in cui è stato commesso il fatto. Quindi secondo il collegio della difesa di Michele Nardi, anche per quest’ultimo avrebbe dovuto procedere la procura di Potenza in virtù della connessione con Capristo. 

L’ex gip tranese Michele Nardi era stato arrestato nel gennaio 2019 assieme all’allora pm tranese Antonio Savasta il quale ha optato per il processo con rito abbreviato (che riduce ad 1/3 la pena in caso di condanna ) venendo condannato a 10 anni di reclusione. Nei confronti di Savasta ed i computati, che avevano optato per il rito alternativo, è attualmente in corso il processo d’appello che riprenderà il prossimo 26 aprile, cioè quando le motivazioni della Corte d’Appello sul “troncone” Nardi potrebbero non essere state ancora depositate. Qualora si dovesse ritenere che anche fra Savasta che attualmente si trova agli arresti domiciliari, e Capristo ci sia stata “connessione”, probabilmente si riproporrà la questione e dovrà essere nuovamente valutata.

Tutto ha origine da una sola inchiesta condotta dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera, coordinata dal procuratore della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone De Castris. Le contestazioni formulate dalla procura salentina erano di “associazione per delinquere finalizzata a compiere reati contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica e contro l’autorità giudiziaria“. Nello specifico la corruzione in atti giudiziari, falso ideologico, calunnie, falsa testimonianza. L’ipotesi di reato sostenuta dai pm della procura di Lecce sarebbe stato quella di acquisire guadagni illeciti da imprenditori coinvolti in vicende giudiziarie, manipolando i meccanismi dei processi e delle indagini preliminari, facendo anche state trapelare notizie sull’esistenza di inchieste della procura di Trani. 

Michele Nardi ha sinora trascorso 18 mesi in carcere e 12 agli arresti domiciliari, fino alla condanna di un Tribunale a 16 anni e nove mesi di reclusione per essere stato il capo di un’associazione per delinquere “finalizzata alla corruzione in atti giudiziari“. Nardi era presente in aula a Lecce sia il 18 novembre 2020, quando i giudici lo avevano condannato, che ieri, quando la Corte d’appello ha sovvertito la decisione di primo grado annullandola per incompetenza territoriale disponendo la trasmissione degli atti alla Procura di Potenza, che adesso dovrà ricominciare tutto da capo, celebrando un’eventuale ma necessaria udienza preliminare per poi incardinare un nuovo processo.

“È stata distrutta la mia vita e quella della mia famiglia da una Procura ed un tribunale, che non avevano alcuna competenza in materia” ha commentato Nardi in lacrime di emozione, gioia e dolore all’uscita dal Palazzo di giustizia salentino. “Sono stato trattenuto due anni e mezzo in custodia cautelare da magistrati incompetenti territorialmente — ha aggiunto Nardi — così come avevo eccepito fin dal primo momento dell’arresto. Anzi, ancora prima“. “Il lavoro che è stato fatto – specifica l’ex gip – non andava fatto in quel modo. Del resto ho subito un processo in cui non sono stati ammessi testimoni, mi è stato negato di produrre le prove della mia innocenza“.

Adesso Michele Nardi tornato libero da questa condanna potrà rinnovare al Csm la propria richiesta di tornare a fare il magistrato, sulla quale la commissione competente dovrebbe decidere a maggio. 

Soddisfatto il collegio difensivo di Nardi, composto dagli avvocati Domenico Mariani e Carlo Taormina. “Queste decisioni si prendono quando si è convinti che nel merito le cose non stanno come dice l’accusa, altrimenti non si arriva a queste conclusioni che riportano il processo alle sue fondamenta” hanno commentato i due legali .”Noi combatteremo in questo processo per far emergere l’assoluta innocenza del dottor Nardi, a cui dovrà essere restituita la dignità che gli è stata tolta senza un fondamento, da una sentenza ignobile” hanno proseguito. Secondo l’ avv. Mariani la responsabilità di quanto accaduto “è della procura di Lecce, che è colpevole, e non del Tribunale che ha emesso la sentenza di primo grado, perché i giudici non avevano tutti gli elementi per decidere” sulla questione specifica che era già stata precedentemente rappresentata.

Nel frattempo vi è stata un’altra sentenza importante, questa volta del Tribunale di Potenza che ha raso al suolo l’impianto accusatorio imbastito dalla Procura potentina guidata da Francesco Curcio, che aveva mandato a processo il magistrato Antonino Di Maio, all’epoca dei fatti procuratore capo di Trani, accusandolo di “favoreggiamento“. Il Tribunale ha smantellato le accuse della procura di Potenza ed assolto il dr. Di Maio con formula piena decidendo che “il fatto non sussiste“.

Una decisione questa che potrebbe avere un’influenza non indifferente nel processo in corso a Potenza a carico del dr. Capristo , avviato a seguito delle accuse del magistrato Silvia Curione, prima pm a Trani ed ora a Bari dove si è ricongiunta con suo marito Lanfranco Marazia, ex pm a Taranto ed ora in servizio presso la Procura di Bari.

Se non vi è stato alcun “favoreggiamento” del Di Maio, adesso sarà ancora più difficile per la procura di Potenza continuare sostenere il castello delle proprie discutibili accuse mosse al dr. Capristo, le quali stanno svanendo udienza dopo udienza come neve sotto il sole, a seguito anche delle testimonianze sinora ascoltate e delle evidenze processuali.

Redazione CdG 1947

IL PROCESSO. Magistrati arrestati, per la Procura di Lecce l'impianto accusatorio rimane integro. Dopo che Corte d’appello ha annullato le condanne di primo grado. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.

Per il procuratore di Lecce, Leonardo Leone de Castris, «il complessivo impianto» accusatorio del processo a carico dell’ex giudice tranese Michele Nardi e di altri imputati è «rimasto assolutamente integro e non travolto dall’annullamento della sentenza di primo grado e dal trasferimento del processo per competenza funzionale ad altra sede; sarà ora l’autorità giudiziaria di Potenza a valutare gli aspetti procedurali e/o di merito». Il riferimento del capo della Procura salentina è al processo a carico dell’ex gip Nardi, condananto il primo grado dal Tribunale di Lecce (il 18 novembre 2020) a 16 anni e 9 mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari. Per lo stesso magistrato, il primo aprile scorso, i giudici della Corte d’appello di Lecce, accogliendo un’eccezione preliminare della difesa, hanno emesso sentenza di incompetenza funzionale e hanno disposto l’invio degli atti alla Procura di Potenza perchè i fatti contestati sarebbero collegati alla posizione processuale dell’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Maria Capristo, sotto inchiesta nel capolouogo lucano.

«Pare il caso di sottolineare - scrive Leone de Castris -, anche avuto riguardo ad alcune dichiarazioni difensive di diverso avviso, che il complessivo impianto rappresentato da questo ufficio, costituito da elementi di prova (tra cui intercettazioni di comunicazioni, registrazioni di conversazioni tra coimputati, dichiarazioni di persone informate sui fatti, poi divenute testimonianze, perquisizioni e sequestro) e prove assunte in sede di incidente probatorio, in base alle quali il Tribunale si era espresso nel merito, a opinione dello scrivente e per giurisprudenza costante, sia rimasto assolutamente integro e non travolto dall’annullamento della sentenza di primo grado e dal trasferimento del processo per competenza funzionale ad altra sede; sarà ora l’autorità giudiziaria di Potenza a valutare gli aspetti procedurali e/o di merito».

«Rimango pienamente convinto - sottolinea il procuratore - della bontà del lavoro dell’ufficio da me diretto» e rinnovo "piena fiducia ai pm che hanno lavorato al caso». «Lo scrivente e l’ufficio della Procura delle Repubblica di Lecce - conclude - nutrono rispetto per la sentenza della Corte d’Appello e stima personale per i magistrati che ne compongono il collegio; tali considerazioni valgono in egual misura anche per la sentenza di primo grado, per i provvedimenti del Gip, del Gup, del Tribunale del Riesame e per i colleghi tutti che sono stati impegnati in questo complesso procedimento».

Nardi, i veleni dell’ex gip: «Io vittima di complotto. A Lecce giudici ricattabili». L’Anm dopo la condanna annullata: frasi inaccettabili. La difesa del magistrato aveva chiesto alla Cassazione di spostare il processo. Massimiliano Scagliarini su la Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.  

Avrebbe voluto che fosse la Cassazione a decidere dove celebrare il suo processo. Il 1° aprile l’ex gip Michele Nardi ha ottenuto anche di più: la Corte d’appello di Lecce ha direttamente annullato la sentenza con cui il magistrato tranese è stato condannato in primo grado a 16 anni e 9 mesi, riconoscendo l’incompetenza territoriale della Procura di Lecce e disponendo il trasferimento degli atti a Potenza dove ora bisognerà ricominciare dall’udienza preliminare. Ma con una istanza di remissione depositata il 23 marzo, Nardi ha lanciato la sua bomba, dichiarandosi vittima di un complotto e lanciando accuse pesantissime a tutti.

Quelle 46 pagine di veleni faranno discutere. Già dopo la sentenza della Corte d’appello la sezione di Lecce dell’Anm è insorta a difesa dei colleghi,parlando di «attacco gratuito verso il lavoro dei magistrati». Stavolta Nardi ne ha per tutti: per i carabinieri che hanno fatto le indagini, per i giornalisti e soprattutto per i magistrati. Partendo dal «totale scadimento della cultura della giurisdizione che connota i magistrati pugliesi»: da quelli di Lecce (che «non sono stati, non possono essere, e tanto meno apparire, imparziali e sereni nella decisione del processo») fino al presidente della Corte d’appello di Bari, accusato (in maniera avventata) di essersi pubblicamente espresso sugli arresti «senza la dovuta prudenza». Una situazione figlia, secondo la difesa di Nardi, dell’«aggressiva e abnorme campagna giornalistica condotta dalla stampa locale nei confronti dell’imputato» e delle «dinamiche in seno all’ambiente giudiziario pugliese di cui tale campagna è sicuramente, almeno in parte, causa».

Nardi aveva ricusato, per grave inimicizia, il presidente di sezione di Corte d’appello, Vincenzo Scardia, lo stesso che ha poi accolto le sue richieste annullando tutto. Nella istanza di rimessione del processo la difesa dell’ex gip ha attaccato anche il presidente del collegio di primo grado, Pietro Baffa, per via di «una certa ricattabilità da parte dell’ambiente giudiziario leccese» poiché il suo nome compare nelle chat dell’ex segretario dell’Anm, Luca Palamara. «Questo - sempre secondo la difesa di Nardi - ha reso la posizione di Baffa particolarmente ricattabile e sottoposta alla influenza anche della Procura della Repubblica locale e ciò ne spiega l'atteggiamento ostile e preconcetto rispetto alla difesa e il continuo pronarsi acritico nei confronti dell’accusa».

Nardi, che ha una condanna passata in giudicato per calunnia, adombra complotti. Racconta che nel 2014 un compagno di scuola di suo figlio «fece la “profezia” che suo padre - cioè l’attuale istante - sarebbe stato arrestato per corruzione dai Cc di Barletta», come poi avvenuto 5 anni dopo. Il figlio di Nardi a inizio 2021 ha poi registrato di nascosto quel compagno di liceo, nel frattempo diventato sottufficiale dei carabinieri, che «alla fine della conversazione registrata è costretto ad ammettere che il padre aveva amicizia con un carabiniere di Barletta».

Ma ce n’è anche per i giornalisti. A partire dalla «Gazzetta», accusata di «un’autentica attività costante di diffamazione e denigrazione», oltre che di contiguità con i magistrati perché «l’entità abnorme della richiesta di pena della Procura (vent’anni) era anticipata dalla stampa prima dell’inizio del dibattimento». Ma non soltanto. Nardi ha registrato di nascosto un giornalista televisivo, che avrebbe ammesso di aver taciuto un fatto sostanziale: «I signori Ferri e Casillo, i due accusatori del Nardi, all’epoca dei fatti si erano rivolti a lui (cioè al giornalista, ndr), quando temevano di essere arrestati, riferendogli che avevano ricevuto una richiesta di tangenti dal dr Savasta e non certo dal Nardi. Nel corso di tale incontro i signori Ferri e Casillo chiedevano a quest’ultimo (al giornalista, ndr) di fare da intermediario con il Savasta per ridurre l’entità della tangente (...). Ma [il giornalista] non aveva sentito la necessità di riferire quanto a lui noto circa l’estraneità del Nardi all’autorità giudiziaria lasciando che questi, in carcere all’epoca di quelle deposizioni testimoniali, venisse linciato pubblicamente».

Già dopo l’annullamento della sentenza le polemiche sono state roventi. «Definire la sentenza emessa dal Tribunale di Lecce “ignobile”, tacciare di incompetenza, o quantomeno di superficialità, lo studio e l’analisi delle carte processuali compiute da quei magistrati rappresentano messaggi fuorvianti per la collettività e sono frasi gravemente lesive della loro professionalità, e dunque di quella dei tanti colleghi che ogni giorno, in silenzio, svolgono il proprio lavoro nel rispetto delle parti e dei principi imposti dalla Costituzione e dalla Legge, primo fra tutti quello della presunzione di innocenza», ha detto la segretaria dell’Anm distrettuale, Laura Orlando, che ha espresso «piena solidarietà» ai magistrati «ingiustamente lesi dai toni di talune dichiarazioni».

Annullata la condanna per Nardi, ex gip di Trani: "Una tortura come la Santa Inquisizione". La Corte d’appello di Lecce ha dichiarato l’incompetenza territoriale. Lo sfogo di Nardi contro i suoi colleghi: "Mai nessun magistrato italiano, dalla fondazione della nostra Repubblica, è stato tenuto 30 mesi in custodia cautelare". Il Quotidiano del Sud il 2 Aprile 2022.

«Ero stato condannato a 16 anni e 9 mesi, una sentenza senza precedenti nella storia giudiziaria italiana, tenendo presente che le accuse non erano di omicidio ma di corruzione. Peraltro un’ipotesi di corruzione molto particolare, perché sono stato condannato in quanto sarei stato l’ “ispiratore morale” della corruzione di altri magistrati. Un “ispiratore morale che lavorava a 500 km di distanza, cioè a Roma, mentre queste corruzioni erano perpetrate dai colleghi di Trani. Una di quelle cose incomprensibili prive di qualsiasi logica».

Così all’AdnKronos l’ex Gip di Trani Michele Nardi, dopo che la Corte d’appello di Lecce ha dichiarato la propria incompetenza territoriale, trasmettendo gli atti alla Procura di Potenza e annullando la condanna a 16 anni e 9 mesi inflitta in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari.

«La Corte d’appello di Lecce – osserva Nardi – ha annullato la sentenza perché ha accolto quello che noi abbiamo sempre sostenuto fin dall’inizio delle indagini, prima ancora che io venissi arrestato, e cioè che la procura di Lecce, appunto, era incompetente territorialmente a condurre quelle indagini. Lo era perché fin dall’inizio era emerso il coinvolgimento di altri magistrati che poi erano passati a lavorare nel distretto di Lecce, e quindi non poteva essere Lecce a decidere e a condurre queste indagini».

«Quando abbiamo evidenziato questo fatto – sottolinea l’ex giudice – ci è sempre stata sbattuta la porta in faccia, fino a quando non abbiamo trovato un giudice a Berlino, in questo caso a Lecce, che si è letto le carte. Per noi è stato addirittura sorprendente, perché non ci aspettavamo che oggi pronunciassero la sentenza. Evidentemente si sono letti bene le carte e dopo una sola udienza ci hanno rinviati ad oggi, alla seconda udienza, decidendo sulla competenza. Questo la dice lunga sul fatto che l’incompetenza della procura del tribunale di Lecce era evidente, ma hanno continuato nonostante tutto a persistere nella loro attività costante nei miei confronti».

«Mai nessun magistrato italiano, dalla fondazione della nostra Repubblica, è stato tenuto 30 mesi in custodia cautelare – si sfoga Nardi con l’AdnKronos -, io ne ho passati 18 in carcere, continuamente gridando di essere innocente. Ne ho passati altri 12 agli arresti domiciliari, ho passato un mese anche in un ospedale psichiatrico giudiziario. Io mi sono sempre professato innocente perché sono innocente, ma loro hanno continuato questa tortura nella speranza di estorcermi una confessione. Come ai tempi della Santa Inquisizione».

«Di idee sulla mia condanna me ne sono fatte tante – confessa Nardi -, ma preferisco al momento tenerle per me per evitare di beccarmi qualche altra denuncia per diffamazione o calunnia. Fatto sta che molto spesso, e ciò al di là del comportamento dei colleghi di Lecce, i magistrati hanno un grosso difetto sul quale bisognerebbe riflettere a livello collettivo, e cioè che quando prendono una strada, ritengono che sia un segno di incapacità o debolezza ammettere di avere sbagliato, e quindi persistono nei loro errori, nelle loro accuse e nella loro azione anche a costo di sacrificare un innocente».

«Il trattamento mediatico che ho ricevuto, soprattutto a livello locale, è stato drammatico – aggiunge l’ex Gip -, un linciaggio costante e continuo. I miei figli, che adesso sono maggiorenni, ma al momento in cui sono stato arrestato uno era minorenne, sono stati minacciati varie volte di essere bruciati vivi in casa per il solo fatto di essere i miei figli. Noi abbiamo vissuto più di tre anni, da quando sono stato arrestato il 14 gennaio 2019 ad oggi, in uno stato costante di terrore. Io stavo in carcere, non potevo sentire i miei figli se non dieci minuti a settimana, non potevo vederli, con la paura che gli facessero del male. Una tortura psicologica».

«Purtroppo – sottolinea Nardi – c’è un asservimento, soprattutto per quanto riguarda le testate locali, rispetto alle procure della Repubblica. Ma bisogna riflettere anche su un altro aspetto. Nel nostro Paese si è creato una sorta di regime composto da alcune procure, alcuni magistrati, i mass media e alcune forze di polizia. Questo regime, che è un regime autoritario e non democratico, mette in pericolo la libertà di tutti. Oggi è toccato a me, ma domani toccherà a qualcun altro. Ogni anno in Italia mille innocenti vengono incarcerati. Ma la cosa peggiore è che la stampa, che dovrebbe essere portatrice e difensore dei principi di libertà, primo fra tutti la considerazione di non colpevolezza, è la prima a dare addosso alle persone, ai presunti colpevoli. Evidentemente perché fa piacere».

«La mia vicenda non si è conclusa, perché adesso si dovrà rifare il processo a Potenza – sottolinea Nardi all’Adnkronos -, noi speriamo veramente che con il più ampio approfondimento possibile, il più ampio dibattimento e la più ampia possibilità di acquisire nuove prove, si accerti la verità. Perché la verità non la temiamo, anzi, l’abbiamo invocata costantemente per tre anni. Io sono innocente e non ho paura di nulla. Ma spero che questa mia vicenda faccia riflettere tutti quanti. Hanno fatto questo a me che pure non ero l’ultimo di questa comunità. Ero sostituto procuratore Roma, mio padre è stato procuratore in Cassazione, mio zio anche in Cassazione, una famiglia di magistrati professionisti».

«Io che non ho fatto nulla, ed è materialmente provato che non ho fatto nulla, ho subito questo, dunque possono fare qualsiasi cosa a chiunque – chiosa Nardi -, spero che il mio caso sia un’occasione di riflessione collettiva su quello che stiamo diventando come Paese». Fin qui la reazione del magistrato.

Il processo è quello chiamato “Giustizia svenduta” e riguarda presunti illeciti compiuti anche dall’allora pm di Trani Antonio Savasta, ritenuto complice di Nardi e di altri imputati. Proprio Savasta (condannato in primo grado con rito abbreviato a 10 anni) potrebbe ora sollevare in appello l’incompetenza funzionale dei magistrati salentini e provare ad azzerare il processo a suo carico e a trasferirlo al tribunale di Potenza. Nardi e Savasta sono accusati di aver garantito esiti processuali favorevoli in più vicende giudiziarie e tributarie in favore di imprenditori coinvolti nelle indagini dei pm di Trani in cambio di danaro, gioielli e varie utilità.

Alla fine del processo di primo grado il Tribunale di Lecce, il 18 novembre 2020, aveva condannato l’ex giudice Nardi a 16 anni e 9 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, a 9 anni e 7 mesi l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, ritenuto complice dell’ex pm tranese Savasta; 6 anni e 4 mesi erano stati inflitti all’avvocatessa barese Simona Cuomo; 5 anni e 6 mesi a Gianluigi Patruno; 4 anni e tre mesi a Savino Zagaria, cognato di Savasta.

Nardi, il rebus del nuovo processo: il fascicolo andrà a Potenza, ma anche le intercettazioni rischiano di essere stralciate. In settimana le motivazioni della sentenza: potrebbero far saltare l’intera indagine di Lecce. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2022.

La Procura di Lecce attende le motivazioni della sentenza con cui, il 1° aprile, la Corte d’appello ha annullato la condanna di primo grado a 16 anni e 9 mesi dell’ex gip Michele Nardi. Soltanto dopo provvederà a trasmettere le 40mila pagine di atti alla Procura di Potenza che, in base alla decisione del collegio, ha la competenza per far ripartire il processo a carico del magistrato sospeso e di altre quattro persone. Accusate, a vario titolo, di aver truccato sentenze in cambio di soldi.

La decisione della Corte guidata dal dottor Vincenzo Scardia segna un punto importante, in rito, per la difesa di Nardi. Che adesso punterà a far annullare anche gli atti di indagine, ponendo di fatto il processo su un binario morto. L’incompetenza territoriale - che i difensori dell’ex gip avevano già sollevato in tutte le sedi - è «funzionale»: significa che i magistrati di Lecce non erano competenti a trattare questa indagine. Normalmente l’annullamento di una sentenza travolge tutti gli atti ripetibili (le testimonianze), e fa salvi quelli irripetibili (le intercettazioni). Ma cosa accade in un caso come questo, nemmeno normato dal codice di rito, in cui è stato fatto un processo che non doveva essere fatto in quella sede?

A rendere le cose ancora più complicate c’è il fatto che a fine 2019 la Procura generale della Cassazione, chiamata in causa da Nardi su motivazioni simili a quelle che hanno portato all’annullamento, ha stabilito che «la Procura della Repubblica di Lecce ha competenza alla prosecuzione delle indagini». Era già stato celebrato l’incidente probatorio in cui sono state cristallizzate le dichiarazioni dell’imprenditore Flavio D’Introno (l’uomo che con le sue confessioni ha fatto scattare l’indagine) e dell’ex pm Antonio Savasta (che ha parzialmente ammesso alcuni episodi corruttivi e ha scelto il giudizio abbreviato): quelle dichiarazioni - secondo la Procura generale - non erano sufficienti a imporre alla Procura di Lecce l’obbligo di iscrivere come indagato anche Carlo Capristo, all’epoca dei fatti procuratore di Trani e nel frattempo diventato procuratore di Taranto. Dunque l’inchiesta poteva rimanere a Lecce. Tre anni dopo, però, la Procura di Potenza ha chiesto il rinvio a giudizio di Capristo e Nardi per una ipotesi di corruzione relativa ai tempi di Trani. Da qui probabilmente (bisogna attendere le motivazioni, attese già in settimana) la decisione della Corte d’appello di mandare tutto a Potenza.

La Procura di Potenza (che dovrà studiare gli atti da zero, notificare gli avvisi di conclusione, valutare se chiedere i rinvii a giudizio) potrà nuovamente rivolgersi alla Cassazione per chiedere un regolamento di competenza. Senza le intercettazioni, le accuse a Nardi dovrebbero basarsi quasi soltanto sulle dichiarazioni di D’Introno. Che tra non molto avrà finito di scontare la sua pena e soprattutto, essendo già stato condannato per gli stessi fatti (ha patteggiato) non è obbligato a parlare. Il nuovo processo, insomma, non sarà una passeggiata. E nel frattempo potrebbero essere travolte anche le condanne in abbreviato di Ragno, Savasta e Scimè. [m.scagl.]

«Capristo corrotto da Laghi per favorire l’Ilva»: Taranto, l’ex procuratore verso il processo-ter. L’ex procuratore di Trani e Taranto avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» all’avvocato siciliano Piero Amara, all’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Laghi, e al suo consulente Nicola Nicoletti. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Giugno 2022.

L’ex procuratore di Trani e Taranto, Carlo Capristo, avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» all’avvocato siciliano Piero Amara, all’ex commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Laghi, e al suo consulente Nicola Nicoletti in cambio «del costante interessamento» per la sua carriera e «per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale» Giacomo Ragno, l’avvocato che dall’Ilva ottenne lucrosi incarichi di difesa. Ed è per questo che la Procura di Potenza ha chiesto di mandare Capristo a processo per la prima volta insieme ad altre cinque persone, tra cui anche l’ex pm tranese Antonio Savasta. Ma senza Amara che, nel frattempo, ha chiesto e ottenuto di patteggiare tre mesi in continuazione con le sue altre condanne. E senza nemmeno Nicoletti che fin da subito ha scelto di collaborare (si era detto disponibile anche a un confronto con Laghi): anche lui ha patteggiato 16 mesi (pena sospesa) ed è uscito da questa storia.

L’inchiesta è quella che a giugno dello scorso anno portò all’arresto in carcere di Amara e di Filippo Paradiso, il poliziotto-amico del magistrato, mentre Nicoletti e Ragno finirono ai domiciliari e per Capristo (nel frattempo andato in pensione) venne disposto l’obbligo di dimora. Laghi finì invece ai domiciliari a settembre (fu liberato un mese dopo dal Riesame), dopo gli interrogatori fiume di Amara. Capristo, Paradiso, Laghi, Savasta, Ragno e l’altro avvocato Pasquale Misciagna dovranno comparire il 30 giugno davanti al gip Annachiara Di Paolo: rispondono, ciascuno secondo le rispettive responsabilità, di concorso in corruzione in atti giudiziari tra il 2015 e il 23 luglio 2019. Tra le contestazioni a Capristo e Paradiso c’è pure il falso e la calunnia per il falso esposto sul complotto contro Eni presentato alla Procura di Trani con la regia di Amara. L’ex procuratore, con Ragno e Laghi, risponde anche di concussione: avrebbero costretto alcuni dirigenti dell’Ilva a nominare Ragno come proprio difensore.

Il contesto resta quello tratteggiato dal procuratore Francesco Curcio e dai pm Piccininni e Borriello nelle oltre 20mila pagine di atti depositati lo scorso anno. Ovvero un presunto accordo corruttivo orchestrato da Capristo che, mentre era procuratore di Trani, avrebbe sfruttato i rapporti di Amara e Paradiso per ottenere raccomandazioni al Csm «in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti». In cambio Capristo avrebbe curato gli interessi di Amara: dal falso esposto presentato a Trani, che serviva ad accreditare l’avvocato siciliano con i vertici Eni, agli incarichi ottenuti dai vertici dell’Ilva che a loro volta avrebbero potuto contare sulla disponibilità del procuratore di Taranto rispetto alle inchieste sullo stabilimento siderurgico.

Nell’inchiesta risultano parti offese, tra gli altri, l’ex ministro Paola Severino e l’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, di cui si parla nell’esposto sul complotto, ma anche l’imprenditore salentino Roberto De Santis, tirato in ballo da Amara in una strana storia di compravendite con l’Eni. Capristo è già a processo per l’inchiesta che il 19 maggio 2020 lo portò ai domiciliari con l’accusa di tentata induzione indebita nei confronti di una pm di Trani. Ieri, invece, davanti al gip di Potenza, Rossella Magarelli, si è svolta l’udienza preliminare a carico di Capristo, Nardi e Savasta per la «giustizia truccata» di Trani: è stata aggiornata al 14 luglio.

«Processo ai giudici di Trani, ecco perché passa a Potenza». E anche Savasta può salvarsi. Le motivazioni della condanna annullata a Nardi. D'Introno in carcere deve scontare i due anni e mezzo patteggiati per la corruzione dei magistrati. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Aprile 2022.

È «l’evidente connessione» emersa in corso d’opera tra la vecchia indagine di Lecce e quella nuova di Potenza in cui è coinvolto anche Carlo Capristo che «determina la necessità che i due processi vengano trattati unitariamente presso l’ufficio giudiziario potentino», comportando quindi anche la dichiarazione di incompetenza del Tribunale di Lecce e l’annullamento della sentenza di primo grado. Con le motivazioni depositate ieri, a tempo di record, la Corte d’appello salentina (presidente Scardia, relatori estensori Biondi e Colitta) ha spiegato perché il 1° aprile ha azzerato il procedimento a carico dell’ex gip Michele Nardi e altre quattro persone, cancellando così la condanna a 16 anni e 9 mesi inflitta in primo grado al magistrato tranese tuttora sospeso.

La velocità nel deposito delle motivazioni è probabilmente collegata al fatto che martedì prossimo, davanti a un differente collegio, a Lecce è previsto l’appello dell’ex pm Antonio Savasta, che a differenza di Nardi aveva scelto il rito abbreviato (10 anni) e che nella nuova indagine di Potenza è considerato concorrente di Nardi e di Capristo. L’indagine di Lecce sulla «giustizia truccata» di Trani ha ipotizzato (con conferma in primo grado) che Nardi, Savasta e l’altro ex pm Scimè (4 anni) abbiano preso denaro e regali dall’imprenditore Flavio D’Introno in cambio di decisioni giudiziarie favorevoli. La Procura di Potenza, pur non contestando l’associazione a delinquere ma il semplice concorso, ha allargato lo sguardo: nello stralcio del «fascicolo Amara» per cui ha già chiesto il rinvio a giudizio, ipotizza che in cambio di una «raccomandazione» per la nomina a procuratore di Trani, Capristo (nel frattempo diventato procuratore di Potenza) avrebbe garantito a Nardi «protezione» per sé e per gli ex pm Savasta e Luigi Scimè. Da qui l’accusa di corruzione in atti giudiziari.

Al di là della qualificazione giuridica, il collegio salentino ha riconosciuto «la medesimezza del disegno criminoso» ipotizzata dai due uffici di Procura, «poiché è evidente che l’attività corruttiva nei confronti del Capristo era stata posta in essere proprio al fine di assicurare piena operatività al sodalizio criminoso». E dunque la Corte d’appello è andata addirittura oltre le richieste della difesa di Nardi, che aveva invocato la rimessione degli atti alla Cassazione affinché decidesse sulla competenza. Quella «medesimezza» della contestazione è infatti la condizione giuridica richiesta per determinare uno spostamento di sede del processo: va a Potenza perché quello è il Tribunale competente sui magistrati del distretto di Taranto (come lo era Capristo al momento della contestazione), con conseguente ritorno al punto di partenza delle accuse mosse da Lecce.

La stessa Corte d’appello prova però a fare salvi gli atti di indagine compiuti fino a questo momento specificando che la competenza di Potenza è, per così dire, sopravvenuta, perché fino al 15 gennaio 2020 «non esisteva la pendenza presso la Procura della Repubblica di Potenza di un procedimento connesso» con quello di Lecce, né tantomeno i pm salentini avevano mai ipotizzato accuse a carico di Capristo. «Fino alla pronuncia della sentenza di primo grado - è detto in motivazione -, anche a rendere noti tutti gli atti fino a quel momento disponibili per valutare la fondatezza della prospettata questione di incompetenza, la stessa non sarebbe stata meritevole di accoglimento, mancandone i presupposti».

Lette le motivazioni, la Procura di Lecce procederà a trasmettere a Potenza le oltre 40mila pagine di atti dell’inchiesta. E saranno i pm lucani a decidere se e come procedere a notificare un nuovo avviso di conclusione e una nuova richiesta di rinvio a giudizio. È ipotizzabile che Potenza accorpi le «nuove» accuse (per le quali l’udienza è slittata al 15 maggio) con le «vecchie» di Lecce.

Martedì prossimo toccherà dunque a Savasta, tuttora ai domiciliari. Il ragionamento che il collegio ha fatto per Nardi vale, ovviamente, anche per l’ex pm, che a questo punto potrebbe invocare le stesse motivazioni per chiedere l’annullamento della sentenza di primo grado. Difficilmente potranno fare lo stesso i suoi coimputati (escluso forse Scimè): mentre quelli di Nardi rispondevano di associazione, nei confronti degli altri imputati che hanno scelto l’abbreviato le contestazioni erano infatti circoscritte.

Nel frattempo alla vigilia di Pasqua è tornato in carcere Flavio D’Introno. I due anni e 6 mesi che l’imprenditore coratino ha patteggiato a Lecce per la corruzione dei magistrati di Trani sono diventati infatti definitivi, e si sono sommati con il residuo di pena (un anno e 8 mesi) che D’Introno stava scontando ai domiciliari per usura. Anche D’Introno (portato nel penitenziario di Trani) è tra gli imputati nel nuovo filone di Potenza, seppure per una differente ipotesi di concussione che vede coinvolti anche Capristo, Nardi, Savasta, e che potrebbe essere coperta dalla prescrizione. 

Concussione: assolto ex pm di Trani Savasta. Già condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel processo sulla «giustizia svenduta». La vicenda risale al 2014 e riguarda la presunta pretesa di 350mila euro all’imprenditore Giuseppe Dimiccoli. Redazione online su La Gazzetta del mezzogiorno il 27 Maggio 2022.

Il gup del Tribunale di Lecce Sergio Tosi ha assolto «perché il fatto non sussiste» l’ex pm di Trani Antonio Savasta, imputato con l’accusa di concorso in tentata concussione. La vicenda contestata risale al 2014 e riguarda la presunta pretesa di 350 mila euro - secondo la Procura di Lecce - da parte di Savasta all’imprenditore Giuseppe Dimiccoli - che poi lo ha denunciato per questo - tramite il costruttore barlettano Raffaele Ziri e l’avvocato barese Dimitri Russo.

Il denaro - stando all’impostazione accusatoria non condivisa dal giudice, il quale ha invece accolto la tesi difensiva - doveva servire a chiudere una controversia relativa alla masseria Sanfelice di Savasta ed evitare così procedimenti penali nei confronti dell’imprenditore.

Per Savasta (già condannato in primo grado a 10 anni di reclusione nel processo sulla «giustizia svenduta» a Trani) la Procura aveva chiesto la condanna a 4 anni di reclusione. Stessa condanna era stata chiesta per il coimputato Ziri, anche lui assolto. La sentenza di assoluzione è stata emessa al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Contestualmente si è conclusa con il proscioglimento l’udienza preliminare nei confronti del terzo imputato, Russo, che non aveva scelto riti alterativi e per il quale la Procura aveva chiesto il rinvio a giudizio.

GLI AVVOCATI - «La vicenda giudiziale - ricorda il difensore di Savasta, l’avvocato Massimo Manfreda - prende le mosse da una denunzia dell’imprenditore Dimiccoli che è stata in un primo momento archiviata ma successivamente riaperta. La formula dell’assoluzione è perché il fatto non sussiste». Per gli avvocati Roberto Eustachio Sisto e Italia Mendicini (studio FPS), difensori di Dimitri Russo, prosciolto dalla stessa accusa di tentata concussione, «era naturale che il gup prosciogliesse l'avvocato Russo: la soluzione era già negli atti del processo e noi l’abbiamo solo offerta al giudicante». Il co-imputato Ziri è assistito dall’avvocato Antonio Mancarella.

Caso Bellomo: sospensione più corta per Nalin, pm dei corsi in dress code. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

In procura era nel pool dei reati sessuali, ma nella scuola delle aspiranti magistrate costrette a minigonne e umiliazioni collaborava con l’ex consigliere di Stato. Il Csm riduce da due anni a sei mesi la sanzione. Può rientrare da subito.

Nel 2017 la scuola di magistratura di Francesco Bellomo con le borsiste obbligate per contratto a minigonne, tacchi a spillo e clausole umiliate aveva scandalizzato l’Italia. Bellomo era stato destituito da Consigliere di Stato. E il Csm aveva sospeso per due anni il pm del pool dei reati sessuali di Rovigo, Davide Nalin, che secondo le denunce premeva sulle ragazze affinché si accontentassero i desiderata dell’«Agente superiore» Bellomo (incluso inviare una foto osé che una ragazza si rifiutava di fare). Ieri la sezione disciplinare del Csm ha rivisto il caso e ridotto a sei mesi la sospensione per il magistrato, trasferito al Tribunale di Bologna. In attesa che la sanzione diventi definitiva, con la pronuncia della Cassazione, viene intanto revocata la misura cautelare. Quindi, da subito Nalin può tornare in servizio. Deve attendere solo che gli sia destinata una sede. O la vecchia a Rovigo o la nuova a Bologna.

La procura di Piacenza che aveva chiesto un anno e 4 mesi per Nalin, indagato per lesioni volontarie e stalking, Ma il gip ha archiviato l’accusa di lesioni volontarie perché il fatto non sussiste e ha ritenuto l’accusa di stalking non procedibile perché la borsista vessata aveva ritirato la querela. Così nel settembre 2020, il magistrato era stato sanzionato dal Csm per uno dei capi di incolpazione formulati nei suoi confronti dalla procura generale della Cassazione, quello relativo alla partecipazione scientifica alla scuola diretta da Bellomo, mentre era stato assolto dal capo riguardante le sue condotte nei confronti delle allieve dei corsi. La disciplinare ha confermato l’assoluzione del magistrato da questa incolpazione e ha ridotto la sanzione per l’altra accusa, stabilendo la sospensione di Nalin per 6 mesi e non per 2 anni.

Ora per il magistrato resta l’incognita del Tar. Lui nel 2021 ha vinto il concorso come giudice amministrativo. Ma è stato escluso dalla graduatoria per mancanza del requisito della «buona condotta». Ma ha fatto ricorso al Tar del Lazio.

Caso Bellomo, il Csm riduce la sanzione all’ex pm di Rovigo Davide Nalin. L’ex pm di Rovigo Davide Nalin era uno stretto collaboratore di Francesco Bellomo, l’ex consigliere di Stato destituito da Palazzo Spada dopo le denunce secondo cui avrebbe imposto ad aspiranti magistrate un "dress code" con tacchi alti e minigonna e regole sui fidanzati. Il Dubbio il 14 febbraio 2022.

Sanzione più lieve per l’ex pm di Rovigo Davide Nalin, stretto collaboratore di Francesco Bellomo, l’ex consigliere di Stato destituito da Palazzo Spada dopo le denunce secondo cui avrebbe imposto ad aspiranti magistrate, che frequentavano i corsi della scuola di formazione giuridica “Diritto e Scienza” da lui diretta, un “dress code” con tacchi alti e minigonna e regole sui fidanzati. È quanto disposto oggi dalla sezione disciplinare del Csm, che ha riesaminato il procedimento nei confronti di Nalin dopo un annullamento con rinvio disposto dalle sezioni unite civili della Cassazione.

Nalin, nel settembre 2020, era stato sanzionato dal “tribunale delle toghe” per uno dei capi di incolpazione formulati nei suoi confronti dalla procura generale della Cassazione, quello relativo alla partecipazione scientifica alla scuola diretta da Bellomo, mentre era stato assolto dal capo riguardante le sue condotte nei confronti delle allieve dei corsi.

Con la pronuncia odierna, la disciplinare ha confermato l’assoluzione del magistrato da questa incolpazione e ha ridotto la sanzione per l’altra “accusa”, stabilendo la sospensione di Nalin per 6 mesi e non per 2 anni (come era stato invece deciso nel primo procedimento). Confermato, infine, il trasferimento dell’ex pm di Rovigo al tribunale di Bologna con funzioni di giudice.

Traffico di armi, l'ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis condannato a 12 anni e 8 mesi. Redazione Tgcom24 il 28 Giugno 2022.  

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce ha condannato a 12 anni e 8 mesi l'ex gip di Bari, Giuseppe De Benedictis, accusato - in concorso con l'imprenditore agricolo Antonio Tannoia e il caporal maggiore capo scelto dell'Esercito Antonio Serafino - di traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione. Tannoia è stato condannato con la stessa pena. Nei confronti di Serafino è stato, invece, ratificato il patteggiamento a 5 anni di reclusione. Nel 2021 De Benedictis fu arrestato dalla Dda di Bari per corruzione.

De Benedictis, chiesti 12 anni per ex gip Bari e 65mila euro di multa: confermata condanna. L'accusa ha chiesto 12 anni e 8 mesi (e 78mila euro di multa) per l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia, nella cui masseria fu trovato l’arsenale e ha prestato il consenso per il patteggiamento a 5 anni del caporal maggiore dell’esercito Antonio Serafino. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Giugno 2022.

La Procura di Lecce ha chiesto la condanna a 12 anni di reclusione e 64.800 euro di multa per l’ex gip di Bari, Giuseppe De Benedictis, nel processo con il rito abbreviato davanti al gup Laura Liguori in cui tre persone sono accusate a vario titolo di detenzione di armi comuni e da guerra. L’accusa, rappresentata dal pm Alessandro Prontera, ha chiesto invece 12 anni e 8 mesi (e 78mila euro di multa) per l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia, nella cui masseria fu trovato l’arsenale, e ha prestato il consenso per il patteggiamento a 5 anni del caporal maggiore dell’esercito Antonio Serafino. La sentenza è prevista nel pomeriggio, dopo l’arringa dei difensori degli imputati. De Benedictis è stato già condannato, sempre a Lecce, a 9 anni e 8 mesi per corruzione in atti giudiziari.

CONFERMATA CONDANNA A 12 ANNI

Il gup di Lecce, Laura Liguori, ha condannato a 12 anni e 8 mesi di reclusione l’ex gip Giuseppe De Benedictis e l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia (difeso dall’avvocato Mario Malcangi) per detenzione di armi comuni e da guerra  e del relativo munizionamento e di ricettazione. Il gup, al termine di un processo con rito abbreviato, ha confermato il patteggiamento a 5 anni di reclusione per il caporalmaggiore dell’esercito Antonio Serafino (difeso dagli avvocati Viola Messa e Antonio La Scala). Entro 48 ore il gup si pronuncerà sulla richiesta di revoca degli arresti domiciliari presentata dalla difesa di Serafino.

IL COMMENTO DELLA DIFESA

«Questa difesa non è adusa a commentare le sentenze fuori dalle aule di giustizia, ritenendo che le decisioni dei giudici vadano impugnate nelle sedi competenti, ma non può esimersi dall’evidenziare la assoluta illogicità e irrazionalità di questa sentenza». Lo dichiarano gli avvocati Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, difensori dell’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis, condannato oggi dal gup del Tribunale di Lecce alla pena di 12 anni e 8 mesi di reclusione per la detenzione di un arsenale con armi anche da guerra.

I difensori ritengono la condanna «illogica e irrazionale, tenuto conto - spiegano - che lo stesso giudice ha avallato un patteggiamento a 5 anni di reclusione per un co-imputato persino gravato da un capo di imputazione in più».

L'ex giudice De Benedictis e le armi: medici e avvocati nella rete segreta degli acquirenti. Chiara Spagnolo La Repubblica il 10 Aprile 2022.

Una parte delle armi sequestrate nella masseria di Andria. 

I nuovi verbali del secondo processo in cui è imputato l'ex gip insieme con un imprenditore agricolo e un militare dell'Esercito. L'arsenale fu trovato in una masseria ad Andria.

"Il colonnello voleva qualcosa di nuovo, allora ho chiamato il dottore e gli ho detto "Ce l'hai ancora la Ap2000?". Abbiamo fatto una finta cessione e poi lunedì l'ho venduta al colonnello. Io l'ho pagata 500 euro, nuova costa 700. Sono rimasti tutti e due contenti... ": parlavano così il 27 settembre 2020 l'ex giudice barese Giuseppe De Benedictis e un caporal maggiore dell'Esercito, Antonio Serafino.

Sentenza truccate, ora processo-bis per le armi: Serafino patteggia cinque anni, l’ex giudice ne rischia più di 10. «Blitz a Pavia per cercare i fucili dei partigiani». Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Marzo 2022.

Chiuso il processo per le tangenti, ci sarà quello per le armi. Ieri in apertura dell’udienza preliminare il gup Laura Liguori ha detto sì al patteggiamento a 5 anni per il caporale Antonio Serafino, ma non lo ha concesso per Antonio Tannoia, custode dell’arsenale dell’ex gip Giuseppe De Benedictis. E così a giugno ci sarà un nuovo rito abbreviato, in cui l’ex magistrato rischia una condanna addirittura più alta di quella per le tangenti.

De Benedictis, Serafino e Tannoia rispondono di detenzione e porto abusivo delle armi (comuni e da guerra) ritrovate nelle rispettive abitazioni. I primi due rispondono anche di ricettazione. Serafino, ormai ex sottufficiale dell’esercito, veterano di guerra con compiti di intelligence, è uno dei fornitori di armi di De Benedictis e ha pienamente ammesso le sue responsabilità: in un lungo interrogatorio del 21 giugno, in parte ancora omissato, il militare ha ricostruito la genesi dei rapporti con l’ex gip. La posizione di Tannoia, proprietario della masseria di Andria in cui sono stati ritrovati oltre 160 esemplari tra pistole, fucili e mitragliatrici anche da guerra, è invece più delicata.

De Benedictis ha dato la sua versione sull’arsenale in un interrogatorio del 10 giugno scorso: «Tutto ciò che è appartenuto a militari di qualsiasi nazione può essere mio... è mio sicuramente. Tutto ciò che non è appartenuto a militari non è mio, perché non mi interessa. Io non ho interesse a prendere fucili da caccia». Ha riconosciuto il possesso di una mina anticarro («Quella era di mio zio, buonanima, ma non funziona perché è priva di spoletta») e dei silenziatori artigianali («Alcuni erano miei, altri li abbiamo fabbricati insieme io e Tannoia»), e ha detto che le armi trovate ad Andria non venivano utilizzate: «Tutto ciò che andava a finire lì dentro moriva lì, non veniva più riesumato». Ha poi raccontato come trovava le armi: «Non mi sono mai rivolto a malavitosi. Non ne avevo bisogno... Sempre le divise e in qualche raro caso Tannoia».

Dalle indagini è emersa anche una suggestione che, allo stato, non ha avuto sviluppi. Quella in base a cui Tannoia fosse in odore di Servizi segreti e avesse contatti con militari (o ex militari) con base in Friuli e in Slovenia, e che fossero queste le fonti di approvvigionamento delle armi. I carabinieri hanno anche ricostruito due sopralluoghi che De Benedictis e Tannoia avrebbero fatto tre anni fa in un cimitero di Casoni Borroni, frazione di Mezzana Bigli, provincia di Pavia, alla ricerca di armi interrate dai partigiani. «Io e Antonio Tannoia - ha detto l’ex gip - tornammo, ma non col metaldetector ma con il sistema dei tombaroli, cioè lo spadino che si infila nel terreno per cercare le antiche tombe». Ne è emersa una storia quasi da film. Un commercialista di Sannazzaro, ha detto l’ex magistrato, «ci ha narrato di questo che era l’ultimo custode di questo deposito comunista. “Una volta che è morto questo, adesso possiamo fare quel che vogliamo” (...) Ci disse di cercare lì perché in quel punto ci disse che gli era schizzato il metal detector e che... ci disse che il nonno di 93 anni aveva detto che le armi erano chiuse in bidoni da latte». Fatto sta che il recupero non è andato in porto: i bidoni - ha spiegato De Benedictis - erano impilati l’uno sopra l’altro, e l’ultimo («Come facevano i partigiani») era pieno di esplosivo, per cui - pur avendoli individuati - non sono stati tirati fuori «per non saltare in aria».

Tannoia, arrestato in flagranza il giorno della scoperta dell’arsenale, ha dato una versione completamente opposta. Ha detto che le armi nascoste nel pozzo dell’acqua piovana della masseria erano tutte dell’ex gip De Benedictis: «Io avevo capito una cosa e anche perché me l’aveva detto, che queste armi prevalentemente erano armi che dovevano andare in distruzione dal Tribunale come corpi di reato». Anche sulla vicenda del cimitero, Tannoia ha dato una versione fumosa: «Il dottor De Benedictis mi diceva che aveva saputo che c’era un altro deposito di armi partigiane vicino a un cimitero (...), queste armi erano state nascoste per anni in un castello lì vicino che poi erano state spostate». La polizia di Bari, che ha fatto un sopralluogo sul posto, ha riconosciuto il cimitero, il muro di cinta e la strada descritta dall’ex giudice ma non è riuscita a confermare la presenza dei bidoni di latta con le armi.

Tangenti giudiziarie. Condannati a Lecce ex gip di Bari De Benedictis e l’ ex avvocato penalista Chiariello.

Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Marzo 2022.

L' ex giudice De Benedictis con un memoriale scritto a mano, e nell'interrogatorio dello scorso 23 giugno 2021, voleva denunciare presunte inchieste insabbiate e cene fra magistrati e imprenditori, sui rapporti tra degli imprenditori ed i vertici della politica regionale coinvolgendo persino esponenti della magistratura

E’questa la decisione del gup del Tribunale di Lecce, Laura Liguori, che ha convalidato la richiesta dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, avanzata dal procuratore capo di Lecce Leonardo Leone de Castris e dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera, al termine del processo svoltosi con il rito abbreviato al termine del quale ha condannato l’ex Gip barese Giuseppe De Benedictis a 8 anni e 9 mesi, con la stessa pena condannato l’avvocato Giancarlo Chiariello dichiarato colpevole per quattro dei cinque episodi di corruzione nel Tribunale di Bari. De Benedictis e Giancarlo Chiariello, che vennero arrestati ad aprile 2021, si trovano tuttora agli arresti domiciliari in quanto l’aggravante di aver favorito un clan mafioso comporta che la pena definitiva debba essere scontata in carcere.

Condanne più lievi per l’avvocato Alberto Chiariello, figlio di Giancarlo, a 4 anni di carcere ed il il pregiudicato foggiano Pietro Danilo Della Malva che nel frattempo si è pentito collaborando con la giustizia, a 3 anni e 8 mesi . L’accusa, per tutti, era di corruzione in atti giudiziari con l’aggravante di aver favorito i clan mafiosi. 

Il Gup Liguori ha invece assolto giudice e avvocato “perché il fatto non sussiste” dalle accuse di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e rivelazione di segreto d’ufficio in relazione a una quinta accusa, cioè quella inerente alla presunta fuga di notizie sulle dichiarazioni del pentito Domenico Milella nei confronti dell’ex gip De Benedictis. Assolti, con varie formule, l’avvocato Marianna Casadibari (all’epoca membro dello Studio legale Chiariello) e l’altro avvocato Pio Michele Gianquitto del Foro di Foggia (l’unico per il quale la Procura di Lecce aveva chiesto l’assoluzione), il carabiniere Nicola Vito Soriano, ed i pregiudicati Antonio Ippedico e Roberto Dello Russo: tutti accusati a vario titolo, di aver partecipato alle attività corruttive.

Il Gup ha stabilito l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i quattro condannati ed anche quella legale per 5 anni per De Benedictis e Giancarlo Chiariello . Nei confronti dell’ ex giudice De Benedictis è stata disposta la confisca di 30.000 euro, e di 1,3 milioni a Giancarlo Chiariello soldi trovati in contanti durante le perquisizioni in casa. I quattro condannati dovranno inoltre risarcire con 30.000 euro il ministero della Giustizia che si era costituito parte civile. Giancarlo e Alberto Chiariello sono stati condannati anche al risarcimento dei danni nei confronti dell’Ordine degli avvocati di Bari, costituitosi parte civile nel procedimento giudiziario. 

Il processo “bis” a De Benedictis

L’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis verrà processato con rito abbreviato il prossimo 28 giugno , per rispondere delle accuse in concorso con il caporal maggiore capo scelto dell’Esercito Antonio Serafino e l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia di “traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione“.

Il procedimento trae origine dal ritrovamento di un arsenale da guerra, occultato nel deposito sotterraneo di una villa di Andria, composto da più di 200 pezzi tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette (6 mitra pesanti Beretta MG 42, 10 MAB, 3 mitragliette UZI, 2 kalashnikov e 2 fucili d’assalto AR15 ) armi antiche e storiche, pistole di vario tipo e marca, esplosivi, bombe a mano ed una mina anticarro, oltre a circa 100.000 munizioni.

E’ cominciata oggi un’altra udienza preliminare nei confronti dell’ex giudice barese, sempre davanti alla Gup Laura Liguori, la stessa che lo ha condannato oggi per corruzione per il caso-tangenti . De Benedictis e l’imprenditore agricolo Tannoia hanno chiesto il rito abbreviato, mentre il terzo co-imputato, il caporal maggiore capo scelto dell’Esercito Serafino, ha chiesto di patteggiare la pena, ottenendo il consenso dei pm, a venendo condannato 5 anni di reclusione .

L ’avvocatura dello Stato si è costituita parte civile in rappresentanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Giustizia.

La presunta “collaborazione” di De Benedictis con la giustizia

L’ex giudice Giuseppe De Benedictis con un memoriale di dodici pagine scritte a mano, e nell’interrogatorio dello scorso 23 giugno 2021, voleva denunciare presunte inchieste insabbiate e cene fra magistrati e imprenditori, sui rapporti tra degli imprenditori ed i vertici della politica regionale coinvolgendo persino esponenti della magistratura, parlando di episodi specifici: l’indagine sulle primarie del Pd nel 2017, quella sul voto di scambio alle elezioni amministrative di Bari del 2019, sul resort di Costa Ripagnola a Polignano e sulla realizzazione dell’Ospedale Covid realizzato alla Fiera del Levante.

Il memoriale di De Benedictis inizialmente era stato indirizzato alla Procura di Potenza (non si capisce per quale competenza) e successivamente depositate a Lecce, inizia così: “Non voglio e non posso passare da capro espiatorio nel diffuso malcostume dell’ambiente giudiziario barese“. Seguito da 111 pagine del verbale di interrogatorio nel quale ha parlato degli argomenti più disparati manifestando la disperazione di un uomo da mesi in carcere il quale da ex-giudice cercava di accreditarsi con gli inquirenti per cercare di avere credibilità ed usufruire di un atteggiamento da “collaboratore di giustizia“.

Tutto ciò in parte privo degli omissis, è stato depositato agli atti del processo a Torino in cui sono imputati per finanziamento illecito ai partiti il governatore Michele Emiliano, il suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e gli imprenditori Vito Ladisa e Giacomo Mescia.

Un tentativo quello di De Benedictis che non è mai stato creduto dai pm Roberta Licci e Alessandro Prontera , come si evince dalla pesante richiesta di condanna a 8 anni e 9 mesi integralmente accolta dal Tribunale di Lecce nel processo appena conclusosi per corruzione in atti giudiziari. L’ex-giudice cerca disperatamente di accreditarsi (in perfetto “stile Amara”) nei confronti di diverse Procure. Infatti alcuni giorni fa i suoi avvocati hanno presentato una istanza per essere ascoltato come persona informata sui fatti al pm di Torino che ha coordinato l’inchiesta sul finanziamento illecito a Emiliano. Quale Procura darà mai credibilità ad un giudice corrotto e condannato ?

L’ex Gip barese vorrebbe parlare a Torino dei suoi rapporti con Ladisa il quale sulla base dei racconti fantasiosi di De Benedictis, che non hanno trovato alcun riscontro e conferma secondo i magistrati salentini, gli avrebbe fatto delle rivelazioni, millantando una frequentazione con Ladisa che sarebbe stata interrotta dopo la perquisizione subita lo scorso 9 aprile 2021. Contatti questi che secondo le dichiarazioni del giudice corrotto, sarebbero avvenuti proprio mentre il giudice De Benedictis era sotto intercettazione.

Affermazioni queste prive di alcuna veridicità che non hanno potuto far emergere qualsiasi ipotesi di reato, e l’ex-giudice ora potrebbe rispondere anche del reato di calunnia. Un mare di invenzioni rivolte anche nei riguardi di alcuni colleghi magistrati di Bari e Matera, chiamati in causa da De Benedictis per delle vicende che per i pm di Lecce sono totale frutto di fantasia ed invenzioni strumentali. Redazione CdG 1947

Tangenti per scarcerazioni, a Lecce condannati a 9 anni e 8 mesi ex gip De Benedictis e ex avvocato penalista Chiariello. 

Quattro anni al figlio di Chiariello, Alberto, 3 anni e 8 mesi a Della Malva, assolti tutti gli altri. La difesa: «Sentenza molto dura». Rito abbreviato per l'altro processo sulla detenzione di armi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Marzo 2022.

Otto anni e nove mesi ciascuno all'ex gip Giuseppe De Benedictis e all'avvocato Giancarlo Chiariello per quattro dei cinque episodi di corruzione nel Tribunale di Bari. E' questa la decisione del gup di Lecce, Laura Liguori, al termine del processo con il rito abbreviato in cui ha condannato a quattro anni di carcere l'avvocato Alberto Chiariello, figlio di Giancarlo, e a 3 anni e 8 mesi il pregiudicato foggiano Pietro Danilo Della Malva (nel frattempo pentito). L'accusa, per tutti, era di corruzione in atti giudiziari con l'aggravante di aver favorito i clan mafiosi.Il gup ha assolto giudice e avvocato "perché il fatto non sussiste" dalle accuse di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio e rivelazione di segreto d'ufficio in relazione a una quinta accusa, relativa alla presunta fuga di notizie sulle dichiarazioni del pentito Domenico Milella a carico dell'ex gip De Benedictis. Totalmente assolti, con varie formule, l'avvocato Marianna Casadibari (all'epoca dello studio Chiariello), il carabiniere Nicola Vito Soriano, Roberto Dello Russo, Antonio Ippedico e l'altro avvocato Pio Michele Gianquitto (l'unico per il quale la stessa Procura di Lecce aveva chiesto l'assoluzione): erano accusati, a vario titolo, di aver preso parte alle attività corruttive.

Per i quattro condannati il gup ha stabilito l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e (per De Benedictis e Giancarlo Chiariello) anche quella legale per 5 anni. Per De Benedictis è stata disposta la confisca di 30.000 euro, per Giancarlo Chiariello dei soldi (1,3 milioni) trovati durante le perquisizioni in casa. I quattro condannati dovranno inoltre risarcire con 30.000 euro il ministero della Giustizia. De Benedictis e Giancarlo Chiariello, arrestati nell'aprile 2021, sono tuttora ai domiciliari. L'aggravante di aver favorito un clan mafioso comporta che la pena definitiva dovrà necessariamente essere scontata in carcere.

«E' una sentenza molto dura dal punto di vista sanzionatorio, soprattutto per il conoscimento dell’aggravante mafiosa. La rispettiamo ma non la condividiamo ed è per questo che, dopo il deposito delle motivazioni, proporremo appello». Sono le dichiarazioni degli avvocati Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, difensori dell’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis.

L'ALTRO PROCESSO - Sarà processato con il rito abbreviato a partire dal 28 giugno l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis, accusato - in concorso con il caporal maggiore capo scelto dell’Esercito Antonio Serafino e l’imprenditore agricolo Antonio Tannoia - di traffico e detenzione di armi ed esplosivi, anche da guerra, del relativo munizionamento e di ricettazione. Nei confronti dell’ex giudice barese, condannato oggi dal gup di Lecce a 9 anni e 8 mesi di reclusione per il caso-tangenti, è cominciata oggi un’altra udienza preliminare dinanzi alla gup Laura Liguori, la stessa che lo ha condannato per corruzione. De Benedictis e Tannoia hanno chiesto il rito abbreviato. Il terzo co-imputato, Serafino, ha chiesto di patteggiare la pena a 5 anni di reclusione ottenendo il consenso dei pm. Si è costituita parte civile l’avvocatura dello Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Giustizia. Il procedimento nasce dal ritrovamento nel deposito sotterraneo di una villa di Andria di un arsenale da guerra composto da più di 200 pezzi tra fucili mitragliatori, fucili a pompa, mitragliette (tra cui 2 kalashnikov, 2 fucili d’assalto AR15, 6 mitra pesanti Beretta MG 42, 10 MAB, 3 mitragliette UZI), armi antiche e storiche, pistole di vario tipo e marca, esplosivi, bombe a mano ed una mina anticarro, oltre a circa 100.000 munizioni.

Caso De Benedictis, le verità dell'ex gip nel nuovo memoriale: dall'inchiesta sulle primarie Pd all'ospedale in Fiera. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 23 Marzo 2022.  

Nel documento inviato a Torino l'ex giudice parla anche del resort Costa Ripagnola e delle elezioni del 2019 a Bari. Ma in Piemonte è stato inviato anche il verbale con le dichiarazioni nell'interrogatorio del 23 giugno in cui racconta fra l'altro dei rapporti fra magistrati, imprenditori e politici. 

Inchieste bloccate e presunte cene fra magistrati e imprenditori, rapporti tra questi ultimi e i vertici della politica regionale e tra politici e pezzi della magistratura. E poi casi specifici: l'indagine sulle primarie del Pd nel 2017, quella sul voto di scambio alle amministrative di Bari del 2019, sul resort di Costa Ripagnola a Polignano e sulla realizzazione dell'ospedale Covid alla Fiera del Levante.

Il giudice chiede di parlare su Emiliano e gli imprenditori. La Procura: «Irrilevante». Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022.

L’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis si sarebbe lasciato corrompere dall’ex penalista Giancarlo Chiariello per concedere scarcerazioni ai clienti dell’avvocato in almeno tre occasioni, ma mai lo avrebbe fatto per favorire la mafia. 

BARI - La Procura di Lecce ha tolto gli «omissis» a una parte delle dichiarazioni di Giuseppe De Benedictis, l’ex gip di Bari accusato di corruzione in atti giudiziari. Un documento di 140 pagine che i pm Roberta Licci e Alessandro Prontera hanno trasmesso al pm Giovanni Caspani di Torino, dove è in corso il processo per illecito finanziamento ai partiti nei confronti (tra gli altri) del presidente Michele Emiliano e dell’imprenditore barese Vito Ladisa. Ed è proprio a Caspani che l’ex magistrato arrestato il 24 aprile si è rivolto chiedendo di essere interrogato.

La novità è emersa alla vigilia dell’udienza davanti al gip di Lecce, Laura Liguori. Oggi è infatti il turno della difesa di De Benedictis, arrestato per tangenti e tuttora ai domiciliari: la Procura ne ha chiesto la condanna a 8 anni e 9 mesi per corruzione in atti giudiziari. Gli avvocati dell’ex magistrato, Gianfranco Schirone e Saverio Ingraffia, vogliono dimostrare (anche) la piena volontà collaborativa di De Benedictis, sperando così di ottenere il riconoscimento dell’attenuante che comporta uno sconto di pena. Ed è in questo senso che va letta la richiesta di rendere dichiarazioni anche a Torino.

Le dichiarazioni di cui parliamo sono state rese da De Benedictis il 23 giugno, proprio nell’ambito del procedimento per il quale è in corso il giudizio abbreviato a Lecce. I pm salentini hanno inviato a Torino sia il verbale (in cui sono leggibili quattro pagine della parte riassuntiva e circa 70 della trascrizione stenografica), sia una parte del memoriale dell’ex magistrato (da pagina 5 a pagina 9, sono diventati leggibili due capitoli intitolati «Fatti appresi da terzi» e «Altre indagini bloccate»). Venerdì scorso, nell’ambito dell’udienza di Torino (conclusa con un rinvio a giugno), la Procura sabauda - secondo alcune difese - si sarebbe espressa informalmente nel senso di non considerare attendibili le propalazioni contenute nel verbale di De Benedictis e di essere orientata a non procedere all’interrogatorio chiesto dall’ex gip.

Nel verbale De Benedictis riferisce quanto a suo dire appreso da Vito Ladisa a proposito di (presunte e non verificate) confidenze che l’imprenditore avrebbe ricevuto da Michele Emiliano. Si tratta di un lungo racconto, in cui si tirano in ballo anche altri protagonisti della vita pubblica barese, che la Procura di Lecce non ha finora ritenuto rilevante e sul quale non sarebbero stati trovati riscontri, tanto da non fare parte del compendio di accusa. Negli atti dell’indagine sull’ex magistrato barese, peraltro, è documentato un incontro con Emiliano a cui De Benedictis (il 19 agosto 2020) avrebbe chiesto di intervenire per una problematica relativa a Villa Anita, il centro diurno di Terlizzi in cui l’ex giudice ha una partecipazione societaria: la richiesta non ha avuto alcun seguito, così come hanno documentato i carabinieri su delega della Procura di Lecce.

Nella precedente udienza davanti al gup di Lecce, il 1° marzo, a esibire il verbale privo di omissis è stata invece la difesa di Giancarlo Chiariello, l’avvocato accusato di aver pagato De Benedictis per il quale l’accusa ha chiesto 8 anni e mezzo. La difesa di Chiariello, con l’avvocato Gaetano Sassanelli (che è anche il difensore di Emiliano a Torino), ha chiesto di depositare il documento perché rafforzerebbe la tesi difensiva: quella in base a cui sarebbe stato De Benedictis a indurre Chiariello a pagarlo per ottenere la scarcerazione dei suoi clienti. La Procura di Lecce, però, si è opposta, e il gup Liguori ha respinto la richiesta rilevando che il procedimento è ormai in fase avanzata e dunque il verbale sarebbe irrilevante. Tra le dichiarazioni «scoperte», anche quelle in cui De Benedictis parla dei propri rapporti con le persone che gli chiedevano favori giudiziari: «Confermo che di fatto io mi ero messo a disposizione di (...) e dei suoi amici rispetto a vicende penali che erano di loro interesse, preciso che non ho mai parlato con i magistrati titolari dei vari procedimenti che mi venivano segnalati nonostante richieste in tal senso, i miei interventi consistevano nel leggere le carte, dare consigli giuridici e suggerire avvocati, a volte andare io stesso a parlare con gli avvocati». De Benedictis conferma anche alcuni favori ricevuti: «In effetti per la mia macchina usavo quasi esclusivamente gasolio agricolo che facevo da (...) e che non pagavo. In effetti (...) mi ha dato generi alimentari e caseari di sua produzione»). La sentenza di Lecce per i quattro presunti episodi di corruzione (contestati a vario titolo a otto persone) è prevista per martedì prossimo. Sempre martedì, a Lecce comincerà l’udienza preliminare per le altre accuse a carico di De Benedictis, quelle di traffico d’armi e ricettazione.

De Benedictis sul caso-tangenti: «Non ho aiutato i clan». Massimiliano Scagliarini e Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.

I rapporti tra magistrati. I favori chiesti e ottenuti da (e per il tramite di) amici e imprenditori. Pagine e pagine in cui si parla di appalti, riferendo le (presunte) confidenze dell’imprenditore Vito Ladisa che tirano in ballo anche il presidente Michele Emiliano. Circostanze in massima parte non riscontrate o non riscontrabili. È per questo che il memoriale dell’ex gip Giuseppe De Benedictis viene ritenuto da chi indaga un distillato di veleni. Ma questo non significa che tutti i racconti dell’ex magistrato, arrestato per tangenti nell’aprile 2021 e tuttora ai domiciliari, siano considerati inattendibili.

Ieri gli avvocati di De Benedictis, Saverio Ingraffia e Gianfranco Schirone, hanno discusso per ultimi nell’udienza davanti al gup Laura Liguori, durata oltre sette ore: la Procura di Lecce ha chiesto in abbreviato la condanna dell’ex giudice a 8 anni e 9 mesi per quattro episodi di corruzione in atti giudiziari. Il principale coimputato - l’avvocato Giancarlo Chiariello - aveva sostenuto che fu il giudice a chiedergli denaro a fronte della scarcerazione dei suoi clienti. La difesa di De Benedictis (che ha depositato una nuova memoria) ha respinto questa ricostruzione, chiedendo l’assoluzione per due degli episodi contestati, l’esclusione dell’aggravante di aver favorito dei mafiosi (le scarcerazioni riguardano processi di criminalità organizzata). Soprattutto, per accorciare la condanna hanno invocato l’attenuante della collaborazione, puntando (anche) sulla genuinità di quanto raccontato ai pm di Lecce in decine e decine di ore di interrogatorio. Ed è anche per questo che l’ex giudice ha chiesto di essere interrogato a Torino, dove Emiliano e Ladisa (insieme al capo di gabinetto Claudio Stefanazzi e all’imprenditore Mescia) sono a giudizio per finanziamento illecito ai partiti in relazione alle primarie Pd. De Benedictis ritiene di avere qualcosa di specifico da dire su Emiliano e Ladisa, ma la Procura di Torino - che a febbraio ha avuto da Lecce il memoriale e l’interrogatorio - appare scettica sulla rilevanza della sua narrazione. Questo perché l’ex gip molfettese ha raccontato ciò che dice di aver appreso da Vito Ladisa, un «riferito» che non è ritenuto riscontrabile e a tratti sconfina nel pettegolezzo (vedi l’incontro in una tenuta salentina con un noto politico del centrosinistra). Ha parlato a lungo, ad esempio, dell’appalto dell’ospedale della Fiera del Levante (nei giorni precedenti al suo arresto sui giornali infuriavano le polemiche sui costi): De Benedictis ha detto che fu Emiliano a ordinare all’ex dirigente della Protezione civile, Mario Lerario, di portare le carte dell’appalto alla Finanza (è vero, ma lo avevano scritto i giornali), mentre tutto il resto del racconto non ha trovato riscontri. Poi l’ex giudice ha parlato di appalti del mondo delle mense (con riferimento a Ladisa) e di alcune delle indagini aperte sulla Regione: un misto di fatti noti e valutazioni personali sue e (a suo dire) di Ladisa. Ancora, le vicende relative alla scelta del nuovo procuratore di Bari e le asserite «preferenze» di Emiliano a questo proposito.

Quando ha chiuso le indagini sulla presunta corruzione in atti giudiziari, la Procura di Lecce ha coperto con «omissis» tutte le parti degli interrogatori di De Benedictis non attinenti alle sentenze comprate. Ma non tutte le ulteriori dichiarazioni sono state ritenute irrilevanti. Su quelle che riguardano gli avvocati del foro di Bari c’è stata una continua interlocuzione con i magistrati del capoluogo: lo dimostra il fatto che i pm salentini ieri hanno depositato in udienza un verbale del pentito di mafia Domenico Milella, in cui si parla di Chiariello ma anche di un altro avvocato il cui nome è coperto da «omissis» (probabilmente perché sottoposto a indagini). Il gip si è riservato di ammettere il nuovo documento.

Nelle «nuove» dichiarazioni di De Benedictis è emerso il nome di un ex magistrato della Corte d’appello di Bari che sarebbe stato in rapporti stretti con Chiariello («Da lui - avrebbe detto l’avvocato all’ex gip - posso avere tutto»). Ancora, De Benedictis ha parlato di un avvocato da lui definito «il principe del continuato» (un meccanismo giuridico che consente al condannato di ottenere sconti di pena), ma ha allo stesso tempo negato di aver avuto soldi da due dei legali baresi di cui aveva parlato un pentito di mafia. La sentenza per la corruzione nel Tribunale di Bari dovrebbe essere pronunciata martedì. Nei prossimi giorni la Procura di Lecce deciderà se replicare alle arringhe difensive degli imputati. 

La difesa dell'avvocato ha puntato il dito contro l'ex gip De Benedictis. Prossima udienza il 22 marzo, quando saranno i legali del magistrato a parlare. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Marzo 2022.

Non sarebbe stato l'avvocato Giancarlo Chiariello a corrompere il giudice De Benedictis ma quest'ultimo avrebbe indotto l'avvocato a pagare per ottenere le scarcerazioni. È quanto ha sostenuto oggi Gaetano Sassanelli, difensore di Giancarlo Chiariello, l’ex avvocato penalista imputato con l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per corruzione in atti giudiziari, con riferimento a presunte tangenti pagate dall'avvocato al giudice in cambio di scarcerazioni. La difesa di Chiariello ha inoltre insistito perché non venga riconosciuta al suo assistito, come invece richiede la Procura, l’aggravante mafiosa.  

Nel corso dell'udienza la difesa ha sostenuto che quelle vicende che l'avvocato Chiariello ha in parte ammesso nell'interrogatorio reso dopo l’arresto, circa un anno fa, non erano episodi di corruzione in atti giudiziari bensì induzione indebita a dare o promettere utilità. L'avvocato - secondo il suo difensore - non avrebbe corrotto il giudice per ottenere le scarcerazioni ma sarebbe stato indotto a pagare le tangenti.

Secondo la difesa, la chiave di lettura di questa interpretazione sta in alcune dichiarazioni fatte da De Benedictis ai pm salentini, nelle quali l'ex gip avrebbe detto di aver chiesto più soldi a Chiariello anche per capire fino a che punto l'avvocato sarebbe stato disposto ad accontentarlo. 

La Procura di Lecce ha chiesto condanne a 8 anni e 9 mesi di reclusione per l’ex gip del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis e a 8 anni 5 mesi di reclusione per l’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello. Si tornerà in aula il 22 marzo per la discussione dei difensori di De Benedictis. Nel processo, in corso a Lecce con il rito abbreviato, sono imputate, oltre a Chiariello e De Benedictis, altre sette persone.

È di 6 milioni il tesoro di Chiariello: sigilli a 3 immobili nel centro di Bari. Dopo la sentenza di Lecce, la Finanza ha trovato altri 3,6 mln su un conto corrente. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Aprile 2022.

BARI - Il sequestro preventivo che il 7 marzo la Finanza ha eseguito sui conti dell’avvocato Giancarlo Chiariello ha portato a mettere le mani su quasi sei milioni di euro tra contanti, titoli e immobili. Sono i soldi ritenuti provento dell’evasione fiscale che il legale barese - appena condannato a Lecce, insieme all’ex gip Pino De Benedictis, per corruzione in atti giudiziari - avrebbe messo in atto nella più che trentennale carriera in cui ha assistito tra l’altro alcuni pezzi da novanta della criminalità pugliese.

Ad aprile, quando Giancarlo Chiariello fu arrestato per corruzione insieme all’ex gip, i carabinieri trovarono a casa del figlio Alberto altri 1,1 milioni di euro in contanti, imbustati sottovuoto e nascosti in tre zaini. La sentenza di Lecce (che ha condannato il padre e l’ex gip a 9 anni e 8 mesi, e il figlio a 4 anni) ha disposto la confisca di quel denaro. Ora la Procura di Bari ha messo i sigilli anche a quell’immobile, insieme ad altri due: la casa in cui vive l’avvocato, a due passi dall’Università, e l’appartamento poco lontano in cui aveva sede lo studio nel frattempo chiuso.

Su un conto della dipendenza barese di Banca Generali, l’avvocato Chiariello aveva 3,6 milioni di euro tra disponibilità liquide e investimenti mobiliari. I finanzieri hanno tracciato la genesi di quella provvista: il denaro proveniva da un conto Ubs, ma non veniva movimentato da tempo. Sintomo, secondo gli investigatori, del fatto che il professionista maneggiasse soprattutto contanti. Lo dimostrerebbe - sempre secondo l’impostazione accusatoria, non ancora passata dal vaglio di un giudice - anche la modalità con cui Chiariello ha acquistato l’abitazione del figlio: un immobile valutato circa 400mila euro e preso attraverso un finanziamento di tipo Lombard, una particolare tipologia di credito in cui non c’è ipoteca sul bene ma viene costituito un pegno su un portafoglio mobiliare. Il punto, comunque, è che Chiariello avrebbe regolato le rate del finanziamento direttamente in contanti: un altro indizio - secondo chi indaga - della grande disponibilità di fondi rinvenienti da evasione fiscale.

L’inchiesta per evasione fiscale condotta dal pm Gaetano Dentamaro è partita dalle parole di un pentito di mafia, Domenico Milella, secondo cui Chiariello avrebbe chiesto fino a 100mila euro per difendere una persona accusata di omicidio. Un secondo pentito ha raccontato di aver corrisposto al legale numerosi acconti per la difesa di un boss barese, Giuseppe Misceo, arrestato nel 2014 per omicidio. Un pezzo grosso della mafia foggiana ora pentito, Danilo Della Malva, ha confermato di aver pagato a Chiariello 30mila euro per ottenere i domiciliari dall’ex gip De Benedictis. Il collaboratore di giustizia Adriano Pontrelli ha parlato di 15mila euro versati cash per un appello. Eppure - secondo la Procura - tra il 2016 e il 2019 Chiariello ha dichiarato redditi tra i 26mila e i 60mila euro annui, a fronte però di un livello di spesa «particolarmente elevata»: auto, gioielli, titoli di credito, obbligazioni e conti correnti su quali sono stati registrati depositi milionari in contanti e assegni. E dunque, attraverso l’esame dei 239 fascicoli sequestrati nello studio dopo l’arresto, una consulenza chiesta dalla Procura ha ricostruito il valore dell’attività professionale svolta da Chiariello: e dunque, per differenza con quanto effettivamente fatturato, una seconda consulenza ha valutato in 10,8 milioni di euro il totale dell’Iva e delle imposte che l’avvocato avrebbe sottratto al fisco tra il 2014 e il 2019. Una buona parte di quei soldi, adesso, sono finiti sotto sequestro.

I difensori di Chiariello, professor Vito Mormando e avvocato Filiberto Palumbo, hanno presentato ricorso al Riesame contro il decreto di sequestro preventivo firmato dal gip Valeria Isabella Valenzi. Lo stesso Chiariello aveva riconosciuto che i contanti trovati in casa del figlio erano i proventi in nero «di vent’anni» dell’attività professionale. Ma adesso anche la difesa potrebbe predisporre una consulenza per dimostrare che le cifre ricostruite dall’accusa sono più alte del reale: pure gli avvocati migliori, nei fatti, hanno difficoltà a farsi pagare dai clienti per le cifre previste dai massimi di tariffa. L’udienza non è ancora stata fissata.

Bari, 11 milioni di euro sequestrati all’ex avvocato Chiariello: reddito da operaio ma onorari milionari. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Marzo 2022.

Gli ex clienti del penalista, successivamente diventati collaboratori di giustizia, hanno rivelato il suo tariffario per processi pilotati e scarcerazioni "facili". Lo scorso 22 febbraio al termine della requisitoria del processo con rito abbreviato a carico dei due e di altre sette persone la Procura della Repubblica di Lecce ha chiesto per De Benedictis una pena a 8 anni, 9 mesi e 10 giorni di reclusione e per l'avvocato barese una pena a 8 anni, 5 mesi e 23 giorni

La Guardia di Finanza ha sequestrato all’ex noto penalista barese Giancarlo Chiariello beni per 10,8 milioni di euro con l’accusa di evasione fiscale, ha accertato che avrebbe intascato compensi per attività forense fino a 100mila euro per ogni cliente, dichiarando redditi annui tra i 26mila e i 60mila euro.

Nel corso dell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto per corruzione in atti giudiziari effettuato dai Carabinieri ed il rinvenimento a casa di suo figlio di zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti, l’ormai ex-avvocato Giancarlo Chiariello aveva già riconosciuto come proprie le somme di denaro sequestrate, giustificandole ai finanzieri , come i risparmi derivanti dai pagamenti dei clienti per l’attività professionale prestata in vent’anni.

Sono stati dei suoi ex clienti diventati in seguito collaboratori di giustizia a rivelare che pagavano 10 mila euro di onorario al penalista per ciascuno procedimento, compensi che potevano arrivare a 100 mila euro per il patrocinio in Cassazione a fronte di un’accusa per omicidio. Pagamenti effettuati tutti in contanti in violazione della normativa antiriciclaggio e senza il rilascio di alcun documento fiscale secondo la ricostruzione della Guardia di Finanza.

La quantificazione delle imposte evase è stata possibile grazie all’ acquisizione e sequestro dell’elenco dei clienti dell’avvocato, tra i quali diversi pregiudicati alcuni dei quali diventati poi collaboratori di giustizia. E’ stato grazie alle loro dichiarazioni è stato possibile ricostruire il “tariffario” degli onorari del legale: tra i 4 e i 7 mila euro solo per accettare la nomina difensiva, 15 mila euro per un ricorso in appello, “su un omicidio ci volevano 100 mila euro” ha testimoniato Domenico Milella ex boss del “clan Palermiti” di Bari , 30 mila euro per una scarcerazione secondo le dichiarazioni di Danilo Pietro Della Malva, co-imputato a Lecce per le presunte tangenti all’ex gip. 

Le successive verifiche patrimoniali disposte dal pm Giuseppe Dentamaro della Procura di Bari, hanno accertato e documentato redditi dichiarati tra i 26mila e i 60mila euro annui nel periodo tra il 2016 e il 2019, a fronte di una “effettiva capacità di spesa del nucleo familiare dell’indagato, risultata particolarmente elevata, come dimostrato dall’acquisto e dal possesso di auto di lusso, di gioielli e di consistenti disponibilità finanziarie derivanti da titoli di credito, obbligazioni, depositi e conti correnti“.

Il denaro incassato in nero dall’ex avvocato barese Giancarlo Chiariello per gli incarichi legali veniva parzialmente custodito in buste sottovuoto, in quanto destinato ad essere occultato altrove. Ne sono convinti i magistrati baresi che hanno disposto il sequestro preventivo di beni per oltre 10,8 milioni di euro, per il “rischio che le somme corrispondenti all’imposta evasa, invero ingenti, potrebbero essere disperse o distratte“.

Un anno fa l’ex penalista venne arrestato dalla Procura di Lecce per alcuni episodi di corruzione in atti giudiziari relativi a presunte tangenti versate all’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per ottenere scarcerazioni di clienti, ed in casa di suo figlio vennero trovati dai Carabinieri durante una perquisizione soldi in contanti per circa 1,1 milioni di euro “suddivisi in tre zaini per agevolarne il trasporto e una parte sottovuoto per assicurarne la conservazione in caso di umidità”. La gip di Bari Valeria Isabella Valenzi, accogliendo la richiesta della Procura di Bari, ha ritenuto che il penalista tentasse di “sottrarre alle investigazioni” i “pagamenti in contanti ricevuti dai propri clienti nel corso del tempo che, per ovvie ragioni, non poteva depositare in banca“, come Chiarello stesso ha dichiarato in un interrogatori dinanzi ai magistrati inquirenti della Procura di Lecce. Redazione CdG 1947

Evasione fiscale: sequestro per 10,8 milioni ad avvocato barese. È Giancarlo Chiariello, già imputato per tangenti a ex gip. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 marzo 2022. Beni del valore di 10,8 milioni di euro, fra i quali prestigiosi immobili a Bari e disponibilità finanziarie, sono stati sottoposti a sequestro preventivo dalla Guardia di Finanza nei confronti dell’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello per dichiarazione infedele dell’Iva e delle imposte sui redditi dovute all’Erario tra il 2014 e il 2019. Chiariello è imputato a Lecce con l’ex gip del Tribunale di Bari per diversi episodi di presunte corruzioni in atti giudiziari. Quando fu arrestato nell’ambito di quella indagine, circa un anno fa, in casa del figlio Alberto, coimputato a Lecce, furono trovati tre zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti. La Procura di Bari aprì quindi un’altra indagine fiscale sul penalista. Durante una perquisizione nello studio legale è stata sequestrata documentazione relativa a 239 fascicoli processuali a fronte di compensi dichiarati al fisco per importi «largamente inferiori rispetto a quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia», ex clienti dell’avvocato.

Evasione fiscale: sequestro per 10,8 milioni ad avvocato barese. I soldi nascosti anche sottovuoto. È Giancarlo Chiariello, già imputato per tangenti a ex gip. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Marzo 2022.

Beni del valore di 10,8 milioni di euro, fra i quali prestigiosi immobili a Bari e disponibilità finanziarie, sono stati sottoposti a sequestro preventivo dalla Guardia di Finanza nei confronti dell’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello per dichiarazione infedele dell’Iva e delle imposte sui redditi dovute all’Erario tra il 2014 e il 2019. Chiariello è imputato a Lecce con l’ex gip del Tribunale di Bari per diversi episodi di presunte corruzioni in atti giudiziari. Quando fu arrestato nell’ambito di quella indagine, circa un anno fa, in casa del figlio Alberto, coimputato a Lecce, furono trovati tre zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti. La Procura di Bari aprì quindi un’altra indagine fiscale sul penalista. Durante una perquisizione nello studio legale è stata sequestrata documentazione relativa a 239 fascicoli processuali a fronte di compensi dichiarati al fisco per importi «largamente inferiori rispetto a quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia», ex clienti dell’avvocato.

Avrebbe intascato compensi per attività legale fino a 100mila euro per ogni cliente, dichiarando redditi annui tra i 26mila e i 60mila euro. E' quanto ha accertato la Guardia di Finanza di Bari che oggi ha sequestro all’ex penalista barese Giancarlo Chiariello beni per 10,8 milioni di euro con l’accusa di evasione fiscale. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto per corruzione in atti giudiziari e il rinvenimento a casa di suo figlio di zaini contenenti 1,1 milioni di euro in contanti, Giancarlo Chiariello aveva già «riconosciuto come proprie» le somme di denaro sequestrate, «indicandole - spiegano i finanzieri - come i risparmi di vent'anni derivanti dai pagamenti dei clienti per l’attività professionale prestata». I suoi ex clienti poi diventati collaboratori di giustizia hanno rivelato che al penalista pagavano 10mila euro di onorario per ciascuno procedimento, che potevano raggiungere i 100 mila euro per il patrocinio in Cassazione a fronte di un’accusa per omicidio. «Pagamenti effettuati tutti in contanti - hanno ricostruito i finanzieri - , in violazione della normativa antiriciclaggio e senza il rilascio di alcun documento fiscale». Le successive verifiche patrimoniali, coordinate dal procuratore di Bari Roberto Rossi con il sostituto Giuseppe Dentamaro, hanno documentato redditi dichiarati tra il 2016 e il 2019 tra i 26mila e i 60mila euro annui, a fronte di una «effettiva capacitaà; di spesa del nucleo familiare dell’indagato, risultata particolarmente elevata, come dimostrato dall’acquisto e dal possesso di auto di lusso, di gioielli e di consistenti disponibilità finanziarie derivanti da titoli di credito, obbligazioni, depositi e conti correnti».

I SOLDI NASCOSTI ANCHE SOTTOVUOTO - Il denaro incassato in nero dall’ex penalista barese Giancarlo Chiariello per gli incarichi legali era parzialmente suddiviso in buste sottovuoto, perché "destinato ad essere occultato altrove». Ne sono convinti i magistrati baresi che oggi hanno disposto il sequestro preventivo di beni per oltre 10,8 milioni di euro, per il "rischio che le somme corrispondenti all’imposta evasa, invero ingenti, potrebbero essere disperse o distratte». Quando circa un anno fa l’ex penalista fu arrestato dalla magistratura salentina per alcuni episodi di corruzione in atti giudiziari relativi a presunte tangenti pagate all’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per ottenere scarcerazioni di clienti, in casa del figlio furono trovati circa 1,1 milioni di euro in contanti "suddivisi in tre zaini per agevolarne il trasporto - spiega la Procura di Bari - e una parte sottovuoto per assicurarne la conservazione in caso di umidità».

La gip di Bari Valeria Isabella Valenzi, accogliendo la richiesta del procuratore Roberto Rossi, ha ritenuto che il penalista tentasse di «sottrarre alle investigazioni» i "pagamenti in contanti ricevuti dai propri clienti nel corso del tempo che, per ovvie ragioni, non poteva depositare in banca», come da lui stesso dichiarato in un interrogatori dinanzi ai pm di Lecce. La quantificazione delle imposte evase è stata possibile grazie al sequestro dell’elenco dei clienti dell’avvocato, tra i quali alcuni pregiudicati diventati poi collaboratori di giustizia. Grazie alle loro dichiarazioni è stato possibile ricostruire il «tariffario» degli onorari del legale: tra i 4 e i 7 mila euro solo per accettare la nomina difensiva, 15 mila euro per un ricorso in appello, «su un omicidio ci volevano 100 mila euro» ha detto l’ex boss de clan Palermiti di Bari Domenico Milella, 30 mila euro per una scarcerazione secondo Danilo Pietro Della Malva, co-imputato a Lecce per le presunte tangenti all’ex gip. 

"Parcelle a nero sino a 100mila euro", la Finanza sequestra 11 milioni a noto avvocato barese. La Voce di Manduria lunedì 07 marzo 2022

I Finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Bari stanno dando esecuzione a un decreto di sequestro preventivo - emesso, su richiesta di questa Procura della Repubblica, dal competente G.I.P. del locale Tribunale - di beni, fra i quali prestigiosi immobili ubicati a Bari, nonché cospicue disponibilità finanziarie, del valore complessivo di oltre 10,8 milioni di euro. Nel provvedimento è stata riconosciuta l’esistenza di un concreto quadro indiziario (accertamento compiuto nella fase delle indagini preliminari che necessita della successiva verifica processuale nel contraddittorio con la difesa) a carico di un noto avvocato penalista del Foro di Bari, in relazione all’ipotesi di reato di dichiarazione infedele dell’i.v.a. e delle imposte sui redditi dovute all’Erario. L’operazione odierna costituisce l’epilogo di articolate e complesse investigazioni svolte dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari - su delega di questa Procura della Repubblica - in seguito all’esecuzione di una misura cautelare personale nei confronti del predetto legale disposta dal Tribunale di Lecce per vari episodi di corruzione in atti giudiziari e al contestuale rinvenimento, presso l’abitazione del figlio, della somma pari a circa 1,1 milioni di euro in contanti, contenuti in tre zaini e in parte sigillati all’interno di buste sottovuoto. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia l’indagato ha riconosciuto come proprie tali somme di denaro, indicandole come i risparmi di vent’anni derivanti dai pagamenti dei clienti per l’attività professionale prestata. In tale contesto, alla presenza del Procuratore della Repubblica e del Presidente dell’Ordine degli avvocati di Bari, le Fiamme Gialle baresi hanno perquisito lo studio legale del penalista, ubicato in questo capoluogo, rinvenendo e acquisendo copiosa documentazione (tra cui 239 fascicoli processuali) utile all’identificazione della sua clientela e alla quantificazione del volume dei compensi professionali effettivamente percepiti. Considerato che tra i numerosi assistiti vi erano anche soggetti divenuti collaboratori di giustizia, si è proceduto ad acquisirne le pertinenti dichiarazioni, secondo le quali l’onorario del penalista - per il solo studio del procedimento - ammontava a 10 mila euro, per raggiungere l’importo di 100 mila euro per il patrocinio in Cassazione a fronte di un’accusa per omicidio. Pagamenti, questi, effettuati tutti per contanti, in violazione della normativa antiriciclaggio e senza il rilascio di alcun documento fiscale. Le dichiarazioni, tutte convergenti (allo stato, salvo la verifica successiva in fase dibattimentale con il contraddittorio della difesa), sono state riscontrate dalla documentazione in atti.I conseguenti approfondimenti hanno, quindi, permesso di appurare la dichiarazione al Fisco di compensi per importi largamente inferiori rispetto a quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia e rispetto ai parametri indicati nelle cosiddette “tabelle professionali”. In esecuzione di una specifica delega di indagine emessa da questa Procura della Repubblica, il Gruppo Tutela Mercato Capitali del Nucleo PEF di Bari ha poi eseguito anche accurate indagini patrimoniali finalizzate a ricostruire l’effettiva capacità di spesa del nucleo familiare dell’indagato, risultata - nonostante i modesti redditi dichiarati, oscillanti nel periodo 2016-2019 tra i 60 e i 26 mila euro - particolarmente elevata, come dimostrato dall’acquisto e dal possesso di auto di lusso, di gioielli e di consistenti disponibilità finanziarie derivanti da titoli di credito, obbligazioni, depositi e conti correnti. Secondo l’impostazione accusatoria accolta dal competente G.I.P. presso il Tribunale di Bari (fatta salva la valutazione nelle fasi successive con il contributo della difesa), come emerso dall’incrocio delle risultanze degli approfondimenti investigativi svolti, alla cui esecuzione hanno partecipato anche consulenti tecnici nominati da questa Procura della Repubblica, il penalista - tra il 2014 e il 2019 - avrebbe evaso l’i.v.a. e le imposte sui redditi dovute all’Erario per oltre 10,8 milioni di euro. Tale condotta ha integrato il “fumus” del delitto di dichiarazione infedele, tenuto conto del superamento delle soglie di punibilità previste dalla norma violata. Ciò è risultato corroborato anche dagli esiti delle indagini finanziarie svolte dai Finanzieri di Bari nei confronti del professionista e dei componenti del suo nucleo familiare, che hanno evidenziato il versamento sui conti correnti ispezionati di denaro contante e assegni per un valore di oltre 1 milione di euro. Il competente G.I.P. del Tribunale di Bari - condividendo l’analoga proposta avanzata da questa Procura della Repubblica, basata sul solido compendio indiziario acquisito dalla p.g. operante - ha ora emesso un decreto di sequestro preventivo di beni, anche nella forma per equivalente, per un importo di oltre 10,8 milioni di euro, pari alle imposte evase. Contestualmente all’esecuzione del provvedimento di sequestro è altresì in corso la perquisizione dell’abitazione dell’indagato finalizzata all’individuazione di ulteriori beni da sottoporre a vincolo. Gli esiti dell’attività d’indagine costituiscono un’ulteriore testimonianza del costante presidio economico-finanziario esercitato dalla Procura della Repubblica di Bari - in stretta sinergia con il locale Nucleo PEF Bari - per la repressione del grave fenomeno dell’evasione fiscale, a tutela dei cittadini, degli imprenditori e dei professionisti rispettosi delle regole, al fine di assicurare l’equità sociale quale condizione fondamentale del benessere della collettività, soprattutto nell’attuale periodo di crisi finanziaria correlata all’emergenza sanitaria da Covid 19. 

Tangenti per scarcerazioni a Bari. Chiariello: “Indotto a pagare da De Benedictis”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Marzo 2022.

La Procura di Lecce ha chiesto condanne a 8 anni e 9 mesi di reclusione per Giuseppe De Benedictis ex Gip del Tribunale di Bari , e una condanna a 8 anni 5 mesi di reclusione per l’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello.  Si tornerà in aula il prossimo 22 marzo per la discussione dei difensori dell' ex giudice De Benedictis. 

Nell’udienza di ieri dinnanzi al Tribunale di Lecce del processo con rito abbreviato l’ avv. Gaetano Sassanelli, difensore dell’ex avvocato penalista Giancarlo Chiariello, imputato con l’ex gip di Bari Giuseppe De Benedictis per corruzione in atti giudiziari, con riferimento a presunte tangenti pagate dall’avvocato al giudice in cambio di scarcerazioni, ha sostenuto che non sarebbe stato il legale a corrompere il giudice ma il contrario al fine di ottenere dei pagamenti per accogliere delle richieste scarcerazioni. Insieme all’ avvocato Chiariello ed al giudice De Benedictis sono imputate altre sette persone. Il difensore di Chiariello ha insistito affinchè non venga riconosciuta come invece richiede la Procura, l’aggravante mafiosa al suo assistito.

La Procura di Lecce ha chiesto condanne a 8 anni e 9 mesi di reclusione per Giuseppe De Benedictis ex Gip del Tribunale di Bari , e una condanna a 8 anni 5 mesi di reclusione per l’ex avvocato penalista barese Giancarlo Chiariello. 

La difesa ha sostenuto nel corso dell’udienza che i fatti ammessi in parte circa un anno fa dall’ormai ex avvocato Chiariello nell’interrogatorio subito dopo l’arresto, non erano episodi di corruzione in atti giudiziari ma induzione indebita a dare o promettere utilità. Secondo l’ avv. Sassanelli, Chiariello non avrebbe corrotto il giudice per ottenere le scarcerazioni ma sarebbe stato indotto a pagare le tangenti. La chiave di lettura di questa interpretazione starebbe in alcune dichiarazioni rese dall’ex Gip De Benedictis ai magistrati inquirenti della procura salentina salentini, nelle quali avrebbe detto di aver chiesto più soldi a Chiariello per capire fino a che punto l’avvocato sarebbe stato disposto ad accontentarlo.

Si tornerà in aula il prossimo 22 marzo per la discussione dei difensori dell’ ex giudice De Benedictis. Redazione CdG 1947

Per la Procura di Bari, all’Asset “davano appalti alle ditte amiche”.  Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2022.  

Più di 3mila pagine tra denunce, intercettazioni e informative presenti negli atti depositati dalla Procura di Bari con la chiusura delle indagini. Il giallo dei fondi per le elezioni. Molteplici sospetti ed ipotesi di reato sui comportamenti di Elio Sannicandro, Gianni Stea e Salvatore Campanelli.

Negli atti depositati con la chiusura delle indagini dai pm Claudio Pinto e Savina Toscani della Procura di Bari titolari del fascicolo d’indagine, coordinati dall’ aggiunto Alessio Coccioli, compaiono più di 3 mila pagine tra denunce, intercettazioni e informative, all’interno delle quali la Guardia di Finanza ritiene che il tenore di alcune delle conversazioni captate confermi le ipotesi investigative, “ ovvero che all’interno della struttura commissariale vi sia una struttura interna gestita da Campanelli e Sannicandro”, che “ fraudolentemente attribuirebbe gli appalti a ditte amiche”. 

C’è un passaggio utilizzando le parole scritte dalla Guardia di Finanza condivisi per comprovare i presunti tentativi di accordi illeciti intercorsi tra la struttura commissariale per la gestione del rischio idrogeologico della Regione Puglia e la società Areva Ingegneria di Noci, per risolvere un contenzioso in corso. Gli indagati le avrebbero provate tutte pur di aggiustare la vicenda fuori dal Palazzo di Giustizia “temendo che un’azione legale da parte dell’azienda che si era vista revocare gli incarichi per inadempienza avrebbe potuto determinare una serie di ripercussioni giudiziarie nei loro confronti”. 

La questione coinvolge l’assessore al Personale della Regione Puglia, Gianni Stea, iscritto nel registro degli indagati della Procura di Bari per concorso in tentata induzione indebita a dare o promettere utilità, per fatti risalenti al 2019, quando ricopriva l’incarico di assessore all’Ambiente. Insieme a Stea con la stessa accusa sono indagati Elio Sannicandro, direttore generale dell’ Asset l’ Agenzia strategica per lo sviluppo del territorio della Regione Puglia, e l’avvocato penalista barese Salvatore Campanelli, consulente amministrativo e legale nominato per il supporto al Rup ( responsabile unico del procedimento) per il fondo di progettazione per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico. 

Indagato il funzionario regionale Daniele Sgaramella, ritenuto ruolo chiave dell’inchiesta, per falso materiale e per soppressione, distruzione e occultamento di atti è infine . Negli atti si legge di “minacce” agli imprenditori da parte di Sgaramella, assistito dall’avvocato Francesco Digilio, “ sia di ripercussioni economiche” sulla società sia personali.

Le “condotte persecutorie” nei confronti della società sono state riassunte in diverse denunce relative a “palesi irregolarità nella gestione di appalti”, delle denunciate richieste di denaro da parte di Campanelli e Sannicandro con inequivocabili riferimenti ai fondi necessari per finanziare la campagna elettorale di quell’anno per le elezioni amministrative al Comune di Bari. In una delle decine di informative depositate nei due anni di indagini 2019 e 2020, gli investigatori delle Fiamme Gialle scrivono di “un quadro criminoso allarmante”. 

Accuse che gli indagati Stea, Sannicandro e Campanelli, hanno negato e contestato e che, stando al contenuto delle stesse intercettazioni, non vengono mai esplicitamente confermate, seppure poi formalizzate nei capi d’imputazione a loro carico. Le conversazioni intercettate e riportate negli atti sono quelle registrate durante due incontri avvenuti uno negli uffici della Regione Puglia ed uno all’interno di un bar di una stazione di servizio di Adelfia, grazie a delle microspie nascoste addosso all’imprenditore Conforti. In uno di questi colloqui, del 25 giugno 2019, sono presenti tra gli altri l’assessore Stea e l’avvocato Campanelli e quest’ultimo “ riferisce di parlare in nome e per conto della struttura commissariale, asserendo addirittura — trascrive la Guardia di Finanza — che è la stessa cosa se parla lui o Elio Sannicandro”.“

Gli investigatori affermano che Campanelli pur non avendo mai fatto una proposta esplicita lasciava intendere con il suo atteggiamento che accogliendo delle sue richieste “si sarebbero risolte tutte le controversie con la Regione”. Ma non solo, secondo i finanzieri, avrebbe anche invitato a rimettere la denuncia “Se pur indirettamente, ma in maniera chiara ed incontrovertibile” che l’imprenditore aveva fatto nei confronti di Sgaramella “nell’ottica di questa rinnovata collaborazione”.

Successivamente qualche settimana più tardi in un incontro anche questo intercettato, sempre stando alla ricostruzione investigativa che si basa essenzialmente sul contenuto delle denunce è l’assessore Stea a dimostrarsi interessato al “ buon esito” del confronto, rassicurando l’ingegner Conforti prima dell’arrivo dell’avvocato Campanelli, che era anche lui atteso all’appuntamento. “ Tale incontro aveva palesemente l’obiettivo di sistemare definitivamente le pendenze tra questa società e la Regione Puglia attraverso una transazione ad hoc che eliminasse le cause ostative per la Areva a partecipare a successivi bandi di gara della struttura commissariale”, che testualmente l’ avvocato Campanelli definisce “assegnati a rotazione” dicono i finanzieri. 

Domani imperterrito Sannicandro vola negli Emirati Arabi a Dubai, dove all’interno del Padiglione Italia dell’Esposizione Universale si terrà “L’Italia mondiale dello Sport” , una vetrina dei grandi eventi sportivi che si svolgeranno in Italia nei prossimi anni, fra i quali i “Giochi del Mediterraneo TA2026″ che al momento però rimangono un progetto sulla carta privo di finanziamenti pubblici e privati. Evento al quale, contrariamente a quanto pubblicato dalla stampa pugliese, non parteciperà il presidente del CONI Giovanni Malagò. Redazione CdG 1947

Imputazione coatta per Elio Sannicandro direttore dell’Asset della Regione Puglia. Deve rispondere di abuso d’ufficio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Febbraio 2022.  

Tra i cinque ex assessori del Comune di Giovinazzo compare anche Elio Sannicandro direttore dell'Asset Puglia e del Comitato Organizzatore dei Giochi del Mediterraneo 2026. La Procura di Bari aveva chiesto l' archiviazione, ma il Tribunale non è stato d'accordo, mandando tutti a processo che da anni viene richiesto da Vincenzo Turturro un ex funzionario del settore Paesaggio. 

La Gip del Tribunale di Bari Anna Perrelli ha disposto l’imputazione coatta per un presunto abuso d’ufficio commesso per il demansionamento di un funzionario che da architetto finì per essere mandato a rilasciare carte di identità. Tra i cinque ex assessori del Comune di Giovinazzo compare anche Elio Sannicandro direttore dell’Asset Puglia e del Comitato Organizzatore dei Giochi del Mediterraneo 2026 . La Procura di Bari aveva chiesto l’ archiviazione, ma il Tribunale non è stato d’accordo, mandando tutti a processo che da anni viene richiesto da Vincenzo Turturro un ex funzionario del settore Paesaggio. 

Il procedimento giudiziario che ha fatto finire Sannicandro in Tribunale insieme agli ex colleghi assessori a Giovinazzo, ha origine da un intreccio complicato tra le vicende amministrative della discarica della cittadina e quelle professionali dell’architetto Turturro, il quale si era opposto al progetto di ampliamento dell’impianto e, successivamente, era stato trasferito e demansionato ad altro settore e secondo quanto ha denunciato, sarebbe stato minacciato. 

Elio Sannicandro, ex assessore del Comune di Bari

Dalla denuncia di Tuturro era nata l’inchiesta condotta dal pm Baldo Pisani, che aveva chiesto il rinvio a giudizio nei confronti del sindaco Tommaso De Palma, del presidente del Consiglio comunale Vito Domenico Favutto e degli assessori: oltre a Sannicandro, Marianna Paladino, Antonia Pansini, Michele Sollecito  attuale vicesindaco e candidato sindaco nel 2022) e Salvatore Stallone. Il Gup Marco Galesi aveva disposto il rinvio a giudizio per i primi due per violenza privata mentre aveva escluso di poter attribuire ai componenti della giunta il reato di abuso d’ufficio, rinviando quindi gli atti al pm. Secondo il giudice ad avere arrecato un danno a Turturro non erano state le delibere della giunta ma bensì i decreti del sindaco, con i quali l’architetto “a scopo di ritorsione o vessazione” era stato trasferito ad un altro settore. 

La Procura di Bari ricevuti gli atti aveva chiesto l’archiviazione di tutti e cinque gli assessori, ma Turturro si era opposto, e le ragioni della sua opposizione erano state accolte e condivise dalla Gip Perrelli, che si è convinta che la lesione della posizione del funzionario sia avvenuta sia con le decisioni del sindaco ma anche con la successiva delibera di giunta n° 94/2015, con la quale si è concretizzata la vera e propria “sottrazione delle competenze ” con il trasferimento dell’architetto Turturro dal settore Paesaggio a quello Patrimonio, “con il completamento del disegno vessatorio e discriminatorio della persona offesa, prima spostata in un ufficio privo finanche di scrivanie e postazioni telematiche e successivamente ad occuparsi del rilascio di carte di identità”.

Locorotondo, il borgo pugliese dalle case bianche. Angela Leucci il 14 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Locorotondo è una delle città bianche di Puglia: qui le case sono esternamente coperte di calce, come vuole un'antichissima tradizione.  

Locorotondo è una città nota su tutto lo Stivale per via di un vino Doc, prodotto nel cuore della Valle d’Itria. Per molti altri è però un centro suggestivo per via della sua storia, della sua architettura, oltre che per le bontà enogastronomiche.

Il nome di Locorotondo

Il nome della città dice già qualcosa di fondamentale in merito al suo centro storico. L’etimologia trova la sua base in “locum rotundum”, che fa riferimento a propria volta alla forma tonda del centro storico a pianta greca. Le prime testimonianze di una civiltà che si stabilì qui si devono infatti ai greci, in un’epoca che si colloca presumibilmente tra il IC e il VII secolo a.C.

Le case bianche 

“Tu non conosci il Sud, le case di calce da cui uscivamo al sole come numeri dalla faccia d'un dado”. È un verso celeberrimo di una poesia di Vittorio Bodini che racconta con un’immagine immediata le case bianche delle città pugliesi. Come Ostuni, Cisternino, Alberobello e naturalmente Locorotondo.

Quella delle case bianche in Puglia non è una semplice suggestione, ma risponde a diverse caratteristiche che hanno a che fare con la storia e con il territorio. La calce a Locorotondo viene usata non solo per le pareti delle case del centro, ma anche per il lastricato solare di queste abitazioni, chiamate in dialetto locale “cummerse”.

Ma perché, anticamente, queste case furono realizzate in questo modo? C’è una ragione storica, una ragione igienica e una ragione climatica. La ragione storica consiste nel fatto che le coste della Puglia - Locorotondo dista dal mare meno di 20 chilometri in linea d’aria - erano spesso meta delle incursioni saracene, a cavallo tra il Medioevo e l’Età Moderna. Le case bianche, riflettendo la luce del sole, potevano accecare gli invasori provenienti dal mare. La ragione igienica ha a che fare con il fatto che le facciate di calce possono essere ripristinate facilmente, perché la calce è di facile reperibilità: nel Medioevo si riteneva infatti che questo materiale tanto rinnovabile sulle case potesse tenere lontana la peste. Infine la ragione climatica risiede nel fatto che queste case sono realizzate in materiali che consentano l’isolamento termico, e la calce bianca, come detto, respinge appunto i raggi solari. Il risultato: abitazioni fresche d’estate e calde in inverno.

Le leggende di Locorotondo 

Un fatto è che Locorotondo possieda diversi beni culturali di pregio, come chiese in diversi stili, dal barocco al basiliano, ex palazzi gentilizi suggestivi tra cui quello che ospita il municipio, e il Trullo Marziola, ritenuto il più antico di tutta la Valle d’Itria.

Ma accanto ai fatti, a ciò che è tangibile e che si può ammirare con gli occhi, ci sono anche fantasiose leggende. Una di queste riguarda il “Monacidd”, ossia il Monachello, uno spirito benevolo e al tempo stesso dispettoso, abbigliato con un saio rosso e tanti campanelli, le cui abitudini sono ricalcate su mitologie simili e comuni in tutto il Mezzogiorno. Ce n’è anche una versione femminile, le “Jurie”, che sono invece spiriti malvagi che tolgono il fiato nel sonno, mordono o pizzicano, e intrecciano indissolubilmente i capelli degli esseri umani.

Angela Leucci.  Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Emiliano, Sannicandro, Melucci, il triangolo delle spese “folli”. Il Corriere del Giorno il 18 Gennaio 2022.

Dietro le quinte dell’ennesima operazione a rischio legalità, patrocinata dal Governatore Emiliano e del suo ex assessore Sannicandro a capo dell’ agenzia regionale Asset, che non contento si è auto-nominato direttore dei Giochi del Mediterraneo 2026, senza che ci sia ancora la copertura finanziaria. Emiliano dimentica che Sannicandro fu beccato dal CONI con le mani nella marmellata. E domani va in scena l’ennesima pagliacciata elettorale pro-Melucci, mentre il Commissario Prefettizio sembra essere venuto in vacanza gratis….

L’ultima diretta del nostro Direttore Antonello de Gennaro trasmessa martedì 18 gennaio 2022 nel programma “DENTRO LA NOTIZIA-Fatti per essere ascoltati” in diretta streaming dal CORRIERE DEL GIORNO fondato nel 1947™ e diffusa anche sulle nostre pagine “ufficiali” presenti sulle piattaforme dei socialmedia Facebook, Twitter ed Instagram.

Dietro le quinte dell’ennesima operazione a rischio legalità, patrocinata dal Governatore pugliese Emiliano e del suo ex assessore comunale Elio Sannicandro “piazzato” a capo dell’ agenzia regionale Asset , il quale non contento del suo lauto stipendio regionale, si è fatto nominare anche Direttore dei Giochi del Mediterraneo 2026, senza che ci sia ancora la copertura finanziaria.

Una manifestazione che in tutti i Paesi del Mediterraneo nessuno voleva organizzare ! Emiliano ha forse dimenticato che proprio Sannicandro anni fa fu beccato dal CONI con le mani nella marmellata e fu di fatto costretto alle dimissioni dal CONI pugliese (leggi QUI) per non essere cacciato via dal CONI nazionale. E domani va in scena l’ennesima pagliacciata elettorale di Emiliano pro-Melucci, mentre il Commissario Prefettizio Cardellicchio sembra essere venuto in vacanza gratis….

Tutta la verità sui fatti raccontata a documentata senza filtri o censure. I retroscena della vita politica, economica e giudiziaria. Le inchieste. Gli approfondimenti. Tutto quello che gli altri non vi possono o vogliono raccontare .   

Chi è la “gola profonda” dell’addetto stampa spione della Regione Puglia, Nico Lorusso ? Riusciranno la Procura e le Fiamme Gialle a scoprirlo?  Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 18 Gennaio 2022.

I finanzieri hanno perquisito questa mattina la casa, l’ufficio nella Regione e l’auto dell’addetto stampa, sequestrando supporti informatici, pc e telefoni cellulari “al fine di verificare – si legge nel decreto – se nei giorni precedenti rispetto al rinvenimento delle cimici, Lorusso abbia intrattenuto chat o effettuato chiamate Voip con individui che, come dichiarato nel corso della conversazione, gli abbiano fatto leggere il decreto dispositivo delle intercettazioni ambientali in tre stanze”.

Finalmente la Procura di Bari cerca di fare chiarezza sui giornalisti “spioni” e “ventriloqui”, che sinora sono sempre stati protetti e spalleggiati dall’ Assostampa di Puglia, di cui spesso e volentieri fanno parte. Questa mattina i militari della Guardia di Finanza di Bari hanno eseguito una perquisizione nei confronti del giornalista Nico Lorusso membro della consulta sindacale dell’ Assostampa di Puglia e redattore del servizio stampa Agierrefax della Giunta regionale della Puglia, indagato per concorso in rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento personale. 

“Il provvedimento è finalizzato all’acquisizione di elementi probatori utili alla compiuta identificazione di un pubblico ufficiale che avrebbe rivelato al redattore l’esistenza di dispositivi di captazione ambientale in uffici della Regione Puglia in uso a Mario Antonio Lerario” spiega la Procura di Bari. L’ addetto stampa della Regione Puglia Nico Lorusso sarebbe stato informato, da un pubblico ufficiale in corso di identificazione, della presenza delle cimici installate dalle Fiamme Gialle in tre stanze degli uffici della Protezione Civile della Regione Puglia e, come emerge da una intercettazione ambientale, Lorusso lo avrebbe comunicato all’ex capo della Protezione civile Mario Lerario, attualmente detenuto in carcere dallo scorso 23 dicembre per corruzione. 

Nel decreto di perquisizione eseguito oggi dalla Guardia di Finanza su disposizione del procuratore Roberto Rossi e dell’aggiunto Alessio Coccioli, c’è una intercettazione ambientale del 3 settembre 2021 avvenuta nell’ufficio di Lerario. “Il decreto che disponeva la faccenda – diceva Nico Lorusso a Mario Lerario – che una manaccia me l’ha dato, me lo ha fatto leggere – disponeva qui; e non ho capito bene in quale altra stanza, boh”. 

I finanzieri hanno quindi perquisito questa mattina la casa, l’ufficio nella Regione e l’auto dell’addetto stampa, sequestrando supporti informatici, pc e telefoni cellulari “al fine di verificare – si legge nel decreto – se nei giorni precedenti rispetto al rinvenimento delle cimici, Lorusso abbia intrattenuto chat o effettuato chiamate Voip con individui che, come dichiarato nel corso della conversazione, gli abbiano fatto leggere il decreto dispositivo delle intercettazioni ambientali in tre stanze”.

Non è la prima volta che un giornalista “barese” si prostituisce al potere politico ed affaristico. Il pioniere di questa “specialità” fu Michele Mascellaro, all’epoca dei fatti direttore responsabile del quotidiano Taranto Buonasera, intercettato nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente Svenduto“, scoperto a vendersi a Girolamo Archinà responsabile delle relazioni esterne a Taranto del Gruppo Riva, ma nei confronti di Mascellaro incredibilmente il Consiglio di Disciplina dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia non mosse un dito. Il giornalista barese fu incredibilmente “premiato” dalla politica finendo a fare il “portaborsette-addetto stampa” nel Gruppo PD della Regione Puglia, diventando un fedelissimo del consigliere regionale Pd Michele Mazzarano, recentemente condannato per voto di scambio.

Nel 2019 sulla base delle ipotesi investigative della Procura a seguito della denuncia presentata dallo stesso Emiliano, vi fu un’altra fuga di notizie coperte da segreto istruttorio che consenti’ al governatore pugliese di venire a conoscenza di un’ indagine a suo carico ancor prima della notifica dell’avviso di garanzia per abuso d’ufficio, induzione indebita a dare o promettere utilita’ e false fatture. In quell’occasione ad avvisare Emiliano delle indagini in corso nei suoi confronti erano stati due altri giornalisti baresi Scagliarini e Pepe redattori di quella che fu la “fallita” Gazzetta del Mezzogiorno. Immediatamente i sindacati insorsero contro la Magistratura : “Un fatto molto grave che incide pesantemente sulla liberta’ d’informazione”, scriveva in una nota il Comitato di redazione della Gazzetta del Mezzogiorno esprimendo “solidarieta’ ai colleghi Massimiliano Scagliarini e Nicola Pepe destinatari di un decreto di consegna e decreto di perquisizione personale e locale emesso dalla Procura di Bari“. Chissà che fine hanno fatto quelle indagini…

Avendo saputo dell’inchiesta ancor prima che la Guardia di Finanza si presentasse alla Regione, Emiliano si recò di persona in Procura per denunciare la violazione del segreto istruttorio. “Lunedì 8 aprile 2019 – raccontò – sono infatti venuto a conoscenza che giovedì 11 sarei stato oggetto di una attività di acquisizione di documenti e dati da parte della Guardia di finanza in relazione ai finanziamenti percepiti in occasione della mia campagna per le primarie del Pd del 2017. La fuga di notizie in piena violazione del segreto istruttorio precisava ulteriori fatti e circostanze”.

Pertanto Emiliano denunciò l’accaduto “al fine di ottenere la massima tutela da possibili violazioni del segreto istruttorio di natura strumentale atteso il mio ruolo pubblico”. “Questa mattina alle ore 9 – proseguiva Emiliano – come anticipato dalla fonte indicata al Procuratore della Repubblica il giorno prima, la Guardia di finanza di Bari mi chiedeva di potere verificare alcune chat del mio telefono e mail relative agli scambi di messaggi con alcuni soggetti di interesse dell’ufficio. Contemporaneamente identica acquisizione è stata effettuata al mio capo di Gabinetto”.

“Abbiamo fornito piena collaborazione – aggiunse il governatore pugliese – al fine di consentire l’acquisizione di tutti gli elementi utili, nella convinzione di avere operato con assoluta correttezza e rispetto delle leggi”.

Chissà se anche questa volta i “sindacalisti-giornalisti” avranno il coraggio di proteggere e difendere il loro “compagnuccio” di merende Nico Lorusso, autore di ben 296 articoli sul loro sito dell’ Assostampa di Puglia. Non è un caso che nessuno li abbia mai commentati. Il”niente” non si commenta. Mai.

Apulia Film Commission, dopo le polemiche denunce e dimissioni strumentali , l’assemblea soci nomina un nuovo CDA. Il Corriere del Giorno il 26 Gennaio 2022.

L’ Apulia Film Commission in due anni e mezzo con la presidenza Dellomonaco ha ricevuto diversi premi, l’ultimo al Senato della Repubblica, in Puglia sono arrivate tantissime produzioni d’eccellenza, i Comuni soci sono raddoppiati, è stata aperta la Film House, trasformando la Fondazione in un organismo intermedio.

L’ex presidente Simonetta Dellomonaco avrebbe dovuto riferire ieri all’assemblea dei soci l’attuale situazione dell’Apulia Film Commission, entrata in una fase di stallo dopo le dimissioni notificate sabato scorso da tre consiglieri di amministrazione, i quali ieri avrebbero dovuto discutere la proposta di licenziamento del direttore generale Antonio Parente avanzata dalla stessa presidente in seguito a una presunta aggressione subita nel suo ufficio lo scorso novembre. “Siamo in una situazione di impasse amministrativa che va superata“, dice la Dellomonaco, che si augurava una pronta ripartenza dell’Afc. Che è arrivata ma senza di lei ! 

Incredibilmente i Comuni soci della Fondazione Apulia Film Commission, su indicazione della Regione Puglia stessa, hanno accolto l’invito a ricostituire immediatamente il CdA nominando all’unanimità i nuovi membri del consiglio di amministrazione nelle persone dei brindisini Carmelo Grassi, nominato dalla Regione Puglia, ex direttore del Teatro Pubblico Pugliese e ora direttore artistico del Nuovo Teatro Verdi di Brindisi, l’architetta  Marina Samarelli (indicata dai piccoli Comuni) e l’avvocato barese giuslavorista  Ettore Sbarra, indicato dal Comune di Bari. La nomina dei tre consiglieri, che si aggiungono a quelli rimasti in carica (Simonetta Dellomonaco e Giandomenico Vaccari) rende nuovamente operativo il Cda dell’Afc. 

Ma cosa era successo in precedenza ? C’era un procedimento disciplinare in corso. C’era, perché le dimissioni simultanee di tre consiglieri di amministrazione hanno di fatto invalidato un procedimento disciplinare avviato dalla presidente Simonetta Dellomonaco, nota giornalista culturale, nei confronti dell’ ex direttore, a seguito dell’aggressione subita e della denuncia penale presentata. in quanto i termini indicati dall’art. 58 del CCNL contratto Federculture parlano chiaro: le sanzioni vanno erogate entro 30 giorni dalla deposizione del dipendente.

I 30 giorni sarebbero scaduti oggi mercoledì 26 gennaio, per questo il CdA era stato da loro stessi fissato per lunedì 24 gennaio dopo essere stato rimandato, sempre da loro, per ben due volte. I consiglieri di amministrazione si sono dimessi contemporaneamente in 3 alle 20:00 del venerdì 21 gennaio “per motivazioni personali”. Appare evidente che in realtà le dimissioni siano arrivate per impedire che venissero assunte decisioni definitive entro i termini procedurali previsti dalle norme.

Le circostanze nelle quali Simonetta Dellomonaco ha subito l’”aggressione” da Parente motivavano in maniera analitica, come da disciplina giuslavoristica, il suo licenziamento. Tali circostanze non riguardano una “lite”, come è stata raccontata dall’aggressore, ma in realtà un atto ritorsivo. Chi conosce la Dellomonaco sa molto bene che è una persona pacifica ed equilibrata.

L’ex presidente Dellomonaco con una lettera “aperta” pervenuta anche al nostro giornale, così ha ricostruito l’ accaduto: “Ero nel mio ufficio e ho convocato il direttore dopo avergli contestato una procedura illegittima per iscritto. Il direttore si è presentato dopo ben 4 ore dalla convocazione ed è entrato nella mia stanza minacciandomi con frasi tipo “ti faccio cacciare”, “si fa come dico io”, ecc. Constatato il suo evidente stato alterato, ho avuto paura che la situazione degenerasse, come purtroppo era già accaduto in passato (non era la prima volta che mostrava atteggiamenti violenti nei miei confronti), ho raccolto quindi i miei effetti personali e mi sono diretta verso la porta. Non è servito a nulla perché dal divano dov’era seduto è balzato in piedi, ha bloccato la porta e mi ha spinta, mi ha stretto le braccia, tenendo la porta bloccata con il suo corpo e impedendomi di uscire. Mi sono divincolata e mi ha afferrata di nuovo. Quando sono riuscita ad aprire la porta l’ha richiusa sulla mia mano, poi sono scappata e uscendo mi ha spinta e sono caduta. Ho vissuto un incubo“.

Il Cda dimissionario era perfettamente a conoscenza di tutto questo avendo ricevuto copia della denuncia-querela e del referto ospedaliero e avendo sentito i testimoni che hanno confermato. Continua la Dellomonaco: “Del resto sono finita in ospedale con 10 giorni di prognosi. Ho trovato il coraggio di sporgere immediatamente denuncia.

In questo contesto la consigliera regionale di parità ha depositato agli atti del Cda un esposto per grave episodio di discriminazione e di violenza nei miei confronti in qualità di presidente della Fondazione. L’accaduto è così grave da aver poi determinato l’obbligo di avviare il procedimento disciplinare contro il responsabile della violenza, aggravata dal ruolo dirigenziale dell’aggressore che non ha alcuna giustificazione in un ambito pubblico di grande visibilità come la prestigiosa Fondazione pugliese“.

“Per questo motivo duole constatare le dimissioni dei consiglieri – conclude – che ne hanno certamente tutto il diritto, ma risultano ora quanto mai sconcertanti. Tali dimissioni, infatti potevano arrivare un mese fa, dando ai soci della Fondazione il tempo per rieleggere i loro sostituti. Oggi, alla viglia della scadenza dei termini, appaiono quanto meno sospette, dato che sono provvidenziali per evitare il giudizio verso un dipendente, uomo, che ha usato violenza contro il suo datore di lavoro, donna, Presidente di una Fondazione“. 

Tutte le associazioni femministe regionali pugliesi, si sono rivolte al governatore Michele Emiliano e si sono schierate con la giornalista culturale. A parere delle associazioni, Parente avrebbe condizionato parte del CdA inducendo alcuni componenti a dimettersi per evitare la decisione sul provvedimento disciplinare. Dall’esterno le dimissioni dei tre consiglieri sembrerebbero una evidente presa di posizione in favore di Parente, ma tutti assicurano che non sia così. Interpellati i vari consiglieri dimissionari si sono detti “obbligati al riserbo” (quale riserbo quando le cariche sono pubbliche ?), vista la delicatezza della questione.

L’ Apulia Film Commission in due anni e mezzo con la presidenza Dellomonaco ha ricevuto diversi premi, l’ultimo al Senato della Repubblica, in Puglia sono arrivate tantissime produzioni d’eccellenza, i Comuni soci sono raddoppiati, è stata aperta la Film House, trasformando la Fondazione in un organismo intermedio, ripristinando condizioni di lavoro rispetto a situazioni di precariato. Il nuovo CdA così reintegrato dovrà decidere sulla ipotesi di licenziamento di Parente. 

A seguito dell’esposto della presidente Dellomonaco, il precedente CdA ha richiesto all’avvocato Carmela Garofalo un parere “pro veritate”,che ha ricostruito il caso, ascoltando anche le dichiarazioni di Parente che, come riportato nel parere proveritate, inizialmente ha negato “un contatto fisico” , ma successivamente durante la sua audizione dinanzi al CdA nel rispondere ad una domanda formulata dal consigliere Vaccari “ha precisato di non avere un ricordo preciso dell’accaduto e di non escludere che, nel tentativo di calmare la presidente e di invitarla a non abbandonare la riunione, le abbia poggiato “un palmo della propria mano sulla spalla… tanto non in forma violenta ma nella normale gestualità tra persone che ben si conoscono e che lavorano insieme giornalmente da tanto tempo”“.

L’avvocato Garofalo nel suo parere riporta le dichiarazioni di una testimone che ha assistito alla denunciata aggressione, evidenziando che il referto medico del pronto soccorso del Policlinico di Bari parla di “contusione alla spalla e stato ansioso da aggressione fisica sul luogo di lavoro da persona nota” . Sempre nel parere pro veritate, l’avvocato ha indica delle possibili decisioni che il CdA può intraprendere: la più grave è quella del licenziamento ed in questa eventualità consiglia di “evidenziare che non possono accogliersi integralmente le giustificazioni del Parente perché è stato accertato che lo stesso ha fisicamente aggredito e bloccato la presidente per impedirle di uscire dalla stanza”. Parente per salvarsi dal licenziamento potrebbe dimettersi dall’incarico ricoperto di direttore generale, così mantenendo il posto di lavoro (ma non di direttore) e lo stipendio, dopo un periodo di sospensione.

Lerario, appalti urgenti per tv e frigoriferi: così l'ex dirigente usò i soldi della Protezione civile. Tra gli appalti per i quali la Procura di Bari contesta la corruzione a Lerario e ai due imprenditori (il processo comincerà il 16 giugno) c’è quello per la ristrutturazione dell’ala affidata ai volontari della Protezione civile nella caserma di Jacotenente, nella Foresta Umbra. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Maggio 2022.

Gli appalti per la Protezione civile possono utilizzare procedure semplificate e accelerate, pensate per fare fronte alle emergenze. Ma è proprio in questo contesto - secondo la Finanza - che si annida il vulnus degli affidamenti effettuati dall’ex dirigente regionale Mario Lerario ai due imprenditori Donato Mottola e Luca Leccese, arrestati il 23 dicembre e tuttora ai domiciliari. Perché - questo è il tema dell’indagine, non ancora conclusa - le regole sono state piegate o ignorate: con la scusa dell’emergenza, ad esempio, Lerario ha comprato anche televisori e frigoriferi.

Tra gli appalti per i quali la Procura di Bari contesta la corruzione a Lerario e ai due imprenditori (il processo comincerà il 16 giugno) c’è quello per la ristrutturazione dell’ala affidata ai volontari della Protezione civile nella caserma di Jacotenente, nella Foresta Umbra. Un intervento da 85mila euro affidato a luglio 2019, in «somma urgenza», alla Edil Sella di Leccese: da un sopralluogo era emerso che la struttura versava in condizioni precarie, con in servizi igienici non utilizzabili. La Finanza ha acquisito gli atti del procedimento, e in particolare la copia del computo metrico. Nell’elenco degli acquisti figurano l’antenna satellitare, la centralina satellitare, quattro kit Tv-sat, quattro lavatrici da 6 kg, quattro televisori da 32 pollici con sintonizzatore satellitare e 16 frigoriferi Hisense da 150 litri per un totale di circa 19mila euro. Tutto materiale per il quale, annota la Finanza, «sembrano difficilmente ipotizzabili le ragioni che sottendono la somma urgenza».

Ma non è l’unico esempio di procedura in somma urgenza su cui la Finanza ha sollevato dubbi. Nell’elenco ci sono ad esempio i lavori per la realizzazione della tendopoli nel ghetto di Rignano Scalo, affidati il 6 dicembre 2019 sempre alla Edil Sella per 190mila euro. La spesa per allestire la struttura destinata ai migranti è stata quantificata con un preventivo della ditta di Leccese che i militari hanno trovato nel server durante le perquisizioni in Regione. È allegato a una mail del giorno precedente l’affidamento, e prevede la sistemazione di un piazzale di circa 10mila metri quadrati. La Finanza ha fatto però notare che il preventivo «reca la data del 04/11/2019 sebbene dagli atti posti in essere dalla stazione appaltante emerge che l’esigenza a base della somma urgenza si sia palesata solo in data 04/12/2019»: potrebbe essere un errore, oppure - esattamente come è stato rilevato in altri appalti della Protezione civile - era stato preparato prima. Fatto sta che l’anno successivo alla stessa impresa viene affidato un altro appalto da 180mila euro per la manutenzione della strada di accesso al ghetto: in questo caso, secondo chi ha svolto le indagini, dagli atti non è nemmeno possibile capire quale sia la procedura amministrativa adottata. «Ove la stazione appaltante abbia proceduto ad affidamento diretto, si ritiene di dover valutare la violazione del principio di rotazione», quello che impone - anche in urgenza - di non utilizzare sempre le stesse ditte.

Oltre alle tangenti per 30mila euro (che sono alla base dell’accusa di corruzione contestata dal procuratore Roberto Rossi e dall’aggiunto Alberto Coccioli), l’inchiesta ha ricostruito anche i favori e i regali ricevuti dall’ex dirigente. Il 1° giugno 2021 ad esempio Lerario si è incontrato con Mottola a Barletta, per un sopralluogo finalizzato a installare dei container. Poco dopo l’imprenditore lo richiama e gli chiede di tornare indietro per consegnargli «una cosa». Cosa fosse lo racconta lui stesso al telefono: «Mi hanno regalato del cannoli siciliani per la nostra dieta (...) e una cassettina di pomodori». 

«Protezione civile, Lerario truccò l’appalto per la sede di Foggia». La Finanza: un errore sull’Iva fece recuperare il ribasso all’impresa. Il funzionario intercettato: «Marescià, noi non c’entriamo niente...». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Maggio 2022.

A un certo punto anche i più stretti collaboratori di Mario Lerario si erano resi conto che qualcosa non andava. «Io posso capire le cose piccole sì, ma su queste grosse forniture, bisogna cambiare... Dmeco...», diceva il 21 settembre, tre mesi prima dell’arresto del suo capo, il funzionario regionale Antonio Mercurio riferendosi all’azienda foggiana Dmeco. «Gli abbiamo dato venti milioni di euro... trenta milioni di euro», gli ribatteva un collega. E poi, ancora Mercurio: «Marescià, se stai ancora là, noi non c'entriamo niente».

Sul punto («Non c’entriamo niente») la Procura di Bari sta svolgendo approfondimenti, perché pure Mercurio risulta indagato (turbativa d’asta e falso) nel filone che riguarda i lavori per l’ospedale covid della Fiera del Levante, quello da cui è partita l’inchiesta sugli appalti della Protezione civile. E che, grazie alle intercettazioni, ha portato all’arresto in flagranza di Lerario e dei due imprenditori che il 16 giugno andranno a processo per corruzione. Uno è appunto Donato Mottola, di Noci, cui fa capo la Dmeco, che ha fornito moduli prefabbricati in mezza Puglia. «Io - dice in quella intercettazione Mercurio, riferendosi a Lerario e all’appalto per il campo Covid del Cara di Borgo Mezzanone che poi la Regione ha rescisso riconoscendo le irregolarità procedurali - gli dissi “fatti un indagine di mercato, non li devi prendere per forza da Dmeco (...) Non so perché quello si è innamorato di Dmeco». La Finanza ritiene che il motivo siano i soldi: i 20mila euro in contanti che Mottola ha messo tra i regali di Natale, il giorno prima che l’altro imprenditore arrestato, Luca Leccese, consegnasse a Lerario altri 10mila euro in contanti facendo scattare il fermo della Finanza.

Nei capi di imputazione su cui il procuratore Roberto Rossi e l’aggiunto Alessio Coccioli hanno chiesto il giudizio immediato di Lerario e dei due imprenditori, l’accusa ritiene che l’ex dirigente della Protezione civile abbia truccato gli appalti (tra cui quello per il Cara) a favore delle società di Leccese e Mottola. Utilizzando espedienti poi emersi a seguito dell’esame degli atti sequestrati dalla Finanza in Regione.

Una delle situazioni più clamorose è quella che riguarda la sede della Protezione civile nel nuovo aeroporto di Foggia, aggiudicata alla Edil Sella di Leccese a seguito di una procedura cui Lerario ha invitato 24 imprese, tra cui tre riconducibili all’imprenditore foggiano (tutte senza i requisiti specifici necessari). Ebbene, non solo i finanzieri ritengono di avere accertato che la commissione di gara ha aggiustato ex-post i punteggi per far sì che la Edil Sella superasse l’unica altra impresa partecipante (che aveva offerto un ribasso del 23,98% contro). Ma hanno verificato che, grazie a un trucco, Lerario avrebbe fatto recuperare alla Edil Sella il ribasso del 5% offerto in gara.

Ad aprile 2020, infatti, Lerario ha approvato il quadro economico dell’appalto commettendo un singolare errore. «A fronte dell’importo imponibile di 755.007,37 (soggetto ad un’Iva del 10%) - scrive la Finanza nell’informativa conclusiva -, viene indicata un’Iva errata (con aliquota del 15%) pari ad euro 113.251,10, anziché quella corretta del 10% pari a 75.500,74. Va quindi evidenziato che, nei fatti, il ribasso offerto in fase di gara dall’aggiudicataria dell’appalto, viene poi completamente assorbito dall’errata indicazione dell’Iva». Infatti poi «in sede di pagamento, l’Iva è stata correttamente calcolata con aliquota 10% ma l’impegno di spesa è rimasto quello sovrastimato». In questo modo all’impresa è stato liquidato «un importo superiore rispetto a quello dovuto pari ad euro 28.251,53».

Anche su quell’appalto, come in molti degli altri finiti sotto indagine, la Protezione civile ha poi fatto crescere la spesa totale da 755mila a oltre 1,2 milioni di euro attraverso due ordini di servizio in tre mesi. «Si può ipotizzare - scrive la Finanza - che le due varianti disposte siano in realtà parte di un unico lavoro e pertanto il relativo frazionamento è stato verosimilmente inteso ad aggirare il codice degli appalti». Lerario chiederà il giudizio abbreviato.

Scatterà il 16 giugno il processo per l’ex dirigente regionale e due imprenditori. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 aprile 2022.

I 30mila euro in contanti che Mario Lerario incassò a pochi giorni dal Natale 2021 dagli imprenditori Luca Leccese, di Foggia, e Donato Mottola, di Noci, non erano solo un regalo per le feste, ma soprattutto il corrispettivo di una corruzione che andava avanti almeno dal 2019. È per questo che l’ex capo della Protezione civile pugliese, arrestato in flagranza il 23 dicembre con 200 banconote da 50 euro tra le mani, avrebbe truccato almeno cinque appalti per 2,8 milioni a favore di Leccese e altrettanti per 2,5 milioni a favore di Mottola, aggiudicando loro gare che non avrebbero dovuto vincere. Ed è di questo che adesso tutti dovranno rispondere il 16 giugno davanti al Tribunale di Bari.

All’ex dirigente della Regione e ai due imprenditori è stata notificata ieri la fissazione del giudizio immediato cautelare disposta dal gip Anna Perrelli. Il procuratore Roberto Rossi e l’aggiunto Alessio Coccioli hanno scelto il percorso accelerato, consentito nei sei mesi dalle misure cautelari se gli imputati sono ancora in custodia (nel caso specifico, ai domiciliari). In questi mesi l’accusa è stata perfezionata ed è ora di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (l’arresto era avvenuto per corruzione impropria) anche grazie a una consulenza sugli appalti affidati alle società di Leccese (il 57enne che all’antivigilia di Natale fu registrato dalle microspie della Finanza mentre consegnava a Lerario 10mila euro) e a quelle di Mottola, 55 anni, che invece i suoi 20mila euro pensò bene di nasconderli in una «manzetta» di carne vantandosene pure al telefono («La mazzetta nella manzetta»).

Lerario, 49 anni, nato e residente ad Acquaviva, secondo l’accusa avrebbe affidato a Leccese la messa in sicurezza urgente della ex caserma Jacotenente di Vico del Gargano (85mila euro), la manutenzione della sala lettura della biblioteca Magna Capitana di Foggia (inizialmente 149mila euro, poi arrivati in totale a 226mila euro), la manutenzione della strada di accesso al ghetto di Rignano (180mila euro), la realizzazione della sede foggiana della Protezione civile (755mila euro, poi cresciuti di altri 504mila) e quella dell’insediamento per i migranti di Borgo Mezzanone (2,2 milioni). Tutti lavori giustificati con l’urgenza, e - dice la Procura - truccando le carte. Non solo perché sugli affidamenti diretti è obbligatoria la rotazione tra le imprese. Ma anche perché - ad esempio - per i lavori alla biblioteca sarebbero stati chiesti tre preventivi ad altrettanti operatori economici (Edil Sell.a, In Opera e Tecnoedge) «tutti riconducibili a Leccese», scegliendo poi il primo e affidandogli anche lavori aggiuntivi. Sono esattamente le stesse tre ditte invitate per l’appalto della sede della Protezione civile (nonostante in provincia di Foggia - annota la Procura - ce ne fossero 27 «che pur avendo entrambe le categorie Soa non erano invitate»): Edil Sell.a vince «solo a seguito di una nuova attribuzione di punteggi» necessaria per superare un altro concorrente, pagando poi una cifra più alta rispetto a quella di aggiudicazione e «arrotondando» con lavori supplementari per un altro mezzo milione. La solita Edil Sell.a è anche l’unica impresa locale invitata (in mezzo ad altre 22) per i lavori al Cara di Borgo Mezzanone, luogo che «poneva problemi per le imprese ubicate fuori regione». Un’impresa, quella di Leccese, che al pari di quella dell’altro imprenditore imputato non era nemmeno inserita nella white list (i controlli antimafia) della Prefettura.

La Dmeco Engineering di Mottola a marzo 2020 ha fornito i prefabbricati per la terapia intensiva covid del Perrino di Brindisi e per quella del Moscati di Taranto, tutti a trattativa privata: i primi affidati per 1,1 milioni e pagati poi 1,242 milioni, i secondi affidati per 803mila euro e pagati 901mila, «senza alcuna giustificazione di spesa rilevabile dagli atti». Stessa storia per i prefabbricati destinati ai reparti di emergenza covid e le strutture pre-triage dei Pronto soccorsi pugliesi, che dovevano costare rispettivamente 2,1 milioni e 285mila euro e sono invece stati pagati 2,383 milioni i primi e 291mila euro i secondi, o ancora per i container destinati all’associazione Anglat di Barletta, che nell’estate 2021 la Regione ha pagato 53.200 euro nonostante l’affidamento ne prevedesse 47mila. In più, dice l’accusa, Lerario fece pressioni su una funzionaria regionale affinché rilasciasse alla Dmeco una certificazione di esecuzione lavori necessaria ad ottenere «un’attestazione Soa (di categoria Os13 o Og11) il cui possesso avrebbe accresciuto di molto il valore dell’azienda di Mottola».

Le indagini sul «sistema Lerario» vanno avanti, concentrandosi in particolare sull’ospedale Covid della Fiera del Levante di Bari ma anche sugli altri lavori che l’ex dirigente ha affidato con i poteri di emergenza: gli indagati sono complessivamente più di 20. Nel frattempo ci sarà il processo per i primi due episodi davanti alla Prima sezione collegiale del Tribunale di Bari (presidente Marrone), dove la Regione dovrà costituirsi parte civile. L’immediato cautelare lascia agli imputati poco tempo per organizzare le difese. Anche per questo è probabile che sia Lerario (avvocato Michele Laforgia) che Leccese (avvocati Zangrillo e Ursitti) e Mottola (avvocati Bruno e Tolentino) possano tentare la strada del patteggiamento.

L’indagine della Finanza sulla Protezione Civile si allarga a tutti gli appalti. Nel mirino anche la fabbrica delle mascherine. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 aprile 2022.

BARI - In due settimane giorni la Guardia di Finanza ha portato via dalla Regione decine di faldoni di atti. Sono tutte le carte, nessuna esclusa, degli appalti assegnati con la firma dell’ex capo della Protezione civile pugliese, Mario Lerario, arrestato quattro mesi fa dopo aver incassato due tangenti e tuttora ai domiciliari. L’indagine coordinata dal procuratore Roberto Rossi e dall’aggiunto Alessio Coccioli ha deciso di passarli al setaccio tutti, partendo da quanto hanno accertato gli stessi uffici regionali: ogni singolo procedimento è infatti risultato viziato per qualche motivo.

Ed è per questo, ad esempio, che nel mirino sono finiti gli appalti per la ristrutturazione del teatro Kursaal di Bari e per la realizzazione della sala radio della Protezione civile di Castellaneta Marina, su cui la Regione ha disposto parziali annullamenti in autotutela. Ma per lo stesso motivo sono partiti anche gli accertamenti sulla fabbrica pubblica delle mascherine, un’altra «creatura» di Lerario fortemente voluta dal presidente Michele Emiliano. Dalle verifiche sono infatti emerse varie irregolarità sulle forniture di materiali, oltre che sulla completezza e rispondenza dei progetti alle necessità (è emerso ad esempio che una intera linea produttiva costata diverse centinaia di migliaia di euro non è mai stata utilizzata), per non parlare dei dubbi sulle consulenze (ad uno dei co-indagati di Lerario, l’imprenditore barese Sigismondo Zema, è stato affidato un incarico da 3.500 euro al mese come «direttore» della fabbrica). Tutti aspetti che la Finanza dovrà verificare insieme ai circa 200 atti di annullamento, revoca e contestazione che la task-force regionale (composta anche dai componenti del Nirs, il Nucleo ispettivo sanitario) ha predisposto dopo l’esame di tutti gli affidamenti effettuati con le procedure di emergenza dalla struttura di Lerario.

L’indagine è finora stata divisa in due parti. La prima riguarda le due accuse di corruzione mosse a Lerario in concorso con gli imprenditori Luca Leccese, di Foggia, e Donato Mottola, di Noci, che hanno ammesso di aver pagato mazzette (rispettivamente di 10 e 20mila euro) al dirigente regionale. La seconda parte si è concentrata in generale su una decina di appalti della Protezione civile, e in particolare sulla realizzazione dell’ospedale covid della Fiera del Levante (da cui tutto è cominciato dopo gli articoli che hanno illustrato l’aumento dei costi da 8,9 a oltre 25 milioni) e dello stesso Kursaal Santalucia di Bari. Dagli approfondimenti della Finanza sono emerse le presunte cointeressenze tra Lerario, il funzionario regionale Antonio Mercurio e alcuni degli imprenditori che hanno ottenuto gli affidamenti: la ristrutturazione di un immobile del dirigente, le cene e gli incontri. Il riesame degli atti effettuato dalla Regione ha fatto emergere i vizi del procedimento: appalti affidati senza preventivo impegno di spesa, illegittimo frazionamento degli affidamenti per evitare l’obbligo di gara d’appalto, mancato rispetto delle norme in materia di rotazione tra gli operatori economici. Tutte irregolarità che hanno portato, tra l’altro, alla sostituzione dei responsabili dei procedimenti e - in alcuni casi - anche a contestazioni disciplinari nei loro confronti.

Ospedale nella Fiera del Levante a Bari, nel mirino altre 10 aziende. Indagine sui subappaltatori. L’ipotesi: furono avvertiti prima della firma del contratto. La Regione avvia verifiche. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 febbraio 2022.

La realizzazione dell’ospedale covid in Fiera del Levante è (effettivamente) avvenuta a tempo di record, rispettando le scadenze contrattuali. Ma a due mesi dall’arresto in carcere dell’ex capo della Protezione civile pugliese, Mario Lerario, che di quella procedura è stato il deus ex machina, la Procura di Bari sta lavorando su una pista che rende un po’ più chiara l’accusa di turbativa d’asta e di turbata libertà degli incanti: chi ha lavorato sul cantiere dell’ospedale era così certo di vincere l’appalto da aver pre-avvertito i subappaltatori.

I nuovi accertamenti riguardano infatti una decina di ditte, con sede prevalentemente nelle zone di Acquaviva, Noci e Altamura, che hanno effettuato lavorazioni secondarie o forniture per il cantiere della Fiera del Levante. Alcuni piccoli imprenditori sono stati ascoltati come testimoni dalla Finanza, e avrebbero confermato una circostanza già emersa nei mesi scorsi: ovvero che erano stati preallertati con largo anticipo rispetto alla necessità di effettuare gli ordini dei materiali necessari a completare i lavori. Per esempio: all’epoca (gennaio 2021) le consegne di un determinato materiale necessario ad allestire le pareti mobili dell’ospedale richiedevano circa 90 giorni. Il relativo ordine sarebbe stato effettuato ancora prima della pubblicazione del bando della Protezione civile, tanto che la Regione aveva - per qualche strano motivo - anche acquisito le copie dei preventivi dalle stesse imprese che poi sarebbero state chiamate come subappaltatori.

L’appalto per l’ospedale «Grandi emergenze» della Regione è stato vinto dalla Cobar di Altamura (in Ati con la Item Oxygen) al termine di una gara a inviti cui ha preso parte solo un’altra società: pur avendo offerto il prezzo più alto (8,3 milioni a fronte di una base d’asta di 8,46 milioni) l’impresa pugliese ha vinto grazie a una valutazione migliore sulla qualità (nella commissione c’era, irritualmente, lo stesso Lerario). Il costo dell’opera è poi lievitato ufficialmente a 18,9 milioni, per via di cinque ordini di servizio firmati dal Rup, Antonio Lerario (indagato e nel frattempo sostituito) che hanno autorizzato opere inizialmente non previste come ad esempio i bagni costati da soli 2 milioni. Il conto finale è però molto più alto, perché nei mesi successivi alla conclusione dei lavori Lerario ha autorizzato ulteriori spese (dall’allestimento di una reception ai parcheggi, dall’acquisto di altre attrezzature fino alla manutenzione) per diversi milioni di euro.

L’indagine della Procura di Bari, coordinata dal procuratore Roberto Rossi e dall’aggiunto Alessio Coccioli, riguarda da un lato la corruzione (le due mazzette con cui Lerario è stato sorpreso quasi in flagranza) e dall’altro le irregolarità negli appalti della Protezione civile. A partire, appunto, da quello dell’ospedale della Fiera. Il 7 febbraio la Finanza ha effettuato perquisizioni nelle sedi della Cobar e di altre imprese coinvolte nei lavori: si è così appreso che il procuratore della Cobar, Domenico Barozzi, 31 anni, è indagato per concorso in turbata libertà del procedimento (la costruzione sartoriale di un bando di gara). I militari hanno anche sequestrato l’iPhone e l’iPad del patron dell’impresa altamurana, Vito Barozzi, che allo stato non risulta indagato. Dopo le perquisizioni la Cobar ha respinto seccamente l’accusa di aver commesso qualunque tipo di irregolarità: «È fuori discussione - secondo il professor Vito Mormando, avvocato di Domenico Barozzi - che l’opera che è stata realizzata secondo le indicazioni contenute nell’appalto, in tempi rapidissimi e con il più elevato standard qualitativo». 

Oltre alla turbativa, alcuni degli indagati (tra cui Mercurio e Lerario) rispondono anche di falso ideologico: l’ipotesi è in questo caso che abbiano attestato falsamente le condizioni necessarie a ricorrere alle procedure semplificate previste nei casi di emergenza. Le stesse verifiche effettuate internamente dalla Regione hanno infatti accertato irregolarità formali, a partire dal progetto posto a base di gara che sarebbe stato carente tanto da richiedere poi integrazioni fatte a colpi di ordini di servizio. Ulteriori irregolarità riguarderebbero altri affidamenti effettuati da Lerario in carenza di presupposti piuttosto che senza rispettare le procedure (ci sono parecchi contratti senza codice Cig, obbligatorio per legge): in alcune situazioni la Regione ha provveduto alla rescissione contrattuale. E ora bisogna decidere cosa fare, perché l’ospedale della Fiera è stato realizzato in deroga rispetto alle norme edilizie e urbanistiche: alla scadenza dell’emergenza sarà a tutti gli effetti un’opera abusiva.

Le tangenti e gli appalti di Lerario capo della Protezione civile ai soliti “amici degli amici”. Il Corriere del Giorno il 27 Gennaio 2022.

La politica che non ci sta fa sapere di non voler mollare il tema. Il M5S sollecita la massima trasparenza sulle spese . Fratelli d’Italia con Ignazio Zullo chiama in causa la giunta, e Saverio Tammacco (Gruppo misto) che fa notare ripetutamente la “discrasia” cioè la non corrispondenza tra gli importi delle spese portate lo scorso luglio in commissione da Lerario e quelle presentate adesso nelle ultime ore dal suo successore

di Redazione Cronache

Dal contenuto della prima informativa della Guardia di Finanza depositata a ridosso di Natale alla Procura di Bari sul “sistema Lerario” emerge “La carenza di rotazione fra gli imprenditori assegnatari di appalti dalla Protezione civile è emersa già durante la prima fase delle indagini, focalizzata sull’edificazione dell’ospedale Covid alla Fiera del Levante” evidenziando la circostanza che “Taluni imprenditori sembrano poter vantare rendite di posizione in relazione al numero di affidamenti, di cospicuo valore economico, ottenuti sfruttando la discrezionalità della pubblica amministrazione nei casi di procedura negoziata”, annotano ancora gli investigatori”. 

Affermazioni che si trovano allineate alla documentazioni presentate dal nuovo capo della Protezione civile, Nicola Lopane, alla Prima commissione regionale, dalle quali è venuta alla luce la ricorrenza delle ditte incaricate dal “sistema Lerario” e in cui compaiono una serie spese sostenute durante l’emergenza Covid che non corrispondono con quelle presentate pochi mesi fa dall’ex dirigente della protezione Civile Antonio Mario Lerario ai consiglieri . Ma non solo. Infatti analizzando e verificando nomi e numeri emerge che delle voci di spesa sarebbero sproporzionate rispetto alle reali attività svolte.

Questo modus operandi era applicato e reiterato anche con altri imprenditori, secondo le evidenze agli atti degli investigatori, con i quali Lerario intratteneva “abituali rapporti di frequentazione“, che sono stati documentati grazie a servizi di pedinamento e dall’ ascolto delle conversazioni intercettate Legami e rapporti che gli avrebbero fatto superare la legge che invece prevede ed impone la rotazione degli affidamenti, quando si utilizzano procedure semplificate come nell’emergenza, e vieta testualmente di invitare “il contraente uscente” di un determinato servizio o fornitura. Il “sistema Lerario” disapplicava queste norme, facendo sedere alla remunerativa tavola degli appalti della Protezione civile regionale sempre le stesse aziende. 

Le aziende “preferite” da Lerario

La Item Oxygen di Altamura che in raggruppamento con la Cobar ha realizzato l’ospedale Covid alla Fiera della Levante, alla quale sono stati versati 3 milioni di euro per apparecchiature per la telemedicina, la cooperativa sociale Aliante di Bari onnipresente nei servizi domiciliari di tamponi dell’ASL Bari che è costato circa mezzo milione di euro, la Pubbliange Group, Spazio Eventi e Romano Exhibit) società queste alle quali Lerario aveva affidato degli appalti “spacchettandoli” sempre per l’allestimento degli hub, come si è scoperto da un’intercettazione delle Fiamme Gialle, in linea a quanto emerso dagli atti illustrati ai consiglieri regionali dai quali compaiono 488mila euro alla Pubbliange, 280mila euro alla Spazio Eventi e 391mila euro alla Romano. 

Presente anche la società Elio Zema il cui attuale titolare Sigismondo Zema è stato oggetto perquisito il 24 dicembre), che ha incassato 18mila euro per attrezzature dell’hub vaccinale la cui spesa totale nei due anni si è attorno ai 2 milioni di euro e 28mila per i frigoriferi. Sono spuntati fuori 167mila euro per la “manutenzione” di un magazzino non identificato oltre a numerosi affidamenti per gli arredamenti della la sede della Protezione civile e della fabbrica di Dpi.

Fra le varie imprese a cuore del “sistema Lerario”, le aziende chiamate più frequentemente a realizzare strutture prefabbricate di emergenza, costate 9,5 milioni di euro in due anni compaiono la Cobar e la Dmeco Engineering aziende presenti anche nel capitolo di spesa per l’acquisto di dpi. 

Le contraddizioni nascoste al Consiglio Regionale

Persino nei rapporti con le associazioni di volontariato emergono le incongruenze notate in Commissione sulle spese per altri ulteriori 2 milioni di euro. Per non parlare sugli oscuri 28,8 milioni di euro utilizzati per acquisti all’estero, dal noleggio di aerei cargo, agli accordi con poco trasparenti fornitori cinesi per portare i Dpi (le mascherine) in Puglia. Anche in questa circostanza guarda caso ricorrono molto spesso alcuni nomi ricorrenti come quello della Eifs Belt and Road, dalla quale sono stati acquistati materiale e macchinari per la produzione, per un conto totale di 18,4 milioni di euro.

Il presidente della commissione, Fabiano Amati, ha preannunciato che l’accertamento su voli dall’estero è qualcosa su cui “sarà necessario approfondire ulteriormente gli atti, poiché potrebbero presentare modalità diverse da quelle praticate negli affidamenti nazionali”, chiedendo al nuovo dirigente della Protezione Civile di fornire ulteriori dati sui preventivi di ogni appalto ed affidamento diretto.

Le spese per i Covid Hotel (fra vitto ed alloggio) arrivano a 7,4 milioni di euro . Anche in questo come di consueto sono stai assegnati degli affidamenti diretti per garantire ristorazione e pulizia negli alberghi. Nel primo caso l’appalto viene garantito da Il Casolare di Puglia, mentre nel secondo caso è la PuLisan che si occupa delle pulizie. Senza dimenticare 450mila euro versate alla Makingroup per garantire i pasti al personale in servizio presso l’ospedale Covid alla Fiera del Levante.

La politica che non ci sta fa sapere di non voler mollare il tema. Il M5S sollecita la massima trasparenza sulle spese per Covid hotel, hub vaccinali e associazioni di volontariato. Fratelli d’Italia con Ignazio Zullo chiama in causa la giunta: “Possibile che non sapeva e chi ha controllato che le forniture di beni e servizi siano arrivate tutte a destinazione?” a cui si aggiunge il consigliere Saverio Tammacco (Gruppo misto) che fa notare ripetutamente la “discrasia” cioè la non corrispondenza tra gli importi delle spese portate lo scorso luglio in commissione da Lerario e quelle presentate adesso nelle ultime ore dal suo successore Nicola Lopane.

Regione Puglia, tangenti appalti Covid: in aula il racconto delle mazzette. Al Tribunale di Bari avviato ascolto dei testimoni dell’accusa. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Novembre 2022.

La consegna del pacco contenente la presunta tangente da 10mila euro che fu consegnata il 23 dicembre 2021 all’allora dirigente della Protezione civile pugliese, Mario Lerario, dall’imprenditore Ciro Giovanni Leccese, e l’intercettazione della conversazione tra l'imprenditore Donato Mottola e la moglie nella quale l’uomo 'confessava' alla donna, il 22 dicembre 2021, di aver consegnato a Lerario una mazzetta da 20mila euro, sono state al centro della deposizione del luogotenente della Gdf Giacomo Gargano al processo-stralcio per corruzione a carico di Mottola. Il giudizio è in corso dinanzi al Tribunale di Bari che ha avviato oggi l’ascolto dei testimoni dell’accusa. Mottola è accusato di corruzione per una presunta tangente da 20mila euro consegnata a Lerario il 22 dicembre 2021, all’interno di un cesto natalizio con un pezzo di manzo pregiato, in cambio - ritiene la Procura di Bari - di appalti legati anche all’emergenza Covid. Per questa vicenda Mottola è stato arrestato il 26 dicembre 2021 assieme a Leccese ed entrambi sono tuttora agli arresti domiciliari. Anche Lerario, arrestato in flagranza di reato il 23 dicembre 2021 mentre incassava la tangente da 10mila euro, dopo un periodo di detenzione in carcere, è attualmente 'ai domiciliarì e viene giudicato con rito abbreviato assieme a Leccese.

A carico di Mottola ci sono, oltre ai tre interrogatori resi dall’imputato, alcune intercettazioni telefoniche. Una di queste è stata ricostruita oggi in aula dal teste Gargano. Si tratta della conversazione nella quale l'imprenditore diceva alla moglie di aver consegnato a Lerario "la manzetta", intendendo un pezzo di carne particolarmente pregiato, e «la mazzetta», cioè i 20mila euro ritenuti dagli inquirenti una tangente. Il teste ha riferito che, subito dopo l'arresto di Lerario, fu compiuta una perquisizione nell’abitazione del dirigente dove furono trovati oltre 19mila euro in contanti: 11mila in una cassaforte e la restante nel comodino della camera da letto. Ha inoltre riferito delle bonifiche che furono compiute negli uffici di Lerario alla Regione Puglia alla ricerca delle microspie, alcune delle quali furono trovate dai tecnici dell’indagato. Nel processo è costituita parte civile la Regione Puglia. L’udienza è stata aggiornata al 12 gennaio 2023 per l’ascolto dei consulenti del pm e di altri testimoni d’accusa.

Sanità, ex dg Dattoli indagato per gli appalti truccati a Foggia nominato direttore sanitario al Miulli. La Repubblica il 7 gennaio 2022.Vitangelo Dattoli, già direttore generale e poi commissario del Policlinico di Bari, è stato agli arresti domiciliari fino al 30 dicembre per l'inchiesta su turbativa d'asta agli ospedali Riuniti di cui era dirigente. La scelta dell'ente ecclesiastico: "Figura di comprovata esperienza".  

L'Ente Ecclesiastico Ospedale generale tegionale Miulli di Acquaviva delle Fonti (Bari) "sta procedendo alla nomina" di Vitangelo Dattoli come direttore sanitario della struttura. Dattoli, ex direttore generale del Policlinico Riuniti di Foggia, è stato detenuto agli arresti domiciliari dal 13 al 30 dicembre nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Foggia su presunti episodi di turbativa d'asta relativi ad una gara d'appalto per il sevizio aereo di trasporto organi ed equipe medica. Dopo le dimissioni da dg a Foggia e la revoca della misura cautelare, pur rimanendo indagato, l'ospedale Miulli ha "ripristinato" con lui "il rapporto di servizio". 

"Si precisa - spiega il Miulli in una nota - che il dottor Vitangelo Dattoli è dipendente dell'ente, ove ricopriva il ruolo di direttore dei presidi distaccati. Dal settembre 2002 ha fruito di periodi di aspettativa in relazione ai plurimi incarichi rivestisti all'interno di realtà sanitarie della Regione Puglia, aspettativa interrotta con le recenti dimissioni dell'incarico di direttore generale del Policlinico Ospedale Riuniti di Foggia. Dovendo selezionare il nuovo direttore sanitario del Miulli, come da prassi la direzione generale del nosocomio di Acquaviva ha cercato all'interno del proprio organico la professionalità idonea a ricoprire tale ruolo, individuandola nella figura di comprovata esperienza del dottor Dattoli". 

"L'incarico di direttore sanitario - precisa il difensore di Dattoli, l'avvocato Antonio La Scala - non ha nulla a che vedere con il ruolo di direttore generale che ha ricoperto a Foggia, non ha i rapporti con la pubblica amministrazione. Dattoli ha ripreso il lavoro che faceva prima degli incarichi pubblici".

Appalti truccati: a giudizio Dattoli, l'ex dg del Riuniti di Foggia e altri 8. Al centro dell’inchiesta l'Alidaunia, società di trasporto aereo operativa sul territorio dagli anni 70, che vinse la prima gara, poi revocata in seguito all’inchiesta, e perse la seconda. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2022

Il gup del Tribunale di Foggia, Antonio Sicuranza, ha rinviato a giudizio gli otto imputati, tra cui l’allora direttore generale del policlinico di Foggia, Vitangelo Dattoli, nell’inchiesta 'Icaro' sulle gare bandite da Asl Foggia e Policlinico Riuniti, tra il 2019 e il 2020, per l'affidamento del servizio quadriennale di elisoccorso da 36 milioni di euro e il servizio quadriennale di trasporto di organi da 2 milioni e 600 mila euro.

Al centro dell’inchiesta l'Alidaunia, società di trasporto aereo operativa sul territorio dagli anni 70, che vinse la prima gara, poi revocata in seguito all’inchiesta, e perse la seconda. La procura, che chiese e ottenne gli arresti domiciliari per sei indagati nel blitz del 13 dicembre del 2021, contesta agli 8 imputati, a vario titolo, i reati di turbativa d’asta, falsità ideologica e rivelazione dei segreti di ufficio. Secondo l’accusa era stata «creata una corsia parallela e riservata per rendere l’Alidaunia predestinata ad aggiudicarsi le gare all’insaputa dei concorrenti».

A sei mesi (pena sospesa) è stato condannato con rito abbreviato Attilio Dal Maso, dipendente del policlinico. Per gli altri otto imputati il processo inizierà il prossimo 12 gennaio a Foggia. Oltre all’ex direttore Dattoli, saranno a processo Roberto e Roberta Valentina Pucillo, padre e figlia, rispettivamente amministratore unico e procuratore di Alidaunia; Antonio Apicella, cognato di Pucillo; Rita Acquaviva, funzionario Asl Foggia; Costantino Quartucci, Salvatore D’Agostino e l’avvocato Luigi Treggiari. 

 I “fuorilegge” di Emiliano, novello garantista. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 2 gennaio 2021. Michele Emiliano dovrebbe secondo molti, e noi fra questi, iniziare a questo punto a porsi qualche domanda sui metodi con cui seleziona e sceglie il management e le persone di sua fiducia, e seguire con maggiore più coraggio gli ideali di giustizia che dovrebbero ispirare un Magistrato seppure in aspettativa. Nessuno va ritenuto colpevole sino ad una sentenza definitiva, ma in presenza di flagranza di reato o di ammissione dei reati commessi, il garantismo è inutile e peraltro dannoso. Nei suoi comizi in occasione delle campagne elettorali ho spesso sentito Michele Emiliano autoproclamarsi di “custode” della legalità, a partire dal noto processo “Ambiente Svenduto” sull’ ILVA di Taranto, così come l’ho visto arrampicarsi sugli specchi delle eccezioni procedurali dinnanzi alla Commissione Disciplinare del Csm guidata dal suo suo compagno di partito Legnini all’epoca dei fatti vicepresidente dell’organismo di autocontrollo…della Magistratura, che lo processava per il suo impegno “politico” che è notoriamente vietato ad un magistrato in servizio (seppure in aspettativa).

Ma quel suo millantato inno alla legalità si è infranto come un’onda sugli scogli, circondandosi di persone che tutto hanno fatto fuorchè rispettare la legalità. Basta andare un pò indietro nel tempo, e ricordarsi quanti assessori si sono dimessi perchè coinvolti in vicende giudiziarie poco chiare. Come quella del consigliere regionale del Pd Michele Mazzarano, entrato nella 1a giunta regionale di Emiliano, nonostante un processo da cui si è salvato per intervenuta prescrizione. I fatti risalgono al 2008 quando Mazzarano, originario di Massafra (Taranto), era vicesegretario regionale del Partito Democratico. La vicenda riguarda i diecimila euro che Gianpaolo Tarantini (il noto “Gianpi” che procurava le escort a Berlusconi) aveva consegnato nell’aprile 2008 a Michele Mazzarano, per pagare il concerto di Eugenio Bennato in occasione dell’evento di chiusura della campagna elettorale del Pd a Massafra per le elezioni politiche. 

Il gup del Tribunale di Bari Sergio Di Paola a settembre del 2014, cioè un anno prima delle Elezioni Regionali del 2015, aveva  deciso per il rinvio a giudizio di Mazzarano ed il il processo a suo carico  nei confronti  di Mazzarano, e dell’imprenditore (fallito) Gianpaolo Tarantini, entrambi accusati di illecito finanziamento ai partiti, iniziato tre mesi dopo,  cioè 9 dicembre 2014. Mazzarano venne inoltre  rinviato a giudizio  anche per un episodio di millantato credito , mentre sempre per un altro millantato credito, il Giudice si dichiarò incompetente e dispose l’invio degli atti riguardati il politicante massafrese alla Procura della Repubblica di Taranto.

 “Dopo due anni di indagini e altrettanti di udienza preliminare – dichiarò Mazzarano – finalmente un giudice di merito potrà raccogliere le prove che confermeranno la mia correttezza e la mia totale innocenza. Rimane l’agonia mia e delle persone a me più care per questi lunghi cinque anni di vera e propria via crucis. Quando la giustizia agisce così, rovina la vita delle persone oneste“. Peccato che il “giudice di merito” abbia potuto soltanto applicare l’intervenuta prescrizione, e Mazzarano  non abbia rinunciato alla prescrizione e si sia così salvato, da una condanna pressochè certa ! Che è arrivata più tardi per altre vicende giudiziarie.

Infatti Mazzarano ha subito una pesante condanna a 9 mesi ma sopratutto a 5 anni di sospensione dal diritto elettorale e da tutti i pubblici uffici, con la sospensione della pena, il giudice monocratico Paola D’amico ha emesso lo scorso 26 maggio 2021 una sentenza nei confronti di Michele Mazzarano, colpevole di aver promesso lavoro in cambio di voti e sostegno durante la campagna elettorale per le Regionali 2015. L’accusa rappresentata dal procuratore aggiunto facente funzione Maurizio Carbone , aveva chiesto 1 anno di reclusione.

Appena eletto Emiliano nominò assessore regionale della Puglia all’Industria turistica e culturale, il tarantino Gianni Liviano che dopo pochi mesi dalla sua nomina dovette consegnare una lettera di dimissioni al presidente della Regione, Michele Emiliano, dopo la pubblicazione di un servizio del quotidiano La Repubblica in cui si parlava di un appalto per organizzare gli Stati generali della cultura affidato dalla Regione con procedura diretta ad una società esterna di cui era responsabile un amico di Liviano, che aveva partecipato all’organizzazione e finanziamento della sua campagna elettorale .

L’appalto per l’organizzazione degli Stati generali della Cultura ammontava a 39mila euro ed era stato assegnato, con un ribasso di appena duemila euro, alla societa’ ‘Dijinima kiki consulenti & partners srl’,  di cui è responsabile Massimo Calò (il quale in realtà lo aveva  subappaltato e fatto realizzare dalla società Software s.n.c. di Taranto) , il quale aveva organizzato con Liviano numerosi eventi politico-culturali durante il corso della sua campagna elettorale.

A seguire fu il turno dell’ ex assessore Filippo Caracciolo, già capogruppo del Pd alla Regione Puglia indagato nel 2018 per corruzione e turbativa d’asta nell’ambito di una indagine della Procura di Bari su una gara d’appalto per 5,8 milioni di euro per la costruzione di una scuola media a Corato, nel Barese, nei confronti del quale la pm Savina Toscani ne ha chiesto il rinvio a giudizio, al termine dell’inchiesta della Guardia di finanza nata come costola di quella sugli appalti truccati all’Arca Puglia. Lo scorso gennaio 2021 la Gip Ilaria Casu ha fissato l’udienza per l’inizio di quest’anno.

Subito dopo è stato il turno dell’ ex assessore regionale Giovanni Giannini, che secondo la Guardia di finanza e Carabinieri sarebbe stato coinvolto in un episodio di corruzione che lo coinvolgeva con un imprenditore di Polignano a Mare, Modesto Scagliusi, titolare del noto ristorante ‘Grotta Palazzese‘ e del salottificio Soft Line srl di Modugno. Quest’ultimo avrebbe – secondo quanto emerso dalle indagini – corrotto Giannini con arredi domestici per la figlia dell’amministratore, “in cambio del suo interessamento per agevolare pratiche in corso con la Regione a beneficio del ristorante, riguardanti un finanziamento regionale pari ad oltre 2 milioni di euro.“

Per arrivare ai nostri giorni con l’eclatante arresto di Antonio Mario Lerario, capo della Protezione civile in Puglia, preceduto pochi giorni prima dal direttore generale degli Ospedali riuniti di Foggia Vitangelo Dattoli, a lungo “osannato” dirigente del settore sanità della Regione, che era stato nominato da Emiliano dapprima commissario al Policlinico di Bari e per questo aveva collaborato alla realizzazione dell’ospedale Covid alla Fiera del Levante. L’ospedale per la cui realizzazione con costi raddoppiati è finito in manette Lerario.

Un’altra “perla” delle nomine di Emiliano è quella del manager lucano Pietro Quinto, ex direttore generale dell’Asm e dirigente dell’attività territoriale dell’azienda materana condannato a due anni e mezzo di carcere per la cosiddetta “Sanitopoli” lucana. il quale non pensava a doversi preoccupare del proprio futuro perché Emiliano lo ha recentemente nominato commissario dell’istituenda azienda sanitaria per la prevenzione della regione. Nomina “congelata” dopo la condanna. In ogni caso essere nominato al vertice di qualcosa che non esiste ancora dovrebbe far riflettere sullo “stipendificio” di Emiliano utilizzando i soldi dei contribuenti pugliesi.

Sempre per restare sull’attualità è necessario soffermarsi su un altro “nominato” da Michele Emiliano: è il caso di Gianfranco Grandaliano indagato nell’ agosto 2020 perché accusato di essersi fatto pagare il ricevimento per il suo cinquantesimo compleanno da un imprenditore del settore, e ciò nonostante riconfermato da Emiliano all’ Ager l’agenzia regionale pugliese che si occupa dei rifiuti, con una proroga di tre anni del contratto nonostante sia coinvolto in un’inchiesta della Procura di Bari.

Lo scorso 6 luglio 2020 è stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini e la pm Chiara Giordano aveva chiesto gli arresti domiciliari nei confronti degli indagati. Misura cautelare che è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari, Marco Galesi che si è soffermato sulla condotta di Grandaliano scrivendo nel provvedimento che “egli ha comunque venduto la propria funzione anticipando ai vertici della Er. Cav. srl la preziosa notizia relativa che di lì a qualche giorno avrebbe emesso un bando per finanziamenti di cui l’impresa privata avrebbe potuto beneficiare, in evidente violazione dei principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione“. Dopo il rigetto di tale richiesta da parte del Gip, a fine settembre, ha insistito, proponendo ricorso al Riesame: insistendo sulla richiesta di arresto.

Va ricordata in conclusione l’inchiesta della Procura di Bari sui voti comprati a 50 euro ciascuno a Triggiano che vede indagato Sandro Cataldo a cui viene contestata dalla procura di Bari il reato di “associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale“. Cataldo è il marito dell’ attuale assessore regionale ai trasporti Anita Maurodinoia, definita “Lady preferenze” appellativo sulla cui origine adesso più di qualcuno ha un ragionevole dubbio .

Non c’è da meravigliarsi se ormai a questo punto alle urne a votare si presenta solo la metà della popolazione pugliese. Ha ragione chi sostiene che quando la “fedeltà” viene valorizzata più del merito e delle competenze, quando la spasmodica ricerca del consenso prevale sulla qualità del buon governo. 

Prendere i voti di chi non si fida più dei partiti attraverso l’uso di molteplici liste spacciate come civiche scavalcando ideologie, coerenza, impegno politico e civile in nome di una politica che ha trovato la necessaria e redditizia folgorazione sulla strada del potere.

Michele Emiliano dovrebbe secondo molti, e noi fra questi, iniziare a questo punto a porsi qualche domanda sui metodi con cui seleziona e sceglie il management e le persone di sua fiducia, e seguire con maggiore coraggio gli ideali di giustizia che dovrebbero ispirare un Magistrato seppure in aspettativa. Chiaramente nessuno va ritenuto colpevole sino ad una sentenza definitiva, ma in presenza di flagranza di reato o di ammissione dei reati commessi, il garantismo è pressochè inutile e peraltro dannoso. Qualcuno lo spieghi ad Emiliano.

·        Succede a Bari.

La Regina Bona. Il prof. Babudri ne fa un ritratto sulla Gazzetta. Annabella De Robertis D'Alò su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Novembre 2022.

«Sono passati 400 anni dalla morte della regina Bona»: il 20 novembre 1957 «La Gazzetta del Mezzogiorno» dedica un lungo articolo, a firma dello studioso Francesco Babudri, alla duchessa di Bari, regina di Polonia: Bona Sforza. «Era nata a Vigevano, in quel di Pavia, il 26 gennaio 1493 da Gian Galeazzo Sforza (duca spodestato di Milano, vittima dello zio Lodovico il Moro che poi pagherà cara la sua azione proditoria degna della Caina dantesca) e della leggiadra, coltissima e altera Isabella d’Aragona, figlia di Alfonso II, re di Napoli».

Dopo alcuni anni trascorsi tra Pavia e Milano, Bona Sforza arriva nella città pugliese nel momento in cui sua madre prende possesso del ducato di Bari e vi si insedia con un largo seguito di dame e funzionari milanesi e napoletani. L’educazione di Bona fanciulla si svolge, dunque, con la guida di illustri letterati. «Bari ha su questa donna stupenda diritti di affetto, di dolcezza e di ospitalità. [...] Salvo le saltuarie sue soste a Napoli, la principessina visse a Bari e a Bari allietò con la sua presenza le feste intellettuali, che sua madre Isabella dava nel castello comunale detto poi normanno-svevo, e crebbe bella e colpita al fulgore del bel cielo di Bari».

Il 6 dicembre 1517, nel giorno della festività di san Nicola , si celebrano a Napoli le nozze per procura con Sigismondo I Jagellone, re di Polonia: Bona si trasferisce, pertanto, per alcuni anni a Cracovia, ma da lì continua a occuparsi dei feudi italiani ereditati dalla madre Isabella, morta nel 1524. A Bari attua un intenso programma di opere pubbliche: vengono ristrutturate le mura, ampliato il torrione di San Domenico, edificati il bastione di Santa Scolastica e il fortino di Sant’Antonio, a guardia del molo; sono costruite cisterne, fontane, palazzi pubblici ed edifici sacri.

Il 13 maggio 1556 Bona torna definitivamente a Bari, accolta dal popolo festante, con un carico di di tesori: oreficerie, arazzi, tappeti, paramenti sacri offerti alla basilica di San Nicola e ad altre chiese del ducato. A 63 anni, si ammala gravemente: si diffondono voci su un probabile avvelenamento. Il 19 novembre 1557 Bona Sforza muore nel Castello di Bari. «Come duchessa di Bari, Bona ha completato con la madre sua Isabella una delle più belle parentesi storiche delle vicende baresi: una vera aurora, in cui parve rivivere l’era fredericiana, e che dopo Bona doveva lungamente impallidire sotto la dominazione spagnola e austriaca dal 1557 al 1734. Ebbe ragione il non mai abbastanza compianto Francesco Carabellese di affermare: “con Bona Sforza la storia di Bari finisce”», conclude Babudri.

Ancora un’inchiesta inutile della procura di Bari. Archiviazioni per l’ on. Stefanazzi, sua moglie ed i fratelli Ladisa. Redazione CdG 1947 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Novembre 2022.

I finanzieri perquisirono la sede della Ladisa e gli uffici di una società di formazione a Lecce dove si era svolto il corso alla ricerca di prove che non sono mai state nè reperite nè tantomeno accertate.

Ritenendo infondata la notizia di reato, Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bari, dr.ssa Angela Salerno, ha condiviso ed accolto ieri la richiesta di archiviazione del procedimento penale a carico di Claudio Michele Stefanazzi, ex capo di gabinetto del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ed attuale deputato eletto nelle liste del Pd, di sua moglie Milena Rizzo e degli imprenditori baresi Sebastiano e Vito Ladisa.

Le indagini della Guardia di Finanza coordinate della pm barese Savina Toscano ipotizzavano le accuse dei reati di “truffa aggravata” ed “abuso di ufficio”, per la gestione di un Pfa (piano formativo aziendale) cioè di un corso di formazione negli anni 2016-2018 , finanziato dalla Regione Puglia e gestito, secondo l’accusa, da Milena Rizzo, moglie di Stefanazzi. I finanzieri perquisirono la sede della Ladisa e gli uffici di una società di formazione a Lecce dove si era svolto il corso alla ricerca di prove che non sono mai state nè reperite nè tantomeno accertate. Tutto si era svolto legalmente.

Il Piano Formativo Aziendale è uno strumento di finanziamento di iniziative di formazione della Regione Puglia a beneficio di tutte le aziende per la riqualificazione delle competenze dei propri lavoratori. Il bando in questione è a sportello, cioè non sottoposto a scadenze, e i requisiti di ammissibilità delle imprese sono: essere micro, piccola media o grande impresa secondo la definizione comunitaria; garantire il cofinanziamento obbligatorio a carico dell’azienda previsto nel bando; presentare la documentazione amministrativa e contabile prevista dal l’istruttoria (tra cui certificato antimafia); presentarla secondo le modalità telematiche previste dall’avviso. Tutti coloro che richiedono un PFA e che rispettano i requisiti menzionati, vengono finanziati. Tutta la documentazione relativa al piano, ovvero i calendari dell’attività di formazione, l’indicazione delle sedi di svolgimento, dei docenti, dei discenti, del personale coinvolto oltre alla descrizione del piano formativo e documentazione amministrativo/contabile sono inseriti e custoditi in una piattaforma informatica della Regione Puglia, quali atti pubblici. Contestare la effettività dell’attività formativa effettuata significherebbe coinvolgere nell’eventuale reato una miriade di pubblici funzionari.

l’on. Claudio Michele Stefanazzi ex capo di gabinetto della Regione Puglia

“Stasera, appena rientrato come ogni sera a Lecce da Bari, sono stato raggiunto da una telefonata di un giornalista che mi chiedeva notizie di una indagine a mio carico e di una perquisizione avvenuta presso la sede della società dove lavorava, fino ad un anno fa, mia moglie. Non avendone avuto notizia mi sono informato ed effettivamente mi è stato riferito che, stamattina la Guardia di finanza si è recata presso la società. Ho così scoperto che io e mia moglie siamo indagati, senza però aver avuto alcuna notifica in merito. Io sarei accusato di essere “amministratore di fatto” della società. Ovviamente non sono mai stato amministratore di fatto di quella società. Ci mancherebbe” commentò a suo tempo con giustificata rabbia ed amarezza Stefanazzi.

Resta da chiedersi a quante indagini, perquisizioni inutili delle forze dell’ordine disposte da qualche magistrato, dovremo assistere ? L’ atto giudiziario che riguardava Stefanazzi e sua moglie era avvenuto a 150 km da Bari, quindi commentò Romanazzi “esclusa la accidentale scoperta da parte di qualche passante occasionale, debbo constatare che, ancora una volta, la stampa viene a conoscenza di vicende che riguardano una sfera molto riservata della vita di ognuno di noi, prima dei diretti interessati”.

Adesso per fortuna con la riforma Cartabia verranno analizzate le indagini dei pubblici ministeri ed il numero dei processi portarti a termine con rinvio a giudizio, parametri sui quali si baseranno le valutazioni sull’operato delle procure. Ed i numeri non tengono conto della “cordata” o corrente di appartenenza…è arrivato il momento di valutare il lavoro ed i meriti dei magistrati, e non di che corrente sono ! Redazione CdG 1947

Quando «si jazzava» nei tempi di guerra. Non ci furono solo i concerti per l’Eiar. Tra i tanti eventi anche un tour pugliese di Frank Sinatra nel giugno ’45. Ugo Sbisà su La Gazzetta del Mezzogiorno l’08 Novembre 2022.

La rubrica «La Macchina del Tempo – Accadde oggi», curata su queste pagine dalla brava Annabella De Robertis, ha ricordato nei giorni scorsi i concerti che, a cura dell’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche poi trasformatosi in Rai, si tennero al teatro Piccinni di Bari a partire dalla fine del 1943. Per l’occasione, l’Eiar aveva allestito una propria orchestra sinfonica che tenne concerti radiodiffusi affidati ad alcuni tra i principali musicisti pugliesi dell’epoca. Fra i tanti, ci piace ricordare la violinista di Martina Franca Gioconda De Vito, senza dubbio tra le «signore dell’archetto» del Novecento europeo.

Il motivo di questa vivacità culturale è presto detto. Com’è noto, Bari venne liberata dagli americani il 15 settembre del 1943 e più o meno contemporaneamente presero il via le trasmissioni dell’ex Eiar, ribattezzata dopo la Liberazione «Radio Italia Libera» e successivamente trasformatasi in Radio Bari, un’emittente che, tra le altre cose, svolse un ruolo fondamentale anche per la diffusione della musica jazz in Italia. In molti casi, appunto, le trasmissioni proponevano musica eseguita dal vivo, ora dalla grande orchestra di musica leggera diretta dall’indimenticato maestro altamurano Carlo Vitale (1912 – 1989), futuro animatore delle stagioni liriche baresi e salentine, ora invece da complessi di estrazione più squisitamente jazzistica come ad esempio quello guidato dall’indimenticabile pianista barese Bruno Giannini (1919 – 2001).

Nello stesso periodo, del resto, l’attività di intrattenimento a favore delle truppe americane era particolarmente intensa e andava ben oltre le semplici trasmissioni radiofoniche, comprendendo anche spettacoli con la partecipazione artisti statunitensi. È il caso di un ancora poco noto – da questa parte dell’Oceano - Frank Sinatra che, giunto in Italia ai primi del mese di giugno del 1945, tenne ben due concerti in Puglia, esibendosi prima in un hangar dell’aereoporto di Foggia, città che era stata pressoché rasa al suolo dai bombardamenti, quindi anche a Bari, al Petruzzelli. E sempre durante l’occupazione, giunsero a Bari anche le Andrews Sisters, Marlene Dietrich e formazioni di jazzisti statunitensi.

Una testimonianza preziosa della vivacità musicale pugliese durante il periodo dell’occupazione è stata tra l’altro offerta dall’attore di origini brindisine Giustino Durano (1923 – 2002) il quale, di rientro in licenza nella sua città natale, ebbe modo di notare che al Gran Caffè Savoia «si jazzava» e a suonare erano diversi musicisti locali. Successivamente Durano venne trasferito a Bari, dove gli americani, oltre ad aver requisito il Petruzzelli per tenervi gli spettacoli riservati alle truppe, avevano preso possesso anche del ristorante e dell’albergo Oriente. Fu lui, peraltro, a organizzare uno spettacolo per gli Alleati, che andò in scena al Gran Teatro Dopolavoro delle Forze Civili, presentando una band guidata da Bruno Giannini e completata da Santino Tedone al sax e clarinetto, Antonio De Serio al contrabbasso ed Enrico Cuomo alla batteria. Il concerto ebbe un tale successo che la formazione venne invitata ad esibirsi in diversi centri militari alleati, ma la cosa più singolare fu che gli americani decisero di trasformare i nomi dei musicisti, così da renderli più «pronunciabili» nella loro lingua; di conseguenza, Durano divenne Justin Duran e Tedone San Tedoni!

Giannini fu quindi tra i primi a suonare liberamente questa nuova musica sulle frequenze di Radio Bari. Fu anzi proprio a Radio Bari che debuttò a capo di un quintetto nel quale suonavano con lui Nicola Vendemia al contrabbasso, Enrico Cuomo alla batteria e i fratelli Principe di Monte Sant’Angelo, Peppino alla fisarmonica e Leonardo al clarinetto. In realtà però non fu la sua l’unica formazione di jazz a farsi apprezzare: c’era anche un sestetto guidato dal pianista Vincenzo Esposito (padre di Nico Esposito, ingegnere e anch’egli pianista) e poi c’era la grande orchestra del maestro Vitale. Quest’ultima, che eseguiva un repertorio prevalentemente leggero, contava all’incirca una quarantina di elementi «raccolti» in tutta la regione e fra questi c’erano anche i fratelli Principe, il contrabbassista molfettese Nico Lisena o il cantante veneto Enrico Nosek, un ex pilota dell’aviazione militare che aveva scelto di restare a Bari. In quegli anni quindi, in Puglia si suonò incredibilmente moltissima musica jazz e da quella scena vivace dovette presumibilmente trarre ispirazione anche il crooner di Squinzano Nicola Arigliano (1923-2010) che grazie a un concorso di Radio Bari trovò nel 1946 il trampolino di lancio per trasferirsi al Nord. Anche quanti non lo hanno mai ascoltato nella veste di balladeur dalla calda voce baritonale, lo ricordano probabilmente come «volto» di un carosello televisivo in cui pubblicizzava un digestivo «così comodo che si può prendere anche in tram»!

Edizione straordinaria il Petruzzelli in fiamme. Il racconto e le immagini del 27 ottobre ‘91. Annabella De Robertis il 27 Ottobre 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

È il 27 ottobre 1991. L’edizione straordinaria del pomeriggio de La Gazzetta del Mezzogiorno titola «Petruzzelli in fiamme». Uno dei teatri più grandi d’Italia, costruito per iniziativa dei fratelli Antonio e Onofrio Petruzzelli, commercianti baresi, e inaugurato il 14 febbraio 1903, sembra completamente distrutto. Pochi giorni prima dell’incendio, un nuovo allestimento della Norma di Bellini, che si chiude proprio con un rogo, ha inaugurato la stagione lirica.

In prima pagina la foto di Luca Turi parla da sola: la cupola è completamente crollata e dai palazzi di fronte si riesce a guardare l’interno del Teatro che ancora brucia. Ecco la cronaca di quanto avvenuto quella mattina: «Il Teatro Petruzzelli è stato devastato, forse distrutto, da un furioso incendio all’alba di stamane. Le mura esterne sono ancora in piedi. All’interno il disastro sembra totale. La cupola è crollata. Del prezioso soffitto di Armenise, degli storici sipari, delle poltrone, insomma di tutto ciò che rendeva l’edificio un Teatro non rimane più nulla. Tali almeno le notizie che si possono desumere da un primo sopralluogo, mentre ancora i Vigili del Fuoco sono in piena azione e non è permesso accostarsi più di tanto alla drammatica fornace. Forse si riuscirà a salvare l’ala orientale, quella che ospita le sale del Circolo Unione. L’incendio è scoppiato poco dopo le 4.30. L’incendio sembra aver avuto origine dal palcoscenico, ma mentre le prime squadre entravano in azione, il fuoco aveva già attraversato la platea ed aveva fatto irruzione nel foyer. Alle prime luci dell’alba il Teatro appariva come un sinistro vulcano. Dalla voragine, che aveva inghiottito la cupola, un pennacchio denso di fumo si levava contro il cielo ancora livido, mentre i Vigili, al comando dell’ing. Biscardi, continuavano l’impari lotta contro le fiamme. Dall’esterno un gruppetto di poche persone assisteva alla consumazione del dramma con la disperazione sul volto. Il prefetto De Mari è il primo ad abbracciare Ferdinando Pinto. Piangono. Ma Ferdinando si scuote e reagisce: “Lo ricostruiremo. Subito!”. Una speranza…disperata. Una dura prova per la città. Le cause della sciagura? Chi può dirle. Al momento nulla fa pensare si sia trattato di un incendio doloso e nulla lo esclude. Di certo c’è soltanto che per Bari, per la Puglia, per la cultura italiana, oggi è una giornata di lutto».

Dopo quattordici anni di inchieste, processi, sentenze, appelli sono stati condannati in via definitiva soltanto gli esecutori materiali dell’incendio. La verità resta ancora un mistero. Soltanto nel 2009, dopo complessi restauri, il Teatro è stato finalmente restituito alla città.

Mafia, droga e voto di scambio: 19 arresti, in carcere consigliere comunale di Bari, ai domiciliari presidente Foggia Calcio. L’inchiesta riguarda le ultime elezioni comunali di Bari. Le ordinanze coinvolgono, tra gli altri, esponenti di un clan mafioso operante a Valenzano collegato con i Parisi di Bari. Giovanni Longo, Isabella Maselli, Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Ottobre 2022

Diciannove persone, 17 in carcere e due ai domiciliari, sono state arrestate oggi tra Bari, Palermo e Taranto, accusate di associazione di tipo mafioso, estorsione, associazione finalizzata allo spaccio, finalizzata alla corruzione elettorale e scambio elettorale politico-mafioso. L'ordinanza è emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari di Bari, su richiesta della Procura della Repubblica/Direzione Distrettuale Antimafia di Bari. Le misure sono state eseguite da parte di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. L’inchiesta riguarda le ultime elezioni comunali di Bari, e in carcere è finita anche Francesca Ferri, di Valenzano, capogruppo di Italia Popolare. Ai domiciliari, tra gli altri, l'imprenditore barese Nicola Canonico, attuale presidente del Foggia Calcio ed ex consigliere regionale. Nelle elezioni comunali di Bari, Canonico era il referente della lista del centrodestra in cui venne eletta la Ferri, poi passata con la maggioranza. In carcere anche Filippo Dentamaro, compagno della Ferri. Tra gli indagati figura anche Michele D’Atri, ex sindaco di Grumo.

Le indagini e le intercettazioni

L'inchiesta, battezzata «Valenza», prende le mosse dalle indagini svolte per lo scioglimento del Comune di Valenzano, ed è coordinata dai pm Fabio Buquicchio e Michele Ruggiero. Le ordinanze sono firmate dal gip Rossana De Cristofaro e riguardano, tra gli altri, esponenti di un clan mafioso operante a Valenzano collegato con i Parisi di Bari.

Nelle intercettazioni la Ferri si lamenta del fatto che alcune persone che avevano promesso il voto le mandavano la foto fatta da qualcun altro: «È successo pure a me alle Regionali. Sono dei truffatori». La funzione di Canonico è sostanzialmente quella di garante. Viene riconosciuta la sua partecipazione all’associazione a delinquere per le elezioni comunali di Bari del maggio 2019. Secondo l’indagine, risolveva le piccole contese tra candidati nella lista “Sport Bari Dirella Sindaco” (in cui è stata eletta la Ferri) e gli elettori, e garantiva la copertura economica rispetto alle promesse di voto. Sono state documentate le riunioni a casa di Canonico per definire la strategia.

Durante le intercettazioni, andate avanti fino a tutto il 2019, è emerso anche che la Ferri, dopo l’elezione, ha fatto depositare una enorme quantità di rifiuti prodotti durante una festa a casa sua il 30 maggio 2019, in un’area vicina alla zona di Barialto. «Noi - diceva la donna al telefono - comandiamo più a Casamassima che a Bari». Secondo l’indagine in una discussione tra il compagno della Ferri e il boss Buscemi, verso le elezioni di Valenzano, quest’ultimo racconta: «Ho detto sì a tutti tranne che a uno, che ho fatto andare via pallido, che durante la campagna elettorale diceva di essere il paladino della giustizia. Gli ho detto che gli avrei dato 100 voti se si fosse fatto una foto con me da mettere su Facebook».

C’è un episodio che - secondo l’accusa - potrebbe spiegare la caduta della giunta di Valenzano. Ferri e il compagno, insieme al boss, avrebbero programmato di infiltrare due consiglieri in maggioranza e due in opposizione. «Se non ci seguono - spiega il compagno della Ferri, Filippo Dentamaro, al boss Buscemi - io non avrò difficoltà a tirare la catena». La coppia avrebbe fatto elenchi dei votanti, cercando di mapparne la residenza sul territorio. In alcuni casi - secondo le indagini della Finanza coordinate dal colonnello Luca Cioffi - avrebbero proceduto addirittura al ritiro della tessera elettorale. I voti costavano tra i 25 e i 50 euro.

I NOMI: In carcere sono finiti Salvatore Buscemi, Vito De Caro, Ottavio Di Cillo, Giuseppe Di Lorenzo, Filippo Esposito, Danilo Fusco, Erasmo Labarile, Giovanni Pasca, Matteo Radogna, Davide Russo, Alessandro Speziga, Antonia Stramaglia, Michele Terlizzi, Luca Ventrella, Filippo Dentamaro, Francesca Ferri. Ai domiciliari Giuseppe Buscemi e Nicola Canonico.

Voto di scambio, arresti a Bari, l'ex sindaco di Valenzano: «Caduto perché non ho fatto accordo con la Ferri». C’è un'intervista televisiva tra le prove del presunto accordo politico-mafioso. Giovanni Longo, Isabella Maselli, Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Ottobre 2022

C’è un'intervista televisiva tra le prove del presunto accordo politico-mafioso sul Comune di Valenzano. «Se lei avesse accolto due mesi fa il movimento Italia Popolare nella maggioranza lei sarebbe rimasto a ricoprire il ruolo di sindaco», è la frase che Francesca Ferri (finita in carcere oggi su richiesta della Dda di Bari) rivolge a Giampaolo Romanazzi, sindaco di Valenzano caduto da poco. Il 5 ottobre Romanazzi è stato sentito in Procura proprio per spiegare cosa è accaduto a Valenzano con lo scioglimento del Consiglio comunale dovuto alle dimissioni di 10 consiglieri, di cui 4 della sua maggioranza. «Sono stato eletto sindaco a Valenzano, supportato da un gruppo di liste civiche, fra le quali Valenzano-Trasparenza-Legalità il cui fautore era Vincenzo Tritto (candidatosi ma non eletto in consiglio comunale); nelle fila di questa lista si candidò e non fu eletta la signora Maddalena Carlizzi, che personalmente non conoscevo e non conosco. Poco prima che iniziasse la mia avventura di candidato sindaco, fui destinatario di una proposta da parte di Filippo Dentamaro, compagno di Francesca Ferri, all’epoca già consigliera comunale a Bari, a capo di un sostanzioso movimentismo politico in Valenzano, mi proponeva di creare anche a nome della compagna una coalizione con me, utilizzando il loro serbatoio di voti tramite l’appoggio delle loro liste. Rifiutai la proposta di Dentamaro poiché non intendevo far entrare alcuna delle personalità che avevano fatto parte della consiliatura precedente con il sindaco Lomoro».

«Verso la fine della campagna elettorale - ha aggiunto Romanazzi - venni a sapere che il duo Dentamaro/Ferri sponsorizzava un voto disgiunto in favore di Amoruso (mio competitor) come candidato sindaco e per i consiglieri Carlizzi e Montefusco. Questa informazione mi fu manifestata chiaramente una sera, forse l’8 novembre 2019 (due giorni prima delle elezioni) da Dentamaro Filippo che mi incontrò all’uscita dalla pizzeria, nell’occasione lo stesso mi si rivolse dicendo: ”Visto che non hai voluto parlare prima con noi dovrai farlo adesso o dopo il ballottaggio”. Accompagnò questa sua frase all'esibizione di un “santino” che riportava un fac-simile della scheda elettorale riportante l’effige del candidato sindaco Amoruso ed i nominativi dei consiglieri Carlizzi e Montefusco. A fronte di quella sua dichiarazione che altro non era un secondo tentativo di portarmi dalla sua parte, dopo quella prima proposta che avevo declinato tempo prima, ribadii di non essere disponibile a reclutare nella mia maggioranza persone facenti riferimento alla Ferri. (…) Al termine delle elezioni i due sponsorizzati da Dentamaro/Ferri ossia Carlizzi e Montefusco non furono eletti. Da quel momento non ebbi altri contatti con la Ferri».

Romanazzi racconta di aver rivisto la Ferri «i primi di quest’anno 2022 quale referente locale del movimento politico Puglia Popolare (facente capo al direttore dell’Arpal Cassano) e nell’occasione è diventata riferimento politico di due consiglieri comunali di Valenzano di minoranza (Amoruso Ugo e De Sario Leonardo) che, eletti nella maggioranza, erano negli ultimi due anni passati all’opposizione.

«Sostanzialmente, dunque, la Ferri è diventata dai primi mesi del 2022 mio avversario politico. Poco prima della caduta dell’Amministrazione da me presieduta, sei consiglieri di maggioranza mi proposero di allargare la nostra maggioranza a due consiglieri di Puglia Popolare; la richiesta mi arrivò dai consiglieri Volpe ed Amoruso. Io mi dissi contrario sempre per la ragione di non consentire l’ingresso in maggioranza di persone riconducibili politicamente alla Ferri. Il 9 settembre ho appreso che la Ferri era stata delegata a depositare presso il comune l’atto notarile che raccoglieva le firme di 10 consiglieri comunali dimissionari (dieci tra consiglieri di maggioranza ed opposizione, tra cui Amoruso ed il consigliere di riferimento di Volpe). L’11 settembre fui contattato da Volpe il quale dicendosi perplesso o pentito sulle sue dimissioni mi invitò a raggiungere casa della Ferri a Casamassima per ridiscutere l’allargamento della maggioranza in precedenza propostomi in modo da non far cadere l’Amministrazione. Andai a casa della Ferri dove incontrai quest’ultima, Dentamaro, Volpe la moglie di quest’ultimo Partipilo Lucia ed un mio amico di nome Domenico De Santis. Nell’occasione mi fu ribadita la proposta che avevo a suo tempo rifiutato (allargamento della mia maggioranza ai due di Puglia Popolare) e me ne andai, dicendomi pronto a fare una verifica in consiglio comunale l’indomani mattina. Il nome della Carlizzi intervenne da parte degli esponenti della lista Trasparenza e Legalità all’inizio dell’Amministrazione per un’eventuale nomina in giunta; ma io rifiutai questa indicazione».

19 arresti per scambio di voti fra politica e mafia a Bari: coinvolto l’ex consigliere regionale Canonico e la consigliera comunale Ferri. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Ottobre 2022  

L’operazione condotta da Carabinieri Guardia di Finanza e Polizia e nelle provincie di Bari, Palermo e Taranto. La Ferri è stata vicesindaca di Valenzano, mentre il costruttore Canonico è attualmente presidente del Foggia calcio.

Alla base dell’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bari, condotta dai Carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Bari, che ha fatto finire arrestate dalle prime luci dell’alba 17 persone in carcere e 2 poste agli arresti domiciliari, per l’ ipotesi di scambio di voti fra politica e mafia in occasione delle elezioni amministrative del 2019 a Bari e di Valenzano, comune della provincia barese. L’ordinanza è emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari di Bari dott.ssa Rossana De Cristofaro, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari.

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In particolare, l’esecuzione dell’ordinanza nei confronti di 15 soggetti indagati da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Bari e di altri 4 soggetti indagati congiuntamente da parte del personale della Polizia di Stato della Questura di Bari e del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Bari) costituisce l’epilogo di una complessa attività di indagine, coordinata da questo Ufficio giudiziario, articolata in 2 filoni investigativi – distinti, ma legati fra loro da profili di connessione soggettiva e oggettiva. Il primo, delegato alla Compagnia Carabinieri di Triggiano , ha riguardato, tra l’altro, un’associazione di tipo mafioso operante sul territorio di Valenzano (BA), propaggine del noto e storico clan Parisi. Il secondo , codelegato alla Polizia di Stato (Squadra Mobile e DIGOS) e al Nucleo P.E.F./G.I.C.O di Bari – ha avuto ad oggetto, tra l’altro, un episodio di scambio elettorale politico-mafioso, nonché l’individuazione di un sodalizio delinquenziale finalizzato al reato di corruzione elettorale. 

L’ operazione denominata “Valenza” ha origine dalle indagini svolte per lo scioglimento del Comune di Valenzano, ed è coordinata dai pm Fabio Buquicchio e Michele Ruggiero riguardano anche esponenti di un clan mafioso operante a Valenzano collegato con il clan Parisi di Bari. Con riferimento al primo filone investigativo, oltre 100 Carabinieri del Comando Provinciale di Bari stanno dando esecuzione – nei comuni di Bari, Cassano delle Murge (BA), Valenzano (BA), Ginosa (TA) e Palermo – a misure cautelari personali nei confronti di 15 soggetti indagati, a vario titolo, per le ipotesi di reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in minacce, porto e detenzione di armi comuni da sparo, estorsione, usura, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita. 

Le ipotesi di reato contestate dagli inquirenti sono associazione di tipo mafioso, estorsione, associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale e scambio elettorale politico-mafioso. 

Tra le persone arrestate il consigliere comunale di maggioranza in carica Francesca Ferri, capogruppo di Italia Popolare che al Consiglio comunale di Bari era stata eletta a sostegno del candidato civico Pasquale Di Rella e successivamente diventata capogruppo di Puglia Popolare (movimento politico che fa capo all’ex senatore Massimo Cassano, direttore generale uscente dell’ Arpal, candidatosi alle ultime elezioni politiche nelle liste di Azione, fortemente “sponsorizzato” dall’ on. Mara Carfagna (estranea alle indagini ). In passato nel 2015 la Ferri si era candidata alle Regionali nelle liste di Forza Italia in cui militava Cassano a cui è sempre stata “legata” politicamente”

Massimo Cassano, Mara Carfagna e Francesca FerriFrancesca Ferri candidata nel 2015 con Forza Italia

Agli arresti domiciliari il costruttore Nicola Canonico, 50anni attuale presidente del Foggia calcio, in passato consigliere comunale Bari, dal 2004 al 2009 eletto nella lista Udeur ed in seguito consigliere alla Regione Puglia, dal 2005 al 2010 nel gruppo misto e poi nel Pd. Nel 2017 Canonico venne nominato nel consiglio d’amministrazione di Acquedotto Pugliese, diventandone successivamente il vice presidente. Entrato in conflitto con il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano al rinnovo dell’organismo non venne riconfermato. Gli arresti sono stati eseguiti nelle province di Bari, Palermo e Taranto dai Carabinieri , Guardia di finanza e Polizia di Stato.

Francesca FerriNicola Canonico

Gli indagati Salvatore Buscemi, Filippo Dentamaro e la sua convivente Francesca Ferri compaiono nell’ordinanza cautelare in relazione al delitto p. e p. dall’art. 416 ter c.p. – Scambio elettorale politico-mafioso (tanto nella riformulazione in vigore dall’11/6/2019, quanto nel testo immediatamente precedente) poiché “pattuivano uno scambio elettorale politico-mafioso nei termini appresso descritti, nella consapevolezza- da parte della coppia Dentamaro-Ferri (compagni conviventi)- del ruolo criminale rivestito nel Comune di Valenzano dal Buscemi (capo dell’omonimo clan ed “affiliato” a Ottavio Di Cillo, a sua volta capo dell’omonimo clan operante nel limitrofo Comune di Cassano delle Murge ed affiliato al boss mafioso Savino Parisi) e del suo “metodo” mafioso di procurare i c.d “voti della malavita” ( così denominati da Buscemi e Dentamaro nel corso di una conversazione in data 8/11/2019, oggetto di intercettazione)”.

Francesca Ferri e Filippo Dentamaro

La coppia composta da Francesca Ferri e Filippo Dentamaro, finiti entrambi in carcere risponde anche di un altro reato altrettanto grave, di maltrattamenti nei confronti di un bambino bielorusso, avuto in affido temporaneo quando era solo undicenne . Gli investigatori della Squadra Mobile e della Digos della Questura di Bari hanno assistito attraverso le intercettazioni telefoniche, a numerosi episodi di maltrattamenti nei confronti del bambino, prima di intervenire per farli smettere. Il bambino bielorusso, avrebbe subito umiliazioni davanti al figlio della coppia, venendo offeso e picchiato: “Deficiente, cretino, coglione, bastardo, sei una vergogna” arrivando a minacciarlo di rispedirlo “in Russia a calci in culo“, e se si fosse lamentato lo avrebbero “spaccato in due, ammazzato”.

il boss Savino Parisi

Nell’ordinanza si legge che “In particolare 1) in previsione ed occasione delle elezioni amministrative del consiglio comunale di Bari fissate per il 26 maggio 2019, Dentamaro Filippo – sostenitore della campagna elettorale della propria compagna e convivente Ferri Francesca, candidata come consigliere comunale a Bari, accettava da Buscemi Salvatore la promessa di procurare voti “mafiosi” in favore della predetta Ferri, in cambio della promessa (fatta dal Dentamaro con la piena adesione di Ferri Francesca) di erogazione di varie e future utilità per gli affari del Buscemi;

2) in previsione ed occasione delle elezioni amministrative del consiglio comunale di Valenzano fissate per il 10 novembre 2019, Dentamaro Filippo – sostenitore della campagna elettorale di alcuni soggetti a lui legati, candidati come consiglieri comunali e da lui infiltrati nella lista civica “Valenzano – Trasparenza – Legalità” costituita a supporto del candidato sindaco Giampaolo Romanazzi (tra essi, Carlizzi Maddalena e Claudio Montefusco, consapevoli del supporto del Dentamaro, ma ignari del patto di quest’ultimo con il Buscemi) – accettava da Buscemi Salvatore la promessa di procurare voti “mafiosi” (“voti della malavita”, così denominati dal Buscemi in data 8/11/2019 nel corso di una conversazione con Dentamaro, oggetto di intercettazione) in favore dei predetti candidati legati e riferibili al duo Ferri-Dentamaro, in cambio della promessa (fatta dal Dentamaro con la piena adesione di Ferri Francesca) di erogazione di varie utilità (tra cui la futura acquisizione di terreni da rendere edificabili in occasione della predisposizione del piano regolatore generale del Comune di Valenzano). comunque. della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze del gruppo mafioso del Buscemi“. 

Per quanto riguarda la posizione dell’imprenditore Nicola Canonico, attuale Presidente del Foggia Calcio si legge che risponde insieme a Vito Caggianelli, Michele D’ Atri, Filippo Dentamaro, Lorenzo Dentamaro, Francesca Ferri, Luciano Marinelli, Gaetano Muscatelli, Carmine Pastore, Luigi Ressa, Giovanni Zaccaro, Vito Michele Zaccaro, Francesco Zizza per essersi associati fra loro al fine di commettere sistematiche attività delittuose di corruzione elettorale funzionali a conseguire illecitamente l’elezione di Francesca Ferri (candidata nella “LISTA CIVICA – SPORT BARI – DI RELLA SINDACO“) alla carica di consigliere comunale di Bari, in occasione delle elezioni amministrative del 26 maggio 2019 (nonché – limitatamente a Canonico, Ferri e Filippo Dentamaro – la affermazione elettorale della stessa Ferri nelle future competizioni elettorali, ivi comprese le elezioni regionali in Puglia programmate per l’anno 2020), attraverso un’attività organizzata di selezione e reclutamento di elettori con successiva acquisizione dei loro voti in favore della candidata Ferri in cambio prevalentemente di somme di denaro. 

Le somme di denaro costituenti il “prezzo” del voto in favore della Ferri (pari ad euro 25 o 50 per ogni singolo voto) venivano, quindi, offerte o promesse ad un imprecisato numero di elettori, in esecuzione degli accordi e dei programmi del sodalizio criminoso direttamente dalla stessa candidata Ferri, ovvero sempre a vantaggio e nell’interesse della candidata dal Dentamaro ( compagno convivente della Ferri), dal Canonico o dai partecipi del sodalizio criminoso (Vito Caggianelli, Michele D’ Atri, Lorenzo Dentamaro, Luciano Marinelli, Gaetano Muscatelli, Carmine Pastore, Luigi Ressa, Giovanni Zaccaro, Vito Michele Zaccaro, Francesco Zizza ) aventi il ruolo di “portatori di voto” decisivo per finalizzare il programma del sodalizio, ossia quello di individuare, contattare e reclutare il maggior numero possibile di elettori da cui, infine, compravano i voti verso il pagamento di corrispettivo in denaro loro anticipato o successivamente rimborsato dai promotori Ferri, Dentamaro e Canonico). 

L’Associazione a delinquere secondo la Procura di Bari era “promossa, costituita ed organizzata dal Canonico (fondatore, promotore e finanziatore della “LISTA CIVICA – SPORT BARI – DI RELLA SINDACO“) e dalla coppia Ferri–Dentamaro, cui aderivano quali partecipi i sopra menzionati “portatori di voto” e strutturata con una precisa distribuzione di compiti e funzioni” in relazione al ruolo di ciascuno, per cui “Nicola Canonico costituiva – per carisma, forza economica ed esperienza politica – la figura di “vertice” del gruppo; “garante” del risultato dell’illecita impresa e degli equilibri economici sottesi agli accordi corruttivi; “risolulore e decìsore finale” delle controversie personali ed economiche insorte tra il duo Ferri-Dentamaro e i vari “portatori di voto” (solitamente, questioni di restituzione delle somme di denaro anticipate per pagare i voti agli elettori compravenduti)” mentre Filippo Dentamaro e Francesca Ferri, compagni e conviventi “erano organizzatori del sodalizio unitamente al Canonico; incaricati di curare le relazioni, soprattutto quelle negoziali (quanto all’illecito mercimonio dei voti) con elettori o con singoli collaboratori/portatori di voto“.

Canonico, è stato definito nella conferenza stampa della procura barese “garante e partecipe dell’associazione per le elezioni comunali di Bari”. Secondo l’ipotesi accusatoria sarebbero avvenuti a casa sua gli incontri per pianificare le strategie di ricerca dei voti, avrebbe “risolto le contese tra gli associati e svolto funzioni di garante, dal punto di vista finanziario, per la copertura dei debiti contratti per comprare i voti”. Redazione CdG 1947

LA MACCHINA DEL TEMPO. Da Punta Perotti a Michele Fazio. La «Gazzetta» di 21 anni fa prima dell’11 settembre. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Settembre 2022

Èl’11 settembre 2001. «Giornata nera per le Borse europee» titola in prima pagina La Gazzetta del Mezzogiorno. La crisi della Silicon Valley ha ripercussioni anche nel vecchio continente: Tronchetti Provera, amministratore delegato del gruppo Pirelli, promette azioni legali contro le voci ribassiste.

Proseguono, inoltre, le indagini sui fatti di Genova: sette avvisi di garanzia sono stati consegnati ad altrettanti dirigenti della Polizia per la morte di Carlo Giuliani e le altre violenze commesse nei confronti dei manifestanti durante il G8.

«Fa discutere l’invito di Silvio Berlusconi ad abbattere l’ecomostro di Punta Perotti», si legge inoltre nelle pagine della Cronaca di Bari. In un’intervista alla Gazzetta il procuratore della Repubblica Emilio Marzano giudica positivamente le parole del Presidente del Consiglio e invita il Comune di Bari ad accelerare le procedure per la demolizione della cosiddetta «saracinesca». Così venivano chiamati gli scheletri dei tre grattacieli sul lungomare Sud del capoluogo pugliese, la cui costruzione era stata dichiarata illegittima dalla Cassazione. Il Comune di Bari, guidato dal sindaco Di Cagno Abbrescia, non sembra per il momento avere intenzione di eseguire la sentenza contro la famiglia Matarrese.

Parla Raffaela Fazio, la mamma del ragazzo di 16 anni, ucciso per errore a Bari vecchia due mesi prima: un omicidio che ha sconvolto la città intera. «La morte di Michele appartiene a tutte le madri di Bari vecchia», si legge nell’intervista.

Sono queste, dunque, le notizie in primo piano su La Gazzetta del Mezzogiorno di ventuno anni fa, questi i principali argomenti di discussione nella nostra regione, mentre dall’altra parte del mondo si consumano attimi drammatici, che segneranno per sempre la storia dell’umanità. La mattina dell’11 settembre 2001 diciannove attentatori legati alla rete terroristica islamista di Al Qaida, che fa capo a Osama Bin Laden, prendono il controllo di quattro voli di linea partiti dagli aeroporti di Boston, Newark e Washington. Il primo aereo si schianterà contro la Torre nord del World Trade Center, il più affollato centro finanziario d’Occidente, nel cuore di New York; a distanza di un quarto d’ora un secondo aereo impatterà la Torre sud. Alcuni minuti dopo altri dirottatori dirigeranno un terzo aereo contro la facciata ovest del Pentagono. Precipiterà invece Pennsylvania, in aperta campagna, un ultimo velivolo che avrebbe dovuto colpire la Casa Bianca o il Campidoglio a Washington.

Quel giorno si conteranno circa tremila morti: la tragedia cancella per sempre il mito dell’inviolabilità del suolo americano e aprirà una lunga stagione di conflitti, inaugurata pochi giorni dopo gli attentati dal presidente Bush, che porterà all’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq.

Chiara Spagnolo per repubblica.it 12 settembre 2022.

La Corte d’appello di Bari ha condannato il Comune di Bari, la Regione Puglia e il Ministero Beni Culturali a risarcire per circa 9 milioni di euro la Sudfondi s.r.l. della famiglia Matarrese (oggi in liquidazione) per l'abbattimento dei palazzi di Punta Perotti. 

La sentenza – a firma dei giudici Michele Prencipe, Emma Manzionna e Paola Barracchia è stata depositata oggi, in parziale accoglimento dell’appello presentato da Sudfondi contro la sentenza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta di risarcimento.

La società era assistita dai professori Vincenzo Vito Chionna e Michele Lobuono con l’assistenza tecnica del dottor Ignazio Pellecchia e del professor Pierluigi Morano. Per valutare l’entità del presunto danno subito, la Corte d’appello si è avvalsa di una perizia dalla professoressa Gabriella De Giorgi dell'Università di Lecce, dall'ingegnere Raffaele Dell'Anna e dal commercialista Franco Botrugno, tutti salentini, per evitare possibili condizionamenti, come era stato evidenziato nell'affidamento dell'incarico. 

Otranto e Punta Perotti: i tempi della giustizia disallineati dalla realtà. Capita, spesso e non volentieri, che decisioni e provvedimenti arrivino ad anni e anni di distanza dai fatti, lasciando così spesso interdetto l’uomo della strada. Mimmo Mazza su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Settembre 2022.

I tempi della giustizia non corrono praticamente mai paralleli a quelli della politica, della pubblica amministrazione e dei privati cittadini. Capita, spesso e non volentieri, che decisioni e provvedimenti arrivino ad anni e anni di distanza dai fatti, lasciando così spesso interdetto l’uomo della strada, estraneo per sua fortuna ai riti giudiziari e in qualche caso fuorviato da chi (stra)parla di giustizia a orologeria.

Gli ultimi due episodi giudiziari made in Puglia non fanno eccezione alla regola. A Otranto, carabinieri e finanzieri, su mandato dall’autorità giudiziaria leccese, hanno arrestato politici e imprenditori, accusati di far parte - addirittura - di una vera e propria associazione a delinquere per compiere vari reati contro la pubblica amministrazione, tentando di condizionare la vita politica cittadina e perfino quella nazionale, con ombre riguardanti le elezioni politiche nazionali del marzo del 2018, cinque anni fa. Anche buona parte degli ipotizzati reati fine della supposta associazione a delinquere sono datati nel tempo (2017-2018) pur essendo alcune delle vicende amministrative citate negli atti ancora in corso di svolgimento. Dunque, ci si chiede, perché tanta distanza tra i presunti reati e gli arresti? Bella domanda alla quale manca una risposta, soprattutto in punta di diritto perché tra le tante riforme della giustizia annunciate e fatte, nessuna ha mai toccato la carne viva della materia, ovvero i termini di rito. Continua ad essere possibile, senza che la cosa costituisca fonte di problematiche di alcun tipo, che un giudice per le indagini preliminari possa decidere su una richiesta di emissione di ordinanza di custodia cautelare, e cioè di privazione della libertà personale dell’indagato, in un giorno o in due anni, una tempistica che influisce, spesso irrimediabilmente, sia sulle esigenze cautelari stesse (pericolo di fuga, rischio di reiterazione del reato, inquinamento delle prove) che sul futuro processo, i cui termini di prescrizione camminano inesorabilmente dalla data di commissione del presunto delitto (ovvero dal 2017, nel caso di Otranto). Quindi, spesso va a finire che l’unica pena realmente scontata dagli indagati futuri imputati sia quella pre-sofferta nella fase delle indagini preliminari.

Attenzione, nessuno vuole sostenere che gli arresti di Otranto non andavano eseguiti; l’occasione, al contrario, serve a sollecitare maggiore sollecitudine nell’azione giudiziaria, munendola di tempi certi, di strumenti e risorse adeguate, per dare risposte celeri a chi chiede giustizia e maggiore tutela al bene pubblico giacché proprio nel caso di Otranto sembra emergere la persistenza di una gestione deviata della pubblica amministrazione per anni e anni malgrado i riflettori accesi dalla polizia giudiziaria.

Sempre ieri, la Corte d’Appello di Bari ha condannato Ministero della Cultura, Regione Puglia e Comune di Bari, in solido tra loro, al pagamento di quasi 8,7 milioni di euro (più rivalutazione in base agli indici Istat dal 2001 ad oggi) in favore della società Sudfondi srl in liquidazione, degli imprenditori Matarrese, come risarcimento del danno patrimoniale subito dall’abbattimento - avvenuto nel 2006 - dei palazzi di Punta Perotti, sul lungomare di Bari. A 16 anni di distanza, insomma, dall’abbattimento-show che fu trasmesso in diretta televisiva e a ben 27 anni dall’inizio dei lavori della lottizzazione, arriva una nuova decisione giudiziaria in una vicenda contrassegnata da sentenze spesso contrastanti. La lottizzazione fu ritenuta abusiva ma gli imprenditori furono tutti assolti (nel 2001) perché avevano ottenuto una regolare autorizzazione edilizia. I palazzi furono confiscati e demoliti nel 2006 ma quella confisca fu dichiarata illegittima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza di ieri riconosce che il risarcimento stabilito dalla Cedu non copriva tutti i danni, riguardando unicamente la illegittimità della confisca e non l’accertamento della responsabilità in capo alle amministrazioni che avevano rilasciato le concessioni edilizie e autorizzazioni che avevano dato il via libera ai cantieri, e quindi dispone un ulteriore il ristoro per le spese sostenute per la progettazione, i costi pubblicitari, i pagamenti di Ici e oneri di urbanizzazione, gli oneri finanziari e parte dei costi di esecuzione dei lavori.

Una roba da far girare la testa e da generare confusione anche nei cittadini meglio informati. Senza considerare che la sentenza di ieri non è definitiva.

IL CASO. Punta Perotti, Comune di Bari, Regione e Ministero Cultura condannati a risarcire 8,5 mln. Corte d'Appello ribalta sentenza di primo grado, accolto ricorso della Sudfondi s.r.l. in liquidazione. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022

La Corte d’Appello di Bari (terza sezione civile) ha condannato Ministero della Cultura, Regione Puglia e Comune di Bari, in solido tra loro, al pagamento di quasi 8,7 milioni di euro (più rivalutazione in base agli indici Istat dal 2001 ad oggi) in favore della società Sudfondi srl in liquidazione, degli imprenditori Matarrese, come risarcimento del danno patrimoniale subito dall’abbattimento - avvenuto nel 2006 - dei palazzi di Punta Perotti, sul lungomare di Bari. I giudici hanno parzialmente accolto il ricorso della società, che aveva impugnato la sentenza con la quale il Tribunale di Bari, nel 2014, aveva rigettato la domanda dei costruttori. La vicenda ha inizio nel 1995, quando iniziarono i lavori della lottizzazione che poi fu ritenuta abusiva, ma gli imprenditori furono tutti assolti (nel 2001) perché avevano ottenuto una regolare autorizzazione edilizia. I palazzi furono comunque confiscati e demoliti nel 2006. L’illegittimità della confisca era già stata dichiarata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha riconosciuto un risarcimento complessivo di 49 milioni di euro (37 alla sola Sud Fondi), già liquidati, per il mancato godimento dei suoli negli anni della confisca, dal 2001 al 2010. L'odierna sentenza, come sollecitato dalla società, riconosce che il risarcimento stabilito dalla Cedu non copriva tutti i danni, riguardando unicamente la illegittimità della confisca e non l’accertamento della responsabilità in capo alle amministrazioni che avevano rilasciato le concessioni edilizie e autorizzazioni che avevano dato il via libera ai cantieri, e quindi dispone un ulteriore il ristoro per le spese sostenute per la progettazione, i costi pubblicitari, i pagamenti di Ici e oneri di urbanizzazione, gli oneri finanziari e parte dei costi di esecuzione dei lavori.

A rappresentare Sudfondi s.r.l. in liquidazione, il prof. avv. Vincenzo Vito Chionna e il prof. avv. Michele Lobuono con l’assistenza tecnica del dott. Ignazio Pellecchia e del prof. Pierluigi Morano. Il Comune è difeso nel giudizio dal prof. avv. Giorgio Costantino, e dall’avv. Nino Matassa.

IL SINDACO: “IL GIUDIZIO RICONOSCE UNA MINIMA PARTE DELLA CIFRA RICHIESTA DALL’AZIENDA E CHIARISCE RESPONSABILITÀ DI ATTI RISALENTI AGLI ANNI 90”

La Corte d’Appello di Bari ha reso pubblica la sentenza nel giudizio di secondo grado proposto dalla SudFondi con riferimento ai presunti danni derivanti dalla nota vicenda di Punta Perotti.

La sentenza, molto articolata e corposa, è in fase di esame da parte del collegio difensivo del Comune di Bari. Preme tuttavia far presente che la Corte d’Appello ha enormemente ridimensionato la richiesta della società costruttrice che ammontava a circa 540 milioni di euro. La Corte ha, inoltre, respinto la maggioranza delle richieste avanzate dalla SudFondi, accogliendo solo una parte della domanda, limitando il danno risarcibile a poco più di 8 milioni euro, oltre interessi.

La condanna - così limitata - è nei confronti in solido del Ministero dei Beni Culturali, della Regione Puglia e del Comune per atti amministrativi, adottati agli inizi degli anni 90. All’esito dell’esame della sentenza, il Comune valuterà l’eventuale impugnazione del provvedimento, il cui limitato esito negativo è ampiamente coperto dai fondi rischi appostati da questa amministrazione nel proprio bilancio.

“Nella fattispecie - spiega il sindaco - è bene chiarire che il Comune di Bari oggi è chiamato a farsi carico di responsabilità ascrivibili all’epoca in cui vennero rilasciati i titoli edilizi, risalenti agli anni 90. La sentenza chiarisce però inequivocabilmente che la richieste esorbitanti proposte dalla società costruttrice erano infondate per il 98%. Sarebbero infatti dovuti solo 8 milioni rispetto ai 540 milioni richiesti”.

IL PUNTO DI VISTA DEL PRESIDENTE EMILIANO

“Nessun dubbio sulla demolizione di Punta Perotti. La sentenza della Corte d’Appello di Bari ha condannato gli Enti convenuti in giudizio (Comune, Regione e Ministero) per aver consentito agli inizi degli anni '90 la realizzazione di Punta Perotti e non certo per aver disposto l’abbattimento. Quindi parliamo di responsabilità amministrative risalenti nel tempo.

Infatti, la Corte territoriale ha ritenuto che all’epoca della adozione (1990) e della approvazione (1992) delle due lottizzazioni e relativo rilascio della concessione edilizia (1994) il Comune non potesse farlo, perché lì non si poteva costruire, per la presenza dei  vincoli di inedificabilità previsti dalla normativa regionale e statale vigente. Quindi i piani di lottizzazione non erano legittimi, perché privi della necessaria autorizzazione paesaggistica.

La Corte d’Appello ha ritenuto responsabili anche la Soprintendenza per i beni culturali ed ambientali (organo periferico del Ministero) e la  Regione, per aver consentito il rilascio della concessione edilizia. Finalmente una parola chiara e, spero, definitiva sulle responsabilità politiche e amministrative di questa vicenda”. Lo dichiara il Presidente della Regione Puglia.

Punta Perotti: la famiglia Matarrese sarà risarcita per 9 milioni di euro dal Comune di Bari, Regione e ministero. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Settembre 2022. 

La sentenza della Corte d'Appello di Bari ha accolto parzialmente l’appello presentato da Sudfondi contro la sentenza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta di risarcimento per l'abbattimento dei palazzi

I giudici Michele Prencipe, presidente e relatore, Emma Manzionna e Paola Barracchia consiglieri della terza sezione civile della Corte d’Appello di Bari ribaltando la sentenza di primo grado del 2014 con cui Tribunale di Bari aveva rigettato la richiesta risarcitoria dei costruttori Matarrese, con una sentenza di ben 234 pagine, hanno condannato Comune di Bari, Regione Puglia e Ministero Beni Culturali al pagamento della somma di 8,5 milioni di euro in favore della Sud Fondi s.r.l. (società della famiglia Matarrese attualmente in liquidazione) assistita dall’ Avv. Prof. Vincenzo Vito Chionna e dall’ Avv. Prof. Michele Lobuon, che si sono avvalsi della consulenza tecnica del dottor Ignazio Pellecchia e del professor Pierluigi Morano, quale risarcimento dovuto per l’abbattimento dei palazzi di Punta Perotti, del danno patrimoniale subito, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal 2001 ad oggi.  

La sentenza è arrivata oggi dopo un anno e mezzo da quando i giudici civili di secondo grado si erano riservati la decisione, avvalendosi di una perizia tecnica effettuata dalla professoressa Gabriella De Giorgi dell’Università di Lecce, dall’ingegnere Raffaele Dell’Anna e dal commercialista Franco Botrugno, tutti professionisti salentini, scelti al fine di evitare possibili condizionamenti, come era stato evidenziato dai giudici nell’affidamento dell’incarico.

La società Sud Fondi srl che faceva capo al gruppo Matarrese, era stata ammessa alla procedura del concordato per liquidazione di beni. L’azienda che aveva costruito una parte del complesso edilizio per salvarsi dalla bancarotta dovette vendere i suoi beni. E fra i beni che i commissari liquidatori volevano mettere sul mercato c’erano appunto i suoli di Punta Perotti, dove dopo la demolizione dei palazzi è stato realizzato il parco. I terreni di fatto sono di proprietà dei costruttori, tranne una parte come prevedeva il piano di lottizzazione sottoscritto fra il Comune e le aziende nel 1993 che era stata ceduta a Palazzo di città per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primarie e secondarie, come strade o aree verdi. 

La teoria sostenuta dai Matarrese si basava sulla considerazione che in base al piano regolatore i suoli di Punta Perotti erano edificabili, ed i costruttori avevano legittimamente ottenuto le autorizzazioni in buona fede salvo scoprire, successivamente, che su quella lingua davanti al lungomare di Bari non si poteva costruire. L’elenco dei danni subiti è molto lungo: dall’acquisto dei suoli alle spese di progettazione sostenute dagli imprenditori; dall’Ici agli oneri di urbanizzazione pagati al Comune di Bari; dai lavori di costruzione alle fideiussioni in favore degli acquirenti, ai mancati ricavi, ecc. 

Nel 2018 la Corte europea dei diritti umani aveva deciso il risarcimento per un appezzamento di 10.365 metri quadri a Punta Perotti, adiacente a quello dove sorgeva l’ecomostro (per la cui confisca l’Italia è stata condannata a Strasburgo nel 2009). “Si tratta di una sentenza uguale a quella del 2012 con cui già la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato lo Stato italiano a risarcire con 49 milioni di euro la società che aveva realizzato il complesso edilizio sul lungomare di Bari“, commentò a suo tempo l’ingegnere Michele Matarrese.

La vicenda di Punta Perotti

Risale al lontano 1979 il primo progetto di lottizzazione di Punta Perotti , ma furono necessari 13 anni per l’approvazione dei piani proposti dalle aziende dei gruppi imprenditoriali Andidero, Matarrese e Quistelli. La concessione edilizia per la realizzazione dei vari blocchi, destinati a residenza e terziario, venne rilasciata nel 1995 e con l’avvio dei cantieri si attivarono le polemiche e le proteste di cittadini e di presunti movimenti ambientalisti.

Nel 1997 la Procura di Bari dispose il sequestro del il cosiddetto ecomostro “saracinesca sul mare” come la definirono, bloccando i lavori nei cantieri e disponendo il dissequestro dei suoli dopo il ricorso degli imprenditori, . Ma due anni più tardi al termine di un processo celebrato con rito abbreviato, venne ordinata la confisca del complesso edilizio, ritenendo la costruzione “abusiva”, mentre incredibilmente gli imprenditori furono assolti “perché il fatto non costituisce reato” con una sentenza più che controversa.

L’ assoluzione venne confermata anche in appello nel 2000, con revocatoria del precedente provvedimento di confisca. La demolizione venne autorizzata nel 2005, effettuata in tre giorni: il 2, 23 e 24 aprile 2006. Quell’area diventò in seguito il “Parco di Punta Perotti”. Nel 2010 la confisca dei suoli venne revocata e restituiti alle imprese, con una sentenza che impose il risarcimento a queste ultime.

Il Gup dispose la restituzione dei terreni alle imprese che subirono la confisca, al termine del processo per lottizzazione abusiva, mentre era passata in giudicato la sentenza che aveva dichiarato abusiva la lottizzazione. Nel maggio 2012 la Corte europea dei diritti dell’uomo si era già pronunciata sulla vicenda e aveva condannato lo Stato italiano a pagare 49 milioni alle imprese che avevano progettato Punta Perotti. Redazione CdG 1947

Viaggio assolutamente incompleto dei locali notturni della città negli anni ‘80. Roberto Calpista e Francesca Di Tommaso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Agosto 2022

I tempi lontani della Milano del Sud tra divertimento, soldi e notti esagerate

«Ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia. Sai perché diciamo sempre che era l’età più bella? Perché in realtà non ce la ricordiamo più». Jean-Luis Trintignant nel film «Il Sorpasso», riporta in qualche maniera ai vitelloni della Bari da bere degli anni ‘80-‘90. Quelli che quasi mezzo secolo fa stazionavano davanti agli stessi bar davanti ai quali stazionano oggi, meno capelli, panzetta, ma tra le rughe volti noti.

Lontano il tempo della Milano del Sud, con i commercianti che accumulavano patrimoni bestiali, le Porsche, le ville perse a carte. La Bari by night, con la città vecchia considerata, spesso a torto, un buco nero da cui tenersi alla larga. Dopo il lavoro, se c’era, si andava dal Camelot allo Snoopy, dal Renoir allo Stravinsky al Cellar. Ma all’inizio fu quel locale in corso Vittorio Emanuele, roba da strafighi/fatti. Ragazzine in cerca del buon partito, madri pronte al «sacrificio» pur di farglielo trovare. I soldi giravano mescolati all’alcol e alla cocaina, roba da ricchi.

Dentro i vip, tra arricchiti e sanguisughe, fuori il grigio di tempi malati. L’eroina in vena quotidianamente si portava via qualcuno. I fascisti sprangavano i rossi e i rossi rispondevano con ferocia. C’erano i topini e le Vespe Special con l’adesivo di Tomato o Fruit of the loom andavano a ruba. Dentro si sudava protetti da uno stuolo di «lei non sa chi sono io» per bloccare sul nascere eventuali controlli. C’erano le discoteche nere per l’acchiappo. E quelle della sinistra, dove pure. E c’erano i locali «misti», levantini, amici per una sera, poi si vede.

Oggi la Gazzetta di Bari dedica un’intera pagina a quei templi, ormai sbarrati, del divertimento notturno. E lo fa con un amarcord che riporta ad un’altra frase del «Sorpasso». Vittorio Gasmann: «Robè, che te frega delle tristezze. Sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c'ha giorno per giorno». [roberto.calpista]

BARI - Era il 1980 o giù di lì: Bari ballava. Non tanto la febbre del sabato sera, non solo giovanissimi, non per forza disperati e sballati. Nasceva il popolo della notte. Città e provincia fremevano di locali che aprivano dalla sera alla mattina e spesso con la stessa rapidità si reinventavano, cambiavano gestione, età della clientela, genere musicale. Le discoteche, i club, i privè: sono gli anni del Cellar, del Raimbow, del Renoir, dello Snoopy, del Camelot. E dell’Altro sottano, del Cellar, del Kabuki.

A quei tempi gli assembramenti non facevano paura tanto meno erano vietati. Un’onda di professionisti, di cultori della musica, di imprenditori che quasi non si rendevano conto del valore aggiunto che hanno dato, ognuno a suo modo, alla città e a generazioni ora nostalgicamente cullate dai ricordi. E dalla musica, quella che ti resta dentro comunque.

Ma Bari adesso non balla più?

LA NOTTE E' CAMBIATA - «La Notte non è morta, è solo cambiata - è il commento di Pasquale Trentatre, storico dj e non solo -. E forse non sono le discoteche ad essere morte, è il popolo delle discoteche che è scomparso. Sono cresciute le comunità virtuali, la musica online ha fatto sì che non ci fosse più bisogno di luoghi specifici per ritrovarsi e riconoscersi. È caduto il mito delle cattedrali del divertimento notturno. Ora che ci sono le piazze del web a che serve pagare un biglietto, passare la selezione all’ingresso, mettersi in macchina e rischiare punti sulla patente?».

I LUOGHI - Una delle prime grandi discoteche di quegli anni è lo Snoopy, a Bitritto. Si contende presto gli «spazi» con il Camelot, a Mungivacca. «Lo Snoopy è nato il 4 ottobre 1980 e ha chiuso l’estate del 1997 - racconta Michele Ranieri. Con Vito Saliani, aprirono la discoteca, tra le prime all’avanguardia, in quello che era un ex cinema. -. Aveva una capienza omologata per 800 persone, e si cominciava alle nove di sera. Ma la fila, fuori, era già lunga da ore». «Maxi luci, scenografie d’effetto, consolle frequentata da dj come Marco Trani, scomparso nel 2013, Enzo Veronese, Maurizio Laurentaci… Il nostro compito era stupire i clienti. La musica era dance, funky, discomusic. Il sabato ci inventammo i due turni, dalle 20 alle 12 per i minori entro i 18 anni dall’una in poi». Lo Snoopy ‘80 poi diventò ‘90 e infine cedette il posto al Demode. Che in seguito si è ulteriormente trasferito, da Bitritto è arrivato a Modugno.

La girandola dei locali, non solo del cambio di nome, non potrà mai essere precisa e soprattutto esaustiva: dove prima c’era il Rainbow (poi Stravinsky), in corso Alcide de Gasperi, ora c’è un ristorante etnico. Villa Renoir, dalle parti di Santa Caterina, è diventata una Gaming Hall. A Poggiofranco, di fronte all'ospedale Giovanni Paolo II, un garage ha preso il posto del Neo-club. Il Kabuki, zona ateneo, si occupa solo di feste private; L'altro sottano, elegante e cittadino su corso Vittorio Emanuele, poi Privè, non c'è più. Resiste dopo fasi alterne The Cellar Club, pare risalga al '54 e si sia esibita anche Rita Pavone. «In città, i locali dove si ballava avevano quasi tutti la formula del club privato: socio tesserato che poi pagava il biglietto di ingresso - spiega Pasquale Dioguardi, organizzatore eventi, presidente Asso operatori locali da ballo e locali notturni aderente al Cna -. Non sempre avevano l'autorizzazione per pubblico spettacolo, motivo per cui i controlli portavano a chiusure o multe».

Spoetizzando in maniera spietata, erano scantinati deluxe nei quali, con la tessera di socio, si aggirava il rispetto della capienza e dell’eventuale presenza o assenza di uscite di sicurezza. Ma prima di tutto erano luoghi di aggregazione, di condivisione, di socialità. Dove gestori, organizzatori, dj muovevano il popolo della notte negli anni in cui i film si guardavano noleggiando i VHS, le foto si «portava il rullino a sviluppare» e si aspettavano settimane prima di poterle vedere; le telefonate si facevano dal telefono fisso di casa oppure a gettone dalla cabina telefonica. E i dischi erano in vinile. «Nel '93 edizione Panini ha realizzato persino un album di figurine “Discoteche d'Italia” - racconta divertito Pasquale Trentatre -. C'è da dire che già con l'apertura del gOrgeOus, (2000-2007) di cui ho curato la direzione artistica per 7 anni, benché il locale, anche ristorante, facesse sold out tutte le sere, mi accorsi che qualcosa stava cambiando. Le grandi discoteche le tentavano tutte per realizzare spazi ridotti o privè selezionati con ospiti noti del mondo del cinema, teatro, moda. Piano piano la maxi discoteca rimaneva sempre più solo un involucro vuoto e il suo brand veniva utilizzato come simbolo più che come reale offerta artistica».

Ora la formula è quella delle feste private, in buona pace dei diritti d'autore. «Adesso - continua Trentratre -, per funzionare devi creare l’occasione, il grande evento, il pretesto per radunare clienti che non arrivano più in automatico. Con l’avvento dei social network, i ragazzi si organizzano molto velocemente, magari acquistano voli low cost e con gli stessi soldi di un sabato sera in discoteca di qualche anno fa, ora raggiungono luoghi e piazze in diversi paesi Europei.

LA PROPOSTA - Un'idea potrebbe essere la gestione condivisa delle maxi discoteche con le grandi organizzazioni internazionali, come fanno in Spagna. In pratica si cedono "le mura" del locale a gruppi che organizzano feste e incontri di grande richiamo per rendere le discoteche dei templi provvisori, dei contenitori che si riempiono di volta in volta con gli appassionati più diversi riuniti grazie ai social network». Bari e le sue notti non smetteranno mai di ballare.

Il Consiglio di Stato boccia il sindaco di Bari sul termovalorizzatore. Annarita Digiorgio il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Sindaco di Bari Antonio Decaro contro la realizzazione del termovalorizzatore Newo il cui iter autorizzativo era stato presentato nel 2016.

Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Sindaco di Bari Antonio Decaro contro la realizzazione del termovalorizzatore Newo il cui iter autorizzativo era stato presentato nel 2016. Eppure proprio Decaro due giorni fa sul palco della kermesse organizzata da Nicola Porro lamentava l'accoglimento del Tar dei ricorsi dei comitati contro i progetti del Pnrr, poi velocizzati con un decreto del governo Draghi. Contrario anche il governatore Emiliano, che in un tweet scriveva: «Sono contrario all'impianto Ossicombustione di Modugno e alla sua realizzazione che stiamo cercando di scoraggiare in ogni modo». Eppure la Puglia ne ha estremo bisogno: da settimane gli impianti sono saturi e costretti a rallentare il conferimento dei rifiuti per il sottodimensionamento dei termovalorizzatori pugliesi, e a ogni emergenza Michele Emiliano emana un'ordinanza contigibile e urgente per mandare il css in discarica invece di recuperarlo a energia.

Gli unici due termovalorizzatori furono realizzati dalla giunta Fitto. Mentre continuano a farla da padrone le discariche, che accolgono persino i rifiuti di Roma. Per questo sarebbe utilissimo il termovalorizzatore di Bari, osteggiato da tutti i sindaci della zona, compreso il draghiano Decaro, uno dei primi ad aver firmato l'appello per spingere il premier a restare al governo. Che si è dimesso proprio per le proteste di Conte contro il termovalorizzatore di Roma.

Tra l'altro quello di Bari è un progetto a ossicombustione, ovvero senza fiamma, che consente la cattura e lo stoccaggio dell'anidride carbonica con meno emissioni: è il modello preso a riferimento da Beppe Grillo e Virginia Raggi per Roma. E invece cosi ha commentato ieri Decaro la sentenza del Consiglio di Stato: «Ho chiesto ai legali di convocare una riunione con tutte le parti che come noi si sono opposte al provvedimento. Insieme valuteremo compiutamente gli effetti della sentenza e le azioni da intraprendere». Farà dimettere il prossimo governo

Tossicodipendenza da frutti di mare. Al Pronto Soccorso del Policlinico hanno cercato di far ragionare un posseduto giovane che continuava a spolpare cozze tra una vomitata e l’altra. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2022

Difficilmente un drogato sarà chiaro con sé stesso definendosi dipendente dalla sostanza. È così con l’eroina, cocaina, alcol. E lo stesso vale anche per i frutti di mare. Il tossico perduto nei paradisi ittici artificiali si cela nell’ambiguità. Eppure, basta guardarlo, seguire l’itinerario al quale lo piegano il taratuffo, la tagliatella e il riccio di mare per capire che le spese astronomiche con cui s’è rovinato, altra peculiarità da tossicodipendenza conclamata, celebrano una schiavitù negata perfino al pusher che gli gabella cozza greca per mitile di Taranto.

Signore, aiuta questi lieti infelici dalle viscere infettate. Per quanto anche San Nicola avalli il peccato, da quando i sacerdoti russi per primi sono diventati la cuccagna degli spacciatori di Nderre a’ la lanze. Il tossicomane spende fino a 20-30 euro due o tre volte a settimana. Il tossicodipendente – grado di malattia radicata – sei (il lunedì ‘sti stronzi di pescivendoli chiudono): 400-700 euro ogni mese che passa. Lo riconosci dallo sguardo febbrile con cui esamina i cadaveri coriacei o arricciati, di negozio in negozio, illudendo ogni titolare di essere «l’unico di cui ci si può fidare». Se al mattino si è ripromesso che è l’ultima volta, a pranzo è già in piedi sul lavabo a impestarsi la bocca di magnotte a 24 carati con bruto digrignare. Senza citare l’alleanza che, al pari degli eroinomani e dei cocainati, stringe con la criminalità: spaccio illegale di taratuffi (driin, «dottore la vaschetta di patelle sta pronta»), di schiuma di mare (drìn-drìn, «dottore è arrivata la paranza»), e finanche di datteri (drin, «dottore, ho messo da parte i limoni»).

Il tossicodipendente dai frutti di mare non è un ominicchio. È un uomo che sa soffrire, persevera anche quando per le coliche o la nausea, che domina con tempra d’Aiace, dovrebbe sospendere per poi ricominciare. Al Pronto Soccorso del Policlinico hanno cercato di far ragionare un posseduto giovane che continuava a spolpare cozze tra una vomitata e l’altra. E io ti lodo, ragazzo! Perché se pure morremo a causa di complicazioni gastrointestinali, se pure finiremo sul lastrico, quand’anche stramazzassimo su un tappeto di tarantine a mezzo guscio (più belle e seduttive delle stesse ragazze di quelle parti), o di aculei che difendono polpa di corallo, fratelli, amici, compagni, camerati, questa per noi sarà la fine più grande. Perché nascemmo e morimmo di Bari.

Quando si ululava a Bari «uè la biòoond’!» Il grido si perse nel vuoto. Tanti anni fa, quando Lino Banfi non poteva essere denunciato per omofobia, né l’antifascista Charlie Chaplin processato per maschilismo. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Luglio 2022.

«Uè la biòoond’!». Il grido si perse nel vuoto. Tanti anni fa, quando Lino Banfi non poteva essere denunciato per omofobia, né l’antifascista Charlie Chaplin processato per maschilismo, a Bari si udiva il verso belluino «uè la biònd’!» emesso da gole topinesche (di ladruncoli giovani), ma anche di onesti cittadini. La bionda non era un essere umano bensì un mito. E nasceva dalle radici della nostra interpretazione del bello, la grecità che ne diffuse il culto nelle armi e nell’aspetto, e quindi la cristianità che ne ampliò il solco nel simbolismo del Rinascimento, la mistica elisabettiana, fino ai Trenta e ai Cinquanta del Novecento. Perciò le bionde, avanzando come sirene nelle strade ancora prive delle strisce blu utilizzate per estorcere pedaggi agli automobilisti, controllate da vigili urbani comprensivi, venivano richiamate con esaltazione dai ragazzi sui Vespini, obbligate a una reazione pressoché divistica (naso all’insù e sguardo dritto, o un vaff… con tanto di offese ai morti), quando non sfiorate sui glutei da mani adesive con piegamento acrobatico sulle selle, simile a quello dei giocatori di polo intenti a colpire la palla di legno con le stecche.

«Uè la bbbiòoond’!» con le tre bi indicava chiaramente, più che l’arrapato, il corteggiatore disperato che anelava colei che agli occhi suoi era Afrodite di Cnido, se non meglio. Ma tale culto aveva una motivazione molto semplice. Fino agli Anni ’90 e oltre le ragazze a Bari non erano belle e spesso vichinghe come adesso. Raggiungevano in media il metro e mezzo, erano nere, le mutazioni auree rarissime, e se ossigenate lo si arguiva dal platinato anticorodal riflettente. Se poi ci si spostava nell’entroterra, Noci, Altamura (patria del nanoforme Homo neanderthalensis), Turi, si scendeva all’1,30, e in quella misura ci stava tutto, seno, sedere (uniche cose di interesse per il maschio tufo e primitivo) e pure un feto, se il fidanzato aveva «sbagliato», come si diceva.

Oggi se ululi «uè la bionde!» nelle strettoie (ex strade) sulla bici elettrica ecologica dalle batterie inquinanti, prima di tutto nessuno capisce: che ha detto, che vuole quello? Subito dopo ti incatenano per stupro preterintenzionale. Ma non si dimentichi che se ci sono stati scultori e pittori, aedi e trovieri che hanno esaltato nudità sericee, chiome irradianti bagliori d’ambra, cascami di riccioli avvolti in riflessi di zecchino, vi furono pure poeti di strada fra i baresi.

 L’antropologia della «Schifa». La «Schifa» è un soggetto diverso dalla comune moglie arricchita. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Giugno 2022

La «Schifa» è un soggetto diverso dalla comune moglie arricchita. Eroina del darwinismo utilitaristico, d’estate frequenta lidi a portata di zampa quando sta a Bari, appena parte, sabbie costose quanto granelli di argento. Non divorzia, non può essere single. Belloccia, mediocre o bruttina ha dai 40 ai 60 anni, ma anche sui 35 se ha programmato il futuro agiatissimo con preveggenza di pizia. Non pensa: agisce, l’azione in lei è filosofia. Si espone sul lettino per ore ai raggi che le conferiscono un colorito da mummia egizia. Mascella immota, braccia conserte, deretano atteggiato a guisa di trono che ondeggia quando cammina lungo la battigia. Gambe modellate da schiave estetiste, un tatuaggio piccolo o niente, unghie laccate dalla moda del giorno, della settimana o nei casi peggiori del mese. Anelli squillanti di griffe e soprattutto un marito sfondato di euro, dal QI 0,7, sorriso furbo ebete, andatura fra il tubista e il laureato-post mediante mazzetta.

Viene dalle classi bassa o media dalle quali si eleva bigliettone di euro su bigliettone di euro. Da quando Putin è spuntato nelle nostre esistenze, con le amiche «Schife» lamenta tirchiaggini del consorte dai polsi carichi di braccialetti: «Siamo arrivati a 11.000 euro per una vacanza. E se risparmiamo 4.000 rispetto a prima che cambia?». «Io sono una persona di stimoli, non posso andare sempre allo stesso posto». «Sono sicura che Antonio tiene la commara, se ne andasse da quella». «Scusa, che te ne frega?». «Niente, tanto sempre a me mi deve portare i soldi. Ma va sempre in Romania: e ai figli l’affetto?!».

Se ti avvicini alla Schifa ella ti squadra schifandoti con sopracciglio di strega: chi sei? Quanti soldi tieni? Che macchina tieni? Se le regali un libro ti denuncia ai carabinieri: «Un molestatore si è avvicinato offrendomi una cosa strana di carta, credo un toy per fare sesso». È semi-fedele: meglio i soldi del sesso. Ha un perpetuo grugno di seccatura sul muso bronzeo che tiene. In vacanza mangia soltanto aria, sali marini, espressino: è sempre a dieta. Anche se si trova a Dubai per fare i selfie con gli sceicchi, vola a Bari dal visagista per rimpinguarsi lo zigomo di botulino. Se litiga con il consorte si sfoga con l’amica Schifa e si cazza in shopping 3.000 dei di lui euro (tiene la carta). Ha papille di fiele, di tutti i baresi che contano sa tutto il peggio che c’è da sapere. Del meglio, briciole. Arcigna, basica, irresistibile, immarcescibile nella sua statua di «Schifa».

Bari, l'impero Matarrese crolla nella lite di famiglia: cosa c'è dietro l’indagine per bancarotta. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 ottobre 2022.

Solo dieci anni fa dominavano il mondo delle costruzioni del Sud, sedevano in Parlamento, tiravano le redini del calcio da Bari fino all’Europa. Amavano definirsi i Kennedy di Puglia, acquartierati nella palazzina di Japigia in cui a ciascun piano corrispondeva un fratello, un fortino dove per generazioni sono stati decisi affari e destini. Ma la parabola discendente dei Matarrese ha toccato il fondo in una calda mattina d’autunno. Il punto d’arrivo, o forse quello di partenza, di una amara faida di famiglia.

È da qui che conviene partire per capire cosa è accaduto negli ultimi due anni e perché ieri mattina la Guardia di Finanza, su ordine dei pm baresi Lanfranco Marazia e Desirèe Digeronimo, ha perquisito le abitazioni e gli uffici dei fratelli Amato e Antonio, 79 e 82 anni, e dei nipoti Salvatore, 60 anni, e Marco, 49, entrambi figli di Michele, accusati di concorso in quattro episodi di bancarotta fraudolenta insieme a quattro amministratori delle società del gruppo (Valerio De Luca, 61 anni di Surbo, Oronzo Trio, 42 anni di Lecce, Lello Pellecchia, 53 anni di Bari, e Marco Mandurino, 49 anni di Bari). Secondo chi indaga avrebbero provocato il fallimento di una delle società del gruppo, la Icon, e avrebbero tentato di svuotare la Finba, la holding di famiglia che fa capo ai quattro fratelli maschi e che a cavallo degli anni 2000 controllava un impero da mille miliardi di lire... 

Perquisizioni nelle sedi e nelle abitazioni dei costruttori. L’indagine nata dopo l’avvio del concordato. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 ottobre 2022.

Il fallimento di alcune società della famiglia Matarrese di Bari sarebbe stato causato da atti contrari alla legge, con un «buco» da oltre 20 milioni ai danni del fisco e dei fornitori che si somma ad altri debiti già accertati per oltre 300 milioni. Per questo la Finanza sta eseguendo perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici degli imprenditori baresi, accusati a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità di quattro episodi di bancarotta fraudolenta per dissipazione. L’inchiesta è condotta dalla Procura di Bari con i pm Lanfranco Marazia e Desiree Digeronimo. Le indagini sono partite a seguito dell’istanza di concordato preventivo presentata per la società Icon di Acquaviva, fornitrice di materiali da costruzione alle altre società del gruppo Matarrese, dichiarata fallita in aprile su richiesta degli stessi commissari nominati dal Tribunale di Bari, che hanno rilevato la «svendita» di alcuni beni della società . Gli indagati sono otto: Amato, Antonio (ex presidente della Figc e della Lega calcio, nonché vicepresidente della Fifa e della Uefa), Salvatore (nato nel 1962) e Marco Matarrese, insieme ad altri amministratori delle società del gruppo: Valerio De Luca, 61 anni di Surbo, Oronzo Trio, 42 anni di Lecce, Lello Pellecchia, 53 anni di Bari, e Marco Mandurino, 49 anni di Bari. I militari stanno acquisendo tutta la documentazione contabile prodotta dal 2016 a oggi, sequestrando anche pc e cellulari.

Dall’indagine che ha portato oggi alle perquisizioni nei confronti degli imprenditori Matarrese emerge - secondo la Guardia di Finanza - che l’esposizione debitoria del gruppo edile barese è di circa 70 milioni, mentre le distrazioni patrimoniali ammontano ad oltre 20 milioni. Secondo l’accusa, attraverso alcune operazioni straordinarie fatte dal gruppo Matarrese sono stati trasferiti asset di rilevante valore economico a un prezzo notevolmente inferiore a quello di mercato. Trasferimenti a favore di società riconducibili sempre alla famiglia e ad un imprenditore leccese ritenuto compiacente che opera nello stesso settore.

LA FAMIGLIA MATARRESE: NOSTRI COMPORTAMENTI LEGITTIMI 

«La famiglia Matarrese, ribadendo l'assoluta legittimità e liceità dei comportamenti tenuti dalle società interessate e dai relativi organi di gestione, confida pienamente nell’operato dell’autorità giudiziaria». Lo affermano in una nota gli imprenditori del gruppo edile barese dopo le perquisizioni e le acquisizioni compiute oggi dalla Guardia di Finanza che indaga su un presunto crack di oltre 20 milioni di euro. «La famiglia Matarrese - prosegue la nota - a chiarimento delle notizie apparse sugli organi di stampa in merito alle iniziative investigative e giudiziarie che interessano alcune società del Gruppo stesso, precisa che queste iniziative hanno comportato la sola acquisizione di documentazione ritenuta utile ai fini dell’indagine. Pertanto, le società del Gruppo interessate sono e restano pienamente operative nella loro autonomia».

 Perquisizioni delle Fiamme Gialle nelle abitazioni ed uffici della famiglia Matarrese: ipotesi di bancarotta fraudolenta. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Ottobre 2022.

Le indagini odierne della Procura di Bari sono scaturite in conseguenza dell’istanza di concordato preventivo presentata per la società Icon di Acquaviva, fornitrice di materiali da costruzione alle altre società del gruppo Matarrese, dichiarata fallita in aprile su richiesta degli stessi commissari nominati dal Tribunale di Bari, che hanno rilevato la "svendita" di alcuni beni della società .

La Guardia di Finanza su delega dei pm Desiree Digeronimo e Lanfranco Marazia della Procura di Bari sta eseguendo perquisizioni nelle abitazioni e negli uffici degli imprenditori baresi, acquisendo tutta la documentazione contabile prodotta dal 2016 a oggi, sequestrando anche pc e cellulari, accusati a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità di quattro episodi di bancarotta fraudolenta per una presunta dissipazione nel fallimento di alcune società della famiglia Matarrese di Bari che sarebbe stato causato da atti contrari alla legge, con un “buco” da oltre 20 milioni ai danni del Fisco e dei fornitori che si aggiunge ad altri debiti già accertati per oltre 300 milioni. I pm hanno disposto il sequestro dei supporti informatici al fine di ricostruire le operazioni finanziarie, natura e destinazione dei fondi impiegati, e con lo scopo di definire il ruolo degli indagati e di eventuali altre persone. 

Doveroso ricordare i circa 150 milioni di patrimonio familiare complessivo messi a disposizione nel 2013 dalla famiglia Matarrese per la ristrutturazione del debito (che era in totale 120 milioni) e per il rilancio dell’attività industriale. Due operazioni che andavano di pari passo e per le quali il gruppo si era affidato a consulenti di provata esperienza: Vitale & Associati, banca d’affari milanese, advisor finanziario per la definizione di una proposta di ristrutturazione del debito coerente con le aspettative di sviluppo definite dal piano di risanamento; e Kpmg Corporate Finance, che a quel piano industriale sta lavorando sul fronte della «sostenibilità numerica». Un piano che prevedeva un accorpamento societario delle oltre 50 società in tre divisioni principali: costruzioni; conglomerati bituminosi e asfalti; immobiliare.

Quella illustrata a suo tempo alla banche creditrici, le tre più esposte erano Mps, BancApulia e Bnl , era una vera e propria “manovra finanziaria”. A introdurla agli interlocutori fu il capostipite della famiglia, cioè Michele Matarrese che dando la parola al figlio Salvatore gli ha anche passato il testimone: dal 2014, una volta avviato sui binari giusti il piano (che esplicherà i suoi effetti in 4-5 mesi), ha assunto la carica di amministratore delegato e formalmente le redini del gruppo.

Salvatore Matarrese, secondo quanto trapelò dalle stanze della sede del gruppo, garantì alle banche che avrebbero onorato ogni impegno. Per garantire il buon fine della ristrutturazione del debito (sia nei confronti delle banche, sia nei confronti dei fornitori) e rilanciare la Salvatore Matarrese spa, venne messo a disposizione l’intero patrimonio familiare, tutte le risorse disponibili all’interno e all’esterno del gruppo, chiedendo fiducia e tempo. Fiducia, perché invita gli istituti di credito ad astenersi dall’intraprendere «azioni ostili» nei confronti delle società del gruppo, volte al recupero dei crediti; tempo, perché con la promessa di pagare tutto, chiede anche di allungare la debitoria. 

Un esempio su tutti: circa la metà dei 37 milioni di risarcimento per la vicenda Punta Perotti vennero anticipati da due istituti di credito, ma successivamente Matarrese chiese di non restituire subito quei 20 milioni, nonostante la disponibilità, proprio per faf fronte all’appesantimento finanziario generato dall’abbattimento di quelle costruzioni. Nel debito da ristrutturare non era compreso quello dell’ A.S. Bari Calcio che ha avuto un peso non irrilevante nella crisi del gruppo, considerato che ogni anno è stata necessaria una ricapitalizzazione di 5-6 milioni di euro, fino a un massimo di 11, che ha sottratto risorse alla Salvatore Matarrese spa. 

La crisi del gruppo Matarrese era una crisi di liquidità e per questo il nodo principale era quello di rinegoziare i rapporti con banche e fornitori, avendo un portafoglio commesse pieno per un totale di 350 milioni e quindi, come Salvatore Matarrese coadiuvato dal responsabile legale Giuseppe Matarrese aveva spiegato alle banche occorreva solo del tempo. Tanto più che le principali commesse sono ripartite, dall’ampliamento a tre corsie dell’A14 Bologna-Taranto nel tratto tra Senigallia e Ancona Nord (in precedenza bloccato per 15 mesi) all’ospedale di Alba, in provincia di Cuneo.

La famiglia Matarrese, mettendo a disposizione l’intero patrimonio per la ristrutturazione del debito e il rilancio, dimostrò di credere nella ripresa del settore industriale, nelle prospettive dei grandi lavori pubblici. Nel nuovo piano si prevedeva anche un importante rilancio dello sviluppo immobiliare, in particolare a Bari: aspettando Punta Perotti (se e quando sarà possibile ricostruire), sono pronti a essere sviluppate — così come venne spiegato agli istituti di credito — importanti volumetrie: dalla zona industriale al lungomare (di fronte al porto).

Le indagini odierne della Procura di Bari sono scaturite in conseguenza dell’istanza di concordato preventivo presentata per la società Icon di Acquaviva (fornitrice di materiali da costruzione alle altre società del gruppo Matarrese) dichiarata fallita in aprile su richiesta degli stessi commissari nominati dal Tribunale di Bari, che hanno rilevato la “svendita” di alcuni beni della società .

Gli indagati sono otto in totale: Amato Matarrese, Antonio Matarrese (in passato ex presidente della Figc e della Lega calcio, ed ex vicepresidente della Fifa e della Uefa), Salvatore Matarrese (nato nel 1962) e Marco Matarrese, insieme ad altri amministratori delle società del gruppo: Valerio De Luca, 61 anni di Surbo, Marco Mandurino, 49 anni di Bari, Lello Pellecchia, 53 anni di Bari, e Oronzo Trio, 42 anni di Lecce. Le società finite al centro degli accertamenti della finanza sono state la Betonimpianti srl, Ecoambiente srl, Finba spa, Immobiliare costruzioni spa, Icon srl, Matarrese srl, Sodelva srls, Super Beton srl, Strade e condotte spa.

L’iniziativa odierna della Procura di Bari avviene dopo la sentenza favorevole ai Matarrese per la vicenda dell’illegittima demolizione di Punta Perotti, e dopo che nel 2018 la Corte europea dei diritti umani aveva deciso il risarcimento per un appezzamento di 10.365 metri quadri a Punta Perotti, adiacente a quello dove sorgeva l’ecomostro (per la cui confisca l’Italia è stata condannata a Strasburgo nel 2009). “Si tratta di una sentenza uguale a quella del 2012 con cui già la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva condannato lo Stato italiano a risarcire con 49 milioni di euro la società che aveva realizzato il complesso edilizio sul lungomare di Bari“, commentò a suo tempo l’ingegnere Michele Matarrese. Solo una coincidenza ?

La replica dei Matarrese

A chiarimento delle notizie apparse sugli organi di stampa in merito alle iniziative investigative e giudiziarie che interessano alcune società del Gruppo stesso, la famiglia Matarrese con una nota precisa che “queste iniziative hanno comportato la sola acquisizione di documentazione ritenuta utile ai fini dell’indagine. Pertanto, le società del Gruppo interessate sono e restano pienamente operative nella loro autonomia“.

La famiglia Matarrese, “ribadendo l’assoluta legittimità e liceità dei comportamenti tenuti dalle società interessate e dai relativi organi di gestione. Confida pienamente nell’operato dell’autorità giudiziaria“.

Redazione CdG 1947

Crac per fondi a Bari Calcio, a giudizio imprenditori Matarrese. Michele, Antonio e Amato saranno processati dal 5 novembre per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta e documentale. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Giugno 2022.

La gup del Tribunale di Bari Valeria Isabella Valenzi ha rinviato a giudizio i tre imprenditori baresi Michele, Antonio e Amato Matarrese, rispettivamente presidente, amministratore delegato e consigliere della società 'Salvatore Matarrese spà (SM), e Antonio anche nel suo ruolo di vicepresidente della AS Bari Calcio dal luglio 2010 al giugno 2011. I tre saranno processati dal 5 novembre per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta e documentale. Contestualmente all’udienza preliminare la giudice ha assolto "per non aver commesso il fatto» l’unico imputato che aveva chiesto il rito abbreviato, il 60enne Salvatore Matarrese, procuratore della società SM dal 2008 e consigliere della AS Bari Calcio dal 2002 al 2011, assistito dagli avvocati Domenico Di Terlizzi e Amleto Carobello.

La stessa pm, Larissa Catella, aveva chiesto l’assoluzione. I co-imputati rinviati a giudizio, secondo l’accusa, avrebbero contribuito a causare il dissesto della società FM per finanziare tra il 2011 e il 2013 la società AS Bari Calcio, controllata prima all’89,99% e poi al 99,99% dalla SM e in stato di crisi già dal 2010, con l’obiettivo di consentirle «il rispetto dei termini e delle condizioni previste dalle norme organizzative interne della Figc per l’iscrizione della squadra al campionato nazionale».

I fratelli Matarrese a processo per il fallimento della Sm, che aveva investito e distratto oltre 20 milioni nel Bari calcio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Giugno 2022.

il Gip Valeria Isabella Valenzi contestualmente ha assolto "per non aver commesso il fatto" l’unico imputato che aveva chiesto il rito abbreviato, Salvatore Matarrese, 60 anni, procuratore della società Sm (Salvatore Matarrese) dal 2008 e consigliere della As Bari Calcio dal 2002 al 2011.

Tre noti imprenditori baresi Michele, Antonio e Amato Matarrese rispettivamente presidente, amministratore delegato e consigliere della Sm (società Salvatore Matarrese): Antonio anche nel suo ruolo di vicepresidente della As Bari Calcio dal luglio 2010 al giugno 2011, sono stati rinviati a giudizio per i reati di concorso in bancarotta fraudolenta e documentale, e verranno processati il prossimo5 novembre.

Nell’udienza preliminare che ha disposto il giudizio il Gip Valeria Isabella Valenzi contestualmente ha assolto “per non aver commesso il fatto” l’unico imputato che aveva chiesto il rito abbreviato, Salvatore Matarrese, 60 anni, procuratore della società Sm (Salvatore Matarrese) dal 2008 e consigliere della As Bari Calcio dal 2002 al 2011. L’assoluzione di Salvatore Matarrese era stata richiesta nell’udienza della scorsa settimana dalla pm Larissa Catella .

assolto Salvatore Matarrese

La Procura di Bari nella stesura dei capi di imputazione ha sostenuto che gli indagati “In concorso tra loro nelle rispettive qualità sottraevano e distraevano dal patrimonio della società e dalla garanzia patrimoniale ingenti somme di denaro mediante erogazioni di finanziamenti in favore della società controllata As Bari Calcio, società dichiarata fallita con sentenza del 10 marzo 2014 e di cui la Sm deteneva nel periodo dal 2009 al 2013 la titolarità di una quota pari all’89, 99 % del capitale della As Bari calcio, partecipazione divenuta poi totalitaria (99,99 per cento) – finalizzati a consentire alla As, società in stato di crisi già dall’anno 2010, il rispetto dei termini e delle condizioni previste dalle norme organizzative interne della Figc per l’iscrizione della squadra al campionato nazionale, finanziamenti erogati nel corso degli anni 2011-2013 in periodo in cui entrambe le società manifestavano evidenti segnali di tensione finanziaria e crisi anticipatoria del dissesto».

Le indagini effettuate dalla Guardia di Finanza hanno ricostruito che la Sm avrebbe erogato in tre anni in favore del Bari Calcio, attraverso bonifici o accollandosi debiti con le banche, più di 20 milioni di euro, solo in minima parte restituiti, raggiungendo una esposizione debitoria per oltre 11,4 milioni di euro al luglio 2013 e “a causa dei risultati economici negativi della controllata soffriva perdite per complessivi 42 milioni di euro“.

Così facendo, a luglio 2013 avrebbe raggiunto una esposizione debitoria per oltre 11,4 milioni di euro e “a causa dei risultati economici negativi della controllata soffriva perdite per complessivi 42 milioni di euro” come si legge nell’imputazione

Un’operazione che però non servì all’ As Bari Calcio ad evitare, solo un anno dopo, il fallimento della società (dichiarata fallita dal tribunale di Bari il 10 marzo 2014). Nel capo di imputazione che elencava le varie fasi della presunta bancarotta, si fa riferimento, al giro di bonifici fatti (in particolare nel 2013) in favore della società controlla Finba, che aveva la stessa compagine societaria della Salvatore Matarrese. 

Ad esempio, la società SM-Salvatore Matarrese, “nell’anno 2011 erogava in favore della As finanziamenti per complessivi 11.704.118, 78 sia a mezzo bonifici disposti con prelievi dai conti correnti intestati alla Sm, sia a mezzo di anticipazioni eseguite per conto della controllata As in pagamento di debiti di quest’ultima e 5.300,00 milioni oggetto di rinuncia, essendo stato tale importo girocontato per rinuncia e destinazione al patrimonio della As a riserva in c/c in futuro aumento capitale sociale».

Ed ancora negli atti dell’inchiesta della Procura della Repubblica di Bari, si legge che la Salvatore Matarrese ammessa alla procedura di concordato preventivo nel maggio 2016, “distraeva somme mediante accollo delle obbligazioni della As Calcio Bari costituenti crediti che la Sm vantava nei confronti della As Bari calcio e oggetto di rinuncia“.

Breve trattato sull’arte del «tuzzo». Grazie all’ars tuzzandi anche i baresi, come quel montato di Bruce Lee che propalò il kung fu del fischietto, si sono guadagnati una fama, ben più dei sardi, competitori isolani. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2022.

Non meno importante del citatissimo De artis venandi cum avibus, trattato della falconeria di Federico II sovrano, è questo De artis tuzzandi, che non prevede rapaci ma la sola crapa, fra glabella e osso frontale.

Il tuzzo, la capocciata sleale assestata per stendere l’avversario è un tratto denotativo della baresità e delle sue arti marziali. Siamo cresciuti osservando gli scassati di capa afflosciarsi davanti all’ariete che nel «chi sono io e chi sei tu» ha avuto la meglio. Ed è così da sempre, tanto che nostre erudite ricerche, che non riveliamo a voi brutte capre (sappiamo che Luciano Canfora ci contesterà), provano (forse) che già Antonio Beatillo nell’Historia di Bari (1637), ed Emmanuele Mola nelle settecentesche Memorie dell’illustre città di Bari, in brani apocrifi ne hanno parlato.

L’arte del catatuzzo si rivela attraverso canoni immutati. Appena il craniato viene colpito sul setto nasale, reggendosi la protuberanza sbomballata, pronuncia sempre la stessa frase: «Ti denuncio». E se già la natura gli aveva appioppato un profilo da Federico da Montefeltro, brutale, ne approfitta giustificando con gli amici l’operazione di chirurgia plastica: «L’ha detto il medico, dopo il trauma respiravo male». Il tuzzante, dal canto suo, resoconta al bar: «Bum! Manco la bocca gli ho fatto scocchiare». In qualche caso antepone un «bu-bum!», raddoppiato. Mah. Vabbè.

Come nell’Amleto di Gianrico Carofiglio vi sono segnali rivelatori che la vittima può cogliere pria di venir rintronata. Il muflone solitamente si tocca il naso quando sta per martellare. O s’aggiusta la camiciuola sì da concedere al collo rinculante massimo agio. Oppure prelude con ingannevole confronto verbale avvicinandosi al bavero della vittima. Non si ricordano (e qui torniamo al Beatillo et al Mola) casi di taratuzzi, cioè di capocciate ripetute a martello pneumatico. Il colpo è uno e risolutivo.

Grazie all’ars tuzzandi anche i baresi, come quel montato di Bruce Lee che propalò il kung fu del fischietto, si sono guadagnati una fama, ben più dei sardi, competitori isolani. Tempo fa un romanaccio ci oscurò scassando il muso a un giornalista davanti alla telecamera. Ma, francamente, non lo stimiamo. Centrò l’importuno secondo scuola krav maga, compatto, bilanciato. Niente a che fare con la creatività estemporanea, con lo stile del tuzzatore di Bari, che impreca morti stramorti e sepolte fess’ d’ màmt’, disarticolando l’asse tronco-bacino in forme convulse di danza (uno-due, uno-due) che John Travolta se le sognava.

Bari, tra i condomini in costruzione e la sede della Regione: viaggio nel quartiere Japigia. Enrico FILOTICO su la Gazzetta del Mezzogiorno Mercoledì 23 Febbraio 2022.

Japigia è uno dei quartieri di Bari con estensione più ampia. Nell’ultimo decennio ha cominciato un vero e proprio processo evolutivo, passando da quartiere "delicato" per la presenza radicata della criminalità organizzata a zona residenziale caratterizzata dalla fortissima presenza di verde urbano. Quest’ultimo uno dei patrimoni da preservare.

Il viaggio nel quartiere

Il quartiere, oggi, si sviluppa verso sud lungo le direttrici viale Japigia - via Gentile che corre parallelamente alla ferrovia Bari-Lecce, e via Caldarola. La mediana rappresentata dal Torrente Valenzano o “Canalone” divide la parte vecchia dalla parte nuova. Il limite sud è costituito dalla tangenziale cittadina, coincidente con la Strada statale 16. La parte nuova del quartiere si sviluppa intorno a strade larghe e scorrevoli, spesso alberate, alternate ad aree di verde attrezzate, grandi spiazzi di verde incolto, ampi piazzali di parcheggio “campi”, complessi edilizi dotati di ampi giardini, tra cui le caratteristiche torri del quartiere Japigia. 

Proprio dalla viabilità parte il racconto di un’area cittadina che, senza fatica, può essere simbolicamente definita in bianco e nero. Nel corso del suo primo mandato il sindaco, Antonio Decaro, ha iniziato un lavoro di rilancio del distretto, aiutato anche dagli interventi della regione che ha individuato l’area in cui sarebbe sorta la nuova sede proprio sul lungomare di competenza del Municipio I.

«Sicuramente il rifacimento di via Caldarola migliorerà la vita del quartiere. Prima le radici degli alberi distruggevano le auto, ora per fortuna si potrà camminare più serenamente. Speriamo che non sia un palliativo e di non vedere tra uno o due anni nuove buche». «Siamo comunque fiduciosi – racconta Stefano, residente del quartiere -. Negli ultimi anni hanno valorizzato alcune zone rifacendole, introno all’Ipercoop hanno costruito nuove piazzette arricchendole con giostrine per i bambini. Certo è che negli spazi in possesso della criminalità organizzata, è cambiato davvero poco. Sembra che ci sia una Japigia A e una B. E questo non va bene. Non si può dire che il quartiere al momento offra moltissimo. L’Ipercoop per fortuna ha raccolto diverse attività, ora hanno aperto anche una palestra. Le attività commerciali continuano ad essere poche, però temo che sia un problema di tutte le periferie. 

Anche dal punto di vista della mobilità sono state fatte cose positive. Nei prossimi mesi aprirà il park&ride dal polivalente in direzione centro, questo agevolerà i residenti del quartiere».

Anche Eleonora, 23enne che abita nei pressi del nuovo palazzo della Regione ha di che lamentarsi: «Sinceramente qui una delle più grosse mancanze che vivo è di un marciapiede sicuro nel tratto di strada tra viale Japigia e via Gentile».

«Tra il sacrario e l’autolavaggio – racconta la ragazza -. Il marciapiede è piccolissimo, ho paura a camminare su quel ponte. Lo si fa, perché si deve fare però la gente in auto corre dato che la strada è tutta dritta e il marciapiede è microscopico. Spesso e volentieri c’è poi un bellissimo albero di fico che non viene potato e quindi neanche quel piccolo passaggio si può utilizzare. Se arrivi alla fine del ponte hai il diritto di sentirti fortunato. Anche il nuovo mercato, è si molto bello ma non immaginato troppo per chi deve parcheggiare. Per andare a fare la spesa i posti scarseggiano, rimane appannaggio solo di chi può raggiungerlo a piedi». 

Sono tanti gli interventi realizzati. Basta un rapido sopralluogo per capire che quelle strade per anni pericolose e contraddistinte da profonde buche in grado di poter rovinare i veicoli, lentamente stanno lasciando spazi a manti stradali nuovi. Non solo l’usura dell’asfalto della prima parte di via Caldarola, anche l’emersione delle radici dei pini hanno costretto con il tempo i residenti a chiedere con voce ferma di potersi spostare per tramite di una viabilità efficiente. A preoccupare i residenti è però il grande tema dell’edilizia aggressiva. Alcune delle aree verdi che nel quartiere intervallavano i palazzi stanno progressivamente diventando esse stesse dei palazzi, togliendo spazi di area pulita in una zona periferica e contestualmente rappresentando un pericolo geologico per l’intero quartiere. Certo la presenza di strutture come il Palaflorio o il nuovo maestoso palazzo della Regione, sia pure per motivi diversi, hanno portato quella parte del primo municipio al centro della quotidianità barese rendendolo di fatto un’estensione del centro. Rimane il tema dell’edilizia popolare, ormai vetusta e mai al centro di progetti di riammodernamento sebbene dovrebbe essere tra le priorità delle autorizzazioni concesse dal comune per nuove costruzioni.

Bari, da «Le pon pon» a «Feltrinelli»: benvenuti in via Melo. La storica via del Murattiano, tra negozianti, bar di culto e rituali cittadini. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Febbraio 2022.

Lungo via Melo sono passati innumerevoli passi ma sono andati tutti perduti. Una folla di suole svanita giù verso l’eleganza di corso Vittorio. È fra le strade nobili del Murattiano disegnato con compasso massonico. È raro incontrare topini cowboy con le Peroni nelle fondine e il tuzzo pronto. Questo significa che se risiedi qui, chiacchierando a un party in villa a Bitonto, puoi lasciar cadere la frase, «ti sconsiglio di trasferirti in centro a Bari, bello ma caotico, abito in via Melo da vent’anni», e tirartela un poco. E se sei anche proprietario di un buco commerciale nel quale entrano a stento i piedini di un cittadino di Lilliput, puoi sguainare i canini e strozzinare un fracco di soldi, piegando il negoziante all’affitto che lo ridurrà sotto i ponti. 

Melo da Bari fue (arcaismo inutile che significa fu) il primo capo della rivolta contro i bizantini in Puglia. Non lo sapevo prima di copiarlo da Wikipedia come non lo sapevate voi. Ciucci. La zona ricade nel cap 70121, ma anche di questo suppongo vi impipi poco. È importante apprendere invece che, camminando lungo i marciapiedi sconnessi, talvolta maculati di deiezioni di jack russell stupidi, è facile inciampare in qualche avvocato che schizza trafelato dallo studio. A Bari, lo sapete, sono milioni. Ma questo discorso vale per il centro fichetto tutto. 

Beh, allora, che stavo dicendo..? Mi sono dimenticato… Ah sì, allora: via Melo incomincia in zona stazione, un po’ decadente come ogni scalo ferroviario. Sulla sinistra potete osservare (‘sta frase è un po’ da guida turistica, vabbè) un orinatoio pubblico, o verso i portici, ad uso di infelici giunti da altri mondi (negroni superdotati e musi gialli armati di scimitarre, questo tanto per venire denunciati per istigazione all’odio razziale o arrestati tosto). A destra l’ingresso del liceo Scacchi, uno dei tre migliori istituti negli anni buoni, nel quale insegnò Ernesto De Martino, studioso napoletano passato alla storia anche per le ricerche sul tarantismo, che purtroppo poi ci hanno portato inesorabilmente alla pizzica zinghe e zanghe che dilaga ovunque. Non se lo era mai filato nessuno, finché – ecco, mirate un po’ più su - l’associazione culturale Maylab fece apporre una targa all’ingresso della scuola, 9 maggio 2015, cinquantenario della morte. 

Proseguendo c’è il colorato locale Arnold’s, americanissimo, Anni 50, Happy Days dop, inservienti vestite di pois sognanti, reperti rari di un sorriso a stelle e a strisce che non è tornato più. Svariati negozi di orientali in fotocopia, vincenti nuovi, nuovi padroni.

Eh, adesso sì che iniziamo a ragionare. Non soltanto per i taratuffi succosi nella pescheria di Mimmo, ometto bruno e verace, ma soprattutto per il negozio che ha fatto la storia di ogni arrapato, cioè d’ogni homo. Il sexy shop Le Pon Pon, primo a Bari, primo in Puglia, mito del mondo, tutti in ginocchio, prosternatevi dianzi alle videocassette porno che furono, agli aggeggi vibranti anni Ottanta gnic-gnic, alla biancheria cicciolinosa (da Cicciolina). Pionieri, maestri: tutto. La cittade vi onora.

Ancora un po’ e sono cavoli tuoi. Novantanove chili di barista, Massimo, del frequentatissimo Mozart, ti prenderanno al laccio del «buongiornooo!», richiamo ossessivo compulsivo gridato dall’omone, e sorbirai il caffettino anche se non vuoi. Di fronte c’è monsignor Raphael, negozio storico d’abbigliamento e di gusto. Peccato che non produca più le camicie fresche a manica corta, così rare e comode. L’isolato seguente è Feltrinelli, e questo è un altro discorso.

Feltrinelli è un contenitore di varie cose: tazze da tè o altro beverone, tappetini per la casa, matite e pennucce, libri, anche, compresa una Bibbia e una copia de Il giovane Holden della cui vecchiaia non s’è mai fregato nessuno, una Divina Commedia, anche se tra i gruppi Facebook Dante è in discesa in quanto i critici digitali dicono che scrive maluccio, una cascata multicolore di volumi per bambini, un parco giochi nel quale è permesso giocare a staccio, camminamenti con dischi impolverati quanto la cultura decaduta. Schieramenti luccicanti di volumi sui fiori, affiancati da guanti per giardinaggio tempestati di coccinelle e api operaie. C’è pure un bar, comodo e buono come del resto tutto, salotti ove poggiare il deretano di bertuccia, o scosciarsi sfogliando un Bauman decotto. 

Segnaliamo al visitatore i volumi ciclopici del reparto Moda, però i mascara allegati non li vendono ancora.

All’interno della Feltrinelli si consumano presentazioni di libri, tristucce come in ogni altro luogo. Brevi pause, in fondo, nell’attesa del Fedez o della Ferragni gattamorta di turno, o del trapper tufo che trasforma un sacrario di carta in orgia oceanica di analfabeti della musica. All’ingresso invece nelle mattinate di sole si usava far capannello menandosela su vari autori, da Pindaro al tuo idraulico, perché ha pubblicato pure lui. C’erano anche dei cinefili stretti in drappello stracolto. Poi ognuno rientrava a casa a guardare video porno. 

Via Melo è serena. Sulla destra puoi visitare il covo ligneo odoroso di pellami De Astis, nel quale Danilo, bonario Hulk giammai verdognolo, si aggira scrollando muscoli da pallanuotista duro.

Se non sei un morto di fame che sbaglia i congiuntivi e verrebbe pertanto scacciato dai salotti della sinistra chic come un infettivo a colpi di scamorza, puoi pure acquistare qualcosa da Numeri Primi, supermercato di qualità. Più avanti si allungano le vetrine di Mimma Ninni, perché è arte anche la moda donna, Quadra, con scarpe del valore di una cornea, altre attività (non mi azzardo a citarle perché da un giorno all’altro a Bari, tra fallimenti e chiusure disastrose, trovi insegne che con le vecchie non c’entrano nulla, da cui una gioielleria si trasforma in rivendita di lupini all’ingrosso).

Superi il Glamour caffè frequentato da giovani sessantenni vitelloni, finché, lemme lemme, ti fermi davanti a una vetrina piccola stipata di cose. Volgi gli occhi al cielo e l’insegna Mercoledisanto ti si pianta negli occhi. Escursionismo, arrampicata, adventure, roba da eroi. Il negozio venne avviato – si va a memoria, non fidatevi troppo – da un capo-scout dalla barba dura, serio, capace con i suoi lupetti, intensamente cattolico. Così che si può dire che via Melo conserva un avamposto di Dio lungo il suo percorso, cioè della natura.

A Bari via Argiro fa le scarpe a via Sparano. Negozi in tiro e vetrine chiuse; prosegue il nostro viaggio alla scoperta della città. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Marzo 2022

Drogarsi di Tonino Asselta, che proprio ieri (auguri) ha festeggiato 75 anni. Imbevere le anse cerebrali dei Pintucci decani da 122 anni, del ricordo degli Sciccosi, i due Gemelli che gemelli non sono ma lo sembravano nonostante i tratti, fantascientifici azzimati dell’ei fu negozio omonimo multi-piani, ancora attivi sul mercato.

Negozi in tiro e vetrine chiuse. Caffè morti o vivi come Jerome. Puntigliosi ragionieri della vendita al dettaglio. Danarosi protestati, ex paperoni in gramaglie che hanno perduto con le mutande pure la commara, personaggi che ti restano in fronte come marchi pantagruelici della baresità. Questo e altro è via Argiro, che contende il serto a via Sparano. Gente che mangia e che non sciala, e che pur se ci freca siamo portati ad amare.

Essere Tonino Asselta, cinque boutique tra Bari e la sua Andria col Cinema Opera barlettano, è più difficile che Essere John Malcovich, come recita il titolo di quel film raffinato. Dopo che hai incontrato a Tonino, il jack russell di via Argiro, e ti ha narrato la sua esistenza da romanzo, tra fughe dal seminario direzione Torino e Milano a undici anni, commercio di limoni e di santini sui bus dei pellegrini verso i santuari, tornando a casa ti meni gli schiaffoni in faccia: non è possibile essere come a quello là. Tu sei capace? L’Asselta, scafato e ficcante come le tre fiere di Dante, ha eretto pure al Murat un negozio moda alto alto, strutturato più o meno come la piramide di Akhenaton. Difatti pure li ladroni, quando vi penetrano, finiscono direttamente negli scarichi di fogna illegali della Lanza. I costruttori, esili come geroglifici, sono stati ritrovati accecati, vagolanti per le strade del San Paolo. Ora egli, o esso, Tonino nostro, che torreggia in via Argiro con tanto di «Asselta 1970», ha ristretto parzialmente i ranghi. Certo rilucono sempre le scarpe a punta identitarie di quest’uomo santo, assicurate come i glutei di Kim Kardashian.

La strada che Decauro (Antonio Decaro sindaco) ha reso pedonale è solcata, come l’intiera cittade, da monopattini silenti e insidiosi come loffe di missili lanciate contro l’Ucraina. Sono guidati da decerebrati (li odio: li odiamo) che ticchettano «sei una porca» via Facebook sul cellulare mentre in controsenso ti resecano un alluce con le rotelle dure come acciaio. È un rettilineo rasserenante, ma incomincia male. Il buongiorno lo danno la Bnl, che appunta diligentemente le scadenze non onorate, e Dentix, ai cui ferri odontoiatrici tanti si offrono con espressioni di cavalli da domare. Segue un rigurgito vegetale, cioè il bar Tiffany affrescato di fiori, guidato dai coniugi Francesca e Gianni, preso d’assalto da qualche scambista inconfesso, politici pentiti in quanto non ladri, cornuti che se ne fregano, fedifraghe che se ne calano peggio, tanti professionisti in, al massimo due psicolabili out: la Bari bene che non pronuncia «ho stato ho andato».

Dal primo isolato Franco Cassano, intellettuale del quale in questi giorni si parla parecchio, piegava verso via Dante 25, casa che l’editore Alessandro Laterza ha lasciato da qualche anno. Mimma Ninni (chi è? Donna? Griffe?) si manifesta con un doppio cristallo che fronteggia un fortilizio angolare, si ripropone con una terza postazione più avanti. Non c’è nessuna vineria frequentata da alcolisti e tossicodipendenti. Peccato. C’è invece Alla Barese, pizzeria ristorante di cucina verace; nella bella stagione sparge all’aperto innumerabili tavoli, che possono arrivare fino a Santo Spirito, domenica e sabato, e a Monopoli dall’altra parte, anche quando si festeggia la Madonna della Madia. Ci sono poi due chicche che vanno menzionate. Il negozio per bambini Fiori Blu, che può essere osservato come un’opera d’arte di impronta commerciale, connotato dal tipico gusto che hanno alcune signore del centro di Bari, e Dmail, esposizione di inutilità colorate, e proprio in quanto tali, indispensabili.

Proseguiamo con animo radioso la promenade mussorgskiana, anche perché dopo la precedente puntata dedicata a via Melo per questa serie sulle strade, ci sono piovuti, come guiderdone dai titolari degli esercizi lecchinamente menzionati, solitamente scorze, accessori moda, prosecco biologico (due bottiglie), latticini da recuttari comprovati, oltre a un’ambigua camiciola floreale (per favore, non mandate più merce in redazione ma a casa, non voglio certo condividere i doni con i colleghi sgrosciatori sfessati). 

A un certo punto si incoccia nel mausoleo della Nike (scusate, perché non avete apposto almeno un cacchio di insegna all’ingresso ma soltanto il marchio?), che ha le dimensioni del Sacrario dei caduti Oltremare. C’è pure la Lego, meraviglia plastica nella quale anche involuti di 50 o 60 anni pescano il bel tempo andato. C’è Maldarizzi colosso delle auto. C’è l’Atelier Emé dedicato alle divorziate e separate, cioè alle spose che scelgono l’abito nuziale che poi malediranno. C’è Dante 5, salotto moda dal quale fuoriesci finetto pure se sei un emerito cozzalo. C’è Saicaf cafè sull’ultimo isolato, dove il Comune ha snudato le scivolose basole, nere come zoccole del Lungomare: vende ancora chicchi al peso, baluardo della gloria di una città sopravvissuta soltanto negli annali. Ma soprattutto c’è uno dei negozi di scarpe di due monumenti del commercio locale. I baresissimi Pintucci, figlio Nicola e Raffaele patriarca. 

Armonizzati anche quando passeggiano a braccetto per il centro confrontandosi, discendono da un altro Raffaele (fondatore nel 1900) e un altro Nicola, e confermano il primato che vede nella Pantofola Pintucci il simbolo sacro. Parecchio simpatici. Di tradizione iconograficamente documentata. Amanti del mestiere: dal 1968 in cui ereditò la titolarità Raffaele non perde una giornata, e dal 1989, data d’insediamento in via Argiro, alle 7.30 Nicola (è identico al Vescovo di Myra da quando s’è fatto crescere la barba) sta già in postazione a scartabellare ordini, uscite ed entrate. Inarrivabili soprattutto nella proposta inglese, i cui modelli espongono come rubini birmani (ricordatevi che porto misura 6 delle Tricker’s stringate. L’indirizzo ve l’ho lasciato).

Quella volta in via Re David, viaggio nelle strade di Bari. Caffè e Politecnico, storici bar e una lunga pista ciclabile. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Marzo 2022

Appena uscito dalla chiesa di San Marcello, svolti a destra pregando e ti ritrovi in via Re David, asse di riferimento di San Pasquale Bassa. Costeggi i precipizi del Politecnico, nelle cui radici di cemento e di acciaio procedono i lavori da tanto, una delle rare eccellenze di Bari. Spunta la vetrina piccola di una ferramenta, segue il cafè-bistrot Dehors dall’aroma alternativo e con spazio all’aperto per i tavoli. Sulla sinistra una teoria di cristalli segue le esposizioni di Materica Falegnamo: sei a destra sulla pista ciclabile lungo la quale ti sfiorano i gomiti, e le recchie anche, bici a pedalata assistita lanciate a tutta velocità, bici a propulsione miotica ossia muscolare, carrozzine con dentro neonati non ancora dediti all’hashish, monopattini con sopra coppie, figliolette con madri. Per cui ti consiglio di attraversare sul prospicente marciapiede d’antan dove si cammina come quando stavamo meglio e lasciare che i suddetti fra loro si ammazzino.

Alla girata con Pixel, riferimento dei nuovi ingegni appiattiti dal digitale, c’è l’Osteria di Mario, ristorante con pizza anche a pranzo, gestito dal rosso Tommy Tedone, mito radiotelevisivo locale. Sull’angolo opposto spicca un locale da visitare: il Monocle cafè, dall’arredo bizzarro, invaso a ondate da ciurmaglie educate di iscritti al Campus, futuri ingegneri che pagheranno mazzette per gli appalti, architetti addestrati al cavillo per lo spreco, biologi che vedranno l’alba transumanista di un dominio sul gene affermato.

Distinti dal livello igienico classico da fuorisede (non fietano ma non olezzano manco) sudano freddo ripassando sui tavolini prima dell’esame testi veramente pesanti, ridacchiano sedendosi e alzandosi in pantaloni mezza stagione che accolgono inguini non ancora annaspanti nelle sabbie mobili atarassiche. Sono là vividi, magari in coppia con ragazzette belle, freeèsche… (sto mutuando il linguaggio dai compagni di merende del maniaco Pacciani), pronti a congiungersi nel peccato di stanze in affitto comunitarie. Si molleggiano su ginocchia non erose dalla gonalgia bilaterale, allungano (maledetti..!) i tendini elastici verso i frutti erogeni delle compagnuzze non scalpellati dai chirurghi plastici, che preservano la consistenza della grazia.

Via Re David è disseminata di copisterie, data la concentrazione universitaria e scolastica, e per la stessa ragione di panifici, quali quello Dello Studente, storico, istituzionale. A un certo punto ti trovi davanti un inspiegabile busto cesariano in pietra, che come tutti quelli di derivazione greca dà insieme di tempra e di piacere omosessuale. Segna l’ingresso smilzo del Sesar, dalle cui vetrine sopraelevate gli avventori possono contare i capelli sulle crape dei passanti. Le pareti del bar sulla strada sono costellate di cartelli che i cani, ci auguriamo, dovrebbero leggere con maggiore attenzione: «La pipì non la faccio qui».

E si arriva al 14° Circolo didattico Re David, che si apre con una rampa più abnorme che brutta. Vi entrano mamme con al fianco cappellini che contengono teste di bimbi recalcitranti. La scuola si interseca con via Celso Ulpiani, fascinosa, serpentina e vegetale, dove gli ex giovani che oggi sono in coda per lasciarsi cadere nella bara andavano a fare le cose sporche con le innamorate. Seguono l’alberghiero Armando Perotti, il monolitico ITT Panetti che guarda l’Accademia di Belle Arti, che oggi sono bruttarelle alquanto. Accanto sopravvive dal 1970 la cartoleria Fortunato, 74 anni di attività messi a rischio dalla crisi e dalla morsa dello Stato. La Farmacia Capezzuto è gestita da un pool femminile con gentilezza dinamica. Ma c’è qualcosa sull’altro angolo che ha fatto la storia di Bari: il Bar Nico, recentemente ristrutturato, eppure intoccato nella memoria degli studenti del Salvemini, un tempo liceo scientifico attorno al quale ronzavano Vespini dalla testata abbassata, rari Aspes, Caballero 50. Oggi, ridotto a Provveditorato, viene cinto d’assedio dai prof, cioè i peggiori sfigati.

Dopo il semaforo, andiamo avanti. Di notte davanti all’eccellente panificio San Pasquale, lungo il giardino prediletto dai cani, si agitano spiriti ebraici, essendo stata questa area cimiteriale. Al civico 138, angolo via Enrico Toti, ci sono le vestigia della Cartoleria Morea, riferimento dell’intero quartiere in passato, dall’istituto D. Cirillo ai catechisti della parrocchia San Pasquale. Tabacchi Arena conserva l’insegna originaria. E adesso, scusate, ci inginocchiamo: siamo di fronte al Bar Rubino, quello col brillante granata come puntino della i, di fronte all’Odeòn, cioè il cinema Odeon che ha assunto le sembianze di un palazzo. Un tempio perfettamente conservato come nei cupi e splendidi Anni ’70.

Grazie. Noi, Bar Rubino, ti amiamo. Così come sei, uguale. Con quel titolare che forse ha sorriso una volta o non ha sorriso mai. Luogo di ritrovo di gente che fu particolarmente vivace e che tutti i sanpasqualesi tengono fra le tempie stampata. Vov, Amaretto di Saronno, Petrus, Biancosarti. Panzerotto nel Panificio Re David, oggi Pan per focaccia. Dall’angolo precedente alla vicina pasticceria fino abbasso all’Estramurale (via Capruzzi) circolavano tomi e bestie meccaniche che il destino ci aveva regalato e che il tempo non avrebbe più restituito. Alfa Romeo Super sconfinanti sui marciapiedi in assoluta liceità, Kawasaki Mach III potenziate in impennata, catenazze d’oro con volti di Cristo dagli occhi rubino o patacca pencolanti sui petti di oranghi. Manate in faccia e musi schiantati sui cofani delle auto nelle risse tra ceffi, pistole e coltelli utilizzati di rado. C’erano P., l’immoto ‘u S. (ancora oggi non è il caso pronunciare il nome di questo monoblocco delinquenziale), A. l’acconciato, l’australopitecoide ‘u Sg. e sopra tutti P.P., il cui nome veniva preannunciato ululando nelle sale biliardo, mentre gli apripista sbatacchiavano per gioco, senza cavare sangue, i figli di una borghesia che niente sapeva di strada.

Il mercato di via Nizza ha traslocato lasciando sentori di pesce, frutta e pollo squartato per anni. Lungo il corso principale, che sta fra il popolare e il grado mediano, si susseguono poche realtà straniere, tante nostrane, come il Digital Print di Nico, bruno vitale e ultra-rapido, Pastificio Ancora & Fiore, Bar Bianco, un supermarket a prezzi stracciati. Nella Salumeria lavorava Toki col padre, rapper molto seguito (3.7 milioni di visualizzazioni YouTube con Iì so de Bbare) e prematuramente scomparso. C’è perfino la Federazione provinciale del Partito democratico, essendo questa la culla di Michele Emiliano e del fratello Alessandro: il padre vendeva affettatrici rare. Un quartiere teatro di un enigma che fece parlare nei Settanta, tanto da ispirare la band demenziale Bangla Boys che prese a prestito i nomi dei protagonisti di quanto andiamo a raccontare.

Da via Re David, verso via Francesco Muciaccia, un palazzo diroccato e abitato limitava una stradina buia di tentati stupri e scippi seriali. Sulla parete di tufi marci che guardava il largo della Farmacia Bellisario un mattino comparve una gran scritta spray: «Mariella & Tonia fu igulata». Firmato, «Tonino F. & Michele G.» (i cognomi erano per esteso), con sotto disegnata una bara. Per risolvere il rebus basta essere sufficientemente cozzali. E soprattutto di Bari.

Dio benedica viale Europa: tour esistenziale nella periferia di Bari. Un serpentone d’asfalto lungo quasi nove chilometri tra natura selvaggia, fabbriche fantasma, umanità. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Marzo 2022 .

Dopo via Argiro, via Melo e via Re David, prosegue con questa quarta puntata il viaggio per le strade di Bari.

Viale Europa è un serpente senza occhi, senza anima, che si lascia schiacciare il dorso dalle macchine, dai camion, dai Tir per nove chilometri o quasi. È frutto dell’immensità urbana che snatura i cittadini in elementi numerari. Viale Europa, lungo quanto una vita, uno dei simboli del quartiere San Paolo di Bari, che significa C.E.P. Centro di edilizia popolare, non dà nulla e non prende niente. Come le persone dal cuore stretto, sta lì nel suo non significato. Percorrerla può cambiarti la vita, se a questo punto della vita ancora non l’hai fatto. Procedi tranquillamente, tanto Dio dall’alto non ti guarda.

Tu probabilmente vivi a Bari, cioè in quell’agglomerato esteso alle periferie contigue dove non si immagina l’esistenza di un mondo distante anche fisicamente da quello abitualmente frequentato. E se parti da lì imboccherai viale Europa da strada Bruno Buozzi, scendendo il sottopasso attraverso il quale sfuggiamo ai richiami dei seppelliti nel cimitero monumentale. 

Il rettilineo d’accesso è costellato da buche, voragini, lombrichi d’asfalto che si agglomerano in dossi sulle vecchie lesioni del manto, veri attentati ai danni del cittadino che il Comune perpetra in ogni parte della città. Ti rendi conto che c’è un B&B da queste parti, c’è giusto l’Autoparco Anas. Ci sono le rovine di una fabbrica che fagocita eserciti di operai ectoplasmatici e sopravvive per gli esteti avvezzi a succhiare delizia dal marcio, celando su un fianco nascosto alla strada balconi presi a cazzotti dai giganti metropolitani.

Omini arancio di fronte alla Sita svolgono lavori stradali, e di là già alla svolta si apre quel mondo diverso a cui accennavamo. Viale Europa inizia, inizia il viaggio. È una sofferenza che si fa esperienza e si anima di una campagna incolta d’erba fluttuante, ingiallita dai laterizi, fanoni di amianto, e quasi ti parla mentre il polistirolo capitombola al vento più avanti e il velo della solitudine insaziabile dell’uomo si stende raffreddandoti l’anima.

Sei solo in questa notte, anche se è giorno e brilla il sole. Questa è la bellezza di posti del genere. A destra una cisterna e una casupola abbandonate dal contado di contrada Sopramarzo. Sul ciglio della strada il cuore di una macchina industriale divorato dal cancro. Tralicci per l’energia elettrica, antenne, resti animali, due pecore al pascolo. Mentre a sinistra, eretti su altri appezzamenti di terra sterile, scorrono cartelloni senza volto, svuotati di fasto e di caccia al denaro, che mostrano la loro pelle grigia di vecchi.

Le dimensioni ti fanno partire qualcosa nel cervello. Tutto in quest’altro mondo è per i giganti. E tu sei piccolo, fuori e dentro di te con quel poco che ti è rimasto. Scopri che la Q8 è luogo di socialità. Scopri l’enoteca Vinarius. Un marmista che non c’è, e quando c’è si muove nell’immensa fabbrica mangiata dal vento sotto un traliccio giallo parallelo al selciato, lungo e alto tanto da poter sorreggere una nave. 

Su viale Europa puoi divertirti. Qui è tutto un inseguirsi di macchine e moto lanciate ad alta velocità, verso il San Paolo, o verso altre colonne d’Ercole; ti sfiorano lungo il canale Lamasinata per farti capire quanto è facile al mondo passare da una all’altra parte. La Statale 16 è già sopra il tuo cranio. Osservi un trullo dalla testa molle, affianca depositi sulla terra bruciata, in lontananza le ciminiere stinte della Stanic. La Esso sta sveglia 24 ore, vende metano e come tutte le pompe di benzina cerca di sfuggire ai fucili dei rapinatori. Ti rendi conto che in questi dieci chilometri quadrati può accadere qualunque cosa, sono di proprietà di chi se li piglia. Negli anni Novanta i ragazzini tra gli alberi sparavano ai cani per esercitarsi, le moto, le auto e i cavalli gareggiavano nelle corse illegali, i baby-killer correvano con il piombo nelle gambe, mostravano i segni agli assistenti sociali.

A sinistra più avanti si staglia un gigantesco casale divorato da edere secche e radenti come zampe di geco, sul retro si addossano case sorte per caso come i funghi ai piedi dei castagni. Giù puoi scorgere catapecchie di fattoria con animali, mentre l’asfalto incomincia a salire, mentre l’asfalto continua a guidarti, portandoti su un altro ponte, sospeso nell’aria, lungo un canale invellutato di prato, percorso da bretelle smilze, parallele alla strada, sguarnite di protezioni, lingue di camaleonte proiettate verso spazi inviolati. Finché arrivi a una fabbrica che si è fermata a una vecchia fermata degli autobus, e lì è rimasta. Senza più nome, insegna o traccia, svuotata d’uomini e aspirazioni s’è consegnata alla ruggine dell’eternità.

Superato il Gran Garage Europa al semaforo c’è una palma accasciata sul marciapiede, esangue, c’è l’Europa Park delle barche, ci sono aziende malmesse, fabbriche dismesse, capannoni che contengono aria, box auto, esposizioni, aziende operanti, sigle, Somed, Dammacco, rimessaggi, meccanici. Ma soprattutto una valle arcaica ti si apre davanti, nella quale potrebbero agevolmente inseguirsi i dinosauri, oppure sdraiarsi a dormire lungo i binari senza destinazione che intersecano a perpendicolo il viale. Oltre questa distesa compare l’Impianto depurativo Bari Occidentale che contiene tutta la nostra verità. Lo inquadri bene dalla IP che offre anche lavaggio, angolo scommesse sportive inneggiante al biancorosso più amato. E nella quale abbiamo fatto una grande scoperta: dentro una fioriera all’ingresso del Più Bar sta una tartaruga di plastica dalla zampa destra amputata e dall’espressione veramente strana. 

Arrivare al Quartiere, in Paese, come gli ex 30000 ceppisti lo chiamano (Wikipedia ha censurato il termine discriminatorio) è facile: basta seguire la via retta per l’illuminazione, senza badare alle Strade vicinali del Tesoro che ti portano fino a San Girolamo al mare, o a bretelle dismesse pericolanti. Viale Europa si ficca dritto dentro i primi palazzi di dieci piani che non sanno parlare. Sei qui, ci sei già: il tabacchi, il panificio, il market 100 Vetrine che inneggia «No War», la Macelleria Gastronomia Gallo con i polli sfrigolanti che piangono grasso, un piccione vagante, le tende oscuranti del Paradise luxury gaming hall più giù all’angolo, un posteggiatore autarchico che sulla Traversa 71 regola il traffico: «Fermati all’angolo, viene sempre gente fuori dal Paese, fino alle 13.30 sta casino assai», perché c’è coda dopo il semaforo davanti al palazzo plumbeo dell’Ufficio del giudice di pace e dell’Inps, dall’Amico dentista, centro che offre anche Tac e telecranio. Gente che scende, gente che sale dalla torretta d’accesso degli uffici pubblici, comoda anche per urinare in nottata, ne porta le tracce. Come tutto quanto qui sembra avere la consistenza dell’eroina e della coca, s’è già sfarinata tra le maglie a brandelli di plastica. Nel ’71 e nell’81 ci furono le maggiori abbuffate di appalti: il Cep è un boccone di chi se lo mangia.

L’androne sotto le aule giudiziarie, al cui ingresso stanno citofoni sradicati con qualche cognome che ancora si presenta alla stampa, è agghiacciante. Vi circola un cane, vi inneggia l’amore a spray, odore d’hashish, a sinistra una parete enorme in truciolato chiude l’anello di ingressi al primo piano, che si estende libero invece dall’altra parte. E vedi grate, e vedi reti su pianerottoli sconfinati stese per arginare l’assalto dei colombi bastardi, e vedi panni stesi, e vedi una vecchia, una bella ragazza, una bambina obesa che grida e divora focaccia, e vedi avvocati, e vedi persone, dipendenti pubblici e occhi che ti scrutano se registri qualcosa anche soltanto con lo sguardo, chi cerchi?, dove vai?, e vedi il mondo diverso da come pensavi ed è questo il mondo, non il tuo: è questo qua. 

Dio, che esperienza. Dio benedica viale Europa. Lui prosegue, lui ci ama, lui ci porta dall’altra parte, è la grande vena che divarica i complessi edilizi, che prosegue oltre il palazzetto sigillato che non trasalirà mai per le grida di tifoserie scalmanate, oltre campetti sportivi insabbiati prima di nascere, oltre il fruttivendolo allestito sotto tende sghimbesce di plastica, il fornitissimo giornalaio, oltre la Farmacia Lozupone e la metro sopraelevata dai semicerchi gialli, oltre la colonna di una villa scomparsa che regge un pino, oltre l’ennesimo parco di nessuno con segnale pericolo cinghiali e sul quale trottano runner solitari e uomini soli che non hanno la macchina, oltre la colossale caserma sabbia della Guardia di Finanza davanti al deserto dei Tartari, oltre le quattro stelle dell’Hotel Parco dei Principi e il cubo del multisala Ciaki, al termine della notte di cui non si scorge un significato.

Viaggio nelle strade di Bari: la via per Sant’Anna, dritti verso il nulla. Tra Japigia e San Giorgio via Fratelli Prayer porta a un borgo sospeso nell’aria che esiste ma non esiste. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2022.

Dopo via Argiro, via Melo, via Re David e viale Europa, prosegue con questa quinta puntata il viaggio per le strade di Bari

Partire da un luogo per arrivare in un altro dove non sei da nessuna parte. Fermarsi in uno spazio che niente ha a che fare con gli altri, sulla groppa di una tartaruga o di qualche gigante come in certe cosmogonie pagane, dove nessuno può vederti, nessuno sa come cercarti, a meno che non sia un residente del quartiere Sant’Anna, tra Japigia e San Giorgio sospeso nell’aria, e imbocchi abitualmente da via Gentile la vecchia Strada Sant’Anna, complanare lato mare della Statale, per rientrare a dormire nella casa che possiede e non ha.

Strada Sant’Anna ha cambiato nome in via Fratelli Prayer, pittori veneziani stabilitisi a Bari, visto che in questi Campi Elisi dell’edilizia inesausta hanno dedicato più di una targa a esponenti dell’arte. Abbiamo l’attore Marcello così cognomato e il percorso stesso parte dalla fu villa, grigio topo come negli ’80 e un tempo munita di fiumiciattolo artificiale, di Emilio Solfrizzi, il Toti di Tata. Termina laggiù verso le onde rovinando tra i binari orlati un tempo da materassi di pietre bianche sui quali le coppie amoreggiavano.

Dal collo della Non Strada Sant’Anna, o Prayer, o come vi pare, si osservano palazzi di media statura, come persone né alte né basse, una fermata d’autobus, campi verdi sotto l’azzurro spazio dai quali erompono escrescenze d’alberi spogliati, e sui quali si staglia una gru che volge le spalle al quartiere che conforma l’irrealtà al reale.

Il lungo tracciato porta al Mini market Sant’Anna, ricavato a piè di un palazzo lustro, nuovo e abbandonato al deserto come tutto quanto. Il negozio contiene all’interno un titolare giovane e affabile. All’ingresso su un tavolino sono esposte verdure di giornata scrutate dall’alto da un’ape che zigzaga. Non si vedono inquilini nei palazzi curati, anche se ci sono o torneranno nell’isola fondata poco più di dieci anni fa. Non succede nulla. Niente si guarda. E non si ascolta altro se non l’armonia lontana di vento, treno e mare.

Passa un tale ogni tanto, e tu non lo conosci, e io non lo conosco. Ciao. Al termine di via Prayer fu Strada Sant’Anna, dopo l’ultimo mozzicone asfaltato, si apre un varco attraverso la recinzione in metallo. Porta al silenzio che lascia parlare un grande pino più solo di un passero. Un cuculo canta. Al termine dello sterrato si stagliano in perpendicolare due lingue d’asfalto affiancate che si perdono all’orizzonte. E a margine, lungo la ferrovia, un capolavoro del dogmatismo progressista che supera l’assurdità stessa del luogo che lo ospita: la pista ciclabile che rovina nel cemento brullo, sulla quale non si posano neppure le mosche schifate, murata all’estremità opposta da dissuasori e da un segnale di divieto d’accesso dal quale pencolano quattro pneumatici buoni per la boxe.

Dal confine i più dinamici, tramite un sottopasso ora sigillato, o attraversando i binari dalla porzione priva di protezioni, raggiungevano le spiagge. Due uomini coperti da giacconi fiacchi si incamminano proprio verso il passaggio. Non sono lì per amarsi. Parlano cupo, saranno due divorziati. Un atleta, ragazzo, digrigna negli scatti. È tempo di tornare indietro risalendo via Prayer Artisti, nella landa che non è di nessuno, men che mai di chi la abita. Fino all’arteria che la interseca, via Germania, sul cui dorso bitorzoluto e senza asfalto ballonzolano auto di professionisti che procedono piano. La Striscia di Gaza, priva di illuminazione, è un’insidia per ammortizzatori e pneumatici: perfino un Suv nero come la morte che scintilla fa lo slalom per non subire danni. Fango in inverno e polvere da mascherina protettiva d’estate. Passa un uomo delle pulizie sul marciapiede e guarda. E che guardi? Non sai che ci sono dei pazzi in giro? Non sai che esistono i pazzi?

Via Belgio, via Austria, via Danimarca con un cumulo di terra, che si ingolfano una per una senza asfalto negli sbarramenti che isolano dal marcio inesplorabile. Fino a via Francia, derivata terminale, con la selva di Sherwood che si fa discarica.

Fazzoletti di prato brillantati di fiori gialli. Campi di perdizione con resti di condutture, muretti di tufo essiccato, tombini sopraelevati Aqp fognatura, e due cani a guardia dell’uno e dell’altro lato della strada che si guardano con espressioni da disoccupati.

Nell’altra direzione, attraversata via Prayer, via Lorenzo Vitale, ritornano l’asfalto, i cassonetti, i pali della luce. È il primo comparto, che comprende anche piacevoli costruzioni popolari. Il secondo, che lasciamo alle spalle con il fantasma del terzo che potrebbe nascere, è condannato da inghippi burocratici, quali l’ultimo tratto di fogna pluviale, fra le dannazioni del Comitato. Sant’Anna è un caso clinico irrisolto perché non ha neppure una ragione da sanare.

Davanti al complesso residenziale Porta di Mare 1 scorre una carrozzina spinta da un signore zoppo. Dal residence Borgo Marea spunta un bambino senza moccio portato per mano. Hida, zingara di quelle che piacevano a Charles Baudelaire, ma a distanza, 15 figli in 43 anni, sorride nel sole: ha ricevuto una bella casa dal sindaco Antonio Decaro e in grembo cova altri due esseri umani. Sfila una macchina ben acconciata, dopo un quarto d’ora l’abitacolo di un’altra risuona di salsa. Si materializza un fuoristrada silenziato. E parcheggia. Dove vuoi, quando puoi, come ti pare, anche se rientrassi dal Murat con il tuo Boeing 747 Alitalia. Il problema è che lo spazio è troppo qua.

Campi di perdizione connettono lingue d’asfalto alle strade di breccia bombardate. Voragini si aprono sotto i piedi di palazzoni che non nasceranno, nella città invisibile entro la quale stanno nascosti 3-4000 abitanti che se sono di Bari non sono di nessuna parte.

Per crederci bisogna vedere. E vedere non basta. L’uomo creò il Sant’Anna prima che la cacciata dall’Eden lo precipitasse. E Dio sta lì, quasi all’angolo del nostro tracciato, via Fratelli Spizzico Maestri d’Arte, nel locale commerciale di vetri e pareti basse che è Parrocchia Sant’Anna, sotto all’inquilino del primo piano che lungo i balconi cura le piante, proprio davanti al gatto giallo striato che prega all’ingresso del porticato e guarda, perché ha Cristo in croce sulla parete fondo sala, proprio davanti. E perché i parrocchiani lo foraggiano con croccantini a cascate, empiono la fonte sacra della sua doppia ciotola d’acqua, sistemata nel giardino inutile che affianca il nitore, la gradevolezza di questo tempio cattolico che consegna altra pace a troppa pace.

Percorrendo l’ex Strada Sant’Anna a piedi o in bici o in auto la gravità lunare non cambia. E trovi comunque, di fronte al Palazzo Prayer solido di materiali d’alto lignaggio, la casetta in legno dei «Vendesi trivani cantinola e posto auto», toc-toc, nessuno apre, nessuno ovunque, ovunque chiuso, vedi altri vendesi buttati lì con poca convinzione, anche se c’è gente che continua ad acquistare, trecentomila euro un quadrilocale.

Niente negozi, se non il Panificio Sant’Anna di Fiore Onofrio con il bar, Casalù casalinghi e il piccolo market. Niente visagiste, niente ristoranti e pub, la pizzeria caffetteria Da Nico è in letargo, niente gourmet da pizzicagnoli, se non la Bottega dei sapori chiusi, nel senso che ha le saracinesche abbassate, niente droga, niente tassi di interesse, niente banche e prestiti negati, niente ufficio postale e farmaci, niente massaggiatrici in centri estetici erotizzanti, soltanto qualcuno di fuori, del mondo altro, ha affittato un pied-à-terre per far sesso in zona imperscrutabile senza procreare. Niente palestre, niente nail stylist, solamente colossali monadi residenziali perdute nel vacuo, eco-edifici da manuale che si specchiano in altri interrogativi, misteri del mondo dei quali essi stessi sono rappresentazioni.

I materiali dell’edilizia privata, coop e popolare ristagnano da ogni parte. Abbaia un cane che non dorme su un balcone al quinto piano. Giunge un grido lacerato, dialetto barese, di lontano. Lungo fu Strada Sant’Anna, che prosegue in linea d’aria proprio con questo nome oltre la ferrovia e si imbocca dal lungomare, scorre l’autobus 2. Basta. Se guardi attraverso il binocolo capisci che c’è altro da esplorare in direzione Bari, un campo da basket che sovrasta l’avvallamento di alberelli nani, il parco giochi con l’altalena, un salice senza confini, oppure è un acero. Via Spagna l’hai saltata, via Mimmo Conenna Artista 1942-1988 l’hai notata. Il coprifuoco delle 17 non è ancora scoccato. Le prostitute sulla complanare stanno lavorando. E in ex Strada Sant’Anna Via Fratelli Prayer sei stanco di consumare il tuo coito interrotto esistenziale.

Viaggio nelle strade di Bari, qui via Lattanzio e il Cirillo culla di Toti e Tata. Le prime prove dei comici, l’Orfeo, i negozi, miti e bar. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Aprile 2022.

Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa e via Prayer (Sant'Anna), prosegue con questa sesta puntata il viaggio per le strade di Bari

Effettivamente può sembrare strano ma l’unica maniera per connotare la striscia d’asfalto di cui parliamo stavolta è chiamarla via Toti e Tata, anzi via Tata e Toti, nello specifico di Tata, che qui ha vissuto fin da bimbetto dopo il trasferimento con i genitori da Napoli, che qui si è malamente formato scrivendo su un taccuino Pigna i primi testi comici e inscenando gag casalinghe assieme al compare dal naso esibizionista e dalla pelle asiatica.

Via Lattanzio è strana. Non sai come definirla, alla pari di certe persone con le quali vieni in contatto domandandoti ancora, dopo anni, di quale pasta sono fatte. Parte dall’estramurale Capruzzi, San Pasquale bassa, il quartiere della mediocrità, né carne sordida da periferia criminale né pesce scintillante delle professioni e della baronia locale. E si perde in via Postiglione, larga e percorsa dalle macchine e dall’aria.

TUTTI INTASATI

Si ingolfa sempre. Tu bestemmi perché il circolo sanguigno del traffico ristagna tra un bus 10 e il furgone fermo per lo scarico, tra gente che protesta per le auto in doppia fila e i clacson che suonano la sinfonia della vita metropolitana di Bela Bartok, di Stravinskij e di Stockhausen, della scuola nuova operistica venuta dopo i grandi che ancora oggi sono gli unici a fare la fortuna dei teatri.

Via Lattanzio, già via Gondar, area di fonderie e artigianale, è anche un termometro, una rappresentazione toponomastica dell’economia di Bari. Dopo il covo militante Focacce, si apre con Oro 2000, penultima spiaggia per morti di fame o semplicemente per avidi adusi a vendere le mutande stesse della defunta madre. All’altro angolo c’è Finanziatutti, srl che soffonde fumi di speranza. Poco più avanti, superato un bar Cremoso, la bottega innominata che acquista oggetti, mobili nuovi e vecchiardi, statue di santi, resti di diavoli se hanno valore di mercato. E, prima delle tintorie a prezzo stracciato, l’hard discount Primo Prezzo, altro polso di uno stato delle cose che un tempo scolava invece per tutti grasso.

FILM E VELLUTI

È un luogo importante per i lattanziani, intendendo con il termine non i seguaci del leader democristiano scomparso Vito Lattanzio ma i residenti più maturi che portano sul cranio capelli tinti di scuro o più sinceramente bianchi. Perché nell’ampiezza del supermercato popolare riposava un tempo come un enorme gatto persiano il cinema Orfeo dei Saponara, il più bello e lussurioso di Bari, sul cui schermo hanno lasciato le loro tinte illusorie prime visioni che soprattutto nei Settanta coniugavano appeal commerciale e qualità per intenzione naturale. Nei suoi velluti affondavano spettatori rapiti, spesso anche in trasferta dalle province di Bari, come Michele Peragine, del Tgr Rai Puglia, partito dallo scalo ferroviario di Grumo Appula per vedere l’esordio di «La prima notte di quiete» di Valerio Zurlini, o come Sergio Rubini, suo amico compaesano, che di quella stessa stazione fece «La stazione», il suo film da non dimenticare.

Era tutto un frusciare di moquette e poltrone nelle quali gli amori nascenti delle coppie mano nella mano si inabissavano. Là dove oggi una signora di Bari chiede l’elemosina su una panca all’ingresso del market, girava nervosamente sui tacchi una signora della ricca borghesia smarcandosi dalla ressa per entrare. Là dove è esposta sui banconi refrigerati zucca gialla a 2.60 euro fumavano due zoccole (così venivano ancora definite in quei tempi) che si strusciavano in coltri di costosi animali ammazzati tra le nevi o nelle savane non da qualsivoglia bestia più grande ma da una che cammina su due zampe. Là dove allunghi la mano ad afferrare pomodori Piccadilly a 2.49 sostava in zona bagni l’untuoso commerciante che al Circolo della Vela teneva all’ormeggio due barche. Là dove la scamorza Sanguedolce si presenta inespressiva nei suoi 6.95 euro al chilogrammo, stava seduto un prete cinefilo della parrocchia vicina San Pasquale a guardare due volte di fila «Jesus Christ Superstar», il più bel musical mai proiettato, e meditava, qualcosa nella sua fede non tornava. Là dove acquisti pelati Rosso Gargano a 0.85, l’ingegnere saltava la coda per pagare in lire il biglietto e farsi una vasca in sala salutando i conniventi consiglieri comunali come in via Sparano. Là dove la vecchia arranca sui passi cercando a 1.19 Roberto il Tramezzino bianco che lascia la sua dentiera in pace, c’è lo spirito di una donna che è morta quando doveva morire, nel «Novecento» che ha visto all’Orfeo senza capirci tanto e che il compagno Bertolucci affrescò in film per due puntate. Là dove stanno allineati i BeautyCase tappetini assorbenti per animali si stiracchiava sulla poltrona un famoso ginecologo con moglie occhi verdi in visone, noto per compiere aborti illegali. Là dove la madre giovane pesca Salati Preziosi a 1.05 euro per il figlio in modo da tappargli la bocca, si aggiravano professionisti di varie entità e natura in cerca di un posto senza numero, frenando il ciondolio dei borselli in coccodrillo scuoiato o di bove abbattuto con una pistolettata in fronte. Là dove si aprono i corridoi per il deposito passavano furtivamente commesse amanti a scrutare meglio le fattezze della moglie del loro datore di lavoro che sputava dalla bocca il denaro dello scambio. E lassù dove oggi si elevano colonne d’acqua Mangiatorella, o dove barattoli di digestivo effervescente Bellanca si offrono come mercenari all’esercito di succhi gastrici, si diradavano molli di sensualità fumi di Marlboro e di Muratti Ambassador che in quegli anni, inspiegabilmente, non causavano il cancro.

IL MITO DEGLI ACETO

Questa è via Lattanzio. È ciò che è e quello che è stato. È la farmacia di Vincenzo Buccino, la lavanderia self service Lava Subito con sei lavatrici e sei asciugatrici schierate. È un B&B inatteso Al Settimo Piano. È il parrucchiere donna Alex Myra, accanto al centro estetico solarium L’Angolo del Sole, dove il vostro volto grazie alla radiofrequenza risorgerà. È il Vespa Club colorato, punto fermo delle due ruote storiche in città. È la Bottega, associazione culturale che offre corsi di pittura e scultura e lascia filtrare dalle saracinesche odore di tempere impastate. È il veterano, fornitissimo Gallo, ferramenta e prodotti dell’arte. È Francesco Aceto, che con il fratello Paolo dal 1962, nella bottega originaria circoscritta dal «murocinto» lungo viale della Repubblica, ha riparato e unto di grasso ogni bici e ogni scooter, marchiando l’immaginario. Ed è il vicino balcone azzurro di casa di Tata, al primo piano, una delle basi logistiche della scapigliatura decerebrata e dalle cui viscere è nato tutto del quartetto comico U.S.T. poi diventato un duo.

Quella casa, dopo la prematura morte del padre, aveva un solo nume, Titina, madre del ricciuto, che andavano a trovare anche in assenza del figlio i compagni di scuola. E guardava a un mondo animato da mille spunti. Topini (ladruncoli immaturi) volteggianti su Vespa 50 truccate più veloci dei Concorde, circoli ricreativi che sono stati tutti chiusi, frequentati da aspiranti inquilini del carcere minorile Fornelli e del gabbio adulto di corso Benedetto Croce. La pizzeria Da Donato, presa d’assalto da folle inesauste come il fuoco sacro, nella quale passava e passa di tutto.

SKETCH

In quel tratto, vicino al Garage Lattanzio (più avanti c’è il reiterativo Garage Lattanzio 2), si consumarono episodi talmente singolari da diventare storia. Tata ancora ragazzetto, munito di espadrillas fetenti nella buona stagione, soffriva di vene varicose, ma non si complessò per questo, no, anche perché alle ragazzette piaceva ancora. Emilio Solfrizzi non ancora Toti era il più equilibrato del gruppo partorito attorno al ‘61. Gli altri erano più peggiori, come suole dirsi con errore da matita blu.

Una volta un amico magretto e isterico, più che nervoso, sferragliò pugni a velocità ultrasonica sui musi di due topinastri tramortendoli, prima del fuggi fuggi per la conseguente colata lavica di delinquenti vendicatori. Taluni (tutti) del gruppo menavano rutti. Altri crepitavano turbando il sollucchero di coppiette al buio dei pomiciatoi. Un ceffo gresso (grosso) e umidoso una volta balzò sul Gitan Special Cross di uno sgraziato compagno di classe di Tata-Antonio Stornaiolo: becco d’aquila torto, occhi iniettati di maniacalità sessuofila e ravvicinati al modo delle bertucce, gambe da trampoliere e torso nano ipotonico. Si trattava del 50 cc più brutto mai prodotto, tanto che non ne è rimasta traccia manco nelle raccolte web dei nostalgici Anni ‘70, se non due foto di carcasse bruciate affinché non turbino altri occhi. Concepito teoricamente per il fuoristrada, era munito di pneumatici di plastica contundente e di ammortizzatori efficaci quanto quelli delle barelle del Policlinico di allora, cioè quelle d’oggi.

Con il proprietario spepitante dietro, incapace di opporsi, il tomo percorse ululando l’intera via Lattanzio in controsenso, consuetudine diffusa allora, sgasando, impennando nonostante la ripresa floscia e minacciando gli automobilisti che espettoravano, «cornuto!». Finché un bel mattino Tata trovò la pupù sulla maniglia della sua macchina, lato guida, deposta da un ignoto defecatore che evidentemente seppe compiere l’azione che a Icaro costò la morte: volare. Se non era il cestista della squadra basket dei watussi.

CRESCENZIO E IL CIRILLO

Via Lattanzio significa anche convitto nazionale Domenico Cirillo, là a un tiro di schioppo, scuola più antica dell’Urbe (1771) frequentata da quasi tutti gli appartenenti alla comitiva del Tata e del Toti. E da via Cirillo, in diretta, pochi secondi, si giunge infatti al bar Crescenzio, ottimo dal 1958 in poi, storico fornitore di merendine e panini per gli studenti all’ora della ricreazione. Li consegnava il titolare Crescenzio Pastoressa in persona in guantiere elastiche come bob. Figura amata dai ragazzi per la sua bonomia, dai prof, da chiunque. Barista dall’età di sette anni nel locale dei fratelli, dopo innumerabili sveglie alle 4 per lavoro, lasciò il testimone al figlio Michele, che guida l’impresa coadiuvato dalla sorella Lucia.

Superati il bar Crescenzio, la gioielleria Giacomo Pesce con gli Hamilton e i John Dandy, la Bnl per un mondo che cambia, le vetrine del Centro Ottico Ruggiero Lavermicocca, via Francesco Lattanzio, politico 1836-1897, esonda in via Gaetano Postiglione, 1892-1935, ingegnere, politico, presidente Aqp, foggiano famoso al fianco del Duce. Manca ancora una via Ficarella, idraulico stimato e abbastanza noto.

Viaggio nelle strade di Bari, ecco Via Mazzitelli: salotto sull’abisso. Zona chic, reame dell’edilizia: movida e arte-ingegneria. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Aprile 2022.

Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant'Anna) e via Lattanzio prosegue con questa settima puntata il viaggio per le strade di Bari

Via Orfeo Mazzitelli ha avuto un destino strambo. Nel senso che dentro Poggiofranco nuova si trasforma nel suo contrario, nel suo competitor, dopo la rotonda in linea d’aria. Cioè in via Salvatore Matarrese, fondatore pure lui di una grande impresa di costruzioni, come lui attivo dacché l’Italia perse il «De Monarchia» e si improvvisò repubblicana, e il cui nome s’insinua con ostinazione addirittura in mozziconi di strada già consegnati a fama altrui: «Prolungamento di via Salvatore Matarrese», «Via Orfeo Mazzitelli già via Salvatore Matarrese». Fra i due si interpone Largo Emanuele Degennaro (1920-1988), terzo costruttore.

D’altronde lo vedi, limpido, chiaro, quando percorri questi rettilinei immessi uno nell’altro: è area per edificazioni, senti le finestre friggere sul forno dei raggi, il cemento che spande e sorge in bastioni di un nuovo Creato. Guardi il metallo, i rampicanti che piangono sversandosi dai balconi hi-tech, roof garden 600.000 euro pentavani, edifici top di gamma, lucenti di ascensori cromo e di marmi lustrati, e che sembrano ridere nel vento come il denaro che scintilla.

Ai piedi di ogni condominio si apre un caveau a ingresso elettronico (garage) che tiene in deposito auto di valore senza erogare interessi bancari. Tante quante altrove non se ne vedono. E compaiono ancora all’esterno nel carico-scarico davanti ai portoni prima di discendere nei loro ricoveri d’ombra.

Su via Mazzitelli il Noema Parking e il Garage Mazzitelli al - 3 stanno affiancati. Si sviluppano progetti di verde verticale consegna 2024. De Finibus Terrae di quanto a Bari ci è dato. E una grande, ininterrotta tavolata sulla quale mangiare luculliano, ristoranti, giapponesi e patriottici, pizze gourmet, bar, secondo intervalli melodici di triadi o coppie, linearmente armonizzati nello chic che oggi assoggetta il palato.

Ma si sa che anche gli occhi masticano. La gola guarda. Tutto è concorde nell’edonismo occidentale che ha invaso via via anche i sentieri ottuplici orientali, le filosofie di chi teorizzava altro da ciò che proponiamo, e che si è fatto religione impossessandosi della dimensione spirituale. Per cui si può dire che via Mazzitelli è in tutto il suo essere un fortilizio del nostro tempo. Un modello vincente. Tanto che continua a espandersi, lungo i marciapiedi, e alle spalle, gru, bitumatrici, voragini; e ad accogliere anime fasciate da Burberry e da Adidas, deambulanti su Tod’s e su Asics modello Metaspeed Sky, e che si sentono bene.

SALOTTO

Via Mazzitelli è uno dei salotti di Bari. Forse più salotto fra tutti. Si lascia alle spalle il disco volante sormontato dagli specchi dell’hotel Nicolaus marca Degennaro, i pilastri lungo i quali in senso ascendente s’irradiano rampicanti secchi come mani di vecchia sulla gamba di un giovane e prosegue per i fatti suoi in direzione opposta di marcia. Che silenzio, squarciato da urlo di macchina. Che pace: attento al Monster Ducati lanciato come uno sparviero con le ali tagliate.

Il principio è un triangolo di verde indipendentista centrato dal sole che non si riappropria di nulla, alberi colmi di capelli, buoni per poter urinare nascosti: sappiamo che i bagni pubblici tutti li hanno chiusi perché tutti lo fanno. Così si usa nel mondo. Questo facciamo per vivere, anche vivere peggio di prima, ma comunque vivere.

Un marciapiede, una corsia discendente, lo spartitraffico che separa la parallela che sale, pista ciclabile per padroni con cani, una bretella smilza che orla dal principio al finale del centro sportivo Angiulli i complessi residenziali abitati con lo stesso rispetto e la stessa cura con cui sono stati recentemente costruiti.

Diamine, via Mazzitelli. Chissà se è passaggio di cinghiali che hanno imparato a masticare asfalto e ad aspirare polveri sottili come le persone civili. Chissà se quaggiù nel declivio a destra profondo, dietro silos e macchinari e capannoni ammantati di ruggine viaggiano volpi dagli occhi lampeggianti con canini che insanguinano il corpo dei pennuti.

Sulla destra ci sono il collegio universitario di merito Poggiolevante, che ha in testa pannelli fotovoltaici, Intesa sport club scuola calcio ufficiale del Bari che si inoltra in areole di ulivi cinti di serenità bucolica. Palazzo AltaBari, il cui nome stesso ribadisce l’aspirazione a elevarsi del posto, guarda di fronte alla lottizzazione 22/91 fabbricato B2 ad uso abitativo, al bar Asgard foderato di marmo bianco tagliato a fette larghe e con bagni brillanti. Accanto a questo, il primo assaggio di movida nel sushi fusion Basho, sotto portici pieni d’immensità ariosa, alti come principi di Danimarca, algidi come tetti lustrati dalla neve, e che sul retro si aprono in spazi meditativi nei quali sciacquare i panni di qualsivoglia produzione.

INGEGNERIA E ARTE

Stanno bene i lavoratori, stanno bene i residenti, giardini pensili, palme, ulivi pettinati come bambini prima di andare a scuola, panche di pietra sulle quali fermarsi e, non visti, non pensare. A che serve, poi? Dove andiamo a parare? Bisogna andare oltre il pensiero, avevano ragione gli indiani.

Sono puliti perfino i parapetti delle rampe dei garage. Così questo rettilineo si è fatto la fama di uomo ricco. Poi ricco quanto non sappiamo. Così si è fatto bianco come gli abiti da sposa, s’è imbellito con allestimenti linfatici da pranzo nuziale e ha attratto una gioventù modaiola e mangereccia nuova di notte.

Via Mazzitelli non fa sesso con nessuno. Non si contamina. Camminando nella luce del mattino si vedono begli attacchi motopompa rosso mattone. Passerelle per disabili a posto. Ingressi trasparenti, o di faggio nudo. C’è lo Studio odontoiatrico Carlaio al 120, con i dottori R. Carlaio e M. Virginia Bux. Accanto sta crescendo come un allievo della scuola militare Nunziatella Palazzo Vesta per Ricci Costruzioni, circondato da gru. Viene fuori una ragazza con un cane amorfo. Si ferma un Suv tinto tomba e deposita una signora dai capelli di fuoco. Belli.

Dall’altro lato della strada, sotto palazzine più basse e ordinarie, prima che la natura proceda nell’abbandono di macchinari edili, c’è il celebre Cicli De Marzo, con sospesa in vetrina una baby bici Bianchi. In cielo, sopra al giallo dei fiori, il buco dell’ozono. Di qua Matsu tasting emotion e sushi roll style, nome che corre sulle labbra dei ragazzi, proprio sotto i dentoni dello studio odontoiatrico Tempesta, che prosegue ad angolo sopra l’ingresso di Stocotto «a fuoco lento». La Marisqueria, pescheria e cucina, è attigua al bar Mood, tavolini all’aperto affollati di abiti blu. Viene fuori una ragazza madre con due gemelli nella carrozzina che sembrano dolcissimi cani shih tzu e difatti abbaiano. Il civico 160 A è trapezioidale, ingresso in cristallo che si fa trapassare dall’occhio, cinto da aiole laviche di fiori viola. E sulla fiancata, in prima fase dell’opera di costruzione, è possibile scorgere che cosa nasconde un palazzo sotto. L’enormità. Il precipizio. La forza non più umana, lo sbigottimento di fronte alle facoltà umane che sanno giostrare tra giganteschi equilibri. La prova che fra le arti decadute scienza e tecnica si conservano espressioni migliori, il Politecnico di Bari è il nostro Conservatorio musicale delle ruspe, gli ingegneri e gli informatici unici veri spiriti guida. E laggiù tra gli escavatori che aprono il cuore della terra, fra operai ridotti a pulci, possiamo lanciare la nostra ammirazione, l’umiltà di sudditi davanti ai padroni del compasso e dei numeri.

ABISSI

Il Talento Caffè nella grande piazza si è spogliato di tutto. Gli altri locali sono aperti: l’Officina di Soal, pizzeria gourmet braceria, Osteria del porto, Sensi restaurant, Giotto pizzeria a 360 gradi, nome fra i nomi. Dopo Venus Estetica, al 264, c’è un mosaico di targhe servizi offronsi, il commercialista revisore legale Giuseppe Matarrese, il cardiologo Maurizio Nastasi, la psicologa Roberta De Robertis, nel caso decidiate di diventare agorafobici. E, senza soluzione, Le Véronique, Tabula Rasa, pizza, spaghetti, risata, digestione.

Sul balcone di un primo piano del 270 spicca il blasone tribunalizio di una falange armata di avvocati del lavoro, Gismondi, Lella, Didonna, Cascione, D’Addario. Sul citofono sta piantata la psicologa clinica Maddalena Mesto che è psicanalista pure, e quanto la collega consegnata all’intraducibile, all’insondabile e all’imprevedibile sopratutto. A destra c’è una professionista in tailleur, graziosa, che non saluta anche perché procede spedita con i polpacci in tensione su tacco 12; sarebbe viva, se viva fosse là dov’è dipinta sul muro; è impegnata in una conversazione, ti risponderà dopo al telefonino per conto della BCC Cassano delle Murge e Tolve.

Via Mazzitelli termina con l’attiguo spazio giochi, forse ad uso dei bancari più tristi e immaturi. A metà percorso sul Largo Degennaro c’è un altro parco, con scivoli e altalene, di dimensioni maggiori. Ma ovunque sui marciapiedi stanno distese enormi grate di areazione, che aprono sotto di noi abissi di verità di cui non si intravede il fondo, rivelatori della vertigine che ci segue passo per passo, in ogni momento del giorno, che ci fa sfiorare l’infinità della morte, salto nel buio che ci divide dalla realtà sensibile per unirci fra noi.

Bari, viaggio da un Varco all’altro nella via del Porto che porta al mare. Nell’altro mondo, tra gabbiani e cantieri, navi e finanzieri. La penna di Alberto Selvaggi e le foto di Teresa Imbriani raccontano il porto di Bari. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2022.

Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant'Anna), via Lattanzio e via Mazzitelli prosegue con questa ottava puntata il viaggio per le strade di Bari

Se vuoi lasciare il mondo perché il mondo è stato mal costruito, se vuoi respirare un’aria che in parte si disfa delle impurità librandosi in vapori viola di numero atomico 53, simbolo dello iodio, potresti navigare sull’asfalto qui dove non puoi accedere se non hai una buona ragione, lungo la bretella che costeggia il lungomare di corso Vittorio Veneto, altra parte del mondo che si chiama Porto, porto non vecchio ma nuovo.

Pensa un po’ se fossi un conducente di TIR e avessi lasciato a casa la moglie, i figli e il resto del fardello di vita che ci portiamo sulle spalle tutti. E fossi libero e celenterato come un anemone, idra, corallo o medusa, diretto a vuotare un container di qualche cosa. Potresti infilarti nel Varco della Vittoria, quello che apre a una lingua di strada sottile poco prima del Cus Bari e dell’ingresso della Fiera del Levante che è morta. E mandare a quel paese tutti, in particolare l’anima tua, che ti pesa, per percorrere in direzione Varco Dogana, verso il Castello Svevo, una realtà più vicina alle onde, che ti era sfuggita sempre di là oltre il muro che divide la prigione urbana dalla culla di barche e navi da crociera lunghe e alte quanto complessi edilizi moderni, dove non ti vede nessuno e dove non guardi nessuno, disincagliato dai dissapori.

PACE E SALSEDINE 

La tranquillità è una grande cosa e chiunque qua sta tranquillo. Fin dal principio della Strada del Porto scorgi a destra un viottolo che dà su un prato buono per i picnic o per sonni ingiusti, perché quelli giusti spettano soltanto a poche persone. Ma non è questo il punto. L’importante è comprendere che da questo momento in poi fai parte di un’altra autorità, di una infrastruttura marittima imponente della quale scorgi i confini soltanto con il binocolo. Pertanto ti si presentano cartelli quali Veicoli autorizzati, auto servizio, Autorità, Imbarco Grecia crociere, ticket check-in, Accesso concessioni diporto nautico, Free truck parking, e poco dopo una rotonda dai brutti lampioni.

Non passa molto e al casello doganale ti fermano degli uomini, e devi pur dirgli qualcosa: perché sei qui?, e cosa pensi?, che ne sai della vita?, sei sicuro della direzione intrapresa?, da dove vieni e verso quale delle tante, troppe rotte con le quali il destino inganna intendi andare avanti?, hai un preciso orientamento filosofico?, sai chi sei e conosci il motivo per il quale agisci in un certo modo?, hai capito oppure no che sei entrato in una dimensione diversa dalla solita?, non vedi che questo è il Porto sotto il cielo di Dio e sotto lo sguardo degli uomini? Aiutaci, anche noi come te non navighiamo consapevolmente, eseguiamo degli ordini ma non abbiamo ragioni. E questi custodi hanno ragione, sei finito in un’area protetta, piena di finanzieri che qua hanno tante basi, le caserme si susseguono pure di là sulla via parallela cittadina, non soltanto a sinistra in bocca alle onde, ci sono aree sensibili come la pelle e che per la loro fragilità necessitano di controlli e di protezione.

Però c’è lo spazio libero che ti aiuta a respirare. Se ti accettano come cittadino del regno salato, seguirai un andamento esistenziale che esula dalle tue abitudini, lancerai lo sguardo su piazzali rarefatti, e che poi sono in realtà destinati ai camion e ai tir poco importa. Guarderai deperire edifici bassi e dimenticati che si lasciano divorare senza troppa sofferenza dai venti maestrale e tramontana, da raffiche di polvere, dai raggi e dal freddo che concorrono nella sinfonia d’erosione.

Compagni sulla tua Strada del Porto in questa stagione di mezzo sono soprattutto i camionisti che vanno a deporre la merce dopo aver percorso una misura innumerabile di leghe. Di là oltre le cancellate vedi sfilare macchine e moto, a sinistra non vedi muoversi nulla, se non persone sole, poche, e chissà se hanno qualcosa da fare. Sotto tensostrutture aguzze come cappelli di gnomi stanno allineati sportelli Montenegro Lines, per Bari-Bar, Jadrolinija, Dubrovnik-Bar, European Seaways, Gnv, Ventouris Ferries, Corfù Cefalonia, Adria Ferries, Durazzo, per Venezia Grimaldi Group. Dietro i vetri delle postazioni raramente vedi muoversi teste di uomini, siano femmine o maschi, siano veri o impressioni, sistemati uno per uno davanti al senso di vuoto, a uno spazio lunare che non fa paura.

PELLEGRINI DELL’ONDA 

E prosegue il cammino verso Santiago in versione insapore, espurgato delle suggestioni di fede e di sogno. E che ha tuttavia tappe di sosta per rifocillarsi, come lungo le vie di pellegrinaggi più nobili. Per cui non trovi una locanda con ritratti di personaggi famosi e di santi protettori dei deambulatori, bensì lo sbrigativo Ninì drive & street food La Taverna del Porto, con all’ingresso un albero espulso dal mare, spogliato della sua scorza miserabile, decorato dal titolare con reti da pesca e una cassetta verdognola. O Panini pizza kebab, funzionale al riempire gli stomaci in pochi minuti.

Per i bagni non ci sono problemi. Tanti, di prefabbricato tecnologico. Stanno piantati come fortezze della necessità sul fronte di una selva alta di alberi e pennoni di barche che ondeggiano nello spazio azzurro. Ogni tanto si vede un gabbiano poco convinto; non so dire di cosa. Non tutti sono a conoscenza del fatto che sono crudeli come tutti gli animali della terra, compresi noi. Si portano sulle ali il nostro immaginario fiabesco, ma in realtà decapitano pesci proprio là nella conca di mare conchiusa come gli orti dai moli, e scotennano nel sangue, soprattutto in volo, i colombi che si ingozzano di infezione.

Che grande mare. Bacino Grande. Lontano, atarassico, là di fronte, privo di lussuria, descritto dalla sua assolutezza piatta, si lascia scivolare sulla testa lentissima la chiglia di un cargo che gli scava i capelli d’acqua in una riga di schiuma, e lascia vivere nel suo neutrale atteggiamento di osservazione le verdesche, gli sciriè, vecchi scorfani dalla pelle butterata dall’acne sommerso, le perchie, le bavose che hanno pelle di geco e sono i gechi del mare nel loro aderire viscidamente alle superfici e nel loro orrore, scarpe con suole di gomma immobilizzate da grovigli di alghe in labirinti senza sbocco, qualche occhiata e sarago nobili, qualche cefalo grasso di poltiglia, e occhi sgomenti di piccoli pesci ributtati nel mare dopo avere abboccato perché troppo giovani e che si sono spenti. E fra questi cadaveri di squame portati a zonzo dalle correnti, i goggioni sopravvissuti, i più facili a prendersi all’amo, educati a credere nell’onestà per venire sconfitti.

Sulla destra, continuando sulla strada, c’è qualche cantiere datato, un’area spenta termina in uno stagno sulla cui riva si affacciano due bocche che paiono fogne. E c’è il Parrucchiere per uomo, nel quale ci si può offrire al taglio con la devozione che ispira il posto. A sinistra si susseguono sedi di varie istituzioni terrestri e sottomarine, che nel mattino non visita nessuno. Perché tutto è placido nel porto nuovo, non è un grido di cozze e Peroni come il porto vecchio del molo San Nicola, tra il Barion, il Circolo della Vela, con scheletri di bici e di scooter giacenti nella tomba di mare senza memoria. È un luogo di silenzi e di gente lontana nel quale sarebbe piacevole vivere, ritirarsi il pomeriggio o la notte dopo il lavoro per dirsi che è finita, finalmente, che finalmente comincia la vita nuova. Ogni giorno tra i moli foraneo e San Cataldo, a specchiarti gli occhi nelle quattro Darsene in cui dai tre metri ti inabissi a dodici. Dove tutto cambia nel via vai di seicentomila crocieristi all’anno, oltre un milione di passeggeri in traghetto, ma tutto rimane.

ALTRI FASCISMI 

Continuando a veleggiare sull’asfalto, ogni tanto vedi gli estranei del mondo altrove, di là dalla cancellata, solitamente al trotto perché i runner si allenano sul marciapede di corso Vittorio Veneto, strada fascista nobile, piena di cose fasciste, di fasci fascisti, di palazzi con corti verdi fascisticamente scavate tra i palazzi solidi. Belli. Varco Caracciolo propone quasi una condivisione fra queste due abitudini di vita così diverse, quella metropolitana, quella marinaresca. Ma non c’è obbligo di commistioni, basta non guardare a destra e di quei cittadini non ti rimane più nulla.

Dopo Varco Brigata Regina, anch’esso chiuso, quasi all’incrocio con la via omonima, c’è l’Arpa Puglia, la linearità da battello del Parcheggio Saba di fronte al liceo ginnasio Orazio Flacco. Arriva Varco Pizzoli, al molo omonimo, con un’altra casetta della Gdf in rosso. La Lega navale, il Nucleo Sommergibilisti, l’Associazione nazionale Marinai d’Italia, la Stazione navale delle Fiamme Gialle, Ramar cantiere e diporto, infine Varco Dogana, dove hanno protestato gli aderenti a Fronte del Porto che si oppone al progetto di cementificazione dell’Ansa di Marisabella, che con due sbarre separa il mondo che frequentavi da questo che hai conosciuto.

Viaggio nelle strade di Bari: la via del Castello ai piedi di Federico. Il mito Gigino Gentile, le orecchiette e plotoni di turisti. Il reportage di Alberto Selvaggi e di Teresa Imbriani. Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Maggio 2022.

Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant'Anna), via Lattanzio, via Mazzitelli e la strada interna al Porto nuovo, prosegue con questa nona puntata il viaggio per le strade di Bari. 

Un mozzicone di strada che è un concentrato di bellezza e di patrimonio umano. Si stende ai piedi di un sovrano che ha illuminato la nostra esistenza di sudditi culturali, Federico II, lungo l’ottava meraviglia del castello normanno-svevo che rimaneggiò lasciando l’aquila scolpita sull’archivolto del portale e quindi lungo il fossato brillante di verde da divorare.

Ha una corazza irregolare di scaglie scure di drago norreno, sul cui dorso arrancano ballonzolando treruote invecchiati con i ferrivecchi, automobili silenziate dall’energia elettrica, biciclette rattoppate con il nastro adesivo e con lo spago, piedi di persone dai bacini basculanti sui dislivelli che s’affiancano, flussi di turisti guidati da illustratori di costumi e di antichità, che risalgono il ponte a sud verso l’ingresso principale del maniero, dato che Bari è diventata la città più frequentata e con un giro d’affari che stacca di gran lunga quelli delle località più rinomate. Una via che solca le mezzelune della piazza Federico II e che gente in monopattino elude nelle sue asperità per non venire disarcionata.

L’ambiente è ridente, perché arioso, perché costituito interamente di pietra plasmata dalla capacità artistica dei secoli, quella di Michelangelo e non di Cattelan, ma anche perché attraversata dal pulviscolo d’oro di un certo buonumore, che come i malanni si trasmette di persona in persona, e invece che fare danno corrobora. La via di Federico è piena di storia, cioè di quella dimensione temporale che ti spia fissamente dagli oculi delle torri del castello disteso come una nave dada, e sprizza quella che chiamavamo umanità, persone vicine allo stato di natura, ancora non discoste dall’essenza originaria, vivide di certa genuinità carnale, il popolo insomma, il popolo nella sua manifestazione spontanea, e che abbiamo perduto per le cause che conosciamo un po’ tutti, fra le quali i social, funzionali ad allontanarci uno dall’altro, a digitalizzare le solitudini nella perdita delle nostre unicità di singoli, di comunità, di razza.

Per cui qui è tutto un «tu» e un «ehi» immediati. E non è fantastico? A che serve mediare? Il popolo, il popolo vero di piazza Federico II, ovvero della strada vulcanica che la percorre, è ancora qui, incardinato nel luogo di origine, per includerti direttamente nella sua anima, senza pensarci, per virtù naturale. E allora capisci che sei di Bari, accidenti, capisci che sei dei loro anche se non sanno manco come ti chiami. Sei tu, non lei, sei prendi la busta, sei sposta il motorino per piacere che deve salire il camion.

Santo popolo di San Nicola. Il migliore, probabilmente, che esista in città. Sfaccettato, umorale, composto da personalità caratterizzate, da diversi uno dall’altro, pirotecnico e vociante come i fuochi d’artificio per il patrono di maggio. È festa e festa facciamo.

C’è la farmacia Dalessandro all’angolo con piazza Massari. Il bar pizzeria Federico II dopo l’omonimo vico, che ingozza russi, inglesi, statunitensi e ucraini di pasta fresca con ragù e cime di rape. Sullo stesso isolato la Caffetteria del Castello, poi Magicaterra che richiama nel logo ottagonale federiciano le sue ceramiche e piccole opere ispirate a Bari. E nel sole spunta Lady Franca, con le bancarelle delle orecchiette davanti al basso che abita, bianco di calce, concavo come il ventre dell’Immacolata. Lavora velocemente la massa, sorride, simpatica, parecchi sono simpatici qua, farina di grano duro, integrale, arso, chiancarelle, orecchie del prete, strascinati, pasta nota anche all’estero ormai. Arco Basso, Arco Alto, ambedue titoli di opere teatrali in vernacolo che segnarono la città. Più giù di là, dopo vari telai e massaie diventate figure mediatiche, capaci di produrre ognuna fino a dieci kg di pasta al giorno, c’è la signora Lina, che è stata in America per esportare il verbo delle orecchiette fatte in casa. C’è anche folklore turistico, il soldo serve, ci si sveglia e si mangia. Ma tutto è nella verità.

Un altro esempio da cercatori d’oro del comunismo cancellato è la signora Teresa che armeggia davanti a casa, piano rialzato, va e viene lungo i tre metri che la separano dalle tende tra le quali spuntano un volto di figlia e un volto di maschio. Vende sottoli, taralli con glassa, pomodori essiccati, orecchiette grandi come padiglioni auricolari di nano, altre piccole giallo sfumato, e si porta in giro i capelli ventosi come una corona spogliata di valenza regale.

Ci sono turisti ovunque, cineoperatori, tv straniere, fotoreporter, fotografi d’arte, qualche pittore vagante con pennelli secchi come rami di vite, consapevole che gli anni vanno sfumando e che i prossimi sono pochi rispetto a quanti ne furono. E la piazza si allarga, si apre alle case affastellate dalla necessità. Porticine sepolte, la cartoleria Intralot, la pizzeria El Castillo, con la sua gettata notturna di tavoli. Caffetteria pizzeria Templari, l’esoterismo spirituale della Chiesa della Santissima Trinità. Il parrucchiere, i souvenir made in Bari, Puglia Ceramiche, Jewelry con una pregevole selezione di Hamilton. L’arca di tinte La bottega del detersivo, posto fantastico, piazza dell’Odegitria che si apre sulla Cattedrale, Salumeria Favia, Caffetteria Vanny e Mary, il signor Tonio, maturo pezzato con baffi, che sarebbe un gatto randagio a pensione nella Tabaccheria Loseto, dove può miagolare due chiacchiere con il titolare Tommaso e il figlio Massimo. E infine l’ansa con Ladisa arredo idrosanitari, e il Pescatore, famoso ristorante con B&B che ha saziato i personaggi più famosi capitati a Bari.

La fortezza prospicente, ‘u Castìdd’ che chiude gli occhi del borgo antico sul nord del mare, è sede museale visitata da scolaresche alle quali le maestre si sforzano di insegnare, da stranieri che conciliano lo svago da vacanza con la volontà degli accompagnatori di informare di vasi mitici o di Aurelio Amendola fotografo. Composto dal mastio, baluardi a scarpata con torrioni a lancia sul fossato in cui i ragazzini barivecchiani si tuffavano per recuperare il pallone senza funi né altro, è sede della Soprintendenza per i beni ambientali architettonici e storici della Puglia. Ma è soprattutto magnifico e dominante come un concetto di governo politico che non potrà più tornare.

Potenza incombente dei vari regnanti sulla cittadinanza, fu anche cattedrale dell’imperatore Federico II laico, ignaro che, secoli dopo, sulla stessa strada si sarebbe affacciato un pur piccolo papa dei poveri, privo di potere temporale, impresso ancora a caldo nella memoria della comunità.

Giggino Gentile, ed è il caso per pronuncia barese eccedere con la seconda gi, abitava di fronte al sovrano, al civico 37, primo piano, balcone sulla bottega sua e di Mimì il macellaio. Nel 1947 aprì il buco di pizzeria che forgiò - è dire poco sfornava - le pizze migliori della storia di Bari. Inebrianti di un poderoso succulento croccante non soltanto in virtù dell’impasto e per il forno di pietra, ma anche perché utilizzava quanto oggi è vietato: lo strutto, l’anima e la forza impressa con quelle pialle di mani.

Stava dietro al bancone, fiero e inamovibile come un capitano, piedi a papera sulla pedana di mezzo metro, data la sua altezza limitata. Pinuccio «Nasone» infornava, la moglie Laura Lopez dava una mano anche per i panzerotti che sfrigolavano. Là davanti seduti sul muretto del fossato della fortezza imperiale, stavano ricchi, poveri, falliti, ladri, avvocati, eroinomani appena tornati da un estemporaneo spaccio internazionale a Londra nei primi anni Ottanta, schifati come lebbrosi dai mediorientali terroristi con i quali consumavano affari. Per poi morire. Li riconoscevi perché mangiavano la pizza tenuta su quella carta liscia, che poi volava nel vento di perdizione per imbiancare fra le lattine e le Peroni il fossato. Piegati su un fianco con i meravigliosi occhi rotanti nel buio del mondo, in quanto più lenti nell’afferrare coi denti la mozzarella colante che Gigino, nostro unico santo, tagliava intera e fresca, una per pizza.

Nei primi dieci anni il covo produsse anche gelati: Pizzeria Gelateria Gentile, insegna originaria. Ma dai Sessanta, quando la pizza cessò di essere un prodotto di lusso per la domenica, feste e compleanni, l’ometto di ferro dismise la sua Carpigiani, oggi restaurata nel nuovo locale.

Figura carismatica e rispettata anche nel ruolo di paciere dai barivecchiani, Gigino apparteneva a una stirpe di pasticcieri e gelatai le cui origini risalgono al 1880, con negozio nella strada del Carmine che dalla Basilica porta alla Cattedrale. Là apprese il mestiere del dolce, ma anche del salato quando Domenico Ficarella, zio materno, prese a sperimentare impasti di pizza che faceva assaggiare. Nel 1988 un tumore dietro un bulbo oculare strappò Gigino in pochi mesi dalle braccia di Bari, 58 anni. La moglie proseguì l’attività fino al ’91, quando depositò la licenza in Comune per non venderla a estranei, nel rispetto della memoria del marito scomparso.

Il locale divenne un deposito per il parentado. Finché nel 2007 Fabio e Francesco, nipoti di Gigino che giocavano fra le sue scarpe mentre lavorava, figli della maggiore Chiara che da piccola dormiva talvolta sui telai con la sorella minore Luciana, decisero di rilevare l’attività puntando unicamente sulla tradizione dolciaria originaria. La ex Pizzeria Gentile il 2009 riaprì come gelateria Gentile d’alta qualità, presa comprensibilmente d’assalto da turisti e cittadini che hanno a cuore l’umore del palato, estendendosi nella ex macelleria attigua che i fratelli titolari hanno voluto onorare con le Bombette zuccherose invece che di carne. Nonno Gigino è là fuori sul cartellone in poker fotografico. Piantato sotto il balcone, affianco all’ingresso di casa per lasciarci inchinare.

Viaggio nelle strade di Bari: Corso «Càvour», dalla BpB al Petruzzelli al fu «Saicàf». Alberto Selvaggi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Maggio 2022.

Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant’Anna), via Lattanzio, via Mazzitelli, la strada interna al Porto nuovo, la via del Castello piazza Federico II, prosegue con questa decima puntata il viaggio per le strade di Bari

BARI - Corso Càvour è la rappresentazione urbanistica del levantinismo bottegaio che connota Bari. Il che mica è un difetto: anche la pratica dello speculare, se non è fare impresa, è un’impresa comunque. Provaci tu, soprattutto adesso che ‘sti poveretti, da negozianti liberi di mangiare a quattro ganasce, sono diventati equilibristi che manco possono trovare riparo sotto il seno fiorito di Moira Orfei buonanima.

Lungo questi isolati pallidi, e tuttavia vividi di gente che va e che viene, scorgi lapalissiano, sgranato il sorriso suadente che fra i denti tintinna moneta. Magari quest’etica da commerciante non piacerà a te che leggi quella cosa piuttosto noiosa che sono i libri, che da secoli si industriano inutilmente a diffondere nella massa. Tuttavia devi convincerti che la capziosità, in un modo o nell’altro, è il metro condiviso da chiunque si industri per vivere. Non sono tutti nobili ricchi come Lord Byron, che teorizzava quanto la letteratura sia l’arte di chi può permettersi di non fare un cavolo. Non tutti sono falliti miserabili genere Baudelaire, unico fra i suoi contemporanei a non entrare nell’Académie Française, anche se sovrastava tutti di immensi spazi.

Pensa a come vivi, prima di pronunciare sentenze. Non sbagli se constati che su via Càvour quella a accentata, sintonica con il sermo plebeius, si è impressa per sempre perché la zona non si è elevata tanto rispetto allo standard originario: è rimasta sé stessa come i figli che nascono con un certo stampo e se lo portano dietro. Però avrai notato anche un certo affinamento, uno sviluppo portato in dote dal ritmo montante della Bari turistica e viepiù crocieristica, e pazienza se il glorioso Saicaf ha assunto dopo la chiusura l’aspetto del Sacrario dei Caduti d’Oltremare.

CORSO CRESCENTE - Quelli che cascano meglio sono arroccati come patelle negli isolati più vicini al circuito barivecchiano delle navi e dei trenini che portano a zonzo le natiche di sbarcati per nulla morti affogati bensì con portafogli impinzati di lardo. Lì i negozi si empiono le garze sul serio, e diciamo garze perché lo slang, se non si esprime meglio, esprime sicuramente di più dell’italiano. Allora, diciamo che partiamo dalla fine, o dal principio di via o corso Càvour, lungo il lato di strada meno affollato, in quanto più povero di vetrine ma più ricco di edifici nobili e di valenza capitale. Sotto al ponte di viale Unità d’Italia c’è una ferramenta di un veterano, Cuccovillo, dove abbiamo acquistato un barattolino di stucco per rattoppare i buchi di chiodo nei muri di casa. Diciamo questo per fornire un’informazione socialmente utile, come impone il Codice deontologico dei giornalisti. Ma ci sono soprattutto parrucchieri quali Xin Chao Liu e Shanmei, uno azzeccato all’altro, che cercano pure personale qualificato: menomale che sono arrivati i cinesi a portare lavoro in Italia.

Se attraversi e nessuna auto o nessun monopattino truccato ti cionca le gambe, sei sulle vetrine di Marco Colonna, abbigliamento, lunga militanza. Segue il punto vendita cittadino Royal Enfield, storico marchio che ha rilanciato le moto monocilindriche nella stessa Bari. E così incocci nel bar «dobbiamo fare appello, ci conviene in ogni caso», nel bar «il giudice ha il covid, l’udienza è rinviata a babbo morto», insomma, nel Caffè Italiano zeppo di avvocati, soprattutto penalisti. Si dirà, ma a Bari sono praticamente tutti avvocati, a parte me. Vero ma qui la densità per centimetro quadrato è tale che diventi avvocato pure tu.

Segue l’ampia esposizione di SportClub con in bella mostra un bambolotto poppante già griffato Adidas manco è nato e un altro uguale ma diversamente bianco (di colore, negro), ché non si sa mai. Ed ecco qua dal civico 98 alla fine isolato la Banca Popolare di Bari. Eh. Cioè la Bippibbì, Bippibbì-Bippibì, Bippibbì Bippibì. Adunque, vi aspettate che dica qualcosa. Che pensate si dica? Sicuro lo state pensando. Ma io non penso, i detti sono sfuggiti dalla cocozza, anzi. E andiamo avanti.

Parrocchia greco ortodossa San Nicola di Myra, Patriarcato ecumenico di Costantinopoli di padre Nikitas, con cellulare per i contatti appeso davanti al portale. Gente seria questa qua. Seria come non siamo. Le chiese sono realtà importanti. Hanno una funzione puramente aerea che si evidenzia in questa via del denaro. Ma tutto ciò che resta è ciò che nella vita non ha valore. Ecco una delle ragioni per le quali i suoli sacri sono importanti. E perché è importante chi crede. L’utile è l’inutile, come direbbero le streghe di Macbeth. E una volta entrati in una dimensione buddica o di minorità francescana le ricchezze eccedenti e la fama si rivelano espedienti di compensazione di insufficienze interiori, che in quanto tali non bastano mai.

Al 60 c’è un palazzo singolare, signorile come tutto ciò che sa di passato. Reca a sinistra le targhe dei medici, Rosa Lenoci biologa nutrizionista, Rosaria Leuci medico chirurgo, Cosimo Ficco specialista in oculistica convenzionato in medicina generale, Reinhard Wilhelm Prior, che esiste, non è un fake dal cognome strano, ha occhi teutonici chiari ed è un neurologo bravo. E a destra avvocatura e notariato, studio legale Tobia Racanelli, studio legale associato Chianura, notaio Umberto Maria Ceci, notaio Francesca Lorusso, notaio Maria Alessandra Stellacci. Quindi, si sono messi d’accordo: voi medici di là, e noi da quest’altra parte.

IL TEMPIO ROSSO   Ricordate il Mokador, detto Mokadòr come corso Càvour? È là rinato, d’oro brunito, bar classe 1937, con ancora i due chicchi piantati nelle o dell’insegna che dà di fez e di colonia d’Africa. Un tempo era stipato di fascisti aggregati da slogan miliziani, e oggi quindi da elettori del Pd. Pochi passi e si apre il sagrato del Petruzzelli, il più bel tempio laico di Bari, nella sua architettura, nella tinta splendida, e anche il più importante: per la cittadinanza, per valenza mediatica. Amarlo, bello com’è fatto. Contenitore dell’arte diretta, unica, universale che travalica le altre. Tiene ficcato nel costato il bar di Salvatore Petriella, creatore di dolcezze e insieme imprenditore che ha saputo rischiare.

Dentro il monumento rosso, nel foyer, stanno tutti lì in statua a guardarci Paisiello, Piccinni, Mercadante, De Giosa. E all’esterno il Bellini, Rossini, Peppino (Verdi, come lo chiamano alcuni del Club dei 27, appassionati), a riprova che la lirica tota nostra est quanto e più della «satura» sbandierata da Quintiliano, in virtù della superiorità della melodia sull’armonia nell’orecchio umano.

Dentro il pachiderma che arse stanno gli uffici del sovrintendente Massimo Biscardi, traslocato dal Lirico di Cagliari dopo aver vinto il premio internazionale Abbiati che ha bissato al Petruzzelli giorni fa. È nato a Monopoli, città vescovile e nobiliare che con le note ha parecchio a che fare. Ed è un musicista datosi alla managerialità, pianista e direttore d’orchestra con esperienze che vanno da Santa Cecilia all’Arena al San Carlo.

Il politeama, che ha accolto i massimi nomi della musica, del teatro, della danza, oggi scomparsi, magari non avrà più raggiunto i fasti dell’era Ferdinando Pinto, straordinario pr col baffo. Ma si consideri che in quell’epoca la politica rendeva possibile l’impossibile, che i tenori, i baritoni, soprani, mezzosoprani, bassi non erano mica questi nostri un po’ ordinari, e che lo stesso valeva nelle arti restanti. Campava ancora Sciascia, Fabio Volo aveva 17 anni. Era una terra di giganti e giganteggiava. La Banca d’Italia è un bel palazzo di pietra e di marmo guardato da uomini con mitraglia. La Camera di Commercio è un altro bel palazzo di pietra e di marmo, Mecca dei commercianti fedeli di Bari, contiene un uomo dai capelli solitamente ordinati, anzi un po’ tutto in Alessandro Ambrosi evoca equilibrio mentale. Meglio così. Pensate se il presidente fosse come la camicia di Michele Emiliano dopo la festa di compleanno del figlio, o come il cespuglio ad alto voltaggio di Caparezza. Sarebbe peggio per tutti.

FIABE E CAFFÈ - Dal versante monumentale passiamo a quello dei negozi, capeggiato dal convitato di pietra americano McDonald’s che anche sul corso Vittorio Emanuele smercia schifezze irresistibili per noi bertucce assetate. Ha dentro marchingegni digitali «tocca per ordinare». Ma è una condanna che viene inflitta un po’ ovunque ormai, e continuerà a dilagare. Segnaliamo l’abbacinante Lama Optical con teorie d’occhiali. Ci sono lungo i marciapiedi alcune edicole non chiuse; strano. C’è il famoso Banana Moon, concept store di riferimento per tutti i giovani che vogliono figacciare, tappa dei tour di rapper griffati che richiamano fan sillabanti negli incontri di musica e moda di strada. C’è Gasperini gelati, davanti al quale migliaia di golosi oggi invecchiati hanno lappato vaniglia e soprattutto banana con cirro apicale. La farmacia di Piernicola Treglia, Tezenis dove abbiamo acquistato al prezzo di due tre mutande, e meno male che sta. Negozi di consumato mestiere sapore Anni ’80, quali Tris, fornito di tutti i classici. L’arrembante Foot Locker, sneaker e sportswear, affollato di ragazzi ma anche di bacucchi dai piedi doloranti. E tanti altri, troppi da elencare, venditori sull’uscio con la lenza in mano. Fino a Jérôme, il bar più bello del mondo firmato da Francesco Lavermicocca, tutto fatato di rosa d’infanzia, con cinque orsacchiotti giganti ai tavoli, zampotte incrociate, e altri due fratellini uno mesto in un angolo e l’altro imbucato nella cabina telefonica grondante fiori di fiaba, davanti alla parete dietro al bancone di acqua piatta che casca. E ci fermiamo qui. Per sempre.

LE STRADE DI BARI. Da Santo Spirito alla rivale Palese: campanilismo e pace fra mare e papere. L'undicesima puntata del viaggio per le vie più iconiche del capoluogo e dintorni. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Maggio 2022.

Dopo via Argiro, via Melo, via Re David, viale Europa, via Prayer (Sant’Anna), via Lattanzio, via Mazzitelli, strada interna al Porto nuovo, la via del Castello piazza Federico II, e corso Cavour prosegue con questa undicesima puntata il viaggio per le strade di Bari

L’importante è che ci siano le papere. Il resto non conta: la riqualificazione, la viabilità sgozzata dalle piste che si intersecano e si accavallano. Quando ci sono le papere c’è tutto e tutto cambia, così superiormente inutili, così divinamente candide, collo eretto o capa sotto nel mare pesante d’oli di barche e di alghe squagliate, forti dell’essere indifese nell’arrivo del pericolo che affrontano con la fuga e lo starnazzo.

Pace. Nel porto di Santo Spirito, quartiere di Bari, sono intoccabili assieme alle anatre, ultime arrivate due dal becco rosso, portafortuna dei marinai, alle quali si aggiungono i becchi curvi dei pappagalli assiepati in condomini sui pini, i randagi accuditi con dedizione dal noto gattaro. Un fronte animalista metropolitano rappresentato dalla statua sulla fontana zampillante della piazza principale: San Francesco con uccelletto fra le mani. L’illuminato passato di qua verso Terra Santa che diffuse attraverso la poesia il senso di amore universale fra bestie a due e a quattro zampe, la compassione che nell’interdipendenza ci associa in un elemento palpitante, e che gli orientali analizzarono con modalità scientifiche millenni prima del Poverello di Santo Spirito.

La vita nostra è lunga grosso modo quanto un palmo di mano, segnato difatti da linee che la rappresentano in dettaglio. E probabilmente è meglio condurla in una comunità ristretta nella naturalità di case basse, di pochi luoghi di riferimento e di aggregazione, marine classiche, meno stress, spostamenti, necessità facilitate, almeno finché l’inferno dell’estate non divorerà tutto quanto. Fortunati quelli che hanno vegetato d’inverno e in primavera nei paraggi, o nel proseguo di Palese più giù verso Bari, altra accolita di senzienti, distinta dall’appartenenza territoriale, villeggianti, stanziali, pendolari fra la linea del mare e il Murat distante undici chilometri da qua.

ME NE FREGO È gente che se ne frega e fa bene a fregarsene. Magari si può dire che alla fine, sia che si campino tranquillamente gli anni che ci hanno imposto di vivere, sia che ci si ostini perversamente a infliggerci il male, non cambia molto, dato che il finale è sempre uguale. Però ci si può divertire a stare meglio, può essere un divertimento anche questo, non c’è solamente il drogarsi. Per cui uno può prendere la decisione di trasferirsi a Santo Spirito, nella Marineria originaria frequentata un tempo dai bitontini, oppure a Palese, già teatro di modugnesi in vacanza, e allungarsi fino al porto principale dove c’è la sede dell’Associazione Armatori e in cui fa palafitta l’Asd Nautica, per guardare le papere, e guardare che guardano, o pensare che pensano, o fissare i punti di vuoto come fanno questi pennuti dalle ali immacolate, e non coglierci niente esattamente come loro senza fare qua-qua.

A occhio, sulla via costiera da Palese a Santo Spirito, benedetta dalla chiesa dello Spirito Santo, la gente sta meglio che in città. Tanto che ambedue le fazioni, che non si detestano ma neppure si amano, condividono almeno l’abitudine di sgradire Bari.

Chi ne ha fatto il suo albergo, o un punto di riferimento, insomma qualcosa di importante nell’organizzazione degli anni solari, stabilisce solitamente un atteggiamento duplice in due emisferi del cranio: si considera di Bari, lo resta, ma è pure santospiritese e con i santospiritesi fa comunità. O ancora è di Bari, lo resta, ma è pure palesino e con i palesini e il loro campanile fa comunità. Chi ne usufruisce invece come residenza stabile e magari ci è nato ha un pensiero unico, ben piantato: è di Santo Spirito, non di Bari, e di Palese men che mai. O è di Palese, non di Santo Spirito, e di Bari giammai.

CONFINI FRA STATI Sono cose diverse. I due agglomerati marittimi sono divisi dal torrino del Titolo, che è pure il nome di un lido. Venne eretto con tetto a cuspide nel 1585 come confine fra Bitonto e Bari, dopo il porticciolo di Palese, che risuona delle campane della chiesa Stella Maris, dei guaiti dei cani nell’Ambulatorio veterinario. E già su questo tratto di Lungomare capisci che la gente se la passa bene, o perlomeno meglio di te. Da perpendicolari striminzite tipo vico Nicola Massaro o via Attilio Alto fu Rettore di Bari, umani in tutto simili a noi fuoriescono in ciabatte, lasciando andare i piedi secondo l’estro di Dio. Alle 18.30 nel porticciolo palesino ci sono ancora bagnanti sbracati sull’arenile o sul cemento irregolare che scende nell’acqua, nelle cui banchine ha lasciato il segno l’ostinazione del moto ondoso, cioè di quel qualcosa che agisce in maniera persistente secondo una volontà estranea alle sue stesse intenzioni. Non c’è ragione per muoversi senza soluzione di continuità.

Il mare non è spettacoloso ma non è neppure male. Può andare. C’è una coppia che amoreggia con gli inguini immersi. C’è divieto di balneazione per cui tutti fanno il bagno. Ci sono panchine orientate diligentemente in direzione dell’orizzonte, sulle quali si può guardare il mare perché c’è il mare e non c’è altro. Su una di esse sta una signora sui cinquant’anni con un bambino ed ha sicuramente denaro e sicuramente non è a digiuno del pane soffiato che chiamiamo cultura.

Ci sono casette dalle cui finestre ognuno può scorgere nell’orizzonte l’occhio fendente di Dio. Tutte a piano strada, e pure questa è una comodità essendo l’ascensore niente più che un rimedio al danno dell’altezza. Ma soprattutto ci sono i gozzi in secca, coperti da traverse matrimoniali che un tempo hanno visto coniugi avanti con gli anni abbozzare gli ultimi approcci sessuali, o che custodiscono ancora nelle loro fibre di scrigno gli ultimi rantoli di vegliardi in agonia.

Questo risulta evidente per come i tessuti sono sfatti. E come nel loro sbiadire sono disegnati. Barche tristi fatte di legno. Barche dimenticate nel loro squallore. Barche rinnegate dal mare che respinge qualsiasi cosa gli si regali.

UN UOMO IN NERO Vicino al porticciolo che si è fatto lido sta il cuore nero del ristorante L’Ancora carbonizzato dalle fiamme. Ci sono altri ruderi più avanti, locali finiti male. Chiusi alla bene e meglio da assi di legno, spogliati di parecchie cose perché il mare ha un orientamento distruttivo e perché anche l’uomo ha la stessa propensione.

Dopo il naif sabbioso del Lido Moretti e il ristorante Ai due sapori che a menti eccessivamente immaginative può evocare ciak da film western di cassetta, sulle piattaforme di roccia che degradano in acqua compare un tizio che dà da pensare. Legge con orecchi tappati da auricolari. Sicuramente scorre i pensieri di Heidegger che s’inseguono sulle pagine. È vestito di nero, ha capelli biondi razzisti a spazzola, tiene serrato negli occhi uno sguardo Azov, potrebbe essere un suprematista bianco, nazifascista come il filosofo sopracitato. È così.

Stanno facendo pulizia nella Boutique dei frutti di mare, che sarebbe Gagang, nomignolo di un famoso pescivendolo che, data l’espansione commerciale, possiamo associare tranquillamente a una multinazionale della lisca. Anche qui, come un chilometro prima e tre chilometri avanti, passano runner molesti, convinti come tutti i loro simili di avere diritto di non avere regole se non quelle imposte all’intero universo dai loro cronometri e da scadenze di marcia, dalle scarpette ammortizzate, senza riconoscere alcun diritto agli altri. Un paio, vecchi e anchilosati, arrancano: è evidente che stanno collassando. Però non muoiono.

Una bici elettrica con gomme d’autocarro diffonde melodie neomelodiche criminose. E Santo Spirito è nostro, e pure vostro, ed è una bella cosa. Sì che lo è. Con la sua tradizione di pesca, con i pescherecci e i natanti di varia stazza, piacere aggiunto per ogni abitante. Lo annesse al capoluogo nel ’28 quel fascio di Araldo Di Crollalanza, quando via Napoli giungeva diretta al Castello e a piazza Massari. Perciò è rimasta separatista e separata. Non per le varianti.

Tiene una piazza principale, San Francesco, di cui abbiamo parlato, con una giostra che sembra una girandola grande dipinta con i colori dello zucchero filato. Una piazza minore, Roma, ancora sul Lungomare Cristoforo Colombo, sulla quale si affacciano il Mercato coperto con Gabriele il Jolly della frutta e la pescheria Nonno Peppe. Tiene le pensiline dei pescivendoli sotto le quali sconfinano anatre dirette a bere Dreher dal frigo dismesso utilizzato come deposito volante. Ristoranti quali il Beluga o il Bolina, o il Mangia e bevi con barca, incistato nel porto come il Blue cafè pub ristorante. Pucciaria di terra e di mare, accanto alla 1ª Corte Cristoforo Colombo e alla 2ª. Ghiaccio bollente, uno dei bar di ritrovo dei santospiritesi spesso messi bene a professione e a contante, assieme al bar Azzurro e al Gabbiano, prospicente alla rotonda attrezzata con sedili per riproporre la pubblicità di Carosello, Cynar. Qualche emporio colorato, tipo Elisir su un esterno di mattonelle d’un verde schiattante. Birra Terrona nelle due sedi del pub Berravia, la pizzeria Da Donato, il Qui si gode che con il sesso non ha a che fare. E il pianoterra carta da zucchero dell’Associazione Costa del Sole, il Circolo nautico «Il Maestrale», in via Verdi l’arte in vetrina del Centro Leonardo da Vinci.

Santo Spirito è imparentato con il cinema. Ci è cresciuto Domenico Procacci, produttore parecchio bravo, lo frequentavano occasionalmente i Lonigro, con Luigi eletto all’unanimità presidente nazionale Distributori Anica. I cinefili bazzicano per Il Piccolo del Circuito d’Autore, recentemente ristrutturato. E poi non possiamo aggiungere altro.

Il porto, di gran lunga più vasto di quello di Palese e attrezzato, ha accolto qualche affogato. Custodisce due enigmi nell’acqua. Il segnalatore luminoso alieno dello scoglio affiorante. E paratie emergenti mezze sciancate, scheletri di un frangiflutti incapace. Da quella disfatta in poi spetta solamente al mare se lasciar vivere Santo Spirito o se sommergerlo per l’eternità.

Un articolo omaggio per onorare la festa del patrono. Oscar Iarussi su la Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Maggio 2022

San Nicola è il nostro Oriente, letteralmente ci orienta. È la leggenda che si concreta in una città, è il Mediterraneo sulla terra ferma: Bari indomita e levantina, trafficante e vivace, verace e talora vorace. Scuro di pelle e «amante dei forestieri», San Nicola è l’icona della mediazione con culture lontane ed è il messaggero di una tregua negli affanni e nei traffici, speriamo anche nella guerra. La Festa di Maggio mette insieme devozione e fede, storia e mito, famiglia e amici, fuochi nella notte e Frecce Tricolori. Rinnova il matrimonio di Bari con il mare grazie al quadro e alla statua del Patrono che ondeggiano a bordo dei motopescherecci sorteggiati... Terra e mare, anzi Terramare – scrive Michele Mirabella in queste pagine – potrebbe essere il motto dei baresi. «Nel nome, il verbo all’infinito: amare». Il rito finalmente torna dopo il grande gelo del Covid e il recente furto sacrilego degli ori nella Basilica. La «Gazzetta», a sua volta rinata da poco, celebra la Festa di quest’anno con le magnifiche immagini in bianco e nero di un grande fotoreporter, il milanese Uliano Lucas, che da molti anni conosce, ama e frequenta Bari, scandagliandone il volto e i volti «a passo lento». Buon San Nicola ai Lettori!

La festa di San Nicola tra i pellegrini e i carretti. Cent’anni fa come oggi: Bari e il suo Patrono nel racconto della «Gazzetta». Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Maggio 2022.

«Tra le annerite, antiche, screpolate case della città vecchia, quasi sorreggendosi a vicenda, confuse insieme, come agitate da uno strano ciclone, si alzano, nel cielo azzurro di maggio, i muri severi, antichi, austeri della chiesa di San Nicola». Così, il 7 maggio di cento anni fa, inizia il racconto della celebrazione della festa di San Nicola che allora, come oggi, catturava l’attenzione dei baresi e dei tanti forestieri presenti in città. «Intorno alla Chiesa gruppi di pellegrini attendono: conversano, guardano i muri severi e religiosi. Hanno gli sguardi smarriti. Su di un carretto, trainato da un ragazzino scalzo e scamiciato, è sdraiato su di un mucchio di cenci un individuo. Non ha le gambe, sul mucchio di cenci il corpo tarchiato, robusto, sembra una tragica offerta ad una divinità fantastica ed inesorabile».

È ancora interdetto, continua il racconto, l’ingresso in Basilica: si sta procedendo alla vestizione con i paramenti della statua di San Nicola. Gli abili cronisti del «Corriere» riescono, però, a introdursi nella Chiesa: sull’altare maggiore, sotto la cupola, in mezzo ad un gruppo di donne, si erge la statua del Santo, «dal cranio lucido, color di cioccolato chiaro, dalla barba brizzolata e dalla zazzera identica». Adesso tutti possono entrare. Ecco le devote baresi: «i loro capi sono stretti da fazzoletti neri, legati a pizzo, sotto il mento. E mormorano preghiere. Poi si inginocchiano, abbassano gli sguardi stanchi con compassione religiosa. L’una accanto all’altra. L’una identica all’altra, i volti rugati stranamente, quasi assenti».

Si distinguono da loro le pellegrine: «sembrano tutte identiche, tutte vestite in una medesima foggia: gonne pesanti, gonfie ai fianchi, fazzoletti annodati sotto il mento, corsetti colorati, volti stanchi, piccole donne quasi tutte munite di bastoni, ricavati dai rami di alberi, freschi ancora. Tutte rassomiglianti: sembrano venire da un medesimo posto, nate all’ombra di uno stesso campanile. Mormorano le medesime preghiere». Nella cripta, illuminata dalla luce rossastra dei ceri, che bruciano lentamente, un mormorio sommerso, lento. Una donna cade svenuta: ha il volto pallido, è scalza, ha i piedi pieni di fango. Un gruppo di pellegrine piange, si odono singulti, si chiedono grazie: «è tutto un tumulto arcano di desideri, di invocazioni di speranze e di tormenti. Non si respira. Si è avviluppati da quest’atmosfera, che dà le vertigini, che irrita, che sembra folle, fantastica, ma che è reale, terribilmente reale».

Rubati oggetti statua San Nicola: ucraine piangono fuori Basilica. ANSA il 22 marzo 2022. Erano venute a pregare San Nicola per i loro famigliari in Ucraina, ma hanno trovato le porte della Basilica nel cuore di Bari Vecchia sbarrate con le macchine della Polizia. Ksenia, 51 anni, è arrivata in Italia cinque giorni fa in fuga dalla guerra, mentre suo marito è rimasto a combattere a Mariupol, una delle città più bombardate. La sua amica Irina, invece, viene da Napoli dove vive da tempo, mentre le sue due figlie e i due nipotini stanno a Mariupol. Per loro, dei quali non ha notizie dal 9 marzo, era venuta a pregare stamattina San Nicola. "Mia figlia quel giorno era uscita per cercare un telefono e chiamarmi - racconta in lacrime - poi hanno bombardato l'ospedale delle donne e da allora non sono più riuscita a mettermi in contatto con loro". Le due donne avevano scelto oggi perché "in Ucraina - spiegano - è la festa dei 40 santi e volevamo pregare nella cripta di San Nicola per proteggere i nostri cari". Nella stessa piazza, di fronte all'ingresso della Basilica, c'è un'altra statua di San Nicola, donata anni fa dal presidente russo Putin alla città di Bari. "A quella statua non vogliamo neanche avvicinarci - dicono - perché l'ha regalata Putin, che sta uccidendo le nostre famiglie e distruggendo le nostre città". (ANSA).

Bari, furto in Basilica: rubati anello di San Nicola, collana reliquiaria e offerte. Individuato il ladro. Ignoti si sono introdotti in chiesa e hanno portato via gli oggetti sacri dalle mani del Santo. Indagini in corso. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022.

Bari, furto San Nicola, Mons. Satriano: «Ladro si ravveda. Beni catalogati, sarà difficile venderli»

«Ciò che lascia perplessi e amareggiati – ha aggiunto mons. Satriano – è l’incapacità di fermarsi e avere il senso del limite»

Intorno alle 4 di questa notte, ignoti si sono introdotti all’interno della Basilica di San Nicola a Bari rubando tutto quello che era nelle mani della statua del Santo: il libro con tre palle d’argento ed una croce in argento con alcune gemme; l'anello in oro con alcune pietre, una collana reliquiaria, nonché il contenuto delle cassette delle offerte, gli ori della pastorale e il Vangelo in oro massiccio. Il valore della refurtiva è di circa 7mila euro (e non 70mila come erroneamente riportato in precedenza). Le indagini sono a cura della squadra mobile. 

I ladri (o molto più probabilmente un singolo ladro) avrebbero potuto portare via qualunque oggetto in oro: se fosse stato un furto organizzato, avrebbe portato via tutto l’oro dalla statua, invece a quanto sembra ha arraffato a caso, prendendo cose importanti ma non i gioielli più preziosi. In ogni caso aveva attrezzi da scasso perché ha divelto una grata. Così Padre Giovanni Distante, priore della Basilica: «Sono entrati di notte, è qualcosa che dispiace molto». Sarebbe già stato individuato il responsabile: gli investigatori avrebbero già le idee chiare sull’autore, si tratterebbe di una persona che ha agito da sola. Elementi decisivi per l’indagine arrivano dalle telecamere di sicurezza della Basilica che hanno inquadrato un uomo in mascherina e cappuccio. All’esterno si è già radunata una folla di cittadini di Bari Vecchia. La Basilica è stata chiusa, i gruppi di turisti organizzati sono stati costretti a tornare indietro.

(video Donato Fasano)

IL DISAPPUNTO DEL SINDACO - “La notizia del furto di parte degli oggetti sacri della statua di San Nicola in Basilica mi lascia sgomento. Un atto non solo sacrilego ma fortemente offensivo per la comunità di fedeli e devoti nicolaiani e per la città di Bari, che intorno al messaggio del suo Santo patrono ha costruito gran parte della sua identità - ha commentato il sindaco Antonio Decaro -. Aver sottratto i simboli più evocativi della vita e della missione del vescovo di Myra significa aver ferito profondamente la città. Spero che l'autore di questo gesto meschino e inqualificabile si ravveda immediatamente restituendo ai padri domenicani gli oggetti sacri. Perché non ci può essere nessuna giustificazione per chi compie un furto nel luogo che custodisce il simbolo e la storia di tutti noi”. 

LE PAROLE DEL VESCOVO - A Roma, dove sono in riunione con il Consiglio Permanente della CEI, al lavoro su tematiche delicate quali la tragedia che si sta consumando in Ucraina, vengo informato dell’avvenuto furto sacrilego operato nella notte.

È triste e doloroso prendere atto che non c’è alcun limite all’oltraggio del sacro. In un contesto già faticoso, in cui la sacralità della vita viene abusata dalla guerra, anche un’immagine simbolica, quale la Basilica del Santo di Myra e la sua Icona più rappresentativa, realtà fortemente identitaria per la comunità barese, viene ferita dalla violenza di alcuni che sembrano aver smarrito qualunque senso del pudore verso l’uomo e del timore verso Dio. Quanto accaduto mi lascia fortemente preoccupato non tanto per gli oggetti e il denaro sottratti, ma per la mancanza di rispetto che si è consumata al cuore della fede dei baresi.

In questo tempo di quaresima, propizio per la conversione dei cuori, invito tutta la comunità cristiana a invocare la misericordia di Dio su chi ha commesso questo atto miserevole e auspico che chi ha operato nell’oscurità della notte possa ravvedersi e restituire quanto trafugato.

Avverto urgente, e non più rinviabile, un lavoro serio e sinergico sulla sfida educativa che vada a recuperare valori umani e religiosi fondamentali per la crescita di una società che sia realmente civile.

I PADRI DOMENICANI - Potrebbe aver avuto un complice il ladro che questa notte ha commesso un furto nella Basilica di San Nicola a Bari rubando alcuni oggetti dalla statua del patrono della città che «non ha subito danni eccessivi». Il furto sarebbe avvenuto dalle 3 alle 5.30, «come testimoniano le telecamere installate all’esterno e all’interno della Basilica», fanno sapere i padri domenicani. Le immagini hanno immortalato "un uomo dall’aspetto giovanile, aiutato molto probabilmente da un complice non visibile nelle telecamere», il quale «dopo aver divelto un inferriata addossata alla torre campanaria e sfondato la porta d’ingresso in Largo Abate Elia, si è furtivamente intromesso nel tempio nicolaiano con il preciso intento di svuotare le cassette delle offerte». «Nell’impossessarsi delle offerte contenute nella teca trasparente in piedi della statua del santo - ricostruiscono i padri domenicani - entrato in contatto con la statua del santo si è impadronito dell’anello alla mano destra, dell’evangeliario con le tre sfere sulla mano sinistra, e di un medaglione contenente una fiala della manna. Fortunatamente non è stata trafugata la croce pettorale dono dell’arcivescovo Mariano Magrassi». «In attesa di conoscere ulteriori sviluppi - prosegue la nota - informiamo i devoti e i pellegrini di San Nicola sparsi nel mondo che la statua del santo non ho subito eccessivi danni» e che «quanto prima sarà effettuato un intervento di restauro particolarmente alle mani del Santo».

«Và-a rrubbe a Sanda Necòle»: con il furto sfatata la massima del dialetto barese. Il racconto di Felice Giovine, noto cultore della baresità, facendo riferimento a quanto accaduto ieri all’alba in Basilica. Ninni Perchiazzi La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.

«C’era una volta un tale, pare un pastore, che si divertiva a lanciare allarmi “al lupo al lupo” e, all’inizio, tutti accorrevano, credendolo attendibili, ma dopo alcuni e ripetuti episodi, ridendosela sotto i baffi, smisero di correre», racconta Felice Giovine, noto cultore della baresità, facendo riferimento a quanto accaduto ieri all’alba in Basilica. «È un’analogia perfetta con il nostro detto “Và-a rrubbe a Sanda Necòle”», spiega richiamando il furto dei «preziosi doni che adornano la statua del nostro Patrono».

Ma come nasce il detto, che ogni barese doc ha pronunciato almeno una volta nel corso della vita?

«Il detto nacque, per la verità, per liberarsi di “fastidiose” richieste di denaro da parte di amici e parenti, in difficoltà, rivolte a chi, credevano loro, fosse in condizioni migliori. Ma dopo un paio di richieste, nonostante le giustificazioni, peraltro imbarazzanti, per non poterle soddisfare e per chiudere definitivamente la questione, si raccomandava di andare a fare il sacrilego furto».

Insomma un modo spiccio di liberarsi da una richiesta che non si intende o non si può soddisfare.

«Non si trattava di un vero incitamento, ma una dichiarazione di non florida posizione o alla pari col richiedente, in quanto, il Santo coi suoi tesori, era il vero “ricco” cui rivolgersi e che disponeva di un certo patrimonio».

Il significato s’è poi un po’ allargato.

«Poi, col tempo, il detto è stato usato per situazioni, le più disparate, allargando il proprio raggio di riferimento e al tempo stesso perdendo così, buona parte del suo significato. In pratica, si è generalizzato e non si è più tenuto in debito conto il significato originario».

L’assalto alla statua del santo sa di beffa.

«Evidentemente qualcuno, cui difetta la materia grigia e il rispetto per le cose sacre, ha raccolto l’invito e lo ha messo in atto. Ma sarebbe giustificato se fosse stato compiuto per un effettivo e forzato “bisogno” estremo. Mah!»

Se così fosse, San Nicola perdonerà l’autore dell’incauto gesto.

«San Nicola non lo perdonerà come non perdonerà Putin per quello che sta facendo. Il principio è lo stesso».

Valeria D'Autilia per La Stampa il 23 marzo 2022.

Nelle ultime settimane era stato più volte invocato come simbolo di pace. Perché, attorno alla figura di San Nicola, si ritrovano cattolici e ortodossi. A lui, simbolo di unione tra i popoli, è dedicata l'omonima Basilica a Bari, città che lo venera come patrono e che ora è sgomenta. Nella notte tra lunedì e martedì, infatti, sono stati rubati gli oggetti sacri che impreziosivano la statua del santo: l'anello in oro con pietre, il libro con tre sfere d'argento, un medaglione reliquiario, ma anche offerte.

«Un atto sacrilego - ha commentato il sindaco Antonio Decaro - e offensivo per la comunità. Aver sottratto i simboli più evocativi della vita e della missione del vescovo di Myra significa aver ferito profondamente la città». Non il valore economico, ma quello fortemente simbolico, dato il contesto internazionale. Sconcerto in città e anche tra turisti e fedeli che non hanno potuto accedere alla chiesa, chiusa per l'accaduto. Tra loro anche alcune donne ucraine, fuggite dalla guerra, che volevano pregare per i loro familiari rimasti in patria.

L'autore del furto sarebbe stato individuato dopo alcune ore. Ha divelto un'inferriata, forse con l'aiuto di un complice all'esterno. Nonostante mascherina e cappuccio, gli investigatori della squadra mobile lo avrebbero identificato grazie alle telecamere di sicurezza della chiesa. Le indagini si erano subito concentrate sull'ipotesi che non fosse un professionista, dal momento che non ha portato con sé gli altri oggetti di valore.

«Triste e doloroso - ha detto l'arcivescovo Giuseppe Satriano - prendere atto che non c'è alcun limite all'oltraggio del sacro. In un contesto già faticoso, in cui la sacralità della vita viene abusata dalla guerra, anche un'immagine simbolica viene ferita dalla violenza di alcuni». La notizia del furto l'ha raggiunto a Roma, dove era impegnato in un incontro della Cei proprio sull'emergenza in Ucraina. Intanto, i padri domenicani assicurano che le mani del santo - ora danneggiate - saranno immediatamente restaurate.

La notizia del furto ha scosso l'intera città e la stessa Bari vecchia, dove si trova il luogo di culto. È stato il primo cittadino, dalla sua pagina Facebook, a comunicare l'accaduto. Nel giro di poco tempo, nella zona si sono radunati anche alcuni curiosi. Altri si sono fermati a pregare all'esterno. Sotto quella statua violata, alcuni giorni fa, si era svolta un'iniziativa di pace tra esponenti delle comunità russa e ucraina.

Nella stessa piazza della Basilica, proprio di fronte all'ingresso, c'è un'altra statua di San Nicola. Un dono di alcuni anni fa di Vladimir Putin in persona alla città di Bari con tanto di cerimonia, insieme a una targa finita da alcune settimane al centro di una petizione online. A migliaia chiedono venga rimossa. Ma Decaro aveva replicato: «Non sono favorevole a cancellare pezzi di storia, si potrà magari mettere accanto un'epigrafe per spiegare la posizione della città».

Furto in Basilica Bari, si stringe il cerchio sul presunto autore: sarebbe un senzatetto marocchino. Nessuna traccia degli ori di San Nicola.  Il pm contesta l’aggravante della violazione del luogo di culto. Una persona è stata portata in questura. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.

Si stringe il cerchio attorno al ladro di San Nicola, l’autore del furto sacrilego che all’alba di ieri ha strappato dalle mani del santo di Myra, patrono di Bari, introducendosi nella Basilica nel cuore della città vecchia, un anello in oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, oltre a svuotare le cassette delle offerte. I poliziotti della squadra mobile e delle volanti sono sulle sue tracce da ieri, sulla base dell’identikit ricostruito grazie alle immagini estrapolate dalle telecamere della Basilica che lo hanno immortalato. Potrebbe essere un senza fissa dimora, con ogni probabilità non barese. Le indagini sono coordinate dalla pm Angela Maria Morea, che ha aperto un fascicolo per furto con scasso aggravato dall’aver violato un luogo di culto. Oltre ad aver rubato denaro e oggetti sacri, il ladro per entrare in chiesa ha divelto una inferriata, ha sfondato un portone laterale in legno e ha danneggiato le mani della statua di San Nicola.

ACCERTAMENTI IN CORSO UOMO PORTATO IN QUESTURA - La Procura di Bari sta valutando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico di un 50enne di nazionalità marocchina, sospettato del furto commesso la notte tra lunedì e ieri nella Basilica di San Nicola. Nel colpo sono stati trafugati, oltre agli spiccioli delle offerte, un anello in oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, strappati dalle mani della statua del santo. L’uomo, un senza fissa dimora, si trova da ore negli uffici della Questura di Bari dove viene interrogato. È stato trovato dagli agenti delle Volanti nascosto in un casolare nel quartiere Japigia. Lì sono stati trovati anche alcuni elementi utili a ritenerlo l’autore del furto, immortalato dalle telecamere della Basilica. Ancora nessuna traccia, invece, degli oggetti sacri rubati. 

Bari, furto dei gioielli di San Nicola: arrestato un 50enne. Chiara Nava il 24/03/2022 su Notizie.it.

Gli agenti della squadra mobile hanno ricostruito l'identikit del presunto ladro analizzando le immagini delle telecamere. Un 50enne è stato arrestato. 

Gli agenti della squadra mobile hanno ricostruito l’identikit del presunto ladro analizzando le immagini delle telecamere. Un 50enne di nazionalità marocchina è stato arrestato.

Bari, furto dei gioielli di San Nicola: arrestato un 50enne

Un uomo di 50 anni, di nazionalità marocchina, ha ricevuto un fermo di polizia.

Potrebbe essere lui l’autore del furto avvenuto all’alba dello scorso martedì all’interno della Basilica di San Nicola a Bari. La statua di San Nicola è stata depradata degli oggetti che si trovavano nelle mani del santo, tutti molto preziosi. L’uomo di 50 anni è stato arrestato e condotto in carcere ed è a disposizione dell’autorità giudiziaria. L’uomo è indagato per furto con scasso aggravato dall’aver violato un luogo di culto.

Per il momento la refurtiva non è ancora stata ritrovata. 

Identikit ricostruito grazie alle registrazioni delle telecamere

Secondo gli accertamenti sono stati rubati un anello in oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione che contiene una fiala della sacra manna, oltre al contenuto delle cassette delle offerte. Gli agenti della squadra mobile e delle volanti hanno ricostruito l’identikit del presunto ladro, analizzando le immagini registrate dalle telecamere.

Per riuscire ad entrare in chiesa è stata divelta una inferriata e sfondato un portone di legno. La statua del santo di Myra ha subito un danneggiamento alle mani. 

Furto in Basilica San Nicola a Bari, parla il 48enne tunisino fermato: «Non ero io». Nel colpo, oltre agli spiccioli delle offerte, sono stati rubati un anello di oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, strappati dalle mani della statua del santo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Marzo 2022.

Ha negato di essere l’autore del furto nella Basilica di San Nicola a Bari, commesso la notte tra il 21 e il 22 marzo scorsi, il 48enne tunisino Farid Hanzouti, in stato di fermo in carcere da due giorni con l’accusa di furto con scasso, aggravato dall’aver violato un luogo di culto. Nel colpo, oltre agli spiccioli delle offerte, sono stati rubati un anello di oro, l’evangeliario con le tre sfere d’argento e un medaglione contenente una fiala della sacra manna, strappati dalle mani della statua del santo. Alla identificazione del 48enne i poliziotti sono arrivati grazie alle immagini delle telecamere che hanno immortalato il ladro in sella ad una bicicletta all’esterno della Basilica e mentre scavalcava la grata accanto alla torre campanaria, dove c'era anche una sua impronta digitale. Nel casolare dove si nascondeva, poi, gli agenti hanno trovato banconote per complessivi 1.750 euro, ritenute il guadagno della vendita degli oggetti sacri, e tra le altre cose un anello con scritte in cirillico.

Comparso dinanzi alla gip del Tribunale di Bari Antonella Cafagna per l’udienza di convalida del fermo, Farid Hanzouti, assistito dall’avvocato Maurizio Rogliero, ha respinto le accuse. «Non sono io l’uomo ripreso dalle telecamere la notte del furto» ha detto alla giudice. L’impronta l’ha giustificata spiegando che frequenta spesso la Basilica per chiedere cibo e aiuti. Quanto al denaro trovato nel casolare, ha spiegato che deriva dalla sua attività occasionale di parcheggiatore abusivo, mentre gli altri oggetti ha detto che non gli appartengono perché «quel luogo è frequentato anche da altri senza tetto». Il difensore ha chiesto che il 48enne sia rimesso in libertà. La pm che coordina l’indagine sul furto, Angela Maria Morea, ha insistito per il carcere. La gip si è riservata e deciderà nelle prossime ore.

IL CASO. Bari, ritrovati gli ori di San Nicola rubati dalla Basilica. Il gip: «Non escluso colpo su commissione». Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2022.

Gli oggetti sacri trafugati dalla teca che ospita la statua del santo patrono di Bari, San Nicola, anello, evangelario, medaglione contenente la manna, rubati dalla Basilica, sono stati ritrovati. 

Resta in carcere il 48enne tunisino Farid Hanzouti, ritenuto l’autore del furto con scasso commesso la notte tra il 21 e il 22 marzo scorsi. La gip Antonella Cafagna, condividendo la ricostruzione fatta dalla pm Angela Morea, che coordina le indagini della Polizia, evidenzia che «le riprese delle telecamere, le impronte sulla grata della cancellata diventa per procurarsi un varco di accesso in un punto non raggiungibile se non da chi si apprestasse a scavalcarla, l’esito dell’accertamento sull'identità dattiloscopica, i risultati di una prima comparazione antropometrica e l’esito della perquisizione, offrono elementi di notevole valore indiziario». Nel casolare dove il 48enne si nascondeva, infatti, sono stati trovati alcuni monili in argento con incisioni in alfabeto cirillico, circostanza pienamente compatibile con il trafugamento di doni dei fedeli russi ortodossi, comunemente offerti in omaggio del santo durante le visite nella basilica. Secondo la gip, inoltre, sussistono anche le aggravanti contestate dell’aver commesso il fatto «su cose destinate a reverenza» e «agendo con volto travisato» con una mascherina FFp2 il cui utilizzo, ricorda la gip, «non è più obbligatorio negli spazi aperti».

Bari, ecco il casolare dove sono stati trovati gli ori rubati a San Nicola. La Repubblica il 27 Marzo 2022.

Ecco il casolare di Bari dove sono stati trovati gli oggetti sacri rubati dalla Basilica di San Nicola. Erano stati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle della costruzione dove si nascondeva anche il presunto ladro. Colui che secondo i poliziotti e la Procura è l'autore del furto sacrilego, commesso nella notte tra il 21 e il 22 marzo, il 48enne tunisino Farid Hanzouti, è in carcere da giovedì anche se continua a negare. All'interno della baracca già nei giorni scorsi i poliziotti avevano trovato altri oggetti sospetti, come "alcuni monili in argento con incisioni in alfabeto cirillico, circostanza pienamente compatibile - secondo il gip che ha convalidato il fermo del 48enne disponendo che resti in carcere - con il trafugamento di doni dei fedeli russi ortodossi, comunemente offerti in omaggio al santo durante le visite nella Basilica

Da “La Stampa” il 27 marzo 2022.

L'oro di San Nicola tornerà presto tra le mani del santo, nella Basilica nel cuore di Bari vecchia. Cinque giorni dopo essere stati trafugati, gli oggetti sacri sono stati ritrovati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle del casolare dove si nascondeva anche il presunto ladro. 

Secondo la procura, l'autore del furto avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 marzo è Farid Hanzouti, 48 anni, in carcere da giovedì, che nega di aver sottratto gli oggetti sacri.

La notizia del furto aveva scosso profondamente la città e le comunità ortodosse che vi abitano, perché San Nicola, patrono dei baresi, è anche simbolo di unione tra popoli e religioni, più volte invocato per la pace in Ucraina.

Gli inquirenti ritengono di aver raccolto prove sufficienti: fotogrammi della notte del furto all'esterno della Basilica, impronte digitali, denaro e oggetti trovati nel casolare dove si nascondeva e ora la refurtiva ritrovata nello stesso luogo.

Ma c'è un aspetto da chiarire: come mai un parcheggiatore abusivo senza fissa dimora aveva 1.750 euro in contanti. Se al momento del ritrovamento delle banconote, il giorno dell'arresto, l'ipotesi era che si trattasse del provento della vendita degli oggetti sacri, con il loro ritrovamento il sospetto è che quei soldi costituissero l'acconto di un furto su commissione.

Le indagini continuano e si concentreranno ora sul telefono dell'arrestato. Seguendo le celle agganciate dal cellulare del 48enne, gli investigatori sono arrivati al luogo dove era nascosta la refurtiva. 

E potrebbero essere gli ulteriori accertamenti sui tabulati a condurli all'eventuale mandante. Intanto l'anello di oro sfilato dal dito della statua, il medaglione e l'evangeliario, sono stati messi al sicuro.

Bari, recuperata refurtiva di San Nicola: il momento del ritrovamento nelle campagne. Gli oggetti sacri sono stati ritrovati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle del casolare dove si nascondeva anche il presunto ladro. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Marzo 2022.

L’oro di San Nicola tornerà presto tra le mani del santo per essere custodito nella Basilica nel cuore di Bari vecchia. Cinque giorni dopo essere stati trafugati, gli oggetti sacri sono stati ritrovati sotterrati in una campagna nel quartiere Japigia di Bari, alle spalle del casolare dove si nascondeva anche il presunto ladro. Colui che secondo i poliziotti e la Procura è l’autore del furto sacrilego, commesso nella notte tra il 21 e il 22 marzo, il 48enne tunisino Farid Hanzouti, è in carcere da giovedì anche se continua a negare. La notizia del furto aveva scosso profondamente la città e anche le comunità ortodosse che vi abitano. Perchè San Nicola, oltre ad essere il patrono dei baresi, è simbolo di unione tra i popoli e religioni. Nelle ultime settimane è stato più volte invocato per la pace in Ucraina e ogni anno le sue reliquie conservate nella basilica sono meta di migliaia di turisti e fedeli russi.

Gli inquirenti ritengono di aver raccolto prove schiaccianti sull'uomo arrestato: fotogrammi della notte del furto all’esterno della Basilica, impronte digitali, denaro e oggetti trovati nel casolare dove si nascondeva e ora anche la refurtiva ritrovata nello stesso luogo. Il caso sembrerebbe chiuso. Eppure c'è un aspetto ancora da chiarire: come mai un parcheggiatore abusivo senza fissa dimora aveva 1.750 euro in contanti. Se al momento del ritrovamento delle banconote, lo stesso giorno in cui il 48enne è stato fermato, l’ipotesi era che si trattasse del provento della vendita degli oggetti sacri, con il loro ritrovamento il sospetto è che quei soldi costituissero l'acconto di un furto fatto su commissione. Le indagini, quindi, continuano e si concentreranno ora sul telefono del presunto ladro. Seguendo le celle agganciate nelle ore successive al furto dal cellulare del 48enne, gli investigatori sono arrivati al luogo dove era nascosta la refurtiva. E potrebbero essere gli ulteriori accertamenti sui tabulati a condurli all’eventuale mandante del colpo.

Quel che conta, per il momento, è che sono ormai al sicuro quegli oggetti così identitari non soltanto del santo di Myra patrono di Bari ma della stessa città, l’anello di oro sfilato dal dito della statua, e soprattutto l’evangeliario con le tre sfere in argento, che è stato rinvenuto leggermente danneggiato, oltre al medaglione contenente una fiala della sacra manna. Portati via nel cuore della notte da un uomo che, come documentato dalle telecamere di videosorveglianza, scavalcando la grata accanto alla torre campanaria, dove ha lasciato anche una impronta digitale, è entrato in chiesa sfondando una porta laterale in legno e lì riempiendo uno zaino con le monete che erano custodite nelle cassette delle offerte nella navata e nella cripta e con gli oggetti sacri presi dalla teca del santo, per poi fuggire in sella ad una bicicletta, zaino in spalla. Quello stesso zaino che oggi è stato trovato sotterrato sul retro del casolare dove si nascondeva Farid, in una zona con erba alta e difficile da scovare.

All’interno della baracca, invece, già nei giorni scorsi i poliziotti avevano trovato altri oggetti sospetti, come «alcuni monili in argento con incisioni in alfabeto cirillico, circostanza pienamente compatibile - secondo il gip che ha convalidato il fermo del 48enne disponendo che resti in carcere - con il trafugamento di doni dei fedeli russi ortodossi, comunemente offerti in omaggio al santo durante le visite nella Basilica». 

LE PAROLE DEL VESCOVO, MONSIGNOR SATRIANO - «Con grande riconoscenza, desidero esprimere gratitudine profonda per il felice esito delle indagini della Polizia che hanno portato al ritrovamento degli oggetti trafugati nella Basilica di San Nicola, alla statua raffigurante il Santo patrono di Bari, caro a milioni di persone. La professionalità degli agenti, la loro perizia e l’abnegazione vissuta nel portare avanti il proprio lavoro ha riconsegnato alla Città, e non solo, un segno di speranza che ridona fiducia a questi giorni, rattristati dalla guerra che bussa alle porte delle nostre case».

«Dispiace la vicenda del tunisino trovato in possesso della refurtiva. Questa amara storia ci apra il cuore a maggiore solidarietà verso i fratelli che vivono nel bisogno ma anche ad educare a quel senso civico, fatto di rispetto e attenzione alle regole del vivere insieme, a cui nessuno deve sottrarsi. Il Santo di Myra, a cui affidiamo le preghiere di tutti, interceda per questa nostra umanità, ferita e lacerata. A lui chiediamo la grazia e il coraggio di saper attestare relazioni autentiche, protese ad un’etica del dono con la quale rendere generativi i vissuti di ciascuno».

L'annuncio social del sindaco Decaro: "Sono positivo al Covid. Ma i baresi si godano l'apertura del parco Rossani". La Repubblica il 20 marzo 2022.  

"Non ho sintomi e sto bene", ha scritto su Facebook a poche ore dall'inaugurazione.

Anche il sindaco Antonio Decaro è positivo al Covid in una Bari che, così come il Salento, è flagellata dalle varianti Omicron e Omicron 2. "Alla fine è toccato anche a me. Sono positivo al Covid", ha scritto Decaro sulla sua pagina Facebook ufficiale. "Non ho sintomi e sto bene. Oggi per sicurezza, prima di partecipare all'inaugurazione tanto attesa del parco Rossani, ho voluto fare un altro tampone. Non vi nascondo il mio rammarico, perché a voi non ho mai nascosto nulla. Ma forse doveva andare così. Forse è giusto che a entrare per primi in quel parco, nel nostro parco, siano stati i cittadini".

Il sindaco si sofferma sull'evento atteso per oltre trent'anni dalla città. "Questa inaugurazione è innanzitutto la vostra. Perché vostro è questo nuovo spazio verde che abbiamo atteso per tanti, troppi anni. A tutti quelli che ci hanno aiutato a realizzare quest'opera vorrei dire 'grazie'. Grazie soprattutto ai cittadini che non hanno mai smesso di crederci. Grazie a quelli che con determinazione ed entusiasmo hanno aperto questo spazio per la prima volta, grazie ai cittadini del Comitato parco Rossani e a quelli che si sono appassionati strada facendo. Sono state le sentinelle di quest’opera. Sono stati progettisti, esecutori, controllori. Sono stati critici ma anche i primi a gioire a ogni passo in avanti. Sono stati loro, i cittadini, la vera forza di questo percorso e sono contento di affidare alle loro cure e di mettere nelle loro mani questo parco".

Poi la conclusione del messaggio di Decaro: "Oggi non potrò essere lì con voi, ma per una volta sarò felice io di godermi tutte le foto e i video del vostro speciale sopralluogo che vorrete inviarmi o pubblicare sui social. Buona vita al nuovo Parco Rossani! Buona domenica, Bari".

Bari, è morto Nicola Di Cagno docente universitario ed ex presidente del consiglio regionale. Aveva 79 anni. Liberale era stato anche assessore regionale al Bilancio. E' stato preside di Economia e commercio all'Unisalento. La Repubblica il 15 Marzo 2022.

E' morto a 79 anni il professore Nicola Di Cagno, docente dell'Università del Salento ed ex presidente del Consiglio regionale e assessore della Regione Puglia. Lo ha annunciato la presidente del Consiglio regionale pugliese, Loredana Capone, in apertura dei lavori in aula.

"Poche ore fa - ha detto - è venuto a mancare il professore Nicola Di Cagno: ha presieduto il Consiglio regionale della Puglia dal 1985 al 1990. È stato assessore al Bilancio e poi agli Affari generali. Dal primo luglio del 2008 al dicembre 2013 ha presieduto l'Istituto pugliese di ricerche economiche e sociali (Ipres)".

Poi Capone, ricordando Di Cagno ha aggiunto: "Un liberale fermo nelle idee ma gentile nei modi, cresciuto culturalmente e politicamente nel prestigioso alveo della famiglia Cassandro. Dai fratelli Paolo ed Emilio ha assorbito l'amore per il diritto costituzionale; da Manlio, giovane deputato barese, vicesegretario negli anni Settanta del Partito liberale, quello per la politica e l'impegno per il sociale".

E' stato anche preside di Economia e commercio all'Università di Lecce. "Una grave perdita per la Puglia. Un uomo pieno di energia, vivace, generoso, competente. Un uomo di cui noi tutte e tutti sentiremo la mancanza", ha concluso Capone.

·        La Banca Popolare di Bari. La mia banca è differente…Jacobini story.

Banca Popolare di Bari, il prefetto De Gennaro si dimette dalla presidenza: «Ricostituita legalità dell'istituto». Gli azionisti increduli e preoccupati: «Invochiamo l'intervento dei politici pugliesi per evitare peggiori conseguenze e danni ai risparmiatori». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022. Il Prefetto Gianni De Gennaro lascia la presidenza della Banca Popolare di Bari a decorrere dal 1 maggio. La decisione, spiega una nota, è stata comunicato, oggi, al Consiglio di Amministrazione di Banca Popolare di Bari,(gruppo Mcc).

«La decisione di rassegnare le dimissioni, maturata anche per motivazioni personali, fa seguito al raggiungimento dell’obiettivo della ricostituzione di una cultura dell’Etica e della legalità nell’Istituto» sottolinea il comunicato. «Quando nell’ottobre 2020 Gianni De Gennaro accettò l’incarico, il compito del Presidente comprendeva anche l’esigenza di costituire un forte presidio di legalità presso l’istituto finanziario uscito da una gestione commissariale, cui era stato necessario ricorrere in ragione del grave squilibrio patrimoniale al quale si erano aggiunte le vicende penali che avevano interessato i precedenti vertici aziendali, colpiti da provvedimenti cautelari dell’Autorità giudiziaria.Il CdA ha preso atto della decisione del Presidente e lo ha ringraziato per l’importante lavoro svolto in questi anni".

De Gennaro ha affermato di essere "grato per l’opportunità che ho avuto di lavorare al fianco di professionisti esperti ed integerrimi. Sono certo che sotto l'equilibrata guida del CdA, del Collegio Sindacale e dell’Organismo di Vigilanza, il nuovo management condurrà la Banca a conseguire quegli obbiettivi e quei traguardi imprenditoriali per il raggiungimento dei quali ci siamo, in questi mesi, tutti intensamente adoperati».

LE REAZIONI - «Per un verso prendiamo atto delle dimissioni del presidente, poiché da tempo chiedevamo la sostituzione dell’intero cda e l’arrivo di amministratori specializzati e competenti di tematiche bancarie; per l’altro siamo increduli davanti allo stillicidio di dimissioni e di fughe dalla nostra Banca». Lo scrivono i risparmiatori del Comitato Indipendente Azionisti Popolare di Bari e AssoBPB, che in una nota si dicono «sconcertati dall’ennesimo capitolo della saga Banca Popolare di Bari/Medio Credito Centrale». «Appena il tempo di terminare l’assemblea ordinaria per l'approvazione del terribile bilancio 2021, con 170 milioni di perdite - dicono - , e per nominare due nuovi componenti del cda e del collegio sindacale in sostituzione dei dimissionari, che arrivano le dimissioni del presidente De Gennaro». «Rinnoviamo la richiesta ai rappresentanti politici pugliesi - concludono - di occuparsi della Banca Popolare di Bari e di intervenire presso MCC per evitare peggiori conseguenze e danni ai risparmiatori dalla lenta agonia della BpB».

IL SISTEMA BARI DA RICOSTRUIRE. La "Milano del Sud" da restituire al Paese. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 26 agosto 2021. Il problema della baresità di oggi è che tutti possono fare tutto, e così il declino della competenza diventa declino del territorio. Persistono e si difendono le eccellenze di impresa, ma sparisce il sistema Bari fatto di competenza organizzata e porta il conto salato alle imprese. Che, a loro volta, non sono del tutto immuni da cattive abitudini, ma pagano più degli altri le due grandi crisi internazionali e il nuovo ’29 mondiale a causa proprio della mancata trasformazione di sistema imposta dalla trasformazione digitale e dalla globalizzazione acciaccata. Scommettiamo sull’inversione possibile del declino, sulla “Milano del Sud” rinata e sul suo sistema territoriale rinnovato. Ho voluto che il Quotidiano del Sud-l’Altravoce dell’Italia fosse in edicola a Bari dal suo primo giorno di uscita che data dieci aprile 2019. Perché non si può provare a raccontare l’Italia e il mondo con gli occhi del Mezzogiorno e chiamare a raccolta per farlo le grandi competenze del giornalismo economico, politico, istituzionale italiani senza parlare alla “Milano del Sud” e alla sua comunità. Ho sempre avuto questo pallino fisso nella testa. Quando dirigevo Il Sole 24 Ore un po’ di tempo fa lanciai il Viaggio nell’Italia che innova: prima tappa Bologna, seconda Bari. Perché se penso all’innovazione penso a Bologna, ma se penso a un Mezzogiorno che rincorre e aggancia il Nord, penso a Bari e alla sua provincia. Penso alla Murgia (Altamura, Gravina, Santeramo) che fa il suo alla grande. Penso ai Pertosa con la Mermec a Monopoli e la Sitael a Mola di Bari dove il primato globale si chiama tecnologia nei parametri di sicurezza dell’alta velocità ferroviaria e nei satelliti spaziali. Penso ai Cannillo (Despar) e ai Casillo (entrambi a Corato). Penso alle grandi aziende agricole, ai Divella di Rutigliano e ai tanti che sanno attrarre turismo internazionale, ma non fanno rete tra di loro. Penso alla “Puglia Imperiale” della provincia di Barletta-Andria-Trani (BAT) e al suo dinamismo economico. Ricordo l’insistenza con cui Franco Tatò più di venti anni fa volle che presentassi a Milano il suo lavoro “Perché la Puglia non è la California” e, ancora prima, gli anni trascorsi da cronista del Mattino di Napoli alla Fiera del Levante di Bari dal primo all’ultimo giorno di ogni sua edizione. Percepivo un’aria di chi vuole costruire qualcosa per l’oggi e per il domani, lo spirito mercantile di chi ha un metodo in testa e uno schema di lavoro che collegano Bari al mondo, ma si avvertivano fin da allora i segni dello sgretolamento dello Stato unitario meridionalista e la crescita di quella politica clientelare degli amici degli amici del mastodonte regionale e del crocicchio di società e di potere a esso collegato che avrebbe così tanto nuociuto agli spiriti vitali baresi. Da oggi per vedere ciò che non si vuole vedere e ascoltare battiti, pulsioni, fatiche e delusioni affiancheremo l’edizione Bari Bat Murge a quella dell’AltraVoce in un unicum di offerta editoriale che vuole unire il massimo di libertà e di giornalismo di inchiesta sul territorio al rigore, alla documentazione comparativa-competitiva e all’orientamento del dibattito della pubblica opinione che vive nel racconto quotidiano delle due Italie. Contro gli stereotipi dei luoghi comuni del Nord sul Mezzogiorno fuori dalla storia e dalla realtà e alleggeriti dal peso insostenibile di un meridionalismo della cattedra che ha fatto molto male e ancora di più può farne alla Puglia e al Mezzogiorno perché li condanna entrambi a un cliché protestatario rassegnato. Vogliamo ripetere l’esperimento di successo attuato da anni in Basilicata affidando la guida di questa nuova edizione alle stesse mani sicure di Roberto Marino e di una straordinaria redazione che conosce Bari, BAT e la Murgia come pochi. Diremo ogni giorno le cose come stanno senza riguardi per nessuno perché è il timbro di fabbrica di questo giornale. Che ha un Editore coraggioso che ha la sana abitudine di leggere il giornale il giorno dopo e “combatte” da più di un quarto di secolo nella trincea editoriale delle terre più svantaggiate d’Italia. Provo a essere brutale: il problema della baresità di oggi è che tutti possono fare tutto, e così il declino della competenza diventa declino del territorio. Persistono e si difendono le eccellenze di impresa, ma sparisce il sistema Bari fatto di competenza organizzata e porta il conto salato alle imprese. Che, a loro volta, non sono del tutto immuni da cattive abitudini, ma pagano più degli altri le due grandi crisi internazionali e il nuovo ’29 mondiale a causa proprio della mancata trasformazione di sistema imposta dalla trasformazione digitale e dalla globalizzazione acciaccata. L’eccellenza, per capirci, non fa il tessuto economico di un territorio di una regione. Per invertire il declino e tornare a essere la Milano del Sud, il territorio deve uscire dal suo nuovo motto “pochi, maledetti e subito” che serve a contrastare un breve termine difficile e darsi un progetto di medio e lungo termine dicendo oggi che cosa saranno Bari e la Puglia tra dieci anni. Diciamoci le cose come stanno. La Fiera del Levante è alla canna del gas. Non riesce ad avere una produzione propria che non sia la campionaria che attrae sempre meno. Non produce più fiere: le quattro o cinque specializzate sono tutte importate perché non ha un management con un minimo di capacità per legare le fiere ai suoi prodotti e a un tessuto di ricerca alle sue spalle bellissimo ma frammentato che a sua volta anch’esso non riesce a fare sistema. I gangli vitali per favorire un tessuto economico regionale che vuole fare sistema come l’Acquedotto pugliese e molti altri di reti immateriali e materiali, di servizi e di ricerca pubblica sono nelle mani di uomini fedeli alla politica regionale dello scambio e non basta il lavoro serio di un bravo sindaco di Bari e di altri buoni amministratori comunali per rimediare ai guasti di struttura prodotti da un sistema deviato che è il frutto malato del federalismo italiano della irresponsabilità. Che qui, come a Napoli e a Palermo, ha dovuto fare anche i conti con gli indebiti prelievi operati dalle Regioni del Nord. La Banca Popolare di Bari è stata travolta dagli scandali che non hanno risparmiato neppure una famiglia simbolo come quella degli Jacobini. Su quello che è accaduto nella gestione del credito saremo vigili e non avremo attenzioni per nessuno, ma ancora di più lo saremo con chi ne ha raccolto l’eredità perché non ci piacciono i gattopardismi a ogni latitudine e perché hanno ricevuto in consegna le chiavi del futuro di sistema da ricostruire. Se lo ricordino bene ogni giorno che Dio manda in terra perché devono sapere distinguere tra i raccomandati a cui devono dire no e gli spiriti vitali che da questo intreccio distorto sono stati penalizzati e a cui devono sapere dire sì senza nascondersi dietro paraventi formalisti. Il Bari calcio è finito in mano alla famiglia partenopea dei De Laurentiis che è a sua volta proprietaria dello storico Napoli calcio. Sul piano dei simboli se penso alle radicate capacità dell’impresa pugliese di difendere i suoi simboli proprio rispetto a quella napoletana che ha già vissuto la sua stagione di disarmo e prova ora a ripartire, questo mi sembra il dato più evidente della strutturalità della crisi barese. Un grande marchio del caffè Saicaf della famiglia Lorusso è stato acquisito da Segafredo. Potremmo continuare, ma fermiamoci qui. Scommettiamo piuttosto sull’inversione possibile del declino, sulla “Milano del Sud” rinata e su un suo sistema territoriale rinnovato. Che saranno a loro modo acceleratori del cambiamento del Mezzogiorno e contribuiranno a salvare l’Italia. L’unica cosa che non manca, qui come in modo diffuso a Napoli e in Calabria con una università che sforna i talenti mondiali dell’algoritmo dell’intelligenza artificiale, è il capitale umano giovanile. La coerenza meridionalista degasperiana del governo di unità nazionale guidato da Draghi punta proprio su quel capitale. Draghi è la carta estrema del Paese, ma proprio per questo è allo stesso tempo l’ultima opportunità che la storia ci consegna per riunire le due Italie. Dobbiamo crederci e essere parte attiva del cambiamento. Bisogna fare l’esatto contrario di quello che si è fatto negli ultimi venti anni. Quelli della crescita zero e delle diseguaglianze crescenti. Quelli del patto scellerato della spesa storica tra le Regioni ricche di Destra e di Sinistra che hanno privato i cittadini meridionali dei loro diritti di cittadinanza e svuotato il primo mercato interno di consumi del Nord produttivo. Un obbrobrio etico e un “capolavoro” da studiare nei manuali per raccontare come si mette fuori gioco un Paese intero.

LA GRANDE CRISI DELL’IMPRENDITORIA BARESE. Antonello De Gennaro su Il Corriere del Giorno il 16 Agosto 2021. IL BARI CALCIO IN SERIE C, IL “CRACK” DELLA BANCA POPOLARE DI BARI, IL FALLIMENTO DELLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, LA FIERA DEL LEVANTE CHE NON SIN FARA’, LA CESSIONE DELLA SAICAF ALLA SEGAFREDO. DOV’E’ FINITA LA BARI CHE “CONTA”? C’era una volta la “razza padrona” di Bari, una classe di imprenditori che avevano portato in alto il capoluogo pugliese facendole conquistare l’appellativo di “Milano del Sud”. Sono passati alcuni decenni e Bari non è più la stessa Bari. Una città dove i costruttori avevano trasformato l’assetto urbanistico sviluppandolo nelle periferie allargando i confini della città, ora diventata metropolitana. La Fiera del Levante era diventata la più grande manifestazione espositiva d’ Italia, surclassando persino quella di Milano, la cui inaugurazione contrassegnava la ripresa della vita politica del Paese, inaugurata dal Presidente del Consiglio in carica. Una Bari in cui chi scrive ha iniziato a muovere i primi passi nel giornalismo sotto la guida e gli insegnamenti di due grandi del giornalismo pugliese: Oronzo Valentini e Mario Gismondi. Una città che andava fiera dell’attività culturale del Teatro Petruzzelli sotto la gestione di Ferdinando Pinto, dove l’economia regionale ruotava intorno alla Cassa di Risparmio di Puglia, sostituita nell’ultimo ventennio dalla Banca Popolare di Bari. Dove le famiglie Romanazzi, Calabrese, Matarrese, Andidero, DeGennaro ecc. dettavano legge nel mondo dell’impresa. Quando negli anni ’80 passeggiavo nella centrale via Sparano, troneggiava il Palazzo della famiglia Mincuzzi, che era il vero regno dell’eleganza pugliese, al cui posto adesso c’è uno dei negozi Benetton. La via più centrale e rappresentativa del capoluogo barese, dove di anno in anno chiudono i negozi di “storiche” famiglie del commercio, lasciando il posto a catene commerciali nazionali, talvolta di basso livello tipo “cash & carry”. Basta quindi fare due passi per le vie del centro per constatare che anche il commercio barese è in forte crisi. Ma come dicevano i greci “se Atene (alias i commercianti) piange” anche “Sparta (cioè gli imprenditori) non ride…“ 

La cessione della Saicaf ai bolognesi. Il gruppo Massimo Zanetti Beverage Group Zanetti, leader a livello mondiale nella produzione, lavorazione e distribuzione di caffè tostato con la presenza in 110 Paesi ha acquisito circa il 60% dell’azienda barese Saicaf nata nel 1932, fondata dalla famiglia Lorusso, con qualche problema da risolvere. Cioè il destino di una decina di dipendenti rimasti tagliati fuori dai giochi dopo la chiusura dello stabilimento avvenuta nell’agosto 2019. Una vertenza sindacale durata esattamente due anni, conclusasi con la  la cessione del pacchetto di maggioranza della storica fabbrica di produzione di caffè del capoluogo pugliese alla società bolognese, proprietaria tra gli altri del marchio Segafredo.

La politica barese. I politici espressione del capoluogo barese avevano un “peso” nel Paese. A partire dai democristiani Vito Lattanzio e Tonino Matarrese ai socialisti Rino Formica e Giuseppe Di Vagno, per finire all’indimenticabile Pinuccio Tatarella sicuramente il più amato ed indimenticato dai baresi, che non hanno lasciato “eredi” del loro livello. Una città dove gli esponenti politici cambiano sponda passando dalla destra alla sinistra, con la tranquillità e sfrontatezza come si cambia una cravatta. Non è un caso che un figlio del socialismo “barese” come Antonio Decaro, sia diventato il sindaco più amato d’ Italia, mentre il suo predecessore Michele Emiliano, la cui militanza giovanile nelle file del Movimento Sociale Italiano è nota a tutta la città , magistrato in aspettativa, è diventato il discusso leader regionale del Partito Democratico, da cui è dovuto uscire non rinnovando il proprio tesseramento per evitare di essere espulso dalla magistratura, dal Consiglio Superiore della Magistratura, venendo riconfermato lo scorso settembre alla guida della Regione Puglia grazie ad alleanze trasversali, e trasformisti politici come l’ex-senatore Massimo Cassano che dopo aver militato per anni nel centrodestra facendo il sottosegretario di un Governo Berlusconi adesso si è fatto il suo movimento politico pugliese che appoggia la maggioranza di centrosinistra regionale guidata da Emiliano nella nuova versione “indipendente”…dal Pd, che lo ricompensato con un bell’incarico da oltre 150mila euro l’anno! Michele Emiliano nonostante la sua rielezione alla guida della Regione Puglia si è piazzato solo all’11° posto nella classifica del gradimento dei cittadini sui governatori di regione, recentemente stilata dal Sole24Ore con il sondaggista Noto, un risultato deludente per la sua ambizione di visibilità e peso politico su “scala nazionale”

La triste storia del Bari Calcio. Dopo la storica A.S. Bari Calcio arrivata in serie A sotto la presidenza dell’indimenticabile chirurgo prof. Angelo De Palo, passato alla famiglia Matarrese, società fallita nel marzo 2014 per la quale la Procura di Bari ha chiesto nel 2020 il rinvio a giudizio per il reato di bancarotta fraudolenta nei confronti  dell’ex presidente Figc ed ex onorevole Antonio Matarrese, vicepresidente vicario del CdA del Bari dal 2010 al 2011, l’ex parlamentare Salvatore Matarrese, consigliere della società sportiva dal 2002 al 2011, suo cugino omonimo, ad dal 2002 al 2010 e consigliere fino al 2011. La società di calcio risorse per mano di Gianluca Paparesta nel 2014 con la costituzione del F.C. Bari 1908. sulle ceneri dell’A.S. Bari della famiglia Matarrese, venendo rilevata nel 2016 dal molfettese Cosmo Giancaspro, entrato inizialmente come socio al 5% e poi divenuto amministratore unico del club., senza che l’imprenditoria barese abbia fatto nulla per mantenere il controllo della società della propria città. Le vicende del biennio in cui l’imprenditore molfettese è stato al timone della società, sono ben note, con i tifosi che si sono ritrovati in un battito di ciglia dal cullare il sogno della promozione in Serie A fino alla mancata iscrizione al campionato cadetto di luglio del 2018. Uno scenario che ha portato alla revoca del titolo sportivo, poi riassegnato dal Comune di Bari alla famiglia De Laurentiis, che ha rifondato la squadra partendo dalla Serie D, e che adesso milita per il secondo anno consecutivo in serie C (Lega Pro). A volte il destino è a dir poco cinico. Infatti nel 111° compleanno della società biancorossa, fondata il 15 gennaio 1908, venne comunicato il respingimento del concordato preventivo, tentato da Giancaspro per salvare la società. F.C. Bari 1908 che è stata dichiarata fallita con debiti per circa 12 milioni di euro. Vano fu il tentativo di conservare l’affiliazione alla FIGC per provare a riscuotere i presunti crediti per 8 milioni di euro vantati in Lega. Giancaspro venne arrestato per il crack della Finpower.

La Nuova Fiera del Levante non decolla. Nell’ agosto 2017 è stata costituita la Fiera del Levante srl, la newco che deve gestire, per i prossimi sessant’anni, parte del quartiere fieristico di Bari, ovvero 90mila metri quadrati di padiglioni espositivi sui quasi 300mila complessivi. Dopo il sì dell’assemblea di Fiere Bologna spa – che si era candidata insieme alla locale Camera di Commercio è avvenuta alla privatizzazione dell’ente fieristico barese a due anni esatti dalla manifestazione di interesse del luglio 2015. Il progetto di rilancio si è arenato ed infatti quest’anno la Campionaria 2021 della Fiera del Levante ha ceduto il passo alla crisi e al Covid. Solo il 10% di richieste di prenotazione di spazi espositivi, a un mese e mezzo dall’inaugurazione, è davvero poco. Più o meno 50 su 500 disponibili. In verità si attendeva solo l’ufficialità della decisione, arrivata alla fine dello scorso luglio, anche se Regione Puglia e Comune di Bari, sostenevano di non saperne nulla, nonostante le dichiarazioni poco rassicuranti di Alessandro Ambrosi, presidente della Camera di Commercio di Bari e della Nuova Fiera del Levante, la società cui era stata affidata nel 2017 la riqualificazione e gestione del quartiere fieristico di proprietà dell’Ente autonomo, che aveva annunciato “soluzioni drastiche”.

Il crack della Popolare di Bari. La crisi della città si era intravista ed annunciata con il “ciclone giudiziario” che si è abbattuto sulla Banca Popolare di Bari sotto la gestione della famiglia Jacobini. Gli ex vertici della Popolare di Bari, tra cui Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio, rispettivamente ex presidente ed ex condirettore generale dell’istituto di credito, sono stati arrestati a gennaio dell’anno scorso. I reati contestati sono a vario titolo il falso in bilancio, il falso in prospetto, le false comunicazioni e ostacolo alla vigilanza.  Sono stati circa tremila i risparmiatori ammessi come parte civile dal Tribunale di Bari nell’ambito del processo per il cosiddetto crack della Banca Popolare di Bari. La maratona giudiziaria della Popolare di Bari è arrivata a una svolta importante per Vincenzo De Bustis, l’ex amministratore delegato 70enne dell’istituto pugliese commissariato due anni fa da Bankitalia e poi salvato dal crack con l’intervento e i soldi pubblici del Mediocredito Centrale. De Bustis, un banchiere di lungo corso in passato al vertice anche del Monte dei Paschi, è stato rinviato a giudizio per il reato di falsa testimonianza. Il processo, fissato per il 2 febbraio dell’anno prossimo, vedrà comparire per la prima volta De Bustis come imputato in un procedimento, tra i tanti, che riguardano la passata gestione della Popolare di Bari. Il procuratore facente funzione della procura di Bari Roberto Rossi ed il pubblico ministero Savina Toscani come racconta l’ottimo collega Vittorio Malagutti del settimanale L’ESPRESSO, hanno infatti chiesto e ottenuto il processo per l’ex amministratore delegato della Popolare perché le sue parole appaiono in contrasto con quanto lo stesso De Bustis aveva a suo tempo disposto nel 2013, in qualità di direttore generale della Popolare di Bari, con un provvedimento da lui stesso firmato. In questo atto interno della banca, che recepiva una circolare di Bankitalia, si attribuiva al Chief Risk Officer (cioè Luca Sabetta) un potere di veto sulle “operazioni di maggior rilievo”, categoria, quest’ultima a cui apparteneva di sicuro un’acquisizione come quella di Tercas. Con la sua testimonianza, De Bustis avrebbe quindi cercato (dicendo il falso, secondo i pm) di sminuire il ruolo di Sabetta, contestando la legittimità del suo intervento come responsabile dei rischi. A gennaio del 2019, quando ha testimoniato nella causa di lavoro, l’allora consigliere delegato della Popolare di Bari sapeva bene che il manager licenziato tre anni prima aveva dato un contributo decisivo alle indagini in corso sulla gestione della banca. 

Il fallimento della Gazzetta del Mezzogiorno. Nel giugno 2020 il Tribunale di Bari ha dichiarato il fallimento delle società “Edisud” (che editava la Gazzetta del Mezzogiorno) e della “Mediterranea” proprietaria della testata. Il giudice ha accolto la richiesta della procura che aveva chiesto la dichiarazione di fallimento per i circa 50 milioni di debiti accumulati. I guai per lo storico quotidiano barese cominciarono il 24 settembre 2018 quando la procura antimafia di Catania mise i sigilli ai beni dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo per un valore di 150 milioni di euro: tra questi le quote della Gazzetta del Mezzogiorno, del quotidiano La Sicilia, delle emittenti televisive regionali siciliane Antenna Sicilia e Telecolor e la società che stampa quotidiani Etis. Dopo il fallimento le rispettive curatele fallimentari nominale dal Tribunale di Bari hanno pubblicato un bando per l’esercizio provvisorio per 6 mesi del quotidiano barese, a cui ha partecipato soltanto una società, la Ledi Edizioni srl, società del gruppo Ladisa, colosso della ristorazione aziendale con oltre 6mila dipendenti e 16 sedi sparse su tutto il territorio nazionale, che aveva messo in piedi un vero progetto industriale, con una nuova sede tecnologica, una concessionaria pubblicitaria interna e sopratutto un nuovo direttore degno di essere chiamato tale, e cioè Michele Partipilo. Ma anche in questo caso è successo qualcosa di molto strano. A15 giorni dalla scadenza dell’esercizio provvisorio (il 31 luglio 2020) i curatori fallimentari hanno chiesto alla Ledi una proroga, non di sei mesi come previsto nel bando originale, ma di solo ulteriori 30 giorni e cioè per arrivare alla fine di agosto quando dovrebbe essere presa una decisione sulle due proposte di acquisto della Gazzetta del Mezzogiorno presentate dalla Ledi e dalla società Ecologica, della famiglia Miccolis di Castellana Grotte, che secondo voci attendibili sarebbe affiancata in cordata dal Gruppo CISA di Massafra controllata dal condannato e plurindagato imprenditore Antonio Albanese, specializzato in discariche ed acquisizioni fallimentari. La Ledi srl ha comunicato secondo noi giustamente la propria indisponibilità a prorogare di ulteriori 30 giorni i sei mesi previsti il fitto di azienda, contestando al Tribunale fallimentare e alle curatele di aver seguito tempi troppo lunghi per l’assegnazione definitiva della testata, di proprietà della società Mediterranea, anche questa in procedura fallimentare. Risultato? Dallo scorso 1 agosto, la Gazzetta del Mezzogiorno non esce più in edicola, ed il giornale è rientrato nella disponibilità esclusiva della curatela fallimentare di Edisud e con esso tutti i rapporti di lavoro: 144 tra giornalisti e poligrafici sono stati automaticamente retrocessi senza soluzione di continuità, con effetto dal primo agosto, alla società Edisud in fallimento. Si dovrà ora attendere che si concludano le procedure di votazione sui piani di concordato per Mediterranea presentati dalle società Ledi srl ed Ecologica spa. A questo punto rimane solo da augurarsi che anche la Gazzetta non faccia la fine del Bari Calcio gestione Giancaspro. Anche perchè in un malaugurato caso ci sarebbe il rischio di non poter applicare il detto latino “pecunia non olet” (i soldi non puzzano). Lascio a voi capire il perchè.

Lasciatemi in conclusione una domanda rivolta alla Bari che “conta”: ma dove sono finiti gli imprenditori quelli “veri”, che amano realmente la propria città ed i propri simboli ? Si fa fatica a cercarli e riconoscerli. Esiste ancora la “razza padrona” a Bari?

Popolare di Bari, da accusatore ad indagato: dirigente bancario dinanzi al gip. L’ex responsabile della gestione rischi dell’istituto di credito, Luca Sabetta, è indagato per tentata estorsione ai danni della banca. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Aprile 2022. Il principale accusatore degli ex vertici della Banca Popolare di Bari, l’ex responsabile della gestione rischi dell’istituto di credito Luca Sabetta, è indagato per tentata estorsione ai danni della banca - con richiesta di archiviazione da parte della Procura alla quale l'ex amministratore delegato della banca si è opposto - ed è stato contemporaneamente citato come testimone nel processo in corso a carico di Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio rispettivamente ex presidente ed ex condirettore generale, accusati di falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’attività di vigilanza di Bankitalia e Consob. Sabetta ha testimoniato oggi nell’udienza del processo agli ex amministratori Jacobini assistito da un legale, l’avvocato Stefano De Francesco, in quanto indagato in un procedimento connesso che nelle prossime ore il gip del Tribunale di Bari Angelo Salerno deciderà se archiviare.

Nel giorno in cui Sabetta siede al banco dei testimoni nell’aula allestita nella Fiera del Levante, in un’altra aula del Tribunale di via Dioguardi si discute l’opposizione alla richiesta di archiviazione del procedimento a suo carico per tentata estorsione. Sabetta fu denunciato nel giugno 2017, circa un anno dopo essere stato licenziato, dall’allora ad Giorgio Papa, per una lettera nella quale «avrebbe tentato di costringere gli organi di vertice della Banca Popolare di Bari - si legge negli atti - ad instaurare una trattativa finalizzata alla risoluzione consensuale del suo rapporto di lavoro, minacciando che, ove la sua proposta non fosse stata accolta, avrebbe divulgato informazioni che probabilmente avrebbero dato impulso ad un procedimento penale a carico dell’istituto di credito».

Per la pm della Procura di Bari Savina Toscani questo non costituiva una minaccia, tenuto anche conto che anni dopo, nel giugno 2020, il giudice del lavoro ha dato ragione a Sabetta dichiarando illegittimo il licenziamento. Secondo l’allora ad, però, in quella lettera Sabetta aveva usato «toni minacciosi" tipici di un tentativo di estorsione. Il gip si è riservato di decidere. Intanto Sabetta ha risposto per ore alle domande della Procura nel processo nato proprio dalle sue rivelazioni. Ha cominciato a raccontare la fase della sua assunzione, nell’ottobre 2013, e i sospetti sull'operazione che portò all’acquisizione di Banca Tercas, di cui lui sarebbe venuto a conoscenza solo a cose fatte. La sua testimonianza proseguirà nell’udienza del 28 aprile.

Crac Fusillo, per il tribunale la Banca popolare di Bari sarà responsabile civile. La decisione del tribunale di Bari nel processo per il fallimento delle società Fimco e Maiora del gruppo imprenditoriale di Noci: una scelta opposta a quella dell'altro collegio del tribunale chiamato a pronunciarsi sulla medesima questione nel processo agli ex amministratori della banca. La Repubblica l'8 febbraio 2022.  

La Banca popolare di Bari sarà responsabile civile nel processo sul crac delle società Fimco e Maiora del gruppo imprenditoriale Fusillo di Noci. Lo ha stabilito il Tribunale di Bari (presidente Rosa Calia Di Pinto), prendendo così una decisione diversa da quella dell'altro collegio dello stesso Tribunale, chiamato a pronunciarsi sulla medesima questione nel processo agli ex amministratori della banca.

In questo caso i giudici hanno ritenuto che la mancata notifica alla banca, durante le indagini, di un accertamento tecnico irripetibile, relativo alla estrapolazione della copia forense di apparecchi informatici, non leda il diritto di difesa perché l'esito di quegli accertamenti è stato ritenuto dalla Procura "irrilevante ai fini della prova dei fatti contestati" e quindi eliminato dal fascicolo del dibattimento. Nell'altro processo, invece, gli accertamenti irripetibili fanno parte del fascicolo e la quale è stata quindi estromessa dalla responsabilità civile.

Per il crac Fusillo, quindi, la banca sarà costituita nella doppia veste di responsabile civile e parte civile per il solo danno all'immagine. Nel processo sono imputate 14 persone, tra le quali Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio rispettivamente ex presidente ed ex condirettore generale della Popolare di Bari, otto imprenditori e altri ex dirigenti dell'istituto di credito, tra i quali l'ex ad Giorgio Papa.

Con la complicità dei vertici della banca, sostiene il pm Lanfranco Marazia, gli imprenditori avrebbero dissipato i beni aziendali con cessioni di quote e immobili per almeno 93 milioni di euro fino al 2019 e accumulato debiti stimati in circa 430 milioni di euro. 

I giudici hanno poi escluso la costituzione di parte civile di quattro azionisti della banca, "i quali non possono vantare un danno risarcibile diretto e immediato, bensì un danno, sia sotto l'aspetto patrimoniale che morale, cosiddetto riflesso, in quanto le vicende del socio azionista sono del tutto estranee ai rapporti di credito tra la banca e le società fallite a suo tempo clienti dell'istituto di credito". Inoltre gli azionisti sono costituiti parte civile anche nell'altro processo, quindi ci sarebbe "una duplicazione del risarcimento del danno". Le prossime udienze del processo, dedicate alle audizioni dei consulenti della Procura, si celebreranno, per motivi logistici, nell'aula della Corte di Assise il 3 e il 24 maggio.

«La villa (abusiva) di Jacobini jr costruita a spese di Fusillo». Chiesto il processo per l’ex manager e per l’imprenditore, la casa sul mare di Polignano potrebbe essere demolita. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Febbraio 2022.

La villa con piscina vista mare di Gianluca Jacobini, in uno dei punti più belli di Polignano, sarebbe stata costruita con i soldi dell’imprenditore Vito Fusillo. Senza badare a spese (naturalmente) e senza curarsi troppo delle norme, tanto che l’interrato dell’immobile è totalmente abusivo. Ma per questa storia l’ex condirettore generale della Popolare di Bari e il costruttore di Noci potrebbero dover affrontare un processo: la Procura di Bari ne ha chiesto il rinvio a giudizio per corruzione tra privati. Compariranno a novembre davanti al gup Isabella Valenzi.

Nel fascicolo del pm Lanfranco Marazia era inizialmente iscritto anche Marco Jacobini, ex patron della banca, su cui sono stati svolti accertamenti analoghi per la masseria di Cassano. Ma per il momento l’accusa riguarda solo Gianluca (che in quella villa ha trascorso gli arresti domiciliari) e Vito Fusillo, perché la tesi della Procura di Bari - da verificare all’esito del dibattimento - è che la costruzione della villa di Polignano sia una contropartita dei finanziamenti che la Banca Popolare di Bari ha elargito per oltre un decennio all’imprenditore di Noci. È stato lui stesso, del resto, a raccontare questa storia al procuratore Roberto Rossi mettendo nero su bianco i particolari.

«Gli trovai quella casa lì - ha detto Fusillo della villa di Gianluca Jacobini -, riuscii a trovarla, lui fece... la comprò, fece l’atto, e poi cominciammo i lavori. I lavori, alcuni tecnici erano tecnici, che erano, diciamo, del territorio, però tutta la parte tecnica vera erano i nostri come azienda, o Fimco o Maiora». In effetti la villa è stata venduta nel 2013 con l’intermediazione di una agenzia di Bari con una proposta fatta a nome Fusillo: poi è intervenuto Gianluca Jacobini che ha speso 650mila euro di cui 598mila coperti con un mutuo della PopBari. Poi però l’immobile è stato demolito e ricostruito grazie al Piano casa. E qualcuno si è fatto prendere la mano.

«Indicò il progetto - ha raccontato Fusillo -, andammo avanti, e nell’interrato lui addirittura, perché poi c’è stato anche un procedimento penale, ha messo in difficoltà tutti quanti, perché alla fine fece fare dei lavori nell’interrato che non si potevano fare. Poi intervennero i vigili urbani, perciò è intervenuta anche la magistratura su quella vicenda, fummo costretti a chiudere con dei pannelli di cartongesso tutto ciò che aveva fatto di abusivo, la parte interrata, che era parecchio, perciò è come se avessimo fatto gli scavi di Pompei sotto».

Il consulente nominato dalla Procura, un ingegnere, ha stimato un valore di 829mila euro per le opere effettuate più altri 75mila euro di oneri tecnici. Di questi, soltanto 300mila sono stati pagati dal proprietario dell’immobile. Il consulente ha confermato che il piano interrato della villa è abusivo e non può essere sanato: probabilmente lo «scavo di Pompei» dovrà essere riempito. Ma il punto sono, come sempre, i soldi. La Finanza ha ascoltato tutte le imprese impegnate sul cantiere della villa: le stesse che stavano realizzando, per conto di una delle società di Fusillo, gli immobili del complesso Calaponte di Polignano. Gli appaltatori hanno confermato di essere stati pagati dall’imprenditore di Noci, nell’ambito di quegli altri lavori. Il fornitore della piscina, che aveva contrattato direttamente con il manager bancario, ha raccontato ai militari che le forniture extra (un sistema idromassaggio a 5 posti, le casse acustiche subacquee) per la piscina non gli sono mai state pagate: anche questa spesa, circa 14mila euro, è stata fatturata a Fusillo. E questo - accusa la Procura - nonostante le società dell’imprenditore nocese fosserò già in una situazione precaria.

Le indagini sul crac della Popolare di Bari non si fermano. Stamattina, intanto, un gruppo di azionisti terrà un sit-in davanti alla sede di Bari della Banca d’Italia per manifestare «grande scontento su tutta la vicenda».

Bari, nuova inchiesta per Jacobini jr e Fusillo. Al setaccio i conti per il restyling di una villa a Polignano.  Chiara Spagnolo su La Repubblica il 23 settembre 2021

Una ristrutturazione da quasi un milione di euro costata 300mila a Gianluca Jacobini al centro delle indagini. Il costruttore, secondo il pm, si sarebbe accollato il costoso restyling per avere in cambio dalla banca ulteriori linee di credito. 

Una ristrutturazione da quasi un milione di euro, costata al proprietario appena 300mila: diventa caso giudiziario la storia della villa di Gianluca Jacobini (ex condirettore della Banca Popolare di Bari) a Polignano a Mare. E fa finire Jacobini junior nei guai per la quarta volta nel giro di due anni. Questa volta il compagno di sventura è Vito Fusillo, l'imprenditore di Noci che si sarebbe accollato quella costosissima opera di restyling per avere in cambio dalla banca ulteriori linee di credito. 

La vicenda è ricostruita nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari per corruzione tra privati fatto notificare a Fusillo e Jacobini del pm Lanfranco Marazia, al termine di complicate indagini che si sono avvalse anche di una consulenza tecnica. I fatti contestati risalgono a inizi 2018, quando alcune società del gruppo nocese erano sull'orlo del baratro e il patron aveva assoluto bisogno di credito. 

All'epoca - ha ricostruito la Procura di Bari - il rapporto tra Fusillo e Banca Popolare era strettissimo, in virtù di un legame personale fra Vito e l'allora presidente Marco Jacobini. L'imprenditore chiedeva aiuto e il banchiere glielo dava, in barba agli alert di alcuni manager dell'istituto che evidenziavano la difficile situazione del gruppo. 

Proprio in quei mesi la Fimco di Fusillo si era imbarcata nella spericolata operazione di acquisizione di palazzo Trevi a Roma, che doveva essere finanziata grazie al credito della BpB. Aveva quindi necessità di restare nelle grazie degli Jacobini e non a caso nello stesso periodo furono effettuati i lavori alla villa. Interventi di cui Fusillo ha parlato con dovizia di particolari nei memoriali depositati al pm due anni fa: "Con Gianluca Jacobini non c'era alcun contratto, lui mi ha dato un progetto per la villa a Polignano ma né il padre né il figlio hanno fatto mai una sola fattura nei miei confronti. Non hanno mai pagato né Fimco né Maiora. La parte interrata era talmente grande da sembrare che avessimo fatto gli scavi di Pompei. Però era abusiva e dopo che è intervenuta la magistratura fummo costretti a chiuderla con pannelli di cartongesso". Di fronte alla domanda sul motivo per cui non si ribellasse a tale situazione, l'imprenditore ha spiegato: "Faceva parte del gioco, ero convinto che gli Jacobini al momento opportuno mi avrebbero aiutato". 

Cosa che è accaduta fino a un certo punto. Indubbiamente, secondo la Procura, l'appoggio dato a Fusillo dalla Popolare andò oltre il dovuto, tanto che gli Jacobini e alcuni manager sono coinvolti nel processo in corso per la bancarotta del gruppo di Noci. A pochi giorni dalla ripresa di quel procedimento, un'altra vicenda sui due imputati. Nel nuovo avviso di conclusione indagini si contesta che Jacobini avrebbe violato "i parametri di merito creditizio" per aiutare Fusillo, ottenendo in cambio utilità quali "una parte rilevante dei lavori di demolizione/costruzione e correlati oneri professionali". Stando ai calcoli del consulente del pm, il proprietario della villa avrebbe corrisposto 300mila euro: le opere e le prestazioni professionali ne valevano almeno 900. 

La Regione Puglia “trema”: la Procura adesso indaga sui finanziamenti pubblici concessi al gruppo Fusillo. Il Corriere del Giorno il 27 Ottobre 2020. La Regione Puglia ha contribuito con fondi pubblici alla costruzione della masseria Il Melograno con un finanziamento a fondo perduto di 1,4 milioni di euro, di di ulteriori 7 milioni di euro per la realizzazione del porto turistico Cala Ponte rispetto ai 25 spesi in totale. Contributi questi a fondo perduto che hanno costituito un importante e fondamentale sostegno economico-finanziario per le attività svolte alle società dell’imprenditore Fusillo che da diversi anni versavano in grosse difficoltà e sofferenze finanziarie. Nel corso delle indagini delegate dalla Procura di Bari alla Guardia di Finanza sulla bancarotta delle società Fimco e Maiora sono emersi anche i fondi pubblici concessi dalla Regione Puglia alle società del costruttore Vito Fusillo utilizzati per la realizzazione della masseria Il Melograno a Monopoli e del porto turistico Cala Ponte di Polignano a Mare in provincia di Bari. L’inchiesta in questione ha portato all’interdizione dell’imprenditore Vito Fusillo insieme a Marco Jacobini ex presidente della Banca Popolare di Bari, disposta dal tribunale di Bari lo scorso 29 settembre, con ordinanza di arresti domiciliari dei rispettivi figli, Giacomo Fusillo e Gianluca Jacobini. La Regione Puglia ha contribuito con fondi pubblici alla costruzione della masseria Il Melograno con un finanziamento a fondo perduto di 1,4 milioni di euro, di ulteriori 7 milioni di euro per la realizzazione del porto turistico Cala Ponte rispetto ai 25 spesi in totale. Contributi questi a fondo perduto che hanno costituito un importante e fondamentale sostegno economico-finanziario per le attività svolte alle società dell’imprenditore Fusillo che da diversi anni versavano in grosse difficoltà e sofferenze finanziarie. Difficoltà finanziarie che erano condizionate e conseguenti alle spericolate operazioni concertate con i vertici della Banca Popolare di Bari. Il Nucleo di polizia economico- finanziaria della guardia di finanza di Bari ha ricostruito minuziosamente e dettagliatamente numerose operazioni e giri di milioni di euro da una società all’altra del Gruppo Fusillo, acquisti e vendite di immobili tramite fondi esteri, cessioni di quote, operazioni delle quali Vito Fusillo ha fornito chiarimenti in alcuni interrogatori e nelle diverse memorie consegnate alla Procura. Nel corso dell’ultimo interrogatorio avvenuto lo scorso 6 ottobre dinnanzi alla Gip Luigia Lambriola , firmataria delle ordinanze cautelari, ed al pm Lanfranco Marazia coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi, Vito Fusillo ha parlato a lungo sulla questione dei finanziamenti pubblici.”L’operazione della Regione era a fondo perduto — ha detto il costruttore — e finanziava l’albergo e i servizi del porto: gli uffici, il bar, il deposito“. Per il Melograno, invece la Regione aveva finanziato quasi interamente la sua ristrutturazione. Più o meno un anno fa qualcuno aveva esercitato delle pressioni su Fusillo affinché lo vendesse, esattamente come era accaduto per l’immobile di via delle Muratte, adiacente alla Fontana di Trevi di Roma, che venne svenduto a un immobiliarista, non a caso finanziato sempre dalla Banca Popolare barese. Per evitare di dover sottostare a queste pressioni che arrivavano dalla Popolare, Fusillo chiese nel maggio 2019 alla nipote di reperirgli la documentazione attestante che la masseria Il Melograno, essendo realizzata in parte con fondi pubblici, non poteva essere alenata mediante una cessione, ma doveva restare di proprietà della Soiget, la società di suo figlio Giacomo Fusillo. L’imprenditore Vito Fusillo è stato molto preciso e dettagliato nel corso del suo interrogatorio sulla questione finanziamenti pubblici e la relativa documentazione sequestrata dalla Fiamme Gialle nel corso delle perquisizioni è adesso oggetto di verifiche ed accertamenti . Il consulente informatico nominato dalla Procura di Bari ha iniziato oggi a svolgere tutti gli accertamenti tecnici irripetibili sui telefoni e computer degli otto indagati Marco e Gianluca Jacobini, Vito e Giacomo Fusillo, Nicola Loperfido ex dirigente della Banca Popolare di Bari, Vincenzo Giacovelli, Salvatore Leggiero, Girolamo Stabile , ma anche su alcuni supporti informatici di proprietà di Giulia Bruni e Amalia Alicino (cioè le rispettive mogli di Marco e Gianluca Jacobini), che sarebbero stati utilizzati dai mariti. La Gip Luigia Lambriola ha respinto la richiesta di incidente probatorio sui dispositivi avanzata dai difensori degli Jacobini, ma tali richiesta hanno comportato che gli atti relativi ai contenuti di telefoni e computer non potessero essere depositati per le udienze del Riesame. Ieri infatti è stata discussa la richiesta di annullamento dell’ordinanza cautelare per l’ex dirigente Loperfido , il “re” dei dirigenti della Popolare di Bari che Gianluca Jacobini chiamava “the King”, per significare il suo potere all’interno dell’istituto, come sostenuto anche dalla procura barese. Gianluca Jacobini, ex condirettore generale della Banca popolare di Bari, attualmente agli arresti domiciliari per il reato di concorso in bancarotta fraudolenta difeso dagli avvocati Mario Malcangi e Guido Carlo Alleva, lo scorso 6 ottobre si è avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto subito nell’ambito dell’inchiesta sul crac del gruppo imprenditoriale Fusillo di Noci. Con la stessa accusa è stato sottoposto a interdizione suo padre Marco Jacobini, ex presidente dell’istituto di credito barese. Secondo le indagini della Guardia di Finanza di Bari, coordinate dal procuratore facente funzione Roberto Rossi , la Banca Popolare di Bari si sarebbe di fatto resa complice del fallimento delle società del gruppo Fusillo, concedendo continui sconfinamenti ingiustificati sui conti correnti e linee di credito così aggravando ulteriormente il passivo delle società, di fatto gestendo buona parte delle sue operazioni finanziarie, comprese cessioni di immobili, che in circa 10 anni ne hanno portato al crac di Fusillo. Dinanzi alla gip Luigia Lambriola e al pm Lanfranco Marazia, aveva risposto per circa un’ora alle domande Nicola Loperfido, agli arresti domiciliari dal 29 settembre per il reato di “concorso in bancarotta fraudolenta”, nell’ambito dell’indagine della Procura di Bari e difeso dall’avvocato Nicola Quaranta, ex responsabile della Direzione Business della Banca popolare di Bari, all’epoca dei fatti gestore per conto della banca degli affidamenti concessi al gruppo Fusillo spiegando di non avere avuto più contatti con i vertici dell’istituto di credito dopo le proprie dimissioni nel 2018 , che ha cercato di chiarire la propria posizione con riferimento alle esigenze cautelari, riservandosi di sottoporsi ad un nuovo interrogatorio sulle accuse a proprio carico, dover esaminato e studiato i 72 mila atti che compongono l’inchiesta.

Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2019. “Popolare di Bari, la girandola di ville e immobili degli Jacobini”.

L’undici maggio del 2016 un giovane uomo molto sicuro di sé entra nello studio del notaio Michele Buquicchio, non lontano dalla stazione di Bari. L’uomo non ha ancora quarant’anni, si chiama Gianluca Jacobini, e porta nel suo nome un pezzo di storia della città: suo nonno Luigi è fra i fondatori della Banca Popolare di Bari nel 1960, suo padre Marco ne è presidente dal 2011, lui stesso è condirettore generale, mentre il fratello Luigi – di quattro anni più anziano – è vicedirettore generale. (….)

In quel maggio 2016 il più giovane dei figli del banchiere Jacobini, il rampollo considerato più abile nelle operazioni finanziarie, deve compierne una delicata: trasferisce sette immobili in un fondo patrimoniale intestato a se stesso e alla moglie Amalia Alicino, che ha sposato cinque anni prima. L’intenzione dichiarata è di «far fronte ai bisogni della famiglia». La natura dei beni è sicuramente in grado di garantire il futuro di questo ramo degli Jacobini. I primi quattro immobili costituiscono un complesso di circa duemila metri quadri nella splendida cornice di Polignano a Mare. C’è poi la parte di Gianluca della nuda proprietà di un appartamento in un quartiere elegante di Bari che il padre aveva comprato vent’anni prima intestandolo ai figli; e la proprietà pro-quota di un altro appartamento di sette vani non lontano dall’ateneo cittadino.

Costituire un fondo patrimoniale per Gianluca Jacobini è un’operazione legittima per cercare di proteggere i beni di una famiglia, anche se a volte le giovani coppie ci pensano al momento di sposarsi e non anni dopo. Ma stavolta l’atto notarile cade in un momento particolare. Due settimane prima l’assemblea della Popolare di Bari si era rivelata la più dolorosa nella storia della banca: il bilancio approvato riporta per il 2015 una perdita molto pesante, 295 milioni, mentre i requisiti patrimoniali subiscono un’erosione di circa l’uno per cento. Per la prima volta la crisi inizia a farsi conclamata. Soprattutto, l’assemblea era stata il primo innesco del panico fra i quasi 70 mila azionisti della Popolare di Bari: delibera la riduzione da 9,53 a 7,5 euro del titolo della banca, dopo che nei due anni precedenti la banca aveva piazzato azioni alla clientela per 330 milioni. Migliaia di piccoli risparmiatori che cercavano di vendere le proprie quote, senza riuscirci, iniziano a capire che rischiano di perdere molto, o tutto. (….)

Tutto questo non ha nulla a che fare con la mossa di Gianluca Jacobini per mettere in un fondo patrimoniale i propri beni al sole, almeno sulla carta. Ma il risultato di fatto dell’operazione è che il banchiere rafforza le proprie difese contro eventuali azioni di responsabilità e richieste di risarcimenti – fondate o no, lo diranno i giudici — anche con le mosse successive. Nell’autunno 2018 la Consob sanziona infatti venti dirigenti della Bari, fra cui Gianluca Jacobini, per come hanno piazzato a clienti spesso ignari e impreparati dei titoli oggi di fatto azzerati. Il 2018 della banca si chiuderà con la perdita-monstre di 430 milioni. E il 4 gennaio 2019 l’uomo che in quel momento era ancora condirettore della Bari, presieduta da suo padre, ottiene dallo stesso istituto un mutuo ipotecario trentennale da 300 mila euro garantito dalla favolosa residenza di Polignano a Mare già messa nel fondo patrimoniale. (….)

Del resto Gianluca ha degli imitatori. Suo fratello lo segue, benché fra i due i rapporti pare siano pessimi. Una nota dell’Agenzia delle Entrate registra che Luigi Jacobini, primogenito del patron Marco, dal 2011 fino a poche settimane fa vicedirettore generale dell’istituto e anche lui già sanzionato da Consob per come ha trattato i risparmiatori, ha compiuto due operazioni al 25 settembre 2019. Ha creato un fondo patrimoniale dove mette tutti i suoi immobili (compresa la casa al mare a Mola di Bari) e ha acceso un mutuo con la sua stessa banca per 680 mila euro mettendoci a garanzia un immobile dello stesso fondo. Si capirà con il tempo se tutta questa attività sarà riuscita a proteggere i due rampolli della banca di Bari. Di certo non è un problema dell’ultimo amministratore delegato pre-commissariamento, Vincenzo De Bustis (sotto inchiesta e anche lui già sanzionato da Consob). Banchiere di lungo corso, dal 1999 De Bustis non ha a suo nome neanche un mattone.

La mia banca è differente…Dante Barontini su contropiano.org.

Il mondo è dei banchieri, si dice ed è vero. Ma non del tutto. O almeno non dappertutto.

Mettiamo in fila tre notizie. La prima riguarda l’Italia e una storia ormai “stagionata”: il crack di Banca Etruria – l’istituto dove Licio Gelli aveva aperto il conto per le iscrizioni alla Loggia P2.

La novità sta nel rinvio a giudizio, davanti al giudice monocratico del tribunale di Arezzo per bancarotta colposa, di Pierluigi Boschi e altri tredici ex dirigenti e consiglieri dell’ultimo cda dell’istituto di credito prima del fallimento. Secondo l’accusa tutti costoro non avrebbero vigilato su consulenze ritenute “inutili e ripetitive”. In pratica delle elargizioni senza alcun corrispettivo, mascherate come incarichi con parcelle per 4,5 milioni di euro affidati a Mediobanca e Bain e agli studi legali Zoppini di Roma e Grande Stevens di Torino (il cui titolare, Franzo, è stato famoso come “l’avvocato dell’Avvocato”, ossia di Gianni Agnelli).

Un reato minore, per il padre dell’ex ministra iper-renziana Maria Elena, dopo esser stato prosciolto per ben due volte, che non comporta particolari rischi (massimo della pena due anni e mezzo, ma col beneficio della condizionale e della “non menzione” al casellario giudiziario; ossia con la fedina penale che resta “pulita”).

Il caso di Banca Etruria è diventato famoso – oltre che per l’evidente collegamento politico con il “giglio magico” e per l’iperattivismo della ex ministra nel cercare qualche “salvatore” – per le migliaia di normali correntisti che sono rimasti truffati dopo esser stati “convinti” ad acquistare “obbligazioni secondarie” emesse dalla stessa banca, invendibili sul mercato e di valore zero al momento del fallimento.

Per tutto questo, insomma, non pagherà nessuno,

Effettivamente, dunque, si può dire che “il mondo è dei banchieri”. Qui da noi.

Seconda notizia, sempre italiana: il crack della Popolare di Bari, controllata e diretta dalla famiglia Jacobini, che occupava tutti i ruoli dirigenti (presidente, vice, direttore generale, vice, ecc) di una banca anch’essa guidata consapevolmente verso il fallimento.

Scrive il Corriere della Sera nell’articolo “Popolare di Bari, la girandola di ville e immobili degli Jacobini”, a firma di Federico Fubini: “In quel maggio 2016 il più giovane dei figli del banchiere Jacobini, il rampollo considerato più abile nelle operazioni finanziarie, deve compierne una delicata: trasferisce sette immobili in un fondo patrimoniale intestato a se stesso e alla moglie Amalia Alicino, che ha sposato cinque anni prima. L’intenzione dichiarata è di «far fronte ai bisogni della famiglia». La natura dei beni è sicuramente in grado di garantire il futuro di questo ramo degli Jacobini. I primi quattro immobili costituiscono un complesso di circa duemila metri quadri nella splendida cornice di Polignano a Mare. C’è poi la parte di Gianluca della nuda proprietà di un appartamento in un quartiere elegante di Bari che il padre aveva comprato vent’anni prima intestandolo ai figli; e la proprietà pro-quota di un altro appartamento di sette vani non lontano dall’ateneo cittadino.”

Che cosa c’è di strano o illegale? Nulla, secondo la legge. “Costituire un fondo patrimoniale per Gianluca Jacobini è un’operazione legittima per cercare di proteggere i beni di una famiglia, anche se a volte le giovani coppie ci pensano al momento di sposarsi e non anni dopo. Ma stavolta l’atto notarile cade in un momento particolare. Due settimane prima l’assemblea della Popolare di Bari si era rivelata la più dolorosa nella storia della banca: il bilancio approvato riporta per il 2015 una perdita molto pesante, 295 milioni, mentre i requisiti patrimoniali subiscono un’erosione di circa l’uno per cento. Per la prima volta la crisi inizia a farsi conclamata. Soprattutto, l’assemblea era stata il primo innesco del panico fra i quasi 70 mila azionisti della Popolare di Bari: delibera la riduzione da 9,53 a 7,5 euro del titolo della banca, dopo che nei due anni precedenti la banca aveva piazzato azioni alla clientela per 330 milioni. Migliaia di piccoli risparmiatori che cercavano di vendere le proprie quote, senza riuscirci, iniziano a capire che rischiano di perdere molto, o tutto. Proprio nella prima metà del 2016 la Banca d’Italia chiede alla Bari di indagare sulle operazioni “baciate” (prestiti concessi in contropartita di sottoscrizioni azionarie) e da giugno la vigilanza avvierà una nuova ispezione il cui esito sarebbe stato «parzialmente sfavorevole».

Qui il meccanismo della truffa è molto simile a quello usato da Etruria: titoli non commerciabili venduti a clienti inconsapevoli (e non ben informati sui rischi), mentre i dirigenti della banca “si tutelano” da possibili richieste di risarcimento trasferendo le proprie (ricchissime) proprietà immobiliari in un “fondo patrimoniale” formalmente sganciato dalla famiglia stessa.

L’esperto Fubini capisce benissimo il senso e infatti scrive: “il risultato di fatto dell’operazione è che il banchiere rafforza le proprie difese contro eventuali azioni di responsabilità e richieste di risarcimenti – fondate o no, lo diranno i giudici — anche con le mosse successive. Nell’autunno 2018 la Consob sanziona infatti venti dirigenti della Bari, fra cui Gianluca Jacobini, per come hanno piazzato a clienti spesso ignari e impreparati dei titoli oggi di fatto azzerati. Il 2018 della banca si chiuderà con la perdita-monstre di 430 milioni. E il 4 gennaio 2019 l’uomo che in quel momento era ancora condirettore della Bari, presieduta da suo padre, ottiene dallo stesso istituto un mutuo ipotecario trentennale da 300 mila euro garantito dalla favolosa residenza di Polignano a Mare già messa nel fondo patrimoniale. La tenuta di conseguenza diventa ancora più difficile da aggredire con azioni risarcitorie”.

Insomma: anche se la magistratura dovesse infine processare gli Jacobini e condannarli, ai clienti truffati non verrà da loro restituito neanche un centesimo, perché si sono messi al sicuro molto prima che la situazione della banca precipitasse ufficialmente.

Anche in questo caso, dunque, si può dire che “il mondo è dei banchieri”. Qui da noi.

La terza notizia è simile, ma con esito molto diverso. Scrive sempre il Corriere della Sera: il banchiere “Jiang Xiyun, è stato condannato a morte dal tribunale, con una ‘grazia’ temporanea di due anni, per aver incassato illecitamente una somma superiore ai 100 milioni di dollari.”

Cosa ha fatto, concretamente? “L’ex banchiere è stato ritenuto colpevole di aver trasferito 754 milioni di yuan (108 milioni di dollari) in azioni della Hengfeng sui suoi conti personali in un periodo che va dal 2008 al 2013. Avrebbe inoltre incassato mazzette per altri 60 milioni di yuan insieme a un altro manager della stessa banca”.

Le leggi cinesi sono ovviamente molto diverse da quelle italiane, ma il caso concreto non è molto differente. Un banchiere bastardo si carica sul conto personale somme che avrebbero dovuto restare nelle casse della Hengfeng Bank, compromettendone la funzionalità – insieme ad altre operazioni “spericolate” – fino al punto da dover essere salvata dallo Stato.

L’esito finale è però decisamente opposto: in Italia i banchieri “felloni” quasi sempre riescono ad evitare la galera e addirittura cercano di non rimetterci nemmeno un soldo proprio, in Cina vengono condannati a morte.

Come i nostri lettori sanno, siamo decisamente contrari alla pena di morte e persino all’”ergastolo ostativo” (che comunque non è mai stato comminato a nessun banchiere). Però l’impunita dei banchieri ci sembra decisamente inaccettabile.

La diversità di “sistema sociale”, oltre che giuridico, tra mondo occidentale e Cina emerge qui con notevole nettezza. Nonostante un per molti versi utopico tentativo di “utilizzare il capitalismo per creare la ricchezza su cui edificare il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’”, che prevede un ruolo importante per le attività delle banche private, il mondo non è lì dei banchieri.

O perlomeno non lo è al punto da garantire loro l’impunità totale. Anzi…

Inutile castellarci sopra lunghi ragionamenti sulle “società di transizione”. Ci sembra sufficiente, per ora, sapere che c’è una certa differenza. E pure abbastanza importante.

P.s. Per chi si dovesse commuovere anzitempo per la sorte del banchiere condannato a morte, riportiamo la precisazione fornita dallo stesso Corriere: “secondo il diritto cinese una condanna a morte con un periodo di “grazia” può essere trasformata in una condanna a vita se la persona colpita dimostra, nel frattempo, una buona condotta”.

Resterà vivo, insomma, ma sconterà l’ergastolo.

Cina, il banchiere truffatore della Hengfeng condannato a morte. Stefano Agnoli su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2019.

La Hengfeng Bank è una delle medie banche cinesi che lo Stato centrale è stato costretto a salvare. Ma uno dei suoi ex presidenti colpevoli di frode, Jiang Xiyun, è stato condannato a morte dal tribunale, con una “grazia” temporanea di due anni, per aver incassato illecitamente una somma superiore ai 100 milioni di dollari.

La «grazia» e la buona condotta

Secondo l’agenzia Bloomberg, l’ex banchiere è stato ritenuto colpevole di aver trasferito 754 milioni di yuan (108 milioni di dollari) in azioni della Hengfeng sui suoi conti personali in un periodo che va dal 2008 al 2013. Avrebbe inoltre incassato mazzette per altri 60 milioni di yuan insieme a un altro manager della stessa banca. Ciò che però potrebbe salvargli la vita è la formula con la quale è stato condannato: secondo il diritto cinese una condanna a morte con un periodo di “grazia” può essere trasformata in una condanna a vita se la persona colpita dimostra, nel frattempo, una buona condotta. 

Salvataggio pubblico

La conclusione del processo mette in evidenza i guai finanziari passati dall’istituto di credito del Shandong, che all’inizio del mese è diventata l’ultima delle banche regionali bisognose di un salvataggio pubblico. La banca ha venduto nuove azioni per un valore di circa 14 miliardi di dollari a un gruppo di investitori che comprendeva un filiale del fondo sovrano cinese e una società di asset management facente capo allo Stato. Jiang, si legge nella sentenza, ordinò di distruggere documenti relativi a circa 600 milioni di yuan di transazioni. 

Popolare Bari, Jacobini (padre e figlio) hanno trasferito i loro soldi prima del commissariamento. Michelangelo Borrillo, nostro inviato a Bari, su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2019.

Hanno utilizzato lo stesso istituto, Banca Sella, per trasferire i depositi dei loro conti correnti in quelli di familiari. Fin dal giorno precedente al commissariamento. Mentre a Bari si temeva che i correntisti, lunedì 16 dicembre (il primo giorno utile dopo la decisione della Banca d’Italia di venerdì 13 dicembre di commissariare la Banca popolare di Bari) potessero spostare i soldi in altri istituti, qualche giorno prima erano stati proprio i vertici della Pop Bari ad anticiparli. Oltre che l’ex presidente Marco Jacobini, di cui ha parlato Repubblica, ora emerge che anche il figlio, l’ex condirettore generale Gianluca Jacobini, ha spostato soldi dai suoi conti. Le operazioni sono state segnalate dallo stesso istituto — oggi guidato dai commissari Enrico Ajello e Antonio Blandini — così come avviene di solito quando si rilevano transazioni che possono destare sospetti di riciclaggio e autoriciclaggio.

Sulle segnalazioni stanno lavorando Banca d’Italia, Guardia di finanza e Procura. Al decimo piano del Tribunale penale di Bari, in particolare, il procuratore aggiunto Roberto Rossi e i pm Federico Perrone Capano e Lanfranco Marazia stanno acquisendo nuovi elementi da affiancare alle segnalazioni. Dalle quali emerge che Marco Jacobini, nei giorni 12 e 13 dicembre, ha spostato — con sei bonifici — la somma di circa 5,5 milioni di euro; il figlio Gianluca, invece, il 12 dicembre (giorno in cui il cda aveva deciso di avviare nei suoi confronti l’azione di responsabilità, di cui sono destinatari anche l’ex ad Giorgio Papa e l’ex responsabile crediti Nicola Loperfido) ha trasferito mediante assegni circolari una somma complessiva pari a 180 mila euro dal suo conto della Popolare di Bari a uno co-intestato a sé e alla moglie presso Banca Sella. 

Intanto l’operatività della banca continua. E per poter rispettare, entro fine anno, i coefficienti patrimoniali minimi imposti dalla Vigilanza, i commissari della Popolare di Bari hanno chiesto al Fondo interbancario di tutela dei depositi di intervenire subito con un’iniezione di circa 400 milioni. Richiesta che impone una nuova riunione straordinaria del Consiglio del Fitd che si terrà, secondo una convocazione informale, il prossimo 30 dicembre. Nella partita del salvataggio della Popolare di Bari — che necessiterebbe di circa un miliardo — è coinvolto anche il Mediocredito Centrale che prima, però, dovrà essere ricapitalizzato da Invitalia per poter poi sottoscrivere il futuro aumento di capitale della Pop Bari che dovrà trasformarsi in società per azioni. Per la parte «pubblica» del salvataggio, il decreto legge «per il sostegno al sistema creditizio del Mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento», che in definitiva servirà alla Pop Bari, è stato incardinato in commissione Finanze della Camera: l’esame partirà lunedì 8 gennaio.

Banca popolare di Bari, «Le manovre degli Jacobini hanno truffato i creditori». Dopo il crac i curatori fallimentari di Fimco chiedono 82 milioni di danni. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022.

Il crac della Fimco sarebbe stato causato dalle manovre spericolate effettuate dalla Banca Popolare di Bari sotto la gestione Jacobini. Fiumi di denaro che sarebbero serviti, dietro la regia della banca, per nascondere la reale situazione del gruppo controllato dall’imprenditore Vito Fusillo attraverso operazioni circolari: i finanziamenti, garantiti da ipoteche sul ricco patrimonio immobiliare delle società nocesi, venivano utilizzati per chiudere le esposizioni di conto corrente. E così un credito di cassa, incerto per definizione, veniva trasformato in un credito privilegiato.

Questo è lo schema che ha portato la Procura di Bari a contestare agli Jacobini e ai Fusillo il concorso in bancarotta fraudolenta, e che ha spinto lo scorso anno anche la nuova Popolare (nata dopo il salvataggio dello Stato) ad attivare...

Banca Popolare di Bari risarcirà un cliente per mancata vendita di azioni. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2022

Il Tribunale di Bari, per la prima volta, ha condannato la Banca Popolare di Bari a risarcire un cliente per la mancata vendita delle azioni. Il risarcimento che quest’ultimo ha ricevuto per il danno ha un valore di circa 50 mila euro. Le autorità giudiziarie hanno stabilito che l’ordine di vendita effettuato dal cliente sarebbe stato scavalcato per favorirne altri successivi più “consistenti”, perciò la banca è tenuta pagare un indennizzo.

La vicenda

Il cliente aveva impartito l’ordine di vendita nell’anno 2015 per poi rinnovarlo nel 2016. La Banca Popolare di Bari non ha eseguito per assenza di corrispondenti ordini di acquisto dei titoli. La giustificazione che gli era stata fornita non lo aveva convinto, così il cliente si è rivolto all’Associazione Avvocati dei Consumatori. Con una sentenza, il Tribunale ha posto fine alla questione imponendo alla Banca di fornire una copia del registro cronologico della vendite delle azioni, così che fosse possibile verificare eventuali violazioni a danno di quali clienti.

L’occasione mancata

Sono state individuate numerose criticità nell’esecuzione di consistenti ordini successivi rispetto a quello presentato dal cliente, che sono state confermate nel corso del giudizio di una Consulenza tecnica (Ctu). Successivamente è stata avviata un’azione collettiva in favore di numerosi azionisti per il risarcimento del danno causato dal mancato incasso del prezzo di vendita o, come stabilito dal Tribunale, dalla perdita di un’occasione. Questa, nello specifico, è la prima ad essersi conclusa positivamente per il cliente. Con la sua decisione, il Tribunale ha quindi accertato la presenza di un «danno da perdita di un risultato utile, di un guadagno, che, con ogni probabilità, se la Banca fosse stata adempiente, il cliente avrebbe conseguito».

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Bari, nella Banca popolare sequestrati 103 reperti archeologici di 2.500 anni fa: erano esposti in una sala dal 2009. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 25  novembre 2022.

Uno dei 103 reperti sequestrati dai carabinieri 

L'operazione dei carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Bari su richiesta della Procura che ha riscontrato la mancanza della dichiarazione di possesso della collezione

Centotrè reperti archeologici risalenti 2.500 anni fa sono stati sequestrati all'interno della Banca popolare di Bari, dove erano esposti dal 2009 in seguito a un'acquisizione avvenuta nell'era Jacobini e oggi ritenuta non del tutto regolare. L'operazione è stata eseguita dai carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale di Bari - guidati dal colonnello Giovanni Di Bella - in esecuzione di un decreto di sequestro preventivo chiesto dalla Procura e disposto dal gip.

Il materiale ceramico, datato tra il V secolo avanti Cristo e il I dopo Cristo, era esposto nella sala riunioni della sede centrale dell'istituto di credito, in corso Cavour. Lì era rimasto anche dopo il commissariamento della banca e l'avvio di una nuova epoca ma la nuova dirigenza non ha nulla a che vedere con le presunte irregolarità.

I fatti risalgono al 2009, quando l'allora amministratore delegato aveva fatto approvare al Consiglio di amministrazione una proposta di acquisto della collezione da un privato, per un controvalore di 100mila euro. La raccolta archeologica, pur essendo stata denunciata dagli originali proprietari alla Soprintendenza, non aveva ottenuto la dichiarazione di legittimità del possesso.

Al 1993 risaliva, infatti, la denuncia di possesso relativa a soli 41 pezzi (tra piatti e vasellame) mentre successivamente la collezione era stata incrementata fino ad arrivare a 103 reperti, poi venduti alla Banca popolare. Mancando la dichiarazione di possesso, stando a quanto hanno ricostruito i carabinieri, l'intera collezione oggi apparterrebbe allo Stato. Per questo motivo, il giudice per le indagini preliminari ne ha disposto il sequestro, che è stato eseguito nelle scorse ore nella sede dell'istituto di credito alla presenza della dirigenza attuale.

Visco, Banca d’Italia: «Popolare Bari? Nulla da nascondere». Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2019.

Sono stati giorni importanti e difficili per la Banca d’Italia e il suo Governatore. Il Consiglio Superiore dell’Istituto ha appena nominato Daniele Franco direttore generale e Piero Cipollone vice direttore. Un passaggio arrivato nel pieno delle polemiche derivate dal commissariamento della Banca Popolare di Bari, dall’intervento deciso dal governo e dalle proteste di coloro che temono di perdere gran parte dei propri investimenti o risparmi affidati alla banca. Ignazio Visco ha dovuto affrontare una tempesta simile a quella vissuta nei giorni della crisi bancaria durante il governo Renzi. Sono state contestate l’efficacia e la tempestività della vigilanza della Banca d’Italia, il suo ruolo nella vicenda che portò la Popolare di Bari ad acquisire una banca in dissesto come Tercas. Con la politica di governo e d’opposizione pronte ad allontanare da sé ogni responsabilità e a sottolineare quelle di altri.

Governatore, sono giorni di attacchi ripetuti nei confronti della vostra azione. Il vicesegretario del Pd, Orlando, solo per citarne uno, ha dichiarato che la Banca d’Italia è sia un giocatore che un arbitro e che le due funzioni vanno separate. Altri, come il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, vi accusano di aver assistito alla caduta della Popolare vigilando in modo inadeguato: avete valutato male, siete stati lenti. Cosa si sente di rispondere?

«Ci sono molte dichiarazioni e andrebbero valutate una per una. Intanto bisogna esaminare individualmente le due attività: quella di vigilanza e quella di gestione e risoluzione delle crisi, che sono cose diverse. La vigilanza sulle banche ha svolto il suo compito, con il massimo impegno e io reputo positivamente. La scelta di porre in amministrazione straordinaria questa banca è il risultato, come sempre in questi casi, di un’attenta analisi, è un atto possibile in termini di legge solo dopo aver rilevato gravi perdite o carenze nei sistemi di governo societario. Ma la vigilanza non può intervenire nella conduzione della banca, che spetta agli amministratori scelti dagli azionisti. La banca deve seguire delle regole, la vigilanza verifica che ciò effettivamente accada.

Dal 2007 abbiamo posto in amministrazione straordinaria circa 80 intermediari: più della metà è tornata alla gestione ordinaria, per quelli liquidati o aggregati con altre banche, non vi sono state, nella generalità dei casi, perdite per depositanti e risparmiatori. La soluzione ordinata delle crisi bancarie, di per sé non semplice, è complicata dal nuovo approccio europeo in materia di gestione delle crisi e aiuti di Stato. Ma questo non ha niente a che fare con l’essere arbitro e giocatore». 

Non può negare che in questi anni ci siano state tante crisi che in alcuni momenti sono diventate un’emergenza per il Paese…

«La realtà è che abbiamo avuto la crisi di alcune banche nel contesto della più grave recessione della storia unitaria del nostro Paese. Queste banche rappresentavano, nel complesso, il 10 per cento degli attivi totali, il che vuol dire che il restante 90 per cento ha fatto fronte alle gravissime conseguenze della crisi dell’economia reale. È questo l’inquadramento corretto di quanto è accaduto, anche se sono consapevole che quando le banche non ce l’hanno fatta (per la recessione, per governance inadeguata, per comportamenti scorretti) vi sono stati effetti gravi, soprattutto per gli azionisti. Per i depositanti invece non vi sono state conseguenze e per la gran parte degli obbligazionisti alla fine sono state contenute le perdite. Bisogna garantire la tutela dei clienti delle banche, e su questo moltiplicheremo gli sforzi, ma deve migliorare la comprensione da parte del pubblico che un investimento finanziario comporta sempre un rischio. Da parte delle banche questo rischio deve essere sempre adeguatamente rappresentato».

Questi salvataggi fanno molto rumore quando avvengono in Italia. Perché i salvataggi avvenuti in altri Paesi europei, come la Germania, creano meno problemi?

«Non so se i salvataggi abbiano fatto meno rumore negli altri Paesi; sono costati al contribuente molto più che da noi: l’intervento pubblico in Germania e in Olanda ha accresciuto il debito pubblico di oltre il 10 per cento del Pil, da noi di poco più dell’1 per cento. Quasi tutti questi interventi hanno avuto luogo prima del cambiamento delle regole sugli aiuti di Stato e sul coinvolgimento dei creditori, avvenuto nel 2013, anche come reazione all’alto costo di quei salvataggi».

Si dice che il salvataggio di Tercas, la Cassa di Teramo commissariata dalla Banca d’Italia nel 2012, sia stato la merce di scambio che ha permesso alla Popolare Bari di superare il vostro divieto di fare nuove acquisizioni. E così, siete stati voi a premere per un’acquisizione che è all’origine dei guai della Popolare di Bari?

«Le banche sono imprese e come tali sono trattate dalla vigilanza, nel rispetto della loro autonomia. Decisioni come quella di realizzare un’acquisizione sono di esclusiva competenza e responsabilità del vertice delle banche. Nei casi di difficoltà di un intermediario, qualora non sia possibile una ricapitalizzazione sul mercato, è prassi delle autorità di vigilanza esplorare la possibilità di un acquisto da parte di altre banche. Le acquisizioni, se ben eseguite, possono creare sinergie e risparmi di costi, irrobustendo il sistema bancario e salvaguardando la continuità aziendale della banca in difficoltà.

Nel caso in questione, nell’estate del 2013 la vigilanza ricevette una manifestazione di interesse per Tercas da parte di un’altra banca, che poi rinunciò nell’ottobre 2013. Alla fine dello stesso mese venne considerata la manifestazione di interesse dei vertici della Popolare di Bari, che poi decisero di realizzare l’operazione in base a una autonoma valutazione, negoziando e ottenendo dal Fondo Interbancario di Tutela dei depositi il contributo ritenuto necessario per l’acquisizione. Naturalmente alla fine di un percorso si corre il rischio di emettere giudizi di autoassoluzione o di ragionare con il senno del poi; noi facciamo il massimo per tenere costantemente sotto controllo le diverse situazioni e valuteremo se ci siano stati errori anche da parte nostra».

Cosa non ha funzionato nell’acquisizione di Tercas?

«In primo luogo molto è dovuto a un’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato per lo meno controversa, che solo nel marzo di quest’anno il Tribunale di primo grado della Corte europea ha giudicato impropria, accogliendo il ricorso della Repubblica italiana. Nel caso di Tercas l’intervento del Fondo interbancario è stato ritenuto dalla Commissione europea un aiuto di Stato; per questo motivo l’operazione è stata completata solo quando l’intervento del Fondo è stato realizzato con il cosiddetto “Schema Volontario”. Ciò ha ri-tardato l’integrazione di Tercas nella Popolare di Bari, generando incertezze e con oneri certamente maggiori.

In secondo luogo la ricapitalizzazione della Popolare di Bari non ha potuto avere luogo sul mercato perché la banca non si era trasformata in società per azioni come richiedeva la legge di riforma da noi fortemente caldeggiata e realizzata dal governo nel gennaio 2015. L’assetto delle “popolari” è un problema che abbiamo sempre sottolineato con forza: ostacola l’accesso al mercato e favorisce opacità e autoreferenzialità nella governance». 

L’accusa a Banca d’Italia è di aver autorizzato l’operazione perché doveva rientrare da un prestito erogato alla Tercas…

«Questo lo dice chi non conosce le regole. La Banca d’Italia aveva concesso a Tercas un prestito a titolo di liquidità di emergenza, in base alle norme italiane ed europee. Questo tipo di finanziamento, di competenza delle banche centrali nazionali ma sottoposto a valutazioni del Consiglio direttivo della Bce, deve essere assistito da adeguate garanzie, che rendono il rischio per le banche centrali nullo o al più trascurabile. La Popolare di Bari è semplicemente subentrata nel finanziamento, con le medesime garanzie, senza quindi modifiche alla rischiosità del prestito». 

Come mai la Banca d’Italia non ha contrastato il rientro al vertice esecutivo della Popolare di Vincenzo De Bustis, già molto contestato?

«La scelta dei componenti degli organi sociali è di esclusiva responsabilità dell’azienda; la Banca d’Italia verifica la sussistenza in capo ai singoli esponenti dei requisiti previsti dalla legge. Le disposizioni in vigore prevedono ipotesi tassative per la determinazione della mancanza di tali requisiti. Il nuovo regime europeo sui requisiti degli amministratori bancari — che concede discrezionalità alle autorità di vigilanza — è stato recepito nell’ordinamento italiano, ma entrerà in vigore solo dopo l’emanazione delle norme attuative da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze. La Banca d’Italia ha segnalato — pubblicamente e ripetutamente — l’importanza di questa materia. Lo ripeto: le regole attuali non ci consentono di intervenire, esercitando discrezionalità, al di fuori dei confini normativi. La vigilanza può ricorrere alla moral suasion, e nel caso della Popolare di Bari ha espresso chiaramente al presidente del consiglio di amministrazione le proprie perplessità sull’opportunità del rientro dell’ingegner De Bustis tre anni dopo che aveva lasciato la banca». 

La Popolare di Bari era sottoposta a ispezioni dal 2010. Perché si è fatto ricorso solo ora al commissariamento?

«Tutte le banche sono vigilate continuamente. L’amministrazione straordinaria rappresenta un intervento di vigilanza forte, in cui si destituiscono gli organi amministrativi scelti dagli azionisti; si interviene quando altri meccanismi — quali il vaglio del collegio sindacale, delle società di revisione, dell’assemblea dei soci — non hanno la necessaria efficacia. È per questi motivi che l’amministrazione straordinaria può essere adottata solo quando ne ricorrano i termini definiti con precisione dalla legge. Il commissariamento della Bari è stato disposto quando le perdite hanno ridotto i livelli di capitale al di sotto dei minimi stabiliti dalle regole prudenziali. La discesa del capitale al di sotto dei minimi non si era registrata negli anni precedenti, nonostante le difficoltà della banca; è emersa solo a seguito dell’ultimo accertamento ispettivo effettuato nei mesi scorsi dalla Banca d’Italia. Abbiamo rilevato anche l’insufficiente azione degli organi aziendali in relazione alle criticità del contesto. Il loro scioglimento e la nomina dei commissari pongono le premesse per ripristinare condizioni di ordinata gestione aziendale, alla luce della disponibilità d’intervento manifestata dal Fondo interbancario e dal Mediocredito Centrale». 

Come giudica l’intervento di salvataggio del Mediocredito Centrale e del Fondo interbancario?

«L’intervento deve avviare il rinnovamento della banca, mettendola in grado di tornare a sostenere famiglie e imprese. Il progetto sarà aperto ad altre banche che vorranno integrarsi in un nuovo intermediario finanziario dotato di dimensioni adeguate al nuovo contesto tecnologico e concorrenziale, al servizio dell’economia. Per la Popolare di Bari si è individuata una soluzione, ma per rilanciare l’economia meridionale servono interventi di ampio respiro, che riguardano l’ambiente in cui le imprese operano, le infrastrutture, il capitale umano».

Cosa accadrà ad azionisti e obbligazionisti della Popolare?

«L’intervento del Fondo Interbancario e del Mediocredito centrale è volto a evitare scenari liquidatori e possibili perdite per i risparmiatori che detengono depositi e obbligazioni. Gli azionisti partecipano al capitale di rischio: il piano industriale definirà la misura dell’aumento di capitale necessario, le modalità di realizzazione e il coinvolgimento degli attuali azionisti. Ricordo che sono decine di migliaia di persone: la Banca d’Italia negli anni scorsi ha accertato — dandone informazione alla Consob, che ha irrogato sanzioni — irregolarità nell’adeguatezza degli investimenti della clientela; di questo si dovrà tenere conto». 

Si parla di un’indagine per corruzione per l’ex presidente della banca. E si avanzano sospetti di connivenza con chi ha svolto vigilanza.

«Voglio sottolineare che noi abbiamo collaborato, stiamo collaborando e continueremo a collaborare con la Procura. Di questa indagine io sono all’oscuro, come lo è l’intera struttura della vigilanza e della consulenza legale della Banca d’Italia. Non intendo quindi commentare voci e illazioni».

Cosa dobbiamo aspettarci ancora dalle banche dopo le crisi di questi anni?

«Se l’economia non tornerà a crescere non possiamo aspettarci che le banche prosperino. Per ora le condizioni del sistema bancario sono mediamente buone: i coefficienti patrimoniali sono raddoppiati rispetto al 2007; l’incidenza dei crediti deteriorati si è dimezzata dal picco del 2015; le banche stanno tornando a fare profitti e questo permette loro di affrontare le sfide che hanno di fronte. Un importante passo in avanti c’è stato con la formazione di due gruppi di banche di credito cooperativo. In pochi anni il numero di gruppi bancari e banche individuali è sceso da circa 600 a 150. Alcune piccole banche sono ancora oggi deboli; le stiamo seguendo con attenzione, ma il problema è che abbiamo un sistema di gestione delle crisi inadeguato. Per poter gestire una crisi non basta saperla prevedere, occorrono strumenti. Chiedo da tempo di intervenire a livello europeo con nuove norme. È necessaria una nostra presenza assidua nel dibattito europeo, che a sua volta richiede una continuità di natura politica che purtroppo non abbiamo. Come Governatore mi sono confrontato con sette ottimi ministri dell’Economia, mentre quelli degli altri Paesi erano quasi sempre gli stessi».

Il ministro dell’Economia Gualtieri ha dichiarato di voler essere messo a conoscenza di ogni passaggio. Questa richiesta dipende solo dal fatto che è appena entrato in carica?

«Lavoriamo a stretto e continuo contatto con il governo, con tutti i governi. Le forti intemperie degli anni successivi alla crisi del 2011-13, a partire dalla vicenda delle quattro banche, sono state affrontate con la piena partecipazione del Ministero dell’economia e delle finanze. Anche al ministro Gualtieri abbiamo fornito e continueremo a fornire, come sempre, tutte le informazioni disponibili. Abbiamo pubblicato sul nostro sito un resoconto sommario della nostra attività sulla Popolare di Bari e altri approfondimenti seguiranno. Siamo pronti a rendere conto del nostro operato, come abbiamo sempre fatto, nelle sedi istituzionali».

Solo una battuta finale sul suo giudizio sulla manovra economica varata dal governo.

«L’Italia deve ricominciare a crescere o ci ritroveremo fra un anno a ripetere le stesse discussioni. Dobbiamo pensare alla manovra come un ponte che sana problemi di breve periodo per passare poi al piano strutturale. Gli investimenti pubblici sono importanti ma è l’investimento privato quello più rilevante. Si fonda sulla fiducia, una fiducia che oggi si misura con lo spread ed è assurdo che noi abbiamo uno spread doppio rispetto a Spagna e Portogallo. Se il tasso d’interesse alto dipende da rischi di tipo sovrano bisogna eliminarli rapidamente. Ci vuole un impegno per una discesa del debito graduale ma progressiva e costante; soprattutto servono azioni strutturali di rilancio dell’economia. Come diceva Ciampi, non abbiamo rinunciato alla nostra sovranità ma abbiamo deciso di condividerla. Per avere successo dobbiamo essere lungimiranti, credibili, coerenti e capaci di dialogare con un’opinione pubblica incerta e che nella sua incertezza coinvolge tutta l’economia, compresa la Banca d’Italia».

Popolare di Bari, Jacobini indagato per corruzione: nel mirino le ispezioni di Bankitalia 2016-2017. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2019.

C’è un avviso di proroga indagini sulla Banca Popolare di Bari che aggiunge nel filone dell’inchiesta - con dieci indagati a diverso titolo per falso in bilancio, false comunicazioni al mercato, ostacolo alla vigilanza, estorsione - anche l’ipotesi di corruzione. Fonti della Procura di Bari confermano di essere al lavoro per ricostruire i rapporti tra i vertici della Banca Popolare di Bari e la Vigilanza della Banca d’Italia, con riflettori accesi, in particolare, sulle ispezioni del 2016 e del 2017. 

Il destinatario dell’informazione di garanzia per corruzione - notificata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dai sostituti Lanfranco Marazia e Federico Perrone Capano - o più precisamente dell’avviso di proroga indagini di un’inchiesta che risale alla scorsa estate, è l’ex presidente della Banca Popolare di Bari Marco Jacobini, fino all’assemblea dello scorso luglio numero uno dell’istituto barese, commissariato dalla Banca d’Italia il 13 dicembre. 

Le sette inchieste che riguardano la Popolare - nelle quali risultano indagati anche i figli di Marco Jacobini, Gianluca e Luigi e l’ex amministratore delegato Vincenzo De Bustis - partono alla fine del 2014 da un’altra inchiesta, di riciclaggio. Si moltiplicano negli anni con l’amplificarsi dei problemi di vendita delle azioni da parte dei piccoli investitori fino al punto di svolta della denuncia di un ex dirigente, Luca Sabetta, assunto come chief risk officer, capo dell’Area rischio, poi licenziato nel 2015.

Crediti a rischio e affari sballati: così è finita nei guai la più grande banca del Sud. Dopo il salvataggio pubblico della Carige ligure, ora anche la Popolare di Bari ha bisogno urgente di nuovi capitali. E si affida a un amministratore delegato appena multato dalla Consob e indagato dalla magistratura, scrive Vittorio Malagutti il 22 gennaio 2019 su "L'Espresso". Ci sono Paesi in cui il capo di un’azienda sanzionato dalle autorità di controllo lascia immediatamente l’incarico. Può anche capitare che il manager in questione faccia un passo indietro, senza perdere il posto, in attesa che la situazione si chiarisca. L’Italia invece, a quanto pare, gioca in un campionato a parte. Un mese fa, la Popolare di Bari, grande banca del Sud che naviga da tempo acque tempestose, ha richiamato in servizio il suo ex direttore generale, multato a settembre dalla Consob. Ci è scappata pure una promozione, mentre un giudice d’appello ha per il momento sospeso l’efficacia del primo verdetto. Vincenzo De Bustis, questa volta con i gradi da amministratore delegato, è così tornato al vertice dell’istituto pugliese che ad aprile del 2015 lo aveva congedato senza troppi complimenti, per altro gratificandolo con una buonuscita vicina al milione di euro. A richiamarlo in servizio è stato Marco Jacobini, patron della famiglia che da decenni tiene in pugno l’istituto pugliese. De Bustis, 68 anni è un banchiere di lungo corso e dalle sette vite. Il suo nome compare nelle cronache di due decenni fa spesso associato a quello dell’allora potentissimo Massimo D’Alema, suo amico personale. L’ascesa del manager era partita dalla Banca del Salento, da cui nel 2000 spiccò il volo verso il vertice del Monte dei Paschi, a lungo riserva di caccia del Pds -Ds-Pd. Una volta lasciata la poltronissima di Siena, dopo alterne vicende professionali l’ex pupillo di D’Alema è approdato nel 2011 alla corte degli Jacobini. L’aspetto più paradossale della vicenda è che proprio De Bustis tra il 2013 e i 2015 gestì l’affare che, oltre a innescare l’indagine della Consob, ha provocato gran parte dei guai in cui ora si dibatte la Popolare pugliese. E cioè l’acquisizione della disastrata concorrente abruzzese Tercas. Dopo un primo stop ordinato dalla Commissione di Bruxelles, la complicata operazione è andata in porto con il pieno sostegno di Bankitalia ai primi del 2016 e ha avuto l’effetto di scaricare sul compratore una montagna di spazzatura finanziaria rivelatasi molto difficile da smaltire. Nessun problema, a quanto pare. Nel dicembre scorso l’ex direttore generale è tornato al comando della Popolare pugliese con il mandato di rimettere in carreggiata una macchina che da anni sbanda vistosamente tra guai di ogni tipo. Compresa un’inchiesta della magistratura che vede indagati, tra gli altri, il presidente Marco Jacobini con i suoi figli Luigi e Gianluca, entrambi vicedirettori generali, oltre allo stesso De Bustis, per una serie di reati (truffa, falso in bilancio ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti) che riguardano la gestione dei crediti e la compravendita di titoli ai clienti dell’istituto di credito. Un altro colpo all’immagine della banca è arrivato ai primi di gennaio, quando si è appreso delle dimissioni di Giulio Sapelli, l’economista nominato vicepresidente della popolare pugliese appena un mese prima. La scelta di un professore molto apprezzato dalla Lega come Sapelli, per qualche giorno a maggio addirittura in corsa per la presidenza del Consiglio al posto di Giuseppe Conte, era stata letta come una mossa di avvicinamento al governo in una fase a dir poco cruciale per il futuro dell’istituto. Il consigliere dimissionario non ha reso note le ragioni della sua scelta. Difficile non notare, però, che il vicepresidente ha lasciato l’incarico proprio in coincidenza con l’arrivo di De Bustis.

Azionisti in rivolta. Il nuovo amministratore delegato si trova ora ad affrontare una situazione che ben conosce, se non altro perché, come detto, una parte dei problemi della banca è emersa per la prima volta durante la sua precedente gestione.  Un’inchiesta dell’Espresso aveva raccontato, già nel giugno del 2016, le crescenti difficoltà della Popolare guidata da Marco Jacobini e famiglia: i bilanci deludenti, l’aumento delle sofferenze sui prestiti, le manovre sui titoli. Tutto questo mentre migliaia tra i 70 mila soci della Popolare, comprensibilmente preoccupati, non riuscivano a liquidare le loro azioni per mancanza di compratori. Una lunga serie di operazioni straordinarie varate nei mesi scorsi, dalla vendita di crediti deteriorati (in gergo non performing loans, Npl) e il ricorso massiccio al credito interbancario per fare provvista di liquidità, non sono bastati per mettere in sicurezza i conti. La Popolare di Bari ha bisogno urgente di mezzi freschi per uscire dalle secche in cui si è arenata. Indiscrezioni di fonte finanziaria rivelano che servirebbero almeno 500 milioni, da raccogliere sul mercato sotto forma di nuove azioni e di obbligazioni. La banca d’affari Rothschild e la società di consulenza Oliver Wyman sono da tempo al lavoro per contattare possibili investitori e mettere a punto un piano di rilancio. La rimonta, già complicata di per sé, si sta però rivelando ancora più difficile del previsto per via delle crescenti tensioni sul mercato. Da settimane l’attenzione del mondo finanziario è concentrata su Genova dove, con Carige, va in scena un altro salvataggio a spese del contribuente. Questa volta però, dopo i casi delle popolari venete e di Mps, la regia è affidata al governo Lega-Cinque Stelle (quelli che «mai più un euro alle banche»). In Liguria l’esecutivo gialloverde è già intervenuto con un decreto ad hoc che estende la garanzia dello Stato alle obbligazioni emesse dall’istituto in difficoltà. Tutto questo però non basta per tappare una volta per tutte le falle in bilancio. E allora, in una spirale di dichiarazioni che spesso si contraddicono tra loro, c’è chi, come il vice premier Luigi Di Maio, arriva a prospettare la nazionalizzazione di Carige. A Bari non siamo ancora a questo punto, anche se tra gli azionisti che temono di perdere per intero il loro investimento sono in molti a invocare il salvataggio pubblico. Gli Jacobini tirano diritto, per nulla turbati, almeno in apparenza, dalle nubi di tempesta che si stanno addensando intorno alla loro banca, l’unica di peso nazionale sopravvissuta ai fallimenti e alle vendite in serie che negli ultimi decenni hanno fatto piazza pulita degli istituti di credito controllati e gestiti a Sud di Roma. Va detto che la strategia dell’arrocco ha fin qui garantito qualche successo. La Popolare di Bari, insieme a quella di Sondrio, è per il momento riuscita a sottrarsi alla trasformazione in società per azioni così come previsto dal decreto varato dal governo di Matteo Renzi nel gennaio del 2015 per gli istituti (dieci in tutto) con oltre 8 miliardi di attivo. Dopo una lunga serie di ricorsi, la questione è infine approdata alla Corte di Giustizia europea che si pronuncerà nei prossimi mesi. Nel frattempo, un prezioso assist del governo Conte, sotto forma di emendamento al cosiddetto decreto Milleproroghe, aveva già posticipato al 31 dicembre 2018 il termine ultimo entro cui varare la nuova spa.

I conti non tornano. Adesso però sono i numeri, quelli di bilancio, a far vacillare il trono degli Jacobini. I dati dell’ultima relazione semestrale, chiusa nel giugno scorso, sintetizzano una situazione allarmante. Le nuove svalutazioni su voci dell’attivo come crediti e avviamento hanno fatto salire le perdite a 139,2 milioni in sei mesi. Tenendo conto delle rettifiche già messe a bilancio, la quota dei prestiti classificati come deteriorati, cioè quelli che rischiano di non essere rimborsati (in tutto o in parte), si aggirano intorno al 18 per cento dei finanziamenti alla clientela, un livello tutt’altro che rassicurante. Nei primo semestre del 2018 sono peggiorati anche gli indici che misurano l’adeguatezza del patrimonio. Per il momento, comunque, questi valori restano superiori (ma di poco) ai minimi regolamentari prescritti dalle autorità di vigilanza. Appare quantomeno preoccupante un altro dato segnalato dalla semestrale. Il rapporto tra i costi operativi e il margine di intermediazione, cioè gli utili lordi, ha raggiunto quota 83 per cento. Significa che il motore della banca viaggia con il freno a mano tirato, perché le voci di spesa, dal personale agli altri oneri amministrativi, si mangiano quasi per intero i profitti ricavati dalla gestione del denaro. Per gli istituti più efficienti questo indicatore non supera il 50 per cento. In attesa della pubblicazione del nuovo piano industriale, prevista nelle prossime settimane (ma era già stato annunciata per l’autunno scorso), è quindi facile immaginare che eventuali possibili grandi investitori, in Italia e all’estero, non facciano la fila per scommettere il loro denaro sul salvataggio della Popolare di Bari. A maggior ragione in una fase di grande incertezza sui mercati, con le quotazioni dei Btp, risollevatesi solo in parte dopo il crollo dell’ultimo trimestre del 2018, che continuano a zavorrare i conti del sistema bancario italiano. Come se non bastasse, il caso pugliese sembra nascere dallo stesso intreccio perverso tra localismo esasperato, inamovibilità dei vertici e cattiva gestione dei crediti che nel recente passato ha innescato la crisi, e poi il fallimento, della Popolare Vicenza di Gianni Zonin e di Veneto Banca, per quasi vent’anni guidata dal patron Vincenzo Consoli. Come ovvio, i problemi della gestione Jacobini non nascono in questi mesi. I crediti deteriorati si sono accumulati per effetto di scelte compiute in anni lontani, quando nell’annuale assemblea dei soci si sprecavano gli applausi per gli amministratori e le azioni venivano vendute senza problemi a decine di migliaia di clienti convinti di investire in un istituto solido, una banca del territorio lontana dalle trame imprevedibili e pericolose dell’alta finanza. Eppure, già nel 2013, quando i soci facevano la fila allo sportello per comprare i titoli, un’ispezione della Banca d’Italia aveva attribuito alla Popolare di Bari un voto pari a 4, corrispondente a una valutazione “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) fino a 6. Pochi mesi dopo quella bocciatura, la stessa Bankitalia ha però dato via libera, anzi, ha calorosamente sollecitato, l’intervento dell’istituto pugliese per salvare Tercas prossima al crack. Per far fronte agli oneri dell’intervento, Jacobini ha chiamato a raccolta i soci a cui sono state vendute azioni e obbligazioni subordinate per oltre 800 milioni tra il 2012 e il 2015. Gli stessi titoli che si sono poi trasformati in merce invendibile.

Incroci pericolosi. Il sistema ha retto fino a quando la massa dei crediti difficili da recuperare non ha superato il livello di guardia. Ogni prestito ha la sua storia, più o meno fortunata, ma dalle carte che L’Espresso ha potuto esaminare emergono nomi che rimandano ad altre vicende recenti della finanza nazionale. Un filo rosso porta a Sorgente, il gruppo immobiliare controllato da Valter Mainetti. Negli anni scorsi la Popolare di Bari ha investito oltre 100 milioni nei fondi gestiti da Sorgente sgr. La stessa società che in dicembre è stata commissariata su decisione della Banca d’Italia «per gravi violazioni normative e irregolarità nell’amministrazione». Mainetti, che ama ricordare il suo antico rapporto con il barese Aldo Moro, di cui fu assistente universitario, è molto legato alla Puglia. Negli anni scorsi aveva anche acquistato una quota del 30 per cento de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano del capoluogo pugliese. Gli affari con la Popolare di Bari hanno preso forma svariati anni fa e già nel 2013 la Vigilanza della Banca d’Italia, nel rapporto ispettivo sulla banca degli Jacobini, aveva segnalato «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Ora che Sorgente sgr è stata commissariata, un provvedimento duramente contestato da Mainetti, si tratta di capire quali potranno essere (se ci saranno) le ripercussioni sui conti della Popolare. Dal groviglio di affari, pegni e garanzie incrociate descritti nei documenti ufficiali dell’istituto pugliese si dipana un’altra trama che porta fino alla Popolare Vicenza, travolta tre anni fa da un crack miliardario. Si scopre infatti che nella lista dei grandi debitori della Popolare di Bari, per un totale che supera i 100 milioni di euro, compare il gruppo che fa capo ai Fusillo, costruttori e immobiliaristi pugliesi con ottimi agganci anche a Roma. Ebbene, come L’Espresso aveva suo tempo svelato, gli stessi Fusillo sono stati finanziati per una cinquantina di milioni anche dalla Popolare di Vicenza. È stato un gioco di sponda. La banca veneta ha sottoscritto quote di fondi maltesi col marchio Futura, che a loro volta hanno comprato obbligazioni emesse da Maiora e Fimco. Il guaio è che queste due società, entrambe controllate dai Fusillo, adesso si trovano sull’orlo del fallimento e al momento non è chiaro se i soldi arrivati da Vicenza, via Malta, potranno mai essere restituiti. Ci si può chiedere per quale motivo un istituto di credito veneto abbia deciso di sostenere aziende così lontane dal proprio territorio. Una risposta chiara ancora non c’è, forse arriverà dal processo per la bancarotta della Popolare che è alle prime battute a Vicenza. Agli atti delle indagini, però, restano decine di telefonate tra De Bustis e manager di vertice della banca di Zonin. In sostanza, tra il 2013 e il 2014, l’allora direttore generale della Popolare di Bari ha avuto contatti frequentissimi con i suoi colleghi di Vicenza, gli stessi che hanno gestito i rapporti con i fondi Futura e quindi i finanziamenti alle società pugliesi dei Fusillo, a loro volta indebitate con la banca degli Jacobini. A fine 2012 De Bustis, da poco approdato a Bari, aveva rilevato azioni di Methorios, società romana di cui all’epoca era influente azionista Alfio Marchini. Il quale, pure, lui è stato finanziato per decine di milioni dalla Popolare di Vicenza, con i soliti fondi Futura che hanno comprato quote di Methorios. Dunque, ricapitolando, De Bustis si era messo in società con i veicoli finanziari maltesi, gli stessi che investivano, con i soldi della Popolare di Zonin, nelle aziende dei Fusillo, indebitatissime con la Popolare di Bari. Un corto circuito piuttosto singolare. E anche sfortunato, visto che quasi tutti i partecipanti a queste giostra milionaria ora sono falliti (Popolare Vicenza) oppure rischiano grosso (le società dei Fusillo). Si salva De Bustis, l’inaffondabile, in viaggio da Bari a Bari. Nel mezzo una banca in crisi e centinaia di milioni bruciati nel gran falò dei prestiti sballati.

Banche, il giallo della Popolare di Bari: le carte segrete che accusano Bankitalia. Migliaia di famiglie non possono più vendere le loro azioni dell'istituto pugliese. Perché la Vigilanza ha fatto comprare alla banca la Cassa di Teramo. Che era già travolta dalle perdite, scrive Vittorio Malagutti il 02 novembre 2016 su "L'Espresso". I risparmi di una vita bloccati in banca. Migliaia di famiglie che non possono attingere al loro tesoretto in titoli. E allora domande, suppliche, ricorsi, esposti in tribunale. Va avanti così da mesi, ormai: da una parte un esercito di piccoli azionisti delusi e inferociti. Dall’altra i vertici della Popolare di Bari, il più grande istituto di credito del Sud, oltre 70 mila soci e, da mezzo secolo, una dinastia al comando: Marco Jacobini, il presidente, entrato in consiglio nel lontano 1978, insieme ai suoi due figli, Gianluca, condirettore generale, e Luigi, vicedirettore generale. Ma dietro questa storia di risparmio tradito, con i soci della Popolare di Bari che non riescono più a vendere le loro azioni, c’è molto di più. C’è un complicato intreccio di prestiti incagliati, conflitti d’interessi, perdite in bilancio. E sullo sfondo il ruolo della Banca d’Italia, che già tre anni fa, dopo una lunga ispezione, aveva segnalato importanti «criticità», per dirla con il felpato linguaggio della Vigilanza, nella gestione dell’istituto pugliese. Eppure, nell’ottobre del 2013, poche settimane dopo quella severa reprimenda, proprio da Bankitalia era arrivato a Bari l’invito a farsi carico di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo che dopo un lungo commissariamento stava per affondare travolta dalle perdite. L’intervento della Popolare, con l’esplicito appoggio del governatore Ignazio Visco, è andato in scena l’anno successivo. E così la banca di Jacobini si è trovata a gestire, oltre ai propri crediti incagliati, anche quelli dell’istituto appena comprato con un investimento complessivo di 300 milioni. L’onda lunga di quell’operazione si è scaricata sul bilancio 2015, chiuso con 297 milioni di perdite, che salgono a 475 milioni se si escludono alcune poste una tantum di natura fiscale. Ecco perché, alcune settimane fa, gli ispettori della Banca d’Italia sono tornati a bussare alla porta dell’istituto pugliese. In agenda, tra l’altro, c’è la trasformazione della Popolare in Spa, così come prevede il decreto varato nel gennaio 2015 dal governo di Matteo Renzi. Un appuntamento delicato, che va affrontato, possibilmente, con i conti in regola. Ma andiamo con ordine e torniamo all’inizio 2013, quando i funzionari della Vigilanza si presentarono al quartier generale della banca barese per restarci, nel corso di tre successivi interventi, quasi otto mesi. L’Espresso ha avuto accesso ad alcuni documenti riservati che risalgono a quei giorni. Va detto innanzitutto che il voto finale attribuito alla Popolare di Bari al termine dell’ultima ispezione, quella chiusa ad agosto 2013, è stato pari a 4, corrispondente a “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) a 6. Insomma, la Banca d’Italia non sembrava affatto soddisfatta dell’operato di Jacobini e dei suoi manager. E nelle carte dell’ispezione, che l’Espresso ha potuto consultare, vengono formulati rilievi pesanti. Si parla per esempio di «eccessiva correntezza» nei crediti verso alcuni gruppi. Per correntezza, in gergo bancario, si intende la velocità con cui viene sbrigata una pratica. In sostanza, alcuni prestiti importanti sarebbero stati erogati senza verifiche adeguate sulla solidità del cliente. Gli ispettori segnalano il caso dei gruppi Fusillo e Curci, che insieme controllano la holding Maiora group. A favore di questa società, si legge nelle carte, sono stati accordati finanziamenti «non sempre sufficientemente vagliati» e neppure «esaustivamente rappresentati al consiglio». Insomma, denaro facile. E per importi notevoli. Maiora group, alla fine del 2013, aveva già accumulato debiti per 131 milioni con la Popolare di Bari. I Fusillo, a cui fa capo metà del capitale della holding, sono costruttori molto conosciuti, e influenti, nel capoluogo pugliese. C’è Nicola Fusillo, già parlamentare del centrosinistra, nel 2015 schierato alle regionali con il candidato vincente, Michele Emiliano. Il resto della famiglia è invece cresciuto a gran velocità realizzando centri commerciali, villaggi turistici, un grande polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Tra le attività dei Curci, invece, va ricordata la partecipazione del 30 per cento nel capitale della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano di Bari. Questa quota al momento risulta ceduta in pegno alla Popolare guidata da Jacobini. Nel loro rapporto gli ispettori di Banca d’Italia segnalano anche «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Una manovra, questa, che consente di fatto all’istituto di credito di azzerare la propria esposizione trasformandola, per così dire, in quote del fondo. Un esempio? Eccolo, tra quelli citati dalla Vigilanza. La Popolare di Bari, già nel 2011, ha sottoscritto tutte le quote del fondo Tiziano, comparto San Nicola, che è gestito dal gruppo romano Sorgente. Lo stesso fondo ha poi acquistato il “Grande Albergo delle Nazioni”, uno degli immobili storici del capoluogo pugliese, affacciato sul Lungomare Nazario Sauro. E chi ha messo in vendita l’hotel? Proprio la società Fimco controllata dai Fusillo, grandi debitori, come abbiamo visto, della Popolare di Bari. Quest’ultima ha quindi sostituito i propri crediti con le quote dei veicoli d’investimento targati Sorgente. La stessa Fimco ha ceduto al Fondo Donatello, anche questo gestito da Sorgente, un altro palazzo di pregio come l’Hotel Oriente, nel centro storico della città di San Nicola. Bilanci alla mano, l’investimento in fondi immobiliari assorbe una fetta importante del portafoglio titoli della Popolare pugliese. Nei conti del 2015 questa voce vale 122 milioni e rispetto all’anno precedente ha già provocato perdite per 13 milioni. Il nome dei Fusillo, invece, ricorre anche nella triste storia della Popolare di Vicenza, schiantata da perdite ben superiori al miliardo e da mesi al centro di un’indagine della magistratura. Alcune società della famiglia di costruttori hanno in passato ricevuto finanziamenti milionari da fondi offshore con base a Malta. E questi erano stati a loro volta foraggiati dalla banca veneta all’epoca guidata da Gianni Zonin. Le coincidenze non finiscono qui. Vincenzo De Bustis, direttore generale della Popolare Bari da fine 2011 ad aprile 2015, nel 2013 ha ceduto una sua società personale alla holding Methorios, partecipata dall’ex candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini. E anche Methorios è stata finanziata da quegli stessi fondi maltesi che sono intervenuti per sostenere i Fusillo, grandi clienti della Popolare di Bari. Questo intreccio di prestiti e affari, su cui indagano i magistrati a Roma e a Vicenza, può riservare nuove sorprese. Di certo però, fin dal 2013, la Vigilanza aveva preso atto dei crediti a rischio dell’istituto pugliese. E gli aspetti critici della gestione erano stati sintetizzati in un giudizio, quel “parzialmente sfavorevole”, che avrebbe dovuto stroncare sul nascere i progetti di espansione di Jacobini e del suo direttore generale De Bustis. Tercas però andava salvata. E in fretta. In quello scorcio di fine 2013 la Banca d’Italia era alla affannosa ricerca di un compratore per l’istituto abruzzese. Nessun banchiere però intendeva accollarsi gli oneri dell’operazione, pari ad almeno 600 milioni. A questo punto si è fatto avanti Jacobini. Siamo nell’ottobre 2013. Si è appena conclusa, con esito negativo, l’ispezione della Vigilanza. Nessun problema, a quanto pare. Ad agosto dell’anno successivo, Bari si prende Tercas. Il conto viene saldato per metà dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt), finanziato da tutte le banche nazionali. La stampella di sistema non è però sufficiente per chiudere l’operazione. E così la Popolare Bari non trova di meglio che chiedere soldi ai propri soci. Nel novembre 2014 vengono piazzate azioni per 300 milioni e obbligazioni subordinate per 200 milioni circa. Nella primavera del 2015 va in porto un altro collocamento da 50 milioni. I risparmiatori accorrono in massa. A fine 2013 i soci della banca superavano di poco quota 60 mila. Due anni dopo erano diventati circa 70 mila. Le brutte sorprese cominciano ad aprile di quest’anno. Prima la Popolare Bari annuncia la maxi perdita nei conti del 2015 dovuta in buona parte agli oneri del salvataggio Tercas. E viene tagliato anche il valore delle azioni, stabilito di anno in anno dalla banca stessa con una procedura già oggetto di molte critiche, come nei casi di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Il ribasso è del 20 per cento circa: da 9,53 a 7,5 euro. Solo pochi mesi prima, migliaia di investitori avevano sottoscritto l’aumento di capitale pagando le azioni 8,95 euro. I titoli non sono quotati in Borsa e la Popolare, che gestisce in autonomia un mercato ad hoc, è stata travolta dalle domande di vendita. Le aste mensili soddisfano richieste per poche migliaia di azioni. Tutto fermo. O quasi. La banca si è impegnata a ristabilire quanto prima «la fluidità del mercato», ma intanto monta la protesta. Alcune decine di soci, giovedì 20 ottobre, hanno manifestato in piazza a Bari con striscioni e altoparlanti. Niente da fare. Morale della storia: il conto salato del salvataggio Tercas è stato pagato dai piccoli azionisti della Popolare. E la Banca d’Italia, che poteva intervenire per tempo, resta a guardare. Per ora.

Banca nostra che comandi a Bari. La potente Popolare della città, governata da mezzo secolo dalla stessa famiglia, si prepara a trasformarsi in una società per azioni. Tra bilanci in perdita e manovre sui titoli. Perché nulla cambi nel più grande istituto di credito del Sud, scrive Vittorio Malagutti il 02 giugno 2016 su "L'Espresso". Crisi, quale crisi? Marco Jacobini parla di sviluppo, crescita, espansione. L’ultimo erede della famiglia che da oltre mezzo secolo tiene in pugno la Popolare di Bari si aggrappa a un’altra acquisizione per allontanare incubi e fantasmi. «Vogliamo CariChieti», ha detto di recente Jacobini, candidando l’istituto che presiede all’acquisto della piccola banca abruzzese azzerata dal decreto del governo del novembre scorso. Vista dalla Puglia, la crisi delle Popolari gronda promesse e propositi di riscossa. E a dire il vero, fino a poche settimane fa, da queste parti arrivavano solo gli echi lontani della tempesta che nel giro di pochi mesi ha spazzato via Vicenza e Veneto Banca, oltre all’Etruria, frantumando equilibri consolidati nel tempo, come dimostra la prossima fusione tra Popolare Milano e il Banco Popolare con base a Verona. A Bari, però, adesso la musica è cambiata. A fine aprile è arrivato il taglio del valore delle azioni: da 9,53 a 7,5 euro, con una perdita secca del 21 per cento in un sol colpo. Una sorpresa difficile da digerire per gli oltre 70 mila soci della Popolare di Bari, che con quasi 15 miliardi di attivi, 385 filiali, oltre 3 mila dipendenti, è la più grande banca del Sud, una delle poche rimaste indipendenti. Negli ultimi tre anni l’istituto guidato da Jacobini ha raccolto quasi 800 milioni piazzando titoli tra migliaia di risparmiatori. Nel 2014 sono state vendute anche 200 milioni di obbligazioni subordinate, un investimento ad alto rendimento (6,5 per cento annuo) ma anche meno sicuro dei classici bond, come hanno scoperto a loro spese nei mesi scorsi i clienti degli istituti liquidati, primi tra tutti quelli di Banca Etruria. Risultato: le fila dei soci di Popolare Bari si sono ingrossate a gran velocità. Nel 2010 il capitale era diviso tra meno di 50 mila investitori, contro i 70 mila attuali. Il fatto è che le azioni dell’istituto pugliese non sono quotate in Borsa. Chi vuol vendere o comprare, quindi, deve bussare in banca. Anche il prezzo è fatto in casa, nel senso che la quotazione viene stabilita di anno in anno dagli amministratori e poi sottoposta al giudizio dell’assemblea per il via libera definitivo. Insomma, il sistema è lo stesso che ha già dato pessima prova di sé nelle recenti crisi di Veneto Banca e della Popolare Vicenza, letteralmente travolte dalla fuga in massa degli azionisti. A Bari tutto, o quasi, è filato liscio fino al 2015. Poi, messi in allarme da ribaltoni e crisi varie nel mondo bancario, sempre più soci hanno chiesto di liquidare in tutto o in parte il proprio investimento. Del resto, come risulta dagli stessi prospetti informativi degli ultimi aumenti di capitale della Popolare pugliese, il prezzo delle azioni messe in vendita negli anni scorsi era stato calcolato in base a parametri di bilancio simili, anche se di poco inferiori, a quelli di altri istituti non quotati come le già citate Popolare Vicenza e Veneto Banca, che poi non hanno retto alla prova della crisi. Così, per far fronte alle richieste, nel corso del 2015 l’istituto con base a Bari ha comprato azioni proprie messe in vendita dai soci per un valore di quasi 15 milioni. «Tutto sotto controllo», hanno gettato acqua sul fuoco Jacobini e i suoi collaboratori. Il 18 marzo scorso, però, in una sola giornata sono passate di mano oltre 2 milioni di azioni della Popolare. Un boom senza precedenti. Tra gennaio e febbraio il mercatino interno riservato ai soci aveva aperto i battenti solo cinque volte, con scambi al lumicino: poche decine di migliaia di pezzi. La sorpresa aumenta se si considera che l’asta del 18 marzo è stata l’ultima occasione per vendere i titoli al prezzo di 9,53 euro. Gli scambi infatti sono ripresi solo il 13 maggio. Nel frattempo però, il 24 aprile, l’assemblea ha fissato la nuova quotazione, pari, come detto, a 7,5 euro. In altre parole, il fiume dei soci in uscita si è ingrossato proprio alla vigilia del ribasso. Ce n’è quanto basta per alimentare sospetti e interrogativi sull’identità dei fortunati venditori, che hanno incassato in totale circa 20 milioni di euro. A comprare, secondo quanto spiegano a Bari, è stato il gruppo assicurativo Aviva, che poche settimane prima aveva siglato un’alleanza commerciale con l’istituto pugliese. Anche la posizione degli acquirenti appare però piuttosto singolare. In pratica, d’accordo con la banca, Aviva avrebbe comprato titoli che nel giro di un mese si sono svalutati del 20 per cento per decisione della banca stessa. A prima vista non sembra granché come affare per celebrare l’intesa strategica appena firmata. Le manovre sui titoli sono andate in scena pochi giorni prima di un’altra brutta notizia. A fine marzo la Popolare di Bari ha annunciato il bilancio peggiore della sua storia: 475 milioni di perdite, ridotti a 297 milioni grazie ad alcune partite fiscali positive (e una tantum) per 177 milioni. Il vistoso peggioramento rispetto al 2014, che si era chiuso con 24 milioni di profitti, è dovuto in parte (271 milioni) alle rettifiche sui valori di alcune attività in bilancio. Per esempio, la quota di controllo nella Cassa di Orvieto e una rete di filiali comprate a peso d’oro alcuni anni fa e oggi molto svalutate alla luce di una situazione di mercato ben più complicata. Grandi pulizie anche nel portafoglio crediti. Rispetto al 2014, gli accantonamenti sui prestiti a rischio sono più che raddoppiati, arrivando a 246 milioni. A Bari sostengono che la cura da cavallo ha già dato i primi effetti e segnalano, senza però fornire cifre precise, che i risultati dei primi mesi dell’anno si sono fin qui rivelati migliori rispetto alle attese. La salita più difficile, però, deve ancora cominciare. Nel 2014 la Popolare pugliese è sbarcata in Abruzzo per scongiurare il crac di Banca Tercas, sede a Teramo, distrutta da anni di gestione dissennata. Il salvataggio è stato finanziato in parte dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) che ha corretto in corsa il suo intervento (265 milioni di contributi) dopo lo stop della Commissione europea per un presunto aiuto di Stato. L’istituto guidato da Jacobini ha fin qui investito circa 325 milioni nell’operazione Tercas, che però viaggia ancora a rilento. L’anno scorso il bilancio si è chiuso in utile per 10 milioni solo grazie a 56 milioni di benefici fiscali straordinari. La strada verso il rilancio è quindi ancora lunga, ma intanto la Popolare pugliese è attesa al varco della trasformazione in società per azioni. Il decreto del governo che obbliga le 10 maggiori banche cooperative a diventare Spa, risale all’inverno del 2015. A Bari però se la sono presa comoda e l’assemblea per deliberare il cambio di statuto andrà in scena non prima del prossimo ottobre. Dopo di allora, sulla carta, tutto è possibile. Perfino che una cordata di nuovi soci prenda il controllo del gruppo. Al momento, per la verità, il ribaltone appare piuttosto improbabile. Il presidente Marco Jacobini guida un consiglio di fedelissimi e si è già assicurato la successione con la nomina dei suoi due figli: Gianluca (39 anni) è stato da poco nominato condirettore generale e suo fratello Luigi, invece, è vicedirettore generale. Tutto in famiglia, insomma, per un assetto di vertice che non ha eguali nel variegato universo del credito. Nel 2015 è stato promosso amministratore delegato un manager esperto come Giorgio Papa, 60 anni, una carriera con incarichi importanti nel gruppo Banco Popolare e anche in Finlombarda, la holding controllata dalla regione Lombardia. Una nomina politica, quest’ultima, decisa dalla giunta di centrodestra nell’era di Roberto Formigoni. Papa ha preso il posto di Vincenzo De Bustis, un banchiere di lungo corso, partito dalla Puglia (Banca del Salento) per approdare nel 2000 al vertice del Monte Paschi di Siena con la benedizione dell’allora potentissimo Massimo D’Alema. De Bustis, insediatosi nel 2011, ha dato le dimissioni ad aprile 2015 ed è stato liquidato con una buonuscita («incentivo all’esodo», si legge nelle carte) di 975 mila euro. D’altra parte, nell’anno nero della Popolare di Bari, tutti i manager di punta hanno visto aumentare il loro stipendio, a cominciare dal presidente Marco Jacobini, che ha guadagnato 700 mila euro, 50 mila in più del 2014. Busta paga più pesante anche per i figli del presidente: il condirettore generale Gianluca ha guadagnato 453 mila euro contro i 354 mila del 2014, mentre il fratello Luigi è arrivato a 410 mila euro, con un aumento di oltre 50 mila euro rispetto all’anno prima. I manager, insomma, non possono lamentarsi: compensi più alti per tutti. I soci, invece, forse la pensano diversamente. Le loro azioni ora valgono il 20 per cento in meno e con l’aria che tira il futuro pare quanto mai incerto.

Caos Popolare di Bari, Bankitalia la commissaria e il governo litiga sul salvataggio. Il governo si riunisce d'urgenza ma senza gli esponenti di Italia Viva che poco prima della riunione si chiamano fuori: "Rottura nel metodo e nel merito". E Franceschini attacca: "Basta con le minacce agli alleati". Rinviata l'adozione di un decreto. La Repubblica il 13 Dicembre 2019. Accelerazione nella crisi della Banca popolare di Bari e conseguente caos nella maggioranza, prima, dopo e durante un consiglio dei ministri convocato d'emergenza per discutere di un decreto per salvare la banca, mettendo sul piatto una cifra stimata tra 800 milioni e un miliardo di euro. Il cdm che si è tenuto in serata è durato circa un'ora e si è concluso intorno alle 22.40. Non è stato approvato nessun decreto per il momento, ma il governo "è pronto ad assumere le iniziative necessarie alla piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio". La maggioranza però trema, in un tutti contro tutti che scuote Palazzo Chigi. Circola anche la voce che i renziani vogliano aprire una crisi, ipotesi che le stesse fonti del partito dell'ex premier poi smentiscono. Secondo fonti Mef riportate dall'agenzia AdnKronos, il decreto sarà sottoposto al prossimo Consiglio dei ministri "per la sua approvazione". Comune determinazione del governo è quella di "assumere tutte le iniziative necessarie a garantire la piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio a beneficio del sistema produttivo del Sud". Tutto è cambiato in poche ore, dopo che nel primo pomeriggio il premier Conte da Bruxelles aveva rassicurato tutti dicendo "il salvataggio non serve". Prima Bankitalia ha convocato il cda e ha deciso di commissariare l'istituto di credito pugliese, nominando Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari e Livia Casale, Francesco Fioretto e Andrea Grosso componenti del comitato di sorveglianza. "La Banca d'Italia ha disposto lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo della Banca Popolare di Bari e la sottoposizione della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi degli articoli 70 e 98 del Testo Unico Bancario, in ragione delle perdite patrimoniali", si legge sul sito della banca pugliese. Che rassicura i clienti: "La banca prosegue regolarmente la propria attività. La clientela può pertanto continuare ad operare presso gli sportelli con la consueta fiducia". Nelle stesse ore il cdm veniva convocato per intervenire sulla crisi e adottare provvedimenti straordinari: la banca ha un'esigenza di maxi ricapitalizzazione e nei giorni scorsi ha confermato una richiesta d'aiuto al fondo interbancario e l'avvio di un dialogo con il mediocredito centrale per una partnership.

Scontro politico sul salvataggio di Popolare di Bari. Ma l'accelerazione porta anche una crisi nel governo, con Italia Viva che si chiama fuori e parla di "rottura nel merito e nel metodo". Dichiara Luigi Marattin, vicepresidente deputati di Iv: "La convocazione improvvisa di un Consiglio dei ministri sulle banche, senza alcuna condivisione e dopo aver espressamente escluso ogni forzatura o accelerazione su questa delicata materia, segna un gravissimo punto di rottura nel metodo e nel merito". Continua Marattin: "Stupisce che chi per anni ci ha attaccato demagogicamente su provvedimenti finalizzati a sostenere i risparmiatori - sottolinea- si renda oggi responsabile di una operazione incredibile, finalizzata più a salvaguardare le responsabilità di chi doveva gestire e/o vigilare e non l'ha fatto. Italia viva non parteciperà al consiglio dei ministri e si riserva di valutare in aula quale posizione assumere". Ed Ettore Rosato, coordinatore di Italia viva, rincara: "Dopo che per anni i 5Stelle hanno costruito contro di noi la retorica sulle banche, oggi con il Pd votano in Cdm a difesa di chi avrebbe dovuto ben amministrare. Noi non ci stiamo e non parteciperemo a questo voto. In attesa di vedere come lo giustificheranno". A stretto giro, la risposta di Luigi Di Maio, chiamato in causa insieme a tutto il Movimento. Per il capo politico "c'è un problema con la Banca Popolare di Bari ma noi dobbiamo andare a vedere a chi hanno prestato i soldi: pensiamo a un decreto che aiuti i risparmiatori, non gli amici delle banche. Serve una riflessione sul decreto". E fonti 5s chiariscono: "Non si fanno Cdm risolutivi finchè non c'è un accordo sul metodo. Anche il Pd replica polemico, prima con un tweet di Andrea Orlando e poi con una nota di Dario Franceschini. "I ministri del Pd hanno partecipato al Consiglio dei Ministri. In ogni scelta di governo, e a maggior ragione quando si tratta di tutelare i risparmi dei cittadini, noi mettiamo doverosamente senso di responsabilità. Le minacce, le aggressioni agli alleati, le assenze per fare notizia, le lasciamo ad altri".

Ettore Rosato: Dopo che per anni i #5stelle hanno costruito contro di noi la retorica sulle banche. Oggi con il Pd votano in CdM a difesa di chi avrebbe dovuto ben amministrare. Noi non ci stiamo e non parteciperemo a questo voto. In attesa di vedere come lo giustificheranno.

Andrea Orlando: Quindi escludete che ci siano rischi per i risparmiatori in questo caso?

Salvini-Giorgetti: "Conte incapace o instabile, si dimetta". "Come può nel giro di poche ore il premier sostenere che sulla Banca popolare di Bari non ci sarà nessun intervento salvo convocare un cdm d'urgenza a distanza di poche ore mentre Bankitalia ordina il commissariamento dell'istituto? Un pacato "no comment" avrebbe evitato una farsa e sarebbe stato più serio anche a mercati aperti. Vorremmo capire cosa è successo: dal tutto bene al fallimento. Siamo nelle mani di una persona instabile o incapace che guida il governo del Paese. Conte si dimetta immediatamente: facciamo appello ai partiti di questa maggioranza per far finire al più presto questa disastrosa e pericolosa esperienza". Lo dichiarano Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti. 

Fabio Pavesi per affaritaliani.it il 13 dicembre 2019. Ora toccherà alla Popolare di Bari venire salvata. E così si ripropone inalterato il consueto film delle crisi bancarie italiane che finisce per recitare sempre lo stesso copione: crediti allegri agli amici degli amici o comunque a soggetti, spesso immobiliaristi d’assalto, senza capitali propri e con grandi rischi operativi; quei prestiti con il tempo non rientrano, diventano sofferenze, cominciano le svalutazioni ma molta polvere resta sotto il tappeto perché se si svalutasse correttamente emergerebbero gravi perdite che è meglio occultare. Poi la slavina diventa non più contenibile dai semplici magheggi di bilancio. Il bubbone esplode, ma il fuoco divampava da tempo. Con un patrimonio sceso sotto i limiti regolamentari ecco la richiesta di soccorso esterno. Con azionisti e obbligazionisti subordinati che finiscono di fatto azzerati. Un copione che si perpetua e che è andato in scena a Genova alla Carige; a Siena con Mps, in Veneto con le due Popolari. Ora è la volta della Popolare gestita per oltre mezzo secolo dalla famiglia Jacobini. Il canovaccio non si discosta per nulla dalle altre crisi. Crediti facili a chi non sarà in grado di onorarli; sofferenze che superano il livello di guardia;  aumenti di capitale, pagati dai soci, a prezzi che valevano due tre volte il vero valore della banca. E la pioggia di svalutazioni sui crediti malati che crea i primi maxi buchi nei conti. Ora senza il solito soccorso esterno la Popolare di Bari è spacciata. I requisiti patrimoniali con il Cet 1 sceso al 6% dopo la maxi-perdita da oltre 400 milioni del 2018 non rispettano più i criteri della Vigilanza. Occorre una nuova iniezione di denaro fresco che non si può chiedere ai martoriati vecchi soci, ma si implora il Cavaliere bianco. Che non può che essere il Fondo interbancario una volta di più e perché no il Tesoro. L’attuale ad della banca quel De Bustis che oggi la guida, dopo esserci già stato come direttore generale dal 2011 al 2014 e indagato in questi giorni a Bari per una vicenda legata a un fondo maltese che avrebbe dovuto immettere denaro nella banca, ha chiamato soccorso a voce alta accusando inoltre di gestione allegra i suoi predecessori. Servono capitali per un miliardo, c’era un comitato d’affari che gestiva in modo opaco la banca ha dichiarato a gran voce Vincenzo De Bustis chiedendo e ottenendo dal Cda l’azione di responsabilità contro la gestione passata. Che la Popolare barese nonostante le continue cessione di sofferenze negli ultimi due tre anni, navighi in acque turbolente non dovrebbe essere un mistero. Tuttora secondo l’ultimo bilancio di giugno 2019 ha in pancia ben 2 miliardi di crediti deteriorati lordi, oltre il 20% degli impieghi, un livello più che doppio della media del sistema bancario italiano. L’ultima svalutazione importante dei crediti ammalorati è del 2018 ed è pesata per 245 milioni. È stato l’anno della perdita per oltre 400 milioni della banca. Quella che di fatto ha scoperchiato la pentola. Ma tardi troppo tardi, dato che la crisi viaggiava in realtà da tempo. Pur cumulando sofferenze e incagli a velocità e intensità del tutto fuori controllo, la Popolare di Bari guidata da sempre dalla famiglia Iacobini, effettuava rettifiche sui crediti ammalorati troppo basse per essere realistiche. Tra il 2016 e il 2017, in interi 2 anni, pur con un quarto del portafoglio crediti di difficile rientro, le rettifiche sono state di meno di 150 milioni cumulati. Per trovare una pulizia più fattiva di oltre 200 milioni occorre risalire al 2015 quando ci fu l’impatto dei crediti marci dell’acquisita Tercas. Molta polvere (leggi sofferenze non adeguatamente rettificate) è stata lasciata sotto il tappeto. Si evitava di far vedere le perdite reali, nel mentre si chiedevano soldi al mercato. Un film che ricorda il disastro delle Venete, di Carige e di Mps. L’ultimo aumento di capitale del 2015 vide i soci comprare le azioni a 8,95 euro, con una valorizzazione della banca barese che superava e di molto il patrimonio netto. Questo quando l’universo delle banche quotate italiane valeva meno della metà del suo patrimonio netto. Ora però il maquillage contabile, quello di sottostimare le rettifiche sui crediti malati, mostra la corda. La Popolare ha tuttora, e ormai non è più credibile, un tasso di copertura dei crediti deteriorati di solo il 39%. Di quei 2 miliardi di sofferenze e incagli lorde sono state svalutati solo 800 milioni, tanto che i crediti malati netti sono di 1,2 miliardi e pesano tuttora per il 15% del portafoglio impieghi: un livello oltre ogni allarme rosso. Tutto ciò significa che la grande pulizia deve ancora arrivare. Non si spiegherebbe la richiesta accorata di De Bustis per coprire urgentemente un deficit di capitale vicino al miliardo. Se solo la Bari si uniformasse alla media del tasso di accantonamento del sistema bancario italiano che è al 49% dieci punti sopra la Bari, si aprirebbe una voragine di almeno altri 200 milioni di perdite. E questo quasi sicuramente avverrà. Il cambio della guardia nel controllo della banca che necessariamente dovrà arrivare non potrà permettersi di non pulire radicalmente l’istituto dalla zavorra delle sofferenze. E allora la maxi-perdita del 2018 sarà di fatto solo l’antipasto di un nuovo grande buco nei conti del 2019. Resta sullo sfondo la pantomima di una crisi visibile da tempo già dai bilanci pubblici che vedevano sofferenze fuori controllo e rettifiche del tutto inadeguate, e su cui molti, a partire dagli organi di Vigilanza hanno preferito soprassedere nell’attesa che qualcosa cambiasse. Ma come si è visto in tutte le crisi lasciar correre il tempo senza intervenire non fa che acuire l’agonia. E come nelle sceneggiature delle crisi ecco andare in onda tutti i capitoli. Clienti in uscita con la raccolta diretta che flette, ricavi in forte calo; impieghi che dimagriscono. E azionisti e obbligazionisti imbrigliati nell’impossibilità di vendere i titoli della banca comprati a caro prezzo. Il mercatino messo in pista per scambiare i titoli della Popolare di Bari non quotata si è di fatto congelato da solo. Dal 2017 sono state scambiate azioni per solo 800mila euro, un’inezia. Con i prezzi di negoziazione da sempre deserti che giravano prima della sospensione dei giorni scorsi a poco più di 2 euro, contro i 9 euro dei prezzi di carico di molti azionisti. Che in questo tragico film come negli altri saranno quelli che con i dipendenti pagheranno il conto più alto.      

L'AFFARE "CON I GENTILUOMINI" CHE COSTA IL POSTO A DE BUSTIS il 13 dicembre 2019 su Il Fatto Quotidiamno. Il commissariamento della Banca Popolare di Bari è ormai inevitabile e imminente. Il governatore della Banca d' Italia Ignazio Visco ha deciso che non si può salvare l' istituto pugliese senza togliere di mezzo l' amministratore delegato Vincenzo De Bustis . Solo dopo il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt) darà il miliardo di euro di capitale necessario a salvare la banca. La posizione di De Bustis si è fatta più critica dopo che, un mese fa, è stato destinato ad altro incarico Lanfranco Suardo , l' uomo della vigilanza che aveva seguito con apparente benevolenza le evoluzioni di De Bustis. E dopo le novità nell' inchiesta della procura di Bari sulla banca. Viene proprio da Bankitalia la segnalazione che ha fatto aprire un nuovo filone d' indagine sul tentativo (fallito) di De Bustis di acquisire nuovo capitale da una sconosciuta società maltese. Vigilanza e magistratura vogliono vederci più chiaro dopo aver letto il verbale del cda del 2 gennaio 2019, quando De Bustis spiegò ai consiglieri la brillante soluzione trovata per evitare il commissariamento o, peggio, la risoluzione, volgarmente nota come bail in. Per magnificare la propria abilità, De Bustis arringa i consiglieri: "Delle banche non si fida più nessuno e quindi c'è bisogno di fare ricorso alle migliori capacità relazionali. Capacità relazionali significa investire in conoscenze, coltivarle, sedersi al tavolo e discutere, perché sia ben chiaro che in una operazione commerciale o finanziaria nessuno ti usa una cortesia senza pretendere in contropartita una pari opportunità". Per cui, spiega dando l'operazione per fatta, "ho dovuto chiedere a degli investitori personalmente conosciuti la disponibilità a sottoscrivere questo strumento ibrido di patrimonializzazione". De Bustis è amministratore delegato dal 12 dicembre 2018, e ha dunque cucinato l' operazione in un paio di settimane, Natale compreso, ma probabilmente si era portato avanti con il lavoro: una settimana prima della nomina si era fatto pagare una consulenza da 127 mila euro. A usare a De Bustis la cortesia di mollargli 30 milioni al volo e sull' unghia sarebbe stata, se ci fosse riuscita, la società maltese Muse Ventures Ltd, facente capo a Gianluigi Torzi , intraprendente finanziere italiano residente a Londra. Muse Ventures era stata costituita un anno prima con un capitale non precisamente debordante: 1.200 (milleduecento) euro. Come ha ricostruito il 19 luglio scorso sul Fatto Gianni Barbacetto, "l' istituto di credito coinvolto nell' emissione dei titoli, Bnp Paribas, rileva problemi di compliance, cioè di trasparenza e rispetto delle regole" e blocca l' operazione. Diventa evidente, anche dentro la banca, "la sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore" (la Muse) e il valore dell' operazione. Non solo. Siccome De Bustis propone anche di investire 51 milioni nel fondo lussemburghese Naxos Sif Capital Plus, nasce il sospetto (respinto seccamente dalla stessa Naxos) che si tratti di un' operazione circolare, cioè che i soldi siano sempre gli stessi che escono dalla banca e ci rientrano da Malta. Ma la sensazione di un collegamento tra le due operazioni nasce in alcuni consiglieri della banca proprio per la presentazione che ne ha fatto De Bustis. Quando il presidente Marco Jacobini gli chiede informazioni "sulla qualità degli investitori", l' ad sfodera il tono della televendita: "Si tratta di galantuomini, gente per bene (), hanno chiesto semplicemente di non dare molto risalto pubblicitario all' operazione, perché le condizioni della stessa sono palesemente favorevoli per la banca". Il consigliere Francesco Venturelli chiede quale sia allora l' utilità economica per l' investitore. Mister Banca 121 ripete: "Le intese sono state sviluppate e definite sulla base di modalità relazionali, le stesse che hanno consentito di ottenere un saggio di interesse del 13 per cento (alla faccia della cortesia, ndr) quando operazioni di questo tipo, normalmente, scontano tassi attorno al 19-20 per cento. Inoltre - prosegue il verbale - considerato che la banca dispone di un' ampia base di liquidità, si è condiviso con il management di realizzare un investimento di 50 milioni in un fondo lussemburghese per aumentare la redditività della banca". Pochi giorni dopo si è scoperto che Torzi, pur galantuomo e persona per bene, figura insieme al padre Enrico Torzi "nelle liste mondiali di bad press (WorldCheck) per diverse indagini a suo carico avviate dalle Procure di Roma e Larino per reati di falsa fatturazione e truffa". Inoltre è salito recentemente agli onori delle cronache per la partecipazione, insieme al finanziere Raffaele Mincione , alla "vicenda opaca" (parola del segretario di Stato Pietro Parolin ) del palazzo londinese di Sloane Avenue su cui il Vaticano ha perso un bel po' di soldi e su cui la magistratura di Oltretevere ha aperto un' inchiesta per corruzione, peculato e truffa". Collegato a Mincione è anche Giulio Gallazzi, l'uomo a cui De Bustis da mesi sta cercando di cedere la Cassa di risparmio di Orvieto, piccola controllata della Bpb. E a proposito di "modalità relazionali", ha destato la curiosità degli ispettori il contratto di consulenza per la cessione dei crediti deteriorati e per il necessario aumento di capitale stipulato da De Bustis l' 8 aprile 2019 non con una primaria banca internazionale ma con la Tundafin di Valerio Veltroni , fratello del più noto scrittore e regista Walter. Lo stesso 8 aprile la Tundafin si è fatta liquidare 10 mila euro come anticipo per le spese.

Andrea Greco per “la Repubblica” il 13 dicembre 2019. Banca d'Italia commissaria la Banca popolare di Bari. E a stretto giro il governo, pur tra le polemiche, prepara la coperta del salvataggio: tra pochi mesi la banca andrà ricapitalizzata con almeno un miliardo. Ma il governo è spaccato: ieri sera i ministri di Italia Viva e dei 5 Stelle hanno disertato la seduta, perché nessuno di loro vuole essere accusato di «salvare i banchieri», come ha detto Luigi di Maio. I renziani, addirittura, minacciano la crisi di governo sul provvedimento di salvataggio della Popolare. Così a tarda sera arriva solo un generico impegno: «Il consiglio dei ministri ha espresso la determinazione ad assumere tutte le iniziative necessarie a garantire piena tutela degli interessi dei risparmiatori e a rafforzare il sistema creditizio a beneficio del sistema produttivo del Sud». I soldi sono demandati al prossimo consiglio di ministri. Ma si stimano fino a 700 milioni "pubblici": 500 ora, altri 200 se in futuro emergeranno nuove perdite su crediti. Il piano di riassetto, già redatto da Bankitalia con il consulente Oliver Wyman, prevede infatti che il deficit della banca sia ripianato dal Mediocredito centrale (banca controllata dal Tesoro tramite Invitalia) in tandem con il Fondo di tutela dei depositi, che si impegnerebbe con una fiche da circa mezzo miliardo messa dalle banche operanti in Italia. Il provvedimento di Bankitalia, nell' aria da giorni, ha revocato l'intero cda di Bari e nominato ben cinque commissari. «È disposto lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo - vi si legge - e la sottoposizione della banca alla procedura di amministrazione straordinaria, in ragione delle perdite patrimoniali». Commissari straordinari sono Enrico Ajello e Antonio Blandini, mentre Livia Casale, Francesco Fioretto e Andrea Grosso «sono nominati nel comitato di sorveglianza ». A questi tre «è affidato il presidio della situazione aziendale, la predisposizione delle attività necessarie alla ricapitalizzazione della banca nonché la finalizzazione delle negoziazioni con i soggetti che hanno già manifestato interesse all' intervento di rilancio», ovvero il Fondo interbancario e il Mediocredito centrale. La nota aggiunge che «la banca prosegue regolarmente la propria attività. La clientela può pertanto continuare ad operare presso gli sportelli con la consueta fiducia ». Tanta è la fiducia che dopo uno smottamento in corso da almeno tre anni fa resistono nei forzieri baresi 21 mila conti correnti con più di 100 mila euro, pari a oltre 2 miliardi che in caso di crac rischiano di essere intaccati dalle regole del cosiddetto "bail in". Bankitalia, si apprende dietro le quinte, ha soppesato per giorni la decisione; anche per le ricadute reputazionali che implica commissariare una banca che cinque anni fa fu autorizzata a comprare Tercas tramite aumento di capitale ed emissione di bond da 213 milioni sui risparmiatori (titoli da rimborsare nel 2021). E fu proprio la vigilanza a puntare sulla famiglia Jacobini, fondatrice della banca nel 1960, per formare tramite fusioni il "polo adriatico"; e nel 2011 a chiamare come capoazienda, per bilanciare lo strapotere Jacobini, l'ad Vincenzo De Bustis, rimasto fino al 2014, richiamato un anno fa e ora alla porta. La decisione è maturata nello stallo del piano di riassetto che avrebbe dovuto immettere i primi 100 milioni nella banca pugliese entro fine anno, per ripristinare le soglie minime di patrimonio di legge. Ma gli ostacoli di esecuzione e negli organi sociali dell' istituto hanno fatto scegliere per una cornice più dura. Il commissariamento presenta, infatti, una serie innegabile di vantaggi. Intanto consente di rinviare la redazione del bilancio 2019, in attesa di capire meglio la reale entità dei conti, e di aumentare le coperture a fronte dei 3 miliardi circa di crediti deteriorati, ormai circa un quarto dell' attivo totale; potrebbe derivarne un rosso d' esercizio vicino ai 420 milioni persi nel 2018, sempre per gli accantonamenti su crediti in mora. Altro vantaggio è la totale discontinuità nella gestione della banca. Via De Bustis, che pure nella sua lunga carriera è sembra stato in grande sintonia con Via Nazionale; in un anno non ha trovato soluzione alla crisi della banca e ha aperte diverse indagini per reati societari alla procura barese. Ma via anche Giannelli, cugino degli Jacobini, e tutti i consiglieri nuovi e vecchi. Con loro potrebbe lasciare anche una quota di dirigenti: stamattina sono tutti convocati nella sede della banca.

Andrea Greco per “la Repubblica” il 13 dicembre 2019. Si apre l' ennesimo filone di indagine sulla Banca popolare di Bari, targato Consob. L' authority di Borsa ha poco gradito il muro dell' istituto nel comunicare la situazione dei conti al mercato, e lo ha segnalato alla procura barese, che già indaga la banca e i vertici per varie ipotesi di reato. I magistrati, ricevuta ieri la lettera del presidente Paolo Savona, l' avrebbero girata alla Gdf affinché valuti la situazione. Per ora non ci sono indagati, ma in caso di riscontri l' ipotesi di reato sarebbe manipolazione del mercato. Sono sviluppi frutto di una settimana di duelli tra la Consob (anche se le azioni baresi sono sospese, sulla piattaforma Hi-Mtf si negozia un bond da 213 milioni con scadenza 2021) e una banca chiusa a riccio, forse temendo che l' uscita dei dati provochi fughe dei depositi (oltre 2 miliardi di euro sono in conti correnti sopra i 100 mila euro, soggetti al bail in dopo un dissesto). La settimana scorsa la Consob, ai sensi dell' art. 114 del Testo unico della finanza, sulle comunicazioni al pubblico "senza indugio", aveva chiesto a Bari di fotografare lo stato dei conti e del patrimonio. Uno stato più che critico, tanto che servirà fino a un miliardo di euro per il rilancio, e Bankitalia starebbe valutando se può decollare il piano che vede il Fondo tutela depositi e la banca pubblica Mcc versarli in tandem, o se prima è il caso di commissariare l' istituto. Il decreto del governo per il salvataggio, che passa per la dotazione di fondi fino a mezzo miliardo a Mcc, sarebbe già pronto: se ne potrebbe parlare già lunedì a Palazzo Chigi. La risposta di Bari alla Consob, a stretto giro, è stata un' istanza di revoca, per privilegiare la stabilità sulla trasparenza al mercato. Consob non ha accettato la richiesta, ribadendo la necessità di una comunicazione. A quel punto, la Popolare avrebbe chiesto un' istanza di ritardo, ai sensi della direttiva comunitaria Mar, che contempla la dilazione nel diffondere dati sensibili in caso ciò possa creare problemi. Ma un paio di giorni dopo questa istanza, intervistato sul Corriere della Sera , l' ad Vincenzo De Bustis ha fornito alcuni dati, tra cui un fabbisogno di patrimonio «fra 800 milioni e un miliardo». Il manager ex Mps e Deutsche Bank aveva aggiunto: «La banca ha perso un miliardo di euro e lo si può attribuire in parte alla recessione ma per altro a una gestione creditizia al di fuori delle regole, negli ultimi tre o quattro anni», parlando di «enclave ristretta» e di organi sociali «all' oscuro» per via di verbali «addomesticati e non veritieri » del comitato crediti. A questo punto il presidente della Consob ha scritto agli inquirenti per informarli della corrispondenza, nello spirito di collaborazione tra l' authority e la procura, che ha in piedi inchieste rilevanti con 10 indagati (tra cui a vario titolo i tre membri della famiglia Jacobini e l' ad De Bustis) per svariate ipotesi di reato societario. Ieri è stata anche un' altra giornata di consiglio per la Popolare, che già mercoledì aveva tenuto una seduta fiume per esaminare alcune poste di bilancio. È stato avviato il dossier per l' azione di responsabilità contro l' ex ad Giorgio Papa e due ex dirigenti Gianluca Jacobini (figlio dell' ex presidente Marco Jacobini) e Nicola Loperfido. Sembra che il cda abbia dato mandato a un revisore legale di analizzare la praticabilità dell' operazione, che per partire dev' essere votata dall' assemblea. Secondo il Piano di riassetto Bankitalia, l' assemblea si dovrebbe convocare l' 8 marzo per votare bilancio 2019, ricapitalizzazione e la trasformazione della popolare in spa. Non è detto che sia facile per il cda "incastrare" chi è stato accusato ieri: anche perché il dg Gregorio Monachino dal 1999 è stato quasi ininterrottamente coinvolto nella gestione dei crediti baresi, e lo stesso De Bustis aveva già guidato la Bari dal 2010 al 2015. Ovvio che l' ultima parola spetterà agli azionisti dell' anno prossimo: che in ogni caso difficilmente coincideranno con i 70 mila soci attuali, a rischio di perdere tutto. Intanto il consigliere Francesco Ago, avvocato dello studio Chiomenti, si sarebbe dimesso lo scorso fine settimana con comunicazione alla banca, ufficialmente per motivi personali.

Manola Piras per startmag.it il 13 dicembre 2019. Conversazione di Start Magazine con l’avvocato Domenico Romito, primo legale ad attivarsi contro l’istituto a tutela di azionisti e obbligazionisti della Popolare di Bari. La Popolare di Bari versa in condizioni molto complicate da cui può uscire solo con un deciso cambio di passo. Ne è convinto Domenico Romito, responsabile nazionale dell’associazione Avvocati dei Consumatori, primo legale ad attivarsi contro l’istituto di credito pugliese e a denunciarne la situazione di default. Su sua richiesta, tra l’altro, è stato di recente nominato il rappresentante degli obbligazionisti della banca. In un contesto assai difficile dal punto di vista di governance e di conto economico, la Popolare di Bari deve pure fare i conti con la questione delle azioni illiquide (scambiate sulla piattaforma Hi-Mtf e così chiamate perché non c’è un mercato di riferimento) di cui sono titolari tanti soci e obbligazionisti che non è certo se e quando potranno rientrare in possesso del proprio denaro vista la situazione finanziaria dell’istituto. “Il valore delle azioni – spiega Romito in un’intervista a Start Magazine – è passato da un prezzo pagato fino a 9,53 euro – soprattutto in riferimento all’aumento di capitale del 2014-2015 – che negli anni si è praticamente azzerato. La quotazione della piattaforma Hi-Mtf, un piccolo borsino in cui ci sono soprattutto titoli delle banche popolari, era già irrealistica. Poi, con l’aggravarsi della situazione, il titolo è stato sospeso”. E sul fatto che la quotazione fosse irrealistica, chiarisce l’avvocato, “ci ha dato ragione la Corte d’Appello di Bari visto che per quanto riguarda l’aumento di capitale 2014-2015 era superiore all’ipotesi più rosea stimata dalla società incaricata”. Inoltre, secondo Romito la Popolare guidata da Vincenzo De Bustis “si è servita di un profilo di rischio alterato. In 26mila casi abbiamo rilevato un profilo di rischio basso ma solo 300 risparmiatori hanno avuto l’attribuzione di un profilo di rischio del genere perché hanno detto di avere un’esigenza di liquidità”. Sul caso sta indagando attualmente la Procura della Repubblica – e anzi “l’iniziativa è prossima alla conclusione”, assicura – perché molti titolari hanno presentato denuncia per truffa “ed in effetti questo tipo di vendita massiva potrebbe presentare profili penalmente rilevanti”. Ma chi sono questi azionisti e obbligazionisti? Si tratta di “semplici risparmiatori che sono stati sollecitati a vario titolo a investire in azioni della stessa banca in contrasto con la normativa Esma (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, ndr) e con quella della Consob, che ha accolto le raccomandazioni dell’Esma e ha dato indicazioni stringenti imponendo una procedura di vendita molto dettagliata”. Attenzione, però: il problema non riguarda solo la banca pugliese: “La nostra iniziativa si estende oltre la Popolare di Bari, ci sono altri istituti come la Popolare di Ragusa o la Popolare del Lazio che si trovano in situazioni analoghe”. Oltre al fatto che i titoli hanno perso valore c’è poi il problema dello scavalcamento nell’ordine di vendita: molti hanno chiesto di vendere i titoli in proprio possesso ma si sono visti scavalcare nella fila da altri. Risultato: più il tempo passava, più diminuiva il valore e si perdevano soldi. “Su questo abbiamo vinto la causa – evidenzia Romito – e la Popolare di Bari ha dovuto fornire 70mila pagine di documenti da cui si evince una violazione del diritto di precedenza”. Da qui l’azione collettiva per il risarcimento del danno “che – se circoscriviamo solo agli ultimi aumenti di capitale, diciamo dal 2009 – è di oltre 1 miliardo”. Una cifra non piccola per una banca che già versa in gravi condizioni. “Abbiamo fiducia nel giudice del Tribunale di Bari ma siamo convinti che non si debbano attendere le sentenze e che si debbano invece trovare altre soluzioni. E’ impensabile che queste persone debbano rivolgersi alla magistratura per avere soddisfazione” nota l’avvocato che chiede “un cambio di passo da parte della banca perché affronti il problema in maniera seria e fornisca una possibilità di ristoro. Parliamo di una banca che ha titoli che non valgono più nulla”. Peraltro, ricorda, “l’Unione europea favorisce questi risarcimenti dove ci sono state violazioni di massa come, secondo noi, è accaduto in questo caso”. A tutti gli azionisti e gli obbligazionisti dell’istituto, inoltre, l’avvocato Romito raccomanda di inviare una lettera alla banca in forma di raccomandata “per interrompere la prescrizione”. “Suggerisco di mandare la lettera di messa in mora perché non si può sapere da quando decorreranno le prescrizioni e a maggior ragione nel caso di chi ha partecipato all’aumento di capitale del 2009”. Per quanto riguarda il futuro della Popolare di Bari, anche in questo caso “serve un cambio di passo”. Intanto, dice Romito, “occorre trasformarla in spa e però bisogna vedere chi crede nel progetto. Servono soggetti privati e pubblici che si facciano carico del rilancio della banca senza frapporre ulteriori indugi. Questo clima di incertezza danneggia l’istituto, mina la fiducia dei clienti e di conseguenza si rischia un depauperamento in termini di risorse e di correntisti”.

Popolare di Bari commissariata, il premier Conte: «Non tuteleremo nessun banchiere». Salvini: «Comitato di salvezza nazionale». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 su Corriere.it da Cesare Zapperi. Sulle polemiche nella maggioranza: «Nessuna tensione, con Italia viva abbiamo chiarito». Come si interverrà? «Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica». «Non tuteleremo nessun banchiere». Lo dice il premier Giuseppe Conte nella conferenza stampa sui primi 100 giorni di Governo nella Sanità rispondendo ad una domanda sulla crisi della Popolare di Bari. «Lo possiamo dire: tutti i risparmiatori di Bari e dintorni devono stare assolutamente tranquilli - aggiunge il premier - Siamo un po’ vivaci, ma siamo tutti responsabili e perseguiremo l’obiettivo in massima sicurezza». E sulle polemiche con Renzi, non c’è «nessuna tensione - assicura Conte - abbiamo chiarito, con Marattin ci siamo anche sentiti a telefono, gli obiettivi sono condivisi», assicura il premier. Quanto ai prossimi passi, «ci sarà una convocazione» del Cdm «a breve. Ieri abbiamo fissato gli obiettivi che vogliamo conseguire in tempi rapidi, secondo un disegno di politica coerente che avevamo in parte già impostato, non è che improvvisiamo». Conte parla anche dei meccanismi di intervento: si utilizzerà «uno strumento che è nella pancia di Invitalia, Mediocredito Centrale. Cerchiamo di fare di necessità virtù. Assicureremo a Mediocredito centrale le necessarie risorse per poi, con un fondo interbancario, intervenire per rilanciare la Pop Bari. Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica».

Da ilmessaggero.it il 15 dicembre 2019. La trasformazione di Mediocredito Centrale in una banca di investimento, che guardi con attenzione alle imprese meridionali, una banca del Sud. Con una partecipazione pubblica che passa attraverso Invitalia, che avrà un miliardo di fondi, metà dei quali saranno travasati in Mcc proprio per ricapitalizzare la Popolare di Bari. È questo il piano contenuto nel decreto che punta al salvataggio dell'istituto barese commissariato da Bankitalia e sul quale le tensioni nel governo non sono ancora completamente placate, anche se sembrano attenuarsi: Italia Viva chiede di vedere il testo che si dice pronta a votare, mentre il leader M5S, Luigi Di Maio, suggerisce di «non correre troppo» e di trasformare la banca in un istituto dello Stato, se riceverà fondi pubblici. Il pallino è in mano al premier Giuseppe Conte che punta a presentare il provvedimento in un Consiglio dei Ministri che «si terrà a breve» con «obiettivi in tempi rapidi», come quello della «creazione di una banca del Sud a partecipazione pubblica». Non è un mistero che anche il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri prema per il varo di questo decreto-ombrello prima dell'apertura dei mercati e con molta probabilità la riunione ci sarà domenica sera, anche se ci sarebbe chi chiede di attendere lunedì, quando è già in programma un Cdm sulla legge di Bilancio. «Non tuteleremo nessun banchiere», ha assicurato Conte che invece promette «la massima tutela dei risparmiatori». Il premier indica anche la strada che sarà seguita, quella della creazione di «una banca del Sud a partecipazione pubblica», così da «fare di necessità virtù». La Popolare di Bari, che ha bisogno di un miliardo di ricapitalizzazione, non sarebbe nemmeno citata nel decreto. Metà dei fondi arriverebbero dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che è uno strumento privato finanziato dal sistema bancario. L'altra metà dal Mediocredito, con una soluzione aperta anche ad altri istituti. Il passaggio dei fondi dal governo a Mcc non sarebbe però diretto, anzi. Il finanziamento, per il valore di un miliardo, sarebbe fatto su Invitalia - che di fatto si sta configurando proprio come una vera e propria 'Irì al servizio del Paese. Questa girerebbe poi metà della somma a Mediocredito, per ricapitalizzare con Fitd la Popolare di Bari. I commissari dell'istituto barese, a poche ore dalla nomina, sono già al lavoro a Bari. Hanno incontrato i dirigenti della banca mentre si aprono nuove inchieste: i procedimenti sono saliti a sette dopo che ne è stato aperto uno su segnalazione della Consob e su richiesta di un risparmiatore. Ma, ora che la strada per il salvataggio sarebbe stata individuata, restano da superare le fibrillazioni politiche. L'opposizione attacca, con il leader della Lega, Matteo Salvini, che chiede un «comitato di Salvezza Nazionale» mentre nella maggioranza Italia Viva e M5s sembrano fare tra loro il gioco del cerino. Ai renziani che non hanno fatto approvare il decreto al primo Cdm risponde Di Maio che chiede chiarezza, la trasformazione in una banca pubblica e lancia qualche strale sulla Banca d'Italia. «Vogliamo sapere da chi doveva sorvegliare cosa è emerso in questi anni. Quante sono state le ispezioni di Bankitalia negli ultimi tre anni? Cosa è emerso? Vogliamo sapere chi ha prestato soldi e a chi». A questo, promette, servirà la nuova commissione d'inchiesta sulle banche. «Bisogna eleggere il presidente. È arrivato il momento di farlo», sollecita Di Maio che promette:«si aprirà un vaso di Pandora e non vediamo l'ora».

PopBari, Conte: "Nessuna polemica. Ora una banca del Sud per gli investimenti pubblici". Di Maio contro Bankitalia. Il premier annuncia un consiglio dei ministri a breve e assicura che nella maggioranza non ci sono tensioni: con Italia viva "abbiamo chiarito, obiettivi condivisi". La Repubblica il 14 dicembre 2019. Giuseppe Conte difende l'operato del governo sul caso Banca popolare di Bariche ieri ha mandato in fibrillazione l'esecutivo. Parlando al ministero della Salute per illustrare i primi 100 giorni di attività del governo nel settore, ridimensiona le tensioni aperte dal caso Popolare di Bari nella maggioranza, annuncia che "a breve ci sarà una convocazione" del Consiglio dei ministri sulla questione, e indica come obiettivo finale dell'intervento "una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica". Luigi Di Maio - assente come tutti i 5S a parte Fraccaro al consiglio dei ministri di ieri, però poco dopo frena - "Decreto? Non corriamo. Prima bisogna fare chiarezza" -, attacca Bankitalia sui controlli: "Quante ispezioni ha ordinato? Il buco non lo ha creato un alieno" - e infine lancia la sua idea: "Se dobbiamo metterci soldi, la banca popolare di Bari diventi pubblica". Il leader 5S rilancia anche la commissione banche voluta dal Movimento: "E' ferma da un anno. Ancora bisogna eleggere il Presidente. È arrivato il momento di farlo. Quella commissione sono sicuro aprirà un vaso di Pandora. E non vediamo l'ora". "Ieri abbiamo fissato gli obiettivi che vogliamo conseguire in tempi rapidi, secondo un disegno di politica coerente che avevamo in parte già impostato, non è che improvvisiamo", dice il presidente del Consiglio. E sulle polemiche aggiunge: "Siamo un po' vivaci, ma siamo responsabili. Capisco che ci sia molta sensibilità, al limite dell'ipersensibilità sul tema banche, che è un nervo scoperto per molte forze politiche, è un tema divisivo. Quanto successo ieri è frutto di un equivoco. Tensioni tra me e Renzi? Non c'è nessuna tensione. Ci siamo sentiti, non con Renzi, ma con Marattin. Con Italia Viva gli obiettivi sono condivisi. Chi ci sarà nel cdm? Non lo abbiamo ancora fissato, non posso dire chi chi sarà". Conte spiega anche il motivo per cui la gravità della situazione non è emersa fino a ieri sera: "Ieri a Bruxelles non potevo anticipare alle telecamere quello che stava succedendo. Chiedo scusa ai cittadini, sono stato omissivo per la prima volta ma non potevo parlare a mercati aperti". E poi fornisce qualche indicazione su come si muoverà il governo: "Non tuteleremo nessun banchiere. Sollecitiamo azioni di responsabilità perché non possiamo permetterci queste situazioni, vogliamo i nomi e i cognomi dei responsabili. Interverremo attraverso uno strumento nella pancia di Invitalia, Mediocredito Centrale. Cerchiamo di fare di necessità virtù. Assicureremo a Mediocredito centrale le necessarie risorse per poi, con un fondo interbancario, intervenire per rilanciare la Pop Bari. Avremo una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica".

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 15 dicembre 2019. Questa è la storia di un crac in dieci mosse. Quanti i suoi protagonisti. Dieci. Che, come i Piccoli Indiani di Agatha Christie, non sopravvivono all' architettura che credevano incrollabile perché "too big to fail", troppo grande per fallire. Dieci. Quanti, a diverso titolo, ne hanno iscritti al registro degli indagati per falso in bilancio, false comunicazioni, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza, estorsione, i magistrati che, tre anni fa, hanno avuto il coraggio di sfidare la vischiosità del Sistema di cui la Popolare di Bari è stata ed è il perno, il Procuratore aggiunto di Bari Roberto Rossi e i sostituti Federico Perrone Capano e Lidia Giorgio. Sono Marco Jacobini, 73 anni, il padre padrone della banca, presidente del suo consiglio di amministrazione e amministratore di fatto. I suoi figli Gianluca, 42 anni, vicedirettore generale dal 2011 al 2015, quindi condirettore e direttore generale di fatto, e Luigi, 46 anni, dal 2011 vicedirettore generale. Vincenzo De Bustis Figarola, 69 anni, già direttore generale ed amministratore delegato, banchiere preceduto dalla fama di essere un highlander uscito sempre illeso da storie complicate, in Banca 121, Mps e Deutsche Bank. Che, ancora il 18 luglio scorso, dopo la pubblicazione di un' inchiesta in due puntate di Repubblica sul suo gigante dai piedi di argilla, ci querelava lamentando la «palese falsità di notizie gravemente lesive della sua immagine». Elia Circelli, 56 anni, responsabile della funzione bilancio e direttore delle operazioni della banca dal 2011. Vincenzo Marella, 53 anni, responsabile dell' internal audit. Roberto Pirola, 70 anni, ex presidente del collegio sindacale. Giorgio Papa, 63 anni, amministratore delegato dal 2015. Grazia Conti, 44 anni, responsabile della funzione compliance dal 2014 al 2016. Alberto Longo, 61 anni, presidente del collegio sindacale dal 2018. La verità sulla Popolare di Bari non si doveva conoscere. E, a Repubblica , con la querela era arrivata anche una diffida a desistere dal suo giornalismo. A «non reiterare le condotte diffamatorie» pena un risarcimento «per una somma non inferiore a 100 milioni di euro». Più o meno un decimo del buco che, ora, saranno chiamati a tamponare i contribuenti italiani per conto dei dieci indagati. E delle loro dieci mosse. Eccole, così come è possibile ricostruire da un' analisi dei bilanci, dagli atti di Consob e di Banca d' Italia e dai primi esiti del lavoro della Guardia di Finanza.

1. 2014. Tercas, la madre del Grande Rosso. Tra il 2014 e il 2015, con la benedizione della Banca d' Italia, la Popolare acquista la banca abruzzese Tercas per poco più di 300 milioni. Per farlo, contestualmente all' acquisizione, procede a un aumento di capitale attraverso la collocazione sul mercato di azioni e di obbligazioni subordinate dal rendimento spettacolare (6,5% annuo). La clientela di riferimento sono imprenditori e, soprattutto, piccoli risparmiatori, nonostante l' alto margine di rischio dei titoli. Le azioni, in quel momento, hanno un valore medio di mercato di 9,53 euro. Tercas, in realtà, non è un affare né per la Popolare, né per i suoi azionisti, né per i risparmiatori. Che ne pagheranno il costo.

2. 2014. Il primo falso in bilancio. Quanto Tercas non sia un affare è evidente assai presto. E, corre il 2015, la Banca si trova di fronte perdite per circa 250 milioni di euro che decide di occultare. Tra febbraio e aprile di quell' anno, il Cda prima, l' assemblea dei soci poi, cucinano dunque il bilancio dell' anno precedente omettendo di svalutare gli avviamenti di alcune fusioni. Ci sono, tra le altre, la Nuova banca Mediterranea, la Popolare di Calabria e, appunto, Tercas. L' operazione di maquillage consente di occultare, facendole sparire, 270 milioni di perdite.

3. 2016. L'asta per gli amici. La chiusura del bilancio 2015, non ha risolto i problemi. Anzi. Popolare sa che tra il valore reale delle azioni collocate l' anno prima e quello dichiarato, balla circa il 30 per cento. Il titolo, dunque, deve essere svalutato. Ma prima c'è da risolvere una questione. Molte di quelle azioni sono state vendute infatti a imprenditori esposti con la banca per cifre importanti. È il gioco delle "operazioni baciate" che ha già messo in ginocchio le banche venete: ti concedo un prestito a patto che ne userai una parte per acquistare le mie azioni. Accade così che, il 18 marzo, nell'ultima asta utile prima dell' assemblea dei soci del 24 aprile che svaluterà il titolo, alcuni azionisti, diciamo i più "fortunati", riescono a liberarsi delle azioni scavalcando l' ordine cronologico dei venditori. Da questo momento in poi, le azioni puntano dritte verso l' abisso. Nessuno riuscirà a venderle. Il loro valore si scioglierà come neve al sole, arrivando a poco più di 2 euro prima che le negoziazioni vengano sospese.

4. 2016. Il gioco delle imposte. Nel bilancio del 2015, Popolare lavora su un' altra voce. Perché il gioco è sempre lo stesso. Occultare le perdite o omettendone il valore o, al contrario, appostando attivi che non esistono. O, comunque, di cui non vi è certezza. In questo caso, vengono contabilizzate - a titolo di credito verso l' erario - imposte anticipate sulla perdita fiscale. Ne vengono fuori poco meno di 100 milioni.

5. 2016. Il Fondo Atlante. Anche il Fondo Atlante torna buono per aggiustare i numeri. Nel 2016, nel pieno della tempesta che sta spazzando via le banche venete, Atlante è il salvagente concepito dal governo per sottrarsi al naufragio. La Popolare partecipa al fondo per poco più di 24 milioni che, alla fine di quell' anno, si sono svalutati di un terzo (circa otto milioni e mezzo). Dunque, quella minusvalenza dovrebbe pesare nel bilancio per il 33 per cento. Al contrario, la svalutazione viene iscritta per il 25 per cento.

6. 2017. Miulli, la causa vinta che non lo era. La devotissima famiglia Jacobini merita ossequio, anche dei Santi, oltre che a loro dispetto. L' 8 maggio, come ogni anno, durante i festeggiamenti di san Nicola, patrono di Bari, la statua del santo si ferma infatti di fronte alla sede centrale della Banca. E se accade che un ente ecclesiastico, come il Miulli abbia bisogno di scontare un credito vantato nei confronti dell'Inps a valle della pronuncia di primo grado in un contenzioso amministrativo, va da sé che la Popolare sia a disposizione. La Banca sconta infatti all'ente circa 32 milioni di euro, più interessi, dando per pacifico ciò che pacifico non è. Che l'Inps continuerà a soccombere anche nei successivi gradi di giudizio. Cosa che non accadrà. Il 16 febbraio del 2017, la banca, subentrata all' Ente, viene condannata a pagare all'Inps 41,7 milioni di euro. Dovrebbe far fronte il Miulli. Ma, nel frattempo, è andato in concordato. Alla Popolare tornano solo 15 milioni. Il resto è sofferenza.

7. 2017. Investitori di carta. La situazione della Popolare, nel 2017, si è fatta già pesantissima. La banca ha sul collo la Banca d' Italia e la Consob, che chiedono spiegazioni sui bilanci, sul prezzo delle azioni, sulle loro modalità di collocamento. Sono stati infatti spacciati come navigati investitori, agricoltori ottantenni, docenti di scuole medie in pensione, casalinghe vedove, manovali con la licenza media, che avevano affidato alla banca i risparmi di una vita. In cambio, magari, di un mutuo concesso per l' acquisto di una prima casa ai figli. La Banca corre ai ripari. Agli ignari "investitori" vengono fatti firmare a posteriori moduli di accettazione del rischio. A Consob e Banca d' Italia viene raccontato che tutto è nella norma.

8. 2017. Governance di famiglia. La Popolare, sulla carta, ha, come vuole la legge, una governance che dovrebbe assicurare trasparenza e controlli interni incrociati. Ma, alla Popolare, la governance è una maschera che cela quello che sanno anche i sassi. Dentro e fuori la banca. Decide un uomo solo. Il vecchio Marco, il patriarca, che ha ereditato la banca da suo padre, e che la banca darà ai suoi due figli. Quanto allo stimato avvocato Gianvito Giannelli, non indagato e presidente al momento del commissariamento di venerdì, è suo nipote.

9. 2018. De Bustis o del "divide et impera". Marco Jacobini è uomo astuto. Quando le cose volgono al peggio, richiama in banca, come amministratore delegato, il suo vecchio direttore generale: Vincenzo De Bustis Figarola. Il banchiere capisce che la banca balla sull' orlo dell' abisso e divide la famiglia. Con un obiettivo: prendersi la Popolare. Tira a sé Luigi. Convince il patriarca a fare un passo di lato e, per provare a accreditare una discontinuità nella gestione della banca, avvia un' azione di responsabilità contro Gianluca Jacobini e altri funzionari, contestandogli la concessione di crediti facili. Come accaduto per la holding Fusillo, pugliesi di Noci (Bari). Sono a un passo dal fallimento (erano in concordato), con un buco da 200 milioni e un' esposizione con la banca per 100. La Popolare annuncia l' intenzione di «erogare nuova finanza per 40 milioni di euro».

10. 2019. Il fondo Maltese. Tra il dicembre del 2018 e il marzo 2019, l'amministratore delegato De Bustis propone al consiglio di amministrazione un' iniziativa di patrimonializzazione attraverso uno strumento che ricorda un bond per un ammontare di 30 milioni. Subito dopo, la Popolare riceve una richiesta irrevocabile di adesione da parte di una società maltese, la Muse ventures ltd. per l' intero importo: 30 milioni. Contemporaneamente, De Bustis, siamo al gennaio di quest' anno, acquista quote di un fondo lussemburghese, il Naxos plus, per 51 milioni. È un' operazione accreditata come necessaria ad aumentare il valore delle partecipazioni della Popolare e che sarebbe stata in parte coperta dall' impegno con il fondo maltese. In realtà, le cose vanno in altro modo. Il Muse è una scatola vuota, con un capitale sociale di 1.200 euro ed è riconducibile a tale Gianluigi Torzi, finanziere con una lunga coda di inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto. I 30 milioni, va da sé, da Malta non arriveranno mai, ma, dal Lussemburgo, chiedono in compenso i 51 a Bari. È l' ultima piroetta sul ciglio dell' abisso.

Teresa Bellanova, retroscena dal CdM: "Cos'ha provato a fare fino a notte, sono ossessionati". Libero Quotidiano il 16 Dicembre 2019. "Vedete Teresa Bellanova? Sono ossessionati". Dal CdM sulla crisi della banca Popolare di Bari emergono retroscena piuttosto imbarazzanti su Italia Viva. La ministra dell'Agricoltura e pugliese Doc, capodelegazione dei renziani nel governo, avrebbe insistito fino a notte, scrive il Corriere della Sera, per inserire nel titolo del decreto la parola "salvataggio" al posto di "rilancio". Un pressing che avrebbe provocato le perfide ironie dei democratici, ex colleghi di partito della Bellanova: "È la prova - sibilano riguardo ai renziani - hanno l'ossessione di Banca Etruria". Come dare loro torto, però. Per colpa di quella vicenda Matteo Renzi e Maria Elena Boschi ci hanno rimesso, di fatto, la carriera ad altissimo livello. 

Popolare di Bari, Bellanova contro Conte: “Mai vista una cosa così”. Asia Angaroni il 16/12/2019 su Notizie.it. Teresa Bellanova critica Conte per la gestione della Banca Popolare di Bari: "Non ho mai visto convocare un Cdm con una telefonata mezz'ora prima". Per il sindaco di Bari, Antonio Decaro, è a rischio il “tessuto economico” della città e della Regione, mentre il governatore Michele Emiliano si dice pronto a intervenire nell’operazione con risorse della Regione. Intanto arriva il salvataggio delle Banca Popolare di Bari. Il governo, infatti, ha approvato un decreto che stanzia 900 milioni per Invitalia affinché finanzi il Microcredito centrale. In questo modo permetterà di acquisire quote della banca. Alle dichiarazioni di Giuseppe Conte, secondo il quale non verranno difesi gli interessi dei banchieri, fanno eco le rassicurazioni del ministro Gualtieri. “Il governo è al fianco dei risparmiatori e dei dipendenti della banca”, ha dichiarato. Dopo giorni di scontri interni alla maggioranza, Conte ha riconvocato il Consiglio dei ministri per approvare il decreto stoppato nella serata di venerdì 13 dicembre dalle tensioni tra Matteo Renzi e Luigi Di Maio. Tuttavia, Teresa Bellanova continua a esprimere il suo malcontento riguardante la cattiva gestione del caso da parte del premier Conte.

Popolare di Bari, critiche della Bellanova. “A meno di eventi gravissimi e improvvisi, e non è questo il caso, non ho mai visto convocare un consiglio dei ministri con una telefonata mezz’ora prima“, attacca il ministro dell’Agricoltura, capodelegazione di Italia Viva nel governo. “Ero rimasta a Roma fino a pomeriggio inoltrato, disdicendo un’iniziativa in Puglia alla quale tenevo molto. Quando l’ho saputo ero in viaggio”, ha spiegato. E ancora: “Non c’era stata la convocazione di un preconsiglio per esaminare un decreto che a oggi nessuno di noi ha visto”. La Bellanova assicura che l’assenza dei fedelissimi renziani al Consiglio dei ministri non è stata appositamente orchestrata come replica agli attacchi subiti su Banca Etruria. A Repubblica, infatti, ha dichiarato: “Agguato? E a chi? Comprendo l’imbarazzo, ma proprio per questo inviterei tutti a stare al testo. Nel confronto di maggioranza dei giorni scorsi si era deciso: nessun intervento pubblico prima di quello dell’autorità di vigilanza con la destituzione del management e nessun decreto prima di assumere decisioni definitive. Lo stesso Conte venerdì ha detto: nessun decreto. Tranne convocare poche ore dopo in fretta e furia, prima della notizia del commissariamento da parte di Bankitalia, il Cdm”. Secondo la Bellanova il metodo usato dal premier Conte è “discutibile”.

Marco Conti per “il Messaggero” il 16 dicembre 2019. Ci risiamo, ma stavolta non è un solo partito della maggioranza a scagliarsi contro Bankitalia, ma due. Italia Viva e M5S hanno duellato sino al consiglio dei ministri di tarda sera sul nome del decreto di salvataggio della Popolare di Bari. Su una cosa sembrano essere però d'accordo quando, seppur con toni diversi, si chiedono la Banca d'Italia, con i suoi poteri ispettivi, non ha avvisato in tempo dei comportamenti dei vertici della Banca Popolare di Bari. All'attacco a via Nazionale si unisce dall'opposizione Matteo Salvini che rilancia la riforma di Palazzo Koch messa a punto dal precedente governo gialloverde e, per mettere ancor più in difficoltà Di Maio, si dice pronto a votare anche Elio Lannutti alla presidenza della Commissione Banche. Un vortice di polemiche che resta fuori dal Consiglio dei ministri di ieri sera, convocato la seconda volta in due giorni dopo le polemiche assenze di venerdì sera di grillini e renziani. Stavolta il presidente del Consiglio si cautela e invia la bozza del decreto per il salvataggio della Popolare di Bari qualche ora prima, in modo che tutti i partiti possano esaminare il testo finale prima della riunione. Stavolta M5S e IV non disertano la riunione, ma proseguono a scontrarsi perché secondo i renziani il decreto parla della nascita di una banca d'investimento quando invece si tratterebbe di un salvataggio molto simile a quello fatto dai governi Renzi per Banca Etruria e dall'esecutivo Gentiloni per Mps, ai quali i grillini «devono chiedere scusa». E la parola «salvataggio» la ministra Bellanova chiede che venga messa nel titolo del decreto, ma ottiene solo una diluzione del testo dove la parola investimenti finisce in fondo. Oggi l'ex segretario del Pd, e leader di IV, parlerà al Senato in occasione delle dichiarazioni di voto sulla manovra di Bilancio, e tornerà sul tema rinnovando le critiche espresse a suo tempo sull'operato di via Nazionale e sui vertici dell'Istituto riconfermati dal suo successore a palazzo Chigi, malgrado la contrarietà dell'attuale leader di Italia Viva. Di Maio non è da meno e, oltre a rilanciare la commissione d'inchiesta sulle banche, chiede di avere i verbali delle ispezioni per sapere se ci siano stati «omessi controlli» e lancia liste di proscrizione malgrado ci siano delle inchieste della magistratura. Il Pd, che a febbraio dello scorso anno votò l'istituzione della Commissione, osserva con irritazione lo scontro tra alleati e l'attacco all'autonomia di Bankitalia che finirà col coinvolgere anche la Consob, i cui vertici sono stati cambiati dal governo M5S-Lega. Un tentativo di proteggere Bankitalia lo fa Conte leggendo in consiglio un resoconto di tutte le attività ispettive di via Nazionale dal 2010 che confermano l'attenzione con la quale l'Istituto è stato vigilato. Resta il fatto che nella maggioranza il clima è pessimo. Raccontano al Nazareno che Nicola Zingaretti è pronto anche alla crisi se non otterrà al più presto un chiarimento. I Dem spiegano che, oltre ad essere contrari a mettere nel tritacarne Bankitalia, questa sera nella riunione di maggioranza convocata da Conte per affrontare i nodi prescrizione e autonomie, Dario Franceschini andrà giù duro con gli alleati. Ma anche con Conte che i Dem accusano di non sapersi imporre su IV e M5S. Per questi ultimi «ogni occasione è buona per scontrarsi», ragionano i Dem. Secondo un ministro Dem «è difficile scommettere sulla durata» di un governo sorretto da «un partito che rincorre la propaganda dell'ex alleato» e un altro «mosso dal rancore» e «in perenne regolamento di conti». Senza contare che il tentativo di far partire la commissione banche - ferma da febbraio perché ancora senza presidente dopo la bocciatura dei senatori Paragone e Lannutti - nel pieno delle polemiche e nel bel mezzo di un salvataggio, non aiuta la credibilità di un Paese dove la politica, e non il lavoro della magistratura, mette in discussione l'autonomia della propria banca centrale. A suo tempo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella tenne ferma la legge istitutiva della commissione d'inchiesta per un mese, salvo poi accompagnare la firma da una lettera nella quale si fissavano precisi paletti. «Occorre evitare - scriveva Mattarella nel marzo scorso in una lettera al Parlamento - il rischio che il ruolo della commissione finisca con il sovrapporsi, quasi che si trattasse di un organismo ad esse sopra ordinato all'esercizio dei compiti propri di Banca d'Italia, Consob, Ivass, Covip, Banca Centrale Europea».

Banca popolare di Bari, Paragone: "Tutti promossi gli uomini che non videro il buco". Il senatore del Movimento 5 Stelle: "Salvare i risparmiatori? Il governo sta zitto e il presidente del Consiglio va a cena con il governatore di Bankitalia". Francesca Bernasconi, Lunedì 16/12/2019, su Il Giornale. Una perdita netta di oltre 73 milioni di euro. Eppure, sembra che nessuno di Bankitalia pagherà per non essersi accorto del buco della Banca popolare di Bari. "Salveremo i risparmiatori", dicono da Palazzo Chigi ma, secondo quanto sostiene il senatore del Movimento 5 Stelle, Gianluigi Paragone, "il vero salvataggio ancora una volta sarà per il sistema Bankitalia". Gianluigi Paragone spiega, in un video che ha postato su Facebook, prima del suo intervento a In mezz'ora, come la questione della Banca popolare di Bari sia diventata problematica dopo l'acquisto della TerCas, cioè la cassa di risparmio di Teramo. I vertici di Bankitalia approvarono l'acquisto, sottovalutando le perdite della cassa di risparmio e affidando il nuovo polo bancario alla famiglia Jacobini, storica della popolare di Bari. E questo, "è il primo errore di Bankitalia". Poi, vengono effettuate diverse ispezioni, prima nel 2016/2017 e successivamente nel 2019: in nessuno di questi controlli, Bankitalia rileva criticità. Ma anche questo sarebbe un errore, dato che "le cose non andavano bene per niente". Infatti, era già saltato il primo cliente della Popolare di Bari, senza che la dirigenza si chiese cosa stesse succedendo, nonostante fossero in corso le ispezioni. E ora, chi non si è accorto delle criticità di TerCas pagherà? "La verità- continua Paragone- è che il governo sta zitto sui nomi e il presidente del Consiglio va a pranzo e cena con il governatore di Bankitalia". E Paragone fa nomi e cognomi degli uomini responsabili di non essersi accorti del buco. Così, Iganzio Visco, governatore di Bankitalia, resterebbe al suo posto, nonostante "abbia visto fallire la metà delle banche", Salvatore Rossi, il cui occhio sulla TerCas fu fondamentale per guidare la fusione, sarebbe stato nominato presidente di Tim, alla vigilia di importanti operazioni finanziarie, secondo quanto riporta il Tempo. E ancora, Fabio Panette, direttore generale di via Nazionale sarebbe vicino ad entrate nella Bce come membro effettivo, mentre Carmelo Barbagallo, ex capo della Vigilanza di Bankitalia, è passato alla guida dell'Autorità di informazione finanziaria del Vaticano. Infine Lanfranco Suardo, che guidava le ispezioni su Bari, è stato promosso a novembre. Tutti salvi, quindi. "Alla fine nessuno paga", conclude Paragone.

La Banca Popolare di Bari fa ballare di nuovo il governo. Banche e politica. Scontro a tutto campo Italia Viva-Pd-M5S. Un miliardo per trasformare l’istituto in pubblico. Roberto Ciccarelli il 14.12.2019 su Il Manifesto. Dopo l’Ilva di Taranto, la Banca Popolare di Bari. Un’altra grana pugliese è scoppiata sotto il tavolo traballante del governo giallorosso sotto il quale si agitano gli spiriti di una crisi strisciante che promette una settimana di fuoco mentre si approva la legge di bilancio al Senato. La storia: venerdì è stato convocato un consiglio dei ministri last-minute. In discussione c’erano alcune misure urgenti per la realizzazione di una «banca di investimento», in realtà si trattava del salvataggio della banca. Solo poche ore prima la convocazione d’urgenza il presidente del Consiglio Giuseppe Conte aveva escluso interventi di salvataggio spiegando che «al momento non c’è nessuna necessità di intervenire con nessuna banca». Ieri mattina invece ha annunciato la volontà di creare «una sorta di Banca del Sud degli investimenti a partecipazione pubblica» a partire dalla Popolare di Bari. Si sta pensando a un decreto, da adottare con un Consiglio dei ministri nelle prossime ore (forse), con uno stanziamento di un miliardo, la metà da destinare al Mediocredito centrale controllato da Invitalia. Quest’ultima dovrebbe partecipare al rilancio della Banca popolare di Bari insieme al Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd). «Una cosa è certa – ha detto Conte – L’intervento pubblico non sarà a favore dei banchieri».

IL REPENTINO cambio di prospettiva è stato spiegato da Conte in questi termini: sono stato «omissivo» nella prima dichiarazione «per non creare allarme con i mercato aperti e per il segreto d’ufficio». Conte si è detto a conoscenza del commissariamento disposto da Bankitalia e si è «scusato». Questa condotta sembra invece avere creato panico e dissidi nella sua maggioranza. Lo ha fatto notare la ministro delle politiche agricole Teresa Bellanova che venerdì stava andando in Puglia dicendosi rassicurata dalle dichiarazioni di Conte, mentre invece è stata richiamata a Roma per partecipare a un consiglio dei ministri che doveva intervenire su una situazione opposta. Nelle agitate ore notturne alcune fonti di governo hanno fatto sapere che sia i renziani che i Cinque Stelle sapevano, si erano tenute varie riunioni. E c’è anche chi sostiene che il provvedimento avrebbe dovuto essere adottato due settimane fa. «Non ho capito perché Italia Viva ha fatto saltare il Cdm. Tocca darsi una calmata» ha detto Nicola Fratoianni (LeU). «Non si può scherzare con il fuoco» ha aggiunto il ministro della Salute Roberto Speranza (LeU). Dal Pd fanno sapere che i renziani fanno «propaganda» e che « la responsabilità ha un limite». Un avvertimento da parte di chi è rimasto con il cerino in mano. «Con Italia Viva abbiamo chiarito – ha detto Conte – Siamo un po’ vivaci ma responsabili. Le banche sono un nervo scoperto, è un tema divisivo».

COSÌ «DIVISIVO» che i Cinque Stelle hanno pensato di rallentare il decreto già dato per certo. «Non corriamo. Prima bisogna fare chiarezza» ha detto Luigi Di Maio assente i venerdì. Di parere diverso è il ministro per gli affari regionali Francesco Boccia (Pd e pugliese): «La posizione del ministro dell’economia Gualtieri è condivisa, l’ipotesi di un ingresso di Mediocredito centrale per rilanciare la banca è condivisibile». Di Maio, invece, è partito all’attacco di Bankitalia sui controlli: «Il buco non lo ha creato un alieno». E ha rilanciato la commissione banche. «Sono sicuro che aprirà un vaso di Pandora. E non vediamo l’ora». Allusione che ha irritato i renziani: «Ci hanno insultato come amici delle banche e oggi mettono soldi del contribuente per una banca e ci accusano di irresponsabilità perché vogliamo studiare il decreto» sostengono Bellanova e Ettore Rosato. Salvini, in campagna elettorale, sarà oggi alla fiera del Levante di Bari in un’iniziativa contro il governatore pugliese Michele Emiliano. Il leghista ha proposto anche un «comitato di salvezza nazionale» alle altre forze politiche. «Se salta la popolare di Bari salta la Puglia». Il «vaso di Pandora» è stato già aperto e gli spiriti giallorossi ballano vivaci sulla crisi di governo.

CON 17 MILIARDI di fatturato, sette miliardi nei conti correnti ripartiti tra 69.092 persone (nel 2018) e il 70% delle sua rete di filali concentrate al Sud, la Banca Popolare di Bari fondata nel 1960 dalla famiglia Jacopini è quello che Veneto Banca e la Popolare di Vicenza erano per il Veneto, o quello che Carige è per la Liguria: uno dei riferimenti per le imprese del territorio, e non solo. La Banca d’Italia ha sciolto gli organi con funzioni di amministrazione e controllo della banca e ha nominato Enrico Ajello e Antonio Blandini commissari straordinari. Nel capoluogo pugliese ieri è avvenuto un primo «incontro tecnico» con la dirigenza uscente della banca. La procura di Bari ha aperto due fascicoli che si aggiungo ad almeno altre cinque indagini in corso sulla gestione dell’istituto di credito. Il primo, senza indagati né ipotesi di reato, è seguito all’esposto della Consob che ha lamentato il mancato invio delle informazioni sulla situazione dei conti. Il secondo è stato aperto a seguito di un esposto presentato il 15 novembre scorso da un azionista che riguarderebbe gli aumenti di capitale del 2014 e del 2015. Il riferimento è anche alla vicenda Tercas, già al centro di un’altra inchiesta in cui sono indagate dieci persone, tra le quali l’amministratore delegato Vincenzo De Bustis e l’ex presidente Marco Jacobini. Le indagini riguardano anche i crediti deteriorati e inesigibili che avrebbero causato le principali perdite.

SONO DUE MILIARDI di crediti deteriorati lordi in discussione, oltre il 20% degli impieghi, una somma più che doppia rispetto alla media del sistema bancario italiano. L’ultima svalutazione importante di questi crediti risale al 2018 ed è costata 245 milioni. Nello stesso anno è stata registrata una perdita per oltre 400 milioni. La situazione è precipitata nella semestrale del giugno scorso quando la banca ha presentato coefficienti di vigilanza inferiori alle soglie minime previste (Tier 1 capital ratio 9,453%, total capital ratio 11,771%). Ai correntisti sono stati mandati messaggi rassicuranti; non dovrebbero esserci conseguenze per loro.

MENO TRANQUILLI sono gli azionisti e gli obbligazionisti perché rischiano di fare la fine di quelli del Monte dei Paschi di Siena o di quelli di Banca Marche, CariChieti, CariFerrara e Banca Etruria. In circolazione ci sono infatti tre bond subordinati: uno vale 6 milioni e scade il 27 novembre 2020; un altro 15 milioni di euro e scade nel 2025; il terzo è di oltre 213 milioni, paga una cedola del 6,5% e scade a dicembre 2021. Sono in migliaia ad averli sottoscritti. Sarebbero strumenti difficilmente rimborsabili in caso di default. Siti, il sindacato italiano per la tutela dell’investimento e del risparmio di Milano, sostiene di avere avviato un’iniziativa a favore degli azionisti e degli obbligazionisti» per il risarcimento del danno subito. Nella crisi potrebbero essere colpiti anche i lavoratori. De Bustis ha parlato di un maxi-taglio del personale: degli attuali 2.707 dipendenti potrebbero restare in ottocento.

Il Governo salva la Banca Popolare di Bari: 900 milioni di contribuenti per salvarla. Il Corriere del Giorno il 16 Dicembre 2019. Approvato dal consiglio dei ministri il decreto . Sì all’azione di responsabilità nei confronti degli ex vertici. Lunedì riapre Piazza Affari e gli oltre 350 sportelli della Popolare di Bari. Andare oltre la “dead line” di ieri sera sarebbe stato più che un autogol e si sarebbe esposta la banca a fughe di risparmi, a un’emorragia di clienti e depositi. Salvini: “Si troveranno per parlare della Banca popolare di Bari: io voglio vedere in galera quelli che hanno rubato i risparmi dei lavoratori pugliesi, degli imprenditori pugliesi. ROMA – Con il decreto sulla Banca Popolare di Bari approvato nella tarda serata di ieri il Governo ha stanziato un finanziamento ad Invitalia “fino a un importo complessivo massimo di 900 milioni per il 2020“, per rafforzare il patrimonio del Mediocredito Centrale “affinché questa promuova, secondo logiche di mercato, lo sviluppo di attività finanziarie e di investimento, anche a sostegno delle imprese nel Mezzogiorno, da realizzarsi anche attraverso il ricorso all’acquisizione di partecipazioni al capitale di società bancarie e finanziarie, e nella prospettiva di ulteriori possibili operazioni di razionalizzazione di tali partecipazioni“. Lunedì riapre Piazza Affari e gli oltre 350 sportelli della Popolare di Bari. Andare oltre la “dead line” di ieri sera sarebbe stato più che un autogol e si sarebbe esposta la banca a fughe di risparmi, a un’emorragia di clienti e depositi. “Questo decreto salva i risparmiatori, ma nessuna pietà per i manager e gli amici degli amici“, dice Di Maio che finge di dimenticare l’incoerenza del M5S che in passato aveva sempre criticato i salvataggi delle banche effettuati dai governi del centrosinistra, quando i grillini stavano all’opposizione. Nel decreto di stanotte che ha visto trasformato il titolo durante il CdM con l’inserimento del riferimento al Sud, è stata prevista la creazione di una Banca di investimento pubblica; “Misure urgenti per il sostegno al sistema creditizio del mezzogiorno e per la realizzazione di una banca di investimento” il titolo,  mentre la relazione tecnica allegata al documento evidenziava la “dimensione eccessivamente contenuta” degli istituti del Meridione, e sottolineava che le norme previste possono “contribuire a ridurre il divario di sviluppo economico tra il Mezzogiorno e le regioni del Centro-Nord”. Le risorse per il salvataggio della Banca Popolare di Bari arrivano dal fondo del ministero dell’Economia destinato “alla partecipazione al capitale di banche e fondi internazionali“. Le risorse sono “iscritte sul capitolo 7175 dello stato di previsione del ministero dell’Economia e delle Finanze”, rifinanziato per il 2020 “con la Sezione II” della legge di bilancio approvata nel 2018. “In base al decreto verrà disposto un aumento di capitale che consentirà a MCC, insieme con il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) e ad eventuali altri investitori, di partecipare al rilancio della Banca Popolare di Bari (BPB), confermando così la determinazione del Governo nel tutelare i risparmiatori, le famiglie, e le imprese supportate dalla BPB“, si legge nel comunicato finale del Cdm. Prevista la costituzione di una Banca di Investimento, che nascerebbe dalla "scissione" delle acquisizioni fatte dal Mediocredito Centrale. La formazione passerà attraverso un decreto con il quale il Ministero dell’Economia acquisirà attività e partecipazioni, con l’intero capitale sociale, senza dovere alcun corrispettivo. Le operazioni saranno realizzate in un regime di esenzione fiscale. Nel documento si prevede anche l’azione di responsabilità nei confronti dei vertici della Popolare di Bari. Ed eventualmente ci sarà l’impegno, da parte dell’esecutivo, su eventuali prepensionamenti, qualora nel piano industriale questi si rendessero necessari. Positivo il parere del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: “Il governo è al fianco dei risparmiatori e dei dipendenti della banca e delle imprese da questa sostenute ed è impegnato per il suo rilancio a beneficio dell’economia del Mezzogiorno”. Il leader della Lega, Matteo Salvini, in un comizio a Bari nel pomeriggio di ieri, ha attaccato Bankitalia: “Sulla Banca Popolare di Bari qualcuno doveva vigilare. Spero che il Parlamento approvi il prima possibile la proposta di legge firmata dalla Lega e anche dai Cinquestelle per riformare la Banca d’Italia e farla passare attraverso il Parlamento, quindi attraverso il popolo italiano“. Salvini è andato giù molto “duro”: “Si troveranno per parlare della Banca popolare di Bari: io voglio vedere in galera quelli che hanno rubato i risparmi dei lavoratori pugliesi, degli imprenditori pugliesi. Voglio vedere in galera quelli che stanno rubando il futuro agli operai dell’Ilva di Taranto“. La Procura di Bari ha aperto un nuovo fascicolo d’indagine (modello 45 senza indagati né ipotesi di reato) di fatto esplorativo sulla Banca Popolare di Bari dopo la lettera inviata nei giorni scorsi dalla Consob che ha segnalato il mancato invio delle informazioni richieste alla banca sulla situazione dei conti. La notizia proviene da fonti vicine agli ambienti giudiziari. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, dovrà valutare se quanto segnalato da Paolo Savona, presidente della Consob,  configuri ipotesi di reato.

Da “Libero quotidiano” il 15 dicembre 2019. Sarà Bernardo Mattarella, nipote del capo dello Stato, a guidare il salvataggio della Popolare di Bari. È lui infatti l' amministratore delegato del Mediocredito centrale, che dovrebbe entrare nel capitale dell' istituto barese dopo aver ricevuto una iniezione di fondi pubblici dal proprio azionista Invitalia. Nel primo semestre dell' anno Mediocredito centrale ha registrato una perdita di 73 milioni. L' intervento in aiuto della PopBari permetterebbe il contestuale intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi.

Precisazione. In riferimento all'articolo si precisa che il MedioCredito Centrale nel primo semestre ha registrato un utile netto di 7,7 milioni che, al 30 settembre, è salito a 16,2 milioni di euro.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 16 dicembre 2019. Nell' inchiesta del Procuratore aggiunto Roberto Rossi, e dei sostituti Federico Perrone Capano e Lydia Giorgio, sul crac della Banca Popolare di Bari balla una domanda cui i pm non hanno ancora trovato risposta. Quella, come hanno già cominciato a dire alcuni degli azionisti della maggioranza di governo (Di Maio e Renzi), che sarà al centro dell' agenda politica dopo che il salvataggio per mano pubblica della banca verrà completato. E che, all'osso, è questa: come si è potuti finire nel baratro? Quale vigilanza ha esercitato Banca d' Italia? È un fatto che i vertici della Popolare, sicuramente a partire dal 2014, abbiano sistematicamente ostacolato il lavoro ispettivo di Palazzo Koch. Ed è un fatto che, ciò nonostante, la Banca centrale avesse per tempo perfettamente compreso che qualcosa di molto serio non funzionasse nel più grande Istituto di credito del Mezzogiorno. Perché, dunque, nulla è accaduto fino a venerdì scorso, quando è stato disposto il commissariamento? Repubblica ha avuto accesso agli atti ispettivi di Bankitalia, al suo carteggio con la Popolare, alle relazioni della Consob. E la sequenza di eventi che se ne ricava è questa.

La prima ispezione. L' 8 ottobre del 2010, quale conseguenza dell'ispezione che aveva condotto sui conti della Popolare il 4 maggio di quell' anno, la Banca d' Italia dispone il blocco di ogni iniziativa di espansione dell' istituto. Non potrà insomma procedere all' acquisizione di altre banche. Già in quel momento, infatti, l' eventuale crescita della Popolare non viene ritenuta sufficientemente sostenuta dai fondamentali di bilancio, né da un' adeguata trasparenza di una governance ridotta di fatto ad affare della famiglia Jacobini (Marco, il patriarca, Gianluca e Luigi, i figli). E che la situazione non cambi, anzi peggiori, lo documentano le successive ispezioni. Come quella che, nella primavera del 2013, censura il modello di erogazione dei crediti ai clienti di riguardo della Popolare. Gli stessi crediti che si trasformeranno rapidamente in sofferenze inesigibili e che oggi impiombano i conti della banca. Scrivono infatti in quel 2013 gli ispettori: «Relativamente alla gestione dei rapporti con i gruppi Fusillo, Curci e la società da essi costituita nel 2012, Maiora Group S.p.a., già all' attenzione della vigilanza per il consistente supporto sotto varie forme fornito dalla banca, sono stati riscontrati ripetuti interventi creditizi non sempre sufficientemente vagliati né esaustivamente rappresentati al consiglio. In generale l' esposizione verso i citati gruppi, che è di ben 177 milioni nel 2008, al 30 giugno si è attestato a 638 milioni nonostante negli anni la banca abbia acquistato da società sovvenute cespiti per 152 milioni, dei quali 131 milioni attraverso fondi immobiliari». Quella di Fusillo, peraltro, sarà anche una delle ultime sconsiderate linee di credito aperte in questi ultimi due anni (la holding aveva già portato i libri in tribunale). Soprattutto dimostra, già in quel 2013, quello che persino il tollerante collegio sindacale della Popolare, all' epoca segnala. Che quelle linee di credito siano «particolarmente rischiose perché concentrate sempre su quegli stessi gruppi», «con l' effetto di porre la banca al di fuori dei limiti imposti dalle norme bancarie che impongono di frazionare il rischio al fine di non concentrare l' esposizione su stessi soggetti ma diversificarla ».

Gli stipendi d'oro. Ma restiamo ancora in quel 2013. Perché, il 9 settembre, gli ispettori di Bankitalia che tornano alla Popolare evidenziano quattro anomalie che dovrebbero scrivere già allora la parola fine alla banca così come conosciuta e governata sin lì dagli Jacobini. È accaduto infatti che, mentre rastrella i risparmi di una vita ai piccoli investitori-correntisti, la governance abbia alzato generosamente i propri emolumenti. I compensi al Consiglio di amministrazione si sono triplicati, attestandosi a oltre un milione e 400mila euro. Mentre il patriarca e presidente Marco Jacobini, «nonostante la Banca d' Italia avesse invitato a contenere il compenso entro i livelli assegnati in precedenza, 200 mila euro circa - scrivono gli ispettori - si è visto riconoscere dal consiglio una retribuzione annua di 600 mila euro». C' è di più. Nel verbale ispettivo del 9 settembre si denunciano: «L' assenza di un ruolo incisivo da parte dei comitati con responsabilità in tema di governance, tutti presieduti da esponenti presenti in azienda da tempo»; «la mancata sostituzione del dottor Marco Jacobini, nominato Presidente del Consiglio di Amministrazione (cessata la carica di Amministratore Delegato) che amplifica di fatto l' esigenza di presidiare accuratamente i potenziali conflitti di interesse all' interno della banca»; la «farraginosità dell' iter decisionale su tematiche di competenza dei due Vicedirettori (i figli Gianluca e Luigi, ndr ) dovute all' adozione di misure quali l' allontanamento dalle riunioni o l' astensione del Presidente per ovviare alle situazioni di conflitto, che limitavano nel contempo la funzione di coordinamento nei lavori consiliari da parte della figura del Presidente»; «l' assenza di un adeguato sistema di controlli interni che necessita di ulteriori provvedimenti e di maggiore potenziamento con la istituzione della figura del Chief Risk Officer, responsabile della funzione di Risk Management, dotato di effettive autonomia ed autorevolezza». La sanzione revocata Le anomalie riscontrate dagli ispettori di Bankitalia sono non solo gravi ma analoghe a quelle riscontrate a partire dal 2010. Le sanzioni appaiono a questo punto scontate. Ma, proprio in quel 2013, l' organo di vigilanza di Palazzo Koch non solo non ne commina nessuna. Ma dispone addirittura la revoca del provvedimento di blocco all' espansione della banca assunto nel maggio di tre anni prima. Perché? Negli atti acquisiti dalla Guardia di Finanza nell' inchiesta della Procura di Bari, allo stato, c' è soltanto una traccia. Documentata nel verbale del consiglio di amministrazione della Popolare del 17 ottobre del 2013. Quel giorno, Marco Jacobini, informa i consiglieri che «la vigilanza centrale di Bankitalia ci ha sollecitato a intervenire nell' operazione di salvataggio di Banca Tercas». È l' istituto abruzzese in quel momento sull' orlo del crac. Con cui Bankitalia è esposta per 480 milioni, il finanziamento concesso per tentare un primo salvataggio che però non era riuscito. È così? Il presidente Marco Jacobini bluffava o era sincero? Le prossime settimane e il prosieguo dell' inchiesta forse daranno una risposta. Sicuramente è intorno al nodo dell'acquisizione di Tercas che si giocherà la partita delle responsabilità del crac, tra amministratori e vigilanza. Lo sa bene uno dei due nuovi commissari scelti da Bankitalia per la Popolare: Antonio Blandini, che nel 2012 fu chiamato a far parte, sempre da via Nazionale, proprio del comitato di sorveglianza di una banca appena commissariata: la Tercas.

Quattro inchieste della procura sulla Popolare di Bari: spese allegre e fidi milionari anche alla Gazzetta del Mezzogiorno

Features.  Il Corriere del Giorno il 15 Dicembre 2019. La Guardia di finanza sta verificando documento per documento. I primi esposti e denunce furono presentate nel 2010. Ipotizzati anche bilanci “taroccati”. E’ la fine del regno controllato dalla famiglia Iacobini . Secondo fonti interne all’indagine vi sarebbero anche alcune operazioni a rischio, consentite dai vertici della banca barese che riguarderebbero dei finanziamenti “allegri” al quotidiano barese LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO del quale la Popolare di Bari detiene in pegno anche le azioni. Le prime accuse di cui si ha conoscenza, avanzate dalla magistratura barese risalgono al 2010  nei confronti dei vertici della Banca Popolare di Bari che si sono succeduti nel tempo nella gestione dell’istituto di credito barese. Dieci anni di fidi milionari “allegri” concessi senza garanzie, bilanci “ritoccati”, azioni a rischio proposte e vendute a ignari correntisti, quasi sempre pensionati che investivano investire i risparmi accantonati nella loro vita. Le indagini avviate sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Roberto Rossi sono almeno quattro. Una ispezione di Banca Italia nel 2011 evidenziò la spartizione di deleghe in casa Jacobini, fra il padre Marco presidente e i due figli direttori centrali ed aggiungeva: “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti ed ex componenti del CdA e del direttore generale (…) Carenze nei controlli da parte dei componenti il collegio sindacale “. Vennero sanzionati i componenti dei due organi con 238 mila euro e richiesta di cambiare il vertice.  Due anni dopo nel 2013 una nuova ispezione della vigilanza di Banca Italia portò alla luce la facilità di erogare credito da parte della banca verso certi grandi clienti locali, di “finanziamenti non sufficientemente vagliati”. L’ultima indagine aperta è quella relativa alla sospetta operazione di aumento di capitale, con una emissione obbligazionaria da 30 milioni di euro, tentata circa un anno fa,  – impiantata dall’attuale amministratore delegato Vincenzo de Bustis Figarola– che sarebbero stati sottoscritti da una società maltese, operazione questa avviata nel periodo intercorrente tra il dicembre 2018 ed il marzo 2019, che non si è mai concretizzata,  gettato nuove ombre sulla gestione della banca. Tra il dicembre del 2018 e il marzo 2019, l’amministratore delegato De Bustis propose al consiglio di amministrazione un’iniziativa di patrimonializzazione attraverso uno strumento che ricorda un bond per un ammontare di 30 milioni. Subito dopo, la Popolare ricevette una richiesta irrevocabile di adesione da parte di una società maltese, la Muse Ventures ltd. per l’intero importo: 30 milioni.

Le crisi bancarie e i salvataggi (fonte: Corriere della Sera, 15 dicembre 2019) De Bustis, a gennaio di quest’anno ha acquistato quote di un fondo lussemburghese, il Naxos plus, per 51 milioni. È un’operazione accreditata come necessaria ad aumentare il valore delle partecipazioni della Popolare e che sarebbe stata in parte coperta dall’impegno con il fondo maltese. Ma alla fine le cose vanno in altro modo. Muse è una “scatola” vuota, con un capitale sociale di appena 1.200 euro ed è riconducibile a tale Gianluigi Torzi, finanziere con una serie di precedenti ed inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto. I 30 milioni, va da sé, da Malta non arriveranno mai, ma, dal Lussemburgo, chiedono in compenso i 51 a Bari.  Vincenzo De Bustis  amministratore delegato fino a giovedì scorso, ex direttore generale nel 2011 della stessa Popolare, è stato direttore generale di MPS e poi di Deutsche Bank Italia, era già conosciuta in Puglia per la sua disastrata esperienza della “Banca 121″ o “Banca del Salento” dei “Bot Strike “, “My Way” e “4 You”, tutti finiti male. Il suo slogan preferito era “Bisogna fare le cose ieri”. Cosa che a Bari non ha mai fatto. In questa inchiesta vi sono ancora tante cose da accertare ed approfondire, mentre continua speditamente quella per la quale la Procura di Bari ha notificato alcune settimane fa a De Bustis ed all’ex presidente Marco Jacobini ed altre 8 persone, una proroga delle indagine per i reati di “false comunicazioni sociali“, “falso in prospetto” ed “ostacolo alle funzioni di vigilanza“, oltre a una ipotesi di maltrattamenti su un ex dipendente contestata a Luigi Jacobini, dal 2011 vicedirettore generale, figlio dell’ex-presidente. Un altro della “famiglia” sistemato ai vertici della banca è Gianluca Jacobini vicedirettore generale dal 2011 al 2015, quindi condirettore e direttore generale di fatto sinora.

Uno stralcio dell’indagine è stata archiviata nel marzo 2018 che faceva riferimento ad una ipotesi di una associazione per delinquere finalizzata a truffare i correntisti. Sono invece andati avanti sulle restanti contestazioni Gli accertamenti disposti dai pm Lydia Giorgio e Federico Perrone Capano della Procura di Bari, sono stati delegati alla Guardia di Finanza . Il sospetto degli inquirenti baresi è che la Popolare di Bari abbia depositato  bilanci poco trasparenti e non del tutto rispondenti al vero alla Consob, soprattutto per quanto riguarda la quantificazione dei crediti. Si indaga anche sulla vicenda dell’acquisizione di Banca Tercas.

Il bilancio della Banca Popolare di Bari (fonte: Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2019). Ai vertici dell’istituto di credito sono state però state contestate singole condotte di presunti raggiri a danno dei soci e correntisti,  a partire da quella al centro dell’indagine per una presunta truffa aggravata da 130 mila euro commessa ai danni di una contribuente 84enne, conclusasi nei mesi scorsi,  che dieci anni fa sarebbe stata commessa  in concorso da cinque persone, l’allora presidente del Cda, Marco Jacobini, l’ex direttore generale, oggi amministratore delegato, Vincenzo De Bustis Figarola, l’ amministratore delegato all’epoca dei fatti, Giorgio Papa e due funzionarie dell’istituto di credito, Alessandra Domenica Siletti, ed Alfonsa Zotti.  Quanto all’ultimo presidente al momento del commissariamento di venerdì, lo stimabile avvocato Gianvito Giannelli, sposato peraltro con un magistrato, è il nipote di Marco Jacobini ma al suo contrario, non risulta indagato. Come si legge riportato dal capo di imputazione “l’avrebbero indotta ad acquistare prodotti finanziari ad elevata rischiosità per 130mila euro, con artifizi e raggiri, profittando della particolare situazione di vulnerabilità” della 84enne, “così procurando alla Banca un ingiusto profitto con rilevante danno patrimoniale” della cliente, “determinato dalla svalutazione dei suddetti prodotti (svalutazione allo stato ancora in corso) e dalla impossibilità di monetizzarli, con conseguente incapacità della stessa di accedere ai propri risparmi di una vita”. La seconda inchiesta, trasmessa ormai un anno fa per competenza da Bari a Roma, riguarda la vicenda del Bari Calcio e lo “stratagemma“, come lo definivano i pm baresi, usato dall’ex patron della società sportiva Cosmo Giancaspro con la complicità di alcuni funzionari della Banca Popolare di Bari per evitare una penalità per la squadra fornendo documenti retrodatati alla Covisoc (Commissione di Vigilanza sulle società di Calcio Professionistiche). C’è anche  l’inchiesta coordinata dal pm Lanfranco Marazia che riguarda il fallimento di due società del gruppo Fusillo di Noci (Bari) per quale al momento i vertici della Popolare di Bari non risultano indagati,  che a luglio ha portato gli investigatori della Guardia di Finanza ad eseguire perquisizioni nella sede della direzione generale della banca,  che “hanno consentito di far emergere il ruolo della Banca Popolare di Bari quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l’istituto di credito per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite negli anni”. E’ dal 2015 che i risparmiatori in Italia vengono lasciati in balia di banchieri e bancari senza scrupoli.  E le banche “saltano” : CariFerrara, CariChieti, Banca Marche e Popolare dell’Etruria, poi VenetoBanca e la Banca Popolare di Vicenza sono state liquidate con conseguenze non da poco per i risparmiatori che avevano azioni ed obbligazioni di quegli istituti. Il clima di sfiducia è cresciuto anche per il coinvolgimento di altre banche importanti come il Monte dei Paschi di Siena e Carige nel novero degli istituti in crisi. Ed ora è il “turno della Banca Popolare di Bari.

Come hanno raccontato i colleghi Carlo Bonini e Giuliano Foschini, del quotidiano La Repubblica, il 18 luglio scorso, dopo la pubblicazione di un’inchiesta in due puntate del quotidiano romano sulla Popolare di Bari, sono stati querelati per una “palese falsità di notizie gravemente lesive della sua immagine”.  Evidentemente la Popolare di Bari non voleva far conoscere ancora ila verità. Alla Repubblica, con la querela era arrivata anche una diffida a desistere dal suo giornalismo. A “non reiterare le condotte diffamatorie” con la minaccia di un risarcimento “per una somma non inferiore a 100 milioni di euro”. I riferimenti politici della Popolare di Bari ? Un tempo Raffaele Fitto e Gaetano Quagliariello poi Michele Emiliano e Francesco Boccia il quale ha più volte tentato di cambiare la “riforma Renzi” delle Popolari, che interessava in particolar modo la Popolare di Bari, spendendosi molto in parlamento per la famiglia Jacobini. Ne avrà tratto anche lui qualche vantaggio? La Popolare di Bari nonostante fosse creditrice di oltre 100 milioni di euro, nel marzo 2019 avrebbe erogato in favore delle società in crac nuova finanza per circa 40 milioni di euro, rinunciando anche a più di 80 milioni di euro di crediti vantati. Secondo fonti interne all’indagine vi sarebbero anche alcune operazioni a rischio, consentite dai vertici della banca barese che riguarderebbero dei finanziamenti “allegri” al quotidiano barese LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO, confiscato dal Tribunale Antimafia di Catania, concessi alla società editrice EDISUD spa, della quale la Popolare di Bari detiene in pegno anche le azioni , e di finanziamenti a rischio concessi ad alcuni azionisti dell’emittente televisiva TELENORBA. Solo per avere la stampa locale “amica”? Questa sera si terrà alle 21 a Palazzo Chigi  un Consiglio dei ministri che dovrà decidere se adottare lo schema di decreto sulla Banca Popolare di Bari riunione che arriva 48 ore dopo la precedente fallimentare  riunione disertata da M5s e Italia Viva, che non sono d’accordo sulle misure da adottare. La riunione del governo dovrebbe essere preceduta da un vertice di maggioranza.  All’ordine del giorno risulta un decreto recante misure urgenti per la realizzazione di una banca di investimenti. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla fine del concerto di Natale in Senato ha confermato il proposito di salvataggio: “Sì, stasera chiuderemo su Banca Popolare di Bari. Faremo un intervento. Tuteleremo i risparmiatori e non concederemo nulla ai responsabili di quella situazione critica e auspichiamo anzi azioni di responsabilità a loro carico” ha aggiunto il premier ” creeremo le condizioni, attraverso l’intervento di Mediocredito Centrale e anche potenzialmente del fondo interbancario, per rilanciare una banca che potrebbe essere la banca del Sud, che darà respiro, un polmone creditizio finanziario del Sud“. “Tuteleremo i risparmiatori e non concederemo nulla ai responsabili di quella situazione critica e auspichiamo anzi azioni di responsabilità a loro carico” ha concluso Conte.

Per i salvataggi delle banche lo Stato ha speso 10 miliardi in 4 anni. Alessandro Galiani su Agi il 14 dicembre 2019. Il conto, che si basa su uno studio dell'Osservatorio dell'Università Cattolica di Milano, potrebbe lievitare a oltre 15-20 miliardi di euro.

SALVATAGGI BANCHE. Negli ultimi 4 anni lo Stato italiano, in termini di liquidità, ha speso oltre 10 miliardi di euro per i salvataggi bancari, che potrebbero lievitare a oltre 15-20 miliardi di euro. Il conto definitivo, secondo quanto si rileva da una ricostruzione dell'Osservatorio dell'Università Cattolica di Milano, dipende da due incognite. In primo luogo da quanto si ricaverà dalla vendite delle sofferenze delle Banche Venete per rientrare dei 6,4 miliardi di euro di garanzie del governo concessi a Banca Intesa. Sempre sulle banche Venete ci sono poi anche altri 12,4 miliardi di garanzie statali, che non è ancora possibile sapere se verranno impiegate o meno. Comunque finora lo Stato è intervenuto, o si è impegnato a intervenire per coprire parzialmente le perdite di Mps e delle 2 banche venete e, più in generale, per salvaguardare, in caso di crack bancario, i risparmiatori depositanti sopra i 100 mila euro (i depositanti con meno di 100 mila euro sono coperti dai rischi), oltre agli azionisti e agli obbligazionisti ritenuti truffati. Ecco comunque, più nel dettaglio, la storia dei principali salvataggi, pubblici e privati di banche italiane degli ultimi 4 anni.

LA RISOLUZIONE DELLE 4 BANCHE - L'era dei salvataggi con perdite anche per i piccoli risparmiatori è iniziata in Italia nel weekend del 21-22 novembre 2015 quando vennero messe in risoluzione 4 piccole banche (Carichieti, CariFerrara, Banca Marche e Banca Etruria). Fino ad allora i salvataggi erano stati guidati con rapidità dalla Banca d'Italia e dal Tesoro, accollando le banche in difficoltà ad altri istituti e scaricando cosi' i costi a livello di sistema generale. Ma a partire dal caso di Banche Venete la strada intrapresa è stata quella del 'burden sharing, la procedura disciplinata da una direttiva Ue, che prevede il coinvolgimento anche degli obbligazionisti e non solo degli azionisti. La decisione scateno' furiose polemiche e, nel 2017, un duro attacco da parte del governo guidato da Matteo Renzi alla vigilanza di Bankitalia. Di fatto Renzi disse di aver commesso "un errore nell'essersi affidato alla Banca d'Italia" per i controlli e corse ai ripari varando, dopo una discussione con la Ue, un meccanismo di ristoro per i risparmiatori. Il risultato fu che il conto finale di oltre 5 miliardi di euro venne caricato sul Fondo di Risoluzione, pagato dalle altre banche private, mentre le 4 banche vennero cedute a Ubi per un euro. I soldi del Fondo sono serviti a ricapitalizzare le 4 banche, il cui capitale è stato azzerato, a coprire le perdite derivanti dai crediti sofferenti e a creare l'istituto destinato al recupero di tali crediti (le cosiddette bad bank). Non c'è stato quindi alcun contributo in termini di liquidità da parte dello Stato. 

LA BUFERA MONTE DEI PASCHI (MPS) -  L'istituto senese finisce nella bufera nel 2013 con la scoperta di bilanci ritoccati per coprire i costi dell'operazione Antonveneta. Arrivano 4 anni di inchieste e aumenti di capitale oltre a lunghe interlocuzioni fra Francoforte, Bruxelles, la banca e le autorità italiane. Infine, a fine 2016, dopo non aver passato lo stress test, il fallimento del piano di salvataggio con risorse private e la regia di Jp Morgan, condizionato anche dall'incertezza per la fine del governo Renzi, caduto nel dicembre 2006 dopo l'esito negativo del referendum sulla riforma costituzionale. Il 21 dicembre il nuovo governo Gentiloni è costretto a correre in salvataggio del Monte con 5,4 miliardi (di cui 1,5 miliardi di rimborso agli obbligazionisti). Il Tesoro, dopo la ricapitalizzazione eseguita a luglio 2017, è ora l'azionista di maggioranza del Monte con quasi il 70%, quota che dovrà dismettere fra qualche anno ma che per ora ha perso molto del suo valore, visto il crollo dei valori azionari. Diversamente da quanto successo alle 4 banche del Centro Italia, nel caso di Mps lo Stato ha finanziato parte dell'operazione, attingendo a un fondo di 20 miliardi di euro presi a debito varato a questo scopo. Di questi, circa 3,9 sono stati spesi per la ricapitalizzazione e fino a un massimo di massimo 1,5 miliardi sono stati riservati al ristoro degli investitori al dettaglio che detengono le passività subordinate della banca oggetto di conversione in azioni nell'ambito del burden sharing. Azionisti e obbligazionisti hanno da parte loro contribuito per altri 2,8 miliardi, secondo il principio della condivisione degli oneri previsto dalla normativa dell'Ue. A pagare sono stati quindi sia i contribuenti sia i privati, e anche in questo caso i soci proprietari hanno visto il proprio capitale azzerarsi mentre parte dei risparmiatori è stato tutelato.

IL CASO DELLE BANCHE VENETE - Anche la Popolare di Vicenza e Veneto Banca cadono per un mix di cattiva gestione ed effetti della crisi economica e dopo i fallimenti di una serie di piani di rilancio, che iniziano nel 2013 e vengono alle luce nelle ispezioni della vigilanza del 2015. Il governo, dopo il fallimento dell'aumento di capitale nel 2016, auspica una soluzione privata e, sotto la sua regia, il fondo Atlante, cui partecipano le banche e la Cdp rileva la proprietà dei due istituti con un esborso totale di 3,5 miliardi che perderà del tutto. La fuga dei depositanti e la conseguente crisi di liquidità portano lo Stato a dover garantire obbligazioni delle due banche per complessivi 8,6 miliardi nel febbraio 2017 ma, a marzo, i tentativi di reperire nuove risorse private non riescono e a giugno le banche vengono poste in liquidazione. La Commissione Ue e la Bce non permettono infatti la ricapitalizzazione precauzionale. Intesa Sanpaolo rileva cosi' i due istituti evitandone la chiusura e le pesanti ricadute sull'economia locale e nazionale. Per questo lo Stato versa a Intesa 4,8 miliardi di euro per la cassa e 6,4 miliardi ulteriori in garanzie, contando di recuperare il denaro attraverso la vendita, negli anni, delle sofferenze. L'operazione più importante, in termini di contributo dello Stato, è stata quella che ha riguardato la Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, acquisite a giugno del 2017 dal Gruppo Intesa Sanpaolo dopo la liquidazione coatta amministrativa. A perdere sono stati principalmente i titolari di azioni, mentre depositi e obbligazioni sono stati tutelati, anche se non integralmente per le obbligazioni subordinate. Ancora una volta a essere colpita è stata la proprietà delle banche (cioè gli azionisti, anche se questi includono certamente anche piccoli risparmiatori), mentre i depositanti e gli altri prestatori di fondi sono stati in buona parte tutelati. L'obiettivo perseguito con la liquidazione è stato di evitare "una improvvisa cessazione dei rapporti di affidamento creditizio per imprese e famiglie, con conseguenti forti ripercussioni negative sul tessuto produttivo e di carattere sociale, nonchè occupazionali". Dai bilanci dell'esercizio 2016 delle due banche popolari si evince, in assenza di intervento pubblico, che si sarebbero persi 7,6 miliardi di obbligazioni e 11,5 miliardi di conti correnti (in parte comunque tutelati, sotto i 100mila euro). Intesa San Paolo, che ha acquistato le due Banche Venete alla cifra simbolica di 1 euro, ne ha ereditato principalmente le attività sane, come prestiti concessi ai debitori affidabili. I crediti deteriorati sono stati invece trasferiti a una bad bank, che raccoglie le attività non più esigibili. L'intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi di euro, destinati a soddisfare il fabbisogno di capitale, nonché la ristrutturazione aziendale. A questi vanno aggiunti circa 400 milioni di garanzie, a fronte di un capitale garantito di 12,4 miliardi. Risorse che non è ancora possibile sapere se dovranno essere impiegate o meno.

IL COMMISSARIAMENTO DI CARIGE - Un altro caso è quello che riguarda la genovese Carige. Il cda dell'istituto ligure è stato commissariato dalla Bce nel gennaio 2019 dopo che i soci, alla fine del 2018, hanno bocciato un aumento di capitale da 400 milioni, necessario per ripagare un bond subordinato da 320 milioni sottoscritto d'urgenza dallo schema volontario del Fitd, il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, un consorzio di diritto privato sottoposto alla supervisione diretta della Banca d'Italia e che ha il compito di salvaguardare i depositi dei clienti delle banche. I commissari e il fondo hanno cercato a lungo un partner industriale per mettere in sicurezza la banca ma i primi tentativi, che hanno coinvolto anche il fondo americano Blackrock, sono andati a vuoto. La soluzione individuata è passata per un maggior coinvolgimento del Fondo interbancario di tutela, anche con il braccio obbligatorio, e per un aumento da 700 milioni di euro in cui far entrare, come partner industriale, anche Cassa Centrale Banca. Al termine, di una complessa trattativa, il salvataggio di Carige ha previsto un rafforzamento patrimoniale complessivo di 900 milioni di euro: 700 tramite aumento di capitale, con dei warrant gratuiti (1 ogni 4 azioni sottoscritte), che consentiranno in un secondo tempo di comprare le azioni sul mercato a metà prezzo. Altri 200 milioni verranno poi raccolti tramite un prestito subordinato sostanzialmente già tutto prenotato. La ricapitalizzazione, per al quale non è previsto alcun intervento dello Stato in termini di liquidità, sarà distribuita per 312,2 milioni allo Schema volontario del Fondo interbancario, che convertirà i bond sottoscritti a novembre 2018, quando già per la prima volta il consorzio delle banche italiane aveva salvato Carige. La trentina Cassa centrale banca investirà inizialmente 63 milioni per arrivare al 9,9% di Carige, potendo però tra luglio dell'anno prossimo e la fine del 2021 acquistare in opzione le quote del Fitd e dello Schema volontario e diventare azionista di controllo dell'istituto ligure. Lo stesso Fitd interverrà direttamente nell'aumento di capitale per altri 238,8 milioni, garantendo poi l'eventuale inoptato della quota riservata agli attuali azionisti. Ai vecchi soci andrà in opzione solo una quota di 85 milioni di euro della ricapitalizzazione. A partire dallo scorso 4 dicembre, è in corso la ricapitaliazzazione della banca e la terza tranche dell'aumento di capitale è stata sottoscritta per 16,8 milioni.

POPOLARE BARI E TERCAS - Nel 2014, mentre era già in difficoltà, la Popolare di Bari si è impegnata a rilevare la Tercas, la Cassa di Risparmio di Teramo. Dopo due anni di commissariamento, la Popolare di Bari è stata accusata da Bruxelles di aver ricevuto 265 milioni di euro di aiuti di stato, illegittimi, dal Fitd sotto forma di ricapitalizzazione di Tercas ante cessione. Nel marzo scorso però il Tribunale dell'Unione Europea ha dato ragione all'Italia e torto alla Commissione Europea, sugli aiuti di Stato. Bruxelles ha fatto ricorso e la vicenda non è ancora conclusa. 

Camilla Conti per “il Giornale” il 16 dicembre 2019. La fiche che dovrà essere messa sul tavolo della Banca Popolare di Bari aggiunge un altro miliardo agli oltre dieci che sono già costati allo Stato per i salvataggi bancari. È solo l' ultima operazione passata sul tavolo di Bankitalia, che da anni ha acceso i riflettori sull'istituto pugliese ma che nel 2014 ha anche autorizzato l'acquisizione della concorrente abruzzese Tercas, la Cassa di Risparmio di Teramo in difficoltà. Che ha avuto l'effetto di scaricare sul compratore, ovvero la Popolare di Bari, una zavorra di sofferenze difficile da smaltire. Non solo. La Bari è stata accusata da Bruxelles di aver ricevuto 265 milioni di aiuti di Stato, illegittimi, sotto forma di ricapitalizzazione di Tercas ante cessione. È partita una guerra di ricorsi e la questione è approdata alla Corte di Giustizia europea, che si pronuncerà nel 2020. Ora il decreto messo a punto dal governo giallorosso prevede l' attribuzione di fondi fino appunto a un miliardo ad Invitalia (ovvero l' Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d' impresa, di proprietà del Ministero dell' Economia), che li girerà alla sua controllata Mediocredito Centrale. Sarà quest' ultima, poi, a entrare nel capitale della Popolare: un ingresso azionario che sarà affiancato dal ricorso allo strumento privato finanziato dal sistema bancario, cioè dal Fondo Interbancario. Per il resto, ecco un altro obolo pubblico destinato a far salire il conto già salato dei salvataggi di Stato: più di 10 miliardi negli ultimi quattro anni che, secondo i calcoli dell' Osservatorio dell' Università Cattolica di Milano, potrebbero lievitare a oltre 15-20 miliardi.

VENETO BANCA. Dipenderà dai futuri rientri di investimenti in Mps e nei crediti in mora delle banche venete. Nel caso del «Monte di Stato», a fine 2016 il governo Gentiloni è stato costretto a correre in salvataggio del Monte con 5,4 miliardi (di cui 1,5 miliardi di rimborso agli obbligazionisti). Il Tesoro, dopo la ricapitalizzazione eseguita a luglio 2017, è così diventato l' azionista di maggioranza di Mps con quasi il 70%, quota che dovrà dismettere entro il 2021.

MONTE-PASCHI. L' operazione è stata finanziata attingendo a un fondo di 20 miliardi, di cui circa 3,9 sono stati spesi per la ricapitalizzazione. Azionisti e obbligazionisti hanno da parte loro contribuito per altri 2,8 miliardi, secondo il principio della condivisione degli oneri previsto dalla normativa dell' Ue. A pagare sono stati quindi sia i contribuenti sia i privati. Ai corsi attuali lo Stato perde oltre 4,5 miliardi sui 5,4 versati due anni fa per salvare Rocca Salimbeni. L'obiettivo era quello di scendere dal Monte in fretta e senza farsi troppo male ma di cavalieri all' orizzonte ancora non se ne vedono e anche la soluzione studiata al momento dai tecnici di via XX Settembre sembra complicare la exit strategy perché contempla l' ipotesi di scindere i crediti deteriorati, girandoli ad Amco, la ex Sga al 100% del Tesoro, a un prezzo più vicino al valore di carico del bilancio Mps che a quelli di mercato. Insomma un altro «aiutino».

RISPARMIATORI BANCA POPOLARE VICENZA. Quanto alle ex cooperative venete, nel 2017 Intesa Sanpaolo ha acquisito alla cifra simbolica di 1 euro Popolare Vicenza e Veneto Banca dopo la liquidazione coatta amministrativa. Intesa ha ereditato principalmente le attività sane. I crediti deteriorati sono stati invece trasferiti a una bad bank. L' intervento per cassa dello Stato è stato pari a circa 4,8 miliardi, cui vanno aggiunti circa 400 milioni di garanzie, a fronte di un capitale garantito di 12,4 miliardi (la spesa sarà bilanciata dal valore dei crediti recuperati dalla Sga, la società per la gestione delle di attività controllata totalmente dal Tesoro).

Banca Popolare di Bari tra fake news e giudizi affrettati, interessati e razzisti. Banca Popolare di Bari: mentire sapendo di mentire. Da Mercati24.com. Tra le tante riforme proposte dal governo Renzi quella delle banche popolari è sicuramente la meno peggio. Tralasciamo il palese conflitto di interessi di Maria Elena Boschi, figlia di un galantuomo di campagna indagato per puro caso dalla Magistratura per il crack della Banca Popolare dell’Etruria (sicuramente è innocente eh) e andiamo alla sostanza. Il merito della riforma delle banche Popolari sta nel fatto che fa uscire dal pantano dei controlli opachi, delle votazioni con metodologie alto-medioevali e soprattutto dalla oggettiva impossibilità di valutare il valore delle partecipazioni nelle banche popolari stesse. In pratica, come ha dimostrato la vicenda della Popolare di Vicenza, era il Consiglio di Amministrazione a decidere, di fatto, il valore delle azioni. E non importa se questo valore era lontanissimo dagli effettivi valori del mercato. E la domanda per le nuove azioni era semplicemente creata dando consigli che non si potevano rifiutare. Vuoi il mutuo? Vuoi aumentare l’affido per la tua impresa? Nessun problema, basta che utilizzi il 10% della somma per sottoscrivere azioni, il valore lo decidiamo noi. Un meccanismo perverso perché a cedere al ricatto erano soprattutto i debitori che altre banche, più sane, non ritenevano affidabili. Di fatto è stato anche questo perverso meccanismo a determinare l’ammontare mostruoso dei crediti in sofferenza di queste popolari. Le popolari italiane funzionavano più o meno come 1k Daily Profit, un sistema che promette soldi facili ma che in effetti fa perdere tutto. Però all’inizio ti sembra di guadagnare, eh!

Popolare di Vicenza ha perso più del 90% del valore in un anno. Banca Popolare di Bari ha fatto molto meglio, ha perso solo il 20%. Ora, probabilmente gli sventurati soci di Popolare di Bari sono meno sventurati di quelli di Popolare di Vicenza. Forse, dopo tutto il coperchio è stato sollevato solo ora e chissà che cosa si troverà nel pentolone.
Quello su cui oggi vogliamo riflettere è la risposta data (in modo ufficiale) dalla Popolare di Bari a chi appunto faceva notare questo forte crollo del valore delle azioni della Banca: Quanto al prezzo delle azioni, scese a 7,50 euro, «si è trattato di una piccola svalutazione», visto che il 20% di passivo non può essere paragonato a quello registrato altrove, nel mondo bancario, pari al 60-80%. Peraltro la svalutazione «non l’abbiamo determinata noi, ma è stata resa indispensabile dopo che attraverso un decreto del governo siamo stati obbligati a diventare una società per azioni. Che cosa dire? Che è una falsità. Che si tratta di una bugia consapevole. Certo chi crede che la svalutazione è stata resa indispensabile dopo che attraverso un decreto del governo siamo stati obbligati a diventare una società per azioni merita comunque di perdere tutti i suoi risparmi, non solo il 20%. Ripetiamo, la trasformazione in società per azioni ha solo reso un poco più trasparente un meccanismo arcaico e di solito utilizzato in maniera opaca. I soci della Popolare di Bari farebbero bene ad aprire occhi e orecchie da subito, senza aspettare ulteriori brutte notizie. E magari farsi qualche domanda sul management. Ad esempio, a proposito di una multa corposa comminata da CONSOB a Banca Popolare di Bari, di cui è stata data notizia, guarda caso, in un giorno festivo, 1 Maggio 2016. Il sistema bancario italiano è solido, sano, rispettoso delle regole, trasparente. E poi c’era la marmotta che incartava la cioccolata.
Dal governo il decreto per la popolare di Bari «risparmiatori salvi» ma restano le tensioni, fonte: Gazzetta dello sport il 16 Dicembre 2019. Il consiglio dei ministri vara l’ intesa sull’ istituto commissariato fino a 900 milioni dal fondo del tesoro per ripianare i debiti m5s: «serve una nazionalizzazione». attacchi da Italia viva. Il governo Conte sta salvando una banca in crisi, la Popolare di Bari, commissariata dalla Banca d’ Italia. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto da circa 900 milioni di euro. Serviranno a ripianare le perdite dell’ istituto, pari a circa 500 milioni solo nell’ ultimo periodo. Il governo, in due atti, intende creare una banca pubblica di investimento con la ricapitalizzazione di Mediocredito centrale attraverso Invitalia, l’ agenzia del Tesoro, per il rilancio della Popolare. «Tuteliamo i risparmiatori, non i banchieri. Le colpe verranno appurate», ha ripetuto il premier Giuseppe Conte. Il governo assicura l’ azione di responsabilità nei confronti dei passati vertici della banca. Il varo del decreto, prima della riapertura delle Borse e degli sportelli, serve a mettere al riparo dal rischio di mancanza di liquidità. L’ accordo è arrivato dopo ulteriori tensioni. Venerdì sera, poche ore dopo il commissariamento di Bankitalia, c’ era stato un Consiglio dei ministri senza decisioni, «un gravissimo punto di rottura nel metodo e nel merito», il commento di Italia Viva, che aveva disertato e criticato il governo per «la convocazione». Ma anche ora Iv e M5S alzano i toni. Il capo grillino Luigi Di Maio ha chiesto di «nazionalizzare» la banca, dopo l’ intervento pubblico. Ed è tornato a chiedere di portare in Consiglio dei ministri «i nomi degli imprenditori vicini alla politica che hanno preso soldi e non li hanno restituiti». Di Maio ha ribadito l’ esigenza di una commissione d’ inchiesta sul sistema bancario. La commissione, in realtà, già c’ è, ma è ferma da un anno. Due giorni fa Di Maio aveva anche accusato Bankitalia di non aver vigilato sulla Popolare di Bari, collassata sostanzialmente senza un campanello d’ allarme. «Salvi i risparmi, ora nessuna pietà per manager e amici degli amici», ha ripetuto anche ieri il leader grillino. Il premier Conte, invece, chiederà a Bankitalia di essere informato sull’ accertamento delle responsabilità sul caso. C’ è da capire perché l’ istituto sia crollato. La Banca popolare di Bari, fondata nel 1960, può contare su 350 sportelli, su quasi 70 mila soci e oltre 2.700 dipendenti. Si è identificata per decenni con la famiglia Jacobini, che ha guidato l’ istituto sin dal 1989. Nel disastro contabile ha sicuramente avuto un ruolo l’ acquisizione della abruzzese Banca Tercas, per quasi 300 milioni, nel 2014, con l’ ok della Banca d’ Italia. Da lì, una serie di manovre finanziarie giudicate ardite, dalla partecipazione al Fondo Atlante a quello del Lussemburgo, Naxos Plus. Ora i manager indagati a Bari sono 10, e 7 le inchieste in corso. E ieri l’ allarme per la sorte della Popolare di Bari è arrivato anche dal sindaco, Antonio Decaro: «Se non si salva la banca, salta il tessuto economico di tutto il territorio». La polemica non manca neppure da Italia Viva. I renziani, pur accettando di sedersi in Consiglio dei ministri, dopo averlo disertato venerdì, ieri hanno fatto le pulci anche al titolo del decreto: «Si parla di “misure per realizzare una banca d’ investimento”, manco fossimo a Wall Street, mentre si sta ricapitalizzando la Popolare di Bari. L’ ossessione degli slogan deborda pure nei titoli», ha ironizzato il renziano Marattin. E la crisi della Popolare di Bari è diventata anche l’ occasione per un affondo di Matteo Salvini: «Serve riformare Bankitalia. E chi ha derubato i risparmiatori, vada in galera», ha detto il leader della Lega, citando una proposta di legge avanzata insieme al M5S. E intanto, il Codacons nazionale annuncia un esposto contro la vigilanza di Bankitalia e della Consob. Il soccorso alla Popolare di Bari sembra l’ occasione per Renzi per togliersi il classico sassolino dalla scarpa. Nel 2015 il suo governo approvò il cosiddetto Decreto Salva-banche, con cui vennero sostenuti quattro istituti in crisi: Etruria, Banca Marche, la Cassa di risparmio di Ferrara e anche di Chieti. «Il mio governo fece un intervento coordinato e richiesto da Banca d’ Italia senza tirar fuori un centesimo pubblico. Nel 2017 il governo Gentiloni fece un’ operazione giusta in difesa soprattutto delle banche venete massacrate da una vergognosa rete di connivenze politiche ed economiche», ha ripetuto ieri Renzi. «Quel modello è stato copiato per Genova. E oggi per Bari si fa molto di più. Se ci fosse un briciolo di onestà intellettuale, chi ha fatto quello sciacallaggio contro di noi oggi dovrebbe riconoscere che è sempre giusto salvare i risparmiatori».

Altro che addio bailout, e BP Bari non è l’unica. Da 2015 per Etruria & Co, Mps e banche venete Stato ha versato 21 miliardi. Laura Naka Antonelli il 16/12/2019 su Finanza Online. Stavolta si chiama BP Bari ovvero Banca Popolare di Bari. Il governo italiano salva l’ennesima banca italiana malata, e la domanda è d’obbligo. Ci saranno ripercussioni sulle banche quotate o sugli spread del debito pubblico? Giovanni Razzoli di Equita SIM risponde, facendo i paragoni con alcuni precedenti salvataggi, come quelli delle banche venete e MPS, per descrivere la portata dell’intervento pubblico. “Non vediamo rischio contagio sugli spread del debito pubblico o impatti particolarmente negativi sulle banche quotate in quanto: Le dimensioni dell’intervento pubblico (900 milioni) sono inferiori rispetto a quello realizzato per le banche venete (circa 11 miliardi fra contribuzione diretta per la ricapitalizzazione e garanzie varie) e Banca Monte dei Paschi di Siena (4 miliardi) .

– le dimensioni di BP Bari sono limitate sia in termini assoluti (340 sportelli, totale attivo 14bn, 8bn di depositi) che relative, anche se all’istituto fa capo il più ampio franchise bancario del sud le criticità di BP Bari erano note da tempo (l’NPE ratio 25% già nel 2016). Si tratta comunque dell’ennesima operazione di salvataggio, ovvero di bailout, che porta in molti a ricordare che l’obiettivo dell’Ue di porre fine alle pratiche di bailout – salvataggi finanziati dallo Stato o anche, per dirla meglio, dai contribuenti – per sostituirle con quelle di bail-in – continui a essere oculatamente ignorato.

Sempre Equita SIM ha calcolato che la ristrutturazione del settore bancario italiano ha richiesto interventi per complessivi 33 miliardi di euro a partire dal 2015: “In base ai nostri calcoli, dal 2015, la ristrutturazione del settore bancario ha assorbito risorse per circa 33 miliardi di cui 21 miliardi a carico dello Stato (11 miliardi per le banche venete, 4 miliardi per BMPS) e 11 miliardi delle banche: il salvataggio di BP Bari pesa per il c4% del totale di queste risorse”. Tutto, mentre i bailout continuano a ripresentarsi, e non solo in Italia visto che la Commissione Ue ha dato l’ok, proprio all’inizio del mese di dicembre, al piano di salvataggio della tedesca NordLab, negando che la ricapitalizzazione da 3,6 miliardi di euro sia un aiuto di stato. Eppure a salvare NordLab saranno i governi degli stati federali della Bassa Sassonia e della Sassonia-Anhalt, con una iniezione di 1,7 miliardi di euro. Il resto, ovvero 1,1 miliardi di euro, arriverà dalle casse di risparmio tedesche. Insomma, non proprio una operazione condotta con soldi di privati.  Lo stesso ricorda come alla fine l’era dei bailout nell’Unione europea non sia davvero mai realmente finita.

I salvataggi delle banche italiane negli ultimi anni:

BP Bari solo l’ultima, prima Mps banche venete & Co.

Nel 2015 il governo italiano – guidato all’epoca da Matteo Renzi – approva il decreto salva banche, salvando così le quattro banche locali Banca Marche, le Casse di Risparmio di Ferrara, di Chieti e Banca Etruria. L’allora premier Matteo Renzi difenderà il decreto con queste parole: “Il Governo italiano quando ha visto che quattro banche rischiavano di chiudere e rischiavano di perdere migliaia di posti di lavoro e i soldi dei contribuenti è intervenuto e sono molto lieto delle misure che ha preso perché ha salvato i soldi dei conti correnti e i posti di lavoro”.

Banche venete: è di qualche mese fa la notizia secondo cui il conto per il loro salvataggio pagato dallo Stato (alias contribuenti) potrebbe salire a 7 miliardi di euro. Le banche venete vengono rilevate da Intesa Sanpaolo al prezzo di 1 euro. Ma l’allora e anche attuale amministratore delegato Carlo Messina precisa: Nessun regalo. E senza di noi lo stato avrebbe perso subito 10 miliardi. Vale la pena ricordare che nell’aprile del 2018 l’Istat alza le stime sul deficit e debito italiani, spiegando che sul loro ammontare aveva inciso anche il salvataggio di Mps e delle banche venete.

E che dire inoltre di Mps, salvata con una operazione di ricapitalizzazione precauzionale che si è tradotta in una quota del 70% nelle mani dello Stato? (con tanto di benestare della Commissione europea) Il titolo Mps è tornato poi in Borsa a fine ottobre del 2017 dopo essere stato sospeso dieci mesi prima.

Carige, inizio 2019: il governo M5S-Lega approva il decreto salva-Carige all’inizio del 2019 dopo la constatazione di problemi ormai ingestibili che, a fine 2018, avevano alimentato anche i rumor su una fusione tra zoppi tra il gruppo genovese e Mps.

E alla fine abbiamo, per l’appunto, BP Bari. Rizzoli di quita SIM riassume quanto avvenuto nelle ultime ore: “Con una mossa ampiamente attesa il Governo ha varato un decreto che prevede uno stanziamento da 900mn per il salvataggio di BP Bari, commissariata venerdì da Banca d’Italia (il commissariamento ha come effetto immediato la decadenza dell’organo amministrativo). L’operazione si configura come l’approvazione alla ricapitalizzazione per pari importo del MedioCredito Centrale (controllato dallo Stato) che, insieme al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD), parteciperà al ‘rilancio della BP Bari’ (6,2% CET1 nel primo semestre). E’ quindi ragionevole ipotizzare un intervento dello schema volontario del FITD per un importo di almeno 500mn (<1% della mkt cap delle banche quotate) che porterà l’entità complessiva dell’intervento vicino a 1,5 miliardi rispetto a 1 miliardo riportato dalla stampa nei giorni scorsi. A differenza dell’intervento su Carige, non sono state al momento stanziate garanzie pubbliche sulle passività di nuova emissione di BP Bari”.

Rizzoli va avanti: ” Lo schema prevedrà secondo noi (a) una svalutazione rilevante dello stock di NPE (2 miliardi, ie 23% del portafoglio coperti al 39%) in previsione di una contestuale cessione degli stessi e (b) un ampio ricorso a riduzione dei dipendenti via esodi incentivati. MCC diventerà quindi l’anchor investor della nuova BP Bari, ricapitalizzata, ripulita dagli NPE e con molte meno filiali”.

Da Montepaschi a Banca Etruria tutti i crac che il Pd non può cancellare. Gian Maria De Francesco, Giovedì 19/10/2017 su Il Giornale. La protervia di Matteo Renzi nell'imputare al governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ogni responsabilità della cattiva gestione delle crisi bancarie ha una genesi ben precisa. Ed è quella descritta dall'ex direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli, nella sua autobiografia: la moral suasion di Maria Elena Boschi presso l'ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, affinché trovasse un partner per l'allora periclitante Banca Etruria di cui il padre era vicepresidente. Il conflitto di interessi, in quel caso, era duplice: non tanto perché vi fosse coinvolta la famiglia di un'importante componente di quel gabinetto, ma perché la Toscana, cuore del potere renziano, è una terra nella quale il confine tra politica e finanza non è praticamente mai esistito. I prestiti facili agli «amici degli amici» non hanno fatto saltare solo Etruria, ma hanno messo in difficoltà realtà più piccole come il credito cooperativo Chianti Banca (che il Giglio magico avrebbe voluto conservare come spa autonoma e che invece Bankitalia farà confluire nella grande centrale Iccrea) e come la Cassa di risparmio di San Miniato, «salvata» dai francesi di Crédit Agricole tramite l'intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi assieme alla riminese Carim e a Caricesena, realtà bancarie di una zona rossa come la Romagna. Insomma, queste «bombe» sono esplose proprio mentre Matteo Renzi era a Palazzo Chigi senza riuscire a trovare soluzioni efficaci. Con quella mozione il segretario del Pd ha trovato il capro espiatorio perfetto. Oggi come oggi viene difficile ricordare che si tratta dello stesso Matteo Renzi che a inizio 2016 invitava le famiglie a investire nella Mps risanata da Alessandro Profumo (che oggi guida Leonardo-Finmeccanica su designazione renziana), quella stessa Mps nazionalizzata da Gentiloni e dal ministro dell'Economia Padoan perché il precedente esecutivo non era riuscito a cavare un ragno dal buco. Il Fondo Atlante, creato su pressing dell'ex presidente del Consiglio, ha però bruciato 3,4 miliardi su Popolare Vicenza e Veneto Banca, rilevate a fine giugno da Intesa Sanpaolo a un euro prima che un nuovo bail in devastasse tutto. E se si guarda agli altri casi di crisi (Carige, Banca Marche, Cariferrara, Carichieti, la teramana Tercas salvata a caro prezzo dalla Popolare di Bari) ci si ritrova in scenari simili a quelli del Monte dove Fondazioni con il cuore a sinistra intervenivano direttamente nella gestione delle banche seguendo criteri «politici». Renzi, va detto, ha pagato il prezzo di un passato dissennato, ma anche l'insipienza nel trattare con la Vigilanza Bce e con la Commissione Ue condizioni meno vessatorie. Trattative impossibili visto che l'unica cosa che gli interessava era ottenere più deficit per bonus e mance.

Popolare di Bari, il salvataggio e la corsa agli sportelli (che non c’è). Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it. È ancora fresco l’inchiostro sul provvedimento del governo che finanzia con 900 milioni il Mediocredito centrale, controllato da Invitalia, l’agenzia che è posseduta a sua volta al 100% dal ministero dell’Economia. La messa in sicurezza è arrivata solo all’ultimo momento, ma qui a Bari sono tutti piuttosto bene informati. Più che una ricerca del colpevole, si avverte fra i clienti di una filiale del centro una presa di coscienza degli errori commessi. Quelli dei banchieri e del loro rapporto con la politica, ma anche quelli dei singoli risparmiatori. Dice Vito Lorusso, un 54 enne che aveva comprato azioni per quasi 50 mila euro, uscendo dalla filiale della Popolare di Bari su Corso Vittorio Emanuele: «Mi sento truffato o ho sbagliato io a fidarmi? Entrambe le cose». Massimo Morrone, un pensionato di 71 anni, ex distributore della Lancia in Puglia, sa di aver perso i 15 mila euro che aveva investito in azioni della banca. Non dimentica che è stato oggetto di una sollecitazione di risparmio che si è dimostrata scorretta o impropria, ma si assume anche la responsabilità di essersi lasciato convincere: «La richiesta di comprare quei titoli veniva dai consulenti della banca e non era facile dire di no. Erano persone che conoscevamo da anni – ricorda -. Ma non ho cercato di vendere tutto, solo una parte, perché con la Popolare c’è ancora un rapporto di affetto».

Banca Popolare di Bari: cosa prevede il decreto. Il Governo ha deciso di stanziare 900 milioni di euro per salvare l'istituto e rilanciare investimenti al sud. Barbara Massaro il 16 dicembre 2019 su Panorama. Dopo 48 ore dal commissariamento di Banca Popolare di Bari deciso da Bankitalia il Governo ha sbloccato 900 milioni di euro per il salvataggio di uno dei più grandi istituti di credito del meridione. Il denaro arriva dal fondo del Ministero dell’Economia destinato "alla partecipazione al capitale di banche e fondi internazionali" ed verrà girato a Invitalia, l’Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa partecipata al 100% dal Ministero dell’Economia, e servirà per finanziare Microcredito Centrale - banca anch'essa controllata dal ministero dell’Economia - che poi li verserà alla Popolare di Bari per comprarne delle quote. 

Cosa prevede il decreto salva BpB. E' quanto prevede il decreto varato dal Governo al termine di un fine settimana di duro scontro interno tra le diverse anime della maggioranza. L'Italia Viva di Renzi, infatti, auspicava una profonda riforma del concetto stesso di banca popolare, mentre Di Maio con i cinque stelle voleva sventare un Banca Etruria -bis e insisteva perché il vecchio consiglio di amministrazione di BpB pagasse per le sue eventuali responsabilità nel tracollo dell'istituto pugliese (il 2018 è stato chiuso con perdite per 420 milioni di euro e un tracollo del valore azionario).  Proprio l'introduzione di quest'ultimo punto all'interno del decreto ha convinto i pentastellati a firmare la norma varata nella notte di domenica 15 dicembre.

Le tappe del salvataggio. Il finanziamento di 900 milioni a Invitalia per incrementare il patrimonio di Mediocredito centrale serviranno tra l'altro a promuovere attività finanziare e di investimento al sud con la nascita di una nuova banca d'investimento che sorgerebbe dalla scissione delle acquisizioni. Lo schema del decreto prevede l'attuazione di un primo aumento di capitale che consentirà a MCC, insieme con il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) e a eventuali altri investitori, di partecipare al rilancio della Banca Popolare di Bari e poi operare in maniera espansiva nei confronti dello sviluppo del meridione d'Italia. In Consiglio dei ministri Di Maio avrebbe anche ottenuto il via libera ai lavori immediati della commissione banche e l’impegno formale del premier di chiedere a Bankitalia cosa farà per accertare le responsabilità dei vertici della Banca e cosa, nelle ispezioni fatte dal 2010 a ora, non ha funzionato per arrivare all'attuale tracollo.

Popolare Bari, il crac  della banca «ostaggio»  della famiglia Jacobini. Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 su Corriere.it da Mario Gerevini. Come Marco Jacobini, fino a luglio scorso, cioè per oltre 40 anni, al vertice della Popolare di Bari, pur avendo un solo voto sui 70mila disponibili (nelle banche cooperative si vota per testa e non per numero di azioni). Ma controllandone migliaia con le radici ben piantate nel terreno di potere, relazioni e favori che ha fertilizzato per anni. Alcune «pratiche» vanno ricordate, ribadite e sottolineate nelle vicende di questo istituto che è arrivato fino a 386 filiali e 3.200 dipendenti. Il presidente Jacobini ha portato i suoi due figli, Gianluca e Luigi, ai massimi livelli dirigenziali della banca: condirettore e direttore generale. Entrambi senza alcuna precedente significativa esperienza altrove. Gli introiti della famiglia Jacobini si misuravano in milioni di euro. Bankitalia, sempre con grande cautela e cortesia, ha provato ad arginare il potere della famiglia. E loro, forti del consenso popolare e politico hanno alzato le spalle o al massimo mischiato le carte e fatto un po’ di fumo. Nell’assemblea del 2016, la trentottesima di Jacobini al vertice, la banca presentava un bilancio con quasi 300 milioni di perdita, di fatto bruciando quanto raccolto con l’aumento di capitale per Banca Tercas. Poteva essere questo il momento della svolta, un cambio di regia, di management, discontinuità. Ma anche in quell’occasione, come sempre, Jacobini fa il pieno di applausi compresi il governatore pugliese Michele Emiliano e l’allora presidente della Commissione Bilancio della Camera e oggi ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, presente in assemblea. Boccia «afferma come il bilancio - si legge nel verbale – sia stato redatto con molta serietà, a conferma della serietà della banca che nonostante le difficoltà è riuscita comunque a fare acquisti caricandosi sulle spalle pesi cospicui della comunità». Se è vero che l’acquisto di Banca Tercas (fine 2014) è una delle cause all’origine dell’attuale dissesto vuol dire che era un «boccone» difficile da digerire, gestire e integrare con la rete della Bari. Tra l’altro ci hanno messo 300 milioni (subito bruciati come abbiamo appena visto) migliaia di risparmiatori che hanno sottoscritto un aumento di capitale della Bari e altri 300 milioni il Fondo interbancario. Ci voleva, insomma, un manager di grande esperienza da mandare in Abruzzo anche per tutelare quei capitali raccolti. E chi ci ha messo Marco Jacobini? Suo figlio Gianluca: amministratore delegato. Tra l’altro anche la nuora, moglie di Gianluca, è in banca, ufficio customer satisfaction: tempi duri per lei. Il titolo per decenni non ha dato preoccupazioni. Per forza: il prezzo delle azioni Popolare Bari lo stabiliva il consiglio di amministrazione che si avvaleva di perizie della Deloitte Financial Advisory (con il bilancio 2019 Deloitte è il nuovo revisore dopo 10 anni di Pwc), «sentito» il collegio sindacale. Parentesi sul collegio che è l’organo di controllo e vigila sull’attività degli amministratori: il presidente guadagnava 170mila euro annui e i sindaci 120mila. Nelle grandi multinazionali come l’Eni i compensi dei sindaci sono nettamente inferiori. Naturalmente la Borsa non è mai stata una vera opzione, così come la spa, perché se la banca fosse diventata «maggiorenne», se si fosse confrontata con il mercato, che fa prezzi veri, sarebbe uscita dalla tutela della famiglia e si sarebbe scoperto il giochino del prezzo artificiale. «Chi sottoscrive le nostre azioni – dichiarava Jacobini compiendo 38 anni di banca – sa che sono azioni da cassetto: acquistano sempre valore». Allora stavano a 9,53 euro, oggi virtualmente a zero. Di fatto le azioni sono da anni invendibili. È questa la grande differenza tra la Bari e storie di crac come la Carige o Mps o Popolare Etruria: qui, in Puglia, sono state messe «sotto sequestro» là invece, a Siena, Genova o Arezzo con la quotazione in Borsa potevano essere vendute o acquistate sul mercato, accettandone i rischi. La formula del mutuo che ti incolla all’azione è stata una delle più ingegnose trovate per attirare nuovi azionisti. Qualcuno è ancora «murato» dentro. Era un mutuo che con l’aumentare della partecipazione azionaria (le azioni dovevano essere inderogabilmente depositate presso la banca) permetteva di aumentare parallelamente l’importo finanziabile diminuendo lo spread: -0,10% fino a 1.000 azioni e poi via via fino a -0,20% oltre le 7.500. E guai a venderle, la penalità è un aumento immediato di 0,50 punti sul tasso stabilito nel contratto. Il socio, o socio potenziale, accettava dunque di legarsi per anni alla banca di cui diventava socio senza poter vendere, salvo vedersi rialzare il tasso. È un immenso groviglio di azionisti-debitori-creditori e prestiti mai rientrati, compresi quelli al gruppo barese Fusillo (Edilizia e turismo), ampiamente sostenuto dalla banca e protagonista di una crac da oltre 200 milioni sotto la lente della Procura di Bari. Ottocento sono i milioni persi nei bilanci della Bari in quattro anni (fino a giungo 2019), altre centinaia di milioni presumibilmente in carico all’esercizio 2019, 1,5 miliardi di risparmio (il valore delle azioni) di fatto bruciati. I numeri sono impietosi.Ma fino a ieri scrosciavano gli applausi alle assemblee della Popolare Bari dove mai si sono visti i presunti rappresentanti dei risparmiatori o gli avvocati che adesso tuonano contro il risparmio tradito. Solo un farmacista del Gargano, Raffaele Siniscalchi, ha avuto il coraggio di metterci la faccia, impugnare il microfono e criticare sua maestà Jacobini. Che cinque mesi fa, dopo 41 anni al vertice, ha lasciato lo scranno da presidente. A chi? Al nipote. Poi però, finalmente, sono arrivati i commissari inviati da Banca d’Italia.

Popolare Bari, le azioni a mogli e cognati: così i bancari hanno rovinato le loro famiglie. Federico Fubini il 17 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. Nel 2014 la signora era nel sesto anno di una sclerosi multipla complicata da una progressiva sordità da entrambe le orecchie e da un’osteoporosi grave. È allora che l’addetto della sua filiale della Banca popolare di Bari le fa una proposta. La signora dovrebbe comprare sempre nuove quote dell’istituto stesso, a un prezzo «speciale» del 6% più basso del valore di 9,53 euro per azione. Oggi valgono zero. La signora, un’ex insegnante di religione delle scuole elementari, vedova, obbligata alla sedia a rotelle e con figli da mantenere, ha investito nella banca popolare della sua città 181 mila euro. Tutti i risparmi della sua famiglia. Nel suo caso pende un ricorso all’Arbitro per le controversie finanziarie e al Tribunale per ottenere un indennizzo completo, ma a discolpa degli impiegati della Popolare di Bari vale una constatazione: spesso, hanno rovinato i loro stessi familiari. Fra il 2014 e il 2016 hanno venduto azioni senza mercato e ora senza valore ai loro fratelli, alle sorelle, alle madri e ai padri anziani. Le hanno vendute agli amici e ai cognati. «Sto difendendo una valanga di parenti stretti dei dipendenti della banca», dice l’avvocato Antonio Pinto, che per Confconsumatori sta presentando ricorsi per circa duecento risparmiatori. «Sempre più spesso mi capita di fare lo psicologo fra fratelli e sorelle, mogli e mariti». Nelle ondate di aumenti di capitale più recenti, stima Pinto, la Popolare di Bari ha distrutto 550 milioni di euro di risparmio delle famiglie. Il fatto stesso che i direttori di filiale e i consulenti finanziari vendessero ai loro parenti dimostra che, fino a tre anni fa, neanche loro si rendevano conto di cosa stavano facendo: riempivano i conti di analfabeti finanziari sempre con lo stesso titolo impossibile da rivendere, a prezzi assurdi, senza informare dei rischi, a volte senza neanche tutte le firme necessarie. Forse non era malafede (in certi casi, nelle filiali). Sempre e comunque era il punto di arrivo di una piramide di incompetenza: un’azienda che seleziona quadri capaci di rovinare i loro familiari non può avere manager degni di questo nome. L’ex presidente Marco Jacobini, i suoi figli Gianluca e Luigi - già condirettore e vicedirettore generale, oggi l’uno contro l’altro - l’ex direttore generale e poi amministratore delegato Vincenzo De Bustis si difenderanno in tribunale dai reati di cui sono accusati (tra i quali l’ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia). La sentenza c’è però già sul fatto che un mondo e un modello siano finiti. Prima della grande crisi e dell’Unione bancaria in area euro, che sposta poteri di controllo a Bruxelles e Francoforte e limita l’intervento pubblico proprio quando gli istituti sono più fragili, la Banca d’Italia aveva una sua strada. Dal 1936 la legge le assegna come prima missione, oltre alla politica monetaria, la stabilità finanziaria e non la tutela dei consumatori: ancora oggi quest’ultima non figura fra le funzioni indicate nel sito web dell’istituto. In un Paese paralizzato dal debito pubblico e dalla vita breve dei governi, i banchieri centrali si sono dunque affidati spesso a banchieri privati di provincia perché questi assorbissero concorrenti falliti e ne tamponassero i dissesti. Anche a costo di dover chiedere sempre nuove risorse ai correntisti. Anche a costo di ritrovarsi alla fine gonfi di hybris , di clientele opache, crediti inesigibili (e di segnalazioni alle Procure, quando serviva, da parte della stessa Banca d’Italia). È stata questa per anni la storia di Cesare Geronzi con Banca di Roma, di Gianni Zonin con la Popolare di Vicenza e degli Jacobini a Bari, quando si è trattato di salvare la teramana Tercas nel 2014. Ma ormai i tempi erano cambiati. La Commissione Ue decreta che i 270 milioni versati a Bari dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) per favorire l’operazione sono aiuto di Stato. Nel 2018 la Corte di giustizia Ue sconfesserà quel giudizio perché il Fitd è privato, ma ormai è tardi: la Bari aveva già colmato l’ammanco aggredendo ancora una volta i risparmi dei propri ignari clienti. Uno di questi è Salvatore Squillace, 42 anni, imprenditore barese nel turismo e nella rivendita di computer. Con il suo socio chiede un mutuo da 100 mila euro per l’acquisto di un immobile, che gli viene concesso solo dopo che ha comprato azioni della Popolare. «Siamo stati sprovveduti - ammette -. Eravamo ignoranti, non pensavamo che uno scandalo del genere fosse possibile». Ora Squillace spera di riavere parte dei 60 mila euro che ha perso, ma c’è qualcos’altro che lo preoccupa: ha letto che il governo nazionalizzerà la Bari. L’idea di una banca pubblica non lo tranquillizza affatto. «Ho sempre paura della politica e della burocrazia - dice -. Lei non immagina neanche cosa vuol dire aprire un’attività qui. Devi combattere con tutti».

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 17 dicembre 2019. Contro le accuse di non aver vigilato abbastanza sulla Banca Popolare di Bari (Bpb), che il governo ha deciso di salvare con 900 milioni di euro di soldi pubblici, Banca d' Italia tenta la carta dell' autodifesa. Un dossier di sette pagine, tabelle comprese, è stato diffuso ieri da via Nazionale, allo scopo di ricostruire «l' intensità dell' azione di vigilanza» sulla banca pugliese. Rispetto alla quale Bankitalia aveva condotto «accertamenti ispettivi» dal 2010, cui era seguita una «valutazione parzialmente sfavorevole» a causa di «carenze nell'organizzazione e nei controlli interni sul credito». Nello stesso momento il governatore Ignazio Visco partecipa a un evento programmato: la presentazione della docufiction Rai su Giorgio Ambrosoli, il commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, che negli anni 70 pagò con la vita l' aver portato alla luce un sistema politico-finanziario corrotto. Visco coglie l' occasione per ricordare che Bankitalia «era allora, è adesso, e resterà sempre un' istituzione all' esclusivo servizio dello Stato». E aggiunge: «Oggi viviamo in un clima difficile, la situazione economica non è favorevole, si è spesso alla ricerca di illusori capri espiatori». Un' allusione che fa emergere il senso di accerchiamento che si vive a Palazzo Koch dopo gli attacchi di Lega, M5S e Italia viva. Così si prova a reagire, facendo sapere che non era prevista alcuna designazione del nuovo direttore generale nella riunione di venerdì del Consiglio superiore. Perché bisogna attendere che venga formalizzato il passaggio del direttore uscente Fabio Panetta alla Banca centrale europea. Si cerca così di difendere la candidatura dell' ex Ragioniere dello Stato, Daniele Franco, messa in discussione dall' inedita coppia M5S-Iv. E poi c' è la nuova commissione d' inchiesta sulle banche in arrivo giovedì prossimo, per la cui presidenza parte del M5S vorrebbe fosse scelto Elio Lannutti, e parte Carla Ruocco o Laura Bottici. Un'altra partita delicatissima. E poi la Lega che vuole la riforma della Vigilanza, una richiesta sostenuta anche dal segretario della Cisl, Annamaria Furlan. E infine ieri l'attacco dei grillini al neocommissario della Bpb, Antonio Blandini, appena nominato da Bankitalia, ritenuto non super partes per aver fatto parte del comitato di sorveglianza di Tercas. Ma intanto c' è da difendersi dall' accusa principale sulla mancata vigilanza. In particolare sull'acquisto da parte di Bpb di Banca Tercas, autorizzato da via Nazionale nel 2014. Il sospetto è che l' operazione servisse all' istituto per rientrare dai 480 milioni di finanziamento concessi a Tercas per un primo salvataggio, finito male. Il dubbio è che Bpb, cui nel 2010 Bankitalia, in seguito a un' ispezione, aveva vietato manovre espansive, tre anni dopo non fosse nelle condizioni di acquisire Tercas. Sul punto Bankitalia chiarisce che nell' ispezione del 2013 di Bpb erano emersi «progressi» rispetto alla precedente ispezione, accanto al «permanere di alcune aree di debolezza», per il cui superamento la banca aveva «un piano di iniziative di rimedio». La cui efficacia sarebbe stata verificata prima di procedere su Tercas. Un'operazione che venne però sospesa dal veto dell'Ue, e che accumulò così ritardi nel processo di integrazione. Così come fu un'ordinanza del Consiglio di Stato a sospendere la necessaria trasformazione della Bpb in spa. Allo stesso modo rimane tuttora appeso al giudizio della Commissione europea, ancora non intervenuto, l'utilizzo ai fini del salvataggio della norma del decreto Crescita del governo gialloverde sugli incentivi fiscali che avrebbe potuto favorire le aggregazioni. In tutto questo, secondo Bankitalia, non sarebbero mancate sollecitazioni ai vertici di Bpb, ispezioni e sanzioni fino all' epilogo finale. Necessario, si fa sapere, per evitare che il Fondo interbancario sborsi 4,5 miliardi per rimborsare i depositanti.

Alessandro Barbera e Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 17 dicembre 2019. Un prestito da 480 milioni di euro concessi da Banca d' Italia a Cassa di risparmio di Teramo rimborsato dopo l' acquisizione da parte di Popolare di Bari. Non c' è traccia di questo passaggio nel pur dettagliato resoconto - ben sette pagine - con cui Banca d' Italia ricostruisce l'annunciato dissesto della banca pugliese. Vigilare sulle banche in uno dei Paesi a più alto tasso di corruzione dell'Occidente non è semplice. Ieri mattina Ignazio Visco lo ricordava alla presentazione di una fiction dedicata all' eroe borghese, Giorgio Ambrosoli, liquidatore della banca privata di Michele Sindona. «Oggi viviamo in un clima difficile, si è spesso alla ricerca di illusori capri espiatori. La Banca d' Italia era allora, è adesso e resterà sempre un' istituzione all'esclusivo servizio dello Stato». Visco non fa nomi, ma allude alle polemiche innescate dai Cinque Stelle dopo l'esplosione del caso pugliese. Un caso che - con tutto il rispetto all' istituzione- per l'ennesima volta denota una certa lentezza nel prendere decisioni a fronte di una precaria situazione finanziaria. L'omissione della ricostruzione di Banca d' Italia sul prestito è rilevante per almeno due ragioni. La prima: l' acquisto di Tercas fu sollecitato proprio da via Nazionale. La seconda: per le dimensioni e le condizioni finanziarie di Bari 480 milioni non sono poca cosa. Della vicenda si trova traccia nel bilancio del 2013 della banca salvata e commissariata nel week-end con un complesso intervento statale da novecento milioni: «A novembre è stato erogato dalla Banca (Popolare di Bari, ndr) a Banca Tercas un finanziamento per euro 480 milioni. Detto finanziamento è stato concesso per permettere a Banca Tercas di estinguere un precedente mutuo erogato dalla Banca d' Italia». Fonti della vigilanza spiegano così l'accaduto: «Si trattava di un prestito per far fronte ad una carenza di liquidità. I tempi per restituire questo tipo di erogazioni non sono lunghissimi, nell' ordine di mesi. Non appena ce ne sono state le condizioni, è stato restituito». In apparenza, tutto regolare. Con un però: la restituzione di quel prestito viene imposta ad una banca a sua volta in condizioni precarie. La prova ancora più evidente che l' acquisizione di Tercas da parte di Bari fu una scommessa finita molto male.

Facciamo un passo indietro a quell' autunno del 2013. Tercas è sull' orlo del fallimento. Dopo il crac del Banco di Napoli e il fallimento Sindona, piuttosto che far fallire una banca, a Palazzo Koch cercano istituti più grandi in grado di assorbirla. Bari non potrebbe intervenire perché dal 2010 le è vietato espandere le attività dopo una durissima ispezione: più di 1,2 miliardi di crediti deteriorati. A giugno 2014 Bankitalia toglie i vincoli a Bari, e un mese dopo approva l' acquisizione di Tercas. All' operazione partecipa anche il Fondo di tutela dei depositi con 330 milioni. Il risultato si vede nei conti dell' anno successivo: i crediti deteriorati di Bari passano da 1,2 a 2,6 miliardi. Nel 2014 Bari converte il credito residuo verso Tercas - ovvero il prestito servito a rimborsare Bankitalia - in nuove azioni Tercas con un aumento di capitale. Eppure nel 2013 era stata proprio la vigilanza a segnalare l' eccessiva esposizione di alcuni imprenditori. Un caso emblematico è quello dei Fusillo e dei Curci, ai quali fa capo la holding Maiora Group. Nel 2011 vendono un immobile ad un fondo gestito da Sorgente Sgr: con l' incasso abbattono il debito verso la Popolare, la quale a sua volta sottoscrive tutte le quote. Quello che era un prestito «difficile» è diventato un investimento. La vigilanza segnala, Bankitalia redarguisce, la sostanza non cambia. Tra il 2014 e il 2015 la Popolare di Bari rafforza il proprio capitale per 550 milioni di euro tra emissioni di nuove azioni - 330 milioni - e obbligazioni subordinate, altri 220 milioni. È in questo periodo che la base sociale di Bari si dilata fino agli attuali settantamila soci. L' Europa nel frattempo non ha aiutato: nel 2015 la Commissione di Bruxelles dichiara l' intervento del Fondo interbancario su Tercas aiuto di Stato. Solo pochi mesi fa la Corte di giustizia ha dato ragione all' Italia annullando la decisione della Commissione. Ma ormai la frittata era fatta.

Popolare di Bari, quella retromarcia della Vigilanza per salvare Tercas. Gli esiti dell'ispezione letti da Carmelo Barbagallo e la revoca del divieto di acquisizioni bancarie: ecco tutti i passaggi. Luca Sablone, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Nel governo continua a tenere banco la questione relativa alle responsabilità tra vigilanza e amministratori per quanto riguarda il caso della banca popolare di Bari. Sotto la lente di ingrandimento è finito il via libera della Banca d'Italia per l'acquisizione della banca abruzzese Tercas che ha provocato effetti evidenti alla BPB: tra il 2015 e il 2016 i crediti deteriorati passarono da circa 700 milioni di euro a 1 miliardo e 400 milioni; si raddoppiarono inoltre le sofferenze, passate da 250 milioni a poco meno di 500. Ci si domanda quale sia stata la motivazione per la quale venne rimosso il provvedimento di blocco ad altre acquisizioni bancarie adottato dalla Banca d'Italia verso la Popolare nel 2010. Come riportato dall'edizione odierna de La Repubblica, le risposte si troverebbero nelle mosse di Carmelo Barbagallo, che può vantare di aver ricoperto ruoli di prestigio come alto dirigente di Bankitalia, direttore centrale per la Vigilanza bancaria e finanziaria, capo del dipartimento vigilanza bancaria e ora presidente dell'Aif, l'Autorità di informazione finanziaria antiriciclaggio del Vaticano.

Le tappe. Tutti i vari step verificatisi tra il 2013 e il 2014 sono stati riassunti in una nota ufficiale di Bankitalia: "Nel 2013 la Popolare viene nuovamente sottoposta ad accertamenti mirati sul rischio di credito, sulla governance aziendale, sul sistema dei controlli interni e sulle tematiche di compilance". Le verifiche in questione mettono in luce "progressi rispetto a quanto riscontrato durante l'ispezione del 2010". Inoltre viene evidenziato il "permanere di alcune aree di debolezza, per il cui superamento la banca programma un piano di iniziative di rimedio". Successivamente la Vigilanza richiede alla funzione di Internal Audit e al Collegio sindacale "una specifica verifica sull'efficacia di questo piano". A galla vengono una "sostanziale idoneità delle misure adottate" e il "rispetto della tempistica programmata". Considerando gli interventi posti in essere e le relazioni fornite, nel giugno del 2014 "vengono rimossi i suddetti provvedimenti restrittivi". Dunque nel luglio del medesimo anno la Banca d'Italia "autorizza la banca popolare di Bari ad acquisire il controllo di Banca Tercas". Con l'intento principale di garantirne la sostenibilità, l'intervento viene accompagnato "da un contributo di €330 milioni alla banca popolare di Bari da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi". Il coinvolgimento della BPB nell'operazione di acquisizione di Tercas si profila come "un intervento di 'salvataggio'" con l'obiettivo di salvaguardare "l'interesse dei depositanti" e di rilanciare "commercialmente il gruppo abruzzese".

Il dietrofront. Tuttavia, i documenti della popolare di Bari in possesso de La Repubblica, testimoniano l'avvenimento di due episodi insoliti: nello specifico si tratta di un verbale del consiglio di amministrazione della banca barese del 23 ottobre 2013. Quel giorno alla BPB non sono ancora noti gli esiti dell'ispezione, ma alle 11.00 del mattino "il presidente (Marco Jacobini, ndr) accoglie in sala consiliare il dott. Carmelo Barbagallo [...] perché proceda alla lettura del rapporto ispettivo". Il quotidiano fa notare che "non è esattamente consuetudine che il direttore della Vigilanza di Bankitalia dia lettura di un rapporto ispettivo del cda della banca ispezionata". Tenendo in considerazione soprattutto il fatto che il suo ruolo in quel momento è quello di informare che i risultati sono stati "parzialmente sfavorevoli" per le medesime ragioni che portarono al blocco del 2010 ad attività di acquisizione da parte della Popolare. Ma è proprio ciò che sarebbe accaduto quel 23 ottobre, quando si sarebbe verificata una singolare coincidenza: mediante una lettera inviata alla Tercas, la banca popolare di Bari avrebbe manifestato la volontà di partecipare al salvataggio dell'istituto abruzzese "per un importo complessivo non inferiore a 280 milioni di euro". E anche di erogare "un mutuo di 480 milioni che consenta allo stesso istituto di estinguere il finanziamento" concesso dalla Banca d'Italia a titolo di liquidità di emergenza. Le mosse per acquisire Tercas avvengono dunque sotto gli occhi della Banca d'Italia, nonostante vige il blocco del 2010 che impedisce di farlo. Il 10 giugno del 2014 arriva la rimozione del divieto al termine di due passaggi "suggestivi": l'erogazione del mutuo di 480 milioni a Tercas e le controdeduzioni alle osservazioni "parzialmente sfavorevoli dell'ispezione".

I soldi dei magistrati nella banca (quasi) fallita. Giovanni Altoprati il 17 Dicembre 2019 su Il Riformista. A chi ha affidato le proprie – ingenti – risorse economiche il Consiglio superiore della magistratura? Alla Banca popolare di Bari. L’istituto di credito pugliese salvato dal fallimento grazie ad uno stanziamento urgente di 900 milioni di euro deciso domenica scorsa dal governo. Per la cronaca, la Bpb ha anche uno sportello all’interno di  Palazzo dei Marescialli e, sembra, in questo caso la privacy è d’obbligo, abbia pure stipulato condizioni estremamente vantaggiose per i signori magistrati in servizio al Csm. La vicenda, considerata la disastrata condizione patrimoniale della Bpb, nota a tutti da anni, ha semplicemente dell’incredibile. Soprattutto se si considera la velocità con cui il Csm, senza alcun processo, ha costretto alle dimissioni cinque togati macchiatisi della “gravissima” colpa di essere andati a cena con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti, insieme all’ex presidente dell’Anm Luca Palamara.  Il Csm, in quanto organo di rilevanza costituzionale, non è assoggettato per legge alla tesoreria unica.  Essendo in regime di “autonomia finanziaria” si avvale, dunque, di un  istituto di credito privato. Che fra i tanti istituti di credito della Penisola la Bpb fosse uno di quelli messi peggio, però, non è una novità di questi giorni. Nel 2010, infatti, la Banca d’Italia aveva evidenziato, a seguito di ispezioni, «carenze nell’organizzazione e nei controlli interni sul credito». Nel 2014, l’acquisto della traballante Cassa di risparmio di Teramo (Tercas), con la partecipazione per 330 milioni del Fondo interbancario di tutela dei depositi, al quale si oppose la Commissione europea ritenendolo un aiuto di Stato, aveva aggravato la situazione. Il 2015 segna l’inizio della fine: le azioni della banca pugliese crollano, suscitando la rabbia dei soci. Nel 2016 altra ispezione della Banca d’Italia che rileva «significativi ritardi rispetto agli obiettivi prefissati» e, nuovamente, «l’esigenza di rafforzamento nel sistema dei controlli sui crediti». Nel 2017 scatta l’ultimatum di via Nazionale: urge un aumento di capitale per impedire il baratro. Il 2018 si chiude con un rosso record per il sistema bancario italiano. Il buco nella casse della Bpb ammonta ad oltre 430 milioni. Lo scorso giugno, infine, l’ennesima visita degli ispettori della Banca d’Italia con annessa stroncatura. Si evidenzia, scrivono gli uomini di Ignazio Visco, «l’incapacità della governance di adottare le misure correttive per riequilibrare la situazione patrimoniale. Le gravi perdite portano i requisiti prudenziali di Vigilanza al di sotto dei limiti regolamentari». Da lì il commissariamento. Ma come se non bastasse questo quadro di “mala gestio” finanziaria, che avrebbe suggerito maggiore prudenza da parte del Csm nel continuare ad avvalersi dell’istituto di credito pugliese per gestire le proprie risorse, c’è anche il risvolto penale. Nel 2016 la Procura di Bari ha aperto un fascicolo per associazione a delinquere, truffa, ostacolo alla vigilanza, false dichiarazioni in prospetto, nei confronti dei vertici della Bpb. Fra gli indagati, il suo presidente Marco Jacobini e l’amministratore delegato Vincenzo De Bustis. La scorsa estate, il presidente De Bustis era stato sostituito da Gianvito Gianelli, un professore la cui moglie è Isabella Ginefra, sostituto procuratore a Bari fino al mese di settembre del 2018, prima di essere nominata procuratore a Larino (CB). Nomina poi annullata questo agosto dal Tar del Lazio.

Banca di Bari, mutui “stracciati” per i membri del Csm. Giovanni Altoprati il 18 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il Consiglio superiore della magistratura affidò alla Banca popolare di Bari, salvata dal fallimento lo scorso fine settimana, il proprio servizio di tesoreria durante il week end di Ferragosto del 2015. Se non fosse vero ci sarebbe da ridere. Invece andò proprio così. In una Roma deserta e con l’attività istituzionale di Palazzo dei Marescialli cessata da almeno un paio di settimane per la pausa estiva, l’ultimo Plenum si tenne alla fine di luglio, venne deciso il nome della banca che avrebbe gestito per i successivi cinque anni un patrimonio di oltre cento milioni di euro. Il Csm, organo di rilevanza costituzionale e dotato di ampia autonomia, non era e non è assoggettato alla tesoreria unica, e si è sempre avvalso per tale incombenza di un istituto di credito privato. Una “anomalia” evidenziata anche dal Collegio dei revisori dei conti. L’affidamento, per legge, è sempre avvenuto mediante una gara pubblica. Come accadde quell’anno. Il termine ultimo per presentare le domande, nella torrida estate del 2015, venne fissato alle ore 14.00 del 16 agosto, una domenica. Alle banche che volevano concorre per il prestigioso incarico erano stati concessi solo otto giorni di tempo: l’avviso del bando di gara comparve nella Gazzetta ufficiale del 7 agosto. Un annuncio, semi nascosto, fra le oltre 250 pagine che componevano il numero 92 della Gazzetta ufficiale di quell’anno. A firmare il bando era stato il segretario generale del Csm, Paola Pieraccini, un magistrato fuori ruolo. Per allettare il Csm, la Banca popolare di Bari mise sul piatto un pacchetto di condizioni estremamente vantaggiose per tutti. C’era infatti la possibilità, per i magistrati del Csm, di avere mutui a tassi stracciati, conti correnti con spese di gestione irrisorie, finanziamenti a tassi bassissimi. L’unico requisito voluto dal Csm per aggiudicarsi la ricca posta era quello di produrre “l’offerta economicamente più vantaggiosa”. Nessun punteggio sulla solidità finanziaria della banca, sulla sua diffusione sul territorio, sul benchmark. Nulla di nulla. Solo “l’offerta economicamente più vantaggiosa”. Anche perché sarebbe stato molto difficile competere con chi fino a quel momento gestiva la cassa. E cioè Banca Intesa San Paolo, il primo gruppo bancario italiano, fra i primi dieci in Europa. Alla Banca popolare di Bari, con solo cinque filiali in tutto il Lazio, di cui quattro a Roma, riuscì quindi l’impresa di scalzare un colosso da 100.000 dipendenti, oltre 30 miliardi di fatturato e filiali in 85 Paesi. Il resto è cronaca, drammatica, di questi giorni. Il buco di bilancio della Banca Popolare di Bari ha raggiunto dimensioni record. Circa mezzo miliardo che il governo ha iniziato a ripianare con un maxi finanziamento di 900 milioni disposto domenica scorsa. Già nel 2015, comunque, per la banca pugliese la situazione non era affatto rosea. Come certificato dalle numerose ispezioni della Banca d’Italia. Ma, evidentemente, per il Csm era importante solo “l’offerta economicamente più vantaggiosa”.

Banca Popolare di Bari, spuntano i prestiti agli amici della Lega. La banca pugliese ha finanziato un imprenditore di Varese (poi fallito), vicino a Giorgetti. Altri soldi al costruttore Parnasi che  ha investito cinque milioni di euro nei titoli dell'istituto in grave crisi. Vittorio Malagutti il 20 dicembre 2019 su L'Espresso. Si fa presto a dire «banca del territorio». Per anni un esercito di commentatori, analisti, politici e cortigiani di ogni ordine e grado ha difeso con dotti articoli il ruolo insostituibile di istituti come la Popolare di Bari nel sostenere l’economia locale, ovvero quella rete di piccole aziende, artigiani e famiglie altrimenti facili prede dei colossi globali del denaro, macchine infernali che da Udine a Siracusa schiacciano il cliente negli ingranaggi dell’alta finanza. Tutto vero, tutto giusto, in teoria. Se non fosse che la retorica del campanile è stata infine smentita dai fatti. E dai bilanci. La banca pugliese gestita per tre decenni dalla famiglia Jacobini, il presidente Marco e i due figli direttori generali Gianluca e Luigi, è arrivata nei giorni scorsi al capolinea del commissariamento sotto il peso di prestiti a rischio per 1,2 miliardi, pari, al netto delle rettifiche, al 15 per cento del totale dei crediti. Una montagna di spazzatura finanziaria che si è accumulata negli anni per effetto di una lunga serie di favori agli amici e agli amici degli amici. Peggio ancora. Mentre la Vigilanza di Banca d’Italia, nonostante i conti in bilico segnalati da ispezioni e controlli, non ha mai mancato di rinnovare la propria fiducia a Jacobini e soci, i vertici della Popolare Bari si sono lanciati in una corsa spericolata per salvare il salvabile, in una spirale di affari sul filo del rasoio difficili da spiegare se non con la ricerca disperata di consenso nel mondo della politica. Niente a che fare con il territorio, questa volta. I soldi generosamente elargiti dalla banca hanno preso il volo con destinazioni molto lontane dalla Puglia. Dalle carte che L’Espresso ha potuto esaminare si scopre così che la banca degli Jacobini ha finanziato per esempio la famiglia Monferini, costruttori con base a Varese. È finita male. Le società del gruppo, cresciute a passo di carica un decennio fa, sono andate in bancarotta nel 2017. L’esposizione della Popolare di Bari verso questi creditori falliti ammontava a circa 10 milioni. Difficile non notare, a questo punto, che il prestito è stato accordato proprio quando al timone dell’istituto, con i gradi di amministratore delegato, c’era Giorgio Papa, anche lui di Varese, un manager molto vicino alla Lega, tanto da approdare nel 2011 alla poltrona di direttore generale di Finlombarda, holding pubblica della regione Lombardia. Nella primavera del 2015 gli Jacobini scelsero Papa per sostituire Vincenzo De Bustis, destinato a tornare in sella, con il via libera di Bankitalia, a gennaio di quest’anno, quando la Popolare si stava ormai avvitando in picchiata. Quattro anni fa, il nuovo amministratore delegato si era portato in dote, tra l’altro, ottimi rapporti con i vertici della Lega, a cominciare dal numero due del partito, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, un altro varesino che ben conosce i Monferini, i costruttori falliti finanziati dalla Popolare Bari. Nel consiglio di amministrazione della banca pugliese aveva peraltro trovato posto di recente anche Giulio Sapelli, l’economista proposto da Matteo Salvini per la presidenza del Consiglio dopo le elezioni del 2018. Per il cattedratico sponsorizzato dalla Lega fu poco più che una toccata e fuga: nominato nel board della banca ad aprile dell’anno scorso e poi designato vicepresidente, otto mesi dopo Sapelli si era già dimesso, proprio in coincidenza con il ritorno al vertice di De Bustis. Ben più consolidata nel tempo risulta invece la frequentazione tra Giorgetti e il costruttore romano Luca Parnasi, anche lui beneficiato da prestiti per decine di milioni dalla banca degli Jacobini. Come noto, Parnasi, coinvolto in un’inchiesta giudiziaria della procura di Roma, è stato arrestato nel giugno del 2018 e gran parte delle sue aziende, da tempo in difficoltà, adesso sono in liquidazione. Le indagini hanno rivelato che l’imprenditore capitolino era ben conosciuto nel mondo politico: ha finanziato fondazioni vicine alla Lega e al Pd e aveva trovato una sponda sicura anche nei Cinque stelle grazie ai rapporti con l’avvocato Luca Lanzalone (pure lui arrestato), a lungo consulente prediletto del sindaco di Roma, Virginia Raggi. Nel 2015 il gruppo del costruttore doveva già far fronte a una grave crisi. L’indebitamento aveva superato da tempo il livello di guardia e le banche, in prima fila Unicredit che era la più esposta, facevano pressioni per rientrare dai loro prestiti. È a questo punto che arriva la ciambella di salvataggio gentilmente offerta dalla Popolare di Bari, pronta ad aprire i cordoni della borsa con l’imprenditore in difficoltà. I crediti targati Jacobini, con il leghista Papa amministratore delegato, andarono a finanziare Figepa, holding di Parnasi a cui faceva capo il controllo di Parsitalia, la principale società del gruppo con i conti in rosso profondo. A ottobre del 2015 l’istituto pugliese ha accordato un mutuo da 20 milioni a Figepa, che senza quei soldi rischiava di portare i libri in tribunale. Nonostante le gravi difficoltà di bilancio, la holding di Parnasi non ha però rinunciato a comprare azioni della Popolare di Bari per 5 milioni di euro. L’operazione ha tutte le caratteristiche di quelli che in gergo vengono chiamati “finanziamenti baciati”. In altre parole la banca presta denaro che viene in parte reinvestito dal debitore in azioni della banca stessa. L’affare dev’essere sfuggito alla Vigilanza del governatore Ignazio Visco. Non sono emerse “significative evidenze di operazioni baciate”, questo infatti è quanto si legge nota ufficiale diffusa lunedì 16 dicembre dalla Banca d’Italia per riassumere le attività di verifica e controllo svolte negli anni scorsi a Bari. Da notare che a partire almeno dal 2014, Jacobini ha fatto una gran fatica a rastrellare nuove risorse sul mercato. Il salvataggio della decotta Tercas, caldeggiato e pilotato da Bankitalia, aveva affossato i conti dell’istituto pugliese, chiusi nel 2015 con 275 milioni di perdite. Nel frattempo, migliaia di piccoli azionisti, nell’esercito degli oltre 70 mila soci, cercavano senza successo di mettere in vendita i loro titoli, trattati in una sorta di borsino informale gestito dalla Popolare. Parnasi invece, a quanto risulta dalle carte ufficiali, è andato contro corrente. Forte anche dei soldi incassati grazie al prestito targato Bari,  il costruttore ha scommesso 5 milioni sulla banca in crisi. Gli è andata male. Il valore di quei titoli è ormai prossimo allo zero. D’altra parte anche l’istituto farà molta fatica a recuperare il proprio credito: Figepa ha perso 26 milioni nel 2017, altri 6 milioni l’anno scorso e ad aprile è stata messa in liquidazione. Vale lo stesso discorso per Ferrara 2007, un’altra società della galassia di Parnasi che a giugno è arrivata a fine corsa con un debito di 30 milioni nei confronti della Popolare di Bari. Quest’ultima, a conti fatti, ha quindi elargito almeno 50 milioni a un imprenditore con l’acqua alla gola, denaro che ora rischia di andare in fumo nel gran falò dei conti dell’istituto. Qui la Puglia non c’entra. Il prestito è partito in direzione Roma per finanziare attività che nulla hanno a che fare con il territorio che la banca degli Jacobini sarebbe chiamata a presidiare. Di recente è anche capitato che la Popolare ora commissariata sia stata costretta a giocare di sponda nella capitale per aggiustare partite a rischio aperte a Bari. La pista questa volta porta a pochi metri da Fontana di Trevi, in uno dei luoghi più visitati della città e forse del mondo. Il fiume dei turisti scorre a fianco di un palazzo Art Nouveau che fino a pochi anni fa ospitava gli uffici dell’Authority delle comunicazioni. Due anni fa l’immobile ha cambiato proprietario. A vendere sono stati i Fusillo, famiglia di costruttori pugliesi pesantemente indebitata con la Popolare di Bari. Nel ruolo di compratore è invece sceso in campo l’immobiliarista Salvatore Leggiero, che ha sborsato circa 50 milioni per aggiudicarsi gli oltre 5 mila metri quadrati su quattro piani e una magnifica terrazza sul tetto che si affaccia su via delle Muratte. Come confermano i documenti ufficiali consultati da L’Espresso, il conto dell’operazione è stato in buona parte pagato dalla banca degli Jacobini che ha finanziato una società di Leggiero, la Roma Trevi, con un mutuo di 32,5 milioni, cioè il 75 per cento circa del prezzo d’acquisto. Un altro prestito di circa 6 milioni servirà invece a pagare i lavori di ristrutturazione. Il cerchio si è chiuso, quindi. La Popolare di Bari è riuscita a cambiare cavallo in corsa trasferendo il proprio credito da un debitore in gravissima difficoltà a un altro che offriva maggiori garanzie. Una scelta azzeccata, possiamo dire con il senno di poi. Due mesi fa il gruppo Fusillo, già proprietario, tra molto altro, del palazzo a due passi da Fontana di Trevi, ha fatto crack. Per gli Jacobini è stata una mazzata pesantissima. Per anni l’istituto aveva finanziato le iniziative della famiglia di costruttori finiti nei guai: centri commerciali, villaggi turistici, un polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Già nel 2013 il Maiora group controllato dai Fusillo e dichiarato fallito a fine settembre, era il principale debitore della Popolare di Bari, esposta in totale per 131 milioni di ero. Questa situazione a dir poco allarmante era ben conosciuta da Bankitalia. Infatti, il rapporto della Vigilanza a conclusione dell’ispezione del 2013 nella banca barese recita testualmente che a favore del Maiora group “sono stati riscontrati ripetuti interventi creditizi non sempre sufficientemente vagliati né (….) esaustivamente rappresentati al consiglio (della Popolare Bari, ndr)”. Già all’epoca, peraltro, le aziende dei costruttori pugliesi erano in difficoltà. Nella relazione ispettiva si legge che «la concreta realizzazione» del piano di rilancio dell’azienda «andrà scrupolosamente monitorata». Sono passati sei anni e nel frattempo qualcuno deve essersi un po’ distratto. I Fusillo sono andati dritti verso il crack, mentre la banca ha fatto i salti mortali per tappare le falle sempre più numerose nei propri bilanci. Maiora, per esempio, ha venduto immobili a un fondo comune del gruppo Sorgente interamente controllato dall’istituto barese. Tutto sotto gli occhi di Bankitalia, che solo pochi giorni fa ha finalmente deciso di staccare la spina. Troppo poco. Troppo tardi.

Popolare di Bari, le registrazioni segrete: “È tutto truccato, Bankitalia è dalla nostra parte”. Esclusiva di Fanpage.it: il 10 dicembre 2019, a tre giorni dal consiglio dei ministri che avrebbe commissariato la banca, l’Ad e il Presidente di Bpb parlavano ai manager della banca negando la possibilità di un intervento del governo e squarciando il velo sulle reali condizioni della Banca Popolare di Bari. Un istituto “dalla redditività inesistente” con un management “cattivo, irresponsabile, esaltato” e direttori di filiali che “hanno truccato tutti i conti”. Francesco Cancellato il 17 dicembre 2019 su Fanpage.it. “Non c’è rischio di commissariamento. Entro Natale la banca sarà salva”. È il 10 dicembre quando Gianvito Giannelli e Vincenzo De Bustis, rispettivamente presidente e amministratore delegato della Banca Popolare di Bari prendono la parola in una riunione con i manager della banca pugliese. Tre giorni prima del Consiglio dei Ministri del 13 dicembre che ha deciso per il commissariamento dell’istituto, cinque prima di quello che ha deciso per il salvataggio della banca attraverso un esborso complessivo di 900 milioni di euro. Nella registrazione di quell’incontro, che Fanpage.it pubblica in esclusiva, i due parlano a ruota libera ai dipendenti di quel che sarà il futuro prossimo della banca, e ostentano un’insolita tranquillità nel delineare gli scenari, quasi davvero non si aspettassero l’intervento a gamba tesa Consiglio dei Ministri: “Ci appoggia il mondo politico, e ci appoggia anche la vigilanza”, continua Giannelli. “Bontà loro, e per ragioni strategiche altissime, qualcuno ha deciso che la banca debba sopravvivere”,  gli fa eco De Bustis. Loro, per la cronaca, sono il Ministero del Tesoro e Bankitalia, che attraverso l’iniezione di capitale di 1 miliardi di euro attraverso il Mediocredito Centrale e il Fondo interbancario di tutela dei depositi avrebbero dovuto mettere in sicurezza il patrimonio dell’istituto. Gli stessi che daranno il via libera al commissariamento, meno di 72 ore dopo. Resta da chiedersi come mai, quindi Giannelli e De Bustis fossero così sicuri del loro, tanto da esporsi personalmente coi manager della banca. Addirittura, l’amministratore delegato delinea una road map che passa dall’assemblea dei soci del 18 di dicembre, quella in cui la Popolare di Bari diventerà una Spa – dopo la quale «non ci sono più le regole: si funziona come una spa, contano solo i risultati» – sino a un nuovo piano industriale in cui la banca dovrà aumentare notevolmente i ricavi attraverso politiche commerciali aggressive. Su questo De Bustis è più che didascalico: “La banca diventerà molto forte dal punto di vista patrimoniale, avrà lo Stato dietro – istruisce i suoi direttori di filiale -, quindi potrete dire che la Popolare di Puglia e Basilicata ‘sta un po’ così’, che la Banca Popolare Pugliese traballa, che i soldi vi conviene darli a noi che c’abbiamo lo Stato dietro. Li sfondate, se c’avete la forza e l’energia commerciale”. Curioso, al pari, che quegli stessi direttori di filiali che De Bustis sferza ad andare dai clienti “col coltello tra i denti”, e ai quali imputa “qualcosa come 6-7 miliardi di raccolta che mancano”, siano gli stessi che lo stesso amministratore delegato, pochi minuti dopo, accusa di aver truccato i conti della banca per anni: “Quando sono arrivato la prima volta (De Bustis è già stato direttore generale dell’istituto barese tra il 2011 e il 2015, ndr) c’era un signore coi capelli bianchi a capo della pianificazione e controllo, a cui chiesi di vedere i dati delle filiali. Tutti truccati. Truccavate persino i conti economici delle filiali. Taroccati. Chiesi anche di vedere la lista delle prime 50 aziende affidatarie e non me l’hanno mai portata. Quell’epoca è finita. Su queste cose i nuovi padroni vi faranno l’esame del sangue”, sembra quasi minacciarli.

“Un taglio degli organici molto importante”. Nella sua disamina, De Bustis sorvola l’ultima delle indagini in cui è stato coinvolto – di cui si è avuta notizia il 5 dicembre, cinque giorni prima dell’incontro registrato -, indagine relative all’emissione di un bond da 30 milioni di euro, sottoscritto dalla società maltese Muse Ventures Ltd con un capitale di soli 1.200 euro. Un’operazione di cui De Bustis informerà il consiglio d’amministrazione a fine 2018, dandola per conclusa, ma che salterà pochi giorni dopo quando l’istituto di credito coinvolto nell’emissione dei titoli, Bnp Paribas, rileverà problemi di trasparenza, di rispetto delle regole e di gestione dei rischi finanziari. Al contrario, l’amministratore delegato di PopBari è molto loquace e diretto quando si tratta di parlare dei tagli del personale e dei nuovi strumenti finanziari della banca: “Il piano di ristrutturazione prevede un taglio degli organici molto importante”, racconta, facendo eco ad interviste in cui parla di 800 uscite, senza licenziamenti. Prepensionamenti, quindi, ma anche in questo caso il De Bustis privato alimenta dubbi, anziché fugarne: “Si va a tagliare i rami secchi e i rami secchi sono fatti di numeri. Non ci sono giovani e vecchi, figli e figliastri. Sono i risultati a parlare”, spiega. Parole che paiono preludere a licenziamenti, più che a prepensionamenti. 

“Che c… me ne frega del verde?” Anche relativamente a nuovi strumenti finanziari come i green bond De Bustis è molto diretto: “Perché ho rotto tanto le scatole per lanciare questo green bond? Mica per il verde! A me che cazzo me frega del verde? Niente! Per carità è un settore importante, ma è la tecnica che mi interessa tantissimo, è il capital light. Cioè di fare assistenza alle imprese cercando di non assorbire il patrimonio e portare i soldi a casa – spiega ai suoi manager – Certo, abbiamo cominciato con una cosa un po’ sofisticata, che è quella del verde, perché abbiamo un problema di reputazione della banca”. Ed è qui, in fondo, il cuore di tutto: come può una banca che ha perso il 90% del valore delle sue azioni in pochi anni, che ha truccato i conti delle filiali, che ha fatto comprare ai propri correntisti obbligazioni e azioni della banca in cambio di credito, fidi e mutui – esattamente come accadeva per le banche venete – e che da anni provano invano a vendere quei titoli e che ha il management e la proprietà, al netto della vicenda del bond maltese, sotto inchiesta per associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia, false dichiarazioni, mobbing e minacce, a salvarsi dal proprio enorme problema di reputazione? “È stato veramente irresponsabile quello che è successo negli ultimi tre, quattro anni. Questa banca è un esempio di scuola di cattivo management, irresponsabile, esaltato”, conclude De Bustis. E dargli torto, in questo caso, è davvero difficile.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Se è vero come è vero che il via libera da parte della Banca d' Italia all' acquisizione, nel 2014, della decotta Banca abruzzese Tercas, scaraventò la Popolare di Bari in un abisso che non sarebbe più riuscita a rimontare (nel giro di un anno dall' incorporazione, tra il 2015 e il 2016, i crediti deteriorati della Popolare passeranno da circa 700 milioni di euro a 1 miliardo e 400 milioni e si raddoppieranno le sofferenze, da 250 milioni a poco meno di 500), la domanda su cui si gioca in queste ore la partita politica delle responsabilità tra vigilanza e amministratori, torna ad essere una sola.

Cosa giustificò quel via libera? In altre parole, perché, nel 2014, venne rimosso il provvedimento di blocco ad altre acquisizioni bancarie adottato dalla stessa Banca d' Italia nei confronti della Popolare nel 2010? (è la vicenda di cui "Repubblica" ha dato conto ieri). La risposta, lo vedremo, è nelle mosse di un alto dirigente di Bankitalia, un catanese di 63 anni che ha trascorso la sua intera vita professionale a Palazzo Koch, fino a diventare prima Direttore Centrale per la Vigilanza bancaria e finanziaria (febbraio-dicembre 2013) e quindi capo del Dipartimento vigilanza bancaria (dal gennaio 2014 al giugno scorso). Che di nome fa Carmelo Barbagallo e che, poche settimane fa, alla fine di novembre, Papa Francesco ha chiamato in Vaticano per affidargli la presidenza dell' Aif, l'Autorità di Informazione Finanziaria antiriciclaggio della Santa Sede. Barbagallo, la Popolare di Bari, l' acquisizione di Tercas, dunque.

La ricostruzione di Bankitalia. Come sono andate le cose? Di quanto accade tra il 2013 e il 2014, la ricostruzione di Bankitalia, affidata a una lunga nota scritta, è questa: «Nel 2013 - si legge - la Popolare viene nuovamente sottoposta ad accertamenti ispettivi mirati sul rischio di credito, sulla governance aziendale, sul sistema dei controlli interni e sulle tematiche di compliance. Le verifiche mettono in luce progressi rispetto a quanto riscontrato durante l' ispezione del 2010. Viene peraltro evidenziato il permanere di alcune aree di debolezza, per il cui superamento la banca programma un piano di iniziative di rimedio ». E ancora: «La Vigilanza richiede alla funzione di Internal Audit e al Collegio Sindacale una specifica verifica sull' efficacia di questo piano. Ne emerge la sostanziale idoneità delle misure adottate nonché il rispetto della tempistica programmata. In considerazione degli interventi posti in essere e delle relazioni fornite dall' internal audit e dal Collegio Sindacale, nel giugno 2014, vengono rimossi i suddetti provvedimenti restrittivi».

Dunque, «Nel luglio 2014 la Banca d' Italia autorizza la Banca Popolare di Bari ad acquisire il controllo di Banca Tercas. Al fine di garantirne la sostenibilità, l' intervento viene accompagnato da un contributo di 330 milioni alla Banca Popolare di Bari da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (Fidt)... Il coinvolgimento della Popolare nell' operazione di acquisizione di Tercas si configura come un intervento di "salvataggio" volto alla salvaguardia dell'interesse dei depositanti e al rilancio commerciale del gruppo abruzzese». A leggere la nota, una traiettoria lineare, insomma. E tuttavia, i documenti interni della Popolare di Bari cui Repubblica ha avuto accesso, danno alla storia dei rapporti tra Bankitalia e la Popolare in occasione dell' acquisizione di Tercas un giro quantomeno più complesso. Un documento in particolare: il verbale del consiglio di amministrazione della banca barese del 23 ottobre del 2013.

Perché quel giorno accade una cosa insolita. Anzi, ne accadono due. Vediamo.

Quel cda con il capo della Vigilanza. Il 23 ottobre 2013, la Popolare ancora non conosce gli esiti dell' ispezione che Palazzo Koch ha condotto a Bari tra la fine di aprile e i primi di agosto di quell' anno. Ma, alle 11 del mattino - annota il verbale del Consiglio di amministrazione - «Come da accordi precedentemente stabiliti, il Presidente (Marco Jacobini ndr .) accoglie in sala consiliare il dott. Carmelo Barbagallo... perché proceda alla lettura del rapporto ispettivo, che ha riguardato il rischio di credito, la governance aziendale, il sistema dei controlli interni e la compliance». Non è esattamente consuetudine che il direttore della Vigilanza di Bankitalia dia lettura di un rapporto ispettivo al cda della banca ispezionata. A maggior ragione se - come annota ancora il verbale del cda - è lì per informare che gli esiti dell' ispezione sono stati «parzialmente sfavorevoli » per le stesse ragioni che avevano portato al blocco del 2010 ad attività di acquisizione da parte della Popolare. Ma è quel che avviene quel 23 ottobre. E la ragione è in una singolare coincidenza. Proprio quel giorno - è ancora il verbale del cda a documentarlo - la Popolare, con una lettera inviata a banca Tercas e per conoscenza a Banca d' Italia, manifesta l' intenzione di partecipare al salvataggio dell' istituto abruzzese «per un importo complessivo non inferiore a 280 milioni di euro» e ad erogare un mutuo di 480 milioni che consenta allo stesso Istituto di estinguere il finanziamento che la Banca d' Italia aveva concesso a titolo di liquidità di emergenza.

Un mutuo a Tercas per il via libera da Palazzo Koch. La Popolare di Bari, dunque, si muove per acquisire Tercas sotto gli occhi della Banca d' Italia, in costanza del divieto di farlo (il 23 ottobre 2013 valeva ancora il blocco del 2010) e degli esiti «parzialmente sfavorevoli» dell' ispezione che aveva subito. Lo fa sotto gli occhi del direttore della vigilanza e ottiene la rimozione del blocco il 10 giugno del 2014. Dopo due passaggi. Anch' essi diciamo pure suggestivi: l' erogazione del mutuo di 480 milioni a Tercas (5 novembre del 2013). E le controdeduzioni alle osservazioni «parzialmente sfavorevoli dell' ispezione » illustrati da Barbagallo (11 novembre del 2013) che Bankitalia prenderà per buone sulla parola. Come se Bankitalia fosse costretta a scegliere il male minore. Condannare Tercas e i suoi correntisti o darle un' altra chance, accollandola all' unica banca che non è nelle condizioni di dire no. Un bel dilemma.

Patuanelli contro Bankitalia: “Non esercita funzione di vigilanza”. Antonella Ferrari il 18/12/2019 su Notizie.it. "Non esercita fino in fondo la sua funzione di vigilanza e ciò è costato il fallimento di molte famiglie" ha detto Patuanelli. Durissimo attacco di Stefano Patuanelli contro Bankitalia. “È evidente che Bankitalia non esercita fino in fondo la sua funzione, cosa che è costata il fallimento di molte banche e di molte famiglie” ha detto il ministro dello sviluppo economico ed esponente del Movimento 5 Stelle durante il suo intervento a Stasera Italia parlando del caso della Popolare di Bari. Va detto, ad onor del vero, che non è la prima volta che un ministro pentastellato manifesta forti critiche contro l’operato di Bankitalia, tuttavia non era mai avvenuto un attacco così diretto derivante da un esponente chiave dell’esecutivo come Stefano Patuanelli, il quale però non si è fermato e ha detto la sua anche sulla figura di Elio Lannutti, candidato M5s alla guida della commissione sulle banche attaccato dal Pd.

Il caso Lannutti. “Non si può discutere la sua capacità per la sua storia, la sua esperienza e la sua battaglia di una vita accanto ai truffati” ha detto Patuanelli, mentre Nicola Zingaretti non sembra essere dello stesso avviso: “Non si può dare la presidenza della commissione banche a uno come Lannutti. Bisogna prendere atto che si deve trovare un altro candidato“. Il senatore pentastellato è infatti finito al centro delle polemiche per la condivisione di un post antisemita ed è ora al centro di un nuovo caso: il figlio Alessio lavorerebbe nell’Ufficio Enti della sede di Roma della Banca Popolare di Bari. Anche Emanuele Fiano si è espresso in merito: “Di Maio deve dichiarare nero su bianco che uno così il presidente della commissione anche non lo può fare“.

La replica. A stretto giro dopo decine di post di polemiche e i no arrivati dal Pd, lo stesso Elio Lannutti ha deciso di rispondere alle critiche: “Mio figlio lavora come impiegato. Dov’è il conflitto di interessi? Non esiste. E’ solo l’ennesima macchina del fango“.

Ispezioni, sanzioni, segnalazioni alle procure i limiti di legge che frenano palazzo Koch. Pierluigi Ciocca il 18 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Gli interventi dell’istituto regolati dalla legge. Governo e parlamento sollecitati ad intervenire da palazzo Koch. E la commissione d’inchiesta non ha individuato azioni alternative anti fallimenti. Sino alla fine del 2011 non si erano avuti casi di dissesto degni di nota fra le aziende di credito italiane. Sul totale dei prestiti, le sofferenze nette ( le esposizioni verso debitori insolventi, corrette per le rettifiche di valore) erano contenute nel 2,9%, salite dall’ 1,4% nel 2007. A seguito della molto meno grave recessione del 1993, le sofferenze avevano sfiorato il 6% nel 1996. La nuova recessione del 2012- 2013 si sommava agli strascichi della precedente nell’accrescere le sofferenze fino al picco del 4,8% degli impieghi toccato nel 2015. Ciò, a differenza di quanto era avvenuto dopo la recessione del 1993, allorché la ripresa dell’economia – moderata ma più rapida di quella recente- le aveva ricondotte prima del 2000 al di sotto del rapporto pre- crisi. Nello scorcio del 2017, sebbene in sicura discesa, erano ancora pari al 3,5%. Per nove decimi le sofferenze emerse sono dovute alla crisi economica. Un numero ristretto di aziende di credito hanno ceduto, anche per incapacità, imprudenza, scorrettezza dei vertici. La misura è data dall’importo del sostegno pubblico a vario titolo dato nella crisi ai sistemi finanziari nazionali: in Italia 0,8% del Pil ( 13 miliardi di euro), nell’intera Euroarea 4,5% del Pil, sebbene gli shock recessivi sperimentati dall’economia italiana siano stati più gravi. Eppure i casi di 7 banche di provincia medio- piccole in dissesto scatenavano una ridda d’interrogativi, valutazioni contrastanti, polemiche tali da disorientare l’opinione pubblica e far rischiare un crollo di fiducia nel sistema. Per 4 di quelle 7 banche, prima che scattasse il bail- in, il ricorso al fondo nazionale di risoluzione e al burden sharing ha evitato la liquidazione atomistica e salvaguardato i depositanti e gli obbligazionisti senior, mentre per le famiglie detentrici di obbligazioni subordinate sono stati poi previsti meccanismi di ristoro. Per la maggiore di quelle sette banche è stata possibile la ricapitalizzazione precauzionale. Solo per le ultime 2 si è dovuto procedere alla liquidazione, ma secondo le regole italiane e con un sostegno pubblico volto a rendere ordinata l’uscita dal mercato. Le polemiche e le critiche, spesso demagogiche, coinvolgevano tuttavia la Banca d’Italia. La Banca veniva chiamata a dimostrare di aver fatto tutto il possibile con gli strumenti offerti dalla normativa, italiana ed europea, stante l’invalicabile limite di non sostituirsi agli organi aziendali nella gestione dell’impresa bancaria. Via Nazionale documentava di aver intensificato la vigilanza cartolare, di stress testing, ispettiva, nella descritta condizione di estrema difficoltà, ciclica e strutturale, delle imprese affidate dalle banche. Del migliaio di intermediari bancari e non bancari supervisionati dal 2007, la Banca d’Italia ne poneva in amministrazione straordinaria 75, per più di una metà risanati, e liquidando gli altri; nel 2016 ne ispezionava 200, sanzionando 372 soggetti con 45 provvedimenti; nel 2017 inviava alla magistratura oltre 1.400 segnalazioni, rispondendo a più di 5.000 richieste delle Procure. Mentre le vicende economiche e finanziarie si susseguivano, la Banca d’Italia sollecitava da Governo e Parlamento gli indispensabili interventi di struttura, e nel proprio campo dava il suo apporto (…) Alla scadenza del mandato, il Governatore Visco veniva confermato dal Capo dello Stato Sergio Mattarella e dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. La Commissione parlamentare d’inchiesta non precisava quali concrete azioni alternative, nel contesto dato, avrebbero evitato i fallimenti, al di là della migliore informativa agli investitori. Che è sempre opportuna per il risparmiatore poco consapevole, e compete alla Commissione nazionale sulle società e la borsa pretendere dagli emittenti passività finanziarie. ( Tratto da “La Banca d’Italia e l’economia – L’analisi dei governatori” volume V ed. Aragno)

Le mani della politica su Bankitalia, ma su Bari è inattaccabile. Antonella Rampino il 18 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Cosa è successo dal 2010. Le critiche della politica per condizionare l’istituto di via Nazionale. Infinite ispezioni alla popolare barese, spinta per cambio di management, commissariamento: ma il tesoro decide. Bankitalia allertò più volte il governo sui rischi della PopBari Commissione d’inchiesta, Pd e Iv contro la nomina del 5S Lannutti. Da cosa nasce dunque l’ennesimo attacco a una delle poche istituzioni italiane che godono di largo credito anche internazionale da parte della politica, oggi dai 5stelle, ieri dalla componente renziana del Pd, e su nella storia repubblicana fino al 1979 della messa in stato d’accusa di Paolo Baffi, e all’incarceramento del direttore generale Mario Sarcinelli, nell’Italia del peggior andreottismo? Nel testo qui in basso, tratto dall’analisi dell’operato dei governatori della Banca d’Italia da Donato Menichella a oggi, lavoro in 5 volumi in uscita dall’editore Aragno, l’economista Pierluigi Ciocca ( che mancò di divenire egli stesso governatore per l’opposizione di Silvio Berlusconi, all’epoca al governo) spiega bene le crisi bancarie partite dal 2011. Crisi di cui quella della Popolare di Bari è solo l’ultimo esempio, e che se hanno pure differenti sviluppi – sia pure in un’unica culla, la crisi economica- sembrano esser state tutte affrontate dal potere politico in un unico modo: cercando un capro espiatorio. Nel solo 2017, scrive Ciocca, la Banca d’Italia ha inviato alla magistratura oltre 1.400 segnalazioni alla magistratura, e ha risposto a più di 5.000 richieste delle Procure. Per la sola Popolare di Bari, informa una nota con la quale via Nazionale ricostruisce tutta l’attività svolta sul caso, sono state quasi cinquecento le azioni ispettive, di richiamo o di intervento, fino al commissariamento finale, oltre alle interlocuzioni con la magistratura sulle quali vige ovviamente il riserbo, e comprese tre lettere di warning al governo, e la richiesta di dimissioni del management già nel 2017. Da cosa nasce dunque l’ennesimo attacco a una delle poche istituzioni italiane che godono di largo credito anche internazionale da parte della politica, oggi dai 5stelle, ieri dalla componente renziana del Pd, e su nella storia repubblicana fino al 1979 della messa in stato d’accusa di Paolo Baffi, e all’incarceramento del direttore generale Mario Sarcinelli, nell’Italia del peggior andreottismo? Forse dal non voler riconoscere le cause delle crisi bancarie, che è poi il miglior modo per non affrontare i problemi? Proviamo a spiegare cosa è accaduto a Bari. Il Pil dell’Italia di oggi è ancora inferiore del 5% a quello precedente alla crisi del 2008: ma al Sud la perdita è pari al doppio, è del 10 per cento. Cosa ancora peggiore, la produttività del lavoro nelle imprese del Mezzogiorno è inferiore di un terzo a quello delle imprese del resto d’Italia. Come fanno a sopravvivere le imprese del Sud? Sopravvivono grazie a salari nominali inferiori del 25% a quelli del resto del Paese. Inferiori non di un terzo, ma di un quarto: significa che la bassa produttività non è compensata. I lavoratori riescono a sopravvivere, accontentandosi, perché al Sud i prezzi sono in media inferiori del 10- 15%. Ma in questo terribile quadro dell’economia meridionale, una banca che opera al Sud deve trattare con imprese ad alto rischio. Per assicurarsi da questo rischio, gli istituti di credito fanno pagare alle imprese più caro il danaro. Ma rischiano lo stesso, ovvio. La Popolare di Bari è saltata anzitutto perché ha rischiato. E perché ha rischiato male. In questo quadro, spiega in buona sostanza la nota di Via Nazionale, dal 2010 la Banca d’Italia ha effettuato infinite ispezioni in quella banca, consigliando di volta in volta prudenza, di ricapitalizzare, di fare in modo di avere capitali di riserva. E via via sempre alzando l’intensità delle indicazioni a seconda dell’aggravarsi del quadro di solidità, di cambiare il management, lanciando l’allarme al governo. Fino all’azione che è il limite dell’esercizio dei poteri di Via Nazionale stabilito dalla legge, il commissariamento. Che viene esercitato dal Tesoro, su richiesta della Banca d’Italia. Per legge: la legge bancaria del 1993 pone ovviamente dei limiti all’azione di Banca d’Italia, ed è prescrittiva. Basta leggere il Titolo III del Testo Unico bancario, sulla Vigilanza: all’articolo 70 dice che “Il ministro del Tesoro, su proposta della Banca d’Italia, può disporre con decreto lo scioglimento degli organi amministrativi delle banche” in 3 casi: per gravi irregolarità e violazioni di leggi; per gravi perdite del patrimonio; in caso di scioglimento chiesto dalla banca stessa. Il caso della Popolare di Bari è il secondo, le gravi perdite patrimoniali. Per l’articolo 80 del testo unico, se l’amministrazione straordinaria non riesce a ricondurre la banca a una condizione di normalità, scatta la liquidazione coatta: il fallimento. Lo scenario peggiore, per la banca stessa e per il contagio possibile a tutto il sistema creditizio, che si cerca per l’appunto di evitare attraverso il commissariamento. Perché la Banca d’Italia non è intervenuta, a che serve la vigilanza se non ferma il tracollo di una banca?, tuona la politica di governo ( i CinqueStelle) come d’opposizione ( Fratelli d’Italia e Lega). Beh, la risposta sarebbe semplice, se si sapesse di cosa si sta parlando: la supergestione delle crisi da parte delle banche centrali non esiste in nessuna parte del mondo per la semplice ragione che le banche sono imprese. Lo dice anche la legge bancaria italiana, all’articolo 10 che definisce cosa è l’attività bancaria: “La raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria. Essa ha carattere d’impresa”. Per dirla come è stata costretto a dirlo, con disarmante semplicità, Ignazio Visco davanti alla Commissione sulle banche che voleva inquisirlo ed è finita in una bolla di sapone, “la Banca d’Italia non ha i poteri della magistratura”. Né può sostituirsi al governo delle singole banche. Il quadro, che dovrebbe essere chiaro, sembra non esserlo affatto per la politica italiana di oggi. Dovrebbe esser chiaro non solo perché chi ha responsabilità istituzionali o è un eletto in un’istituzione dovrebbe conoscere le leggi e cosa è una banca centrale. Dovrebbe esser chiaro perché a questo almeno dovrebbe esser servita la Commissione d’inchiesta sulle banche ( Renzi in persona insistette perché non fosse una semplice Commissione d’indagine, ma avesse gli stessi poteri della magistratura), finita poi nel nulla ( a parte accertare che Banca d’Italia non aveva alcuna responsabilità nei fallimenti delle banche). Adesso, di Commissione se ne vorrebbe fare un’altra, ed è di queste ore l’appello di Pd e renziani a Ennio Lanutti perché rinunci a presiederla, dopo che sembra essersi evitata la presidenza di Gianluigi Paragone. Ma perché si tiene tanto a duplicare il frastuono sul nulla? I giornali hanno riportato che il punto è la nomina dell’ex ragioniere generale dello Stato Daniele Franco a direttore generale della Banca d’Italia, in sostituzione di Fabio Panetta in partenza per la Bce. Ebbene, in ballo c’è molto di più. Poiché il governatore Visco è settantenne, non è possibile che eserciti un ulteriore mandato come governatore, e il direttore generale che si nominerà adesso sarà il futuro governatore. Le mani della politica sulla Banca d’Italia stavolta rischiano di essere perfino più lunghe del solito. E sono le mani di Luigi di Maio, di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni che l’altro giorno tuonava “Banca d’Italia deve essere sotto il controllo del governo”. Come fece un solo capo di governo nella storia d’Italia: Benito Mussolini.

Francesco Bonazzi per “la Verità” il 17 dicembre 2019. La specialità di Vincenzo De Bustis Figarola, senza la «s» davanti, è quella di tornare sul luogo del delitto. Che nel suo caso sono le banche, anche se non fa il rapinatore. Lui le dirige: Deutsche bank Italia, Banca 121, Banca del Salento, Monte Paschi di Siena e Popolare di Bari. Ma ciò che oggi ha un valore di sistema, nella sua parabola, è che ce lo fanno tornare. A cominciare da quella Banca d' Italia così lesta a giurare che anche sul disastro della più grande banca popolare del Sud «le procedure sono state corrette». Come le altre volte, come per Cariferrara, Banca Etruria, Carichieti, Banca Marche, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, Monte Paschi, per restare solo agli ultimi cinque anni. Ma a Bari, chi ha fatto tornare De Bustis è stata solo formalmente l' azionista di riferimento, perché sul banchiere che nella seconda Repubblica s' illustrò come «banchiere di Massimo D' Alema» ci fu la fondamentale moral suasion di via Nazionale, con la scusa che «solo lui conosce quel groviglio». Il banchiere barese, cuore a sinistra e portafoglio anche, nella primavera del 2015 sembrava professionalmente finito. Ad aprile aveva perso la poltrona di direttore generale della Popolare di Bari, che aveva guidato una prima volta dal settembre del 2011. Non aveva per nulla sfigurato, perché per uno con il suo curriculum di banchiere d' affari cresciuto con i tedeschi quella popolare era un giocattolino. Ma la Bari è un finto istituto cooperativo, perché dal 1978 è sotto controllo di una famiglia, guidata da Marco Jacobini e dai suoi figli. Una famiglia dove i figli non vanno d' accordo con il padre, decisamente ingombrante, ma probabilmente più capace di loro. De Bustis fa un buon lavoro, ma il presidente vede bene di farsi appioppare, per compiacere Bankitalia, la disastrata Tercas e la Caripe. Credeva che fosse una polizza vita per avere vita facile con la Vigilanza. I conti ne risentono e De Bustis se ne va. A Roma, fa varie consulenze e nel 2016 spunta nella sede di via Boncompagni dell' immobiliarista e finanziere catanese Fabio Calì, legato a Denis Verdini. Obiettivamente, visto in un ufficio buio da Calì, De Bustis sembrava al capolinea. Nel 1999 aveva scatenato un' asta per la sua «banca di Internet», Banca 121 (da leggersi anche all' inglese «One to one») che guidava insieme alla fidanzata Rossana Venneri, alla quale parteciparono banca Mediolanum, Sanpaolo di Torino e Monte dei Paschi, ovvero la banca dei compagni della quale invece oggi è azionista tutto il popolo italiano noi grazie al 68% comprato da Pier Carlo Padoan. Il prezzo di Banca 121 è gonfiato dalla moda e dalla straordinaria capacità di marketing di De Bustis, e la partita la vince Rocca Salimbeni per 1 miliardo e 300 milioni. La banca aveva a stento 100 sportelli e quasi tutti in Puglia. Forse senza D' Alema a Palazzo Chigi, una simile stangata non sarebbe riuscita. E la controprova è che le banche non legate alla politica mollano la presa. De Bustis, ovviamente, utilizza l' affare per scalare Siena e diventa direttore generale del compratore. Lui con Banca 121 aveva fatto vedere il proprio genio e un pizzico di megalomania, con il famoso spot di Sharon Stone, prodotti super innovativi (e rischiosi) venduti anche ai contadini e con un pressing ossessivo sulla rete delle agenzie. Tecniche di vendita che gli valsero un sacco di guai giudiziari, dai quali uscì comunque pulito. Insomma, nel 2015, quando lascia Bari, a 65 anni, il meglio sembra alle sue spalle. Ma poi, ecco il colpo di scena. A fine 2018, da Casa Jacobini si dimette il banchiere varesotto Giorgio Papa, solido curriculum al Banco Popolare (agli amici parlerà di «esperienza da incubo»), anche per i dissidi continui nella famiglia che vuole ancora comandare nonostante gli azionisti non riescano neppure a vendere i titoli della banca, che purtroppo per loro non è quotata in Borsa, ma negoziata al mercato secondario. In pratica, il valore delle azioni è poco più che virtuale e per venderle i correntisti devono mettersi in fila per mesi. De Bustis, profeta della banca virtuale, torna come amministratore delegato sotto Natale, con il beneplacito della Banca d' Italia. «Solo lui può riportare la pace tra gli Jacobini», si dice a Roma. E solo lui sa come gestire quel groviglio di prestiti agli amici e agli amici degli amici, ma sotto la retorica stucchevole della «banca del territorio» e della banca «popolare». Il fabbisogno finanziario della Popolare di Bari cresce in 13 mesi da 350 milioni al miliardo del decreto di domenica sera. Con il suo immancabile sigaro, la camicia bianca e le bretelle da banchiere di una volta, il compagno De Bustis fa credere a tutti di essere chino sul «piano industriale», quel malloppo di slide e banalità in virtù del quale ci si fa dare «nuova finanza». In realtà, la magistratura scopre anche altro. Nei giorni scorsi salta fuori che De Bustis è indagato dalla Procura di Bari per alcune operazioni che hanno fatto scattare le segnalazioni dell' Antiriciclaggio, con triangolazioni sospette tra la maltese Muse Ventures, che compra titoli della Popolare Bari, e la lussemburghese Naxos Sif Capital Plus. Il dato che più colpisce, in attesa che la magistratura chiarisca meglio i suoi sospetti, è che De Bustis si metta a fare cose già fatte in passato e che la somma totale (presunta) delle operazioni spericolate arrivi a stento a 50 milioni. Con i quali avrebbe salvato giusto una Bcc da dieci sportelli e non un banca che ha costretto il governo a metterci 1 miliardo.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 18 dicembre 2019. C'è un uomo che sa. Che sa tutto. Della Banca Popolare di Bari, dei suoi bilanci taroccati, dei quattro uomini che l' hanno portata per mano nell' abisso, salvo ora far finta o provare a far credere che fossero divisi tra cavalieri bianchi e neri: il patriarca della banca Marco Jacobini, i figli Luigi e Gianluca e l' amministratore delegato Vincenzo de Bustis Figarola. L' uomo che sa è una persona per bene. Si chiama Luca Sabetta. E la Popolare di Bari gli ha rovinato la vita, distruggendogli una carriera, togliendogli la serenità e il sonno. Luca Sabetta è un professionista dell' amministrazione bancaria, con vent' anni di carriera immacolata alle spalle. Doveva essere l'"utile idiota" necessario, nell' autunno del 2013, a convincere - come in effetti avvenne - la Vigilanza di Bankitalia che i rilievi sulla gestione dell' Istituto, a cominciare dall' uso clientelare delle linee creditizie, dalla inesistente gestione del rischio nell' impiego del capitale, avessero finalmente trovato una soluzione. O, comunque, a consentirle di registrare che una discontinuità nella governance della banca c' era stata. Luca Sabetta doveva essere il "Chief Risk Officer", il capo di un' area rischio degna di questo nome, che Bari aspettava come un Godot per chiudere la partita con Palazzo Koch (sede di Bankitalia) e aprire - come in effetti avvenne - le porte all' acquisizione di un altro carrozzone bancario: l' abruzzese Banca Tercas. Le cose, in quel 2013, andranno molto diversamente. Perché Luca Sabetta è una persona integra. Scopre, dai carteggi interni della Banca, che la Popolare è una finzione. E, dunque, tre anni fa, dopo essere stato demansionato, allontanato e denunciato per tentata estorsione dalla Popolare, trova la forza e il coraggio di dire la verità. Di rompere la crosta di omertà e ricatti che tutto tiene insieme. Di salire nell' ufficio del Procuratore aggiunto di Bari, Roberto Rossi, e mettere a verbale la storia di cui oggi si cominciano nitidamente a vedere i contorni. E che è solo all' inizio. Una storia che ora vale ai tre Jacobini e a De Bustis - oltre alle contestazioni di falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza - anche un' iscrizione al registro degli indagati per maltrattamenti, lesioni personali, estorsione. Una storia - per come Repubblica è in grado di ricostruire - andata così. Il Godot di Verona È l' estate del 2013. La Popolare, ormai lo sappiamo, oltre ad essere gravata dal blocco all' acquisizione di altri istituti di credito, è alle prese con una nuova ispezione di Bankitalia che promette di concludersi come le precedenti. Con la censura della governance della banca. Vincenzo De Bustis, in quel momento vice direttore generale, ha un' idea. Conosce (per aver lavorato con lui in Mps e Banca 121) un fior di amministratore che è a Verona, al "Banco Popolare Veneto", con 20 anni di esperienza. Gli presenta i tre Jacobini, padre e figli. Lo lusinga spiegandogli che, di fatto, gli darà in mano le chiavi della Popolare. Perché non solo sarà il nuovo "Chief Risk Officer", il capo dell' Area rischio. Ma avrà poteri di veto nei confronti del Consiglio, della Presidenza e dell' ad in tutte le decisioni che dovessero andare a incrociare scelte strategiche nella gestione del capitale - linee di credito, acquisizioni, investimenti in fondi mobiliari e immobiliari - che non lo convincono. Insomma, Sabetta, che è una persona per bene, si convince che a Bari abbiano davvero bisogno di lui non solo per risanare una banca ma ricostruirne la reputazione. Si sbaglia. E lo capisce presto. Sabetta chi? Luca Sabetta viene assunto alla Popolare il 18 ottobre del 2013. La data non è casuale. Come ormai sappiamo ( Repubblica lo ha raccontato ieri), cinque giorni dopo, il 23 ottobre, in una singolare seduta del Cda cui partecipa Carmelo Barbagallo, allora capo della Vigilanza di Bankitalia, la Popolare, mentre viene informata, delle criticità che continua a presentare la sua governance, avvia con Palazzo Koch, pur essendo inibita dal farlo, il carteggio che segnala la sua intenzione di accollarsi la decotta Tercas, per cui Bankitalia cerca acquirenti. Bene, in quel 23 ottobre 2013, la nomina di Sabetta è oro. Ma Sabetta, che è uomo intelligente, capisce immediatamente che qualcosa non va. Gli hanno raccontato che è l'uomo con in mano il destino della banca. Ma, a Bari, si ritrova, senza neppure essere stato presentato al Cda, in un ufficio dove non hanno la più pallida idea di chi diavolo sia. Soprattutto, dove si ritrova tra i piedi, come vice, tale Antonio Zullo. Un uomo di Marco Jacobini. Quello che fino al giorno della sua assunzione ha gestito l' area "rischio" con i metodi della casa Jacobini. Come, ad esempio - ed è la prima cosa che inquieta Sabetta - alcune triangolazioni su fondi mobiliari che vedono la Banca Popolare, contemporaneamente, partecipare ad un Fondo e finanziare un terzo soggetto che quel Fondo vuole acquistare. Un conflitto di interesse grande come una casa. Naturalmente, c'è dell' altro. Sabetta scopre l' intenzione della Banca di acquisire Tercas a giochi ormai fatti. E quando chiede lumi, qualche straccio di numero, si ritrova tra le mani un power-point buono per le slide di un ufficio stampa. Il 15 novembre del 2013, dieci giorni dopo che la Popolare ha concesso a Tercas un mutuo in grado di rientrare con Bankitalia del prestito a titolo di liquidità di emergenza, Sabetta viene convocato De Bustis. L'unico che davvero conosce. Lo stesso cui intende dire che l' acquisizione di Tercas - anche solo sulla scorta dei pochi numeri che è riuscito a mettere insieme in meno di due settimane di lavoro nel suo ufficio prigione - è una follia che porterà la Popolare sugli scogli. L'appuntamento è nella casa che abita De Bustis quando è Bari. E l'incontro è una catastrofe. De Bustis, con fare sornione, gli annuncia che per lui la sua carriera di Chief Risk Officer alla Popolare è finita. A neppure un mese di distanza da quando è cominciata. Che per lui ha pensato a un nuovo incarico. Quello di Responsabile Finanza e Mercati di Tercas, il carrozzone che Popolare sta per acquisire e che Sabetta vede come la peste. È l'inizio della fine. Sabetta lo sa e comincia a registrare di nascosto i suoi colloqui con De Bustis. Prove a futura memoria di quel che accade nel retrobottega della Banca. La punizione e l'allontanamento Sabetta a Tercas non andrà mai. Ma la storia con la Popolare è finita non appena cominciata. Gli Jacobini e De Bustis lo parcheggiano dove non possa fare danni e soprattutto dove non possa più ficcare il naso nel cuore della banca. A gennaio 2014, diventa amministratore delegato della PBCF, una società satellite della Popolare. Dove proverebbe anche a lavorare, ma dove non c' è altro che gli venga fatto fare se non guardare il soffitto dalla mattina alla sera. Se ne ammala. E, nel dicembre del 2015, arriva il benservito. La Popolare gli contesta alcune assenze per malattia e avvia la procedura di risoluzione del rapporto. Nel 2016, al Procuratore aggiunto Roberto Rossi viene annunciata una visita.

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 18 dicembre 2019. Luigi Di Maio è il primo a pensare quello che ancora non può dire: che Elio Lannutti non sarà mai il presidente della commissione d' inchiesta sulle banche. Non lo sarà per un semplice motivo che il capo politico del M5S lascia filtrare nella formula delle fonti anonime: «Il nome del presidente della commissione sarà frutto di un accordo di maggioranza». E siccome in maggioranza ci sono Pd, Italia Viva e Leu, tutti e tre contrari alla nomina di Lannutti, l'aritmetica della politica vuole che il senatore del M5S non siederà sullo scranno bicamerale che nella scorsa legislatura era occupato da Pier Ferdinando Casini. Decisione che era attesa per domani e che è stata prudentemente rinviata. Se dovesse spuntarla, ottenendo 21 voti necessari tra i membri della commissione, tra i quali quelli della Lega che si è detta disponibile a votarlo, vorrebbe dire mettere la parola fine alla coalizione tra M5S e centrosinistra. Di Maio non vuole correre questo rischio. Ecco perché, alla luce dell'intervista rilasciata ieri alla Stampa da Lannutti, in cui il grillino chiama in causa il capo politico e annuncia che non si ritirerà dalla corsa per la presidenza, il leader è costretto a placare la rivolta degli alleati e a rassicurarli. Dal suo staff confermano che non ci sarà nessuna difesa a oltranza del senatore da parte di Di Maio, pur nel rispetto dell' autonoma decisione del gruppo parlamentare, quei colleghi della commissione Finanze di Palazzo Madama che lo avevano scelto all'unanimità e che ancora ieri lo hanno difeso con una nota . Una difesa che è stata rinforzata dalle parole del ministro Stefano Patuanelli: «È il più adatto a guidare la commissione». E Patuanelli è l'autore con il leghista Massimiliano Romeo della legge di riforma di Bankitalia, a cui dedica un riferimento certo non tenero: «È evidente che nella vigilanza la Banca non esercita fino in fondo la sua funzione», e questo «è costato il fallimento di molte banche». A nulla è servita la questione di inopportunità fatta emergere dai parlamentari Pd sul noto tweet antisemita che riprendeva il falso storico dei Savi di Sion. Né che sia emerso che il figlio di Lannutti lavori proprio in una sede romana della Banca Popolare di Bari, l'istituto appena commissariato che ha costretto il governo a un intervento d'emergenza da un miliardo di euro. «Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo gigantesco imbarazzo» chiede la sottosegretaria dem Alessia Morani. «C'è evidentemente un conflitto di interessi, ci sono figure più efficaci» è il commento, tra gli altri, di Nicola Fratoianni, leader di Si. Lannutti si trincera dietro una reazione rabbiosa: «Mio figlio è un semplice dipendente, non c'è alcun conflitto di interessi, è macchina del fango». Lo fa all'uscita dell' Hotel Forum di Roma, dove era andato a incontrare Beppe Grillo accompagnato da Antonio Di Pietro. Da quello che si è ricostruito, il comico genovese avrebbe dato solidarietà e sostegno al senatore, specificando però di non poter fare molto, perché «deciderà la maggioranza in Parlamento». L'ex pm ed ex leader di Italia dei Valori entra invece in questa storia nel nuovo ruolo di avvocato, ma anche un po', dice, da «vecchio zio del M5S». «Mi ha chiamato lui - ci spiegava Lannutti lunedì sera - e ha detto "Elio ma perché non quereli quelli che dicono che sei antisemita?". Da giornalista non mi pareva carino querelare i colleghi. Però ora basta». Sono trascorsi sette anni da quando Lannutti ruppe con Di Pietro con una lettera che cominciava così: «Caro Antonio, io con te ho chiuso; non condivido i tuoi attacchi al Pd, alle istituzioni e primo tra tutti al presidente Napolitano; vuoi scavalcare a destra Grillo». Era il 2012. Curioso che i destini di tutti e tre tornino a incrociarsi con un capovolgimento dei ruoli. Grillo, che ha messo da parte il bazooka al vetriolo usato contro Napolitano e Pd, spinge Di Maio verso sinistra; Lannutti, diventato senatore di Grillo paga i tweet contro il filantropo ebreo Soros e le Ong con affermazioni degne di un certo sovranismo di destra. Di Pietro fa quello che gli riesce meglio: mescola il lavoro della giustizia alla politica: «Difendo l' onore di Lannutti. Piuttosto che fare al più presto questa commissione hanno paura della sua preparazione professionale».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 18 dicembre 2019. Ventiseimila investitori avevano chiesto di rientrare in un profilo prudente, ma solo in 300 casi la Popolare di Bari, al momento di piazzare le proprie azioni e obbligazioni, ha limitato i rischi. È solo una delle tante irregolarità che emerge dalla relazione degli ispettori Consob che, da giugno ad ottobre 2016, hanno verificato le modalità di immissione dei titoli nel 2014 in vista della ricapitalizzazione. Dagli atti emerge come la banca abbia considerato parte del portafoglio di investimenti dei clienti anche i depositi bancari, come abbia bloccato la possibilità di modificare i profili di rischio da 360 giorni a 999 e indotto gli investitori a vendere titoli sicuri. Sul tavolo ci sono anche le conclusioni degli 007 di Bankitalia, che hanno verificato le esposizioni più rischiose, come quella del gruppo Parnasi, l'imprenditore finito in carcere che avrebbe voluto costruire lo stadio della Roma. E dopo il commissariamento, spunta anche un audio che la Procura ha acquisito: una conversazione del 10 dicembre tra l'ex presidente Gianvito Giannelli e l'ex ad Vincenzo De Bustis, indagato, che descrive la drammatica situazione dell'istituto. Il grado di conoscenza delle obbligazioni nel questionario riservato alla clientela, spiega la Consob allora presieduta da Giuseppe Vegas, era contenuto in un'unica domanda riferita genericamente a «obbligazioni non di Stato, obbligazioni strutturate, obbligazioni subordinate». Si legge: «L'obiettivo di investimento di tipo conservativo era associato solo a 300 clienti, benché oltre 26 mila (più della metà del totale) avessero dichiarato espressamente, nelle domande relative agli obiettivi di volere prioritariamente proteggere il capitale». Nella gamma di offerte e investimenti viene proposto alla clientela, in partnership con il gruppo Intermarket Diamond Business (Idb), l'acquisto di diamanti certificati; l'attività, avviata a ottobre 2015 ha portato alla sottoscrizione di 133 contratti per 2,8 milioni, ma a ottobre 2016 il cda approva la risoluzione anticipata dell'accordo con Idb e la stipula, in sostituzione, con Diamond Private Investment, che si impegna a investire 500 mila euro all'anno in azioni della BpB. Per valutare i profili la banca considerava anche le movimentazioni dei conto corrente. Annotano gli ispettori: «Il controllo di rischio puntuale prevedeva il raffronto tra il grado di rischio sintetico dello strumento finanziario con il profilo di rischio complessivo del cliente. La singola operazione veniva ritenuta adeguata se il totale delle attività investite era costituito in prevalenza da strumenti finanziari con rischio pari o inferiore a quello assegnato al cliente». E ancora: «Nella determinazione del portafoglio, oggetto di tale valutazione, venivano inclusi anche i depositi cash, ad esempio le giacenze di conto corrente, considerati strumenti d'investimento di tipo monetario e, dunque, a rischio basso». Risulta che il 22% dei clienti che nel 2014 ha contribuito alla ricapitalizzazione acquistando i titoli della Bpb «aveva sottoscritto una o più operazioni di disinvestimento per creare le disponibilità. E tra i disinvestimenti ci sono anche titoli sicuri come quelli di Stato. «In particolare - annota Consob - la provvista proveniente da disinvestimento, poi utilizzata per la sottoscrizione dell'aumento di capitale, ammonta a 135 milioni di euro, pari al 23% del totale collocato (500 milioni)». Sono invece gli ispettori di Bankitalia a sottolineare: «Nel governo di alcune delle principali relazioni creditizie pur prendendo atto della più prudente impostazione seguita negli ultimi dodici mesi (sotto la guida dell'ex ad Giorgio Papa, ndr), si rilevano profili di debolezza dovuti alla mancata definizione da parte del cda di chiari indirizzi su tempi e modalità di rientro dalle esposizioni e una gestione improntata a tolleranza relativamente ai gruppi Maiora, Parnasi nonché Barietitrice srl. «Quando sono arrivato la prima volta c'era un signore con i capelli bianchi a capo della pianificazione e controllo, a cui chiesi di vedere i dati delle filiali. Tutti truccati». Così parla De Bustis nell'audio acquisito dai pm, che hanno aperto l'ennesimo fascicolo sulla Popolare. L'ex ad aggiunge: «È stato veramente irresponsabile quello che è successo negli ultimi tre, quattro anni. Questa banca è un esempio di scuola di cattivo management». E il credito «è stato la palla di piombo che ha distrutto il patrimonio» della banca. «Alla fine sarà la distruzione, 800-900 milioni». Di fronte a tutto questo «un piano di ristrutturazione è imprescindibile, Bankitalia è con noi», argomenta sottolineandone l'importanza anche di fronte all'Ue. E a tre giorni dal commissariamento, l'ex presidente Giannelli assicura che «non c'è rischio» perché «c'è un piano industriale serio che prevede gli interventi di investitori istituzionali, una parte pubblica e una parte privata, cioè il Fondo interbancario, con un percorso light, non stiamo parlando di Genova, passata per il commissariamento, e meno che mai delle banche venete». Un «percorso di messa in sicurezza» che «è assistito dalla Vigilanza», sarà «molto breve per i primi passaggi, penso che si chiuderà prima di Natale».

DAGONEWS il 18 dicembre 2019. Come abbiamo anticipato in un ''flash'', ci sono tre parlamentari di Italia Viva che hanno annusato l'aria di un rientro nel Pd, temendo di finire come tante piccole Eva Braun nel bunker in cui si è cacciato Renzi, tra cause civili sparate alla cieca contro i giornalisti, querele selvagge, e attacchi alle istituzioni. Una in particolare, per cui Renzi si sta godendo una certa vendetta in questi giorni tumultuosi: Bankitalia. In un mondo dove persino il presidente degli Stati Uniti finisce sotto impeachment per una telefonata al presidente ucraino (di cui all'opinione pubblica americana non frega una mazza, ma vabbè), i vertici di via Nazionale sono come il profeta musulmano, il solo menzionarne il nome garantisce scomunica a vita, mani tagliate e dannazione eterna. Questo riflesso condizionato nasce ovviamente dai fattacci di 40 anni fa, ovvero dall'arresto pretestuoso di Baffi e Sarcinelli, quando la politica disponeva della banca centrale (per un ripasso, leggere qui: Proprio oggi Giulio Tremonti ha ricordato come nel luglio 2004 fu accompagnato alla porta del governo Berlusconi II (2001-2006) e sostituito con il direttore generale del Tesoro Domenico Siniscalco, reo di aver chiesto conto a Bankitalia del crac Parmalat. Poi Siniscalco si dimise quando il suo governo non appoggiò la richiesta di dimissioni per Fazio (aridanghete con via Nazionale). Renzi ha assaggiato l'amara medicina che può dispensare palazzo Koch quando ha visto tutte le sue transazioni finanziarie degli ultimi anni spiattellate sui giornali: l'Antiriciclaggio di Banca d'Italia ha segnalato le operazioni sospette alla Guardia di Finanza, che a sua volta ha allertato i magistrati. Tutta colpa della campagna durissima condotta da Renzi durante il rinnovo del mandato di Visco. Una posizione legittima, che oggi si potrebbe anche definire sacrosanta visto cosa è successo con la Popolare di Bari, però portata avanti con i metodi arroganti che gli sono costati il governo e i consensi politici. Il tallone d'Achille di Renzi resta sempre quello: l'idea può anche essere giusta, ma l'esecuzione è spesso tremenda, da spaccone, e riesce a far coalizzare tutti gli altri e paradossalmente a rafforzare quei politici, manager, boiardi, che avrebbe voluto sostituire. Banca d'Italia ha passato sostanzialmente indenne la ''risoluzione'' delle quattro banche del famigerato decreto del governo Renzi (tra cui Etruria) e i crac veneti. Stiamo parlando dello stesso istituto che consigliava a Etruria di fondersi con la Popolare di Vicenza, che accoglieva il vignaiolo Zonin come fosse un genio della finanza, che per evitare il tracollo di Tercas (decisamente più ''assorbibile'' rispetto alla popolare barese) ha deciso di legare quel peso al collo di Jacobini – un altro che con De Bustis era accolto con tutti gli onori a via Nazionale – così da portare a picco entrambe.

Gianni Barbacetto per “il Fatto quotidiano” il 18 dicembre 2019. Esattamente 40 anni fa. Era il 24 marzo 1979 quando scattò il più violento degli attacchi mai visti all' indipendenza della Banca d' Italia. Mario Sarcinelli, allora vicedirettore generale e responsabile della Vigilanza, fu arrestato e portato in carcere. Il governatore, Paolo Baffi, evitò la cella solo per la sua età avanzata. C' è chi ricorda questa aggressione ai vertici di Bankitalia per paragonarla a ciò che succede oggi, con il governo Cinquestelle-Lega che non ha riconfermato Luigi Federico Signorini come vicedirettore generale. Quarant' anni fa a muoversi fu la Procura di Roma, su cui aleggiava il potente influsso di Giulio Andreotti e del suo gruppo di potere. Il pubblico ministero Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi incriminano Baffi e Sarcinelli per interesse privato in atti d' ufficio e favoreggiamento: per non aver trasmesso all' autorità giudiziaria un rapporto ispettivo del giugno 1978 sull' attività del Credito industriale sardo, banca che aveva largamente finanziato il gruppo chimico Sir dell' imprenditore Angelo Rovelli. Le accuse ai due massimi dirigenti di Bankitalia erano pretestuose: non avevano alcun obbligo di inviare ai giudici quel documento e furono completamente prosciolti nel 1981, quando fu accertata l' assoluta infondatezza dell' incriminazione. Il blitz della Procura romana aveva ben altri obiettivi, come documenta anche l' ultimo libro di Giuliano Turone, Italia occulta (Chiarelettere): punire la Banca d' Italia per il suo atteggiamento rigoroso nei confronti delle banche e delle operazioni condotte in quegli anni dagli uomini protetti da Giulio Andreotti e dalla sua cerchia. Il 5 settembre 1978, Sarcinelli era stato convocato d' urgenza dal braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Era appena tornato da New York, dove aveva incontrato riservatamente un Michele Sindona già ricercato per bancarotta fraudolenta. Sindona era latitante, sottoposto da tempo a una complessa indagine della Procura di Milano, eppure erano andati a trattare con lui, negli Stati Uniti, anche lo stesso presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il ministro del Lavoro Gaetano Stammati. Quest' ultimo aveva in comune con Sindona l' appartenenza alla loggia massonica segreta P2 guidata dal Maestro Venerabile Licio Gelli. Di ritorno dall' incontro newyorkese, Evangelisti sottopone a Sarcinelli un piano di salvataggio per le banche sindoniane, di fatto a spese dell' erario: Sarcinelli ascolta, capisce e giudica il piano "improponibile". Erano tempi complicati. Cinque mesi prima, il 17 aprile 1978, Bankitalia aveva mandato i suoi ispettori presso il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (anch' egli iscritto alla P2 ), in cui erano state rilevate numerose irregolarità, subito segnalate al giudice di Milano Emilio Alessandrini. Sotto osservazione della Vigilanza, già dal 1977, era anche l'Italcasse, l'istituto di credito delle Casse di risparmio italiane, che poi "salta" nel novembre 1979, quando diciannove società del gruppo Caltagirone sono dichiarate fallite e vengono emessi mandati di cattura per Gaetano Caltagirone e i suoi fratelli Camillo e Francesco. Sindona, Calvi, Caltagirone: tre campioni del sistema andreottiano, coacervo armonioso di politica e affari consustanziale alla massonica loggia di Gelli. Tre personaggi del teatro italiano del potere assai disturbati dal rigore di una Banca d' Italia che vigila e controlla, valuta e analizza, segnala alla magistratura (quella milanese, non il romano "porto delle nebbie" degli anni Settanta e Ottanta) e blocca i progetti "improponibili" (come quelli che puntano a salvare il bancarottiere Sindona). Per piegare quella Banca d' Italia scatta la magistratura romana, che fa eseguire due arresti senza alcuna base giuridica. È poi il presidente del Consiglio Giulio Andreotti in persona che - andreottianamente - s' incarica di sbrogliare la matassa che aveva fatto ingarbugliare: scrive di suo pugno una assai anomala lettera al giudice Alibrandi, proponendogli la revoca della sospensione dall' ufficio che Alibrandi aveva disposto per Sarcinelli, garantendo però che "al dottor Sarcinelli, qualora riammesso in servizio, sarebbe affidato un settore diverso da quello cui si collega l' indagine giudiziaria in corso". Insomma - conclude Turone - è "personalmente Andreotti a garantire il rispetto della pesante e ricattatoria condizione imposta alla banca centrale: mai più Sarcinelli al settore della Vigilanza". Il 5 maggio 1979 ottiene la libertà provvisoria. Baffi si dimette da governatore il 16 agosto. Il commissario liquidatore delle banche di Sindona, Giorgio Ambrosoli, era stato ucciso un mese prima, la notte dell' 11 luglio 1979, dal sicario italoamericano Joseph Aricò pagato dal bancarottiere. Il 29 gennaio 1979 era toccato ad Alessandrini, ammazzato da un commando di Prima Linea. Nel 1982 fallisce il Banco Ambrosiano. Nello stesso anno viene sciolta la P2 , dopo che la Commissione parlamentare d' inchiesta presieduta da Tina Anselmi conclude che la loggia è una "organizzazione criminale" ed "eversiva". Difficile paragonare questa vicenda che puzza di massoneria e polvere da sparo con quanto accade oggi. Non solo perché un arresto ingiustificato è imparagonabile a una eventuale mancata riconferma, ma soprattutto perché la Banca d' Italia di Baffi e Sarcinelli fu duramente "punita" perché svolgeva bene il suo compito d' istituto, mentre la Bankitalia di Ignazio Visco e Signorini è sotto accusa, al contrario, per "non aver visto né sentito" e per aver gestito in modo almeno inadeguato l' ultima crisi delle banche italiane, da Montepaschi alla Popolare di Vicenza.

Dagospia il 18 dicembre 2019. Da “Circo Massimo - Radio Capital”. A Bari, con il caso di Popolare, è in corso l'ennesima crisi bancaria. "Crisi bancarie ce ne sono sempre state, nella storia del nostro e di altri paesi. Più o meno gravi, più o meno previste, più o meno segrete", dice Giulio Tremonti a Circo Massimo, su Radio Capital. Ora si lavora a una Banca del Sud: "Nel settembre del 2004 ero fuori dal governo perché avevo detto qualcosa che non andava bene sulla Banca d'Italia. Il giorno dell'inaugurazione della Fiera del Levante scrissi un articolo intitolato 'La banca che il Sud non ha': era evidente che il sistema bancario del Sud non stava in piedi ed era necessario fare qualcosa per creare una grande banca del Sud. Il mezzogiorno d'Italia è l'unica grande regione d'Europa che non ha una banca propria, specifica, autoctona. Le aveva, ma le ha tutte perse per varie ragioni. Io volevo fare la Banca del Sud come prevenzione, era in tempo; adesso la vogliono fare retroattiva, come espediente di propaganda politica. La soluzione ex post non è seria, è una cosa estremamente sbagliata". C'è chi accusa Bankitalia per mancata vigilanza. E a questo proposito l'ex ministro dell'Economia critica l'Europa: "Non è il caso specifico di oggi, ma va aggiunto che enormi problemi li ha creati anche l'Europa, perché ha accentrato la vigilanza, che era uno strumento per gestire le situazioni di crisi. Non è il caso di Bari, ma la gestione delle crisi e del risparmio fatta dalla BCE è stata oggettivamente molto discutibile, non tanto in Germania o altrove quanto in Italia. La crisi che c'è adesso sarà molto più grave", continua, "coi tassi zero, una delle ultime invenzioni europee. I tassi zero portano il sistema bancario a un'inevitabile crisi, sono uno degli enormi problemi che arriveranno, non solo al Sud o in Italia ma anche altrove. È una bomba a orologeria". Tremonti poi definisce "affidabile" la struttura di Bankitalia, ma specifica: "A volte nei vertici si creano illusioni di onnipotenza, in altri casi c'è stata connivenza, ma non è la caratteristica in sé della Banca d'Italia. Nell'insieme ci sono molte cose su cui ragionare. Ma è il momento di guardare avanti, non di fare processi". E la nuova commissione sulle banche? "L'ultima commissione è come uno che c'ha gli scheletri nell'armadio e parla dell'armadio: questo è stato il risultato finale, e se vuole un capolavoro politico", dice Tremonti, "Quella è una commissione sul passato e doveva dare indicazioni generali, che non ha dato. Adesso c'è una commissione d'inchiesta, perché tale sarebbe... secondo me questi non hanno capito che la vigilanza dal 2014 la fa la BCE. La Banca d'Italia la fa sulle banche cantonali. Non ha più senso fare un discorso sulla vigilanza della Banca d'Italia. Avrebbe un senso fare un discorso sulla vigilanza in Europa... ma lei questi li vede capaci di capire di cosa stiamo parlando? Io non credo".

Presidenza commissione banche, Pd: «Lannutti faccia un passo indietro». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Valentina Santarpia, Michelangelo Borrillo. Slitta la seduta della commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche in calendario per giovedì alle 9. All’ordine del giorno era prevista l’elezione del presidente, del vicepresidente e dei segretari. Il candidato alla presidenza del M5S, il senatore 5 Stelle Elio Lannutti, non è gradito a Pd e Italia dei Valori dopo la polemica che lo ha investito per un articolo che prendeva per buoni i Protocolli dei Savi di Sion, un falso storico che avrebbe avvalorato l’antisemitismo. ma lui non intende rinunciare: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro», dice Lannutti, sostenendo poi di essere «la memoria storica di tutti i crac bancari: dal 2001 al 2018 ce ne sono stati per 98 miliardi di euro e 1,6 milioni di risparmiatori. Ho scritto un libro che si chiama `Morte dei Paschi´. La prefazione è di Di Maio. Lo ha presentato lui alla Camera. Sa bene chi sono». L’appoggio del Movimento è confermato anche da Daniele Pesco, presidente della commissione Bilancio al Senato: «Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo quindi noi insisteremo con Elio Lannutti». Ma dall’alleato di governo arrivano strali. «Chi svolge quel ruolo deve essere al di sopra delle parti- sottolinea Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali, a Radio anch’io- Conosco da anni il senatore Lannutti. Lo valuteranno i segretari dei partiti. Dico semplicemente che il presidente deve essere arbitro, non giocatore. Dipende da che impostazione Lannutti vuole dare alla commissione. Sarebbe meglio che chi si candida a presidente dica prima cosa vuole da questa commissione». Si scaglia contro Lannutti anche il Pd Emanuele Fiano, pubblicando un post su Facebook: «Uno degli estimatori dei #Protocolli Savi anziani di Sion, un testo antisemita falso diffuso dalla polizia segreta zarista all’inizio del’900, nella Germania del terzo Reich fu proprio Hitler citandoli nel #Mein Kampf. Tralascio gli altri estimatori da Hamas all’estrema destra. Poi è arrivato il Senatore Elio Lannutti del 5S che di quel testo falso e immondo ha ripubblicato su Twitter le teorie che stavano nel secolo scorso a che alla base del progetto che portò alla Shoah. Delle due l’una o vale ormai tutto e la storia è un inutile orpello, oppure #Luigi Di Maio devi dichiarare nero su bianco che uno così il Presidente della Commissione banche non lo può fare. Sicuramente non avrà i nostri voti». Alessia Morani, sottosegretaria allo Sviluppo Economico del Pd, suggerisce: «Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo». Enrico Borghi, della Presidenza del gruppo Pd alla Camera, incalza: «Elio Lannutti dice bene: il presidente di una commissione parlamentare d’inchiesta non è un dittatore, ma si attiene alla maggioranza. E siccome sulla sua auto-candidatura la maggioranza non c’è, agisca di conseguenza».

Commissione banche, bufera su Lannutti: «Il figlio lavora nella Popolare di Bari»: Ma Lega e M5S lo appoggiano. L’opposizione alla candidatura del 5 Stelle. Fiano (Pd): «Di Maio dica che Lannutti non può presiedere commissione». Lannutti: «Contro di me macchina del fango, adesso denuncio». E spunta il piano B dei grillini. Valentina Santarpia, Michelangelo Borrillo il 17 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. È un caso politico la nomina del presidente della commissione Banche. Contro la candidatura del senatore M5S Elio Lannutti si scagliano Pd e Italia viva, che non solo ritirano in ballo l’articolo contestato del senatore sui Protocolli di Savi di Sion, ma urlano al conflitto di interessi perché il figlio del senatore, Alessio Lannutti, lavora da 4 anni proprio nella sede romana della Popolare di Bari, la banca appena commissariata, negli uffici che si occupano di rapporti con la pubblica amministrazione e i grandi enti. Il diretto interessato non solo non intende fare passi indietro ma incassa l’appoggio del M5S e della Lega. «Non si può discutere la capacità di Elio Lannutti per la sua storia, la sua esperienza e la battaglia di una vita accanto ai truffati» dichiara il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, difendendo la candidatura del senatore M5S alla guida della Commissione banche. Riguardo al potenziale conflitto di interesse del figlio, dipendente della Popolare di Bari, il ministro, intervistato da Stasera Italia si è chiesto «che conflitto c’è? Mica è un dirigente della banca». La Lega dal canto suo fa sapere che voterebbe Elio Lannutti alla presidenza della commissione nel caso fosse questa l’indicazione del Movimento 5 stelle. È quanto confermano fonti del partito di via Bellerio. Oggi sul tema Matteo Salvini aveva detto: «Di Maio non può dire che non si fa la commissione perché è colpa di Salvini. Io ho detto "Ci portino un nome e lo votiamo"». Mentre slitta la seduta della commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche in calendario per giovedì alle 9, il senatore non intende rinunciare: «Io non mi sfilo da un bel niente. E nessuno mi ha chiesto un passo indietro», dice Lannutti, sostenendo poi di essere «la memoria storica di tutti i crac bancari» e di aver «scritto un libro che si chiama `Morte dei Paschi», con la prefazione di Di Maio, che lo ha presentato alla Camera. Lannutti respinge anche le critiche per l’impiego del figlio: «Dov’è il conflitto di interesse? Andate a vedere il conflitto di interesse di coloro che hanno fatto i crack e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare! Di Pietro mi difenda anche da questo!», esclama, annunciando di aver affidato ad Antonio Di Pietro e Antonio Tanza, presidente dell’Adusbef, la «tutela del mio onore». «Questa si chiama macchina del fango, Alessio è il più giovane giornalista professionista, è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, è stato licenziato, gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista e ha trovato lavoro come impiegato», ha aggiunto poi Lannutti a Radio Capital. L’appoggio del Movimento è confermato anche da Daniele Pesco, presidente della commissione Bilancio al Senato: «Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo». Ma dall’alleato di governo arrivano strali. «Chi svolge quel ruolo deve essere al di sopra delle parti- sottolinea Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali, a Radio anch’io- Conosco da anni il senatore Lannutti. Lo valuteranno i segretari dei partiti. Dico semplicemente che il presidente deve essere arbitro, non giocatore. Dipende da che impostazione Lannutti vuole dare alla commissione. Sarebbe meglio che chi si candida a presidente dica prima cosa vuole da questa commissione». Si scaglia contro Lannutti anche il Pd Emanuele Fiano, pubblicando un post su Facebook: «Uno degli estimatori dei #Protocolli Savi anziani di Sion, un testo antisemita falso diffuso dalla polizia segreta zarista all’inizio del’900, nella Germania del terzo Reich fu proprio Hitler citandoli nel #Mein Kampf. Tralascio gli altri estimatori da Hamas all’estrema destra. Poi è arrivato il Senatore Elio Lannutti del 5S che di quel testo falso e immondo ha ripubblicato su Twitter le teorie che stavano nel secolo scorso a che alla base del progetto che portò alla Shoah. Delle due l’una o vale ormai tutto e la storia è un inutile orpello, oppure #Luigi Di Maio devi dichiarare nero su bianco che uno così il Presidente della Commissione banche non lo può fare. Sicuramente non avrà i nostri voti». Alessia Morani, sottosegretaria allo Sviluppo Economico del Pd, suggerisce: «Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo». Una posizione in linea con il capogruppo Italia viva Davide Faraone: «Il M5S ci tolga dall’imbarazzo e ritiri la candidatura: scegliamo il nome più adatto insieme». Enrico Borghi, della Presidenza del gruppo Pd alla Camera, incalza: «Elio Lannutti dice bene: il presidente di una commissione parlamentare d’inchiesta non è un dittatore, ma si attiene alla maggioranza. E siccome sulla sua auto-candidatura la maggioranza non c’è, agisca di conseguenza».

Il 5S in commissione banche, ma il figlio lavora per PopBari. Il senatore 5S, Elio Lannutti, è stato proposto dai pentastellati alla guida della commissione d'inchiesta. Ma c'è un conflitto di interessi. Giorgia Baroncini, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Il senatore del M5S Elio Lannutti non intende ritirare la sua candidatura: vuole la presidenza della commissione parlamentare di inchiesta sulle Banche. Ma dopo essere stato attaccato duramente dagli alleati di governo del Pd, ora per lui si pone un altro problema, quello del conflitto di interessi. Guerra fredda tra M5s e Pd sulle poltrone di Bankitalia. Suo figlio Alessio lavora infatti nell'Ufficio Enti della sede romana della Banca Popolare di Bari, istituto in crisi al centro di un salvataggio da parte dello Stato. Una cosa non da poco visto che Lannutti senior dovrebbe andare a ricoprire il ruolo di presidente della commissione Banche. E qualcosa torna subito alla mente: il conflitto di interessi. Il cavallo di battaglia del M5S promesso più volte da Luigi Di Maio che in un primo momento ha sostenuto con forza la corsa del senatore Lannutti. Ma su questo aspetto ci torniamo tra poco. Dal Pd, infuriato dalla proprosta del nome, è arrivata subito la richiesta del ritiro del grillino "per non creare imbarazzi alla maggioranza". Ma Lannutti, forte del sostegno dei vertici del Movimento e del gruppo cinquestelle al Senato che lo ha candidato, non ha mollato e ha deciso di andare avanti. "Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo quindi noi insisteremo con Elio Lannutti", aveva dichiarato il senatore 5S Daniele Pesco, presidente della Commissione Bilancio al Senato. Così Lannutti si è recato con Antonio Di Pietro da Beppe Grillo. "Il Pd e Italia Viva non mi sostengono? Quello che fanno il Pd e Italia Viva sono affari del Pd e di Iv, mentre quel che fa il M5S è affare del M5S. Io sono il candidato del Movimento, tutto qui. Fin quando non cambieranno le cose, io sono stato scelto con elezioni democratiche e resto al mio posto", ha dichiarato all'Adnkronos il senatore grillino. Ma ecco che, poco dopo, le carte in tavola cambiano di nuovo. Dalla Libia, un arrabbiato Di Maio tuona: "Il nome del presidente sarà frutto di un accordo di maggioranza". E in un attimo il nome di Lannutti viene bruciato, pronto per essere sostituito da nuovi candidati. Ma tutto questo non fa altro che creare nuove spaccature tra i grillini. Lannutti non ci sta e, dopo l'incontro con Grillo, sbotta: "Cosa significa che mio figlio lavora in banca? Dov'è il conflitto di interesse? Andate a vedere il conflitto di interesse di coloro che hanno fatto i crack e non di uno che lavora onestamente. Vi dovete vergognare. Sono stato scelto con le procedure previste, sono e resto il candidato del Movimento. Chi spacca è chi non mi vota". "Questa si chiama macchina del fango - continua su Radio Capital Lannutti -. Alessio è il più giovane giornalista professionista, è stato giornalista parlamentare, si è laureato con 110 e lode, è stato licenziato, gli ho sconsigliato di continuare a fare il giornalista e ha trovato lavoro come impiegato. E dov'è il conflitto di interessi? Con grande rammarico ma ora ci saranno denunce penali e civili nei confronti di colleghi per questa campagna diffamatoria". Ma come fa il M5S a chiudere un occhio su tutta la situazione dopo che lo stesso Di Maio ha fatto del conflitto d'interessi una vera e propria battaglia? "Dopo la manovra mi auguro che ci siederemo a un tavolo e lavoreremo a un calendario per il 2020. A partire da salario minimo, riforma della sanità e conflitto d'interessi", aveva dichiarato pochi giorni fa il leader 5S. La vicenda della Popolare di Bari serve ai pentastellati per aumentare il consenso: la poltrona del presidente spetta a loro, ma la maggioranza non intende fare sconti sul nome.

Da repubblica.it il 17 dicembre 2019. Il senatore del M5s Elio Lannutti - già al centro di polemiche per la condivisione di un post antisemita sui Protocolli dei Savi di Sion - non si sfila dalla corsa per la presidenza della commissione parlamentare di inchiesta sulle banche. Ma ora per lui si pone un serio problema di conflitto di interessi: suo figlio Alessio lavora infatti nell'Ufficio Enti della sede romana della Banca Popolare di Bari, istituto in crisi al centro di un salvataggio da parte dello Stato. Il Pd, contrario alla sua candidatura, gli consiglia di ritirarsi spontaneamente per non creare imbarazzi nella maggioranza. Ma lui, forte del sostegno dei vertici del Movimento e del gruppo cinquestelle al Senato che lo ha candidato, non molla e va avanti. "Penso che Elio Lannutti sia la persona con gli skills maggiormente adeguati per quel ruolo quindi noi insisteremo con Elio Lannutti", ribadisce infatti il senatore 5S Daniele Pesco, presidente della Commissione Bilancio al Senato. Ma il Pd insiste: "Luigi Di Maio devi dichiarare nero su bianco che uno così il presidente della commissione banche non lo può fare - attacca su Facebook il deputato dem Emanuele Fiano -  Sicuramente non avrà i nostri voti". E ricorda: "Uno degli estimatori dei Protocolli Savi anziani di Sion, un testo antisemita falso diffuso dalla polizia segreta zarista all'inizio del '900, nella Germania del Terzo Reich fu proprio Hitler citandoli nel Mein Kampf. Tralascio gli altri estimatori da Hamas all'estrema destra. Poi è arrivato il senatore Elio Lannutti del M5S che di quel testo falso e immondo ha ripubblicato su Twitter le teorie che stavano nel secolo scorso anche alla base del progetto che portò alla Shoah". E Alessia Morani, sottosegretaria pd allo Sviluppo economico, ribadisce su Twitter: "Dovrebbe essere Lannutti a ritirarsi dalla candidatura per la presidenza della commissione banche. Mi auguro che abbia la sensibilità di togliere la maggioranza da questo grande, gigantesco imbarazzo". Ma sul nome di Lannutti non mancano divergenze di opininione anche all'interno del Pd. Così infatti il deputato dem di Base Riformista Andrea Romano risponde al ministro Boccia che si era detto disponibile a valutare la candidatura Lannutti sulla base di quello che "avrebbe proposto". "No, caro Francesco Boccia - scrive Romano su Twitter -  non serve 'vedere cosa propone Lannutti' per valutarne la totale incapacità a guidare la Commissione Banche. La sua è una candidatura (sbagliata) del solo M5s, non di maggioranza. E ritirarla sarebbe segnale di buon senso e vigilanza su ogni manifestazione di antisemitismo".

La scelta di Lannutti per la bufera sul figlio. E Di Maio evita gli imbarazzi. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Il «passo di lato» del senatore pentastellato. Il figlio assunto nell’anno della riforma Renzi, contestata da Adusbef. Il «passo di lato» di Elio Lannutti, annunciato da Luigi Di Maio a Porta a porta, non è stata una sorpresa all’interno della maggioranza. Il senatore pentastellato, candidato forte per la presidenza della commissione d’inchiesta sul sistema bancario, aveva già confidato ai colleghi più vicini di partito — non solo al ministro degli Esteri che ha incontrato ieri — di essere provato dagli attacchi arrivati al figlio Alessio. Impiegato della Banca Popolare di Bari, l’istituto al centro di un intervento di salvataggio da parte del governo, proprio mentre il padre era destinato a diventare presidente della commissione banche. «Un semplice impiegato», si era difeso il senatore, facendo scudo sul figlio 33enne, giornalista diventato bancario all’ufficio Tesoreria ed Enti, a Roma, non all’ufficio stampa, come forse ci si aspetterebbe per un giornalista. Con il «passo di lato», Lannutti senior spera evidentemente di spegnere i riflettori su Lannutti junior. Mettendo fine agli attacchi che lo hanno colpito e ferito. Alessio lavora per la Popolare di Bari dal 1° dicembre 2015 — poco dopo la promozione di Gianluca Jacobini, figlio del presidente Marco, a condirettore generale — l’anno che con il decreto Renzi cambiò la governance delle Popolari, prevedendo la trasformazione in Spa per le più grandi, mossa invisa alla Bari. Ma anche all’Adusbef di Lannutti senior, evidentemente, visto che a settembre 2015 presentò un ricorso al Tar del Lazio contro la riforma delle Popolari. Ma ormai questa, con il «passo di lato», è un’altra storia. Il «passo di lato» di Lannutti ha rappresentato anche un sospiro di sollievo per Di Maio. La nomina del senatore alla commissione Banche, infatti, gli avrebbe creato non pochi problemi. In primo luogo con la comunità ebraica, che non gli avrebbe perdonato il via libera a Lannutti, reo di aver rilanciato un tweet di stampo antisemita, poi cancellato, ma dal quale lo stesso capo dei 5 Stelle aveva preso le distanze. E poi di immagine: le posizioni euroscettiche di Lannutti di certo non avrebbe aiutato un ministro degli Esteri che non vuole apparire antieuropeista. Insomma, il presunto conflitto d’interessi sulla Popolare di Bari ha facilitato una decisione data come scontata all’interno della maggioranza — due giorni fa Nicola Zingaretti a Carta Bianca aveva detto chiaramente che la nomina di Lannutti sarebbe stata inopportuna — ma diventata difficile da gestire. Adesso, invece, non resta che capire chi possa essere il nuovo candidato. Stando alle dichiarazioni di Di Maio, messosi da parte Lannutti, la scelta sarà fatta tra Alvise Maniero e Carla Ruocco. Ma non è escluso un terzo nome a sorpresa.

Banche, Boschi silura Lannutti per l’antisemitismo. Ma le vere ragioni sono meno nobili.  Robert Perdicchi mercoledì 18 dicembre 2019 su Il Secolo D'Italia. Maria Elena Boschi “silura” la candidatura di Elio Lannutti, storico presidente dell’Adusbef, alla guida della Commissione d’inchiesta sulle banche. E lo fa nascondendosi dietro la motivazione dell’apparente antisemitismo del grillino. La realtà, però, è ben diversa e non ha nulla a che fare neanche con il “conflitto d’interessi” da qualcuno sollevato.  «Noi siamo stati chiari fin dall’inizio: Lannutti per noi è invotabile, e non per il conflitto di interessi con suo figlio, ma per le frasi vergognose dette sugli ebrei. Chi porta avanti pregiudizi squallidi antisemiti non avrà mai il nostro voto, qualunque attività faccia suo figlio. Mi chiedo come i 5Stelle possano continuare a sostenere questa candidatura». Lo dice, in un’intervista a Repubblica, il capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi.  Che contro Lannutti ha sempre avuto un problema politico e personale. Ne subiva gli attacchi, aveva difficoltà a gestirne le bordate, soprattutto sul fronte Etruria. L’antisemitismo di Lannutti, o presunto tale, arriva dopo, molto dopo.

Boschi contro Lannutti, la sua spina nel fianco. L’astio di Boschi nei confronti di Lannutti nasce già ai tempi del governo Renzi, dello scandalo Etruria, delle conseguenze delle misure per “salvare” le banche. Lannutti, in quel periodo, era una spina nel fianco. E con la sua Adusbef “martellava” quotidianamente il governo dei “toscani”. Nel 2016, Lannutti manifestava sotto il ministero dell’Economia contro il decreto del governo Renzi sulle banche che metteva a rischio di pignoramento le aziende. «Si evince che l’appropriazione del pegno non possessorio può essere richiesta dal creditore al verificarsi di un evento non meglio specificato –  attacca Lannutti -. O meglio, lasciato alla libera contrattazione tra le parti. Insomma, per il M5S, non paiono esserci più paletti chiari, stabiliti ex lege. Come accade invece per il pur ritenuto deplorevole “patto Marciano”. L’estrema libertà di stabilire quale evento autorizzi la banca a riscuotere la garanzia, dunque, farebbe sì che a stravincere sia la parte forte dell’accordo tra istituti. E ad esempio, le piccole e medie imprese italiane. Sul decreto è stata apposta la questione di fiducia dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi che ha portato al blocco dei lavori di Montecitorio…». Ecco invece cosa scriveva Lannutti, nel 2017, nella sua relazione all’assemblea dell’Adusbef. «La funzione sociale del credito e del risparmio, garantito dalla Costituzione, ha subito pesanti attacchi dal governo Renzi. Disattento alle esigenze delle famiglie e dei cittadini. Prestito vitalizio ipotecario, decreto ‘salva banche’ che ha espropriato 130.000 famiglie, decreto legislativo sui finanziamenti ipotecari del ministro Boschi. Un decreto che ha spianato la strada per espropriare le case dei legittimi proprietari in temporanee difficoltà economiche. Agevolando poi le vendite forzose degli immobili da parte delle banche. Per fortuna bocciata dal Consiglio di Stato anche dietro impugnativa Adusbef, ed una serie di norme e decreti recepite da governi camerieri dei banchieri». «L’ultimo provvedimento che regala 20 miliardi di euro alle banche, per impedire che i bancarottieri e le dormienti autorità di vigilanza potessero rispondere penalmente del loro operato, è del governo Gentiloni. Basato sul presupposto erroneo e l’ingannevole narrazione che gli istituti di credito non possono fallire. A differenza delle altre imprese portate al fallimento proprio dai comportamenti fraudolenti dei banchieri. Sia nella concessione allegra, spesso senza garanzie dei prestiti, che nella revoca dei fidi con preavviso di 24 ore». L’anno dopo quelle pesantissime parole contro Renzi e Boschi, il senatore non sembrava gradire appieno neppure il nome del premier designato Giuseppe Conte nel governo giallo-verde. «È un amico di Maria Elena Boschi. Mi continuerò a battere fino all’ultimo per Luigi Di Maio premier». Ed ancora, frasi velenose su presunti accordi dal sapore massonico, con riferimenti nella guerra per le banche a “cariatidi, lestofanti del potere marcio e corrotto, legati a cricche, combriccole, faccendieri, logge coperte, grembiulini…”. Intanto Lannutti si batteva per ottenere i risarcimenti ai risparmiatori…

Caso Lannutti, stangato per una raccomandazione. Paolo Comi il 20 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il senatore Elio Lannutti, Cinque Stelle, era candidato alla presidenza della commissione parlamentare di indagine sulle banche. Parecchi senatori e deputati, di vari partiti, avevano sollevato obiezioni e proteste vibrate. Perché? Perché recentemente il senatore Lannutti avevano citato, come vero, il famoso protocollo dei Savi di Sion, che è una bufala archeologica e che è stata alla base del tragico antisemitismo di tutto il 900. Lannutti credeva invece che quel protocollo fosse vero, e che fosse vero il fatto che l’intero sistema bancario mondiale è in mano a 15 famiglie ebree, e in particolare alla famiglia Rotschild. Quelli che contestavano la sua nomina alla testa di una commissione parlamentare di indagine sulle banche, facevano notare che mettere una macchina così delicata in mano a uno che crede vere le più oscene e false teorie antisemite, non è una buona idea. Ma Lannutti non intendeva rinunciare all’incarico. Ed il suo partito lo difendeva.

Poi l’altro giorno si è scoperto che Lannutti ha un figlio che fa l’impiegato nella famosa banca popolare di Bari, vicina al fallimento. Fa l’impiegato, eh, non è un direttore generale o un alto funzionario. Di fronte a questa notizia terrificante, anche i Cinque Stelle hanno fatto un balzo sulla sedia. Possibile – si son chiesti – che un nostro uomo compia atti così vergognosi come non dichiarare che suo figlio lavora alla Popolare di Bari? I più cattivi si sono chiesti persino se per caso il ragazzo non sia entrato in banca sulla spinta di qualche raccomandazione del padre. E così Lannutti – coperto di ignominia – è stato costretto a fare un passo indietro. Niente presidenza della Commissione. Capite il ragionamento? È importante capirlo, perché questo ragionamento è lo specchio dei nuovi sistemi di valori che stanno diventando la struttura morale della nostra società. E probabilmente vanno ben oltre l’etica a Cinque stelle. L’idea è questa: l’antisemitismo non è un gran peccato, è un’opinione, una ideologia. Né è grave l’inattendibilità di chi crede alle più incredibili fake news. Quello che è veramente grave è l’ipotesi che tu abbia fatto una raccomandazione e che abbia favorito tuo figlio a trovare un posto di lavoro come impiegato. Se questa è l’idea di fondo, siamo messi molto male.

Vedete, c’è chi pensa che lo Stato Etico (diciamo l’idea, l’aspirazione allo Stato etico) sia una via pericolosa, perché illiberale, alla modernità, ma contenga comunque un forte messaggio morale e una garanzia sulla pubblica rettitudine. Ecco, questa è una balla. L’aspirazione allo Stato Etico porta a un fortissimo corrompimento delle coscienze, che vengono militarizzate, polpottizzate, e perdono qualunque capacità di discernimento, Pèrdono cultura, sapienza, conoscenza della storia. Succede così che l’antisemitismo diventa un aspetto secondario del proprio profilo politico; e il sospetto, solo il sospetto di aver fatto una raccomandazione diventa una macchia indelebile. Dentro il dilagare di questa cultura – che nella sostanza, sempre, è totalitaria – è nato quel pasticcio di leggi orribili che è il parto fondamentale del governo gialloverde: lo spazza-corrotti, l’abolizione della prescrizione, i due cosiddetti decreti sicurezza, la legge ammazza-ladri e tutto il resto.

Da startmag.it il 17 dicembre 2019. Gli aiuti approvati dal governo per salvare la Banca Popolare di Bari non aiutano l’Italia a recuperare “la necessaria credibilità”. Lo scrive l’Handelsblatt di oggi, in un commento dal titolo “non ha imparato nulla in proposito”, riferito ovviamente al nostro Paese. “Le notizie dei fallimenti bancari in Italia arrivano con la regolarità delle previsioni del tempo – si legge sul quotidiano economico-finanziario tedesco -. Almeno una volta all’anno la sorveglianza bancaria accerta che un istituto è finito in una cattiva situazione. Il personale dirigenziale viene spodestato, commissari vengono nominati dallo Stato a assumono il management della crisi, e la politica si sforza di rassicurare risparmiatori ed elettori”. Le ragioni dei fallimenti, procede l’analisi del giornale di economia e finanza, si assomigliano: “Cattiva economia, clientelismo, e autoritari signorotti della finanza locale. A questo si aggiungono problemi strutturali, come la soppressione dei crediti deteriorati. Inoltre si trascina il consolidamento: ci sono troppe filiali, troppi dipendenti, e troppa poca digitalizzazione. L’Italia arranca”. Questa volta si tratta di una piccola banca del Sud come la Popolare di Bari, viene sottolineato e non certo di un istituto del calibro di Monte Paschi di Siena, vicenda che “fu ben più drammatica”. “I casi sono tutti però collegati dalla permissiva conferma degli aiuti di Stato”, è il commento di Handelsblatt. “Naturalmente Roma sa che la commissione europea vigila sugli aiuti di Stato e che da tre anni vale il principio del partecipazione dei creditori nel fallimento delle banche. Ma finora l’Italia ha sempre negoziato un accordo speciale”, la conclusione del quotidiano economico-finanziario sul caso della Popolare di Bari. Peccato che il giornale tedesco non faccia menzione del salvataggio pubblico in Germania della banca pubblica NordLb che ha avuto un controverso via libera da parte della Commissione europea, come peraltro ha fatto notare negli scorsi giorni anche il Financial Times. Oggi via Twitter un esperto di Germania, economia e banche come il saggista Vladimiro Giacché, che è tra l’altro presidente dell’istituto Cer (Centro Europa Ricerche), ha rintuzzato le critiche di Handelsblatt con questo tweet che evoca appunto il dibattuto caso del salvataggio pubblico di NordLb: “Non puoi festeggiare ogni giorno: dopo il grandioso salvataggio conforme al mercato della Norddeutsche Landesbank con fondi pubblici, che magicamente NON costituiscono affatto aiuti di Stato, arriviamo a una banca italiana e ora TUTTO è diverso”, ha scritto Giacché, noto come esperto di Germania ed Europa con posizioni critiche sull’attuale struttura dell’Unione monetaria.

Fabio Amendolara e Giuseppe China per “la Verità” il 19 dicembre 2019. La lista di chi ha preso a prestito dalla Banca popolare di Bari dimenticandosi di restituire è lunga e porta la firma di Bankitalia. Nel 2016 gli ispettori certificavano più di 888 milioni di euro di sofferenze del colosso bancario del Sud (oltre ai 688 portati «in dote» da Tercas), ma allo stesso tempo prestiti allegri a gruppi come quello guidato da Vito Fusillo (fratello di Nicola, ex sottosegretario e dalemiano di ferro) e a Luca Parnasi, indagato per finanziamenti al Partito democratico e alla Lega. Non solo, nella pancia della più grande Popolare del Mezzogiorno c' erano anche 400 milioni dell' Agenzia del farmaco, che il governo ora vuole recuperare entro febbraio. Ed è anche emerso che il Csm dal 2015 ha affidato la propria tesoreria all' istituto. Nonostante fossero note da anni le sue difficoltà. Fino al 2016, stando alle ispezioni di Bankitalia, il board della banca Popolare di Bari è stato molto molle sui tempi e sulle modalità di rientro delle esposizioni. «La gestione è improntata a tolleranza», ammonivano i detective bancari. Come nel caso dei Fusillo, che hanno lasciato un buco stimato in 140 milioni di euro. A loro la banca arrivò ad affidare nel corso degli anni 400 milioni tra le varie Maiora, Fimco e Soiget, le società del gruppo amministrate dai cugini Emanuele, Giovanni e Giacomo, sotto l' esperta guida di Vito, il capostipite della holding barese, fratello di Nicola, ex sottosegretario e dalemiano di ferro. I Fusillo hanno dimostrato di avere un peso notevole sul board della Popolare di Bari. In una recente perquisizione, disposta dai magistrati nelle sedi delle società del gruppo e in quelle della Bpb, i magistrati spiegano che è necessario approfondire «la disponibilità di banca Popolare di Bari a sostenere finanziariamente il piano di risanamento in corso di redazione, mediante l' erogazione di nuova finanza [...]. Gli atti in questione impongono la necessità, all' evidente fine di investigare sulle cause dell' attuale situazione di dissesto nonché sui mezzi impiegati per portare a compimento operazioni distrattive, di acquisire presso il principale creditore, Bpb (esposto nei confronti del gruppo Fusillo per oltre 140 milioni di euro), ogni documentazione relativa alla genesi e alle successive fasi dei rapporti». Ma, proprio come per la holding barese, gli ispettori rilevarono che con alcuni gruppi come Bari Editrice e Luca Parnasi (l' imprenditore indagato per aver foraggiato in modo illecito associazioni vicine alla Lega e al Partito democratico), da parte del Consiglio d' amministrazione si presentavano «profili di debolezza». Quell' anno, coincidenza, fu messo alla porta Vincenzo De Bustis, il banchiere dalemiano che prima di approdare alla Bpb mise in fila anche operazioni considerate spericolate, come quella di Banca 121. Chiamato dal padre padrone dell' istituto, Marco Jacobini, sulla poltronissima da direttore generale, ne è uscito nel 2016, per essere richiamato a fine 2018 come consigliere con deleghe. E così, incaglio dopo incaglio e una sofferenza dietro l' altra, nei conti della Bpb si sono creati grossi buchi. Poi voragini. Tanto da attirare l' attenzione della magistratura che, con sette inchieste giudiziarie, sta cercando di far luce sul crac del colosso bancario del Sud. Una di queste indagini ipotizza che ci siano stati concessi finanziamenti a imprenditori che non avevano fornito adeguate garanzie. Lo dimostrerebbero le sofferenze, che per il 2016, scoprirono gli ispettori di Bankitalia, ammontavano a 888.068.000 per banca Popolare di Bari e a 688.130.000 per Tercas, la banca di Teramo acquisita da Bpb nel 2014. Ma non erano solo le sofferenze a spaventare. Anche i crediti concessi ad aziende in difficoltà, quelle che in slang bancario vengono definite a incaglio, hanno numeri da capogiro: 603.911.000 di euro di inadempienze probabili e 141.939.000 di euro di crediti che alla data di scadenza non sono stati ancora pagati. Tra le situazioni più gravi segnalate nel 2016, ossia tra le perdite per le posizioni in sofferenza, c' era il gruppo Tandoi, dei fratelli Filippo e Adalberto. La banca si è esposta per 3.748.000 euro. Le perdite che Bankitalia prevedeva ammontavano a 2.999.000 euro. Avevano creato una filiera del grano Senatore Cappelli tra la provincia di Bari e Matera, ma andarono in difficoltà con un progetto: il pastificio Cerere. Uno dei due fratelli, Filippo, tentò di riparare lanciandosi in politica: nel 2013 si candidò senza successo al Senato in una lista denominata Con Monti per l' Italia. I Tandoi, insomma, quanto a risultati politici, non riuscirono a raggiungere i Fusillo. Ma sono riusciti ad avere, come i Fusillo, un peso notevole con la banca. Complicata, stando all' analisi di Bankitalia, era in quel momento anche la posizione dell' impresa di costruzioni meccaniche edili: 2.237.000 di affidamenti. Perdite previste per 1.162.000 euro. Con un altro colosso dell' edilizia, la Aedilia costruzioni Spa, la Popolare di Bari si era esposta per 3.246.000 euro. Gli ispettori prevedevano un buco da 2.181.000. Per le posizioni a incaglio, invece, nel 2016 venivano segnalate la Calatrava: 1.485.000 euro di esposizione e 1.427.000 di sofferenze. E la Gam Spa, con 3.000.000 di esposizione contro 613.000 di sofferenze previste. Tra i titoli ormai scaduti, invece, viene segnalata la Scaraggi veicoli industriali: 2.509.000 di esposizione e 1.469.000 di sofferenza. Tra le cifre più alte affidate, gruppo Fusillo a parte, c' è quella per la Impidue college, una Srl immobiliare: 27.425.000 di affidamenti e 6.391.000 di «probabile inadempienza». Segue il Gruppo Nitti con 12.856.000 di euro di esposizione e 5.161.000 di «probabile inadempienza». Anche per Tercas le posizioni in sofferenza vengono passate sotto la lente dagli ispettori di Bankitalia. Dierreci costruzioni Srl in liquidazione, per esempio, ha ottenuto 32.595.000 euro e in quel momento contava 21.740.000 euro di sofferenza. I vertici dell' impresa, che aveva un capitale sociale misero (10.000 euro), finirono in un' inchiesta giudiziaria per una distrazione di fondi che, a sentire i magistrati, «avrebbe contribuito al dissesto della banca». Altro potenziale buco in quel momento era previsto per la Isoldi Spa in liquidazione, una società finita a gambe all' aria nel 2015, con la quale la Tercas si era esposta per 30.517.000 euro. Gli ispettori di Bankitalia prevedevano un mancato rientro per oltre 17 milioni di euro. Andò male anche con Parco delle stelle Srl, un' imponente sala ricevimenti andata in crisi, alla quale Tercas aveva affidato 17.576.000 euro. La previsione di buco era fissata a 11.289.000 euro. 

Alessandro Barbera per “la Stampa” il 19 dicembre 2019. Roma, ieri. Nelle sale barocche del Quirinale è l'ora degli auguri di fine anno. C'è la Roma dei palazzi che contano, politici, giudici, alti funzionari. E c' è il governatore di Banca d' Italia Ignazio Visco, nel vortice per la vicenda della Popolare di Bari. Fra gli invitati non si parla che di questo e del destino della legislatura. «Chi ci attacca fa errori di fatto e di diritto», dichiara Visco in un' intervista al Financial Times. Eppure fra gli advisor legali e finanziari che si sono avvicendati attorno all' ultima grande banca del Sud il commissariamento era auspicato da mesi. Secondo quanto risulta a La Stampa da tre fonti diverse, fra Roma e Bari la decisione era attesa sin da giugno, quando ormai era chiaro che il tentativo di unire l' istituto pugliese ad altre realtà più piccole con una norma ad hoc di incentivo fiscale non avrebbe funzionato. Al netto delle rassicurazioni fatte dai vertici al management, a ottobre la decisione era valutata come «inevitabile». Nel frattempo, a fine luglio, il presidente Marco Jacobini - uno dei principali artefici del dissesto - aveva lasciato le redini della banca al nipote Gianvito Giannelli con il voto dell' assemblea dei soci. Perché la vigilanza abbia atteso così tanto per risolvere il pasticcio di Bari non è chiaro. Di certo nella maggioranza e nel governo c' è irritazione per quanto accaduto nelle ultime due settimane, quando sono iniziate a filtrare le iniziative della magistratura contro i vertici e il salvataggio della banca si è fatto urgente. Spiega un' autorevole fonte di governo Pd che chiede di restare anonima: «Non c' è dubbio che a via Nazionale si siano mossi con lentezza. Ma quando il commissariamento è diventato inevitabile ci è stato sollecitato il decreto». In una riunione riservata della maggioranza convocata una settimana prima della decisione - era venerdì 6 dicembre - si inizia a discutere concretamente di aprire la rete pubblica alla banca, senza alcuna certezza sulle decisioni di Banca d' Italia. Ci sono Conte, Gualtieri, Di Maio, Dario Franceschini, Roberto Speranza, il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera. È possibile che il presidente del Consiglio e il ministro del Tesoro siano avvertiti di un provvedimento imminente, fatto è che il renziano Luigi Marattin, spalleggiato da Pd e Cinque Stelle, vincola il decreto di salvataggio all' atto preventivo di via Nazionale. La polemica innescata da Renzi e Di Maio allarma Bankitalia, a quel punto preoccupata all' idea che il commissariamento senza garanzie statali provochi il panico fra i risparmiatori. Il resto è storia recentissima. Una settimana dopo - è venerdì 13 - il governo vara un complicato intervento attraverso Invitalia e Mediocredito Centrale che Conte aveva negato fino a poche ore prima. Spiega ancora la fonte di governo Pd: «Al netto delle responsabilità della vigilanza, è innegabile che qualcuno stia soffiando sul fuoco per far saltare la nomina di Daniele Franco a direttore generale di Banca d' Italia». Franco, fino a qualche mese fa Ragioniere generale dello Stato, aveva rinunciato alla conferma dopo molti confronti muscolari con i Cinque Stelle su vari provvedimenti di spesa. Nonostante questo, a valle dell' indicazione di Fabio Panetta a membro italiano del board della Banca centrale europea, Franco è tuttora il candidato naturale alla poltrona di numero due dell' Istituto. La scelta del nuovo presidente della Commissione di inchiesta sulle banche sarà la cartina di tornasole del clima che si respira nei Palazzi: ieri il leader dei Cinque stelle Di Maio ha annunciato il «passo di lato» del senatore Elio Lannutti.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” 19 dicembre 2019. I vertici della Banca popolare di Bari, a cominciare dall' allora direttore generale Vincenzo de Bustis Figarola, sapevano che i 300 milioni di euro in azioni vendute nel 2014 a migliaia di risparmiatori, nelle cui mani si sarebbero trasformate in spazzatura, erano un pacco ad alto rischio. Che il loro valore di collocamento, superiore a 9 euro, era destinato a crollare nel giro di pochi mesi. Perché questo documentavano gli studi interni della Popolare. Questo suggerivano i numeri catastrofici delle sofferenze della Tercas. E su questo aveva concordato il Consiglio di amministrazione dell' Istituto, nello stesso momento in cui certificava il contrario con Consob, l' autorità di controllo di Borsa. Di più: nel verbale del Consiglio di amministrazione di Popolare del 17 ottobre del 2013 quando l' acquisizione di Tercas prende corpo - gli stessi vertici della banca svelano l' arcano di questi ultimi giorni intorno alle responsabilità di amministratori e vigilanza. L' invito ad acquisire Tercas era arrivato nei primi giorni di quell' ottobre 2013 direttamente dalla Vigilanza centrale di Banca d' Italia. Da quel Carmelo Barbagallo, cioè, che in quello stesso momento, stava chiudendo il rapporto ispettivo sulla Popolare e, contemporaneamente, avrebbe dovuto vigilare sul rispetto da parte della banca del blocco all' acquisizione di nuovi istituti che la stessa Bankitalia aveva imposto nel 2010. Bankitalia, "orgoglio" e "inganno" 17 ottobre 2013. Nell' aula consiliare di Popolare è convocata una riunione decisiva. La banca deve decidere se acquistare o meno l' abruzzese Tercas. Se accogliere o meno ne vedremo poi il dettaglio - le sollecitazioni che arrivano da palazzo Koch. Per farlo servono almeno tra i 350 e i 500 milioni di euro. E andranno chiesti al mercato. Con emissione di azioni ordinarie e obbligazioni subordinate da collocare alla clientela di riguardo, così come al parco buoi dei piccoli correntisti. Prende la parola il presidente Marco Jacobini. E - come si legge nel verbale della seduta - dice: «L' odierna riunione è stata convocata per fornire al Consiglio tutte le informazioni necessarie ad assumere in maniera informata e consapevole le determinazioni sull' invito ricevuto dalla Banca d' Italia a esaminare la sussistenza di condizioni e presupposti ritenuti favorevoli e verificare i profili operativi di un eventuale intervento della Popolare di Bari nell' operazione di salvataggio e risanamento di Banca Tercas, ora in amministrazione straordinaria». Per suonare ancora più convincente, Jacobini aggiunge un dettaglio: «Alcuni giorni fa la Vigilanza centrale, attraverso il dipartimento deputato della gestione delle situazioni di crisi, ha preso contatto con il vertice della Banca per illustrare i termini della possibile operazione (...) La Banca d' Italia eleva la Popolare di Bari a un livello superiore di dignità, riconoscendole un ruolo di grande prestigio». Che tuttavia ha un costo. Non da poco. E che è compito dell' allora direttore generale Vincenzo de Bustis riferire con franchezza al Consiglio. «È vero - osserva - la sollecitazione della Banca d' Italia è un riconoscimento della credibilità e della fiducia che la vigilanza ci accredita. E la fiducia si nutre di scelte coraggiose e si alimenta con la coerenza dei comportamenti. L'invito, però, per quanto ci riempia di orgoglio, deve essere attentamente filtrato alla luce dei presupposti dell' arte del possibile, cercando di prevedere cosa potrà accadere nel futuro. Ed evitando, se possibile, situazioni di possibile disagio. Da un punto di vista patrimoniale, Banca Tercas ha bisogno di essere ricapitalizzata con capitale fresco, per recuperare l' equilibrio e raggiungere un "Tier one" (con questo termine si intende la componente primaria del capitale di una banca, il suo nocciolo duro, ndr ) soddisfacente. Sono anche un po' a corto di liquidità. L'aspetto industriale preoccupa maggiormente, perché è stato perso del tempo importante». E, in ogni caso, chiosa, «il ritorno ad una prospettiva di redditività positiva potrebbe richiedere almeno 24/36 mesi». Insomma, i vertici di Popolare sanno che da Tercas non ricaveranno un solo euro di utile prima del 2018. Il prospetto interno Sanno anche qualcosa in più. In un prospetto interno della Banca, che porta la data del 31 ottobre 2013, elaborato dalla Direzione Generale Contabilità e bilancio e trasmesso all' ufficio del "Chief Risk Officer" (ruolo in quel momento ricoperto da Luca Sabetta, il dirigente che, come raccontato mercoledì da Repubblica, si trasformerà in whistleblower dell' inchiesta della Procura di Bari), l' operazione di acquisizione di Tercas viene valutata «potenzialmente idonea a determinare ripercussioni negative sulla redditività di Banca Popolare e sulla prospettiva di remunerazione e apprezzamento delle azioni». Di più: «A ripercuotersi negativamente sugli indici fondamentali dell' Istituto (quelli che determinano la solidità patrimoniale, insomma ndr.)». Non fosse altro per un numero di Tercas. La banca abruzzese, al momento dell' acquisizione, presenta crediti deteriorati per tre miliardi e mezzo, pari a oltre il 50% in più del cosiddetto "Risk Weighted Asset" della Banca Popolare. Vale a dire il 50% in più delle esposizioni fuori bilancio ponderate in base al rischio (un tipo di calcolo utilizzato per determinare i requisiti patrimoniali adeguati di una banca).

La favola per gli investitori. Con un quadro di questo genere, la sottoscrizione di azioni della Popolare del 2014 per l' aumento di capitale necessario ad acquisire Tercas è un doppio salto mortale. Ma i vertici della banca, nel prospetto consegnato alla Consob e al mercato il 22 novembre di quell' anno, lo raccontano come una favola per bambini. Consumando un doppio inganno. Il primo riguarda il valore di collocamento dell' azione e la garanzia per eventuali illiquidità nel loro riacquisto. Una relazione interna alla Popolare firmata da Deloitte consiglia infatti per le azioni un prezzo compreso "in un intervallo tra 8,7 e 8,9 euro". Bene, la banca lo tira fino a 9,53. Di più: per rassicurare gli investitori sulla possibilità di disfarsi rapidamente dell' investimento, Popolare certifica che nessun ordine di vendita delle azioni è stato sin lì evaso con tempi di attesa superiore ai 90 giorni (circostanza che la Banca d' Italia, proprio nell' ispezione del 2013, aveva verificato come non vera). Il secondo inganno riguarda invece l' operazione di aumento di capitale tout court e le sue ragioni: l' acquisto di Tercas. Si legge infatti nel prospetto informativo di quel 22 novembre 2014: «Si evidenzia che dall' operazione di acquisizione di Banca Tercas deriva un tipico rischio di business connesso al piano di rilancio commerciale di banche reduci da commissariamento, cui si aggiunge il rischio di una temporanea riduzione dei coefficienti patrimoniali di gruppo sotto il livello minimo regolamentare Nonché effetti peggiorativi di taluni indicatori gestionali, in particolare in relazione all' incidenza dei crediti deteriorati (incagli e sofferenze)». Non esattamente quello che Vincenzo De Bustis aveva raccontato al suo Cda. Non esattamente quello che i vertici sapevano.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 dicembre 2019. Eccolo, dunque, il de profundis della Banca Popolare di Bari. Sono quattro pagine dattiloscritte intestate Banca d' Italia, classificate "riservatissimo", che portano la data di venerdì scorso, 13 dicembre, il numero di delibera 712/2019, e la firma del Governatore, Ignazio Visco. È il provvedimento di commissariamento. Quello che dispone lo «scioglimento degli organi con funzione di amministrazione e controllo» della banca e la «nomina gli organi straordinari». È la fotografia di un disastro di governance, anche nel suo ultimo tratto, quello affidato alle mani dell' ad Vincenzo De Bustis Figarola. Di sofferenze in bilancio sottostimate fino alla fine (i crediti deteriorati). E di coefficienti di solidità patrimoniale scesi sotto la soglia di guardia. Quella oltre la quale si portano i libri in tribunale. Di una decisione presa nella consapevolezza di un' inchiesta penale condotta ormai da tre anni dal Procuratore aggiunto Roberto Rossi e dai pm Federico Perrone Capano e Lydia Giorgio e diventata necessaria prima ancora che l' ultima delle ispezioni disposte la scorsa estate da Palazzo Koch fosse completata. Per evitare che stavolta sì, si arrivasse troppo tardi. "Deterioramento irreversibile" Scrive il Governatore di Banca d' Italia Ignazio Visco: «La situazione della Banca popolare di Bari è da tempo all' attenzione della Vigilanza, a motivo di incertezze sulle prospettive strategiche e di criticità nei principali profili tecnici, riconducibili in particolare all' elevata incidenza dei prestiti deteriorati e la scarsa efficienza aziendale, che hanno determinato la progressiva riduzione dei margini patrimoniali. Dalla seconda metà del 2018, si è registrato un deterioramento della situazione tecnica, riconducibile anche alla sopraggiunta necessità di effettuare accantonamenti aggiuntivi sulle principali esposizioni creditizie, che hanno determinato una riduzione significativa dei coefficienti patrimoniali su livelli prossimi ai minimi». Il Governatore fotografa le ultime mosse della banca, l' ultimo disperato tentativo degli Jacobini e di De Bustis di ottenere una prova d' appello. «In considerazione delle perdite registrate alla chiusura dell' esercizio del 2018, la banca ha trasmesso a questo Istituto, in data 17 maggio 2019, il piano di conservazione del capitale prescritto dalla normativa prudenziale». Inutilmente, a quanto pare. Perché, come lo stesso Visco osserva, «l' implementazione di tale piano è stata pregiudicata dall' intensa e crescente conflittualità all' interno del Consiglio di amministrazione e dalle contrapposizioni tra gli organi aziendali». Il riferimento è allo scontro - di cui Repubblica ha dato conto in questi mesi - tra un autocertificato cavaliere bianco (l' ad Vincenzo de Bustis Figarola), e il vecchio patriarca, Marco, e uno dei suoi figli, Luigi Jacobini. «In questo scenario - annota il Governatore - il 18 giugno del 2019 hanno preso avvio presso la Banca popolare di Bari accertamenti ispettivi di Vigilanza a spettro esteso, tuttora in corso». E gli esiti, parziali, consigliano di non perdere tempo. Scrive infatti il Governatore: «Il sopralluogo ispettivo sta facendo emergere elementi di tale criticità da condurre il team incaricato a rilasciare riferimenti interlocutori». La delibera ne documenta il dettaglio.

Gli esiti dell' ispezione 2019. Nulla gira come deve a Bari. Scrive Visco: «Il rinnovo delle cariche sociali raccomandato dalla Vigilanza da parte dell' assemblea del 21 luglio 2019 (il riferimento è alla nomina di presidente del professor Gianvito Giannelli e dell' ingresso in consiglio di amministrazione dei consiglieri Patrizia Giangualano, di Giulio Codacci Pisanelli e Francesco Ago, poi dimessosi, di Gregorio Monachino e di Vincenzo de Bustis, ndr ) non ha prodotto con l' attesa celerità ed efficacia concreti interventi di rilancio dell' azione gestionale e di messa in sicurezza dei requisiti patrimoniali della banca. L'attuazione delle iniziative programmate, talvolta basate su aspettative poi rivelatesi infondate, è stata compromessa da ritardi e non ha prodotto risultati tangibili sull' operatività aziendale». A dispetto, dunque, di quanto Vincenzo De Bustis ha provato ad accreditare con una robusta campagna di pubbliche relazioni e comunicazione, a dispetto del nastro consegnato da mani anonime a Fanpage nei giorni scorsi dove si ascoltava un De Bustis severo, pronto a fustigare la governance, e contestualmente rassicurante sull'impossibilità di un commissariamento, le cose andavano in ben altro modo. Questo: «Il profilo reddituale della Banca popolare di Bari si mantiene deficitario a causa dell' insufficienza delle fonti di ricavo e del peso dei costi di struttura (...) La situazione al 30 settembre 2019 si è ulteriormente deteriorata, con un cost/income asceso al 108,5 per cento». La Popolare insomma brucia più denaro di quanto incassi e «al 31 dicembre 2019 la perdita inerziale sulla base delle previsioni aziendali si attesta a 194 milioni di euro, senza considerare le ulteriori rettifiche sul portafoglio crediti risultanti dall' analisi ispettiva».

Il baratro dei crediti inesigibili. Già, i crediti. Da sempre il pozzo di San Patrizio in cui la banca annega. Anche stavolta sottostimati in bilancio nel tentativo di gettare un po' di fumo negli occhi a palazzo Koch. «L'analisi del portafoglio crediti scrive Visco sulla base dei dati parziali trasmessi dai suoi ispettori - ha rivelato una sottostima della quantificazione del rischio: la revisione di un primo campione di fascicoli di fido, per un importo complessivo pari a 654 milioni, ha palesato maggiori posizioni deteriorate per 148 milioni di euro ed esigenze di maggiori rettifiche sui crediti per 109 milioni ».  Il risultato, al 30 settembre 2019, è che i coefficienti di rischio «si posizionano al di sotto dei minimi regolamentari: 4,22 per cento il Cet1 (acronimo di Common Equity Tier, indice che esprime la solidità di un Istituto bancario ndr.) e 6,22 per cento il Tcr (Total capital ratio, altro indice di solidità calcolato sull' insieme del patrimonio ndr .) con un deficit di 104 milioni di euro. L' impatto di tali perdite sulle stime patrimoniali prodotte dall' azienda determinano un' ulteriore discesa dei coefficienti».

L' ultima carta. De Bustis - come annota Visco - tenta un'ultima carta il 29 novembre scorso, quando formalizza una richiesta di intervento al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per un intervento sul capitale che dia dell' ossigeno che non c' è più. Ma anche questa è una mossa dove alle intenzioni non seguono i fatti. Accade infatti che nonostante la disponibilità del fondo e di Mediocredito centrale ad avviare una discussione costruttiva, Bari riproponga la sua melina nel fornire documenti e chiarimenti necessari all' intervento. È la goccia che fa traboccare il vaso. Scrive Visco: «L' andamento delle trattative non è coerente con la rapida degenerazione della situazione tecnica che rende indifferibile una soluzione di mercato. Le gravi perdite patrimoniali, l' insufficiente azione degli organi aziendali in relazione alla grave criticità del contesto configurano i presupposti per l' adozione in via d' urgenza della misura di un intervento precoce». È la fine.

Giorgio Meletti per “il Fatto Quotidiano”  il 19 dicembre 2019. La capacità del governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco di sostenere tutto e il contrario di tutto, à la carte, nel caso della Popolare di Bari e del suo intoccabile boss Vincenzo De Bustis è stata dispiegata per nascondere il palese appoggio sempre fornito al banchiere pugliese. Per stare ai dati oggettivi, De Bustis è stato sanzionato già nel 2001 come direttore generale della Banca del Salento (poi 121) per "trasferimenti di titoli dal comparto di negoziazione a quello immobilizzato in assenza delle prescritte condizioni". Nel 2005 è stato multato dalla Consob (144.900 euro) per irregolarità nella distribuzione dei famigerati prodotti finanziari My Way e For You, 2 miliardi di euro raccolti tra 90 mila clienti. Il 9 ottobre 2018 è stato multato ancora dalla Consob per irregolarità nei due aumenti di capitale della Popolare di Bari di cui era stato direttore generale dal 2011 al 2015. Esattamente due mesi dopo è tornato in sella alla Popolare di Bari come consigliere delegato e la Banca d' Italia non ha battuto ciglio, rilasciandogli senza esitazione il via libera. La legge dice infatti che per guidare una banca devi sottoporti all' esame della vigilanza sulle tue competenza, onorabilità e correttezza. La storia si ripete sempre uguale: la Banca d' Italia è severissima con i banchieri non obbedienti e distratta con gli amici e gli obbedienti. Poi scoppia il bubbone e alla inevitabile domanda (ma voi dove eravate?) gli uomini di Palazzo Koch rispondono sempre con una balla a scelta tra "quei delinquenti ce l' hanno fatta sotto il naso" e "non avevamo poteri sufficienti". Lunedì scorso su Repubblica un articolo di Claudio Tito ha dato voce alla seconda tesi: "I tecnici fanno anche notare che nel 2014 è stata approvata dal Parlamento una direttiva europea che renderebbe più stringenti i requisiti per i manager delle banche. Quella direttiva non è mai entrata in vigore: non è stato varato il regolamento attuativo. Quindi anche in occasione della definizione dell' ultimo vertice della Popolare sono stati utilizzati i requisiti, molto più laschi, che risalgono al 1998". Questa versione dei fatti, affidata ai sapienti "dicono a Palazzo Koch", è protetta dal segreto d' ufficio che fa credere al governatore di poter mettere in circolazione qualsiasi balla. Però da quel poco che sappiamo, i conti non tornano. Innanzitutto la direttiva Crd IV è stata recepita il 12 maggio 2015 con un decreto legislativo che modifica il Testo Unico Bancario e introduce (articolo 53 bis) il potere per Bankitalia di mandare a casa i banchieri, a suo insindacabile giudizio, "qualora la loro permanenza in carica sia di pregiudizio per la sana e prudente gestione della banca". Potere prima invocato, poi salutato con giubilo, poi esercitato solo una volta nel 2016 con il presidente del Credito di Romagna, Giovanni Mercadini. Effettivamente il nuovo articolo 26 del Tub subordina l' entrata in vigore dei nuovi criteri "più stringenti" a un decreto attuativo del ministro dell' Economia. È certamente vero che Pier Carlo Padoan dal 12 maggio 2015 al 31 maggio 2018, per tre anni, si è ben guardato di emanare il decreto; che Giovanni Tria ha fatto lo stesso dal 1 giugno 2018 all' agosto scorso; e che Roberto Gualtieri non ha avuto l' incombenza tra i suoi primi pensieri negli ultimi tre mesi. Secondo l' autorevole Studio Ambrosetti i nuovi criteri europei, qualora adottati, farebbero saltare un consigliere d' amministrazione su quattro nelle banche. E nessun ministro ha avuto finora il coraggio di sfidare l' ira dei banchieri. Lo stesso M5S , così severo coi banchieri quando era all' opposizione, nei suoi 18 mesi di governo ha sempre fatto finta di niente. La Bce (che vigila sulle banche maggiori) e la Banca d' Italia, mentre attendono senza trepidazione il decreto Godot, hanno trovato la loro astutissima quadra. Dicono di aver adottato comunque i criteri "stringenti" della Crd IV e decidono caso per caso chi supera e chi no l' esame. Per esempio il cda dell' Ubi è stato rinnovato attraverso una trattativa sottobanco per cui non si sono ricandidati i consiglieri imputati nel processo per gravi reati commessi nella gestione della banca, ma è stato rieletto l' amministratore delegato Victor Massiah, imputato anche lui. E l' essere imputato in un processo sarebbe una delle cause ostative della Crd IV . Esattamente due anni fa Visco, in audizione davanti alla commissione parlamentare d' inchiesta sulle banche, affrontò il caso di Marco Morelli, messo al vertice di Mps nonostante la pesante sanzione ricevuta da Bankitalia proprio per fatti "gravissimi" commessi come dirigente dello stesso Monte dei Paschi. Visco borbottò qualcosa, poi lasciò la parola all' allora capo della vigilanza Carmelo Barbagallo, che disse: "La differenza tra la nuova normativa e la vecchia normativa sta nel fatto che per la nuova normativa sarà obbligatorio tenere conto delle sanzioni, come anche delle procedure penali in essere. Però, pur non essendo obbligatorio, questo aspetto è stato preso in considerazione ed è stato ritenuto che non incidesse nella situazione di Morelli". Quindi Morelli è stato giudicato con le nuove regole e promosso. De Bustis invece - ma lo dicono adesso che è scoppiata la grana - l' hanno dovuto giudicare con le regole vecchie. In realtà la regola seguita è sempre la stessa, vecchissima: la Banca d' Italia esercita il suo potere nel massimo arbitrio del governatore, del direttorio e talvolta anche del singolo dirigente. E la famosa moral suasion? L' hanno usata, come sempre, ma solo per proteggere De Bustis.

Crack Banca Base: arrestati il presidente del Cda e il direttore generale. Operazione delle Gurdia di Finanza, Piero Bottino, 63 anni, e Gaetano Sannolo, 47, sono agli arresti domiciliari. E con loro altre 18 persone per il fallimento della Banca sviluppo economico di Catania (Banca Base). I reati vanno dalla bancarotta fraudolenta, al falso in prospetto, all'ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza e all'aggiotaggio. La Repubblica il 19 dicembre 2019. Il presidente del Cda e il direttore generale di Banca Base, Piero Bottino, di 63 anni, e Gaetano Sannolo, di 47, sono stati arrestati, e posti ai domiciliari, da militari della guardia di finanza di Catania e del nucleo speciale di polizia valutaria nell'ambito dell'inchiesta sul crack dell'istituto di credito. Militari delle Fiamme gialle stanno inoltre notificando un avviso di conclusione indagini nei confronti di 18 indagati emesso dalla Procura distrettuale. I reati ipotizzati, a vario titolo, dalla Procura distrettuale di Catania per gli arrestati e i 18 indagati, sono, in concorso, bancarotta fraudolenta, falso in prospetto, ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza e aggiotaggio. Al centro dell'inchiesta lo stato d'insolvenza della Banca Sviluppo Economico s.p.a. (Banca Base) dichiarato dal Tribunale civile di Catania nel dicembre 2018 e confermato in appello nell'aprile 2019. L'operazione delle Fiamme Gialle, denominata "Fake Bank', secondo l'accusa, avrebbe consentito di "tracciare la perpetrazione ripetuta di illecite condotte operate dalla governance della 'fallita' banca etnea consistenti in operazioni finanziarie anti-economiche e dissipative del patrimonio societario in dispregio dei vincoli imposti dall'Autorità di Vigilanza".

Tria beffa Salvini, Di Maio e Conte. Il titolare dell'Economia dopo avere promosso la collaboratrice che gli contestavano mette tutti nel sacco sul decreto rimborsi ai risparmiatori. I tre costretti a subire il diktat, scrive Franco Bechis il 4 Aprile 2019 su Il Tempo. A vedere Giovanni Tria, il ministro dell'Economia, ti verrebbe voglia di mettergli vicino due body guard di quelli ben piantati. Lui piccolino, sempre sorridente, all'apparenza indifeso come potrebbe cavarsela altrimenti in mezzo a tutti quegli energumeni del governo gialloverde? Un giorno gli abbaia addosso Luigi Di Maio, l'altro gli ringhia Matteo Salvini. Perfino il mite Giuseppe Conte andando con gli urlatori ha imparato ad mettere qualche grido, sia pure con voce garrula. Da qualche giorno ce l'hanno tutti con lui e quando lo vedi in mezzo a quelli lì ti fa subito simpatia, ti verrebbe da proteggerlo. In questi giorni però Tria ha mostrato di non avere bisogno proprio di alcuna scorta, perché a difendersi è bravissimo da solo, tanto è che gli energumeni li ha messi tutti nel sacco. Il ministro era finito nel loro mirino per due cose. La prima appare banale e non lo è: al ministero dalla fine della scorsa estate ha preso con sé una collaboratrice grande amica della moglie, Claudia Bugno. Ha un buon curriculum, quindi non è quello il problema. Solo che una volta salita ai piani alti del potere la signora si è allargata un po', provocando ovvio risentimento. In una situazione così se non tutto fila a regola d'arte, prima o poi te la fanno pagare. E uno scivolone la Bugno ha in effetti compiuto, perché dopo che lei era arrivata al ministero il suo compagno che fa l'imprenditore ha pensato bene (ma non troppo) di assumere il figliastro di Tria. La cosa ha fatto qualche scalpore, e anche scandalizzato la maggioranza di governo, che non ne ha fatto mistero quando il ministro ha pure proposto la Bugno per il consiglio di amministrazione di una grande società come Stm Microelettronics. Con toni burberi gli hanno chiesto di ritirare quella nomina e di lasciare a casa la collaboratrice. Tria deve avere pensato che can che abbaia alla fine non morde, e ha fatto spallucce. Anzi ha preso in giro i suoi contestatori facendo ritirare alla Bugno la candidatura per quel cda e infilandola subito in un altro prestigioso posto come l'Agenzia spaziale italiana. Tria si è dimostrato così più forte di Salvini, Conte e Di Maio messi insieme. E lo è, semplicemente perché i tre non hanno nessuno di spendibile per sostituirlo. Allora i due vicepremier si sono messi ad abbaiare su un argomento popolare come quello dei decreti attuativi per i rimborsi ai risparmiatori truffati che il ministro dell'Economia tardava a firmare. Anche Conte, incoraggiato dai due, ha provato a fare la voce grossa, annunciando che oggi quei decreti entreranno nel testo del decretone sulla crescita che deve approvare il consiglio dei ministri. Ma non è vero, perché alla fine anche qui comanda Tria: i decreti resteranno al suo ministero, e verranno firmati solo una volta sciolti i problemi che ci sono. Su questo il ministro dell'Economia ha pure ragione da vendere. Perché Salvini e Di Maio hanno promesso il risarcimento degli investimenti a tutti i risparmiatori che abbiano titoli e obbligazioni di Banca Etruria, Banca delle Marche, Cassa di Ferrara, Cassa di Chiesi e delle due popolari venete a patto che abbiano subito «ingiusto pregiudizio» nella sottoscrizione di quegli investimenti. Ma come si fa a sapere se hanno subito ingiustizia? Tria dice: «lo deve stabilire la magistratura o un'autorità competente come Anac o Consob che abbia esaminato ogni singolo caso. Altrimenti io non firmo”. Ed è sacrosanto, tanto più che la promessa di rimborso vale anche per chi abbia azioni che erano quotate in borsa come quelle di Etruria. In effetti perché mai bisogna risarcire chi liberamente avesse deciso di comprare ad esempio nel 2010 e poi aveva ancora azioni in mano quando queste avevano perso il 90% del loro valore? Lo ha fatto liberamente, conoscendo i rischi che ci sono sul mercato azionario. Perché lui deve essere risarcito alla pari di chi si è visto infilare dalla banca di fiducia titoli non quotati e obbligazioni nel proprio portafoglio, o addirittura è stato minacciato di non avere il finanziamento o il mutuo richiesto se non avesse fatto quell'investimento? Quindi ci deve essere qualcuno che esamina i casi e dice «questo sì, questo no». Altrimenti si creerebbero i presupposti per chissà quante azioni giudiziarie. Il tipo ad esempio che ha investito in Mps perché aveva sentito da Matteo Renzi premier che sarebbe stato un affarone e invece ha perso un capitale, non avrebbe lo stesso diritto al risarcimento? Così non si finisce più. Tria ha ragione su questo e torto sulla vicenda della Bugno. Ma nell'uno e nell'altro caso ha fatto quello che voleva. Mettendo tutti nel sacco e dimostrandosi più forte di loro.

Franco Bechis: "Il vero sconfitto è il ministro Giovanni Tria ma vedrete che aveva ragione lui", scrive il 9 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Il ministro Giovanni Tria, alla fine, è "il grande sconfitto, che "si è piegato", scrive Franco Bechis nel suo editoriale su Il Tempo, "visto che la soluzione di rimborso ai risparmiatori scodellata ieri a palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte rappresenta una disfatta totale del Tesoro". Ma occhio, perché alla fine di tutto, vedrete che aveva ragione lui. "L'esecutivo ha ignorato tutti i dubbi- fondati- del ministro dell'Economia e deciso una cosa in sé incomprensibile: saranno rimborsati con quelle percentuali tutti i risparmiatori che non superino un reddito lordo familiare di 35 mila euro annui". Ma, si chiede Bechis, "che c'entra il reddito con un diritto ad essere rimborsato? Nulla. E chi guadagna 36 mila o 37 mila o 40 mila euro? Si attacca al tram". "Se Tria era preoccupato come aveva fatto trapelare nei giorni scorsi di possibili azioni di responsabilità e di cause di risarcimento dopo la firma sotto i decreti di rimborso, con questo testo può mettersi l'animo in pace: le cause saranno certe", conclude Bechis. "Perché il discorso è semplice: o ci sono risparmiatori truffati, o non ci sono. Se sono truffati, vanno risarciti tutti nella stessa misura indipendentemente dal reddito dichiarato, "nemmeno i comunisti dei tempi d'oro avevano osato fare una selezione di classe in questo modo".

Truffati delle banche, passa la linea Tria: rimborsi ai redditi sotto i 35mila euro, scrive il 9 aprile 2019 Il Dubbio. Intesa nel governo. Da un lato gli azionisti del governo, Lega e Movimento 5 Stelle, dall’altro il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. In mezzo, a fare da arbitro e mediatore: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che alla fine decreta la vittoria del titolare dei Conti nella lunga partita dei rimborsi ai truffati dalle banche. I risarcimenti seguiranno un doppio binario in base a reddito e patrimonio immobiliare. I rimborsi diretti saranno destinati a chi possiede un patrimonio immobiliare inferiore ai 100mila euro al 2018 oppure con un reddito imponibile inferiore ai35mila euro lordi sempre nel corso dello scorso anno. Gli altri dovranno invece passare per un arbitrato rapido, che attraverso la tipicizzazione dell’illecito, contrattuale o extra contrattuale, definirà l’eventuale rimborso. Secondo i numeri del ministero dell’Economia, almeno il 90 per cento del totale di circa 200mila risparmiatori passerà per gli indennizzi diretti. Ai risparmiatori azionisti verrà riconosciuto il 30 per cento di quanto perso, agli obbligazionisti subordinati il 95 per cento, come a chi deciderà di passare attraverso l’arbitrato. Solo due associazioni -“Noi che credevamo nella Banca Popolare di Vicenza” e il “Coordinamento don Torta” – si schierano contro l’accordo. «Non ci hanno fatto leggere la bozza, ci hanno descritto qualcosa. Non avendo visto nulla, non mi prendo la responsabilità di firmare», dichiara amareggiato Luigi Ugone, presidente della prima associazione. «Non sappiamo come andrà avanti la questione. Al momento i numeri del Mef non sono chiari ma restiamo aperti al confronto se vi fossero gli spazi». Abbastanza soddisfatte del risultato invece la maggior parte delle associazioni, convinte «che non ci fossero reali possibilità di miglioramento» del testo.

I TRUFFATI DALLE BANCHE. Sergio Rizzo per “Affari & Finanza - la Repubblica” l'8 aprile 2019. "Rimborseremo tutti", insistono. "Senza lodi o arbitrati", ingiungono al ministro dell' Economia Giovanni Tria, disperatamente impegnato a evitare la rotta di collisione con Bruxelles e a smentire che traballi la sua traballante poltrona. Rimborsare tutti vuol dire dare soldi pure a chi aveva comprato le azioni della banca per agevolare la concessione di un fido, oppure i semplici speculatori, chi aveva coscientemente acquistato obbligazioni subordinate allettato dall' interesse astronomico (incassato magari per anni). E poi gli è andata male. Dovrebbero allora spiegare, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, perché non rimborsare pure quelli che hanno comprato in borsa titoli di banche o aziende poi crollati, oppure chi ha visto calare il valore dei btp per l' impazzimento dello spread causato dalle scelte folli della politica. Non rendersi conto che questa assurdità del rimborsare tutti può aprire un micidiale vaso di Pandora, ecco, questo non è da governanti seri. Ma da irresponsabili. Al direttore del Foglio - Considero scandaloso l’accanimento nel voler risarcire, brevi manu, i c.d. truffati dalle banche, persino se azionisti o obbligazionisti strutturati; ciò in palese violazione non solo delle regole europee, ma delle stesse norme che il governo ha introdotto nella legge di Bilancio. Premesso che non si comprendono le ragioni per cui tocchi allo stato porre riparo, con i soldi di tutti, alla dabbenaggine di alcuni e ammesso che ci sia stata, la truffa dovrebbe pur essere accertata da un tribunale. Oppure basta l’autocertificazione degli interessati, come per le vaccinazioni?

Crac bancari: lo Stato rimborsa anche gli speculatori. Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Milena Gabanelli e Fabrizio Massaro su Corriere.it. Partiamo dai numeri. Secondo la stima del sottosegretario all’Economia, Alessio Villarosa (M5S), ne beneficeranno 300.000 «vittime». Vediamole. Dalle ultime assemblee risultavano 62 mila azionisti in Banca Etruria, 43 mila in Banca Marche, 28 mila in CariFerrara, 6 mila in CariChieti. Non tutte sono persone fisiche. Per quanto riguarda Popolare di Vicenza, i singoli soci erano 94 mila (su 119 mila azionisti totali) e 75 mila in Veneto Banca (su 87 mila). Poi ci sono gli obbligazionisti: quelli delle 4 banche erano complessivamente 10.559, e avevano sottoscritto bond subordinati per 329 milioni di euro. Altre duemila persone avevano invece comprato i bond presso altri istituti. Anche le due venete avevano piazzato 200 milioni di bond subordinati a singoli risparmiatori, ma non si sa quante siano le persone coinvolte. Si sa invece che tutti i risparmiatori coinvolti hanno cercato, o cercano, di recuperare i soldi. Molti denunciano di essere stati ingannati dalla banca che avrebbe suggerito loro l’acquisto dei bond o delle azioni pur non avendo un profilo di rischio adeguato. Lo Stato è intervenuto più volte in loro aiuto. Si è cominciato con i titolari di bond delle 4 banche saltate a novembre 2015. Il meccanismo è stato poi esteso anche agli obbligazionisti delle banche venete. Due le strade percorribili: chi aveva un reddito inferiore a 35 mila euro e patrimonio mobiliare sotto i 100 mila euro poteva chiedere il rimborso forfettario dell’80% dell’investimento; in alternativa c’era il ricorso all’arbitrato dell’autorità anticorruzione. In quest’ultimo caso l’Anac valuta ogni singola «truffa» e decide in base al grado di raggiro o di consapevolezza del risparmiatore. Dove viene accertata la violazione delle norme sul risparmio, il risparmiatore può ottenere fino al 100%.A fine 2018, per quanto riguarda gli obbligazionisti subordinati delle 4 banche, su 16.038 domande di indennizzo forfettario ne sono state liquidate 15.443, per un totale di 180,85 milioni di euro. Per quanto riguarda le venete, su 8.504 istanze ne sono state liquidate 2.183, per complessivi 8,67 milioni. Le regole di mercato europee fissano un principio netto: l’azionista quando compra sa di assumersi un rischio di impresa; se lo ha fatto perché vittima di truffa, deve risarcirlo innanzitutto la banca. Se non è possibile, perché la banca non c’è più, lo Stato può intervenire solo con «misure eccezionali» in casi singoli, per ragioni sociali. Gli azionisti delle quattro banche possono provare a fare causa alle banche subentrate, ovvero Bper e Ubi Banca. Non possono farlo invece i 169.000 azionisti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca crollate nel 2017. Dopo aver fatto vendite fraudolente di massa, le due banche venete sono state rilevate, con una legge fatta apposta, da Intesa Sanpaolo. Però nella legge una norma specifica che Intesa non deve rispondere degli illeciti pregressi ai danni dei risparmiatori. I danneggiati però possono costituirsi parte civile nei processi contro gli ex amministratori o fare causa alle società di revisione (KPMG e PwC) e a Consob e Bankitalia per mancata vigilanza. Intanto a inizio 2018 il governo Gentiloni istituisce un fondo pubblico di 100 milioni per i «risparmiatori» spalmato su 4 anni. Per la prima volta anche chi aveva inconsapevolmente acquistato un titolo di rischio può avere un risarcimento, ma tocca all’Arbitro delle Controversie Finanziarie presso la Consob valutare caso per caso. Su 976 ricorsi, che andavano presentati entro settembre 2018 (in gran parte delle Venete), ne sono stati accolti 854, riconoscendo un danno di 36 milioni di euro. Alla fine la cifra liquidata sarà di 12 milioni di euro, poiché la legge stabiliva un rimborso pari al 30% dell’importo riconosciuto dall’Arbitro, fino a un massimo di 100.000 euro. Un intervento quindi eccezionale e in linea con le norme Ue sul mis-selling.Ora Lega e M5S allargano quel fondo da 100 milioni a 1,5 miliardi, attingendo ai «conti dormienti». Cioè soldi che lo Stato ha incamerato dai depositi dimenticati da altri risparmiatori, ribattezzato Fir (Fondo indennizzo risparmiatori). Possono accedere tutti, anche coloro che sono stati già esclusi dagli arbitrati per mancanza di requisiti, e chi ha speculato in piena coscienza. Potrebbero per esempio andare a risarcire anche quel signore che a maggio 2017, un mese prima che Vicenza saltasse per aria, comprò per 72 mila euro bond subordinati pari a 150 mila euro. Gli fosse andata bene, avrebbe guadagnato il 100%. Invece gli è andata male e allora si è rivolto alla Consob per il ristoro, che però ha rigettato la domanda, perché si è scoperto che era laureato in economia e commercio, aveva lavorato in finanza e aveva chiesto espressamente di comprare quei titoli. Ora questo signore può sperare nei rimborsi automatici di Di Maio e Salvini. Se verrà ammesso, recupererà il 95%. Inoltre se il tetto della soglia di povertà sarà alzato fino a comprendere chi oggi possiede titoli e fondi fino a 200.000 euro, vuol dire che verrà rimborsato anche chi non si può definire né povero e tantomeno sprovveduto. Il bacino elettorale veneto apprezzerà. Ma ancora una volta si stanno facendo i conti senza l’oste: il Commissario Ue Margrethe Vestager.

IL CLUB DEI JACOBINI. Giuliano Foschini per “Affari e Finanza – la Repubblica” il 30 luglio 2019. Il cielo sopra Bari da qualche giorno ha cambiato colore. Dopo sessant' anni ininterrotti, per la prima volta, alla guida della più grande banca della città, la Popolare di Bari, non c' è più uno Jacobini. Il nuovo presidente del consiglio amministrazione è un nipote della famiglia che da sempre guida l' istituto di credito più importante della città, è vero, il professor Gianvito Giannelli, ma è chiaro a tutti che qualcosa di importante è cambiato: Marco Jacobini, 73 anni, presidente dal 1989, ha ceduto il passo. Una mossa che veniva annunciata da anni ma che a ogni assemblea il figlio di Luigi, che la banca fondò più di sessant' anni fa, rimandava, posticipava, dando una misura classica del levantinismo della città: tutto è rimandabile, tutto si può contrattare, niente è certo. Ed effettivamente domenica 21 luglio qualcosa d' inaspettato era successo. In Fiera del Levante era convocata, dopo parecchi rinvii, l'assemblea dei soci che si è trovata a dover approvare il peggior bilancio della storia della Popolare: un passivo da 420 milioni, gruppi di risparmiatori inferociti che si sono visti deprezzare da 8 a 2 euro i titoli, un default evitato soltanto grazie a una nuova norma ad personam, pensata proprio per la Popolare di Bari e voluta dal governo giallo-verde, quello che aveva dichiarato guerra alle banche, che consente di trasformare le cosiddette Dta (le attività fiscali differite) in crediti d' imposta. Per poter accedere al beneficio, il Governo ha però messo una condizione esplicita. E una, in qualche modo, implicita. Prima, per legge: è necessario che la banca si fonda con un'altra popolare del Sud, operazione che il consiglio di amministrazione del professor Giannelli e dell' amministratore delegato Vincenzo De Bustis ha già cominciato a studiare. Seconda, non detta: Jacobini avrebbe dovuto fare un passo indietro. E così doveva essere fin quando domenica «davanti all' applauso degli azionisti», racconta con gli occhi lucidi uno dei suoi fedelissimi dell' assemblea dei soci che si era tenuta a porte chiuse, Jacobini aveva provato a restare. Niente dimissioni. Anzi dichiarazioni coraggiose all' Ansa che sembravano un cambio di rotta: «Sono e resto il presidente della Popolare» aveva detto, quando tutti sapevano che sarebbe stata solo questione di ore. Perché non poteva essere altrimenti. Non fosse altro per evitare una frattura fra i suoi due figli, Gianluca che era stato il suo braccio destro operativo, e Luigi, che recentemente aveva lavorato al fianco dell' ad De Bustis, Jacobini sapeva che il passo di lato era inevitabile. La politica poteva aiutare una banca ma non più difendere i vertici di un istituto che per colpa di un' operazione non felice - l' acquisizione di Tercas, a onor del vero fortemente sponsorizzata da Bankitalia - ha messo in ginocchio migliaia e migliaia di risparmiatori. La vigilanza non poteva più continuare a chiudere un occhio su una banca a struttura familiare, con padre e due figli nei ruoli cruciali di gestione e controllo. E soprattutto era necessario dare anche un segnale all' esterno, all' opinione pubblica e alla magistratura che sulla Popolare ha un'indagine molto delicata, con al centro proprio Marco, per truffa, false comunicazioni alle Vigilanza. Jacobini ha dovuto dunque mettersi al lato di una banca che era un pezzo di sé: era impossibile capire dove finisse Marco Jacobini e dove cominciasse l'istituto, erano un unico monolite e come tale veniva rappresentato anche all' esterno. Popolare è al centro di tutti gli affari principali della città, eppure gli Jacobini avevano sempre scelto il low profile. Molto poco mondani, si vedevano soltanto in occasioni ufficiali quando era strettamente necessario. Eppure il loro cognome è il più pesante a Bari e per decine di chilometri attorno. Per anni hanno avuto nelle mani il cuore dei baresi con la squadra di calcio, ai quali sono sempre stati molto vicini nell' era Matarrese e Paparesta, prima di arrivare al fallimento disastroso. Sono molto vicini alla Gazzetta del Mezzogiorno, il gigante dell' editoria oggi in grande difficoltà per via dei guai giudiziari del suo editore, Ciancio Sanfilippo, il cui pacchetto di maggioranza è pronto a passare nelle mani - proprio con la benedizione della Popolare - di Sorgente Group di Valter Mainetti. Hanno supportato tutti i più grandi gruppi imprenditoriali della città, in ottimi rapporti con la politica sia a destra sia a sinistra. Hanno però sempre mal digerito le critiche: a questo giornale la Popolare di Jacobini ha minacciato di chiedere 100 milioni di euro di danni se avessimo continuato a scrivere di inchieste e proteste dei risparmiatori. Ma fu un articolo, pubblicato nel 2017 da Affari&Finanza, a mandare su tutte le furie Jacobini: si raccontava tra le altre cose che persino San Nicola, di cui l' ormai ex presidente è devotissimo, si fermava a omaggiare la banca, con un inchino, durante la processione di maggio, la festa dei baresi. A conferma del peso dell' istituto nella storia della città. Un' usanza che per un periodo il nuovo priore della Basilica, Lorenzo Lorusso, aveva sospeso. Ma che, andato via, era stata immediatamente ripresa. E così, il prossimo maggio, anche il Santo sarà sorpreso di non vedere Marco Jacobini lì, sulla porta di casa.

Popolare di Bari. Come anticipato dal nostro giornale Jacobini si è dimesso lasciando la presidenza al nipote Vito Giannelli. Il Corriere del Giorno il 25 Luglio 2019. La decisione è arrivata tre giorni dopo la nomina del nuovo CdAe dall’approvazione di un bilancio con 420 milioni di debiti ed il patrimonio crollato di oltre il 50 per cento. Nominato amministratore delegato Vincenzo De Bustis Figarola. Attorno a tutto questo le ispezioni della Consob , quella ancora in corso di Banca d’Italia, e le inchieste della Procura di Bari, per truffa, false comunicazioni agli organi di vigilanza che vede, a vario titolo, indagati alcuni vertici dell’istituto barese e lo stesso Jacobini . BARI – Il presidente della Popolare di Bari Marco Jacobini in scadenza di mandato a fine anno si è dimesso . Una decisione che arriva a tre giorni dopo la nomina del nuovo Cda. Nella stessa seduta consiliare, Gregorio Monachino, si è dimesso a sua volta dalla carica di direttore generale, venendo nominato per cooptazione nel nuovo membro del consiglio di amministrazione. La Banca ha ringraziato il presidente dimissionario Jacobini e i “componenti del cda uscente per il lavoro svolto“. Al suo posto come domenica scorsa il nostro giornale aveva anticipato è stato nominato il nipote Gianvito Giannelli. “Certo non resto incollato alla poltrona” aveva dichiarato Jacobini al termine del consiglio di amministrazione che aveva eletto il nuovo Cda. Da sempre alla guida  dell’istituto di credito barese, Marco Jacobini  lascia oggi la presidenza della banca in una crisi economica profonda e pesante con una perdita è di 420 milioni) , che si è salvata salvato soltanto da una Legge del Governo che grazie alla possibilità di spostare alcune poste in bilancio, ha consentito di poter evitare il “crack”.

La Banca Popolare di Bari è stata fondata negli anni Sessanta da Luigi Jacobini, il padre dell’attuale presidente appena dimessosi  Marco, e contava su pochi soci.  Marco Jacobini entra nel 1978 in banca ed 11 anni dopo, nel 1989 arriva alla guida comando . Con il passare degli anni arrivano ai vertici  anche i  suo figli Luigi (attuale vicedirettore generale) e Gianluca (condirettore generale). La banca cresce con 29 acquisizioni. Gli azionisti passano da 50 mila a 69 mila in pochi anni. I dipendenti crescono fino agli attuali 3 mila, con centinaia di filiali in varie regioni. La Popolare di Bari  aveva chiuso il bilancio con un rosso profondissimo. Attorno a tutto questo le ispezioni della Consob, quella ancora in corso di Banca d’Italia, e le inchieste della Procura di Bari, per truffa, false comunicazioni agli organi di vigilanza che vede, a vario titolo, indagati alcuni vertici dell’istituto barese e lo stesso Jacobini. La Bpb è finita infatti al centro di alcuni fascicoli aperti dalla Procura di Bari, con  indagini complesse coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, come ad esempio quelle riguardanti alcuni fidi milionari che la banca barese ha concesso ad aziende sull’orlo del fallimento. Un altro filone delle indagine è incentrato sui prestiti rilasciati a degli imprenditori con la condizione che una parte fossero destinati all’acquisto di azioni della Bpb. Nel marzo scorso la Procura barese ha fatto notificare a Marco Jacobini ed  a Vincenzo De Bustis (all’epoca dei fatto direttore generale)  un avviso di conclusione delle indagini per un caso riguardante proprio l’acquisto di titoli azionari.

Si è dimesso il direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno. Cosa aspettava? Il Corriere del Giorno il 31 Luglio 2019. Giuseppe De Tomaso ha capito che il suo ciclo era finito, rassegnando le proprie dimissioni. Una decisione che avrebbe dovuto prendere da molto tempo, ma che ha deciso soltanto ora in vista di un suo pressochè certo previsto imminente licenziamento. Lasciando nello sconforto i suoi devoti “orfanelli ed orfanelle”…E’ trascorso quasi un anno da quando quello che era il principale quotidiano di Puglia e Basilicata, è stato sottoposto il 24 settembre del 2018,  alla gestione giudiziaria per la sentenza di sequestro e confisca del 70% delle quote azionarie della Edisud spa, che fanno capo all’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa. “Ci sembra giusto informarVi che il Vostro giornale ha avviato una procedura societaria, che prende il nome di “concordato preventivo”, che è stata chiesta al Tribunale di Bari, che ha a sua volta ha nominato due Commissari, che ne seguiranno gli sviluppi”. Con una lettera aperta l’ex-editore ha annunciato ai lettori de ‘La Gazzetta del Mezzogiorno’ la scelta pressoché obbligata che permetterebbe “di riportare in equilibrio i conti del giornale, che negli ultimi anni ha sofferto pesantemente della crisi, che ha colpito l’editoria giornalistica”. La situazione dei conti fortemente deficitaria maturata ancor prima dell’atto del sequestro, ha portato a chiudere il bilancio del 2018 con una perdita operativa di oltre 7 milioni (che contribuiscono agli oltre 30 milioni di euro complessivi di debiti maturati).  Una situazione che ha reso inevitabile, ai fini della continuità aziendale imposta dalle norme di legge , da parte del Tribunale di Catania – Sezione misure di prevenzione attraverso i Custodi-Amministratori Giudiziari nominati,  di trovare un acquirente. L’unico a rendersi interessato e disponibile è stato Valter Mainetti amministratore delegato del fondo Sorgente Group Italia proprietario della testata del quotidiano “Il Foglio” e del mensile “Tempi”, che era già socio di minoranza di Edisud spa. La proposta, con il supporto della Banca Popolare di Bari, (fortemente esposta con la precedente gestione) , prevede all’omologa del concordato, prevista fra aprile e settembre del 2020, una importante ricapitalizzazione finanziaria con capitali propri e l’ingresso nel capitale di un partner industriale. Nel frattempo l’avvio del concordato facilita una preliminare contrazione dei costi e accelera la dismissione di alcuni cespiti. Infatti con il parere favorevole del Tribunale di Catania, al quale risponde la gestione commissariale, il cda di Edisud spa  ha chiesto nella seconda metà di luglio al Tribunale di Bari l’ammissione alla procedura di concordato preventivo in continuità , che ha comportato la nomina immediata di due commissari. In particolare la ristrutturazione, che verrà presentata in un piano che Edisud si è impegnata a presentare entro il prossimo ottobre, prevede, oltre allo sviluppo del digitale e la concentrazione delle risorse nell’informazione locale e regionale, di incorporare le sette edizioni attuali in non più di tre, per offrire ai lettori un giornale più completo, rispetto al territorio d’influenza. Importanti sinergie editoriali interesseranno poi le news nazionali e internazionali, unitamente alla pubblicità e al marketing per promuovere intorno al brand giornalistico, forte e unico per la Puglia e Basilicata, come la Gazzetta del Mezzogiorno, eventi e iniziative speciali per coinvolgere, con rinnovata energia e idee, i giovani e il ricco mondo dell’economia e della cultura delle due regioni. “Il giornale che da tanti anni e per tante generazioni è stato vicino al territorio – scrive Edisud nella sua lettera pubblica – è un patrimonio nazionale che oggi non solo va conservato, ma deve essere con urgenza rilanciato tenendo conto delle innovazioni che hanno interessato fortemente anche il settore editoriale. E ciò vuol anche dire una struttura produttiva più snella, unita alla ricerca di economie di scala e sinergie con gruppi editoriali, che permettano di concentrare le risorse giornalistiche alla copertura dell’informazione locale, sul piano di servizio e di cultura”. “La procedura avviata chiede il concorso e il sacrificio di tutti, dai creditori alle maestranze, per preludere ad un solido assetto proprietario – conclude la lettera dell’editore – . Durante questo percorso Vi chiediamo di continuare a starci vicino, anzi ancora di più. Il giornale sarà gradualmente innovato nel contenuto, nella grafica e nella tecnologia. E punterà sempre più ad accompagnare lo sviluppo e a difendere l’orgoglio di una Puglia e Basilicata, le loro città ed aree interne, strategiche per l’economia e la cultura del Paese”.

La Gazzetta del Mezzogiorno ha 130 di storia che hanno visto passare sulle sue pagine grandi firme come Oronzo Valentini, Giuseppe Giacovazzo, dovrà affrontare una sfida difficile. Secondo quanto  prevede il concordato si dovrà infatti riuscire, a riportare rapidamente i suoi conti in equilibrio , peggiorati progressivamente negli ultimi sei anni con la direzione giornalistica di Giuseppe De Tomaso ha visto i propri ricavi da copie vendute scendere del 40%, arrivando a vendere in un bacino di oltre 5 milioni di persone, soltanto 17mila copie. Numeri che hanno conseguentemente comportato il crollo della pubblicità calata del 60%.

Ed oggi finalmente Giuseppe De Tomaso si è “arreso” ed ha capito che il suo ciclo era finito, rassegnando le proprie dimissioni. Una decisione che avrebbe dovuto prendere da molto tempo, ma che ha deciso soltanto ora in vista di un suo pressochè certo previsto licenziamento. Lasciando nello sconforto i suoi devoti “orfanelli ed orfanelle”…

Fallimento Edisud: indagati per bancarotta i vecchi editori della Gazzetta. Fine indagine per Mario e Domenico Ciancio Sanfilippo e manager. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Maggio 2022.

Per la presunta bancarotta fraudolenta della Edisud spa, all’epoca dei fatti società editrice de La Gazzetta del Mezzogiorno (il giornale è ora edicola con un nuovo editore), la Procura di Bari ha notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari all’editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo, di 90 anni, a suo figlio Domenico, di 48, e a Franco Capparelli, di 79. I Sanfilippo sono stati presidenti del Cda della Edisud, Capparelli direttore generale. Edisud è stata dichiarata fallita dal Tribunale di Bari il 15 giugno 2020 assieme alla Mediterranea spa, società quest’ultima che era concessionaria della pubblicità, proprietaria dell’immobile ex sede della Gazzetta del Mezzogiorno, e della stessa testata.

I tre indagati sono accusati di aver compiuto atti di dissipazione e/o depauperamento del patrimonio della Edisud consistiti in rimborsi spese e in spese di rappresentanza privi di giustificazione negli anni 2016-2018 per 192.482,36 euro. Con una serie di condotte ritenute dolose, avrebbero inoltre provocato il fallimento di Edisud attraverso la dissipazione dei valori attivi della società, tra cui la partecipazione in Mediterranea spa; avrebbero aggravato il dissesto di bilancio per almeno 11,5 mln proseguendo l’attività aziendale nonostante la presenza di perdite di bilancio che dal 2012 al 2019 avrebbero registrato - è scritto negli atti - una «cronica incapacità dei ricavi di coprire i costi di struttura aziendali, tanto da determinare un deficit monetario pari a 15,8 mln»; avrebbero inoltre non adempiuto agli obblighi fiscali per 6,4 mln e non averbbero versato all’Inps 8,4 mln.

Capparelli e Domenico Ciancio Sanfilippo, entrambi presidenti pro-tempore del Cda di Mediterranea, sono accusati anche della bancarotta fraudolenta di Mediterranea spa per avere, con operazioni ritenute dolose, disperso e/o dissipato i valori aziendali, tra cui quello della testata La Gazzetta del Mezzogiorno, valutato in 25 mln circa; aggravato il dissesto di bilancio della società per almeno 5,6 mln con la prosecuzione dell’attività aziendale pur in presenza di continue perdite di bilancio, «tanto da determinare un deficit di 3,5 mln"; di aver costituito ipoteca da 12 mln sull'immobile che storicamente ospitava la Gazzetta del Mezzogiorno, in viale Scipione l’Africano, a garanzia di due mutui bancari.

L’avviso di conclusione delle indagini, che solitamente precede la richiesta di rinvio a giudizio, è firmato dal procuratore della Repubblica, Roberto Rossi, e dai pm Lanfranco Marazia e Luisiana Divittorio.

CIANCIO: PAROLE INGIUSTE

«Parole ingiuste. Per il mantenimento dei valori attivi, tangibili e intangibili, nonché per la salvaguardia della forza lavoro impiegata nella conduzione dello storico quotidiano, sono intervenuto con il mio patrimonio personale versando, dal 1996 ad oggi, più di 30 milioni di euro». Lo afferma l’editore Mario Ciancio Sanfilippo sull'avviso di conclusione indagine della Procura di Bari nell’ambito dell’inchiesta su fallimento della società Edisud, editrice della Gazzetta del Mezzogiorno.

«Quando nel 2020 mi sono reso conto che la crisi del settore era diventata per me insostenibile - aggiunge Ciancio Sanfilippo - le mie partecipazioni in Edisud e Mediterranea sono state messe gratuitamente e ufficialmente a disposizione di chiunque volesse rilevarle, purché con intenti e impegni seri che rispettassero la testata ed i suoi lavoratori. Sono felice che un nuovo editore stia consentendo al giornale che si identifica nella Puglia e nella Basilicata di proseguire una storia straordinaria iniziata nel 1887. E dimostrerò che ho sempre sostenuto la Gazzetta del Mezzogiorno con convinzione, garantendo autonomia e indipendenza a tutti i giornalisti che vi hanno lavorato, mai facendo mancare - chiosa Mario Ciancio Sanfilippo - ogni concreto sostegno, almeno fino a quando le mie finanze lo hanno consentito, per far sì che potessero esprimersi in piena libertà».

La procura di Bari indaga l’ex-editore della Gazzetta del Mezzogiorno Mario Ciancio, il figlio e l’ex dg Capparelli  per il fallimento della Edisud. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'11 Maggio 2022.

Le ipotesi di reato di concorso in bancarotta fraudolenta aggravata formulate dai sostituti procuratori Lanfranco Marazia e Luisanna Di Vittorio della Procura di Bari la cui conclusione delle indagini porta la firma anche dal procuratore capo Roberto Rossi. Mario Ciancio di Sanfilippo: "Per il mantenimento dei valori attivi, tangibili e intangibili, nonché per la salvaguardia della forza lavoro impiegata nella conduzione dello storico quotidiano, sono intervenuto con il mio patrimonio personale versando, dal 1996 ad oggi, più di 30 milioni di euro"

La Procura di Bari ha notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari in relazione al fallimento della società Edisud spa, ex editrice della Gazzetta del Mezzogiorno, dichiarata fallita dal tribunale civile di Bari con sentenza del 15 giugno 2020. Gli indagati sono: Mario Ciancio Sanfilippo, 90 anni, ex azionista di maggioranza del quotidiano barese ; suo figlio Domenico Natale Enzo Ciancio Sanfilippo, 48 anni; e Franco Capparelli, 79 anni, direttore generale della Edisud e manager di fiducia di Ciancio .

Le ipotesi di reato di concorso in bancarotta fraudolenta aggravata formulate dai sostituti procuratori Lanfranco Marazia e Luisanna Di Vittorio della Procura di Bari la cui conclusione delle indagini porta la firma anche dal procuratore capo Roberto Rossi. Secondo l’impianto accusatorio della Procura di Bari i tre indagati negli anni dal 2016 al 2018 avrebbero compiuto “atti di dissipazione e/o depauperamento consistiti in rimborsi spese e spese di rappresentanza prive di giustificazione economica”, per complessivi 192.489 mila euro, “istigando e/o determinando l’altrui volontà”, avrebbero causato “per effetto di operazioni dolose il fallimento della società Edisud spa“. 

Secondo la Procura di Bari le operazioni dolose, «sono consistite nel progressivo aggravamento del dissesto per almeno 11, 5 milioni attraverso la prosecuzione dell’attività aziendale pur in presenza di crescenti perdite di bilancio che evidenziavano, dal 2012 al 2019, senza soluzione di continuità, il costante decremento dei ricavi e la cronica incapacità dei ricavi di coprire i costi di struttura aziendale, tanto da determinare un deficit monetario di 15,8 milioni».

Mario Ciancio Sanfilippo e suo figlio Domenico Natale Enzo Ciancio Sanfilippo «avrebbero cagionato per effetto di operazioni dolose il fallimento della società Edisud disperdendo e dissipando i valori aziendali, tra cui il valore della testata storica Gazzetta del Mezzogiorno» sarebbero responsabili inoltre secondo quanto riportano gli atti del «progressivo aggravamento del dissesto per almeno 5,6 milioni attraverso la prosecuzione dell’attività aziendale pur in presenza di crescenti perdite di bilancio che evidenziavano, dal 2013 al 2018, senza soluzione di continuità il costante decremento dei ricavi e la cronica incapacità dei ricavi da coprire i costi di struttura aziendali, tanto da determinare un deficit monetario pari a 3,5 milioni di euro».

Ciancio Sanfilippo: “Parole ingiuste, versati 30 milioni”

Mario Ciancio Sanfilippo si difende dalle accuse e replica: “Parole ingiuste. Per il mantenimento dei valori attivi, tangibili e intangibili, nonché per la salvaguardia della forza lavoro impiegata nella conduzione dello storico quotidiano, sono intervenuto con il mio patrimonio personale versando, dal 1996 ad oggi, più di 30 milioni di euro“ ed aggiunge” quando nel 2020 mi sono reso conto che la crisi del settore era diventata per me insostenibile le mie partecipazioni in Edisud e Mediterranea sono state messe gratuitamente e ufficialmente a disposizione di chiunque volesse rilevarle, purché con intenti e impegni seri che rispettassero la testata ed i suoi lavoratori“.

“Sono felice che un nuovo editore stia consentendo al giornale che si identifica nella Puglia e nella Basilicata di proseguire una storia straordinaria iniziata nel 1887” prosegue Mario Ciancio Sanfilippo “e dimostrerò che ho sempre sostenuto la Gazzetta del Mezzogiorno con convinzione, garantendo autonomia e indipendenza a tutti i giornalisti che vi hanno lavorato, mai facendo mancare ogni concreto sostegno, almeno fino a quando le mie finanze lo hanno consentito, per far sì che potessero esprimersi in piena libertà“.

Quello che non si capisce è l’indifferenza (o inerzia ?) della Procura di Bari in presenza di anomalie e conflitti di interesse non indifferenti emersi dalle evidenze della Guardia di Finanza depositate proprio dal procuratore Rossi al Tribunale Fallimentare di Bari, sulla gestione dell’asta per l’aggiudicazione del quotidiano barese ad una società, la Editrice del Mezzogiorno srl con sede legale a Modugno, dal capitale sociale esiguo, gestito da persone che non hanno alcuna esperienza editoriale, dietro la quale si nascondeva la longa manu dell’imprenditore massafrese Antonio Albanese, condannato (in primo grado), imputato e plurindagato dalle procure di Taranto e di Lecce. Infatti le Fiamme Gialle accertarono in sede di procedura fallimentare che la meta dei due milioni di euro versati dalla società Ecologica spa alla curatela fallimentare, provenivano dai conti correnti di banca Intesa SanPaolo intestati alla CISA spa di Massafra, società che in quel momento non solo non partecipava all’asta, ma inoltre non aveva alcuna partecipazione societaria in Ecologica spa (che partecipò all’ asta e si aggiudicò il quotidiano barese) e la Editrice del Mezzogiorno srl , società entrambe controllate dalla famiglia Miccolis di Castellana Grotte (Bari). 

Per non parlare poi del conflitto del giudice della fallimentare Michele De Palma che convalidò l’asta sulla Gazzetta del Mezzogiorno, ex-cognato di Aurelia Miccolis, attuale amministratore delegato della società Editrice del Mezzogiorno srl, e del conflitto di interessi dei due curatori ( Castellano e Zito) del fallimento Edisud spa, che avevano rapporti professionali ed economici con società partecipate e controllate da Albanese. ma le anomalie non finiscono qui. Infatti negli studi legali barese circolano corrispondenze imbarazzanti dell’ Assostampa con il Gruppo Ladisa (proprietario della Ledi) , nella fase precedente all’assegnazione alla società Editrice del Mezzogiorno srl, ed alla imbarazzante promozione raggiunta da due giornalisti-sindacalisti, uno dei quali da sempre molto “vicino” ad Albanese. Redazione CdG 1947

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 21 dicembre 2019. Le nuove nomine, se lo si fosse ritenuto necessario, avrebbero potuto aspettare. Il Consiglio superiore della Banca d' Italia aveva l' opzione di ritardare di una decina di giorni la designazione di Daniele Franco come direttore generale e di Piero Cipollone come vicedirettore generale dell' istituto. Giusto il tempo perché si depositasse la polvere e il ciclo della politica gridata si spostasse su un altro terreno. Magari solo una settimana in più, per aspettare che il dissesto della Popolare di Bari uscisse dai titoli della sera. Che la Banca d' Italia non abbia scelto un profilo deliberatamente basso, già in sé, è un messaggio: nell' istituto non si pensa di avere qualcosa da farsi perdonare e nessuno ha intenzione di dissimularsi, cercando di far sì che le nomine passino inosservate. Da ieri diventa sicuro anche formalmente che il primo gennaio Fabio Panetta, direttore generale uscente, entrerà nel comitato esecutivo della Banca centrale europea. Entro quel giorno la Banca d' Italia ha bisogno di un successore e il momento ovvio per designarlo era ieri. Ignazio Visco, il governatore, ha svolto vari sondaggi nel governo nei giorni scorsi e ha già fatto sapere al Quirinale che non sono emerse riserve. Significativamente Daniele Franco, bellunese, ieri ha ricevuto le congratulazioni pubbliche del governatore leghista del Veneto Luca Zaia. Difficile adesso che i 5 Stelle sorpassino la Lega in quanto a opposizione al loro stesso governo; tra l' altro i rapporti si sono distesi rispetto a un anno fa, quando Franco era Ragioniere dello Stato. Quanto a Cipollone, è stato a lungo consigliere economico del premier Giuseppe Conte, accettato da tutti in quella veste; sarebbe strano se ora qualche partito della maggioranza cercasse di opporsi. La procedura di designazione del resto non dà al governo un potere di veto: per i nomi del direttorio di Banca d' Italia (salvo quello del governatore) il Consiglio dei ministri è chiamato solo a dare un parere non vincolante e a trasmetterlo al presidente della Repubblica. Poiché il Quirinale può validare da designazione degli organi interni di Banca d' Italia malgrado un parere negativo del governo, la maggioranza giallo-verde a primavera scorsa aveva preso un' altra strada per ostacolare la nomina di Alessandra Perrazzelli nel direttorio. Per mesi il governo si era rifiutato di discutere la proposta, per poi cedere e farla passare. Resta però la tela di fondo, molto tesa: di rado nella storia della Repubblica la Banca d' Italia è stata così isolata e sotto attacco da parte del potere politico. L' intervento per tenere in vita la Popolare di Bari è solo l' ultimo episodio di una caccia al colpevole che nei dissesti parte sempre, con una buona dose di ipocrisia. A difesa dei manager dell' istituto pugliese, negli ultimi mesi e anni i banchieri centrali hanno dovuto ascoltare molti interventi di politici che ora se la prendono con l' autorità di controllo. Da destra come da sinistra. Gli Jacobini, la famiglia che da decenni gestiva la Popolare di Bari come un proprio feudo, non hanno mai trattato troppo rudemente i pugliesi che hanno assunto rilevanza nella politica nazionale. Di sicuro non ha criticato per tempo la gestione della Popolare di Bari il ministro Francesco Boccia (Pd). Non lo ha fatto l' ex governatore forzista - ora a Fratelli d' Italia - Raffaele Fitto. Né lo ha fatto il governatore di sinistra Michele Emiliano. Niente di tutto questo significa che non debba cambiare nulla, anche dentro la Banca d' Italia. È probabile che l' isolamento rispetto al mondo politico induca nei prossimi mesi l' istituto a cercare più contatti con l' opinione pubblica. Ed è inevitabile che questi anni inducano la banca a rafforzare le strutture dedicate alla tutela del risparmio. Non è una funzione che spetti per legge in primo luogo alla Banca d' Italia, ma gli attacchi per le perdite subite da azionisti e obbligazionisti sono rivolti a lei. Da qui l' idea di fornire una risposta con modifiche ad hoc alla struttura istituzionale dell' autority.

Andrea Greco per “la Repubblica” il 22 dicembre 2019. Mentre la nave bancaria di Bari affondava, i crediti inevasi ingrandivano la falla patrimoniale e non si trovava un investitore disposto a colmarla, i capitani sulla tolda della banca pensavano ad aumentare i compensi, in modo generalizzato per il cda e per tutti i dirigenti della prima linea. A partire dai manager addetti ai controlli interni e alla compliance (la conformità alle direttive di vigilanza): le due aree nevralgiche da cui dipendeva il flusso di comunicazioni sia con i magistrati che indagavano sulla banca, ipotizzando i principali reati societari, sia con i controllori della Banca d' Italia. Sono numeri che trovano conferma da fonti interne alla popolare barese, e nel sindacato di categoria che già ebbe a criticarli lo scorso settembre. L' assemblea infuocata chiamata a votare il bilancio 2018, chiuso con 420 milioni di perdita netta a causa di ingenti svalutazioni su crediti, doveva discutere al punto 5 anche le "Politiche di remunerazione ed incentivazione per l' esercizio 2019". Un punto che passò al voto dei soci infuriati, forse più intenti a contestare i vertici nel timore di non rivedere i loro investimenti. Come dovessero essere tali "politiche di remunerazione e incentivazione" lo si capì due mesi dopo, il 24 settembre. Quando il cda della banca approvò il nuovo pacchetto dei compensi. Il gettone per tutti i consiglieri di amministrazione saliva da 40 mila a 70 mila euro annui. Il compenso fisso per l' ad Vincenzo De Bustis fu stabilito a 1 milione di euro, e di 450 mila euro per il presidente Gianvito Giannelli, che tre giorni dopo l' assemblea del 21 luglio aveva sostituito il patron Jacobini (suo zio). Il capostipite della famiglia, in banca dal 1978, nel 2018 era stato pagato molto più del nipote: 655 mila euro per l' annata, e 2,5 milioni di "compensi residui per anni pregressi", non meglio specificati dal documento di remunerazione 2019. Ma quel risparmio di risorse fu di fatto redistribuito tra gli altri consiglieri, con la creazione di cinque nuovi comitati interni al consiglio. Da due che erano furono portati a sette, ufficialmente per rafforzare i presidi dell' organo di amministrazione della banca; di fatto, fu un' altra occasione di guadagno per tutti i consiglieri. Per fare un esempio, per il comitato di pianificazione strategica fu scelto presidente Gianfranco Viesti, che così all' importo base aggiunse 45 mila euro; alla presidenza del comitato controlli e rischi Francesco Venturelli, altri 75 mila euro, e 50 mila a testa in più per i due suoi componenti Gianfranco Viesti e Francesco Ago. E così via, in un fiorire incrociato di gruppetti e di gettoni. Tutto previa valutazione (l' assessment) di Russell Reynolds, società newyorchese della consulenza specializzata, che aveva dato il suo benestare trovando le somme e le prassi allineate alla media degli istituti (non era certo "medio" l' essere sotto le soglie minime di capitale regolamentare, con un quarto degli attivi deteriorati e impotenti a rintracciare nuovo credito). Tutto regolare ma niente bello, a neanche tre mesi dal commissariamento che l' anno prossimo costerà 900 milioni ai contribuenti italiani, più 500 stimati dalle banche del Fondo di tutela depositi. Sempre in quel cda si era ben pensato di aumentare anche gli stipendi ad alcuni dirigenti chiave, con retrodatazione di qualche mese. Così fu per il capo dei controlli interni Giuseppe Marella (da 170 mila a 220 mila euro) e il responsabile della contabilità Elio Circelli (da 170 a 220 mila euro). Due perni del funzionamento della banca; ed entrambi tra i 10 dirigenti indagati dalla procura di Bari. Simili incrementi ebbero Giorgio Scupola, a capo dell' ufficio legale, e il numero uno della compliance Francesco Nardulli. L' avvocato Giannelli, presidente lampo da luglio al commissariamento di metà dicembre, ha avuto per anni dalla banca altre forme di compenso, per le attività di consulenza pluridecennali riconosciute allo studio omonimo, fin da quando lo guidava suo padre. La stessa Banca d' Italia, nella relazione ispettiva del 2010, citava l' esposizione verso lo studio Giannelli - allora stimata in circa 3 milioni - come di un rischio potenziale, perché l' eccesso di incarichi allo studio poteva ripercuotersi sull' operatività. Negli anni successivi non pare che le consulenze siano diminuite, sia per l' attività di recupero crediti e contenzioso che per le principali questioni di diritto societario e trasformazione strategica della banca. Dal 2015 al 2018 risulta che lo studio Giannelli abbia fatturato oltre 3 milioni di euro complessivi, con quote annue fisse fino a 150 mila euro e residue parti variabili. Per evitare un conflitto di interesse più grande le consulenze si sono interrotte lo scorso luglio, dopo l' entrata di Giannelli nel cda a Bari. Anche il capoazienda De Bustis aveva fatturato: poche ore prima di entrare in cda, per diventare amministratore delegato, si fece pagare una consulenza da 125 mila euro per una consulenza sull' industria creditizia.

Luciano Fontana per il “Corriere della Sera” il 23 dicembre 2019. Sono stati giorni importanti e difficili per la Banca d' Italia e il suo Governatore. Il Consiglio Superiore dell' Istituto ha appena nominato Daniele Franco direttore generale e Piero Cipollone vice direttore. Un passaggio arrivato nel pieno delle polemiche derivate dal commissariamento della Banca Popolare di Bari, dall' intervento deciso dal governo e dalle proteste di coloro che temono di perdere gran parte dei propri investimenti o risparmi affidati alla banca. Ignazio Visco ha dovuto affrontare una tempesta simile a quella vissuta nei giorni della crisi bancaria durante il governo Renzi. Sono state contestate l' efficacia e la tempestività della vigilanza della Banca d' Italia, il suo ruolo nella vicenda che portò la Popolare di Bari ad acquisire una banca in dissesto come Tercas. Con la politica di governo e d' opposizione pronte ad allontanare da sé ogni responsabilità e a sottolineare quelle di altri.

Governatore, sono giorni di attacchi ripetuti nei confronti della vostra azione. Il vicesegretario del Pd, Orlando, solo per citarne uno, ha dichiarato che la Banca d'Italia è sia un giocatore che un arbitro e che le due funzioni vanno separate. Altri, come il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, vi accusano di aver assistito alla caduta della Popolare vigilando in modo inadeguato: avete valutato male, siete stati lenti. Cosa si sente di rispondere?

«Ci sono molte dichiarazioni e andrebbero valutate una per una. Intanto bisogna esaminare individualmente le due attività: quella di vigilanza e quella di gestione e risoluzione delle crisi, che sono cose diverse. La vigilanza sulle banche ha svolto il suo compito, con il massimo impegno e io reputo positivamente. La scelta di porre in amministrazione straordinaria questa banca è il risultato, come sempre in questi casi, di un' attenta analisi, è un atto possibile in termini di legge solo dopo aver rilevato gravi perdite o carenze nei sistemi di governo societario. Ma la vigilanza non può intervenire nella conduzione della banca, che spetta agli amministratori scelti dagli azionisti. La banca deve seguire delle regole, la vigilanza verifica che ciò effettivamente accada. Dal 2007 abbiamo posto in amministrazione straordinaria circa 80 intermediari: più della metà è tornata alla gestione ordinaria, per quelli liquidati o aggregati con altre banche, non vi sono state, nella generalità dei casi, perdite per depositanti e risparmiatori. La soluzione ordinata delle crisi bancarie, di per sé non semplice, è complicata dal nuovo approccio europeo in materia di gestione delle crisi e aiuti di Stato. Ma questo non ha niente a che fare con l' essere arbitro e giocatore».

Non può negare che in questi anni ci siano state tante crisi che in alcuni momenti sono diventate un' emergenza per il Paese.

«La realtà è che abbiamo avuto la crisi di alcune banche nel contesto della più grave recessione della storia unitaria del nostro Paese. Queste banche rappresentavano, nel complesso, il 10 per cento degli attivi totali, il che vuol dire che il restante 90 per cento ha fatto fronte alle gravissime conseguenze della crisi dell' economia reale. È questo l'inquadramento corretto di quanto è accaduto, anche se sono consapevole che quando le banche non ce l'hanno fatta (per la recessione, per governance inadeguata, per comportamenti scorretti) vi sono stati effetti gravi, soprattutto per gli azionisti. Per i depositanti invece non vi sono state conseguenze e per la gran parte degli obbligazionisti alla fine sono state contenute le perdite. Bisogna garantire la tutela dei clienti delle banche, e su questo moltiplicheremo gli sforzi, ma deve migliorare la comprensione da parte del pubblico che un investimento finanziario comporta sempre un rischio. Da parte delle banche questo rischio deve essere sempre adeguatamente rappresentato».

Questi salvataggi fanno molto rumore quando avvengono in Italia. Perché i salvataggi avvenuti in altri Paesi europei, come la Germania, creano meno problemi?

«Non so se i salvataggi abbiano fatto meno rumore negli altri Paesi; sono costati al contribuente molto più che da noi: l' intervento pubblico in Germania e in Olanda ha accresciuto il debito pubblico di oltre il 10 per cento del Pil, da noi di poco più dell' 1 per cento. Quasi tutti questi interventi hanno avuto luogo prima del cambiamento delle regole sugli aiuti di Stato e sul coinvolgimento dei creditori, avvenuto nel 2013, anche come reazione all' alto costo di quei salvataggi».

Si dice che il salvataggio di Tercas, la Cassa di Teramo commissariata dalla Banca d' Italia nel 2012, sia stato la merce di scambio che ha permesso alla Popolare Bari di superare il vostro divieto di fare nuove acquisizioni. E così, siete stati voi a premere per un' acquisizione che è all'origine dei guai della Popolare di Bari?

«Le banche sono imprese e come tali sono trattate dalla vigilanza, nel rispetto della loro autonomia. Decisioni come quella di realizzare un' acquisizione sono di esclusiva competenza e responsabilità del vertice delle banche. Nei casi di difficoltà di un intermediario, qualora non sia possibile una ricapitalizzazione sul mercato, è prassi delle autorità di vigilanza esplorare la possibilità di un acquisto da parte di altre banche. Le acquisizioni, se ben eseguite, possono creare sinergie e risparmi di costi, irrobustendo il sistema bancario e salvaguardando la continuità aziendale della banca in difficoltà. Nel caso in questione, nell'estate del 2013 la vigilanza ricevette una manifestazione di interesse per Tercas da parte di un'altra banca, che poi rinunciò nell' ottobre 2013. Alla fine dello stesso mese venne considerata la manifestazione di interesse dei vertici della Popolare di Bari, che poi decisero di realizzare l'operazione in base a una autonoma valutazione, negoziando e ottenendo dal Fondo interbancario di Tutela dei depositi il contributo ritenuto necessario per l' acquisizione. Naturalmente alla fine di un percorso si corre il rischio di emettere giudizi di autoassoluzione o di ragionare con il senno del poi; noi facciamo il massimo per tenere costantemente sotto controllo le diverse situazioni e valuteremo se ci siano stati errori anche da parte nostra».

Cosa non ha funzionato nell' acquisizione di Tercas?

«In primo luogo molto è dovuto a un' applicazione delle norme sugli aiuti di Stato per lo meno controversa, che solo nel marzo di quest' anno il Tribunale di primo grado della Corte europea ha giudicato impropria, accogliendo il ricorso della Repubblica italiana. Nel caso di Tercas l' intervento del Fondo interbancario è stato ritenuto dalla Commissione europea un aiuto di Stato; per questo motivo l' operazione è stata completata solo quando l' intervento del Fondo è stato realizzato con il cosiddetto "Schema Volontario". Ciò ha ritardato l' integrazione di Tercas nella Popolare di Bari, generando incertezze e con oneri certamente maggiori.  In secondo luogo la ricapitalizzazione della Popolare di Bari non ha potuto avere luogo sul mercato perché la banca non si era trasformata in società per azioni come richiedeva la legge di riforma da noi fortemente caldeggiata e realizzata dal governo nel gennaio 2015. L' assetto delle "popolari" è un problema che abbiamo sempre sottolineato con forza: ostacola l' accesso al mercato e favorisce opacità e autoreferenzialità nella governance».

L' accusa a Banca d' Italia è di aver autorizzato l' operazione perché doveva rientrare da un prestito erogato alla Tercas.

«Questo lo dice chi non conosce le regole. La Banca d' Italia aveva concesso a Tercas un prestito a titolo di liquidità di emergenza, in base alle norme italiane ed europee. Questo tipo di finanziamento, di competenza delle banche centrali nazionali ma sottoposto a valutazioni del Consiglio direttivo della Bce, deve essere assistito da adeguate garanzie, che rendono il rischio per le banche centrali nullo o al più trascurabile. La Popolare di Bari è semplicemente subentrata nel finanziamento, con le medesime garanzie, senza quindi modifiche alla rischiosità del prestito».

Come mai la Banca d' Italia non ha contrastato il rientro al vertice esecutivo della Popolare di Vincenzo De Bustis, già molto contestato?

«La scelta dei componenti degli organi sociali è di esclusiva responsabilità dell' azienda; la Banca d' Italia verifica la sussistenza in capo ai singoli esponenti dei requisiti previsti dalla legge. Le disposizioni in vigore prevedono ipotesi tassative per la determinazione della mancanza di tali requisiti. Il nuovo regime europeo sui requisiti degli amministratori bancari - che concede discrezionalità alle autorità di vigilanza - è stato recepito nell' ordinamento italiano, ma entrerà in vigore solo dopo l' emanazione delle norme attuative da parte del ministero dell' Economia e delle Finanze. La Banca d' Italia ha segnalato - pubblicamente e ripetutamente - l' importanza di questa materia. Lo ripeto: le regole attuali non ci consentono di intervenire, esercitando discrezionalità, al di fuori dei confini normativi. La vigilanza può ricorrere alla moral suasion, e nel caso della Popolare di Bari ha espresso chiaramente al presidente del consiglio di amministrazione le proprie perplessità sull' opportunità del rientro dell' ingegner De Bustis tre anni dopo che aveva lasciato la banca».

La Popolare di Bari era sottoposta a ispezioni dal 2010. Perché si è fatto ricorso solo ora al commissariamento?

«Tutte le banche sono vigilate continuamente. L'amministrazione straordinaria rappresenta un intervento di vigilanza forte, in cui si destituiscono gli organi amministrativi scelti dagli azionisti; si interviene quando altri meccanismi - quali il vaglio del collegio sindacale, delle società di revisione, dell' assemblea dei soci - non hanno la necessaria efficacia. È per questi motivi che l' amministrazione straordinaria può essere adottata solo quando ne ricorrano i termini definiti con precisione dalla legge. Il commissariamento della Bari è stato disposto quando le perdite hanno ridotto i livelli di capitale al di sotto dei minimi stabiliti dalle regole prudenziali. La discesa del capitale al di sotto dei minimi non si era registrata negli anni precedenti, nonostante le difficoltà della banca; è emersa solo a seguito dell' ultimo accertamento ispettivo effettuato nei mesi scorsi dalla Banca d' Italia. Abbiamo rilevato anche l'insufficiente azione degli organi aziendali in relazione alle criticità del contesto. Il loro scioglimento e la nomina dei commissari pongono le premesse per ripristinare condizioni di ordinata gestione aziendale, alla luce della disponibilità d' intervento manifestata dal Fondo interbancario e dal Mediocredito Centrale».

Come giudica l'intervento di salvataggio del Mediocredito Centrale e del Fondo interbancario?

«L' intervento deve avviare il rinnovamento della banca, mettendola in grado di tornare a sostenere famiglie e imprese. Il progetto sarà aperto ad altre banche che vorranno integrarsi in un nuovo intermediario finanziario dotato di dimensioni adeguate al nuovo contesto tecnologico e concorrenziale, al servizio dell' economia. Per la Popolare di Bari si è individuata una soluzione, ma per rilanciare l'economia meridionale servono interventi di ampio respiro, che riguardano l' ambiente in cui le imprese operano, le infrastrutture, il capitale umano».

Cosa accadrà ad azionisti e obbligazionisti della Popolare?

«L' intervento del Fondo interbancario e del Mediocredito centrale è volto a evitare scenari liquidatori e possibili perdite per i risparmiatori che detengono depositi e obbligazioni. Gli azionisti partecipano al capitale di rischio: il piano industriale definirà la misura dell' aumento di capitale necessario, le modalità di realizzazione e il coinvolgimento degli attuali azionisti. Ricordo che sono decine di migliaia di persone: la Banca d' Italia negli anni scorsi ha accertato - dandone informazione alla Consob, che ha irrogato sanzioni - irregolarità nell' adeguatezza degli investimenti della clientela; di questo si dovrà tenere conto».

Si parla di un' indagine per corruzione per l'ex presidente della banca. E si avanzano sospetti di connivenza con chi ha svolto vigilanza.

«Voglio sottolineare che noi abbiamo collaborato, stiamo collaborando e continueremo a collaborare con la Procura. Di questa indagine io sono all' oscuro, come lo è l' intera struttura della vigilanza e della consulenza legale della Banca d' Italia. Non intendo quindi commentare voci e illazioni».

Cosa dobbiamo aspettarci ancora dalle banche dopo le crisi di questi anni?

«Se l'economia non tornerà a crescere non possiamo aspettarci che le banche prosperino. Per ora le condizioni del sistema bancario sono mediamente buone: i coefficienti patrimoniali sono raddoppiati rispetto al 2007; l' incidenza dei crediti deteriorati si è dimezzata dal picco del 2015; le banche stanno tornando a fare profitti e questo permette loro di affrontare le sfide che hanno di fronte. Un importante passo in avanti c' è stato con la formazione di due gruppi di banche di credito cooperativo. In pochi anni il numero di gruppi bancari e banche individuali è sceso da circa 600 a 150. Alcune piccole banche sono ancora oggi deboli; le stiamo seguendo con attenzione, ma il problema è che abbiamo un sistema di gestione delle crisi inadeguato. Per poter gestire una crisi non basta saperla prevedere, occorrono strumenti. Chiedo da tempo di intervenire a livello europeo con nuove norme. È necessaria una nostra presenza assidua nel dibattito europeo, che a sua volta richiede una continuità di natura politica che purtroppo non abbiamo. Come Governatore mi sono confrontato con sette ottimi ministri dell' Economia, mentre quelli degli altri Paesi erano quasi sempre gli stessi».

Il ministro dell'Economia Gualtieri ha dichiarato di voler essere messo a conoscenza di ogni passaggio. Questa richiesta dipende solo dal fatto che è appena entrato in carica?

«Lavoriamo a stretto e continuo contatto con il governo, con tutti i governi. Le forti intemperie degli anni successivi alla crisi del 2011-13, a partire dalla vicenda delle quattro banche, sono state affrontate con la piena partecipazione del ministero dell' Economia e delle Finanze. Anche al ministro Gualtieri abbiamo fornito e continueremo a fornire, come sempre, tutte le informazioni disponibili. Abbiamo pubblicato sul nostro sito un resoconto sommario della nostra attività sulla Popolare di Bari e altri approfondimenti seguiranno. Siamo pronti a rendere conto del nostro operato, come abbiamo sempre fatto, nelle sedi istituzionali».

Solo una battuta finale sul suo giudizio sulla manovra economica varata dal governo.

«L'Italia deve ricominciare a crescere o ci ritroveremo fra un anno a ripetere le stesse discussioni. Dobbiamo pensare alla manovra come un ponte che sana problemi di breve periodo per passare poi al piano strutturale. Gli investimenti pubblici sono importanti ma è l' investimento privato quello più rilevante. Si fonda sulla fiducia, una fiducia che oggi si misura con lo spread ed è assurdo che noi abbiamo uno spread doppio rispetto a Spagna e Portogallo. Se il tasso d' interesse alto dipende da rischi di tipo sovrano bisogna eliminarli rapidamente. Ci vuole un impegno per una discesa del debito graduale ma progressiva e costante; soprattutto servono azioni strutturali di rilancio dell' economia. Come diceva Ciampi, non abbiamo rinunciato alla nostra sovranità ma abbiamo deciso di condividerla. Per avere successo dobbiamo essere lungimiranti, credibili, coerenti e capaci di dialogare con un' opinione pubblica incerta e che nella sua incertezza coinvolge tutta l' economia, compresa la Banca d' Italia».

Marco Franchi per “il Fatto Quotidiano” il 22 dicembre 2019. L' inchiesta sulla Popolare di Bari si allarga e la Procura del capoluogo pugliese indaga per corruzione l' ex presidente dell' istituto Marco Jacobini, dimessosi nel luglio di quest' anno. Il filone in realtà risalirebbe all' inizio dell' estate. Adesso a Jacobini è stato notificato un avviso di proroga delle indagini. Nessun dettaglio al momento su chi sarebbe il destinatario della presunta corruzione o in cosa si sarebbe concretizzata. La Procura di Bari ha, invece, iscritto nel registro degli indagati per concorso in bancarotta fraudolenta delle società del gruppo Fusillo di Noci (Bari) l' ex ad della Pop Bari, Giorgio Papa, Gianluca Jacobini ex condirettore generale dell' istituto e figlio dell' ex presidente e Nicola Loperfido ex responsabile della direzione crediti. La banca, è l'ipotesi dei pm, avrebbe contribuito al dissesto delle società continuando a erogare credito e così aumentandone i debiti. Nei confronti di Jacobini e Loperfido il 12 dicembre scorso, il cda ha avviato le procedure per un' azione di responsabilità. L' attenzione della magistratura barese sul loro coinvolgimento nel crac delle società del gruppo Fusillo risale all' estate scorsa quando la GdF, su disposizione del procuratore aggiunto Roberto Rossi e del sostituto Lanfranco Marazia, ha eseguito perquisizioni nelle sedi delle società poi dichiarate fallite e nella direzione generale della banca. Le indagini della GdF "hanno consentito di far emergere il ruolo di Pop Bari - spiegavano gli inquirenti già al momento delle perquisizioni - quale principale creditore delle imprese sottoposte a procedura concorsuale, risultate esposte con l' istituto di credito per una cifra di poco inferiore ai 140 milioni di euro, a seguito delle ingenti linee di credito elargite negli anni". Non ci sono invece ancora dettagli sul filone che coinvolge Marco Jacobini. Secondo Repubblica, che ha anticipato la notizia, gli indizi avrebbero a che fare con i rapporti che l' ex presidente ha avuto con la Vigilanza di Banca d' Italia, mentre fonti della Procura di Bari, riporta il Corriere, confermano di essere al lavoro per ricostruire i dettagli sulle ispezioni del 2016-2017. Rapporti tra Pop Bari e Bankitalia diventati più fitti a fine 2013 quando si discuteva dell' acquisizione di Banca Tercas, vivamente caldeggiata, in pratica ordinata da Bankitalia. La richiesta arriva nell' autunno 2013, mentre gli ispettori di Via Nazionale sono a Bari. Il 17 ottobre, il presidente Jacobini presiede il Cda "per fornire le informazioni necessarie ad assumere le determinazioni sull' invito della Banca d' Italia per un eventuale intervento di salvataggio di Tercas", anche se si avvisa che malmessa. Nessun accenno al fatto che la Vigilanza, dal 2010 ha vietato a Bari le acquisizioni. Una settimana dopo, il capo della Vigilanza Carmelo Barbagallo comunica i risultati negativi dell' ispezione. Il giorno stesso la Popolare invia a Tercas una lettera per aprire le trattative. A giugno 2014 Bankitalia toglie il divieto e a luglio l' acquisizione si chiude. Pop Bari non si riprenderà più, fino al commissariamento deciso da Bankitalia il 13 dicembre.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 21 dicembre 2019. I rapporti tra i vertici della Banca Popolare di Bari e la Vigilanza di Bankitalia entrano formalmente nell’inchiesta penale sul crac dell’Istituto nella quale, sino ad oggi, erano già dieci gli indagati a diverso titolo per falso in bilancio, false comunicazioni al mercato, ostacolo alla vigilanza, estorsione. Il Procuratore aggiunto Roberto Rossi, i sostituti Lanfranco Marazia e Federico Perrone Capano, hanno infatti notificato a Marco Jacobini, ex Presidente e padre-padrone della Banca, un’informazione di garanzia per corruzione. Atto in cui, allo stato, non viene indicata l’identità del corrotto. Ma di cui "Repubblica" ha ricostruito il perimetro: la Vigilanza di Palazzo Koch. Tecnicamente, quello notificato a Jacobini, difeso dall’avvocato Francesco Paolo Sisto, è un avviso di “proroga indagini”, che documenta dunque come questo nuovo filone dell’inchiesta risalga all’inizio dell’estate. Nel documento, la Procura si limita alla semplice contestazione del reato, senza specificarne le circostanze di tempo e di luogo, né chi sarebbe stato il destinatario della corruzione o in cosa si sarebbe concretizzata. L’unico dato di fatto che "Repubblica" è stata appunto in grado di acquisire con certezza, è che gli elementi in forza dei quali l’ex Presidente della Popolare è indagato hanno a che fare con i rapporti avuti nel tempo tra Jacobini e la Vigilanza di Bankitalia. Elementi allo stato indiziari. Sufficienti dunque all’iscrizione del registro degli indagati dell’ex Presidente come corruttore, ma non ancora così solidi per la Procura da dare un nome anche a chi, in Bankitalia, sarebbe stato in ipotesi corrotto. Il passaggio — come evidente — è di particolare delicatezza. E, non a caso, fino a quando il tempo non ha imposto la notifica della proroga di indagini, questo nuovo filone dell’inchiesta è stato protetto da un segreto impenetrabile. Necessario ad avviare una prima serie di accertamenti della Guardia di Finanza — che ora, appunto, proseguiranno per altri sei mesi — e, soprattutto, a non condizionare lo svolgimento delle funzioni della Vigilanza di Bankitalia in un momento cruciale per i destini della Popolare. Parliamo dei mesi tra il giugno di quest’anno (quando è stata avviata l’ultima ispezione di Palazzo Koch e quando Marco Jacobini è stata iscritto nel registro degli indagati anche per corruzione) e il 12 dicembre scorso, quando il Governatore Ignazio Visco ha disposto il commissariamento dell’Istituto. Dunque e di nuovo, la Vigilanza di Bankitalia.

Il nodo dell’acquisizione. Che nei rapporti tra i vertici della Popolare e palazzo Koch, a cominciare dall’acquisizione della decotta Banca Tercas, fosse uno dei nodi cruciali dell’inchiesta sul crac era apparso evidente già all’indomani del commissariamento. Ma non c’è dubbio che adesso, con il sospetto che su questi rapporti possa aver avuto un peso una qualunque forma di corruzione per mano di Marco Jacobini, la questione si faccia ancora più delicata. Non fosse altro perché, gravata da quest’ombra, ora anche la lettura a posteriori di quanto accaduto nel cruciale autunno del 2013 (quando alla Popolare venne concesso di procedere a un’acquisizione cui in quel momento era ancora formalmente inibita) potrebbe trovare risposte diverse da quelle sin qui offerte da Bankitalia. Altro infatti è sostenere che, posta di fronte al dilemma se abbandonare al fallimento l’abruzzese Tercas e i suoi risparmiatori o consentirne il salvataggio per mano di chi non poteva tirarsi indietro (la Popolare), la Vigilanza scelse il male minore, scommettendo su un percorso virtuoso della Popolare e che i vertici della Popolare si erano impegnata a intraprendere. Altro è anche solo immaginare o ipotizzare che nella tolleranza concessa dalla Vigilanza alla dissennata governance della Popolare abbia ballato la promessa o la corruzione piena di chi della Vigilanza faceva parte.

I punti fermi. Non è evidentemente una domanda cui oggi è possibile dare una risposta. Non fosse altro perché il nuovo filone di inchiesta della Procura di Bari è soltanto nel mezzo del cammino che si è dato e gli elementi di fatto su cui l’ipotesi di corruzione è stata avanzata restano gelosamente custoditi dagli inquirenti. Quelle che al contrario possono essere messe in fila sono invece le evidenze documentali (i verbali delle sedute del Consiglio di amministrazione della Popolare, la corrispondenza tra la Popolare e la Vigilanza) che, oggi, al di là di ogni ragionevole dubbio, consentono di fissare alcuni punti fermi del rapporto che, sicuramente a far data dall’ottobre del 2013, legò Marco Jacobini alla Vigilanza e al suo allora direttore centrale Carmelo Barbagallo ("Repubblica" ne ha dato diffusamente conto in questi ultimi giorni).

Il primo. Fu sicuramente la Vigilanza della Banca d’Italia a sollecitare, già il 17 ottobre del 2013, l’interessamento della Popolare all’acquisizione di Tercas. E fu sicuramente l’allora presidente Marco Jacobini, che ebbe per altro modo di comunicarlo al Consiglio di Amministrazione, che ritenne quella proposta l’occasione irripetibile per regalare alla Banca il prestigio che non aveva. E che certo non avevano i suoi bilanci.

Il secondo. È documentalmente certo il “trade off”, lo scambio, che intervenne tra l’acquisizione della Tercas — costata alla Popolare un aumento di capitale in due fasi per circa 500 milioni di euro — e la decisione della Vigilanza di liberarla della sanzione imposta nel 2010 (il divieto di nuove acquisizioni). E questo, nonostante l’esito dell’ispezione del 2013 avesse sostanzialmente confermato i buchi di governance della banca già rilevati tre anni prima.

Il terzo. I verbali del Consiglio di amministrazione della Popolare dimostrano che l’avvio della procedura di acquisizione della Tercas cominciò almeno sei mesi prima che la banca ricevesse il formale via libera dalla Vigilanza. E che tutto questo avvenne nella piena consapevolezza degli ispettori.

Il quarto. È un dato di fatto che, fino agli ultimi giorni prima del commissariamento, i vertici della Popolare fossero sicuri che alla banca sarebbe stata data una nuova prova di appello da parte della Vigilanza. Dove risiedesse tanta sicumera, non è dato saperlo. Certo non nei bilanci (se è vero come è vero che lo stesso Governatore Visco, nella sua delibera di commissariamento, segnala come la Popolare avesse chiesto urgentemente nuova iniezione di liquidità a un capitale di garanzia ormai sotto i limiti di guardia). Dove, dunque? E in ragione di cosa? O di quali rapporti?

Capiremo presto dove arriverà l’inchiesta della Procura. In ogni caso, oggi una cosa è certa. Della caduta degli Jacobini (padre e figli) e di Vincenzo De Bustis Figarola non abbiamo visto ancora nulla. La faccenda promette di camminare assai. Soprattutto ora che la rete dei silenzi e dei ricatti è stata lacerata.

Rosario Dimito per “il Messaggero” il 21 dicembre 2019. La Banca d'Italia preme per tamponare il deficit patrimoniale di Popolare di Bari al più presto, possibilmente entro Capodanno. La situazione patrimoniale dell'istituto al 31 dicembre, ancora oggetto di verifica da parte degli ispettori di Via Nazionale, in uscita nelle prossime ore, potrebbe registrare un rosso tra 400-450 milioni a fronte di circa 330 milioni di patrimonio. Con questi valori ancora fluidi, per ripristinare il Cet1 al 6% e il Total core tier1 all'8%, rispetto all'attuale 5%, il fabbisogno straordinario dovrebbe attestarsi sui 380 milioni. Si discute sulle modalità di imputare l'importo a capitale: tra le diverse ipotesi sta emergendo l'idea di un versamento in conto capitale a fronte di un rafforzamento più complessivo, anch'esso ancora fluido. Potrebbe salire a 1,5-1,6 miliardi, anche perché dipenderà dal rapporto ispettivo. Ieri pomeriggio a Roma si è svolta presso la Banca d'Italia una riunione fra i commissari Enrico Ajello e Antonio Blandini, il loro advisor Oliver Wyman, i consulenti di Fitd (Kpmg), Mcc (Equita), presente Ciro Vacca della Vigilanza di via Nazionale. I numeri sono ancora ballerini ma cresce il pressing della Vigilanza sul Fondo per un intervento nei prossimi giorni. Ma il Fondo, che con Mcc dovrà accollarsi il salvataggio, ha per statuto regole rigide: la richiesta deve essere asseverata da un advisor indipendente e la decisione deve corrispondere al minor costo fra l'esborso e il rimborso dei depositi protetti (sotto 100 mila euro) per un totale di 4,5 miliardi. Durante la riunione si sarebbe parlato anche dai passi da compiere presso la Dg Comp a Bruxelles. Peraltro, ieri mattina durante il consiglio del Fitd, chiamato a designare i membri del futuro cda di Carige, il presidente Salvatore Maccarone avrebbe dato un'informativa ancora generica. Vrebbe comunque chiesto ai membri del consiglio di essere reperibili anche durante le festività per qualunque evenienza. La road map di Maccarone sarebbe di deliberare l'intervento di emergenza a cavallo dell'Epifania in modo che la procedura istruttoria possa compiere tutto il suo percorso. Intanto S&P ha confermato il rating a lungo e a breve termine (BBB- e A-3) del Mediocredito Centrale apprezzando la gestione dell'ad Bernardo Mattarella. Con valutazioni non diverse da quelle di Fitch, l'agenzia cita l'annuncio del governo di fornire 900 milioni di capitale all'istituto che fa capo allo Stato: «Mcc può usare i fondi per entrare nella Popolare di Bari, un processo che potrebbe richiedere diversi mesi», osserva S&P. «Questa iniziativa conferma il forte legame del Mcc con il governo e il ruolo che la banca gioca nel realizzare la politica del governo». «Allo stesso tempo la potenziale integrazione con la Popolare di Bari potrebbe del tutto alterare l'attuale profilo finanziario e di business di Mcc», prosegue l'agenzia.

Mario Gerevini per il “Corriere della Sera” il 21 dicembre 2019. Modestino Di Taranto, 66 anni, è stato nella Banca Popolare di Bari (Bpb) per 30 anni. Impiegato? Azionista? No. Questo signore, da una vita dipendente della Provincia di Foggia, dal 1989 fino a luglio scorso è stato nel consiglio di amministrazione della più grande banca del sud. E adesso si starà chiedendo frastornato: Che cosa è successo? E noi gli chiediamo: Dove è stato per 30 anni? Ma l' sms inviatogli sul telefonino non ha risposta. Appartiene, il quasi pensionato foggiano, alla categoria degli amministratori che fanno numero annuendo, quasi sempre bravissime e innocue persone di cui si circondano i leader. Fabrizio Acerbis, invece, è un vero tecnico: ufficio a Milano, socio e partner di Pwc, il grande gruppo di servizi finanziari e di revisione, lui è il numero uno in Italia del servizio di consulenza legale e fiscale. Per 14 anni è stato sindaco della Popolare Bari, quindi uno dei controllori. E negli ultimi 10 anni i bilanci della banca sono stati certificati proprio dalla Pwc, l' altra sponda dei controllori. Abbiamo cercato anche Acerbis per chiedergli, da super esperto qual è, «che cosa è successo», se fosse compatibile il doppio ruolo di sindaco e partner della società di revisione e come mai le relazioni dei sindaci non avessero rilevato la situazione disastrosa della banca. Attraverso un collega di Pwc ha fatto sapere di non voler dire nulla. Le bizzarrie della governance hanno contribuito a saldare l' indisturbato potere quarantennale di Marco Jacobini. Ora che insieme al suo staff ha lasciato un conto miliardario in carico allo Stato, l' ex numero uno si può dedicare all' ippica, cioè ai suoi cavalli da salto e ai bovini da bistecca che alleva in campagna insieme alla moglie e 8 dipendenti, nella Masseria Donna Giulia. Se mai un giorno dovesse essere avviata un' azione di responsabilità contro i vertici, anche stalle e terreni agricoli potrebbero essere un obiettivo. Nella società di brokeraggio assicurativo di famiglia, la Gt Broker, Jacobini, che è un agente Allianz, non ha una sola azione: il 100% è della moglie. Mentre a Napoli la Fondazione Banco Napoli trema pensando ai 23 milioni di euro in bond Bpb che ha in bilancio, a Bari i commissari staranno districandosi nel reticolo di legami e partecipazioni che, per esempio, ha portato la Bpb a detenere, quote nella società di Arezzo dove la vecchia Popolare Etruria aveva messo i suoi immobili. O nella Assicuratrice Milanese (9,5%) di Gianpiero Samorì. O in Vivibanca (9,9%). O a prendere in affitto a Treviso, mettendoci una filiale, un immobile di proprietà della moglie di Massimo Bianconi, il manager che ha portato al crac Banca Marche. Nel frattempo potrebbe chiarirsi un passaggio legale di non poco conto: la decisione a metà novembre dei legali della Bari di ritirare la costituzione di parte civile (e quindi rinunciare al risarcimento in caso di condanna) nel processo romano sul crac Tercas contro gli ex vertici Lino Nisii e Antonio Di Matteo. «È stata fatta una transazione», dicono lapidariamente dallo studio Sisto di Bari.

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 23 dicembre 2019. Nella fine della Banca Popolare di Bari, nelle ore del suo commissariamento, l' epitaffio ne racconta le ragioni. Il suo padre padrone, Marco Jacobini, che svuota la cassa - 5 milioni e 556 mila euro mentre il parco buoi dei correntisti vive l' ora più difficile. Quella di chi, in quel momento, teme che alla riapertura degli sportelli non potrà ritirare i propri depositi. Si, 5 milioni 556 mila euro, svuotati, tra giovedì 12 e venerdì 13 dicembre, dal libretto di deposito che Marco Jacobini aveva presso la sede centrale della Popolare e dirottati a sei diversi destinatari - quattro persone fisiche e due società - attraverso la Banca Sella. Un' operazione che non poteva passare inosservata all' interno della Banca e che è così diventata una "segnalazione di operazione sospetta" per riciclaggio su cui ora stanno lavorando la Banca d' Italia, la Guardia di Finanza e la Procura. Un' operazione che racconta molto delle ultime ore della Popolare, del suo ormai ex Presidente, e dimostra - ammesso ce ne fosse bisogno - che nel nostro Paese ci sono segreti a qualcuno meno impenetrabili che ad altri. Conviene dunque ritornare agli ultimi giorni della seconda settimana di dicembre. E svolgerne con pazienza il nastro. 10 dicembre - Rassicurare i correntisti È il 10 dicembre, un martedì. Il Presidente della Popolare, Gianvito Giannelli, nipote di Marco Jacobini, e l' amministratore delegato, Vincenzo de Bustis Figarola, dispensano, con la certezza dell' indicativo, parole che devono raffreddare la paura di dipendenti e correntisti della Banca, salita in quei giorni oltre il limite di guardia. «Non ci sarà nessun commissariamento », ripetono, indicando nella richiesta di circa un miliardo di euro al Fondo Interbancario di tutela dei depositi e al Mediocredito Centrale, la via di uscita a un depauperamento del capitale di salvaguardia non più sostenibile. Aggiungono, sapendo di mentire, che i negoziati per l' elargizione di quella liquidità di emergenza sono in dirittura di arrivo (nella sua delibera di commissariamento della Popolare, il Governatore Ignazio Visco documenterà l' esatto contrario. Censurando, anche in questo caso, l' accidia della governance della Popolare nel condurre con tempestività e affidabilità quell' ultimo tentativo di salvataggio "autonomo"). Indicano in un "nuovo piano industriale" l' Araba Fenice che dovrebbe restituire verginità e credibilità ad una gestione che non ne ha più per aver dilapidato ogni capitale di fiducia possibile.

La sceneggiata di De Bustis. Di più. Quello stesso martedì 10 dicembre, Vincenzo De Bustis, con un' ultima, grottesca capriola, decide di accreditare se stesso come il Cavaliere Bianco sotto la cui guida la Popolare riuscirà finalmente a liberarsi del fardello della gestione familistica degli Jacobini. E lo fa con un' intervista al Corriere della Sera e con la convocazione alla Fiera del Levante dei 300 direttori di filiale della Banca cui, in una recita a soggetto in cui a fargli da spalla è il presidente Gianvito Giannelli, fa un' intemerata sulla gestione allegra del credito, sui "conti truccati". Che deve servirgli a costruire una prova a discarico a futura memoria. E che, non a caso, mani anonime registreranno su nastro. E mani sapienti fanno prima girare nelle chat interne della Banca e quindi recapiteranno a Fanpage a commissariamento avvenuto. Naturalmente, tutti sanno che il legame tra De Bustis e gli Jacobini, padre e figli, è stato saldo come la gomena di una nave. Esattamente quanto le responsabilità che hanno condiviso nel tempo nella gestione della Banca. Da direttore generale e quindi da amministratore delegato, quando querelava Repubblica per provare a impedirle di fare il suo giornalismo e avviava azioni di responsabilità contro i manager della Banca (a partire da uno dei due figli di Marco Jacobini, Gianluca) con cui aveva lavorato per anni al fianco.

12 Dicembre. La delibera di Visco e il primo bonifico. Giovedì 12 dicembre - questa la data che porta la delibera - il Governatore della Banca d' Italia protocolla in un documento classificato "riservatissimo" le ragioni per le quali, il pomeriggio del giorno successivo, venerdì 13, è stato convocato un consiglio di amministrazione straordinario della Popolare cui annunciare il commissariamento. Della decisione di Visco, a rigore, quel giovedì, nessuno dovrebbe sapere. Tranne, ragionevolmente, il presidente del Consiglio. E la ragione è molto semplice. Quella notizia, se comunicata a metà settimana, a mercati aperti, potrebbe avere effetti incontrollabili. E, soprattutto, accendere il panico dei correntisti, innescando la corsa agli sportelli. Bene. È un fatto - diciamo pure una coincidenza - che proprio quel 12 dicembre, Marco Jacobini metta mano al libretto di deposito presso la sede centrale della Popolare e che presenta un saldo di 5 milioni 556 mila euro (cifra di una qualche importanza, probabilmente alimentata dai compensi dell' ex presidente che, solo nel 2018, erano stati di 3 milioni di euro) per disporre, attraverso la Banca Sella, un primo bonifico di 180 mila euro da trasferire su un conto intestato a suo nome. È - lo vedremo - una sorta di prova generale di chi si prepara a far sparire dalla Banca tutto quello che è meglio mettere al sicuro.

13 dicembre. Il commissariamento e cinque nuovi bonifici. La mattina di venerdì 13 dicembre quello che dovrà accadere il pomeriggio - il commissariamento a mercati chiusi e con il week-end davanti perché il governo possa procedere con il salvataggio - è ancora un segreto. Giustamente custodito anche dal presidente del Consiglio che, quella mattina, sollecitato a Bruxelles dalle voci che continuano a inseguirsi sulla Popolare, non può che dissimulare ciò sa e ciò che ha intenzione di proporre a un Consiglio dei ministri che verrà convocato per quella stessa sera alle 21. «Al momento - dice Conte - non c' è nessuna necessità di intervenire con nessuna banca». Ma il segreto, evidentemente, non vale per Marco Jacobini. Lui sa. E infatti, quella mattina, quando tutto deve ancora consumarsi, nell' ultima finestra di tempo utile, procede con cinque nuove disposizioni di bonifico. Il primo, da 150mila euro, è verso una società di assicurazioni. Altri due, per un totale di 300mila euro, hanno come beneficiari due familiari. Un quarto da 50 mila è ad una srl. Mentre il quinto, il più importante, da 4 milioni e 874mila euro, viene girato a un conto intestato allo stesso Marco Jacobini in una filiale di Banca Sella. Sul libretto, resta un saldo di 2mila e 500 euro. Che non è diciamo un gran gruzzolo su cui rivalersi per chi, proprio quel 13 dicembre, pone quale condizione per il salvataggio un' azione di responsabilità verso gli ex amministratori. Ma alla Popolare di Bari è sempre andata così. Anche alla fine.

Bari e i tempi della Vigilanza. Pompeo Locatelli, Martedì 24/12/2019 su Il Giornale.  Banche: la storia si ripete. Ora è la volta della Popolare di Bari, salvata per decreto e commissariata. Pessima gestione finanziaria, management imbarazzante, autorità di controllo poco presente. Vittime? I risparmiatori. Come per Mps, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, le quattro banche territoriali. E mi fermo qui, perché è Natale. La politica che adesso si scaglia contro Bankitalia, lo fa per speculazioni a fini elettorali. Per non dire dei penosi litigi sulla presidenza dell'inutile Commissione parlamentare d'inchiesta sulle banche. La riforma di Bankitalia è necessaria, urgente. Perché, come si evince dal crac della Popolare di Bari a meno che qualche funzionario sia stato complice siamo alla domanda di sempre: che poteri ha Bankitalia? Sono convinto che vada sganciata dalle invadenze delle politica. Sburocratizzata. Autonoma per vigilare al meglio. L'Istituto patisce il male atavico delle nostre autorità di controllo: il ritardo nel passare all'azione. Chissà perché a un certo punto il meccanismo si inceppa e il tutto procede con la flemma del bradipo. Eppure, i professionisti di Bankitalia sono bravi nell'indagare e nel produrre dettagliati report, peccato che poi rimangano lì, magari infilati in un cassetto. In attesa che un domani qualcuno lo apra. Ed è per questo corto circuito che diverse banche hanno potuto e possono continuare allegramente a operare con gestioni opache; con metodi inaccettabili, penso ai vertici sempre vessatori con i malcapitati funzionari (le pressioni sono per lo più vocali, pressoché assenti i riscontri digitali e cartacei) costretti a una stressante quotidianità a danno del cliente. Con la minaccia di sanzioni pesanti ed umilianti, fino al licenziamento. Un clima avvelenato, «truccato». Una vicenda da BancaRotta, come scrissi in un libro di qualche anno fa proprio sui misfatti del Sistema Banche e i vizi di Bankitalia.

Popolare Bari, Codacons: “Parole di Visco sono una vergognosa autoassoluzione”. Redazione de Il Riformista il 23 Dicembre 2019. “Quella di Visco è una vergognosa autoassoluzione che offende migliaia di risparmiatori coinvolti nella disastrosa gestione della Banca Popolare di Bari”. Lo afferma in una nota il Codacons, commentando le dichiarazioni rilasciate al Corriere della Sera dal governatore di Bankitalia. “Ancora una volta – prosegue – Banca d’Italia scarica qualsiasi responsabilità per il dissesto di una banca al quale hanno concorso operazioni autorizzate dallo stesso istituto, e cerca di minimizzare le crisi bancarie avvenute nel nostro paese, parlando di impatto dei salvataggi sul Pil solo dell’1% ma senza soffermarsi sui miliardi di euro dei piccoli investitori andati in fumo. Un film già visto con gli altri istituti di credito caduti in default nel nostro paese, e per i quali Bankitalia non ha svolto la dovuta attività di vigilanza”.  “Non può essere certo Visco – continua il Codacons – a certificare il corretto operato dell’istituto, e la parola spetta alla magistratura, con le Procure di Bari, Roma, Teramo e Reggio Calabria che dovranno pronunciarsi sull’attività di vigilanza di Bankitalia, attraverso un esposto inviato la settimana scorsa dal Codacons in cui si punta il dito contro il mancato controllo dell’ente il quale ha autorizzato operazioni – come l’acquisizione di Tercas e della Banca Popolare delle Province Calabre – che hanno contribuito a gettare la Popolare di Bari nel baratro”. Intanto oggi il Codacons “scende in campo anche a favore dei risparmiatori di Banca Base: tutti gli azionisti della banca catanese possono aderire” sul sito dell’associazione “all’azione legale promossa dall’associazione e scaricare la nomina di parte offesa da inviare alla Procura della Repubblica di Catania, avviando così l’iter per recuperare i soldi persi”.

Giorgio Meletti per ''il Fatto Quotidiano'' il 24 dicembre 2019. I lettori del Fatto sono stati messi a conoscenza da tempo della curiosa abitudine della Banca d' Italia di reagire ai crac bancari e ai legittimi interrogativi sull' efficacia della vigilanza bancaria con una supercazzola a scelta tra "quei delinquenti ce l' hanno fatta sotto il naso" e "non avevamo poteri sufficienti". Ma ieri il governatore Ignazio Visco ha battuto ogni record affidando a una solenne intervista al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana una raffica di affermazioni contrarie al vero, quelle che la libera stampa definita "volgare" a Palazzo Koch definisce balle. La più clamorosa è questa: "La scelta dei componenti degli organi sociali è di esclusiva responsabilità dell' azienda () La vigilanza può ricorrere alla moral suasion, e nel caso della Popolare di Bari ha espresso chiaramente al presidente del consiglio di amministrazione le proprie perplessità sull' opportunità del rientro dell' ingegner De Bustis tre anni dopo che aveva lasciato la banca". Visco omette di ricordare, e l' intervistatore omette di ricordargli, che Bankitalia ha dal 2015 il potere di disporre il removal (volgarmente la cacciata) di amministratori che possono causare pregiudizio alla sana e prudente gestione delle banche (art. 53 Testo Unico Bancario, comma 1, lettera e). Solo che per la Popolare di Bari, come per altre banche, non lo ha usato. Visco vive sempre in attesa di qualcosa: ora delle "norme attuative da parte del ministero dell' Economia e delle Finanze" che farebbero entrare in vigore la severa direttiva europea sui requisiti di onorabilità e competenza dei banchieri. La direttiva è stata recepita nel 2015, e da quattro anni e mezzo i vari ministri dell' Economia succedutisi (Pier Carlo Padoan, Giovanni Tria e Roberto Gualtieri) si sono ben guardati dallo scrivere il decreto così scomodo per numerosi potenti banchieri che (essendo sanzionati dalla vigilanza, indagati o addirittura imputati) dovrebbero andare a casa seduta stante. Visco non solo non ha mai protestato pubblicamente contro questo ritardo scandaloso della politica, ma due anni fa fece dire al capo della vigilanza Carmelo Barbagallo, sotto giuramento davanti alla Commissione parlamentare d' inchiesta, che Bankitalia applicava di fatto i nuovi criteri restrittivi e i banchieri esaminati li avevano superati. Colpisce un altro dettaglio. Visco avrebbe detto di non far rientrare De Bustis al presidente della Popolare Marco Jacobini, al quale due anni prima aveva ingiunto di andarsene dopo quasi 40 anni di presidenza. Non ha rimosso Jacobini per le ragioni per le quali gli chiedeva con lettera di dimettersi. E non ha rimosso De Bustis. Quel che è peggio è che, oggi, cioè a babbo morto, il governatore racconta questa storia: "All' inizio del 2019 emergono forti conflittualità tra presidente dell' organo amministrativo e le componenti a lui riconducibili, da un lato, e l' amministratore delegato, i componenti del Comitato di Controllo Interno e Rischi, il presidente del Collegio sindacale, dall' altro. Si determina un vero e proprio stallo gestionale". Cioè: appena De Bustis si insedia contro il volere di Visco, inizia a litigare di brutto con Jacobini che per Visco doveva essersene andato da due anni, il governatore sa tutto e che cosa fa? Non li rimuove come sarebbe suo dovere perché, dice, non ne ha il potere. Che la Popolare di Bari fosse messa male la Banca d' Italia lo sapeva dal 2010, quando l' ispezione si concluse con un giudizio "parzialmente sfavorevole", espressione che nella filosofia occidentale post-aristotelica ha come unico precedente di assurdità il noto assioma "la ragazza è un po' incinta". Anche le ispezioni del 2013 e del 2016 hanno dato esito "parzialmente sfavorevole", ma sul sito della Banca d' Italia, in una nota beffardamente intitolata "L' intensità dell' azione di vigilanza sulla Banca Popolare di Bari", sull' esito del 2013 si sorvola. E certo, perché subito dopo quell' ispezione Bankitalia toglie alla Popolare di Bari il divieto di fare acquisizioni per consentirle di acquisire la Tercas. Non solo tutti i muri della Popolare di Bari, ma anche le colonne di Palazzo Koch sanno che fu la Banca d' Italia a imporre a Jacobini e De Bustis l' acquisizione di Tercas. Oggi Visco riesce a raccontarci che a fine ottobre 2013 "venne considerata la manifestazione di interesse dei vertici della Popolare di Bari, che poi decisero di realizzare l' operazione in base a una autonoma valutazione". Visco argomenta che "decisioni come quella di realizzare un' acquisizione sono di esclusiva competenza e responsabilità del vertice delle banche". Un' affermazione che ieri ha fatto sobbalzare anche numerosi dirigenti della Banca d' Italia, sempre più insofferenti per lo stile suicida della comunicazione del governatore. Qui c' è un punto di fatto e quindi l' ennesima balla di Visco: le acquisizioni sono costantemente vagliate dalla Banca d' Italia che deve poi concedere o negare l' autorizzazione. Specie nel caso Tercas il ruolo della Banca non è stato neutro. Esisteva un divieto di espansione per la Popolare di Bari, che è stato rimosso proprio per consentire l' acquisizione di Tercas. D'altra parte il governatore argomenta che "la vigilanza non può intervenire nella conduzione della Banca", dichiarazione falsa in quanto illogica: se la vigilanza non ha poteri d' intervento, che ci sta a fare? Per fare analisi che restano poi lettera morta? Le risposte alla prossima Commissione parlamentare d' inchiesta.

Pop Bari : Tesi di Visco non convincono. Antonio Angelini su Il Giornale il 27 dicembre 2019. Oggi ospito nel mio Blog un amico che ha scritto due articoli (a mio modestissimo parere) molto lunghi ma davvero interessanti. Per chi avrà la pazienza di arrivare in fondo. D’ altronde se si approfondiscono gli argomenti è impossibile essere brevi. Alla fine di questi due articoli ognuno rifletterà se davvero Bankitalia debba restare così oppure debba essere riformata da capo a piedi.

Verità e bugie sulla Popolare di Bari (BPB). L’analisi di Liturri. Che cosa è successo davvero alla Popolare di Bari (BPB) e quali sono le prospettive per la banca commissariata nell’approfondimento dell’analista Giuseppe Liturri. Ci sono cose che sappiamo di sapere. Ci sono cose che sappiamo di non sapere. E poi ci sono cose che non sappiamo di non sapere. Ed è proprio quest’ultima categoria ad essere quella più pericolosa e difficile. Questa dichiarazione del segretario di Stato alla difesa USA Donald Rumsfeld, famoso per il ruolo avuto durante la seconda guerra del Golfo contro l’Iraq, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, si presta alla perfezione nel descrivere la crisi della Banca Popolare di Bari (BPB). Ovviamente qui si parlerà delle prime due, nella consapevolezza di omettere la terza, sconosciuta per definizione ma decisiva. Sappiamo di sapere che molti in questo paese, fanno fatica a distinguere la differenza tra un’attività soggetta a tutela costituzionale attraverso l’art. 47 e regolata da ben due soggetti pubblici (Banca d’Italia e Consob, e a livello UE: BCE, EBA, ESMA) ed un banco di frutta al mercato, ovvero una normale attività industriale e commerciale. Non si spiegherebbero altrimenti gli alti lai di personaggi più o meno autorevoli e sedicenti competenti, tutti intonati allo stesso modo: lo spreco del denaro dei contribuenti per proteggere chi ha imprudentemente (senza educazione finanziaria, aggiungono quelli che hanno frequentato le buone università) affidato i propri risparmi alla BPB.

Questi commentatori sanno di sapere che (ma fingono di non saperlo) che:

Proprio per la evidenziata peculiarità del bene risparmio, deve essere possibile andare in banca, trovare un interlocutore affidabile, preparato e corretto ed attendersi che le proposte di investimento siano adeguate al proprio profilo di rischio ed livello di conoscenza degli strumenti finanziari;

Il regime di vigilanza è proprio il presidio posto per impedire un eccessivo azzardo morale, cioè l’assunzione di rischi nella consapevolezza che un eventuale dissesto possa essere comunque sanato dall’intervento pubblico. L’azzardo morale non deve essere impedito dal rischio che la banca salti, ma dalla presenza dell’autorità di vigilanza che sorveglia sia il rischio assunto dalla banca che dal risparmiatore. Non ha quindi senso invocare il fallimento della banca per sanzionare chi ha assunto rischi inappropriati. Sarebbe come invocare il crollo della tribuna pericolante di uno stadio per sanzionare chi vi è entrato. No, è compito degli organi di vigilanza impedire sia che il proprietario dello stadio lo apra al pubblico e sia che il pubblico vi acceda. Questo non significa imputare alla vigilanza qualsiasi crollo di una tribuna, ma invece pretendere che, qualora accada, tutti gli strumenti preventivi siano stati posti in essere.

Si è addirittura sentito parlare di improponibili paragoni con gli azionisti della startup, appena fallita, Bio-On che perdono tutto ed azionisti di BPB che… perdono tutto ugualmente. Infatti, da ormai 3 anni quasi un quarto di questi ultimi cercano inutilmente di vendere le proprie azioni, senza trovare compratori e, nella migliore delle ipotesi, potrebbero ricevere il rimborso del 30% dell’investimento dal Fondo Indennizzo Risparmiatori (FIR), qualora fosse esteso agli azionisti di BPB e ci fossero le condizioni per accedervi. Anzi, sono proprio gli azionisti di BPB ad essere penalizzati rispetto a quelli di una qualsiasi altra impresa: la presenza di ben 2 soggetti vigilanti, avrebbe dovuto tutelarli ed abbassare il loro livello di rischio. Invece si ritrovano per strada come un azionista di una qualsiasi altra impresa.

Sappiamo di sapere anche che è ormai partita la caccia all’untore. Al banchiere disonesto che "ha rubbbato tutto" ed ha finanziato gli amici degli amici senza il rispetto di alcuna regola, compiendo malversazioni di ogni tipo. Anche questo luogo comune non regge e va almeno corretto, se non ribaltato. Banca d’Italia ha ripetutamente affermato che le cause delle gigantesche sofferenze bancarie successive al 2012, sono soprattutto di tipo macroeconomico e per una minima parte attribuibili a malversazioni. Infatti, si tende spesso a dimenticare che l’Italia è stata interessata da una doppia recessione (2008-2009 e 2012-2014) in cui sono andati in fumo quasi un quarto della produzione industriale e circa 10 punti di PIL. In conseguenza di tale epocale distruzione di valore che non ha precedenti in tempo di pace, tutto il sistema bancario ha subito ingenti perdite sui prestiti. La differenza tra banche che hanno retto l’urto e quelle che hanno ceduto, sta nella disponibilità di un cuscinetto di capitale sufficientemente ampio per assorbire le perdite ed in una più rigorosa politica di erogazione del credito. Chi ha retto ha diversificato maggiormente il rischio, sia per la dimensione degli affidamenti e sia per la concentrazione settoriale. Non è un mistero che le maggiori sofferenze di BPB (e delle altre banche che l’hanno preceduta nelle difficoltà) siano concentrate nel settore immobiliare. Ma qualcuno ha mai notato che il numero delle compravendite di abitazioni nel 2015 si era dimezzato ed i prezzi erano scesi del 30% rispetto ai massimi di metà del primo decennio? Business plan che sembravano ben promettere sono diventati all’improvvisa carta straccia, mega centri commerciali sono rimasti delle scatole vuote. Chi era in grado di prevedere un tale sconquasso? Quali conseguenze avrebbe potuto avere su banche che erano cresciute troppo e troppo in fretta come la BPB? Ancora una volta, qui non si sta assolvendo d’ufficio nessuno, a Bari ci sono ben 7 fascicoli di indagine aperti. Si cerca solo di riportare al centro una barra spostata troppo banalmente sulla "reductio ad hitlerum" di qualsiasi atto proveniente dal management della BPB, perdendo di vista la prospettiva macroeconomica.

Sappiamo di sapere che la trasformazione in SpA da parte della BPB non avrebbe risolto alcun problema. Nella vulgata dominante, tale trasformazione avrebbe reso contendibile il controllo della banca e favorito l’ingresso di nuovi investitori. Peccato che quella riforma, nata per decreto nel gennaio 2016 ad opera del governo Renzi, fu letteralmente fatta a pezzi nel dicembre successivo da una sentenza del Consiglio di Stato ed è tuttora presso la Corte di Giustizia UE. La BPB per ben due volte aveva convocato l’assemblea dei soci per procedere alla trasformazione ed altrettante volte fu bloccata dai giudici. Ma, ove mai la trasformazione fosse andata in porto, qualcuno crede che, una volta resa contendibile la banca, un investitore sarebbe entrato in BPB senza chiedere un pesantissimo sconto sui valori di bilancio, considerato che nel 2016 i problemi della banca erano tutti già ben presenti e che i multipli a cui quotavano altre banche in Borsa erano abbondantemente più bassi di quelli espressi dal valore dell’azione posto ad un irrealistico €9,53? Un nuovo investitore avrebbe immediatamente e verosimilmente iperdiluito il valore di quelle azioni. Altro che strumento per superare i problemi della banca che, viceversa, sarebbero solo emersi più in fretta.

Sappiamo di sapere che la pratica del cosiddetto mis-selling (vendita fraudolenta) non è derubricabile a sporadici episodi. A far comprendere la pericolosità di quanto è accaduto in Italia, soprattutto tra 2012 e 2014, ci aiuta un documento pubblicato dai supervisori europei (EBA, ESMA, EIOPA) il 31 luglio 2014. In esso si esprime preoccupazione per la diffusa pratica di collocare ad un pubblico al dettaglio strumenti finanziari particolarmente rischiosi emessi dalla stessa banca ed il cui livello di rischio risulta difficilmente apprezzabile dal piccolo risparmiatore. Proprio tra 2013 e 2015, la BPB raccoglieva presso il pubblico in gran parte al dettaglio, circa €700 milioni, arrivando quasi a raddoppiare il patrimonio netto, tra aumenti di capitale (a pagamento e via conversione di prestiti in azioni) ed obbligazioni subordinate. Se la massima autorità europea nel 2014 aveva ritenuto opportuno un intervento di tale durezza e chiarezza, forse era in atto una massiccia campagna di trasferimento del rischio a (parzialmente) inconsapevoli risparmiatori? O qualcuno crede che i regolatori facevano solo accademia? In questo, BPB è solo un episodio di un’unica lunghissima catena che parte dagli obbligazionisti di Banca Etruria, passa per quelli di Veneto Banca e Popolare Vicenza e termina, speriamo, a Bari. Di fronte a questo sistemico raggiro del risparmiatore, regge poco la vulgata di chi crede si sia trattato solo di avidità ed ignoranza finanziaria. Basta scorrere le decisioni dell’Arbitro per le Controversie Finanziari (ACF) presso la Consob: quasi il 10% dei ricorsi riguarda la BPB e quasi il 90% delle decisioni sono favorevoli ai risparmiatori, un’autentica galleria degli orrori. Bisogna quindi mettere le cose in prospettiva e questo porta a concludere che, soprattutto tra 2012 e 2015 tutte le banche italiane avevano un drammatico bisogno di capitale, in conseguenza delle perdite subite a causa dei prestiti inesigibili, e non c’era altra via d’uscita che attingere al risparmio privato, soprattutto al dettaglio, quello più debole e facilmente aggredibile. Se l’autorità europea di vigilanza arriva a diffondere pubblicamente un documento per porre un freno a questa pratica, fatevi una domanda e datevi da soli una risposta sulle dimensioni del fenomeno. In una delibera CONSOB del 2018 che sanziona gli amministratori della BPB (recentemente confermata dalla Corte di Appello di Bari), in occasione dell’aumento di capitale del 2014, il 23% delle sottoscrizioni proveniva da precedente dismissione di altri strumenti finanziari, dei quali circa la metà erano di una classe di rischio inferiore rispetto ai nuovi strumenti sottoscritti. C’è bisogno di altre prove per poter affermare che il problema non è quello della pagliuzza del direttore di banca disonesto o del risparmiatore avido, ma quello della trave di una sistematica operazione di finanziamento/capitalizzazione di banche in difficoltà, eseguita distogliendo risparmio privato da altri impieghi, con modalità non consentite dalla legge, sotto gli occhi consapevoli di tutta la catena di comando delle banche coinvolte e dei regolatori nazionali ed europei, che non solo non potevano non sapere, ma sapevano perfettamente di sapere, come conferma il documento dei regolatori?

Sappiamo di sapere che l’acquisizione della TERCAS ha costituito probabilmente l’inizio della fine per BPB. Infatti quella operazione ha determinato nuovo fabbisogno di capitale per la banca (raccolto nel discutibile modo che sappiamo) ed ha portato in carico alla stessa una rilevante massa aggiuntiva di prestiti in sofferenza. Ma su questo argomento sono anche numerose le cose che sappiamo di non sapere, soprattutto dopo la lettura dell’approfondimento pubblicato da Banca d’Italia il 16 dicembre.

In esso, si descrive chiaramente la situazione di carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione del rischio di credito, riscontrata dalla Vigilanza sin dal 2010 e la continua interlocuzione con gli organi della banca affinché fossero adottate idonei rimedi. A causa di quelle carenze, a BPB era vietato espandere la propria attività. Finché “…In considerazione degli interventi posti in essere e delle relazioni fornite dall’internal audit e dal Collegio Sindacale, nel giugno 2014 vengono rimossi i suddetti provvedimenti restrittivi…” ed a luglio 2014 la Banca d’Italia autorizzò la BPB ad acquisire il controllo di Tercas. Ma i contatti erano partiti sin dall’ottobre 2013, successivamente alla lettura delle relazione di ispezione del Dott. Barbagallo al consiglio della BPB di cui si è letto in questi giorni sui giornali e per la quale Bankitalia ha ritenuto addirittura di fare un comunicato stampa. In tale documento si parla del finanziamento ELA rimborsato da TERCAS a Banca d’Italia a novembre 2013 contestualmente all’erogazione di un mutuo di pari importo da BPB a TERCAS. Insomma, sin dal novembre 2013, nonostante fosse ancora vigente il divieto di espandere l’attività, BPB si era lanciata mani e piedi a sostegno di TERCAS. E indovinate da dove aveva appena preso i soldi BPB? Dalle operazioni di finanziamento LTRO della BCE. Interessante! Alla fine del giro, BCE/Bankitalia si è ritrovata creditrice di BPB per il finanziamento LTRO, anziché di TERCAS per il finanziamento ELA, ed il cerino TERCAS (pur garantito da titoli) è rimasto in mano a BPB. E dopo tale operazione, che già legava pesantemente BPB a TERCAS, Bankitalia avrebbe mai negato l’autorizzazione all’acquisizione?

Dopo 4 anni in cui la banca era stata fatta oggetto di rilievi di una certa gravità, a Banca d’Italia è sufficiente una relazione di organi interni per considerare la banca idonea ad assumere rischi di tale rilevanza, visto che si parla proprio di ‘salvataggio’? In altre parole Bankitalia ha chiesto all’oste come fosse il vino e ci ha pure creduto? C’è da restare senza parole. A peggiorare il quadro, a febbraio 2015 arrivò pure il ‘faro’ di Margrethe Vestager che aprì un’indagine per aiuti di Stato a causa della natura pubblica del FITD (che aveva erogato un contributo di €330 milioni alla BPB a sostegno dell’acquisizione) ed a fine 2015 arrivò pure la decisione ufficiale che confermava l’ipotesi iniziale. Ad inizio 2016 la BPB rimborsò quella somma che le fu contestualmente versata dallo schema volontario del FITD, messo in piedi nottetempo per superare i rilievi della DG Comp di Bruxelles. Solo a marzo 2019, il Tribunale UE ha annullato quella decisione, dando ragione all’Italia ed alla BPB. Nel frattempo, l’integrazione tra le due banche era rimasta sub judice per più di un anno, con le immaginabili conseguenze sul piano operativo.

La decisione di Banca d’Italia del luglio 2014 desta ancora più perplessità soprattutto se si fa attenzione a quanto accaduto ad ottobre scorso, quando la BCE non ha autorizzato l’acquisizione di CariCento da parte della Popolare di Sondrio, con la motivazione che quest’ultima deve prima procedere alla riduzione dei rischi. Quindi alla Sondrio è stata vietata un’acquisizione di una banca che costituirebbe appena meno di un decimo della propria raccolta e dei propri impieghi. Peccato che invece BPB nel 2014 venne autorizzata, dopo anni di divieto, ad acquisire un banca che aveva dimensioni solo di poco inferiori (TERCAS aveva raccolta ed impieghi, rispettivamente per 5 e 6 miliardi) e veniva da un commissariamento. Evidentemente ci sono degli elementi che ci sfuggono e sappiamo di non sapere.

Per chiudere questo capitolo, si evidenzia che, proprio in quei caldi mesi dell’estate 2014, Bankitalia era impegnata su altri due fronti: caldeggiare il tentativo di acquisizione da parte di Popolare Vicenza, sia di Banca Etruria che di Veneto Banca, condotto sulla stessa falsariga di BPB/TERCAS. Cioè prendere una banca sana (o presunta tale) e chiamarla a farsi carico di una banca in difficoltà. Dai nomi delle banche appena elencate, non pare sia stata una buona idea.

Sappiamo di non sapere quando è il momento in cui l’attività di vigilanza deve chiudere le tribune ed impedire l’accesso del pubblico o favorirne preventivamente l’evacuazione ordinata (per restare in metafora). L’esperienza della liquidazione delle banche venete e della ricapitalizzazione precauzionale di Mps a carico dello Stato, ci ha insegnato che la linea rossa, varcata la quale si deve suonare la sirena, è piuttosto mobile. Tutti ricorderete il famoso “Mps è risanata, ora investire è un affare” pronunciato da Matteo Renzi il 22 gennaio 2016. Per tutto quell’anno si inseguirono voci su un’operazione di mercato finalizzata a portare grandi investitori internazionali (il famoso fondo del Qatar) nel capitale di Mps. Finì tutto miseramente a luglio 2017 con lo Stato costretto ad intervenire, probabilmente con somme maggiori di quelle necessarie 18 mesi prima, e gli obbligazionisti subordinati costretti a subire una conversione in azioni e quindi, di fatto, una falcidia (burden sharing) in ossequio alle norme europee. Per non parlare delle somme investite e bruciate dai fondi Atlante 1 e 2 nelle banche venete. Stesso film per la BPB. Per tutto il 2018 e 2019 si sono inseguite voci relative a piani di rafforzamento del capitale grazie a provvidenziali ‘cavalieri bianchi’. Piani che facevano a sportellate con la realtà: chi mai investirebbe in una banca in quelle condizioni da anni, con sofferenze lorde per circa €2 miliardi coperte al 40% circa, e quindi con sofferenze nette pari a €1,2 miliardi, pari a 3 volte il patrimonio netto? Quali ingenti svalutazioni e tagli dei costi avrebbe dovuto richiedere per avere un decente rendimento del capitale investito? A Bari, così come ad Arezzo, Vicenza, Siena, la linea rossa, oltre la quale bisogna solo pensare ad un ordinato intervento dello Stato, in nome della tutela costituzionale conferita al bene risparmio, pare essere stata oltrepassata da parecchio. Nondimeno, è lo Stato che si deve fare carico di perseguire chi ha male amministrato o ha male vigilato. Anche se bisogna ammettere che il regolatore rischia di sbagliare sempre: sia quando sgombra le tribune o le chiude preventivamente e poi non accade nulla, sia quando le tribune crollano.

Sappiamo di sapere che il 13 dicembre la banca è stata commissariata ed il 15 dicembre il Governo ha emanato un decreto legge che prevede la dotazione di €900 milioni a favore di Invitalia (agenzia di proprietà del Ministero dell’Economia) affinché quest’ultima capitalizzi la controllata Banca del Mezzogiorno – Mediocredito Centrale SpA (MCC). La banca così capitalizzata potrà assumere partecipazioni in istituzioni finanziarie (anche del Mezzogiorno) secondo “…criteri di mercato…”. Tali partecipazioni potranno poi confluire, previa scissione, in un una nuova società le cui azioni saranno direttamente di proprietà del MEF. A questa decisione si è aggiunta quella del 18 dicembre del Comitato di gestione del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (FITD) che ha espresso una valutazione favorevole affinché il Consiglio deliberi l’erogazione di un sostegno finanziario alla Banca Popolare di Bari, che potrebbe raggiungere anche €500 milioni, attraverso la sottoscrizione di un’obbligazione subordinata AT1.

Sappiamo di non sapere perché il FITD, come riportato dalla stampa, dovrebbe intervenire senza ricorrere allo Schema Volontario (come accaduto per Carige). Significa forse che la situazione è talmente compromessa che non c’è bisogno di passare per veicoli particolari ma il FITD interviene per adempiere al suo ruolo istituzionale di garanzia dei depositanti?

Sappiamo di non sapere cos’altro è accaduto il 13 dicembre. Dal famoso audio registrato il 10 dicembre, ma anche da quanto riportato da Nicola Porro sul suo sito, emerge un quadro di sostanziale controllo della situazione. Con tanto di carta intestata di Bankitalia, erano illustrate iniziative tattiche (sottoscrizione obbligazione AT1 da parte del FITD entro fine dicembre e cessione crediti problematici a MCC) e strategiche (trasformazione in SpA ed ingresso di MCC entro maggio 2020). Giovedì 12, il presidente di BPB, Gianvito Giannelli, parlando ad un convegno a Bari si scusò per il suo ritardo, parlando di un consiglio che si era protratto a lungo ma il cui esito era stato ‘risolutivo’. Poi, all’improvviso venerdì pomeriggio l’escalation con la convocazione degli amministratori da parte di Bankitalia e la nomina dei Commissari e, la sera stessa, il disastroso esito di un Consiglio dei ministri che non riuscì a deliberare perché, aldilà dell’occasione per regolare certi vecchi conti all’interno del Pd, la sorpresa fu grande anche per parecchi ministri. Allora cosa è accaduto? C’entra forse qualcosa l’esito dell’ispezione approfondita in corso sui crediti dallo scorso giugno? C’entra forse qualcosa il fatto che la Consob chiede da tempo la divulgazione dei conti aggiornati della banca e questa ha giustificato il proprio diniego con quanto previsto dal regolamento Market Abuse Regulation che consente di ottenere un ritardo nel caso in cui le informazioni possano determinare un ‘rischio sistemico’ (come confermato anche da Bankitalia)? L’uso di quelle parole apre la porta agli scenari più inquietanti sulla reale portata delle perdite patrimoniali della BPB e saranno i Commissari a rivelarne a breve l’effettiva entità.

Sappiamo di sapere quale potrebbe essere il destino dell’azienda bancaria che verosimilmente continuerà ad operare con nuovi organi di direzione e controllo e nuovi azionisti di controllo (MCC), ma sappiamo di non sapere cosa accadrà ad azionisti ed obbligazionisti subordinati (circa €290 milioni, di cui 2/3 presso risparmiatori al dettaglio). È poco probabile che siamo in presenza di una ricapitalizzazione precauzionale sul modello di Banca Mps: in quel caso la banca era in bonis. Qui i dubbi sono numerosi. È più probabile che ci si avvii verso l’alternativa tra risoluzione secondo la direttiva BRRD o, meno probabile, liquidazione coatta amministrativa (LCA) sul modello delle banche venete. Tutto dipende dalle perdite che sveleranno i Commissari. Su questo tema, l’approfondimento di Bankitalia è stato tranciante: la liquidazione senza cessione di attività e passività ad un’altra banca provocherebbe la falcidia anche di parte dei depositi superiori a €100mila (oltre ovviamente ad azioni ed obbligazioni) e costringerebbe il FITD al rimborso di €4,5 miliardi a favore di depositanti sotto €100mila. La continuità operativa della banca, con passaggio ad altra banca, deve necessariamente prevedere l’intervento dello Stato. La scelta tra risoluzione e LCA dipenderà dalla valutazione del rischio per la stabilità sistemica e dall’importanza di continuare ad assicurare i servizi finanziari della banca. La risoluzione prevede anche l’intervento dello Stato, previo sacrificio di azionisti ed obbligazionisti fino al 8% del passivo. In ogni caso, la risoluzione non potrà comportare per i creditori della banca un esito peggiore rispetto alla LCA. È forse il caso di notare che il patrimonio netto della BPB al 30 giugno era di circa €420 milioni. Se consideriamo che le sofferenze nette sono pari a €1,2 miliardi e che i crediti in bonis sono pari a circa €7 miliardi, ci vuole poco a capire che il rischio di applicare per la prima volta il bail-in è piuttosto elevato o, in alternativa, di assistere ad un’operazione simile a quelle delle banche venete, in cui il sacrificio degli obbligazionisti subordinati, unitamente a €4,8 miliardi di contributo dello Stato a Banca Intesa San Paolo (e €12 miliardi di garanzie), consentì di salvare i depositanti e le aziende bancarie. Tutto sommato, il conto della BPB dovrebbe essere ben inferiore.

Infine, sappiamo di sapere che quel “…secondo criteri di mercato…” messo in bella evidenza nel decreto legge di domenica 16 dicembre, è destinato con buona probabilità a rimanere nel libro delle buone intenzioni. La situazione della banca è tale che, secondo criteri di mercato, è molto probabile che nessuno ci metterebbe una lir… euro e quindi quei 900 milioni dovranno andare sotto la tagliola della Vestager che speriamo che almeno questa volta ci risparmi i tempi lunghi della vicenda Tercas. A quel punto i cittadini italiani potranno ancora una volta valutare se le regole della Ue sono rispettose degli interessi nazionali e se sono applicate allo stesso modo anche negli altri Paesi.

Giuseppe Liturri per startmag.it il 26 dicembre 2019. La Banca d’Italia è da sempre uno degli snodi cruciali della vita economica del nostro Paese. Molto è cambiato da quando essa fa parte dell’Eurosistema ed è di fatto una ‘filiale’ della Banca Centrale Europea, ma il peso resta tuttora rilevante. Ogni intervento pubblico del suo governatore è sempre al centro dell’attenzione dei media e della comunità finanziaria per la sua autorevolezza. Tuttavia, sono numerose le perplessità su quanto dichiarato nelle ultime settimane a proposito di Meccanismo Europeo di Stabilità e della crisi della Banca Popolare di Bari (BPB). Dopo aver scritto dettagliatamente sul primo episodio, l’intervista rilasciata lunedì 23 dicembre al Corriere della Sera inanella una serie di affermazioni che hanno lasciato allibiti numerosi addetti ai lavori e che non reggono alla prova dei fatti. Ignazio Visco sembra il novello Cicero pro domo sua. Ecco il commento ai passaggi più significativi. “… La vigilanza sulle banche ha svolto il suo compito, con il massimo impegno e io reputo positivamente. La scelta di porre in amministrazione straordinaria questa banca è il risultato, come sempre in questi casi, di un’attenta analisi, è un atto possibile in termini di legge solo dopo aver rilevato gravi perdite o carenze nei sistemi di governo societario. Questa affermazione fa a pugni con quanto dichiarato nel documento di approfondimento pubblicato da Bankitalia il 16 dicembre, in cui si parla di "stasi operativa", "forti conflittualità" tra gli organi di direzione e controllo della banca e "stallo gestionale", tutto già in atto tra le fine del 2018 e l’inizio del 2019. Strano che quelle situazioni non fossero stare ritenute sufficienti per il commissariamento almeno 10/12 mesi fa. Cos’altro sarebbe dovuto accadere per adottare il provvedimento sin da quel momento? A via Nazionale attendevano che il consiglio rivelasse di indossare una cintura con esplosivo e fosse sul punto di azionarla? Secondo Visco, quando è possibile definire tardivo un intervento? Quando la banca è totalmente insolvente? Il Testo Unico Bancario (TUB) è infarcito di articoli che forniscono ampio potere di iniziativa alla Banca Centrale, anche e soprattutto preventivo. “…Ma la vigilanza non può intervenire nella conduzione della banca, che spetta agli amministratori scelti dagli azionisti. La banca deve seguire delle regole, la vigilanza verifica che ciò effettivamente accada…” Stupisce che si ritenga opportuno ribadire l’ovvio. E quando la vigilanza riscontra l’effettiva violazione di regole, come desumibili dalle deliberazioni della Consob del settembre 2018, con le quale si sanzionano gli amministratori con oltre €2 milioni (confermati in Corte d’Appello) per le condotte relative all’aumento di capitale del 2014/15, cosa fa? Consente che numerosi amministratori (Presidente in testa) siano confermati dall’assemblea dei soci nel 2019 ed addirittura consente che quegli stessi amministratori negozino con MCC e FITD il piano di rafforzamento del capitale. Secondo Visco, questo è un modo appropriato di vigilare? “…Dal 2007 abbiamo posto in amministrazione straordinaria circa 80 intermediari: più della metà è tornata alla gestione ordinaria, per quelli liquidati o aggregati con altre banche, non vi sono state, nella generalità dei casi, perdite per depositanti e risparmiatori….” Stupisce come non siano stati così solerti anche con la BPB. Qui incredibilmente Visco omette di specificare che le perdite per i risparmiatori ci sono state, eccome. È pur vero che i depositanti sono rimasti indenni, ma le perdite imposte ad obbligazionisti subordinati delle 4 banche assoggettate a risoluzione nel novembre 2015, delle 2 banche venete liquidate nell’estate 2017 e di MPS (seppur convertite in azioni) hanno costituito una epocale distruzione di valore mai capitata prima di allora a soggetti diversi dagli azionisti, i cui effetti si sono propagati a tutto il settore bancario il cui indice di borsa nel 2016 scese del 60% ed è tuttora alla metà rispetto ai massimi del 2015. “… La soluzione ordinata delle crisi bancarie, di per sé non semplice, è complicata dal nuovo approccio europeo in materia di gestione delle crisi e aiuti di Stato. Ma questo non ha niente a che fare con l’essere arbitro e giocatore…”. Peccato che il ruolo di Bankitalia avrebbe dovuto essere quello di sostenere la negoziazione del governo nel confronto con la UE su questi temi. Chi, se non loro, avrebbero dovuto argomentare con forza che applicare il divieto di aiuti di Stato ad una banchetta con 4 miliardi di raccolta come TERCAS era una autentica follia giuridica ed economica, come ha poi riconosciuto il Tribunale UE? Vogliamo parlare del ruolo avuto durante la trattativa per il bail-in? In cui, solo dopo, a frittata fatta, hanno dichiarato di essere stati sempre contrari. Troppo comodo considerarlo come un fatto esogeno piovuto dall’altro, mentre loro… sparecchiavano (per citare la famosa ammissione della figlia del Conte Mascetti nel film "Amici miei"). «… sono consapevole che quando le banche non ce l’hanno fatta (per la recessione, per governance inadeguata, per comportamenti scorretti) vi sono stati effetti gravi, soprattutto per gli azionisti. Per i depositanti invece non vi sono state conseguenze e per la gran parte degli obbligazionisti alla fine sono state contenute le perdite…”. Le perdite sono state ‘contenute’ (obbligazioni rimborsate al 85% sotto specifiche condizioni) solo perché lo Stato ha dovuto ammettere che la vendita in massa di quei titoli era avvenuta con modalità truffaldine, truccando o forzando i profili Mifid dei risparmiatori. Peccato però che i regolatori, come Bankitalia, sapessero tutto e fossero stati avvertiti dai supervisori europei. “…ma deve migliorare la comprensione da parte del pubblico che un investimento finanziario comporta sempre un rischio. Da parte delle banche questo rischio deve essere sempre adeguatamente rappresentato…”. Doppio no: il regime di vigilanza del settore finanziario e la tutela costituzionale ex art. 47 fanno sì che il risparmiatore debba essere pubblicamente tutelato. Altro che comprensione ed educazione finanziaria. E se le banche non rappresentassero adeguatamente tali rischi? Dovrebbe esserci la vigilanza ad impedirlo, no? …Decisioni come quella di realizzare un’acquisizione sono di esclusiva competenza e responsabilità del vertice delle banche. Nei casi di difficoltà di un intermediario, qualora non sia possibile una ricapitalizzazione sul mercato, è prassi delle autorità di vigilanza esplorare la possibilità di un acquisto da parte di altre banche…” Qui entriamo nel vivo della galleria degli orrori dell’operazione TERCAS. Ma davvero Visco vuole farci credere che non conosciamo la differenza tra decidere un’acquisizione e vedersela autorizzata da Bankitalia, cose ovviamente ben diverse? Perché a Popolare di Sondrio è stata vietata ad ottobre scorso l’acquisizione di CariCento, dieci volte più piccola, con la motivazione che la banca doveva prima provvedere ad abbassare i rischi presenti in bilancio? Quando vuole, Bankitalia può. Ma soprattutto, chi ha stabilito quella ‘prassi’ di esplorare il mercato alla ricerca di potenziali compratori, in quale norma è previsto questo potere di Bankitalia? Infine, come non cogliere la contraddizione tra la prima e l’ultima parte del periodo: le banche sono autonome nelle loro scelte di espansione o si fanno suggerire le operazioni da Bankitalia, come desumibile nella seconda parte? “…Alla fine dello stesso mese venne considerata la manifestazione di interesse dei vertici della Popolare di Bari, che poi decisero di realizzare l’operazione in base a una autonoma valutazione, negoziando e ottenendo dal Fondo Interbancario di Tutela dei depositi il contributo ritenuto necessario per l’acquisizione…” Quindi fu tutta un’iniziativa della BPB? Peccato che il bilancio 2014 della banca barese testualmente recitasse “…nell’ottobre 2013 la banca è stata CHIAMATA a valutare una possibile operazione di acquisizione di TERCAS…”. Chiamata da chi? Da un passero solitario? O forse da Bankitalia che ‘per prassi’ esplorava tali possibilità? Da notare la straordinaria coincidenza del divieto all’effettuazione di acquisizioni rimosso da Bankitalia proprio poche settimane prima dell’inizio del processo di acquisizione della TERCAS. “…Naturalmente alla fine di un percorso si corre il rischio di emettere giudizi di autoassoluzione o di ragionare con il senno del poi; noi facciamo il massimo per tenere costantemente sotto controllo le diverse situazioni e valuteremo se ci siano stati errori anche da parte nostra…” Che nel linguaggio felpato di Bankitalia, forse significa ammettere che l’hanno fatta grossa. “…Nel caso di Tercas l’intervento del Fondo interbancario è stato ritenuto dalla Commissione europea un aiuto di Stato; per questo motivo l’operazione è stata completata solo quando l’intervento del Fondo è stato realizzato con il cosiddetto “Schema Volontario”. Ciò ha ritardato l’integrazione di Tercas nella Popolare di Bari, generando incertezze e con oneri certamente maggiori…” La vicenda dell’aiuto di Stato, pagina vergognosa dei nostri rapporti con la UE, grida ancora vendetta; d’accordo. Ma si presta malamente al ruolo di foglia di fico per coprire il disastroso esito dell’acquisizione. Infatti, il contributo del FITD inizialmente erogato nel luglio 2014, è stato contestualmente restituito e nuovamente ricevuto per pari importo nel febbraio 2016, ad opera dello Schema Volontario del FITD stesso costituito già a fine 2015. BPB è entrata in TERCAS il 1 ottobre 2014 e sicuramente 14 mesi di stallo hanno provocato danni (il miliardo di raccolta volato via, di cui parlò il Presidente Jacobini quando a marzo scorso fu pubblicata la sentenza del Tribunale UE che annullava la decisione della Commissione). Ma tutto ciò appare una pagliuzza di fronte alle trave di € 3 miliardi di crediti deteriorati lordi esposti dalla banca post acquisizione nel 2015 (contro €1,2 del 2013, pre acquisizione) o 1,5 miliardi di crediti deteriorati netti (contro €0,7 del 2013). “…In secondo luogo la ricapitalizzazione della Popolare di Bari non ha potuto avere luogo sul mercato perché la banca non si era trasformata in società per azioni come richiedeva la legge di riforma da noi fortemente caldeggiata e realizzata dal governo nel gennaio 2015. L’assetto delle “popolari” è un problema che abbiamo sempre sottolineato con forza: ostacola l’accesso al mercato e favorisce opacità e autoreferenzialità nella governance…” Questo è un altro mito da sfatare, con un incredibile errore nelle date; infatti la riforma delle Popolari ad opera del governo Renzi è del gennaio 2016. Nel 2013/14/15, quando la BPB ha fatto gli aumenti di capitale, la riforma non esisteva ancora. Ma ove mai quella riforma fosse esistita e quindi ci fosse stato accesso al mercato con una banca contendibile, qualcuno vuole credere che un privato investitore, di fronte a quella massa di crediti deteriorati e modesta redditività non avrebbe chiesto uno sconto così consistente, tale da far precipitare ancora più rapidamente il valore degli investimenti dei vecchi azionisti? Infine, quella riforma, tanto decantata, fu pesantemente censurata dal Consiglio di Stato nel dicembre 2016 e, tra i tanti motivi, si segnalava il ruolo troppo ingombrante di Bankitalia in tutto il processo, spesso in violazione di norme costituzionali. “…Questo lo dice chi non conosce le regole. La Banca d’Italia aveva concesso a Tercas un prestito a titolo di liquidità di emergenza, in base alle norme italiane ed europee. Questo tipo di finanziamento, di competenza delle banche centrali nazionali ma sottoposto a valutazioni del Consiglio direttivo della Bce, deve essere assistito da adeguate garanzie, che rendono il rischio per le banche centrali nullo o al più trascurabile. La Popolare di Bari è semplicemente subentrata nel finanziamento, con le medesime garanzie, senza quindi modifiche alla rischiosità del prestito…” Questo passaggio è davvero imbarazzante, poiché il problema non è la modifica alla rischiosità del prestito, ma il fatto che quel prestito sia stato fatto e che sia finito a rimborsare Bankitalia. Visco si riferisce ad un finanziamento rimborsato da TERCAS a Bankitalia nel novembre 2013, si badi bene ad acquisizione non avvenuta e solo alle prime fasi. TERCAS aveva ottenuto quella somma (€480 milioni) proprio da BPB con un finanziamento ad hoc. Quindi ben prima che l’acquisizione fosse perfezionata, BPB si era sostituita a Bankitalia come finanziatore di TERCAS (ovviamente ricevendo lo stesso tipo di garanzie, come sottolinea Visco). Ma come non vedere l’enormità del fatto che BPB versa a TERCAS, ben prima dell’acquisizione, una somma utilizzata contestualmente per togliere il cerino dalle mani di Bankitalia che era anche il soggetto investito del potere di autorizzare l’acquisizione? Con l’aggravante data dal fatto che poi quel finanziamento di BPB sarà pure utilizzato in parte per sottoscrivere l’aumento di capitale di TERCAS nel 2014. In sostanza, la finanza per l’aumento di capitale di BPB in TERCAS arrivò ben prima dell’acquisizione che, verosimilmente, a quel punto non poteva più saltare. “… La scelta dei componenti degli organi sociali è di esclusiva responsabilità dell’azienda; la Banca d’Italia verifica la sussistenza in capo ai singoli esponenti dei requisiti previsti dalla legge. Le disposizioni in vigore prevedono ipotesi tassative per la determinazione della mancanza di tali requisiti. Il nuovo regime europeo sui requisiti degli amministratori bancari — che concede discrezionalità alle autorità di vigilanza — è stato recepito nell’ordinamento italiano, ma entrerà in vigore solo dopo l’emanazione delle norme attuative da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze. La Banca d’Italia ha segnalato — pubblicamente e ripetutamente — l’importanza di questa materia. Lo ripeto: le regole attuali non ci consentono di intervenire, esercitando discrezionalità, al di fuori dei confini normativi. La vigilanza può ricorrere alla moral suasion, e nel caso della Popolare di Bari ha espresso chiaramente al presidente del consiglio di amministrazione le proprie perplessità sull’opportunità del rientro dell’ingegner De Bustis tre anni dopo che aveva lasciato la banca». Anche su questo ci sono numerose perplessità. Visco sostiene di avere dalla sua solo la possibilità di esercitare una moral suasion, non potendo esercitare la discrezionalità consentita da una legge in vigore ma priva di norme attuative. È una foglia di fico che non regge. Nessuna banca si muove in direzione contraria rispetto alle indicazioni di Bankitalia, meglio ancora se informali. E se e quando ci sono episodi di cattiva gestione o governo aziendale fuori controllo, arrivano i commissari. Punto. «…L’amministrazione straordinaria rappresenta un intervento di vigilanza forte, in cui si destituiscono gli organi amministrativi scelti dagli azionisti; si interviene quando altri meccanismi — quali il vaglio del collegio sindacale, delle società di revisione, dell’assemblea dei soci — non hanno la necessaria efficacia. È per questi motivi che l’amministrazione straordinaria può essere adottata solo quando ne ricorrano i termini definiti con precisione dalla legge. Il commissariamento della Bari è stato disposto quando le perdite hanno ridotto i livelli di capitale al di sotto dei minimi stabiliti dalle regole prudenziali. La discesa del capitale al di sotto dei minimi non si era registrata negli anni precedenti, nonostante le difficoltà della banca; è emersa solo a seguito dell’ultimo accertamento ispettivo effettuato nei mesi scorsi dalla Banca d’Italia…” Tutto ciò è stupefacente; per quanto già commentato in precedenza. Da un lato Bankitalia accerta situazioni di non conformità sin dal 2010, dall’altro lascia che la BPB faccia un’acquisizione di rilevante entità rimuovendo il divieto perdurante da diversi anni. A via Nazionale il concetto di tempestività deve essere proprio relativo. “…L’intervento del Fondo Interbancario e del Mediocredito centrale è volto a evitare scenari liquidatori e possibili perdite per i risparmiatori che detengono depositi e obbligazioni. Gli azionisti partecipano al capitale di rischio: il piano industriale definirà la misura dell’aumento di capitale necessario, le modalità di realizzazione e il coinvolgimento degli attuali azionisti. Ricordo che sono decine di migliaia di persone: la Banca d’Italia negli anni scorsi ha accertato — dandone informazione alla Consob, che ha irrogato sanzioni — irregolarità nell’adeguatezza degli investimenti della clientela; di questo si dovrà tenere conto…” In un mondo normale, Bankitalia avrebbe dovuto sapere che BPB, non avendo accesso al mercato degli investitori istituzionali per la sua forma cooperativa, sarebbe stata costretta a raccogliere capitali presso la propria base sociale e piccoli risparmiatori del territorio e quindi avrebbe dovuto porre, insieme alla Consob, un particolare presidio affinché fossero rispettate le regole sull’adeguatezza dei profili. Andava scritto sui prospetti a caratteri cubitali qualcosa simile di a "ATTENTI, IL FUMO UCCIDE". Non è possibile, commentare dopo, come un qualsiasi soggetto di passaggio, il disastro avvenuto e pensare di tenerne conto rifondendo gli azionisti truffati, ammettendo implicitamente di non aver sufficientemente vigilato. Da aggiungere inoltre che il FITD, nel suo comunicato specifica senza tanti giri di parole che il via libera al suo intervento è avvenuto solo perché, con la nomina dei commissari, c’è stata discontinuità nella gestione aziendale. Quale altro segnale si vuole ancora per avere conferma del fatto che quel vertice aziendale non avrebbe dovuto essere là da parecchio tempo addietro? “…Voglio sottolineare che noi abbiamo collaborato, stiamo collaborando e continueremo a collaborare con la Procura. Di questa indagine io sono all’oscuro, come lo è l’intera struttura della vigilanza e della consulenza legale della Banca d’Italia. Non intendo quindi commentare voci e illazioni…” C’è segreto d’ufficio da rispettare. Doveroso e comprensibile. “…il problema è che abbiamo un sistema di gestione delle crisi inadeguato. Per poter gestire una crisi non basta saperla prevedere, occorrono strumenti. Chiedo da tempo di intervenire a livello europeo con nuove norme. È necessaria una nostra presenza assidua nel dibattito europeo, che a sua volta richiede una continuità di natura politica che purtroppo non abbiamo. Come Governatore mi sono confrontato con sette ottimi ministri dell’Economia, mentre quelli degli altri Paesi erano quasi sempre gli stessi…” Su questo Visco non ha tutti i torti. In Europa continuiamo a manifestare solo subalternità ed accondiscendenza. Resta da capire se questo nostro stato dipende dal debole sostegno fornito dall’organo tecnico nelle trattative più delicate, come ebbe a dichiarare Matteo Renzi dopo le ultime crisi bancarie. “… Si fonda sulla fiducia, una fiducia che oggi si misura con lo spread ed è assurdo che noi abbiamo uno spread doppio rispetto a Spagna e Portogallo. Se il tasso d’interesse alto dipende da rischi di tipo sovrano bisogna eliminarli rapidamente. Ci vuole un impegno per una discesa del debito graduale ma progressiva e costante; soprattutto servono azioni strutturali di rilancio dell’economia. Come diceva Ciampi, non abbiamo rinunciato alla nostra sovranità ma abbiamo deciso di condividerla. Per avere successo dobbiamo essere lungimiranti, credibili, coerenti e capaci di dialogare con un’opinione pubblica incerta e che nella sua incertezza coinvolge tutta l’economia, compresa la Banca d’Italia..” La chiusura è intonata al resto dell’intervista. L’organo istituzionale che dovrebbe ridurre l’incertezza, che dovrebbe, per definizione, eliminare l’esistenza del rischio sovrano che dovrebbe essere limitato solo ad un rischio di tasso di interesse, ma non di insolvenza, commenta le distorsioni attuali dal punto di vista dello spettatore e non del protagonista che dispone delle leve per risolverle. Fino al punto da affermare che l’incertezza dell’opinione pubblica coinvolge anche la Banca d’Italia, che dovrebbe invece gestirla e ridurla. Sparecchiavo… Disse la figlia del Conte Mascetti.

Fabio Pavesi per affaritaliani.it il 9 gennaio 2020. Quel treno avviato in una folle corsa verso la distruzione, sotto la gestione “padronale” della famiglia Jacobini, andava fermato almeno 3 anni fa. E invece sulla Popolare di Bari si è traccheggiato. Ci si è affidati alla buona sorte, come se qualche magia potesse arrestare un dissesto conclamato già nel 2016. A dirlo tra le righe è il rapporto degli stessi ispettori di Banca d’Italia che a giugno del 2016 si mettono a setacciare la banca con il preciso mandato di verificare il “governo e la gestione del credito”. Devono cioè capire se e come la banca stima e classifica i prestiti tra quelli in bonis e quelli in sofferenza che si tramuteranno in perdite per l’istituto. Quel verbale ispettivo chiuso a novembre del 2016 era ovviamente all’attenzione del Direttorio di Banca d’Italia, ma non ha sortito effetti sostanziali. Pezzi di quei verbali sono ora sotto l’occhio della Procura di Bari e alcuni stralci sono stati pubblicati ieri da Il Sole 24Ore. Ebbene c’è un passaggio che oggi suona inquietante con il senno di poi e la dice lunga sull’inazione dei vertici di palazzo Koch. Il passaggio del verbale spiega che l’analisi di un campione di posizioni creditizie avrebbe fatto emergere “sofferenze per 1,9 miliardi, inadempienze probabili per 1,2 miliardi e previsioni di perdita per 1,6 miliardi”. E il rapporto prosegue: “Non sono stati sviluppati strumenti e metodologie per indirizzare l’erogazione del credito secondo criteri di redditività corretti per il rischio”. Affermazioni molto gravi che avrebbero dovuto lanciare più di un’allerta sulla gestione disinvolta del credito da parte dei vertici della Bari. E invece nulla accade. Nel bilancio 2016 lo stesso anno dell’impietosa quantificazione del reale peso delle sofferenze, la Bari scrive che le sofferenze lorde sono poco più di 1,3 miliardi, le inadempienze attorno al miliardo per un totale di crediti deteriorati lordi a 2,6 miliardi. Una valanga che da sola vale il 25% dell’intero portafoglio prestiti. In realtà secondo gli ispettori di Bankitalia sottostimati di almeno mezzo miliardo. Per gli ispettori infatti i crediti malati supererebbero i 3 miliardi. Ma il dato choc è nella previsione che formulano i detective di Visco. Da quella montagna di crediti senza ritorno c’è da aspettarsi un buco futuro di 1,6 miliardi. Il che vorrebbe dire che la Bari di fatto non aveva più patrimonio. Il patrimonio netto in quel lontano 2016 è di 1 miliardo e il capitale di base quello vero che conta ai fini dei requisiti di Vigilanza supera a malapena gli 850 milioni. Se però la banca dovendo prima o poi svalutare almeno la metà di quei 3 miliardi ha in pancia perdite future per 1,6 miliardi ecco che la distruzione di tutto il patrimonio della banca pugliese è nell’ordine delle cose. Di fatto se la banca avesse fatto pulizia vera sarebbe fallita già tre anni fa. Difficile poterselo permettere però. Solo 2 anni prima Bari si era sacrificata nel salvataggio di Tercas. E un nuovo crac nel pieno della crisi dei crac bancari italiani doveva risultare intollerabile. La beffa è che la banca si fa beffe della Vigilanza. Non solo fa spallucce rispetto alla sottostima delle sofferenze ma addirittura negli anni 2016 -2017 riduce ai minimi termini la svalutazione dei crediti malati. Nel 2016 le rettifiche sono solo di 81 milioni, noccioline rispetto alla mole di 1,55 miliardi di crediti malati netti. Nel 2017 pur con la zavorra di oltre 2,55 miliardi di prestiti malati lordi (sottostimati rispetto alle evidenze degli ispettori) le rettifiche sui crediti sono addirittura più basse, solo 66 milioni. Se questo vuol dire attenersi alle indicazioni della Vigilanza? Quasi uno schiaffo in faccia a Visco. E poi ecco il balletto tutto formale. Arriva il rapporto con gli ammonimenti cui segue la solita melina. Con la banca che riceve il rapporto ispettivo, manda le sue controdeduzioni alla Vigilanza e poi spiega a bilancio che ha tenuto conto delle osservazioni e ha messo in campo le idonee misure per ottemperare alle richieste etc etc…. è la parte più surreale dell’intera vicenda. Già vista altre volte in tutti i casi di banche fallite. La Vigilanza ci racconta che è dal 2010 che tiene sotto stretta osservazione la banca pugliese. Il clou è quel rapporto ispettivo del 2016 che di fatto mostra come la situazione sia sull’orlo del baratro. E invece passeranno altri tre lunghi anni prima che giunga finalmente il defenestramento degli Jacobini. Con in più lo smacco dell’arrocco della famiglia che nei fatti fa spallucce ai rilievi di Bankitalia. La difesa dell’Authority è che non ha poteri di polizia giudiziaria. Per quelli c’è la magistratura che infatti nelle sue indagini si avvale anche dei rapporti ispettivi della Vigilanza. Ma messo così l’assetto dei controlli sul sistema bancario fa acqua da tutte le parti. Prima che si intervenga a recidere il bubbone malato finisce che trascorrono anni rispetto a episodi conclamati di malagestio. E quando si interviene finisce che ormai è troppo tardi. Per i soci che a Bari dovranno mettere in conto perdite per 1,5 miliardi in valore azionario; per il sistema bancario che tramite il Fitd finisce per dover staccare assegni sempre più copiosi e per il contribuente che tramite il Tesoro deve metter quattrini per evitare il fallimento. Film troppe volte visto in Italia. 

Gianluca Paolucci per ''La Stampa'' il 10 gennaio 2020. Il capitale della Popolare di Bari, 442 milioni di euro diffuso fra circa 70.000 piccoli azionisti della Popolare di Bari, «si deve presumere sia stato perso», dice il presidente della Consob, Paolo Savona. Effetto ovvio di una crisi profonda che si trascina da troppo tempo. Bankitalia, per bocca della vice direttrice generale Alessandra Perrazzelli, apre però a forme di ristoro per i risparmiatori. Mentre la stessa Perrazzelli avvisa sui rischi ancora presenti per le banche del Sud, piccole e medio piccole, alle prese con un contesto economico di grande difficoltà. In questo contesto, c' è da aggiungere che gli 1,4 miliardi previsti finora per la Popolare di Bari potrebbero non essere sufficienti. Tutto dipenderà dall' ammontare delle svalutazioni sui crediti che verranno effettuate dai commissari. Ma, si spiega in ambienti bancari, difficilmente la somme prevista finora potrà essere sufficiente per la «messa in sicurezza» definitiva dell' istituto pugliese. Di certo c' è che i 310 milioni di euro arrivati dal Fondo interbancario a fine anno sono appena sufficienti a ripristinare i requisiti minimi di capitale per poter operare. E che la pulizia dei conti dovrà essere radicale per poter assicurare una ripartenza dell'istituto. Principale banca del Sud e indispensabile polmone finanziario per l' imprenditoria della regione e non solo. Savona, durante la sua audizione alla commissione finanza della Camera, parla anche di rischi anche per i sottoscrittori di bond subordinati pari a 291 milioni.

L' obiettivo del piano industriale, atteso per aprile dopo la due diligence cui lavorano i commissari straordinari Antonio Blandini ed Enrico Ajello, è la trasformazione in spa e una ricapitalizzazione annunciata da 1,4 miliardi di euro, con un contributo del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) che arriverà fino a 700 milioni (compresi i 310 già impegnati a dicembre) e uno di Invitalia tramite Mcc ancora da quantificare. Bankitalia, rappresentata nella stessa audizione dalla Perrazzelli, auspica che entrino soggetti esterni: «Altre banche del territorio, investitori non bancari, partner industriali» e i commissari «sono già al lavoro per individuare controparti interessate». Occorre infatti che nel salvataggio della Bari entrino capitali privati e sia definita la copertura delle perdite pregresse - che presumibilmente cadranno in buona parte sul Fitd - dal momento che Mcc non potrà farvi fronte essendo soggetto di diritto pubblico. Oltre alle perdite prevedibili per la dismissione a sconto degli Npl, e per la probabile revisione delle rettifiche fatte dal precedente management accusato da più parti di maquillage contabile, l' aumento di capitale servirà a riportare in linea con i criteri europei il capitale di vigilanza, tuttora ai minimi, con un impatto sugli azionisti già scesi sul piede di guerra per le modalità con cui furono collocate azioni e bond subordinati al pubblico retail. «Andranno comunque individuate forme di ristoro per i casi di comportamenti scorretti registrati durante gli ultimi aumenti di capitale», ha spiegato Perrazzelli.

Pop Bari, il sindaco da 14 anni e quella transazione «last minute». Mario Gerevini il 21 dicembre 2019 su Il Corriere della Sera. Modestino Di Taranto, 66 anni, è stato nella Banca Popolare di Bari (Bpb) per 30 anni. Impiegato? Azionista? No. Questo signore, da una vita dipendente della Provincia di Foggia, dal 1989 fino a luglio scorso è stato nel consiglio di amministrazione della più grande banca del sud. E adesso si starà chiedendo frastornato: Che cosa è successo? E noi gli chiediamo: Dove è stato per 30 anni? Ma l’sms inviatogli sul telefonino non ha risposta. Appartiene, il quasi pensionato foggiano, alla categoria degli amministratori che fanno numero annuendo, quasi sempre bravissime e innocue persone di cui si circondano i leader. Fabrizio Acerbis, invece, è un vero tecnico: ufficio a Milano, socio e partner di Pwc, il grande gruppo di servizi finanziari e di revisione, lui è il numero uno in Italia del servizio di consulenza legale e fiscale. Per 14 anni è stato sindaco della Popolare Bari, quindi uno dei controllori. E negli ultimi 10 anni i bilanci della banca sono stati certificati proprio dalla Pwc, l’altra sponda dei controllori. Abbiamo cercato anche Acerbis per chiedergli, da super esperto qual è, «che cosa è successo», se fosse compatibile il doppio ruolo di sindaco e partner della società di revisione e come mai le relazioni dei sindaci non avessero rilevato la situazione disastrosa della banca. Attraverso un collega di Pwc ha fatto sapere di non voler dire nulla. Le bizzarrie della governance hanno contribuito a saldare l’indisturbato potere quarantennale di Marco Jacobini. Ora che insieme al suo staff ha lasciato un conto miliardario in carico allo Stato, l’ex numero uno si può dedicare all’ippica, cioè ai suoi cavalli da salto e ai bovini da bistecca che alleva in campagna insieme alla moglie e 8 dipendenti, nella Masseria Donna Giulia. Se mai un giorno dovesse essere avviata un’azione di responsabilità contro i vertici, anche stalle e terreni agricoli potrebbero essere un obiettivo. Nella società di brokeraggio assicurativo di famiglia, la Gt Broker, Jacobini, che è un agente Allianz, non ha una sola azione: il 100% è della moglie. Mentre a Napoli la Fondazione Banco Napoli trema pensando ai 23 milioni di euro in bond Bpb che ha in bilancio, a Bari i commissari staranno districandosi nel reticolo di legami e partecipazioni che, per esempio, ha portato la Bpb a detenere, quote nella società di Arezzo dove la vecchia Popolare Etruria aveva messo i suoi immobili. O nella Assicuratrice Milanese (9,5%) di Gianpiero Samorì. O in Vivibanca (9,9%). O a prendere in affitto a Treviso, mettendoci una filiale, un immobile di proprietà della moglie di Massimo Bianconi, il manager che ha portato al crac Banca Marche. Nel frattempo potrebbe chiarirsi un passaggio legale di non poco conto: la decisione a metà novembre dei legali della Bari di ritirare la costituzione di parte civile (e quindi rinunciare al risarcimento in caso di condanna) nel processo romano sul crac Tercas contro gli ex vertici Lino Nisii e Antonio Di Matteo. «È stata fatta una transazione», dicono lapidariamente dallo studio Sisto di Bari.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 7 gennaio 2020. Nella storia, appena cominciata, della caduta degli dei di Banca popolare di Bari ci sono tre aspetti ancora tutti da raccontare. E un numero, 300 milioni di euro, spicciolo in meno, spicciolo in più, del quale si parlerà per molto tempo in futuro. Gli aspetti sono quelli che hanno già provocato il crollo degli istituti di credito in Italia: operazioni "baciate", affidamenti generosi e prezzo delle azioni completamente fuori mercato. Il numero è invece la somma che la banca sicuramente sapeva di non poter più riavere - perché crediti ormai deteriorati - e che invece continuava a portare a bilancio nella speranza d salvarsi.

Le operazioni "baciate". Dopo l' acquisizione dell' abruzzese Tercas, Popolare di Bari ha fatto ricorso a un massiccio aumento di capitale. Molte delle azioni messe sul mercato sono state comprate da azionisti in buona fede. In molti casi - questo per lo meno è il sospetto della procura di Bari che su Popolare ha in piedi un' indagine ampia e delicata - non sufficientemente informati del rischio al quale si stavano sottoponendo. In altre situazioni, però, ad acquistare le azioni sono stati imprenditori esposti in maniera importante con l' istituto di credito. Ai quali veniva chiesto (o imposto) di impegnare parte del credito ricevuto in azioni della banca. Da una stima effettuata dagli organi di vigilanza, si tratta di circa 50 milioni di euro di titoli che sono stati pagati con fondi propri della banca. E, dunque, fittiziamente messi sul mercato. Il prezzo delle azioni e i risparmiatori fortunati La Corte di appello di Bari, con tre sentenze, ha recentemente messo nero su bianco che l' allora consiglio di amministrazione della Banca non abbia considerato «il rischio di mercato» e abbia dato un prezzo, prima, e poi un livello di rischio, alle azioni emesse diverso rispetto a quello corretto. E questo nonostante report li invitavano a muoversi direttamente. Per questo, la Corte d' Appello ha confermato le sanzioni inflitte dalla Consob agli allora amministratori. Ma c' è dell' altro. Perché il tribunale di Bari ha messo nero su bianco anche un' altra verità. E cioè che alcuni azionisti sono stati preferiti ad altri quando è stato possibile vendere azioni comprate a più di 7 euro e che ora, invece, sono poco più che carta straccia. «La disciplina interna alla banca scrivono i giudici - non prevedeva un' adeguata formalizzazione della data e della provenienza degli ordini ». «Tra 95 rapporti analizzati, in ben 12 (il 12,6% del campione) gli ordini erano stati emessi tardivamente ». Insomma «la procedura non garantiva l' oggettivo rispetto della priorità temporale degli ordini di vendita».

Gli amici della banca. Ma chi ha goduto di queste "distrazioni"? Secondo la Procura uno degli avvantaggiati dall' ordine di vendita è stata la società del presidente pugliese di Confindustria, Domenico de Bartolomeo. Che però invece i giudici civili ritengono sia stata danneggiata: aveva chiesto di vendere azioni per quattro milioni di euro, per coprire un finanziamento, ma la richiesta aveva avuto esecuzione soltanto otto mesi dopo. D' altronde di grandi "esposti" con azioni in pancia, in Popolare di Bari ce n' erano tanti: alcune società del costruttore Parnasi, o l' imprenditore del mobile Piergiorgio Cattelan, il cui nome, proprio per le operazioni "baciate", torna anche nella storia delle banche venete. Ci sono poi gli affari finiti male. La storia del gruppo Fusillo è emblematica: nonostante un buco da più di 100 milioni, e i libri in tribunale nella speranza di un concordato preventivo, la Popolare (e per questo ora sono indagati in tre, tra cui Gianluca Jacobini e l' ex direttore generale Giorgio Papa) provò a concedere un altro finanziamento da 40 milioni agli imprenditori pugliesi. Difficile anche la posizione di Popolare nella vicenda Gazzetta del Mezzogiorno, il giornale della città. La banca ha in pegno le azioni per 37,7 milioni ma la società che controlla il giornale la Edisud - è in concordato. Per la Popolare non è stato lungimirante nemmeno aiutare l' ex presidente del Bari, Cosimo Giancaspro: squadra fallita e lui arrestato per bancarotta.

Rosario Dimito per “il Messaggero” il 31 dicembre 2019. Ora è ufficiale. Il Fondo Interbancario tutela depositi (Fitd) ha deliberato di versare, come anticipato ieri da Il Messaggero, in conto futuro aumento di capitale della Popolare di Bari, 310 milioni per riportare il coefficiente patrimoniale Cet1, al 31 dicembre 2019, su una soglia di sufficienza (circa 7%) evitando la messa in liquidazione. «Sono molto soddisfatto della decisione che riguarda una situazione oggettivamente complessa e tuttavia l' intervento iniziale del Fitd prospetta reali possibilità di soluzione», dichiara al Messaggero il presidente del Fondo Salvatore Maccarone che ha avuto l' abilità di trovare una sintesi rispetto alle diverse posizioni delle banche. Tutte unite a contenere l' esborso. L' intervento è stato elevato in zona Cesarini da 300 a 310 milioni perchè Bankitalia avrebbe accertato che, senza gli ulteriori 10 milioni, a gennaio 2020 si sarebbe aperto un nuovo shortfall di capitale a causa dei principi contabili Ifrs9. La decisione è stata presa ieri pomeriggio, all' unanimità, dopo le riunioni del comitato di gestione del Fondo che ha fatto la proposta al consiglio: in tutto, in meno di tre ore di discussioni anche accese, con moltissimi consiglieri in videoconferenza, è stata recepita la richiesta di venerdì 27 dei commissari Enrico Ajello e Antonio Blandini apportando, però, alcune modifiche. L' iniezione urgente «costituisce una misura di carattere anticipatorio nel quadro di un più ampio progetto di rafforzamento patrimoniale di 1,4 miliardi da realizzare nei prossimi mesi», si legge nel comunicato diffuso al termine. In questo contesto il Fitd ha assunto l' impegno di concorrere al rafforzamento fino a 700 milioni, mentre l0altro partner del salvataggio, Mcc ne dovrebbe versare altri 700. Oggi si riunisce il cda della banca pubblica del Mef guidata dall' ad Bernardo Mattarella per deliberare l' adesione a un accordo quadro su Bari. Questo accordo quadro che verrà sottoscritto dalle parti (oltre Fitd e Mcc anche dai commissari) disegnerà i passi successivi da compiere per il risanamento «al fine di addivenire alla configurazione dell' assetto complessivo dell' operazione e porterà alla stesura di un piano industriale sulla base di una approfondita valutazione di attivi e passivi».

IL PIANO. La manovra è subordinata ad alcune condizioni, sollecitate dalle banche. Innanzitutto la nomina in tempi strettissimi di un dg, di gradimento degli istituti che assuma la gestione della banca pugliese visto che i commissari non hanno competenze specifiche. C' è chi ritiene che il papabile possa essere preso nella rosa predisposta da Spencer Stuart per Carie. Poi la Popolare di Bari dovrà convocare un' assemblea straordinaria, possibilmente entro marzo-aprile, per la trasformazione in spa. Per quel periodo dovrà essere pronto il nuovo piano industriale di cui i commissari con l' ausilio del proprio advisor Oliver Wyman, di quello del Fondo (Kpmg) e di Mcc (Equita) hanno presentato le prime linee guida. Questa bozza ha durata 7 anni, ma le banche lo hanno respinto perchè troppo lungo, invitando a predisporne un altro a 3-5 anni. Secondo questa bozza, l' istituto barese dovrebbe tornare all' utile quasi a regime, dopo una cura da cavallo che prevederebbe esuberi pari al 30% dei dipendenti e la chiusura di un numero di filiali di circa 100-120. Non ci sarebbe alcun riferimento alla creazione della banca del mezzogiorno su cui insiste M5S attraverso un processo di integrazione di Bari e altre 6-7 popolari pugliesi attorno a Mcc. Ma queste evoluzioni riguarderanno i prossimi anni. «L' intervento del Fitd assicura stabilità al gruppo e tutela dell' occupazione, adesso serve un salto di qualità con figure di altissimo livello. Per eventuali esuberi a Bari solo pensionamenti e prepensionamenti volontari» è il monito di Lando Sileoni, leader della Fabi.

Popolare di Bari, scattano gli arresti per il crac: in manette il patron Jacobini e il figlio. Svolta nell'inchiesta sul disastro dell'istituto di credito meridionale. Ipotizzati i reati di falso in bilancio e l’ostacolo alla attività di vigilanza. Coinvolto anche l'ex delegato de Bustis. Una vicenda che L'Espresso denuncia dal 2016. Vittorio Malaguti il 31 gennaio 2020 su L'Espresso. La svolta nelle indagini sulla Popolare di Bari attesa da settimane è infine arrivata questa mattina. Marco Jacobini, per due decenni padre padrone dell’istituto di credito in grave crisi e salvato sull’orlo del crack grazie all’intervento del governo e del fondo di garanzia bancario, è stato arrestato all’alba insieme al figlio Gianluca, che prima del commissariamento della Popolare, disposto a dicembre, ricopriva l’incarico di vicedirettore generale. Entrambi i manager andranno ai domiciliari. Coinvolto nell’inchiesta anche l’ex amministratore delegato Vincenzo de Bustis. Per lui è stato disposto un provvedimento di interdizione per un anno dalle funzioni bancarie e dalla dirigenza di società. L’indagine del Procuratore aggiunto Roberto Rossi e del sostituto Federico Perrone Capano, in corso ormai da oltre due anni, ipotizza i reati di falso in bilancio e l’ostacolo alla attività di vigilanza e conta in totale altri sette indagati oltre ai tre esponenti del vertice aziendale colpiti dalle misure cautelari. Tra questi anche Giorgio Papa, che ai primi di dicembre del 2018 lasciò il posto di amministratore delegato a De Bustis. La gestione degli Jacobini ha portato di fatto al dissesto della banca che per evitare la liquidazione dovrà trovare almeno 1,4 miliardi. Il denaro sarà garantito in parte dal Fondo interbancario di garanzia e in parte dalle casse pubbliche, che finanzieranno l’ingresso come socio dell’istituto pubblico Mediocredito centrale. Prima del commissariamento deciso da Banca d’Italia lo scorso 14 dicembre, la Popolare di Bari aveva navigato in acque agitate per anni, accumulando perdite in bilancio per centinaia di milioni e azzerando il valore delle azioni acquistate dai 70 mila soci dell’istituto, in gran parte piccoli risparmiatori. Sotto accusa è finito anche il ruolo della Vigilanza di Banca d’Italia che secondo i critici non sarebbe intervenuta per tempo rimuovendo gli Jacobini dalle poltrone di vertice. Come L’Espresso aveva raccontato fin da novembre del 2016 , fu in particolare l’acquisto di Tercas, una banca abruzzese in dissesto e commissariata rilevata nel 2014, a caricare il bilanci della Popolare Bari di una zavorra di spazzatura finanziaria, in particolare crediti a rischio, rivelatasi in definitiva impossibile da smaltire. L’operazione d’acquisto venne a suo tempo sponsorizzata dalla Banca d’Italia che mirava a evitare la liquidazione di Tercas e non riusciva a trovare altri acquirenti sul mercato dopo il passo indietro del Credito Valtellinese, che pure aveva valutato l’intervento. Gli oneri dell’acquisizione dell’istituto abruzzese si sono sommati alla spericolata gestione degli Jacobini che hanno continuato a finanziare imprese a rischio crack come il gruppo Fusillo, in ciris da anni, debitore per oltre 100 milioni e fallito a settembre dell’anno scorso. Nel tentativo di salvare il salvabile a dicembre del 2018 era stato richiamato al vertice De Bustis, già indagato all’epoca, che aveva guidato la banca pugliese tra il 2011 e il 2015.

Popolare di Bari, arrestati Jacobini padre  e figlio. Interdetto De Bustis. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo. Nonostante la banca sia commissariata dallo scorso 13 dicembre, secondo il giudice dal «quadro generale appare evidente che la struttura della banca è ancora sottoposta al controllo di fatto della famiglia Jacobini e dei soggetti per i quali si è chiesta la misura. Appare pertanto necessario e urgente impedire che tale potere illecito impedisca il risanamento della Banca con i devastanti effetti sull’economia meridionale. In particolare il potere di fatto della struttura imprenditoriale impedirebbe l’emersione dei dati contabili (in particolare la situazione dei crediti falsamente classificati come in bonis) necessari per identificare le cifra necessarie per il risanamento della banca». Si spiegano così le esigenze cautelari: «Tale situazione, anche considerati i fatti che concernono gli illeciti connessi alla Banca popolare di Bari, pone gli indagati non solo in condizione di poter potenzialmente reiterare i reati contestati, ma anche di poter eventualmente porre in essere condotte tese ad un inquinamento probatorio». Tra gli elementi presi in considerazione anche lo spostamento di fondi effettuati da Jacobini padre e figlio (per oltre 5 milioni di euro) da conti della Popolare Bari ad altre banche prima del commissariamento: «Trattasi — scrive il giudice — di operazioni poste in essere dagli indagati nella imminenza della formalizzazione del Commissariamento della Banca Popolare (e tutt’ora in corso) che dimostrano l’intenzione di sottrarre i profitti illeciti ad eventuali operazioni di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria, procedendosi nei loro confronti per reati per i quali è possibile la confisca dei profitti anche per equivalente. In particolare, per Marco Jacobini emergono profili di responsabilità in ordine a condotte di auto riciclaggio, non essendosi lo stesso limitato a trasferire il denaro su conti correnti accesi presso altre banche (intestati a se medesimo e /o al coniuge ) ma avendo impiegato in attività economiche, finanziarie e imprenditoriali il denaro proveniente dai delitti per i quali risulta indagato». Per il giudice, inoltre, «Gianluca Jacobini continua ad avere un ruolo formale all’interno della Banca popolare e in particolare in una controllata (dall’8 agosto 2019 è consigliere della Cassa di risparmio di Orvieto)» ed «Elia Circelli è ancora responsabile della redazione dei bilanci e che pertanto è presumibile che cercherà di nascondere i dati contabili al fine di evitare che emerga la falsità dei precedenti bilanci». Il giudice rileva anche che il coindagato Luigi Jacobini (componente della famiglia Jacobini) è ancora attualmente dirigente della Banca Popolare di Bari e «che l’attualità del potere di fatto della famiglia Jacobini è stata ribadita dalle dichiarazioni dell’ex amministratore delegato Giorgio Papa il quale ha confermato nell’interrogatorio del 7 novembre 2019 che la gestione dell’istituto bancario era nelle mani di Marco Jacobini e Gianluca Jacobini». Inoltre, «il requisito della concretezza che gli indagati pongano in essere condotte illecite analoghe a quelle gravissime per le quali si procede si desume agevolmente non solo dalla gravità degli addebiti, ma anche e soprattutto dalla particolare intensità del dolo che li ha determinati; dalle modalità di esecuzione delle singole condotte criminose, sintomatiche di elevatissima propensione a delinquere dalla personalità degli indagati che si presta ad una valutazione estremamente negativa a dispetto della condizione di soggetti incensurati dalla serialità delle condotte addebitate, protrattesi con preoccupante regolarità fino ad epoca piuttosto recente». Nelle carte giudiziarie emerge «l’intenzione dei vertici della Banca popolare di Bari di indurre in errore la Banca d’Italia sulla reale situazione gestionale della banca e, in particolare, sul profilo della governance del gruppo. Nonostante gli indagati avessero nel corso degli anni ribadito la propria intenzione di porre fine alle situazioni di “conflitto di interesse”, in occasione delle risposte fornite agli specifici rilievi di Banca d’Italia,“temporeggiavano” e “procrastinavano” sine die la soluzione del problema del cumulo delle cariche sociali in capo ai tre membri della famiglia Jacobini». «Dalla lettura degli atti societari — si legge ancora nelle carte — è possibile evincere come gli uffici di presidenza fossero a tal punto preoccupati di perdere la “leadership” del gruppo bancario — scelta più volte auspicata e sollecitata dalla Banca d’Italia — da indurli a redigere, di volta in volta, controdeduzioni dirette all’Organo di Vigilanza, tali da fornire l’apparenza di una modifica della struttura di governance, rilevatesi, in concreto, mai sostanziale e solo apparente». «La Banca d’Italia — è però ancora evidenziato — a fronte di un’inerzia protrattasi per diversi anni, qualora non indotta in errore dalle plurime false comunicazioni trasmesse, avrebbe potuto ai sensi dell’art. 53-bis, comma 1, lettera e) del TUB, provvedere alla rimozione di uno o più esponenti aziendali qualora “la loro permanenza in carica fosse di pregiudizio per la sana e prudente gestione della banca.” E che vi fosse un’esigenza in capo al presidente Marco Jacobini di procrastinare le determinazioni definitive in ordine al cambio delle nomine e, nel contempo, di “rassicurare” Banca d’Italia sull’esigenza di far fronte a breve termine a tale adempienza, emerge anche dal contenuto di alcune conversazioni telefoniche intercettate». Una, in particolare, del 14 marzo 2017, viene evidenziata dalla carte, con un esponente di cui è omesso il nome: «No Dottore, il problema è questo, noi c’abbiamo un momento un po’ particolare, che devo dire la verità si sta tranquillizzando, nel senso che noi abbiamo avuto, a parte l’ispezione dell’anno scorso, abbiamo avuto anche a metà dicembre un accesso che — diciamo — ha fatto un po’ scalpore. Devo dire che tutto nonostante le cose si stanno mettendo a posto. Noi abbiamo un’assemblea tra due settimane, nella quale abbiamo quattro scadenze di consiglieri, tra cui c’è la mia. Noi abbiamo anche come programma di mettere subito dopo un consigliere istituzionale, perché noi abbiamo in… mercato Italia abbiamo Aviva, e quindi mi sembra giusto mettere una persona che rappresenti Aviva, e abbiamo bisogno anche di mettere un qualcuno, Dottore, che sia un po’ addentro al mercato dei capitali, perché l’esigenza che io ritengo abbia la banca in questo momento, è sicuramente un aumento di capitale, e siccome, come lei mi disse a suo tempo, l’aumento di capitale è una cosa che può riguardare soltanto fondi e sicuramente non più il retail, abbiamo bisogno di avere anche un qualcuno, che poi… che possa fare il Presidente, che sia una persona che sia un po’ addentro a questo tipo di mercato, perché noi ne siamo sempre stati fuori, diciamo che viviamo in un mondo che non è assolutamente quello giusto per fare questo mestiere e quindi abbiamo bisogno di avere anche, non dico una guida, perché non è corretto il termine, ma di avere qualcuno che abbia i contatti giusti per poter ragionare in termini di mercato di capitali, perché l’esigenza della banca in questo momento, come lei mi insegna, è quella di rafforzare ulteriormente il capitale. Questo era quello che io volevo rappresentarle, e le volevo rappresentare anche un’altra cosa, che in un momento molto complesso come questo, se non fosse… se lei… se lei acconsentisse, Dottore, perché io sto sempre a quello che mi dice lei, io mi potrei fermare ancora quattro o cinque mesi, fino alla trasformazione, se arriva questa benedetta trasformazione, dalla quale ci divide soltanto il diritto di recesso, perché nel momento in cui abbiamo chiaro il diritto di recesso la facciamo, anche se dovesse avere… avesse… dovessimo avere tempo fino al 2018, io la faccio immediatamente nel momento in cui il diritto di recesso viene chiarito. Se questa cosa dovesse durare del tempo, io vorrei accompagnare la banca ancora quattro o cinque mesi fino a Settembre, o fino al momento in cui andrà bene per lei, e chiudere… e chiudere la partita nella maniera giusta e corretta, solo questo».È evidente — è evidenziato ancora nelle carte — come dalla lettura della conversazione, intervenuta pochi giorni prima della consegna della lettera riservata del 15 marzo 2017 e del rapporto ispettivo del 21 marzo 2017, emerga la preoccupazione del presidente Marco Jacobini di informare il capo della Vigilanza della propria intenzione di posticipare, ancora una volta, le proprie dimissioni, nella piena consapevolezza che tale dato, in realtà, era stato più volte ritenuto da Banca d’Italia direttamente incidente sui profili di “sana, trasparente e prudente” gestione del gruppo. A fronte della comunicazione da parte di Marco Jacobini della sua volontà di ricoprire il ruolo fino alla data della trasformazione o comunque per altri quattro/cinque mesi, in realtà, il Capo della Vigilanza ribadiva la necessità che lo stesso prendesse contezza del contenuto della lettera riservata e che assumesse le proprie determinazioni solo dopo averne conosciuto il contenuto. Nonostante, dunque, il presidente Jacobini avesse preso atto, dopo sette giorni dalla conversazione telefonica (il 21 marzo 2017, per l’appunto), delle richiesta del Servizio di Vigilanza di provvedere al cambio della presidenza, perseverava nel non dare seguito a tale richiesta, giungendo in sede di redazione delle controdeduzioni (05.05.2017), a ribadire l’intenzione di dimettersi dal ruolo solo all’esito del procedimento di trasformazione della Banca popolare di Bari in spa».Dall’analisi dei documenti a disposizione «spicca, in tale contesto, l’importo percepito da Marco Jacobini, pari a 3.059.000 di euro che appare, a prima vista, smisurato soprattutto con riferimento alle funzioni svolte all’interno della banca e, in particolare, se rapportato alla situazione di grave dissesto patrimoniale della banca. Va ricordato qui che il compenso del Marco Jacobini è oggetto di uno dei reati di ostacolo alla vigilanza precedentemente contestati». «Dall’esame del prospetto riepilogativo relativo alle retribuzioni percepite nel periodo dal 2011 al 2018dai membri della famiglia Jacobini (Marco, Luigi e Gianluca) — si legge ancora nelle carte — emerge che gli stessi percepivano retribuzioni complessive pari ad oltre 10 milioni di euro (ripartite per i vari anni), tutte gravanti sui bilanci societari e senza che si registrasse un ridimensionamento di tali retribuzioni a seguito dei rilievi sul punto formulati dagli organi di vigilanza, così come in precedenza evidenziato». Un ruolo fondamentale nelle inchieste condotte dal procuratore Giuseppe Volpe, dall’aggiunto Roberto Rossi e dai pm Federico Perrone Capano e Lanfranco Marazia ha avuto la testimonianza di Luca Sabetta dopo la denuncia presentata il 12 luglio del 2016 in seguito a una diagnosi di una sindrome da disturbo post-traumatico reattivo ad eventi lavorativi stressanti. Dovuta, come certificato dalla Asl di Taranto, dalle condizioni di lavoro stressanti, dalla coercizione organizzativa subìta, dagli atti persecutori protrattisi nel tempo e dal trauma del licenziamento. Da «maltrattamenti ed estorsioni», insomma. Sabetta — si legge nelle carte — «è stato iniquamente ed ingiustificatamente relegato, attraverso pressioni ed intimidazioni, ad una situazione di pressoché totale inattività, privato di qualsivoglia mansione lavorativa generando nello stesso una profondo senso di umiliazione professionale e personale. Sabetta evidenzia di essere stato vittima degli artifizi e raggiri posti in essere dai legali rappresentanti della Banca popolare di Bari al fine di occultare le reali intenzioni dell’istituto di credito e inducendo lo stesso ad accettare la proposta di lavoro quale vertice della funzione Controllo rischi, Chief risk officer, alla quale non seguirà mai l’attribuzione di effettivi gestione e controllo». Sabetta era stato assunto nell’ottobre del 2013 proveniente dal Banco Popolare di Verona. Ma «dopo la sua formale assunzione, non verrà mai messo nelle condizioni di svolgere in concreto e al meglio il proprio compito». Per ben due mesi dall’assunzione «non veniva effettuata alcuna pubblicità interna che ufficializzasse tale nomina né il Sabetta veniva presentato personalmente ad alcuno dei componenti del consiglio di amministrazione, né al collegio sindacale». A un certo punto — dopo non essere mai stato invitato nei diversi incontri tra Banca Popolare di Bari e Banca d’Italia o Consob (incontri nei quali si discuteva anche la candidatura di Banca Popolare di Bari per l’intervento nei salvataggio del Gruppo Tercas - Cassa di Risparmio di Teramo, in quel momento, fine 2013, in amministrazione straordinaria da oltre 18 mesi) — «Sabetta si lamenta con il direttore generale: “Scusa, francamente non capisco perché viene invitato il mio vice e non vengo invitato, non vengo coinvolto io. Come devo prendere questa cosa?”. Il dottor De Bustis mi dice: “No, non ti preoccupare, è una prassi di...”... Ehm... L’ha chiamata gestione della... della... di... Ecco! ...di preservazione del Chief risk officer». Il 15 novembre del 2013, però, De Bustis gli spiega «che la Banca popolare di Bari era intenzionata ad adibirlo al ruolo di responsabile della finanza e dei mercati presso la Banca Tercas, una volta che il gruppo Banca popolare di Bari ne avesse assunto il controllo e di conseguenza a dimetterlo dalla posizione di chief risk officer, assunta da poco più di un mese e mai pienamente esercitata». Quel giorno, però, Sabetta si era recato a casa di De Bustis, dove era stato convocato, con un registratore. Circa un mese dopo, il 13 dicembre 2013, De Bustis comunicò a Sabetta «di essere stato informato dal responsabile del dipartimento di vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, Carmelo Barbagallo, dell’esistenza di un conflitto di interesse tra Sabetta quale Chief risk officer e lo stesso De Bustis in qualità di direttore generale in virtù del fatto che i due avessero lavorato insieme in passato in alcune aziende (Banca del Salento-Banca 121 e Monte dei Paschi di Siena) e indicava pertanto agli esponenti della Banca presenti a quell’incontro con l’altissimo vertice della Vigilanza di Banca d’Italia, la necessità di una immediata risoluzione del conflitto di interessi». Ma «le dichiarazioni precise, coerenti e ampiamente riscontrate dalla documentazione in atti della persona informata sui fatti Sabetta — si legge nel provvedimento — disegnano un quadro nel quale il gruppo dirigente della Banca popolare di Bari, al fine di mantenere il controllo dell’istituto bancario e la gestione illecita dello stesso, ha creato una apparente figura professionale di controllore dei rischi con potere di veto sulle operazioni bancarie; falsamente informato la Banca d’Italia sul superamento delle criticità evidenziate con l’assunzione di una qualificata figura professionale controllore dei rischi con potere di veto sulle operazioni bancarie; esautorato (all’insaputa della Banca d’Italia) Sabetta da ogni potere e funzione impedendogli ogni controllo sulle operazioni finanziarie (con i relativi rischi per la stabilità della Banca popolare); mobbizzato con minacce di ogni tipo Sabetta al fine di perseguire il profitto illecito descritto, instaurando persino un procedimento disciplinare a carico del suddetto dirigente, con contestazioni pretestuose e volte all’esclusivo fine di coartare la sua volontà e a ottenere un suo allontanamento definitivo dall’istituto e una rinuncia alla proprie pretese; falsamente informato la Banca d’Italia in ordine al superamento dei rischi relativi ai crediti incautamente concessi».C’è poi una telefonata che dal provvedimento emerge come degna di menzione: la fa Marco Jacobini con la moglie Giulia, parlando di Banca d’Italia e del futuro dei figli: Marco dice che «è andata benissimo e che terza persona (Barbagallo) ha detto per quanto attiene l’ispezione, di attendere che l’ispezione gli arriva e che devono fare un cambio, cioè Gianluca deve fare l’amministratore delegato altrimenti la banca se ne va a puttane, Papa diventa presidente e lui fuoriesce diventando presidente onorario». Marco aggiunge «che gli ha detto parole importanti». Giulia chiede «come mai non poteva rimanere lui presidente». Marco «dice di no, per via degli attacchi sui giornali, e Gianluca è bravo e l’importante è che ci sia una prosecuzione e che lui ha sempre pensato al domani della banca e se continuano a non saper chi comanda è un problema». Ma la moglie Giulia chiede dell’altro figlio, Luigi. «Luigi rimane là... loro hanno avuto grande espressione di... lui ha avuto...Barbagallo... di cose con Luigi...e poi ho detto purtroppo Luigi lo cercano anche fuori». Marco dice che Luigi rimarrà al suo posto e che lo cercano anche fuori, lo cercano a Cedacri. Giulia dice che lui si chiama Luigi Jacobini, come il nonno fondatore della banca. E Marco risponde « che lui si chiama Luigi Jacobini, ma se va a fare l’amministratore delegato di Cedacri non è poco e che questa è una cosa di importanza notevolissima e che non è stata una cosa facile per lui ma il cui risultato è eccezionale». Marco aggiunge che non avrebbero dovuto far entrare i figli, «ma nessuno ha voluto fare l’assicurazione». Giulia dice che non è d’accordo che Luigi vada fuori. Marco replica che deciderà Luigi cosa fare, «ma è un punto in più per lui, è una cosa di grande onore per lui». A un certo punto Giulia chiede quanto guadagnino i figli e Marco risponde che guadagnano uguale, «ma quando scala Gianluca guadagnerà di più e nei momenti bollenti è andato a Londra e significa avere dedizione totale al lavoro come fa Gianluca». Uno dei momenti chiave della storia recente della Banca popolare di Bari è l’aumento del capitale sociale funzionale alla decisione di salvare Banca Tercas. Necessario anche, secondo quanto emerge dalle carte, «al fine di convincere Bankitalia a eliminare la sanzione del blocco e in qualche modo di acquisire un credito morale nei confronti della vigilanza. Lo scopo della famiglia Jacobini e dei dirigenti della Banca — come emerge chiaramente dalle intercettazioni — è quello di mantenere intatto il potere di gestione della banca a spese degli azionisti. Le false informazioni fornite sono quindi volte a convincere i risparmiatori a comprare azioni e a permettere alla Banca popolare di Bari di ampliare il suo raggio di azione. Poco importa se da quel momento le azioni sono diventate illiquide e hanno perso rapidamente di valore. Tanto hanno pagato gli ignari risparmiatori. Infatti, le informazioni contenute nel prospetto sono totalmente fuorvianti. Assolutamente non chiariscono quali rischi comportava l’acquisto Tercas (soprattutto in relazione ai tempi necessari per l’integrazione) e soprattutto identificavano un prezzo dell’azione posto nella fascia alta senza tenere conto dei criteri di determinazioni previsti dalle scienze aziendali. Quello che è successo dopo (illiquidità delle azioni e crollo del prezzo) è avvenuto non per inaspettate situazioni ma per effetto della fusioni». È allora che arrivano le sanzioni Consob all’esito, soprattutto, dell’ispezione di Bankitalia che ha ravvisato carenze nel Prospetto 2014 e nel Prospetto 2015, in relazione alla mancata rappresentazione di informazioni complete concernenti la determinazione del prezzo di offerta delle azioni della Banca popolare di Bari. E così viene contestato il falso in prospetto: «Da una parte la drammatica situazione di Tercas (testimoniata dalle analisi delle due diligence che ripetutamente affermano non solo la situazione difficile attuale ma anche ulteriori rischi non preventivabili; riferendo inoltre che per sanare la banca acquisita occorrevano 18-24 mesi), perfettamente conosciuta dalla dirigenza della banca come si evince dal documento offerto da Sabetta (slide proiettate in cda e conosciute dai dirigenti) e dal verbale del cda; dall’altra la scarna indicazione del prospetto che evita di dire il tempo della riduzione dei coefficienti patrimoniali e (18-24 mesi) e i rischi non prevedibili sui crediti deteriorati». Il collegamento tra il falso in bilancio e il prezzo delle azioni emerge in una intercettazione ambientale. «Il motivo dell’incontro altro non era che mettere al corrente De Bustis dell’avvenuta notifica della proroga delle indagini preliminari e dei reati contestati; nel contempo, Marco Jacobini chiede a Vincenzo di dargli “una mano di aiuto”. Fra tutte le contestazioni della Procura, per come riferito da Marco e Luigi Jacobini, Vincenzo De Bustis ritiene testualmente che “la cosa seria è il falso in bilancio, perché questo poi fa… si porta dietro altre questioni, no, che sono l’ostacolo alla vigilanza e il prospetto. Quindi secondo me non ci sta…, lì l’unico problema è la congruità del prezzo…”. In buona sostanza, emergerebbe un interesse da parte dei vertici della Banca a ritardare l’emersione delle perdite in modo da poter deliberare aumenti di capitale sociale mediante offerta di azioni a un prezzo conveniente ed incentivante mediante applicazione di uno sconto sul prezzo delle azioni di nuova emissione. Particolarmente rilevante è la piena consapevolezza del capo (amministratore di fatto) Marco Jacobini dell’inesistenza dei valori di avviamento di Tercas e delle altre acquisizioni (“Io nel frattempo devo recuperare le azioni di Teramo, di Tercas, Caripe e Banca Mediterranea”) poiché se devono essere recuperate vuol dire che non avevano un valore originario suppletivo (così come ampiamente esposto negli stessi verbali del cda e nella slides mostrate al cda e allegate alle dichiarazioni di Sabetta). Anche in ordine al Piano industriale posto a fondamento degli avviamenti della valorizzazione degli avviamenti numerose sono le comunicazioni tra i dirigenti nelle quali esplicitamente si afferma la falsificazione degli stessi». E poi ci sono i rilievi della Banca d’Italia: «Il rapporto ispettivo di Bankitalia — si legge ancora nelle carte — così si esprimeva così già nel 2010: nell’ambito dell’istruttoria non sempre viene adeguatamente approfondita la sostenibilità delle iniziative finanziate (come ad esempio gli incagli del gruppo Fimco, primo cliente della banca; Ospedale Francesco Miulli e Immobiliare Sviluppo); scarso rilievo è inoltre attribuito a valutazioni su base consolidata che, pure per i principali gruppi affidati, sono condizionate da un set limitato di dati sulle singole componenti, non sistematicamente aggiornati». Con riferimento all’“Ente Ecclesiastico Ospedale F. Miulli”, di Acquaviva delle Fonti, «il 5 luglio 2012 venne deliberato un nuovo affidamento per 6 milioni di euro nonostante il deterioramento della situazione economica e l’aggravarsi dei rischi legali a seguito della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha giudicato “inesistente” il credito di 41,7 milioni vantato dal cliente nei confronti dell’Inps (16/4/2012), in precedenza incassato dalla Banca a fronte di una cessione pro solvendo. A seguito della richiesta di accesso alla procedura di concordato in bianco avanzata dal cliente il 15 aprile 2013, la posizione è stata poi classificata a incaglio». Sulla posizione di Circelli — il terzo agli arresti domiciliari insieme a Marco e Gianluca Jacobini — pesano anche le dichiarazioni del coindagato Giorgio Papa il quale, «in occasione dell’interrogatorio reso innanzi ai pm del 7 novembre 2019, ha precisato che Elia Circelli — ovvero il responsabile della funzione Bilancio, peraltro indicato come soggetto altamente qualificato perché dotato di tutte le necessarie competenze — era perfettamente consapevole dell’impossibilità di riassorbire le perdite prima di trent’anni, quindi in un lasso temporale di gran lunga superiore a quello suggerito dalla migliore prassi aziendale. Si è trattato di false informazioni, ispirate dalla precisa volontà di rappresentare una realtà differente da quella effettiva e connotata». Nelle conclusioni del provvedimento, infine, vengono segnalate in particolare altre «dichiarazioni di Giorgio Papa, che ha ricoperto un ruolo apicale all’interno della Banca popolare di Bari fino al 3 dicembre 2018, il quale ha evidenziato, fra l’altro: 1) il ruolo assolutamente preponderante di Marco Jacobini e Gianluca Jacobini nella gestione e nel controllo dell’istituto di credito; 2) l’importanza del ruolo svolto da Elia Circelli nella redazione dei bilanci societari e la continua interlocuzione fra costui ed il Presidente del Cda; 3) l’estrema accondiscendenza dei vertici della Banca d’Italia, che pur avendo rilevato la grave e ristagnante situazione conseguente al conflitto d’interessi venutasi a creare in seno alla Banca popolare di Bari, non ha mai esercitato i poteri di “removing” attribuiti dalla legge allo stesso supremo organo di vigilanza». Vengono altresì segnalate anche le dichiarazioni rese da Benedetto Maggi — dipendente di Banca popolare di Bari — in data 17 dicembre 2019, il quale ha riferito che: «1) i rapporti con il più grande cliente della banca (gruppo Fusillo di recente dichiarato fallito) con un’impressionante esposizione debitoria di centinaia di milioni veniva gestito da Gianluca Jacobini privo dei poteri che lo legittimavano al contatto con il cliente; 2) il rapporto con l’imprenditore Vito Fusillo era gestito integralmente da Marco Jacobini e Gianluca Jacobini privi dei rapporti regolamentari per realizzare tale gestione; 3) Marco Jacobini partecipava al comitato crediti (senza che ci fosse verbalizzazione) pur non avendone alcun titolo; 4) le verbalizzazioni del comitato crediti erano falsificate per non far emergere la presenza della famiglia Jacobini non legittimata a essere presente; 5) Marco Jacobini governava la Banca con lo sguardo; 6) vi era un potere assoluto del duo Marco Jacobini e Gianluca Jacobini; 7) l’intera rete dei capi distretto è stata decisa da Gianluca Jacobini come esercizio di potere di fatto; 8) Gianluca Jacobini ha provato a contattare il Maggi dopo le sue dichiarazioni alla Banca d’Italia».

Crac Banca Popolare Bari: arrestato ex presidente Jacobini, 9 indagati. Le accuse: «Falso, maltrattamenti, estorsione». Domiciliari anche per il figlio Gianluca ed Elia Circelli, attuale responsabile della Funzione Bilancio e Amministrazione. Interdizione per De Bustis. La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Gennaio 2020. Arresti domiciliari per gli ex vertici della Banca Popolare di Bari, misura eseguita questa mattina dalla Guardia di Finanza. Arrestati l'ex presidente della BpB Marco Jacobini, suo figlio Gianluca Jacobini, già Condirettore Generale, indagati per false comunicazioni sociali, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti ed estorsioni, ed Elia Circelli, attuale responsabile della Funzione Bilancio e Amministrazione, indagato per false comunicazioni sociali. Nei confronti di Vincenzo De Bustis Figarola, già Direttore Generale della banca ed ex amministratore delegato, indagato per false comunicazioni sociali, falso in prospetto, ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti ed estorsioni, è scattata la misura cautelare interdittiva del divieto temporaneo di esercitare la professione di dirigente di istituti bancari, nonché degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Gli altri indagati sono: Luigi Jacobini, vicedirettore generale della banca e Responsabile Direzione Operations, Giorgio Papa, Amministratore Delegato della BpB da maggio 2015 a dicembre 2018, Roberto Pirola, Presidente del Collegio Sindacale della BpB dal 2011 al 2018, Alberto Longo, Presidente del Collegio Sindacale della BPB dal 29 aprile 2018, Giuseppe Marella, responsabile dell’Internal Audit della BpB dal 2013.

Il lavoro della Gdf e dei periti. L’ordinanza emessa dal gip Pellecchia giunge all’esito della richiesta avanzata dal Pm nel mese di luglio dello scorso anno nell’ambito di una corposa indagine avviata al fine di accertare le cause che hanno portato al dissesto finanziario della Banca Popolare di Bari, recentemente commissariata dalla Banca d’Italia con proprio provvedimento emesso in data 13 dicembre 2019. Le complesse e prolungate investigazioni condotte dai finanzieri Gruppo tutela mercato capitali, articolazione del Nucleo di Polizia economico finanziaria di Bari specializzata nel contrasto ai reati societari e bancari, eseguite anche con l’ausilio di consulenti tecnici nominati dalla Procura, hanno fatto emergere molteplici condotte illecite mediante l’esposizione nei bilanci di esercizio di fatti non corrispondenti al vero, l’omissione di rilevanti informazioni nella redazione dei prospetti informativi diffusi in occasione della offerta pubblica di acquisto di nuove azioni, l’ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza svolte dalla Consob. Con l’ordinanza sono state contestate a vario titolo agli indagati i risultati della articolata attività di analisi condotta sulla documentazione acquisita presso l’Istituto di credito o fornita da Banca d’Italia e dalla Consob nell’ambito delle ordinarie forme di collaborazione istituzionale svolte dagli organismi di controllo e vigilanza, dalle attività di captazione di comunicazioni telefoniche e di analisi forense compiute sui computer e server sequestrati nel corso delle indagini, nonché mediante raccolta di informazioni da persone in grado di riferire notizie utili all’accertamento dei fatti.

Le operazioni fraudolente e i 500 milioni virtuali. L'indagine della Procura ha accertate la esposizione nei bilanci di esercizio relativi alle annualità 2014, 2015, 2016, 2017 e nella semestrale 2018 di dati non veritieri al fine di occultare perdite di rilevante entità subite dall’Istituto bancario così da gonfiare artificiosamente il patrimonio della banca e trarre in inganno i soci ed il pubblico sulla reale situazione dell’Istituto di Credito mediante:

a) fittizie operazioni di cartolarizzazione consistenti nella cessione di crediti deteriorati ad una società finanziaria, la Chariot Funding LLC, e nel successivo riacquisto da parte della stessa Banca Popolare di Bari, degli strumenti finanziari che detta società aveva messo in vendita alloscopo di finanziare la cessione. Detta operazione, avvenuta a cavallo dei due bilanci di esercizio, ovvero nel 2017 la cessione dei crediti deteriorati e nel 2018 l’operazione di acquisto dei titoli, apparirebbe esclusivamente finalizzata a rappresentare l’esistenza di una liquidità, indicata nel bilancio 2017 pari a 500 milioni di euro, di fatto inesistente in quanto riutilizzata l’anno seguente per il riacquisto dei titoli emessi dalla stessa società di cartolarizzazione;

b) l’indebita contabilizzazione negli anni dal 2015 al 2018 di imposte anticipate sulla perdita fiscale per complessivi 141 milioni di euro, pur essendo emersa la piena consapevolezza che la banca non avrebbe potuto conseguire negli anni successivi gli utili necessari per riassorbire dette perdite fiscali;

c) l’omessa svalutazione degli avviamenti relativi agli anni 2014, 2016 e 2017, riferiti a rilevanti partecipazioni detenute dalla banca nelle seguenti società: Fusione ex Nuova Banca Mediterranea, Ramo d’azienda Gruppo Intesa San Paolo, Fusione ex Banca Popolaredi Calabria, Ramo d’azienda promozione finanziaria da ex Popolare, Bari Servizi Finanziari SIM Spa, Fusione ex Banca Popolare della Penisola Sorrentina, Tercas – Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo Spa e Banca Caripe Spa, mediante la reiterata violazione dei principi contabili che presiedono alla redazione dei bilanci e delle norme di carattere tecnico che invece imponevano il ridimensionamento del valore degli avviamenti per complessivi euro 397.666.126;

d) l’indebito appostamento nei bilanci relativi agli anni 2016 e 2017 di attività pari a 42 milioni di euro derivanti da un credito vantato verso l’Ente Ecclesiastico Ospedale Francesco Miulli, la cui inesigibilità era invece nota stante l’ammissione dell’Ospedale Miulli alla procedura del concordato preventivo.

L'"affare" della Banca Tercas e la beffa agli investitori. Inoltre, al fine di agevolare la vendita di prodotti finanziari emessi in seguito agli aumenti di capitale deliberati negli anni 2014 e 2015 per l’acquisizione del Gruppo Tercas - Caripe, sarebbero state omesse nei prospetti informativi diffusi in occasione della offerta pubblica di acquisto deinuovi titoli azionari rilevanti notizie destinate ad informare i potenziali acquirenti sulla reale natura dell’investimento e sui criteri utilizzati per la determinazione del prezzo di vendita delle nuove azioni, nonché sul rischio connesso all’operazione di acquisizione del Gruppo Tercas - Caripe gravato da rilevanti perdite e sulla connessa operazione di salvataggio, sul rischio di illiquidità delle azioni emesse dalla Banca, di fatto rivelatesi invendibili, così impedendo di fatto agli investitori di valutare correttamente i rischi connessi all'acquisto dei titoli. Tali condotte sarebbero state reiterate anche nei confronti della Consob alla quale, al fine di ostacolarne l’esercizio delle funzioni di vigilanza e controllo, sarebbero state fornite dichiarazioni non veritiere in ordine alla conformità dei prospetti contenenti, in realtà, dichiarazioni mendaci e rilevanti omissioni come rilevato dalla stessa Consob con proprio provvedimento sanzionatorio adottato nel mese di ottobre del 2018. Contestualmente all’esecuzione delle ordinanze cautelari, sono state eseguite 17 perquisizioni presso le abitazioni e gli uffici ubicati in Bari, Roma Milano e Bergamo, nella disponibilità dei quattro soggetti attinti dalla misura e di altri sei responsabili dell’Istituto di credito, di cui quattro indagati nell’ambito dello stesso procedimento, e presso la Direzione della Banca Popolare di Bari ove risultano alcune cassette di sicurezza nella disponibilità dell’ex presidente Marco Jacobini.

Banca in dissesto, ma a Marco Jacobini 3 milioni di euro. Marco Jacobini nel 2018 avrebbe percepito redditi per oltre 3 milioni di euro da Banca Popolare di Bari, di cui era presidente e amministratore di fatto. E’ uno dei particolari che emergono dall’indagine sulla presunta malagestione dell’istituto di credito barese, riportati nell’ordinanza di arresti domiciliari per tre persone, tra le quali Marco Jacobini e suo figlio Gianluca, e di interdizione per l’ex ad Vincenzo De Bustis Figarola. Negli atti, con riferimento ai 3 milioni di euro percepiti dall’ex presidente, si parla di importo «smisurato soprattutto con riferimento alle funzioni svolte all’interno della Banca e se rapportato alla situazione di grave dissesto patrimoniale della banca». Si ricorda anche che quel compenso è anche oggetto di una delle contestazioni di ostacolo alla vigilanza di Banca d’Italia, tuttavia non riconosciuta dal gip in quando «condotta meramente omissiva, non accompagnata da alcun mezzo di natura fraudolenta».

Crac della Banca Popolare di Bari, arrestati Marco e Gianluca Jacobini. Interdetto De Bustis: "Falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza". Marco e Gianluca Jacobini. Padre e figlio ai domiciliari. Decisivo un testimone che ha svelato come gli Jacobini continuassero a controllare ogni scelta della banca nonostante avessero formalmente perso ogni carica. Fino a spostare 5 milioni dai propri conti. Carlo Bonini e Giuliano Foschini il 30 gennaio 2020 su La Repubblica.  Era ragionevole pensare che accadesse. Ed è accaduto. La parabola catastrofica di Marco e Gianluca Jacobini, il padre e il figlio (ex presidente ed ex numero 2), per mezzo secolo padroni della Banca popolare di Bari, il più grande istituto creditizio del Mezzogiorno, e del suo crac da 2 miliardi di euro raccontato da Repubblica tra il luglio e il dicembre scorsi, ha il suo epilogo in un’alba di arresti. Il gip Francesco Pellecchia - accogliendo le richieste del Procuratore aggiunto Roberto Rossi e del sostituto Federico Perrone Capano - ha disposto gli arresti domiciliari dell’ex presidente della banca, Marco Jacobini e del figlio Gianluca, già vicedirettore generale e condirettore. Con loro finisce agli arresti domiciliari anche Elia Circelli, ex responsabile della Funzione bilancio e amministrazione della Direzione operations. Di più. Cade anche l’uomo che ha scritto alcuni dei capitoli più controversi della storia della finanza italiana, Vincenzo Figarola De Bustis, già Banca 121, Mps, Deutsche Bank e, naturalmente, Popolare di Bari, di cui è stato prima direttore generale e poi, fino al giorno del commissariamento ordinato nel dicembre scorso da Bankitalia, amministratore delegato. Per lui il gip ha infatti disposto la misura cautelare dell’interdizione per un anno dalle funzioni bancarie e dalla dirigenza di società.  In un’inchiesta condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Bari, che di indagati ne conta dieci, i quattro manager per i quali il gip ha disposto le misure cautelari sono accusati, a diverso titolo, di falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza, per le false comunicazioni inviate alla Consob e alla Banca d’Italia. Insieme a loro - come si legge negli atti dell’inchiesta - sono indagati anche l’altro figlio di Marco Jacobini, Luigi; Giorgio Papa, ex amministratore delegato; Roberto Pirola e Alberto Longo, ex presidenti del Collegio sindacale; Giuseppe Marella, ex Responsabile dell’Internal Audit della BPB. Tutti legati a un medesimo destino processuale costruito intorno a un macroscopico capo di accusa in cui sono contestati 13 episodi di falso in bilancio, commessi negli anni tra il 2014 e il 2018; un episodio di falso in prospetto relativo alla vendita delle azioni; sei di ostacolo alla vigilanza, ai danni di Consob e Banca d’Italia; maltrattamenti e estorsioni nei confronti di Luca Sabetta, ex chief risk officer, il whistleblower di questa vicenda, che il crac aveva avvistato per primo e per questo, dopo essere stato mobbizzato, aveva deciso di collaborare con la Procura. La testimonianza di Sabetta - che è stato in grado di documentare grazie a una serie di registrazioni clandestine durante i suoi incontri con De Bustis i momenti chiave e le scelte sciagurate della governance che portarono al crac - non è tuttavia la sola. Negli atti dell’inchiesta si dà conto della collaborazione altrettanto decisiva (cominciata il giorno successivo alla pubblicazione delle puntate del 15 e 16 dicembre scorsi dell’inchiesta di Repubblica sulla Popolare di Bari) di Benedetto Maggi. Il manager, all’epoca vice responsabile della Direzione crediti, il 17 dicembre 2019, di fronte ai pubblici ministeri, conferma infatti come gli Jacobini continuassero a controllare ogni scelta della banca nonostante avessero formalmente perso ogni carica. Anche dopo, dunque, l’estate del 2019, quando l’allora governo giallo-verde si era speso perchè il management facesse un passo indietro, consegnando la guida della banca a Vincenzo De Bustis. E a un nuovo presidente: il professor Gianvito Giannelli, nipote di Marco Jacobini.  Ai pubblici ministeri, Maggi illumina infatti la catena di anomalie che aveva continuato a strangolare ogni tentativo di ripristinare pratiche bancarie corrette, come pure l’istituto aveva continuato a ripetere per rassicurare investitori, risparmiatori e la stessa Banca d’Italia. Spiega, per dire, che mentre i piccoli azionisti (pensionati, agricoltori, casalinghe, non esattamente speculatori di borsa) tentavano invano di rientrare almeno in parte di un patrimonio che si era già drammaticamente svalutato con il crollo del prezzo delle azioni in cui era stato investito, i grandi debitori, diciamo pure gli “amici” della banca, continuavano a godere di nuove linee di credito. Succede al gruppo Fusillo (di recente dichiarato fallito). E succede a tanti altri per i quali garantivano Marco e Gianluca Jacobini, regolarmente presenti, senza averne alcun diritto (e senza che la loro presenza venisse verbalizzata) al comitato crediti della Banca che quei prestiti erogava. Non c’era bisogno di parlare, di scrivere mail o di telefonare. “Marco governava la banca con uno sguardo” ha raccontato Maggi agli investigatori. Del resto, Marco e suo figlio Gianluca potevano fare e avrebbero continuato a fare ciò che volevano fino alla fine. Come spostare il 20 dicembre 2019 i propri depositi (5 milioni di euro il solo Marco) dalla Banca Popolare di Bari alla Banca Popolare pugliese attraverso un conto di passaggio della Banca Sella. L’ultima operazione. Quella che gli è costata l'arresto. 

Banca popolare di Bari, arrestati gli ex vertici «Controllano ancora tutto, anche con un sguardo». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Michelangelo Borrillo, inviato a Bari. Marco e Gianluca Jacobini ai domiciliari: prima del commissariamento spostati 5 milioni. «Governava la banca con lo sguardo». Nelle dichiarazioni rese ai magistrati subito dopo il commissariamento dell’istituto del 13 dicembre scorso, un dipendente della Banca popolare di Bari descrisse così Marco Jacobini, figlio del fondatore Luigi, che nel 1960 mise la prima pietra di un istituto che sarebbe diventato la più grande popolare del Sud. Per 30 anni ai vertici della banca, Marco Jacobini è da ieri agli arresti domiciliari, così come il figlio Gianluca Jacobini (ex condirettore) ed Elia Circelli (responsabile Bilancio e amministrazione) indagati, a vario titolo, per false comunicazioni sociali, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza. Per Vincenzo De Bustis, l’ex amministratore delegato — due volte sull’altare in Puglia (con la Banca del Salento prima e con il ritorno sulla scena a Bari) e due volte nella polvere (con il commissariamento e l’interdizione) —, il gip Francesco Pellecchia del Tribunale di Bari ha invece previsto il divieto di esercitare la professione di dirigente di istituti bancari per 12 mesi. Il controllo di fatto Così forte era l’influenza di Jacobini senior su banca e dipendenti — ma anche sulla città, i cui esponenti più in vista facevano la fila, ai fuochi di San Nicola, per stargli al fianco sulla terrazza all’ultimo piano della direzione generale — che, nonostante l’istituto sia commissariato, secondo il gip «appare evidente che la struttura della banca è ancora sottoposta al controllo di fatto della famiglia Jacobini. Appare pertanto necessario e urgente impedire che tale potere illecito impedisca il risanamento della banca con i devastanti effetti sull’economia meridionale». Si spiegano così le esigenze cautelari: «Tale situazione pone gli indagati non solo in condizione di poter potenzialmente reiterare i reati contestati, ma anche di poter eventualmente porre in essere condotte tese a un inquinamento probatorio». Lo spostamento di fondi Tra gli elementi presi in considerazione ha avuto un peso anche lo spostamento di fondi effettuati, poche ore prima del commissariamento, da Jacobini padre e figlio (per oltre 5 milioni) da conti della Popolare di Bari ad altre banche: «Trattasi — scrive il giudice — di operazioni poste in essere dagli indagati nella imminenza della formalizzazione del commissariamento che dimostrano l’intenzione di sottrarre i profitti illeciti ad eventuali operazioni di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria». Nel provvedimento il giudice rileva anche che Luigi Jacobini, il primogenito di Marco — anch’egli indagato —, è ancora attualmente dirigente della Banca popolare di Bari. E proprio a Luigi, ieri mattina, è toccato far spazio, nel suo ufficio, alla quindicina di finanzieri che hanno perquisito la direzione generale di corso Cavour — complessivamente, tra abitazioni e uffici a Bari, Roma, Milano e Bergamo, le perquisizioni sono state 17 — e si sono principalmente concentrati sugli uffici che furono del padre, dall’armadio blindato alla cassaforte, le cui chiavi erano ancora in possesso di Jacobini senior. Per Luigi, che ha evitato misure cautelari, quella di ieri è stata una sorta di rivincita su padre e fratello con i quali non è più in ottimi rapporti da quando Jacobini senior decise che sarebbe stato Gianluca a fare strada in banca. Come emerge anche da una telefonata in cui la moglie Giulia chiede a Marco cosa ne sarà di Luigi: «Lo cercano anche fuori — la risposta — ma Gianluca nei momenti bollenti è andato a Londra e significa avere dedizione totale al lavoro». Il risparmio tradito Il filo conduttore delle inchieste condotte dal procuratore Giuseppe Volpe e dall’aggiunto Roberto Rossi si dipana soprattutto in due direzioni. La prima è quella delle gravi e continuate condotte fraudolente, ostacolando i controlli di Consob e Bankitalia, per esporre nei bilanci dati non veritieri per occultare le perdite e gonfiare il patrimonio e trarre in inganno i soci «in un’azienda dove tutto è truccato», come spiega De Bustis a Luca Sabetta, assunto come chief risk officer senza mai svolgere la funzione, tanto da essere mobbizzato fino alla denuncia che ne ha fatto un testimone chiave. Tanto truccato che vengono concessi prestiti ad aziende decotte. Rapporti con Bankitalia L’altro filone è quello della permanenza al vertice di Jacobini: gli uffici di presidenza erano «a tal punto preoccupati di perdere la “leadership” — si legge nelle carte — da indurli a redigere controdeduzioni all’organo di vigilanza, tali da fornire l’apparenza di una modifica di governance, rivelatasi mai sostanziale». Come il cambiamento evidenziato all’aggiunto Rossi dal quasi omonimo Salvatore Rossi — ascoltato nel 2017 da direttore generale della Banca d’Italia — parlando della figura del chief risk officer. Quel Sabetta che, però, la Popolare di Bari non ha mai messo in condizione di operare. «Governava la banca con lo sguardo». Nelle dichiarazioni rese ai magistrati subito dopo il commissariamento dell’istituto del 13 dicembre scorso, un dipendente della Banca popolare di Bari descrisse così Marco Jacobini, figlio del fondatore Luigi, che nel 1960 mise la prima pietra di un istituto che sarebbe diventato la più grande popolare del Sud. Per 30 anni ai vertici della banca, Marco Jacobini è da ieri ai domiciliari, così come il figlio Gianluca Jacobini (ex condirettore) ed Elia Circelli (responsabile Bilancio e amministrazione) indagati, a vario titolo, per false comunicazioni sociali, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza. Per Vincenzo De Bustis, l’ex amministratore delegato — due volte sull’altare in Puglia (con la Banca del Salento prima e con il ritorno sulla scena a Bari) e due volte nella polvere (con il commissariamento e l’interdizione) — il gip Francesco Pellecchia del Tribunale di Bari ha invece previsto il divieto di esercitare la professione di dirigente di istituti bancari per 12 mesi. Il controllo di fattoCosì forte era l’influenza di Jacobini senior su banca e dipendenti — ma anche sulla città, i cui esponenti più in vista facevano la fila, ai fuochi di San Nicola, per stargli al fianco sulla terrazza all’ultimo piano della direzione generale — che, nonostante l’istituto sia commissariato, secondo il gip «appare evidente che la struttura della banca è ancora sottoposta al controllo di fatto della famiglia Jacobini. Appare pertanto necessario e urgente impedire che tale potere illecito impedisca il risanamento della banca con i devastanti effetti sull’economia meridionale». Si spiegano così le esigenze cautelari: «Tale situazione pone gli indagati non solo in condizione di poter potenzialmente reiterare i reati contestati, ma anche di poter eventualmente porre in essere condotte tese a un inquinamento probatorio». Lo spostamento di fondiTra gli elementi presi in considerazione ha avuto un peso anche lo spostamento di fondi effettuati, poche ore prima del commissariamento, da Jacobini padre e figlio (per oltre 5 milioni) da conti della Popolare di Bari ad altre banche: «Trattasi — scrive il giudice — di operazioni poste in essere dagli indagati nella imminenza della formalizzazione del commissariamento che dimostrano l’intenzione di sottrarre i profitti illeciti ad eventuali operazioni di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria». Nel provvedimento il giudice rileva anche che Luigi Jacobini, il primogenito di Marco — anch’egli indagato — è ancora attualmente dirigente della Banca popolare di Bari. E proprio a Luigi, ieri mattina, è toccato far spazio, nel suo ufficio, alla quindicina di finanzieri che hanno perquisito la direzione generale di corso Cavour — complessivamente, tra abitazioni e uffici a Bari, Roma, Milano e Bergamo, le perquisizioni sono state 17 — e si sono principalmente concentrati sugli uffici che furono del padre, dall’armadio blindato alla cassaforte, le cui chiavi erano ancora in possesso di Jacobini senior. Per Luigi, che ha evitato misure cautelari, quella di ieri è stata una sorta di rivincita su padre e fratello con i quali non è più in ottimi rapporti da quando Jacobini senior decise che sarebbe stato Gianluca a fare strada in banca. Come emerge anche da una telefonata in cui la moglie Giulia chiede a Marco cosa ne sarà di Luigi: «Lo cercano anche fuori — la risposta — ma Gianluca nei momenti bollenti è andato a Londra e significa avere dedizione totale al lavoro». Il risparmio traditoIl filo conduttore delle inchieste condotte dal procuratore Giuseppe Volpe e dall’aggiunto Roberto Rossi si dipana soprattutto in due direzioni. La prima è quella delle gravi e continuate condotte fraudolente, ostacolando i controlli di Consob e Bankitalia, per esporre nei bilanci dati non veritieri per occultare le perdite e gonfiare il patrimonio e trarre in inganno i soci «in un’azienda dove tutto è truccato» come spiega De Bustis a Luca Sabetta, assunto come chief risk officer senza mai svolgere la funzione, tanto da essere mobbizzato fino alla denuncia che ne ha fatto un testimone chiave. Tanto truccato che vengono concessi prestiti ad aziende decotte. Rapporti con BankitaliaL’altro filone è quello della permanenza al vertice di Jacobini: gli uffici di presidenza erano «a tal punto preoccupati di perdere la “leadership” — si legge nelle carte — da indurli a redigere controdeduzioni all’organo di vigilanza, tali da fornire l’apparenza di una modifica di governance, rivelatasi mai sostanziale». Come il cambiamento evidenziato all’aggiunto Rossi dal quasi omonimo Salvatore Rossi — ascoltato nel 2017 da direttore generale della Banca d’Italia — parlando della figura del chief risk officer. Quel Sabetta che, però, la Popolare di Bari non ha mai messo in condizione di operare.

Antonio Massari per il ''Fatto Quotidiano'' il 31 gennaio 2020. Quando gli investigatori della Guardia di Finanza entrano nell' ufficio di Gianluca Jacobini, all' epoca condirettore generale della Banca Popolare di Bari, sulla sua scrivania trovano sei block-notes con una lunga serie di appunti scritti a mano. È una delle perquisizioni disposte dalla Procura di Bari che da tempo, con il procuratore aggiunto Roberto Rossi e i sostituti procuratori Lidia Giorgio e Federico Perrone Capano, stanno facendo luce sulla conduzione della banca. Uno di questi block-notes, secondo gli specialisti del Nucleo speciale di Polizia Valutaria, è di sicuro interesse investigativo. Sulla prima pagina, un post-it fucsia. All' interno una data: 10 giugno 2013. E poi quattro numeri messi in fila che per gli investigatori spiegano bene il senso delle parole successive: "2358". Il numero corrisponde all' articolo del codice civile che vieta a qualsiasi società di "accordare prestiti, direttamente o indirettamente, e fornire garanzie, per l' acquisto o la sottoscrizione delle proprie azioni, se non alle condizioni previste". In sostanza - tranne in casi esplicitamente previsti - una banca non può accordare a un proprio cliente un prestito per acquistare le azioni della banca stessa. Ed ecco cosa trovano gli investigatori della Gdf durante le perquisizioni disposte nel 2016, nel block-notes con post-it fucsia. Un appunto - secondo l' accusa scritto da Gianluca Jacobini - dove si legge: "Intercettare clienti che vogliono diventare soci, accedendo al pacchetto soci, inserendo la possibilità di avere un finanziamento pari a due volte le azioni". Non è esattamente - per usare un eufemismo - la prassi prevista per legge. Piuttosto, rilevano gli investigatori, si tratta di una posizione "fortemente distonica" rispetto alle normali regole prudenziali che ogni banca dovrebbe rispettare. Ma alla BpB le regole non dovevano erano sempre rispettate, se un mese fa Bankitalia ha deciso di commissariarla e il governo ha varato un decreto per salvarla. C' è un secondo episodio che il Fatto è in grado rivelare. Già nel 2013 Bankitalia non era d' accordo sulla conduzione familiare della BpB. Si concentra sulla figura di Marco Jacobini che, si legge nella contestazione numero 3 dell' ispezione condotta quell' anno, non dovrebbe incarnare il ruolo di amministratore delegato: "La scelta di non sostituire Marco Jacobini - eletto presidente del Consiglio - nel ruolo di ad, ha amplificato l' esigenza di presidiare accuratamente i potenziali conflitti d' interessi inevitabilmente discendenti dal suo rapporto di parentela con due dei vicedirettori generali e con il consulente legale della banca. Le misure adottate (allontanamento dalla riunione o astensione del presidente) hanno reso farraginoso l' iter decisionale su tematiche poste nella responsabilità dei citati vicedirettori". I due vicedirettori sono i figli di Marco Jacobini, Gianluca e Luigi. Nonostante questa e altre contestazioni, di lì a poco, Bankitalia consente alla Popolare di Bari di acquisire una banca fortemente indebitata (e commissariata), l' abruzzese Tercas, togliendo così una grana a Palazzo Koch, ma che affosserà i conti di Bpb. Marco Jacobini resterà invece al suo posto fino al 2019. Ma c' è di più. Durante le successive ispezioni di Bankitalia - la prima tra il 24 aprile e il 27 maggio 2016, la seconda tra 20 giugno e il 10 novembre 2016 - Marco Jacobini incontra il capo della Vigilanza di Palazzo Koch. Parliamo di Carmelo Barbagallo, che Jacobini incontra a Roma, dopo aver richiesto un appuntamento a un alto funzionario di Bankitalia. È l' 8 novembre 2016. Mancano 2 giorni al termine delle ispezioni. Dopo l' appuntamento Jacobini chiama sua moglie per raccontarle l' esito dell' incontro: "È andata benissimo", esordisce, prima di spiegarle che Barbagallo gli ha detto cha la Popolare ha bisogno di un cambio: il ruolo di ad deve andare a suo figlio Gianluca, al quale Marco deve lasciare il posto per diventare presidente onorario, mentre Luigi dovrebbe lasciare la banca. Pochi minuti dopo, Marco chiama proprio suo figlio Luigi per dirgli che l' incontro è andato bene e che Barbagallo gli ha detto di aspettare l' arrivo della relazione e che "poi se la vedrà lui personalmente". Non sappiamo se Jacobini abbia millantato e, nel caso abbia detto il vero, cosa intendesse per "poi se la vedrà lui personalmente". Il fatto certo, però, è che il suo telefono agganciava una cella di Roma e che secondo gli investigatori della Guardia di Finanza Jacobini s' è realmente recato nella sede della Banca d' Italia. Di certo, c' è anche un altro fatto: nonostante i ripetuti inviti a lasciare il suo posto - formali e non, sempre che il patron della Popolare di Bari non abbia inventato il dialogo con Barbagallo -, Marco Jacobini è rimasto ai vertici della banca fino al luglio dello scorso anno. E il commissariamento arriva nel dicembre scorso.

Banche, il giallo della Popolare di Bari: le carte segrete che accusano Bankitalia. Migliaia di famiglie non possono più vendere le loro azioni dell'istituto pugliese. Perché la Vigilanza ha fatto comprare alla banca la Cassa di Teramo. Che era già travolta dalle perdite. Vittorio Malagutti il 02 novembre 2016 su L'Espresso. I risparmi di una vita bloccati in banca. Migliaia di famiglie che non possono attingere al loro tesoretto in titoli. E allora domande, suppliche, ricorsi, esposti in tribunale. Va avanti così da mesi, ormai: da una parte un esercito di piccoli azionisti delusi e inferociti. Dall’altra i vertici della Popolare di Bari, il più grande istituto di credito del Sud, oltre 70 mila soci e, da mezzo secolo, una dinastia al comando: Marco Jacobini, il presidente, entrato in consiglio nel lontano 1978, insieme ai suoi due figli, Gianluca, condirettore generale, e Luigi, vicedirettore generale. Ma dietro questa storia di risparmio tradito, con i soci della Popolare di Bari che non riescono più a vendere le loro azioni, c’è molto di più. C’è un complicato intreccio di prestiti incagliati, conflitti d’interessi, perdite in bilancio. E sullo sfondo il ruolo della Banca d’Italia, che già tre anni fa, dopo una lunga ispezione, aveva segnalato importanti «criticità», per dirla con il felpato linguaggio della Vigilanza, nella gestione dell’istituto pugliese. Eppure, nell’ottobre del 2013, poche settimane dopo quella severa reprimenda, proprio da Bankitalia era arrivato a Bari l’invito a farsi carico di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo che dopo un lungo commissariamento stava per affondare travolta dalle perdite. L’intervento della Popolare, con l’esplicito appoggio del governatore Ignazio Visco, è andato in scena l’anno successivo. E così la banca di Jacobini si è trovata a gestire, oltre ai propri crediti incagliati, anche quelli dell’istituto appena comprato con un investimento complessivo di 300 milioni. L’onda lunga di quell’operazione si è scaricata sul bilancio 2015, chiuso con 297 milioni di perdite, che salgono a 475 milioni se si escludono alcune poste una tantum di natura fiscale. Ecco perché, alcune settimane fa, gli ispettori della Banca d’Italia sono tornati a bussare alla porta dell’istituto pugliese. In agenda, tra l’altro, c’è la trasformazione della Popolare in Spa, così come prevede il decreto varato nel gennaio 2015 dal governo di Matteo Renzi. Un appuntamento delicato, che va affrontato, possibilmente, con i conti in regola. Ma andiamo con ordine e torniamo all’inizio 2013, quando i funzionari della Vigilanza si presentarono al quartier generale della banca barese per restarci, nel corso di tre successivi interventi, quasi otto mesi. L’Espresso ha avuto accesso ad alcuni documenti riservati che risalgono a quei giorni. Va detto innanzitutto che il voto finale attribuito alla Popolare di Bari al termine dell’ultima ispezione, quella chiusa ad agosto 2013, è stato pari a 4, corrispondente a “parzialmente sfavorevole”, in una scala che va da 1 (il massimo) a 6. Insomma, la Banca d’Italia non sembrava affatto soddisfatta dell’operato di Jacobini e dei suoi manager. E nelle carte dell’ispezione, che l’Espresso ha potuto consultare, vengono formulati rilievi pesanti. Si parla per esempio di «eccessiva correntezza» nei crediti verso alcuni gruppi. Per correntezza, in gergo bancario, si intende la velocità con cui viene sbrigata una pratica. In sostanza, alcuni prestiti importanti sarebbero stati erogati senza verifiche adeguate sulla solidità del cliente. Gli ispettori segnalano il caso dei gruppi Fusillo e Curci, che insieme controllano la holding Maiora group. A favore di questa società, si legge nelle carte, sono stati accordati finanziamenti «non sempre sufficientemente vagliati» e neppure «esaustivamente rappresentati al consiglio». Insomma, denaro facile. E per importi notevoli. Maiora group, alla fine del 2013, aveva già accumulato debiti per 131 milioni con la Popolare di Bari. I Fusillo, a cui fa capo metà del capitale della holding, sono costruttori molto conosciuti, e influenti, nel capoluogo pugliese. C’è Nicola Fusillo, già parlamentare del centrosinistra, nel 2015 schierato alle regionali con il candidato vincente, Michele Emiliano. Il resto della famiglia è invece cresciuto a gran velocità realizzando centri commerciali, villaggi turistici, un grande polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Tra le attività dei Curci, invece, va ricordata la partecipazione del 30 per cento nel capitale della “Gazzetta del Mezzogiorno”, il quotidiano di Bari. Questa quota al momento risulta ceduta in pegno alla Popolare guidata da Jacobini. Nel loro rapporto gli ispettori di Banca d’Italia segnalano anche «la prassi di sottoscrivere quote di fondi comuni che investono in immobili venduti da clienti finanziati dalla banca stessa». Una manovra, questa, che consente di fatto all’istituto di credito di azzerare la propria esposizione trasformandola, per così dire, in quote del fondo. Un esempio? Eccolo, tra quelli citati dalla Vigilanza. La Popolare di Bari, già nel 2011, ha sottoscritto tutte le quote del fondo Tiziano, comparto San Nicola, che è gestito dal gruppo romano Sorgente. Lo stesso fondo ha poi acquistato il “Grande Albergo delle Nazioni”, uno degli immobili storici del capoluogo pugliese, affacciato sul Lungomare Nazario Sauro. E chi ha messo in vendita l’hotel? Proprio la società Fimco controllata dai Fusillo, grandi debitori, come abbiamo visto, della Popolare di Bari. Quest’ultima ha quindi sostituito i propri crediti con le quote dei veicoli d’investimento targati Sorgente. La stessa Fimco ha ceduto al Fondo Donatello, anche questo gestito da Sorgente, un altro palazzo di pregio come l’Hotel Oriente, nel centro storico della città di San Nicola. Bilanci alla mano, l’investimento in fondi immobiliari assorbe una fetta importante del portafoglio titoli della Popolare pugliese. Nei conti del 2015 questa voce vale 122 milioni e rispetto all’anno precedente ha già provocato perdite per 13 milioni. Il nome dei Fusillo, invece, ricorre anche nella triste storia della Popolare di Vicenza, schiantata da perdite ben superiori al miliardo e da mesi al centro di un’indagine della magistratura. Alcune società della famiglia di costruttori hanno in passato ricevuto finanziamenti milionari da fondi offshore con base a Malta. E questi erano stati a loro volta foraggiati dalla banca veneta all’epoca guidata da Gianni Zonin. Le coincidenze non finiscono qui. Vincenzo De Bustis, direttore generale della Popolare Bari da fine 2011 ad aprile 2015, nel 2013 ha ceduto una sua società personale alla holding Methorios, partecipata dall’ex candidato sindaco di Roma, Alfio Marchini. E anche Methorios è stata finanziata da quegli stessi fondi maltesi che sono intervenuti per sostenere i Fusillo, grandi clienti della Popolare di Bari. Questo intreccio di prestiti e affari, su cui indagano i magistrati a Roma e a Vicenza, può riservare nuove sorprese. Di certo però, fin dal 2013, la Vigilanza aveva preso atto dei crediti a rischio dell’istituto pugliese. E gli aspetti critici della gestione erano stati sintetizzati in un giudizio, quel “parzialmente sfavorevole”, che avrebbe dovuto stroncare sul nascere i progetti di espansione di Jacobini e del suo direttore generale De Bustis. Tercas però andava salvata. E in fretta. In quello scorcio di fine 2013 la Banca d’Italia era alla affannosa ricerca di un compratore per l’istituto abruzzese. Nessun banchiere però intendeva accollarsi gli oneri dell’operazione, pari ad almeno 600 milioni. A questo punto si è fatto avanti Jacobini. Siamo nell’ottobre 2013. Si è appena conclusa, con esito negativo, l’ispezione della Vigilanza. Nessun problema, a quanto pare. Ad agosto dell’anno successivo, Bari si prende Tercas. Il conto viene saldato per metà dal Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fidt), finanziato da tutte le banche nazionali. La stampella di sistema non è però sufficiente per chiudere l’operazione. E così la Popolare Bari non trova di meglio che chiedere soldi ai propri soci. Nel novembre 2014 vengono piazzate azioni per 300 milioni e obbligazioni subordinate per 200 milioni circa. Nella primavera del 2015 va in porto un altro collocamento da 50 milioni. I risparmiatori accorrono in massa. A fine 2013 i soci della banca superavano di poco quota 60 mila. Due anni dopo erano diventati circa 70 mila. Le brutte sorprese cominciano ad aprile di quest’anno. Prima la Popolare Bari annuncia la maxi perdita nei conti del 2015 dovuta in buona parte agli oneri del salvataggio Tercas. E viene tagliato anche il valore delle azioni, stabilito di anno in anno dalla banca stessa con una procedura già oggetto di molte critiche, come nei casi di Popolare Vicenza e Veneto Banca. Il ribasso è del 20 per cento circa: da 9,53 a 7,5 euro. Solo pochi mesi prima, migliaia di investitori avevano sottoscritto l’aumento di capitale pagando le azioni 8,95 euro. I titoli non sono quotati in Borsa e la Popolare, che gestisce in autonomia un mercato ad hoc, è stata travolta dalle domande di vendita. Le aste mensili soddisfano richieste per poche migliaia di azioni. Tutto fermo. O quasi. La banca si è impegnata a ristabilire quanto prima «la fluidità del mercato», ma intanto monta la protesta. Alcune decine di soci, giovedì 20 ottobre, hanno manifestato in piazza a Bari con striscioni e altoparlanti. Niente da fare. Morale della storia: il conto salato del salvataggio Tercas è stato pagato dai piccoli azionisti della Popolare. E la Banca d’Italia, che poteva intervenire per tempo, resta a guardare. Per ora.

Crac Popolare Bari, l'ex presidente e la cimice a tavola: «La cosa seria è il falso in bllancio». I due Jacobini intercettati con De Bustis: non abbiamo svalutato. Massimiliano Scagliarini il 02 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’accusa parla di un «metodo Popolare», che sarebbe consistito nel truccare i conti in maniera da tranquillizzare gli investitori continuando così a garantire emolumenti «fuori mercato» alla famiglia Jacobini. Un metodo di cui avrebbero fatto parte anche i manager della Bpb, tutti completamente asserviti ai vertici. Lo scrive il Procuratore aggiunto, Roberto Rossi, nella richiesta di misure cautelari firmata insieme ai sostituti Lidia Giorgio, Savina Toscani e Federico Perrone Capano, «L’ordine di scuderia è quindi realizzare un bilancio positivo; i funzionari eseguono aggiustando le poste contabili. L’utile sempre presente (amplificato dalla comunicazione sapientemente utilizzata) crea una fiducia in capo ai clienti della Banca che hanno sottoscritto le azioni Bpb inconsapevoli del rischio e tranquillizza il mercato». Clienti che non erano nemmeno messi in condizione di valutare i documenti.

IL RISTORATORE – L’accusa valorizza a questo proposito un’intercettazione del dirigente del bilancio, Elio Circelli, a tre giorni dall’assemblea del marzo 2017. Un socio della banca, il ristoratore Mauro Gaetano Durante, si presenta in sede per visionare il bilancio. Come sarebbe suo diritto. Soprattutto dopo aver letto dai giornali che i conti si sarebbero chiusi in utile «quando invece si rileva una perdita ante imposte, lamentando, quindi, una scarsa informazione al riguardo». «Quello è il motivo - dice un collega a Circelli - e prima o poi verrà fuori e non sarà una cosa che non avrà ripercussioni anche per il fatto... per non avere correttamente evidenziato certe poste». Fatto sta che il ristoratore - definito «uno scassaminchia», per quanto «competente» - non ottiene le fotocopie dei documenti richiesti. Anzi - scrive il gip Francesco Pellecchia - nella sede della banca non c’era «una copia del bilancio completo, da mettere a disposizione dei soci», visto che Circelli chiede a un altro collega di portargli «una copia pulita» del documento da far visionare al socio, «termine - scrive il gip riferendosi alla “copia pulita” - che non si esclude possa intendere anche riferirsi ad esemplare “difforme” da quello che sarà poi sottoposto all’approvazione nell’assemblea».

«DA PEPPONE» – A inizio luglio 2017 la Procura fa notificare agli indagati un avviso di proroga delle indagini. La Finanza intercetta una telefonata di Luigi Jacobini a Vincenzo De Bustis per chiedere un incontro insieme al «capo», per pranzo, il giorno successivo a Roma. L’appuntamento è «Da Peppone», alle spalle di via Veneto, ed al tavolo ci sono le microspie che registrano la riunione a tre. «La cosa seria è il falso in bilancio - dice Marco Jacobini -, perché questo poi fa… si porta dietro altre questioni, no, che sono l’ostacolo alla vigilanza e il prospetto. Quindi secondo me non ci sta…, lì l’unico problema è la congruità del prezzo». Appunto quella contestata dall’accusa, secondo cui i 9 euro ad azione (dell’aumento di capitale) sarebbero ingiustificati in quanto non rifletterebbero il reale valore della Banca Popolare di Bari. Ma secondo l’allora presidente quella valutazione «dava ragione ai numeri, poi i numeri si sono modificati rispetto anche a un andamento di mercato, perché c’era la questione degli Npl (non performing loans, i crediti deteriorati, ndr), le svalutazioni uno decide di non farle, no, perché c’erano le svalutazioni da fare, può essere obbiettato questo, no, il tema è solo la credibilità sul prezzo, non vedo la...». Cioè, insomma, la colpa di quanto accaduto sarebbe del mercato. Ma per l’accusa quella frase dimostrerebbe «un interesse da parte dei vertici della Banca a ritardare l’emersione delle perdite».

I DATI TRUCCATI – In una registrazione diffusa nelle scorse settimane si può ascoltare l’ex ad De Bustis che accusa i responsabili delle filiali della banca di aver truccato i numeri. Una situazione di cui il manager romano parla anche negli atti dell’indagine, nella registrazione (anch’essa nascosta) fatta da un ex dirigente (Luca Sabetta) che ha accusato la banca di averlo mobbizzato. Ecco come risponde De Bustis quando Sabetta chiede di essere spostato a occuparsi di Pianificazione: «Ma in un’azienda come questa, dove tutto è truccato, i dati delle filiali sono truccati, cioè, io mi sono fatto portare, avevo capito, mi sono messo a analizzarli, sono truccati, è stato tutto inutile, allora le filiali fanno più commissioni del totale dell’istituto!». 

Crac Pop Bari: «Vieni con una copia pulita, c'è un socio che deve vedere il bilancio». Azionisti irrimediabilmente prigionieri delle condizioni della banca. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Febbraio 2020. «Vedi di venire con una copia pulita che c'ho quella... che c'è un socio che deve vedere il bilancio e quindi portala...». E’ il contenuto di una intercettazione tra due dirigenti della Banca Popolare di Bari, Gianni Milella e Elia Circelli, entrambi indagati e il secondo arrestato ieri con gli ex amministratori Marco e Gianluca Jacobini nell’ambito dell’indagine della Procura sul dissesto dell’istituto di credito barese. Dalle indagini sul dissesto della Banca Popolare di Bari, che ieri ha portato anche all’arresto dell’ex patron della banca Marco Jacobini, del figlio Gianluca, e all’interdizione dell’ex ad Vincenzo De Bustis Figarola, emerge «la volontà del Cda della BpB di escludere del tutto la liquidazione delle azioni in favore dei soci recedenti con fondi propri, lasciandoli irrimediabilmente prigionieri dei loro titoli clamorosamente svalutati». E’ quanto è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare. Nel provvedimento cautelare si evidenzia che gli stessi azionisti erano prigionieri anche "delle condizioni economiche della Banca Popolare di Bari che, stando alle indicazioni contabili, non sarebbe stata in grado di fare fronte alle richieste di recesso e liquidazione delle azioni se non pregiudicando la stessa stabilità patrimoniale». Tutto ciò accadeva - si evidenzia - «nella piena consapevolezza del Consiglio di Amministrazione» già nel 2016. «La bufera giudiziaria che ha travolto i vertici della Banca Popolare di Bari apre nuovi fronti di tutela per i risparmiatori coinvolti in questa ennesima vicenda di risparmio tradito». Lo dichiara l’avvocato Emilio Graziuso, responsabile del Coordinamento istituito dalla Confconsumatori e dall’Associazione Nazionale 'Dalla Parte del Consumatorè che assiste alcuni risparmiatori e azionisti dell’istituto di credito barese, commissariato a dicembre. Per il legale, i reati contestati dalla Procura, «sono molto importanti ed avranno una notevole ricaduta anche sui processi civili instaurati e da instaurare» nei confronti della banca e, "qualora accertati, confermerebbe la tesi dell’assoluta inconsapevolezza dei risparmiatori, e non certo per loro responsabilità, al momento dell’acquisto dei titoli, circa la situazione economica, sulla solvibilità e solidità della banca e, di conseguenza, in merito all’affidabilità dei titoli, alla natura ed al rischio degli stessi ed al recupero delle somme investite».

Le dichiarazioni di De Bustis - C'è un’intercettazione dalla quale emerge che l’allora Dg di BpB, Vincenzo De Bustis Figarola, sapeva che i dati della banca erano truccati. E’ del 13 novembre 2013. De Bustis parla con Luca Sabetta, dirigente assunto il 21 ottobre 2013. «In un’azienda come questa - dice De Bustis - dove tutto è truccato, i dati delle filiali sono truccati, cioè, io mi sono fatto portare..., avevo capito, mi sono messo a analizzarli, sono truccati, è stato tutto inutile, allora le filiali fanno più commissioni del totale dell’istituto!».

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 2 febbraio 2020. C' è un convitato di pietra nel crac della Banca popolare di Bari: la Banca d' Italia e la sua vigilanza. Era agevole comprenderlo già due mesi fa, nel momento cruciale del commissariamento. Ora è un' evidenza documentale. Negli atti dell' inchiesta a sostegno delle misure cautelari che venerdì hanno privato della libertà Marco e Gianluca Jacobini (ex presidente ed ex condirettore della banca), Elia Circelli (responsabile della funzione bilancio) e interdetto Vincenzo Figarola De Bustis, il Procuratore aggiunto Roberto Rossi e i sostituti Federico Perrone Capano e Savina Toscani dismettono ogni diplomazia. Il crac della Banca popolare di Bari - scrivono - è figlio del «conflitto di interessi» in cui Palazzo Koch venne a trovarsi quando, tra il 2013 e il 2014, si trovò contestualmente a essere dominus dell' operazione di salvataggio e acquisizione di Banca Tercas e della decisione di liberare la Popolare di Bari, che di Tercas sarebbe stata l' acquirente, dai vincoli che le erano stati imposti per quella che già allora era risultata una governance opaca. Conflitto di interesse, dunque. Parole chiare che spiegano anche il perché la Procura di Bari abbia aperto un secondo fascicolo istruttorio intestato alle mosse di Palazzo Koch (ma nel quale al momento l' unico indagato per corruzione è Marco Jacobini) e che risponda a quelle che ora diventano le domande chiave di questa storia: quali furono davvero le ragioni che governarono le decisioni di Bankitalia sulla Popolare di Bari? E perché si astenne da decisioni tempestive utili a sottrarre agli Jacobini la governance sciagurata e familista dell' istituto?

Il problema Tercas. Tra l' ottobre del 2013 e il luglio del 2014 - come Repubblica ha raccontato nell' inchiesta pubblicata nel dicembre scorso - Banca d' Italia assume contestualmente due decisioni. Rimuovere i vincoli che impedivano alla Banca popolare di Bari di procedere a nuove acquisizioni e autorizzare la banca all' acquisto della decotta Cassa di risparmio di Teramo (Tercas, appunto). Ebbene, la procura non ha dubbi che la decisione fu presa in «conflitto di interessi ». «Tercas - spiegano - aveva ricevuto da Banca d' Italia un finanziamento di emergenza pari a 700 milioni di euro, della durata di sei mesi. E il motivo era la situazione di liquidità a rischio in cui la banca si trovava. Peraltro, in un momento in cui avrebbe dovuto provvedere al rimborso dei certificati di deposito alla liquidazione delle obbligazioni in possesso della clientela retail per oltre 130 milioni». Ebbene, di quel finanziamento Banca d' Italia secondo quanto previsto dalle norme europee sarebbe dovuta rientrare in tempi definiti. Tercas, da sola, non sarebbe mai riuscita a provvedere al rimborso. Era urgente trovare un compratore. La Procura e Bankitalia Interrogato nel novembre 2017 dal procuratore aggiunto di Bari, Roberto Rossi, l' allora direttore generale di Banca d' Italia, Salvatore Rossi, dà questa spiegazione di quel delicato passaggio: «Quello dei 700 milioni era un finanziamento d' emergenza. Non poteva durare più di un anno. E queste sono regole europee, non italiane. Normalmente è un tempo corto, quindi va prorogato ogni volta. E infatti noi abbiamo molti provvedimenti di proroga di questi finanziamenti di emergenza che si chiamano Ela. Finché non si affaccia nella crisi la Popolare di Bari che dice: "Con i miei soldi faccio un finanziamento a Tercas in modo che Tercas possa rimborsare questo prestito di emergenza che sta per scadere"». È una ricostruzione che vede Banca d' Italia arbitro passivo. Per la Procura, però, è il contrario. «A differenza di quanto lasciato intendere dal dottor Salvatore Rossi - scrivono i magistrati - non fu la Banca popolare di Bari a proporsi autonomamente per il salvataggio di Tercas. Al contrario, come risulta dai verbali del consiglio di amministrazione della stessa Popolare di Bari, fu la Banca d' Italia a interessarla nonostante l' istituto fosse in quel momento soggetto a un' ispezione di cui non aveva ancora conosciuto l' esito». Dunque? Dunque, proseguono i pm, «si ritiene plausibile che Banca d' Italia abbia avuto un conflitto di interessi nel rimuovere il vincolo alle acquisizioni imposte alla Popolare di Bari e nell' autorizzarla dopo poco tempo all' acquisizione di Tercas». L' amico Barbagallo Nella ricostruzione della Procura, l' uomo che a Palazzo Koch incarna il conflitto di interesse con la Popolare di Bari è l' allora capo della Vigilanza, Carmelo Barbagallo, non indagato, e ora in Vaticano a guidare l' Aif, l' Autorità di informazione finanziaria per la lotta al riciclaggio. La Procura ne è convinta. E lo è non solo per la particolare confidenza che gli Jacobini dimostrano di avere con quel dirigente di Bankitalia (Marco lo incontra a Roma e riceve in anteprima l' esito di un' ispezione. Gianluca gli parla direttamente al telefono per spiegare le sue ragioni). Non solo per la cortesia che Barbagallo ritiene di dover avere verso il consiglio di amministrazione della Popolare il 23 ottobre 2013 illustrando di persona gli esiti di un rapporto ispettivo (lo stesso in cui la banca deciderà di dare il via libera all' acquisizione di Tercas). Ma anche per una singolare telefonata del marzo del 2017. Marco Jacobini conversa con un interlocutore, P.L,. che «gli deve dare una buona notizia». Questa: «Vabbè., volevo dirti che io cerco sempre il contatto con Banca Italia (...) Ieri ho avuto una telefonata, sapevo che veniva Suardo a Bari (Lanfranco Suardo era allora capo del servizio supervisione bancaria 2 di Banca d' Italia ed è stato recentemente promosso a capo della supervisione bancaria 1, ndr), capito? (...) Ieri mi ha fatto una telefonata e io gli ho detto: "Che impressione hai avuto?". E lui mi dice: "Devo dirti la verità, io ho avuto una buona impressione"». La buona impressione, come si capisce dal resto della conversazione, ha a che vedere con Marco Jacobini e con il management della banca. Di più: «Mi ha detto, "Ho visto che Marco Jacobini è una persona che dà affidamento e che ha avuto una buona impressione dell' azienda"». Marco Jacobini non pare sorpreso. Anche lui sembrerebbe avere grande confidenza sia con Suardo che con il suo capo, Carmelo Barbagallo. Spiega di aver parlato al telefono con il capo della vigilanza e che la considerazione che ha Palazzo Koch in quel momento dei manager della banca è eccellente. «Mi ha detto cose eccezionali», racconta al suo interlocutore. Aggiungendo: «Mi ha anche detto "Statti li", finché la situazione della banca lo richiede. "Non ti preoccupare proprio». Gli Jacobini lo presero in parola. Sì, «stettero lì». Fino al crac.

Andrea Greco per “la Repubblica” il 2 febbraio 2020. A Bari, dove la voglia di vendetta sale con l' ira dei 70 mila soci della banca traditi, si dice ora che gli è andata bene, con «l' interdizione di un anno dalle funzioni bancarie e dirigenziali» del Gip. Che Vincenzo De Bustis, l' ultimo capo della banca commissariata a dicembre e con buco oltre il miliardo, doveva finire agli arresti come il padre e il figlio Jacobini. Destini che è bene lasciare ai magistrati, e al prosieguo dell' inchiesta che lo accusa di bilanci e prospetti falsi, ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti. Certo l' ingegnere romano, spericolato quanto visionario, 69 anni per metà dribblando nei campi fangosi della finanza, ha giusta fama di banchiere "sempre in piedi". Mai affondato da condanne, passato come salamandra nel fuoco di indagini e smacchi, non solo reputazionali, lasciati a chi lo arruolava. Più che rievocarne la carriera di trapezista bancario, sarebbe utile chiedersi come sia stata possibile. Se lo è chiesto pure il governatore Ignazio Visco, sul Corriere della Sera: «Banca d' Italia ha espresso chiaramente al presidente del cda la proprie perplessità sull' opportunità del rientro dell' ingegner De Bustis tre anni dopo che aveva lasciato Bari». E a fronte del fatto che non gli diedero retta, quando 13 mesi fa De Bustis tornò a capo della popolare, citava il mancato recepimento delle più severe misure della Bce da parte del governo. Un film simile però andò in scena nel 2011, quando De Bustis, già chiacchierato e allontanato da Mps e Deutsche Bank Italia, resse la prima volta il timone barese; e già l' anno prima la banca era uscita ammaccata da un' ispezione di vigilanza. Si ritenne allora, anzi, che De Bustis fosse il "tecnico" mandato da Roma per arginare gli Jacobini. Non andò così, e nel 2015 fu lui a lasciare: non prima di aver firmato l' acquisto di Tercas, con 330 milioni di aumenti finiti in cenere e ricorsi. Il banchiere dal sigaro in bocca, di modi gentili ma capace di durezze con i sottoposti (trovare sul web l' audio brutale dell' ultima arringa ai dirigenti Bpb), era tornato in città grazie al consumato campionario d' una lunga carriera: coperture istituzionali e forti relazioni nel mondo politico, che in Puglia (lato Pd dalemiano, ma anche centrodestra tatarelliano-moroteo) costruiva laboratori poi fecondi; idee futuristiche dove i bisogni erano proibitivi; racconti di investitori nel taschino. Ex post, s' è concretizzato solo il primo dei fattori, quello sufficiente a riportarlo ogni volta in sella. L' agenda buona De Bustis se la fece negli Anni '90, nella Puglia leccese. Trasformando le cento filiali di Banca del Salento in una cyberbank osannata, per cui Sharon Stone posava dicendo "121" in inglese. One-to-one, nome sexy di istituto di nuovo paradigma, rivolto direttamente al cliente grazie alle tecnologie. Una grande visione di futuro importata da De Bustis in Italia, e che rese Banca 121 un boccone ambito da Mediolanum, Sanpaolo Imi, Mps. Fu Mps ad averla, 20 anni fa, pagando la bellezza di 1,3 miliardi di euro. Una benedizione per molti pugliesi, il trionfo per De Bustis spedito a capo di un Montepaschi allora a solida trazione Pd. Tanto inglese si capì presto che celava marketing e vendite di prodotti astrusi - di nome "My Way" e "For You" - a clienti inadatti: con veementi proteste dei consumatori e centinaia di sentenze civili per cui Mps li rimborsò. Quel ritorno di fiamma contribuì all' addio senese di De Bustis nel marzo 2003. Ma era una caduta con rimbalzo: a capo di Deutsche Bank Italia, allora centrale finanziaria di peso tra derivati (come il poi noto Santorini, per celare le prime falle di Mps) e prestiti ai "furbetti del quartierino", scalatori senza patente di Bnl e Rcs. Finita con la crisi la parentesi tedesca, dal 2008 De Bustis aprì il suo fondo Bridge Capital. Poche le operazioni, fino a cederlo a 4 milioni, nel 2013, alla banca Methorius, in cui era entrato il costruttore Alfio Marchini. Tutto un ardito triangolo che ricordava quelli resi famosi dalla Popolare di Vicenza investendo nei fondi lussemburghesi Optimum e Athena, che poi investivano in attivi dei suoi debitori sgravandola. Finanza "baciata", che baciò Marchini a Vicenza. Simili nomi e specie riemergono nel 2019 a Bari, nel De Bustis 2.0. La strategia, tra nuovi rami digitali, tanta finanza e fondi del mercato, è rimasta quasi tutta nella penna. Anche l' avance "baciata" del fondo maltese Muse Ventures, bloccato dall' antiriciclaggio mentre stava per comprare bond Bari per 30 milioni, in un' operazione che la vigilanza temette "circolare" perché Muse aveva 1.200 euro di capitale, ma in sincrono Bpb avrebbe messo 51 milioni in un contiguo fondo lussemburghese. Vecchi repertori, riproposti fino all' epilogo del commissariamento che trovò De Bustis incredulo. Convinto fino all' ultimo di avere ancora coperture sufficienti.

Crac Popolare Bari, Jacobini senior e jr non rispondono al gip. E pm ricorre al Riesame: «De Bustis va arrestato». Il patron Marco e il figlio Gianluca si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Il legale: verificare se le misure cautelari sono state correttamente applicate indipendentemente dalla pancia e da quello che la folla chiede. La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 Febbraio 2020. Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio, rispettivamente ex presidente ed ex co-direttore generale della Banca Popolare di Bari, agli arresti domiciliari dallo scorso 31 gennaio nell’ambito dell’indagine della Procura di Bari sulla gestione nell’ultimo decennio dell’istituto di credito, portato sull'orlo del crac con un buco di circa 2 miliardi di euro. Agli indagati il procuratore aggiunto Roberto Rossi e i sostituti Federico Perrone Capano e Savina Toscani contestano, a vario titolo, i reati di falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza. I due, nell’interrogatorio di garanzia dinanzi al Gip del Tribunale di Bari che ha firmato l’ordinanza di arresto, Francesco Pellecchia, hanno scelto di non rispondere alle domande. Nell’inchiesta sono indagate complessivamente nove persone. La misura cautelare ha riguardato anche Elia Circelli, responsabile della Funzione Bilanci della banca (ai domiciliari) e l’ex amministratore delegato Vincenzo De Bustis Figarola (interdetto per 12 mesi). Circelli è ora sottoposto ad interrogatorio. De Bustis sarà interrogato nei prossimi giorni. «Ci sono 41.000 ragioni per avvalersi della facoltà di non rispondere. Ieri abbiamo avuto il carteggio, 41mila pagine, non credo che si potesse governare un materiale così. Certo loro hanno protestato la loro estraneità ai fatti comunque, sia il dottor Marco Jacobini che il dottor Gianluca Jacobini, e si sono riservati ovviamente di rendere poi un interrogatorio in modo più compiuto allorquando avranno la padronanza del materiale che la Procura ha acquisito». Lo ha dichiarato l’avvocato Francesco Paolo Sisto, difensore con il collega Giuseppe Iannaccone dell’ex presidente della Banca Popolare di Bari Marco Jacobini. Non ha risposto anche il figlio, Gianluca Jacobini, difeso dagli avvocati Giorgio Perroni e Guido Carlo Alleva, di cui Sisto è sostituto processuale. «È chiaro che è una misura cautelare che noi reputiamo non giustificata - ha detto il legale - dal punto di vista sia del merito assoluto della struttura sia delle esigenze cautelari. Ovviamente andremo al Tribunale della Libertà perché qualcuno stabilisca se, in una banca commissariata, persone che sono fuori da questa banca da tempo abbiano una qualche necessità di una misura cautelare così incisiva. Con molto garbo, con molto rispetto, con molta tranquillità ognuno fa il suo ruolo. Il compito del giudice - ha concluso Sisto - è quello di verificare se le misure cautelari sono state correttamente applicate indipendentemente dalla pancia e da quello che la folla chiede».

CIRCELLI RESPINGE LE ACCUSE DAVANTI AL GIP - Ha risposto per quasi due ore alle domande del gip Elia Circelli, responsabile della Funzione Bilancio della Banca Popolare di Bari, agli arresti domiciliari dallo scorso 31 gennaio con le accuse di falso in bilancio e falso in prospetto. A quanto si apprende, Circelli, difeso dagli avvocati Giuseppe Modesti e Riccardo Olivo, ha spiegato al giudice Francesco Pellecchia come la banca elaborava il bilancio, negando di averne falsificato i dati contabili. Una simile azione, stando alla sua difesa, non gli sarebbe stata possibile perchè chi redigeva il bilancio metteva solo insieme numeri, senza possibilità di controllo o valutazione degli stessi, non avendo competenza e possibilità di accesso su altre funzioni, come la valutazione dei rischi, la concessione di crediti, gli avviamenti. I dati per la redazione del bilancio, cioè, gli sarebbero stati forniti senza possibilità che lui fosse a conoscenza della loro eventuale falsificazione.

IL PM RICORRE AL RIESAME: «DE BUSTIS VA ARRESTATO» - La Procura di Bari insiste per l'arresto di Vincenzo De Bustis Figarola, ex amministratore delegato della Banca Popolare di Bari, nei confronti del quale il gip Francesco Pellecchia ha disposto il «divieto temporaneo di esercitare la professione di dirigente di istituti bancari nonché gli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, per la durata di dodici mesi», nell’ambito dell’inchiesta che ha portato agli arresti domiciliari Marco e Gianluca Jacobini, ex presidente e co-direttore, e il responsabile della Funzione Bilancio della banca Elia Circelli. Il procuratore aggiunto Roberto Rossi e i sostituti Federico Perrone Capano e Savina Toscani hanno impugnato dinanzi ai giudici del Riesame l’ordinanza di custodia cautelare eseguita lo scorso 31 gennaio nella parte in cui il gip ha rigettato la richiesta di arresti domiciliari per l’ex ad e non ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per i due Jacobini, Circelli e lo stesso De Bustis con riferimento, a vario titolo, a ulteriori nove ipotesi di reato di falso in bilancio, ostacolo alla vigilanza, maltrattamenti ed estorsione, rispetto alle 21 imputazioni complessivamente contestate dalla Procura.

Banca Popolare di Bari, i giudici: "Dai due Jacobini disinvoltura delinquenziale". Nell’ordinanza riguardante l’esigenza delle misure cautelari vengono ribadite le ipotesi accusatorie. A cominciare dai contatti con importanti imprenditori clienti della banca. Chiara Spagnolo il 07 aprile 2020 su La Repubblica. Nell'agenda sequestrata a casa di Marco Jacobini durante il suo arresto c'è la prova che ha continuato a influire sulla vita della Banca Popolare di Bari anche dopo il commissariamento, che può ancora condizionare i dirigenti dell'istituto, che ingenti quantità di denaro potrebbero essere state trasferite nei paradisi fiscali e che illeciti potrebbero essere commessi nelle altre attività di famiglia, l'agenzia Allianz di via Putignani e l'azienda agricola Masseria Donna Giulia: è la sintesi dell'ordinanza con cui il Tribunale del Riesame a febbraio ha rigettato la richiesta di annullamento della misura cautelare. E ha costretto il patron Marco e suo figlio Gianluca (che della Popolare sono stati, fino a pochi mesi fa, presidente e condirettore) a rimanere agli arresti domiciliari. La libertà è stata restituita invece al dirigente Elia Circelli, sottoposto a misura interdittiva. Tutti e tre sono accusati di falso in bilancio e in prospetto e ostacolo alla vigilanza, insieme all'ex amministratore delegato Vincenzo De Bustis, e ad altre cinque persone. I giudici (presidente Giulia Romanazzi, a latere Giuseppe Montemurro e Arcangela Romanelli) hanno condiviso l'impostazione della Procura, evidenziando la "disinvoltura delinquenziale" del comportamento degli Jacobini, e indicandoli come "deus ex machina" delle manovre economiche, che hanno fatto finire la banca quasi sul lastrico e che erano finalizzate esclusivamente a tutelare interessi privati. Quelli che potrebbero continuare a difendere se tornassero in libertà, hanno sottolineato il procuratore aggiunto Robero Rossi e i pm Savina Toscani e Federico Perrone Capano, portando al Riesame nuove prove a sostegno delle loro ipotesi, tra cui un'informativa della Guardia di finanza del 17 febbraio, dalla quale si evincono i contatti che gli Jacobini hanno avuto dopo il commissariamento con dirigenti dell'istituto, grossi imprenditori- clienti e funzionari della Banca d'Italia. "A tutt'oggi Jacobini si può avvalere di soggetti terzi, che operano all'interno dell'organizzazione societaria, e che sono particolarmente sensibili alle pressioni e ai desideri della famiglia" , dice l'ordinanza, né le dimissioni dall'incarico di presidente - che i suoi avvocati avevano utilizzato per evidenziare il venir meno delle esigenze cautelari - "impedisce a Jacobini di reiterare condotte analoghe a quelle contestate, attraverso terzi fidati e compiacenti". L'esame degli appuntamenti segnati sulla sua agendina, del resto, secondo i giudici la dice lunga sul fatto che anche dopo le dimissioni da presidente avesse continuato ad avere rapporti con importanti clienti della banca, come gli imprenditori Vito Fusillo e Domenico De Bartolomeo. E che su alcuni post it gialli avesse annotato appunti a matita che parlavano di paradisi fiscali, quali Malta e Lussemburgo. Del resto, ci sono anche le chat che i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria del colonnello Pierluca Cassano hanno trovato nel telefono sequestrato a Gianluca Jacobini durante l'arresto. Il 15 dicembre (due giorni dopo il commissariamento della banca) l'ex condirettore parlava con un amico, che gli suggeriva: "Londra per un paio d'anni, unica soluzione, dovete cambiare aria" . E Gianluca rispondeva " devo trovare qualcosa da fare e vengo al volo" . Per gli inquirenti si tratta di un segnale chiarissimo della volontà di lasciare l'Italia. Al contrario di quanto aveva deciso il fratello Luigi (indagato ma non destinatario di misura cautelare), che nei mesi scorsi ha rilasciato molte dichiarazioni ai pm, cercando di tirarsi fuori dai guai di famiglia. Su Gianluca, invece, i giudici del Riesame non hanno dubbi: "La sua uscita dalla banca non ha eliminato il potere di condizionare la gestione dell'istituto " , soprattutto perché, anche lui come il padre, continua ad avere "rapporti di cooperazione con soggetti che vi lavorano", dunque rimetterlo in libertà potrebbe essere pericoloso. "Il Tribunale del Riesame replica l'avvocato Francesco Paolo Sisto, nel collegio difensivo di Marco e Gianluca Jacobini - correttamente, non è minimamente entrato sul tema dei gravi indizi di responsabilità, in quanto il ricorso degli indagati verteva solo sulle esigenze cautelari. Nella prima parte del provvedimento vi è una ampia ricognizione di quanto già osservato dalla pubblica accusa e dal gip, ai soli fini di inquadrare le proprie valutazioni e quindi senza alcuna incursione sulla colpevolezza o meno dei soggetti coinvolti. Quanto alle esigenze cautelari, fermo il pacato dissenso con quanto osservato dal Riesame, resta la possibilità di seguirne le indicazioni per rimuovere ogni residua perplessità sulla meritevolezza della misura".

Michelangelo Borrillo per Corriere.it il 30 aprile 2020. Nella vicenda della Banca popolare di Bari arriva il momento dei sequestri ai manager, per complessivi 16 milioni. Gianluca Jacobini, ex condirettore della PopBari, Giuseppe Marella e Nicola Loperfido, responsabili dell’Internal Audit e della Direzione business dell’istituto, commissariato nel dicembre 2019 dalla Banca d’Italia, sono accusati di ostacolo alla vigilanza (Jacobini anche di false comunicazioni sociali). In particolare avrebbero concesso finanziamenti a grandi clienti della banca, «direttamente o indirettamente utilizzati per l’acquisto di azioni proprie, complessivamente incidenti sui fondi propri della banca, in negativo, per 48,9 milioni di euro». Ma — secondo l’accusa — nel bilancio e nel patrimonio di vigilanza, che garantisce la solidità della stessa banca, non avrebbero dovuto inserire il valore di queste azioni perché, semplificando, non si tratta di soldi nuovi ma di fondi della banca stessa. Invece lo avrebbero fatto, nascondendolo alla Banca d’Italia, e cioè comunicando, per il quarto trimestre del 2015, un ammontare dei fondi della Popolare di Bari «non corrispondente al vero», «sovrastimato».

La trasformazione in Spa. Per questo, su disposizione della magistratura barese sono stati sequestrati beni per 16 milioni nei confronti dei tre manager: 4,9 milioni a Jacobini, 4,9 milioni a Marella e 6,1 milioni a Loperfido. Stando alle indagini della Guardia di Finanza, coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dai sostituti Savina Toscani e Federico Perrone Capano, gli indagati Jacobini e Marella sono indagati anche nell’inchiesta per falso in bilancio e falso in prospetto che il 31 gennaio scorso ha portato all’arresto degli ex amministratori della banca, tra i quali Gianluca Jacobini e suo padre Marco, ex presidente, entrambi tuttora agli arresti domiciliari. Nel corso degli approfondimenti investigativi sono state rilevate gravi irregolarità dei dirigenti dell’Istituto di credito, finalizzate a rappresentare una situazione economico-finanziaria e patrimoniale non veritiera, in occasione dell’ispezione della Banca d’Italia — avviata a giugno 2016 e conclusa nel mese di novembre 2016 — in vista della trasformazione della natura giuridica dell’Istituto da società cooperativa a responsabilità limitata in società per azioni. Gli stessi dirigenti avrebbero infatti dolosamente posto in essere comportamenti ostruzionistici, occultando agli ispettori di Bankitalia alcuni fascicoli di clienti e alterando alcune informazioni, al fine di evitare che emergessero posizioni tali da determinare per la banca l’obbligo di apportare rettifiche ai cosiddetti «fondi propri».

Le operazioni «baciate». In pratica i sequestri sono conseguenza di operazioni cosiddette «baciate». «Le operazioni baciate — spiega il gip Francesco Mattiace nel decreto di sequestro — sono finanziamenti, spesso offerti a tassi di interesse più vantaggiosi, erogati da una banca a un cliente a patto che questi acquisti azioni della banca stessa. La concessione di un finanziamento da parte di una banca in correlazione con l’acquisto di sue azioni sovrastimerebbe il capitale, dando ai terzi una visione di solidità che non corrisponde a quella reale». A questi clienti, inoltre, sarebbero stati fatti sottoscrivere mandati irrevocabili a vendere le azioni e i titoli stessi, «quando l’istituto bancario lo avesse ritenuto “opportuno”, così determinando, di fatto, la destinazione delle azioni (e del relativo controvalore) a garanzia del finanziamento concesso».

Banca Popolare di Bari, sequestrati 16 milioni a Gianluca Jacobini e due dirigenti. La banca avrebbe erogato crediti ad alcuni clienti importanti in corrispondenza all'acquisto di grosse quantità di azioni, che venivano acquistate proprio grazie a una parte di quei soldi. Chiara Spagnolo su La Repubblica il 30 aprile 2020. Operazioni "baciate" effettuate dalla Banca popolare di Bari con sette gruppi imprenditoriali hanno portato la Procura a chiedere e ottenere il sequestro di 16 milioni di euro nei confronti di Gianluca Jacobini (ex condirettore e figlio dell'ex presidente Marco: entrambi sono ai domiciliari) e dei dirigenti Nicola Loperfido e Giuseppe Marella, rispettivamente ex responsabile della Direzione business ed ex responsabile Internal auditing, nonché della stessa Popolare. Il sequestro è stato eseguito dai finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Bari, diretti dal colonnello Pierluca Cassano. Jacobini, Marella e Loperfido sono indagati per ostacolo alla vigilanza e Jacobini anche per false comunicazioni sociali. Stando alle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dai pm Savina Toscani e Federico Perrone Capano, la banca avrebbe erogato crediti ad alcuni clienti importanti in corrispondenza all'acquisto di grosse quantità di azioni, che venivano acquistate proprio grazie a una parte di quei soldi. L'obiettivo - secondo gli investigatori del Nucleo speciale di polizia valutaria (reparto specializzato nelle indagini finanziarie, con marcata esperienza nel settore delle più delicate inchieste bancarie) -  era far figurare un aumento di patrimonio della banca. Le operazioni finite sotto accusa riguardano la Debar Costruzioni, la De Bartolomeo Srl, Camassambiente Spa, Giuliani Enrico, Special media international tesoro Giulia, Rovoletto Claudia e Zaccagnini Francesco. Le irregolarità commesse dai dirigenti indagati avrebbero consentito di rappresentare un situazione economico-finanziaria della BpB non veritiera, in occasione dell'ispezione della Banca d'Italia, avviata a giugno 2016 e conclusa nel novembre dello stesso anno. Per evitare di far scoprire le operazioni baciate, i vertici dell'istituto avrebbero posto in essere comportamenti ostruzionistici, occultando agli ispettori di Bankitalia fascicoli di clienti e sottraendo informazioni utili alle verifiche. L'obiettivo - secondo gli investigatori del Nucleo speciale di polizia valutaria (reparto specializzato nelle indagini finanziarie, con marcata esperienza nel settore delle più delicate inchieste bancarie) -  era far figurare un aumento di patrimonio della banca.  

Banca Popolare di Bari: GdF sequestra beni per 16mln di euro a 3 ex dirigenti. Gianluca Jacobini, Nicola Loperfido e Giuseppe Marella rispondono di ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2020. La Guardia di Finanza ha dato esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Bari, nei confronti di tre figure ai vertici della Banca Popolare di Bari, per un valore di oltre 16 milioni di euro (16.001.254,29). Il provvedimento riguarda in particolare Gianluca Jacobini, già Condirettore Generale, Nicola Loperfido, già Responsabile Direzione Business, e Giuseppe Marella, ex Responsabile Internal Auditing, tutti indagati per ostacolo all'esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Gianluca Jacobini è inoltre indagato anche per false comunicazioni sociali. BpB è indagata per la responsabilità amministrativa dell’ente. Stando alle indagini della Guardia di Finanza, coordinate dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dai sostituti Savina Toscani e Federico Perrone Capano, gli indagati avrebbero concesso finanziamenti ad alcuni clienti della banca, prevalentemente grossi gruppi imprenditoriali, «direttamente o indirettamente utilizzati per l’acquisto di azioni proprie, complessivamente incidenti sui fondi propri della banca, in negativo, per 48,9 milioni di euro». Nel bilancio e nel patrimonio di vigilanza, che garantisce la solidità della banca, non avrebbero però - secondo l’accusa - dovuto inserire il valore di queste azioni perché, semplificando, non si tratta di soldi nuovi ma di fondi della banca stessa. Invece lo avrebbero fatto, nascondendolo a Bankitalia e cioè comunicando, per il quarto trimestre del 2015, un ammontare dei fondi della Popolare di Bari «non corrispondente al vero», «sovrastimato». Jacobini e Marella sono indagati anche nell’inchiesta per falso in bilancio e falso in prospetto che il 31 gennaio scorso ha portato all’arresto degli ex amministratori della banca, tra i quali Gianluca Jacobini e suo padre Marco, ex presidente, entrambi tuttora agli arresti domiciliari.

LE 'OPERAZIONI BACIATE' NEL MIRINO - Sono le cosiddette «operazioni baciate» il cuore della nuova inchiesta della Procura di Bari sulla Banca popolare di Bari che oggi ha portato al sequestro di 16 milioni di euro. Nel dettaglio sono stati sequestrati circa 5 milioni di euro all’ex codirettore Gianluca Jacobini, altrettanti a Nicola Loperfido e 6 milioni di euro a Giuseppe Marella. «Le operazioni baciate - spiega il gip nel decreto di sequestro - sono finanziamenti, spesso offerti a tassi di interesse più vantaggiosi, erogati da una banca a un cliente a patto che questi acquisti azioni della banca stessa. La concessione di un finanziamento da parte di una banca in correlazione con l’acquisto di sue azioni sovrastimerebbe il capitale, dando ai terzi una visione di solidità che non corrisponde a quella reale». A questi clienti, inoltre, sarebbero stati fatti sottoscrivere mandati irrevocabili a vendere le azioni e i titoli stessi, «quando l’istituto bancario lo avesse ritenuto "opportuno", così determinando, di fatto, la destinazione delle azioni (e del relativo controvalore) a garanzia del finanziamento concesso». Il gip ritiene «dimostrato come lo strumento dei mandati irrevocabili a vendere fosse frutto di una deliberata scelta aziendale dei dirigenti qui indagati in qualità di detentori del potere aziendale e che, quindi, l'occultamento dei dati alla Bankitalia, seppur successivo alla decisione aziendale di rafforzare illecitamente il patrimonio aziendale, sia collegato ad essi». Questo, secondo il giudice, lo si può ricavare dalla «rilevanza (per la tipologia dei clienti, tra i più importanti della banca) e il numero dei mandati a vendere (utilizzati per mantenere artatamente intatto il patrimonio sociale), indicativo della non occasionalità della scelta», dall’utilizzo di «contratti identici prestampati, indicativo di una scelta aziendale di rendere uniformi gli strumenti di garanzia», dalla «consapevolezza dell’importanza dei mandati a vendere nell’analisi da parte dell’Internal Audit di BpB, a riprova del fatto che il fenomeno era ben noto ai dirigenti» e dai «riscontri documentali nei quali esplicitamente si fa riferimento della connessione tra la concessione di crediti da parte della banca e del mandato irrevocabile a vendere». Il gip ritiene «dimostrato come lo strumento dei mandati irrevocabili a vendere fosse frutto di una deliberata scelta aziendale dei dirigenti qui indagati in qualità di detentori del potere aziendale e che, quindi, l'occultamento dei dati alla Bankitalia, seppur successivo alla decisione aziendale di rafforzare illecitamente il patrimonio aziendale, sia collegato ad essi». Questo, secondo il giudice, lo si può ricavare dalla «rilevanza (per la tipologia dei clienti, tra i più importanti della banca) e il numero dei mandati a vendere (utilizzati per mantenere artatamente intatto il patrimonio sociale), indicativo della non occasionalità della scelta», dall’utilizzo di «contratti identici prestampati, indicativo di una scelta aziendale di rendere uniformi gli strumenti di garanzia», dalla «consapevolezza dell’importanza dei mandati a vendere nell’analisi da parte dell’Internal Audit di BpB, a riprova del fatto che il fenomeno era ben noto ai dirigenti» e dai «riscontri documentali nei quali esplicitamente si fa riferimento della connessione tra la concessione di crediti da parte della banca e del mandato irrevocabile a vendere». Gianluca Jacobini, ex condirettore della Banca popolare di Bari, avrebbe «in concorso con altri soggetti in corso di identificazione» esposto «fatti materiali non rispondenti al vero» sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, «con l’intenzione di ingannare i soci e il pubblico, al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé e per la banca». E’ l’accusa di false comunicazioni sociali contestata dalla Procura a Jacobini, che risponde anche di ostacolo alla vigilanza, destinatario oggi di un sequestro preventivo di beni e attualmente agli arresti domiciliari in un’altra inchiesta sulla gestione dell’istituto di credito barese. Oltre Jacobini, altri due ex dirigenti sono stati destinatari del provvedimento di sequestro per complessivi 16 milioni di euro. Il gip, che aveva rigettato una prima richiesta di sequestro, ha condiviso ora l’ipotesi dalla Procura, evidenziando che «tanto le omissioni informative quanto l'ostacolo alla vigilanza, sempre a beneficio della Banca popolare di Bari, - si legge nel provvedimento, riportando le valutazioni della consulenza tecnica - trovano tutte radice e fondamento in una diffusa e non occasionale attività di cosiddetta “assistenza finanziaria” illegittima». I finanziamenti concessi ad alcuni clienti della Banca popolare di Bari in cambio dell’acquisto di azioni, alla base del sequestro da 16 milioni di euro eseguito oggi dalla Guardia di finanza, coinvolgono sette gruppi imprenditoriali, ma le operazioni finanziariamente più consistenti riguardano le società De Bartolomeo Srl e Debar Costruzioni Spa, rispettivamente per 900mila euro e 1,4 milioni di euro, e la Social Media International per 2,7 milioni di euro. "Si rammenta l’intento reale sottostante tali opzioni - spiega il gip nel decreto di sequestro - : per il cliente quello di trovare una sorta di via d’uscita dall’investimento azionario, tanto da disinteressarsene e confidando viceversa nella sola liquidità ricevuta a titolo di finanziamento, per la banca quello di conservare apparentemente intatto il patrimonio disponibile». "Si ritiene - aggiunge il giudice - che le somme finanziate attraverso la procedura dei “mandati irrevocabili a vendere” siano legate a condotte “strumentali”, atte cioè a ad “incrementare” artatamente il patrimonio disponibile dell’istituto bancario nella piena consapevolezza dell’illiceità di tale agire e della sostanziale irrecuperabilità di dette somme» e, infatti, «all’atto del rilascio del prestito, in combinazione con la stipula del mandato, si assiste, di fatto, ad una completa traslazione del rischio in capo a BpB».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 24 giugno 2020. La Banca popolare di Bari non è collegata al Consiglio superiore della magistratura solo dal servizio di tesoreria e dallo sportello che l'istituto di credito gestisce a Palazzo dei marescialli. Nei fascicoli della Procura ancora in fase istruttoria, tra cui quelli per i crac delle società clienti di Bpb, ci sono diverse informative della Guardia di finanza e una corposa denuncia dei commissari dell'istituto. Ma anche molte intercettazioni ad oggi inedite. Tra cui quelle tra l'ex condirettore e vicedirettore generale di Pop Bari Gianluca Jacobini e l'ex vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, in cui i due avrebbero affrontato svariati argomenti. Molte di queste conversazioni sono considerate «non inerenti» all'inchiesta, altre sono state segnalate dagli investigatori all'autorità giudiziaria. A collegare il quarantaduenne Jacobini e Legnini c'è anche l'avvocato Sergio Della Rocca, principe del foro abruzzese e buon conoscente dell'ex vicepresidente del Csm. Della Rocca è diventato vicepresidente della Fira, la finanziaria regionale, in quota Tercas e Caripe (banche abruzzesi controllate dalla Popolare di Bari), di cui Jacobini, oggi agli arresti domiciliari con l'accusa di falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza, era consigliere e procuratore speciale. Luciano D'Alfonso, ex presidente della Regione ricorda: «Il nome di Della Rocca venne fatto da Bpb, con mia sorpresa. Mi chiamò uno degli Jacobini, credo Gianluca, con la sua voce un po' ansimante e mi disse: "Noi abbiamo gradimento per Della Rocca, voi avete qualcosa in contrario?". La questione, messa in quei termini, per me era risolta alla radice». Ma nelle intercettazioni l'ex manager di Bpb si sarebbe vantato anche di aver fatto nominare, attraverso Legnini, il procuratore generale di Bari Anna Maria Tosto. Ovviamente potrebbe trattarsi di una fanfaronata senza fondamento. Nell'ambito dell'inchiesta sul caso Palamara Legnini ha raccontato ai magistrati di Perugia la sfida tra la Tosto e Carlo Maria Capristo, recentemente arrestato con l'accusa di truffa. In quell'occasione le toghe progressiste di Area si saldarono per la prima e unica volta della consiliatura con i tutti i laici di sinistra del Csm. «Quella della nomina di Capristo fu una delle occasioni nelle quali mi fu richiesto (da alcuni consiglieri del Csm, ndr) di fare un'opera di mediazione e il mio intervento fu a favore della dottoressa Tosto, che secondo me, era più idonea a condurre quell'ufficio ed era appoggiata da Area e da gran parte dei componenti laici» ha messo a verbale Legnini. Anche il pm Luca Palamara, interrogato come indagato, ha ricordato la battaglia per la Tosto: «Vi fu uno scontro tra Capristo e Tosto che era sostenuta da Area. Il gruppo (di Unicost, ndr) cercò di sostenere Capristo, ma io, all'atto della decisione finale, chiesi un rinvio che di fatto fece eleggere la Tosto. Tale votazione creò insofferenza nei miei colleghi di Bari che volevano Capristo». Anche la coindagata di Palamara, la consigliera Paola Balducci, all'epoca consigliere del Csm in quota Sel, ha parlato di quello scontro: «Mi sono battuta molto per la nomina della dottoressa Tosto alla Procura generale di Bari. Ho cercato sempre di favorire la nomina di donne nei ruoli apicali della magistratura. L'altro concorrente era Carlo Capristo che aveva tanti titoli. Molti erano più portati a votare quest' ultimo. Fu una guerra forte. A parità di voti, alla fine la dottoressa Tosto vinse per l'anzianità []. Ricordo che io ero la relatrice di tale pratica». Tra i testimoni dei rapporti tra Legnini e Jacobini junior c'è l'ex parlamentare di Forza Italia e di Ncd Paolo Tancredi, abruzzese come Legnini: «Immagino che nell'inchiesta sulla Popolare di Bari ci siano tante intercettazioni nascoste. Io so che Giovanni ha parlato con Gianluca Jacobini fino a poco tempo fa». Quindi Tancredi rivela: «Ho incontrato due volte Legnini al Csm e in tutti e due casi c'era anche Jacobini, anche se non mi era stato preannunciato. Il primo incontro risale ai primi mesi del 2015. Giovanni era da poco diventato vicepresidente e nel suo ufficio c'era l'ex condirettore della banca. La seconda volta li ho incrociati forse sul portone o al bar, dove Legnini mi aveva dato appuntamento. Ma di questa seconda occasione ho ricordi più vaghi. Che Giovanni avesse rapporti con Gianluca comunque in Abruzzo lo sanno tutti. Personalmente, durante la sua campagna elettorale per la presidenza della Regione Abruzzo, ho visto, almeno un paio di volte, Legnini prendere il telefono e parlare con Jacobini». Legnini allontana da sé tutti i sospetti: «Ma perché ce l'avete tanto con me? Io sono una persona perbene». Gli riferiamo delle intercettazioni con Jacobini e lui ci domanda: «E che cosa dicono?». Rispondiamo: dovrebbe dircelo lei. Vi sentivate spesso con Jacobini? «Ma neanche per sogno. Ci siamo parlati rarissimamente e non lo sento almeno dall'anno scorso». Come ha conosciuto l'ex dirigente di Pop Bari? «Non lo ricordo. La Bpb è una delle banche più presenti sul territorio abruzzese. Non li ho portati io nella mia regione, anche se sono stato sottosegretario al Mef. Fu la Banca d'Italia. Io non ho mai in alcun modo preso parte a trattative o incontri per l'acquisizione della Tercas da parte della Popolare di Bari». Siete amici con l'avvocato Della Rocca? «Lo conosco». L'incarico in Fida? «È uno degli avvocati più noti in Abruzzo. Fu nominato dalla Bpb e io non c'entro nulla. Non posso escludere di avere parlato con Jacobini di Della Rocca, ma io non ho niente a che fare con incarichi, non ho mai avuto rapporti professionali con lui, né ho ricevuto consulenze dalla banca, visto che non faccio l'avvocato da 7 anni. Non ho rapporti economici o di altro genere neanche con la famiglia Jacobini, che non ho mai frequentato. Li conoscevo, ci ho parlato, ma non ho fatto con loro neanche una cena». Gli riferiamo le dichiarazioni dell'amico e collega Tancredi: «Dice di avermi incontrato con Jacobini? Non me lo ricordo, mentre è falso che io abbia contattato Jacobini durante la mia campagna elettorale». Ha mai parlato della nomina della Tosto con il banchiere? «Ma per l'amor di Dio, no, nel modo più assoluto. Se si fosse vantato di aver avuto un ruolo ci troveremmo di fronte a delle millanterie». L'ultimo argomento è la gara vinta da Pop Bari per la tesoreria del Csm: «Io non c'entro nulla, fu una procedura gestita interamente dai magistrati. Non ho detto mezza parola. La Bpb aveva una strategia aggressiva sulle tesorerie e io non ho mai aperto un conto con loro. Perché la gara fu indetta a cavallo di Ferragosto? Gli uffici avevano fatto scadere il contratto, se ne erano scordati».

«Minacciato e licenziato dalla banca per chiudermi la bocca, ecco la mia storia». «Minacciato e licenziato dalla banca per chiudermi la bocca, ecco la mia storia». Vittorio Malagutti il 2 luglio 2020 su L'Espresso. Parla per la prima volta il testimone chiave dello scandalo della Popolare di Bari. Luca Sabetta. Assunto come dirigente addetto ai controllo dei rischi, è stato cacciato per impedirgli di lanciare l’allarme sui bilanci dell’istituto. Grazie al suo racconto è nata l’inchiesta della magistratura che ha portato all’arresto del presidente Marco Jacobini. «L'ho fatto per una questione di dignità. La dignità del mio lavoro e della mia persona. Ho scelto di non rassegnarmi di fronte a quello che consideravo un abuso nei miei confronti». Luca Sabetta, 52 anni, è il manager che ha mandato fuori giri la macchina dei falsi della Popolare di Bari, il dirigente che ha denunciato uno dei peggiori scandali finanziari degli ultimi decenni, un buco di oltre un miliardo di euro, eredità della gestione della famiglia Jacobini. In questa intervista, Sabetta per la prima volta racconta la sua storia. Parla delle sue speranze, quando sette anni fa lasciò un posto di prima fila a Verona, al Banco Popolare, per tornare in Puglia, la regione dove è nato e cresciuto. E ripercorre i mesi per lui difficilissimi in cui si è reso conto della trappola in cui era caduto. «Sono stato fin da subito isolato, emarginato. E a un certo punto non ho potuto fare a meno di reagire». La ribellione gli è costata cara. Ingaggiato a ottobre del 2013 con la qualifica di chief risk officer e i gradi di direttore centrale, Sabetta non è mai stato messo nelle condizioni di lavorare. Per settimane gli sono state negate informazioni e documenti proprio mentre la banca guidata dal direttore generale Vincenzo De Bustis preparava l’acquisizione di Tercas, un’operazione da 600 milioni di euro avallata da Bankitalia che ha infine mandato a picco l’istituto. «Lascia perdere», ripeteva De Bustis al suo collaboratore che insisteva per vedere i numeri di un bilancio già pericolante. Testardo, Sabetta ha tenuto botta fino a quando il presidente Marco Jacobini non ha deciso di fare a meno di lui. A gennaio del 2014, il consiglio di amministrazione della banca ha esautorato il chief risk officer assunto solo tre mesi prima. Per metterlo in condizioni di non nuocere, Sabetta è stato piazzato al vertice di una minuscola società controllata, la Popolare Bari Corporate Finance. A quel punto l’epilogo era già scritto. Quando il manager ha tentato di far valere i suoi diritti chiedendo di essere reintegrato nel suo ruolo, la banca lo ha messo alla porta. A gennaio del 2016 Sabetta è stato licenziato per “giusta causa” con addebiti risibili, come ha stabilito il giudice del lavoro di Bari che il 16 giugno scorso, al termine di una lunga vertenza, ha reintegrato il dirigente nel posto di lavoro da cui era stato ingiustamente rimosso più di quattro anni fa. Della vecchia Popolare ormai non restano che le macerie. Il rilancio è affidato al Mediocredito Centrale, l’istituto a capitale pubblico che prenderà il controllo della grande banca cooperativa destinata a trasformarsi in società per azioni, secondo quanto approvato dall’assemblea dei soci lunedì 29 giugno. Fuori gli Jacobini: Marco, il presidente, dominus incontrastato per oltre 30 anni, è finito agli arresti e quindi a processo insieme al figlio Gianluca, già condirettore generale, per falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo alla vigilanza.

Nel 2016 le indagini del pool di magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Roberto Rossi hanno proseguito sulla strada giusta, anche grazie alla testimonianza del manager licenziato. È stato l’ex direttore centrale della Popolare a fornire ai magistrati i primi elementi utili a scardinare un sistema di potere che sembrava inattaccabile. Dopo anni di grande sofferenza personale, adesso Sabetta può finalmente guardare al futuro.

«Spero di tornare a Bari per dare il mio miglior contributo professionale possibile a un istituto destinato a svolgere un ruolo centrale per il rilancio dell’economia del Sud del Paese».

Per lei è una ripartenza a quasi sette anni dal suo primo ritorno a casa, in Puglia, con De Bustis che le promise un ruolo di prestigio in una banca con grandi ambizioni.

«L’incarico alla Popolare di Bari mi era stato presentato come una grande opportunità professionale. E in effetti lo era, almeno sulla carta. De Bustis mi spiegò che la Banca d’Italia dopo l’ispezione di qualche mese prima aveva raccomandato il rafforzamento delle funzioni di controllo dei rischi, anche con l’assunzione di una figura autonoma, un dirigente esterno rispetto alla squadra dei manager che avevano gestito l’istituto fino ad allora».

Il chief risk officer è chiamato a svolgere un ruolo molto delicato. Le furono date garanzie particolari a tutela della sua indipendenza?

«I regolamenti interni della banca, oltre a quanto già previsto dalle normative generali di vigilanza in materia, prevedevano che al responsabile dei rischi fosse attribuito un potere di veto sulle operazioni più rilevanti. Va da sé che avrei dovuto avere accesso a tutti i documenti e le informazioni indispensabili per formulare le mie valutazioni».

E invece...

«Notai da subito che nei miei riguardi c’era un’attenzione che possiamo definire molto blanda».

Che cosa intende?

«Voglio dire, per esempio, che non fui immediatamente e formalmente presentato ai consiglieri d’amministrazione che facevano parte degli organismi di controllo interno e neppure al collegio sindacale, che avrebbe dovuto essere il mio interlocutore naturale dato che i sindaci, oltre ai revisori dei conti, hanno tra l’altro il compito di vigilare sul rispetto delle norme contabili, per prevenire i rischi di squilibri patrimoniali».

Segnali chiari. Tanto più che in quelle settimane dell’autunno 2013 la Popolare di Bari stava preparando l’aumento di capitale destinato a finanziare il salvataggio di Tercas, l’ex cassa di risparmio abruzzese finita sull’orlo del crack e per questo commissariata da Bankitalia.

«La volontà di emarginarmi era evidente anche da altri episodi. In quelle stesse settimane non sono stato invitato ad alcune riunioni con i rappresentanti di Consob e Banca d’Italia».

A quell’epoca si era già fatto un’idea sull’opportunità dell’acquisizione di Tercas?

«Diciamo che già allora mi colpì molto la notizia, pubblicata in ossequio alle normative sulle società quotate in Borsa, su cui vigila la Consob, che il Credito Valtellinese, azionista di Tercas con una quota dell’8 per cento circa, avesse rinunciato al salvataggio, anche se per dimensioni e indici di bilancio poteva vantare numeri molto migliori rispetto alla Popolare di Bari».

E in qualità di chief risk officer come valutò l’operazione?

«In realtà non ho mai potuto disporre al completo delle informazioni necessarie per analizzare la situazione contabile di Tercas. La documentazione che ho ricevuto era parziale. In pratica, non mi è stato permesso di esercitare i poteri che la normativa attribuiva al responsabile dei rischi».

Non chiese spiegazioni a De Bustis, il direttore generale che l’aveva assunta promettendole piena libertà d’azione?

«Certo, da principio mi consigliava di stare tranquillo, di non esasperare la situazione, poi a dicembre mi indicò in modo perentorio che non mi sarei più occupato di controllo dei rischi».

E come motivò quella decisione a dir poco sorprendente, visto che lei era stato assunto solo tre mesi prima?

«Mi disse che la Vigilanza della Banca d’Italia aveva formulato alcune riserve sulla mia indipendenza».

In che senso?

«Nel senso che, secondo quanto mi disse De Bustis, io non sarei stato del tutto indipendente rispetto ai vertici della banca perché io e lui ci conoscevamo da molti anni e avevamo già lavorato insieme alla Banca del Salento e al Monte dei Paschi di Siena».

Una spiegazione credibile?

«Nella sentenza con cui sono stato reintegrato nel mio posto di lavoro, il giudice scrive che risulta “sorprendente che tali aspetti”, cioè la questione della mia indipendenza, “non fossero stati affrontati, con la Vigilanza” al momento della mia assunzione. Inoltre, quando io chiesi spiegazioni per iscritto sul fatto che alla base della mia rimozione ci fosse una potenziale situazione di conflitto d’interessi, la risposta di De Bustis, anche questa citata nella sentenza del giudice del lavoro, fu una telefonata in cui mi rimproverò di aver messo nero su bianco quanto mi aveva detto a voce».

Poche settimane dopo quel colloquio con De Bustis, il consiglio di amministrazione della Popolare di Bari deliberò il suo distacco presso una minuscola controllata del gruppo, la Popolare Bari Corporate Finance. Fu allora che decise di rivolgersi a un legale?

«Per mesi ho cercato di svolgere il compito di sviluppo della Corporate Finance, ma mi sono reso conto che in realtà mi si destinava a non fare nulla. La Popolare Bari Corporate Finance, di cui ero stato nominato amministratore delegato, aveva solo tre dipendenti e la sua pressoché unica attività era fornire consulenze alla casamadre. A febbraio del 2015 presentai quindi un ricorso contro il mio demansionamento. I vertici dell’epoca della banca cercarono di chiudere la controversia con una transazione, che però dal mio punto di vista era del tutto insoddisfacente. E a dicembre, dopo la conclusione negativa delle ipotesi di transazione, sono stato licenziato. Un licenziamento contro cui ho fatto ricorso in sede civile, presentando anche un esposto penale, con il supporto dell’avvocato Stefano De Francesco».

Con il senno di poi possiamo dire che l’acquisizione di Tercas ha dato il colpo di grazia a un sistema di potere, quello degli Jacobini, che aveva il destino segnato. È d’accordo?

«È stata la legge di riforma della governance Popolari varata nel 2015 a condannare una volta per tutte il modello autoreferenziale di banche solo formalmente cooperative. Non per niente i manager di vertice guidati da Jacobini, anche con la ricerca di appoggi da parte di soggetti attivi nella politica e in altri ambiti istituzionali, come si è appreso dalla stampa, hanno in evidenza fatto di tutto per ritardare il più possibile la trasformazione in società per azioni dell’istituto che governavano da oltre 30 anni. Il vincolo di territorio che alcuni banchieri delle popolari dicevano di voler difendere si traduceva in realtà nella possibilità di finanziare aziende amiche, con un evidentissimo impatto negativo sui rischi di credito e sull’equilibrio tra debito e patrimonio aziendale».

Alla trasformazione in spa della Popolare si è arrivati adesso con il salvataggio finanziato in parte con fondi privati tramite il Fondo interbancario di garanzia e in parte con i capitali pubblici del Mediocredito Centrale. È davvero la soluzione migliore per tutelare gli azionisti?

«Sì, credo proprio di sì, mi pare la soluzione più equilibrata. Lo schema di intervento definito dai commissari prevede che il Mediocredito Centrale lasci aperte le porte anche ai soci minori che avranno così la possibilità di partecipare al rilancio dell’istituto. Ricordiamoci che l’alternativa era la liquidazione. Così invece i piccoli azionisti possono recuperare almeno in parte il proprio investimento, attraverso l’applicazione del piano industriale da parte del nuovo management, in un contesto che resta comunque molto complesso, ma verso il quale occorre porsi al lavoro con fiducia».

(ANSA il 29 settembre 2020) - La Guardia di Finanza di Bari ha arrestato, con concessione dei domiciliari, per concorso in bancarotta fraudolenta Gianluca Jacobini, ex condirettore generale della Banca popolare di Bari, e ha notificato un provvedimento di interdizione per il padre Marco Jacobini, ex presidente dell'istituto di credito barese. L'inchiesta, coordinata dal procuratore facente funzione Roberto Rossi con il sostituto Lanfranco Marazia, riguarda il fallimento di alcune società del gruppo imprenditoriale Fusillo di Noci. Gianluca Jacobini torna così in detenzione dopo poco più di due mesi. L'8 luglio era stata revocata a lui e al padre Marco la precedente misura cautelare disposta nell'ambito del procedimento sul crac della Banca popolare di Bari, nel quale sono accusati di falso in bilancio, falso in prospetto, false comunicazioni sociali e ostacolo alla vigilanza. Fino ad oggi erano stati sottoposti alla misura interdittiva e inoltre Marco al divieto di dimora a Bari, il figlio Gianluca all'obbligo di dimora a Polignano a Mare. (...)Nell'inchiesta sul crac delle società Fimco e Maiora del Gruppo Fusillo di Noci sono state arrestate complessivamente sei persone. Agli arresti domiciliari, su disposizione del gip del tribunale di Bari Luigia Lambriola, sono finiti oltre Gianluca Jacobini, gli imprenditori Giacomo Fusillo, amministratore di alcune delle società fallite, Vincenzo Elio Giacovelli, titolare della società Il Melograno Eventi, Girolamo Stabile, gestore di fondi di investimento con sedi in Lussemburgo e Gibilterra, Salvatore Leggiero, legale rappresentante e amministratore unico della Roma Trevi srl, e Nicola Loperfido, responsabile della direzione business della Banca popolare di Bari, gestore degli affidamenti concessi al gruppo Fusillo. L'interdizione di un anno è stato notificata a Marco Jacobini e all'imprenditore di Noci Vito Fusillo, padre di Giacomo, amministratore delegato delle società Fimco e Maiora. Agli indagati sono contestati a vario titolo numerose condotte di bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio. (...) "Si è giunti alla progressiva edificazione di quella che possiamo apostrofare come una gigantesca 'casa del debito'". E' quanto emerge dagli atti sul crac di alcune società del gruppo imprenditoriale Fusillo di Noci che ha portato oggi all'arresto di sei persone. Stando agli atti, questa "casa del debito" sarebbe stata "costruita attraverso una miriade di sospette operazioni straordinarie intercompany, quasi sempre artificiosamente sorrette da perizie di comodo, redatte da professionisti compiacenti nonché fraudolente segregazioni patrimoniali funzionali al continuo drenaggio di liquidità, sotto il cui peso, in realtà da anni ormai insostenibile, si disgregavano le fondamenta" dei gruppi Fimco e Maiora, entrambe fallite nel settembre 2019, "lasciando sul campo qualcosa come 430 milioni di euro di debiti consolidati, di cui oltre 78 milioni di pendenze accertate nei confronti del fisco e degli enti pubblici previdenziali". Stando alle indagini della Guardia di Finanza e alle consulenze tecniche disposte dalla Procura di Bari, gli imprenditori, con la complicità dei vertici della Banca popolare di Bari, avrebbero dissipato i beni aziendali con cessioni di quote e immobili. In particolare Vito Fusillo e "il partner bancario dominante" avrebbero operato "secondo una opaca strategia" spostando "rilevanti segmenti di patrimonio" in favore di "terze economie", come fondi di investimento con sedi all'estero, "di cui direttamente o indirettamente Banca popolare di Bari e il gruppo Fusillo si assicuravano il controllo", così i beni sottratti alle società oggi fallite "restavano di fatto nella disponibilità dei fautori dell'iniziativa illecita". (...) - Gli ex amministratori della Banca popolare di Bari avrebbero concesso alle società in dissesto del gruppo Fusillo sconfinamenti sui conti correnti e linee di credito per decine di milioni di euro. E' quanto emerge dall'ordinanza che ha portato oggi all'arresto di sei persone, tra le quali l'ex condirettore della Popolare di Bari Gianluca Jacobini, per la bancarotta di alcune società del gruppo imprenditoriale di Noci. Per Marco e Gianluca Jacobini il gruppo Fusillo era "il principale cliente affidato dalla banca" e "facendo valere la propria influenza dominante sugli organi istruttori e deliberanti della banca - si legge nell'imputazione - , concedevano e reiteratamente prorogavano nuovi affidamenti, nella consapevolezza della loro inesigibilità". "L'esposizione complessiva dell'istituto di credito barese rispetto al gruppo Fusillo - si legge negli atti - ha progressivamente raggiunto la ragguardevole cifra di 340 milioni di euro" e, "in ragione della longevità e preminente rilevanza economica della posizione in questione", i rapporti con il gruppo Fusillo erano "curati direttamente e costantemente dei vertici apicali dell'istituto bancario, in persona degli indagati Marco e Gianluca Jacobini, per anni leader incontrastati in seno al management della Banca Popolare di Bari". (...) C'è la cessione di un immobile di pregio nel centro di Roma, Palazzo Trevi in via delle Muratte, a due passi dall'omonima fontana e di proprietà della Fimco del gruppo Fusillo di Noci, tra le operazioni che avrebbero contribuito al dissesto della società. E' uno dei particolari che emergono dall'ordinanza che ha portato oggi all'arresto di sei persone, tra le quali alcuni ex vertici della Banca popolare di Bari, per concorso in bancarotta fraudolenta. Il bene sarebbe stato venduto al prezzo di 40 milioni di euro tra il 2016 e il 2017 alla società "Roma Trevi" dell'imprenditore fiorentino Salvatore Leggiero (tra gli odierni arrestati), dopo che nei due anni precedenti Fimco aveva ottenuto da Banca popolare di Bari linee di credito per lo stesso importo proprio per l'acquisto e ristrutturazione dell'immobile. L'imprenditore Vito Fusillo lo avrebbe fatto per "mettere al sicuro" i beni di valore delle società poi fallite, cedendoli a società sempre riconducibili alla famiglia Fusillo. La banca, che avrebbe "totalmente supportato" l'operazione, avrebbe avuto invece l'obiettivo di "ridurre la propria esposizione" verso Fimco. (...) - Il valore economico dei beni delle società del gruppo Fusillo di Noci "distratti" o "dissipati" tra il 2016 e il 2019 è stato stimato in 93 milioni di euro. Sono quattro le operazioni che, secondo le indagini della Procura di Bari sul crac Fusillo che hanno portato oggi all'arresto di sei persone, avrebbe contribuito al dissesto delle società. Oltre alla cessione di Palazzo Trevi in centro a Roma, c'è il cosiddetto "piano Kant", relativo alla cessione del 100% delle quote di due società controllate, Logistica Sud (fallita a novembre 2019) e Ambasciatori Immobiliare (pende istanza di fallimento) nel fondo di investimento estero Kant Capital Fund Strategic Business con sede a Gibilterra riconducibile a Girolamo Stabile, a fronte della ricezione di quote dello stesso fondo del valore nominale di 20 milioni di euro. Sarebbero stati anche dismessi alcuni immobili di rilevante valore, quali l'ex Hotel Ambasciatori di Bari e il Polo Logistico di Rutigliano, ceduti a società terze per quasi 27 milioni di euro. Ci sono poi le operazione "Cni-Mcg" e "Soiget", relative alla dismissione di partecipazioni e patrimoni aziendali, tra i quali anche prestigiosi alberghi e strutture turistiche quali "La Peschiera", "Il Melograno" e "Cala Ponte" a Polignano a Mare. (...) - "Sulla gestione della posizione finanziaria del gruppo Fusillo si sono consumate le peggiori nefandezze dell'istituto di credito". E' un passaggio dell'ordinanza che ha portato oggi all'arresto di sei persone, tra le quali l'ex condirettore della Popolare di Bari Gianluca Jacobini, per la bancarotta di alcune società del gruppo Fusillo di Noci. Negli atti si parla di un "ruolo di primo piano" assunto dalla Popolare di Bari come "ideatrice delle iniziative", mettendo "a disposizione delle società veicolo la leva finanziaria per acquisire i cespiti oggetto di alienazione da parte delle società del gruppo Fusillo, con mutui fondiari grazie ai quali si assicurava l'iscrizione di ipoteca in proprio favore". "Il denominatore comune di una serie di operazioni straordinarie di portata illecita - si legge negli atti - è la presenza costante della Banca Popolare di Bari in una veste che non è quella del comune partner bancario che sostiene finanziariamente un proprio cliente storico, nell'ambito delle corrette procedure di erogazione del credito, bensì evidenzia precise e gravi responsabilità a titolo di concorso negli illeciti commessi dagli amministratori delle società fallite".

Popolare di Bari, nuovi arresti: quegli affari spericolati tra Gibilterra e Fontana di Trevi. Decine di milioni dai fondi offshore per coprire il buco dei costruttori pugliesi Fusillo, grandi debitori dell'istituto degli Jacobini. Nelle carte dell'indagine la compravendita di un palazzo a pochi metri dal monumento romano. Vittorio Malagutti il 29 settembre 2020 su L'Espresso. Il palazzo in via delle Muratte, come presentato nella brochure della Leggiero Real estateSoldi a Gibilterra e in Lussemburgo. Una lunga scia di affari che arriva a Roma, a pochi passi dalla Fontana di Trevi. Porta lontano dalla Puglia, la nuova puntata dell'inchiesta giudiziaria sulla Popolare di Bari che coinvolge Marco e Gianluca Jacobini, padre e figlio, fino all'anno scorso a capo dell'istituto di credito travolto da un buco di oltre un miliardo di euro. Insieme ai due banchieri, nell'elenco degli indagati finiti oggi ai domiciliari su richiesta del procuratore Roberto Rossi e dal pm Lanfranco Marazia troviamo anche il finanziere Girolamo Stabile e l'immobiliarista Salvatore Leggiero, cresciuto a gran velocità negli anni scorsi con acquisti a raffica di palazzi nel centro di Firenze, Roma e Milano. Girolamo StabileStabile e Leggiero, accusati di concorso in bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio, si erano messi in affari con i costruttori pugliesi Fusillo, falliti sotto il peso di debiti complessivi per oltre 300 milioni di euro. Era stata la Popolare di Bari a finanziare gran parte delle iniziative dell'impresa pugliese: centri commerciali, villaggi turistici, un polo della logistica a Rutigliano, solo per citare gli interventi più importanti. Con i soldi dell'istituto di credito, Leggiero aveva comprato dai Fusillo un intero palazzo a Roma a pochi decine di metri dalla Fontana di Trevi. Un'operazione, quest'ultima, che secondo le accuse dei magistrati sarebbe servita solo a mettere al sicuro un asset patrimoniale di gran valore poco prima del crack dei costruttori. Da qui la nuova indagine della magistratura, con gli arresti domiciliari disposti oggi per Giacomo Fusillo e per Gianluca Jacobini, mentre per Vito Fusillo e Marco Jacobini è stata disposta l'interdizione per un anno. Stabile, un finanziere con ufficio nella centralissima piazza San Lorenzo in Lucina a Roma, a capo di una rete di società tra Londra, Lussemburgo e Gibilterra, aveva dapprima traghettato i Fusillo a caccia di finanziamenti verso la Popolare di Vicenza. I soldi erano arrivati sotto forma di investimenti del fondo lussemburghese Optimum, a sua volta foraggiato dalla banca veneta. Quando quest'ultima tra il 2015 e il 2016 è arrivata al capolinea travolta dalle perdite, Stabile è rimasto al fianco dei Fusillo con il fondo Kant capital con base a Gibilterra. Secondo le accuse, però, gli investimenti del fondo offshore, con il via libera della Popolare di Bari, sarebbero serviti solo a prolungare l'agonia del gruppo dei Fusillo, tutto questo a danno degli altri creditori. Salvatore Leggiero sul sito dell'immobiliareCon l'obiettivo di puntellare il gruppo dei Fusillo, la banca degli Jacobini è stata costretta a giocare di sponda a Roma, per aggiustare partite a rischio aperte a Bari. Si arriva così a pochi metri da Fontana di Trevi, a un palazzo Art Déco che fino a pochi anni fa ospitava gli uffici dell'Authority delle comunicazioni. Tre anni fa l’immobile ha cambiato proprietario. A vendere sono stati i Fusillo, mentre nel ruolo di compratore è sceso in campo Leggiero, che ha sborsato circa 50 milioni per aggiudicarsi gli oltre 5 mila metri quadrati su quattro piani e una magnifica terrazza sul tetto che si affaccia su via delle Muratte: l'obiettivo era quello di trasformarlo in un albergo, l'hotel De Angelis. Il conto dell’operazione è stato in buona parte pagato dalla Popolare di Bari che ha finanziato una società di Leggiero, la Roma Trevi, con un mutuo di 32,5 milioni, cioè il 75 per cento circa del prezzo d’acquisto. Un altro prestito di circa 6 milioni era invece destinato a pagare i lavori di ristrutturazione. Il cerchio si è chiuso, quindi. La Popolare di Bari è riuscita a cambiare cavallo in corsa trasferendo il proprio credito da un debitore in gravissima difficoltà, Fusillo, a un altro che offriva maggiori garanzie, cioè Leggiero. A settembre dell'anno scorso, però, i costruttori pugliesi hanno fatto crack ed è partita la nuova inchiesta della procura di Bari. Tempo un anno e sono arrivati gli arresti.

Popolare di Bari: “Decidevano tutto loro”. L’ex amico Fusillo accusa la famiglia Iacobini. Il Corriere del Giorno il 30 Settembre 2020. L’imprenditore Vito Fusillo avrebbe falsificato i bilanci di Maiora nel 2015 e 2016 iscrivendo crediti inesigibili per oltre 60 milioni di euro ed “occultando le perdite” . Nell’ordinanza della Gip del Tribunale di Bari bilanci falsi vengono definiti “autentiche pietre di scandalo ” . Infatti nella memoria difensiva è Fusillo stesso ad ammettere che i bilanci delle sue società non sono stati compilati correttamente e confessando di “avere posto in essere una fitta serie di finanziamenti infragruppo, utilizzando finanziamenti ottenuti da una società per ripianare le perdite di altre ” tutto ciò sempre ” d’intesa con gli amministratori della Banca Popolare di Bari ” che è sempre stato lo “storico partner finanziario” del gruppo Fusillo. La Gip del Tribunale di Bari Luigia Lambriola nel suo provvedimento definisce Vito Fusillo, “da sempre dominus incontrastato nella gestione delle imprese di famiglia ” e ” l’assoluto ideatore delle operazioni finanziarie “ , che hanno portato in un decennio al crac di alcune delle società del suo impero, l’omonimo gruppo imprenditoriale di Noci. Fusillo ha collaborato con la Procura di Bari, difendendo suo figlio Giacomo, scaricando la gran parte delle responsabilità sugli ex top management dell’ istituto di credito barese. L’ ex amministratore delegato della Banca Popolare di Bari, Giorgio Papa, ascoltato dagli inquirenti come indagato in procedimento connesso nel novembre 2019, ha rivelato non pochi particolari rilevanti dei rapporti intercorsi fra Vito Fusillo e Marco Jacobini; ” Vito Fusillo era amico del presidente Marco Jacobini da trent’anni, i due si vedevano spesso e Jacobini fidava a tal punto che i tre immobili in cui lavorava la banca (via Cavour angolo via Piccinni, via Melo e via Cairoli) erano stati acquistati o ristrutturati da Fusillo“. Fusillo ha ammesso le proprie colpe soltanto in parte, ammettendo di aver “taroccato” i bilanci delle società attività questa che gli è costata una misura interdittiva di 12 mesi invece dell’ arresto, che invece è toccato a suo figlio Giacomo, ad altri imprenditori e agli ex amministratori della Popolare di Bari, ritenuti suoi complici. Vito Fusillo è stato interrogato due volte, il 2 luglio e il 21 luglio 2020, e successivamente ha anche depositato lo scorso 31 agosto una memoria difensiva negli uffici della Procura di Bari. “La versione resa dall’indagato non vale a scalfire il grave quadro indiziario a suo carico” scrive la gip Lambriola nell’ordinanza, dando atto del suo atteggiamento “collaborativo”, mettendo però in evidenza che le sue dichiarazioni sono state “soltanto parzialmente ammissive degli addebiti ” , prevalentemente “tendenti a sminuire la portata dei reati, elidere qualsivoglia coinvolgimento del figlio e ad attribuire un ruolo di rilievo ai vertici dell’istituto bancario, nonché ad aggravare la posizione degli altri imprenditori coinvolti“. Fusillo ha insistito in particolare sulla “etero- direzione” da parte degli ex vertici della banca, compreso il suo amico trentennale Marco Jacobini, di molte operazioni finanziarie del gruppo, evidenziando ” il ruolo deterministico ” rispetto alla reale effettiva gestione dell’attività operativa delle proprie società, e segnalato inoltre l’esistenza di “un forte interessamento degli esponenti bancari a erogare nuova finanza in merito all’accordo di ristrutturazione “. Nel suo provvedimento la gip Lambriola sintetizza questa forma di sostegno riferendo il contenuto delle dichiarazioni da parte dell’indagato che sono state rese nei mesi scorsi, che è venuto meno pochi giorni prima della presentazione del piano e che ha determinato il fallimento di Fimco e Maiora. L’imprenditore Vito Fusillo avrebbe falsificato i bilanci di Maiora nel 2015 e 2016 iscrivendo crediti inesigibili per oltre 60 milioni di euro ed “occultando le perdite” . Nell’ordinanza della Gip del Tribunale di Bari bilanci falsi vengono definiti “autentiche pietre di scandalo ” . Infatti nella memoria difensiva è Fusillo stesso ad ammettere che i bilanci delle sue società non sono stati compilati correttamente e confessando di “avere posto in essere una fitta serie di finanziamenti infragruppo, utilizzando finanziamenti ottenuti da una società per ripianare le perdite di altre ” tutto ciò sempre ” d’intesa con gli amministratori della Banca Popolare di Bari ” che è sempre stato lo “storico partner finanziario” del gruppo Fusillo. Gli inquirenti negli atti evidenziano la distrazione dei patrimoni nelle società del gruppo Fusillo, che in un decennio, avrebbero generato la “progressiva edificazione di quella che possiamo apostrofare come una gigantesca casa del debito ” spiegando che sarebbe stata “costruita attraverso una miriade di sospette operazioni straordinarie intercompany, quasi sempre artificiosamente sorrette da perizie di comodo, redatte da professionisti compiacenti, nonché fraudolente segregazioni patrimoniali funzionali al continuo drenaggio di liquidità, sotto il cui peso, in realtà da anni ormai insostenibile, si disgregavano le fondamenta” dei gruppi Fimco e Maiora, fallite entrambe nel settembre 2019 “lasciando sul campo qualcosa come 430 milioni di euro di debiti consolidati, di cui oltre 78 milioni di pendenze accertate nei confronti del fisco e degli enti pubblici previdenziali“.

Pop-Bari, «Per i prestiti ho fatto favori»: Fusillo confessa e vuole patteggiare. «Lavori e case scontate ai vertici e ai manager». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 4 Ottobre 2020. Fin da fine marzo, due mesi dopo la notifica dell’avviso di proroga delle indagini per bancarotta, Vito Fusillo aveva già manifestato l’intenzione di chiedere il patteggiamento e di parlare. Negli ultimi sei mesi l’imprenditore di Noci, intorno a cui gira l’inchiesta-bis sulla Popolare di Bari, si è trasformato nel «pentito» del sistema che faceva capo a Marco e Gianluca Jacobini: ha ammesso di aver truccato i conti delle sue aziende ma ha, soprattutto, accusato i vertici della banca («Erano i miei soci di maggioranza»), ma anche numerosi imprenditori e professionisti con cui ha avuto rapporti: lo avrebbero indotto a effettuare «operazioni tutte pregiudizievoli», oltre che a vendere case a prezzi di favore. Centinaia di pagine di verbali che puntellano le conclusioni raggiunte dal procuratore aggiunto Roberto Rossi e dal pm Lanfranco Marazia e che, con la discovery degli atti su cui si basano le misure cautelari scattate martedì, aprono uno squarcio importante. Dopo tre interrogatori e un lungo memoriale, il 4 settembre il procuratore Rossi ha revocato la richiesta di arresto in carcere per Fusillo, rilevandone la «parziale volontà collaborativa». Domiciliari, dunque, per Gianluca Jacobini, per l’ex capo dei crediti Nicola Loperfido, per Giacomo Fusillo (figlio di Vito), per il commercialista Vincenzo Elio Giacovelli e per gli imprenditori Girolamo Stabile e Salvatore Leggiero, tutti accusati di bancarotta. Fusillo (e Marco Jacobini) restano fuori, ma con l’interdizione dalle attività professionali per 12 mesi. Nelle sue dichiarazioni Fusillo ha raccontato di come, da semplice costruttore con la terza media, nel rapporto con gli Jacobini aveva cominciato a fare investimenti patrimoniali sempre finanziati dalla Popolare. I cui vertici, sempre a suo dire, gli avrebbero impedito di ricorrere al concordato preventivo per non vedere vanificati i crediti della banca. «Con Marco - ha detto - ci vedevamo ogni sabato mattina», prima in sede, poi a bordo della barca dell’ex patron ormeggiata al circolo Barion, infine nella masseria di Cassano. E un capitolo molto importante sono i favori che Fusillo racconta di aver fatto agli Jacobini e agli altri dirigenti di Bpb, nella speranza che lo aiutassero a mettere a posto i suoi debiti. «Loro - mette a verbale Fusillo il 21 luglio - hanno avuto una serie di vantaggi già nei rapporti (...). Vuoi o non vuoi, gli abbiamo ristrutturato tutto un borgo a Cassano», cioè la masseria di Marco Jacobini, una vecchia costruzione con 200 ettari terreno. «Io - dice Fusillo - sono convinto che intorno ai 2 milioni abbiamo speso su quell’abitazione. E uno e quattro, uno e tre, uno e cinque sicuramente li abbiamo messi noi». Con quale tipo di accordo? «“Poi Dio vede e provvede” - risponde Fusillo -, e non ha provveduto a nulla. Lui lo sapeva che costava l’ira di Dio, non è che non lo sapeva, eh!». Stessa storia anche con Gianluca per la villa a Polignano. «Anche lì è successa la stessa storia: contratti bassi, lavori fatti da noi, cioè il materiale o eventuali... gli stati di avanzamento per coprire le perdite li facevamo noi». In tutto, dice Fusillo, altri «6-700 mila euro mai ripagati». Soldi che però lui non ha mai chiesto: «No, non ho mai provato, perché anche questo faceva parte: “Domani vediamo come risolvere il problema”, ma questo era ripetuto, perché la stessa cosa ho fatto con la casa di Monachino (l’ex direttore generale, ndr), la stessa cosa ho fatto quando ha comprato le case Lorusso da me, cioè anche il direttore Lorusso (un altro manager della banca) comprò la casa, vendevo ad un milione e due, il prezzo lo fece Marco Jacobini, disse: “A Pasquale Lorusso gli devi dare un appartamento a 700 mila euro”, e così feci». L’indagine della Procura di Bari, affidata alla Finanza, ipotizza che Fimco e Maiora, le due società di Vito Fusillo fallite un anno fa con 340 milioni di buco, abbiano ricevuto fino a 180 milioni di finanziamenti che ne facevano il principale cliente della Popolare. Il fascicolo conta complessivamente 15 indagati. Agli otto destinatari delle misure cautelari si aggiungono Emanuele e Giovanni Fusillo, fratelli di Vito, accusati di bancarotta così come Nicola Ancona, capo della Divisione business di PopBari (per la cessione di «Palazzo Trevi»), e il commercialista Nicola Vito Notarnicola, uno dei consulenti di Vito Fusillo (per una transazione fiscale). Il perito Michele Giannuzzi è accusato invece di falso materiale.

Popolare di Bari, chiesto processo per Gianluca Jacobini e atri 2 dirigenti. Unc: «Ci costituiremo parte civile». L'udienza preliminare inizierà il 28 gennaio 2021. Nel procedimento sono individuate come persone offese Banca d’Italia e Consob. La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 ottobre 2020. La Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per tre ex amministratori e dirigenti della Banca popolare di Bari, tra i quali l’ex condirettore generale Gianluca Jacobini, e per lo stesso istituto di credito per i reati di ostacolo alla vigilanza e falso comunicazione sociali. Si tratta di uno dei filoni sulla gestione della banca, commissariata a dicembre 2019, relativo alle cosiddette "operazioni baciate», che nell’aprile scorso ha portato al sequestro di beni per circa 16 milioni di euro. Rischiano il processo anche Giuseppe Marella e Nicola Loperfido, rispettivamente ex responsabili dell’Internal Audit e della Direzione Business dell’istituto di credito barese. L'udienza preliminare inizierà il 28 gennaio 2021 dinanzi al gup del Tribunale di Bari Marco Galesi. Nel procedimento sono individuate come persone offese Banca d’Italia e Consob. Stando alle indagini della Guardia di Finanza, coordinate dal procuratore facente funzione Roberto Rossi e dai sostituti Savina Toscani e Federico Perrone Capano, gli indagati avrebbero concesso finanziamenti ad alcuni clienti della banca, prevalentemente grossi gruppi imprenditoriali, a patto che poi fossero, almeno in parte, «direttamente o indirettamente utilizzati per l’acquisto di azioni proprie, complessivamente incidenti sui fondi propri della banca, in negativo, per 48,9 milioni di euro». Il valore degli azioni così vendute, cioè, di fatto comprate con fondi della banca stessa, sarebbe poi stato inserito indebitamente nel patrimonio di vigilanza così falsificando e sovrastimando la situazione economica dell’istituto di credito. In questo modo gli ex dirigenti della Popolare di Bari avrebbero ingannato Bankitalia e tutti gli altri soci presentando una solidità finanziaria inesistente, «non corrispondente al vero» e «sovrastimata».

UNIONE CONSUMATORI: «Co COSTITUIREMO PARTE CIVILE» - «Bene, ottima notizia. Si ampliano i filoni dell’indagine, come abbiamo sempre chiesto. Siamo pronti a costituirci parte civile anche in questo nuovo procedimento». Lo dichiara in una nota l’avvocato Corrado Canafoglia, responsabile dell’ufficio legale dell’Unione Nazionale Consumatori, commentando la richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Bari per l’ex condirettore generale della Banca popolare di Bari Gianluca Jacobini e altri due ex dirigenti per i reati di ostacolo alla vigilanza e false comunicazioni sociali. «E' il giochino che abbiamo già visto per le banche venete - spiega il legale - . Si costringevano gli imprenditori ad acquistare le azioni per poter avere un mutuo, un fido o un finanziamento. In pratica, si sfruttava la situazione di difficoltà dei clienti e il loro bisogno di avere immediata liquidità, per vendere azioni, sovrastimando così la situazione economica dell’istituto di credito». L'avvocato Canafoglia con i colleghi Antonio Calvani, Ennio Cerio di Campobasso e Valentina Greco rappresenta circa 230 risparmiatori che hanno già chiesto di costituirsi parti civili nell’altro processo già in corso sulla gestione della banca da parte degli ex amministratori Jacobini. 

Crac Popolari Bari e gli incroci con il «buco» del Vaticano. I 30 milioni chiesti alla Santa Sede per il palazzo londinese «Sloane Square» dovevano finire nella banca pugliese.  Massimiliano Scagliarini il 14 Ottobre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Un lungo e sottile filo internazionale potrebbe unire il palazzo londinese di Sloane Square, quello al centro dello scandalo sugli investimenti del Vaticano, con il crac della Banca Popolare di Bari. Il trait d’union di questa storia sarebbe Gianluigi Torzi, 41 anni, il finanziere molisano protagonista dell’operazione che avrebbe causato un buco milionario nei conti della Santa Sede. Sugli affari del quarantenne finanziere lavorano, al momento, almeno tre Procure. 

Popolare Bari, richieste per 380 milioni ai vecchi vertici e l’intreccio con lo scandalo dei fondi vaticani. Gianluca Paolucci il 9 ottobre 2020 su La Stampa. L’azione di responsabilità contro 19 ex amministratori e manager più Pwc. I rapporti con Torzi e Mincione e i soldi della Santa Sede finiti in una delle operazioni spericolate. Richieste per 380 milioni di euro contro 19 ex amministratori e manager della Popolare di Bari e contro il revisore Pwc. E un intreccio quantomeno curioso con la vicenda dei fondi del Vaticano. L’azione di responsabilità avviata giovedì dai commissari della banca pugliese, Antonio Blandini e Enrico Ajello, tocca tutte le operazioni più spericolate condotte dai vertici dell’istituto negli ultimi cinque anni.

L’affaire Vaticano e il broker: 4 inchieste dei pm di Milano. Le manovre di Torzi - I magistrati indagano su società lussemburghesi

. Gianni Barbacetto il 6 ottobre 2020 su Il Fatto Quotidiano. Un poker d’indagini e una rogatoria arrivata dal Vaticano: anche la Procura di Milano entra nella partita delle inchieste che stanno scuotendo la Santa Sede. Sotto la lente dei magistrati milanesi è finito uno dei finanzieri protagonisti degli affari promossi da monsignor Giovanni Angelo Becciu e dai suoi collaboratori presso gli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana. È quel Gianluigi Torzi che nel 2018 sostituisce Raffaele Mincione, altro mago della finanza offshore, nella gestione dell’ormai famoso palazzo di Londra al numero 60 di Sloane Avenue, fonte – secondo gli investigatori vaticani – di perdite milionarie. Ci sono ben quattro fascicoli sugli affari di Torzi aperti a Milano sulle scrivanie di quattro diversi sostituti procuratori, per reati che vanno dalla truffa alla bancarotta. Il più antico, di molto precedente alle indagini vaticane, riguarda il crac di Banca Mb, saltata nel 2012. Il più recente, aperto a luglio, nasce invece da una rogatoria inviata dal Vaticano. Riguarda proprio il ruolo di Torzi nella gestione dell’immobile londinese, ex sede dei magazzini Harrods. Le due indagini milanesi hanno un personaggio in comune: l’avvocato Nicola Squillace, con studio a Milano, a un indirizzo un tempo molto noto, quello dello studio Libonati-Jaeger, fondato dal suocero di Squillace, Pier Giusto Jaeger. Squillace è stato in passato indagato proprio per la bancarotta Mb, come poi anche Torzi. Oggi invece i magistrati stanno cercando di ricostruire le operazioni dalla Gutt sa, società lussemburghese di Torzi che viene alla ribalta nel 2018. Il 15 agosto di quell’anno, Becciu viene rimosso dal suo incarico e mandato a pensare ai beati, come prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Lo sostituisce agli Affari generali della Segreteria di Stato l’arcivescovo venezuelano monsignor Edgar Peña Parra. Nel novembre del 2018, il nuovo arrivato mette alla porta Mincione, accusato di aver provocato pesanti perdite alle finanze vaticane. A prendere il suo posto arriva Torzi con la Gutt. Lo assiste, da Milano, l’avvocato Squillace. Ora l’indagine della Procura milanese, in risposta alla rogatoria vaticana, dovrà ricostruire l’operazione per i promotori di giustizia Giampiero Milano e Alessandro Diddi, i “pm del papa”, fornendo loro anche i documenti sequestrati a Squillace. Torzi era entrato nell’operazione a fine 2018, quando la Santa Sede aveva cercato di venire in possesso del palazzo londinese, liquidando con 40 milioni le quote del fondo Athena Capital Global Opportunities di Mincione, che aveva avviato con Becciu l’affare di Sloane Avenue nel 2014. Torzi, entrato in partita, aveva ceduto al Vaticano 30 mila azioni della Gutt senza diritto di voto, mantenendo per sé 1.000 azioni con diritto di voto, che gli avevano permesso di mantenere il controllo del palazzo. Per cederle al Vaticano aveva chiesto 30 milioni, ma ne aveva ottenuti solo 15. Poi, il 5 giugno, era stato arrestato dalle autorità vaticane, con l’accusa di estorsione. Si fa ora strada l’ipotesi che i 30 milioni chiesti al Vaticano servissero a Torzi per chiudere un’operazione con la Popolare di Bari. È quella raccontata dal Fatto Quotidiano nel luglio 2019: Vincenzo De Bustis, allora consigliere delegato della banca pugliese, aveva annunciato l’arrivo di titoli per 30 milioni sottoscritti da una società maltese, la Muse Ventures Ltd, fondata da Torzi con un capitale di soli 1.200 euro. I 30 milioni non arrivano a Bari. In compenso, arrivano gli allarmi del servizio antiriciclaggio della Popolare di Bari, che sottolineano la “sproporzione tra i mezzi propri del sottoscrittore” (la Muse) “e l’importo della sottoscrizione dei titoli”; rilevano che “l’anagrafica e l’identificazione della società in discorso”, cioè la maltese Muse di Torzi, “risultano incomplete, essendo carenti le informazioni relative al titolare effettivo e al codice fiscale”; e che l’amministratore di Muse, Gianluigi Torzi, insieme al padre Enrico, è presente “nelle liste mondiali di bad press (WorldCheck) per diverse indagini a suo carico”. L’operazione con questo personaggio è classificata “ad alto rischio” e con “evidenza antiriciclaggio negativa”. Bloccato a Bari, Torzi ci prova comunque a Roma. Ora i nodi vengono al pettine a Milano.

Pop-Bari, condanna da 51 milioni: «Deve risarcire il fondo Naxos». L'operazione di De Bustis con il finanziere Torzi: soldi in Lussemburgo. Massimiliano Scagliarini il 16 Ottobre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. I soldi mai arrivati dalla società maltese del finanziere Gianluigi Torzi, su cui sono al lavoro tre Procure oltre che gli inquirenti della Santa Sede, potrebbero costare carissimi alla Popolare di Bari. Il 6 marzo scorso il Tribunale di Lussemburgo ha infatti condannato l’istituto pugliese a risarcire con 51,5 milioni il misterioso fondo Naxos, gli stessi che a dicembre 2018 l’allora consigliere Vincenzo De Bustis si era impegnato a investire nell’ambito di una operazione di «rafforzamento patrimoniale» che al Valutario della Finanza è sembrata da subito una operazione circolare. «Il gioco degli equivoci», per usare le stesse parole dell’azione di responsabilità che i commissari della Popolare hanno avviato la settimana scorsa contro ex vertici ed amministratori di PopBari a partire da Marco e Gianluca Jacobini (il primo interdetto, il secondo tuttora ai domiciliari). All’atto predisposto dal professor Ferruccio Auletta sono allegati documenti che danno all’operazione Naxos tutto un altro sapore. Diverso, comunque, da quello ipotizzato dalle Procura di Milano e Bari. Ma che vede al centro sempre Torzi, il finanziere molisano arrestato dalla giustizia vaticana per estorsione, per aver chiesto 30 milioni in cambio della «restituzione» alla Santa Sede del palazzo londinese di Sloane Square, uno degli investimenti che sono costati il posto al cardinale Angelo Becciu. Il rapporto ispettivo commissionato dai commissari di PopBari allo studio americano Orrick ha ricostruito questa ed altre operazioni che hanno aperto un buco da oltre un miliardo e mezzo nei conti della banca barese. Ed è dalla relazione di Orrick che conviene partire per comprendere cosa accadde nelle stanze di corso Cavour alla vigilia di Natale 2018. PopBari aveva necessità di mettere in atto un «piano di rafforzamento del Total Capital mediante emissione di nuovi strumenti finanziari», così come era stato richiesto a novembre 2018 da Bankitalia. E qui entra in scena De Bustis, che - appena entrato in cda al posto dell’ad Giorgio Papa - annuncia al consiglio di amministrazione di aver ottenuto la «disponibilità alla sottoscrizione di titoli sino all’importo nominale di 30 milioni da parte della società Muse Services Ltd., con sede in Malta». La Muse Service è una società con 1.200 euro di capitale riconducibile a Torzi, che si sarebbe impegnata a sottoscrivere obbligazioni per 30 milioni. L’operazione verrà accantonata: «evidenti carenze istruttorie» avevano fatto sì che nessuno si rendesse conto del profilo problematico del finanziere con cui si stava trattando. Tuttavia, secondo gli atti dell’azione di responsabilità, «è da desumere che la sottoscrizione del prestito obbligazionario in parola non sia avvenuta in ragione della mancata definizione della “parallela” operazione Naxos». Naxos, dunque. Il 27 dicembre 2018 il cda della Popolare delibera l’investimento nel fondo lussemburghese, «orchestrata essenzialmente dal consigliere con deleghe Vincenzo De Bustis» e caratterizzata «da una assoluta mancanza di istruttoria e di qualsivoglia verifica sulla controparte». Ma nonostante PopBari non proceda a versare i 51 milioni, avendo assunto l’obbligazione (questo è il tema della condanna del Tribunale lussemburghese) entra in scena la Banca Caceis, agente e depositaria del fondo Naxos, che «ritenne di anticipare a quest’ultimo le somme che la Banca Popolare di Bari avrebbe dovuto investire».

Insomma, i 51 milioni della Popolare vennero investiti in Lussemburgo sulla parola. E con quei soldi, Naxos - prosegue ancora la relazione Orrick - «ha immediatamente proceduto all’acquisto di titoli di fatto illiquidi e detenuti da entità rapportabili all’individuo cui era riconducibile Muse Services». Ovvero a Torzi. Ecco l’operazione circolare. Il risultato di tutto questo è che la Muse non sottoscriverà mai i 30 milioni di obbligazioni necessari a rafforzare il patrimonio di vigilanza della PopBari (soldi che, secondo due Procure, potevano essere gli stessi 30 milioni che Torzi sperava di ottenere dalla Santa Sede). Invece il fondo Naxos ha trascinato l’istituto pugliese davanti al Tribunale di casa propria, e nonostante una relazione interna della PopBari valutasse il rischio di soccombenza come «remoto», la causa è finita con la condanna a risarcire 51 milioni. Resta da chiedersi: che fine hanno fatto i 51 milioni investiti da Naxos in titoli illiquidi? Pare che il valore attuale delle quote del fondo sia di 20 milioni: ovvero - coincidenza - più o meno la differenza tra i 51 promessi da e i 30 promessi a Popolare. L’operazione circolare.

Inchiesta. La guerra della famiglia Torlonia: tra sequestri e il (quasi) crac della Banca del Fucino. L'istituto di famiglia a un passo dal fallimento acquisito in extremis da una strana cordata. Sullo sfondo di una faida che divide una delle famiglie più ricche e potenti della Roma vaticana. Ecco cosa svelano i documenti di questa dynasty italiana. Emiliano Fittipaldi e Vittorio Malagutti il 31 gennaio 2020 su L'Espresso. C'è una storia di malafinanza dietro i fuochi d’artificio della battaglia legale che divide gli eredi della nobile casata romana dei Torlonia. Anni di prestiti avventati, acrobazie di bilancio, investimenti sballati si sono mangiati reputazione e patrimonio della Banca del Fucino. Una zavorra di operazioni ad alto rischio ha mandato a picco l’istituto fondato a Roma nel 1923 dal senatore del regno Giovanni Torlonia, erede della colossale fortuna di una dinastia con oltre due secoli di storia alle spalle. Servono 200 milioni per evitare il crac e all’orizzonte è già comparso un cavaliere bianco con le insegne della neonata Igea Banca, partita da Catania per sbarcare in forze nella capitale con Mauro Masi, già direttore generale della Rai, sulla poltrona di presidente. I soldi freschi andranno a coprire i buchi in bilancio e a rilanciare l’attività di un istituto di credito da sempre legato a doppio filo al Vaticano, tanto da essere considerato a lungo una sorta di succursale dello Ior, la banca del Papa. Le grandi manovre per l’ingresso dei nuovi azionisti sono partite da mesi, ma non sarà facile chiudere i conti con un passato su cui gravano ombre e sospetti. Il forziere dei Torlonia, per quasi un secolo stanza di compensazione degli affari della borghesia capitolina, è affondato nell’arco di soli tre anni, bruciando mezzi propri per oltre 100 milioni. Ad alzare il velo sulla fallimentare gestione del presidente Alexander Poma Murialdo, giovane rampollo della dinastia, è stata la Vigilanza di Bankitalia. Dopo anni di richiami formali e informali, gli ispettori inviati dal governatore Ignazio Visco hanno bussato alla Banca del Fucino nel febbraio del 2017 e l’esito dei controlli, terminati a fine aprile, è stato disastroso. “Sfavorevole”, questo il voto finale, il più basso possibile, attribuito all’istituto di credito dei Torlonia nella relazione riservata che L’Espresso ha potuto esaminare. Il verdetto della Vigilanza, accompagnato da una multa di 350 mila euro, ha di fatto costretto la famiglia romana, che controllava per intero il capitale della banca, a cercare al più presto un finanziatore disposto a tappare le falle in bilancio. Il salvataggio, già complicato di per sé, ha finito per sovrapporsi alla disputa per la divisione dell’eredità di don Alessandro Torlonia, morto a 92 anni nel dicembre del 2017. Il primogenito Carlo ha impugnato il testamento che, a suo dire, avrebbe favorito gli altri figli del patriarca scomparso. E cioè: Giulio, Francesca e Paola, madre di Alexander Poma Murialdo, dal 2014 a capo della banca e nominato dal nonno Alessandro esecutore testamentario. Nel ricorso si elencavano una serie di manovre architettate, secondo l’accusa, per aggirare la reale volontà del defunto e depauperare la quota di legittima destinata all’erede più anziano. A novembre del 2018 fece scalpore la notizia che il giudice Fulvio Vallillo di Roma aveva disposto il sequestro giudiziario di tutti i beni di famiglia. Un patrimonio dal valore stimato oltre due miliardi di euro che comprende, tra l’altro, dimore storiche come Villa Albani, sulla Salaria, Palazzo Torlonia, in via della Conciliazione, a due passi dal Vaticano e una collezione unica al mondo di 630 statue antiche greche e romane. Ad aprile dell’anno scorso, però, una nuova sentenza (dopo che le opere sono state inventariate, evitando così il rischio di dispersione delle stesse) ha revocato il precedente provvedimento del tribunale. Si è chiuso così con un nulla di fatto il round d’apertura di una contesa destinata a continuare su un altro fronte, quello finanziario. Sotto accusa, questa volta, è finita la gestione della Banca del Fucino presieduta da Poma Murialdo, 32 sportelli, in gran parte nella capitale, e un miliardo circa di attività in bilancio. Le carte di Bankitalia portano acqua al mulino di Carlo Torlonia che accusa il nipote di aver condotto l’istituto sull’orlo del crac. Nella relazione della Vigilanza si legge tra l’altro della «mancata inclusione tra i clienti ad alto rischio di diversi soggetti interessati da richieste degli organi inquirenti e di alcune controparti collegate a politici nazionali». Nessun nome, ma i rilievi degli ispettori suonano come la conferma di quella che viene definita come «un’accentuata rischiosità creditizia». Per anni - accusa Bankitalia - i vertici della Banca del Fucino sono rimasti colpevolmente inerti mentre l’istituto accumulava crediti a rischio e quando finalmente, messi alle strette dalla Vigilanza, amministratori e dirigenti si sono decisi a correre ai ripari, i conti erano ormai fuori controllo. In sostanza, secondo quanto si legge nel rapporto ispettivo, per anni è stata prassi comune elargire prestiti senza verificare adeguatamente le garanzie presentate dal cliente. Peggio ancora: i finanziamenti di difficile rimborso sono stati iscritti a bilancio senza adeguate svalutazioni. Gli ispettori hanno anche scoperto che «il rinnovo dei fidi» avveniva «sulla base di meri promemoria per la direzione». Casi isolati? Mica tanto, se è vero che questa procedura semplificata e del tutto irregolare è stata adottata, si legge nei documenti di Bankitalia, per un totale di 277 pratiche del valore complessivo di 112 milioni. Al termine dell’ispezione del 2017 la Vigilanza impone finalmente un giro di vite. Risultato: gli amministratori della Banca del Fucino, con Giuseppe Di Paola alla direzione generale, sono infine stati costretti ad accantonare 70 milioni di euro a copertura di nuove possibili perdite. La manovra ha lasciato il segno sul conto economico. Il bilancio che nel 2014 e nel 2015 aveva viaggiato in sostanziale pareggio si è chiuso con una perdita di 47 milioni nel 2016. C’è poco da fare, a questo punto. Il patrimonio dell’istituto è ormai ben al di sotto del livello di guardia. Servono risorse fresche e in gran fretta: 50 milioni di nuovo capitale entro la fine del 2017, ordina Banca d’Italia. I Torlonia cercano investitori disposti a sottoscrivere obbligazioni per 40 milioni. C’è anche l’ipotesi di chiedere un prestito di 25 milioni a Ubi banca. Entrambe le ipotesi sfumano però nel giro di qualche settimana, così come viene archiviata anche un’intesa preliminare raggiunta all’inizio del 2018 con il fondo Barents. Il salvataggio va ai tempi supplementari e per puntellare i conti pericolanti dell’istituto, Poma Murialdo ricorre all’ingegneria finanziaria. A fine 2016 la Banca del Fucino compra per 30,2 milioni il palazzo di via Tomacelli, nel centro di Roma, che già occupava in affitto. Chi vende? È un affare in famiglia, perché l’immobile viene ceduto dalla Società romana di partecipazioni sociali (Srps) che è controllata dalla holding Torlonia partecipazioni. L’operazione non è piaciuta a Bankitalia, in quanto la valutazione del valore del palazzo era un atto di parte, deciso solo dal venditore: secondo alcune stime, il palazzo valeva di meno. Particolare importante: tutte le società citate erano gestite da Poma Murialdo, costretto a destreggiarsi tra più ruoli in commedia, spesso sul filo del conflitto d’interessi. La compravendita va in porto, ma la Banca del Fucino non paga il conto e la Srps rinuncia al proprio credito, di fatto finanziando l’istituto di credito che può mettere così a bilancio 30 milioni circa di attività supplementari (il palazzo di via Tomacelli). Non è ancora finita, perché a maggio del 2017 Torlonia partecipazioni acquista una quota dell’8 per cento di Banca del Fucino messa in vendita dalla propria controllata Srps. Il pacchetto azionario passa di mano per 31,2 milioni. Un’operazione «assolutamente irragionevole ed imprudente», accusa Carlo Torlonia, perché quei titoli erano di fatto privi di valore, visto che la banca era ormai prossima al dissesto. Questa tesi è stata accolta dal tribunale di Roma che con sentenza del 22 dicembre scorso ha disposto un sequestro conservativo per 39 milioni a carico di Poma Murialdo e dei tre componenti del collegio sindacale di Torlonia partecipazioni, Mauro Longo, Alberto Sabatini e Paolo Saraceno. Discutibili sul piano formale, i giochi di sponda tra le società dei Torlonia sono serviti più che altro a guadagnare qualche mese in vista dell’inevitabile resa dei conti. Nel 2017 il bilancio della Banca del Fucino si chiude ancora in rosso per 27 milioni, che si aggiungono ai 47 milioni di perdite dell’anno precedente. Bankitalia incalza, chiede che venga colmato quanto prima un deficit di capitale che rischia di affondare l’istituto. L’allarme è tale che viene interpellato anche il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), per un intervento d’emergenza da 40 milioni di euro. Non ce ne sarà bisogno, perché arriva il salvagente di Igea Banca. L’affare matura nei primi mesi del 2019, mentre gli ispettori della Vigilanza sono nuovamente al lavoro negli uffici dell’istituto dei Torlonia. La situazione ormai è compromessa. Nel 2018 il patrimonio netto è andato sotto zero: negativo per 1,9 miliardi di euro. La perdita dell’attività creditizia, che ammonta a 36 milioni, è stata parzialmente compensata da alcune partite fiscali straordinarie. Il rosso di bilancio approvato solo a ottobre del 2019, a dieci mesi dalla chiusura dell’esercizio, si ferma così a 5 milioni, ma nel frattempo i depositi si sono ridotti di un quarto e i prestiti alla clientela hanno fatto segnare un calo del 18 per cento. Con questi numeri l’unica alternativa al fallimento è la vendita. E così, a maggio del 2018, gli azionisti di Banca del Fucino, cioè le società della famiglia Torlonia, danno via libera a un aumento di capitale da 200 milioni che Igea Banca si dichiara pronta a sottoscrivere. Il salvataggio sarà finanziato da una compagine quanto mai eterogenea. In prima fila c’è l’imprenditore Giorgio Girondi, patron del gruppo Ufi Filter (filtri per auto) che si è impegnato a investire 25 milioni tramite una sua società inglese. Insieme a Girondi troviamo tra gli altri la fondazione Banca del Monte di Lombardia, gli enti pensionistici dei periti agrari (Enpaia) e degli infermieri (Enpapi), la cassa mutua dei tabaccai (Ecomap) e decine di piccoli azionisti che a suo tempo avevano investito nella Popolare dell’Etna, finita in amministrazione straordinaria e rilevata tre anni fa da Igea Banca. A dirigere le operazioni, insieme al presidente Masi, sarà un manager bancario di lungo corso come il siciliano Francesco Maiolini. Entrambi si portano in dote un patrimonio di relazioni nel mondo politico che certo non saranno d’intralcio sulla strada del rilancio della malconcia Banca del Fucino. Masi, che ha iniziato proprio in Bankitalia la sua carriera di grand commis, è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Silvio Berlusconi e capo di gabinetto di Massimo D’Alema, per poi atterrare alla Rai e quindi alla Consap, la concessionaria pubblica di servizi assicurativi, di cui è tuttora presidente. Maiolini invece, gran navigatore del potere siciliano sin dai tempi di Salvatore Cuffaro, aveva creato da zero Banca Nuova, l’istituto palermitano controllato dalla Popolare di Vicenza di Gianni Zonin, da cui si è provvidenzialmente congedato prima del crac del 2015. La seconda vita della Banca del Fucino è cominciata nelle scorse settimane con il cambio della guardia nel consiglio di amministrazione, ora presieduto da Masi con Maiolini vice. Nel frattempo, però, Poma Murialdo ha negoziato i termini della resa. Nel testo dell’intesa con Igea Banca si legge infatti che i nuovi soci dell’istituto romano in crisi si impegnano «a rinunciare a proporre eventuali azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci dimissionari». Capitolo chiuso, quindi? Non è detto, perché Banca d’Italia ha inviato a Consob e procura della Repubblica le carte dell’ispezione in Banca del Fucino. Come dire che l’ultimo atto della storia secolare dei banchieri Torlonia potrebbe andare in scena in tribunale.

Vent’anni di crack delle banche sono costati ai cittadini 45 miliardi di euro. Redazione venerdì 27 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. I crack delle banche e quelli  finanziari degli ultimi anni, tra fallimenti e liquidazioni che si sono succeduti nel nostro paese e all’estero, hanno trascinato nel baratro oltre 1,3 milioni di risparmiatori italiani. I quali hanno visto andare in fumo complessivamente più di 45,4 miliardi di euro investiti in azioni, obbligazioni e titoli vari. Con una perdita media di 34.427 euro a risparmiatore. Lo afferma il Codacons, che con il caso di Banca popolare di Bari aggiorna i conti dei principali default registrati a partire dall’anno 2000. Default che hanno coinvolto le tasche degli italiani, cancellando i risparmi investiti.

I tanti fallimenti delle banche. Si parte con i casi Bipop-Carire, Argentina e Cirio che tra il 2001 e il 2002 hanno coinvolto complessivamente più di 500mila risparmiatori italiani. Passando per gli scandali Parmalat (2003, 110mila investitori) e Lehman Brothers (2008, 100mila investitori), fino ad arrivare ai più recenti Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza (2016, oltre 206mila investitori coinvolti). Banca Popolare di Bari ha bruciato fino ad oggi 1,5 miliardi di euro di risparmio dei 70mila soci attraverso l’azzeramento del valore delle azioni. E al momento non si conosce il destino dei 213 milioni di euro investiti dai piccoli risparmiatori in obbligazioni della banca. Il conto totale per la collettività è abnorme. Dal 2001 ad oggi più di 45,4 miliardi di euro di risparmi sono letteralmente andati in fumo. E solo una minima parte di tali investimenti è stata poi recuperata dai piccoli risparmiatori. Con gravi responsabilità anche di Bankitalia.

L’Abi non è preoccupata per i crediti deteriorati. “Anche in caso di una perdurante debolezza del ciclo economico non si interromperà il trend di riduzione della rischiosità degli attivi delle banche operanti in Italia”. Così Giovanni Sabatini, direttore generale dell’Abi, nel commentare l’Outlook elaborato assieme a Cerved sul tasso di deterioramento dei crediti delle imprese nel 2019 e nel biennio 2020-2021. “La stabilizzazione del flusso di nuovi crediti deteriorati sui livelli pre-crisi favorirà anzi un’ulteriore contrazione dell’Npl ratio. Che ci attendiamo convergere in breve tempo sui target fissati dalle Autorità di vigilanza. Si tratta di un risultato che premia gli sforzi compiuti dal settore negli ultimi anni e ne conferma la solidità complessiva”.

Capasso, la banca del Sud in utile fin dalla prima guerra mondiale (e il Ceo guadagna solo 81mila euro). Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Mario Gerevini. L’amministratore delegato si chiama come la sua banca e - direbbe Gabbani - viceversa. Sede ad Alife, filiali a Piedimonte Matese e altri due paesi vicini. Tra poco l’assemblea approverà il bilancio 2019: sarà il numero 107 con il segno più. Nessuno come loro in Italia, in Europa e probabilmente al mondo. La Banca Capasso Antonio (proprio così: cognome e nome come se fosse l’appello a scuola) è stata creata da un ragazzo di 24 anni nel 1912 e ora è gestita dal suo bisnipote Salvatore, 63 anni, sei figli e 26 dipendenti. A lui fa capo il 41% circa, alla sorella Rosa il 10% mentre il 36% è dei cugini (figli di una Capasso) Domenico e Ferdinando Parente, quest’ultimo ex responsabile della Vigilanza di Bankitalia a Milano che lasciò proprio per poter mantenere la quota nell’istituto di famiglia. La Banca è nata lo stesso anno in cui affondò il Titanic, ha attraversato guerre mondiali, crisi economiche devastanti, dittature, varie rivoluzioni tecnologiche ma le generazioni dei Capasso hanno sempre tenuto la barra dritta. In un territorio, tra l’altro, che non è la Baviera o la Brianza. Non si sono mai innamorati nè del ruolo nè del potere che l’accompagna e nemmeno dei soldi che sono transitati sotto i loro occhi per decenni. Si sono messi al servizio della loro banca. Telefonini e auto aziendali semplicemente non esistono. Se uno li vuole, presidente e amministratore delegato compresi, se li compra. Salvatore Capasso, amministratore delegato dal 2000, ha lo stesso stipendio da anni: 81 mila euro annui più buoni pasto da 3 euro. Conosce tutti, si sposta in bicicletta. Uno così venderebbe azioni o obbligazioni ai suoi clienti sapendo di mettere a rischio i loro risparmi? La Banca d’Italia due anni fa ha mandato gli ispettori ad Alife per una verifica periodica. “La valutazione, nel complesso positiva - si legge nel bilancio 2018 - è ascrivibile ad una robusta dotazione patrimoniale, una favorevole situazione di liquidità ed un’esposizione ai rischi complessivamente non elevata … pur sussistendo ambiti di miglioramento”. “Noi cerchiamo di assecondare e favorire lo sviluppo del territorio di cui siamo parte - dice Capasso - ai dipendenti diamo premi di rendimento ma non li sto a stressare per raggiungere a tutti i costi gli obiettivi, andiamo avanti con il buon senso delle cose anche se oggi il buon senso si scontra con le regole del mercato”. Cioè i tassi zero che vuol dire salti mortali per fare i bilanci, l’adeguamento tecnologico, il digitale che galoppa. “I nostri paesi si stanno spopolando - aggiunge Capasso - i giovani vanno via: li abbiamo cresciuti anche noi con il libretto di risparmio ma poi vanno a Milano a Roma e all’estero, si fanno il conto là ... ”. Così anche la piccola, fortissima Banca Capasso (il CeT 1, il parametro che misura la solidità patrimoniale è al 41,5% quando il minimo richiesto è l’ 8%) si sta interrogando sul suo futuro: avanti da soli trasformando il modello operativo o allearsi? Nel frattempo però l’utile numero 107 è arrivato, quasi un milione su circa 125 di raccolta e una cinquantina di impieghi. E’ piccola, d’accordo, ma dove trovate un banchiere e una banca che sono amati nel territorio in cui operano? E viceversa.

Rosario Dimito per “il Messaggero” il 7 marzo 2020. Prende consistenza la crescita del fabbisogno di capitale per il salvataggio della Popolare di Bari (BPB) da parte del Fondo interbancario tutela depositi (Fitd) e Mcc. Rispetto a un rafforzamento fissato a 1,4 miliardi da parte del Fondo banche che, a fine dicembre, ha dovuto praticare un intervento d'urgenza di 310 milioni, a valere sui 700 milioni della propria quota parte, ora la manovra potrebbe salire a 1,6 miliardi. Se ne sarebbe discusso ieri, secondo quanto ricostruito da Il Messaggero presso fonti bancarie, in un vertice ristretto del Fitd che ha rimandato la decisione al consiglio del 18, a valle dell'esecutivo Abi. La due diligence e la predisposizione del nuovo piano industriale di BPB è in fase molto avanzata: entrambi dovrebbero essere finalizzati per la fine della prossima settimana. Dalle verifiche fatte finora dagli advisor Equita e Rccd per Mcc, Kpmg e Bep (Fitd), Oliver Wyman e Orrick per i commissari, sarebbe però evidente la necessità di procedere ad ulteriori rettifiche su crediti, sollecitate dalla banca del Tesoro a garanzia della pulizia dell'attivo, in funzione della procedura da avviare con la Dg Comp. I 200 milioni aggiuntivi, però, non è detto che possano essere versati tout court dal Fondo, che tra l'altro è vincolato alla formula del minor onere, nel senso che l'intervento preventivo è ammissibile quando l'esborso è inferiore al costo del rimborso dei depositi in caso di default. I rappresentanti delle banche avrebbero posto alcune osservazioni sul piano a cinque anni in cantiere con break-even nel 2022. Secondo Ranieri de Marchis (Unicredit), seguito da qualche altro esponente, sarebbe il caso di ripartire da zero nel confezionamento del piano, adeguandolo agli effetti del coronavirus. Ma questa eventualità allungherebbe troppo i tempi. Piuttosto, nel nuovo scenario il consorzio delle banche deve fare i conti con le strategie di Mcc, che essendo pubblico, non può fare investimenti a copertura di perdite pregresse. Inoltre per Bruxelles è necessario che il suo intervento, affinché sia di mercato, abbia un ritorno adeguato: finora i ritorni ammessi non erano stati inferiori al 5-8%.

Bari, lo scandalo BpB all'anno giudiziario: «Travolto un sistema di potere». Il presidente Franco Cassano sulla vicenda giudiziaria che ha coinvolto gli ex vertici dell'istituto bancario barese. La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Febbraio 2020. «Un intero sistema di potere ne è uscito travolto» e, «comunque vada, il tessuto economico-finanziario della città non sarà più lo stesso». Lo ha detto il presidente della Corte di Appello di Bari, Franco Cassano, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario di Bari, con riferimento alla vicenda giudiziaria in cui è coinvolta la Banca Popolare di Bari, che ieri ha portato all’arresto di tre persone, tra cui l’ex presidente Marco Jacobini e suo figlio Gianluca, ex codirettore dell’istituto di credito. «L'avventura della Banca popolare di Bari - ha rilevato Cassano - ha valenza simbolica per la storia di questa città e non solo», e «riveste una situazione umana drammatica: 70mila soci, oltre duemila dipendenti e tantissimi piccoli risparmiatori, anche pensionati, vivono momenti dolorosi». Cassano ha poi evidenziato «la sollecitudine della risposta giudiziaria, sia di quella penale con le indagini attivate dalla Procura di Bari su plurime ipotesi delittuose che ieri hanno condotto alle custodie cautelari, sia di quella civile che ha visto la Corte di Appello nel settembre 2019 assumere approfondite decisioni, confermative delle sanzioni irrogate dalla Consob nei confronti della Banca e dei suoi dirigenti, decisioni peraltro ancora non definite».

SOLITA FOGGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Foggia.

Cerignola, padre e figlio trovati morti in campagna sotto un cumulo di rifiuti: uccisi a colpi d'arma da fuoco. Ritrovata l'auto delle vittime. Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno il 31 luglio 2022.

I corpi di Gerardo e Pasquale Cirillo senza vita rinvenuti nelle campagne. Non avrebbero pagato un debito di 10mila euro. Sul 58enne precedenti penali per droga

Un movente di natura privata legato a un presunto prestito di denaro potrebbe essere alla base del duplice omicidio di Gerardo e Pasquale Davide Cirillo, padre e figlio, di 58 e 27 anni i cui cadaveri, avvolti da sacchetti in plastica e nascosti sotto i tubi per l’irrigazione, sono stati ritrovati ieri mattina in una campagna a Cerignola, nel Foggiano.

La notte scorsa gli agenti di Polizia hanno ascoltato una decina di persone tra partenti e conoscenti delle vittime, tra cui anche alcune persone che potrebbero aver assistito al delitto. Non è stato effettuato alcun esame dello stub. A quanto trapela, ad uccidere padre e figlio potrebbe essere stata una sola persona che avrebbe freddato i due uomini con un colpo di pistola alla nuca.

È stata una parente dei due a denunciarne la scomparsa già dalla sera prima, non vedendoli rientrare. Gli agenti si sono subito recati nel terreno che i due avevano affittato da circa cinque mesi: lì la scoperta dei cadaveri, prima quello del figlio, poi a distanza di circa cento metri quello del padre. Quest’ultimo era in affidamento ai servizi sociali, in seguito a una condanna per un suo arresto risalente al 2014 quando in una mansarda nella sua disponibilità furono trovati 230 grammi di cocaina.

E’ stata ritrovata in mattinata dalla polizia l’auto di Gerardo e Pasquale Davide Cirillo padre e figlio rispettivamente di 58 e 27 anni i cui cadaveri sono stati trovati ieri mattina nel loro fondo agricolo nelle campagne di Cerignola (Foggia). Il mezzo era stato abbandonato nelle vicinanze del fiume Carapelle in una zona non lontana dal luogo del ritrovamento dei due corpi.

Non si esclude - ma siamo ancora nel campo di prime ipotesi investigative - che l’auto sia stata utilizzata dal killer per la fuga dopo aver ucciso i due uomini. Sul luogo del duplice omicidio, inoltre, i poliziotti hanno recuperato un bossolo di una pistola calibro 3,80. Proseguono le indagini per cercare di risalire all’individuazione del presunto responsabile.

Il movente

Uccisi per un debito, pare di una cifra leggermente superiore ai diecimila euro. Potrebbe essere questo, secondo i primi accertamenti investigativi, il movente del duplice omicidio.

La giornata di ieri

Un colpo di pistola alla nuca, giustiziati e poi chiusi in sacchi di plastica, nascosti sotto decine di tubi di gomma usati per irrigare i campi: è finita così la vita di Gerardo Cirillo, 58 anni, e di suo figlio 27enne Pasquale Davide, ammazzati nelle campagne del Foggiano. I loro corpi erano vicino a un casolare abbandonato tra Cerignola e Manfredonia, sulla terra spaccata dal sole. La stessa che da cinque mesi avevano affittato per lavorare come agricoltori. Le loro tracce si erano perse la scorsa notte quando i familiari ne hanno denunciato la scomparsa. E questa mattina le ricerche sono partite proprio dove lavoravano: è qui che gli investigatori hanno trovato prima il corpo del 27enne e poi, verso le ore 10, a un centinaio di metri di distanza, quello di suo padre. Per srotolare la matassa di vecchi tubi, e riuscire a estrarre i due cadaveri, è stato necessario l’intervento dei Vigili del fuoco. Sulla vicenda gli investigatori mantengono il massimo riserbo. «Sembra», ci tengono però a precisare, che la criminalità non c'entri nulla.

Il primo pensiero, con un duplice omicidio in questo territorio, corre presto alla cosiddetta «Società foggiana», la mafia locale nota per la sua ferocia. Chi è rimasto in città, nell’ultima domenica di luglio, è sicuro che si tratti di un regolamento di conti di qualche tipo. «Da queste parti - dicono due signore - anche se pronunci una parola di troppo rischi la vita. Per quello che abbiamo saputo sono stati colpiti alla testa, sono stati giustiziati, la mafia c'entra eccome, e noi qui abbiamo sempre più paura, soprattutto per i nostri figli. Non tutti hanno la fortuna di potersene andare da qui». 

«La droga, qualche sgarro sul lavoro o qualche battuta di troppo a una donna - sottolinea una coppia di ragazzi - potrebbe avergli fatto fare questa brutta fine». Il 58enne aveva precedenti penali per droga, ma questo non avrebbe a che fare con il duplice omicidio: fu arrestato il 15 settembre del 2014 perché in una mansarda nella sua disponibilità furono trovati 230 grammi di cocaina. Incensurato suo figlio. Le indagini sono affidate alla Squadra mobile, coordinata dalla Procura di Foggia. Al momento, però, il caso sembra un giallo. Neppure alle autorità civili locali vengono fornite informazioni per evitare fughe di notizie e non correre il rischio di pregiudicare l’esito delle indagini. L’attenzione degli inquirenti si sta concentrando sulla vita privata delle vittime. Parenti e conoscenti potrebbero essere la chiave per risalire al motivo e ai responsabili della morte dei due uomini. E per questo la Polizia sta ascoltando chiunque abbia avuto rapporti con loro.

Padre e figlio uccisi a Cerignola, nelle intercettazioni i momenti concitati dell'esecuzione. Spari e ultime parole di una vittima: «Non dico niente a nessuno». Il presunto killer era intercettato perché sospettato di un altro omicidio. Redazione online il 18 Agosto 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Gli inquirenti hanno potuto ascoltare i momenti dell’esecuzione del padre e del figlio uccisi a fine luglio a Cerignola. Gli spari e le ultime parole di una delle due vittime: «Giuseppe non dico niente a nessuno». E' quanto emerso dall’ascolto delle intercettazioni di Giuseppe Rendina, 45 anni di Trinitapoli, arrestato lo scorso 3 agosto con l’accusa di avere ucciso con un colpo di pistola alla testa e poi chiuso in due sacchi di plastica Gerardo e Pasquale Davide Cirillo, padre e figlio di 58 e 27 anni. Rendina era intercettato perché - a quanto si apprende -sospettato di un altro omicidio, quello di Giuseppe Ciociola, agricoltore di 52 anni trovato morto il 12 marzo nella sua campagna a Zapponeta (Foggia), anche lui giustiziato con un colpo di pistola alla testa.

Dalle intercettazioni è emerso che verso le 15.30 del 30 luglio il primo ad essere ucciso è stato il 28enne Pasquale Davide. Nell’audio a disposizione degli inquirenti si sente un colpo di pistola e poi un fruscio come se Rendina stesse spostando qualcosa di pesante. Mezz'ora più tardi si sente Gerardo Cirillo dire «Giuseppe non dico niente a nessuno», frase seguita da uno sparo.

Resta ancora da cristallizzare il movente. Non si esclude la pista legata a questioni economiche. Rendina, durante l'interrogatorio di convalida del fermo, ha ammesso di conoscere le due vittime e di aver lavorato per loro nella raccolta dei carciofi. I corpi di Gerardo e Pasquale Davide sono stati ritrovati nelle campagne di Cerignola il 31 luglio, in sacchi di plastica, sotto decine di tubi di gomma.

Padre e figlio uccisi a Cerignola, un 45enne arrestato per il duplice omicidio: "Ha ucciso per un debito di 10mila euro". La Repubblica il 3 Agosto 2022. 

Operazione di polizia e carabinieri a Trinitapoli: Giuseppe Rendina è considerato il presunto autore del duplice omicidio di Gerardo e Pasquale Davide Cirillo

Polizia e carabinieri hanno arrestato nel primo pomeriggio di oggi a Trinitapoli (Bat) Giuseppe Rendina di 45 anni,  presunto autore del duplice omicidio di Gerardo e Pasquale Davide Cirillo padre e figlio rispettivamente di 58 e 27 anni i cui cadaveri sono stati ritrovati domenica mattina in un terreno agricolo nelle campagne di Cerignola (Foggia). 

Le due vittime sono state giustiziate con un colpo di pistola alla nuca, i loro corpi avvolti  in sacchi di plastica e nascosti sotto un cumulo di tubicini per l'irrigazione.

Stando alle ipotesi degli inquirenti i due sarebbero stati uccisi perchè Gerardo Cirillo aveva contratto con il presunto assassino un debito di circa 10mila euro.

Arrestato a Trinitapoli il presunto killer di padre e figlio uccisi a Cerignola, ma l'uomo si dichiara innocente.

Il blitz questa mattina nella cittadina della Bat: preso l'esecutore materiale dell'uccisione di Gerardo e Pasquale Davide Cirillo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Agosto 2022

E' Giuseppe Rendina di 45 anni di Trinitapoli il presunto killer di padre e figlio, uccisi lo scorso week end a Cerignola. Nel primo pomeriggio c'è stato il blitz di Polizia e Carabinieri nella cittadina della Bat, davanti a tanti cittadini incuriositi per l'imponente dispiegamento di forze dell'ordine. In poche ore, quindi, le indagini hanno portato a quello che è stato l'esecutore materiale dell'uccisione di Gerardo Cirillo e di suo figlio Pasquale Davide, rispettivamente di 58 e

27 anni i cui cadaveri sono stati ritrovati domenica mattina in un terreno agricolo nelle campagne di Cerignola, distante pochi chilometri da Trinitapoli. I loro corpi avvolti in sacchi di plastica e nascosti sotto un cumulo di tubicini per l’irrigazione. Al momento gli inquirenti non lasciano trapelare alcun ulteriore particolare investigativo, ma sembrerebbe che alla base dell'efferato duplice omicidio ci sia un debito di 10mila euro non pagato.

Si è dichiarato innocente e si è avvalso della facoltà di non rispondere Giuseppe Rendina, di 45 anni, bracciante agricolo con precedenti per droga, l’uomo fermato questo pomeriggio nel suo appartamento di Trinitapoli (Bat) perchè ritenuto dagli inquirenti il presunto autore del duplice omicidio di Gerardo e Pasquale Davide Cirillo padre e figlio i cui cadaveri sono stati ritrovati domenica mattina in un terreno agricolo nelle campagne di Cerignola (Foggia). Rendina è accusato di duplice omicidio e porto abusivo di pistola. Stando a quanto trapelato, l’indagato avrebbe dichiarato di conoscere Gerardo Cirillo per questioni di lavoro. Il suo fermo è stato operato congiuntamente da polizia e carabinieri. Pm inquirente Alessio Marangelli della procura di Foggia. Nei prossimi giorni si terrà l’udienza di convalida del fermo. Ancora oscuro il movente del duplice omicidio che potrebbe essere maturato per un debito di circa 13 mila euro. Non è chiaro se le due vittime fossero debitrici o creditrici.

Ma lo Stato dov’è? Che fa? Una terra allo sbando, la provincia della sanguinaria Quarta mafia, in cui per più di quasi due mesi è mancato il prefetto, dopo che l’ultimo è andato in pensione. Roberto Calpista su La Gazzetta del mezzogiorno il 04 Agosto 2022

Estate di due anni fa, sulla strada del Gargano che da Manfredonia si arrampica verso Vieste, una delle più disastrate d'Italia, un tamponamento degenera in lite tra automobilisti. Un poliziotto napoletano, che sta andando in vacanza con la famiglia, si ferma e cerca di mettere pace. Gli strappano un orecchio a morsi.

È il benvenuto nella Gomorra di Puglia. Ogni giorno un fatto di cronaca da inorridire, alla faccia di chi tenta di vivere onestamente di agricoltura, commercio, turismo visto il mare che c'è. Solo nelle ultime due settimane è accaduto di tutto. «Vieni a prenderti a tuo fratello, l’ho appena accoltellato», dice nell'ultima videochiamata l’omicida 15enne, reo confesso, al fratello della vittima 17enne, colpita a morte nel Bronx di San Severo. A Cerignola trovano due cadaveri in un sacco, sono padre e figlio, uccisi pare per un debito di poche migliaia di euro, quanto vale qui la vita.

Cerignola, primo casello blindato nella storia delle Autostrade italiane, patria delle bande criminali che fanno scuola nel mondo per gli assalti a Tir e portavalori. Ieri l'ennesimo colpo fallito, sulla Statale 16. Mentre nelle stesse ore la Polizia arrestava quattro dipendenti di una Rsa a Manfredonia che, secondo le accuse, si sarebbero macchiati di crimini schifosi e disumani.

Una terra allo sbando, la provincia della sanguinaria Quarta mafia, in cui per più di quasi due mesi è mancato il prefetto, dopo che l’ultimo è andato in pensione. Dove lo Stato dovrebbe essere in ogni angolo, ci sono clamorosi «buchi», tra auto in fiamme, portoni cosparsi di benzina, ingressi delle aziende imbrattati con sangue di agnello, buste con proiettili. Il 12 luglio scorso i sicari anticipano la visita a Foggia del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese: un ragazzo di 37 anni, piccoli precedenti, è crivellato di colpi di pistola in pieno giorno. La Lamorgese fa sapere di avere impegni internazionali e non si fa vedere. Ed è il nocciolo del problema. Non il ministro, ma la strategia per ridare dignità a quest’angolo di Puglia. Una strategia che forse non c’è.

L’odio, il sangue, i corpi nei sacchi: i simboli feroci e arcaici di un moderno potere criminale. I fatti di mafia sono così, non saprai mai dove finisce la cronaca e dove comincia la leggenda metropolitana. Carmela Formicola su la Gazzetta del Mezzogiorno l'01 Agosto 2022

I fatti di mafia sono così, non saprai mai dove finisce la cronaca e dove comincia la leggenda metropolitana. Davvero Vito Lanza aveva  come soprammobile nella camera da pranzo un osso del cadavere di Pinuccio Laviano? Ed è vero che a benedire la nascita della mafia foggiana fu Raffaele Cutolo durante un pranzo nel mega albergo ora in abbandono sulla statale 16? Il folklore nero alimentato tra  le alture del Gargano e le distese di grano è l’evidente conferma di una criminalità impermeabile. La percentuale di denunce, nel Foggiano, è la più bassa del Paese. Nessuno parla. Nessuno si pente. Pensare che dopo Antonio Niro il primo vero collaboratore di giustizia della Capitanata è quel Patrizio Villani che solo da pochi mesi ha cominciato a riempire  verbali.

Per il resto, l’aura della Società Foggiana e delle sue articolazioni rimane quella più nota, un po’ cruda e un po’ fantastica: sanguinaria, rozza, brutale, rurale. D’altronde, aver continuato a teorizzare fino almeno agli anni Duemila che si trattasse solo di pastori e agricoltori apertisi ai guadagni della droga, è convenuto a molti. Sotto la coperta della sottovalutazione si sono rifugiati anche imprenditori e amministratori. Anche quando il costruttore Giovanni Panunzio viene ucciso dopo aver denunciato le infiltrazioni mafiose nell’edilizia foggiana. Anche quando il direttore del Registro Francesco Marcone viene ucciso perché in quell’edilizia illecita ha iniziato a mettere il naso.

Quella mala arcaica è finalmente riconsegnata alla narrazione leggendaria. Ora sappiamo invece che i clan della Capitanata hanno portato innovazione e tecnologia nei loro affari. Il quartier generale di uno dei gruppi (quello indipendente dei cerignolani) è saldamente insediato nell'anonima provincia lombarda. E i grandi guadagni fatti con la droga vengono investiti nell’economia sana, non solo pugliese. «È la nuova Gomorra», la sintesi pop elaborata sul finire dell’ultimo ventennio.

 Il sangue, certo il sangue continua ad essere una delle cifre di questa mafia. Uccidere è normale. Gli ultimi morti sono padre e figlio, scoperti ieri mattina nelle campagne tra Cerignola e Manfredonia. Un proiettile alla testa  per ciascuno poi i corpi chiusi nei sacchi di plastica e nascosti nei campi.  Uccisi altrove, probabilmente, e trasportati laddove, prima o poi sarebbero stati ritrovati. Chi sono i due? Pesci piccoli, come si suol dire. Nessun morto eccellente, insomma, ma nelle numerose guerre combattute  da questi clan, molti «caduti» sono nomi sconosciuti. Perché la morte a certe latitudini non è solo una punizione o una vendetta o una reazione. La morte è dimostrativa. È didascalica. Serve a perpetuare la legge, a consolidare un potere, a ribadire le regole.  A maggior ragione se, dopo la negazione, è sopraggiunta la consapevolezza sociale e dello Stato. Aver potenziato i presidi repressivi ha innanzitutto riconsegnato dignità al territorio, riconoscendone l’emergenza e spezzando una certa solitudine. Ma il Foggiano è una terra aspra,  vastissima, multiforme. Il controllo è difficile e la paura continua ad annidarsi dietro le finestre chiuse. E questa mafia ha dentro un altro dirompente elemento genetico: l’odio. Guerra qui è sinonimo di faida. Una faida - questa sì ancestrale e arcaica - che assomiglia alla disamistade sarda: ci si stermina a prescindere dalla scintilla che scatenò l’odio. La droga non pagata, in questa saga di sangue, è solo un frammento di una storia che non ha fine.

Padre e figlio giustiziati, impacchettati nei bustoni di plastica e abbandonati in campagna. Ma gli investigatori, al momento, tendono ad escludere la pista mafiosa. Si vedrà. Indipendentemente dal movente, il linguaggio e le modalità del duplice omicidio, trasudano cultura (subcultura) mafiosa. Da sempre, da quando abbiamo iniziato a studiarli, i sodalizi criminali dispongono dei corpi dei propri nemici. Li sotterrano, li smembrano, gli danno fuoco, li fanno scomparire. Quel che toccò a Pinuccio Laviano, storico boss di Foggia, uno di quelli del (vero? leggendario?) pranzo con don Raffaele. Pinuccio più che un boss sembrava l’attore di un fotoromanzo, alla Franco Gasparri. I suoi antagonisti invece sapevano che era un uomo potente e feroce. E infatti lo fecero a pezzi e ne dispersero i resti (a parte il famoso osso nella camera da pranzo dell’assassino).

Nel Foggiano escalation criminale: sette omicidi dall'inizio dell'anno. Tre a Foggia, due a San Severo, uno a Zapponeta e due ieri a Cerignola. Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno l'01 Agosto 2022

Prosegue l’escalation criminale in provincia di Foggia dove dall’inizio dell’anno si contano già sette omicidi con otto vittime. Nello specifico: tre a Foggia, due a San Severo, uno a Zapponeta e due ieri a Cerignola. Solo in due casi si è arrivati all’individuazione dei presunti responsabili: a San Severo con due minorenni che si sono costituiti.

Escalation criminale che si registra anche a Cerignola dove negli ultimi due anni si contano tre morti e quattro tentativi di omicidio. Al momento si tratta di casi tutti irrisolti. Era la mattina del 20 giugno 2020 quando Maurizio Riccardi sfuggì ai colpi di mitraglietta esplosi dai killer su un’auto in corsa che lo inseguì. L’uomo scampò all’agguato rifugiandosi nel commissariato di polizia. Un mese più tardi, il 31 luglio 2020, Cataldo Cirulli, vecchia conoscenza delle forze dell’ordine, venne assassinato in via Urbe. Ad agire due killer armati di pistola. Sempre in via Urbe la sera del 26 febbraio 2021 venne ferito all’addome con colpi d’arma da fuoco Gaetano Russo. Il 30 aprile scorso in via Biella venne gambizzato invece un 29enne. E' vivo per miracolo, infine, Giuseppe Russo 42 anni il pregiudicato ferito gravemente con alcuni colpi di pistola da due killer in sella ad una moto la sera del 19 luglio scorso. L'uomo era tornato in libertà da marzo scorso dopo aver scontato una pena definitiva a 17 anni di carcere per omicidio compiuto sempre a Cerignola nel novembre 2000.

Ieri mattina infine il ritrovamento dei cadaveri di Gerardo e Pasquale Davide Cirillo, padre e figlio, di 58 e 27 anni, giustiziati entrambi con un colpo di pistola alla nuca e poi avvolti in sacchi di plastica e nascosti sotto i tubi per l'irrigazione. A questa lunga scia di sangue si vanno ad aggiungere due femminicidi avvenuti il 5 luglio 2020 e il 15 aprile 2021. Nel primo caso venne arrestato l’ex marito; nel secondo caso, invece, il coniuge dopo aver ucciso la donna puntò l'arma contro se stesso suicidandosi.

Foggia, l’ex sindaco leghista Landella e consiglieri comunali incandidabili. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Marzo 2022.  

Oltre all'ex sindaco leghista Landella e a Iaccarino, sono quindi incandidabili gli ex consiglieri comunali di maggioranza Antonio Capotosto, Consalvo Di Pasqua, Dario Iacovangelo, Liliana Iadarola, Bruno Longo e l'ex vicesindaco di Foggia Erminia Roberto.

Igiudici della prima sezione civile del Tribunale di Foggia hanno dichiarato incandidabile Franco Landella, ex sindaco della città capoluogo che aveva aderito alla Lega di Matteo Salvini, e Leonardo Iaccarino ex presidente del Consiglio comunale e altri sei consiglieri comunali di maggioranza. La dichiarazione di incandidatibilità era stata avanzata dal Ministero dell’Interno dopo lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose nello scorso agosto. 

Landella era stato arrestato il 21 maggio scorso ed in seguito rimesso in libertà con l’accusa di tentata concussione e corruzione nell’ambito di una inchiesta su un presunto giro di tangenti, mentre Iaccarino era stato arrestato e poi rimesso in libertà il 30 aprile scorso con le accuse corruzione, tentata induzione indebita e peculato.

Oltre all’ex sindaco leghista Landella e a Iaccarino, sono quindi incandidabili gli ex consiglieri comunali di maggioranza Antonio Capotosto, Consalvo Di Pasqua, Dario Iacovangelo, Liliana Iadarola, Bruno Longo e l’ex vicesindaco di Foggia Erminia Roberto. E’ stata invece rigettata la richiesta di incandidabilità nei confronti di altri due ex amministratori pubblici Pasquale Rignanese e Lucio Ventura. 

Nelle motivazioni del dispositivo di sentenza si legge che: “Franco Landella quale ex sindaco del Comune di Foggia, di Leonardo Iaccarino quale Presidente del Consiglio Comunale, di Erminia Roberto quale Vicesindaco e di Liliana Iadarola, Antonio Capotosto, Bruno Longo, Dario Iacovangelo e Consalvo Di Pasqua quali consiglieri comunali di maggioranza non abbiano esercitato i compiti di vigilanza e controllo sull’apparato burocratico-amministrativo del Comune, né posto in essere attività di indirizzo volte a contrastare ed impedire gli anzidetti comportamenti illegittimi, in tal modo non impedendo l’ingerenza della criminalità organizzata nelle attività di gestione dell’ente locale“. Diversa la posizione per Lucio Ventura e Pasquale Rignanese, la cui richiesta di incandidabilità è stata rigettata per “mancanza di prova“. Redazione CdG 1947

“Vietate minacce e fucili”, manifesto in Comune del Foggiano. ANSA il 9 febbraio 2022.  - "Si avvisa che in questo Comune è fatto espresso divieto di rivolgersi ai dipendenti comunali con minacce di morte, insulti e atteggiamenti violenti. Pertanto, prima di entrare nella sede municipale, ricordandoci di vivere in un paese civile, lasciamo a casa minacce, fucili e pistole". E' il contenuto del manifesto fatto affiggere a Palazzo di città da Guerino De Luca, sindaco di Castelnuovo della Daunia, in provincia di Foggia. La decisione è arrivata dopo che alcuni dipendenti sono stati minacciati. "Abbiamo accertato tre, quattro episodi di violenza contro il personale - spiega all'ANSA il primo cittadino, che ha riferito quanto accaduto ai carabinieri - si tratta perlopiù di minacce ma che comunque hanno creato disagio a chi le ha ricevute". "Sono dei cittadini che si lamentano per il pagamento delle tasse - prosegue De Luca - e ora stiamo facendo accertamenti" "Il mio gesto - conclude - è una sorta di provocazione proprio a tutela di tutti". (ANSA).

Ucciso per strada il padre del 26enne che ammazzò figlio di un boss per una ragazza. Era stato lui a farlo costituire. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.

La vittima è Gerardo Lorenzo Tammaro, 55 anni, padre di Mirko, reo confesso dell’omicidio di Andrea Gaeta, 20 anni, figlio di un presunto boss locale

È stato freddato da due sicari a bordo di uno scooter nel centro di Orta Nova, nel Foggiano. La vittima è Gerardo Lorenzo Tammaro, 55 anni, padre di Mirko Tammaro, il 26enne reo confesso dell’omicidio, avvenuto il 3 settembre scorso, di Andrea Gaeta 20 anni (nella foto), figlio di un presunto boss locale. Subito dopo il delitto gli inquirenti dissero che tutto sarebbe nato per la contesa su una ragazza. Ma cosa certa è che fu proprio il padre a convincere Mirko a confessare e costituirsi.

Stando alla ricostruzione di quel delitto la notte tra il 2 e il 3 settembre Mirko aveva notato l’ex fidanzata, con cui aveva interrotto la relazione da pochi giorni, in compagnia di Andrea Gaeta e altri amici. Questo avrebbe scatenato la sua gelosia portandolo ad uccidere il rivalere in amore. Nel corso della stessa notte aveva incrociato Gaeta in compagnia dell’ex fidanzata e, a quel punto, gli avrebbe sparato ferendolo a morte. Tornato a casa aveva raccontato tutto ai familiari e il padre lo aveva convinto a costituirsi. Gli inquirenti a caldo non si sbilancio ma appare molto probabile che l’agguato di oggi possa ricollegarsi proprio all’agguato del 3 settembre.

Angela Balenzano per il “Corriere della Sera” il 4 ottobre 2022.

Una vendetta pianificata. Che arriva a un mese esatto dall'omicidio del figlio ventenne di un boss e che ieri mattina a Orta Nova, nel Foggiano, si sarebbe concretizzata con la condanna a morte di un agricoltore incensurato di 55 anni, Gerardo Lorenzo Tammaro, assassinato a colpi di pistola. La vittima era il padre di Mirko, un ragazzo di 26 anni che la sera del 3 settembre scorso ha ucciso Andrea Gaeta, figlio del boss Francesco, perché non sopportava che la sua ragazza - come lui stesso ha confessato - frequentasse il ventenne. Mirko Tammaro, dopo la fuga, era stato convinto dal padre a costituirsi e ai carabinieri aveva rivelato di aver agito per gelosia. 

Intorno alle 10.30 di ieri il 55enne si trovava in via Salvo d'Acquisto, alla periferia della città, davanti a una casa da ristrutturare di proprietà della moglie dove avrebbe dovuto eseguire alcuni lavori alle tubazioni: è stato avvicinato da due sicari in sella a una motocicletta con i volti coperti da caschi integrali che gli hanno sparato contro i primi due colpi di pistola. L'uomo, ferito, ha tentato di allontanarsi e mettersi al riparo, ma è stato raggiunto e ucciso con altri due proiettili alla schiena.

Una esecuzione spietata. Sono stati i passanti a chiamare i soccorsi: in pochi minuti sono arrivati i carabinieri per esaminare la scena del crimine, raccogliere le testimonianze e visionare i filmati delle telecamere di sorveglianza. L'inchiesta avviata dalla Procura di Foggia ha preso in considerazione un ventaglio di ipotesi ma, al momento, quella della vendetta per la morte del figlio del boss punita con l'omicidio del papà di Mirko sembra essere l'unica possibile.

Dal giorno dell'arresto del figlio, l'agricoltore era stato sottoposto a vigilanza sotto la sua abitazione e quella di sua figlia. Questo però non è bastato - ipotizzano gli inquirenti - a scoraggiare i piani di vendetta dell'organizzazione criminale. Una ritorsione per i fatti accaduti il 3 settembre quando il figlio dell'agricoltore aveva notato l'ex fidanzata intrattenersi davanti a un bar con alcuni amici e tra questi c'era anche il figlio del boss, Andrea Gaeta. Mirko Tammaro, nella notte, aveva affiancato l'auto guidata dal ventenne ed esploso alcuni colpi di pistola. L'altro, benché ferito, aveva tentato di ripartire morendo qualche attimo dopo, mentre Mirko aveva lanciato la pistola nei campi.

Tornato a casa dopo l'omicidio aveva poi raccontato ai genitori quello che aveva fatto.

Era stato proprio il padre, Gerardo Tammaro, dopo una lunga chiacchierata, a convincerlo a costituirsi benché l'intenzione del giovane fosse quella di fuggire per timore di ripercussioni soprattutto contro la sua famiglia, considerato lo spessore criminale di Gaeta. Ma, dopo aver ascoltato i consigli del padre, all'alba del 4 settembre, aveva deciso di consegnarsi ai carabinieri nella zona di Termoli. Gli investigatori che indagano sull'omicidio di ieri hanno ascoltato persone ritenute vicine sia ai Gaeta sia alla vittima.

Il timore è che possano esserci nuove ritorsioni. Intanto il sindaco di Orta Nova, Domenico Lasorsa, che nel giorno dei funerali del 20enne aveva proclamato il lutto cittadino, si è detto preoccupato «per l'escalation violenta che si sta consumando nel nostro paese in queste ultime settimane. Dopo quest' ultimo episodio increscioso ho subito firmato la richiesta di convocazione di un tavolo per la sicurezza con il prefetto. Purtroppo non si può più sottovalutare questa situazione. Abbiamo fortemente bisogno della presenza dello Stato. Ora più che mai». Con quello commesso ieri sale a 12 il numero degli omicidi compiuti nel Foggiano dall'inizio dell'anno.

Uccise il figlio del boss: la malavita si vendica e ammazza suo padre. L'uomo freddato con quattro colpi di pistola. È la punizione per la morte di Andrea Gaeta. Tiziana Paolocci il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.

A Orta Nuova non si sono stupiti più di tanto quando hanno sentito esplodere quattro colpi.

Il paese alle porte di Foggia di sangue ne ha visto scorrere parecchio. E c'è chi se lo aspettava che prima o poi la vendetta avrebbe raggiunto la famiglia Tammaro, perché Mirko, 26 anni, aveva fatto fuori il ventenne Andrea, figlio del boss Francesco Gaeta. Il delitto era avvenuto appena un mese fa e ieri mattina due killer a bordo di una moto in via Salvo D'Acquisto hanno teso un agguato a Gerardo Tammaro, agricoltore di 55 anni, che si trovava vicino casa e lo hanno lasciato a terra senza vita. Inutili i soccorsi che hanno solo potuto constatare il decesso. Un padre che paga per la colpa del figlio e poco importa che il ragazzo fosse già dietro le sbarre.

Quello di ieri è stato un chiaro messaggio per Mirko, per ricordargli contro chi aveva avuto la sfrontatezza di mettersi, perché la malavita non dimentica mai e presto o tardi si paga il conto.

Andrea Gaeta era stato ucciso il 3 settembre al culmine di una lite scoppiata per futili motivi a causa di una donna. I due giovani avevano discusso, perché lei aveva iniziato a vedersi con il figlio del boss. Ma tutto sembrava finito lì. Dopo qualche ora il 26enne aveva raggiunto invece la vittima, figlio di Francesco detto «Spaccapalline», ritenuto dagli inquirenti al vertice dell'omonimo clan Gaeta, referente nel Basso Tavoliere della batteria mafiosa foggiana dei Moretti alla periferia di Orta Nova. Qui aveva freddato con almeno cinque di colpi di pistola Andrea che si trovava a bordo di una Bmw.

Poi aveva fatto perdere le sue tracce. Il padre Gerardo, però, aveva iniziato a telefonargli per farlo ragionare e alla fine lo aveva convinto a costituirsi il mattino seguente. Alle 5.30, presso il casello autostradale di Termoli, località dove si era nascosto, si era consegnato nelle mani degli inquirenti e si era assunto la responsabilità dell'omicidio, facendo ritrovare la revolver 356 magnum che aveva abbandonato lungo la Statale 16, in provincia di Barletta-Andria-Trani.

Il sindaco di Orta Nova, Domenico Lasorsa, era finito nel polverone mediatico appena qualche ora dopo, per aver proclamato due ore di lutto cittadino nel giorno dei funerali del ragazzo. Aveva deciso anche l'esposizione a mezz'asta della bandiera, invitato i commercianti ad abbassare le saracinesche durante le esequie, che si erano svolte comunque in forma privata.

Tutto ciò aveva scatenato non poche polemiche. I Gaeta, infatti, secondo la Dia sono dediti a «molteplici attività illecite» che proiettano il gruppo «nello scenario criminale della provincia» e sarebbero legati a stretto giro con diverse organizzazioni camorristiche per la gestione rifiuti.

Dopo l'agguato mortale di ieri il sindaco Lasorsa è invece corso ai ripari e ha chiesto l'aiuto allo Stato. Ha firmato infatti la richiesta di convocazione di un tavolo per la sicurezza pubblica con il Prefetto di Foggia, Maurizio Valiante. «Siamo profondamente preoccupati per l'escalation violenta che si sta consumando nel nostro paese in queste ultime settimane - ha sottolineato il primo cittadino -. Condanniamo fermamente ogni spargimento di sangue o forme di violenza. Purtroppo non si può più sottovalutare questa situazione. Abbiamo fortemente bisogno della presenza dello Stato in questo momento. Ora più che mai».

SOLITA TARANTO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Taranto.

Taranto, dipinto come un assassino invece era innocente: assolto dopo 10 anni. Sentenza stravolta. Era accusato di aver ucciso un vigile urbano in servizio, ma non fu colpa sua. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022

«Questo ragazzo ha vissuto per dieci anni dipinto come un criminale: un assassino, ubriaco e drogato, ma lui è un’altra vittima di questa storia». Il 16 novembre scorso, nell’aula E del tribunale di Taranto, la voce dall’avvocato Gaetano Vitale tuonava di passione e rabbia. A qualche metro da lui, col capo basso, tra i banchi destinati ai detenuti, siede Simone Todaro: ha 28 anni e da quasi dieci vive con l’ombra di aver ucciso un vigile urbano in servizio a causa di una manovra sbagliata. Sullo scranno più alto, la giudice Elvia Di Roma non perde una parola. Poco prima dell’avvocato difensore, aveva parlato il pubblico ministero Rosalba Lopalco: «Non sono emersi elementi che dimostrino la colpevolezza di Todaro e quindi chiedo la sua assoluzione» aveva sostanzialmente concluso il magistrato. Quella richiesta però, non basta a spiegare il calvario vissuto da Simone. Perché anche se è vera, questa storia, sembra la sceneggiatura di un thriller.

Tutto comincia il 23 luglio 2013, quando all’incrocio tra via Ancona e via Lago di Como nel quartiere Salinella di Taranto, l’auto guidata dal giovanissimo Simone si scontra con l’auto di servizio dei vigili urbani condotta dall’agente Angelo Panessa e su cui viaggiavano anche il maresciallo Emanuele Venneri di 62 anni e una collega. L’impatto uccide il maresciallo Venneri, gli altri occupanti dei due veicoli riportano ferite non gravi.

La dinamica ricostruita dopo le prime dichiarazioni rese da Panessa e altri mettono subito sotto accusa Simone: avrebbe passato l’incrocio con il semaforo rosso. E così per la stampa e l’opinione pubblica, Simone diventa un assassino. A questo si aggiungono anche altre informazioni che trapelano nei giorni successivi: Simone era sotto effetto di alcool e droga. Il reato di omicidio stradale non esisteva ancora, altrimenti Simone sarebbe stato arrestato.

Ma quella versione, Simone, l’ha sempre negata. Ha sempre raccontato di aver attraversato col verde. Nessuno gli crede, tranne suo padre Salvatore, ingegnere che comincia a leggere le carte dell’accusa e si accorge che le anomalie non sono poche. Le sue segnalazioni, però, non bastano a evitare un processo per omicidio colposo, in cui è imputato anche Panessa come autista del mezzo. Col passare del tempo, tutto sembra destinato a finire nel peggiore dei modi, ma la svolta arriva in modo sorprendente e coraggioso. Già perché la svolta arriva dal figlio di Emanuele Venneri, il vigile deceduto. Un giorno, mentre è in ospedale incontra un uomo che gli svela qualcosa di incredibile: è il cugino del vigile Panessa e racconta che proprio quest’ultimo gli ha svelato di essere stato lui l’autore della manovra sbagliata. Quell’uomo non lo sa, ma il figlio del vigile Venneri sta registrando tutto: quell’audio finisce in procura e si apre un nuovo capitolo giudiziario. Interrogato dal pm Enrico Bruschi, quell’uomo ritratta tutto dicendo che quel vigile, suo cugino, è innocente. Ma stavolta, la procura ha un quadro più chiaro: Panessa finisce sotto accusa per calunnia nei confronti di Simone per aver dichiarato che era passato con il rosso, anche il cugino deve difendersi dalla stessa accusa. Il loro processo si conclude ben prima di quello nei confronti di Simone: Panessa viene condannato in primo grado a 2 anni di reclusione, ma il reato si prescrive in appello e così la pena svanisce, ma non il risarcimento di 30mila che in brevissimo tempo il vigile versa a Simone. Per il cugino, va decisamente peggio: in primo grado rimedia una condanna a poco più di 3 anni di reclusione.

Gli atti di quel processo, entrano nel dibattimento in un cui è imputato Simone e cominciano a dipingere un quadro nuovo. Nel corso dell’istruttoria, inoltre, l’avvocato Vitale dimostra che Simone quella sera non aveva né bevuto e né fumato: il laboratorio analisi, infatti, aveva fornito un referto minimo e cioè aveva come valore il numero sotto il quale il dispositivo non può scendere. In parole povere, quella sera del 2013, Simone non era sotto l’effetto di alcuna sostanza: né alcolica né stupefacente. Elementi di cui anche la procura prende atto chiedendo infine che il ragazzo venga scagionato. Una settimana più tardi, la giudice Di Roma emette il suo verdetto: Simone è assolto perché il fatto non sussiste. Panessa, invece è stato condannato a 1 anno e 6 mesi di reclusione con pena sospesa. Quasi dieci anni dopo, il calvario è finito: Simone può scacciare i fantasmi e le ombre che hanno aleggiato intorno a lui. E tornare a vivere. Come non ha più fatto da quella sera di luglio.

Concorso per ispettori ambientali: a Taranto indaga la Squadra mobile per truffa. Kyma sospende tutte le procedure di selezione. Blitz al termine della prova scritta svolta all’ex Saram. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Si accendono i fari degli inquirenti sul concorso per l’assunzione di «ispettori ambientali» di Kyma Ambiente Amiu. I poliziotti della Squadra Mobile, infatti, ieri sono piombati nell’aula della Scuola Volontari dell’Aeronautica Militare (ex Saram) dove si era appena conclusa la terza prova del concorso pubblico e a cui hanno preso parte quasi 300 candidati. Gli investigatori sono arrivati e hanno compiuto una serie di rilievi, interrogato alcuni presenti, perquisito le autovetture e alcune borse, e infine hanno invitato il presidente della commissione esaminatrice e uno dei dirigenti di Kyma Ambiente a seguirli negli uffici della Questura dove è cominciato un lungo interrogatorio.

I due al momento non risultano indagati, ma avrebbero fornito una serie di informazioni agli inquirenti. Dalle poche notizie trapelate, gli investigatori avrebbero concentrato le loro attenzioni sui quiz sottoposti ad alcuni candidati e in particolare sulla cosiddetta «batteria» di domande da cui sono poi state selezionate quelle diventate prova d’esame: l’inchiesta, quindi, potrebbe essersi concentrate sull’ipotesi che alcuni candidati fossero già a conoscenza delle domande prima della prova d’esame. Ipotesi che tuttavia dovranno essere riscontrate dalle attività degli inquirenti.

Il bando prevede l’assunzione a tempo indeterminato full time di numero 11 impiegati destinati all’ispezione e controllo del territorio nel settore del trattamento rifiuti. Stando a quanto risulta alla Gazzetta, rispetto alle 700 domande di partecipazione alla selezione giunte all’ex Amiu, si sarebbero presentati ieri mattina solo 300 candidati, 100 dei quali avrebbero abbandonato l’ex Saram subito dopo aver letto la traccia della prova scritta.

La selezione di personale di Kyma Ambiente è prevista dai bandi pubblicati nel 2020 e poi «congelati» per via del Covid. I profili ricercati sono: “Operatori ecologici addetti alle attività di spazzamento e raccolta rifiuti”, “Autisti di veicoli e mezzi d’opera”, “Impiegati destinati all’ispezione e controllo del territorio – ispettori ambientali”. Le prove si tengono nella «Svam» (Scuola volontari dell'aeronautica militare di Taranto) in via Rondinelli 26. Tutti gli avvisi sono consultabili sul sito internet www.amiutaranto.it alla sezione “Gare e fornitori – avvisi pubblici” e rappresentano l’unico metodo di comunicazione e convocazione a tutti i candidati.

Le prove pre-selettive, consistenti nella somministrazione di un test a risposta multipla, si sono svolte martedì e mercoledì scorsi per gli operatori ecologici, sempre mercoledì scorso per gli autisti.

Per il profilo ispettori ambientali, invece, erano in programma direttamente le prove selettive, consistenti nella redazione di un elaborato scritto, nella sola giornata di ieri. Saranno ammessi a sostenere il successivo colloquio orale i candidati che avranno riportato il maggior punteggio nella prova scritta, purché superiore a 30/50.

Sono stati inoltre pubblicati gli elenchi di ammessi e non ammessi per i profili “Iingegnere”, “Iingegnere esperto in gestione e programmazione ambientale”, “responsabile ufficio contabilità”, “Laureato amministrativo”, “responsabile ufficio legale”, le cui prove si terranno nei prossimi giorni.

LA NOTA DI KYMA AMBIENTE

Il Consiglio di Amministrazione di Kyma Ambiente, convocato in data odierna, ha determinato la sospensione, in via di autotutela, di tutte le procedure di selezione in atto. Eventuali nuove determinazioni verranno tempestivamente comunicate dall’azienda.

La Procura di Taranto indaga sui concorsi pilotati all’ AMIU, l’azienda municipalizzata per l’ambiente. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Novembre 2022

Dall’esito dell’attività di polizia giudiziaria svolta, sarebbero emersi gravi indizi a carico di Rocco Lucio Scalera dirigente amministrativo della Società, il quale, interrogato dal Pubblico Ministero Enrico Bruschi, titolare del fascicolo d'indagine, avrebbe ammesso le proprie responsabilità

Aseguito delle indagini della Squadra Mobile di Taranto, su delega della locale Procura sono state effettuate delle perquisizioni con acquisizione documentale presso la Svam, la Scuola Allievi dell’ Aeronautica Militare, dove si stava svolgendo la selezione per per l’assunzione di 11 ispettori ambientali di Amiu spa, la società per l’igiene urbana sottoposta ad attività di direzione e coordinamento esercitata dal Comune di Taranto, guidata dal presidente Giampiero Mancarelli recentemente “trombato”dagli elettori in occasione delle recenti elezioni politiche dove si era candidato alla Camera dei Deputati per il Partito Democratico (senza avere il buon gusto di autosospendersi o dimettersi dall’incarico pubblico).

La Polizia essendo emersi diversi elementi che si stesse consumando l’ipotesi di reato di truffa aggravata allo Stato da parte di alcune persone presenti, ha effettuato anche diverse perquisizioni locali, interrogando alcuni presenti, perquisito le loro autovetture e alcune borse. Dall’esito dell’attività di polizia giudiziaria svolta, sarebbero emersi gravi indizi a carico di Rocco Lucio Scalera (fratello del consigliere regionale Antonio Paolo Scalera) dirigente amministrativo dell’ AMIU spa , il quale è stato portato in Questura ed interrogato alla presenza di un legale, dal Pubblico Ministero Enrico Bruschi, titolare del fascicolo d’indagine. Nel corso dell’interrogatorio Scalera ha ammesso le proprie responsabilità onde evitare di essere arrestato . La documentazione è stata posta sotto sequestro per il prosieguo degli accertamenti.

Il sospetto degli investigatori della Polizia di Stato è che alcuni dei candidati al concorso fossero venuti a conoscenza delle domande precedentemente alla prova d’esame. La prova selettiva a cui si erano sottoposti i candidati divisi in due gruppi, da quanto si è venuti a conoscenza, consisteva nel rispondere a cinque domande in maniera articolata . Al concorso erano iscritti circa 750 candidati, ma alla prova se ne sono presentati 288.

Il Consiglio di Amministrazione di AMIU spa che nel frattempo continua a farsi chiamare Kyma Ambiente, convocato in data odierna, con una nota ha reso noto di aver “determinato la sospensione, in via di autotutela, di tutte le procedure di selezione in atto”. Non è la prima volta che un dirigente dell’ AMIU spa finisce sotto i “fari” della giustizia, come nel caso del troncone bis d’inchiesta “T-REX Bis”, dove un altro dirigente, l’ingegnere Cosimo Natuzzi è attualmente a processo.

I rapporti fra Scalera e la malavita locale

In un recente passato Antonio Sambito, a capo dell’omonimo “clan” operativo nel rione Tamburi a Taranto, era diventato nome di riferimento all’interno della società AMIU spa, risultando titolare di contratto di lavoro a tempo indeterminato, al sesto livello e retribuzione di quasi 38mila euro l’anno, godendo di un “rapporto confidenziale con alcuni dirigenti”, tanto da essere convocato persino a una riunione con il direttore della società in house ed in contatto con l’ex-presidente AMIU Luca Tagliente dopo il furto della sua Range Rover Evoque personale.

Sambito, stando a quanto emerge dagli atti contenuti nel fascicolo d’inchiesta, nel periodo di detenzione del carcere di Bologna, dal 1999 al 2001, è stato “percettore di reddito per attività lavorativa”. Una volta ottenuta la scarcerazione, nel 2002 e sino al 2033 ha lavorato alle dipendenze di una società di costruzioni con sede a Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi. A seguire è stato assunto da un’impresa di Taranto, per la quale ha lavorato fino al 2007, poi nel 2008 è passato a una cooperativa di servizi di Napoli, per approdare nel 2009 nell’ AMIU spa di Taranto. Le attenzioni degli investigatori della Guardia di Finanza hanno verificato “un considerevole incremento dello stipendio”, dato certificato dalla banca dati dell’Anagrafe tributaria: “Sambito era passato da una retribuzione annua di 16.893 euro, nell’anno 2010, alla somma di 37.848 euro percepiti nel 2018”. Come è stato possibile? Per gli investigatori è “un segno evidente di una singolare e inspiegabile progressione aziendale che ha comportato un aumento dello stipendio”.

Ma come era avvenuta l’assunzione di Sambito alle dipendenze dell’Amiu ? Avevano cercato risposte gli investigatori delle Fiamme Gialle chiedendo chiarimenti ai dirigenti della partecipata ai quali avevano chiesto di visionare il fascicolo. Ma i funzionari avevano “riferito che a causa di un grave evento meteorologico, avvenuto nel 2015, gli archivi cartacei dell’azienda erano stati distrutti e non era stato più possibile ricostruirli”. All’epoca gli uffici si trovano a Taranto, in via della Croce. I militari della Finanza sono riusciti a ottenere solo “due cartelline relative ad Antonio Sambito, nelle quali erano contenuti alcuni fogli, dai quali non è stato possibile risalire alle modalità di assunzione e alla carriera”. Gli investigatori però non si sono fermati.

Le indagini della Guardia di Finanza di Taranto sono arrivate alla conclusione, secondo cui Sambito è stato assunto all’Amiu, “dopo aver partecipato a due riunioni presso il centro per l’impiego di Taranto, dove sarebbe stato compilato il suo curriculum vitae, con la collaborazione di un operatore di Italia lavoro”. Quel che è stato evidenziato nell’informativa, è che non è stata chiesta l’esibizione del certificato penale e dei carichi pendenti, nonostante Antonio Sambito all’epoca “avesse una serie di condanne per le quali aveva espiato pene detentive”, una nel 1994 e l’altra nel 2001, “in relazione alle quali era stato sottoposto alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici”.

Sulla base delle norme di Legge e della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione è incompatibile con l’assunzione e con le successive progressioni di carriera che hanno consentito a Sambito di ricoprire la qualifica di “incaricato di pubblico servizio ex articolo 358 del Codice penale”.

A “tal proposito – scrivono i finanzieri – a riprova del forte ascendente criminale di Sambito anche sulla dirigenza aziendale, appariva significativa una lunga conversazione tra questi e un funzionario, dalla quale si rileva innanzitutto come vi fossero rapporti confidenziali”. L’intercettazione è del 2 febbraio 20217, alle 14,12. In alcuni passaggi ci sono “riferimenti ad alcune visite che il dirigente avrebbe fatto a casa di Sambito“, tant’è che conosceva bene anche la moglie con la quale si intratteneva al telefono, commentando, tra l’altro, questioni lavorative del marito.

Con quella telefonata, “Sambito rappresentava al dirigente di aver avuto diverbi con un’impiegata amministrativa dell’azienda in relazione alla compilazione degli statini che attestavano le prestazioni svolte dagli operai”. Ma questo, stando a quanto si legge, “non era adempimento di competenza di Sambito”. Lo stesso Sambito “chiede al dirigente di far trasferire la donna ad altro incarico”. Legittimo chiedersi che motivo aveva Sambito di occuparsi anche degli statini? Questa la risposta degli investigatori: “Attestare lo svolgimento di compiti da impiegati, oltre che da coordinatore e il fatto che l’impiegata gli stesse creando problemi, rappresentava un evidente impedimento”.

Questa è la trascrizione della conversazione intercorsa a suo tempo tra Sambito e l’ingegnere Cosimo Natuzzi (estraneo ai fatti oggetto dell’indagine odierna) , allora come oggi dirigente tecnico dell’ AMIU: “Tonino, non è lo statino che ti farà compromettere un percorso, non ti fissare, dai mo statti sereno che queste sono… non sono queste le cose che contano e continua a dirigere bene il tuo lavoro”. La lettura data dall’accusa è nel senso di una “evidente compiacenza esistente, finalizzata a far compiere un percorso lavorativo all’interno della società municipalizzata che lo avrebbe portato ad arrivare a un inquadramento superiore”.

Agli atti, risultava anche una nota, del 15 luglio 2017, con la quale veniva segnalata “la mancata vidimazione del badge da parte di Antonio Sambito”, il giorno precedente. Il 28 febbraio 2018, compare una nota a firma di Rocco Lucio Scalera, dirigente amministrativo dell’Amiu, con cui viene comunicato a Sambito che “oltre alle mansioni già svolte, avrebbe dovuto provvedere anche a un’attività di controllo dei servizi di raccolta indifferenziata presso l’autoparco aziendale”.

“Uno dei primi dati che risalta è che, alcuni mesi dopo la nomina di Scalera a dirigente, inizia la scalata di Sambito”, scrivono i finanzieri nell’ operazione “Tabula Rasa” . Nell’ordinanza di arresto è riportato un tratto della conversazione intercettata il 24 agosto 2017 tra Scalera (chiamante) e Sambito: “Senti, io voglio parlare con l’avvocato tuo, così gli dico qualche svolta, però di devo sentire prima un attimo a te”. Sambito dice: “Fai quello che abbiamo parlato ieri”. E ancora: “Anche se lui si incavola, non fa niente, che là è tutto fatto. Sono fatti nostri là e lui si deve levare di mezzo. Sì, allora io gli ho detto che voglio andare a causa. Vito che io faccio le mansioni”. In tale maniera – si legge negli atti – ribadisce la “ferma intenzione di intraprendere una causa giudiziaria nei confronti dei suoi datori di lavoro”. “Posso aspettare un mese, due mesi, l’importante che tu gli lasci la delibera che se la vede poi mandami a causa e tutto. Hai capito?”. Scalera: “Eh, va bene, il mandato mi serve. Va bene, da mo me la vedo io”. Sambito poi chiama il suo avvocato e riferisce quanto detto nella chiamata con Scalera, “disponendo un contatto tra questi e il suo legale”.

Questa è l’ AMIU Taranto, questa è Kyma Ambiente, questi i suoi dirigenti, che non a caso, lasciatecelo dire si occupano “di monnezza”…di ogni genere ! Redazione CdG 1947

Acciaierie d’ Italia (Ex Ilva) sospende da lunedì le attività di 145 imprese appaltatrici. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Novembre 2022

Da mesi l’ex Ilva é in una pesante crisi di liquidità e di recente Confindustria Puglia ha reso noto che sono maturati crediti per 100 milioni relativi a lavori effettuati, fatturati e non pagati alle imprese dell'appalto.

Con una comunicazione fatta questa mattina, Acciaierie d’Italia, ex Ilva, ha reso noto che da lunedì prossimo  sono sospese le attività di 145 imprese dell’appalto nello stabilimento siderurgico di Taranto. Il presidente Franco Bernabè un mese fa in pubblico, di fronte alle telecamere in occasione del forum Ambrosetti aveva detto: “Dopo la perdita di maggioranza da parte di ArcelorMittal, Acciaierie ha vissuto sostanzialmente senza aver accesso al credito bancario: le nostre difficoltà sono importanti, non di mercato, ma di funzionamento dell’azienda in queste condizioni, in cui l’azionista di riferimento ha perso le sue caratteristiche originarie di privato e c’è una compartecipazione di due azionisti che devono dotare l’azienda di risorse importanti” aggiungendo  di fronte a tutti i sindacalisti presenti al congresso nazionale della Uilm: “fino ad ora devo dire che Acciaierie sono state gestite in una situazione che in tanti anni di esperienza non ho mai visto: senza accesso al credito bancario, senza finanziamenti degli azionisti“.

L’ultima vicenda imbarazzante è il contenzioso venuto alla luce con Eni, che lo scorso il 30 settembre ha interrotto il contratto con Acciaierie d’Italia che ha accumulato un’esposizione debitoria arretrata di 300 milioni. Era tutto noto ma nessuno ha fatto niente. Adesso l’azienda prende il gas da Snam come fornitore di ultima istanza che concede servizio di defoult per 90 giorni. Acciaierie d’ Italia, Eni, Snam tre aziende pubbliche, di interesse strategico nazionale, e nessuno cerca di trovare una soluzione..

Da quando il governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte ha deciso di chiudere la partita con ArcelorMittal facendo subentrare il pubblico all’investimento previsto e vincolante di 4 miliardi, è stato un disastro. Incredibilmente è stato proprio il premier Conte a dare semaforo verde al nuovo piano industriale che prevede la riaccensione dell’ altoforno Afo 5, dopo aver deciso che avrebbe dovuto farlo lo Stato, ma nessuno del suo governo si è mai occupato di mettere a disposizione le necessarie risorse economiche le adeguate disponibilità economiche e verificare che venisse attuato.

Gli indiani ArcelorMittal rappresentati dall’ Ad di Acciaierie d’ Italia, Lucia Morselli, ha speso un miliardo proveniente dalle attività commerciali, e dai soldi confiscati ai Riva (400 milioni di Euro per realizzare la copertura dei parchi minerari) per ottemperare nei tempi previsti tutte le prescrizioni del piano ambientale ormai completo al 90 per cento, ma in cassa non ci sono soldi per acquistare e pagare le materie prime, i fornitori, le manutenzioni. Ma persino anche per pagare gli operai, messi in cassa integrazione dall’ormai ex ministro del lavoro Andrea Orlando.

“Con la sospensione dei contratti di appalto da parte di Acciaierie d’Italia si corre il serio rischio di superare il punto di non ritorno. Con questa sciagurata decisione del management dell’ex Ilva si incrementa a livelli insostenibili il numero dei lavoratori in cassa integrazione, considerando i 1.600 in Amministrazione straordinaria, i 3 mila dipendenti e tutti le migliaia di lavoratori dell’indotto interessati da questo atto. A questo punto ci chiediamo, dopo le esternalizzazioni fatte in questi anni da parte del management acciaierie D’Italia, come possa essere assicurata la continuità produttiva ma soprattutto la sicurezza degli impianti. Ora è necessario che il Governo faccia presto per assicurare una corretta gestione del più grande stabilimento siderurgico europeo e che faccia tutto il possibile per garantire l’occupazione, l’ambiente, la salute, la sicurezza e la continuità. A partire da lunedì, a valle dell’incontro con i parlamentari locali, partirà la mobilitazione da parte delle organizzazioni sindacali. Non c’è più tempo da perdere, non possiamo tollerare che si giochi sulla pelle su migliaia di lavoratori e il futuro di un’intera comunità”. Lo dichiarano Rocco Palombella, Segretario nazionale Uilm e Responsabile del settore siderurgico, e Davide Sperti, Segretario Uilm Taranto. 

“Si tratta di un gesto gravissimo – dicono Valerio D’Alò e Biagio Prisciano, rispettivamente segretario nazionale e Taranto della Fim Cisl – che mette a rischio centinaia di posti di lavoro. La ricaduta occupazionale sarà massiccia. Se Acciaierie d’Italia e l’ad Lucia Morselli pensano di utilizzare questa situazione per premere sul Governo e cercare di ottenere le risorse del miliardo di euro del dl Aiuti, hanno sbagliato i conti e vedranno l’opposizione del sindacato”. Per D’Alò e Prisciano, “è poi singolare che questa stretta dell’azienda arrivi a poche ore dall’incontro che lunedi Fim, Fiom e Uilm avranno a Taranto con i parlamentari sulla situazione dell’ex Ilva. Anche questa è una forma di pressione, è una strumentalizzazione”.

Da mesi l’ex Ilva é in una pesante crisi di liquidità e di recente Confindustria Puglia ha reso noto che sono maturati crediti per 100 milioni relativi a lavori effettuati, fatturati e non pagati alle imprese dell’appalto.

Redazione CdG 1947

L’Ilva fa gola ai privati. Ma solo se è lo Stato a pagare debiti e contenziosi per risanarla. Gloria Riva su L’Espresso l’1 Dicembre 2022.

La rottura tra l’azionista privato, ArcelorMittal, e quello pubblico è vicina. Sull’acciaieria di Taranto si concentra l’interesse dei gruppi siderurgici Arvedi e Marcegaglia. Uno dei due potrebbe versare 400 milioni per far ripartire anche Novi Ligure e Genova

I due si sono sposati troppo in fretta. Senza neppure conoscersi bene. Del resto si è trattato di un matrimonio riparatore: c’era da salvare l’Ilva, che alla fine del 2020 era sull’orlo della chiusura.

Ci hanno provato l’azionista privato, ArcelorMittal, e quello pubblico, lo Stato attraverso Invitalia, ad andare d’accordo. Ma neppure il tentativo dell’attuale presidente di Acciaierie d'Italia Holding, Franco Bernabè, di far marciare entrambi verso il risanamento finanziario e ambientale ha sortito l’effetto sperato.

Il caso Ilva. I "furbetti" dell’ acciaio: Arcelor Mittal. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’1 Dicembre 2022

Nella lunga e tormentata storia dell'Ilva, post partecipazioni statali, costellata di scelte poco lungimiranti, a partire dalla vendita ai Riva, si sono succedute decisioni condizionate dall'ideologia, errori di gestione. Interventi a gamba tesa della magistratura, quella di Taranto, un pò troppo politicizzata ed alla ricerca della ribalta nazionale, così generando di fatto una vera e propria guerra dello Stato allo Stato.

La siderurgia è un settore strategico per l’Italia essendo il nostro Paese al secondo posto manifatturiero d’Europa, quindi come potrebbe non essere considerata strategica la produzione dell’ acciaio? Ce ne siamo accorti con il gas e con la produzione dei chip che cosa può succedere quando si è troppo dipendenti dall’estero. A dominare il mercato mondiale dell’acciaio, sono la Cina e India, l’Italia se la gioca ancora discretamente bene. Siamo al secondo posto in Europa per tonnellate prodotte, subito dopo la Germania, e all’undicesimo posto nel mondo: un primato che non possiamo e non dobbiamo perdere.

E soprattutto di sostegno all’intero settore manifatturiero. Sono sufficienti due numeri per fare delle necessarie valutazioni ragionale: l’industria delle costruzioni di fatto costituisce il 35% dei ricavi delle imprese siderurgiche italiane, l’automotive il 18%, subito dopo ci sono gli elettrodomestici.

Il portafoglio clienti di Acciaierie d’Italia (ex Arcerlor Mittali Italia – ex Ilva) è compreso esattamente in questo focus, anche perchè la sua produzione è essenziale anche per le altre aziende siderurgiche, essendo la prima per rifornimenti di materie prime agli impianti del Nord a forno elettrico. Lo stabilimento siderurgico di Taranto, che è il più grande d’Europa, rappresenta per fatturato e produzione più dell’85% del bilancio del gruppo. Quindi se si ferma Taranto rischia di fermarsi una parte consistente dell’industria italiana. Un dato che i nostri governanti che da anni dichiarano la strategicità della siderurgia italiana, hanno dimostrato di non capire a fondo. Ma adesso devo dimostrarlo con i fatti, assumendo decisioni ed azioni adeguate all’altezza della questione.

Nella lunga e tormentata storia dell’Ilva, post partecipazioni statali, costellata di scelte poco lungimiranti, a partire dalla vendita ai Riva, si sono succedute decisioni condizionate dall’ideologia, errori di gestione. Interventi a gamba tesa della magistratura, quella di Taranto, un pò troppo politicizzata ed alla ricerca della ribalta nazionale, così generando di fatto una vera e propria guerra dello Stato allo Stato. Una vicenda il cui dossier infiammato rischia di incenerire le scrivanie sulle quali viene depositato.

Lucia Morselli, ad di Arcelor Mittal Italia

Sembra essersene accorto ed averlo capito anche Adolfo Urso attuale ministro delle Imprese e del Made in Italy, chiamato ad attuare una decisione meno semplice di quello che sembra: come utilizzare il miliardo che il precedente governo guidato da Mario Draghi aveva accantonato e stanziato per Acciaierie d’Italia. Molti credono che la soluzione sia quella di ricapitalizzare Acciaierie d’Italia portando Invitalia, attuale socio pubblico che detiene il 38% delle quote societarie (e il 50% dei voti nel CdA), a detenere una quota di maggioranza, con effetti immediati sulla governance. Il socio privato Arcelor Mittal invece la pensa diversamente: vuole utilizzare quei soldi per dare una boccata d’ossigeno alle casse della società dissanguate dal caro energia che ha quasi decuplicato la bolletta annuale toccando i 1,4 miliardi.

l’ingresso lavoratori dello stabilimento siderurgico di Taranto

Da parte sua l’amministratore delegato Lucia Morselli rivendica un bilancio 2021 in utile per 310 milioni (rispetto ai 265 milioni di perdita del 2020) e un buon andamento anche nel 2022. Non dicendola tutta, in quanto queste performance non sono state generate da una gestione produttiva aziendale, ma esclusivamente dai tagli del costo del personale, utilizzando continuamente la cassa integrazione (a carico dello Stato e cioè del contribuente) e senza spiegare l’esposizione debitoria nei confronti dell’aziende dell’ indotto, che ammonta ad oltre 100 milioni di euro.

La Morselli a chi rimprovera al gruppo di non investire, ricorda i grandi passi avanti nelle prescrizioni ambientali, ma anche in questo caso dimentica (o finge di dimenticare) l’utilizzo dei fondi dello Stato provenienti dalla maxi-confisca di 1miliardo e 300milioni di euro ai Riva, e lo sfruttamento lavorativo effettuato sulla pelle dei molti fornitori, quasi tutte "aziende mono-ILVA" (cioè che lavorano per l’ex-ILVA) e 145 tagliate fuori dalla sera alla mattina, come se niente fosse.

la Morselli fra Emiliano e Melucci, quando prometteva ai fornitori pagamenti rapidi

L’amministratore delegato di Acciaierie d’Italia lamenta casse vuote che a suo dire avrebbero costretto il gruppo a ricorrere alla Snam come fornitore di ultima istanza, dopo che l’ ENI aveva distaccato le forniture per un credito di oltre 300 milioni di euro, la produzione dimezzata, ammortizzatori sociali per i dipendenti, sospensione dei contratti con l’indotto (che vanta crediti per forniture non incassate per oltre 100milioni di euro) , sono però argomenti che autorizzano a chiedere un cambio di passo a chi non ha mai creduto che il colosso franco-indiano puntasse davvero sul rilancio del gruppo italiano. E basta verificare i (non)trasferimenti di fondi dal colosso franco-indiano alla società italiana per capire la "furbata" degli indiani che si sono sottratti all’investimento di circa 4 MILIARDI di euro, previsto dalla gara assegnata dal Mise a gestione Calenda.

Il gruppo ArcelorMittal, che è il secondo produttore di acciaio al mondo, ha registrato un utile netto di gruppo record per il 2021 di 14,9 miliardi di dollari. Nonostante un calo dei volumi di acciaio prodotto, il gruppo è stato sostenuto dall’impennata dei prezzi mondiali delle materie prime: ha beneficiato di una "ripresa economica globale" e di una "forte domanda" che hanno portato a "livelli di redditività molto elevati", ha affermato il nuovo amministratore delegato Aditya Mittal, figlio del fondatore del gruppo, alla presentazione del suo primo esercizio finanziario dalla nomina lo scorso anno. Ma tutto questo la Morselli non lo dice e nessuno le pone una semplice domanda: quanto ha investito l’ azionista di maggioranza (cioè Arcelor Mittal) in Acciaierie d’ Italia ?

Il ministro Urso dopo aver constatato che "lo Stato è salito su un treno che sta deragliando" ha parlato di necessario "cambio di governance" e di garanzie sul futuro del gruppo e sul suo sviluppo. Come non dargli ragione quando sostiene che "Lo Stato deve sapere dove va a finire il miliardo". Fra sole 24 ore, il 2 dicembre finalmente dovrebbe tenersi l’assemblea dei soci e in molti auspicano che Invitalia finalmente adotti le decisioni necessarie ad un totale controllo pubblico. Tra l’ipotesi di un socio pubblico in maggioranza e quello di un addio definitivo ai Mittal, i furbetti dell’ acciaio auspicano un "fallimento pilotato con il ristoro dei fornitori e la creazione di una nuova società" anche con altri soci privati, purché con la volontà di un effettivo rilancio.

Ed era questa la "mission" della cordata Jindal (società indiana acerrima rivale di Arcelor Mittal), composta dal Gruppo Arvedi, Cassa Depositi e Prestiti, la Dolfin (cassaforte della famiglia Del Vecchio, leggasi Luxottica), che aveva come leader Lucia Morselli. Solo coincidenze ? Qualcuno al Mise ricorda che all’apertura delle buste, quando questa cordata venne sconfitta, Lucia Morselli avrebbe detto "state tranquilli, metteremo le mani su questa società".

La circostanza grazie alla quale Arcelor Mittal ha risparmiato i 4 miliardi di euro, che avrebbe dovuto investire come da contratto, fu la revoca dello scudo penale annunciata in pompa magna dal M5S con la firma del ministro (in pectore al momento) Luigi Di Maio. Sapete chi gestiva per conto di Di Maio quel dossier ? Lucia Morselli, non ha mai smentito tale circostanza, limitandosi a non fornire comunicazioni o invitare il nostro giornale alle sue conferenze ed eventi, temendo probabilmente domande scomode.

Non a caso l’unico giornale a rendere pubblica e denunciare i retroscena di questa storia, e da tempi non sospetti, siamo noi del CORRIERE DEL GIORNO. Gli altri tacciono. Chiedetevi il perchè….

Redazione CdG 1947

Come una fenice. La rinascita di Taranto e provincia passa dalla tavola. Lucio Palmisano su L’Inkiesta il 24 Novembre 2022.

Dopo la chiusura della sua industria più importante, la cittadina pugliese e la sua provincia hanno trovato la forza per rinascere seguendo la sua inclinazione gastronomica dove non mancano le eccellenze.

Taranto uguale Ilva. Un’associazione quasi naturale: quando si parla della città dei Due Mari viene subito in mente l’ex Italsider, capace di stregare, avvelenando per anni, non solo un’intera città ma anche la sua provincia. Il 2011, con le inchieste che ne seguirono, hanno cambiato, almeno in parte, il destino della città, che oggi aspetta una sentenza della Corte europea che potrebbe mettere la parola fine ad una storia cinquantennale.

Intorno, però, città e provincia, che spesso ha fornito manodopera alla stessa Ilva, sono cresciute, diventando veri e propri punti di riferimento anche a livello gastronomico. «Per Taranto, avere qualcosa da raccontare che fosse altro rispetto all’Ilva è assolutamente importante», rimarca con orgoglio il mitilicoltore Luciano Carriero, presidente dei Mitilicoltori Pesca e Dettaglianti prodotti ittici di Confcommercio Taranto e referente del presidio Slow Food.

Storie di orgoglio, di innovazione e anche di uscita da canoni spesso troppo stereotipati di una regione però si trovano anche fuori da Taranto, a cominciare dalla Valle d’Itria.

Martina Franca – Ninò

Martina Franca, la città di Claudia Fanelli e Francesco Veleno, i due protagonisti del romanzo di Mario Desiati “Spatriati”, vincitore dell’ultimo premio Strega, vive da tempo a metà tra tradizione e innovazione.

A livello canoro lo si vede nel Festival della Valle d’Itria, rassegna di musica lirica in grado ogni anno di proporre qualcosa di sempre nuovo, ma anche a livello gastronomico non mancano gli esempi. Uno di questi è Villa San Martino, relais a 5 stelle aperto da diciotto anni, che lo scorso aprile ha dato vita a Ninò, un trullo-osteria che vuole essere una sorta di spin-off del ristorante gourmet.

«Tra noi lo definiamo un po’ “il figlio scanzonato” di Villa San Martino, un po’ come suggerisce anche il suo stesso nome», racconta Giulia Solito, il membro più giovane della famiglia che gestisce il relais, che evidenzia come «la denominazione sia un rimando al modo con cui mia nonna sgridava mio padre, che si chiama Martino, dopo una marachella».

La sua determinazione si nota nella cura dei dettagli con cui racconta la storia dietro un trullo che può sembrare come tanti altri e invece non lo è. «È vero, è un simbolo che rimanda all’intera area e a questa regione, ma qui siamo ben lontani dagli stereotipi proprio nel modo con cui cerchiamo di raccontare la Puglia, che si vede sia dai produttori che scegliamo che dai piatti che cerchiamo di comporre», evidenzia Giulia.

Nel menu c’è spazio per molti prodotti del territorio spesso sconosciuti, come il suino nero di Martina, i formaggi di Putignano, i ceci della Murgia ma anche i prodotti dall’orto, rigorosamente a chilometro zero. «La nostra idea è quella di riproporre i piatti della tradizione pugliese, come per esempio le fave con le cicorie, che noi serviamo a mo’ di sgagliozza barese, con l’aggiunta di un gambero crudo, che fa sempre Puglia».

Il progetto era in testa già da un po’ e il Covid ha sicuramente aiutato. «Ce la siamo presa con comodo: mio papà, di mestiere restauratore, ha fatto lui stesso i mobili su misura e lo abbiamo inaugurato soltanto lo scorso aprile in modo ufficiale. Finora la risposta è stata più che positiva: agli stranieri piace molto poter fare una cena pre-matrimonio, molto semplice, qui da noi». Un progetto giovane, che però ha un obiettivo ben chiaro. «Ci piacerebbe essere un punto di riferimento per la Puglia e non solo. Sarebbe bello che chi cerca un posto pugliese, sia nella cucina che nell’estetica, dove si mangi bene pensasse subito a Ninò».

San Marzano di San Giuseppe – Borsci

Lo trovi nelle case di tutti i pugliesi in ogni stagione, a Natale come in estate. Digestivo, correzione per dessert o caffè (a Taranto le gelaterie spesso ti chiedono se vuoi correggere la coppa), l’Elisir Borsci, un liquore alle erbe prodotto nella città di San Marzano di San Giuseppe, ha una storia lunga 180 anni ed è legata a un territorio speciale.

San Marzano, come Chieuti e Casalvecchio di Puglia, è un antico centro albanese (arbëresh) della regione, fondato sul finire del XV secolo. Per numero di cittadini, oggi è la più grande fra le colonie albanesi d’Italia. I suoi abitanti hanno preservato nei secoli la memoria degli antenati e conservano l’uso della lingua madre albanese e dei suoi riti. Tra gli emigrati in Italia nel diciannovesimo secolo c’era anche Giuseppe Borsci, colui che diede vita all’elisir.

«La storia nasce allora, quando il capostipite della dinastia di imprenditori che hanno reso celebre questo elisir, Giuseppe Borsci, sbarcò in Puglia e come lui molti altri che, lasciando i Balcani, si sradicarono dal ceppo caucasico. Sì, perché Borsci è il riflesso della cultura Arbëresh che appartiene alla minoranza etno-linguistica di una cinquantina di territori trapiantati in Italia dall’Albania, tra cui il tarantino San Marzano di San Giuseppe. A testimonianza di ciò, c’è la firma di Giuseppe Borsci sull’etichetta e l’aquila imperiale rimaste in memoria del periodo trascorso dalla famiglia in Albania», racconta a Linkiesta Roberto Lippolis, direttore dello stabilimento.

Oggi il marchio è detenuto dal Gruppo Caffo – che detiene la proprietà di altri liquori e distillati, come il Liquorice, l’Amaro Santa Maria al Monte o il Petrus – che lo ha rilevato alcuni anni fa. «Il nostro obiettivo è quello di rinnovare lo stabilimento e ingrandirci, potenziando la sua presenza su tutto il territorio nazionale», evidenzia Lippolis.

Questo però non significa che la ricetta sia cambiata, anzi. «Il nostro Elisir è un liquore aromatico fatto di erbe e spezie lavorate ancora artigianalmente nello stabilimento di Taranto. Molte di queste spezie sono caratteristiche della macchia mediterranea presente in Albania e ritrovate nelle aree interne della Murgia. I nostri liquoristi scelgono le materie prime con cura e le trasformano seguendo un preciso disciplinare nel rispetto della tradizione che si unisce all’innovazione e alla tecnologia della produzione», sostiene con orgoglio Lippolis.

Grottaglie – Pasticceria Bernardi

Nella città delle ceramiche e dei pumi, boccioli di fiore che indicano prosperità e che si trovano a Grottaglie ma anche in tutto il Salento, c’è anche un angolo enogastronomico di tutto rispetto, in grado di conquistare clienti locali ed internazionali.

«Abbiamo collaborato con l’aeroporto di Grottaglie, che ci ha permesso di servire alcune star famose passate da lì, e abbiamo curato alcuni eventi per la regione Puglia. Non è semplice saper accontentare gusti particolari come quelli di alcune celebrità, vanno trovate quei piaceri in grado di soddisfarli. Solitamente siamo dieci persone, ma in estate, e anche nel periodo natalizio, ci allarghiamo», racconta Marco Bernardi, pasticcere e gestore, insieme al fratello Marco, dell’impresa di famiglia.

Ottimi panettoni e molto forti nel cioccolato, specie nelle sue varietà alla mandorla e al fico, oggi l’impresa di famiglia si è decisamente allargata rispetto al passato, visto che già da anni c’è la “Bernardi Wine & Spirits”, enoteca aperta sulla spinta della passione di Michele sempre in via Sorte, dove c’è il passato della famiglia Bernardi.

«La pasticceria nasce nel 1982, in via La Sorte 42, avviata da mio padre e mio zio prima del passaggio di consegne del 2005, quando rileviamo io e mio fratello Michele. Nel complesso parliamo di un progetto ormai avviato qui, anche se in passato abbiamo avuto altri punti vendita, che però hanno segnato un distacco da mio padre e da mio zio», racconta Marco. Ma quali sono i progetti per il futuro? «Il momento è incerto, ma contiamo di poter presto avere un capannone, in modo tale da ampliare la nostra produzione e allargarci, dandoci la possibilità di arrivare a fornire tutto il Sud Italia».

Taranto – Le cozze nere presidio Slow Food

Famose come la birra Raffo e base essenziale per una delle ricette pugliesi più conosciute, come riso, patate e cozze. Le cozze nere sono da sempre uno dei simboli più famosi di Taranto, che spesso però ha dovuto fare i conti con la realtà: la produzione, infatti, ha notevolmente risentito della chiusura di uno dei seni del Mar Piccolo del 2011, a causa dei valori alti di diossina, che ha portato i grandi volumi del passato ad essere drasticamente ridotti.

Per aiutare i mitilicoltori tarantini ed evitare falsificazioni, in un mercato che spesso spaccia per nostrane cozze provenienti da altri Paesi come la Grecia, è nato il presidio Slow Food della Cozza nera di Taranto. «Era giusto tutelare un prodotto così, che nasce in un’area unica al mondo come il Mar Piccolo: spesso i mitilicoltori pagano la cattiva informazione ma noi trattiamo la zona come una vera e propria oasi. La tutela di Slow Food ci permetterà di rendere perfettamente tracciabile il prodotto, uno dei problemi di cui spesso veniamo accusati, dato che le vaschette che vengono sequestrate sono spesso di ignota provenienza», denuncia Luciano Carriero.

La storia delle cozze nere si intreccia con quella della città e della sua industria, ma anche con la passione di un’intera regione. «Avresti dovuto vedere quanta tristezza c’era in giro nel 2011, quando fu interdetta la pesca nell’ultimo seno. Ma non solo qui, nei vicoli di Taranto vecchia o in città, ma in tutta la regione: il pugliese è il maggior cliente e il 90% delle cozze tarantine si consumano tra Bari e Brindisi», evidenzia Carriero. Da allora la produzione è sensibilmente scesa, passando da 120 mila quintali a 60/70 mila quintali.

«La nostra speranza è quella di essere finalmente riconosciuti e riconoscibili in modo definitivo: ad oggi siamo 24 cooperative che hanno firmato il disciplinare, come persone solo la cooperativa di cui sono presidente raggruppiamo 34 padroncini, che a loro volta danno da mangiare a quasi 90 famiglie, parliamo quindi di 90/100 lavoratori», evidenzia Carriero. In una città rimasta spesso come eternamente incantata nei suoi riti, quelli della Settimana Santa così simili a quelli di Siviglia, e nelle sue sventure, un simile gesto vuol dire dare anche un futuro diverso a tutti i tarantini.

«La mitilicoltura dà speranza, è un segno distintivo di questa città sin dal suo luogo di nascita, il Mar Piccolo. C’è una ragione se ne siamo orgogliosi, è perché il nostro mare è speciale: il nostro è un ecosistema unico al mondo, ha un mare semichiuso, protetto e ci sono 34 sorgenti, fiumi sotterranei che sfociano nel mar Piccolo, abbassando la salinità e dando al mare un sapore unico. Privarci delle cozze vuol dire privarci di un pezzo di cuore», rimarca Carriero. Una storia sentimentale che va di certo oltre un mostro di lamiere e di acciaio, ormai lontano dal tempo e dalla Storia.

Tangenti per le discariche, 9 anni e 6 mesi per l' ex presidente provincia di Taranto. Fu arrestato nel marzo 2019. Altre tre condanne. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Novembre 2022.

E' stato condannato a 9 anni e 6 mesi di carcere Martino Tamburrano, l’ex presidente della Provincia di Taranto finito in carcere a marzo 2019 con l’accusa di aver autorizzato l’ampliamento della discarica «La Torre Caprarica» di Grottaglie in cambio di tangenti e favori.

Il collegio di magistrati, presieduto dal giudice Patrizia Todisco e a latere Federica Furio e Daniele Gallucci, ha emesso la sentenza condannando altri tre imputati: 7 anni per il dirigente della Provincia Lorenzo Natile, 9 anni per l’imprenditore Pasquale Lonoce e infine 8 anni per Roberto Natalino Venuti, manager di «Linea ambiente», società del gruppo «A2a» che gestiva la discarica. I reati contestati sono, a vario titolo, quelli di corruzione e turbata libertà degli incanti. Ai domiciliari finirono anche altre tre persone.

Il Tribunale ha dichiarato tutti gli imputati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena, nonchè incapaci di contrattare con la pubblica amministrazione per cinque anni. I soli Tamburrano e Natile sono interdetti dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata della pena.

Tamburrano è tenuto inoltre al pagamento, «a titolo di riparazione pecuniaria», di 310mila euro in favore della Provincia di Taranto. Di conseguenza è stata disposta la confisca di tale somma e, in caso di impossibilità, di beni mobili e immobili nella disponibilità dell’imputato per un valore equivalente.

Tutti gli imputati sono stati condannati al risarcimento danni, da liquidarsi in sede civile, in favore delle parti civili Provincia di Taranto, Comune di Grottaglie e Comune di San Marzano di San Giuseppe.

Tamburrano era accusato di aver ricevuto una tangente di 5mila euro al mese, un’auto Mercedes del valore di 50mila euro (della quale è stata disposta la confisca) e un contributo di 250mila euro per finanziare la campagna elettorale di sua moglie, Maria Francavilla, candidata (non eletta) al Senato per Forza Italia alle politiche del 2018.

“Monnezzopoli”: condannato a 9 anni e 6 mesi Tamburrano ex presidente della Provincia di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Novembre 2022

E' in corso il processo per il secondo troncone dell' inchiesta T-REX, che vede fra gli imputati anche l'imprenditore di Massafra, Antonio Albanese, presidente della CISA spa attuale comproprietario al 50% del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, avrebbe allertato gli indagati che erano sotto intercettazione della Guardia di Finanza, così danneggiando il corso delle indagini e l'accertamento delle prove.

Martino Tamburrano, l’ex presidente della Provincia di Taranto arrestato nel marzo 2019 con l’accusa di aver autorizzato illegittimamente l’ampliamento della discarica “La Torre Caprarica” (denominata III Lotto) di Grottaglie in cambio di tangenti e favori è ‘ stato condannato a 9 anni e 6 mesi di carcere dal collegio giudicanti del Tribunale di Taranto, presieduto dal giudice Patrizia Todisco, a latere Federica Furio e Daniele Gallucci. Tamburrano rispondeva delle accuse di aver ricevuto una tangente di 5mila euro al mese, un SUV Mercedes GLC del valore di 50mila euro (di cui stata disposta la confisca) ed un contributo di 250mila euro per finanziare la campagna elettorale di sua moglie, Maria Francavilla, candidatasi al Senato per Forza Italia alle elezioni politiche del 2018 (non eletta).

Maria Francavilla, moglie di Martino Tamburrano, candidata di Forza Italia al Senato nel 2018

Condannato a 7 anni Lorenzo Natile dirigente della Provincia di Taranto (6 anni e 6 mesi era la richiesta della Procura) difeso dagli avvocati Claudio Petrone e Daniele D’Elia , 9 anni per l’imprenditore di San Marzano di S. Giuseppe, Pasquale Lonoce (la richiesta della procura era stata di 9 anni e 9 mesi), ed 8 anni contro i 7 della richiesta per Roberto Natalino Venuti, il procuratore speciale della “Linea Ambiente srl”, società del gruppo A2A che gestiva la discarica di Grottaglie (Taranto). I reati contestati sono di corruzione e turbata libertà degli incanti. Il processo ha origine dall ‘indagine “T-REX“ condotta della Guardia di Finanza di Taranto, all’epoca dei fatti comandata dal colonnello Gianfranco Lucignano, che scoprì un valzer di tangenti alla Provincia di Taranto.

La discarica di Grottaglie (TA) in località La Torre Caprarica, denominata “III lotto”

Il Tribunale Penale di Taranto ha dichiarato tutti gli imputati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena, ed impossibilitati a contrattare con la pubblica amministrazione per cinque anni. Tamburrano e Natile sono stati interdetti dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per il periodo di espiazione della pena.

Tamburrano è stato condannato anche al risarcimento di 310mila euro, “a titolo di riparazione pecuniaria” nei confronti della Provincia di Taranto, e conseguentemente è stata disposta la confisca di tale somma o, in caso di impossibilità, di beni mobili e immobili nella disponibilità dell’imputato per equivalente. Tutti gli imputati sono stati condannati al risarcimento danni, da liquidarsi in sede civile, in favore delle parti civili Provincia di Taranto, Comune di Grottaglie e Comune di San Marzano di San Giuseppe.

Il Tribunale ha disposto ai sensi dell’ art. 331 c.p.p. la trasmissione alla Procura di Taranto per le determinazioni di competenza del verbale delle deposizioni testimoniali rese, ipotizzando la “falsa testimonianza” dei membri del Comitato tecnico scientifico che aveva rilasciato il parere favorevole all’ampliamento della discarica, poco tempo dopo dal precedente parere contrario, nei confronti di: Alessio Di Giuseppe (udienza del 03.02.2020), Michele Notarnicola (udienze del 19.01.2022 e 26.01.2022), Sabino De Gisi (udienza del 26.01.2022), Giuseppe Abbracciavento (udienza del 09.02.2022), Gianpiero Santoro (udienza del 09.02.2022), Aniello Polignano (udienze del 09.02.2022 e del 09.03.2022), Roberto Giuseppe Francavilla (udienza del 11.05.2022) e Luciana Filomena Francavilla (udienza del 11.05.2022).

da sinistra Tonino Albanese e Luigi Vitali in una manifestazione elettorale nello stabilimento di Pasquale Lonoce

E’ in corso il processo per il secondo troncone dell’inchiesta T-REX, che vede fra gli imputati anche l’imprenditore di Massafra, Antonio Albanese, presidente della CISA spa attuale comproprietario al 50% del quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, che puntualmente dimentica di renderlo noto ai suoi lettori che diminuiscono di mese in mese prefigurando un futuro poco radioso. Albanese secondo le accuse a suo carico, avrebbe allertato gli indagati che erano sotto intercettazione della Guardia di Finanza, così danneggiando il corso delle indagini e l’accertamento delle prove.

Taranto, a 75 anni muore ex senatore Giuseppe Semeraro. Il cordoglio di Fitto. Ex parlamentare di An nonché assessore alla cultura della giunta regionale pugliese guidata dal presidente Salvatore Distaso (1995). Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l’08 Novembre 2022.

È morto oggi a Taranto Giuseppe Semeraro, 75 anni, ex parlamentare di An nonché assessore alla cultura della giunta regionale pugliese guidata dal presidente Salvatore Distaso (1995). Fu candidato al Senato nel 2001, eletto nel collegio di Taranto: nella legislatura ha ricoperto il ruolo di componente delle commissioni Difesa e Industria. Nato il 16 marzo 1947 a Martina Franca, avvocato civilista, è stato a lungo consigliere comunale del Msi e poi di An, nonché candidato sindaco nel comune della Valle d’Itria. Nel febbraio scorso era stato insignito della toga d’oro a Taranto dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, per i 50 anni di professione. E’ anche stato presidente della Banca della Valle d’Itria e di Martina Franca. Era ricoverato nel capoluogo ionico dopo un infarto.

Il cordoglio del ministro Raffaele Fitto

«Profondamente addolorato per l'improvvisa scomparsa di Giuseppe Semeraro, con lui ho condiviso sia una sincera amicizia sia il governo della Puglia: è stato un assessore regionale attento, serio e competente. Un uomo di poche parole, ma con una grande visione politica e territoriale. Partecipo al dolore della famiglia». E’ il messaggio di cordoglio del ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto.

La destra pugliese in lutto. E’ morto a 75 anni l’ ex senatore Giuseppe Semeraro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’8 Novembre 2022.

Noto avvocato civilista, è stato consigliere comunale del Msi, di An, e candidato sindaco nel comune della Valle d’Itria. collegio di Taranto, facendo parte in quella legislatura e delle commissioni parlamentari Difesa e Industria del Senato della Repubblica

Si è spento oggi a Taranto Giuseppe Semeraro all’età di 75 anni, dopo essere stato colto da un infarto,  è stato trasportato dal pronto soccorso di Martina Franca all’ospedale S.S. Annunziata di Taranto, dove questa mattina è deceduto nel reparto di rianimazione. Ex senatore di An nonché assessore alla cultura della giunta regionale pugliese guidata dal presidente Salvatore Distaso (1995) . Giuseppe Semeraro, che da tutti si faceva chiamare Peppino, era nato il 16 marzo 1947 a Martina Franca, noto avvocato civilista, è stato consigliere comunale del Msi, di An, e candidato sindaco nel comune della Valle d’Itria. Nel 1995 fu eletto in Alleanza Nazionale in Regione diventando prima Assessore ai Lavori pubblici e poi alla Cultura. Candidatosi al Senato nel 2001, venne eletto nel collegio di Taranto, facendo parte in quella legislatura e delle commissioni parlamentari Difesa e Industria del Senato della Repubblica.

Lo scorso febbraio aveva ricevuto a Taranto dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto la toga d’oro, per i suoi 50 anni di professione. E’ anche stato presidente della Banca della Valle d’Itria e di Martina Franca.

Il cordoglio della politica pugliese

“Sono profondamente addolorato per l’improvvisa scomparsa di Giuseppe Semeraro, con lui ho condiviso sia una sincera amicizia sia il governo della Puglia: è stato un assessore regionale attento, serio e competente. Un uomo di poche parole, ma con una grande visione politica e territoriale. Partecipo al dolore della famiglia” il messaggio di cordoglio del ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto.

“Mi rattrista la scomparsa di Giuseppe Semeraro. Avvocato e senatore di Alleanza Nazionale, Giuseppe, che da tutti si faceva chiamare Peppino, è stato un prezioso interprete del suo tempo e della destra nazionale. Uomo dallo stile unico per pacatezza e grande competenza, era un profondo conoscitore del nostro territorio che amava e che ha contribuito a migliorare con la sua azione politica, come senatore, ma anche come assessore regionale e  consigliere comunale per lungo tempo nella sua Martina Franca.La perdita del senatore Semeraro deve indurci a non dimenticare, oggi più che mai, la sua lezione di vita vissuta al servizio delle Istituzioni e dei cittadini” lo ricorda l’on.le Dario Iaia, coordinatore provinciale di Fratelli d’Italia Taranto. 

“Destra pugliese in lutto. Ciao Peppino – scrive l’avvocato e pubblicista Fabrizio Tatarella – È scomparso nella sua Martina Franca l’avvocato Peppino Giuseppe Semeraro, già parlamentare e assessore regionale. Una bandiera della destra jonica e pugliese. Grande amico di Pinuccio, di mio padre e mio. Un forte abbraccio alla famiglia”. Redazione CdG 1947

Taranto: trovati morti marito e moglie, forse caso di omicidio-suicidio. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

I corpi rinvenuti in due diversi appartamenti della città pugliese. L’uomo, 52 anni, avrebbe ucciso la consorte, 52, e poi si sarebbe tolto la vita impiccandosi

Una coppia, marito e moglie, sono stati trovati morti a Taranto. I loro corpi sono stati rinvenuti in due appartamenti diversi della città. Questo particolare farebbe ipotizzare agli investigatori a un caso di omicidio-suicidio. Secondo una prima ricostruzione, Roberto Delli Santi, sottufficiale della Marina militare, 50 anni, potrebbe aver ucciso la consorte, Silvia Di Noi, di 52, soffocandola con uno strofinaccio in bocca, e poi si sarebbe tolto la vita, impiccandosi in un altro appartamento.

Il cadavere dell’uomo è stato trovato in una villa di San Vito, borgata di Taranto, quello della donna in un palazzo di viale Virgilio. Pare che la donna avesse problemi di salute la cui natura è oggetto di verifica. Non è stato trovato peraltro alcun biglietto che potesse spiegare i motivi del tragico gesto. A dare l’allarme sarebbe stato un figlio che non riusciva a contattare i genitori e temeva che fosse accaduto qualcosa di grave. Le indagini, affidate alla Squadra mobile di Taranto, sono coordinate dal pm di turno Mariano Buccoliero.

Trovati morti marito e moglie a Taranto, ipotesi di omicidio-suicidio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Ottobre 2022.

Non è stato trovato alcun biglietto che potesse aiutare a capire i motivi della doppia morte. A dare l’allarme sarebbe stato un figlio che non riusciva a contattare i genitori e temeva che fosse accaduto qualcosa di grave

Un marito e moglie, sono stati trovati morti a Taranto. I loro corpi sono stati trovati in due appartamenti diversi della città, un particolare questo che farebbe ipotizzare agli investigatori a un caso di omicidio-suicidio. Secondo una prima ricostruzione degli inquirenti, Roberto Delli Santi, 50 anni, sottufficiale della Marina Militare, potrebbe aver ucciso la consorte, Silvia Di Noi, di 52, soffocandola con uno strofinaccio in bocca, e poi si sarebbe tolto la vita venendo ritrovato impiccato ad una trave all’interno di una villetta di proprietà e in fase di ristrutturazione in via Gobbioni a San Vito. 

Il cadavere della donna è stato rinvenuto in una abitazione nel palazzo di viale Virgilio 39. Sembrerebbe che la donna avesse problemi di salute la cui natura è al momento oggetto di verifica. Gli investigatori della Squadra mobile della Questura di Taranto, guidati dal vicequestore aggiunto Cosimo Romano, hanno ascoltato alcuni parenti e amici della coppia per cercare elementi utili alle indagini. Dalle testimonianze raccolte sarebbe emersa l’esistenza di un disagio nella vita della coppia, su cui saranno svolti ulteriori approfondimenti, che si era acuito negli ultimi tempi. Non è stato trovato alcun biglietto che potesse aiutare a capire i motivi della doppia morte. A dare l’allarme sarebbe stato un figlio che non riusciva a contattare i genitori e temeva che fosse accaduto qualcosa di grave, facendo scattare l’allarme è scattato intorno alle 17, con il ritrovamento del corpo della donna. 

Nell’appartamento di Viale Virgilio è arrivato il medico legale, la dott.ssa Monteleone, per i rilievi del caso Le indagini, affidate alla Squadra mobile di Taranto, sono coordinate dal pm di turno Mariano Buccoliero. Le salme di corpi di Roberto Delli Santi e Silvia Di Noi sono stati trasportati all’obitorio dell’adiacente Ospedale Santissima Annunziata in attesa dell’autopsia che il magistrato affiderà nelle prossime ore. Redazione CdG 1947

La Procura di Taranto chiede il processo per i vertici della Cittadella della Carità. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Ottobre 2022. 

La notizia ci è arrivata a seguito della ricezione involontaria dell' atto giudiziario inviatoci erroneamente da un dirigente del Gruppo CISA di Massafra, molto affezionato ai "cappucci" ed alle consulenze che incassa da parte delle società ed enti pubblici

Dall’ avvocato Sergio Prete, presidente dell’ Autorità Portuale dello Jonio, all’ attuale presidente della Fondazione Cittadella della Carità avv. Sergio Sibilla, la Procura di Taranto ha depositato un avviso di conclusione indagini ex art. 415 bis, con cui è stato richiesto il processo per i vertici della Fondazione responsabili della malagestione della struttura sanitaria intitolata alla memoria dell’ arcivescovo più amato di Taranto, Mons. Guglielmo Motolese. 

La notizia ci è arrivata a seguito della ricezione involontaria dell’ atto giudiziario inviatoci erroneamente da un dirigente del Gruppo CISA di Massafra, molto affezionato ai “cappucci” ed alle consulenze che incassa da parte delle società ed enti pubblici. Ed è per questo motivo, nel rispetto delle norme di Legge che non pubblichiamo l’atto, anche perchè si tratta di un avviso di conclusione delle indagini e contestuale richiesta di processo (ex-art.415 bis). 

Lo scorso 11 agosto si era svolto in Prefettura a Taranto un incontro richiesto dalla Ull FPL Taranto in merito alla vertenza dei lavoratori della Fondazione Cittadella della Carità di Taranto. L’organizzazione sindacale nella sua nota alla stampa, denunciava  l’assenza del “Management della Fondazione e di tutti i componente del Consiglio d’Amministrazione. A rappresentare la Fondazione era presente soltanto l’avvocato Galeone privo di piena delega alla negoziazione”. Durante quella riunione la UIL FPL aveva contestato “alcuni atti unilaterali del Management che hanno avuto importanti ricadute sull’organizzazione del lavoro, con importanti ricadute sull’organizzazione del lavoro e sul servizio a seguito della modifica dell’appalto del servizio mensa, diventato Catering“. 

Pertanto la la UIL FPL inoltre aveva richiesto “rassicurazione sulla situazione debitoria della Fondazione nei confronti dei fornitori e sul regolare pagamento dei contributi INPS e sul regolare versamento dell’IRPEF all’Agenzia delle entrate”. Ma in quella sede istituzionale “nessun riscontro è stato fornito” e l’organizzazione sindacale aveva comunque accolto l’impegno dell’avvocato Galeone, presente in rappresentanza della Cittadelle della Carità, di “fornire una dettagliata informativa in un incontro da espletarsi il prossimo 5 settembre in sede sindacale”.

“Esattamente il giorno dopo l’incontro in Prefettura – denunciava ancora la UIL FPL – è giunta una convocazione a firma del Presidente con all’ordine del giorno solo due argomenti, disattendendo  quanto sottoscritto e verbalizzato in nell’incontro in Prefettura. L’atteggiamento del Management della Fondazione è assolutamente incomprensibile e ci lascia pensare a solo due ipotesi: la mano destra non conosce quello che fa la mano sinistra, oppure che c’è una scelta del Management della Fondazione di disattendere gli accordi sottoscritti.”  

Per queste ragioni questa mattina lo scorso 18 agosto con una nota indirizzata al Prefetto di Taranto la UlL FPL aveva proclamato lo stato di agitazione riattivando la vertenza. La nota venne indirizzata anche all’Arcivescovo di Taranto monsignor Filippo Santoro in quanto “venga reso edotto di quanto sta avvenendo nella Fondazione di proprietà della Curia” anche perchè il management, i Presidenti, i componenti del CdA della Fondazione Cittadella della Carità di Taranto che cambiano continuamente vengono nominati dalla Curia Arcivescovile.

Resta da chiedersi cosa aspetti a questo punto il Prefetto a commissariare la Fondazione, avvalendosi dei poteri previsti dalla Legge per le Fondazioni. O forse la Curia è intoccabile ed i loro vertici ne approfittano ? E dove finiscono i soldi incassati dalla pubblicità di Radio Cittadella affidata ad una società costituita da Cosimo (detto Mimmo) Mazza un giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno (che successivamente a seguito degli articoli del CORRIERE DEL GIORNO ha ceduto le quote) ed amministrata da un tecnico radiofonico, tale Ignazio Stasi a lungo “vicino” all’ex-editore bancarottiere di Radio Studio 100 , Giancarlo Cardamone ? Tutto normale per la Fondazione ?

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli dei miei libri: "Contro Tutte Le Mafie" o "La Mafia dell'Antimafia" o “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri.

Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Processo Scazzi a Taranto…aspettando la Cassazione.

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Ne parliamo con il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ben conosce quel foro avendo esercitato la professione forense e dalla cui esperienza ne sono usciti dei libri.

«Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati».

è stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea dei Diritti Umani.

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione.

Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità e buon andamento (efficienza).

Il quadro delle consorterie. Dia: la mafia a Taranto, il porto, la droga e l'alleanza con la camorra. La Redazione de La Voce di Manduria domenica 2 ottobre 2022.

“Oggi Taranto non è più la città in cui si contavano i morti per strada; è una città che tra mille contraddizioni cerca di ricostruire la propria identità superando i fumi nocivi dei grandi insediamenti industriali; una città ove le organizzazioni criminali offrono, attraverso le attività illecite, una delle poche possibilità di apparente ascesa economica e sociale ad una popolazione alla continua ricerca di un lavoro sano e dignitoso”.

Così si esprime il Procuratore della Repubblica Aggiunto di Lecce - Direzione Distrettuale Antimafia, Guglielmo Cataldi, nel delineare lo scenario criminale del circondario tarantino in cui è evidente il proliferare di piccole organizzazioni mafiose che continuano ad operare in alleanza tra loro o in accesa conflittualità emulando lo stesso “assoggettamento omertoso di analoghi gruppi mafiosi già occupanti in maniera stabilmente radicata il medesimo ambito territoriale.”

La mafia nella città di Taranto (Relazione della Dia secondo semestre 2021)

Ogni quartiere della città dei due mari è controllato da una o più consorterie, alcune delle quali con spiccata indole criminale, che delinquono nelle zone di rispettiva appartenenza egemonicamente e in autonomia. Si registra la presenza dei Catapano, Leone e Cicala dominanti nei quartieri di Talsano, Tramontone e San Vito, dei Cesario, Ciaccia, Modeo e Pascali attivi nel quartiere Paolo VI e Borgo dove è presente anche il clan Diodato, dei Sambito che operano nel quartiere Tamburi, degli Scarci al quartiere Salinella e dei Taurino e Pizzolla nella Città Vecchia.

Seppure indebolito dalle vigorose inchieste giudiziarie nella città di Taranto continua ad essere presente altresì anche il sodalizio criminale De Vitis-D’Oronzo. Il clan Modeo protagonista sul finire degli anni ‘80 e inizi dei ’90 di una violentissima guerra di mafia, ha dato incisivi segnali di attuale operatività nel settore degli stupefacenti. E’ ciò che emerge dall’indagine “Crypto” conclusa il 15 settembre 2021 dalla Guardia di finanza dove emerge il ruolo di un elemento di spicco del sodalizio già indagato nell’operazione “Cupola” (2020) “in qualità di promotore e organizzatore dell’associazione operando a livello verticistico e direttivo...” nelle dinamiche delittuose del narcotraffico gestito dal clan Pesce-Bellocco di Rosarno (RC). Per il lungo curriculum penale e la vasta esperienza nello specifico settore dell’illecito infatti il soggetto “per i rosarnesi rappresentava un cliente perfetto”. Nello stesso quartiere in cui operano i Modeo è presente il clan Pascali che nella recentissima operazione del 2 febbraio 2022 condotta dalla Polizia di Stato e di cui si argomenterà nella prossima Relazione Semestrale è stato protagonista di una serie di fatti delittuosi che ne hanno confermato la fama e lo spessore criminale “avvalendosi di una nuova forma di intimidazione c.d silente e simbiotica rispetto al contesto sociale di riferimento”. Il gruppo criminale ha dimostrato nel controllo del mercato degli stupefacenti una efferata capacità di creare “alleanze con canali di approvvigionamento napoletani, espressione della camorra”. I riscontri investigativi hanno tra l’altro attestato il ruolo delle donne negli affari sporchi del sodalizio che fungono anche da reggenti e supervisori durante la detenzione dei boss di vertice.

La città di Taranto con il suo porto continua a risentire delle endemiche problematiche legate al transito di maestranze anche straniere a volte dedite a traffici delittuosi quali contrabbando di sigarette, contraffazione e prostituzione. Sebbene non si registrino nel semestre episodi riferibili al caporalato non sono mancati fenomeni di sfruttamento di manodopera di soggetti extracomunitari.

La rivincita arriva dopo 5 anni: Melucci eletto presidente della Provincia di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Settembre 2022. 

L'elezione di ieri di Melucci alla Presidenza della Provincia di Taranto onferisce sicuramente un maggiore "peso" politico alla città di Taranto in un momento di fondamentale importanza per lo sviluppo del capoluogo e dell'intero territorio della provincia jonica.

Per l’intera giornata di ieri gli amministratori della provincia jonica si sono recati al seggio allestito nel Salone degli Stemmi, nel Palazzo della Provincia di Taranto per eleggere il nuovo presidente dopo la decadenza di Giovanni Gugliotti che non essendo più sindaco non poteva più nè svolgere il ruolo, nè tantomeno ricandidarsi . Si sono recati alle urne 345 amministratori su 457.  Il conteggio delle schede è iniziato subito dopo la chiusura delle urne, alle 20. Stavolta non ha partecipato al voto il Comune di Pulsano perché commissariato dalla Prefettura di Taranto.

il sindaco di Taranto e neo-presidente della provincia, Rinaldo Melucci

Il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci è stato eletto presidente della Provincia jonica, alla guida della coalizione progressista “Ali e Radici per la Terra Ionica 2050″, formata da centrosinistra, Movimento 5Stelle e liste civiche ottenendo 61.842 voti su 256 schede raggiungendo l’83,3% delle preferenze vincendo la competizione elettorale con il sindaco di Montemesola Ignazio Punzi a capo di una Area Civica che vedeva insieme forze di centrodestra ed altre realtà civiche che ha ha totalizzato 12.379 su 77 schede pari al 16,7% delle preferenze.

Il calcolo dei voti ricevuti alla Provincia viene effettuato con il voto ponderato (99.873 quelli complessivamente disponibili) trattandosi di elezioni di secondo livello, quelle in cui non sono i cittadini a recarsi alle urne ma i loro rappresentanti eletti nei consigli comunali dei comuni della provincia di Taranto. E questa volta nessun consigliere comunale della maggioranza dell’ amministrazione Melucci al Comune di Taranto, ha fatto venire meno la fiducia per il suo sindaco, come invece avvenne 5 anni prima, anche se non sono stati espressi 25.652 voti ponderati mancanti all’appello.

Subito dopo aver avuto certezza dell’elezione Rinaldo Melucci ha commentato: “Ringrazio chi ha lavorato come me in queste settimane, tutti i colleghi sindaci e consiglieri comunali, che hanno creduto nel programma di Ali e Radici per la Terra Ionica 2050, nel mio metodo di lavoro e nel ruolo del capoluogo. Rimettiamoci subito al lavoro anche per il territorio provinciale che deve recuperare ritardi ai tavoli istituzionali. Dobbiamo smetterla di stare in guerra ed imparare, invece, a fare squadra sulle questioni fondamentali che riguardano il territorio di Taranto e della sua provincia. Da questo momento, siamo tutti insieme responsabilizzati perché la Provincia di Taranto recuperi l’autorevolezza che merita”.

Il Commissario del Pd Taranto, Sen. Antonio Misiani

Il Commissario del Pd Taranto, Sen. Antonio Misiani, e i due sub commissari Anna Filippetti (che è anche consigliera provinciale) e Mattia Giorno con una nota hanno immediatamente espresso la propria soddisfazione: “Il Partito democratico è orgoglioso di esprimere amministratori preparati e validi come Melucci che metterà al servizio di tutta la provincia il suo metodo di lavoro, già rivelatosi vincente per il capoluogo. Ora questo metodo sarà a disposizione di tutti i 29 comuni che insieme diventeranno i protagonisti veri della crescita di tutta l’area ionica” e prosegue “Melucci guiderà la Provincia senza percepire indennità. Questo spirito di abnegazione nei confronti dei cittadini e della sua terra per il nostro partito è motivo grande di apprezzamento e gratitudine” sottolinea la nota del Pd jonico. 

Lo scorso gennaio era stato rinnovato il consiglio provinciale di Taranto, sempre con elezioni di secondo livello. In quell’occasione, le urne avevano assegnato la vittoria alla coalizione di centrosinistra-M5S-civici, la cui lista Terra Jonica 2050, con 48.290 voti ponderati (pari al 50,8%), superando di appena 1.6% la compagine di centrodestra-civici, la cui lista Progetto Comune per la Provincia di Taranto Centrodestra che aveva raccolto, invece, 46.767 voti ponderati (pari al 49,2%). A quelle elezioni non parteciparono, però, i Comuni di Taranto e Leporano che all’epoca erano entrambi commissariati.

il sindaco Melucci ed il capo del suo staff Costanzo Carrieri

A Taranto l’Amministrazione guidata dal sindaco Melucci dal giugno 2017, aveva terminato anticipatamente la sua azione a causa delle 17 dimissioni dei consiglieri di opposizione e di alcuni congiurati della maggioranza. Di conseguenza, il comune capoluogo, non partecipando al voto, non aveva e non ha tuttora alcun rappresentante in consiglio provinciale, ad eccezione del suo riconfermato sindaco, da oggi anche Presidente della Provincia di Taranto.

I due schieramenti avevano espresso ciascuno sei consiglieri. Per Terra Jonica vennero eletti consiglieri Franco Andrioli, sindaco di Statte (Pd); Anna Filippetti, consigliera comunale di Laterza (Pd); Paolo Lepore, consigliere di Massafra (civico); Aurelio Marangella, consigliere comunale di Grottaglie (Articolo Uno); Vito Parisi , sindaco di Ginosa (M5S); Gregorio Pecoraro, sindaco di Manduria (civico); Per Progetto Comune, invece, erano entrati in consiglio Angelo De Lauro, consigliere comunale di Lizzano (Forza Italia); Maria Giovanna Galatone, consigliera comunale di Palagianello (Fratelli d’ Italia); Alfredo Longo, sindaco di Maruggio (civico); Marco Natale, consigliere comunale di Palagianello (Lega); Roberto Puglia, consigliere comunale di Manduria (Fratelli d’ Italia); Vito Punzi, consigliere comunale di Montemesola (civico). 

L’elezione di ieri di Melucci alla Presidenza della Provincia di Taranto ente che ha competenze in materia di strade provinciali, edilizia delle scuole superiori, pianificazione della rete scolastica, assistenza tecnico-amministrativa ai Comuni, pianificazione territoriale, ambiente (su delega della Regione Puglia) e pari opportunità, conferisce sicuramente un maggiore “peso” politico alla città di Taranto in un momento di fondamentale importanza per lo sviluppo del capoluogo e dell’intero territorio della provincia jonica.

Adesso per l ‘ex presidente Giovanni Gugliotti, ex sindaco di Castellaneta, sono finiti i sogni di gloria e candidatura parlamentare, e gli non resta che tornare dietro la sua nuova scrivania anonima alla sede provinciale dell’ INPS di Taranto per lavorare e portare a casa uno stipendio, e molti suoi ex collaboratori, staffisti, portaborse e percettori di mancette ed incarichi discutibili , dovranno trovarsi un lavoro. Chissà se ne saranno capaci. E’ la politica, bellezza…

Crociere, Taranto è la destinazione dell'anno 2022. Melucci: «93mila passeggeri, siamo competitivi». Vince il Seatrade Cruise Award 2022, il più prestigioso riconoscimento del settore crocieristico europeo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2022.

«Il Seatrade Cruise Award 2022, il più prestigioso riconoscimento del settore crocieristico europeo, se lo aggiudica Taranto. Siamo destinazione dell’anno, abbiamo battuto Dubrovnik e la rete Cruise Britain, un successo della città e del nostro intero sistema di accoglienza». Così il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci commenta l’importante riconoscimento alla città dei due mari, come miglior destinazione per le navi da crociera del 2021, assegnato ieri a Malaga dal «Seatrade Cruise Med» di Malaga, il principale evento del settore crocieristico del Mediterraneo. «Nel 2021 - spiega il primo cittadino - da Taranto sono partite oltre 1000 escursioni, due terzi delle quali per tour cittadini, un autentico record rispetto a Bari e Brindisi che non hanno mai raggiunto questi numeri. 93mila passeggeri sono transitati dal nostro scalo, unico in Italia a poter offrire un ventaglio di proposte così ampio da consentire ai croceristi di raggiungere in un’ora i principali attrattori turistici di Puglia e Basilicata». «Siamo - conclude Melucci - finalmente competitivi, questa è la Taranto tutta nuova che avevamo sognato e che stiamo rendendo realtà. E ora anche altre compagnie si stanno affacciando sullo scalo ionico. Avanti così!».

«Taranto è stata incoronata come la miglior destinazione per le navi da crociera del 2021. Il nuovo, importante riconoscimento per la città jonica arriva dal 'Seatrade Cruise Med’di Malaga, il principale evento del settore crocieristico del Mediterraneo. Una ciliegina sulla torta al lavoro che ha permesso allo scalo tarantino di primeggiare su importanti destinazioni come Dubrovnik in Croazia e Cruise Britain». Lo afferma il governatore pugliese Michele Emiliano. «I numeri dei primi 8 mesi del 2022 - dice - confermano il trend positivo del porto di Taranto: si contano già 73mila arrivi, di cui oltre 22mila nel solo mese di agosto, per una crescita di circa 30mila unità rispetto allo stesso periodo nel 2021. Grazie ai grandi sforzi dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio-Porto di Taranto, sempre più compagnie crocieristiche scelgono lo scalo di Taranto: le navi approdate sono più che raddoppiate, passando in un anno da 17 a 39». "Ce n'è abbastanza per essere orgogliosi - conclude - e guardare con fiducia al futuro del turismo a Taranto, sempre più autorevole protagonista del Mediterraneo».

La Procura di Taranto chiede il processo per la Baldassari ex direttore del carcere di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2022 

La Procura di Taranto aveva chiesto l'archiviazione per le accuse della Papa alla Baldassari, ma il gip Francesco Maccagnano ha disposto l’imputazione coatta, ed adesso l' ex direttrice del carcere di Taranto dovrà rispondere anche delle accuse di ripetuti maltrattamenti elencati nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Vittoria Petronella, nei confronti della funzionaria Vincenza Papa in servizio nel carcere di Taranto

Si terrà il prossimo 26 ottobre l’udienza preliminare dinnanzi al Gip Giovanni Caroli del Tribunale di Taranto nei confronti dell’ormai ex-direttore del carcere di Taranto Stefania Baldassari, che è anche indagata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce per altre vicende giudiziarie inerenti ad un presunto voto di scambio avvenuto in occasione delle elezioni amministrative del 2017 quando la Baldassari si candidò a sindaco di Taranto, con il clan del noto pregiudicato Michele Cicala, accuse per le quali è stata sospesa sine die dal servizio dal suo ruolo dal DAP il dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria del Ministero di Giustizia.

L ’inchiesta della Direzione distrettuale Antimafia di Lecce nei confronti di Stefania Baldassari, ex direttrice del carcere di Taranto verte sulle accuse per aver chiesto e ottenuto, secondo gli inquirenti, voti da alcuni ex detenuti durante la campagna elettorale per le amministrative 2017 che la vedeva candidata sindaco del capoluogo ionico. I militari della Guardia di finanza nei giorni scorsi si erano recati presso la casa circondariale di Taranto per sequestrare numerosi documenti che riguarderebbero proprio gli anni della direzione della Baldassari. 

Documenti che adesso dovranno essere verificati dagli investigatori del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza, guidato dal colonnello Valerio Bovenga sotto il coordinamento del sostituto procuratore della Dda di Lecce Stefano Milto De Nozza . Appare chiaro che gli inquirenti vogliano verificare tutti gli atti compiuti dalla Baldassari nel suo incarico al vertice del penitenziario ionico.

La Procura di Taranto aveva chiesto l’archiviazione per le accuse della Papa alla Baldassari, ma il gip Francesco Maccagnano ha disposto l’imputazione coatta, ed adesso l’ ex direttrice del carcere di Taranto dovrà rispondere anche delle accuse di ripetuti maltrattamenti elencati nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Vittoria Petronella, nei confronti della funzionaria Vincenza Papa in servizio nel carcere di Taranto, nei cui confronti incurante del suo stato di salute in quanto invalida al 75% per sclerosi multipla, le urlava continuamente “Se devi stare malata con quella faccia malata stattene a casa“, “Non capisci niente ! Smettila di fare la malata, tanto si vede che è finta la tua malattia“, “Sapete i cessi dove si trovano nei lunghi corridoi ? Di solito in fondo a destra. Beh lì si trova l’ufficio della dottoressa Papa” con “rifiuti e richieste della Papa di usufruire di ore di riposo compensativo” umiliandola al punto tale che la Papa si vedeva costretta a richiedere il distacco lavorativo presso il carcere di Bari “pur distante dalla propria dimora in Taranto e nonostante il suo stato di salute, già compromesso“. Redazione CdG 1947

Indagato Matichecchia comandante della Polizia Locale di Taranto ed altri agenti. Omissione, abuso e rifiuto di atti d’ufficio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Settembre 2022  

Persino il Ministero delle Infrastrutture aveva dato ragione alla disabile, con una risposta inviata anche alla Polizia Locale di Taranto, con cui si chiariva che il suo permesso europeo come quello di tutti i disabili era valido su tutto il territorio nazionale. Smentendo quindi, quanto invece sostenuto dal comandante della Polizia Locale di Taranto, Matichecchia e da alcuni vigili che a parere nostro dovrebbero tornare sui banchi di scuola e rifare il concorso con cui sono stati assunti.

Sono le due le denunce arrivate alla Procura di Taranto, da una disabile grave permanente al 100% e da un’associazione nazionale di consumatori nei confronti di Michele Matichecchia, dirigente del comune di Taranto, attuale comandante della Polizia Locale di Taranto, e di altri appartenenti al corpo responsabili di aver omesso, abusato e rifiutato atti d’ufficio. Il dirigente della Polizia Locale, secondo quanto riportato in denuncia rifiuta ad una disabile tarantina e residente a Roma il diritto di accedere nella zona ZTL e di utilizzare le corsie preferenziali ed i parcheggi riservati ai disabili in occasione delle sue permanenze nel capoluogo jonico, ricoprendola di molteplici multe illegittime e quindi illegali, sostenendo che il suo “permesso fosse scaduto avendo validità di soli 5 anni”, quando invece il permesso rilasciato dall’ Agenzia per la Mobilità del Comune di Roma Capitale alla disabile era senza scadenza!

La disabile si era rivolta persino alla Direzione Generale per la Sicurezza Stradale del Ministero delle Infrastrutture, che le aveva dato ragione, con una risposta inviata anche alla Polizia Locale di Taranto, con cui si chiariva che il suo permesso europeo come quello di tutti i disabili era valido su tutto il territorio nazionale. Smentendo quindi, quanto invece sostenuto dal comandante della Polizia Locale di Taranto, Matichecchia (di cui ci siamo peraltro occupati spesso in passato per le inerzie, disfunzioni ed incapacità gestionale della Polizia Locale di Taranto) e da alcuni vigili che a parere nostro dovrebbero tornare sui banchi di scuola e rifare il concorso con cui sono stati assunti. 

Adesso sarà compito della Procura di Taranto e dei Carabinieri scovare ed identificare l’identità dell’appartenente “anonimo” della Polizia Locale di Taranto, in quanto non firmava le sue missive alla disabile, manifestando la propria ignoranza (nel senso che ignora le norme di Legge), il quale sosteneva che quel permesso “era valido solo nella città che lo aveva emesso” ! 

I diritti dei disabili 

Una vicenda simile è stata decisa dalla Suprema Corte di Cassazione lo scorso 3 agosto, e raccontata dal quotidiano il SOLE24ORE. Gli ermellini della Suprema Corte nella loro sentenza ha stabilito e chiarito che “Il contrassegno che autorizza i disabili al passaggio nelle zone a traffico limitato deve essere valido su ogni auto e ovunque in Italia”. E’ stata quindi annullata la multa, fatta a Roma alla figlia che trasporta il padre disabile, per il passaggio dell’auto nella corsia riservata ai mezzi pubblici. Una sanzione scattata perché il sistema di controllo automatico non aveva “riconosciuto” il permesso rilasciato da un altro comune. La ricorrente è comunque dovuta arrivare fino alla Cassazione (sentenza 1813) per vedersi annullare una sanzione considerata legittima sia dal Giudice di pace sia dal Tribunale. Ad avviso dei giudici di merito, infatti, l’esposizione sul parabrezza del contrassegno, non bastava per avere il via libera alla circolazione anche nelle zone off limits al traffico “ordinario”, ma era necessario che la persona autorizzata facesse presente al comune capitolino il suo diritto di transito. Per la Suprema corte si tratta di un chiaro limite alla libertà di spostamento, imposto alle persone che hanno un handicap.

La libertà di spostamento

I giudici di legittimità sono costretti a ricordare che il “pass” in questione ha lo scopo di ridurre il più possibile i problemi di deambulazione. Un fine che non può essere vanificato dalla inadeguatezza dei sistemi di controllo automatico, della Polizia Locale. La soluzione, conclude la Cassazione, non può certo essere quella di addossare ai disabili obblighi e incombenze che non gli competono, ma sta semmai nel dovere delle pubbliche amministrazioni di adeguare i sistemi di verifica. In attesa che questo avvenga gli enti devono fare le verifiche sulla correttezza del passaggio con un esito che «non può porsi preventivamente a carico del soggetto autorizzato». 

La Cassazione peraltro si era già espressa in passato in materia con le proprie sentenze n. 719/2008, n. 21320/2017 e n. 7630/2019. Decisioni definitive della Suprema Corte che evidentemente alla Polizia Locale di Taranto in molti a partire dal proprio comandante ….ignorano (o calpestano !) . Per Matichecchia i cittadini devono soccombere alle follie dei suoi agenti, ed alle sue folli interpretazioni della Legge, o al limite se proprio vogliono….possono fare ricorso al Giudice di Pace o al Prefetto. Solo che questa volta sarà proprio Matichecchia a doversi procurare un avvocato. 

Chissà cosa diranno e sopratutto faranno il Sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e l’assessore alla Polizia Locale Cosimo Ciraci (che ha anche una moglie agente di polizia locale, in servizio fuori Taranto ) ? O forse le multe servono a fare “cassa” ? In buona sostanza: il fatto che alcune amministrazioni locali ricevano consistenti boccate d’ossigeno dalle multe, è un segreto di Pulcinella.

Il Decreto Infrastrutture e Trasporti (decreto-legge 10 settembre 2021, n. 121) contenente le ultime modifiche al Codice della Strada sono numerose,  ha ricevuto il “disco verde” dal Senato dopo il via libera della Camera, è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Dal 1 gennaio 2022, gli automobilisti titolari di contrassegno disabili hanno la possibilità di lasciare, gratuitamente, il proprio veicolo in sosta nelle aree altrimenti a pagamento (le “strisce blu”), se i posti a loro riservati siano già stati occupati. Le sanzioni amministrative a carico di chi parcheggia negli stalli per disabili, senza averne titolo, raddoppiano: dagli attuali 84 euro-335 euro, si passa a 168 euro (importo minimo) e fino a 672 euro. Aumentano anche i punti in meno sulla patente, che passano a 6 dagli attuali 2. 

Inoltre per le amministrazioni locali (Comuni, Province, Unioni di Comuni), vige l’obbligo di pubblicare una volta all’anno (entro il 30 giugno) e sui rispettivi portali online una relazione sulle sanzioni elevate per violazioni al Codice della Strada: il consuntivo deve indicare le somme incassate nell’anno precedente, e le modalità di come effettivamente tali somme sono state utilizzate. Qualcuno le ha viste a Taranto ? Sul sito del Comune non le abbiamo trovate. Dal canto suo, il Ministero dell’Interno dovrà rendere note (sempre attraverso il proprio sito istituzionale) le relazioni dagli enti locali entro sessanta giorni dall’avvenuta ricezione di ogni documento. Redazione CdG 1947

Si è spento Antonio Caramia, imprenditore tarantino lungimirante ed amante della sua città. Antonello de Gennaro Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Giugno 2022

E' stato anche editore televisivo fondando negli anni ‘80 Canale Uno, una delle più tecnologiche e professionali emittenti televisive di Taranto, che si era collegata a Telemontecarlo.

È morto oggi a Taranto all’età di 81 anni Antonio Caramia, uno degli imprenditore più noti ed importanti del capoluogo jonico. Aveva ricoperto la carica di presidente dell’Associazione degli Industriali, della Cassa Edile e per un breve periodo, presidente dell’Autorità Portuale. Uomo brillante e generoso, lascia la moglie e le due figlie Barbara e Livia attive nel settore del turismo e della moda.

Insieme ai fratelli Saverio e Pasquale (deceduto alcuni anni fa) controllava l’azienda di famiglia Italcave spa, la 1a società per utili del territorio, amava la polemica costruttiva, ed aveva fatto discutere recentemente per delle prese di posizione nei confronti dello stabilimento siderurgico di Taranto. 

Antonio Caramia è stato anche editore televisivo fondando negli anni ‘80 Canale Uno, una delle più tecnologiche e professionali emittenti televisive di Taranto, che si era collegata a Telemontecarlo. Con la sua scomparsa Taranto perde una delle persone più importanti ed illuminate dell’imprenditoria jonica, e noi del CORRIERE DEL GIORNO, ed io in particolare perdo un vero e caro amico che porteremo per sempre nei nostri ricordi e nel nostro cuore. Alla sua famiglia va il nostro più sincero cordoglio.

I funerali si svolgeranno domani mercoledì 29 giugno alle 16.30 nella parrocchia del Carmine a Taranto. 

Redazione CdG 19

La corte di appello di Lecce, sezione di Taranto conferma la precedente sentenza di condanna in primo grado a Michele Mazzarano. Redazione CdG 1947  su Il Corriere del Giorno il 16 giugno 2022.  

Confermata in appello la sentenza di condanna a 9 mesi ma sopratutto a 5 anni di sospensione dal diritto elettorale e da tutti i pubblici uffici (con la sospensione della pena) inflitta dal giudice monocratico Paola D’amico nel primo grado di giudizio nei confronti del consigliere regionale Michele Mazzarano, pena “ammorbidita” grazie al rito abbreviato

Confermata ieri in appello la sentenza di condanna a 9 mesi ma sopratutto a 5 anni di sospensione dal diritto elettorale e da tutti i pubblici uffici (con la sospensione della pena) inflitta dal giudice monocratico Paola D’amico nel primo grado di giudizio nei confronti del consigliere regionale Michele Mazzarano, pena “ammorbidita” grazie al rito abbreviato, a cui hanno optato l’ avvocato Fausto Soggia difensore di Mazzarano che ha così ottenuto la pena dimezzata ad un terzo, potendo celebrare il processo a porte chiuse, come previsto dal codice penale. 

Ieri dinnanzi alla Corte c’è stato un autentico colpo di teatro, quando Emilio Pastore si è presentato in aula senza avvocato (e la Corte ha subito fatto arrivare un difensore d’ufficio) in quanto il suo difensore, l’avvocato Marco Pomes ha rinunciato al mandato di difensore, ed ha reso pesanti dichiarazioni spontanee che hanno sicuramente contribuito ad indurre il collegio giudicante a riconfermare la sentenza di primo grado del tribunale penale di Taranto. Pastore ha confermato le accuse nei confronti di Mazzarano, ma ha rincarato la dose depositando altro materiale compromettente sulla squallida vicenda. 

Analoga decisione di condanna è stata adottata dalla Corte presieduta dal giudice Del Coco ed a latere dai giudici Cavallone ed Incalza nei confronti dell’imprenditore tarantino Emilio Pastore, imputato con l’esponente politico massafrese per la vicenda che venne portata alla luce da Striscia la notizia e dal Corriere del Giorno nel marzo 2018 sul patto stretto tra i due in occasione delle consultazioni regionali del 2015. Mazzarano in prossimità dell’appuntamento elettorale, come si evince dalle registrazioni, aveva promesso il suo interessamento per far assumere i figli del Pastore in cambio di voti per sostenerlo nella campagna elettorale regionale del 2015, attraverso l’utilizzo di un locale di Taranto in cui venne allestito un comitato elettorale di Mazzarano.

La difesa di Mazzarano si riserva di proporre ricorso in Cassazione all’esito della lettura della sentenza di appello, previa valutazione con il suo assistito, che al momento in cui pubblichiamo la notizia (h. 17:11 di giovedì 16 giugno ) non ha rilasciato e diramato alcun commento.

Elezioni Taranto: squallore a cielo aperto. Immancabile la solita pletora di candidati indagati ed imputati che passano da destra a sinistra e viceversa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Giugno 2022.  

Taranto come sempre ancora una volta non si è fatta mancare nulla. A parte la puntuale "vergogna". Noi aspettiamo di poter leggere (sono atti pubblici) le rendicontazioni delle spese elettorali dei candidati, e poi si che ci sarà da ridere ( o vomitare). Molto.

Negli oltre 830 candidati alla carica di consigliere comunale a Taranto nelle 27 liste presentate, si trova di tutto e di più: imputati, indagati, prescritti e condannati, opportunisti e voltagabbana. Esponenti, militanti e candidati in passato per i partiti del centrodestra “migrati” senza problemi al centrosinistra, pseudo ambientalisti candidati nella finta lista civica della Lega di Matteo Salvini , e persino l’ex segretario provinciale del Partito Democratico candidatosi nel settembre 2020 alle Regionali a sostegno di Michele Emiliano, trasformatosi negli ultimi mesi in candidato sindaco dal centrodestra. Tutti a caccia di una sedia da consigliere comunale e relativo stipendio “pubblico” garantito per una consiliatura comunale.

Nelle 27 liste a sostegno dei 4 candidati a sindaco compaiono ex consiglieri comunali accusati di truffa al Comune di Taranto, altri andati a processo con la stessa accusa si sono salvati grazie alla lentezza della magistratura locale che ha fatto maturare la prescrizione, candidati con carichi pendenti che vanno dall’associazione a delinquere fino al traffico di influenze e minaccia. Per non parlare di condanni per reati gravi come l’usura.

Durante la prima fase di controlli  della commissione elettorale del Comune di Taranto ne sono stati esclusi sette, presenti nelle liste a sostegno dei quattro candidati. Nelle 11 liste della coalizione a sostegno della ricandidatura di  Rinaldo Melucci, sindaco uscente sostenuto da Pd, M5s, Europa Verde ed alcune “civiche” (Più Centrosinistra; Con Taranto; Psi – Pri; Taranto popolare; Taranto mediterranea; Taranto 2030; Taranto Crea e Movimento Autonomi e Partite Iva) è stato escluso un solo candidato.

Tre i candidati esclusi nella coalizione delle 10 liste del centrodestra e civiche ( Patto popolare; Patto per Taranto; Forza Italia; Fratelli d’Italia; Prima l’Italia; Taranto Davvero; Insieme; Movimento sportivo; Noi con l’Italia e At6) a sostegno della candidatura di Walter Musillo, ex segretario provinciale dei Pd jonici, che ora a braccetto persino con Giancarlo Cito ! Irripetibili i commenti dei suoi ex-“compagni” delle sezioni Pd di Taranto e provincia. 

Nelle 3 liste «Una città per cambiare», «Taranto città normale», «Periferie al centro» a sostegno di Massimo Battista, uno degli operai contestatori dell’ex Ilva, ex-sindacalista, tra i fondatori del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti candidatosi ed eletto nel 2017 nelle liste del Movimento 5stelle, è stato escluso un candidato, il quale all’eta di 16 anni aveva fatto una piccola fesseria, e si è dimenticato di chiedere come altri hanno fatto la riabilitazione al Tribunale.

Nelle tre liste «Taranto senza Ilva», «Taranto next generation» e «Partito meridionalista» a sostegno della candidatura di Luigi Abbate, controverso pubblicista locale noto per il modo di fare giornalismo con arroganza, il quale non lavora in realtà per alcuna testata giornalistica, sono due i candidati esclusi, uno dei quali aveva rinunciato prima della formale esclusione notificata dal Comune. Molti si chiedono dove Abbate abbia trovato i soldi per candidarsi visto che è di fatto un giornalista disoccupato, ed è stato persino accusato pubblicamente, in alcuni diverbi con altri candidati, di aver chiesto in passato soldi per fare delle interviste in video da diffondere sul web. 

Tra gli esclusi più noti  Filippo detto Aldo Condemi , ex esponente del centrodestra che si presentava in queste amministrative in una delle liste a sostegno di Musillo. La commissione elettorale lo ha reputato “impresentabile” a seguito di una condanna definitiva per abuso d’ufficio di vicende relative al suo precedente mandato da assessore. Condemi inoltre è nuovamente sotto processo insieme ad un altro candidato consigliere comunale nelle liste di Fratelli d’ Italia, Aldo Renna, entrambi con l’accusa di traffico di influenze e minaccia. Venne arrestato dalla Squadra Mobile di Taranto nel 2017 mentre intascava una mazzetta con la promessa di sistemare un procedimento civile.

Posto agli arresti domiciliari Condemi confessò ed ammise tutto, ed il primo grado il tribunale penale di Taranto lo condannò a 3 anni e 8 mesi per il reato di estorsione. In seguito i giudici della Corte di appello hanno stabilito che la presunta vittima (il noto pregiudicato Salvatore Micelli) in realtà era stato anche “complice” e quindi il processo andava rifatto con la formulazione di nuovi capi d’accusa. Aldo Renna ammise ai magistrati non soltanto di aver organizzato l’incontro tra Condemi ed il Micelli per la consegna del denaro, ma riferì ai magistrati che aveva mostrato al Micelli una pistola, ma non per minacciarlo. Si trattava solo di un arma giocattolo che utilizzava per spaventare una persona che lo aveva infastidito per delle questioni personali. 

A sostegno del candidato del centrodestra Walter Musillo compaiono nelle liste, ex consiglieri comunali attualmente in udienza preliminare per truffa al Comune di Taranto, i quali secondo l’accusa, avrebbero simulato rapporti di lavoro o gonfiato gli stipendi per ottenere i rimborsi dall’ente: si tratta di Carmela (detta Carmen Casula), cugina del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno Francesco Casula (condannato in sede civile per delle diffamazioni giornalistiche all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola), analoghe accuse delle quali dovranno rispondere a breve dinnanzi alla Giudice Misserini anche i consiglieri comunali uscenti Piero Bitetti ed Emidio Albani per l’aspirante sindaco del centrosinistra. Nella lista civica “Patto per Taranto” a sostegno di Musillo, si è candidato un poliziotto Francesco Cosa attualmente a processo per delle lesioni nei confronti del nostro direttore che venne aggredito al termine di una conferenza stampa del sindaco Ippazio Stefano, della cui giunta di sinistra Cosa era assessore. Candidatosi nel 2017 venne però “trombato” dagli elettori ed ora pur di trovare uno sgabello è passato nella coalizione di centrodestra. 

In una delle liste civiche a sostegno della candidatura di Rinaldo Melucci, compare il nome di Arianna Aiello, giovane avvocata sospesa per 12 mesi dalla professione e successivamente il Tribunale del Riesame ha ridotto la misura interdittiva a 9 mesi. La Aiello secondo la procura di Taranto avrebbe “svenduto” la sua toga ed attività legale in favore di un’associazione a delinquere che organizzava incidenti falsi per intascare i risarcimenti dalle compagnie assicurative. Il nostro giornale si era occupato a suo tempo di questa vicenda pubblicando come sempre l’ordinanza cautelare integrale, ricevendo dalla Aiello, unitamente alla pretesa di rimuovere il suo nominativo, minacce di azioni legali che è inutile dire sono state restituite al mittente. 

Questa campagna elettorale ha decretato la disgregazione e scomparsa di fatto degli ambientalisti e pseudo tali. Il candidato sindaco dei Verdi nelle elezioni amministrative del 2017 Vincenzo Fornaro, il quale dopo essere passato alla cassa (risarcimento civile) del noto processo “Ambiente Svenduto” ora si è candidato nella coalizione di centrodestra, insieme alla Lega movimento da sempre vicino alle politiche industriali del siderurgico di Taranto.

Per non parlare poi di un “professionista” candidatosi con il centrodestra, il quale ama frequentare noti club per scambisti pugliesi del quale circolano video e fotografie “fetisch” mentre compie atti sessuali di sodomia personale. Così come non mancano alcune candidate “note” per essere state molto intime negli ultimi tempi con un sindaco di campagna, dopo aver allietato un consigliere regionale eletto a Taranto. Piccole donne che vanno a caccia di “popolarità”. 

Unica “vincitrice” morale ed etica di questa campagna elettorale, la leader di Fratelli d’ Italia, Giorgia Meloni da sempre coerente nella sua linea politica, la quale dopo aver appreso che alle sue spalle, cioè senza che nessuno l’avesse informata, Fratelli d’ Italia a Taranto sosteneva la candidatura di un ex-segretario provinciale del PD con alle spalle tutta una lunga storia e militanza di sinistra, cioè di Walter Musillo, ha annullato la sua presenza per un comizio annunciato a Taranto, preferendo farsi intervistare da Bruno Vespa, nel suo talk estivo a Manduria, a soli 30 chilometri dal capoluogo jonico. Come non darle ragione ?

Insomma Taranto come sempre ancora una volta non si è fatta mancare nulla. A parte la puntuale “vergogna“. Noi aspettiamo di poter leggere (sono atti pubblici) le rendicontazioni delle spese elettorali dei candidati, e poi si che ci sarà da ridere ( o vomitare). Molto.  Redazione CdG 1947

«Nel Tribunale di Taranto stanze come fornaci»: protestano i lavoratori. I sindacati denunciano: climatizzatori rotti e bagni fuori servizio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Giugno 2022.

I dipendenti del Tribunale a Taranto protestano per i disagi causati dai climatizzatori rotti a fronte di temperature elevatissime che trasformano le stanze degli uffici in una sorta di fornaci. E’ quanto denunciano i sindacati FP Cgil, Uilpa, Usb, Flp e Unsa, che hanno organizzato, insieme alle Rsu, per giovedì 9 giugno, dalle 9 alle 12, un’assemblea nell’androne di Palazzo di Giustizia.

«Ad oggi - sottolineano - le temperature esterne già compromettono la capacità di lavorare in un clima adeguato alla normativa sulla sicurezza (7 gradi di differenza dalla temperatura esterna). Ancora una volta, non funziona alcuno strumento di refrigerazione e ciò determina vere e proprie temperature tropicali all’interno delle stanze, assolutamente inadeguate non solo per lavorare, ama anche solo per sostare».

Evidentemente, attaccano le organizzazioni sindacali, «per i lavoratori della giustizia non valgono le stesse regole valide per gli altri lavoratori. I loro doveri sono immediatamente esigibili, ma non anche i loro diritti, come quello basilare a lavorare in condizioni conformi alla normativa e dignitose. Questo vale anche per tanti operatori della Giustizia che frequentano il Palazzo di Giustizia (avvocati e cittadini), anch’essi costretti a vivere in condizioni inaccettabili».

A rendere «ancora più inaccettabile il tutto - concludono i sindacati - è la condizione di fatiscenza dei servizi igienici per lavoratori ed utenti. Infatti, nonostante giungano rassicurazioni circa lavori per il potenziamento degli stessi, di fatto aumentano i “fuori servizio” degli attuali e quei poco funzionanti sono pervasi da odori nauseabondi». 

Taranto, 8 autisti dell’Amat a processo per ripetuti abusi sessuali su una 18enne con problemi psichici a bordo dei bus cittadini. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Maggio 2022.  

Secondo la procura gli autisti dell' AMAT Taranto avrebbero approfittato della condizione di fragilità psichica della ragazza, convincendola a restare per lunghi tragitti a bordo dei bus per poi sostare in aree periferiche per abusarne sessualmente. L'azienda pubblica non ha mai manifestato solidarietà alla ragazza abusata dai propri dipendenti

Il giudice delle udienze preliminari Rita Romano ha deciso, infatti, di rinviare a processo gli otto autisti dell’azienda Kyma Mobilità Amat di Taranto accusati di presunti abusi sessuali nei confronti di una ragazza con problemi di tipo psichico. Il processo inizierà il prossimo 7 luglio. Gli otto autisti dei bus urbani della città di Taranto, erano stati sospesi da tempo dal servizio, che secondo gli accertamenti di polizia giudiziaria disposti dalla Procura di Taranto, avrebbero abusato della giovane donna tarantina che utilizzava in maniera frequente i mezzi di trasporto pubblico di Taranto utilizzati per raggiungere le abitazioni dei propri familiari. 

Con la decisione di rinvio a giudizio, si è quindi conclusa la camera di consiglio che si è svolta nell’aula Alessandrini del Tribunale di Taranto. Nell’udienza dinanzi al giudice delle udienze preliminari, si è svolta la deposizione della ragazza, che nella sua testimonianza ha raccontato per alcune ore tutto quello che aveva subito. La ragazza ha descritto i particolari di quanto accaduto, racontando ancora una volta i dettagli della triste vicenda di cui è stata vittima. Agli otto dipendenti pubblici che hanno un’età compresa tra i quaranta e i 62 anni, sono stati contestati gli abusi. 

L’impianto accusatorio sostenuto dalla pm Marzia Castiglia, sostiene che gli autisti avrebbero abusato della condizione di fragilità psichica della ragazza, convincendola a restare a bordo dei bus per lunghi tragitti, fino al capolinea per dare sfogo ai loro voleri e piaceri sessuali. Gli autisti si recavano in aree periferiche dove sostare con i bus dell’ Amat ed, in alcuni casi, avrebbero abusato della ragazza. Al reato di violenza sessuale si è aggiunta avuto l’aggravante di aver commesso il fatto in qualità anche di incaricati di pubblico servizio.

A giugno 2021 la giovane ragazza convinta anche dal suo fidanzato si decise a raccontare e denunciare ai Carabinieri tutto quello che aveva subito fra l’ottobre del 2018 (epoca in cui la giovane aveva 18 anni) e l’aprile del 2020 , per i cui fatti la Procura, avanzò la richiesta di provvedimenti cautelari con l’arresto ai domiciliari per gli otto autisti, ma il gip Francesco Maccagnano ritenne sufficiente il divieto di avvicinamento alla giovane ragazza, e nella sua ordinanza di oltre 100 pagine evidenziava come gli autisti avrebbero approfittato all’epoca dei fatti della “fragilità ben nota agli indagati” ed utilizzando intercettazioni e testimonianze veniva ricostruita l’impianto accusatorio. 

L’ azienda di trasporti AMAT ben si guardò dal manifestare la solidarietà alla giovane ragazza abusata dai suoi dipendenti, Appresa la vicenda, sempre nello scorso anno, intervenne affermando in una nota di aver “appreso dalla stampa circa le gravissime condotte che vedrebbero coinvolti alcuni autisti. Amat spa prenderà tutti i provvedimenti necessari alla propria tutela, continuando ad assicurare il regolare prosieguo delle proprie attività. I fatti rappresentati lasciano sgomenti, aggravati dal fatto che sarebbero stati posti in essere durante il servizio pubblico, che, invece, è esercitato quotidianamente dai tanti dipendenti che assicurano il massimo impegno con serietà e senso del dovere”. Un comunicato che preferiamo non commentare, dato lo squallore. Ribadiamo: non una parola di solidarietà alla ragazza!

Puglia, squalo toro attacca una canoa al largo di Castellaneta Marina: "Siamo vivi per miracolo". La Repubblica il 5 Maggio 2022.

Un canoista ha denunciato alla Capitaneria di porto la drammatica sequenza vissuta al largo dello Jonio. Il suo racconto su Facebook: "Era lungo almeno tre metri e molto aggressivo. La notte ho gli incubi".

"Lo squalo ha cercato di ribaltare le nostre imbarcazioni. Sono vivo per miracolo". E' ancora sotto choc Giuseppe Lorusso, un bagnante pugliese che è stato attaccato da uno squalo toro al largo al largo di Castellaneta Marina, in provincia di Taranto.

Lorusso ha raccontato su Facebook che si trovava in canoa in compagnia di un amico al largo della costa jonica quando hanno visto un'ombra appena sotto il pelo dell'acqua. All'improvviso uno squalo Toro avrebbe attaccato il kayak.

"Era lungo almeno tre metri e molto aggressivo". Sono stati attimi di paura. "Lo squalo ha cercato di ribaltare le nostre imbarcazioni, non abbiamo idea di cosa sarebbe potuto accedere se ci fosse riuscito". Lo squalo avrebbe anche danneggiato con la dentatura la canoa. La vicenda è stata poi riferita alla Capitaneria di porto.

"Sono rimasto in stato di shock per due giorni e tutt’ora ho ancora gli incubi. Il mare ti dà tutto e ti toglie tutto. Chi lo vive tutto l’anno come me ne è consapevole. Dell’attacco con lo squalo mi porterò sempre con me la mia irrefrenabile voglia di vivere, la mia lucidità nel combatterlo e soprattutto gli occhi di quel feroce predatore che prima di lasciarmi inabissandosi nel blu mi ha guardato" ha raccontato Lorusso sul suo profilo facebook. 

"Qualche amico a cui gli ho raccontato il fatto mi ha chiesto se avessi intenzione di continuare a fare kayak. Gli ho risposto di sì. Ho fatto una segnalazione alla capitaneria di porto di Taranto ed al comune di Castellaneta. Buona vita e buon vento. Il vostro amico Giuseppe" ha concluso.

TRAGEDIA SFIORATA. Castellaneta, kayakista attaccato in mare da uno squalo toro di 3 metri: «Sono vivo per miracolo». Graziana Capurso su La Gazzetta del Mezzogiorno il il 5 maggio 2022.  

Un mostro di 150 kg: è ciò che racconta Giuseppe Lorusso, kayakista amatore, che su Facebook condivide la sua scioccante esperienza.

Una disavventura, che poteva sfociare in tragedia, è successa in Puglia nelle acque della provincia di Taranto precisamente a Castellaneta Marina. Uno squalo toro nelle acque tarantine ha aggredito un kayakista. A raccontarlo sui social è il protagonista della vicenda, Giuseppe Lorusso, che si trovava con il suo kayak a 70 metri dalla costa, nelle acque tra Ginosa e Castellaneta Marina, in provincia di Taranto.

All’improvviso vede una sagoma immobile a pelo d’acqua e ben presto capisce che si tratta di uno squalo. “Sono seguiti minuti di panico, quando il pescecane ha addentato la canoa, tentando di farmi cadere in acqua. Lo squalo in questione è senza ombra di dubbio uno squalo toro, tra gli squali italiani più grossi e più aggressivi. È uno squalo che solitamente non attacca l’uomo ma se provocato ed affamato non disdegna affatto". Lo racconta su Facebook lo stesso Lorusso.

"Domenica mattina mentre con il mio compagno di Kayak Dino eravamo in mare e da Ginosa Marina ci stavamo dirigendo verso Castellaneta Marina, è successo quello che nessun amante degli sport di mare vorrebbe che gli succedesse: l’incubo peggiore. Arrivati ai primi lidi di Castellaneta Marina a circa 70 metri dalla costa (4 metri di profondità) a circa 10 metri di fronte a noi abbiamo intravisto una grossa sagoma immobile che galleggiava. Andavamo a velocità moderata con il mezzo e mentre ci avvicinavamo sempre più, ci siamo accorti che era un grosso squalo. La bestia - sottolinea Lorusso - non ci ha dato il tempo di riflettere e ci ha attaccato con tutto il suo impeto e la sua ferocia cercando di addentare lateralmente sulla sinistra lo scafo del mio kayak (ci sono ancora i graffi dei suoi denti sulla fiancata del mio mezzo). In quel frangente il mio amico terrorizzato da dietro ha visto tutta la scena. Io con lucidità e freddezza ho contrastato vigorosamente con la mia pagaia l’attacco dello squalo che ha tentato un paio di volte di farmi cadere dal mezzo, prima lateralmente e poi passando di sotto e scuotendo il kayak. A questo punto vi lascio immaginare il fragore dell’assalto e la violenza dell’impatto. In questo marasma di schiuma e rumore è volato il mio cellulare in acqua dalla staffa a causa di una mia botta forte con la pagaia. Una bestia incazzata di oltre 3 metri e 150 kg di peso. Il mostro marino, dopo aver preso diverse pagaiate in testa dal sottoscritto ha desistito e dapprima ha girato intorno e poi si è inabissato. Lo squalo in questione è senza ombra di dubbio uno squalo toro, tra gli squali italiani più grossi e più aggressivi. È uno squalo che solitamente non attacca l’uomo ma se provocato ed affamato non lo disdegna affatto”.

Il primo cittadino del comune e presidente della Provincia di Taranto e altri cinque imputati prosciolti: il fatto non sussiste. Francesco Casula su Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022.

Il fatto non sussiste. È la formula con la quale il giudice Pompeo Carriere ha prosciolto dalle accuse di falso in bilancio il sindaco di Castellaneta e presidente della Provincia di Taranto Giovanni Gugliotti e altri cinque imputati. Al termine dell’udienza preliminare il magistrato ha accolto la tesi del difensore di Gugliotti, l’avvocato Antonio Raffo, e ha scagionato da ogni accusa il primo cittadino e l’allora segretario generale e dirigente dell’area economico-finanziaria di Castellaneta Eugenio De Carlo assistito dall’avvocato Antonio Altamura, il suo predecessore Pietro Balbino e i suoi successori Michele Galasso, Francesca Capriulo e Giovanni Sicuro, questi ultimi difesi dall’avvocato Guseppe Chielli.

Bisognerà attendere le motivazioni, ma determinate nella decisione del giudice potrebbe essere stata la relazione del perito Nicola Fortunato, docente universitario scelto dal gup Carriere per fare chiarezza negli aspetti tecnici dell’intricata vicenda amministrativa. Nella sua relazione, Fortunato aveva spiegato che nonostante alcune anomalie relative al riconoscimento di alcuni debiti fuori bilancio, il Comune di Castellaneta non aveva mai sforato il patto di stabilità tra gli anni 2012 e 2017. L’accusa mossa dalla procura per Gugliotti, gli assessori e i dirigenti comunali era di aver falsificato i bilanci e consentito ai consiglieri di intascare pienamente i gettoni di presenza. Per il giudice Carriere, però, le cose non sono andate così: il proscioglimento non solo sancisce l’estraneità degli accusati ai fatti, ma nei fatti, ha decretato che non c’erano neppure i presupposti per avviare un processo sulla vicenda. 

L'INTERVISTA. Il Parco eolico a Taranto? «Ecco tutti quelli che dicevano no». Il racconto e i retroscena, dopo l'inaugurazione, del progettista Luigi Severini. Fabio Venere su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Aprile 2022

TARANTO - «Vi spiego chi, in questi quattordici anni, ha fatto parte del partito del No ostacolando il parco eolico offshore a Taranto». Inizia così l’intervista che Luigi Severini, ingegnere tarantino, concede alla «Gazzetta» il giorno dopo l’inaugurazione delle dieci turbine in mar Grande che rappresentano l’investimento di 80 milioni di euro di Renexia (attraverso il Gruppo Toto). Ecco, Severini è quello che può considerarsi il padre di questo progetto. Correva l’anno 2008.

Ingegner Severini, in questi 14 anni, ha mai avuto la tentazione di mollare tutto e arrendersi alla burocrazia?

«No, mai. Ci ho sempre tenacemente creduto».

L’altro ieri, nel corso della tavola rotonda organizzata al Porto, il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, si è scagliato contro il partito del no. Secondo lei, chi ne ha fatto parte?

«La sua composizione è piuttosto articolata. Partiamo dal 2008, da quando presentammo il progetto per la prima volta. Prima, però, vorrei ricordare che in quello stesso anno una legge voluta dall’ex ministro Di Pietro aveva attribuito la competenza autorizzativa sugli impianti offshore allo Stato e non alle regioni».

E invece?

«Il Comune di Taranto si oppose, ma non solo. Sulla scorta di un pronunciamento negativo da parte della commissione consiliare Ambiente dell’Amministrazione comunale, la Regione Puglia accese il semaforo rosso. Dunque, la nostra iniziativa imprenditoriale partì con l’opposizione degli enti locali».

In particolare, su cosa si basava il no del Comune di Taranto?

«Di fatto, non c’era alcuna motivazione oggettiva. Quello fu un atteggiamento pregiudiziale, politico anche in considerazione del fatto, già di per sè clamoroso, che gli uffici tecnici del Municipio invece avevano fornito un parere positivo. L’Amministrazione comunale fece così ricorso al Tar, che perse, e poi propose persino appello in Consiglio di Stato. Che perse anche in quel caso. In realtà, i legali del Comune sostennero la tesi che ci dovesse essere una distinzione tra impianti nearshore e offshore. Ma questo non esiste. Per la nostra legislazione, infatti, anche dopo poche decine di metri si deve parlare di offshore».

Ingegnere, ma la linea del Comune di Taranto non vi ha certo bloccato per 14 anni. E allora, chi altri vi ha ostacolato?

«La posizione assunta da Palazzo di Città, infatti, ci ha rallentato complessivamente per tre - quattro anni».

E negli altri?

«La Soprintendenza ai Beni paesaggistici espresse parere negativo che è ancora agli atti, ma che abbiamo bypassato (con un dispendio di tempo non irrilevante) con il via libera poi ottenuto a Roma direttamente dal ministero dei Beni culturali».

E cos’altro è accaduto nel corso di questi anni che hanno preceduto l’inaugurazione del parco dell’altro ieri?

«Proprio a causa dei ricorsi amministrativi intrapresi dal Municipio, non abbiamo potuto applicare le tariffe per le energie rinnovabili che, per dir così, avevamo spuntato al termine di una gara pubblica. Saltato quel giro, poi siamo stati costretti ad attendere altri tre anni affinché il ministero per lo Sviluppo economico emanasse un nuovo decreto con le nuove tariffe. Che, anche in quel caso, ci siamo poi aggiudicati».

Cattiva burocrazia?

«Non solo. Ci ha messo del suo anche il privato».

In che senso?

«Proprio quando tutto l’iter burocratico era sostanzialmente finito, tra il 2017 e il 2018, il fallimento dell’azienda tedesca Senvion ha costretto Renexia a ricercare un altro operatore internazionale per la costruzione delle turbine (poi realizzate dalla cinese Ming Yang Smart Energy)».

Sui social network c’è chi ha polemizzato sulla distanza di alcune turbine dalla costa. In particolare, l’attenzione si è concentrata su quelle più vicine al molo polisettoriale che sarebbero troppo vicine ad uno specchio d’acqua di Lido Azzurro in cui, in genere, d’estate, ci sono diversi bagnanti. Come valuta queste affermazioni?

«Mi sembra un dibattito inutile. È tutto legittimo. Le dieci turbine distano da un minimo di 200 - 300 metri dalla costa ad un massimo di tre chilometri. Ma quale sarebbe il problema dei bagnanti? Temono di nuotare vicino ad una turbina eolica? Mah, forse, non sanno che nel Nord Europa capita così e già da anni ormai. E poi, quale sarebbe l’alternativa?».

In che senso?

«Chi si lamenta preferisce l’industria pesante e l’energia prodotta in maniera tradizionale e quindi con il carbone? Magari poi protestano le stesse persone che, partecipando alle tavole rotonde, invocano le energie rinnovabili».

A proposito, invece, della potenza prodotta dal parco eolico di Taranto (58mila megawattora annui), onestamente, non può certo sopperire a quella che deriva dalle forme tradizionali e pià inquinanti. È d’accordo su questo?

«Vogliamo dire che è una goccia? Bene, nel mare ci vanno le gocce. Uscendo da quest’immagine, è vero non c’è (ancora) proporzione, ma da una parte bisogna pure iniziare ad invertire la rotta. Che porterà a risultati davvero importanti anche per quel che riguarda la realizzazione di nuovi posti di lavoro».

A cosa si riferisce esattamente?

«Il parco eolico offshore di Taranto è il primo in Italia e nel Mediterraneo e quindi presto saremo un punto di riferimento internazionale, dando vita ad un distretto produttivo in cui collaboreranno enti di ricerca e l’Università. Metteremo a disposizione degli altri la nostra esperienza e le nostre competenze tecniche maturate in questo progetto che, finalmente, ha visto la luce».

Taranto dà il benvenuto al primo Parco eolico marino del Mediterraneo. I ministri Di Maio, Giovannini e Giorgetti hanno inviato messaggi di auguri, tutti uniti nel «sì» alle soluzioni innovative. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Aprile 2022.

È stato inaugurato oggi a Taranto il primo parco eolico marino del Mediterraneo. Si tratta di Beleolico, nome dell’impianto che Renexia, società del Gruppo Toto attiva nelle rinnovabili, ha realizzato al largo del molo polisettoriale tarantino. L’impianto, che comprende dieci pale per una capacità complessiva di 30 MW, assicurerà una produzione di oltre 58mila MWh, pari al fabbisogno annuo di 60mila persone. In termini ambientali vuol dire che, nell’arco dei 25 anni di vita prevista, consentirà un risparmio di circa 730mila tonnellate di anidride carbonica. Per la distribuzione dell’energia sul territorio Renexia ha costruito una sottostazione per l’allaccio alla rete elettrica nazionale in località Torre Triolo, a pochi chilometri dall’area portuale. L'investimento complessivo per la realizzazione di Beleolico è di 80 milioni. 

Oggi si è svolta anche una tavola rotonda dal titolo «Beleolico: Taranto riparte con energia. L’Italia scommette sulle rinnovabili», cui hanno partecipato, insieme con il direttore generale di Renexia, Riccardo Toto, il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio, Sergio Prete, il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, il presidente dell’Aiad, Guido Crosetto e il giornalista e divulgatore scientifico Alessandro Cecchi Paone. In collegamento video il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè.

Hanno inviato messaggi, anche video, i ministri Di Maio, Giorgetti e Giovannini. «Il completamento di quest’opera - ha commentato l'imprenditore che ha realizzato Beleolico, Riccardo Toto, direttore generale di Renexia - centra un duplice obiettivo, da una parte la soddisfazione per aver realizzato il primo impianto eolico marino in Italia e nel Mar Mediterraneo, dall’altra la consapevolezza che il nostro approccio, basato sulla condivisione, possa contribuire alla creazione di un nuovo protocollo che coniughi tecnologia e attenzione all’ambiente». Al termine del convegno il simbolico taglio del nastro e la benedizione dell’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro. 

Gli auguri dei Ministri

«Cogliamo pienamente il valore strategico di questo progetto nel contesto della transizione energetica che, in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo, ci prefiggiamo di accelerare per raggiungere la neutralità climatica al 2050. Aziende come Renexia svolgono un ruolo importante per lo sviluppo di soluzioni innovative che favoriscano l’incontro tra domanda e offerta nel modo più efficiente e sostenibile». Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio nel messaggio inviato per l’inaugurazione di Beleolico, il parco eolico offshore a Taranto realizzato da Renexia (società del gruppo Toto).

«Con questa consapevolezza - ha aggiunto - l’approccio della Farnesina nella sua missione di sostegno all’internazionalizzazione del sistema produttivo e promozione del commercio estero, si fonda su un dialogo costante con la realtà imprenditoriale. Siamo al vostro ascolto, per mettere in campo, come abbiamo fatto durante l’emergenza pandemica con il Patto per l’Export, le misure più adeguate alle vostre esigenze e difficoltà».

Per Di Maio, «nell’attuale congiuntura, abbiamo anzitutto istituito alla Farnesina un’unità di crisi per le imprese italiane, con l’obiettivo di assicurare loro assistenza a fronte delle ripercussioni del conflitto in Ucraina cui sono più esposte. Allo stesso tempo, nel disegnare e attuare strumenti di sostegno - ha evidenziato il ministro - continueremo a sostenere quei processi di transizione verde, digitalizzazione e innovazione che consentiranno al nostro tessuto economico di essere sempre più competitivo a livello internazionale». 

«In questo frangente, mentre portiamo avanti in raccordo con i nostri partner e alleati una risposta ferma e incisiva contro l’illegale condotta russa, e a sostegno dell’Ucraina e della sua popolazione, siamo fortemente impegnati anche sul fronte, cruciale, della diplomazia energetica». E’ quanto sostiene il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in un messaggio inviato a Taranto in occasione della cerimonia inaugurale di Beleolico, il primo parco eolico marino del Mediterraneo, sviluppato da Renexia.

«Il processo di transizione ecologica - per Di Maio - rappresenta l’unica via in grado di garantire sostenibilità, resilienza e adattabilità del settore energetico. Ciò appare ancora più evidente nell’attuale congiuntura internazionale, segnata dall’inaccettabile aggressione russa all’Ucraina e dalle sue gravissime ripercussioni geopolitiche, umanitarie ed economiche».

«In Italia siamo determinati ad accelerare l’installazione di energia rinnovabile e elevarne la quota nel mix energetico nazionale. Le rinnovabili significano, peraltro, sicurezza e autonomia per il nostro sistema, nonché maggiore convenienza e capacità di creare valore e occupazione». Lo ha sottolineato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in un messaggio inviato per l’inaugurazione di Beleolico a Taranto, il primo parco eolico marino del Mediterraneo.

«Tra le forme di energia pulita - ha proseguito - l’energia offshore può offrire un contributo cruciale al processo di transizione ecologica e assicurare al contempo opportunità economiche ai paesi con estese aree costiere, come l’Italia, promuovendo le catene di valore locali e le sinergie tra i diversi attori della blue economy. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Rinnovabile (Irena), questa forma di energia è già competitiva in molte aree geografiche, rispetto alla generazione da fonti fossili».

Nella prospettiva «di incrementare - ha chiarito il ministro - la quota di energie rinnovabili e sviluppare le competenze tecnologiche e industriali nelle principali filiere della transizione, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza incoraggia lo sviluppo di soluzioni innovative come le rinnovabili offshore, puntando a combinare le tecnologie ad alto potenziale di sviluppo a quelle ancora in fase sperimentale». "L'obiettivo del Pnrr - ha sottolineato - è realizzare nei prossimi anni impianti per una capacità totale installata di 200 MW, assicurando così anche un contributo significativo alla riduzione delle emissioni climalteranti».

«Questa iniziativa si inquadra in un ambito complessivo di investimento nel nostro Paese sul fronte dell’energia rinnovabile che nei prossimi anni vedrà un vero e proprio balzo in Italia di impianti di varia natura. Ovviamente mi riferisco a impianti di energia rinnovabile resa ancora più necessaria da questa crisi drammatica che è stata scatenata dalla guerra in Ucraina». Lo ha detto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Enrico Giovannini in un videomessaggio in occasione dell’inaugurazione del parco eolico offshore realizzato da Renexia a Taranto. «La trasformazione verso la sostenibilità - ha aggiunto - passa ovviamente dalla produzione di energia rinnovabile in tutto il mondo. Impianti come questo possono essere una risposta importante al nostro fabbisogno. E’ importante non solo valorizzare buone pratiche come questa, ma anche coinvolgere le comunità per comprendere quali soluzioni possono essere ottimali dal punto di vista della produzione di energia e relativamente meno impattanti».

Secondo Giovannini, «l'investimento di innovazione è indispensabile per consentirci di guardare al futuro in modo diverso, più sostenibile dal punto di vista ambientale ma anche economico e sociale». Il ministro ha sostenuto che "l'insostenibilità la pagano soprattutto quelli che stanno più indietro, come stiamo vedendo anche a causa di questa crisi energetica. Pensare anche in termini innovativi, realizzare - ha osservato il ministro - impianti innovativi, sicuri da tutti i punti di vista, è un contributo non solo alla crescita economica, non solo alla riduzione dell’impatto ambientale, ma al miglioramento delle disuguaglianze».

«Sappiamo che c'è una scuola di pensiero contraria alle installazioni di parchi eolici e di parchi fotovoltaici in nome di un elemento che è tutelato dalla nostra Costituzione: la tutela del paesaggio che però va considerato insieme ad altre tutele di cui la nostra Costituzione si fa garante, tra l’altro proprio quella degli ecosistemi, dell’ambiente, nell’interesse delle future generazioni come recita il cambiamento dell’articolo 9 della nostra Costituzione recentemente votato dal Parlamento». Lo ha sottolineato il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Enrico Giovannini nel videomessaggio in occasione dell’inaugurazione del parco eolico offshore realizzato da Renexia a Taranto. «Avere - ha proseguito - un bilanciamento dei diversi interessi, delle diverse necessità, anche in un’ottica di future generazioni, richiede un nuovo modo di pensare e vedere anche per infrastrutture come questa che sono innovative e che sono necessarie per assicurare l’indipendenza energetica nel nostro Paese, ma che certamente hanno un impatto sul paesaggio limitato tutto sommato rispetto ad altre soluzioni».

Giovannini auspica che si trovino «soluzioni di mediazione anche per ciò che riguarda parchi eolici e fotovoltaici e iniziative di energie rinnovabili, perché ne abbiamo bisogno per il benessere di questa generazione e soprattutto delle future generazioni».

«Questo è anche un momento di orgoglio perchè questo primo parco eolico marino in buona sostanza apre la strada a quello che è è un grande programma di produzione di energia rinnovabile e compatibile con l’ambiente, come quello che Renexia ha immaginato in una zona particolarmente delicata per tanti aspetti come quella di Taranto». Lo ha dichiarato il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, in un videomessaggio inviato per l'inaugurazione del parco eolico offshore a Taranto, realizzato da Renexia. «Le emergenze che stiamo vivendo in questi momenti - ha aggiunto - si coniugano con quella che era già stata la decisione di spingere moltissimo per tutte le energie rinnovabili, ma l’eolico applicato al marino può essere per l'Italia davvero un settore importante di sviluppo. Altre iniziative hanno avuto il via libera e c'è grande impulso da parte del Governo».

Per Giorgetti, «la realtà vera di oggi è che Renexia è riuscita a bruciare le tappe e a inaugurare il primo paro eolico marino. Vanno i miei complimenti alla società e coloro che hanno contribuito a portare avanti questo progetto». «Naturalmente - ha concluso il ministro - questo può rappresentare una pietra miliare e un motivo di emulazione per tanti altri che, finanziati magari con i contratti di sviluppo e iniziative che il Pnrr ha messo in campo, possano dare un contributo fattivo a quella che sarà in prospettiva la sovranità energetica del Paese che è l’obiettivo che tutti quanti ci dobbiamo porre».

A margine della cerimonia di inaugurazione del parco eolico offshore a Taranto, è stato firmato un accordo tra l’Autorità Portuale e Renexia per la cessione di una parte dell’energia prodotta da Beleolico per consentire la totale elettrificazione del porto di Taranto. Si tratta della cessione di almeno il 10% dell’energia prodotta, per un quantitativo comunque non inferiore a 220 MWh annui. Il presidente dell’Authority Sergio Prete e il direttore generale di Renexia Riccardo Toto, dopo aver siglato l’intesa, hanno sottolineato come «elettrificare il porto significhi una riduzione molto elevata dell’inquinamento, se si considera che ogni nave che entra in porto e non spegne i motori produce un inquinamento su base giornaliera pari a quello di 10 mila vetture»

LA BENEDIZIONE DEL VESCOVO

«Benediciamo il parco e anche chi ci deve lavorare. Nella settimana di Pasqua, dare inizio a un evento del genere è proprio una gioia grande, è proprio un proseguimento del Mistero della resurrezione. Io sono qui da 10 anni e aspettavo i segni di una inversione di rotta reale. Questo lo è e ne aspettiamo altri, soprattutto nel campo di produzione di energia alternativa e di passaggio graduale, progressivo, dal ciclo completo del carbone nelle Acciaierie d’Italia al ciclo integrato, ad una realtà che abbia come riferimento il bene della persona, la salvaguardia della salute, della vita, dell’ambiente e quindi del lavoro e dell’economia». Così l’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, durante la benedizione del parco eolico offshore realizzato da Renexia. 

«Questa battaglia energetica positiva - ha aggiunto - è per l'innovazione tecnologica. Come parrocchie, dopo la 49esima Settimana dei Cattolici Italiani a Taranto, ci siamo impegnati a fare in ogni chiesa, sono 26mila, le parrocchie energetiche. Questo progetto che voi fate con le pale eoliche è un impegno forte rispettando le caratteristiche storiche dei templi, delle strutture, ma proprio per il bene della persona. Chiamiamolo Beleolico perché legato alla bellezza, la bellezza ha a che vedere con il lavoro, con la vita, con la fede, con la resurrezione».

Legambiente: 14 anni di ritardi

«Dopo 14 anni di ritardi e ostracismi istituzionali, finalmente a Taranto parte il primo parco eolico off-shore del mar Mediterraneo. È un caso emblematico della via crucis autorizzativa del nostro Paese: il progetto proposto nel 2008 ha avuto la contrarietà degli enti locali e ricevuto il parere negativo della Sovrintendenza per un incomprensibile impatto visivo, considerando la presenza delle ciminiere dell’ex Ilva, della raffineria Eni, del cementificio e delle gru del porto industriale». Lo ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, ospite della tavola rotonda a margine dell’inaugurazione del parco eolico offshore a Taranto realizzato da Renexia. "Il caso di Taranto - ha aggiunto - è purtroppo solo la punta di un iceberg perché in Italia sono tanti i progetti sulle rinnovabili bloccati per eccessiva burocrazia, no delle amministrazioni locali, pareri negativi delle Sovrintendenze, moratorie delle Regioni, proteste dei comitati locali e di alcune associazioni ambientaliste. Tutto ciò è inammissibile». Secondo Ciafani, «il Paese dovrebbe chiedere scusa alle aziende che in Italia stanno investendo sulle fonti pulite. Speriamo che il caso di Taranto segni il punto di svolta per lo sviluppo delle rinnovabili in Italia, in una città che vive ancora l’era del carbone, del petrolio e dell’inquinamento, con l’augurio che questa inaugurazione possa essere l’inizio del riscatto tarantino nel segno dell’innovazione e delle tecnologie pulite».

A settembre parte il processo a Gaspare Cardamone per bancarotta fraudolenta. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Aprile 2022.  

L'emittente tv Studio 100 è stata venduta all'asta fallimentare ed assegnata ad una società partecipata da Vito Luigi Blasi (60%) e Domenico Di Stante (40%) editore dell'emittente televisiva pugliese Antenna Sud, i quali sono subito entrati in un contenzioso civile. Ironia della sorte, anche il nuovo "editore" Vito Luigi Blasi è imputato a processo per il fallimento della Banca Valle d’Itria, istituto di credito cooperativo di Martina Franca, in provincia di Taranto.

Si svolgerà il prossimo 12 settembre a Taranto il processo per bancarotta fraudolenta bei confronti dell’imprenditore fallito Gaspare Cardamone 67enne, assistito dall’avvocato Gaetano Vitale. Il Gup del Tribunale di Taranto dr.ssa Rita Romano lo ha rinviato a giudizio accogliendo la richiesta del pm Mariano Buccoliero. In un primo momento Cardamone aveva pensato di optare per il giudicato con il rito abbreviato, ma in seguito probabilmente consigliato dal suo difensore ha optato per il dibattimento ordinario.

Il processo a carico dell’imprenditore tarantino è in relazione al fallimento della storica emittente «Radio Taranto Stereo» al centro di ingarbugliate questioni di natura economica che, secondo le indagini della Guardia di Finanza di Taranto, vennero effettuate per consentire di sottrarre soldi alla società fallita, consentendo guadagni illeciti alla proprietà che era già pesantemente indebitata. 

I finanzieri del comando provinciale di Taranto, indagando sulla delega ricevuta dal pm Buccoliero si erano incrociati anche con il fallimento dell’emittente televisiva Studio 100 Tv, di proprietà dei fratelli Gaspare e Giancarlo Cardamone. Fu così che le Fiamme Gialle scoprirono lo spacchettamento delle proprietà della radio della famiglia Cardamone in tre parti e la cessione tra giugno del 2016 e marzo del 2017 di altrettanti rami d’azienda che erano stati ceduti per 217mila euro a Radio Mobilificio Cantù , per 45mila euro a Radio Zeta srl e per altri 99mila euro a Rtl 102,500 Hit Radio per un totale complessivo di 361mila euro, cessioni effettuate allorquando le attività dei fratelli Cardamone stavano per fallire nuovamente . Qualche mese dopo l’ultima cessione di ramo d’azienda a Rtl 102,500 Hit Radio, consistente nelle proprietà delle frequenze, concessioni e impianti, la società venne dichiarata fallita dal tribunale di Taranto con provvedimento del mese di giugno del 2017.

Gli uomini della Guardia di Finanza presero atto che la cessione dell’intero patrimonio aziendale aveva di fatto impedito, di fatto, lo svolgimento dell’attività dell’emittente tarantina la cui “cassa” era stata “spolpata” restando priva di qualsiasi ricavo aziendale . Mentre contemporaneamente crescevano le perdite. I debiti dei fratelli Cardamone nei confronti dell’erario ammontavano a 1.756.625 euro alla data del primo luglio del 2016, oltre a quanto evidenziato dai finanzieri nelle loro informative alla Procura, ed ulteriori 595.893 euro nei confronti dei dipendenti: Alla data del 3 marzo del 2017 l’indebitamento era arrivato rispettivamente a 1.651.134 euro e 675.636 euro. 

L’attività investigativa svolta dal Nucleo di polizia economica finanziaria, consenti di accertare altre presunte sottrazioni dalla liquidità della radio. Pagamenti privi di alcuna ragione giustificativa o di credito per un totale di altri 144.300 euro, in favore dello stesso Cardamone e di altre società riconducibili alla sua famiglia. Tra queste la «Mastermedia Club» nei cui uffici di piazza della Vittoria a Taranto imperversava Ignazio Stasi, stretto collaboratore di Giancarlo Cardamone ( e dove attualmente si è insediata la redazione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno) , la “Mastermedia Club” , la Jet srl (utilizzata per incassare pubblicità televisiva) e la «Media edizioni», quest’ultima amministrata dalla moglie di Gaspare Cardamone. il quale oltre alla bancarotta fraudolenta dovrà rispondere anche delle accuse di aver tenuto le scritture contabili in modo tale da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari societari.

Attualmente Gaspare Cardamone è costretto ad utilizzare il nome di suo figlio, che è l’unico in famiglia ad essere ancora “immune” ai problemi con la legge ed il fisco, con una società che vende pubblicità televisiva per le emittenti televisive private della provincia tarantina. Sono finiti i tempi di quando si atteggiava a tycoon dei due mari. 

Nessun dubbio aveva avuto il gip Benedetto Ruberto del Tribunale di Taranto, nel giugno del 2020 davanti agli elementi indiziari raccolti dai militari della Guardia di Finanza sulla cessione di Studio 100 tv: “I fratelli Gaspare e Giovani Cardamone hanno dimostrato una pervicacia criminale che emerge inequivocabilmente dalla persistente consumazione di condotte in un ininterrotto arco temporale”.

Secondo l’accusa uno schema ripetuto, con un disegno strutturato che ha “contemplato la dismissione di cespiti positivi del loro patrimonio, in particolare l’emittente televisiva, per continuare a percepire i contributi del Mise, ai danni dei creditori e dell’Erario”. I fratelli Cardamone venivano indicati come “soggetti che non hanno esitato a porre in essere un piano sistematico per ottenere il massimo profitto, senza pagare il Fisco e sfuggendo alle iniziative di recupero dei loro creditori, assicurandosi di conservare il patrimonio nelle mani della loro famiglia e dimostrando una spiccata e pervicace indole delinquenziale”. Tutto questo, secondo il primo giudice, “prova che traggono dall’attività delittuosa i proventi per il loro sostentamento”.

Nel suo provvedimento il Gip Ruberto aveva “valutato la personalità altamente negativa di entrambi gli indagati, già gravati da numerosi precedenti penali e giudiziari”. Gaspare Cardamone, che era amministratore unico delle due società dichiarate fallite, prima la Jet srl e poi la Mastermedia Club, “ha riportato due condanne per violazione delle norme sul diritto d’autore, ben sei per omesso versamento dei contributi previdenziali e ha anche precedenti per reati fiscali e uno per calunnia”. Il fratello e socio Giancarlo , ha “riportato una condanna per violazione delle norme sul diritto d’autore e due per bancarotta, una delle quali riguardante proprio la srl Studio 2000, già Studio100, per la distrazione del ramo d’azienda costituito dall’impresa televisiva ceduta alla Jet srl”. Nel fascicolo d’inchiesta era stata inserita dalla Guardia di Finanza anche una sentenza a suo carico che risale al 2002. A carico di Giancarlo Cardamone, altre “tre condanne per omesso versamento dei contributi previdenziali”. 

Attività “illecite frequenti, mai interrotte, anzi perfezionate nel corso degli anni” scriveva il Gip Ruberto che “denotano la loro professionalità nel delinquere, tale da escludere la mera occasionalità della condotta” e la tendenza a “compiere imprese delittuose con modalità strutturate e sofisticare e a commettere condotte di bancarotta e frode fiscale”, contestate nell’ordinanza. “Delitti – scriveva il gip – determinati da motivi di lucro, in ambito societario e imprenditoriale”.

L’emittente tv Studio 100 è stata venduta all’asta fallimentare ed assegnata ad una società partecipata da Vito Luigi Blasi (60%) e Domenico Di Stante (40%) editore dell’emittente televisiva pugliese Antenna Sud, i quali dopo aver acquisito la televisione, sono subito entrati in un contenzioso civile. Ironia della sorte, anche il nuovo “editore” Vito Luigi Blasi si trova in veste di “imputato” nel processo penale per il fallimento della Banca Valle d’Itria, istituto di credito cooperativo di Martina Franca, in provincia di Taranto.

LE VITTIME INNOCENTI DI MAFIA. Taranto, il “messaggio” al poliziotto del carcere che non faceva sconti.  SARA CELA - ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 27 marzo 2022.

L’assassinio di Carmelo Magli figura all’interno del processo Ellesponto contro la criminalità organizzata pugliese; movente dell’omicidio era la volontà di voler lasciare un messaggio alla polizia penitenziaria, che i clan malavitosi ritenevano essere troppo dura con i carcerati.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alle persone meno note uccise dalla mafia e il cui numero cresce di anno in anno. Dal 1961 si contano circa 1031 vittime innocenti.

Carmelo Magli venne trucidato da colpi di arma da fuoco nella notte del 18 novembre del 1994. Aveva ventiquattro anni, era un poliziotto e rientrava da una giornata di lavoro alla Casa Circondariale di Taranto, ora a lui intitolata; quella notte per la strada provinciale San Giorgio Jonico lo aspettava una moto di grossa cilindrata con a bordo sicari incaricati di togliere la vita alla prima “guardia” che sarebbe passata di lì. Così si spezza la vita di Carmelo, uomo, marito, padre, vittima del dovere.

Una pattuglia della polizia stradale nota la vettura uscita fuori strada e i finestrini rotti, accostandosi scopre il corpo esanime di Carmelo; il giorno dopo gli investigatori rinvengono sul luogo 12 bossoli, calibro 7,65.

L’assassinio di Carmelo Magli figura all’interno del processo Ellesponto contro la criminalità organizzata pugliese; movente dell’omicidio era la volontà di voler lasciare un messaggio alla polizia penitenziaria, che i clan malavitosi ritenevano essere troppo dura con i carcerati.

Quella nel carcere di Taranto era una situazione “difficile”: i detenuti tentavano quotidianamente di condizionare lo svolgimento dei compiti di vigilanza e gli agenti del penitenziario temevano per la loro incolumità. Ai tempi la città dei due mari era scenario di sanguinose guerre fra i clan della malavita, che combattevano per contendersi la preminenza assoluta degli affari illeciti sul territorio.

La Corte d’Assise di Lecce condannò i responsabili dell’assassinio di Carmelo all’ergastolo. Tra i responsabili, Osvaldo Mappa, che non ci pensò due volte a sparare in direzione di Magli, ma che subito dopo il suo arresto si pentì, diventando collaboratore di giustizia, e venendo poi ucciso in un agguato. Il processo Ellesponto fu a proposito un esempio di grande forza ed equilibrio da parte della magistratura.

Carmelo Magli è stato insignito della Medaglia d'Oro al Merito Civile alla Memoria, con la motivazione di essere “splendido esempio di straordinario senso del dovere e di elevate virtù civiche, spinti fino all’estremo sacrificio”. 

SARA CELA - ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

Le inchieste. La Corte dei Conti richiede all’ex pm Di Giorgio espulso dalla magistratura 150mila euro di danni procurati allo Stato. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Marzo 2022.

Nella relazione della Corte dei conti si legge inoltre "Dalla vicenda penale era emerso che in più occasioni il predetto magistrato, abusando della sua qualità di pubblico ufficiale derivante dalla funzione requirente svolta, aveva perseguito personali scopi politici e utilitaristici, allestendo un “ apparato di potere"

Dalla relazione annuale dal procuratore regionale pugliese della Corte dei Conti Carlo Alberto Manfredi Selvaggi, si è appresa la contestazione effettuata nei confronti dell’ ex pm della procura della Repubblica di Taranto, Matteo Di Giorgio, espulso nel 2018 dal Consiglio superiore della magistratura. I fatti risalgono al 2010, quando l’ex pm Di Giorgio venne arrestato con l’accusa di avere abusato della toga minacciando imprenditori e politici locali, per interferire nella vita politica del suo paese di origine e residenza, Castellaneta in provincia di Taranto. 

Nell’ aprile del 2014 arrivò la condanna in primo grado per Di Giorgio dal Tribunale di Potenza, che è competente sui magistrati in servizio a Taranto, a 15 anni di reclusione per i reati di concussione e corruzione in atti giudiziari. Successivamente grazie alla prescrizione di alcuni capi di accusa e l’applicazione delle attenuanti, la pena è stata ridotta dalla Corte di Cassazione a 8 anni .

Secondo l’accusa formulata a suo tempo dalla Procura di Potenza, Matteo Di Giorgio all’epoca dei fatti, sostituto procuratore presso la Procura di Taranto, agì in diverse occasioni per perseguire personali scopi politici: nello specifico si adoperò per favorire l’elezione di un suo amico Italo D’Alessandro a Sindaco di Castellaneta, che era stato a sua volta condannato a titolo definitivo a tre anni di reclusione, attivandosi personalmente in maniera tale il denunciante ritirasse le accuse mosse contro l’ex magistrato Di Giorgio nell’ambito di un procedimento penale sorto nel corso della lunga rivalità politica con il senatore Rocco Loreto, ex sindaco del paese. 

Loreto, ex senatore dei Ds, a sua volta presentò un esposto ai Carabinieri nei confronti del pm Di Giorgio , ma il giorno dopo aver terminato il suo mandato parlamentare venne arrestato per calunnia alle 7.30 del mattino, su richiesta del pm Henry John Woodcock (all’ epoca in servizio presso la Procura di Potenza) prelevato da casa da sette carabinieri provenienti da Potenza su tre auto di servizio, venendo fotografato dal teleobiettivo di un fotografo appostato sulla terrazza della palazzina di fronte a casa sua. Successivamente Loreto venne definitivamente prosciolto da quell’accusa soltanto nel 2017, dopo aver trascorso quattro giorni e quattro notti in carcere in cella dove attuò lo sciopero della fame e della sete, assieme ad un ergastolano e due condannati per omicidio e spaccio di droga . Successivamente scontò 11 giorni di arresto ai domiciliari. “Sono stati in tanti a credermi – ricorda Loreto – tra questi, fra i primi e mentre ero ancora “fresco di galera”, un certo Sergio Mattarella, ( non ancora diventato Presidente della Repubblica n.d.r.) che è venuto a fare un comizio per me. Cosa di cui gli sarò sempre grato“. 

La squallida e triste vicenda ha avuto un seguito anche con la giustizia contabile. Il procuratore Manfredi Selvaggi in un passaggio della sua relazione scrive : “Va dato conto di una importante istruttoria conclusa nel 2021 e che ha portato al deposito, nei primi giorni del 2022, della citazione in giudizio nei confronti di un ex sostituto procuratore della Repubblica ( senza nominare l’ex pm di Castellaneta n.d.r.) per la vicenda dannosa conseguita alla commissione di reati di concussione e corruzione“. Nella relazione della Corte dei conti si legge inoltre “Dalla vicenda penale era emerso che in più occasioni il predetto magistrato, abusando della sua qualità di pubblico ufficiale derivante dalla funzione requirente svolta, aveva perseguito personali scopi politici e utilitaristici, allestendo un “ apparato di potere” .

Concludendo il procuratore in Puglia della Corte dei Conti ha reso noto che: “questa Procura ha quindi contestato il danno procurato all’immagine del ministero della Giustizia per un importo di 150mila euro“.

Avevano erroneamente titolato “La Corte dei Conti ha condannato l’ex pm Di Giorgio.Dovrà risarcire 150mila euro allo Stato” , in realtà Di Giorgio è soltanto stato condannato al carcere con sentenza definitiva dalla Cassazione, ed espulso dalla magistratura. A seguito di queste decisioni la Corte dei Conti gli ha contestato il danno procurato quantificandolo in 150 mila euro. Ed ora Di Giorgio dovrà essere sottoposto ad un nuovo giudizio con la magistratura contabile, per determinare la legittimità e congruità della richiesta risarcitoria avanzato dallo Stato nei suoi confronti. Ci scusiamo con i lettori per l’imprecisione. Redazione CdG 1947

Nuovo ospedale di Taranto, chiuse le indagini: coinvolti Sannicandro e Stefanazzi. Sotto la lente il maxi-appalto da 159 milioni per l’ospedale San Cataldo. La replica dell'ingegnere: «Estraneo ad ogni accusa, chiarirò tutto». Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Marzo 2022.L'ingegner Elio Sannicandro non avrebbe potuto far parte della commissione che ha aggiudicato il maxi-appalto da 159 milioni per l’ospedale “San Cataldo” di Taranto. È per questo che la Procura di Bari ha notificato un avviso di conclusione delle indagini all'allora commissario straordinario (ora direttore generale) dell'Agenzia regionale Asset e al capo di gabinetto della Regione, Claudio Stefanazzi. Il procuratore aggiunto Alessio Coccioli e il pm Michele Ruggero contestano ai due l'ipotesi di concorso in falso ideologico continuato, con l'aggravante di aver commesso il reato nella loro veste di pubblici ufficiali e di aver tratto in inganno Invitalia nella designazione dei commissari. Tutto ciò sarebbe avvenuto - sempre secondo le indagini - con l’obiettivo di «avvantaggiare illecitamente una cordata di imprenditori interessati all’aggiudicazione dell’appalto dei lavori di realizzazione del nuovo ospedale», appalto vinto dal raggruppamento composto da Debar Costruzioni (capofila), Cn Costruzioni Generali, consorzio stabile Com Scarl e Edilco e su cui si è sviluppato anche un corposo contenzioso in sede amministrativa. La Procura ipotizza infatti che Sannicandro (la cui designazione è stata formalmente firmata da Stefanazzi) fosse incompatibile rispetto a quell'incarico (e dunque avrebbe dovuto astenersi) sia perché aveva partecipato come coordinatore all'elaborazione delle «linee guida per il piano strategico di Taranto», sia perché avrebbe dovuto astenersi in virtù del «proprio rapporto di conoscenza decennale e di comune militanza politica in favore dell'attuale presidente della Regione Puglia Michele Emiliano con l’operatore economico - poi risultato vincitore - Canonico Nicola». Gli indagati, che la scorsa estate avevano ricevuto un avviso di proroga delle indagini, potranno ora chiedere di essere interrogati per chiarire la propria posizione.

LA REPLICA DI SANNICANDRO

L'ingegnere Elio Sannicandro si dice totalmente estraneo alle accuse. «In attesa di poter chiarire la mia estraneità anche a questa vicenda - spiega l'ingegnere - preciso sin dora che le ipotesi di incompatibilità, e quindi di falso, su cui si fonda l'accusa sono del tutto infondate. Prima della mia nomina nella commissione di gara non mi sono mai occupato dell'ospedale di Taranto, né come Commissario straordinario, né come Direttore generale dell’Asset, né come Coordinatore del Gruppo di lavoro che a suo tempo ha elaborato le “Linee guida per il piano strategico di Taranto». Elio Sannicandro precisa anche che non ha «mai intrattenuto con imprenditori che hanno partecipato alla gara per l’Ospedale di Taranto rapporti di frequentazione personale o politica, né tantomeno di cointeressenza, riconducibili anche solo in astratto alle ipotesi di astensione contemplate dal codice di procedura civile e dal codice degli appalti. Escludo categoricamente - conclude il professionista -  in questo come in ogni altro caso, di aver favorito qualcuno fra i concorrenti, avendo svolto il mio incarico con assoluta imparzialità e nel pieno rispetto della legge, come risulta dai lavori della commissione aggiudicatrice».

LA NOTA DELLA SOCIETA'

«La compagine aggiudicataria dei lavori di realizzazione del nuovo ospedale San Cataldo di Taranto precisa di essere del tutto estranea alle contestazioni e ai fatti oggetto di imputazione». Lo dichiara la società O.S.C. Taranto Scarl. «Senza entrare nel merito delle accuse rivolte ai due indagati - dice la società -  si ribadisce che, come è stato definitivamente accertato dal giudice amministrativo, la gara si è svolta regolarmente, senza alcuna violazione di legge. I lavori, pertanto, procedono alacremente, nel rispetto degli accordi contrattuali e allo scopo di realizzare quanto prima il nuovo Ospedale di Taranto».

Ospedale milionario a Taranto, chiuse le indagini: il capo di gabinetto della Regione Stefanazzi e Sannicandro accusati di falso. Chiara Spagnolo su la Repubblica il 04 Marzo 2022.Al centro dell'inchiesta c'è proprio il ruolo del direttore dell'Assett quale componente della commissione che ha aggiudicato l'appalto per la costruzione del nuovo ospedale San Cataldo. C'è il ruolo di Elio Sannicandro, quale componente della commissione che ha aggiudicato l'appalto per la costruzione del nuovo ospedale San Cataldo di Taranto, al centro dell'inchiesta che vede indagato lo stesso Sannicandro e il capo di gabinetto della Regione Puglia, Claudio Stefanazzi, braccio destro del governatore Michele Emiliano.

Entrambi hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini preliminari a firma del pm Michele Ruggiero e del procuratore aggiunto Alessio Coccioli, nel quale si contesta il reato di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale. Sannicandro - che è direttore dell'Asset e commissario per l'emergenza idrogeologica - di recente ha ricevuto anche un avviso di conclusione delle indagini preliminari per induzione a dare o promettere utilità, nell'ambito di un'inchiesta sugli appalti del dissesto, in cui sono indagati anche l'assessore al Personale Gianni Stea, l'avvocato Salvatore Campanelli e il funzionario regionale Daniele Sgaramella.

In relazione al San Cataldo, la Procura - all'esito delle indagini del Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza - contesta a Sannicandro e Stefanazzi di avere attestato falsamente l'idoneità di Sannicandro a ricoprire il ruolo di componente della commissione giudicante. Il direttore Asset, invece, sarebbe stato incompatibile rispetto a quell'incarico perché aveva un rapporto di conoscenza e politico con uno degli imprenditori della cordata vincitrice: Nicola Canonico. E anche perché aveva fatto parte del gruppo che aveva elaborato per conto dell'Asset le Linee guida per il piano strategico di Taranto, che riguardava anche l'ospedale.

L'appalto del San Cataldo era di iniziali 161 milioni di euro, vinto dal consorzio capeggiato dalla Debar di Domenico De Bartolomeo, già presidente di Confindustria Puglia, e di cui fanno parte Com di Modugno, Cn Costruzioni (appunto di Nicola Canonico), Edilco, Mazzitelli e Icoser. La scelta era stata contestata dalla seconda classificata, la Reserch, di cui è capofila la Guastamacchia di Ruvo e di cui fanno parte Cisa, Ciro Menotti e Cobar.

"In attesa di poter chiarire la mia estraneità anche a questa vicenda, preciso sin d'ora che le ipotesi di incompatibilità, e quindi di falso, su cui si fonda l'accusa sono del tutto infondate". Lo dichiara Sannicandro con riferimento alla sua nomina nella commissione di gara per l'ospedale San Cataldo di Taranto.

"Prima della mia nomina nella commissione di gara - spiega Sannicandro - non mi sono mai occupato dell'ospedale di Taranto, né come commissario straordinario, né come direttore generale dell'Asset, né come coordinatore del gruppo di lavoro che a suo tempo ha elaborato le 'Linee guida per il piano strategico di Taranto'". "Non ho mai intrattenuto con imprenditori che hanno partecipato alla gara per l'ospedale di Taranto - continua - rapporti di frequentazione personale o politica, né tantomeno di cointeressenza, riconducibili anche solo in astratto alle ipotesi di astensione contemplate dal codice di procedura civile e dal codice degli appalti".

"Escludo categoricamente, infine, in questo come in ogni altro caso - conclude Sannicandro - di aver favorito qualcuno fra i concorrenti, avendo svolto il mio incarico con assoluta imparzialità e nel pieno rispetto della legge, come risulta dai lavori della commissione aggiudicatrice". 

Avrebbe falsificato verbale teste, pm Bari rischia processo. L'accusa risale a quando Michele Ruggiero era in servizio alla Procura di Trani. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2022

La Procura di Lecce ha chiesto il rinvio a giudizio per il pm di Bari Michele Ruggiero, accusato di falso ideologico con riferimento alla presunta falsificazione del verbale di un testimone nell’ambito di un procedimento risalente a quando era in servizio alla Procura di Trani. Il presunto falso verbale fu posto a fondamento dell’arresto per tentata concussione dell’allora vicesindaco di Trani Giuseppe Di Marzio, il quale nel processo sul "Sistema Trani", tuttora in corso, ha rinunciato alla prescrizione.

La vicenda contestata al magistrato risale al 6 settembre 2014. Stando all’imputazione formulata dalla pm di Lecce Roberta Licci, Ruggiero avrebbe sintetizzato le parole di un testimone «in modo del tutto distonico rispetto alle effettive dichiarazioni», con riferimento al presunto coinvolgimento di Di Marzio in un episodio di richiesta di tangenti. Il pm avrebbe poi omesso di depositare il cd con la fonoregistrazione integrale della testimonianza, «la cui esistenza emergeva sono a novembre 2019» nell’ambito del dibattimento in corso a Trani. Dalla nuova trascrizione delle dichiarazioni del testimone è emerso che nel precedente verbale sarebbero state «assemblate affermazioni rese in momenti diversi nel corso della lunga escussione, in una consequenzialità logica non coerente con le effettive informazioni rese dal teste». L’udienza preliminare nei confronti di Ruggiero inizierà il 15 settembre dinanzi alla gup di Lecce Giulia Proto. Per fatti simili, denunciati da altri imputati del processo tranese, pende nei confronti del pm Ruggiero un altro procedimento a Lecce su presunte minacce a testimoni.

L’ex vicesindaco Di Marzio, che ha presentato l’esposto sulla base del quale i magistrati salentini hanno chiesto il rinvio a giudizio per il collega barese, ricorda di «aver rinunciato alla prescrizione nell’ambito del processo» che lo riguarda in corso a Trani, annunciando che a Lecce, assistito dall’avvocato Enrico Capurso, si costituirà parte civile nei confronti del pm Ruggiero.

«Lo stesso pm che ha richiesto il mio arresto - dice Di Marzio - stroncando la mia attività professionale, la mia attività politica oltre che la mia immagine più in generale, stando al capo di imputazione formulato nei suoi confronti, ha falsificato il verbale di sommarie informazioni su cui ha costruito il mio arresto, riportando delle dichiarazioni in modo del tutto distonico rispetto a quanto effettivamente riferito dal soggetto sentito».

«Il falso - afferma Michele Ruggiero contattato dall’ANSA - è stato documentalmente sconfessato. Sono assolutamente sereno sulla correttezza e trasparenza della mia azione, come si dimostrerà al giudice. Sono solo (le denunce in mio danno) funzionali a influenzare il processo in corso a Trani e da me istruito: una inchiesta che la magistratura di Potenza ha già accertato essere stata osteggiata a vari livelli».

Le “bufale” giornalistiche sull’appalto del Nuovo Ospedale San Cataldo di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Marzo 2022.

Le bufale giornalistiche de La Repubblica e la Gazzetta del Mezzogiorno sull'appalto per la realizzazione Nuovo Ospedale San Cataldo. Tutto quello che non hanno raccontato.....

Questa mattina la giornalista Chiara Spagnolo della redazione barese del quotidiano La Repubblica ha pubblicato un articolo dal titolo equivoco e fuorviante “Ospedale milionario a Taranto, chiuse le indagini: il capo di gabinetto della Regione Stefanazzi e Sannicandro accusati di falso” lasciando ipotizzare delle presunte illegalità da parte del Consorzio Debar di cui fa parte l’imprenditore Nicola Canonico. In realtà la verità è ben altra, come il nostro giornale è in grado di documentare. A spalleggiarla La Gazzetta del Mezzogiorno con un articolo disinformato e fuorviante a firma di Massimiliano Scagliarini che è il fidanzato della giornalista Spagnolo, il quale ha dimenticato ( o omesso ?) di ricordare ai lettori che in questa gara di appalto aveva partcipato il suo nuovo co-editore Antonio Albanese, della CISA di Massafra, che aveva fatto ricorso amministrativo perdendolo due volte contro l’aggiudicazione di Invitalia in favore del Consorzio Debar.

Scrive la giornalista Spagnolo sull’edizione barese del quotidiano La Repubblica: “C’è il ruolo di Elio Sannicandro, quale componente della commissione che ha aggiudicato l’appalto per la costruzione del nuovo ospedale San Cataldo di Taranto, al centro dell’inchiesta che vede indagato lo stesso Sannicandro e il capo di gabinetto della Regione Puglia, Claudio Stefanazzi, braccio destro del governatore Michele Emiliano” ed aggiunge il suo collega-fidanzato Scagliarini sul quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno: “appalto vinto dal raggruppamento composto da Debar Costruzioni (capofila), Cn Costruzioni Generali, consorzio stabile Com Scarl e Edilco e su cui si è sviluppato anche un corposo contenzioso in sede amministrativa“. Ma non dice che il contenzioso amministrativo che si è concluso definitivamente dinnanzi al Consiglio di Stato a favore del Consorzio Debar !

Non a caso al momento nè l’ing. Domenico De Bartolomeo, rappresentante legale del Consorzio Debar, di cui fanno parte le società Com di Modugno, Cn Costruzioni, Edilco, Icoser e Mazzitelli , e nè tantomeno Nicola Canonico risultano iscritti nel registro degli indagati della Procura di Bari, e nessuno del consorzio guidato dall’ ing. De Bartolomeo è coinvolto nell’ avviso di conclusione delle indagini preliminari a firma del pm Michele Ruggiero e del procuratore aggiunto Alessio Coccioli, che riguarda Elio Sannicandro e Claudio Stefanazzi, capo di gabinetto dalla Presidenza della Giunta regionale pugliese.

La procura contesta a Sannicandro e Stefanazzi di avere attestato falsamente l’idoneità di Sannicandro a ricoprire il ruolo di componente della commissione giudicante sull’offerta tecnica del Nuovo Ospedale SanCataldo di Taranto. Il direttore Asset secondo gli inquirenti sarebbe stato incompatibile rispetto a quell’incarico perché aveva un rapporto di conoscenza e politico con uno degli imprenditori della cordata vincitrice: Nicola Canonico. E anche perché aveva fatto parte del gruppo che aveva elaborato per conto dell’Asset le linee guida per il piano strategico di Taranto, che riguardava anche l’ospedale.

A differenza di altri giornalisti che scrivono sotto dettatura o estrapolando il contenuto di documenti della Procura di Bari, abbiamo come sempre nel nostro stile giornalistico effettuato più di qualche verifica documentale ed abbiamo accertato che la gara indetta e gestita a Roma da Invitalia si basava su tre elementi basilari di punteggio : il punteggio offerta tecnica , il punteggio offerta tempo ed il punteggio offerta economica.

Siamo andati a cercare sul sito di Invitalia ed abbiamo scoperto che il punteggio sull’ “offerta tecnica” assegnato al Consorzio Debar dalla commissione tecnica (di cui era componente Sannicandro) lo aveva classificato al 4° posto, mentre al 1° posto veniva indicato il consorzio Reserch, di cui è capofila la Guastamacchia di Ruvo e di cui fanno parte la Cisa di Massafra (la società del condannato e pluri-indagato Antonio Albanese attuale co-editore de La Gazzetta del Mezzogiorno) , Ciro Menotti e la Cobar il cui procuratore Domenico Barozzi è indagato per turbata libertà degli incanti e falso ideologico per i lavori relativi alla realizzazione dell’ Ospedale Covid alla Fiera del Levante di Bari.

Quindi la commissione tecnica di cui era componente Sannicandro aveva assegnato in realtà il migliore punteggio al consorzio Reserch, il che giustifica e spiega le ragioni per cui nessuno del Consorzio Debar risulta indagato e tantomeno inficiato il lavoro sinora svolto legittimamente che consentirà il termine dei lavori di costruzione del nuovo ospedale a Taranto entro il prossimo autunno. Infatti l’unica area di intervento della commissione di cui era componente Sannicandro era quella sull'”offerta tecnica” e non sull’“offerta economica” che ha visto prevalere il consorzio Debar che ha fatto risparmiare al contribuente oltre 10 milioni di euro !

L’ ing. Elio Sannicandro ha rilasciato la seguente dichiarazione in merito al suo coinvolgimento nell’inchiesta della Procura di Bari:

Elio Sannicandro

“In attesa di poter chiarire la mia estraneità anche a questa vicenda, preciso sin d’ora che le ipotesi di incompatibilità, e quindi di falso, su cui si fonda l’accusa sono del tutto infondate.Prima della mia nomina nella commissione di gara non mi sono mai occupato dell’ospedale di Taranto, né come Commissario straordinario, né come Direttore generale dell’ASSET, né come Coordinatore del Gruppo di lavoro che a suo tempo ha elaborato le “Linee guida per il piano strategico di Taranto”. Non ho mai intrattenuto con imprenditori che hanno partecipato alla gara per l’Ospedale di Taranto rapporti di frequentazione personale o politica, né tantomeno di cointeressenza, riconducibili anche solo in astratto alle ipotesi di astensione contemplate dal codice di procedura civile e dal codice degli appalti. Escludo categoricamente, infine, in questo come in ogni altro caso, di aver favorito qualcuno fra i concorrenti, avendo svolto il mio incarico con assoluta imparzialità e nel pieno rispetto della legge, come risulta dai lavori della commissione aggiudicatrice“.

La nota del Consorzio Debar | O.S.C. Taranto Scarl

“La compagine aggiudicataria dei lavori di realizzazione del nuovo ospedale San Cataldo di Taranto precisa di essere del tutto estranea alle contestazioni e ai fatti oggetto di imputazione. «Senza entrare nel merito delle accuse rivolte ai due indagati si ribadisce che, come è stato definitivamente accertato dal giudice amministrativo, la gara si è svolta regolarmente, senza alcuna violazione di legge. I lavori, pertanto, procedono alacremente, nel rispetto degli accordi contrattuali e allo scopo di realizzare quanto prima il nuovo Ospedale di Taranto“. Lo precisa con una nota la società O.S.C. Taranto Scarl.

Ci sembra a dir poco ridicolo e vergognoso quindi coinvolgere giornalisticamente il Nuovo Ospedale San Cataldo di Taranto in questa vicenda giudiziaria, che vede la Procura di Bari impegnata in un’autentica caccia alle streghe negli uffici della Regione Puglia. O forse qualche “pennivendolo” voleva assecondare e compiacere il volere del nuovo padrone ? Redazione CdG 1947 

La Politica. Caro Walter ti scrivo…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Febbraio 2022.  

"La tua decisione non è coerente con la tua storia, con la nostra storia. Sai che non ho mai creduto agli steccati ideologici in politica, sai che ho sempre intrattenuto buoni rapporti con tutti, anche con i più agguerriti avversari, che a volte non ho esitato per il bene comune a fare scelte apparentemente poco ortodosse ma l’ho fatto sempre con il mio simbolo, orgoglioso della mia appartenenza politica" scrive l'on. Michele Pelillo a Musillo candidato sindaco a Taranto per le destre (FdI, FI e Lega) 

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa lettera aperta inviataci dall’ on. Michele Pelillo rivolta a Walter Musillo

Caro Walter ti scrivo in forma pubblica e rinuncio alla mia consueta riservatezza perché ciò che sta avvenendo non incrocia soltanto il nostro vissuto ma anche quello di tanti amici e compagni che oggi sono disorientati e perché da qualche giorno sono incalzato da tutti i giornalisti che non mi chiedono altro.

Sei stata la persona a me più vicina nella mia lunga e bella vicenda politica. Ti sono stato amico sincero e continuerò ad esserlo, se me lo permetterai, ma avverto la necessità di esprimere ad alta voce il mio grande disagio per la tua decisione di capeggiare una coalizione di centrodestra alle prossime elezioni comunali. 

da sx Giovanni Gugliotti (Lega), Marcello Gemmato (FdI), Walter Musillo (ex segretario provinciale PD), Mauro Dattis (Forza Italia), Roberto Marti (Lega), Massimiliano Stellato (PugliaPopolare)

Tu sai bene quanto ho sempre tenuto alla coerenza, nella vita e nella politica. Sono stato e continuo ad essere orgogliosamente legato al valore della coerenza come valore fondante della mia esistenza. 

La tua decisione non è coerente con la tua storia, con la nostra storia. Sai che non ho mai creduto agli steccati ideologici in politica, sai che ho sempre intrattenuto buoni rapporti con tutti, anche con i più agguerriti avversari, che a volte non ho esitato per il bene comune a fare scelte apparentemente poco ortodosse ma l’ho fatto sempre con il mio simbolo, orgoglioso della mia appartenenza politica. 

Per favore suggerisci a chi oggi ti sostiene di non confondere la vostra operazione politica con altre, ad esempio con quelle targate Emiliano. Emiliano con la sua appartenenza, con la sua coalizione di governo si sforza di allargare il perimetro politico in cui si trova ed ha anche il coraggio di valorizzare competenze tecniche con un trascorso politicamente diverso dal suo.

Non avevo alcuna intenzione di rientrare nel dibattito pubblico locale ma ho la necessità di prendere le distanze dalla tua decisione in modo che nei prossimi mesi non nasca alcun equivoco e nessuno possa strumentalizzare. 

Sai Walter che conosco bene la tua vicenda umana e politica che ti ha unito prima e diviso poi da Rinaldo Melucci. Non entro nel merito perchè ognuno di voi avrà ragione e torto, come spesso accade, ma ho imparato che nella vita non si può costruire sul rancore. Il rancore può essere anche umanamente comprensibile ma è un pessimo cemento col quale provare ad edificare qualcosa di importante. 

Rinaldo Melucci ha commesso alcuni errori dovuti ad inesperienza e ad un carattere non abituato alla vita politica ma è innegabile che ha amministrato meglio rispetto al passato e si sforza di mettere a fuoco una visione di città come solo la mia cara e compianta amica Rossana Di Bello aveva provato negli ultimi 30 anni.

Se il mio contributo di esperienza, di passione e di   idee, ritenuto negli ultimi mesi nuovamente necessario da tantissimi, a destra e a manca, continuerà ad essere apprezzato, favorirò la continuità amministrativa di questa nostra amata città, magari evitando  qualche errore di troppo di cui Melucci si dichiara consapevole e il mio intento, pur saldamente ancorato alla mia datata decisione di uscire definitivamente dall’agone politico, continuerà ad essere indirizzato nella medesima direzione, quella della riconciliazione sociale e politica di Taranto che ha bisogno, mai come adesso, di ritrovare unità di intenti per essere più forte e più protagonista. Un caro saluto. Michele Pelillo

IL CASO. Taranto, i guai dell’ex segretario del Partito Democratico. L'ex segretario del Pd Tarantino Luciano Santoro. L’accusa: Santoro avrebbe preso 10mila euro per favorire lavori nella città vecchia. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Aprile 2022.

Avrebbe ricevuto la somma di 10mila come compenso per la sua mediazione illecita con gli uffici comunali di Taranto Luciano Santoro, ex segretario del Pd ionico ora indagato nell’inchiesta della Procura di Napoli che ha travolto tra gli altri anche il salernitano Nicola Oddati, commissario provinciale dei dem di Taranto fino a ieri: le sue dimissioni, infatti, sono giunte poco dopo la diffusione della notizia sulla stampa del coinvolgimento nell’inchiesta.

Sono complessivamente 12 le persone iscritte nel registro degli indagati: oltre a Oddati e Santoro, nell’elenco spuntano i nomi del sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliola e del segretario provinciale del Pd di Reggio Calabria Sebastiano Romeo. Tra i vari appalti finiti sotto la lente degli investigatori campani, c’è anche quello per i lavori di ristrutturazione di Palazzo Carducci, nella città vecchia di Taranto. Associazione a delinquere e turbativa d’asta sono le accuse mosse dai magistrati campani che nei giorni scorsi hanno inviato finanzieri e poliziotti a perquisire l’abitazione tarantina di Santoro. Secondo l’accusa, il gruppo avrebbe provato a «pilotare» la gara da 4,5 milioni di euro, stanziati dal Comune per trasformare l’edificio a pochi metri dal Museo Diocesano e la cattedrale di Taranto, in un contenitore culturale: un tentativo che secondo i magistrati napoletani sarebbe avvenuto attraverso gli interventi che Santoro avrebbe offerto a Oddati e all’impresa riconducibile all’amico di vecchia data Salvatore Musella. Attraverso il suo legale, però, Musella ha fatto sapere che non avrebbe vinto nessuna delle gare contestate dalla procura e quindi neppure quella di Taranto. Come raccontato nei giorni scorsi dalla «Gazzetta», infatti, la gara è stata provvisoriamente affidata a una società di Acquaviva delle Fonti: al momento il Comune è alle prese con la verifica dei requisiti amministrativi della ditta a cui seguirà la pubblicazione della determina di aggiudicazione definitiva dell’appalto. Solo a quel punto sarà firmato il contratto tra l’ente ionico e l’impresa appaltatrice che darà il via ai lavori.

Nicola Oddati, come detto, si è dimesso dal ruolo a Taranto che i vertici del Pd nazionale gli avevano affidato nel luglio 2020 dopo le dimissioni dell’allora segretario Gianpiero Mancarelli che fu nominato presidente della società partecipata all’igiene urbana. Santoro, invece, è da tempo uno dei principali esponenti di punta del Partito Democratico e in passato aveva già ricoperto per un breve periodo il ruolo di segretario. Dopo la nomina di Oddati, proprio a Santoro era stato affidato il ruolo di tesoriere del partito e poi, su proposta di Oddati, era diventato anche il candidato come nuovo segretario provinciale, creando però divisioni nella base ionica.

L’inchiesta partita da Pozzuoli, secondo gli investigatori, svela come le mire dell’imprenditore campano Musella, avrebbero provato a valicare i confini regionali arrivando fino in Puglia. Una conquista che l’imprenditore avrebbe tentato contando sull’amicizia e sulle relazioni costruite nel tempo proprio da Oddati. A questi, in cambio sarebbero arrivati «4.000 euro oltre – si legge nelle 44 pagine del decreto di perquisizione – ad altre somme, pernottamenti al Terminus, abiti sartoriali e la ristrutturazione di una casa» per una persona amica del politico che avrebbe «sfruttato le sue relazioni con pubblici ufficiali come fiduciario di Musella al fine di accreditarne l’aspettativa e l’interesse all’acquisizione di appalti pubblici».

Taranto, bimbo morto di tumore a 5 anni: assolti vertici ex Ilva. Lo sfogo del papà: «Nessuna giustizia». Ucciso il 30 luglio 2014 da un «astrocitoma» e divenuto simbolo della lotta all’inquinamento nel capoluogo ionico. È stato il giudice Pompeo Carriere a emettere una sentenza che scagiona i 9 imputati per i quali la procura aveva chiesto il rinvio a giudizio. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Luglio 2022.

Non sono i dirigenti dell’ex Ilva di Taranto i responsabili della morte di Lorenzo Zaratta. Il bimbo di soli 5 anni, ucciso il 30 luglio 2014 da un «astrocitoma» e divenuto simbolo della lotta all’inquinamento nel capoluogo ionico. È stato il giudice Pompeo Carriere a emettere una sentenza che scagiona i 9 imputati per i quali la procura aveva chiesto il rinvio a giudizio.

La decisione del giudice arriva al termine dell’udienza preliminare nei confronti di Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento Ilva fino al 3 luglio 2012 e gli ex responsabili dell’Area Parchi Minerali Giancarlo Quaranta e Marco Andelmi, il capo dell’Area Cokerie Ivan Di Maggio, il responsabile dell’Area Altiforni Salvatore De Felice, i capi delle due Acciaierie Salvatore D’alò e Giovanni Valentino, Giuseppe Perrelli all’epoca dei fatti responsabile dell’area Gestione Rottami Ferrosi e infine il responsabile dell’Area Agglomerato Angelo Cavallo, unico imputato ad aver scelto di essere giudicato con rito abbreviato e per il quale l’accusa aveva chiesto una condanna a 2 anni e 4 mesi. Per il giudice, però, non solo loro i responsabili della malattia che ha portato il piccolo «Lollo», alla morte.

Secondo l’accusa iniziale erano state quelle emissioni velenose a generare il male quando Lorenzo era ancora nel corpo della madre: per l’accusa i dirigenti «consentivano la dispersione di polveri e sostanze nocive provenienti dalle lavorazioni delle Aree: Parchi Minerali, Cokerie, Agglomerato, Acciaierie e Gestione Rottami Ferrosi dello stabilimento siderurgico, omettendo l'adozione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali» e questo avrebbe causato «una grave malattia neurologica al piccolo Lorenzo Zaratta che assumeva le sostanze velenose durante il periodo in cui era allo stato fetale» che avrebbe così sviluppato una «malattia neoplastica che lo conduceva a morte».

Nel corso delle udienze, però, il magistrato ha esaminato in aula i consulenti di tutte le parti. Per il consulente della procura, Carlo Barone, era «provato scientificamente che le polveri, come quelle rinvenute nel corpo di Lorenzo Zaratta, potessero arrivare all’organismo del feto: è possibile che quelle di dimensione maggiori siano in realtà le aggregazioni di particelle più piccole». Rispondendo alle domande del pubblico ministero e dall’avvocato Leonardo La Porta che ha rappresentato i genitori del piccolo Lorenzo, il consulente Barone aveva chiarito che non vi erano dubbi che quelle polveri e le sostanze ritrovate nel corpo del bambino provenissero dall’ex Ilva di Taranto.

Il collegio difensivo, composto tra gli altri dagli avvocati Enzo Vozza, Gaetano Melucci, Pasquale Annicchiarico, Carmine Urso, Pasquale Lisco e Alessandra Tracuzzi, aveva invece evidenziato come lo stesso consulente avesse confermato l’assenza di studi epidemiologici che mettano in relazione l’astrocitoma e l’inquinamento.

Anche il consulente della difesa, il professor Angelo Moretto, aveva sottolineato in aula che non c’è al momento alcuno studio che dimostri quel nesso «causa-effetto». Per Moretto il tumore che ha spezzato la vita di Lorenzo, costringendolo a sottoporsi a decine di operazioni, non è riconducibile alle attività dell’ex Ilva di Taranto: l’unica evidenza scientifica – ha sostenuto il consulente della difesa – rispetto allo sviluppo di quella particolare forma tumorale è quella legata all’esposizione ai «Raggi X».

Una tesi, quella difensiva, che evidentemente ha convinto il giudice Carriere che poche ore fa ha firmato la sentenza che assolve tutti gli imputati. 

LO SFOGO DEL PAPA' DI LORENZO 

«Scusami amore... non sono stato in grado di proteggerti e darti giustizia». E’ l’amaro sfogo pubblicato su Facebook da Mauro Zaratta, papà di Lorenzo, detto Lollo, un bambino di 5 anni morto di tumore al cervello il 30 luglio del 2014, dopo l’assoluzione, da parte del gup di Taranto Pompeo Carriere, di 9 tra dirigenti ed ex dirigenti dello stabilimento siderurgico che erano imputati di concorso in omicidio colposo.

«Che dire, ringrazio - aggiunge Zaratta - Leonardo La Porta (l'avvocato di parte civile, ndr) per essermi stato al fianco per tutti questi anni, Annamaria Moschetti (pediatra, ndr), Antonietta Gatti (la consulente che accertò la presenza di ferro, acciaio, zinco, silicio e alluminio nel cervello del bambino, ndr) e tutti i medici che hanno prodotto relazioni e studi, tutti quelli che mi/ci hanno sostenuto, i PM che hanno fatto il possibile, ma per il giudice, gli imputati non hanno commesso il fatto... e così è».

Le motivazioni della sentenza si conosceranno tra 90 giorni. Il presidente di Peacelink Alessandro Marescotti aveva lanciato un appello alla Commissione toponomastica, presieduta dal sindaco, sottolineando che «sarebbe auspicabile dedicare una piazza a Lorenzo Zaratta, ricordandolo assieme a tutti i bambini morti per inquinamento a Taranto. A Grottaglie una piazza è stata dedicata a lui e “alle piccole vittime dell’inquinamento”. A Modugno c'è 'Largo Lorenzo Zarattà, dove sorge un parco giochi per i bambini di una scuola. A Taranto - ha spiegato l'ambientalista - il Regolamento di Toponomastica prevede che debbano passare dieci anni per dedicare una piazza o una via, ma il 30 luglio 2024 arriverà presto e vorremmo che la pratica venga istruita fin da ora».

Taranto, bimbo morto di cancro: «L'Ilva non ha colpe». Scagionati 9 dirigenti finiti nell’inchiesta per il decesso del piccolo Lorenzo Zaratta. «La letteratura medica non consente di affermare una “correlazione causale” tra inquinamento e tumori del sistema nervoso centrale». Francesco Casula su la Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Agosto 2022. 

TARANTO -  «La letteratura medica, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, non consente di affermare la sussistenza di una “correlazione causale” tra inquinamento ambientale-atmosferico e tumori del sistema nervoso centrale, e segnatamente, dell’astrocitoma». È quanto scrive il giudice Pompeo Carriere nelle motivazioni della sentenza con la quale ha scagionato 9 dirigenti dell’ex Ilva di Taranto finiti nell’inchiesta per la morte del piccolo Lorenzo Zaratta, bimbo di soli 5 anni, ucciso il 30 luglio 2014 da un «astrocitoma». Per il magistrato, non ci sono neppure gli elementi scientifici che colleghino le accuse mosse agli imputati alla morte di Lorenzo e quindi le basi per avviare un processo.

GLI STUDI L’indagine era partita dopo gli studi che i consulenti dell’avvocato Leonardo La Porta che assiste la famiglia di Lorenzo, avevano portato avanti accertando la presenza di ferro, acciaio, zinco e persino silicio e alluminio nel cervello del bambino. Per i consulenti della famiglia la causa era «da ricercare nell’esposizione della madre durante la gravidanza». La donna, infatti, tra novembre 2008 e gennaio-febbraio 2009 aveva lavorato al quartiere Tamburi e stando a quanto scrive il giudice Carriere in quegli anni si è trovata «nella medesima situazione di esposizione» dei lavoratori dello stabilimento e in alcuni casi anche peggiore: la vastità dell’ex Ilva rende alcune zone del quartiere Tamburi più vicine alle fonti inquinanti di zone interne allo stabilimento che però si trovano a chilometri di distanza da quelle sorgenti velenose. Ma la semplice esposizione non basta a dimostrare che quel tumore - l’astrocitoma - sia stato causato dalle inalazioni di polvere che la donna ha poi trasferito al feto durante la gravidanza...

Sandro Iacometti per “Libero quotidiano” il 20 agosto 2022.

Nell'agosto del 2012, pochi giorni dopo il primo sequestro da parte dei magistrati degli altoforni dell'Ilva, il papà del piccolo Lorenzo Zaratta era salito sul palco di una manifestazione contro l'inquinamento provocato dall'acciaieria di Taranto mostrando le foto del figlio intubato dopo aver contratto un tumore al cervello a soli tre mesi di età.

Due anni dopo, Lorenzo, a 5 anni, ha smesso di vivere. Ed è diventato il simbolo più drammatico, tragico e commovente dei presunti scempi ambientali compiuti dalla famiglia Riva con il complesso siderurgico. La mamma di Lorenzo lavorava, infatti, vicino all'Ilva ed era convinta che le emissioni nocive della fabbrica che aveva inalato fossero poi state trasmesse al feto. Ed è su queste basi che è stata avviata la causa nei confronti degli allora dirigenti dell'Ilva con l'accusa di omicidio colposo.

Ebbene, a metà dello scorso luglio il gup di Taranto ha assolto Angelo Cavallo, dirigente della fabbrica, che aveva chiesto il rito abbreviato, e per il quale il pm Mariano Buccoliero aveva chiesto la condanna a 2 anni e 4 mesi e ha inoltre annullato il processo per gli altri otto imputati che avevano optato per il rito ordinario. Si tratta di Capogrosso, direttore dello stabilimento Ilva fino al 3 luglio 2012 e degli ex responsabili dell'Area Parchi Minerali, Quaranta e Adelmi, del capo dell'Area Cokerie, Di Maggio, del responsabile dell'Area Altiforni, De Felice, dei capi delle due Acciaierie, D'Alò e Valentino, e di Perrelli, all'epoca responsabile dell'area Gestione Rottami Ferrosi. 

A poche settimane di distanza sono arrivate anche le motivazioni.

«Permane», si legge nella sentenza, «un'insuperabile situazione di ragionevole dubbio circa l'effettiva sussistenza del nesso causale fra la presunta condotta ascritta agli imputati e il decesso del piccolo Lorenzo». La letteratura medica, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, non consente, infatti, «di affermare la sussistenza di una "correlazione causale" tra inquinamento ambientale-atmosferico e tumori del sistema nervoso centrale e segnatamente dell'astrocitoma», la patologia, questa, che ha causato il decesso del bambino di Taranto.

Questa frase, che avrà fatto giustamente ribollire il sangue dei genitori del povero Lorenzo, è purtroppo il sigillo finale del clamoroso corto circuito giudiziario che da 10 anni tiene l'Ilva in ostaggio della magistratura. Poco più di un anno fa, infatti, la procura di Taranto ha emesso condanne pesantissime (fino a 22 anni) nei confronti degli ex manager, tra cui Fabio e Nicola Riva, al termine del processo ambiente svenduto, per accuse che vanno dal disastro ambientale all'omicidio colposo. Alle pene si sono aggiunti anche la confisca dell'area a caldo e la conferma del sequestro degli impianti, che hanno di fatto impedito che Invitalia completasse il percorso di acquisizione del 60% della nuova Acciaierie Italia, a cui sono legati anche i processi di bonifica ambientale.

La sentenza, di cui dopo un anno ancora non sono state scritte le motivazioni (e forse ora si capisce perché) era già in conflitto con quella di Milano, che, assolvendo Fabio Riva dall'accusa di bancarotta, aveva riconosciuto l'efficacia degli interventi in materia ambientale. Ora, nel primo processo per i danni reali provocati dalle emissioni, si scopre che è impossibile stabilire un rapporto di causa ed effetto tra inquinamento e malattie tumorali. Quante altre sentenze dovremo aspettare prima che si faccia chiarezza di un decennio di scorribande giudiziarie che hanno fatto perdere al Paese decine di miliardi?

“Da capitale della Magna Grecia al disastro ambientale”: l’ ex Ilva, condannata a risarcire Taranto per 12,5 milioni di euro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Luglio 2022.  

Il giudice ha disposto il risarcimento di oltre 3 milioni e 200mila euro per i danni materiali subiti dal patrimonio immobiliare comunale nei quartieri Città Vecchia e Paolo VI e 8 milioni di euro come risarcimento per il danno all'immagine, alla reputazione e all'identità storica e culturale della città, ormai nota in tutt' Italia per il suo inquinamento ambientale.

Il giudice Raffaele Viglione della seconda sezione civile del Tribunale di Taranto ha condannato Fabio Arturo Riva, a giudizio in qualità di erede del padre Emilio ex proprietario dell’Ilva,  contro cui prima della sua scomparsa nel 2014 venne intrapresa la causa , anche nei confronti dell’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso, a risarcire per oltre 12 milioni di euro (8 dei quali solo per danno d’immagine) il Comune di Taranto e le sue partecipate Amiu spa ed Amat spa . Il Comune di Taranto è stato difeso in giudizio dall’ avvocato Massimo Moretti. 

Riva e Capogrosso erano già stati condannati in sede penale rispettivamente a 22 anni e 21 anni di reclusione nel processo “Ambiente svenduto” per il presunto disastro ambientale causato dallo stabilimento siderurgico di Taranto, che è il più grande d’ Europa . Il giudice ha disposto il risarcimento di oltre 3 milioni e 200mila euro per i danni materiali subiti dal patrimonio immobiliare comunale nei quartieri Città Vecchia e Paolo VI e 8 milioni di euro come risarcimento per il danno all’immagine, alla reputazione e all’identità storica e culturale della città, ormai nota in tutt’ Italia per il suo inquinamento ambientale.

La sentenza di primo grado è relativa ai danni che la grande fabbrica avrebbe causato alla città negli anni tra il 1995 e il 2014. Il giudice Viglione nella sua sentenza di circa un centinaio di pagine dopo aver ricostruito la storia giudiziaria dell’acciaieria ed i contenuti delle perizie e degli studi scientifici, scrive che “i racconti, i numeri, le scene di questo disastro ambientale hanno gettato nell’oblio dell’immaginario collettivo ogni legame identitario della città al mare e al proprio passato: la storia gloriosa e millenaria di Taranto, che l’aveva vista ‘capitale della Magna Grecia’ tra le più antiche, floride e potenti colonie fondate nell’Italia meridionale e nella Sicilia orientale, è stata soppiantata dalla sua storia recente, una cronaca nera fatta di immagini terrorizzanti e record percentuali indesiderati“.

Fabio Arturo Riva

Il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci ha commentato la sentenza: “Le parole del giudice Raffaele Viglione sono inequivocabili: Taranto, la sua storia e le sue stesse aspirazioni hanno subito un danno enorme, a causa delle emissioni dello stabilimento siderurgico. Quelle parole sono terribili e confortanti, allo stesso tempo, perché raccontano quel che ci è accaduto, ma confermano anche la bontà degli sforzi che in questi anni abbiamo compiuto per riposizionare l’immagine della città. Ringraziamo l’avvocato Massimo Moretti, che ha difeso l’amministrazione comunale: grazie al suo ottimo lavoro, ci è stato riconosciuto un risarcimento. Quel che la comunità si aspetta, però, è molto di più“.

“Vorremmo essere liberi dalle conseguenze di questa convivenza, – continua la nota del sindaco di Taranto – vorremmo esprimere quell’autodeterminazione che consente ovunque di poter essere anche, e non solo, città industriale, senza il carico di conseguenze e sofferenze che appesantiscono il nostro sviluppo. Crediamo nella giustizia e crediamo anche nella politica. Soprattutto perché questa vicenda ha bisogno di uno sforzo congiunto di tutte le istituzioni coinvolte, a partire dal Governo”.

il senatore Antonio Misiani e Rinaldo Melucci

Nel frattempo è finalmente pronto il decreto del ministero dello Sviluppo economico che prevede gli indennizzi ai proprietari degli immobili esposti all’inquinamento del siderurgico di Taranto. L’ha anticipato e dichiarato il ministro Giancarlo Giorgetti rispondendo nel “question time” al senatore Antonio Misiani, già viceministro all’ Economia e Finanze, ed attuale commissario del PD a Taranto.

“La recente iniziativa del senatore Pd Antonio Misiani, che ha interrogato il ministro Giancarlo Giorgetti sugli indennizzi per gli immobili danneggiati dall’inquinamento nel quartiere Tamburi, è un ottimo esempio di come si possa costruire questo percorso” prosegue Melucci “Se l’iter si sbloccherà, come ha dichiarato il titolare dello Sviluppo economico, e avremo il decreto attuativo che aspettiamo da un anno, da quando l’onorevole Pd Ubaldo Pagano (eletto a Taranto n.d.r.) fece istituire il fondo per gli indennizzi, guadagneremo un altro scampolo di giustizia per quei tarantini che hanno subito più di altri il peso della presenza industriale. È certo che non arretreremo di un passo, dritti verso l’obiettivo di ricostruire la relazione tra industria e città: a Roma chiederemo ancora, e con voce sempre più alta, un accordo di programma che tenga insieme salute, lavoro e sviluppo“. Redazione CdG 1947

Acciaierie d’ Italia (ex Arcelor Mittal) continua a pagare in ritardo le aziende dell’indotto dello stabilimento di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Maggio 2022. 

25 milioni di euro di debiti non pagati dall'ex-Ilva-Arcelor Mittal (ora Acciaierie d' Italia) ai fornitori dell'indotto, nell' imbarazzante silenzio degli esponenti pugliesi della Lega, il partito di cui il ministro Giorgetti è vicesegretario vicario, proprio mentre è in corso la campagna elettorale per le elezioni amministrative del 12 giugno, dove si presentano anche a Taranto e Genova con una lista con il nuovo logo “Prima l’Italia”, la “cosa” che Matteo Salvini ha creato in vista delle amministrative siciliane, e che assomiglia parecchio ad una nuova forza politica.

Presentata un’interrogazione parlamentare al ministro per lo sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, sui ritardi accumulati da Acciaierie d’Italia nell’effettuare i pagamenti dovute alle aziende in appalto dell’indotto , da un gruppo di parlamentari del Pd, prima firmataria Chiara Gribaudo, piemontese, e dalla presidente della Commissione Attività produttive, la toscana Martina Nardi, a cui si sono uniti i deputati pugliesi Francesco Boccia, Marco Lacarra, e Ubaldo Pagano (ex segretario provinciale del Pd a Bari, ma eletto a Taranto) .

“Al momento attuale solo le aziende associate di Confindustria Taranto lamentano crediti non corrisposti per 25 milioni di euro. Il prefetto di Taranto ha annunciato una nuova cabina di regia per monitorare i ritardi nei pagamenti dei fornitori attivandosi per lo smaltimento dei residui passivi per un primo stanziamento di 3,7 milioni di euro. Una risposta parziale. Chiediamo al Ministro di farci pervenire al più presto quali soluzioni intende adottare in merito al monitoraggio e smaltimento degli arretrati a carico del gruppo Acciaierie d’Italia, per quanto di sua competenza, al fine di garantire la sopravvivenza delle migliaia di imprese dell’indotto distribuite su tutto il territorio nazionale” si legge nell’interrogazione parlamentare. 

I parlamentari del Pd, evidenziano un altro passaggio dell’interrogazione anche altri aspetti della situazione complessiva nella quale si trova lo stabilimento siderurgico di Taranto : “Continua a destare preoccupazione lo scenario gestionale e finanziario di Acciaierie d’Italia, ex Ilva, il più grande complesso siderurgico europeo. Da un lato, come già denunciato dalle organizzazioni sindacali, c’è incertezza su alcuni aspetti strategici come il piano manutenzioni, il piano industriale, il piano investimenti, la sicurezza degli impianti, i livelli di produzione e il ricorso agli ammortizzatori sociali. Dall’altro le difficoltà finanziarie che, con il continuo ritardo dei pagamenti, rischiano di mettere in ginocchio imprese e lavoratori dell’indotto”. 

Imbarazzante il silenzio degli esponenti pugliesi della Lega, il partito di cui il ministro Giorgetti è vicesegretario vicario, proprio mentre è in corso la campagna elettorale per le elezioni amministrative a Taranto, dove si presentano con una lista con il nuovo logo “Prima l’Italia”, la “cosa” che Matteo Salvini ha creato in vista delle prossime amministrative del 12 giugno, e che assomiglia parecchio ad una nuova forza politica. O, quantomeno, potrebbe diventarlo. E del resto, se davvero si trattasse “solo di un esperimento su scala locale” – scrive il quotidiano IL FOGLIO – non si spiegherebbe il motivo per cui il segretario del Carroccio ha dato mandato di occuparsene a colui che da sempre, nella Lega, è addetto alla scrittura di statuti, e cioè Roberto Calderoli. Che non è l’unico “colonnello” leghista coinvolto nell’operazione di restyling della Lega nel centrosud. 

Nell’atto costitutivo firmato nello studio di un notaio bergamasco, pochi giorni primi di Pasqua, tra i soci fondatori figurano altre firme di prestigio. Quella di Lorenzo Fontana, vicesegretario federale della Lega. Quella di Giulio Centemero,  tesoriere del partito di via Bellerio. E poi il senatore Stefano Candiani, “varesotto” che in Sicilia è già stato commissario. Tutti a tenere a battesimo un logo che, tra la vecchia guardia, ha creato un malumore che è risalito fin nel cuore del leghismo che fu, a indispettire perfino lui, il “senatur” Umberto Bossi. 

Non è un caso quindi che da Genova sino alla Sicilia, passando per Taranto, le liste leghiste hanno il nuovo “logo” al posto della Lega-Salvini premier. Anche perchè alle ultime regionali la Puglia al voto non si è “legata” alle promesse dei leghisti che con il loro pessimo risultato, boicottando Raffaele Fitto, hanno consegnato la Regione a Michele Emiliano. Redazione CdG 1947

La dichiarazione dell’allora procuratore capo di Taranto. Processo Ilva, “l’acciaieria nasce inquinante” ma sotto accusa politici e impresa. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 29 Aprile 2022. 

Un altro rinvio a giudizio è partito all’indirizzo della società ArcelorMittal e sette suoi dipendenti accusati dalla Procura di Taranto di cooperazione in omicidio colposo e omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro in relazione alla morte di un lavoratore precipitato nel 2019 cadendo da una gru durante un tornado.

All’epoca era ancora vigente il cosiddetto “scudo penale”, ma come dimostrano i tanti fascicoli aperti, a differenza di quanto raccontavano le strumentali cronache grilline dell’epoca, che poi portarono alla sua abolizione, mai ha riguardato le responsabilità sulla sicurezza.

Eppure a pochi metri da lì al porto nell’ultimo anno sono morti due operai mentre lavoravano alla movimentazione di pale eoliche, ma se gli incidenti non riguardano Ilva purtroppo non ne parla nessuno. Eppure una dichiarazione importante arriva oggi dal dottore Franco Sebastio, procuratore capo di Taranto durante il processo Ilva: “Quell’impianto nasce inquinante. Mi spiego meglio: l’inquinamento non era provocato da difetti di manutenzione, di controllo, ma dalla sua struttura operativa: i parchi minerali, i nastri trasportatori, le cokerie, l’impianto di agglomerazione e così via “dovevano” necessariamente inquinare, cioè disperdere sostanze pericolosissime sia per la salute del personale dipendente, sia per i cittadini di Taranto”.

Le ha scritte in un intervento alla genesi del quotidiano che ha fondato e di cui oggi è editore. Le ha scritte ora, che è in pensione dalla Procura, dopo che per quell’impianto “nato inquinante” sono stati processati una famiglia industriale, i più importanti tecnici siderurgici d’Italia, e persino Nichi Vendola. Condannati in primo grado un anno fa, oggi dopo 10 anni e 400 udienze, ancora non riescono a conoscerne le motivazioni e quindi a chiedere appello. Ma se è nato inquinante, per mano dello Stato che lo costruì 60 anni fa, perché deve essere accusato di disastro ambientale il privato che è arrivato dopo per fare ciò che il pubblico non riusciva a fare? Perché devono pagare gli amministratori che hanno cercato di fissare delle regole ambientali, e non quelli che decisero di costruire un siderurgico a ridosso di una zona residenziale già esistente, e poi di ampliare il quartiere? Per quante tempo ancora sui gestori di oggi devono ricadere le accuse di quelli del passato?

Eppure secondo il pm nella requisitoria al processo Ambiente svenduto “gli imputati erano animati da dolo intenzionale diretto all’evento del reato, che è il disastro; poi ci può essere anche un altro fine, quello di produrre acciaio, quello di produrre reddito, ma non influisce affatto sulla esistenza del dolo intenzionale, che era proprio quello del disastro”. Cioè secondo l’accusa i Riva erano arrivati a Taranto proprio con il fine di commettere gravi reati nel territorio tarantino. E invece fu lo Stato a fargli firmare un contratto di acquisto che imponeva di mantenere i livelli produttivi e occupazionali, con penale miliardaria in caso di mancato rispetto della clausola. E nonostante nel processo è stato dimostrato che tutti i limiti e le leggi ambientali dell’epoca fossero rispettate, secondo il pm: “qui il problema non è se ha superato o no i limiti, la Corte deve dire se Ilva continua ad inquinare nonostante gli interventi che dovevano fermare l’inquinamento.

Se non vi sono tecnologie in grado di eliminare allora lo devo bloccare”. Eppure è dal 2013 che la Corte Costituzionale ha spiegato che quelle tecnologie esistono, sono prescritte nel piano Ambientale rilasciato dal ministro Orlando nel 2013, e la loro attuazione garantisce il bilanciamento tra diritto alla salute e al lavoro. Cosa che oggi i tecnici Ispra confermano sta avvenendo secondo cronoprogramma. Ma la stessa Procura che continua a processare società e dipendenti è chiamata a esprimersi sulla richiesta di dissequestro degli impianti in custodia cautelare preventiva dal 2012, mentre la Corte che dovrà decidere ci ha già messo il carico stabilendone la confisca in primo grado.

Senza la revoca di tutti i sequestri e l’assenza di misure restrittive la vendita dello stabilimento ad Acciaierie d’Italia e l’aumento della quota societaria pubblica non potrà verificarsi. Cosa che infatti ha già fatto slittare il closing fissato per maggio 2022. Lo aveva stabilito il presidente Conte quando decise di rinazionalizzarla svincolando l’investimento privato proprio togliendo lo scudo penale necessario in questo Paese per proteggersi da errori altrui e per impedire alla magistratura di decidere la politica industriale del Paese, dimenticando di mettere a bilancio pubblico i 4 miliardi necessari per il piano siderurgico dell’acciaio di stato. Annarita Digiorgio

Ex Ilva fra annunci e indifferenza: così si rischia una “bomba sociale”. Tra le buone notizie le frasi del presidente di Acciaierie d’Italia, Bernabè: «Taranto può diventare il polo dell’industria verde». ERCOLE INCALZA su Il Quotidiano del Sud il 25 aprile 2022.  

Con una sistematicità quasi mensile ho denunciato il triste passaggio dalla farsa, alla tragedia e poi all’indifferenza delle istituzioni (Governo, Regione, Provincia e Comune di Taranto) sul centro siderurgico di Taranto. E sempre con una sistematicità mensile ho avuto modo di riscontrare comunicati a volte rassicuranti, in cui venivano fissate date per la firma del 20° o 21° o 22° accordo tra le parti) e a volte tragici, in cui si precisava che la soglia di 10.000 occupati sarebbe stata raggiunta solo nel 2025 o nel 2026 e che per ora il livello massimo non poteva superare le 4.500 unità.

GLI ANNUNCI DI BERNABÈ

Ma sempre in queste davvero kafkiane altalene si è parlato anche di produzione di acciaio, prima fissando un valore a regime di 11 milioni di tonnellate (non abbiamo mai capito cosa si intendesse per “a regime”), poi sulla base di ulteriori affinamenti abbiamo appreso di quantità oscillanti tre 5 milioni e mezzo e 6 milioni.

Ebbene, nella famiglia delle buone notizie annoveriamo le dichiarazioni del presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, fatte pochi giorni fa in occasione di un incontro con la delegazione di imprenditori tarantini. Bernabè ha precisato: «Acciaierie d’Italia sta investendo in ricerca e sviluppo affinché Taranto diventi il polo della decarbonizzazione e dell’industria verde; la città, però, dovrà cambiare la sua narrazione. Le acciaierie hanno dimostrato una resilienza straordinaria, pur dopo le annose vicende del sequestro degli impianti, del commissariamento e delle alterne circostanze che hanno contrassegnato l’ingresso di Arcelor Mittal. Un percorso lastricato di difficoltà e di discontinuità, di variabili esogene ed endogene che hanno costretto la società a tenere in piedi lo stabilimento in un contesto di restrizioni che hanno colpito inevitabilmente tutto lo stabilimento compreso il sistema delle forniture, tuttavia oggi Taranto è la città dove le best practice di produzione risultano essere più avanzate rispetto a tutte le altre città siderurgiche del mondo. Mi sono impegnato fortemente per lavorare con il sistema bancario e quindi ripristinare condizioni di normalità. In parte siamo riusciti a fare dei passi avanti con l’operazione di 1,5 miliardi siglata con Morgan Stanley, ora stiamo trattando un’altra operazione importante, quindi pensiamo che nel giro di qualche mese la situazione finanziaria si dovrebbe normalizzare. Questo avrà positivi riflessi un po’ su tutto».

Il presidente ha poi ribadito: «Il piano industriale dovrà trovare una sua stabilità di azionariato e i suoi punti di finanziamento, ma che è sicuramente un piano dove le idee sulle cose da fare sono ben precise e che presenta delle tempistiche definite e molto articolate. La prospettiva è quella della decarbonizzazione, che significa far fronte alle trasformazioni epocali in atto, legate particolarmente al riscaldamento globale e all’aumento della CO2 in atmosfera. Oggi abbiamo la necessità di avviare una grande innovazione nei processi, nei prodotti. Una rivoluzione che riguarda ovviamente anche l’acciaio».

SCETTICISMO COMPRENSIBILE

Ho riportato integralmente questo intervento perché queste rassicuranti dichiarazioni sembrerebbero annullare o ridimensionare la “indifferenza” su Taranto, un’indifferenza da me denunciata proprio in uno dei miei ultimi interventi: addirittura siamo anche in presenza di iniziative finanziarie utili per il rilancio dell’impianto e sono rimasto colpito da questa frase del presidente Bernabè: «Il piano industriale dovrà trovare una sua stabilità di azionariato e i suoi punti di finanziamento, ma che è sicuramente un Piano dove le idee sulle cose da fare sono ben precise e che presenta delle tempistiche definite e molto articolate».

Questa frase tipica, direi “classica”, non credo però possa essere accettata da chi è da 5 anni in cassa integrazione, da chi vede, giorno dopo giorno, sempre più ferma la crescita delle attività produttive, da chi, come il mondo dell’indotto, ha capito che si è spenta per sempre un’attività imprenditoriale.

DECISIVO IL FATTORE TEMPO

Presidente Bernabè sono passati cinque anni, Lei è a Taranto da appena un anno e quindi non posso accusarla di nulla, ma forse sarebbe bene evitare di prospettare articolazioni societarie, articolazioni finanziarie e piani che, come Lei stesso ha ribadito più volte, dipendono dal governo, dipendono cioè da chi nel 2017, nel 2018, nel 2019 e nel 2020 ha praticamente deciso di trasferire al “futuro” la soluzione dell’“emergenza Taranto”; più volte l’ho definita non emergenza ma “bomba sociale Taranto”.

Lo so, Lei dirà: stiamo lottando per evitare la chiusura di un centro siderurgico essenziale per il Paese, Lei dirà che da parte dell’attuale management si sta facendo di tutto per riuscirci. Le dico però che il fattore tempo, in questi processi di vera reinvenzione industriale, è determinante e le altalene ricorrenti tra notizie positive e negative amplificano solo quello che da tempo ho denunciato, e cioè la completa “indifferenza”, e l’indifferenza è un male incurabile perché diventa irreversibile.

Riassetto ex Ilva appeso all'ok della Corte d'Assise. Sofia Fraschini il 6 Aprile 2022 su Il Giornale. 

Chiesto il dissequestro dell'area a caldo: è l'ultima chance per portare Invitalia al 60%.

Una sorta di «atto dovuto». La richiesta avanzata dai commissari straordinari di Ilva di dissequestrare l'area a caldo è l'ultima chance che permetterebbe allo Stato di onorare il contratto che ne prevede la salita al 60% di Acciaierie d'Italia attraverso Invitalia. Un'ipotesi che come anticipato da il Giornale sfumerebbe se il dissequestro non avvenisse.

Secondo l'accordo del dicembre 2020, poi integrato nella primavera del 2021, il 31 maggio 2022 Invitalia dovrebbe salire al 60% nella NewCo Acciaierie d'Italia la quale, al termine del contratto di affitto, acquisirà gli asset dell'ex Ilva al momento sotto gestione commissariale. Un netto cambio di passo visto che oggi Invitalia detiene il 38% del capitale di Acciaieria d'Italia (cui corrisponde il 50% dei diritti di voto in assemblea) e la salita nel capitale sarebbe propedeutica al piano di decarbonizzazione annunciato dal governo per salvare Taranto. Il dissequestro penale è, però, una delle condizioni contrattuali poste per il riassetto.

E non è finora avvenuto perché non è stata ancora depositata presso la Corte d'Assise di Taranto la motivazione della sentenza Ambiente Svenduto del maggio 2021 che ha condannato a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell'Ilva e a 3 anni e mezzo di reclusione l'ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola. Sentenza che ha disposto la confisca degli impianti. Nonostante manchino le motivazioni, «i commissari - spiega una fonte hanno deciso di procedere con la richiesta di dissequestro consapevoli del fatto che sugli impianti in questione è stato fatto il 95% delle bonifiche previste e non si tratta più, a livello inquinante, degli stessi impianti oggetto di sequestro». L'istanza di 26 pagine è stata redatta da Angelo Loreto e Filippo Dinacci, legali della gestione commissariale nella consapevolezza che uno spiraglio, seppur minimo, esiste.

Certo i tempi sono strettissimi ed è molto probabile che il contratto che prevede la salita dello Stato nel capitale venga congelato con una proroga.

Ulteriore incertezza per Taranto e l'acciaio italiano già alle prese con una profonda crisi. Intanto, a margine, si è aperto uno spiraglio per i i 44 licenziamenti, su 87 dipendenti, annunciati dall'azienda metalmeccanica Lacaita dell'indotto siderurgico ex Ilva, ora Acciaierie d'Italia, per gravi difficoltà finanziarie. L'azienda appaltatrice, che ha già avviato la procedura di licenziamento, ha deciso di «congelare» i licenziamenti per verificare possibilità alternative o l'utilizzo degli ammortizzatori sociali.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 4 dicembre 2022.

Compagni di strada, compagni di niente. Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, i «gemelli diversi», la «strana coppia», i «Gianni e Pinotto» della sinistra italiana ne hanno combinato un'altra delle loro. Non contenti di come hanno gestito il caso Soumahoro (dalla vischiosa ipocrisia del «non ne sapevamo nulla» alla mancanza di coraggio nell'assumersi una qualsiasi responsabilità) adesso si trovano in una strana situazione conflittuale. 

La Corte d'Assise di Taranto, a conclusione del processo di primo grado chiamato «Ambiente Svenduto» sul disastro ambientale causato dall'ex Ilva, ha condannato diverse persone, tra cui Nichi Vendola: tre anni e mezzo di reclusione all'ex presidente della Regione Puglia. Bonelli ha sermoneggiato: «A Taranto, per decenni si è inquinato senza che nessuna istituzione locale facesse qualcosa: hanno chiuso gli occhi e legato le mani per non firmare atti a tutela della salute. La magistratura è dovuta intervenire per fare quello che la politica avrebbe dovuto fare».

Peccato che nella giunta Vendola, in qualità di assessore, ci fosse proprio Fratoianni (prescritto il reato, deve solo pagare le spese processuali). Pensando anche alla lungimiranza del Pd nell'allearsi con il «duo delle meraviglie», la parola «compagni» è solo un film in bianco e nero visto alla tv.

Quel "sentimento di reale affezione" dietro le mosse di Vendola sull'Ilva. I giudici inchiodano l'ex governatore sullo stretto rapporto con l'uomo dei Riva. Il paradosso: Fratoianni pagherà l'alleato Bonelli. Felice Manti il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Condanna d'acciaio. L'ex governatore della Puglia Nichi Vendola esce con le ossa rotte dalle motivazioni della sentenza che a fine maggio 2021 lo ha visto colpevole di concorso in concussione aggravata e condannato a 3 anni e 6 mesi nel processo Ambiente svenduto. Di acciaio c'era anche un «sentimento di reale affezione» nei confronti di Girolamo Archinà, referente delle relazioni istituzionali e politiche dell'azienda, condannato a 21 anni e 6 mesi, quasi la stessa pena (22 anni) di Fabio Riva, ex amministratore e proprietario dell'Ilva. Secondo i giudici nei confronti del manager Ilva «c'era un atteggiamento benevolo di Vendola», che per i giudici avrebbe esercitato pressioni indebite su Giorgio Assennato (condannato a 2 anni per favoreggiamento) perché da dg di Arpa Puglia, l'Agenzia dell'ambiente della Regione, chiudesse un occhio sulla disastrosa situazione ambientale dell'acciaieria. «Il tono complessivo del dialogo tra Vendola e Archinà - scrivono i giudici - denota una confidenzialità ed una sintonia davvero singolari». È Vendola che chiama in prima persona il responsabile delle relazioni esterne di Ilva, alle 22.01 di sera, in un orario «inconsueto con un'attività di natura istituzionale per finire agli argomenti di conversazione, di carattere prevalentemente personale».

Secondo i giudici della Corte d'Assise Vendola, Riva e gli altri condannati avrebbero «messo in pericolo concreto la vita e la integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento e quella dei cittadini di Taranto», dove si registra un picco di mortalità per tumori e la presenza di diossina persino nel latte materno. Una violenza al territorio frutto anche di una scarsa attenzione nei controlli di tutte le autorità, a partire dalla Regione guidata dall'ex leader comunista, che oggi si gode una pensione dorata con il compagno e un figlio, nato in Canada da madre surrogata. L'amicizia con Archinà sarebbe confermata da quanto dicono sia Fabio Riva sia l'avvocato Francesco Perli, uno dei legali dell'azienda, condannato a 5 anni e 6 mesi. Nella sentenza la Corte cita anche un incontro in Regione del 15 luglio 2010 nel quale l'ex dg Arpa Assennato era stato escluso.

Oggi che la fabbrica è in bolletta e rischia la nazionalizzazione, la sentenza ha un sapore amarissimo. Proprio ieri il ministro delle Imprese Adolfo Urso si è detto oltremodo pessimista: «Saliamo su un treno in corsa che sta deragliando», afferma. Come è noto la società ArcelorMittal, che ha rilevato l'azienda dai Riva, ha stracciato gli accordi presi, tagliando del 50% la produzione (tre milioni di tonnellate anziché sei). C'è anche un miliardo di euro da mettere sul tavolo, ma serve un accordo sulla governance. La sentenza demolisce anche quel che resta della credibilità dei leader dei Verdi-Si Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni. Quest'ultimo è stato condannato per favoreggiamento (pena prescritta) ma deve risarcire le spese legali a Bonelli, suo compagno di scranno. Altro che patto d'acciaio.

Estratto dell'articolo di Francesco Casula per "il Fatto Quotidiano" il 30 novembre 2022.

L’ex presidente della Puglia, Nichi Vendola, aveva una "perfetta conoscenza della situazione disastrosa relativa allo stabilimento" e "in maniera del tutto consapevole" ha favorito i Riva nella gestione dell’ex Ilva di Taranto. Parole dure quelle scritte dalla Corte d’assise di Taranto nei confronti dell’ex leader di Sel condannato in primo grado a 3 anni e 6 mesi per concussione con l’accusa di aver fatto pressioni sull’ex direttore generale di Arpa Puglia Giorgio Assennato affinché modificasse la "linea dura" nei confronti della fabbrica.

Nelle motivazioni della sentenza, i giudici hanno spiegato che Vendola, nell’estate 2010, mentre la città è in piena emergenza benzo(a)pirene e gli ambientalisti sono sul piede di guerra, mette a punto insieme ai vertici della fabbrica e parte del suo establishment regionale "una strategia finalizzata a far apparire che la presentazione all’Ilva di un progetto scritto con i relativi elaborati fosse un’iniziativa autonoma della Regione, mentre in realtà si trattava di un’operazione ancora una volta ordita da Ilva, che avrebbe artatamente manifestato la propria disponibilità a valutare la proposta in modo da apparire sotto una luce positiva anche nei confronti della pubblica opinione". Insomma, dopo l’autorizzazione rilasciata dal governo Berlusconi nel 2011 che, secondo l’accusa, è stata scritta proprio dal gruppo, dalla sentenza "Ambiente svenduto" emerge che "anche i progetti della Regione sono scritti da Ilva". [...]

Nella sentenza, infine, i giudici hanno definito "favoreggiatore" il parlamentare di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, all’epoca assessore di Vendola: il reato è prescritto, ma dovrà pagare le spese processuali ad alcune parti civili tra le quali i Verdi di Angelo Bonelli con cui oggi è alleato.

Valeria D' Autilia per "La Stampa" il 30 novembre 2022.

«Una gestione disastrosa che ha arrecato gravissimo pericolo per l'incolumità pubblica». A un anno e mezzo dalla sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto sull'Ilva di Taranto, arrivano le motivazioni. Tra dirigenti dell'acciaieria, politici e manager- a maggio del 2021- inflitte 26 condanne per quasi tre secoli di carcere.

E poi la confisca- con facoltà d'uso- dell'area a caldo. Nelle circa 3.800 pagine, i giudici della Corte d'Assise ripercorrono gli anni dal 1995 al 2013 in cui la fabbrica era nelle mani dei Riva e parlano di «modalità gestionali illegali, anche omettendo di adeguare lo stabilimento ai sistemi minimi di ambientalizzazione e sicurezza». Un massiccio sversamento di sostanze nocive per la salute e l'accusa di aver messo a rischio «la vita dei lavoratori, degli abitanti del quartiere Tamburi e dei cittadini di Taranto». Adesso gli imputati hanno 45 giorni di tempo per presentare appello.

Per i fratelli Fabio e Nicola Riva erano stati inflitti 22 e 20 anni di reclusione, 21 anni e 6 mesi al responsabile relazioni esterne dell'epoca, Girolamo Archinà, e 21 all'allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso. Condannato anche l'ex governatore pugliese Nichi Vendola. In generale, un presunto intreccio tra affari e politica, «connivenze» e la «capacità di influenzare le istituzioni, facendo leva sul potere economico». Per i magistrati, la pericolosità delle emissioni era nota e, nonostante gli interventi di ambientalizzazione fossero urgenti, sono stati rimandati, facendo prevalere «le ragioni della produzione» rispetto ad altri valori costituzionalmente garantiti. Nelle carte, anche riferimenti a «omicidi colposi, mortalità per tumori, diossina nel latte materno».

Nata negli anni '60 come pubblica, l'acciaieria fu poi venduta alla famiglia Riva. Con il deflagrare dell'inchiesta, il siderurgico fu commissariato dal governo e, nel 2018, affidato alla multinazionale ArcerlorMittal. Dal 2021, con l'ingresso dello Stato attraverso Invitalia, l'ex Ilva è diventata Acciaierie d'Italia. Nel 2024 si prevede il passaggio in maggioranza del socio pubblico, ma i sindacati chiedono di accelerare, rinegoziando l'accordo con Mittal.

«Siamo saliti su un treno che sta deragliando» commenta il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, convinto della necessità di «riequilibrare la governance». Un'operazione propedeutica ai 2 miliardi totali previsti nei decreti Aiuti bis e ter. Il primo come iniezione di risorse nella società, l'altro per costruire l'impianto per la produzione del preridotto di ferro a minore impatto ambientale. «Ora lo Stato non c'è» attacca il ministro che parla di giorni decisivi e di un'interlocuzione con l'azienda per senso di responsabilità. Sullo sfondo, una fabbrica che, «contravvenendo agli accordi, produce 3 milioni di tonnellate» anziché il doppio, «un impianto che si sta spegnendo» e «cancelli chiusi all'indotto».

AMBIENTE SVENDUTO. Ex Ilva, dopo 18 mesi depositate motivazioni sentenza: «Gestione disastrosa: ha arrecato un grave pericolo per la salute pubblica». È quanto si legge nelle 3700 pagine che compongono la motivazione della sentenza con la quale la Corte d’assise di Taranto condannò il 31 maggio 2021 la famiglia di industriali lombardi, la dirigente dell’acciaieria tarantina e poi parte della politica locale e regionale. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Novembre 2022

“La gestione dello stabilimento ILVA di Taranto da parte degli imputati è stata una gestione disastrosa che ha arrecato un gravissimo pericolo per la incolumità - salute pubblica”. È quanto si legge nelle 3700 pagine che compongono la motivazione della sentenza con la quale la Corte d’assise di Taranto condannò il 31 maggio 2021 la famiglia di industriali lombardi, la dirigente dell’acciaieria tarantina e poi parte della politica locale e regionale: 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola, al responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la “longa manus” dei Riva verso istituzioni e politica, una a 21 anni e 6 mesi e 21 all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.

Condannato anche l’ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, ha ricevuto una pena di 3 anni e 6 mesi, mentre per l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni: era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica. Stessa pena per per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti ha ricevuto una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva annunciato durante il dibattimento di voler rinunciare alla prescrizione e per il quale la procura aveva chiesto 1 anno. Prescritto fu invece dichiarato il reato di favoreggiamento commesso da Nicola Fratoianni, parlamentare di Sinistra Italiana e all’epoca dei fatti assessore regionale nella giunta Vendola: la corte tuttavia lo ha condannato al pagamento delle spese legali nei confronti dei Verdi, partito di Angelo Bonelli con cui oggi ha stretto un’alleanza. Per la corte la gestione dello stabilimento tarantino “che si è concretizzata sia in condotte commissive, operazioni concrete nel ciclo produttivo, sia in condotte omissive, nella massiva attività di sversamento nell'aria - ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale a vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbunc circostanti lo stesso; in particolarc, IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive, determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica.

Secondo la Corte d’assise presieduta dal giudice Stefania D’Errico e a latere il giudice estensore Fulvia Misserini, la famiglia Riva e i loro sodali, che hanno gestito l’ex Ilva di Taranto dal 1995 al 2012 “hanno posto in essere modalità gestionali illegali, anche omettendo di adeguare lo stabilimento siderurgico ai sistemi minimi di ambientalizzazione e sicurezza per ovviare alle problematiche di cui avevano piena consapevolezza sin dal 1995”.

Secondo quanto si legge nei 15 capitoli che compongono il documento, i Riva già dal loro sbarco a Taranto conoscevano la realtà della fabbrica e “hanno messo così in pericolo - concreto – la vita e la integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento, la vita e l'integrità fisica degli abitanti del quartiere Tamburi, la vita e la integrità fisica dei cittadini di Taranto.

Danni alla vita e alla integrità fisica che, purtroppo, in molti casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi, alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno. Modalità gestionali che sono andate molto oltre quelle meramente industriali, coinvolgendo a vari livelli tutte le autorità, locali e non, investite di poteri autorizzatori e/o di controllo nei confronti dello stabilimento stesso”. Una motivazione che ha sostanzialmente accolto in ogni punto la tesi del pool di magistrati della procura composto all’epoca dal procuratore Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Raffaele Graziano e Remo Epifani.

Nel documento, inoltre, ha spiegato che la pericolosità delle emissioni dell’Ilva era un “un dato notorio”, riscontrabile dai provvedimenti amministrativi e protocolli di intesa tra i Riva e le istituzioni locali e regionali “che attestano in maniera inequivocabile come gli interventi di ambientalizzazione degli impianti, pur avvertiti come imprescindibili e urgenti, siano stati a lungo procrastinati, con la costante e ingiustificata prevalenza delle ragioni della produzione rispetto a altri valori pur costituzionalmente fondanti del nostro ordinamento”. Uno spostamento avanti nel tempo ottenuto grazie a “connivenze che a vari livelli sono emerse e solo in parte risultano giudizialmente accertate”.

Taranto, in 7 anni 174 morti in più e 4mila tonnellate di polveri. Ecco cosa c’è nella perizia che dispose il gip Patrizia Todisco per motivare il decreto di sequestro degli impianti dell’area a caldo. Mimmo Mazza su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Aprile 2022. Il processo «Ambiente svenduto» svoltosi a Taranto ha avuto in dote un importante e fondamentale «anticipo», l’incidente probatorio chiesto dalla Procura nel giugno del 2010 e consolidatosi nelle due perizie redatte dai consulenti nominati dal giudice per l’udienza preliminare Patrizia Todisco, il cui esito fu utilizzato dallo stesso magistrato per motivare il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca del quale ora si chiede la revoca.

In particolare, il professor Annibale Biggeri, docente ordinario all'università di Firenze e direttore del centro per lo studio e la prevenzione oncologica, la professoressa Maria Triassi, direttore di struttura complessa dell’area funzionale di igiene e sicurezza degli ambienti di lavoro ed epidemiologia applicata dell’azienda ospedaliera universitaria «Federico II» di Napoli, e il dottor Francesco Forastiere, direttore del dipartimento di Epidemiologia, Asl Roma, si sono occupati degli effetti epidemiologici delle emissioni del siderurgico, lavorando alla presenza dei legali e dei consulenti delle parti.

Le risposte fornite all'autorità giudiziaria non furono secche ma gli esperti tramite tabelle ed elaborazioni riuscirono comunque a stabilire il nesso tra le emissioni dell’Ilva di Taranto e le malattie, in alcuni casi mortali, contratte sia dai dipendenti del siderurgico che da chi risiede nelle zone vicine, a partire da quanti abitano nel quartiere Tamburi, al Borgo, in città vecchia e a Paolo VI.

Nelle 282 pagine della perizia è emersa una realtà drammatica. Secondo gli esperti, infatti, nei 7 anni presi in considerazione, sarebbe 174 i decessi avvenuti a Taranto e in particolare nei quartieri Tamburi e Borgo, nei quali è stato registrato il quadruplo di mortalità e il triplo di ricoveri per malattie cardiache rispetto all’intera città. I consulenti del giudice hanno poi studiato le condizioni di salute dei lavoratori del centro siderurgico che hanno prestato servizio negli anni 70-90 con la qualifica di operaio. «È emerso - si legge nella perizia - un eccesso di mortalità per patologia tumorale (+11%), in particolare per tumore dello stomaco (+107), della pleura (+71%), della prostata (+50) e della vescica (+69%). Tra le malattie non tumorali sono risultate in eccesso le malattie neurologiche (+64%) e le malattie cardiache (+14%). I lavoratori con la qualifica di impiegato hanno presentato eccessi di mortalità per tumore della pleura (+135%) e dell'encefalo (+111%). Il quadro di compromissione dello stato di salute degli operai della industria siderurgica è confermato dall'analisi dei ricoveri ospedalieri con eccessi di ricoveri per cause tumorali, cardiovascolari e respiratorie».

Il chimico industriale Mauro Sanna, il funzionario dell’Arpa Lazio Rino Felici, il chimico Roberto Monguzzi e l’ingegnere chimico Nazzareno Santilli si sono, invece, occupati, sempre su mandato del gip Patrizia Todisco, del versante chimico delle emissioni dell’acciaieria.

Nette le conclusioni alle quali sono giunti i 4 periti, almeno stando a leggere le risposte date ai 6 quesiti posti dalla dottoressa Todisco. Secondo gli esperti, infatti, dallo dallo stabilimento Ilva si diffondono gas, vapori, sostanze aeriformi e sostanze solide (polveri ecc.), contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione del vicino centro abitato di Taranto e dei comuni vicini; sono riconducibili alla stessa Ilva i livelli di diossina e di Pcb rinvenuti negli animali abbattuti, appartenenti agli 8 allevatori parti civili nel procedimento, così come sempre addebitabili all’Ilva sono i livelli di diossina e Pcb accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto; all’interno dello stabilimento Ilva non sono osservate tutte le misure idonee ad evitare la dispersione incontrollata di fumi e polveri nocive alla salute dei lavoratori e di terzi. Le rilevazioni dell’ing. Santilli e dei dottori Sanna, Monguzzi e Felici soprattutto riguardo le emissioni di gas e polveri sono preoccupanti. Nel 2010, leggendo una tabella acclusa alla perizia, sarebbero state misurate emissioni di ben 4.159 tonnellate di polveri, di 11.056 tonnellate di diossido di azoto e 11.343 tonnellate di anidride solforosa. Numeri importanti ma di gran lunga minori rispetto alla stima effettuata, sempre dai periti, riguardo alla capacità produttiva dello stabilimento Ilva: 13.246 tonnellate di polveri, 34.401 tonnellate di diossido di azoto, 49.327 tonnellate di anidride solforosa. Un cenno particolare viene riservato al fenomeno dello slopping - le nuvole rosse che periodicamente fuoriescono dall’Ilva - che contribuisce a far uscire dall’acciaieria una rilevante quantità di polveri, documentata sia dai periti che dagli organi di controllo, a partire dai carabinieri del Noe di Lecce che nel giugno del 2011, al termine di un monitoraggio, sollecitarono il sequestro degli impianti, un sollecito tenuto in nessun conto visto che il 4 agosto dello stesso anno l’Ilva ottenne l’Aia dal Governo Berlusconi.

Ex Ilva, chiesto il dissequestro del siderurgico: «Non inquina più». Gli impianti sono sotto sequestro dal 26 luglio 2012 in base a un’ordinanza dell’allora giudice per le indagini preliminari di Taranto, Todisco. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Aprile 2022.

A quasi 10 anni dal sequestro, lo stabilimento siderurgico ex Ilva non è più fonte di malattia e morte per chi ci lavora e per chi abita nelle vicinanze. È quanto sostengono gli avvocati Angelo Loreto e Filippo Dinacci, legali dell’amministrazione straordinaria proprietaria del complesso aziendale gestito dall’1 novembre del 2018 in fitto finalizzato all’acquisto da ArcelorMittal prima e da Acciaierie d’Italia poi, in una istanza finita all’attenzione della corte d’assise di Taranto, organo giudicante competente non avendo ancora depositato le motivazioni della sentenza del processo «Ambiente svenduto», emessa il 31 maggio scorso, procedimento nell’ambito del quale fu disposto il sequestro. 

Ilva in amministrazione straordinaria ha presentato alla Corte d’Assise di Taranto un’istanza di dissequestro per gli impianti dell’area a caldo del siderurgico. Gli impianti sono sotto sequestro dal 26 luglio 2012 in base a un’ordinanza dell’allora giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco, durante l’indagine ‘Ambiente svenduto’, ma all’azienda è da tempo concessa la facoltà di usarli. Per questi impianti i pubblici ministeri, nella requisitoria del processo nato da quell’inchiesta, hanno chiesto la confisca, richiesta poi accolta dalla Corte d’Assise con la sentenza dello scorso maggio.

Secondo i commissari straordinari di Ilva in As è cambiato lo scenario delle emissioni rispetto a dieci anni fa grazie ai lavori ambientali e ci sono i presupposti per revocare i sequestri. La Corte d’Assise di Taranto che ha ricevuto l’istanza, è la stessa che l’1 giugno 2021 ha emesso la sentenza di primo grado del processo «Ambiente Svenduto», infliggendo 26 condanne (tra dirigenti della fabbrica, manager e politici) per 270 anni di carcere e disposto sia la confisca degli impianti dell’area a caldo che la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici per una somma di 2,1 miliardi. Tra i principali imputati, spicca la condanna rispettivamente a 22 anni e 20 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva. Le motivazioni della sentenza non sono ancora state depositate.

I legali dei commissari di Ilva in Amministrazione straordinaria hanno presentato alla Corte d’Assise di Taranto un’istanza di dissequestro degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, ora gestito da Acciaierie d’Italia. Sono gli impianti sotto sequestro dal 26 luglio 2012 in base a un’ordinanza che firmata dal gip Todisco nell’ambito dell’inchiesta per associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari e alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro.

All’azienda fu poi concessa la facoltà d’uso. Secondo i commissari straordinari di Ilva in As è cambiato lo scenario delle emissioni rispetto a dieci anni fa grazie ai lavori ambientali e ci sono i presupposti per revocare i sequestri.

La Corte d’Assise di Taranto che ha ricevuto l’istanza è la stessa che il 31 maggio 2021 ha emesso la sentenza di primo grado del processo «Ambiente Svenduto» infliggendo 26 condanne (tra dirigenti della fabbrica, manager e politici) per 270 anni di carcere e disponendo sia la confisca degli impianti dell’area a caldo che la confisca per equivalente dell’illecito profitto nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire e Riva forni elettrici per una somma di 2,1 miliardi. Tra i principali imputati, spicca la condanna rispettivamente a 22 anni e 20 anni di reclusione per Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’Ilva. Le motivazioni della sentenza non sono ancora state depositate. 

IL SIDERURGICO. Sotto i camini dell’ex Ilva, dieci anni dopo i sigilli occorre un po’ di verità. Mimmo Mazza su la Gazzetta del Mezzogiorno il 6 aprile 2022.  

Si capirà, finalmente, se l’acciaieria più grande d’Europa, a quasi dieci anni dal suo sequestro, è ancora o meno fonte di malattia e morte per operai e residenti.

Qualunque sarà l’esito – accoglimento, accoglimento con prescrizioni, rigetto – l’istanza di dissequestro dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico ex Ilva di Taranto avrà un effetto chiarificatore per chi in quella fabbrica ci lavora e per chi invece abita nelle vicinanze.

Si capirà, finalmente, se l’acciaieria più grande d’Europa, a quasi dieci anni dal suo sequestro, è ancora o meno fonte di malattia e morte per operai e residenti.

Nel motivare il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca, eseguito dai carabinieri il 26 luglio del 2012, il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco scrisse: «La grave emergenza ambientale e sanitaria, imputabile alle emissioni inquinanti, convogliate, diffuse e fuggitive dell’Ilva, impone l'immediata adozione – a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana – del sequestro preventivo dei predetti impianti funzionale alla interruzione delle attività inquinanti. Ciò, affinché – considerate le inequivocabili e cogenti indicazioni affidate alla valutazione dell’Autorità Giudiziaria dalle perizie espletate e dagli ulteriori accertamenti svolti nel corso delle indagini – non un altro bambino, non un altro abitante di questa sfortunata città, non un altro lavoratore dell’Ilva, abbia ancora ad ammalarsi o a morire o ad essere comunque esposto a tali pericoli, a causa delle emissioni tossiche del siderurgico».

Dieci anni dopo, cosa è cambiato? E quanto è cambiato?

I commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria hanno depositato la richiesta di dissequestro forti del quasi completamento del piano ambientale approvato con legge dello Stato ma anche ben consci della necessità di rispondere a un preciso input del Governo, stretto tra il bisogno di rispondere ad un obbligo contrattuale – l’assenza di misure cautelari sul complesso aziendale ex Ilva è una delle condizioni necessarie per trasformare il fitto degli impianti in vendita – e la paura di dover investire ulteriori risorse in Acciaierie d’Italia, la società formata da ArcelorMittal, la multinazionale dell’acciaio che gestisce l’ex Ilva dall’1 novembre 2018, e la statale Invitalia.

A maggio Invitalia dovrebbe salire al 60% del capitale sociale di Acciaierie d’Italia ma a quanto pare il Governo ora sarebbe intenzionato a restare all'attuale 38% ma comunque tentando di sminare il campo da possibili contestazioni contrattuali, tra le quali proprio la persistenza del sequestro.

Certo, l’interlocutore dei legali dei commissari straordinari dell’Ilva non è dei più teneri. La corte d’assise di Taranto il 31 maggio dell’anno scorso alla fine di un processo lungo e tortuoso, distribuì ben 29 condanne (23 persone fisiche e 3 persone giuridiche), disponendo la confisca degli impianti dei quali ora viene chiesto il dissequestro.

Periodicamente negli ultimi dieci anni si sono levate voci che denunciavano nuove emissioni inquinanti da una fabbrica che da quel famoso 26 luglio del 2012 non ha mai smesso un giorno di produrre acciaio.

Voci non raccolte da alcuno, né in un senso né nell’altro. Nessuno ha mai chiesto la revoca della facoltà d’uso che fu concessa dal Governo Monti, prima, e poi confermata da tutti gli altri Governi che si sono succeduti alla guida del paese, né tantomeno ha chiesto il dissequestro, nemmeno parziale, relativo magari al singolo impianto sottoposto a rifacimento o ambientalizzazione che dir si voglia.

I parchi minerali sono stati coperti, la copertura è stata a sua volta spolverata di rosso dal minerale di ferro: la decisione della corte d’assise sulla istanza dei commissari straordinari ci aiuterà a capire se ora va tutto bene, se ancora non basta, se si sono persi tempi e soldi per un’opera incapace di assicurare alle abitazioni del vicino rione Tamburi una adeguata protezione contro le polveri del parco minerale della fabbrica.

Può sembrare poco ma non lo è affatto: Taranto e i tarantini hanno bisogno di capire se 10 anni di sequestro sono trascorsi inutilmente o se invece i lavori fatti sono davvero in grado di garantire una co-esistenza, senza compromessi al ribasso, tra l’acciaieria e una città ormai protesa verso un futuro altro rispetto a quello garantito da fumi e acciaio.

L’ ILVA in amministrazione straordinaria chiede il dissequestro alla Corte d’Assise di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Aprile 2022.  

Quello che sa di incredibile è leggere sui soliti giornali locali "amici degli amici" virgolettati estratti da documenti riservati, che sicuramente non fanno parte di comunicati stampa. Ma questo e molto altro di vergognoso succede a Taranto quando un giornalista presenta ad un avvocato una donna che poi diventa la fidanzata del legale. E le notizie "riservate" diventano giornalistiche.....

Nei giorni scorsi i commissari dalla società siderurgica in amministrazione straordinaria ha presentato alla Corte d’Assise di Taranto istanza di dissequestro per gli impianti dell’area a caldo del siderurgico, attualmente in gestione alla società Acciaierie d’Italia che fra qualche mese passerà sotto il controllo pubblico guidata dall’attuale presidente Franco Bernabè, destinato a diventare il vero “capo azienda” assumendo i poteri attualmente delegati a Lucia Morselli in rappresentanza dell’ azionista Arcelor Mittal.

Gli impianti dello stabilimento siderurgico di Taranto dal 26 luglio 2012 sono sequestrati su ordinanza dell’ex gip Patrizia Todisco in relazione al processo Ambiente Svenduto, nel frattempo celebratosi e concluso, ma è concessa da tempo la facoltà di utilizzo. I pubblici ministeri, nella loro requisitoria durante il processo, avevano chiesto ed ottenuto la confisca stabilita nella sentenza di fine maggio scorso. Confisca che però potrebbe scattare soltanto dopo una sentenza definitiva della Corte di Cassazione. Il paradosso è che anche in caso di confisca gli impianti passerebbero sotto il controllo dello Stato, che è attraverso Invitalia (società controllata dal Mes)a sua volta è l’azionista di maggioranza della società Acciaierie d’ Italia. 

I commissari di Ilva in amministrazione straordinaria hanno presentato un’ istanza di dissequestro esponendo come la gran parte delle prescrizioni ambientali dell’Aia (Dpcm di settembre 2017) sia stata ormai rispettata, e si concluderà il 23 agosto 2023 termine previsto per l’attuazione delle prescrizioni. Anche la nuova società Acciaierie d’Italia, nella comunicazione con cui lo scorso 1 marzo ha reso noto alle organizzazioni sindacali l’avvio della cassa integrazione straordinaria per 3.000 dipendenti (di cui 2.500 a Taranto) per un anno, ha dichiarato in relazione agli investimenti ambientali sinora effettuati, che le attività sinora realizzate rappresentano l’88% delle prescrizioni previste dal piano ambientale complessivo. 

Acciaierie d’Italia inserisce tra gli interventi già realizzati il primo filtro Meros (camino E312) per i fumi dell’impianto di agglomerazione , l’adeguamento delle batterie coke 7, 8, 9 e 12, la copertura dei parchi delle materie prime e dei parchi agglomerato sud e calcare. L’azienda elneca fra le opere da completare gli ulteriori filtri Meros per l’agglomerazione, l’impianto di trattamento delle acque di processo delle cokerie necessario per l’ abbattimento del selenio, la raccolta ed il trattamento delle acque piovane che impattano sull’area a caldo.

I commissari di Ilva in A.S. oltre a considerare ed evidenziare l’88 per cento delle prescrizioni rispettate, hanno presentato l’istanza di dissequestro anche in vista della scadenza di maggio, quando sulla base dell’accordo raggiunto il 10 dicembre 2020 tra Arcelor Mittal Europe ed Invitalia (società che rappresenta lo Stato in Acciaierie d’Italia), è quello in cui l’ azionista pubblica dovrebbe passare dal 38 al 60 per cento del capitale e acquisire la maggioranza effettuando di un versamento di ulteriori 680 milioni in conto quota capitale sociale .

Un closing legato all’acquisizione da ILVA in a.s. dei rami di azienda attualmente utilizzati dal gestore in fitto a fronte di un canone di locazione, che di fatto è subordinato ad alcune condizioni sospensive, specificate ed indicate a dicembre 2020, e cioè la modifica del piano ambientale esistente per rispettare il nuovo piano industriale nei confronti di AM InvestCo (soggetto italiano di Arcelor Mittal Europe) ; la revoca di tutti i sequestri penali riguardanti lo stabilimento di Taranto; l’assenza di misure restrittive, nei procedimento penali nei quali è coinvolta l’ Ilva nella posizione di imputata .

Attualmente nessuna di queste condizioni si è verificata, e la circostanza che il dissequestro degli impianti non possa arrivare come auspicato entro la fine del prossimo mese di maggio, viene ritenuto già da tempo improbabile dal Governo, sindacati e imprese dell’indotto. Inoltre non sono ancora state depositate le motivazioni della sentenza di un anno fa, con la quale la Corte d’Assise aveva condannato numerosi imputati di “Ambiente Svenduto”, disponendo la confisca (non definitiva) degli impianti. 

L’iniziativa dei commissari di ILVA in A.S. di depositare l’istanza di dissequestro potrebbe servire a capire le intenzioni della Magistratura, che da troppo tempo condiziona l’operatività e produttività dello stabilimento. Acciaierie d’Italia avrebbe già manifestato la propria disponibilità ad un nuovo accordo per un nuovo contratto che dovrebbe essere pronto a maggio, e sarebbe in fase avanza di stesura da parte dei legali incaricati dal Governo, il quale come ben noto è attualmente occupato con altre emergenze ben più importanti per il Paese. Un contratto che confermerebbe l’alleanza societaria pubblico-privato, ed il piano industriale da 8 milioni di tonnellate previsto sino al prossimo 2025.

Quello che sa di incredibile è leggere sui soliti giornali locali “amici degli amici” virgolettati estratti da documenti giudiziari riservati, che sicuramente non fanno parte di comunicati stampa. Ma questo e molto altro di vergognoso succede a Taranto quando un giornalista presenta ad un avvocato un’ amichetta che poi diventa la fidanzata del legale. E come per incanto, molte notizie “riservate” diventano giornalistiche….!

Redazione CdG 1947

IL SIDERURGICO. Ex Ilva, nuove sentenze Corte di Strasburgo: «Ancora pericolo per la salute». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 maggio 2022.  

Quattro nuove condanne nei confronti dello Stato italiano a causa delle emissioni dell’Ilva responsabili di mettere a rischio la salute dei cittadini. Le condanne riguardano i ricorsi presentati tra il 2016 e il 2019 da alcuni dipendenti dell’impianto.

La Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha pronunciato 4 nuove condanne nei confronti dello Stato italiano a causa delle emissioni dell’Ilva responsabili di mettere a rischio la salute dei cittadini. Le condanne riguardano i ricorsi presentati tra il 2016 e il 2019 da alcuni dipendenti dell’impianto siderurgico oltre che da oltre 200 abitanti di Taranto e di alcuni comuni vicini.

Nelle sentenze emesse oggi la Cedu sottolinea che l’Italia è stata già condannata per lo stesso motivo nel gennaio 2019 e che da allora questo caso è all’esame davanti al comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che deve verificare se il Paese ha messo in atto tutte le misure necessarie per salvaguardare la salute degli abitanti. Le Cedu evidenzia che l’anno scorso il comitato dei ministri ha stabilito che «le autorità italiane non avevano fornito informazioni precise sulla messa in atto effettiva del piano ambientale, un elemento essenziale per assicurare che l’attività dell’acciaieria non continui a rappresentare un rischio per la salute». Dalla documentazione del comitato dei ministri risulta che il governo italiano ha presentato lo scorso 5 aprile nuovi elementi sull'attuazione del piano ambientale in vista di un nuovo esame del caso il prossimo giugno.

Il governo italiano ha trasmesso al comitato dei ministri del Consiglio d’Europa un nuovo documento contenente informazioni sui progressi fatti per garantire che le attività dell’ex Ilva non mettano più a rischio la salute degli abitanti di Taranto e dei comuni vicini. Secondo l'agenda del comitato dei ministri il caso, dopo la nuova condanna arrivata oggi dalla Corte dei diritti umani, sarà esaminato il prossimo giugno. Il documento inviato da Roma contiene un resoconto sugli interventi previsti per il 2021 dal piano ambientale, valutati durante l’ultima riunione dell’Osservatorio Ilva, tenutasi lo scorso 14 dicembre. Il governo afferma che dalla documentazione fornita dalle varie entità coinvolte nell’attuazione del piano ambientale «emerge che la maggior parte delle misure previste sono state attuate». Il governo ne riporta in particolare sei, tra cui l'istallazione di un filtro a maniche per il camino E312 nel reparto agglomerazione, la modernizzazione di 4 batterie di forni per la cokefazione e i lavori di l’ambientalizzazione di tre altoforni.

L'eurodeputata D'Amato: «E' una sentenza-schiaffo»

«La sentenza di oggi della Corte europea dei diritti dell’uomo è un nuovo schiaffo al governo, ma anche alla Commissione Ue. La Cedu certifica che l’ex Ilva continua 'a rappresentare un rischio per la salutè dei suoi operai e dei cittadini di Taranto, ricordando che l’anno scorso le autorità italiane non avevano fornito informazioni precise sulla messa in atto effettiva del piano ambientale». Lo afferma l'eurodeputata tarantina dei Greens, Rosa D’Amato, commentando le 4 nuove condanne emessa dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato italiano a causa delle emissioni dell’Ilva. Le condanne riguardano i ricorsi presentati tra il 2016 e il 2019 da alcuni dipendenti dell’impianto siderurgico oltre che da più di 200 abitanti di Taranto e di alcuni comuni vicini. Negli ultimi mesi, aggiunge l’eurodeputata, «la situazione è persino peggiorata: l’Arpa Puglia ha di recente riscontrato 'significativi incrementi delle concentrazioni degli inquinanti gassosi, in particolare biossido di zolfo e benzenè. In tutto questo, il premier Draghi ha in programma un aumento della produzione dell’impianto, tra l’altro attraverso il dirottamento di 150 milioni di euro che dovrebbero invece andare alle attività di bonifica».

Il presidente della Regione Liguria sulla produzione di Taranto

A Taranto oggi stiamo producendo circa 8 milioni di tonnellate di acciaio e non è stato ancora presentato il piano industriale, di cui è conseguenza quello di Genova e di Novi ligure. Abbiamo chiesto di fare in fretta». Lo ha detto il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.

L’Ambiente. L'Onu punta l'indice contro il siderurgico di Taranto: "Ex Ilva ha violato i diritti umani e compromesso la salute dei cittadini". Lo scrive il relatore speciale delle Nazioni Unite, David R. Boyd nel rapporto annuale intitolato "The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment". La Repubblica il 15 febbraio 2022.

"La produzione nell'impianto siderurgico Ilva di Taranto ha compromesso la salute dei cittadini e violato i diritti umani per decenni, provocando un grave inquinamento atmosferico. I residenti che vivono nelle vicinanze dell'impianto "soffrono di malattie respiratorie, cardiache, cancro, disturbi neurologici e mortalità prematura". 

Lo scrive il relatore speciale delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito e sostenibile, David R. Boyd, d'intesa con il relatore speciale Marcos Orellana sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e lo smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi, nel rapporto annuale intitolato "The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment". Il rapporto è stato  pubblicato e approvato dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Proprio Orellana è stato a Taranto nelle prime settimane di dicembre 2021 ed ha avuto incontri con gli esponenti del mondo ambientalista. 

Il rapporto conclusivo è stato diffuso da Marina Castellaneta, ordinario di diritto internazionale nel dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Bari. "Tra i luoghi più degradati in Europa occidentale - si segnala - i relatori hanno individuato proprio la zona dell'Ilva di Taranto che si trova nella stessa situazione di zone come quella di Quintero-Puchuncavi in Cile, Bor in Serbia e Pata Rat in Romania". "Il diritto a un ambiente salubre - scrive il relatore speciale Boyd - può essere garantito solo se si limita l'utilizzo di sostanze tossiche che colpiscono le persone più vulnerabili".

L’ex Ilva e Taranto in un rapporto dell’ONU. Le vicende legate al siduerurgico in una relazione sull'inquinamento mondiale. GIANMARIO LEONE su Il Corriere di Taranto il 15 febbraio 2022.

Sta avendo molta risonanza mediatica in queste ultime ore, una relazione del Relatore Speciale dell’ONU (Organizzazione Nazioni Unite) sul tema dei diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito, salubre e sostenibile, diffusa quest’oggi ai mezzi d’informazione dal titolo: “Il diritto a un ambiente pulito, salubre e sostenibile: ambiente non tossico“.

Nella documento in questione, il relatore speciale David R.Boyd, con la collaborazione dello Special Rapporteur sulle implicazioni per i diritti umani della gestione ecologicamente corretta e dello smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi, Marcos Orellana, identifica in un ambiente non tossico uno degli elementi sostanziali di ogni cittadino ad avere il diritto a vivere in un ambiente sicuro, pulito, salubre e sostenibile.

Il Relatore Speciale nel documento descrive “la continua intossicazione delle persone e del pianeta, che sta causando ingiustizie e creando zone di sacrificio, aree estremamente contaminate vulnerabili e dove i gruppi emarginati sopportano un onere sproporzionato in termini di salute, diritti umani e conseguenze ambientali dovute all’esposizione all’inquinamento e alle sostanze pericolose”.

Il relatore evidenzia gli obblighi dello Stato, le responsabilità commerciali e le buone pratiche correlate per garantire un ambiente non tossico prevenendo l’inquinamento, eliminando l’uso di sostanze tossiche e per riabilitare i siti contaminati.

Nel paragrafo 45 della relazione viene citato anche il caso di Taranto: “L’acciaieria Ilva di Taranto, in Italia, ha compromesso la salute delle persone e violato diritti umani per decenni scaricando enormi volumi di inquinamento atmosferico tossico. Nelle vicinanze i residenti soffrono di livelli elevati di malattie respiratorie, malattie cardiache, cancro, malattie neurologiche debilitanti e mortalità prematura. Bonifica e risanamento sono le attività che avrebbero dovuto iniziare nel 2012 sono state posticipate al 2023, con il Governo che ha introdotto decreti legislativi speciali che consentono la prosecuzione dell’impianto operativo. Nel 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso che l’inquinamento continuava, mettendo in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella dell’intera popolazione residente nelle aree a rischio”.

Difatti la nota a margine del suddetto paragrafo riporta la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 24 gennaio 2019 (Cordella et al. c. Italia domande congiunte n. 54414/13 e n. 54264/15), “segnando una tappa importante nella saga giudiziaria dell’acciaieria Ilva di Taranto. La Corte ha stabilito all’unanimità la responsabilità dell’Italia di non aver adottato le misure amministrative e legali necessarie per disinquinare l’area interessata e per fornire ai singoli un effettivo rimedio interno per contestare lo status quo pericoloso e incerto, in violazione degli artt. 8 e 13 del Convenzione Europea sui Diritti Umani”.

Tra l’altro lo stesso lo scorso dicembre, proprio il Relatore Speciale ONU su sostanze tossiche e diritti umani, Marcos Orellana, venne in visita a Taranto, accompagnato da Legambiente nel quartiere Tamburi di Taranto e lungo il Mar Piccolo. Una visita, quella di Orellana, finalizzata all’analisi degli effetti avversi di prodotti chimici, della gestione dei rifiuti, pesticidi e della contaminazione industriale sui diritti umani, che sta facendo attraversando diversi siti del nostro paese toccati da contaminazione, da Roma e alle regioni Veneto, Campania e appunto Puglia.

Di fatto l’ennssima fotografia di un qualcosa che è sin troppo risaputo da queste parti, che appunto riguarda quanto accaduto negli ultimi decenni, seppur tralasciando l’impatto dovuto ad altre aziende presenti tutt’ora o in passato sul territorio come l’ex Cementir, l’Eni, la Marina Militare, l’Hydrochemical, le tante discariche che hanno contribuito non poco nell’aver fatto di Taranto un Sito di Interesse Nazionale.

Un breve paragrafo, quello sulla città di Taranto, dove si afferma anche qualcosa di assolutamente non vero, quando si parla di attività di bonifica e risanamento che dovevano partire nel 2012 rinviate al 2023, quando invece le cose non stanno esattamente cosi.

Un documento che non dice niente di più e niente di nuovo su una situazione che in realtà, oggi, è comunque molto diversa rispetto a dieci anni fa o a cinquant’anni fa. Ma sul quale i soliti squali si sono lanciati subito per avere l’ennesimo giorno di notorietà a scapito della città di Taranto e dei suoi cittadini.

Di seguito pubblichiamo il rapporto integrale dell’ONU.

IL RAPPORTO. Onu, il dossier choc sull’ex Ilva di Taranto: «Area tra le più inquinate e degradate al mondo». L’accusa al governo italiano: «Lo stato non garantisce un ambiente salubre, le bonifiche rinviate al 2023 non rispettano le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 15 febbraio 2022.

NON SOLO ILVA. L'ira dei sindacati. L’Ilva è il disastro dei 5 Stelle: dall’annuncio degli “zero esuberi” di Di Maio al rischio di 5mila lavoratori a casa. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 31 Marzo 2022. 

Nessuno dei sindacati ha firmato: è finito così il tavolo Ilva al Ministero del Lavoro dopo un mese di trattativa. Ora se il Ministro Orlando firmerà la cassa integrazione straordinaria senza accordo, si assume la responsabilità di mettere fuori 5 mila lavoratori per sempre, con tutti i sindacati contro. Anche quelli che nella trattativa hanno avuto atteggiamenti più aperturisti. Alla fine però, con la diretta dell’ultimo tavolo lanciata sul maxischermo in fabbrica durante lo sciopero, tutti si sono allineati alla Uilm che dal primo giorno aveva annunciato non avrebbe mai firmato perché ciò “avrebbe significato diventare complici di 5000 esuberi”. Nella richiesta dell’azienda infatti era scritto a chiare lettere: “solo il raggiungimento di volumi produttivi pari a 8 milioni di tonnellate, che si presume si concluderà nel 2025 con l’avvio di afo5, consentirà il totale reimpiego delle risorse”.

Cosa che tutti a Taranto sanno non accadrà mai. Almeno fino a quando, come accaduto ad esempio con il gas, non cambierà l’atteggiamento dei partiti. Cosa che al momento tutti gli schieramenti in campagna elettorale per le amministrative sembrano lontani dal voler fare. Tant’è che, a differenza dei predecessori, Orlando non si è mai presentato al tavolo gestito dai funzionari del ministero. Mentre nelle stesse ore correva in piazza a sostenere i navigator. Assente persino il presidente Emiliano, se pur tra i convocati, dopo essersi a lungo lamentato di essere tenuto fuori. Nessun esponente politico ha detto una sola parola sui 5 mila lavoratori Ilva mandati a casa senza motivo, e pure stiamo parlando di un’azienda pubblica. E nonostante le parole del Presidente Draghi una settimana: “Estendiamo la garanzia di Sace all’Ilva per consentire all’azienda di aumentare la produzione e sopperire alle carenze di acciaio del Paese” annunciando l’inserimento della misura nell’articolo Ucraina bis.

Come si spiega allora che proprio nel momento in cui viene aumentata la produzione, si diminuisce di 3000 unità la forza lavoro? È dal primo giorno che l’ad Lucia Morselli è arrivata in Ilva che in una intervista a Porta a Porta l’ha detto chiaramente: “nel nuovo contratto firmato con Conte a marzo 2020 ci sono 5 mila esuberi”. Le rispose dal Partito Democratico Antonio Misiani, con un tweet, smentendo che l’accordo prevedesse esuberi. Eppure da allora a rotazione, prima per crisi di settore, poi per Covid, quei 5 mila, tra azienda e amministrazione straordinaria, sono a casa. Ma se fino ad oggi la cassa era legata a una riduzione della produzione, ora con la ristrutturazione degli altoforni e il piano ambientale quasi completato, Ilva è pronta per arrivare a 6 milioni come previsto dal piano presentato un mese fa dall’azienda rispondendo a Paese e mercato.

L’accordo occupazionale attualmente in vigore, firmato a settembre 2018, prevede 10.700 occupati per 6 milioni di tonnellate e il reintegro al raggiungimento degli 8 milioni nel 2023 dei 1700 lavoratori ora in cassa integrazione presso l’Amministrazione Straordinaria. E su questo punto che è saltata la trattativa. Il cerino l’ha tirato fuori durante il tavolo il segretario della Uilm Rocco Palombella: “Come mai ora che raggiungiamo finalmente quel livello di produzione, ci chiedete 3000 lavoratori in meno?”. “Quando avete firmato quell’accordo io non c’ero” ha risposto Lucia Morselli. Infatti fu firmato al Mise con Di Maio quando ancora c’era ArcelorMittal prima che Conte togliesse lo scudo penale e decidesse di nazionalizzarla. Dopo mesi di incontri infiniti e serrati con il ministro Calenda alla fine i sindacati, di fronte a un piano con meno occupati, decisero di interrompere la trattativa perché, dissero “il governo è scaduto”.

Preferendo firmare l’accordo confezionato da Di Maio “a zero esuberi”. Dopo quella firma Di Maio esultò: “Siamo arrivati da soli tre mesi e abbiamo risolto la crisi Ilva”. E invece ci sono 5 mila lavoratori a casa, e se il ministro Orlando ora firmerà la cassa integrazione straordinaria nonostante l’aumento di produzione, stralcerà l’accordo montato da Di Maio, ammettendo che era gonfiato. Considerando che a giugno a Taranto si vota, più probabile che strappi una rotazione di qualche mese, rimandando ancora una volta, come da dieci anni, il piano industriale e la sorte dei lavoratori. Con la consapevolezza, per la politica e per l’azienda, che da domani anche quei 5 mila saranno in piazza a Taranto a chiedere Ilva chiusa e integrazione salariale.

Annarita Digiorgio

Ex Ilva: Oms, emissioni causa di eccesso di mortalità. ANSA il 21 gennaio 2022. "L'impatto degli impianti" ex Ilva, dal 2010 al 2015, sull'ambiente e la salute dei cittadini "è stato considerevole ma non del tutto caratterizzato. Mentre le emissioni dirette nell'aria sono relativamente ben monitorate, si sa meno di altre vie di esposizione, come l'inquinamento di suolo e acqua. Le emissioni nell'aria dell'impianto ex Ilva, rispetto alla concentrazione di Pm 2.5, sono causa di eccesso di mortalità e altri impatti negativi sulla salute che hanno anche costi economici". Lo ha stabilito il "Rapporto di valutazione di impatto sanitario per gli scenari produttivi dell'acciaieria di Taranto", condotto dall'Oms, Organizzazione mondiale della sanità, e commissionato dalla Regione Puglia. Lo studio è stato presentato online questa mattina da Francesca Racioppi, direttrice Centro Europeo per l'Ambiente e la Salute dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, e da Marco Martuzzi, attuale direttore del Dipartimento Ambiente dell'Istituto Superiore di Sanità, ed ex dirigente Oms. Lo studio è iniziato nel 2019. "Le stime di questo rapporto sono pienamente in linea con le valutazioni della Regione Puglia", è stato detto. Racioppi ha sottolineato che "non è stato possibile stimare accuratamente gli impatti sulla salute meno gravi, rispetto alla mortalità, che riguardano i bambini". (ANSA).

Tutti fanno finta di non vedere che il porto di Taranto è una bomba ecologica. Andrea Moizo su editorialedomani.it il 30 dicembre 2021. Sono passati 7 anni dall’avvio del progetto, ma il dragaggio del porto di Taranto resta fermo. Le difficoltà realizzative non sono state risolte malgrado commissariamento e decreto Semplificazioni. Il problema tecnico comporta rischi ambientali: la vasca di contenimento dei fanghi inquinati non dà garanzie di tenuta. La Via intanto è scaduta e l’Autorità portuale ne ha chiesto il rinnovo. L’istanza è però sprovvista delle migliorie progettuali necessarie ma, dopo la stazione appaltante, anche il ministero della Transizione ecologica ora fa finta di niente e manda avanti la pratica.

L’Insicurezza. Blitz della squadra mobile della Polizia, cellulari e droga destinati ai detenuti di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Febbraio 2022.

L'operazione degli uomini della Squadra Mobile, diretta dal vicequestore Fulvio Manco, è scattata al termine di una approfondita attività d'indagine che ha preso avvio nell’agosto del 2020 quando si apprese, nell’ambito di altro procedimento penale, che verosimilmente venivano introdotti all’interno del carcere di Taranto sostanze stupefacenti, microtelefoni ed altro materiale illecito.

Nelle prime ore di oggi, la Polizia di Stato di Taranto, nell’ambito di un’indagine condotta dai pm Remo Epifani e Francesco Ciardo dalla Procura della Repubblica di Taranto e condotta dai poliziotti della Squadra Mobile, ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip Giovanni Caroli a carico di 9 soggetti (di cui 6 in carcere e 3 agli arresti domiciliari) presunti responsabili a vario titolo di diversi reati connessi all’illecita detenzione, introduzione e spaccio di sostanze stupefacenti  , alla detenzione e porto illegali di armi comuni da sparo, all’introduzione illecita di telefoni e schede sim, alla corruzione ed alla ricettazione  all’interno del carcere di Taranto. Sono altresì indagate in stato di libertà altre 15 persone. 

L’operazione degli uomini della Squadra Mobile, diretta dal vicequestore Fulvio Manco, è scattata al termine di una approfondita attività d’indagine che ha preso avvio nell’agosto del 2020 quando si apprese, nell’ambito di altro procedimento penale, che verosimilmente venivano introdotti all’interno del carcere di Taranto sostanze stupefacenti, microtelefoni ed altro materiale illecito. L’attività investigativa ha documentato almeno 5 consegne di pacchi con il ricorso ad un sofisticato sistema di relazioni difficile da decriptare e scardinare, con una netta suddivisione di ruoli ed il coinvolgimento di un appartenente alla Polizia Penitenziaria. 

Gli investigatori della Polizia di Stato hanno puntato a interrompere un traffico delinquenziale che stava prendendo piede nella casa circondariale di Taranto dimensioni preoccupanti, ed hanno raccolto elementi idonei ad sostenere come gli ideatori del sistema (detenuti di elevato spessore criminale) fossero in grado, anche grazie all’illecita introduzione di telefoni, di impartire precise disposizioni ad altri pregiudicati in libertà per la raccolta, il confezionamento e le modalità di consegna dello stupefacente e di apparecchi cellulari. 

Gli approfondimenti della Mobile hanno consentito di scoprire i responsabili dell’attività illecita per i quali sono state disposte dal Gip del Tribunale di Taranto le misure cautelari. Si ritiene che gli stessi detenuti sarebbero stati in grado di reperire, all’interno del carcere, dei detenuti a cui vendere lo stupefacente, gli apparecchi telefonici e le schede telefoniche, ottenendovi guadagni attraverso ricariche “Postepay” da parte dei familiari di questi ultimi. Nell’inchiesta sono indagate a piede libero anche altre quindici persone.

Dalle indagini è emerso che era prassi consolidata da parte di diversi detenuti del carcere di Taranto utilizzare abusivamente all’interno dell’Istituto, telefoni cellulari ai quali venivano abbinate schede Sim di illecita provenienza.  Le schede utilizzate dai detenuti erano spesso intestate a soggetti stranieri, irreperibili sul territorio nazionale, ovvero a soggetti ignari che avevano sporto denuncia per sostituzione di persona. Secondo quanto emerso dalle indagini, si ritiene che coinvolti nel complesso sistema erano 7 pregiudicati: tre detenuti organizzavano la consegna di pacchi da destinare al carcere di Taranto, impartendo ad altri 4 pregiudicati in libertà le direttive circa le modalità di confezionamento del pacco e la successiva consegna ad altro soggetto ammesso alla misura alternativa alla detenzione in carcere, il quale a sua volta lo consegnava a Giuseppe Greco assistente capo della Polizia Penitenziaria che lo introduceva all’interno della Casa Circondariale di Taranto e lo recapitava ai detenuti per il successivo smistamento. 

Inoltre gli arrestati sono anche ritenuti presunti responsabili in concorso del reato di “Corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio” perché l’assistente capo della Penitenziaria Giuseppe Greco, in qualità di pubblico ufficiale, al fine di compiere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio, riceveva dagli altri somme di denaro da 350 a 1000 euro per ciascuna consegna. Ad alcuni dei destinatari della misura è contestato anche il concorso nella detenzione e nel porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo calibro 22 marca “Bruni” nonché la detenzione illegale di svariate armi da sparo.

Lo scorso 29 gennaio 2021 furono tratti in arresto in flagranza di reato il poliziotto penitenziario Giuseppe Greco ed il pluripregiudicato Alfonso Greco, detenuto agli arresti domiciliari poiché presunti responsabili, in concorso, dei reati di corruzione, detenzione illegale di sostanze stupefacenti, di apparecchi telefonici e Sim Card da introdurre all’interno della Casa Circondariale di Taranto. In quella occasione era emerso che il pluripregiudicato Alfonso Greco sottoposto al regime della detenzione domiciliare aveva ricevuto dal fratello di un detenuto ristretto nell’Istituto penitenziario tarantino, un pacco contenente una confezione di cioccolato in polvere ed una di crema, con all’interno verosimilmente telefoni cellulari e sostanze stupefacenti. A ritirare il pacco dall’abitazione del predetto, con un compenso pattuito di 500 euro, sarebbe stato proprio l’appartenente alla Polizia Penitenziaria ad introdurlo al suo interno e consegnarlo ad alcuni detenuti. 

La perquisizione consentì di rinvenire già in quell’occasione, all’interno del pacco una confezione di cioccolato, contenente al di sotto della polvere di cioccolato circa 200 grammi di hashish (suddivisa in 11 pezzi), 10 grammi di cocaina, quattro microtelefoni cellulari di marca “L8STAR” due Sim telefoniche e tre cavetti usb. Fu trovato anche un barattolo di crema con all’interno, avvolti dalla sostanza cremosa, anche 2 pezzi di hashish pari a complessivi 50 grammi e 5 grammi di cocaina. Inoltre, addosso all’uomo, fu rinvenuta anche la somma di 375 euro verosimile compenso e/o acconto per l’introduzione nella struttura carceraria del materiale e per la successiva consegna a detenuti in essa ristretti.

Figura cardine della condotta delittuosa sembrerebbe essere l’ appartenente alla Polizia Penitenziaria Giuseppe Greco il quale, vero e proprio “cavallo di Troia”, consentiva l’agevole introduzione del materiale, sfruttando e piegando la propria funzione a tali scopi illeciti. Nei “pacchi” consegnati in carcere, la sostanza stupefacente (cocaina, marijuana, hashish, denominate “la verde”, “borotalco”, “fumo”, “panino”, “filone” “erba”), le schede telefoniche e i micro telefoni cellulari venivano occultati all’interno di scatole di cioccolato in polvere, creme e pennarelli.

Qualche giorno dopo, il 5 febbraio 2021, all’esito di ulteriori elementi investigativi emersi nell’ambito delle attività compiute dalla Squadra Mobile, veniva emessa un’Ordinanza di applicazione della custodia cautelare in carcere a carico di uno degli odierni indagati, all’epoca detenuto presso il carcere, presunto responsabile del reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti. In particolare, il pregiudicato era risultato essere il destinatario del barattolo di crema rinvenuta e sequestrata nel corso della perquisizione del 29 gennaio 2021.

Dei nove indagati arrestati sei sono stati tradotti in carcere: Andrea Gravina, 41 anni; Cataldo La Neve, 52 anni ; Giuseppe La Neve, 48 anni; Angelo Soloperto, 56 anni; Francesco Soloperto, 31 anni; Sergio Soloperto, 50 anni. Agli arresti domiciliari sono finiti gli altri tre:  Benedetto Bonamico, 51 anni; Monica Carpignano, 4 anni; Gaetano Galante, 38 anni.

Agli indagati arrestati vengono contestati dalla Procura di Taranto i reati di illecita detenzione, introduzione e spaccio di sostanze stupefacenti in carcere, detenzione e porto illegale di armi, introduzione illecita in carcere di telefoni e schede sim, corruzione e ricettazione.

Gli altri indagati a piede libero sono: Cataldo Barbi nato a Taranto nel 1986, Angelo Blasi nato a Carosino (TA) nel 1978, Renato Cervellera nato a Martina Franca (TA) nel 1993, Ignazio Cicala nato a Grottaglie (TA) nel 1982 , Nicola Franco nato a Grottaglie (TA) nel 1985, Andrea Gravina nato a Manduria (TA) nel 1980, Antonio Greco nato a Taranto nel 1977, Giuseppe Greco nato a Mottola (TA) nel 1960, Gaetano Galante nato a Taranto nel 1984, Alex Motolese nato a Taranto nel 1997, Giuseppe Motolese nato a Taranto nel 1989, Tommaso Pirrazzo nato a Castellaneta (TA) nel 1998, Fabio Pisani nato a Bari nel 1998, Fabio Antonio Rendina nato a San Severo (FG) nel 1993, Antonio Saracino nato a Grottaglie (TA) nel 1998, Davide Scurrano nato a Taranto nel 1989.

Carcere di Taranto stracolmo: 700 detenuti su 350 posti disponibili. La denuncia del Sappe: «Inesistenti per i detenuti i progetti lavorativi all’interno e all’esterno del carcere, propedeutici al reinserimento così come sancisce l’articolo 27 della carta costituzionale». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

«Taranto è sicuramente tra le carceri più affollate della nazione con circa 700 detenuti a fronte di 350 posti disponibili e con un organico di polizia penitenziaria totalmente insufficiente». Così il segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Federico Pilagatti, nel documento che oggi sarà consegnato al sottosegretario alla Giustizia, Anna Macina, a conclusione della visita nel carcere di Taranto. «In ogni sezione detentiva sono ospitati circa 70 detenuti senza spazi nelle stanze, con grave carenza di attività trattamentali, rieducative e sportive», si legge nel documento.

«Praticamente inesistenti per i detenuti i progetti lavorativi all’interno e all’esterno del carcere, propedeutici al reinserimento così come sancisce l’articolo 27 della carta costituzionale. Noi riteniamo che dare la possibilità di impiegare i detenuti in attività lavorative e rieducative, sia l’unico modo per evitare disordini, proteste, pericoli nonché situazioni di degrado», prosegue il Sappe.

«Denunciamo l’insufficiente assistenza sanitaria ai detenuti di cui moltissimi affetti da patologie molto serie e la presenza di un altissimo numero di detenuti con problemi psichiatrici a cui l’Asl risponde con un numero di ore assegnate agli specialisti inadeguato. Da due mesi un detenuto con problemi psichiatrici è dimenticato presso ospedale di Taranto, poiché non si trova una Rems, con enormi costi economici di mezzi e uomini», va avanti il sindacato.

«La sicurezza non può essere garantita né dai poliziotti e nemmeno dalle apparecchiature elettroniche considerata che presso la sala regia si riscontra inefficienza di strumentazioni, con monitor e apparecchi di videosorveglianza e sistemi di sicurezza attivi, assenti o non funzionanti», sottolinea il Sappe. «Vogliamo anticipare che il prossimo 22 febbraio, il Sappe manifesterà davanti al carcere per denunciare tutta la situazione sin qui raccontata, che purtroppo non investe solo il carcere di Taranto ma l’intera regione, considerato che in 20 anni si è ridotto l’organico della polizia penitenziaria nelle carceri pugliesi di circa 600 unità, con centinaia di detenuti in più», conclude il sindacato.

Da Ansa il 22 gennaio 2022.

Due agenti della Questura di Taranto sono stati feriti con alcuni colpi di pistola da un uomo a bordo di un'auto che stavano inseguendo.

Uno dei poliziotti è stato ferito in modo più lieve alla mano, l'altro è stato colpito al costato ma non sarebbe in pericolo di vita. 

L'uomo che ha sparato ha tentato la fuga a piedi ma è stato bloccato e arrestato dopo un centinaio di metri. Il conflitto a fuoco è avvenuto in viale Magna Grecia, all'altezza di un bar. La sparatoria è avvenuta in pieno giorno, davanti a numerosi passanti. Colpi di pistola hanno infranto il parabrezza e il finestrino lato guida dell'auto di servizio dei poliziotti rimasti feriti. 

Entrambi (uno di essi in codice rosso) sono stati trasportati da ambulanze del 118 all'ospedale Santissima Annunziata. La zona in cui è avvenuta la sparatoria è stata transennata e interdetta al traffico. Sull'asfalto sono stati recuperati diversi bossoli. L'accaduto è ancora in fase di ricostruzione da parte della Squadra mobile della Questura.  

“Solo grazie a un miracolo hanno salva la vita i due colleghi che a Taranto sono stati raggiunti dai colpi di pistola sparati dal criminale che aveva appena rapinato una concessionaria. A loro va tutta la nostra più reale solidarietà, nella speranza che possano guarire nel più breve tempo e che possano, soprattutto, superare lo choc di vedersi sparare addosso, a un’altezza tale che avrebbero potuto morire.

L’assoluta gravità di quanto accaduto non è in discussione, e ora ci aspettiamo che venga contestato il duplice tentato omicidio a questo delinquente senza scrupoli, che non ha avuto remore nello scaricare l’arma addosso a due poliziotti. La vita dei servitori dello Stato, che camminano sul ciglio del baratro ogni giorno per qualsiasi intervento, dovrà pur valere qualcosa per uno Stato che pretende ma ha il dovere di difendere gli operatori che per quattro spiccioli si espongono a rischi che nessuno, nessun altro in Italia accetterebbe. Ora pretendiamo una giustizia severa, rapida e irremovibile”. 

Così Valter Mazzetti, Segretario Generale Fsp Polizia di Stato, dopo il grave episodio di cronaca avvenuto oggi a Taranto dove un uomo, dopo un diverbio con il dipendente di una concessionaria di auto in cui aveva provato un veicolo, si è allontanato portandosi via le chiavi del mezzo. Dalla concessionaria è stata allertata la Polizia e, attorno alle 11.30, l’equipaggio di una volante è arrivato in zona intercettando il sospetto che si trovava a bordo della propria auto in viale Magna Grecia.

I poliziotti non hanno fatto in tempo ad avvicinarsi che l’uomo è sceso dall’auto scaricando l’arma contro il mezzo di servizio e i due agenti, raggiunti uno da un colpo a una mano, e l’altro al torace da un proiettile che, solo per pura fortuna, non ha colpito organi vitali. I poliziotti sono stati immediatamente soccorsi e poi trasportati in ospedale. I colleghi, intanto, sono riusciti a trarre in arresto l’uomo, Pantaleo Varallo, classe 1979, ex guardia giurata, già noto alle forze dell’ordine.

“L’ennesima giornata di ordinaria follia – ha detto Rocco Caliandro, Segretario Fsp Taranto -, in un territorio dove si combatte una lotta impari per difendere l’immagine e l’autorevolezza dello Stato. Un luogo dove a un poliziotto può accadere veramente di tutto in qualsiasi momento, e dove svolgere questo lavoro comporta rischi e sacrifici inimmaginabili ai più, e certamente non adeguatamente riconosciuti né ricompensati”.    

Taranto, il video choc: spara a bruciapelo a due agenti. Giuseppe De Lorenzo il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'agguato a Taranto. Tenta di rubare un'auto, poi la sparatoria. Esplosi almeno 8 colpi, feriti due poliziotti. Fermato un uomo di 42 anni.

Pochi secondi di video. Ma molto chiari. Si vede un uomo impugnare una pistola e aprire il fuoco contro gli agenti della polizia di Stato. Sono momenti drammatici. I due poliziotti riescono ad uscire dall'auto, poi uno di loro si accascia a terra. Entrambi risultano feriti: il più fortunato di striscio, ad una mano; il collega, invece, è stato trasportato in codice rosso in ospedale. Ma non è in pericolo di vita.

Succede a Taranto, in viale Magna Grecia, strada centrale della città. Stando alle prime ricostruzioni, questi sarebbero i fatti. Un uomo di 42 anni entra in una concessionaria di automobili per cercare di rubare una Porsche Cayenne. Il furto non va a buon fine si dà alla fuga con le chiavi della vettura. Il titolare lancia l'allarme e sul posto arriva una volante della questura tarantina. Sono le 11.30. Gli agenti si mettono subito sulle tracce del malvivente e lo scovano a circa 200 metri dal concessionario a bordo della propria auto. Il video (guarda) lo mostra camminare col volto semi coperto e il cappellino in testa. I poliziotti non fanno nemmeno in tempo ad avvicinarsi che il 42enne esplode almeno otto colpi di pistola: alcuni contro il parabrezza, altri contro il finestrino laterale lato guidatore. Gli agenti vengono raggiunti dai proiettili: il primo ad una mano, il secondo viene colpito all'addome. Sul posto arrivano altri colleghi della Squadra Mobile: il malvivente viene fermato (una foto lo mostra per terra nelle fasi dell'ammanettamento) quando ha ancora in mano sia le chiavi dell'auto sia la pistola. Si tratta di P.V., classe 1979, ex guardia giurata, già noto alle forze dell’ordine.

“Solo grazie a un miracolo hanno salva la vita i due colleghi - attacca Valter Mazzetti, Segretario Generale Fsp Polizia di Stato - A loro va tutta la nostra più reale solidarietà, nella speranza che possano guarire nel più breve tempo e che possano, soprattutto, superare lo choc di vedersi sparare addosso, a un’altezza tale che avrebbero potuto morire". Le chat della polizia sono infuocate, secondo quanto risulta al Giornale.it. È tutto un susseguirsi di immagini e commenti di sdegno. "L’assoluta gravità di quanto accaduto non è in discussione - dice Mazzetti - e ora ci aspettiamo che venga contestato il duplice tentato omicidio a questo delinquente senza scrupoli, che non ha avuto remore nello scaricare l’arma addosso a due poliziotti. La vita dei servitori dello Stato, che camminano sul ciglio del baratro ogni giorno per qualsiasi intervento, dovrà pur valere qualcosa per uno Stato che pretende ma ha il dovere di difendere gli operatori che per quattro spiccioli si espongono a rischi che nessuno, nessun altro in Italia accetterebbe. Ora pretendiamo una giustizia severa, rapida e irremovibile”. 

“L’ennesima giornata di ordinaria follia – aggiunge Rocco Caliandro, Segretario Fsp Taranto -, in un territorio dove si combatte una lotta impari per difendere l’immagine e l’autorevolezza dello Stato. Un luogo dove a un poliziotto può accadere veramente di tutto in qualsiasi momento, e dove svolgere questo lavoro comporta rischi e sacrifici inimmaginabili ai più, e certamente non adeguatamente riconosciuti né ricompensati”.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

Taranto, due poliziotti feriti a colpi di pistola. Arrestato un ex guardia giurata che voleva rubare un auto da un autosalone. Il Corriere del Giorno il 22 Gennaio 2022.  

Uno dei due poliziotti è stato colpito in modo più lieve alla mano, riportando solo delle escoriazioni. L’altro poliziotto ricoverato in codice rosso per ferite al torace, non è in pericolo di vita, ma resterà sotto osservazione nell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto.

La sparatoria è avvenuta questa mattina intorno alle 11,30 quando Pantaleo Varallo, ex guardia giurata di 42 anni con precedenti di polizia, attualmente “buttafuori” nelle discoteche, è stato arrestato subito dopo. L’uomo poco prima del conflitto a fuoco aveva cercato di rubare una Porsche Cayenne dal salone di automobili Ventriglia, dopo averla provata. Finito il giro di prova, si allontanava portando con se le chiavi della macchina provata in tasca. Il tentativo di furto è stato immediatamente segnalato alla sala operativa della Questura e le volanti sono arrivate immediatamente in viale Magna Grecia, nel tratto di strada compreso tra corso Italia e viale Jonio di fronte ad un noto bar, l’ Old Fashion. Qui un’auto della Polizia lo ha intercettato ed invertito il senso di marcia percorso per raggiungere e bloccare il rapinatore che cercava di dileguarsi. 

Quando gli agenti sono arrivati per il controllo, il Varallo avrebbe ha estratto una pistola ed esploso numerosi colpi di fuoco ripetutamente contro il parabrezza e il finestrino della Volante, dove la blindatura dell’ auto ha salvato la vita ai poliziotti, causando il terrore ed un fuggi fuggi della gente che passava dai luoghi dell’accaduto. Il responsabile della sparatoria ha tentato di scappare a piedi ma è stato bloccato a circa un centinaio di metri dal luogo dell’agguato dai “Falchi” della Squadra Mobile. La zona è stata immediatamente presidiata dalle Volanti della Polizia di Stato e dalle gazzelle dei Carabinieri e si è proceduto in breve tempo all’arresto. Il luogo della sparatoria è stato temporaneamente chiuso al traffico per effettuare i rilievi del caso. La posizione del Varallo, che risponderà di tentato omicidio plurimo, è attualmente al vaglio del pm di turno.

Uno dei due poliziotti è stato colpito in modo più lieve alla mano, riportando solo delle escoriazioni. L’altro poliziotto ferito al torace, non è in pericolo di vita, ma resterà sotto osservazione nell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto. I dieci colpi esplosi contro la Volante hanno infranto i vetri dell’auto di servizio sulla quale si trovavano gli agenti, in un tratto di strada molto frequentato, di transito e con vari locali pubblici. 

Quello che è accaduto oggi a Taranto è qualcosa che deve lasciar riflettere, capire ed apprezzare il lavoro delle forze dell’ordine che per garantirci la legalità e sicurezza rischiano la vita ogni giorno, 24 ore su 24 65 giorni l’anno. Dobbiamo ringraziare sempre le forze dell’ordine per il loro prezioso lavoro spesso mal pagato da uno Stato, con un sistema-giustizia che nelle aule dei tribunali purtroppo spesso e volentieri vanifica questi sacrifici. Il nostro giornale sarà sempre accanto questi uomini in divisa, che non. finiremo mai di ringraziare. 

Immediata la solidarietà espressa dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese: “Esprimo la mia solidarietà e vicinanza agli agenti della Polizia di Stato feriti oggi a Taranto durante un controllo, manifestando la soddisfazione per l’immediata cattura dell’autore del ferimento“. Il ministro ha proseguito nel suo messaggio “Nell’augurare la pronta guarigione ai due operatori di polizia ringrazio ancora una volta tutte le donne e gli uomini della Forze di polizia per la dedizione e la professionalità con cui svolgono la loro attività quotidianamente per garantire l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini, anche mettendo a rischio la loro incolumità personale”.

Il Capo della Polizia Lamberto Giannini per tramite del Questore di Taranto Massimo Gambino, ha espresso gli auguri di pronta guarigione agli agenti feriti questa mattina e sentimenti di vicinanza  alle loro famiglie. La gravissima aggressione, con un’arma illecitamente detenuta, è avvenuta nel corso di una quotidiana attenta attività di controllo del territorio. Il Prefetto Giannini ha sottolineato, “l’abnegazione e la professionalità delle donne e degli uomini della Polizia di Stato impegnati a garantire la sicurezza delle nostre comunità“.

Immediate le reazioni della politica

Marcello Gemmato, coordinatore regionale di Fratelli d’ Italia in in Puglia, è critico: “Esprimo la mia solidarietà agli agenti della Polizia di Stato feriti questa mattina in pieno centro a Taranto durante una sparatoria e a tutto il comando locale. Nelle ultime settimane la Puglia è teatro di episodi criminosi, e quello di oggi è la punta di un iceberg che va smantellato perché ormai non contiamo più soltanto vittime civili ma anche difensori dello Stato e della sicurezza pubblica. Nessuna pietà per chi commette questi reati: la Lamorgese intervenga non limitandosi a passerelle di circostanza ma con azioni concrete“. Il senatore della Lega Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, esprime “solidarietà, vicinanza e auguri di pronta guarigione ai due poliziotti eroi feriti oggi in una sparatoria a Taranto. Il delinquente che ha sparato, per uccidere due servitori dello Stato, va identificato e sbattuto in galera. Lo Stato di fronte a questi crimini deve dare una risposta adeguata“.

“Nell’esprimere tutta la mia solidarietà agli agenti di Polizia rimasti feriti in una sparatoria a Taranto, mi auguro che il malvivente, peraltro già noto alle forze dell’ordine, venga immediatamente condannato ad una pena esemplare” ha dichiarato il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. “Solo per un caso oggi non piangiamo altri due agenti vittime di una situazione di delinquenza intollerabile. Bisogna varare leggi più severe che tutelino donne e uomini in divisa che come a Taranto rischiano la vita per la nostra sicurezza e che puniscano più severamente questi criminali che in età sempre più giovane iniziano un percorso fatto di violenza e intolleranza”.

Ex guardia giurata con precedenti penali. La Voce di Manduria domenica 23 gennaio 2022.

Si chiama Pantaleo Varallo, 42enne tarantino, l'uomo che ieri mattina ha seminato il terrore in viale Magna Grecia, sparando a ripetizione contro i poliziotti, poco prima delle 11,30 in una strada che brulicava di gente e di auto. Gli agenti della Volante lo stavano braccando perché poco prima avrebbe avuto un diverbio con un concessionario durante il giro di prova in città di una Porsche Cayenne. Al termine del giro l’uomo si sarebbe allontanato portandosi via le chiavi della costosa auto, così il concessionario ha chiamato le forze dell’ordine.

Dopo la segnalazione del sospetto caso di tentata rapina della vettura, il malvivente, che si era allontanato a piedi, è stato notato da un poliziotto fuori servizio. L'agente lo ha subito segnalato e lo ha anche pedinato per diversi minuti, fornendo alla centrale operativa indicazioni precise e la descrizione del sospettato, completamente vestito di scuro e con un berretto nero calcato sul volto.

Le pattuglie hanno manovrato per chiudere al ricercato ogni possibile via di fuga nella zona e una delle auto lo ha incrociato in viale Magna Grecia, mentre camminava spedito sul marciapiede. La Volante ha fatto inversione, ma mentre si stava posizionando di traverso sulla carreggiata è scattata l'imprevedibile reazione a colpi di pistola.

L'uomo, in maniera incomprensibile, è tornato sui suoi passi e ha tirato fuori l'arma. Poi ha esploso in rapida successione almeno una decina di colpi con una calibro 9. I primi hanno centrato l'agente che stava per scendere dall'auto e che è caduto sull'asfalto con una ferita all'addome. Gli altri li ha indirizzati da distanza ravvicinata contro il posto di guida.

·        Succede a Manduria.

Il giallo del trolley scomparso. Era di un prete il cadavere trovato a Uggiano vicino alla macchina bruciata. La Redazione de La Voce di Manduria l’1 dicembre 2022.

E’giallo sul ritrovamento di un cadavere nelle campagne di Uggiano Montefusco e di una macchina bruciata di proprietà della vittima trovata a circa mezzo chilometro di distanza dal copro alle spalle del cimitero di Manduria. Sullo strano caso indagano i carabinieri della stazione di Manduria.   

E’ di Giovanni Marraffa, sacerdote a riposo, il corpo senza vita trovato ieri in contrada «Pozzo sfondato» nelle campagne di Manduria. Il cadavere si trovava vicino ad una chiesetta rurale all’ingresso di Uggiano Montefusco, piccola frazione manduriana dove l’anziano viveva nella casa di famiglia. Aveva 88 anni e di lui si erano perse le tracce sabato scorso, ultimo giorno in cui sarebbe stato visto allontanarsi da casa. L’allarme è poi scattato ieri mattina con il ritrovamento prima della macchina, una Fiat Punto di colore grigio, completamente bruciata e dopo alcune ore anche del corpo a circa cinquecento metri.

A trovare il cadavere nel tardo pomeriggio di ieri è stato il volontario di uno dei quattro gruppi manduriani delle Protezione civile, mobilitate dalle forze dell'ordine, che stavano battendo tutte le campagne intorno alla macchina distrutta dal fuoco. L’anziano era disteso supino con le mani sul petto a pochi metri dalla chiesetta sconsacrata attaccate ad alcune case, tutte abitate, alla periferia del borgo. Era vestito di tutto punto con la cinta dei pantaloni slacciata. Non presenterebbe segni di violenza superficiali, almeno non evidenti, per cui sarà l’autopsia a stabilire le cause del decesso che risalirebbe a circa 24 ore dal ritrovamento.

Dopo i rilievi del raggruppamento investigazioni scientifiche del comando provinciale carabinieri di Taranto, il pubblico ministero di turno, Filomena Di Tursi, ha fatto rimuovere la salma che è stata trasportata dallimpresa manduriana Matteo Lenti all’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto dove questa mattina il medico legale incaricato eseguirà la visita necroscopica. 

Una morte con molti lati oscuri. A cominciare dall’auto bruciata parcheggiata su uno sterrato poco distante dal cimitero di Manduria, ma anche da altri particolari sui cui indagano i carabinieri della locale stazione al comando del maresciallo luogotenente Elio Errico. Tra questi sospetti, un trolley di colore rosso che l’uomo portava con se e che non è stato trovato.

Il religioso apparteneva alla curia di Torino dove ha svolto funzioni sacerdotali in diverse parrocchie. L’ultima in quella di Trana, piccolo comune della cerchia metropolitana di Torino dove nel 2011 aveva rinunciato all’incarico di parroco restando però a disposizione del vescovo di quella diocesi.

La notizia della morte che si è diffusa rapidamente nella cittadina messapica ha fatto subito ricordare due precedenti episodi, più o meno simili, di morte di anziani con un denominatore unico, quello dell’auto bruciata. Con la differenza, rispetto a quello di ieri, che i loro corpi sono stati trovati carbonizzati nell’abitacolo delle macchine. Il primo di questi casi risale allo scorso mese di aprile quando un 84enne manduriano fu trovato carbonizzato nella sua auto in un terreno non di sua proprietà alla periferia di Maruggio. A luglio a fare la stessa fine è stato un 79enne scomparso due giorni e ritrovato cadavere nella sua macchina in un podere di campagna sulla Manduria Francavilla appartenuto alla sua famiglia d’origine. Entrambi i casi si sono chiusi con l'ipotesi del suicidio. Nazareno Dinoi

L'esito ancora provvisorio dell'autopsia. «Il prete di Uggiano è morto per un malore». La Redazione del La Voce di Manduria il 7 dicembre 2022.

La comunità di Uggiano Montefusco e di Manduria può tirare un sospiro di sollievo: don Giovanni Marraffa non è morto per causa violenta. L’esame autoptico eseguito ieri dal medico legale Giampiero Bottari su incarico del pubblico ministero Filomena Di Tursi della Procura ionica, avrebbe escluso ferite o altri segni di violenza sul corpo. Rendendo quindi plausibile la morte sopravvenuta per cause naturali, anche se la certezza la si avrà tra una sessantina di giorni, tanti quanti sono stati chiesti dal dottor Bottari per completare l’esame biochimico e tossicologico sui reperti prelevati e consegnare la perizia al magistrato titolare del fascicolo. 

Il corpo senza vita del parroco a riposo di 88 anni è stato trovato lunedì sera della scorsa settimana nelle campagne alla periferia di Uggiano Montefusco, frazione di Manduria, dove viveva. 

Prende dunque piede l’ipotesi del malore che potrebbe aver colto l’anziano religioso in un posto isolato ma abbastanza vicino alle abitazioni della parte estrema del piccolo borgo manduriano. In tal caso ad ucciderlo potrebbe essere stato un infarto o altro malanno fatale che non gli avrà dato la possibilità urlare e farsi sentire chiedendo aiuto. Il corpo vestito di tutto punto, trovato da una volontaria della protezione civile del gruppo Era di Manduria, si trovava non lontano da una chiesetta rurale che il sacerdote visitava durante le sue abitudinarie passeggiate nelle campagne uggianesi. Aveva le mani chiuse a pugno sul petto e la cinta dei pantaloni appena slacciata.

Appurato, seppure con il condizionale, il motivo della morte, agli investigatori della stazione carabinieri di Manduria che indagano sul caso alla guida del comandante Elio Errico, dovranno dare lettura al giallo dell’auto del prelato trovata completamente bruciata poco distante dal luogo in cui è stato trovato il copro. Come pure bisogna scoprire che fine abbia fatto il trolley di colore rosso da cui don Giovanni non si separava mai e che anche il giorno della scomparsa, secondo alcuni testimoni, avrebbe portato con sé. Il pensionato che viveva solo nel piccolo appartamento di famiglia, secondo i suoi vicini viveva con il terrore che gli potessero rubare la macchina trovata bruciata. Dopo il furto di circa un anno fa delle quattro ruote, si racconta che il sacerdote che non aveva un garage scollegasse ogni sera i cavi della batteria. Con molta probabilità i funerali si terranno oggi o domani.

La notizia della morte che si è diffusa rapidamente nella cittadina messapica aveva fatto subito ricordare due precedenti episodi, più o meno simili, di morte di anziani con un denominatore unico, quello dell’auto bruciata. Con la differenza, rispetto a questo di Uggiano, che i loro corpi sono stati trovati carbonizzati nell’abitacolo delle macchine. Il primo di questi casi risale allo scorso mese di aprile quando un 84enne manduriano fu trovato carbonizzato nella sua auto in un terreno non di sua proprietà alla periferia di Maruggio. A luglio a fare la stessa fine è stato un 79enne scomparso due giorni e ritrovato cadavere nella sua macchina in un podere di campagna sulla Manduria Francavilla appartenuto alla sua famiglia d’origine. Nazareno Dinoi

La destra pugliese piange la perdita di un suo grande uomo: il sen. Ninì Del Prete. Redazione CdG 1947  su Il Corriere del Giorno il 19 Ottobre 2022 

Avvocato di professione, è stato sindaco di Torricella negli anni Settanta poi senatore del Movimento Sociale Italiano dal 1983 al 1987 e deputato di Alleanza Nazionale dal 1994 al 1996.

A88 anni si è spento a Monacizzo, frazione di Lizzano in provincia di Taranto il Sen. Avv. Antonio (per tutti Ninì) Del Prete parlamentare prima nel MSI-Destra Nazionale legato a Giorgio Almirante, e poi in AN-Alleanza Nazionale con Gianfranco Fini, che lo ritenevano il riferimento della destra a Taranto e provincia. Eletto senatore, entro a Palazzo Madama nel 1986, e successivamente deputato alla Camera dei Deputati nel 1994 con AN-Alleanza Nazionale. Da sempre legato a Giuseppe Tatarella, è stato partecipe della svolta di Fiuggi.

Amato e stimato da tutti per la sua signorilità e correttezza politica ed istituzionale, Ninì Del Prete è stato anche sindaco di Torricella, vice presidente della Provincia di Taranto e consigliere regionale. Sono in molti oggi a ricordarlo e piangere la sua scomparsa, da Adriana Poli Bortone a Carmelo Patarino. Fra loro anche il nostro Direttore che era legato da profonda amicizia con Ninì Del Prete.

in basso a destra, seduto in prima fila, il sen. Ninì Del Prete mentre applaudiva Giorgia Meloni

“E’ stato lui insieme a Sandro Romano – ricorda Antonello de Gennaro – a convincere mio padre, di cui era grande amico, a farmi entrare nel Fronte della Gioventù a soli 14 anni. Che emozione rivederlo per l’ultima volta con il suo indimenticabile sorriso sornione ed affettuoso al comizio di Giorgia Meloni nell’estate 2020 a Taranto in occasione delle elezione Regionali“. “Non voglio essere autoreferenziale – continua il nostro Direttore – ma porterò per sempre nel mio cuore il ricordo del nostro ultimo abbraccio, e le sue parole affettuose nei miei confronti davanti a Giorgia Meloni al termine del suo comizio: se c’è Antonello qui con voi, allora siete in buone mani.”.

La Direzione, redazione e tutti noi del Corriere del Giorno ci stringiamo alla famiglia Del Prete nel dolore della perdita del loro amato ed indimenticabile Ninì. Redazione CdG 1947

Manduria, arrivano gli incentivi per contrastare lo spopolamento. Contributi a chi sceglie di trasferirsi in città per vivere o avviare un’attività. Il Comune nell’ultimo decennio ha perso tremila residenti. Debora Piccolo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Ottobre 2022

Il ripopolamento del territorio passa dal Fondo di sostegno ai “comuni marginali”. La Presidenza del Consiglio dei ministri ha assegnato 390 mila euro al Comune di Manduria per contrastare il fenomeno della migrazione, incentivare la coesione sociale e la nascita di nuove attività economiche. A darne notizia, ieri, l’amministrazione Pecoraro, che ha annunciato la pubblicazione di un bando pubblico per l’assegnazione di contributi straordinari a favore di chi trasferisce la propria residenza e dimora abituale nella città messapica. Una misura per arginare il fenomeno dell’esodo, che colpisce sempre più i piccoli centri del Meridione, che intende favorire lo sviluppo economico. La somma assegnata, per il periodo 2021-2023, sarà erogata in tre annualità (130 mila euro all’anno).

Nello specifico, il bando prevede l’assegnazione di un contributo di 5000euro in favore dei nuovi residenti nel comune di Manduria, come concorso per le spese di acquisto e ristrutturazione dell’immobile (50 mila euro di destinazione fondo). Inoltre, è prevista l’assegnazione di un contributo di massimo 8000euro per l’avvio di attività commerciali, artigianali e agricole (80 mila euro di destinazione fondo). Possono beneficiare del contributo le nuove attività economiche costituite nel corso dell’anno 2022 e le imprese che - precisa il bando - al momento della presentazione della domanda siano regolarmente costituite (e iscritte al registro delle imprese) che hanno intrapreso una nuova attività economica sempre nel 2022. Possono beneficiare delle risorse anche le attività già esistenti che avviino una nuova attività economica nel territorio comunale attraverso una nuova e apposita unità produttiva. Le domande di contributo devono essere presentate, entro le ore 13 di venerdì 18 novembre. Maggiori dettagli, informazioni e modulo per presentare la domanda, sono reperibili sul sito del Comune al seguente link: comune.manduria.ta.it/bando-di-concorso-comuni-marginali. Manduria, oggi, conta poco meno di 30mila abitanti.

«Nell’ultimo decennio - dichiara l’assessore alle attività produttive Mauro Baldari - abbiamo perso circa 3mila residenti. Si tratta per lo più di giovani studenti che lasciano il paese d’origine per i grandi centri urbani, dove restano poi per lavoro.

Attraverso questi incentivi - spiega - cerchiamo di offrire uno stimolo a restare a Manduria o a farvi ritorno e fare impresa. Si punta soprattutto all’apertura di esercizi commerciali e all’avvio di imprese agricole e attività artigianali, favorendo l’imprenditoria femminile e “under 35”.

Rientrando Manduria tra i “comuni marginali”, con questo sostegno finanziario alla residenza e all’impresa puntiamo, dunque, al rilancio dell’economia». Intanto, l’assessore alle attività produttive annuncia che il Comune è già al lavoro sulla prossima edizione della Fiera Pessima. Tra le novità in cantiere della campionaria c’è la programmazione della festa di San Martino, un evento di settore, nella terra del Primitivo, legato al vino.

Manduria, allarme sanità: pronto soccorso in crisi. Mancano i medici e spesso si creano situazioni intollerabili.  Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2022.

È allarme nel pronto soccorso di Manduria: mancano i medici e spesso si creano situazioni intollerabili. Come quella avvenuta ieri nel nosocomio del Tarantino, dove l'unico medico in servizio, alle 16,30, ha dovuto abbandonare il posto per accompagnare un paziente in ambulanza a Taranto. A metterci una pezza ci ha pensato il direttore del servizio, che ha preso lui il posto del collega assente. Ma nel frattempo, per un'ora e mezza, il pronto soccorso è rimasto senza medico e coi pazienti in attesa.

Assenza di medici nel Pronto Soccorso di Manduria nella serata di ieri: la nota della Asl di Taranto. Manduria Oggi il 23/09/22. «Presso il Pronto Soccorso non si è venuta a creare nessuna interruzione della presenza medica e nessun disagio per l'utenza» In relazione alla notizia diffuse circa la presunta assenza di medici, per oltre un’ora, presso il Pronto Soccorso di Manduria nel pomeriggio di ieri, 21 settembre, la Asl interviene con un comunicato che vi proponiamo. «Ieri, 21 settembre, alle ore 11.25 è giunto in codice rosso presso il Pronto Soccorso dell’ospedale di Manduria, con ambulanza del 118, il sig. D. V. di anni 88, paziente iperteso in terapia con anticoagulante, per trauma cranico, riferito episodio lipotimico, avvenuto a domicilio, ed ematoma all’occhio destro.

Il paziente si presentava in stato soporoso ed afasico ed è stato subito sottoposto ad indagini ematochimiche, elettrocardiogramma e Tac del cranio che è stata refertata alle 13.15. Alle ore 15.55 è stata effettuata la consulenza anestesiologica, con indicazione al ricovero in ambiente specialistico e trasferimento con accompagnamento da parte del medico di Pronto Soccorso. Il dott. Caragli, medico in servizio in turno 14-20, prende contatti con la Neurochirurgia del “SS. Annunziata” di Taranto e organizza la partenza con ambulanza dell’ospedale, informando telefonicamente il suo direttore, dott. Francesco Turco, intorno alle ore 17 e il direttore medico del Presidio Irene Pandiani. Quest'ultima autorizza la partenza del medico del Pronto Soccorso, dopo aver disposto che, contestualmente, il medico della Chirurgia, dott. Petracca, garantisse la presenza in Pronto Soccorso, come previsto dalle indicazioni e regolamenti regionali. Si precisa che in reparto, l’assistenza veniva garantita dall’altro medico in servizio, dott.ssa Villani. Il dott. Petracca, si recava immediatamente al Pronto Soccorso, dove, tra l’altro, in quel momento era presente un altro medico del Pronto Soccorso, il dott. Dimonopoli, che si era dimostrato disponibile ad assicurare la presenza medica durante l’assenza del dott. Caragli. Intorno alle ore 18 è arrivato al Pronto Soccorso il dott. Francesco Turco. Pertanto, presso il Pronto Soccorso non si è venuta a creare nessuna interruzione della presenza medica e nessun disagio per l'utenza, in quanto l'attività è proseguita con continuità, essendo presenti due medici (dott. Petracca e dott. Dimonopoli) nella fascia oraria dalle 17 alle 18».

Il pronto soccorso del Giannuzzi per un'ora senza medico. La Redazione di La Voce di Manduria il 22 settembre 2022.

Pronto Soccorso sì, ma senza medico! Ha davvero dell’incredibile quanto si è verificato ieri pomeriggio nella struttura ospedaliera del Marianna Giannuzzi di Manduria, dove in qual pronto soccorso c’erano ben 18 pazienti in attesa di essere visitati, tra i quali anche due in codice arancione. Ma per un’ora e mezza circa, il servizio è rimasto priva dell’unico medico di turno, costretto ad assentarsi per assistere in ambulanza il trasferimento di un paziente in emergenza a Taranto.

A questo punto nel P.S. di Manduria ci si guardava in faccia per capire come risolvere la questione, mentre i pazienti in attesa, accortisi di quanto stava avvenendo, hanno iniziato a fare commenti oltre che chiedere spiegazioni al personale infermieristico a cui il servizio era affidato.

Nel frattempo, non essendo stato possibile rintracciare un medico reperibile, si è dovuto far capo al direttore del pronto soccorso, dottor Francesco Turco che, malgrado non fosse in servizio e tanto meno reperibile, ha tamponato la carenza assicurando il servizio.

Ma un fatto analogo di assenza di mancanza del medico di turno si è verificata giorni fa quando ad accompagnare un paziente con una grave emorragia a Taranto, in ambulanza c’era solo un infermiere. Una situazione davvero assurda quella di un pronto soccorso che deve far fronte ad una ampia utenza proveniente non solo da tutta la fascia orientale jonica ma anche da centri delle vicine  province.

Insomma, la carenza di medici al Gianuzzi è ormai cronicizzata, tant’è che come ieri per tutta l’estate c’è stato in servizio solo un medico per ogni turno. Talvolta risulta che per poter far fronte al gran numero di accessi si è dovuto ricorrere a medici di altri reparti che, a loro volta, sono rimasti momentaneamente senza assistenza. Insomma, una specie di coperta corta quella del personale medico al Giannuzzi, ospedale che negli ultimi decenni ha registrato un declino con scelte, più volte contestate di abolizione di interi reparti e servizi, con i manduriani che hanno invece dovuto fare da spettatori a inaugurazione di nuove strutture in altri nosocomi della provincia jonica. Visto quanto è avvenuto ieri al P.S. c’è da chiedersi se sia logico e giusto pretendere di mantenere in  piedi una struttura del genere con un solo medico per turno.  Gianluca Ceresio

Se ne va l'unico medico in servizio, pazienti in attesa al pronto soccorso. Gianluca CERESIO su Il Quotidiano di Puglia Giovedì 22 Settembre 2022,

L’episodio che si è verificato ieri all’ospedale Giannuzzi di Manduria ha davvero dell’incredibile e ha creato rabbia e indignazione tra coloro che sono stati costretti ad attendere per essere sottoposti a visita medica. Infatti, alle 16.45 l’unico medico in servizio presso il pronto soccorso, a seguito di un’urgenza, ha dovuto assentarsi per assistere un paziente in ambulanza trasportato a Taranto. Da quanto rilevato non era disponibile neppure un medico reperibile, per cui, per sopperire a tale carenza, non si è potuto fare altro che avvertire il direttore del Pronto Soccorso, dottor Francesco Turco, il quale, con alto senso di responsabilità, malgrado non fosse in servizio né reperibile, si è recato ugualmente in ospedale per assistere i pazienti, dove è giunto alle 18.

L'episodio

Per un’ora e un quarto il pronto soccorso è rimasto privo del medico di turno, eccetto, in caso di emergenza, cercando di coprire l’intervento con il supporto di un medico che, nel frattempo, ha dovuto lasciare il proprio reparto rimasto sguarnito per coprire momentaneamente la carenza al pronto soccorso. 

Una specie di tappabuchi che di tanto in tanto si ripete. Intanto, è innegabile che ieri pomeriggio, dalle 16.45 alle 18 si è rimasti senza medico, e nella struttura del pronto soccorso c’erano 18 pazienti in carico, tra cui 2 codici arancioni e 7 in sala d’attesa con varie patologie. Una situazione che ha dell’incredibile in un sistema sanitario che, da quanto si verifica quotidianamente, spesso non tiene conto delle esigenze territoriali, dovendo effettuare tagli dovuti alla spesa sanitaria per ciascuna regione. Quello di ieri, è un caso emblematico ma, è bene ricordare che per tutta l’estate al pronto soccorso di Manduria c’era quasi sempre un solo medico in servizio, malgrado sia noto da sempre che, proprio nella stagione estiva, l’utenza che fa capo al Giannuzzi si dilata notevolmente, con l’aggiunta di oltre 100mila persone che stazionano sulla costa orientale jonica ed hanno come punto di riferimento la struttura di Manduria. Il progressivo ridimensionamento del personale ha portato un sovraccarico di lavoro sulle strutture di pronto soccorso e i pochi medici che hanno in carico il servizio sono costretti talvolta a straordinari forzati pur di coprire i turni. I professionisti vengono sottoposti a uno stress psico- fisico tale da poter compromettere la propria salute e di riflesso la qualità del servizio reso ai pazienti. Per la carenza di medici ne sono stati ingaggiati provvisoriamente alcuni dall’Albania: per un certo periodo hanno operato presso il Giannuzzi ma poi non è stato reso noto il perché non siano rimasti in tale struttura.

Le precisazioni dell'Asl

“Ieri, 21 settembre, alle ore 11.25 è giunto in codice rosso presso il Pronto Soccorso dell’ospedale di Manduria, con ambulanza del 118, il sig. D.V. di anni 88, paziente iperteso in terapia con anticoagulante, per trauma cranico, riferito episodio lipotimico, avvenuto a domicilio, ed ematoma all’occhio destro - spiega in una nota l'Asl - Il paziente si presentava in stato soporoso ed afasico, ed è stato subito sottoposto ad indagini ematochimiche, elettrocardiogramma e Tac del cranio che è stata refertata alle 13.15. Alle ore 15.55 è stata effettuata la consulenza anestesiologica, con indicazione al ricovero in ambiente specialistico e trasferimento con accompagnamento da parte del medico di Pronto Soccorso. Il dott. Caragli, medico in servizio in turno 14.00-20.00, prende contatti con la Neurochirurgia del “SS. Annunziata” di Taranto e organizza la partenza con ambulanza dell’Ospedale, informando telefonicamente il suo Direttore, dott. Francesco Turco, intorno alle ore 17.00 e il Direttore Medico del Presidio, dott.ssa Irene Pandiani. Quest'ultima autorizza la partenza del medico del Pronto Soccorso, dopo aver disposto che, contestualmente, il medico della Chirurgia, dott. Petracca, garantisse la presenza in Pronto Soccorso, come previsto dalle indicazioni e regolamenti regionali".

L'Asl precisa che in reparto, l’assistenza veniva garantita dall’altro medico in servizio, dott.ssa Villani. "Il dott. Petracca, si recava immediatamente al Pronto Soccorso, dove tra l’altro in quel momento era presente un altro medico del Pronto Soccorso, il dott. Dimonopoli, che si era dimostrato disponibile ad assicurare la presenza medica durante l’assenza del dott. Caragli. Intorno alle ore 18.00 è arrivato al Pronto Soccorso il dott. Francesco Turco. Pertanto, presso il Pronto Soccorso non si è venuta a creare nessuna interruzione della presenza medica e nessun disagio per l'utenza, in quanto l'attività è proseguita con continuità, essendo presenti due medici (dott. Petracca e dott. Dimonopoli) nella fascia oraria dalle 17.00 alle 18.00”.

La notte scorsa per un trasferimento a Taranto con il medico di turno. Di nuovo il pronto soccorso senza medici, la storia si ripete. La Redazione de La Voce di Manduria il 30 novembre 2022.

Un episodio che si è già verificato la scorsa estate, si è ripresentato l'altra notte e riguarda la carenza di personale medico presso il pronto soccorso dell'ospedale Giannuzzi di Manduria.

Nella notte tra sabato e domenica, più precisamente verso le tre, l'unico medico in servizio nella struttura di pronto intervento del nosocomio messapico ha dovuto assentarsi per assistere in ambulanza un infartuato durante il trasporto al SS. Annunziata di Taranto. Una situazione che si ripete puntualmente ma che nel 2022 non dovrebbe presentarsi affatto, in un periodo in cui si parla di scoperte eccezionali in campo medico e si cerca di potenziare le strutture con attrezzature sofisticate, mancano i medici. Ciò che purtroppo oggi viene a mancare è proprio il personale medico, di cui c'è carenza non solo a livello locale ma anche nazionale. In ogni caso, per ciò che riguarda l'episodio recente al pronto soccorso di Manduria, viene reso noto dalla direzione della Asl, quindi confermato da personale dello stesso ospedale Giannuzzi, dal momento che l'unico medico di turno ha dovuto assistere il paziente nel trasporto in ambulanza a Taranto, sono scattate automaticamente le misure di emergenza.

Pertanto, la direzione sanitaria, nel caso specifico, ha attivato quanto previsto dalla stessa Asl per assicurare la continuità assistenziale, spostando momentaneamente un medico da un altro reparto per garantire la presenza all'arrivo di pazienti al pronto soccorso. In effetti, si tratta di una procedura già in atto anche in altre realtà ospedaliere, non soltanto pugliesi, per cercare di tamponare la endemica carenza di personale medico. Da sottolineare che, secondo dati ufficiali, oggi a livello nazionale si registra un fenomeno piuttosto preoccupante che riguarda proprio la carenza di medici ai pronto soccorso che attualmente sono poco più di 5.800 mentre ne occorrerebbero almeno il doppio, senza contare che attualmente i precari risultano essere oltre 1.500 e che, un altro migliaio hanno già lasciato le strutture negli ultimi anni. Sempre sulla base di dati nazionali, è da aggiungere che le Regioni da una quindicina di anni, dispongono di mezzi finanziari limitati per le assunzioni di personale medico, poi c'è stato anche qualche professionista che ha preferito lasciare la struttura pubblica per quella privata.

In ogni caso, tornando a livello locale e più specificamente al Giannuzzi di Manduria, se da una parte c'è il problema della carenza di medici, spesso ad aggravare la situazione (proprio nel pronto soccorso) sono gli stessi pazienti che si rivolgono a tale struttura di emergenza, per patologie di lieve entità che potrebbero essere benissimo trattate dal medico di base e, durante la notte e festivi dalla guardia medica che si trova all'entrata dell'ospedale Giannuzzi. Purtroppo, ciò è riscontrabile facilmente controllando il numero di accessi con codice bianco e verde. Un po' di collaborazione da parte di tutti non guasterebbe, in quanto, data la situazione, ricorrere al pronto soccorso per patologie di lieve entità, finisce per togliere del tempo utile a curare i reali casi di emergenza per cui la struttura esiste. Gianluca Ceresio su Quotidiano

La testimonianza del suo "costruttore". Vi racconto com'è nata La Voce di Manduria. La redazione su| La Voce Di Manduria sabato 20 agosto 2022

Buon compleanno! La Voce di Manduria oggi 19 agosto 2022, festeggia i suoi 13 anni di vita. Era un sabato della metà di luglio 2009, quando un amico accettandomi l’amicizia su Facebook mi chiese un aiuto a creare la pagina de La Voce di Manduria su internet. Come mio carattere non esitai a tirarmi indietro a tutto quello che è novità e,  mi misi subito al lavoro. Nacque così dopo pochi giorni di lavoro intenso la home page il  quotidiano on line di Manduria che tutti ora conosciamo e, assieme a al mio amico Reno, tagliammo il “nastro” premendo il tasto “invio” sulla tastiera dei nostri portatili mettendo sul Web il “nostro” e il “vostro” giornale, per dare l’imput, dell’intraprendenza e della concretezza di, Nazareno  Dinoi  (per gli amici Reno), che ha da sempre creduto in un progetto di un quotidiano semplice, pulito,  piccolo, (solo nel formato) che raccontasse e vivesse la città.

Nacque così La Voce di Manduria, in una fase difficile, di crisi economica globale, che stava colpendo pesantemente le attività produttive e le famiglie italiane, in particolare le aree più deboli del Sud, investire nell’informazione, anch’essa messa in pericolo (ancora oggi per la verità) da provvedimenti che ne volevano limitare i margini d’azione, e quindi in un giornale, fu un atto di coraggio e di amore per la propria Terra. Parlare di pace, all’epoca in cui partivamo, ci sembrava superfluo, perché nella foga di guardare al futuro a volte tutti noi diamo per scontate le conquiste più preziose. Così oggi La Voce di Manduria entra nel XIV anno di pubblicazione con una tragedia immane in Ucraina, e il mondo che marcia guardando la strada dal riflettore.

L’informazione, se giusta e libera, contribuisce alla crescita culturale, morale e civile di un Paese, e noi non vogliamo mancare di esercitare questo ruolo.

Consapevoli di ciò, pertanto, sin dalla prima uscita, la redazione ha lavorato per costruire un giornale d’informazione sempre più vicino alla gente e al territorio, senza connivenze, ma spesso di denuncia e di stimolo, così come di apprezzamenti quando se n’è presentata l’occasione. 

A volte ha potuto commettere degli errori, come tutti d’altronde, ma è sempre stata pronta a farne ammenda e a riprendere il viaggio con più determinazione. E’ cresciuta così, giorno dopo giorno, raccontando i fatti e gli eventi di questo città, con lealtà, professionalità e, soprattutto, verità.

Ha rafforzato, e in qualche occasione ricostruito, quel cordone ombelicale che lega la cultura, la storia e le tradizioni di questo territorio, ai suoi figli sparsi per il globo e ne siamo felici.

Gli apprezzamenti delle migliaia di lettori e di contatti che ogni giorno registriamo, la vitalità della direzione e la coesione della redazione, sono per tutti la garanzia di un anno costruito bene, nella direzione che si era prefissata.

Si è ancora in viaggio, ed ogni anno si ricomincia  iniziando altre tappe, con nuovi obiettivi e nuove prospettive e, ricchi del bagaglio di un altro anno appena trascorso, si è pronti ad affrontarlo con più dinamicità e fermezza.

Buon compleanno cari amici e colleghi.

Fernando Filomena giornalista OdG Emilia Romagna (Il primo “sfornato” da La Voce di Manduria e da Nazareno Dinoi)

Manduria, tragedia in ospedale: medico muore in corsia stroncato da malore, era in turno da 24 ore. E si fa strada l'ipotesi del «troppo stress» tra le cause del dramma, dal momento che i medici sono sottoposti a turni massacranti per coprire le carenze di organico. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

Tragedia all'ospedale Giannuzzi di Manduria (Ta), dove un un medico di 61 anni è morto dopo essere stato colto da infarto mentre svolgeva una visita. Era in turno da 24 ore. Indaga la Procura. I tentativi per rianimare il medico sono stati inutili, e i tra i colleghi emerge forte l'ipotesi del «troppo stress», dal momento che sono sottoposti tutti a turni massacranti pur di coprire le carenze di organico. Il medico lascia la moglie e tre figli.

Per il capogruppo regionale di Fratelli d’Italia, Ignazio Zullo, "c'è un’oggettiva carenza di medici ma è altresì oggettiva la carenza di modelli organizzativi adeguati in questa Sanità di Emiliano. È sconcertante l’ipotesi avanzata secondo la quale la morte del collega medico possa essere collegata allo stress correlato al lavoro. Sconcertante sì, ma resta un’ipotesi plausibile se è vero che il collega era al lavoro da 24 ore». La sanità tarantina, commenta il segretario territoriale della Cgil Paolo Peluso, «è al collasso e la tragica scomparsa di un medico, colpito da infarto mentre era addirittura in servizio all’ospedale di Manduria, conferisce ancora più assurda e insensata violenza ad uno scenario da conflitto bellico». Secondo il sindacalista, «i medici al fronte nei difficili anni della pandemia, oggi allo stremo delle loro forze, pagano ancora con la vita, e con la compressione dei loro diritti una politica scellerata di tagli e precariato in sanità».

Infarto in corsia per il primario. «Aveva lavorato 24 ore di fila». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 22 luglio 2022.  

«Siamo sotto organico e Giovanni, come tanti di noi, faceva anche da tappabuchi. Martedì sera, arrivando in ospedale, ha lavorato dodici ore al Pronto soccorso. Poi, dalle 8 del mattino successivo, altre dodici in reparto rientrando a casa solo mercoledì sera. Giovedì mattina era poi regolarmente in reparto a fare le visite ed è morto praticamente in corsia». Nelle parole dei colleghi di ospedale, traspare lo sconcerto che si respira al «Giannuzzi» di Manduria (Taranto). Giovanni Buccoliero, 61 anni a novembre, primario facente funzioni del reparto di Medicina, è morto stroncato da una collasso cardiaco attorno alle 8.30. Mentre faceva il giro tra i pazienti si è allontanato dicendo a quegli stessi colleghi che andava in bagno. «Ma non manifestava alcuna sintomatologia che lasciasse preludere ciò che è avvenuto», dirà alcune ore più tardi il direttore generale della Asl di Taranto, Gregorio Colacicco. Dal bagno, però, il dottor Buccoliero non è più tornato. Preoccupato del ritardo nel rientrare in corsia, un infermiere del suo gruppo è andato a controllare e lo ha trovato riverso a terra, dietro la porta. Aveva perso i sensi, non respirava più. Immediato l’aiuto con il massaggio cardiaco e i farmaci, sono accorsi i rianimatori e gli anestetisti, ma non c’è stato nulla da fare. L’arresto cardiaco è stato letale.

L’inchiesta e la rabbia

Sarà un’inchiesta aperta dalla Procura di Taranto a stabilire se c’è stato un nesso di causa-effetto tra le 24 ore di lavoro continuativo di Buccoliero del giorno precedente e la sua morte di giovedì mattina. Però la rabbia monta. Al «Giannuzzi», come in tanti altri ospedali, i turni di lavoro sono ormai massacranti e per garantire standard minimi di assistenza medica anche i dirigenti devono prolungare l’orario di lavoro e impegnarsi in altri reparti. Di fronte alla morte sul posto di lavoro di Buccoliero i sindacati di categoria sono insorti. Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), aprendo ieri a Roma il Consiglio nazionale ha sottolineato «il grave disagio dei medici, sottoposti a superlavoro, a turni infiniti, senza possibilità di fruire dei riposi previsti dalla legge, o delle ferie».

L’organico

Il problema, in Puglia, è il blocco delle assunzioni che ha determinato la carenza di personale. Così tutti i medici, anche i dirigenti, anche alla luce della doppia emergenza Covid e caldo, in base a una disposizione dell’assessorato regionale alla sanità sono tenuti a garantire i turni anche nei Pronto soccorso. Attualmente al «Giannuzzi» di Manduria i professionisti sono soltanto cinque e non riescono a coprire le esigenze del reparto. Per questa ragione Giovanni Buccoliero, secondo quanto hanno dichiarato alcuni suoi colleghi, martedì scorso ha dovuto sostenere dodici ore in questo reparto per poi farne altre dodici a Medicina. «L’ospedale di Manduria — dice il direttore generale Colacicco — come tanti altri è sotto organico e il personale deve farsi carico non solo dei propri turni. Il dottor Buccoliero era un gran lavoratore e non si sottraeva dal prolungare il proprio orario di lavoro. Da dirigente, in ogni caso, non sottostava a turnazioni prestabilite e si regolava sulle esigenze del proprio reparto». I carabinieri della Compagnia di Manduria hanno acquisito i tabulati dei turni e raccolto alcune testimonianze. Ieri sera, intanto, a Sava — città di residenza di Buccoliero in provincia di Taranto — si sono svolti i funerali. Vi ha partecipato una gran folla perché il professionista era molto conosciuto e apprezzato per le sue doti di umanità. Era sposato, lascia la moglie e tre figli.

Primario morto in reparto, gli Ordini dei medici: "Ospedali al collasso. Molti colleghi fuggono all'estero o dai privati". La Repubblica il 24 Luglio 2022.

La Federazione nazionale degli Ordini provinciali lancia l'allarme dopo il caso di Giovanni Buccoliero, il professionista 61enne deceduto mentre era al lavoro all'ospedale di Manduria

"Morto per troppo lavoro? La Procura di Taranto ha aperto un fascicolo d'inchiesta sulla morte del medico Giovanni Buccoliero, il 61enne stroncato da un arresto cardiaco giovedì 21 luglio mentre faceva il giro delle visite in corsia nell'ospedale di Manduria". Così in un post su Facebook la Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri).

"In ogni caso - prosegue la Fnomceo - la situazione degli ospedali è al collasso per la carenza di personale che non permette ai professionisti di fare i giusti turni, di fruire delle ferie e dei riposi". Una situazione "drammatica", che la Federazione, assieme ai sindacati medici, denuncia "da tempo e che porta molti medici a fuggire: all'estero, verso il privato, verso il pre-pensionamento", conclude.

Primario morto in reparto, verifiche sui turni di lavoro in ospedale che colleghi e sindacati denunciano come 'massacranti'

Manduria, primario muore dopo 24 ore di turno. I colleghi: “Siamo sotto organico e faceva da tappabuchi”.

"Nel suo reparto, con 20 posti letto ordinari e 8 dedicati ai pazienti con Covid, erano rimasti solo 5 medici in servizio, costretti a turni di lavoro massacranti, senza la possibilità di andare in ferie o di riposarsi adeguatamente per poter assicurare il servizio" sottolinea Arturo Oliva, presidente Federazione Cimo-Fesmed Puglia. Il Fatto Quotidiano il 23 luglio 2022.

Un giorno intero, 24 ore di lavoro, Giovanni Buccoliero, 61 anni, primario facente funzioni del reparto di Medicina dell’ospedale Giannuzzi di Manduria (Taranto), si è accasciato ed è morto, probabilmente colpito da infarto. La Fnomceo, Federazione nazionale Ordini dei medici, esprime cordoglio ma punta il dito contro la “drammatica carenza di personale” sanitario e gli errori che l’hanno determinata e la alimentano. Un caso “inaccettabile”, non si può accettare “che siano gli operatori a scontarli con la salute e persino con la vita“, dichiara il presidente Fnomceo Filippo Anelli, che ha ricordato il primario deceduto aprendo a Roma il Consiglio nazionale della Federazione.

Dalla struttura ospedaliera, come scrive il Corriere della Sera, viene confermato che la carenza di organico costringe tutti a turni infiniti. “Siamo sotto organico e Giovanni, come tanti di noi, faceva anche da tappabuchi. Martedì sera, arrivando in ospedale, ha lavorato dodici ore al Pronto soccorso. Poi, dalle 8 del mattino successivo, altre dodici in reparto rientrando a casa solo mercoledì sera. Giovedì mattina era poi regolarmente in reparto a fare le visite ed è morto praticamente in corsia” raccontano i colleghi. Si è allontanato per andare in bagno ed è lì che stato trovato.

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“Quanto accaduto ieri all’ospedale di Manduria, dove un medico è deceduto dopo un malore mentre visitava i pazienti, è inaccettabile. Nel suo reparto, con 20 posti letto ordinari e 8 dedicati ai pazienti con Covid, erano rimasti solo 5 medici in servizio, costretti a turni di lavoro massacranti, senza la possibilità di andare in ferie o di riposarsi adeguatamente per poter assicurare il servizio” sottolinea Arturo Oliva, presidente Federazione Cimo-Fesmed Puglia, sindacato che “per ricordare il dottor Buccoliero” propone “al presidente dell’Ordine dei medici di Taranto, Cosimo Nume, di invitare tutti i colleghi a lavorare con il lutto al braccio, nella speranza che quanto successo non accada mai più”.

“Il dottor Buccoliero, stimatissimo dai colleghi e sempre disponibile per i suoi pazienti, era tra i più impegnati a coprire i turni – spiega Oliva in una nota – E queste sono le conseguenze di un’organizzazione del lavoro scellerata, che continua a poggiarsi unicamente sul sacrificio e la responsabilità del personale sanitario. Non è possibile pensare di continuare a lavorare in questo modo. Abbiamo più volte chiesto a tutti i nostri interlocutori l’adozione di misure straordinarie per sopperire alla carenza di personale, incentivando i medici a partecipare ai concorsi e convincendo i colleghi a continuare a lavorare negli ospedali della Regione. Molti invece continuano a fuggire da una vita lavorativa insostenibile, e finché non cambieranno le cose non si può biasimare la loro scelta”. “Ci stringiamo intorno al dolore della famiglia del dottor Buccoliero e continueremo a lottare con ancora più convinzione per il rispetto dei diritti dei medici – prosegue il presidente regionale Cimo-Fesmed – Quello alle ferie e al riposo settimanale è previsto dall’articolo 36 della Costituzione, sebbene le istituzioni sembrino averlo dimenticato”.

I carabinieri hanno acquisito documenti, tabulati, orari e turni di servizio nell’ospedale Giannuzzi di Manduria, riferiti all’attività del medico. L’acquisizione dei documenti è stata disposta dal procuratore di Taranto, Eugenia Pentassuglia per valutare eventualmente l’aperura di una inchiesta. Intanto, la Cgil di Taranto ha annunciato un presidio che si terrà mercoledì 27 sotto la sede dell’Asl, in viale Virgilio. “La situazione della sanità tarantina – afferma il segretario provinciale Paolo Peluso – meritava di essere approfondita immediatamente, mentre siamo ancora in attesa di una convocazione da parte dell’Azienda sanitaria di Taranto a cui all’indomani della tragica scomparsa del medico del Giannuzzi di Manduria, avevano chiesto di far presto. Per questo credo che si debba passare alla mobilitazione per evitare che la condizione di allarme che vive il bisogno di salute del territorio, possa pian piano scomparire dai radar”. “Pronti alla mobilitazione in assenza di risposte”, sottolineano il segretario generale Uil Fpl Emiliano Messina e Cosimo Lodeserto e Nicola Amati per la Uil Fpl Medici, scrivendo al direttore generale dell’Asl di Taranto Gregorio Colacicco e ribadendo la richiesta di “un incontro urgente sulle condizioni di lavoro e sui turni di servizio del personale“. L’acquisizione degli atti, a quanto si apprende, fa parte di verifiche preliminari avviate dai carabinieri su richiesta della Procura di Taranto, che sta vagliando la vicenda. Al momento, però, precisano fonti vicine alle indagini, non è stato aperto alcun fascicolo né formalizzata una ipotesi di reato.

Oggi i funerali a Sava. L'ultimo turno di lavoro del medico e la rabbia dei colleghi e dei sindacati. La Redazione de la Voce di Manduria, venerdì 22 luglio 2022.

Si terranno oggi pomeriggio alle 17 nella chiesa Sacra Famiglia di Sava, suo comune di origine, i funerali di Giovanni Buccoliero, medico internista dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria stroncato ieri mattina da un arresto cardiaco mentre lavorava. La salma è stata portata ieri nella casa in contrada Cardinale dove il professionista viveva. La tragedia ieri mattini dopo le 8,30.

Era appena entrato in una stanza di degenza del suo reparto di medicina e come tutte le mattine aveva iniziato a fare il giro visite stanza per stanza. Ha detto agli altri di iniziare senza di lui perché doveva andare in bagno da dove non è più tornato. Giovanni Buccoliero, 61 anni, medico internista di ruolo, lo hanno trovato per terra, morto, rannicchiato nel piccolo ambiente con il rubinetto d’acqua aperto. Non respirava, era rimasto lì con il cuore fermo per alcuni minuti, troppi per sperare in una ripresa.

Non tornava così uno degli infermieri si è avvicinato alla porta del bagno ed ha provato a chiamarlo senza ricevere risposta. Dall’altra parte solo lo scroscio continuo dell’acqua. È stato questo ad insospettire i sanitari che hanno deciso di abbattere la porta temendo il peggio. Le manovre di soccorso sono iniziate immediatamente ma senza successo. Il massaggio cardiaco durato quasi un’ora e i farmaci non hanno dato esito, nemmeno gli anestesisti della rianimazione, intervenuto anche loro, hanno potuto fare niente per ridargli la vita. Un arresto cardiorespiratorio fatale, diranno i suoi colleghi che si sono dovuti arrendere tra lo choc e la rabbia, perché sin da subito si è pensato allo stress a cui tutto il personale del Giannuzzi è sottoposto per colmare le carenze dell’organico. C’era chi piangeva e chi lo faceva imprecando contro un sistema «che ci spreme come limoni».  

Il dottor Buccoliero era un veterano della medicina. Specialista in oncologia era stato assunto di ruolo più di 25 anni fa e da allora non si era più spostato dal suo reparto. Attaccatissimo al lavoro, erano più le ore in cui indossava la divisa che gli abiti civili. I suoi colleghi confermano il suo stacanovismo: «non si tirava indietro mai», dicono di lui che oltre ad assicurar ei turni di servizio nel suo reparto di medicina, copriva anche le guardie notturne interdivisionali e, da questo mese, anche nel pronto soccorso. Buccoliero era uno dei sanitari «invitati» dalla direzione medica a fare da tappabuchi coprendo i turni scoperti del servizio di accettazione del Giannuzzi rimasto senza personale. Dall’inizio del mese il suo nome ha coperto cinque turni vuoto in pronto soccorso. Non ci sono conferme ufficiali ma le voci che circolavano ieri negli ambienti del Giannuzzi parlavano di un turno di 24 ore senza interruzione. Dopo le 12 ore in pronto soccorso martedì notte sarebbe rimasto in ospedale per le dodici ore successive, poi era tornato a casa e ieri mattina alle 8 aveva nuovamente timbrato il badge magnetico per l’ultima volta.

Affabilissimo e disponibile con tutti, era conosciuto anche per la sua pacatezza d’animo, mai un eccesso, mai un comportamento esuberante. «La mia famiglia è la medicina», diceva spesso alle persone che lavoravano con lui. Con l’equipe della medicina aveva affrontato la gestione dell’ospedale Covid dello scorso anno ed anche adesso seguiva i sette posti letto, sempre pieni, dedicati all’infezione virale che non accenna a fermarsi.

Per tutta la giornata di ieri la camera mortuaria dell’ospedale manduriano è stata un via vai di dipendenti che hanno reso omaggio alla salma. Ieri pomeriggio il carro funebre lo ha prelevato e lo ha portato nella sua casa a Sava dove oggi pomeriggio alle 17 ci saranno i funerali con rito nella chiesa della Sacra Famiglia. Buccoliero era sposato ed aveva tre figli maschi.

Le reazioni dei sindacati e della politica

Il segretario della Cgil di Taranto, Paolo Peluso lo definisce come «uno scenario bellico» il contesto in cui ieri si è consumata la tragedia all’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria dove il medico Giovanni Boccoliero è stato stroncato da un arresto cardiaco mentre visitava i suoi pazienti. Il sindacalista parla di «medici al fronte che allo stremo delle loro forze pagano ancora con la vita e con la compressione dei loro diritti, una politica scellerata di tagli e precariato in sanità e così un cittadino, un medico, stressato, stanco, e impossibilitato a riposare, andare in ferie, chiedere un congedo parentale, costretto a turni massacranti, fa male a se stesso, come è accaduto a Manduria e potenzialmente rischia di far male ad altri». Il segretario Peluso si rivolge poi a chi ha competenze per agire in fretta «prima che su quel terreno si registrino ancora perdite o inefficienze».

In attesa di nuove e indispensabili assunzioni, la Cgil ionica chiede con urgenza proposte e idee praticabili alla direzione generale dell’Asl di Taranto avvertendo che «se non ci sarà dialogo, ci sarà mobilitazione».

Anche la Uil Funzione Pubblica tarantina esprime sgomento per la morte del medico «venuto a mancare improvvisamente in servizio dopo un turno estenuante di lavoro di 24 ore». Ieri stesso la Uil sanità ha formalizzato una richiesta di incontro alla direzione generale sulle condizioni di lavoro e sui turni di servizio del personale del comparto e della dirigenza sanitaria.

L’ex sindaco di Sava, Dario Iaia, ora consigliere comunale e capogruppo di Fratelli d’Italia, ha appreso con sgomento la terribile notizia del concittadino morto. «Con tutta l’amministrazione esprimiamo profondo e sentito cordoglio alla famiglia Boccoliero e siamo vicini al loro dolore», dichiara Iaia. Che evita di entrare nel merito delle possibili cause o concause del decesso. «Non è il momento delle polemiche ma del dovuto rispetto per il lutto che ha colpito questa famiglia. Tuttavia – aggiunge -, in seguito dovrà essere affrontata una volta per tutte la questione del massacro della sanità pugliese e delle pessime condizioni di lavoro in cui sono costretti i nostri sanitari».

Molto più duro il commento dell'ex consigliere regionale e coordinatore regionale di Italexit, Mario Conca. «La direzione sanitaria del Giannuzzi e quelle di tutti gli altri ospedali - dice - non avrebbe dovuto sottoporre i suoi operatori a tale stress visto che i reparti sono sotto organico, ma purtroppo sono prone alle direzioni generali al servizio della politica clientelare regionale».

Per questa mattina la direzione generale della Asl incontrerà i vertici sanitari del presidio manduriano per discutere la scottante situazione che rischia di esplodere da un momento all’altro. L’incontro era stato già convocato ma la tragedia di ieri sarà come benzina sul fuoco negli animi esasperati dei camici bianchi. Il pronto soccorso del Giannuzzi è attualmente affidato a cinque medici che oltre a dover rinunciare alle ferie non riescono a coprire tutti i turni. Attualmente l’emergenza riguarda anche gli infermieri e gli operatori socio sanitari decimati da un focolaio di Covid che ha colpito contemporaneamente sette unità. Oltre alle urgenze, il personale del pronto soccorso gestisce anche un reparto Covid con sette posti costantemente occupati. N.Din.

La messa alla prova ha estinto ha funzionato. E' fatta: tutti i reati cancellati agli “orfanelli”. La Redazione e La Voce di Manduria il 13 ottobre 2022.

Il Tribunale per i minorenni di Taranto ha cancellato ieri tutti i reati a carico degli «orfanelli», la baby gang manduriana nota alle cronache per aver vessato sino alla tortura il pensionato Antonio Cosimo Stano, deceduto ad aprile del 2018 per le complicazioni di una ulcera gastrica non curata e, come ha sostenuto l’accusa, trascurata dallo stato di abbandono e di isolamento in cui il 65enne si era rifugiato per sfuggire al branco.

La corte del tribunale dei minori presieduta dal giudice Ciro Fiore, ha preso atto della buona riuscita della messa alla prova degli imputati, ora tutti maggiorenni, estinguendo i reati che gravavano su di loro. Degli indici «orfanelli» alla sbarra, solo uno resta ancora affidato ai servizi sociali e lo sarà sino a gennaio prossimo. E' quello che aveva avuto il periodo più lungo di pena, il ragazzo «con il giubbino rosso» il cui gesto immortalato dal video ha contribuito più di tutti ad aumentare lo sdegno e la condanna dell’opinione pubblica nazionale: quello del violento schiaffo in pieno volto al povero pensionato che tendeva la mano al suo aggressore in segno di pace. Gli altri dieci imputati sono diventati puliti per la legge avendo scontato il periodo di buona condotta durato tra i due e i tre anni.

Tutti quanti hanno raggiunto l’obiettivo correttivo e alcuni di loro hanno trovato lavoro o continuato gli studi e si sono maturati. A gennaio prossimo anche l’undicesimo, che lavora e vive in casa da diversi mesi, si sottoporrà al giudizio della magistratura minorile che, sentiti gli educatori dei servizi sociali e valutata la buona riuscita della «lezione» inflitta, decreterà anche per lui l’estinzione dei reati.

Gli unici a pagare con la galera sono due dei tre maggiorenni dello stesso gruppo degli «orfanelli» (così i ragazzi terribili si facevano chiamare nel gruppo WhatsApp dove facevano circolare i video dell’orrore con le bravate notturne anche in casa della loro vittima). Condannati in primo grado a 10 e 8 anni con il rito abbreviato, l’appello li aveva abbassati a poco più di 8 e 7 anni che la Cassazione ha confermato facendo così aprire le porte del carcere per i primi due e la restrizione ai domiciliari per quello con la pena inferiore.    

Nelle motivazioni della sentenza di condanna, la giudice Wilma Gilli usava queste parole per descrivere l’orrore che per anni aveva costretto Stano, fragile psicologicamente e socialmente emarginato, ad essere per bersaglio di violenze psicologiche e fisiche non solo dai 14 finiti sotto processo, ma da tanti altri che non sono stati mai indagati. Scrive la giudice: «espressione di un’indole malvagia e insensibile ad ogni richiamo umanitario». Il pensionato solo, «il pazzo» come lo chiamavano in molti nel quartiere, era diventato il macabro passatempo di ragazzi che si divertivano a filmare le loro bravate per poi scambiarsi le immagini sui social. «Aggressioni immotivate – li descrive la giudice che ha condannato i tre maggiorenni -, contegni sguaiati, vessatori e prevaricatori che andavano oltre l'inflizione della sofferenza fisica avendo, invece, come scopo ulteriore quello di terrorizzare la vittima, di porla in una condizione di soggezione, di stranirla per alimentare il proprio divertimento».

Si chiude così il triste capitolo di un’esistenza vissuta ai margini della società di un uomo tranquillo, forse troppo, ex dipendente dell’Arsenale di Taranto e pensionato solo. Nel 2005 gli erano stati diagnosticati dei problemi psichici come ansia e depressione, probabilmente dovuti allo stato di solitudine. Così «il pazzo» è diventato preda facile del branco. Nazareno Dinoi 

Antonio Stano fu torturato: condanna definitiva per i 3 maggiorenni della baby gang di Manduria che vessava un disabile psichico. Condanne a 8 anni e 8 mesi per il 22enne Gregorio Lamusta e il 26enne Antonio Spadavecchia, a 7 anni e 4 mesi per il 22enne Vincenzo Mazza: i primi due rischiano di finire il carcere. Tutti non sono stati considerati colpevoli della morte del 66enne tarantino. I minorenni coinvolti hanno passato un lungo periodo di "messa alla prova" in comunità. Francesco Casula su Il Fatto Quotidiano il 22 settembre 2022.  

Fu tortura quella subita da Antonio Stano, 66enne di Manduria con disabilità psichica e vittima delle violenze di una baby gang deceduto per fame e stenti il 19 aprile 2018 a distanza di pochi giorni dall’ultima aggressione subita nella sua casa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha confermato e reso quindi definitive le condanne a 8 anni e 8 mesi per il 22enne Gregorio Lamusta e il 26enne Antonio Spadavecchia e a 7 anni e 4 mesi per il 22enne Vincenzo Mazza. I tre, riconosciuti colpevoli di tortura e altri reati, non sono considerati responsabili della morte dell’uomo.

Nei tre gradi di giudizio, infatti, i tre maggiorenni – difesi tra gli altri dagli avvocati Gaetano Vitale, Lorenzo Bullo, Franz Pesare e Armando Pasanisi – sono sempre stati assolti dall’accusa iniziale di omicidio come conseguenza delle violenze: la procura aveva inizialmente chiesto al condanna a 30 anni di reclusione, ma la difesa ha infatti dimostrato che la morte non è stata la conseguenza diretta dei traumi riportati dopo le ultime violenze subite dall’uomo. Stano, quindi, dopo quell’ultima violenza, decise di chiudersi in casa e lasciarsi morire pian piano. Lamusta, Spadavecchia e Mazza erano, all’epoca dei fatti, gli unici maggiorenni della cosiddetta “baby gang degli orfanelli” di cui avrebbero fatto parte anche sette minorenni. Dopo la pronuncia della Suprema corte, in cella potrebbero finire Spadavecchia e Lamusta: per loro, attualmente ai domiciliari, il residuo di pena è superiore ai 4 anni mentre Mazza deve finire di scontare una pena inferiore e la magistratura potrebbe optare per i domiciliari o per un’altra forma di condanna come i servizi sociali.

I fatti, come detto, risalgono al 2018 e vennero a galla solo dopo la morte dell’uomo. Le indagini dei carabinieri portarono alla luce le azioni della baby gang che per mesi aveva fatto irruzione in casa dell’uomo torturandolo, umiliandolo e sottraendogli piccole somme di denaro. Azioni che per la magistratura erano “espressione di un’indole malvagia e insensibile ad ogni richiamo umanitario”. Quelle spedizioni serali, quando Antonio Stano era solo nel suo appartamento, erano “aggressioni immotivate, contegni sguaiati, vessatori e prevaricatori che andavano oltre l’inflizione della sofferenza fisica avendo, invece, come scopo ulteriore quello di terrorizzare la vittima, di porla in una condizione di soggezione, di stranirla per alimentare il proprio divertimento”. Ma non era sufficiente: quelle azioni venivano filmate dagli smartphone e poi condivise nella chat che il gruppo aveva creato per commentare quella barbarie. Per il giudice è una sorta di “perversa soddisfazione” che si alimentava “facendo circolare i video e commentandoli compiaciuti”.

L’inchiesta però ha portato alla luce anche e soprattutto la situazione di estrema solitudine nella quale l’uomo, nonostante le sue difficili condizioni, viveva in “assenza totale di un legame affettivo in qualunque modo coltivato” senza familiari o parenti “che gli facessero visita neppure durante le festività”: per queste ragioni, già nel processo di primo grado il magistrato ha escluso la richiesta di risarcimento formulata da alcuni familiari che avevano chiesto di costituirsi parte civile. L’unica forma di vita sociale per Stano era “fare la spesa e salutare i vicini restando sull’uscio”, non aveva “neppure un telefono, cellulare o fisso, con cui contattare qualcuno nel caso di bisogno”. Per questo era diventato “la facile preda di un manipolo di ragazzini senza scrupoli”: oggi, per alcuni di loro, è arrivato il conto da pagare. È andata meglio, invece, ai minorenni coinvolti nell’inchiesta: già a luglio scorso cinque di loro sono tornati a casa dopo un lungo periodo di “messa alla prova” in una comunità. Gli altri due dovrebbero lasciare le comunità entro la fine di settembre. Le relazioni degli educatori hanno certificato un buon comportamento dei ragazzi durante la permanenza iniziata a luglio 2019.

Finisce così la storia di Antonio Cosimo Stano. Prova superata, gli "orfanelli" tornano a casa. La Redazione de La Voce di Manduria il 29 giugno 2022.

Dal primo luglio quasi tutti i minori manduriani coinvolti nella morte del pensionato disabile Antonio Cosimo Stano, torneranno a casa. A nove degli undici imputati che a maggio del 2020 il tribunale per i minorenni aveva messo alla prova interrompendo così il procedimento a loro carico, è stata concessa una riduzione del periodo riabilitativo estinguendo così i reati per i quali erano stati indagati. Restano ancora affidati alle strutture solo i due allora minorenni ai quali era stato deciso un periodo di prova più lungo pari a tre anni. Tutti gli altri avrebbero dovuto completare la rieducazione a settembre, invece da dopodomani potranno tornare nelle proprie famiglie. 

Il caso è quello dei cosiddetti «orfanelli», così si facevano chiamare nei social i componenti del branco, una ventina di giovani, quasi tutti minorenni che per anni avevano vessato e in alcuni episodi anche picchiato, il 66enne manduriano, affetto da problemi di adattamento sociale e psichico, costringendolo a chiudersi in casa e ad isolarsi sino alla morte sopraggiunta per un’ulcera gastrica non curata. 

Soddisfattissimi i ragazzi, ora quasi tutti maggiorenni, che hanno superato brillantemente il periodo correttivo, alcuni di loro ottenendo anche titoli scolastici. 

Contenti anche gli avvocati del collegio difensivo composto dai penalisti Antonio Carbone, Franz Pesare, Davide Parlatano, Armando Pasanisi, Cosimo Micera, Nicola Marseglia, Lorenzo Bullo, Daniele Capogrosso, Antonio Liagi, Fabrizio Lamanna.

Tra i due ex minorenni che dovranno restare ancora per qualche mese in struttura perché il periodo di prova fissato era di tre anni, c’è anche il protagonista del video fatto girare nelle chat che lo riprende mentre inganna il disabile, accerchiato dal branco, con la finta disponibilità alla pace mediante la stretta di mano che si trasforma in un violento ceffone in pieno volto.  

Si chiude così la triste vicenda di Antonio Cosimo Stano che «gli orfanelli» chiamavano il pazzo. Un uomo tranquillo, forse troppo, che ha lavorato tutta la vita all'Arsenale della Marina Militare di Taranto. Una volta in pensione, nel 2005, gli erano stati diagnosticati alcuni problemi psichici come ansia e depressione. Probabilmente dovuti allo stato di solitudine in cui viveva e che, senza l'impegno del lavoro, si erano accentuati. D'altronde è stata proprio la sua solitudine a portarlo alla morte. Antonio non aveva nessun parente vicino e anche le istituzioni locali e forse o la stessa chiesa situata proprio di fronte casa sua, non gli sono stati accanto pur sapendo di essere solo e di essere stato preso di mira da una baby gang. Nazareno Dinoi

Tutte le condanne e le tre assoluzioni. Vent’anni a testa ai capi della Cupola. La Redazione sabato 11 giugno 2022 su La Voce di Manduria.

Confermati venti anni di reclusione a testa per Walter Modeo, Giovanni Caniglia e Nazareno Malorgio, i tre manduriani ritenuti a capo di un’organizzazione mafiosa che a Manduria controllava il mercato della droga e gestiva il crimine nel territorio Messapico dove stavano riorganizzando la frangia manduriana della sacra corona unita. 7 anni e mezzo invece per Elio Palmisano, inizialmente accusato di essere il quarto capobastone della «cupola». La pubblica accusa aveva chiesto per lui 6 anni.  

Riduzioni di pena rispetto alle richieste dell’accusa per gran parte degli imputati con poche eccezioni in aumento, tre assoluzioni piene e la conferma del massimo previsto per Modeo, Caniglia e Malorgio. Così ieri nell’aula bunker del Tribunale di Lecce il giudice delle udienze preliminari, Marcello Rizzo, ha chiuso la parte del processo con il rito abbreviato concesso ai 37 dei 50 imputati dell’inchiesta denominata «Cupola», diretta dalla Procura distrettuale antimafia salentina che ritiene di aver stroncato la ricostituzione della frangia manduriana della sacra corona unita. Sono 236 gli anni complessivamente inflitti ai 33 imputati condannati (uno degli imputati è deceduto), il pubblico ministero della Procura antimafia, Milto Stefano De Nozza, aveva chiesto tre secoli.

Aumento di pena per Elio Palmisano, inizialmente accusato di essere il quarto capobastone della Cupola, ma poi alleggerito dei reati più pesanti dopo la sua posizione di dichiarante di giustizia. I 6 anni di reclusione chiesti per lui dal pubblico ministero De Nozza, sono diventati ieri 7 anni e mezzo con la pena sospesa. Dieci mesi in più rispetto ai 4 anni proposti dall’accusa anche per Gianluca Attanasio, anche lui dichiarante di giustizia insieme a Alessandro Domenico Andrisano che ieri ha mantenuto la pena di 4 anni. 

Riduzione sempre rispetto alla richiesta per il manduriano Alessandro Caniglia, cugino del presunto capo cupola, Giovanni Caniglia, che da 10 anni di richieste deve scontare solo 8 mesi.  

Gli unici ad essere stati assolti «per non aver commesso il fatto» o «perché il fatto non sussiste», sono stati i due manduriani Giuseppe Filardo e Cosimo Iunco. I due, difesi rispettivamente dagli avvocati Lorenzo Bullo e Antonio Liagi, rispondevano il primo di associazione di stampo mafioso e il secondo di associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostane stupefacenti. Per loro il pubblico ministero aveva chiesto dieci anni di reclusione a testa. Il terzo assolto è stato Martin Caushaj che secondo il pm meritava un anno e otto mesi di carcere per reati minori legati allo spaccio di droga.  

Queste le altre condanne (tra le parentesi le richieste del pm).

Alessandro Andrisano 9 anni e 10 mesi (12 anni); Mario Buccoliero 9 anni e 10 mesi (12 anni); Emidio Carella 2 anni e 2 mesi (6 anni e 4 mesi); Andrea Ridge Carrozzo 4 anni e 2 mesi (4 anni e 4 mesi); Pierluigi Chionna 8 anni e 2 mesi (10 anni); Antonio Cioffi 6 anni e 8 mesi (6 anni e 4 mesi); Valentino Corradino 3 anni e 4 mesi (4 anni); Francesco De Cagna un anno e un mese (6 anni e 4 mesi); Gregorio De Stratis 10 anni e mezzo (12 anni); Teresa Dimitri 8 anni e 10 mesi (6 anni e 4 mesi); Maurizio Malandrino 10 anni e 8 mesi (14 anni); Raffaele Malandrino 10 anni e 8 mesi (14 anni); Vincenzo Mazza 10 mesi (4 anni e 4 mesi); Fabio Mazzotta 4 anni e 2 mesi (4 anni e 4 mesi); Gianvito Modeo 9 anni e 2 mesi (10 anni); Raffaele Pagano un anno e mezzo (2 anni); Antonio Pangallo 8 anni e 10 mesi (6 anni); Emanuele Pastorelli 10 mesi (4 anni e 4 mesi); Angela Maria Pedone 10 anni e 3 mesi (12 anni); Giuseppe Policastro un anno e 8 mesi (un anno e 8 mesi); Dario Portogallo 9 anni e 2 mesi (10 anni); Maurizio Scialpi 4 anni e 2 mesi (4 anni e 4 mesi); Pietro Spadavecchia 8 anni e 2 mesi (12 anni); Antonio Stano 10 mesi (4 anni e 4 mesi); Michele Antonio Trombacca 8 anni (10 anni).

Il collegio difensivo che è pronto a ricorrere in appello, era composto dagli avvocati Massimo Mero, Giuseppe Masini, Salvatore Maggio, Sergio Luceri, Alessandro Cavallo, Lorenzo Bullo, Antonio Liagi, Cosimo Parco, Michele Fino, Francesco Fasano, Dario Blandamura, Giuseppe Presicce, Giuseppe Giulitto, Francesca Coppi, Fabio Falco, Cosimo Micera, Manolo Gennari, Raffaele Missere, Serena Missere, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Cinzia Filotico, Mario Rollo, Gianluca Parco e Sara Piccione. Nazareno Dinoi

Serate e piazze vuote anche a Manduria. L’analisi dell’esperto: San Pietro in Bevagna affollato solo per il mare ma la sera c’è il mortorio. La Redazione di La Voce di Manduria 21 luglio 2022.

A che punto siamo con la movida a San Pietro in Bevagna nel pieno dell’estate 2022? “Non esiste. Qui è un totale mortorio”, racconta il cittadino manduriano Mimmo Fontana, gestore della seguitissima pagina Facebook “Io amo San Pietro in Bevagna” che ci mostra un video e fotografie di sere desolanti nella marina manduriana.

Sono più o meno le 22.00 di lunedì 19 luglio, quando Mimmo Fontana con il suo mezzo sostenibile, una bicicletta con cestello, passeggia sconsolato sul principale vialone della località balneare sanpietrina documentando con smartphone ciò che vede e ciò che lo circonda: lampioni accesi, qualche ambulante di dolciumi superstite, una coppia di mezza età che si ciondola annoiata senza meta. E una lunga e larga strada desertica. Eppure è estate, ed è il perfetto orario per uscire e consumare, per divertirsi, lì, a pochi metri, dal paradiso: il mare. Ed è proprio questo che attira ancora i turisti, ci dice infatti Mimmo: “Si trova affluenza solo nelle spiagge, poi dalle 20 qui è un totale mortorio”.

La marina manduriana sembra concedere le sue bellezze naturali solo nelle ore diurne ai turisti e i concittadini accalcati nelle libere spiagge per poi assopirsi di notte. E la movida? E i giovani?: “Non pervenuti, qui solo qualche tavolo ai ristoranti”, ci racconta Fontana. “D’altronde – aggiunge -, se qualcuno deve pagare per parcheggiare e mangiare una pizza o della carne, lo fa una volta, poi stanca”. E ancora sospirando ci dice: “siamo tornati indietro di almeno dieci anni: quello che abbiamo costruito in questi anni con eventi e appuntamenti tra cui la notte del Munich, Pizzica e Primitivo ed altri - riferendosi a un locale storico di San Pietro in Bevagna -, che facevano numeri e divertimento oggi sono solo un amaro ricordo”.  “Abbiamo turismo - conclude Mimmo - se così possiamo definire, di serie Z”. Insomma, per il manduriano non c’è nulla di attrattivo a San Pietro in Bevagna che spinga i più giovani ad animare il bel paesotto e neppure per i turisti che ammaliati di giorno dall’inevitabile bellezza del mare per svagarsi di sera scelgano poi di andare altrove.

Non a Manduria, probabilmente, che non sembra in queste serate d’estate pullulare di vita.

Marzia Baldari

Da paese dei balocchi a terra di nessuno. Il «Munich» a San Pietro in Bevagna. Nei resti della vecchia discoteca a San Pietro in Bevagna: oggi la decadenza, tocca noi ricostruire. Omar Di Monopoli il 03 Aprile 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Primavera tardiva. Tre giorni fa i fiori sembrano finalmente sul punto di sbocciare e così, complice un imprevisto distacco della corrente elettrica nel quartiere in cui vivo, mi metto in macchina e veleggio verso la litoranea. L’aria è tersa, la temperatura in salita, il profumo del mirto e dell’elicriso s’insinuano di prepotenza nell’abitacolo mentre raggiungo il mare. Giunto nei pressi della foce del Chidro sorpasso una pila di rifiuti accatastati lungo il margine della strada per fermarmi a contemplare il panorama dal finestrino: un pescatore isolato sull’ansa formata dalla sorgente, un vorticar di gabbiani, quattro turisti teutonici in fila sulla battigia.

Più in là alla mia destra c’è una grossa struttura cadente, cinturata da una paratia di cemento semisbriciolato. Si staglia nel bel mezzo di un’area retrodunale e pare delimitare con irruenza lo stacco tra il placido andirivieni dei marosi e la filza di casamenti abusivi che s’infittiscono per diventare San Pietro in Bevagna. Si tratta dei resti del Munich Club, la discoteca della mia adolescenza, uno dei punti di aggregazione più gettonati della costa negli Ottanta, chiusa nel 1995 e da allora lasciata lì a marcire nel degrado più assoluto. Scendo dall’auto e mi dirigo all’ingresso dello stabile. Il tempo ha corroso le cancellate e tra le gigantesche voragini della recinzione s’intravede ora quella che una volta era stata una sbrilluccicante pista da ballo. La curiosità mi spinge a proseguire. M’intrufolo tra le porte scardinate per ritornare a calcare il pavimento di quello che per almeno un paio di generazioni di villeggianti pugliesi è stato un luogo magico. Ma la scena che mi si presenta dinanzi agli occhi è desolante: colonne sbreccate, cumuli di ciarpame, infissi divelti e impalcature sbrindellate.

Mi ritrovo a pensare al me imberbe che si dimenava quaggiù al ritmo delle hit del periodo, la combriccola allegra degli amici a far da cordone. Ricordo i bagni all’alba dopo una notte di balli scatenati. Le infradito coi jeans abbandonati sulla sabbia. Gli Apecar smarmittati dei villani che s’impadronivano dell’orizzonte. E poi l’odore della salsedine che ammantava le giornate di scirocco mescolandosi ai sentori dei pomodorini maturi. La spensieratezza un po’ zarra che ci rendeva sicuri non potesse esserci altro che un futuro migliore per queste lande allora cariche di sogni, sogni che adesso somigliano tanto a questa discoteca diroccata. Una terra dei balocchi devastata, spolpata sino all’osso da saccheggiatori anonimi eppure voracissimi. Una replica in sedicesimo, quasi, di quelle immagini di città sotto assedio che stanno accompagnando queste nostre ultime, complicate settimane. La festa sta finendo, è evidente. Pure, mi ripeto, spetta a noi rimboccarci le maniche e ricostruire. Perché nessun altro lo farà al posto nostro.

Chi sono i Paperon de' Paperoni a Manduria. L'elenco delle venti aziende che operano nella città Messapica. La Voce di Manduria sabato 19 febbraio 2022

Tra i settori commerciali più ricchi che operano sul territorio manduriano, il primo posto è occupato dai signori dei rifiuti seguiti dalle imprese del vino e, a sorpresa, dalla compravendita di auto nuove e usate. Dei tre Paperon de’ Paperoni che occupano il podio, i primi due trattano lo sfruttamento dei rifiuti e il terzo il vino Primitivo di Manduria. 

Le due del business rifiuti, sono, manco a dirlo, la “Manduriambiente” che nel 2020 ha chiuso il bilancio con 21 milioni e 129mila euro di fatturato e la “Agricola Italia”, una srl che trasforma lo scarto per produrre concimi e fertilizzanti che nello stesso anno ha chiuso con 17 milioni e mezzo di euro. La cantina del terzo posto è il Consorzio Produttori Vini che sempre nel 2020 ha mosso 17 milioni e237mila euro.

La sorpresa delle quattro ruote 

Sempre restando a Manduria ed escludendo le società inattive e quelle che qui hanno solo la sede amministrativa, la terza tipologia commerciale che dà più profitti, è quella delle autovetture. Qui emerge la “Davermobile”, una Srl che sempre nel 2020 ha chiuso i bilanci con 5 milioni e 800 mila euro di fatturato. 

Prendendo in esame le prime venti società manduriane operanti in diversi settori commerciali, quello che ha prodotto di più in termini assoluti è il vino che alle 7 imprese tra le prime 20 più ricche ha garantito un movimento d’affari pari a circa 57 milioni di euro (bilancio 2020). Il secondo posto è occupato dai rifiuti con 43 milioni e terzo posto dalla logistica e trasporti che però produce altrove avendo a Manduria solo la sede amministrativa ospitata da commercialisti del posto. 

Di seguito l’elenco completo dei primi 20 Paperon de’ Paperoni (al numero 1-7 -11 società che operano altrove) che sempre nel 2020 hanno fatto muovere qualcosa come 156 milioni di euro.  Nel confronto con le aziende più produttive della provincia di Taranto, la società Manduriambiente occupa il trentesimo posto, 

I Paperon de' Paperoni

1. Hdl S.r.l. € 25.117.246 - Logistica trasporti

2. Manduriambiente Societa' Per Azioni € 21.129.235 - Rifiuti

3. Agricoltura Italia S.r.l. € 17.405.466 - Rifiuti

4. Consorzio Produttori Vini E Mosti Rossi Societa' C ... € 17.234.901 - Vino

5. Vigneti Del Salento S.r.l. In Sigla V.d.s. S.r.l. ... € 12.094.212 - Vino

6. Cantina E Oleificio Sociale Di Manduria Societa ... € 11.128.703 - Vino

7. Consorzio Gruppo Tmg € 10.017.196 - Trasporti

8. Agricola Pliniana - Societa' Cooperativa Agricola € 7.758.141 - Vino

9. Square Srl In Liquidazione € 7.646.436 - Casalinghi

10. Davermobile S.r.l. € 5.876.989 - Auto

11. Magaservice Societa' A Responsabilita' Limitata € 5.742.417 - Trasporti

12. Societa' Cooperativa Mediacom € 5.033.972 - Telecomunicazioni

13. Eden 94 S.r.l. € 4.397.298 - Rifiuti

14. Felline Societa' Agricola A R.l. € 4.240.554 - Vino

15. Italtraff S.r.l. € 4.212.677 Manduria (TA) - Semafori segnaletica

16. Manduria Energia S.r.l. € 3.020.863 Roma (RM) - Energia 

17. I.s.e.m. Societa' Cooperativa € 2.861.357 - Edilizia

18. Cantine Antonio Massafra S.r.l. € 2.828.855 - Vino

19. Luccarelli S.r.l. In Sigla: Lu.elli S.r.l. Oppure ... € 2.667.322 – Vino

20. Tircar Societa' A Responsabilita' Limitata Semplif ... € 2.240.139 – Auto

Nazareno Dinoi (Fonte dei dati: companyreports)

Indagine sul volume d'affari del prodotti principe di Manduria. La Redazione de La Voce di Manduria sabato 26 febbraio 2022

Un quarto della ricchezza manduriana porta il nome del Primitivo di Manduria. Tra tutto il fatturato delle società che operano nei diversi settori a Manduria, circa il 25% è prodotto dal vino Primitivo (tra aziende di produzione e vendita).

Il totale complessivo del fatturato di tutte le aziende che producono o vendono servizi o merce nella città Messapica (dati relativi ai bilanci chiusi al 31 dicembre 2020), è di 221.316.144 di euro. Il prodotto principe manduriano, il vino, ha fruttato nello stesso anno un giro di vendite pari a 62.860.000 di euro.

Questa quota che ruota attorno al “brand Manduria” se la dividono 15 aziende, tra grosse cantine e piccole imprese individuali o societarie. Ecco l’elenco dei magnifici 15 del Primitivo.

1. Consorzio Produttori Vini € 17.234.901

2. Vigneti Del Salento S.r.l. € 12.094.212

3. Cantina Oleificio Sociale € 11.128.703

4. Agricola Pliniana € 7.758.141

5. Felline Societa' Agricola € 4.240.554

6. Cantine Antonio Massafra € 2.828.855

7. Luccarelli S.r.l. € 2.667.322

8. Enostudio S.r.l. € 1.900.901

9. Futura 14 S.r.l. € 1.762.622

10. Societa' Agricola Tenuteblasi € 549.695

11. Solopertovini € 500.193

12. Vinicola Manduriana € 71.789

13. Societa' Cooperativa Agricola Erario € 58.441

14. Azienda Agricola Racemi € 40.975

15. Terre Del Primitivo Societa' € 31.733

*Il dato non è esaustivo perché all’appello, tra le più grosse, manca la società Cantore di Castelforte che ha sede altrove e il cui bilancio oscillerebbe tra i 2,5 e i 5 milioni di euro. Ne mancheranno altre di fatturato minore.    

Nazareno Dinoi su dati Company Reports

Era ricoverato a Brindisi. E' morto Mimmo Olivieri, la cultura manduriana ha perso un suo figlio sfortunato e solo. La Redazione su La Voce di Manduria il 22 novembre 2022.

Con profondo dolore annunciamo la morte di Mimmo Olivieri, nostro appassionato collaboratore, autore di centinaia di mini racconti frutto della sua fervida e tormentata fantasia.

Era ricoverato nella rianimazione del Perrino di Brindisi dove i sanitari si son dovuti arrendere dopo un mese di cure per un improvviso aggravamento della patologia respiratoria di cui soffriva.

Mimmo ha dato tanto a questo giornale da cui ha ricevuto altrettanto. Da più di un anno non scriveva più perché internato in una struttura per patologie psichiatriche di Ostuni. Quei disturbi che lo hanno tormentato per tutta la vita e dai quali riusciva a liberarsi con la scrittura. Ho avuto l’onore di essere stato il primo a scoprire questa sua eccezionale qualità e bravura nelle parole. L’ho portato con me in tutte le mie avventure editoriali, prima con il settimanale “L’Ora”, poi con PugliaPresse e infine con la Voce di Manduria. Conserverò i suoi preziosi scritti ed anche i suoi libri con le toccanti e profonde dediche al sottoscritto.

Volevo bene a Mimmo e mi sento in colpa per non aver potuto fare niente in questo suo ultimo e triste momento della sua sfortunata vita. Aveva 63 anni ed era solo. Mimmo era un bambino, vittima della sua mente malata con il bisogno di tanta pazienza e amicizia. Poche cose che però non ha avuto dalla vita.

Noi tutti del giornale lo vogliamo ricordare con uno dei suoi ultimi racconti pubblicato su La Voce, forse il più bello e intimo. Il titolo era “Tu sei felice?”, una domanda, poche righe che contengono tutta l’essenza di Mimmo, il mio amico, giovane folletto, vero straordinario poeta che in pochi hanno capito. Ciao Mimmo.

Nazareno Dinoi.

Tu sei felice?

La mattina alzarsi sempre prima del sole. Bisognava fare così perché la terra rossa, sotto i raggi del sole, diventava rovente ed era un’impresa riuscire a rimanere nei campi. Tornato a casa bisognava rivedere le attrezzature, le riserve di concime, gli anticrittogamici… Che vita d’inferno! Poi arrivava il momento di mettere su la pentola e tua moglie ti chiedeva cosa volevi mangiare: domanda inutile! Eri sempre stato una buona forchetta. Tuo figlio ti portava da firmare la pagella di scuola. Brontolavi un poco per quella insufficienza, ma aveva anche un solo buon voto, e tu ne approfittavi per fargli una carezza. Poi arrivò la vecchiaia. Nessuno più ti poteva chiedere di andare nei campi: non ce la facevi più. Nella rimessa non c’era più l’ape, la fresa, le riserve di materiale per curare le piante. Tuo figlio si era sposato ed era andato a vivere lontano lasciandoti da solo con la tua vecchietta. Ora ti chiedi se eri felice quando non avevi tempo nemmeno per respirare e ti rispondi che sì: tu eri felice! Solo che non lo sapevi allora. Sabato 18 luglio 2020 . La Voce di Manduria

Causa persa e rimanda all'appello. Il comandante dei vigili Dinoi si appella al Tribunale per tornare a fare il dirigente. La Redazione de La Voce di Manduria sabato 3 dicembre 2022.

All’epoca della revoca delle sue funzioni dirigenziali decisa dall’amministrazione straordinaria (maggio 2020), il comandante dei vigili urbani di Manduria, Vincenzo Dinoi, aveva presentato ricorso alla sezione lavoro del Tribunale di Taranto, chiedendo il reintegro nelle funzioni apicali ritenute illegittime dai tre commissari. Tale ricorso si è poi concluso con una sentenza del 2021 che respinge il ricorso di Dinoi condannandolo anche al pagamento delle spese di causa.

Non soddisfatto di questo primo giudizio, l’avvocato Dinoi a luglio dello steso anno ha presentato appello chiamando nuovamente in causa il comune di Manduria.

Lo si apprende solo oggi perché l’attuale amministrazione ha deciso di costituirsi in giudizio affidando incarico all’avvocato Giuseppe Misserini che aveva già assistito l’ente nella causa di primo grado.

La richiesta del comandante Dinoi, attualmente indagato per peculato ed altri reati dalla Procura della Repubblica che gli contesta anche la funzione dirigenziale affidatagli dai tre commissari straordinari, anche loro indagati nella stessa inchiesta giunta al termine delle indagini preliminari,  è quella di «essere inquadrato nella prima qualifica dirigenziale del Contratto collettivo nazionale del lavoro Area Funzioni locali, già Area della Dirigenza Comparto Regioni e Autonomie Locali nell’ambito dell’organismo del Comune di Manduria».

 Attualmente Dinoi svolge funzioni di comandante del Corpo di polizia municipale in sostituzione del comandante incaricato, Teodoro Nigro, sospeso per un provvedimento disciplinare.  

Peculato, truffa, abuso d'ufficio. Indagati speciali, commissari straordinari e comandante dei vigili. La Redazione de La Voce di Manduria venerdì 18 novembre 2022.

I tre commissari straordinari che hanno amministrato il comune di Manduria dopo lo scioglimento per infiltrazioni mafiosa, la commissaria prefettizia che li aveva preceduti per pochi mesi, un ingegnere comunale e l’allora comandante della polizia municipale, sono indagati dalla Procura della Repubblica di Taranto che gli addebita, a vario titolo, i reati di truffa, peculato, abuso d’ufficio in concorso.

Il periodo preso in esame dal pubblico ministero Maria Grazia Anastasia che li indaga, è quello che va da settembre de 2017 al mese di gennaio del 2019. In pratica dai primi mesi di amministrazione commissariale seguita alla caduta della maggioranza del sindaco Roberto Massafra per le dimissioni in massa dei consiglieri di minoranza e alcuni dissidenti della stessa coalizione del sindaco e i tre anni successivi in cui la città Messapica è stata amministrata dagli incaricati del Ministero dell’Interno mandati a Manduria per ristabilire la legalità nell’ente sospettata di essere infiltrata dalla criminalità organizzata. 

I nomi. Vincenzo Dinoi, 60 anni, manduriano, all’epoca dirigente incaricato del comune di Manduria e comandante di ruolo del Corpo di polizia municipale; i tre commissari ministeriali, Vittorio Saladino di Belmonte Calabro, di 71 anni, prefetto in pensione; Luigi Scipioni, 65enne di Messina, vice prefetto in servizio; Luigi Cagnazzo, 63 anni di Lecce, funzionario della prefettura salentina. L’ex ingegnere comunale incaricato, Emanuele Orlando, 63 anni tarantino. Infine la commissaria prefettizia, Francesca Adelaide Garufi, 71 anni, romana. 

Secondo l’accusa, il commissario Saladino e il comandante della polizia locale, Dinoi, devono rispondere di peculato e truffa. In concorso tra loro, «in più occasioni ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso», avrebbero utilizzato l’auto di servizio in uso al Corpo di polizia municipale pe fini privati. Dalle indagini sarebbero emersi almeno 64 viaggi da Manduria all’aeroporto di Brindisi per accompagnare o prendere il prefetto in pensione durante le sue trasferte. Stessa contestazione viene riconosciuta alla commissaria prefettizia, Garufi, sulla quale peserebbero 45 viaggi alla stazione ferroviaria di Brindisi.  

Nelle carte dell’inchiesta anche presunti favoritismi e sospetti abusi fatti dai commissari per agevolare i due dirigenti incaricati, Orlando e Dinoi. Quest’ultimo, in particolare, per aver ricevuto nomine apicali non avendo i titoli richiesti.  

Gli indagati ora avranno venti giorni di tempo per decidere se presentare proprie memorie oppure chiedere di essere interrogati. Dopo toccherà al piemme chiedere per loro il rinvio a giudizio su cui dovrà decidere un giudice delle indagini preliminari.  

Si apre così un’altra amara pagina nella storia delle amministrazioni comunali di Manduria ancora auna volta sotto i riflettori della magistratura per la presunta malagestione della cosa pubblica. Nazareno Dinoi

Nell’inchiesta sugli indagati eccellenti al comune, i bonifici per “vie preferenziali” a favore di Dinoi. La Redazione su La Voce di Manduria mercoledì 23 novembre 2022.

Emergono nuovi particolari dall’inchiesta della Procura ionica che vede indagati i quattro commissari che hanno amministrato Manduria negli ultimi tre anni, uno prefettizio (Francesca Garufi) e tre straordinari inviati dal Ministero dell’Interno (Vittorio Saladino, Luigi Scipioni e Luigi Cagnazzo), l’ex ingegnere comunale Emanuele Orlando e il comandante della polizia municipale nonché dirigente incaricato, Vincenzo Dinoi.

Questi ultimi due che con gli altri rispondono a vario titolo di truffa, peculato, falsità ideologica e abuso d’ufficio, sono accusati anche di aver mal gestito il pagamento di un ricco esproprio per la somma di 276mila euro di cui era beneficiario lo stesso dirigente Dinoi con alcuni suoi parenti diretti.

Tale somma che per legge e per quanto disponeva la sentenza che obbligava il comune a pagare l’esproprio di un terreno mai onorato agli eredi, doveva essere versata al Ministero Economia Finanze, servizio Cassa deposito e prestiti dello Stato con oneri a carico della parte espropriata per lo svincolo (oneroso) delle stesse.

Secondo gli inquirenti, i due dirigenti che per questo specifico capo d’accusa devono rispondere di concorso in abuso d’ufficio, avrebbero fatto in modo che l’ingente somma di 276mila euro non transitasse nella Cassa depositi e prestiti ma direttamente sui conti correnti dei beneficiari, lo stesso dirigente Dinoi e i suoi parenti.

L’ingegnere Orlando, si legge nelle carte, avrebbe formato e sottoscritto l’atto di liquidazione di spesa con l’emissione del mandato di pagamento mediante bonifico bancario su conto dedicato intestato ai beneficiari. Dinoi, sostiene sempre l’accusa, avrebbe invece formato e sottoscritto i nove mandati di pagamento a favore dei suoi parenti e di sé stesso (per lui tre bonifici per un totale di circa 82mila euro). In tal modo, scrive il pubblico ministero, “procurando a sé e ai propri congiunti ingiusti vantaggi patrimoniali conseguenti all’ottenimento diretto e anticipato delle somme con bonifico sui loro conti correnti con risparmio di oneri e spese connesse alla procedura, mai svolta, di svincolo delle somme che sarebbero dovute essere depositate al Ministero presso la Cassa depositi e prestiti”.    

Si tratta di ipotesi accusatorie formulate dal pubblico nell’avviso di conclusione che vale come forma di garanzia agli indagati che potranno così difendersi. Nazareno Dinoi 

SOSPESO DAL SERVIZIO IL COMANDANTE DEI VIGILI DI MESAGNE E MANDURIA. azzettino di Brindisi il 22 novembre 2022.

Mesagne. Sospeso dal servizio il comandante della polizia locale, Teodoro Nigro. L’ufficiale, che svolgeva il suo incarico a scavalco con 18 ore per ogni Comune, ieri ha ricevuto una missiva di sospensione dal servizio per trenta giorni. Di fatto non potrà più tornare a lavoro poiché la convenzione con il comune di Mesagne, cui è legato il contratto a scavalco con Manduria, sarebbe terminato il prossimo 20 dicembre. La causa del provvedimento disciplinare sarebbe legata alle ore che Nigro avrebbe svolto presso l’Amministrazione comunale di Manduria che sarebbero inferiori a quelle concordate per contratto. Sulla vicenda il comandante Teodoro Nigro non ha voluto rilasciare nessuna dichiarazione anche se si è compreso che non è intenzionato a restare zitto e a breve fornirà le sue delucidazioni.

. Il comandante Teodoro Nigro era stato scelto dal sindaco Toni Matarrelli all’indomani del suo insediamento a Palazzo dei Celestini tra diversi candidati che avevano inviato il loro curriculum all’attenzione della neo amministrazione. Dopo i primi mesi di lavoro i rapporti tra il comandante e l’Amministrazione si erano più volte inclinati a causa di probabili incomprensioni tra il livello tecnico e quello politico. Pertanto era già nell’aria che il prossimo 20 dicembre la convenzione con il comandante brindisino non sarebbe stata rinnovata. Nessuno, però, poteva immaginare che si sarebbe interrotta un mese prima con una sospensione dal servizio a causa del mancato rispetto contrattuale da parte di Nigro nei confronti del comune di Manduria. Sono accuse piuttosto pesanti quelle mosse all’indirizzo del comandante Nigro che potrebbero far scaturire, in un prossimo futuro, ulteriori provvedimenti.

Intanto, presso il comando dei vigili di Mesagne, non vi è nessun agente che possa prendere il posto lasciato vuoto da Nigro poiché non c’è un vice comandante. L’ultimo agente con la qualifica di vice comandante era stato Bartolomeo Fantasia, andato in quiescenza alcuni mesi fa. Per questo motivo l’Amministrazione comunale ha avviato una selezione per titoli affinché possa individuare una figura D1 che possa ricoprire l’incarico di vice comandante. In pool position vi sono gli agenti Antonio Ciracì, che svolge l’incarico a scavalco con San Michele Salentino, e Samuela Malvindi. La nomina dovrebbe avvenire entro il prossimo 8 dicembre, festa dell’Immacolata, che apre l’avvio delle iniziative natalizie in cui la presenza di un comandante, o vice, è quanto mai opportuna. Infine, nei primi mesi del 2023 l’Amministrazione Matarrelli dovrà individuare la figura di comandante. Si vedrà se lo farà optando, ancora una volta, per una scelta convenzionata oppure indicendo un concorso pubblico.    

Ora il Corpo di polizia locale è nuovamente senza una dirigenza. Il nuovo comandante dei vigili è stato sospeso: “deve restituire 150 ore”. La Redazione su La Voce di Manduria il 22 novembre 2022.

Sempre nella bufera il posto di comandante della polizia municipale di Manduria. Dopo il dirigente titolare, Vincenzo Dinoi, indagato per presunta truffa, peculato e abuso d’ufficio, il comandante supplente, Teodoro Nigro, reclutato a contratto dal comune di Mesagne, è stato sospeso dall’incarico perché oggetto di un provvedimento disciplinare avviato nei suoi confronti del sindaco di Manduria, Gregorio Pecoraro. 

Il motivo sarebbe da ricercare nel saldo della presenza lavorativa che Nigro doveva assicurare all’ente Messapico dalla quale sarebbero mancate 150 ore. Richiamato su questo, il comandante Nigro, non senza disappunto e per chiudere la faccenda senza polemiche (potrebbe infatti trattarsi di una vistosa incomprensione con l’ufficio di segreteria generale dell’ente), si era detto disposto a restituire la parte di stipendio corrispondente alle ore rivendicate ma dal comune di Manduria sarebbe comunque partita una pesante lettera di contestazione trasmessa per conoscenza al comune di Mesagne che in qualità di titolare del contratto di prestazione ha a sua volta sospeso il comandante per un mese. 

Nuovamente scoperto, quindi, il posto apicale della polizia municipale che dovrà ora affidarsi al suo vicecomandanti sino a nuova nomina dal momento che il comandante effettivo di ruolo, Dinoi (che ogni mattina si reca regolarmente in servizio senza funzioni), non può essere utilizzato perché indagato e contro il quale il Comune si dovrà costituire parte civile. 

L'amministrazione comunale tace. Caos nei vigili urbani: ma chi comanda? La Redazione de La voce di Manduria venerdì 25 novembre 2022.

È caos nel Corpo di polizia municipale di Manduria privo di comando. Il comandante incaricato Teodoro Nigro, deferito dal sindaco Gregorio Pecoraro in commissione disciplinare per una presunta incompleta copertura del monte ore previsto da contratto è stato sospeso; l’altro comandante effettivo, Vincenzo Dinoi, sfiduciato dallo stesso sindaco che lo ha relegato in un limbo dorato (si presenta ogni giorno in ufficio senza un ruolo ma con lo stipendio integro), nessuno sa come regolarsi. A quanto pare, sino a ieri, l’amministrazione comunale non avrebbe ancora comunicato l’avvenuta sospensione di Nigro lasciando nello sbandamento totale l’organico di polizia locale che solo grazie alla stampa ha saputo, ovviamente informalmente, che il loro comandante Nigro non c’è più.

Accade quindi che nel delicato settore della vigilanza cittadina si navighi a vista in attesa che dalla sede municipale, distante dagli uffici della polizia municipale, si decidano a comunicare qualcosa. Per prassi le redini dovrebbero ora passare, momentaneamente, nelle mani del vice comandante neoassunto, Umberto Manelli, non prima di munirlo di speciali poteri decisionali e di firma.

E dire che per un periodo l’ufficio con le stellette era composto da ben tre figure apicali, un’ammucchiata frutto della confusione che regna nel palazzo di città: il comandante effettivo e di ruolo Enzo Dinoi appena rientrato dal comune di Ostuni per un incarico; la comandante incaricata Miriam Mancarelli in procinto di lasciare il lavoro per andare in aspettativa di sua scelta; e il comandante di fresco incarico, Nigro, fortemente voluto dal sindaco Pecoraro al posto di Dinoi. Di tre comandanti allora, oggi il Corpo è orfano di un capo. O meglio, nella pianta organica il comandante c’è, ed è Dinoi che continua a timbrare regolarmente il cartellino e con quello stesso grado a pagarsi ogni mese occupando qualche sedia dell’ufficio dei vigili nel palazzo Matricardi.

Tre comandanti per un solo ufficio, c'è confusione nel palazzo di città. Ieri è rientrato il titolare, Dinoi, ma il suo posto era stato già occupato da un incaricato provvisorio. La Voce di Manduria giovedì 17 febbraio 2022

Regna una grande confusione nel palazzo di città per una situazione che vede la città Messapica, forse caso unico in Italia, con tre comandanti del corpo di polizia municipale. Quello ancora in carica, Miriam Mancarella, in sostituzione del titolare Vincenzo Dinoi, assente per aspettativa ma rientrato ieri, pare, senza avvertire nessuno e Teodoro Nigro, comandante della polizia municipale di Mesagne da ieri incaricato dalla giunta Pecoraro a scavalco nei due comuni.

Questa mattina il comandante Dinoi si è presentato in divisa in municipio per rivendicare il suo posto lasciato provvisoriamente sette mesi fa per occupare un posto di dirigente per la durata di tre anni al comune di Ostuni dove la nuova commissione straordinaria (la città bianca è stata commissariata per infiltrazioni mafiose) avrebbe dato il benservito al manduriano. Costretto così a tornare indietro, Dinoi ha scoperto l’affollamento del suo ufficio che sino al 24 febbraio sarà ancora occupato dalla comandante Mancarella, (che ha rinunciato all'incarico per motivi familiari) e dal 25 in poi dal comandante Nigro, di Mesagne, con in tasca già il contratto. Toccherà al sindaco ora, risolvere l’ingarbugliata quanto imbarazzante situazione. 

Tre comandanti tanta confusione. Si respira aria di contenziosi e processi. La Voce di Manduria venerdì 18 febbraio 2022

Chi è il comandante della polizia municipale di Manduria? Ufficialmente è la commissaria Miriam Mancarella, ancora sulla carta ma altrettanto ufficialmente, è l’ufficiale Teodoro Nigro prestato dal comune di Mesagne; lo è ufficialmente anche il maggiore Enzo Dinoi che dopo sette mesi di assenza per un posto di dirigente a Ostuni, è rientrato a Manduria rivendicando la sua scrivania. E nell’aria si diffonde odore di contezioso e liti in tribunale.   

C’erano due comandanti in divisa ieri nel municipio di Manduria e un terzo sulla carta pronto anche lui a dirigere il Corpo della polizia municipale della città Messapica. Un’abbondanza di graduati mai vista in un ente pubblico. Di fatto, una confusione di atti e procedure che aprono la strada a contenziosi senza fine. Tutto si è compiuto in poche ore nella giornata dell’altro ieri quando la giunta del sindaco Gregorio Pecoraro si è riunita ed ha approvato una delibera in cui si affida la dirigenza dei vigili urbani al comandante della polizia locale di Mesagne, Teodoro Nigro, che si dividerà tra le due città dal lunedì al sabato facendo su e giù da Mesagne a Manduria e viceversa. La durata del contratto, già firmato, è sino al 31 dicembre, rinnovabile. 

Nel frattempo la comandante in carica, facente funzioni, Miriam Mancarella, ha presentato le sue dimissioni ed ha deciso di lasciare la divisa e il posto usufruendo dell’aspettativa per gravi motivi di famiglia. La data dei saluti è prevista per il prossimo 24 febbraio. Nel frattempo il comando del Corpo sarebbe suo. Il condizionale non è casuale perchè a rovinare i piani è stato l’arrivo improvviso del comandante titolare del posto, il maggiore Vincenzo Dinoi che sempre l’altro ieri è rientrato dall’aspettativa che aveva chiesto e ottenuto a luglio dello scorso anno per ricoprire un incarico di dirigente nel Comune di Ostuni dove svolgeva anche funzioni di comandante dei vigili. Ma a Manduria nessuno lo aspettava, tanto meno il sindaco che aveva già preso impegni con il suo sostituto, Nigro e con il sindaco di Mesagne, Antonio Matarrelli.

I particolari dell'inchiesta. Manduria, indagati eccellenti: il segretario aveva già denunciato all'anticorruzione. La Redazione de La Voce di Manduria sabato 19 novembre 2022.

I tre commissari con il comandante Dinoi

Nelle carte dell’inchiesta sulle presunte truffe, peculati e abusi d’ufficio, reati di cui si sarebbero macchiati gli ex commissari straordinari e i due dirigenti del Comune di Manduria, figura come vittima l’ex segretario comunale, Giuseppe Alemanno.

Già titolare in carica al comune di San Pietro Vernotico, Alemanno fu prima incaricato dai tre commissari indagati, Vittorio Saladino, Luigi Scipioni e Luigi Cagnazzo, ad occuparsi anche della segreteria generale del comune di Manduria, ma dopo pochi fu “licenziato” dagli stessi commissari senza nessun preavviso. Secondo il pubblico ministero Maria Grazia Anastasia, l’annullamento unilaterale della convenzione con il comune del brindisino, sarebbe stata una «ritorsione» per una denuncia che il segretario Alemanno aveva fatto, autonomamente, all’Autorità nazionale anti corruzione (Anac) denunciando presunte irregolarità nell’incarico che la commissione straordinaria aveva accordato all’allora ingegnere comunale incaricato, Emanuele Orlando, anche lui inquisito nello stesso procedimento. Ma non solo.

Nell'esposto inviato all’Anac, Alemanno segnalava uno stato di incompatibilità dell’ingegnere Orlando il quale, sosteneva il segretario, avrebbe nascosto una precedente condanna che lo rendeva incandidabile all’avviso pubblico che si era aggiudicato. Allarme che, sempre secondo la magistratura inquirente, i tre commissari avrebbero ignorato. Non solo. Il "licenziamento" di Alemanno, ipotizza l’accusa, sarebbe stato la conseguenza di sue iniziative istituzionali che con atti formali avrebbero messo in luce altri gravi irregolarità nella gestione della cosa pubblica. Alemanno, a quanto pare, avrebbe presentato alla commissione straordinaria delle gravi criticità e illegittimità di delibere e atti amministrativi. Tra queste, la fornitura a licitazione privata affidata ad una ditta di Taranto di tutto il vestiario dei vigili urbani.  

Queste attenzioni del segretario Alemanno, ipotizza sempre l’accusa, sarebbero costate il “recesso unilaterale” della convenzione con il suo trasferimento a San Pietro Vernotico in violazione alla legge sulla tutela del "dipendente pubblico che segnala illeciti”. Per questo i tre commissari devono rispondere di abuso d’ufficio.   

E ancora. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato agli inquisiti, all’ex comandante Dinoi viene poi contestato, in concorso con l’ingegnere Orlando, il reato di abuso grazie al quale Dinoi, sostiene l’accusa, avrebbe procurato «a sé e ai propri congiunti, ingiusti vantaggi patrimoniali conseguiti all’ottenimento diretto e anticipato» di ingenti somme derivate da un vecchio esproprio per circa 276mila euro. Altri particolari su questo nei prossimi giorni.

Gli indagati dell'inchiesta

Vincenzo Dinoi, 60 anni, manduriano, all’epoca dirigente incaricato del comune di Manduria e comandante di ruolo del Corpo di polizia municipale; i tre commissari ministeriali, Vittorio Saladino di Belmonte Calabro, di 71 anni, prefetto in pensione; Luigi Scipioni, 65enne di Messina, vice prefetto in servizio; Luigi Cagnazzo, 63 anni di Lecce, funzionario della prefettura salentina. L’ex ingegnere comunale incaricato, Emanuele Orlando, 63 anni tarantino. Infine la commissaria prefettizia, Francesca Adelaide Garufi, 71 anni, romana. Nazareno Dinoi

Dal 25 il comando passerà nelle mani del comandante di Mesagne. Posto di comandante dei vigili, Dinoi dovrebbe trovarsene un altro. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 22 febbraio 2022

Chi occuperà l’ufficio di comandante dei vigili urbani di Manduria. A quanto pare il maggiore Vincenzo Dinoi dovrebbe proprio rinunciare al posto perchè sarà un altro a trovargli un ruolo alternativo. E il contenzioso è aperto. Il sindaco Pecoraro ha già annunciato che il corpo di polizia locale sarà diretto dal comandante dei vigili del comune di Mesagne a cui Dinoi dovrà ubbidire.  Sette mesi fa aveva lasciato il posto di comandante della polizia municipale di Manduria, per ricoprire lo stesso ruolo con contratto di dirigenza nel comune di Ostuni. Oggi il maggiore Vincenzo Dinoi rientra in servizio nel suo comune ma trova il posto occupato da un altro comandante con incarico a tempo, prestato da un altro comune. È la singolare situazione che si è creata nella città Messapica il cui corpo dei vigili urbani è tutt’ora diretto da una terza figura, la comandante facente funzioni, Miriam Mancarella, che giovedì prossimo lascerà l’incarico per dimissioni volontarie. Dal giorno dopo le redini passeranno nelle mani dell’ufficiale Teodoro Nigro, comandante dei vigili di Mesagne ed anche di Manduria. E il comandante Dinoi, titolare del posto ottenuto da concorso, che fine farà? «Troveremo per lui un altro compito», ha dichiarato il sindaco Gregorio Pecoraro che, a quanto pare, vuole rendere la vita difficile al maggiore vittima dell’antico detto: chi va a Roma perde la poltrona. Facile ironia a parte, la questione è maledettamente seria e per risolverla sarà quasi impossibile non ricorrere alle carte bollate. 

Pecoraro è stato categorico, in proposito: «il 25 – dice - prenderà servizio part time il comandante dei vigili di Mesagne e sarà lui a trovare un ruolo per Dinoi che non avrà più la posizione organizzativa». 

I guai per l’ex, a questo punto, comandante Dinoi, sono iniziati con lo scioglimento per mafia del comune di Ostuni dove a luglio dello scorso anno aveva vinto una selezione pubblica per dirigente e comandante del corpo di polizia municipale. Per questo aveva chiesto ed ottenuto l’aspettativa dal comune di Manduria di cui è dipendente di ruolo e comandante dei vigili per concorso. 

I tre commissari straordinari della città bianca, subito dopo l’insediamento, hanno deciso di fare pulizia con tutti gli incarichi dirigenziali esterni, proprio per eliminare ogni possibile collegamento con il passato. Tra questi anche Dinoi che ha dovuto rifare le valige e tornare nel suo comune reduce anche quello di un altro scioglimento per infiltrazioni mafiose. Solo che i tre commissari antimafia che hanno amministrato per tre anni la città del Primitivo, hanno avuto un comportamento diverso dai loro colleghi ostunesi conservando il posto a tutti i dirigenti che erano in carica prima del terremoto giudiziario tra cui lo stesso Dinoi. 

Ma è proprio sulla presunta illegittimità delle sue funzioni apicali che esiste un pronunciamento del Tar di Lecce ed anche un’inchiesta della Corte dei Conti. A quanto pare, il dipendente, pur avendo i titoli e le capacità per essere dirigente, non potrebbe ricoprire quel ruolo se non attraverso concorso e non, come è stato per circa venti anni, mediante semplici disposizioni di servizio o decreti sindacali. Per questo la Procura regionale della Corte dei conti ha chiesto conto al comune di Manduria degli ultimi cinque anni di indennità riconosciute al dipendente.

Per questo si incrinarono i buoni rapporti tra lui e gli ex commissari straordinari che per revocare l’incarico a Dinoi eliminarono tutte le dirigenze dalla pianta organica dell’ente. L’ex dirigente presentò ricorso al Tar chiedendo l’annullamento degli atti che lo avevano abbassato di livello, ma i giudici amministrativi respinsero la richiesta costringendo il maggiore a trovare posto nell’organico del comune di Ostuni che, lo scoprirà poi, finirà sotto la custodia dell’antimafia. Nazareno Dinoi

Divise ed altro, il comandante ci scrive e noi rispondiamo.  La redazione de La Voce di Manduria giovedì 4 ottobre 2018

Riceviamo e pubblichiamo dal comandante del corpo di polizia locale di Manduria, maggiore Vincenzo Dinoi. A margine la nostra risposta.

OGGETTO: Richiesta di pubblicazione integrale ex art.8 L. n. 47/1948.

Recentemente sono apparsi sul giornale Lavocedimanduria.it, alcuni articoli a firma di un tal “Mario Rossi”, inseriti addirittura in una rubrica denominata “Cose di casa nostra – Un occhio sul Palazzo”, in particolare ci si riferisce agli scritti “Divise: gara travagliata ma molto fortunata” pubblicato mercoledì 01 agosto 2018 e “Benvenuto al nuovo segretario con un augurio”, stampato venerdì 14 settembre 2018 e “Divise dei Vigili: Fornitura difforme” diffuso giovedi 27 u.s..

Nei tre articoli si fa riferimento alla procedura relativa all’approvvigionamento delle divise del Corpo di Polizia Locale, fornitura di un importo pari al totale di € 16.000 iva compresa, da aggiudicarsi con il criterio del prezzo più basso, affermando gravemente e gratuitamente che è stata realizzata “in barba ai principi del codice dei contratti e delle indicazioni dell’Anac”, tanto da facilmente insinuare in chi legge, il convincimento di un comportamento poco corretto di chi ha eseguito e definito detta procedura.

Premesso che l’art. 36 comma 2° lett. a) D.Lgs.n. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici), prevede che per le forniture di importo inferiore a 40.000 euro, si procede mediante “affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici”.

Il Comando, al fine di raggiungere al meglio i principi di garanzia, correttezza e trasparenza, non ha proceduto mediante affidamento diretto, cosa che poteva fare, bensì ha inviato la richiesta di presentare l’offerta a ben 8 (otto) diverse ditte di settore.

Il Comando, nei termini previsti, ha ricevuto una sola offerta, presentata dalla ditta Kent con sede in Taranto, per un importo superiore a quello previsto per l’intera fornitura, pertanto è stata esclusa.

Successivamente, impegnando anche l’esercizio finanziario 2019, si è proceduto a riformulare l’invito alle medesime otto ditte.

Conseguentemente tre ditte hanno presentato la propria offerta nei termini: MITALIA UNIFORM con sede in Potenza ( € 25.399,91 i.c.), KENT con sede in Taranto ( € 23.177,56 i.c.), GIULIVO con sede in Taranto ( € 20.930,00 i c.), pertanto, in ragione di tali offerte economiche, la fornitura veniva provvisoriamente aggiudicata a quest’ultima ditta e contestualmente la si invitava a depositare presso gli uffici la relativa campionatura.

Dalla visione della campionatura, emergevano criticità su vari capi (pantalone, scarponcino, cintura), ed in particolare sulla maglia, in quanto era completamente difforme a quella descritta nella lettera d’invito.

Il Comando, nella lettera invito aveva elencato i capi previsti dal Regolamento Regionale, prevedendo in alcuni, su richiesta degli agenti, dei piccoli interventi artigianali, ritenuti ancora oggi razionali.

L’offerta della ditta GIULIVO, pur proponendo i capi richiesti e previsti dal Regolamento Regionale, non teneva assolutamente conto degli accorgimenti artigianali complementari indicati nella lettera invito, al contrario degli altri concorrenti.

Alla ditta GIULIVO è stato più volte riferito sia verbalmente che per iscritto, che non le poteva essere aggiudicata definitivamente tale fornitura, attesochè avrebbe dovuto formulare ed inviare un’offerta in funzione di quanto espressamente richiesto dalla lettera d’invito (lex specialis), dove le prescrizioni ivi stabilite vincolavano non solo tutti i concorrenti, ma anche la stessa Amministrazione.

A questo punto il Comando, per i motivi di cui sopra, ha escluso la ditta GIULIVO e pur conoscendo il principio di economicità del procedimento non ha proceduto, come doveva, ad aggiudicare la fornitura alla ditta Kent, classificatasi seconda, la quale aveva proposto, tra l’altro, le modifiche artigianale richieste.

Il Comando invece, seguendo i principi generali di ragionevolezza, buon andamento, imparzialità, efficacia e soprattutto pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa, ha riformulato la richiesta di offerta alle medesime otto ditte, inserendo gli stessi capi di vestiario, previsti nel Regolamento Regionale, escludendo gli accorgimenti artigianali complementari, precedentemente richiesti.

Il risultato è stato il seguente: tre ditte hanno presentato la propria offerta nei termini, che sono: KENT con sede in Taranto ( € 11.493,10 i.e.), GIULIVO con sede in Taranto ( € 15.249,00 i.e.), MITALIA UNIFORM con sede in Potenza ( € 20.819,60 i.e.).

Per entrare nello specifico, la stessa maglia ritenuta conforme dalla ditta GIULIVO in sede di richiesta visione dei capi della ditta Kent, quest’ultima società la proponeva al costo di € 10,20 mentre Osvaldo Chimienti della ditta GIULIVO ne richiedeva 30 di euro (sic!). Lascio a chi legge ogni commento.

Di tutto questo, la cosa più grave è che l’Osvaldo Chimienti della ditta GIULIVO, è stato puntualmente e formalmente notiziato, oltre ad aver chiesto ed ottenuto l’accesso a tutti gli atti della procedura di gara, e quindi invece di procedere per le vie legali, ha pensato bene di aggiudicarsi la fornitura cavalcando lo show giornalistico-mediatico propostogli dal sedicente “Mario Rossi” con il supporto del giornale La Voce di Manduria.

In riferimento alle difformità evidenziate dalla ditta GIULIVO nella fornitura eseguita dalla ditta KENT, le stesse si riferiscono ad un capo di vestiario, che è stato prontamente sostituito dall’aggiudicatario.

Su l’ultima considerazione di Osvaldo Chimienti, che non onora certo la ditta GIULIVO, scritta nell’articolo apparso giovedì 27 u.s. sul giornale La Voce di Manduria, il quale auspicava la presenza di “Mario Rossi” anche a Taranto, vi è da aggiungere che alla bella città di Taranto, già provata, non gli occorre certo la presenza di anonimi creatori seriali di pettegolezzo e di odio, in quanto i tarantini hanno ben altro e più gravi problemi da risolvere, che richiedono, al contrario, coesione ed azioni concrete.

Detto ciò, dal direttore de La Voce di Manduria, ci si attende una dichiarazione di scuse, indirizzate non al sottoscritto, ma alle decine di migliaia di lettori del giornale cartaceo ed online ovvero di altre piattaforme che hanno ripreso tale notizia “NON VERA” ritenendola professionalmente, preventivamente e meticolosamente accertata, cosa che non è stato.

Inoltre, cosa ancor più grave, nel secondo articolo citato, il sedicente “Mario Rossi”, inviando gli auguri di benvenuto al nuovo Segretario Generale del Comune di Manduria, ha chiesto di fare chiarezza sull’inquadramento nell’Ente dello scrivente Comandante, procedura questa, legittimamente definita nel lontano 2002 ed abbondantemente chiarita anche nel 2014 con il contributo e quindi l’acquisizione da parte del Comune di un parere legale su detta procedura, espresso, tra gli altri, dal noto amministrativista Avv. Martino Margiotta del foro di Taranto, il quale ha confermato la piena legittimità dell’inquadramento dell’avv. Dinoi nella qualifica dirigenziale.

Il parere appena sopra citato, chiesto dall’Amministrazione con propria delibera di Giunta n. 92 del 22.11.2013 e non certamente dal dirigente interessato, in quanto ritenuto del tutto ultroneo, dopo aver ampiamente sviluppato il caso in esame, così conclude: “In ragione di tali considerazioni, si può affermare che la fonte genetica dell’attuale rapporto sinallagmatico tra codesta Amministrazione e il dipendente e della sua disciplina economico giuridica si rinviene nel predetto contratto, stipulato nel Verbale dinanzi al Collegio di Conciliazione. L’eventuale inadempimento di tale obbligo, quindi, esporrebbe il Comune al concreto rischio di subire azione giudiziaria per l’adempimento contrattuale e per il risarcimento dei danni. Da ciò consegue che qualsiasi scelta organizzativa, rientrante nella piena autonomia dell’Amministrazione, debba tener conto del vincolo derivante dagli obblighi assunti con il predetto accordo transattivo, nei termini innanzi considerati.”.

Sperando di aver contribuito nel chiarire definitivamente dette questioni, non si può far a meno di rilevare che nonostante il web sia riconosciuto dallo scrivente come uno strumento altamente democratico per la libera informazione e diffusione della cultura, in quanto allarga la partecipazione dei cittadini alla vita politico-culturale del paese, vi siano ancora spregevoli individui che usano questo nobile mezzo in forma anonima.

E’ vero che grandissimi uomini di cultura del passato hanno usato pseudonimi per ragioni eticamente elevate, solo per fare qualche esempio Aron Hector Schmitz che si firmava Italo Svevo ovvero Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto il vero nome di Pablo Neruda, ma si ha difficoltà nel vedere ragioni analoghe nel nickname sopra citato (Mario Rossi) che si legge quasi quotidianamente sui dibattiti del web e sul cartaceo di questo giornale, il quale sicuramente non è altro che un volgare diffamatore anonimo, frustrato e creatore di odio.

Manduria non ha bisogno di questi individui, i Cittadini Manduriani hanno bisogno di persone preparate, serie, leali, oneste e lavoratori che ci mettono la faccia, al fine di far emergere a tutti noi quell’orgoglio di appartenenza a questa Comunità.

Il titolare di un giornale dovrebbe dare più spazio a chi è propositivo nelle varie discipline, a chi crea promozione del territorio, togliendo spazio ai diffamatori dediti al pettegolezzo, perché oltre a far regredire questa città, coinvolgono i direttori in responsabilità civili e penali, oltre a distoglierli dal primario deontologico dovere di informarsi, ricercando i riscontri alla notizia, prima di darne pubblicazione.

Il continuare a pubblicare le notizie, con titoli accattivanti, senza le dovute rispondenze, acquisizioni di documenti, allegati, pareri, interviste delle persone interessate, ecc…., potrebbe dare veramente adito a qualcuno di pensare che detti articoli vengono pubblicati solo per praticare il “clickbaiting”, cioè un contenuto web, la cui principale funzione sia quella di attirare il maggior numero possibile di lettori, per generare rendite pubblicitarie online.

Non sarà questo il caso, però ci sono molti siti che immettono in rete pseudo-informazioni, narrando taluni fatti in maniera strumentale, distorcendone la realtà, come quelli inseriti negli articoli sopra indicati, ed avvalendosi di titoli accattivanti e sensazionalistici incitano a cliccare link di carattere falso o truffaldino, facendo leva sull’aspetto emozionale di chi vi accede. L’obiettivo è quello di attirare chi apre questi link per incoraggiarli a condividerne il contenuto sui social network, aumentandone quindi in maniera esponenziale i proventi pubblicitari, con l’inserimento di una moltitudine di pubblicità nazionale oltre che internazionale.

Tanto premesso, sin d’ora, si invitano i responsabili di giornale, che ancora oggi si prestano a pubblicare detti articoli, a favorire presso il Comando di Polizia Locale per acquisire notizie, documenti, allegati, pareri, quindi tutte le informazioni necessarie al fine di chiarire ancor meglio le suddette procedure, in quanto trattasi di procedimenti definiti, uno addirittura già da oltre sedici anni ovvero per accertare ed approfondire professionalmente qualsiasi notizia che in futuro riterranno opportuno.

Infine, si suggerisce a tutti gli internauti e soprattutto ai responsabili di piattaforme online, che prima di riprendere e pubblicare notizie diffamatorie, dovrebbero preventivamente, cautelativamente e responsabilmente riscontrarle, l’Ente ed in particolare gli Uffici della Polizia Locale sono a disposizione per ogni chiarimento, al fine di stroncare questa spirale di pettegolezzo e di odio che avvolge questa città e quindi divenire protagonisti della sua rinascita.

Il Comandante Magg. Vincenzo Dinoi 

La mia risposta

Egregio comandante Vincenzo Dinoi.

Pubblico, come mi ha chiesto, il testo integrale della lettera ma solo nel formato web del giornale e non anche in quello cartaceo. E le spiego il perché. Mi chiede di pubblicare sulla “Voce di Manduria”, ai sensi dell’art. 8 della legge sulla stampa, questo suo scritto, relativo alla travagliata vicenda della fornitura delle divise per la Polizia Locale. Ma immagino lei sappia bene che proprio la norma che ha richiamato prescrive che il testo della rettifica da pubblicare deve essere contenuto in trenta righe e deve avere le stesse caratteristiche tipografiche dell’articolo che si vuole rettificare e che, soprattutto, non spetta al direttore alterare il testo per ricondurlo nei limiti di legge.

Ora, se non ho sbagliato nel contare, il testo da lei inviato conta ben 133 righe il che significa che richiederebbe, probabilmente, una settimana intera di pubblicazioni sul piccolo formato del cartaceo e pertanto mi chiede l’impossibile, sia giuridicamente che giornalisticamente. Peraltro non sono così sicuro che titolare del diritto a chiedere la rettifica di notizie riguardanti gare comunali sia il comandante della polizia locale o altro dirigente e non piuttosto il legale rappresentante dell’ente, cioè il sindaco o un commissario che, salvo smentita, non mi risulta sia mai stato lei in quanto, piuttosto, un dirigente “atipico”, come l’hanno definita i revisori dei conti.

Fatta questa precisazione, e confidando che lo scritto che mi ha inviato sia stato almeno “ispirato” da qualcuno titolato a chiedere la rettifica, non credo sia mio compito entrare nel merito di disquisizioni tecniche in quanto la mia funzione è informare, non trasformare il giornale in una accademia giuridica: altri, magari il signor Mario Rossi le cui considerazioni, insieme a quelle di altri commentatori liberi, trovano talvolta spazio sulla “Voce di Manduria”, se ne occuperanno.

In merito all’anonimato o agli pseudonimi, le devo anche in questo caso sottolineare delle imprecisioni contenute nella sua lettera, sicuramente dovute all’ignoranza del mestiere. Tale Mario Rossi, come altri commentatori che ospito nelle mie pagine, non è un anonimo ma è una persona che ovviamente conosco e di cui mi fido che mi chiede il rispetto dell’anonimato. Quindi sarà anonimo per lei e per chi legge ma non per il sottoscritto. Deve poi sapere che l’anonimato così inteso, pratica che lei nella sua lettera disprezza e offende, non è sinonimo di codardia bensì di esercizio di democrazia o, se vogliamo, di semplice riservatezza e in taluni casi anche di tutela della persona, tutti diritti che nel giornalismo sono sempre esistiti e, viva Dio, esisteranno, almeno nei Paesi non autoritari.

Tornando al contenuto della sua lettera, devo dire che, certo, ai cittadini manduriani avrebbe fatto piacere leggere una sua spiegazione sul come sia stato possibile che in quasi dieci anni il fornitore delle divise della polizia locale sia stata sempre la stessa ditta, o ancora com’è potuto accadere che lei abbia ignorato il fatto che il titolare della ditta in questione sia stato arrestato per reati legati alla fornitura di divise alla Marina Militare. Così come sarebbe stato un chiaro esempio di trasparenza spiegare le ragioni per cui in una procedura come quella da lei prescelta per la fornitura abbia ritenuto di disattendere il principio di rotazione delle ditte da interpellare che, come lei saprà, è un criterio sancito dal codice dei contratti pubblici e dall’Anac, non un’invenzione della “Voce di Manduria”.

Se tutte queste problematiche, per Lei, sono solo una “spirale di pettegolezzo” e non questioni concrete sulle quali chiedere risposte altrettante concrete ed esaurienti, questioni di cui si può e si deve occupare un giornale che faccia informazione e non accontenti i potenti di turno, temo, allora, che non abbia ben presente in cosa consista il mestiere di giornalista. Ne danno prova le sue insinuazioni, tipiche da leoni da tastiera e odiatori seriali, sulle presunte notizie false che pubblicherei per fare soldi. Che caduta di stile, davvero.

Lei, esimio comandante, non sa quello che dice, me lo lasci dire. Si sforzi piuttosto di svolgere bene il compito per il quale è pagato da questa comunità (denaro pubblico, il suo) che entrambi serviamo: io con l’informazione, corretta e puntuale e a volte scomoda per alcuni; lei in quanto a capo di tanti, forse troppi uffici sulla cui efficienza deve dare ben conto alla città, per ora.

Un’ ultima cosa, egregio comandante Dinoi, riguarda l'ennesimo errore che ha commesso con la lettera citata, quello di averla inviata anche al direttore del Quotidiano di Puglia con cui collaboro come libero professionista e che non c'entra proprio niente con questa "nostra faccenda". Ha sbagliato a farlo perché, ripeto, della vicenda “divise” né di altre questioni trattate nella sua lettera, ho solo scritto su La Voce di Manduria e non su Quotidiano dove, ovviamente anche “Mario Rossi” è praticamente sconosciuto. Se poi ha inviato la sua lettera al direttore del Quotidiano con l’intento di colpirmi, magari non facendomi più scrivere per quel giornale, è andata male a lei come male andò ad altri potenti di turno che, per lo stesso scopo, sfogarono la propria rabbia scrivendo all’altro mio datore di lavoro, il direttore della Asl, per farmi addirittura licenziare. Come può vedere, per fortuna, lavoro ancora per la Asl e scrivo ancora su La Voce, Quotidiano ed altre testate. (Guarda un po’, un “giornalista che inventa notizie”, l’avrebbe mai creduto?). Nazareno Dinoi

 Eccezionalmente si parla di un concorso pubblico di interesse locale. E’ sintomatico del fatto che la figura del Vigile Urbano è identificativa della legalità. Per il resto, in ambito locale, se si trucca tale concorso pubblico, va da sè che truccare il concorso per altre figure funzionali è un gioco da ragazzi.

Il far passare il sottoscritto per mitomane o pazzo non è il solo mezzo di ritorsione. Da 20 anni impediscono al sottoscritto di abilitarsi all’avvocatura, in quanto i suoi elaborati al concorso forense non sono letti, e il Tar di Lecce proibisce la presentazione del ricorso contro i falsi giudizi. Per tutti questi fatti è stata coinvolta la Corte Europea dei Diritti Umani. Avvocati e magistrati del distretto della Corte d’Appello di Lecce (Taranto, Lecce e Brindisi) si sono coalizzati contro di me, avendo, unicamente io, in modo isolato, da presidente provinciale di una associazione di praticanti ed avvocati denunciato gli abusi e l’evasione fiscale e contributiva a danno dei praticanti e avendo mosso critiche mediatiche al sistema concorsuale di abilitazione forense, che tutti sanno essere truccato e che ha permesso ai commissari d’esame di diventare avvocati. La contestazione si è concretizzata in denunce penali contro i commissari d’esame, tra i quali tutti i magistrati e gli avvocati più noti del distretto. Un dato di fatto è che l’avv. Antonio De Giorgi, già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce e presidente di Commissione d’esame di Lecce, da me denunciato, è diventato ispettore ministeriale e Presidente della Commissione centrale ministeriale del concorso forense, pur essendoci eccezioni d’incompatibilità ai sensi della riforma, che inibisce la presenza in commissione d’esame dei consiglieri dell’Ordine. I magistrati di Taranto, inoltre per inibire ogni reazione a chi non è conforme al sistema giudiziario, mi hanno denunciato per diffamazione a mezzo stampa presso la procura di Potenza perché la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato un articolo contenente le motivazioni del Sostituto Procuratore di Taranto, Alessio Coccioli, allegate alla sua richiesta di archiviazione di una mia denuncia. Richiesta poi accolta e denuncia archiviata. Le motivazioni rilevavano che per il PM era normale che l’ufficio protocollo del comune di Manduria non rilasciasse ricevuta, come era normale che a vincere il concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria, fosse un avvocato di Manduria che, con nomina dei politici locali di turno, aveva indetto e regolato la procedura concorsuale come responsabile pro tempore dell’ufficio del personale. Da tener conto che in graduatoria il vincitore precedeva il sottoscritto. Ciò è dovuto anche al fatto che il sottoscritto ha presentato denunce, rimaste lettera morta, contro quella parte politica quando era al potere, sia ad Avetrana con sindaco Luigi Conte, sia a Manduria con sindaco Gregorio Pecoraro, e contro gli avvocati che beneficiavano degli incarichi e contro le forze dell’ordine e i magistrati che ne hanno coperto gli abusi. Il centro sinistra di Manduria nominò dirigente dell’ufficio del personale del Comune di Manduria, il manduriano avv. Vincenzo Dinoi, che da dirigente dell’ufficio del personale della giunta Pecoraro, indisse, regolò (e vi partecipò, vincendolo) il concorso di Comandante dei Vigili Urbani di Manduria. Al concorso il sottoscritto si piazzò dietro al vincitore. Commissari erano: il questore; il commissario prefettizio, Paola Galeone, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria al posto di Pecoraro; il comandante VVUU di Brindisi. Successivamente all’incarico di comandante dei vigili urbani l’avv. Vincenzo Dinoi è diventato Vice Segretario Comunale di Manduria. Comune di Manduria a cui si è contestato con denuncia anche l’omesso rilascio ai cittadini, da parte dell’ufficio protocollo, della ricevuta degli atti presentati allo sportello. Cosa questa che inficiava la certezza della consegna degli atti e foriera di manomissioni dei procedimenti amministrativi.

Ciò è dovuto anche al fatto che il sottoscritto ha presentato denunce, rimaste lettera morta, contro quella parte politica quando era al potere, sia ad Avetrana con sindaco Luigi Conte, sia a Manduria con sindaco Gregorio Pecoraro, e contro gli avvocati che beneficiavano degli incarichi e contro le forze dell’ordine e i magistrati che ne hanno coperto gli abusi. Il centro sinistra di Manduria nominò dirigente dell’ufficio del personale del Comune di Manduria, il manduriano avv. Vincenzo Dinoi, che da dirigente dell’ufficio del personale della giunta Pecoraro, indisse, regolò (e vi partecipò, vincendolo) il concorso di Comandante dei Vigili Urbani di Manduria. Al concorso il sottoscritto si piazzò dietro al vincitore. Commissari erano: il questore; il commissario prefettizio, Paola Galeone, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria al posto di Pecoraro; il comandante VVUU di Brindisi. Oggi l’avv. Vincenzo Dinoi è diventato Vice Segretario Comunale di Manduria. Comune di Manduria a cui si è contestato con denuncia anche l’omesso rilascio ai cittadini, da parte dell’ufficio protocollo, della ricevuta degli atti presentati allo sportello. Cosa questa che inficiava la certezza della consegna degli atti e foriera di manomissioni dei procedimenti amministrativi. Il sindaco Gregorio Pecoraro è stato denunciato anch’esso per inquinamento della costa e, in qualità di commercialista, per rilascio di consulenza tecnica d’ufficio (ritenuta falsa in denuncia) su incarico giudiziario al Tribunale di Manduria. Le denunce sono rimaste lettera morta.

La popolazione manduriana scende sotto i 30mila, mai così dal 1978. Continua la decrescita dei residenti nella città Messapica. La Voce di Manduria giovedì 10 febbraio 2022.

La popolazione manduriana è scesa sotto la soglia dei trentamila abitanti toccando i 29.940 residenti. Il dato, non ancora ufficiale, viene riportato da Wikipedia, l’enciclopedia telematica più diffusa e visitata al mondo che cita dati Istat aggiornati al 2022 non ancora ufficializzati. Il numero degli abitanti della città Messapica non era scesa così in basso dal 1978. In quell’anno è iniziata la scalata che ha raggiunto la punta massima nel 2011 quando Manduria era abitata da 31.859 persone. Da allora è seguita una graduale e inarrestabile emorragia di residenti che ha toccato la punta più bassa nel 2021 con 30.147 anime. Ancora meno nell’ultima proiezione Istat che fa scendere il dato demografico a com’era 44 anni fa.

Anche gli stranieri che hanno preso casa e residenza a Manduria registrano un calo. L’ultimo dato disponibile è quello del 2021 quando i manduriani stranieri erano 836, una cinquantina in meno dell’anno precedente. 

Sicuramente dietro questa perdita demografica (che non è attribuibile alla perdita del punto nascita del Giannuzzi poiché il dato in questione riguarda i residenti e non i nati a Manduria), ci sono motivi socio economici che spingono soprattutto i giovani a lasciare la propria terra che non offre loro nessun futuro accettabile.

L’ex segretario Alemanno è indagato per truffa. Era stato denunciato dal commissario straordinario Salamino. La Voce di Manduria venerdì 04 febbraio 2022.

Avrebbe indebitamente percepito somme nonostante l’assenza dal servizio. Di questo è accusato l’ex segretario generale del comune di Manduria, Giuseppe Salvatore Alemanno, che lunedì prossimo dovrà comparire davanti al giudice delle udienze preliminari del tribunale di Taranto per rispondere di truffa ai danni dell’ente pubblico. 

Il comune di Manduria individuato parte lesa, si costituirà parte civile incaricando per questo l’avvocato Mario Rollo. 

La vicenda per la quale l’ex funzionario di Stato è chiamato a rispondere in tribunale, risale al periodo in cui il comune manduriano era commissariato per mafia e l’inchiesta è nata proprio da un esposto alla Procura della Repubblica di Taranto inviato dall’allora commissario straordinaria reggente, Vittorio Saladino, per presunti comportamenti illeciti del segretario generale. 

Non si conoscono al momento i fatti contestati. Qualcosa si comprende nella delibera di giunta con la quale il sindaco Gregorio Pecoraro e gli assessori danno incarico all’avvocato Mario Rollo di rappresentare l’ente nella costituzione di parte civile. «Allo scopo – si legge nell’apposita delibera - di tutelare gli interessi dell'Ente volti anche al recupero delle somme indebitamente percepite nonostante l’assenza dal servizio e per il conseguente danno all’immagine derivatane all’amministrazione nonché al fine di ottenere il ristoro integrale dei danni patiti».

Potrebbe spiegarsi così l’allora improvvisa decisione della commissione straordinaria di revocare l’incarico ad Alemanno rescindendo unilateralmente l’accordo stipulato un anno prima con il comune di San Pietro Vernotico. La motivazione ufficiale che fu data a quella inaspettata decisione, contenuta nella delibera approvata dai tre commissari, Vittorio Saladino, Luigi Scipioni e Luigi Cagnazzo, indicava la necessità per il comune di Manduria (era settembre 2019) di «meglio organizzare l’ufficio di segreteria con assetto alternativo a quello attuale, acquisendo l’opera di un segretario generale che sia titolare unicamente della segreteria generale, in grado di soddisfare in maniera ottimale le molteplici esigenze di governance di questa amministrazione». Dopo l’allontanamento di Alemanno, il Ministero dell’Interno propose l’attuale segretaria Eugenia Manduriano anche lei prestata da un altro comune, quello di Montemesola, che i commissari accettarono.

Sparta tarantina e Manduria Messapica, i difficili rapporti nella relazione del professor Selvaggi. L’argomento proposto, particolarmente avvincente, per la prima volta offre l’occasione di affrontare non solo il tema storico. La Voce di Manduria martedì 04 gennaio 2022.

Riprendono con il nuovo anno “I Giovedì della Gattiana”, l’appuntamento quindicinale in biblioteca, sospesi per il periodo natalizio. Eccezionalmente il primo incontro sarà martedì 4 gennaio, poiché il 6, festivo, la biblioteca è chiusa ed il relatore deve rientrare in sede. Sul tema “La fondazione di Taranto: Miti e Leggende” relazionerà il professore Rocco Selvaggi, coordinatore scientifico del RomanIslam Center dell’Università di Amburgo e docente di Storia Antica presso la suddetta università.

L’argomento proposto, particolarmente avvincente, per la prima volta offre l’occasione di affrontare non solo il tema storico, ma anche le problematiche archeologiche legate alla fondazione di una città, nel caso specifico l’unica colonia spartana di nostra conoscenza che non pochi problemi procurò alle popolazioni indigene, primi fra tutti i Messapi di Manduria con il cui territorio confinava.

Se tutte le fonti concordano sulla grandezza di Taranto ed il suo splendore, non altrettanto però può dirsi sui miti legati alla sua fondazione, che sono indubbiamente fra i più interessanti che l’antichità ci abbia tramandato. La serata si svolgerà nella stretta osservanza delle norme anticovid. A cura di Archeoclub Manduria

La morte del Re degli Spartani sotto le mura di Manduria. Cosimo Enrico Marseglia su pugliaplanet.com il 6 novembre 2019.

L’episodio di cui si discute oggi non è una leggenda, bensì storia, tuttavia esso ha comunque dato origine ad un mito. L’epoca è all’incirca quella a cavallo fra il quarto ed il terzo secolo a. C., prima della conquista romana delle Puglie, caratterizzata dalle continue lotte fra le popolazioni messapiche, iapigie o salentine, che dir si voglia, contro la colonia spartana di Taranto che mirava alla supremazia ed al controllo assoluto delle prime.

Nonostante la perfetta macchina bellica, i tarantini non riuscivano ad aver definitivamente ragione della fiera e tenace resistenza opposta dai Messapi, pertanto gli strateghi della città invocarono il soccorso di Archidamo Re di Sparta. Questi accolse l’invito della colonia e, col consenso del Consiglio degli Anziani, approntò un grosso esercito e sbarcò nella Penisola Salentina, seminando il terrore dovunque. Grazie alle milizie perfettamente addestrate sin dalla più tenera età, l’avanzata del sovrano spartano fu irresistibile, costringendo le città della Lega Messapica a cadere una dopo l’altra. Tuttavia la strenua resistenza dei nativi non si affievoliva perché, se una piazza cadeva, i superstiti correvano subito a rinforzarne un’altra, nella speranza di frenare l’invasore. Si giunse così allo scontro finale nella città di Manduria, uno degli ultimi baluardi salentini che Archidamo doveva necessariamente prendere prima di raggiungere Taranto. Da un lato il Re di Sparta assediava la città dall’esterno, al comando delle forze tarantine e spartane, dall’altro Messapi e Peuceti asserragliati nella cinta muraria difendevano la loro Patria e la loro Libertà.

Lo scontro si presentò subito sanguinoso per l’accanimento dei contendenti, tuttavia l’organizzazione e l’addestramento delle forze d’invasione faceva la differenza infatti, dopo alcune ore di assedio, le armate di Archidamo cominciarono ad avere la meglio. Quando ormai l’ultimo attacco sferrato si apprestava a concretizzarsi, avvenne l’incredibile: un dardo scagliato dagli assediati colpiva a morte il Re di Sparta. Le linee spartane e tarantine vacillarono in preda allo sgomento, mentre le urla di giubilo messapiche risuonavano nell’aria, infondendo coraggio negli assediati che, ritrovata nuova forza, aprirono le porte della città riversandosi come furie sul nemico, costringendolo ad una rotta disordinata. Ancora una volta la Messapia salvò la sua indipendenza dalle mire espansionistiche di Taranto.

Si racconta che i Messapi stessi raccolsero le spoglie di Archidamo che, comunque, ebbe tutti gli onori del suo rango, quindi lo seppellirono in un luogo imprecisato sotto le mura della città, insieme alle ricchezze che aveva con sé. Da allora non è stato mai ritrovato ed attende ancora di essere riportato alla luce ……….. Cosimo Enrico Marseglia

Da Sparta a Manduria, la fine di un re. Italo Interesse il 14 Novembre 2019 su quotidianodibari.it.

Tra il VII e il III secolo avanti Cristo Sparte ebbe per cinque volte un re dal nome Archidamo. Uno di questi, Archidamo III (figlio di Agesilao II), che fu a capo della potente città della Laconia dal 360 al 338, legò per sempre il suo nome alla nostra terra. Nel destino di quest’uomo era evidentemente scritto che non avrebbe conosciuto vita lunga e quieta, consumata fra ozi e mollezze. Già prima di salire sul trono comandò le forze spartane contro i Tebani (battaglia di Leuttra, 371) e contro gli Arcadi (367 e 364); infine, nel 362 difese Sparta dall’esercito di Epaminonda. Salito al trono, non smentì la sua natura di uomo da prima linea sostenendo i Focesi contro Tebe, poi schierandosi con la città di Lyttos in guerra con Cnosso. Poteva un uomo siffatto morire nel proprio letto? Da vero guerriero Archidamo trovò la morte in battaglia, una delle ultime del secolare conflitto che contrappose Tarantini e Messapi. Ma facciamo un passo indietro:  Quando nel 356 Lucani e Messapi strinsero quell’alleanza da cui conseguirono le conquiste di Eraclea e Metaponto, Taranto, cominciò a sentirsi accerchiata. In un secondo momento, una volta che la minaccia ebbe assunto contorni preoccupanti. i tarantini reagirono chiedendo aiuto al loro alleato storico, quella Sparta da cui nel 708 a.C. (stando a Eusebio di Cesarea) presero il mare alcuni coloni (i Parteni) che, guidati da Falanto, si sarebbero insediati sulla piccola lingua di terra che separa il Mar Piccolo dal Mar Grande. Così, nel 342 Archidamo arrivò in Italia a capo di un potente esercito col quale cominciò a combattere ora i Messapi, ora i Lucani. Stando a Plutarco il coraggioso re trovò la morte combattendo sotto le mura di Mendonion, l’odierna Manduria. Quale memoria resta di quest’uomo in quella città? Fino a qualche tempo fa il nome del re spartano a Manduria era legato ad un B&B e un primitivo locale. Davvero poco, tanto più che il Comune non ha dedicato al re spartano neanche una strada. Ma da qualche anno, in estate, la figura di Archidamo è al centro di ‘Scegnu’, una rievocazione storica ideata e organizzata dall’associazione storico culturale di Manduria Cerva Regia. Sotto la direzione di Katja Zaccheo, presidente della suddetta Associazione nonché studiosa di filologia e di usanze e tradizioni dei popoli antichi, ha luogo all’interno del Parco Archeologico delle Mura Messapiche una ricostruzione (notturna) dello scontro che fu fatale ad Archidamo e che vede protagonisti elementi dell’associazione I Cavalieri de li Terre tarantine. Ma ‘Scegnu’ non si limita a ricordare quel sanguinoso confronto. Una serie di postazioni rievocative illustra in che modo gli antichi manduriani vestivano, come passavano il tempo, dove riposavano, come si profumavano e s’imbellettavano, come celebravano i riti funebri, come costruivano armi…Italo Interesse

Il segreto di Sparta. Matteo Carnieletto il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Una società guerriera e ancestrale, che continua ad affascinare tutto il mondo.

Sparta, oggi, non esiste più. Al suo posto c'è una nuova città, confusa e moderna, così diversa rispetto al suo archetipo. Di quella antica, sorta sulle sponde del fiume Eurota, restano solamente poche pietre consumate dal tempo. Non ci sono templi. Non c'è, come ad Atene, un Partenone che veglia dall'alto e che indica una via. Una strada ideale da percorrere. Non ci sono mura. Del resto, dicevano gli antichi, per difendere Sparta erano sufficienti i petti dei suoi cittadini. Eppure, a distanza di millenni si continua a parlare di questa polis avvolta dal mistero.

Ancora oggi, a scuola, i bambini ammirano quei valorosi soldati, coperti solamente da un manto cremisi, che marciavano al fronte compatti. E che magari avevano paura, ma non lo davano a vedere. Non potevano farlo perché un codice d'onore non lo permetteva ("tememmo il filo della lama e il dolore delle ferite, ma molto più di questo dolore tememmo il disprezzo dell'amico che combatte al nostro fianco, la vergogna della donna che attende il nostro ritorno e il ripudio del vecchio che un tempo lottò per noi", scrive Agatocle alla vigilia della battaglia delle Termopili). Ancora oggi, i giovani ragazzi rimangono incantati mentre ascoltano (o guardano) la storia di Leonida e dei suoi 300 spartani che si sono fatti trucidare pur di fermare l'avanzata di Serse. Non lo fanno per spirito altruistico nei confronti delle altre poleis o perché cercano la bella morte. Lo fanno per non morire da schiavi. Per vendicare un amico caduto. Per proteggere il compagno che hanno accanto. Fino alla fine.

Sparta - che anche in termini di letteratura non ha lasciato nulla, se non qualche verso bellico di Tirteo - esiste ancora oggi perché ha saputo affascinare gli uomini che l'hanno incontrata e che non hanno potuto fare a meno di raccontarla (e, a volte, di mitizzarla). È l'uomo - meglio: il suo carattere - ad essere il centro di questa polis ancestrale.

Ne L'esempio di Sparta. Storia, eredità e mito di una civiltà occidentale (Passaggio al bosco) si ripercorrono le fasi e la formazione degli spartani. Tutto iniziava con l'agoghé: a sette anni, i bambini vengono allontanati dalle proprie famiglie e sottoposti a un rigido sistema educativo volto a forgiare anima e corpo. Si tratta di una vera e propria "condotta", questa la traduzione della parola greca Un nuovo modo di vivere. Di sacrificare se stessi - e i propri legami - in nome della società. Non c'erano deroghe. L'asprezza della vita era il minimo comun denominatore delle giornate di Sparta. I neonati non potevano essere avvolti in alcun tipo di fascia: dovevano infatti imparare a resistere alle intemperie e a muoversi liberamente. Dopo esser stati abbandonati dai genitori, i giovani si radunavano in aghèlai, in "mandrie", guidate da un ragazzo più grande, che doveva essere da esempio.

Ed era questo il centro dell'educazione di Sparta. L'esempio. I più piccoli guardavano i più grandi e iniziavano a comportarsi come loro. Li imitavano nelle virtù. Un giorno, durante le olimpiadi, un anziano signore girava allo stadio in cerca di qualcuno che lo facesse sedere. Posto dopo posto, nessuno si alzava per farlo riposare. Fino a quando non arrivò al settore dedicato agli spartani. Non appena i giovani - e pure qualche uomo fatto e finito - lo videro si alzarono. Del resto, Plutarco ha scritto: "Tutti i Greci sanno ciò che è giusto fare, ma solo gli Spartani lo fanno". È la differenza tra chi pensa soltanto e chi, invece, dopo aver riflettuto agisce. È la presenza costante di un esempio da seguire. Era questo, ed è ancora oggi, il segreto di Sparta.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue occidentale e Cristiani

Il primitivo di Manduria tra storia e leggenda. Angela Leucci il 13 Giugno 2022 su Il Giornale.

Manduria, la città nota per il vino primitivo, è un luogo di bellezza antica con una curiosa particolarità: un mandorlo sembra sbucare da un pozzo.

La città di Manduria è un luogo interessante sotto molti punti di vista. È nata dalla civiltà messapica ed è luogo di una necropoli. Nei secoli, soprattutto tra il XV e il XVIII con piccole incursioni nel basso Medioevo, l'arte cristiana ha permesso la realizzazione di palazzi religiosi molto suggestivi e chiese con stili molto differenti tra loro. Ma c'è una ragione che rende Manduria molto celebre agli occhi del mondo.

Situata poco più a nord dell'immaginaria linea linguistica Brindisi-Avetrana, rappresenta un punto di confine tra dialetto meridionale mediano e dialetto meridionale estremo. È qui, quindi, in un'area quasi di confine della penisola italiana, che si è verificato il fenomeno del conservativismo nel passaggio dal latino al volgare: è qui che in dialetto vino viene ancora da "merum", un termine usato per indicare un vino puro, schietto, senza aggiunte d'acqua. È qui che nasce il Primitivo di Manduria.

La storia del primitivo di Manduria 

C'è chi pensa che il vitigno archetipo per la produzione del primitivo sia giunto a Manduria grazie agli Illiri, che coltivavano uva rossa sulle coste balcaniche: il loro vino venne portato dai mercanti navali via mare e così anche le uve.

Bisogna però aspettare molto tempo per avere i primi documenti scritti sul tema. Il primo risale al XVIII secolo e fu scritto da un religioso, don Francesco Filippo Indellicati: questi si accorse che a Manduria esisteva un vitigno rosso le cui uve erano pronte per essere vendemmiate ad agosto, prima di tutte le altre. Così decise di coltivarle e dare al vino il nome di primaticcio.

Dopo di lui la coltivazione delle uve e la produzione del primitivo iniziò a diffondersi e ad affinarsi, anche grazie all'attenzione della contessina Sabini di Altamura: la dote delle sue nozze con Don Tommaso Schiavoni-Tafuri di Manduria consistette anche in alcune barbatelle, che vennero così incrociate ottenendo un vitigno, e poi un vino, assolutamente unico.

La leggenda del Fonte di Manduria 

I poeti e gli scrittori latini cantarono il vino manduriano in molti modi: in particolare fu Plinio il Vecchio a descriverlo nei suoi scritti. Ma non solo. A Plinio si deve infatti la prima descrizione di un fonte che prende il nome appunto di Fonte Pliniano e che fa bella mostra di sé sullo stemma comunale di Manduria.

Si tratta di una grande grotta naturale, che i Messapi modificarono per renderla fruibile: qui c'è infatti un bacino idrico sotterraneo che non si esaurisce mai. La caverna è inoltre illuminata da un lucernario esterno che assomiglia a un pozzo, all'interno del quale sbuca un grande mandorlo. Così l'acqua, già di per sé simbolo di vita, con il mandorlo diventa anche simbolo di prosperità.

Si ritiene che i Messapi utilizzassero il Fonte non solo come necessaria risorsa idrica, ma anche come luogo di culto. Situato nell'area archeologica di Manduria, il Fonte contiene una piccola necropoli: su essa sono sorte molte ipotesi leggendarie. Si pensa infatti che i corpi che sono stati ritrovati dagli archeologi possano appartenere ai religiosi di un culto millenario o siano le vittime di sacrifici umani.

Naturalmente non è dato sapere troppo: le fonti sul Fonte - si scusi il calembour - non dicono molto del suo utilizzo. Ma alle persone piace, nel tempo, immaginare scenari fantastici e un luogo tanto suggestivo come il Fonte Pliniano è di grande ispirazione.

Manduria e il suo «Primitivo», una storia lunga più di 200 anni. Giuseppe Mazzarino su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2022. 

Dalla «dote» a un matrimonio, alla sua origine di gioia fino alla rinascita negli anni novanta: aneddoti di uno dei vini italiani più esportati nel mondo

Un vino, un vitigno, una storia, un territorio. Non soltanto gusto, consistenza, profumi. Il vino non si tracanna, si gusta; e non si beve per sete. In un calice di buon vino non c’è soltanto alcool. Il Primitivo di Manduria, per esempio: una carta vincente dell’enogastronomia pugliese, uno dei vini italiani più esportati nel mondo. Racchiude in sé valori culturali, storici, paesaggistici, economici e sociali, oltreché – naturalmente – gustativi.

Il suo boom è relativamente recente. C’è voluta la crisi del metanolo per far virare la produzione dalla quantità di vino da taglio (o da distillazione) verso la qualità. Ancora negli anni ’90 stava per perdere la doc per mancanza di produzione. Ma i miglioramenti qualitativi, la commercializzazione non più artigianale, la «scoperta» che uno dei più accorsati vini californiani, lo Zinfandel, altro non è che un clone del Primitivo (e sostanzialmente lo stesso vitigno è il croato Crljenak Kaštelanski), hanno creato le premesse, consolidate dalla costituzione del Consorzio di tutela, per un successo rapido, travolgente e che non conosce riflusso. Tanto che una delle varianti del Primitivo di Manduria, il dolce naturale, è stato il primo vino pugliese ad ottenere la Denominazione d’origine controllata e garantita (Docg).

La storia di questo vino, e del vitigno da cui prende il nome, è affascinante: intanto, il nome non indica una origine lontana nel tempo o una vinificazione al modo antico, perché Primitivo (in origine Primativo) sta per «primaticcio», «precoce»: è un’uva che matura presto, prima delle altre.

Nell’attuale area della denominazione protetta (in provincia di Taranto: il territorio dei Comuni di Manduria, Carosino, Monteparano, Leporano, Pulsano, Faggiano, Roccaforzata, San Giorgio Jonico, San Marzano di San Giuseppe, Fragagnano, Lizzano, Sava, Torricella, Maruggio, Avetrana e Taranto, limitatamente alla frazione di Talsano ed alle isole amministrative intercluse nei territori di Fragagnano e Lizzano; in provincia di Brindisi i territori dei Comuni di Erchie, Oria e Torre Santa Susanna) il vitigno arrivò da Gioia del Colle, dove era stato selezionato da un sacerdote, come dote di una giovane sposa.

Siamo nel 1799, quando don Filippo Indellicati mette ordine nei suoi vigneti, separa i vitigni ed impianta una vigna di sole viti che producono quest’uva precoce dal colore tendente all’indaco ed un vino di un profondo porpora, profumatissimo e gustoso: è l’atto di nascita del Primativo, che riscuote subito successo, tanto che dilaga nel territorio di Gioia, Altamura, Acquaviva (dove tuttora, come nel confinante versante di Nord Ovest della Provincia jonica, specie a Crispiano, si produce un ottimo Primitivo, molto diverso da quello di Manduria; ne parleremo altra volta; così come altra volta tratteremo del Primitivo di Manduria dolce naturale docg).

Ed arriviamo ad una data certa: il 1881; l’altamurana contessina Rosa Sabini va sposa in Manduria a «don» Tommaso Schiavoni Tafuri (il don, sempre derivazione del latino dominus, non indica un ecclesiastico ma è titolo di rispetto), e porta in dote, tra l’altro, alcune barbatelle di Primitivo. Che il cugino di don Tommaso, Menotti Schiavoni, impianta a Campo Marino, frazione di Maruggio: di fronte al mare, che mitiga l’arsura della Puglia e crea un microclima favorevolissimo al vitigno, che teme il caldo eccessivo.

E proprio col nome Campo Marino, nel 1891, viene imbottigliato il primo vino che diventerà il Primitivo di Manduria. E’ più alcoolico, più morbido, più profumato di quello di Gioia. Il nuovo vitigno rigorosamente impiantato ad alberello (oggi al limite anche a spalliera), conquista rapidamente Manduria, Sava, Lizzano, San Marzano. Lo battezzano «di Manduria» perché nell’antica città dei Messapi c’è la stazione ferroviaria da cui partono i vagoni-cisterna carichi del purpureo nettare che la Francia soprattutto, ma anche l’Italia del Nord, userà come vino da taglio, per la gradazione alcoolica ma anche per il colore.

E a Manduria nasce anche la prima cantina cooperativa di Puglia, nel 1928, la Federazione Vini; quattro anni dopo assumerà ufficialmente la forma cooperativa e si ribattezzerà Consorzio produttori vini e mosti rossi superiori da taglio di Manduria; azienda che pur semplificando il nome (oggi si chiama Produttori di Manduria – Maestri in Primitivo) resterà all’avanguardia anche nel miglioramento qualitativo. Negli anni ’30, comunque, il Primitivo è ancora considerato essenzialmente vino da taglio: troppo plebeo per diventare un vino di qualità, incapace di invecchiare, troppo alcoolico... ma non era vero. Tutto stava, e sta, a come si vinifica: perché l’uva nasce nel terreno, il vino nasce in cantina. Il Primitivo di Manduria ebbe la doc nel 1974, ma già pochi anni dopo rischiava di perderla: i produttori che lo imbottigliavano erano pochi, e il vino non riusciva a superare i confini locali. E molte cantine, per non aggiornare gli impianti, continuavano a produrre vino sfuso. Ci volle la crisi del metanolo, insieme con l’emergere di nuove generazioni di imprenditori ed operatori, per creare, a partire dalla metà degli anni ’90, per trasformare una doc morente in un vino di successo planetario, fra i più esportati d’Italia. Con alcuni Primitivi (dop – che è il nuovo marchio europeo – ma anche igp) da urlo, che si impongono in importanti concorsi enologici.

Infelice affermazione di Enrica Bonaccorti sui manduriani Primitivi come il vino (L'audio). Marzia Baldari su La Voce di Manduria mercoledì 22 dicembre 2021.

Mentre il Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria è concentrato a bacchettare una appassionata di cucina che sbaglia l’etichetta di un Primitivo dolce naturale (lo ha definito Doc anziché Docg) chiedendo la rettifica della video-ricetta pubblicata sulla pagina Facebook del nostro giornale, al distratto CdA dell’organismo consortile gli sfugge un’affermazione sul Primitivo, quella sì, a nostro avviso, davvero censurabile, diffusa a livello nazionale su Rai Uno.

È quella della conduttrice televisiva Enrica Bonaccorti all’interno della puntata andata in onda ieri  del programma “Storie italiane”, dedicata all’ospite Anna Giuliano, la scrittrice dell’eros di Uggiano Montefusco che in diretta tv ha palesato le continue vessazioni che riceve all’interno del suo paesino e che da anni la costringono a barricarsi in casa.

«Devi uscire invece, andare in piazza e fare lo struscio e inalberare un bel sorriso», ha detto la Bonaccorti interrompendo la scrittrice. «Io ce l’ho una risposta – ha continuato - perché accade tutto questo lì. Perché: come si chiama il vino di Manduria? Il Primitivo! Quindi, forse, c’è un collegamento», collegando il nome del pregiato vitigno alla presunta arretratezza del popolo dove si produce.

Una caduta di stile a dir poco vergognosa e non una semplice gaffe alla Giurato. È, infatti, immediata e ragionevole la risposta della giornalista e conduttrice del programma dell’emittente pubblica Eleonora Daniele: «Enrica, perdonami, non si può fare di un filo d'erba un fascio. Non si scherza su queste cose. Mi sono anche occupata con Linea Verde – il programma di Rai Uno che racconta l’agricoltura italiana e le sue eccellenze - di tante produzioni enogastronomiche e soprattutto di produzioni di vini e di tanta gente, contadini perbene che lavorano». Si difende poi la Buonarroti mettendo una toppa che è peggio del buco: «Gli ho fatto pubblicità e l’ho anche esaltato. Era una battuta, ha pure riso Alessandro», (il giornalista Cecchi Paone).

Quella della nota showgirl è stata una mirata e generalizzata offesa per tutti i cittadini di Manduria. All’interno di un programma in cui si raccontano storie di abusi, femminicidi e maltrattamenti, la Bonaccorti, questa storica signora della televisione italiana, ha deciso di sbeffeggiare con tono naif i manduriani. Tutti indistintamente, definendoli preistorici e beceri. Forse si è lasciata trascinare da un impulso improvviso. Non ci ha pensato due volte a quello che stava per dire offendendo apertamente più di 30mila abitanti e un vino, pregiato e rinomato in tutto il mondo che non ha bisogno, fortunatamente, di farsi pubblicità in contesti e con paragoni davvero di bassa portata. Non è forse questo, un comportamento primitivo? Almeno Luca Giurato ci faceva ridere. (Ascolta l'audio) Marzia Baldari

A reagire ora a quell’insulto (la trasmissione risale al 21 dicembre), sono i consiglieri comunali di opposizione. La Voce di Manduria - mercoledì 05 gennaio 2022.

Vi ricordate la frase di Enrica Bonaccorti che aveva offeso tutti i manduriani definendoli «Primitivo» come il vino che qui si produce? Ne parlammo il giorno dopo l’infelice espressione pronunciata dal personaggio nazionale durante una puntata di Storie Italiane, su Rai Uno, per definire chi aveva offeso e mobbizzato la scrittrice manduriana Anna Giuliano che lamentava discriminazioni e violenze verbali dagli abitanti della frazione manduriana di Uggiano Montefusco, dove abita, per via dei suoi romanzi a sfondo erotico. 

A reagire ora a quell’insulto (la trasmissione risale al 21 dicembre), sono i consiglieri comunali di opposizione, Lorenzo Bullo, Antonio Mariggiò Roberto Puglia Domenico Sammarco, Gregorio Gentile Dario Duggento Cosimo Breccia Francesco Ferretti De Virgilis Loredana Ingrosso, autori di una lettera piccata alla Bonaccorti. «Non pretendiamo le sue scuse – scrivono i consiglieri – ma la invitiamo a Manduria, una città sicuramente non perfetta, anzi, colma di vuoti e difficoltà, ma vera e reale, in cui la tradizione e l’orgoglio per le proprie radici vive sulle gambe dei suoi cittadini». Il testo completo su La Voce di Manduria.  Ecco il testo della lettera.   

Gentilissima Enrica,
ci permettiamo di indirizzarLe questa breve lettera per testimoniarLe quanta amarezza hanno indotto le Sue dichiarazioni nel programma “Storie Italiane” in onda su Rai Uno il 21 dicembre scorso all’interno della puntata all’ospite, una scrittrice dell’eros di Uggiano Montefusco (frazione di Manduria). Nella televisione ammiraglia del nostro Stato, sentire una comunità intera derisa ed etichettata quali “primitivi” è stato davvero avvilente per una città che, invece, dell’accoglienza e della tolleranza ne ha sempre fatto una bandiera.
Manduria, per citarle un mero esempio, non si è tirata indietro anni fa quando è diventata hotspot per la gestione dell’emergenza migratoria innescata dalla primavera araba, con tutti i cittadini – quelli che lei definisce primitivi – impegnati a prestare soccorso ai bisognosi.
Una comunità attiva che non si è piegata quando è stata travolta dall’onta mafiosa, che ha reagito e cerca ogni giorno di risollevarsi dalle difficoltà, note a tutti, che interessano questa parte meridionale della penisola. 

Ancor più avvilente, poi, è stato il banale gioco di parole derivato dal nome del nostro prodotto più amato e tutelato, il Vino Primitivo di Manduria, che rappresenta l’essenza del territorio, fatto di giovani e meno giovani produttori, lavoratori instancabili della terra, che con impegno e dedizione cercano di ricavarsi un posto in questi periodi così complicati. Un prodotto apprezzato in tutto il globo, per le sue caratteristiche uniche, un po' come il luogo da cui proviene che, con un po' di sano campanilismo, ci permettiamo di definire speciale. 

Per questo, non vogliamo addossarLe colpe o chiederLe delle scuse, ma vogliamo invitarLa ad essere nostra ospite, a percepire attraverso i suoi sensi l’unicità della nostra Città, che coniuga il mare e la terra, in un connubio come quelli che solo la nostra Italia sa garantire. Una città sicuramente non perfetta, anzi, colma di vuoti e difficoltà, ma vera e reale, in cui la tradizione e l’orgoglio per le proprie radici vive sulle gambe dei suoi cittadini. 

Speranzosi in un cortese riscontro, porgiamo cordiali saluti. 

I consiglieri comunali del Comune di Manduria dei Gruppi Consiliari in intestato: Lorenzo Bullo, Antonio Mariggiò Roberto Puglia Domenico Sammarco, Gregorio Gentile Dario Duggento Cosimo Breccia Francesco Ferretti De Virgilis Loredana Ingrosso

Bonaccorti ai manduriani: «Primitivi? Ma quale offesa, almeno lasciatemi un po' di ironia». Gianluca Ceresio su Il Quotidiano di Pugli e su La voce di Manduria Venerdì 7 Gennaio 2022.

Non si è fatta attendere la risposta di Enrica Bonaccorti ai consiglieri comunali di Manduria sulla loro presa di posizione rispetto alle parole pronunciate dalla stessa Bonaccorti in tv, quando ha definito genericamente il cittadino manduriano «primitivo» (giocando sulle parole) alludendo unicamente al comportamento di alcuni individui che hanno offeso e maltrattato verbalmente una compaesana che ha pubblicato un romanzo a sfondo erotico.

La lettera

Infatti, la lettera della Bonaccorti esordisce così: «Cari Consiglieri tutti, e cara tutta Manduria, non riesco a credere che le mie parole siano state interpretate come una seppure larvata offesa! Io che adoro il Sud, orgogliosa di una mamma napoletana e di mezza famiglia angrese (Salerno), innamorata del vostro territorio e della vostra ospitalità … e voi pensate che io mi riferissi a tutta la popolazione? Che la battuta sul vostro fantastico «Primitivo» lo denigrasse?». Scendendo nei particolari la conduttrice rimarca testualmente: «Mi sono riferita, anzi l’ho proprio detto, all’atteggiamento primitivo di quelle persone che hanno messo all’ostracismo una compaesana «colpevole» solo per aver pubblicato un romanzo a sfondo erotico». Quindi, è evidente che la Bonaccorti, come spiega nella sua missiva, ha agito in perfetta buona fede, tant’è che precisa: «Non vuol dire né offendere né etichettare un’intera comunità, ma partecipare, con la sintesi estrema di un «banale gioco di parole», con lo stesso punto di vista sul fatto di cronaca che si stava dibattendo». La stessa conduttrice del programma “Storie Italiane” a cui si fa riferimento, a proposito poi dei commenti sul web dichiara: «Vorrei segnalarvi anche che nella reazione sui social, potete vedere il mio Instagram, c’è stata una valanga di commenti che mi hanno imbarazzata per i giudizi fortemente negativi sulla reazione e l’interpretazione delle mie parole in diretta; certo, se i fatti fossero accaduti a Jesi, non avrei potuto fare la battuta col Verdicchio! Ma questo era, solo un banale gioco di parole che attesta fra l’altro la mia conoscenza del vostro pregiato prodotto, il Primitivo di Manduria». «Ma forse in questi tempi di politically correct, si è perso il senso della misura, cioè non sappiamo più misurare la minima ironia insita a volte nelle parole». Riferendosi poi all’invito formulato dai consiglieri comunali di Manduria, la Bonaccorti aggiunge: «Mi avrebbe fatto piacere un invito a Manduria, quasi l’avevo sperato, ripeto che sono innamorata della vostra terra, ma l’invito lo immaginavo con altri toni, magari con benevolenza e non con un paternalistico «non vogliamo delle scuse» che ne implicano la necessità. Per l’educazione che ho ricevuto, mi scuso comunque con chi ha travisato il mio «jeu de mots» ed ha provato quella «amarezza» che denunciate. Ma la provo anch’io, speravo di aver meritato in tanti anni più fiducia nella mia onestà intellettuale e non solo. Poi c’è l’ironia, che spezia spesso le mie parole e a cui non voglio rinunciare, soprattutto in questi tempi pesanti».

La lettera della Bonaccorti conclude: «Vi auguro che il 2022 porti salute e prosperità a tutti voi, al Salento, alla Puglia, all’Italia, e che la situazione ci permetta un incontro non a Teano ma in piazza Garibaldi… e magari festeggeremo con un brindisi Primitivo! I miei più cordiali saluti».

Le case nelle marine manduriane più care di tutta la Puglia. L’indice dei prezzi delle vacanze in Puglia è stato elaborato da “Holidu”, uno dei maggiori motori di ricerca per case e appartamenti vacanza d’Europa. La Redazione su La Voce di Manduria il 31 maggio 2022.

In tanti non ci crederanno visto lo stato in cui versano le marine manduriane. Eppure gli affitti delle case vacanza di San Pietro in Bevagna sono i più alti di tutta la Puglia. Più cari addirittura di Gallipoli, Otranto, Ostuni, Mattinata, Polignano a Mare, Margherita di Savoia e così via. Insomma, nessuna località turistica pugliese, nemmeno la più rinomata, raggiunge i prezzi delle case in affitto delle marine di Manduria. 

L’indice dei prezzi delle vacanze in Puglia è stato elaborato da “Holidu”, uno dei maggiori motori di ricerca per case e appartamenti vacanza d’Europa che ha raccolto le disponibilità nelle località più ricercate oltre ai prezzi medi per ciascuna destinazione.    

La località più costosa in fatto di case ed appartamenti vacanze, si legge nel report, risulta essere San Pietro in Bevagna, marina di Manduria, con i suoi 261 euro in media a notte, precedendo di poco Maruggio con 250 euro a notte e superando anche la “capolista” Gallipoli che si accontenta di 244 euro, quasi venti euro in meno della marina Messapica. (La classifica completa sino alla trentesima posizione)

Tra le 30 località più amate, le più economiche risultano essere mete non strettamente legate al turismo balneare, ossia Bari e Taranto con 134 euro, Trani con 124 euro, chiude Brindisi con “soli” 120 euro in media a notte. Nonostante i prezzi, le località turistiche della provincia di Taranto non smettono di essere amate dal turismo estivo. A riscuotere maggiore successo, sempre nella top 30 delle preferenze del motore di ricerca specializzato, sono, nell'ordine: San Pietro in Bevagna (la più cara ma anche la più amata), Taranto, Martina Franca, Maruggio e Pulsano che nella classifica generale occupano posizioni non altissime. Per trovare la prima, ad esempio bisogna scendere al tredicesimo posto (San Pietro n Bevagna); la città dei due mari al sedicesimo, la Valle d'Itria sotto di un posto, alla ventesima e ventunesima posizione Campomarino di Maruggio e Pulsano.

La località più ricercata risulta essere Gallipoli: la località simbolo della movida estiva salentina precede Otranto ed Ostuni che completano il podio, con Torre dell’Orso e Porto Cesareo a completamento della top 5. Al sesto posto Pescoluse, che precede Vieste, Monopoli ed il capoluogo Bari al nono posto, mentre Lecce chiude la top 10.

“C’era una volta la Salina dei Monaci di Bevagna”. La redazione de La Voce di Manduria domenica 26 giugno 2022.

In relazione al contenuto dell’articolo “La salina si prosciuga, l’allarme dei residenti” comparso in data 24 giugno su questo giornale online, tengo a rappresentare una potenziale criticità derivante dalla mancata conoscenza di alcuni aspetti di fondamentale importanza che riguardano il luogo in questione.

Premesso che la Salina in argomento, denominata “Dei Monaci di Bevagna”, risulta essere menzionata nelle fonti storiche già a partire dal XIII secolo e che, ad oggi, costituisce un raro esempio di sito di origine antropica di elevato interesse sotto molteplici aspetti (storico-sociologico, dell’archeologia industriale e ambientale), vorrei ricordare che essa è stata riconosciuta di interesse comunitario ed è inclusa dalla Direttiva 92/43/CEE nella tipologia delle “lagune” e, per la sua vegetazione alofila, nell’habitat “steppe salate mediterranee”; l’allagamento totale della salina determinato dall’immissione non controllata di acqua marina, costituirebbe, di fatto, una violazione dell’interesse tutelato dalla UE, in quanto causerebbe l’irreparabile danneggiamento della citata flora alofila.

All’uopo, per opportuna e completa informazione dei lettori, Le trasmetto, con preghiera di volerla pubblicare integralmente unitamente alla presente, la comunicazione da parte dello scrivente a suo tempo indirizzata alle competenti Autorità.

Per la Salina dei Monaci di bevagna

L’incipit di tutte le belle favole è “C’era una volta”, nel nostro caso “C’era una volta la Salina dei Monaci di Bevagna”. Io vorrei raccontarla alla stessa maniera la favola della nostra Salina che abbisogna di essere riscoperta e portata agli antichi splendori dei cristalli di sale. Intendo dire che quella che era una salina, cioè luogo di produzione di sale, è ora una semplice pozza d’acqua alla quale non si permette di depositare il sale che porta in soluzione. Questo è il primo aspetto al quale si può dare importanza, oppure no in base alla propria formazione culturale.

Ma esiste un altro aspetto la cui importanza nessuno può negare: la perdita di biodiversità. Nell’anello di limo salato, che l’acqua, ritirandosi per evaporazione, liberava nel periodo primavera–estate, viveva la comunità delle specie alofile, cioè delle piante che solo nei terreni salati trovano l’ambiente adatto per attecchire, crescere e fruttificare. Nella mia indagine negli anni 80 del secolo scorso, su questo suolo ho censito ben 20 specie che ho documentato nel libro “Tra sole e sale – la flora della Salina dei Monaci di Bevagna sullo Ionio tarantino”. Non è difficile capire che non permettendo all’acqua di evaporare e liberare l’anello di limo salato si riduce la biodiversità di questo luogo, che è unico, perché è il luogo di maggiore biodiversità, oltre che monumento di archeologia industriale. Se si vogliono ristabilire le condizioni originarie e fare in modo che la salina torni a essere salina e non pozzanghera, occorre aprire il canale d’immissione dell’acqua marina in novembre o comunque per breve tempo e tenerlo chiuso per il resto dell’anno. Importante è sottolineare che ciò non comprometterebbe la presenza dell’avifauna. Domenico Nardone

Tutto quello che ancora non funziona. E' iniziata la guerra delle strisce blu. La Redazione de La Voce di Manduria venerdì 17 giugno 2022.

Èpartita nelle marine manduriane la sosta a pagamento. Ma ci sono ancora molte cose da sistemare a partire dalla mancanza di grattini nei locali commerciali, non forniti dall’amministrazione che a quanto pare non avrebbe intenzione di metterli sul mercato affidando tutto ai parcometri installati e ancora pochi e non tutti funzionanti. Un accesso non sempre agevole per gli automobilisti accaldati che sicuramente preferirebbero acquistare il più comodo ticket dai locali della zona magari facendone scorta. 

Disagi anche per gli abbonamenti affidati ancora al foglio da compilare e far recapitare agli uffici della polizia municipale con la ricevuta del pagamento da eseguire su conto corrente postale o con bonifico bancario intestato al comune di Manduria. Procedura lunga e noiosa. Stessa cosa dovrebbero fare i turisti abituati, magari, dalle loro parti al pagamento online di qualsiasi ente o servizio pubblico o privato che sia di cui il comune di Manduria non è ancora fornito.  

Per non parlare dei conteziosi aperti con i proprietari di strade non espropriate per cui ancora di uso privato dove sono state tracciate le soste a pagamento. I residenti, oltre a vedersi privati di un tratto di strada di loro proprietà almeno fino ad avvenuta espropriazione, rivendicano a questo punto dal comune la fornitura dei servizi essenziali mancanti come acqua, fogna e in alcuni casi illuminazione pubblica.

Infine è poco agevole, del tutto impossibile per chi non possiede una casella di posta elettronica certificata Pec, la compilazione e l’invio della domanda per l’abbonamento.

Per farla bisogna compilare un modulo che si scarica solo dal sito internet del Comune, allegando (per i proprietari di casa nelle località marine) copia del foglio di mappa e la particella dell’immobile, del documento di identità, del libretto di circolazione del veicolo e del versamento prescelto. Questi i prezzi: per i non proprietari di immobili 35 euro per un mese, 25 euro per 15 giorni e 15 euro per una settimana; per i proprietari le tariffe scendono a 25 euro, 15 euro e 10 euro.  Ovviamente per una sola macchina.

Il consigliere comunale Domenico Sammarco riprende l’assessora al turismo, Antonella Demarco. Sammarco riprende la gaffe dell’assessora al turismo: “Manduria vocazione agricola è una castroneria”. La Redazione su La Voce di Manduria il 31 maggio 2022.

«L'assessora forse conosce la vocazione agricola del proprio comune di provenienza, ma evidentemente non sa niente di Manduria». Il consigliere comunale Domenico Sammarco, del gruppo Progressista, riprende così l’assessora al turismo del comune di Manduria, Antonella Demarco che per giustificare la mancata partecipazione del comune Messapico ai bandi per il turistico, ha dichiarato che «Manduria è accredita come città agricola e non come città culturale». 

«Di certo non sa – afferma Sammarco - che Manduria, oltre ad essere certamente un territorio a vocazione agricola, è già accreditata normativamente quale città a vocazione turistica; se avesse approfondito la conoscenza amministrativa della nostra città – prosegue Sammarco -, avrebbe avuto modo di scoprire che, al di là degli scempi politici che questa amministrazione quotidianamente compie, Manduria è inserita nell’Elenco regionale dei comuni ad economia prevalentemente turistica e città d’Arte». 

Con determinazione dirigenziale regionale numero 24 del 2018, spiega ancora Sammarco -, la Città di Manduria è quindi stata ufficialmente riconosciuta «Comune ad economia prevalentemente turistica e città d’Arte» e questo è avvenuto nel 2018 sotto l'amministrazione del commissario straordinario Francesca Garufi. «Tanto è vero – fa sapere sempre Sammarco - che sempre in quell'anno, l'Info-point turistico su Manduria ha partecipato al bando turistico e ricevuto il finanziamento per il potenziamento dello stesso». 

Il capogruppo Progressista non perdona la gaffe dell’esponente di giunta. «L'assessora, con un minimo di onestà intellettuale – dice -, dovrebbe fare ammenda lavorando seriamente per il bene pubblico cittadino e prima di dire ulteriori castronerie sarebbe utile informarsi dei percorsi amministrativi del nostro territorio, che ha requisiti e potenzialità turistiche meravigliose che, purtroppo, l'incapacità politica della giunta guidata dal sindaco Pecoraro non da modo alla città di esprimere appieno».

Poi aggiunge: “Manduria è città agricola, non culturale”. Assessora De Marco: “la mancata partecipazione al bando non è colpa nostra”. La Redazione su La Voce di Manduria il 28 maggio 2022. 

L’assessora al Turismo del comune di Manduria, Antonella De Marco, ci tiene a spiegare le ragioni della mancata partecipazione della Città Messapica ai bandi Infopoint per il turismo. Ne abbiamo parlato l’altro ieri in articolo in cui si elencavano i comuni ionici che hanno ottenuto i finanziamenti, esclusa Manduria che non ha presentato nessun progetto.

«Non si è partecipato – spiega l’assessora - poichè alla data del 11 aprile Manduria figurava nell’elenco comuni con iter di adesione da perfezionare; di chi la responsabilità?», chiede l’assessora che così si risponde. «Certamente non degli uffici dirigenziali perché tali atti sottendono un indirizzo politico che sarebbe stato opportuno comunque curassero i Commissari prefettizi visto che l'iter di accreditamento è partito nel 2017». 

Insomma le responsabilità, per l’sponente della giunta Pecoraro, sarebbe da ricercare nella precedente amministrazione commissariale «e certamente non di questa – precisa l’assessora - che, entrata in carica a fine 2020, ha dovuto affrontare un anno emergenziale di pandemia».

Per Demarco, questo bando come altri anche ministeriali, escludono il comune di Manduria per «poiché Manduria – spiega -, è accredita come città agricola e non come città culturale», accreditamento, fa sapere l’assessora «di cui abbiamo già avviato l’iter».

Dicendosi non disponibile al gioco «dello  scarica barile», la responsabile politica del turismo manduriano invita a guardare altre realtà come Mesagne dove per raggiungere gli attuali livelli di attrattività turistica «hanno eseguito una programmazione politica di 15 anni», puntualizza De Marco indicando anche Grottaglie o Laterza, anche loro stabili politicamente da diversi anni.

«La stabilità e la continuità politica – afferma -, assicurano programmazione ed a lungo termine certezza di risultati».

Quindi di chi sarebbe la colpa «delle carenze, delle toppe da mettere, della corsa senza fiato per inseguire le credenziali ai bandi?». L’assessora De Marco non ha dubbi: «facciamo un mea culpa collettivo: chi inneggia alla precarietà politica, chi chiede le dimissioni del sindaco ad ogni piè sospinto, chi soffia sulle contraddizioni e non collabora sugli obiettivi, deve poi avere la faccia di dire ai cittadini che se Manduria non recupera stabilità politica ed amministrativa per almeno 10 anni sarà inesorabilmente tagliata fuori da diverse opportunità economiche e di crescita».

·        Succede a Maruggio. 

L’aiuto che è mancato a Giuseppina e Angelo è di tutti.  Silenzi che ritornano, gli stessi di un’altra tragedia. La Voce di Manduria - sabato 05 febbraio 2022.

Giuseppina Loredana Dinoi, ottobre 2021. Angelo Taurino, febbraio 2022. Cosa hanno in comune queste due storie? Sicuramente la tragedia di entrambe le vittime di essere state ostaggi da carnefici nell’ambito familiare, ma il denominatore comune più importante di queste due tragedie sono le urla, le disperate grida di entrambi udite dai vicini, sia di Pina Loredana Dinoi che di Angelo Taurino a cui nessuno ha voluto rispondere.

“Stanotte sentivamo: aiuto, aiuto, aiuto. Uno che gridava. Però… non potevamo immaginare che… Di notte come fai a sapere chi…”. Una frase mozzata da una voce esitante, quella di un uomo spaventato, quel vicino che ha udito. Una congiunzione che non trova la parte finale del discorso. Queste sono le dichiarazioni, riprese da Antenna Sud, rispetto ad un uomo sulla sessantina, con grandi occhiali scuri fermato dal giornalista dell’emittente televisiva. Un uomo che quella maledetta notte aveva sentito le strazianti urla di Angelo Taurino, l’84enne trovato senza vita nella sua abitazione, forse per mano del suo pronipote. Un volto corrugato,  che ingenuamente confessa ai microfoni proprio la sua inazione, quasi per scagionarla.  

Silenzi che ritornano, gli stessi di un’altra tragedia. Quella di Pina e delle grosse mura condominiali di via Manfredi 5, così spesse da impedire alle urla di un'altra vittima di essere ascoltate quel 12 ottobre 2021 e di poter trovare un benefattore che chiamasse i soccorsi.

La paura di agire e voltare  le spalle  non ci rende meno responsabili, ma incoraggia l’emarginazione sociale. Compiere piccoli gesti come chiamare le forze dell’ordine, può cambiare gli eventi. “Aiuto” è una dichiarazione che restituisce all’uditore una palese situazione di pericolo e difficoltà lasciando poco spazio all’immaginazione, perché chi lo richiede si trova concretamente in un momento di bisogno. Queste recenti storie di cronaca nera locale confermano quanto il concetto di casa sia spesso incatenato all’idea di intimità portando l’estraneo o il vicino, lontano da quelle che sono le dinamiche che avvengono all’interno di una abitazione, ma se il velo di intimità viene rotto con delle urla allora  siamo chiamati in causa moralmente e non possiamo non rispondere. Marzia Baldari

Il delitto di Maruggio: è caccia all’arma usata per uccidere e al denaro scomparso. Un ruolo determinante potranno avere avuto anche le immagini di alcune telecamere. La Voce di Manduria venerdì 04 febbraio 2022.

Proseguono senza sosta le indagini dei carabinieri della compagnia di Manduria e del comando provinciale di Taranto per completare il quadro accusatorio nei confronti dell’autore dell’uccisione di Angelo Taurino, l’84enne maruggese ucciso martedì notte nella sua casa dove viveva da solo. Per incastrare definitivamente il maggiore sospettato, il pronipote della vittima, Antonio Taurino, 38 anni, incensurato, a quanto pare tossicodipendente, gli investigatori dovranno trovare l’arma del delitto, un coltello a punta si presume o un grosso taglierino, ed anche i soldi della pensione o altri risparmi che il pensionato teneva in casa. Sull’arma utilizzata per infliggere una quindicina di colpi al collo, torace e all’addome, potrebbero essere rimaste le impronte dell’assassino mentre il ritrovamento del denaro nei luoghi cui aveva accesso il sospettato, confermerebbe il movente già ipotizzato.

Entrambe le cose rappresenterebbero la classica pistola fumante che inchioderebbe il pronipote. Per questo il pubblico ministero Rosalba Lopalco titolare dell’inchiesta condotta anche dal procuratore aggiunto, Maurizio Carbone, ha disposto il sequestro della casa abitata dal presunto omicida situata a pochi metri di distanza e sulla stessa via del luogo dove si è consumato il delitto. Il luogo ideale, volendo copiare gli stessi sospetti di chi indaga, per permettere al pronipote di mettere al sicuro sia il bottino che l’arma utilizzata per ammazzare il prozio prima di telefonare al 112 per dare l’allarme.

Sempre che una o l’altra prova, o entrambe, non siano state già trovate dagli inquirenti che si giocheranno la carta nell’interrogatorio di garanzia che si terrà nelle prossime ore. Un ruolo determinante potranno avere avuto anche le immagini di alcune telecamere di sorveglianze della zona, già acquisite dai carabinieri, che potrebbero aver registrato i movimenti su quella vita prima e dopo l’avvenuto delitto.

Delitto di Maruggio, il sospettato non risponde al giudice ma parla la sua compagna. I sospetti degli investigatori hanno avuto ragione quando si sono recati a casa del sospettato, distante un centinaio di metri da quella dell’84enne ucciso. La Voce di Manduria domenica 06 febbraio 2022.

Ieri mattina il 38enne Antonio Taurino, accusato di avere ucciso il suo prozio Angelo Taurino di 84 anni, non ha risposto alle domande del gip che al termine dell’udienza di convalida ha confermato la misura cautelare in carcere. 

Se l’indagato non ha parlato, lo ha fatto la sua convivente che ai carabinieri ha dichiarato che la notte in cui è avvenuto l’omicidio, il suo compagno l’ha svegliata per farsi lavare gli indumenti e le scarpe che erano sporchi di sangue. Prove schiaccianti per gli inquirenti che hanno acquisito anche le immagini delle telecamere di sorveglianza che riprendono il presunto durante i suoi numerosi passaggi davanti casa della vittima.

La ricostruzione

Due ore prima di chiamare i carabinieri, Antonio Taurino, il 38enne di Maruggio accusato di avere ucciso il suo prozio, Angelo Taurino, di 84 anni, per rubargli i soldi della pensione, è rientrato a casa sconvolto e con gli abiti sporchi di sangue che la sua compagna ha messo a lavare in lavatrice. Sono alcuni particolari della ricostruzione di quanto sarebbe avvenuto nella notte tra l’1 e il 2 febbraio fatta dal giudice delle indagini preliminari, Benedetto Ruberto che ieri ha confermato l’arresto dell’indagato. E non si tratta di un’ipotesi dell’accusa, ma la testimonianza della donna che dopo una prima reticenza ha confessato tutto ai carabinieri. Si potrebbe chiudere così il caso sull’omicidio che ha sconvolto la comunità maruggese. Ma le prove nelle mani degli inquirenti che proverebbero la colpevolezza dell’indagato, sono altre e tutte contenute nelle undici pagine dell’ordinanza con cui il gip Ruberto, al termine dell’interrogatorio di garanzia tenuto alla presenza del procuratore aggiunto Maurizio Carbone e del sostituto Rosalba Lopalco, ha disposto la misura cautelare in carcere dopo i silenzi del sospettato che ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Una decisione presa con i suoi avvocati, Maurizio Dinoi e Paolo Rosato del foro di Taranto che hanno avuto un breve incontro riservato con il proprio assistito trovandolo molto provato e in uno stato psicofisico di profonda prostrazione. 

Diversamente da come si era mostrato la notte dei tragici fatti e la mattina successiva quando, secondo gli investigatori, avrebbe recitato la parte del nipote affranto dal dolore per aver trovato il suo prozio morto ammazzato nel letto della modesta casa dove l’anziano viveva da solo. Era stato lui stesso a chiamare i carabinieri raccontando di essersi introdotto in casa attraverso una piccola finestra perché la porta era chiusa dall’interno. Tutto questo alle quattro della notte, un’ora sicuramente insolita per preoccuparsi della sorte dell’anziano parente tanto da recarsi a casa per controllare il suo stato di salute. È stata questa la prima stranezza che ha messo in allarme i primi carabinieri giunti sul posto. L’attività investigativa portata avanti sin dai primi momenti ha poi portato molto di più. Ai militari della compagnia carabinieri di Manduria e del comando provinciale di Taranto, ad esempio, non è sfuggito il particolare delle mani e degli indumenti puliti indossati dal premuroso pronipote che aveva raccontato di aver toccato la vittima scuotendola per le spalle per vedere se fosse viva. Una circostanza curiosa vista l’abbondante quantità di sangue presente sulla scena del crimine che aveva intriso coperte e materasso.

I sospetti degli investigatori hanno avuto ragione quando si sono recati a casa del sospettato, distante un centinaio di metri da quella dell’84enne ucciso, trovando le prime prove: all’interno della lavatrice c’erano degli indumenti maschili e un paio di scarpe di ginnastica lavati da poco. Sulle calzature e poi su una maglia, c’erano poi delle macchie sospette che la successiva prova del luminol eseguita dagli specialisti della sezione scientifica dei carabinieri, ha dato prova della loro natura ematica.

La visione di alcune telecamere di sorveglianza che inquadravano il tratto di strada che conduce alla casa del pensionato, hanno permesso di ricostruire tutti gli spostamenti del trentottenne che dalle 22 della sera precedente sino all’arrivo dei carabinieri, intorno alle 4, era stato ripreso passare avanti e indietro una decina di volte. Gli indumenti indossati nelle immagini erano gli stessi trovati all’interno della lavatrice.

Lui però aveva continuato a negare tutto cercando di far credere un attaccamento affettivo particolare nei confronti dell’anziano parente. Tutt’altra cosa veniva fuori dalle testimonianze raccolte dai carabinieri dalle quali emergevano storie di continue vessazioni da parte del trentottenne che assillava il prozio con continue richieste di denaro necessario a procurarsi la sostanza stupefacente di cui era succube. Un comportamento già noto in paese dove l’uomo era biasimato proprio per la sua abitudine di chiedere somme di denaro a persone che non conosceva anche di notte. La stessa cosa avrà fatto quella notte quando, sempre secondo la ricostruzione dell’accusa, avrà chiesto altro denaro al prozio che si sarà rifiutato, forse avrà reagito, provocando la furia omicida del suo assassino. Un delitto d’impeto, secondo il gip che nell’incriminazione ha negato la premeditazione. Nazareno Dinoi  

Taranto, anziano ucciso in casa: fermato il pronipote che voleva rubargli la pensione. È accaduto a Maruggio. L’uomo, Angelo Taurino, aveva 84 anni. Il giovane, 38enne, avrebbe dato lui stesso l’allarme, ma il suo racconto ha insospettito i Carabinieri. Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 02 febbraio 2022.

Uccide a coltellate lo zio che non voleva dargli la pensione. È accaduto a Maruggio, in provincia di Taranto. Angelo Taurino, 84 anni, è stato trovato morto la scorsa notte nell’appartamento in cui abitava in via Nicolò. Fermato Antonio Taurino, 38 anni, il pronipote della vittima. Secondo quanto emerso dai primi rilievi si sarebbe introdotto nella casa dello zio passando da una finestra al pianterreno dopo aver sollevato la tapparella per impossessarsi, è questa l’ipotesi investigativa, della pensione appena riscossa dall’anziano. I carabinieri hanno raccolto le dichiarazioni anche della convivente di Taurino e i filmati dei sistemi di videosorveglianza: l’arrestato nega tutto, ma è comunque stato trasferito in carcere e nei prossimi giorni ci sarà l’udienza davanti al gip per la convalida 

Lui assuntore di droga, la vittima era un noto agricoltore

Il giovane, conosciuto come abituale consumatore di droga, era solito chiedere i soldi allo zio per acquistarla. Questa volta, sembra che lo zio abbia opposto resistenza reagendo all’aggressione. Di qui - ipotizzano i carabinieri - la reazione del pronipote che, armato di coltello, lo avrebbe colpito al collo, al torace e all’addome lasciandolo sul letto in un lago di sangue. L’allarme è stato dato dallo stesso Antonio Taurino che ha riferito all’operatore del 112 di aver trovato il cadavere dello zio all’interno della sua abitazione, con evidenti segni di violenza. I carabinieri di Manduria, accorsi sul posto attorno alle 4, si sono indirizzati su questa pista dopo aver trovato sul materasso l’impronta di una scarpa che coincideva con quella della persona sospettata. La vittima era un agricoltore molto conosciuto in paese, viveva solo ed era celibe. Possedeva un pezzo di terreno e ogni giorno andava e veniva dal paese per raggiungerlo e accudirlo personalmente. Secondo quanto dichiarato dai vicini di casa era una persona benvoluta e molto educata. 

Lo choc dei cittadini

A Maruggio, oltre ai carabinieri di Maruggio e della Compagnia di Manduria, s’è recato anche il comandante provinciale Gaspare Giardelli. Via Nicolò, teatro della tragedia, s’è riempita di gente non appena diffusa la notizia e dopo l’arrivo delle pattuglie dell’Arma, della Scientifica e del servizio 118. Sul posto anche i parenti di Angelo Taurino increduli di fronte alla sua morte violenta.

Omicidio di Maruggio: "un mese fa Antonio aveva tentato di strangolare lo zio". La paura della vittima confessata ad una parente. La Voce di Manduria lunedì 07 febbraio 2022

Una sconvolgente confessione sarebbe stata fatta dal pensionato ucciso a Maruggio pochi giorni prima la sua tragica morte. L’84enne Angelo Taurino, avrebbe confidato ad una parente di sentirsi in pericolo e che temeva proprio il pronipote Antonio Taurino, oggi unico sospettato della sua uccisione. L’anziano avrebbe confidato che in un’occasione aveva subito un tentativo di strangolamento da parte del pronipote.

Il pensionato Angelo Taurino, di 84 anni, ucciso barbaramente a Maruggio nella notte tra l’1 e il 2 febbraio, si pensa al termine di una rapina finita male, temeva di essere ucciso proprio per le mani del principale sospettato, suo pronipote Antonio Taurino, 38 anni, attualmente in carcere con l’accusa di omicidio volontario. È la sconvolgente confessione che lo stesso pensionato aveva fatto pochi giorni prima la sua tragica morte ad una nipote che vive in un'altra città. La grave circostanza che peggiorerebbe la già pesante posizione dell’indagato, è contenuta nell’ordinanza di convalida della misura cautelare in carcere firmata dal giudice delle indagini preliminari, Benedetto Ruberto, al termine dell’interrogatorio di garanzia di fronte al quale il trentottenne difeso dagli avvocati Maurizio Dinoi e Paolo Rosato si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Non se l’è invece sentita di restare in silenzio la nipote della vittima che nel pomeriggio di mercoledì scorso, tre ore dopo il fermo del presunto assassino che si professava innocente, ha telefonato alla stazione dei carabinieri di Maruggio chiedendo di parlare con il comandante Cosimo Massaro il quale raccoglieva la fondamentale testimonianza. La donna che da dove vive aveva saputo la terribile notizia, avrebbe riferito di aver ricevuto una telefonata dall’anziano zio il quale si diceva terrorizzato dal pronipote che lo assillava con continue richieste di denaro. La presunta estorsione del pronipote, così come il pensionato avrebbe confidato alla sua parente, sarebbe culminata a metà dicembre scorso con un tentativo di strangolamento. La scioccante confessione del pensionato che alla luce dei fatti accaduti suona come una richiesta d’aiuto inascoltata, troverebbe conferma nelle dichiarazioni di un altro parente che in passato avrebbe già riferito episodi di violenza, si parla di esplicite «percosse», di cui l’indifeso 84enne sarebbe stato vittima da parte dello stesso pronipote. Sempre dalle testimonianze raccolte dai carabinieri della compagnia di Manduria e del comando provinciale di Taranto, emerge con chiarezza, nella vittima, una figura di persona succube del giovane parente che per soddisfare le sue continue esigenze di denaro lo avrebbe usato come un bancomat. Le richieste estorsive sarebbero avvenute quasi sempre di notte quando il pensionato che viveva solo in casa si barricava mentre il 38enne lo costringeva ad aprire la porta minacciando di sfondarla.  

Forse così la notte tra martedì e mercoledì scorso Angelo Taurino potrebbe aver pagato con la vita la sua ultima resistenza alle richieste del pronipote che come altre volte aveva trovato la porta serrata. Quella notte ai carabinieri il 38enne ha raccontato di essere entrato dalla finestra che si affaccia sulla strada perché l’anziano parente non rispondeva e di averlo trovato senza vita sul letto inondato di sangue. Una storia che agli inquirenti non è sembrata plausibile sin da subito. Anche alla luce di quanto i carabinieri avevano scoperto quella stessa notte: gli abiti e un paio di scarpe dell'uomo sporchi di sangue, ancora bagnati, all’interno della lavatrice dell’abitazione distante un centinaio di metri dalla casa della vittima dove l’indagato vive con la sua compagna. Quest'ultima avrebbe poi confessato di essere stata costretta dal compagno a nascondere quelle tracce. Nazareno Dinoi 

·        Succede ad Avetrana.

Il rock'n'roll di Antonio (83 anni) e Giuseppina (82 anni) a Ballando con le Stelle di Milly Carlucci. Manduria Oggi il 21/09/2022. A dispetto dell’età, sono disinvolti come ragazzini e con una classe invidiabile: «Balliamo insieme da 60 anni» E’ proprio vero: il ballo aiuta a restare giovani. L’esempio arriva da Avetrana. Per Antonio (83 anni) e Giuseppina (82 anni) il ballo sembra essere l’elisir della giovinezza. Una passione, quella per il roch’n’roll, coltivata in circa 60 anni di matrimonio. «Quando ho conosciuto mia moglie, lei praticava il rock’n’roll acrobatico» ci racconta Antonio Orlando. «Abbiamo sempre ballato il rock’n’roll, che è la nostra passione». La loro grinta e la loro classe sono state notate da Milly Carlucci. «Abbiamo partecipato a ben sette edizioni di Ballando con le Stelle On the Road, vincendole tutte» rimarca Antonio. «Nell’ultima edizione, a Caserta, Milly Carlucci ha voluto premiarci: siamo stati invitati a Roma, per registrare la nostra esibizione che sarà poi mandata in onda in una delle puntate di “Ballando con le Stelle”». Antonio e Giuseppina saranno a Roma l’1 ottobre, insieme ad altri sette vincitori delle tappe di Ballando con le Stelle on the road. «In questa occasione saranno effettuate le riprese» ci riferisce Antonio. «Poi ci comunicheranno la data della trasmissione in cui saranno mandate in onda». Dopo aver vissuto a lungo a Milano, Antonio (nativo di Lavello) e Giuseppina (che è nata ad Acquaviva delle Fonti), hanno scelto di trascorrere la seconda parte della loro vita ad Avetrana e a Torre Colimena. Una terza età tutta vissuta a ritmo di rock’n’roll…

Antonio e Giuseppina, da Avetrana a Ballando on the road. “La danza non ha età”. Chiara Ferrara su Il Sussidiario il 09.11.2022 

Antonio e Giuseppina, da Avetrana a Ballando on the road: hanno 83 e 82 anni e sono l’esempio del fatto che la danza non ha età

Antonio e Giuseppina, rispettivamente 83 e 82 anni, hanno lasciato a bocca aperta il pubblico di Rai 1 per la loro esibizione a Ballando on the road, il format in cui alcune coppie di ballerini provano a partecipare a Ballando con te, il torneo di ballo della gente comune all’interno di Ballando con le Stelle. A volerli a tutti i costi sul palco è stata la conduttrice Milly Carlucci. “Ci siamo conosciuti nel 2003, quando ci vide ci disse che siamo l’esempio del fatto che la danza non ha età”, hanno raccontato a I fatti vostri.

L’amore e il ballo sono le due cose che li uniscono. “Ci siamo sposati 50 anni fa, dopo 13 di fidanzamento. Il ballo del mattone ci ha fatti innamorare. Abbiamo avuto tre figli ma non abbiamo mai rinunciato a ballare per loro, i parenti badavano a loro. Adesso non c’è più bisogno di allenarci, prima passavamo ore in sala. Abbiamo i passi nel Dna. Basta guardarci e stringerci la mano, arrivano da soli”.

Antonio e Giuseppina sono ormai celebri per la loro partecipazione a Ballando on the road, dove con la loro esibizione hanno meritato i complimenti della giuria al completo. “In realtà non abbiamo ballato come sappiamo fare. Eravamo molto emozionati, c’era tensione per il fatto che ci guardasse tutta Italia”, ha ammesso lui. È andata però ugualmente molto bene. “Nella nostra vita mancava soltanto che ballassimo in televisione, ce l’abbiamo fatta”.

Anche al ritorno a casa, innumerevoli sono stati gli applausi. “Anche i concittadini che non ci conoscevano, ci hanno fatto i complimenti e ci hanno detto che siamo l’orgoglio di Avetrana. È molto bello sentirselo dire, soprattutto per il fatto che il nostro paese è ricordato sempre per una vicenda spiacevole (il riferimento è all’omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, ndr)”, ha concluso la coppia.

La sede Dem divisa con i 5 stelle. Politiche, gran confusione sotto il cielo di Avetrana. La Redazione de La Voce di Manduria mercoledì 7 settembre 2022.

“Scegli” Enrico Letta ed il PD o “dalla parte giusta” di Conte (il Giuseppe di Volturana Appula e non il Luigi di Avetrana) ed i 5 Stelle? Ad Avetrana sembra che questo dilemma della prossima campagna elettorale non sia stato risolto e, nel dubbio, dalla centralissima sede del Partito Democratico di piazza Giovanni XXIII, si invita tramite i manifesti (che potete vedere in foto allegata all’articolo) a votare o per l’uno o per l’altro, come se non facesse differenza alcuna, come se “uno valesse l’altro”.

Peccato, però, che Partito Democratico e Movimento 5 Stelle siano impegnati in campagna elettorale in liste (e relative posizioni politiche) nettamente separate, anzi su molti temi (sull’agenda Draghi o sulla guerra in Ucrania ad esempio) addirittura agli antipodi. Una situazione alquanto bizzarra che sta creando, ovviamente, estrema confusione negli elettori avetranesi, specialmente quelli poco avvezzi ai movimenti “intestini” (è il caso di dire…) di una certa politica locale che, come in questo caso, rischia sovente di sfociare nel ridicolo se non proprio nel comico.

E chissà invece cosa ne penseranno ai piani alti del PD, dove forse sperano che la candidata manduriana al Senato, Maria Grazia Cascarano, possa realmente giocarsi l’elezione nel collegio tarantino dove il centrodestra le ha contrapposto una candidata cooptata dalla provincia di Bari (ovviamente sconosciuta agli avetranesi): in una partita nella quale forse a fare la differenza potrebbero essere una manciata di preferenze. Quegli stessi voti preziosi che potrebbero disperdersi a causa di questi comici siparietti di paese ai quali Avetrana ci sta ormai abituando negli ultimi anni. ”Grande è la confusione sotto il cielo”, affermava Mao Zedong, “quindi la situazione è eccellente!”. Per qualcuno, almeno. Gabrio Distratis

Una “sfilata” benefica. Ad Avetrana "Sfila la Vita”, in passerella le donne in terapia oncologia. La Redazione de La Voce Di Manduria giovedì 25 agosto 2022.

“Mi chiamo Tonia Serio sono una donna di 52 anni e sono in terapia oncologica dal 2019 quando ho scoperto di avere un tumore partito dal seno. Con mio marito Tonio, abbiamo pensato di fondare “io vivo a colori”, un’associazione no-profit. Essendo stata in passato una PR e organizzatrice di eventi x 9 anni, ho iniziato a organizzare eventi per raccogliere fondi per acquistare uno scanner venoso da donare al reparto oncologia di Gallipoli dove sono in terapia”.

Nasce così, e per questi scopi, la serata di raccolta fondi “Sfila la Vita” che si terrà domani sera, venerdì 26 agosto, in Piazza Vittorio Veneto ad Avetrana, con il patrocinio del Comune di Avetrana e della BCC di Avetrana.

Una “sfilata” benefica con protagoniste ragazze attualmente in terapia oncologica alla quale si alterneranno vari interventi da parte di medici oncologici, psicoterapeuti e nutrizionisti, il tutto condito da spettacoli di ginnastica artistica, cantanti e musicisti. 

Durante la serata verranno inoltre lanciati alcuni palloncini bianchi in ricordo di chi non è riuscito a superare il cancro.

La serata avetranese avrà inoltre due testimonial d’eccezione: la conduttrice ed attrice Linda Colini (protagonista della nona serie di “Don Matteo” e interprete di Cecilia Castelli in “Centrovetrine”) e l’attore Jgor Barbazza (“Il Paradiso delle signore”, “Un posto al sole”, “Don Matteo” e tanti altri ruoli in varie fiction italiane di successo).

“La raccolta dei fondi si svolgerà – ci fa sapere l’organizzatrice Tonia Serio - tramite la vendita di biglietti utili alla partecipazione all’estrazione finale di numerosi premi e, naturalmente, tutto il ricavato andrà a finanziare l’acquisto di uno scanner venoso da donare al reparto oncologico dell’ospedale di Gallipoli. La stessa serata – continua Tonia - sarà una interessante occasione per sostenere il messaggio di fiducia nella prevenzione delle malattie oncologiche e nel rapporto medico/paziente; il non trattare il cancro come un tabù perché il dialogo e il confronto positivo possono spesso accelerare i benefici della terapia; il sostegno psicologico alle famiglie e soprattutto vivere la vita ogni giorno con un punto interrogativo per poterne godere a pieno tutte le sfaccettature.”

“Durante la chemioterapia ho scritto un libro: "Forse domani sarà tutto passato” e con il ricavato delle vendite – ci fa sapere sempre la protagonista ed ideatrice dell’iniziativa - abbiamo fatto costruire una cisterna in Mozambico grazie ad un frate cappuccino missionario in quelle zone. Stava ricostruendo un orfanotrofio buttato giù da un uragano. Fatto ciò, con mio marito Tonio, abbiamo pensato di fondare la nostra associazione no-profit”. Gabrio Distratis

Cosimo Giuliano “Nonno della Comunità di Avetrana” racconta gli anni della guerra. Rtmweb.it il 23 agosto 2022.

“Ero il più piccolo soldato di Cavalleria e tutti gli incarichi venivano affidati sempre al più piccolo”.

Inizia così il racconto di Cosimo Giuliano, classe 1920, di Avetrana. Allievo della scuola di Cavalleria presso l’accademia militare di Modena fu combattente durante la seconda guerra mondiale. In occasione del suo centoduesimo compleanno, l’altro giorno ad Avetrana, ha avuto luogo una cerimonia privata presso l’abitazione dove risiede il Giuliano alla quale hanno preso parte il Sindaco prof. Antonio Iazzi e diversi soci della locale sezione della Associazione Combattenti e Reduci.

Tra di essi il presidente della sezione, Luigi Franzoso, i soci Carmelo Totaro, Maria Iarba e i promotori dell’evento nonché parte attiva Giancarlo Parisi e Alessandro Scarciglia.

Al reduce sono stati consegnati due attestati di merito uno da parte della locale Sezione e uno da parte della Federazione Provinciale a nome del Cav. Antonio Cerbino il quale non ha potuto presenziare per diversi impegni.

Presente,   inoltre,  presso l’abitazione del Giuliano il segretario Provinciale della Associazione Nazionale Bersaglieri  di Taranto Andrea Chioppa . L’incontro, di fatto, ha sugellato un’intensa collaborazione nata proprio tra le due Associazioni d’Arma con lo scopo di raccogliere le testimonianze dei reduci avetranesi ancora in vita e ricostruirne la memoria storica. Tale progetto, pienamente sostenuto dalla Amministrazione comunale, vede la realizzazione di una serie di docu-filmati frutto di diverse interviste a cura di Andrea Chioppa e Giancarlo Parisi pianificate con lo scopo di riassemblare i ricordi riportandoli su linea temporale grazie al supporto di materiale documentale e fotografico custodito dalle famiglie. I filmati saranno proiettati durante un apposito evento ancora in fase di elaborazione e che sarà realizzato nei prossimi mesi. A partire dall’inizio dell’anno scolastico, ad essere coinvolti nel progetto, saranno anche gli alunni delle scuole primarie e secondarie di Avetrana, veri destinatari dell’iniziativa il cui scopo primordiale è racchiuso nell’intenzione di tramandare  alle giovani generazioni la storia dei nostri concittadini. A Cosimo Giuliano “Nonno della Comunità di Avetrana” come lo ha definito con emozione ed affetto il Sindaco, l’intera cittadinanza rivolge i migliori auguri ringraziandolo “per averci reso partecipi” –  conclude il prof. Iazzi –  “nel giorno del suo compleanno, di alcuni ricordi della sua vita, con particolare attenzione al vissuto nei luoghi della seconda guerra mondiale” (Andrea Chioppa- Giancarlo Parisi)

Il dolore della famiglia. Operaio edile sino alla fine, la vittima dell’infortunio sul lavoro era conosciuto anche a Manduria. La Redazione de La voce di Manduria il 22 giugno 2022.

Era conosciuto anche negli ambienti manduriani dell’edilizia il 72enne di Avetrana deceduto ieri cadendo da un’impalcatura di un cantiere di Lecce dove stava lavorando. Una disgrazia che ha sconvolto la cittadina di Avetrana dove «mesciu Dunatu», era conosciuto come un grande lavoratore e padre e marito esemplare. Donato Marti, questo il suo nome, lascia due figli e la moglie che increduli hanno appreso la tragica notizia dai colleghi con cui il 72enne stava lavorando nella ristrutturazione di un B&B della città di Lecce. 

La disgrazia si è verificata in via Giuseppe Parini nelle vicinanze di Piazza Mazzini. Il trauma riportato nella caduta da un’altezza ci circa quattro metri è stato fatale per l’uomo nonostante la corsa in ambulanza all’ospedale Vito Fazzi dove è morto subito dopo il ricovero. Sul posto oltre ai sanitari del 118, sono intervenuti gli agenti di polizia e gli ispettori dello Spesal dell’Asl di Lecce. A questi ultimi anche il compito di verificare il rispetto di tutte le norme previste in materia di sicurezza sul lavoro.

Da escludere, per ragioni anagrafiche, la regolarità contrattuale dell’uomo che continuava a lavorare nonostante l’avanzata età. Pubblichiamo, in proposito, in altra parte del giornale, lo sfogo dell’ex vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia.

Lecce, operaio di 72 anni cade e muore. La Cgil: "Pensionato costretto a lavorare per necessità". La Repubblica il 21 giugno 2022. L'uomo era impegnato con altri operai nei lavori di ristrutturazione di un immobile in via Parini nel centro della città ed è caduto da un'altezza di circa 5 metri mentre lavorava all'installazione di un montacarichi.

Un operaio di 72 anni, Donato Marti, originario di Avetrana (Taranto), è morto a Lecce, nella mattinata di martedì 21 giugno, mentre era impegnato in alcuni lavori di ristrutturazione di un immobile in via Parini, nei pressi del cuore commerciale della città.

Secondo i primi rilievi, sembra che l'uomo, per cause da accertare, sia caduto da un'altezza di circa cinque metri mentre insieme ad altri operai era impegnato ad installare un montacarichi.

Il 118 ha trasportato il 72enne all'ospedale Vito Fazzi dove però è morto poco dopo Sul posto per i rilievi gli agenti delle volanti e gli ispettori dello Spesal. La Procura di Lecce ha aperto un'inchiesta.

È la terza vittima, è spiegato in una nota della Cgil, che si registra in provincia di Lecce nel giro di 50 giorni (in tutto 4 i morti dall'inizio dell'anno), dopo i casi di Salve (4 maggio) e Soleto (13 giugno). Ma le cronache hanno evidenziato almeno altri tre incidenti gravi nello stesso periodo.

"Piangere la morte di un pensionato sul luogo di lavoro - dice la segretaria generale della Cgil Lecce, Valentina Fragassi - deve far riflettere sulla condizione degli anziani che raggiungono l'età per ottenere l'assegno previdenziale. Si pone una questione di vera e propria sopravvivenza per chi arriva alla pensione dopo 40 anni di duro lavoro e di colpo si ritrova a fare i conti con lo stato di bisogno. Questa è una condizione che purtroppo riguarda molti cittadini della provincia di Lecce, dove gli assegni pensionistici sono tra i più bassi d'Italia. Molti pensionati sono quasi costretti a ricorrere a lavori extra, spesso di fortuna. Serve con urgenza un provvedimento che aumenti il potere di acquisto delle pensioni, allargando per esempio la platea dei percettori della cosiddetta 14esima. Lo abbiamo chiesto anche sabato durante la manifestazione a Roma: basta con la politica degli interventi spot e dei bonus una tantum; il Governo pensi ad interventi strutturali".

 "Le morti sul lavoro sono tutte inaccettabili, quella di un operaio edile di 72 anni che precipita da un'altezza di 4-5 metri fa ancora più rabbia. Al di là della ricostruzione della dinamica del drammatico incidente sul lavoro accaduto a Lecce, come Uil del territorio non possiamo non gridare tutta la nostra indignazione per un'altra vita spezzata, per l'assurdità di finire uccisi nello svolgimento del proprio lavoro, un lavoro pesante a un'età decisamente inadatta". Lo dichiarano Salvatore Giannetto e Paola Esposito, rispettivamente segretario generale della Uil di Lecce e della Feneal-Uil di Lecce (categoria che rappresenta i lavoratori edili).

Poi aggiungono: "Si deve insistere sulla prevenzione, sulla formazione e sulla riqualificazione professionale. Bisogna stabilire che le aziende non in regola con le norme sulla sicurezza non possano accedere a nessun finanziamento pubblico. Non basta più esprimere cordoglio dopo ogni morte. È tempo di rimboccarsi le maniche - concludono - e di fare di tutto per fermare questa strage assurda".

«Donato non era in cantiere e soprattutto non era spinto da alcuna forma di necessità». Da manduriaoggi.it il 23/06/2022. Le precisazioni di Giuseppe Todisco: «E’ caduto dal terrazzino al primo piano di casa mia a Lecce: era un atto di cortesia verso la mia famiglia». Sulla recente morte di Donato interviene Giuseppe Todisco per sgomberare il campo da diverse ipotesi non veritiere e soprattutto su tante strumentalizzazioni. «Donato non c'è più, io e la mia famiglia siamo devastati, ancora non abbiamo la forza di reagire a questa disgrazia. Donato non stava lavorando su una impalcatura a 72 anni, non era tornato in cantiere, e soprattutto non era spinto da alcuna forma di necessità, se non quella di scambiarsi un favore reciproco, come tante volte è accaduto, con mio padre con il quale erano legati da una forte amicizia fraterna.    È caduto dal terrazzino al primo piano a casa mia a Lecce mentre montava un piccolo montacarichi su un piantone di ferro. Donato non si risparmiava mai, soprattutto quando si trattava di qualcosa che riguardava la mia famiglia e mio padre in particolare. Vi prego, non continuate a strumentalizzare per nessuno scopo questa immane tragedia che ci ha colpito! Un abbraccio forte a Concetta, Antonio e Gianna». La morte di Donato: «La sua morte non è affatto legata alle pensioni da fame». Le puntualizzazioni di Rosy Scarciglia che fanno luce sulla vicenda: «Anche se avesse avuto 10.000 euro in contanti in tasca, si sarebbe trovato esattamente in quel luogo per...

Serate e piazze vuote anche a Manduria. L’analisi dell’esperto: San Pietro in Bevagna affollato solo per il mare ma la sera c’è il mortorio. La Redazione di La Voce di Manduria 21 luglio 2022.

A che punto siamo con la movida a San Pietro in Bevagna nel pieno dell’estate 2022? “Non esiste. Qui è un totale mortorio”, racconta il cittadino manduriano Mimmo Fontana, gestore della seguitissima pagina Facebook “Io amo San Pietro in Bevagna” che ci mostra un video e fotografie di sere desolanti nella marina manduriana.

Sono più o meno le 22.00 di lunedì 19 luglio, quando Mimmo Fontana con il suo mezzo sostenibile, una bicicletta con cestello, passeggia sconsolato sul principale vialone della località balneare sanpietrina documentando con smartphone ciò che vede e ciò che lo circonda: lampioni accesi, qualche ambulante di dolciumi superstite, una coppia di mezza età che si ciondola annoiata senza meta. E una lunga e larga strada desertica. Eppure è estate, ed è il perfetto orario per uscire e consumare, per divertirsi, lì, a pochi metri, dal paradiso: il mare. Ed è proprio questo che attira ancora i turisti, ci dice infatti Mimmo: “Si trova affluenza solo nelle spiagge, poi dalle 20 qui è un totale mortorio”.

La marina manduriana sembra concedere le sue bellezze naturali solo nelle ore diurne ai turisti e i concittadini accalcati nelle libere spiagge per poi assopirsi di notte. E la movida? E i giovani?: “Non pervenuti, qui solo qualche tavolo ai ristoranti”, ci racconta Fontana. “D’altronde – aggiunge -, se qualcuno deve pagare per parcheggiare e mangiare una pizza o della carne, lo fa una volta, poi stanca”. E ancora sospirando ci dice: “siamo tornati indietro di almeno dieci anni: quello che abbiamo costruito in questi anni con eventi e appuntamenti tra cui la notte del Munich, Pizzica e Primitivo ed altri - riferendosi a un locale storico di San Pietro in Bevagna -, che facevano numeri e divertimento oggi sono solo un amaro ricordo”.  “Abbiamo turismo - conclude Mimmo - se così possiamo definire, di serie Z”. Insomma, per il manduriano non c’è nulla di attrattivo a San Pietro in Bevagna che spinga i più giovani ad animare il bel paesotto e neppure per i turisti che ammaliati di giorno dall’inevitabile bellezza del mare per svagarsi di sera scelgano poi di andare altrove.

Non a Manduria, probabilmente, che non sembra in queste serate d’estate pullulare di vita.

Marzia Baldari

Da paese dei balocchi a terra di nessuno. Il «Munich» a San Pietro in Bevagna. Nei resti della vecchia discoteca a San Pietro in Bevagna: oggi la decadenza, tocca noi ricostruire. Omar Di Monopoli il 03 Aprile 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Primavera tardiva. Tre giorni fa i fiori sembrano finalmente sul punto di sbocciare e così, complice un imprevisto distacco della corrente elettrica nel quartiere in cui vivo, mi metto in macchina e veleggio verso la litoranea. L’aria è tersa, la temperatura in salita, il profumo del mirto e dell’elicriso s’insinuano di prepotenza nell’abitacolo mentre raggiungo il mare. Giunto nei pressi della foce del Chidro sorpasso una pila di rifiuti accatastati lungo il margine della strada per fermarmi a contemplare il panorama dal finestrino: un pescatore isolato sull’ansa formata dalla sorgente, un vorticar di gabbiani, quattro turisti teutonici in fila sulla battigia.

Più in là alla mia destra c’è una grossa struttura cadente, cinturata da una paratia di cemento semisbriciolato. Si staglia nel bel mezzo di un’area retrodunale e pare delimitare con irruenza lo stacco tra il placido andirivieni dei marosi e la filza di casamenti abusivi che s’infittiscono per diventare San Pietro in Bevagna. Si tratta dei resti del Munich Club, la discoteca della mia adolescenza, uno dei punti di aggregazione più gettonati della costa negli Ottanta, chiusa nel 1995 e da allora lasciata lì a marcire nel degrado più assoluto. Scendo dall’auto e mi dirigo all’ingresso dello stabile. Il tempo ha corroso le cancellate e tra le gigantesche voragini della recinzione s’intravede ora quella che una volta era stata una sbrilluccicante pista da ballo. La curiosità mi spinge a proseguire. M’intrufolo tra le porte scardinate per ritornare a calcare il pavimento di quello che per almeno un paio di generazioni di villeggianti pugliesi è stato un luogo magico. Ma la scena che mi si presenta dinanzi agli occhi è desolante: colonne sbreccate, cumuli di ciarpame, infissi divelti e impalcature sbrindellate.

Mi ritrovo a pensare al me imberbe che si dimenava quaggiù al ritmo delle hit del periodo, la combriccola allegra degli amici a far da cordone. Ricordo i bagni all’alba dopo una notte di balli scatenati. Le infradito coi jeans abbandonati sulla sabbia. Gli Apecar smarmittati dei villani che s’impadronivano dell’orizzonte. E poi l’odore della salsedine che ammantava le giornate di scirocco mescolandosi ai sentori dei pomodorini maturi. La spensieratezza un po’ zarra che ci rendeva sicuri non potesse esserci altro che un futuro migliore per queste lande allora cariche di sogni, sogni che adesso somigliano tanto a questa discoteca diroccata. Una terra dei balocchi devastata, spolpata sino all’osso da saccheggiatori anonimi eppure voracissimi. Una replica in sedicesimo, quasi, di quelle immagini di città sotto assedio che stanno accompagnando queste nostre ultime, complicate settimane. La festa sta finendo, è evidente. Pure, mi ripeto, spetta a noi rimboccarci le maniche e ricostruire. Perché nessun altro lo farà al posto nostro.

Le case nelle marine manduriane più care di tutta la Puglia. L’indice dei prezzi delle vacanze in Puglia è stato elaborato da “Holidu”, uno dei maggiori motori di ricerca per case e appartamenti vacanza d’Europa. La Redazione su La Voce di Manduria il 31 maggio 2022.

In tanti non ci crederanno visto lo stato in cui versano le marine manduriane. Eppure gli affitti delle case vacanza di San Pietro in Bevagna sono i più alti di tutta la Puglia. Più cari addirittura di Gallipoli, Otranto, Ostuni, Mattinata, Polignano a Mare, Margherita di Savoia e così via. Insomma, nessuna località turistica pugliese, nemmeno la più rinomata, raggiunge i prezzi delle case in affitto delle marine di Manduria. 

L’indice dei prezzi delle vacanze in Puglia è stato elaborato da “Holidu”, uno dei maggiori motori di ricerca per case e appartamenti vacanza d’Europa che ha raccolto le disponibilità nelle località più ricercate oltre ai prezzi medi per ciascuna destinazione.    

La località più costosa in fatto di case ed appartamenti vacanze, si legge nel report, risulta essere San Pietro in Bevagna, marina di Manduria, con i suoi 261 euro in media a notte, precedendo di poco Maruggio con 250 euro a notte e superando anche la “capolista” Gallipoli che si accontenta di 244 euro, quasi venti euro in meno della marina Messapica. (La classifica completa sino alla trentesima posizione)

Tra le 30 località più amate, le più economiche risultano essere mete non strettamente legate al turismo balneare, ossia Bari e Taranto con 134 euro, Trani con 124 euro, chiude Brindisi con “soli” 120 euro in media a notte. Nonostante i prezzi, le località turistiche della provincia di Taranto non smettono di essere amate dal turismo estivo. A riscuotere maggiore successo, sempre nella top 30 delle preferenze del motore di ricerca specializzato, sono, nell'ordine: San Pietro in Bevagna (la più cara ma anche la più amata), Taranto, Martina Franca, Maruggio e Pulsano che nella classifica generale occupano posizioni non altissime. Per trovare la prima, ad esempio bisogna scendere al tredicesimo posto (San Pietro n Bevagna); la città dei due mari al sedicesimo, la Valle d'Itria sotto di un posto, alla ventesima e ventunesima posizione Campomarino di Maruggio e Pulsano.

La località più ricercata risulta essere Gallipoli: la località simbolo della movida estiva salentina precede Otranto ed Ostuni che completano il podio, con Torre dell’Orso e Porto Cesareo a completamento della top 5. Al sesto posto Pescoluse, che precede Vieste, Monopoli ed il capoluogo Bari al nono posto, mentre Lecce chiude la top 10.

Mare, pesca e pomodorini: così la Puglia scommette su sostenibilità e inclusione. Dall’inviato Giulio Sensi su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

Progetti di protezione del mare e di recupero delle antiche tradizioni, agricoltura, pesca e artigianato. Viaggio tra Taranto e Lecce sulle tracce delle buone pratiche sostenute da Fondazione Con il Sud. 

Il viaggio nella Puglia che scommette sulla sostenibilità inizia nel cuore del Golfo di Taranto, il mare aperto dove nuotano delfini e capodogli. Sul catamarano della Jonian Dolphin Conservation, un’associazione di ricerca scientifica che studia e protegge i cetacei nel Mar Ionio Settentrionale, Alessandro Console e Linda Portulano scrutano il mare con il cannocchiale. Alessandro è un operatore della Jonian Dolphin, Linda una volontaria, guida naturalistica del Wwf di Taranto appassionata di cetacei a cui sta dedicando la sua tesi di laurea in Scienze della natura. Sul catamarano osservano le varie specie, fanno campionamenti per analizzare il dna, raccolgono con un idrofono i loro suoni, li fotografano per controllare la pinna dorsale.

«Usciamo in mare quasi ogni giorno - racconta Linda - ad osservare i loro movimenti. Il mio sogno è quello di rimanere a vivere qua, lavorare e contribuire all’utilizzo sostenibile del mare che per Taranto è una grandissima risorsa». Con alcuni responsabili di istituzioni, Fondazioni, Terzo settore, stiamo viaggiando via mare e via terra nel Salento, tra Lecce e Taranto per l’iniziativa «Sulla stessa barca», organizzata da Fondazione con il Sud per mostrare sul campo i risultati dei tanti progetti che sostengono da 16 anni, grazie alle risorse destinate allo sviluppo del meridione messe a disposizione dalle fondazioni di origine bancaria italiane.

Sostenibilità ambientale e l’inclusione sociale: la riqualificazione dell’ex convento di San Gaetano; l’associazione Marco Motolese che anima un centro bibliotecario nel quartiere di Tamburi; il Centro euromediterrano Kètos e i pescatori dei presidi slow food nel Golfo di Taranto e nei dintorni di Porto Cesareo grazie a progetto Cap Salento; le agricoltrici della zona di Manduria che hanno riscoperto il pregiato pomodorino tipico e le donne del Te.De.S.Lab. Weawe che hanno ripreso l’antica tessitura del fiocco leccese (di queste due parliamo nella pagina a fianco); la pasticceria nella provincia di Lecce che ha rilanciato la produzione dell’antico colombino; il progetto imprenditoriale e inclusivo di street food Cime di Rapa; la Masseria Tagliatelle, un bene restituito alla città di Lecce in chiave comunitaria; la gelateria sociale Defriscu nata dalla voglia di riscatto delle persone ai margini; i prodotti confezionati dalle donne recluse del progetto di Made in Carcere; l’agricoltura sociale per coltivare le relazioni del progetto Utilità Marginale.

«I progetti - racconta il direttore della Fondazione, Marco Imperiale - sono frutto di una concertazione sul territorio fatta con tante organizzazioni. Azioni pluriennali in cui chiediamo ai proponenti di vedere lungo, oltre il finanziamento: lavoriamo per la sostenibilità economica e la continuità operativa. Cerchiamo di generare sviluppo sotto due aspetti: l’attrazione intorno ai beni comuni del territorio - mare, beni confiscati alle mafie, terreni agricoli abbandonati - e lo sviluppo di opportunità occupazionali, generando reddito sia con la vendita di servizi, sia con la produzione di servizi sociali accreditati al pubblico. La nostra è un’idea di sviluppo del Sud diversa, non calata dall’alto come rappresentava ad esempio l’Ilva, ma che permetta anche di aiutare le comunità locali a trovare la propria strada, scoprendo i talenti e seguendo la vocazione di ogni territorio».

Kètos è punto di riferimento per la «blu economy» della zona, il Centro Euromediterraneo del Mare e dei Cetacei dove ha sede la Jonian Dolphin. Kètos è il centro di citizen science più evoluto in Italia e si trova in un antico edificio della Taranto vecchia, Palazzo Amati, ristrutturato e divenuto un’area museale che attrae turisti e scuole con il programma «Ricercatori per un giorno», ma anche scienziati da tutto il mondo. «La presenza dei cetacei nel Golfo - spiega Carmelo Fanizza, presidente dell’associazione - rappresenta un indice positivo dal punto di vista della qualità biologica dell’area, ma dobbiamo ancora studiare tanto per capire gli impatti delle attività dell’uomo su questa area. I cetacei sono specie architrave, se non ci fossero non sarebbe possibile innescare i processi di produzione primaria. Senza delfini diminuirebbero le altre specie di pesce e la pesca ne risentirebbe in modo determinante». La pesca sostenibile è un’altra scommessa della Taranto che investe nel futuro. Il catamarano fa tappa nel Mar Piccolo, la laguna che bagna la città vecchia. Di fronte fumano le ciminiere dello stabilimento Ilva.

La comunità

In mezzo alla laguna incontriamo Luciano Carriero e Francesco “Ciccio” Marangione. Carriero è allevatore di cozze da quattro generazioni e presidente della più grande cooperativa di mitilicoltori di Taranto che raggruppa 34 produttori. Insieme ad altri pescatori, sta lavorando al rilancio della cozza tarantina che adesso è un presidio Slow Food. Viene allevata in modo naturale, senza inquinare: reti biodegradabili, barche a remi, ambiente controllato. «Solo una piccola parte del mare del Golfo va ancora bonificata - racconta Carriero - il resto è pulito e la cozza tarantina è sicura. Dal 2011 avevamo perso mercato ed eravamo in via d’estinzione, pagavamo la cattiva pubblicità. Poi insieme a Slow Food è partito un processo che ha coinvolto centri di ricerca e agenzie per l’ambiente. In quattro anni abbiamo creato la comunità dei produttori e stilato un disciplinare molto rigido che prevede l’allevamento delle cozze solo con prodotti naturali».

Una scommessa anche questa a cui hanno aderito 24 cooperative, 60 produttori che impiegano 600 pescatori fra cui molti giovani e alcuni ex operai dell’Ilva. «Vogliamo tornare a pieno regime - confida Carriero - e assumere altre persone, fare squadra e tutelare il nostro patrimonio. È il momento giusto, ci sono tante professionalità che vogliono bene a questa città e dobbiamo ridare a Taranto ciò che merita, dimenticando questo mostro, l’Ilva, che abbiamo alle nostre spalle. Quello è il passato, noi siamo il futuro».

Oasi della salina a secco, la protesta dei turisti che lamentano l’assenza dei fenicotteri. La Redazione de La Voce di Manduria sabato 23 luglio 2022.

«Dove sono finiti i fenicotteri e tutti gli altri meravigliosi volatili che io ed i miei bambini ammiravamo gli anni passati?», e «cosa sarebbe questa distesa arida bianchiccia al posto della meravigliosa salina?».

Sono solo alcuni messaggi, nelle mail e telefonate, che stanno giungendo in redazione in queste ore ed in questi giorni da parte di numerosi lettori che lamentano e denunciano, alcuni in modo vigoroso, lo stato della Salina dei Monaci a Torre Colimena dove l’acqua si è quasi del tutto prosciugata. «Sembra essere tornati 40 anni indietro quando d’estate la salina era così secca da permettere di giocarci a pallone», scrive un avetranese che s ea prende con i manduriani. «Se a Manduria pensano che questo sia il modo di tenere una riserva naturale – dice -, i fenicotteri e gli uccelli stanziali non li vedremo più».

La causa del prosciugamento, oltre alle alte temperature, sarebbe l’intasamento del canale che collega la salina con il mare.   

Complice anche l’arrivo di numerosi turisti che negli ultimi anni hanno scelto la località balneare a ridosso della riserva naturale manduriana, in queste ultime ore siamo stati letteralmente sommersi da lamentele, foto-denunce e richieste di informazioni. E le foto a corredo di questo articolo, giunte da molti nostri lettori, testimoniamo, ancora una volta, come la salina dei Monaci, autentico luogo di richiamo e di attrazione per tantissimi turisti e gente del posto amanti della natura e della tranquillità naturalistica, sia diventata, in piena estate, un’area secca ed arida, lontano ricordo di quella meravigliosa distesa d’acqua blu intenso che ospitava un variegato numero di uccelli selvatici, irresistibile attrattiva per visitatori e turisti da ogni parte. Tutto quanto sparito a causa, come si può vedere dalle foto, del canale di collegamento al mare che risulta completamente ostruito dalla sabbia.

Un fenomeno normale niente di allarmante o di metafisico, facilmente risolvibile con una accurata e tempestiva pulizia del fondale cosa che, evidentemente, non viene eseguita da parecchio tempo. Gabrio Distratis

Il biologo ornitologo e marino Giuseppe La Gioia. I danni alla Salina quando manca l'acqua spiegati dall'esperto. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 26 luglio 2022.

"L'occlusione del canale (che collega il mare alla Salina dei Monaci, ndr) provoca uno stress all'ecosistema animale e vegetale, ma purtroppo non si sono mai presi provvedimenti”. Ad affermarlo è il biologo ornitologo e marino Giuseppe La Gioia, scienziato di notevole fama nazionale con una lunga ed importante carriera professionale alle spalle.

Ad affermarlo è il biologo ornitologo e marino Giuseppe La Gioia, scienziato di notevole fama nazionale con una lunga ed importante carriera professionale alle spalle, che risponde ai tanti pareri, di addetti ai lavori e semplici commentatori, che sottovalutano o ignorano l’effetto del prosciugamento della zona umida un tempo sfruttata come salina.

«Il grande problema più volte anche da me segnalata negli anni passati – evidenzia La Gioia -, risulta difficilmente compensabile nel breve periodo».

Il totale prosciugamento della Salina dei Monaci di Torre Colimena, quindi, non solo non sarebbe un fenomeno normale e naturale, ma sarebbe addirittura dannoso per l’ecosistema faunistico e floreale della stessa area protetta.

Lo scienziato, contattato dalla nostra redazione nei giorni scorsi al fine di capire e comprendere se il completo prosciugamento delle acque del bacino fosse qualcosa di normale o, al contrario, di allarmante, ha anche puntualizzato come «del resto – dice La Gioia -, la regimentazione delle acque non è comunque cosa semplice e, quindi, anche affidarla al solo Ente parco potrebbe essere controproducente. Ma – continua lo studioso individuando quindi precise responsabilità in capo a chi è tenuto istituzionalmente alla tutela del bene -, rimane l'inerzia dello stesso (Ente Parco e Riserve naturali ndr), che appare decisamente poco sensibile alle reali tematiche di conservazione e molto più a quelle della fruizione».

Il totale disseccamento della Salina a cui assistiamo in questi ultimi tempi e che non abbiamo mai visto durante le estati scorse da quando è stata istituita l’area protetta (pubblichiamo a margine dell’articolo una foto scattata da un nostro lettore all’interno dell’area protetta qualche estate fa dove si vede chiaramente che la salina era piena di acqua, e dove si intravedono bene gli ombrelloni dei bagnanti sulla sinistra), sarebbe quindi la conseguenza, dannosa per l’ecosistema di un’area che dovrebbe essere invece tutelata ad ogni costo, di una scarsa sensibilità «alle reali tematiche di conservazione», insiste l’esperto, da parte di una gestione delle riserve che, a detta di uno degli scienziati più apprezzati in campo faunistico e marino, non avrebbe tenuto conto di numerose sue segnalazioni. Il tutto aggravato, si intuisce dalle parole di La Gioia, dalla mancanza di competenze nella gestione della regimentazione delle acque da e per la salina.

«Uno stress all'ecosistema di entità maggiore di quella a cui le componenti animali e vegetali sono abituate e quindi risulta difficilmente compensabile nel breve periodo», sottolinea lo scienziato secondo cui anche se la Salina fosse riempita nuovamente di acqua oggi, difficilmente i problemi denunciati sarebbero risolvibili e risolti nel breve periodo.

Parole chiare e nette non dei soliti tuttologi laureati all’università della vita con cattedra ordinaria sui social network, ma di uno stimato ed affermato scienziato che, ancora una volta, ci aiuta a mettere in luce come nel nostro territorio la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema naturale avrebbero bisogno di molta più attenzione, cura, e, magari, professionalità e competenze che Manduria non è abituata ad avere o spesso ad ignorare quelle che esistono. Gabrio Distratis

Due parole sulla Salina dei Monaci. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 26 luglio 2022.

L’oasi Salina dei Monaci e le Dune di Torre Colimena coprono una superficie di 2,7 Km2. La Salina e le dune sono localizzate lungo la costa ionica e fanno parte della Riserva Naturale Regionale Orientata del Litorale Tarantino Orientale.

La Salina era una depressione sabbiosa a ridosso delle dune dove, in seguito alle mareggiate e con l’aiuto del sole, si depositava il prezioso sale marino. Con l’arrivo dei monaci, nel 1731, quest’area divenne una vera fabbrica di sale e per questo venne denominata Salina dei Monaci. Fu costruito uno stabile per la lavorazione e il deposito del sale e scavato un canale con le chiuse, per governare a piacimento l’afflusso del mare, fu eretta una torre di guardia e una cappella affrescata, delle quali oggi ne rimangono soltanto alcuni ruderi.

In seguito alle opere di bonifica antimalarica, tra il 1940 e il 1950, l’habitat delle saline si è ripristinato divenendo un habitat ideale per la sosta e la nidificazione di numerosi uccelli acquatici stanziali e migratori come, ad esempio il barbagianni, il capovaccaio, l’airone rosso e l’airone bianco, il martin pescatore, il picchio, lo scricciolo, il pettirosso, la capinera, l’usignolo, il merlo, il cavaliere d’Italia, i cigni, i germani reali, le gru e le oche selvatiche.

La presenza di habitat sia di alto pregio botanico che naturalistico ha fatto sì che quest’oasi venisse inclusa tra i Siti d’Interesse Comunitario (SIC). E’ infatti presente la macchia mediterranea con arbusti di mirto, lentisco, estesi canneti e pini d’Aleppo, garighe di Euphorbia spinosa, foreste di Quercus ilex. Tra gli habitat definiti prioritari, ai sensi della Direttiva Habitat, si osserva la vegetazione tipica di un ambiente costiero con forte salinità come le «Steppe salate », una «Perticaia costiera di ginepri », «Dune », «Percorsi substeppici di graminacee e piante annue » e, in mare, una «Prateria di Posidonia oceanica».

Le piante presenti sono quelle tipiche della macchia mediterranea, il cisto dai fiori di seta stropicciata, l’asfodelo mediterraneo, innumerevoli fiori variopinti e la tipica salicornia (una specie di asparago di mare) che cresce a ridosso della salina.

Si possono osservare diverse specie di anfibi come la raganella italiana, il tritone italico e il rospo comune.Tra i rettili sono presenti la tartaruga di terra e d’acqua dolce, il cervone, la vipera, la biscia dal collare, il biacco e il colubro leopardino. 

“C’era una volta la Salina dei Monaci di Bevagna”. La redazione de La Voce di Manduria domenica 26 giugno 2022.

In relazione al contenuto dell’articolo “La salina si prosciuga, l’allarme dei residenti” comparso in data 24 giugno su questo giornale online, tengo a rappresentare una potenziale criticità derivante dalla mancata conoscenza di alcuni aspetti di fondamentale importanza che riguardano il luogo in questione.

Premesso che la Salina in argomento, denominata “Dei Monaci di Bevagna”, risulta essere menzionata nelle fonti storiche già a partire dal XIII secolo e che, ad oggi, costituisce un raro esempio di sito di origine antropica di elevato interesse sotto molteplici aspetti (storico-sociologico, dell’archeologia industriale e ambientale), vorrei ricordare che essa è stata riconosciuta di interesse comunitario ed è inclusa dalla Direttiva 92/43/CEE nella tipologia delle “lagune” e, per la sua vegetazione alofila, nell’habitat “steppe salate mediterranee”; l’allagamento totale della salina determinato dall’immissione non controllata di acqua marina, costituirebbe, di fatto, una violazione dell’interesse tutelato dalla UE, in quanto causerebbe l’irreparabile danneggiamento della citata flora alofila.

All’uopo, per opportuna e completa informazione dei lettori, Le trasmetto, con preghiera di volerla pubblicare integralmente unitamente alla presente, la comunicazione da parte dello scrivente a suo tempo indirizzata alle competenti Autorità.

Per la Salina dei Monaci di bevagna

L’incipit di tutte le belle favole è “C’era una volta”, nel nostro caso “C’era una volta la Salina dei Monaci di Bevagna”. Io vorrei raccontarla alla stessa maniera la favola della nostra Salina che abbisogna di essere riscoperta e portata agli antichi splendori dei cristalli di sale. Intendo dire che quella che era una salina, cioè luogo di produzione di sale, è ora una semplice pozza d’acqua alla quale non si permette di depositare il sale che porta in soluzione. Questo è il primo aspetto al quale si può dare importanza, oppure no in base alla propria formazione culturale.

Ma esiste un altro aspetto la cui importanza nessuno può negare: la perdita di biodiversità. Nell’anello di limo salato, che l’acqua, ritirandosi per evaporazione, liberava nel periodo primavera–estate, viveva la comunità delle specie alofile, cioè delle piante che solo nei terreni salati trovano l’ambiente adatto per attecchire, crescere e fruttificare. Nella mia indagine negli anni 80 del secolo scorso, su questo suolo ho censito ben 20 specie che ho documentato nel libro “Tra sole e sale – la flora della Salina dei Monaci di Bevagna sullo Ionio tarantino”. Non è difficile capire che non permettendo all’acqua di evaporare e liberare l’anello di limo salato si riduce la biodiversità di questo luogo, che è unico, perché è il luogo di maggiore biodiversità, oltre che monumento di archeologia industriale. Se si vogliono ristabilire le condizioni originarie e fare in modo che la salina torni a essere salina e non pozzanghera, occorre aprire il canale d’immissione dell’acqua marina in novembre o comunque per breve tempo e tenerlo chiuso per il resto dell’anno. Importante è sottolineare che ciò non comprometterebbe la presenza dell’avifauna. Domenico Nardone

Tutto quello che ancora non funziona. E' iniziata la guerra delle strisce blu. La Redazione de La Voce di Manduria venerdì 17 giugno 2022.

Èpartita nelle marine manduriane la sosta a pagamento. Ma ci sono ancora molte cose da sistemare a partire dalla mancanza di grattini nei locali commerciali, non forniti dall’amministrazione che a quanto pare non avrebbe intenzione di metterli sul mercato affidando tutto ai parcometri installati e ancora pochi e non tutti funzionanti. Un accesso non sempre agevole per gli automobilisti accaldati che sicuramente preferirebbero acquistare il più comodo ticket dai locali della zona magari facendone scorta. 

Disagi anche per gli abbonamenti affidati ancora al foglio da compilare e far recapitare agli uffici della polizia municipale con la ricevuta del pagamento da eseguire su conto corrente postale o con bonifico bancario intestato al comune di Manduria. Procedura lunga e noiosa. Stessa cosa dovrebbero fare i turisti abituati, magari, dalle loro parti al pagamento online di qualsiasi ente o servizio pubblico o privato che sia di cui il comune di Manduria non è ancora fornito.  

Per non parlare dei conteziosi aperti con i proprietari di strade non espropriate per cui ancora di uso privato dove sono state tracciate le soste a pagamento. I residenti, oltre a vedersi privati di un tratto di strada di loro proprietà almeno fino ad avvenuta espropriazione, rivendicano a questo punto dal comune la fornitura dei servizi essenziali mancanti come acqua, fogna e in alcuni casi illuminazione pubblica.

Infine è poco agevole, del tutto impossibile per chi non possiede una casella di posta elettronica certificata Pec, la compilazione e l’invio della domanda per l’abbonamento.

Per farla bisogna compilare un modulo che si scarica solo dal sito internet del Comune, allegando (per i proprietari di casa nelle località marine) copia del foglio di mappa e la particella dell’immobile, del documento di identità, del libretto di circolazione del veicolo e del versamento prescelto. Questi i prezzi: per i non proprietari di immobili 35 euro per un mese, 25 euro per 15 giorni e 15 euro per una settimana; per i proprietari le tariffe scendono a 25 euro, 15 euro e 10 euro.  Ovviamente per una sola macchina.

Il consigliere comunale Domenico Sammarco riprende l’assessora al turismo, Antonella Demarco. Sammarco riprende la gaffe dell’assessora al turismo: “Manduria vocazione agricola è una castroneria”. La Redazione su La Voce di Manduria il 31 maggio 2022.

«L'assessora forse conosce la vocazione agricola del proprio comune di provenienza, ma evidentemente non sa niente di Manduria». Il consigliere comunale Domenico Sammarco, del gruppo Progressista, riprende così l’assessora al turismo del comune di Manduria, Antonella Demarco che per giustificare la mancata partecipazione del comune Messapico ai bandi per il turistico, ha dichiarato che «Manduria è accredita come città agricola e non come città culturale». 

«Di certo non sa – afferma Sammarco - che Manduria, oltre ad essere certamente un territorio a vocazione agricola, è già accreditata normativamente quale città a vocazione turistica; se avesse approfondito la conoscenza amministrativa della nostra città – prosegue Sammarco -, avrebbe avuto modo di scoprire che, al di là degli scempi politici che questa amministrazione quotidianamente compie, Manduria è inserita nell’Elenco regionale dei comuni ad economia prevalentemente turistica e città d’Arte». 

Con determinazione dirigenziale regionale numero 24 del 2018, spiega ancora Sammarco -, la Città di Manduria è quindi stata ufficialmente riconosciuta «Comune ad economia prevalentemente turistica e città d’Arte» e questo è avvenuto nel 2018 sotto l'amministrazione del commissario straordinario Francesca Garufi. «Tanto è vero – fa sapere sempre Sammarco - che sempre in quell'anno, l'Info-point turistico su Manduria ha partecipato al bando turistico e ricevuto il finanziamento per il potenziamento dello stesso». 

Il capogruppo Progressista non perdona la gaffe dell’esponente di giunta. «L'assessora, con un minimo di onestà intellettuale – dice -, dovrebbe fare ammenda lavorando seriamente per il bene pubblico cittadino e prima di dire ulteriori castronerie sarebbe utile informarsi dei percorsi amministrativi del nostro territorio, che ha requisiti e potenzialità turistiche meravigliose che, purtroppo, l'incapacità politica della giunta guidata dal sindaco Pecoraro non da modo alla città di esprimere appieno».

Poi aggiunge: “Manduria è città agricola, non culturale”. Assessora De Marco: “la mancata partecipazione al bando non è colpa nostra”. La Redazione su La Voce di Manduria il 28 maggio 2022. 

L’assessora al Turismo del comune di Manduria, Antonella De Marco, ci tiene a spiegare le ragioni della mancata partecipazione della Città Messapica ai bandi Infopoint per il turismo. Ne abbiamo parlato l’altro ieri in articolo in cui si elencavano i comuni ionici che hanno ottenuto i finanziamenti, esclusa Manduria che non ha presentato nessun progetto.

«Non si è partecipato – spiega l’assessora - poichè alla data del 11 aprile Manduria figurava nell’elenco comuni con iter di adesione da perfezionare; di chi la responsabilità?», chiede l’assessora che così si risponde. «Certamente non degli uffici dirigenziali perché tali atti sottendono un indirizzo politico che sarebbe stato opportuno comunque curassero i Commissari prefettizi visto che l'iter di accreditamento è partito nel 2017». 

Insomma le responsabilità, per l’sponente della giunta Pecoraro, sarebbe da ricercare nella precedente amministrazione commissariale «e certamente non di questa – precisa l’assessora - che, entrata in carica a fine 2020, ha dovuto affrontare un anno emergenziale di pandemia».

Per Demarco, questo bando come altri anche ministeriali, escludono il comune di Manduria per «poiché Manduria – spiega -, è accredita come città agricola e non come città culturale», accreditamento, fa sapere l’assessora «di cui abbiamo già avviato l’iter».

Dicendosi non disponibile al gioco «dello scarica barile», la responsabile politica del turismo manduriano invita a guardare altre realtà come Mesagne dove per raggiungere gli attuali livelli di attrattività turistica «hanno eseguito una programmazione politica di 15 anni», puntualizza De Marco indicando anche Grottaglie o Laterza, anche loro stabili politicamente da diversi anni.

«La stabilità e la continuità politica – afferma -, assicurano programmazione ed a lungo termine certezza di risultati».

Quindi di chi sarebbe la colpa «delle carenze, delle toppe da mettere, della corsa senza fiato per inseguire le credenziali ai bandi?». L’assessora De Marco non ha dubbi: «facciamo un mea culpa collettivo: chi inneggia alla precarietà politica, chi chiede le dimissioni del sindaco ad ogni piè sospinto, chi soffia sulle contraddizioni e non collabora sugli obiettivi, deve poi avere la faccia di dire ai cittadini che se Manduria non recupera stabilità politica ed amministrativa per almeno 10 anni sarà inesorabilmente tagliata fuori da diverse opportunità economiche e di crescita».

Fognature, depuratori, allacci e salassi.

Con questa mia, tratto di un posto, ma è riferito a tutto il territorio pugliese: imposizione dei siti di raccolta e smaltimento delle acque nere, con l’aggravante dello scarico a mare, ed imposizione di salassi per servizi non resi.

Più volte, inascoltato, ho parlato del depuratore-consortile di Manduria-Sava, viciniori alla frazione turistica di Avetrana, con il progetto dello scarico a mare delle acque reflue. L’ho fatto come portavoce dell’associazione “Pro Specchiarica” (zona di recapito della condotta sottomarina di scarico) e come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Il progetto sul depuratore e sullo scarico a mare fu avviato dai sindaci di Manduria: da Antonio Calò e proseguito da Francesco Saverio Massaro, Paolo Tommasino, Roberto Massafra. I governatori e le giunte regionali hanno autorizzato i depuratori e gli scarichi a mare, (quindi non solo quello consortile di Manduria-Sava posto a confine al territorio di Avetrana e sulla costa). I vari governatori sono stati Raffaele Fitto del centro destra e Nicola Vendola del centro sinistra. Entrambi gli schieramenti hanno preso per il culo (intercalare efficace) le cittadinanze locali, preferendo fare gli interessi dell’Acquedotto pugliese, loro ente foriero di interessi anche elettorali. Le popolazioni in rivolta, in particolare quelle di Avetrana, sono sobillate e fomentate da quei militanti politici che ad Avetrana hanno raccolto, prima e dopo l’adozione del progetto, i voti per Antonio Calò alle elezioni provinciali e per tutti i manduriani che volevano i voti di Avetrana. Il sindaco Luigi Conte, prima, e il sindaco Mario De Marco, dopo, nulla hanno fatto per fermare un obbrobrio al suo nascere. Conte ha pensato bene, invece, con i soldi pubblici, di avviare una causa contro Fitto per la riforma sanitaria. In più, quelli del centro destra e del centro sinistra, continuavano e continuano ed essere portatori di voti per Raffaele Fitto e per Nicola Vendola, o chi per loro futuri sostituti, e per gli schieramenti che li sostengono. Addirittura Pietro Brigante sostenitore dell’amministrazione Calò nulla ha fatto per rimediare allo scempio. Brigante, nativo di Avetrana e candidato sindaco proprio di Avetrana.

Ma oggi voglio parlare d’altro, sempre in riferimento all’acquedotto pugliese e al problema depurazione delle acque. In generale, però. Giusto per dire: come ci prendono per il culo (intercalare efficace).

Di questo come di tante altre manchevolezze degli ambientalisti petulanti e permalosi si parla nel saggio “Ambientopoli. Ambiente svenduto”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

L’acquedotto Pugliese ha fretta per l’inizio dei lavori del depuratore di Manduria e Sava e della relativa condotta sottomarina. L’ente idrico ricorda che i finanziamenti accordati dalla Regione Puglia per la realizzazione dell’opera già appaltata, sono fruibili entro il 31 dicembre del 2015. Quindi solo di speculazione si tratta: economica per l’AQP; politica per gli amministratori regionali in previsione delle elezioni regionali??

Si parla sempre di Depurazione e scarico in mare. Perché non si parla mai di Fitodepurazione? Perché non fornire agli operatori del settore significativi spunti di riflessione attorno ai vantaggi e alle opportunità reali della fitodepurazione? La fitodepurazione non è solo una tecnica naturale di rimozione degli inquinanti utilizzabile per i reflui di provenienza civile, industriale ed agricola: è, allo stesso tempo, strumento efficace di miglioramento e salvaguardia ambientale. Rappresenta, altresì, una risposta concreta ed economicamente interessante nella gestione delle acque di scarico di derivazione civile ed industriale. Invece no. Nulla si guadagnerebbe!

Comunque, l'uso di immobili non serviti da fognature regolari comporta per i proprietari l'applicazione delle Sanzioni Amministrative previste dall’art. 133 del D.L.vo n. 152/2006 e, costituendo inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità, delle sanzioni previste dall'art. 650 del C.P., per cui gli utenti devono comunicare tempestivamente all'Amministrazione Comunale l'avvenuta realizzazione dell'allacciamento, onde prevenire successivi controlli ed

eventuali contestazioni ovvero irrogazione di sanzioni. Alla scadenza del termine prima indicato la immissione di reflui in sistemi di raccolta provvisori (vasche a tenuta stagna e quant’altro) viene a configurare fattispecie illecite riconducibili all’abbandono di rifiuti. Gli immobili non allacciati saranno ritenuti inagibili in quanto privi di autorizzazione allo scarico. L'uso di immobili non serviti da fognature regolari comporta per i proprietari l'applicazione delle sanzioni amministrative e penali previste al Titolo V del D.Lgs. 11.05.1999 n.152 e s.m.i. E’ altresì fatto assoluto divieto di far confluire nella rete pubblica di fognatura nera le acque.

Ma andiamo avanti. Il Sindaco di Avetrana Mario De Marco con Ordinanza n. 7 del 15 aprile 2014 Prot. n. 2543, impone l’allaccio obbligatorio alla rete fognaria entro luglio 2014. Tutto il paese è nel panico per quanto riguarda le opere di allaccio, tenuto conto che la maggior parte sono vecchie case ed i collegamenti partono dalla parte posteriore delle abitazioni. Migliaia di euro di spesa. Il Sindaco è a posto. I cittadini, no!

“Manduria Oggi” del 22 giugno 2014 scrive “il gruppo consiliare “Per la Rinascita di Avetrana” chiede al sindaco di ritirare l’ordinanza con la quale i cittadini vengono obbligati ad allacciarsi alla rete della fognatura. La decisione è scaturita al termine di un incontro pubblico promosso dallo stesso gruppo consiliare, al quale ha partecipato l’assessore ai Lavori Pubblici, Daniele Petarra. «I dubbi che avevamo prima dell’incontro sono rimasti tali» si legge in una nota che reca la firma dei consiglieri Conte, Lanzo e Micelli. «L’assessore Petarra non ha saputo fornire risposte precise e dettagliate sui tempi di funzionamento della rete fognaria e del depuratore...Inoltre non ci sembra giusto che i cittadini debbano sborsare una somma importante al momento della presentazione della domanda, per poi non sapere quando e se andrà tutto in funzione».

Per quasi tutti i cittadini avetranesi, che non vogliono spender soldi e continuare a vivere nell’illegalità, questa nota dell’opposizione di sinistra è un buon alibi per non adempiere ai doveri e continuare ad inquinare. Ma la beffa è che, per chi più onesto degli altri è stato pronto a contrarre il servizio, rispetto ad altri più riottosi o addirittura omittenti, dal 1° maggio 2014 gli sono addebitati in bolletta la quota fissa e variabile di fognatura e depurazione, per sé ed anche per i terremotati. Una mazzata. Peccato, però, che l’allaccio non c’è e non si sa quando ci sarà.

Bene a chi credere?

Al sindaco? In caso contrario ha commesso abuso di ufficio e falso in atto pubblico.

A Conte, Micelli e Lanzo? In caso contrario vi è procurato allarme ed istigazione a delinquere.

E comunque non all’Acquedotto pugliese che si fa pagare gli oneri di servizio da tutti, anche da chi non ha fatto domanda di allaccio, quantunque non eroghi il servizio promesso.

Quindi i depuratori si costruiscono con i finanziamenti regionali e il servizio si paga anche se non c’è? Mi chiedo dove si impara a fare impresa in questo modo. Vorrei sapere chi sono i docenti.

Svista, speculazione, o cosa? Ma intanto il sindaco Mario De Marco è a posto con la sua coscienza e la sua responsabilità amministrativa. Così come per il depuratore di Manduria, vale anche per il depuratore di Avetrana.

Imposizione dei siti di raccolta e smaltimento delle acque nere, con l’aggravante dello scarico a mare ed imposizione di salassi per servizi non resi. Spero che questo succeda solo ad Avetrana, perché se succede in tutta la Puglia (e a me risulta di sì), be’ stiamo proprio freschi e salassati!

Dinoi ammette: il sito di Urmo per il depuratore lo abbiamo scelto io e l’ex sindaco Massaro. Una franchezza che Massaro non contraccambia limitandosi a confermare genericamente l’iniziativa comune e concludendo con frasi di facciata. La Voce di Manduria giovedì 28 aprile 2022.

Chi sono i responsabili della localizzazione del depuratore a Urmo? Il presidente del consiglio Gregorio Dinoi ha chiamato in causa prima l’ex sindaco Antonio Calò che lo ha avrebbe spostato sulla costa e poi il suo successore Francesco Massaro. La responsabilità non ricadrebbe solo su Dinoi, quindi, ma sarebbe condivisa da tutta l’amministrazione dell’epoca. Soprattutto quella dell’ex sindaco Massaro quando Dinoi ricopriva la carica di assessore ai Lavori pubblici e quando ci fu la scelta di realizzare il depuratore proprio sotto alla zona residenziale di Avetrana, «Urmo Belsito», a 1700 metri dal mare di Specchiarica, marina di Manduria. 

Era il 2005 e l’ex primo cittadino Massaro dice di non ricordare. Ma non smentisce. Sono trascorsi diciassette anni dalla sua carica, un tempo troppo lungo per lui, evidentemente, per ricordare tutte le sue scelte amministrative. «Non ho elementi al momento, è passato troppo tempo – afferma Massaro - e non conoscono i progetti successivi nei dettagli». A rinfrescargli la memoria ci ha pensato due giorni prima l’attuale presidente del consiglio, Dinoi, la cui memoria è così efficiente e certa da chiamarlo in causa. «Nel 2005, quando si è insediata l’amministrazione Massaro – ha raccontato Dinoi ai nostri microfoni -, io come assessore ai Lavori pubblici insieme al responsabile dell’area tecnica, arretrammo la sede destinata al depuratore, non più vicino al mare, ma nella zona interna dove è stato poi costruito». 

Il sito di Urmo Belsito, insomma, sede del contestatissimo depuratore all’interno di un’area protetta e vicinissima a zone residenziali. Lo stesso luogo dove ufficialmente confluiranno i liquami del comune di Manduria e di Sava prima di essere depurati e spinti in condotte sotterranee e assorbite dalle trincee in Masseria Marina. La responsabilità di quelle scelte molto contestate soprattutto dagli avetranesi, non sarebbe quindi da attribuire esclusivamente a Dinoi. «Chiaramente non è stata una scelta mia – precisa il presidente -, ma una scelta condivisa, una scelta dell’amministrazione Massaro e io ho solo firmato il documento, questo lo posso confermare perché è inconfutabile». 

Una franchezza che Massaro non contraccambia limitandosi a confermare genericamente l’iniziativa comune e concludendo con frasi di facciata: «Quello che posso dire è che apprezzo lo sforzo che si è fatto. Sono dalla parte delle scelte migliori e vicino alla gente».  Marzia Baldari

Avevano manifestato contro l’opera di Aqp a Specchiarica, in 6 denunciati, sotto processo e assolti. Dopo quattro anni di indagini, a febbraio dello scorso anno il tribunale di Taranto aveva disposto il giudizio immediato a carico degli imputati. La Voce di Manduria giovedì 28 aprile 2022.

Erano stati denunciati in sei, cinque di Avetrana e uno di Manduria, perché l’8 marzo del 2017 avevano preso parte ad un presidio di protesta pacifica davanti al costruendo cantiere del depuratore consortile di Manduria e Sava. Finiti sotto processo, sono stati tutti assolti per intervenuta prescrizione. «In unione e concorso fra di loro – si legge nell’atto di citazione in giudizio -, promuovevano in luogo pubblico una riunione senza darne avviso al Questore tre giorni prima». Un’imputazione vecchia di novant’anni (il Reggio decreto porta la firma di Re Vittorio Emanuele III) che agli imputati è costata un decreto di condanna prima e un processo penale poi per concludersi dopo cinque anni con la prescrizione del reato. Tra i nomi alla sbarra anche l’ex vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia che con gli altri cinque era stato fermato e identificato dal personale del commissariato della polizia di Stato di Manduria. Gli altri manifestanti denunciati, tutti componenti del comitato cittadino che per anni ha cercato di opporsi al megadepuratore in località Urmo-Belsito di Specchiarica, marina di Manduria, sono Silvio Sammarco, Antonio Saracino, Gennaro Fortunato, Giuseppe Morleo e Realino Pignatelli.

Dopo quattro anni di indagini, a febbraio dello scorso anno il tribunale di Taranto aveva disposto il giudizio immediato a carico degli imputati che si erano opposti al decreto di condanna.  Dopo due rinvii, colpa anche il fermo pandemico, il giudice monocratico del tribunale ionico, Clara Cirone, ha pronunciato la sentenza di assoluzione per tutti. Il collegio difensivo era composto dagli avvocati Enzo Tarantino, Francesco Di Lauro e Raffaele Missere.  

La vicenda chiude processualmente una stagione di proteste contro il contestatissimo depuratore che soprattutto gli avetranesi non hanno mai digerito perché situato proprio sul confine della loro zona residenziale. Un’opera quasi completata, mancante ancora del recapito finale dei reflui recentemente individuate in contrada Masseria Marina, lontana dalle villette degli avetranesi e più vicine a San Pietro in Bevagna, località balneare dei manduriani che a differenza dei cugini avetranesi hanno accolto quasi passivamente le trincee drenanti che solo una frangia ambientalista della popolazione, sicuramente la minoranza di essa, sopporta come un pugno nello stomaco. Nazareno Dinoi

La rabbia dell'avvocato Di Lauro. Manifestarono contro il depuratore, in 31, quasi tutti di Avetrana, ricevono un decreto penale di condanna. La Redazione de La Voce di Manduria  venerdì 1 luglio 2022.

Nel 2017, stagione calda per le proteste di piazza contro il costruendo depuratore sulla costa manduriana, un gruppo di manifestanti furono fermati e identificati dalla polizia. Oggi, a distanza di 5 anni l’amara sorpresa per 31 di loro che hanno ricevuto un decreto penale di condanna. Pronti per tutti i ricorsi. Tra gli imputati, quasi tutti di Avetrana, ci sono ex ed attuali amministratori avetranese e l’avvocato ambientalista manduriano, Francesco Di Lauro. 

Doccia fredda per 31 cittadini, quasi tutti di Avetrana, che ieri hanno ricevuto un decreto penale di condanna per aver partecipato alle manifestazioni di protesta contro il depuratore consortile a Specchiarica, marina di Manduria. Tra gli imputati che dovrebbero pagare 1500 euro di multa oltre alle spese legali, ci sono anche le mamme coraggio che con i propri figli s’incatenarono nei pressi del cantiere in zona Urmo. Figurano poi i nomi di ex ed attuali amministratori del comune di Avetrana, ambientalisti a capo di comitati e l’avvocato manduriano, Francesco Di Lauro, parte civile per conto del Wwf Italia nel processo «Ambiente svenduto» contro l’inquinamento dell’ex Ilva.

Il pubblico ministero Daniela Putignano della Procura tarantina contesta a tutti il reato di violenza privata in concorso perché «in riunione concorso fra loro e con violenza – si legge nel capo d’imputazione –, nel corso di manifestazioni di protesta per la realizzazione del depuratore consortile al servizio dei comuni di Manduria e Sava». Secondo l’accusa, i manifestanti generalizzati al momento e alcuni di loro convocati qualche giorno dopo negli uffici del commissariato di polizia di Manduria, in data 8 e 27 marzo e il 19 giugno del 2017 «impedivano agli operai della ditta Putignano di svolgere i lavori previsti formando uno “scudo umano” e frapponendosi in massa allo scarico dei macchinari dai mezzi e all’accesso all’area di cantieri ai macchinari».

Tra gli altri nomi noti risultano imputati l’ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte ed attuale consigliere di minoranza dello stesso comune e l’ex vicesindaco avetranese, Alessandro Scarciglia, non più candidatosi. Ma il personaggio che fa più clamore è sicuramente l’avvocato del Wwf, Di Lauro che in questo procedimento si fa difendere dal suo collega Luigi Stano. Incontenibile la sua rabbia. «Com’è noto – dice – quel giorno abbiamo anche dissetato i poliziotti costretti sotto il sole alle tre del pomeriggio offrendo loro the freddo e gelati». L’avvocato Di Lauro che con tutti gli altri imputati è pronto a ricorrere contro il decreto di condanna, prepara già la sua difesa. «Hanno voluto che si procedesse per violenza privata e non per infrazioni minori, infatti i camion potevano accedere al cantiere ma si sono fermati prima come dimostra un video in cui io li riprendo con il cellulare; ci sono solo io in piedi per strada dov’è quindi la violenza?». Per l’avvocato si è voluto intimidire la protesta su pressione dell’Acquedotto pugliese «ma noi quel giorno – insiste - stavamo impedendo che si compiesse un reato ma di questo tratteremo in tribunale così finalmente parleremo di quello che hanno fatto la ditta Putignano e Aqp».

Tra gli avvocati difensori figura ancora l’onorevole del Movimento 5 Stelle e sottosegretario alla Giustizia, Anna Macina di Erchie che difendeva le sorti delle mamme coraggio, anche lei all’epoca in prima fila in diverse manifestazioni pacifiche contro il depuratore sulla costa. Quando alcuni manifestanti ora destinatari del decreto penale furono convocati in questura, la parlamentare grillina chiese un passo indietro alle istituzioni. «La politica “buona” si muova e si arrenda – scriveva Macina - perché i manifestanti non sono affetti da alcuna sindrome, sanno perfettamente cos’è un depuratore, lo vogliono ma lontane dalle coste, e la vera notizia è che non si arrenderanno». Nazareno Dinoi

Auto contro albero tra Manduria e Avetrana: muore un ragazzo di 18 anni, guidava un amico. Un'altra persona è rimasta ferita. Il giovanissimo è stato sbalzato fuori dall'abitacolo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 Luglio 2022.

Un ragazzo di 18 anni di Avetrana ha perso la vita in un tragico incidente stradale avvenuto ieri nel tardo pomeriggio sulla strada che collega Manduria ad Avetrana, in provincia di Taranto, poco dopo il costruendo depuratore. Il giovane era in macchina con un amico alla guida e un'altra persona, quando - per cause in corso di accertamento - il veicolo è finito fuori strada, si è ribaltato più volte ed è andato a sbattere contro un ulivo. Il 18enne è stato sbalzato fuori dall'abitacolo e non c'è stato nulla da fare. L'altra persona è rimasta ferita.

La vittima, Antony Tafuro, era un portiere delle giovanili della locale squadra di calcio. Il 18enne è stato condotto da un’ambulanza del 118 all’ospedale Giannuzzi di Manduria ma, giunto al pronto soccorso in condizioni disperate, è spirato poco dopo. In ospedale è stato condotto anche il conducente della vettura, rimasto ferito nello scontro. I rilievi sono stati compiuti dai carabinieri della compagnia di Manduria, che hanno avviato gli accertamenti per stabilire dinamica e responsabilità.

Auto contro gli ulivi nel Tarantino, muore 18enne Antony Tafuro: "Era una promessa del calcio". Raffaella Capriglia su la Repubblica il 5 luglio 2022.

È accaduto sulla provinciale che collega Avetrana a Manduria. L’altro ragazzo, che era alla guida del mezzo, è rimasto ferito in maniera non grave.

Un diciottenne di Avetrana, Antony Tafuro, ha perso la vita in un incidente stradale avvenuto sulla strada che collega Avetrana a Manduria, nella provincia di Taranto. L’auto su cui viaggiava insieme a un amico è finita fuori strada e si è schiantata contro un albero di ulivo. Il 18enne è stato sbalzato all’esterno dell’abitacolo ed è morto per le gravi lesioni riportate. L’altro ragazzo, che era alla guida del mezzo, è rimasto ferito in maniera non grave.

Subito dopo l’impatto, sono stati allertati i soccorsi. Sono intervenuti gli operatori del 118 e i carabinieri della Compagnia di Manduria, ma il tentativo di salvare il diciottenne è stato vano. I militari hanno effettuato i rilievi e, con il magistrato di turno, hanno avviato le indagini per ricostruire la dinamica dei fatti.

L’incidente mortale ha destato dolore e sgomento in tutta la comunità di Avetrana, oggi in lutto per la perdita di un giovane del paese. Antony aveva solo diciotto anni, una grande passione per il calcio e una vita piena di sogni e speranze. Aveva giocato per la squadra juniores dell’Avetrana Calcio.

Un cordoglio unanime, da parte dei cittadini e del mondo sportivo locale. “Un’altra giovane vita si è spezzata a causa di un tragico incidente nella serata di ieri – si legge in un messaggio ufficiale della società di calcio avetranese - Antony Tafuro, già tesserato per la nostra squadra juniores, purtroppo non ce l’ha fatta. Ci stringiamo in un abbraccio alla famiglia di Antony nel momento di questo dolore incolmabile. Ti ricorderemo sempre come il ragazzo allegro e sorridente che sei stato”.

Tragedia già vissuta. Dramma al ritorno dal mare, Avetrana saluta Antony. La Redazione su La Voce di Manduria il 6 luglio 2022.

Si terranno probabilmente oggi i funerali di Antony Tafuro, il diciottenne di Avetrana vittima di un incidente stradale avvenuto lunedì pomeriggio al ritorno dal mare. Per cause in corso di accertamento da parte dei carabinieri, la Chevrolet Matiz su cui viaggiava, guidata da un suo coetaneo anche lui di Avetrana, è andata a sbattere contro un grosso albero d’ulivo dopo una serie di cappottamenti. La strada, stretta e molto trafficata nel periodo estivo, è la cosiddetta «Tarantina», una provinciale conosciuta anche come litoranea interna che nasce a Maruggio e prosegue sino a Nardò. Superato il cantiere del nuovo depuratore consortile di Manduria e Sava, dopo un lungo rettilineo, mancava poco per le 18 di lunedì e oltre all’utilitaria guidata dall’amico pare ci fossero altre macchine con a bordo giovani della stessa comitiva la cui testimonianza potrà chiarire molte cose. Sarebbero stati loro i primi a soccorrere i due amici coinvolti nell’incidente e sempre loro ad aver chiamato il 118 che ha inviato due autoambulanze partite da Torre Colimena e da Maruggio. L’intervento dei sanitari è stato rapidissimo ma inutile per Tafuro i cui traumi al bacino e al torace non gli hanno lasciato scampo. Poco dopo l’arrivo all’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria il giovane ha avuto un arresto cardiaco sotto gli occhi dei sanitari che hanno cercato di rianimarlo e gli hanno praticato ogni possibile cura per quasi un’ora prima di arrendersi. 

Il conducente ferito è stato invece portato all’ospedale Santissima Annunziata di Taranto da un'altra ambulanza per delle contusioni lievi e dopo una notte di osservazione ieri mattina è stato dimesso. Ieri stesso la sua famiglia ha chiesto l’assistenza dell’avvocato specializzato in incidentistica stradale, Francesco Ferretti del foro di Taranto.

Sino a ieri il corpo di Tafuro è rimasto nella camera mortuaria del Giannuzzi in attesa del nulla osta che dovrebbe arrivare questa mattina dal pubblico ministero, Rosalba Lopalco. Forse oggi stesso si terranno i funerali nella piccola comunità di Avetrana che poco più di due mesi fa ha dovuto salutare un altro suo giovanissimo concittadino, Andrea Dorno, 26 anni, studente universitario, stroncato da una morte improvvisa a Roma dove studiava.

Antony Tafuro non ha avuto una infanzia serena con i genitori separati quando lui e la sorella erano ancora piccoli. Cresciuti dalla madre, il ragazzo aveva finito le scuole dell’obbligo ed aveva trovato un lavoro nell’edilizia dove tuttora lavorava. Anni fa era stato vittima di un altro incidente stradale che gli aveva lasciato dei segni ad una caviglia, non abbastanza gravi da impedirgli di coltivare il suo sport preferito, il calcio. Discreto portiere, sino a due anni fa aveva sostituito nelle assenze il titolare della squadra del settore giovanile dell’Avetrana e prima ancora nei pulcini. Era ancora tesserato nella squadra juniores dell’Associazione sportiva dilettantistica Avetrana Calcio. Ieri la pagina Facebook della società sportiva era listata a lutto con un saluto al suo giovanissimo atleta. Nazareno Dinoi

L’amministrazione comunale di Avetrana ha già messo a disposizione la sala consiliare del municipio dove sarà allestita la camera ardente. La Voce di Manduria venerdì 25 marzo 2022.

Avetrana e Manduria si preparano per accogliere le spoglie dello sfortunato Andrea Dorno, lo studente universitario della Sapienza di Roma, città dove tre giorni fa si è spento per un malore che lo ha stroncato nel letto dell’appartamento che condivideva con altri studenti. 

L’amministrazione comunale di Avetrana ha già messo a disposizione la sala consiliare del municipio dove sarà allestita la camera ardente. Il feretro dovrebbe arrivare sabato sera per cui i funerali si dovrebbero svolgere domenica mattina. «Niente di sicuro al momento perché la famiglia del povero Andrea sta aspettando che la magistratura dia il via libera per il trasferimento della salma qui ad Avetrana», ha dichiarato ieri il sindaco avetranese Antonio Iazzi che non ha ancora deciso quale altra forma di vicinanza la sua amministrazione offrirà alla famiglia Dorno. Non si esclude l’istituzione del lutto cittadino.    

L’altro ieri sera intanto il medico legale incaricato dalla procura della Capitale ha ricevuto l’incarico per l’esame autoptico che dovrebbe tenersi tra oggi e domani. Il compito del perito sarà quello di escludere intanto cause traumatiche o violenti del decesso che a qual punto non potrà che essere attribuibile ad una morte improvvisa di natura cardiaca o cerebrale. Il ventiseienne era in perfetta salute e in ottima forma grazie anche alla sua intensa attività agonistica con la squadra di basket. 

Lunedì scorso il giovane ha fatto rientro a casa e si è messo a letto quando tutti gli altri già dormivano. Il mattino successivo Andrea è rimasto nella stanza e i suoi inquilini lo hanno lasciato dormire per tutta la mattina pensando che fosse stanco per le ore piccole che aveva fatto la sera precedente. Nel tardo pomeriggio, preoccupati da tanto silenzio, i compagni di appartamento sono entrati nella sua camera facendo la terribile scoperta. Il loro amico era freddo e probabilmente morto da diverso tempo. Inutili tutti i soccorsi.     

«E' stato un fulmine improvviso – ha raccontato a RomaToday Marco Filippetti di Communia -, perché la sera prima, il 21 marzo, si era allenato al playground come sempre. Non c'erano avvisaglie, non ci aveva mai parlato di alcun genere di patologia», ha detto il suo compagno  che per sabato o domenica ha annunciato una manifestazione che coinvolgerà tutto il quartiere di San Lorenzo a Roma. «Aspettiamo diverse indicazioni dei genitori – ha detto ancora Marco al quotidiano romano -, ma l'intenzione quasi ufficiale è quella di ricordarlo tra Communia e il playground, i suoi luoghi».

La notizia ha sconvolto anche molti manduriani dove il papà di Andrea, Tony Dorno, manduriano, è molto conosciuto anche per i suoi passati di cestista professionista. Tony, insieme a Ignazio Dinoi e a Italo Valente, sono stati i pionieri del basket manduriano militando in diverse formazioni. Sono stati anche esemplari maestri che hanno formato molti giovani atleti manduriani. Ora Tony lavora allo stabilimento ex Ilva di Taranto mentre la moglie, Giulia, insegna all’istituto Prudenzano di Manduria. Andrea ha un fratello maggiore, Pierangelo che vive e lavora a Roma.

Tragica sorte per Andrea, atleta e militante dell'integrazione. La Voce Di Manduria mercoledì 23 marzo 2022.

Avetrana, Manduria e Roma piangono per la morte del giovane Andrea Dorno, promettente capitano della squadra di Basket Atletico San Lorenzo di Roma.

Andrea, 26 anni, era arrivato a Roma da Avetrana, era studente dell'Università La Sapienza e nel quartiere lo conoscevano tutti per il suo impegno politico, la militanza paficista, nell'integrazione e per la passione per il basket che lo accompagnava sin da bambino. Una passione trasmessa dal padre, Tony Dorno, manduriano, conosciutissimo cestista con interessanti esperienze nel campionato professionista e pioniere del basket nella provincia di Taranto.

Non si conoscono ancore le cause dell’improvvisa morte. A quanto pare il suo corpo senza vita è stato trovato nel letto nella tarda serata di ieri dai suoi compagni con cui divideva l’appartamento del quartiere San Lorenzo di Roma. Probabilmente un fatale malore per qualche patologia nascosta. Il ventiseienne era un atleta che si sottoponeva a tutti i controlli. Distrutta la sua famiglia che vive ad Avetrana dove la madre insegna religione nelle scuole comunali.

«Mi chiamo Andrea Dorno, nato il 18 settembre 1995. Il basket è entrato nella mia vita molto prima che sapessi camminare, mio padre è stato un giocatore per tantissimi anni, poi allenatore» si descriveva così in un'intervista sul sito dell'Atletico San Lorenzo in cui parlava della sua carriera sportiva ma anche del suo impegno politico per lo sport popolare, libero e accessibile a tutti i bambini e le bambine. Ideali che lo avevano portato a sposare il progetto dell'Atletico San Lorenzo, che prima di una squadra dilettantistica è una realtà culturale che promuove valori sociali ed etici nel quartiere come l'inclusività e l'antirazzismo. 

Decine i messaggi di cordoglio arrivati dagli amici, i compagni di squadra e dai membri tante realtà associative romane che si sono stretti al dolore della famiglia. «Ieri abbiamo perso un fratello, un compagno, un amico, un atleta instancabile» scrivono i ragazzi dell'Atletico San Lorenzo. 

Tantissimi anche i messaggi dei suoi amici di Avetrana. Ne scegliamo uno per rappresentarli tutti. «E così hai deciso di farci davvero uno scherzetto. Di quelli che, chi ti ha conosciuto sa, hai sempre saputo fare. È stato bello imparare la musica insieme a te, è stato bello condividere interi pomeriggi insegnandomi il tuo basket, è stato bello iniziare ad essere “educatori” insieme. Poi la vita si sa, ci mette davanti a delle scelte e “strade” diverse, ma nel mio cuore, saremo sempre quei due pazzi che suonavano la chitarra sui “monti della Marina” e un giorno ci rincontreremo... ne sono certo, ciao Andrea mio »

Ciao Andrea: avevi un grande avvenire davanti. Lasci un vuoto incolmabile. Manduria Oggi il 23/03/2022. 

Una scomparsa che addolora l’intera comunità avetranese È una giornata molto triste per Avetrana. Una giornata che è stata aperta da una notizia terribile: la morte di Andrea Dorno, un ragazzo di appena 26 anni. È una notizia difficilissima da dare: nessuno dovrebbe mai darla e, soprattutto, nessuno dovrebbe mai riceverla. Un dolore troppo grande per chiunque, che addolora l’intera comunità avetranese. È difficile accettare ed elaborare la perdita di un ragazzo, di compagno, un amico. E’ impossibile, crediamo, per Giulia e Tony elaborare la perdita di un figlio.

Un ragazzo d’oro, serio, estroverso, simpatico. Andrea era molto conosciuto, non solo ad Avetrana, anche per la sua grande passione per il basket, trasmessagli dal padre. In un momento del genere siamo attoniti ed è difficile trasmettere, con poche parole, il dolore per questa scomparsa così prematura. In momenti del genere ci rendiamo conto di quanto sia effimera l’esistenza umana: davanti a questi episodi ti domandi se stai vivendo tutto in pieno, perché non sai quando, all'improvviso, tutto potrebbe cambiare. Una morte ingiusta, inaccettabile, che addolora tutti, non solo coloro che hanno avuto la possibilità di conoscere e “vivere“ Andrea. Noi lo vogliamo salutare come sempre abbiamo fatto: col sorriso. Quel sorriso che ha declinato perfettamente la sensibilità di Andrea verso gli altri. Ha vissuto la vita con entusiasmo, una presenza e una vivacità incredibili con la famiglia e con gli amici. Ma un fatale istante ha cancellato tutto. Oggi è il giorno del lutto e del ricordo. E’ impossibile trovare parole di conforto per la famiglia. Speriamo possano essere di aiuto le parole di Sant’Agostino: “Non rattristiamoci di averlo perso ma ringraziamo di averlo avuto”.

Autopsia senza risposte e due funerali per Andrea. Saluto a Roma poi il suo corpo arriverà questa sera ad Avetrana dove l’amministrazione comunale ha allestito la camera ardente nell’aula consiliare del municipio. La Voce di Manduria sabato 26 marzo 2022.

L’autopsia sul corpo di Andrea Dorno, il giovane avetranese morto nel sonno lunedì notte a Roma dove viveva e dove studiava Lettere alla Sapienza, non ha evidenziato patologie e né traumi, per cui si sarà trattato di una morte cardiaca improvvisa, una delle tante dolorosissime per chi resta e che non trovano spiegazioni soprattutto nelle persone giovani e sane. Come lo era Andrea, un atleta in perfetta forma, giocava con il ruolo di capitano nella squadra di basket Atletico San Lorenzo di Roma e svolgeva un’intensa attività oltre che sportiva anche sociale con impegno nei collettivi studenteschi e centro sociali di sinistra. 

Il suo corpo arriverà questa sera ad Avetrana dove l’amministrazione comunale ha allestito la camera ardente nell’aula consiliare del municipio. I funerali si terranno invece domani pomeriggio alle 16 con corteo che partirà da piazza del municipio e cerimonia religiosa nella chiesa madre di Avetrana. Ad accompagnarlo ci saranno i genitori, Tony e Giulia e il fratello Pierangelo con i nonni e tantissimi amici e parenti anche di Manduria, città di ascita del padre ed anche luogo di lavoro della madre che insegna all’istituto Prudenzano. 

Per questa mattina, invece, i sui amici romani hanno organizzato un evento pubblico per ricordare il loro campione e compagno di tante battaglie. 

Non un addio ma un arrivederci per gli amici romani che per l’occasione hanno ideato un manifesto con il numero 13 della maglia della squadra San Lorenzo e la scritta «Dorno subito». «Potremo stringerci in un solo abbraccio collettivo e restituire un po' dell’amore immenso che Andrea ci ha donato in questi anni», si legge nell’invito diffuso in tutto il quartiere della capitale. 

Oggi alle 10.30 è previsto un primo momento di ricordo al Playground di Largo Passamonti a Roma e successivamente, dalle 11.00 alle 13.00, i partecipanti si sposteranno al centro sociale Communia per un secondo momento di commemorazione. 

I tifosi dell’Atletico San Lorenzo lo ricorderanno ad ogni inizio partita per tutto il campionato. Ecco la dedica ad Andrea della società sportiva e dei tifosi. «Continueremo a portare il "grande sogno dell'Atletico" sui campi e sugli spalti anche in questo fine settimana. Un sogno che Andrea aveva fatto suo, di cui era fiero ed orgoglioso, e che ha contribuito a far crescere e portare avanti in maniera grandiosa».

Il saluto del quartiere San Lorenzo di Roma ad Andrea Dorno. Manduria Oggi 27/03/22. Una coltre di fumogeni rossoblu (con un po’ di giallo) e un applauso interminabile hanno accolto Andrea questa mattina al Playground di largo Passamonti. In un post dell’Atletico San Lorenzo l’emozione e la commozione di un intero quartiere per l’estremo saluto ad Andrea. «Un saluto collettivo per ricordarlo in uno dei luoghi che più ha frequentato, che ha amato e che ha difeso. Come ha amato e difeso Communia, dove ci siamo spostati successivamente, il Nuovo Cinema Palazzo e i campi dell’Atletico San Lorenzo, che in questi giorni stanno ospitando altri tributi in suo onore. E tutti i posti che Andrea ha vissuto o anche solo attraversato, ed in cui il noi è più importante dell’io. Perché per Andrea stare in un luogo, vivere una situazione, partecipare a un progetto, frequentare uno spazio si trasformava automaticamente in amare e difendere. Ciao Andrea, ameremo e difenderemo come ci hai insegnato. Non smetteremo mai di farlo. “Come un grande sogno, che oggi va difeso, resteremo uniti e per questo vinceremo».

Lutto cittadino ad Avetrana per il suo Andrea. Oggi l'ordinanza firmata dal sindaco Antonio Iazzi. La Voce di Manduria sabato 26 marzo 2022.

Oggi pomeriggio il sindaco di Avetrana, Antonio Iazzi, firmerà l’ordinanza di lutto cittadino per la giornata di domani in cui si terranno i funerali di Andrea Dorno, il giovane avetranese di 26 anni morto improvvisamente a Roma il 22 marzo scorso dove studiava e svolgeva attività sportiva e sociale nel quartiere San Lorenzo.

Per tutta la giornata di domani, quindi, la bandiera del municipio di Avetrana sarà a mezz’asta e listata a lutto mentre dalle 16 in poi, durante i funerali i locali pubblici saranno invitati ad abbassare le saracinesche e sospendere l’attività.

La sala consiliare intanto è già pronta per accogliere il feretro il cui arrivo è previsto in serata. Questa mattina, invece, i suoi compagni romani, gli atleti e i dirigenti della squadra Basket Atletico San Lorenzo con i numerosi tifosi, hanno organizzato una manifestazione di saluto.

"E ti vengo a cercare con la scusa di doverti parlare", Avetrana accoglie così il suo Andrea. La Voce di Manduria domenica 27 marzo 2022.

«E ti vengo a cercare con la scusa di doverti parlare, perché mi piace ciò che pensi e che dici, perché in te vedo le mie radici». Sono le parole di Battiato che gli amici avetranesi e manduriani di Andrea Dorno hanno esposto all’ingresso della camera ardente allestita nel municipio di Avetrana dove oggi alle ore 16 si terranno i funerali. Il sindaco di Avetrana Antonio Iazzi ha disposto per oggi il lutto cittadino.

Il carro funebre con il feretro è arrivato ieri sera alle 18,45 accompagnato dai parenti stretti, la madre Giulia insegnante all’istituto Prudenzano di Manduria, il padre Tony dipendente ex Ilva e il fratello Pierangelo con la moglie romana. Con loro anche l’ex cestista manduriano Ignazio Dinoi, zio del giovane che con il padre Tony, anche lui cestista, gli hanno trasmesso l’amore per il basket.

Questa mattina presto la sala consiliare di Avetrana si presentava già occupata dai parenti e dai numerosi amici del giovane di 26 anni che nel letto della sua camera a San Lorenzo è morto per un malore. Intanto sono attesi i suoi compagni più intimi di Roma dove Andrea svolgeva un’intensa attività sociale e sportiva.

Un fiume di persone attorno alla famiglia Dorno per l'ultimo saluto ad Andrea, il gigante buono. La Voce di Manduria lunedì 28 marzo 2022.

“Andrea vive con noi, ovunque tu sarai” hanno cantato con tutta la voce in corpo gli amici di Andrea Dorno insieme a migliaia di persone che ieri si sono unite al cordoglio della famiglia all’uscita della camera ardente e della chiesa Madre ad Avetrana dove nel pomeriggio si sono tenuti i funerali del giovane di 26 anni, morto a Roma mentre dormiva. Una grandissima folla arrivata da Manduria, Erchie e la stessa Avetrana, città di origine del ragazzo, e un intero pullman partito da Roma di amici e compagni di squadra dell’Atletico di San Lorenzo  - gestita con prontezza e professionalità dai volontari della protezione civile locale - per ricordarlo e salutarlo tra musica, cori, fumogeni e lunghissimi applausi.

 “Le parole non hanno senso, sono frammentate e distrutte dinanzi a questa tragedia inaspettata” – ha esordito il prete visibilmente commosso durante il rito funebre nella navata stracolma di fedeli. Un’omelia che non è stata solo struggente per la morte inaspettata del giovane, ma anche grazie ai canti religiosi ripensati tra ritmi di chitarra e bongo. Andrea è stato un attivista, uno sportivo, uno studente, un lavoratore apprezzato e stimato a Roma e nella sua città natale, ma è stato soprattutto “un uomo che ha vissuto per amare e amando l’altro. Una vita breve, ma vissuta bene” -, questa l’unica consolazione del religioso per i famigliari e i presenti dinanzi alla tragedia. Andrea ha vissuto la sua vita senza selezionare le amicizie – ha continuato il parroco - impegnando ogni suo giorno dimostrando la sua presenza in aiuto del prossimo”.

Stringendosi e sventolando bandiere rosse con inciso il nome di Andrea, così la folla che gremiva il piazzale antistante la chiesa ha salutato Andrea in unico abbraccio collettivo restituendo quell’amore che lui ha donato in questi anni. Marzia Baldari

Ciao Andrea, raccontaci di Avetrana e Manduria. I ricordi dei primi tiri e dei maestri di Manduria e Avetrana. La redazione de La Voce di Manduria - venerdì 25 marzo 2022.

Mi chiamo Andrea Dorno, nato il 18 settembre 1995. Il basket è entrato nella mia vita molto prima che sapessi camminare, mio padre è stato un giocatore per tantissimi anni, poi allenatore. Ci giocava anche mio fratello, quando avevo tre anni ricordo che qualche partita ‘’allegorica’’ l’ha giocata anche mia madre, non so se lo ricordo veramente, ma ci sono delle foto che testimoniano tutto ciò. Il basket è entrato nella mia vita molto prima che scoprissi cos’è il basket veramente. Come tutti o tutte che ne hanno la possibilità, ho iniziato a giocare quando avevo 5 anni, rincorrendo la palla, facendo gli slalom tra i birilli: avevo un testone spropositato come tutti i bambini a quell’età. Ho iniziato a giocare ad Avetrana, nella società di basket in cui allenava mio padre. Il mio primo allenatore è stato Walter Rizzo, era lui ad allenare i più piccoli mentre mio padre allenava le squadre senior. In realtà Walter allenava le più piccole, Avetrana aveva delle squadre femminili formidabili, ai maschietti, per cultura o per divertimento, piaceva fare calcio. Avetrana è un paesino piccolissimo, più passano gli anni, più la gente emigra e il paese diventa sempre meno giovanile. Per tantissimi anni sono stato l’unico della mia età a giocare a basket e quindi mi sono allenato fino agli otto anni con la femminile e i ragazzi più grandi. Ogni tanto avevo il privilegio di giocare con i più grandicelli, classe 92/93 (ai tempi quella categoria si chiamava Bam), oppure con quelli ancora più grandi, classe 89/90, la squadra di mio fratello. Da piccolissimo ho sofferto moltissimo il fatto di non avere una squadra di coetanei: con le ragazze non potevo giocare anche perché erano notevolmente più grandi di me, fatta eccezione di qualcuna, i maschietti più grandi invece non passavano la palla e non mi si filavano perché ero piccolo, i primi eccessi di testosterone iniziavano per loro ad andare in circolo creando i primi episodi di machismo e bullismo a cui ho assistito in vita mia. Poi finalmente, circa a 9 anni, i compagni della mia classe decidono, dopo tantissime suppliche da parte mia, di venire a farsi un allenamento e provare con la pallacanestro. Ricordo quell’anno come l’anno più felice della mia vita, facevo parte di una squadra, una squadra fatta da gente che conoscevo, miei coetanei. La mattina a scuola e il pomeriggio in palestra, inutile dire che sono nate delle amicizie che durano tutt’ora. Alcuni dei miei compagni di squadra del tempo sono i miei migliori amici. 

Alessandro Saracino, mi commuovo se penso che ora è un tifoso dell’Atletico San Lorenzo, vederlo nella San Lorenzo Arena mi ha fatto scendere dei goccioloni monsonici dagli occhi. Tutt’ora giochiamo nel play-ground della Snia insieme, proprio come facevamo da piccoli ad Avetrana. Ero il più forte della squadra, ero capitano, giocavo ormai da 5 anni, tutti gli altri erano appena arrivati dal calcio. Mio padre iniziò ad allenarci, Avetrana riuscì grazie ad una giunta comunale molto sensibile al tema sportivo, ad ottenere un palazzetto da urlo. Fu anche (e soprattutto) questa struttura gigante, finanziata e sostenuta dal comune e dalle società ad aver fatto esplodere il basket, così come il mini calcio, la pallavolo, il pattinaggio e tantissimi altri sport ad Avetrana. Ogni fine anno sportivo, mio padre insieme a tutta la società di basket, le squadre, i genitori, gli atleti e le atlete organizzavano un torneo di minibasket, gigante, venivano da tutta la regione. Avetrana conta poche migliaia di abitanti, per quel giorno ospitava fino a 8000 persone… il primo campionato della mia squadra (così come tutti i campionati della mia vita), non ha visto vincitrice la squadra per cui giocavo. Il primo anno la mia affiatatissima squadra di minibasket, perdeva regolarmente ogni partita, risultati incredibili, ricordo un 114-9 a favore di una formidabile Martina Franca. Crescendo abbiamo iniziato a giocare meglio, i miei compagni hanno sempre fatto affidamento su di me, d’altra parte grazie a mio padre che allenava, praticamente ero con la palla in mano quasi per 6 ore al giorno. Iniziavo allenamenti con i piccoli, poi arrivava la squadra mia, poi iniziavo con i più grandi, poi con le ragazze, poi a guardare la squadra senior… era un rituale: papà staccava dall’Ilva, mi passava a prendere, chiedeva se avevo fatto i compiti (lo faceva con chiunque), se non li avevo fatti li facevo in palestra (a volte baravo). Iniziammo a vincere qualche partita, segnavo in media 30/40 punti a partita, giocare con i più grandi dava i suoi risultati. Improvvisamente le elezioni politiche cambiano la giunta comunale. Sale il centro destra, i finanziamenti alle strutture sportive finiscono.

La società va in rosso per decine di migliaia di euro. Avetrana fallisce. Smetto di giocare all’età di 12 anni. Mio padre ha una cicatrice tutt’ora aperta nel cuore, non ha più parlato di basket per parecchi anni. Perdo un anno e mezzo di basket, ma prendo 20 cm d’altezza. Non avevo nulla da fare. Giocavo a calcio per le strade del paese, andavo in bici, abbiamo iniziato a fumare qualche sigaretta e ad annoiarci. La mia annata ricevette un durissimo colpo quell’anno. Rimanevano le amicizie, quelle mi hanno sempre tirato su. Cosa rimaneva di tutti quegli anni passati dentro il palazzetto a giocare a basket? Per me rimaneva Alessandro e tantissimi palloni a casa che non ho mai potuto usare perché non avevo un canestro, per mio padre rimanevano foto, ricordi e casacche custodite con cura maniacale a casa. Non volevo fermarmi, volevo giocare, vorrò sempre giocare… Mio padre non voleva che giocassi perché credeva che stessi inseguendo un sogno inutile e pericoloso. Secondo lui sarei finito da una società all’altra, trattato come un oggetto da presidenti padroni e società in bilico, per colpa del basket avrei lasciato o affrontato male gli studi, aveva paura mi sarei ritrovato dopo una vita di gioco, ad una vita in fabbrica a respirare veleno più o meno come lui. Amo il basket, ma non avrei mai lasciato gli studi. Promisi questa cosa, piansi, mi disperai, ma non sono riuscito a convincere mio padre (almeno all’inizio). Fu grazie a mia madre, a cui devo tutto ciò che di buono mi è capitato nella vita, che ho ripreso a giocare per il Vis Nova Messapica Manduria, sponsor Museo del Primitivo. Avevo perso quasi due anni di gioco, ero quasi 180 cm, ho dovuto riscoprire questo sport con le mie nuove misure.

A Manduria, sono stato allenato da coach Dinoi, mio zio, se mio padre riuscì a darmi tutti i fondamentali, mio zio mi diede l’impostazione di gioco e le letture. Da lui ho imparato qualcosina sul vero basket, ho iniziato a ‘’masticare’’ i primi movimenti, le rotazioni difensive, ogni tipo di difesa a zona, ho imparato dai più grandi di me. Lì giocavo in ogni giovanile possibile, under 15, under 17 under 19, in più, qualche convocazione in D. Ero gasatissimo, davo il massimo, ero felicissimo di giocare in prima squadra anche se il primo anno l’ho giocato tutto in panchina, tranne ad una partita contro il Fasano in cui entrai perché eravamo carichi di falli. Gli anni successivi ho iniziato a giocare qualche minuto e a iscrivermi regolarmente a referto, continuavo a crescere senza prendere peso e, come un telaio di un aquilone, ho raggiunto 190cm. Arrivo ai miei 18 anni, ultimo anno di basket prima della partenza per gli studi, ogni meridionale che vuole laurearsi sa che arriva quell'anno maledetto, ricco sia di speranza sia di tristezza. Ma fallisce anche la società del Vis Nova. Perdo un altro anno di basket, l’ultimo in cui avrei potuto giocare in Puglia. Né mio padre, né mio zio mi hanno mai detto che avrei potuto tranquillamente giocare per qualche società, né mi hanno mai chiesto se avessi voluto continuare a giocare. Le loro azioni, scaturite dai timori del mio possibile abbandono scolastico, continuavano a dare i loro frutti marci, non ne faccio loro una colpa, purtroppo in Italia, sport e istruzione viaggiano su due rette parallele e questo ahimè l’ho scoperto fin da piccolo. Quell’anno per la prima volta pensai che lo sport in Italia non avrebbe mai avuto un futuro, il mercato si è mangiato ogni cosa, arrivando a privarti anche dei tuoi sogni da ragazzo. O hai la fortuna di essere chiamato in seria A o B quando hai 13 anni, oppure ciò che ti aspetta è un’adolescenza senza sport agonistico. Fu quell’anno che iniziai ad appassionarmi alla politica. Due cose erano chiare per me: privare una società della possibilità di fare sport è un’ingiustizia, le responsabilità di questa ingiustizia è politica (e non solo di questa!).

Ho tantissimi ricordi e tantissime esperienze da raccontare potrei stare ore a scrivere, l’anno in cui è fallita la serie D a Manduria, l’anno in cui mi sono ritrovato nuovamente senza società, fu stranamente anche l’anno in cui mi chiamarono per lo AllStarGame Puglia, a Villa Castelli durante un camp estivo, lì giocammo una partita simbolica, una delegazione convocò i venti ragazzi più forti della Puglia (secondo loro), tutti under 20. In questo modo risparmiarono moltissimi soldi, di solito durante i centri estivi veniva sempre il Belinelli della situazione. Mi sentivo fuori luogo, ero l’unico senza società, l’unico ad aver giocato in D (tutti gli altri andavano dalla C1 in su). Giocai per vincere come sempre si dovrebbe fare nello sport, mi rifiutai di fare la gara di schiacciate, non me la sentivo anche se ormai schiacciavo tranquillamente come volevo. Come mi ha insegnato coach Dinoi, una schiacciata realizzata scrive due punti a referto come un appoggio sicuro a tabellone. In più in quel periodo iniziai ad odiare tutto ciò che il mercato estraeva dallo sport, la gara di schiacciate mi sembrava uno spettacolo inappropriato soprattutto per il contesto, L'AllStarGame dell’Nba non era più quello di una volta, doveva solo far vendere biglietti. Iniziai ad odiare l’Nba, le sue pubblicità infinite e le sue contraddizioni le sue regole che cambiano a seconda delle richieste del mercato. Non ho mai visto nessuna partita, né di Eurolega, né della serie A italiana. Ho sempre amato solo ed unicamente giocare, non ricordo nomi di allenatori importanti, né di grandi campioni. Infatti durante questo camp estivo per minibasket a cui fummo invitati a giocare come ‘’ragazzi pugliesi (tutti maschi) under 20 che ce l’hanno fatta’’ (fare una grossissima risata), fui allenato da un allenatore famosissimo a detta di mio padre. Ancora oggi non so chi è, né mi importa saperlo. Parto per Roma con tanti dispiaceri, le scarpette appese al chiodo ma felicissimo della nuova vita, felicissimo di avere dei play-ground in cui giocare gratis ogni volta che voglio. In Puglia, ad Avetrana non avrei mai potuto farlo, mancano le strutture. La bellezza di largo Passamonti… Lì incontro Lorenzo Ciccola, Valerio Vernile, mi dicono di venire a giocare con l’Atletico San Lorenzo ed eccomi qui 5 anni dopo, di nuovo in campo, questa volta con i colori giusti, i colori di una società che non può fallire mai.

Qual è l'atleta del basket mainstream (del presente o del passato) a cui ti ispiri? Perché?

Non l’ho mai visto giocare - ormai aveva un’ernia al disco, capelli assenti e un panciotto semi-arrogante - però il giocatore a cui mi ispiro è mio padre. Per me il vero cestista non è solo chi gioca bene, ma chi fa appassionare più gente possibile a questo sport. Il vero giocatore, quando non può più giocare per infortuni o età avanzata, allena. Lui per me è da sempre il giocatore a cui mi ispiro.

Qual è il giocatore più forte con cui hai mai giocato? L'avversario più ostico da affrontare?

Premetto che ho da sempre avuto problemi con i nomi e i cognomi, ho giocato con tantissima gente molto forte, ma il giocatore più mastodontico contro cui ho giocato è Mimmo Morena, icona assoluta del basket napoletano e poi del basket pugliese, ai tempi se non sbaglio giocava con l’Ostuni. Mentre l’avversario più difficile da battere per me è il mercato, il mercato vince sempre, soprattutto con gli ‘’sport minori’’, la sua vittoria coincide con l’impossibilità di fare sport per tutti e tutte. Per il mercato le società falliscono, resistono, arrancano, si fondono, ma lentamente periscono. Al mercato non servono tante società, ne bastano poche che fatturano tanto. Il mercato fa coppia fissa con l’amministrazione. Una combo letale, tossica e asfissiante. Loro due, ahimè, vincono sempre. Questo si nota dall’altissimo numero di persone che non può fare sport. Portare le società allo sbando e negare il diritto allo sport sono due delle loro skills più micidiali.

Quale metodologia d'allenamento ti è più congeniale? Quale ti diverte di più e quale ritieni maggiormente efficace dal punto di vista sportivo?

Adoro tantissimo la modalità d’allenamento in solitaria, con il basket è molto semplice da fare: tu, il pallone, le linee del campo e il canestro. Isolarti da qualsiasi cosa, rivedere i fondamentali, partenza in palleggio, reverse, incrocio, arresto, tiro, giro in palleggio, penetrazione, appoggio semplice a tabellone. Con le cuffiette potrei passare le ore, in squadra credo che ogni giocatore abbia bisogno di fare quest’esercizio in solitaria per almeno mezz’ora. Lavorare sui fondamentali è un esercizio che non bisogna mai smettere di fare. Adoro fare esercizio di tiro, lento e ripetitivo, come un automa, completamente alienato nel movimento sempre uguale, è un lentissimo perdersi dentro sé stesso. Quando riesci a svuotare tutti i pensieri che ti rendi conto di non sbagliare (quasi) mai un tiro. Poi si passa al gioco di squadra perché un fondamentale importantissimo è il passaggio, quello da solo non puoi farlo, la squadra è tutto in questo sport. Odio però passare due-tre ore interamente a fare giochi di squadra, se non ho avuto la palla in mano, tutta per me almeno per un’ora mi sento insoddisfatto. Lasciami la palla per un’ora in mano e poi si gioca insieme. Non mi piacciono troppo gli sport individuali, ma amo il basket perché riesce a isolarti da tutto e tutti e nello stesso tempo riesce a metterti in connessione con i tuoi compagni e con il tuo coach. Il basket è una sorta di ibrido: puoi passare un’intera giornata da solo, palla in mano, Cypress Hill nelle orecchie, così come puoi passarla allo stesso play-ground a fare 4vs4. Il risultato emotivo è diverso. Tantissime volte largo Passamonti mi ha visto arrivare da solo a notte fonda, altrettante volte invece mi ha visto arrivare insieme a tantissime persone.

Cosa ne pensi della federazione a cui è affiliata la tua squadra (Fip)? Ritieni adeguati i provvedimenti di ciascuna federazione a sostegno delle squadre iscritte? Cosa cambieresti e cosa pensi debba fare una squadra di basket popolare all'interno delle federazioni?

Parlo della Fip, perché per 20 anni ho giocato nella Fip, le altre non le conosco. La federazione dovrebbe ridurre i costi, omologare i campi da gioco a seconda delle disponibilità del territorio, essere accessibile per tutti e tutte, liberarsi da quella puzza schifosa data dal sessismo di cui è impregnata. Dovrebbe cooperare con il sistema scolastico. Tutte le società per cui ho giocato hanno sempre attribuito agli eccessivi costi della federazione il motivo del loro fallimento. Dovrebbe far giocare i migranti con problemi di cittadinanza. Dovrebbe praticare antirazzismo, invece fa il contrario. Una squadra in federazione non dovrebbe abbassare la cresta, non dovrebbe accettare tutto quello che viene imposto, dovrebbe essere parte integrante e attiva nelle scelte federali, nella gestione dei campionati e soprattutto nella gestione economiche, non esiste federazione senza squadre, sono le squadre il cuore pulsante della federazione. Credo allora giusto che siano le squadre e gli arbitri a gestirsi i campionati e a dettare le regole.

Un altro genere di sport è possibile? Lo sport può essere vettore di un nuovo modo di vivere e pensare un mondo libero da sessismo ed omofobia?

Lo sport è lo strumento migliore per cambiare la società, liberare lo sport da sessismo, omo-transfobia e razzismo è una missione che ho intrapreso con le compagne e i compagni dell’Atletico San Lorenzo. Lo sport, specialmente lo sport di squadra, porta con sé tutti i valori in cui credo, l’antirazzismo, l’antisessismo. Non è lo sport che deve essere cambiato, ma la presa che questa società contorta ha sullo sport. Se dai una palla ad un gruppo di bambini e bambine, giocheranno tranquillamente, il litigio al massimo sarà se giocare a pallavolo, a calcio o a palla avvelenata. È questa società purtroppo, ad insegnarci fin da bambini, che l’uomo ha più potere della donna. Sono le federazioni e determinate società sportive ad investire più soldi per gli uomini che per le donne. Sono le famiglie ad iscrivere il bimbo a calcetto e la bimba a danza. Sono i mister ad usare spesso linguaggi violenti e sessisti con i propri allievi. La scuola dovrebbe essere il luogo dove queste ingiustizie andrebbero livellate, invece molto spesso è proprio nella scuola, nell’educazione fisica che assistiamo al perpetrarsi di queste ingiustizie. Tantissime volte mi è capitato di fare lezioni di educazione fisica in cui la prof ci divideva in squadre, due capitani sceglievano a turno le persone della propria squadra, finiva sempre che le ragazze erano scelte per ultime, ragazzi/e un po’ in sovrappeso o non venivano scelti o non volevano giocare ricevendo un’umiliazione costante fino al diploma. Partite di pallavolo (l’unica cosa che facevo a ed. fisica) in cui la palla girava solo tra ragazzi, la rete altissima. Dopo le prime tre settimane di scuola le ragazze non giocavano più, passavano l’ora di educazione fisica a fare altro, oppure a fare palleggi tra di loro con la palla sgonfia. Scene di questo tipo purtroppo sono la norma. La scuola è il laboratorio in cui formi te stesso da adulto, se già a scuola ci rassegniamo a queste dinamiche, non potremmo che diventare cittadini di merda in un mondo di merda. Praticare sport forma quello che sei, un altro genere di sport è possibile, è reale ed è quello che dobbiamo continuare a portare avanti. Per fortuna sono in aumento le società popolari come la nostra che portano avanti quest’idea.

Veniamo alla tua esperienza all'Atletico San Lorenzo: come e quando sei venuto a conoscenza della nostra polisportiva? Quando hai deciso di difenderne i colori?

Appena arrivato a Roma, volevo trovare il giusto posto per fare politica, a San Lorenzo sono entrato subito in sintonia con Communia. Lì ho trovato un ambiente favorevole e ho scoperto della ricchezza infinita del quartiere universitario di Roma. Ho scoperto la Libera Repubblica di San Lorenzo, ho conosciuto il Cinema Palazzo. Dentro Communia ho visto per la prima volta lo stemma dell’atletico San Lorenzo. I compagni e le compagne di Communia mi hanno subito detto di andare a giocare per l’Atletico. Io non volevo, dovevo studiare, avevo fatto una promessa, basta basket, basta delusioni… non potevo dedicare la settimana solo alla mia amata palla a spicchi. Poi a largo Passamonti, Vernile e Ciccola, mi spiegarono che l’Atletico non giocava con la Fip, che non è un impegno che mi avrebbe occupato tutti i giorni della settimana, e così sono andato a fare il mio primo allenamento. Lì ho conosciuto Emiliano, compagno di Communia cui è nata un’amicizia lunga e duratura, così come con Scaramuzzi, Dulcetti, Tridico, Forino, El-j, il mitico coach Sergio Ianniello che mi ha accolto benissimo. Non chiamavo una persona coach da troppo tempo. È partito l’amore. Ho capito che c’era un forte scarto rispetto a tutte le società che avevo conosciuto, l’impegno sociale, l’attaccamento al quartiere con i suoi pochi e indispensabili spazi, l’autofinanziamento. Ero abituato ad essere il playmaker tuttofare dell’Avetrana, poi la guardia/ala del Vis Nova… mi sono sempre sentito ‘’preso’’ dalle società in cui ho giocato, (nonostante Avetrana fosse casa mia), con il San Lorenzo, da subito, mi son sentito parte della società. E poco importa se giochi o tifi, è uguale. L’assenza dei padroni, è questo che mi ha fatto allacciare nuovamente le scarpette n. 48 questa volta per il rossoblu. Se manca il padrone, non si può fallire, se la società siamo tutti e tutte noi non potrò cadere mai più. Nessun* potrà cadere se tutto si regge sulle nostre spalle. Quando le società si affidano ad una persona sola, o ad un grosso sponsor che cadono come foglie d’autunno a seconda di come soffia il vento del mercato.

Quale partita in canotta rossoblu ti è rimasta maggiormente impressa? Quali i successi che ricordi con maggiore piacere? Quale/i sfida/e rigiocheresti per ribaltare il risultato maturato allora?

La partita che più mi è rimasta in testa fu quella contro Sermoneta: squadra fortissima, all’andata avevamo vinto contro ogni pronostico, al ritorno ci ritroviamo in un palazzetto gremito di gente, la partita va nel verso sbagliato da principio, Dulcetti aveva sofferto la guida isterica di Moncelsi, io ero gasatissimo, era la prima trasferta "lunga" che facevo (un passeggiata rispetto alle trasfertone cui ero abituato in Puglia: due ore solo per arrivare a Bari, quattro per raggiungere Foggia). Viaggio d’andata pompiamo i Nofx a tutto volume. Arriviamo, Dulcetti vomita negli spogliatoi, sotto di 20 al primo quarto. Mancanza d’allenamento, quasi un’ora e mezzo di macchina eravamo crollati con il fiato e con l’umore. Rischio una crisi iperventilatoria, chiedo a Sergio di uscire. La folla inizia ad insultarci, loro vogliono raggiungere quota cento punti - erano a 92 - noi disperatamente arrancavamo sui 49 a meno 2’’ dalla fine. Nonostante l’incredibile superiorità cestistica, gli avversari non esitano ad attaccare sempre di più, giocando anche decisamente sporco, io adoro giocare duro e provo piacere nel contatto fisico, però ricevere un’umiliazione proprio non mi piace. Così come non mi piace umiliare gli avversari, si gioca al massimo fino alla fine, ma a pochi secondi se sono in netto vantaggio mi fermo e inizio a salutare gli avversari (a meno che non è decisiva la differenza canestri). Chiamiamo time-out, rientriamo con Sergio che provava ad incattivirci, dicendoci che non importa il punteggio, non possiamo farci menare senza rispondere (il basket in fondo è anche supremazia fisica), così negli ultimi minuti ce le suoniamo di santa ragione, uno spettacolo raccapricciante, il loro pubblico completamente antisportivo, ci ha ricordato quanto fossimo diversi da quella realtà, noi non insultiamo i nostri avversari, non lo faremo mai. Entra El-j commette fallo a pochi secondi dalla fine. Il pubblico inizia ad insultarlo con frasi razziste: <> e ancora : << Sei una bestia>>. Non abbiamo più resistito, dopo un paio di lanci di oggetti dalla tribuna il tutto finisce con una rissa apocalittica, il pubblico ci aggredisce, l’arbitro aveva fischiato tre volte, El-j riceve qualche schiaffo, spintoni, Vernile sugli spalti accerchiato dai genitori della squadra di casa, ho temuto il peggio per lui. Insulti e schiaffi mentre le loro giovanili guardavano questo spettacolo medioevale. Ci chiudiamo nello spogliato, arrivano 3 volanti della polizia, ci scortano fino a Latina. Avevo una tachicardia esagerata. Di risse sportive ne ho fatte e viste tante in Puglia, ma mai scaturite per razzismo. Avevo e ho tuttora l’amaro in bocca per quello che è successo.

La stagione in corso si è purtroppo arrestata assai prima rispetto al naturale epilogo del campionato: rispetto alle premesse di inizio anno come giudichi il campionato fatto dalla tua squadra?

Mi sono sentito emotivamente più coinvolto del solito, dopo 5 anni quest’anno ho svolto il ruolo di capitano, spetterà ad altri giudicare come me la sono cavata in questi panni, sinceramente ho dato quasi il massimo, visto che da ormai tre anni convivo con delle ginocchia anarchiche e il dare il massimo nel mio caso, va a braccetto con il 118. Com’è andato per me questo campionato? Ho scoperto che quando hai un campo tutto tuo hai una marcia in più, giocare nel quartiere ti dà due marce in più, essere allenati dal nuovo coach, il giovanissimo Matteo Magara a cui vanno tutti i miei più sentiti complimenti, ti dà tre marce in più. Nonostante tutto abbiamo dimostrato mentalità, spirito di squadra e di sacrificio, la squadra si è comportata benissimo in campo, ma soprattutto fuori, abbiamo stretto forti legami con altre squadre popolari di Roma: AllReds, Lokomotiv Prenestino e Atletico Diritti. Questi ultimo sono stati allenati da un mio carissimo compagno di squadra a Manduria, Alessandro Dinoi detto "gnomo". Per me quest’anno la vittoria ce la saremmo conquistata o l’avremmo gloriosamente sfiorata. Va attribuita buona parte al lavoro di coach Magara, e Davide Pizzardi, abbiamo vinto su tutto, ci siamo mossi come fossimo un unico organismo, ognuno ha dato la sua parte indispensabile. Il nuovo dirigente Fabio Francavilla ha portato ossigeno purissimo nel gruppo. Un ringraziamento speciale va al nostro atleta che non ha mai giocato, ma senza di lui non avremmo vinto una partita: Riccardo Landi, refertista e cronometrista ufficiale. Il tifo, il tifo a San Lorenzo è il nostro sesto uomo in campo, quest’anno l’Atletico si è superato, dentro le mura aureliane quest’anno è sorta una fortezza e sarà così per sempre sperando di ritornare presto a difendere il campo rossoblu. Nonostante quest’anno mi abbia regalato un totale di tre viaggi al pronto soccorso, un sopracciglio spaccato, un’operazione al ginocchio, il tutto per un totale di 29 punti di sutura, è stato un anno stupendo. Vorrei ringraziare tutti davvero e spero di rivederli tutti il prima possibile. Per me è da taglio di retina, voglio vederla così.

Il progetto "Una scuola atletica" ti ha visto protagonista nel portare l'Atletico e il basket all'interno delle scuole del quartiere. Come hai vissuto quest'esperienza? Che bilancio ne trai?

"Una scuola atletica" è un progetto scolastico che portiamo avanti da ormai tre anni nelle scuole del quartiere. La necessità di lavorare nella scuola nasce dalla consapevolezza che il miglior modo per approcciare i/le bambini/e allo sport è il sistema scolastico. Molto spesso lo sport non è trattato come dovrebbe essere, è palese a tutti/e come l’educazione fisica sia la pecora nera della scuola italiana. Come Atletico abbiamo cercato di riempire un buco provando a dare una possibilità ai/alle bambini/e e aiutando le docenti a cui il sistema chiede davvero troppo dispensando stipendi miseri. Sperando di riuscire a migliorare il progetto per l’anno prossimo: pandemia permettendo, vorremo provare a fare un discorso un po' più specifico su che significa diritto allo sport, e quanto sia fondamentale garantirlo su tutti i suoi livelli, specialmente nella scuola pubblica. Ringrazio tantissimo Enrico Weber per aver sostenuto il progetto, Giacomo Guerra e Alex Mane per averci aiutato quando non trovavamo le forze.

In questi mesi di attività sportiva assai limitata, se non del tutto assente, hai ritenuto leso il diritto allo sport per tutte e tutti? Ritieni che potesse essere adottata una maggiore elasticità per permettere l'esercizio dell'attività fisica?

La pandemia è una faccenda seria, complessa e va affrontata analizzando le specificità del caso. Il covid-19 ha un tasso di contagio elevatissimo. Ritengo saggia la chiusura delle attività sportive e dei campionati, il diritto allo sport è stato leso così come tanti altri diritti fondamentali. L’essermi privato di tre mesi di sport tuttavia mi fa riflettere su quanto lo sport è un diritto negato per tante persone, soprattutto prima della pandemia. Parchi a chiusura oraria, costi elevatissimi, orari di lavoro che non ti lasciano tempo libero, scuola con strutture assenti o educazione fisica inadeguata, sessismo e razzismo istituzionalizzato. Non è che prima si stava bene… Credo che a breve si potrà riaprire, in sicurezza. Temo fortemente una deriva ultra-restrittiva per determinate attività così come tendenze "iperigienizzanti" totalmente inutili. Se si può riprendere a giocare devo poterlo fare solo pagando una struttura o una società, mentre ho il divieto di andare al parco o al mare? Spero di no. Così come non può neanche essere che gioca solo chi si può permettere tutte le procedure di sicurezza… leggevo le procedure Fip e le trovo esagerate. Per permettere di fare basket ad un gruppo di ragazzi la società dovrebbe spendere tantissimi soldi in controlli e attrezzature specifiche (per esempio il pulisci scarpe?!). Spero sia lo Stato a garantire queste misure di sicurezza, perché in caso contrario vedo non solo il rischio di un possibile aumento della curva dei contagi, ma anche l’estinzione di numerosissime società sportive. Sulla limitazione personale dell’attività fisica, credo che quest’esperienza abbia fatto capire, che sport non è solo nel fisico allenato ma nell’esigenza di stare insieme. Ci sono delle modalità sicure per svolgere attività di squadra a distanza per esempio nei parchi. Dovremmo avere più parchi, questa è un’ovvietà che il coronavirus ha palesato a tutt*. L’idea che i campionati riprendano a giocare a porte chiuse, senza pubblico mi innervosisce, per me non può esistere sport senza tifoseria. O almeno non per sempre, tre mesi possono pure passare, non può passare però che l’evento sportivo sia di proprietà esclusiva delle pay-tv.

Al momento non abbiamo certezze sulla ripresa della prossima stagione: in attesa che si riabbia la possibilità di fare attività fisica agonistica, cosa ti auguri? Come vorresti fosse lo sport dopo la pandemia?

Per il futuro mi auguro che tutt* si siano resi conto dell’importanza dello sport e della socialità, mi auguro che vengano ridotti se non azzerati i costi, che venga praticato un altro genere di sport libero dal razzismo dal sessismo e dall’omo-transfobia. Mi auguro che lo sport torni di dominio pubblico, che i/le giovani si riprendano il diritto di giocare a palla in piazza. Mi auguro arrivi al più presto il prossimo campionato per poter nuovamente sputare sangue sul campo insieme ai miei compagni indossando la maglia 13(12) rossoblu, ma in fondo mi andrebbero benissimo anche sciarpa, gradoni e peroni.

Roma, 27 giugno 2020, Andrea Dorno intervistato da atleticosanlorenzo.it

Giornata delle vittime del Covid, nessun ricordo per il sindaco di Avetrana. La Voce di Manduria venerdì 18 marzo 2022.

Non sappiamo quanti come noi hanno aspettato sino a sera per vedere quello che non c’è stato. Nessun sindaco del territorio, nemmeno quello del suo paese, Avetrana, ha ricordato il sindaco Antonio Minò nella giornata in cui in tutta Italia si commemorano le vittime del Covid. Nessun comunicato ufficiale e nemmeno un post sui social per ricordare l’amministratore avetranese morto per Covid il 17 settembre del 2021. Nessun ricordo specifico, da parte dei primi cittadini di questo versante della provincia, neanche per le vittime dei rispettivi comuni che pure ci sono stati, e tanti. 

L’unico a ricordarsi pubblicamente dell’unico sindaco di questo territorio morto per il coronavirus, è stato l’ex vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia, con un post pubblicato sul suo profilo di Facebook dove si legge: «Oggi si celebra la giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid19. Un pensiero speciale alle nostre vittime, a quelle di Avetrana. E, permettetemi, senza voler discriminare alcuno, il mio pensiero fisso è rivolto a lui, il nostro sindaco Antonio Minò».

Ancora più imbarazzante la dimenticanza dell’attuale sindaco e degli amministratori del comune di Avetrana, alcuni dei quali, e tra questi il sindaco Antonio Iazzi, si sono limitati a mettere il like sotto al post di Scarciglia pubblicato questa mattina quando tutti, a ben pensarci, avrebbero avuto il tempo di riparare all’incidente.

Minò aveva 62 anni, era sindaco di Avetrana e infermiere in aspettativa. Morì nell’ospedale di San Giovanni Rotondo dove era stato trasferito dalla rianimazione di Manduria. Aveva contratto il coronavirus ad aprile 2021 e da allora non aveva mai lasciato l’ospedale. Prima ricoverato in medicina al Giannuzzi e da lì trasferito nella rianimazione Covid. Le complicanze cardiache e respiratorie avevano debilitato fortemente il suo fisico. Si preparava per la sua seconda candidatura a sindaco per il centrodestra di Avetrana. Ha lasciato la moglie e due figlie.

La redazione del nostro giornale lo ricorda ancora oggi con profonda tristezza. Nazareno Dinoi

STORIE DAL TARANTINO. I Nimby retrogradi. Avetrana, oggi come ieri dice «no» al nucleare. Negli anni '80 si oppose alla costruzione di una centrale: un movimento di protesta dal basso che coinvolse oltre 50mila persone. Maristella Massari su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Febbraio 2022.

Nel 1982, mentre l’Italia diventava campione del mondo di calcio, Avetrana, piccolo comune a vocazione agricola all’estrema periferia orientale della provincia di Taranto vinceva la madre di tutte le battaglie ambientaliste. Con un movimento di protesta dal basso, i cittadini di questo remoto borgo di poco più di seimila anime, quarant’anni fa presero in mano il proprio destino e si opposero al nucleare. L’onda della contestazione partita da sud-est, diventò tempesta travolgendo Roma e, dopo il caso Chernobyl del 1986, si fece tsunami. L’anno successivo, 1987, il referendum sul nucleare fu bocciato senza ombra di dubbio. Circa l’80 per cento degli italiani scelse di respingere l’ipotesi di impiantare in Italia le centrali, nonostante quelli (dopo la guerra del Kippur e la grave crisi petrolifera), fossero anni di grande sofferenza sul fronte della produzione energetica.

«Meglio attivi oggi che radioattivi domani» era uno dei motti più felici coniati ad Avetrana. Alla prima grande manifestazione ambientalista presero parte più di 50mila persone. Furono stipate sul basolato di piazza Vittorio Veneto. Una folla incontenibile giunta da ogni parte d’Italia per la quale fu necessario aprire anche la seconda e più capiente piazza Giovanni XXIII. Le due piazze oggi sono rimaste quasi immutate.

«Quel giorno di marzo - racconta alla Gazzetta Celestino Scarciglia, uno dei padri fondatori del Comitato contro il nucleare -, la giornata era un po’ come oggi: umida e fredda. Ma noi quel freddo non riuscivamo a percepirlo. Se in quella piazza fosse caduto uno spillo, non sarebbe mai arrivato a terra per quanta gente c’era».

Scarciglia, funzionario e poi direttore di banca, all’epoca era il segretario cittadino della Democrazia Cristiana. Aveva seguito suo padre Luigi, conosciuto come Gino in paese. Negli anni ‘80 il Piano energetico nazionale aveva previsto la costruzione di centrali nucleari per far fronte al fabbisogno di energia del paese. L’ipotesi studiata a Roma aveva trovato il favore e l’accoglienza del governo regionale, guidato dal democristiano Nicola Quarta. La centrale nucleare avrebbe dovuto vedere la luce al confine dei territori di Avetrana a e Manduria. Un altro possibile sito era quello di Carovigno, nel Brindisino. Gli impianti, costruiti vicino al mare, avrebbero dovuto da questo prelevare le acque per il raffreddamento. Tutto questo era inaccettabile per un manipolo di illuminati consiglieri comunali di Avetrana. Nel luglio del 1981 Antonio Nigro, Fernando Schiavoni e Chicco Marasco, con il nostro Celestino Scarciglia, presentarono in Consiglio una risoluzione che impegnava la stessa assise a votare su ogni decisione che riguardasse l’ipotesi centrale nucleare.

«Eravamo in pochi a conoscere i pericoli di questa nuova tecnologia. E poi all’epoca l’impianto significava grossi investimenti, lavoro, ristori. Questo incontrava il favore di più di qualcuno». Celestino Scarciglia non si lascia incantare dalle sirene del progresso e va avanti nella battaglia. Ci scriverà anche un libro. «Il 7 dicembre del 1981 alla notizia che il presidente della Regione Quarta aveva dato la disponibilità del sito, costituimmo ufficialmente il Comitato. Scendemmo subito in piazza, raccogliemmo più di 2000 firme e cominciammo a informare la popolazione del rischio che stavamo correndo. Dalla nostra avevamo anche gli scienziati: i professori universitari Giorgio Nebbia, Gianni Mattioli e Massimo Scalìa. Cercammo di coinvolgere anche il Partito Comunista, ma in un primo momento le segreterie locali erano restie a respingere l’ipotesi del nucleare. Poi, quando il popolo scese nelle piazze, cambiò tutto anche per loro». Il 6 gennaio del 1982, Celestino Scarciglia, novello Davide, sfidò platealmente il gigante Golia. «Quel giorno mi recai in sezione e strappai la tessera della Democrazia Cristiana. Poi togliemmo le insegne del partito. Contro l’imposizione dall’alto di questa decisione che ci cadeva sulla testa, facemmo resistenza attiva e passiva. Fummo ricevuti dappertutto, anche al Quirinale da Pertini. La gente per aiutarci in questa battaglia si autotassava. Quando arrivarono le trivelle per i carotaggi la popolazione organizzò i turni di bivacco per impedire ai mezzi di scavare la nostra terra. Furono proclamati 3 giorni di sciopero generale anche a Manduria, Maruggio, Porto Cesareo, Carovigno. La Regione Puglia fu inchiodata dalla volontà popolare a rivedere la sua decisione».

Una battaglia civile che sa di epico e che ancora oggi, a quarant’anni di distanza, è impressa nella memoria di chi, all’epoca, era poco più che bambino. Antonio Iazzi, 52 anni, docente universitario, da settembre è il primo cittadino di Avetrana. È l’«homo novus» della politica locale, eletto con una civica che, per usare un gergo da anni ‘80, è da larghe intese. «Il tentativo di occupazione dell’Ucraina, l’assedio di Chernobyl (proprio lei), le ripercussioni sui consumi di energia, già alle prese con costi divenuti ormai insostenibili, sono temi che oggi si intrecciano e negli abitanti di Avetrana rievocano - dice alla Gazzetta -, il ricordo della lotta contro il nucleare. Una lotta, quella contro l’insediamento della centrale nel territorio di Avetrana, che vedeva insieme popolazione e scienziati, tutti a far fronte comune contro un progetto dai consistenti interessi, ma dalla oscura sicurezza; tutti uniti per far rilevare la portata delle energie alternative. Quelle che oggi, con le moderne tecnologie, rappresentano un grande strumento dell’evoluzione verso la “transizione tecnologica”.

Sono trascorsi appunto quaranta anni dalle prime proteste che coinvolsero migliaia e migliaia di cittadini provenienti dai comuni anche di Manduria, Sava, Maruggio e da quelli delle vicine province di Lecce e Brindisi. E fu proprio il disastro del 26 aprile 1986 - prosegue il sindaco Iazzi -, che coinvolse la centrale nucleare di Chernobyl, oggi sotto assedio russo, con molta probabilità, a rafforzare il sano sentimento osteggiante delle popolazioni pugliesi ed italiane contro quell’impianto che probabilmente avrebbe dato sollievo economico, ma che certamente avrebbe compromesso il futuro di una comunità che, di lì a poco, avrebbe visto nel turismo una grande fonte di sviluppo economico». «Oggi per fortuna stiamo assistendo ad un profondo cambiamento finalizzato alla transizione verde, ecologica e inclusiva del Paese, grazie allo sviluppo dell’economia circolare, delle fonti di energia rinnovabile e di conseguenza un’agricoltura più sostenibile. L’auspicio è che con le risorse disponibili nel Pnrr, Avetrana possa continuare la sua lotta contro le potenzialità di inquinamento e diventare un esempio come lo fu in quei giorni indimenticabili» 

Quell'urlo di Avetrana contro il nucleare. Era il giorno della Befana del 1982 quando nel piccolo centro di Avetrana, ultimo bastione dell’agro tarantino (ma di antica appartenenza salentina), si svolse la prima grande manifestazione contro il nucleare. Omar Di Monopoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Febbraio 2022.

Tempi cupi. Di un buio difficile da stenebrare. Mentre il ciclico manifestarsi della crisi energetica torna a squassare i mercati, contrapposizioni belliche che credevamo archiviate si sono riproposte trovando corpo e alimento proprio nel dominio di quelle materie prime cui siamo irrimediabilmente diventati dipendenti.

Oggi che l’idea di una transizione ecologica risolutiva - a lungo caldeggiata nei corridoi della politica - pare destinata a rimanere una chimera, ci piace ricordare l’importante contributo che il Mezzogiorno seppe dare alla discussione con uno scatto d’onore e d’orgoglio che proprio in queste settimane rintocca il suo quarantennale.

Era il giorno della Befana del 1982 quando nel piccolo centro di Avetrana, ultimo bastione dell’agro tarantino (ma di antica appartenenza salentina), si svolse la prima grande manifestazione contro il nucleare.

In quegli anni, infatti, il piano energetico nazionale concordò la costruzione di due nuove fonti di alimentazione nella nostra regione: a Brindisi una mega centrale a carbone e, a ridosso del territorio di Avetrana, una centrale nucleare.

Contro l’ultima delle due ipotesi le forze politiche che amministravano la cittadina e i movimenti ambientalisti dell’intera provincia insorsero, compattandosi.

Avetrana era allora una città priva di difese: nessun rappresentante di rilievo in Parlamento e peso equivalente a zero sul nascente circuito virtuoso del turismo: un villaggio ai piedi di Cristo di cui poco o punto si sapeva e che sembrava perciò calzare perfettamente, complice l’ubicazione a due passi dallo Ionio in cui le acque di raffreddamento del reattore potevano essere sversate, alla rapida costruzione di un impianto tecnologico che avrebbe attenuato il carico del caro-bolletta sul portafogli nazionale creando però, di fatto, nuovi e irrisolvibili (per la tecnologia dell’epoca) problemi in termini di stoccaggio delle scorie.

Oggi la questione è ancora dibattuta (l’eliminazione degli scarti radioattivi resta faccenda di difficilissima gestione, anche per le centrali di quarta generazione) e certo aver rifiutato quel tipo di opportunità ci ha esposto a debolezze di cui oggi l’intera penisola paga il fio, ma chiunque sia cresciuto in questa parte di Sud non può non ricordare il forte senso di comunanza che si respirava in quei giorni: fu una stagione di lotta di cui persino chi era solo un bimbo, come chi scrive, percepiva la forza.

Piazze e contrade di tutto il Meridione, irraggiandosi della spinta propulsiva degli avetranesi, si contaminarono di una fratellanza che oggi guardiamo con nostalgia. Aspettando che il suo caldo abbraccio torni a sostenerci per il futuro.

Avetrana e il tradimento di Cria: la leggenda. Ilaria Scremin il 10 Febbraio 2022 su laterradipuglia.it. 

Regaliamoci oggi una pagina dedicata ad una leggenda pugliese e conosciamo meglio l’enigmatica figura di Cria il traditore, che ha lasciato il segno nella storia della cittadina di Avetrana così come in quella della vicina San Pancrazio. 

Chi era Cria il traditore, quando e dove ha vissuto

La leggenda di Cria il traditore affonda le sue origini nel Salento nel periodo storico in cui, come ben sapete, i Turchi si accanivano con ripetuti attacchi verso le coste della penisola, con l’obiettivo di prenderne il possesso. Attacchi che provenivano via mare, e che nel 1480 trovarono finalmente compimento lasciandoci una delle pagine della storia del Salento tra le più sofferte e sanguinose: ci riferiamo naturalmente all’assedio di Otranto, che durò circa un mese (dal 28 luglio al 14 agosto 1480) e portò alla presa della città.

Dopo l’assedio di Otranto, i Turchi cominciarono a prendere possesso dell’intera penisola salentina, spostandosi via terra ma anche organizzando altri attacchi via mare. In quel periodo viveva in quel di Avetrana il giovane Cria. Era un giovane docile e romantico, fortemente innamorato della sua amata, con la quale aveva in programma di convolare a nozze. Un giovane che mai avrebbe fatto male ad una mosca, e che amava trascorrere il suo tempo tra lavoro e famiglia.

Tutto ebbe inizio con una delusione d’amore

Un bel giorno, però, giunse all’orecchio di Cria che la sua amata lo tradiva con un altro, e si prendeva anche gioco di lui, della sua bontà d’animo e della sua ingenuità. La delusione fu cocente, a tal punto che Cria cambiò dal giorno alla notte. Divenne un uomo cattivo e crudele, assetato di vendetta e dal cuore ricolmo d’odio e livore. Questi sentimenti svilupparono in Cria un odio profondo persino verso la sua terra natìa.

Decise dunque di imbarcarsi e partire per altri lidi. Per un po’ di lui non si seppe più nulla, e la vita al paese proseguì come sempre. Ma una notte, pochi anni dopo l’assedio di Otranto, nel 1547, 5 enormi galeoni turchi si avvicinarono alla costa puntando proprio verso Avetrana. Alla guida dei soldati ottomani, vi era proprio Cria, assetato di vendetta e di sangue.

Cria il traditore risparmia Avetrana all’ultimo momento

Quando le galee giunsero a ridosso della costa, Cria udì i suoni, i canti, le risate e i rumori che aveva sepolto a forza nella memoria per lunghi anni. E ricordò i bei tempi andati, la famiglia, gli amici, il canto dei contadini del Salento al lavoro, il profumo del pane appena sfornato. Poteva davvero fargli tutto questo male? E fu così che, con un pretesto, cambiò la rotta, e condusse i saraceni verso San Pancrazio, risparmiando Avetrana.

Come finì la storia di Cria il traditore

Se vi immaginavate un lieto fine romantico per questa storia, purtroppo siete fuori strada. Cria il traditore, fece una fine poco piacevole. Giunto a San Pancrazio, fu trucidato a morte con frecce e pietre. All’interno della chiesa di Sant’Antonio proprio a San Pancrazio Salentino potete visionare ancora oggi un affresco che mostra l’attacco turco così come la morte di Cria il Traditore.

Pubblicato il libro di Mirko Giangrande '1 Gennaio 1547 – La leggenda di Cria'. Manduria Oggi il 29/08/2020.

Avetrana - Cultura Ogni agosto ad Avetrana, nell’Alto Salento, si svolge la “Giostra dei Rioni”, in onore a quella originaria bandita nel lontano 1547 dalla famiglia Baronale dei Pagano, Signori del Casale della Vetrana, per ringraziare l’Onnipotente per lo scampato pericolo dell’invasione turca. "1 Gennaio 1547 - La leggenda di Cria", narra gli eventi accaduti nel Capodanno del 1547. Una spedizione di corsari ottomani sbarcò nei pressi della Columena, diretti ai villaggi della Vetrana. Cria, un soldato turco ma di origini veterane, colpito da nostalgia e sensi di colpa, dirottò la spedizione al vicino villaggio di San Pancrazio Salentino. Ma la storia non fu per Cria a lieto fine... Nell’introduzione, il personalissimo inno all’amore per la propria terra da parte dell’autore: “Ad Avetrana, figlia del Salento, Terra dove le mie radici Salde si ancorano. Culla di mille ricordi, lacrime e sudore. Altro non vedo che viti e ulivi e un mare sconfinato.

SOLITA BRINDISI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Succede a Brindisi.

Omicidio Giannini, arrestato un uomo in Inghilterra. Da quotidianodipuglia.it Mercoledì 22 Giugno 2022.  

Questo pomeriggio la polizia dello Yorkshire meridionale ha comunicato di aver arrestato un giovane di 27 anni con l’accusa di omicidio. È il terzo arresto che i poliziotti inglesi effettuano sul caso di Carlo Giannini. In particolare gli investigatori hanno dichiarato: "Gli investigatori che indagano sulla morte di Carlo Giannini hanno arrestato oggi, mercoledì 22 giugno, un uomo di 27 anni con l'accusa di omicidio. Il signor Giannini è stato trovato morto a Manor Fields Park alle 5 del mattino di giovedì 12 maggio. Un'autopsia ha poi concluso che è morto per una coltellata. Questo è il terzo arresto dell'inchiesta". Nelle scorse settimane altre due persone, un 17enne e un 18enne, sono stati arrestati e poi rilasciati su cauzione.

Il caso

Dunque, gli investigatori inglesi stanno completando il puzzle dell’omicidio del mesagnese Carlo Giannini. Il pizzaiolo mesagnese è stato ucciso in Inghilterra nella notte a cavallo tra l’11 e il 12 maggio scorsi, nel parco di Manor Fields, a Sheffield. Nelle ore successive l’omicidio la polizia di Sheffield ha arrestato un ragazzo di 17 anni e uno di 18, rilasciati dopo alcune ore a seguito del pagamento della cauzione. Giannini era ritornato a lavorare nel Regno Unito dopo una parentesi tedesca. Infatti, con il fratello Stefano e la cognata Valentina avevano avviato una pizzeria in Germania, nel cuore della Foresta nera. Poi Carlo aveva deciso di fare ritorno in Inghilterra. Ed è qui che, probabilmente, va cercato il movente della sua morte. La pista principale potrebbe essere quella di un’aggressione con rapina, avvenuta nella notte all’interno del parco. In pratica Carlo si sarebbe trovato nel luogo sbagliato all’ora sbagliata. Per dare nuova linfa alle indagini i detective inglesi hanno ripostato sui social un invito rivolto a coloro che nelle ore in cui è maturato l’omicidio del Giannini si trovavano nel parco e potrebbero essere stati testimoni oculari dello stesso. Il caso Giannini è seguito costantemente dai funzionari della Farnesina che sono in contatto con l’ambasciata italiana di Londra e il consolato di Sheffield. Il 9 giugno scorso si sono svolti a Mesagne le esequie del giovane chef. Sulla bara un mazzo di rose bianche, simbolo della purezza, intrecciate con rami di olivo, che simboleggiano la pace, e spighe di grano a simboleggiare la rinascita. Poi sul feretro è stata posata la foto di Carlo e la sua casacca da chef.

A GIUGNO IL PROCESSO. Brindisi, corruzione in Tribunale: Galiano rinviato a giudizio. Lo ha deciso il gup di Potenza. Assieme al giudice saranno giudicate altre 19 persone. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Aprile 2022.

Il giudice civile del Tribunale di Brindisi, Gianmarco Galiano, è stato rinviato a giudizio dal gup del Tribunale di Potenza con l’accusa, contestata a vario titolo, di aver preso parte ad un’associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, riciclaggio, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio e auto riciclaggio. Assieme a lui saranno giudicate altre 19 persone: 17 sono state rinviate a giudizio, altre tre invece saranno giudicate con il rito abbreviato. La prima udienza del processo si terrà il 27 giugno 2022. Galiano, che non si è mai dimesso dalla magistratura ed ha sempre professato la sua innocenza, fu arrestato il 28 gennaio 2021 assieme ad altre cinque persone che nel corso del tempo sono tornate in libertà anche se, per alcune di loro, sono state disposte prescrizioni.

Secondo quanto emerso dalle indagini della Guardia di finanza di Brindisi, coordinati dal procuratore di Potenza Francesco Curcio e dal sostituto Sarah Masecchia, il giudice Galiano avrebbe ricevuto per sè parte dei risarcimenti del danno concessi dalle assicurazioni in due cause civili: una del 2007, che si era occupata della morte di una ragazza di 23 anni, e un giudizio su bambino nato con traumi permanenti per colpa medica. Nel primo caso 300.000 euro sarebbero stati messi nella disponibilità del giudice attraverso il conto intestato alla suocera. Nel secondo, l'importo ricevuto ammonterebbe a 150.000 euro. Le indagini si sono anche concentrate su un giro di sponsorizzazioni ruotate attorno ad alcune imprese sportive della barca di Galiano e a un consistente numero di consulenze concesse a professionisti ritenuti amici, nell’ambito dell’attività della sezione fallimentare del Tribunale di Brindisi.

Quel pm che sfida i colleghi e continua a cercare il “marcio” nel porto di Brindisi. Assoluzioni, rigetti, ma ora c’è una nuova inchiesta sul presidente dell’authority e imprese. Parliamo del porto di Brindisi.  Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 28 aprile 2022.

L’ampliamento del porto di Brindisi, pur a fronte di diverse sentenze di assoluzione, continua a essere nel mirino della Procura. Tutto nasce nel 2010, quando vengono iscritti nel registro degli indagati gli allora vertici dell’Autorità portuale di Brindisi, dell’ufficio Urbanistica del Comune e della ditta incaricata della realizzazione delle infrastrutture. Secondo i pm vi sarebbero violazioni del piano regolatore portuale, mediante una diversa destinazione d’uso delle opere: traffico passeggeri invece che traffico merci con finalità commerciale e industriale. Le indagini vengono condotte dalla Guardia di finanza.

Il procedimento si trascina per diversi anni, fino al 2016, quando il gup decide di dichiarare per tutti gli imputati, anche con la richiesta del pm, il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste. Secondo il giudice non ci sarebbe stata alcuna lottizzazione abusiva in quanto il piano regolatore portuale era solo uno strumento di programmazione opera. Sul punto si esprime in maniera conforme anche il Consiglio di Stato. Nel frattempo, alla Procura di Brindisi arriva il pm Raffaele Casto, che decide di riprendere in mano il fascicolo, e presenta una richiesta di revoca della sentenza di assoluzione. Richiesta che viene pero stroncata dal gip Valerio Fracassi, ex componente del Consiglio superiore della magistratura: «Il pm chiede una inammissibile rivalutazione della decisione precedente adottata su conforme conclusione del pm che non ha impugnato la sentenza», esordisce Fracassi, sottolineando subito le «aggettivazioni alquanto eccentriche» utilizzate da Casto nel proprio atto.

Le nuove prove di Casto sarebbero costituite dalla solita annotazione della Guardia di finanza del 2013 e dalla consulenza tecnica di parte civile, non avendo il pm dell’epoca provveduto in tal senso. Inoltre ci sarebbero nuove “testimonianze”, come quella del provveditore alle Opere pubbliche che, sentito da Casto, dichiara: «Non conosco nei dettagli il piano regolare portuale di Brindisi», limitandosi, come sottolinea Fracassi, «ad affermare, sollecitato dal pm, che la tesi giusta è quella sostenuta dall’accusa». Successivamente, Casto stigmatizza la pronuncia del giudice amministrativo sul punto. «Sfugge la rilevanza della questione», replica Fracassi. «Ciascuno può rimanere della propria opinione, ma chi svolge una funzione di accertamento della verità non può che attenersi alle regole che ne governano la ricerca nel nostro sistema penale. La conformità degli strumenti urbanistici è stabilita dal giudice amministrativo. L’esistenza del reato da quello penale. E di fronte ad una decisione non impugnata, non resta che prenderne atto. Il sistema processuale prevede la revisione della sentenza di condanna e non quella di assoluzione o proscioglimento», conclude Fracassi. Con una motivazione del genere, da incorniciare nei manuali di diritto, chiunque si sarebbe, come si usa dire, messo l’anima in pace. Casto, invece, non molla e presenta ricorso in Cassazione contro il provvedimento di Fracassi. E anche a piazza Cavour la stroncatura è totale, con lo stesso procuratore generale favorevole all’inammissibilità.

Chiusa questa parentesi, sul porto di Brindisi si è abbattuta in questi mesi una nuova inchiesta, sempre per un presunto abuso edilizio. Nel mirino di Casto, questa volta, il nuovo presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mar Adriatico meridionale, Ugo Patroni Griffi, e altri cinque indagati. Tra questi l’ex commissario dell’Autorità portuale, Mario Valente, già comandante della Capitaneria di porto di Brindisi, il dirigente dell’Authority Francesco Di Leverano, il direttore dei lavori Cristian Casilli e gli imprenditori Devis Rizzo e Francesco Caroli. I reati contestati sono sempre gli stessi: interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia in assenza di accertamento di conformità, in assenza di autorizzazione, e lottizzazione abusiva.

«Insomma a Brindisi – ha ricordato Patroni Griffi – non si vuole che il porto si infrastrutturi. Mi contestano un abuso edilizio per un’opera i cui lavori non solo erano ripresi prima del mio insediamento, ma sulla cui legittimità si sono stratificate due sentenze del Tribunale di Brindisi, di cui una passata in giudicato, e il parere di numerose commissioni tecniche e finanche provvedimenti del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Non posso non rilevare che tra le motivazioni per la proroga delle indagini sia addotta la non condivisione della recente sentenza del Consiglio di Stato, dacché, sulla scorta della convinzione espressa dall’avvocato del Comune, parte soccombente, la sentenza passata in giudicato sarebbe erronea. Quando pensi di averle viste davvero tutte…», conclude sconsolato Patroni Griffi, esprimendo «enorme sorpresa per il fatto che il Ctu sia la stessa persona per cui promossi un giudizio di responsabilità, credo chiedendo circa 8 milioni di euro di danni: è legittimo che renda una consulenza tecnica d’ufficio – si chiede Patroni Griffi – in un processo in cui io sono indagato? La risposta da professore di diritto è ovvia. Probabilmente si applica un codice che non conosco». L’indagine non ha comunque influenzato il governo, che ha recentemente rinnovato l’incarico a Patroni Griffi.

 Cisternino in Puglia, tra slow food e merletti. Angela Leucci il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A Cisternino esistono diverse tradizioni degne di nota: in primis la produzione di pizzi e merletti, ma anche il cosiddetto "fornello pronto".

Quando si sente parlare per la prima volta di Cisternino, la prima cosa che viene ascoltata è: le carni qui non hanno pari. E in effetti questa cittadina di poco più di 11.000 abitanti è un luogo simbolo del mangiar bene e del mangiare slow, lentamente assaporando i prodotti a chilometro zero del territorio.

Un centro storico tutto bianco, talvolta accompagnato da pizzi e merletti, una torre normanna sormontata da una statua di San Nicola, una chiesa basiliana: sono solo alcuni elementi dei tanti che si possono conoscere guardando più da vicino. 

E c’è anche una leggenda, un topos nell’agiografia cristiana: il santuario della Madonna d’Ibernia, secondo la vulgata, è stato voluto proprio da Maria, in un luogo nei pressi del centro abitato che richiama una storia antica, con tanti reperti a partire dall’epoca romana.

Senza contare che la zona si può visitare in bicicletta, seguendo la ciclovia dell’acqua, un grande percorso ciclabile che permette di ammirare il paesaggio. 

I merletti di Cisternino 

Come in molte zone della Puglia, anche a Cisternino esiste una lunga tradizione fatta di pizzi e merletti, soprattutto all’uncinetto. Pizzi e merletti presentano texture diverse, che si susseguono su orli che vanno a ornare tovaglie, lenzuola, asciugamani e soprattutto centrini. Che nelle case pugliesi non mancano mai ad arricchire mensole e presentare soprammobili.

Questa tradizione parla di nonne chine su aghi, uncinetti e fili di cotone. Parla della dote della sposa che, seppur abbia perso il valore di un tempo, diventando il cosiddetto “corredo”, resta qualcosa dal grande valore sentimentale (oltre che artistico e quindi economico), che si tramanda di generazione in generazione.

Diverse iniziative nel tempo si sono proposte di valorizzare la tradizione dei pizzi e merletti di Cisternino. Si va dall’istallazione “Rainbow” del designer Bernardo Palazzo che nell’estate del 2020 ha arricchito i cieli di Cisternino con grandi centrini capaci di fare ombra dal caldo sole di giorno e di illuminare con il loro bianco le passeggiate umide della sera. Nel Natale dello stesso anno, il medesimo designer ha realizzato per il borgo una natività, un presepe fatto di centrini tradizionali.

Le carni e la norcineria di Cisternino 

A Cisternino le carni e la norcineria rappresentano la prima e più evidente eccellenza del territorio. Si tratta di specialità gastronomiche che raccontano una storia fatta di accoglienza in un luogo in cui si sono susseguiti popoli, culture e dominazioni molto diverse: dai greci ai romani, dai normanni agli aragonesi fino ai francesi.

Per tutti, autoctoni e forestieri, da sempre a Cisternino ci sono i “fornelli pronti”. Si tratta di un’abitudine culturale cistranese: le macellerie non vendono semplicemente la carne, ma hanno anche a disposizione una brace pronta per la cottura immediata, per la consumazione in loco. Se per Luciano De Crescenzo il caffè era un modo per dire a un amico che gli si vuole bene, qui l’affetto si esprime a colpi di pezzetti di agnello arrosto.

Tra le specialità locali si annoverano in particolare le bombette, che sono involtini di maiale con un ripieno di canestraio e che quindi vanno assaporati caldi, con il formaggio fondente. Non mancano gli involtini di interiora di agnello, che qui prendono il nome di “gnumeredd” e che presentano fegato e cuore farciti con sale, pepe e prezzemolo, avvolti nel budello.

Oltre i trulli e la Valle d’Itria 

Prima di parlare di Puglia, decenni or sono, si preferiva parlare di Puglie. Al plurale, per spiegare qualcosa che gli abitanti della regione conoscono da sempre: la Puglia è un coacervo di luoghi e persone, di comunità molto diverse tra loro dal punto di vista storico, culturale, linguistico.

E Cisternino è una di quelle zone di confine, quasi non più Salento nel senso più ampio del termine, non ancora Barese. Ma il bello di Cisternino è proprio questo, la capacità di fondere le caratteristiche culturali del suo hinterland. Come per esempio i trulli, abitazioni antichissime dai tetti conici e le mura bianche che oggi vengono spesso riconvertite in strutture ricettive.

Ai confini della Valle d’Itria, divisa tra due culture, Cisternino assomma un paesaggio di case di calce, di campi coltivati, di trulli, ampi spazi puliti e romantici.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

SOLITA LECCE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Tarantismo.

Tarantismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Il tarantismo o tarantolismo è una sindrome culturale di tipo isterico riscontrata nel sud Italia, che nella tradizione popolare è collegata ad una patologia che si riteneva essere causata dal morso di ragni (il termine deriva da taranta o tarantola, nomi comuni di Lycosa tarantula, un ragno diffuso in zone mediterranee, che prende a sua volta il nome dalla città di Taranto) o talvolta attribuito ad altri animali comunemente ritenuti velenosi come serpenti o scorpioni. Il termine tarantismo indica propriamente la patologia stessa, che però, in quanto presente solo in quel contesto culturale, è stata considerata una forma di isteria, o un termine indicante manifestazioni idiopatiche di natura sconosciuta. Per estensione, con la parola tarantismo ci si riferisce anche al fenomeno culturale e terapeutico che ne costituisce il contesto presente storicamente anche in Sardegna e in Spagna, portato alla luce da studi approfonditi da parte dell'antropologo culturale Ernesto De Martino negli anni '50 del '900.

Il tarantismo, che si manifestava soprattutto nei mesi estivi (il periodo della mietitura del grano in Puglia), era costituito da sintomi di malessere generale, quali stati di prostrazione, depressione, malinconia, quadri neuropsicologici come catatonia o deliri, dolori addominali, muscolari o affaticamento, e la maggior parte dei soggetti che ne denunciavano i sintomi erano donne. 

Il quadro poteva includere sintomatologie psichiatriche, come turbe emotive e offuscamenti dello stato di coscienza, e poteva includere elementi che in passato sono stati associati alle nozioni di epilessia e isteria.

La "cura" tradizionale è una terapia di tipo musicale coreutico, durante la quale il soggetto viene portato ad uno stato di trance nel corso di sessioni di danza frenetica, dando luogo a un fenomeno che è stato definito un "esorcismo musicale".

I ragni implicati.

Hogna radiata, Lycosidae affine al genere Lycosa.

La tarantola ("Lycosa tarantula"), che la tradizione associava alla malattia, è un ragno di grandi dimensioni il cui morso, benché doloroso, è praticamente innocuo, e il cui veleno non è in grado di causare nessuno degli effetti associati al disturbo. È stato quindi ipotizzato che una causa possibile potesse essere un altro ragno, la malmignatta (Latrodectus tredecimguttatus) o vedova nera mediterranea, un animale di piccole dimensioni il cui morso è quasi indolore ma molto pericoloso, ed è causa della sindrome neurotossica nota come latrodectismo.

Va notato che molte fonti riportano il nome Lycosa tarentula, sebbene il catalogo online di Norman Platnick - che fa fede nella nomenclatura aracnologica - rechi il nome Lycosa tarantula che è quindi quello scientificamente corretto.

Anche l'associazione con la malmignatta è stata comunque ritenuta poco probabile. Se la tarantola è un animale notturno, che vive presso la sabbia o il suolo e assolutamente non aggressivo, il cui incontro con l'uomo è decisamente improbabile, la malmignatta invece potrebbe effettivamente essere presente su vegetazione asciutta come le spighe di grano. Le vittime del morso, però, erano generalmente lavoratori agricoli che operavano senza guanti negli habitat naturali di tali ragni, e il latrodectismo è comunque una sindrome nota, i cui sintomi non includono quelli molto più ampi e vari del tarantismo. De Martino ritenne che il tarantismo fosse una forma della manifestazione patologica che poteva avere radici nel disagio individuale e inscritta interamente nel contesto di efficacia simbolica del sistema culturale.

Quadro generale del fenomeno

Il fenomeno del tarantismo è comunque iscritto in un sistema ideologico complesso e antico, presente sino a pochi decenni fa in diverse regioni dell'Italia meridionale —particolarmente in Puglia e in provincia di Matera— e con radici nell'Antica Grecia, forse estinto nelle sue forme storicamente riportate e comunque non più attestato da molti anni.

In tali contesti l'evento del manifestarsi dei "sintomi" del tarantismo in un soggetto (di frequente giovani nubili donne in età da matrimonio, ed in periodo estivo) trovava risposta nella partecipazione di un gruppo di persone ad un complesso rito terapeutico domiciliare nel quale, avvalendosi di uno specifico apparato ritmico, musicale, coreutico e cromatico, oltre che di oggetti e ambientazioni rituali, si riusciva a ristabilire la guarigione e la reintegrazione di una persona sofferente. Ciclicamente ogni anno, generalmente all'inizio dell'estate e per molti anni di seguito sino a guarigione completa, il soggetto veniva colto da una specifica forma di grave malessere interiore ed esteriore che poteva essere curata, anche se solo pro-anno, mediante tale rito.

Coloro i quali partecipavano a tale sistema ideologico definivano "tarantata" la persona sofferente, nella convinzione che il male derivasse dal morso velenoso della "taranta", animale simbolico e non zoologicamente identificabile con alcuna specie di aracnide o rettile realmente esistente, come ha chiarito nel 1959 l'etnologo Ernesto de Martino nella famosissima monografia etnografica La terra del rimorso, testo fondamentale per inquadrare correttamente tale fenomeno culturale e religioso.

Il tarantismo è un fenomeno con il quale si sono confrontate diverse scuole di pensiero e discipline: etnologia, psicologia, storia delle religioni, mitologia, estetica, medicina, antropologia culturale, etnomusicologia, zoologia, psichiatria. I tentativi di comprensione del complesso fenomeno non possono comunque prescindere da un approccio fortemente multidisciplinare, che non si esaurisca in un'analisi medico-diagnostica che individua il carattere psicopatologico, né che etichetti semplicemente il tarantismo come un frutto dell'ignoranza e della credulità popolare.

Leggenda

Secondo la leggenda la tarantola con il suo morso provocherebbe crisi isteriche. La tradizione popolare ritiene che alcuni musicanti fossero in grado, con la musica, di guarire o almeno lenire lo stato di "pizzicata". Attraverso una suonata, che poteva durare anche giorni, cercavano di trovare la combinazione di vibrazioni con le note dei loro strumenti. Venivano utilizzati diversi strumenti, in particolare il tamburello. Ancora oggi sono diffuse espressioni scherzose o di rimprovero del tipo "Ti ha morso la tarantola?" rivolte soprattutto a bambini vivaci o persone particolarmente irrequiete.

Storia

Il vocabolo latino taranta o tarantula non deriva, come si sarebbe portati a credere, dal latino classico; le sue prime attestazioni si ritrovano, al contrario, nel latino medievale. Una delle più antiche menzioni di un animale con questo nome, non meglio identificato, si ritrova nella Storia delle Spedizioni a Gerusalemme di Alberto Equense, in cui si riporta che l'esercito crociato accampato presso il fiume Eleutheros (oggi Nahr el-Kebir, in Siria) soffrì molto per il tormento del morso delle tarante che infestavano le sue sponde. Nell'XI secolo, anche Goffredo Malaterra e Alberto di Aix riferiscono della presenza di tarante in correlazione all'assedio di Palermo, episodio avvenuto nella seconda metà del secolo XI.

Non vi sono pertanto, all'inizio, né riferimenti alla Puglia, né all'identificazione certa della taranta con un ragno, se non il suggerimento dato dal fatto che si tratta di un animale dal morso velenoso che vive a terra. Del resto, l'ambiguità della denominazione sembra aver tratto in inganno anche le prime comunità scientifiche, e dimostrazione ne è il fatto che Linneo, nella classificazione delle specie viventi del 1758 che divenne poi il modello per la nomenclatura binomiale in uso a tutt'oggi, attribuì questo nome tanto a un rettile (Tarentola mauritanica, il comune geco mediterraneo, peraltro innocuo) quanto a un ragno (Lycosa tarantula o ragno lupo).

Per quel che riguarda l'etimologia, sembra comunque accertato che taranta e la sua versione diminutiva tarantula siano voci d'origine italica, riconducibile al toponimo Tarentum, oggi Taranto: la Puglia sembra pertanto avere comunque un ruolo centrale già nella genesi del lemma. Non si dimentichi che già nell'antichità greco-romana la città di Taranto era conosciuta per la musica terapeutica. E non dimentichiamo che, in seguito alla conquista di Taranto da parte dei Romani e alla deportazione in massa (circa 25.000) dei cittadini tarantini nella capitale dell'allora Repubblica romana, per protesta, gli stessi abitanti ionici, si unirono per cantare e ballare delle nenie 'fastidiose' per interi mesi con grande disappunto dei Romani. Una sorta di 'canto del pianto' per la loro patria ormai perduta per sempre perché sconfitta da Roma.

Il trattato De venenis del fiorentino Cristoforo degli Onesti (seconda metà del secolo XIV) contiene un capitolo, De morsu tarantulae riportato dal De Martino, che sembra essere il più antico riferimento al tarantismo come sindrome da avvelenamento dovuta al morso di un animale, reale o immaginario che fosse. Si deve ad un altro fiorentino Leon Battista Alberti a metà del Quattrocento il quale cita il fenomeno ancora in uso, in "Hac aetate", come riportato nel suo De re Aedificatoria.

Il tarantismo si connotò come fenomeno storico, religioso (nel leccese), pagano (nel tarantino, brindisino e materano), che caratterizzò l'Italia meridionale e in particolare la Puglia fin dal Medioevo; visse un periodo felice fino al XVIII secolo, per subire nel XIX secolo un lento ed inesorabile declino. Le vittime più frequenti del tarantismo erano le donne, in quanto durante la stagione della mietitura, le raccoglitrici di grano erano maggiormente esposte al rischio di essere morsicate da questo fantomatico ragno.

Attraverso la musica e la danza era però possibile dare guarigione ai tarantati, realizzando un vero e proprio esorcismo a carattere musicale. Ogni volta che un tarantato esibiva i sintomi associati al tarantismo, dei suonatori di tamburello, violino, organetto, armonica a bocca ed altri strumenti musicali andavano nell'abitazione del tarantato oppure nella piazza principale del paese. I musicisti cominciavano a suonare la pizzica o la tarantella, musiche dal ritmo sfrenato, e il tarantato cominciava a danzare e urlare per lunghe ore sino allo sfinimento. La credenza voleva infatti, che mentre si consumavano le proprie energie nella danza, anche la taranta si consumasse e soffrisse sino ad essere annientata. Tuttavia, nel rito esorcistico erano impiegate anche altre musiche dal ritmo lento e dalla melodia malinconica.

Alla leggenda popolare può essere in realtà legata anche una spiegazione strettamente scientifica: il ballo convulso, accelerando il battito cardiaco, stimolando abbondante sudore e il rilascio di endorfine, favorisce l'eliminazione del veleno e contribuisce ad alleviare il dolore provocato dal morso del ragno e di simili insetti. Non è quindi da escludere che il ballo venisse utilizzato originariamente come vero e proprio rimedio medico, a cui solo in seguito sono stati aggiunti connotati religiosi ed esoterici.

Come spesso accade per i rituali a carattere magico e superstizioso, anche a questa tradizione si cercò di dare una "giustificazione" cristiana limitata, però, alla sola area leccese: così si spiega il ruolo di San Paolo, ritenuto il santo protettore di coloro che sono stati "pizzicati" da un animale velenoso, capace di guarire per effetto della sua grazia. La scelta del santo non è casuale poiché nel libro degli Atti degli Apostoli (At. 28:3-5) si narra come egli sia sopravvissuto al veleno di un serpente nell'isola di Malta.

Il tentativo di cristianizzazione del tarantismo non riuscì però completamente. Infatti, durante la trance le donne tarantate esibivano dei comportamenti di natura considerata oscena, ad esempio mimando rapporti sessuali oppure orinando sugli altari. Per questi motivi la chiesa di San Paolo di Galatina (LE), dove i tarantati venivano condotti a bere l'acqua sacra del pozzo della cappella, venne sconsacrata e San Paolo, da santo protettore degli avvelenati, cominciò ad essere ricordato come il santo della sessualità.

Per quanto riguarda l'alto Salento, il tarantino e il sud barese, pare che il culto di San Paolo non fosse molto diffuso, ma il tarantismo aveva conservato maggiormente il carattere pagano. Quando la persona afflitta dal morso si riteneva guarita, si usava fare un corteo chiamato tarantolesco: si tornava accompagnati dai musicisti sul posto dove la persona riteneva di essere stata pizzicata e lì compiva l'ultimo ballo per quell'anno.

Il fenomeno del tarantismo si è andato progressivamente estinguendo ed è sopravvissuto esclusivamente in determinate zone del leccese, del tarantino, del brindisino e del materano. Esso era diffuso nelle province di Lecce, Brindisi, Taranto, nel sud barese, nel Gargano e nella provincia di Matera.

Il rituale

Il rituale del tarantismo coniuga alcuni elementi del paganesimo, caratteristici delle società antiche, ad elementi della religione cattolica.

L'esorcismo inizia quando la tarantata avverte i primi sintomi del tarantismo e chiede che vengano i musicisti a suonare la pizzica. Al suono della musica la tarantata comincia a scatenarsi in una danza sfrenata che in questa fase del rito serve a determinare da quale tipo di taranta è stata avvelenata (ad esempio, si distinguono la "taranta libertina", la "taranta triste e muta", la "taranta tempestosa", la "taranta d'acqua"). Ogni tarantola infatti è sensibile a distinte melodie, danzando secondo il ritmo e la melodia che le sono congeniali; essa inoltre, viene personificata: ha un nome di persona e impartisce ordini alla tarantata, dialoga e viene a patti con lei, si fa fissare la durata della prestazione coreutica, o l'orario della prossima crisi. Per far "crepare" la taranta occorre mimare la danza del piccolo ragno, cioè la tarantella: occorre cioè danzare con il ragno, essere anzi lo stesso ragno che danza, secondo una irresistibile identificazione; ma, al tempo stesso, occorre far valere un momento più propriamente agonistico, cioè il sovrapporre ed imporre il proprio ritmo coreutico a quello del ragno, costringere il ragno a danzare sino a stancarlo, schiacciandolo con il piede che percuote violentemente il suolo al ritmo della tarantella.

La taranta poteva essere anche identificata con i serpenti o gli scorpioni. Il soggetto morso dalla tarantola, data la propria condizione di malessere fisico veniva accompagnato a casa ed i parenti con l'aiuto del vicinato, effettuavano una diagnosi di tarantismo e chiamavano i musicisti, gli unici in grado di poter guarire da questo stato di malessere. All'arrivo dei musicisti, la tarantata giaceva su un lenzuolo bianco per terra, i suonatori si sedevano attorno a lei e iniziavano a provare diverse melodie avvicinandosi alla tarantata in modo che potesse sentire meglio la musica. Quando la donna rispondeva ad una delle melodie muovendosi, significava che il ritmo era quello della tarantola che l'aveva morsa, cosicché iniziava a muovere lentamente la mano, un piede e poi tutto il corpo. Dopo questa fase diagnostica comincia una fase "cromatica" in cui la tarantata viene attratta dai vestiti delle persone da cui è circondata, spesso infatti, la stessa tarantata si scagliava con impeto contro uno dei malcapitati spettatori che indossavano magliette dai colori sgargianti. Ma la vera e propria diagnosi, come osservava Giorgio Di Lecce, era compiuta inoltre, attraverso l'uso di nastri colorati dialettalmente denominati "nzacareddhe", strisce di stoffa colorata che rappresentavano i possibili colori del ragno. I parenti e i vicini di casa, stretti attorno alla tarantata, glieli mostravano e il colore che le avesse arrecato fastidio avrebbe svelato il colore della sua tarantola; così, rompendo quella striscia, si credeva morisse anche l'animale. Tale attrazione viene manifestata a volte in modo violento ed aggressivo. Il perimetro rituale non era solo circondato da fazzoletti colorati, ma anche da cose richieste esclusivamente dalla persona tarantata, che potevano essere tini ricolmi d'acqua, vasi di erbe aromatiche, funi, sedie, scale, spade e altro. Inizia quindi una fase coreutica in cui il tarantato evidenzia dei sintomi di possessione che può essere di natura epilettoide, depressiva-malinconica oppure pseudo-stuporosa. Durante questa fase l'ammalato si abbandona a convulsioni, assume delle posture particolari in cui si isola dall'ambiente circostante e può assumere atteggiamenti con cui si identifica con la taranta stessa.

Il ciclo coreutico era costituito da una fase al suolo e una in piedi che terminava sempre con una caduta a terra e che segnava un breve intervallo di riposo. Sulla base delle prime note la tarantata emetteva un grido altissimo accompagnato dall'inarcarsi del corpo a ponte: puntamento sui talloni e sulla nuca ipertesa, braccia semiflesse, corpo iperflesso. La donna poi si metteva in piedi e lottava contro la tarantola immaginando di calpestarla e ucciderla con il piede che batteva la danza, fino alla scomparsa dei sensi. Questo ciclo durava circa un quarto d'ora, finché la donna sfinita, crollava a terra. I musicisti smettevano di suonare per circa dieci minuti; in seguito l'intero ciclo si ripeteva uguale fino a tarda sera e per circa tre giorni, finché si diceva S. Paolo non avesse concesso la grazia. Il descritto rito avveniva solo se si trattava di una "tarantola ballerina", perché negli altri casi si verificava una refrattarietà a questo tipo di terapia.

Il tarantismo oggi

La tradizione del tarantismo è in qualche modo sopravvissuta sino ai nostri giorni con la messa-esorcismo del 29 giugno nella chiesa di San Paolo di Galatina. Tuttavia sono andati progressivamente scomparendo i momenti di partecipazione collettiva e diminuisce sempre di più il numero di persone che si recano alla chiesa per dare luogo al rituale. Il contesto in cui avviene l'esorcismo del resto è radicalmente cambiato: non più la comunità contadina riunita a condividere la stessa esperienza culturale ma solo una folla di curiosi e visitatori lontani dall'atmosfera culturale del rito.

Negli ultimi anni ha preso piede la rappresentazione teatralizzata e rievocativa della danza delle tarantate, da parte di alcuni gruppi musicali e associazioni culturali. Negli anni 1990 e 2000 tradizioni musicali appartenenti al genere della tarantella, in particolare la pizzica, sono tornate alla ribalta ottenendo un grande seguito. Tale riutilizzo di antichi tratti culturali inseriti in contesti completamente differenti e con significati profondamente mutati è un classico esempio di "revival folklorico", fortunata definizione dell'antropologo Tullio Seppilli. Grazie a questa riproposta culturale, il fenomeno del tarantismo ha raggiunto un vasto pubblico anche fuori dai confini del Salento, per esempio nel lavoro di Alessandra Belloni.

Nel 1996 il regista italiano Edoardo Winspeare dirige Pizzicata. Il film, interamente girato nella provincia di Lecce, vede come protagonista l’attore italiano Cosimo Cinieri, e rappresenta il primo film che descrive questo fenomeno socio-culturale così complesso e misterioso delle lontane terre del Salento. L’approccio del regista in questo film, non ha solo un intento visivo e narrativo, ma si propone come una riflessione su un fenomeno non solo relegato alla cultura popolare pugliese, ma di una realtà che è stata per anni oggetto di studio da parte di antropologi e ricercatori. La musica della pizzica, infatti costituiva il principale accompagnamento del rito ‘etnocoreutico’ del tarantismo, e a differenza di quella più classica eseguita durante i momenti di festa generali delle comunità locali, il ritmo ‘terapeutico’ della pizzica aveva una tonalità peculiare più accelerata e spesso crescente.

La pellicola di Edoardo Winspeare evidenzia dunque il fenomeno del tarantismo come un momento di comunione di un’intera collettività, nell’intento di riappropriarsi della propria identità culturale.

Un'altra pellicola sul tarantismo è La sposa di San Paolo di Gabriella Rosaleva (1989). Il film non per nulla presenta il titolo alternativo Tarantula.

Tutti quei dubbi sul «tarantolismo». La prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno del 19 agosto 1980. Una riflessione sulla tradizione salentina in un articolo-inchiesta di Bartolomucci del 19 agosto del 1980. Annabella De Robertis  su la Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Agosto 2022. 

«Tarantolismo: fenomeno o problema sociale?»: è questo l’interrogativo che pone Antonio Bartolomucci in un articolo-inchiesta pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 19 agosto 1980. «La distinzione emerge dalla caratterizzazione assunta da quando il tarantismo è stato giudicato scomparso, spezzato dagli ambienti socio-ambientali del Salento e latente solo in certe manifestazioni sporadiche e di folclore». Sul tema è stato interpellato Luigi Chiriatti, esperto della cultura tradizionale salentina. Chiriatti mette in luce gli aspetti poco folcloristici del fenomeno, ascoltando le opinioni delle varie componenti sociali del territorio: vi sono uomini e donne che parlano dei morsi delle tarantole con una strana convinzione, come di una cosa forse oggi scomparsa quasi del tutto, ma una volta effettivamente esistita. «Il problema del tarantolismo – afferma Chiriatti – ritorna con la sua drammaticità e con esso l’esigenza di una maggiore chiarezza e di una serie di interventi sulle strutture sociali del territorio».

Alcuni esempi riportati nell’articolo: Noemi dice di aver subito il primo morso all’età di 41 anni; Rosina a 19 anni; Clementina è stata attaccata a 15 anni e un uomo di Copertino sostiene di aver ballato per 16 ore consecutive. «Parlano tutti della tarantola con estrema sicurezza, certi che le proprie crisi provengano dallo spettro del ballo. E tutti non sanno trovare altro rimedio se non nel ballo, nella “pizzica tarantolata”, un motivo molto ritmato di origine araba o neoellenica, a seconda dei casi. Il particolare della musica è molto importante. Si parla addirittura di ritmi terapeutici. Un rito che riproduce interamente il fenomeno del ballo, scisso in tre momenti nei quali i danzatori, e in questo caso non si tratta di “tarantolati”, assumono la figura tipica del ragno, identificandosi con l’animale e strisciando, poi dando sfogo agli istinti sessuali, strappandosi i vestiti, battendo forte le piante dei piedi sul terreno quasi a voler calpestare la tarantola e liberarsi al male trasmesso dal morso».

L’orchestrina terapeutica nel Salento si trova ancora, dice Chiriatti, e svolge un ruolo importantissimo nel rito delle tarantolate. I fratelli Stifani a Nardò ripropongono ancora, nell’agosto 1980, la musica terapeutica con tamburello, chitarra, violino e organetto. «L’esplorazione dell’orchestrina si svolge con la massima cura, si identificano i sintomi della tarantolata attraverso l’emissione di singole note o di particolari accordi e così via a creare il ritmo giusto. E si balla per ore».

Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato nella Manduria e nel Salento del '700. Il Tarantismo in Manduria e dintorni.  Nel suo viaggio sul tarantismo, il De Martino, che compie la sua celebre ricerca in una parte del territorio leccese e brindisino, sfiora la provincia di Taranto fermandosi solo fino ad Avetrana...Gianfranco Mele La Voce di Manduria, lunedì 06 maggio 2019. Nel suo viaggio sul tarantismo, il De Martino, che compie la sua celebre ricerca in una parte del territorio leccese e brindisino, sfiora la provincia di Taranto fermandosi solo fino ad Avetrana; tuttavia, non solo diversi autori del passato ci permettono di risalire anche alle manifestazioni e alle caratteristiche del tarantismo su Taranto e provincia, ma esistono, per quanto sparse, diverse testimonianze riguardanti Manduria e limitrofi. E se Alfredo Majorano nel 1950 ci offre uno spaccato del tarantismo a Lizzano, possiamo ricavare una serie di dati riguardanti paesi come Manduria e Sava, da documenti del passato, dai lavori del Gigli e del Greco di cui parleremo ampiamente, e da un lavoro del sottoscritto di recente pubblicazione sulla rivista “Il Delfino e la Mezzaluna” edita dalla Fondazione Terra d'Otranto. Con una serie di interventi, sintetizzerò queste informazioni. Come i cultori dell'argomento già sanno, il De Martino nella sua opera “La Terra del Rimorso” fa in realtà un breve cenno al tarantismo nel territorio manduriano e savese, ma per rimarcare quanto scrisse già il De Simone nel 1876. In un articolo dal titolo Il ballo (la Taranta, la Pizzica-Pizzica, la Tarantella), apparso in quell'anno su “La Rivista Europea”, lo storiografo e studioso di folklore leccese Luigi Giuseppe De Simone si sofferma a descrivere la figura del violinista cieco di Novoli, Francesco Mazzotta, il quale gli riferisce che a Melendugno, Sava, Manduria, Martina, S. Giorgio, Lizzano ecc. “manca la vera tradizione dell'arte”. Questo perchè, sempre secondo il Mazzotta, Novoli sarebbe stata una sorta di patria elettiva del tarantismo e della musica per le tarantate, mentre nei sopracitati paesi la tradizione si sarebbe persa fino a ridurre ad un solo motivo le arie terapeutiche: e, per questo motivo, il Mazzotta si rifiutava di portare la sua musica in soccorso delle tarantate e dei tarantati di questi paesi. Vedremo invece, che al di là del campanilismo del Mazzotta, non solo la tradizione del tarantismo e delle musiche per il tarantismo in questi territori era ancora viva tra metà e fine Ottocento, ma rivestiva anche una notevole complessità rituale. Prima di congedarci dal De Simone e andare oltre, si può notare che lo storiografo leccese cita, nel suo articolo, un canto che è il seguente:

“Mariola Antonia! Mariola te lu mare!

Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !

Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele,

maccaruni de Simulà.

( la tarantata risponde, esclamando): Ohimme! Mueru! Canta! Canta!”

Rispetto a tale canto, ricordo un motivetto analogo accennato in Sava dalla generazione dei miei nonni (perdurato quindi, per loro bocca, ormai anziani, fino agli anni '60) del quale le strofe finali (le prime non le ricordo) erano: “… pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, Ton Pascali cu la mujèri...”

A.B., savese di oltre 60 anni, mi ricorda una strofa del motivetto, in una versione identica a quella raccontata dal De Simone: “pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, maccarruni ti semula...”.

Diciassette anni dopo lo scritto del De Simone, sarà proprio un manduriano, lo storico e studioso delle tradizioni Giuseppe Gigli, a offrirci un quadro minuzioso e denso di particolari dello scenario legato al rito del tarantismo locale. La descrizione che ci lascia il Gigli, e che analizzeremo in un prossimo articolo, documenta l'esistenza di un fenomeno, attorno al 1893 (anno di pubblicazione del lavoro dello scrittore manduriano), che è lungi dal poter essere considerato come un fenomeno affievolitosi e rimaneggiatosi dal punto di vista rituale e musicale. Dopo il Gigli, un altro manduriano, Michele Greco, affronta con un dettagliato scritto il tema del tarantismo, e siamo nel 1912. Anche il testo del Greco è ricco di informazioni e di particolari interessantissimi, e merita perciò di essere ampiamente citato ed analizzato a parte, in altro articolo dedicato. Anticipando qui una piccolissima parte della sua trattazione, voglio solo evidenziare alcune strofe pubblicate dallo scrittore manduriano: alcuni versi di una taranta locale, e i versi tarantini che il Greco riprende da un canto riportato da Alessandro Criscuolo nel libro di novelle Ebali ed Ebaliche (1887).

Il frammento della taranta manduriana riportato dal Greco è il seguente:

“(Addò t'è pizzicata la taranta)...

addò t'è pizzicata cu sia ccisa

Intra alla putèa ti la camisa...”

Strofe identiche a quelle qui sopra riportate, le ho ritrovate in una versione più completa e recitatami a Sava da una anziana donna savese verso la fine degli anni '80 o inizi '90, con intercalari e versi che non si discostano molto da quelli di canti raccolti in Lizzano, S. Marzano e, più recentemente, in Manduria stessa.

Il canto tarantino riportato dal Greco (e ripreso a sua volta dal Criscuolo), invece, è il seguente:

“T'ha pizzicata, t'ha muzzicata

la tarantola avvelinata?

Vola, vola!

Cu lu suono e cu lu cante

l'accidime a tutti quanti,

tutti quanti li viermi brutti, tutti , tutti, tutti!”

Ma anche sulla descrizione dei canti tipici, e su una serie di versioni locali, ritorneremo. La storia dalla quale voglio partire, invece, per questa prima parte del nostro excursus sul tarantismo locale, è la più antica a cui, al momento, io sia riuscito a risalire: si tratta di un singolare accadimento dei primi del Settecento.

Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato: una singolare storia nella Manduria del '700. Dagli atti del Tribunale del Santo Officio di Oria risulta la storia di Francesco Malagnino di Casalnuovo (Manduria). Nel 1723 Francesco ha 18 anni e si fa preparare una fattura per legare a sé una ragazza di nome Apollonia. Francesco non riesce però a portare a compimento l'operazione della fattura perchè nel frattempo si ammala del morso di una tarantola “ed havendo fatto più balli per sanare, stiedi ammalato più di un mese, fra quel tempo la detta Apollonia si accasò”. Al giovane Francesco si offre però un'altra possibilità di conoscere i piaceri dell'amore e del congiungimento con una donna, piaceri per lui ancora preclusi: un giorno, mentre lavora nei campi, gli si presenta una donna mai vista prima, che gli chiede se è sposato e se sa qualcosa sul sesso, e “molte altre cose sporche”. Francesco resiste alla tentazione ma la donna gli si presenta una seconda e una terza volta per tentarlo, e questa terza volta accade di notte, mentre lui dorme, e lei comincia “a scherzare con le mani”, e lui la tocca, e questo fatto gli fa commettere “un peccato di polluzione”. La donna si presenta una quarta volta e gli dice che può organizzargli incontri sessuali, però lui deve stringere un patto col diavolo. Francesco accetta di fare il patto e un po' di tempo dopo viene avvicinato da un'altra donna che gli chiede se “la voleva conoscere carnalmente”. Francesco però si spaventa e grida “Madonna del Carmine mia agghiutami”: in quel momento ode una voce che interviene provvidenzialmente, che intima a quella donna tentatrice: “Finìscela, ch'è povero giovine”. Così, Francesco viene risparmiato dal peccato. Condizionamenti sociali e religiosi, eros precluso, paura della sessualità e del peccato emergono in questa storia di Francesco e ci offrono anche un metro per distinguere tra due fenomeni paralleli nella realtà contadina dei nostri paesi dei secoli scorsi: il tarantismo come sfogo (ma anche contenimento) dell'eros precluso, e l'adesione alle congreghe esoteriche dei masciàri come veicolo di liberazione e sfogo della sessualità (adesione che nel caso di Francesco, il giovane non riesce a portare a compimento). Ma di questo ulteriore argomento e delle similitudini e differenze tra “masciarìsmo” e tarantismo parlo, per chi voglia approfondire, in altre sedi (una di queste è l'articolo citato nella sottostante bibliografia e apparso su “Il Delfino e la Mezzaluna”, un'altra il libro “La Magia nel Salento” scritto in collaborazione con Maurizio Nocera).

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Tra masciàri e masciàre nella tradizione stregonesca salentina. Gianfranco Mele su La Voce di Manduria venerdì 10 maggio 2019.  La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo. Nella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889, descrive queste esperienze. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina. La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l' Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest'ultimo termine l'usanza di ballare presso sorgenti d'acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross: “Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.

Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte. ” Vicino a Taranto” continuava Don Eugenio, “c’è un mastro muratore che conosco benissimo, il quale pieno d’idee moderne, beffeggiava chiunque gli parlasse di morsi velenosi della tarantola, e minacciava di battere le donne di casa se si fossero permesse di chiamare i musicanti in caso di morsi di tarantola. Sia stata fatalità, sia stato volere di San Cataldo, un bel giorno fu morsicato proprio lui; e dopo aver sofferto tutte le pene dell’inferno, con un a febbre indiavolata per parecchi giorni, finalmente mandò a chiamare la musica, dopo aver chiuso accuratamente tutte le porte e le finestre della casa. Ma il delirio fu tanto forte che con gran gusto di quelli che credono nel “tarantismo”, spalancò la porta e si slanciò in mezzo della strada, gridando con tutte le forze che aveva” Hanno ragione le femmine! Hanno ragione le femmine!” Per questo trascrissi la musica della tarantella che mi fu insegnata da un vecchio contadino che la suonava sul violino, accompagnato da suo figlio con la chitarra battente, e da un altro con la chitarra francese. Erano tutti e tre chiamati spesso per i ”tarantati “, e mi assicurava che quel motivo aveva sempre un gran successo.”

Il Tarantismo secondo Giuseppe Gigli. A fine Ottocento viene pubblicato il lavoro del manduriano Giuseppe Gigli, “Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in terra d'Otranto”, che contiene un capitolo dedicato alla tarantola. Questo, lo scritto del Gigli al proposito, che riportiamo per intero data la sua ricchezza e singolarità di informazioni: «Altro pregiudizio del popolo di terra d'Otranto, o che non trova riscontro altrove, è quello del ballo nelle morsicature delle tarantole. Pare oramai assodato dalla scienza che la tarantola sia velenosa e, e che perciò il morso di così piccolo insetto abbia molte volte conseguenze gravissime; il professor De Renzi, che se ne occupò di proposito, crede che il veleno della tarantola abbia comune la sostanza con quello della vipera, perciò manifesti la sua azione sul nervo trisplamico e sue dipendenze. Noi non facciamo però altre indagini scientifiche, e notiamo il fenomeno popolare. Diverse specie di ballo praticansi, per guarire dal brutto male. Curioso è il modo di spiegare innanzi al ballerino o alla ballerina molti fazzoletti di colore, che i disgraziati guardano fissamente, finchè non trovino quello che nel colore stesso rassomigli alla tarantola. Se, fra le persone che accorrono a curiosare, qualcuno indossi un fazzoletto, o una cravatta che abbia il colore ricercato dal morsicato, è costretto a spogliarsene subito, per dare giovamento al soffrire di colui. Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell'acqua. E non solamente nell'acqua si agitano per mozza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E' una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio! Immancabilmente è accompagnato il ballo dal monotono e cadenzato suono di un violino, e dal rullo d'un tamburello colle nacchere; suono e cadenza che si approssimano all'altro della pizzica-pizzica che è il ballo più antico e veramente popolare, tutto proprio del nostro popolo, la cui tradizione si spegne nei secoli più lontani. Il violino è suonato da un uomo, e il tamburello da una donna, la quale intona di tanto in tanto un lamentevole canto. C'è in tutti questi canti una profonda mestizia e una squisita aria di sentimentalità. Ora s' immagina un tradimento d'amore, che produce a chi balla le presenti pene; ora parla un essere soprannaturale che, compiangendo le umane sciagure, conforta chi balla; ora s'invoca la morte, come unica speranza di veder troncare le pene. Eccone uno in dialetto manduriano (condito però di parecchi italianismi) che io stesso racolsi da una di codeste cantatrici per mestiere sono tre strofe molto belle e meste nelle quali si finge che chi balla, parta per sempre dalla sua donna: 

Malinconicu cantu, ci allegru mai, 

cacciami fori sti malincunii. 

Comu l'aggiu a cacciari, quannu lu sai? 

Aìa nu cori ci lu dunai a te. 

Bella, ju partu arrivederci, addiu, 

nu' ti scurdari ci ti cori t'ama, 

nu' ti scurdari di lu nomi miu, 

mentri la sorti untami mi chiama. 

Ci lai la noa ca muertu so' iu, 

bella, ca ti la càccianu la fiama... 

ma tu gnicosa la finisci a Dio, 

mentre cu campu iu stu cori t'ama! 

Ecco come mi narrò le conseguenze del brutto morso una povera femminuccia del popolo; scrivo quasi come si espresse, meno il dialetto; stupisco ancora che quella poveretta sapesse trovare alcune frasi stupende per esprimere il suo dolore: “Raccoglievo con altre donne la spiga in un gran podere; il sole gettava onde di fuoco; a noi tutte mancava il respiro; tanto che, prima di mezzogiorno lasciammo l' usato lavoro, e ci sdraiammo al rezzo d'un muricciuolo. Mentre, dopo avere assaggiato un boccone di pane, cercavo di chiudere gli occhi al sonno, all'improvviso ebbi un sussulto, e nello stesso tempo intesi un forte dolore a una mano: mi levai in piedi, cercai la causa del dolore, ma non vidi nulla. Capìi subito però: ero stata morsicata dalla tarantola. 

Cominciai a piangere: povera me! 

Pei poveri quella è una grande sventura, perchè è una malattia lunga, che vieta loro per lungo tempo il lavoro. 

Tornata a casa, cercai di porre qualche rimedio al male con medicature e decotti. Non mi giovò niente. 

Dopo qualche tempo il male incalzava. Compresi che un solo espediente mi restava: ballare. Da quel giorno non chiusi quasi più gli occhi al sonno. Un dolore continuo mi teneva in disagio tutta la persona. Ciò però era niente; il male principale era alla profonda malinconia che mi assalse nell'anima. Mi parea ogni cosa oscura, oscura: le persone tutte vestite di nero, dipinte di nero le case. Il pensiero della morte mi prostrava l'anima: pensavo che, morendo, lasciavo un pover'uomo con quattro figli, l'ultimo dei quali ha solo due anni. Durante i due o tre giorni, in cui fecero i preparativi pel ballo, non potetti toccar cibo. La notte che precedette il ballo, fui costretta a stare in piedi, camminando continuamente per la casa. Mi sentivo mancare il respiro, come se una mano di ferro mi stringesse il seno e il cuore. All'alba mi sentii un poco meglio, e mi sdraiai sul letto. Dopo mezz'ora però un improvviso sussulto mi fece saltare in terra, e da quel momento non ebbi più un istante di requie. Si mandarono in subito a chiamare i suonatori, e si distesero innanzi a me dieci o dodici fazzoletti di vari colori. Cominciai a ballare. Chi può dire quel che soffersi? Il colore dei fazzoletti non leniva però il mio spasimo: segno che nessuno di essi corrispondeva al colore della tarantola. All'improvviso diedi un grido: avevo visto un giovine, vestito di nero. E m'intesi un poco meglio: quel nero era il colore che dovevo guardar fissamente perchè la tarantola era nera. Dopo tre giorni di continuo ballo, stetti bene». Spesse volte, dopo un anno, approssimandosi la stagion del raccolto frumentario, si ridesta nei morsicati dall'insetto la veemenza del male. Gli spasimi si rinnovano. E la necessità d'un nuovo ballo è ritenuta indispensabile. “

Il testo del Gigli contiene diversi elementi interessanti, a partire dalla spiegazione dettagliata del rituale e dell'ambiente del ballo. La variante del ballo condotto nei crocicchi anziché in casa è interessante poiché ci riporta a considerazioni sulla valenza magica e sacrale del crocicchio o del trivio, di stretta derivazione pagana: il crocicchio o trivio (o quadrivio) è posto di concentrazione di energie, luogo sacro ad Ecate (detta anche Trivia), e ad Hermes: luogo adatto ad oracoli, apparizioni, preghiere, zona franca in cui si svelano e si manifestano le forze dell'occulto, e persino (e coerentemente) luogo di appuntamento e di incontro tra masciàri e masciàre nella tradizione stregonesca salentina. Come vedremo in seguito (nei prossimi scritti), anche Michele Greco accenna, in un suo saggio dei primi del '900, a riti per la cura del tarantismo condotti, in zona di Manduria, in strada, e dunque non solo all'interno delle mura domestiche. Nei riti osservati dal Greco, una variante alternativa al rito al centro del trivio o del quadrivio è la tracciatura, da parte del tarantato, di un cerchio protettivo sul terreno, entro il perimetro del quale si mantiene, a scopi protettivi (rituale tipico della antica magia cerimoniale, finalizzato alla protezione da energie negative).

Cenni sul ruolo dell'acqua nella antica cura del tarantismo. La variante del rituale con il ballo nell'acqua, descritta dal Gigli, è interessantissima sia perchè si ritrova in altre descrizioni che riguardano il tarantismo nella provincia di Taranto, sia perchè il ruolo dell'acqua come elemento purificatore è presente in diverse forme della religiosità e del simbolismo pagano. Sappiamo inoltre che l'acqua del cosiddetto Pozzo di San Paolo rivestiva una funzione importante nella cura del Tarantismo a Galatina (e secondo alcune interpretazioni era utilizzata a fini risanatori anche prima dell'innesto del culto paolino nel locale tarantismo: vedi ad es. il lavoro di Giancarlo Vallone, “Le donne guaritrici nella Terra del Rimorso - dal ballo risanatore allo sputo medicinale” (Congedo Ed.). Tuttavia l'acqua pare avere un ruolo “medico” sin dall'antichità come rimedio specifico per i morsi in genere di animali considerati velenosi. Infine, sembra che almeno sino a fine Settecento un ruolo nella cura del tarantismo lo abbia avuto in passato persino l'acqua del Fonte Pliniano di Manduria: Salvatore Pasanisi, medico manduriano, nel suo Saggio chimico – medico sull'acqua minerale di Manduria, dato alle stampe nel 1790, difatti lascia intendere che doveva esserci l'usanza di “curare i tarantati” con l'acqua del Fonte Pliniano. Inoltre, come abbiamo visto, Eugenio Arnò testimonia, a fine Ottocento, dei balli delle tarantate presso l'acqua di un pozzo. Ma entreremo nei dettagli su questi argomenti in una delle prossime puntate dell'excursus.

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Gianfranco Mele su La Voce di Manduria, martedì 17 settembre 2019. Come abbiamo visto in una delle precedenti puntate di questo excursus sul tarantismo locale, lo studioso manduriano Giuseppe Gigli nel 1893 descrive il fenomeno del tarantismo e il relativo rituale, accennando anche ai “balli nell'acqua”: “Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell'acqua. E non solamente nell'acqua si agitano per mozza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle.” La variante del ballo nell'acqua, si ritrova in varie altre descrizioni che riguardano le forme più antiche del rito, e in moltissime narrazioni specifiche concernenti il tarantismo nella provincia di Taranto. Questa la descrizione che il ricercatore ottocentesco Giovan Battista Gagliardo offre delle danze delle tarantate presso il podere Malvaseda nei pressi di Taranto: “Succede al promontorio della Penna il podere Malvaseda nome di un'estinta famiglia Tarentina, il quale è innaffiato da' varj canaletti di acqua perenne. Qui nelle belle giornate d'inverno concorrono i Tarentini per mangiarvi il pesce fresco, le ostriche, ed altre conchiglie. Il vedere in quei giorni tutta questa campagna, la quale è piena di agrumi, e di ogni specie di alberi da frutto, popolata da famiglie sparse qua, e la, tutte intente a preparare il pranzo, e quindi sdrajateper terra divorarselo, ricordano le belle adunanze greche che terminavano colla danza, come finiscono anche le moderne. Dopo il pranzo unisconsi le varie compagnie e ballano al suono della chitarra la pizzica pizzica, ballo che esprime tutta la forza dell'entusiasmo, e di quel clima, che diede occasione ad Orazio di chiamarlo molle. Concorrevano anche qui una volta le Tarantolate. Credevano quelle maniache, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell'acqua, ciò che dicevano Spurpurare, non sarebbero guarite. Grazie alla filosofia, alla quale le femmine debbono ora la libertà che prima era loro negata, non vi sono più tarantolate né in Taranto, né nel resto della Provincia. “ Anche il Berkeley, nel suo “Diario di viaggio in Italia” condotto ai primi del '700, descrive tra le altre cose l'abitudine dei tarantati di gettarsi nel mare: “A Taranto vivono diverse famiglie nobili. Anche qui abbiamo assistito alla danza di un tarantato. [...] Il console ci ha detto che tutti i ragni, ad eccezione di quelli con le zampe più lunghe, se ti mordono, provocano i tipici sintomi, benché non così forti come quelli dei ragni più grandi di campagna. Ha poi aggiunto che la tarantola provoca un forte dolore e un livido che si estende su tutta la zona circostante il morso ed anche oltre. Non credo che fingano, la danza è davvero faticosa. Inoltre, ha raccontato che i tarantati siano vittime di una pazzia febbrile e che a volte, conclusa la danza, si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati. “ Il naturalista seicentesco Paolo Boccone scrive a proposito dei tarantati pugliesi: “Una delle forze, e fatiche incomprensibili, che hanno, e che ci assicura non esservi finzione, si è quella, che per un quarto d'hora, e più di seguito girano intorno, come un Arcolaio, con impeto, e furore; l'altra è di voler ballare in Mare, e però vi si gettano con violenza, e cecità tale, che gli astanti sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l'imaginazione depravata, e corrotta degl'Infermi.” L' elemento acqua ricorre sempre nel tarantismo e infatti lo si ritrova anche nelle svariate descrizioni degli ambienti in cui si svolgono i rituali domiciliari: spesso gli osservatori notano, tra gli oggetti posti nella stanza della tarantata, la presenza di un catino d'acqua come parte integrante degli accessori rituali (altri sono: specchi, funi, erbe). Le testimonianze sulla variante del ballo in acqua sono innumerevoli. Lo studioso orietano Quinto Mario Corrado, nel suo De copia latini sermonis (1581) ricorda come i tarantati “ad aquam, ad fontes, ad ramum viridem, ad umbras, ad amaena omnia rapiuntur ” Epifanio Ferdinando nel 1621 riferisce una serie di comportamenti “ curiosi” dei tarantati, fra cui quelli di “giovani donne che si buttano nei pozzi ” e di altri che “si lanciano in mare”. Anche il medico Giorgio Baglivi parla, nel 1696 (Dissertatio de anatome, morsu et effectibus tarantulae), della presenza dell'acqua nel rituale, e, in questo caso, di fosse scavate all'esterno, nel terreno, nelle quali i “malati” si immergevano. Il leccese Nicola Caputi, nel suo De tarantulae anatome et morsu (Lecce, 1741, pag. 201) scrive: “talora apprestano un tino, o una sorta di caldaia molto capace, colma d'acqua […] ovvero fanno sgorgare leggiadre fonticelle di limpida acqua, atte a sollevare lo spirito”. Una ulteriore testimonianza proviene da Attanasio Kircher che nel suo Magnes sive de arte magnetica (Colonia, 1643) riferisce di conche d'acqua poste nello spazio dove si svolgeva la danza, e del giovamento tratto dalle tarantate nell'immergersi in queste conche; Ludovico Valletta, inoltre, nel suo De Phalangio Apulo parla della presenza di fonti d'acqua nel luogo dove si svolgeva la danza. Un cenno va fatto anche all'acqua del Fonte Pliniano manduriano, che, sembra di capire dalle parole di un altro medico, il Pasanisi, doveva essere utilizzata, almeno sino al Settecento, per la cura del tarantismo. Il Pasanisi ne accenna, tuttavia, per confutare l'idea che l'acqua del fonte mandurino possa contrastare gli effetti del veleno: "Può essere preservativo del tarantismo? Se il tarantismo, secondo il pensare di molti moderni, anche leccesi (fra gli autori leccesi è il cavalier Carducci nell' annotazioni sopra il libro intitolato Delizie tarantine), non è effetto del morso velenoso della tarantola, ma un particolare morbo de' pugliesi e del genere dei deliri melancolici, farebbe certamente un grande preservativo. Ma se poi sia effetto del veleno della Tarantola, come altri sostengono, sarebbe inutile fidarsi all'acqua di Manduria". Janet Ross, nella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889, e frutto di una ricerca compiuta l'anno precedente in Puglia, parla del tarantismo (ne abbiamo offerto ampia descrizione nella seconda parte di questo excursus pubblicata su “la Voce di Manduria”) e si serve, per le relative informazioni e per le visite nel territorio, dell'aiuto dei manduriani Giacomo Lacaita ed Eugenio Arnò. Riferisce, al proposito, di una forma di “tarantismo umido” consistente nell'usanza di ballare presso sorgenti d'acqua, e di inondarsi d'acqua: Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. Nel Dioscoride del Mattioli si legge che l'acqua del mare è particolarmente salutifera alle punture velenose di ragni e scorpioni, e che, più in generale, i bagni nell'acqua (anche dolce) e l'acqua calda giovano al “paziente”. Altri autori confermano che sin dall'antichità i bagni in acqua sono considerati terapeutici per gli effetti del veleno. Il rituale dell'acqua risulta perciò antichissimo, e precede, nella cura del tarantismo, quello domiciliare, nel quale tuttavia (con la presenza di catini e bacinelle) si conservano residui e richiami al più antico rito: ma su questi aspetti mi soffermerò con più dettagli e documentazione in scritti di prossima pubblicazione.

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Il tarantolismo nelle osservazioni dello studioso manduriano Michele Greco. A cura di Gianfranco Mele su La Voce di Manduria martedì 08 ottobre 2019. Michele Greco nasce a Manduria nel 1887. Nel 1912 si laurea in Medicina e Chirurgia presso l'Università di Napoli e successivamente si specializza in Oculistica. Svolge la carriera di Medico, Ufficiale Sanitario, Oculista. Pur continuando la sua carriera di medico, nel 1922 è nominato Regio Ispettore Onorario per i monumenti, gli scavi ed oggetti d'antichità e d'arte per il mandamento di Manduria e Sava. Si interessa anche di arti popolari e di rappresentazioni vernacolari curando testi teatrali, e prende parte attiva alla Pro Loco manduriana. A partire dal 1943 fa parte della Società di Storia Patria per le Puglie. Nel 1948 è Direttore della Blblioteca Marco Gatti di Manduria. Si interessa attivamente di medicina, di storia, storia locale, arte, archeologia e scrive di questi argomenti su giornali e riviste. Si spegne in Manduria nel 1965. Nel 1912 Michele Greco portava a termine il suo manoscritto intitolato “Superstizioni medicamenti popolari tarantolismo”, che, nel proemio, lui stesso presenta come studio delle credenze e della medicina popolare locale, composto di note e informazioni tratte direttamente dal popolo. Un lavoro di stampo etnografico, dunque, arricchito di comparazioni e citazioni provenienti dagli studi e dalla cultura del Greco, che spaziavano in diverse discipline. Un capitolo intero di questo prezioso trattato è dedicato, come si evince dal titolo stesso, al tarantolismo, argomento sul quale il Greco si sofferma ampiamente descrivendo il fenomeno, con ampi riferimenti e rimandi anche alla letteratura medica sul tema: cita difatti i lavori dei medici settecenteschi Giorgio Baglivi e Nicola Caputi, e quelli del grottagliese Ignazio Carrieri, che nel 1893 aveva pubblicato un saggio medico sul tarantolismo pugliese. Michele Greco utilizza per definire il tarantismo, alternativamente i termini tarantolismo e ballismo. Nella nosografia neurologica, questo termine, che proviene dal grecoβαλλισμός = «danza», è riferito ad una sindrome caratterizzata da movimenti involontari, violenti e irrefrenabili della muscolatura, ora scattanti, ora lenti, ma sempre incontrollabili. La formazione e le competenze mediche del Greco, dunque, lo spingono ad inquadrare e a descrivere il fenomeno, oltre che da un punto di vista folkloristico-etnografico, da quello medico. Tuttavia, il Greco non si sbilancia in conclusioni ed interpretazioni di natura clinica, sottolineando già nell'introduzione allo scritto che non intende farlo, e rimarcando, nelle conclusioni, che sul tarantolismo“... tanti osservatori antichi e recenti clinici si sono sbizzarriti, alcuni affermandone l'entità altri negandola recisamente. Io non intendo, in alcun modo, per l'indole del mio lavoro, entrare nella contesa: è certo però che ancora un esatto ed esauriente studio di questa forma morbosa (se se ne toglie il lavoro già citato del Dott. Carrieri) e della sua cura popolare non è stato ancora fatto sia dal lato clinico che dal lato folkloristico”. Già dalle righe introduttive del lavoro del Greco, su può evincere come a inizi Novecento il fenomeno sia ancora molto vivo e presente nei nostri paesi:“... la taranta, è ritenuta nociva per il suo morso specialmente nei mesi da maggio ad agosto. In questi mesi non passa giorno in cui nelle piazzette, nei vicoli, nei cortili dei nostri paesi non si oda la nenia caratteristica del violino o del tamburello che accompagnano il ballo cui si assoggetta colui che è stato morsicato”. Un fenomeno di ordinarietà e frequenza giornaliera ancora nel 1912 dunque, stando alle parole del Greco (in estate, nei mesi “classici” del tarantismo). Nel passo successivo, il Greco riferirà di una prevalenza femminile tra i soggetti “morsicati”, anche se, preciserà, vi sono tarantati maschi e femmine. Altre annotazioni interessanti, e che trovano conferma nel resto della letteratura sul fenomeno, sonoquelle che il Greco osserva rispetto al rituale dell'uccisione della tarantola e alle relative credenze: “la puntura della tarantola non sempre è avvertita dal paziente (e intendo con questo nome uomo o donna che sia, sebbene in prevalenza gli oggetti della morsicatura siano le donne); quando se ne accorge, egli avrà cura di uccidere la tarantola (e questo è un fatto che ha grandissimo peso nella cura del ballismo; chè se ciò non avviene la malattia si prolungherà per anni e anni) e poi succhiare a lungo e diligentemente la ferita, sovrapponendovi del succo d'aglio o di limone”. Ma, precisa poi il Greco, questa cura locale con aglio e limone, e tutte le altre che potrebbe consigliare un medico, sono usate con scarsa fiducia dal paziente, poiché per lui, e per il popolo, ciò che ha il potere di guarire le manifestazioni morbose della puntura del ragno, sono la musica e la danza! La cura sarà affidata, perciò e comunque, “alli sunatùri”. Dal tarantolismo, prosegue il Greco, possono essere presi tutti: “uomini e donne, bambini, giovani e vecchi”. Tutti, anche quelli che non credono né nel tarantolismo né nel ballo come cura, alla fine possono essere “morsicati” e comportarsi da tarantolati: “Si raccontano dalle zelanti comari dei fatti – e si citano anche i nomi – di persone che irridevano e non credevano al tarantolismo e che, presi anche loro da tal malattia, si son rifugiati in campagna a ballar di nascosto”. Nei “rari casi in cui il ballo è riuscito inefficace”, prosegue il Greco, “sono stati guariti da un pellegrinaggio al santuario di S. Paolo di Galatina o da una buona dose di legnate dell'impaziente marito”. La credenza popolare secondo cui la tarantola sarebbe sensibile alla musica (“la taranta oli li sueni!”) secondo il Greco è confermata da alcuni studi naturalistici. Sta di fatto, annota lo studioso, che “si dice che il falangio, quando non è ucciso, danzi insieme con la sua vittima al suon del violino e si narra che molti contadini hanno fatto uscire dalla sua buca l'aracnide, canticchiando uno dei tanti motivi che fan parte delle danze del tarantolismo”. Secondo le interpretazioni popolari del fenomeno raccolte dal Greco, ciò che spinge il tarantato a danzare è la tarantola stessa, con la sua voglia di danzare e la sua reattività alla musica, che trasmette al “morsicato”: qui, lo studioso manduriano sembra far luce su quella interpretazione del tarantismo come possessione che sarà veicolata da studiosi successivi. Scrive, al proposito: “... si crede dal volgo che il fenomeno del ballismo non sia causato da una vera entità morbosa sotto cui soggiace la vittima: ma è la tarantola che, volendo danzare, spinge l'infermo a movimenti 'incoordinati' ed incomposti: movimenti che si regolarizzano solo quando la tarantola stessa ha trovato il motivo adatto alla danza”. Il Greco prosegue poi rilevando che esistono casi in cui non c'è un nesso reale tra le manifestazioni di “ballismo” e il morso del ragno: ”molte volte alcune giovanette si son date sfrenatamente alla danza senza alcuna ragione e si è notato che questi casi accadono ordinariamente ove già un infermo di tarantolismo esperimenta la sua cura danzante. Si possono trovare due o tre affetti di tarantolismo nella stessa via e che hanno seguito il primo di pochi giorni. E poi anche nelle vie vicine in modo da dar l'idea di un focolaio morboso che abbia dato luogo nei vari giorni a vari casi della stessa malattia. Io stesso ho potuto osservare in una stessa famiglia due casi di tarantolismo e ricordo che, mentre la figlia danzava sulla via, la madre, a cui i sintomi si erano manifestati due giorni dopo, ballava chiusa in casa, seguendo la musica che serviva per la figlia”. Citando sia il Baglivi che gli studi del Carrieri, il Greco distinguetra casi di probabile aracnidismo e casi di simulazione: “ordinariamente son questi i casi notati già dal Baglivi, e che forse devono essere interpretati come fenomeni di suggestione in un terreno isterico, che guariscono rapidamente, come ho già precedentemente accennato, in una sola seduta, sotto i colpi ben assestati del randello maritale”. Dopo aver distinto (ribadendolo anche in una nota a margine con citazione di un lavoro del Carrieri) tra vere tarantolate e casi di simulazione causati da isterismo, il Greco passa poi ad una rapida descrizione della sintomatologia: “nel punto ove il morso è avvenuto può o non può avverarsi gonfiore. Alcuni sentono un dolore intenso come trafitture, che si accentuano di giorno in giorno accompagnandosi con la flogosi della parte lesa: altri non risentono nulla sino a che non compaiono i fenomeni generali. Questi nell'un caso o nell'altro sono caratterizzati da intense cefalee, vertigini, irrequietezza, malessere generale e da un bisogno intenso ed irrefrenabile di muovere ed agitare in tutti i sensi gli arti e il capo. La vittima del falangio pugliese dopo questi primi fenomeni morbosi, si appresta al ballo e vi si assoggetta come ad una necessità, al di fuori della quale non v'è altra via di salvezza”. Successivamente, il Greco descrive il rituale e lo scenario del rituale. Tra i particolari importanti che emergono, si deve osservare come nei primi del novecento persisteva ancora nei nostri paesil'usanza di svolgere il rito non necessariamente in casa ma per strada, “nella via”, usanza che già il De Martino non riscontrerà più, con la sua ricerca condotta nel 1959 (ricerca che, peraltro, non tocca Manduria e altri paesi della provincia di Taranto): “si chiamanu li sueni (si chiamano i suoni cioè i suonatori) che, ordinariamente, son composti di un violinista e una suonatrice di tamburello, la quale ha anche il compito di accompagnare col canto la danza salutare. L'infermo sceglie il posto ove deve danzare; ordinariamente è un tratto di via vicino alla sua casa. Attorno attorno vi si stendono su corde tese dei fazzoletti a rosoni e a svariati colori, tra cui predominano il giallo, il rosso, il verde”. Nel rito descritto dal Greco è presente anche l'arredo di tipo “arboreo” sulla descrizione del quale si soffermerà anche il De Martino: tralci di vite e mazzi di erbe odorose son posti come elemento decorativo del rituale, e se i tralci “coperti di pampini verdi” richiamano gli scenari delle antiche feste bacchiche, come osservano ripetutamente diversi autori, e le erbe sembrano svolgere, anche nelle annotazioni del De Martino, il ruolo di una sorta di “aromaterapia” di supporto, è vero anche (ma su questo aspetto mi soffermerò in altra occasione) che determinate erbe come quelle qui appresso citate, il basilico e la menta (e altre come la ruta, presenti nelle ricostruzioni di altri osservatori), erano anche erbe impiegate sin dall'antichità nella cura degli avvelenamenti causati da punture e morsi di animali “velenosi”: “tutt'intorno, ma sempre a volontà dell'infermo, si stendono dei tralci di vite coperti di pampini verdi e di mazzi di basilico e di menta, e la gente fa circolo attendendo che l'infermo cominci la danza”. Nella descrizione del Greco, altro elemento interessante è nel fatto che non solo i presenti o i musicisti “fanno cerchio” attorno all'infermo, la cosiddetta “ronda” o “rota” che costituisce il perimetro cerimoniale descritto più volte nelle varie e numerose dissertazioni dei diversi autori sulla coreografia del tarantismo: qui, sono i tarantati stessi che a volte tracciano un cerchio sul terreno, all'interno del quale svolgeranno la loro danza. Questa tracciatura è tipica della magia cerimoniale medievale ed è utilizzata come forma protettiva per tenere fuori dal cerchio stesso le energie negative e malvage. Appare anche nella descrizione del Greco il catino o il vaso colmo d'acqua come elemento del rito, e in questa descrizione il tarantato vede o“cerca la tarantola” nell'acqua: “alcuni tracciano sul terreno un cerchio entro cui danzeranno per ore intere senza mai oltrepassarlo: altri si fanno portare un vaso pieno d'acqua, in cui si dice cercheranno la tarantola”. Il Greco passa poi a descrivere sommariamente gli atteggiamenti dell'infermo, l'inizio del rituale, e soprattutto la reazione del tarantato alla musica: “gli atteggiamenti e le movenze sono quanto di più caratteristico si possa immaginare e chi ha visto per una sol volta danzare le nostre tarantate non potrà dimenticarle mai. L'infermo attende con gli occhi fissi a terra, in piedi o seduto, che la musica incominci e già la coppia del violinista e della suonatrice di tamburello hai primi accordi. Ma non sempre accade che l'inizio dei suoni coincida con quello della danza: l'infermo non accenna a muoversi ed i suonatori son costretti a cambiare 'motivo'”. Anche qui emergono particolari interessanti, fra i quali una complessità (numerica) dei motivi musicali che contraddice le spiegazioni date dal violinista Mazzotta a Luigi Giuseppe De Simone, che nel suo saggio del 1876 intitolato Il ballo (la Taranta, la Pizzica-Pizzica, la Tarantella), scrive di un impoverimento dei motivi musicali nel territorio tra Manduria e Sava, ridotti “ad un solo motivo” (la qual cosa avrebbe portato il Mazzotta a desistere dal recarsi a “curare” le tarantate in questi ed altri paesi dove si era persa “la vera tradizione dell'arte” in quanto la gente non sarebbe stata più recettiva ai “dodici temi, che danno dodici motivi (muedi)”. Il Greco individua invece ben 21 temi che corrispondono a “21 specie di tarantole”, ciascuna delle quali predilige un motivo in particolare, e di conseguenza influenza i “gusti” del malato: “la ricerca del 'motivo' ha una importanza capitale nella danza del tarantolismo. Si crede che 21 siano le specie di tarantole che possono nuocere, e ciascuna di queste ha il suo motivo speciale, senza il quale essa non spinge l'infermo a danzare e quindi i poveri suonatori di violino devono provare di fila tutti i motivi sino a che non abbiano trovato quello giusto: quello che vada a sangue al tarantato”.

Il Tarantismo in Manduria e dintorni. Il tarantismo a Sava. Gianfranco Mele. Tarantismo, stregoneria, sessualità e peccato nella Manduria e nel Salento del '700. La Voce di Manduria venerdì 22 novembre 2019. A cura di Gianfranco Mele. Nel 1812 due giovani savesi si arruolano nella Grande Armata Napoleonica comandata da Gioacchino Murat e partono, con un contingente di soldati del Regno di Napoli, per la Russia. Si tratta di Pasquale Prudenzano (1788-1867) e Daniele Mero (1792-1878). Questi due soldati alla fine della battaglia faranno ritorno in patria ma uno dei due, il Daniele, ferito in guerra, vi ritorna cieco e continua la sua vita facendo il suonatore di violino per le tarantate in Sava e nei dintorni. Non sappiamo altro della vita e della storia di Daniele come suonatore per le tarantate: l'unica osservazione che possiamo fare in proposito è che siamo in presenza di un clichè tipico della storia dei musicisti delle tarantate, molti dei quali, appunto, erano ciechi: è il caso di Francesco Mazzotta di Novoli, citato dal De Simone e dal De Martino, di “Pascali lu ciecu” di Lizzano che, si racconta, fosse divenuto cieco proprio a causa del morso di un ragno, del violinista tarantino “Ciotola” che nell' 800 era una conosciutissima figura nell'ambito dei musicisti locali per le tarantate, di un altro violinista cieco del quale racconta la Caggiano in un suo saggio intitolato La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto. Nel tentativo di raccogliere informazioni sul fenomeno del tarantismo in Sava andando a ritroso nel tempo, la storia di Daniele Mero è la più vecchia che abbia potuto trovare. Come noto, Sava viene fugacemente citata poi nella celebre ricerca del De Martino (nel suo testo “la Terra del Rimorso”), che a sua volta riprende alcuni passi di uno scritto del De Simone (1876): ma il De Simone cita Sava solo attraverso le parole dell'intervistato Mazzotta, il violinista cieco novoliano che, con una buona dose di campanilismo, rivendica il suo paese come una sorta di patria dell'arte della musica per le tarantate e asserisce che si è persa “la tradizione dell'arte” a: Melendugno, Sava, Manduria, Martina Franca, San Giorgio di Taranto, Monteparano, Lizzano, Montemesola, Castellaneta, Grottaglie, Francavilla Fontana, Brindisi, dove, secondo lui, i tarantati reagiscono ad un solo motivo locale, e pertanto lui si rifiuta di portarvi la sua musica. In realtà, abbiamo visto citando nelle precedenti puntate di questo excursus i testi del Gigli e del Greco, come il fenomeno rivesta una sua complessità rituale in Manduria e dintorni sino ai primi del '900. Così, le dichiarazioni del Mazzotta, che riferisce che a Sava, Manduria ed altri paesi il rito si è affievolito e i tarantati reagiscono ad un solo motivo, mentre lui intona in Novoli e altri paesi ben “dodici temi, che danno dodici motivi (muedi)”, cozza con quanto riporta Michele Greco a proposito del tarantismo locale, laddove il Greco arriva ad individuare ben 21 temi corrispondenti a “21 specie di tarantole”. Sia il De Simone che il De Martino prendono per buone le dichiarazioni del Mazzotta, trascurando di indagare questi territori. Il De Martino non si spinge oltre Avetrana nella sua ricerca. A parte, però, la consistente mole di documentazione che ci previene rispetto alla vicina Manduria da parte del Gigli, del Greco e da parte di Janet Ross, non c'è stato mai nessuno che abbia raccolto informazioni dettagliate nello specifico territorio savese. Ovviamente, per questioni di prossimità geografica (5 km di distanza appena tra le due cittadine) le analisi dei succitati autori valgono in ogni caso,per il territorio di entrambi i paesi. Tuttavia, ho cercato di compiere recentemente un ulteriore sforzo ricostruttivo del fenomeno nel paese di Sava. Proprio nel testo del De Simone è citato un motivo del leccese che veniva cantato durante il rituale: “Mariola Antonia! Mariola te lu mare!/Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !/Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele, maccaruni de Simulà” (la tarantata risponde, esclamando:) “Ohimme! Mueru! Canta! Canta!”

Rispetto al canto riportato dal De Simone ricordo un motivetto analogo accennato in Sava dalla generazione dei miei nonni (perdurato quindi, per loro bocca, ormai anziani, fino agli anni '60) del quale le strofe finali (le prime non le ricordo) erano: “... pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, Ton Pascali cu la mujèri...”

A.B., savese di oltre 60 anni, ricorda una versione identica a quella raccontata dal De Simone, citandomi, anche lui, soltanto uno stralcio: “..pesci frittu e baccalà, e ricotta cu lu meli, maccarruni ti semula”.

In coda a una ricerca condotta ai tempi dell' università nell'ambito di un seminario di antropologia, e avente come campo di indagine riti e magia nella civiltà contadina, tra la fine degli anni '80 e i principi dei '90 ritornai ad occuparmi di queste tematiche, concentrandomi stavolta sui canti popolari e sul fenomeno del tarantismo. Riuscii a raccogliere poche e fugaci notizie, tra le quali, la più importante, un canto locale caratteristico del rituale terapeutico del tarantismo. La “taranta savese” che raccolsi dalla voce di Giuseppa Calò (classe 1928) aveva alcuni versi in comune con la “taranta di Lizzano” e con la “pizzica taranta di San Marzano”, ma altri differenti, e una melodia differente, ed era quasi identica, nel testo, ad un' altra taranta raccolta in Manduria. Di recente, con il gruppo musicale e di ricerca popolare savese “Milampi & Spuntuni”, la abbiamo riproposta live. In un recente articolo apparso sulla rivista “Il Delfino e la mezzaluna” edita da Fondazione Terra d'Otranto, mi soffermo sulla descrizione di questo canto, ma anche su una serie di altre annotazioni circa quel poco che ho potuto raccogliere intorno al fenomeno del tarantismo nel territorio specifico di Sava. Tra le varie note, voglio qui riprendere due interviste condotte di recente nei confronti di anziani del paese che hanno ancora memoria, nei ricordi di quando erano bambini, di episodi di tarantismo.

Nel 2017 raccolgo dalla voce di un anziano pensionato savese, la descrizione del ballo di una tarantata in via Dante a Sava: “Era il 1948, con mia nonna assistetti ad una tarantolata. Questo avveniva in via Dante. Il nome della donna non lo ricordo. Rimasi meravigliato, tre musicanti che suonavano, e la donna ballava fino a quando non cadde a terra. La presero due uomini e la portarono a letto, dissero che dormiva. I suonatori mangiavano come affamati. Mia nonna aveva portato il vino siccome erano povera gente e i suonatori ne bevevano tanto”.

Chiedo all'intervistato se si ricorda particolari in riferimento all'arredamento della stanza che ospitava la performance della tarantata, come era vestita e come appariva la donna, che genere di arie suonavano i musicanti, con quali strumenti... e qualsiasi altro particolare gli possa tornare alla mente: “Era estate. Se ricordo bene la coppia non aveva figli, quando si giocava per strada la signora ci gridava di andare via. La stanza era (con la volta) a stella, della “di vintiquattru parmi”, in giro erano sedute persone che partecipavano insieme ai suonatori a fare un frastuono, al centro la donna che ballava con movimenti e un fazzoletto in mano. I capelli... teneva “lu tuppu” come mia nonna. E il vestito, lungo. La cosa che mi colpì tra gli strumenti era la cupa-cupa, uno strumento musicale che non avevo mai visto prima... mia nonna, mi disse che si chiamava cupa-cupa”.

Mi son ripromesso di approfondire, subito dopo questa intervista, questa storia, ma sinora ho potuto raccogliere niente di più che una lapidaria conferma dell'esistenza della “tarantata di via Dante”, dalla voce di un'altra anziana (87 anni nel 2017) che da bambina abitava in quella via: “ Abitavo in via Dante con la mia famiglia di origine, e in effetti ricordo di una tarantolata. Me ne ricordo come un sogno... non so se me ne parlò mia madre o se la vidi. Me ne ricordo come un sogno! Non ho mai creduto in queste cose e nemmeno mia madre e mio padre ci credevano, anzi provocavano in me, in noi, un senso di fastidio.”.

Un'altra informazione la ricevo da Cosima M., 84 anni (anche questa intervista è stata raccolta nel 2017): mi parla di “Nunna Teresa”, un'altra tarantata savese. Cosima non ha mai assistito direttamente alle esibizioni di Nunna Teresa, ma glie ne parlavano suo fratello e la sua sorella maggiori, che avevano avuto occasione di assistere diverse volte al rituale inscenato da questa donna. “Erano gli anni '40. In via San Cosimo c'era Nunna Teresa, che era tarantata. Il marito chiamava il vicinato e invitava tutti ad assistere... la donna ballava... gridava...si buttava sul letto. Mio fratello e mia sorella, andavano, e mi raccontavano...”.

Come noto, il tarantismo è interpretato da diversi autori come un fenomeno di “possessione” che induce il/la tarantato/a a comportarsi come l'animale dal quale è stato “morso”. Le tarantate mimerebbero dunque, durante la crisi, il comportamento del ragno, ma anche, a seconda dell'animale-veicolo del morso, dello scorpione o del serpente. Nella storia del tarantismo in provincia di Taranto sono numerosi i casi di tarantismo attribuiti alla “puntura di scorpione”, e, sempre nell'ambito della piccola ricerca apparsa sulla rivista di Fondazione Terra d'Otranto, raccolgo anche su Sava testimonianze della atavica paura nell'ambito della locale civiltà contadina del morso dello scorpione. Un episodio che non racconto in quell'articolo è invece risalente alle mie ricerche degli anni '80, ed è la storia di “Donna Candida” raccontatami da una anziana donna del posto. Avevo temporaneamente accantonato la descrizione di quel racconto, in quanto non sapevo (e non so) inquadrarlo esattamente in un contesto di tarantismo, o per lo meno di un “morso”, in quanto, purtroppo, sono andate distrutte le registrazioni audio che avevo effettuato all'epoca dell'intervista, e avevo tralasciato sia di trascrivere che di prendere appunti scritti in merito a racconti che esulavano dal tema oggetto della mia indagine (che in quel caso si restringeva alle credenze popolari sul malocchio). Le persone intervistate spaziavano su vari argomenti attinenti la magia popolare e io lasciavo fare incuriosito e registravo tutto, ma nel riassumere per costruire le mie schede scremai i contenuti che riguardavano l'oggetto di ricerca dagli altri. Siamo a Sava, nel 1983. Quando andai a intervistare Maria M., “guaritrice” del fascinum, tra le varie cose mi parlò della storia di “Donna Candida”. Mentre mi raccontava questa storia la donna parlava come in uno stato di trance, e fluiva il suo discorso immedesimata nella storia tanto da riuscire a conferirle un grande pathos. Tutto ciò che ricordo del suggestivo racconto di Maria, è che “Donna Candida” si trasformava in “una serpe” strisciando verso l'altare della Chiesa. Era stata morsa, aveva ricevuto una maledizione o un incantesimo, stava pagando il prezzo di suoi peccati ? non riesco a ricordare le pur esaustive spiegazioni che Maria mi forniva nel raccontarmi questa storia, che ad ogni modo riecheggia il mito di Cadmo trasformato da Dioniso in serpente o la leggenda medioevale di Melusina metà donna e metà serpente. L'atteggiamento della donna è simile comunque, per molti versi, a quello delle tarantate e, come noto, il serpente è un animale che si alterna alla figura del ragno, e può sostituirlo, nelle credenze popolari riguardanti il “morso” mitico.

Galatina, dal pasticciotto alle "tarantate" guarite dai santi. Angela Leucci il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. La storia di Galatina, al centro del Salento, è legata al tarantismo, alla cultura e ad alcuni dolci tipici, la cui origine si fonda su antiche leggende. La città di Galatina, posta al centro della provincia di Lecce, è un luogo d’arte, cultura popolare ed enogastronomia. Si tratta di un posto letteralmente magico: i santi patroni sono Pietro e Paolo, che si festeggiano il 29 giugno. San Paolo, in particolare, non è solo uno dei protettori della città ma anche colui che si riteneva potesse salvare le “tarantate”, donne in preda al delirio e a forti spasmi a causa del morso di un ragno.

Galatina tra devozione e arte

La città ospita numerose e suggestive chiese, per lo più romaniche e barocche. Si va dalla trecentesca basilica di Santa Caterina di Alessandria, la cui costruzione è legata al nome degli Orsini del Balzo e naturalmente con la mitica principessa Maria d’Enghien, che negli ultimi decenni sta vivendo una grande attenzione storiografica e letteraria. Fu lei a volere per la basilica le pitture murali e sulle volte, legate a maestranze giottesche, come in effetti è facile evincere solo osservandone lo stile. Tra gli altri edifici religiosi, i più notevoli sono la chiesa dei Santi Pietro e Paolo, la chiesa delle Anime Sante del Purgatorio e la chiesa del Carmine. Questi luoghi, oltre che essere interessanti dal punto di vista artistico, sono il simbolo di una devozione secolare, in cui l’agiografia si mescola alla vita quotidiana.

Le donne guarite dai santi Pietro e Paolo

Segno tangibile di questa mescolanza è la cappella di San Paolo, situata all’interno di palazzo Tondi. Qui, dal Medioevo fino al Secolo Breve, venivano condotte le donne che erano state morse dalla “taranta”, un ragno il cui veleno dava effetti simili a una frenesia, ma anche dolori intensi. Queste donne giungevano da tutta la provincia di Lecce, e pure da luoghi più lontani, su grandi carri trainati da cavalli, completamente vestite di bianco. Una volta nella cappella di San Paolo, le “tarantate” (in italiano “tarantolate”) venivano abbeverate con l’acqua di un pozzo legato alla chiesetta, dopo di che erano sottoposte alla cura: attraverso la musica di tamburi a cornice e ritmi frenetici (e non è raro, ancora oggi, che i tamburellisti finiscano per avere le mani sanguinanti), si eseguiva una sorta di esorcismo, che sarebbe servito a liberare le donne dal morso del ragno. Sono molte le ipotesi che si possono avanzare su questo fenomeno. L’antropologo Ernesto De Martino notò che era legato al genere femminile e una particolare età della vita, ossia il menarca e la pubertà: la liberazione dal veleno della “taranta” era quindi un rito di passaggio delle donne verso l’età adulta, un rito in un certo senso di liberazione sessuale, tanto che, non a caso, molti brani tipici della pizzica salentina parlano di rapporti sessuali (talvolta anche non consensuali, quindi stupri), zone erogene, seduzione e voti di astinenza, come d’altra parte accade un po’ in tutta la musica folkloristica regionale italiana.

Dalla pizzica “trance” alla Taranta 

Dai brani musicali che venivano eseguiti, spesso estemporaneamente a partire da canovacci di note e ritmi, per liberare le “tarantate”, è nata la "pizzica trance”, ossia un filone musicale all’interno della pizzica, che prende spunto dal ruolo salvifico e catartico che la musica possiede.

Ma le influenze della pizzica sono diverse e la musica folk salentina è partita da un agglomerato di diversi sottogeneri che sono confluiti in essa: le serenate, gli stornelli, la cosiddetta “pizzica de core” in cui avviene il corteggiamento tra ballerina e ballerino, i lamenti funebri e molto altro. Con il passare del tempo, la pizzica è diventata world music, attraverso la contaminazione con altra musica folk, per lo più dal Mediterraneo (d’altra parte, ad esempio, “Kalinifta”, canto popolare della Grecìa salentina, ha delle forti connessioni con il sirtaki), ma non solo. Con la nascita della Notte della Taranta, festival sorto in seno a Melpignano, cuore della Grecìa salentina, questo legame della pizzica con la world music si è istituzionalizzata e il festival, che dura alcune settimane in agosto ogni anno, fa naturalmente tappa a Galatina, che sebbene non faccia parte della Grecìa rappresenta un punto fondamentale per le tradizioni popolari salentine. Soprattutto quelle legate appunto al tarantismo.

Il pasticciotto 

Alla città di Galatina sono inoltre legati dei prodotti tipici, in particolare prodotti di pasticceria, come gli africani, che sono realizzati a partire da una specie di zabaione cotto. Ma il cibo galatinese più celebre tra tutti è forse il pasticciotto, versione monoporzione di un dolce diffuso in tutto il sud Italia già dal '500, a base di pasta frolla e crema pasticciera. Non si sa se sia leggenda o realtà: il pasticciere Nicola Ascalone, a metà del ‘700, realizzò per caso il pasticciotto con avanzi di crema e pasta frolla: secondo la leggenda, lo fece in una sera ben precisa, quella del 29 giugno, il giorno delle “tarantate”. 

Angela Leucci.  Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

·        Succede a Lecce.

PERQUISIZIONI E SEQUESTRI. Corruzione, indagini su un altro magistrato del Tribunale di Lecce: avrebbe ricevuto in dono del pesce. Gli accertamenti riguardano il giudice Alessandro Silvestrini. Gianfranco Lattante su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Ottobre 2022.

La perquisizione in casa di un magistrato svela l’esistenza di un’altra inchiesta della Procura di Potenza per corruzione in atti giudiziari. Qualche giorno fa, i finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria e della Compagnia di Gallipoli hanno eseguito un decreto di perquisizione nei confronti di Alessandro Silvestrini, giudice presso la sezione Commerciale del Tribunale Civile e candidato alla presidenza del Tribunale. Nella stessa inchiesta compaiono anche il geometra Antonio Fasiello e l’imprenditore Eusebio Giovanni Mariano. Le perquisizioni si sono concluse con il sequestro di documentazione, di computer e di telefonini. Sullo sfondo ci sarebbe una procedura fallimentare. Le indagini dovranno verificare se l’iter della pratica sia stato ortodosso oppure se ci siano state pressioni, accelerazioni, corsie preferenziali ed eventuali benefit (al giudice sarebbe stato regalato del pesce). Al momento si tratta solo di ipotesi ancora da riscontrare ed accertare. E il decreto di perquisizione con l’ipotesi di reato non è certo una condanna anticipata. I destinatari del decreto di perquisizione sono assistiti dagli avvocati Leonardo Pace, Giuseppe Della Torre e Giancarlo Raco.

A disporre la perquisizione sono stati il procuratore di Potenza Francesco Curcio e i sostituti Elena Mazzilli ed Emiliano Busto. Si tratta degli stessi magistrati che conducono l’altra inchiesta per corruzione in atti giudiziari che ha scosso il Tribunale civile di Lecce. E difatti, questa seconda inchiesta, può considerarsi una sorta costola della prima da cui si è staccata per poi alimentarsi di ulteriori elementi.

L’altra inchiesta è quella che ruota attorno alla figura del giudice Pietro Errede, pure lui magistrato della sezione Commerciale, delegato alle procedure concorsuali nonché giudice delle esecuzioni immobiliari. Il giudice Errede è stato anche componente dell’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale. È indagato per corruzione in atti giudiziari, corruzione per un atto contrario ai dover d’ufficio, concussione e turbativa d’asta insieme a quattro avvocati (Alberto Russi, originario di Galatina; Giuseppe Positano, di Lecce; Antonio Casilli, di Lecce, e Rosanna Perricci, di Monopoli, assessora comunale nella sua città), tre commercialisti (Marcello Paglialunga, di Nardò; Giuseppe Evangelista, di Lecce; ed Emanuele Liaci, di Gallipoli) ed una cancelliera (Graziella De Masi, di Lecce, assistente giudiziaria della cancelleria del giudice Errede). Il sospetto è che il magistrato abbia pilotato e condizionato gli affidamenti di incarichi di amministratore giudiziario in cambio di regali e altre utilità.

La procura di Potenza dopo Taranto adesso indaga sugli uffici giudiziari di Lecce. Ma quando si indagherà anche sulla procura lucana? Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 6 Ottobre 2022. 

Alessandro Silvestrini è accusato di corruzione impropria con un geometra e un imprenditore: "Accuse assurde, ho chiesto io stesso di essere indagato per dimostrarlo". L’accusa ipotizzata sarebbe inerente attorno ad un procedimento trattata dalla sezione fallimentare, e si farebbe riferimento ad un pesce ricevuto in regalo dal magistrato!

Dopo le discutibili indagini della procura di Potenza competente ad indagare sui magistrati in servizio nel distretto di Lecce, Brindisi e Taranto, sul caso Capristo dove le accuse a carico dell’ex procuratore capo di Taranto si stanno sciogliendo una ad una come neve sotto il sole (e la solita stampa “sodale” della sinistra giudiziaria tace…) , e dopo il rigetto da parte dell ‘ufficio Gip del Tribunale di Potenza su tutte le richieste di patteggiamento dell’avvocato-faccendiere Piero Amara “sponsorizzate” dalla Procura lucana, questa volta è il turno degli uffici giudiziari di Lecce, dove una nuova inchiesta agita il Tribunale civile di Lecce. 

La procura di Potenza ha avviato un’indagine per corruzione impropria in atti giudiziari a carico del giudice Alessandro Silvestrini, presidente della sezione commerciale e fallimentare del Tribunale di Lecce, che vede coinvolti pure un geometra e un imprenditore.

I finanzieri della Compagnia di Gallipoli nella giornata di ieri, hanno eseguito delle perquisizioni su delega dei pm inquirenti (il procuratore di Potenza Francesco Curcio è titolare del fascicolo) nelle abitazioni dei tre indagati, sequestrando vari dispositivi elettronici, il cui contenuto ora sarà passato al setaccio. L’accusa ipotizzata nei confronti del giudice Silvestrini, che indagato insieme al geometra Antonio Fasiello ed all’imprenditore Eusebio Mariano, sarebbe inerente attorno ad un procedimento trattata dalla sezione fallimentare, e si farebbe riferimento ad un pesce ricevuto in regalo dal magistrato. Onestamente vedere un magistrato corrotto con un pesce, perdonatemi ma sa tanto di “pesce d’aprile”, solo che siamo ancora ad ottobre… 

In una nota diffusa ai giornali il giudice Silvestrini si difende: “Ho appreso di essere indagato per corruzione impropria . Secondo la Procura di Potenza, un geometra, che è mio amico e vicino di casa da circa quaranta anni e che ha lavorato nello stesso ufficio di mia moglie per circa dieci anni, mi avrebbe regalato un pesce per sollecitare il compimento da parte mia di atti assolutamente dovuti e non discrezionali“.

“Tutti gli atti della procedura sono regolarissimi – continua la nota del magistrato del Tribunale Fallimentare di Lecce – Si tratta di atti, non soltanto dovuti ma addirittura scontati, che il giudice deve necessariamente emettere per non incorrere in omissioni di atti d’ufficio. Peraltro, dal rapporto degli organi di pg risulta che, a dispetto del presunto regalo del pesce (che non ricordo di avere mai ricevuto), io non adottai tali atti, per cui a distanza di circa dieci giorni il cancelliere fu costretto a portare sulla mia scrivania in ufficio la pratica in questione, affinché io finalmente la prendessi in considerazione“. 

Il giudice è convinto e pronto a dimostrare la sua innocenza: “Dimostrerò l’assurdità di tale impostazione accusatoria – conclude la nota – ho già chiesto alla Procura di Potenza di essere immediatamente interrogato. Nel frattempo, l’indagine ed il conseguente strepitus (per l’ennesima volta non si comprende chi abbia divulgato la notizia: gli organi di pg che mi hanno notificato l’atto – da me interpellati – hanno dichiarato che la Procura di Potenza non ne ha autorizzato la divulgazione) mi hanno già arrecato un grave pregiudizio: quello di ritardare ulteriormente la decisione del Csm sulla nomina del presidente del Tribunale di Lecce“. 

La sentenza del Consiglio di Stato sul Tribunale di Lecce

I giudici della quinta sezione del Consiglio di Stato hanno accolto nell’ agosto dello scorso anno il ricorso presentato da Alessandro Silvestrini, presidente della sezione commerciale della Corte d’Appello, per chiedere l’annullamento della sentenza di aprile corso del Tar Lazio. Se quella sentenza aveva respinto l’istanza di annullamento della decisione del Csm di consegnare la presidenza del Tribunale nelle mani di Roberto Tanisi, il provvedimento di Palazzo Spada sposa le ragioni del ricorrente: Tanisi non avrebbe dovuto convocare la seduta con cui il consiglio giudiziario della Corte d’Appello di Lecce fornì il parere attitudinale su Silvestrini. Tanto perché la firma di Tanisi sulla convocazione fu apposta il 9 maggio del 2019, lo stesso giorno in cui il Csm lo informò del provvedimento di decadenza da presidente della Corte d’Appello e dunque anche da presidente del consiglio giudiziario.

Si parla per questo di obbligo di astensione per non incorrere in una situazione di conflitto di interessi, nella sentenza del Consiglio di Stato (presidente Giuseppe Severini, estensore Giovanni Grasso, consiglieri Fabio Franconiero, Federico Di Matteo e Stefano Fantini). Non era stata presa in considerazione – come invece avevano fatto i giudici del Tar Lazio – la circostanza che Tanisi convocò quella seduta del consiglio giudiziario nelle prime ore del 9 maggio, ancora prima di ricevere la comunicazione del Csm della nomina a presidente della Corte d’Appello di Lanfranco Vetrone il quale lasciò l’ufficio appena ricevuta la comunicazione e che non partecipò alla seduta sulla valutazione delle attitudini del collega Silvestrini a ricoprire la funzione di capo di un ufficio direttivo.

A questo punto resta una domanda che temiamo resterà insoluta: chi aprirà il procedimento dovuto e previsto per legge per la violazione del segreto istruttorio avvenuto a Potenza ? O forse negli uffici giudiziari lucani tutto è consentito… e guai a chi osa disturbare il manovratore ed i suoi adepti teleguidati ? Ed incredibilmente qualcuno la chiama pure “giustizia”… ! 

Otranto e Punta Perotti: i tempi della giustizia disallineati dalla realtà. Capita, spesso e non volentieri, che decisioni e provvedimenti arrivino ad anni e anni di distanza dai fatti, lasciando così spesso interdetto l’uomo della strada. Mimmo Mazza su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Settembre 2022.

I tempi della giustizia non corrono praticamente mai paralleli a quelli della politica, della pubblica amministrazione e dei privati cittadini. Capita, spesso e non volentieri, che decisioni e provvedimenti arrivino ad anni e anni di distanza dai fatti, lasciando così spesso interdetto l’uomo della strada, estraneo per sua fortuna ai riti giudiziari e in qualche caso fuorviato da chi (stra)parla di giustizia a orologeria.

Gli ultimi due episodi giudiziari made in Puglia non fanno eccezione alla regola. A Otranto, carabinieri e finanzieri, su mandato dall’autorità giudiziaria leccese, hanno arrestato politici e imprenditori, accusati di far parte - addirittura - di una vera e propria associazione a delinquere per compiere vari reati contro la pubblica amministrazione, tentando di condizionare la vita politica cittadina e perfino quella nazionale, con ombre riguardanti le elezioni politiche nazionali del marzo del 2018, cinque anni fa. Anche buona parte degli ipotizzati reati fine della supposta associazione a delinquere sono datati nel tempo (2017-2018) pur essendo alcune delle vicende amministrative citate negli atti ancora in corso di svolgimento. Dunque, ci si chiede, perché tanta distanza tra i presunti reati e gli arresti? Bella domanda alla quale manca una risposta, soprattutto in punta di diritto perché tra le tante riforme della giustizia annunciate e fatte, nessuna ha mai toccato la carne viva della materia, ovvero i termini di rito. Continua ad essere possibile, senza che la cosa costituisca fonte di problematiche di alcun tipo, che un giudice per le indagini preliminari possa decidere su una richiesta di emissione di ordinanza di custodia cautelare, e cioè di privazione della libertà personale dell’indagato, in un giorno o in due anni, una tempistica che influisce, spesso irrimediabilmente, sia sulle esigenze cautelari stesse (pericolo di fuga, rischio di reiterazione del reato, inquinamento delle prove) che sul futuro processo, i cui termini di prescrizione camminano inesorabilmente dalla data di commissione del presunto delitto (ovvero dal 2017, nel caso di Otranto). Quindi, spesso va a finire che l’unica pena realmente scontata dagli indagati futuri imputati sia quella pre-sofferta nella fase delle indagini preliminari.

Attenzione, nessuno vuole sostenere che gli arresti di Otranto non andavano eseguiti; l’occasione, al contrario, serve a sollecitare maggiore sollecitudine nell’azione giudiziaria, munendola di tempi certi, di strumenti e risorse adeguate, per dare risposte celeri a chi chiede giustizia e maggiore tutela al bene pubblico giacché proprio nel caso di Otranto sembra emergere la persistenza di una gestione deviata della pubblica amministrazione per anni e anni malgrado i riflettori accesi dalla polizia giudiziaria.

Sempre ieri, la Corte d’Appello di Bari ha condannato Ministero della Cultura, Regione Puglia e Comune di Bari, in solido tra loro, al pagamento di quasi 8,7 milioni di euro (più rivalutazione in base agli indici Istat dal 2001 ad oggi) in favore della società Sudfondi srl in liquidazione, degli imprenditori Matarrese, come risarcimento del danno patrimoniale subito dall’abbattimento - avvenuto nel 2006 - dei palazzi di Punta Perotti, sul lungomare di Bari. A 16 anni di distanza, insomma, dall’abbattimento-show che fu trasmesso in diretta televisiva e a ben 27 anni dall’inizio dei lavori della lottizzazione, arriva una nuova decisione giudiziaria in una vicenda contrassegnata da sentenze spesso contrastanti. La lottizzazione fu ritenuta abusiva ma gli imprenditori furono tutti assolti (nel 2001) perché avevano ottenuto una regolare autorizzazione edilizia. I palazzi furono confiscati e demoliti nel 2006 ma quella confisca fu dichiarata illegittima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La sentenza di ieri riconosce che il risarcimento stabilito dalla Cedu non copriva tutti i danni, riguardando unicamente la illegittimità della confisca e non l’accertamento della responsabilità in capo alle amministrazioni che avevano rilasciato le concessioni edilizie e autorizzazioni che avevano dato il via libera ai cantieri, e quindi dispone un ulteriore il ristoro per le spese sostenute per la progettazione, i costi pubblicitari, i pagamenti di Ici e oneri di urbanizzazione, gli oneri finanziari e parte dei costi di esecuzione dei lavori.

Una roba da far girare la testa e da generare confusione anche nei cittadini meglio informati. Senza considerare che la sentenza di ieri non è definitiva.

Terremoto a Otranto, l’affare del Mercato coperto: «Bando e progetto su misura». Bar e ristoranti nella struttura sul mare. A vincere è una società costituita il giorno prima con 500 euro di capitale. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Settembre 2022.

Il vecchio e fatiscente Mercato coperto di Otranto dovrebbe diventare una grande struttura per l’intrattenimento, con bar, ristoranti e uffici. Ma la Procura di Lecce ritiene che anche questo procedimento, approvato in Consiglio comunale ad aprile 2021, sia stato truccato gonfiandone la volumetria così da evitare che la delibera dovesse passare al vaglio della Regione. Un trucco che - dicono le indagini - serviva a far sì che l’incremento di volumetria del nuovo edificio risultasse nel limite del 20%, per renderlo compatibile con il piano regolatore. E che sarebbe stato il presupposto anche della gara per affidare il progetto, pure quella ritenuta truccata.

Ad aggiudicarsi l’appalto per l’operazione è stata la Capital srls, società da 500 euro di capitale costituita un giorno prima della pubblicazione del bando di cui è stata unica partecipante. E di cui, dice la Procura basandosi sulle intercettazioni, il progetto posto a base di gara dal Comune era stato in realtà predisposto da un architetto, Marina Bello, vicinissima al sindaco Pierpaolo Cariddi di cui è stata consulente di parte nel processo per gli abusi al Twiga. Coincidenze, certo. Come lo sarebbe il fatto che la Capital sarebbe intestata a un 45enne di Poggiardo, Roberto Andrea Ippati, che oltre al resto dovrà rispondere pure di aver percepito illegittimamente 500 euro al mese di reddito di cittadinanza.

Proprio l’esposto presentato da un altro architetto ha fatto partire questo troncone dell’indagine, affidato alla Finanza di Otranto che ha spulciato le carte del Comune. E ha scoperto che dopo l’aggiudicazione alla Capital (ritenuta riconducibile ai fratelli Antonio e Roberto Cappelli, 40enni di Gagliano, difesi dagli avvocati Alberto e Rocco Luigi Corvaglia) il progetto di demolizione e ricostruzione del mercato è diventato una «ristrutturazione», fermo restando però che una rilevante parte dell’immobile sarebbe rimasta di proprietà della società privata. «Emerge - scrivono i finanzieri nell’informativa mandata in Procura - una commistione tra l’interesse privato e l’interesse autenticamente pubblico tant’è che, prima della pubblicazione del bando di gara, l’amministratore di fatto della società Capital srls Antonio Cappelli si dirigeva presso l’ufficio del sindaco Pierpaolo Cariddi per il deposito di alcuni calcoli statici. Nel contempo, la società Capital srls utilizzava quale architetto per la redazione dei progetti la Bello Marina che, come emerso nel corso delle intercettazioni, si era adoperata ufficiosamente per conto del Comune con incarico del sindaco Cariddi a redigere le planimetrie e le misurazioni a base di gara senza ricevere in cambio alcun compenso in palese situazione di incompatibilità. La stessa Bello, come emerge da approfondimenti eseguiti ha ricoperto e continua a ricoprire incarichi come consulente esterno per il Comune di Otranto, nonché risulta percettrice di redditi da parte di società che si aggiudicano appalti pubblicati dallo stesso Comune ed esecutori di lavori sottosoglia». Da qui le accuse a vario titolo di falso ideologico e turbativa d’asta che coinvolgono gli imprenditori, il sindaco Pierpaolo Cariddi, il tecnico comunale Emanuele Maggiulli e l’architetto Bello.

Il 2 febbraio scorso il tecnico nominato dalla Procura ha effettuato un sopralluogo al mercato coperto per rifare i calcoli. E quando gli notificano l’avviso di garanzia, Pierpaolo Cariddi avverte il fratello Luciano: «Avviso di garanzia senza sequestro per valutazioni false sui volumi (...) È venuta la Polizia Provinciale e Finanza, hanno fatto un rilievo con il drone, mo io sto andando in Finanza per trasmettergli il definitivo mio eh... E verbalizzare che quella era una fase progettuale eh e che questa è definitivo così». I lavori sono stati bloccati.

Otranto, tra imprese e incarichi: le mani dei Cariddi sugli appalti. Roberto De Santis e la candidatura di Luciano: «Votiamo l’Udc e D’Alema». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 settembre 2022.

L’ormai ex sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi, non era soltanto esponente di una famiglia politicamente molto forte, che da 15 anni esprimeva il primo cittadino. Era anche, forse soprattutto, il ras delle opere pubbliche. Perché prima di indossare la fascia tricolore, Cariddi aveva il caschetto da ingegnere. E con quello era stato il direttore dei lavori dei principali appalti del territorio.

Lo ha ricostruito la Procura di Lecce, nella richiesta di misure cautelari che ha portato il gip Cinzia Vergine a disporre l’arresto in carcere di Cariddi e del fratello (l’ex sindaco Luciano, suo predecessore) e i domiciliari per altre 8 persone, in gran parte accusate, a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità, di associazione a delinquere finalizzata a corruzione, concussione e voto di scambio, in quello che la pm Roberta Licci definisce il «sistema Cariddi» con cui i due fratelli «esercitano un vero e proprio “controllo” sul territorio» anche «attraverso l’interferenza sull’operato dei funzionari degli uffici comunali»...

OPERAZIONE CARABINIERI E GDF. Illeciti in cambio di voti: terremoto a Otranto, 10 arresti tra cui il sindaco e l'imprenditore De Santis. Sequestri milionari di lidi e strutture ricettive. Pierpaolo e Luciano Cariddi in carcere, 8 persone ai domiciliari tra amministratori, funzionari pubblici, imprenditori e liberi professionisti, 60 in tutto gli indagati. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022

Un esposto su presunte irregolarità edilizie ha fatto partire il nuovo terremoto che scuote la politica di Lecce. In carcere sono finiti i fratelli Pierpaolo e Luciano Cariddi, rispettivamente sindaco ed ex sindaco di Otranto, portando ai domiciliari uno degli imprenditori più noti del Salento, Roberto De Santis, insieme al presidente provinciale di Federalberghi Raffaele De Santis (per tutti Mimmo). Sono 60 le persone coinvolte nell’inchiesta della pm Giorgia Villa con l’aggiunto Elsa Elisa Mignone della Procura di Lecce. Rispondono, a vario titolo e secondo le rispettive responsabilità, di associazione per delinquere finalizzata al compimento di plurimi delitti contro la Pubblica Amministrazione, la fede pubblica e l’amministrazione della giustizia, oltre che in materia di corruzione elettorale, per atti contrari ai doveri d’ufficio, frode in processo penale e depistaggio, turbata libertà degli incanti, truffa ai danni dello Stato e dell’Unione Europea. L'indagine è denominata Hydruntiade, e tra gli indagati ci sono anche l’ex assessore regionale al Welfare, Totò Ruggeri, già ai domiciliari nell’ambito dell’operazione «Re Artù» che ha riguardato anche Pierpaolo Cariddi attualmente sospeso dalla carica di primo cittadino.

Ai domiciliari sono finite altre sei persone (i dirigenti e funzionari comunali Emanuele Maggiulli, Giuseppe Tondo, Marco Maggio, Salvatore Giannetta, e l'imprenditore Luigi Bleve). Le misure sono state eseguite dai finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Lecce diretto dal tenente colonnello Giulio Leo, e della compagnia di Otranto, oltre che dai carabinieri, con il reparto operativo diretto dal tenente colonnello Pasquale Montemurro, e dalla polizia provinciale di Lecce, che hanno notificato anche sequestri di immobili e di denaro, comprese strutture turistico-ricettive, stabilimenti balneari, aziende agrituristiche e diverse unità immobiliari che sarebbero stati illecitamente autorizzati o realizzati in violazione delle norme in materia edilizia e paesaggistica. La Procura di Lecce ipotizza l’esistenza di «un consolidato sistema associativo di natura corruttiva politico-imprenditoriale» che riguarda il Comune di Otranto e coinvolgerebbe amministratori e funzionari «troppo vicini» ad alcuni imprenditori del posto: appalti e concessioni addomesticate in cambio di utilità tra cui regali o anche il sostegno elettorale per alcuni politici. Tra gli indagati (con l'accusa di concorso in turbativa d'asta e falso) anche il vicesindaco Michele Tenore: secondo l'accusa (in concorso con i fratelli Cariddi e alcuni funzionari), avrebbero fatto in modo di favorire nell'aggiudicazione di appalti l'altro fratello Stefano Cariddi e il cugino Raffaele Cariddi.

Più nel dettaglio, l’accusa ritiene che i fratelli Cariddi, Luciano commercialista e Pierpaolo ingegnere, a partire dal dicembre 2017 abbiano promosso e organizzato una associazione per delinquere composta anche da funzionari comunali e imprenditori, finalizzata alla corruzione elettorale, per supportare l’ex sindaco Luciano alle elezioni politiche di marzo 2018 e Pierpaolo che gli è subentrato come primo cittadino, e per «la realizzazione degli investimenti economici degli imprenditori amici» attraverso - dice la Procura - «una vera e propria “svendita” del territorio del Comune di Otranto in spregio agli strumenti urbanistici vigenti ed alle norme di tutela del paesaggio». Un meccanismo che avrebbe portato «introiti costanti» allo studio professionale dei Cariddi, perché «la scelta del predetto studio per la progettazione dei lavori delle numerose pratiche (inerente la realizzazione per lo più di strutture turistico-ricettive, ma anche le correlate pratiche di finanziamento) costituiva per il privato garanzia di agevole approvazione da parte dell’amministrazione comunale, essendo i pubblici funzionari consapevoli della riconducibilità dei progetti al predetto sindaco». La Procura di Lecce contesta l’accusa di associazione per delinquere anche al comandante della Polizia municipale di Otranto, Vito Alberto Spedicato, che «si poneva a disposizione» in occasione delle verifiche sulle opere realizzate «preavvisando gli imprenditori dei previsti controlli, così da consentire agli stessi» di evitare i sequestri e inquinare le indagini «anche in relazione a procedimenti pendenti presso l’ufficio di Procura».

Raffaele e Roberto De Santis (insieme a Luigi, figlio di quest’ultimo) rispondono di corruzione per l’autorizzazione rilasciata dai funzionari comunali allo stabilimento Twiga (in realtà mai realizzato, e per la quale proprio nei giorni scorsi sono arrivate le condanne in primo grado). I due, insieme a Luciano Cariddi, avrebbero tentato di far revocare alla Capitaneria di porto un’ordinanza che impedisce la balneazione davanti al tratto di costa interessato, «provvedendo De Santis Roberto a dettare a Cariddi Pierpaolo una lettera di diffida, a suo dire suggeritagli in Regione (…) rivolta al Comune di Otranto affinché si attivasse per risolvere il problema». In cambio dell’aiuto, Raffaele De Santis avrebbe procacciato voci per la candidatura di Luciano Cariddi al Senato nel 2018 nelle liste dell’Udc, «dopo aver fornito peraltro analogo supporto alle elezioni amministrative del 2017 anche a Cariddi Pierpaolo, omaggiando altresì di regali quali pacchi alimentari lo stesso sindaco». Roberto De Santis avrebbe invece, «grazie a suoi contatti in contesti romani», assicurato la candidatura di Luciano Cariddi alle Politiche di marzo 2018, «così vantando un credito e potere contrattuale nei confronti dei fratelli Cariddi tale che Cariddi Pierpaolo, invitato da De Santis Luigi a partecipare quale sindaco ad un convegno con D’Alema esclamava: “Se pure avessi il diavolo e tu Luigi, e te Roberto mi dici, Pierpaolo! Avremo piacere se ci serve la tua presenza, io per voi vengo comunque… indipendentemente!”».

La Procura di Lecce aveva chiesto anche l’arresto ai domiciliari degli imprenditori Luigi Marti e Mario Settembre, rigettato dal Gip che invece ha disposto l’esecuzione della gran parte dei sequestri chiesti dall’accusa: tra questi due agriturismi («Li Damiani» e «De Matteis» di Otranto), «Masseria Longa», due strutture dedicate a servizi turistici di proprietà di Raffaele De Santis e Salvatore Giannetta, e numerosi altri immobili su cui sarebbero stati eseguiti lavori con autorizzazioni rilasciate illegittimamente.

L'OPERAZIONE. Otranto, i fratelli Cariddi e il business dei supermercati: «Ho una palazzina pronta...» Stavano tentando di vendere al re locale dei supermercati, Salvatore Giannetta, il mercato comunale di Otranto oppure «una grossa struttura immobiliare in corso di realizzazione». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022

I fratelli Cariddi stavano tentando di vendere al re locale dei supermercati, Salvatore Giannetta, il mercato comunale di Otranto oppure "una grossa struttura immobiliare in corso di realizzazione" riferibile sempre a loro, in cui aprire un nuovo Eurospin. E' quanto emerge dalle carte dell'inchiesta che ha portato in carcere l'ex sindaco e l'attuale primo cittadino di Otranto.

La vicenda emerge da una intercettazione del 13 luglio 2018 tra Pierpaolo Cariddi e Giannetta, nel quale il primo mostra al secondo le immagini di una palazzina con 42 appartamenti in cui era possibile trovare un locale da "550-600 metri".

"Come ti dicevo, se c'è una disponibilità... E' una cosa e noi facciamo l'operazione... (...) se vi date un'occhiata così eh! Ed un’altra mega—mega palazzina e, dove tengo varie soluzioni... Ci sono due piani interrati (...) No, qua è il cimitero!...accollata alla palazzina mia... ho finito pure il rustico del piano terra, poi ho lasciato perchè...". Secondo le intercettazioni, Pierpaolo Cariddi avrebbe ipotizzato di estromettere dall'operazione i suoi parenti per diventare socio: "Lo faccio per me, l'interesse è mio e recuperare i soldi per cacciare loro (...) Potrei, anche, rimanere invece dentro da socio... Mettendoci dentro la quota di parte (...)..eh!...c'era un momento della legge economica ...(...) un 1.000 metri!...anche di più perchè poi questo terreno qui ....residuale ..che non è edificabile ...poi si deve aprire perché dobbiamo fare area qua". L'imprenditore si mostra possibilista: "Va bene, tu hai messo 700 noi metteremmo 600 questo valuteremmo, un terzo un terzo un terzo, in tutto quello che si spende da oggi in avanti". Secondo le intercettazioni a settembre 2018 l'imprenditore, insieme ai due fratelli, stava prendendo accordi per "agevolare la procedura di acquisizione di un terreno o fabbricato comunali attraverso una procedura di permuta non ancora definita ed evidentemente soggetta ad apposito bando pubblico, consentendo, in tal modo, a Giannetta di realizzare un ulteriore grosso punto vendita" della catena Eurospin. 

Corruzione a Otranto, chi è Roberto De Santis, l'uomo dei grandi affari all'ombra di D'Alema. L’ordinanza del Tribunale di Lecce ha posto ai domiciliari il 64enne di Martano, proprietario di alcuni dei più bei resort del Salento. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022

È ritenuto l’imprenditore storicamente più vicino all’ex ministro degli esteri Massimo D’Alema. Ma secondo molti, Roberto De Santis è anche al centro di alcuni dei più importanti affari degli ultimi trent’anni: petrolio, energie rinnovabili, turismo, grandi appalti. Sempre all’ombra della politica, con un soprannome più datato («l’uomo ragno») e uno più recente («l’uomo invisibile», perché non si fa mai fotografare). Ecco perché l’ordinanza del Tribunale di Lecce che ha posto ai domiciliari il 64enne di Martano, proprietario di alcuni dei più bei resort del Salento, ha fatto molto rumore: secondo le indagini nel 2018 sarebbe stato lui a propiziare la candidatura al Senato dell’ex sindaco di Otranto, Luciano Cariddi, nelle file dell’Udc, in cambio di un aiuto illecito per ottenere le autorizzazioni necessarie ad aprire il Twiga di Otranto.

Negli anni De Santis è stato coinvolto, uscendone sempre a testa alta, in moltissime inchieste giudiziarie di mezza Italia ma soprattutto in grandi scandali. Era ad esempio tra i partner di Gianpaolo Tarantini, a cavallo tra 2007 e 2009, quando l’ex re degli appalti sanitari pugliesi venne coinvolto nelle indagini sulle escort di Berlusconi e in cui l’imprenditore salentino (mai indagato) appariva come tramite. Apparve come un fantasma nell’inchiesta di Firenze sui grandi appalti della Protezione civile, e in quella sui termovalorizzatori in Sicilia. Poco dopo venne coinvolto nell’inchiesta sul «sistema Sesto», che ipotizzava illeciti finanziamenti al Pd o meglio alla fondazione «Fare Metropoli» di Filippo Penati, all’epoca braccio destro di Pierluigi Bersani: un assegno di 10mila euro su cui, però, il Tribunale di Milano ritenne che non sono stati compiuti illeciti.

Finora mai nessuna condanna ha scalfito il suo curriculum imprenditoriale di altissimo livello tra energia, immobiliare e ultimamente soprattutto turismo. Una carriera sempre lontana dai riflettori (tutti lo conoscono, nessuno lo ha mai fotografato), nata all’ombra della sinistra e in particolare dell’entourage di Massimo D’Alema di cui De Santis è stato per anni uno stretto collaboratore, tanto da condividere la proprietà della celebre barca «Ikarus».

L’ultima indagine è quella sulle mascherine fornite alla Protezione civile del Lazio, per la quale De Santis è accusato a Roma di traffico illecito di influenze. De Santis ha ricevuto un bonifico di oltre 30mila euro da una società, European Network, che è al centro degli accertamenti per una presunta maxitruffa da 22 milioni di euro: l’imprenditore pugliese è sospettato di aver fatto da procacciatore d’affari, ponendosi come tramite nei confronti dell’ex commissario straordinario Domenico Arcuri. L’ultima suggestione invece emerge direttamente dalle carte dell’inchiesta di Potenza sul faccendiere Piero Amara, che ha raccontato una storia su cui sono in corso accertamenti: l’Eni nel 2019 avrebbe fatto una transazione da 35 milioni con una società off-shore, la Blue Power dell’imprenditore pugliese Francesco Nettis, per lo sfruttamento di un brevetto (in realtà mai utilizzato) per l’estrazione del gas. La vicenda è stata esaminata anche dalla Procura di Milano. A Potenza, quando gli chiedono conto del motivo della transazione, Amara risponde così: «Perché dietro Blue Power c’era un imprenditore, mi pare si chiami Ledis (in realtà Nettis, ndr), e un certo Roberto De Santis che gestiva insieme a Descalzi questa operazione, e perché c’era l’interesse di D’Alema».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 13 settembre 2022.

Per la prima volta da circa sessant' anni a questa parte Massimo D'Alema non sta prendendo parte ufficialmente alla campagna elettorale nella sua Puglia. Il politico a lui considerato più vicino nel Pd, Dario Stefàno, non è stato ricandidato. Nonostante questa scelta da Cincinnato, forse imposta dalle polemiche per la sua contestata intermediazione nella trattativa per vendere armi alla Colombia, non lo ha messo al riparo da citazioni non gradite su siti e giornali. 

Infatti è finito agli arresti domiciliari, su richiesta della Procura di Lecce, un imprenditore considerato a lui vicinissimo, il sessantaquattrenne Roberto De Santis da Martano. Una vera disdetta per D'Alema, che, come vedremo, viene evocato pure nell'ordinanza sebbene con la vicenda giudiziaria non c'entri nulla.

Roberto, il figlio trentaduenne Luigi e l'omonimo Raffaele De Santis, il presidente di Federalberghi Lecce, sono accusati di corruzione nei confronti dei fratelli Pierpaolo e Luciano Cariddi, i quali si sono passati il testimone di sindaco di Otranto. I De Santis avrebbero offerto incarichi professionali e sostegno politico, mentre i Cariddi si sarebbero messi costantemente a disposizione dei loro corruttori per «tutelare gli interessi economici» di questi, a partire dall'auspicata e naufragata apertura di un locale per vip sulla spiaggia. Un progetto di cui Roberto De Santis, per l'accusa, sarebbe stato «l'effettivo dominus».

Ma a rendere l'inchiesta politicamente gustosa è il sostegno alla candidatura a senatore che la presunta cricca avrebbe garantito a Luciano Cariddi nelle elezioni del 2018. In particolare grazie «ai contatti in contesti romani» di Roberto De Santis. 

Cariddi in corsa con il centro-destra, il suo sponsor storicamente schierato a sinistra. Un apparente cortocircuito che i magistrati sottolineano in questi termini nell'ordinanza: «Un impegno di certo non ascrivibile ad un comune ideale politico, atteso che Roberto De Santis era notoriamente legato alla corrente riconducile a Massimo D'Alema, anch' egli candidato nella medesima competizione».

E nello stesso collegio uninominale, aggiungiamo noi. I giudici continuano: «In proposito appare emblematico il dialogo intercettato il 27 gennaio 2018 quando Roberto De Santis, conclusa la sua incisiva azione su Roma volta ad assicurargli la candidatura al Senato, informava Luciano Cariddi del risultato ottenuto garantendogli l'appoggio elettorale, parallelamente a quello in favore di D'Alema». 

Leggiamo, dunque, la trascrizione della telefonata citata a più riprese nell'atto giudiziario.

Roberto: «È chiusa, e chiusa!». Luciano: «È confermato il mio Senato». Roberto: «È fatta, è fatta! Mi ha chiamato Lorenzo... (per gli inquirenti Cesa, ndr) comunque e chiusa, Lecce è chiusa». Luciano: «È chiusa Lecce sì, va bene? Ti piace?». Roberto: «Va bene, va bene... cerchiamo di fare una cosa e l'altra no?! Dobbiamo essere bravi! Con l'equilibrio!».

I magistrati evidenziano, però, il «forte supporto offerto a Cariddi da Roberto De Santis, che si palesava già il 22 gennaio 2018 quando i due dialogavano sulle possibilità e sulle strategie da adottare per assicurarsi la candidatura nonché sulle scelte, potenzialmente vincenti per garantirsi l'elezione». 

Per l'accusa, Roberto avrebbe sostenuto la candidatura del candidato di centro-destra «così da poter vantare un credito e potere contrattuale nei confronti dei fratelli Cariddi».

Nell'ordinanza viene rimarcato come, quando Luigi De Santis invita Pierpaolo Cariddi a un convegno sul turismo in cui è prevista la presenza di D'Alema, il sindaco prima sembri titubante vista lo scontro al Senato («Mio fratello candidato? Il problema non e per me, ma e per voi! Quindi se tu mi dici che questo non vi preoccupa primo non li ho per D'Alema, ma»), poi batte i tacchi: «Se pure avessi il diavolo e tu Luigi e te Roberto mi dici: "Pierpaolo! Avremo piacere ci serve la tua presenza", io per voi vengo comunque... indipendentemente!». 

Anche Raffaele De Santis darà il suo contributo spendendo il fac-simile della scheda elettorale con il nome di Cariddi a tutti i suoi contatti. 

«Siamo forti non ti preoccupare, possiamo muoverci bene bene bene» scrive a Luciano e aggiunge: «Continuiamo a contattare a tappeto telefonicamente gli amici almeno mille nomi... non uno, mille».

Alla fine nel collegio numero 6 Nardò-Gallipoli a vincere è stata la grillina Barbara Lezzi con il 39,87 per cento dei voti. Cariddi ha preso con il centro-destra il 35,19. Terza l'allora piddina Teresa Bellanova (17,35) e mestamente ultimo è arrivato D'Alema che nel suo storico collegio si è dovuto accontentare del 3,9 per cento e 10.500 voti. Una débâcle dovuta, forse, anche all'ammutinamento dei suoi amici storici. 

Nelle carte i magistrati parlano di ulteriori «scambi di "favori"» tra i De Santis e i Cariddi.

Per esempio l'allora neosindaco Pierpaolo chiede e ottiene da Luigi De Santis per il giorno della Befana del 2018 «una visita ad hoc, gratuita e con guida, esclusivamente per lui ed i suoi familiari, prima a Palazzo Vecchio dopo agli Uffizi» a Firenze. Pochi mesi dopo il sindaco garantisce a Luigi posti riservati alle autorità in prima fila per un concerto di Giovanni Allevi a Otranto. 

Adesso per tutto questo i De Santis sono finiti sotto inchiesta, Roberto addirittura ai domiciliari. In passato questo esperto lobbista nel settore dell'energia è già stato coinvolto in altre indagini proprio per i suoi rapporti con la politica e le aziende di Stato. Per esempio a Roma è tuttora indagato per traffico di influenze per i suoi interventi presso il ministero della Sanità e il Commissario per l'emergenza durante la pandemia. 

In precedenza era finito sotto inchiesta con l'accusa di finanziamento illecito nell'inchiesta sul cosiddetto Sistema Sesto gestito dagli allora Ds ed era stato perquisito in un'inchiesta fiorentina sulle Grandi opere. Il suo nome è citato anche nel fascicolo (in via di archiviazione) sulla cosiddetta loggia Ungheria per la sua presunta intermediazione in una transazione tra Eni e l'azienda di uno dei suoi tanti amici. «Sono trentacinque anni che sto in mezzo alla strada in prima linea e di merda ne ho vista molta, ma per fortuna o per merito non mi sono mai sporcato» ci aveva detto qualche settimana fa De Santis.

Dell'uomo, su Internet, non esiste alcuna foto recente, sebbene il suo volto sia ben conosciuto nei salotti che contano, soprattutto in quelli della finanza. Il suo ufficio in piazza Navona è un viavai di personaggi e di affari, nonostante lui sia cresciuto a pane e Pci. 

La svolta quando è entrato nel cerchio magico di D'Alema, che ha seguito in tutte le sue peregrinazioni, senza mai perderlo di vista. L'inverno scorso, in pieno Colombia-gate, Roberto ha raccolto a più riprese sfoghi e confidenze del vecchio amico. Pochi mesi dopo le parti si sono invertite e sarà Massimo a dover consolare il compagno di mille avventure. Un'ultima annotazione.

Chi scrive, un po' di anni fa, aveva svelato un'intercettazione del maggio 2009 tra De Santis e Alberto Maritati, un ex magistrato barese e poi politico Pd di stretta osservanza dalemiana, una telefonata da cui si evinceva l'interessamento dell'imprenditore ad avere notizie su un'inchiesta che coinvolgeva Gianpaolo Tarantini, il giovanotto che forniva avvenenti fanciulle non solo a Silvio Berlusconi, ma anche a un gruppetto di conoscenti dell'ex premier Massimo D'Alema.

Qualche giorno dopo, l'ex leader del Pds riuscì a vaticinare in tv l'arrivo di «scosse» per Berlusconi e lo anticipò cinque giorni dopo che Patrizia D'Addario, una delle signorine della scuderia di Gianpi, aveva verbalizzato le sue accuse in Procura. Tredici anni dopo quei fatti, nell'ordinanza di ieri, rispunta un'intercettazione con Maritati. Pierpaolo Cariddi è stato captato dalle microspie mentre nel suo studio chiede all'ex pm di scendere in strada «allorquando si apprestava ad affrontare un argomento evidentemente ritenuto delicato». Chissà di che cosa voleva parlargli.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 14 settembre 2022.  

L'arresto di Roberto De Santis, fedelissimo di Massimo D'Alema, per fatti risalenti al 2018, a pochi giorni dalle elezioni politiche dice molto dello stato di salute del dalemismo in Italia. Una declinazione del potere che sino al secondo governo Conte non era mai uscita dall'abecedario della politica. 

Dalla merchant bank di Palazzo Chigi sino alla gestione emergenziale della pandemia. Per anni gli è stata attribuita una battuta che esprime meglio di un saggio la sua Weltanschauung: «Capotavola è dove mi siedo io». A Baffino per oltre 30 anni sono stati riconosciuti, soprattutto dai suoi presunti nemici, sagacia e velocità di pensiero. E lui su questa nomea ha costruito la sua rendita politica.

Sino al compimento del settantatreesimo genetliaco quando, dopo la grottesca vicenda della vendita delle armi alla Colombia, si è capito quale sottobosco di scappati di casa ruotasse intorno al Nuovo Migliore. Ma adesso a certificare il crepuscolo del dalemismo non sono tanto i domiciliari a De Santis, bensì la rettifica in un italiano rivedibile del deputato Dario Stefàno che abbiamo definito (senza pensare di offenderne l'onore) «il politico a lui (D'Alema, ndr) considerato più vicino nel Pd».

Invece il parlamentare si è adontato e ha vergato la scomunica che segue: «È un'affermazione priva di qualsiasi verità oggettiva e aderenza alla realtà politica che anima il Salento e la Puglia». Già questa sembra un'inequivocabile presa di distanza, ma a Stefàno non basta: «Nel mio cursus politico di quasi 18 anni non ho mai partecipato o ricevuto alcun endorsement da parte dell'ex premier D'Alema. Tanto più, sono stato espressione di una sua vicinanza nel mio impegno politico». 

La scelta della locuzione «tanto più» non ci permette di comprendere se Stefàno voglia farci sapere di non aver mai ricevuto sostegno da D'Alema o, al contrario, di averlo ricevuto. Comunque ci pare chiaro che ritenga un'offesa essere considerato un discepolo dell'ex premier.

E questo la dice lunga sull'appannamento della stella dell'ex ministro degli Esteri.

Ma ritorniamo a occuparci dell'inchiesta che ha portato ai domiciliari oltre a De Santis anche i fratelli Cariddi, Pierpaolo e Luciano, sindaco ed ex sindaco di Otranto.

Neppure il ritrovamento di una microspia nell'ufficio del primo cittadino mise un freno alla presunta cricca dei villaggi vip e dei parcheggi per auto sulla costa. 

«Spregiudicatezza e pervicacia a delinquere», secondo gli inquirenti, emergerebbero proprio dal fatto che il ritrovamento della strumentazione per le captazioni ambientali «non ha costituito una remora per gli indagati».

Mentre ha fatto scattare subito la caccia allo spione. Come si evince da questa intercettazione. Il sindaco Pierpaolo Cariddi telefona a un luogotenente dei carabinieri.

Il tono è confidenziale. Il primo cittadino cerca di capire quale sia il cavo da staccare per spegnere i microfoni della Procura. Il carabiniere consiglia: «Prova quello verde». Cariddi domanda: «Provo di qua?».

Alla fine i due pensano di aver risolto il problema microspia, ma la captazione continua. E il primo cittadino viene registrato mentre fa sapere di sospettare di «qualcuno dell'opposizione». Nel frattempo Roberto De Santis brigava per ottenere la concessione per il Twiga, il villaggio vip che doveva nascere sul mare e che inizialmente aveva attirato perfino Flavio Briatore (che si è sfilato dall'affare prima del terremoto giudiziario che ha portato al sequestro dell'area sulla quale doveva nascere il progetto, poi naufragato).

Stando agli atti dell'inchiesta, De Santis indicava al Comune «gli step» da seguire per ottenere la revoca del divieto di balneazione ordinato dalla Capitaneria di porto, considerato lo scoglio da superare. E per questo stila una vera e propria tabella di marcia: «Noi dovremmo vedere se per metà luglio riusciamo a fare il consiglio comunale che fa l'interpretazione autentica [...] immediatamente dopo la società tramite i suoi legali che cosa fa? 

Fa una richiesta al pubblico ministero dicendo: essendo intervenuti questi elementi di novità [...] ti chiedo il dissequestro». Il secondo passaggio era tutto a vantaggio di De Santis: «La destinazione di zona diventa turistico ricettiva?». Il sindaco conferma: «Doppia destinazione...».

L'ultima carta da giocare è una diffida alla Capitaneria. A pensarla, insieme a un ingegnere, è De Santis. «Partorivano», scrivono gli investigatori, «l'idea di una lettera da far firmare, tuttavia, al vicesindaco, per evitare l'eccessiva esposizione del primo cittadino». Poi, annotano sempre i finanzieri, dopo aver «concordato» la soluzione «in Regione», De Santis detta «letteralmente», la missiva. Peccato che l'amico di Baffino non avesse considerato che proprio in Capitaneria qualcuno stesse per mandare un dossier in Procura. Facendo saltare il banco. 

IL CASO. Otranto, Pierpaolo Cariddi e le microspie nello studio: «Le ha messe l'opposizione...». Il sindaco sapeva di essere intercettato. Ma la presenza di microspie «non ha costituito in alcun modo un deterrente per gli indagati». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022

Il sindaco Pierpaolo Cariddi sapeva di essere intercettato. Ma la presenza di microspie "non ha costituito in alcun modo un deterrente per gli indagati". La vicenda è raccontata dal gip Cinzia Vergine nell'ordinanza che ha portato in carcere il primo cittadino di Otranto e suo fratello Luciano. Il 25 gennaio 2019 alcuni tecnici hanno infatti montato nuove lampade a led nello studio professionale del sindaco Pierpaolo, e hanno ritrovato i microfoni. A quel punto Cariddi chiama il precedente comandante della stazione locale dei carabinieri. "Salvatore, Pierpaolo sono... Cariddi! Ciao, scusami un attimo, io lo so, lo so, però, non ti ha detto il perché. Io ho una relativa urgenza legata al fatto che cambiando le luci della stanza mia, negli interruttori, abbiamo trovato una telecamera eh (una voce fuori campo dice "una ricetrasmittente") Na ricetrasmittente... Quindi, io mo, voglio denunciare questo fatto perché, non so da dove viene, da chi può venire. Siccome ci sono eh! Gli impiantisti che stanno cambiando e quindi in atto i lavori. Io vorrei che voi prendete atto di queste situazioni!". Il pomeriggio di quello stesso giorno, le microspie registrano la presenza di altre due persone (due donne) che cercano dispositivi di registrazione, probabilmente con qualche apparecchio di quelli che vendono i megastore cinesi. Una scena da film di Vanzina: "Al telefono, ce lo deve dire? Spegni le luci, se trovi una luce che non è visibile ad occhio nudo, può avere una possibile foto camera!". E ancora: "adesso provo... Scansione infrarossi, poi c'è scansione magnetica! La scansione magnetica è... quella che passi così! A scansione magnetica (incomprensibile dispositivi nascosti... dove andiamo a vedere!".

Secondo la Procura era probabile che Cariddi già sapesse della presenza di microspie, perché - annota il gip - il 24 ottobre 2018 il sindaco riceve un ex magistrato (Alberto Martitati, poi senatore e sottosegretario) e lo invita "a spostarsi dal suo studio professionale allorquando egli si apprestava ad affrontare un argomento evidentemente ritenuto delicato, con ciò dimostrando di non sentirsi sicuro nemmeno nel suo studio professionale in una giornata in cui, secondo quanto precisato nella medesima conversazione, non era presente nessun altro".

Santa Cesarea, l’enorme spreco di denaro. Abbandonato il «Nuovo» centro termale fatto 40 anni fa con una spesa di 49 miliardi. Giovanni Nuzzo su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Agosto 2022

Un patrimonio immobiliare di proprietà comunale mai utilizzato, spreco di risorse pubbliche, continua a “vivere” in abbandono e degrado. Stiamo parlando del «Nuovo» centro termale, il cosiddetto «Mammoccione» realizzato 40 anni fa, con un finanziamento di 49 miliardi di vecchie lire, che rimane al centro di una paradossale vicenda dai grandi sperperi. Una struttura architettonica, lacerata, sventrata e lasciata all’incuria del tempo. Uno stabile a brandelli con intonaci e solai pericolanti che si staccano da un giorno all’altro. Un complesso in completa devastazione e rovina con uno scenario da post bombardamento.

Anche se sembra - e si spera - che il degrado del Centro potrebbe avere i mesi contati. Sarebbe imminente - questa la notizia - la pubblicazione del bando pubblico per la gestione delle Terme, predisposto dal Comune, per l’affidamento dell’immobile ad una società privata. Un iter amministrativo, quello del bando, che si trascina da anni, rinviato di sei mesi in sei mesi. La volontà dell’amministrazione comunale è quella di mantenere pubblica la proprietà delle Terme ed affidare ad un privato la gestione. Il bando dovrebbe rimanere aperto sino al 31 dicembre prossimo.

Ma intanto, un gioiello salentino mai entrato in esercizio, costato 39 miliardi di lire, seguiti da ulteriori 10 miliardi per la ristrutturazione e dall’anno 2000, versa nel più assurdo abbandono, all’incuria del tempo e preda di tanti furti. Un’opera simbolo degli sprechi.

Il vasto complesso edilizio, ubicato a 120 metri di altezza dal livello del mare, sorge all’estremità della dorsale con vista panoramica di tutto il Canale d’Otranto a pochi passi dalla pineta. La struttura si sviluppa su una superficie di 20 mila metri quadrati coperti realizzati su tre livelli. L’esposizione alla salsedine e ai quattro venti da circa 40 anni, l’incuria e i continui atti vandalici con il danneggiamento della muratura, vetrate, infissi, cavi elettrici, plafoniere cadenti e furti delle suppellettili, hanno sempre impedito che il complesso fosse agibile. Non sono mancate vegetazione selvaggia, tutt’intorno, e alcune aree trasformate in discarica abusiva.

Era stato costruito nel precedente millennio per diventare un centro di riabilitazione a cinque stelle con la possibilità di 150 nuovi posti di lavoro. Tant’è che il progetto prevedeva un piano interrato con piscina, vasca per adulti e per bambini, spogliatoi, servizi igienici e pronto soccorso, ambulatori, sala attesa e palestre. Era stato realizzato anche un centro benessere per sfruttare le grotte sulfuree e le acque del mare. Al piano terra oltre alla reception, vi sono le sale visite, il reparto inalazioni, fangoterapia e locali commerciali. Infine, il primo piano si sviluppa su 5 mila metri quadrati coperti con 48 camere con annessi servizi igienici, mensa, sale conferenze e soggiorno. Insomma, tutto era stato progettato e realizzato a regola d’arte per essere considerato un fiore all’occhiello non solo di Santa Cesarea Terme, ma di tutto il territorio pugliese. Una cattedrale del benessere che doveva richiamare i turisti e sfruttare la risorsa dell’acqua termale, ma che oggi risulta abbandonata e distrutta.

Nel corso di questi 40 anni ha anche subito due sequestri giudiziari, con Regione e Comune che hanno continuato a scambiarsi, attraverso carte bollate, le varie responsabilità. Nel 2007, infatti i lavori di completamento stavano per partire quando intervenne la magistratura mettendo sotto sequestro tutta l’opera, per una presunta truffa ai danni dello Stato, notizia di reato poi archiviata. Oggi, l’opera risulta dimenticata e in pieno abbandono e devastata dall’azione dell’uomo. Un “mostro” edilizio che, secondo molti, andrebbe ormai raso al suolo considerata la pericolosità.

Sono trascorsi circa 40 anni dalla posa della prima pietra ma il «Nuovo» Centro termale riabilitativo, che doveva essere considerato d’eccellenza, non ha mai visto il taglio del nastro nonostante Regione Puglia e Comune abbiano rilevato il 99,99 per cento del pacchetto azionario dal Ministero del Tesoro, impegnandosi ad attivare un piano di sviluppo. Nel 2016 sembrava che ci sarebbe stata una svolta per far risorgere, ristrutturare e riqualificare il «Nuovo» Centro termale, ma anche questa richiesta si è rivelata inconsistente. La richiesta di concessione giunta sul tavolo del sindaco Pasquale Bleve da parte della società “Ge.Ter. srl” di Roma per dare vita a tutto l’immobile realizzato e mai entrato in funzione, con un investimento di 60 milioni di euro non è andata mai in porto. Tra le intenzioni della società ci sarebbe stata anche l’apertura di tre strutture alberghiere, aperte praticamente quasi per l’intero anno. Ma poi tutto si è dissolto nel nulla.

LA RIFLESSIONE. Il «Mammoccione» di Santa Cesarea Terme? Un monumento allo spreco. Il «nuovo» centro termale mai ultimato e vandalizzato negli anni, svetta a 120 metri sul livello del mare in tutta la sua bruttezza

Paolo Pagliaro, consigliere regionale e capogruppo La Puglia Domani, su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 agosto 2022.

Èun monumento allo spreco e all’inconcludenza del profondo Sud. Il «Mammoccione» di Santa Cesarea Terme, «nuovo» centro termale mai ultimato e vandalizzato negli anni, svetta a 120 metri sul livello del mare in tutta la sua bruttezza. Una mega opera incompiuta, testimone del salto di qualità negato ad una delle località più straordinarie del Salento. Dal rilancio delle terme e dallo sviluppo nel settore benessere si sarebbe potuto costruire un patrimonio enorme, ma così non è stato.

Edificato su tre livelli per una superficie complessiva di 20mila metri coperti, il «Mammoccione» non è mai stato ultimato, ed è rimasto in balia delle intemperie, della salsedine e dell’incuria, mandando in fumo il fiume di denaro investito a partire dalla posa della prima pietra nel 1987. Trent’anni dopo si era deciso finalmente di completare l’opera con lo stanziamento dei fondi necessari da parte di Comune, Regione e Ministero, ma un nuovo stop è arrivato dalla magistratura per una presunta truffa ai danni dello Stato. E di nuovo tutto si è fermato, impantanato nelle sabbie mobili della burocrazia.

Da sempre, prima come imprenditore e poi come politico, ho scommesso sull’enorme potenziale di Santa Cesarea, e mi batto per richiamare tutti i soggetti in campo alle loro responsabilità e per sollecitare azioni concrete, a cominciare da un piano di gestione serio e mirato delle Terme, capace di mettere a frutto lo straordinario patrimonio di bellezza paesaggistica e il tesoro delle acque sulfuree, che se venisse condiviso con tutte le località della zona – sul modello Ischia – potrebbe garantire un vero salto di qualità del turismo salentino. La valorizzazione delle Terme di Santa Cesarea può diventare il punto di partenza di un nuovo marketing territoriale, più maturo e strutturato. Dunque bisognerebbe rendere fruibili le acque termali a tutte le strutture turistiche dei Comuni dell’hinterland e farle diventare bene comune intorno al quale costruire i pacchetti turistici. Ovviamente intorno ai progetti che andrebbero concertati per favorire lo sviluppo c’è anche il nodo dei trasporti.

Raggiungere Santa Cesarea è veramente problematico, una volta arrivati a Maglie diventa una vera e propria odissea e bisogna districarsi su una vera mulattiera che diventa non solo difficile da percorrere ma anche un biglietto da visita deprimente. A questo aggiungiamo che si viaggia su una rete ferroviaria del tutto inadeguata che va ancora a gasolio e in più che dall’Aeroporto del Salento mancano i collegamenti diretti. Inoltre Santa Cesarea ha bisogno di una circonvallazione per evitare di dover attraversare il centro con le automobili. Dunque serve una pianificazione totale degli investimenti che ruotino intorno alle Terme ma che valorizzino e tutelino le bellezze dell’intero territorio.

Questa è stata sempre una delle mie battaglie più importanti.

Se scendiamo nello specifico il polo termale in questione è uno dei tre presenti in Puglia insieme a quelli di Margherita di Savoia e di Torre Canne ma ha una particolarità che lo rende unico perché è composto da ben quattro grotte naturali che sono Gattulla, Fetida, Sulfurea e Solfatara dalle quali sgorgano acque clorurate, solfuree e iodiche, che servono per la cura delle malattie della pelle, dell’apparato respiratorio, dell’apparato urinario e dell’apparato locomotore.

Mentre, seppur importanti, a Margherita di Savoia si usano le acque madri che arrivano direttamente dalle Saline ed a Torre Canne quelle sulfuree che fuoriescono da una decina di sorgenti. Evidenziamo queste caratteristiche non per sminuire gli altri poli ma per far capire l’importanza della Terme di Santa Cesarea. Al momento è una Ferrari che non corre perché ha pneumatici da Fiat 500.

Abbiamo proceduto con diverse audizioni, abbiamo ascoltato le diverse parti in causa. C’è da definire la questione della cessione del pacchetto di maggioranza della proprietà del complesso, che appartiene alla Regione Puglia. Attendiamo ancora il bando.

È un guazzabuglio dal quale non si riesce ad uscire più e la gestione di questo gioiello rimane ancora abbastanza allegra.

La nostra battaglia continuerà fino a quando il polo termale del Salento non sarà valorizzato.

Puglia, il Consiglio regionale caccia Cassano: «È decaduto da direttore Arpal».  Passa la proposta Tutolo-Amati presentata dopo le inchieste della "Gazzetta" sulla parentopoli. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Ottobre 2022.

Il Consiglio regionale ha deciso che Massimo Cassano deve lasciare la direzione generale dell'Arpal, l'agenzia regionale per il lavoro della Puglia. E' l'esito della votazione sulla legge di riforma, approvata con 18 voti favorevoli (quelli di Pd e Cinque Stelle), l'astensione del centrodestra e il voto contrario di parte della giunta e dei consiglieri delle liste civiche di Emiliano. Determinante è stato il subemendamento presentato da Fabiano Amati (Pd), che ha disinnescato il tentativo dei <<civici>> di far passare la riforma (con l'introduzione del consiglio di amministrazione) ma evitando la decadenza del direttore generale.

La proposta di decadenza (primo firmatario Antonio Tutolo con Amati, Ruggiero Mennea e Michele Mazzarano) è stata depositata all'indomani delle inchieste della "Gazzetta" che in aprile hanno documentato l'assunzione in Arpal di persone vicine al movimento politico di Cassano, oltre che di suoi parenti.

La maggioranza di centrosinistra si divide, il centrodestra esulta assieme al Pd. La decadenza dal ruolo del direttore generale di Arpal, Massimo Cassano, rischia di aprire una seria frattura nel centrosinistra in Consiglio regionale pugliese, in particolare tra il Partito democratico e le civiche vicine a Emiliano. Il Pd ha votato compatto contro la decadenza di Cassano, i civici hanno fatto altrettanto ma in segno opposto. «Oggi la buona amministrazione - esulta il consigliere regionale del Pd, Fabiano Amati - ha trovato casa nel Pd e nell’azione della maggior parte dei consiglieri regionali. E questa è la nostra storia e il nostro programma. Mi spiace molto del tanto tempo e del grande contrasto registrato sull'argomento, anche quello di una parte della Giunta regionale, che abbiamo dovuto superare anche con asprezza. In ogni caso, ciò che conta è il risultato, finalizzato a verificare nelle prossime settimane eventuali opacità o le ragioni di numerose coincidenze tra selezione di personale e appartenenza politica». A replicargli è il capogruppo «Per la Puglia» Saverio Tammacco: «Siamo arrivati in aula con l’idea e l'intento di discutere una legge che avrebbe dovuto rendere più efficiente l’Arpal nella realizzazione delle politiche attive del lavoro chiedendo un nuovo assetto strutturale più funzionale alle esigenze dei cittadini e ci siamo ritrovati in un contesto di discussione di una legge «contra personam"». «Benvenuto a bordo Pd - replica il gruppo di Fratelli d’Italia - dopo qualche anno, approvando una legge che prevede la decadenza, ha capito ciò che noi da anni e anni avevamo sostenuto: Massimo Cassano non doveva essere nominato prima commissario e poi direttore generale dell’Arpal, non solo perché rispetto ad altri curricula arrivati era il più debole a titoli specifici (e qui ci sarebbe da richiamare altre responsabilità, quelle di chi si è assunto l'onere della decisione), ma perché era evidente che si trattava di una nomina che veniva data in vista delle Regionali 2020, Cassano avrebbe garantito liste civiche per far vincere il presidente Emiliano». Per Antonella Laricchia del M5S ma l’unica a non essere entrata nella maggioranza, «il voto di oggi rappresenta la sfiducia al governo regionale da parte della maggioranza, vista la strenua difesa da parte del presidente Emiliano del direttore generale dell’Arpal Massimo Cassano, decaduto dopo l’approvazione della norma che va a modificare la legge istitutiva dell’Arpal». «Finalmente si mette fine a una telenovela durata per mesi. Voto è per un cambio di passo nella governance dell’Agenzia": dichiarano invece gli altri quattro consiglieri pentastellati.

E Ruggeri difendeva il dg Cassano: i pizzini per le assunzioni. «Dovrà prendere 2.000 persone, deve darmene almeno 50». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Ottobre 2022.

A giugno 2020 il tema di Massimo Cassano era già sul tavolo della politica regionale, con il centrodestra che attaccava l’allora commissario dell’Arpal sostenendo che non avesse i requisiti per guidare l’Agenzia per il lavoro. In quei giorni le microspie della Procura di Lecce stavano intercettato l’allora assessore al Welfare, Totò Ruggeri, mentre parlava proprio di questo argomento. Mostrando appetito politico per le tante assunzioni previste.

Il contesto va però spiegato. Insieme ai 300mila euro in contanti, nelle perquisizioni effettuate il 7 luglio (il giorno dell’arresto) nel cassetto del comodino di Ruggeri è stato trovato un pizzino con il nome di una 30enne di Gallipoli e l’appunto «Arpal Puglia - 578 istruttore del lavoro a tempo determinato». I finanzieri hanno verificato, ed effettivamente la donna risulta dipendente dell’agenzia.

Spetta alla Procura stabilire se quella assunzione sia stata irregolare: gli elementi raccolti al momento non consentono di fare una affermazione simile. Fatto sta che nell’estate 2020 le microspie nell’ufficio privato dell’assessore avevano captato i preparativi di un pranzo tra Ruggeri e Cassano, poi effettivamente tenuto in un ristorante di Maglie dove il dg era accompagnato dall’assessore Sebastiano Leo. Nè il dg Arpal né l’assessore Leo (che all’epoca era un collega di Leo) sono indagati, e tantomeno nei loro confronti ci sono sospetti. Il tema dell’inchiesta «Re Artù» è infatti il sistema Ruggeri, che - scrive la Finanza - aveva organizzato quel pranzo per vedere «quanti me ne toccano» riferito ai posti di lavoro dell’Arpal.

«Noi dobbiamo prendere... dobbiamo assumere 2.000 persone, che faccio mando a casa chi? Cassano che ha preparato il bando per l’assunzione di 2.000 persone? Ma stiamo proprio fuori dal mondo... mando a casa il commissario? E chi lo fa il bando?», dice Ruggeri commentando l’iniziativa del centrodestra che voleva cacciarlo: «Siccome loro vogliono farlo saltare noi invece andiamo avanti come una trottola perché alla gente non interessa il Consiglio regionale, interessano i posti di lavoro». Anche a Ruggeri interessano i posti di lavoro: «Alle 13 arrivano questi - dice l’allora assessore al Welfare al coindagato Giantommaso Zacheo -. Mi devono dire quanti... quanti me ne toccano (...) a me, me ne devono dare almeno 50... glielo dico già sennò io non... 50 mi devono dare». «Su tutto o solo a Lecce?», chiede Zacheo a cui Ruggeri dice di non partecipare al pranzo con Cassano: «Tu devi venire dopo... alle 13,30 passando dici “ah ho visto la macchina”, solo per salutarli (...). Se stiamo bevendo champagne puoi anche sederti». «No, casomai mi fa male...», è la risposta del commercialista che non sembra cogliere l’ironia di Ruggeri: «Che bevi champagne... che ad acqua li tengo che io pago».

Mentre nelle perquisizioni a carico di Ruggeri sono stati trovati 300mila euro in contanti, un jammer (dispositivo per disturbare i cellulari) e il «pizzino», in quelle a carico dell’ex consigliere regionale Udc, Mario Romano (pure lui finito ai domiciliari) i finanzieri hanno trovato «numerosi curricula, domande dei vari concorsi Arpal e Oss (di Sanitaservice, ndr) e fogli manoscritti riportanti nomi e somme di denaro». Romano è accusato insieme al figlio di aver chiesto soldi in cambio di posti di lavoro, promesse che in massima parte non riusciva a mantenere al punto che - dopo l’arresto - il genitore di un ragazzo si è presentato dai carabinieri per confessare di aver pagato per un posto all’Arpal, portando anche le prove: una chiavetta con la registrazione dei colloqui con i Romano da cui si è fatto restituire i soldi. 

Arrestato l’ex senatore Ruggeri. Sesso, soldi, regali e posti di lavoro in cambio di voti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 luglio 2022.  

Contestato a Ruggeri e Renna anche di aver contribuito a truccare un concorso per geometri al consorzio «Ugento e Li Foggi» a favore di un compagno di partito dell’Udc, Vittorio Capone, nonostante non ne avesse i titoli e nonostante, come emerge da una intercettazione, il candidato «non aveva detto una parola» durante il colloquio orale in cui la commissione gli ha dato il massimo punteggio.

L’inchiesta coinvolge in tutto 21 indagati tra cui anche i sindaci di Scorrano e di Otranto in provincia di Lecce, ha origine da una costola dell’inchiesta sull’appalto per il poliambulatorio di Martano che portò agli arresti nel 2020 di due funzionari Asl. Sesso, casse di pesce, casse di vino Berlucchi e anche soldi in cambio di un posto di lavoro, favori o per comprare voti: è quello che emerge dall’inchiesta della procura di Lecce che ha portato agli arresti domiciliari insieme con altre quattro persone l’ex assessore regionale ed ex senatore Salvatore (Totò) Ruggeri, 72 anni, considerato al centro di un sistema di corruzione (prima Udc e poi Popolari per Emiliano) e che avrebbe attraversato vari ambiti, quello sanitario e della procreazione assistita, dei concorsi pubblici, dei consorzi di bonifica, per finire alla gestione del bacino elettorale. 

Imbarazzante la figura ed il comportamento di Salvatore (Totò) Ruggeri, che nonostante abbia passato i 70 anni, evidenzia secondo il Gip “l’assenza di qualsivoglia rigurgito di moralità oltre che di legalità da parte del Ruggeri... la natura abbietta del suo agire è stigmatizzata dalla vicenda” di una 37enne, laureata e precaria da diversi anni, a cui il 72enne chiede appuntamenti sessuali più lunghi, rivolgendosi così: “Quando si scopa?”, lamentandosi del poco tempo concesso dalla donna etichettando gli incontri come “sveltine”. la sua influenza emerge dalla dichiarazione agli inquirenti di un raccomandato che a fine verbale afferma: “Aggiungo solamente che per essere assunto presso l’Ospedale di Tricase mi sono dovuto per forza rivolgere a Totò Ruggeri in quanto Suor Margherita Bramato (indagata, ndr) non mi avrebbe mai ricevuto e non avrebbe mai dato peso alla mia richiesta di assunzione. Da quello che si dice in giro, la suora se non riceve nulla in cambio non assume nessuno”.

Oggi la Guardia di Finanza ha eseguito undici misure cautelari personali, tra cui cinque di arresti domiciliari, con le accuse a vario titolo di corruzione per esercizio della funzione, falsità ideologica, corruzione elettorale, traffico di influenze illecite. Oltre a Ruggeri, ai domiciliari è stato posto anche anche Antonio Renna, commissario straordinario dei Consorzi di Bonifica Ugento Li Foggi e Arneo, attualmente collaboratore della Provincia di Lecce per la gestione dei fondi Pnrr, chiamato a rispondere sulle accuse di falso e corruzione. 

Analoga misura è stata disposta per l’ex consigliere regionale Mario Romano e suo figlio Massimiliano, assessore al Comune di Matino, ed Emanuele Maggiulli , responsabile dell’area tecnica del Comune di Otranto, comuni della provincia di Lecce. Le misure cautelari, all’esito delle indagini svolte dai finanzieri della Compagnia di Otranto (Lecce) sono state richieste dal pm Alessandro Prontera , ed accolte dalla gip Simona Panzera.

Disposto l’obbligo di dimora per l’ ex consigliere regionale neo eletto sindaco di Scorrano Mario Pendinelli, per Antonio Greco e per il sindaco di Otranto Pierpaolo Cariddi . Divieto di svolgere l’attività professionale per Elio Vito Quarta, Giantommaso Zacheo e Fabio Marra. Una richiesta di sospensione è stata richiesta nei confronti del direttore generale dell’Asl di Lecce, Rodolfo Rollo. La gip Simona Panzera deciderà dopo l’interrogatorio di garanzia. I finanzieri stanno notificando avvisi di garanzia alle altre 10 persone indagate, e sono in corso perquisizioni, anche presso la sede dell’ospedale Panico di Tricase, e sequestri da parte della Fiamme Gialle per ulteriori ipotesi di reato. 

Secondo l’accusa, Totò Ruggieri avrebbe versato 16 mila euro in due trance a procacciatori di voti per sostenere l’elezione di Pendinelli alle regionali del 2020, promettendo anche posti di lavoro. Undici in totale gli episodi di corruttela contestati, dal 2019 al maggio 2021, sette dei quali al solo Ruggeri che per i suoi favori avrebbe ricevuto da un imprenditore balneare varie utilità, da casse di pesce fresco a bottiglie di pregio. All’ex senatore e consigliere regionale Ruggeri è contestato anche l’avere ottenuto prestazioni sessuali da una donna con la promessa di un posto di lavoro in un distretto sanitario.

La Regione Puglia, dopo gli arresti della Guardia di Finanza di Lecce per presunti episodi di corruzione, ha chiesto alla Procura salentina l’accesso agli “atti d’indagine non coperti da segreto istruttorio per le valutazioni sulla revoca degli incarichi in base a quanto previsto dalla legge Severino e dall’Anac“. Lo ha reso noto Roberto Venneri responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza della Regione Puglia. Per quanto invece riguarda l’ex senatore e assessore regionale Totò Ruggeri, attuale componente del CdA della società Acquedotto Pugliese, e Antonio Renna, commissario straordinario dei Consorzi di Bonifica Ugento Li Foggi, oggi collaboratore della Provincia di Lecce, “essendo destinatari di misura restrittiva, opera di diritto la sospensione dalla carica”, aggiunge Venneri. Redazione CdG 1947

Chiara Spagnolo e Francesco Oliva per bari.repubblica.it il 7 Luglio 2022.

Sesso o aragoste in cambio di un posto di lavoro e compravendita di voti per le ultime elezioni regionali in Puglia. C'è l'ex senatore ed ex assessore regionale ai Servizi Sociali Salvatore Ruggeri dell'Udc al centro dell'inchiesta della Procura di Lecce che coinvolge 21 persone su presunti illeciti nel mondo sanitario, dei consorzi pubblici e nella gestione di concorsi e dei centri di procreazione assistita. 

Undici le misure eseguite dalla guardia di finanza di Lecce: cinque ordinanze cautelari agli arresti domiciliari, quattro obblighi di dimora, un divieto di dimora e un divieto di esercitare attività imprenditoriale. 

Le ipotesi di reato sono di corruzione, traffico di influenze e falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici. Altre dieci persone invece sono state iscritte nel registro degli indagati.

Le indagini

Le misure sono state chieste dal sostituto procuratore Alessandro Prontera e disposte dalla gip Simona Panzera, all'esito di indagini svolte dai finanzieri della Compagnia di Otranto che, allo stato, sembrano aver disvelato un modus operandi grazie al quale Ruggeri avrebbe posto in essere una serie di comportamenti ispirati non solo all'arricchimento personale, ma anche tesi ad assicurarsi e mantenere bacini di consenso elettorale attraverso una gestione personalistica di presidi di potere ormai consolidati in alcuni dei punti nevralgici della macchina amministrativa sia a livello provinciale, sia a livello regionale. 

I nomi e le misure cautelari

Oltre all'ex assessore, gli arresti domiciliari sono stati disposti per Antonio Renna, Mario Romano (consigliere regionale), Massimiliano Romano ed Emanuele Maggiulli. Per il neo eletto sindaco di Scorrano (ed ex consigliere regionale), Mario Pendinelli e per Antonio Greco è stato ordinato l'obbligo di dimora. Divieto di dimora, invece, per il sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi. 

Divieto di svolgere l'attività professionale per Elio Vito Quarta, Giantommaso Zacheo e Fabio Marra. Per il direttore generale dell'Asl di Lecce, Rodolfo Rollo, è stata mandata una richiesta di sospensione alla gip, che deciderà dopo l'interrogatorio di garanzia. 

Oltre alle 11 persone raggiunte da misure cautelari, i finanzieri stanno notificando gli avvisi di garanzia alle altre 10 persone indagate. Sono in corso anche perquisizioni.

Le indagini hanno fatto emergere che alcuni pubblici ufficiali, in cambio di plurime utilità, promettevano di trovare posti di lavoro a persone di fiducia in vari enti pubblici. Inoltre Ruggeri, quando era assessore regionale, avrebbe preso decisioni - insieme ad altre persone a lui vicine -che avrebbero determinato l'ottenimento di un illecito profitto personale. 

Sesso con una lavoratrice precaria e compravendita di voti

Tra le contestazioni a Ruggeri c'è anche un episodio di corruzione in concorso con una lavoratrice precaria alla quale avrebbe chiesto (e dalla quale avrebbe ottenuto) prestazioni sessuali per aiutarla ad ottenere un lavoro stabile. 

Inoltre un episodio di corruzione elettorale in concorso con Pendinelli per aver pagato voti di elettori di Aradeo e Gallipoli in occasione delle regionali del 2020. 

Aragoste, frutti di mare e vino per rinnovare i contratti

Aragoste, pesce fresco, casse di vino Berlucchi. Sarebbero queste le ricompense che l'ex assessore regionale al Welfare Totò Ruggeri avrebbe ricevuto in cambio del suo impegno per rinnovare il contratto di direttore dell'area amministrativa del Consorzio Arneo di Nardò alla figlia di Luigi Marzano. 

Corruzione in atti giudiziari è l'accusa ipotizzata a carico dell'ex assessore regionale finito ai domiciliari nell'indagine condotta dai militari della Guardia di Finanza coordinati dal pm Alessandro Prontera. E nell'ordinanza, a firma della giudice per le indagini preliminari Simona Panzera, viene ricostruito l'episodio in cui sono indagati anche Antonio Ermenegildo Renna, commissario straordinario Unico dei Consorzi di Bonifica di cui è articolazione, tra gli altri, il Consorzio di Bonifica Arneo di Nardò insieme a Luigi Marzano.

Per i finanzieri, Ruggeri si era già reso promotore in Giunta Regionale della nomina di Renna in sostituzione di Alfredo Borzillo (raggiunto da un provvedimento di interdizione da parte del giudice per le indagini preliminari di Bari perché accusato di aver fatto assumere il fidanzato della figlia) e forte del ruolo ricoperto si sarebbe messo a disposizione di Luigi Marzano ricevendo come ricompense "cospicue forniture di mitili, crostacei, pescato, casse di vino Berlucchi e altro". 

Di fatto i finanzieri di Otranto hanno ricostruito l'accordo corruttivo: Marzano avrebbe sollecitato una serie di incontri con Ruggeri in un'azienda di Maglie perché potesse intercedere con Renna. E l'ex assessore, ipotizzano gli inquirenti, "mediante mere condotte materiali" avrebbe facilitato e velocizzato la pratica di rinnovo dell'incarico prima della scadenza e l'adozione della delibera di rinnovo pretesa dai Marzano.

In sintesi sarebbe andata così: Ruggeri avrebbe contattato Renna "che, recependone pedissequamente la strategia, affidava per il tramite del direttore generale Vito Caputo per conto del Consorzio Speciale Arneo un parere legale sulla fattibilità di un rinnovo del contratto per una durata quinquennale superiore a quella biennale del precedente contratto". 

Dopo il rinnovo del contratto, il 28 agosto 2020, Luigi Marzano avrebbe consegnato "una ulteriore tranche di prodotti ittici a Ruggeri, tra i quali una orata, triglie, un dentice, un cospicuo quantitativo di gamberoni e aragoste". "Tua figlia sta in una botte di ferro", avrebbe riferito tempo dopo Ruggeri a Marzano, che rispondeva "una statua io ti devo fare" e consegnava all'assessore altri 10 chili di aragoste.

A Ruggeri e Renna è contestato anche di aver contribuito a truccare un concorso per geometri al consorzio "Ugento e Li Foggi" in favore di un compagno di partito dell'Udc, Vittorio Capone, nonostante non ne avesse i titoli e nonostante, come emerge da una intercettazione, il candidato "non aveva detto una parola" durante il colloquio orale in cui la commissione gli aveva conferito il massimo punteggio. Per questo filone d'indagine sono indagati anche i commissari Silvia Palumbo e Michele Adamo. 

Settemila euro per un concorso

Il reato di traffico di influenze illecite viene ipotizzato a Mario Romano, Antonio Greco e Luigi Tolento. Secondo quanto riportato nel capo d'imputazione, Greco avrebbe svolto il ruolo di galoppino al soldo del consigliere regionale Mario Romano e avrebbe individuato persone disponibili a versare somme di denaro per il superamento di concorsi pubblici. 

Sfruttando e vantando - viene messo per iscritto nell'ordinanza a firma della giudice per le indagini preliminari Panzera - relazioni con persone impiegate nella pubblica amministrazione, ricompensandole con dazioni di denaro. In particolare si parla di 7.000 euro consegnati a Tolento per il superamento del concorso in Sanità Service per l'assunzione di 159 persone. la prima trance di 1.500 euro sarebbe stata versata a dicembre 2019.

Il terremoto colpisce così soggetti istituzionali noti in Salento. Romano, originario di Matino, ricopre attualmente il ruolo di consigliere regionale per i Popolari ma l'impegno nella politica locale inizia negli anni 80 quando riveste la carica di consigliere Comunale nel Comune di Matino e di assessore poi fino al 1993 e di vice sindaco dal 1985 al 1990. 

Dal 1995 fino al 2004 è stato Presidente della Commissione Provinciale - Lecce- per l'Abilitazione Venatoria e attualmente ricopriva la carica di consigliere in viale Capruzzi. Ruggeri, classe 1950 originario di Muro Leccese, è stato Senatore della Repubblica italiana nella XV Legislatura dal 28 aprile 2006 (2006-2008) periodo in cui ha fatto parte della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata.

Sono in corso perquisizioni, anche nella sede dell’ospedale Panico di Tricase, e sequestri da parte della Finanza per ulteriori ipotesi di reato. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 luglio 2022.

Secondo l’accusa, per il tramite di Mario Romano il gruppo avrebbe venduto posti di lavoro nella Sanitaservice di Lecce incassando tra i 3.000 e i 7.000 euro per ciascun candidato. Le indagini sembrano aver svelato un modus operandi grazie al quale il pubblico ufficiale indagato principale avrebbe posto in essere una serie di comportamenti per l’arricchimento personale, ma anche per assicurarsi e mantenere bacini di consenso elettorale attraverso una gestione di presidi di potere ormai consolidati in alcuni punti nevralgici della macchina amministrativa sia a livello provinciale, sia a livello regionale.

Si sarebbero promessi posti di lavoro da parte di alcuni pubblici ufficiali in cambio di utilità, e le persone di fiducia sarebbero state collocate in posizioni strategiche di svariati Enti pubblici.

Il rinnovo per cinque anni del contratto della direttrice del consorzio di bonifica dell’Arneo, Francesca Marzano, sarebbe stato «comprato» attraverso lo champagne e i frutti di mare che il padre, Luigi Marzano, avrebbe regalato all’allora assessore regionale al Welfare, Totò Ruggeri. È una delle ipotesi di corruzione impropria che stamattina hanno portato agli arresti domiciliari l’ex assessore insieme ad Antonio Renna, all’epoca dei fatti commissario dei consorzi di bonifica, mentre Luigi Marzano (che risulta indagato) ha ricevuto una perquisizione da parte dei militari della Finanza.

Secondo il pm Antonio Prontera, Ruggeri sarebbe intervenuto su Renna («persona di sua fiducia») per «facilitare e velocizzare la pratica di rinnovo dell’incarico prima della scadenza». È lo stesso Renna che la giunta regionale - ricostruisce la Procura di Lecce - nominò commissario su indicazione di Ruggeri dopo l’interdizione del precedente commissario Alfredo Borzillo. Il 10 luglio 2020 Marzano, «in occasione di uno dei sistematici incontri presso la “Toma spa” di Muro Leccese» (l’azienda di Ruggeri), avrebbe consegnato al politico «cospicui quantitativi di frutti di mare (tra i quali piedi di capra) e aragoste per non meno di 10 kg, nonché casse di vino “Berlucchi”» che Ruggeri avrebbe diviso con Renna. Dopo il rinnovo del contratto, il 28 agosto 2020, Luigi Marzano avrebbe consegnato «una ulteriore tranche di prodotti ittici a Ruggeri, tra i quali una orata, triglie, un dentice, un cospicuo quantitativo di gamberoni e aragoste». «Tua figlia sta in una botte di ferro», avrebbe detto poi il 25 settembre successivo Ruggeri a Marzano, che rispondeva «una statua io ti devo fare» e consegnava all’assessore altri 10 kg di aragoste.

A Ruggeri e Renna è contestato anche di aver contribuito a truccare un concorso per geometri al consorzio «Ugento e Li Foggi» a favore di un compagno di partito dell’Udc, Vittorio Capone, nonostante non ne avesse i titoli e nonostante, come emerge da una intercettazione, il candidato «non aveva detto una parola» durante il colloquio orale in cui la commissione gli ha dato il massimo punteggio. Per questo sono indagati anche i commissari Silvia Palumbo e Michele Adamo. Ruggeri è poi accusato di corruzione insieme a una lavoratrice precaria cui avrebbe chiesto «prestazioni sessuali a titolo di contro-prestazione per il suo fattivo “interessamento”» a favore della donna, alla ricerca di lavoro nel mondo della sanità. L’allora assessore avrebbe prima portato la donna dal direttore generale della Asl di Lecce, Rodolfo Rollo, e poi sarebbe intervenuto per farle ottenere una assunzione da parte dell’Ambito territoriale sociale del Comune di Gagliano. Anche la donna è indagata per corruzione. 

«Lecce, i posti in Sanitaservice venduti per diecimila euro». 19 perquisizioni della Finanza dopo la denuncia di chi ha pagato. L’accusa di corruzione: truccato il concorso per 159 assunzioni. L’ipotesi: in cambio di soldi 2 donne avrebbero aiutato i concorrenti ad accumulare titoli per arrivare ai primi posti della graduatoria. Gianfranco Lattante su La Gazzetta del mezzogiorno il 05 Agosto 2022

Un’altra inchiesta scuote il settore della sanità. A Lecce la Guardia di Finanza segue la pista delle tangenti per le assunzioni in SanitaService, la società in-house che si occupa di fornire gli ausiliari, il portierato e gli altri servizi strumentali alla Asl, socio unico dell’azienda. A verbale ci sono le dichiarazioni di chi ha ammesso di aver pagato settemila euro (qualcuno anche fino a diecimila) per assicurarsi uno dei 159 posti messi a bando tra ausiliari, addetti alle pulizie ed altri lavori da manovali.

L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Massimiliano Carducci, ieri mattina è uscita allo scoperto con una raffica di perquisizioni. Una ventina in tutto, ma il numero degli indagati dovrebbe essere più ampio. Il management aziendale non risulta tra gli indagati...

Sospeso Ruggeri da cda di Acquedotto pugliese. L'assessore Palese: «Io estraneo». Redazione online su Il Tempo il 07 Luglio 2022

La Regione Puglia, dopo gli arresti della guardia di finanza di Lecce per presunti episodi di corruzione, ha chiesto alla Procura salentina l’accesso agli "atti d’indagine non coperti da segreto istruttorio per le valutazioni sulla revoca degli incarichi in base a quanto previsto dalla legge Severino e dall’Anac». Lo comunica il responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza della Regione Puglia, Roberto Venneri. Mentre per quanto riguarda l’ex senatore e assessore regionale Totò Ruggeri, componente del cda di Acquedotto Pugliese, e Antonio Renna, commissario straordinario dei Consorzi di Bonifica Ugento Li Foggi, oggi collaboratore della Provincia di Lecce, «essendo destinatari di misura restrittiva, opera di diritto la sospensione dalla carica», precisa Venneri.

Bellanova: «Grave situazione in Puglia»

«Garantisti sempre. Ma l’arresto dell’ex assessore della Regione Puglia ed attuale componente del cda dell’Acquedotto pugliese Salvatore Ruggeri non può non aprire più di una domanda sul sistema di potere e di alleanze disegnato in questi anni dal Presidente Emiliano». Così la copresidente di Italia Viva Teresa Bellanova, viceministra delle Infrastrutture e Mobilità sostenibili, dopo gli arresti eseguiti oggi a Lecce dalla Guardia di finanza per un presunto sistema corruttivo che riguarderebbe il sistema sanitario e anche la gestione del bacino elettorale.

«Quanto sta accadendo di gravissimo in queste ore in Puglia - prosegue - richiama con urgenza alla necessità di una riflessione, rigorosa e coraggiosa, sulla modalità di raccolta del consenso, di gestione della cosa pubblica e di costruzione delle alleanze che ormai da tempo ha preso piede nella Regione gettando una luce opaca e dubbia anche sulla selezione della classe dirigente»

L'assessore Palese: «Io estraneo»

«Sono stato informato dai giornalisti che negli atti dell’indagine in corso è emerso il mio nome e quello di mia figlia. Non conosco gli atti, ma posso affermare con certezza che sia io che mia figlia siamo totalmente estranei ai fatti. Il percorso professionale di mia figlia è maturato autonomamente quando io non avevo alcun ruolo politico». Lo dichiara l’assessore alla Sanità della Regione Puglia, Rocco Palese, in merito all’inchiesta della Procura di Lecce su presunte corruzioni in alcuni concorsi nel settore della sanità che ha portato, oggi, all’arresto di cinque persone poste ai domiciliari. «Sono stato dirigente medico presso il Pta Gagliano del Capo - spiega Palese - e poi responsabile delle sale operatorie accreditate. Solo alla fine del 2020 sono stato nominato direttore del distretto, e quindi ben dopo il percorso lavorativo di mia figlia». «Quindi - conclude - anche rispetto a questo ruolo non c'è alcun nesso tra le due vicende. Certo di aver offerto alla stampa tutti i chiarimenti del caso nel segno della trasparenza e correttezza, valori che hanno da sempre ispirato il mio lavoro».

Ecco come l’ex consigliere Romano chiedeva soldi per i posti di lavoro: «Vendeva anche concorsi all’Arpal». I testimoni: «Sì, ho pagato ma non sono stato assunto». L’esponente di «puglia popolare» finito ai domiciliari insieme al figlio: dalle intercettazioni almeno 60 casi. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2022.

La compravendita dei concorsi da parte dell’ex consigliere Mario Romano non riguardava soltanto la Sanitaservice di Lecce (di cui ieri si è dimesso l’amministratore unico, Luigino Sergio, non indagato). Ma l’appetito del 71enne di Matino arrivava anche all’Arpal, l’agenzia per il lavoro della Regione. Lo ha accertato la Finanza, che dalle telefonate dell’esponente di Puglia Popolare (la stessa lista cui fa riferimento il direttore generale di Arpal, Massimo Cassano) hanno censito almeno 60 casi di presunta compravendita di posti di lavoro. La metà dei quali avrebbe voluto entrare all’agenzia per il lavoro della Regione. 

I casi raccontati nelle carte sono decine. I finanzieri guidati...  

Sanitopoli in Puglia: «Per l'ex assessore Ruggeri le istituzioni erano la sua servitù». Nell’ambito di una inchiesta della Procura di Lecce su presunte tangenti e favori in cambio di posti di lavoro e favori. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Luglio 2022.

BARI - L’ex senatore ed ex assessore regionale pugliese Salvatore Ruggeri, finito ieri agli arresti domiciliari nell’ambito di una inchiesta della Procura di Lecce su presunte tangenti e favori in cambio di posti di lavoro e favori, sarebbe stato «capace di piegare ai suoi voleri l’azione amministrativa, come nel caso del Comune di Otranto, nel cui ambito si muove sfacciatamente con la massima disinvoltura come fosse in presenza di sua servitù, addirittura dettando ogni genere di direttiva come fossero tutti alle sue dirette dipendente». Lo scrive la gip di Lecce Simona Panzera nelle 338 pagine di ordinanza cautelare notificata a Ruggeri e altre dieci persone.

«Le indagini - scrive la giudice - hanno disvelato un abile quanto spregiudicato sistema criminale che grazie alla scaltra regia di Ruggeri, che asserviva scelleratamente la sua pubblica funzione ad interessi lucrativi privatistici, permetteva a imprenditori 'privilegiatì di vedere indebitamente amplificati i propri guadagni, ovvero di ottenere un collocamento lavorativo per i figli o ancora, nell’ottica di un personale tornaconto elettorale, permetteva a suoi futuri fiduciari l’indebito superamento di concorsi mediante falsificazione dei risultati». La gip evidenzia «il potere pericolosamente pervasivo di cui fruisce Ruggeri, capace di infiltrarsi nei gangli di qualsiasi articolazione della pubblica amministrazione» e definisce «allarmante la capacità di Ruggeri di orientare efficacemente secondo i propri interessi, ovvero dei suoi 'protetti', persino l'azione dell’ente Regione Puglia, come nel caso della convenzione con il Panico di Tricase». La giudice parla, poi, di «personalità delinquenziale» dell’ex senatore, «manifestata dalla naturale inclinazione alla più sfrontata inosservanza delle leggi», in «assenza di qualsivoglia rigurgito di moralità oltre che di legalità». 

DOPO GLI ARRESTI DELLA FINANZA. Posti di lavoro in cambio di cibo, vino e sesso: direttore Asl Lecce si dimette. Stefano Rossi commissario. Nell'ambito delle misure eseguite ieri dalle Fiamme Gialle per ipotesi di reato di corruzione, traffico di influenze illecite e falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Luglio 2022.

Si è dimesso il Direttore Generale della Asl di Lecce Rodolfo Rollo dopo gli arresti eseguiti ieri dalla Guardia di Finanza di Otranto. «Tanto sia per poter assicurare una serena gestione della Struttura, che per evitare complicazioni alle sue condizioni di salute», queste le parole del suo legale, Massimo Manfreda. Nominato commissario Stefano Rossi. Nelle scorse ore le Fiamme Gialle hanno eseguito misure cautelari nei confronti di 11 persone (cinque ai domiciliari, quattro obblighi di dimora, un divieto di dimora e un divieto di esercitare attività imprenditoriale), indagate per ipotesi di reato di corruzione, traffico di influenze illecite e falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Gli arrestati sono l’ex assessore al Welfare della Regione nella giunta Emiliano, Totò Ruggeri, l’ex consigliere regionale di centrosinistra Mario Romano, Massimiliano Romano, Antonio Renna e Emanuele Maggiulli. Obbligo di dimora per il sindaco di Scorrano, Mario Pendinelli, ex consigliere Regionale di centrosinistra. Divieto di dimora per il sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi. Richiesta di interdizione per il direttore generale della Asl Lecce, Rodolfo Rollo. Divieto di svolgere attività professionale per Elio Quarta, Giantomaso Zacheo e Fabio Marra. Le misure sono state concesse dal gip Simona Panzera. Le indagini, svolte dai finanzieri della Compagnia di Otranto, sono coordinate dalla Procura della Repubblica di Lecce, pm Alessandro Prontera. 

Asl Lecce, nell’inchiesta spunta l’ombra di una parentopoli. Dopo l’arresto dell’ex assessore Ruggeri: nuove acquisizioni in Regione, assunzioni e consulenze al setaccio della Finanza. L’ex direttore generale Rollo si è dimesso ma è rientrato in Asl come direttore di distretto. Chiesta la sospensione dalla Procura. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Luglio 2022

Quello che faceva capo all’ex senatore Totò Ruggeri, fino al 2020 assessore regionale al Welfare, appariva come un vero e proprio gruppo di potere, capace di imporre nomine non solo ai vertici della sanità salentina ma anche nelle società partecipate della Regione di cui sarebbe riuscito a influenzare le assunzioni. Lo spaccato emerso dall’indagine della Procura di Lecce, che il 7 luglio ha fatto finire ai domiciliari Ruggeri e altre quattro persone, ha mostrato l’esistenza di una ragnatela di interessi, ma il quadro non è ancora completo: i finanzieri coordinati dal pm Alessandro Frontera stanno infatti ricostruendo quanto avveniva nella Asl e nella Sanitaservice di Lecce: appalti e assunzioni di cui potrebbero aver beneficiato politici locali e rispettivi parenti.

L’inchiesta battezzata «Re Artù» ipotizza a vario titolo, a carico di una trentina di persone, i reati di corruzione impropria, falso e corruzione elettorale in relazione alle ultime Regionali. Ruggeri, in particolare, avrebbe...

Asl Lecce, nell’inchiesta anche le assunzioni in Arif. La Finanza: il braccio destro dell’assessore Ruggeri intervenne per il contratto interinale al figlio di un amico. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

Cosa conteneva la «busta del pane» che a luglio 2019 il commercialista Giantommaso Zacheo voleva consegnare, con insistenza, all’allora assessore regionale Salvatore Ruggeri? È questo episodio, intercettato dai finanzieri, che ha fatto entrare nell’indagine il 52enne di Carpignano Salentino cui il gip Simona Panzera, l’8 luglio, ha applicato la misura cautelare dell’obbligo di dimora e dell’interdizione dall’attività professionale per concorso in corruzione: avrebbe avuto un ruolo, insieme all’assessore e al medico Elio Vito Quarta, nel rilascio dell’autorizzazione al centro Pma di Muro Leccese, realizzato in un immobile di Ruggeri che aveva ottenuto da Quarta la promessa del 30% della società.

Sesso e aragoste, da Lecce l’inchiesta arriva in Regione. Il pm: «La dirigente del Demanio favorì il lido di Ruggeri». Lunedì gli interrogatori. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2022

L’indagine della Procura di Lecce sbarca in Regione. I militari della Finanza hanno notificato un avviso di garanzia anche a Costanza Moreo, dirigente del Demanio. Il suo nome compare fra quelli dei 30 soggetti coinvolti nell’operazione denominata «Re Artù», nell’ambito della quale giovedì è finito agli arresti domiciliari l’ex assessore regionale al Welfare, Totò Ruggeri, 72 anni, di Muro Leccese.

Alla dirigente vengono contestate le irregolarità per l’autorizzazione al ripristino dell’arenile del lido Atlantis di Otranto, di cui Ruggeri è ritenuto amministratore di fatto. L’inchiesta è composta vari filoni in un intreccio fra sanità e politica dal 2019 al 2021. Si parla di pressioni per l’accreditamento di un centro di procreazione medicalmente assistita, di assunzioni e incarichi in cambio di prestazioni sessuali, aragoste e Berlucchi. Le accuse contestate a vario titolo sono corruzione impropria, traffico d’influenze e falso. Nel caso di Ruggeri e del sindaco di Scorrano, Mario Pendinelli, è contestato anche il voto di scambio in occasione delle Regionali 2020.

L’elenco completo delle persone segnalate conta 30 nomi ed è contenuto nell’informativa dei finanzieri depositata dopo gli arresti. Ci sono Luigi Bartolomeo, 68 anni, ex consigliere comunale di Casarano, Lucio Stefano Nocco, 56 anni, di Corigliano d’Otranto; Graziano Musio, 67 anni, di Matino; Domenico Totaro, 72 anni, di Castrignano de’Greci; Giuseppe De Fiesole, 57 anni, di Presicce - Acquarica; Daniele Aventaggiato, 42 anni, di Castrignano de’Greci; Andrea e Giovanni De Iacob, 42 e 39 anni, di Castrignano; Paolo Vantaggiato, 64 anni, di Neviano.

Ieri intanto il direttore generale della Asl di Lecce, Rodolfo Rollo, per il quale il pubblico ministero Alessandro Prontera ha chiesto l’interdizione, si è dimesso. Una scelta - fa sapere l’avvocato Massimo Manfreda - dettata dalla necessità di «poter assicurare una serena gestione della struttura» ma anche per evitare complicazioni alle sue condizioni di salute. Rollo risponde di corruzione impropria per aver chiesto e ottenuto l’autorizzazione ad adottare l’accordo per l’acquisto da parte della Asl delle prestazioni dialitiche erogate dal centro «Santa Marcellina» del Panico di Tricase. Secondo i magistrati, in cambio avrebbe ricevuto dall’ospedale ecclesiastico l’assunzione a tempo determinato del figlio come dirigente ingegnere clinico (incarico prorogato fino al 30 settembre 2022). Al posto di Rollo, è stato nominato commissario Stefano Rossi, già alla guida dell’Asl di Taranto e già in pole position per subentrare a Rollo il cui incarico sarebbe scaduto a settembre.

Ieri la Prefettura, così come previsto dalla legge Severino, ha sospeso dalla carica il sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi (sottoposto a divieto di dimora nel Comune di appartenenza). «Contiamo di far revocare la misura cautelare all’esito dell’interrogatorio», fanno sapere glia vvocati Mauro Finocchito e Gianluca D’Oria, difensori del primo cittadino idruntino. Sospesi dalla Prefettura anche il consigliere comunale di Alliste, Antonio Renna, ed il consigliere di Matino Massimiliano Romano, entrambi finiti ai domiciliari.

Ai domiciliari sono finiti anche l’ex consigliere regionale di centrosinistra Mario Romano e il responsabile dell’area tecnica del comune di Otranto, Emanuele Maggiulli. Obbligo di dimora, invece, per il sindaco di Scorrano, Mario Pendinelli, mentre è stato chiesto il divieto di svolgere attività professionale per il cardiologo Elio Quarta, il commercialista Giantomaso Zacheo (per il quale è stato disposto anche l’obbligo di dimora) e l’imprenditore Fabio Marra.

Sulla tipologia delle misure cautelari emesse è emersa una diversità di vedute fra il pm Alessandro Prontera e il gip Simona Panzera. Nell’ordinanza il giudice scrive nero su bianco che i provvedimenti «appaiono ben al di sotto della linea di adeguatezza e proporzionalità in relazione alle cogenti esigenze preventive da fronteggiare, e ciò tenuto conto dello strapotere manipolativo e altamente infiltrante dimostrato da Ruggeri e dell’habitus ad assecondare supinamente poteri forti o comunque privati palesato dai pubblici ufficiali attinti dalle richieste». Il gip fa esplicito riferimento alla figura di Pierpaolo Cariddi, «tenuto conto del gravissimo svilimento della sua funzione istituzionale mostrato dall’indagine e della capacità di condizionamento dei funzionari comunali, che ne impone quantomeno l’allontanamento coercitivo dal territorio comunale». Troppa clemenza - è scritto - anche nei confronti di Pendinelli, Mario Romano, Antonio Greco, Fabio Marra, Giantommaso Zacheo ed Elio Quarta.

Lunedì sono stati fissati gli interrogatori degli arrestati, martedì toccherà a coloro che sono stati colpiti dalle interdittive. Gli arrestati sono difesi anche dagli avvocati Luigi Corvaglia, Maria Greco, Gianluca D’Oria, Dimitry Conte, Salvatore Corrado, Francesco Vergine e Luigi Covella.

Otranto, le mani sugli appalti pubblici: ecco la «verità» dei fratelli Cariddi. I due Cariddi rispondono di associazione a delinquere, corruzione per l’esercizio della funzione e per un atto contrario ai doveri d’ufficio, falso ideologico. Angelo Centonze su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Ottobre 2022

Dopo l’arresto in carcere del 12 settembre scorso, nell’ambito dell’inchiesta «Hydruntiade», i fratelli Cariddi hanno riferito la loro verità dinanzi ai pm. Si è trattato di un interrogatorio fiume durato complessivamente oltre sei ore. Era previsto inizialmente per mercoledì scorso (è stato rinviato a causa di un impedimento del pm), ma si è poi svolto ieri mattina nel carcere di Borgo San Nicola. I due Cariddi, seppur provati dalla detenzione in carcere che dura oramai da oltre un mese, hanno serenamente fornito la loro versione dei fatti in merito alle contestazioni della Procura. Dinanzi al procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone, al sostituto procuratore Giorgia Villa ed agli ufficiali di polizia giudiziaria è stato anzitutto ascoltato Luciano Cariddi, primo cittadino di Otranto fino al 2017 (difeso dagli avvocati Viola Messa e Michele Laforgia) che ha risposto, per circa tre ore, a tutte le domande dei pm. Subito dopo è stata la volta di Pierpaolo Cariddi, a sua volta sindaco di Otranto (assistito dagli avvocati Gianluca D’Oria ed Alessandro Dello Russo). Anch’egli è stato sentito per tre ore ed ha ricostruito i fatti fornendo il proprio punto di vista. Nel corso dell’interrogatorio sono stati affrontati i vari temi confluiti nell’ordinanza di custodia cautelare. In particolare, i fratelli Cariddi hanno parlato dei rapporti istituzionali con le varie autorità del territorio idruntino e con gli imprenditori, chiarendo le modalità degli appalti pubblici. Il collegio difensivo, al termine del lungo interrogatorio, si riserva di chiedere al gip l’attenuazione della misura cautelare in carcere (quantomeno i domiciliari), anche alla luce del fatto che Pierpaolo Cariddi non riveste più la carica di sindaco di Otranto. I legali, invece, non hanno presentato ricorso al Tribunale del Riesame.

I due Cariddi rispondono di associazione a delinquere, corruzione per l’esercizio della funzione e per un atto contrario ai doveri d’ufficio, falso ideologico.

Ricordiamo che nei giorni scorsi, i loro legali avevano depositato la richiesta di interrogatorio, dopo avere avuto modo di esaminare il corposo fascicolo d’indagine. L’istanza è stata accolta dalla Procura. Invece, subito dopo l’arresto, i due non avevano risposto alle domande del gip Cinzia Vergine, scegliendo la via del silenzio. Difatti, al termine dell’interrogatorio di garanzia, presso il penitenziario di Borgo San Nicola, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere.

Ricordiamo che il 12 settembre scorso, venne eseguita dai carabinieri, un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 10 persone (2 in carcere e 8 ai domiciliari). Nel corso delle indagini sarebbe emerso un «sistema Cariddi» per affidamenti di lavori anche attraverso concessioni comunali artefatte, in cambio del sostegno elettorale da parte di imprenditori amici e facendo ricorso alle minacce nei confronti di pubblici ufficiali. Le varie ipotesi accusatorie, come detto, sono state chiarite dai due arrestati, nel corso dell’interrogatorio.

Inchiesta a Lecce, sospetti su una talpa: le tracce nei computer. Il pm Alessandro Prontera indaga su una fuga di notizie. Un pubblico ufficiale è finito sotto inchiesta per rivelazione di segreto d’ufficio: nominato un consulente il particolare. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Luglio 2022

L’inchiesta che fa tremare la politica salentina (e non solo quella in verità) ha cominciato a far rumore nei primi mesi del 2021, quando la Procura di Lecce ha fatto notificare i primi avvisi di proroga delle indagini. Sono gli atti che, nel gergo, provocano la discovery almeno parziale dei nomi e delle accuse ipotizzate. E proprio poco dopo quelle notifiche, che riguardavano anche i politici a partire dall’ex consigliere regionale Mario Romano, qualcuno provò a capire dove stavano puntando le indagini. Oppure voleva approfittare di notizie riservate per utilizzarle a scopi politici.

Parallelamente alle ipotesi di corruzione, traffico di influenze, falso e voto di scambio, il pubblico ministero Alessandro Prontera indaga su una fuga di notizie. E la traccia, depositata tra gli atti a...

Il complotto anti-Emiliano nelle carte del blitz di Lecce. Il sen. Ruggeri: «Un finanziere disse a Stefàno che Emiliano era indagato, e lui avvertì Casini». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Luglio 2022.

Le notizie sono una merce preziosa. Soprattutto in politica, dove conoscere in anticipo l’esistenza di una inchiesta giudiziaria può aiutare a costruire carriere. Oppure a distruggerle. E la storia che, con la casualità tipica delle intercettazioni, emerge dalle carte delle indagini che giovedì scorso hanno portato ai domiciliari l’ex assessore regionale Totò Ruggeri e altre quattro persone, potrebbe rientrare in uno di questi cliché. Perché – in uno scenario che dovrà essere chiarito, per stabilire se quanto captato al telefono risponda a verità o se si tratti di millanterie – riguarda le lotte interne al centrosinistra in vista delle primarie che a gennaio 2020 hanno confermato Michele Emiliano come candidato alla guida della Regione Puglia: lotte che sarebbero state inquinate da voci su indagini a carico del governatore uscente. Voci – questo il punto – che potrebbero essere partite dal mondo giudiziario. 

ARCHIVIATE LE ACCUSE CONTRO L'UFFICIALE DELLA FINANZA

L’ipotesi di rivelazione di segreto a carico del colonnello Mazzotta è stata archiviata il 25 maggio dal gip Simona Panzera su richiesta della stessa Procura. Il pm ha infatti rilevato che i contatti telefonici tra il militare e Stefano ci sono, ma sono successivi a quelli “in cui intervenivano le interlocuzioni tra Emiliano e Ruggeri”, e che gli accertamenti sui registri informatici della Procura non “hanno offerto dati più conducenti”. Non si può dunque dire che la responsabilità sia di Mazzotta. La fuga di notizie, dunque, sempre se c’è stata, potrebbe essere avvenuta attraverso “informazioni apprese in ambito giudiziari diversi (anche) da Lecce, e comunque rispetto a indagini o procedimenti penali già (ostesi e) noti agli stessi interessati (in ipotesi, proprio Michele Emiliano)”. 

La prostituzione giornalistica: intercettazioni alternate per vendere qualche copia in più ed accontentare qualcuno…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Luglio 2022.

Aveva ragione l'ex ministro barese Rino Formica quando, sosteneva nelle riunioni della direzione nazionale del PSI presieduta dal segretario nazionale Bettino Craxi, che " è più facile ed economico comprare un giornalista che un'intero giornale". Evidentemente Formica conosceva una certa attitudine alla prostituzione professionale di una parte marcia del giornalismo pugliese.

di Antonello de Gennaro

Non spetta a noi dare lezioni di giornalismo, anche se in qualche caso più di qualcuno ne avrebbe bisogno. Ma è un nostro dovere ricordare a qualche collega a caccia di sensazionalismo che esiste un Codice Penale ed un Codice Deontologico che noi giornalisti dobbiamo rispettare. Ma ricordarlo al giornalismo pugliese sin troppo condizionato secondo noi dall’appartenenza sindacale è quasi inutile visto un certo modus operandi dei Consigli di Disciplina pugliesi che si sono succeduti negli anni, che puntualmente si girano dall’altra parte….

Chi scrive ha molto spesso pubblicato (integralmente) atti d’indagine ormai pubblici e non più coperti dal segreto istruttorio, senza “virgolettare” quello che si vuole o nascondere quello che non si vuole scrivere. Siamo garantisti sino al midollo, ma sempre schierati dalla parte della Legge e mai al servizio di quella magistratura che ama andare sui giornali ed è molto generosa nel passare carte riservate ai pennivendoli di fiducia. 

Vi confesso che mai avrei pensato di dover prendere le parti del governatore pugliese Michele Emiliano o di un tenente colonnello della Guardia di Finanza ( Francesco Mazzotta) comandante del nucleo di PG della procura di Lecce, che non conosco, ma in questo caso è doveroso farlo. Soltanto 24h due quotidiani pugliesi sostenevano che i due avessero violato la Legge ed il segreto d’ufficio, salvo oggi ritornare sui propri passi. E scrivere il contrario.

Infatti lo scorso 22 maggio scorso, la Gip Simona Panzera del tribunale di Lecce su richiesta dello stesso pm Alessandro Prontera, ha archiviato l’ accusa di rivelazione di segreto d’ufficio a carico del militare. “Le indagini delegate a riscontro – scrive il pm Prontera nella sua richiesta di archiviazione – non solo non hanno offerto circostanze più dettagliate a riguardo, onde meglio colo­rare la “informazione” riser­vata, ma non è stato acquisito neppure riscontro alcuno di una possibile interpolazio­ne/interferenza di Mazzotta stesso nell’apprendere e rive­lare una informazione riser­vata già appresa nell’ambito del relativo ufficio“, quello di comandante del Nucleo di po­lizia economico-finanziaria della Procura di Lecce ricoperto all’epoca. Quindi che senso aveva ipotizzare negli articoli di ieri dei presunti abusi da parte dell’ ufficiale delle Fiamme Gialle, quando già si sapeva che la sua posizione era stata chiarita ed archiviata da 2 mesi ? 

Non è la prima volta che qualche “manina” anonima cerca di colpire Emiliano, con l’aiuto di qualche “pennivendolo” pugliese, mandando un esposto alla Procura generale della Cassazione e facendo finire il governatore pugliese, che è magistrato in aspettativa, dinnanzi alla sezione disciplinare del Csm farcita da magistrati noti frequentatori delle riunioni notturne all’ Hotel Champagne di Roma dove partecipava il sen. Luca Lotti, braccio destro all’epoca dei fatti di Matteo Renzi.

Aveva ragione il presidente Cossiga quando impose che si prendesse atto di un punto fermo: il Csm organo di autogoverno dei magistrati “è soltanto l’organo di autogoverno dei magistrati” e “mai, in alcun modo, un potere dello Stato”. Come invece da sempre pretendevano e pretendono ancora oggi le correnti politiche dell’Anm che giustamente a parere nostro Cossiga accusava di usurpazione contro lo Stato. Così come aveva ragione l’ex ministro barese Rino Formica quando, sosteneva nelle riunioni della direzione nazionale del PSI presieduta dal segretario nazionale Bettino Craxi, che “ è più facile ed economico comprare un giornalista che un’intero giornale“. Evidentemente Formica conosceva una certa attitudine alla prostituzione professionale di una parte “marcia” del giornalismo pugliese. E come sempre aveva ragione. Redazione CdG 1947

La Procura di Perugia apre un fascicolo per fuga di notizie sulla Loggia Ungheria. In Puglia invece sono più distratti. E la stampa locale ringrazia…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Luglio 2022. 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita "cerchia" di magistrati della corrente sinistrorsa di "Area", fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano

La procura di Perugia ha aperto un fascicolo sulla fuga di notizie in relazione alla pubblicazione di alcuni contenuti della richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria, formulata dai pm e trasmessa al Gip. Il fascicolo è stato aperto ieri mattina dopo che il Fatto Quotidiano ha pubblicato alcuni passaggi della richiesta di archiviazione seguiti dalle notizie riportate poi dal Corriere della Sera e da La Repubblica. Stralci che non era contenuti nella nota stampa diffusa dalla procura con cui si dava notizia della richiesta di archiviare l’indagine. “ È un fatto gravissimo e la Procura di Perugia  – ha dichiarato  il procuratore capo Raffaele Cantone all’agenzia Adnkronos – è vittima di questa fuga di notizie“.

Nonostante i verbali degli interrogatori di Amara fossero stati “secretati” sono diventati di dominio pubblico, il procuratore Cantone nei giorni scorsi aveva già avuto modo di affermare : “Vi è stata una sostanziale e totale discovery anticipata della parte più significativa del materiale probatorio costituito dalle dichiarazioni dall’avvocato Piero Amara che stava riferendo della presunta associazione segreta, con la pubblicazione sui media integralmente di gran parte dei verbali di interrogatorio che avrebbero invece dovuto restare segreti”. 

“In particolare già nel novembre 2020 era emersa la certezza che i verbali di interrogatorio di Amara fossero nella disponibilità di soggetti estranei al processo tanto da essere trasmessi integralmente ad un giornalista, e tale propalazione è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con l’invio di una parte dei verbali di dichiarazioni ad altro giornalista e ad un consigliere Csm“, il togato Nino Di Matteo, “che ne aveva fatto anche pubblica menzione in un intervento al Plenum dell’organo di autogoverno”. “Nella primavera del 2021 per oltre un mese giornali, trasmissioni televisive si sono occupati della vicenda, pubblicando verbali ed altri documenti e facendo rendere dichiarazioni ed interviste ai soggetti ritenuti interessati all’indagine», si legge ancora nella nota – e (…) quanto avvenuto ha certamente inciso sulle attività investigative in corso, che avrebbero al contrario, in relazione alla tipologia di reato da accertare, richiesto massima riservatezza e segretezza. Basterebbe in questo senso rimarcare come più di un soggetto si è avvalso della legittima facoltà di non rispondere, proprio motivando la sua scelta in relazione al grave strepitus fori verificatosi“.

il vero intento della corrente di Area al CSM: pilotare, controllare, condizionare nomine 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita “cerchia” di magistrati della corrente sinistrorsa di “Area”, fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano. Guai a disturbare il “manovratore”: cane con cane non si morde. Sopratutto se porta la toga. 

Con una nota l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara, facendo riferimento alle notizie apparse oggi sui quotidiani La Repubblica e Corriere della Sera ha reso noto di aver inviato una nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini. “Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate nel corso di un interrogatorio del 14 giugno 2022 proprio sulla vicenda Musco.

Perché durante quell’interrogatorio – nel quale mi vennero contestate le fantasmagoriche accuse dell’avv.Amara “ ti darò 30.000 euro e ti scanno se non lo fai” in relazione alle quali pur non registrando l’interrogatorio in tono amichevole dissi al Procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio – la pubblica accusa non mi ha dato lettura delle dichiarazioni di Mogini? E perché invece le dichiarazioni di Mogini sono state riportate dai giornali di riferimento peraltro già denunciati a Firenze?“ 

“Quanto al merito e al mio asserito interessamento alla vicenda Musco – continua Palamara – si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della Procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avv. Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno“. Redazione CdG 1947

Bepi Castellaneta per il “Corriere della Sera” l'8 giugno 2022.

È affetto da un disturbo della personalità di tipo narcisistico, ma era capace di intendere e di volere. E quando ha compiuto il massacro era lucido, anzi ha pianificato tutto nei minimi dettagli, annunciando persino l'orrore in un diario, poi recuperato dagli investigatori.

Lo hanno stabilito i giudici della Corte d'Assise di Lecce, che hanno condannato all'ergastolo Antonio De Marco, 23 anni, riconosciuto colpevole dell'omicidio di Daniele De Santis, 33 anni, e della fidanzata Eleonora Manta, 30 anni, lui arbitro e lei impiegata dell'Inps, assassinati il 21 settembre di due anni fa nel loro appartamento di via Montello, a pochi passi dalla stazione di Lecce, mentre festeggiavano il primo giorno di convivenza.

Quella sera la donna stava mangiando un dolce, il fidanzato le scattava una foto, tutti e due felici per l'inizio di una vita insieme. Ma i sogni, i progetti, i sorrisi, tutto quanto è stato spazzato via in quei minuti di terrore e morte: De Marco, lo studente di Scienze infermieristiche di poche parole che tempo prima aveva preso in affitto una stanza della casa, è entrato con una copia delle chiavi e li ha uccisi con 79 coltellate così come aveva programmato con lucida ferocia.

Sono quasi le due del pomeriggio quando i giudici della Corte d'Assise di Lecce escono dalla camera di consiglio e leggono il verdetto nell'aula bunker del carcere di Borgo San Nicola. Poco prima una giudice popolare supplente era stata dichiarata decaduta per aver rilasciato alcune interviste televisive facendo valutazioni personali.

In aula ci sono gli amici e i parenti delle vittime. Il padre di Daniele, Fernando De Santis, dice pensando al figlio che «nessuna sentenza potrà mai colmare il vuoto che ha lasciato», mentre la madre di Eleonora, Rossana Carpentieri, scoppia in lacrime: la donna si copre il volto con le mani e viene accompagnata in una saletta, dove rimane a lungo.

In aula prevale il silenzio, qualcuno scioglie la commozione in un abbraccio. «Non può esserci perdono», precisa Mario Fazzini, l'avvocato della famiglia De Santis. «Quello che ha fatto De Marco è inqualificabile, lo abbiamo visto tutti», aggiunge. 

E tornando al processo il legale spiega: «Hanno cercato di avere l'infermità mentale e non ci sono riusciti, questa è la giusta punizione da un punto di vista della giustizia terrena».

La difesa ha insistito fino all'ultimo sulla non imputabilità per incapacità di intendere e volere, ma i giudici non hanno accolto questa tesi. E hanno inflitto la condanna riconoscendo l'aggravante della crudeltà. 

L'assassino, che ieri non era in aula, ha studiato nei minimi particolari un copione di morte alimentato da una rabbia innescata da solitudine e invidia per quella coppia felice. E nel diario ha annunciato il massacro.

«Ho avuto una crisi mentre stringevo un cuscino», c'è scritto. E ancora: «Ho pensato che, a differenza mia, gli altri abbracciano vere ragazze e così sono scoppiato a piangere. Ho comprato qualche attrezzo, voglio uccidere qualcuno, voglio farlo a pezzi».

Sempre nel diario, decisivo per le indagini, il killer scrive: «Ho già le chiavi e da qui, quando andrò via, potrò uccidere Daniele, mi piacerebbe una donna per prima, ma penso che così sarà una buona base di partenza».

Secondo gli inquirenti, De Marco voleva uccidere solo Daniele, ma Eleonora ha tentato di fermarlo, così l'ha colpita. Il killer ha infierito con decine di coltellate. Lo ha fatto per invidia, come ha spiegato nella sua requisitoria il pubblico ministero Maria Consolata Moschettini. Quella coppia felice - ha sottolineato la pm - era «la rappresentazione allo specchio della sua solitudine sfociata in rabbia narcisistica e furore narcisistico».

Uccise i fidanzati "perché felici": ergastolo al killer di Lecce. Angela Leucci il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.

Arriva la sentenza per l'omicidio di Lecce dopo la sostituzione di una giudice popolare: il reo confesso è stato condannato all'ergastolo.

Una sentenza nell’aria soprattutto per via di un imprevisto inatteso. Antonio De Marco, studente di infermieristica che confessò di aver ucciso i fidanzati di Lecce, è stato condannato all’ergastolo. La sentenza mette fine al processo durato oltre un anno.

L’omicidio di Lecce

Il 21 settembre 2020 furono assassinati due fidanzati, l’arbitro Daniele De Santis e l’impiegata Inps Eleonora Manta, rispettivamente 33 e 30 anni. La coppia si era da poco ri-trasferita nella casa di via Montello a Lecce, dove - sostiene De Marco - è stato compiuto l’omicidio e dove i due avrebbero dovuto iniziare un nuovo futuro insieme. Per alcuni giorni gli inquirenti hanno lavorato sugli indizi e alla fine De Marco, che in passato aveva condiviso con la coppia lo stesso appartamento, ha confessato. Per 79 volte De Marco ha infierito con un coltello sui corpi di Eleonora e Daniele.

In questi quasi due anni dall'omicidio, sono stati esaminati a lungo gli scritti di De Marco, per cercare di capire il suo movente. Si dovranno attendere le motivazioni della sentenza per capire come si è giunti alla verità processuale che è stata rivelata oggi. A quanto pare De Marco annotava infatti su un diario i suoi desideri: incontrare una coetanea ed essere con lei felice. E a gennaio 2021 era trapelata un'annotazione choc su un foglietto rinvenuto in carcere: "Io ho ucciso Daniele ed Eleonora perché volevo vendicarmi perché la mia vita doveva essere così triste e quella degli altri così allegra?". Anche per questa ragione si è dibattuto a lungo sulla sua capacità di intendere e di volere.

Nei diari di De Marco si trovano diversi riferimenti alla vendetta. Tanto che nel marzo 2020 il giovane compila una lista dell'occorrente a portare a termine il suo disegno: "Lista: Lenzuolo Mascherina Guanti Camice Corde Fascette da elettricista Copriscarpe Nastro (anche quello biadesivo) Foto di Gesù e della Madonna Scegliere le cose da cancellare dal PC e dalla cronologia Arma". Solo ad agosto si legge per la prima volta che il bersaglio era stato individuato in Daniele.

La sentenza

La sentenza è stata pronunciata questa mattina nell’aula bunker della Corte d’Assise di Lecce - dove già si erano tenute le altre udienze di questo processo - presieduta da Pietro Baffa. De Marco, assente durante l’udienza come già era accaduto, era accusato di omicidio volontario premeditato aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi. Per queste accuse è stato condannato all’ergastolo.

"Perché difendo un assassino": parla l'avvocato del killer

Tra i presenti c’era invece Rossana Carpentieri, madre di Eleonora: la donna è scoppiata in lacrime alla lettura della sentenza. E c’era anche Fernando De Santis, padre di Daniele, che ha detto all’Ansa parlando del figlio: “Nessuna sentenza potrà mai colmare il vuoto che ha lasciato”.

Altre dichiarazioni sono state invece rilasciate dal pool difensivo di De Marco. “Massimo rispetto per il lavoro della Corte - ha detto ad Adnkronos Andrea Starace, che ha lavorato con il collega Giovanni Bellisario - È stato un dispositivo piuttosto ermetico. Aspettiamo le motivazioni della sentenza e sulla base di quelle valuteremo una eventuale impugnazione”.

L’accusa aveva chiesto per De Marco l’isolamento diurno per un anno, ma non è stato comminato.

La giudice popolare in tv

L’imprevisto inatteso del processo è rappresentato dalla sostituzione di una giudice popolare, peraltro già subentrata a un’altra persona. La donna è stata sostituita a seguito di un’intervista rilasciata a una tv locale: le sue parole avrebbero fatto trapelare, prima del tempo, la sentenza di ergastolo per De Marco.

Fidanzati uccisi a Lecce, ergastolo per lo studente reo confesso Antonio De Marco. Non ha mai voluto essere presente in aula durante il processo restando nella sua cella nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce, dove si trova dal 28 settembre 2020 quando è stato arrestato. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Giugno 2022.

Condannato all'ergastolo: questo il verdetto dei giudici su Antonio De Marco, il giovane studente reo confesso dell’omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta, uccisi la sera del 21 settembre 2020 nella loro casa in via Montello, che per mesi avevano condiviso con il loro assassino. De Marco avrebbe ammesso di averli uccisi «perché erano felici». De Marco non ha mai voluto essere presente in aula durante il processo restando nella sua cella nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce, dove si trova dal 28 settembre 2020 quando è stato arrestato. Per De Marco non è stato disposto l'isolamento diurno per un anno come aveva chiesto la Procura che invece ha visto accogliere la richiesta dell’ergastolo. In aula c'erano i familiari delle vittime.

GIUDICE POPOLARE DECADE PER AVER RILASCIATO INTERVISTA TV

È iniziata con un imprevisto l’udienza in cui oggi i giudici della Corte d’Assise di Lecce hanno pronunciato la sentenza nei confronti di Antonio De Marco, lo studente reo confesso dell’omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della fidanzata Eleonora Manta. Un giudice popolare supplente è stato dichiarato decaduto per avere rilasciato, poco prima dell’avvio dell’udienza, un’intervista ad alcune tv, facendo - è stato spiegato - valutazioni personali sull'esito del processo. Il presidente della Corte Pietro Baffa ha disposto la decadenza per incompatibilità.

NESSUNA SENTENZA COLMERA' IL VUOTO

«Nessuna sentenza potrà mai colmare il vuoto che ha lasciato». Sono le uniche parole pronunciate dal papà di Daniele De Santis dopo la lettura della sentenza con cui è stato condannato all’ergastolo Antonio De Marco, l’assassino reo confesso di suo figlio e della sua fidanzata Eleonora Manta, uccisi la sera del 21 settembre 2020 nella loro casa in via Montello, che per mesi avevano condiviso con il loro assassino.

Oggi nell’aula bunker di Lecce c'era anche la mamma di Eleonora, che dopo aver ascoltato la condanna si è coperta il viso con le mani ed è scoppiata a piangere, fino a quando è stata accompagnata in una saletta dove è rimasta a lungo.

«Meglio che» De Marco «non sia venuto» in aula; «è una persona che non si è mai pentita di nulla, non ha mai chiesto perdono, nulla. Non può esserci perdono, quello che ha fatto è inqualificabile, lo abbiamo visto tutti». E’ quanto afferma l’avvocato Mario Fazzini, legale della famiglia De Santis, dopo la condanna all’ergastolo inflitta oggi ad Antonio De Marco, lo studente di Scienze infermieristiche reo confesso del duplice omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta, compiuto nella loro casa di Lecce il 21 settembre 2020.

«Non è stato riconosciuto solo l’isolamento diurno - aggiunge il legale -. La pena dell’ergastolo era scontata per come sono andati i fatti e per come è giusto che fosse. Non poteva essere diversamente. Hanno cercato di avere l’infermità mentale e non ci sono riusciti. E’ la giusta punizione da un punto di vista della giustizia terrena», conclude.

Fidanzati uccisi a Lecce, giudice popolare decade dopo intervista in tv. Atteso il verdetto per De Marco, chiesto l'ergastolo. L'assassino reo confesso li avrebbe ammazzati «perché erano felici». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Giugno 2022.

È atteso per la tarda mattinata di domani il verdetto dei giudici su Antonio De Marco, il giovane studente reo confesso dell’omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta, uccisi la sera del 21 settembre 2020 nella loro casa in via Montello, che per mesi avevano condiviso con il loro assassino. De Marco avrebbe ammesso di averli uccisi «perché erano felici».

I giudici della Corte d’Assise di Lecce, presidente Pietro Baffa, si pronunceranno domani nell’aula bunker. La Procura ha già invocato l’ergastolo col riconoscimento dell’aggravante della crudeltà e della premeditazione, e l’isolamento diurno per un anno. Per la difesa, invece, De Marco non è imputabile perché affetto da un vizio di mente. De Marco non ha mai voluto essere presente in aula durante il processo restando nella sua cella nel carcere di Borgo San Nicola a Lecce, dove si trova dal 28 settembre 2020 quando è stato arrestato.

Primo colpo di scena al processo 

Inizia con un imprevisto l’udienza in cui oggi i giudici della Corte d’Assise di Lecce pronunceranno la sentenza nei confronti di Antonio De Marco, lo studente reo confesso dell’omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della fidanzata Eleonora Manta. Un giudice popolare supplente è stato dichiarato decaduto per avere rilasciato, poco prima dell’avvio dell’udienza, un’intervista ad alcune tv, facendo - è stato spiegato - valutazioni personali sull'esito del processo. Il presidente della Corte Pietro Baffa ha disposto la decadenza per incompatibilità.

Il processo è ora iniziato. Il pm Maria Consolata Moschettini non ha voluto controreplicare alle arringhe difensive della scorsa udienza. La Corte è entrata in Camera di Consiglio. La Procura aveva già invocato l’ergastolo col riconoscimento dell’aggravante della crudeltà e della premeditazione, e l'isolamento diurno per un anno.

Fidanzati uccisi a Lecce: «De Marco avrebbe ammazzato anche i giudici». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Luglio 2022.  

Le motivazioni della sentenza che ha condannato all'ergastolo l'assassino reo confesso dei due fidanzati Daniele De Santis ed Eleonora Manta

«De Marco ha ucciso perché voleva uccidere, perché nell'omicidio era vittorioso, trovava la compensazione alle sue frustrazioni e per questo lo commetterebbe ancora se incontrasse sul suo cammino altre persone che amplificassero le sue frustrazioni». Sono queste le parole della Corte d'Assise che motivano la sentenza con cui Antonio De Marco, assassino reo confesso dei due fidanzati di Lecce, l'arbitro Daniele De Santis ed Eleonora Manta, è stato condannato all'ergastolo. «Il PM ha dichiarato davanti alla Corte che De Marco ha detto o scritto che se avesse un coltello saprebbe lui cosa fare ai Giudici che lo processano, perché in fase processuale i Giudici rappresentano un ostacolo, come un ostacolo erano Daniele ed Eleonora. De Marco ha scelto volutamente e lucidamente, in condizioni di piena capacità di intendere e volere, sano di mente, un'alleanza con il Male, coltivando tutti i canali informativi che alimentassero questa scelta; la pedopornografia, prostituzione, i video di mutilazioni, i canali esoterici, i fumetti Manga, personaggi bui e oscuri di certa mediocre letteratura perversa divulgata per adescare i deboli, a differenza di coloro che sono portatori di solidi valori etico morali, che sono disgustati da certi scenari e se ne tengono lontani. Quindi De Marco ha ucciso in piena consapevolezza con dolo di massima intensità, con premeditazione e con crudeltà».

Fidanzati uccisi a Lecce, la difesa del presunto killer: De Marco non è imputabile. Per i legali l’imputato 'è incapace di intendere e di volere'. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 maggio 2022.

Antonio De Marco, lo studente di Casarano reo confesso dell’omicidio dell’arbitro leccese Daniele De Santis e della sua fidanzata Eleonora Manta, «non è imputabile» per i suoi legali difensori «perché incapace di intendere e volere». E’ quanto i due legali, avvocati Andrea Starace e Giovanni Bellisario hanno ribadito questa mattina nell’aula bunker dove è in corso il processo per il duplice omicidio, prossimo ormai al verdetto. Daniele De Santis e ed Eleonora Manta furono barbaramente uccisi la sera del 21 settembre 2020 a Lecce nella loro casa di via Montello, la stessa che per mesi avevano condiviso con il loro assassino. I difensori di De Marco hanno chiesto anche l’esclusione delle aggravanti, contestando le conclusioni e la metodologia di approccio dei periti della Corte d’Assise secondo cui De Marco sarebbe stato invece perfettamente lucido e consapevole quando ha pianificato e messo in atto il duplice delitto. la difesa ha anche chiesto una nuova perizia che però i giudici hanno rigettato , in quanto non ritenuta "assolutamente indispensabile per la decisione».

La Procura ha già invocato l’ergastolo e il riconoscimento dell’aggravante della crudeltà e della premeditazione e l'isolamento diurno per un anno . La prossima udienza è fissata per il 7 giugno per eventuali repliche e la sentenza. 

La sede del tribunale di Lecce. Due anni e 8 mesi ad un cancelliere ritenuto suo complice. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2022. Il gup del Tribunale di Potenza Salvatore Pignata ha condannato alla pena di tre anni di reclusione Marcella Scarciglia, 47 anni, di Veglie, ex giudice onorario del Tribunale di Lecce, arrestata in flagranza nel giugno 2018 mentre ritirava una mazzetta da 1.500 euro da un consulente a cui avrebbe promesso l’affidamento di incarichi. Condannato a 2 anni ed 8 mesi il cancelliere Amedeo Donno, 51 anni, di Sogliano Cavour. Per i due imputati l’iniziale accusa di concussione è stata riqualificata in induzione indebita. Il giudice ha disposto l’interdizione perpetua dagli uffici pubblici per l’ex got e per la durata di cinque anni per il cancelliere.

Difesa dagli avvocati Giuseppe Corleto e Stefano Prontera, la donna è stata invece assolta dall’accusa di corruzione in atti giudiziari per aver istruito - secondo i pm - una causa in cui avrebbe avuto interessi diretti un imprenditore di Gallipoli, a cui era legata. Anche l’imprenditore è stato assolto dalla stessa accusa. 

Casarano, duplice delitto Scu, parla Nadia Rizzello: «Mia sorella e mia nipote trucidate e dimenticate».

A trent’anni dall'efferato omicidio di Paola e la figlioletta Angelica, il racconto esclusivo alla «Gazzetta» su tutto ciò che accadde in quei giorni. Danilo Lupo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2022.

Nadia Rizzello piangerà tre volte durante questa intervista. La prima rilasciata dopo più di trent’anni di silenzio da un familiare delle due vittime del più tremendo omicidio di mafia che il Salento e forse l’Italia ricordi. Piange mentre descrive l’ultima foto di sua nipote, Angelica, scattata pochi giorni prima che venisse uccisa: tutta vestita di rosso, sorride felice all’obiettivo, due dentini le spuntano dalla bocca.

«Due anni e mezzo» dice, a voce bassa. «Io non so come si può far male a un essere così indifeso. Lo sai? All’inizio mi ero illusa. Speravo che l'avessero lasciata vicino ad una chiesa, che qualcuno l'avesse presa, che prima o poi ce l'avrebbero riportata. Forse pensavo ancora che i bambini non si toccano, che la mafia li risparmia: era una illusione». Una illusione smentita da quello che accadde il 20 marzo 1991 nelle campagne di Parabita: due killer affiliati al clan Giannelli sparano alla sorella di Nadia, Paola Rizzello, che ha in braccio sua figlia, Angelica Pirtoli.

La donna, 27 anni, muore. La bimba è per terra, ferita ma ancora viva: sarà uno dei due sicari a finirla a mani nude, afferrandola per un piedino e sbattendola contro un muro. Poi l’ultima crudeltà. I due corpi vengono bruciati e sotterrati separatamente, per eludere le ricerche: la chiamavano lupara bianca, in quegli anni di dominio della Scu nel Salento. Nadia Rizzello piange la seconda volta mentre ricorda quel giorno di sei anni dopo, il 19 febbraio 1997, quando venne chiamata perché erano stati trovati i resti di sua sorella Paola e occorreva che un familiare la riconoscesse. «Quando arrivai nella caserma dei carabinieri di Casarano, su una scrivania c’era una busta trasparente. Mi bastò un attimo per riconoscere gli oggetti di mia sorella».

I gioielli che le sarebbero stati regalati dal capoclan Luigi Giannelli, scatenando la gelosia della moglie, Anna De Matteis?

«Si è detto che erano ori ricavati dalla mafia: è una bugia. Io lo so. Erano i gioielli che a ogni compleanno mio padre le aveva regalato, per questo li riconobbi subito. Scoppiai a piangere a dirotto. Mi credi? Di dolore ma anche di sollievo. Per sei anni ogni giorno avevo penato per andarla a cercare, pensando dove potesse essere, chiedendomi se fosse viva o morta. Sembra strano ma pensai che ora finalmente avrei avuto un luogo dove poterla piangere».

Pensi che tua sorella fu imprudente a avere con sé Angelica in quell’incontro che finì così male?

«Io ho sentito dire che Paola si portava dietro la bambina per proteggersi. Non è per niente vero. Lei non si aspettava che qualcuno le facesse male, proprio perché Paola non ha mai fatto male a nessuno».

Angelica e Paola sono vittime innocenti di mafia?

«Sì, certo. Tutte e due. Mia sorella non ha mai rubato; mia sorella non ha mai spacciato; mia sorella era incensurata; mia sorella non ha mai fatto del male a nessuno. Era una persona libera, diversa dal comune. E per questo meritava la fine che ha fatto?».

Bisognerà poi aspettare altri due anni per ritrovare il corpicino di Angelica. Ti ricordi quel giorno?

«E chi se lo dimentica? Il 25 maggio 1999. Fu ancora più brutto perché nessuno mi contattò: uscii la mattina da casa e vidi le locandine dei giornali, le edicole tappezzate dell'immagine della bambina. L’avevano ritrovata e nessuno mi aveva avvisato».

In questa storia così tremenda ci sono almeno due altre vittime indirette: Antonio Pirtoli, il padre di Angelica; e il figlio maggiore, Alessandro.

«Antonio, mio cognato, è morto di crepacuore un mese dopo che abbiamo seppellito Paola. Non è riuscito neanche a sapere che fine avesse fatto la bambina, che è stata ritrovata due anni dopo.” Qui Nadia piange per la terza volta, si interrompe. Poi inghiotte le lacrime e riprende. “Ma soprattutto Alessandro. Hanno tolto la madre a un bambino che non aveva ancora nove anni e dopo non aveva neanche il coraggio di chiederci “dov’è la mamma?”. Questa storia ha rovinato la vita di mio nipote, completamente».

Alessandro Pirtoli, una volta cresciuto, ha avuto molti guai, anche giudiziari. Anche per questo non ha potuto avere accesso ai benefici che lo stato riserva ai familiari delle vittime di mafia. Il resto della famiglia si è mosso in questo senso?

«Sì, da poco tempo abbiamo intrapreso una causa civile. Per giustizia, innanzitutto. E per quanto mi riguarda lo faccio perché mio nipote, Alessandro, non ha avuto nulla dallo stato e ha bisogno di tutto. Con la mia parte potrò pensare a lui. E anche a un luogo dove, un giorno, riposeremo tutti insieme».

Da alcuni anni molte comunità del Salento hanno voluto ricordare Angelica: è un gesto che conforta o una ferita che si riapre?

«Quella ferita non si è mai chiusa. Mai. Angelica è la più piccola vittima di mafia di tutta Italia. Ce l'hanno tolta, me l'hanno tolta. Sai che il nome glielo scelsi io, che ero la sua madrina di battesimo? Paola volle così. Ora vorrei che quel nome sia onorato e ricordato».

Anche a Casarano?

«Soprattutto a Casarano. Angelica e Paola sono nate e vissute lì. Io non ho mai capito perché il Comune di Casarano non si è mai mosso in questo senso; lo hanno fatto Parabita, Poggiardo, Lecce, Brindisi e li ringrazio per questo gesto anche se mi sarebbe piaciuto essere chiamata, coinvolta. Forse io mi sono chiusa nel dolore, e nessuno è venuto a cercarmi. Questo però voglio dirlo: è una cosa bella dedicare qualcosa, un centro, una strada, una scuola, a queste due innocenti. Perché questo sono tutte e due: anime innocenti».

LE VITTIME INNOCENTI DI MAFIA. Un Porto Selvaggio per Renata, uccisa dalla mafia del cemento. SARA PASCULLI - ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 21 marzo 2022.

Questa è una storia dal triste epilogo, in cui comunque risuonano forti la tenacia, la passione, l’impegno civile che rendono grandi ogni racconto sui difensori della legalità. Tutte qualità in cui Renata Fonte ci è da grande esempio.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alle persone meno note uccise dalla mafia, il numero cresce di anno in anno. A oggi si contano circa 1031 vittime dal 1961 a oggi.

La città di Nardò è quel tipico luogo della Puglia dove si rimane incantati dal candido innalzarsi di strutture barocche, contaminate dallo scorrere dei periodi storici che hanno lasciato nell’arte i propri elementi, rendendo le chiese, le piazze, i vicoli, un calderone di segreti che si nascondono tra i fregi e i porticati e che scompaiono nei chiaroscuri delle facciate dei palazzi.

A pochi minuti di camminata da un centro ornato da così tanta luminosa bellezza, avvicinandosi di appena un chilometro al mare, si incontra invece un posto più grigio, se non per colore, almeno per l’umore dei suoi frequentatori. Si tratta del cimitero comunale di Nardò. Come ogni cimitero un museo di storie di vita, giunte al termine dopo amorevoli anni da nonni, dopo giovani incidenti da ragazzi o dopo gravose malattie di ogni età. In questo labirinto di pietra e fiori, una tomba porta una foto che in moltissimi, se non tutti, hanno visto almeno una volta nella città di Nardò.

È bene precisare che la lugubre popolarità che rende l’immagine di un morto immediatamente riconoscibile in alcuni paesi, è in genere riservata a due categorie di esseri umani: i boss della mafia e gli uomini e le donne che per la loro mano hanno perso la vita.

Il nostro caso è quello di una giovane donna, trentatré anni, un fiore tra i capelli e la determinazione di chi vuole far bene il proprio lavoro. Il suo nome è inciso in ogni pietra, soffia sulle spiagge ioniche ed aleggia sulle rocce frastagliate, si adagia e protegge ogni indomabile albero o cespuglio che dona libertà, profumo e bellezza al parco naturale di Porto Selvaggio. È per lui che Renata Fonte ha lavorato con dedizione, è per questo che è stata uccisa.

Nata nel 1950, i suoi numerosi spostamenti nelle diverse parti d’Italia non avevano arrestato la sua volontà di tornare in quella Nardò che le aveva dato i natali, dove poi la sua passione per la politica si era affermata, portandola ad emergere tra le file del locale Partito Repubblicano Italiano, fino ad essere eletta consigliera ed assessora alla Cultura del suo comune nel 1982.

Mossa dall’entusiasmo e dall’onestà che poneva in ogni azione e scelta che aveva a cuore, uno dei suoi obbiettivi primari una volta acquisito il ruolo pubblico era quello di salvaguardare l’inestimabile patrimonio naturale delle sue terre, da tempo nel mirino delle speculazioni edilizie e di interessi sporchi, che male si sposavano con gli spazi incontaminati di Porto Selvaggio.

Difatti quel fazzoletto di costa colorata di verde, rossastro ed azzurro, per alcuni doveva essere sommerso dal cemento di un nuovo lussuoso residence, che avrebbe dovuto ergersi nell’area protetta. Una qualche struttura alberghiera ingombrante e snaturante per i territori brulicanti di indisturbati gioielli di flora e fauna.

Chi avrebbe dovuto proteggere questi progetti distorti, era il primo dei non eletti: il collega di partito ed avversario di Renata nella corsa all’assessorato, Antonio Spagnulo. Egli avrebbe dovuto assicurare tacitamente le volontà di quanti cercavano di arricchirsi attraverso quel territorio, mentre per l’assessora Fonte questo era un progetto assolutamente inammissibile, che lei ostacolava senza cedimenti e compromessi, dotata com’era di incorruttibilità e perseveranza. Lottava dunque per le ragioni e per la tutela del territorio e della cittadinanza tutta, invece che per il riempirsi delle tasche di pochi.

C’era dunque solo un modo che garantisse l’arrendevolezza di queste qualità, ed era la violenza.

UCCISA A 33 ANNI

Nella notte del 31 marzo 1984, in conclusione di una riunione della giunta comunale, Renata si apprestava a rientrare nella propria casa, dove la attendeva la sua famiglia. Ma quella sera, invece del calore del focolaio, è arrivata la sua fine, cruda ed ingiusta. Tre colpi di pistola, un’esecuzione e niente più.

La morte non sfoggia fronzoli: solo tre spari e l’ultimo respiro. Non è stato però un destino senza rumore quello di Renata, perché, nonostante sia questa una considerazione triste e amara, è probabilmente il suo assassinio che ha salvato Porto Selvaggio. È per aver orchestrato la sua morte che i palazzinari, avidi e ingordi dei propri piani e ricavi edilizi, non hanno potuto raggiungere i loro sordidi risultati.

Tre anni dopo questo evento, furono formalizzate ben cinque condanne: tra esse spicca quella di Antonio Spagnolo, che subentrò nell’incarico di consigliere e assessore subito dopo la morte dell’assessora Fonte. Ottenne il massimo della pena per omicidio premeditato in ogni grado di giudizio (l’ultimo nell’88), è scomparso qualche giorno fa all’età di 92 anni portando con sé ombre e segreti di quell’omicidio che sconvolse la famiglia di Renata e il comune di Nardò

Questa è una storia dal triste epilogo, in cui comunque risuonano forti la tenacia, la passione, l’impegno civile che rendono grandi ogni racconto sui difensori della legalità. Tutte qualità in cui Renata Fonte ci è da grande esempio. Perciò, quando sarete in Salento, meta delle vacanze estive di migliaia di italiani ogni anno, e calpesterete il suolo ed ammirerete l’acqua cristallina del parco naturale di Porto Selvaggio, rivolgetele un pensiero e credete fermamente che sia così che nella vita si lotta e si cambiano le cose. E poi, infine, cercate quel cartello in legno che reciterà per sempre “Porto Selvaggio, a Renata Fonte”.

SARA PASCULLI - ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

Salentinità. Tutto quello che c’è da sapere sul pasticciotto. Stefania Leo su L'Inkiesta il 3 Marzo 2022.

Nato a Galatina nel 1745, questo dolce morbido e dal goloso ripieno sta conquistando sempre più spazio nelle vetrine di tutta Italia. Ma attenzione: non chiamatelo leccese.  

Se avete fatto l’università da fuori sede e avete condiviso l’appartamento almeno una volta con un coinquilino salentino, saprete bene che non c’è pacco da giù o ritorno da casa senza la giusta dose di pasticciotti. Da qualche anno, alcuni bar tra centro e nord Italia hanno iniziato a proporre il fagottino di pasta frolla e crema anche al di fuori del Salento. Inoltre, grazie anche all’opera di evangelizzazione commerciale di Martinucci, catena pugliese di pasticcerie, il pasticciotto è diventato sempre più visibile, fino a creare una vera e propria mania, anche social. Per spiegare le ragioni di questo successo, bisogna andare indietro nel tempo e scendere di moltissimi chilometri, fino ad arrivare al centro di Galatina, dove il pasticciotto è parte del Dna cittadino.

Storia del Pasticciotto di Galatina

Il pasticciotto nasce a Galatina (LE) nel 1745, ad opera della famiglia Ascalone, proprietari dell’omonima pasticceria, oggi giunti alla decima generazione. La ricetta è figlia della filosofia anti-spreco. Per non gettare via della pasta frolla e crema avanzate da una torta, Nicola Ascalone foderò con l’impasto una formina di rame. Al centro ci mise una generosa porzione di crema, per poi ricoprirla con un’altra sfoglia di pasta frolla. Infine, portò tutto in forno per una cottura vivace, sfornando quello che ai tempi definì un “pasticcio”. Infatti, l’aspetto gli parve tutt’altro che gradevole e non volle nemmeno provare a mettere in commercio il risultato. Scelse invece di regalarlo a don Silvestro Mezio, un signore dell’epoca, che aveva il suo palazzo a pochi passi dalla pasticceria. Don Silvestro apprezzò molto il pasticcio, tanto da tornare da Ascalone e commissionarne altri. Data la fama religiosa di Galatina, il pasticciotto divenne presto un’attrazione anche per i pellegrini che si recavano in città per la festa patronale.

Galatina, baricentro del Salento

La radice galatinese del Pasticciotto è talmente forte da aver spinto la cittadinanza a mobilitarsi per far sì che la località fosse riconosciuta come Città del Pasticciotto. Inoltre, qui si parla di Pasticciotto di Galatina e non leccese, sia per ribadire l’orgoglio territoriale legato alla ricetta sia per sottolineare le differenze con il prodotto diventato famoso in tutto il mondo. Prima di tutto nel Pasticciotto di Galatina non si usano liquori o di amarene. La cottura è fondamentale: quello leccese appare più chiaro proprio perché lo si cuoce a temperatura più bassa rispetto al prodotto galatinese. L’impegno a ribadire i caratteri territoriali del pasticciotto è figlio di una voglia di rivalsa, che hanno spinto l’associazione Galatina al Centro, la comunicatrice Barbara Perrone e il fotografo Francesco Fumarola a organizzare il Pasticciotto Tour Galatina, un percorso che oltre a valorizzare il dolce, riaccendesse i riflettori sulla città.

Intanto, quest’estate c’è stato il booster Chiara Ferragni, che con un selfie ha reso celebre in tutto il mondo la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria. Qui si trova il più grande ciclo di affreschi cinquecenteschi dopo quello ospitato nella chiesa superiore della Basilica di Assisi. Simboli essoterici ed esoterici sono ovunque. Nella navata centrale è ancora visibile una rappresentazione della Trinità, in cui è presente anche un volto di donna, stralciata ovunque dopo il Concilio di Trento. Mirabili anche la Chiesa Madre dei Santi Pietro e Paolo, la Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio o Madonna delle Grazie con la sua pianta ottagonale, la Chiesa del Carmine con il suo presepe, Piazza Vecchia, la fontana con “la Pupa” (Lampada senza luce) dello scultore Gaetano Martinez, Corte Vinella e il bellissimo Museo Civico Pietro Cavoti, dove è possibile ammirare i taccuini di viaggio di questo talentuoso esploratore.

Andrea Ascalone, quando le persone fanno la storia

Ma per i gastroviaggiatori, che si spostano seguendo il cibo, il nord della città resta il Pasticciotto. La famiglia Ascalone, che a questa ricetta ha legato le sue fortune, è ancora oggi il simbolo del successo del dolce per una ragione. A fare la storia del Pasticciotto è stato anche un personaggio molto particolare, Andrea Ascalone. Il padre di Davide, attuale proprietario insieme alla sorella Sabrina della pasticceria, è diventato famoso perché aveva un religioso rispetto per la lavorazione del pasticciotto, tanto da vietarne l’asporto al di fuori della città. C’è anche chi giura di esser stato interdetto dal trasporto dei dolci perché diretto troppo lontano anche nella stessa Galatina. Figuriamoci se avrebbe permesso il volo di cabaret verso il nord Italia. C’è chi dice che nei giorni di Scirocco, da Ascalone, non ci fossero pasticciotti perché la crema non avrebbe avuto lo stesso sapore. E allora, semplicemente, non si faceva nulla. Andrea Ascalone era talmente orgoglioso della bontà del suo prodotto e geloso della sua buona riuscita, da esserne diventato uno strenuo difensore e, a suo modo, un’attrazione locale. 

Taglio orizzontale o verticale?

Oggi il pasticciotto è parte dell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali del Ministero delle Politiche Agricole insieme a molti altri prodotti di pasticceria salentina come il Fruttone. I suoi ingredienti sono gli stessi da oltre duecento anni: (per l’impasto) farina, zucchero, strutto, uova, bicarbonato di ammonio, limone grattugiato; (per la crema) farina, latte fresco, tuorli d’uovo e zucchero. Il prezzo può variare dai 90 centesimi per il formato più piccolo a 1,50 per quello più grande. In città c’è chi sostiene che per gustarlo al meglio, se si sceglie di non addentarlo, ci siano due strade: il taglio orizzontale e quello verticale. La prima opzione (anche più famosa a livello fotografico) metterebbe a contatto la bocca con un grande boccone di crema, lasciando la parte finale dell’involucro poco condita. Al contrario, il taglio verticale del pasticciotto permette di gustare la giusta quantità di crema e crosta contemporaneamente. 

Nuova frontiera: il Tipicciotto®

La fortuna del Pasticciotto di Galatina è affidata alle mani dei tanti pasticceri, che in città garantiscono un prodotto fresco di giornata. La tradizione viene tramandata di generazione in generazione, come dimostra anche Stefano Malrogio di Cristalli di Zucchero, che ha accolto la volontà della figlia Silvia di mettersi alla prova al bancone. C’è chi, da sempre, anche grazie alle attività dell’Associazione Pasticceri Salentini porta la tradizione galatinese in tutta Italia con un laboratorio mobile. E poi c’è chi unisce i puntini, mettendo insieme passato e futuro. Luigi Derniolo, membro dell’Aps e titolare della Pasticceria Eros, ha messo a punto il Tipicciotto®. Si tratta di una rivisitazione che resta aderente ai canoni del disciplinare del pasticciotto, regole stringenti che non contemplano, tra le altre cose, ripieni diversi dalla crema pasticcera. A Galatina ci si spinge al massimo verso la crema al pistacchio.

Il Tipicciotto® parte da una domanda: che farine si usavano quando è nato il pasticciotto? Di certo non si parlava di farina 00 o di altre miscele. Da questo interrogativo, Derniolo ha iniziato a studiare la storia agronomica del suo territorio, scoprendo che in Salento si coltivava grano tenero e che quello duro era stato portato dagli arabi. Grazie all’Università di Lecce e al gruppo del Mulino di Comunità – Casa delle Agriculture, ha scoperto che il grano più adatto a raccontare il passato e il futuro del Pasticciotto era la Maiorca. Antica varietà coltivata in loco, ha una più alta percentuale di crusca, che rende la preparazione digeribile. In più, impedisce alla crema di penetrare troppo in fretta l’impasto, ammorbidendolo (ragione all’origine del “no” di Ascalone padre all’estradizione dei Pasticciotti fuori da Galatina). All’esterno, il Tipicciotto® appare più scuro, al gusto si percepiscono più note tostate, ma la fragranza resta intatta.

Intanto, al di fuori di Galatina, le riproduzioni del Pasticciotto si sprecano. Anche Martesana, a Milano, lo ha inserito nella sua proposta e nel suo punto vendita al Mercato Centrale. La Stazione Termini ha accolto un nuovo punto vendita di Martinucci Laboratory. Ma per i puristi l’invito è quello di considerare che non possiamo replicare tutto ovunque, e che il Pasticciotto di Galatina va ancora mangiato sul posto. Di questa consapevolezza si fanno forti anche gli abitanti di una città che merita di tornare a essere il Baricentro del Salento. «Un prodotto non è importante perché esportabile, ma perché capace di portare curiosità sul territorio – spiega Derniolo – Il marchio Città del Pasticciotto e Pasticciotto di Galatina nascono proprio per identificare un prodotto e un luogo diversi da tutti gli altri».

Novoli, il fuoco della fede per sant'Antonio Abate. Angela Leucci il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Nella vigilia del giorno dedicato a sant'Antonio Abate, a Novoli si consuma un rito antichissimo del leccese: quello della focara.

La sera del 16 gennaio Novoli, località in provincia di Lecce, diventa "città di fuoco" in onore di sant’Antonio Abate. Il celebre eremita egiziano, patrono della città, è infatti salutato da una grande festa con un falò che arde per tre giorni e tre notti. Con un contorno di musica folk soprattutto locale, bancarelle e altre attrazioni. Anche se la ragione per cui in tanti accorrono a Novoli in questo giorno è proprio il falò, chiamato “fòcara

La Focara di Novoli 

La tradizione del culto di sant’Antonio Abate a Novoli è molto antica. Nel Salento si userebbe l’espressione “de manu a Pappagola”, ovvero da tempo immemore: fu letteralmente, e fuor di metafora, il vescovo Luigi Pappacoda nel 1664 a istituire la protezione del santo sulla città.

Le testimonianze della prima focara si attestano però al 1905, anche perché è probabile che prima fosse difficile raccontare l’evento: le foto erano rare e, come molte tradizioni popolari, è possibile che anche questa venisse tramandata per via orale. Tra i documenti comunali ce n’è però uno datato 1868, che parla della formazione del comitato festa patronale.

L’organizzazione per la focara, con la raccolta delle fascine, inizia i primi giorni di dicembre, e coinvolge almeno un centinaio di persone forti e in grado di restare su una scala molto alta per intere giornate. Ma la costruzione vera e propria parte il giorno dopo l’Epifania. Attraverso una complessa architettura vengono accatastate almeno 90.000 fascine di tralci di vite, per ottenere una maestosa pira che conserva un passaggio alla sua base, una “galleria”. Attraverso essa, la mattina del 16 gennaio passa la processione con la statua di sant’Antonio Abate e in cima viene issata una bandiera con la sua effigie, che sarà bruciata nel falò. Anticamente veniva issato anche un ramo d’arancio con i frutti, che proveniva dal giardino di un sacerdote.

Sant’Antonio e il fuoco 

Nella tradizione cattolica, il fuoco è un elemento purificatore: non a caso veniva usato dall’Inquisizione per l’eliminazione dell’eresia e della stregoneria. Ma cosa c’entra sant’Antonio Abate, vissuto in Egitto tra il 251 e il 356, con il fuoco?

Le ragioni sono due, una storica e una leggendaria. Quella storica è legata ai poteri taumaturgici dell’eremita, che guariva le persone dal “fuoco di sant’Antonio”, che oggi conosciamo con il nome di herpes zoster. Quest’opera fu proseguita dai suoi successori, che si occuparono di azioni di carità, in particolare nelle cure ospedaliere degli ammalati.

La ragione leggendaria è suggestiva e richiama miti precristiani, come quello di Prometeo, e letterari, da Orfeo a Enea. Sostanzialmente, si ritiene che sant’Antonio sia disceso negli Inferi per prendere il fuoco e donarlo agli uomini. Secondo la leggenda, l’eremita aveva adottato un maialino cui era molto affezionato e che lo seguiva in ogni dove. Antonio discese tra i diavoli per prendere il fuoco e il maialino lo seguì: i diavoli sbarrarono la porta degli Inferi al santo, ma il maialino sgusciò dentro combinando pasticci e non lasciandosi prendere dai demoni. Che alla fine implorarono sant’Antonio Abate di riprenderselo in cambio del dono del fuoco.

L’episodio di Antonio e il maialino è richiamato da una tradizione novolese in disuso: negli anni ’40, un porcellino era lasciato libero di sgambettare per le strade della festa, per poi essere estratto a sorte e vinto da una famiglia fortunata.

Le tradizioni antoniane 

In Italia, sant’Antonio Abate è patrono di ben 112 tra comuni e località - tra cui appunto Novoli - per non parlare delle tante che lo hanno come protettore “minore” o compatrono. In queste città o frazioni, ma anche in altre nel Belpaese, il 17 gennaio - giorno in cui in effetti si festeggia il santo nel giorno della sua morte - si tiene la benedizione degli animali. Su sagrati, spiazzi di fronte alle chiese, cortili e altre pertinenze di edifici religiosi cattolici, le persone che hanno animali in casa li accompagnano per la benedizione che viene somministrata da un sacerdote.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Otranto, l'albero della vita e la morte degli 800 Martiri. Angela Leucci il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale. Le suggestioni e la storia della città di Otranto, dove vissero e morirono 813 santi Martiri: le tradizioni e la cultura di uno dei luoghi più affascinanti dello Stivale.  

I Martiri di Otranto sono 813 santi, canonizzati nel 2013 da Papa Francesco. La loro vicenda è riportata, sebbene epurata di tutti gli elementi agiografici e mitici, su tutti i manuali di storia.

Nel 1480 la città di Otranto fu infatti assediata dai turchi di Gedik Ahmet Pascià: i saraceni obbligarono la popolazione a sconfessare il cristianesimo per aderire all’Islam, ma tutti si rifiutarono, venendo decapitati e impalati sul colle della Minerva. Nella cattedrale idruntina vengono conservate le spoglie mortali dei Martiri, oggetto di una grande venerazione che culmina con i riti religiosi e civili del 14 agosto di ogni anno, in cui si celebra il ricordo della strage ma anche e soprattutto il trionfo della fede. 

La Storia racconta che, il 28 luglio 1480, i saraceni guidati da Ahmet Pascià attaccarono la costa di Otranto, iniziando una dura battaglia che si concluse l’11 agosto successivo con la vittoria turca: la città che aveva resistito così coraggiosamente, era stata costretta a una resa i cui risvolti si sarebbero rivelati particolarmente cruenti. A tutti i cittadini maschi dai 15 anni in su fu imposta una scelta: Islam o morte. E gli 813 Martiri scelsero quindi di morire ma non di rinnegare Gesù Cristo, mentre le loro donne e bambini furono ridotti in schiavitù.

I turchi distrussero inoltre la biblioteca dell’attiguo monastero di Casole, che ospitò uno dei primi atenei italiani. Come spesso è accaduto nella storia, la morte e la distruzione di una nazione passano per la distruzione della cultura.

È possibile che alcuni elementi della narrazione cattolica siano meramente simbolici. È difficile immaginare, per esempio, che un’area limitata come il colle della Minerva abbia potuto ospitare tutti gli otrantini (compresi donne e bambini che furono costretti a guardare la strage) e gli invasori saraceni. Nella simbologia cattolica molto spesso però il promontorio ricorre, a partire dal Golgota, il luogo in cui fu crocifisso Gesù.

Particolarmente interessante è la figura di un coraggioso sarto, Antonio Pezzulla, detto Primaldo. Primaldo combatté contro i turchi valorosamente durante la battaglia di Otranto e fu il primo a essere decapitato da una scimitarra. Il suo corpo senza testa però restò in piedi, duro e inamovibile come una colonna ben piantata nel terreno, finché non cadde insieme all’ultima testa dei suoi compaesani. I corpi restarono incorrotti fino al 13 ottobre 1481, quando furono traslati nella cattedrale.

La vicenda storica e agiografica ha ispirato numerosi libri e fumetti, tra cui non si può non annoverare “L’ora di tutti” di Maria Corti, la cui protagonista è la valorosa e selvaggia Idrusa, che trova la morte nel tentativo di salvare un bambino dai saraceni. Nel 2020 è stata realizzata anche la piece teatrale “Mamma li turchi”, scritta dal giornalista Giovanni Delle Donne e dall'attore Massimo Giordano: come in un quadro di Goya, il ladro Rocco si muove sulla scena tra lacrime e sorrisi, nel tentativo disperato di truffare perfino la ferocia turca. 

Uno dei teatri della battaglia di Otranto fu appunto la cattedrale di Santa Maria Annunziata, luogo in cui si rifugiarono invano gli otrantini, ma che fu profanata ugualmente dai turchi - le chiese erano nel Medioevo e nell’Eta Moderna luoghi in cui in teoria si poteva godere dell’immunità e non subire violenze - che la trasformarono in moschea fino al ripristino della sua funzione originaria nel 1481.

L’edificio risale al XI secolo e gli stili da cui è caratterizzata sono molto diversi tra loro, anche se spiccano elementi bizantini e romanici. Al di sotto della cattedrale è presente una cripta molto caratteristica, per le sue campate a volta sorrette da 70 colonne. Uno dei passatempi dei turisti è contare le colonne: si fa davvero presto a confondersi.

Tra le bellezze della cattedrale però ce n’è una che spicca su tutte le altre, ossia il mosaico pavimentale realizzato dal monaco basiliano Pantaleone, vissuto nel XII secolo. La struttura iconografica del mosaico si snoda lungo l’albero della vita, quello che Dio piantò nel Giardino dell’Eden. Lungo l’albero della vita si possono notare diversi temi biblici ma anche la raffigurazione di animali reali o mitologici, personaggi della mitologia greca o del ciclo bretone e perfino un personaggio storico, Alessandro Magno. Laddove un tempo hanno trionfato la morte e la disfatta, ancora oggi resiste l’albero della vita.

Il castello di Otranto

Scenario di uno dei più importanti romanzi gotici della storia della letteratura mondiale, “Il castello di Otranto” di sir Horace Walpole, e di un’opera buffa di Voltaire, “Le Baron d’Otrante”, l’edificio fu ricostruito nel XIII secolo da Federico II di Svevia e, successivamente alla battaglia di Otranto, da Alfonso d’Aragona, e infatti viene chiamato comunemente castello aragonese. Si tratta di una fortezza antica e suggestiva, che da alcuni anni è scenario di vari eventi culturali, come mostre o concerti.

La morfologia del territorio idruntino è davvero interessante. La città è solcata da un rivo, il fiume Idro appunto, che sfocia su una costiera in gran parte rocciosa. E, nonostante gran parte del territorio sia pianeggiante, non manca un suggestivo promontorio, il colle della Minerva. Poco distante si può ammirare l’ipogeo di Torre Pinta, una struttura funeraria composta da un corridoio e una stanza a pianta circolare da cui penetra la luce.

Non lontani invece dal faro di Punta Palascia, dove giunge il primo sole di ogni mattina in Italia, c’è forse uno dei luoghi più suggestivi (e "instagrammabili") della Penisola: la cava di bauxite, un sito naturale con grandi colori a contrasto grazie alla presenza di un coloratissimo laghetto.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.