Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

IL GOVERNO

QUINTA PARTE

   

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia d’Italia.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per Nome e Cognome.

L’Unione Europea.

Il Piano Marshall.

Bella Ciao al 25 aprile.

Fondi Europei: il tafazzismo italiano.

Gli Arraffoni.

Educazione civica e disservizi.

Quello che siamo per gli stranieri.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Italioti antifascisti.

Italioti vacanzieri.

Italioti esploratori.

Italioti misteriosi.

Italioti Ignoranti.

Italioti giocatori d’azzardo.

Italioti truffatori.

Italiani Cafoni.

Italioti corrotti e corruttori.

Italioti ladrosi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Potere dà alla testa.

Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

Un popolo di Spie.

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Il Capitalismo.

I Liberali.

Il Realismo.

Il Sovranismo -Nazionalismo.

I Conservatori. Cos’è la Destra?  Cos’è la Sinistra?  

Il Riformismo progressista.

Il Populismo.

Il solito assistenzialismo.

La Globalizzazione.

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.

Le Politiche Economiche.

Il Finanziamento ai partiti.

Ignoranti.

I voltagabbana.

La chimera della semplificazione nel paese statalista.

Il Voto.

Mafiosi: il voto di scambio.

Il Voto dei Giovani.

Il Voto Ignorante.

Il Tecnicismo.

L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…

La Rabbia.

I Brogli.

I Referendum.

Il Draghicidio.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

La Campagna Elettorale.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

Le Votazioni ed il Governo.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Costituzione fascio-catto-comunista.

Quelli che…La Prima Repubblica.

Le Presidenziali.

Storia delle presidenziali.

La Legge.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

I Top Manager.

I Politologi.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Traffico d’influenze.

La malapianta della Spazzacorrotti.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Impuniti.

Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.

Concorso truccato nella sanità.

Concorso scuola truccato.

Concorsi ed esami truccati all’università.

Ignoranti e Magistrati.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti ed avvocati.

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.

I Commissari…

Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.

Spreco a 5 Stelle.

Le ali italiane.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Bancopoli.

La Nascita dell’Euro.

Il Costo del Denaro.

Il Debito. Pagherò.

ConTanti Saluti.

Il Leasing.

I Bitcoin.

I Bonus.

Evasori fiscali!

L'Ingiunzione di Pagamento.

Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.

La Telefonia.

Le furbate delle Assicurazioni.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

 

IL GOVERNO

QUINTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Traffico d’influenze.

Finanziamenti pubblici: chi lucra sullo sport sociale e gli sponsor in Parlamento. Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.

Nel 2022 lo sport italiano ha ricevuto 288 milioni di euro di finanziamento pubblico: lo Stato mette i soldi, il Coni decide a chi darli, Sport e Salute (società per azioni del ministero dell’Economia e delle Finanze) come suddividerli. Alle 45 federazioni sportive vanno 264 milioni, alle 18 federazioni associate 4 milioni, e ai 15 Enti di promozione sportiva (Eps) riconosciuti dal Coni spettano 16 milioni. Solo il Coni può assegnare la qualifica di Eps che permette alle centinaia di migliaia di società affiliate vantaggi fiscali enormi. I soci sono complessivamente 9 milioni.

Gli Enti di promozione sportiva e i partiti politici di riferimento

Gli Eps nascono nel dopoguerra come strumento di propaganda e azione sociale di partiti politici e movimenti confessionali. La Libertas alla Dc, l’Arci-Uisp (ora solo Uisp) al Pci, l’Endas ai repubblicani, la Fiamma ai missini, il Csi alla Curia e così via. La loro natura è definita per regolamento, con una regola sacra: l’assenza di fini di lucro per loro e tutte le società associate. I ricavi, se ci sono, non possono essere distribuiti ai soci né in modo diretto e né in modo indiretto e neanche in futuro.

Le indagini della Guardia di Finanza

Nella realtà le cose vanno in un altro modo: Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate e Ispettorato del Lavoro già nel 2010 (Operazione Ercole) avevano trovato irregolarità in 95 circoli sportivi su 100. Nel 2022 hanno aperto centinaia di verbali. Il 20 gennaio la Gdf della Toscana ha accertato evasioni per oltre un milione di euro in una struttura di Grosseto i cui soci-atleti erano in realtà clienti iscritti a corsi fitness, inconsapevoli di far parte di una società sportiva. Trecentomila euro evasi e 5 lavoratori in nero a Sassuolo, dove «le finalità non lucrative espresse nello statuto erano finalizzate esclusivamente al profitto». In una grande palestra di Pomezia, vicino Roma, sono stati trovati completamente in nero istruttori, addetti alle pulizie, impiegati di segreteria ed esperti di marketing. Verbali analoghi a Trento, Cuneo (con canoni di affitto sovrastimati per lucrare sui crediti d’imposta), Cesena, Parma e altre località.

Tutti gli «imbrogli» delle palestre

Quasi metà delle società affiliate ad alcuni Eps sono palestre. Due centri sportivi di fama nel quartiere Eur di Roma hanno sale pesi, piscine e campi da tennis a disposizione dei clienti, adulti e benestanti. Un abbonamento annuale costa dagli 800 ai 1.300 euro, a seconda dei servizi offerti. In più si paga una cifra annuale (50/70 euro) di iscrizione. Nessun scontrino o ricevuta, ma una semplice notula priva di valore fiscale perché le due palestre si sono associate al Centro Sportivo Italiano (Csi) con la qualifica di «società sportive dilettantistiche» senza fini di lucro. La più grande – a scorrere il registro del Coni – conta 3.800 «atleti». Nel momento in cui ti iscrivi alla palestra, anche se nessuno te lo dice, diventi un atleta del Csi che infatti dichiara 1,3 milioni di soci. I vantaggi: la palestra non paga tasse e Iva sulla quota incassata, può assumere allenatori senza versare contributi pensionistici o assicurativi entro i 10 mila euro, ha sconti sulle forniture di metano e sulle tasse sui rifiuti e può defiscalizzare anche i ricavi del bar sociale. Il lucro c’è ma non si vede. Il presidente della società sportiva non può incamerare gli incassi della palestra ma può, ad esempio, girarseli sotto forma di affitto in quanto proprietario dell’impianto. E gli affitti sono molto alti. Secondo Silvio Martinello, oro olimpico ad Atlanta nel ciclismo e gestore di una delle palestre più grandi del Veneto, «l’operatore può sfruttare i benefici del lavoro sportivo con i dipendenti, ma deve sempre battere lo scontrino per le prestazioni di fitness che sono un lucro e vanno tassate. I vantaggi sono riservati a chi davvero fa attività sportiva dilettantistica, individuale e di squadra».

Come vengono schivati controlli e sanzioni

Enti come Asi, Opes, Csen hanno efficientissime strutture parallele con fiscalisti e consulenti del lavoro che spiegano come schivare controlli e sanzioni: bisogna evitare in ogni modo che «l’attività sia volta solo al mantenimento della forma fisica individuale e al miglioramento estetico», recita il vademecum Asi, e non alla «partecipazione a manifestazioni o gare o preparazione sportiva». Rischiano grosso le strutture con «ampia gamma di attività assimilabili alle aziende commerciali e non di promozione dei valori sportivi». Cioè buona parte delle palestre italiane. Per evitare contestazioni e multe, Asi propone di «creare eventi sportivi dilettantistici documentabili» tra i clienti «pubblicando classifiche per categorie di età e diffondendole sul web». Insomma, simulare un’attività amatoriale fornendo anche «attestati con documentazione degli esiti sportivi». Vittorio Bosio, presidente Csi (1 milione di soci), dice: «Al Csi puntiamo allo sport sociale per i giovani, sappiamo che ci sono palestre che si affiliano a noi per risparmiare sulle tasse, ma sono poche e le scoraggiamo». Dimentica che il Csi ha firmato un accordo con Anif, l’associazione che raduna 800 grandi palestre e centri fitness italiani, cui vende pacchetti di 2.000 tessere a 3.400 euro. Giampaolo Duregon, presidente Anif, ammette: «È vero che non paghiamo tasse e Iva ma ce lo meritiamo perché svolgiamo attività sociale che migliora la salute dei cittadini». A dire il vero l’attività è sociale quando non è a fini di lucro.

Calcio canino e lancio del formaggio

Gli Eps sono anche una formidabile macchina per sdoganare attività non codificate. L’insegnamento della ginnastica posturale, ad esempio, andrebbe affidato a fisioterapisti o laureati in scienze motorie. La scorciatoia è un corso online di 13 ore proposto dallo Csen che per 300 euro offre diploma, patentino e riconoscimento Coni per esercitare l’attività. I requisiti per frequentarlo? «Aver praticato la disciplina specifica/analoga per almeno una stagione sportiva oppure avere buone competenze nell’anatomo-fisiologia di ossa, muscoli ed articolazioni». E i tecnici abilitati, spiegano allo Csen, «quando operano in una società dilettantistica, possono usufruire del regime fiscale agevolato di cui alla legge 342\2000». Enti come Csen o Asi riconoscono come attività sportiva il calcio canino, il braccio di ferro, le danze primitive e il tiro con la fionda. Il Coni ha redatto un elenco di quasi 300 discipline legittimate a definirsi sportive e l’immaginazione non ha limiti: ci sono il lancio del formaggio, il volo in dirigibile e le gare con le barchette telecomandate. C’è un altro aspetto monitorato dalla Guardia di Finanza, quello del lavoro. Il 90% di personal trainer o allenatori di palestra usufruisce di uno sgravio fiscale totale fino a 10 mila euro di reddito grazie a una norma nata per incoraggiare gli insegnanti di educazione fisica a dedicare alcune ore pomeridiane all’allenamento dei ragazzi. Succede, invece, che molte palestre fanno sottoscrivere contratti defiscalizzati e senza versamento di contributi pensionistici anche agli amministrativi, che invece vanno inquadrati nei contratti di settore pagando le tasse per intero. Il governo Draghi, consapevole degli abusi, ha riscritto la legge, introducendo i contributi nella fascia di reddito tra i 5 e i 15 mila euro per fornire più garanzie ai lavoratori. Ma il progetto potrebbe essere rimesso in discussione dal nuovo esecutivo, pressato dagli Eps che in Parlamento hanno ottimi sponsor.

Gli sponsor in Parlamento

Opes, legato a Fratelli d’Italia, ha spedito in Parlamento l’ex presidente Marco Perissa. Asi è presieduta dall’ex deputato di Lega e An Claudio Barbaro, appena nominato sottosegretario all’Ambiente e Sicurezza energetica. Sul sito Asi, Barbaro scrive che «nati in continuità con la storia della Destra sportiva italiana, noi di Asi da sempre siamo un riferimento per tutto il nostro mondo». Lo sport sociale non dovrebbe guardare a destra, sinistra o centro e fare lucro truccando le carte. Va detto che ci anche sono enti che lavorano con dedizione e onestà: tra i giovani, gli anziani, i disabili, nelle carceri e nelle periferie. Ma proprio perché lo sport fa bene alla salute si potrebbe cominciare dando la possibilità di scaricare una quota dell’abbonamento alle palestre ai cittadini che vorrebbero frequentarle, ma non possono per via di costi altissimi. Così i titolari avrebbero l’obbligo di emettere una ricevuta fiscale

Augusto Parboni per iltempo.it l'11 settembre 2022.

Da viale Trastevere a Roma, a Tel Aviv, fino a San Marino. La rete della presunta corruzione all'interno del ministero dell'Istruzione avrebbe superato i confini nazionali. Gli indagati «eccellenti» dell'inchiesta sul giro di mazzette per ottenere appalti nel mondo scolastico, l'ex direttore del dicastero Giovanna Boda e l'imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco, sono stati intercettati numerose volte dagli inquirenti della procura della Capitale. 

Gli investigatori della Guardia di Finanza, coordinati dal pubblico ministero Carlo Villani, hanno ascoltato conversazioni tra i due indagati e altri soggetti finiti nella chiusura delle indagini, mentre parlavano della possibilità di utilizzare i vaccini come «merce di scambio» per ottenere favori al Ministero.  

Non solo. Ad aprile del 2021 i colleghi della procura di Firenze hanno intercettato due persone che parlavano del tentativo di suicidio di Boda. E da quella telefonata sarebbero emersi, secondo la magistratura, contatti tra l'ex dirigente del dicastero di viale Trastevere e soggetti di San Marino. Tanto da far tremare la diplomazia della Repubblica del Monte Titano.

«Sai quella che si è suicidata...che si è buttata giù dalla finestra al Ministero qui in Italia...lì in mezzo c'è uno molto importante di San Marino del Corpo Diplomatico che gli ha dato 640.000 euro, va bene?...e questa cretina è andata a prenderli e depositarli in banca...adesso salta tutto il Corpo Diplomatico...». 

Uno dei due interlocutori intercettati è uno dei membri del direttivo del Partito dei Socialisti e dei Democratici di San Marino. La conversazione tra i due continua: «Quella piglia 2.500 euro al mese...ma come si può andare a depositare 640.000 euro in una volta sola?...se non è un'eredità o una vincita...cioè veramente la gente guarda non ci arriva mica con la testa». 

Dalle migliaia di pagine dell'inchiesta sugli appalti milionari per i progetti scolastici spunta l'intenzione di Boda e Bianchi di Castelbianco di far vaccinare in Israele quattro persone a loro vicine. 

Era marzo del 2021, in piena emergenza Covid-19, quando i due indagati parlano della possibilità di far vaccinare a Tel Aviv la madre e il padre di Boda e il direttore generale del Miur in pensione, già capo Dipartimento per l'Istruzione del Miur, «attualmente coordinatrice del Comitato tecnico-scientifico per l'educazione civica». 

L'intenzione, secondo il pm, sarebbe stata quella di pagargli i biglietti aerei per ottenere favori. L'imprenditore nella conversazione intercettata ha affermato: «Io in questo modo riesco a guadagnare quei punti che mi consentono di fare altre fatture, altre cose. Capito?». 

La coordinatrice, indagata, era presidente nelle Commissioni di valutazione dei progetti presentati dalle scuole per l'assegnazione di fondi all'interno del Ministero dell'Istruzione.

Il. Sa. per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 6 dicembre 2022.

Bandi anticipati via mail all'imprenditore amico. Affidamenti dagli importi artificialmente frazionati per evitare gare d'appalto e favorire il solito imprenditore. Corsie privilegiate per informarlo e aggiornarlo sulle iniziative del ministero dell'Istruzione (incluso veicolargli l'elenco di scuole destinatarie di nuovi fondi). 

Inizierà il 14 febbraio il processo nei confronti dell'ex presidente della Dire e dell'Istituto di Ortofonologia Federico Bianchi di Castelbianco, titolare di una serie di appalti ministeriali viziati, secondo la Procura, da un accordo corruttivo.

In aula, con lui, Giovanna Boda, ex dirigente dell'Istruzione, non ancora tornata alla normalità dopo il tentativo di suicidio (il 14 aprile 2021) all'indomani delle prime perquisizioni disposte dai magistrati. Più altre undici persone accusate a vario titolo di corruzione, turbativa d'asta e rivelazione di segreto d'ufficio. 

Per favorire Bianchi di Castelbianco Boda avrebbe ricevuto soldi e favori a partire dal 2018. L'editore avrebbe saldato, per fare qualche esempio, i 9.700 euro per «trattamenti» estetici di Boda, i 47.500 euro relativi «al noleggio a lungo termine della Mercedes Benz», i circa 27mila euro spesi in viaggi, i 104mila e passa euro per l'autista. Cifre alle quali si sommerebbe la disponibilità «della carta di credito prepagata... e impiegata per spese di carattere personale» di 39mila euro circa. Più varie promesse di pagamento (per il mutuo, per le bollette, per l'affitto di una baita e altro) che il pm Carlo Villani include nello scambio corruttivo.

Non ci sarà, invece, Valentina Franco, la factotum di Boda che, dopo aver scelto di collaborare con i magistrati, ha chiesto di patteggiare. Più altri cinque indagati che, allo stesso modo, hanno scelto di patteggiare. 

Dall'inchiesta era emersa una sorta di «dipendenza» di Boda da Bianchi di Castelbianco che si sarebbe dato da fare in epoca Covid persino per farla vaccinare in Israele (assieme a famiglia e collaboratori), dove i tempi si annunciavano più rapidi. Secondo l'accusa l'ex dirigente ministeriale avrebbe ricevuto a vario titolo circa tre milioni di euro in cambio di affidamenti per 23,5 milioni di euro all'editore. «Non ricordo le singole dazioni - aveva detto Boda nel corso dell'interrogatorio reso ai pm quest' anno -. Avevo perso il senso della realtà, ma non mi sono arricchita perché molte volte ho rimandato indietro i soldi».

La Procura di Roma chiude le indagini per le tangenti sugli appalti da 23 milioni di euro al Miur. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Agosto 2022.  

Il sistema di tangenti andava avanti dal 2018 e secondo la magistratura romana vedeva coinvolti un imprenditore e l' ex capo dipartimento del Ministero

Chiuse le indagini a carico di 15 persone, tra cui l’imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco ex editore dell’agenzia di stampa Dire, e l’ex capo dipartimento del Ministero dell’Istruzione, Giovanna Boda, ritenuti dalla Procura di piazzale Clodio a capo di un sistema illecito che andava avanti dal 2018 che ha indotto oggi la Procura a notificare agli indagati il “415 bis”, iniziativa questa che di solito anticipa la richiesta di rinvio a giudizio. Un fiume di denaro e utilità tra cui regali di ogni tipo e lavori di ristrutturazione sugli appalti, gare con cifre a sei zeri, del Ministero dell’Istruzione. Tre milioni e duecento mila euro di mazzette il totale conteggiato dalla procura. Questo il volume di soldi dati, e altri promessi, alla Boda e a diversi componenti del suo staff.

Al centro dell’indagine, affidata al sostituto procuratore Carlo Villani ed all’aggiunto Paolo Ielo e culminata con una serie di arresti nel settembre del 2021, un giro di tangenti, per ottenere appalti da circa 23 milioni di euro. Coinvolte anche quattro società mentre due indagati hanno chiesto di patteggiare la pena. All’ex capo dipartimento del ministero per le risorse umane Giovanna Boda ed a Bianchi di Castelbianco la Procura di piazzale Clodio contesta i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione per l’esercizio della funzione, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio.

Boda è l’ormai ex capo dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali del Ministero dell’Istruzione che a metà pomeriggio del 14 aprile del 2021, dopo un incontro nello studio del suo avvocato, si lanciò dalla finestra del secondo piano nel cortile di uno dei palazzi di Piazza della Libertà, e venne ricoverata in gravissime condizioni al Policlinico Gemelli.

L’ex-manager ministeriale riceveva in cambio regali di ogni genere. Il capo d’imputazione elenca nel dettaglio i doni elargiti: ad esempio una Mercedes a noleggio con autista, del valore di 47 mila euro. Persino gli stessi genitori della Boda beneficiavano dei favori di Bianchi di Castelbianco: l’imprenditore tra il 2020 ed il 2021 gli pagava l’affitto di un appartamento alle spalle del parco di Villa Borghese per un totale di 27 mila euro, contando sull’intermediazione della segretaria Valentina Franco, dell’autista Fabio Condoleo, dei collaboratori Sara Panatta e Vincenzo Persi e poi di Nicola Cirillo e Massimo Mancori, “tutti consapevoli dell’accordo corruttivo“. 

Nel documento di 36 pagine il pm Villani ricostruisce il sistema illecito: secondo l’impianto accusatorio la Boda, incaricata della realizzazione delle procedure per selezionare progetti scolastici, ha ricevuto in modo indebito “la dazione e la promessa delle somme di denaro e delle utilità per sé e per terzi per un totale di complessivi 3.201.933 euro per l’esercizio delle sue funzioni e/o dei suoi poteri nonché per il compimento di una pluralità di atti contrari ai doveri di ufficio” da Bianchi Di Castelbianco “legale rappresentante dell’Istituto di Ortofonologia, socio amministratore di fatto della “Come. – Comunicazione & Editoria s.r./.” (Com.e.) direttore scientifico e amministratore di fatto della “Edizioni Scientifiche MA.GI. S.r.1.” (MA.GI.), amministratore di fatto della “Fondazione Mite – Minori informazione Tutela Educazione” (Mite), enti aggiudicatari dal gennaio 2018 al 13 aprile 2021 di affidamenti da parte di Istituti scolastici per complessivi 23.537.377 euro, di cui corrisposti 17.457.976 euro“. 

Secondo quanto accertato dai magistrati, sulla base delle indagini affidate alla Guardia di Finanza, l’ex alto dirigente ministeriale avrebbe rivelato all’imprenditore “notizie d’ufficio che avrebbero dovuto rimanere segrete. In particolare, anticipava via e-mail” a Bianchi di Castelbianco “prima della sua pubblicazione, la bozza del bando per il finanziamento di progetti scolastici per il contrasto della povertà educativa, e invitava e lo faceva partecipare a riunioni tenutesi presso il Ministero nelle quali si doveva decidere la ripartizione dei finanziamenti alle scuole a valere sulla Legge n. 440/1997, demandando anche allo stesso imprenditore la decisione finale su tale suddivisione“.

“Le accuse che mi sono state rivolte, unitamente al fatto che sono state rese pubbliche sui media senza lasciarmi la possibilità di opporre la mia ricostruzione dei fatti – aveva dichiarato a suo tempo la Boda tramite il suo difensore, l’ avvocato Giulia Bongiorno – mi hanno sconvolto. Tutto quello che ho dimostrato in anni di servizio sembra cancellato in poche settimane. Ho sempre servito lo Stato con rigore e onestà, nella piena consapevolezza delle mie responsabilità e dei miei doveri, e lo dimostrerò appena possibile: ho chiesto di essere interrogata proprio per chiarire“.

Nel procedimento al momento risultano parti offese il Ministero dell’Istruzione e la Presidenza del Consiglio dei Ministri nonché l’Agenzia delle Entrate.  

Tangenti sugli appalti al Miur, in 15 verso il processo. Accusata di corruzione anche Giovanna Boda. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

Chiuse le indagini il pm chiama in causa undici persone e quattro società. Insieme all’ex capo del dipartimento, c’è anche l’imprenditore Bianchi di Castelbianco

Indagini chiuse e rischio processo per l’ex capo dipartimento per le risorse umane del ministero dell’Istruzione, Giovanna Boda, per l’imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco e altre 13 persone, accusati a vario titolo di alcuni episodi di corruzione legati agli appalti al Miur.

Stando all’ipotesi accusatoria formulata dal pm Carlo Villani, Boda — incaricata delle procedure per selezionare progetti scolastici — , contando sull’intermediazione della segretaria Valentina Franco, dell’autista Fabio Condoleo, dei collaboratori Sara Panatta e Vincenzo Persi e poi di Nicola Cirillo e Massimo Mancori, «tutti consapevoli dell’accordo corruttivo», avrebbe ricevuto «indebitamente» la dazione o la promessa di denaro per complessivi 3,2 milioni di euro da Bianchi di Castelbianco, al quale erano riconducibili tre società (l’Istituto di Ortofonologia, la Com.E - Comunicazione & Editoria, la Edizioni Scientifiche Ma.Gi.) e la fondazione M.I.T.E. - Minori Informazione Tutela Educazione, enti aggiudicatari tra il 2018 e il 2021 di affidamenti da parte di istituti scolastici per 23,5 milioni.

L’inchiesta era emersa nell’aprile del 2021 quando Boda, appreso di essere indagata, aveva tentato il suicidio lanciandosi da una finestra del ministero a Trastevere. Lo scorso marzo sette persone erano state raggiunte da una misura cautelare e 120 mila euro erano finiti sotto sequestro. Così scriveva il gip Annalisa Marzano: «Il desolante fenomeno corruttivo che ha pervaso il settore del Dipartimento dedicato all’Istruzione, all’università e alla ricerca... non era circoscritto ai rapporti tra l’imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco e la capo del dipartimento per le Risorse umane, finanziarie e strumentali del ministero dell’Istruzione, Giovanna Boda, ma era più ampio». 

Boda avrebbe ricevuto carte prepagate, corsi di musica e di sci, visite per la chirurgia plastica, l’affitto di un appartamento, una vacanza in baita in Piemonte, un soggiorno in hotel e anche confezioni di biscotti, bollette del gas e la promessa di assumere una ventina di persone. Gli altri funzionari avrebbero goduto di appartamenti messi a loro disposizione dalle parti del ministero, lavori di ristrutturazione, camere in b&b, scooter e computer.

Tra le numerose contestazioni fatte a Boda, c’è anche quella di aver anticipato via mail all’imprenditore, prima della sua pubblicazione, la bozza del bando «per il finanziamento di progetti scolastici per il contrasto della povertà educativa, recependo le richieste di modifica da parte dello stesso Bianchi di Castelbianco» che per giunta partecipava alle riunioni che si tenevano al ministero. Da qui anche la contestazione ad entrambi del reato di concorso nella rivelazione e utilizzazione di «notizie d’ufficio che avrebbero dovuto rimanere segrete». Nell’avviso di conclusione dell’indagine, sono tre le persone offese individuate dalla procura: il ministero dell’Istruzione, la presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento delle Pari Opportunità e l’Agenzia delle Entrate.

Tra le fonti di prova citate dal pubblico ministero, i documenti acquisiti presso banche e diversi istituti scolastici, oltre che al dicastero, e quanto emerso dagli interrogatori, dalle memorie difensive di alcuni indagati e dalle attività investigative condotte dalla Guardia di Finanza. La factotum di Boda, Valentina Franco, che ha collaborato alle indagini fornendo riscontri ai finanzieri, e Sara Panatta hanno chiesto di patteggiare la pena e la loro posizione è stata stralciata dal filo di indagine principale.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 30 Agosto 2022.

Alla fine l'ex dirigente del Miur Giovanna Boda (licenziata due volte con due diversi provvedimenti disciplinari), accusata di corruzione dalla Procura di Roma, ha iniziato a collaborare. Ai primi di luglio avrebbe ammesso alcune responsabilità. Addirittura, grazie alle sue parole, gli inquirenti avrebbero contestato due nuove accuse all'amico editore Federico Bianchi di Castelbianco per gli appalti al ministero della Pari opportunità, quando il dipartimento era guidato da Maria Elena Boschi e la Boda era il suo braccio destro. 

Una nuova ipotesi di reato sarebbe scaturita nei confronti dell'imprenditore Massimo Mancori sospettato di aver incassato illecitamente 164.500 euro per attività di comunicazione. 

Ieri è stato recapitato agli avvocati degli indagati l'avviso di chiusura delle indagini. I legali adesso avranno venti giorni per far interrogare i loro assistiti o presentare memorie difensive.

Dal 415 bis emerge che nell'inchiesta ci sono 15 indagati, tra cui cinque nuovi nomi. La posizione di quattro colletti bianchi sotto inchiesta è stata stralciata avendo gli stessi chiesto di patteggiare. Ma in Procura si aspettano di definire prima della richiesta di rinvio a giudizio almeno altre due o tre posizioni. 

Per la Boda, anche se gli inquirenti sarebbero propensi ad accettare un'istanza di patteggiamento, la strada dell'accordo è in salita, poiché la donna dovrebbe prima restituire il prezzo della presunta corruzione, ovvero le utilità ricevute sotto varie forme, tra regali, posti di lavoro e messa a disposizione di collaboratori, tra cui una segretaria e due autisti. Ipotetiche «tangenti» che avrebbe ottenuto in cambio dei 23 milioni di appalti concessi dal ministero a Bianchi di Castelbianco.

Il pentimento

La collaborazione della Boda nascerebbe da un sincero pentimento per la leggerezza con cui avrebbe gestito i rapporti con l'imprenditore. Ricordiamo che nel 2021 si lanciò nel vuoto dopo aver ricevuto un avviso di garanzia, riportando gravi fratture. Troppo pesanti le accuse per chi pochi mesi prima era stata perfino in predicato di diventare ministro nel governo Draghi e aveva tra i suoi estimatori pure il presidente Sergio Mattarella.

Ora la donna, madre di una bambina piccola, desidera solo che sulla sua storia cali il silenzio. Soprattutto in un momento in cui è tormentata dai problemi di salute collegati al tragico volo. 

Nonostante questo, l'inchiesta potrebbe far scuola per come è stata condotta. Per mesi gli investigatori della Guardia di finanza e il pm Carlo Villani coordinato dall'aggiunto Paolo Ielo hanno lavorato sotto traccia svolgendo accertamenti certosini dentro al Miur come si fa per le verifiche fiscali. Alla fine i quattro probabili patteggiamenti e quelli che potrebbero seguire puntellano l'indagine e quasi la blindano.

Rileggere oggi le accuse sciacallesche che ci mossero alcuni degli amici della Boda non appena demmo conto in esclusiva delle prime contestazioni alla dottoressa Boda ci amareggia molto. L'ex sottosegretario all'istruzione del governo Prodi Nando Dalla Chiesa, dopo aver assolto con troppo anticipo l'amica indagata dalle colonne del Fatto quotidiano, fece spericolate insinuazioni su presunti oscuri mandanti dietro al nostro articolo.

In prima fila a difesa della donna si schierarono la Boschi e Matteo Renzi, il quale si chiese sui social: «Come si può permettere che la gogna mediatica stritoli la vita delle persone?». Al coro si unirono anche le giornaliste Concita De Gregorio (particolarmente inviperita con chi aveva avuto l'ardire di accusare la Boda) e Annalisa Chirico che denunciò «titoli colpevolisti» e «accuse infamanti». Il Foglio schierò una batteria di firme per cantarcele e suonarcele. 

In tv straparlarono di gogna mediatico-giudiziaria suor Anna Monia Alfieri, frequentatrice dell'ufficio ministeriale della dirigente, e Paola Binetti, che presiede il comitato scientifico di una fondazione riconducibile a Bianchi. 

Adesso le carte dell'inchiesta e le ammissioni della Boda mettono a tacere questo pollaio e speriamo che questa vicenda serva da lezione per chi è abituato a considerare i frequentatori dei propri salotti innocente per diritto di tartina.

Ma torniamo all'avviso di chiusura delle indagini. Tra i 5 nuovi indagati c'è Lucrezia Stellacci, ex direttore generale in pensione del ministero che nella sua qualità di presidente nelle commissioni di valutazione dei progetti presentati dalle scuole per l'assegnazione di fondi, avrebbe ricevuto da Castelbianco utilità per un importo complessivo di 40.293 euro. 

Nello specifico la donna, oltre ad avere ricevuto bonifici per 2.500 euro sul conto personale sarebbe stata ospite in alberghi romani come il Trilussa palace e il Ripa «in occasione dello svolgimento dell'attività presidente nelle commissioni di valutazione dei progetti presentati dalle scuole per l'assegnazione di fondi».

I pernottamenti sarebbero costati la bella cifra di 27.323 euro. Cospicue anche le spese per i «mezzi di trasporto» usati per raggiungere la Capitale e assegnare i progetti oggetto di corruzione: ammonterebbero a 10.470 euro. Altra nuova indagata è Maria Beatrice Mirel Morano, «componente delle commissioni di valutazione dei progetti» che , però, avrebbe ricevuto da Bianchi «solo» 2.000 euro. 

Sotto inchiesta anche Edoardo Burdi, legale rappresentante di una delle società di Castelbianco, l'imprenditore Mancori e la moglie Rina Mariani. 

Avrebbero chiesto di patteggiare due collaboratrici della Boda, Valentina Franco e Sara Panatta, la funzionaria del ministero Evelina Roselli e la dipendente di Castelbianco Lucia Porcelli.

Stando all'ipotesi accusatoria la Boda, insieme alla Franco, all'autista Fabio Condoleo, ai collaboratori Panatta e Vincenzo Persi e poi a Nicola Cirillo e Mancori, per la Procura «tutti consapevoli dell'accordo corruttivo», avrebbe ricevuto «indebitamente» la «dazione e la promessa di somme di denaro per complessivi 3,2 milioni di euro» da Bianchi di Castelbianco. 

Dopo essere finita ai domiciliari nel settembre 2021, la Franco aveva iniziato a collaborare, svelando «un sistema operativo ben strutturato e altamente vantaggioso per tutti i suoi protagonisti».

Nel suo verbale del 6 luglio la Boda ha svelato, come detto, altri due episodi di corruzione entrambi risalenti a gennaio 2018, quando la donna era capo dipartimento per le Pari opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.

La dirigente aveva stipulato con l'Istituto di ortofonologia di Castelbianco un contratto per la realizzazione di una campagna informativa di prevenzione e di sensibilizzazione sul fenomeno del cyberbullismo per un ammontare di 39.000 euro e alla Com.e Srl aveva assegnato un appalto per materiali stampa e comunicazione, da 38.500 euro. 

Se la posizione della Boda è migliorata grazie alla fattiva collaborazione con gli inquirenti, resta molto più delicata la situazione del principale indagato, l'editore Castelbianco, già finito in carcere e poi ai domiciliari, capace di violente reprimende contro chi scrive utilizzando la sua agenzia di stampa, la Dire, e il canale Youtube.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 6 settembre 2022.

Giovanna Boda, l'ex dirigente del ministero dell'Istruzione accusata di essersi fatta corrompere, sarebbe caduta in tentazione in un momento di depressione e di cure mediche. Intorno a lei in molti si sarebbero approfittati del suo stato di fragilità, lasciando che si rovinasse tra spese compulsive e bandi su misura a favore dei suoi presunti corruttori. 

È questa la versione che la Boda, assistita dagli avvocati Giuseppe Rossodivita e Luigi Medugno, ha consegnato ai magistrati il 6 luglio in un interrogatorio lungo 4 ore e mezza e reso in una stazione dei carabinieri a due passi da via Veneto a Roma. «Ammetto tutti gli addebiti di cui ai capi A e B che mi avete mostrato», ha dichiarato in un afoso pomeriggio. 

Anche grazie al suo intervento le società riconducibili all'editore Federico Bianchi di Castelbianco avrebbero ottenuto tra gennaio '18 e aprile '21 affidamenti da parte di numerosi istituti scolastici (destinatari di finanziamenti del Miur) per un valore di 23,5 milioni di euro, di cui 17,5 effettivamente percepiti. In cambio la Boda avrebbe ricevuto utilità effettive per 3 milioni di euro.

Tra queste 50.000 euro in contanti, 41.000 in bonifici, 39.000 caricati su una prepagata e 105.000 per il salario dell'autista. Persino 80.000 euro di lavori di ristrutturazione in contanti per la casa in montagna dei genitori della Boda. Soldi che, almeno in questo caso, sarebbero stati restituiti. 

Tra le utilità indirette ci sono gli stipendi per i collaboratori (mezzo milione per il «gruppo ministero») e le assunzioni fatte da Castelbianco su richiesta della Boda, costate all'imprenditore 1,15 milioni di euro, compresi 175.500 di una tantum. 

L'indagata, licenziata dal Miur con due diversi provvedimenti disciplinari, ha precisato: «Sicuramente non ricordo nel dettaglio le singole dazioni o utilità anche perché in quel periodo mi ero sottoposta a una forte cura ormonale che mi ha portato ad avere forti comportamenti compulsivi, depressione e alterazione della realtà.

Purtroppo non ho avuto la prontezza di sottrarmi alla grave situazione creata mettendomi in malattia come avrei dovuto fare. Ho avuto un comportamento compulsivo che mi ha indotto a spendere tutti i soldi che mi dava Bianchi di Castelbianco oltre a quello che guadagnavo con il mio stipendio, tanto è vero che non ho più niente, come risulta anche dal fatto che il sequestro nei miei confronti è stato di circa soli 30.000 euro». 

Quindi la Boda, pur senza lavoro, ha fatto sapere di essere disponibile a provare a saldare almeno in parte il frutto della corruzione: «I miei genitori hanno messo in vendita la casa di proprietà di Limone Piemonte e sono disponibili a darmi il ricavato per potermi consentire di mettere lo stesso a disposizione della Procura e del giudice in modo da effettuare le restituzioni previste dalla legge delle utilità, ricevute ovviamente nei limiti delle mie possibilità».

L'ex dirigente in questo modo sembra puntare al patteggiamento e a uscire così dall'inchiesta. Ricordiamo che la Boda nel 2021 ha tentato il suicidio lanciandosi dallo studio del suo avvocato, e da allora porta sul corpo i segni del suo gesto disperato. Per prima cosa, durante l'interrogatorio, il pm Carlo Villani ha chiesto conto del versamento sul conto della Boda di 80.520 euro in contanti. 

Per la donna 30.000 provenivano da regali dei parenti per la nascita della figlia. Gli altri arrivavano, invece, da Castelbianco: «Dal 2016 avendo consolidato il mio rapporto con lui gli ho confidato che mi dispiaceva il fatto di dovermi fare aiutare economicamente da mia madre e da mia suocera. Lui subito si è offerto di prestarmi dei soldi che mi portava in contanti a casa a tranche di 1.000-1.500». Circa 50.000 euro sino al 2019. 

Ma la Boda ha ricevuto anche bonifici «con causali fittizie» che non avrebbe gradito: «Io mi lamento subito della cosa e provvedo all'immediata restituzione» ha puntualizzato. A questo punto anche una collaboratrice della dirigente sarebbe stata oggetto di invii di soldi, «anch' essi restituiti».

Ma l'opera di accerchiamento non sarebbe terminata e Castelbianco le avrebbe fatto spedire denaro dai collaboratori, a partire dalla segretaria, Valentina Franco, dall'autista, Fabio Condoleo, e dalla di lui moglie: «Ricordo bonifici inviatimi anche da D.M. che non sapevo neanche chi fosse []. In quel caso Bianchi mi disse di non fare altri pasticci sulle restituzioni perché avrei attirato la Guardia di finanza. Pertanto questi bonifici non sono stati restituiti». 

La Boda accusa sia Condoleo che la Franco: «Erano assolutamente consapevoli delle dazioni che Bianchi di Castelbianco mi ha assicurato per anni, consapevoli a tal punto che concordavano direttamente con lui le modalità con le quali farmi pervenire i soldi». Lo chauffeur, per esempio, gestiva la carta di credito contestata dalla Procura, un benefit a cui la Boda non sarebbe riuscita a rinunciare: «Avendo saputo della carta comunque non ho chiesto che la stessa fosse restituita».

Il 6 luglio si è sfogata: «Io ho più volte detto alla Franco e a Condoleo che ero disperata e che non sapevo come uscire da questa situazione ma loro piuttosto che farmi desistere ne alimentavano il protrarsi dicendomi di stare tranquilla e con ciò aderendo alle indicazioni di Bianchi di Castelbianco. Nel frattempo io continuavo a effettuare spese compulsive senza senso». L'indagata ha pure confessato di aver chiesto di «aiutare» Condoleo all'ex dirigente Leonardo Filippone e che questi avrebbe fatto ottenere dei «pagamenti» destinati all'autista da un istituto di Fiumicino e da uno di Roma.

Per far cosa? Nulla. «So che Condoleo non ha eseguito alcuna attività per quelle scuole» si legge nel verbale. La Boda ha anche raccontato come, quando la sua famiglia si è allargata con la nascita della figlia, abbia accettato di trasferirsi in una casa acquistata da Castelbianco. Il quale le presentò una proposta di locazione con il proprio nome: «Io dissi che era impossibile un contratto tra me e lui. Per questo Bianchi di Castelbianco inserì una terza persona che io non sapevo chi fosse».

La donna avrebbe pagato l'affitto, ma non i lavori di ammodernamento: «La casa era totalmente da ristrutturare e alla ristrutturazione ha provveduto Bianchi di Castelbianco». Il pm ha chiesto alla Boda se conoscesse la titolare di un un'agenzia di viaggi di Roma ricevendone come risposta che la ditta «lavora con il Vaticano» e che è «molto seria». A questo punto il magistrato ha mostrato all'indagata una serie di mail «relative a viaggi della Boda e dei suoi famigliari con l'agenzia».

Il marito dell'ex dirigente è Francesco Testa, nominato subito dopo l'esplosione dell'inchiesta membro della Procura europea. La donna ha ammesso le vacanze a sbafo: «Ho effettuato diversi viaggi privati da loro organizzati dei quali ricordo di aver pagato una parte tramite bonifici e una parte in contanti, mentre una buona parte sono stati pagati direttamente da Bianchi di Castelbianco». 

I messaggi mostrati da Villani vengono così giustificati dalla diretta interessata: «Si tratta del tentativo di concordare e capire in che modo fare pagare le spese sostenute per i miei viaggi a Bianchi di Castelbianco». L'interrogatorio si è poi focalizzato sul periodo in cui la Boda era capo dipartimento alle Pari opportunità, dove era il braccio destro dell'allora sottosegretario Maria Elena Boschi.

Qui ha spiegato: «In quel periodo ho firmato due affidamenti diretti del valore rispettivamente di 38.500 euro e uno di 39.000 euro alla Com.e e alla Ido. Sicuramente vi sono stati altri affidamenti alle società di Bianchi di Castelbianco». L'ex dirigente ha anche ribadito come certi istituti venissero usati come bancomat e non solo nel caso di Condoleo: «So che esistevano delle scuole che avevano contatti più stretti con Bianchi di Castelbianco, ma anche con noi del ministero e in particolare con Filippone, le quali venivano definite scuole amiche in quanto ci aiutavano a coprire le spese più urgenti che emergevano». 

Le Pari opportunità assegnarono due progetti ad altrettanti istituti che, successivamente, li avrebbero subappaltati a Castelbianco. Le commissioni erano presiedute dall'ex dg, oggi in pensione, Lucrezia Stellacci: «So che Bianchi le ha affittato l'ultimo piano di un albergo di Roma [] e che le stava cercando un ulteriore alloggio». Castelbianco avrebbe consegnato alla Stellacci «una lista di scuole con le quali aveva presentato progetti in partenariato che dovevano vincere in bandi con particolare riferimento a quelli "440"».

Gli inquirenti hanno chiesto alla Boda conferma sui suoi rapporti economici anche con un altro imprenditore, Massimo Mancori, titolare della 2M Grafica Srl. La donna lo conoscerebbe dai tempi della tesi in psicologia, ed essendosi «specializzato in grandi eventi» sarebbe diventato «un interlocutore costante» per il Miur, con cui aveva iniziato a collaborare ai tempi del ministro Giuseppe Fioroni. «Nel tempo con Mancori e la sua famiglia si è stretto un rapporto di amicizia e consapevoli delle mie difficoltà economiche mi hanno garantito dei prestiti tramite bonifico [] mai restituiti». 

In tutto circa 45.000 euro. Quando era alle Pari opportunità la Boda ha «attribuito un affidamento diretto» a Mancori da circa 70.000 euro per due anni «in relazione ad attività di grafica, stampa e comunicazione». L'imprenditore avrebbe fornito alla Boda «merce soprattutto elettronica» che poi «fatturava alle scuole o a Bianchi di Castelbianco». Non è finita: «Mancori ha vinto alcuni bandi di gara per forniture dal ministero, ricevuto affidamenti dalle scuole e ricevuto anche subappalti dalla Fondazione Falcone ai quali lo avevo presentato».

Mancori avrebbe anche materiale urgente per organizzare, per esempio, conferenze stampa volanti, e «a posteriori» la Boda & C. avrebbero cercato «il modo di recuperare i fondi dalle scuole per pagarlo». A questo punto il pm ha mostrato dei messaggi riferiti a un paio di bonifici inviati dalla famiglia Mancori e dalla sua ditta e l'indagata ha replicato: «Ritenevo si trattasse di un prestito di Mancori e non che lo stesso si fosse accordato per avere la restituzione di quanto datomi tramite le scuole». 

C'è infine la questione della lista delle assunzioni chieste dalla Boda a Bianchi di Castelbianco, su cui pende un pesante omissis: «Posso tranquillamente affermare che mentre tutti quelli del cosiddetto gruppo ministero che venivano pagati da Bianchi di Castelbianco lavoravano, di tutti gli altri non ho la medesima certezza [] molti erano solamente destinatari del quantum che talvolta decidevamo insieme io e Bianchi di Castelbianco». Alcuni di questi beneficiari avrebbero persino parenti illustri. 

Fabio Amendolara e François de Tonquédec per “La Verità” il 7 settembre 2022.

Dall'inchiesta sull'ex capo dipartimento del ministero dell'Istruzione Giovanna Boda saltano fuori dei particolari che, seppur non considerati dagli inquirenti come di rilievo penale, potrebbero far arrossire qualche magistrato. La donna è sospettata di aver ricevuto 3 milioni di euro di utilità dall'editore Federico Bianchi di Castelbianco, suo presunto corruttore, in cambio di appalti per 23,5 milioni di euro dal Miur. 

Per un viaggio aereo a Lampedusa pagato dall'imprenditore che sarebbe riuscito a monopolizzare l'ufficio della Boda, sulle scrivanie degli investigatori sono finiti anche dei biglietti aerei: Roma-Palermo del 30 giugno 2020 e Palermo-Lampedusa del giorno successivo, nonché il ritorno diretto a Roma per il 5 luglio. Risultano a nome di «Giovanna» e «Francesco».

Quest' ultimo è Francesco Maria Rodolfo Testa, ex procuratore capo a Chieti, approdato alla sede romana della nuova Procura europea nell'aprile 2021, poco dopo che le prime perquisizioni avevano disvelato l'inchiesta sulla moglie. 

C'è da dire che dalle carte dell'indagine non emerge che il magistrato fosse consapevole dei pagamenti. Testa non è indagato e nell'interrogatorio della moglie non è emerso che fosse al corrente dell'esistenza dello sponsor Bianchi di Castelbianco. 

L'unica colpa che ricade sulla toga è quella di non aver messo in campo un po' più di fiuto. Soprattutto perché, stando alle verbalizzazioni di sua moglie, gli aiutini dell'imprenditore arrivavano in un momento di «difficoltà economica». Ma i viaggi pagati da terzi devono portare particolarmente sfiga. Si pensi alle indagini sullo stratega delle nomine Luca Palamara, che è rimasto incagliato nelle maglie giudiziarie proprio per una vacanza pagata dal faccendiere Fabrizio Centofanti. Da lì partì l'inchiesta.

Tempo fa, inoltre, nell'indagine sulla Boda, erano emerse 12 mensilità da 2.000 euro, per un totale di 24.000 euro a nome di Daniele Piccirillo. E i magistrati cercarono di capire se si trattasse del fratello di Raffaele Piccirillo, magistrato della corrente di Area e capo di gabinetto del ministro Marta Cartabia, chiedendo durante un interrogatorio a Valentina Franco, la factotum della Boda, se Piccirillo fosse finito, come tanti altri, «sul libro paga» di Federico Bianchi di Castelbianco. 

La risposta fu questa: «Daniele Piccirillo dovrebbe essere il fratello della moglie di De Raho o forse il cognato». De Raho è un nome che fa rumore nella magistratura: Federico Cafiero De Raho era il procuratore nazionale antimafia, che nel frattempo è andato in pensione e adesso è candidato in Parlamento con i 5 stelle. 

Tornando al viaggio a Lampedusa, durante l'interrogatorio del 6 luglio il pm Carlo Villani chiede alla Boda, assistita dagli avvocati Giuseppe Rossodivita e Luigi Medugno, se conosca Manuela Tartagni, dipendente di un'agenzia di viaggi e se abbia «mai usufruito di servizi turistici per il tramite della predetta agenzia e chi ha pagato per tali servizi, considerando che lei non lo ha fatto».

La donna, dopo che le vengono mostrate una serie di mail intercorse con la dipendente dell'agenzia, racconta: «Ho effettuato: diversi viaggi privati con loro, dei quali ricordo di aver pagato una parte tramite bonifici e una parte in contanti, mentre una buona parte sono stati pagati direttamente da Bianchi di Castelbianco. Ho cercato la Tartagni per chiederle informazioni sui pagamenti che le ho effettuato, ma lei non mi ha risposto». 

Poi il pm mostra alla donna altre mail scambiate con la Tartagni e risalenti al 2019. Nel carteggio, che ha come oggetto «holidays» seguito da una sfilza di puntini di sospensione, le due discutono di fatture, con la Boda che dice: «Ok, mettili su inaugurazione oppure falli fatturare da Nadia a Federico con fattura di 10.000 euro, così chiudiamo tutto e qualcosa resta a Nadia di anticipo se abbiamo bisogno».

La Boda aggiunge: «Dillo a Valentina», verosimilmente Valentina Franco. Ma la Tartagni risponde: «Non posso fatturare a Nadia perché li ho spesi io e non lei. Ci sta dentro la biglietteria e Ncc di altre città. Per ciò che riguarda lei ha già incassato da Federico un piccolo fondo extra». La Boda risponde che vedrà lei «con Valentina» e la Tartagni propone una soluzione: «Ma va bene anche se li mettiamo in inaugurazione oppure se fatturo io a Federico, ma pare che stranamente lui non possa pagare un'agenzia viaggi. Anche se in passato con noi lo ha fatto mah vabbè».

Al pm la Boda spiega che si trattava «del tentativo di concordare e capire in che modo fare pagare le spese sostenute per i miei viaggi a Bianchi di Castelbianco». Il tutto nella perfetta consapevolezza da parte della Tartagni «del rapporto che avevamo in essere io e Bianchi di Castelbianco». L'agenzia per cui lavora la Tartagni è la Scuola nuova travel, che la Boda nel suo interrogatorio descrive così: «Si tratta di un'agenzia di viaggi particolare, che lavora con il Vaticano e che mi è stata presentata dal movimento studenti cattolici».

Aggiungendo poi che si tratta di «un'agenzia specializzata nei viaggi nazionali e internazionali delle scuole», che la ex dirigente considera «molto seria». E in effetti, il testo della mail con cui vengono inviati i biglietti racconta la cura nell'organizzare il viaggio della Boda: «Come già anticipato, da Manuela, è impossibile contattare l'Alitalia, per cui non abbiamo potuto preassegnarle il posto a sedere davanti. Il 29 giugno V.G. t' invierà la carta d'imbarco del volo di Palermo del 30 giugno comprensiva di Fast track e il miglior posto che riuscirà a trovare. Le carte d'imbarco per e da Lampedusa le invieremo rispettivamente il 30 giugno e il 4 luglio». 

I biglietti, agli atti dell'inchiesta, sono, come detto, per la Boda e per il consorte. Marito e moglie arrivano a Palermo con due compagnie diverse: la donna al mattino con un volo Alitalia, in classe economica. Testa la raggiunge nel tardo pomeriggio con un volo Ryanair e il giorno dopo proseguono per Lampedusa con la Danish air. Il 5 luglio la coppia rientra a Roma direttamente da Lampedusa con un Airbus A318 di Alitalia, sempre in economy.

Dagli atti i voli risultano fatturati alla Franco, dipendente di Castelbianco ma di fatto segretaria della Boda al ministero, dal cui conto corrente risulta partito il bonifico di 2.000 euro, con causale «regalo viaggio Lampedusa», pagamento che la Procura nella sua ricostruzione delle utilità ricevute dalla donna elenca tra «i movimenti bancari effettuati dalla Franco in favore della Boda col denaro proveniente da Bianchi Di Castelbianco». 

Infine nel suo verbale la Boda ricostruisce anche il rapporto con Fabio Condoleo, autista Ncc al servizio della Boda che è stato retribuito per i suoi servigi da Castelbianco con 105.000 euro. Condoleo, finito ai domiciliari nel settembre 2021, aveva ottenuto un'importante vittoria in Cassazione, ma le dichiarazioni della Boda potrebbero riaprire la partita.

Infatti la donna ha sostenuto davanti agli inquirenti che fosse perfettamente a conoscenza del sistema corruttivo e che aveva «un rapporto quasi filiale» con l'editore, a cui «doveva tutto»: «Era venuto da un paesino della Calabria, il padre stava male e lavorava solo grazie a Bianchi di Castelbianco». 

Quindi, per spiegare al meglio quanto Condoleo fosse legato all'imprenditore, racconta un episodio avvenuto dopo che le perquisizioni avevano reso nota l'indagine: «Sempre per esemplificare la consapevolezza di Condoleo vi dico che poco dopo essere uscita dall'ospedale, circa a fine luglio, lo stesso ha contatto mia madre (Titti Palazzetti, ex sindaco di Casale Monferrato in quota Pd, ndr) dicendole che Bianchi di Castelbianco voleva incontrarla urgentemente e che si sarebbero dovuti vedere alla Feltrinelli della Galleria Sordi di Roma. 

Spaventata mia madre si recò all'appuntamento e Bianchi di Castelbianco volendola tranquillizzare le disse che i lavori di Limone Piemonte erano stati pagati in contanti e che lei non doveva preoccuparsi di niente».

Aggiungendo che l'imprenditore «aveva dato 80.000 euro in contanti e che tutti i lavori in corso nella casa di mio padre erano stati pagati. Mia madre preoccupata di quanto appreso è partita per Limone Piemonte e lì ha appreso che i contanti erano stati restituiti e che quindi i lavori dovevano essere interamente pagati». Le dichiarazioni della Boda evidenziano come i rapporti tra Condoleo e Bianchi di Castelbianco non fossero cessati nonostante fossero di pubblico dominio l'esistenza dell'inchiesta e le perquisizioni svolte dagli uomini della Guardia di finanza. 

Andrea Ossino per repubblica.it il 10 settembre 2022.

Abiti sartoriali, auto a noleggio e soggiorni alle "Terme dei Papi". Anche l'ex ministro dell'Istruzione Marco Bussetti si sarebbe accorto della generosità di Giovanna Boda. Del resto sono diversi i regali offerti dall'ex Capo Dipartimento del ministero dell'Istruzione al politico della Lega. 

Quello che Bussetti non poteva sapere è che in realtà i vestiti, le auto e le vacanze sarebbero state pagati con dei soldi sporchi, e non con il denaro della donna finita al centro dell'indagine che ha coinvolto 15 persone, rivelando il giro di mazzette grazie al quale Federico Bianchi di Castelbianco, l'ex editore dell'agenzia di stampa Dire, tra il 2018 e il 2021 avrebbe ricevuto affidamenti per circa 23 milioni di euro.

O almeno è questo che credono i pm della procura di Roma, che hanno concluso le indagini depositando migliaia di atti. C'è anche un'informativa con cui la guardia di finanza spiega che "sono stati rilevati, tra i documenti sequestrati presso la segretaria di Boda, Valentina Franco, e le chat acquisite agli atti delle indagini riferimenti ad acquisti di beni e servizi verosimilmente correlati a Marco Bussetti, ministro dell'Istruzione dell'università e della ricerca dal 1 giugno 2018 al 5 settembre 2019".

Il meccanismo è il seguente: il compagno della segretaria di Boda, Nicola Cirillo, avrebbe emesso fatture per operazioni inesistenti. E "una volta creata la provvista", tolte le tasse, la signora Valentina Franco "effettua bonifici a favore di Boda o sostiene spese a suo favore". 

Emerge anche un pagamento di 2.800 euro a favore di una sartoria: "Ricordo che l'abito e le camicie da me realizzate dovevano essere un regalo per il ministro Bussetti da parte di tutti i collaboratori di una non meglio specificata segreteria. In quell'occasione mi sono recato personalmente presso il ministero di Pubblica Istruzione per prendere le misure del vestito e delle camicie che dovevo cucire al Ministro", spiega il sarto agli investigatori. "Vestito pronto per stasera così lo passo a prendere e domani te lo porto. Un abbraccio grande grande", conferma Boda a Bussetti.

Fatture per oltre 4.600 euro riguardano "servizi di noleggio effettuati a favore di Marco Bussetti", continua la finanza. E poi c'è una corrispondenza "in ordine all'organizzazione di un soggiorno del ministro Bussetti presso l'Hotel 4 Stelle Niccolò V a Terme dei Papi", dicono gli investigatori ammettendo che non sanno se poi il politico ha effettivamente usufruito della prenotazione. 

Una cosa è certa: la Boda aveva un occhio di riguardo per Bussetti. E anche per il suo addetto stampa, visto che al termine dell'impegno con il ministro, l'assunzione di Francesco Kamel è stata fortemente caldeggiata da Boda all'entourage di Bianchi di Castelbianco. "Vale per favore domattina ricordati di mandarmi la lista di Federico che lo vedo domani a pranzo così gli dico tutto", scrive la donna alla sua segretaria nel gennaio del 2020. Le due parlano della lista "con le persone da prendere".

E tra queste c'è Francesco Kamel: "È stato assunto da Bianchi di Castelbianco una volta finito il suo rapporto al Ministero perché era portavoce del ministro Bussetti", confessa la segretaria al pm Carlo Villani. In realtà l'elenco delle assunzioni proposte dalla Boda è lungo. Ci sono Federica Vettori e Carolina Bitossi: "Collaboravano con Maria Elena Boschi nel periodo in cui era Ministro". 

E poi Daniele Piccirillo, "dovrebbe essere il fratello della moglie di De Raho (Cafiero ndr, ex Procuratore nazionale antimafia)". Ancora Marco Stassi, che "è persona segnalata da Vincenzo di Fresco, figlio della sorella del giudice Giovanni Falcone", dice la segretaria. Marco Campione invece "lavora per i governi Renzi e Gentiloni: è capo della segreteria dei sottosegretari Miur Reggi e Faraone e poi nella segreteria tecnica della ministra Fedeli". 

Nessuna di queste persone è indagate. Ma tutti hanno goduto della benevolenza della Boda e di Bianchi di Castelbianco, che in cambio di regali e assunzioni ha fatto una fortuna.

Estratto dall'articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 30 Agosto 2022.

Il noleggio della Mercedes, il pagamento di un autista, la fornitura dei biscotti krumiri, il saldo per il canone di locazione di un appartamento alle spalle del parco di Villa Borghese, lo stipendio alla collaboratrice domestica, le assunzioni di favore. Nell’inchiesta in cui è accusata di corruzione Giovanna Boda, ormai ex potentissimo capo dipartimento per le risorse umane del ministero dell’Istruzione, le tangenti erano declinate in ogni modo. Non mancavano, ovviamente, le più tradizionali mazzette. Ovvero i soldi bonificati sul conto corrente, 50mila euro per gli inquirenti. 

Nel lungo e dettagliato elenco, indicato nelle carte della procura, si legge però un po' di tutto. Ieri i pm hanno chiuso l’indagine e si preparano a chiedere il processo per 15 persone e 4 società. Accanto ai due protagonisti indiscussi della vicenda, la manager pubblica e l’imprenditore e psicoterapeuta Federico Bianchi di Castelbianco, ruotano i loro aiutanti. Persone che lavorano al ministero e alcuni dipendenti delle aziende di Bianchi di Castelbianco nelle vesti di complici.

Lo schema era semplice. Da un lato Boda, secondo il sostituto procuratore Carlo Villani, favoriva in tutti i modi l’imprenditore nell’assegnazione degli appalti, principalmente corsi nelle scuole. Dall’altro l’imprenditore ripagava il capo dipartimento ricoprendola d’oro. In totale, ha calcolato la Guardia di finanza, Boda e alcuni componenti del suo staff, hanno incassato tra denaro contante e omaggi vari una cifra che supera i 3 milioni di euro. Mentre Bianchi di Castelbianco ha visto le sue società (o comunque a lui riconducibili) come l’Istituto di Orfanologia, la Com.e – Comunicazione & Editoria, Edizioni scientifiche Ma.gi. e la fondazione Mite, vincere bandi per 23 milioni di euro nel triennio tra il 2018 e il 2021. […] 

Estratto dall'articolo di Michela Allegri per “Il Messaggero” il 12 settembre 2022.

Fondi stanziati per i progetti scolastici sarebbero stati utilizzati per finanziare il giro di tangenti che, secondo l'accusa, partiva dall'imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco e arrivava all'ex capo del Dipartimento risorse umane e finanziarie del Miur, Giovanna Boda. È l'ipotesi che emerge dagli atti dell'inchiesta per corruzione che ha travolto Bianchi e il ministero. 

In una relazione del 20 aprile 2022, a firma del consulente Francesco Lombardo, nominato dal pm Carlo Villani, e in una dettagliata informativa della Guardia di finanza, vengono elencate «vistose anomalie nella rendicontazione delle spese, tali da far ritenere che la documentazione prodotta dalle società Istituto di ortofonologia Sri, Comunicazione & editoria Sri, Edizioni scientifiche Magi Sri, Fondazione M.I.T.E., tutte riconducibili a Bianchi di Castelbianco, sia in parte relativa a spese non inerenti i progetti», comprese quelle «per la prestazione di utilità in favore della Boda», di suoi familiari e di conoscenti.

I costi d'impresa apparentemente sostenuti dalle società, e risultati estranei ai progetti, sono stati quantificati in 574.028, scrive il consulente, «a cui devono essere aggiunti 300.576 euro e l'importo complessivo di euro 320.138».

I progetti considerati anomali sono otto. Sotto la lente della Procura, per esempio, sono finite le spese sostenute dall'Istituto Ranieri Antonelli Costaggini di Rieti. Il consulente scrive che le società riconducibili a Bianchi hanno inserito nei rendiconti costi «attinenti a prestazioni rese in periodi non rientranti nell'arco temporale di esecuzione del progetto», ma anche «spese attinenti a prestazioni non effettivamente sostenute» e, soprattutto, «allibramento di costi sostenuti per la prestazione di utilità in favore della Boda».

C'è poi il progetto Genova, un ponte per il futuro. Anche in questo caso, sostiene la Finanza, «sono emersi profili di criticità», visto che molte voci di spesa «risultano connotate da palese carenza dei documenti giustificativi». Viene segnalata l'emissione di fatture per operazioni inesistenti, «al solo scopo di procurare la liquidità necessaria per compensare utilità rese in favore della Boda o di altri soggetti da lei indicati».  […]

In molti casi, nei costi addossati alle scuole sarebbero stati fatti rientrare anche gli stipendi e i premi per persone indicate dalla Boda come soggetti «da contrattualizzare». Di questa dinamica ha parlato la segretaria della ex dirigente, Valentina Franco.

«In che modo vengono utilizzati gli istituti scolastici per gestire la mole di spese sostenute dalla Boda?», chiede il pm Carlo Villani durante l'interrogatorio. La risposta: «Per quello che so, agli istituti scolastici veniva richiesto di sostenere le spese di Boda attraverso delle lettere. Non so con quale giustificazione si chiedesse alla scuola di pagare. Ad esempio, la Demetra prenotava viaggi per la Boda e poi la spesa veniva addossata alla scuola».

(ANSA il 12 agosto 2022) - Figura anche un finanziere che ha ricoperto il ruolo di capo scorta dell'ex presidente dell'autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone tra le 18 persone indagate dalla Procura e dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Napoli per avere ricevuto, dall'imprenditore Luigi Scavone, denaro e altre utilità per piegare pubblici ufficiali e non alle sue esigenze, anche per evitare controlli e ottenere informazioni riservate. 

Secondo quanto emerso dalle indagini, Scavone avrebbe elargito regali costosi anche per 41mila euro mentre, complessivamente, sarebbero 150mila gli euro utilizzati per questi scopi. Sotto inchiesta sono finiti 7 finanzieri, tra i quali anche un tenente colonnello del nucleo anticorruzione di Roma, 3 poliziotti e un militare della Capitaneria di Porto. 

Le misure cautelari sono state chieste dalla Procura di Napoli poco più di un anno fa; sulle cinque emesse lo scorso maggio attualmente pende il giudizio della Cassazione. L'ex capo scorta, Walter Pisani, avrebbe ottenuto, grazie all'intercessione dell'imprenditore, l'assunzione la nipote e la sorella in una delle società del gruppo di Scavone.

E' lui stesso, il 4 febbraio del 2020, a fornire agli investigatori un elenco "di amici e conoscenti" che durante il 2018 "hanno ricevuto regali di valore considerevole e altre utilità (come borse di lusso, viaggi e biglietti per le partite del Napoli, ndr)". Scavone si sarebbe speso anche per l'assunzione della ex moglie di un colonnello della Guardia di Finanza e, a un altro finanziere, ("mio amico da tre anni", scrive ) ha regalato - specifica nella nota - "...un viaggio per tutta la sua famiglia e una borsa Louis Vuitton, il tutto per un valore di citrca 6mila euro". 

La Guardia di Finanza aveva già acquisito le informazioni contenute nella nota recuperandole grazie a "capillari, approfonditi e dispendiosi accertamenti tecnici". Scavone, convinto dagli inquirenti, ha deciso poi di fornire le credenziali di accesso al "suo" cloud: la comparazione tra i backup delle chat che aveva cancellato trovati sul web e le informazioni recuperate dai finanzieri avrebbero fornito un riscontro positivo.

L'imprenditore avrebbe anche messo a disposizione di alcuni militari indagati beni di lusso, come costosissime Ferrari e lussuose imbarcazioni, frutto spiegano i giudici, della "...sua enorme enorme disponibilità economica...". Dalle intercettazioni, infine, emerge che gli indagati stavano ipotizzando ritorsioni nei confronti del generale Domenico Napolitano, comandante del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Napoli (in procinto di assumere il comando provinciale della Guardia di Finanza di Palermo), che stava indagando sulle presunte "mele marce".

Milano, quei legami con Boeri dei vincitori del maxi-progetto. Luca Fazzo il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.

La gara per la realizzazione della Biblioteca europea di Cultura: l'archistar era nella commissione giudicante.

«A pensare male - scrive su Facebook un esperto architetto milanese - si fa peccato». Non aggiunge «però si indovina»: ma il concetto è quello. Perché il commento verte sulla storia che da giorni agita il mondo dell'architettura milanese, tra dubbi, gelosie, accuse esplicite. Al centro, la grande opera annunciata con sfarzo dal sindaco Beppe Sala e dall'assessore alla Cultura Tommaso Sacchi: la Beic, Biblioteca europea di Cultura, due navate di cristallo da trentamila metri quadri sull'area di Porta Vittoria. L'idea è vecchia di decenni, c'era un progetto già pagato e poi messo da parte, poi con i fondi onnipresenti del Pnrr tutto è ripartito. Concorso internazionale, quarantaquattro studi di tutto il mondo presentano i loro progetti. Una settimana fa, ecco i vincitori. Al primo posto il progetto presentato da un raggruppamento italiano, con alla testa tre studi di architettura, capofila l'Onsitestudio di Angelo Lunati, e uno studio di ingegneria. I nomi degli autori si sono scoperti solo dopo la vittoria, perché la commissione aveva sul tavolo progetti anonimi. Ma quando saltano fuori i nomi, iniziano i brontolii.

Inevitabili, visto che in ballo - solo per la progettazione - ci sono otto milioni di euro. Ma rafforzati dai legami professionali che i vincitori hanno con alcuni membri della commissione. Soprattutto con il membro più in vista: Stefano Boeri, architetto di fama internazionale, protagonista di alcune degli interventi più importanti compiuti e in corso a Milano, designato a commissario dalla fondazione Beic. Nella fondazione, e qui iniziano i problemi, il socio più forte è il Comune di Milano. Dove l'assessore alla Cultura è Tommaso Sacchi, da sempre tanto legato a Boeri da avere fatto parte della sua segreteria quando l'archistar era assessore, ed averlo poi seguito quando venne estromesso in seguito alla lite col sindaco Pisapia.

Dettagli, rispetto a quanto emerge leggendo chi c'è dietro il progetto vincitore. Due dei professionisti, Angelo Lunati e Giancarlo Floridi, sono in forza al Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico insieme a Boeri e a un altro dei commissari, Cino Zucchi. In cordata con Lunati e Floridi per la parte di ingegneria c'è lo studio Sce, che ha realizzato insieme allo studio Boeri il grattacielo Rcs e la stazione di Matera e sta lavorando con lui a un progetto a Milano, il «Bosconavigli», e uno a Tirana.

Sempre della cordata vincitrice fa parte lo studio Baukuh di Pier Paolo Tamburelli che era redattore della prestigiosa rivista Domus quando il direttore era proprio Stefano Boeri. Non è la prima volta che Boeri dà prova di apprezzare il lavoro del suo ex redattore: nel 2011, come presidente di giuria, scelse il progetto dello studio Baukuh per la «Casa della Memoria», al quartiere Isola, dedicata alle vittime delle persecuzioni razziali. Insieme, Boeri e Tamburelli partecipano in Svizzera al progetto per la «Grande Ginevra». E non è tutto: della cordata fa parte anche lo studio Yellow Office di Francesca Benedetto. La stessa Benedetto (salvo omonimie) che risulta come assistente universitaria di Boeri (con un biennio di pausa) dal 2010 al 2016.

Il problema non riguarda il solo Boeri. Anche l'altro grande nome della commissione aggiudicatrice, Cino Zucchi, ha rapporti professionali stretti con i vincitori. Zucchi, Floridi e Lunati non sono solo colleghi al Politecnico ma hanno progetti insieme, tra cui un importante struttura di social housing a Settimo Torinese e il padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Su un progetto, poi, i protagonisti della operazione Beic si sono ritrovati quasi tutti insieme: Zucchi, Floridi, Lunati e la Baukuh firmano il progetto «Seven Beautiful Orchards» in seno ai laboratori sul futuro dei grandi scali ferroviari milanesi. Per completezza, va segnalato che anche il terzo classificato alla gara per la Beic, Andrea Caputo, ha collaborato in passato con Boeri al Salone del Mobile e nel maggio scorso, quando la gara Beic era già aperta, al concorso per il Parco della Giustizia di Bari.

Sempre gli stessi nomi, insomma, che compaiono e riappaiono in vesti diverse. Tutti milanesi, tutti dello stesso giro: tanto che un altro architetto dubita esplicitamente «che la valutazione dei progetti sia stata condotta correttamente». Ma un dato è certo. In base al bando di gara, tutti i partecipanti avrebbero dovuto segnalare l'esistenza di rapporti professionali e di colleganza con membri della commissione aggiudicatrice; e i membri della commissione, ove a buste aperte avessero scoperto di avere scelto il progetto di un professionista con cui hanno rapporti, avrebbero dovuto farlo presente prima dell'inizio dei lavori. Non risulta che nessuno dei firmatari del progetto vincente abbia segnalato per tempo i rapporti con Boeri e Zucchi, né che Boeri e Zucchi lo abbiano fatto in seguito.

EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN per editorialedomani.it il 16 luglio 2022.

Tommaso Verdini, il figlio dell’ex parlamentare berlusconiano Denis, è indagato per corruzione e traffico di influenze in un’inchiesta dei pm di Roma sulla società pubblica Anas. Il rampollo, a capo della società di lobbing Inver, è stato perquisito dalla Guardia di finanza lunedì, insieme all’ex ad Simonini e altri cinque alti dirigenti del colosso pubblico, indagati anche loro a vario titolo per traffico di influenze e corruzione. 

L’inchiesta sta ricostruendo da mesi un sistema di consulenze e appalti pubblici banditi da Anas, società di stato che gestisce le arterie stradali del paese e che dal 2017 è sotto il controllo di Ferrovie dello stato (i cui manager sono del tutto estranei agli accertamenti investigativi). 

Al centro della vicenda risulta esserci la Inver di Verdini junior, che ha sede nella prestigiosa via della Scrofa a Roma e che offre consulenze alle aziende impegnate nei lavori pubblici. Le consulenze nel mirino degli investigatori ottenute da Verdini valgono diverse centinaia di migliaia di euro. I detective della finanza hanno scoperto che attraverso Inver, Verdini attraeva imprenditori interessati a partecipare alle gare di Anas.

In pratica, secondo l’accusa, una volta ingaggiato come consulente, Verdini sarebbe riuscito a garantire alle aziende l’accesso a informazioni privilegiate e documentazione riservata relativa ai bandi di gara, in modo da “favorire” i clienti che partecipavano ai bandi. Per esempio forniva i dati sui capitolati, così da poter preparare le offerte nel miglior modo possibile. 

Informazioni che sarebbero state veicolate a Verdini da un gruppo di alti dirigenti Anas, indagati per questo insieme al loro ex ad Simonini. Da quanto risulta a Domani, al momento non sono state individuate dagli inquirenti dazioni di denaro. 

Tuttavia l’ipotesi è che il do ut des si sarebbe sostanziato nel fatto che Verdini junior avrebbe supportato i dirigenti della società pubblica per avanzamenti di carriera, promozioni o conferme di incarichi. Perciò l’indagine vuole provare a dare un nome alle sponde politiche del figlio di Denis, necessarie a ricompensare i dirigenti Anas che avrebbero aiutato illecitamente la società di lobby.

Nell’indagine sono stati acquisiti indizi di riunioni in diversi luoghi della capitale tra gli indagati. Una delle tesi di chi indaga, tutta da verificare, è che i protagonisti di questo sistema siano tutti legati tra loro e dai rapporti con la famiglia Verdini. 

Abbiamo provato a contattare Tommaso tramite il padre per ottenere una replica, ma non abbiamo ricevuto a ora risposta. Dall’entourage di famiglia, però, spiegano a Domani che si tratta solo di un malinteso e che, «sia Tommaso Verdini che la società hanno sempre lavorato nel pieno rispetto delle regole». Vedremo a breve se i pm crederanno alla difesa oppure no.

Una prima conferma ai sospetti degli inquirenti sul sistema consulenze e appalti è arrivata grazie al sequestro di un pacco. Era stato spedito con il corriere da Verdini junior a Vito Bonsignore, già berlusconiano di ferro e oggi imprenditore nel settore strade, che lavora negli appalti pubblici pure con Anas. Cosa conteneva la scatola intercettata dai detective? Documentazione della società di stato che Verdini junior aveva recuperato e inviato a Bonsignore. Tutte informazioni riservate che nessuno dei due avrebbe potuto avere. Il sequestro è stato naturalmente notificato alle persone coinvolte.

Da qui i pm hanno ritenuto poi di procedere alle perquisizioni. Il giovane Verdini e l’esperto Bonsignore si conoscono anche per un altro grande affare. Fino alla fine del 2021 il figlio di Verdini è stato consigliere nella società autostrada Ragusa-Catania, partecipata proprio dalla holding di Bonsignore, costituita per realizzare la via di collegamento siciliana di cui parla da anni. Verdini junior è stato inserito nel consiglio di amministrazione della società «in considerazione della sua competenza e capacità» e per «implementare tutti i processi necessari comprese le procedure amministrative e autorizzative previste dalla normativa». 

C’è poi un dato curioso, che mette in collegamento Bonsignore all’altro coindagato di Verdini: con l’autorizzazione del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) la società statale all’epoca amministrata da Simonini aveva deciso di versare 36 milioni a Bonsignore per i costi di progettazione dell’autostrada mai fatta. E pare che sia questa una delle motivazioni che ha spinto il governo Draghi a sostituire Simonini. 

A difendere la scelta di Simonini, nominato in quel ruolo dal governo Conte I, fu l’allora ministro Cinque stelle dei Trasporti, Danilo Toninelli: «Non c’è stata alcuna cattiva gestione da parte di Simonini», aveva detto l’ex ministro, aggiungendo: «I passaggi sono stati decisi col supporto tecnico-giuridico dell’Anas».

La vicenda giudiziaria non coinvolge, ad ora, né Denis, né l’altra figlia Francesca, compagna del leader della Lega Matteo Salvini. Spulciando i documenti societari dei Verdini, però, è possibile evidenziare un sistema di rapporti, amicizie, legami familiari e d’affari interessante. Partiamo proprio da Inver, il nome dell’azienda sotto inchiesta. 

Verdini junior detiene il 70 per cento della proprietà, ma tra i consiglieri troviamo anche Francesco Rizzo, lui stesso socio di Inver fino a maggio scorso con il 20 per cento del capitale. Rizzo è un giovane avvocato toscano, legatissimo ai Verdini. È, infatti, il legale di fiducia di Francesca, sorella di Tommaso.

Una volta vendute le quote di Inver, l’avvocato Rizzo è stato nominato alla fine di giugno nel consiglio di amministrazione della società pubblica-privata Sitaf, che gestisce il traforo del Frejus. 

Il capitale è spartito tra i Gavio e Anas, quest’ultima al centro delle verifiche della Guardia di finanza nell’ambito dell’indagine su Verdini. Rizzo è stato peraltro collaboratore di Cosimo Ferri, pure lui legatissimo a Verdini padre.

L'appalto per il business negli aeroporti? Nella Milano di Sala vince l'offerta peggiore. Luca Fazzo il 29 Giugno 2022 su Il Giornale.

La società vincitrice era già stata cacciata da Sea: ha solo cambiato nome.

Come è possibile che un appalto pubblico venga assegnato all'azienda che ha fatto l'offerta peggiore? Che il Comune di Milano, azionista di maggioranza assoluta della società che ha assegnato l'appalto, ci rimetta un sacco di soldi senza farlo sapere in giro? E che l'appalto finisca in mano a una ditta nel cui curriculum appaiono bancarottieri, titolari di fiduciarie estere e di tesori in paradisi fiscali? Che fine fa in tutto ciò la rinomata efficienza meneghina?

Al centro delle quattro domande sta un appalto che a un profano parrebbe di poco conto: il business dell'impacchettamento dei bagagli negli aeroporti, quegli apparecchi che a ridosso del check in consentono di avvolgere nel cellophan la valigia per evitare di trovarsela svuotata grazie all'inestirpabile piaga dei furti da parte del personale. Si tratta in realtà di un affare assai redditizio, anzi il più redditizio per metro quadro di tutti gli affari che ruotano intorno a un grande aeroporto. Più dei bar, più delle boutique. A contenderselo in giro per il mondo, un piccolo numero di società specializzate. La concorrenza a volte si fa aspra: qualche anno fa nell'aeroporto di Milano Linate tra il personale di due ditte finisce a botte, la Sea (controllata al 54,81 per cento dal Comune) caccia una delle due, la Safe Bag, accusandola di «ripetuti inadempimenti contrattuali» e affida l'intero appalto alla rivale, la True Star. Il tribunale civile obbliga Sea a fare una gara d'appalto vera e propria, e qui cominciano i problemi.

Alla gara si presentano in tre: vince chi fa l'offerta più alta, cioè chi è disposto a pagare più soldi a Sea per piazzare le sue macchine impaccabagagli a Linate e Malpensa. Al primo posto si piazza l'americana Zomaer con un'offerta di 3 milioni e mezzo, al secondo la True Star con 2.8 milioni, al terzo la Safe Bag, quella che era stata allontanata dopo le risse, che nel frattempo ha cambiato nome e si fa chiamare Trawell. Ha offerto solo 2,1 milioni. Ma Sea chiede alle altre due società di presentare al volo una fideiussione da tre milioni. Richiesta impossibile, diranno i periti entrati in scena poi. Ma intanto subentra la terza, la Trawell, ovvero Safe Bag, quella cacciata per le risse. Inevitabile il ricorso di Truestar al Tar, che blocca tutto. Così per ora a Milano il servizio non esiste più, e a supplire provvedono gruppi di extracomunitari sui marciapiedi dei terminal.

L'8 giugno il Tar ha fatto una nuova udienza, la decisione è attesa a breve. Nel frattempo il dato di fatto è che Sea, e quindi il Comune di Milano, si candidano a incassare un robusto gruzzolo in meno, proprio nel momento in cui il traffico aereo torna a ruggire insieme a tutto il suo indotto. A beneficiarne è un'azienda, la Seabag, che del business aeroportuale è una esperta navigatrice. Dietro c'è un veterano del settore, l'ex comandante di aerei Giuseppe Gentile, salito alla ribalta nel 2013 quando il suo nome comparve negli Offshore Leaks, le liste di possessori di beni in paradisi fiscali: veniva citata la Mariri Holdings, con sede a Macao, braccio operativo delle attività dell'ex comandante. Che è attivo in tutto il mondo, e non solo nel business aereo: nella sua orbita nasce la Moviemax, compagnia cinematografica finita poi in bancarotta, tra i cui amministratori c'era anche il finanziere Corrado Coen. Coen è il primo socio di minoranza di Safebag, la società che diverrà Trawell, quando nel settembre 2013 la nuova creatura di Gentile debutta all'Aim, la Borsa delle piccole e medie imprese; poco più di un anno dopo Coen viene arrestato per aggiotaggio, e nel 2016 torna in carcere su richiesta del pm Bruna Albertini per associazione a delinquere.

Presunzione d’innocenza, questa sconosciuta: è gogna contro Boda. La funzionaria del Miur che ha tentato il suicidio finisce ancora sui giornali. L’avvocato Rossodivita chiede solo che vengano rispettati i suoi diritti. Valentina Stella su Il Dubbio il 15 aprile 2022.

È trascorso esattamente un anno e un giorno da quel maledetto 14 aprile 2021, quando l’ex dirigente del Miur, Giovanna Boda, si gettò dalla finestra dello studio dell’avvocato Paola Severino, dopo aver visto il suo nome infangato e la sua reputazione devastata sulla stampa, a seguito di una indagine per corruzione. Da allora diversi interventi chirurgici, una lunga riabilitazione, ma l’uscita dal quel tunnel buio è lontana. La donna è ancora immobilizzata a letto e rischia l’amputazione della gamba.

Ma forse a far più male è l’ennesimo voyeurismo che l’ha riportata all’attenzione della cronaca in questi giorni. Per questo oggi, tramite il suo avvocato Giuseppe Rossodivita, si difende dalle accuse e chiede silenzio e rispetto verso una dolorosa vicenda umana e giudiziaria. «Nonostante la nuova legge sulla cosiddetta presunzione d’innocenza rafforzata – ci dice il suo legale – continuano ad essere pubblicati e raccontati, in termini di approdi giudiziari, quelli che sono solo atti delle indagini preliminari che dovranno essere sottoposti al vaglio dibattimentale. È quanto accaduto in questi giorni in ordine ai verbali di dichiarazioni rese nell’ambito dell’indagine della Procura di Roma sul MIUR, che hanno iniziato a girare per le redazioni dei giornali. Un vergognoso gossip mediatico-giudiziario il cui cinismo è semplicemente non commentabile». La donna, ci racconta sempre l’avvocato, «versa in gravi e complesse condizioni di salute e non è in grado di rispondere allo stillicidio giornalistico di atti d’indagine che, letti atomisticamente, restituiscono una verità assai lontana da quanto si è effettivamente verificato. I reati sono fatti di corpo e anima, di condotte e di comportamenti, ma anche di corretta rappresentazione delle condotte e del quadro in cui le stesse si inseriscono con le necessarie consapevolezze».

Boda nello specifico è accusata di corruzione propria e non è sottoposta ad alcuna misura cautelare. Le indagini non sono ancora concluse. In questi giorni la stampa ha riacceso appunto i riflettori sulla vicenda pubblicando sia stralci degli interrogatori dell’ ex assistente della Boda, Valentina Franco, sia dettagliando i rapporti dell’ex dirigente con Federico Bianchi di Castelbianco, già editore dell’agenzia di stampa Dire, ai domiciliari in quanto ritenuto dalla procura di Roma il presunto corruttore. Lui avrebbe dato soldi, benefit e utilità alla donna in cambio di affidamenti diretti ad alcune sue società. »Il rapporto di conoscenza, sviluppatosi col tempo in una relazione di profonda amicizia e fiducia che la dr.ssa Boda ha concesso al dott. Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta, è assai risalente nel tempo, – spiega sempre Rossodivita – ma gli inquirenti hanno trovato “utilità” di vario genere e natura, riferibile solo agli ultimi due anni, in un periodo di grandissima fragilità psichica della dr.ssa Boda, di cui il Dott. Bianchi di Castelbianco era a conoscenza, quale suo confidente e amico psicoterapeuta e che per questo si offriva quale supporto in un periodo estremamente complicato della vita personale e professionale della dr.ssa Boda. Ciò nonostante è possibile affermare con certezza che non una sola gara, tra quelle bandite dalle migliaia di stazioni appaltanti/istituti scolastici sparsi per lo stivale (non si tratta di bandi del MIUR per quanto così rappresentato dalla stampa) è stata vinta dai soggetti imprenditoriali riconducibili al Bianchi di Castelbianco per effetto di una qualsiasi condotta propria e consapevole della dr.ssa Boda».

Secondo l’avvocato “proprio in ragione di questa fragilità psichica, determinata da obiettivi, documentabili e documentati, problemi di salute, la dr.ssa Boda – in seguito alla perquisizione della Guardia di Finanza e alla lettura di articoli di giornale che prontamente la raccontavano senza alcuna attenzione alla presunzione d’innocenza – ha compiuto l’insano gesto che tutti conoscono. Da allora la dr.ssa Boda è stesa nel suo letto, in un continuo andirivieni dagli ospedali, è sottoposta ad una forte terapia farmacologica e i medici stanno tentando di evitarle in ogni modo l’amputazione di una gamba». Il procedimento penale farà il suo corso ma la dottoressa Boda, tramite il suo legale «chiede alla stampa, ai giornalisti, a coloro che gli ”passano” gli atti, solo alcuni, ed agli editori, rispetto per la presunzione d’innocenza – che sarà dimostrata se e quando la dr.ssa Boda sarà in grado di partecipare con profitto alla sua effettiva difesa – e per la sua dolorosa vicenda umana», conclude Rossodivita. 

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per repubblica.it il 13 aprile 2022.

Due persone dello staff di Maria Elena Boschi, i volti dell'Antimafia e i parenti dell'ex Procuratore Nazionale Antimafia Cafiero De Raho. E poi medici, nipoti di suore, bambini, magistrati e fondazioni per la legalità. Giovanna Boda, la dirigente che ha tentato il suicidio dopo aver saputo di essere indagata, avrebbe aiutato tutti. Solo che a finanziare iniziative meritevoli e persone bisognose, a ben guardare, spesso non era l'ex Capo Dipartimento del ministero dell'Istruzione. 

E neanche il Miur. Ma Federico Bianchi di Castelbianco, l'ex editore dell'agenzia di stampa Dire finito agli arresti per aver ricevuto, tra il 2018 e il 2021, affidamenti per circa 23 milioni di euro da parte di istituti scolastici, il tutto tramite tre società e una fondazione a lui riconducibili. E grazie alle entrature di cui godeva al ministero.

Le liste e la supertestimone

La circostanza emerge da alcune liste ritrovate dagli investigatori. In quei fogli ci sono nomi rilevanti. E sono affiancati da cifre piuttosto dignitose. Ci ha pensato la factotum di Giovanna Boda, Valentina Franco, a spiegare il significato di quei documenti. Le sono serviti due appuntamenti diversi per rispondere a tutte le domande formulate dal sostituto procuratore Carlo Villani. Il 17 e il 30 novembre del 2021 ha vuotato il sacco. E ha spiegato che una serie di persone lavoravano per la Boda, ma in realtà venivano pagate da Bianchi di Castelbianco. Non solo: tra quei nomi c'è anche chi ha beneficiato della generosità della Boda, ma in realtà sarebbero stato pagato dall'imprenditore. 

"Tutti i nomi sono stati inseriti nella lista perché segnalati dalla Boda - dice la Franco - Mineo (Vincenzo, scomparso lo scorso anno ndr) è stato il direttore dell'aula bunker di Palermo e ha collaborato con la Fondazione Falcone", dice la donna facendo il nome di altri esponenti della fondazione impegnata nel promuovere la legalità: "Erano stati pagati da Bianchi di Castelbianco", continua. (…) 

Lo staff della Boschi e gli abiti di Bussetti

I nomi sono tanti: "passavano dalla Boda a Castelbianco". Ci sono "Vettori e Bitossi, collaboravano con Maria Elena Boschi nel periodo in cui era Ministro", spiega la Franco. E ancora: "Successivamente sono state assunte da Bianchi Di Castelbianco e non so cosa facessero per 53 mila euro lordi annui per le società dell'imprenditore. In ogni caso talvolta venivano al Miur per determinati eventi".

Ci sono giornalisti e capi uffici stampa,  genitori di un'estetista e una persona che "aveva un figlio disabile ed era state abbandonate dal marito". E ancora "la figlia del magistrato del Consiglio di Stato Michele Corradino, che all'epoca lavorava all'Anac" e la nipote del ginecologo. 

E poi un ragazzo che "è stato assunto da Bianchi di Castelbianco, una volta finito il suo rapporto al ministero, perché era portavoce del ministro Bussetti (Marco, ex ministro dell'Istruzione ndr)". Per Bussetti, dice la Franco, sarebbero stati fatti fare due abiti dallo stesso sarto del padre della Boda. I soldi, venivano sempre da Bianchi di Castelbianco e sempre all'insaputa dei beneficiari. (…) 

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera - ed. Roma” l'11 aprile 2022.

Dai pagamenti per le spese voluttuarie alla lista di favori distribuiti, passando per l'elenco delle scuole «organiche» al sistema messo in piedi al ministero dell'Istruzione. In poche pagine di interrogatorio (affiorate in seguito alla discovery del Tribunale del Riesame) Valentina Franco, spicciafaccende di Giovanna Boda, accusata di rivelazione del segreto d'ufficio, svela metodi e beneficiari della rete intessuta negli uffici ministeriali. 

Offrendo al pubblico ministero Carlo Villani che indaga per corruzione alcuni, formidabili assist. Tra cui un'illuminante confidenza circa le rivelazioni a terzi sui singoli progetti in cantiere: «Tutti - dice Franco - eravamo a conoscenza del fatto che parlare di modifiche di bandi dei progetti e dei contratti con persone esterne al ministero non era una cosa legale...». Malgrado ciò le indiscrezioni erano all'ordine del giorno. 

La factotum di Boda racconta come Federico Bianchi di Castelbianco, il presidente dell'agenzia Dire finito agli arresti per le stesse vicende in quanto finanziatore del sistema, avesse messo a disposizione una carta di credito per le spese ordinarie della dirigente: «So - dice Franco- che la carta era usata per la Boda. Noi altri non prendevamo nessun rimborso per le spese che avevamo anticipato per la Boda. Faceva principalmente spese personali, come chirurgia o parrucchiere o unghie lasciando anche mance generose. Spendeva 1.000 euro a settimana». 

Anche la beneficenza (alcuni aiuti al figlio disabile di una sua conoscente) è a carico di Federico Bianchi di Castelbianco.

Nel corso dell'interrogatorio Franco offre la propria opinione sull'intera vicenda: «Secondo me - racconta - l'ideatore dell'intero sistema era Boda». Certamente quelle esigenze sembrano essere determinanti nell'alimentare un circolo vizioso. 

In qualche caso si rendeva necessario trovare degli enti compiacenti per far figurare il pagamento degli stipendi a Franco e agli altri collaboratori: «Il periodo in cui siamo stati senza stipendio - riferisce Franco - il pagamento ci veniva effettuato tramite bonifici dalle scuole. In realtà era il nostro stipendio per l'attività che svolgevamo in favore della Boda».

La tuttofare della dirigente apre poi una parentesi che riguarda proprio le scuole. Alcune beneficiavano di piccoli finanziamenti per progetti didattici e di un trattamento amicale (lecito tuttavia) da parte della numero uno del ministero: «So di queste scuole "amiche" cioè che avevano contatti diretti con Bianchi di Castelbianco. 

Non necessariamente venivano scelte dalla Boda. Erano quelle che risultavano più "disponibili". Conosco ad esempio ...il Regina Elena a Roma; poi c'erano dei progetti piccoli al Virgilio di Roma di cui era preside la Vocaturo (Rosa Isabella Vocaturo, ndr). Valentina Franco fa anche mettere a verbale un altro favore: «A Catania c'era Rachele Sempreviva, nipote del marito della Boda...di questo sono sicura che il marito non sapesse nulla. Le veniva pagato da Bianchi di Castelbianco l'affitto della casa, l'università e lo stipendio». 

Corrado Zunino per “il Venerdì di Repubblica” il 16 dicembre 2021.

L'editore-psicologo aveva comprato un appartamento di 298 metri quadrati (con soffitta) a ridosso di via Veneto, la Roma più costosa, per l'alta funzionaria del ministero dell'Istruzione e la figlia. Un milione e mezzo di euro, il valore. E quando lei gli chiederà, con la deflagrazione del Covid, di far avvicinare i genitori da Casale Monferrato, lui prenderà subito in affitto un appartamento quattro palazzi più in là. 

Per i genitori appunto, la mamma è stata sindaca di Casale Monferrato. Poi pagherà per tutti, badante compresa, le vacanze al mare in Toscana. Tra San Marino e Via veneto L'editore dell'agenzia giornalistica Dire è agli arresti domiciliari per corruzione. Federico Bianchi di Castelbianco, 71 anni, a Roma è sempre stato una potenza, per quanto discreta e sempre sotto traccia.

E con i suoi regali alla dirigente si sarebbe garantito appalti per 23,5 milioni di euro tra il 2018 e il 2021. Giovanna Boda, 47 anni, già Capo dipartimento delle risorse umane, finanziarie e strumentali del ministero dell'Istruzione, è indagata, anche lei per reati di corruzione. Oggi vive, immobilizzata, nel suo grande appartamento a ridosso di Via Veneto, dove sta affrontando una dolorosa riabilitazione.

Lo scorso 14 aprile, si lanciò dalla sala d'attesa dello studio legale dove il marito l'aveva accompagnata di fronte alle prime notizie dell'inchiesta della Guardia di finanza. Frattura al bacino e al coccige. Fratture alle caviglie, a un ginocchio. Finora ha subìto sei operazioni. I verbali mostrano come quel rapporto - criminale secondo i magistrati, ma anche tossico, e di reciproca dipendenza a leggere le carte - abbia prodotto scorie nocive all'interno di uno dei ministeri più importanti del Paese.

In particolare, sui delicati argomenti della disabilità e dell'iperabilità. Il decreto di sequestro preventivo, con le sue 202 pagine, sostiene, infatti, che l'imprenditore del sociale e dell'informazione - vicino per famiglia e interessi economici ed editoriali anche a San Marino, con legami strettissimi con la politica e la sanità cattolica - abbia pagato quindici collaboratori del ministero dell'Istruzione: alcuni con finti rimborsi spese, mentre ad altri avrebbe consentito di diventare pubblicista nella sua agenzia di stampa.

A ogni commessa ottenuta dal ministero, Bianchi di Castelbianco, secondo l'inchiesta, riusciva ad allargare la sfera d'influenza del suo Istituto di ortofonologia, l'Ido. In molte scuole ha ottenuto la gestione delle strutture di ascolto e ha iniziato a contattare, sostituendosi agli uffici del ministero, direttamente i presidi. Che lo trattavano con riverenza e che lui raccomandava a ogni visita in Viale Trastevere. L'inchiesta cita nove dirigenti. E Giovanna Boda? Molti la descrivono come un'amministratrice generosa nella sua attività ministeriale e sinceramente attenta agli ultimi. Altri ammettono che in viale Trastevere era anche temuta.

Le carte intanto mostrano questo: uno scaltro psicologo, spesso contestato sul piano scientifico, entra nelle stanze di un ministero con poche difese e ne pilota anche scelte importanti, ne ispira gare d'appalto, ne decide i finanziamenti diretti (alcuni per sé, per 8 milioni). soltanto un whatsApp Bianchi di Castelbianco ha collaborato alla stesura dei progetti formativi, ha suggerito come far aumentare i punteggi di un argomento che nutriva il suo core business.

Ha partecipato, in presenza, alla costruzione del bando per la povertà educativa. Ha contribuito a decidere - talvolta bastava un WhatsApp, visti i rapporti diretti e consolidati - quando mettere e quando sottrarre soldi su questioni importanti della vita extracurriculare del ministero. La Nave della legalità, per esempio, che dal 2002 ospita studenti in crociera nel Mediterraneo per discutere di mafia e di antimafia. 

La voce di Bianchi di Castelbianco arrivava alla prima dirigente e ai suoi collaboratori quando si dovevano decidere i finanziamenti sulla Fondazione Falcone, sulla Fondazione Occorsio, le risorse da destinare alla Comunità di Sant' Egidio, le azioni da sostenere per un'associazione come Parole ostili. Per il ricordo di Indro Montanelli, le iniziative musicali di "Europa incanto". 

Questioni strutturali all'istruzione, come la legge 440 sull'offerta formativa delle scuole o il neurosviluppo nell'età infantile, in queste ultime due stagioni sono state tirate da ogni parte per soddisfare, secondo l'inchiesta, lui e le sue controllate. «Dobbiamo dividerci le attività del ministero» dice candido nelle intercettazioni. «E così me so' proprio imposto», per spiegare la sua influenza su Giovanna Boda: «Lei voleva modestamente esercitare il suo potere, non se l'aspettava fossi così deciso».

Boda, frastornata, ai collaboratori dirà: «Non ci sto più a capire niente, basta che vi mettete d'accordo voi con i soldi». Il ministero dell'Istruzione è un luogo di ingenti risorse pubbliche - 51 miliardi di euro è il bilancio preventivo per il 2021 - e scarsi controlli.

Con l'insediamento del leghista Marco Bussetti (giugno 2018) negli uffici centrali - la segreteria particolare, il gabinetto - entrò la cosiddetta "corte di Caserta" che, guidata dal viceprefetto aggiunto Biagio Del Prete, aveva come primo compito quello di individuare eventi utili per giustificare le note spese del ministro, come ha raccontato Repubblica. Quindi, gestiva in proprio i rapporti con i provveditori regionali. «Il secondo piano del ministero dell'Istruzione era diventato un suk», racconta Marco Lonero, il primo segretario particolare di Bussetti, allontanato dopo quattro mesi.

Ancora prima, ai tempi di Maria Stella Gelmini, quando il ministero dell'Istruzione controllava anche l'Università e la ricerca, la Procura di Roma aprì un'inchiesta sulla direzione generale e sulla sparizione dei finanziamenti statali e comunitari sulla ricerca. La vicenda Bianchi di Castelbianco-Boda ha riportato la Guardia di Finanza al secondo piano di Viale Trastevere 76a.

L'alta dirigente è stata sostituita con l'ex marito, Jacopo Greco, ora capo del dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali che già ha diretto fino al 2019. Le prime collaborazioni di Giovanna Boda, laureata e dottorata in Psicologia, con l'allora Pubblica istruzione, risalgono al 1999. Nei percorsi scolastici, Bianchi di Castelbianco incrocia la giovane civil servànt. Lo psicologo in carriera diventato imprenditore del sociale sceglierà di far entrare Giovanna Boda, culturalmente di centrosinistra, nell'orbita del suo giro di affari coprendola di denaro o, meglio, togliendole ogni pensiero. 

Dopo i due preziosi affari immobiliari, proverà ad agevolare il mutuo della protetta per un appartamento a Limone Piemonte, località sciistica dove Boda andava da bambina. E, in un'escalation di acquisti, servigi, opportunità, le noleggerà per quindici mesi un'auto (Mercedes) con autista.

 Grazie a una carta di credito con 38.765 euro spendibili in sei mesi, lei si comprerà l'Ipad, l'abbonamento per la palestra, i giocattoli e persino i Krumiri per la bimba di cinque anni; maglie da 700 euro per sé («ne vuole quattro», dirà la segretaria intercettata), camicie per 9.800 euro. Utilizzerà le carte di pagamento, ne ha una seconda a disposizione, per i cappelli dell'Antica cappelleria, le spese da Eataly - cialde decaffeinate da far portare alla consulente della Direzione generale.

La badante rumena sarà saldata per traduzioni che non ha mai fatto e con quei versamenti dall'esterno saranno pagate la collaboratrice sudamericana, l'istruttrice di fitness, la massaggiatrice. «Un coacervo di utilità», scrive la Procura. Come i contanti consegnati alla madre (non indagata) di Boda: «Ma dove vado con tutti questi soldi?». E i dipendenti complici, la segretaria Valentina Franco e l'autista Fabio Condoleo, ora ai domiciliari, commentano: «Bello spendere con i soldi degli altri» (che, per inciso, sono soldi pubblici). Giovanna Boda, alla fine, si arrende: «Dimmi tu che cosa devo fare, io vomito ogni sera. Vorrei solo addormentarmi e non svegliarmi più». Proverà a restituire parte del denaro anticipato, ma ormai ha perso il controllo del giro d'affari: «Di quanto sarà questo mutuo? Non so neppure se riesco a pagarlo».

Giacomo Amadori per "la Verità" il 15 ottobre 2021.  

C'è un'intercettazione tra la dirigente del Miur Giovanna Boda e l'imprenditore Federico Bianchi di Castelbianco, entrambi indagati per corruzione per le utilità che lui avrebbe concesso a lei in cambio di appalti, che potrebbe imbarazzare più di uno. In primis il ministro Patrizio Bianchi e la deputata Maria Elena Boschi che avrebbero segnalato alla Boda persone da assumere.

È il 6 aprile 2021 e l'allora capo dipartimento per le risorse umane, finanziarie e strumentali, è agitata e intenzionata a prendersi un anno sabbatico. E all'amico domanda: «Sì, ma mettiamo che io da domani mi metto a fare un anno che è il mio sogno, non faccio niente per un anno ok? Con cosa vivo?».

Castelbianco la tranquillizza: «Guardami, dimmi solo l'importo... Ti fai un anno sabbatico però ti posso dire una cosa? Te ne devi anda'! lo ti faccio arrivare i soldi all'estero, ti faccio arriva' tutto. Non ti preoccupare, però, te ne devi andare [] fai l'apertura del Quirinale (dell'anno scolastico, ndr), annusi l'aria un giorno di settembre e poi vai in aspettativa». Quello che preme in ogni caso all'imprenditore prima che la Boda vada via è che sia chiusa «la 440».

Il riferimento e alla legge istitutiva del fondo per l'arricchimento e l'ampliamento dell'offerta formativa e per gli interventi perequativi, ai cui bandi Castelbianco, psicoterapeuta, editore dell'agenzia Dire e imprenditore, partecipa con le sue società.

«Lasci, metti, scegliti una persona tua oltre Valentina (la segretaria, ndr) che si mette lì, si prende tutte le beghe, una persona tua [] mi spiego cioè facciamo una cosa breve, ma fatta la 440, pensi per 'sti mesi io abbia problemi a risolvere tutto anche per l'anno dopo?» ragiona il settantenne professionista. 

Parlano di un affidamento. Castelbianco propone una soluzione: «Io posso mettermi d'accordo con loro e dire fatemi fare il bando». Boda sembra intimorita dal fatto che a differenza di quanto accaduto con una scuola di Taranto in questo caso non conosca bene il preside, ma Castelbianco dà l'impressione agli investigatori di voler «ostinatamente trovare una soluzione favorevole ai propri interessi»: «Ma tu il bando sei contraria?» chiede.

A questo punto la Boda pare voler chiudere tutte le pratiche rimaste in sospeso in vista del suo provvisorio ritiro e riporta al fidato imprenditore le richieste di assunzione che gli sarebbero arrivate dal ministro, in quel momento Patrizio Bianchi, e dall'amica Maria Elena Boschi, con cui la stessa dirigente aveva lavorato al dipartimento della Pari opportunità e con cui non ha smesso di frequentarsi: «Ho tre persone di cui due dovresti già conoscerle. Allora queste due sono del ministro, te lo dovrebbe avere già detto Valentina (Franco, la segretaria indagata, ndr) da tempo: M., che è nel terzo settore per l'accordo di programma per questa serie, e B., che ha il figlio disabile e fa il maestro del coro.

Vabbé comunque son persone utili a me eh! Questi son svegli forte, sanno scrivere e possono venire ad aiutare questo ti dico sono utili anche se vengono dal ministro. Di fargli un incarico di consulenza di sei mesi, tranquillo tranquillo niente di... io gli darei 1.500, netti, però, che tu mi dici lordi, no netti». 

Castelbianco propone 2.000 euro. La Boda è d'accordo: «E facciamo 2.000, son proprio del ministro questi, non li avevo mai visti, né conosciuti, però, son bravi,però, cercate di calm... di chiamarmi perché a me mi servono per riscrivere il progetto Estate». Boda cita la terza presunta «raccomandata»: «Poi questa qua». 

La donna richiama l'attenzione del suo interlocutore: «Guardami». Quindi prosegue: «è la cognata della Maria Elena». Non è chiaro a chi si riferisca. L'ex ministra ha due fratelli, Emanuele e Pier Francesco. Ma l'unico sposato è il primo.

La moglie si chiama Eleonora Polsinelli, ha 35 anni ed è nativa di Sora (Frosinone). Ha sposato Emanuele nel 2015 e, per alcuni anni, è stata dipendente dell'ex Banca Etruria, passata prima sotto le insegne di Ubi e poi di Intesa. Ha fatto parte dell'ufficio stampa dell'istituto aretino, ma dopo l'addio di Pier Luigi Boschi alla carica di vicepresidente e tutte le polemiche legate all'inchiesta sul crac della Popolare aretina la giovane ha prima lasciato l'ufficio a diretto contatto con i giornalisti, quindi si è dedicata alla maternità e, infine, si è licenziata, come aveva già fatto il coniuge.

Meno probabile che la cognata in questione sia la fidanzata di Pier Francesco, una ventinovenne originaria di Montevarchi, dottore di ricerca in genetica, oncologia e medicina clinica all'università di Siena. Sia chi sia, Castelbianco ha ben in mente la ragazza: «Ah, sì già ce l'ho». 

Boda è pensierosa: «Allora questa qui dobbiamo capire bene cosa fare, nel senso che lei sta aspettando da un anno il concorso al ministero che io non so neanche quanto sia opportuno, mi capisci? Però il problema è che questa sta a Firenze». Castelbianco: «Ma non ha importanza questo la domanda è: che gli fanno fa'? Lei cosa vuole fa'?». Boda: «Allora lei vuole fare comunicazioni istituzionali».

L'imprenditore sobbalza: «Eh ma comunicazioni istituzionali». Boda: «E appunto ti sto dicendo non è una cosa semplice». Castelbianco: «E no e comunica cosa? Il ministero?». Boda: «No cioè o fa una cosa per l'agenzia Dire, non so che cosa». Castelbianco: «No ma per la comunicazione sì». Boda: «L'importante sia sganciata da me Federico, lo capisci?». Castelbianco: «Non c'è dubbio». 

I due provano a escogitare una soluzione. La dirigente ragiona: «Io ho pensato se le troviamo una cosa e magari si distrae anche da noi perché pure il concorso non è comunque una cosa facile eh! Proprio un secondo, hai capito cosa voglio dirti?». Castelbianco sembra aver afferrato il senso: «Ma lei subito?». La donna risponde affermativamente e allora l'editore dice: «Sì, sei mesi». 

Boda continua: « e poi casomai si rinnova, cioè da un certo punto di vista è meglio se sta fuori [] quindi poi magari adesso vedi tu in prospettiva tra due anni diventa a tempo indeterminato [] non fa il concorso». Bando che rischia di mettere in imbarazzo la dirigente: «Perché finché io esisto se per favore non fa il concorso perciò sei mesi di prova e poi se va bene le diamo una prospettiva lì. Possiamo rischiare? No, dimmi, possiamo rischiare?».

Anche Castelbianco pensa che sia meglio evitare il concorso. L'amica prosegue: «Perché per me questo è proprio da deficienti? Lei però». Non si capisce a chi la Boda si riferisca, se alla cognata o alla Boschi stessa e Castelbianco commenta: «Lei di più». Boda: «Quindi io, cioè non vorrei adesso, su questo, veramente fare la buccia di banana, già ne abbiamo 10.000 che se non so come arriviamo ogni giorno dopo».

Castelbianco: «Sì, ci penso un attimo». Boda: «Sì questo ti volevo dire, pensaci tu lo potevo dire anche a Valentina, però, il discorso è questo che lei sta li ad aspettare il bando, io secondo me devo trovargli una cosa prima in modo che lei se ne». Castelbianco: «Oppure se lei aspetta il bando, ma il bando... vabbé Firenze». Per la Boda non è semplice: «Eh, ma il bando per Firenze non c'è perché è nazionale...». L'interlocutore ribatte: «Non ha importanza, l'importante è che vince il bando e ci va i primi sei mesi». 

Boda: «No, ma il problema è che comunque, su quattrocento posti, caso strano, capito?». Castelbianco: «Ma magari arriva pure quattrocentesima, cioè l'importante è che non arrivi prima perché...». Boda: «Ma e brava, io l'ho conosciuta non è stupida». Castelbianco: «Apposta dico: quindi se vince lei non è un problema, e importante che (incomprensibile) deve andare prima fuori e poi va a Firenze». Boda: «Non penso che lei vada fuori e poi a Firenze, vabbè comunque tanto adesso».

Bianchi pare allargare il discorso a tutta la famiglia Boschi: «Adesso tu, se tu riesci a far sistemare, a fargli vincere il bando, dopo falli arrivare da te, dici senti abbiamo un problema, dici guarda pazienta sei mesi e tu dicono ah va bene grazie». Dopo che i due presunti complici hanno trovato la quadra, la situazione, purtroppo per loro degenera: passano sette giorni e la Guardia di finanza irrompe negli uffici della Boda e di Castelbianco mandando in fumo il piano di assunzioni così puntigliosamente congegnato.

Ericsson, corruzioni in tutto il mondo. E in Iraq il colosso svedese pagava l’Isis. Tangenti pagate per vent’anni in almeno 19 nazioni, dalla Cina alla Libia, dalla Spagna al Sudafrica. E tenute nascoste anche dopo un patteggiamento negli Usa costato un miliardo. Il consorzio giornalistico internazionale svela i segreti della multinazionale. E i versamenti all’esercito terrorista per salvare le reti telefoniche nell’area di guerra a Mosul. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 27 Febbraio 2022.

Una corruzione mondiale, da Premio Nobel del malaffare. Il gruppo Ericsson, il colosso svedese delle telecomunicazioni, ha pagato tangenti per più di vent'anni in almeno 19 nazioni, dall'Africa al Medio Oriente, dall'Europa alla Cina. Ha continuato a corrompere anche dopo essere stato incriminato negli Stati Uniti con sanzioni da un miliardo di euro. E ha tenuto nascosto di aver pagato perfino i combattenti dell'Isis in Iraq.

Traffico d’influenze: l’inafferrabile reato inasprito dai grillini e che ora ha colpito Grillo. Michele Pezza martedì 18 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Fa bene Guido Crosetto a bollare il reato di traffico di influenze illecite, caduto oggi a mo’ di tegola sulla testa di Beppe Grillo come «assurdo, indefinito, arbitrario». E ancora meglio fa a sottolineare che rappresenta «un modo facile per “sporcare” un nemico politico, “richiamarlo all’ordine”, in un Paese dove un avviso di garanzia è condanna». Tutto vero. Al posto suo, tuttavia, avremmo aggiunto che non è questo il caso per scomodare le Procure politicizzate. Perché la responsabilità dell’esistenza di un reato tanto inafferrabile non è della magistratura bensì del Parlamento. 

Nel 2019 Bonafede aumentò la pena

Furono le Camere, nel 2012, a consentire al governo Monti di introdurre una norma da cui oggi tutti (o quasi) prendono le distanze. Ma tant’è: in quell’epoca, già spopolava il “lo vuole l’Europa” assurto oggi a inviolabile tabù. Nel caso del traffico illecito d’influenze, a reclamarne l’introduzione nel nostro Codice penale erano soprattutto alcune Convenzioni internazionali. E a tanto provvide la guardasigilli pro-tempore Paola Severino, alla cui opera si sarebbe aggiunto anni dopo il ritocchino in termini di aumento di pena di Alfonso Bonafede. Mai – c’è da scommettere – l’ex-ministro avrebbe immaginato che un giorno quel reato si sarebbe ritorto contro Grillo.

Il silenzio del M5S su Grillo

E forse è anche questo il motivo del silenzio opposto dai 5Stelle alla disavventura giudiziaria occorsa al loro capo supremo. Nulla di più facile che nelle prossime ore ritrovino la parola per spacciare come un’ulteriore tappa della loro crescita politica l’iscrizione dell’Elevato nel registro degli indagati. Magari accadesse. Almeno realizzerebbero una volta per tutte che le sventagliate di onestà-tà-tà-tà o i proclami su «apriscatole» e «Palazzo trasparente» funzionano come demagogiche banalità non come programma di governo. Già, visto oggi il Grillo innalzato dal Vaffa come tsunami purificatore della vecchia politica non è più neanche un ricordo: è una barzelletta. 

 Traffico di influenze, quella legge fumosa che ingolfa la giustizia. Dal caso della ministra Guidi all’assoluzione di Alemanno, passando per Renzi senior: come nasce (e come spesso muore) uno tra i reati più cari ai grillini. Simona Musco su il Dubbio il 19 gennaio 2022.  

«Il reato di traffico di influenze illecite è come la corazzata Potemkin del film di Fantozzi, una boiata pazzesca: la si può girare come si vuole, ma alla fine i conti non tornano, perché è costruito sul nulla». A dirlo, cinque anni fa, era Tullio Padovani, professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, intervistato dal Foglio sul caso giudiziario che portò alle dimissioni dell’allora ministra dello Sviluppo, Federica Guidi.

Era marzo del 2016 e i grillini non persero tempo ad emettere la loro sentenza: «Quanto scoperto in queste ore sul ministro Guidi è vergognoso! Deve andare a casa subito!», recitava la pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle, accontentato poco dopo dalla ministra, che decise di mollare. Un anno dopo il M5S ribadiva il concetto, punzecchiando l’allora premier Matteo Renzi per le indagini riguardanti il padre: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi, che babbo Tiziano, resta saldamente indagato nell’inchiesta per corruzione negli appalti miliardari in Consip per il grave reato di traffico di influenze», si legge in un post del 13 aprile 2017. Su quella stessa pagina, oggi che ad essere indagato è Beppe Grillo, il padre del Movimento, tutto tace. Quello contestato all’ex comico è un reato dai contorni vaghi, connotato da un forte intento repressivo, che punisce, in via preventiva e anticipata, il fenomeno della corruzione, sanzionando tutti quei comportamenti, in precedenza ritenuti irrilevanti, che la “preannunciano”.

Il reato è stato introdotto nell’ordinamento con l’articolo 1, comma 75, della legge 6 novembre 2012, n. 190 – la cosiddetta “Severino” -, previsto nel codice penale con l’articolo 346-bis. La norma è poi transitata nel 2019 nella cosiddetta “Spazzacorrotti”, la legge bandiera dei grillini, che adeguando il diritto penale interno a quanto previsto dalle norme sovranazionali ha esteso la portata applicativa della legge anche alle condotte che prima era riconducibili al millantato credito, contestualmente cancellato dal codice penale. La legge punisce con una pena che va da un anno a quattro anni e mezzo chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». Insomma, vengono puniti i cosiddetti “faccendieri”, sia nell’ipotesi in cui si facciano pagare per l’opera di mediazione – e il denaro deve essere necessariamente indirizzato “a retribuire” quella stessa opera -, sia in quella per cui chiedono il denaro non per sé, ma per pagare il pubblico ufficiale, attività preparatoria del reato corruttivo. Attività considerate una patologia del lobbismo, tema per il quale solo una settimana fa la Camera ha approvato un testo di legge che disciplina l’attività di relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi.

I casi di cronaca sono diversi e anche particolarmente pesanti: il più eclatante è forse quello, già evocato, della ministra Guidi, mai indagata, ma messa alla gogna per l’ipotesi di aver inserito nella legge di Stabilità del 2015, su pressione dell’allora compagno e imprenditore Gianluca Gemelli -, ex commissario di Confindustria Siracusa – un emendamento che sbloccava il progetto di estrazione petrolifera “Tempa Rossa”, favorevole alla Total, che avrebbe poi “ripagato” l’intermediazione di Gemelli affidando un subappalto a una delle sue aziende. Quell’inchiesta provocò un vero e proprio terremoto politico, tant’è che fu proprio il pressing dell’allora premier Matteo Renzi a provocare le dimissioni di Guidi. Mesi dopo, però, tutto si dissolse in una bolla di sapone e la posizione di Gemelli fu archiviata: per gli inquirenti, infatti, sebbene la sua autorevolezza derivasse «dal fatto di essere notoriamente il compagno del ministro Guidi», condizione che spendeva «anche millantando, in modo più o meno esplicito, la possibilità di trarre vantaggio da tale sua condizione», non è emerso «che egli abbia mai richiesto compensi per interagire con esponenti dell’allora compagine governativa». L’inghippo, spiegava all’epoca Padovani, sta nel fatto «che l’incriminazione poggia tutta sulla finalità, ma la finalità sta nella testa della gente, e come fai a stabilirla?». Insomma, gli inquirenti godono in questo senso di ampia discrezionalità per indagare – con tutte le conseguenze politiche del caso -, ma al tempo stesso scontano la difficoltà di dimostrare che il loro teorema sia corretto.

Il caso Guidi non è, però, l’unico. Tra i più golosi per le cronache giornalistiche c’è quello di Tiziano Renzi, padre dell’ex segretario del Pd, rinviato a giudizio a settembre scorso nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Consip, ma anche il caso Open, che vede coinvolto proprio l’ex presidente del Consiglio, che conta tra i reati contestati anche quello previsto dall’articolo 346-bis. Ma c’è anche la vicenda di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, assolto pochi mesi fa in uno stralcio del processo “Mafia Capitale”, sentenza nella quale sono stati i giudici a evidenziare la fumosità di tale reato e la difficoltà, per le procure, di portare a casa il risultato. Secondo la Cassazione, infatti, la norma «non chiarisce quale sia la influenza illecita che deve tipizzare la mediazione e non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione (c.d. lobbying), attualmente non ancora regolamentata».

Insomma, data la vaghezza della norma, il rischio è quello di «attrarre nella sfera penale – a discapito del principio di legalità – le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel “sottobosco” di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all’interesse perseguito».

·        La malapianta della Spazzacorrotti.

Carlo Picozza e Clemente Pistilli per “la Repubblica” il 7 aprile 2022.

In occasione della giornata nazionale per l'integrità in sanità, organizzata dall'associazione contro la corruzione Transparency International Italia, a introdurre i lavori ieri è stato il neodirettore generale dello Spallanzani, Francesco Vaia. Un appuntamento a cui hanno preso parte, tra gli altri, il presidente dell'Anac, Giuseppe Busia, e il sottosegretario alla salute Andrea Costa.

«Introduce Francesco Vaia, che ha ammesso e patteggiato varie decine di episodi di corruzione in sanità pubblica, avendo preso tangenti da imprenditori diversi, colpevole poi e reo confesso di altri reati corruttivi successivamente prescritti e infine anche condannato per ulteriori fatti dalla Corte dei Conti. Un confronto memorabile e un segnale di qual è il paese reale», ha scritto sui social il biologo Enrico Bucci, già critico sulla sperimentazione di Sputnik decisa da Vaia e dall'assessore regionale alla sanità Alessio D'Amato.

Del resto pure l'esponente dem della giunta di Nicola Zingaretti, ai tempi di Lady Asl, scrisse un libro e dedicò un capitolo all'attuale direttore generale dello Spallanzani. «Francesco Vaia, detto "Franceschiello", come Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, - scrisse - è una vera e propria cariatide della sanità pubblica. A differenza del monarca borbonico, con cui condivide l'origine napoletana, rimasto sul trono per un anno soltanto, Vaia il suo ruolo di direttore lo ha mantenuto per ben 15 anni, passati all'ombra di potenti lobby, c'è chi dice l'Opus Dei».

Quelli però erano i tempi di D'Amato scrittore e della Regione governata da Francesco Storace. Il manager dello Spallanzani era visto come uomo delle destre al potere e l'esponente dem era dall'altra parte della barricata. Tra i due, tra il 2019 e il 2020, è invece scattato un certo feeling. Ed ecco la nomina prima a direttore sanitario e poi a direttore generale di quello che l'assessore definiva " cariatide".

«Tutte le mattine D'Amato era nella stanza di Vaia a prendere il caffè» , assicura un'autorevole fonte sui primi tempi di Vaia allo Spallanzani. L'assessore ha messo nel tritacarte il suo libro "Lady Asl la casta della sanità, fatti e misfatti", definendolo «una vicenda superata». Si è battuto come un leone per far ottenere il ruolo di manager all'ex "cariatide". E sul fronte penale ha assicurato la settimana scorsa: «Non ci sono procedimenti pendenti» . Ora per lui Vaia è Francesco e non più " Franceschiello".

Tangentopoli 30 anni dopo: la rivoluzione legale è finita, la corruzione continua. Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa scoperchia il sistema delle mazzette e dei fondi neri ai partiti. Da Colombo a Davigo, dal pm veneziano del Mose a Francesco Greco, da Giuliano Pisapia all’ex presidente dell’Anac, magistrati, avvocati e studiosi spiegano perché è esplosa l’inchiesta, come fu fermata e le nuove tecniche di malaffare tra politici e imprese nell’Italia di oggi. Paolo Biondani su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Una tangente di 3500 euro che fa crollare il sistema dei partiti. A dispetto di tante dietrologie, il vero mistero di Mani Pulite è la modestia dell’innesco: 7 milioni di sporche vecchie lire. Banconote fotocopiate da Antonio Di Pietro, trent’anni fa pubblico ministero a Milano, e consegnate da un piccolo imprenditore monzese, Luca Magni, a un politico che lo taglieggia.

Per gli italiani mafia e corruzione sono una malattia inevitabile. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Il 17 febbraio 1992 partiva l’inchiesta Tangentopoli che ha cambiato la storia repubblicana. Oggi su criminalità organizzata e malaffare i cittadini hanno più consapevolezza ma tendono a considerarli una patologia consolidata. Come rivela la ricerca Demos-Libera.

Le vicende legate alla corruzione, alle mafie e alle organizzazioni criminali, in Italia, hanno una storia lunga. I cittadini ne sono consapevoli. E si rendono conto che i programmi e i piani avviati, dal governo, per affrontare le emergenze economiche e sanitarie, attirano l’attenzione e “l’interesse” (…gli interessi) di soggetti con “altri e diversi interessi”. Che vanno oltre ogni limite di “legalità”.

La malapianta grillina che ha devastato la giustizia. La corruzione è peggio che uccidere, la barbarie della legge simbolo dei grillini che ha devastato la giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Gennaio 2022. 

Al dottor Piercamillo Davigo, che ama dilettare i suoi ammiratori con storielle paradossali, sostenendo che convenga, dal punto di vista della burocrazia giudiziaria, ammazzare la moglie piuttosto che divorziare, sottoponiamo un altro quesito. È più conveniente uccidere il coniuge (facciamo il marito questa volta, va) o essere imputato di un reato contro la Pubblica amministrazione? Sul Riformista di ieri il magistrato Alberto Cisterna ha ricordato in modo magistrale la scomparsa tragica di Angelo Burzi. Basterebbe mettere insieme due suoi concetti, “giustizia come malattia” e “gogna perpetua” e avremmo già detto tutto. Perché, se è vero che storicamente la giustizia non è stata uguale per tutti da un punto di vista sociale e di censo, ancor meno oggi lo è da un punto di vista politico. E soprattutto moralistico.

Da molti anni leggiamo nei provvedimenti giudiziari e nelle sentenze le analisi di schiere di magistrati che si fanno sociologi e psicologi al fianco di chi “ruba una mela”. Buone intenzioni, che dovrebbero stare fuori dalle aule dei tribunali e trasferirsi, più che in parrocchia, nelle amministrazioni locali. Così finisce che, quasi per una sorta di nemesi della storia, la “giustizia come malattia”, la sofferenza del processo e del carcere finiscono per scagliarsi sul mondo dei privilegi e del potere. O sull’immaginario di quell’universo, per come è percepito. “Tiè!” sembra diventata la parola d’ordine, quasi una risposta al grido “lavoratoriii!”, la pernacchia di Alberto Sordi nei Vitelloni di Fellini. Due leggi sono il simbolo dello sberleffo –e il dottor Cisterna le cita puntualmente- , quella del 2012 che ha preso il nome della ministra guardasigilli del governo Monti, Paola Severino, e l’altra dal nome ripugnante di “spazzacorrotti”, voluta dal ministro Bonafede ed entrata in vigore il 9 gennaio del 2019, quando il premier Giuseppe Conte e il Movimento cinque stelle governavano con la Lega di Salvini.

Se è vero che la prima ha regalato notti insonni a Silvio Berlusconi, che sulla base della retroattività della norma, ha perso il seggio al Senato dopo l’unica condanna definitiva, la sua applicazione ha prodotto soprattutto la strage degli amministratori locali. Lungi da noi il voler dare lezioni alla Corte Costituzionale, ma la sospensione dal ruolo di sindaci, assessori e consiglieri per mesi e mesi, dopo una sola condanna di primo grado, con l’accompagnamento consueto di strilli sui giornali e paternali politiche televisive sull’”opportunità” di allontanamento dalla vita pubblica di persone spesso in seguito assolte, fa proprio a pugni con la ratio dell’articolo 27. E speriamo che provveda il prossimo referendum almeno a eliminare l’automaticità del provvedimento. Non è un caso se abbiamo parlato di “strage”. Perché il sadismo, esplicito e voluto, di norme come la “spazzacorrotti” è stato pensato proprio come vendetta che ferisce e che uccide. E il fatto che sia stata applicata retroattivamente per un anno prima che intervenisse la Corte Costituzionale non è stato senza conseguenze. Proprio come accade per i reati di mafia, anche quelli di corruzione sono per esempio “ostativi” all’applicazione dei benefici previsti dai regolamenti penitenziari.

Così, per tornare un attimo alla storiella che vorremmo raccontare al dottor Davigo, prendiamo due condannati a cinque anni di carcere, un rapinatore e Roberto Formigoni. Il primo dopo un anno può avere l’affidamento ai servizi sociali e uscire dal carcere. Il secondo, no. Perché il suo diritto è stato “spazzato via” dagli amici di Bonafede. E infatti è proprio quello che è successo. È quel che capita un po’ tutti i giorni. Perché nei confronti del condannato “comune” la freddezza della sanzione spesso è accompagnata da un qualche senso di umanità, per cui, se il giudice non ne valuta una particolare pericolosità, anche uno che ha accoltellato il collega può andare ai domiciliari. O un ex rapinatore, quando mancano quattro anni al termine della pena, può essere affidato ai servizi sociali. A Roberto Formigoni non fu concesso, a causa dello spirito di vendetta degli amici di Bonafede.

E che dire di quel che capitò a Luca Guarischi, che tornò dall’Algeria per scontare un residuo di pena inferiore ai quattro anni il 10 gennaio 2019 e fu costretto a un anno di carcere perché dodici giorni dopo entrò in vigore la legge “spazzacorrotti” , prima che nel 2020 la Corte Costituzionale ne dichiarasse l’irretroattività? È ovvio che qui c’è prima di tutto un problema di cultura. Non punisco il reato che hai commesso, ma la tua persona. Sei un corrotto, il che equivale a essere un mafioso, un reietto della società. Devi essere isolato, per te non ci può essere futuro. Ecco la “giustizia come malattia”, ecco la “gogna perpetua”. Proprio quel che succede con i condannati per reati di mafia. Nei processi che riguardano la criminalità organizzata, una delle esigenze che stanno alla base di norme “speciali” e di una certa applicazione delle regole, è quella di tenere isolati i detenuti rispetto all’ambiente criminale esterno. Di qui per esempio l’articolo 41 bis del regolamento, che impone il carcere “impermeabile”, piuttosto che l’impossibilità di godere di quei benefici che si applicano ogni giorno anche a responsabili di gravi reati, omicidi, ferimenti, stupri, rapine. Parliamo di permessi premio, di lavoro esterno, di liberazione anticipata. Chi ha sulle spalle un reato “ostativo”, se non si è genuflesso con la cenere sul capo, sa che la sua condizione sarà eterna, che è condannato per sempre, che la sua è una vera pena capitale.

Non è molto diverso per gli “ostativi” della corruzione, come di quelli del “concorso esterno”. In fondo sono gli stessi, quelli che hanno sul corpo le stimmate del far parte del mondo del privilegio percepito. La percezione, proprio come quella del caldo d’estate, è elemento dominante. Anche se deviante. Non a caso, dal punto di vista giornalistico, si usa spesso il concetto di “odore”: odore di mafia, odore di corruzione. Così è più facile usare metodi investigativi, o di giudizio, ordinari nei confronti di colui che ha ucciso la moglie, ma straordinari contro un avvocato come Pittelli che ha “evaso” la detenzione domiciliare scrivendo una lettera senza aver chiesto l’autorizzazione. Oppure un consigliere regionale che forse ha consegnato gli scontrini sbagliati e ha chiesto un rimborso non dovuto, o sulla cui legittimità c’è incertezza.

Non dobbiamo dimenticarci di Angelo Burzi, e neanche permettere che l’avvocato Pittelli “marcisca in galera”, dopo che è stata “buttata la chiave”. Sono ugualmente vittime, e non stiamo parlando di innocenza o colpevolezza. Stiamo parlando di ferite sul corpo, di ferocia di leggi e di processi, e del valore della vita. Loro non l’hanno sottratta a nessuno, ma qualcuno, in un modo o nell’altro, l’ha sottratta a loro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cantone e l'allarme sul referendum giustizia: "Senza la legge Severino i mafiosi nelle istituzioni". Liana Milella su La Repubblica il 17 febbraio 2022.

Parla il procuratore di Perugia, ex capo Anac: "Mi auguro che i cittadini, se adeguatamente informati, non intendano tornare indietro su una norma di civiltà". "Se fosse cancellato il decreto Severino sull'incandidabilità e decadenza dei condannati, le conseguenze sarebbero gravissime perché potremmo trovarci di fronte a persone riconosciute colpevoli di reati di mafia che potrebbe restare tranquillamente ai loro posti nelle istituzioni". È massimo l'allarme del procuratore di Perugia Raffaele Cantone che, dieci anni fa, fu tra i consulenti del governo per la stesura della legge Severino.

La legge trasformata in un sistema afflittivo e cieco. Severino e spazzacorrotti, la giustizia ridotta a gogna. Alberto Cisterna su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.  

Quello di Angelo Burzi non rimarrà, purtroppo, l’ultimo suicidio generato da un mondo complesso e controverso come quello della giustizia. Sia chiaro: persone si tolgono la vita ovunque a causa di una condanna o di una carcerazione ritenute insopportabili. In questi giorni si parla di quel Jeffrey Epstein che, in Usa, ha cancellato la propria esistenza schiacciato dallo scandalo sessuale che lo ha visto protagonista.

L’esperienza del processo e, soprattutto, quella del carcere è dura, molta dura a sopportarsi; se poi a distruggere la propria vita è l’imputato che si proclama innocente in un gesto di estrema disperazione, è inevitabile la spinta del sistema e dei suoi corifei a trovare giustificazioni, a farsi schermo con le condanne. Si finisce, così, per macchiare la vittima, il suicida, di una duplice colpa: quella di essere un pregiudicato matricolato e quella di non aver saputo reggere il peso della condanna. È una prova muscolare quella che ci si attende dal reo, meglio ancora se – a capo cosparso di cenere – si proclama anche sinceramente pentito e bisognoso di perdono. Guai a ribellarsi a questo cliché che rassicura il sistema, di cui anzi il sistema ha un bisogno estremo per saldare alla propria, inevitabile primazia giuridica, anche una sorta di supremazia morale, capace di muoversi a compassione verso l’empio che accetta supinamente il proprio destino.

In fin dei conti il dibattito sull’ergastolo ostativo si concentra tutto nel postulato sotteso a questa doppia supremazia: carcere duro, ma sconti e benefici per chi si sottomette allo Stato e collabora. Indipendentemente, anzi a dispetto di ogni percorso rieducativo e di ogni resipiscenza, si accettano solo genuflessi e riscattati. Con una certa approssimazione certo, ma alcune reazioni quasi infastidite al suicidio di Angelo Burzi potrebbero trovare una spiegazione in questa doppia soggezione che ciascun condannato, ciascun detenuto si pretende debba pagare allo Stato, quasi che la perdita della verginità giuridica ed etica degradi la dignità della persona umana e la renda mero oggetto di una potestà superiore, onnivora. Troppo facile è non credere all’autolesione mortale in nome della propria innocenza, quando una sentenza definitiva predica il contrario. Troppo semplice ricordare al reprobo che, concluso il processo, nessuna innocenza sopravvive e ciò che conta è la fredda prosa di un verdetto.

Però. Però a leggere le ultime parole dell’ex consigliere regionale, la sua laica e disperata professione di innocenza si coglie altro. Vi è una filigrana che tiene insieme quelle frasi, disvela un mondo ulteriore in cui – nostro malgrado – siamo stati trascinati e, quindi, confinati. La legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno disegnato – forse anche a dispetto dei loro fautori – i perimetri di un’afflizione imponente, quasi smodata per imputati e condannati. Sospensioni, confische, carcere duro, misure di prevenzione, decadenze e altro ancora hanno messo in funzione un gigantesco triangolo che risucchia le vite, prima ancora che sanzionare le condotte dei colpevoli. È un sistema afflittivo perfetto, panottico, senza scampo che colpisce il reo a 360° non lasciandogli alcuna via di fuga. Il peculato nei fondi messi a disposizione dei consiglieri regionali ha, obiettivamente, avuto risposte ondivaghe in molte parti del paese. Vi sono indagini fallite che proseguono stancamente solo per non certificare l’innocenza degli imputati e assoluzioni già pronunciate, anche qualche condanna.

Angelo Burzi era stato assolto in primo grado e condannato in appello, sino alla conferma in Cassazione. Un percorso, obiettivamente, non rettilineo che – a prescindere totalmente dal merito – deve aver sfibrato l’imputato al punto tale da indurlo al gesto estremo del togliersi la vita. Ma la lettera non dice questo o almeno non dice solo questo. Non può farsene un’esegesi che sarebbe sconveniente e inappropriata, ma un paio di punti meritano di essere colti. Innanzitutto il prologo: «Natale 2021 Conoscere per decidere». Un’ovvietà per qualunque persona, a maggior ragione per i giudici che si sono occupati di lui. Ma conoscere cosa? Le carte forse? Ma quello è scontato che siano state conosciute. La sua vita? Ma quella resta praticamente fuori dalle aule di un processo, tutto concentrato su pochissimi frammenti di un’esistenza, spesso su un solo gesto, su un attimo d’impeto. Le aule non giudicano vite, esaminano fatti, comportamenti.

Cosa voleva, quindi, Angelo Burzi? Forse che ci accostasse alla sua condanna e alla sua morte conoscendo la sua verità, quella che le prove dell’accusa hanno schiantato e di cui non c’è traccia nel suo certificato penale. Certo la malattia da poco scoperta, certo le sofferenze probabili e imminenti: «si preannuncia quindi un prossimo futuro dl approfondimenti, di interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli… panorama non certo entusiasmante, ma c’è di peggio. La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte». La giustizia come una malattia, come un male oscuro che lo ha fagocitato e, quindi, restituito alla vita da colpevole. Poi l’accerchiamento, lo schianto imposto da leggi imperturbabili nella loro supponente severità. La paura di perdere il vitalizio come conseguenza della condanna e, ancora, «probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro».

Se non fosse che «tutto ciò è .. insostenibile, banalmente perché col vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care». E, infine, il richiamo alla soggezione morale, al supplizio etico che quella condanna imponeva senza scampo; il rimprovero (giusto o ingiusto che sia) a chi secondo lui «ci ha messo molto del suo, probabilmente aggiungendo le sue valutazioni di ordine etico morale, del tutto soggettive e prive sia di sostanza che di sostenibilità giuridica, alle richieste dell’accusa».

I processi per chi saccheggia le risorse pubbliche o si corrompe sono giusti, anzi necessari. Tuttavia guai a trasformarli in una sorta di gogna perpetua, nella bulimica ricerca di ogni più minuto brandello della vita pubblica di una persona per sanzionarlo e reprimerlo. Se le pene, tutte le pene, si trasformano in una perenne vendetta per soddisfare il senso di rivalsa della plebe, allora anche il sacrificio della vita acquista la dignità di un testardo argomento contro la giustizia di una condanna. Alberto Cisterna

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Impuniti.

Nei Concorsi Pubblici ci sono due tipi di prove scritte:

Quella con risposte uniche e motivate, la cui correzione è, spesso, lunga, farraginosa e fatta da commissioni clientelari, familistici e incompetenti che non correggono o correggono male non avendo il tempo necessario o la preparazione specifica e che promuovono secondo fortuna o raccomandazione. 

Quella con domande multiple, spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma che garantiscono velocità di correzione e uniformità di giudizio.

Chi è abituato all’aiutino disdegna i quiz, in cui non si può intervenire, se non conoscendoli in anticipo.

Arpal Puglia, un nuovo concorso beffa premia i parenti dei politici il caso. Assunzioni a tempo indeterminato: tra gli idonei anche le figlie di consiglieri comunali di Bari e Lecce. A giudicarli il vicesegretario del partito di Cassano. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Dicembre 2022

 Dei circa 1.700 candidati che lunedì si sono presentati alla Fiera di Foggia per il concorso da 18 posti a tempo indeterminato di istruttore amministrativo all’Arpal, l’agenzia regionale per il lavoro, soltanto 59 sono risultati idonei e ora - dopo l’esame dei titoli - si giocheranno l’assunzione. Ventidue di loro sono stati bravissimi: hanno risposto esattamente a tutti e 30 i quiz previsti, ma per passare bastavano 21 risposte giuste.

La graduatoria è pubblica. Ed è zeppa di quelle che, non essendo consentito fare illazioni, possono essere considerate solo coincidenze. A giocarsi un posto a tempo indeterminato ci saranno tante persone che militano o hanno militato in Puglia Popolare, la formazione politica dell’ex direttore generale Massimo Cassano di cui il dirigente del Personale dell’Arpal, Luigi Mazzei, è coordinatore provinciale a Lecce. O anche loro parenti...

Concorso Arpal, c’era una domanda errata ma qualcuno ha fatto 30 su 30. Il concorso a tempo indeterminato in cui sono idonei politici appartenenti a Puglia Popolare (e loro parenti). I consiglieri regionali: va azzerato tutto. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Dicembre 2022

Un «browser» non è «hardware», non è un «server» e non è un nemmeno un «collegamento a Internet». La definizione corretta è un «programma di computer» (dizionario Treccani) o più precisamente un «client» (Ugo Lopez, ingegnere informatico di Bari). Eppure, nonostante le tre risposte offerte in uno dei test somministrati agli scritti del concorso Arpal di lunedì siano «tutte e tre errate» (sempre Lopez), ci sono state 15 persone che anche grazie a quella domanda sono diventate idonee a punteggio pieno.

Al concorso per 18 posti di assistente amministrativo hanno partecipato in 1.700 su circa 4.258 iscritti. Gli idonei (che hanno superato lo scritto) sono appena 59, di cui 24 hanno totalizzato 30 punti su 30. Molti di loro, come la «Gazzetta» ha documentato ieri, sono iscritti (o sono parenti di militanti) della lista Puglia Popolare dell’ex direttore generale Massimo Cassano, di cui è segretario provinciale a Lecce il dirigente del Personale di Arpal, Luigi Mazzei. E il vicesegretario di Puglia Popolare a Lecce, l’agronomo Adamo Fracasso, era componente della commissione di questo concorso.

La coincidenza delle parentele politiche tra gli idonei non si esaurisce con i nomi già emersi ieri...

Parla la candidata: «Arpal, vi racconto il concorso: persone uscite e rientrate durante la prova». «Una persona che era seduta dietro di me a un certo punto ha visto due persone che uscivano dalla sala e si è messa ad urlare. La presidente della commissione le ha detto che era tutto regolare». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Dicembre 2022.

«Io personalmente non ho visto nulla di strano. Ma una persona che era seduta dietro di me a un certo punto ha visto due persone che uscivano dalla sala e si è messa ad urlare. La presidente della commissione le ha detto che era tutto regolare». Antonella Gatti, consigliere comunale di Adelfia e consigliere metropolitano, era tra i partecipanti del concorso Arpal di lunedì scorso alla Fiera di Foggia. Il concorso delle coincidenze di cui la «Gazzetta» si è occupata negli ultimi giorni: 1.700 partecipanti alla preselettiva, 52 idonei, 22 dei quali hanno preso 30 punti su 30...

Concorsi pubblici, dall'esame al posto in soli 120 giorni. Le nuove regole: portale, commissioni, riserve. Stop a carta e penna, tutte le selezioni saranno digitali. Andrea Bassi su Il Messaggero Sabato 8 Ottobre 2022.

I concorsi pubblici cambiano. E profondamente. Niente più carta e penna, ma solo strumenti digitali. A partire dai bandi che non saranno più pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, ma sul portale InPa, già ribattezzato il Linkedin della pubblica amministrazione. Inoltre, dalla prima prova selettiva dei candidati al momento dell’assunzione, non potranno passare più di 120 giorni. Sono soltanto alcune delle novità contenute nel Decreto del presidente della Repubblica appena approvato e che modifica le modalità di svolgimento dei concorsi nella Pubblica amministrazione. Si tratta di una riforma collegata al Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il provvedimento è stato fortemente voluto dal ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta. «Il via libera mi riempie di sincera soddisfazione e orgoglio», ha spiegato Brunetta, «perché chiude il cerchio rispetto all’importante lavoro che, come ministro del Governo Draghi, ho portato avanti da oltre un anno e mezzo con un unico obiettivo: la valorizzazione e il rilancio del capitale umano». 

Ma vediamo quali sono le novità salienti della riforma. Per poter partecipare a qualsiasi concorso pubblico sarà necessario registrarsi (è gratuito), sul portale InPa. Come detto, a partire dal prossimo primo gennaio tutti i bandi saranno pubblicati esclusivamente su questa piattaforma. La registrazione potrà avvenire tramite Spid, Carta di identità elettronica o Cns. Il decreto modifica anche i criteri di preferenza, quei criteri cioè, che danno il diritto di sorpasso di un altro candidato in caso di pari merito. Viene per esempio datà priorità ai figli di personale medico o paramedico deceduto per Covid contratto in servizio; viene data precedenza a chi ha lavorato nell’Ufficio del processo, e viene data precedenza anche a chi ha lavorato come Navigator. C’è poi un principio generale per rispettare la parità di genere. In ogni bando l’amministrazione dovrà indicare qual è il genere meno rappresentato nei suoi uffici. In caso di parità di punteggio tra candidati, la precedenza sarà data appunto, al genere meno rappresentato. Le commissioni che giudicheranno gli esaminandi, poi, potranno essere integrate con psicologi ed esperti in “human resources”, in modo da valutare anche le soft skills dei candidati e non solo la preparazione tecnica. 

Gazzetta addio, si passerà solo per il sito InPa

Dal primo gennaio del prossimo anno i bandi di concorso della Pubblica amministrazione non saranno più pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale. Tutto passerà attraverso il portale InPa, il cosiddetto Linkedin del pubblico impiego. Chiunque vorrà partecipare ad un concorso, dovrà iscriversi al portale utilizzando le credenziali Spid, la Carta di identità elettronica o la Carta nazionale dei servizi. Sul portale saranno poi pubblicate tutte le informazioni sulla procedura, a partire dalla convocazione per le prove selettive. Attraverso InPa sarà anche possibile versare il contributo di partecipazione al concorso, fissato in un massimo di 10 euro. 

Le commissioni

Per l’accesso alla Pubblica amministrazione saranno valutate anche le soft skills e non solo le competenze tecniche. Questa novità avrà impatti anche sulla formazione delle commissioni esaminatrici. La riforma prevede che debbano essere composte da tecnici esperti nelle materie oggetto del concorso, scelti tra dipendenti di ruolo delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime. Il decreto prevede inoltre che possano, altresì, far parte delle commissioni specialisti in psicologia e risorse umane. La commissione, poi, dovrà comunicare i risultati ai candidati all’esito di ogni sessione di concorso.

Corsia veloce ai figli dei medici uccisi dal Covid

Cambiano e vengono aggiornati anche i criteri «di preferenza», ossia quei criteri che a parità di merito consentono un vantaggio al candidato. Ci sono gli insigniti di medaglia al valor militare e civile e i mutilati e invalidi del settore pubblico. Ma una corsia preferenziale viene attribuita anche ai figli di medici e altro personale ospedaliero deceduto per Covid contratto durante il servizio. Corsia preferenziale anche agli atleti dei gruppi sportivi militari e civili dello Stato, ma anche a chi ha svolto con esito positivo servizio nell’Ufficio del processo. E anche per i navigator varrà la corsia preferenziale in caso di parità di punteggio con un altro candidato.

Parità di genere

Stesso punteggio? Passa chi è meno rappresentato

Al momento della pubblicazione del bando, ogni amministrazione pubblica che vuole assumere nuovo personale, dovrà dichiarare come sono rappresentati i generi al proprio interno. Dovrà cioè dire quanto personale maschile e quanto personale femminile è in servizio. Se la differenza tra un genere e l’altro è pari o superiore al 30 per cento, scatterà una sorta di clausola di salvaguardia per il genere meno rappresentato. Significa che a parità di merito e di punteggio, il candidato del genere meno rappresentato supererà quelli dell’altro genere

Concorsi Pubblici (truccati) e Pubblico Impiego. Sì…non per tutti. La Stabilizzazione del precariato amico.

Chi trova un amico (politico) trova un lavoro. Con la stabilizzazione del precariato si supera il principio costituzionale del concorso pubblico (quantunque truccato) per accedere al pubblico impiego.

Articolo 97 della Costituzione: I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

Fatta la truffa stabilita per legge e trovato l'inganno. Si fanno entrare a chiamata diretta (tra elenchi predisposti e riservati per dare parvenza di legalità ed imparzialità) gli amici nel pubblico impiego (sanità, scuola, Enti Locali, ecc, settori spesso ritenuti fortini della sinistra), et voilà con la stabilizzazione gli si trova un'occupazione che altrimenti sarebbe riservata ai soli vincitori concorsuali.

Voto di scambio? Ma va là, per i sinistri non conta.

Concorso per ispettori ambientali: a Taranto indaga la Squadra mobile per truffa. Kyma sospende tutte le procedure di selezione. Blitz al termine della prova scritta svolta all’ex Saram. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Si accendono i fari degli inquirenti sul concorso per l’assunzione di «ispettori ambientali» di Kyma Ambiente Amiu. I poliziotti della Squadra Mobile, infatti, ieri sono piombati nell’aula della Scuola Volontari dell’Aeronautica Militare (ex Saram) dove si era appena conclusa la terza prova del concorso pubblico e a cui hanno preso parte quasi 300 candidati. Gli investigatori sono arrivati e hanno compiuto una serie di rilievi, interrogato alcuni presenti, perquisito le autovetture e alcune borse, e infine hanno invitato il presidente della commissione esaminatrice e uno dei dirigenti di Kyma Ambiente a seguirli negli uffici della Questura dove è cominciato un lungo interrogatorio.

I due al momento non risultano indagati, ma avrebbero fornito una serie di informazioni agli inquirenti. Dalle poche notizie trapelate, gli investigatori avrebbero concentrato le loro attenzioni sui quiz sottoposti ad alcuni candidati e in particolare sulla cosiddetta «batteria» di domande da cui sono poi state selezionate quelle diventate prova d’esame: l’inchiesta, quindi, potrebbe essersi concentrate sull’ipotesi che alcuni candidati fossero già a conoscenza delle domande prima della prova d’esame. Ipotesi che tuttavia dovranno essere riscontrate dalle attività degli inquirenti.

Il bando prevede l’assunzione a tempo indeterminato full time di numero 11 impiegati destinati all’ispezione e controllo del territorio nel settore del trattamento rifiuti. Stando a quanto risulta alla Gazzetta, rispetto alle 700 domande di partecipazione alla selezione giunte all’ex Amiu, si sarebbero presentati ieri mattina solo 300 candidati, 100 dei quali avrebbero abbandonato l’ex Saram subito dopo aver letto la traccia della prova scritta.

La selezione di personale di Kyma Ambiente è prevista dai bandi pubblicati nel 2020 e poi «congelati» per via del Covid. I profili ricercati sono: “Operatori ecologici addetti alle attività di spazzamento e raccolta rifiuti”, “Autisti di veicoli e mezzi d’opera”, “Impiegati destinati all’ispezione e controllo del territorio – ispettori ambientali”. Le prove si tengono nella «Svam» (Scuola volontari dell'aeronautica militare di Taranto) in via Rondinelli 26. Tutti gli avvisi sono consultabili sul sito internet www.amiutaranto.it alla sezione “Gare e fornitori – avvisi pubblici” e rappresentano l’unico metodo di comunicazione e convocazione a tutti i candidati.

Le prove pre-selettive, consistenti nella somministrazione di un test a risposta multipla, si sono svolte martedì e mercoledì scorsi per gli operatori ecologici, sempre mercoledì scorso per gli autisti.

Per il profilo ispettori ambientali, invece, erano in programma direttamente le prove selettive, consistenti nella redazione di un elaborato scritto, nella sola giornata di ieri. Saranno ammessi a sostenere il successivo colloquio orale i candidati che avranno riportato il maggior punteggio nella prova scritta, purché superiore a 30/50.

Sono stati inoltre pubblicati gli elenchi di ammessi e non ammessi per i profili “Iingegnere”, “Iingegnere esperto in gestione e programmazione ambientale”, “responsabile ufficio contabilità”, “Laureato amministrativo”, “responsabile ufficio legale”, le cui prove si terranno nei prossimi giorni.

LA NOTA DI KYMA AMBIENTE

Il Consiglio di Amministrazione di Kyma Ambiente, convocato in data odierna, ha determinato la sospensione, in via di autotutela, di tutte le procedure di selezione in atto. Eventuali nuove determinazioni verranno tempestivamente comunicate dall’azienda.

La Procura di Taranto indaga sui concorsi pilotati all’ AMIU, l’azienda municipalizzata per l’ambiente. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Novembre 2022

Dall’esito dell’attività di polizia giudiziaria svolta, sarebbero emersi gravi indizi a carico di Rocco Lucio Scalera dirigente amministrativo della Società, il quale, interrogato dal Pubblico Ministero Enrico Bruschi, titolare del fascicolo d'indagine, avrebbe ammesso le proprie responsabilità

Aseguito delle indagini della Squadra Mobile di Taranto, su delega della locale Procura sono state effettuate delle perquisizioni con acquisizione documentale presso la Svam, la Scuola Allievi dell’ Aeronautica Militare, dove si stava svolgendo la selezione per per l’assunzione di 11 ispettori ambientali di Amiu spa, la società per l’igiene urbana sottoposta ad attività di direzione e coordinamento esercitata dal Comune di Taranto, guidata dal presidente Giampiero Mancarelli recentemente “trombato”dagli elettori in occasione delle recenti elezioni politiche dove si era candidato alla Camera dei Deputati per il Partito Democratico (senza avere il buon gusto di autosospendersi o dimettersi dall’incarico pubblico).

La Polizia essendo emersi diversi elementi che si stesse consumando l’ipotesi di reato di truffa aggravata allo Stato da parte di alcune persone presenti, ha effettuato anche diverse perquisizioni locali, interrogando alcuni presenti, perquisito le loro autovetture e alcune borse. Dall’esito dell’attività di polizia giudiziaria svolta, sarebbero emersi gravi indizi a carico di Rocco Lucio Scalera (fratello del consigliere regionale Antonio Paolo Scalera) dirigente amministrativo dell’ AMIU spa , il quale è stato portato in Questura ed interrogato alla presenza di un legale, dal Pubblico Ministero Enrico Bruschi, titolare del fascicolo d’indagine. Nel corso dell’interrogatorio Scalera ha ammesso le proprie responsabilità onde evitare di essere arrestato . La documentazione è stata posta sotto sequestro per il prosieguo degli accertamenti.

Il sospetto degli investigatori della Polizia di Stato è che alcuni dei candidati al concorso fossero venuti a conoscenza delle domande precedentemente alla prova d’esame. La prova selettiva a cui si erano sottoposti i candidati divisi in due gruppi, da quanto si è venuti a conoscenza, consisteva nel rispondere a cinque domande in maniera articolata . Al concorso erano iscritti circa 750 candidati, ma alla prova se ne sono presentati 288.

Il Consiglio di Amministrazione di AMIU spa che nel frattempo continua a farsi chiamare Kyma Ambiente, convocato in data odierna, con una nota ha reso noto di aver “determinato la sospensione, in via di autotutela, di tutte le procedure di selezione in atto”. Non è la prima volta che un dirigente dell’ AMIU spa finisce sotto i “fari” della giustizia, come nel caso del troncone bis d’inchiesta “T-REX Bis”, dove un altro dirigente, l’ingegnere Cosimo Natuzzi è attualmente a processo.

I rapporti fra Scalera e la malavita locale

In un recente passato Antonio Sambito, a capo dell’omonimo “clan” operativo nel rione Tamburi a Taranto, era diventato nome di riferimento all’interno della società AMIU spa, risultando titolare di contratto di lavoro a tempo indeterminato, al sesto livello e retribuzione di quasi 38mila euro l’anno, godendo di un “rapporto confidenziale con alcuni dirigenti”, tanto da essere convocato persino a una riunione con il direttore della società in house ed in contatto con l’ex-presidente AMIU Luca Tagliente dopo il furto della sua Range Rover Evoque personale.

Sambito, stando a quanto emerge dagli atti contenuti nel fascicolo d’inchiesta, nel periodo di detenzione del carcere di Bologna, dal 1999 al 2001, è stato “percettore di reddito per attività lavorativa”. Una volta ottenuta la scarcerazione, nel 2002 e sino al 2033 ha lavorato alle dipendenze di una società di costruzioni con sede a Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi. A seguire è stato assunto da un’impresa di Taranto, per la quale ha lavorato fino al 2007, poi nel 2008 è passato a una cooperativa di servizi di Napoli, per approdare nel 2009 nell’ AMIU spa di Taranto. Le attenzioni degli investigatori della Guardia di Finanza hanno verificato “un considerevole incremento dello stipendio”, dato certificato dalla banca dati dell’Anagrafe tributaria: “Sambito era passato da una retribuzione annua di 16.893 euro, nell’anno 2010, alla somma di 37.848 euro percepiti nel 2018”. Come è stato possibile? Per gli investigatori è “un segno evidente di una singolare e inspiegabile progressione aziendale che ha comportato un aumento dello stipendio”.

Ma come era avvenuta l’assunzione di Sambito alle dipendenze dell’Amiu ? Avevano cercato risposte gli investigatori delle Fiamme Gialle chiedendo chiarimenti ai dirigenti della partecipata ai quali avevano chiesto di visionare il fascicolo. Ma i funzionari avevano “riferito che a causa di un grave evento meteorologico, avvenuto nel 2015, gli archivi cartacei dell’azienda erano stati distrutti e non era stato più possibile ricostruirli”. All’epoca gli uffici si trovano a Taranto, in via della Croce. I militari della Finanza sono riusciti a ottenere solo “due cartelline relative ad Antonio Sambito, nelle quali erano contenuti alcuni fogli, dai quali non è stato possibile risalire alle modalità di assunzione e alla carriera”. Gli investigatori però non si sono fermati.

Le indagini della Guardia di Finanza di Taranto sono arrivate alla conclusione, secondo cui Sambito è stato assunto all’Amiu, “dopo aver partecipato a due riunioni presso il centro per l’impiego di Taranto, dove sarebbe stato compilato il suo curriculum vitae, con la collaborazione di un operatore di Italia lavoro”. Quel che è stato evidenziato nell’informativa, è che non è stata chiesta l’esibizione del certificato penale e dei carichi pendenti, nonostante Antonio Sambito all’epoca “avesse una serie di condanne per le quali aveva espiato pene detentive”, una nel 1994 e l’altra nel 2001, “in relazione alle quali era stato sottoposto alla pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici”.

Sulla base delle norme di Legge e della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione è incompatibile con l’assunzione e con le successive progressioni di carriera che hanno consentito a Sambito di ricoprire la qualifica di “incaricato di pubblico servizio ex articolo 358 del Codice penale”.

A “tal proposito – scrivono i finanzieri – a riprova del forte ascendente criminale di Sambito anche sulla dirigenza aziendale, appariva significativa una lunga conversazione tra questi e un funzionario, dalla quale si rileva innanzitutto come vi fossero rapporti confidenziali”. L’intercettazione è del 2 febbraio 20217, alle 14,12. In alcuni passaggi ci sono “riferimenti ad alcune visite che il dirigente avrebbe fatto a casa di Sambito“, tant’è che conosceva bene anche la moglie con la quale si intratteneva al telefono, commentando, tra l’altro, questioni lavorative del marito.

Con quella telefonata, “Sambito rappresentava al dirigente di aver avuto diverbi con un’impiegata amministrativa dell’azienda in relazione alla compilazione degli statini che attestavano le prestazioni svolte dagli operai”. Ma questo, stando a quanto si legge, “non era adempimento di competenza di Sambito”. Lo stesso Sambito “chiede al dirigente di far trasferire la donna ad altro incarico”. Legittimo chiedersi che motivo aveva Sambito di occuparsi anche degli statini? Questa la risposta degli investigatori: “Attestare lo svolgimento di compiti da impiegati, oltre che da coordinatore e il fatto che l’impiegata gli stesse creando problemi, rappresentava un evidente impedimento”.

Questa è la trascrizione della conversazione intercorsa a suo tempo tra Sambito e l’ingegnere Cosimo Natuzzi (estraneo ai fatti oggetto dell’indagine odierna) , allora come oggi dirigente tecnico dell’ AMIU: “Tonino, non è lo statino che ti farà compromettere un percorso, non ti fissare, dai mo statti sereno che queste sono… non sono queste le cose che contano e continua a dirigere bene il tuo lavoro”. La lettura data dall’accusa è nel senso di una “evidente compiacenza esistente, finalizzata a far compiere un percorso lavorativo all’interno della società municipalizzata che lo avrebbe portato ad arrivare a un inquadramento superiore”.

Agli atti, risultava anche una nota, del 15 luglio 2017, con la quale veniva segnalata “la mancata vidimazione del badge da parte di Antonio Sambito”, il giorno precedente. Il 28 febbraio 2018, compare una nota a firma di Rocco Lucio Scalera, dirigente amministrativo dell’Amiu, con cui viene comunicato a Sambito che “oltre alle mansioni già svolte, avrebbe dovuto provvedere anche a un’attività di controllo dei servizi di raccolta indifferenziata presso l’autoparco aziendale”.

“Uno dei primi dati che risalta è che, alcuni mesi dopo la nomina di Scalera a dirigente, inizia la scalata di Sambito”, scrivono i finanzieri nell’ operazione “Tabula Rasa” . Nell’ordinanza di arresto è riportato un tratto della conversazione intercettata il 24 agosto 2017 tra Scalera (chiamante) e Sambito: “Senti, io voglio parlare con l’avvocato tuo, così gli dico qualche svolta, però di devo sentire prima un attimo a te”. Sambito dice: “Fai quello che abbiamo parlato ieri”. E ancora: “Anche se lui si incavola, non fa niente, che là è tutto fatto. Sono fatti nostri là e lui si deve levare di mezzo. Sì, allora io gli ho detto che voglio andare a causa. Vito che io faccio le mansioni”. In tale maniera – si legge negli atti – ribadisce la “ferma intenzione di intraprendere una causa giudiziaria nei confronti dei suoi datori di lavoro”. “Posso aspettare un mese, due mesi, l’importante che tu gli lasci la delibera che se la vede poi mandami a causa e tutto. Hai capito?”. Scalera: “Eh, va bene, il mandato mi serve. Va bene, da mo me la vedo io”. Sambito poi chiama il suo avvocato e riferisce quanto detto nella chiamata con Scalera, “disponendo un contatto tra questi e il suo legale”.

Questa è l’ AMIU Taranto, questa è Kyma Ambiente, questi i suoi dirigenti, che non a caso, lasciatecelo dire si occupano “di monnezza”…di ogni genere ! Redazione CdG 1947

Concorsi Arpal, infornata di politici: nomi eccellenti tra i vincitori, spuntano anche altri parenti e amici del dg Cassano. Il direttore ha ripreso servizio martedì al termine della campagna elettorale: ha disposto lo scorrimento di una graduatoria. Tra gli assunti c’è il cugino della moglie, consigliere di circoscrizione passato con Puglia Popolare. Tra gli idonei il fratello del genero. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Settembre 2022.

BARI - Il giorno in cui è rientrato dall’aspettativa, dopo la sfortunata campagna elettorale per il Terzo polo che non lo ha visto tra gli eletti in Parlamento, il direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano, ha immediatamente firmato un decreto. È quello che dispone lo scorrimento della graduatoria degli specialisti amministrativi esperti in amministrazione generale, posti a tempo determinato per 18 mesi. Un concorso pieno di coincidenze.

A fine luglio, infatti, l’Agenzia regionale per il lavoro ha ufficializzato la graduatoria di questo concorso che metteva in palio 31 posti a tempo determinato «eventualmente prorogabili» per diversi profili professionali che vanno dal funzionario laureato al collaboratore amministrati con licenza media. Un concorso che riservava 40 punti su 100 ai «titoli di carriera»...

«Posti di lavoro venduti»: blitz della Finanza all’Arpal. Il sospetto è che l’ex assessore regionale Totò Ruggeri, l’ex consigliere regionale Mario Romano e suo figlio Massimiliano abbiano ottenuto assunzioni nell’Arpal. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Il sospetto è che l’ex assessore regionale Totò Ruggeri, l’ex consigliere regionale Mario Romano e suo figlio Massimiliano abbiano ottenuto assunzioni nell’Arpal. È per questo che ieri la Finanza di Otranto, che ha condotto l’inchiesta della Procura di Lecce su Ruggeri, ha effettuato acquisizioni di documenti nella sede dell’agenzia regionale per il lavoro.

Il fascicolo è quello affidato al pm Salvatore Prontera, che in estate ha ottenuto l’arresto di Ruggeri e dei Romano e che nelle scorse settimane ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Nei confronti di Romano, padre e figlio, le accuse comprendono anche l’ipotesi dei posti di lavoro venduti in Arpal e delle nomine nei Consorzi di bonifica. A questo proposito, peraltro, agli atti della Procura di Lecce c’è anche un esposto presentato nel 2019 dal presidente della Regione, Michele Emiliano...

Desenzano, laurea falsa per diventare capo dei vigili: Carlalberto Presicci dovrà risarcire 918 mila euro. Valerio Morabito su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

Dichiarò, nel concorso del 1996, il possesso di una laurea in Giurisprudenza conseguita nel 1992 con il massimo dei voti: scoperto l’illecito nel 2020, ora la sentenza

Ha finto di avere la laurea per svolgere il ruolo di comandante della polizia locale. L’incredibile vicenda è avvenuta a Desenzano e in una recente sentenza la Corte dei Conti ha condannato l’ex capo dei vigili del Comune, Carlalberto Presicci, per aver svolto il proprio lavoro con una fatiscente certificazione di laurea.

Così la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia, ha stabilito che l’ex comandante dovrà pagare al Comune di Desenzano poco più di 918 mila euro per il danno arrecato. Stando alla ricostruzione della dinamica dei fatti, riportata nel dispositivo della Corte dei Conti, nel 1996 «la giunta del Comune di Desenzano aveva approvato il bando di concorso pubblico per il conferimento del posto di Istruttore direttivo presso l’ufficio Vigilanza urbana. Tra i requisiti di partecipazione previsti dal bando figurava il possesso del diploma di laurea in Giurisprudenza, Economia, Economia e Commercio, Sociologia, Scienze Politiche». In un contesto del genere, è stato specificato nella sentenza, l’ex comandante della polizia locale di Desenzano aveva partecipato al concorso «dichiarando il possesso del diploma di laurea e producendo una copia conforme del certificato di laurea in Giurisprudenza conseguita nel 1992 con votazione 110/110; la conformità risultava certificata dall’ufficiale d’anagrafe del Comune di Gussago».

Così, dal 1997, l’ex comandante Presicci è stato assunto fino all’ottobre 2020, ovvero quando la Procura della Repubblica di Brescia ha scoperto l’illecito legato alla falsificazione del certificato di laurea. Successivamente, nel novembre 2020, il Comune aveva ricevuto un riscontro negativo dall’Università di Parma in merito al possesso del diploma di laurea e così era stato avviato un procedimento disciplinare. In quel periodo il dipendente aveva rassegnato le proprie dimissioni, dopo 23 anni di servizio, per «un altro lavoro». Almeno questo era stato comunicato alla stampa. Al suo posto, in ruolo di comando, era stata nominata Gianfranca Bravo.

Concorsopoli, spunta il nome della sorella del pm di Firenze. Stop alle indagini. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 17 luglio 2022.

«L'ottavo piano non condivide», avrebbe detto il pm fiorentino Tommaso Coletta ai finanzieri che volevano intercettare Lucia Turco, ex direttrice sanitaria dell'Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi, dallo scorso anno promossa al vertice dell'Agenzia regionale di sanità della Toscana, ma soprattutto sorella di Luca, il procuratore aggiunto a Firenze noto alle cronache per condurre le indagini sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. «L'ottavo piano» per gli addetti ai lavori è il termine usato per indicare l'ufficio del capo della Procura di Firenze, incarico ricoperto fino all'altra settimana da Giuseppe Creazzo. La circostanza è emersa nei giorni scorsi durante la testimonianza del luogotenente della Guardia di Finanza Daniele Cappelli nell'ambito di un procedimento disciplinare al Csm nei confronti di un pm di Firenze.

Nel 2018 le Fiamme Gialle avevano avviato una maxi inchiesta, ribattezzata senza molta fantasia "Concorsopoli", che metteva nel mirino le modalità di selezione di diversi docenti dell'ateneo fiorentino. Il procedimento, per la cronaca, era nato dalla denuncia di uno degli esclusi.

PROCEDURE IRREGOLARI - Il 9 giugno di quell'anno, dopo aver raccolto diversi elementi, i finanzieri decisero di depositare in Procura un'informativa in cui segnalavano diverse irregolarità nella procedura di selezione per un posto da ordinario all'interno del dipartimento di otorinolaringoiatra. La Commissione d'esame, composta da quattro medici, fra cui la dottoressa Turco, sarebbe stata "eterodiretta" ed il vincitore scelto a tavolino. I finanzieri chiesero allora a Coletta, titolare del fascicolo, di poter intercettare i quattro medici. Il pm, però, decise di procedere solo nei confronti di due componenti di "minore" spessore, lasciando fuori la dottoressa Turco ed il presidente della Commissione.

Cappelli, che era l'estensore dell'informativa, cercò di capire dai suoi capi, i colonnelli Adriano D'Elia e Pasquale Sisto, il motivo di tale decisione, ottenendo come risposta che Lucia Turco fosse la sorella del procuratore aggiunto. Passò qualche giorno e Cappelli tornò in Procura per riproporre una richiesta di intercettazione, questa volta ambientale, nell'ufficio della dottoressa Turco che da lì a poco avrebbe incontrato un soggetto d'interesse investigativo. Prima di formalizzare la richiesta, i suoi capi gli dissero di anticiparla «oralmente» a Coletta.

«MA NON HA CAPITO» - «Ma allora non ha capito? La sorella di Turco non la intercetto», avrebbe però risposto il pm, poi promosso procuratore a Pistoia, a Cappelli. Il luogotenente, «spaventato» e temendo una reazione da parte di chi gli aveva consentito di iniziare l'indagine, replicò al pm: «Se continuiamo così, ci manda a Genova (Procura competente per i reati commessi dai magistrati fiorentini, ndr)».

«Guardi che non pensi che non l'abbia ponderata, diremo che l'abbiamo fatto per mantenere il riserbo dell'indagine», fu la risposta di Coletta.

Gli animi si sarebbero surriscaldati al punto che Coletta avrebbe poi aggiunto: «Sa cosa fa? Ci vada lei dal procuratore a chiedere di intercettare la sorella di Turco!».

Rientrato in caserma, Cappelli scrisse una relazione di servizio su quanto accaduto.

Relazione «irricevibile» per i suoi capi.

«Mettersi contro i magistrati è pericoloso. Non vuoi che ti trovino un reato? Poi scatta il trasferimento», gli avrebbero detto D'Elia e Sisto.

IL PRECEDENTE - Su questo aspetto c'era stato un precedente, quello del colonnello Rossi, responsabile della sezione della Finanza al palazzo di giustizia di Firenze che aveva fatto indagini su un medico, Giuseppe Spinelli, amico del procuratore Creazzo, e quindi era stato trasferito ed indagato. Il 27 giugno successivo Cappelli venne convocato da D'Elia che gli mostrò una nota di Coletta con cui si disponeva la cessazione delle indagini in quanto gli elementi raccolti «erano esaustivi». Coletta aveva anche rappresento a Creazzo che Cappelli avrebbe minacciato di denunciarlo in occasione del loro ultimo incontro. I superiori del luogotenente gli ordinarono allora di «riscrivere» la relazione di servizio, disponendo poi il suo trasferimento ad un ufficio che si occupava delle verifiche degli scontrini per evitargli «ulteriori conseguenze» con il procuratore. Per non farsi mancare nulla, scattò per Daniele Cappelli il divieto di entrare in Procura, con l'avvertimento di non parlare con i colleghi che nel frattempo erano stati chiamati a gestire il fascicolo al suo posto. «È la verità, e lei fa bene a dirlo», è stato il laconico commento di David Ermini al termine della deposizione del finanziere, particolarmente provato.

Arrestato l’ex senatore Ruggeri. Sesso, soldi, regali e posti di lavoro in cambio di voti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 luglio 2022.  

Contestato a Ruggeri e Renna anche di aver contribuito a truccare un concorso per geometri al consorzio «Ugento e Li Foggi» a favore di un compagno di partito dell’Udc, Vittorio Capone, nonostante non ne avesse i titoli e nonostante, come emerge da una intercettazione, il candidato «non aveva detto una parola» durante il colloquio orale in cui la commissione gli ha dato il massimo punteggio.

L’inchiesta coinvolge in tutto 21 indagati tra cui anche i sindaci di Scorrano e di Otranto in provincia di Lecce, ha origine da una costola dell’inchiesta sull’appalto per il poliambulatorio di Martano che portò agli arresti nel 2020 di due funzionari Asl. Sesso, casse di pesce, casse di vino Berlucchi e anche soldi in cambio di un posto di lavoro, favori o per comprare voti: è quello che emerge dall’inchiesta della procura di Lecce che ha portato agli arresti domiciliari insieme con altre quattro persone l’ex assessore regionale ed ex senatore Salvatore (Totò) Ruggeri, 72 anni, considerato al centro di un sistema di corruzione (prima Udc e poi Popolari per Emiliano) e che avrebbe attraversato vari ambiti, quello sanitario e della procreazione assistita, dei concorsi pubblici, dei consorzi di bonifica, per finire alla gestione del bacino elettorale. 

Imbarazzante la figura ed il comportamento di Salvatore (Totò) Ruggeri, che nonostante abbia passato i 70 anni, evidenzia secondo il Gip “l’assenza di qualsivoglia rigurgito di moralità oltre che di legalità da parte del Ruggeri... la natura abbietta del suo agire è stigmatizzata dalla vicenda” di una 37enne, laureata e precaria da diversi anni, a cui il 72enne chiede appuntamenti sessuali più lunghi, rivolgendosi così: “Quando si scopa?”, lamentandosi del poco tempo concesso dalla donna etichettando gli incontri come “sveltine”. la sua influenza emerge dalla dichiarazione agli inquirenti di un raccomandato che a fine verbale afferma: “Aggiungo solamente che per essere assunto presso l’Ospedale di Tricase mi sono dovuto per forza rivolgere a Totò Ruggeri in quanto Suor Margherita Bramato (indagata, ndr) non mi avrebbe mai ricevuto e non avrebbe mai dato peso alla mia richiesta di assunzione. Da quello che si dice in giro, la suora se non riceve nulla in cambio non assume nessuno”.

Oggi la Guardia di Finanza ha eseguito undici misure cautelari personali, tra cui cinque di arresti domiciliari, con le accuse a vario titolo di corruzione per esercizio della funzione, falsità ideologica, corruzione elettorale, traffico di influenze illecite. Oltre a Ruggeri, ai domiciliari è stato posto anche anche Antonio Renna, commissario straordinario dei Consorzi di Bonifica Ugento Li Foggi e Arneo, attualmente collaboratore della Provincia di Lecce per la gestione dei fondi Pnrr, chiamato a rispondere sulle accuse di falso e corruzione. 

Analoga misura è stata disposta per l’ex consigliere regionale Mario Romano e suo figlio Massimiliano, assessore al Comune di Matino, ed Emanuele Maggiulli , responsabile dell’area tecnica del Comune di Otranto, comuni della provincia di Lecce. Le misure cautelari, all’esito delle indagini svolte dai finanzieri della Compagnia di Otranto (Lecce) sono state richieste dal pm Alessandro Prontera , ed accolte dalla gip Simona Panzera.

Disposto l’obbligo di dimora per l’ ex consigliere regionale neo eletto sindaco di Scorrano Mario Pendinelli, per Antonio Greco e per il sindaco di Otranto Pierpaolo Cariddi . Divieto di svolgere l’attività professionale per Elio Vito Quarta, Giantommaso Zacheo e Fabio Marra. Una richiesta di sospensione è stata richiesta nei confronti del direttore generale dell’Asl di Lecce, Rodolfo Rollo. La gip Simona Panzera deciderà dopo l’interrogatorio di garanzia. I finanzieri stanno notificando avvisi di garanzia alle altre 10 persone indagate, e sono in corso perquisizioni, anche presso la sede dell’ospedale Panico di Tricase, e sequestri da parte della Fiamme Gialle per ulteriori ipotesi di reato. 

Secondo l’accusa, Totò Ruggieri avrebbe versato 16 mila euro in due trance a procacciatori di voti per sostenere l’elezione di Pendinelli alle regionali del 2020, promettendo anche posti di lavoro. Undici in totale gli episodi di corruttela contestati, dal 2019 al maggio 2021, sette dei quali al solo Ruggeri che per i suoi favori avrebbe ricevuto da un imprenditore balneare varie utilità, da casse di pesce fresco a bottiglie di pregio. All’ex senatore e consigliere regionale Ruggeri è contestato anche l’avere ottenuto prestazioni sessuali da una donna con la promessa di un posto di lavoro in un distretto sanitario.

La Regione Puglia, dopo gli arresti della Guardia di Finanza di Lecce per presunti episodi di corruzione, ha chiesto alla Procura salentina l’accesso agli “atti d’indagine non coperti da segreto istruttorio per le valutazioni sulla revoca degli incarichi in base a quanto previsto dalla legge Severino e dall’Anac“. Lo ha reso noto Roberto Venneri responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza della Regione Puglia. Per quanto invece riguarda l’ex senatore e assessore regionale Totò Ruggeri, attuale componente del CdA della società Acquedotto Pugliese, e Antonio Renna, commissario straordinario dei Consorzi di Bonifica Ugento Li Foggi, oggi collaboratore della Provincia di Lecce, “essendo destinatari di misura restrittiva, opera di diritto la sospensione dalla carica”, aggiunge Venneri. Redazione CdG 1947

Chiara Spagnolo e Francesco Oliva per bari.repubblica.it il 7 Luglio 2022.

Sesso o aragoste in cambio di un posto di lavoro e compravendita di voti per le ultime elezioni regionali in Puglia. C'è l'ex senatore ed ex assessore regionale ai Servizi Sociali Salvatore Ruggeri dell'Udc al centro dell'inchiesta della Procura di Lecce che coinvolge 21 persone su presunti illeciti nel mondo sanitario, dei consorzi pubblici e nella gestione di concorsi e dei centri di procreazione assistita. 

Undici le misure eseguite dalla guardia di finanza di Lecce: cinque ordinanze cautelari agli arresti domiciliari, quattro obblighi di dimora, un divieto di dimora e un divieto di esercitare attività imprenditoriale. 

Le ipotesi di reato sono di corruzione, traffico di influenze e falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici. Altre dieci persone invece sono state iscritte nel registro degli indagati.

Le indagini

Le misure sono state chieste dal sostituto procuratore Alessandro Prontera e disposte dalla gip Simona Panzera, all'esito di indagini svolte dai finanzieri della Compagnia di Otranto che, allo stato, sembrano aver disvelato un modus operandi grazie al quale Ruggeri avrebbe posto in essere una serie di comportamenti ispirati non solo all'arricchimento personale, ma anche tesi ad assicurarsi e mantenere bacini di consenso elettorale attraverso una gestione personalistica di presidi di potere ormai consolidati in alcuni dei punti nevralgici della macchina amministrativa sia a livello provinciale, sia a livello regionale. 

I nomi e le misure cautelari

Oltre all'ex assessore, gli arresti domiciliari sono stati disposti per Antonio Renna, Mario Romano (consigliere regionale), Massimiliano Romano ed Emanuele Maggiulli. Per il neo eletto sindaco di Scorrano (ed ex consigliere regionale), Mario Pendinelli e per Antonio Greco è stato ordinato l'obbligo di dimora. Divieto di dimora, invece, per il sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi. 

Divieto di svolgere l'attività professionale per Elio Vito Quarta, Giantommaso Zacheo e Fabio Marra. Per il direttore generale dell'Asl di Lecce, Rodolfo Rollo, è stata mandata una richiesta di sospensione alla gip, che deciderà dopo l'interrogatorio di garanzia. 

Oltre alle 11 persone raggiunte da misure cautelari, i finanzieri stanno notificando gli avvisi di garanzia alle altre 10 persone indagate. Sono in corso anche perquisizioni.

Le indagini hanno fatto emergere che alcuni pubblici ufficiali, in cambio di plurime utilità, promettevano di trovare posti di lavoro a persone di fiducia in vari enti pubblici. Inoltre Ruggeri, quando era assessore regionale, avrebbe preso decisioni - insieme ad altre persone a lui vicine -che avrebbero determinato l'ottenimento di un illecito profitto personale. 

Sesso con una lavoratrice precaria e compravendita di voti

Tra le contestazioni a Ruggeri c'è anche un episodio di corruzione in concorso con una lavoratrice precaria alla quale avrebbe chiesto (e dalla quale avrebbe ottenuto) prestazioni sessuali per aiutarla ad ottenere un lavoro stabile. 

Inoltre un episodio di corruzione elettorale in concorso con Pendinelli per aver pagato voti di elettori di Aradeo e Gallipoli in occasione delle regionali del 2020. 

Aragoste, frutti di mare e vino per rinnovare i contratti

Aragoste, pesce fresco, casse di vino Berlucchi. Sarebbero queste le ricompense che l'ex assessore regionale al Welfare Totò Ruggeri avrebbe ricevuto in cambio del suo impegno per rinnovare il contratto di direttore dell'area amministrativa del Consorzio Arneo di Nardò alla figlia di Luigi Marzano. 

Corruzione in atti giudiziari è l'accusa ipotizzata a carico dell'ex assessore regionale finito ai domiciliari nell'indagine condotta dai militari della Guardia di Finanza coordinati dal pm Alessandro Prontera. E nell'ordinanza, a firma della giudice per le indagini preliminari Simona Panzera, viene ricostruito l'episodio in cui sono indagati anche Antonio Ermenegildo Renna, commissario straordinario Unico dei Consorzi di Bonifica di cui è articolazione, tra gli altri, il Consorzio di Bonifica Arneo di Nardò insieme a Luigi Marzano.

Per i finanzieri, Ruggeri si era già reso promotore in Giunta Regionale della nomina di Renna in sostituzione di Alfredo Borzillo (raggiunto da un provvedimento di interdizione da parte del giudice per le indagini preliminari di Bari perché accusato di aver fatto assumere il fidanzato della figlia) e forte del ruolo ricoperto si sarebbe messo a disposizione di Luigi Marzano ricevendo come ricompense "cospicue forniture di mitili, crostacei, pescato, casse di vino Berlucchi e altro". 

Di fatto i finanzieri di Otranto hanno ricostruito l'accordo corruttivo: Marzano avrebbe sollecitato una serie di incontri con Ruggeri in un'azienda di Maglie perché potesse intercedere con Renna. E l'ex assessore, ipotizzano gli inquirenti, "mediante mere condotte materiali" avrebbe facilitato e velocizzato la pratica di rinnovo dell'incarico prima della scadenza e l'adozione della delibera di rinnovo pretesa dai Marzano.

In sintesi sarebbe andata così: Ruggeri avrebbe contattato Renna "che, recependone pedissequamente la strategia, affidava per il tramite del direttore generale Vito Caputo per conto del Consorzio Speciale Arneo un parere legale sulla fattibilità di un rinnovo del contratto per una durata quinquennale superiore a quella biennale del precedente contratto". 

Dopo il rinnovo del contratto, il 28 agosto 2020, Luigi Marzano avrebbe consegnato "una ulteriore tranche di prodotti ittici a Ruggeri, tra i quali una orata, triglie, un dentice, un cospicuo quantitativo di gamberoni e aragoste". "Tua figlia sta in una botte di ferro", avrebbe riferito tempo dopo Ruggeri a Marzano, che rispondeva "una statua io ti devo fare" e consegnava all'assessore altri 10 chili di aragoste.

A Ruggeri e Renna è contestato anche di aver contribuito a truccare un concorso per geometri al consorzio "Ugento e Li Foggi" in favore di un compagno di partito dell'Udc, Vittorio Capone, nonostante non ne avesse i titoli e nonostante, come emerge da una intercettazione, il candidato "non aveva detto una parola" durante il colloquio orale in cui la commissione gli aveva conferito il massimo punteggio. Per questo filone d'indagine sono indagati anche i commissari Silvia Palumbo e Michele Adamo. 

Settemila euro per un concorso

Il reato di traffico di influenze illecite viene ipotizzato a Mario Romano, Antonio Greco e Luigi Tolento. Secondo quanto riportato nel capo d'imputazione, Greco avrebbe svolto il ruolo di galoppino al soldo del consigliere regionale Mario Romano e avrebbe individuato persone disponibili a versare somme di denaro per il superamento di concorsi pubblici. 

Sfruttando e vantando - viene messo per iscritto nell'ordinanza a firma della giudice per le indagini preliminari Panzera - relazioni con persone impiegate nella pubblica amministrazione, ricompensandole con dazioni di denaro. In particolare si parla di 7.000 euro consegnati a Tolento per il superamento del concorso in Sanità Service per l'assunzione di 159 persone. la prima trance di 1.500 euro sarebbe stata versata a dicembre 2019.

Il terremoto colpisce così soggetti istituzionali noti in Salento. Romano, originario di Matino, ricopre attualmente il ruolo di consigliere regionale per i Popolari ma l'impegno nella politica locale inizia negli anni 80 quando riveste la carica di consigliere Comunale nel Comune di Matino e di assessore poi fino al 1993 e di vice sindaco dal 1985 al 1990. 

Dal 1995 fino al 2004 è stato Presidente della Commissione Provinciale - Lecce- per l'Abilitazione Venatoria e attualmente ricopriva la carica di consigliere in viale Capruzzi. Ruggeri, classe 1950 originario di Muro Leccese, è stato Senatore della Repubblica italiana nella XV Legislatura dal 28 aprile 2006 (2006-2008) periodo in cui ha fatto parte della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata.

Sono in corso perquisizioni, anche nella sede dell’ospedale Panico di Tricase, e sequestri da parte della Finanza per ulteriori ipotesi di reato. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 luglio 2022.

Secondo l’accusa, per il tramite di Mario Romano il gruppo avrebbe venduto posti di lavoro nella Sanitaservice di Lecce incassando tra i 3.000 e i 7.000 euro per ciascun candidato. Le indagini sembrano aver svelato un modus operandi grazie al quale il pubblico ufficiale indagato principale avrebbe posto in essere una serie di comportamenti per l’arricchimento personale, ma anche per assicurarsi e mantenere bacini di consenso elettorale attraverso una gestione di presidi di potere ormai consolidati in alcuni punti nevralgici della macchina amministrativa sia a livello provinciale, sia a livello regionale.

Si sarebbero promessi posti di lavoro da parte di alcuni pubblici ufficiali in cambio di utilità, e le persone di fiducia sarebbero state collocate in posizioni strategiche di svariati Enti pubblici.

Il rinnovo per cinque anni del contratto della direttrice del consorzio di bonifica dell’Arneo, Francesca Marzano, sarebbe stato «comprato» attraverso lo champagne e i frutti di mare che il padre, Luigi Marzano, avrebbe regalato all’allora assessore regionale al Welfare, Totò Ruggeri. È una delle ipotesi di corruzione impropria che stamattina hanno portato agli arresti domiciliari l’ex assessore insieme ad Antonio Renna, all’epoca dei fatti commissario dei consorzi di bonifica, mentre Luigi Marzano (che risulta indagato) ha ricevuto una perquisizione da parte dei militari della Finanza.

Secondo il pm Antonio Prontera, Ruggeri sarebbe intervenuto su Renna («persona di sua fiducia») per «facilitare e velocizzare la pratica di rinnovo dell’incarico prima della scadenza». È lo stesso Renna che la giunta regionale - ricostruisce la Procura di Lecce - nominò commissario su indicazione di Ruggeri dopo l’interdizione del precedente commissario Alfredo Borzillo. Il 10 luglio 2020 Marzano, «in occasione di uno dei sistematici incontri presso la “Toma spa” di Muro Leccese» (l’azienda di Ruggeri), avrebbe consegnato al politico «cospicui quantitativi di frutti di mare (tra i quali piedi di capra) e aragoste per non meno di 10 kg, nonché casse di vino “Berlucchi”» che Ruggeri avrebbe diviso con Renna. Dopo il rinnovo del contratto, il 28 agosto 2020, Luigi Marzano avrebbe consegnato «una ulteriore tranche di prodotti ittici a Ruggeri, tra i quali una orata, triglie, un dentice, un cospicuo quantitativo di gamberoni e aragoste». «Tua figlia sta in una botte di ferro», avrebbe detto poi il 25 settembre successivo Ruggeri a Marzano, che rispondeva «una statua io ti devo fare» e consegnava all’assessore altri 10 kg di aragoste.

A Ruggeri e Renna è contestato anche di aver contribuito a truccare un concorso per geometri al consorzio «Ugento e Li Foggi» a favore di un compagno di partito dell’Udc, Vittorio Capone, nonostante non ne avesse i titoli e nonostante, come emerge da una intercettazione, il candidato «non aveva detto una parola» durante il colloquio orale in cui la commissione gli ha dato il massimo punteggio. Per questo sono indagati anche i commissari Silvia Palumbo e Michele Adamo. Ruggeri è poi accusato di corruzione insieme a una lavoratrice precaria cui avrebbe chiesto «prestazioni sessuali a titolo di contro-prestazione per il suo fattivo “interessamento”» a favore della donna, alla ricerca di lavoro nel mondo della sanità. L’allora assessore avrebbe prima portato la donna dal direttore generale della Asl di Lecce, Rodolfo Rollo, e poi sarebbe intervenuto per farle ottenere una assunzione da parte dell’Ambito territoriale sociale del Comune di Gagliano. Anche la donna è indagata per corruzione. 

«Lecce, i posti in Sanitaservice venduti per diecimila euro». 19 perquisizioni della Finanza dopo la denuncia di chi ha pagato. L’accusa di corruzione: truccato il concorso per 159 assunzioni. L’ipotesi: in cambio di soldi 2 donne avrebbero aiutato i concorrenti ad accumulare titoli per arrivare ai primi posti della graduatoria. Gianfranco Lattante su La Gazzetta del mezzogiorno il 05 Agosto 2022

Un’altra inchiesta scuote il settore della sanità. A Lecce la Guardia di Finanza segue la pista delle tangenti per le assunzioni in SanitaService, la società in-house che si occupa di fornire gli ausiliari, il portierato e gli altri servizi strumentali alla Asl, socio unico dell’azienda. A verbale ci sono le dichiarazioni di chi ha ammesso di aver pagato settemila euro (qualcuno anche fino a diecimila) per assicurarsi uno dei 159 posti messi a bando tra ausiliari, addetti alle pulizie ed altri lavori da manovali.

L’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Massimiliano Carducci, ieri mattina è uscita allo scoperto con una raffica di perquisizioni. Una ventina in tutto, ma il numero degli indagati dovrebbe essere più ampio. Il management aziendale non risulta tra gli indagati...

Sospeso Ruggeri da cda di Acquedotto pugliese. L'assessore Palese: «Io estraneo». Redazione online su Il Tempo il 07 Luglio 2022

La Regione Puglia, dopo gli arresti della guardia di finanza di Lecce per presunti episodi di corruzione, ha chiesto alla Procura salentina l’accesso agli "atti d’indagine non coperti da segreto istruttorio per le valutazioni sulla revoca degli incarichi in base a quanto previsto dalla legge Severino e dall’Anac». Lo comunica il responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza della Regione Puglia, Roberto Venneri. Mentre per quanto riguarda l’ex senatore e assessore regionale Totò Ruggeri, componente del cda di Acquedotto Pugliese, e Antonio Renna, commissario straordinario dei Consorzi di Bonifica Ugento Li Foggi, oggi collaboratore della Provincia di Lecce, «essendo destinatari di misura restrittiva, opera di diritto la sospensione dalla carica», precisa Venneri.

Bellanova: «Grave situazione in Puglia»

«Garantisti sempre. Ma l’arresto dell’ex assessore della Regione Puglia ed attuale componente del cda dell’Acquedotto pugliese Salvatore Ruggeri non può non aprire più di una domanda sul sistema di potere e di alleanze disegnato in questi anni dal Presidente Emiliano». Così la copresidente di Italia Viva Teresa Bellanova, viceministra delle Infrastrutture e Mobilità sostenibili, dopo gli arresti eseguiti oggi a Lecce dalla Guardia di finanza per un presunto sistema corruttivo che riguarderebbe il sistema sanitario e anche la gestione del bacino elettorale.

«Quanto sta accadendo di gravissimo in queste ore in Puglia - prosegue - richiama con urgenza alla necessità di una riflessione, rigorosa e coraggiosa, sulla modalità di raccolta del consenso, di gestione della cosa pubblica e di costruzione delle alleanze che ormai da tempo ha preso piede nella Regione gettando una luce opaca e dubbia anche sulla selezione della classe dirigente»

L'assessore Palese: «Io estraneo»

«Sono stato informato dai giornalisti che negli atti dell’indagine in corso è emerso il mio nome e quello di mia figlia. Non conosco gli atti, ma posso affermare con certezza che sia io che mia figlia siamo totalmente estranei ai fatti. Il percorso professionale di mia figlia è maturato autonomamente quando io non avevo alcun ruolo politico». Lo dichiara l’assessore alla Sanità della Regione Puglia, Rocco Palese, in merito all’inchiesta della Procura di Lecce su presunte corruzioni in alcuni concorsi nel settore della sanità che ha portato, oggi, all’arresto di cinque persone poste ai domiciliari. «Sono stato dirigente medico presso il Pta Gagliano del Capo - spiega Palese - e poi responsabile delle sale operatorie accreditate. Solo alla fine del 2020 sono stato nominato direttore del distretto, e quindi ben dopo il percorso lavorativo di mia figlia». «Quindi - conclude - anche rispetto a questo ruolo non c'è alcun nesso tra le due vicende. Certo di aver offerto alla stampa tutti i chiarimenti del caso nel segno della trasparenza e correttezza, valori che hanno da sempre ispirato il mio lavoro».

Ecco come l’ex consigliere Romano chiedeva soldi per i posti di lavoro: «Vendeva anche concorsi all’Arpal». I testimoni: «Sì, ho pagato ma non sono stato assunto». L’esponente di «puglia popolare» finito ai domiciliari insieme al figlio: dalle intercettazioni almeno 60 casi. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2022.

La compravendita dei concorsi da parte dell’ex consigliere Mario Romano non riguardava soltanto la Sanitaservice di Lecce (di cui ieri si è dimesso l’amministratore unico, Luigino Sergio, non indagato). Ma l’appetito del 71enne di Matino arrivava anche all’Arpal, l’agenzia per il lavoro della Regione. Lo ha accertato la Finanza, che dalle telefonate dell’esponente di Puglia Popolare (la stessa lista cui fa riferimento il direttore generale di Arpal, Massimo Cassano) hanno censito almeno 60 casi di presunta compravendita di posti di lavoro. La metà dei quali avrebbe voluto entrare all’agenzia per il lavoro della Regione. 

I casi raccontati nelle carte sono decine. I finanzieri guidati...  

Sanitopoli in Puglia: «Per l'ex assessore Ruggeri le istituzioni erano la sua servitù». Nell’ambito di una inchiesta della Procura di Lecce su presunte tangenti e favori in cambio di posti di lavoro e favori. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Luglio 2022.

BARI - L’ex senatore ed ex assessore regionale pugliese Salvatore Ruggeri, finito ieri agli arresti domiciliari nell’ambito di una inchiesta della Procura di Lecce su presunte tangenti e favori in cambio di posti di lavoro e favori, sarebbe stato «capace di piegare ai suoi voleri l’azione amministrativa, come nel caso del Comune di Otranto, nel cui ambito si muove sfacciatamente con la massima disinvoltura come fosse in presenza di sua servitù, addirittura dettando ogni genere di direttiva come fossero tutti alle sue dirette dipendente». Lo scrive la gip di Lecce Simona Panzera nelle 338 pagine di ordinanza cautelare notificata a Ruggeri e altre dieci persone.

«Le indagini - scrive la giudice - hanno disvelato un abile quanto spregiudicato sistema criminale che grazie alla scaltra regia di Ruggeri, che asserviva scelleratamente la sua pubblica funzione ad interessi lucrativi privatistici, permetteva a imprenditori 'privilegiatì di vedere indebitamente amplificati i propri guadagni, ovvero di ottenere un collocamento lavorativo per i figli o ancora, nell’ottica di un personale tornaconto elettorale, permetteva a suoi futuri fiduciari l’indebito superamento di concorsi mediante falsificazione dei risultati». La gip evidenzia «il potere pericolosamente pervasivo di cui fruisce Ruggeri, capace di infiltrarsi nei gangli di qualsiasi articolazione della pubblica amministrazione» e definisce «allarmante la capacità di Ruggeri di orientare efficacemente secondo i propri interessi, ovvero dei suoi 'protetti', persino l'azione dell’ente Regione Puglia, come nel caso della convenzione con il Panico di Tricase». La giudice parla, poi, di «personalità delinquenziale» dell’ex senatore, «manifestata dalla naturale inclinazione alla più sfrontata inosservanza delle leggi», in «assenza di qualsivoglia rigurgito di moralità oltre che di legalità». 

DOPO GLI ARRESTI DELLA FINANZA. Posti di lavoro in cambio di cibo, vino e sesso: direttore Asl Lecce si dimette. Stefano Rossi commissario. Nell'ambito delle misure eseguite ieri dalle Fiamme Gialle per ipotesi di reato di corruzione, traffico di influenze illecite e falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Luglio 2022.

Si è dimesso il Direttore Generale della Asl di Lecce Rodolfo Rollo dopo gli arresti eseguiti ieri dalla Guardia di Finanza di Otranto. «Tanto sia per poter assicurare una serena gestione della Struttura, che per evitare complicazioni alle sue condizioni di salute», queste le parole del suo legale, Massimo Manfreda. Nominato commissario Stefano Rossi. Nelle scorse ore le Fiamme Gialle hanno eseguito misure cautelari nei confronti di 11 persone (cinque ai domiciliari, quattro obblighi di dimora, un divieto di dimora e un divieto di esercitare attività imprenditoriale), indagate per ipotesi di reato di corruzione, traffico di influenze illecite e falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Gli arrestati sono l’ex assessore al Welfare della Regione nella giunta Emiliano, Totò Ruggeri, l’ex consigliere regionale di centrosinistra Mario Romano, Massimiliano Romano, Antonio Renna e Emanuele Maggiulli. Obbligo di dimora per il sindaco di Scorrano, Mario Pendinelli, ex consigliere Regionale di centrosinistra. Divieto di dimora per il sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi. Richiesta di interdizione per il direttore generale della Asl Lecce, Rodolfo Rollo. Divieto di svolgere attività professionale per Elio Quarta, Giantomaso Zacheo e Fabio Marra. Le misure sono state concesse dal gip Simona Panzera. Le indagini, svolte dai finanzieri della Compagnia di Otranto, sono coordinate dalla Procura della Repubblica di Lecce, pm Alessandro Prontera. 

Asl Lecce, nell’inchiesta spunta l’ombra di una parentopoli. Dopo l’arresto dell’ex assessore Ruggeri: nuove acquisizioni in Regione, assunzioni e consulenze al setaccio della Finanza. L’ex direttore generale Rollo si è dimesso ma è rientrato in Asl come direttore di distretto. Chiesta la sospensione dalla Procura. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Luglio 2022

Quello che faceva capo all’ex senatore Totò Ruggeri, fino al 2020 assessore regionale al Welfare, appariva come un vero e proprio gruppo di potere, capace di imporre nomine non solo ai vertici della sanità salentina ma anche nelle società partecipate della Regione di cui sarebbe riuscito a influenzare le assunzioni. Lo spaccato emerso dall’indagine della Procura di Lecce, che il 7 luglio ha fatto finire ai domiciliari Ruggeri e altre quattro persone, ha mostrato l’esistenza di una ragnatela di interessi, ma il quadro non è ancora completo: i finanzieri coordinati dal pm Alessandro Frontera stanno infatti ricostruendo quanto avveniva nella Asl e nella Sanitaservice di Lecce: appalti e assunzioni di cui potrebbero aver beneficiato politici locali e rispettivi parenti.

L’inchiesta battezzata «Re Artù» ipotizza a vario titolo, a carico di una trentina di persone, i reati di corruzione impropria, falso e corruzione elettorale in relazione alle ultime Regionali. Ruggeri, in particolare, avrebbe...

Asl Lecce, nell’inchiesta anche le assunzioni in Arif. La Finanza: il braccio destro dell’assessore Ruggeri intervenne per il contratto interinale al figlio di un amico. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

Cosa conteneva la «busta del pane» che a luglio 2019 il commercialista Giantommaso Zacheo voleva consegnare, con insistenza, all’allora assessore regionale Salvatore Ruggeri? È questo episodio, intercettato dai finanzieri, che ha fatto entrare nell’indagine il 52enne di Carpignano Salentino cui il gip Simona Panzera, l’8 luglio, ha applicato la misura cautelare dell’obbligo di dimora e dell’interdizione dall’attività professionale per concorso in corruzione: avrebbe avuto un ruolo, insieme all’assessore e al medico Elio Vito Quarta, nel rilascio dell’autorizzazione al centro Pma di Muro Leccese, realizzato in un immobile di Ruggeri che aveva ottenuto da Quarta la promessa del 30% della società.

Sesso e aragoste, da Lecce l’inchiesta arriva in Regione. Il pm: «La dirigente del Demanio favorì il lido di Ruggeri». Lunedì gli interrogatori. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2022

L’indagine della Procura di Lecce sbarca in Regione. I militari della Finanza hanno notificato un avviso di garanzia anche a Costanza Moreo, dirigente del Demanio. Il suo nome compare fra quelli dei 30 soggetti coinvolti nell’operazione denominata «Re Artù», nell’ambito della quale giovedì è finito agli arresti domiciliari l’ex assessore regionale al Welfare, Totò Ruggeri, 72 anni, di Muro Leccese.

Alla dirigente vengono contestate le irregolarità per l’autorizzazione al ripristino dell’arenile del lido Atlantis di Otranto, di cui Ruggeri è ritenuto amministratore di fatto. L’inchiesta è composta vari filoni in un intreccio fra sanità e politica dal 2019 al 2021. Si parla di pressioni per l’accreditamento di un centro di procreazione medicalmente assistita, di assunzioni e incarichi in cambio di prestazioni sessuali, aragoste e Berlucchi. Le accuse contestate a vario titolo sono corruzione impropria, traffico d’influenze e falso. Nel caso di Ruggeri e del sindaco di Scorrano, Mario Pendinelli, è contestato anche il voto di scambio in occasione delle Regionali 2020.

L’elenco completo delle persone segnalate conta 30 nomi ed è contenuto nell’informativa dei finanzieri depositata dopo gli arresti. Ci sono Luigi Bartolomeo, 68 anni, ex consigliere comunale di Casarano, Lucio Stefano Nocco, 56 anni, di Corigliano d’Otranto; Graziano Musio, 67 anni, di Matino; Domenico Totaro, 72 anni, di Castrignano de’Greci; Giuseppe De Fiesole, 57 anni, di Presicce - Acquarica; Daniele Aventaggiato, 42 anni, di Castrignano de’Greci; Andrea e Giovanni De Iacob, 42 e 39 anni, di Castrignano; Paolo Vantaggiato, 64 anni, di Neviano.

Ieri intanto il direttore generale della Asl di Lecce, Rodolfo Rollo, per il quale il pubblico ministero Alessandro Prontera ha chiesto l’interdizione, si è dimesso. Una scelta - fa sapere l’avvocato Massimo Manfreda - dettata dalla necessità di «poter assicurare una serena gestione della struttura» ma anche per evitare complicazioni alle sue condizioni di salute. Rollo risponde di corruzione impropria per aver chiesto e ottenuto l’autorizzazione ad adottare l’accordo per l’acquisto da parte della Asl delle prestazioni dialitiche erogate dal centro «Santa Marcellina» del Panico di Tricase. Secondo i magistrati, in cambio avrebbe ricevuto dall’ospedale ecclesiastico l’assunzione a tempo determinato del figlio come dirigente ingegnere clinico (incarico prorogato fino al 30 settembre 2022). Al posto di Rollo, è stato nominato commissario Stefano Rossi, già alla guida dell’Asl di Taranto e già in pole position per subentrare a Rollo il cui incarico sarebbe scaduto a settembre.

Ieri la Prefettura, così come previsto dalla legge Severino, ha sospeso dalla carica il sindaco di Otranto, Pierpaolo Cariddi (sottoposto a divieto di dimora nel Comune di appartenenza). «Contiamo di far revocare la misura cautelare all’esito dell’interrogatorio», fanno sapere glia vvocati Mauro Finocchito e Gianluca D’Oria, difensori del primo cittadino idruntino. Sospesi dalla Prefettura anche il consigliere comunale di Alliste, Antonio Renna, ed il consigliere di Matino Massimiliano Romano, entrambi finiti ai domiciliari.

Ai domiciliari sono finiti anche l’ex consigliere regionale di centrosinistra Mario Romano e il responsabile dell’area tecnica del comune di Otranto, Emanuele Maggiulli. Obbligo di dimora, invece, per il sindaco di Scorrano, Mario Pendinelli, mentre è stato chiesto il divieto di svolgere attività professionale per il cardiologo Elio Quarta, il commercialista Giantomaso Zacheo (per il quale è stato disposto anche l’obbligo di dimora) e l’imprenditore Fabio Marra.

Sulla tipologia delle misure cautelari emesse è emersa una diversità di vedute fra il pm Alessandro Prontera e il gip Simona Panzera. Nell’ordinanza il giudice scrive nero su bianco che i provvedimenti «appaiono ben al di sotto della linea di adeguatezza e proporzionalità in relazione alle cogenti esigenze preventive da fronteggiare, e ciò tenuto conto dello strapotere manipolativo e altamente infiltrante dimostrato da Ruggeri e dell’habitus ad assecondare supinamente poteri forti o comunque privati palesato dai pubblici ufficiali attinti dalle richieste». Il gip fa esplicito riferimento alla figura di Pierpaolo Cariddi, «tenuto conto del gravissimo svilimento della sua funzione istituzionale mostrato dall’indagine e della capacità di condizionamento dei funzionari comunali, che ne impone quantomeno l’allontanamento coercitivo dal territorio comunale». Troppa clemenza - è scritto - anche nei confronti di Pendinelli, Mario Romano, Antonio Greco, Fabio Marra, Giantommaso Zacheo ed Elio Quarta.

Lunedì sono stati fissati gli interrogatori degli arrestati, martedì toccherà a coloro che sono stati colpiti dalle interdittive. Gli arrestati sono difesi anche dagli avvocati Luigi Corvaglia, Maria Greco, Gianluca D’Oria, Dimitry Conte, Salvatore Corrado, Francesco Vergine e Luigi Covella.

Inchiesta a Lecce, sospetti su una talpa: le tracce nei computer. Il pm Alessandro Prontera indaga su una fuga di notizie. Un pubblico ufficiale è finito sotto inchiesta per rivelazione di segreto d’ufficio: nominato un consulente il particolare. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Luglio 2022

L’inchiesta che fa tremare la politica salentina (e non solo quella in verità) ha cominciato a far rumore nei primi mesi del 2021, quando la Procura di Lecce ha fatto notificare i primi avvisi di proroga delle indagini. Sono gli atti che, nel gergo, provocano la discovery almeno parziale dei nomi e delle accuse ipotizzate. E proprio poco dopo quelle notifiche, che riguardavano anche i politici a partire dall’ex consigliere regionale Mario Romano, qualcuno provò a capire dove stavano puntando le indagini. Oppure voleva approfittare di notizie riservate per utilizzarle a scopi politici.

Parallelamente alle ipotesi di corruzione, traffico di influenze, falso e voto di scambio, il pubblico ministero Alessandro Prontera indaga su una fuga di notizie. E la traccia, depositata tra gli atti a...

Triggiano, bufera parentopoli nella selezione per funzionari amministrativi. Tre concorsi del Comune vinti da figli di dipendenti. Le carte all’Anticorruzione. Il sindaco: «chi sbaglia paga». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Luglio 2022

Dovrà essere l’Anticorruzione a occuparsi del caso che da giorni sta mettendo in subbuglio il Comune di Triggiano. Un concorso per funzionari amministrativi vinto dal figlio del dirigente che lo ha indetto e che, nonostante le polemiche, la scorsa settimana ha firmato gli atti con cui ha disposto di procedere all’assunzione.

La situazione è rovente, anche perché l’opposizione ha ricostruito l’iter amministrativo del concorso e - in un esposto inviato all’Anac, al prefetto di Bari e alla Corte dei conti - ha fatto emergere una serie di elementi meritevoli di essere approfonditi. Il 4 marzo scorso la giunta guidata dal sindaco Antonio Donatelli ha modificato il regolamento in materia di accesso agli impieghi, per consentire che le commissioni di concorso possano essere presiedute anche da un dirigente esterno all’ente. Lo stesso giorno il dirigente Luigi Panunzio - padre del vincitore - ha nominato la commissione, scegliendo come presidente un dirigente del Comune di Noicattaro e come componente un dirigente del Comune di Sammichele, gli stessi che avevano fatto parte delle commissioni degli ultimi tre concorsi banditi a Triggiano...

(ANSA il 12 luglio 2022) - Sono stati tutti rinviati a giudizio gli ex vertici dell'Università per Stranieri di Perugia per il presunto esame farsa per la conoscenza dell'italiano sostenuto da Luis Suarez all'Università per Stranieri di Perugia nel settembre del 2020. Lo ha deciso il gup del capoluogo umbro. Prosciolta invece l'avvocato Maria Cesarina Turco, considerata il legale incaricato dalla Juventus.

Da repubblica.it il 23 giugno 2022.

Il proscioglimento dell'avvocato Maria Cesarina Turco è stato chiesto dalla procura di Perugia nell'udienza preliminare che riguarda il presunto esame "farsa" per la conoscenza dell'italiano sostenuto da Luis Suarez all'Università per Stranieri di Perugia. Nel capo d'imputazione viene indicata come "il legale incaricato dalla società Juventus football club". 

La procura ha invece ribadito in aula la richiesta di rinvio a giudizio per gli altri imputati. Tra loro l'ex rettrice Giuliana Grego Bolli, l'allora direttore generale Simone Olivieri e la professoressa Stefania Spina.

L'avvocato Turco - si legge nel capo d'imputazione - è stata accusata di essere stata "concorrente morale e istigatrice" in relazione al reato di falsità ideologica contestato per l'esame di Suarez sostenuto nel settembre del 2020 a Perugia. Il calciatore era all'epoca uno dei possibili obiettivi di mercato della Juventus. 

La richiesta di proscioglimento è stata avanzata dal procuratore Raffaele Cantone e dal sostituto Paolo Abritti. In aula anche il difensore di Turco, l'avvocato Franco Coppi.

Cantone: «Così Palamara e i professori raccomandarono il figlio di un membro del Csm». EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 26 aprile 2022

Raffaele Cantone ha ricostruito la storia della raccomandazione al rampollo del giudice Marco Mancinetti per i test di medicina di un’università in Albania. Una vicenda partita dalle dichiarazioni dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara

La registrazione tra Centofanti e l’ex rettore di Tor Vergata: «Era pronto a cacciare i soldi». Ma secondo Cantone non ci sono evidenze per andare a giudizio: ecco perché Mancinetti, accusato di induzione alla corruzione, deve essere archiviato.

Ora Amara rischia il processo per calunnia. Ma nel documento Cantone non risparmia nessuno: elenca le bugie di Palamara, la versione improbabile di Mancinetti, le giustificazioni surreali dell’ex rettore di Tor Vergata. 

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

(ANSA il 26 aprile 2022) - La Guardia di Finanza di Savona e la Polizia di Novara, coordinate dalla Procura di Novara, hanno eseguito alcune perquisizioni nelle province di Padova, Rovigo e Novara nei confronti di presunti appartenenti ad una banda dedita alle truffe nel settore delle patenti di guida. L'indagine riguarda complessivamente 6 persone, di cui 2 cittadini italiani e 4 cittadini pakistani, sospettati di appartenere a una banda operante tra Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria.

Il gruppo, sostengono gli investigatori, aveva organizzato un sistema che consentiva a cittadini extracomunitari senza alcuna padronanza della lingua italiana e privi delle più elementari nozioni del Codice della strada, di ottenere la patente di guida dietro pagamento di somme di denaro. La truffa avveniva attraverso l'uso di congegni elettronici modificati e nascosti negli indumenti, in modo da consentire agli esaminandi di ricevere suggerimenti senza i quali non sarebbero riusciti a rispondere ai quiz e a superare l'esame.

Sono stati sequestrati numerosi auricolari bluetooth miniaturizzati, microcamere, smartphone, modem portatili e capi di abbigliamento opportunamente confezionati per nascondere l'attrezzatura. Nel corso delle perquisizioni, inoltre, sono stati sequestrati oltre 18 mila euro, presumibilmente provento delle attività illecite.

Estratto dell'articolo di Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 26 aprile 2022.

Una domanda con due risposte corrette su tre. Un'altra formulata in modo tanto ambiguo da non prevedere alcuna risposta valida. Il concorsone del Campidoglio da 1.521 posti a tempo indeterminato torna sotto i riflettori: il Tar del Lazio ha riammesso due candidati bocciati a causa di quesiti palesemente errati.

Un discreto pasticcio. Le due sentenze firmate dai magistrati amministrativi pesano. Nella peggiore delle ipotesi, sono due precedenti a cui ora potrebbero appellarsi centinaia di concorrenti incappati negli stessi quiz.

Nella migliore, costano una figuraccia agli organizzatori delle prove. Un'altra, perché il concorsone bandito in era Raggi in accordo tra Comune e Formez aveva già fatto flop in diretta: lo scorso 25 giugno, 1.500 iscritti alla prova da funzionario venivano rispediti a casa tra le polemiche - alcuni avevano viaggiato tutta la notte per arrivare alla nuova Fiera di Roma in tempo per il test - per una domanda con due risposte identiche. Un incidente di percorso che ora si ripete.

Due candidati si sono infatti accorti di altrettanti errori. Eccoli nel dettaglio. Il primo riguarda la prova per uno dei 100 posti da istruttore di servizi informatici e telematici messo in palio da Roma Capitale. Il quesito incriminato è il numero 42 del quiz del 19 luglio e riguarda Azure, sistema cloud a marchio Windows. 

La domanda, molto tecnica, deve aver tratto in inganno chi è stato chiamato a formularla. Due, infatti, le risposte valide: Azure è sia un esempio di Platform as a service che di Infrastructure as a service. 

Apriti cielo. Via al ricorso da parte di chi si è visto bocciare dopo aver dato la risposta ritenuta sbagliata dalla giuria del concorsone. Vittoria su tutta la linea: i giudici della seconda sezione del Tar del Lazio si sono presi la briga di navigare il sito di Windows e hanno trovato un'intera pagina che indicava i vantaggi di Azure per gli utenti, un documento che conteneva anche la doppia risposta esatta.

Vincono il concorso all’Aress, il Tar Bari li manda a casa: «Non meritavano la sufficienza». «Sono dirigenti ma ignorano il diritto». «Errori di base come quelli non potevano portare a un voto di 25/30». Massimiliano Scagliarini il 18 Maggio 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

In una azienda sanitaria della Puglia c’è un dirigente amministrativo che presenterebbe i ricorsi contro il silenzio inadempimento alla Corte dei conti. E ce n’è un altro secondo cui l’articolo 118 della Costituzione parla delle «funzioni amministrative e normative delle Regioni». Sono strafalcioni con i quali non si passerebbe un esame universitario, ma forse nemmeno la prova per vigile urbano. Eppure all’Aress, l’Agenzia regionale della Sanità, una commissione di concorso ha considerato quelle risposte meritevoli di un’assunzione. Ma il Tar di Bari ieri ha detto che i due vincitori devono tornare a casa.

Questa storia è piuttosto particolare, e non solo perché l’orale del concorso è stato registrato. Il Tar (Prima sezione, presidente Scafuri, relatore Desirèe Zonno) ha infatti superato un tabù: di norma i giudici amministrativi non entrano nel merito delle valutazioni fatte dalle commissioni di concorso. Tranne se - come in questo caso - si è di fronte a un vero e proprio pasticcio: «Gli errori commessi dai candidati - dice la sentenza - sono così gravi da mostrarsi logicamente incompatibili con la valutazione conseguita», e dunque la commissione «ha conferito un punteggio contraddittorio rispetto ai parametri valutativi di riferimento».

Il concorso per cinque posti da dirigente amministrativo all’Aress, concluso a luglio dello scorso anno, riservava due posti al personale interno. È proprio su questi che si è concentrato il ricorso (avvocato Mariano Alterio di Bari) della terza classificata. Una concorrente valutata con il punteggio minimo e perciò scavalcata dai due colleghi, di cui ha depositato davanti al Tar alcuni estratti delle prove scritte e la trascrizione di alcune delle risposte fornite all’orale.

A parte il ricorso sul silenzio inadempimento alla Corte dei conti (va fatto al Tar) e l’articolo della Costituzione sulle Regioni (parla dei Comuni), da quei documenti sono emerse altre perle amministrative tipo un errore sul numero della riforma Brunetta, oppure sull’operatività automatica del silenzio amministrativo. Se quindi la terza classificata, avendo preso il minimo, è l’emblema della sufficienza, i due che l’hanno superata in graduatoria devono aver fatto meglio. Giusto? E infatti, il Tar ha rilevato «un insormontabile contrasto intercorrente tra il giudizio di idoneità conseguito dai due concorrenti nelle prove scritte (21/30 l’una e 25/30 l’altro) e la correttezza delle risposte da questi fornite», che vanno considerate «pacificamente ed oltremodo scorrette»: «Entrambi i candidati, seppur interrogati su questioni istituzionali, afferenti conoscenze basilari, ancor più se rapportate alle mansioni ed alla professionalità di cui alla selezione, hanno mostrato delle lacune nozionistiche talmente importanti da non poter essere razionalmente trascurate».

Da qui una valutazione che, in un mondo ideale, dovrebbe portare qualcuno a interrogarsi: «Il deficit di preparazione emerso dagli elaborati prodotti in atti avrebbe dovuto necessariamente incidere sulla valutazione di sufficienza di questi scritti, stante la funzionalità delle prove cui sono stati sottoposti i candidati, ovvero considerando che il concorso de quo è finalizzato all’assunzione di personale di qualifica dirigenziale (che di fronte ad una preparazione istituzionale così scadente non potrebbe in alcun modo assicurare i livelli di efficienza, efficacia ed imparzialità richiesti per l’espletamento della funzione pubblica in modo adeguato). Al contrario, la valutazione positiva attribuita alle prove de quibus si pone logicamente e razionalmente in contrasto con errori così grossolani e macroscopici come quelli contestati, attestanti una maturità scientifica, in ambito giuridico-amministrativo, che non può neppure lambire la sufficienza. A ciò si aggiunga che le manifeste incongruità ed irragionevolezza dell’operato della Commissione risultano ancor più evidenti con riguardo alla valutazione conseguita dal secondo classificato-riservista, il quale, pur avendo sostenuto che nei casi di silenzio inadempimento la giurisdizione spetti alla Corte dei Conti, dichiaratamente ignorando il dettato normativo in materia, ha ottenuto, per il relativo elaborato, un punteggio di 25/30, ben oltre la soglia di idoneità. Deve, quindi, dirsi ingiustificabile che affermazioni così macroscopicamente errate non soltanto abbiano indotto la Commissione a promuovere il candidato, ma addirittura l’abbiano condotta ad attribuire, proprio alla prova de qua, una valutazione spiccatamente positiva. Infatti, gli errori commessi dai candidati sono così gravi da mostrarsi logicamente incompatibili con la valutazione conseguita».

I due vincitori, già assunti, dovranno essere licenziati. Il Tar, evidentemente subodorando qualcosa, ha ordinato all’Aress (ieri non è stato possibile parlare con il dg Giovanni Gorgoni) di non fare scherzi: la sentenza «non richiede la ripetizione delle operazioni di correzione delle prove, in quanto il giudizio ad esse riferito non può che attestarsi al di sotto della sufficienza, con conseguente espunzione dei controinteressati dalla graduatoria per inidoneità della prova scritta a raggiungere il punteggio minimo richiesto». L’agenzia potrebbe comunque fare appello al Consiglio di Stato. Ma non potrà cambiare la sostanza delle cose.

Il nuovo mondo. La guerra alla meritocrazia. Adrian Wooldridge su Linkiesta Magazine il 19 Aprile 2022.

La società moderna e globalizzata si basa sulla proliferazione e l’incontro dei talenti individuali. Ora l’odio populista per la competenza rischia di distruggere il sistema che ha prodotto un’economia più produttiva e uno Stato più efficiente. Che cosa potrebbe esserci di meglio? Eppure questa idea è sotto attacco ovunque.

La meritocrazia è un tale presupposto delle società moderne che la diamo per scontata. Quando facciamo un colloquio di lavoro ci aspettiamo che la nostra candidatura sia esaminata secondo un principio di equità. E proviamo indignazione al primo sentore di nepotismo, favoritismo o discriminazione. «Tutti gli americani hanno il diritto di essere giudicati sulla base del merito individuale e di arrivare fin là dove i loro sogni e il loro duro lavoro li porteranno», affermò Ronald Reagan nel 1984. «Noi crediamo che le persone debbano poter crescere in base al loro talento e non in base alla loro nascita o ad altri privilegi», disse Tony Blair quindici anni dopo e dall’altro lato dell’Oceano.

Tuttavia, è pura follia dare per scontato questo elemento che è così fondamentale sia per la salute della nostra economia sia per quella della nostra politica. Basta guardare la storia dell’Occidente: non è necessario tornare molto indietro nel tempo per trovare un mondo in cui i lavori passavano di padre in figlio o erano ceduti al miglior offerente. Basta guardare il resto del mondo per trovare governi pieni di corruzione e di favoritismi.

L’idea meritocratica è intrinsecamente fragile: gli esseri umani sono biologicamente programmati per favorire i propri amici e i propri parenti rispetto agli estranei. E se abbiamo ragione di pensare che il mondo moderno, con la sua vivace economia e il suo settore pubblico privo di favoritismi, sarebbe impossibile senza l’idea meritocratica, sbaglieremmo invece se pensassimo che la meritocrazia continuerà a esistere per sempre anche se continueremo a innaffiarne le radici con il veleno.

Il mondo premoderno si fondava su presupposti che sono agli antipodi rispetto alla meritocrazia: sul lignaggio più che sui risultati raggiunti, sulla subordinazione volontaria più che sull’ambizione.

La società era governata da proprietari terrieri che erano tali per via ereditaria (e a capo dei quali c’era un monarca), che avevano raggiunto la loro posizione combattendo e depredando e che poi giustificavano il loro ruolo attraverso una combinazione di volontà di Dio e di antica tradizione.

La civiltà era concepita come una gerarchia in cui le persone occupavano le posizioni che erano state loro assegnate da Dio. L’ambizione e l’autopromozione erano temute. «Togli solo la gerarchia, stona questa corda» dice Ulisse nel “Troilo e Cressida” di Shakespeare, «e vedrai la discordia che ne segue».

Il criterio principale con cui le persone venivano giudicate non era legato alle loro capacità individuali, ma al loro rapporto con la famiglia e con la terra. Gli aristocratici britannici hanno ancora il nome dei luoghi attaccato al loro: e più alto è il rango, più grande è il posto.

I lavori non erano assegnati sulla base del merito di ciascuno ma attraverso tre grandi meccanismi: i legami familiari, il clientelismo e l’acquisto. E anche i re ereditavano la loro posizione indipendentemente dalla loro capacità di governare il Paese. Carlo II di Spagna era frutto di un tale disastro genetico che la sua testa era troppo grande per il suo corpo, la sua lingua era troppo grande per la sua bocca e quindi sbavava di continuo.

Gli aristocratici concedevano i lavori ai loro favoriti oppure li vendevano al miglior offerente, per finanziare il loro dispendioso stile di vita a corte. E non c’era una stretta relazione tra reddito e lavoro: nel 1783, una certa signora Margaret Scott riceveva un considerevole stipendio di 200 sterline all’anno come balia del Principe di Galles, che a quell’epoca aveva ventun anni. Uno dei due avvocati dello staff del Tesoro britannico non si presentò al lavoro per quarant’anni, dal 1744 al 1784, finché un ficcanaso ebbe l’ardire di lamentarsi per la sua scarsa frequentazione dell’ufficio.

L’idea meritocratica ha assaltato, in modo rivoluzionario, tutti questi presupposti, è stata la dinamite che ha fatto esplodere il vecchio mondo e ha messo a disposizione il materiale per costruirne uno nuovo. Ha cambiato il concetto di élite riformando il modo in cui la società assegna i migliori posti di lavoro. Ha trasformato l’istruzione enfatizzando il valore delle pure competenze accademiche. E ha fatto tutto questo ridefinendo la forza elementare che determina le strutture sociali. «Quando non ci sono più ricchezze ereditarie, privilegi di classe o prerogative di nascita», ha scritto Alexis de Tocqueville, «diventa chiaro che la principale fonte di disparità tra le fortune degli uomini risiede nella mente».

Ma l’idea meritocratica è stata addirittura qualcosa di più, è stata un tentativo di mitigare uno degli istinti primari del genere umano – è cioè l’istinto di favorire i propri figli rispetto a quelli degli altri – in nome del bene collettivo. «In tutto il regno animale», ha osservato la biologa Mary Maxwell, «il nepotismo è la norma per tutte le specie sociali e anzi potrei spingermi ancora più in là dicendo che il nepotismo definisce le specie sociali».

Questo aiuta a comprendere la giravolta intellettuale di Platone ne “La Repubblica”. Platone, che è stato il primo occidentale a redigere un progetto meritocratico, ha preso posizione a favore della mobilità sociale perché la gente privilegiata poteva produrre «bambini di bronzo» e la gente non privilegiata poteva produrre «bambini d’oro». Ma come si sarebbe potuto impedire che le famiglie potenti si accaparrassero le posizioni migliori e che le famiglie più modeste fossero ignorate? Platone riteneva che l’unico modo per impedirlo fosse una rivolta estrema contro la natura: sottrarre i bambini ai loro genitori naturali per allevarli in comune e proibire ai “guardiani” di possedere proprietà alcuna in modo che anteponessero il bene collettivo a quello individuale.

L’idea meritocratica è stata un presupposto delle quattro grandi rivoluzioni che hanno creato il mondo moderno. La più determinante tra queste è stata la Rivoluzione industriale che ha trasformato le basi materiali della civiltà e ha scatenato le energie dei self-made men. È tutto ciò è stato rafforzato da una successione di rivoluzioni politiche.

La Rivoluzione francese era dedita al principio della “carriera aperta a tutti i cittadini di talento”: i privilegi feudali furono aboliti; l’acquisto dei posti di lavori fu proibito; le scuole di eccellenza furono rafforzate. I soldati di fanteria che marciarono attraverso l’Europa furono tutti incoraggiati a pensare di avere nel loro zaino un bastone da maresciallo di campo. La Rivoluzione americana fu guidata da una visione di uguaglianza delle opportunità e di competizione corretta. Thomas Jefferson parlò di rimpiazzare l’«aristocrazia artificiale» data dal possesso di terra con l’«aristocrazia naturale» determinata «dalla virtù e dal talento». David Ramsey, storico e politico della South Carolina, celebrò il secondo anniversario dell’indipendenza americana sostenendo che l’America fosse una nazione unica nella storia dell’uomo perché «tutte le cariche sono aperte a ogni uomo che se le meriti, quali che siano il suo rango è la sua condizione sociale».

La Gran Bretagna è stata il palcoscenico della più sottile di queste rivoluzioni, la Rivoluzione liberale, che vide un trasferimento del potere dall’aristocrazia terriera all’aristocrazia intellettuale senza che fosse esploso un solo colpo. I rivoluzionari prima sottoposero le istituzioni esistenti, come le cariche pubbliche e le università, alla magia della competizione aperta e degli esami scritti e poi costruirono gradualmente una scala delle opportunità che poteva portare dalla scuola di paese fino alle guglie delle più ambite università. La “Old Corruption”, come un tempo era chiamato il governo, fu sostituita da quella che era forse la più onesta ed efficiente amministrazione pubblica del mondo. E Oxford e Cambridge furono trasformate da nidi di sinecure in serre in cui coltivare l’intelletto.

Una rivoluzione meritocratica conduceva poi a un’altra rivoluzione meritocratica. La “scala delle opportunità” rivelò che tra le persone comuni c’era molto più talento di quanto i rivoluzionari liberali non avessero immaginato. E l’applicazione di un’“aperta competizione” fra gli uomini fece inevitabilmente sorgere una domanda: «E le donne?». Inoltre, la contraddizione alla base del documento fondativo dell’America non avrebbe potuto rimanere tale per sempre: se gli uomini erano nati naturalmente uguali fra loro, come si sarebbero potuti tenere i neri in catene? Così, gruppi fino a quel momento emarginati approfittarono dell’idea meritocratica per chiedere una più equa possibilità di avere successo nella vita.

L’esplosione di energia che ne risultò ha portato a una società più giusta e più produttiva. Donne e minoranze hanno potuto riversarsi nell’istruzione superiore. Le donne ora costituiscono più della metà degli studenti universitari britannici e le minoranze etniche ottengono risultati migliori a scuola rispetto ai bianchi. I Paesi meritocratici hanno una crescita più veloce dei Paesi non meritocratici. Le aziende pubbliche che assumono persone in base al merito sono più produttive delle aziende familiari che lasciano spazio ai favoritismi. E le migrazioni di massa scorrono soltanto in una direzione: dai Paesi che non hanno compiuto la transizione meritocratica a quelli che invece l’hanno compiuta.

La meritocrazia è un’idea rivoluzionaria che ha prodotto un’economia più produttiva e uno Stato più efficiente: che cosa potrebbe esserci di meglio? Eppure questa idea è sotto attacco ovunque. Alcuni pensatori “antirazzisti” alla moda sostengono che la meritocrazia sia spesso un travestimento per il privilegio dei bianchi o che sia addirittura un’arma per spingere le minoranze nella miseria. I populisti di destra sostengono che sia invece l’ideologia di quell’élite globale autocompiaciuta che di recente ha fatto così grandi pasticci nella gestione del mondo. E persino le persone che gestiscono la grande macchina meritocratica hanno seri dubbi: Daniel Markovits di Yale ha recentemente scritto un libro intitolato “The Meritocracy Trap” (“La trappola meritocratica”) mentre Michael Sandel di Harvard ne ha scritto un altro intitolato “La tirannia del merito” (pubblicato in italiano da Feltrinelli, ndr).

Chi avanza delle critiche ha alcuni punti a suo favore: l’idea meritocratica corre il rischio di diventare decadente. Stiamo assistendo a un pericoloso matrimonio tra denaro e merito poiché i ricchi acquistano opportunità educative mentre i poveri devono accontentarsi di scuole qualunque: ne è testimone la trasformazione delle scuole private britanniche da istituzioni abbastanza apatiche in quelle fabbriche dell’eccellenza che sono oggi. Abbiamo chiaramente bisogno di un’altra grande spinta per reinventare l’idea meritocratica e rilanciarla per una nuova epoca. Ma quello a cui invece assistiamo è un tentativo di smantellarla.

Questa distruzione è in uno stadio particolarmente avanzato negli Stati Uniti. La sinistra produce numerosi esempi di “guerra al merito”. Il Board of Education di San Francisco ha vietato alla Lowell High School – una delle scuole del Paese che ha maggiori successi accademici – di utilizzare i test di ammissione e ha invece introdotto un sistema a sorteggio. Il commissario scolastico, Alison Collins, ha dichiarato che la meritocrazia è «razzista» ed è «l’antitesi di una competizione equa». I programmi per i più dotati e i più talentuosi vengono smantellati in tutto il Paese. Le università stanno riducendo l’importanza dei Sat, i test di ammissione standardizzati e alcune di esse si spingono al punto di rendere i test facoltativi, per enfatizzare invece la “valutazione olistica”.

È probabile che l’attuale guerra al merito sia controproducente quanto lo è stato l’attacco alle scuole selettive nella Gran Bretagna degli anni Sessanta e Settanta: i bambini della classe media troveranno molto più facile ingannare un sistema basato su temi e dichiarazioni personali rispetto a ingannarne uno basato sui risultati ottenuti attraverso esami.

Questo assalto al merito si estende oltre il cortile della scuola e penetra nelle sale riunioni. Le aziende stanno introducendo quote formali o informali in nome dell’“equità” (che sta prendendo sempre più il posto delle “pari opportunità” come misuratore della giustizia). L’allentamento degli standard meritocratici ridurrà l’efficienza economica dal momento che vediamo sempre più pioli quadrati inseriti in fori rotondi. E questo sarà anche un fenomeno che amplifica se stesso: una delle regole su cui si può fare più affidamento nella vita è il fatto che le persone di second’ordine nomineranno sempre delle persone di terz’ordine per proteggere se stesse dal rischio che qualcuno si accorga che sono di second’ordine.

È preoccupante vedere come questo spaventoso attacco ai principi meritocratici provenga tanto da destra quanto da sinistra. Donald Trump non ha solo dato posizioni di potere ai membri della sua famiglia – cosa che è forse una tradizione americana consacrata, ancorché vergognosa – ma ha anche lasciato vacanti un numero senza precedenti di posizioni dirigenziali, dal momento che ha spinto migliaia di esperti a chiedere il pensionamento anticipato.

La guerra alla meritocrazia sarebbe autodistruttiva anche se l’Occidente dominasse incontrastato. Ma questa guerra avviene invece nel momento in cui l’Occidente sta affrontando la sua più grande sfida fino a oggi: l’ascesa della Cina e del capitalismo di Stato autoritario. La Cina è stata per molti versi la pioniera della meritocrazia: per più di un millennio è stata governata da un’élite di mandarini selezionata in tutto il Paese attraverso gli esami più sofisticati del mondo.

Il sistema è morto perché non è riuscito ad adattarsi all’esplosione della conoscenza scientifica: nel 1900 le domande erano più o meno le stesse del 1600. Ma ora la Cina sta facendo rivivere il suo antico sistema meritocratico: questa volta, però, è alla ricerca di scienziati e di ingegneri più che di studiosi confuciani. Stiamo così per apprendere che l’idea meritocratica può essere altrettanto potente al servizio dell’autoritarismo statale di quanto lo è stata finora al servizio della democrazia liberale.

La guerra al merito che è attualmente in corso è quindi una doppia minaccia per il mondo moderno. Priverà l’Occidente del suo dinamismo economico e allo stesso tempo incoraggerà i gruppi di interesse a competere per le risorse sulla base di diritti collettivi e risentimenti di gruppo. E sposterà inesorabilmente l’equilibrio del potere verso un regime post-comunista in Oriente che non ha tempo per i diritti individuali e i valori liberali.

Abbiamo ancora la possibilità di impedire questo processo – è vero – ma soltanto se siamo disposti a coltivare e a riparare quell’idea meritocratica che in precedenza ha reso l’Occidente vincente.

Adrian Wooldridge è il political editor dell’Economist ed è l’autore della column Bagehot. L’articolo che pubblichiamo in queste pagine è un estratto dal suo ultimo libro: “The Aristocracy of Talent: How Meritocracy Made the Modern World” (Allen Lane- Penguin Books).

Al concorso vigili il comandante dà le domande alla sua "amica". Redazione il 16 Aprile 2022 su Il Giornale.

Al concorso per il posto a tempo indeterminato una vigilessa si era servita del legame sentimentale con il comandante dei vigili di Lodi che le aveva passato le tracce delle prove scritte e orali di due selezioni.

Confermata dalla Cassazione la sospensione dai pubblici uffici per 8 mesi della vigilessa che per il concorso per il posto a tempo indeterminato si era servita del legame sentimentale con il comandante dei vigili di Lodi - poi trasferito in Trentino e ora sospeso dal servizio - che le aveva passato le tracce delle prove scritte e orali di due selezioni, per il Comune di Cornegliano Laudense (Lodi) e per la Provincia di Lodi. Invano la difesa ha fatto presente che non c'era il rischio di recidiva e che se la misura interdittiva fosse stata convalidata, la vigilessa avrebbe perso il posto che nel frattempo aveva vinto in un altro concorso al Comune di Milano e, in questo modo, ci sarebbe stata una sorta di anticipata «sentenza di condanna».

Per i supremi giudici, invece, è da condividere quanto messo in evidenza dal Tribunale di Milano - che ha disposto la misura cautelare - rilevando il «disvalore della condotta» che è «aggravata» dal fatto di aver «propalato» anche a un'amica le tracce fornite dal comandante dei vigili di Lodi, «in un quadro programmatico che assume toni ancora più preoccupanti». L'amica, prosegue il verdetto, «collocandosi al secondo posto della graduatoria di Cornegliano, sarebbe subentrata» a lei che era «destinata a vincere il concorso della Provincia di Lodi».

La Cassazione ricorda anche «la capacità di influenzare i componenti della polizia locale suoi subordinati» dimostrata dal comandante e messa in luce dalla «reticenza mostrata dai suddetti nel riferire sulle circostanze» oggetto di inchiesta. Captate anche conversazioni tra Giulia e la madre con il rischio di recidiva in altri concorsi pilotati se fossero stati di interesse «dei loro familiari».

Concorso truccato, i candidati imbroglioni salvati dalla prescrizione. Giulio De Santis il 14 Febbraio 2022 su Il Corriere della Sera.

Le prove alterate per entrare nell’Agenzia delle Dogane nel 2013, ma dopo nove anni i reati sono decaduti. La truffa: «Le tracce nascoste in un giornale». 

Ha riferito di aver ricevuto da un altro imputato «30-35 tracce d’esame tra cui le due poi estratte». E ha aggiunto che «durante il concorso era utile avere un documento dal quale copiare», nascondendolo nella Gazzetta Ufficiale. A rendere queste dichiarazioni è stato Lucio Pascale, 63 anni, accusato di tentata truffa con altri otto candidati per aver così provato a superare un concorso interno dell’Agenzia delle Dogane a un posto da dirigente nel 2013.

Dopo la prova scritta il concorso è saltato per la denuncia di un concorrente, ma l’indagine della Procura è andata avanti. Finché, ora che sono passati nove anni da allora, i giudici dell’VIII sezione penale hanno dichiarato la prescrizione dei reati sia per i candidati (oltre a Pascale, l’unico a riferire l’accaduto, Paolo Raimondi, Edoardo Mazzilli, Ernesto Carbone, Francesco Natale, Marco Falconieri, Giovanni Mosca, Saverio Marrari e Giuseppe Sabatino) sia per i due commissari accusati di aver passato le tracce, Alberto Libeccio ed Enrico Maria Puja.

Al momento per nessuno degli imputati, già impiegati prima del concorso all’Agenzia delle Dogane, risulta avviata alcuna azione disciplinare, come accertato dalla Federazione del pubblico impiego che si è costituita parte civile nel processo attraverso l’avvocato Regina Tirabassi. Il collegio, com’è sottolineato nelle motivazioni della sentenza, avrebbe dovuto dichiarare l’assoluzione degli imputati qualora fosse stata evidente, tra le altre cose, la loro estraneità all’accusa di aver tentato di copiare. Ma oltre alle parole di Pascale, a imporre la prescrizione ci sono stati altri elementi: per esempio nel caso di Mazzilli c’è stata «la significativa analogia tra il tema redatto e i testi contraffatti». Per quanto concerne Falconieri e Natale, i giudici rilevano come tra le loro prove e i testi dei documenti non autorizzati «è possibile notare la puntuale corrispondenza terminologica estesa a parole per le quali avrebbero potuto essere facilmente scelti dei sinonimi».

Ecco la parentopoli dell’Arpal Puglia dove lavorano politici e parenti alleati di Massimo Cassano. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2022. Sul profilo Facebook di Massimo Cassano, direttore generale dell’Arpal, c’è un post del 10 marzo in cui «il coordinamento regionale di Italia Popolare ed il sen. Massimo Cassano salutano l’ingresso in Italia Popolare del quinto Municipio» di Bari. Ed è da questo post che conviene partire per raccontare cosa sta avvenendo da mesi nell’Agenzia per il lavoro della Regione Puglia.

La foto che ritrae il quartetto di appartenenti a Puglia Popolare è infatti scattata all’interno della direzione generale dell’Arpal. E tra i quattro, non citato nel post, c’è Alessandro Lapenna, avvocato, consigliere al Municipio Palese, di cui è stato candidato presidente per la Lega. Lapenna è anche cugino della moglie del senatore Cassano, e lavora in Arpal tramite una agenzia interinale.

Perché mentre tutti guardano ai concorsi organizzati dall’Arpal (oggetto di polemiche infinite) nessuno si accorge che l’agenzia, attraverso una Ati tra due enti di formazione (Epcpec e Ageform) e una società interinale (Job Italia) impiega a chiamata diretta quasi 500 persone. È il personale addetto ai centri per l’impiego con i relativi formatori. E tra loro tanti sono «amici di» o «parenti di».

Prendiamo un’altra foto, sempre del 21 marzo. Ritrae due dei tre consiglieri del Comune di Bari che quel giorno sono ufficialmente transitati nel partito di Cassano: Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio (eletto con Sud Al Centro, che fa capo al marito dell’assessore regionale Anita Maurodinoia) e Giuseppe Neviera (eletto nella lista dell’ex assessore regionale Alfonso Pisicchio). Di Giorgio ha due figli, entrambi assunti tramite Ecpep: Annamaria, assegnata alla direzione generale Arpal, e Pasquale (detto Livio), «collaboratore mirato», quest’ultimo peraltro collega di lavoro di Alessandro D’Ambrogio, cugino del direttore generale anche lui preso tramite Ecpep. Neviera ha una figlia, si chiama Gaia: è stata assegnata al Centro per l’impiego di Rutigliano.

Già senza addentrarsi troppo, chi conosce le cose della politica ha ben chiaro un punto: in Arpal hanno trovato spazio i quadri dirigenti della formazione politica fondata dal direttore generale dell’agenzia. Puglia Popolare a Bari ha un coordinatore provinciale, Simona Vitucci, che è anche consigliere comunale a Modugno. L’avvocato Vitucci (che nel frattempo ha presentato le dimissioni da coordinatore provinciale della lista) risulta assunta, tramite Ecpep, nella direzione generale dell’Arpal. Cassano ha poi uno storico riferimento politico a Terlizzi, il vicesindaco Francesco Tesoro detto Franco: la figlia, Mariangela, è stata assegnata al Centro per l’impiego di Bitonto. A Triggiano il riferimento politico di Cassano si chiama Mauro Battista, consigliere comunale già candidato alle elezioni regionali: anche lui lavora nella direzione generale dell’Arpal, fianco a fianco con il direttore.

Torniamo al Comune di Bari che è - per ovvi motivi - il cuore dell’attività politica sul territorio. Nella segreteria cittadina di Puglia Popolare c’è l’ex consigliere comunale Mimmo Sciacovelli. Il figlio si chiama Michele, consigliere del Primo Municipio, che è stato assunto al Centro per l’impiego di Barletta. Un altro ex consigliere è Francesco De Carne, ora nella segreteria cittadina di Puglia Popolare: il figlio Gaetano ha avuto un contratto interinale nella sede di Molfetta. Tra gli interinali (che politicamente valgono meno, perché i contratti sono a scadenza e quasi certamente non verranno rinnovati) ci sono diversi altri rappresentanti cittadini di Puglia Popolare della provincia di Bari (Mola, Santeramo), ma non solo: assunzioni interinali sono state fatte in tutte le province. Ad esempio a Lecce dove, ad esempio, ci sono quattro residenti dell’area di Copertino, il feudo elettorale dell’assessore al Lavoro, Sebastiano Leo, che oltre ad essere l’alleato di Cassano alle Regionali è anche l’assessore da cui dipende l’agenzia Arpal. Lui, però, smentisce ogni collegamento e del resto nulla autorizza a fare illazioni sulla paternità delle assunzioni: «Copertino è un paese piccolo - dice - ma di quello che accade in Arpal non so assolutamente niente. I somministrati termineranno tra un mese perché ormai non ci sono più risorse».

In queste assunzioni formalmente non c’è alcuna irregolarità, anche perché non sono assunzioni dirette in Arpal e gli enti di formazione hanno assoluta autonomia. E alcune delle persone di cui abbiamo parlato hanno partecipato ai concorsi pubblici e non sono risultate idonee. Certo, attraverso l’accordo con Epcpep-Ageform è stata allargata la platea dei formatori storici, passata da 77 a 120 dipendenti: quelli della vecchia guardia aspirano alla pensione, i nuovi invece puntano all’assunzione in Arpal. Che non potrà prescindere da un nuovo concorso pubblico, quello per «orientatori», bandito con le procedure semplificate (prova unica) e soprattutto con la valutazione dei titoli: e chi ha lavorato in un centro dell’impiego ottiene punti in più. L’affidamento a JobItalia della fornitura del personale somministrato è avvenuta (almeno in parte) senza gara d’appalto. Il «sales manager» di JobItalia è Paola Scrimieri, sorella di Pietro Scrimieri, direttore delle risorse umane di Acquedotto Pugliese, manager molto stimato anche da Cassano che presta la sua opera come presidente di alcune commissioni di concorso dell’Arpal (oggi, 12 aprile, ha comunicato la rinuncia agli incarichi). Entro aprile nell’agenzia prenderanno servizio oltre 1.000 vincitori di concorso tra tempi determinati e indeterminati. Ma i concorsi Arpal (così come alcuni appalti) meritano un’altra puntata di questa interessante storia.

CONSIGLIERI DI MAGGIORANZA: FAR CADERE DG ARPAL

Dopo l’inchiesta pubblicata stamattina dalla “Gazzetta” il centrosinistra chiede di cacciare il direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. E lo fa nel modo più violento possibile. Depositando una proposta di legge (primo firmatario Antonio Tutolo, poi Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea del Pd) con cui chiede la decadenza del dg e la nomina di un amministratore unico alla guida dell’agenzia regionale. La proposta di legge vuole evitare che Cassano possa rimanere alla guida dell’Arpal: impone che l’amministratore unico abbia un "titolo culturale" più aderente alla competenza in diritto del lavoro (laurea in giurisprudenza o economia) e l’esperienza per oltre cinque anni come dirigente nella pubblica amministrazione ("che peraltro è il criterio minimo d’esperienza per la partecipazione ai concorsi pubblici afferenti la dirigenza”, dicono i firmatari), o all’incarico di professore universitario di ruolo nelle materie giuridiche o l’iscrizione da almeno dieci anni nell’elenco degli avvocati cassazionisti.

Bufera parentopoli Arpal Puglia, ai politici pure incarichi legali. Spunta una consulenza al consigliere barlettano Bufo: la figlia presa come interinale. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Aprile 2022.

La prima coincidenza è stata già raccontata negli scorsi giorni. Teresa Rita Bufo, figlia del consigliere comunale barlettano Giuseppe Bufo, è una delle 230 persone che hanno superato la selezione interinale indetta dall’agenzia per il lavoro pugliese Arpal. La seconda coincidenza riguarda il padre, uno degli esponenti politici che hanno aderito alla lista Puglia Popolare del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. Anche il padre, come la figlia, ha ottenuto un incarico dall’Arpal.

Coincidenze. O, per dirla con il presidente della Regione, Michele Emiliano (che giorni fa ha minimizzato il caso delle parentele rinvenute nelle liste del personale Arpal), «ricorrenze». Fatto sta che il 22 febbraio scorso l’avvocato Giuseppe Bufo ha ottenuto dal direttore generale Cassano l’incarico per assumere il patrocinio legale dell’Agenzia davanti alla sezione Lavoro del Tribunale di Trani, in un procedimento (udienza prevista il 13 giugno) di accertamento tecnico preventivo attivato da un dipendente, procedimento in cui è parte anche la stessa Regione.

Dal punto di vista tecnico si tratta di una consulenza professionale da circa 1.016 euro, in sé assolutamente legittima. Resta, appunto, la doppia coincidenza. Giuseppe Bufo è passato con Puglia Popolare il 7 agosto 2021, quando ha esordito nel nuovo ruolo politico con la richiesta di azzeramento della giunta. Tre mesi dopo, il 13 ottobre 2021, il sindaco di Barletta, Mino Cannito, è stato sfiduciato con il voto decisivo dell’avvocato 58enne eletto nel 2018 con la coalizione di maggioranza. Il 9 novembre 2021 l’agenzia interinale JobItalia pubblica il bando per la ricerca del personale da impiegare in Arpal (un bando che doveva rimanere aperto 4 giorni ma che poi è stato prorogato dopo la pubblicazione di un articolo su «Repubblica»): tra i vincitori c’è appunto Teresita Bufo, 25 anni, laureata, assunta con contratto di somministrazione di categoria D, che è stata destinata al Centro per l’impiego di Corato e che ora potrà partecipare a un concorso propedeutico alla stabilizzazione. L’8 febbraio l’Arpal chiede all’avvocato Bufo un preventivo «per affidamento di incarico di rappresentanza e difesa in giudizio» dell’agenzia davanti al Tribunale di Trani. L’incarico si perfeziona quattro giorni dopo, giusto in tempo per il deposito della memoria in Tribunale.

Il caso della Parentopoli, con l’assunzione in Arpal (tramite agenzia interinale, o nelle liste dei «formatori» dell’ente di formazione Epcpec) di consiglieri comunali, circoscrizionali (o loro parenti) che hanno aderito alla lista di Cassano, è stato sollevato la scorsa settimana dalla «Gazzetta». L’elenco delle coincidenze è lungo. A partire dal Comune di Bari, dove Puglia Popolare ha costituito il gruppo politico a Bari: all’Arpal sono entrati come formatori i due figli del consigliere Giuseppe Di Giorgio (Annamaria, in direzione generale, e Pasquale detto Livio, «collaboratore mirato») e la figlia del consigliere Giuseppe Neviera, Gaia (al Centro per l’impiego di Rutigliano). Al 5° Municipio la lista di Cassano può contare sul consigliere Alessandro Lapenna (cugino della moglie del dg), che ha avuto un contratto interinale così come il consigliere Michele Piscopo. Anche la (ex) segretaria provinciale barese di Puglia Popolare, Simona Vitucci, che è anche consigliere comunale a Modugno, ha un avuto un contratto da formatore con Epcpep, così come Mauro Battista, consigliere comunale di Triggiano, e Mariangela Tesoro, figlia del vicesindaco di Terlizzi, Franco. Tutti esponenti politici che hanno aderito alla lista di Cassano. Situazioni simili ci sono anche in altri Comuni dove si voterà a giugno, e dove Puglia Popolare presenterà le liste. Anche per questo, quattro consiglieri regionali di maggioranza (Tutolo, Amati, Mazzarano, Mennea) hanno presentato una proposta di legge per far decadere Cassano. Emiliano, a prescindere dalle «ricorrenze», ha aperto alla possibilità che l’Arpal possa essere affidata a un consiglio di amministrazione.

I NODI DELLA POLITICA. Arpal, quelle assunzioni dopo i cambi di casacca. Oltre a Bari anche Barletta: piazzata pure la figlia di Bufo (passato con Cassano) che ha sfiduciato il sindaco Cannito. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.

Il 13 ottobre 2021 il sindaco di Barletta, Mino Cannito, è stato defenestrato con una mozione di sfiducia. A risultare decisivo è stato il voto di Giuseppe Bufo, consigliere all’epoca appena transitato dalla maggioranza in Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale dell’Arpal, Massimo Cassano. Anche la figlia di Bufo, Teresita, come i figli dei due consiglieri comunali baresi che a marzo hanno scelto di passare con Cassano, ha ricevuto un contratto interinale all’Arpal.

Nulla autorizza a ipotizzare nessi di causa ed effetto, e tantomeno accordi illeciti. Ma dall’esame delle liste delle persone che - tramite due enti di formazione, o attraverso una agenzia interinale - stanno lavorando in Arpal, emerge forte la coincidenza già evidenziata ieri: tanti esponenti politici (o loro parenti) che aderiscono alla formazione politica di Cassano hanno trovato posto nell’agenzia per il lavoro.

Della giovane Teresita Bufo si ricorda, a dicembre 2019, l’assunzione nella Barsa, la municipalizzata di Barletta, con la mansione di netturbino. I social restituiscono tante foto della 25enne barlettana ai concorsi di bellezza, mentre le cronache locali raccontano che a luglio 2020 la Barsa ne ha disposto il licenziamento per giusta causa: avrebbe abusato dei permessi ex legge 104. Poco dopo, tramite una società interinale, la dottoressa Bufo è entrata in Arpal, assegnata al centro per l’impiego di Corato. Il padre, nel frattempo ricandidato al consiglio comunale di Barletta, nei giorni scorsi ha annunciato che Puglia Popolare sosterrà il candidato sindaco del Pd. Nel frattempo, in parallelo al licenziamento dalla Barsa, Teresita Bufo è stata rinviata a giudizio per truffa aggravata ai danni dell'Inps: il processo davanti al Tribunale di Trani partirà il 17 maggio.

Anche a Bari, a marzo, Puglia Popolare ha costituito il suo gruppo. Ne fanno parte la capogruppo Francesca Ferri (eletta in una civica di centrodestra), Giuseppe Di Giorgio e Giuseppe Neviera. All’Arpal sono entrati come formatori i due figli di Di Giorgio (Annamaria, in direzione generale, e Pasquale detto Livio, «collaboratore mirato») e la figlia di Neviera, Gaia (al Centro per l’impiego di Rutigliano). Ma a Bari è ancora più particolare quanto avvenuto nel 5° Municipio, dove - anche grazie alla campagna acquisti di Cassano - il centrosinistra non ha più opposizione. Con Puglia Popolare sono passati la grillina Teresa Valerio e i meloniani Michele Piscopo e Alessandro Lapenna: l’accordo è stato suggellato con una foto nella sede dell’Arpal. Di Lapenna, candidato presidente per il centrodestra e cugino della moglie di Cassano, abbiamo detto ieri: contratto interinale. Stessa cosa è avvenuta per Piscopo: anche per lui contratto interinale, sempre a Bari. Entrambi, a febbraio, sono stati espulsi da Fratelli d’Italia.

Il direttore Cassano si è difeso dicendo che Epcpec è un «ente privato» e assume chi vuole, mentre la società interinale ha fatto regolari selezioni di cui il direttore generale non si è interessato. Ma Cassano ha detto che non poteva impedire ad esempio a suo cugino, Alessandro D’Ambrogio, di presentare il curriculum.

Ieri i formatori assunti da Epcpep-Ageform per prestare servizio in Arpal erano riuniti in assemblea. L’agenzia ha comunicato loro che il contratto di appalto (6 milioni l’anno) scadrà il 22 maggio e non verrà rinnovato. Dovrà essere la Regione adesso a occuparsi del futuro dei 140 formatori, che hanno la clausola sociale: l’argomento finirà sul tavolo della task force per l’occupazione. I formatori storici temono - con qualche ragione, visto ciò che è emerso - che l’inserimento nei ranghi di persone collegate alla politica induca la Regione a non rifinanziarne l’attività, con il rischio di rimanere senza lavoro. I 236 interinali, invece, termineranno il servizio alla fine della prossima settimana, senza possibilità di rinnovi: sono stati scelti attraverso una selezione lampo, pubblicata l’11 novembre e chiusa due giorni dopo: il requisito principale per partecipare era proprio sapere della selezione...

Arpal Puglia nel caos Parentopoli: spunta bando su misura per assumere parenti. Ma Tutolo attacca: «I politici assunti? Uno schiaffo ai disoccupati pugliesi». Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2022.

Michele Emiliano difende l’operato del direttore generale Massimo Cassano ma allo stesso tempo apre alla possibilità di affidare l’Arpal a un consiglio di amministrazione. La risposta del presidente della Regione sul tema della parentopoli nell’agenzia per il lavoro viene letta come un tentativo di mediare con il Pd, che ha depositato una proposta di legge per la decadenza di Cassano e che - non a caso - ha rinviato ogni decisione sul punto a martedì prossimo.

Emiliano ha preferito parlare di concorsi, che sono una questione diversa: «Come sempre in questi casi - ha detto Emiliano - ci sono delle ricorrenze, io me le ricordo per tutte le agenzie della Regione Puglia, me le ricordo in ogni situazione, noi stiamo cercando di fare in modo che ci sia la trasparenza e la regolarità più assoluta. Dopodiché non so se ci sono parentele, amicizie, connessioni di partito all’interno di questi concorsi. Credo che la cosa più importante sia rispettare il principio dei concorsi, in ogni caso ho visto anche che molti dei soggetti che avevano avuto contratti interinali non hanno superato il concorso pubblico, quindi questo mi dice che la legge funziona». Emiliano ha poi detto di non avere «cognizione» della proposta di legge firmata dal civico Antonio Tutolo e dai dem Fabiano Amati, Michele Mazzarano e Ruggiero Mennea. «C’è una discussione aperta - ha aggiunto Emiliano - sulla possibilità di costituire un consiglio di amministrazione dell’Arpal e poi di individuare un amministratore delegato o un direttore generale all’interno del consiglio. Nella fase fondativa abbiamo adottato per l’Arpal le regole che sono proprie anche di altre agenzie, non c’è nulla di male se si ritiene di inserire anche un consiglio di amministrazione nell’Arpal e se questo tranquillizzerà tutti quelli che si sentono inquietati dal fatto che obiettivamente abbiamo assunto tantissime persone». Infine, sulle assunzioni, un messaggio che va interpretato: «Anche in sanità stiamo assumendo migliaia e migliaia di persone. Anche lì non escludo che ci siano parenti di sindacalisti, di politici. Può essere, anche perché non esiste la regola che la parentela impedisca la partecipazione a un concorso pubblico».

Le decisioni sono rinviate a dopo Pasqua. Ma se si dovesse trovare l’accordo sull’istituzione di un cda, la difesa formale dell’operato di Cassano fatta da Emiliano non ne potrebbe impedire l’avvicendamento o la «sterilizzazione». Perché il malcontento del Pd sulla gestione dell’Arpal fa il paio con i mal di pancia più o meno espliciti del centrodestra. E con il voto segreto tutto può accadere.

«Non mi innamoro delle mie proposte - è il commento del consigliere Tutolo, primo firmatario della legge per la decadenza di Cassano -, ma quello che è accaduto in Arpal è offensivo per le decine di migliaia di disoccupati della Puglia. Se si vuole immaginare un nuovo modello di governance per l’agenzia, possiamo discuterne. Ciò che non è derogabile sono le competenze, perché chi guida l’Arpal non può essere un politico». Tutolo insiste sulla Parentopoli: «Quello che è accaduto - dice - è davvero brutto: una enorme schifezza. Cosa pensano di noi i disoccupati? Mi vergogno e chiedo scusa io ai pugliesi per quello che sta accadendo. L’Arpal doveva occuparsi di gestire gli uffici di collocamento ma è diventata l’ufficio di collocamento dei figli dei consiglieri comunali. I casi sono documentati. E non so come faccia Emiliano a definirli “ricorrenze”».

I formatori presi in Arpal attraverso l’ente Ecpep termineranno il servizio il 22 maggio, mentre per gli interinali la scadenza dei contratti è la prossima settimana. È tra questi circa 500 lavoratori che si concentra il maggior numero di politici e loro parenti, e forse anche per questo l’orientamento della Regione è di non concedere ulteriori proroghe. Ma sembrerebbe che l’Arpal abbia già aperto una porta secondaria per sistemarne alcuni. Il 3 marzo è stato infatti pubblicato un bando per assumere a tempo indeterminato 6 «orientatori specialisti», funzionari che (è scritto proprio nel bando) sono equivalenti allo «specialista in mercato e servizi per il lavoro». Per questo ultima figura, giusto cinque giorni dopo il nuovo bando, l’Arpal ha pubblicato la graduatoria del concorso bandito ad agosto 2020: contiene 178 vincitori e 90 idonei. Vista l’equivalenza tra le due figure, sarebbe stato più logico (e più economico) far scorrere la graduatoria già vigente e assumere come «orientatori» i primi sei idonei del concorso per «specialisti»: l’Arpal si è accorta di avere bisogno degli «orientatori» proprio cinque giorni prima che uscisse la graduatoria degli «specialisti», ed evidentemente nessuno si è reso conto che sarebbe bastato aspettare. Ma a guardare bene, tra i due bandi c’è una differenza non secondaria. Quello per gli orientatori, infatti, assegna fino a 30 punti ai titoli. E di questi, 15 punti sono riservati all’esperienza lavorativa. Ogni trimestre trascorso come formato- re in Arpal vale un punto. Se dunque gli interinali dovranno accontentarsi di uno o due punti, i formatori ex Epcpep ne avranno otto (quelli storici anche 15). E otto punti, in un concorso pubblico, sono un bel vantaggio.

IL BANDO. Arpal Puglia, a Bari c'è un altro concorso per aiutare i «politici». In palio 31 posti a tempo determinato, previsti punti in più per chi ha lavorato come interinale o formatore. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Aprile 2022.

C’è un bando dell’Arpal Puglia, appena scaduto, che mostra plasticamente il possibile percorso disegnato per consentire ai lavoratori interinali e ai formatori (i cui contratti sono in scadenza) di avere un posto stabile all’interno dell’agenzia per il lavoro. Si tratta, come è facile verificare, di una procedura assolutamente legittima, che consente a chi è stato selezionato con modalità discrezionali di avere una chance in più degli altri partecipanti ai concorsi pubblici.

Negli scorsi giorni è infatti scaduto il termine per partecipare al concorso per 31 posti di funzionari e impiegati a tempo determinato. Si tratta di uno di quei concorsi «semplificati» (previsti dalle nuove normative) in cui la selezione avviene per titoli e colloquio. Sui 70 punti complessivi per i titoli, quelli riservati ai «titoli di carriera» sono 40. E - proprio come per l’altro concorso di cui la «Gazzetta» ha parlato ieri - anche in questo caso c’è un consistente premio: 2 punti per ogni bimestre, pari a 12 punti l’anno, per chi ha già lavorato in Arpal «con contratti di lavoro flessibile (a tempo determinato, di formazione e lavoro, di somministrazione, di collaborazione)», 3 punti l’anno per chi ha fatto il formatore nelle società di formazione professionale.

Negli scorsi giorni la «Gazzetta» ha mostrato la presenza, negli elenchi di interinali e formatori, di consiglieri comunali e municipali (e relativi parenti) che aderiscono a Puglia Popolare, la formazione politica del direttore generale di Arpal, Massimo Cassano. Situazioni che il presidente della Regione ha definito «ricorrenze» (coincidenze), pur mostrandosi disponibile ad affidare l’agenzia a un consiglio di amministrazione che «sterilizzi» il ruolo di Cassano. Interinali e formatori possono legittimamente partecipare ai bandi dell’Arpal, come quello per i 31 posti, e infatti lo hanno fatto (le liste degli ammessi sono pubblicate su Internet). Tra i concorrenti (ripetiamo: legittimamente) ammessi al concorso ci sono ad esempio Teresa Rita Bufi, figlia del consigliere comunale di Barletta che ha aderito alla lista di Cassano e ha poi fatto cadere il sindaco Cannito, o anche Simona Vitucci, consigliere comunale di Modugno e segretaria provinciale (ex, secondo Cassano) di Puglia Popolare, o anche Cosimo Boccasile, consigliere del 1° Municipio di Bari, altro fedelissimo di Cassano.

Il concorso avrà il suo iter, senza ombra di dubbio regolare, con la commissione che sarà individuata dopo la girandola di rinunce degli ultimi giorni. Sono in palio contratti di 18 mesi. Ma mentre interinali e formatori stanno per tornare a casa, chi entrerà a tempo determinato grazie a questo concorso potrà poi essere prorogato e (dopo 36 mesi) anche stabilizzato. E chissà se quei punti in graduatoria conquistati grazie ai titoli di carriera faranno la differenza nella conquista dell’agognato posto di lavoro. 

·        Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.

Foggia, tangenti fino a 40mila euro per superare concorso in Aeronautica: perquisizioni. Due i sottoufficiali - secondo le indagini - che avrebbero fatto da intermediari per il superamento del concorso. L'indagine sarebbe partita dopo la denuncia di una persona che avrebbe pagato affinché il figlio lo superasse. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Novembre 2022.

La Procura di Foggia ha disposto una mezza dozzina di perquisizioni in abitazioni private e uffici nell’ambito di un’indagine a carico di 15 persone - privati e personale in servizio all’aeroporto militare di Amendola (Foggia) - accusate di corruzione. L’inchiesta è partita nel maggio 2021, anche con intercettazioni, ed avrebbe accertato che alcuni genitori avrebbero pagato per far superare il concorso ai propri figli come volontari in ferma provvisoria della durata di uno o quattro anni. Secondo l’ipotesi accusatoria, le somme pagate a sottoufficiali dell’Aeronautica militare andavano da alcune centinaia di euro fino a 30-40mila euro. Due i sottoufficiali - secondo le indagini - che avrebbero fatto da intermediari per il superamento del concorso. L'indagine sarebbe partita dopo la denuncia di una persona che avrebbe pagato affinché il figlio superasse il concorso.

La nota dell'Aeronautica: fiducia nei magistrati

In merito alle notizie emerse nelle ultime ore circa le perquisizioni disposte dalla Procura di Foggia nei confronti di privati e personale in servizio all'aeroporto militare di Amendola (Foggia) accusati di corruzione, l'Aeronautica Militare. «Non entrando nel merito dello specifico ambito di indagine della polizia giudiziaria sui fatti rappresentati, esprime piena fiducia nella Magistratura e massima collaborazione agli organi inquirenti, per fare piena luce sulle eventuali responsabilità individuali di appartenenti all'Istituzione, in fatti che contrastano con l'impegno quotidiano dell' Aeronautica Militare al servizio del Paese a difesa del merito, della legalità e della sicurezza collettiva». 

Concorsi truccati per assunzioni nelle Forze dell’Ordine, 70 indagati. 70 persone, molte delle quali appartenenti a Polizia, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria e Vigili del fuoco, sono indagate nell'inchiesta avviata dalla Procura dell'Aquila sui concorsi truccati per le assunzioni nelle forze dell'ordine. Redazione il 04 Aprile 2022 su ilcapoluogo.it. 

Concorsi truccati per le assunzioni nelle forze dell’ordine: 70 indagati.

Settanta persone, molte delle quali appartenenti alle forze di polizia, (Polizia di Stato, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria e Vigili del fuoco) sono indagate nell’inchiesta avviata dalla Procura dell’Aquila sui concorsi truccati per essere assunti come poliziotti, finanzieri, agenti penitenziari e vigili del fuoco.

Dalle indagini condotte dal Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza dell’Aquila, guidate dal colonnello Aurelio Soldano, già comandante delle compagnie di Ascoli Piceno e di Sulmona e coordinate dal pubblico ministero Stefano Gallo, due sodalizi criminali – il primo di stanza nel napoletano e l’altro nel casertano – falsificavano documenti e si sostituivano ai candidati reali per sostenere le prove concorsuali, in cambio della somma di 10 mila euro per ogni candidato.

Tale condotta illecita ha consentito l’assunzione di diversi candidati che hanno preso servizio in diverse forze dell’Ordine: Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Vigili del fuoco.

Tra gli indagati ci sarebbero anche graduati delle varie forze di polizia e dei vigili del fuoco. Le indagini, che si sono allargate in tutto il territorio italiano, sono partite dall’attività investigativa dei finanzieri aquilani e vanno avanti con probabili ulteriori sviluppi.

Gli anni presi in considerazione vanno dal 2018 fino agli ultimi concorsi del 2021. Le ipotesi contestate a vario titolo ai 70 indagati sono falso, truffa e sostituzione di persone.

"Obeso". Ma per i giudici può arruolarsi come carabiniere. Ignazio Riccio il 23 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il Tar ha annullato il giudizio di inidoneità del 19enne che sogna di entrare nell’Arma. Adesso potrà indossare la divisa.

Alla fine, dopo due anni e mezzo di battaglie legali, è riuscito a convincere i giudici: non c’era alcun impedimento valido che giustificasse l’estromissione dal concorso per diventare carabiniere di un giovane siciliano, scartato perché giudicato obeso. Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha annullato il giudizio di inidoneità del 19enne che sogna di entrare nell’Arma. I suoi legali avevano inoltrato un ricorso giurisdizionale contro il ministero della Difesa e il comando generale dei carabinieri per impugnare il provvedimento dell'8 novembre 2019 con cui il giovane era stato escluso dal concorso per l'arruolamento, in quanto ritenuto in sovrappeso.

Gli avvocati del ragazzo sono riusciti a produrre le certificazioni sanitarie necessarie per attestare la piena sussistenza dei requisiti per l'arruolamento del loro assistito. A quel punto, il Tar ha potuto disporre una verifica, in contraddittorio tra le parti, incaricando la direzione centrale di sanità del ministero dell'Interno. Al termine del controllo, in particolare dopo il test bio-impedenziometrico, ovvero il metodo di misura della composizione corporea in vivo, soprattutto della massa muscolare e della massa grassa, la commissione sanitaria ha attribuito al giovane candidato un profilo sanitario perfettamente compatibile con l'iter concorsuale.

I giudici del Tribunale amministrativo regionale hanno accettato l'istanza cautelare, disponendo l'ammissione, con riserva, alle ulteriori fasi concorsuali e ponendo a carico dell'Arma il pagamento delle spese di verificazione. Nel frattempo era stata pubblicata anche la graduatoria di merito, elenco impugnato per "illegittimità derivata". Il 19enne ha potuto effettuare ulteriori accertamenti ed è stato giudicato idoneo. Quindi il Tar del Lazio ha recepito il ricorso ritenendo fondate le censure evidenziate dai legali e in linea con l'orientamento giurisprudenziale secondo cui "le valutazioni effettuate in sede di accertamento dei requisiti psico-fisici - seppure costituiscano tipica manifestazione di discrezionalità tecnica amministrativa - non sfuggono al sindacato giurisdizionale, laddove siano in esse ravvisabili ipotesi di eccesso di potere per travisamento dei fatti ed illogicità".

Concorsopoli: raccomandazioni per vigile del fuoco e polizia. Mazzetta fino a 5mila euro. 14 misure cautelari. Sebastiano Adduso il 29 Marzo 2022 su sicilia.vivicentro.it.

Concorsopoli: raccomandazioni e mazzetta nei concorsi pubblici.

ALCAMO TP) “SPONSORIZZAZIONI” PER I CONCORSI IN POLIZIA E VIGILI DEL FUOCO. MISURE CAUTELARI PER 14 PERSONE

I Carabinieri della Compagnia di Alcamo (TP) hanno dato esecuzione ad un’ordinanza applicativa di misure cautelari emessa dal Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Trapani su richiesta della locale Procura della Repubblica nei confronti di 14 persone (1 in carcere, 3 ai domiciliari e 10 sottoposti all’obbligo di dimora) per cui si è ritenuto sussistano gravi indizi di colpevolezza, a vario titolo, per i reati di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, traffico di influenze illecite e abuso d’ufficio.

LE INDAGINI

L’indagine, avviata dai Carabinieri nel giugno 2020, prende le mosse da pregresse risultanze investigative acquisite dalla Sezione Forestale presso la Procura di Trapani su presunti episodi corruttivi per il superamento delle prove d’esame (svolte tra il 2017 e il 2018) di alcuni concorsi pubblici.

Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Pipitone Giuseppe direttore ginnico sportivo e vice dirigente del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, sfruttando sia le proprie conoscenze all’interno delle amministrazione pubbliche che il fatto di essere stato nominato in una delle sottocommissioni d’esame per le prove psico-motorie, si sarebbe impegnato a “sponsorizzare” alcuni candidati nelle diverse prove concorsuali, nonché a preparare fisicamente gli stessi, a fronte della promessa e successiva dazione di denaro (fino a € 3.500 a candidato per un posto nei vigili del fuoco e € 5000 nella polizia).

In sintesi, secondo l’ipotesi accusatoria, il Pipitone (destinatario della misura restrittiva in carcere) avrebbe celato dietro un’apparente scuola di preparazione per concorsi, un vero e proprio meccanismo illecito di collocamento nella pubblica amministrazione avvalendosi dei propri contatti con soggetti che rivestivano ruoli essenziali nelle procedure concorsuali in vari corpi dello Stato, in primis quello di appartenenza.

Tra i soggetti che, a vario titolo, avrebbero contribuito a falsare i concorsi, risultano complessivamente 10 dipendenti di diversi Corpi dello Stato, tra cui un Ispettore dei Vigili del Fuoco (poi sospeso dal servizio per altro procedimento analogo iscritto presso la Procura di Benevento), due poliziotti (quest’ultimi rispettivamente sottoposti alle misure cautelari degli arresti domiciliari e dell’obbligo di dimora dai colleghi della Squadra Mobile della Questura di Trapani) e gli stessi presunti corruttori, risultati vincitori di concorso grazie alle ipotizzate “sponsorizzazioni”.

Le indagini dei Carabinieri proseguono al fine di raccogliere ulteriori riscontri investigativi.

Adduso Sebastiano

·        Concorso truccato nella sanità.

Alla Asl Bat mancano medici: assunti figlio e fidanzata del direttore sanitario. «Non si trova personale, non ho danneggiato nessuno» ha dichiarato Scelzi. Intanto un avviso pubblico è stato lanciato lo stesso giorno della laurea del giovane professionista 25enne di Barletta. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Ottobre 2022.

Un padre che prende carta e penna per scrivere una lettera al figlio è ormai qualcosa di desueto. Ma cosa accade se il padre è il direttore sanitario di una Asl, e il figlio è un medico neoassunto attraverso un avviso pubblico «estivo»? In Puglia, dove si fa solo finta di controllare ciò che avviene nelle Asl, è considerato assolutamente normale. C’è una disposizione di servizio con cui il direttore sanitario della Asl Bat, Alessandro Scelzi, scrive al dottor Luca Scelzi, per informarlo che dal 1° agosto dovrà prendere servizio al Pronto soccorso dell’ospedale di Barletta, uno dei tanti reparti a corto di medici. Talmente a corto che insieme a Luca è stata assunta anche la fidanzata, pure lei neoassunta. Tutto perfettamente legittimo.

Nello scorso marzo il direttore generale Tiziana Dimatteo ha lanciato un avviso pubblico per cercare 10 professionisti disponibili a coprire, fino al 31 dicembre, i posti vacanti...

Quarta Repubblica, la denuncia dell'ex direttrice della Asl di Frosinone: "Primari nominati senza concorso". Il Tempo il 13 settembre 2022

Nicola Porro svela un’altra parte dell’inchiesta di “Quarta Repubblica” sul sistema di potere costruito dal Pd nel territorio di Frosinone nell’ambito della sanità. Un altro scandalo che ha colpito il Partito democratico dopo il caso di Albino Ruberti - l'ex capo di gabinetto del sindaco di Roma Roberto Gualtieri dimessosi dopo il video-scandalo - che ha portato anche alla rinuncia della candidatura di Francesco De Angelis, ex europarlamentare Pd, alle prossime elezioni del 25 settembre.

In un’intervista a Quarta Repubblica Isabella Mastrobuono, ex direttrice generale della Asl di Frosinone dal 2014 al 2015, denuncia di essere stata sollevata dall’incarico ingiustamente “perché non rispondeva a scopi diversi dall'assistenza ai cittadini ma erano scopi della politica locale”. Ma durante l’intervista la Mastrobuono rivela come venivano nominati i primari della Asl. “Quando sono arrivata in molte unità operative i direttori non erano stati nominati con concorso” spiega Mastrobuono. Una circostanza prevista dalla legge solo per un periodo di sei mesi, rinnovabili di altri 6 attraverso l’istituzione di un direttore facente funzione, cioè primari provvisori nominati senza concorso e selezionati all’interno della Asl.

“Sarebbe previsto dalla legge per un periodo massimo di 12 mesi ma invece ci sono casi di persone rimaste in quei posti per 7 o 10 anni” rivela Giuseppe Tomasso l’avvocato del sindacato Fials. L’ex direttrice fa chiarezza su uno dei motivi chiave del suo allontanamento. “Io con l’atto aziendale ho provato a rimettere tutto in discussione. Grazie a quell’atto si rifanno tutti i concorsi per i primariati, si stabilisce il fabbisogno di personale, vengono riorganizzati i servizi. Si tratta di un atto scomodo perché avrebbe messo in discussione persone nominate” dice Mastrobuono incalzata dalla giornalista. Dopo di lei, nel 2016 il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti nomina Luigi Macchitella nuovo commissario straordinario della Asl di Frosinone dove è rimasto fino al 2019. Alcuni dei concorsi di quel periodo sono finiti al centro di esposti alla Procura.

“Sono stati fatti concorsi dove sono stati sollevati dubbi sui sorteggi dei componenti delle commissioni. Nel senso che avevano sempre un punto di contatto con Macchitella” spiega l’avvocato Tomasso. L’ex commissario Macchitella, raggiunto al telefono da Quarta Repubblica, dice di non aver effettuato nessun controllo sui componenti delle commissioni e ammette di conoscere alcuni di loro poiché facevano parte del suo ambiente di lavoro. Per l’ex commissario quindi è una circostanza che non dovrebbe meravigliare, visti i 20 anni che ha trascorso nel settore sanitario. Inoltre l’ex commissario ha dichiarato di non aver mai ricevuto pressioni politiche.

Nell’inchiesta vengono svelati alcuni nomi di responsabili di diversi reparti della Asl che sono stati candidati o consiglieri comunali per il Pd  insieme a dei parenti. “Anche per quanto riguarda le consulenze esterne affidate dalla Asl ci sono dei dubbi riguardo alle assegnazioni di consulenze esterne affidate a professionisti sempre riconducibili allo stesso partito politico” denuncia l’avvocato Tomasso. “Guarda caso sono sempre del Pd. Ho perplessità riguardo a tutta la politica” chiosa Rosa Roccatani, dell’Ugl sanità Frosinone. “Non è una questione di appartenenza politica, è che ricorrono sempre gli stessi nominativi”  continua Tomassi riferendosi agli incarichi esterni affidati ad alcuni avvocati vicini al partito democratico. Anche l’Anac, l’Autorità Nazionale Anti Corruzione, nel 2018 aveva acceso un faro riguardo l’assegnazione degli incarichi nella Asl di Frosinone certificando ingiustificate rendite di posizione a favore di un ristretto numero di professionisti a discapito dei principi di imparzialità e trasparenza.

·        Concorso scuola truccato.

Nei Concorsi Pubblici ci sono due tipi di prove scritte:

Quella con risposte uniche e motivate, la cui correzione è, spesso, lunga, farraginosa e fatta da commissioni clientelari, familistici e incompetenti che non correggono o correggono male non avendo il tempo necessario o la preparazione specifica e che promuovono secondo fortuna o raccomandazione. 

Quella con domande multiple, spesso, incoerenti con la competenza richiesta, ma che garantiscono velocità di correzione e uniformità di giudizio.

Chi è abituato all’aiutino disdegna i quiz, in cui non si può intervenire, se non conoscendoli in anticipo.

Scuola, maxi concorso per i presidi: 13 funzionari del ministero inquinarono le prove d’esame. Storia di Ilaria Sacchettoni su Il  Corriere della Sera il 24 novembre 2022.  

Voti assegnati ancor prima della prova e verbali confezionati a piacere. Ma anche falsi attestati di presenza dei commissari, in tutt’altro affacendati tranne che nella correzione dei compiti dei candidati. Il concorsone che, nel 2019, avrebbe dovuto reclutare 2.146 dirigenti scolastici in tutta Italia sfocia in una maxi indagine per falso e truffa. Tredici funzionari ministeriali, membri delle commissioni che avrebbero dovuto certificare il corretto svolgimento delle procedure, sono stati indagati per falso ideologico e truffa. I ricorsi dei candidati non avevano portato all’invalidazione della prova (il Consiglio di Stato aveva bocciato una richiesta in tal senso) ma oggi, con l’avviso di conclusione delle indagini penali in mano, i candidati che ritengano di essere stati penalizzati, come accaduto in concorsi precedenti, possono riaprire la questione.

Presidenti e segretari delle commissioni di esame alcuni dei quali dell’Istituto tecnico Cristoforo Colombo di via Panisperna o dell’Istituto Leonardo Da Vinci di via Palestro, Gli accertamenti delle pm Laura Condemi e Alessandra Fini hanno riguardato essenzialmente l’accesso alla piattaforma Cineca, il sistema informatico che convalidava per così dire tutte le operazioni d’esame. Ebbene, mentre nei verbali i funzionari «davano atto di aver proceduto all’accesso collegiale sulla piattaforma Cineca» nessun accesso risulta dai file di log che gli specialisti hanno analizzato. Il dubbio dei magistrati è che, attraverso questa manipolazione dei verbali si sia potuto pilotare il test a vantaggio di qualcuno.

Le divergenze fra atti ufficiali e accessi al sistema effettuati appaiono in qualche caso clamorose come si ricava dall’avviso di conclusione delle indagin i: «Nei verbali ...(i funzionari ndr) davano atto di aver preceduto al termine delle operazioni di correzione della prova scritta alla validazione del voto attribuito al candidato attraverso la piattaforma riservata mentre l’inserimento di voti risulta effettuato in giorni diversi nei quali peraltro non risulta redatto alcun verbale». Tra gli indagati anc he un avvocato dello Stato e un docente dell’Università di Napoli. Tra documenti compilati a caso si sarebbe addirittura arrivati a coprire l’assenza di una commissaria che «da verbale numero 6 risultava impegnata nelle operazioni di correzione» mentre in realtà era altrove, più precisamente negli uffici della Corte dei Conti in via Baiamonti, «da dove usciva come attestato dalla timbratura alle ore 15.01». Ossia mezz’ora dopo la presunta correzione dei compiti. In questo caso la Procura contesta la truffa e chiama in causa la stessa commissaria, più presidente e segretario della quattordicesima sottocommissione per averle «procurato un ingiusto profitto da quantificare ai danni dell’amministrazione Miur».

Commentano gli avvocati Giuseppe Murone e Pierpaolo Dell’Anno: « É la prima risposta di legalità Grazie al certosino lavoro dei magistrati potranno avere presto risposte concrete le centinaia di onesti candidati da noi patrocinati. Alla fine, perseveranza e lavoro pagano: gli stessi partecipanti al concorso aspettano ora una pronta risposta dell’autorità amministrativa». Mentre il loro collega amministrativista, Domenico Naso si dice pronto a presentare «una richiesta di revocazione delle sentenze passate».

Estratto dell'articolo di Andrea Ossino per repubblica.it il 24 novembre 2022. 

Il "concorso nazionale, per titoli ed esami, finalizzato al reclutamento di dirigenti scolastici presso le istituzioni scolastiche statali" sarebbe dovuto servire a rimediare 2.416 presidi in un momento dove gli organici erano carenti. Ma la selezione del 2017 ha prodotto anche una serie di cause civili e penali che hanno riscosso parecchio clamore. L’ultima, in ordine di tempo, è anche la più importante. 

La procura di Roma ha infatti terminato le indagini e accusa 13 persone di falso. Al centro dell'inchiesta ci sono i segretari e i presidenti di una serie di commissioni nominate dal Miur. Le commissioni 13,14,15,18, 19 e 20 presentano infatti diverse anomalie. 

C’è chi ha firmato verbali senza neanche essere presente, chi avrebbe dato "atto di aver proceduto all’accesso collegiale sulla piattaforma Cineca mentre non risulta effettuato alcun accesso" e chi diceva di esse impegnata nelle operazioni di correzione e invece era ancora negli uffici della Corte dei conti, come dimostra l’orario narrato dal badge dell’indagata. [...] 

Dopo una prima selezione "per titoli", il 18 ottobre si era tenuta la prima delle due prove di esame, quella scritta: "avrebbe dovuto essere unica su tutto il territorio nazionale e si sarebbe dovuta svolgere in un'unica data in una o più regioni", si legge nell’esposto presentato da 271 aspiranti presidi. L’indagine della procura di Roma ha poi fatto il resto, dimostrando che 13 persone avrebbero mentito. E adesso rischiano il processo. [...]

«Io, docente precaria, rimasta senza lavoro per colpa di un baco nel sistema informatico del ministero». Valeria Cappellari, docente di sostegno a Genova, su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022.

Una insegnante di sostegno racconta la sua vicenda kafkiana: «Il sistema informatico del ministero non mi ha permesso di inserire le tre annualità di sostegno che mi avrebbero dato accesso alle graduatorie provinciali. Pare ci sia un’incompatibilità con il sistema del Mac. Risultato: ho due figlie e non so ancora se e quando potrò lavorare» 

Sono una docente precaria e vorrei raccontare la mia storia. Durante l’aggiornamento delle Graduatorie, nonostante non avessi mai avuto problemi in precedenza e conoscessi la procedura, ho incontrato una serie infinita di intoppi perché il mio account, diciamo così, non funzionava e si bloccava. Tentavo di flaggare le caselle di mio interesse e mi compariva il cerchietto con la barra. Disorientata ho chiesto aiuto ad un collega e abbiamo ritentato più volte la procedura entrando dal suo computer. Poi con un altro browser, ecc. Esasperata ho contattato direttamente il sindacato che in questi anni mi ha aiutato quando ho avuto bisogno. Via telefono mi hanno chiesto di entrare nel mio account effettuando tutta la procedura Spid e domandandomi una serie di dettagli che a questo punto non ricordo più. Una volta entrati mi hanno comunicato che effettivamente il sistema non rispondeva e mi hanno consigliato di ritentare fino alla fine delle operazioni sostenendo che potesse esserci un problema di traffico e aggiungendo in ultimo che, qualora le cose non fossero andate a buon fine, avremmo fatto presente la cosa e fatto eventuale ricorso. Io mi sono fidata. La procedura non è andata a buon fine, non permettendomi di inserire le tre annualità di sostegno da me effettivamente prestate e verificabili dal report stesso della procedura, impedendomi quindi l’accesso alla graduatoria di II fascia.

Così, immediatamente, ho segnalato la cosa. Al sindacato e all’Ufficio scolastico regionale (Usr). La risposta dell’Usr, trasmessami dalla Dott.ssa X telefonicamente è stata estremamente semplice e non problematizzante. La Dott.ssa, infatti, mi disse semplicemente di aspettare la nomina delle scuole Polo che si sarebbero occupate della verifica materiale delle Graduatorie e di comunicare loro la mia problematica e chiederne la correzione manuale. Poi, per sicurezza, mi disse di inviare mail ordinarie e Pec ai soliti indirizzi dell’Usr. In data 9 giugno ho inviato le suddette Pec. Pec alle quali non ho ad oggi ricevuto risposta. Negli stessi giorni e successivamente ho più volte contattato il Sindacato. Mi chiedevo se non fosse più sicuro denunciare immediatamente la situazione tramite loro, ma sono stata fermata. Il Sindacato sosteneva che non ci fossero ancora gli estremi per segnalare ed eventualmente ricorrere. Dovevo aspettare la nomina delle scuole Polo e la pubblicazione delle Graduatorie. Sono partita a fine Luglio. Nessuna scuola Polo era stata nominata. Sono rientrata a metà agosto con l’angoscia di compilare le preferenze e stilare nuovamente un elenco che mi permettesse poi di essere realmente operativa, considerando che vivo già in una zona non proprio comoda. Ho studiato tutto minuziosamente, ma, nuovamente il sistema si è bloccato e non rispondeva. Morale, sono riuscita ad inserire solo una parte delle scuole che avrei voluto. Avrei inserito a quel punto anche i distretti per disperazione, ma il sistema non me lo consentiva. Altre Pec. Nessuna risposta, neanche aperte. Telefono. Mi rimbalzano dalla Dott.ssa X, alla Y, alla Z che sostengono di non essere loro le responsabili e mi assicurano che informeranno immediatamente l’incaricato. Nessuna risposta. Altre telefonate a vuoto.

Nel frattempo escono le graduatorie di Sostegno e poi le prime nomine da Graduatorie provinciali per Supplenze (GPS) e io non ci sono. Ricontatto il Sindacato mettendolo più alle strette. Avete intenzione di seguirmi? Dicono di sì. Dicono che le nomine sono corrette e sono stata già superata. Mi dicono che andranno direttamente in Usr. Poi non si fanno più sentire. Mi faccio risentire io e mi danno la mail della Dott.ssa W. Altra Pec e finalmente una risposta. Siamo al 31/8. Risposta assolutamente desolante sia nei modi che nel contenuto. Linguaggio che non si può commentare. Quello che emerge è che sostanzialmente io sarei un’incapace e che ho compilato male la domanda. Quindi sono solo fatti miei. Rispondo e spiego nuovamente la situazione. Nessuna risposta. Mi presento fisicamente. Mi riceve direttamente, ma casualmente, la Dott.ssa W che dice di aver capito tutto, la mia seconda mail era chiarissima - la Dott.ssa X non si capisce come mai mi abbia parlato di Scuole Polo, follia pura! Aveva capito tutto - ma non mi ha risposto - e procede di fronte a me a contattare l’unica persona che, mi dice, può fare qualcosa. Mi assicura che questa persona risponde tempestivamente. È venerdì, ma io il lunedì mattina mi ripresento nuovamente e sollecito. La Dott.ssa W contatta nuovamente la suddetta unica persona e mi dice di non tornare più, mi avviserà Lei immediatamente appena riceverà una risposta.

Sollecito quindi, ancora una, volta il Sindacato che finalmente pare inviare una Pec. Chiedo copia della Pec, perché inizio a non fidarmi più. Giovedì ancora nessuna risposta dall’Usr. Mando una nuova Pec io, personalmente, ancora. E arriva la risposta, che era già arrivata il lunedì, ma che non mi avevano girato perché anche se invitata a non ripresentarmi, rassicurata sul fatto che immediatamente mi avrebbero avvisato, poi se ne sono dimenticati. La risposta del Super incaricato del sistema informatico del Miur è imbarazzante. Non dice nulla, dice sempre la stessa cosa, e cioè che io ho sbagliato. Non importa se io ho segnalato un malfunzionamento. Sono io che sono un’incapace ed è evidente che il Super incaricato ha solo aperto il Pdf presente sul sito di Istanze online. Esasperata vorrei nuovamente rispondere. Giro la mail ricevuta al Sindacato, chiedendo un riscontro. Nessuna risposta.

A quel punto decido di telefonare ad un Altro sindacato ed ecco cosa mi sento dire dopo due parole. Lei ha un Mac? Ebbene si. Ho un Mac. Verba volant, ma l’Altro sindacato sostiene di avere avuto un numero molto elevato di segnalazioni di malfunzionamenti con il Mac e dice che il Ministero lo sa, ma non è interessato. Dice che il Ministero conosce la potenziale e reale incompatibilità del sistema di Istanze online con il sistema operativo Mac, ma non importa. Dice che se io fossi stata in contatto con loro mi avrebbero indicato immediatamente quali tentativi fare. In ultimo cambiare PC. E poi aggiunge che dubita che il Sindacato sia entrato nel mio account su Istanze online per verificare la correttezza della procedura e mi indica il modo per verificare. Verifico. Nessun accesso. Mi hanno raccontato una balla. Mi hanno raccontato una balla al Sindacato. La Dott.ssa X mi ha raccontato una balla, magari credendoci Lei stessa. Nessuna risposta alle mie Pec dal 9 giugno in avanti. La centralinista mi ha indicato persone sbagliate all’interno dell’USR. Ecc. ecc. Ma di chi ci si può fidare? L’Altro sindacato ora mi racconta altre storie… ma la verità dove sta? L’unica verità al momento è che ho due figlie e non se quest’anno lavorerò e come.

La beffa del concorso ordinario. «Io, promosso a settembre solo per uno sbaglio del Miur». Marco Ricucci, Docente di italiano e latino al Liceo scientifico Leonardo di Milano e saggista, su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022

Il ministero ha riconosciuto che nessuna delle 4 risposte possibili alla domanda 31 del quiz per prof di italiano e storia alle medie era esatta. E così posso passare col punteggio minimo 

Come in ogni soap-opera che si rispetti, c’è sempre il colpo di scena, anche per il concorso ordinario 2020 che è stato ribattezzato dai più parti «concorso-gratta-e-vinci»: oggi ho scoperto di aver superato lo scritto grazie all’ammissione di un «errore» del Ministero per la classe di concorso A022 (italiano, storia, geografia) alla scuola media, in cui ho insegnato per 10 anni da abilitato e felicemente arruolato nel 2014. Ebbene, io affrontai per il gusto personale il concorso ordinario che è come la fenice, risorge una tantum, ma questa volta, per velocizzare la procedura farraginosa di un meccanismo divenuto obsoleto, l’escamotage è presto fatto dall’estro in cimento di qualche funzionario ministeriale: via le domande aperte, dove bisogna dimostrare anche di saper scrivere in lingua italiana, ma 50 domande con quattro risposte. Il concorso così congegnato, secondo gli stereotipi ancora presenti oggi nel nostro Paese, si presenta senza dubbio come un bell’affare per un posto fisso, part-time assicurato, 3 mesi di vacanze spalmate durante l’anno scolastico, una retribuzione tra le più basse d’Europa (occidentale), che però corrispondono o a un superlavoro nascosto oppure a un dolce-far-niente.

Nella scuola italiana non c’è carriera ma si è tutti uguali, ma non troppo: l’Europa, per sganciare i soldi del PNRR, ci chiede di inventarci la figura del «docente esperto» che, dopo 9 anni di formazione specialistica, se supererà gli esami intermedi, potrà vantare questo titolo, avere un aumento di stipendio modesto, ma continuerà a insegnare senza mettere a frutto per la comunità scolastica quanto appreso. E allora cosa succede? Nel concorso 2020 ci sono anche i “miracolati” come me: ho superato la selezione scritta con il minimo del punteggio richiesto (70/100, ogni domanda azzeccata- non dico corretta!- valeva 2 punti), non perché abbia studiato in modo serio e costante, ma grazie a un «errore» madornale di chi ha confezionato batterie di test a risposta multipla pagato a cottimo. Non ho studiato, sono già di ruolo. Galeotto fu il quesito numero 31. Il Ministero della Pubblica Istruzione, dopo aver idealmente chiamato alla lavagna l’aspirante docente, lo interrogava: «Quale delle seguenti Agenzie specializzate non appartiene all’Organizzazione delle Nazioni Unite?». Il povero docente, pur di sedere sul seggio tanto ambito da migliaia di «posti-statalisti», scrutava meditabondo le quattro opzioni:

[a] Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico;

[b] Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura;

[c] Fondo Monetario Internazionale;

[d] Organizzazione Mondiale della Sanità.

Non sapendo la risposta, mea maxima culpa, ricordo di aver usato la strategia candidamente confessata da alcuni miei studenti quando uso il format per i test strutturati di grammatica latina: Ambarabà Ciccì Coccò e voilà la risposta viene scelta dal Fato. Ma qualsiasi risposta avessi dato al fatidico quesito 31, come ho scoperto ieri casualmente, nessuna delle quattro opzioni poteva essere corretta, in quanto tutte e quattro le risposte sono errate!

Perciò, grazie a questo madornale granchio, secondo una metafora appropriata, preso da chi ha fatto il quesito ed evidenziato dalla Commissione Scientifica messa in piedi dal Ministero in fretta e furia dopo la legittima rivolta dei concorrenti, potrò fare il colloquio orale. Al concorso-ordinario-gratta-e-vinci migliaia di aspiranti docenti, giovani e vecchi, hanno partecipato con l’ambizione di un impiego statale, per via di una rara configurazione astrale: pensionamenti di massa del corpo docente, che è il più anziano del mondo, grazie alle varie finestre pensionistiche, aperte dal Governo, per poter scappare da una scuola che sta ancora cercando una propria identità e missione nella società del terzo millennio. Nessuno di questi concorrenti al quiz concorsuale, «crocettatori» telematici nello stile dell’INVALSI, ha avuto una formazione specifica per imparare a fare il professore, a differenza, ad esempio, di chi ha frequentato la SISS e il TFA, che erano corsi post lauream con attività didattiche e tirocinio in classe. Nessuno - è bene chiarirlo - mette in discussione la loro preparazione sui contenuti, ma non questi non bastano più nella scuola di oggi, dove il modello nozionistico-trasmissivo non ha più presa cognitivamente sugli adolescenti di oggi. Siamo tutti d’accordo?

Eppure qualcosa sta cambiando: effetto benefico dell’Europa? E’ stata finalmente approvata la legge che istituisce un percorso complessivo per la formazione inziale dei docenti di medie e superiori. Proprio oggi, presso l’Auditorium della Fondazione Marcianum di Venezia, si terrà in modalità ibrida, in presenza e online, il seminario «Lauree e abilitazione all’insegnamento dopo la L. 79/202», organizzato da Edizioni Studium, la rivista Nuova Secondaria e la Fondazione Marcianum. L’occasione è data dall’ uscita del libro «Lauree e abilitazioni all’insegnamento. Analisi del presente, tracce di futuro» (a cura di Giuseppe Bertagna e Francesco Magni, Edizioni Studium, 2022). Da questa sinergia, tra mondo accademico e mondo della scuola, scaturirà la figura di un docente formato: le supplenze brevi o lunghe, nelle quali si è buttati in classe come un gladiatore alle prime armi nell’arena, temprano certamente, dando l’esperienza concreta, ma, data la complessità del mondo di oggi, serve anche un solido impianto teorico-concettuale legato alla didattica, oltre che i contenuti di ogni singola disciplina. Se cambierà qualcosa, lo vedremo nella prossima puntata.

Docente di italiano e latino al Liceo scientifico Leonardo di Milano e saggista

Gli elenchi non sono stati pubblicati. E tra quiz errati e ritardi negli orali i docenti non di ruolo ancora aspettano di conoscere il loro destino. Mentre le cattedre restano vuote. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 2 Agosto 2022.

Ridurre il precariato per dare stabilità alla scuola. Nelle intenzioni, era questo l’obiettivo del concorso per reclutare docenti da destinare ai posti comuni e di sostegno della scuola secondaria di I e di II grado, ovvero medie e superiori. Ma gli errori trovati nelle prove scritte, i ritardi nello svolgimento degli orali e le difficoltà nel comporre le commissioni, hanno fatto sì che per alcune classi di concorso non siano ancora state pubblicate le graduatorie. Così, anche chi ha superato i test resta in attesa un altro anno e la continuità didattica per gli studenti passa, ancora una volta, in secondo piano.

«Oltre il danno anche la beffa», spiega Ivan Corrado trentenne, laureato in Storia e filosofia, che ha partecipato al concorso per la classe A19 in Campania. «Per come stanno adesso le cose, non solo non sarò di ruolo per l’anno 2022/2023 ma neppure ho potuto sciogliere la riserva per essere inserito in prima fascia, tra gli abilitati. Con il risultato che, nonostante abbia superato tutte le prove del concorso, mi ritrovo esattamente come un anno fa: con l’impossibilità di lavorare perché, avendo poca esperienza, sono tra gli ultimi della graduatoria per le supplenze».

Corrado non è l’unico in questa situazione. Ci sono altri insegnanti per i quali il concorso si è trasformato in una mancata occasione a causa di ritardi puramente tecnici che vanificano l’abilitazione conseguita.

Secondo il ministero dell’Istruzione, interpellato da L’Espresso, «si tratta di casi marginali, che riguardano poche classi di concorso. Gli aspiranti che avevano interesse a sciogliere la riserva in prima fascia Gps (Graduatorie provinciali per le supplenze ndr) hanno manifestato le loro necessità e, a quanto ci risulta, questa problematica è stata comunque risolta in tempo». Ma non ci sono dati certi che dimostrino l’effettivo numero di insegnanti rimasti senza una graduatoria a cui fare riferimento, per cui «continua la nebulosa», aggiunge Corrado, amareggiato. «Credo sia irrispettoso far perdere un anno di vita alle persone. Soprattutto visto che aspettavamo il concorso da anni. Mi sono laureato nel 2016, questo è il primo che viene bandito da allora. Ho investito tanto nel preparami. La selezione è stata dura. E adesso, per una colpa che non ho, rimango in panchina a guardare».

Secondo quanto raccontano gli insegnanti, sono diverse le ragioni della mancata pubblicazione delle graduatorie. In alcuni casi, come per chi ha partecipato al concorso in Lombardia per la classe AD24 - tedesco come seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di II grado - «le difficoltà sono state nella formazione della commissione: non si trovavano i docenti. Così le prove orali devono ancora iniziare, nonostante gli scritti si siano tenuti ad aprile», racconta uno dei malcapitati che preferisce rimanere anonimo. Per altri, il ritardo è causato dal grande numero di candidati da valutare sia per titoli, sia in base ai punteggi conseguiti durante le prove. C’è poi il gruppo dei riammessi che ha provocato altre lentezze. Si tratta di docenti che hanno avuto accesso all’orale solo dopo che è stato ricalcolato il loro punteggio, visto che il Ministero ha riconosciuto errori nei quesiti della prova scritta.

Per altri ancora la motivazione è sconosciuta. Così è, ad esempio, per i docenti della classe di concorso A11 - Lettere e latino - in Sardegna. «La classe non è stata oggetto di rivalutazione e le prove, scritte e orali, sono terminate circa un mese fa», lamentano gli aspiranti insegnanti. Che in una lettera a L’Espresso chiedono di conoscere il perché la graduatoria latiti. Non è stato di aiuto lo scambio di email con l’Ufficio scolastico regionale. L’ex provveditorato mette le mani avanti: «Nulla può essergli addebitato in relazione alle procedure concorsuali per le quali non si riuscirà a pubblicare la graduatoria di merito in tempo utile». Perché, come conferma anche il ministero dell’Istruzione, «il concorso e l’aggiornamento delle Gps sono due procedure del tutto indipendenti e non è prevista alcuna consequenzialità temporale dell’una rispetto all’altra».

Ma l’inghippo resta. «Il fatto che alle commissioni non sia stato dato un termine per pubblicare gli elenchi dei docenti che hanno superato il concorso ordinario è parte del problema», ribatte Andrea Degiorgi, rappresentante dei Cobas scuola per la Sardegna: «Perché non c’è alcun raccordo tra le scadenze per le immissioni in ruolo, l’accesso alla prima fascia e la pubblicazione delle graduatorie di merito che ufficializzano chi ha superato il concorso. Questo ha generato ulteriore incoerenza in quanto in base alla regione e alla classe di concorso di appartenenza ci sono docenti che possono far valere l’abilitazione conseguita e altri no». Gli uffici scolastici regionali potrebbero aprire nuove finestre per il reclutamento degli insegnanti ma non c’è alcuna certezza che accada e la decisione avrebbe senso solo se le graduatorie venissero pubblicate entro la fine di agosto.

Degiorgi cita un altro paradosso: mentre per la classe A11 mancano ancora le graduatorie a prove già terminate, per la classe A41 - Scienze e tecnologie informatiche - sono invece pubblicate. I docenti hanno potuto sciogliere le riserve per la prima fascia e potranno partecipare alle immissioni in ruolo 2022/23, sebbene chi è stato ammesso in ritardo all’orale, per via degli errori negli scritti, debba ancora svolgere la prova. «Come faranno a inserirli? È scontato che prendano un punteggio inferiore a quelli che nel frattempo saranno immessi in ruolo?», si chiede Degiorgi.

Il problema discende dal fatto che non tutti coloro i quali hanno superato il concorso sono vincitori di cattedra. Alcuni, quelli con il punteggio più basso tra prove e titoli, risultano idonei ma non vincitori. E avendo comunque conseguito l’abilitazione all’insegnamento, potrebbero passare in prima fascia di supplenze. Ma, visto che alcune graduatorie non sono state pubblicate entro lo scorso 20 luglio, termine ultimo per sciogliere le riserve, resteranno un anno in più nella stessa situazione in cui erano prima di fare il concorso.

«Aspettavo quest’occasione da tanto. Il concorso ordinario è stato bandito nel 2020, poi a causa del Covid-19 rimandato fino al 2022. Quando, all’improvviso, è iniziata una vera e propria corsa contro il tempo: ci hanno chiesto di mettere da parte gli impegni familiari e personali, le vacanze, la vita che ci siamo costruiti in questi due anni di attesa, perché l’obiettivo era di concludere le procedure entro l’anno. In modo da avere il nuovo personale in cattedra a settembre. E invece ancora non ci sono le graduatorie. Per me questo concorso era l’evento della vita», racconta Francesca Deleo che ha 45 anni e fa parte della classe A19 in Sicilia.

«C’è stata disparità di trattamento tra i docenti che potranno entrare di ruolo perché hanno avuto le graduatorie in tempo utile e quelli che le aspettano. Ma il problema è più profondo: per alcune classi di concorso non si conosce ancora il calendario degli orali», spiega Silvia Casali dei Cobas scuola di Bologna. «In Emilia-Romagna riguarda gruppi consistenti di insegnanti come quelli della A22: Italiano, storia, geografia, nella scuola secondaria di I grado. Questo fa sì che a settembre saranno i precari, come al solito, a dover coprire le mancate immissioni in ruolo. Il punto è che il bisogno di docenti nella scuola c’è ma manca un piano di reclutamento che tenga conto della realtà dei numeri, delle diverse situazioni da cui arrivano gli insegnanti e dei diritti dei lavoratori che hanno esperienza sul campo».

Per Casali il concorso è partito male e sarà un flop in termini di assunzioni. Da un lato, il metodo scelto per la selezione, quello del test a crocette. «Errori a parte, viene da chiedersi se il sistema non obbedisca più all’obiettivo di falciare una parte dei concorrenti che di assumerli», sostiene Casali. Al 31 luglio 2020, termine ultimo per la presentazione delle domande, per 33 mila posti erano state presentate più di 430 mila domande. 

C’è poi una questione di merito. A ingrossare i numeri sono anche i docenti già abilitati e in corsa solo per la cattedra, «come nel caso del sostegno: ha partecipato chi aveva già superato il Tfa (il tirocinio formativo attivo, corso universitario finalizzato all’abilitazione all’insegnamento, ndr). Ogni volta sembra che si apra la possibilità di riabilitare la scuola che, invece, alla fine, resiste sempre grazie alle spalle dei precari».

Perché, come aveva scritto sui social l’allora ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, nel 2020, il giorno in cui il Governo aveva trovato uno dei tanti accordi sulle modalità che avrebbero dovuto ridurre il precariato nella scuola, «le scelte che facciamo oggi avranno ripercussioni nei prossimi anni. Abbiamo 78 mila insegnanti da assumere nel primo e secondo ciclo fra concorsi ordinari e concorso straordinario. Fra gli aspiranti anche migliaia di giovani che si preparano da tempo e vogliono avere la loro occasione per cominciare ad insegnare. Sono numeri importanti e dobbiamo fare presto. La scuola ha bisogno di stabilità e programmazione. In passato tutto questo è mancato». E il futuro può ancora attendere.  

LA TESTIMONIANZA. Concorso scuola, il ritardo delle graduatorie penalizza i giovani: «Chi ha meno di trent’anni non sarà mai chiamato». Non avere gli elenchi degli idonei del 2020 danneggia soprattutto i docenti precari con meno esperienza. «Ho perso tre anni, a settembre mi passerà avanti anche chi ha meno qualifiche», racconta Sanseverino 30 anni, laureato in storia. Chiara Sgreccia  su L'Espresso il 2 Agosto 2022.

«È stato il primo concorso dopo 10 anni per i docenti senza abilitazione. L’aspettavo da quando mi sono laureato perché è l’unica possibilità che ho di lavorare. Sono andato bene all’orale, mediamente allo scritto, ma non vincerò la cattedra perché non ho potuto aggiornare il curriculum». Così racconta Mario Sanseverino, docente di trent’anni che ha svolto le prove per la classe A19, Storia e Filosofia, in Campania. A proposito del concorso ordinario per il reclutamento del personale docente della scuola secondaria, bandito nel 2020 ma che, per alcuni, si sta svolgendo ancora adesso.

Sanseverino, nel frattempo, ha finito un dottorato di ricerca in studi storici. Ma non ha potuto aggiornare il curriculum che aveva inviato per partecipare al concorso al tempo della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale «Perché non c’è stata data la possibilità di adeguare le candidature inviate più di due anni fa. È un danno grave. Credo di non essere l’unico ad aver fatto esperienze formative dal 2020 a oggi». Così Sanseverino ha perso 12,5 punti, circa 10 posizioni in meno nella graduatoria di merito che ufficializza i risultati del concorso, che, però, ancora non è stata pubblicata. Per questo sicuramente non sarà tra i 36 (i candidati per la Campania erano 1484) che dovrebbero essere immessi in ruolo il prossimo anno.

I ritardi nella pubblicazione delle liste degli idonei e dei vincitori del concorso, che ad esempio per la classe A19, una delle più numerose, mancano dappertutto tranne che in Emilia-Romagna, stanno facendo sì che anche chi ha superato le prove, quindi ottenuto l’abilitazione, perda la possibilità di entrare nelle graduatorie scolastiche provinciali di prima fascia. E quindi di fatto, in molti casi, trascorra un altro anno senza lavorare.

«Sono nella stessa situazione di tre anni fa. Ho perso tempo. Rimango nelle graduatorie per le supplenze di seconda fascia, quelle per i docenti non abilitati. Così pure chi non ha fatto il concorso mi passa avanti». Questo succede perché a dare punteggio per l’avanzamento in graduatoria, oltre ai titoli, ci sono gli anni di servizio. Ma chi è più giovane, e quindi lavora da meno tempo, non riesce mai a raggiungere i docenti che sono precari da anni. «Sono quasi tutti nati negli anni ’80, se non prima. Chi ha meno di trent’anni, invece, resta agli ultimi posti e non sarà mai chiamato a insegnare». Come sottolinea Sanseverino chiedere alle persone di perdere un anno è grave. «Ancora di più se fatto nel momento in cui cercano di costruirsi il futuro».

Da ansa.it il 30 maggio 2022.

Una lezione sulla razza europea. E' quanto prevedeva "una prova (orale) per il concorso a cattedre per la scuola secondaria (Italiano, storia, geografia)". 

La denuncia arriva in un post su Facebook dal docente di pedagogia all'Università dell'Aquila Alessandro Vaccarelli. "E non è nemmeno una prova del 1938. La razza europea. La razza europea? Cioè? Come si potrebbe articolare una lezione sulla "razza europea"? Razza ariana? Ma siamo impazziti?", commenta Vaccarelli precisando che "non si riferisce ad una commissione abruzzese".

Si tratta infatti, secondo la denuncia del docente, di quanto aveva previsto la commissione esaminatrice per il concorso della scuola secondaria per le materie di italiano, storia e geografia. La prova in riferimento era quella orale e il candidato era sollecitato a simulare una lezione sulla "razza europea"

Lecce, concorso a scuola vinto con titoli falsi: 42 persone accusate di truffa. Lo scopo era ottenere un buon piazzamento in graduatoria ed essere assunti nelle scuole. Angelo Centonze su la Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

Avrebbero presentato titoli falsi per ottenere un buon piazzamento in graduatoria ed essere assunti nelle scuole, anche fuori regione. E avrebbero poi ottenuto una retribuzione non dovuta, in danno del Miur. Quarantadue persone, quasi tutte originarie del Basso Salento, sono state raggiunte da un avviso di conclusione delle indagini preliminari con 28 capi d’imputazione del pubblico ministero Maria Consolata Moschettini. Si tratta di collaboratori scolastici e aspiranti insegnanti, ma anche responsabili di cooperative sociali.

DOPO IL CASO CONCORSI. Miur, ancora errori nei documenti ufficiali: “Abbruzzo” e Piacenza diventa lombarda. Il Domani il 06 luglio 2022

Gli strafalcioni si trovano in un oscuro documento destinato ai licei che vogliono implementare il percorso di orientamento “Biologia con curvatura biomedica”: come nel caso dei recenti concorsi per la scuola media, anche questo testo e infarcito di strafalcioni

Nuovo imbarazzo per il ministero dell’Istruzione dopo il caso dei concorsi con domande errate o incomprensibili sollevato da una lettera di un gruppo di intellettuali. Questa volta il problema è un oscuro documento interno del ministero: l’avviso pubblico per «l’individuazione di licei classici e scientifici in cui attuare il percorso di potenziamento-orientamento “Biologia con curvatura biomedica”».

Si tratta di un progetto sperimentato per la prima volta a Reggio Calabria in collaborazione con l’ordine dei medici e che ora il ministero vorrebbe estendere al resto d’Italia. Ma nel farlo infarcisce il documento di errori. O meglio: ne commette almeno due, come ha segnalato in un post su Facebook il linguista Massimo Arcangeli.

A quanto pare è la geografia il punto debole dei tecnici del ministero. Nell’allegato che contiene l’elenco delle province i cui licei possono fare richiesta del nuovo percorso di orientamento, infatti, è sbagliata sia la grafia di Abruzzo, che compare con due “b”, sia la collocazione di Piacenza, una provincia dell’Emilia-Romagna e non certo della Lombardia, come scritto nel documento. 

I PROBLEMI CON I CONCORSI

Sono errori da poco se comparati ai recenti disastri avvenuti nei concorsi. In una lettera inviata al ministero alla fine di giugno, un gruppo di studiosi e intellettuali aveva segnalato tutti i gravi problemi presenti nel concorso per insegnanti delle scuole medie. 

Nel test si parlava di “parallelogramma esagonale” (figura geometrica inesistente), si chiedeva a quale opera appartenesse l’incipit «Comincio a scrivere la prima frase, confidando per la seconda nell’onnipotenza divina», che invece è una frase nel secondo capitolo del romanzo a puntate “The Life and Opinions of Tristram Shandy, gentleman” di Laurence Sterne. 

Per giustificarsi, il ministero ha spiegato di essere «impegnato, da diversi mesi, nella realizzazione di un concorso dalla complessa macchina organizzativa con oltre 8mila quesiti da predisporre». Sarà di certo così, ma come dimostra il recente documento pieno di errori, i funzionari ministeriali probabilmente non passerebbero gli esami a cui la scuola sottopone i suoi stessi studenti e insegnanti. 

Errori blu nelle domande del concorso per diventare prof. Gli intellettuali scrivono al governo: "Rimediate al pasticcio". Ilaria Venturi su La Repubblica il 21 Giugno 2022.  

Il più clamoroso è quello sul "parallelogramma esagonale". Ma sono decine i quesiti errati o imprecisi nella selezione da 26.661 posti e 430.583 candidati: il professor Arcangeli li ha raccolti in un dossier. E ora decine di accademici, da Massimo Cacciari a Luca Serianni, da Luciano Canfora a Moni Ovadia e Piero Boitani, chiedono a Bianchi e Draghi di intervenire: "Ridefinite i punteggi, una selezione così è un'offesa all'oggettività e al merito"

L'esempio più eclatante che viene riportato riguarda un quesito posto a insegnanti di matematica in cerca di una cattedra di ruolo: tra le risposte quella corretta per i selezionatori ministeriali era il "parallelogramma esagonale". Bene così? Non proprio: è una figura geometrica che non esiste. Parte da qui l'appello contro un concorso della scuola pieno di errori di oltre 50 docenti, per lo più universitari, tra cui il linguista Luca Serianni, Luciano Canfora, Francesco Sabatini, presidente onorario dell'Accademia della Crusca, Massimo Cacciari, Silvia Ronchey, l'anglista Piero Boitani, uno dei più importanti conoscitori di Dante, il poeta Lello Voce e il matematico Umberto Bottazzini vincitore del Premio Pitagora per la divulgazione matematica, fellow dell'American Mathematical Society che...

Scuola, l’orale di immaturità del concorso straordinario bis. Marco Ricucci, Insegnante di italiano e latino al liceo scientifico Leonardo di Milano, su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.

Mentre i maturandi affrontano il colloquio con tutti e solo professori interni, un’altra prova facilitata è in corso: quella del concorso per precari con più di tre anni di servizio. Per loro niente scritto, solo prova orale: è l’ennesima sanatoria. 

Tempo di interrogazioni orali per la scuola italiana sia per gli studenti sia per (aspiranti) docenti: comune destino che li vede entrambi, seppur in contesti diversi, davanti a una Commissione giudicatrice, che dovrà valutarli con una sorta di verdetto. Tra i «giudici» forse ci sarà qualcuno di cui si potrebbe dire: «Stavvi Minos orribilmente e ringhia/esamina le colpe nell’intrata/giudica e manda secondo ch’avvinghia». Per gli uni si tratta del colloquio orale svolto durante l’Esame di Stato, per gli altri si presenta l’ultima trovata del Ministero dell’Istruzione, per «accalappiare» (ho questa sensazione, invece di reclutare) il numero più alto di docenti possibile da mettere in cattedra giusto in tempo per l’avvio ordinato del prossimo anno scolastico.

Sono dunque finiti gli scritti, dove il tema di italiano, grazie anche alle tracce «petalose», ha suscitato il solito strascico di polemiche nostrane. E proprio in questi giorni i maturandi sono presi con il colloquio orale. Per via della situazione di emergenza pandemica, la Commissione anche quest’anno è formata solo da docenti interni, tranne il Presidente. Con notevole risparmio per le casse dello Stato. Qualcuno potrebbe, però, banalizzare, dicendo che si tratta di una maxi-interrogazione sul programma dell’ultimo anno, che partiva, fino a poco tempo fa, con l’estrazione delle buste, come nei quiz di Mike Bongiorno: qui veniva fuori un argomento da cui il candidato doveva costruire un discorso equilibrista tra le varie discipline. Dallo scorso anno, invece, il colloquio orale prende avvio da materiale selezionato dai componenti della Commissione: un testo, un documento, un progetto, un problema o anche un’esperienza a cui l’esaminando dovrà collegare le discipline oggetto d’esame. Le buste sono scomparse. Naturalmente, il colloquio ha carattere interdisciplinare e richiede al candidato di dimostrare di avere acquisito la capacità di avere una visione complessiva sugli argomenti della varie materie, tenendo in considerazione il percorso didattico fatto negli anni, delle metodologie impiegate in classe e di eventuali progetti didattici ed esperienze che sono stati qualificanti per l’indirizzo dei suoi studi. A mettere la ciliegina sulla torta, vi è la discussione sulle attività di PCTO, ex alternanza scuola-lavoro, e l’accertamento delle competenze di Educazione civica, nuova materia introdotta quest’anno, senza oneri per l’erario pubblico e orfana di un docente titolare.

Mentre i maturandi vengono interrogati durante l’Esame di Stato, altri sortiscono una analoga sorte, dando veridicità al detto di Eduardo de Filippo: gli esami non finiscono mai! Altri docenti di ruolo, tra pochi giorni, inizieranno a esaminare colleghi, che ambiscono a entrare in ruolo nei ranghi del Ministero dell’Istruzione, che, nell’immaginario collettivo, garantisce il posto fisso, un invidiato part-time, tre mesi di vacanza stipendiati, una sorta di «fannullismo» legittimato sotto il vessillo costituzionale della libertà di insegnamento. Si tratta del concorso straordinario bis, riservato ai docenti che possono vantare almeno un servizio di tre anni nell’ultimo quinquennio. Non è previsto uno scritto. Già una bella fortuna, perché così il Ministero può evitare imbarazzanti conseguenze come è avvenuto per l’ultimo concorso ordinario basato su quiz a crocette: oltre a manifesti errori acclarati anche da illustri accademici, persino uno dei maggiori studiosi di fama mondiale, Howard Gardner, ha scritto al Ministero per ribadire la pessima ed errata formulazione del quesito sulla sua teoria della intelligenze multiple. Se ciò non bastasse, il terzo potere dello Stato, ovvero la Magistratura, nella fattispecie il TAR, con più ordinanze ha richiesto al Ministero di dare adeguati chiarimenti sulla formulazione di specifici quesiti nel concorso scuola, per come formulati, considerati come dirimenti ai fini del superamento della prova da parte dei candidati ricorrenti.

Insomma, come si può risolvere il problema (scripta manent, verba volant!), se persino le crocette sono problematiche? Semplice, si fa solo l’orale, che può fare da asso-piglia-tutto. Come recita il bando pubblico per il concorso straordinario bis, «la prova ha una durata massima complessiva di 30 minuti, fermi restando gli eventuali tempi aggiuntivi e gli ausili previsti dalla normativa vigente». Ovvero, un aspirante docente, che ha alle spalle almeno tre anni di insegnamento, comparirà davanti alla Commissione formata da docenti di ruolo, come ai tempi della maturità, e sul momento stesso dovrà estrarre un argomento su cui «improvvisare», in trenta minuti, una lezione: l’argomento - la «traccia» nel gergo ministeriale - è presa dai «programmi» sullo scibile umano, aristotelicamente categorizzati in discipline e in classi di concorso, che sono gli stessi dell’ultimo concorso a crocette. Il nozionismo così è portato in trionfo lungo la Via Sacra davanti come i tempi dell’antica Roma. La Commissione, per dare un «voto» all’esame orale, ha disposizione ben 100 punti, oltre al tetto massimo di 50 per i soli titoli, per un totale di 150. Siamo – ammettiamolo con onestà intellettuale - di fronte all’ennesimo condono, per così dire, o sanatoria, per avere un numero elevato di docenti, che devono rimpiazzare chi del corpo docente, grazie all’opzione donna, all’opzione quota 100, ed altre finestre pensionistiche, appena possibile, è scappato dal mondo della scuola, sempre più problematico e sottofinanziato. Trenta minuti, dunque, per poter avere un posto fisso. Come giocare al gratta-e-vinci. A onor del vero, è stata approvata una riforma strutturale che dovrebbe mettere una pezza a queste «corbellerie» su formazione, selezione e reclutamento, ma con calma: c’è sempre una fase transitoria.

Scuola, la scorciatoia del concorso straordinario che permette ai bocciati del concorso ordinario di accedere direttamente all’orale. Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 26 aprile 2022.  

Mentre ancora si sta svolgendo il concorso ordinario, è in arrivo entro metà giugno un concorso straordinario riservato ai precari. La prova, solo orale, «non è selettiva»: passano tutti.

Mentre il contestatissimo concorso ordinario a crocette che dovrebbe portare in cattedra 33 mila nuovi prof delle medie e delle superiori procede sotto il fuoco di decine di segnalazioni di domande sbagliate, procedure insensate, strafalcioni vari, il ministero dell’Istruzione sta definendo gli ultimi dettagli dell’ennesima prova super facilitata riservata ai precari con più di tre anni di supplenze nelle scuole statali. In base al decreto Milleproroghe dovrebbe svolgersi entro il 15 giugno: in palio ci sono altri 14 mila posti, un quinto dei quali in Lombardia, destinati principalmente a coprire le cattedre scoperte di italiano e matematica alle medie e alle superiori di cui c’è cronica mancanza soprattutto al Nord. Buone notizie per la scuola, dunque? Mica tanto. Perché l’ultima frontiera del concorso facilitato è rappresentata da una prova che per decisione del ministero sarà solo orale e non sarà selettiva, nel senso che non c’è un punteggio minimo al di sotto del quale si viene respinti. Senza sbarramento, c’è il rischio che pur di assegnare tutti i posti a disposizione l’asticella si abbassi pericolosamente adeguandosi al livello medio dei candidati. Scelta assai discutibile perché tre anni di servizio prestato nelle scuole bastano a maturare un credito nei confronti della Pubblica amministrazione, ma non certo a garantire la formazione indispensabile per affrontare la gigantesca sfida educativa che oggi si trova davanti chiunque vada a insegnare alle medie o alle superiori.

Giusto, anzi sacrosanto, che nel punteggio finale, oltre al risultato registrato nella prova orale (max 100 punti), vengano pesati anche «titoli e servizio» (altri 50 punti al massimo). Ma che prova è mai quella in cui nessuno viene bocciato? Per non parlare dell’assurda sovrapposizione con il concorso ordinario che richiede invece un punteggio minimo allo scritto di 70 su 100 e che sta registrando tassi di bocciatura altissimi. Risultato paradossale: chi è stato respinto nella prova a crocette e non è stato ammesso all’orale del concorso ordinario - che dura 45 minuti e e prevede la progettazione di una lezione simulata in cui il candidato possa dar prova oltre che delle sue competenze disciplinari anche delle sue capacità didattiche e pedagogiche - può comunque accedere direttamente all’oralino del concorso straordinario, purché abbia alle spalle i fatidici tre anni di servizio (se invece sono due e mezzo,no: bocciato è e bocciato resta). E, in caso di esito positivo, dopo l’estate potrà salire in cattedra contemporaneamente a chi invece nel frattempo è passato attraverso la doppia prova scritta e orale del concorso ordinario e si è guadagnato il diritto a entrare di ruolo vincendo una competizione alla pari.

Lascia poi di stucco che durante l’anno di prova l’unico perfezionamento previsto, almeno finora - il ministero può rimetterci mano fino a che non verrà pubblicato il bando a maggio - siano 5 (cinque!) crediti formativi universitari, equivalenti a 40 striminzitissime ore di lezione. Il tutto mentre il governo sta mettendo a punto una riforma del sistema di formazione iniziale incentrata su concorsi annuali ai quali, a regime, si potrà accedere solo se, oltre alla laurea, si sarà in possesso di ulteriori 60 crediti formativi equivalenti a un anno di formazione universitaria più tirocinio. Possibile che proprio mentre grazie al PNRR si sta definendo un nuovo sistema in cui - parole del ministro Patrizio Bianchi - «puntiamo sulla formazione come elemento di innovazione e di maggiore qualificazione di tutto il sistema», con un ultimo colpo di coda si autorizzi un ennesima «sanatoria» di fatto, che nulla ha a che vedere con i requisiti di qualità rivendicati dalla riforma?

Concorso scuola, la polemica sui quesiti: «Molti errori e ambiguità». Ecco quelli contestati. Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

Il dossier che attacca i quiz del ministero: risposte errate, domande fuori programma, mal formulate o con refusi. La denuncia del linguista: «Offendono la dignità di migliaia di docenti».

I dubbi sui quesiti

Errati, assurdi, fuori programma, o fuori contesto, mal formulati o con refusi di ogni tipo. I quesiti «sbagliati» nel concorso scolastico ordinario per l’assunzione di docenti nella scuola secondaria sarebbero molti di più dei due appena ammessi dal ministero dell’Istruzione. Massimo Arcangeli, linguista e professore universitario, nonché autore di diversi libri sull’uso della lingua, sta raccogliendo da settimane gli esempi, e sta preparando un dossier - che il Corriere ha avuto la possibilità di visionare in anteprima - che sarà il primo passo per una mobilitazione nazionale a Roma con tutti gli aspiranti insegnanti, invitati a ricorrere alla giustizia amministrativa. «Sono esempi di test che offendono l’intelligenza, la dignità, la professionalità di decine di migliaia di docenti alle prese con un concorso farsa» spiega Arcangeli, ricordando che la giurisprudenza è chiarissima su come debbano essere formulate le selezioni per essere considerate attendibili. Ad esempio il Tar del Lazio precisava, nel giugno del 2008, con la sentenza n.5986, che «un sistema selettivo, quale quello utilizzato per l’ammissione su base nazionale per i corsi di laurea a numero programmato di medicina, basato su due domande errate e su un numero non trascurabile di domande non correttamente formulate, non può ritenersi idoneo a limitare il diritto allo studio e a porsi come giusto filtro delle aspirazioni professionali dei giovani candidati». Ma anche il Tar della Campania, nel settembre 2011, sottolineava che per una selezione degna di questo nome, che ottemperi ai criteri – a tutela del buon andamento della Pubblica amministrazione, secondo quanto contemplato dall’art. 97 della nostra Costituzione – della proporzionalità, della ragionevolezza, dell’adeguatezza (Legge n. 241/90), è necessaria l’assoluta «certezza ed univocità della soluzione» (sentenza 30 settembre 2011, n. 4591), che non deve prestare il fianco ad ambiguità o contraddittorietà. Vediamo allora alcuni esempi delle «stranezze» individuate da Arcangeli e dalla sua rete di candidati.

Cosa si misura in chilogrammi su metri cubi?

«Quali delle seguenti grandezze si può misurare in Kg/m3 nel Sistema Internazionale?». Refuso a parte – «quali» –, la soluzione giusta fra «energia cinetica», «volume specifico», «densità» e «peso specifico», secondo il Ministero dell’Istruzione, sarebbe la seconda. Peccato che nel Sistema internazionale delle unità di misura venga espressa in kilogrammi su metri cubi (kg/m3) la densità e non il volume specifico, misurato invece in metri cubi su kilogrammi (m3/kg). Per dirla altrimenti: il volume specifico (massico) restituisce il valore del rapporto fra il volume e la massa di una determinata sostanza (i metri cubi occupati), la densità il rapporto inverso (tra la massa e il volume).

È un incipit oppure no?

Il passo è divenuto quasi proverbiale («Comincio a scrivere la prima frase, confidando per la seconda nell’onnipotenza divina»). Chi ha elaborato il quesito (il brano compare, nella «vulgata» del romanzo a puntate di Sterne, nel secondo capitolo dell’ottavo volume) ha confuso l’inizio dell’opera col momento in cui la voce narrante, parlando di come avviare un libro, si dichiara convinta che il suo incipit, oltreché il più religioso, sia il migliore di tutti gli inizi possibili.

Perché dovrei studiare Raimondi?

Stiamo senz’altro parlando di uno dei più grandi critici letterari del Novecento, e il saggio manzoniano è stranoto (l’opzione giusta, fra le quattro proposte, di diversi autori, è perciò I Promessi Sposi), e tuttavia il selezionatore non ha tenuto conto dei puntuali riferimenti dell’Allegato A al bando di concorso (Decreto Dipartimentale n. 499, 21 aprile 2020). In quell’allegato, nell’elenco secco degli undici «autori della storia della critica letteraria» di cui si richiede la conoscenza (Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Antonio Gramsci, Erich Auerbach, Michail Bachtin, Gianfranco Contini, Giacomo Debenedetti, Carlo Dionisotti, Francesco Orlando, Cesare Segre, Maria Corti), il nome di Raimondi non compare.

«La ragazza di Bube» non tratta il tema della Resistenza?

Qui si doveva scegliere fra La ragazza di Bube (Carlo Cassola), Menzogna e sortilegio (Elsa Morante), Una questione privata (Beppe Fenoglio) e Dialoghi con Leucò (Cesare Pavese). Scartata quest’ultima opera, peraltro una raccolta di racconti, insieme a quella della Morante, l’inequivocabile risposta giusta, per il nostro selezionatore, sarebbe Una questione privata. Non è affatto così. Nulla da eccepire se si fosse chiesto «Quale di questi romanzi è ambientato al tempo della guerra partigiana?», ma La ragazza di Bube è notoriamente un romanzo «resistenziale». Al tempo sono anzi piovute critiche aperte sull’autore, accusato di diffamare la Resistenza sia in quel romanzo, considerato anzi il romanzo culminale del filone partigiano (subito dopo abbandonato), sia in Fausto e Anna.

Cosa mangiamo (e beviamo) dal menù?

Un menu, secondo il selezionatore, consisterebbe in «una lista cronologica e dettagliata delle vivande che l’ospite andrà a consumare». L’unica risposta sensata – sebbene non sia detto che io debba mangiare tutto quel che c’è scritto sul menu (il menu potrebbe anche essere quello completo di tutte le pietanze e le bevande proposte dal ristoratore) – fra le quattro proposte è la b): «Una lista cronologica e dettagliata delle vivande e bevande che l’ospite andrà a consumare» (dove cronologico non ha ovviamente nulla a che fare con la cronologia dei menu dei nostri dispositivi elettronici, ma fa invece riferimento a una sequenza ordinata o ragionata di portate). Se accettiamo infatti come valida la d) dovremmo ritenere altrettanto valida la a) (e, al limite, pure la c)). L’unica opzione completa, fra tutte, è la b), perché è la sola che menzioni, oltre alle vivande, proprio le bevande.

Una grande area o una grande rete?

Una Great Area Network, a meno di non intendere la locuzione come un riferimento estemporaneo a una «rete estesa su una grande area», non esiste. Non solo non denomina una rete di telecomunicazioni, non esiste proprio. La risposta indicata come corretta dal selezionatore sembrerebbe dunque quella giusta, dal momento che ciascuna delle tre opzioni restanti fa riferimento a una rete di telecomunicazioni. Purtroppo, non è così. Il motivo è semplice. Il quesito chiede quale sigla – non quale espressione – dell’elenco non si riferisca a una rete di telecomunicazioni, e GAN (al pari di PAN, LAN e WAN) è la sigla di Global Area Network. Ne consegue che tutte e quattro le «sigle» (il termine corretto sarebbe «acronimi») corrispondono ad altrettante reti di telecomunicazioni, e nessuna delle quattro opzioni soddisfa quindi la domanda.

Mangiava troppo o voleva uccidere la madre?

Gonzalo, il protagonista, è «vorace, e avido di cibo e di vino» (Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore). «La sua cupidigia di cibo […] era divenuta favola. Esecravano unanimi, i poveri, i denutriti, i mendichi, quel vizio della gola, che è così turpe in un uomo, e quel barbaro costume, poi, dopo aver mangiato, di berci anche sopra del Nevado, per giunta, o del Cerro; quasiché fosse, il vorace, a banchetto con le ombre de’ suoi Vichinghi. Nessuno dei feudatari della plaga, per lo più astemi, e taluni anche vegetariani, poteva pensare a un fatto simile senza essere preso da disgusto. “Si mangia troppo!”, sentenziò il dottore tra sé e sé». In qualunque modo Gadda avesse voluto concludere il suo romanzo, rimasto incompiuto, sta di fatto che: 1) nel punto in cui l’opera s’interrompe la madre di Gonzalo sembrerebbe moribonda, ma non è affatto detto che debba morire. Se una persona non è ancora morta, e qualcuno ha tentato di ucciderla, e quel qualcuno è suo figlio, si dovrà parlare semmai di “tentato matricidio” anziché di “matricidio”; 2) non è detto sia stato don Gonzalo a ridurre la madre in fin di vita, perché potrebbe ben essere stato qualcun altro. Che poi Carlo Emilio Gadda abbia più volte trattato il tema del matricidio nella sua produzione, che abbia nutrito per la madre un inestricabile odio-amore, che anche il collerico, misantropo, sociopatico Gonzalo (doppio dell’autore) manifesti verso la sua un sentimento non propriamente amoroso, tutto questo è un altro paio di maniche.

Malvasia e Armenini, fuori lista

Un altro dei tanti esempi che si potrebbero fare di quesiti inammissibili perché «fuori sacco». Il programma per il concorso parla espressamente – per le classi A054 (Storia dell’arte) e A017 (Disegno e storia dell’arte negli istituti di istruzione secondaria di II grado – di «conoscenza di elementi di letteratura artistica (Cennino Cennini, Vasari, Lomazzo, Bellori)» . Si fornisce quindi, come nel caso del Romanzo senza idillio di Ezio Raimondi, un breve elenco secco di nomi. Nella lista però i nomi di Carlo Cesare Malvasia e di Giovanni Battista Armenini, due delle opzioni del quesito (somministrato ai candidati per la A054), non compaiono.

B1 o B2?

Si chiede, con riferimento al Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue (Common European Framework of Reference for Languages: Learning, Teaching, Assessment, CEFR): «Which of the following levels does the CEFR descriptor below concerning sustained monologue refer to? Can clearly express feelings about something experienced and give reasons to explain those feelings». Ma il descrittore in questione non si trova indicato in B1.1, la risposta ritenuta corretta dal ministero, bensì in B1.2, sottolivello separato dal precedente da una linea orizzontale che forse è sfuggita, a meno che il selezionatore non abbia letto la relativa tabella dall’alto verso il basso anziché, come avrebbe dovuto, dal basso verso l’alto. Tutte le quattro opzioni proposte sono quindi sbagliate.

Concorso ordinario scuola, il ministero ammette: c’è uno svarione in un quiz sulla Costituzione. Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 22 Aprile 2022.

In un quesito per docenti di sostegno della scuola media il principio della libertà d’insegnamento è stato attribuito all’articolo sbagliato della Costituzione. Riconosciuto anche un secondo errore nel quiz per docenti di tecnologia. 

Concorso che vai, svarioni che trovi. E anche l’ultimo concorso ordinario per l’assunzione di 33 mila nuovi prof di scuola media e superiore non fa eccezione. Anzi: da quando lo scorso 14 marzo sono incominciate le prove scritte, sindacati e studi legali specializzati nei ricorsi sono stati inondati di segnalazioni di domande ambigue, risposte sbagliate, procedure incongrue, com’è accaduto per esempio ai candidati per matematica applicata a cui è stato chiesto di eseguire calcoli di funzioni e derivate senza fare uso di carta e penna (i più fortunati, quelli a cui almeno è stata concessa una penna si sono scritti i calcoli sulla mano...), mentre ai loro colleghi delle altre discipline Stem che avevano svolto il concorso prima erano stati dati sia carta che penna. Delle tante obiezioni che i sindacati hanno girato al ministero dell’Istruzione un paio sono già state accolte. La Commissione nazionale incaricata da Viale Trastevere di predisporre i quiz a crocette, fa sapere la Cgil Scuola, ha riconosciuto che almeno due quesiti non contengono alcuna risposta corretta tra le 4 opzioni proposte. Pertanto, ai fini del calcolo del punteggio, verranno riconosciuti a ciascun candidato due punti per qualsiasi risposta, anche nel caso di risposta non data, con la conseguenza che le graduatorie che erano già state stilate andranno riviste.

Ma di quali quesiti si tratta? Uno riguarda la classe di concorso A060 (Tecnologia nella scuola secondaria di I grado) e chiede di calcolare la densità assoluta di un solido immerso nell’acqua. Lo stesso quesito è disponibile anche nel database dei quiz della facoltà di Farmacia dell’Università di Perugia dove si può trovare la risposta esatta assente dai quiz del concorso scuola. Ma lo scivolone più imperdonabile riguarda invece una domanda sulla Costituzione italiana posta agli aspiranti insegnanti di sostegno della scuola media.

Chiede la domanda: «L’articolo 34 della Costituzione riconosce:

a) Il ruolo degli istituti comprensivi nell’ambito territoriale;

b) Le modalità organizzative degli istituti paritari;

c) La libertà d’insegnamento;

d) L’autonomia delle istituzioni scolastiche

Secondo il Comitato Tecnico Scientifico Nazionale la risposta corretta sarebbe la c) ovvero la libertà d’insegnamento, peccato che l’articolo 34 non faccia nessun riferimento alla libertà d’insegnamento che, come sanno anche i muri e comunque sicuramente tutti coloro che si occupano di scuola è sancito dall’articolo 33 che appunto recita: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato (...)». L’articolo 34 invece, non meno importante del precedente, è quello che istituisce l’obbligo scolastico per almeno 8 anni (che nel 2006 è stato innalzato a dieci anni) e soprattutto il principio del diritto allo studio: «La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». Dov’è scritto invece che per diventare insegnanti, come per qualsiasi altro impiego della pubblica amministrazione, si debba fare un concorso? All’articolo 97. Chissà cosa avrebbero pensato i nostri costituenti di un concorso che non riesce ad azzeccare nemmeno una domanda semplicissima sulla nostra Carta fondamentale...

L’altro quiz che il ministero ha riconosciuto come sbagliato è il seguente:

Se si immerge un solido avente massa 0,1 kg in un recipiente contenente 100 cm3 di acqua, il livello di questo cresce e il volume totale del liquido più il solido immerso sale a 125 cm3. Quanto vale la densità assoluta del solido?

 Se questa è una prof. Alessandro D'Avenia su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.  

In questa rubrica vorrei occuparmi di altro ma purtroppo non posso ignorare le parole di una collega di Scienze che ha affrontato due settimane fa il concorso per docenti. Di questo concorso vi avevo parlato di recente per denunciare l'inadeguatezza di un sistema di reclutamento insegnanti con un test a crocette. Ecco la lettera che ho ricevuto. «Sono docente di Scienze alle superiori da 8 anni. Nel 2019 ho conseguito (sette esami in un mese e mezzo) i crediti che siamo stati obbligati ad avere per poter partecipare al concorso ordinario che doveva svolgersi nell'estate di quell'anno, ma cade il governo e il concorso si blocca. Sarebbe dovuto ripartire con il ministro Fioramonti che però, a dicembre 2019, si dimette: secondo stop. Azzolina a fine dicembre annuncia il concorso che a febbraio 2020 si blocca per la terza volta per il Covid. Se ne va Azzolina e, fra mille ritardi e promesse, arriva il 2022: a febbraio Bianchi annuncia l'atteso concorso. Si scopre che consisterà in un test a risposta multipla e i candidati non potranno usare carta e penna per svolgere le prove di matematica, fisica, chimica e informatica. Perché non fare usare carta e penna per rispondere in 100 minuti a 50 domande con esercizi per i quali servono formule e conti? Inoltre il test per la mia classe di concorso (Scienze alle superiori) si rivela diverso da quanto indicato dal Decreto: ci sono meno domande di scienze/biologia e più di chimica rispetto al numero dichiarato dal modello. Gli esercizi richiedono di ricavare le formule senza la tavola periodica e di fare i conti con decimali ed esponenziali. Per questo chiediamo carta e penna. Ci viene detto che è vietato «scrivere su fogli». Domando: «E la penna?». Risposta: «La penna sì. Non potete usare fogli, ma se vuole può scrivere i calcoli sul banco o tatuarsi il corpo». Basita, rispondo che voglio la penna, ma sul banco non si riesce a scrivere. Comincia la prova che attendo dal 2019: ho studiato un'estate intera, sacrificato vacanze di Natale, di Pasqua e le notti degli ultimi due mesi. In tanti abbiamo preparato il concorso mentre stavamo lavorando e con una famiglia da accudire. Comincio a scrivere sulle braccia: dopo cinque esercizi non ho più spazio. Non ho più parti del corpo scoperte da segnare. Svolgo il test smarrita e umiliata. Ma cosa siamo? Un concorso svolto sul corpo? Finisce il tempo. Il tecnico d'aula verifica i risultati: tutti bocciati. Il presidente di commissione commenta: «Non mi è mai capitato un concorso in cui in 2 giorni ci siano zero promossi». Che senso ha prepararsi tanto per una prova che, speravo, potesse stabilizzarmi dopo anni di precariato, e trovarmi poi di fronte a un test a risposta multipla quasi totalmente centrato su una materia per la quale non ho deciso di concorrere e nel quale non posso svolgere degli esercizi come qualunque studente al mondo? A questa vergogna si aggiunge la disparità di trattamento (per l'uso di carta e penna) in sedi concorsuali diverse. Ce ne sarebbe abbastanza per annullare la prova. Allego le foto (scattate, alla fine dell'esame, nel bagno della scuola in cui ho svolto il concorso) dei segni che porto nel corpo. E nell'anima. Segni che rimarranno in me. Il reclutamento nella scuola si può fare in questo modo vergognoso? In quale altro Paese europeo accadrebbe? Concorsi che hanno l'unica finalità di mantenere alto il numero dei precari che allo Stato costano meno dei docenti di ruolo, con classi che a marzo sono ancora senza docenti, reclutati poi tra studenti universitari per riuscire a coprire i buchi. Vogliamo rendere l'Italia consapevole di cos'è la scuola oggi? Aiutaci per favore a far emergere tutto il marcio che c'è. Abbiamo una dignità: come persone e come lavoratori al servizio dello Stato e della crescita dei suoi cittadini».

Al servizio dello Stato e dei cittadini. Lo avrebbe sottoscritto Platone che nel suo dialogo intitolato il Politico ragiona proprio su chi sia chi governa e quale sia il suo compito. Per farlo narra un mito secondo il quale, all'origine, il cosmo era governato da Chronos (il Tempo) che provvedeva a tutto ciò di cui gli uomini avevano bisogno. Ma questa condizione beata, in cui il genere umano era oggetto di cura divina, aveva durata finita e, quando il movimento cosmico raggiunse la sua misura, Chronos si ritirò e lasciò libero il mondo: tutto quello a cui provvedeva divenne responsabilità umana. Gli uomini però, incapaci di provvedere a se stessi, rischiavano l'estinzione, e gli dei allora intervennero donando loro «le tecniche» necessarie alla vita ma affidando al genere umano quello che era stato il compito di Chronos: «prendersi cura di sé da se stessi». Il racconto mostra come, quando inizia il «tempo umano», cioè quello affidato a ciascun uomo, esso si declina come Cura: la condizione umana è «pro-curare» ciò che è necessario per conservare la vita e farla fiorire, infatti nessun essere sulla Terra ha un tempo di svezzamento così lungo come noi. Da qui nasce la politica: la cura della comunità. L'umano è quindi incrocio di tecnica (dono divino da custodire) e cura (azione umana), dal contadino al ministro, dal soldato al medico, dal genitore al maestro. E anche se tutto, in qualche modo, è politica, il politico propriamente detto è colui che può assumere incarichi di governo perché è capace di cura e possiede le tecniche, cioè il sapere pratico necessario a realizzarla. Senza questa duplice dimensione di tecnica (sapere e saper fare) e di cura (rendere più viva la vita altrui) il politico (letteralmente colui che cura la polis, la comunità) non può fare il politico: in assenza di tecnica e di cura il governo diventa immediatamente controllo e violenza, come accade a qualsiasi educatore incapace. Il mio essere insegnante è «politico» solo se conosco l'arte di insegnare e con essa faccio crescere gli studenti; il mio essere scrittore è «politico» se conosco l'arte di scrivere e con essa faccio crescere chi mi legge. Questa lettera, una delle tante ricevute in queste settimane di concorsi, mostra come, nel nostro sistema di reclutamento scolastico, manchi proprio la «politica»: sono assenti la tecnica (test inadeguato a reclutare un professionista dell'educazione) e la cura (costrizione a scrivere sul proprio corpo). L'agire politico è sostituito da quello burocratico. Un modo di governare corpi e anime inaccettabile a cui non ci ribelliamo forse perché non riusciamo più a farlo, presi come siamo dalla sopravvivenza. Ipnotizzati da una comunicazione centrata sul perenne stato di emergenza (pandemia, guerra...) che imprigiona nella paura anime e corpi, non curiamo ferite incancrenite: dei docenti, precariato abnorme (20% dei docenti), numero di concorsi illegale (dal 2000 solo tre: per legge dovrebbero essere triennali), abbandono scolastico al 15%, scarso benessere degli alunni a scuola (il 75% dice di star male a scuola), edilizia scolastica inadeguata... Questo governo, essendo più o meno trasversale, avrebbe potuto occuparsi del sistema scolastico portando a termine riforme su cui ci dovrebbe essere un «consenso» derivante dal «buonsenso», a prescindere dal colore politico: riforme che riguardano circa dieci milioni di persone (1 milione tra docenti e collaboratori e 9 milioni di ragazzi), un sesto della popolazione che ha bisogno di «cura». Nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), varato dopo la pandemia per orientare i finanziamenti europei, gli articoli dedicati alla scuola sono solo quattro, nei quali non trovo soluzioni adeguate al reclutamento docenti. Vi si propone l'introduzione di una scuola di formazione, l'ennesimo organo centralizzato e burocratico lontano dalle esigenze reali della scuola (quando ho preso l'abilitazione io c'era una scuola di specializzazione di due anni che poi fu abolita), non si parla della carriera dei docenti, se non con le solite generiche promesse di oboli a pioggia. Un'occasione probabilmente persa. Platone definisce la politica «arte di allevare gli esseri umani in comunità», ma il verbo «allevare» vuol dire far crescere e non trattare come bestie da macello, «marchiate» nel corpo e nell'anima.

LA GHIGLIOTTINA. Scuola, la farsa dell’esame impossibile per diventare insegnante di ruolo. RAFFAELE SIMONE su Il Domani l'08 aprile 2022

Come i preti, anche gli insegnanti di ruolo scarseggiano. Ma con una differenza: per i preti c’è una crisi di vocazione; gli insegnanti la vocazione ce l’hanno, e magari insegnano da anni, sia pure da precari: quel che manca è il concorso.

Finalmente, dopo una serie di annunci, promesse, rinvii, annullamenti, il bando di concorso tanto anelato è arrivato nel 2021, per merito della peraltro vituperata ex ministra Lucia Azzolina. I 500mila pensavano quindi di essere finalmente arrivati al termine delle loro pene. Il sospiro di sollievo è però durato poco.

Hanno scoperto che c’è una serie di ostacoli preliminari da superare: per essere ammessi alle prove occorrono 24 crediti universitari (i famigerati cfu) e, una volta ottenuti questi, una preselezione, con un quiz dalle domande assurde (e in alcuni casi sbagliate). Solo dopo si accede alla prova, che consiste in una lezione di 45 minuti da tenersi dinanzi al giurì. 

RAFFAELE SIMONE. Professore ordinario di Linguistica Generale dal 1980. Ha studiato Filosofia a Roma e ha poi trascorso periodi di studio in Francia e in Germania. Ha insegnato in diverse università italiane prima di passare alla Sapienza di Roma (1980) e poi a Roma Tre (1992).

Scuola, cambia il percorso per diventare prof. E arrivano gli aumenti di stipendio slegati dall'anzianità. Ilaria Venturi su La Repubblica il 12 aprile 2022.  

La bozza di riforma sarà presentata oggi ai sindacati. Serviranno 60 crediti per l'abilitazione, metà con il tirocinio nelle classi. I concorsi saranno annuali, con l'obiettivo di arrivare a 70mila immissioni in ruolo entro il 2024.

Tre strade per arrivare al concorso e alla cattedra di ruolo alle medie e superiori, una più agevolata per i precari storici. Più formazione - 60 crediti - tra teoria e tirocini, in aggiunta alla laurea magistrale o a ciclo unico per l'abilitazione: di fatto un reintegro del vecchio Tfa, il corso universitario di formazione e abilitazione alla professione di docente.

«Concorso ordinario scuola, vietato usare fogli di carta. L’assurda prova riservata a noi prof di matematica». Elena Corna, Marza Michelutti e Francesco De Rosa su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Per colpa del regolamento della prova al computer, alcuni di noi non hanno potuto usare neanche la penna e hanno fatto i calcoli a mente, altri se li sono scritti sulla mano. 

Il giorno 7 aprile 2022 si è svolta la prova per la classe di concorso A47 – Scienze Matematiche Applicate (valida per l’insegnamento della matematica in tutti gli istituti tecnici e professionali e nel liceo scientifico delle scienze applicate, quello con l’informatica al posto del latino, ndr), che ci piace definire «la sorella sfigata di tutte le classi di Matematica», per diversi motivi. Innanzitutto è stata esclusa dal concorso sprint che è stato organizzato l’estate scorsa in tutta fretta per le altre classi di concorso STEM (scienze, tecnologia, matematica e ingegneria, ndr), senza un chiaro motivo, nonostante essa condivida con le altre il programma, approfondendo la parte di matematica finanziaria e probabilità; può essere insegnata da tutti gli Ingegneri, che invece sono esclusi dalle altre classi di concorso per una mera questione di crediti formativi, ma poi le ore di questa materia vengono assegnate a titolari di classi di concorso di Matematica. Ma finalmente c’è stato il concorso! Il concorso che avevano bandito nel 2020, e rimandato più volte, a causa della pandemia. Un concorso che avrebbe dovuto essere strutturato con 6 domande a risposta aperta, al fine di valutare la preparazione dell’insegnante negli ambiti didattici, pedagogici, normativi e anche la conoscenza della lingua inglese. E invece, a novembre 2021, il cambio di rotta!

Dopo il successo dei concorsi a risposta multipla STEM, con la loro percentuale di bocciati pari a circa il 95%, le prove del concorso ordinario vengono tutte ristrutturate come quest’ultima, ovvero con 50 domande a crocette da cui rispondere in 100 minuti, usando il mouse del computer ma senza la possibilità di avere un foglio di carta e una penna. Quindi via tutta la parte di normativa, la parte di pedagogia e la parte di didattica, che per mesi abbiamo approfondito in vista del concorso. E mentre i candidati per le materie umanistiche lamentano test puramente nozionistici, dove sarebbe necessario avere una conoscenza enciclopedica della materia, il nostro era pieno di calcoli. Prima di cominciare abbiamo chiesto di avere carta e penna come nel concorso STEM di luglio 2021, ma non ci è stato concesso. Non è previsto, ci è stato detto: «Il test è tranquillamente risolvibile senza l’uso di carta e penna». E invece, alla terza domanda, l’amara sorpresa: un esercizio sul calcolo di sistemi in forma parametrica, e da lì in poi tutta un’altra serie di richieste e calcoli da svolgere senza l’ausilio di nessun supporto cartaceo. Per coloro che hanno studiato la materia, ci sono stati chiesti calcoli di derivate prime seconde e terze, calcoli di interessi, montanti e cedole da svolgere a mente, algebra booleana, e calcoli su figure geometriche di cui non avevamo neanche un’immagine a schermo su cui lavorare. Queste modalità di verifica non le proponiamo ai nostri allievi. Perché noi dobbiamo essere valutati come se fossimo delle enciclopedie o dei calcolatori elettronici? Ma quel che è peggio è che non in tutte le sedi d’esame i candidati hanno ricevuto lo stesso trattamento. Alcuni infatti - a giudicare dalle immagini che circolano in Rete - hanno almeno potuto usare la penna per scriversi tutti i calcoli sulla mano. Altri invece hanno avuto a disposizione - beati loro! - sia la carta che la penna.

Noi professori siamo abituati a sviluppare una certa resilienza alle situazioni che si propongono a scuola: alunni in crisi, genitori che si rivolgono a noi con toni non del tutto educati, strutture scolastiche che spesso sono fatiscenti e scarse risorse tecnologiche da usare a fronte di uno stipendio che risulta essere tra i più sottopagati d’Europa. Siamo anche consapevoli della responsabilità che abbiamo di fronte alla società e nei confronti degli studenti e per chi ci sta di fronte ogni mattina nutriamo un profondo rispetto. Allora ci chiediamo perché chi ci guida non usa con noi la stessa attenzione che noi riserviamo ai nostri alunni? Che senso ha avuto ieri proporre dei quesiti avulsi dalla realtà della didattica svolta in classe e negare carta e penna per fare i calcoli? Quali imbrogli strani avremmo potuto commettere? Nei vari corsi di aggiornamento che abbiamo fatti fin qui ci è stato sempre detto che quando la classe ad una verifica risulta per oltre il 50% insufficiente, il problema non è da ricondurre totalmente al gruppo studenti ma anche al docente, al suo modo di insegnare e per questo è chiamato a mettersi in discussione. Ecco: se alla prova di ieri siamo stati quasi tutti bocciati, siamo sicuri che sia perché siamo stati negligenti? Noi abbiamo dei forti dubbi in merito.

Concorso ordinario scuola. «Io l’ho passato ma i quiz a crocette sono pieni di risposte “quasi” giuste». Isabella Nova su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Isabella Nova, assegnista di ricerca in letteratura greca: «Adesso anche il ministro Bianchi critica la procedura. Ma perché quando fu approvata la modifica al concorso con prova secca a crocette nessuno alzò la voce, neanche i sindacati?» 

Sono Isabella Nova, al momento assegnista di ricerca in Università Cattolica, con un dottorato in letteratura greca. Dopo aver insegnato come supplente per qualche anno nei licei milanesi, mi sono iscritta, nel luglio 2020, sia al concorso straordinario per l’assunzione in ruolo (riservato a chi aveva già tre anni di servizio nelle scuole statali), sia al concorso ordinario (aperto a tutti). Il primo si è svolto tra novembre 2020 e febbraio 2021 e io ho partecipato per la classe di concorso A013 (latino e greco nei licei classici). La prova era costituita da cinque domande a risposta aperta. Sono risultata prima in graduatoria in Lombardia, ma per complicati cavilli burocratici (dovuti allo scorrimento di una precedente graduatoria) non ho potuto scegliere la scuola e sono stata assegnata d’ufficio ad una provincia per me scomoda. Ho presentato domanda di mobilità a marzo e sono in attesa del risultato.

Il concorso ordinario, invece, non si è svolto subito e, anzi, il bando originario (che prevedeva una preselettiva, due prove scritte e un orale) è stato modificato a novembre 2021 in vista di una «semplificazione» della selezione: una sola prova scritta a «crocette», con correzione automatica e immediata, e una successiva prova orale. Chiaramente, in questo modo i tempi della selezione possono essere più veloci, ma la prova scritta diventa di stampo principalmente nozionistico: non si valuta la capacità di impostare un ragionamento, argomentare, fare collegamenti, ma solo la conoscenza mirata di alcuni fatti. Per di più, un concorso a crocette è il solo tipo di prova che, potenzialmente, può essere superato anche da chi non è preparato (basta «azzeccare» la risposta giusta e, anche per esclusione o a caso, si può «indovinare») e rischia invece di penalizzare nel risultato chi si lascia confondere dalle alternative proposte (scelte con ampio uso di «distrattori», cioè risposte simili a quella giusta, che possono confondere sul momento il candidato in preda alla tensione per il concorso).

Al momento della modifica del bando, però, non si è manifestata nessuna protesta o obiezione da parte di sindacati, politici, insegnanti o candidati (come invece sta accadendo in questi giorni): se qualcuno davvero riteneva che la prova non fosse adeguata, il momento per segnalarlo doveva essere quello. Si è espresso anche il Ministro Bianchi, in questi giorni, sull’inadeguatezza della prova a crocette! Il calendario delle prove, quindi, è stato pubblicato il 23 febbraio 2022 (circa due anni dopo il primo bando) con inizio delle prove, per alcune classi di concorso, il 14 marzo: pochissimo tempo, quindi, per prepararsi e per conciliare lo studio con qualsiasi altra esigenza. Anche su questo, purtroppo, non si è vista nessuna protesta.

Ammesso tutto questo, però, devo dire che le prove che ho affrontato io non erano impossibili. Ho superato sia la prova per A022 (italiano, storia e geografia alle medie), tenutasi il 22 marzo, sia quella per A011 (italiano e latino nei licei), il 4 aprile. Le prove erano strutturate con 50 quesiti a risposta chiusa, di cui 40 sui contenuti disciplinari, 5 di inglese e 5 di informatica, ognuna valeva 2 punti e la sufficienza era con 35 risposte giuste, cioè 70/100. La prova per A011 era pienamente fattibile per chi avesse la preparazione necessaria ad insegnare. Si trattava di riconoscere passi di letteratura latina e italiana molto famosi, attribuirli al corretto autore o all’opera, individuare la corretta traduzione di un passo o il modello latino di un testo di letteratura italiana, e qualche domanda semplice di lingua latina. I quesiti di storia antica potevano risultare più insidiosi, ma erano tutti risolvibili con il ragionamento. Rimaneva sicuramente un gruppo di domande eccessivamente dettagliate e slegate dalla pratica scolastica (cosa ritraevano le carte nautiche medievali italiane o quale sia la teoria geografica di Lucio Gambi), ma in nessun modo queste potevano compromettere la sufficienza, se si aveva una preparazione adeguata.

La prova per A022, per la quale si è registrata un’altissima percentuale di bocciati (946 promossi su circa 6600 candidati), era più strettamente nozionistica: erano richieste date esatte di avvenimenti storici o riferimenti precisi a personaggi (chi è il papa del Dictatus Papae? Gregorio VII), riferimenti letterari molto dettagliati (si chiedeva di individuare correttamente uno scritto in prosa di Montale e le alternative erano tutte opere in prosa di Montale -la soluzione era il discorso per il premio Nobel). Tra le domande di informatica, per entrambi i concorsi, immancabilmente presente era il PNSD (piano nazionale scuola digitale), con domande come: ‘a cosa si riferisce la sigla OER nel PNSD’? (la sigla sta per: Open Educational Resources). E adesso? A fronte di due prove superate, rimane ancora incerto il resto del percorso: non c’è il calendario delle prove orali (è stata estratta la lettera per iniziare le convocazioni, ma nel caso di A022, a partire dalla lettera R è stato pubblicato il calendario delle convocazioni fino ai candidati con cognome iniziante per V) e non ci sono tempi certi per le assunzioni in ruolo (come accade ad ogni concorso per la scuola). Nel mio caso, oltretutto, c’è una variabile in più: sto ancora aspettando di sapere a quale sede sarò destinata per il concorso vinto l’anno scorso e con il punteggio più alto in Lombardia. 

Concorso scuola, la beffa di un prof di ruolo: «Ho fatto da cavia, hanno bocciato anche me». Marco Ricucci, professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano,  su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Record di respinti nel nuovo concorso ordinario con risposte a crocette: «Io, laureato con massimo dei voti, due anni di scuola di specializzazione, 10 in cattedra alle medie, con questo sistema non sarei entrato di ruolo». 

Il concorso è finalmente arrivato per tanti aspiranti docenti, giovani e vecchi, precari storici e novizi, e lo Stato, dovendo «scremare» con la mannaia tale pletora di quasi mezzo milione di domande presentate nel 2020, ha avuto la fortuna di poter applicare la versione del concorso «semplificato», approvato col decreto 73 del maggio 2021 e i decreti attuativi del dicastero guidato dal Ministro Bianchi. Ai più attempati, posti davanti al monitor di un computer, nel rispondere a domande a crocette, sarà senza dubbio venuta in mente la sigla di un famoso programma di Renzo Albore: «Sì, la vita è tutt’un quiz/E noi giochiamo/E rigiochiamo/Perché noi non ci arrendiamo/Fino a quando non vinciamo…».

Questa è la sensazione che si aveva sia per la novità dello scritto del concorso a riposta multipla rispetto alle domande aperte più tradizionali, sia per la durata del medesimo, ovvero 100 minuti in cui uno «si giocava» il proprio futuro professionale, per così dire. Il concorso, così svolto, ha l’innegabile vantaggio di essere velocizzato, rispetto ai tempi titanici che Commissioni, formate da docenti di ruolo, impiegavano, di solito, nel correggere le prove scritte del concorso vecchia maniera: non solo per l’alto numero degli elaborati, ma anche perché i commissari non hanno mai avuto nessuna agevolazione come ad esempio l’esonero dal servizio o una riduzione - seppur momentanea - dalle ore svolte a scuola, per tacere poi dei compensi da fame, cambiati di poco da quelli «scandalo» del concorso ai tempi renziani del 2016 . Insegnare al mattino, correggere i compiti, partecipare alle riunioni e poi correggere, con lucidità adeguata, migliaia di prove scritte del concorso è una fatica tantalica, in quanto si aspirerebbe a fare bene, e con serietà, tutto quanto dovuto, il che tuttavia è altamente improbabile.

Concorsi Stem, tre in meno di un anno basteranno a riempire i buchi idi matematica e fisica?

Il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato i famigerati «Quadri di riferimento» per ogni classe di concorso (materia scolastica) ovvero i contenuti su cui qualche agenzia specializzata nel confezionare quiz ha tenuto conto, su mandato dei Ministero, per formulare le variegate domande: a leggerle con attenzione, si tratta, tuttavia, dello scibile umano, che nemmeno un Pico della Mirandola avrebbe potuto memorizzare. Dopo i fatidici 100 minuti, la stragrande maggioranza degli aspiranti docenti ha avuto l’onere e l’onore di avere subito il verdetto di un quiz che è stato definito «la ghigliottina» come un gioco a premi su RAI 1: chi avesse risposto ad almeno 35 risposte corrette su 50 (di cui 5 su informatica, 5 su inglese), raggiungendo la soglia della sufficienza ovvero un punteggio di 70 su 100 (ogni risposta esatta vale 2 punti), accedeva alla finale, ovvero al colloquio in cui, come da copione, in 45 minuti l’aspirante docente deve mimare una sorta di lezione davanti a una commissione di docenti di ruolo.

Insomma, ancora una volta i candidati, aboliti i percorsi di formazione iniziale dei docenti come SISS e TFA, che includevano un tirocinio diretto in aula, sono stati selezionati in base a mere conoscenze nozionistiche, ignorando del tutto gli aspetti pedagogici, emotivi e attitudinali di chi deve salire in cattedra. L’unico vero apprendistato per imparare a insegnare rimane il precariato, in cui ci si fa le ossa, nell’attesa della stabilizzazione attraverso la modalità tirata fuori dal cappello del politico di turno. Basterebbe leggere il brillante e documentatissimo saggio di Francesco Magni, ricercatore presso l’Università di Bergamo, «Formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti in Italia. Percorso storico e prospettive pedagogiche» (Studium, Roma 2019), per rendersi conto che nel nostro Paese, ma in particolare in determinate discipline e aree geografiche dello Stivale, giovani laureati aspiranti docenti continuano a essere lasciati in balìa di procedure di selezione incerte e farraginose.

Se dunque abbiamo inquadrato il problema, sia a livello storico-pedagogico, sia a livello scolastico, in cui ogni anno la «supplentite» è un male cronico, come mai non è possibile un concreto e radicale cambio di paradigma? Dobbiamo essere inesorabilmente condannati alle fatiche di Sisifo per cui docenti si diventa per fortuna e non per merito? Il quale merito consiste in preparazione, attitudine, motivazione, parametri che un sistema di selezione serio dovrebbe avere per reclutare il corpo docente. Ancora una volta si è consumato un torto nei confronti dei nostri studenti, in quanto un sistema inadatto, troppo sbrigativo, aveva il compito di scegliere i loro futuri insegnanti mediante domande, le quali avevano risposte incerte, altre imprecise, altre perfino troppo semplicistiche.

La grande bocciatura dei «crocettatori» ha però risolto l’antico problema di reperire docenti per le commissioni: se si considera, ad esempio, che per Lettere alle medie (classe di concorso A022 secondaria primo grado) i candidati alla prova scritta erano circa 6.000 e gli ammessi alla prova orale sono 964, per poco più di 900 cattedre libere e vacanti, si capisce perché assai prontamente l’USR per la Lombardia abbia costituito appena due commissioni, in tempi record. Di fronte a questo «efficientismo» della macchina organizzatrice, grazie alla quale il concorso sarà espletato, questa volta, in tempi normali e i vincitori saranno verosimilmente in cattedra a settembre 2022, rimane il ragionevole dubbio se sia rimasto escluso qualche candidato meritevole e capace, vista la procedura poco prima illustrata.

Sicuramente, io posso parlare per me: ho partecipato regolarmente alla prova come «cavia» umana volontaria, se mi si consente l’espressione, per provare l’ebbrezza del concorso ordinario, in quanto io sono entrato di ruolo dopo essere stato selezionato e abilitato con la SISS attraverso lo scorrimento delle Graduatorie ad Esaurimento. Ebbene, ho raggiunto 68/70 nella prova computerizzata: ho una laurea in lettere conseguita col massimo dei voti, un corso biennale di formazione specialistico per diventare professore, quasi 10 anni di insegnamento alle medie, un anno di formazione e prova superato. Sono «colpevole» di non aver saputo, ad esempio, indicare il titolo di un romanzo tra quattro di altrettanti autori siciliani dati come alternative nelle risposte, non ambientato in Sicilia. La risposta corretta è Eva di Giovanni Verga, un romanzo scritto dal grande scrittore prima di aderire al Verismo, quando viveva a Milano: ho scoperto che si svolge a Firenze! La differenza, però, è sostanziale: chi ha studiato seriamente per prepararsi al concorso (all’inizio doveva essere a risposta aperta), sarà rimasto allibito di fronte a domande del genere e amareggiato per non essere selezionato in base a criteri sensati, mentre io non ho fatto altro che affrontare il concorso come un gratta-e-vinci, per poi, bocciato, ritornare a occupare la mia cattedra di ruolo. Speriamo nella prossima volta, in un concorso basato su criteri diversi. Io però non ci sarò.

Massimo Arcangeli per “Libero quotidiano” l'8 aprile 2022.

Non è rara la presenza, in una commissione concorsuale, di una precisa categoria di persone: i presuntuosi che si credono più intelligenti di tutti, e dovendo allestire test o elaborare domande da sottoporre ai candidati ricorrono a trabocchetti dei quali, di frequente, sono poi vittime loro stessi. Di queste persone, da quel che stiamo vedendo, ce ne sono un bel po' anche tra i fenomeni che hanno approntato i test del concorso scolastico ordinario in corso di svolgimento. E c'è anche di peggio.

Chiede un quesito (proposto per la selezione degli insegnanti di sostegno), con riferimento al contenuto dell'art. 34 della nostra Costituzione, quale delle quattro opzioni seguenti sia giusta. Quell'articolo riconosce il «ruolo degli istituti comprensivi nell'ambito territoriale» (a), le «modalità organizzative degli istituti paritari» (b), l'«autonomia delle istituzioni scolastiche» (c) o la «libertà d'insegnamento» (d)? Niente di tutto questo, perché l'interessato - l'opzione corretta è l'ultima - è l'art. 33 del testo costituzionale.

In un altro quesito si chiede - in lingua inglese - di riconoscere le prime righe («the first lines») di un libro famoso. Ecco la frase proposta: «I begin with writing the first sentence - and trusting to Almighty God for the second» ("Comincio a scrivere la prima frase, confidando per la seconda nell'onnipotenza divina"). Per il selezionatore il libro in questione sarebbe il "Tristram Shandy" di Laurence Sterne.

Peccato che si confonda l'inizio del romanzo col momento in cui la voce narrante, parlando di come avviare un libro, si dichiara convinta che il suo incipit, oltreché il più religioso, sia il migliore di tutti gli inizi possibili: quel momento compare, nella "vulgata" del romanzo a puntate di Sterne, nel secondo capitolo dell'ottavo volume dell'opera, che chiunque abbia elaborato il quesito non ha evidentemente mai aperto.

Domanda di fisica: «Se si immerge un solido avente una massa di 0,1 kg in un recipiente di 100 centimetri cubi di acqua, il livello di questo cresce e il volume totale del liquido più il solido immerso sale a 125 centimetri cubi. Quanto vale la densità assoluta del solido?». Anche qui nessuna delle quattro possibilità previste (400 kg/cm3, 400 g/cm3, 4 g/dm3, o,004 kg/m3), è quella corretta (4 g/cm3). 

Non si contano, nel concorsone scolastico, gli esempi di test assurdi, mal posti, fuori programma, erronei - come nei casi appena visti - o anche solo ambigui. Il cammino è una sequenza o una successione di passi? E la congiunzione "ebbene", nell'esempio «Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ebbene ha rifiutato», ha un valore conclusivo (l'opzione ritenuta giusta) oppure avversativo? Ha entrambi i valori, ovvio, e l'avversativo pesa addirittura di più: "Gli avevo chiesto se poteva farmi un favore, ma ha rifiutato".

La giurisprudenza italiana è chiarissima in materia di inattendibilità (o dubbia attendibilità) scientifica di un quesito a risposta multipla, si tratti di una prova di concorso o di un test selettivo per l'accesso agli studi universitari. Per una selezione degna di questo nome, che ottemperi ai criteri - a tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione, secondo quanto contemplato dall'art. 97 della nostra Costituzione - della proporzionalità, della ragionevolezza e dell'adeguatezza (Legge n.241/90), è necessaria l'assoluta «certezza ed univocità della soluzione» (TAR Campania, Napoli, sezione IV, sentenza 30 settembre 2011, n. 4591), che non deve prestare il fianco ad ambiguità o contraddittorietà.

Queste, qualora investano più di un caso, possono peraltro riflettersi negativamente sull'intera prova da sostenere da parte del candidato, disorientandolo, deconcentrandolo e facendogli sprecare il tempo che avrebbe potuto dedicare alla soluzione degli altri quesiti da svolgere (cfr. TAR Lombardia, Milano, sezione I, sentenza 29 luglio 2011, n. 2035; TAR Campania, Napoli, sezione IV, sentenza 30 settembre 2011, n. 4591 e sentenza 28 ottobre 2011, n. 5051).

Il governo deve dare una risposta a tutti i partecipanti beffati da un concorso che sarebbe da annullare. Fuori i nomi dei responsabili dei test del più grande scippo concorsuale dell'Italia repubblicana, consumato ai danni di migliaia di docenti sottoposti in molti casi, per giunta, a quesiti ipernozionistici, che nemmeno i peggiori telequiz televisivi. E intanto il ministro dell'Istruzione ha pure il coraggio di consigliare agli insegnanti di non impartire ai loro studenti troppe nozioni.

·        Concorsi ed esami truccati all’università.

Milano, concorsi truccati all'università, per il pm è «cooptazione, ma non reato». Luigi Ferrarella Il Corriere della Sera l’1 dicembre 2022

La Procura chiede di archiviare 38 docenti (tra cui la neo ministra Anna Maria Bernini) indagati a Bari nel 2014. Il gip non condivide la tesi ma proscioglie tutti per intervenuta prescrizione

Cosa c’è alla base dei concorsi universitari? Il «do ut des». Ma non quello del reato di corruzione, secondo la Procura di Milano, bensì quello di «un collaudato rigido sistema di cooptazione», una «immanente logica di scambio» nella quale «a ognuno toccherà il proprio "turno di riconoscimento"»: disdicevole, ma non reato per il pm Luca Poniz, al quale però «sommessamente» pare che «potrebbe essere l’occasione perché il legislatore adatti le regole normative alle prassi, responsabilizzando chi la cooptazione pone in essere, secondo riconoscibili principi di etica e di trasparenza». È la motivazione con cui la Procura di Milano risulta (adesso da un provvedimento definitorio di un gip) aver chiesto (nel dicembre 2020) l’archiviazione delle ipotesi di reato di associazione a delinquere, corruzione, abuso d’ufficio e falso che nel 2011 i pm di Bari, prima del trasferimento di competenza nel 2014 a Milano per ritenuta connessione con un concorso all’Università Bicocca del 2008, avevano mosso a vario titolo a 38 docenti di numerosi atenei (tra i quali la neoministra dell’Università Anna Maria Bernini, l’ex componente del Csm Mauro Volpi, l’ex Garante della Privacy Francesco Pizzetti, il vicepresidente del Cnr Tommaso Frosini, o il vicepresidente della Scuola Superiore dell'Avvocatura, Salvatore Sica), «nel contesto della Associazione tra gli studiosi di diritto pubblico comparato ed europeo presieduta per tre lustri dall’accademico (pure ora archiviato) Giuseppe Franco Ferrari. 

Ed è una tesi doppiamente interessante. Intanto perché proviene dalla stessa Procura milanese che, in un differente fascicolo istruito dai pm Scalas e Baj Macario, sta invece chiedendo di processare il per turbativa d’asta e falso i rettori delle Università Statale e San Raffaele, Elio Franzini e Enrico Gherlone, o l’infettivologo Massimo Galli. E poi perché ora il vaglio del gip Luca Milani (subentrato da ultimo agli iniziali gip titolari) condivide solo parzialmente questa tesi, sposando nel merito l’inesistenza della associazione a delinquere, ma sulla corruzione accogliendo l’archiviazione soltanto per intervenuta prescrizione «e non certo per infondatezza della notizia di reato», che altrimenti per il gip sarebbe stata «meritevole di approfondimento processuale in un contraddittorio che contemplasse anche i candidati eventualmente pregiudicati dall’esito finale» dei concorsi in esame. 

Incontestato era che dalle intercettazioni baresi «emergesse chiaramente una fitta rete di relazioni tra gli esponenti di varie "scuole", di alleanze e ostracismi, amicizie e idiosincrasie», «un ambiente spregiudicato, litigioso e dalla etica incerta», «una interferenza indebita di soggetti estranei alle procedure concorsuali per esercitare una influenza nel giudizio». Solo che il pm fatica a ravvisarvi una corruzione (cioè uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio scambiato con una percepibile utilità), e coglie invece «un sistema "generale e immanente", operante all’interno (più che nell’ombra) del mondo universitario e dei suoi concorsi, nel quale è principio notorio, accettato e largamente condiviso, nonché talvolta spregiudicatamente praticato, quello secondo cui le scuole allevano e presentano i loro allievi, li fanno conoscere e lavorano per ottenerne un’affermazione accademica, secondo le tappe e le scansioni temporali, e in ragione di un mutuo accordo tra scuole con logiche di accordo e programmazione "nel tempo"». 

Ciò che rende i concorsi universitari «assolutamente peculiari e diversi» dagli altri concorsi pubblici è per il pm il fatto che «i valutatori sono "interni" all’ambito accademico, e dunque già in astratto portatori di una "conoscenza domestica" degli aspiranti professori noti per saggi e convegni». Questo significa che «il confronto tra commissari, anche in momenti diversi da quelli formalmente deputati all’espressione del giudizio, non solo non è ontologicamente illecito, ma è finanche "fisiologico" e verrebbe da aggiungere "naturale"» nel senso della memoria difensiva argomentata dall’avvocato Massimo Ceresa Gastaldo: di essa il pm sposa l’idea che «l’attività scientifica e quella didattica implicano un’attività creativa che può essere giudicata solo da valutatori altamente competenti, la cui necessariamente ampia discrezionalità tecnica sia "compensata" a monte dalla carica democratica espressione di sistemi direttamente o indirettamente elettorali, e a valle dalla pubblicità della procedura e dalla verifica a valle dei risultati motivati». 

Il tramestìo restituito dalle intercettazione è dunque brutto ma non reato ad avviso della Procura, secondo la quale al massimo, «e con l’evidente rischio di percorrere la via del teorema e della censura del "fenomeno" piuttosto che dei fatti, si potrebbe teorizzare l’esistenza di una per così dire "genetica" logica di scambio», nella quale le pur «"energiche manifestazioni di auspicio" nella direzione gradita da alcuni capiscuola, per quanto deprecabili e certo integranti un pessimo costume, non hanno in sé attitudine a integrare una condotta illecita, a tacere di quale sarebbe il carico penale derivante dalla rigorosa penalizzazione della prassi delle raccomandazioni in un sistema come quello italiano eticamente disinvolto».

Università, scandalo nella Genova-bene: il prof «vendeva» esami e tesi, indagati 29 studenti. Andrea Pasqualetto il 12 Ottobre 2022 su Il Corriere della Sera.

Nella bufera alcuni corsi di laurea di Economia dell’Università ligure. Il pm: il docente scriveva tesi e inviava le risposte giuste via Whatsapp durante le prove. Coinvolti tra gli altri il figli dell’armatore Messina e il nipote dell’arcivescovo Balestrero. A rischio le carriere accademiche. 

C’è il figlio dell’armatore Messina che si è fatto scrivere una tesi di laurea di Economia dal titolo lungimirante: «Il problema della successione nelle imprese familiari»; c’è la nipote dell’ex sottosegretario vaticano per i rapporti con gli Stati, l’arcivescovo Balestrero, che durante alcuni esami scritti aspettava le risposte via whatsapp, naturalmente per riportarle paro paro sui fogli dei test; ci sono parenti di imprenditori, manager, immobiliaristi, politici. In tutto 29 studenti, quasi tutti rampolli della Genova bene che per superare esami e stringere sui tempi hanno pensato di ricorrere all’aiutino offerto da un professore compiacente e conosciuto nel capoluogo ligure: Luca Goggi, 47 anni, dal 2020 dirigente scolastico dell’istituto comprensivo di Prà. Non un docente universitario, ma un insegnante comunque molto preparato e affidabile. La procura di Genova ci ha visto un sistema truffaldino e ha deciso di indagare lui e 29 studenti per «falsa attribuzione di lavori altrui da parte di aspiranti al conferimento di lauree, diplomi, uffici, titoli e dignità pubbliche». Che mette nei guai il professore e rischia far saltare esami e lauree dei novelli dottori, oltre che prevedere una pena fino a tre anni di reclusione. L’indagine, condotta sul campo dalla Guardia di finanza, si è chiusa in questi giorni con il deposito degli atti che precede

Il prezzo

«Goggi eseguiva o comunque procurava le risposte a quesiti scritti di esami universitari nonché dissertazioni di tesi a vantaggio degli studenti, con le aggravanti del raggiungimento dell’obiettivo, del fine di lucro,e all’abitualità», scrive il pm Francesco Ardona Albini nell’atto finale. Sul lucro del docente è presto detto: 35 euro all’ora per le tesi, dai 70 in su sempre all’ora per le ripetizioni offerte in vista dell’esame che normalmente duravano un mesetto. Il che significa che per superare la prova lo studente pagava oltre mille euro di ripetizioni, costo che lievitava per il «servizio laurea». 

Il sistema

Funzionava così: in vista dell’esame il candidato si rivolgeva al prof per chiedere lezioni private e «supporto» finale. Il giorno della prova scritta fotografava le tracce, le inviava con whatsapp a Goggi e lui rispondeva in tempi rapidi con lo svolgimento. «Gli studenti poi andavano in bagno a leggerle e trascriverle», spiega l’inquirente. Diverse gli esami interessati: «Storia economica», «Economia della mobilità urbana», «Statistica», «Ragioneria generale», «Economia degli intermediari finanziari», «Economics of boating»... Tutte prove dei corsi di laurea di Economia dell’Università di Genova. Ma il prof si adoperava, come si è detto, anche per le tesi. Ne ha scritte decine: «Benetton spa e le sue strategia», «La concorrenza tra hub aeroportuali passeggeri», «Le crociere di lusso», «Il settore automotive e la guida autonoma»... e avanti così. La firma in calce era del laureando, l’autore era lui nei panni di gosthwriter. 

L’esposto

L’indagine è partita tre anni fa da un esposto dell’ateneo che segnalava alcune stranezze riscontrate negli scritti, corroborate da voci di fuga di tracce. Goggi non usava infatti molte cautele e fra gli studenti il suo contributo era diventato un must per chi sceglieva la scorciatoia. Messi in allarme, gli uomini della Guardia di finanza hanno così preso a controllare alcune sessioni d’esame. Decidendo di intervenire nel corso di una di queste. Hanno bussato a casa di Goggi e l’hanno trovato mentre scambiava messaggi con uno studente che gli aveva appena mandato alcune domande. 

La flagranza

Nel frattempo Goggi ha comunque continuato a insegnare. Due anni fa ha fatto il salto di qualità: da docente dell’Istituto Montale a dirigente del Prà. Gli inquirenti stanno cercando di capire perché le autorità scolastiche abbiano consentito la promozione pur sapendo dell’indagine in corso. Una domanda, poi, su tutte: quei telefonini in un’aula d’esame che fotografano e inviano, possibile?

La difesa

Gli avvocati degli studenti tagliano corto. Nicola Scodnik, che difende Balestrero, preferisce non commentare. Giuseppe Giacomazzi (Messina) la liquida come posizione marginale. Lorenza Russo, alla quale si sono rivolti diversi indagati, si limita a precisare che i suoi clienti non sono figli di personaggi famosi: «Famiglie benestanti, certo, ma non famose. Quanto al resto vorrei prima leggere gli atti». 

Obiettivo: pezzo di carta

Emerge un dato comune, quasi un vezzo: questi studenti «bene» sembrano interessati più al pezzo di carta che al voto finale. Alessandro esce con 86/110, Giulia con 82, Stefania con 85, Andrea con 79, Giacomo con 80... Nessuno sopra il 100. E anche i voti d’esame non erano da primato: 18, 19, 20, 21. Insomma, l’importante era superare la prova e tagliare il traguardo della laurea al più presto. Costasse quel che costasse.

 Esami truccati a Genova, il racconto di Elisa la supertestimone: «Mi bocciavano, così gli altri compravano la promozione». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022

Il racconto della studentessa di 25 anni agli inquirenti che indagano su 29 universitari di Economia per aver «comprato» prove e tesi da un docente: «Lo facevano soprattutto i ricchi» 

Bocciata per la terza volta. Esame di Ragioneria generale, la sua bestia nera. Nel 2019 Elisa aveva 25 anni e il sogno della laurea in Economia. Che fare? In preda allo sconforto ne parlò con Alessandro, suo compagno di corso all’Università di Genova. «E lui mi ha dato il numero di telefono di tale Luca di Albaro, il quale teneva lezioni di ripetizione a casa sua che mi avrebbero garantito il superamento dell’esame. I costi erano però troppo alti e ho deciso di lasciar perdere, anche perché i miei genitori erano contrari».

«Dipendeva da quanto pagavi»

Non c’era solo Alessandro a consigliarle di rivolgersi a quel Luca di Albaro: Paolo, Nicolò, Umberto, Matilde, Edoardo, Andrea... «Tutti figli di famiglie facoltose della zona di Albaro», precisa Elisa davanti agli investigatori che hanno indagato su certe prove scritte del dipartimento di Economia, sollecitati in ciò dalla stessa Università che sospettava il trucco degli esami copiati.

Luca di Albaro era il professor Luca Goggi, oggi quarantasettenne preside dell’Istituto comprensivo di Prà. Allora insegnava in una scuola secondaria ma aveva comunque un’ottima preparazione in alcune materie tecniche, tanto da diventare il mito degli studenti universitari con pochi scrupoli che grazie a lui si garantivano il superamento di certi esami. «Dipendeva da quanto pagavi e lui ti assicurava un certo trattamento... Mi era stato detto che avrei dovuto inviargli una foto del compito durante l’appello e che lui l’avrebbe svolto inviandomi la soluzione in diretta».

«Non me la sentivo»

Già scoraggiata dai suoi genitori, Elisa dice che non se l’è proprio sentita di sfruttare l’opportunità offerta dal prof compiacente. Ma non tanto per il costo, che pure sarebbe stato un problema. «No, per il fatto che non sarei stata in grado di fare una cosa simile durante il compito».

Ha scelto così la strada più irta ma almeno lecita e per lei anche meno ansiogena: testa bassa sui libri e avanti. Risultato? «Ce l’ho fatta, ho superato l’esame. Ricordo che subito dopo lo scritto ero in compagnia di Matilde e di una sua amica per confrontarci sull’esame appena sostenuto e l’altra mi ha mostrato il suo cellulare. C’era la foto delle soluzioni manoscritte del compito che avevamo appena fatto. Era whatsapp, la cosa mi ha sorpreso ...». Era la foto inviata dal professor Goggi. Funzionava così: in prossimità dell’esame lo studente chiedeva lezioni private al prof, il giorno della prova scritta fotografava il testo con esercizi e domande e il docente inviava a stretto giro lo svolgimento e le risposte.

Lo scandalo

La testimonianza di Elisa ha dato impulso all’indagine della procura di Genova che ha portato a scoperchiare il sistema truffaldino degli esami e delle tesi copiate dagli studenti di Economia, per lo più figli della Genova bene. Famiglie di imprenditori, professionisti, politici, pure di un alto prelato. Uno scandalo che ha travolto il professore in questione, finito indagato insieme con gli studenti che si avvalevano dei suoi servizi spericolati.

«Loro sono benestanti e possono farlo», ha detto Elisa, combattuta fra la tentazione di ricorrere al «sistema Goggi» e la vocina che da dentro le ha detto no, è ingiusto, consigliata in ciò anche dalla faccia torva di suo padre.

«L’ho superato!»

Alla fine ci avrà messo qualche mese in più ma l’esame l’ha passato ugualmente e ora sua laurea è pulita e nessuno gliela può togliere. I suoi compagni, quei ventinove finiti nel registro degli indagati, rischiano invece di tornare fra i banchi universitari. Per non parlare del prof, lui vede nero.

Tesi ed esami falsati all’Università di Genova, indagati 29 studenti e un docente. Marco Lignana La Repubblica il 12 Ottobre 2022.  

Fra gli indagati figurano cognomi molto noti a Genova. Da Riccardo Giacomazzi (della famiglia del costruttore), a Maria Balestrero (nipote del monsignore già al centro di indagini fiscali); da Giulia e Stefania Elies (parenti di un manager Piaggio) ad Alessandro Abbundo (familiare dell'ex consigliere regionale) fino a Paolo Messina, figlio di Stefano, presidente dell'omonimo gruppo di armatori, accusato di essersi fatto scrivere da Goggi la tesina intitolata "Il problema della successione nelle imprese familiari". Per il suo legale Giuseppe Giacomini "si tratta di una posizione del tutto marginale"

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A ricevere l'avviso di conclusione delle indagini preliminari sono stati in trenta. Ventinove studenti di Economia (molti ormai ex alunni) e un insegnante di scuola superiore che negli ultimi anni ha fatto una brillante carriera, ed è arrivato a dirigere un istituto comprensivo. Ma per il sostituto procuratore Francesco Cardona Albini sono tutti responsabili di due reati che con il merito, caposaldo della formazione accademica, hanno proprio nulla a che fare. Anzi a quanto pare sembra servito a poco, per molti fra gli indagati, essere i rampolli di alcune delle più brillanti famiglie genovesi, imprenditori e manager, dirigenti pubblici e politici. Non hanno seguito le orme familiari dunque ma - sempre stando all'accusa - hanno cercato la scorciatoia illecita.

Secondo quanto ricostruito dalla Procura e dal Nucleo Operativo Metropolitano della Guardia di Finanza, l'allora insegnante delle superiori all'Eugenio Montale e oggi dirigente scolastico dell'istituto comprensivo di Pra', Luca Goggi, da casa sua suggeriva via WhatsApp alcune risposte d'esame agli studenti. In più, scriveva loro le tesine alla fine del ciclo triennale.

I finanzieri avevano scovato il professore a casa sua, cellulare in mano, mentre suggeriva ai propri ragazzi le risposte degli esami. Fra questi Ragioneria, Statistica, Economia della Mobilità Urbana, Politica Economica e Finanziaria. Nel frattempo un militare si era "infiltrato" in una sessione d'esame, e aveva avuto la conferma di come stavano andando davvero le cose. Gli episodi contestati sono avvenuti fra il 2018 e il 2019: sempre secondo gli inquirenti, ogni ora dedicata alla scrittura delle tesi costava 35 euro.

A far partire gli accertamenti erano state le segnalazioni degli stessi studenti. Perché di fronte a un esame in particolare, quello di Ragioneria Generale, chi seguiva le ripetizioni private da Goggi - difeso dall'avvocato Federico Figari - riusciva sempre a passare, anche se non pareva proprio preparatissimo. In più, sfornava tesine di buon livello in tempi record. Ai trenta indagati è contestato li reato previsto da una vecchia legge del 1925 sulla "falsa attribuzione di lavori altrui da parte di aspiranti al conferimento di lauree, diplomi, uffici, titoli e dignità pubbliche".

Interpellato sulla vicenda, il rettore Federico Delfino ha spiegato che "quando abbiamo appreso dell'inchiesta, nel marzo 2021, abbiamo scritto alla Procura per eventuali provvedimenti. La risposta fu che le indagini erano ancora in corso, quindi abbiamo aspettato. Adesso bisogna distinguere fra chi è ancora iscritto all'Università e chi è ormai fuori dall'Ateneo. Per i primi, in caso di rinvio di giudizio, la commissione disciplinare potrà comminare una sospensione fino a 18 mesi. I secondi invece non sono più nostre matricole, e una eventuale decisione si potrà prendere solo in caso di condanna definitiva".

Fra gli indagati figurano cognomi molto noti a Genova. Da Riccardo Giacomazzi (della famiglia del costruttore), a Maria Balestrero (nipote del monsignore già al centro di indagini fiscali); da Giulia e Stefania Elies (parenti di un manager Piaggio) ad Alessandro Abbundo (familiare dell'ex consigliere regionale) fino a Paolo Messina, figlio di Stefano, presidente dell'omonimo gruppo di armatori, accusato di essersi fatto scrivere da Goggi la tesina intitolata "Il problema della successione nelle imprese familiari". Per il suo legale Giuseppe Giacomini "si tratta di una posizione del tutto marginale".

Gli studenti indagati - seguiti fra gli altri dai legali Lorenza Rosso, Nicola Scodnik, Maurizio Tonnarelli, Ernesto Monteverde, Massimo Boggio, Andrea Vernazza - sono: Alessandro Cafiso, Valeria Cevasco, Giulia Elies, Stefania Elies, Andrea Migliaccio, Giacomo Roveda, Matteo Pittaluga, Eugenio Bottino, Alessandro Abbundo, Paolo Messina, Maria Balestrero, Camilla Cartasegna, Edoardo Sinisi, Benedetto Avallone, Emanuele Vallarino, Francesco Ceriana, Federico Bartolaccini, Edoardo Piccin, Ludovica Casaleggio, Emanuele Ceppellini, Francesco Ciliberti, Tommaso Mansanti, Matteo Morasso, Lorenzo Talarico, Marco Cesari, Gabriele Macchiavelli, Riccardo Giacomazzi, Niccolò Scelti, Enrico Ciurlo.

 Tutti sanno, nessuno denuncia: e i concorsi universitari truccati annegano nell’omertà. Si moltiplicano le indagini sulle prove manomesse che portano in cattedra chi non merita di diventare professore. Se ne occupa anche l’Antimafia. Ma pochi parlano, per paura delle ritorsioni. E tra depenalizzazioni e prescrizione, i magistrati hanno armi spuntate. Gloria Riva su L'Espresso il 19 settembre 2022.

Oreste Gallo è uno dei pochi camici bianchi a usare la tecnica microinvasiva per verificare la presenza di cellule tumorali del cavo orale. Dirige il reparto di Otorinolaringoiatria all’ospedale universitario fiorentino Careggi ed è professore all’Università di Firenze. Nonostante il suo curriculum e le 225 pubblicazioni scientifiche, la sua carriera nell’università italiana non proseguirà oltre. Nel 2017 si è presentato alla Procura fiorentina anticipando i nomi dei vincitori di alcuni imminenti concorsi per professori ordinari.

Mafia universitaria: concorso truccato all'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

Segnalazione di Christian Corda ad Antonio Giangrande del 23 settembre 2022 

Gentile Dottor Giangrande,

Spero che Lei ed i Suoi cari stiate bene in questi tempi difficili (Covid-19, guerra Russia-Ucraina, eccetera). Sono un fisico teorico ed astrofisico italiano che ha ottenuto dei risultati riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, vedere ad esempio CV allegato (molte di pagine n.d.a.) 

Nel 2019 vinsi il posto di Professore Ordinario di Fisica Teorica alla prestigiosa università di Istanbul, in Turchia (l’autocratica Turchia pare più meritocratica della democratica Italia). Purtroppo, per via del Covid-19 la mia carriera accademica si è dovuta interrompere essendo dovuto rientrare in Italia da Istanbul dopo soli due mesi, avendo in Italia, a Prato in Toscana, per la precisione, una moglie e due figli piccoli (attualmente 12 e 7 anni). Per via della scarsità dei concorsi e della difficoltà a poterli superare (per via del noto problema del baronato universitario) nelle università e centri di ricerca italiani, da due anni faccio supplenza in una scuola superiore della città in cui vivo, Prato, in Toscana. L'anno scorso partecipai al concorso bandito dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare B.C. 23524/2021. Nonostante il mio CV  ed i risultati della mia ricerca scientifica siano superiori, non solo a quelli degli altri candidati, ma addirittura a quelli dei Commissari del concorso, sono stato vergognosamente trombato con delle valutazioni ridicole sia allo scritto sia riguardo i titoli. Riguardo lo scritto, avevo parlato di argomenti sui quali avevo ottenuto dei prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali. In più, i Commissari del concorso non erano esperti dei miei rami di ricerca. Per quanto riguarda i titoli, come già detto il mio CV è migliore di quello degli stessi Commissari...

Il tutto è spiegato in dettaglio nel ricorso gerarchico che ho inviato ieri al ministro dell'università e della ricerca e che troverà in allegato. Ho fatto ricorso al ministro e nei prossimi giorni denuncerò penalmente i Commissari alla Procura della Repubblica. Agire sul penale è probabilmente l'unico modo di fare del male a questi signori. Non posso permettermi infatti di pagare un ricorso al TAR che, nove su 10, verrebbe respinto per cavilli amministrativi. Io le faccio questa segnalazione, poi veda lei se è il caso di diffonderla mediaticamente Il problema dei baroni universitari, che fanno danno anche negli istituti di ricerca a cui sono purtroppo collegati, è un cancro che andrebbe estirpato una volta per tutte. Si tratta purtroppo di un'autentica mafia che, seppur non sparando, stronca le carriere e distrugge le persone. Ma il fatto ancor più grave è che da qualche anno, purtroppo, i nostri partiti politici stanno candidando a vari importanti posti di potere personaggi organici a questo tipo di mafia.

Ci sono stati e ci sono vari baroni universitari che sono e/o sono stati ministri, presidenti del consiglio, sindaci di importanti città, presidenti di importanti regioni. Costoro portano la loro inettitudine e la loro capacità di fare intrallazzi (in questo sono davvero bravissimi) nell'amministrazione dello Stato con le conseguenze degradanti che vediamo oggi. Anziché essere cacciati a pedate da università e centri di ricerca come meriterebbero, gli vengono date posizioni di potere e stipendi enormi. Vengono fatti passare per grandi amministratori e statisti (sic). Spesso pontificano di "merito, onestà e moralità" mentre in realtà continuano a fare i loro porci comodi fregandosene di tutto e di tutti.  

Grazie per la sua cortese attenzione ed un caro saluto, Christian Corda 

Professor Christian Corda via Bixio 4, 59100 Prato (PO)

Oggetto: Ricorso gerarchico avverso il risultato della prova scritta e la valutazione dei titoli del sottoscritto, Professor Christian Corda, riguardo il concorso INFN B.C. 23524/2021

Alla cortese attenzione del Ministro dell’università e della ricerca, Professoressa Maria Cristina Messa

Gentile Professoressa Messa,

Anzitutto, mi auguro che Lei ed i Suoi cari stiate bene in questi tempi difficili (Covid-19, guerra Russia-Ucraina, eccetera).

Antefatto: per via di vari risultati della mia ricerca riconosciuti dalla Comunità Scientifica internazionale, sono un fisico teorico ed astrofisico abbastanza noto sia a livello italiano che internazionale, come si può vedere facendo qualche ricerca su internet e consultando il CV che ho inviato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) per la partecipazione al concorso INFN B.C. 23524/2021. Sulla base di tale CV, nel 2019 vinsi il posto di Professore Ordinario di Fisica Teorica alla prestigiosa università di Istanbul, in Turchia (l’autocratica Turchia pare più meritocratica della democratica Italia). Purtroppo, per via del Covid-19 la mia carriera accademica si è dovuta interrompere essendo dovuto rientrare in Italia da Istanbul dopo soli due mesi, avendo in Italia, a Prato in Toscana, per la precisione, una moglie e due figli piccoli (attualmente 12 e 7 anni). Per via della scarsità dei concorsi e della difficoltà a poterli superare (per via del noto problema del baronato universitario) nelle università e centri di ricerca italiani, da due anni faccio supplenza in una scuola superiore della città in cui vivo, Prato, in Toscana. E veniamo al dunque.

Con la presente, il sottoscritto, Professor Christian Corda, nato a Nuoro il 3 Luglio 1969, residente a Prato in via Bixio numero 4, CAP 59100, ricorre gerarchicamente contro la sua bocciatura allo scritto del concorso INFN B.C. 23524/2021, notificatagli via email il 3 Agosto 2022 dalla segretaria della Commissione Dottoressa Filomena Foglietta, per le seguenti motivazioni:

Le valutazioni della sua prova scritta e dei titoli presentati dal sottoscritto per il concorso INFN B.C. 23524/2021 sono semplicemente ridicole e vergognose. Verrà facilmente dimostrato che, per via delle suddette ridicole e vergognose valutazioni, i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 si sono di fatto automaticamente posti in stato di flagranza di reati penali d’abuso d’uffico, falso ideologico e diffamazione ai danni del sottoscritto, con conseguenze penali rilevanti, per cui, in aggiunta a questo ricorso gerarchico, sarà cura e piacere del sottoscritto portare la sua causa davanti ad una Procura della Repubblica. In effetti, arresto ed interdizione dall’Università dei Commissari sono state le conseguenze di un’indagine su un recente concorso truccato all’Università di Palermo, e di un’altra indagine su un altro recente concorso truccato all’Università di Genova.

Cominciamo dalla ridicola e vergognosa valutazione della mia prova scritta, per la quale i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 hanno dato al sottoscritto il ridicolo voto di 131 punti su 200, laddove era necessario un minimo di 140 per essere ammessi all’orale. Il sottoscritto ha trattato nella sua prova scritta due argomenti teorici di fisica della gravitazione, per la precisione, buchi neri quantistici e teorie estese della gravitazione come potenziale rimpiazzo di materia oscura ed energia oscura. Andando a considerare in dettaglio i CV e le pubblicazioni dei Commissari Donato, Piccinini, Degrassi (Presidente della Commissione) e Greco risulta evidente che costoro non hanno MAI lavorato su buchi neri quantistici e teorie estese della gravitazione, mentre, come verrà facilmente dimostrato tra un po’, il sottoscritto è da considerarsi uno dei maggiori esperti italiani, e, secondo qualcuno, mondiali di tali campi di ricerca. L’unica Commissaria ad avere parzialmente lavorato in questi campi di ricerca è, forse, la Commissaria Orselli, anche se la sua attività di ricerca in proposito non è neppure lontanamente paragonabile a quella del sottoscritto ne dal punto di vista qualitativo, ne da quello quantitativo, come potrà facilmente essere riconosciuto anche da occhi non esperti semplicemente confrontando i due CV (quello del sottoscritto e quello della Commissaria Orselli). Sui citati campi di ricerca il sottoscritto ha infatti ottenuto dei prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, ossia, tra gli altri,

due Honorable Mentions ai Gravity Research Foundation Awards, che sono la massima competizione annuale mondiale nei rami di Cosmologia e Gravitazione,

la vittoria del Community Rating del FQXi Essay Contest. 2013: “It From Bit, or Bit From It?” con il più alto Community Rating nella storia degli FQXi Essay Contests sino ad allora,

un Certificato di Onore per la Ricerca Scientifica dalla Nagpur University, India, la Honorary Fellowship, della European Society of Computational Methods in Sciences, Engineering and Technology.

In più l’articolo di autore singolo "Interferometric detection of gravitational waves: the definitive test for General Relativity", che ha vinto una Honorable Mention ai 2009 Gravity Research Foundation Awards, è stato inserito, unico al mondo, dall'editore internazionale World Scientific Publishing sia tra i suoi 12 articoli di ricerca celebrativi per il 135-esimo anniversario di Albert Einstein, sia tra i suoi 15 articoli di ricerca celebrativi l'evento mondiale della rivelazione di onde gravitazionali da parte della Collaborazione LIGO, ed ha ricevuto una Nomination per il Khwarizmi International Award, che è il massimo riconoscimento scientifico iraniano.

Su questo articolo di ricerca il sottoscritto ha basato la parte del suo scritto riguardante le teorie estese della gravitazione come potenziale rimpiazzo di materia oscura ed energia oscura.

Va inoltre enfatizzato che i giudici della Gravity Research Foundation sono notoriamente tra i massimi esperti mondiali della fisica della gravitazione e dunque degli argomenti trattati dal sottoscritto nella sua prova scritta.

Ora, se alcuni tra i massimi esperti mondiali degli argomenti trattati dal sottoscritto nella sua prova scritta reputano il suo lavoro ai massimi livelli mondiali, come diamine è possibile che quattro Commissari di un concorso per ricercatore di terzo livello che non hanno mai lavorato in quei campi di ricerca ed una Commissaria dello stesso che ci ha parzialmente lavorato ottenendo risultati neppure lontanamente paragonabili a quelli del sottoscritto, si permettono di dire che la prova scritta del sottoscritto è insufficiente?! Ma stiamo scherzando?!

Siamo con ogni evidenza in presenza di una valutazione assolutamente errata e vergognosa. Forse i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 pensavano di avere a che fare con uno sprovveduto. Come ben saprà, Professoressa Messi, esiste una consuetudine che viene rigorosamente seguita da tempi immemorabili, nell’ordinamento giuridico, non solo italiano, ma anche internazionale, al punto da poter oggi essere considerata un autentico principio giuridico, secondo la quale i giudizi di merito scientifico di chi sta più in alto nella piramide di un certo campo di ricerca sono insindacabili da chi sta più in basso. I giudici della Gravity Research Foundation stanno al vertice della piramide scientifica della teoria della gravitazione, mentre la Commissaria Orselli sta molto più in basso ed i Commissari Donato, Piccinini, Degrassi e Greco NON ne fanno proprio parte. Nello svalutare in modo vergognoso lo scritto del sottoscritto, i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 hanno chiaramente violato il principio giuridico sopra citato, ponendosi di fatto in stato di flagranza di reati penali di falso ideologico ed abuso d’ufficio ai danni del sottoscritto. Inoltre, nel comunicare tale giudizio alla Segretaria della Commissione, Dottoressa Foglietta, hanno commesso un ulteriore reato di diffamazione ai danni del sottoscritto in quanto il suo lavoro, che ha ottenuto apprezzamenti di eccellenza ai massimi livelli mondiali, è stato vergognosamente denigrato agli occhi della stessa Dottoressa Foglietta.

Se avessero fatto bene il loro lavoro i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021, non essendo esperti del ramo di ricerca del sottoscritto, avrebbero dovuto confrontare lo scritto del sottoscritto al concorso con i lavori di ricerca da lui presentati. Gli articoli di ricerca che hanno ottenuto due Honorable Mentions ai Gravity Research Foundation Awards ed il massimo Community Rating del FQXi Essay Contest del 2013, che sono alla base dello scritto del sottoscritto, sono infatti stati da me presentati tra le 10 pubblicazioni, lavori a stampa, progetti ed elaborati tecnici previsti dal concorso. A quel punto, poiché i premi e riconoscimenti ottenuti dal sottoscritto erano enfatizzati sia negli stessi lavori presentati, sia nella relazione sul contributo personale del candidato per ciascuna delle pubblicazioni allegate sia nel CV del sottoscritto, i Commissari, in quanto inesperti in tali campi di ricerca, o esperti di livello inferiore quali la Commissaria Orselli, si sarebbero dovuti limitare a riconoscere e certificare il giudizio espresso dai giudici della Gravity Research Foundation e, di conseguenza, ad assegnarmi un punteggio decisamente maggiore, e sicuramente non insufficiente. I maggiori responsabili di questa vergogna sono chiaramente la Commissaria Orselli, unica parzialmente esperta nei campi di ricerca del sottoscritto, ed il Presidente Degrassi che avrebbe dovuto vigilare sulla situazione.

Ma anche gli altri Commissari non sono esenti da colpe perché in questi casi la responsabilità è collegiale ed anche gli altri Commissari avrebbero dovuto prestare maggiore attenzione.

Passiamo ora alla ancora più ridicola, offensiva, denigrante e diffamatoria valutazione dei titoli del sottoscritto. Anzitutto va enfatizzato che, come ampiamente documentato nel suo CV, il sottoscritto sia stato in passato Professore Ordinario di Fisica Teorica sia negli USA che in Turchia, mentre è abilitato presso il MIUR come Professore di Seconda Fascia di fisica teorica delle interazioni fondamentali, che comprendono gli aspetti matematici, fenomenologici e computazionali della fisica teorica subnucleare, nucleare, astro-particellare, della gravità e delle onde gravitazionali, sin dal Febbraio 2014. Quindi, riguardo al concorso INFN B.C. 23524/2021, il sottoscritto sta di fatto concorrendo per una posizione inferiore alla quale è effettivamente abilitato da quasi un decennio. Solo questo implica che la valutazione di 45.5 su 100 è vergognosamente bassa. Ma questo è niente rispetto al seguito. Per il concorso INFN B.C. 23524/2021 il sottoscritto ha presentato un elenco di pubblicazioni scientifiche così suddivise:

65 pubblicazioni di autore singolo in riviste scientifiche internazionali e Proceedings di conferenze internazionali a revisione paritaria;

60 pubblicazioni con altri autori in riviste scientifiche internazionali e Proceedings di conferenze internazionali a revisione paritaria;

Più di 60 altre pubblicazioni tra pubblicazioni con la Collaborazione Virgo ed altre Collaborazioni Internazionali in riviste scientifiche internazionali a revisione paritaria e Proceedings di Conferenze e Convegni Internazionali a revisione paritaria.

Quindi un totale di quasi 200 pubblicazioni in riviste scientifiche internazionali e Proceedings di conferenze internazionali a revisione paritaria. Nel presentare il suo CV il sottoscritto ha dichiarato che i suoi indici bibliometrici e le sue citazioni,

calcolati su Google Scholar erano, in data 6 Ottobre 2021: Indice h = 39, i10-index = 104, numero citazioni = 6745. In data 17 Agosto 2022 sono risultati, sempre su Google Scholar: Indice h = 39, i10-index = 105, numero citazioni = 7108.

Andiamo dunque a confrontare, le pubblicazioni, le citazioni e gli indici bibliometrici del sottoscritto non con quelli degli altri candidati, ma con quelle dei Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021, rilevate sempre in data 17 Agosto 2022.

Andando a considerare in dettaglio le pubblicazioni, le citazioni e gli indici bibliometrici dei Commissari risulta che:

1) Il sottoscritto ha più pubblicazioni di autore singolo di tutti i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 messi insieme! Va enfatizzato che, relativamente ai criteri di valutazione, le pubblicazioni di autore singolo sono le più importanti per il concorso INFN B.C. 23524/2021, vedere il bando del concorso che, nei criteri di valutazione, dice esplicitamente che vada valutata la “Rilevanza e grado di aggiornamento dell’attività di ricerca, con particolare riferimento ai contributi personali conseguiti anche in collaborazioni nazionali e internazionali”.

2) Il sottoscritto ha più premi e riconoscimenti per la ricerca scientifica effettuata di tutti i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 messi insieme! Ricordiamo i più importanti tra questi premi e riconoscimenti: tre Honorable Mentions ai Gravity Research Foundation Awards, che sono la massima competizione annuale mondiale nei rami di Cosmologia e Gravitazione, vittoria del Community Rating del FQXi Essay Contest. 2013: “It From Bit, or Bit From It?” con il più alto Community Rating nella storia degli FQXi Essay Contests sino ad allora, un Certificato di Onore per la Ricerca Scientifica dalla Nagpur University, India, la Honorary Fellowship, della European Society of Computational Methods in Sciences, Engineering and Technology. In più l’articolo di autore singolo "Interferometric detection of gravitational waves: the definitive test for General Relativity", che ha vinto una Honorable Mention ai 2009 Gravity Research Foundation Awards, è stato inserito, unico al mondo, dall'editore internazionale World Scientific Publishing sia tra i suoi 12 articoli di ricerca celebrativi per il 135-esimo anniversario di Albert Einstein, sia tra i suoi 15 articoli di ricerca celebrativi l'evento mondiale della rivelazione di onde gravitazionali da parte della Collaborazione LIGO, ed ha ricevuto una Nomination per il Khwarizmi International Award, che è il massimo riconoscimento scientifico iraniano. Si tratta di un articolo di autore singolo che in data 17 Agosto 2022 ha 345 citazioni su Google Scholar (diventate 350 oggi, 12 Settembre 2022). NESSUNO dei Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 ha un articolo di autore singolo con un numero così alto di citazioni! In questo caso il bando di concorso dice chiaramente che un importante criterio di valutazione è proprio il “Grado di rilevanza e numero di premi o riconoscimenti all’attività personale”.

3) Gli articoli di ricerca del sottoscritto che hanno ottenuto i citati premi e riconoscimenti internazionali facevano parte delle 10 Pubblicazioni, lavori a stampa, progetti ed elaborati tecnici previsti dal concorso assieme ad altre pubblicazioni in prestigiosissimi giornali internazionali, la maggior parte delle quali erano pubblicazioni di autore singolo, cioè le più importanti ai fini del concorso.

4) Il sottoscritto ha più pubblicazioni del Presidente Degrassi (dal CV di Degrassi risultano 77 pubblicazioni).

5) Il sottoscritto ha più pubblicazioni di autore singolo di quante la Commissaria Orselli ne ha in totale (in data 17 Agosto 2022 risultano 50 pubblicazioni totali della Commissaria Orselli su Google Scholar)!

6) Il sottoscritto ha indici bibliometrici e numero di citazioni calcolati su Google Scholar nettamente più alti della Commissaria Orselli (in data 17 Agosto 2022 risultano essere per la Commissaria Orselli: Indice h = 20, i10-index = 33, numero citazioni = 1449, per il sottoscritto: Indice h = 39, i10-index = 105, numero citazioni = 7108).

7) Il sottoscritto ha l’i10-index nettamente più alto del Presidente Degrassi su Google Scholar (in data 17 Agosto 2022: 105 per il sottoscritto, 69 per il Presidente Degrassi.

8) Il sottoscritto ha più pubblicazioni della Commissaria Donato (dal CV di Donato risultano 124 pubblicazioni).

9) Il sottoscritto ha l’i10-index più alto della Commissaria Donato su Google Scholar (in data 17 Agosto 2022: 105 per il sottoscritto, 87 per la Commissaria Donato).

10) Il sottoscritto ha l’i10-index leggermente più alto del Commissario Greco su Google Scholar (in data 17 Agosto 2022: 105 per il sottoscritto, 102 per il Commissario Greco). Vediamo inoltre quali sono i risultati più importanti della ricerca del sottoscritto quali erano chiaramente enfatizzati nel suo CV presentato per il concorso INFN B.C. 23524/2021:

Il sottoscritto ha migliorato 160 anni di fisica Newtoniana relativa alle orbite dei pianeti dimostrando che, contrariamente ad una erronea credenza, lunga appunto oltre 160 anni, la precessione del perielio dell’orbita di Mercurio può essere calcolata con buona approssimazione nella teoria Newtoniana se si tiene conto in modo corretto della massa pianeta. Per gli altri pianeti l’effetto addizionale trovato dal sottoscritto risulta troppo forte e va mitigato con la dilatazione temporale di Einstein che è un effetto di relatività generale, vedere Christian Corda, Physics of the Dark Universe 32, 100834 (2021),

Il sottoscritto ha dimostrato con 6 anni di anticipo alle celebri rivelazioni di LIGO e Virgo che la nascente astronomia gravitazionale basata sullle onde gravitazionali sarà la prova definitiva della relatività generale, vedere Christian Corda, Int. J. Mod. Phys. D, 18, 2275 (2009),

Il sottoscritto ha migliorato la celeberrima teoria di Hawking sull'evaporazione dei buchi neri, vedere Christian Corda, Int. J. Mod. Phys. D, 21, 1242023 (2012),

Ha trovato lo spettro quantistico del buco nero, vedere Christian Corda, Eur. Phys. J. C 73, 2665 (2013), 2665-6;

Il sottoscritto ha dimostrato che il buco nero è l'analogo gravitazionale dell'atomo di idrogeno di Bohr, vedere Christian Corda, Class. Quantum Grav. 32, 195007 (2015),

Il sottoscritto ha trovato una nuova prova della teoria della relatività generale, vedere “New proof of general relativity through the correct physical interpretation of the Mössbauer rotor experiment”, Awarded Honorable Mention in the 2018 Essay Competition of the Gravity Research Foundation, Int. Journ. Mod. Phys. D 27, 1847016 (2018),

Il sottoscritto ha trovato una soluzione indipendente al paradosso dell'informazione dei buchi neri, vedere Christian Corda, Ann. Phys. 353, 71 (2015),

Il sottoscritto ha proposto alternative alla Dark Matter, vedere Christian Corda, Herman J. Mosquera Cuesta, Roberto Lorduy Gòmez,

Il sottoscritto ha proposto modelli di universo alternativi, vedere Christian Corda, Mod. Phys. Lett. A, 26, 2119 (2011),

Corda, Gen. Rel. Grav. 40, 2201 (2008),

C’è chi sostiene che l’aver corretto 160 anni di fisica Newtoniana relativa alla precessione del perielio di Mercurio ed aver trovato una nuova prova della teoria della relatività generale di Einstein (questo risultato è stato UFFICIALMENTE riconosciuto dagli esperti della Gravity Research Foundation) potrebbero entrare di diritto nella storia della fisica. In effetti, ricercatori che, nella storia della fisica, Einstein compreso, han trovato una prova della relatività generale si contano sulla punta delle dita ed il sottoscritto è uno di questi e l’unico vivente. Da quanto detto sopra è evidente che il livello della ricerca del sottoscritto è reputato eccellente dai maggiori esperti mondiali nel suo campo di ricerca. E’ altrettanto evidente che i risultati scientifici sono nettamente superiori, non solo di quelli degli altri partecipanti al concorso INFN B.C. 23524/2021 (dei quali il sottoscritto è andato ad analizzare i vari CV in dettaglio), ma anche della Commissaria Orselli, l’unica della Commissione del concorso INFN B.C. 23524/2021 che lavora in campi di ricerca simili a quelli del sottoscritto. E’ ancora evidente che gli stessi risultati scientifici del sottoscritto sono perlomeno dello stesso livello dei risultati scientifici degli altri Commissari, se non superiori. Ma come diavolo hanno fatto i Commissari a dare al sottoscritto la miseria di 45.5 punti su 100 per i titoli?! E’ oggettivamente una vergogna.

Chiaramente, la parte relativa ai risultati della ricerca scientifica è la più rilevante ai fini del concorso INFN B.C. 23524/2021, ma possono essere fatte ulteriori considerazioni. Ad esempio, tra i criteri di valutazione troviamo la partecipazione a comitati editoriali di riviste o attività di revisore di articoli per riviste scientifiche di livello nazionale o internazionale. Il sottoscritto risulta essere od essere stato, come evidente dal suo CV:

Editor in Chief (Caporedattore) di “Journal of High Energy Physics, Gravitation and Cosmology;

Editor in Chief (Caporedattore) di Theoretical Physics;

Editor in Chief (Caporedattore) di The Open Astronomy Journal;

Editor in Chief (Caporedattore) di The Hadronic Journal;

Editor (Redattore) delle seguenti Riviste Internazionali Scientifiche in Fisica Teorica, Astrofisica e Matematica,

Libri specialistici e Proceedings di Conferenze Internazionali:

Advances in High Energy Physics; The Open Astronomy Journal; The Hadronic Journal; Open Physics (ex Central European Journal of Physics); Galaxies; Frontiers in Astronomy and Space Sciences; The International Journal of Mathematics and Mathematical Sciences; The Open Journal of Microphysics; Gulf Journal of Mathematics; New Advances in Physics; Journal of Dynamical Systems and Geometric Theories, Pioneer Journal of Mathematical Physics; Algebras, Groups and Geometries; Electronic Journal of Theoretical Physics; The Big Challenge of Gravitational Waves: a new window in the Universe, libro di Nova Science Publishers; The Proceedings of the Third International Conference on Lie-Admissible Treatment of Irreversible Processes, (ICLATIP-3), KATHMANDU UNIVERSITY, Dhulikhel, Nepal; The Proceedings of the San Marino Workshop on Astrophysics and Cosmology For Matter and Antimatter, San Marino; American Institute Proceedings delle edizioni 2009, 2010, 2011, 2012, 2013 e 2014 della International Conference of Numerical Analysis and Applied Mathematics, Grecia. Endorser per le sezioni “general relativity and quantum cosmology” e “general physics” dell’archivio internazionale arXiv curato dalla Cornell University, USA.

Referee (Revisore Paritario) delle seguenti Riviste Internazionali Scientifiche in Fisica Teorica, Astrofisica e Matematica, Libri specialistici e Proceedings di Conferenze Internazionali:

Physics Letters B; Classical and Quantum Gravity; Annals of Physics; International Journal of the General Relativity and Gravitation Physics; Journal of Cosmology and Astroparticle Physics; Journal of High Energy Physics; Monthly Notices of the Royal Astronomical Society; Monthly Notices of the Royal Astronomical Society Letters; European Physical Journal C; European Physical Journal A; International Journal of Modern Physics D; American Institute of Physics Advances; American Institute of Physics Proceedings; Entropy; Physica A; International Journal of Theoretical Physics; Symmetry;

Advances in Space Research; Journal of Cosmology; Astrophysics and Space Science; Advances in Applied Clifford Algebras; International Journal of the Physical Sciences; Scientific Research and Essays; Journal of Modern Physics; Earth, Moon and Planets; Journal of Engineering and Technology Research; Apeiron; International Journal of Hydrogen Energy; Canadian Journal of Physics; Technologies; Universe; Galaxies; Physical Science International Journal; British Journal of Mathematics & Computer Science; Journal of Applied Physical Science International; Physical Science International Journal; Asian Journal of Mathematics and Computer Research; International Journal of Astrobiology.

Quindi, facendo il confronto non solo con gli altri candidati, ma anche con i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021, la qualità e la quantità della partecipazione a comitati editoriali di riviste o attività di revisore di articoli per riviste scientifiche di livello nazionale o internazionale del sottoscritto risultano essere superiori. Nessuno dei Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 è Editor in Chief (Caporedattore) di giornali specialistici internazionali nel loro campo di ricerca, a differenza del sottoscritto.

Si osservi inoltre che che il grado di rilevanza e numero di partecipazioni come relatore a convegni scientifici nazionali o internazionali (altro criterio di valutazione) del sottoscritto sono perlomeno dello stesso livello di quelli dei Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021, così come sono perlomeno dello stesso livello di quelli dei Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 le organizzazioni di congressi scientifici o tecnologici o scuole avanzate come componente del comitato locale o internazionale del sottoscritto (altro criterio di valutazione). Sono perlomeno dello stesso livello di quelli dei Commissari anche la durata e grado di competitività di contratti e/o incarichi di ricerca presso atenei e istituti di ricerca nazionali o internazionali, consistenti con la missione dell’INFN del sottoscritto (altro criterio di valutazione), basti pensare a quanto prima riferito, e cioè che il sottoscritto Corda è stato in passato Professore Ordinario di Fisica Teorica sia egli USA che in Turchia, mentre è abilitato presso il MIUR come Professore di Seconda Fascia di fisica teorica delle interazioni fondamentali, che comprendono gli aspetti matematici, fenomenologici e computazionali della fisica teorica subnucleare, nucleare, astroparticellare, della gravità e delle onde gravitazionali, sin dal Febbraio 2014.

E’ anche abilitato a Professore Universitario di seconda fascia di astronomia, astrofisica, fisica della terra e dei pianeti presso il MIUR dal Dicembre 2013.

Stesso discorso per quanto riguarda i contributi all’organizzazione di eventi di comunicazione della scienza, seminari, lezioni, articoli, video e prodotti diversi di comunicazione della scienza, singoli o nell’ambito di manifestazioni più ampie, contributi ad attività di formazione o aggiornamento professionale, attività di collaborazione con le università consistenti con la missione dell’INFN (altro criterio di valutazione).

I contributi in proposito del sottoscritto sono perlomeno dello stesso livello di quelli dei Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021.

Si potrebbe continuare, Professoressa Messa, ma direi che può bastare così, in quanto da quanto detto sopra è lapalissiano che la valutazione di 45.5 punti su 100 dei titoli presentati dal sottoscritto per il concorso INFN B.C. 23524/2021 è una vergognosa svalutazione, che pone ancora una volta i Commissari in stato di flagranza di reati penali di falso ideologico abuso d’ufficio e di diffamazione ai danni del sottoscritto.

Da quanto detto è evidente che il livello scientifico del sottoscritto è di gran lunga superiore a quello richiesto al superamento di un concorso di Ricercatore di III livello e non possono venirgli assegnati la miseria di 45.5 punti su 100 per i titoli.

Mi permetto di enfatizzare, Professoressa Messa, che l’art. 97 della Costituzione Italiana stabilisce che l’accesso al pubblico impiego, salvo casi stabiliti dalla legge, avviene per concorso pubblico. Lo scopo è selezionare i candidati più idonei per quel posto di lavoro, rispettando i requisiti di efficienza ed imparzialità. Sulla base di quanto detto sopra, anche una persona inesperta capirebbe che il sottoscritto non può che essere considerato tra i più idonei, se non il più idoneo, tra quelli che si sono presentati a sostenere il concorso INFN B.C. 23524/2021, basti confrontare i vari CV.

Se vogliamo fare un paragone sportivo, è come se una squadra che ha vinto 3 scudetti nel calcio (le tre Honorable Mentions ai Gravity Research Foundation Awards che ho ricevuto negli anni 2009, 2012 e 2018 mi hanno automaticamente certificato come il migliore, assieme ad altri pochissimi colleghi italiani che le hanno eventualmente ottenute negli stessi anni, tra i ricercatori italiani nel mio ramo di ricerca in quegli anni) venga ritenuta inadatta a giocare in serie C di calcio da quattro allenatori di pallavolo (i Commissari Donato, Piccinini, Degrassi e Greco, del tutto inesperti nel mio campo di ricerca) e da un’allenatrice di calcio di serie C (la Commissaria Orselli).

Se ne deducono quindi due diverse possibilità: la prima è che i Commissari abbiano fatto il loro lavoro molto male, con estrema inettitudine, superficialità ed incompetenza, ma, tutto sommato, in buona fede ed abbiano preso un grosso granchio nei confronti del livello scientifico del sottoscritto. La seconda è invece che i Commissari abbiano truccato il concorso INFN B.C. 23524/2021 ai danni del sottoscritto (e forse di altri candidati) per far vincere il concorso a qualche loro protetto. Poiché il sottoscritto è di natura garantista, ha inizialmente voluto credere alla prima possibilità, ossia che i Commissari abbiano fatto il loro lavoro molto male, con estrema inettitudine, superficialità ed incompetenza, ma in buona fede, avendo preso un grosso granchio nei confronti del sottoscritto. Ha dunque inviato agli stessi Commissari alcune note facendo loro notare quanto scritto sopra ed invitandoli a cambiare i giudizi espressi sullo scritto e sui titoli del sottoscritto, ricevendo in data 5 Settembre 2022 la seguente risposta dal Direttore delle Risorse Umane dell’INFN, dottor R. Carletti:

“Gentile Prof. Corda, in relazione alla procedura concorsuale in oggetto e a seguito delle sue note pervenute, con la presente intendiamo sottolineare la correttezza di tale procedura indetta e gestita dall’Istituto, come anche confermare la fiducia riposta nella Commissione, la quale ha operato nel rispetto dei principi generali dell’attività amministrativa.

Cogliamo l’occasione per stigmatizzare il tono e il contenuto delle sue note che superano i limiti della ordinaria critica avverso gli esiti non soddisfacenti della procedura, risultando altresì lesive dell’immagine e degli interessi dell’Istituto e

restando impregiudicata la nostra facoltà di difenderli nelle opportune sedi. Distinti saluti.”

Dunque pare che il dottor Carletti, che, secondo il suo CV nel sito dell’INFN ha fatto parte dell'Autorità Nazionale Anticorruzione per un paio d’anni, sia più interessato al tono e il contenuto delle mie note, che al fatto che i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 abbiano commesso dei gravi reati penali ai danni del sottoscritto, badando più alla forma che alla sostanza. Se da un lato è vero che i toni delle mie note erano più forti di quelli usati in questo ricorso gerarchico, ma comunque sempre riferiti alle azioni e non alle persone, enfatizzando la possibilità di pesanti conseguenze penali ai danni degli stessi Commissari, per far bene loro capire che intendo andare sino in fondo a questa storia, dall’altro la risposta dello stesso dottor Carletti mi fa capire che ho fatto male a pensare che gli stessi Commissari fossero in buona fede. Dunque, oltre a farLe avere questo ricorso gerarchico, gentile Professoressa Messa, nei prossimi giorni mi recherò presso una Procura della Repubblica per denunciare penalmente i Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 per i reati di falso ideologico, abuso d’ufficio e diffamazione ai miei danni chiedendo anche che si indaghi, vista la risposta del dottor Carletti, sulla presenza di un’eventuale associazione a delinquere all’interno dell’INFN. Inoltre, manderò copia di questo ricorso a vari media italiani, in particolare ai giornalisti che in passato si sono occupati di baronie universitarie e concorsi truccati, cercando di fare diventare il mio caso un caso mediatico.

Pertanto, Professoressa Messa, sulla base di quanto precedentemente scritto, ed in particolare dei gravi reati penali commessi dai Commissari del concorso INFN B.C. 23524/2021 ai miei danni, Le chiedo formalmente di annullare lo stesso concorso INFN B.C. 23524/2021, in attesa che la giustizia faccia il suo corso.

Il sottoscritto stabilisce la sua residenza di via Bixio 4, 59100 Prato, come sede dove poter ricevere eventuali notifiche relative a questo ricorso gerarchico. Grazie per la Sua cortese attenzione ed un caro saluto, Prato, 12 Settembre 2022,

Christian Corda

Christian Corda. Christian Corda è nato a Nuoro il 3 luglio 1969. Laureato in scienze fisiche, ha conseguito  successivamente il dottorato di ricerca in fisica all’università di Pisa. Dal gennaio 2014 è abilitato presso il MIUR all’insegnamento universitario di fisica teorica ed astrofisica.

È Professore a contratto per il Research Institute for Astronomy and Astrophysics of Maragha, in Iran. È caporedattore dei giornali scientifici specialisti internazionali Journal of High Energy Physics, Gravitation and Cosmology, dell’editore internazionale Scientific Research e  Theoretical Physics dell’editore internazionale Isaac Scientific Publishing.

È autore o coautore di circa 150 articoli di ricerca scientifica pubblicati nei maggiori giornali scientifici specialisti internazionali o in comunicazioni di conferenze internazionali soggetti al processo di revisione paritaria.

Premio internazionale. Un fisico barbaricino contesta il big Hawking. Lanuovasardegna.it il 02 giugno 2012.

NUORO. Questa volta, il premio lo ha ottenuto niente meno che per un articolo nel quale apporta una modifica sostanziale alla “Teoria dell’evaporazione dei buchi neri” del grande scienziato inglese Stephen Hawking. Qualche anno fa, invece, era stato premiato per un progetto di ricerca italo-francese che interessava all’osservatorio gravitazionale europeo. Continuano i successi, dunque, per il giovane fisico nuorese, Christian Corda, da anni ricercatore universitario in Toscana, e attualmente presidente dell’istituto di fisica matematica “Einstein-Galilei” di Prato.

Corda ha vinto lo scorso 15 maggio, per la seconda volta (la prima fu nel 2009) il prestigioso premio scientifico internazionale di menzione Onorevole della “gravity research foundation Essay competition”, che risulta essere la massima competizione scientifica annuale nei rami di ricerca di gravitazione e cosmologia. Il premio allo studioso nuorese è stato assegnato per l'articolo di ricerca dal titolo “Effective temperature, Hawking radiation and quasi-normal modes", nel quale Corda ha apportato una sostanziale modifica ala famosa"Teoria dell'evaporazione dei buchi neri" del celeberrimo scienziato inglese Stephen Hawking. Nel 2009 Corda aveva invece vinto lo stesso premio per aver dimostrato che la rivelazione interferometrica delle onde gravitazionali sarà il test definitivo della celeberrima teoria della relatività generale di Albert Einstein.

Il giovane ricercatore è figlio di due ex sindaci di Nuoro: Martino Corda e Simonetta Murru, e fratello di Ninni, stimato allenatore di calcio. Una famiglia molto conosciuta, dunque, nel capoluogo barbaricino e non solo.

Fisica, nuovo riconoscimento internazionale per Christian Corda: il giovane nuorese fornisce una nuova prova della relatività generale. Beatrice Raso il 18 Ottobre 2018 su meteoweb.eu.

Nuovo successo per Christian Corda, giovane fisico nuorese che, fornendo una nuova prova della relatività generale, si è guadagnato il prestigioso premio scientifico internazionale di menzione Onorevole della “2018 Essay Competition of the Gravity Research Foundation”. Si tratta del terzo riconoscimento di questo tipo conferito a Corda, che già si era aggiudicato il premio nel 2009 e nel 2012. Nel suo nuovo lavoro, pubblicato su International Journal of Modern Physics D, Corda ha fornito la corretta interpretazione di uno storico esperimento di Kündig dell’effetto Doppler Trasversale in un sistema rotante (Mössbauer rotor experiment). L’interpretazione di Corda dimostra che i risultati dell’effetto Doppler Trasversale sono una prova nuova, forte e indipendente dalla relatività generale.

INTERVISTA A CHRISTIAN CORDA, IL RICERCATORE CHE HA RIABILITATO NEWTON. Il professor Christian Corda racconta il suo lavoro attraverso questa intervista, in un viaggio tra eresia, teorie e molta scienza. Articolo a cura di Simone Caporali su tech.everyeye.it il 18 Giugno 2021

Alcuni giorni fa abbiamo dato la notizia che un ricercatore italiano ha dimostrato che la teoria della gravitazione universale riesce a calcolare la precessione del perielio per Mercurio con elevata precisione, al contrario di quello che si era pensato negli ultimi 160 anni. La precisione rimane inferiore a quella raggiunta con la teoria della relatività, ma non è per questo (come vedremo) un risultato meno importante. Oltre a questo, nella seconda parte del suo lavoro, ha dimostrato che per risolvere problemi complessi è possibile unire la teoria di Newton a quella di Einstein, così da poter lavorare con una matematica più semplice. 

Questo ricercatore è il professor Christian Corda e ci ha gentilmente rilasciato un'intervista. Il professor Corda è attualmente professore visitante in India, per la precisione all'International Institute for Applicable Mathematics and Information Sciences di Hyderabad, è stato professore di Fisica Teorica a Istanbul, ha collaborato al progetto Virgo e ha scritto un libro divulgativo sulle onde gravitazionali. Gli argomenti trattati sono a nostro avviso estremamente stimolanti (potrete trovare il libro in questa pagina). Abbiamo parlato di sana discussione scientifica, del lavoro del professor Corda, di materia oscura, energia oscura, della realtà scientifica italiana e dell'importanza dell'età nella ricerca scientifica. Speriamo possa interessarvi e appassionarvi, che è ciò che la scienza, sempre, dovrebbe riuscire a fare!

Intervista

Everyeye: Salve professor Corda, come nasce la curiosità per il problema della precessione del perielio? 

Professor Corda: Tutto nasce da alcune discussioni su Facebook che ebbi qualche tempo fa con un professore di matematica di liceo in pensione, Domenico Annunziata. Annunziata è uno che potremmo definire "eretico della scienza". In particolare è un critico della relatività ed inizialmente lo posi, erroneamente, all'interno della categoria dei crackpots, per poi ricredermi in quanto capii che si trattava in effetti di una persona con un rispettabile bagaglio matematico ed una certa intelligenza.

Cos'è la precessione del perielio?La precessione del perielio di Mercurio è un problema che studia la rotazione (precessione) di Mercurio nel punto più vicino al Sole (perielio). Tale punto varia nel tempo e diverse teorie danno valori diversi di questa variazione. Il fenomeno è previsto dalla teoria della gravitazione universale di Newton, che tuttavia calcola un valore inferiore di circa 43 secondi d'arco per secolo rispetto al valore osservato sperimentalmente, almeno fino ad oggi

Sulla teoria della relatività però lo considero prevenuto. Anziché un "crackpot" considero appunto Annunziata un "eretico" nell'accezione positiva del termine. Infatti, a volte la differenza tra "crackpot" e "genio incompreso" può essere labile e sfumata. Va infatti enfatizzato che tanti tra i più grandi scienziati della storia, compresi Einstein e Galileo, vennero inizialmente considerati degli eretici. Inoltre i più grandi scienziati della storia sono stati soliti dire e scrivere tantissime fesserie durante la loro carriera. Il punto è che le poche cose corrette che hanno detto e scritto sono poi passate alla storia della scienza diventando le fondamenta della scienza stessa.

È dunque in un'ottica di "mente aperta", ma guidata dal rigore matematico e dalla consistenza sperimentale ed osservativa tipici del metodo scientifico galileiano, che, a mio parere, va giudicato il lavoro di ricerca degli "eretici" come Annunziata, per il quale comunque, nonostante la prima impressione negativa, e vari litigi "scientifici", alcuni anche parecchio recenti dopo la pubblicazione del mio articolo, ho grande stima.

Durante le nostre discussioni Annunziata mi disse che in certi casi, inclusa la precessione del perielio di Mercurio, la relatività generale sarebbe meno attendibile della teoria di Newton e che la precessione del perielio di Mercurio poteva essere calcolata con precisione maggiore della relatività generale se si considerava la presenza della massa del pianeta. Al momento la cosa mi pareva enorme, ma tuttavia decisi di fare una verifica e mi misi a studiare il problema. 

Everyeye: E qual è stato il risultato del suo lavoro? 

Professor Corda: Il risultato della mia analisi è che Annunziata aveva solo parzialmente ragione. E' vero che la precessione del perielio di Mercurio poteva essere calcolata con precisione nella teoria di Newton, ma non era vero che la previsione Newtoniana fosse più attendibile di quella Einsteiniana.

In più, la formula Newtoniana non funziona per niente con gli altri pianeti. Essa infatti prevede che la precessione del perielio sia proporzionale alla massa del pianeta, e, dunque, se consideriamo i pianeti da Mercurio a Giove, dovrebbe essere massima per Giove e minima per Mercurio.

Crackpot e cranks sui social network. Secondo il professor Christian Corda: "Esiste tutto un sottobosco della comunità scientifica, fatto anche di tanti professori universitari sparsi per il mondo, che ritiene che alcune teorie fondamentali siano parzialmente o del tutto sbagliate, e la teoria della relatività è di solito il loro bersaglio principale. Spesso, costoro, introducono al posto della cosiddetta "scienza convenzionale" le loro proprie teorie che nella maggiora parte dei casi sono delle autentiche barzellette, anche se non escluderei a priori che in certi rari casi tali teorie richiederebbero maggiore attenzione. Esistono tanti divertenti aneddoti su costoro, che in genere vengono chiamati "crackpots" (strambi) o "cranks" (fissati). Qui va rimarcato che, come si può sicuramente intuire, non sono le teorie fondamentali ad esser sbagliate, ma sono i fissati di turno a non capirle, spesso facendo degli errori davvero elementari che potrebbero essere corretti addirittura da studenti liceali".

In realtà le osservazioni ci dicono l'esatto opposto e la formula della relatività generale fornisce valori in eccellente accordo con le osservazioni. Mi sono chiesto se esisteva un modo di risolvere il problema modificando ed arricchendo la teoria di Newton con qualche effetto Einsteiniano. Lo studio della gravitazione tra la teoria della relatività generale e la teoria della gravitazione di Newton è un argomento estremamente affascinante ed importante.

Da un lato infatti, la relatività generale si è mostrata più precisa della teoria Newtoniana (così ci dicono esperimenti ed osservazioni, checché ne dica Annunziata), dall'altro però il livello di precisione della teoria Newtoniana resta comunque elevato e quest'ultima teoria necessita di una matematica più semplice della relatività generale. 

Everyeye: Cosa rende il problema della precessione del perielio importante dal punto di vista scientifico? 

Professor Corda: Einstein non disse mai che la teoria di Newton, che considerava un maestoso edificio scientifico, era sbagliata, ma che la sua teoria dava una descrizione della realtà migliore rispetto alla teoria Newtoniana. In questo contesto, probabilmente non esisterà mai una teoria in grado di darci una descrizione perfetta della Natura in tutte le sue sfumature. Ogni singola teoria ci dà un certo grado conoscenza e spiegazione della realtà. Tale descrizione potrà forse in futuro essere migliorata da una teoria più completa. 

Restando nell'ambito della gravitazione, oggi si sta cercando di estendere la stessa relatività generale, da un lato tentando di unificarla con la meccanica quantistica (sinora le due teorie ci appaiono incompatibili per vari motivi) dall'altro per cercare di spiegare i due noti problemi cosmologici di materia oscura ed energia oscura, su cui tornerò più avanti.

Tornando all'analisi della gravitazione in un'approssimazione tra la teoria della relatività generale e la teoria di Newton, essa è sicuramente utile nello studio di vari problemi in quanto permette spesso di utilizzare una matematica non troppo complicata per risolvere problemi complessi senza ricorrere alla più complicata matematica della relatività generale. 

Everyeye: Come le è venuta l'idea per risolvere il problema? 

Professor Corda: La mia idea per risolvere il problema della precessione del perielio dei pianeti in un "terreno Newtoniano modificato" ha preso spunto da un paio di articoli di ricerca di Hansen, Hartong and Obers, tre ricercatori di Zurigo, Edimburgo e Copenaghen, che in questi loro articoli enfatizzavano l'importanza della dilatazione temporale gravitazionale di Einstein in un approccio, diverso dal mio, alla gravitazione tra la teoria di Einstein e quella di Newton.

In modo rimarcabile, trovai che, se alla formula Newtoniana per la precessione del perielio dei pianeti si sostituiva il tempo assoluto di Newton col tempo relativo di Einstein, tramite la correzione dovuta alla dilatazione temporale gravitazionale, la formula di Newton diventava uguale a quella della relatività generale. 

Con questa correzione, e probabilmente questo ha creato una delusione al mio amico Annunziata, considerare o meno la massa del pianeta porta allo stesso risultato a meno di una differenza completamente trascurabile. Ricapitolando, per 160 anni si è creduto, erroneamente, che la teoria Newtoniana non prevedesse un effetto relativo alla precessione del perielio dei pianeti, ma anche Annunziata sbagliava a dire che la Teoria Newtoniana fosse in grado di risolvere il problema meglio della relatività generale. Il vero problema della teoria Newtoniana è che l'effetto previsto è troppo forte, e va mitigato con la dilatazione temporale gravitazionale di Einstein, che è comunque un effetto di relatività generale. 

Everyeye: Cosa può insegnarci Newton nel 2021? 

Professor Corda: Credo che ciò che disse a suo tempo Einstein su Newton sia ancora attualissimo: "Newton, perdonami; tu hai trovato la sola via che, ai tuoi tempi, fosse possibile per un uomo di altissimo intelletto e potere creativo. I concetti che tu hai creato guidano ancora oggi il nostro pensiero nel campo della fisica, anche se ora noi sappiamo che dovranno essere sostituiti con altri assai più discosti dalla sfera dell'esperienza immediata, se si vorrà raggiungere una conoscenza più profonda dei rapporti fra le cose." 

Everyeye: Il termine addizionale che tiene conto della massa di Mercurio è un artificio matematico o possiede un valore fisico intrinseco? 

Professor Corda: Un valore fisico intrinseco che però diventa a tutti gli effetti trascurabile quando uno tiene conto della dilatazione temporale gravitazionale. In effetti, in tutti i calcoli precedenti al mio la precessione del perielio in relatività generale dava un risultato precisissimo senza tener conto della massa di Mercurio, risultato che resta più preciso di quello Newtoniano anche quando la teoria di Newton tiene conto della massa del pianeta. 

Everyeye: Nella seconda parte del suo lavoro calcola la precessione del perielio per altri pianeti, per poi compiere una correzione grazie ad un effetto di relatività generale; in che modo Newton e Einstein possono coesistere, è una soluzione occasionale o può essere applicata ad altri problemi? 

Professor Corda: Sono convinto che il mio approccio possa essere esteso anche ad altri problemi, in particolare intendo provare ad estenderlo ai celebri problemi cosmologici di energia oscura e materia oscura. 

Everyeye: Nel suo articolo sottolinea l'importanza che tale lavoro potrebbe avere nel comprendere e risolvere i problemi di energia oscura e materia oscura, in che modo? 

Professor Corda: Lupus in fabula. Sulle questioni di materia oscura ed energia oscura si tende spesso a fare confusione. Il problema della materia oscura nasce dal fatto che, per giustificare certi moti astrofisici, la teoria Newtoniana avrebbe bisogno di molta più materia di quella luminosa, ossia della materia dell'Universo che siamo in grado di vedere. Questa materia mancante è appunto detta "oscura" in quanto non la vediamo. Il punto è che se riteniamo la relatività generale più precisa della teoria Newtoniana, dovremmo usare la prima per studiare i moti astrofisici di cui si parla, anziché la teoria Newtoniana.

Come detto prima, la matematica della relatività generale è però molto più complessa di quella della gravitazione Newtoniana e trovare delle soluzioni esatte in un approccio di relatività generale per i moti astrofisici in questione è estremamente difficile. Ecco perché un approccio "tra Newton ed Einstein" potrebbe fare un po' di luce su questo complesso problema. 

Il problema dell'energia oscura riguarda il fatto che, di primo acchito, sembrerebbe che la relatività generale non sia in grado, da sola, di spiegare l'espansione accelerata dell'Universo e pertanto sembrerebbe esserci bisogno di un'energia addizionale repulsiva che permetta all'Universo di espandersi in modo accelerato. In realtà, il principio di equivalenza di Einstein ci dice che in relatività generale l'energia totale di un sistema gravitazionale, compreso l'Universo nel suo complesso, dipende dal sistema di riferimento che utilizziamo per studiare il sistema stesso.

In tal modo, l'espansione accelerata potrebbe essere una sorta di "effetto di visuale" rispetto al riferimento terrestre. Anche in questo caso, studiare le equazioni cosmologiche tra Newton ed Einstein" potrebbe dare una mano a capire quale sia davvero la situazione. 

Everyeye: Parliamo più in generale della sua attività di ricercatore. Lei è attualmente professore visitante in India, per la precisione all'International Institute for Applicable Mathematics and Information Sciences di Hyderabad; che differenze nota nell'organizzazione della ricerca in Italia se confrontata con la realtà indiana per quanto riguarda stipendi e opportunità? 

Professor Corda: Questo è un tasto dolente. In Italia purtroppo abbiamo il bel noto problema dei baroni universitari con conseguente mancanza di meritocrazia, favoritismi e nepotismi. Nonostante per fortuna ci sia qualche eccezione, e nonostante le tante eccellenze individuali, questo problema porta le nostre università e centri di ricerca a produrre meno di quanto potrebbero in linea di principio. Dopo il mio dottorato ho collaborato con centri di ricerca ed accademie in Spagna, USA, Iran, India e Turchia. La cosa incredibile è che in tutti questi casi mi è bastato mandare il mio curriculum per essere assunto, cosa che in Italia è praticamente impossibile e genera pertanto la famosa fuga di cervelli. 

Oddio, non nego che anche nei paesi che ho citato ci siano favoritismi e nepotismi, tutto il mondo è paese ed anche la comunità scientifica e la comunità accademica internazionale sono fortemente influenzate da "politica" e raccomandazioni, però all'estero se produci qualcosa di riconosciuto ti tengono maggiormente in considerazione. La mia attuale posizione in India è puramente onoraria. Il mio ultimo stipendio accademico risulta essere quello dello scorso anno in Turchia. Nei primi mesi del 2020 ero infatti Professore di Fisica Teorica all'Università di Istanbul. 

Anche in quel caso è bastato inviare il mio curriculum e l'elenco delle mie pubblicazioni nei giornali internazionali specialisti in fisica teorica ed astrofisica per essere assunto. Purtroppo, con lo scoppiare dell'epidemia del Covid-19 la strana legge turca mi impediva di tornare a casa dalla mia famiglia e così sono stato costretto a dimettermi. Poiché in Italia a livello accademico è tutto bloccato, mi sono dovuto mettere nelle graduatorie di supplenza per le scuole superiori e alla fine sono andato ad insegnare al Liceo Livi di Prato, uno splendido ambiente di scuola superiore dove mi sono trovato molto bene. 

Everyeye: Non ho potuto fare a meno di notare, leggendo il suo curriculum, che ha cominciato l'università 7 anni dopo la fine del liceo. Chi scrive sta terminando la laurea magistrale (in astrofisica) alla veneranda età di 28 anni. Cosa ne pensa dell'età nel contesto accademico italiano, è un grosso svantaggio terminare gli studi "in ritardo" in un contesto scientifico? E che differenze ci sono, se ci sono, in questo con il contesto Indiano? 

Professor Corda: Mah, non penso che terminare gli studi "in ritardo" in un contesto scientifico sia poi un grosso svantaggio. Per fortuna siamo dei ricercatori, non degli sportivi professionisti. É vero che molti celebri scienziati hanno ottenuto i loro maggiori successi in età giovanissima, ma ne conosco molti che li hanno ottenuti dopo i 50 anni. A volte una maggiore esperienza nel risolvere i problemi scientifici è in grado di compensare l'intuito e l'immaginazione che tendono a diminuire col passare degli anni. Credo che ciò valga sia in Italia che in India, ma, in generale, in tutto il mondo. Non credo che la sua età di laureando 28-enne (a proposito, le faccio un grosso in bocca al lupo) sia poi così veneranda. Il sottoscritto si è laureato a 32.

Trenta bandi su misura “per far vincere proprio quei candidati”. Luca Serranò su La Repubblica il 12 Settembre 2022.  

È la tesi della procura di Firenze che ha indagato su una cinquantina di docenti dell’università. Il reclutamento sarebbe avvenuto con concorsi “blindati”

Una trentina di bandi "sartoriali", cuciti addosso al candidato prescelto. E almeno cinquanta docenti coinvolti dall'inizio dell'indagine. Continua a espandersi, fino a raggiungere numeri mai visti prima almeno in Toscana, l'inchiesta sui presunti concorsi pilotati a medicina, che dal marzo 2021 ha visto susseguirsi clamorosi sviluppi tra cui, l'ultimo, la richiesta di interdizione per il dg del Meyer Alberto Zanobini (12 mesi), la professoressa Chiara Azzari (9 mesi) e il direttore del dipartimento di Scienze della salute dell'università di Firenze, Paolo Bonanni (9 mesi).

Firenze, le intercettazioni dell'inchiesta sui concorsi a Medicina: “Come alla stazione di Napoli, questo vince, questo perde”. Luca Serranò su La Repubblica il 6 Settembre 2022.  

Le carte dell'indagine continuano a svelare meccanismi consolidati di “premi” ai ricercatori già scelti

"So che nei prossimi giorni verranno da te Geppetti e Bonnanni. La scusa è per presentarti il nuovo direttore di dipartimento, il vero motivo è per chiederti di cofinanziare il passaggio da associato a ordinario per un professore di pediatria. Non so cosa deciderai, ma, se posso permettere, se accetti di cofinanziarlo, non darglielo gratis. Chiedi cose in cambio, tipo due posti di ricercatore tipo A su fondi di ateneo per due giovani".

Medicina, altri concorsi nell’inchiesta e due nuovi indagati fra i docenti. Luca Serranò su La Repubblica il 5 Settembre 2022.  

Accertamenti sui bandi per chirurgia pediatrica infantile e per urologia Med/24. Nel fascicolo della procura finiscono anche i nomi di due luminari come il professor Antonio Messineo e Antonino Morabito

Si allunga la lista dei concorsi universitari al centro delle indagini della procura fiorentina e della guardia di finanza, e altri nomi di peso finiscono sotto inchiesta. Gli ultimi sviluppi, che hanno portato tra le altre cose alla richiesta di interdizione da pubblico ufficio o servizio per il direttore generale dell’ospedale pediatrico Meyer Alberto Zanobini, per la professoressa Chiara Aiazzi e per il direttore del dipartimento di Scienze della salute dell’Università di Firenze, Paolo Bonanni, si concentrano tra le altre cose proprio su alcune figure chiave di uno dei centri di eccellenza della sanità italiana.

Concorsi truccati ad Unipa: i nomi di tutti gli indagati tra professori e candidati favoriti. YOUNIPA l'1 agosto 2022.

Si è conclusa l’inchiesta sui concorsi truccati all’Università degli Studi di Palermo che aveva portato alla ribalta della cronaca l’ex Professore Gaspare Gulotta, del Policlinico di Palermo. Come riportato da Palermo Today, sono 21 in tutto, tra professori, medici e poliziotti, coloro che adesso rischiano di andare al processo.

L’inchiesta

Favoritismi, patti di alleanza tra i Baroni, il miraggio di una meritocrazia mai considerata. Questo è emerso dalle varie indagini, complete di intercettazioni, conclusosi sull’inchiesta riguardante i Concorsi truccati al Policlinico di Palermo. A muovere le fila è evidenziato essere soprattutto il Gulotta, al quale è stato anche contestato il reato per truffa poiché avrebbe dichiarato di aver preso parte ad interventi che in realtà non avrebbe mai eseguito e fatto una serie di visite private mai dichiarate.

Concorsi truccati Unipa: i nomi di chi rischia il processo

Nello specifico, adesso rischiano il processo, oltre a Gulotta, la figlia Eliana (chirurgo all’Ospedale Civico), il professore Mario Adelfio Latteri, anch’egli come il primo Professore del Dipartimento di discipline chirurgiche, oncologiche e stomatologiche, e vari membri delle commissioni esaminatrici. Tra questi: Robeto Coppola, Vito D’Andrea, Giuseppe Maria Antonio Navarra, Ludovico Docimo, Vittorio Altomare; alcuni candidati “favoriti” come Antonino Agrusa e Giuseppe Salamone; docenti che avrebbero partecipato alla formulazione dei bandi incriminati, come Attilio Ignazio Lo Monte e Giuseppina Campisi; una serie di medici del Policlinico come Gianfranco Cocorullo, Giuseppe Di Buono, Gregorio Scerrino e Giovanni Guercio. Chiusa l’inchiesta anche per il medico del pronto soccorso del Policlinico, Fiorella Sardo, che avrebbe rilasciato certificati falsi alla figlia di Gulotta, così come il medico di famiglia Maria Letizia La Rocca.

Leggi anche: Concorsi truccati a Unipa, annullata la sospensione: il figlio del prof Gulotta torna a lavoro

Nell’ambito della presunta calunnia a danno dell’ex genero di Gulotta, che la figlia Eliana avrebbe denunciata per dei maltrattamenti mai avvenuto, chiusa l’inchiesta anche per due agenti della Dia, Gaspare Cusumano e Salvatore Bosco, che avrebbero aiutato il professore ad ottenere informazioni riservate sull’ex genero e la sua famiglia.

Rischia il processo anche Alessandra Lo Iacono, la quale avrebbe ottenuto alcuni farmaci e siringhe rubati al Policlinico da un altro indagato.

Napoli, sesso in cambio di esami: condannato professore di Giurisprudenza. Inflitta una pena di 5 anni, sei mesi e 20 giorni di reclusione. La Repubblica il 25 Luglio 2022. 

Il giudice di Napoli Maria Laura Ciollaro ha condannato a 5 anni, 6 mesi, 20 giorni di reclusione, con l'interdizione pubblici uffici il professore Angelo Scala coinvolto in una indagine della Procura di Napoli (sostituti procuratori Henry John Woodcock e Francesco Raffaele) in cui gli venivano contestate diverse tipologie di accusa, tra concussione, induzione indebita e falso.

Titti Beneduce per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 25 Luglio 2022.

Alcuni reati sono stati derubricati, tra cui la concussione sessuale, per altri c’è stata l’assoluzione: il professor Angelo Scala, docente di Procedura civile presso diverse università tra cui la Federico II, è stato però condannato a cinque anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, in particolare per le contestazioni di falso. La sentenza è stata emessa dal gup Maria Laura Ciollaro al termine del processo con rito abbreviato.

 La Procura aveva chiesto la condanna a sei anni e mezzo. Scala era stato arrestato due anni fa con l’accusa di avere preteso da studenti e studentesse prestazioni sessuali in cambio del superamento di esami direttamente da parte sua o di colleghi. 

Microspie e microfoni nelle stanze

Dalle indagini della Guardia di Finanza, che aveva installato microspie e microfoni nelle stanze in uso al docente, era emerso che prima delle date degli esami si svolgevano incontri tra il professore e gli studenti, anche al di fuori dell’università. In alcuni casi accertati, gli esami risultavano svolti formalmente nell’ateneo, ma non erano stati svolti in quel luogo o addirittura non erano mai stati sostenuti. 

L’avvocato: «Indagini ridimensionate»

La vicenda aveva avuto enorme risalto mediatico. «Mi sembra — commenta l’avvocato Claudio Botti, legale del professore Scala — che le dimensioni delle indagini escano da questa sentenza profondamente ridimensionate». 

Il giudice ha anche rigettato la richiesta di provvisionale da 20mila euro formulata dall’Università Federico II che si era costituita parte civile.

Il caso alla Federico II. Sesso in cambio di esami, condannato prof ma si sgonfia l’inchiesta di Woodcock: “Cade l’idea della serialità”. Francesca Sabella su Il Riformista il 26 Luglio 2022.

Ventitré i capi di accusa, quattordici le assoluzioni. Parliamo dell’inchiesta che nel 2019 travolse l’ateneo Federiciano. I pm Henry John Woodcock e Francesco Raffaele indagavano e intercettavano il professore Angelo Scala. Origliavano pur non potendolo fare in quel frangente come dichiarato dal docente nella sua tesi difensiva. E non poteva essere intercettato perché non era indagato, le sue utenze erano sotto controllo nell’ambito di una inchiesta su una procedura fallimentare al Tribunale di Nocera nella quale Scala ricopriva un ruolo professionale (vicenda nella quale risulta estraneo). Ma questa è un’altra storia, anzi, è sempre la stessa: intercettazioni a strascico. Mesi e mesi per cavare fuori qualcosa.

Ebbene, l’indagine verteva su un punto preciso: sesso in cambio di esami. Mail e messaggi nei quali il prof di diritto processuale avrebbe invitato studenti e studentesse a fare un patto che consisteva appunto in un “patto di intimità” per superare senza difficoltà l’esame. Non ci sono denunce, nessuna studentessa ha portato alla luce l’accaduto. Ci sono le intercettazioni, tanto per cambiare… fiumi di inchiostro, mail, messaggi, telefonate, intercettazioni infinite che hanno distrutto la carriera e la vita privata di un docente. Ora, siamo in primo grado, quindi nessuna vittoria ma è senz’altro un’inchiesta che perde volume. Il giudice di Napoli Maria Laura Ciollaro ha condannato Scala a 5 anni, 6 mesi, 20 giorni di reclusione, con l’interdizione pubblici uffici.

Gli venivano contestate diverse tipologie di accusa, tra concussione, induzione indebita e falso. Il docente di Giurisprudenza, difeso dall’avvocato Claudio Botti, ha incassato anche 14 assoluzioni, la cancellazione del reato di concussione e la derubricazione di diverse ipotesi d’accusa in traffico d’influenza. «Non abbiamo ancora avuto modo di leggere il dispositivo – racconta il legale al Riformista – ma pare evidente che l’inchiesta si sia sgonfiata, non c’è più il reato di concussione». Acquista centralità un punto importante dell’inchiesta del Pm con il cognome straniero e sempre avvezzo alle intercettazioni, ovvero la serialità nel comportamento del prof Scala. La Guardia di Finanza scriveva infatti che si trattava di “conversazioni che hanno consentito di delineare un consolidato modus operandi (…) attraverso più o meno sottili forme di pressione psicologica”. È questo primo punto a cadere in sede processuale.

«L’indagine esce ridimensionata sotto il profilo della seriale e compulsiva attività sessuale nei confronti degli studenti» commenta Botti. Il giudice ha anche rigettato la richiesta di provvisionale da 20mila euro formulata dall’Università Federico II che si era costituita parte civile al processo. Siamo solo all’inizio di questa vicenda e le conclusioni sono tutte da scrivere ma restano in piedi delle domande non da poco. In primis, si può intercettare una persona che non è indagata? Anzi, peggio ancora, si possono utilizzare delle intercettazioni in un processo diverso da quello per il quale erano state disposte? Il nome del prof. Scala era su tutti i giornali poche ore dopo l’avviso di garanzia, è giusto? Altro che garantismo, presunzione di innocenza e altri principi… Questi sconosciuti.

E ancora dov’è finita la riservatezza della Procura? Le pagine dei giornali locali grondavano di intercettazioni, nero su bianco tutto quello che il docente avrebbe detto e scritto ai suoi alunni. Nero su bianco mesi e mesi di conversazioni. Sempre assecondando questa smania di spiare, intercettare, ascoltare, anche quando l’orecchio della Procura non dovrebbe, anzi, non potrebbe. E sappiamo bene che la smania di intercettare è il modus operandi tipico di una fetta di magistratura, al di là degli esiti del processo che è solo all’inizio, chiediamoci anche come è stato svolto e se la legge è stata rispettata prima in sede di indagini e poi in sede di condanna.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Università, docente denuncia bandi su misura e restituisce l'abilitazione: «Non ci sono le condizioni per fare ricerca». Giuseppe Leone, 53 anni e docente a tempo di Letteratura inglese, scrive a Cristina Messa dopo 15 anni trascorsi aspettando l’indizione di una selezione stabile nell’ateneo di Palermo. Due audio da lui registrati confermerebbero scelte fatte prima dei concorsi. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 19 Luglio 2022.

Alla fine con una lettera alla ministra dell’Università Cristina Messa ha appena restituito formalmente l’abilitazione nazionale a professore di II fascia che aveva conseguito nel 2018. «Non ci sono le condizioni per fare ricerca», dice Giuseppe Leone, che alla lettera ha allegato anche due audio registrati con suoi superiori dell’Università di Palermo dai quali emergerebbe come due concorsi del suo settore disciplinare, Letteratura inglese, sarebbero stati banditi individuando precedentemente i vincitori. Tutti concorsi per docenti in fascia più alta e non per un posto da ricercatore: posto che non si bandisce a Palermo da 12 anni.

Leone ha lavorato come ricercatore non strutturato per 15 anni e quando il suo docente ordinario è andato in pensione l’Università ha prima messo a bando un posto direttamente per ordinario poi ha messo a bando un posto per associato in Letteratura inglese. Ascoltando gli audio emergerebbe che entrambi i concorsi siano stati banditi su misura.

Leone ha presentato anche una prima denuncia, poi archiviata dal Gip con la seguente motivazione e con i verbali dei concorsi mai recuperati dalla polizia giudiziaria: «Rilevato invero che, seppur dalle conversazioni prodotte dal denunciante può ben ritenersi che la scelta di bandire un posto di ordinario anziché di ricercatore sia stata effettuata con la previsione e la finalità di favorire il (nome del vincitore, omissis ndr) tuttavia tale opzione non è regolata da alcuna norma di legge». In soldoni la scelta sulle figure da mettere a bando non è regolata ed è discrezionale. Resta l’ombra sulla scelta fatta a priori però.

Leone ha deciso di riconsegnare l’abilitazione nazionale in Letteratura inglese dopo dottorato, tesi pubblicata, cinque volumi in materia anche questi pubblicati e diversi articoli su riviste di fascia A e partecipazione a concorsi nazionali e internazionali, dopo anni di lavoro anche come “docente” di quella materia e come commissario di esami e persino come correlatore e relatore di tesi di laurea. «Ho lavorato per l’ateneo di Palermo dal 2005 e d‘improvviso, proprio in concomitanza con l’indizione di concorsi pubblici nel settore di riferimento, la mia prestazione è diventata superflua. Sono stanco, mi fermo».

Gli audio sembrano fare emergere le giustificazioni del suo superiore che gli dice chiaramente che le chiamate sono state fatte ad personam. «Io sono stato obbligato a fare questo», dice a Leone, che così non ha avuto altra scelta e a 53 anni dopo anni di ricerca e di lavoro nell’ateneo palermitano, ha lasciato la ricerca. Una presa di posizione forte dettata dalla consapevolezza di essere in presenza di un sistema di reclutamento da rivedere, governato da baronie. Una storia emblematica di quello che avviene in molte Università italiane, come dimostrano le cronache non solo giudiziarie.

DAGONOTA l'8 luglio 2022.

Concorsopoli. All’università Statale di Milano (la cosiddetta “capitale morale”), il rettore Elio Franzini - che fu eletto con il voto dei bidelli per non spostare l’ateneo nell’ex sede Expo -  vuol “brindare a dom perignon” ai concorsi truccati. E i pm lo rinviano a giudizio. 

Già messo ai vertici dell’università dall’ex rettore Decleva, la cui moglie, Fernanda Caizzi, fu condannata per una concorsopoli, Franzini era vicepresidente di una società privata di estetica che, come detto dal presidente della stessa, Luigi Russo, organizzava convegni per “parlare” dei concorsi (Franzini, non sposato, promuoveva quasi sempre donne).

Presidente di tutti i possibili concorsi del suo raggruppamento, nel 2008 fu presidente di commissione di uno “scandaloso” concorso alla facoltà di architettura al politecnico di Milano. Poi c’è stato quello da ordinari di estetica nel suo dipartimento, con le carte che finirono in tribunale, vari ricorsi per un controverso concorso a Storia, la difesa dell’immunologo Galli su un bando giudicato “truccato” e ora un “bel brindisi” per quello di urologia. Ma il ministro dell’Università, Maria Cristina Messa, che fa, brinda?

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.  

Come una pietra che smossa da una più ampia valanga rotoli a valle, da Firenze rimbalza e finisce ora per compiere la propria parabola a Milano un segmento dell'istruttoria fiorentina trasmessa nel 2021 per competenza territoriale alla Procura di Milano.

La quale, dopo la conclusione delle indagini due mesi fa, non ravvisa motivi per cambiare idea e chiede dunque che il rettore della Università Statale, Elio Franzini, e il suo omologo dell'Università Vita-Salute San Raffaele, Enrico Gherlone, siano processati per l'ipotesi di reato di «turbata libertà nella scelta del contraente» (e Franzini anche per l'ipotesi di falso ideologico) in due concorsi per Urologia al San Paolo e al San Raffaele. 

La richiesta riguarda a maggior ragione - nella prospettiva dei pm Bianca Maria Eugenia Baj Macario e Carlo Scalas, con il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli - anche l'urologo Francesco Montorsi, professore dell'Università San Raffaele, Stefano Centanni, direttore del dipartimento di Scienze della Salute della Statale, e Marco Carini, urologo dell'Università di Firenze, indagati anche per l'ipotesi di corruzione aggravata. 

L'accusa a Montorsi e Centanni è aver «bandito e pilotato, in un'ottica spartitoria, due posizioni di professore ordinario alla Statale per gli ospedali San Paolo e San Donato», in uno «scambio corruttivo» che avrebbe dovuto portare in cattedra due nomi da loro caldeggiati. I guai dei rettori milanesi nascono da una intercettazione nella quale Carini diceva che «il rettore di Milano mi chiama e mi chiede se c'è la volontà... la disponibilità dell'accademia di urologia di un posto al San Paolo di un professore ordinario...». 

C'era però l'incognita di due altri candidati non ritiratisi, e allora per gli inquirenti Gherlone era stato chiamato da Franzini, preoccupato «siccome c'è anche l'altro in ballo... cioè non vorrei interferenze spiacevoli sulle due procedure... Perché non si è ritirato sostanzialmente come aveva promesso».

Per i carabinieri il rettore della Statale «chiedeva espressamente al collega Gherlone di far ritirare» due candidati «entrambi ordinari di Urologia al San Raffaele di cui Gherlone è rettore». E una volta che i candidati non preventivati si erano ritirati, Centanni e Franzini si congratulavano: «È rimasta una macchina sola in pista - riassumeva Centanni -, a questo punto facciamo una grande festa E poi diciamo di portare il Dom Perignon ovviamente», al che Franzini stava allo scherzo: «Dom Perignon in caliciBel brindisi». 

Concorsi truccati ateneo Genova: ai domiciliari 2 docenti. ANSA il 13 giugno 2022.

Il giudice per le indagini preliminari Claudio Siclari ha disposto gli arresti domiciliari per Lara Trucco e Pasquale Costanzo, docenti del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Genova. Il gip ha accolto le richieste della procura disponendo le misure cautelari. Trucco e Costanzo, che nel frattempo si sono dimessi dai loro incarichi, sono accusati a vario titolo di turbativa d'asta e falso nell'ambito di un'inchiesta su una serie di concorsi sospetti all'Ateneo del capoluogo ligure. Il giudice ha disposto anche una serie di interdizioni parziali per altri docenti, che non potranno essere commissari nei concorsi, ma continuare a insegnare e a far sostenere gli esami. Il secondo provvedimento riguarda Riccardo Ferrante, Daniele Granara, Vincenzo Sciarabba, Patrizia Vipiana e Patrizia Magarò. (ANSA).

Stefano Zecchi per ilgiornale.it del 2 Novembre 2008

Ministro blocchi i concorsi universitari! Sono concorsi che si svolgeranno in modo indecente, in spregio delle più elementari regole di valutazione del merito. Sono concorsi che satureranno l’Università per non so quanto tempo, come accadde negli anni Settanta, assegnando oltre 4mila cattedre e oltre  3mila posti di ricercatore.  I bandi per questi concorsi sono stati pubblicati generalmente alla metà di luglio. 

I candidati avevano un mese di tempo per presentare le domande d’ammissione al concorso: dunque nell’estate, intorno a Ferragosto. Una scadenza scelta ad arte per dare la minima conoscenza della pubblicazione dei bandi, in modo che non si iscrivessero candidati pericolosi, estranei cioè a lobby e nepotismi, in grado di mettere, eventualmente, in discussione chi era già stato scelto come vincitore.

La riforma universitaria dei ministri del centrosinistra, Zecchino e Berlinguer, ha creato una serie di disastri che una nuova, intelligente, riforma può cercare di rimediare. I docenti, una volta in cattedra, non li toglierà più nessuno. La riforma del centrosinistra ha creato università fantasma con una essenziale funzione clientelare, in cui non potevano mancare corsi di laurea senza alcuna giustificazione culturale, con insegnamenti dai titoli grotteschi, senza studenti (perché, poi, lo studente non è così deficiente: ad un certo momento capisce anche lui l’inganno).  

I 4mila nuovi docenti consolideranno il degrado del sistema universitario. Si potrebbe sostenere questo: l’università è dissestata, ma i docenti sono di livello e quelli che verranno nominati aumenteranno la qualità. La verità è che se l’università è un disastro, i nuovi docenti sono sempre più degni di questo disastro. 

Il disinteresse verso il merito da parte delle baronie, che hanno in mano il sistema concorsuale, è impressionante per il disprezzo nei confronti dell’istituzione accademica. Clientelismo e nepotismo sono sovrani: si vada a vedere come il rettore della Sapienza ha messo in cattedra moglie e figli;  si legga l’elenco degli insegnanti (è ufficiale, non è un mistero) nell’università di Bari: parentele indissolubili; si dia una rapida occhiata ai nomi dei professori della seconda facoltà di architettura del Politecnico di Milano: insomma, sembra che l’università sia l’ultimo baluardo che garantisce l’unità della famiglia in una società che sta distruggendo la famiglia. 

Illustre ministro Gelmini, non si renda complice di una truffa: dalla metà del mese ci saranno le votazioni segrete per le elezioni delle commissioni giudicatrici dei concorsi a cattedra. Elezioni pilotate dai gruppi di potere accademico; vincitori già stabiliti prima ancora delle nomine delle commissioni. Concorsi truccati. A riprova di ciò, illustre ministro Gelmini, con questo articolo consegno al direttore del Giornale una lettera in busta chiusa in cui indico, già oggi, i nomi dei futuri vincitori del concorso di Estetica. 

Stefano Zecchi per “il Giornale” – 23 settembre 2009

Sono stati banditi dalle università i concorsi a cattedra, e giovani studiosi si preparano a parteciparvi sperando nelle promesse del ministro Gelmini. Il ddl è pronto, e come ha detto il premier ieri, sarà presentato al Consiglio dei ministri a ottobre. È la rivoluzione dell’Università, la riforma di cui si è parlato e che finalmente sta per entrare in vigore. Merito, scientificità, trasparenza sono state le parole d’ordine del ministro dopo aver constatato, entrando nei suoi uffici, con quali procedure indecenti avvenga la selezione dei futuri docenti. 

Si sarebbe voltato pagina, ci aveva detto il ministro; basta con amici, figli e amanti in cattedra; attenzione alla ricerca, alle pubblicazioni, ai rapporti internazionali dei candidati ai concorsi. E invece le università si preparano a non cambiare niente e le promesse del ministro volano via con le sacrosante attese dei giovani studiosi, ancora una volta beffati. In un precedente articolo avevo spiegato come viene perpetrata la truffa dei concorsi attraverso accordi sottobanco tra docenti per difendere i propri protetti dai rischi di una vera valutazione comparativa. 

La corporazione accademica mi è saltata addosso perché avrei svelato come si prendono le decisioni nei sancta sanctorum accademici, negando quanto avevo scritto: cose, tra l’altro, notissime anche ai bidelli delle università. Adesso chiunque potrà valutare quanto dirò semplicemente guardando internet. Ogni università ha, per legge, la possibilità di tracciare un profilo scientifico dello studioso, a cui la commissione di concorso si dovrà attenere per stabilire il futuro vincitore di cattedra. 

Prendiamo, ad esempio, la cattedra di Estetica, messa a concorso dall’Università di Bergamo. Una persona di normale buon senso si aspetta che coloro che possiedono dei libri sull’estetica in generale abbiano titoli sufficienti per aspirare legittimamente a vincere quel concorso. E invece no. Ecco il trucco, perfettamente legale, di una legge perfettamente perversa. Cosa si inserisce nel bando di concorso? Il profilo dello studioso richiesto dall’università. Si legga quello preteso dall’Università di Bergamo: il candidato deve essere esperto in «poetiche della narrazione tra storia orale e sociale con particolare riferimento alle geografie dell’area del Mediterraneo».

Io, professore ordinario di Estetica, discreto studioso riconosciuto all’estero, a quel concorso è meglio che neppure mi iscriva perché lo perderei. Per quale motivo sono così senza speranze? Perché il profilo proposto dall’Università di Bergamo del candidato che dovrà vincere è tanto specifico da escludere il 99,9 per cento degli studiosi di Estetica. Chi rimane? Quello a cui è stato ritagliato su misura il concorso medesimo, perché ha qualche pubblicazione inerente alle caratteristiche indicate nel profilo del bando di concorso. 

Il trucco c’è e si vede: il concorso è in Estetica, non in un suo aspetto particolare, ma l’università, con la furbata del profilo, fa vincere il concorso al candidato che ha già prescelto, escludendo ogni vera competizione, affinché il pupillo non tema rivali. Alla faccia della trasparenza, del merito e della scientificità. Ma il ministro conosce questi bandi? Gliene riassumo qualcuno. Università Suor Orsola di Napoli, cattedra in Discipline Demoetnoantropologiche: insegnamento, come chiunque può capire, di straordinaria vitalità per le sorti dell’umanità.

Ma si legga adesso il profilo del candidato voluto dall’università: deve avere «approfondito l’insieme delle questioni teoriche e metodologiche inerenti alla costruzione mitologica del contesto urbano partenopeo e abbia studiato in modo particolare il complesso delle pratiche simboliche mitico-rituali relative alla fondazione di Napoli, nonché alle trasformazioni subite dalla narrazione eziologica della vicenda del Nume Patrio nei contesti moderni e contemporanei». 

E chi mai conosce questo Nume Patrio? Ovvio: il candidato che vincerà il concorso, confezionato per lui. Andiamo avanti. Università di Catania, cattedra in Letteratura Italiana. Si badi bene: tutta la letteratura italiana è prevista dal concorso. E invece cosa si dice nel profilo? Il candidato deve aver dimostrato «un’interesse particolare per lo studio della letteratura siciliana, anche recente, in dialogo con la letteratura italiana e con quelle europee». E poi dicono dei leghisti padani! Cattedra di Museologia a Perugia: il candidato deve aver competenze nella «storia della critica d’arte umbra e nei processi produttivi delle botteghe d’arte del Rinascimento».

Chi ha competenze dei musei internazionali è meglio che neppure provi a concorrere. Storia dell’Arte Medioevale nell’Università di Chieti-Perugia. La vincerà chi ha studiato la «scultura lignea tardo-gotica». 

E chi ha invece competenza a livello internazionale sull’arte romanica? Ha già perso in partenza il concorso. Università di Teramo, cattedra di Lingua Inglese: «Il candidato dovrà dimostrare di possedere esperienza nell’insegnamento e nella valutazione della Lingua Inglese per scopi Speciali». Scopi speciali: viene il sospetto di qualche misterioso intrigo di cui è a conoscenza soltanto il vincitore predestinato dall’ateneo di Teramo. 

Cara ministro Gelmini, ci venga da lei una parola di conforto per i giovani meritevoli da lei tanto amati; e a noi dia qualche spiegazione. Sei concorsi a cattedra si possono fare soltanto in questo modo indecente, non si facciano affatto. I professori e i consigli di facoltà procedano per semplice cooptazione dei docenti che vogliono nel proprio ateneo, assumendosi la responsabilità oggettiva della loro qualità, senza mascherarsi dietro questi concorsi truffa perfettamente legali. 

Le responsabilità più gravi cadono sui rettori, sul modo in cui vengono amministrate le università e spesi i denari pubblici. Ma questo lo spiegheremo la prossima volta. Se invece un’università privata intende mettere una cattedra «sul comportamento dei pulcini sopra i piani inclinati ruvidi» ,lo faccia pure,con i suoi soldi, e non con i nostri.

Giacomo Amadori per “la Verità” l'11 luglio 2022.

Nella Concorsopoli genovese di Giurisprudenza, su cui investiga la Procura del capoluogo ligure, c'è un convitato di pietra (non iscritto): la Guardasigilli Marta Cartabia. Infatti, nelle intercettazioni (il fascicolo è stato aperto nel gennaio 2021 e le captazioni sono partite il 4 febbraio) e nelle memorie di pc e cellulari sequestrati ad alcuni indagati, il suo nome è ricorrente. I pm hanno adesso in mano chat elettroniche, messaggi vocali e mail che il ministro ha scambiato con Lara Trucco, la prorettrice genovese di Giurisprudenza arrestata a giugno, assistita dagli avvocati Maurizio Mascia e Gennaro Velle, e con l'indagato Oreste Pollicino, docente alla Bocconi e difeso a Genova da Carlo Melzi d'Eril. 

Da tale materiale emergerebbe come la Cartabia non sarebbe del tutto estranea a quelle dinamiche interne agli atenei al centro dell'inchiesta. Il presidente emerito della Consulta sarebbe stato tirato per la toga nella guerra tra costituzionalisti e comparatisti (gli studiosi che «comparano» i diritti costituzionali delle varie nazioni) in corso in Italia.

Una disfida in cui, nella testa della Trucco, di Pollicino e soci il principale avversario era l'avvocato Lorenzo Cuocolo (tenete a mente questo nome, ritornerà nella nostra storia), docente della facoltà di Scienze politiche a Genova. All'interno di questa lotta senza quartiere la Guardasigilli avrebbe sostenuto, con l'aiuto di due indagati, la carriera di un ricercatore con un curriculum «fasullo», salvo poi, appena nominata ministro, lasciarlo al suo destino. 

Ricordiamo che per il gip di Genova, Claudio Siclari, la professoressa Trucco, uno dei protagonisti di questa vicenda, sarebbe «pericolosa socialmente» e per questo è stata mandata ai domiciliari insieme con l'amico Pasquale Costanzo (assistito dai legali Massimo Ceresa Gastaldo e Mascia), professore emerito di diritto costituzionale ma, sempre secondo Siclari, privo di freni inibitori nel turbare i concorsi universitari in compagnia della Trucco.

Per l'accusa ci troveremmo di fronte a una sorta di Bonnie e Clyde armati di pandette, i quali si sarebbero preoccupati di piazzare fedelissimi, anche se «meno titolati» dei concorrenti, nelle università italiane. Costanzo al telefono spiegava così il metodo: «Non si possono prima fare i bandi e poi cercare i vincitori, bisogna fare il contrario». Al gip, che ha interdetto dall'attività di commissario altri tre professori e ha sollevato dall'incarico una garante per l'infanzia, il quadro è parso chiaro: a Genova c'erano due mariuoli da fermare.

Fine del film. Ma a ben scavare nelle carte e nella documentazione sequestrata dalla Guardia di finanza si scoprono aspetti sino a oggi completamente trascurati dai media e degni di approfondimento. A partire dai rapporti degli indagati con la Cartabia, che viene citata appena di sfuggita nell'ordinanza di custodia cautelare e nella richiesta di arresto. Per il gip Bonnie-Trucco è una giovane donna in carriera che, «coadiuvata dal professor Costanzo», «era interessata ad allacciare rapporti nel contesto "romano", nella speranza di ottenere futuri incarichi istituzionali ai quali aveva già mostrato di mirare». 

E per molti colleghi la Trucco era la candidata più accreditata per diventare segretaria particolare del ministro in via Arenula. A marzo 2021 la docente sbotta al telefono: «Questa cosa della Cartabia veramente me la dovete spiegare, perché io, eh... mai più sentita».

L'amico Costanzo ha una sua idea: «Per conto mio, gli dicono: "Eh sì, però c'ha una relazione clandestina, poi viene fuori sui giornali", io me la vedo così... quindi...

siccome vogliono gente... che non sia attaccabile da nessuna parte, neanche dai pettegolezzi... perché altrimenti non si spiega eh. Quindi sono io il tuo problema». 

La Trucco non ci crede, ma ammette che qualcosa non torni. In quel momento la Cartabia è ministro da quasi un mese e l'inchiesta è partita da due. L'1 marzo Pollicino chiede alla collega se sia «utile» un incontro con Bassini e la Trucco prende le distanze: «In questo momento con me meglio di no, ma se gli va un giro in Liguria, Costanzo lo vedrebbe volentieri». 

Ma per capirne di più, forse, bisogna ricostruire i fatti che avrebbero portato la Trucco e il collega Pollicino, stretto alleato della Guardasigilli dentro la Bocconi, a ritagliare un bando su misura per un assegno di ricerca a Genova (illecito contestato nel capo E della richiesta di misure cautelari) destinato a un giovane professore a contratto della stessa Bocconi, Marco Bassini.

La Trucco e Pollicino avrebbero discusso dell'argomento in un incontro carbonaro organizzato nel febbraio 2021 in un autogrill sull'autostrada Milano-Genova, un appuntamento che si era reso necessario dopo alcuni accadimenti delle ore precedenti. E qui la storia diventa un intrigante giallo estivo. 

Un mistero che, secondo la Trucco, la Cartabia conosceva nei particolari, essendo in rapporti sia con Bassini sia con Pollicino. Tanto che entrambi erano stati introdotti nel circuito prestigioso dei Quaderni costituzionali, una rivista che è una specie di Rotary dei costituzionalisti e di cui fanno parte anche i figli dei presidenti Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella, oltre a Giuliano Amato e Sabino Cassese.

Pollicino alla Trucco scrive in una chat del 31 agosto 2020: «Giovedì vedo Marta e ti confermo che ha una visione chiara dello spessore umano qui in Bocconi». La Trucco replica: «Marta è fortunata a poter contare su di te». A dicembre 2020 Pollicino ribadisce: «Non facile ambiente, ma Marta grande aiuto». In una memoria consegnata ai magistrati la Trucco ha sottolineato la stima di cui godeva anche Bassini «da parte della professoressa Cartabia». Stima che, però, non sembra essergli bastata. 

Tutto inizia il 19 ottobre del 2019 quando viene bandito a Milano un posto «per titoli ed esami» per assistant professor (un livello sotto l'associato) in diritto costituzionale.

Bassini si candida e inserisce nel curriculum una pubblicazione, che in realtà non è ancora stata stampata, intitolata Internet e libertà di espressione. Prospettive costituzionali e sovranazionali. 

Uscirà ufficialmente solo l'1 novembre. Bassini è comunque lanciatissimo. Nella primavera del 2020 entra a far parte della task force di 74 esperti di big data messa in piedi dal governo Conte per il contrasto alla pandemia da Covid-19.

A questo punto c'è un altro evento che rende in un certo senso «fasullo» il concorso. I commissari, il 14 aprile 2020, al momento della prima seduta del concorso, sapevano già da ben due settimane i nomi dei partecipanti, cosa assolutamente vietata. Infatti un impiegato della Bocconi, tal N. S., li aveva comunicati via mail con tanto di allegato in Excel. «Almeno a Genova li dicono qualche giorno prima ed in genere a voce», commentò la Trucco.

La commissione giudicatrice, di cui facevano parte la stessa professoressa e Pollicino, valuta la pubblicazione fantasma e il 10 giugno Bassini viene proclamato vincitore. Salvo rinunciare immediatamente al posto. Dopo pochi giorni gli subentra il secondo arrivato, Luigi Testa. Che nella sua memoria Trucco descrive così: «Un allievo del professor Cuocolo, e con lo stesso Cuocolo, coassegnatario, sempre in Bocconi, del corso di diritto pubblico». Un collegamento che la donna ritiene «singolare».

La Trucco e Pollicino sospettano che a convincere Bassini a fare un immediato passo indietro sia stato proprio il gruppo nemico dei comparatisti che avrebbe fatto girare la voce del titolo falso presentato da Bassini. Pollicino l'11 giugno 2021, digita in chat: «Purtroppo contano le persone che ho in Università Bocconi e la loro cattiveria. È dispiaciuto, ma è lui che ha capito che una cazzata del genere poteva essere manipolata». Quindi ripensa al ritiro del pupillo: «Che botta!!! Sono tramortito. Ma ha fatto cazzatona». 

La Trucco prova a rinfrancarlo: «Ma no dai sarà mica l'unica e ultima occasione...». Pollicino è depresso, ma ha un sussulto pensando alla Cartabia: «Forse sì se Marta non lo chiede per sé». E così avviene. A parziale risarcimento economico, è pensato per il «trombato» un ruolo di co-responsabile (ovvero un posto da adjunct o professore a contratto, che non richiede bandi) del corso di diritto costituzionale italiano ed europeo diretto dalla Cartabia. Insomma la giurista si sarebbe «presa in carico» l'allievo. Un piano che avrebbe dovuto diventare operativo nel secondo semestre dell'anno accademico 2020-2021, a partire dal marzo. Però il progetto, come vedremo, è andato in porto in ritardo.

Intanto il 22 gennaio 2021 al dipartimento di studi di Giurisprudenza dell'Università di Milano Bicocca ha luogo un convegno intitolato La libertà di espressione del domani. Riflessioni a partire dal libro di Marco Bassini. Bassini non partecipa, ma a presiedere, insieme a un collega dell'università che ospita l'evento, è Pollicino. La relazione introduttiva è della Cartabia. A chiudere i lavori è, invece, l'ex presidente della Camera dei deputati, Luciano Violante. 

Arriviamo così al 13 febbraio 2021, quando la presidente emerita della Corte costituzionale viene promossa ministro. Sono le ultime battute per la nomina di Bassini a co-responsabile del suo corso. La banda dei comparatisti sarebbe, però, ancora in agguato.

La mattina del 15 Pollicino esulta via chat: «Buongiorno, come volevasi dimostrare Marta ha rispedito al mittente tutte le interferenze relative al suo corso e ha deciso di attribuirlo a Marco [] è proprio un mito». Passano poche ore e il clima è completamente cambiato: «Ti devo raccontare. Colpo di coda dei nostri» scrive Pollicino alla Trucco. I due proseguono il discorso in una telefonata intercettata dalla Guardia di finanza. 

Una conversazione molto interessante, con diversi riferimenti ai presunti titoli «fasulli» di Bassini e al ruolo della Cartabia. Il professore si lamenta perché «i nostri», cioè Cuocolo & c., «si confermano quelli che conosciamo» poiché avrebbero riproposto «la storia assurda del concorso» di Bassini «dopo che la stessa presidente emerito e compagnia» lo «aveva designato». Pollicino ricorda che, come sa la collega, il concorso «è fasullo» e che la Cartabia «lo conosce anche lei benissimo, perché l'ha presentato, l'ha attrezzato...».

Non è chiaro se il riferimento sia alla procedura farlocca o allo stesso Bassini, che potrebbe essere stato introdotto in convegni, «non facendogli mancare occasioni che gli avrebbero dato visibilità come la nomina nella cosiddetta task force governativa Covid-19». Ma la Cartabia avrebbe fatto all'improvviso marcia indietro: «Dicendo, facendo capire... diciamo in maniera molto indiretta, molto felpata... attenzione, perché poi potrebbe scoppiare un caso no? Che il corso è stato affidato a qualcuno, no, che non era del tutto pulito», parafrasa al telefono Pollicino. 

Il quale, dopo questa conversazione con il ministro, si sarebbe «messo in allarme» e avrebbe chiamato l'allievo prediletto: «Guarda, meglio che...». Facendolo ritirare per la seconda volta. L'indagato Pollicino, nell'intercettazione, spiega alla Trucco che da via Arenula gli avrebbero anche chiesto di subentrare lui nel corso di diritto costituzionale italiano ed europeo: «Magari tienilo per te questo, esclusivamente per te... lo faccio io, cioè lo fa...perché lei comunque non vuole l'entrata di altri e altre, esterne... diciamo i bocconiani... bocconiane... ma esterni, zero, cioè tutti quelli con comparato non (incomprensibile)».

Qui sembra proprio che l'ordine di scuderia proveniente da via Arenula fosse quello di non far accedere al corso della Cartabia, Cuocolo & c. Pollicino è convinto che Bassini con la sua mossa abbia «acquisito un grandissimo credito anche nei confronti di Marta, perché lei l'aveva designato» e che «lei apprezzerà molto questa cosa qui». L'allievo avrebbe «capito che anche in questo caso e meglio fare un passo indietro». 

Al telefono il professore conclude: «E anche se non gliel'ha chiesto minimamente, sono io a chiederglielo, capito? Perché conoscendo i miei polli (Cuocolo & c. ndr), preferisco sempre fare questo, capisci?».

Infine, il docente raccomanda alla collega Trucco di tenere la questione «riservata»: «Perché non voglio neanche aprire un caso, quindi lo sappiamo io, tu, Marta e basta, capisci?». Nel marzo 2021, la Trucco bandisce un assegno di ricerca per Bassini. Poi lui non si presenta e la procedura va deserta. Il motivo? Bassini ottiene un contentino dalla Bocconi e dal settembre 2021 affianca il maestro Pollicino con il ruolo di adjunct professor nel già citato corso di costituzionale italiano ed europeo. 

Nella sua memoria ai magistrati la Trucco ha spiegato chi sia la Marta citata nell'intercettazione con Pollicino: «Ritengo si tratti indubbiamente della professoressa Marta Cartabia». Circa un mese dopo quella telefonata, il 23 marzo 2021, la Trucco chiede alla Cartabia la conferma della partecipazione a un convegno genovese di giugno, «pur immaginando le tantissime altre - e ben più importanti - cose che ha da fare». Il giorno dopo la Guardasigilli risponde così: «Lara è mooolto rischioso. Qui non si è padroni di nulla. Meglio soprassedere, credo...». Nell'occasione la Trucco ha replicato semplicemente così: «Certo prof, capisco benissimo (mi creda, ero incerta se mandarle la mail...). Forza: è la numero uno!».

Inizialmente, ha confidato, la prorettrice ad alcuni collaboratori, aveva ritenuto che la Cartabia avesse risposto a quel modo perché era a conoscenza «della pericolosità dell'ambiente genovese», per come lei stessa glielo aveva descritto, e perché temeva che la sua presenza potesse essere «percepita come una provocazione». Per questo avrebbe ritenuto «opportuno evitare di aizzarli ulteriormente». 

Ma perché un ministro avrebbe dovuto aver paura di partecipare a un convegno?

Davvero solo per non sembrare una provocatrice? O, nel pieno delle indagini, era a conoscenza di qualcos' altro? Che cosa significa quel suo «qui non si è padroni di nulla»? Forse le future investigazioni aiuteranno a capirlo. Da quanto ci risulta la Trucco non avrebbe ricevuto pressioni dirette dalla Cartabia per agevolare la carriera di Bassini. Tutte queste vicende le sarebbero state riferite dal coindagato Pollicino. 

Ma c'è un episodio che, per quanto ha raccontato la stessa docente alle persone a lei più vicine nei mesi scorsi, rafforza il sospetto che la Guardasigilli non fosse estranea alla sponsorizzazione. Esso risale a qualche anno fa.

«L'unica volta che mi ha raccomandato una persona direttamente è stata in occasione della prima abilitazione scientifica nazionale (quando Costanzo era presidente) della professoressa B. G.». aveva ricordato la docente. Era il 2013 e alla candidata venne concessa l'abilitazione di diritto costituzionale di seconda fascia. L'11 novembre 2020 è stata, invece, bocciata per quella di prima fascia: «Scientificamente non c'eravamo affatto... benché godesse di altissime raccomandazioni. Nonostante questo è entrata a far parte di una commissione istituita in seno all'Unione europea come "ordinaria"...», aveva spiegato la Trucco.

Processo all’università: la ragnatela dei concorsi pilotati. Sotto inchiesta 191 docenti da Milano a Palermo. Alessia Candito,  Sandro De Riccardis,  Luca De Vito,  Giuseppe Filetto,  Marco Lignana,  Salvo Palazzolo,  Luca Serranò,  Corrado Zunino su La Repubblica il 28 Maggio 2022.

Il momento è difficile per l'università italiana, violata nella sua convinta autonomia da inchieste penali che fanno emergere la questione più difficile e mai risolta: il concorso pubblico, porta d'accesso ai dipartimenti, inizio di carriera per un laureato. Il concorso d'ateneo è sempre più discusso, sempre più fragile. Negli ultimi tre anni, a partire da Università...

Processo all'università, così parlano i baroni: "Ci scegliamo i vincitori e poi scriviamo i bandi". Alessia Candito,  Sandro De Riccardis,  Luca De Vito,  Giuseppe Filetto,  Marco Lignana,  Salvo Palazzolo,  Luca Serranò,  Corrado Zunino su La Repubblica il 29 Maggio 2022.  

Il linguaggio delle intercettazioni sui concorsi pilotati. C'è chi suggerisce "un po' di mobbing" verso i candidati sgraditi e chi teorizza: "Siamo tutti imparentati. Del resto l'ateneo è una specie di élite della città". E qualcuno paragona la scelta tra due cattedre a "una questione di gusti: vuoi il cannolo o il bignè?"

Greve, sfacciato, a tratti inquietante. È il linguaggio a restituire l'idea di meritocrazia diffusa nelle università italiane: basata non sui titoli e le competenze, ma sulle relazioni di potere. E c'è ben poco di accademico nelle telefonate in cui, da Milano a Palermo, si mercanteggia di cattedre. "Siamo tutti parenti (...) I nostri concorsi sono truccati".

Concorsopoli alla Statale, tutte le trame nei verbali: "I due bandi a urologia dovevano avere la stessa commissione". Sandro De Riccardis,  Luca De Vito su La Repubblica il 17 aprile 2022.  

I pm di Milano che indagano sui concorsi all'università hanno ascoltato il capo della direzione legale e il direttore generale.

Ci sono due verbali che puntellano le accuse dei pm nei confronti degli universitari, nell'ambito dell'inchiesta sulla Concorsopoli milanese che vede indagati il rettore della Statale Elio Franzini e quello del San Raffaele Enrico Gherlone per turbata libertà nella scelta del contraente. Due testimonianze chiave che spiegano come il disegno per pilotare i due concorsi per ordinari di Urologia fosse curato e seguito in ogni suo passaggio, in particolare sul fronte Statale.

Genova, bufera sull'università: dodici docenti indagati per presunte selezioni truccate a Giurisprudenza.  Giuseppe Filetto e Marco Preve su La Repubblica il 28 aprile 2022.  

Amici e parenti sarebbero stati favoriti per cattedre o posti da ricercatori.

La normale dialettica interna al mondo universitario oppure un sistema fondato sullo scambio di favori e sulle nomine di ricercatori e docenti sulla base di amicizie e parentele?

E’ questa seconda tesi quella che sposa, in questo e momento, la procura di Genova che con dodici indagati e una serie di perquisizioni sta mettendo a soqquadro l’università di Genova e in particolare il dipartimento di Giurisprudenza.

Corrado Zunino, Salvo Palazzolo e Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 30 maggio 2022. 

Il momento è difficile per l'università italiana, violata nella sua convinta autonomia da inchieste penali che fanno emergere, una dopo l'altra, la questione più difficile e mai risolta: il concorso pubblico, porta d'accesso ai dipartimenti, inizio di carriera per un laureato.

Il concorso d'ateneo è sempre più discusso, e fragile. Negli ultimi tre anni, a partire da "Università bandita" allestita a Catania, nove procure hanno organizzato indagini strutturali che hanno messo in evidenza al Sud (Università Mediterranea di Reggio Calabria), nelle isole (Università di Palermo e Sassari), al Nord (Statale di Milano, Torino e Genova), nelle province del Centro (la Stranieri di Perugia) e nelle sue città (Università di Firenze) accordi trasversali sulle singole discipline, in particolare a Giurisprudenza e Medicina, patti tra baroni, commissioni controllate, candidati favoriti, candidati ostacolati.

Gli ultimi tre anni dicono che l'accordo accademico, sì, ha le stimmate del sistema. I numeri sono di peso: 191 tra ricercatori a tempo indeterminato e precari, professori associati e ordinari, direttori di dipartimento, prorettori e rettori sono stati indagati nelle ultime due stagioni per titoli di reato gravi: la truffa, l'abuso, a Reggio Calabria e Firenze si contesta l'associazione a delinquere. E per aver pilotato 57 bandi di concorso pubblici. 

Con l'inchiesta madre, Catania appunto, si aggiungono 55 docenti a processo, un prorettore che ha patteggiato la condanna e altri 27 bandi accertati come guasti. Il Tribunale di Torino ha infine condannato con rito abbreviato un primario di Chirurgia estetica e la candidata al posto di professore associato, due commissari di concorso sono in attesa di giudizio.

Mai nella storia dell'accademia italiana si era aperto un fuoco giudiziario così scandito nei confronti di un'istituzione decisiva per lo sviluppo del Paese: l'università. Il raffreddamento delle immatricolazioni degli studenti nel 2021-2022 dopo otto anni di crescita e il calo dei laureati accertato da Eurostat per la prima volta dopo vent'anni sono il segnale che una parte consistente del mondo accademico non vuole cogliere. 

Il via libera dei vertici

Secondo le accuse, e secondo tutti coloro che a questo sistema si sono opposti, l'organizzazione concorsuale indebita parte spesso dai vertici accademici. Non a caso, sono stati rinviati a giudizio gli ultimi due rettori dell'Università di Catania e nelle successive inchieste ne sono stati coinvolti altri sette.

Iniziatore di questa svestizione del carisma di chi guida un ateneo è stato il professor Giuseppe Novelli, genetista condannato a un anno e otto mesi per tentata concussione e istigazione alla corruzione compiute nella sua veste di guida di Roma Tor Vergata. 

Il sistema si legge con chiarezza seguendo l'ultima indagine. La procura di Genova ha messo in relazione i due riferimenti interni di Giurisprudenza con venti professori (locali e no) pronti a scambiare vittorie nei concorsi. 

La prorettrice Lara Trucco e il prof emerito Pasquale Costanzo promettevano e ottenevano posti da colleghi della Sapienza di Roma, dell'Università di Modena e Reggio Emilia, della stessa privata e borghese Bocconi. Tra gli indagati, qui, ci sono Daniele Granara, avvocato dei medici No Vax del Paese, e Camilla Bianchi, garante per l'Infanzia della Regione Toscana. 

Alla Mediterranea di Reggio Calabria, dove «emerge un quadro desolante» su tre dipartimenti, la figlia dell'ex vicepresidente del Consiglio regionale, del Pd, partecipava alla distribuzione di cattedre, assegni di ricerca e posti in corsi di specializzazione su indicazione del rettorato.

E il "Magnifico" Santo Marcello Zimbone ha barattato in proprio un dottorato con la promozione dei pargoli al liceo: ha offerto il posto alla figlia del professore che avrebbe voluto bocciarli. 

Ancora, la figlia dell'ex rettrice dell'Università della Basilicata, Aurelia Sole, in corsa a Reggio Calabria per un dottorato con un curriculum «che fa raccapriccio», era utile per alimentare un contro-concorso per dottorandi a Potenza. La logica dello scambio. 

Il buon pastore di Firenze

«Occorre fare sistema», dicono i docenti del cerchio Dei, rettore indagato e interdetto all'Università di Firenze, «dobbiamo essere pastori del gregge». Qui un primario nauseato dal successo senza merito ha dato luce agli accordi segreti in sala operatoria, così come un ricercatore inglese, Philip Laroma, aveva consentito di scoperchiare nel 2017 le trame a Giurisprudenza: «Non è che tu non sei idoneo, è che non rientri nel patto del mutuando».

D'altro canto, la scalcinata Università per stranieri di Perugia, dove il procuratore Raffaele Cantone contesta cinque bandi di concorso, ha offerto una patente B1 in Lingua italiana al calciatore uruguaiano Luis Suarez, capace di definire l'anguria "la cocomera".

Il rettore di Palermo insediato la scorsa estate, Massimo Midiri, ha compreso perfettamente che il logorio delle inchieste penali, a cui si aggiunge un quotidiano stillicidio di ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, sta corrodendo l'immagine e l'anima dell'università italiana e ha deciso di cambiare le regole dei concorsi: nessun membro interno in commissione.

«Si percepisce che tra i giovani c'è sfiducia nell'istituzione», spiega Midiri. Nel suo ateneo undici medici sono sotto inchiesta per falso e turbata libertà del procedimento. Nel primo interrogatorio dei carabinieri del Nas, il denunciante principe spiegò: «Il professore Gaspare Gulotta decide prima chi debba diventare ordinario, sceglie fra i suoi fedelissimi».

La gip di Palermo ha scritto: «Il reparto diretto da Gulotta si profila come un salotto privato nel quale vengono discussi i giochi di potere del professore, che spadroneggia impunito». Una telecamera nascosta ha dato un corpo a queste indicazioni. 

"Perdenti più titolati”

Sono undici gli indagati a Sassari. Alla Statale di Milano, il bisogno di far fare carriera agli allievi ha portato sotto inchiesta un volto televisivo di questi due anni di pandemia, il virologo Massimo Galli.

Ecco, in un lavoro inviato alla rivista Lancet dal professore associato Pasquale Gallina e dall'associato in pensione Berardino Porfirio si avanza la tesi che un ricercatore che non ha mai avuto posizioni accademiche in università vanti un H-index - indicatore che misura l'impatto scientifico di un autore - migliore rispetto ai 186 docenti fiorentini presi in esame. 

Dice il procuratore Cantone, già presidente dell'Autorità anticorruzione: «A mettersi contro il sistema si rischia. Negli atenei ci sono un deficit etico e un'abitudine a tollerare l'andazzo, a considerarlo parte del sistema. Anche le persone con più capacità, per sopravvivere, devono sottoporsi a pratiche umilianti».

Alessia Candito e Marco Lignana per “la Repubblica” il 30 maggio 2022.

Greve, sfacciato, a tratti inquietante. È il linguaggio a restituire l'idea di meritocrazia diffusa nelle università italiane: basata non sui titoli e le competenze, ma sulle relazioni di potere. 

E c'è ben poco di accademico nelle telefonate in cui, da Milano a Palermo, si mercanteggia di cattedre. «Siamo tutti parenti (...) I nostri concorsi sono truccati». La regola è che «non si possono prima fare i bandi e poi cercare i vincitori, bisogna fare il contrario».

E per i rivali «un po' di mobbing, così dimenticano i concorsi». Frasi pronunciate da quei professori - ordinari, associati, direttori di dipartimento, rettori - ben rodati nelle spartizioni. E che sono agli atti di inchieste avviate nelle procure di mezza Italia.

Sempre le stesse famiglie

L'ex rettore di Catania Francesco Basile, finito sotto inchiesta due anni e mezzo fa, aveva una sua personalissima teoria: «Perché poi alla fine qui siamo tutti parenti - diceva intercettato -. Alla fine l'università nasce su una base cittadina abbastanza ristretta, una specie di élite culturale della città, perché fino adesso sono sempre quelle le famiglie». 

Il professore Gaspare Gulotta, direttore del Dipartimento di Chirurgia generale di Palermo, paragonava invece alcuni universitari ai boss. Ma non era un'accusa, tutt'altro: «Da Roma tutti preferivano fare le commissioni con i siciliani, volevano fare i patti con i siciliani, perché i siciliani erano affidabili, c'era 'sta cosa della mafia, infatti si diceva che un siciliano muore ma non…».

A Reggio Calabria invece non c'è pubblicazione, risultato accademico o collaborazione che tenga. Si vince solo per indicazione dei vertici dell'ateneo. «Che devo fare, ormai ha gli impegni presi. Non capisco perché ma vabbè. Comunque, lo vogliamo fare e stiamo prendendo due cessi. È inutile che Pasquale (Catanoso, ndr) mi dice che sono fuoriclasse», sbottava il capo del dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Reggio Calabria, Massimiliano Ferrara, mentre parlava con il rettore dell'epoca, Pasquale Catanoso, e quello che gli succederà, Marcello Zimbone. Avvicendamento che non ha cambiato l'andazzo, perché «tutti e due all'unisono vanno a braccetto», diceva il direttore di Architettura, Adolfo Santini. 

Telefonate sfacciate

I prof non usano eufemismi: «Stavolta tocca a me e la prossima volta tocca a lui. Gli ho fatto un associato dieci giorni fa e gliel'ho fatto col solito sistema», diceva ancora Gulotta parlando del suo grande rivale, Mario Adelfio Latteri. Lo stesso Gulotta alla fine arrivava ad ammettere: «È bene che facciamo il regolamento di ateneo perché effettivamente anche i nostri concorsi sono truccati».

Il nodo riguarda sempre come trovare il modo più efficace per bypassare le regole. A Milano un'inchiesta sui bandi a Medicina, all'ospedale Sacco, vede indagato l'infettivologo Massimo Galli: «Ma cerchiamo di fare le robe ogni tanto un po' più... seriamente», diceva la direttrice amministrativa di Scienze biomediche Monica Molinai a una ricercatrice. 

Parlava della disinvoltura di Galli nel pianificare i bandi. Le due commentavano anche la commissione: «Mettiamo che quello di Palermo sia abituato a metodi un po' più spicci, quello di Roma magari sta più attento, no?».

Nell'inchiesta di Genova su Giurisprudenza, invece, le figure centrali sono la prorettrice Lara Trucco e il prof emerito Pasquale Costanzo. Che arrivava a dire: «Non si possono fare i bandi e poi cercare i vincitori, bisogna fare il contrario». 

Per il docente era questione di fair play: «Si presentano persone senza farmelo sapere. Vi rendete conto? Un po' di galateo accademico». 

La torta e lo champagne

Una volta apparecchiata la tavola, per gli accademici resistere alla metafora enogastronomica è dura. Sempre a Genova, il prof Costanzo si rivolgeva al collega Daniele Granara, che stava per diventare associato, in merito alla scelta fra cattedra in Diritto costituzionale e Diritto pubblico comparato: «È solo una tua preferenza soggettiva… se vuoi il bignè o la torta o il cannolo». 

Negli stessi giorni a Milano Stefano Centanni, direttore del dipartimento di Scienze della salute della Statale, studiava un piano insieme al rettore della sua università, Elio Franzini (entrambi indagati): due concorsi da bandire con la stessa commissione per soddisfare i gruppi di potere a Urologia.

In questa conversazione riportava il suo dialogo con Marco Carini, altro potentissimo urologo fiorentino (indagato anche a Firenze). «Mi ha detto: "Sarebbe bellissimo chiudere tutte e due le gare insieme". E io gli ho detto "Sì, perché a questo punto facciamo una grande festa" (...). E poi diciamo di portare il Dom Pérignon ovviamente», rideva Centanni. «Dom Perignon in calici - rispondeva Franzini - . E poi ci sorridiamo, è finita lì. Bel brindisi». 

Maschilismo e pressioni

Parole in libertà, pronunciate nell'intimità di telefonate private. Ma da cui traspare un atteggiamento prevaricatore. Così la candidata invisa al sistema diventava «una femmina dal curriculum pesante». E per il prof ribelle si auspicava «un po' di mobbing» affinché «si dimentichi i concorsi».

Conversazioni trascritte dai finanzieri che indagano sui bandi pilotati all'Università di Firenze: quaranta indagati, tra cui l'ex rettore Luigi Dei. L'ex primario dell'Urologia oncologica, Marco Carini, sembrava progettare ritorsioni contro un collega anti-sistema, il chirurgo Massimo Bonacchi. 

«Io una soluzione l'avrei, un po' di mobbing obbligandolo a fare guardie e lavorare. Chiaramente si dimentichi concorsi». Poi, quasi rammaricandosi di non poter attuare il piano: «Se lo potessi gestire in questo ultimo mio anno lo farei divertire».

Da repubblica.it il 30 settembre 2022.

La procura di Milano ha chiuso le indagini sui presunti concorsi pilotati per i posti di professore e ricercatore all'Università Statale di Milano, in particolare nel settore della sanità. L'avviso di chiusura delle indagini è stato notificato oggi dai carabinieri del Nas a 25 persone, tra cui l'infettivologo Massimo Galli. 

Nei confronti di quest'ultimo le contestazioni sarebbero state però 'limate'. I pm Carlo Scalas e Bianca Eugenia Baj Macario hanno spacchettato l'inchiesta in più fascicoli, ciascuno relativo a un concorso.

"L'ipotesi accusatoria risulta fortemente ridimensionata rispetto a quella iniziale": lo affermano i difensori del professor Galli, gli avvocati Ilaria Li Vigni e Giacomo Gualtieri, che oggi hanno ricevuto la notifica della chiusura indagini dalla procura di Milano in merito all'inchiesta sui presunti concorsi pilotati alla Statale di Milano. Massimo Galli risponde solo di un episodio, per il quale gli è stato contestato il reato di falso e turbativa. I due legali hanno aggiunto che "dopo aver avuto la copia" degli atti "faranno le loro valutazioni". 

Inizialmente, come emerso dalle acquisizioni e dalle perquisizioni dell'ottobre 2021, Galli, infettivologo ora in pensione, ex primario del Sacco diventato volto noto durante le fasi più drammatiche della pandemia Covid, era accusato di tre presunti episodi di turbativa d'asta e di due di falso perché avrebbe favorito, ipotizzavano i pm, candidati da lui stimati e ritenuti preparati. Accuse che sono state di molto ridimensionate.

Con la chiusura delle indagini, infatti, per Galli è rimasto solo un 'capitolo' per le accuse di turbativa e falso, quello che riguarda anche Agostino Riva, suo stretto collaboratore e che fu il candidato vincente nel 2020 di un "concorso" per il ruolo di professore di seconda fascia in malattie cutanee, infettive e dell'apparato digerente. 

Secondo l'ipotesi d'accusa, Galli avrebbe alterato il "concorso", come era emerso dagli atti, intervenendo come componente della "commissione giudicatrice" sul verbale di "valutazione dei candidati": in questa veste avrebbe attestato che il "prospetto contenente i punteggi attribuiti fosse il risultato del lavoro collegiale" nel corso di una riunione da remoto del febbraio 2020, mentre, risulta dagli accertamenti, sarebbe stato "concordato" solo dopo. Per l'accusa, sarebbe stato lo stesso Riva a indicare i "punteggi" che doveva attribuirgli la commissione. Chi si era visto penalizzato, Massimo Puoti del Niguarda, però, aveva comunque manifestato, dopo la notizia dell'indagine in corso, la "massima stima" nei confronti di Galli.

Le altre contestazioni al professore, compresa quella iniziale anche per lui di associazione per delinquere, sono state stralciate in vista di una richiesta di archiviazione. Con la conclusione delle indagini i pm hanno pure ridimensionato altre imputazioni per altri indagati. Con il blitz del 2021 erano state indagate 33 persone, tra cui molti docenti universitari. Poi il numero di indagati è salito ancora e alla fine sono rimaste 25 posizioni nelle chiusure dei vari fascicoli 'creati'. Le altre sono destinate a richieste di archiviazione.

Da corriere.it il 21 novembre 2022.

La Procura di Milano chiede il processo per l'infettivologo Massimo Galli, finito indagato in uno dei capitoli dell'indagine sui presunti concorsi pilotati per i posti di professore e ricercatore alla facoltà di Medicina dell'Università Statale di Milano. Nei suoi confronti, rispetto a quelle originarie, le contestazioni sono state ridimensionate ed è rimasto solo un episodio di turbativa d'asta e falso.

La richiesta di rinvio a giudizio per l'ex primario del Sacco ora in pensione, diventato volto noto durante le fasi più drammatiche della pandemia Covid, è stata inoltrata all'ufficio gip dai pm Bianca Maria Eugenia Baj Macario e Carlo Scalas ed ha anche la firma del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ed è la prima dopo che, alla fine di settembre, erano stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini, uno per ciascun concorso ritenuto irregolare.

Per la vicenda è indagato pure Agostino Riva, suo stretto collaboratore, candidato vincente nel 2020 di un «concorso» per il ruolo di professore di seconda fascia in malattie cutanee, infettive e dell'apparato digerente. Secondo l'ipotesi, Galli sarebbe intervenuto, come era emerso dagli atti, come componente della «commissione giudicatrice» sul verbale di «valutazione dei candidati»: in questa veste avrebbe attestato che il «prospetto» con i «punteggi attribuiti fosse il risultato del lavoro collegiale» nel corso di una riunione da remoto del febbraio 2020 mentre, risulta dagli accertamenti, sarebbe stato «concordato» solo dopo. 

Per l'accusa, sarebbe stato lo stesso Riva a indicare i «punteggi». Chi si era visto penalizzato, Massimo Puoti del Niguarda, aveva comunque manifestato, dopo la notizia dell'indagine in corso, la «massima stima» nei confronti di Galli. Per la vicenda sono anche finiti nei guai Claudio Maria Mastroianni, professore alla Sapienza di Roma, e Claudia Colomba, associato all'Università di Palermo. Per gli altri episodi contestati inizialmente al professore è stata chiesta l'archiviazione. I pm nelle prossime settimane dovrebbero procedere anche per gli altri filoni dell'inchiesta che è stata «spacchettata» in diversi fascicoli.

«I concorsi universitari? A breve a giudicare saranno i pm, non i professori…». Caso "Baroni", intervista a Luigi Bonizzi, ordinario di malattie infettive presso il dipartimento di Scienze biomediche, chirurgiche e odontoiatriche dell’Università statale di Milano. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 31 maggio 2022.

«I concorsi? Fra un po’ verranno fatti direttamente dai pubblici ministeri e non dai professori». A dirlo è il professore Luigi Bonizzi, ordinario di malattie infettive presso il dipartimento di Scienze biomediche, chirurgiche e odontoiatriche dell’Università statale di Milano.

La Statale di Milano è uno degli atenei ad essere finito negli ultimi tempi nel mirino degli inquirenti. Secondo i magistrati, che hanno indagato anche il rettore Elio Franzini, diversi concorsi universitari sarebbero stati “pilotati”.

Il quotidiano La Repubblica a tal riguardo vi ha dedicato l’altro giorno un lungo articolo dal titolo “Processo all’Università”, elencando le indagini attualmente in corso che hanno visto finire nel registro degli indagati circa 200 professori, da Milano a Palermo, con l’accusa di aver messo in piedi un sistema basato sulla scambio di favori e sulla regola “oggi a me, domani a te”. Sul punto è intervenuto anche il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ed ex numero uno dell’Anac, l’Autority anticorruzione, parlando di «deficit etico e abitudine a tollerale l’andazzo». «Anche le persone con più capacità per sopravvivere devono sottoporsi a pratiche umilianti», ha detto Cantone che sta svolgendo indagini su ben cinque bandi di concorso presso l’ateneo cittadino.

Professor Bonizzi, ha letto?

Ho letto e sono seriamente intenzionato a non voler far più parte di alcuna commissione per i concorsi universitari.

Addirittura?

Certo. Se si continua in questo modo il rischio è che la nuova classe docente che formerà le future generazioni sia selezionata su base “giustizialista” e non su base scientifica. Senza contare i danni alla reputazione dei commissari dovuto al clamore mediatico che quasi sempre accompagna queste indagini. Se non sbaglio vige ancora le presunzione d’innocenza.

Le indagini però ci sono……

Premesso che io sono entrato quando i concorsi erano nazionali e non c’era l’attuale autonomia delle singole università, io sarei favorevole ad annullarli proprio i concorsi, ognuno deve potersi scegliere chi vuole.

E come?

Si dovrebbero creare delle scuole con a capo un docente che dia degli indirizzi specifici.

Il “barone”?

Chiamiamolo anche “barone”, l’importante è creare un sistema serio di valutazione ex post per il candidato e per chi lo ha reclutato. Ci si deve sentire responsabili.

Il meccanismo di selezione attuale non va bene?

Bisogna fare una premessa: i ricercatori devono essere bravi nella ricerca, gli associati nella didattica e gli ordinari nella gestione complessiva del lavoro. Un concorso basato solo sulle effettive attività di ricerche svolte non è il migliore.

Perché?

Io posso prendere anche il migliore ricercatore, ma se poi crea problemi ed è difficile gestione nel lavoro di gruppo non è certo un grande affare.

Torniamo alle indagini…

Ci possono anche essere dei concorsi che hanno avuto problemi, ma comunque non hanno mai sconvolto l’intero sistema universitario. Sono situazioni di criticità che poi l’accademia mette nell’angolo e risolve.

Le indagini nascono sempre da denunce dei candidati “sconfitti”.

Adesso è la nuova moda. Chi pensa di essere stato penalizzato va in Procura e denuncia. Non si fa un concorso senza strascichi giudiziari.

Quasi tutti i denuncianti affermano che non sarebbero stati valutati in maniera adeguata i propri titoli, ad iniziare dall’ H-index, l’indicatore che misura l’impatto scientifico di un autore.

Guardi, bisogna sfatare il mito dell’H-index. Ci sono tantissimi modi che non richiedono grande fatica per farlo crescere. Se chiedo a tutti i miei colleghi professori, ad esempio, di citare nelle loro pubblicazioni le mie, vedrà come mi sale l’ l’H-index….

Che consigli si sente di dare?

Servono meno formalismi burocratici. Ripeto: non è utile solo la valutazione del cv, servono altri parametri. E poi vorrei aggiungere un elemento.

Prego?

Il magistrato è responsabile del proprio operato, anche il professore universitario deve poter essere pienamente responsabile delle proprie decisioni.

“Concorsi truccati a Giurisprudenza”: indagati 12 docenti dell’Università di Genova. Tra loro la prorettrice e l’avvocato dei sanitari no vax.

Su ordine del sostituto procuratore Francesco Cardona Albini, la Guardia di finanza ha eseguito decreti di esibizione atti e documenti e acquisizioni informatiche negli uffici e nel centro di elaborazione dati dell’Ateneo. Tra gli indagati c'è Lara Trucco, ordinaria di Diritto costituzionale e prorettrice con delega agli Affari legali: è accusata di aver influito in modo illecito su bandi e concorsi per garantirne la vittoria a sè stessa o a candidati amici. Paolo Frosina su Il Fatto Quotidiano il 28 aprile 2022.  

Dodici docenti dell’Università di Genova sono indagati a vario titolo per turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, turbata libertà degli incanti, traffico di influenze illecite e rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio in relazione allo svolgimento di selezioni pubbliche per l’assegnazione di docenze e di assegni di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza. Le procedure finite sotto indagine riguardano una selezione per un assegno di ricerca in Diritto tributario, una per il Diritto costituzionale, un assegno di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico, un assegno di ricerca in Diritto costituzionale, un posto da ricercatore a tempo indeterminato in Diritto costituzionale e un posto da professore associato in Diritto costituzionale. Su ordine del sostituto procuratore Francesco Cardona Albini, i militari hanno eseguito decreti di esibizione atti e documenti e acquisizioni informatiche negli uffici e nel centro di elaborazione dati dell’Ateneo. “Desidero, innanzitutto, sottolineare che la giustizia va rispettata e deve fare il suo corso. Se saranno accertate mancanze o responsabilità, l’Università di Genova adotterà i provvedimenti conseguenti”, fa sapere il rettore Federico Delfino.

Tra gli indagati c’è Lara Trucco, ordinaria di Diritto costituzionale e prorettrice con delega agli Affari legali. È accusata – insieme al costituzionalista Vincenzo Sciarabba e al tributarista Vincenzo Marcheselli – di aver truccato la selezione per un assegno di ricerca da ventimila euro in modo da farlo avere a Luca Costanzo, figlio del professore emerito Pasquale Costanzo (costituzionalista di cui Trucco è stata a lungo allieva) scavalcando candidati più titolati. In un altro capo d’imputazione si legge che Trucco si è scritta su misura, insieme alla Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Toscana Camilla Bianchi, il bando per l’assegnazione dell’incarico di supporto giuridico alla stessa Garante, suggerendo l’inserimento dei requisiti precisi (inquadramento come professore ordinario, abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, esperienza accademica nell’ambito del diritto pubblico) che le avrebbero garantito la vittoria.

La prorettrice è inoltre indagata insieme a Costanzo, insieme al direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, Riccardo Ferrante, e all’avvocato Daniele Granara per aver turbato un concorso da professore associato in modo che lo vincesse lo stesso Granara, ricercatore a tempo indeterminato in Diritto costituzionale: in particolare, scrive la Procura, Trucco, “dopo essersi accordata con il Direttore di Dipartimento per garantire al Granara le risorse necessarie a garantirgli un posto da professore associato, concordava con il medesimo (…) che venisse svolta una procedura valutativa per preservare il bando dal rischio di concorrenti esterni, riservando il concorso ai soli ricercatori interni all’Università, concordando inoltre di posticipare l’indizione della procedura valutativa all’esito dell’ottenimento dell’Abilitazione scientifica nazionale” di cui il candidato non era ancora in possesso. “Ancora la Trucco – prosegue il capo d’imputazione – si attivava per ricercare i componenti della Commissione che avrebbero proceduto alla valutazione, comunicando anticipatamente al Granara che ne avrebbe fatto parte la prof.ssa Patrizia Vipiana, da questi considerata amica”, anche lei tra gli indagati. Di recente Granara si è occupato delle cause no-vax, presentando il ricorso al Tar di oltre quattrocento sanitari contro l’obbligo vaccinale.

Katia Bonchi per genova24.it il 4 maggio 2022.  

Tra le persone favorite dal sistema dei bandi truccati al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova c’era anche il figlio del professore emerito di diritto costituzionale Pasquale Costanzo, Luca. Il quale aveva ottenuto l’assegno di ricerca dalla commissione presieduta dalla prorettrice, che si è dimessa ieri, Lara Trucco. 

Dalle carte dell’inchiesta depositate dal pubblico ministero Francesco Cardona Albini, emerge che la Trucco e Pasquale Costanzo avessero una relazione.

Un fatto che, pur toccando la sfera privata, secondo gli inquirenti “costituisce un elemento rilevante ai fini investigativi in quanto in grado di spiegare l’intenso coinvolgimento del professore emerito nello svolgimento dei compiti istituzionali della collega, ben oltre la mera collaborazione scientifica”. 

L’inchiesta della guardia di finanza vede indagate 20 persone, tra docenti, ricercatori e personale amministrativo. La procura ha chiesto l’interdittiva per sei professori e gli arresti domiciliari per la Trucco e Costanzo. Il gip deciderà nei prossimi giorni. L’inchiesta era partita dopo un esposto e il ricorso al Tar di una avvocatessa esclusa dal concorso.

Costanzo, sostiene il pm, utilizzava i suoi rapporti con i colleghi per i suoi fini. Ed emerge anche dalla mail che, dopo il ricorso dal Tar da parte dell’avvocatessa esclusa, il professore emerito le invia per convincerla a desistere promettendo che avrebbe usato la propria influenza per farle ottenere una docenza a contratto a Imperia.  E dopo il rifiuto, Costanzo in una successiva mail fa un ultimo tentativo: “programmazione concordata con il necessario gentlemen agreement potrebbe sortire risultati non disprezzabili”. 

Nelle carte emerge come Trucco, grazie all’intermediazione di Daniele Granara, abbia ottenuto anche un incarico esterno all’Università di Genova che riguarda il ruolo di supporto giuridico alla garante per l’infanzia della Regione Toscana.

Le telefonate tra la Garante uscente e la professoressa che avrebbe dovuto prendere il suo posto si susseguono ben prima già da inizio febbraio. “Il bando per la consulenza giuridica per la Toscana? (Ride, ndr) Io ero lì al telefono… praticamente l'abbiamo fatto insieme”, dice Lara Trucco al telefono con il professore Pasquale Costanzo, suo mentore, nel giugno 2021. 

In particolare la prorettrice Trucco, interessata al posto, parla con la Garante Camilla Bianchi che dovrebbe lasciarle il posto. Quest’ultima in una telefonata spiega che “ho ricevuto… appunto ieri sera una bozza, per ora la ricognizione esterna e allora volevo un attimo un raccordo con te… per quanto riguarda i requisiti eccetera che dobbiamo mettere a punto… ora però appunto io dovevo rivedere questa cosa dopo anche il vaglio con te”.

E così, secondo l’accusa, le due si accordano per elaborare un bando su misura, sulle competenze della professoressa Trucco. Dice la Bianchi: “Il docente individuato dovrà soddisfare i seguenti requisiti, quindi inquadramento come professore ordinario o associato”. La Trucco risponde: “Sì va bene”. Quando invece la Garante sostiene che “io tra l’altro non conosco esattamente il tuo curriculum… lo posso evincere da Internet?”, la prorettrice risponde “sì basta che metti Lara Trucco su Google”. 

Quando il giorno dopo le due si parlano di nuovo al telefono, la Trucco prima dice che preferirebbe un incarico fiduciario diretto, poi però ribadisce quanto già detto in precedenza, ovvero che se si deve passare dal bando pubblico “l’importante è che siamo in sicurezza, nel senso che… ehm… non ci vengano a dire ‘eh ma era un bando per la persona’… sennò poi ci creiamo dei problemi”

Da repubblica.it il 21 aprile 2022.  

La Guardia di finanza di Reggio Calabria, con il coordinamento della Procura, ha eseguito otto misure interdittive nei confronti tra gli altri, del rettore dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria, Santo Marcello Zimbone (dieci mesi), e del prorettore vicario Pasquale Catanoso (12 mesi) e di altre 6 persone tra docenti e dipendenti dell'ateneo. Il provvedimento è stato disposto dal gip su richiesta della Procura diretta da Giovanni Bombardieri. 

Contestualmente, i finanzieri hanno dato esecuzione a decreti di perquisizione domiciliare e personale nei confronti di altre 23 persone.

Le indagini nascono da un esposto presentato da una candidata non risultata vincitrice in occasione dell'espletamento della procedura di valutazione per un posto di ricercatore. L'operazione, denominata 'Magnifica', ha consentito di ipotizzare condotte illecite dal 2014 al 2020, integranti l'esistenza di un'associazione dedita alla commissione di delitti contro la pubblica amministrazione e contro la fede pubblica nella direzione e gestione dell'università Mediterranea di Reggio Calabria e delle sue articolazioni compartimentali. 

Le indagini traggono origine da un esposto, presentato alla locale procura della repubblica, da una candidata non risultata vincitrice, nel quale venivano segnalate condotte irregolari perpetrate in occasione dell'espletamento della procedura di valutazione comparativa per un posto di ricercatore universitario.

La donna, per tutelare la propria posizione, aveva avviato un esposto giudiziario, in tale contesto, come emerso agli atti delle indagini, gli veniva suggerito di rinunciare all'azione giudiziaria intrapresa ed "aspettare il proprio turno" per avere accesso a future opportunità professionali all'interno del dipartimento. 

L'attuale rettore Santo Zimbone è stato sottoposto a misura interdittiva per la durata di 10 mesi, per il suo predecessore Pasquale Catanoso, attuale prorettore vicario, la misura dell'interdittiva è di 12 mesi. Nei confronti di quest'ultimo, il gip ha altresì disposto l'esecuzione di un sequestro preventivo del valore di circa 4 mila euro.

Il “mercato” dei concorsi universitari. «Non solo Reggio, sistema diffuso anche in altri atenei». I commissari disposti ad allinearsi al sistema dell’ateneo dello Stretto. Il tentativo di trovare un posto a Roma per il “discepolo”. E i metodi per far fuori gli sgraditi: «Lo faccio stroncare». Pubblicato il 25/04/2022 di Pablo Petrasso su corrieredellacalabria.it.

Vinca non il migliore, ma un candidato buono per «tutelare la situazione reggina». La citazione tra virgolette è tratta da un’intercettazione con protagonista Gianfranco Neri, direttore di uno dei dipartimenti chiave dell’università “Mediterranea”. E rappresenta, stando alle valutazioni dei magistrati della Procura di Reggio Calabria «fatti di particolare gravità poiché denotano come le procedure selettive siano improntate a esigenze ben diverse da quelle legali, poste a presidio innanzitutto della meritocrazia che impone di selezionare il migliore».

Tuttavia l’ateneo di Reggio Calabria – sono ancora valutazioni contenute nell’ordinanza che racconta le fasi dell’inchiesta – non pare un caso isolato. La frase del gip è tranciante: «Le intercettazioni danno conto di come sia un sistema diffuso anche in altri atenei, a una gestione delle selezioni e del reclutamento improntata a logiche di favoritismo e clientelari che spesso premiano certamente non i migliori».

I verbali consegnati «direttamente» dal candidato al commissario

Al centro dei dialoghi captati dagli investigatori c’è il concorso per un posto di ricercatore – bandito nel 2008 – da cui è nata la denuncia di Clara Stella Vicari Aversa, candidata esclusa che ha rilevato le prime stranezze nella procedura, poi diventate una slavina sanzionata da Tar e Consiglio di Stato. Un iter così travagliato da essere rimasto “aperto” per più di dieci anni. Nei tentativi di uscire dal guado dei ricorsi amministrativi vinti dall’architetta messinese, i vertici dell’ateneo reggino le hanno provate tutte. E gli inquirenti hanno ascoltato di tutto.

Ci sono commissari che contattano i vertici accademici per chiedere di avere i verbali del vecchio concorso in word, in modo da farsi un’idea di ciò che si troveranno a giudicare. Peccato che dovrebbero valutare i candidati partendo da zero. Una gestione, per l’accusa, tanto disinvolta quanto grave: «A dispetto della necessaria imparzialità e distanza di un commissario verso un candidato, i toni tra i due sono confidenziali e la consegna dei verbali viene fatta dal candidato direttamente nelle mani di colui che dovrà valutarlo». La parzialità non è un copyright reggino: il commissario arriva da un altro ateneo ma conosce evidentemente bene certe dinamiche. Che si adeguano a un solo scopo, quello di non «mettersi in casa» una presenza sgradita. Il rischio – sottolinea il pm – è «quello che il posto di ricercatore venga occupato da un professionista estraneo alla lobby degli indagati».

Il sondaggio per la soluzione alternativa a Roma

In una fase della procedura, il gruppo di docenti dell’università “Mediterranea” pensa di trovare per Antonello Russo, candidato gradito e risultato vincitore della selezione contestata, soluzioni diverse. Con l’accoglimento dei ricorsi di Vicari Aversa è Laura Thermes, docente dell’ateneo fino al 2014, a muoversi. Thermes è l’accademica che, sempre secondo l’accusa, avrebbe sconsigliato all’architetta di opporsi all’esito del concorso, consigliandole di aspettare il proprio turno se non voleva rischiare di essere esclusa, in futuro, da collaborazioni con il mondo universitario. Ed è Thermes, che con Russo vanta una lunga collaborazione, a sondare il terreno per trovare una collocazione alternativa. Lo fa rivolgendosi all’Università “La Sapienza”: contatta un professore associato per capire se vi siano spazi di manovra in un bando a Ingegneria, aperto all’esterno, per la chiamata di un professore abilitato associato. «Volevo sapere se è una situazione che ha già le sue configurazioni – chiede – perché c’è un bravissimo giovane collega che si è formato con me, eccetera, eccetera, che però io gli ho detto “se un po’ la facoltà ha già i suoi orientamenti, inutile andare a rompere le scatole”». Il tentativo avviene nel 2018: quando Thermes ha lasciato la cattedra a Reggio quattro anni prima per dedicarsi all’attività professionale e, nonostante tutto, si interessa ancora del suo “discepolo”. Il contatto della ex docente a Roma le consiglia di chiamare una collega che potrebbe avere voce in capitolo. La frase è sibillina: «Laura, tu la conosci oltretutto meglio di me perché l’hai fatta vincere al posto mio, quindi…». Si tratta del richiamo a un vecchio concorso o ad altre storie accademiche? L’intercettazione non lo chiarisce ma offre agli inquirenti un’altra istantanea degli equilibri che reggono (non tutti, ovviamente) i concorsi.

Come ti elimino il candidato sgradito. «Lo faccio stroncare dai commissari»

Neri ne offre un altro in occasione di un’altra procedura comparativa, inerente al conseguimento dell’abilitazione scientifica per il quale il docente svolge il ruolo di commissario. Nel dialogo, gli indagati «fanno riferimento a un candidato (…) che giudicano persona non valida sul piano professionale e personale». Lo definiscono «agitato, pazzo» e lo paragonano a Vicari Aversa («è un po’ della stessa pasta della nostra»). Per gli inquirenti, questo scambio descriverebbe Neri come una persona che «elude la normativa di reclutamento del personale universitario e decide arbitrariamente dell’esito delle candidature dei concorrenti». E sembra sapere perfettamente come ci si muove per escludere un candidato indesiderato. «È che pensavo di fare in questo caso – spiega –, di parlare con i commissari e di dire “stroncatelo perché è un testa di cazzo” e io casomai gli faccio un medaglione positivo; gli faccio un medaglione positivo e gli altri quattro lo stroncano». Neri, si legge nell’ordinanza, «ipotizza di dare una valutazione positiva con la certezza che il candidato verrà escluso a opera degli altri componenti della commissione, previamente allertati».  

INCHIESTA “MAGNIFICA”. La “lobby” di potere retta sul “sistema Catanoso”. «Chi sarà rettore è la mia stessa persona». Per il gip nell’Ateneo reggino si sarebbe creato un contesto di «concussione ambientale interna». L’autoinvestitura come prorettore: «È un’arroganza necessitata». Sotto la lente 52 persone. Pubblicato il 22/04/2022 su corrieredellacalabria.it.

«Il “sistema Catanoso” pretendeva da parte di chi era stato favorito o aveva conseguito determinate situazioni di vantaggio il così detto “allineamento”». E la stessa cosa veniva pretesa «da chi intendesse conseguire tali vantaggi ovvero avesse specifiche aspettative». Lo scrive il gip Vincenzo Quaranta nelle valutazioni in calce all’ipotizzata esistenza di un’associazione a delinquere avente cuore pulsante tra le mura dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, con diramazioni anche oltre. Interno ed esterno, di fatti, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti non sono concetti che si declinano rispetto al perimetro delle aule dell’Ateneo, bensì intorno al «centro di potere» organizzato dall’allora rettore Pasquale Catanoso e continuato col suo successore, Santo Marcello Zimbone, che il gip definisce una sorta di «testa di legno» dello stesso Catanoso.

Per loro la procura guidata da Giovanni Bombardieri aveva chiesto l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari. Lo stesso giudice ha invece optato per la misura meno afflittiva dell’interdizione che ha colpito – compresi loro – in tutto otto persone. Ma le maglie dell’inchiesta sono molto più estese e coinvolgono procedure, concorsi, affidamento di lavori e «spregiudicata» gestione delle risorse pubbliche che arrivano a toccare in tutto 52 soggetti.

La creazione di una vera e propria “lobby”

Secondo l’accusa, quello che il gip definisce «centro di potere» che opera per autopreservarsi e crescere all’interno dell’Ateneo, avrebbe col tempo «sostituito obiettivi egoistici alle finalità istituzionali dell’ente». Si tratterebbe quindi di una «vera e propria “lobby” dedita a favorire, per ogni appetibile opportunità di inquadramento contrattuale all’interno dell’Università, solo i loro fedeli sostenitori nonché fedeli collaboratori dei professori “amici”». Chi, come l’aspirante ricercatrice dal cui esposto è partita l’inchiesta “Magnifica”, è esterna al sistema dovrà «mettersi l’anima in pace» tosto che sognare un ruolo all’interno dell’Ateneo. Il sistema, infatti, «esclude le professionalità indipendenti ed estraneee alla lobby in questione».

Il tutto per garantire alle parti in causa una sorta di “do ut des” fatto di «reciproci favori, sia in caso di utilità lecitamente acquisibili che illecite». Gli indagati «si favoriscono l’un l’altro e si garantiscono il mantenimento del potere accademico e della visibilità sociale», scrive la procura.  

Da Catanoso a Zimbone «senza soluzione di continuità»

Tra la gestione di Catanoso e quella di Zimbone, a partire da metà 2018, non c’è alcuna soluzione di continuità. «L’unica differenza nel comportamento dello Zimbone – riportano i magistrati – si rileva in una apparente attenzione alla legalità dell’azione amministrativa» sebbene le intercettazioni dimostrino come le sue siano solo «affermazioni apparenti».

Più sfrontato appare invece Catanoso. «Egli – si legge nell’ordinanza – si definisce come uomo che proviene dalla “strada”» e che proprio grazie a questo avrebbe avuto determinate ambizioni nonché una certa attitudine a intessere relazioni. «Le ambizioni di potere, di crescita personale, gli hanno imposto di comportarsi in certo modo e di asservire le istituzioni ai suoi personali interessi. Si è inserito in un giro di relazioni istituzionali che gli hanno imposto di avere un elevato tenore di vita e importanti disponibilità finanziarie». Preservare il sistema per preservare se stessi, dunque.

La necessità di mantenere la continuità di gestione degli “affari” da parte di Catanoso si apprezza da una serie di intercettazioni riportate in atti dove interlocutori sono altri soggetti interni ed esterni al sistema tra cui lo stesso Zimbone. Viene citata come esempio una conversazione tra Catanoso e un docente che si dice preoccupato per il prossimo avvicendamento dacché potrebbe avere ripercussioni sulla sua posizione contrattuale. «Non dovrebbe esserci nessun problema. – risponde l’allora rettore – Tieni conto che io non sono rettore, ma qua stiamo parlando io e te, no! Chi sarà rettore è la mia stessa persona quindi il problema non credo che ci…»

La campagna elettorale e l’autoinvestitura come prorettore vicario

Come riporta il gip, alcune delle «conversazioni passate in rassegna evocano altri sistemi di condizionamento elettorale». Il riferimento è alle captazioni che interessano sempre Catanoso nel periodo che porterà all’elezione del suo successore. «I professori sono controllati uno alla volta, è difficile sbagliare, però io aggiungo a questi 43 altri 20 voti (…) non ti preoccupare, uno deve prendere atto di quello che (…) tu sei sicuro che qua dentro ci hanno votato tutti?» Gli inquirenti evidenziano come Catanoso parli quali dell’elezione di Zimbone come fosse la propria.

Di fatti, da altre conversazioni emergerebbe addirittura la conferma della sostanziale permanenza di Catanoso nonostante la formale investitura di Zimbone. Questi anticipa come continuerà ad occuparsi di una serie di affari in virtù di una fitta rete di relazioni con soggetti esterni e interni al mondo accademico e con funzionari del Miur alcuni dei quali verranno consigliati a Zimbone come funto utili da cui attingere informazioni riservate.  Il 12 luglio 2018, all’esito della competizione elettorale, vengono captate telefonate di congratulazioni, alcune delle quali non a Zimbone bensì a Catanoso: «Eh e così lo fai per 12 anni…però, la stanza…la stanza gliela dai o…?», dice l’interlocutore. «Subito…gliela do perché è scomoda, capisci?» la risposta di Catanoso. Nel prosieguo di questa stessa conversazione aggiunge però che il suo nuovo ruolo sarà quello di prorettore vicario definendola «una cosa compatibile…non è elegantissima perché è un fatto di arroganza, ma è un’arroganza necessitata…»

«Un centro di potere socialmente allarmante»

L’associazione passata al vaglio degli inquirenti si mostra «chiusa all’esterno». Aspetto che si coglie da diversi passaggi che delineano anche il “modus operandi” di Catanoso come ad esempio nel caso in cui siano considerate “estranee” due commissarie nominate dall’Università di Cosenza. Per questo Catanoso avrebbe incaricato altri soggetti intranei al sodalizio a «valutare la correttezza comportamentale» delle stesse. Il sistema, rimarca il giudice, presenta così delle «caratteristiche socialmente allarmanti».

«L’individuato centro di potere – scrive il giudice – agisce ed interviene in particolare sul sistema di reclutamento del personale universitario, sul sistema delle progressioni in carriera e di gestione delle diverse opportunità professionali che lo stesso Ateneo può offrire». Viceversa «ci sono dinamiche che soffocano la capacità da parte del personale docente di determinarsi liberamente nell’agire interno al mondo accademico». Il gip lo ribattezza “sistema Catanoso”: «Chi non si piega alle sue esigenze, che sono esigenze del gruppo di potere, va incontro inevitabilmente a una sorta di “emarginazione lavorativa” e chi ha ottenuto vantaggi deve poi rispettare, ove non voglia perdere quanto conquistato, specifiche regole. È un sistema di concussione ambientale interna, che condiziona la capacità del personale universitario di liberamente autodeterminarsi. È un potere che gestisce l’ateneo con schemi di intimidazione e di ricatto». (f.d.)

L’elenco degli indagati (fase delle indagini preliminari)

Elvira Rita Adamo, 1990, Cosenza

Renata Giuliana Albanese, 1957, Roma

Salvatore Ottavio Amaro, 1959, Reggio Calabria (professore associato Dipartimento Architettura)

Nicola Arcadi, 1953, Reggio Calabria

Giuseppe Bombino, 1971, Reggio Calabria

Pasquale Catanoso, 1953, Reggio Calabria (pro rettore università di Reggio Calabria)

Antonio Condello, 1973, Taurianova

Zaira Dato, 1949, Catania

Alberto De Capua, 1964, Reggio Calabria

Roberto Claudio De Capua, 1961, Reggio Calabria

Lidia Errante, 1989, Reggio

Philipp Fabbio, 1976, Villorba (Tv)

Giuseppe Fera, 1950, Messina

Massimiliano Ferrara, 1972, Reggio Calabria (direttore del dipartimento Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane)

Giovanna Maria Ferro, 1977, Reggio Calabria

Gaetano Ginex, 1953, Palermo

Giovanni Gulisano, 1959, Catania

Rita Iside Laganà, 1994, Reggio Calabria

Filippo Laganà, 1964, Reggio Calabria

Maria Teresa Lombardo, 1990, Roccella Ionica

Demetrio Maltese, 1988, Reggio Calabria

Chiara Manti, 1991, Campo Calabro

Domenico Manti, 1955, Campo Calabro

Antonino Laboccetta Mazza, 1972, Reggio Calabria (professore associato dipartimento Giurisprudenza)

Martino Milardi, 1962, Reggio Calabria

Carlo Francesco Morabito, 1959, Villa San Giovanni

Gianfranco Neri, 1952, Roma

Stefania Ilaria Neri, 1991, Pavia

Paolo Neri, 1961, Reggio Calabria

Rossella Panetta, 1991, Galatro

Adele Emilia Panuccio, 1988, Reggio Calabria

Giuseppe Pellitteri, 1954, Palermo

Giulia Ida Presta, 1993, Cosenza

Antonello Russo, 1972, Messina

Valerio Maria Rosario Russo, 1956, Salerno (funzionario area tecnica)

Francesca Sabatini, 1994, Roma

Giovanni Saladino, 1963, Bova Marina

Adolfo Santini, 1955, Catania (direttore dipartimento Architettura)

Leonardo Schena, 1971, Monopoli

Andrea Sciascia, 1962, Palermo

Aurelia Sole, 1957, Cosenza (ex rettore dell’Università della Basilicata)

Vincenzo Tamburino, 1953, Catania

Alessandro Taverriti, 1959, Messina (funzionario area tecnica)

Laura Thermes, 1943, Roma

Marina Rosa Tornatora, 1970, Reggio Calabria

Michele Trimarchi, 1956, Roma

Giuseppe Tropea, 1975, Soverato

Agostino Urso, 1965, Reggio Calabria

Giovanna Zampogna, 1990, Palmi

Giuseppe Zampogna, 1954, Palmi

Antonio Demetrio Zema, 1970, Reggio Calabria

Agrippino Marcello Santo Zimbone, 1961, Catania (rettore dell’Università di Reggio Calabria) 

OPERAZIONE “MAGNIFICA”. La caccia ai «traditori» prima del voto per il rettore. E l’avvertimento di Catanoso a Irto: «Non si occupi di fatti accademici». Le censure del gip: «Sistema soffocante, il personale interno non è libero di autodeterminarsi». L’invito a Zimbone («ma quale programma… fai telefonate») e i commenti malevoli sull’Unical («là è… Pubblicato il 22/04/2022 di Pablo Petrasso su corrieredellacalabria.it.

Sono inquietanti le parole che il gip del Tribunale di Reggio Calabria utilizza per descrivere le dinamiche interne all’ateneo dello Stretto. Sarebbe una università in cui il “sistema Catanoso” (dal nome dell’ex rettore e attuale pro-rettore) «condiziona la capacità del personale interno di liberamente autodeterminarsi». Non c’è nulla di peggio per una istituzione universitaria della mancanza di libertà. E le pagine conclusive dell’ordinanza che racconta l’inchiesta della Procura diretta da Giovanni Bombardieri sono un compendio di pesi e contrappesi, presunte minacce per i «traditori», calcoli politici e azioni che avrebbero, secondo l’accusa, come solo scopo quello di preservare «un potere che gestisce l’Ateneo con schemi di intimidazione, di ricatto». E «chi non si allinea è fuori dal mondo delle opportunità professionali accademiche, almeno quelle più importanti per la carriera». Tutto «sembra soffocato» da questo sistema «che ha bisogno di commettere sistematicamente reati» per autoalimentarsi. Ha bisogno «di un capillare controllo e condizionamento dei principali organismi collegiali dell’Ateneo ma anche di condizionare le commissioni di esami/giudicatrici e si muove per raggiungere i suoi obiettivi con schemi di azione che vedono l’interagire funzionale dei suoi componenti». In alcuni casi – sono sempre parole del gip – Catanoso «apre i plichi» o suggerisce «in anticipo argomenti delle prove» ai candidati. Ma c’è una fase chiave, necessaria per portare avanti il “sistema”: quella elettorale. E in questa fase – quando c’è da raccogliere adesioni e sostegni – ci si mette al lavoro per «monitorare l’elettorato, individuare i cosiddetti traditori poiché andavano poi poste in essere in loro danno azioni di “ritorsione” sul piano lavorativo-professionale». 

«Ma quale programma… Fai telefonate»

Catanoso riesce a condizionare la vita dell’università “Mediterranea” «anche grazie alla posizione che è riuscito a costruirsi in ragione della fitta rete di relazioni che ha allacciato con i livelli istituzionali più alti». Il perno di tutto, però, è il passaggio elettorale attraverso il quale si riesce a garantire la continuità di gestione. L’unico a frapporsi tra il duo Catanoso-Zimbone e la conferma è Francesco Manganaro. Il docente non ha, di fatto, alcuna speranza di spuntarla. «Ma che cazzo ci vai a fare in ufficio», chiede il rettore uscente al suo più che probabile successore quando si approssima la scadenza elettorale. «Mi scrivo il programma», risponde Zimbone. «Ma quale programma, fai telefonate – è la risposta – Come stai? Come ti senti? Ti volevo sentire… grazie per quello che hai fatto e per quello che farai… puttanate. Ma hai sentito qualcuno che ci scassa il cazzo». 

«Ho detto a Irto: “Non si deve occupare di fatti accademici”»

All’interno dell’ateneo molti credono che Manganaro dovrebbe proprio evitare di candidarsi. Catanoso spiega ai suoi interlocutori che l’avversario «spera nell’appoggio dei vecchi rettori, Alessandro Bianchi e Massimo Giovannini, nonché dei politici locali e regionali di sinistra, quali il sindaco Falcomatà e Nicola Irto (consigliere regionale del Pd, ndr), i quali avrebbero provato a interferire nelle elezioni». 

Questa la sintesi operata dall’ex rettore: «Lui spera nel sindaco che sta chiamando un poco di persone (…) comunque sono cazzate, un disturbo al sistema universitario. (…) Poi c’era pure questo Irto che è uno strano, l’ho chiamato stamattina e gli ho detto io “senti, io non mi sono mai occupato di fatti politici perché non mi interessano ma lei non si deve occupare di fatti accademici perché è fuori luogo, non c’è la tradizione più… la politica non si… poi lei può fare quello che vuole ma avrà risultati che si ritorceranno contro di lei”. Gliel’ho detto perché ce l’avevo qua nello stomaco, vaffanculo». 

«Cosenza è peggio, là siamo agli squali»

I ragionamenti “elettorali” non badano ai programmi ma alle appartenenze. Chi fa parte del “gruppo” non può voltarsi dall’altra parte o verrà «travolto». La vittoria non è in discussione, ma i calcoli elettorali vanno fatti per «vedere la caratura di alcune persone» e «stabilire – parole del gip – chi può essere considerato parte della loro cerchia privilegiata, destinataria di futuro opportunità e spazi professionali». Un controllo del voto capillare, che non teme neppure le presunte intromissioni della politica. Sistema che si spinge a commentare – su posizioni discordanti – anche ciò che accade in un altro ateneo calabrese, l’Unical. Gli investigatori captano una conversazione tra l’allora direttore generale Ottavio Amaro e il solito Catanoso. Mentre l’ex rettore dice che «là non ci sono tutte ‘ste…», riferendosi probabilmente alle manovre elettorali, Amaro ribatte che «Cosenza dai, no, è peggio, Pasquale». Catanoso risponde che «Cosenza è allucinante però ci sono gli schieramenti dove si ammazzano e dice “io mi candido con questo con questo dipartimento”, qua siamo nella confusione generale». Per Amaro Reggio Calabria è «meno selvaggia di Cosenza», perché «non è quella situazione… là è… siamo agli squali». E invita l’amico a non lamentarsi: «Ma stiamo scherzando…qua è tutto ancora dai… dentro… mia se controlli l’80% dell’elettorato Pasquale… e che volevi il 100%?». Nel voto del luglio 2018 Marcello Zimbone, sostenuto da Catanoso, ha ottenuto 216,35 voti pesati contro i 77,8 dello sfidante Francesco Manganaro. 

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 22 aprile 2022.

«Aspetta il tuo turno». È tutta in questa frase la tragedia italiana svelata dall'ennesima inchiesta sull'università pubblica. Se l'è sentita dire Clara Stella Vicari Aversa. Laureata in architettura con lode a Reggio Calabria nel 1995, comincia a collaborare all'università «anche se tutti mi dicevano: fai volontariato, stai attenta, è un ambiente difficile. Vero, tutoraggio gratis e docenze da 1500 euro l'anno». 

Vince borsa di studio e dottorato in Spagna, poi torna in Italia al seguito del marito.

Nel 2008 l'università di Reggio bandisce un concorso da ricercatore. Partecipa, perde.

Ma qualcosa non torna. La commissione parla di «candidato» e «candidata», benché i temi siano anonimi. Gonfia i titoli del vincitore e omette i suoi. 

Posticipa la sua laurea di 7 anni, quanto basta per farla perdere. «Mi sento presa in giro», dice Vicari. Per cinque volte in dieci anni fa ricorso al Tar e lo vince. E per quattro volte l'università ripete la gara con lo stesso esito. Anche se il Tar rileva «giudizi copia e incolla di quelli precedenti, con macroscopici errori» anche cambiando gli esaminatori.

La sua insistenza non è gradita. La professoressa di cui è allievo il vincitore del concorso la convoca in facoltà: «Esterna il suo dissenso, suggerisce di ritirare il ricorso, la invita a chiedere scusa al presidente della commissione, amareggiato per la sua iniziativa giudiziaria». Fino alla fatidica frase: «Non si fa così nell'università. Mettiti il cuore in pace, non vincerai mai. Aspetta il tuo turno. Non sarai tagliata fuori, ma recuperata collaborando alla mia cattedra». 

No, Clara pensa che il suo turno sia ora. Va in Procura. 

Parte l'inchiesta. Le attività «discriminatorie» dei docenti che la osteggiano «segnalando con ingerenze» il vincitore predestinato vengono monitorate dal nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza. Dopo quattro anni l'indagine, ferma la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, non si limita a ricostruire «un patto corruttivo». Svela che lei è solo una delle vittime di una «associazione a delinquere in totale spregio delle regole e del principio di meritocrazia, con illegalità quotidiane e senza soluzione di continuità». Così scrive in un'ordinanza monumentale il giudice Vincenzo Quaranta, disponendo misure cautelari interdittive per 6 docenti (tra cui rettore ed ex rettore) sui 52 indagati per concussione, corruzione, abuso d'ufficio, falso, peculato e turbativa d'asta. 

Bandi costruiti ad hoc sul profilo dei vincitori annunciati. Concorsi addomesticati, e non solo in quella facoltà, nominando «esaminatori affidabili». Curriculum truccati in positivo o in negativo, a parità di pubblicazioni. Tracce di temi e domande orali rivelate in anticipo ai candidati. 

Tra i beneficiari di una borsa di studio indebita, secondo la Procura, anche la figlia dei deputati Pd Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio. Al cospetto di ciò che il gip definisce «quadro disarmante con sfrontatezza fuori dal comune e mancanza di senso istituzionale», sembrano miserie al limite del folclore le contestazioni ai due rettori di peculato per uso privato dell'auto blu e di cene, regali e viaggi pagati con la carta di credito dell'università. 

Più devastante è che dopo 14 anni il concorso da ricercatore, annullato cinque volte dal Tar, sia ancora aperto. Nel frattempo il candidato «prediletto» dai professori ma bocciato dai giudici, e ora indagato, ha proseguito la sua carriera universitaria.

Al contrario, quella di Clara Stella Vicari Aversa è finita. «Mi chiamano ancora in Spagna, ma qui le porte sono chiuse. Mi è stato detto: non c'è niente da fare per te. Perché combatto? Non per me, non ci credo più. Per l'università, per mia figlia che ha 16 anni, per chi verrà dopo».

Concorsopoli alla Statale, tutte le trame nei verbali: "I due bandi a urologia dovevano avere la stessa commissione". Sandro De Riccardis, Luca De Vito La Repubblica il 17 Aprile 2022.

I pm di Milano che indagano sui concorsi all'università hanno ascoltato il capo della direzione legale e il direttore generale.

Ci sono due verbali che puntellano le accuse dei pm nei confronti degli universitari, nell'ambito dell'inchiesta sulla Concorsopoli milanese che vede indagati il rettore della Statale Elio Franzini e quello del San Raffaele Enrico Gherlone per turbata libertà nella scelta del contraente. Due testimonianze chiave che spiegano come il disegno per pilotare i due concorsi per ordinari di Urologia fosse curato e seguito in ogni suo passaggio, in particolare sul fronte Statale.

Università, che senso ha il concorso da professore associato a ordinario se fanno la stessa cosa? Stefano Semplici, docente di Etica sociale all’Università di Roma Tor Vergata,  su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

L’eliminazione delle procedure riservate ai candidati interni non renderà le cose più facili ai candidati esterni. A questo punto, per il passaggio di ruolo, sarebbe meglio sostituire i concorsi con delle procedure di avanzamento più trasparenti. 

Da qualche mese le università non hanno più la possibilità di bandire procedure per l’avanzamento da professore associato a ordinario riservate ai docenti «interni» in possesso della relativa abilitazione. Molti hanno salutato con soddisfazione la mancata approvazione di una proroga: d’ora in poi sarà possibile ottenere il passaggio al livello più alto della carriera accademica solo in competizioni aperte a tutti. Apprezzo l’intenzione, ma non l’ottimismo sulle conseguenze di questa decisione.

Ho fatto una piccola ricerca su tre settori concorsuali di aree diverse, nei quali, a partire dal 1° gennaio 2017, hanno complessivamente preso servizio più di cento nuovi professori ordinari. Al netto di quelle che sembrano essere chiamate dirette dall’estero e di qualche concorso vinto da chi già era ordinario, bastano ampiamente le dita di una mano per esaurire il numero di coloro che non erano già professori associati nella stessa sede. Potrei aver commesso qualche errore e concedo senz’altro che possano esserci molti settori con dati diversi. Resta però la sensazione di un incredibile spreco di tempo e di risorse, visto che, di fatto, la faticosa attivazione di una procedura concorsuale (con le sue commissioni, le sue riunioni e i suoi verbali) ha avuto quasi sempre come risultato la promozione di un docente «interno». E proprio questo è il punto decisivo, fermo restando, a scanso di equivoci, che do per scontato che tale promozione sia stata pienamente meritata.

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Chi ha voluto con intransigente determinazione il definitivo superamento delle procedure riservate avrebbe ragione se ci fosse una netta, chiara distinzione fra l’esito di queste ultime (che potevano comunque imporre di scegliere fra più candidati, non potendosi escludere la presenza nell’ateneo di più abilitati nel settore) e l’esito di bandi aperti a tutti. Non so quale sia l’esatta proporzione fra le due tipologie nei tre settori che ho considerato e sarebbe anzi auspicabile, da parte del Ministero o dell’Anvur, una precisa indagine al riguardo, ma è evidente che non è così. Le procedure aperte, anche per l’esistenza di un preciso vincolo di legge, erano certamente di gran lunga più numerose del numero dei vincitori «esterni».

Questa considerazione avrebbe dovuto a mio avviso suggerire una riflessione più articolata, a partire da quella che è la vera anomalia del sistema. Il professore ordinario e il professore associato fanno sostanzialmente lo stesso mestiere, ma la differenza fra le due «fasce» resta ben marcata in termini di potere (che, se esercitato con correttezza e senso di responsabilità, non è sinonimo di male), prestigio e anche stipendio. È del tutto naturale che un professore associato desideri diventare ordinario, ma questo passaggio, se si realizza, non comporterà di per sé alcun cambiamento nell’offerta formativa della struttura alla quale appartiene. La sua università può avere interesse a bandire un posto di prima fascia nel suo settore, per le ricadute connesse al potere e al prestigio (o anche semplicemente per offrire un’opportunità a un docente e studioso ritenuto meritevole), ma si assume così il rischio, in caso di vincitore esterno, di dover pagare un altro stipendio (e non semplicemente la differenza) per un nuovo docente del quale forse non aveva bisogno, compromettendo così anche la possibilità di procedere con altri bandi. Per non parlare della delusione di chi vedrà occupata da un altro la «prima» fascia alla quale aspirava.

Quello della confusione fra procedure di reclutamento e procedure di avanzamento è a mio avviso il vero problema, che continua a essere eluso. È vero che l’eliminazione delle procedure riservate potrebbe rendere più difficile il passaggio a ordinario di candidati abilitati ma non sufficientemente «forti». Ma è purtroppo ugualmente indubitabile che cresceranno anche le tentazioni, compresa quella di non bandire e mortificare così ulteriormente colleghi che ben meriterebbero il pieno riconoscimento dei risultati del loro lavoro. Non si può neppure escludere che si rafforzi la deriva verso la trasformazione non dichiarata e magari tendenzialmente non conflittuale di procedure formalmente aperte in procedure con un numero sempre più esiguo di candidati, fra i quali non mancherà l’associato «interno». Anche in settori nei quali il numero degli abilitati lascerebbe immaginare una ben diversa partecipazione. Ogni tanto continuerà a esserci un ricorso, ma è in fondo quello che succede già adesso.

C’è bisogno di scelte più radicali e coraggiose. Una via potrebbe essere quella di trasformare in regola quella che è attualmente una possibilità di fatto residuale, escludendo i professori associati dalla possibilità di partecipare a procedure bandite dalla loro sede. Ci sono però alcune controindicazioni, prima fra tutte la prevedibile contrazione del numero di posti disponibili, anche in considerazione delle nuove norme che rendono più agevole il trasferimento dei docenti da una sede all’altra. L’alternativa è quella di prendere finalmente atto che reclutamento e avanzamento sono due cose diverse, prevedendo per il secondo norme semplici e trasparenti e non per questo meno rigorose. Occorre naturalmente tenere conto dell’articolo 97 della Costituzione. Torna così una domanda troppo a lungo scansata: ha senso mantenere due ruoli distinti per professori che, come ho ricordato, fanno sostanzialmente lo stesso mestiere?

L’ex primario arrestato con la figlia: «Ai concorsi sistemavo i familiari». Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Palermo, bufera al Policlinico: 23 indagati. Le intercettazioni: «Uno lo piazzi tu e uno io». Gaspare Gulotta dirigeva il reparto di Chirurgia, Eliana lavora all’Ospedale Civico. 

Ci voleva un pentito pure al Policlinico di Palermo per scoperchiare la pentola maleodorante dei concorsi truccati, degli incarichi di ricercatore affidati ad amici e parenti, soprattutto se titolati figli di «barone». Un pentito in camice bianco per scoprire la regola del «fifty fifty, uno a uno, uno lo piazzi tu e uno lo piazzo io». Una gola profonda. Con accuse alla base di un’inchiesta avviata due anni fa dai carabinieri piazzando microspie soprattutto nello studio del primario da ieri mattina agli arresti domiciliari, Gaspare Gulotta, 71 anni, adesso in pensione, fino all’anno scorso direttore del dipartimento di Chirurgia del Policlinico, accusato di aver truccato le carte per favorire la sua corte. A cominciare dalla figlia Eliana, chirurgo nell’attiguo Ospedale Civico. Anche lei ai domiciliari. Coinvolta nel terremoto con altre venti persone fra medici, docenti e amministrativi. Tutti, con diverse responsabilità, sotto inchiesta per corruzione, peculato, turbata libertà di scelta del contraente, truffa, rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, falso ideologico in documenti informatici, calunnia e abuso d’ufficio. E la giudice per le indagini preliminari Donata Di Sarno per undici di loro ha disposto l’interdizione dai pubblici uffici.

Truffa per cinque concorsi

Oltre Gulotta sembra pesante la posizione del candidato indicato per la sua successione, Mario Adelfio Latteri. Pure lui coinvolto nella truffa che fa riferimento a cinque concorsi espletati tra il 2019 e il 2020. Ovviamente gli avvocati sono pronti a contestare le accuse e bisognerà attendere il passaggio dell’inchiesta al tribunale del riesame, ma i virgolettati che si leggono nelle intercettazioni trascritte dai carabinieri sono sconvolgenti perché intrise di arroganza e tracotanza. «Tu ti pigghi quattro amici», diceva Gulotta riferendosi ai commissari da inserire nei concorsi. In modo da trasformare le prove in una formalità. Un meccanismo rivelato dalle stesse parole pronunciate da Gulotta nel suo studio, ignaro di essere intercettato, pronto ad illustrare il metodo: «Ogni volta che si è liberata una nicchia io mi ci sono infilato sempre. Ogni volta che c’è stata una cosa Covid io mi ci sono infilato. Ho fatto un concorso e ho cercato di piazzare sempre, pensando ai miei, alla famiglia. Ho fatto un concorso al pronto soccorso e ho cercato di infilare i miei, la famiglia, tutto quanto, ogni volta che ho avuto un piccolo spazio ho cercato di andarlo a occupare per i miei, per i miei figli, Eliana e Leonardo...».

Mancanza di controlli interni

Parla di «un quadro a dir poco sconfortante» la gip che descrive Gulotta con parole destinate a pesare sul Policlinico: «Il direttore spadroneggia, impunito, creando logiche di sistema illegali». Il riferimento corre ad una mancanza di controlli interni sui quali dovrà interrogarsi l’intero meccanismo amministrativo dell’ateneo. Come è già accaduto in tempi recenti a Catania e Messina con la scoperta di «verminai» riflessi nei favori spesso riservati ai figli dei «baroni» in camice bianco. In questo caso, con totale disinvoltura, Gullotta, stando al Nas dei carabinieri, avrebbe usato «la sua influenza anche per fare rilasciare ai suoi due figli, entrambi medici, false attestazioni di malattia...». Compreso un referto contraffatto per attestare lesioni subite dalla figlia durante una presunta aggressione dell’ex coniuge. Un modo per farla pagare al genero. Storia privata emersa in un «sistema» che prevedeva il pagamento di visite private pur di avere un posto in corsia.

Test truccati a Odontoiatria, licenziato il professor Grassi: linea dura dell'Università. Sarebbe andato in pensione il 28 marzo. Gabriella de Matteis su La Repubblica il 21 marzo 2022.

I fatti risalgono al 2012 quando l'allora direttore del corso era stato arrestato perché considerato il capo di una associazione per delinquere che dietro compenso, grazie a un sistema informatico, aiutava alcuni candidati. Nel 2016 la condanna, nel 2019 la prescrizione in Appello.

L’università ha scelto la linea dura: è stato licenziato Roberto Felice Grassi, il docente del corso di laurea in Odontoiatria coinvolto nell’inchiesta sui test truccati. Dopo il provvedimento di sospensione per Grassi è scattato il licenziamento. Il docente aveva chiesto di andare in pensione in anticipo il 28 marzo, ma il provvedimento di licenziamento è arrivato prima. 

Nel 2012 il professor Grassi, all'epoca direttore del corso di laurea in Odontoiatria, era stato stato arrestato perché considerato il capo di una associazione per delinquere che dietro compenso, grazie a un sistema informatico, avrebbe aiutato alcune aspiranti matricole a superare i test di ammissione alla facoltà. In primo grado il docente, finito sotto accusa con altri cinque imputati, nel maggio del 2016 è stato condannato alla pena più alta di quattro anni e tre mesi. I giudici lo avevano riconosciuto, fra l'altro, colpevole del reato di associazione per delinquere. 

Secondo l'accusa, le risposte ai quiz venivano elaborate in "una centrale operativa" allestita nell'abitazione di un odontotecnico ad Altamura e poi inviate su telefoni di ultima generazione ai candidati che avevano pagato la banda. I reati sarebbero stati commessi nel 2007 e nel 2009 e quando è arrivata la sentenza di secondo grado era oramai troppo tardi. La Corte d'appello di Bari ha dichiarato la prescrizione dei reati nel dicembre del 2019 con una sentenza che poi è diventata definitiva sei mesi più tardi. Un’assoluzione non nel merito quindi e l’Università ha avviato il procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento. Non è escluso che il docente decida di ricorrere al Tar contro il provvedimento dell’ateneo.

Valentina Marotta per il “Corriere della Sera - ed. Roma” il 18 febbraio 2022.

Raffica di assoluzioni e proscioglimenti per studenti e docenti, vanno invece a processo i vertici della Link Campus University di Roma e del sindacato di polizia Siulp. Si chiude così l'udienza preliminare a Firenze in cui è sfociata la maxi inchiesta sulle presunte lauree facili per i poliziotti iscritti all'ateneo privato. 

Il gup Antonella Zatini ha fatto cadere le accuse di falso per 60 tra agenti e ispettori, alcuni dei quali in servizio alla Questura del capoluogo toscano ma ha rinviato a giudizio nove imputati per associazione a delinquere finalizzato alla falsità ideologica e materiale nei verbali di esame.

Il 10 giugno si aprirà il processo per il fondatore e presidente del Cda della Link Vincenzo Scotti, ex ministro democristiano, 89 anni, ritenuto il promotore dell'organizzazione, Carlo Cotticelli, ex tesoriere romano del Pd e ora componente dell'assemblea nazionale del partito, Claudio Roveda, rettore dell'ateneo, il direttore generale Pasquale Russo, Stefano Mustica, vicepresidente del consiglio della scuola e responsabile dell'organizzazione amministrativa degli studenti lavoratori, Felice Romano, segretario nazionale del Siulp, Alessandro Pisaniello, membro del direttivo nazionale del sindacato, e i dipendenti dell'ateneo Luca Fattorini e Andrea Pisaniello.

I nove sono stati assolti da 22 dei 46 episodi di falsi relativi ad esami sostenuti da poliziotti e loro parenti. Il giudice Zatini ha dato una sforbiciata alle accuse contestate dalla pm Christine von Borries ma per conoscere le motivazioni occorrere attendere il 4 marzo. Scotti avrebbe il ruolo di regista dell'organizzazione, secondo la Procura. 

Fu lui a fondare nel 2011 la Link Campus, con il riconoscimento del ministero dell'Istruzione e della Ricerca. Nel mirino della Procura sono finiti i corsi di laurea triennale di Scienza della politica e delle relazioni internazionali e i corso di laurea magistrale in studi strategici e scienze diplomatiche degli anni 2016 - 2017 e 2017-2018.

Il meccanismo ideato, ritiene la pm, era semplice: i poliziotti iscritti al Siulp, oltre alla retta universitaria di 3.500 euro, versavano alla Fondazione Sicurezza e Libertà una quota di iscrizione di 600 euro che finiva su un conto corrente a San Marino. 

Il versamento era necessario per partecipare al corso di perfezionamento «Human security», indispensabile per essere dispensati dalle lezioni e dagli stage del primo anno e passare direttamente al secondo.

Agli studenti sarebbe stato così consentito di non frequentare le lezioni, in violazione del regolamento di Ateneo e di sostenere gli esami, violando la legge, a Firenze anziché a Roma, nella sede della Link Campus, senza sorveglianza sullo svolgimento delle prove. Test sostenuti con commissioni fantasma o perfino in una stanza del mercato ortofrutticolo alla Mercafir, domande anticipate via WhatsApp e tesi di laurea copiate da internet.

Esami facili ai poliziotti. A processo l’ex ministro Scotti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2022

Secondo quanto ricostruito dalle indagini della Guardia di Finanza i poliziotti avrebbero sostenuto esami falsi, grazie alle risposte fornite in anticipo o con il permesso di copiare liberamente, senza mai vedere i professori ma solo alcuni tutor e talvolta in locali di fortuna, reperiti di volta in volta a Firenze o Bologna mentre l’unica sede autorizzata ad ospitare le sessioni d’esame doveva essere quella di Roma.

Tra i rinviati a giudizio dal tribunale di Firenze sul caso della Link Campus University di Roma ci sono anche l’ex ministro Vincenzo Scotti e il segretario nazionale del sindacato di polizia Siulp, Felice Romano. L’ateneo privato fondato nel 1999 da Scotti, che ne è anche il presidente, è finito sotto inchiesta per i presunti esami facili dedicati agli scritti al sindacato di polizia Siulp durante il corso di laurea.

A processo sono finite altre sette persone, tra le quali il rettore dell’università prof. Claudio Roveda, il vice presidente Stefano Mustica ed il direttore generale Pasquale Russo. Le imputazioni spaziano dall’associazione per delinquere al falso. Lo ha deciso il gup di Firenze Antonella Zatini al termine di quattro ore di camera di consiglio che ha invece archiviato la posizione di 53 poliziotti inquisiti per i quali la procura aveva chiesto il processo. Cadute le accuse di falso per tutti gli studenti, soprattutto poliziotti e familiari: per la procura avevano affrontato finti esami, in qualche occasione, anche in una cooperativa che ha sede alla Mercafir. 

Altri sette imputati sono stati assolti con rito abbreviato. Il giudice in questo caso ha accolto la tesi della difesa secondo la quale gli agenti-studenti non sospettavano che ci fossero agevolazioni per passare gli esami, laurearsi e avere così la possibilità di un avanzamento di carriera. I nove rinviati a giudizio, sempre secondo il Gup, avrebbero trovato un accordo per agevolare il percorso accademico consentendo a chi sosteneva gli esami-facili di consultare appunti e Internet e saltare anche un anno di studi. 

Il ruolo di promotore e organizzatore, per la Procura, spettava proprio a Scotti che creò nel 1999 l’Università di Malta, poi diventata Link nel 2011 con il riconoscimento del Ministero dell’Istruzione e della Ricerca guidato da Mariastella Gelmini. Sotto la lente della procura di Firenze erano finiti i corsi di laurea triennale di Scienza della politica e delle Relazioni internazionali e il corso di laurea magistrale in Studi strategici e scienze diplomatiche degli anni 2016-2017 e 2017-2018. Secondo quanto ricostruito dalle indagini della Guardia di Finanza i poliziotti avrebbero sostenuto esami falsi, grazie alle risposte fornite in anticipo o con il permesso di copiare liberamente, senza mai vedere i professori ma solo alcuni tutor e talvolta in locali di fortuna, reperiti di volta in volta a Firenze o Bologna mentre l’unica sede autorizzata ad ospitare le sessioni d’esame doveva essere quella di Roma. Redazione CdG 1947

Concorsi truccati, la sconfitta dei baroni: reintegrato (dopo 10 anni) il ricercatore-simbolo della lotta per il merito all’università. Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano il 3 febbraio 2022.   

Storica vittoria per l'autore del libro-inchiesta "Mala Università" (e per chi soffre di mal di cattedra). Il ricercatore siciliano Giambattista Sciré, animatore dell'associazione TraMe, si era visto sfilare l'insegnamento in Storia contemporanea in favore di un architetto. Ha riottenuto il contratto, ma ci sono voluti due lustri con tre ricorsi al Tar vinti, uno al Consiglio di Giustizia, una sentenza penale e della Corte dei Conti. "La battaglia riparte da qui, spero sia d'esempio ai troppi che subiscono tra timori e sfiducia". 

“Lo aspettavo da dieci anni. La prima impressione? Lo stupore, lo stordimento”. Giambattista Scirè quasi non ci credeva ma alla fine ha vinto la Champions nel campionato dei Baroni. E il gioco sporco delle cattedre all’italiana, d’ora in poi, sarà forse più regolare per tutti, compresi i troppi che ancora subiscono ma restano in timoroso silenzio. Sciré è il ricercatore siciliano che nel 2011 ha visto sfumare la cattedra in Storia bandita dall’università di Catania in favore di un’architetta (non è uno scherzo), per la quale era stato costruito il solito concorso “su misura”. Non si è arreso, e con la sua battaglia contro la piaga della “Mala Università” – su cui ha scritto anche un libro – da protagonista nel ruolo della vittima si è fatto portabandiera di un’azione pubblica per la trasparenza dei concorsi a cattedra ben più ampia. Ebbene: dopo anni di lotta ha ottenuto la proroga del contratto da ricercatore in Storia contemporanea. Dal 1 febbraio ha preso servizio presso l’ateneo e domani prenderà possesso del suo ufficio nella sede di Ragusa. “Finalmente – dice – e lo farò a testa alta”.

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Non sarebbe una notizia, se non ci fossero voluti tre ricorsi al Tar vinti, uno al Consiglio di Giustizia, una sentenza penale con decreto di imputazione coatta nel 2020 e una della Corte dei Conti che ha condannato i commissari a restituire i soldi del danno erariale perché aveva, dicono le sentenze, platealmente truccato il concorso. Quelle vittorie fino a pochi giorni fa sembravano solo sulla carta, anche perché l’ateneo non aveva mai dato corretta esecuzione alle sentenze. “Papiri da appendere alla parete o medaglie al valore come la bella lettera di risposta del presidente Mattarella”, dice Sciré spiegando che il sollievo va ben oltre il dato di cronaca. “Per anni la sfiducia per il mio mancato reintegro, a fronte dei risultati giudiziari a mio favore, aveva avuto il sopravvento”. Ma la situazione si capovolge una volta per sempre. “Come accade in certe storie strazianti e drammatiche di ingiustizia, ma poi per fortuna a lieto fine, e quindi come tali epiche ed emozionanti”.

Ma ogni storia a lieto fine che si rispetti ha conserva un retrogusto amaro. Com’è che riottiene il suo posto? Solo in forza dell’ennesimo accesso agli atti Scirè scopre che la sede distaccata di Ragusa già nel 2015, a seguito della prima sentenza, aveva dato parere favorevole alla proroga del contratto “ma l’ateneo, nella nota di diniego scritta dall’ufficio legale (censurata poi dal tribunale ordinario e annullata dal Tar) ha finto di non conoscere l’esistenza di quell’importante documento. Ed ecco che oggi, con sette anni di ritardo, dopo l’ennesima sentenza non eseguita del luglio 2021, dopo l’ennesima diffida e denuncia, finalmente l’obiettivo che sempre perseguito con ostinazione è raggiunto: il rettore Francesco Priolo, seppur con estremo ritardo, ha promosso l’attivazione della proroga, la sede distaccata di Ragusa ha votato così all’unanimità a favore della proroga del mio contratto, lo stesso ha fatto il dipartimento di scienze umanistiche di Catania cui afferisce, consentendo al senato accademico e al cda di deliberare la proroga”. Sciré ha allegato 2560 pagine di relazione sull’attività didattica e di ricerca svolta al 31 dicembre 2014.

“Non è la fine, ma una svolta nella battaglia”, promette Scirè che nel novembre 2017 ha fondato un’associazione per la trasparenza e il merito nei concorsi (TraMe). “Avevo avuto una sentenza favorevole dal Tar che disponeva il reintegro, pena la nomina di un commissario ad acta. Forte di quello avevo rivolto un appello pubblico a tutti i colleghi perché nascesse una rete di supporto a quanti ancora subiscono abusi e ingiustizie nell’assegnazione degli insegnamenti”. Aderiscono in 10, ora sono 850. Molte denunce si sono trasformate in sentenze favorevoli e ordini di reintegro. “Nel mio caso – dice il fondatore – il risultato di oggi è solo più plateale perché ci ho messo la faccia, e assume dunque una valenza simbolica più forte”. Coì la vittoria personale diventa pubblica, e spingerà altri a farsi avanti e seguire l’esempio.

Università, radiografia del sistema dei baroni. “Presa Diretta” riparte dai concorsi truccati. Iacona: “La lobby dei prof si oppone a riforme”.  Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano il 6 febbraio 2022.  

L'INTERVISTA - Da lunedì 7 febbraio su Rai3 riparte il programma d'inchiesta condotto da Riccardo Iacona che dopo 13 anni torna a varcare i portoni delle università e li trova infestati dalla piaga dei concorsi pilotati. "La pandemia per un verso e le sfide del Pnrr per l’altro ci dicono che la partita si gioca sulle competenze date dall’alta formazione. Richiedono ricerca, capacità, etica. Ma la Scienza in Italia sembra contare solo a parole". Poi la Rai, la libertà di informazione nel servizio pubblico. Ecco cosa vedremo nella nuova stagione.  

Concorsi truccati, la campanella suona per tutti. Un’ora e mezza in tv, in prima serata. Non era mai successo. Lunedì prossimo parte la13esima edizione di “Presa Diretta” su Rai3 e lo fa aprendo la stagione con una puntata che indaga a fondo il male endemico dell’università italiana: la piaga dei concorsi accademici truccati e delle baronie. Riccardo Iacona ha deciso di trattare in prima persona il nodo del sistema di assegnazione delle cattedre con un reportage ampio, che dalla Sicilia passa per Firenze e arriva a Tor Vergata, sulla scia di tre clamorose inchieste della magistratura. Un viaggio nel “cuore malato” del sistema di selezione dei docenti, con una valigia di documenti d’indagine, testimonianze e intercettazioni e una domanda sul taccuino che interroga tutto il Paese: l’Italia deve rassegnarsi al fatto che i “migliori” siano selezionati così, con sistematica devianza da merito e competenza, e che il sistema universitario smetta di essere la fabbrica della conoscenza e delle competenze? Spoiler: la risposta, come spesso accade, si trova purtroppo, ancora e sempre fuori dall’Italia. Iacona, classe 1956, da 35 in Viale Mazzini (con parentesi da editto bulgaro), ha voluto condurre personalmente l’inchiesta che apre la nuova stagione, tornando sul “luogo del delitto” e mettendo il coltello nella piaga.

Perché hai deciso di ripartire da qui?

Da “ragazzino”, ormai si può dire, avevo fatto “Viva la ricerca”. Fu trasmesso nel 2009 in prima serata e portò alla ribalta nazionale il tema delle scarse risorse che stavano portando all’asfissia un settore così strategico per l’innovazione ed elevazione del Paese nella competizione globale. A distanza di 13 anni ho intrapreso questo nuovo viaggio tra i “concorsi pilotati”, altro grande male dell’alta formazione, certificato negli ultimi cinque-sei anni da una serie impressionante di inchieste della magistratura. L’ambizione è andare oltre la cronaca, per indagare il nocciolo di questo fenomeno.

Che effetto ti han fatto?

Molta impressione, davvero. Non ti aspetteresti mai che la Digos debba entrare in una alta accademia come l’università di Catania e di scoprire le cose che racconteremo in prima serata lunedì sera. Mi ha molto colpito constatare che ogni volta che le Procure mettono l’occhio o le microspie scoprono che le procedure di reclutamento sono illegali, che le persone entrano o vanno avanti non tanto per il merito ma per l’appartenenza. I nostri giovani non possono far altro che subire o replicare a loro volta questi meccanismi, in alternativa lasciare l’Italia. E magari sono proprio i migliori.

Dei baroni però si parla da anni, perché infilare ora il dito nella piaga?

Perché la pandemia per un verso e le sfide del Pnrr per l’altro ci dicono che la partita si gioca sulle competenze date dall’alta formazione che richiedono ricerca, capacità, etica. E’ nelle università che si forma la classe dirigente che può fare scelte di salute pubblica, mettere mano a buoni progetti, spendere bene le risorse. Ma se nei luoghi a questo deputati i docenti sono scelti con meccanismi di mera cooptazione la sfida si perde in partenza. Sentirete un procuratore che definisce quel sistema “mafioso”. Se ti metti contro, se fai ricorso, ti isolano col bollo dell’infamia. Ma parte del problema è che queste cose quasi non fanno più scandalo.

La politica che responsabilità ha avuto?

Molte, ha chiuso gli occhi per anni sulla riduzione dei fondi per la ricerca. Poi ha trattato l’università come marginale, favorendone così l’autoreferenzialità e lasciando che tutto il sistema di reclutamento si adagiasse su una legalità che è solo apparente: ad ogni concorso devi costruire una commissione nazionale, col costo che ha, che lavora per confermare una scelta già fatta a monte, senza una reale comparazione. Del resto, basta parlare coi protagonisti che hanno vissuto soprusi terribili per rendersi conto della violenza di questo sistema di cooptazione tribale vestito da concorso. Ma la politica spesso non ascolta.

E che cosa può fare?

Abbiamo intervistato la ministra, che è ben consapevole che questo meccanismo di selezione fallisce proprio nello scopo per cui è stato costruito, quello di premiare i migliori anziché pupilli e raccomandati. Lei mette in campo alcune soluzioni tecniche che sono anche dure e quasi rivoluzionarie, ad esempio cancellare l’articolo 24 che consente di bandire concorsi solo per candidati interni.

Ma se ne parla poco. Ci sono resistenze?

Nel Milleproroghe diversi parlamentari vogliono perpetuare quel sistema, perché c’è una “lobby dei professori” anche in Parlamento. Il concorso interno si chiama così ma nella pratica conferisce potere di nomina che hai nelle mani: se glielo togli non puoi più accomodare le persone che hai deciso di portare avanti. Altra cosa è l’abolizione del concorso per l’abilitazione nazionale della Gelmini, altra proposta della ministra che toglierebbe agli ordinari nazionali delle singole discipline il potere di decidere chi deve fare carriera e chi no.

E allora chi deve mettere mano al problema dei concorsi?

L’università da sola non lo può risolvere, perché è complice. E’ una partita troppo importante per lasciarla in mano solo a chi ci lavora. Andrebbe messa su un “”tavolo in cui c’è la magistratura, la politica, la società civile per uscire fuori dal ghetto dell’agenda politica dove sta l’università e tirarla su. La nostra ambizione è di dare un contributo di conoscenza che favorisca questa consapevolezza nel Paese, non per nulla lo approfondiamo per 90 minuti in prima serata, senza accontentarci di fare la cronaca giudiziaria ma afferrandone la complessità.

Clima impazzito, la nuova Guerra Fredda tra Usa e Cina, criminalità digitale. Tra le inchieste della nuova stagione c’è anche “Amore bestiale”, tutta sugli animali domestici. E’ una scelta bizzarra per un programma d’inchiesta

In effetti è un tema che in tv viene trattato come servizio di coda, noi invece faremo una puntata visionaria che mi piace molto. Presa Diretta è l’unico programma della tv italiana privata e pubblica generalista che tutte le settimane propone un monografico che ha l’aspirazione di raccontare per 90 minuti un fenomeno senza fare il “magazine”. Tutte le cose che scegliamo hanno la larghezza narrativa giusta per andare a fondo.

E cosa vedremo?

E’ una puntata che merita 90 minuti. Racconta una trasformazione antropologica di cui ci rendiamo conto quando andiamo in giro per strada: ci sono più cani e gatti che figli. Gente che parla ai cani come agli umani. E poi ci accorgiamo di quanto pesi l’industria che ci gira attorno, comprese le onoranze funebri per cani e gatti, i gelati per loro. C’è un mondo che vive attorno ai nostri amici. E ti domandi cosa è successo. Solo facendo i monografici riesci in qualche modo a mettere l’occhio nel medio futuro, nel mondo che sarà. E sarà un mondo dove animali di ogni genere e grado rispondono a un bisogno di cura che in realtà è nostro. Nasce iscritto nel Dna per i figli, ma si sta spostando sui cani. Sullo sfondo, il declino demografico. Un puntata visionaria, secondo me.

A proposito di visioni. Sì è visto Berlusconi nei panni del candidato al Colle: come sta oggi il rapporto tra politica, Rai e giornalismo?

Tra politica e giornalismo d’inchiesta c’è un fisiologico corpo-a-corpo ed è anche giusto così. Succede in tutto il mondo. I giornalisti portano avanti il loro racconto, la politica deve tenerne conto, l’opinione pubblica è in mezzo e apprende cose che non sapeva. Direi che ora anche in Italia c’è più di uno spazio all’interno della Rai per raccontare in maniera indipendente la realtà e quello che ci circonda.

Dunque è chiusa la stagione degli editti?

Diciamo che in Italia ci sono precedenti pericolosi di cui tenere conto. Non si era mai visto in Europa un presidente del Consiglio che dalla Bulgaria fa un editto contro i conduttori sgraditi e trovi orecchie pronte nell’azienda pubblica per chiudere programmi di grande successo, come erano quelli di Biagi, Luttazzi e Santoro. Chiaro che quella vicenda ha lasciato un segno, ma non è più il tempo in cui l’occupazione politica della Rai da parte degli uomini di dell’ex premier era persino militare, l’epoca dei palinsesti studiati a tavolino con la concorrenza.

C’è più spazio per l’approfondimento giornalistico?

Il sistema della televisione nel suo complesso resta bloccato: c’è un conflitto di interessi ancora molto potente, un mondo privato consistente in mano sempre all’ex presidente del Consiglio. Ma nel frattempo ci siamo ripresi i nostri spazi di libertà, parliamo direttamente al nostro pubblico. E se facciamo un buon lavoro, ci ascolta anche il cosiddetto “mondo della politica”.

L’antidoto all’interferenza?

Fare un buon lavoro. Ci hanno consegnato una prima serata, possiamo fare 90 minuti di racconto. Li vogliamo fare bene e fare in modo che le persone che li vedono siano più ricche, proprio come succede a noi ogni volta che affrontiamo un argomento. Non raccontiamo le cose che già sappiamo o pensiamo siano così per un pregiudizio ideologico o politico. Noi ci buttiamo nel mare del racconto, anche quando è in tempesta, in maniera libera, dai diversi punti di vista. La fontana della libertà resta aperta se racconti in maniera onesta quel che ci sta accadendo nella sua complessità. Il resto non serve a nulla, sono fumetti, non approfondimento giornalistico. 

Concorsi universitari, non ci sono solo bravi o raccomandati. Io vedo problemi non scandali. Andrea Bellelli, Professore Ordinario di Biochimica, Università di Roma La Sapienza, su Il Fatto Quotidiano il 12 febbraio 2022.  

Il recente servizio di Riccardo Iacona a Presa Diretta ha riaperto l’annosa questione dei concorsi “truccati” nelle università. Non è mia intenzione difendere gli abusi di potere, che certamente esistono e che di quando in quando vengono portati in luce da indagini della magistratura. Però bisogna diffidare delle ricostruzioni basate soltanto sulle indagini, perché queste fotografano necessariamente gli eventi peggiori possibili nel sistema e non danno informazione sulla sua complessità e sul suo funzionamento “medio”. Premetto che io insegno Biochimica e conosco soltanto l’ambito limitato della mia materia, che però è abbastanza simile a quello di tutte le scienze “dure”.

La percezione generata dalle inchieste come quella di Iacona, un giornalista del quale ho grande stima, è che ai concorsi universitari si presentino candidati molto nettamente divisi in due gruppi: bravi e somari raccomandati e che uno tra i secondi vinca scavalcando non solo gli altri somari raccomandati, ma anche e soprattutto i bravi. Questa visione, nel campo delle scienze dure è completamente falsa. In primo luogo i candidati non si dividono nettamente in gruppi ma si distribuiscono su una curva a campana, in genere piuttosto stretta e la commissione può al massimo stilare una graduatoria di merito nella quale ciascun candidato è molto prossimo per punteggio a quelli che lo precedono e lo seguono. Inoltre, la scelta dei parametri che la commissione decide di utilizzare cambia necessariamente le posizioni in graduatoria.

Il vantaggio delle scienze dure in questo tipo di analisi sta nel fatto che, al contrario delle discipline umanistiche, possono utilizzare per la valutazione dei candidati dei parametri bibliometrici oggettivi: numero di citazioni, impact factor (una stima del merito della rivista sulla quale appare la pubblicazione del candidato), h-index (una combinazione tra numero di pubblicazioni e numero di citazioni). Capita molto frequentemente che in un concorso nel quale tutti i candidati hanno la necessaria abilitazione scientifica nazionale e sono tutti validi o molto validi, uno di essi ha il più alto numero di citazioni totali, un altro il più alto h-index, e un terzo il più alto impact factor totale. Se la commissione decide di normalizzare i punteggi per l’età accademica, le cose vanno ancora peggio perché ci sarà chi ha il più alto h-index e chi ha il più alto h-index normalizzato e così via.

Qualunque indicatore o combinazione di indicatori la commissione decida di privilegiare ci sarà un vincitore e parecchi sconfitti, ingiustamente penalizzati perché tutti o quasi tutti avevano titoli più che sufficienti per meritare pienamente l’unico posto messo a bando. Ovviamente gli insoddisfatti sono perfettamente in grado di dimostrare, dati alla mano, che avevano titolo per vincere (con i parametri selezionati da loro), e lo raccontano a tutti i loro cugini, i quali poi sparano a zero sul concorso universitario (nella percezione del pubblico non è attendibile né chi è addentro al sistema, perché ha interessi da difendere, né chi non è addentro al sistema perché non ne sa nulla: l’unica voce attendibile è quella del proprio cugino).

La riprova? La ricerca italiana si classifica ottava nel mondo (dati Scimago) su oltre 200 paesi considerati. Ma naturalmente si potrebbe riclassificare variando il numero e il peso dei parametri considerati…

LA REALTÀ OLTRE LE INCHIESTE GIORNALISTICHE. L’università italiana non è solo baroni e concorsi truccati. FRANCESCO RAMELLA su Il Domani il 14 febbraio 2022

È uscita un’altra inchiesta sull’università del malaffare. Quella dei concorsi truccati e dei baroni che fanno strage del merito, selezionando portaborse allevati nei loro dipartimenti e costringendo la meglio gioventù a scappare all’estero.

Si prende un problema complesso (i concorsi nell’università, con la frustrazione che creano), lo si semplifica fino all’estremo e si mettono gli scandali sotto i riflettori.

Da un cronico sottofinanziamento delle università derivano una serie di conseguenze che aiutano a spiegare la rabbia che esplode nei concorsi.

Ci risiamo. È uscita un’altra inchiesta sull’università del malaffare. Quella dei concorsi truccati e dei baroni che fanno strage del merito, selezionando portaborse allevati nei loro dipartimenti e costringendo la meglio gioventù a scappare all’estero. Dove le buone università, aperte e meritocratiche, la accolgono a braccia aperte. Stavolta è stato un bravo giornalista televisivo a cadere nella trappola di questo format un po’ populista che assicura un facile successo. Poco tempo fa era stato un grande quotidiano nazionale a riproporlo.

Funziona più o meno così. Si prende un problema complesso (i concorsi nell’università, con la frustrazione che creano), lo si semplifica fino all’estremo e si mettono gli scandali sotto i riflettori. Non si spiega nulla, ma si alimenta l’indignazione e la rabbia, e si mostra qualcuno su cui sfogarla: i baroni e i loro portaborse. È un meccanismo noto nelle scienze sociali. È un classico esempio di creazione di “capri espiatori organizzativi”, che forniscono una valvola di sfogo alle tensioni che si accumulano in situazioni di disagio.

L’ESTENSIONE DEL FENOMENO

Questa inchiesta televisiva, come quella precedente, ha tuttavia suscitato tantissime reazioni negative tra gli accademici. Perché? Si tratta di pure difese corporative? Forse no. Proviamo a spiegarlo con qualche numero.

Entrambe le inchieste sono partite dai concorsi truccati finiti nel mirino della magistratura. Hanno fatto capire che si tratta di fenomeni estesi, se non generalizzati. Nell’inchiesta pubblicata sulla carta stampata si è data grande evidenza al numero elevato di ricorsi fatti contro gli esiti concorsuali.

Nei primi anni dei nostri corsi insegniamo che i valori assoluti, senza una percentuale, possono essere estremamente fuorvianti. Mi sono perciò preso la briga di fare qualche verifica. Nell’ateneo di Torino, dati certi, tra il 2014 e il 2020 si sono svolti 1.540 concorsi, 24 dei quali sono stati oggetto di ricorso. Si tratta di un tasso pari all’1,6 per cento.

A livello nazionale, secondo una mia stima, su 190mila candidati passati attraverso concorsi nazionali e locali la percentuale dei ricorsi ammonta al 2,6 per cento. Si tratta di stime, ma che ridimensionano subito l’estensione del fenomeno. Si dirà che quella è solo la punta dell’iceberg. Ma così dicendo si sfugge del tutto a una discussione basata su dati fattuali e soggetta a falsificabilità.

Ciò chiarito, io ritengo che i ricorsi e gli scandali denunciati dai media non siano un buon indicatore dello stato di (buona o cattiva) salute dell’università italiana. Proviamo perciò ad aggirare l’ostacolo e poniamoci due domande:

1. Come se la sta cavando la ricerca italiana? Qualcuno li avrà pur formati quei bravi ricercatori che finiscono all’estero, o no?

2. Da dove deriva tanta rabbia e frustrazione intorno ai concorsi, soprattutto tra i più giovani?

Partiamo dalla ricerca. A giudicare dai fatti (non dal sentito dire), quella italiana non sfigura affatto nelle comparazioni internazionali. I report forniti dalla banca dati di Scopus mostrano che ci collochiamo al 7° posto mondiale per numero di pubblicazioni e all’8° per numero di citazioni.

L’ultimo rapporto Anvur evidenzia che la crescita della produzione scientifica è stata nell’ultimo decennio superiore alla media mondiale, e ciò ha consentito all’Italia di aumentare la propria quota sul totale, mentre paesi come Francia, Germania e Regno Unito la riducevano. Tre anni fa una rivista autorevole come Nature assegnava alla ricerca italiana un notevole, e crescente, livello di eccellenza. Produciamo un buon numero di articoli a forte impatto. La percentuale di pubblicazioni nazionali che si colloca nel 10 per cento di quelle più citate a livello mondiale supera del 12 per cento la media europea.

Non sarà tutto oro quel che luccica ma, anche depurato dal fenomeno delle autocitazioni, chi ha visto i curricula dei nostri giovani ricercatori, sa che la qualità e l’internazionalizzazione del loro profilo sta migliorando. Possibile che queste prestazioni siano il prodotto di una casta di baroni e di una schiera di portaborse? Si dirà, ma i nostri atenei non sono mai tra i primi 100 nelle classifiche internazionali. Vero, ma questo dipende da quanto e come li finanziamo. Aggiungo che la loro qualità media non è affatto disprezzabile. Tra le prime 500 università al mondo ce ne sono 22 italiane: un numero più alto di quelle francesi e spagnole. Questi dati sono tanto più sorprendenti se considerati alla luce degli scarsi investimenti fatti nel nostro paese sulla formazione terziaria.

L’Italia si colloca al penultimo posto della graduatoria dei paesi Ocse per il finanziamento delle università, spendendo appena lo 0,9 per cento del Pil contro una media dell’1,4 per cento (fonte Oecd, Education at a glance 2021). Il numero di docenti e ricercatori universitari, in rapporto alla popolazione, è la metà del dato medio europeo.

SOTTOFINANZIAMENTO CRONICO

Da questo cronico sottofinanziamento derivano una serie di conseguenze che aiutano a spiegare la rabbia che esplode nei concorsi.

Ci sono moltissimi giovani ricercatori che non riescono a entrare nell’università italiana (soprattutto donne). Chi ce la fa, vi accede con stipendi bassi e dopo lunghissimi anni di precariato con borse di studio di pura sopravvivenza. Di conseguenza l’età media degli accademici italiani è una delle più alte in Europa. Quasi la metà hanno più di 50 anni, appena il 5 per cento ne ha meno di 35.

Il sottoreclutamento genera un drastico aumento del rapporto docenti-studenti, ancora una volta tra i più alti in Europa, che riduce la qualità della didattica e provoca un enorme sovraccarico di lavoro. Questo enorme stress viene ulteriormente complicato dalla burocratizzazione della valutazione (oggi si scrivono più pagine di verbali che di saggi scientifici). Mi fermo qui anche se molto altro ci sarebbe da dire sull’iniquità di questo sistema, che permette di sopravvivere solo a chi ha le spalle più solide. Noi accademici siamo altrettanto indignati e arrabbiati che i nostri giovani.

Per fortuna si intravede uno spiraglio di luce. Finalmente, maggiori finanziamenti stanno arrivando. L’università italiana oggi ha una opportunità straordinaria. Gli accademici dovranno fare del loro meglio per non sprecarla. Il giornalismo italiano ci darà una mano, raccontando anche l’altra università? Narrando ciò che per tanti anni non si è voluto vedere? Magari pensando all’entusiasmo dei nostri giovani ricercatori? Vogliamo disperderlo mandandoli all’estero, perché nelle università italiane sono tutti corrotti? Oppure sprecarlo nella rabbia scatenata contro i draghi di carta: i baroni? Pensateci. Non si vive di soli scoop e di like. Buon lavoro a tutti noi.

FRANCESCO RAMELLA. L'autore è professore ordinario presso il Dipartimento di Culture Politica e Società dell'Università di Torino.

Si è aperto uno squarcio sulle criticità del reclutamento dei professori universitari.  PASQUALE GALLINA, Università degli Studi di Firenze, su Il Quotidiano del Sud il 6 Febbraio 2022. 

Inchieste giornalistiche e indagini giudiziarie stanno aprendo uno squarcio sulle criticità del reclutamento dei professori universitari in Italia. Tali criticità sono più gravi per Medicina. La letteratura scientifica internazionale non manca spietatamente di ricordarci la datata malpractice dell’Accademia medica italiana (Rigante, Lancet, 2016).

Il Lancet riporta paradigmaticamente (Gallina e Gallo, Lancet, 2020) che su 175 concorsi per professore ordinario e associato “aperti” a candidati interni ed esterni (art. 18 comma 1, Legge Gelmini) svoltosi tra il 2012 e il 2019 presso le Scuole di Medicina toscane, solo in 10 casi la competizione ha visto prevalere un candidato non incardinato nelle Università stesse che hanno bandito o non appartenente alle Aziende ospedaliero-universitarie con esse integrate. La media dei partecipanti ai concorsi è stata di circa 1.5 candidati per competizione.

Si tratta di un numero di concorrenti molto basso rispetto alla vasta platea di studiosi in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale (prerequisito per la docenza) che avrebbero potuto partecipare. Molti abilitati potrebbero essere stati dissuasi da una difformità dei bandi con la declaratoria ministeriale i.e. la descrizione dei contenuti del settore scientifico disciplinare. Non-conformità con la declaratoria indica “profilatura” del bando” (Trasparenza e Merito, 2019).

Questi risultati danno l’idea di un’Università “asfittica”, chiusa in sé stessa, vittima di oligarchie, afflitta (Grilli e Allesina, PNAS, 2017) dalla piaga del nepotismo. Sorprende che le autorità ministeriali si siano disinteressate a dati così autorevoli che hanno messo a nudo mondialmente la fragilità del sistema italiano di reclutamento.

La situazione è peggiorata allorché il potere politico è entrato nel gioco delle cattedre. L’art. 18 comma 4 della Legge Gelmini, pensato per favorire la mobilità accademica, permette il reclutamento di soggetti esterni ad una Università, attraverso l’utilizzo di fondi non ministeriali.

A Medicina, questi concorsi sono spesso finanziati dalle aziende ospedaliero-universitarie, finanziariamente dipendenti dalle Regioni, che così hanno un certo peso sull’esito della procedura. Visto che la Legge non prevede norme che impediscano la partecipazione al concorso di portatori di interesse, l’articolo 18 comma 4 viene spesso utilizzato per gratificare un medico (dipendente dall’Azienda che finanzia) trasformandone la posizione da ospedaliera in universitaria, senza che questo comporti un vantaggio per il sistema, né in termini di risorse, né di competenze.

Spesso ad un professore gradito è anche assicurata con questo metodo la progressione di carriera. Si tratta di un uso inappropriato dello strumento che determina il fallimento dell’obiettivo per cui è stato pensato, cioè favorire la mobilità universitaria. Il Lancet riferisce che su 46 di questi concorsi presso le Università Toscane, solo in 12 casi la competizione è stata vinta da un soggetto davvero esterno.

L’intrusione della politica nelle aule di medicina favorisce la formazione di un corpus di docenti politicamente orientato, con il rischio di condizionamenti sulla cultura medico-scientifica e bioetica del Paese. La consapevolezza dell’opinione pubblica circa queste problematiche è cruciale per supportare gli sforzi di alcuni verso la meritocrazia e l’indipendenza dell’Università.

Il giornalismo di inchiesta di Riccardo Iacona farà emergere impietosamente, lunedì, su Rai 3, nel corso di PresaDiretta, la “malattia” che affligge Università Italiana, con il contributo di molti studiosi che ne hanno denunciato giudiziaramente e pubblicamente l’esistenza.

Concorsi pilotati, il diktat del primario: “Quel medico ribelle va mobbizzato”. Luca Serranò su La Repubblica il 15 Gennaio 2022.  

L'inchiesta di Firenze. Gli sms di Marco Carini, l’ex direttore di oncologia al Careggi con il collega Corrado Poggesi: tutti e due sono indagati per i bandi di Medicina. 

"Io una soluzione la avrei, un po' di mobbing obbligandolo a fare guardie e lavorare... Chiaramente si dimentichi concorsi". Parlava così, in una chat acquisita dagli inquirenti, l'ex direttore del dipartimento oncologico e primario dell'urologia oncologica di Firenze, Marco Carini, tra i 39 indagati dell'inchiesta della procura fiorentina sui concorsi pilotati a Medicina.

La chat, depositata nelle scorse settimane, risale all'ottobre 2020.

"I concorsi universitari li usiamo come merce di scambio", dicono i prof intercettati nell'inchiesta di Careggi. Andrea Bulleri su La Repubblica il 20 gennaio 2022.

Marco e Alessandro Innocenti registrati dalla finanza nell'ambito dell'inchiesta che ha portato all'interdizione di Borgognoni. Concorsi universitari come "merce di scambio". Così parlavano due dei professori coinvolti nella maxi inchiesta sui bandi pilotati a medicina, Marco e Alessandro Innocenti, intercettati dalla finanza. È uno dei passaggi contenuti nella misura cautelare eseguita due giorni fa con cui il gip del tribunale di Firenze, Angelo Pezzuti, ha interdetto per un anno da ogni ruolo universitario Lorenzo Borgognoni, dirigente medico di chirurgia plastica ricostruttiva al Santa Maria Annunziata di Bagno a Ripoli.

Concorsi e università, perché non viene premiato il merito. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Ogni tanto salta fuori un concorso truccato e, allora, si grida allo scandalo. Ma non c’è nemmeno bisogno di truccare le carte, vista la consuetudine a mettersi d’accordo sul finto rispetto delle procedure. Parliamo dell’università, il luogo che sforna i futuri professionisti e la futura classe dirigente e dove a fare la differenza è la qualità del corpo docente. Ebbene, le falle aperte nei meccanismi di reclutamento dei professori universitari vanno avanti da più di quarant’anni. Dal 1980 le norme sono cambiate quattro volte senza aver mai intaccato il cuore del problema: più attenzione alla cordata di appartenenza del candidato che alla sua preparazione. E questo disprezzo per il merito condanna il nostro Paese a essere fuori dalla top 100 delle migliori università mondiali. Nonostante la prima università europea sia proprio nata in Italia.

E questo disprezzo per il merito condanna il nostro Paese a essere fuori dalla top 100 delle migliori università mondiali

I ruoli

La carriera dentro i 97 atenei italiani inizia con il dottorato e l’assegno di ricerca, poi segue il titolo da ricercatore. Quindi si diventa associati (II fascia) e infine ordinari (I fascia). In totale, i professori sono 37.996. Il loro impegno tra lezioni, esercitazioni, laboratori e seminari, è di un minimo di 120 ore all’anno. Lo stipendio parte da 2.400 euro netti al mese per gli associati, e da 3.300 euro per gli ordinari. 

Dal concorso nazionale a quello locale

La stima è che, di quelli in carica oggi, poco più di 29 mila siano stati selezionati con le vecchie norme. La prima grande riforma è il Dpr 382 del 1980 firmato dall’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini: nasce la distinzione tra la figura dell’associato da quella dell’ordinario, entrambi selezionati attraverso un concorso nazionale. Prendiamo Economia, la commissione che valuta chi vuole diventare associato è scelta così: sorteggiati ventisette professori della stessa disciplina e poi tutti i professori di Economia d’Italia ne eleggono nove. Quella che, invece, valuta gli ordinari è formata al contrario: prima vengono eletti gli aspiranti commissari e poi vengono sorteggiati cinque tra i più votati. Una volta stilata la lista dei vincitori, le facoltà che hanno bandito il posto deliberano la chiamata, anche in base alle preferenze indicate dall’aspirante professore. Ma il meccanismo viene considerato troppo rigido, perché non garantisce agli atenei la possibilità di scegliere il candidato con il profilo più adatto alle proprie esigenze, che può non coincidere con il migliore candidato in termini assoluti. Nel 1998 la legge 210 del governo Prodi, ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, decreta la fine dei concorsi nazionali. Ogni università si fa il suo. I commissari sono cinque, uno interno indicato dalla facoltà e quattro esterni eletti dai loro colleghi. Risultato: su cento aspiranti, gli interni che partecipano alla selezione sono ventiquattro e vincono il posto in un caso su due. Il rischio, che i numeri fotografano senza via di scampo, è che sia dato un eccessivo vantaggio a chi è già dentro la facoltà che bandisce il concorso, con un esito già predeterminato a favore del candidato interno, indipendentemente dalle sue qualità. Le commissioni sono disponibili ad accogliere le preferenze dell’ateneo – che è rappresentato dal commissario interno – e meno attente alla qualità oggettiva dei candidati. Il principio è che oggi tu accontenti me, e io domani accontenterò te. 

Il periodo di transizione

Il sistema avrebbe dovuto essere cambiato dalla legge 230 del 2005, voluta dal ministro Letizia Moratti. La novità consisteva nell’introduzione di un’abilitazione scientifica nazionale, dove i candidati sarebbero stati valutati per titoli da una super-commissione nazionale dopo aver scremato i curricula, al fine di assicurare un buon livello di partenza. Ma la normativa non è mai stata attuata. Per evitare il blocco dei concorsi, arriva il decreto legislativo 180 del 2008 che introduce una disciplina transitoria: i candidati al ruolo di professore di I e II fascia devono essere valutati da un ordinario nominato dalla facoltà che richiede il bando e da altri quattro sorteggiati in una lista di commissari eletti tra i professori ordinari appartenenti allo stesso settore scientifico-disciplinare del bando. Si torna, dunque, a estrarre a sorte i commissari, ma il risultato non cambia. 

La riforma Gelmini

Con la legge Gelmini 240 del 30 dicembre 2010, in base alla quale sono nominati 8.599 prof, viene ripresa di fatto la struttura della legge Moratti mai applicata. Il candidato prima deve superare l’abilitazione nazionale per titoli, valutato da una commissione di cinque super-commissari estratti a sorte. Gli abilitati fanno poi il concorso indetto dalle università. I commissari scendono a tre sorteggiati fra cinque, ma vengono indicati dalla stessa università. Nessuno vieta all’ateneo di metterci il professore interno che può, quindi, trovarsi a valutare il suo stesso allievo, quello attorno al quale magari è stato costruito il bando. Il motivo per il quale tutto questo è possibile lo spiega bene l’Anac: «Le disposizioni legislative – scrive l’Anticorruzione nel documento 1208 del 22 novembre 2017 – non disciplinano né le regole di formazione delle commissioni né lo svolgimento dei loro lavori, rinviando ai regolamenti universitari». 

Nessun conflitto di interesse

Per il Consiglio di Stato «l’esistenza di rapporti accademici o di ufficio, ossia di una collaborazione tra il commissario e il candidato, non inficia il principio di imparzialità» (sentenza 4858 del 2012). Vuol dire che all’interno della commissione giudicatrice possono esserci rapporti personali tra valutatore e valutato, a meno che tra maestro e allievo ci sia «reciprocità d’interessi di carattere economico» (Consiglio di Stato, 4015 del 2013). In pratica, dunque, dopo l’abilitazione scientifica l’ateneo ha pressocché mano libera su tutto. Del resto, un caso-studio della Fondazione Bruno Kessler ha già dimostrato che il sorteggio dei commissari serve a poco, tant’è che ai concorsi con i membri estratti a sorte partecipa l’83% di candidati esterni contro il 76% di quando il sorteggio non c’era, ma una volta su due vince sempre e comunque l’interno. E per l’università è anche conveniente perché gli costa solo il 30% di retribuzione in più per il passaggio di ruolo, invece di pagare per interno un altro stipendio. 

Cosa fanno all’estero

In Germania il concorso è pubblico, ma per avanzare di carriera non è possibile candidarsi nel proprio ateneo. Nel Regno Unito non ci sono concorsi pubblici e la promozione di solito avviene passando a un’università diversa dalla propria in base alla produzione scientifica. Negli Usa il capo della commissione che deve scegliere il candidato è il direttore del Dipartimento e, se non sceglie uno bravo e in grado di produrre risultati, viene penalizzato nei finanziamenti. 

Invece in Italia la commissione del concorso non risponde in alcun modo sulle future performance del vincitore. Il nostro meccanismo di premialità lega solo il 20% dei finanziamenti che arrivano agli atenei alle politiche di reclutamento e alla qualità della ricerca. In sostanza, abbiamo messo in piedi una trafila che non garantisce la scelta migliore e di cui nessuno risponde. Un sistema più meritocratico potrebbe, per esempio, lasciare libere le università di scegliersi i docenti che preferiscono, con la condizione di rispondere dei risultati prodotti pena una corposa riduzione dei fondi. È un linguaggio facile da capire al volo, proprio perché ha un effetto pratico… molto più dell’indignazione che esplode per ogni concorso truccato, senza aver mai cambiato una virgola.

·        Ignoranti e Magistrati.

L'attacco del consigliere. Una commissione d’inchiesta sulle nomine dei magistrati: la proposta… di un magistrato. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Novembre 2022

“Quando un professore viene scoperto a pilotare un concorso in università, se è fortunato il suo nome finisce nel registro degli indagati, altrimenti va direttamente dietro le sbarre. Quando il ‘pilota’ è un magistrato e la nomina riguarda un posto da procuratore o da presidente di tribunale, invece, non succede nulla”. Parola del giudice Andrea Mirenda, neo eletto al Consiglio superiore della magistratura. La ‘differenza’ di trattamento è stata evidenziata da Mirenda commentando la richiesta di rinvio a giudizio ieri da parte della Procura di Milano nei confronti della “virostar” Massimo Galli, accusato in qualità di componente di una commissione d’esame di aver taroccato i titoli di un suo collaboratore, poi risultato vincitore del concorso.

Una dinamica, quella del taroccamento dei titoli, molto frequente dalle parti di Palazzo dei Marescialli e messa in evidenza dal giudice amministrativo con l’annullamento degli incarichi direttivi. Mirenda, outsider alle recenti elezioni per la componente togata del Csm come unico ‘indipendente’, ha anche una soluzione: “A quando un Commissione parlamentare d’inchiesta per le nomine in magistratura?”. “Dal momento che la magistratura ed il suo organo di autogoverno non sono in grado di mettere un freno a tale prassi spartitoria, serve una Commissione che faccia luce”, puntualizza Mirenda. L’ultimo caso ha riguardato la nomina di Ettore Picardi a procuratore di Teramo. Il Csm, scrive il Tar, avrebbe “sminuito” i titoli posseduti dallo sfidante Giampiero Di Florio. “Io credo che quanto rivelato dai fatti dell’hotel Champagne e dai libri di Luca Palamara – prosegue Mirenda – sia materiale sufficiente perché il Parlamento si attivi in tal senso, avendo già nel 2019 ipotizzato l’esigenza di Commissione”.

“Sarebbe poi ‘carino’ che le indagini fatte dai pm nei confronti dei professori universitari venissero fatte per le nomine in magistratura”, aggiunge il neo eletto consigliere del Csm. Dopo il Palamaragate, infatti, non è stato aperto un fascicolo che sia uno in nessuna Procura italiana. Tutto è passato sotto silenzio. Neppure i fascicoli ‘esplorativi’, tanto gettonati dai pm quando prendono di mira qualche politico o qualche amministratore pubblico accusato di “traffico di influenze”. A distanza di tre anni dai fatti dell’hotel Champagne, poi, sono stati archiviati tutti i procedimenti disciplinari e di incompatibilità ambientale nei confronti dei magistrati che con Palamara gestivano il mercato delle nomine al Csm.

Le ultime archiviazioni, sempre sotto silenzio, sono del mese scorso allorquando il Csm aveva deciso di ‘graziare’ il togato Massimo Forciniti che gestiva le nomine più importanti con Palamara e che, interrogato, aveva svelato il funzionamento del ‘sistema’ degli incarichi. Nonostante le chat sugli accordi spartitori e le confessioni dei diretti interessati, il Csm ha deciso dunque di metterci sopra una bella pietra. Non resta che sperare in Carlo Nordio. Paolo Comi

Concorso in magistratura, le novità: niente penna durante le prove, stop a scuola di specializzazione. Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022. 

Importanti novità nel decreto Aiuti ter sono rivolte anche agli studenti di giurisprudenza: da qui in avanti il concorso per diventare magistrati si potrà svolgere con il computer /addio alla vecchia penna) e non sarà obbligatorio aver frequentato una scuola di specializzazione ma basterà aver conseguito la laurea. Il primo esperimento di questa nuova modalità di concorso in magistratura sarà la prossima selezione, fissata dal ministero della Giustizia per fine settembre e a cui parteciperanno circa 400 aspiranti professionisti.

Le nuove modalità

Lasciare la penna è una semplificazione voluta e necessaria a cui ormai tutte le categorie hanno ceduto: i candidati avranno modo di scrivere più velocemente se dotati di un pc, mentre la commissione che dovrà correggere non perderà tempo a tentare di interpretare le diverse calligrafie. In questo modo saranno accorciate le tempistiche del concorso stesso, sia nella fase di stesura sia in quella appunto della correzione (uno dei principali motivi di rallentamento). Inoltre, niente più tirocini, scuole di specializzazione per le professioni legali o l’abilitazione per quelle forensi, la richiesta si limita al conseguimento della sola laurea in legge. Queste misure si sono rese necessarie per stare al passo con gli obiettivi fissati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, tra i quali si trova anche la riduzione dei tempi processuali, lo smaltimento delle questioni arretrate e l’accelerazione delle procedure di concorso.

La riforma sull’ordinamento giudiziario

Il decreto Aiuti ter, quindi, anticipa quanto già previsto dalla legge n. 71 del 2022 sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. Il provvedimento, infatti, dispone che al concorso per la magistratura ordinaria potranno partecipare anche i neolaureati, una volta concluso un percorso universitario non inferiore a quattro anni di durata. Come riporta il Sole 24 Ore, oltre al rischio di perdere i fondi stanziati dal Pnrr, sono i numeri a dimostrare l’esigenza di ampliare la platea di magistrati: negli uffici giudiziari ne mancano 1.617 su 10.558 in organico, si tratta di una scopertura del 15,32%. Sulle specifiche delle nuove modalità di concorso sarà un decreto ministeriale apposito a fornire tutte le informazioni utili.

Magistratura, concorso flop: due giudici 'bocciano' il collega che ha fatto strage di candidati. "Troppo severo". Liana Milella su La Repubblica il 24 maggio 2022.

Intervista a due voci. Per una volta sia Magistratura indipendente sia Magistratura democratica sono d'accordo. Loredana Micciché per Mi al Csm, e la presidente di Md Cinzia Barillà, sono contro il collega severissimo sugli errori, perfino d'italiano. Agli orali solo 220 aspiranti su 3.797

Grazie all'ultimo concorso in magistratura, finito con una strage di candidati agli scritti (è passato solo il 5,7%), per una volta, le opposte correnti della magistratura si ritrovano d'accordo. E sono due donne a esserlo. Unite nel condannare l'eccessiva durezza nella correzione dei compiti, per cui sono passati agli orali solo 220 aspiranti su 3.797...

Gli aspiranti magistrati non sanno scrivere... ma è colpa dell’università?

Il flop del concorso in Magistratura

Il villaggio globale digitale ha portato la disaffezione dalla penna in una dimensione che superi quella telegrafica. Sergio Lorusso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Giugno 2022

L'Università italiana è nell’occhio del ciclone. E questo non soltanto per ragioni giudiziarie, con i tanti (troppi) scandali che hanno investito vari atenei e un profluvio di concorsi per l’accesso alla docenza – a quanto pare pilotati con logiche baronali – nell’ultimo biennio. Da questo punto di vista nulla di nuovo – se non nei numeri – sotto il sole: una violazione delle regole e del merito, cui si vuole porre rimedio con l’ennesima (e probabilmente inutile) riforma della normativa concorsuale. Non basta un restyling delle regole d’accesso per sovvertire una mentalità che fa di una malintesa cooptazione – ben salda nel codice genetico del mondo accademico nostrano – lo strumento d’esercizio di un arbitrario potere personale.

È un altro tema, tuttavia, a tenere banco dopo la diffusione dei risultati degli scritti del concorso in magistratura e le dichiarazioni rilasciate da alcuni commissari sullo scarso livello dei candidati: l’attitudine del corso universitario in Giurisprudenza a formare i futuri magistrati. In particolare, a insegnar loro a scrivere di diritto, essendo i corsi strutturati in chiave essenzialmente – se non esclusivamente – orale. Tutta colpa dell’Università, dunque, se i numerosi candidati che non hanno superato lo scoglio delle prove scritte (non) saranno magistrati. Ma è davvero così? La conclusione è semplice – e semplicistica – e sicuramente idonea a fornire un facile capro espiatorio: è la laurea magistrale in Giurisprudenza a costituire il presupposto principale per accedere agli ambiti ruoli della magistratura e, quindi, carenze e défaillance degli aspiranti togati non possono che addebitarsi ai contenuti somministrati all’ombra di Minerva. Ma si tratta di una deduzione scontata e fuorviante.

Intanto, occorre sgombrare il campo da alcune letture non storicizzate. Che vi sia una forte selezione alle prove scritte del concorso in magistratura è dato noto e consolidato, solitamente interpretato come espressione del suo rigore e giustificato dalla delicatezza del ruolo che i vincitori andranno a ricoprire. La cosa non ha mai suscitato particolari allarmi o polemiche all around the world, anzi. Non a caso il concorso in magistratura è sempre stato considerato uno dei pochi concorsi pubblici «seri». Che vengano ammessi agli orali un numero di candidati inferiore a quello dei posti messi a concorso è, parimenti, un dato tutt’altro che eccezionale, indice di quel rigore delle commissioni di cui si è detto. Che poi ciò sia fonte di conseguenze negative per la copertura dei posti vacanti (attualmente ben 1300) è altro discorso, che meriterebbe un approfondimento a parte. Stupisce, pertanto, lo stupore con cui la notizia è stata data anche da importanti quotidiani nazionali.

Ciò detto, i rilievi formulati per gli errori di grammatica e di sintassi, oltre a quelli di diritto, non possono lasciare indifferenti ma richiedono una spiegazione più articolata se si vuole evitare di alimentare soltanto riforme improvvisate destinate a non sortire alcun effetto. Intanto, se parliamo di errori nell’uso della lingua italiana – e ce ne sono in quantità affatto trascurabile, chi è stato membro della commissione di abilitazione all’esercizio della professione forense lo sa bene, al pari di chi si occupa della correzione delle tesi di laurea – tali lacune evidentemente non possono che essere risalenti ai primi passi della formazione ed è davvero difficile (per non dire impossibile) colmarle «da grandi», impegnando gli studenti a redigere dieci, cento o mille pareri e atti giuridici. Questi ultimi potranno servire a potenziare le capacità argomentative in materia giuridica di ciascuno, sempre però che abbia imparato in precedenza ad argomentare sottraendosi al giogo della comunicazione odierna – di cui troppo spesso ci si dimentica, quasi si tratti di compartimenti stagni – nella quale per molti già comporta fatica raggiungere il numero di battute massimo di un tweet («infaustamente» passato da 140 a 280), ritenute appannaggio di un inessenziale linguaggio complesso. E risulta sicuramente più agevole aggiungere un lapidario like.

Il villaggio globale digitale, tra le tante novità, ha portato anche la disaffezione dallo scrivere in una dimensione che superi quella telegrafica e «stenografata». La velocità, del resto, è un suo must. E il mondo della formazione, con il proliferare delle tecniche didattiche «innovative» a scapito di quelle tradizionali, non è certo strutturato per favorire l’apprendimento della scrittura (a partire da quella manuale). Se questo è, perché sorprendersi delle carenze nella scrittura, giuridica e no?

L’italiano liquido degli adolescenti e l’impossibilità di pensare (anche da adulti). Marco Ricucci su Il Corriere della Sera l'1 Giugno 2022.

Una riflessione sui dati degli apprendimenti degli adolescenti e sui risultati pessimi al concorso per magistrati. 

L’allarme è stato lanciato, la nave sta colando a picco, lentamente senza che nessuno faccia qualcosa di incisivo: così mi pare. Paolo Di Stefano, commentando la notizia secondo la quale metà degli studenti italiani non sarebbe in grado di comprendere un testo scritto, la mette in associazione con l’altra notizia del recentissimo esito del concorso della magistratura: un anno fa, erano 3.797 gli aspiranti a diventare pubblici ministeri o giudici per 310 posti. Conclusa la correzione di tutti gli scritti, all’orale si presenteranno soltanto 220: cioè appena 5, 7%. Il motivo? Il commissario d’esame Luca Poniz, pubblico ministero di Milano, afferma che, nella scrittura degli elaborati, ha riscontrato «schemi preconfezionati, senza una grande capacità di ragionamento, scarsa originalità, in alcuni casi errori marchiani di concetto, diritto e grammatica». La scuola italiana, dunque, non è in grado di sviluppare abilità essenziali come la capacità di scrivere un testo argomentativo o di altre tipologie?

Pensare, parlare

Negli atenei italiani ci sono da anni dei veri e propri corsi di recupero delle competenze di base come la comprensione del testo, la scrittura, la grammatica: si tratta dei cosiddetti Ofa (Obblighi formativi aggiuntivi). Trovare le ragioni di questi due fatti apparentemente lontani (adolescenti e gli aspiranti magistrati) richiederebbe un’analisi psico-socio-culturale, che chiamerebbe in causa anche branche delle neuroscienze e della psicologia cognitiva. Come docente, ho cercato di trovare una risposta per meglio orientare la mia azione didattica. Qualcosa mi pare di aver capito da un interessante saggio di Davide Crepaldi: «Neuropsicologia della lettura. Un’introduzione per chi studia, insegna e o è solo curioso» (Carocci, 2021). Ma come cittadino mi chiedo: quali saranno gli effetti collaterali di questo fenomeno tra dieci e vent’anni? Veramente è in gioco la tenuta democratica del nostro Paese? La lingua italiana è lo strumento di decodifica della realtà e crea i presupposti della rappresentazione della realtà per ognuno di noi. In un illuminante artico reperibile sul web, che si intitola « I ragazzi di oggi non sanno pensare. Alcune riflessioni di antropologia della scrittura», Gabriele Pallotti già nel 1998 scriveva che lo studente può avere imparato la grammatica normativa, addirittura dell’italiano colto di un testo colto, «ma non ha ancora imparato del tutto a pensare da alfabetizzato: il suo pensiero è ancora dinamico, un flusso continuo di idee che ha bisogno della presenza di un interlocutore per essere interpretato, contestualizzato, definito, pieno di formule fisse e di riferimenti vaghi. L’incompleta alfabetizzazione gli preclude la possibilità di trattare le idee come oggetti, manipolandole, raggruppandole, mettendole in ordine, e il suo testo risulta il tipico prodotto di un pensiero orale o semi-orale». Dunque, è un problema vecchio, che la scuola deve affrontare, con la collaborazione dei risultati della ricerca più avanzata. Ma come fare?

Il «pantareismo»

Fare a scuola una didattica mirata alla lettura e alla scrittura, ovviamente. Bisogna però puntare sulla formazione iniziale dei docenti e su criteri meritocratici di selezione e reclutamento del personale docente. Forse l’azione didattica può essere un baluardo contro la mancanza del «pantareismo» linguistico-cognitivo, che trova la sua più manifesta e tangibile nella scrittura di un testo. Perciò mettendo banalmente in fila i pezzi di questo puzzle, come docente, un po’ azzardatamente, ritorno a porre in evidenza la proposizione della «neoquestione della lingua italiana», che non riguarda solo la scuola ma l’intera cittadinanza, in quanto ha un sostanziale diretto effetto: la nostra libertà è in mano ai giudici che esercitano il terzo potere dello Stato. Inoltre, grazie alle parole di Luca Poniz, che ha constatato, come in una radiografia, negli elaborati scritti quanto riportato nel virgolettato prima, ho ulteriormente declinato questo aspetto cognitivo, conseguenza di letture un po’ selvagge e anarchiche, in un nuovo fenomeno che, peccando di presunzione, mi piace ribattezzare con un neologismo, ovvero «pantareismo» linguistico-cognitivo, che trova una sua collocazione idonea nella società liquida di Bauman.

Il ribaltamento

Forse questa è una lettura semplicistica, che deve essere ancora approfondita, ma un altro -ismo nella lingua italiana, per richiamare un saggio di Capuana, male non fa. Infine, nell’editoriale di Paolo Di Stefano, si mette in luce che sia l’ala conservatrice sia l’ala progressista delle toghe hanno smesso di fare i consueti battibecchi, per «accusare» Poniz di essere stato troppo severo e stretto nella correzione degli elaborati: «Come quei genitori che non trovano di meglio che prendersela con il professore quando il figlio viene rimandato». Ha fatto benissimo Poniz, dato che si trattava di futuri giudici. Non è il caso invece della scuola, dove bisogna recuperare tutti per portarli ad un livello accettabile di competenza linguistica e, dopo due anni di Dad, valutare anche l’impegno degli alunni. Se qualcuno di loro farà il concorso da giudice, forse ci ringrazierà.

Il guaio è scrivere o ragionare? Concorso in magistratura, perché le aspiranti toghe sono state bocciate in massa. Valter Vecellio su Il Riformista il 31 Maggio 2022. 

Non risulta che il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi si sia attivato; lo dovrebbe fare, e con una certa urgenza: per prima cosa disporre una inchiesta conoscitiva. Poi, risultati alla mano, provvedere. Ne va del presente e del futuro di questo Paese. L’ultimo concorso in magistratura finisce con una strage di candidati agli scritti: li supera appena il 5,7 per cento degli esaminati: su 3.797 aspiranti, passano solo 220 agli orali.

Loredana Miccichè, componente del Consiglio Superiore della Magistratura, corrente conservatrice “Magistratura Indipendente”; e Cinzia Barillà, presidente della progressista “Magistratura Democratica”, trovano un punto di accordo: è perché gli esaminatori sono troppo severi nella correzione dei compiti; non sono i candidati ignoranti, da loro si pretende troppo. Può essere che saper scrivere in italiano una sentenza non sia determinante (del resto basta frequentare un tribunale e si capisce che non sia un requisito fondamentale), ma per una volta la polemica è tutta interna: non si può accusare la politica, un seguace o un emulo di Marco Pannella, o altra entità di “invasione di campo”: il commissario d’esame è un magistrato, il Pubblico Ministero milanese Luca Poniz, esponente di “Area”. Lo descrivono come severo; significa che non è giusto?

Poniz sostiene che i candidati sono impreparati, conoscono poco o ignorano la lingua italiana. Miccichè e Barillà non sono d’accordo, ma il loro NO non si basa su fatti; si tratta piuttosto di opinioni, deduzioni al massimo: «Ritengo improbabile, in base alla semplice legge dei numeri, che oltre 3.500 giovani dichiarati non idonei all’ultimo concorso abbiano commesso errori ortografici o gravi errori di diritto. Certamente possono esserci stati molti casi di errori gravi, ma 3.500 sono davvero troppi», dice Miccichè. Come se “molti”, invece che “troppi” non sia già abbastanza. Aggiunge Barillà: «Credo che sia un giudizio ingeneroso e poco attento ai sacrifici soprattutto personali ed economici che sono stati sostenuti da tanti candidati. Il nostro concorso già da tempo si sta sempre più modulando come una selezione di secondo livello, voglio dire che spesso ci si possono accostare solo i giovani già avvocati o dottori di ricerca o funzionari in altre pubbliche amministrazioni dello Stato, che sono così riusciti a mantenersi per anni allenati nello studio. Alcuni di loro si formano anche nei nostri uffici, quindi mi domando se oltre al diritto di essere selettivi, abbiamo anche il dovere di interrogarci in ordine a quello che siamo stati in grado di trasmettere loro».

Siamo al “ritengo improbabile” di Miccichè, e all’ “ingeneroso” di Barillà. Poniz sostiene che nei compiti ci sono “errori di diritto e di grammatica”; e candidati che perfino “non sanno andare a capo”. È vero o no? Al di là degli arabeschi, la questione è tutta qui. Barillà, poi, si pone la domanda giusta: «Alcuni si formano anche nei nostri uffici, quindi mi domando se oltre al diritto di essere selettivi, abbiamo anche il dovere di interrogarci in ordine a quello che siamo stati in grado di trasmettere loro». Qualcosa non va per il giusto verso, la stessa Miccichè ammette: «Quelli che fanno errori di grammatica e sintassi non possono certamente essere promossi»; e Barillà: «Anche per noi non guasterebbe un ritorno sui banchi dell’umiltà».

In attesa che si chiarisca se Poniz sia draconiano, o solamente, coscienziosamente, diligente, un fatto non si discute: ci sono candidati per il delicato compito di amministrare la giustizia carenti in italiano. Sono laureati, non ragazzini usciti da un asilo cui si possono perdonare errori di grammatica e sintassi. Questa “ignoranza” non può essere esclusiva dei soli candidati per il concorso di magistratura. Se ignoranza c’è, non può che essere diffusa, presente in candidati per altre professioni e mestieri. Il ministro Bianchi dovrebbe almeno cercare di comprendere le dimensioni del fenomeno. E noi? Non ci resta che cercare rifugio, ancora una volta, nelle pagine dell’amato Leonardo Sciascia. Pre/veggente, nel suo ultimo racconto,

Una storia semplice, pone l’uno di fronte all’altro, il professore di italiano in pensione e l’alunno, diventato magistrato. «Posso permettermi di farle una domanda?…Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». In automatico si pensa alle carriere di tanti magistrati, a come si esprimono, alle loro sentenze; e subito un urlo liberatorio: dieci, cento, mille Poniz. Valter Vecellio

"E' grave che un commissario d'esame si esprima in questi termini". Flop concorso magistrati, colleghi e praticanti contro il pm Luca Poniz: “Candidati distrutti moralmente”, il rebus delle correnti…Ciro Cuozzo su Il Riformista il 30 Maggio 2022. 

“E’ grave che un commissario d’esame si esprima in questi termini, li ha distrutti moralmente. In tanti ci hanno chiamato perché si sono sentiti umiliati dalle parole del pm Luca Poniz“. A parlare è Claudia Majolo, presidente dell’associazione Unione Praticanti Avvocati dopo lo ‘show’ di uno dei 30 componenti della commissione d’esame dell’ultimo concorso in magistratura. Concorso per 310 posti in palio che ha visto appena 220 candidati su 3.797 superare la prova scritta, con una percentuale appena del 5,7%. Ma, oltre alle offese agli aspiranti magistrati, accusati di una “grande povertà argomentativa e linguistica”, di una “errori marchiani di concetto, di diritto, di grammatica” e, addirittura, di non “sapere andare a capo”, un problema molto serio, io l’ho imparato in terza elementare”, cosa c’è davvero dietro l’ecatombe del concorso bandito nel 2019 e slittato per due anni a causa del Covid?

Innanzitutto resta sempre attuale il sorteggio della stessa commissione d’esame dove il ruolo delle correnti gioca sempre un ruolo fondamentale. A tal proposito torna sempre utile ricordare quanto scritto da Luca Palamara e Alessandro Sallusti ne “Il Sistema”. “Non ci crederà, ma le correnti sono come una squadra di calcio: serve un buon vivaio, senza il quale non si va da nessuna parte. Non per nulla c’è la corsa, e non solo per il gettone economico, a fare il commissario nei concorsi per magistrati. A decidere è la terza commissione del Csm, cioè un organo lottizzato dalle correnti che a sua volta lottizza i commissari, e di questo sulla mia chat c’è ampia documentazione. Ciò serve, non solo ma anche, a garantire le raccomandazioni: basti pensare che con questo meccanismo nella mia consiliatura due figli di componenti del Csm sono diventa-ti magistrati”.

In una nota Upa esamina diversi aspetti da affrontare nell’immediato futuro. Innanzitutto, “appare ingeneroso fare generalizzazioni in forza delle quali i laureati italiani abbiano una “grave povertà argomentativa e linguista” e siano “incapaci di scrivere in italiano”. Tale affermazione risulta infondata, in quanto incolpa un sistema universitario che, seppur imperfetto, comunque fornisce agli aspiranti magistrati una preparazione teorica di base che consente loro – dopo una solida preparazione post-lauream – di avere buone possibilità di superare questo difficilissimo concorso”.

Secondo l’Upa “tale sistema universitario andrebbe invece implementato attraverso l’introduzione di percorsi specializzanti dedicati a chi voglia intraprendere la carriera di uditore giudiziario; tale percorso dovrà necessariamente prevedere veri e propri laboratori di scrittura e dovrà vedere approfondimenti mirati sulle materie oggetto delle prove scritte (e che sono essenziali per la formazione dell’aspirante magistrato). Allo stesso modo, occorre ridare una centralità al sistema universitario, valorizzando il ruolo delle Scuole di Specializzazioni per le Professioni Legali le quali andranno riformate sì che queste possano costituire un percorso formativo all’esito del quale l’aspirante candidato possa acquisire la preparazione teorico-pratica necessaria per superare l’ostica procedura concorsuale”.

Polemica anche sulle tracce d’esame che a distanza di 15 anni sono profondamente cambiate “diventando estremamente più complicate e iper-specialistiche. Se sino a 15 anni fa le tracce vertevano, essenzialmente, sui principi e sugli istituti generali del diritto civile, del diritto penale e del diritto amministrativo (conosciuti, si badi bene, anche da chi aveva una semplice solida e teorica preparazione universitaria) oggi è richiesto all’aspirante magistrato di essere un vero e proprio Funes el memorioso, ovvero sia un conoscitore di tutto lo scibile giurisprudenziale degli ultimi anni; ciò a discapito, evidentemente, della “capacità argomentativa” e “linguistica” del candidato che difficilmente potrà essere applicata laddove si discute della notissima giurisprudenza relativa alla servitù di mantenere una costruzione a distanza illegale da altra costruzione o dal confine e della configurabilità della medesima servitù in caso di immobile costruito abusivamente”. Da qui l’auspicio a “un serio dibattito rispetto alle proposte di riforma, più volte invocate dalla scrivente associazione e, peraltro, da tempo depositate ai competenti Ministeri, del corso di laurea in giurisprudenza e dello stesso concorso in magistratura”.

Critiche per le parole di Poniz e per l’eccessivo numero di bocciati sono arrivate la scorsa settimana anche da due colleghe: Loredana Micciché di Magistratura Indipendente (consigliera togata del Csm e consigliera di Cassazione) e Cinzia Barillà di Magistratura Democratica (magistrato di sorveglianza a Reggio Calabria). Entrambe, in una intervista a Repubblica, hanno criticato la commissione d’esame ritenendo “improbabile che oltre 3.500 giovani dichiarati non idonei all’ultimo concorso abbiano commesso errori ortografici o gravi errori di diritto”. Un “giudizio ingeneroso e poco attento ai sacrifici soprattutto personali ed economici che sono stati sostenuti da tanti candidati”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

La carica talentuosa delle donne al concorso per magistrati. Arturo Guastella su la Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Maggio 2022

Ammettiamolo. Le donne, malgrado numerosi episodi di discriminazione nel mondo del lavoro e altrove, sembrano avere una marcia in più, rispetto agli omologhi dell’altro sesso (noi maschietti, e perfino voi machi), per quel che riguarda l’applicazione nello studio e l’efficacia dei risultati nei concorsi pubblici. L’ennesimo esempio? La Magistratura italiana sembra vada sempre più colorandosi di rosa.

All’ultimo concorso per l’accesso alla toga, infatti, i cui orali si terranno a partire dal prossimo 27 giugno, sui 220 ammessi, ben 149 sono donne. E, poiché la selezione agli scritti è stata particolarmente severa (e non certo per colpa dei commissari), è quasi sicuro che tutti gli ammessi, diventeranno magistrati. E, inoltre, sui primi trenta classificati, le ragazze sono state venti. Come dire, insomma, che le future donne-magistrato oltre ad essere le più studiose, sono state anche quelle che meglio hanno assimilato le fondamenta giuridiche, tanto che qualcuna ha sfiorato addirittura il massimo dei voti per ogni singola prova di esame. Che era di 20 (mentre il minimo era 12), con la prima in assoluto, che fra le due prove di Diritto Penale e Diritto Civile, ha raggiunto i 31 punti.

Risultato ancora più rimarchevole, se si tiene conto dell’aurea mediocritas che ha caratterizzato gli scritti di questo concorso, dove sono stati 152 quelli che hanno riportato una votazione tra i 25 e 24 punti complessivi. E, del resto, dei 9.787 magistrati dei nostri tribunali, più della metà, 5.308 sono donne. Il cinquantaquattro per cento circa, cioè. Una professione relativamente recente, questa dei magistrati donne, che risale solamente al febbraio del 1966, mentre altrove (nei Paesi di lingua anglosassone) la carriera in magistratura alle ragazze era avvenuta qualche decennio prima.

Se fossi uno studioso della Bibbia (e non lo sono) mi verrebbe da dire che l’ingresso delle donne nell’esercizio della giurisdizione, aveva il sapore della predestinazione, visto che nel Libro dei Giudici, l’unica donna fra i giudici biblici, era Debora, che esercitò la sua funzione per quarant’anni, dal 1160 al 1121 avanti Cristo. E la sua sapienza giuridica fu talmente apprezzata, che nello stesso Libro Sacro, le viene dedicato un capitolo esclusivo. La Cantica di Debora, per l’appunto.

«Non ti pare che un’attesa di oltre tre millenni, sia stato un periodo piuttosto lungo?», esclama con un sorrisino ironico una mia amica giudice. «Tempi biblici», mi viene da ribattere. E, a proposito di anglosassoni, come non ricordare l’Oscar Wilde, e del suo «se fornite alle donne occasioni adeguate, le donne potranno fare di tutto». Torniamo, comunque, alle prove orali del concorso e al lavoro dei commissari per mandare ad esercitare la giurisdizione non solo e non tanto i più preparati, ma anche coloro che alla preparazione giuridica, sappiano accoppiare anche un opportuno equilibrio di giudizio. «Vorrei - mi confessa uno dei commissari di esame, il magistrato Nicolangelo Ghizzardi - che, oltre a saggiare il grado di preparazione dei candidati, poter raccontare loro le difficoltà e la solitudine di una professione, e di come, spesso, essi si troveranno ad operare in contesti ostili, costretti a prendere decisioni impopolari, delle quali dovranno rispondere prima di tutto alla legge, ma anche alle loro coscienze».

E il dottor Ghizzardi, di trincee malavitose, nella sua lunga carriera di magistrato inquirente, ne ha conosciute parecchie, visto che è stato la punta di diamante, insieme all’attuale Procuratore Generale della Corte di Appello del Tribunale di Lecce, Antonio Maruccia, nel processo, denominato «Ellesponto», che riuscì letteralmente ad azzerare un’agguerritissima organizzazione criminale che, nella provincia di Taranto, tra gli anni ’80 e i primi anni del 1990 aveva letteralmente seminato le strade della città e della provincia di morti ammazzati. Qualcosa come 169 delitti. Sono convinto che al dottor Ghizzardi, questo inciso granguignolesco dispiacerà non poco, dato che non era l’argomento della nostra conversazione e che egli ha sempre ritenuto che il magistrato dovesse rifuggire dalle esposizioni mediatiche, convinto come è che sono le aule dei tribunali e soltanto esse, deputate ad ospitare i processi.

Tornando, perciò al concorso in atto e spulciando fra i nomi dei candidati ammessi agli orali, fa specie constatare che soltanto otto sono i pugliesi futuri magistrati e un paio i lucani. Qualcosa, perciò, non ha funzionato, o i commissari sono stati particolarmente severi e selettivi? Forse qualcosa bisognerebbe rivedere nelle Facoltà di Giurisprudenza, per alzare di un tono non solo i livelli di preparazione, ma anche le attitudini ai testi scritti, visto lo strame che molti candidati hanno fatto della lingua italiana e della sintassi. In quanto all’eccessiva severità della commissione, è un bene che essi, gli esaminatori, l’abbiano adottata, in quanto in una professione come quella del magistrato, l’approssimazione è forse l’autentico «male oscuro» di un corretto esercizio della giurisdizione.

Così, quando dal prossimo 27 giugno al 5 agosto, i futuri magistrati risponderanno alle domande degli esaminatori, abbiano ben presente di stare per imboccare una via niente affatto agevole, in quanto il loro compito sarà quello di affrontare e sconfiggere i nemici più acerrimi della società civile. Di tutti noi, perciò. E ricordino, se possono, questa frase assai poco altisonante di Paolo Borsellino: «Quando alla fine del mese, ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se le lo sono guadagnato».

E il giudice fu smentito dai giudici. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.  

Le correnti della magistratura, in perenne contrasto, si sono trovate d’accordo contro il commissario d’esame che aveva criticato gli aspiranti magistrati in gran parte bocciati al concorso.

Non c’è che da condividere l’editoriale di Antonio Polito, uscito ieri sul Corriere, a proposito dell’istruzione che offre la scuola italiana ai suoi giovani, se molti quindicenni, come ha denunciato qualche giorno fa Save the Children, non comprendono i testi che leggono. E va condiviso anche l’allarme che si è aggiunto proprio martedì, quando è stato comunicato l’esito catastrofico del concorso per la magistratura, superato da soli 220 candidati su quasi quattromila. La stragrande maggioranza è stata bocciata nella prova scritta non perché, come si diceva una volta, non ha studiato abbastanza, ma per ragioni ben più gravi: e cioè perché non dispone di capacità argomentative e linguistiche, mostrando nella scrittura «schemi preconfezionati, senza una grande capacità di ragionamento, scarsa originalità, in alcuni casi errori marchiani di concetto, diritto e grammatica».

Dunque, non si tratta (solo né soprattutto) di carenze tecniche. Tuttavia, lo sfacelo non è tale da turbare né l’ala conservatrice delle toghe (Magistratura Indipendente) né l’ala progressista (Magistratura Democratica), che pur essendo in perenne battibecco si sono trovate per una volta concordi nel denunciare la severità del commissario d’esame Luca Poniz. Come quei genitori che non trovano di meglio che prendersela con il professore quando il figlio viene rimandato. Così, ieri s’è udito a destra lo squillo di trombetta minimizzante e a sinistra ha risposto un analogo squillo con il comune sospetto che si sia trattato di un giudizio «ingeneroso», di un «rigore incomprensibilmente estremo» e con accenti anche ironici («se il problema è la divisione in sillabe ci sono i correttori automatici...»). La prima regola a cui dovrebbero attenersi i magistrati sarebbe quella di rispettare le sentenze dei giudici. E questo non è proprio un bell’esempio (per i futuri colleghi) né quanto a etica professionale né quanto ad argomentazione.

Il concorso per magistrati è un disastro: passa solo il 5 per cento. Il Dubbio il 20 maggio 2022.  

Non è la prima volta che un bando per accedere all'ordine giudiziario finisce in una «strage di candidati». Era già accaduto nel 2008.

«Sono stati pubblicati nel sito del ministero della Giustizia alcuni avvisi riguardanti il concorso per esami a 310 posti di magistrato ordinario, indetto con decreto del 29 ottobre 2019 e pubblicato nella G.U. n. 91 del 19 novembre 2019 – 4a serie speciale – concorsi ed esami. In particolare, si comunica che è possibile da oggi, 20 maggio 2022, prendere visione dei risultati delle prove scritte, inserendo nella form disponibile online i dati relativi al proprio codice fiscale e al numero di tessera» si legge sul sito del ministero della Giustizia.

«Il candidato all’atto della consultazione vedrà il voto numerico in caso di idoneità, oppure ‘NI’ in caso di non idoneità. Se il campo “prova annullata” è valorizzato con “annullata”, apparirà la dicitura Prova annullata. I risultati delle prove scritte potranno essere conosciuti anche consultando l’elenco affisso all’albo» prosegue via Arenula.

Dei 3.797 che si erano presentati l’estate scorsa per sostenere le prove scritte, sono stati ammessi all’orale solo in 220, uno striminzito 5,7% , come certifica il ministero della Giustizia sul suo sito. I motivi? strafalcioni di diritto e pure di italiano commessi da ambiziosi laureati in giurisprudenza che aspirano a diventare giudici e pubblici ministeri.

Secondo una stima del Csm, mancherebbero più di mille magistrati. Una carenza di cui si sente il peso proprio mentre gli uffici giudiziari sono chiamati a realizzare gli ambiziosi obiettivi del Pnrr: il taglio del 40% dei processi civili e del 25% di quelli penali. Non è la prima volta che un bando per accedere all’ordine giudiziario finisce in una «strage di candidati». Era già accaduto nel 2008 , in occasione di un maxi-concorso che avrebbe dovuto assicurare alla magistratura una decisa iniezione di forze nuove, con 500 giudici in più.

Le prove orali avranno inizio il prossimo 27 giugno 2022, presso il Ministero della Giustizia, secondo l’ordine di estrazione delle Corti di Appello:

ROMA

VENEZIA

BARI

CAMPOBASSO

PERUGIA

CATANIA

BOLOGNA

FIRENZE

TRENTO

TRIESTE

SALERNO

CATANZARO

NAPOLI

ANCONA

MILANO

PALERMO

CALTANISSETTA

L’AQUILA

GENOVA

BRESCIA

LECCE

MESSINA

TORINO

CAGLIARI

REGGIO CALABRIA

POTENZA

Svarioni sintattici e pandette riscritte all’esame dei giudici. Non tanto e non solo per carenze didattiche, quanto per non valutare, anche per iscritto, la preparazione sintattica degli studenti. Arturo Guastella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Aprile 2022.

Siccome egli è di buone letture, mi ha confessato che, quando al termine della giornata, ha finito di correggere alcuni compiti degli aspiranti magistrati, si sente come Thomas Penson de Quincey e la sua «Confessione di un Mangiatore d’Oppio». Solo che la sua «intossicazione» non è dovuta al laudano o al derivato del papavero bianco, come per lo scrittore inglese, ma ad una «overdose» di svarioni sintattici, di interpretazioni assai personali dei Codici e delle Pandette e, persino, ad una loro visione olistica e, non raramente, ad una concezione filosofica della legge. Così, i 29 componenti della Commissione giudicatrice, che al Ministero di Grazia e Giustizia, di via Arenula, a Roma, alle prese, in questi mesi, con gli elaborati dei circa 5.000 laureati in legge che si sono presentati per i 310 posti messi a concorso, per accedere ai ruoli della magistratura italiana, alla fine della giornata, si sentono intronati come se fossero appena usciti da una «fumeria d’oppio» di Shangai.

Non hanno neppure la voglia, i 21 consiglieri di Cassazione, i 5 docenti universitari e i 3 avvocati di lungo corso e di grande esperienza che compongono la Commissione, di scherzarci poi troppo su questi «florilegi» lessicali e procedurali che «allietano» le loro ore di lavoro e che, malgrado ogni buona intenzione, li costringono prendere le cesoie e a sfoltire a destra e a manca, fino a prevedere che non tutti i posti disponibili verranno occupati. Infatti, dei 5000 giovani che si sono seduti sui banchi, solo 3797 alla fine del tempo concesso, sono riusciti a consegnare i loro compiti. Se, tanto per fare un esempio, i commissari avevano ritenuto che «fioriero», invece di foriero, potesse essere stato un errore di distrazione, o persino un anacoluto, quando nel rigo successivo, si sono imbattuti nello stesso termine botanico, allora è apparso chiaro che per candidato la linguistica soffriva di una qualche grave forma di anossia. Ma la mannaia dei commissari non è mai calata per un qualche incidente sintattico, quanto per carenze intrinseche della conoscenza giuridica o per alcune sue davvero originali interpretazioni. Le tracce del concorso erano di natura penale e di natura civile.

A proposito del diritto civile, si proponeva questo trinomio: danno biologico, danno morale e personalizzazione del danno. Per un candidato, «la personalizzazione non costituisce l’erezione (sic!) di opposti stili di vita, quindi anche del danno». Altra perla sulla individuazione del «danno morale». E, qui, un altro candidato, ha scritto una pagina intera sul significato etico del termine «morale», da far invidia all’Etica Nicomachea di Aristotele o ai Minima Moralia di Theodor W. Adorno. Chiedendosi e chiedendo ai commissari, se non fosse vero che la morale sia assolutamente soggettiva, tanto che per qualcuno può essere morale, quello che qualche altro giudica immorale, e che, perciò, il giudice avrebbe dovuto districarsi tra i vari concetti di etica e, magari riferirsi al senso comune, prima di giudicare l’entità del danno morale. Un altro «centone» particolarmente originale a proposito del Diritto Penale. «In fin dei conti è la nostra stessa Costituzione che ci ricorda all’art. 27 che la responsabilità penale è personale.

E, tuttavia, il dubbio ci sovviene quando andiamo a leggere la maggior parte degli articoli del Codice Penale, in cui si ribadisce come viene punito, chiunque commetta un certo delitto, spersonalizzando, quindi, il tutto». Per qualche altro, poi, e sempre a proposito di Costituzione, «essa, la Costituzione è da considerarsi, figuriamoci se non lo fosse, una legge…» E questi esempi, sono una parte infinitesima del’oppio e del laudano che sono costretti a fumarsi i membri della commissione giudicante. Nessuna meraviglia se, perciò, la media di coloro che riescono a superare gli scritti è meno del sei per cento. Ed è quasi sicuro, perciò, che, con questo trend (andazzo), agli orali andranno circa 260 candidati, mentre i posti messi a concorso, erano 310.

Come mai, viene da chiedersi, questo «fioriero», di impreparazione? E quelle scuole di preparazione alla Pubblica Amministrazione, che da qualche tempo, sono «fiorite» come funghi, e che si propongono di portare i candidati ad entrare in Magistratura, ad un livello tale di preparazione, da fare loro superare ad occhi chiusi gli esami? Basta pagare cinque o seimila euro per un corso simil preparatorio, e, poi, se va male, la colpa è stata di quelli che non sono stati attenti alle lezioni.

Ora per il prossimo concorso in Magistratura del prossimo mese di luglio, hanno fatto domanda oltre quindicimila giovani laureati, con quel che segue di centinaia di migliaia di esborso in euro delle loro povere famiglie. Anche le Facoltà di Giurisprudenza, tranne pochissime, sono chiamate, tanto per restare in argomento, sul banco degli imputati. E non tanto e non solo per carenze didattiche, quanto per non valutare, anche per iscritto, la preparazione sintattica degli studenti. C’è, tuttavia, una nota positiva in questa sorta di «Antologia di Spoon River».

Quella, cioè, che i prossimi magistrati, saranno davvero ottimamente preparati. E ai giovani laureati in Giurisprudenza, che per entrare i Magistratura, si accingono a frequentare una scuola di preparazione alla Pubblica Amministrazione, un ammonimento di Catone, «Ne pudeat, quae nescieris, te velle doceri…», «non avere vergogna di pretendere che ti venga insegnato quello che non sai».

Giovanni Longo per lagazzettadelmezzogiorno.it il 14 aprile 2022.

Conoscere la dottrina e sapersi districare nei meandri della giurisprudenza non basta. Addio solo teoria, benvenuto approccio più pratico alle professioni legali. L’Università degli Studi di Bari Aldo Moro lancia un sasso nello stagno con il nuovo «corso di scrittura giuridica: tecnica, stile e ragionamento nel sincretismo interdisciplinare». Ciò che dovrebbe essere il minimo sindacale per chi parla o parlerà attraverso atti o sentenze, saper scrivere, a volte viene dato erroneamente per scontato.

Prendiamo il clamoroso caso dell’ultimo concorso in magistratura con la stragrande maggioranza degli aspiranti giudici bocciata per «lacune tecniche», ma anche per «carenze grammaticali». Da un lato i limiti di una formazione universitaria pensata per essere molto teorica e poco pratica. Dall’altro studi legali nei quali si dedica sempre meno tempo a formare gli avvocati del futuro. Il risultato è che la «scrittura giuridica», ciò che dovrebbe essere la portata principale, invece non è nemmeno prevista nel menu del diritto.

Di qui lo sforzo del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro che ha attivato il corso per le competenze trasversali su proposta della prof.ssa Carmela Ventrella. «Abbiamo accolto le sollecitazioni degli studenti che devono imparare a utilizzare la scrittura giuridica qualunque sarà il loro futuro professionale - spiega la prof. Ventrella, docente responsabile del corso di scrittura giuridica nonché coordinatrice dei corsi di laurea del Dipartimento di Giurisprudenza -. Crediamo fermamente che iniziative come queste, pratiche e trasversali, in continuità con l’innovazione didattica messa in campo dal Dipartimento negli ultimi anni, rappresentino un’occasione per rispondere all’esigenza segnalata dal mondo delle professioni legali di maggiori competenze tecnico-pratiche dei laureati in Giurisprudenza».

Se uno studente in Giurisprudenza non ha l'opportunità, nel suo corso di studi, di cimentarsi con un atto perché i programmi non lo prevedono, si cerca di non farlo rimanere a digiuno grazie ad attività extra curricolari come questa. L'obiettivo è «offrire gli strumenti di base per redigere pareri e atti giudiziari nei settori disciplinari coinvolti, affinando lo stile e il ragionamento giuridico» con tanto di esercitazioni guidate pratiche. Del resto, gli studenti «non sanno scrivere perché non ne hanno l'opportunità».

Cinque i settori: area civilistica (prof. Domenico Dalfino), area amministrativistica (prof. Agostino Meale), area penalistica (prof. Filippo Bottalico), area di diritto matrimoniale canonico e concordatario (prof. Carmela Ventrella), area giuslavoristica (prof. Roberto Voza). Il taglio è interdisciplinare, con il coinvolgimento di avvocati, notai e magistrati. «L’iniziativa risponde all’esigenza segnalata dal mondo delle professioni legali di maggiori competenze tecnico-pratiche dei laureati in Giurisprudenza».

«Accogliamo con grandissimo favore l’iniziativa del corso di scrittura giuridica - osserva il presidente dell'Ordine degli avvocati di Bari Serena Triggiani -. L’insegnamento non solo teorico ma anche pratico permetterà alle studentesse e agli studenti di giurisprudenza un percorso professionalizzante sin dal tempo dello studio universitario. Unendo le competenze e le passioni, sin dal primo momento, formeremo nuove generazioni di giuristi e difensori dei diritti, consapevoli del proprio ruolo professionale e sociale», conclude Triggiani.

Se le aspiranti toghe cadono sull'italiano. Massimiliano Parente il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Già la giustizia in Italia è messa male, ma non possiamo neppure avere troppa fiducia nel futuro, perché sentite questa: nell'ultimo concorso per 310 posti in magistratura, solo il 6% è risultato idoneo. 

Già la giustizia in Italia è messa male, ma non possiamo neppure avere troppa fiducia nel futuro, perché sentite questa: nell'ultimo concorso per 310 posti in magistratura, solo il 6% è risultato idoneo. Mica è finita qui: sono stati promossi 88 e bocciati ben 1.532 candidati a causa dell'italiano. Proprio così, non perché non sapevano codici e leggi, ma perché non sapevano leggere e scrivere. A parte i promossi, un dubbio ti viene, perché significa che hanno superato tranquillamente il liceo e l'università per arrivare al concorso senza sapere la nostra lingua (figuriamoci un'altra). Come avranno fatto a superare gli esami di giurisprudenza? In teoria avrebbero dovuto essere ancora all'università, se non al liceo, ma si sa che si tende a non bocciare più nessuno.

Sarei curioso, a questo punto, di verificare il livello di italiano anche dei promossi. Chi si ricorda degli anni Novanta, ha memoria di colui che era il modello per coloro che volevano fare i Pubblici Ministeri, diciamo non proprio un fine dicitore e tuttavia un eroe nazionale, mi riferisco ovviamente a Antonio Di Pietro (poi candidatosi e eletto dalla parte politica opposta a quella su cui indagava, un caso). Che c'azzecca? Diceva sempre. Che c'azzecca? Direte voi. Un po' c'azzecca, visto che nella magistratura sono in mano le vite dei cittadini.

Anche i più giovani possono farsene un'idea, YouTube è piena di video di quel periodo storico. Tra i più famosi, un interrogatorio fiume a Bettino Craxi, un vero leader, il quale a differenza di chi lo interrogava spiccava come uomo di grande eloquio e cultura. Immagino che Di Pietro abbia tranquillamente superato un concorso che all'epoca doveva essere più difficile dell'attuale, visto che si leggono meno libri, ancor meno quotidiani, e la grammatica di ogni commento sui social della maggior parte delle persone, anche note, non supererebbe un esame di quinta elementare. Bettino, giustamente, scappò a Hammamet piuttosto che essere processato nel pianeta delle scimmie (oggi, visto come vanno le cose, ce ne rendiamo più conto).

Resta un problema: di tutti questi giovani laureati aspiranti magistrati bocciati perché ignoranti in italiano cosa ne facciamo? Anche perché se sono ignoranti in italiano figuriamoci sul resto. Un consiglio ce l'avrei: darsi alla politica. Non ci sono esami da superare, e peggio si parla meglio è, sia per farsi capire dagli elettori che per essere eletti, twittare e andare in tv. Massimiliano Parente

Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

Vale anche per i magistrati.

 

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA PUGLIA

SEZIONE DISTACCATA DI LECCE

RICORSO PER L’ANNULLAMENTO

della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato

E CONTESTUALE ISTANZA DI SOSPENSIONE

dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati

L. 6 dicembre 1971 n. 1034

del dr. Antonio Giangrande,                                                                                    RICORRENTE,

nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via A. Manzoni, 51, C. F. GNGNTN63H02A514Q, rappresentato e difeso dall'Avv. Mirko Giangrande, presso lo Studio Legale del medesimo difensore in Avetrana, via A. Manzoni, 51, C. F. GNGMRK85A26E882V, tel/fax  099/9708396 elettivamente domiciliati, come da mandato speciale in calce del presente atto,

contro

Ministero della Giustizia,                                                                                           RESISTENTE, in persona del Ministro pro tempore On. avv. Angelino Alfano;

 

(...) Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

La commissione di esame di avvocato presso il Ministero della Giustizia, sessione 2010, ha definito i seguenti criteri per la valutazione degli elaborati, stabiliti dall'articolo 1-bis, comma 9, della legge 18 luglio del 2003 e fissati nella seduta del 09.12.2010 dalla Commissione centrale presso il Ministero della Giustizia, di recepimento della circolare ministeriale del 8 novembre 2010:

1.     Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi;

2.     Capacità di soluzione di specifici problemi;

3.     Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari;

4.     Padronanza delle tecniche di persuasione.

L’esame scritto di avvocato presenta insidie particolari. Infatti è ben diverso dagli esami universitari ed allo stesso tempo è molto lontano da ciò cui abitua la pratica: si trova in un limbo in cui si chiede al candidato di riesumare le nozioni istituzionali dei manuali universitari ed allo stesso tempo di superare l’astrattezza della teoria con applicazione a tracce d’esame che, pur se tratte dalla giurisprudenza, non possono che essere stilizzate. Di conseguenza generalmente manca nel candidato una preparazione specifica ad un simile genere di prova.

Così come tale preparazione specifica manca al singolo commissario d’esame.

Sul punto si può osservare che il parere non è un atto, in cui si perorano le ragioni dell’assistito, prendendo in considerazione le argomentazioni della controparte solo per contestarle. Tale differenza emerge chiaramente dalla lettura della lettera e) del prima riportato art. 1 comma 9, allegato della legge 180/2003, per cui le tecniche di persuasione sono elementi rilevanti solo ai fini della valutazione dell’ultima prova d’esame.

Il parere però non è nemmeno una mera rassegna degli orientamenti giurisprudenziali esistenti, di cui riportare acriticamente la massima. Infatti il semplice collage dei dicta pretori non dimostra capacità alcuna, soprattutto se si tiene conto che il candidato si avvale di un codice commentato.

Il candidato, quindi, ha diritto ad essere giudicato, da una commissione che garantisca l’effettiva competenza a poter svolgere il suo compito. Questa certezza la può dare solo una commissione in cui vi facciano parte esperti di discipline che possano verificare e giudicare l’elaborato del candidato, al di là di ogni ragionevole contestazione. Tenuto conto altresì che si chiede al singolo candidato di avere una sorta di competenza tale da soddisfare le verifiche di più commissari esperti nelle varie materie.

Ma proprio questo è il punto: i commissari d’esame non hanno la preparazione professionale per poter svolgere il ruolo di cui sono incaricati. Anche perché c’è una lacuna di fondo.

Si insiste nel dire sulla necessità di "formare i formatori". Alcuni Consigli dell’Ordine degli Avvocati hanno previsto espressamente nello Statuto delle erigende scuole la presenza obbligatoria di un "modulo" di metodologia giuridica accanto alle materie istituzionali. Modulo il cui insegnamento è stato affidato a studiosi e docenti di filosofia del diritto. La metodologia, infatti, comprende (secondo la prospettiva classica) lo studio delle discipline finalizzate a produrre "chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione […] capacita di soluzione di specifici problemi […] padronanza delle tecniche di persuasione" (si cita dall’art. 1 bis, 9° comma, della L.180/2003 sui criteri di valutazione della prova scritta all’esame di Stato per la professione d’avvocato). In questo senso, dunque, l’inserimento a Statuto di un modulo didattico di metodologia risponde ai precisi requisiti del legislatore circa le abilità richieste al principiante avvocato.

Molto più di questo, però, vale l’osservazione per cui la metodologia giuridica non può limitarsi a rappresentare una fra le materie impartite nella scuola, poiché, se quest’ultima vuole davvero ispirarsi al modello non occasionale del "ginnasio forense", dovrà assumere la metodologia come struttura e non soltanto come contenuto inserito in un contesto ancora ‘tradizionale’ (sostanzialmente mutuato dalle Facoltà giuridiche). Il che significa che il “frame” delle diverse unità didattiche (di civile, di penale, di amministrativo ecc.) dovrà avere natura metodologica (questione della "formazione dei formatori" e della meta-didattica).

Per quanto riguarda la corretta applicazione di sintassi e grammatica, oltretutto, si abbisogna di un docente delle discipline umanistiche, nel campo delle lettere, competente specificatamente su vari ambiti: analisi logica; conoscenza e comprensione delle varie funzioni logiche; comprensione e riconoscimento delle diverse funzioni logiche nella frase semplice e nel discorso; ortografia e punteggiatura; conoscenza morfologica delle regole ortografiche e di punteggiatura, padronanza dell’ortografia e della punteggiatura nella scrittura; viaggio tra forma e significato delle parole; conoscenza delle forme di derivazione e alterazione delle parole; conoscenza e comprensione del vocabolario; conoscenza delle varie relazioni di significato tra le parole; abilità di base della scrittura di un testo e tecniche narrative essenziali; abilità di preparazione, organizzazione coerente di idee su un determinato tema, abilità di espressione chiara e pertinente, abilità tecniche narrative essenziali, abilità essenziali di generi narrativi diversi, abilità essenziali di descrizione e riflessione.

La commissione di esame, così come è composta, fatta esclusivamente da soggetti pratici, più che teorici, oltretutto elementi formatisi con discipline giuridiche, non garantisce la totale efficienza ed attendibilità nella verifica degli elaborati.

I Commissari che hanno corretto i compiti dell’istante sono 2 magistrati e 2 avvocati ed un professore di diritto costituzionale.

I Commissari nominati soddisfano solo le aspettative dei principi indicati al punto 3, (attinenza agli istituti giuridici), restando sguarniti i restanti punti, propri dei professori di lettere, filosofia e in discipline della comunicazione.

Nel caso di specie i commissari nominati, alla mancanza di tali soggetti professionali, figure indispensabili, hanno ovviato, intervenendo con giudizi impropri e spesso errati.

Con la metodologia adottata ogni errore evidenziato deve essere motivato, per poter essere verificato da personale esperto. Qui non vi è alcun errore né vi è alcuna motivazione per poter vagliare il grado di incisività e fondatezza dell’emendamento.

Il recente intervento della Corte Costituzionale, che abilita il solo voto numerico in virtù del “Diritto Vivente”, non intacca un approccio diverso al problema. Il giudizio sintetico, abilitato dalla Corte, impedisce l’indagine nel merito della decisione definitiva presa, che diventa sunto delle risultanze rese per i vari criteri di valutazione, ma non può mancare la motivazione agli emendamenti ed i rilievi che toccano la stessa prova scritta. Si deve valutare la competente Commissione, nei casi di valutazione negativa, ove non sussista l’obbligo della motivazione finale, la quale è costretta ad un più attento esame degli elaborati, al fine di giustificare in maniera adeguata e puntuale il proprio operato, suscettibile di essere sottoposto al vaglio dell’Autorità giurisdizionale, il che sicuramente rafforza l’osservanza del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Costituzione.

Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione. (…)

(ANSA il 2 febbraio 2022) - Resta molto bassa la percentuale degli idonei al concorso per 310 posti in magistratura, bandito nel 2019 ma le cui prove scritte a causa della pandemia si sono tenute solo lo scorso luglio. E' pari al 5,9% come risulta dai dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia.

Sinora la Commissione esaminatrice ha corretto più della metà degli scritti: 2152 su 3797, in base ai dati aggiornati al 31 gennaio. I "promossi" sono solo 127. Se il trend dovesse proseguire, il rischio concreto è non riuscire a coprire i posti banditi. Un problema non nuovo e che "deve essere affrontato", come ha sottolineato in più occasioni la ministra della Giustizia Marta Cartabia, lanciando l'allarme sulla formazione degli aspiranti magistrati.

I numeri che imbarazzano. Concorso magistratura, flop dei candidati: idonei meno del 6%, l’ostacolo è l’italiano. Fabio Calcagni su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Risultati e numeri da mettersi le mani nei capelli. Sono quelli che pubblica oggi il ministero della Giustizia del concorso per 310 posti in magistratura, bandito nel lontano 2019 ma le cui prove scritte, a causa della pandemia di Coronavirus, si sono tenute solamente nel luglio scorso.

La percentuale dei candidati idonei è infatti clamorosamente bassa: solo il 5,9% dei partecipanti, come risulta dai dati pubblicati dal ministero.

Ad oggi la Commissione esaminatrice ha corretto più della metà degli scritti: 2152 su 3797, in base ai dati aggiornati al 31 gennaio: il risultato è che i “promossi” sono solamente 127.

Se i numeri e il trend dovessero confermarsi anche sui restanti 1600, il rischio per il dicastero guidato da Marta Cartabia è quello di non riuscire a coprire i posti banditi per coprire le falle sistemiche del mondo giustizia. Un problema che la Guardasigilli aveva posto anche negli scorsi mesi e che “deve essere affrontato”, aveva sottolineato la Cartabia lanciando l’allarme sulla formazione dei magistrati del futuro.

Come ricorda l’Ansa, le problematiche riguardanti le carenze degli aspiranti magistrati emergono con maggiore forza facendo un confronto con l’esito del concorso, anche questo bandito nel 2019, per 400 posti da notaio. L’altro concorso nel campo della giustizia ha visto risultati ben diversi: la correzione delle prove scritte dei 1577 candidati (iniziata il 18 gennaio) ha visto sei idonei sui 41 elaborati esaminati al 31 gennaio. Si tratta dunque del 17%, percentuale più che doppia rispetto a quella dei promossi tra gli aspiranti magistrati.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Il concorso per magistrati? Un disastro: a rischio la copertura dei posti. L'esame per aspiranti togati è una carneficina: secondo i dati di Via Arenula, i candidati promossi sono solo 127, il 5,9 di quelli esaminati. Valentina Stella su Il Dubbio il 03 febbraio 2022.

I dati sul concorso per l’accesso in magistratura stanno restituendo un quadro allarmante della preparazione degli aspiranti togati: come riportato dal sito del Ministero della Giustizia, è bassissima la percentuale degli idonei al concorso per 310 posti, bandito nel 2019 ma le cui prove scritte, a causa della pandemia, si sono tenute solo lo scorso luglio.

Su 2152 compiti corretti, solo 127 sono stati promossi, ossia il 5,9% di quelli esaminati.  Sinora la Commissione esaminatrice ha corretto più della metà degli scritti, in base ai dati aggiornati al 31 gennaio. La scorsa estate si erano presentati per sostenere le prove 5827 candidati ma consegnarono in 3797. Il tema estratto per il diritto civile riguardava il «danno biologico, danno morale e personalizzazione del danno», quello per diritto penale la «natura della responsabilità dell’ente per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio». Se il trend così alto di bocciature dovesse proseguire, il rischio concreto è di non riuscire a coprire i posti banditi.

A mettere in evidenza le dimensioni del problema è anche il raffronto con l’esito di un altro concorso molto selettivo: quello per 400 posti da notaio, bandito nel 2019. La correzione delle prove scritte, consegnate da 1577 candidati, è cominciata il 18 gennaio di quest’anno, riferisce l’Ansa. E alla data del 31 gennaio scorso su 41 elaborati esaminati gli idonei sono risultati 6, cioè il 17%. Una percentuale più che doppia rispetto a quella dei promossi tra gli aspiranti magistrati. Un problema non nuovo e che «deve essere affrontato», ha sottolineato in più occasioni la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Preoccupazione sulla formazione degli aspiranti magistrati è stata espressa anche dal primo Presidente di Cassazione Curzio che, all’ultima inaugurazione dell’Anno giudiziario, ha sottolineato: «Le ultime esperienze concorsuali (per l’accesso alla magistratura, ndr) mostrano una costante difficoltà nel coprire tutti i posti banditi, facendo sorgere il ragionevole dubbio che molti corsi universitari non riescano a fornire le basi per il superamento del concorso».

D’altra parte nelle scorse settimane, Il Dubbio aveva affrontato la questione con la Consigliera del Cnf Francesca Sorbi e con il professor Giovanni Pascuzzi. Era emerso che la riflessione va ricondotta in quella più ampia sulla preparazione del laureato in giurisprudenza ad affrontare i concorsi pubblici e che bisogna porsi una domanda fondamentale:  i corsi di laurea in Giurisprudenza non sono più quelli di una volta oppure non sono ancora ciò che dovrebbero essere? Proprio a tal proposito il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università degli studi di Milano, consigliere della ministra della Giustizia e componente del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, parlando al Dubbio aveva auspicato una riforma del corso di laurea in legge «prevedendo esercitazioni e prove scritte obbligatorie nelle varie materie, a partire da quelle oggetto delle prove scritte nel concorso per magistratura e nell’esame di avvocato. La didattica per le professioni legali e per i concorsi o esami di abilitazione non può essere estranea all’università, a quella pubblica in specie, ed essere rimessa a corsi privati, come oggi per lo più avviene».

La necessità di un cambiamento è condivisa anche dall’Unione Praticanti Avvocati che, con la Presidente Claudia Majolo, fa sapere che nei mesi scorsi si sono svolti incontri istituzionali presso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca duranti i quali è stata condivisa la proposta di riforma. Secondo l’Upa, in affiancamento alla didattica tradizionale, occorre introdurre dei veri e propri laboratori di scrittura. «In tali laboratori – scrive Majolo in una nota –  lo studente sarà chiamato a redigere in prima persona pareri e atti giudiziari, così da apprendere le migliori tecniche di scrittura. Inoltre, si è proposto di creare delle “cliniche legali”, permettendo agli studenti di confrontarsi e affrontare – sotto la guida e la responsabilità del docente – dei casi concreti». Con riguardo alla specializzazione, invece, la proposta di Upa «prevede la rimodulazione del corso di laurea in due momenti: un percorso triennale comune e un biennio di specializzazione, strutturato a seconda del percorso che lo studente decide di intraprendere».

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ignoranti ed avvocati.

Esame da avvocato, la nomina delle toghe in commissione è un “caso”. Secondo il presidente della Corte d’appello di Milano Giuseppe Ondei i magistrati dovrebbero essere "esonerati" parzialmente dalle loro attività. Dal momento che la loro partecipazione nelle commissioni rischia di impattare sui processi. Giovanni M. Jacobazzi. su Il Dubbio il 15 novembre 2022.

L’esame di abilitazione alla professione forense o, più comunemente, ‘l’esame avvocati’ torna ancora una volta a far discutere. Questa volta, però, la discussione non attiene le modalità con cui verranno effettuate le prove (solo orali), in calendario a partire dal prossimo 16 gennaio, bensì i criteri per la composizione delle varie commissioni d’esame, in particolare per quanto riguarda la componente “togata”.

La materia è regolata da un regio decreto del 1933, più volte modificato in questi anni, e prevede che i magistrati vadano ad “integrare” le commissioni nominate nei vari distretti. Al momento i magistrati che compongono tali commissioni non hanno alcun esonero dalla normale attività lavorativa. L’effetto di tale disposizione obbliga i capi degli uffici ad effettuare una rotazione dei magistrati destinati a farne parte, per evitate che ci possano essere, come affermato in una circolare del Csm del 2017, conseguenze sui processi. In altre parole, va limitata al massimo l’incidenza che la partecipazione dei magistrati alla commissione può avere “sul servizio giustizia”.

La circolare del 2007 del Csm sottolinea poi che la partecipazione alla commissione d’esame costituisce un “legittimo impedimento allo svolgimento delle udienze” a cui si può ovviare con l’istituto della “supplenza”. Tali obblighi, come ricordato dal presidente della Corte d’appello di Milano Giuseppe Ondei, che in questi giorni sta provvedendo alla nomina delle toghe che faranno parte della commissione nel distretto del capoluogo lombardo, determinano per i magistrati una inevitabile sottrazione del tempo da loro “dedicato allo svolgimento dei processi”. Di fatto si crea un “doppio lavoro” per il magistrato rispetto al collega che non fa parte della commissione e che può contribuire a creare “arretrato”.

Per evitare allora una sperequazione fra chi fa parte della commissione e chi non vi fa parte, per Ondei sarebbe necessario un esonero “parziale” dalle attività per i magistrati che fanno parte delle commissioni d’esame avvocati. Ai fini dell’esonero serve però un provvedimento formale del Csm. Non potendo in autonomia il presidente provvedere in tal senso, nei giorni scorsi Ondei ha dunque scritto un quesito formale a Roma.

Diverso scenario, invece, per le toghe che compongono la commissione d’esame per il concorso in magistratura le quali per tutta la durata delle prove sono esonerate dal compimento di qualsiasi atto giudiziario. Sul punto si potrà obiettare che in quest’ultimo caso si tratta di un esame per un pubblico concorso e non di un esame per una abilitazione professionale. Certamente, però, anche l’esame forense dovrebbe avere una sua dignità, senza invece essere considerato un ‘fastidio’ ed un intralcio fra una udienza e l’altra per i componenti togati della commissione.

Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:

- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.

«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».

- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?

«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».

- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?

«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».

-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?

«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».

-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?

«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.

Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:

Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);

Durante le prove (copiature e dettature);

Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);

Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).

Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».

- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?

«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».

- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.

«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato. Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».

Esame da avvocato, quel sogno realizzato di tagliare il traguardo e indossare la toga. La storia a lieto fine di una candidata di origine eritrea che dopo aver superato diverse volte la prova scritta ha trovato finalmente il coraggio di affrontare l'orale. Gennaro Grimolizzi Il Dubbio il 06 febbraio 2022.

Determinazione e consapevolezza di aver raggiunto una adeguata preparazione per sostenere senza incertezze la seconda prova orale dell’esame da avvocato. Questi elementi hanno consentito ad una candidata di origine eritrea di raggiungere l’agognato traguardo ed indossare finalmente la toga.

La storia è raccontata da Stefano Dell’Orto, presidente di una sottocommissione d’esame per l’abilitazione alla professione forense presso la Corte d’appello di Milano, molto attivo anche su Ius Law web radio. L’avvocata fresca di abilitazione ha quasi cinquant’anni. «È stata – dice Dell’Orto – l’ultima candidata dell’ultima sessione dell’esame di abilitazione. Mi ha colpito la sua grande concentrazione. Ha atteso nel corridoio tutto il pomeriggio il suo turno, accompagnata dal padre. Ha superato più volte la prima prova scritta, ma non si è mai sentita all’altezza della prova orale. Si è sempre sentita inadeguata e quindi non si è mai presentata davanti agli esaminatori. Quest’anno, con il sistema della doppia prova orale, finalmente ha trovato la forza ed il coraggio».

Oltre alla concentrazione con cui ha raggiunto la sede d’esame, la preparazione riscontrata dalla commissione esaminatrice. «È inutile nascondercelo – aggiunge l’avvocato Dell’Orto -, confusi dall’apparenza, ci aspettavamo da questa piccola donna con gli occhiali un italiano stentato ed una scarsa conoscenza della materia. Siamo stati clamorosamente smentiti. Ebbene, per preparazione e per capacità, maturata in una pratica che ha dato la dimostrazione di aver svolto con passione, è stata una delle candidate in assoluto migliori di tutta la sessione, con una proprietà di linguaggio notevole, che solo chi studia con passione può avere. Il doppio pregiudizio, nostro, di trovarci di fronte ad un caso disperato, e suo, di non sentirsi mai all’altezza, è stato vinto. Abbiamo notato che quello di indossare la toga non era un vezzo, ma una scelta precisa. Ci sono ancora molte persone che vogliono fare l’avvocato in maniera convinta e seriamente, non per ripiego».

La tensione accumulata in mesi di studio appassionato – anzi, in questo caso di anni – si è sciolta al termine dell’esame. «Alla proclamazione – conclude Stefano Dell’Orto – è scoppiata in lacrime e l’unica cosa che ha saputo dire, riferendosi non ai componenti della commissione, ma al nostro ruolo di avvocati, è stata: “Per me sarete un esempio”. Nel buio di una professione che si è smarrita, lei è stata un raggio di luce, che ha illuminato i corridoi ormai bui del Tribunale».

Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA PUGLIA

SEZIONE DISTACCATA DI LECCE

RICORSO PER L’ANNULLAMENTO

della valutazione negativa data alle prove scritte degli esami per avvocato

E CONTESTUALE ISTANZA DI SOSPENSIONE

dell’efficacia e degli effetti degli atti propedeutici impugnati

L. 6 dicembre 1971 n. 1034

del dr. Antonio Giangrande,                                                                                    RICORRENTE,

nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via A. Manzoni, 51, C. F. GNGNTN63H02A514Q, rappresentato e difeso dall'Avv. Mirko Giangrande, presso lo Studio Legale del medesimo difensore in Avetrana, via A. Manzoni, 51, C. F. GNGMRK85A26E882V, tel/fax  099/9708396 elettivamente domiciliati, come da mandato speciale in calce del presente atto,

contro

Ministero della Giustizia,                                                                                           RESISTENTE, in persona del Ministro pro tempore On. avv. Angelino Alfano;

 

(...) Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

La commissione di esame di avvocato presso il Ministero della Giustizia, sessione 2010, ha definito i seguenti criteri per la valutazione degli elaborati, stabiliti dall'articolo 1-bis, comma 9, della legge 18 luglio del 2003 e fissati nella seduta del 09.12.2010 dalla Commissione centrale presso il Ministero della Giustizia, di recepimento della circolare ministeriale del 8 novembre 2010:

1.     Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi;

2.     Capacità di soluzione di specifici problemi;

3.     Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari;

4.     Padronanza delle tecniche di persuasione.

L’esame scritto di avvocato presenta insidie particolari. Infatti è ben diverso dagli esami universitari ed allo stesso tempo è molto lontano da ciò cui abitua la pratica: si trova in un limbo in cui si chiede al candidato di riesumare le nozioni istituzionali dei manuali universitari ed allo stesso tempo di superare l’astrattezza della teoria con applicazione a tracce d’esame che, pur se tratte dalla giurisprudenza, non possono che essere stilizzate. Di conseguenza generalmente manca nel candidato una preparazione specifica ad un simile genere di prova.

Così come tale preparazione specifica manca al singolo commissario d’esame.

Sul punto si può osservare che il parere non è un atto, in cui si perorano le ragioni dell’assistito, prendendo in considerazione le argomentazioni della controparte solo per contestarle. Tale differenza emerge chiaramente dalla lettura della lettera e) del prima riportato art. 1 comma 9, allegato della legge 180/2003, per cui le tecniche di persuasione sono elementi rilevanti solo ai fini della valutazione dell’ultima prova d’esame.

Il parere però non è nemmeno una mera rassegna degli orientamenti giurisprudenziali esistenti, di cui riportare acriticamente la massima. Infatti il semplice collage dei dicta pretori non dimostra capacità alcuna, soprattutto se si tiene conto che il candidato si avvale di un codice commentato.

Il candidato, quindi, ha diritto ad essere giudicato, da una commissione che garantisca l’effettiva competenza a poter svolgere il suo compito. Questa certezza la può dare solo una commissione in cui vi facciano parte esperti di discipline che possano verificare e giudicare l’elaborato del candidato, al di là di ogni ragionevole contestazione. Tenuto conto altresì che si chiede al singolo candidato di avere una sorta di competenza tale da soddisfare le verifiche di più commissari esperti nelle varie materie.

Ma proprio questo è il punto: i commissari d’esame non hanno la preparazione professionale per poter svolgere il ruolo di cui sono incaricati. Anche perché c’è una lacuna di fondo.

Si insiste nel dire sulla necessità di "formare i formatori". Alcuni Consigli dell’Ordine degli Avvocati hanno previsto espressamente nello Statuto delle erigende scuole la presenza obbligatoria di un "modulo" di metodologia giuridica accanto alle materie istituzionali. Modulo il cui insegnamento è stato affidato a studiosi e docenti di filosofia del diritto. La metodologia, infatti, comprende (secondo la prospettiva classica) lo studio delle discipline finalizzate a produrre "chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione […] capacita di soluzione di specifici problemi […] padronanza delle tecniche di persuasione" (si cita dall’art. 1 bis, 9° comma, della L.180/2003 sui criteri di valutazione della prova scritta all’esame di Stato per la professione d’avvocato). In questo senso, dunque, l’inserimento a Statuto di un modulo didattico di metodologia risponde ai precisi requisiti del legislatore circa le abilità richieste al principiante avvocato.

Molto più di questo, però, vale l’osservazione per cui la metodologia giuridica non può limitarsi a rappresentare una fra le materie impartite nella scuola, poiché, se quest’ultima vuole davvero ispirarsi al modello non occasionale del "ginnasio forense", dovrà assumere la metodologia come struttura e non soltanto come contenuto inserito in un contesto ancora ‘tradizionale’ (sostanzialmente mutuato dalle Facoltà giuridiche). Il che significa che il “frame” delle diverse unità didattiche (di civile, di penale, di amministrativo ecc.) dovrà avere natura metodologica (questione della "formazione dei formatori" e della meta-didattica).

Per quanto riguarda la corretta applicazione di sintassi e grammatica, oltretutto, si abbisogna di un docente delle discipline umanistiche, nel campo delle lettere, competente specificatamente su vari ambiti: analisi logica; conoscenza e comprensione delle varie funzioni logiche; comprensione e riconoscimento delle diverse funzioni logiche nella frase semplice e nel discorso; ortografia e punteggiatura; conoscenza morfologica delle regole ortografiche e di punteggiatura, padronanza dell’ortografia e della punteggiatura nella scrittura; viaggio tra forma e significato delle parole; conoscenza delle forme di derivazione e alterazione delle parole; conoscenza e comprensione del vocabolario; conoscenza delle varie relazioni di significato tra le parole; abilità di base della scrittura di un testo e tecniche narrative essenziali; abilità di preparazione, organizzazione coerente di idee su un determinato tema, abilità di espressione chiara e pertinente, abilità tecniche narrative essenziali, abilità essenziali di generi narrativi diversi, abilità essenziali di descrizione e riflessione.

La commissione di esame, così come è composta, fatta esclusivamente da soggetti pratici, più che teorici, oltretutto elementi formatisi con discipline giuridiche, non garantisce la totale efficienza ed attendibilità nella verifica degli elaborati.

I Commissari che hanno corretto i compiti dell’istante sono 2 magistrati e 2 avvocati ed un professore di diritto costituzionale.

I Commissari nominati soddisfano solo le aspettative dei principi indicati al punto 3, (attinenza agli istituti giuridici), restando sguarniti i restanti punti, propri dei professori di lettere, filosofia e in discipline della comunicazione.

Nel caso di specie i commissari nominati, alla mancanza di tali soggetti professionali, figure indispensabili, hanno ovviato, intervenendo con giudizi impropri e spesso errati.

Con la metodologia adottata ogni errore evidenziato deve essere motivato, per poter essere verificato da personale esperto. Qui non vi è alcun errore né vi è alcuna motivazione per poter vagliare il grado di incisività e fondatezza dell’emendamento.

Il recente intervento della Corte Costituzionale, che abilita il solo voto numerico in virtù del “Diritto Vivente”, non intacca un approccio diverso al problema. Il giudizio sintetico, abilitato dalla Corte, impedisce l’indagine nel merito della decisione definitiva presa, che diventa sunto delle risultanze rese per i vari criteri di valutazione, ma non può mancare la motivazione agli emendamenti ed i rilievi che toccano la stessa prova scritta. Si deve valutare la competente Commissione, nei casi di valutazione negativa, ove non sussista l’obbligo della motivazione finale, la quale è costretta ad un più attento esame degli elaborati, al fine di giustificare in maniera adeguata e puntuale il proprio operato, suscettibile di essere sottoposto al vaglio dell’Autorità giurisdizionale, il che sicuramente rafforza l’osservanza del principio di buon andamento di cui all’art. 97 Costituzione.

Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione. (…)

La carneficina di bocciati anche nell’esame per diventare avvocati. Dopo il disastro del concorso per entrare in magistratura, arrivano i risultati dell'esame forense. Ezio Menzione su Il Dubbio il 2 febbraio 2022.

Un recente articolo apparso su questo giornale ha ripreso, anche a seguito di una dichiarazione del Presidente della Cassazione Pietro Curzio, i dati che attestano come a fronte dei posti di magistrato messi a bando nell’ultima tornata, solo pochi, molto pochi hanno superato l’esame: la preparazione complessiva fornita ai concorrenti era stata evidentemente assai scarsa e dunque scarso è stato il risultato.

Mi sono domandato (e lo abbiamo fatto in tanti, visto che due giorni dopo un altro intervento riprendeva proprio questo tema) se, a fronte di questa inadeguatezza degli aspiranti magistrati, gli aspiranti avvocati non soffrissero delle stesse deficienze nella preparazione.

Sono uscito proprio recentemente da una carrellata sugli esami di avvocato 2020-2021 nei quali ho svolto la funzione di Ispettore Ministeriale: dunque ho dovuto seguire decine e decine di esami di candidati in due esami orali svoltisi in due tranches, ben diverse l’una dall’altra.

La prima, che andava a sostituire per motivi di pandemia i vecchi esami scritti con un esame orale, riguardava i candidati appartenenti a una corte d’appello diversa da quella degli esaminatori, era incentrata su un caso concreto.

La seconda, che riguardava i candidati della corte d’appello di appartenenza della commissione ammessi a questo secondo step, era un esame orale vecchia maniera: 5 materie con domande molto simili a quelle che si pongono all’università. L’ammissione a questo secondo orale è stata raggiunta da circa il 50% dei candidati: percentuale costante in pressocché tutti i distretti. Il secondo orale, davanti alla mia commissione, lo ha superato il 76%: esito più che logico visto che i candidati al secondo orale erano già stati “scremati” dall’esito del primo.

Io ho assistito a decine e decine di esami nella prima fase, più critica e più nuova, un po’ meno, ma comunque sempre molti, agli esami della seconda. E’ molto difficile generalizzare, ma una qualche conclusione mi sembra doveroso trarla. E’ parso a me che la stragrande maggioranza dei candidati avesse una preparazione molto mediocre. Non tanto nella conoscenza delle istituzioni coinvolte (ma talora persino lì), quanto nella capacità di “calare” le nozioni teoriche che più o meno possedevano nel caso che gli veniva sottoposto.

A questo punto in genere i candidati si arenavano e si ingarbugliavano: non tutti certo, c’era anche chi ha brillato, ma sono stati veramente pochissimi. Non a caso gli esami nozionistici (gli orali della seconda fase) sono andati meglio, e non solo per il motivo già detto.

Allora anche da questa valutazione “sul campo” si evince come la preparazione degli avvocati sia carente, almeno quanto quella dei magistrati e più o meno per le stesse ragioni: credo che pochissimi fra i più di duemila scrutinati dalla commissione che io ho osservato avrebbero passato l’esame di magistratura. Le carenze, come accennato, sono soprattutto in quelle capacità, anche teoriche, che si acquisiscono solo nella pratica, svolgendo funzioni concrete, rispondendo a quesiti che ti pongono i clienti (magari solo potenziali), districandosi fra i vari rami del diritto, facendo una consapevole scommessa, dopo aver ben bene studiato il caso, se esso possa avere un esito in tutto o in parte positivo oppur no. E non sto qui a scomodare gli altri aspetti ed elementi: il problema delle prove, l’esame anche psicologico di chi si rivolge a te e tanti altri ancora, pur importantissimi per un avvocato di vaglia. Si dice: oggi non c’è più il capostudio che ti guidava e ti indirizzava durante la pratica.

E’ vero, e si sente. Ma non è solo questo. Anche la preparazione universitaria è carente: quanti mai casi concreti si esaminano all’università? Negli USA (ma non solo) la casistica è la fonte della conoscenza (anche perché lì c’è la common law, è vero). Qui da noi, l’unico scritto che si stende in quattro anni è la tesi: anch’essa uno studio teorico. E le cose non vanno meglio una volta ammessi alla professione: sono stato spesso coinvolto nei corsi per diventare difensori d’ufficio organizzati dalle Camere Penali, e negli esami finali, che pure vengono sostenuti da chi ha già fatto un po’ di avvocatura e qualche difesa, gli esiti non sono entusiasmanti.

Un successivo intervento, sempre su questo giornale, ha individuato la carenza maggiore nel fatto che non siano stati organizzati i corsi preparatori, rimandando la loro attuazione al 2023. I corsi potrebbero essere un buon ausilio per sopperire alle manchevolezze dell’università, evidentemente ormai strutturalmente incapace di preparare un giurista che non sia un accademico; ed anche per avere una funzione vicaria rispetto ad una pratica ormai spesso svolta senza un capostudio più anziano ed esperto e smembrata in semestri presso questa o quella amministrazione che nulla hanno da offrire al giurista. Ma giacché siamo a parlare di tali corsi, impegnativi e complessi, fortemente angolati sui casi pratici e le discipline ad essi connesse, proviamo a recuperare una esperienza come quella ben collaudata in Germania: un corso post laurea di 3-4 anni comune a tutti i giuristi, che aspirino a diventare avvocati, magistrati o con altre funzioni; al termine di tale corso un severo esame che fatalmente collocherà ciascun candidato in una determinata posizione. Così i primi potranno scegliere se fare il magistrato oppure l’avvocato oppure altro. E si noti che fino a qualche anno fa i migliori optavano per la magistratura, mentre oggi più spesso optano per l’avvocatura. In questo modo si acquisirebbe una conoscenza ed un’esperienza comune a tutti gli operatori del diritto che poi, naturalmente, nel corso degli anni si specializzeranno ulteriormente.

Altro che la solenne sciocchezza della cultura della giurisdizione appannaggio dei soli magistrati!

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.

Pedemontana Veneta: lo spreco di soldi pubblici ora trapela dai documenti ufficiali. Gloria Ferrari su L'Indipendente su L’Identità il 22 Novembre 2022 

Che la Pedemontana Veneta – la superstrada a pagamento lunga appena 94 chilometri che collegherà la provincia di Vicenza a quella di Treviso – sarebbe stato un grosso spreco di denaro pubblico, l’avevamo già preannunciato in una serie di articoli precedenti, ma ora, a distanza di qualche mese, le conferme cominciano ad arrivare anche dalle stime ufficiali. Nel bilancio di previsione 2023/25 della regione Veneto è scritto nero su bianco che ci si aspetta che la Pedemontana provocherà un buco di 54 milioni di euro nelle casse regionali per i prossimi tre anni. Fondamentalmente perché gli incassi derivati dai pedaggi (e quindi il volume del traffico) saranno notevolmente più bassi rispetto a quanto ipotizzato nelle a dir poco ottimistiche stime progettuali. Una verità che molti avevano già ipotizzato dati alla mano e una situazione per la quale il governatore Zaia dovrebbe delle spiegazioni convincenti ai cittadini veneti.

Il problema della Pedemontana è a monte, e il rischio, ormai piuttosto concreto, è che l’opera potrebbe finire per costare in totale alle casse pubbliche 12 miliardi. Cioè tre volte quello stimato per il Ponte sullo Stretto di Messina. A fare le stime sui costi esorbitanti dell’opera non è stato solo qualche comitato locale, e di certo non è storia recente. Ci aveva già pensato la Corte dei Conti, per cui il contratto firmato dall’amministrazione veneta, concepito per tutelare l’appaltatore privato da ogni rischio d’impresa, riversando lo stesso direttamente sulle tasche dei cittadini, è irragionevole. Un accordo che Laura Puppato, ex sindaca di Montebelluna (uno dei Comuni attraversati dall’opera) ha sintetizzato con queste parole: «Neanche da ubriachi si poteva firmare una cosa del genere».

Spieghiamo meglio. Il fulcro dell’accordo contrattuale raggiunto nel 2016 con il Sis, il concessionario privato che ha progettato e sta realizzando l’opera, prevede che per i prossimi 40 anni, oltre a un contributo straordinario di 300 milioni di euro, l’amministrazione di Luca Zaia dovrà versare un canone annuo di 153 milioni di euro a favore del Consorzio costruttore. Canone annuo, tra l’altro, destinato ad aumentare nel tempo, fino a toccare quota 332 milioni annui al 2059. Per un totale quindi, a termine degli accordati anni, di oltre 12 miliardi: più di 100 milioni di euro al chilometro.

Quello con il consorzio è una tipologia di accordo che prende il nome di project financing, utilizzato quando le risorse pubbliche non sono sufficienti a coprire in quel momento determinati costi. Insomma, il privato finanzia il pubblico con la garanzia di un ritorno economico, a prescindere dalle effettive entrate. Un tipo di accordo che privatizza i profitti e socializza le perdite, proteggendo a spese dei cittadini l’azienda appaltatrice da ogni rischio di impresa.

«Il rischio di impresa è stato accollato totalmente al soggetto pubblico (Regione Veneto) nel momento in cui è stato concesso un canone di disponibilità», ci aveva detto in un’intervista esclusiva l’ingegnere Nicola Troccoli, progettista ed unico firmatario della progettazione preliminare dell’intera opera per conto della ditta concessionaria, ovvero la Sis Scpa. «Se, infatti, si fosse rimasti con il rischio a carico del promotore (così come previsto dal bando), molto probabilmente l’iniziativa non sarebbe nemmeno partita, perché con quelle condizioni e con quell’alto rischio determinato dai flussi di traffico, non sarebbero mai stati trovati investitori». Per Troccoli, sarebbe stato molto più semplice ed opportuno, ad esempio, far completare il finanziamento dell’opera allo Stato o all’ANAS. O, come credono alcuni, non portarla a termine affatto.

In generale, tutta la vicenda è piena di contraddizioni e mancate risposte. C’è una sola certezza, ma non è quella che i cittadini avrebbero voluto avere: ci sarà da impiegare tanto, tantissimo denaro pubblico. [di Gloria Ferrari]

Dagospia il 12 ottobre 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Si smentisce categoricamente la ricostruzione riportata da Ansa e ripresa oggi da Libero in cui si attribuisce al Ministro Roberto Cingolani un virgolettato denigratorio nei confronti del proprio Ministero. Occorre precisare che il Ministro non ha mai fatto riferimento al Ministero della Transizione Ecologica o a chi vi lavora, né era sua intenzione farlo.  

Nell’intervista rilasciata al direttore Fontana durante i Green Talks 2022, il Ministro ha parlato della macchina pubblica in generale, come risulta dalle sue parole: “La prima difficoltà che mi viene in mente è l’assoluta mancanza di ogni livello di organizzazione minimo che consenta di far funzionare una macchina complessa come un ministero o lo Stato secondo criteri funzionali. Sintetizzo in generale dicendo che spesso le carte sono perfette, quasi indipendentemente dal risultato. È fondamentale che le carte siano a posto, la burocrazia garantisce tutto: i cittadini, le procedure ecc. Però, non si può essere totalmente indipendenti dal risultato”. 

Dunque, quanto riportato da alcune testate giornalistiche risulta del tutto fuorviante e travisa le parole del Ministro.

Dispiace, in particolare, che le parole del Ministro siano state strumentalizzate per un attacco personale al Consigliere Roberto Cerreto, Capo di Gabinetto del MiTE, scelto dallo stesso Cingolani. Il Consigliere Cerreto, infatti, ha rassegnato le proprie dimissioni d’intesa con il ministro, dopo 19 mesi di intensa e proficua collaborazione, per tornare ad assumere le proprie funzioni presso l’amministrazione della Camera dei deputati nella Legislatura che inizia domani. 

Tommaso Montesano per “Libero quotidiano” il 12 ottobre 2022.

Dev' essere stata la spinta del coming out day. Fatto sta che Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, a pochi giorni dal passaggio dei poteri dal "governo dei migliori" al nuovo esecutivo espressione del voto del 25 settembre, ha finalmente confessato: «La principale difficoltà che ho incontrato al ministero è stata l'assoluta mancanza di ogni livello minimo di organizzazione». 

Non male per quello che era considerato il fiore all'occhiello del governo Draghi, quel ministero nuovo di zecca voluto dal M5S, sorto dalle ceneri del vecchio dicastero dell'Ambiente e rafforzato dalla delega sull'energia.

 «Ho lavorato in grandi istituti di ricerca in mezzo mondo e poi in agenzie quotate», si è sfogato Cingolani nel corso di un webinar della Rcs academy, e «ci sono meccanismi organizzativi dai quali non si può prescindere. Direi che manca un minimo di organizzazione che consenta alla macchina di essere fluida». 

Insomma, il giorno dopo il consiglio dei ministri dell'addio, con tanto di foto ricordo, Cingolani confessa che dalle sue parti funzionava ben poco. E dire che stiamo parlando di un ministero chiave, che il M5S ha rivendicato al punto da arruolare Cingolani - che grillino non è mai stato - nella sua squadra di ministri nel governo Draghi. 

Tant' è: il ministro uscente vuota il sacco su ciò che ancora oggi accade negli uffici di via Cristoforo Colombo, all'Eur. «Spesso le carte sono perfette, indipendentemente dal risultato». E questo, ammette, non va bene: «È fondamentale che le carte siano a posto, ma non si può essere totalmente indipendenti dal risultato. Serve applicare qualche principio di organizzazione anche alla macchina pubblica. Quelli attuali non sono adeguati».

Vale la pena chiedersi se non si tratti, a poco meno di una settimana dalle dimissioni del suo capo di gabinetto, di una sconfessione dell'operato di Roberto Cerreto, il suo ex braccio destro. Quel Cerreto, già capo di gabinetto di Maria Elena Boschi quando la renziana era ministro delle Riforme e dei Rapporti con il Parlamento, molto vicino anche al Pd, visto che dal 1998 al 2003, prima di diventare un protagonista della Pubblica amministrazione, era stato segretario comunale dei Ds a Pisa.

Già, Pisa, la città natale di Enrico Letta, dove il segretario del Pd si è formato. E dove Cerreto ha studiato alla scuola Normale Superiore. Insomma, vuoi vedere che gira e rigira il caos al ministero della Transizione ecologica denunciato da Cingolani è ascrivibile - anche - a ciò che gravita nella galassia della sinistra? 

«Ho trovato qualche barriera ideologica che, non avendo un partito alle spalle, ho provato ad affrontare in termini tecnici». Di certo il ministro non vede l'ora di lasciare il governo. «Per me è sicuramente la fine. C'è un tempo per i tecnici e un momento, che credo sia giunto, per cui il Parlamento si deve riappropriare delle proprie prerogative e fare scelte politiche». Game over, insomma. Ed è tempo di bilancio: «Io credo di aver fatto, nei limiti delle mie possibilità, quello che potevo. Ce l'ho messa tutta, probabilmente non sarà stato abbastanza...».

Cingolani ne approfitta per lanciare messaggi a chi gli succederà: «Sul gas abbiamo messo il Paese in sicurezza e dovremmo riuscire a fare una stagione invernale, entro certo limiti, tranquilla». Ma restano problemi «enormi» sui costi. Un primo aiuto in tal senso potrebbe arrivare dal tetto al prezzo, sul quale in Unione europea «credo si possa giungere a una conclusione, un po' di compromesso». Il primo punto di cui si dovrà far carico il futuro governo, ribadisce, è quello dei rigassificatori: «È fondamentale che vengano messi in funzione il prima possibile perchè ne va della sicurezza nazionale». Quanto a quello di Piombino, «se tra qualche mese non saremo in grado di utilizzarlo sarà un vero e proprio suicidio. La sicurezza energetica nazionale dipende da questo».

L'Italia ha pagato oltre 800 milioni di euro per le multe dell’Unione Europea: e la cifra aumenta ogni giorno. Oltre ottanta procedure di infrazione sono aperte nei confronti del nostro Paese, soprattutto per tematiche ambientali, finanza e trasporti. Ma il tema non è neanche sfiorato dalla campagna elettorale. Sara Dellabella su La Repubblica su il 24 Agosto 2022.

La Corte dei Conti ha calcolato che dal 2012 al 2020, l'Italia ha pagato 752 milioni di multe all'Unione Europea per le condanne conseguenti ad alcune delle procedure di infrazione che gravano sul nostro paese. Per aggiornare l'importo ai giorni nostri si può dire che la cifra abbia superato gli 800 milioni e per capire quanto impattano sui conti pubblici, basti pensare che solo nel 2020 abbiamo speso più di 67 milioni di euro.

Perché le sanzioni sono comminate in maniera tale che si paga fintantoché non sarà data piena esecuzione al giudicato, e possono portare a esborsi di ammontare indefinito e per un tempo illimitato. Così stiamo ancora pagando per il mancato recupero degli aiuti concessi alle imprese di Venezia e Chioggia per una sentenza Ue del 2015 che fino al 2019 è costata 114 milioni di euro e per la quale paghiamo ancora una multa di 12 milioni per semestre di ritardo.

Sul sito del Dipartimento delle Politiche Europee, l'ultimo aggiornamento sullo stato dei contenziosi annovera 85 procedure di infrazioni aperte, di cui 58 per violazione del diritto dell'Unione e 27 per mancato recepimento di direttive, ma a inizio anno il numero aveva toccato la cifra record di 110. Alcune si trovano all'inizio dell'iter, mentre 6 sono arrivate a sentenza con relativa condanna pecuniaria, ma non è detto che non ne arrivino altre se l'Italia non si darà da fare nel rispetto delle norme Ue. Le infrazioni riguardano soprattutto le norme in materia di ambiente (16), affari economici e finanziari (12), trasporti (9), concorrenza e aiuti di stato e energia (6) e così scemando. Il conto salato che l'Italia si trova a dover pagare rappresenta senz'altro un cruccio per i governi che si susseguono, anche se il tema è assente dai radar di questa campagna elettorale agostana. Guardando al passato, gli esecutivi guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni avevano fatto di tutto per ridurre i casi pendenti, mentre con il governo Conte 1 sono tornati a salire.

Ma a oggi quali sono le procedure che stanno spolpando le casse dello stato, nell'indifferenza generale? I contenziosi nel settore ambientale riguardano il mancato completamento della capacità di trattamento/smaltimento/recupero dei rifiuti in Campania (discariche, termovalorizzatori e impianti di recupero dei rifiuti organici), il trattamento delle acque reflue urbane non conforme alla Direttiva 91/271/CE, in tutto 109 casi distribuiti sull’intero territorio nazionale, le discariche abusive per rifiuti pericolosi e non pericolosi. Parimenti aperta rimane la situazione per le altre tre procedure che riguardano rispettivamente il mancato recupero degli aiuti illegittimi concessi alle imprese nel territorio di Venezia e Chioggia, il mancato recupero degli aiuti illegittimi concessi per interventi a favore dell’occupazione, nonché ultima arrivata, la condanna emessa a carico dell’Italia per il mancato recupero degli aiuti di Stato concessi agli alberghi dalla Regione Sardegna per la quale il 31 dicembre 2020 sono stati pagati 7,5 milioni in forma forfettaria e 80 mila euro per ogni giorno di ritardo nell’applicazione delle misure necessarie per conformarsi alla sentenza del 2012. In particolare per le cosiddette Ecoballe, diventate il simbolo della spazzatura campana, il 16 luglio 2015 la Corte di Giustizia UE ha pronunciato una sentenza con la quale dichiara che non sono state adottate tutte le misure necessarie a dare esecuzione alla prima sentenza della Corte del 4 marzo 2010, condannando l’Italia a versare alla Commissione europea una somma forfettaria di 20 milioni di euro e una penalità giornaliera di 120.000 di euro fino al giorno in cui non verranno realizzati discariche, impianti di termovalorizzazione e impianti di recupero. Fino al 2020, abbiamo versato a Bruxelles circa 217 milioni di euro. Ma in tema di spazzatura c'è un altro contenzioso pendente dal 2003, che sta costando al nostro paese un occhio della testa.

Recentemente, è stato il ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, a fare il punto su questa procedura in un documento presentato al parlamento. Per le 200 discariche abusive è stata pagata una sanzione forfettaria da 40 milioni più 42,8 milioni per ogni semestre, arrivando nel 2020 ad un conto monstre di 232 milioni di euro. Ad oggi - si legge nel documento - sono state messe a norma 170 discariche e grazie a un meccanismo di premialità che scala dalla multa 40mila euro per ogni discarica bonificata, nell'ultimo semestre la multa si è ridotta a 6,6 milioni di euro. Sono passati circa vent'anni dalla sentenza della Ue e secondo Cingolani, sono rimasti da chiudere i siti più complessi, per cui bisognerà attendere il 2024 per la chiusura del contenzioso.

Ma non finisce qui. L'Italia è assoggettata a quattro procedure di infrazione per la non applicazione della direttiva sul trattamento delle acque reflue, sotto accusa è la nostra rete fognaria e la mancanza di impianti di depurazione. Solo una delle procedure è arrivata a condanna, ma gli esperti di Legambiente che ogni anno pongono gli accenti sulla mancanza dei depuratori, sono certi che presto saremo nuovamente colpiti da sanzioni. Intanto, il nostro paese ha pagato 25 milioni di euro e paga per ogni semestre di mancati adempimenti 30 milioni, dal 2018 sono andati in fumo circa 160 milioni di euro, soldi che con amministrazioni meno ignave avrebbero contribuito a risolvere il problema con benefici per l'ambiente e la salute pubblica.

Intanto, fa sapere Cingolani che nel Pnrr «sono stati stanziati 600 milioni per interventi al settore fognario - depurativo, anche al fine di risolvere il contenzioso comunitario». Fosse la volta buona. Intanto le multe corrono.

S.R. per “la Stampa” il 9 agosto 2022.

Il Pnrr sta cambiando l'Italia ma finora non ha modificato difficoltà della pubblica amministrazione a spendere le risorse assegnate. Il richiamo arriva dai magistrati della Corte dei Conti che hanno passato in rassegna tutti gli interventi del primo semestre 2022, confermando il «conseguimento pressoché totale degli obiettivi previsti dal Piano». Ma a fronte di una «reazione positiva» delle amministrazioni centrali, restano «difficoltà notevoli nella capacità di spesa delle singole amministrazioni». 

E per i magistrati ciò dimostra che «una maggiore disponibilità ed un maggior impiego di risorse non corrispondono automaticamente a reali capacità di sviluppo». Non è ancora il momento di fare bilanci conclusivi perché per arrivare a fine anno, e raggiungere i 100 obiettivi, c'è molta strada da percorrere. Infatti per la Corte «l'attenzione sull'esecuzione del Piano resta particolarmente elevata e il giudizio complessivo sul 2022 potrà aversi solo a fine anno».

Ma una prima analisi è già possibile, in particolare sugli obiettivi del primo semestre e su un «campionamento qualitativo e quantitativo» sullo stato di attuazione di 31 su 45 interventi. «Malgrado il dato formale positivo, nei settori esaminati sono emerse sostanziali criticità» soprattutto alla luce del quadro economico-finanziario peggiorato rispetto alle previsioni iniziali, che ha generato incertezza e portato ad un rialzo dei costi di realizzazione di alcuni progetti. In tale prospettiva, la Corte ha sottolineato «il permanere di difficoltà notevoli nella capacità di spesa delle singole amministrazioni». 

C'è poi un altro aspetto che per la magistratura contabile è essenziale: «Il rafforzamento delle strutture amministrative e l'adeguatezza delle risorse umane», nonché «adeguate attività di assistenza tecnica». Su quest' ultimo punto, la Corte si è soffermata sulla necessità di superare la questione della finanziabilità dell'assistenza tecnica, «attualmente non finanziabile con i fondi del Pnrr».

Molto potrà essere fatto con l'introduzione del nuovo portale "Capacity Italy". Infine, guardando al post Pnrr, quando i fondi per gestire i progetti finiranno, la Corte suggerisce di attrezzarsi: «Alla conclusione del Piano, per governare il ritorno a una gestione ordinaria priva delle attuali, ma momentanee, disponibilità legate alle risorse europee, sarà fondamentale garantire la stabilizzazione dei flussi finanziari destinati alle amministrazioni, anche per evitare la messa in sofferenza delle imprese che hanno tarato organizzazione e strategie aziendali sull'attuale entità degli stimoli economici e finanziari».

Estratto dell’articolo di Rosaria Amato per “la Repubblica” il 9 agosto 2022.

[…] La relazione della Corte dei conti arriva a meno di una settimana dall'allarme della Svimez sui tempi di realizzazione degli enti locali del Sud delle strutture sociali, dalle scuole agli ospedali: «Se gli enti locali del Mezzogiorno non dovessero invertire il trend e rendere più efficiente la macchina burocratica - rileva l'istituto di ricerca - avrebbero dei tempi estremamente stretti per portare a conclusione le opere nel rispetto del termine ultimo di rendicontazione fissato per il 2026». La Svimez calcola che nel Sud gli enti locali impiegano in media 450 giorni in più per realizzare le infrastrutture del Pnrr rispetto al Centro Nord. 

Ma le criticità riscontrate dalla Corte dei conti non si limitano al Sud. Quella di carenza di risorse umane qualificate è una difficoltà che emerge da tutta la relazione della Corte dei conti e che tocca diversi settori del Pnrr.

É sottolineata, per esempio, quando si parla di cittadinanza digitale, con riferimento alle app PagoPa e Io: «Non sono emerse criticità in merito al raggiungimento di milestone e target ed all'attuazione dell'intervento nei tempi pianificati », si legge nella relazione, che però suggerisce di porre particolare attenzione alla «difficoltà di reclutamento delle risorse umane in un contesto altamente dinamico e competitivo». 

Un allarme sui tempi traspare invece, sempre in materia di infrastrutture digitale, in riferimento alla creazione di un "Polo strategico nazionale", progetto che prevede l'impiego di 900 milioni. «L'obiettivo prevede la migrazione dei dati di almeno 100 amministrazioni per settembre 2024 e un target finale di 280 entro giugno 2026. - spiega la Corte - . Dall'analisi svolta è emerso che il programma, con l'aggiudicazione del relativo bando, ha rispettato finora le scadenze previste, mentre il cronoprogramma del secondo semestre si rivela particolarmente impegnativo solo ove si consideri che, dopo la stipula del contratto, rimarranno soltanto 3 mesi per il definitivo collaudo dell'infrastruttura».

Qualche dubbio sui tempi di realizzazione, considerata la necessità di concertazione degli interventi tra più amministrazione, emerge tra le righe anche nell'analisi dei progetti di valorizzazione dei beni confiscati alla mafia. La Corte dei conti suggerisce di accelerare i tempi anche per via delle conseguenze «dell'emersione di elementi di incertezza destinati ad influenzare il rialzo dei costi di realizzazione di alcuni progetti», ricordando come le ultime stime elaborate dell'Ufficio parlamentare di bilancio evidenziano come nel 2021 la spesa si sia fermata al 37,2% degli interventi previsti. […] 

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 24 agosto 2022.

Ricordate gli irresistibili bobbisti giamaicani? Non avevano mai visto la neve, erano stati coinvolti da un miliardario eccentrico e si divertivano un sacco in quello sport che non c'entrava niente con la loro storia. Non arrivavano alla ventina. Noi ce l'avremmo, la storia. Scritta da campioni indimenticabili in inverni gonfi di neve. Anche i bobbisti nostrani, però, sono ormai rarissimi: diciassette in tutta l'Italia. 

 Più una ventina di giovani che praticano slittino e skeleton. Domanda: vale davvero la pena di spendere 85 milioni di euro (cinque a testa) per dare loro una pista su cui allenarsi e correre qualche rara gara? Sono ormai cinque anni che Cortina d'Ampezzo, il Veneto e quel pezzo di Paese convinto che prima di spendere una tombola per un progetto occorra fare bene i conti, sono spaccati.

E lo stesso presidente del Comitato olimpico internazionale Thomas Bach, tirato in ballo da una lettera di Marina Menardi del Comitato civico di Cortina e da quanti si oppongono al ricchissimo investimento, ha preso posizione spiegando che sì, ovvio, se la Regione del Veneto costruisce un nuovo centro, questo sarà usato durante i giochi ma con una premessa: «La sostenibilità è una colonna portante dell'agenda olimpica 2020 (...) Per quanto riguarda la pista da bob, il Cio è stato chiaro nella sua posizione, ovvero che costruire una nuova pista a Cortina non è un requisito per i Giochi olimpici. Nessuna nuova infrastruttura dovrebbe essere costruita senza un piano operativo solido e sostenibile».

La cittadina ampezzana, seimila abitanti scarsi e in calo, per fare un esempio, può reggere il peso d'una gestione del nuovo impianto di 400.000 euro l'anno?  Mah... Se lo chiedeva nel 1955 un innamorato di Cortina, Indro Montanelli, sul Borghese dell'amico Longanesi, a proposito del palazzo del ghiaccio: «Costa un miliardo e 200 milioni di lire (una ventina di milioni di euro oggi, ndr ) e sarà capace di ottomila spettatori. Lei mi dirà che ottomila spettatori non saranno difficili da raccogliere, fra tanta gente che verrà quassù nel periodo delle gare. Certo. Ma dopo il periodo delle gare, chi rifonderà al Municipio di Cortina le 150 mila lire al giorno che occorrono alla manutenzione?». Fate i conti: un peso annuale pari a 950 mila euro attuali. Un macigno, per il bilancio comunale.

Ma senza andare così indietro negli anni, possibile che non abbia insegnato nulla la catastrofe economica e d'immagine dell'impianto costruito a Cesana Torinese per le Olimpiadi invernali 2006? «I francesi per il bob ci avevano offerto la possibilità di usare la loro pista costruita quattordici anni prima a La Plagne per le invernali di Albertville 1992», racconta amara Evelina Christillin, l'anima operativa di quei Giochi. «Certo, era a tre ore da Torino, ma era lì, già fatta, e ci avrebbe fatto risparmiare 110 milioni. Andammo a vederla: entusiasti.

Tra l'altro avremmo anticipato il futuro: nel 2026 le spese (enormi) dei Mondiali di calcio saranno divise tra Stati Uniti, Canada e Messico. Macché: il presidente del Coni Giovanni Petrucci e più ancora il ministro degli Esteri Franco Frattini si opposero. Non era dignitoso, per loro. E oggi l'impianto di Cesana è lì abbandonato da anni. L'ho spiegato, riconoscendo l'errore anche mio di non aver lottato di più contro quella follia, a Luca Zaia, che pure è una persona che stimo. Macché».

Historia magistra vitae? Magari. Tanto è vero che anche l'Austria, com' è stato ricordato nei giorni scorsi, si era offerta di risolvere il problema «prestando» la pista di Innsbruck (da Cortina alla «sorella olimpica» Milano ci vogliono cinque ore, da Cortina al capoluogo tirolese due e mezzo) ma ha ricevuto la stessa risposta: «No, grazie». 

E il bello è che quest' Olimpiade era stata presentata dai promotori (Ansa 7 febbraio 2018) come «economicamente light, con strutture temporanee, basso impatto ambientale e il marchio dell'unica candidatura veramente alpina, se paragonata a Torino e Milano». «Il villaggio olimpico, ad esempio, così come il centro stampa, sarebbero realizzati con strutture temporanee, da smantellare al termine dei Giochi, al massimo con qualche modulo che potrebbe essere usato per la Protezione Civile». Posti letto? «2.300».

Mamma mia! E «la storica pista di bob intitolata a Eugenio Monti (il 'rosso Volante'), chiusa da 10 anni»? «Dovrebbe essere ristrutturata». Il giorno dopo lo stesso Zaia insiste: «Il bob si fa a Cortina, sarebbe un insulto toglierlo. C'è una pista storica che va o demolita o recuperata, e portata a una visibilità internazionale». Ma i tempi cambiano. Il villaggio olimpico non sarà più smantellato ma, visto che ormai gli alloggi ci saranno, spiega oggi Zaia, li «lasceremo in eredità per studenti e lavoratori stagionali».

E magari domani, chissà, potrebbero essere dati in concessione a qualcuno... Quanto ai costi previsti per la nuova pista da bob, i timori sono stati appena confermati dal Progetto di fattibilità tecnico economica: costerà in totale 85 milioni di euro. Se va bene. Il doppio, praticamente, dei primi preventivi. Come a Cesana. Auguri.  

Gli ambientalisti del Mountain Wilderness Italia, proprio ieri, alla vigilia dell'arrivo a Cortina del governatore veneto per presentare il suo libro «Ragioniamoci sopra» (invito saggio), hanno rifatto i conti sull'operazione Olimpiadi complessiva: «Il totale delle spese previste per gli impianti nel 2019 era di 177.551.574 dollari. I conteggi presentati sono in euro, le due monete viaggiano su una quasi parità del valore della valuta. Il conto reale a luglio 2022 è salito a 2 miliardi 302.384.733 euro. Negli Extra spese rientrano il Mountain media Center, 1.187.120 dollari, la cerimonia di apertura altri 1.402.960, quella di chiusura 1.141.680».

Per non dir dei danni ambientali. A partire dalla distruzione di un piccolo parco urbano appena fatto e del parco avventura costruito a ridosso della vecchia pista di bob e costato allora un pacco di euro con «percorsi attrezzati da un albero all'altro per adulti, ragazzi e bambini, con 145 attraversamenti da un albero all'altro sempre diversi» e «carrucole, ponti tibetani, cavi e reti» col massimo rispetto del bosco e degli alberi giganteschi destinati alla motosega. Spazio, spazio, spazio!

 La nuova pista ha bisogno di 1.895 metri quadrati per piazzare, oltre al percorso del bob, edifici nuovi per 18.000 metri cubi di cemento. I cortinesi, stando al referendum tra gli abitanti, sono contrari. Ma chi ama i boschi, da queste parti, pare contare sempre meno. Basti guardare insieme con Gildo Siorpaes, ex campione di sci e di bob, gli squarci fatti nelle foreste ampezzane per le nuove piste sciistiche, con strade larghissime e parcheggi immensi ricoperti non dall'erba promessa ma da pietrisco a spacco da cava: «Non erano questi, i miei boschi. Non erano questi».

Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.   

«La Maddalena (A Madalena in gallurese, Sa Madalena in sardo) è un comune italiano di 10.635 abitanti della provincia di Sassari costituito dall'arcipelago di La Maddalena facente parte dell'omonimo parco...». Ma come, chiederete, ci vuoi leggere Wikipedia? No, ma siccome Christian Solinas, da quando è governatore e Commissario Straordinario non ha trovato un minuto in tre anni e mezzo per andare a vedere in quali condizioni disastrose versano le opere millenaristiche costruite per il G8 del 2009 e mai (mai!) usate vale la pena di partire dall'inizio.

Meglio: dalla fine. L'indecoroso cadavere del grande hotel di lusso ricavato dall'ex ospedale militare sulla strada litoranea più trafficata, un cinque stelle senza una spiaggia, senza un giardino, senza un albero, senza una piscina, senza una spa, costato oltre 91 milioni di euro attuali (902.970 euro per ognuna delle 101 camere: mai arredate!), giace abbandonato dietro un'alta palizzata carceraria.

Pavimentazione sgretolata, erbacce, piante e alberelli che sbucano ovunque. Unico segno di vita il militare di turno addetto a fermare eventuali curiosi che, non sia mai!, potrebbero fare foto imbarazzanti. Per capirci: se anche esistessero aspiranti ospiti e occupassero mediamente 70 camere al giorno pagando 200 euro a notte per 100 giorni l'anno (magari!) le spese rientrerebbero in 65 anni. Ammesso che chef, camerieri, sommelier e così via lavorassero gratuitamente. E il cibo e i vini arrivassero da Babbo Natale... Un investimento demenziale. Tant' è che non c'è un solo albergatore, in tanti anni, che si sia sognato di fare un'offerta. Marameo!

Per non dire del resto. A partire dall'avveniristico centro congressi progettato da Stefano Boeri e proiettato come un immenso sperone luccicante sull'acqua, bellissimo il giorno dell'apertura-risarcimento ai visitatori, a metà settembre 2009 (dopo il G8 spostato all'Aquila), per la presentazione delle Louis Vuitton series ma oggi irriconoscibile per la facciata «ventilata con esagoni di vetro» via via sbrindellata e spazzata via dal vento e dalla sciatteria d'una manutenzione vergognosamente mai fatta. 

Così come da anni, dopo una stagione di apertura ai tempi in cui tutto l'insieme era stato affidato a Emma Marcegaglia (poi rimborsata con 21 milioni di euro per «mancato guadagno» visto che le acque non erano state bonificate) non c'è la minima cura per l'hotel Porto Arsenale (detto ironicamente «Hotel Obama» perché lì doveva andare) oggi abbandonato a se stesso senza che un'anima pia abbia un po' di pietà e butti un po' di acqua alle piante maestose annientate da siccità e menefreghismo.  

E lo stesso vale per tutte le altre strutture portuali, ricettive, formative e convegnistiche che dovevano «trasformare l'Arsenale della Maddalena in uno dei principali poli marittimi del Mediterraneo occidentale». La darsena turistica, le Provveditorie Marine, lo «Stecco» di alloggi per gli ospiti... Tutto ruggine.

Scalcinato. Corroso. Assediato dalle sterpaglie... E questo è quello che si vede! Peggio ancora è quanto sta sotto, sui fondali. Lo spiegava anni fa, in un servizio di Fabrizio Gatti e Lirio Abbate, un tecnico che lavorava agli scavi: «Più scavavi nel fondale, più trovavi fanghi contaminati. La benna tirava su melma densa come cioccolata e nera come pece. Erano sicuramente idrocarburi pesanti. Hanno deciso di lasciarli lì perché senza la costruzione di una diga ermetica, avrebbero inquinato l'arcipelago». Liquami abbandonati dai militari americani e italiani, del tutto indifferenti per decenni al tema dei veleni tossici.  

E così melmosi che «là sotto» gli stessi sommozzatori addetti alla sicurezza non avrebbero mai potuto offrire certezze. Al punto che Silvio Berlusconi, fino ad allora duro con i giornalisti che «scrivevano notizie non vere» sui ritardi e così ottimista da invitare al G8 Gheddafi «a parlare dell'Africa al mondo intero», decise alla fine di aprile del 2009 di usare la faccenda come scusa per spiegare come mai, di colpo, aveva spostato il summit all'Aquila: «C'erano preoccupazioni per il sistema di sicurezza». 

Dopo di che spiegò che certo, forse quella della Maddalena «sarebbe stata una sede eccessivamente lussuosa, non in sintonia col momento che attraversiamo globalmente», ma «i lavori continueranno e arriveranno al completamento assoluto e totale» e questo «più importante centro di attrazione del Mediterraneo» accoglierà «almeno otto grandi manifestazioni all'anno». Sì, ciao... 

Sia chiaro: addossare il fallimento del progetto al solo Cavaliere o ai suoi collaboratori non sarebbe giusto. Forse fu un errore la stessa scelta iniziale di Romano Prodi e dell'allora governatore sardo Renato Soru, attaccati un po' da tutti, dai forzisti agli indipendentisti fino ai no global, convinti che la decisione fosse stata presa non per amore dell'isola ma per isolare i black block dopo il G8 di Genova.

Certo non sono stati all'altezza della sfida i diversi premier e i vari governatori di destra e di sinistra e così i sindaci e i partiti e le burocrazie alternatisi negli anni. Fatto è che dal momento dell'annuncio dell'opzione Maddalena, 14 giugno 2007, sono passati oltre quindici anni. E i lavori già costati più o meno ufficialmente 328 milioni, pari a 402 milioni di euro di oggi (ammesso che dai e dai i costi veri non siano addirittura più alti, come temono molti dei più combattivi avversari dell'enorme spreco di risorse, come Pierfranco Zanchetta, già assessore provinciale all'ambiente e deputato regionale) non sono ancora finiti. 

E dopo tanti scandali, processi, silenzi, condanne, assoluzioni, promesse, inchieste della Corte dei Conti, reportage e polemiche d'ogni genere, tira un'aria sempre meno ottimista. Tanto più che le bonifiche, già spacciate per eseguite da Berlusconi («è stata fatta la più grande bonifica ambientale mai fatta in Italia», Ansa 4/12/08) devono ancora essere effettuate sul serio e tutta l'area interessata è di fatto tuttora inutilizzabile. Peggio: dopo essere sbarcato per un tour elettorale poco prima di diventare governatore, il sardo-leghista Christian Solinas non risulta essere più tornato alla Maddalena.  

Di più: nonostante sia stato scelto e confermato come Commissario Straordinario per le Bonifiche da quattro governi (Gentiloni, Conte giallo-verde, Conte giallo-rosso e Draghi), nello stesso archivio regionale Ansa dove spicca per oltre tremila citazioni, si trovano solo suoi sparuti accenni. Tra i quali, più di due anni fa, questo: «Come Commissario ma ancor più come presidente della Regione ho ritenuto doveroso, dopo anni di ritardi, imprimere un'accelerazione decisiva...».

 Sinceramente: chi l'ha vista? Fatto sta che a un certo punto, informato sul degrado delle opere destinate al G8, lo stesso governo Draghi è intervenuto con un decreto che dava a Solinas tre milioni e mezzo l'anno per il 2022, 2023 e 2024 «per la manutenzione straordinaria» del patrimonio sempre più degradato e assegnava alla sua struttura commissariale una pattuglia composta da un dirigente e tre funzionari che si dedicassero espressamente al problema. Troppo poco? Forse. Era comunque un segnale di attenzione. Sono passati più di sei mesi. Silenzio. Totale. E non sono stati fatti neppure i bandi…

Da “il Messaggero” il 6 maggio 2022.

Aumentano le auto di servizio nel 2021, le vetture pubbliche in dotazione alle pa: sono 29.894, con un incremento del 12,3% (pari a 3.267 auto in più) rispetto al numero di fine 2020, che si fermò a quota 26.627. È quanto emerge dall'ultimo censimento sulle auto di servizio al 31 dicembre 2021. Nel dettaglio, il censimento appena concluso segnala come il 92% delle auto di servizio risulti in uso a uno o più uffici o servizi senza autista (27.462 su 29.894 veicoli), mentre solo l'8,14% - pari a 2.432 mezzi - è in uso con autista: 850 a uso esclusivo, 1.582 a uso non esclusivo.

Dalla rilevazione, a cura del Dipartimento della Funzione pubblica con Formez Pa, emerge che il numero medio delle auto registrate per amministrazione scende a 3,6 contro 3,9 dell'anno precedente e che alla statistica hanno risposto 8.142 enti, l'80% dei 10.128 registrati, con un aumento del 21,6% (+1.449) rispetto alla rilevazione precedente. «Siamo rientrati nella fisiologia del censimento che ho voluto avviare durante il mio primo incarico a Palazzo Vidoni, nel 2010, quando l'Italia aveva un numero esorbitante di auto di servizio - ha detto il ministro Renato Brunetta -. Abbiamo usato l'arma della trasparenza per riportare nel tempo le auto sotto le 30mila. Continueremo a monitorare e a vigilare: questa rilevazione è uno strumento concreto di efficientamento della Pa».

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera - ed. Roma” l'11 aprile 2022.

Dai pagamenti per le spese voluttuarie alla lista di favori distribuiti, passando per l'elenco delle scuole «organiche» al sistema messo in piedi al ministero dell'Istruzione. In poche pagine di interrogatorio (affiorate in seguito alla discovery del Tribunale del Riesame) Valentina Franco, spicciafaccende di Giovanna Boda, accusata di rivelazione del segreto d'ufficio, svela metodi e beneficiari della rete intessuta negli uffici ministeriali. 

Offrendo al pubblico ministero Carlo Villani che indaga per corruzione alcuni, formidabili assist. Tra cui un'illuminante confidenza circa le rivelazioni a terzi sui singoli progetti in cantiere: «Tutti - dice Franco - eravamo a conoscenza del fatto che parlare di modifiche di bandi dei progetti e dei contratti con persone esterne al ministero non era una cosa legale...». Malgrado ciò le indiscrezioni erano all'ordine del giorno. 

La factotum di Boda racconta come Federico Bianchi di Castelbianco, il presidente dell'agenzia Dire finito agli arresti per le stesse vicende in quanto finanziatore del sistema, avesse messo a disposizione una carta di credito per le spese ordinarie della dirigente: «So - dice Franco- che la carta era usata per la Boda. Noi altri non prendevamo nessun rimborso per le spese che avevamo anticipato per la Boda. Faceva principalmente spese personali, come chirurgia o parrucchiere o unghie lasciando anche mance generose. Spendeva 1.000 euro a settimana». 

Anche la beneficenza (alcuni aiuti al figlio disabile di una sua conoscente) è a carico di Federico Bianchi di Castelbianco.

Nel corso dell'interrogatorio Franco offre la propria opinione sull'intera vicenda: «Secondo me - racconta - l'ideatore dell'intero sistema era Boda». Certamente quelle esigenze sembrano essere determinanti nell'alimentare un circolo vizioso. 

In qualche caso si rendeva necessario trovare degli enti compiacenti per far figurare il pagamento degli stipendi a Franco e agli altri collaboratori: «Il periodo in cui siamo stati senza stipendio - riferisce Franco - il pagamento ci veniva effettuato tramite bonifici dalle scuole. In realtà era il nostro stipendio per l'attività che svolgevamo in favore della Boda».

La tuttofare della dirigente apre poi una parentesi che riguarda proprio le scuole. Alcune beneficiavano di piccoli finanziamenti per progetti didattici e di un trattamento amicale (lecito tuttavia) da parte della numero uno del ministero: «So di queste scuole "amiche" cioè che avevano contatti diretti con Bianchi di Castelbianco. 

Non necessariamente venivano scelte dalla Boda. Erano quelle che risultavano più "disponibili". Conosco ad esempio ...il Regina Elena a Roma; poi c'erano dei progetti piccoli al Virgilio di Roma di cui era preside la Vocaturo (Rosa Isabella Vocaturo, ndr). Valentina Franco fa anche mettere a verbale un altro favore: «A Catania c'era Rachele Sempreviva, nipote del marito della Boda...di questo sono sicura che il marito non sapesse nulla. Le veniva pagato da Bianchi di Castelbianco l'affitto della casa, l'università e lo stipendio».

La Corte dei Conti. Troppi sprechi e malagestio, la Corte dei Conti boccia gli amministratori pubblici. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

«Alcune statistiche e le nostre sentenze ci dicono che la società campana è ancora lontana dal raggiungere quei traguardi e standard di efficienza della pubblica amministrazione che ci vengono richiesti dall’Unione europea e che sono posti alla base dei finanziamenti oggetto del Pnrr». Il presidente della sezione giurisdizionale della Corte dei Conti della Campania, Michele Oricchio, bacchetta gli amministratori pubblici locali, critica la società civile spesso inerme e le modifiche normative ritenendo che abbiamo gravato sulle funzioni giurisdizionali della Corte dei Conti senza nei fatti risolvere la cosiddetta “paura della firma” alla base di tante lungaggini sia giudiziarie che amministrative. Il presidente Oricchio traccia questo bilancio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, spiegando come la pubblica amministrazione appaia «lontana da un livello di efficienza in grado di offrirsi come esempio per i cittadini e in grado anche di ispirare quella necessaria empatia fra cittadini e amministrazioni che è fondamentale per ogni migliore evoluzione della società meridionale e di quella campana in particolare».

Oricchio parla di «negligenza e inefficienza» in numerosi settori della vita pubblica e di «uso abnorme della discrezionalità amministrativa non finalizzata all’interesse pubblico». Sottolinea anche l’atteggiamento della cosiddetta società civile che non fa abbastanza autocritica, «non riesce a isolare fenomeni distorsivi della vita pubblica, demandando all’organo giudiziario la reazione alla diffusione di inciviltà e illegalità» e di conseguenza «gli organi giurisdizionali svolgono anche qui in Campania una funzione di supplenza sulle disattenzioni dei cittadini e della società, i quali devono essere più partecipi alla vita pubblica delle istituzioni locali». È la sanità, secondo i magistrati contabili, il settore che in Campania «continua ad essere un territorio di caccia di numerosi soggetti, pubblici e privati, che ritengono di poter utilizzare gli ingenti finanziamenti concessi non per il miglioramento dei servizi offerti ai cittadini, ma per lucrare indebitamente sulle prestazioni offerte».

Un quadro desolante, questo tracciato dalla Corte dei Conti che boccia l’efficienza della nostra pubblica amministrazione. E se per i magistrati contabili la paura della firma può fermare il Pnrr, le recenti modifiche normative non hanno fermato invece la paura della firma. «L’intervento riformatore – afferma Oricchio, a proposito della modifica alla legge 120/2020 che ha introdotto una procedura speciale in caso di accertamento di gravi irregolarità gestionali, ovvero di rilevanti e ingiustificati ritardi nell’erogazione di contributi per il rilancio dell’economia nazionale – è stato realizzato al dichiarato scopo di vincere la paura della firma ritenuta una delle cause della lentezza dei procedimenti di spesa e di assunzione di decisioni amministrative, ma non è certamente con le limitazioni di responsabilità introdotte che si serve l’interesse pubblico né può credibilmente pensarsi che l’ampliamento teorico dei controlli concomitanti sia da solo sufficiente ad indurre buone pratiche amministrative in grado di garantire il miglior utilizzo degli ingenti fondi che verranno stanziati per far ripartire l’economia nazionale».

Serve rigore. «Siamo in presenza di una situazione economico-finanziaria nazionale non semplice – conclude il presidente della sezione campana della Corte dei Conti -, che impone comportamenti pubblici e privati assolutamente rigorosi, onde evitare che, diradatasi la “nebbia da Covid”, ci si ritrovi in un Paese caratterizzato da una condizione socio-economico-finanziaria peggiore dell’epoca pre-pandemia che andrà a pesare ulteriormente sulle future generazioni». Amministratori pubblici più rigorosi, dunque. E, aggiungiamo noi, capaci.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

·        I Commissari…

Roberta Spinelli per “La Verità” l'11 aprile 2022.

Vengono nominati per gestire grandi calamità e cantieri lumaca, enti locali allo sbando, aziende in crisi. Dovrebbero lavorare per un tempo limitato e sbrogliare emergenze con poteri maggiori, accentrati o in deroga. 

C'è poco da stupirsi, in un Paese in cui l'emergenza è la regola. Il problema è che, tranne qualche eccezione, questi super dirigenti spesso non sbloccano, velocizzano né risolvono nulla e dunque rappresentano uno spreco nello spreco. 

Pensiamo all'ex Ilva, il cui commissariamento iniziò nel 2013 con il decreto legge 61 ed è ancora aperto.

In nove anni si sono succeduti 6 commissari straordinari (il primo fu Enrico Bondi, già commissario di Parmalat e poi nominato da Mario Monti a sovrintendere la spending review prima di essere spedito a Taranto), un sub commissario e un commissario straordinario per gli interventi urgenti di bonifica, ambientalizzazione e riqualificazione di Taranto, la dottoressa Vera Corbelli, alla quale è stato anche conferito l'incarico di commissario straordinario per la messa in sicurezza e gestione dei rifiuti pericolosi e radioattivi del vicino deposito ex Cemerad a Statte.

Per qualcuno quella di «sbroglia emergenze» è quasi una professione: l'ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso, per esempio, è stato commissario almeno una dozzina di volte, tra cui i rifiuti in Campania, il rischio bionucleare, i mondiali di ciclismo del 2008, il terremoto dell'Aquila e il G8 in Abruzzo. 

La moltiplicazione dei commissari registra un'attività pari al loro nome: straordinaria. Nel 2020 la presidenza del Consiglio e il ministero dello Sviluppo economico ne elencavano 384: 36 commissari straordinari del governo, 160 di aziende in crisi, 188 di Comuni.

Al momento il governo elenca 7 commissari di indirizzo politico (tra cui il coordinamento antiracket e la ricerca delle persone scomparse), 48 di indirizzo tecnico-settoriale (dal Mose di Venezia all'area di Castel Volturno), 37 per interventi infrastrutturali prioritari (strade, ferrovie, porti, acquedotti, metropolitane). 

Aggiungiamo 13 commissari straordinari delle Camere di commercio, i 249 nominati dal ministero dello Sviluppo economico per 159 aziende in crisi (da Parmalat a Merloni) e quelli dei Comuni sciolti o senza sindaco (oltre 200) e si supera quota 400.

Ora si aggiunge anche il Pnrr: nello scorso agosto erano già 102 le opere commissariate per un valore complessivo di 96 miliardi di euro. Tra le aziende, ex Ilva a parte, l'esempio più noto è quello di Alitalia, affidata dal 2011 ai commissari Giovanni Fiori, Gianluca Brancadoro, Stefano Ambrosini. I commissari che gestiscono aziende alla deriva fino a qualche anno fa incassavano assegni con cifre a sei zeri.

L'anno scorso il ministro Giancarlo Giorgetti ha firmato un decreto che riduce i costi, rivede l'assegnazione degli acconti e lega i compensi al raggiungimento di risultati.

La sanità è commissariata in Calabria dal 2007 e in Molise dal 2009; c'è un commissario «per la demolizione, la rimozione, lo smaltimento e il conferimento in discarica dei materiali di risulta, il risanamento, la bonifica e la riqualificazione urbana e ambientale delle aree ove insistono le baraccopoli della città di Messina» creata in seguito al terremoto del 1908 e uno per il nuovo ospedale di Siracusa.

Salta all'occhio il nome del sindaco di Roma Roberto Gualtieri che, tra un'emergenza rifiuti e una dei trasporti, ha accettato l'incarico di «assicurare gli interventi funzionali alle celebrazioni del Giubileo 2025 nel territorio di Roma capitale». 

Esistono commissari per la Tav, per le iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di mafia e per le opere delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026. Giovanni Legnini è commissario straordinario per la ricostruzione nei territori interessati dal sisma del 24 agosto 2016 (Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria) e di quello del 2017 a Ischia.

Ruoli per il quale percepisce, come molti suoi colleghi, 50.000 euro annui lordi a titolo di indennità fissa (liquidata mensilmente), ai quali se ne aggiungono altrettanti a titolo di parte variabile liquidata in un'unica soluzione alla scadenza del mandato. Esiste perfino il commissario straordinario del governo per il risanamento delle gestioni e il rilancio delle attività delle fondazioni lirico-sinfoniche. 

Il commissario straordinario è una sorta di supereroe. Ovunque ci sia un'emergenza o un'inefficienza lui interviene e, in teoria, risolve. I più famosi degli ultimi due anni sono i commissari straordinari per l'emergenza Covid-19. L'ultimo è stato il generale Francesco Figliuolo, il cui incarico è terminato il 17 marzo. 

Il suo predecessore, Domenico Arcuri, agli incarichi legati alla pandemia (vaccinazione e ripartenza delle scuole) univa anche la poltrona di amministratore delegato di Invitalia e in aggiunta ebbe il compito di gestire anche la crisi dell'acciaieria ex Ilva in Puglia. Troppi pensieri per la testa, al punto che Arcuri è finito coinvolto in inchieste come quella sull'acquisto delle mascherine, in cui è stato indagato per abuso d'ufficio.

·        Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.

Come sprecare un milione all’anno. Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.  

Il Cnel offre «ospitalità» all’Aran ma poi spunta l’incomprensibile opposizione di uno dei vicepresidenti.

La storia la racconta lo stesso presidente dell’Aran, Antonio Naddeo, nel suo blog sul sito ildiariodellavoro.it. E ha dell’incredibile. L’Aran è l’agenzia pubblica per la contrattazione nel pubblico impiego. Da un anno è alla ricerca di una nuova sede, perché quella in affitto a via del Corso, dove una volta c’era il partito socialista, è ormai troppo grande per un organico che si è ridotto a una quarantina di persone. Lo scorso autunno, Naddeo riceve una telefonata da Tiziano Treu, presidente del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. «Perché non venite da noi?», propone Treu. Il Cnel, da sempre, occupa la splendida Villa Lubin, realizzata all’inizio del Novecento nel parco di villa Borghese dall’architetto Pompeo Passerini in uno stile tra il neo-barocco e il liberty. Un grande edificio, su più piani, con annesso ampio parcheggio, che ospita i circa 60 dipendenti del parlamentino delle parti sociali. Villa Lubin, tra l’altro è distante solo una decina di minuti a piedi dalla sede dell’Aran.

«La proposta di Treu era interessante, anche perché avrebbe permesso a noi di risparmiare l’intero affitto e al Cnel la metà della manutenzione e delle altre spese», per un totale di «circa un milione di euro all’anno», dice Naddeo. I presidenti ottengono anche la perizia dell’Agenzia del demanio che attesta il rispetto degli spazi minimi e delle norme di sicurezza. La cosa sembra fatta, quando a raccogliere i malumori interni al Cnel ecco uno dei vicepresidenti, Floriano Botta (Confindustria), che chiede il rinvio di ogni decisione, visto che consiliatura del Cnel è vicina alla scadenza (maggio 2023) e sostenendo che «sul palazzo ci sono vincoli architettonici, non c’è spazio». La storia, racconta Naddeo, si conclude con una lettera del Cnel dove si dice che, «vista la netta contrarietà di un componente dell’Ufficio di presidenza», il progetto non può andare avanti. Proprio un bell’esempio di spending review al contrario: si chiama spreco.

·        Spreco a 5 Stelle.

Auto blu, ma non dovevano sparire? In quattro anni nulla è cambiato: sono quasi 30 mila. Edoardo Nastri su Il Corriere della Sera il 27 Luglio 2022.

All’ultimo censimento ha risposto l’80% delle pubbliche amministrazioni sul territorio. Ai Comuni appartiene il 39% del parco circolante, segue la Sanità con il 27% 

Auto blu, ma non dovevano sparire? In quattro anni nulla è cambiato: sono quasi 30 mila

Le immagini del presidente del Consiglio dimissionario Mario Draghi hanno fatto il giro del mondo, così come i discorsi finali a Camera e Senato e lo stuolo di auto blu parcheggiate nei cortili di Montecitorio e Palazzo Madama. Viene quindi da chiedersi a che punto siamo con il taglio alle vetture delle pubbliche amministrazioni, da tempo oggetto della propaganda politica in particolare di alcuni partiti.

Incremento

Gli ultimi dati diffusi dal ministero della Pubblica Amministrazione raccontano che nel 2021 le auto blu in Italia circolanti erano 29.894, con un incremento del 12,3% (pari a 3.267 auto in più) rispetto all’anno precedente, quando la quota si è fermata a 26.627 unità. Numeri considerevoli, pur tenendo conto del fatto che il numero medio delle autovetture registrate per amministrazione è sceso a 3,6 rispetto al 3,9 dell’anno precedente. La ragione di questa decrescita si spiega considerando che all’ultimo censimento sulle auto di servizio proposto dal ministro Renato Brunetta, hanno risposto l’80% degli enti (8.142 pubbliche amministrazioni), il 21,6% in più rispetto alla rilevazione precedente.

Nulla è cxambiato

Se si mette a confronto il parco circolante di auto blu negli ultimi anni si scopre che nel 2018 a fronte dell’83% di enti rispondenti al censimento si contavano 33.527 unità, un numero sceso nel 2019 a 25.668 esemplari ma con solo il 70% degli enti rispondenti all’appello, mentre il 2020 ha visto circolare 26.627 auto blu con una risposta degli enti al censimento di appena il 66%. Insomma, negli ultimi anni il numero proporzionale di auto blu è rimasto sostanzialmente invariato a prescindere dal colore politico del Governo in carica.

Il parco auto

La fotografia del parco auto in mano agli enti pubblici mostra che i Comuni possono contare su 11.517 auto di servizio a loro disposizione per una quota del 39% sul volume complessivo. Segue il mondo della sanità pubblica con 8.179 auto in uso (il 27% del totale), mentre percentuali più basse interessano i comuni capoluogo con l’8%, le Regioni e le province autonome con il 5% e le province con il 3%. Seguono e le Amministrazioni dello Stato, gli Enti pubblici nazionali, le città metropolitane, le Università con l’1%.

Con e senza autista

Guardano ai dati sulla modalità di utilizzo la percentuale delle auto in uso a uno o più servizi senza autista rappresenta il 92% del parco auto, mentre l’8% pari a 2.432 unità risulta invece essere ad uso esclusivo con senza autista. Come vengono acquistate queste auto dallo Stato? Il 73% del totale (pari a 21.913 esemplari) sono auto di proprietà, mentre quelle a noleggio con o senza conducente rappresentano il 25% del totale. Minima la quota di vetture in leasing o comodato d’uso pari al 2% per 642 unità.

Tutte le truffe del Superbonus, dai conti esteri ai detenuti: quasi 6 miliardi sottratti allo Stato. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 10 Luglio 2022.

Nel modulo inserito sul portale dell’Agenzia delle Entrate ha comunicato crediti d’imposta certificando di aver svolto lavori edilizi per 30 milioni di euro. Il problema è che in quel periodo era in carcere. È soltanto uno dei nuovi, eclatanti casi di truffa sui bonus edilizi scoperto grazie alle indagini avviate in tutta Italia.Sono quasi 6 i miliardi sottratti allo Stato, di cui 2 miliardi «già incassati», come ha confermato al Parlamento il ministro dell’Economia Daniele Franco.

Nell’elenco di chi ha percepito migliaia, più spesso milioni di euro, senza avere titolo ci sono cittadini già condannati per reati gravi, esponenti della criminalità organizzata, persone segnalate per aver chiesto e ottenuto il Reddito di cittadinanza nonostante fossero privi dei requisiti. Una frode di enormi dimensioni che sta rallentando, addirittura bloccando, i lavori di chi invece ha seguito le regole.

La circolare emessa il 23 giugno scorso chiarisce la procedura per la cessione del credito e ribadisce la necessità che Poste Italiane e le banche effettuino i controlli prima di erogare i soldi proprio per non ostacolare chi ha rispettato le norme.

Ma sia Poste sia gli istituti di credito hanno già subito perdite da centinaia di milioni e adesso i ritardi si accumulano penalizzando i cittadini in regola.

Il parcheggiatore abusivo

Il 28 giugno la Procura di Napoli ha disposto «il sequestro di crediti derivanti da bonus edilizi e di locazione per oltre 772 milioni di euro, vantati da 143 soggetti, tra persone fisiche e giuridiche tra le province di Napoli e Caserta». Si è scoperto che erano stati inseriti nel portale «crediti per svariati milioni di euro, a fronte di fantomatici lavori di ristrutturazione di fatto mai eseguiti».

Tra i titolari del credito «sono stati individuati anche soggetti più volte segnalati dagli investigatori per esercizio abusivo dell’attività di parcheggiatore, per essere risultati privi di partita Iva, per aver svolto attività d’impresa per un solo giorno, per essere risultati impegnati in settori economici differenti da quello edilizio e persino per contiguità con la camorra, sia napoletana che casertana».

Tra loro anche «un soggetto che avrebbe ricevuto lavori di ristrutturazione per oltre 34 milioni di euro e, al contempo, ne avrebbe egli stesso asseritamente eseguiti per oltre 30 milioni di euro, benché fosse in realtà detenuto presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere».

Il conto lituano e i palazzi spariti

Il 6 luglio sono state bloccate erogazioni per oltre 110 milioni di euro dai magistrati di Parma che avevano chiesto e ottenuto l’arresto di quattro persone. La società incaricata dei lavori «avrebbe ricevuto una provvista di denaro monetizzando crediti di imposta legati a “sisma bonus”, “eco bonus” e “bonus facciata”, procedendo poi a trasferire la somma all’estero su un rapporto bancario lituano riconducibile a un trust svizzero. Ma la vera sorpresa per gli investigatori è arrivata dagli accertamenti effettuati al catasto. Hanno infatti scoperto che i lavori erano stati pianificati per «281 immobili inesistenti e soprattutto 23 immobili ubicati in Comuni soppressi da tempo (anche nei primi anni del secolo scorso) e decine di altri immobili di proprietà di terzi soggetti che però erano totalmente estranei agli affari».

Sgravi e Reddito di cittadinanza

Le indagini avviate a Napoli hanno consentito di accertare che «il 70 per cento delle persone titolari del credito di imposta risultava percettore o comunque richiedente il Reddito di cittadinanza». Ancor più eclatante quanto scoperto a Caserta dove sono stati sequestrati oltre 13 milioni di euro a due imprenditori che avevano avviato lavori anche a Modena. La Guardia di Finanza ha svelato che «i due indagati, senza avere una concreta organizzazione aziendale (mezzi, dipendenti, uffici), avevano generato crediti di imposta per lavori edili mai svolti, per i quali non erano state emesse fatture nei confronti dei presunti clienti. I crediti generati venivano poi ceduti, di solito in tranche di 500 mila euro, a una moltitudine di soggetti privi della necessaria forza economica per pagare il prezzo della cessione del credito e, in alcuni casi percettori del Reddito di cittadinanza, che avevano l’esclusivo compito di rivendere i crediti d’imposta agli istituti di credito i quali, ignari della provenienza delittuosa, provvedevano a monetizzarli».

I premi per le Poste e i controlli

Poste Italiane è uno dei concessionari del «Servizio di Cessione dei crediti d’imposta» e anche sulla base di questo maggior impegno l’assemblea ha approvato «l’innalzamento della retribuzione per il personale di vertice». Ma è stata ribadita, anche dai giudici che hanno sbloccato milioni di euro sequestrati proprio per stanare i truffatori, la necessità di effettuare controlli «mentre non sempre è stata compiuta adeguata verifica della clientela».

Superbonus e stop trivelle. I grillini scaricati da tutti. Lodovica Bulian il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa. Il governo cerca di rispondere pensando ad uno stock di energia a prezzo calmierato ma anche all'aumento della produzione nazionale di gas. Venerdì il ministero della transizione tecnologica ha pubblicato il Pitesai, il piano che individua le aree idonee alla prospezione all'estrazione di idrocarburi su terra e offshore, dopo la moratoria imposta nel 2019. Il piano nato sotto il governo Conte I, ma con l'intento di mettere vincoli alla ricerca di idrocarburi. Ora invece potrebbe essere accompagnato da un pacchetto di norme per sbloccare le trivelle tanto contestate dal M5s. È un documento di oltre 200 pagine che individua le aree in cui sarà possibile riavviare le ricerche e che arriva nel momento più drammatico per gli equilibri di approvvigionamento del gas. E ora volano le accuse incrociate contro i pentastellati: «La furia ideologica di M5S e Lega lo bloccò nel 2019: tre anni cruciali persi. A proposito di costi della politica: ci è costato più questo o i 345 parlamentari tagliati con la riforma gialloverde?», attacca Italia Viva con Marco Di Maio.

Nel mirino le politiche del No del Movimento, diventate negli anni battaglie contro il Tap, ma anche la Tav e grandi opere. Il M5s definiva il gasdotto pugliese «opera da criminali». E non basta oggi agli avversari l'inversione del sottosegretario agli Esteri dei cinque stelle Manlio Di Stefano: «È una questione di contesto storico differente. Quando abbiamo iniziato a parlare di Tap non si parlava ancora di transizione ecologica. Oggi abbiamo un contesto che mi fa dire: fortunatamente c'è il Tap». Gli risponde il viceministro alle Infrastrutture Teresa Bellanova: «Spiace dover contraddire Di Stefano ma la giravolta del M5S sul gasdotto Tap non è una questione di contesto storico differente. Ho purtroppo vissuto sulla mia pelle ciò che di violento, poco corretto, intimidatorio e umanamente miserabile il Movimento ha saputo scagliare contro chi invitava chiunque a ragionare sul tema gasdotto. Noi siamo ancora qua in attesa di quell'unico atto che sarebbe doveroso da parte vostra: chiedere scusa». E del resto anche sulle trivelle Luigi Di Maio parlava così: «Lo stop alle trivelle è una battaglia per la sovranità nazionale. Io alla mia terra ci tengo, io al mio mare ci tengo e non ho intenzione di svendere nulla ai petrolieri del resto del mondo. Sviluppiamo questo Paese in maniera sostenibile e proiettati al futuro».

M5s che ora finisce nel mirino anche per le frodi sul Superbonus, ma contrattacca la Lega sulle parole del ministro Giancarlo Giorgetti che ha criticato la misura: «Apprendiamo che il ministro è contrario al Superbonus 110%, misura che ha prodotto un terzo dell'aumento del Pil nel 2021. È dunque lecito chiedersi se anche Matteo Salvini e la Lega abbiano cambiato idea rispetto alla nostra misura. Salvini si rimangia i voti a favore del Superbonus espressi dal suo partito in Parlamento?», dicono i deputati Patrizia Terzoni, Luca Sut e Riccardo Fraccaro. «Mi pare che la strategia sia ormai chiara, tutti contro il Movimento. Se è già iniziata la campagna elettorale basta che ce lo dicano», lamenta il capo delegazione M5s al governo, il ministro Stefano Patuanelli. Lodovica Bulian

Reddito di cittadinanza e bonus, quanto ci sono costati i Cinque stelle al governo. Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 13 febbraio 2022

Quando Daniele Franco gli ha sbattuto in faccia che è grazie a loro, che hanno scritto male la misura, se il Superbonus fa acqua da tutte le parti e le frodi sono arrivate alla mostruosa cifra di 4,4 miliardi («livelli mai visti», ha detto), i grillini sono andati su tutte le furie. Ma è un fatto che la cessione del credito senza controlli per tutti i bonus edilizi è stata voluta dal Conte II nell'estate del 2020, così come è un fatto che uno dei principali ostacoli all'aumento della produzione di gas in Italia, vitale oggi con le bollette alle stelle, è la moratoria sulle trivelle (in queste ore sbloccata dal governo) voluta dal Conte I nel febbraio del 2019. La realtà, piaccia o no al Movimento e al popolo dei vaffa, è che da quando hanno messo piede a Palazzo Chigi i Cinquestelle non ne hanno fatta una giusta. La famosa scatoletta di tonno è stata aperta, bisogna dirlo, ma quello che ne è uscito più che l'onestà e il cambiamento promessi sono stati provvedimenti rabberciati, leggi malfatte, passi falsi e miliardi di soldi dei contribuenti gettati al vento.

Tutto comincia a pochi mesi dall'insediamento nel governo in coabitazione con la Lega. È il luglio del 2018 e Luigi Di Maio annuncia con orgoglio l'approvazione del decreto dignità. Una misura che avrebbe dovuto abolire il precariato mettendo all'angolo sfruttatori e avidi imprenditori. Com' è finita lo sappiamo. Per tenere insieme i cocci del mondo del lavoro mandato in frantumi dalla pandemia è stato lo stesso premier Giuseppe Conte, tanti i problemi provocati dalla stretta grillina sui contratti a termine, a dover sospendere l'applicazione del decreto.

CAPOLAVORO - Il capolavoro a Cinquestelle è, però, quello che arriva qualche mese dopo. È il settembre del 2018 quando sempre Di Maio, ancora più orgoglioso, esce dal balcone di Palazzo Chigi e grida alla folla festante di aver abolito la povertà. Inizia la grande epopea del reddito di cittadinanza. La legge istitutiva è del gennaio 2019, ma la paghetta grillina parte ad aprile. Da allora ci è costata la bellezza di 20 miliardi finiti anche, grazie ad un sistema di controlli basato sulle autocertificazioni, in tasca ad assassini, mafiosi, terroristi, detenuti, parassiti, truffatori, spacciatori, ladri ed evasori fiscali. Nello stesso periodo Alfonso Bonafede, allora ministro della Giustizia, dava vita all'altro grande orgoglio del popolo grillino: la legge spazzacorrotti, con annessa abolizione della prescrizione. Una roba in totale contrasto con l'unica richiesta che da sempre tutti gli organismi internazionali ci fanno: velocizzare i processi. Anche in questo caso la toppa hanno dovuto metterla da soli, approvando lo scorso autunno la riforma Cartabia sulla improcedibilità, che ha di fatto mandato in soffitta le trovate di Bonafede.

Passano pochi giorni, è il febbraio del 2019, e i grillini ne combinano un'altra. Spinto dal generale della Forestale, Sergio Costa, fino allo scorso febbraio ministro dell'Ambiente, Conte blocca tutte le trivelle del Paese. La scusa è una moratoria in attesa di capire dove è meglio traforare a caccia di idrocarburi. Il risultato è che rispetto ai 20 miliardi di metri cubi di gas che venivano estratti in Italia nel primo decennio del 2000 lo scorso anno, proprio quello in cui il costo del metano importato dall'estero ha iniziato a far impennare le bollette, siamo scesi a 3,3 miliardi, con una flessione del 18% rispetto al 2020. Grazie anche a questa bravata il governo ha già dovuto tirare fuori, considerando l'intervento previsto per la settimana entrante, circa 16 miliardi di aiuti pubblici.

AMBIENTE - E arriviamo così al Superbonus del maggio 2020, i cui pasticci originari stanno venendo a galla ora, con l'esplosione delle truffe e una serie di modifiche in corsa che stanno rischiando di far saltare tutto. È di un paio di mesi dopo, invece, il colpo da maestro di Conte. A metà luglio, dopo avere, lui e i grillini, per due anni invocato la revoca forzata delle concessioni per il disastro del Ponte Morandi, decide di siglare un accordo con i Benetton per acquistargli le Autostrade a prezzo di mercato. Costo dell'operazione: 8 miliardi di euro, di cui circa 4 pagati dalla Cdp. Lo scorso dicembre pure la Corte dei Conti si è chiesta a chi sia convenuto l'affare, non propendendo per lo Stato. L'ultima genialata è di qualche giorno fa. Con il contributo, va detto, della maggioranza del Parlamento, i grillini sono riusciti a far inserire nella Costituzione la tutela dell'ambiente. Come non ci fossero già abbastanza giurisdizioni a cui appellarsi quando c'è da bloccare qualche opera strategica per lo sviluppo e il benessere del Paese.

·        Le ali italiane.

Traduzione dell’articolo di Christian Schubert per la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” il 25 novembre 2022.

 ITA Airways ha poco più di un anno di vita ed è subentrata alla compagnia di bandiera italiana Alitalia, che ha vissuto anni gloriosi nonostante i fallimenti del dopoguerra. Ora, però, la minaccia è una fine disastrosa se il suo salvataggio non riesce al più presto. 

La compagnia aerea di proprietà dello Stato ha urgentemente bisogno di un partner, perché, secondo quanto viene riferito, subisce perdite di oltre un milione di euro al giorno. Tuttavia, è prevista una notevole espansione: L'anno prossimo saranno aggiunti 39 aeromobili alla flotta, con un aumento del 73% della capacità. Al momento nessuno in Italia sa come questi aerei saranno riempiti di passeggeri.

Il presidente del consiglio di amministrazione, Antonino Turicchi, nominato recentemente, dovrebbe fornire delle risposte. È un funzionario del Ministero dell'Economia e delle Finanze e ha diretto la holding statale CDP tra il 2003 e il 2009. Le malelingue in Italia sostengono che, come funzionario pubblico, non poteva rifiutare l'offerta di lavoro del ministro dell'Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti.

A quanto pare, il ministro aveva già ottenuto diversi rifiuti da altre persone. Inoltre, il contratto di Turicchi è valido solo fino a marzo. Ma questi mesi sono cruciali perché ITA Airways deve essere 'rivestita da sposa'. 

Nonostante la buona attività estiva, la situazione è critica per l'azienda. Questo perché il governo di Mario Draghi, che nel frattempo è stato sostituito, ha completamente sbagliato strategia sulla privatizzazione prevista dalla Commissione europea. Alla fine di agosto, il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha respinto l'offerta di acquisizione di Lufthansa e della compagnia di navigazione MSC, avviando invece colloqui esclusivi con la società di investimento americana Certares.

Ben presto si scoprì che gli americani avevano poco da offrire. Secondo gli addetti ai lavori, il Ministero dell'Economia e delle Finanze sarebbe stato convinto dal capo di Certares, Greg O'Hara. Il finanziere americano, nato in Germania e figlio di immigrati greci, è un ex banchiere della J.P. Morgan Chase che ha lasciato la banca dieci anni fa. 

Al Ministero dell'Economia italiano sembravano accecati dal fatto che Certares ha partecipazioni in società di viaggi come American Express Global Business Travel e in un'agenzia di viaggi di lusso americana. Questo avrebbe dovuto portare in Italia passeggeri facoltosi.

Inoltre, Certares si è accontentava solo del 51% e ha promesso al governo italiano ampi diritti di codeterminazione. Questo ha soddisfatto le pretese di interventismo dei funzionari statali. Ma l'offerta è scoppiata come gli pneumatici all'atterraggio di un aereo in cattivo stato. Anche la promessa cooperazione commerciale con Air France e Delta Airlines è svanita nel nulla. Di conseguenza, il nuovo governo deve ora rivedere la procedura di gara.

Lufthansa, Certares e Indigo Partners sono stati recentemente ammessi alla data room, secondo quanto riferito da fonti governative a Roma. La compagnia di navigazione MSC, che nella precedente offerta avrebbe dovuto rilevare il 60% di ITA (rispetto al 20% di Lufthansa), non è più in corsa. Al Ministero dell'Economia e delle Finanze, Lufthansa è ora considerata il partner preferito, anche se nessuno vuole confermarlo ufficialmente. Una partecipazione di maggioranza è possibile anche per i tedeschi, che hanno il miglior piano industriale.

Potrebbe essere coinvolto un partner italiano di minoranza. La stampa italiana ha ipotizzato la società ferroviaria statale FS Italiane. Una soluzione del genere potrebbe pacificare i fanatici nazionalisti di destra facenti capo al premier, Giorgia Meloni. 

Fabio Rampelli, il vicepresidente della Camera vicino alla Meloni, aveva ammonito all'inizio di agosto del pericolo di una "sottomissione al Reich tedesco" per quanto riguarda ITA. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che Lufthansa chiede la maggioranza del capitale e vuole limitare l'influenza dello Stato. L'offerta per acquisire ITA non è incontrastata nel consiglio di amministrazione di Lufthansa, secondo quanto si apprende da ambienti industriali. Lufthansa non vuole commentare.

Chiunque sarà al timone dovrà nominare una nuova leadership. L'attuale CEO, Fabio Lazzerini, era ai ferri corti con il Presidente del Consiglio di Amministrazione, Alfredo Altavilla, in una lotta di potere senza esclusione di colpi. Altavilla riteneva migliore l'offerta di Lufthansa fin dall'inizio, così come i sindacati; Lazzerini, invece, era convinto sulla scelta del fondo statunitense Certares - così come l'influente Direttore Generale del Ministero dell'Economia e delle Finanze, Alessandro Rivera. Spalleggiato dal ministero, Lazzerini è riuscito ad avere la meglio.

Altavilla ha lasciato la compagnia e ora le ha fatto causa per quanto accaduto ingiustamente. Ma la vittoria di Lazzerini potrebbe essere solo temporanea: la cosa curiosa è che il 20 ottobre gli sono stati conferiti gli importanti poteri strategici del Presidente proprio dal consiglio di amministrazione controllato dallo Stato. Altavilla fu così privato del suo potere. Tre settimane dopo, però, il Ministero dell'Economia ha tolto questi poteri a Lazzerini per trasferirli al nuovo Presidente Turicchi.

A Lazzerini è stata esplicitamente affidata solo la responsabilità del personale. In questo clima incandescente, Turicchi dovrebbe ora mettere pace all'interno della compagnia aerea come capo supervisore ad interim con poteri esecutivi. 

Negli ultimi mesi, l'amministratore delegato Lazzerini ha esercitato pressioni su tutti i manager considerati sostenitori di Lufthansa, come riferiscono fonti interne. Altavilla era anche stato accusato di lavorare segretamente contro Certares. Tuttavia ha semplicemente negato alle compagnie aeree Air France e Delta Airways la possibilità di conoscere la redditività delle rotte di ITA, essendo queste coinvolte solo come partner commerciali e non come investitori. Non è casuale quindi che nessuna delle parti coinvolte voglia dare spiegazioni ufficiali in merito. 

ITA Airways, tuttavia, non può sopravvivere senza il sussidio statale. La Commissione europea ha autorizzato aumenti di capitale pari a 1,35 miliardi di euro a condizione che si arrivi alla privatizzazione della società. L'ultima iniezione di capitale di 250 milioni di euro è prevista per marzo. 

Da un lato, il tempo fa il gioco di chi è interessato a un'acquisizione, perché il valore della compagnia aerea si riduce ogni giorno che passa. Ad esempio, si ipotizza che Lufthansa potrebbe ottenere il 51% di ITA per soli 250 milioni di euro.

All'inizio dell'anno, invece, l'azienda valeva ancora 1,3-1,4 miliardi di euro. D'altra parte, però, ITA ha bisogno di una prospettiva futura in tempi brevi. Non sarà un compito facile per il futuro proprietario, perché, secondo gli addetti ai lavori, i dirigenti di ITA sono ancora modellati sulla cultura della vecchia Alitalia, altamente fondata sulle sovvenzioni e priva di approccio alla profittabilità.

“Conti falsi e lussi a cena”. Così è precipitata l’Alitalia targata Etihad. Aldo Fontanarosa su La Repubblica il 23 Settembre 2022.   

Ecco il decreto del rinvio a giudizio. Il Tribunale di Civitavecchia dispone il processo per 15 tra ex amministratori e dirigenti del vettore. Il paradosso della ex compagnia di bandiera che è parte lesa, ma anche imputata per possibili reati amministrativi. Prima udienza a maggio 2023

Mancano le condizioni «per una sentenza di non luogo a procedere». Al Tribunale di Civitavecchia, il giudice Francesco Filocamo motiva così il decreto di rinvio a giudizio per il crac di Alitalia.

Il decreto, disponibile nella sua integralità da ieri, manda a processo 15 tra ex dirigenti ed ex amministratori dell’ormai estinta compagnia di bandiera tra cui Luca Cordero di Montezemolo e Roberto Colaninno. Vanno a processo anche gli uomini di punta del vettore degli Emirati, Etihad, che avrebbe dovuto rilanciare Alitalia: Mark Cramer Ball e James Hogan.

Accuse impegnative

E se è vero che gli imputati sono presunti innocenti fino a sentenza passata in giudicato, le accuse – ora per alcune, ora per altre persone – sono impegnative:

- voti a favore del bilancio di Alitalia del 2015 che il Tribunale sospetta «falsamente certificato»;

- una perizia di comodo che avrebbero creato una plusvalenza milionaria, «falsa»;

- l’ostinazione di presentare come operativa la compagnia anche quando perdeva 60 milioni al mese, di media;

- spese di catering, per una cena di gala e quattro eventi aziendali «estranee a ragionevoli esigenze di impresa».

Alitalia, in tutta questa storia, svolge due parti in commedia: è la vittima della presunta bancarotta e degli altri reati (difesa - in qualità di parte civile costituita - dall’avvocato Roberto Borgogno); ed è anche imputata (difesa da Giuseppina Morelli).

Il decreto chiama in causa, intanto, l’ex ad di Alitalia (Cramer Ball); James Hogan (già vice presidente); Montezemolo, consigliere con potere da amministratore delegato per circa 6 mesi, tra il 2015 e il 2016; e quattro dirigenti. Il reato ipotizzato è bancarotta.

L'aumento dei debiti

Il Tribunale contesta l’approvazione della situazione patrimoniale (nel 2016 e 2017) e soprattutto del bilancio del 2015 «falsamente certificato» (anche Colaninno dovrà rispondere su questo specifico punto). Le approvazioni avrebbero fornito «dati di segno positivo difformi dal vero consentendo il progressivo aumento» dei debiti.

Il Tribunale lamenta anche «la registrazione di una falsa plusvalenza nell’esercizio 2016 per 39 milioni». Qui il Tribunale cita la coppia di slot (i diritti di atterraggio e ripartenza da Fiumicino a Londra Heathrow) del valore di almeno 60 milioni, eppure riportati a bilancio per 21. In questo modo avrebbe preso forma la «falsa plusvalenza da 39 milioni», generata per occultare la pericolosa «riduzione del Patrimonio Netto».

L’operazione sugli slot è avvenuta anche sulla base di una perizia di una società di consulenza (costo 35 mila euro più spese); ma redatta «in gran parte da personale di Alitalia».

Alla fine Cramer Ball, Montezemolo e un dirigente avrebbero mancato di «rappresentare l’inesistenza del presupposto della continuità aziendale». Alitalia si avvicinava alla fine; ma nessuno dava l’allarme. Eppure la società arrivava a perdere 60 milioni al mese di media; e accusava «rilevanti scostamenti tra proiezioni di cassa approvate nei Cda del 2015 e 2016» e incassi reali. 

A Montezemolo, Cramer Ball e a un dirigente si chiede conto anche dei 133.571 euro di spese per il catering consumato alle riunioni del Cda (beneficiaria la società Relais Le Jardin); dei 5.961 euro per una cena di gala (Casina Valadier); dei 458.077 euro «inizialmente sostenuti da Etihad per quattro eventi aziendali e poi indebitamente riaddebitati ad Alitalia».

Curiosamente anche Alitalia, ora in amministrazione straordinaria, è imputata. La compagnia - vittima della presunta bancarotta – a sua volta risponderà di un illecito amministrativo (per presunte false comunicazioni sociali e ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza). Alitalia, in sostanza, «ometteva di dotarsi di un modello organizzativo idoneo» a prevenire la serie dei reati in atto.

Le operazioni incoerenti

Operazioni «incoerenti» di Alitalia, infine, avrebbero avvantaggiato la Darwin-Etihad Regional (con perdite per la compagnia italiana tra i 43,7 e i 54,5 milioni); ed Etihad (con perdite per altri 44). Un esempio su tutti. Tratta Ginevra-Firenze e Ginevra-Venezia. Darwin-Etihad Regional decolla ogni giorno con aerei da 50 posti.

L’intesa commerciale prevede che Alitalia le paghi 40 dei 50 posti anche se non riusciva a vendere i biglietti. Scrive il Tribunale: eppure, storicamente, era «noto che Darwin-Etihad Regional era stata in grado di vendere solo 2 o 3 posti per volo».

Alitalia, Luca di Montezemolo e Roberto Colaninno tra i 14 rinviati a giudizio. Il Tempo il 16 settembre 2022

Vanno avanti i procedimenti legali su Alitalia. Il gup di Civitavecchia, Francesco Filocamo, ha rinviato a giudizio 14 imputati e del responsabile civile Etihad Airways nell’ambito del procedimento per bancarotta fraudolenta e altri reati societari nei confronti degli ex amministratori e sindaci (nel biennio 2014-2016) di Alitalia, dichiarata insolvente nel 2017 e ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria. Tra loro, anche Luca Cordero di Montezemolo e Roberto Colaninno.

Il processo verrà celebrato di fronte al Tribunale collegiale di Civitavecchia, con prima udienza fissata per il 18 maggio del prossimo anno. Gli attuali commissari straordinari di Alitalia, Giuseppe Leogrande, Daniele Santosuosso e Gabriele Fava, difesi dal professor avvocato Roberto Borgogno, sono costituiti parte civile nel processo a tutela dei creditori dell’ex compagnia di bandiera, per ottenere il riconoscimento dei danni derivanti dalle condotte che, secondo l’accusa sostenuta in giudizio dal pm Mirco Piloni, avrebbero provocato il dissesto di Alitalia. La chiamata in corresponsabilità di Etihad Airways si basa in particolare sull’assunto accusatorio - che dovrà appunto essere verificato nel corso del giudizio - che la compagnia aerea emiratina, pur essendo socia di minoranza di Alitalia (con il 49% del capitale), esercitasse su quest’ultima in modo continuativo ed effettivo una decisiva influenza sulla gestione e sul controllo, tale da determinarne le scelte più rilevanti.

Crac Alitalia: processo per bancarotta a Montezemolo, Colaninno e Bisignani. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022.

Deciso il rinvio a giudizio per il fallimento della compagnia aerea di bandiera. Responsabile civile è Ethiad Airlines 

Il crac di Alitalia verrà esaminato in un processo per bancarotta fraudolenta. Il gup del tribunale di Civitavecchia ha mandato a giudizio, tra gli altri, Luca Cordero di Montezemolo, Roberto Colaninno, Giovanni Bisignani. Al centro della vicenda c’è la situazione della compagnia aerea, dichiarata insolvente nel 2017 e ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria. Quale responsabile civile è stata chiamata a rispondere, dal giudice Francesco Filocamo, a conclusione dell’udienza preliminare, la Etihad Airways. Il processo verrà celebrato di fronte al Tribunale collegiale di Civitavecchia, con prima udienza fissata per il giorno 18 maggio 2023.

In particolare sono 14 gli imputati chiamati a rispondere a vario titolo, fra ex amministratori e sindaci di Alitalia che hanno ricoperto la carica nel biennio 2014/2016. Gli attuali Commissari Straordinari di Alitalia, Giuseppe Leogrande, Daniele Santosuosso e Gabriele Fava, difesi da Roberto Borgogno, si sono costituiti parte civile nel processo a tutela dei creditori dell`ex compagnia di bandiera. Si cercherà di ottenere il riconoscimento dei danni derivanti dalle condotte che, secondo l`accusa sostenuta in giudizio dal Pubblico Ministero di Civitavecchia, Mirco Piloni, avrebbero provocato il dissesto di Alitalia. La chiamata in corresponsabilità di Etihad Airways si basa in particolare sull`assunto accusatorio - che dovrà appunto essere verificato nel corso del giudizio - che la compagnia aerea emiratina, pur essendo socia di minoranza di Alitalia (con il 49% del capitale), esercitasse su quest`ultima in modo continuativo ed effettivo una decisiva influenza sulla gestione e sul controllo, tale da determinarne le scelte più rilevanti.

Estratto dall'articolo di Aldo Fontanarosa per “la Repubblica” il 23 settembre 2022.

Mancano le condizioni «per una sentenza di non luogo a procedere». Al Tribunale di Civitavecchia, il giudice Francesco Filocamo motiva così il decreto di rinvio a giudizio per il crac di Alitalia. Il decreto, disponibile nella sua integralità da ieri, manda a processo 15 tra ex dirigenti ed ex amministratori dell’ormai estinta compagnia di bandiera tra cui Luca Cordero di Montezemolo e Roberto Colaninno. Vanno a processo anche gli uomini di punta del vettore degli Emirati, Etihad, che avrebbe dovuto rilanciare Alitalia: Mark Cramer Ball e James Hogan.

E se è vero che gli imputati sono presunti innocenti fino a sentenza passata in giudicato, le accuse – ora per alcune, ora per altre persone – sono impegnative. Voti a favore del bilancio di Alitalia del 2015 che il Tribunale sospetta «falsamente certificato». Una perizia di comodo che avrebbero creato una plusvalenza milionaria, «falsa». L’ostinazione di presentare come operativa la compagnia anche quando perdeva 60 milioni al mese, di media. Spese di catering, per una cena di gala e quattro eventi aziendali «estranee a ragionevoli esigenze di impresa». 

Alitalia, in tutta questa storia, svolge due parti in commedia: è la vittima della presunta bancarotta e degli altri reati (difesa - in qualità di parte civile costituita - dall’avvocato Roberto Borgogno); ed è anche imputata (difesa da Giuseppina Morelli).

Il decreto chiama in causa, intanto, l’ex ad di Alitalia (Cramer Ball); James Hogan (già vice presidente); Montezemolo, consigliere con potere da amministratore delegato per circa 6 mesi, tra il 2015 e il 2016; e quattro dirigenti. Il reato ipotizzato è bancarotta. Il Tribunale contesta l’approvazione della situazione patrimoniale (nel 2016 e 2017) e soprattutto del bilancio del 2015 «falsamente certificato» (anche Colaninno dovrà rispondere su questo specifico punto). Le approvazioni avrebbero fornito «dati di segno positivo difformi dal vero consentendo il progressivo aumento » dei debiti. Il Tribunale lamenta anche «la registrazione di una falsa plusvalenza nell’esercizio 2016 per 39 milioni». [...]

Alitalia si avvicinava alla fine; ma nessuno dava l’allarme. Eppure la società arrivava a perdere 60 milioni al mese di media; e accusava «rilevanti scostamenti tra proiezioni di cassa approvate nei Cda del 2015 e 2016» eincassi reali. 

A Montezemolo, Cramer Ball e a un dirigente si chiede conto anche dei 133.571 euro di spese per il catering consumato alle riunioni del Cda (beneficiaria la società Relais Le Jardin); dei 5.961 euro per una cena di gala (Casina Valadier); dei 458.077 euro «inizialmente sostenuti da Etihad per quattro eventi aziendali e poi indebitamente riaddebitati ad Alitalia».

Curiosamente anche Alitalia, ora in amministrazione straordinaria, è imputata. La compagnia - vittima della presunta bancarotta – a sua volta risponderà di un illecito amministrativo (per presunte false comunicazioni sociali e ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità di vigilanza). Alitalia, in sostanza, «ometteva di dotarsi di un modello organizzativo idoneo» a prevenire la serie dei reati in atto. 

Operazioni «incoerenti» di Alitalia, infine, avrebbero avvantaggiato la Darwin-Etihad Regional (con perdite per la compagnia italiana tra i 43,7 e i 54,5 milioni); ed Etihad (con perdite per altri 44). Un esempio su tutti. Tratta Ginevra-Firenze e Ginevra-Venezia. Darwin-Etihad Regional decolla ogni giorno con aerei da 50 posti. L’intesa commerciale prevede che Alitalia le paghi 40 dei 50 posti anche se non riusciva a vendere i biglietti. Scrive il Tribunale: eppure, storicamente, era «noto che Darwin-Etihad Regional era stata in grado di vendere solo 2 o 3 posti per volo».

LA STRATEGIA. Lufthansa e Msc vogliono acquistare la maggioranza di Ita Airways. DANIELE MARTINI su Il Domani il 24 gennaio 2022.

Lufthansa e Aponte hanno concordato con i vertici di Ita un percorso di tre mesi durante il quale effettueranno la due diligence mettendo cioè il naso nei conti e nei documenti dell’azienda verificando in prima persona le sue condizioni.

Si scomodano, se così si può dire, non tanto per avviare una partnership con la compagnia italiana, ma per prendere la maggioranza, cioè per acquisirne il controllo.

Probabilmente il compito vero di Ita non era raccontabile all’opinione pubblica ed era fare macelleria sociale di contratti onerosi della vecchia Alitalia.

DANIELE MARTINI. Ha lavorato 15 anni all’Unità e 23 a Panorama. Ha collaborato con Il Fatto Quotidiano. Ha scritto 5 libri: le biografie di Gianfranco Fini e Massimo D’Alema e tre inchieste sulla casta, le raccomandazioni e il nepotismo

LE CONDIZIONI PER IL VIA LIBERA DELLA COMPAGNIA DI BANDIERA. La lettera della commissione Ue svela le verità taciute su  ITA Airways. DANIELE MARTINI su Il Domani il 28 gennaio 2022.

Sessantatré pagine, tabelle e omissis: a distanza di oltre quattro mesi dalla sua redazione, è stata finalmente resa pubblica la lettera con cui l’Unione europea ha dato il suo assenso alla nascita di Ita Airways.

Tra le condizioni poste per il via libera alla compagnia c’è il vincolo di entrare in un’ «alleanza globale», la seconda è un limite alle spese per la flotta. 

Quindi fin dall’inizio governo e dirigenza di Ita sapevano che la compagnia non doveva procedere da sola e nel frattempo hanno comunque fatto grandi acquisti. 

Sessantatré pagine con diverse tabelle e anche diversi omissis: a distanza di oltre quattro mesi dalla sua redazione, è stata finalmente resa pubblica la lettera con cui l’Unione europea ha dato il suo assenso alla nascita di Ita Airways, la compagnia aerea statale che dal 15 ottobre ha preso il posto di Alitalia. In un primo momento l’Unione attraverso i suoi uffici aveva negato la pubblicazione del documento asserendo che in esso erano contenuti aspetti considerati segreti industriali e che quindi in collaborazione con le autorità italiane era in corso la stesura di un testo che potesse risultare divulgabile. La richiesta di pubblicazione era stata avanzata da un sindacato di base, la Cub guidata da Antonio Amoroso, e da un sindacato di piloti, Navaid.

Con la lettera la commissione dell’Unione europea ha sostanzialmente dato la possibilità allo stato di finanziare con 1 miliardo e 350 milioni di euro la partenza della compagnia a determinate condizioni preventivamente discusse e concordate con il governo italiano e tali da poter escludere che l’investimento possa configurarsi come un aiuto di stato che avrebbe alterato la concorrenza e quindi da sanzionare.

L’Ue ha concesso che la somma possa essere consegnata a Ita in tre tranche: 700 milioni di euro nel 2021, 400 nel 2022 e 250 nel 2023.  Per la verità lo stato italiano avrebbe messo a disposizione della nuova compagnia 3 miliardi di euro e al momento non è chiaro se la parte restante possa essere stanziata senza ulteriori passaggi con la Commissione. Anche perché nel frattempo lo status di Ita potrebbe cambiare radicalmente trasformandosi da compagnia pubblica interamente posseduta dal ministero dell’Economia, a compagnia privata con una partecipazione di minoranza dello stato italiano.

VENDITA IN CORSO

Come è noto all’acquisto di Ita sono interessati due giganti del trasporto mondiale, Lufthansa e Msc dell’armatore italo-svizzero Gianluigi Aponte. Dopo l’annuncio da parte di Ita della manifestazione di interesse dei due colossi sono circolate indiscrezioni secondo cui Lufthansa e Msc insieme si vorrebbero assicurare il 60 per cento della neonata compagnia lasciando allo stato italiano il resto. Le trattative sono in corso, Lufthansa e Msc stanno mettendo il naso nei conti e nei documenti di Ita per rendersi conto dello stato in cui versa l’azienda per poter eventualmente effettuare una proposta di acquisto dettagliata entro 3 mesi.

Tra le condizioni poste dall’Europa per concedere il suo ok alla partenza di Ita ce ne sono due particolarmente significative che riguardano il piano aziendale. La prima è una sorta di preventiva messa sotto tutela della compagnia italiana, la seconda concerne la flotta. In sostanza la Commissione europea dà il suo assenso a patto che Ita «partecipi a un’alleanza globale e costruisca una partnership commerciale strategica con un attore europeo per stabilire una presenza più forte sia sui mercati a lungo raggio sia europei, con una graduale integrazione della rete a partire dal 2022».

In pratica fin da prima della partenza il governo italiano e i dirigenti di Ita, il presidente Alfredo Altavilla e l’amministratore Fabio Lazzerini, erano pienamente consapevoli che era stato stabilito che la compagnia non dovesse procedere da sola. Nonostante ciò si sono comportati come se questo vincolo non esistesse, lasciando intendere al contrario che l’azienda di Fiumicino potesse volare sicura con le proprie ali verso un futuro stracolmo di successi.

L’Europa, è vero, dava l’indicazione di dotare Ita di una stampella attraverso una «partnership commerciale strategica» che è una cosa diversa dalla vendita. Ma la vendita è diventata nel frattempo una necessità perché i manager di Fiumicino nel giro di nemmeno cento giorni sono passati dall’ostentazione di un’euforia propagandistica a un più prudente realismo fondato sulla consapevolezza che la nuova compagnia si stava candidando a subire un bagno di sangue via l’altro.

Alla luce di quel che sta succedendo appaiono abbastanza sorprendenti i fiumi di parole spesi dai manager di Ita intorno al piano industriale in preparazione perché è del tutto ovvio che il piano lo fa non chi vende, ma chi compra sulla base della proprie strategie.

NUOVA FLOTTA

Visto da questa angolazione risulta abbastanza sorprendente anche ciò che sta succedendo con la flotta. Nella sua lettera l’Unione europea scrive testualmente: «Ita comincerà a operare il 15 ottobre 2021 con 52 aeromobili di vecchia generazione noleggiati da Alitalia». Altavilla e Lazzerini hanno però fatto altro nel frattempo puntando molto in alto con i soldi ricevuti dallo stato: hanno deciso di rinnovare la flotta, cioè di comprare aerei nuovi di zecca. Ne hanno presi la bellezza di 28: sette A220/80, undici A320 Neo 120 e dieci A 330/230.

Quanto saranno pagati questi aerei? Una cifra ufficiale non è mai stata resa nota, sono state fatte trapelare solo indiscrezioni e le cifre circolate risultano abbastanza sorprendenti. Secondo i prezzi di listino quei jet costano 3 miliardi e 600 milioni di euro, mentre secondo le voci trapelate Ita avrebbe speso meno di 1 miliardo e mezzo di euro. Gli esperti del ramo assicurano che uno sconto di quell’entità non è concesso dalle case costruttrici neanche ai lessor, cioè le aziende che comprano aerei e poi li affittano a tutte le compagnie aeree del mondo. È vero che siamo in un momento particolare con il covid che stravolge le regole, ma un ribasso del genere non si giustifica. A meno che la realtà sia un’altra e la cifra spesa molto più alta di quella fatta circolare fino a oggi. DANIELE MARTINI

Far nascere una nuova compagnia aerea (ITA) per venderla, quando si poteva vendere la vecchia Alitalia, è davvero inspiegabile. Il Domani il 22 Gennaio 2022. L’ex compagnia di bandiera non è stata venduta per non essere costretti ad alleggerirla di migliaia di addetti come chiedevano i possibili compratori Lufthansa, Air France, Delta. Ciononostante, sono scattati robusti ammortizzatori sociali per tutelare l’esercito di ex addetti Alitalia e poter cercare di vendere il 40 per cento della Newco pubblica.

Vola un'aquila nel cielo. Report Rai PUNTATA DEL 17/01/2022 di Luca Chianca. Collaborazione di Alessia Marzi 

Claudio Lotito: Chi lo ha appoggiato nell'ennesimo salvataggio dell'Alitalia e perché la sua proposta è stata bocciata?

Claudio Lotito è diventato proprietario della Lazio nel luglio 2004. La prende dalle ceneri della squadra di Cragnotti, sull'orlo del fallimento. In pochi anni la riporta al centro della scena calcistica vincendo ben sei coppe. Ma Lotito vuol dire anche Salernitana quando decide, con suo cognato Mezzaroma, di comprarla e portarla fino alla Serie A. Un conflitto d'interesse che obbliga la Figc a intervenire costringendolo alla vendita della squadra campana. Ma Claudio Lotito è anche politica, quando nel 2018 si candida al Senato con Forza Italia. Esce sconfitto, fa ricorso e il Senato, dopo quasi quattro anni, non si è ancora espresso, creando una situazione di impasse senza precedenti nella storia della Repubblica. A causa della mancata decisione non sono stati ancora convalidati i senatori eletti in Campania nel plurinominale che a breve dovranno votare il nuovo Presidente della Repubblica. Ma i suoi rapporti con la politica sono sempre stati alla base delle sue iniziative imprenditoriali, come quando nel 2019 cerca di entrare in Alitalia, sorprendendo tutti con un'offerta da ben 375 milioni di euro che però verrà rifiutata. Chi lo ha appoggiato nell'ennesimo salvataggio dell'Alitalia e perché la sua proposta è stata bocciata?

VOLA UN’AQUILA NEL CIELO di Luca Chianca collaborazione di Alessia Marzi ricerca immagini Paola Gottardi immagini Alfredo Farina, Cristiano Forti, Tommaso Javidi, Andrea Lilli, Fabio Martinelli Paolo Palermo Montaggio Serena Del Prete

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono ore in cui fervono le trattative per l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. I kingmaker stanno tessendo le loro strategie, chi o fa nell’ombra, chi invece cerca di farlo con una maggiore visibilità. Potete però star certi che vedrete una lotta fino all’ultimo voto. Parleremo nelle prossime puntate chi sono i protagonisti di questa vicenda. Però, insomma, per le elezioni del Presidente della Repubblica avrà sicuramente un peso il Senato. Ma qui c’è l’incognita del terzo incomodo. Sarebbe il presidente della Lazio, Claudio Lotito. Nel 2018 si era candidato nelle liste di Forza Italia nel collegio plurinominale in Campania. Però alla fine della competizione era stato dichiarato vincitore Vicenzo Carbone, anche lui nelle liste di Forza Italia. Solo che Carbone dopo un po’ di tempo cambia idea e passa nelle file di Italia Viva. Lotito presenta un ricorso presso la Giunta delle Elezioni presieduta da Maurizio Gasparri, anche lui Forza Italia, da un sommario riconteggio delle schede, emerge che Lotito potrebbe avrebbe ragione. Le regole vorrebbero che entro i 18 mesi dai fatti, si regolarizzasse la situazione, cioè, venisse convalidato il senatore. Qui invece, siamo a quattro anni circa dai fatti e ancora ci sono, oltre che Lotito, ben 18 senatori che sono quelli che si erano candidati nello stesso collegio plurinominale che sono sub iudice, quello della Campania. Un fatto che non ha precedenti nella storia della Repubblica. E tutto questo mentre si deve eleggere il Presidente. Il nostro Luca Chianca.

SENATO DELLA REPUBBLICA - 2 DICEMBRE 202 VINCENZO CARBONE – SENATORE ITALIA VIVA In questi quattro anni io sono stato additato dai giornali, sono stato additato dalla gente come senatore abusivo, io non mi sono mai sentito abusivo e non lo sono un senatore abusivo. E doverlo spiegare ogni giorno ai propri figli guardate che è una circostanza dolorosa e mi auguro che nessuno di voi possa mai fare questa esperienza, davvero me lo auguro

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO È il 2 dicembre 2021 e finalmente, dopo quasi 4 anni dalle elezioni del 2018, il Senato vota il ricorso della mancata elezione del Presidente della Lazio, Claudio Lotito, candidato in Campania con Forza Italia.

MARIA ELISABETTA ALBERTI CASELLATI – PRESIDENTE SENATO Dichiaro aperta la votazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'aula deve decidere se assegnare il seggio a Lotito o lasciarlo al senatore Vincenzo Carbone eletto all'epoca sempre in Campania con Forza Italia, ma poi passato a Italia Viva di Matteo Renzi.

LUCA CHIANCA Lei se fosse entrato sarebbe passato in un altro partito?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO No mai, mai perché quando uno fa delle scelte devono essere scelte convinte non utilitaristiche.

VINCENZO CARBONE – SENATORE ITALIA VIVA Credetemi io non sono un miracolato e non sono neanche un graziato, io ho dato i migliori anni della mia vita al servizio della gente, a servizio della politica. Grazie.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La discussione in aula però porta a un rinvio. Carbone, senatore di Italia Viva, per il momento è salvo, Lotito è ancora fuori, ma c’è da scommettere che la vicenda non finisce qui, perché avere un seggio in senato può far la differenza.

LUIGI ZANDA – SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Questo è un segno del ritardo con cui il Parlamento è arrivato a giudicare della legittimità di alcuni senatori.

LUCA CHIANCA Tutto il gruppo di Italia Viva al gran completo. Seggio importante eh?

LUIGI ZANDA – SENATORE PARTITO DEMOCRATICO Bah adesso non mi faccia dare giudizi politici su altri partiti su una questione del genere, sì avranno avuto le loro ragioni.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E a causa di questo ritardo, che dura ormai da quasi quattro anni, i senatori eletti in Campania devono essere ancora convalidati.

LUCA CHIANCA Manca la convalida per circa 18 senatori tutti…

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Della Campania

LUCA CHIANCA Della Campania a causa sua?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Non a causa mia: a causa di quelli che non applicano la legge.

LUCA CHIANCA E noi di fatto abbiamo un Senato che di fatto non è mai stato convalidato.

GIANLUIGI PELLEGRINO – AVVOCATO SENATORE MICHELE BOCCARDI Non è convalidato penso per la prima volta nella storia della Repubblica. E quindi si accingerebbero a votare il presidente della Repubblica essendo dei senatori de facto diciamo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Lotito e il senatore Boccardi presentano il ricorso dopo le elezioni del 2018. Vogliono che venga assegnato a loro il seggio. Ma la giunta delle elezioni presieduta da Maurizio Gasparri e deputata a svolgere le verifiche di riconteggio dei voti, va a rilento. E impiegano 2 anni, quando avrebbero dovuto impiegare 18 mesi.

GIANLUIGI PELLEGRINO – AVVOCATO SENATORE MICHELE BOCCARDI Un poco perché cane non mangia cane, un poco per ignavia, un poco per ritardi vari, a seguito di nostre plurime diffide e minacce di danni eccetera finalmente a settembre 2020 ha dovuto affrontare il caso e ha accolto il ricorso.

LUCA CHIANCA Con un po' di ritardo però l'avete affrontata.

MAURIZIO GASPARRI – PRESIDENTE GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO L'abbiamo affrontata e decisa, ma non con un po' di ritardo c'è stata una procedura…

LUCA CHIANCA Il ritardo c'è: c'avete messo due anni per fare una roba che definitivamente deve essere chiusa all'interno dei 18 mesi.

MAURIZIO GASPARRI – PRESIDENTE GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO Noi abbiamo agito ragionevolmente in tempi accettabili. Intanto bisogna fare l'accertamento sui dati, sui risultati, verbali eccetera. Poi un giorno una sede giudiziaria, parlo della magistratura, ci comunicò che determinate sezioni non avevano conservato le schede.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO C'erano delle schede che erano andate distrutte ma mica penserà che le ho distrutte io? Anzi…

LUCA CHIANCA Ci mancherebbe altro, sarebbe il colmo

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Anche perché poi mi perdoni io sono parte lesa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Cosa era successo? In Campania, dove Claudio Lotito si era candidato con Forza Italia, erano emersi errori e anomalie in ben 72 sezioni, così la giunta per le elezioni, anche a seguito del suo ricorso, affida la verifica dei risultati a un comitato composto anche dall'ex presidente del Senato Pietro Grasso.

PIETRO GRASSO –SEGRETARIO GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO I dati sono sicuramente sbagliati perché è stato verificato che non erano soltanto 72 sezioni da correggere, ma ben 457.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma dalla verifica del comitato emerge una variabile imprevista: in seguito ai nuovi conteggi bisognerebbe assegnare un seggio a Liberi e Uguali e toglierne uno proprio a Forza Italia. Se così fosse, addio seggio per Claudio Lotito, ma la relazione viene bocciata accogliendo il ricorso di Lotito.

LUCA CHIANCA Viene bocciata, quindi messo da parte tutto il lavoro di un anno e mezzo.

PIETRO GRASSO –SEGRETARIO GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO Esatto.

LUCA CHIANCA Per ripartire da capo però sui vecchi dati che erano quelli che voi contestavate.

PIETRO GRASSO –SEGRETARIO GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO Sì, erano evidentemente non corrispondenti al voto dei cittadini.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il riconteggio viene dunque bocciato e si torna a ritenere validi i voti che invece Grasso riteneva errati. E attraverso un complesso meccanismo di assegnazione dei seggi, la maggioranza della giunta, sostiene il ricorso di Claudio Lotito in aula.

LUCA CHIANCA Sulla base di che cosa?

PIETRO GRASSO –SEGRETARIO GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO Sulla base di una norma Lotito.

LUCA CHIANCA Grasso l'ha definita “norma Lotito”.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Mi fa specie di Grasso che ha fatto il procuratore e il capo della Procura a Palermo

LUCA CHIANCA È stato anche presidente del Senato

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Sì, ma lasci perdere…

LUCA CHIANCA Seconda carica dello Stato

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Sì, ma mi perdoni la carica gliel'ho detto prima, non presuppone la conoscenza. Diciamo lei parla su una ricostruzione fatta ex post da persone che hanno un interesse a raggiungere un certo obiettivo.

LUCA CHIANCA Che ci siano state delle anomalie su oltre 400 sezioni è un fatto, quello è un fatto oggettivo eh un fatto oggettivo.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Il fatto oggettivo è questo scusi, allora io mi sono sentito leso in un mio diritto, ho fatto ricorso nei termini previsto dalla legge, questo ricorso è stato accolto.

LUCA CHIANCA Sulla base di dati errati.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ma scusi continua ancora con i dati errati, qui la disputa è Carbone-Lotito, questa è la disputa; punto. Altre dispute non ce ne sono, ha capito?

LUCA CHIANCA Però di fatto si è votato qualcosa a favore di Lotito su dati di proclamazione che contenevano un sacco di errori questo è il punto.

MAURIZIO GASPARRI – PRESIDENTE GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO Io non voglio entrare nel merito della decisione perché poi le parti interessate hanno mobilitato giuristi famosissimi credo che 3, 4 ex presidenti della Corte Costituzionale.

LUCA CHIANCA Questo dopo aver bocciato però la relazione che parlava chiaro: dice secondo i nostri calcoli...

MAURIZIO GASPARRI – PRESIDENTE GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO Ma è stata bocciata quella relazione, che le posso dire?

LUCA CHIANCA Ma quella è una bocciatura politica non tecnica, questo è il punto.

MAURIZIO GASPARRI – PRESIDENTE GIUNTA DELLE ELEZIONI - SENATO Ma guardi non devo rendere conto, non faccio un uso di parte del mio voto. Guardi a volte, le casistiche giuridiche son tante. A me è capitato di avere ragione in Senato, torto in Senato, la mia tesi, ragione in sede giudiziaria, avere torto in Senato e in sede giudiziaria, quindi 1x2.

LUCA CHIANCA Se diventasse senatore chi voterà?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Innanzitutto, io non mi posso precostituire una scelta senza avere la titolarità di poterlo fare

LUCA CHIANCA Il cavaliere è chiaramente e decisamente sceso in campo, lo voterebbe o no il cavalier Berlusconi?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Io voterei chiunque ritengo sia funzionale a raggiungere un certo obiettivo; l’obiettivo dell’Italia è avere un processo di stabilizzazione.

LUCA CHIANCA E Berlusconi rappresenterebbe questa stabilità?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ma lei non mi fa sempre il discorso sui nomi vede, lei deve parlare sempre…

LUCA CHIANCA Ma i nomi sono importanti fanno la differenza.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO La differenza la fanno nel momento in cui c'è un progetto.

LUCA CHIANCA L'operazione si chiama “scoiattolo”.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Scoiattolo chi è? Non so che è.

LUCA CHIANCA Il presidente Berlusconi l'ha definita così: operazione scoiattolo. Sta cercando di convincere tutti a votarlo; l'ha chiamata?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Assolutamente, non penso in questo momento non sono senatore quindi sicuramente non posso essere chiamato, no?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quindi il rischio è che si arrivi a votare con un Senato che non è completamente legittimato. La vicenda è un po’ complicata, cerchiamo di riassumerla ancora una volta. Nel 2018 Claudio Lotito, presidente della Lazio, si candida nel plurinominale in Campania, nelle liste di Forza Italia. Alla fine, viene nominato vincitore Vincenzo Carbone, anche lui nelle liste di Forza Italia che poi però abbiamo visto è passato al partito di Renzi. Lotito presenta ricorso e a un certo punto, per fare chiarezza su questa vicenda, prima la giunta delle elezioni si muove con passo un po’ felpato, poi alla fine istituisce un Comitato, Presidente Lucio Malan sempre di Forza Italia; uno, dei membri è Pietro Grasso, ex procuratore della Repubblica a Palermo; ex presidente del Senato. Il comitato comincia a vedere nelle urne di 72 sezioni, comincia però a capire anche che le anomalie sono molto più vaste. Allarga il suo sguardo, comincia a guardare invece in 457 sezioni e scopre una cosa che non era neanche prevedibile all’inizio: da un riconteggio scopre che quel posto da sanatore non spettava a Forza Italia, quindi né a Lotito né a Carbone, ma a un candidato di LEU. Quando porta poi queste sue risultanze nella Giunta delle Elezioni, emerge anche il fatto che però su queste 457 sezioni ce ne erano ben 6, dove non c’erano proprio le schede, erano andate smarrite. C’erano solo i verbali. Ora. Il regolamento prevede anche che uno ci si possa basare su quei verbali, invece la giunta per le autorizzazioni dice “no, alt, stop: se non è possibile ricontare tutte le schede, allora ci si basa sui dati proclamati” - che sono però per certo sbagliati – e quindi la scelta può essere solo tra Carbone e Lotito. Questa questione viene proposta più volte al vaglio del Parlamento e abbiamo visto, l’ultima volta col voto segreto è stata respinta. In questi giorni la Giunta per le Elezioni ha provato nuovamente, ma i capi gruppo dei partiti nicchiano, non hanno calendarizzato il voto. E quindi sub iudice ci sono ancora i 18 senatori che si erano candidati al plurinominale in Campania. Ora vedremo come questa storia andrà a finire. Potrebbe essere un precedente che non ha eguali nella storia della nostra Repubblica, però va detto una cosa: non è che ci sia poi un sentimento – un sentiment, per usare un termine che va tanto di moda oggi – di accoglienza nei confronti di Lotito in Parlamento: viene considerato un personaggio scomodo, un personaggio che in qualche modo interpreta spesso le leggi a modo suo, uno tenace, battagliero. E c’è anche il sospetto che dagli scranni del Parlamento Lotito possa condurre delle battaglie ben più virulente all’interno anche del calcio, del mondo del calcio. L’ultima è stata quella sui tamponi: è successo che un suo giocatore forse il più rappresentativo, Ciro Immobile, è risultato positivo al primo tampone, negativo al secondo tampone, positivo al terzo tampone, negativo al quarto tampone. Come è stato possibile?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alla fine di ottobre 2020 l'Italia è in piena seconda ondata di Covid e a farne le spese, c'è anche la Lazio di Lotito. Il 26 ottobre ben 8 giocatori sono positivi al Covid. Tra questi anche Ciro Immobile, la bandiera della squadra. Le analisi dei tamponi sono certificate da Synlab, il laboratorio individuato dalla Uefa. La Lazio, invece, per il campionato di serie A fa analizzare i tamponi dei suoi calciatori in Campania nel laboratorio dell'ex patron dell'Avellino calcio, Walter Taccone. Lo scorso marzo viene rinviato a giudizio per un giro di false fatture.

LUCA CHIANCA Come lo sceglie il laboratorio di Avellino?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Glielo spiego molto semplice. Perché nel Lazio all'epoca non potevi rivolgerti all'attività privata non esistevano: c'era solo l'ospedale. E io mi sono imposto un problema di rispetto dell’interesse della collettività. Secondo lei era giusto che io portassi la squadra a fare la fila nell'ospedale e magari avendo un occhio di riguardo a danno degli altri?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A distanza di quattro giorni dai test del laboratorio Uefa dove era risultato positivo, Immobile con i tamponi del laboratorio di Avellino torna negativo, così può scendere in campo contro il Torino, segnando anche un goal. Il giorno dopo, il 2 novembre, nuovi tamponi presso il laboratorio Uefa Synlab e risultano 8 giocatori della Lazio positivi, tra questi c’è ancora Ciro Immobile. Il 6 novembre viene fatto un tampone in un terzo laboratorio, al Campus Biomedico di Roma dove arriva la conferma di positività per Immobile questo mentre lo stesso giorno ad Avellino, Immobile risulta ancora una volta negativo.

LUCA CHIANCA È possibile avere dei risultati così discordanti?

ANDREA CRISANTI – DIR. LABORATORIO VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA È raro nel senso che la probabilità che venga tre volte positivo a caso è praticamente quasi uguale a zero. L'onere della prova è ad Avellino per dimostrare che effettivamente era negativo perché qui c'abbiamo due laboratori completamente differenti che documentano una positività e la probabilità che questo sia dovuto a un errore è estremamente bassa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Proviamo invano a cercare risposte scientifiche presso i laboratori avellinesi della famiglia Taccone.

DONNA Ma deve fare il tampone?

LUCA CHIANCA No, non devo fare il tampone; volevo fare delle domande sui tamponi in realtà.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO La valutazione se uno sta male o sta bene chi la fa il laboratorio? La fa il medico, no?

LUCA CHIANCA Presidente lei è troppo intelligente per non capire

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Se il medico fa la visita non solo i tamponi, non solo le analisi, non solo il sierologico rifà la visita dell'individuo ai fini dell'idoneità, legga guarda cosa hanno fatto: elettrocardiogramma secondo holter e test da stress, esito positivo, elettrocardiogramma di base da sforzo esito positivo. Compreso la spirometria, compreso il cicloergometro a 350 watt che una persona normale esplode.

LUCA CHIANCA Non sono della sua idea tutti i consulenti che prende Lotito tra cui anche Fabrizio Pregliasco del comitato tecnico scientifico della Lombardia che dice che è presumibile che sia un falso positivo.

ANDREA CRISANTI – DIR. LABORATORIO VIROLOGIA UNIVERSITÀ DI PADOVA Guardi, se lei va in un laboratorio ed è positivo lei non è che c'ha la possibilità di fare 3 4; punto. Non è che questi c’hanno una… i giocatori hanno un diritto sovranazionale: stanno in Italia, sono dei lavoratori italiani, stanno in una società italiana e devono obbedire alle leggi italiane.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A seguito di questa vicenda Lotito viene condannato dalla giustizia sportiva inizialmente a 12 mesi di inibizione, fa ricorso presso il Collegio di garanzia e la condanna scende a due mesi. Presidente è Franco Frattini, ex ministro degli Esteri, attuale n. 1 del Consiglio di Stato.

LUCA CHIANCA Lei non lo conosce o lo conosce?

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE COLLEGIO DI GARANZIA DELLO SPORT Lo conosco. Beh, Lotito lo vedi nelle cene, nelle cose, compare, scompare, appare… ovviamente non si è permesso conoscendomi, voglio dire.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il collegio guidato da Frattini chiede alla stessa Corte d'Appello che aveva inflitto 12 mesi di inibizione al presidente della Lazio, di effettuare una nuova valutazione accogliendo alcuni dei reclami proposti da Lotito. E così la nuova condanna passa da dodici a due mesi d'inibizione.

LUCA CHIANCA Rimane il fatto che abbiamo una squadra che manda in campo giocatori che risultano positivi ad almeno dei test.

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE COLLEGIO DI GARANZIA DELLO SPORT Ovviamente nel merito, una parte della difesa era che poi c'è stata la smentita alla positività, ma comunque io prescindo da tutto questo.

LUCA CHIANCA Perché se accadesse a me o a lei…

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE COLLEGIO DI GARANZIA DELLO SPORT Saremmo preoccupati.

LUCA CHIANCA No, no saremmo a casa a fare la quarantena comunque: non è che possiamo fare un contro tampone per uscire di casa.

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE COLLEGIO DI GARANZIA DELLO SPORT Certo tanto è vero che il collegio ha dichiarato appunto, che c'era un profilo di colpevolezza.

LUCA CHIANCA– PRESIDENTE SS LAZIO “Nella vita non è importante avere ragione ma trovare chi ti dà ragione”

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO No, questa è l'interpretazione, mi perdoni: “la legge per gli amici si interpreta per i nemici si applica, oltre ad avere ragione trovare anche chi te la dà”. Ma questa è una deformazione della giustizia.

LUCA CHIANCA Venendo alla giustizia quella sportiva alla fine due mesi glieli hanno dati per i tamponi.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO E che cosa significa secondo lei? Secondo lei io mi dovrei vergognare di un torto subito? Dico io ho già subito 7 mesi di inibizione indebita. Se la ricorda la cosa del Marchese del Grillo? “Ma potrei essere incavolato oltre tutto che ho subito un torto”?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Se tu me freghi qui, me freghi su tutto”. Lo dice sempre Alberto Sordi, nel Marchese del Grillo, nei panni però del suo sosia Gasperino il Carbonaro. Qui la legge è stata applicata nei confronti di Lotito perché avrebbe violato il principio di precauzione. Cioè schierando il suo giocatore in campo, risultato positivo, indipendentemente se fosse contagioso o no, avrebbe messo a rischio la salute degli altri calciatori. Secondo Lotito il calciatore Immobile era sanissimo, si trattava di un falso positivo, lo aveva anche sottoposto ad altre visite molto approfondite. Tuttavia la storia in sostanza è questa: il governo del calcio europeo l’Uefa, aveva identificato nel laboratorio il Synlab quello dove andare a fare i tamponi per i calciatori. Avevano individuato alcuni giocatori della Lazio positivi al virus; tra questi c’era appunto il campione Ciro Immobile, un campione al quale è difficile rinunciare. Lotito sottopone i suoi calciatori al controtampone coi laboratori di Avellino con cui si era convenzionato e Ciro Immobile risulta negativo. Dopo alcuni altri giorni fa il contro-test del laboratorio Synlab del Uefa e risulta nuovamente positivo. Poi fa un altro test in un laboratorio terzo e anche là risulta positivo, viene a fare un’altra volta il tampone nel laboratorio di Avellino e risulta ancora una volta negativo. È una legge che sfida quella della scienza quello che è successo. E anche la procura di Avellino vuole vederci chiaro, tant’è vero che ha aperto un’inchiesta per falso. Nel frattempo, la giustizia sportiva ha condannato Lotito a dodici mesi di inibizione dalla carica di consigliere della Federazione Gioco Calcio. Lotito ha fatto un ricorso al Collegio di Garanzia dello Sport che gli ha fatto lo sconto: ha ridotto a solo due mesi. Ma lo sconto è arrivato dopo che sette mesi Lotito li aveva già scontati. Ma chi è il presidente Lotito? È il presidente della Lazio, l’ex presidente della Salernitana, è l’imprenditore che ambisce a comprare compagnie aeree, è sicuramente un vaso di Pandora. Aveva cominciato con le società di servizi, con quelle della security, con quelle delle pulizie. Poi a un certo punto subisce una fascinazione: vuole acquistare la Lazio, la Lazio che è in crisi dopo l’esperienza di Cragnotti. E l‘la compra sborsando 21 milioni di euro, ma con in pancia debiti con l’Erario per 140 milioni. E la risana. Ecco, compie una sorta di miracolo. Ma è veramente un miracolo?

GIANNI DRAGONI – GIORNALISTA IL SOLE 24 ORE Il 20 maggio del 2005 il miracolo: Lotito firma una transazione con l'Agenzia delle Entrate, cioè con il fisco, per spalmare quel debito in 23 anni. Ogni anno il primo di aprile la Lazio deve pagare una rata 5,65 milioni di euro e Lotito ha sempre pagato le rate.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In pochi anni, con Lotito alla guida, la Lazio torna a vincere conquistando ben sei titoli, fra Coppe Italia e Supercoppe Italiane. Lotito si è vantato più volte di aver risanato una squadra che perdeva oltre 80 milioni all'anno e aveva un debito di 550 milioni di euro.

LUCA CHIANCA È una Lazio che ha un bilancio che sta in piedi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma dove sta in piedi? Ma che stai a dì! Detto in romano. Nell'ultimo anno, nell’ultimo esercizio perde 25 milioni, dichiara ricavi per 150 milioni, ha costi più alti dei ricavi, ha debiti per 260 milioni, di cui quasi 86 milioni verso l'Erario, quindi…

 LUCA CHIANCA Come fa a stare in piedi una società che perde sempre?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh, bisogna mettergli i soldi, i sordi.

LUCA CHIANCA E dove li prende i soldi per metterli lì dentro?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Ah, credo dalle sue società; non lo so perché poi i bilanci non è che abbiano, vincano l'Oscar della Chiarezza, i bilanci del gruppo di Lotito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Se così fosse, le società del gruppo Lotito da una parte drenano soldi dalla SS Lazio, dall’altra restituiscono. Con la Bona Dea troviamo la Linda, che fa le pulizie, poi la Gasoltermica Laurentina, che fa manutenzioni, l'omnia service e la Roma Union Security per la vigilanza. Società che hanno appalti esterni, ma soprattutto lavorano anche e tanto, per Lazio dalla gestione della mensa di Formello, fino alla sua sicurezza.

LUCA CHIANCA La Lazio è la manna dal cielo.

GIANNI DRAGONI – GIORNALISTA IL SOLE 24 ORE Da quando Lotito ha la Lazio queste società hanno aumentato il lavoro: nell'ultimo bilancio a giugno 2021, nel bilancio della Lazio verso queste società di Lotito, la Lazio ha sostenuto costi per 7,2 milioni di euro.

LUCA CHIANCA Quello che vedo è che la Lazio impatta molto sulle sue aziende

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ma non è che impatta molto, le mie aziende ahimè vengono usate dalla Lazio per come dire, delle attività risparmiando in termini di costo e in termini di pagamenti, che è una cosa completamente diversa.

LUCA CHIANCA Cioè lei la ribalta la cosa.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO No, è la verità. La vigilanza, io ho un istituto di vigilanza; secondo lei è normale che io mi rivolgo a una terza persona? É una forma di sinergia imprenditoriale, perché lei non si dimentichi che quando ho preso la Lazio io le ho detto c'aveva 550 milioni di debiti e se non ci fossero state le società che l'avessero supportata probabilmente c'avremmo avuto dei problemi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Lazio di Lotito è la vera opportunità per le società del gruppo che, oltre a quelli che fa con la Lazio, producono utili modestissimi.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Perché stiamo parlando di 640 mila euro l'anno di utili di tutte le società del gruppo, perché fanno 44 milioni di ricavi, ma hanno quasi 80 milioni di debiti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO NUOVO A Lotito va meglio come presidente della Lazio. Si è assegnato uno stipendio di tutto rispetto.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Guadagna più da presidente ecco voglio dire. Mentre gli altri amministratori prendono 1000 euro al mese lui prende 50mila euro al mese. LUCA CHIANCA Come 50mila euro?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh, 50mila euro al mese, 600mila euro l'anno.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Io dalla Lazio per 18 anni non ho percepito un euro

LUCA CHIANCA Adesso percepisce però no?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Dall’anno scorso ma per obbligo, perché c’è un regolamento Consob che impone che gli amministratori debbono percepire una remunerazione. Vada a vedere quant’è così...

LUCA CHIANCA Eh son 600 mila euro.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Lordi.

LUCA CHIANCA E gli altri del consiglio prendono 12mila euro lordi.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ma scusi c’è un piccolo problema che io ho tutti i poteri e le responsabilità, per 17 anni io non ho percepito un euro, non avuto un rimborso spese, non ho avuto nulla.

 LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra i gioielli del gruppo fino a giugno 2021, c’era anche un’altra squadra di calcio, la Salernitana. Lotito l’ha acquistata con suo cognato, il costruttore Marco Mezzaroma, nel 2011 quando la società campana era fallita e militava tra i dilettanti.

DAL TGR CAMPANIA DEL 26/07/2011 CLAUDIO LOTITO Io sono convinto che Salerno potrà in breve tempo avere un ruolo importante nel calcio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Promessa mantenuta, in 10 anni la squadra dalla D arriva in serie A, grazie all'uomo di fiducia di Claudio Lotito, il direttore sportivo Angelo Fabiani, la mente di questo miracolo calcistico. Anche qui il ruolo della Lazio però sembra fondamentale: tra il 2017 e il 2019 Lazio Marketing, ha fatto entrare nelle casse della Salernitana oltre 3,5 milioni di euro. Ma la Salernitana vende anche i giocatori alla Lazio. Nel bilancio 2020 ci sono iscritti 9,85 milioni di euro a favore della Salernitana, nel 2019 e 2018 altri 6 milioni.

ANGELO FABIANI – DIRETTORE SPORTIVO U. S. SALERNITANA FINO AL 14/01/2022 Sì, però bisogna fare un distinguo, sfido chiunque a trovarmi una plusvalenza fittizia e quando c'è una plusvalenza fittizia. E quando c'è una plusvalenza fittizia, è diverso da una valorizzazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La valorizzazione è una forma di sublimazione della plusvalenza. L’esempio è il giocatore ivoriano Akpa Akpro. Preso dalla salernitana a settembre 2020 per circa 100mila euro, messo nel bilancio della Lazio per un valore di 12,7 milioni di euro. Una plusvalenza enorme, ma che le società giustificano con le cosiddette valorizzazioni. E cioè: se il giocatore tra qualche anno raggiungerà alcuni obiettivi varrà quella cifra.

LUCA CHIANCA È un pagherò?

ANGELO FABIANI – DIRETTORE SPORTIVO U.S. SALERNITANA FINO AL 14/01/2022 Al momento in cui si verifica la condizione, sì, certo, ovvio.

LUCA CHIANCA Però quella posta me la porto a bilancio oggi, ma se tra cinque anni quei 12 milioni non ci sono, come si fa?

ANGELO FABIANI – DIRETTORE SPORTIVO U.S. SALERNITANA FINO AL 14/01/2022 Ma non sono a bilancio oggi, secondo me hai un'informazione, una notizia sbagliata.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'informazione la ricaviamo dal bilancio della Lazio che, essendo una società quotata lo mette già a disposizione degli azionisti, mentre il bilancio dello scorso anno della Salernitana non è ancora disponibile.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Non mi può dire plusvalenze false perché qua non ci stanno plusvalenze perché i giocatori sono stati tutti pagati so pagati, so soldi che vengono pagati dalla Salernitana, mica so’...

LUCA CHIANCA Cioé voi avete già dato i soldi alla Salernitana?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Stiamo pagando i soldi…

LUCA CHIANCA Ma voi però lo avete preso a 100mila.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ma lascia ma la capacità… mado’… io devo parla' con gente che capisce. Io sono brav; se sono bravo ti compro a te a 100; siccome non ti do la cassa subito, perché non voglio cacciare i soldi subito, ti dico “guarda, io ti do anche quello che tu vuoi, a condizione che raggiungiamo certi obiettivi” cosa che è successa con Akpa Akpro che sicuramente oggi non vale 100mila euro, no?

LUCA CHIANCA Ma manco 12,7, 12 milioni e 7. Però voi ve lo portate a bilancio.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Però non deve guarda’ la situazione del mercato oggi: guardi la situazione del mercato di due anni fa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In realtà l’operazione è di settembre 2020, poco più di un anno fa. E quando la proprietà delle squadre è praticamente la stessa, le valorizzazioni possono diventare un problema. Così a maggio scorso la Salernitana sale in A e la Figc obbliga Lotito a venderla.

DA U. S. SALERNITANA DEL 14/05/2021 CLAUDIO LOTITO Abbiamo portato la Salernitana nel calcio che conta e vogliamo rimanerci! LUCA CHIANCA L'ha venduta a 10 milioni di euro.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO No, io non ho venduto niente.

LUCA CHIANCA Il trust l'ha venduta a 10 milioni di euro, quei soldi li prenderà lei e il suo…

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Mi scusi, mi perdoni: secondo lei è un grande risultato questo?

LUCA CHIANCA E no, glielo chiedevo a lei.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Se una società non ha un euro di debito si autoalimenta, quindi è autosufficiente, quanto vale?

LUCA CHIANCA Glielo chiedo io a lei?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Glielo dico io. Sicuramente non vale 10 milioni, ma di gran lunga di gran lunga di gran lunga superiore a questa cifra.

LUCA CHIANCA 20-30?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Di gran lunga di gran lunga superiore.

LUCA CHIANCA Quaranta, Laghi quanto l'aveva valutata per i trust?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO 60 milioni.

LUCA CHIANCA 60 milioni?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Certo. E secondo lei, se fosse lei al posto mio che cosa farebbe? La faccio io la domanda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vista dal suo punto di vista è difficile dargli torto, perché è stato costretto a vendere il suo gioiellino quello che aveva acquistato in cattive acque, risanato e portato in serie A. É solo l’ultimo atto di un braccio di ferro che dura da anni con la Federazione Gioco Calcio. Però la legge parla chiaro: se tu sei proprietario di due squadre di Serie A, a causa dei rapporti favorevoli che hai e anche degli scambi che potresti fare con i giocatori, rischi di condizionare la regolarità del campionato e per questo sei costretto a vendere una delle due. Quello che ha chiesto la Figc a Lotito già a partire da inizio giugno, appena la Salernitana era arrivata in Seria Am gli ha detto “guarda, mettila in un trust”, cosa che Lotito ha fatto, e poi “vendila entro il 31 dicembre”, e Lotito l’ha venduta, anzi il trust l’ha venduta proprio l’ultimo giorno utile. Il super commissario Enrico Laghi l’aveva valutata 60 milioni di euro e invece il trust non ha ritenuto congruo o comunque attendibili le offerte che erano arrivate: una da un fondo estero, 45 milioni di euro però pagabili solo con i bitcoin, l’altra da un fondo svizzero, 25 milioni di euro. Alla fine, se l’è aggiudicata Danilo Iervolino a 10 milioni di euro. Quarantatré anni, è un imprenditore noto per aver messo in piedi l’Università Telematica Pegaso, 60 sedi in tutta Italia, un patrimonio stimato di circa un miliardo di euro. Lotito non l’ha presa certo bene: sperava di poter vendere a condizioni migliori la sua Salernitana; è un po’ arrabbiato per la fretta che gli hanno imposto e ha annunciato ricorso. È arrabbiato anche un po’ perché finisce la pacchia: è emerso chiaramente leggendo i bilanci che la Salernitana in qualche modo ha avuto benefici dal rapporto che aveva privilegiato con la Lazio e viceversa, nello scambio dei giocatori quando era il momento, ma anche nell’utilizzo delle valorizzazioni. Cioè, come funzionano? Tu hai un giocatore che vale 100, ma siccome è promettente, lo valuti 1000 e lo metti immediatamente a bilancio per quel valore. E poco importa se poi quel calciatore manterrà le promesse. Invece per quello che riguarda gli incassi della Lazio, poi vengono comunque destinati in parte alle sue società quelle che fanno servizi di security, pulizie, servizi anche all’interno della stessa sede di Formello dove si allena la Lazio. Lotito dice “guardate che va bene perché gli faccio pure lo sconto alla Lazio, se fossero società esterne pagherebbero di più”. Chissà se questa è la strategia che aveva in mente Lotito se avesse messo le mani su una compagnia aerea. Della sua passione, la prendiamo un po’ da lontano, a partire da un aereo che aveva un po’ troppe toppe. Su questa vicenda delle compagnie aeree, se l’intervista fino ad adesso con Luca è stata da tripla, 1-X-2, qui, all’ultimo momento, Luca ha fatto goal.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La passione degli aerei per Lotito non è un mistero. Lo scorso anno decide di dotare la Lazio di un suo aereo, affittandolo dalla Tayaranjet, una compagnia aerea bulgara, ma di fatto in mano a una famiglia di Ragusa.

LUCA CHIANCA Tayaranjet.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Che?

LUCA CHIANCA Tayaranjet.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO E che è sta Tayaranjet?

LUCA CHIANCA Ma come che è?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Che è Tayaranjet?

LUCA CHIANCA L'aereo della Lazio, l’aereo…come c'è arrivato a Tayaranjet?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ah, l’aereo sì. Me l'ha portato una mia collaboratrice perché risparmiavamo, la metà del costo

LUCA CHIANCA Non aveva paura a far volare la squadra su quell'aereo, eh? Che era un po’ vecchiotto.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Perché?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A raccontare, ai suoi amici laziali, una delle sue prime esperienze di volo, è un operatore romanista di Aeroporti di Roma che ha filmato il mezzo dei biancocelesti sulla pista di Fiumicino, prima del suo primo viaggio per la trasferta della Lazio a Crotone.

 VIDEO – DA SIAMOLAROMA DEL 21/11/2020 Sul motore c’è scritto 1900, ma non è la data di nascita della Lazio, è proprio la data di nascita de ‘sto motore. Comunque Cla’ che te devo dì? quando partite co’ st’aeroplano buona fortuna, eccolo qua… guarda le toppe qua oh… è pieno de toppe sto aeroplano, è tutta una toppa, fantastico. È del 1900.

LUCA CHIANCA Era un po' vecchiotto.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO No, perché si ricordi che gli aerei vanno in rapporto ai cicli del motore no alla carlinga, la carlinga con tutto il rispetto a meno che non c'ha i buchi…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La curiosità però è che l'aeroporto di partenza non è quello di Roma, ma quello siciliano di Trapani.

SALVATORE OMBRA – PRESIDENTE AEROPORTO DI TRAPANI Si muoveva, si muoveva a vuoto per andare a prendere dei passeggeri, in questo caso la squadra, per portarla nella trasferta può essere italiana, può essere anche straniera.

LUCA CHIANCA Per poi tornare nuovamente a Trapani.

SALVATORE OMBRA – PRESIDENTE AEROPORTO DI TRAPANI A Trapani.

LUCA CHIANCA Da Trapani a Roma, vuoto, aveva un costo incredibile?

SALVATORE OMBRA – PRESIDENTE AEROPORTO DI TRAPANI Guardi sono accordi commerciali, non so quanto pagava Lotito.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Noi avevamo un prezzo fisso.

LUCA CHIANCA Cioè?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Un prezzo fisso, un canone fisso per ogni trasferta nazionale o internazionale, quindi noi o partiva da Trapani o partiva da Roma o da Canicattì, a noi non ci interessava perché pagavamo sempre la stessa cifra.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il contratto tra la Lazio e la Tayaranjet dura solo un anno e a metà ottobre 2021 non viene rinnovato. Di lì a poco anche la compagnia aerea cessa di volare travolta dalla crisi.

SALVATORE OMBRA – PRESIDENTE AEROPORTO DI TRAPANI A giugno l'aeroplano della Lazio non è più a Trapani, scompare, non lo vediamo più. Ci cominciamo a preoccupare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E che fine fa?

SALVATORE OMBRA – PRESIDENTE AEROPORTO DI TRAPANI È stato ritirato in Bulgaria, tant'è che poi mi sono preoccupato e arrabbiato e abbiamo iniziato immediatamente l'azione legale per il recupero del credito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La società dell'aeroporto di Trapani deve ricevere ancora 180mila euro dalla società bulgara per la gestione dell'aereo e così, per rientrare dei soldi, cerca di sequestrare l'aereo senza riuscirci.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Voleva sequestrare l'aereo di Lotito lei?

SALVATORE OMBRA – PRESIDENTE AEROPORTO DI TRAPANI Volevo difendere il mio credito.

LUCA CHIANCA Gliel'hanno bloccato però l'aereo?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Chi gliel'ha bloccato che ne so io?

LUCA CHIANCA La Tayaranjet lo blocca l'aereo suo ad un certo punto.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Fin quando l’ho usato io, la mia squadra l'aereo ha viaggiato tranquillo senza problemi poi dovevo io decidere se riscattarlo abbiamo fatto le valutazioni dei costi e delle situazioni e abbiamo detto vabbeh.

LUCA CHIANCA Cioè l'avete usato solo un anno fondamentalmente?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Sì. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma la passione per gli aerei da parte del patron della Lazio risale già al 2008.

GIANNI DRAGONI – GIORNALISTA IL SOLE 24 ORE Quando Berlusconi volle fare la cordata dei patrioti o capitani coraggiosi per prendere l'Alitalia anche allora Lotito si era interessato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Che l'argomento sia di suo interesse lo dimostra qualche anno dopo. Quando nel 2014 si sta per chiudere un altro capitolo della saga di Alitalia, quello dell'accordo con Etihad.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alitalia in pochi anni va in procedura di amministrazione straordinaria, a dicembre 2018 Ferrovie dello Stato presenta un nuovo piano per l'acquisto e cerca soci di minoranza. A giugno 2019 si presenta Lotito che vuole acquistare il 37,5% di Alitalia.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Lo sa che c'è a me piacciono le sfide, facendo questa manifestazione d'interesse il presupposto era che la gestione la facevo io da solo, se io mi assumo la responsabilità della gestione io devo essere un uomo libero.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oltre a Lotito, si presenta anche la famiglia Toto, ex Airone e German Efremovich, primo azionista della compagnia colombiana Avianca, rappresentato in Italia da Antonio Guizzetti, bergamasco, con una lunga esperienza negli Stati Uniti.

ANTONIO GUIZZETTI - PRESIDENTE DI GUIZZETTI & ASSOCIATES Lotito si diceva che era ben visto da Ferrovie dello Stato: quindi non fartelo nemico Lotito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I due si sentono e si danno appuntamento nel quartiere generale del presidente della Lazio, fuori le mura aureliane. Ma quando arriva trova una sorpresa.

ANTONIO GUIZZETTI - PRESIDENTE DI GUIZZETTI & ASSOCIATES E trovo una casa semi deserta alla porta non c'era nessuno. Quindi mi metto a gridare signor Lotito, signor Lotito dopo un po' di tempo arriva una signora e dico “vuol parlare con il Presidente? Il Presidente è andato in federazione”. Vengo portato nell'ufficio del presidente della Figc dove c'era Lotito e Gravina e Lotito dice a Gravina puoi uscire un attimo per poter parlare io con Guizzetti di Alitalia?

LUCA CHIANCA Quindi Gravina addirittura esce?

ANTONIO GUIZZETTI - PRESIDENTE DI GUIZZETTI & ASSOCIATES Allora parliamo molto brevemente e lui mi spiega che sarebbe stato in grado con il suo stile manageriale, con la sua filosofia manageriale di risanare Alitalia.

LUCA CHIANCA Però lui che garanzie le dava a lei?

ANTONIO GUIZZETTI - PRESIDENTE DI GUIZZETTI & ASSOCIATES Lui dava una sua garanzia personale che è un uomo che aveva accesso alle stanze del potere romano e che poteva favorire una nostra candidatura.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'accordo con Guizzetti non va avanti e Lotito si presenta ad acquistare Alitalia da solo.

GIANNI DRAGONI – GIORNALISTA IL SOLE 24 ORE E Lotito, a me risulta che si muove dopo aver incontrato Enrico Laghi, un commercialista romano famoso, ma soprattutto Enrico Laghi era un commissario dell'Alitalia, era dalla parte di chi doveva vendere quindi questo incontro sarebbe stato un po' curioso.

LUCA CHIANCA Tu questo lo scrivi sul Sole 24 Ore?

GIANNI DRAGONI – GIORNALISTA IL SOLE 24 ORE Sì, nessuna reazione, nessuna smentita.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Laghi, che a noi smentisce l’incontro, è lo stesso commercialista che ha valutato la Salernitana 60 milioni di euro, quando a giugno scorso va nelle mani del trust. Viene poi arrestato per qualche mese in qualità di commissario dell'Ilva. A seguire invece la vicenda per conto di Ferrovie è Mediobanca. Chiede a Lotito quanto vuole investire e con quali garanzie; Lotito risponde che investirebbe 375 milioni per il 37,50% delle azioni. E produce a garanzia una lettera del banco di Santander.

LUCA CHIANCA Questo documento del Banco di Santander che certificherebbe che lei ce li ha questi soldi

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Secondo lei ce li ho i soldi io? Scusi la Lazio c'aveva 550 milioni di debiti, scusi come ho fatto?

LUCA CHIANCA Quindi lei dice ce li aveva tutti questi soldi?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Io le dico che ero in grado di gestirla la società.

LUCA CHIANCA Gestirla è un altro discorso. Io le sto chiedendo ce li aveva 375 milioni di euro?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Io ero in grado di far fronte agli impegni che avrei assunto.

LUCA CHIANCA Questa è lettera che consegna Lotito alle Ferrovie dello Stato per entrare in Alitalia nel 2019.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh Santander ha detto una stupidaggine. È impossibile; cioè i bilanci di Lotito non possono esprimere utili o flussi finanziari da destinare fuori gruppo per 375 milioni di euro, già hanno un indebitamento doppio del fatturato quindi non esiste.

LUCA CHIANCA È Santander che dice una stupidaggine o è falso questo, scusi?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Più probabilmente è falso. Mah, non so neanche come definirla, mi sembra un po' alla Totò questa roba qua, più che altro.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Forse ha pensato la stessa cosa l'advisor di Mediobanca, quando ha letto che il Banco Santander, smentiva l’autenticità della lettera presentata a garanzia da Lotito: anzi Santander scrive che oltre a non essere stata rilasciata da loro, neppure i funzionari che l’hanno firmata sono impiegati della banca. Si tratterebbe di un falso clamoroso.

ANTONIO GUIZZETTI - PRESIDENTE DI GUIZZETTI & ASSOCIATES Se questo è vero, la cosa mi sembrerebbe molto grave.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Abbiamo provato a contattare il responsabile italiano di Banco Santander.

LUCA CHIANCA Io ho una lettera del 2019 che Claudio Lotito manda a Ferrovie dello Stato in cui sostiene di avere 375 milioni di euro.

STEFANO CANNIZZARO – MANAGING DIRECTOR BANCO SANTANDER Per policy aziendale noi non possiamo parlare con la stampa sa…

LUCA CHIANCA Però le risulta a lei questa lettera, eh?

STEFANO CANNIZZARO – MANAGING DIRECTOR BANCO SANTANDER La ringrazio tanto su, credo ci siamo capiti vero?

LUCA CHIANCA Questa è la risposta che dà il Banco di Santader a Ferrovie dello Stato

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ma non c'è nessun problema anche perché io ho dato incarico per poter fare questa cosa a una struttura, la dichiarazione della conformità, non è che l'ho fatta io quella.

LUCA CHIANCA Eh ci mancherebbe altro che il presidente Lotito si metta lì a fare su Google il copia e incolla di questa pagina; sarebbe il colmo.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Allora le posso dire noi avevamo dato incarico a una struttura che, ai tempi, se non ricordo male, di una banca d'affari a farci questo tipo di discorso.

LUCA CHIANCA Ma le ha prodotto un documento falso!

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ho capito, mi perdoni adesso lei mi dice che è falso…

 LUCA CHIANCA Non è che lo dico io lo dice il Banco Santander.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ma ho capito ma posso dire una cosa lei mette in dubbio la mia liquidità?

 LUCA CHIANCA Dai bilanci lei ha gruppo 640mila euro di utili fa tutte le società aggregate, come dati aggregati.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Meno male.

LUCA CHIANCA Dopodiché adesso non sono io che devo dimostrare se lei ha liquidità o meno, io le sto dicendo che questa lettera che lei allega nella manifestazione di interesse a Ferrovie dello Stato, Banco di Santander dice questa roba non è nostra.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Ho capito.

LUCA CHIANCA E questi firmatari non sono nostri dipendenti; mi chiedo: chi gliel'ha dato ‘sto foglio?

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO C'è un documento sbagliato? Benissimo c'è un documento sbagliato? Ne prendo atto.

LUCA CHIANCA Ma non è sbagliato è falso, è una cosa diversa.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Benissimo sarà un documento falso, vorrà dire che è stata fatta una truffa a nostri danni. E lei poi c'ha una parte del patrimonio. Adesso, con tutto il rispetto, quanto vale una casa di duemila metri quadri a Cortina con tre ettari di parco?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Per capire l'esatto ammontare del patrimonio immobiliare del presidente della Lazio lo abbiamo chiesto al nostro Gian Gaetano Bellavia e questa è stata la sua analisi dalla lettura dei bilanci pubblicati dalle società di Lotito.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Hanno dei valori immobiliari enormi 50 milioni di euro per qualche villa francamente a me sembra un po' eccessivo.

LUCA CHIANCA A Roma?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Due a Roma, due a Cortina D'Ampezzo e una ad Amatrice. Poi io non so cosa sono: se è il Colosseo allora li vale…

LUCA CHIANCA Però diciamo che è un numero che un po' stona.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO È un numero che stona in relazione alla struttura societaria del gruppo.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Va be' io te dico che lei sta sbagliando. Se io vado in una banca e mi danno un finanziamento di un certo importo vedrà che quello che dice lei non corrisponde

LUCA CHIANCA Presidente io sto parlando di questo documento; ipotizziamo che lei c'ha tutti i soldi del mondo, mi chiedo perché ha presentato questo documento che non è vero. Questo è il punto.

CLAUDIO LOTITO – PRESIDENTE S. S. LAZIO Se qualche mio collaboratore è stato tratto, come dire, in inganno da fatti di cui io non sono a conoscenza, oggi ne prendiamo atto e ci adegueremo di conseguenza.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora. Che Lotito abbia il pallino per Alitalia, è cosa risaputa, risale addirittura al 2008, quando Berlusconi voleva mettere su la cordata dei patrioti per acquistare la compagnia di bandiera. Però, dopo l’esperienza fallimentare dell’amministrazione araba, Ethiad, Alitalia era finita in amministrazione straordinaria. Nel 2018 il Governo vuole salvarla grazie anche a un intervento di Ferrovie dello Stato e incarica proprio Ferrovie di trovare un partner affidabile e solido che potesse rilevare il 37,5% delle azioni. Lotito è un imprenditore a cui piacciono le sfide e ha anche saputo in qualche modo… saperle gestire pur con le sue contraddizioni e offre una cifra importante: 375 milioni di euro. L’advisor di allora era per Ferrovie, Mediobanca. Pone anche, Lotito, la condizione di poterla gestire comunque in maniera autonoma. Questo secondo ovviamente la versione di Lotito. Però lui offre effettivamente 375 milioni di euro. E, a sostegno della sua offerta, porta una lettera intestata del Banco Santander, che recitava così “l’esito dell’analisi finanziaria da noi effettuata che include la comprensione di processi amministrativi e delle capacità del gruppo facente capo all’amministratore Claudio Lotito, noi, Banco di Santander, confermiamo che il gruppo è capace di sostenere sistematicamente l’impegno economico di 375 milioni, secondo i requisiti di cassa previsti dalla partecipazione nel piano fornitoci triennale intitolato Alitalia. Il contributo finanziario che verrà fornito, troverà medesimo e adeguato sostegno nei flussi finanziari. Distinti saluti”. Il documento Santander è firmato dal responsabile del Risk Management Miguel Centinos Rubalcava e dall’ufficio del Commercio Internazionale, il responsabile Ruben Lenero Hernandez. Tutto molto bello, peccato che questa lettera è falsa. La smentisce lo stesso Santander. E i due impiegati che l’hanno firmata, Rubalcava e Hernandez, non lavorano e non hanno mai lavorato per Santander. Questo lo smentisce poi direttamente la banca Santander. Lotito dice “non potete certo attribuire a me il falso”, noi gli crediamo, e dice “ho saputo direttamente da Report che questo documento che ho presentato è falso”. E dice “ho dato subito mandato ai legali di valutare eventuali iniziative a tutela della mia persona nei confronti del soggetto a cui è stata commissionata”. Comunque, lui dice, “l’intera documentazione non è stata poi presentata perché l’offerta che avevo fatto io con la richiesta di gestire autonomamente Alitalia poi è caduta nel vuoto”. Però il tema rimane: chi è che ha preparato questa lettera falsa? Sarebbe importante saperlo perché se è ancora in giro è in grado di fabbricare documenti del genere, insomma, cerchiamo di evitare qualche pacco milionario nel futuro.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

·        Bancopoli.

Conto corrente e interessi: cos’è l’anatocismo e cosa dice la legge. L’anatocismo ha creato molti conteziosi tra banche e clienti perché tende a creare un maggiore carico a debito dei correntisti e la legge è intervenuta per sedare gli animi. Giuditta Mosca il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cos’è l’anatocismo

 Cos’è successo a partire 1999

 Cosa è successo tra il 2004 e il 2016

L’anatocismo si è guadagnato gli onori delle cronache anche a causa dei tanti imprenditori che ne hanno denunciato i meccanismi facendo in modo che, nel 2004, la Corte di cassazione intervenisse per redimere la questione, facendo sì che la giurisprudenza lo vietasse al di fuori di certe condizioni.

Nonostante ciò, l’anatocismo è motivo di disaccordo tra clienti e istituti di credito anche perché, chi in passato lo ha contestato, si è trovato spesso al centro di diatribe che durano anni e, benché prima del 1999 il problema non fosse emerso con tutto il suo fragore, molti casi non sono ancora del tutto chiusi.

Cos’è l’anatocismo

È il fenomeno per il quale gli interessi vengono conteggiati nel computo di altri interessi. Per fare un esempio, il correntista bancario che fosse in rosso di 5.000 euro e pagasse in prima istanza 100 euro di interessi, il secondo calcolo degli interessi verrebbe fatto sulla cifra di 5.100 euro e non su 5.000, procedendo così nel tempo e quindi supportando un ulteriore aggravio.

L’ articolo 1283 del Codice civile ha sempre vietato l’anatocismo, almeno sul piano generale, disponendo che gli interessi possono maturare soltanto sul capitale e non sugli interessi maturati. Poiché il medesimo articolo cita che l’anatocismo è vietato fatti salvi gli usi contrari e, considerando che negli ambiti bancari è stato ampiamente usato, si è entrati in una sorta di circolo senza una chiara via di uscita. Questo fino al 1999 quando, al di là dell’uso continuato che se ne facesse soprattutto nei circuiti bancari, la giurisprudenza ha cominciato a metterne in forse la liceità.

Negli anni a seguire hanno preso piede diverse interpretazioni le quali, dando alcune volte ragione ai clienti e altre volte alle banche, hanno contribuito a creare confusione.

Cos’è successo a partire 1999

Il decreto legislativo 342 del 4 agosto 1999 ha tentato di tirare una linea tra i rapporti bancari esistenti e quelli futuri, delegando al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr) il compito di stabilire le modalità e i criteri per i quali fosse legittima la produzione di interessi sugli interessi maturati, purché venissero conteggiati nello stesso modo e con la stessa periodicità sia per gli interessi passivi sia per quelli attivi (ovvero sia per i conti con un saldo a favore delle banche, sia per quelli con un saldo a favore dei clienti).

Il Cicr ha provveduto in questo senso con la delibera del 9 febbraio 2000 e si è quindi stabilito un regime per il quale le capitalizzazioni (ovvero il calcolo degli interessi sugli importi comprensivi di interessi) avvenute prima del 9 febbraio 2000 erano sanate ma che, nello stesso tempo, i contratti stipulati prima di tale data potessero continuare ad applicare l’anatocismo purché rispettando le norme contenute nella delibera stessa. Concetto che è rimasto indigesto alla Corte costituzionale la quale, con la sentenza 425 del 17 ottobre 2000 ne ha dichiarato l’incostituzionalità.

Quindi, dopo un lungo dialogo tra le parti e l’intervento delle autorità preposte, si è ritornati praticamente al punto di partenza facendo però un passo in avanti: l’anatocismo è rimasto legale a patto però che fosse considerato con la stessa periodicità anche sui conti correnti con saldi positivi.

Cosa è successo tra il 2004 e il 2016

Il dibattito non si è placato, tant’è che la Cassazione, con sentenza 21095 del 4 novembre 2004, ha stabilito che tutte le pratiche anatocistiche – quindi anche quelle antecedenti al 1999 – fossero da ritenersi nulle perché attuate in violazione dell’articolo 1283 del Codice civile.

Il 27 dicembre del 2013 è stato modificato l’articolo 120 del Testo unico bancario (Tub) e l’anatocismo è stato eliminato del tutto a partire dal primo gennaio del 2014. Le discussioni sono però continuate a causa della scarsa chiarezza di alcune definizioni riportate nel Tub al quale, nel 2016, sono state apportate ulteriori modifiche dando forma a un anatocismo subordinato al consenso del cliente. In altre parole l’anatocismo è possibile soltanto se previsto nel contratto e viene calcolato una volta l’anno e non trimestralmente o mensilmente.

In linea generale, così come spiega la Banca d’Italia, l’anatocismo è vietato e valgono queste regole:

Gli interessi passivi maturati non devono produrre altri interessi

Gli interessi passivi e attivi vanno calcolati con la medesima periodicità

Il periodo del conteggio degli interessi non può essere inferiore a un anno e avviene di norma il 31 dicembre anche nel caso di contratti stipulati durante l’anno solare

Gli interessi passivi calcolati al 31 dicembre sono dovuti al primo marzo dell’anno successivo.

La Banca d’Italia fornisce anche delle note per i clienti, affinché siano informati dei propri diritti.

L'Italia all'ombra di Enrico Cuccia. Nel saggio All'ombra di Enrico Cuccia - Potere e capitalismo nel Novecento italiano Federico Bini tratteggia un affresco della stagione della Ricostruzione italiana e dei decenni successivi partendo dalla figura del dominus storico di Mediobanca. Andrea Muratore il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.

"Ciò che Cuccia vuole, Dio vuole": la frase passata alla storia di Leopoldo Pirelli ben inquadra la figura complessa e profonda di Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca nella storica stagione della ricostruzione, padre del "salotto buono" del capitalismo italiano, tra gli strateghi dello sviluppo nazionale. Correttezza, imparzialità, riservatezza: tre le caratteristiche della Mediobanca targata Cuccia che ne prese le redini dal "patriarca" Raffaele Mattioli, ne fu amministratore delegato e direttore generale dal 1949 al 1982 e presidente onorario dal 1988 alla morte, avvenuta nel 2000. Una stagione intesa che ha attraversato cicli politici e industriali, accompagnando tutti i protagonisti del sistema nazionale. Da Enrico Mattei a Raul Gardini, da Gianni Agnelli a Ugo La Malfa, da Guido Carli a Romano Prodi, molti dei volti più importanti dell'Italia della Ricostruzione e dei decenni successivi hanno avuto a vario titolo relazioni con Cuccia.

La profondità di un sistema di rapporti, interessi economici e visione strategica che si è trasmessa fino alla Mediobanca odierna è indagata da Federico Bini nel saggio "All'ombra di Enrico Cuccia - Potere e capitalismo nel Novecento italiano". Bini, collaboratore de IlGiornale.it e attento osservatore della storia e delle dinamiche di potere del sistema-Italia oltre che di quelle relazioni umane che Antoine de Saint-Exupery definiva "unica speranza di gioia", racconta l'Italia di Cuccia non solo parlando delle dinamiche che si aprivano all'ombra dello studio di Via dei Filodrammatici ma anche ricostruendo Mediobanca come perno di una rete di rapporti e relazioni che andavano oltre l'economia. 

Il frutto di queste dinamiche fu la Milano del "quarto capitalismo", che univa l'industriosità lombarda alla capacità di veicolare capitali per la crescita delle imprese e del Paese grazie anche ai rapporti intessuti per tramite della Mediobanca di Cuccia. Milano, ricorda Bini, divenne "il simbolo dell’evoluzione economica del Paese, sia per quanto riguardava celebri nomi, sia lo sviluppo di una forte ma meno conosciuta borghesia industriale (medio-piccola)". Roma aveva la politica dei partiti, altre città le loro famiglie o gruppi imperanti (come la Fiat a Torino e Ferruzzi a Ravenna), Milano una grande dinamicità. E Cuccia vigilava governando alleanze e flussi di capitali. Sia nella "Milano industriale, delle ciminiere e dei fumi sulla città", quella dei Pirelli e dei Falck, sia su quella delle nuove famiglie emergenti della borghesia modernizzatrice. Una Milano in cui il Corriere della Sera della famiglia Crespi iniziò a dare voce crescente all'intellighenzia laica e progressista, mentre Indro Montanelli, uscendo da Via Solferino e fondando Il Giornale, indirizzò il suo interesse primario verso i liberali e i conservatori.

Cuccia fu il padre delle alleanze incrociate che permettevano equilibri gestionali nei maggiori gruppi industriali italiani. Bastogi, Montecatini, Fondiaria e Generali furono negli Anni Cinquanta i primi terreni di applicazione di un sistema di pesi e contrappesi per mezzo di partecipazioni e acquisizioni che, nota Bini, diedero a Mediobanca il "ruolo di banca d’affari (merchant bank) e di una holding delle partecipazioni azionarie", ma anche di salotto buono milanese, riferimento meneghino dell'assetto romano di potere e del "patto della X" che vedeva assegnati ai cattolici la preminenza politica e le banche di raccolta popolari e ai laici una minore rilevanza nelle istituzioni compensata da un dominio nel mondo finanziario delle banche d'affari. Un sistema, si sottolinea nel libro, di cui Cuccia fu attento guardiano soprattutto ai tempi della strumentalizzazione della finanza cattolica da parte di Roberto Calvi e, soprattutto, Michele Sindona.

Lo standing di Mediobanca, ricorda Bini, fu anche decisivo per la proiezione internazionale del Paese. Memore della lezione politica di Alcide De Gasperi sulla natura decisiva delle battaglie internazionali, Cuccia aprì il capitale a partecipazioni e ingressi esterni da parte di attori come Lazard e Lehmann Brothers, che negli Anni Cinquanta ottennero il 10% del capitale del gruppo, mentre la tedesca Berliner Handels-Gesellschaft divenne partner europeo.

Bini definisce il laico Cuccia, allievo del laico, socialista e visionario Mattioli, custode dell'eredità culturale di Piero Sraffa e Antonio Gramsci, interprete ideale della "proficua e straordinaria stagione del liberalismo degasperiano" che mirava alla crescita del Paese "senza mai dimenticare le battaglie sociali in sostegno degli ultimi e dei più bisognosi", preferendo lo sviluppo graduale, moderato e produttore di lavoro e progressi tangibili alle alchimie finanziarie. Anche dopo la quotazione in Borsa nel 1956 questo fu il mantra di Cuccia, uomo che però non mancò mai di ricevere un rispetto considerevole all'estero. Nel suo viaggio statunitense del 1965 il futuro presidente di Mediobanca Antonio Maccanico ebbe modo di apprezzare la considerazione che si aveva a Wall Street di Enrico Cuccia, che allora si teneva in Italia debitamente lontano dai grandi palcoscenici.

L'espansione economia internazionale del Paese fu, in questo contesto, a sua volta promossa dalla stessa Mediobanca, come Bini non manca di ricordare. Eni, Fiat, Olivetti Finmeccanica, Montecatini, Necchi, Pirelli furono solo alcuni dei più noti tra i partner in campo internazionale di Mediobanca che in particolare contribuì, a partire dagli Anni Cinquanta e Sessanta, a promuovere la conquista italiana dei nuovi mercati del continente africano. Come ha scritto il professor Giovanni Farese nel saggio Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa. 1944/1971“ e come Bini puntualmente sottolinea, si indicava in questo caso una rotta di sviluppo dell'immagine (oggi diremmo "brand") del Paese al di là delle vicende tecniche di finanza, mercati, imprese e commercio. Tutto questo con una finanza capace di valorizzare il fattore decisivo dell'economia: l'uomo e le sue relazioni. Coltivate con attenzione nell'Italia della Ricostruzione e dello sviluppo guidato da una Milano sempre più rampante. All'ombra, ovviamente, di Enrico Cuccia.

Occhio al Fisco: come versare sul conto senza far scattare i controlli. Giuditta Mosca il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

Ci sono limiti di versamento sui conti correnti al di là dei quali gli istituti di credito hanno il dovere di comunicazione e al di là dei quali possono scattare accertamenti fiscali

Quando si parla di versamenti e prelievi in contanti sui conti correnti ci si muove su un terreno minato. Prima di tutto la possibilità di versare contanti non va confusa con l’uso dei contanti, il cui limite per il 2022 è di 1.999,99 euro, così come disposto dal decreto Milleproroghe (e dal 2023 scenderà a 999,99 euro).

Non c’è una legge che ponga un limite ai versamenti che si possono fare sui conti correnti ma si tratta di un concetto da contestualizzare perché, in caso di versamento o di prelievo superiore ai 10.000 euro, l’istituto di credito è tenuto ad avvisare le autorità fiscali e, queste, hanno il potere di svolgere degli accertamenti.

In principio può essere versata qualsiasi somma provenga da un reddito trasparente e come tale certificabile ma, anche in questo caso, occorre fare attenzione perché, stando al Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir) il fisco può essere rigido e, in caso di sospetto, l’onere della prova spetta al cittadino.

Versare contanti sui conti correnti in tutta sicurezza

Che si tratti di un versamento in contanti o di un bonifico, l’importo ricevuto deve essere per principio inserito nella dichiarazione dei redditi. Questa norma non fa riferimenti a importi ma agli obblighi di trasparenza. Facile comprendere che, qualora nella dichiarazione dei redditi non ci fosse traccia di una o più di queste transazioni, l’accertamento fiscale può essere avviato. L’erario cercherà di rientrare delle imposte evase applicando anche le sanzioni di rito. Tocca al titolare del conto corrente interessato, sia questo una persona fisica o un’azienda, dimostrare che la presunzione del fisco è errata. Per il fisco, in questi casi almeno, non esiste la presunzione di innocenza e c’è anche il rischio che venga avviato un procedimento penale per evasione o riciclaggio.

Per fare il punto della situazione, va ribadito che non ci sono limiti ai versamenti che si possono effettuare sui propri conti correnti ma occorre chiarezza documentale – i soldi devono provenire da fonti e attività certificate – per evitare accertamenti a cura dell’Agenzia delle entrate o della Guardia di finanza.

Più che un limite alle somme versate o prelevate per contanti, le cui origine devono essere certificate su richiesta delle autorità, c’è la soglia dei 10.000 euro oltre la quale la banca è tenuta al dovere di segnalazione. Questa soglia riguarda le operazioni mensili effettuate anche su più conti correnti intestati al medesimo soggetto. La segnalazione partirebbe anche se un cittadino versasse 4.000 euro su ognuno dei suoi tre conti correnti, arrivando così a un totale di 12.000 euro. È l’intestatario dei conti correnti movimentati il soggetto di interesse, così come succede anche per la giacenza media degli averi in conto.

Per fare un esempio, possiamo citare il caso di un piccolo imprenditore che di norma emette fatture che si aggirano tra i 500 e i 1.500 euro e che, dopo averne incassate diverse brevi manu, versa 11.500 euro in contati sul proprio conto corrente. Non c’è nulla di illegale o di perseguibile dal fisco purché possa documentare l’origine del denaro, nel caso specifico esibendo sia copia delle fatture sia la ricevuta rilasciata al cliente al momento del pagamento in contanti. Operazioni di cui si dovrà trovare traccia nell’eventuale contabilità e che dovranno essere rendicontate come da norme in fase di dichiarazione dei redditi.

Il ruolo delle banche

Gli istituti di credito rispondono a leggi precise, tra le quali il decreto Legislativo 90/2017 che, recependo la direttiva Ue (2015/84) sule norme antiriciclaggio, obbliga le banche a svolgere controlli sui versamenti inusuali effettuati dai propri clienti e deve procedere con la Segnalazione di operazioni sospette (Sos). Segnaliamo che il link precedente fa più volte riferimento al decreto Legislativo 231/2007 che, di fatto, è stato modificato dalla già citata Legge 90/2017.

Per ogni versamento o prelievo superiore ai 10.000 euro effettuato in contanti, l’istituto di credito ha il dovere di segnalare l’evento all’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia (Uif). Segnalazione che va fatta entro il giorno 15 del secondo mese successivo all’operazione.

L’Uif elabora le segnalazioni ricevute e, a seconda dei casi, può avviare una serie di percorsi che coinvolgono diverse autorità tra le quali, la Guardia di finanza, i servizi antiterrorismo della Polizia di Stato, la Direzione investigativa antimafia (Dia) e può adire la Procura della Repubblica per l’apertura di un fascicolo penale a carico della persona (fisica o giuridica) a cui è intestato il conto corrente.

La posizione del fisco

Mentre bonifici e assegni permettono la tracciabilità, i contanti complicano il risalire all’origine delle somme versate. Questo ci rimanda alla necessità di dichiarare gli importi versati nelle dichiarazioni di reddito, perché il fisco – in virtù del decreto del presidente della Repubblica 600/1973 presume che ne facciano parte. Il fisco mette in correlazione i versamenti considerati anomali con la consistenza della dichiarazione dei redditi e procede, se necessario, con il richiedere chiarimenti al contribuente il quale può anche dimostrare che i fondi in questione sono frutto di operazioni già tassate o esentasse. Nell’impossibilità di dimostrare la correttezza dell’omessa dichiarazione l’entità fiscale si farà carico di recuperare quanto ritiene le sia dovuto.

Conto corrente e successione: cosa succede. Da altroconsumo.it il 13 maggio 2022.

La morte, purtroppo, ha conseguenze anche sul conto corrente e i passaggi burocratici che devono essere rispettati dagli eredi per poter entrare in possesso delle disponibilità del de cuius, intestatario di un conto corrente, sono tanti. Ecco tutto quello che c’è da sapere.

Nella successione di un conto corrente, la prima cosa da fare rapidamente è comunicare alla banca la morte del parente: occorre consegnare libretto degli assegni e carte di pagamento (carte di credito e di debito). La banca a quel punto, in attesa di fare tutte le verifiche del caso (circa gli eredi del defunto), bloccherà l’operatività del conto corrente e del conto titoli. Ciò significa che non sarà possibile fare prelievi di denaro o pagamenti. Il blocco viene fatto dalla banca perché deve appurare quali siano gli eredi e soprattutto evitare che qualcuno degli eredi prelevi denaro senza informare gli altri.

Quali documenti sono necessari?

Per informare la banca, serve portare il certificato di morte e la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà che si può chiedere all’Anagrafe e che accerta quali siano gli eredi. In caso di testamento, occorre indicarne gli estremi nella dichiarazione. In caso di patrimoni rilevanti (in genere superiore al milione di euro, ma dipende dalla banca) la banca può chiedere il certificato di notorietà o atto notorio e la dichiarazione di successione. 

Dichiarazione di successione: tasse e costi

La dichiarazione di successione, deve essere presentata entro 12 mesi dalla morte del soggetto. Per i parenti in linea retta e il coniuge c’è una franchigia di 1 milione di euro ad erede: significa che non si pagano le tasse se il valore in successione per ogni erede non supera 1 milione di euro.

Come si applica l’ereditarietà ai conti bancari

Con l’atto notorio, un erede accerta la sua identità e quelli degli altri eredi. L’atto notorio può essere richiesto da uno degli eredi e può essere fatto davanti ad un pubblico ufficiale, quindi il notaio, i cancellieri del Tribunale oppure il sindaco o un suo incaricato.  Per l’atto notorio servono due testimoni maggiorenni che non possono essere parenti o affini dell’erede e non devono avere alcun interesse alla successione.

Con l’annuncio della morte del correntista, il conto corrente viene bloccato per le opportune verifiche. Significa che non possono essere fatti pagamenti, ad eccezione di eventuali addebiti diretti già autorizzati dal defunto (ad esempio per pagare le bollette). In genere, la banca blocca il conto fino alla presentazione da parte degli eredi della dichiarazione di successione. Per lo sblocco bisogna inviare alla banca la ricevuta di invio della dichiarazione, cartacea o telematica. Dopo questo lo sblocco avviene secondo i tempi previsti dalla banca.

Solo dopo lo sblocco del conto corrente gli eredi possono chiederne la chiusura. Il blocco e lo sblocco del conto corrente implicano anche il blocco e lo sblocco del conto titoli, cioè del conto su cui sono depositate le azioni, le obbligazioni, i titoli di Stato, i fondi comuni. Con lo sblocco del conto corrente si avrà anche lo sblocco del conto titoli; dopo lo sblocco i titoli possono essere trasferiti sui conti degli eredi oppure essere liquidati.

Successione per conto separato

Dopo avere consegnato i documenti, la banca non fa altro che bloccare l’operatività del conto corrente e dell’eventuale conto titoli, in attesa delle verifiche del caso. Può passare molto tempo prima di arrivare allo sblocco. 

Successione per conto cointestato

Ma c’è una possibilità: nel caso in cui il conto sia cointestato, in realtà, il denaro depositato viene suddiviso in quota parte tra i vari intestatari e quindi sarà bloccata solo la parte relativa all’intestatario morto. Quindi, se il conto è cointestato tra padre e due figli, se il padre muore sarà bloccato il conto solo per un terzo.

Conto bloccato: una prassi scorretta

Sui tempi che la banca si prende per sbloccare un conto separato, purtroppo, non c’è alcuna certezza e talvolta potrebbe essere necessario un tempo molto lungo. Riteniamo questa cosa davvero scorretta e soprattutto ingiustificata. In casi particolari ci potrebbero essere gli estremi per protestare con un reclamo alla banca e quindi un ricorso ad ABF chiedendo anche il risarcimento di eventuali danni.

È chiaro che comunque protestare non risolve il problema; è necessario tanto tempo per avere le risposte e nel frattempo il conto resterebbe bloccato. La soluzione sarebbe un intervento di legge sulla questione; vi aggiorneremo sulle nostre attività rivendicative. 

Discorso diverso invece per i conti cointestati. Sulla questione infatti si è pronunciata anche la Corte di Cassazione recentemente affermando che è vietato il blocco del conto corrente in banca o alle Poste di un intestatario alla sua morte quando il conto corrente è cointestato a firma disgiunta. La sentenza vuole dare al cointestatario la possibilità di operare sul conto anche in caso di morte dell’altro titolare, secondo il principio che ogni cointestatario può avere disponibilità da solo del conto, vale a dire che può anche prelevare tutti i soldi presenti sul conto corrente. 

Secondo la Cassazione, dunque, i cointestatari di un conto corrente a firma disgiunta che hanno possibilità di compiere movimenti e operare sul conto corrente in maniera libera, devono poter avere accesso al conto sempre e hanno anche diritto di chiedere alla morte del cointestatario il prelievo di tutti i soldi presenti senza che per questo la banca ne risulti responsabile eventualmente davanti agli altri eredi. Se ciò non accade, ci sono gli estremi per protestare, con un reclamo per iscritto alla banca che deve rispondere entro 60 gg dal suo ricevimento e poi ricorso da ABF. 

Conto corrente cointestato: cosa succede in caso di decesso di uno degli intestatari. Da magazine.iblbanca.it il 18 marzo 2022. Quando si decide di aprire un conto corrente cointestato è bene conoscere ogni aspetto ad esso legato.

Se è vero che un requisito fondamentale è sapere a quali condizioni si va incontro e quali sono le modalità di apertura e gestione, lo è altrettanto sapere cosa succede in specifiche situazioni limite che possono verificarsi.

Una di queste è il decesso di uno dei cointestatari del conto corrente. Cosa accade e come si devono comportare gli altri cointestatari? Cosa prevede la normativa circa la ripartizione delle somme della persona venuta a mancare? Approfondiamo il tema.

La divisione delle somme in caso di decesso di uno dei cointestatari del conto corrente

Dividere le somme tra le parti in caso di decesso di uno dei cointestatari del conto corrente non è sempre una pratica semplice e lineare. Le situazioni che si possono verificare infatti sono tante. Ciò che si deve considerare è legato alla presenza o meno di eredi diretti del cointestatario del conto corrente venuto a mancare e al tipo di firma apportata in fase di apertura del conto corrente (congiunta o disgiunta).

In linea generale, la normativa vigente vuole che laddove siano presenti eredi diretti della persona venuta a mancare, per riscuotere le somme loro destinate, questi debbano presentare all’Agenzia delle Entrate la dichiarazione di successione per poi esibirla alla banca che deve provvedere a sbloccare la parte di denaro del defunto messa in sicurezza a seguito della ricezione della comunicazione di decesso.

Nella realtà dei fatti, però, non è così semplice. I casi differiscono infatti a seconda che il conto corrente cointestato sia a firma congiunta o disgiunta.

Decesso di uno dei contestatari di un conto corrente a firma congiunta

Nel caso del conto corrente a firma congiunta, se una delle parti viene a mancare, gli altri cointestatari del conto non possono riscuotere le somme che spettano loro di diritto o effettuare alcun tipo di operazione perché il conto corrente viene bloccato fin quando la banca non abbia avuto conferma della diretta ereditarietà delle quote della persona deceduta ed abbia avviato la pratica di successione.

Una volta stabiliti i diretti eredi, le somme presenti sul conto corrente vengono “scongelate” e gli altri cointestatari possono tornare in possesso ciascuno della propria parte.

Conto corrente cointestato a firma disgiunta: cosa succede in caso di decesso di una delle parti

Nel caso del conto corrente a firma disgiunta, invece, la pratica di suddivisione delle somme è molto più lineare.

La parte delle somme del defunto presente sul conto, infatti, viene acquisita per il 50% dagli altri cointestatari e per il 50% dagli eredi della persona venuta a mancare. La banca in questo caso è tenuta a “congelare” solo la parte delle somme spettante agli eredi e ad aprire su di essa la successione ereditaria, lasciando agli altri titolari del conto la possibilità di ritirare o disporre delle loro somme in maniera completamente autonoma.

Il caso della “solidarietà attiva” che libera la banca dalla responsabilità di “congelare le somme”

Secondo una recente sentenza della Corte di Cassazione (marzo 2021) il cointestatario di un conto corrente a firma disgiunta può prelevare anche l’intera giacenza in caso di morte dell’altra parte, applicando il principio di “solidarietà attiva”. In questo caso, però, il titolare del conto corrente rimasto in vita è tenuto a riconoscere il 50% delle somme appartenenti al cointestatario defunto ai diretti eredi dello stesso in modo autonomo e senza la partecipazione della banca nella pratica di riconoscimento della diretta ereditarietà.

Cassazione Civile, sez. II, sent. n. 7862 del 19/3/2021 – MASSIMA ESTRATTA:

“La giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che (Cass. n. 15231/2002) nel caso in cui il deposito bancario sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere, sino alla estinzione del rapporto, operazioni, attive e passive, anche disgiuntamente, si realizza una solidarietà dal lato attivo dell’obbligazione che sopravvive alla morte di uno dei contitolari, sicchè il contitolare ha diritto di chiedere, anche dopo la morte dell’altro, l’adempimento dell’intero saldo del libretto di deposito a risparmio, e l’adempimento così conseguito libera la banca verso gli eredi dell’altro contitolare (conf. Cass. n. 12385/2014). Emerge quindi in maniera evidente, come la domanda proposta risulterebbe in ogni caso infondata nel merito, essendo uno specifico obbligo della banca, scaturente dalla disciplina del contratto bancario, quello di permettere al singolo cointestatario, anche dopo la morte dell’altro titolare del rapporto, di poter pienamente disporre delle somme depositate, ferma restando la necessità di dover verificare la correttezza di tale attività nell’ambito dei rapporti interni tra colui che abbia prelevato e gli eredi del cointestatario deceduto (rapporti che, come correttamente ricordato dalla Corte d’Appello, sono stati oggetto di definizione in via transattiva)”.

Il fallimento delle banche centrali, dieci anni dopo il “Whatever it takes”. Francesco Guerrera su La Repubblica il 18 Luglio 2022.  

Hanno salvato l’economia da tre crisi e raggiunto l’apice quando Mario Draghi diede il via al maxi-programma di aiuti Bce con la famosa frase, ora i protagonisti sono cambiati e sono sotto accusa perché non riescono a frenare i prezzi

"Gli eroi," cantava Francesco Guccini, "son tutti e giovani e belli". Beh, non proprio tutti. Negli ultimi due decenni, gli eroi per investitori, consumatori e aziende sono stati un gruppo di attempati signori e (più di rado) signore con un superpotere non consueto: la possibilità d'inondare l'economia mondiale con denaro a basso prezzo. Non certo giovani, chissà se belli, ma certamente di successo.

Amadeo Peter Giannini, l’uomo che creò Bank of America dando prestiti ai non abbienti. Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 18 Luglio 2022.

Sappiamo tutto di Al Capone e della delinquenza italiana esportata negli Usa. Quasi nulla dell’uomo che ha fondato l’impero finanziario più grande del mondo, pur considerando negativo aspirare ad accumulare molto denaro. Lo aveva anche quantificato: «Oltre i 500 mila dollari bisogna andare dallo psichiatra». Il suo nome è Amadeo Peter Giannini, nato nel 1860 a San Jose, figlio di poverissimi immigrati liguri. Rimasto orfano di padre a 7 anni, a 12 inizia a lavorare di notte come facchino da un grossista di ortaggi, a 19 ne diventa socio, e nel giro di pochi anni il magazzino diventa uno dei più grandi di San Francisco. Nel frattempo, si sposa, fa qualche investimento immobiliare, e all’età di 31 anni decide di vendere le proprie quote agli altri soci per dedicarsi alla famiglia e vivere di rendita. Ma è qui che inizia la vera carriera di Giannini. Il suocero lo convince ad entrare nel consiglio d’amministrazione di una banca locale, la Columbus Saving and Loan Society. 

Apre Bank of Italy in un saloon

Quello che vede non gli piace: i prestiti si fanno a chi i soldi già li ha e non ha difficoltà a restituirli, mentre tutt’intorno, migliaia di immigrati che vogliono far fortuna e hanno bisogno di qualcuno che gli dia fiducia, sono costretti ad andare dagli usurai, e pagare alle banche un tasso del 6% per mandare soldi in Italia. Dal suo lavoro con agricoltori e mercanti Giannini sa che interi gruppi sociali non possono aprire conti di risparmio o ottenere prestiti dalle banche nonostante siano persone operose che non prendono dei grossi rischi, e preme per allargare il credito a queste categorie, ma i dirigenti della banca gli dicono: «È così che funziona». Dalla banca si dimette, e con 150 mila dollari presi in prestito dal patrigno e un altro centinaio da una decina di amici, nel 1904 apre in un ex saloon Bank of Italy. I clienti se li va a cercare fra gli immigrati italiani e di tutti i Paesi: «Non tenete i vostri piccoli risparmi sotto al materasso, venite a depositarli in banca e io faccio prestiti a partire da 25 dollari per comprare sementi, tenere in piedi una lavanderia o sistemare il negozio, e come garanzia guardo i calli sulle mani». Per trasferire i soldi alla famiglia in Patria chiede solo il 3%. In un paio d’anni conquista la fiducia di tutta la popolazione attiva e i depositi superano il milione di dollari. 

Terremoto e rinascita di San Francisco

Il 18 aprile del 1906 il terremoto distrugge San Francisco. Nonostante devastazione e incendi Giannini riesce a portare in salvo dalle macerie la cassaforte con dentro monete, oro e titoli e, per proteggerla dai saccheggiatori, la nasconde sotto a un carico di ortaggi, su un carretto trainato da due cavalli. Mentre tutte le banche decidono di restare chiuse fino al ritorno della normalità, Giannini nel giro di una settimana apre sul molo un banchetto di legno con sopra l’insegna di Banca d’Italia e il cartello: «Business as usual». E poi informa tutti i suoi correntisti che la banca avrebbe continuato a prestare denaro a chi vuole ricostruire la casa o il negozio diroccati.

Emette credito sulla forza di una faccia, un impegno e una stretta di mano, annotando i nomi su un foglietto di carta.

Quattro mesi dopo il San Francisco Examiner scrive: «North Beach è stato il primo quartiere ad aver ripreso il suo aspetto. In 4 mesi i residenti hanno rimesso in piedi 542 strutture». Molti citano l’intraprendenza e la rapidità di azione di Giannini come un fattore determinante nella ripresa di San Francisco. E dai rendiconti della Banca il 96% ha restituito i prestiti. 

Dona la Banca ai dipendenti

Negli anni successivi compra una piccola banca dopo l’altra, aggiungendo sportelli a Bank of Italy e seguendo lo stesso principio: aiutare chi non ha accesso al credito. «Ogni banca – dice – è un ente di servizio pubblico. Se non lo è, dovrebbe esserlo». Negli Usa all’epoca non esistono le Casse di risparmio o le Casse rurali come in Europa, ma ci sono istituti per facoltosi e benestanti. In 20 anni il capitale di Bank of Italy arriva a 300 milioni di dollari. Il 9 novembre 1924 il New York Times riporta l’annuncio che Giannini ha avviato un piano che consente ai dipendenti di diventare proprietari della Banca: «L’hanno costruita, dovrebbero possederla», dichiara. Giannini ha cominciato a distribuire ogni anno ai suoi dipendenti una «compensazione extra» da utilizzare, se lo desiderano, per comprare azioni della banca. «C’è una grande opportunità nella banca per ciascuno di loro, e penso che questo piano apra loro una grande speranza. Inoltre, l’iniziativa renderà l’occupazione in Bank of Italy ricercatissima, e ciò garantirà all’istituto un personale leale e vigile».

I profitti in aiuto ai contadini

Non ha mai accettato un dollaro in più del suo stipendio. Il 24 gennaio del 1928, quando la Banca ha 289 filiali in California, Giannini rifiuta di accettare il 5% dei profitti della Bancitaly Corporation come sua quota dei guadagni, e li mette a disposizione dell’Università della California per lo sviluppo dell’agricoltura. La somma è di 1,5 milioni di dollari. 

In quegli anni si è avvicinato all’industria del cinema che dalla Costa Est si è spostata a Los Angeles. Crede in Charlie Chaplin quando nessuno gli dava i soldi per produrre quello che è poi diventato il suo capolavoro: «Il monello». Chaplin gli chiedeva 14 mila dollari, Giannini si innamora della sceneggiatura e decide che non deve lavorare in economia: gliene dà 50 mila e chiede in cambio il 25% degli incassi. Quando la pellicola esce nelle sale, al botteghino Usa si classifica al secondo posto. 

Nasce Bank of America

La grande mossa arriva nel 1930, quando fonde Bank of Italy con Bank of America, una piccola banca di New York. Contro di lui tutto l’establishment bancario, che da tempo lo ostacola e sminuisce chiamandolo «il fruttivendolo italiano». Il suo business si allarga e i grandi banchieri, invidiosi dei suoi successi, continuano per anni a fargli una guerra spietata, fino ad accusarlo di falsificare i conti. 

Durante la Grande Depressione degli Anni ’30, mentre molte banche falliscono perché hanno investito in azioni che si sono svalutate e non hanno più patrimoni, Bank of America non ne risente perché finanzia l’economia reale. La sua determinazione è sempre stata una sola: «Le buone condizioni di accessibilità al credito possono fornire ad artigiani e piccole imprese gli strumenti per crescere, e la loro crescita sarà la base per la crescita anche della nostra banca». 

Oltre ai piccoli prestiti alle persone comuni, Giannini accetta anche clienti più rischiosi che vogliono investire nei vigneti, aiutando così l’industria del vino a svilupparsi. Quando Walt Disney supera il budget per le riprese di Biancaneve, Giannini approva un prestito di 1,7 milioni di dollari. A lui si rivolge nel 1932 Joseph Strass, progettista del Golden Gate, che da 14 anni non riesce a trovare un finanziatore. Amadeo finanzia il progetto con sei milioni di dollari. A convincerlo è la certezza che il ponte avrebbe aiutato la popolazione di San Francisco a uscire dal clima di depressione economica che aleggia sulla città, e impone a Bank of America di non percepire alcun interesse. 

Lascia un patrimonio di 480 mila $

Ha reso il credito ragionevole, vedendo la banca realizzare un profitto. Giannini muore nel 1949 all’età di 79 anni. Bank of America è diventata la più grande banca del mondo, con un patrimonio di 7 miliardi di dollari e 526 filiali in più di 300 città degli Stati Uniti. Alla sua morte, il New York Times scrive: «Un accurato inventario dei suoi beni ha stabilito che ammontano a 489.278 dollari, una piccola somma per un uomo della sua statura e del suo successo». Nel testamento, di 6 pagine, Giannini lascia tutto alla Bank of America-Giannini Foundation, un fondo filantropico fondato nel 1945, il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, destinato a promuovere la formazione dei dipendenti e a finanziare la ricerca medica. E conclude scrivendo «non teorizzate sul bene, fatelo». Oggi se si va sul sito di Bank of America e si digita «Giannini», non esce niente. 

Oggi regna il massimo profitto

Non si è avverato ciò che Giannini prevedeva: raccogliere da una comunità risorse finanziarie per restituirle alla società, a chi le merita e ha idee per sviluppare iniziative utili. Per lui l’accumulo di ricchezza era negativo, mentre in America, e ovunque nel mondo, è il patrimonio personale a distinguere i personaggi degni del maggior rispetto.

Oggi il banchiere massimizza il valore dei suoi azionisti e il manager, pagato per aumentare il valore delle azioni, usa i soldi dei risparmiatori per comprare e vendere, cioè speculare.

Quindi vediamo operazioni indecenti come il riacquisto da parte della banca di azioni proprie, così sale il prezzo delle azioni e la remunerazione del manager. Chi è al corrente di queste operazioni di buy back? Il manager stesso, perché delibera l’acquisto di un certo numero di azioni ma non dice quando, pur sapendolo, perché ci sono informazioni che ha soltanto lui. Banche e Fondi si comprano le azioni a vicenda per apparire bravi davanti ai loro investitori. Oggi c’è da qualche parte uno come Giannini? Magari sì, nelle banche piccole e ben gestite, ma per farlo emergere bisognerebbe dire ai piccoli imprenditori: «Votate il vostro banchiere!».

Il complesso giudiziario-mediatico. Le colpe dei figli e lo stantio odore di progetto eversivo (finalmente sventato). Christian Rocca su L'Inkiesta il 16 Giugno 2022.

A Renzi e Boschi hanno arrestato e martoriato i genitori, la cui unica responsabilità è sempre stata, ben prima delle assoluzioni, quella di aver concepito i due politici toscani che si erano messi in testa di cambiare il paese. La rappresaglia è stata una fetida campagna reazionaria che ha generato il bipopulismo italiano.

A Matteo Renzi hanno arrestato mamma e papà e a Maria Elena Boschi hanno martoriato il padre per sette anni. Nessuno dei genitori in questione ha fatto niente di male, tranne che aver concepito e cresciuto due ragazzi toscani che si erano messi in testa di cambiare l’Italia partendo da due paesini di provincia.

Non c’è mai stato bisogno di leggere i capi di imputazione, e adesso nemmeno le sentenze di assoluzione, per capire che si trattava di accuse-spazzatura prodotte dalla più fetida delle campagne reazionarie degli ultimi trent’anni. 

Questo breve riassunto di un ribaldo tentativo riformatore e di una conseguente rappresaglia reazionaria è già sufficiente a diagnosticare la catastrofe civile e morale del dibattito politico italiano di questi anni, ma in realtà a rimanerci sotto non sono stati soltanto i parenti di primo grado di Renzi e di Boschi. Il complesso giudiziario-mediatico ha mascariato infatti anche amici, compagni e finanziatori dei due e, una per tutti, anche la ministra in carica Federica Guidi, costretta a dimettersi, infangando le esistenze pubbliche e private di malcapitati che non erano soltanto innocenti ma anche estranei ai fatti contestati.

La feroce rappresaglia reazionaria che ha abbattuto il tentativo riformatore dei renziani ha corrotto anche il processo democratico nazionale e ha aperto la strada al più spaventoso bipopulismo antioccidentale, antidemocratico e antieuropeo che è arrivato fino al governo con l’obiettivo preciso di mutilare il Parlamento, di superare la democrazia rappresentativa, di sfaldare l’Unione europea, di indebolire la Nato, di consegnarsi a Putin e di scimmiottare quel Cialtrone in Chief che poi ha degnamente concluso il suo tragico mandato alla Casa Bianca assaltando il parlamento di Washington, tentando un colpo di stato e lasciando cinque morti sul campo e una ferita alla democrazia americana non ancora cicatrizzata.

La tortura mediatica nei confronti dei genitori di Renzi e di Boschi è stato il momento più osceno di una temperie eversiva e populista che, sopraggiunto il Covid e la necessità di ripristinare la normalità filo-europea per salvarci dall’epidemia e dalla crisi economica, ci avrebbe lasciati a terra stecchiti se proprio Matteo Renzi per ben due volte, prima facendo fesso Salvini al Papeete e poi mettendosi nel taschino Conte, non avesse fatto cadere con le armi della politica i due governi più scombinati e anti italiani della nostra storia recente per aprire, infine, la strada all’arrivo di Mario Draghi. 

(ANSA il 15 giugno 2022) - Tutti assolti, perché il fatto non sussiste, i 14 imputati del processo sul filone consulenze d'oro alla ex Banca Etruria. La sentenza è stata pronunciata dal giudice di Arezzo Ada Grignani. 

Al tribunale il pm Angela Masiello aveva chiesto il massimo della pena (1 anno) per Pierluigi Boschi, padre dell'ex ministro Maria Elena ed ex vicepresidente di Etruria, e per altri tre dirigenti cioè Luciano Nataloni, Claudia Bugno e Luigi Nannipieri. Per gli altri imputati erano state chieste condanne da 8 a 10 mesi. Ma il verdetto è di assoluzione con formula piena.

Gli imputati erano accusati di bancarotta colposa per una serie di consulenze commissionate dalla ex Banca Etruria per studiare l'ipotesi di fusione con un altro istituto di credito, che fu individuato nella Banca Popolare di Vicenza, ma poi l'operazione non andò in porto. 

Secondo l'accusa anche le consulenze aggravarono i conti di Banca Etruria e ne scaturì un filone complementare a quello 'generale' per bancarotta fraudolenta dedicato al crac dell'istituto di credito aretino. Il procuratore Roberto Rossi, che coordina il pool investigativo della procura di Arezzo su Banca Etruria, ha dichiarato dopo la lettura della sentenza: "Aspettiamo le motivazioni poi valuteremo se fare ricorso in appello".

Oltre alla richiesta di pena per 1 anno per Boschi senior, Luciano Nataloni, Claudia Bugno e Luigi Nannipieri, il pm aveva chiesto anche condanne di 8 mesi per Daniele Cabiati, Carlo Catanossi, Emanuele Cuccaro (ex vicepresidente) sui quali pendeva un capo di imputazione; di 9 mesi per Alessandro Benocci, Claudia Bonollo, Anna Nocentini Lapini, Giovanni Grazzini, Alessandro Liberatori e Ilaria Tosti (per loro due capi di imputazione); di 10 mesi per Claudio Salini (per tre capi di imputazione).

(ANSA il 15 giugno 2022) - "Oggi ho pianto. Avevo giurato a me stessa che non avrei mai pianto per Banca Etruria. Oggi l'ho fatto. E non ho paura di ammetterlo in pubblico. Ho pianto come una bambina, in ufficio, alla Camera. Ho pianto perché mio padre è stato assolto dall'ultima accusa che gli veniva mossa su Banca Etruria. 

Con oggi si chiude un calvario lungo sette anni. E si chiude nell'unico modo possibile: con la certezza che mio padre era innocente". Lo scrive in un post su Facebook Maria Elena Boschi, presidente dei deputati di Italia Viva, commentando l'assoluzione del padre Pier Luigi. "La verità giudiziaria non cambia niente per me: ho sempre saputo che mio padre è stato attaccato sui media e non solo per colpire altri.

Ma oggi la verità giudiziaria stabilisce ciò che io ho sempre saputo nel mio cuore: mio padre è innocente. E ora - aggiunge - lo sanno tutti, non solo la sua famiglia. Lo sa il popolo italiano, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Lo sanno le Istituzioni di questo Paese che io ho servito con dignità e onore. 

Lo sanno gli avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto. Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda. Lo sanno gli odiatori che mi hanno insultato spesso con violenza verbale e frasi sessiste nel silenzio complice e imbarazzato di tanti".

"Questa vicenda - sottolinea - ha segnato la mia vita e la mia carriera molto più di quanto uno possa pensare: ma le lacrime di oggi sono lacrime di gioia e di speranza. Perché nessuno debba subire quello che ha subito la mia famiglia. Combatterò per una giustizia giusta. E ringrazio quei tanti magistrati che in ogni angolo del Paese fanno prevalere il diritto sull'ingiustizia. Grazie a chi mi è stato vicino. Ti voglio bene babbo".

(ANSA il 15 giugno 2022) - "E' stato riconosciuto quello in cui abbiamo sempre creduto. Spero che questo sia l'ultimo procedimento a carico di Pierluigi Boschi. Il fatto di portare quel nome ha pesato sul mio assistito ma per fortuna c'è un lieto fine". Lo ha detto Gildo Ursini, difensore dell'ex vicepresidente di Banca Etruria Pierluigi Boschi, padre dell'ex ministro Maria Elena, commentando la sentenza di assoluzione per tutti i 14 imputati accusati di bancarotta per il filone consulenze d'oro nel crac di Banca Etruria.

Secondo l'avvocato Alessandro Traversi, difensore di cinque componenti dell'ex cda di BancaEtruria, "la sentenza dimostra come gli imputati, nell'ambito del loro lavoro, abbiano fatto solo quanto richiesto. 

Il giudice ha riconosciuto che il dissesto non è stato determinato dalle consulenze d'oro ma da altre scelte gestionali risalenti nel tempo, che è stato dimostrato nel processo che i consulenti hanno applicato tariffe inferiori a quelle di mercato, che i nostri assistiti hanno cercato di salvare la situazione seguendo le indicazioni date da Banca d'Italia, che suggeriva di trovare un altro istituto 'di adeguato standing' con cui attivare una fusione". 

Per l'avvocato Giovanna Corrias Lucent , difensore di Claudio Salini, "giustizia è stata fatta, del resto gli amministratori di Banca Etruria avevano seguito indicazioni precettive della Banca d'Italia, che aveva monitorato il processo di aggregazione, considerato come unica soluzione alla crisi dell'istituto".

La sentenza e le reazioni. Tutti assolti per le ‘consulenze d’oro’ di Banca Etruria, tra i 14 imputati anche papà Boschi: “Finisce calvario lungo 7 anni”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Giugno 2022. 

Le indagini sulle cosiddette “consulenze d’oro” di Banca Etruria finiscono in un flop. Il tribunale di Arezzo ha assolto perché “il fatto non sussiste” i 14 imputati a processo per questo filone di indagini sul crac dell’istituto di credito, fallito nel 2015 dopo la messa in risoluzione con il decreto salvabanche.

Ad emettere la sentenza oggi, dopo una breve camera di consiglio, è stato il giudice Ada Grignani. Alla sbarra c’era tra gli altri anche Pier Luigi Boschi, all’epoca dei fatti vicepresidente di Banca Etruria, padre della capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi, che 7 anni fa venne travolto dalla polemiche e da campagne di stampa proprio per il ruolo del padre nel fallimento della banca.

La procura aveva chiesto per il reato di bancarotta semplice condanne dagli otto mesi a un anno nei confronti degli ex consiglieri del cda ed ex dirigenti dell’istituto di credito aretino. Il tribunale invece ha assolto tutti, con il procuratore capo Roberto Rossi che ha annunciato l’intenzione di proporre appello contro la decisione.

Per Boschi il sostituto procuratore Angela Masiello durante la requisitoria aveva chiesto la condanna a 12 mesi, così come perLuciano Nataloni, Claudia Bugno e Luigi Nannipieri. Per le altre posizioni erano stati chiesti otto mesi per Daniele Cabiati, Carlo Catanossi, Emanuele Cuccaro; nove mesi per Alessandro Benocci, Claudia Bonollo, Anna Nocentini Lapini, Giovanni Grazzini, Alessandro Liberatori e Ilaria Tosti; dieci mesi per Claudio Salini.

Le accuse smontate

Nel mirino della procura aretina erano finite le “consulenze d’oro” pagate dalla banca per avviare il processo di fusione tra Etruria e Banca Popolare di Vicenza, operazione che poi non si concretizzò. Per verificare le prospettive di una fusione, i vertici di Banca Etruria secondo quanto appurato dalle indagini affidarono incarichi per circa 4 milioni e mezzo di euro, in un arco temporale compreso tra il giugno e l’ottobre 2014, a grandi società, come Medio banca, o conosciuti studi legali di Roma, Milano e Torino.

Stando all’accusa quella dei vertici dell’istituto di credito fu una condotta imprudente, con i vertici della banca che non avrebbero vigilato sulla redazione di quelle consulenze, ritenute dagli inquirenti in gran parte “inutili” e “ripetitive”.

Accuse respinte dai legali degli imputati, che hanno sempre sostenuto che che non ci furono “operazioni imprudenti, piuttosto un’azione doverosa rispetto a quanto chiesto da Banca d’Italia“, e per questo i vertici di Banca Etruria si erano mossi affidando ai migliori advisor d’Italia le consulenze.

La reazione dei Boschi

Ovviamente soddisfatto Pier Luigi Boschi, come spiega all’AdnKronos il suo legale, l’avvocato romano Gildo Ursini: “Il mio assistito ha sempre creduto nella giustizia nella convinzione di non aver fatto mai nulla di male ed ha dovuto subire comunque questa prova“.

Con questa assoluzione, Boschi “ha chiuso tutte le pendenze legate alle vicende di Banca Etrutia“, ha precisato Ursini. L’avvocato ha comunicato telefonicamente a Boschi l’assoluzione. “Si è sentito naturalmente sollevato da questa sentenza“.

Ma le parole più dure sono quelle di Maria Elena Boschi, che sui social ha ricordato il travaglio subito in questi anni dalla sua famiglia, sottolineando come ha accolto con un piano la notizia dell’assoluzione del padre. “Avevo giurato a me stessa che non avrei mai pianto per Banca Etruria. Oggi l’ho fatto. E non ho paura di ammetterlo in pubblico. Ho pianto come una bambina, in ufficio, alla Camera – scrive la capogruppo di IV – Ho pianto perché mio padre è stato assolto dall’ultima accusa che gli veniva mossa su Banca Etruria. Con oggi si chiude un calvario lungo sette anni. E si chiude nell’unico modo possibile: con la certezza che mio padre era innocente. La verità giudiziaria non cambia niente per me: ho sempre saputo che mio padre è stato attaccato sui media e non solo per colpire altri. Ma oggi la verità giudiziaria stabilisce ciò che io ho sempre saputo nel mio cuore: mio padre è innocente. E ora lo sanno tutti, non solo la sua famiglia”. 

“Lo sa il popolo italiano, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Lo sanno le Istituzioni di questo Paese che io ho servito con dignità e onore. Lo sanno gli avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto. Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda. Lo sanno gli odiatori che mi hanno insultato spesso con violenza verbale e frasi sessiste nel silenzio complice e imbarazzato di tanti – aggiunge Boschi -. Questa vicenda ha segnato la mia vita e la mia carriera molto più di quanto uno possa pensare: ma le lacrime di oggi sono lacrime di gioia e di speranza. Perché nessuno debba subire quello che ha subito la mia famiglia. Combatterò per una giustizia giusta. E ringrazio quei tanti magistrati che in ogni angolo del Paese fanno prevalere il diritto sull’ingiustizia. Grazie a chi mi è stato vicino. Ti voglio bene babbo”, conclude Boschi.

“Oggi molti avversari politici, ospiti dei talk, odiatori dovrebbero mettersi in fila e dire una cosa sola: scusa. Non lo faranno. Ma quello che è sempre più chiaro è che i mostri non eravamo noi. Un abbraccio a tutta la famiglia Boschi“, scrive invece su Facebook il leader di Italia Viva Matteo Renzi l’assoluzione del padre di Maria Elena Boschi.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Boschi: «Gogne, sessismo e fango contro di noi. Di Maio si scusi». Intervista a Maria Elena Boschi: «Contro me e mio padre il peggio. All’esterno volevo far vedere che tutto era sotto controllo. Ma la rabbia, lo stress, il dolore ti consumano».  Valentina Stella su Il Dubbio il 16 giugno 2022.

È il giorno del riscatto per l’onorevole Maria Elena Boschi, avvocato e Presidente dei Deputati di Italia Viva. Per anni televisioni e giornali hanno condannato, prima che la giustizia facesse il suo corso, suo padre Pier Luigi. Nell’attesa la vicenda ha segnato profondamente la sua vita e la sua carriera. Ma ieri finalmente suo padre è stato assolto “perché il fatto non sussiste”. Era finito a processo insieme ad altri 14 imputati, assolti pure loro, per il crac di Banca Etruria nell’ambito del filone di indagine sulle cosiddette consulenze d’oro. L’esito processuale le permette di liberarsi di tanto dolore e di sfogarsi lucidamente: «Hanno cercato di distruggermi la vita personale e la carriera: oggi hanno perso». E va all’attacco di Di Maio e di Travaglio.

Quanta sofferenza c’era dietro quel pianto che ha fatto dopo aver saputo dell’assoluzione di suo padre?

Tanta. Inutile girarci intorno: ci sono stata male, ci siamo stati male. All’esterno volevo far vedere che tutto era sotto controllo. Ma la rabbia, lo stress, il dolore ti consumano. Però c’è anche la gioia, da avvocato e da politica, nel vedere la giustizia affermarsi sul giustizialismo becero di tanti, in primis i grillini, che mi hanno letteralmente massacrato. Hanno cercato di distruggermi la vita personale e la carriera: oggi hanno perso. Le lacrime sono liberatorie. Credo che il Movimento Cinque stelle dovrebbe fare una profonda riflessione su come ha esasperato il rapporto tra politica e giustizia. Il fatto che la loro scomparsa politica sia imminente non dovrebbe impedire loro una severa autocritica.

A proposito di questo, Lei nel suo lungo post ha fatto riferimento anche agli «avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto». Attende le scuse da qualcuno?

Le vorrei da tutti. Non me le sta facendo nessuno. Se dovessi dire un nome direi Luigi di Maio. Ultimamente si è scusato con tutti, da Mattarella all’ex sindaco di Lodi Uggetti. Non so se ricorda cosa ha detto e cosa ha fatto dire di me. Ma forse ha rimosso per liberarsi un peso dalla coscienza.

Finisce un calvario giudiziario durato anni. Secondo lei da cosa è dipeso? Fisiologico che si possa essere accusati e poi assolti o come ha detto l’avvocato di suo padre: «Il fatto di portare quel nome ha pesato sul mio assistito ma per fortuna c’è un lieto fine»?

Mio padre ha avuto degli ottimi legali, tra cui Gildo Ursini, che ringrazio di cuore da collega prima che da cittadina. Ma ha avuto anche degli ottimi magistrati. I giudici bravi sono la maggioranza in questo Paese. Ciò che dovrebbe far riflettere è come il sistema dell’informazione abbia seguito la barbarie social e l’ignoranza grillina (e non solo grillina) nei talk, nei commenti, nel dibattito pubblico. Gli scandali bancari erano altrove, da Vicenza a Siena: l’attacco ad Arezzo serviva per creare un diversivo e per massacrare una delle figure più riconoscibili del renzismo.

Oltre ad un calvario giudiziario termina anche quello mediatico. Lei ha scritto che ora tutti sanno che suo padre è innocente. «Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda». Cosa le ha fatto più male in tutti questi anni?

La violenza verbale, le minacce, gli insulti, le allusioni, il sessismo. E purtroppo non tutti i media si sono comportati in modo intellettualmente onesto. Anche qui mi piacerebbe che l’ordine dei giornalisti facesse una verifica se non un’autocritica: essere i controllori del potere è giusto e doveroso. Essere gli alfieri a reti unificate di un giustizialismo interessato no. Ma io sono ancora qui, forte e fortunata. E felice per i miei genitori che non vedo l’ora di abbracciare.

Il suo collega di partito Anzaldi ha detto «ora la Rai, che negli anni scorsi ha dedicato aperture dei telegiornali, puntate di talk show, approfondimenti e interviste a questa vicenda, ha il dovere di dare all’assoluzione almeno lo stesso risalto». Vale anche per il Fatto Quotidiano?

Non lo farà la Rai. Meno che mai il Fatto Quotidiano. Mi fa sorridere la motivazione dell’assoluzione: il fatto non sussiste. Ma Il Fatto Quotidiano invece continua a sussistere, acciaccato dai risarcimenti danni certo ma sempre ricolmo di odio ad personam. In un Paese civile qualcuno dovrebbe chiedere conto ai vostri colleghi di ciò che è stato scritto. È mai possibile che chi ha ricevuto plurime condanne per diffamazione continui a pontificare in televisione come opinionista tutte le sere? Eppure sembra che questa cosa non sia importante ma incide molto sulla qualità della nostra democrazia.

Matteo Renzi ha scritto commentando l’assoluzione: «I mostri non eravamo noi». Chi sono allora i veri mostri?

Chi ha sfruttato il giustizialismo contro la giustizia. Ho letto il libro di Renzi e ho fatto un esercizio: ho tolto il suo nome, cercando di fingere di non essere parte di quella storia. Da avvocato mi sono indignata e preoccupata. Siamo stati dipinti come mostri ma non eravamo noi, i mostri. E certo non lo è mai stato mio padre.

«Combatterò per una giustizia giusta», ha scritto. Dopo il fallimento dei referendum, da dove si riparte?

Dal Parlamento. Ma anche da quei sette milioni di italiani – non pochi, mi creda – che hanno sfidato il caldo per dire Sì alla giustizia giusta. Dobbiamo dare una casa a questo popolo garantista. Dobbiamo farlo presto.

Lei ieri ha aperto a Carlo Calenda: la giustizia potrebbe essere un punto di incontro solido per il centro riformista?

Speriamo. Calenda un giorno apre, un giorno chiude, un giorno mette veti, un giorno rilancia. Quest’area politica è molto più grande di Calenda, di Renzi, di tutti noi: è uno spazio politico che c’è. Non costruirlo oggi sarebbe il più grande regalo ai sovranisti e ai populisti. Noi abbiamo mandato a casa Salvini nel 2019 e Conte nel 2021, pagando un prezzo personale altissimo. Non vogliamo restituire a quei due centralità politica solo per piccole ambizioni personali. Auspico che Calenda lo capisca. E comunque non c’è solo Calenda, fortunatamente.

Sessismo e manette. Come Travaglio e gli altri hanno infamato Boschi. Il caso Etruria è stata la madre di tutte le gogne mediatiche. E dopo le assoluzioni non sono arrivate neanche le scuse. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 giugno 2022.

Come si costruisce una gogna politica e mediatica? È molto semplice, si tratta del combinato disposto di vari elementi, tutti letali se non si ha una spessa corazza: titoloni urlati di giornali, vignette sessiste, martellamento social per aizzare i propri hater, il tutto condito da un quantitativo non indifferente di disinformazione.

È quanto è accaduto in questi ultimi anni a Maria Elena Boschi, Presidente dei deputati di Italia Viva, e alla sua famiglia. Nell’intervista in cui ha commentato l’assoluzione di suo padre Pier Luigi, per il crac di Banca Etruria nell’ambito del filone di indagine sulle cosiddette consulenze d’oro, ci ha raccontato proprio di aver subìto «la violenza verbale, le minacce, gli insulti, le allusioni, il sessismo». E ha puntato il dito contro gli avversari politici, in primis il Movimento Cinque Stelle, e contro il suo house organ, ossia il Fatto Quotidiano. Ma cosa davvero hanno scritto e detto?

Rievochiamo qualche ricordo. Luigi Di Maio maggio 2017: «Maria Elena Boschi se ne deve andare assieme al renzismo che ha infettato le istituzioni democratiche di questo Paese». Ottobre 2017: « Quando fanno lo show mediatico su Visco e Banca d’Italia per fare vedere che vogliono tutelare i risparmiatori si devono ricordare che quando hanno governato non solo hanno favorito le banche, ma in 20 minuti hanno fatto un decreto per salvare la banca della Boschi e mandare sul lastrico migliaia di risparmiatori». Sempre lui lo stesso anno ma a dicembre: Boschi «si deve dimettere: sarebbe il minimo sindacale. Qui però deve andare a casa una intera classe politica, quella della seconda Repubblica che voleva cambiare il Paese ma ha tradito gli italiani. È una classe politica che sulle banche ha lucrato e fatto affari mandando sul lastrico centinaia di migliaia di persone».

Alessandro Di Battista nel 2015, nella sua dichiarazione di voto sulla mozione di sfiducia: «Ministro Boschi: le porto l’indignazione di un popolo intero. Lei è venuta qui e ci ha fatto un bel discorso pieno anche di pietismo e compassione, raccontandoci anche del passato di alcuni componenti della sua famiglia, non abbiamo visto né da parte sua né da parte del PD lo stesso pietismo e compassione verso migliaia di cittadini truffati dal decreto salvabanche»; poi nel 2017: «La Boschi può dimettersi, non dimettersi, può inchiodarsi ancor di più alla poltrona. Può fare tutto insomma ma politicamente è morta, ad uccidere la sua credibilità sono state le sue stesse menzogne, la sua arroganza, i suoi puerili tentativi di sviare l’attenzione parlando di sessismo nel momento in cui erano palesi i suoi comportamenti indecenti!». E ancora nel 2018 durante la campagna elettorale: «Stasera, per il mio ultimo comizio, sarò a Laterina, nella terra della Boschi. Speravo di trovarla ma l’hanno vestita da Heidi e ora sarà in qualche malga a fare ciao alle caprette, dopo aver fatto ‘ciaone’ ai risparmiatori di Banca Etruria». Beppe Grillo, il primo gennaio 2016 pubblicò sul suo blog un pezzo dal titolo «Person of the Year 2015: Pier Luigi Boschi» e lo iniziò così: «Il papà della Boschi è l’uomo dell’anno. È riuscito là dove hanno fallito Arsenio Lupin e Luciano Lutring, il solista del mitra. Al posto delle armi ha usato le micidiali obbligazioni subordinate».

Potremmo continuare ma lo spazio ci limita e dobbiamo passare dalla gogna politica a quella mediatica, che ha trovato una delle massime espressioni sul Fatto Quotidiano, a partire dalle vignette di Mannelli e Vauro per finire agli editoriali al veleno di Marco Travaglio. Il direttore non ci è andato mai leggero con la Boschi. Ricordate questo famoso tweet: «Il primo modo di dire del 2021 è “avere la faccia come la Boschi”. Sempreché la faccia ampiamente rielaborata che domina le 87 interviste rilasciate nell’ultimo mese appartenga davvero alla deputata renziana che nel 2016 annunciò solennemente il ritiro dalla politica in caso di sconfitta al referendum». Ma è tragicomico quanto scrisse ad agosto 2020: «Ogni tanto, ciclicamente, Maria Etruria Boschi comunica a un pubblico sempre più esiguo e disinteressato che suo padre è stato assolto da tutto. Poi frigna perché nessuno chiede scusa. L’ha ridetto l’altroieri dopo l’archiviazione del babbo Pier Luigi in uno dei vari filoni d’indagine aperti dalla Procura di Arezzo sul crac di Banca Etruria, di cui il genitore fu consigliere d’amministrazione e vicepresidente. Intanto il babbo martire resta imputato per bancarotta, rinviato a giudizio il 29 dicembre con altri 13 ex dirigenti per le consulenze milionarie concesse per trovare un partner a Etruria».

E ora che è stato assolto nuovamente, cosa dice Travaglio? Ah giusto nulla, infatti ieri Il Fatto ha dedicato solo un trafiletto a pagina 14 all’assoluzione del padre della Boschi. Pensate cosa sarebbe accaduto se fosse stato condannato! E poi i soliti ‘Ma mi faccia il piacere’ nel 2018: «Etruria, per Boschi senior il pm chiede l’archiviazione: ‘Non ingannò i risparmiatori’ (Repubblica). Furono i risparmiatori ad ingannare lui». Nel 2017 Travaglio terminò così un articolo: «Se Boschi&Renzi non l’hanno presente, conosceranno almeno il giuramento prestato sulla Costituzione al Quirinale: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Non di Etruria, degli orafi aretini e del sederino del babbo». Che stile!

Le lacrime dell'ex ministra andavano asciugate prima. Papà Boschi innocente, dalle “consulenze d’oro” a l’ennesimo suicidio giudiziario: Grillini e Travaglio chiederete scusa? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Giugno 2022.

“Il fatto non sussiste”. Ci risiamo, vien da dire. Un altro processo che non avrebbe dovuto neanche iniziare. Dopo Eni, dopo Mps, è la volta di Banca Etruria, con quattordici imputati assolti nel filone che, nella propaganda moralistica in salsa grillina, veniva chiamato processo delle “consulenze d’oro”. Non dovremmo neanche dirlo, perché il fatto è stato usato in chiave scandalistica ai tempi dell’inchiesta, ma tra gli imputati oggi assolti c’è pure Pierluigi Boschi, il padre di Maria Elena. La quale affida il suo pianto di gioia a Facebook, ma di cui ricordiamo la voce rotta mentre in Parlamento, da ministra del governo Renzi, fu chiamata in una schifosa gogna istituzionale, a giustificare quella parentela e a render conto di comportamenti del tutto legittimi. Nel frattempo suo padre è già stato assolto dall’accusa più grave, la bancarotta fraudolenta. Ma restava ancora aperto il filone d’inchiesta che si è appena concluso.

Bancarotta colposa, era l’imputazione elevata ai quattordici ieri assolti, dal pool coordinato dal procuratore capo Roberto Rossi. Il quale, come di consueto fanno i rappresentanti dell’accusa quando perdono un processo, sta già pensando a ricorrere in appello. Del resto la legge lo consente nell’anomalia tutta italiana, e a maggior ragione dopo che la Corte Costituzionale ha bocciato la “riforma Pecorella” che rendeva definitiva la sentenza assolutoria di primo grado. Naturalmente il pudore impone che prima si leggano le motivazioni con cui la giudice di Arezzo Ada Grignani ha respinto le richieste di condanna della Procura e stabilito che in tutti questi anni, a partire dal 2015, sono state svolte attività investigative inutili e costose, potremmo dire “d’oro”, parafrasando il titolo dato all’inchiesta. Le parole dell’avvocato Luca Fanfani, difensore di uno degli imputati, il vicedirettore generale dell’Istituto, Emanuele Ceccaro, spazzano via ogni ambiguità nella ricostruzione dei fatti, per come è andata. È andata così: “…nel momento in cui Banca d’Italia nel dicembre 2013 impone a Banca Etruria di trovare altro istituto con cui fondersi, la obbliga, va da sé, ad accollarsi ingenti spese per advisor legali finanziari e industriali, esattamente le spese contestate dalla procura. Una conclusione ovvia per un processo largamente inutile”.

Liscio come l’olio, direbbero i nostri nonni. Ma siamo nel 2022, e, pur se abbiamo perso i referendum sulla giustizia, ci stiamo finalmente liberando di quella cappa moralistica dell’ “uno vale uno” che è partita, prima ancora che nei comizi di Beppe Grillo, negli uffici di certe Procure. Come non prendere di mira, quindi, quelle consulenze che erano state affidate da Banca Etruria a una serie di advisor, nel momento in cui Banca d’Italia aveva imposto la fusione con un istituto di elevato standing, che venne individuato con la Banca Popolare di Vicenza? Un’operazione fallimentare e che non andrà in porto, purtroppo. Ma gli antichi ci hanno insegnato che il lavoro va retribuito e le professionalità valorizzate. Fuori dal mondo dove “uno vale uno”, cioè probabilmente tutti quanti valgono poco, naturalmente. Quindi gli incarichi affidati, tra giugno e ottobre 2014, a grandi società come Mediobanca, oltre che a studi legali di Milano Roma e Torino considerati i più competenti nel settore, costarono circa quattro milioni di euro. Una cifra consistente? Certo. Tanto quanto ingente e delicato immaginiamo sia stato l’impegno dei professionisti che si dedicarono a quegli incarichi.

La procura di Arezzo l’ha pensata diversamente. I vertici di Banca Etruria avrebbero tenuto un comportamento imprudente e non avrebbero vigilato a sufficienza sui contenuti delle consulenze, ritenute in gran parte “inutili” e “ripetitive”. Qui entriamo nel regno dell’assurdo, in quel filone ormai palese a tutti di quanto pericoloso, anche per la democrazia, sia questo eccesso di giurisdizione che ha avuto, nell’arco di trent’anni, la Procura di Milano come capofila e guida. E le cui ultime inchieste, i grandi scandali, mattoncino dopo mattoncino, sono state demolite dai giudici e dai tribunali. Con il paradosso del caso dell’ultimo procuratore emblema del “rito ambrosiano”, Francesco Greco, una volta sospettato di inerzia, nel caso della Loggia Ungheria, ma poi di una sorta di “accanimento assolutorio”, in polemica con la procura generale sul nuovo corso di Mps, quello voluto dal Presidente del consiglio Matteo Renzi. Ma al contempo accusato di un vero accanimento rispetto ai vertici di Eni. Quel che colpisce è che mai nessuno abbia riconosciuto al capo della Procura più conosciuta d’Italia quella mitica “cultura della giurisdizione” continuamente invocata dai vertici del sindacato dei magistrati, nonché alcuni prestigiosi ex procuratori, nell’argomentare la propria contrarietà alla separazione delle carriere. Persino delle funzioni.

La celebrazione di tanti processi inutili, che vengono liquidati da un’ora di camera di consiglio, tanto sono semplici le conclusioni che rispecchiano qualcosa di palese fin da subito, è proprio la conferma della debole “cultura della giurisdizione” dei pubblici ministeri. Soprattutto quelli che avviano indagini clamorose che coinvolgono personaggi politici o del mondo economico, finanziario e bancario. È successo ieri agli ex dirigenti di Banca Etruria, è la storia che ha coinvolto per due anni il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, e capiterà ancora. A meno che. Reggerà, ci domandiamo, quella parte della riforma della ministra Cartabia che impone la ragionevole previsione di condanna come presupposto di ogni richiesta e poi rinvio a giudizio? È una bella scommessa. Anche perché difficilmente la forma delle regole processuali, che deve essere necessariamente fredda come un cubetto di ghiaccio, trova poi riscontro nella concretezza di ogni caso quotidiano.

Avranno quindi la forza di resistere al clamore mediatico i magistrati che saranno chiamati ad applicare quella norma? E i politici? Nei casi della vita, specialmente i più spinosi, come quello che ha investito non certo di striscio ma direttamente e in modo impetuoso Maria Elena Boschi, spesso si finisce per dimenticare magari anche quel che si è appena approvato in commissione, alla Camera o al Senato. Si dimenticano i codici e anche il garantismo. Non è strano che nella giornata di ieri, proprio mentre al Senato sono in discussione le norme di riforma del processo penale proposte dalla ministra Cartabia, le agenzie di stampa sfornassero le solidarietà nei confronti dell’ex ministra Boschi che portavano le firme solo dei suoi amici? Lasciamo perdere il capo del Movimento cinque stelle Marco Travaglio che, alla notizia delle assoluzioni supponiamo stia organizzando l’ennesimo suicidio di massa della redazione del Fatto quotidiano.

Ma è mai possibile che, dopo quanto ha sofferto in questi sette anni e dopo che ha avuto il coraggio di dichiarare il proprio pianto, al fianco di Maria Elena Boschi troviamo solo Renzi, Marcucci, Nardella e pochi altri, cioè i suoi amici? Dovrebbero esserci 625 deputati. Se è vero, come noi pochi (ma buoni) pensiamo, che il vento del garantismo comincia a spirare, vogliamo deciderci a batterci per i diritti degli altri, compresi, anzi prima di tutto, quelli che detestiamo politicamente? Aspettiamo quindi la fila di quelli che chiedono scusa, guidata da Luigi Di Maio (l’unico coraggioso finora), ma anche da quelli della sinistra che “le riforme si fanno in Parlamento, non con i referendum”. Quante volte sentiremo Enrico Letta dire che un certo processo non si doveva neanche cominciare? Magari nei confronti di Silvio Berlusconi o Matteo Salvini. O anche, con la gogna, contro Maria Elena Boschi. Perché in ogni caso le lacrime dovevate asciugargliele prima, cari compagnucci.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Gogna Boschi ma adesso talk e haters non diranno nulla dopo violenza e frasi sessiste. Maria Elena Boschi su Il Riformista il 16 Giugno 2022.  

Oggi ho pianto. Avevo giurato a me stessa che non avrei mai pianto per Banca Etruria. Oggi l’ho fatto. E non ho paura di ammetterlo in pubblico. Ho pianto come una bambina, in ufficio, alla Camera. Ho pianto perché mio padre è stato assolto dall’ultima accusa che gli veniva mossa su Banca Etruria. Con oggi si chiude un calvario lungo sette anni. E si chiude nell’unico modo possibile: con la certezza che mio padre era innocente. La verità giudiziaria non cambia niente per me: ho sempre saputo che mio padre è stato attaccato sui media e non solo per colpire altri. Ma oggi la verità giudiziaria stabilisce ciò che io ho sempre saputo nel mio cuore: mio padre è innocente. E ora lo sanno tutti, non solo la sua famiglia.

Lo sa il popolo italiano, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Lo sanno le Istituzioni di questo Paese che io ho servito con dignità e onore. Lo sanno gli avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto. Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda. Lo sanno gli odiatori che mi hanno insultato spesso con violenza verbale e frasi sessiste nel silenzio complice e imbarazzato di tanti.

Questa vicenda ha segnato la mia vita e la mia carriera molto più di quanto uno possa pensare: ma le lacrime di oggi sono lacrime di gioia e di speranza. Perché nessuno debba subire quello che ha subito la mia famiglia. Combatterò per una giustizia giusta. E ringrazio quei tanti magistrati che in ogni angolo del Paese fanno prevalere il diritto sull’ingiustizia. Grazie a chi mi è stato vicino. Ti voglio bene babbo. Maria Elena Boschi

·        La Nascita dell’Euro.

Così, vent'anni fa, l'Italia salvò se stessa e scrisse il suo futuro. di Carlo Bonini (coordinamento editoriale), Carlo Bastasin e Claudio Tito. Coordinamento multimediale Laura Pertici. Produzione Gedi Visual su La Repubblica il 30 dicembre 2021. Nel gennaio di vent'anni fa, la nostra vecchia lira veniva sostituita dall'euro. L'ingresso nella moneta unica rappresentava non solo un passaggio epocale della nostra Storia, ma, per dirla con le parole di Carlo Azeglio Ciampi, significava aver "messo in salvo l'Italia". E tuttavia quello all'euro non fu un approdo semplice. Al contrario. La profonda diffidenza tedesca congiurò fino all'ultimo contro il nostro ingresso.

Tremonti: “Non fu Prodi a portarci nell’euro, lo volle la Germania. Temeva la nostra competitività”. Angelica Orlandi martedì 4 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia. “Non è stato Romano  Prodi a portare l’Italia nell’euro”. Giulio Tremonti in un’intervista dell’Agenzia Vista svela chi e percé decise l’entrata del nostro Paese nella moneta unica, vent’anni fa. L’ex ministro dell’Economia smonta, pertanto, la ricostruzione ufficiale che dà al papà dell’Ulivo il “merito” (ammesso che sia un merito) di averci condotto nell’euro. Dice Tremonti: “Ricordo bene come mi disse un grande presidente svizzero – ha rivelato in collegamento all’evento: Noi e l’euro: 20 anni di storia, organizzato da Assoeureca.eu -. Che i banchieri tedeschi non volevano l’Italia nell’Euro e che gli industriali tedeschi temevano un’Italia fuori dall’euro e competitiva”. In altre parole, all’epoca faceva paura alla Germania un’Italia fuori dalla moneta unica e competitiva sui mercati. Tremonti vuole dire che a decidere cosa dovesse fare l’Italia non furono Roma o a Bruxelles, quanto a Berlino. E per motivi tutt’altro che favorevoli al nostro Paese.

Ribadisce Tremonti: “si pensava che un’Italia fuori dall’euro sarebbe stata troppo competitiva”. Gli anni successivi hanno poi avuto il compito di dimostrare come il piano tedesco abbia funzionato; con la prima crisi finanziaria che ha travolto il mondo, ma soprattutto l’Eurozona e gli Stati più fragili, Grecia in primis.

Tremonti ha poi fatto riferimento a un problema di “miopia” sul campo dell’economia applicata: “Il fatto di non prevedere una banconota da un euro è stato un errore – sottolinea ancora l’ex ministro -. L’Italia non era pronta a utilizzare monete di alto valore. Le monete da un euro sono state usate come mancia al bar quasi in automatico. Avremmo dovuto fare una banconota da un euro come per il dollaro”. Vent’anni tutti da buttare? Tremonti risponde: “L’ingresso nell’euro dell’Italia ha sicuramente dato stabilità. Ma il grande errore politico è stata la stupidità delle politiche Ue. La globalizzazione è entrata in Europa trovandola impreparata. L’Ue ha creato un’infinità di regole per le imprese, imprese in competizione con imprese senza alcuna regola”. E a venire stritolate sono state soprattutto quelle italiane.

Che cos’è la Banca centrale europea. Andrea Muratore su Inside Over il 29 gennaio 2022.

Al cuore del sistema finanziario e politico dell’Unione Europea, la Banca centrale europea avente sede a Francoforte è da almeno un decennio il vero motore dell’azione della comunità dei 27 (un tempo 28) Stati membri e dell’economia del Vecchio Continente. Da autorità monetaria a istituzione centrale per gli equilibri sistemici dei Paesi membri, la sua funzione si è evoluta dopo la Grande Recessione

La struttura della Bce

La Bce svolge per i 19 Paesi dell’area euro la funzione di governatrice della politica monetaria sin dall’1 gennaio 1999 quando, a tre anni dall’entrata in corso d’operatività della moneta unica, entrò in operatività l’istituzione comune fondata il 1 giugno precedente in applicazione del Trattato sull’Unione Europea. La Bce è per definizione e norma ai vertici dell’eurosistema, il reticolo composto dalla Bce e dalle banche centrali nazionali dei paesi che hanno introdotto la moneta unica; le banche centrali nazionali dei paesi al di fuori dell’eurozona conducono invece una politica monetaria nazionale autonoma e assieme all’eurosistema compongono il Sistema europeo delle banche centrali (Sbec).

Sviluppata nel pieno degli Anni Novanta, quando oramai dal Regno Unito al Giappone passando per gli Usa e la Svizzera le principali banche centrali avevano già interiorizzato il principio dell’indipendenza dal potere politico la Bce si è data fin dall’inizio come obiettivo principale il controllo dell’inflazione e la stabilità dei prezzi nell’area euro. Un target operativo chiaro e interpretabile come unico, che si discosta dal mandato duale della Federal Reserve, che promuove stabilità dei prezzi e piena occupazione.

Wim Duisenberg, olandese e primo direttore della Bce (1998-2003) e Jean-Claude Trichet (2003-2011), primi due direttori della Bce, hanno operato in maniera molto ortodossa in favore di questi obiettivi. Nel 2010-2011, tuttavia, le scelte procicliche della Bce, legate all’innalzamento dei tassi nel pieno dell‘ondata recessiva che stava colpendo l’Europa nella crisi dei debiti sovrani, contribuirono a generare problematiche come la tempesta dello spread che travolse l’Italia; Mario Draghi (2011-2019) alla guida della Bce ha dunque impostato una svolta politica varando con nuovi obiettivi il quantitative easing europeo e Christine Lagarde (2019-in carica), quarta persona, prima donna e prima figura esterna in precedenza a una banca centrale nazionale a guidare la Bce, ha promosso politiche di espansione monetaria durante la crisi pandemica. Sostanziando una svolta a tutto campo.

Il quantitative easing

Giunto alla guida della Bce, Draghi si trovava di fronte una situazione in cui l’Unione Europea era in ritardo di anni sul quadro della risposta emergenziale alla crisi, dato che di fronte alla recessione globale Fed, Bank of England e altri istituti erano massicciamente intervenuti sostenendo i mercati con la liquidità.

Per rompere l’ostilità dei rigoristi, Angela Merkel in testa, a partire dal 2012 la Bce draghiana ha cominciato distribuento denaro all’economia attraverso le aste ‘Tltro’ (acronimo di Targeted Longer Term Refinancing Operations), caratterizzate da prestiti a tassi bassissimi per garantire liquidità al sistema del credito, e di riflesso, al mondo delle imprese. Le banche italiane hanno sottoscritto circa un terzo di tutti quei prestiti promossi in Europa nell’era Draghi, con 250 miliardi di euro di finanziamenti procacciati principalmente da Intesa e Unicredit (circa 125 miliardi).

Si è trattato di un processo volto a preparare il terreno per un piano di acquisto titoli simile a quello di Ben Bernanke e Mark Carney alla guida di Fed e BoE.

Tra il 2015 e il 2019 la Bce targata Draghi ha messo in campo il primo quantitative easing della storia dell’area euro. Una svolta che ha portato la Bce al sostegno attivo ai mercati oltre il ruolo di guardiana del tasso d’interesse e dell’inflazione, non più funzionale a quei tempi contro la crisi.

La politica di acquisto di titoli dura, nelle sue varie forme, tuttora e ha portato Francoforte a agire attivamente nella finanza continentale per lenire gli effetti della crisi finanziaria del 2010-2011 e della successiva, dilagante ondata di austerità abbattutasi su diversi Paesi (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) che aveva prodotto crollo del Pil, aumento dello spread tra i titoli pubblici e ampie incertezze sul futuro di Eurolandia.

Del resto la campagna di acquisto di titoli inaugurata da Draghi portava con sé anche l’obiettivo di rilanciare l’inflazione, dunque deprezzando gradualmente l’euro, così da favorire indirettamente esportazioni e industria (un lato non totalmente disprezzato dai tedeschi). La mossa ha consentito abbattere i differenziali di rendimento e dare fiducia ai mercati. Tra marzo 2015 e marzo 2016 gli acquisti di titoli di Stato dei Paesi dell’area euro sono proceduti a un ritmo di 60 miliardi di euro al mese; tra aprile 2016 e dicembre 2017 il volume è salito a 80 miliardi di dollari, per poi scendere a 30 a partire dal gennaio 2019 in avanti.

Complessivamente, nel corso dell’era Draghi la Bce ha investito nel quadro del programma principale del Qe, l’Asset Purchase Programm (App) 2,15 trilioni di euro e diretto 362 miliardi verso i titoli italiani, tra i più sostenuti, espandendo oltre i 4mila miliardi il suo bilancio.

Parallelamente la Bce ha avviato programmi di acquisto anche di obbligazioni bancarie garantite (Covered Bond Purchase Programme, CBPP3), titoli emessi in seguito alla cartolarizzazione di prestiti bancari (Asset-Backed Securities Purchase Programme, ABSPP) e obbligazioni del settore privato (Corporate Sector Purchase Programme, CSPP) toccando i 2.800 miliardi di euro di acquisizioni.

Un diluvio di denaro che ha, senz’altro, ridotto i tassi di sconto, che ha funzionato da antidoto all’austerità e restituito fiducia alle economie sul breve e medio periodo, correndo però il rischio di agire come “Metadone” monetario sul lungo termine, come del resto ha confermato la dipendenza delle borse dalla situazione di liquidità facile e bassi tassi e, viceversa, l’obbligo per le banche centrali come la Bce di vedere i loro sforzi governati dalla risposta, spesso terrorizzata, dei mercati all’ipotesi di una fine degli stimoli.

Inoltre è mancata la trasmissione diretta dello stimolo Bce alla ripresa europea, che ha finito per esser condizionata dal permanere della logica austeritaria ai vertici del governo politico dell’Ue perlomeno fino alla fine della commissione Juncker (2019). Salvato l’euro dal dannoso zelo dei custodi dell’austerità con il celebre “Whatever it takes” prima e con il quantitative easing poi, Draghi e la Bce non sono riusciti tuttavia a salvarlo da se stesso, ovvero dalle grandi contraddizioni legate alla presenza di una banca centrale senza Stato di riferimento, di un’unione monetaria estremamente rigida e da profonde asimmetrie tra i Paesi dell’unione valutaria.

L’impossibilità per la Bce, stante il suo mandato, degli strumenti per intervenire a monetizzare direttamente i deficit dei Paesi dell’Ue e la mancanza della volontà politica dei Paesi del Nord di concederglieli hanno giocoforza limitato il raggio d’azione dell’istituzione. Tuttavia, nonostante tutto, la Bce è divenuta, per dirla con Carl Schmitt, l’istituzione commissaria dell’Ue, il decisore di ultima istanza in caso di situazioni di crisi o criticità, complice l’imbelle condotta della Commissione. E questo è stato dimostrato appieno dall’emergenza pandemica.

La Bce contro la pandemia

3mila miliardi di euro: a tanto sono ammontate le risorse stanziate dalla Bce, in forma diretta o di garanzia, contro la crisi pandemica iniziata nel 2020. Il tutto grazie all’influenza di Philip Lane, capo economista della Bce, capace di far cambiare idea alla neogovernatrice  Christine Lagarde che nelle prime settimane della pandemia aveva rifiutato un intervento diretto.

Il 18 marzo 2020 è stato inaugurato il Pandemic emergence purchase plan (Pepp), il piano di acquisto titoli straordinario volto ad immettere liquidità nel sistema e a sommarsi al “mini-Qe” ereditato dalla gestione Draghi, il Public Sector Emergence Plan (Pspp), destinato a subentrare al “bazooka” lanciato tra il 2015 e il 2019.

Col Pepp la Bce ha lanciato un piano di acquisti inizialmente di 750 miliardi di euro destinato a durare fino a marzo 2022, è stato incrementato di 600 miliardi a giugno e di ulteriori 500 a dicembre del 2020, per un totale di acquisti di 1.850 miliardi di euro in due anni. Oltre un trilione sono già stati formalizzati tra il 2020 e il 2021, e aggiungendo ad essi i 2mila miliardi di operazioni come le garanzie, i Tltro e i piani di sostegno alla liquidità delle banche si arriva a uno sforzo senza precedenti in un intervallo temporale tanto ristretto.

Il volume degli acquisti non è l’unica nota di rilievo. Nei piani Bce anti-Covid è infatti caduta la regola del capital key, ovvero l’impegno della Bce ad acquistare titoli, mensilmente, proporzionalmente al volume di ogni economia. Per l’Italia tale percentuale è pari all’11,8%. Ora invece ogni mese consente maggiori flessibilità e programmi personalizzati.

Per ogni Paese, Francoforte ha poi superato la regola che poneva un limite del 33% di debito pubblico di ogni Paese detenibile in portafoglio e può da marzo del 2020 nel quadro del Pepp superare tale limite anche per le singole emissioni di debito nazionale.

Infine, ad aprile 2020 la Bce ha annunciato l’ampliamento degli acquisti nel contesto dei programmi anti-pandemia anche ai titoli che le agenzie di rating escludono dal perimetro dei prodotti degni di attività di investimento, abbattendo il loro giudizio a junk (spazzatura).

La Bce è andata oltre la monetizzazione del deficit, lo ha in questa fase di fatto congelato e sterilizzato per diversi Paesi europei. Mostrando sempre di più la sua capacità di controllare l’offerta di moneta a proprio piacimento. L’economista statunitense Stephane Kelton lo ha ricordato in un’intervista al Corriere della Sera in cui ha sottolineato come questo fosse già ben chiaro a Mario Draghi: “lo ricordo a una conferenza stampa in cui un giornalista gli chiese se era possibile che la Bce non avesse più soldi. Gli altri funzionari Bce vicini a lui si raggelarono. Lui invece si mise a ridere e disse: no, non saremo mai a corto di euro. Fu una riposta onesta, perché davvero la Bce ha una capacità infinita di fornire supporto alle nazioni che ne hanno bisogno. La Bce di Christine Lagarde lo sta facendo concretamente”.

Resta un dubbio: come sarà l’atterraggio da questa fase emergenziale? Che strada seguirà la Bce negli anni a venire? Si parla, su pressione di Italia e Francia, di un’agenzia europea capace di smaltire i debiti acquistati dall’Eurotower in questo biennio; si immagina una complessa sfida con l’inflazione e si ricorda la dipendenza delle economie europee dal sostegno monetario. La verità è che è difficile dare una risposta a questa domanda finché a riprendersi non saranno le economie continentali ancora indietro nel recupero dei danni di un lungo decennio di crisi di vario tipo. Fino ad allora la Bce sarà la governatrice dell’emergenza. Il decisore di ultima istanza degli equilibri economici d’Europa.

·        Il Costo del Denaro.

Le tre sorelle. Il ritorno nefasto delle agenzie di rating. Mario Lettieri e Paolo Raimondi su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

Società americane private pubblicano valutazioni economiche di carattere essenzialmente politico. Perché la Banca centrale europea continua a dare credibilità al giudizio di enti che nella crisi finanziaria del 2008 ebbero un ruolo attivamente negativo? 

Eccole di nuovo. Le tre sorelle del rating ritornano a farsi sentire con le loro superficiali pagelle sull’economia e la politica italiana. La prima è l’agenzia Moody’s e a ruota le altre due, la Standard & Poor’s e la Fitch. 

Che l’Italia abbia un debito pubblico elevato lo sappiamo tutti. Così come sappiamo degli altri problemi di carattere politico ed economico. Naturalmente conosciamo anche i lati positivi dell’Italia, tra cui la propensione al risparmio, la capacità imprenditoriale, le sue eccellenze nei campi della scienza, della tecnologia e della cultura in generale. Cose che sono ovviamente neglette dai critici.

Moody’s ripete le stesse, ritrite, litanie degli anni passati. Ad esempio, ci sarà un indebolimento delle prospettive di crescita se non si attuano le riforme, oggi anche quelle previste dal Pnrr. Poi, che le incertezze geopolitiche e la crisi energetica siano un aggravamento della situazione economica e sociale lo sanno tutti gli italiani che pagano le bollette della luce, del gas e l’aumentato costo della vita. 

L’agenzia ci regala un rating Baa3 con outlook negativo. Ciò vuol dire che l’Italia è all’ultimo gradino dell’investiment grade (livello di affidabilità dell’investimento). In questo stadio le obbligazioni di lungo periodo sono soggette a un moderato rischio di credito, con caratteristiche speculative. Sotto questo gradino c’è il non investment grade, dove i rischi sono più alti, sempre più giù fino alla soglia di vero e proprio fallimento. 

È intollerabile che le loro valutazioni nei confronti degli stati siano essenzialmente di carattere politico. Quando, però, si erano permesse di mettere in dubbio l’affidabilità dei Treasury bond americani, ricevettero dei sonori ceffoni da parte dell’allora amministrazione Obama e scelsero il silenzio. Non per l’Europa.

I loro rating hanno conseguenze importanti per le finanze e le economie nazionali. Per esempio, un titolo di stato con rating BBB non può essere acquistato e tenuto in bilancio da parte di molte istituzioni finanziarie private, come le assicurazioni e i fondi pensione. Ancora più grave, gli stati e i governi non potrebbero mettere detti titoli BBB in garanzia per ottenere dei crediti, ad esempio da parte della Banca centrale europea. Ciò è contenuto in una direttiva della stessa Bce. 

Ancora una volta ci si chiede il perché di tanto masochismo da parte dell’Europa e dei suoi governi. Il presidente del consiglio dei ministri, Mario Draghi, conosce meglio di chiunque altro questo problema, essendo stato a lungo presidente della Bce. Aveva perfino sollevato dei dubbi sulla loro affidabilità, ma senza risultati.

D’altra parte non si capisce la ragione per cui si dà credibilità al giudizio di agenzie che nella grande crisi finanziaria del 2008 ebbero un ruolo attivamente negativo. Allora, la Commissione d’indagine del Senato americano aveva sentenziato che esse erano state corresponsabili della crisi, avendo distribuito a man bassa rating altissimi AAA a titoli e derivati finanziari che poco dopo sarebbero crollati. 

Con i governi le agenzie non farebbero grandi profitti. Con le imprese private, invece, ne farebbero molti. Il fatto di poter giudicare il comportamento dei governi e degli stati, però, dà loro un enorme potere.

Il loro mercato è sempre florido. Moody’s ne controlla circa il 40%, segue con poco meno S&P e più distante Fitch. Non sorprende che nei loro consigli di amministrazione e comitati direttivi siedano dirigenti provenienti da tutte le grandi banche americane e internazionali.   

Esse sono società americane private il cui capitale azionario è controllato da imprese e fondi privati. Per Moody’s, il 13,4 è nelle mani della finanziaria Berkshire Hathway del banchiere e speculatore Warren Buffet, poi vengono i fondi di investimento Vanguard e Blackrock. Questi due ultimi sono anche i maggiori azionisti, ciascuno con oltre l’8%, di S&P. Vanguard e Blackrock, con l’altro fondo SSGA, sono le massime potenze del cosiddetto settore non banking financial insitutions (nbfi), con asset stimati nel 2019 a 14.000 miliardi di dollari e con importanti partecipazioni azionarie nelle maggiori corporation americane. 

Le agenzie di rating sono state sottoposte a tante indagini. Ma sembrano più arzille che mai. Che cosa manca alle autorità europee per porre dei freni alle loro scorribande? Non vorremmo che queste facessero la parte delle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano.

Cosa è lo spread e come funziona: tutto quello da sapere. Se ne sente parlare molto perché è un indicatore della salute economica di un Paese. Ecco come funziona lo spread e perché lo si misura in rapporto ai titoli di Stato tedeschi. Giuditta Mosca il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La parola spread è mutuata dalla lingua inglese e significa differenza. Nel caso specifico si tratta della differenza tra titoli di Stato di Paesi diversi e, poiché l’economia tedesca è considerata essere la più stabile in Europa, alle nostre latitudini si intende il divario tra i rendimenti dei titoli di Stato tedeschi (Bund) e quelli italiani (Btp).

Uno spread ampio ha delle conseguenze negative sull’economia italiana ed è quindi un peso per lo Stato perché rappresenta una zavorra per il debito pubblico, ma è anche un peso per imprese e famiglie. Uno spread alto, lanciandoci in una disamina lapidaria, è indice di un’economia non sana.

Il termine spread è generico e si adatta tanto ai titoli di Stato quanto a qualsiasi strumento finanziario e, in tutti i casi, è un indicatore del rischio che si assumono gli investitori. Più lo spread è maggiore, più il rischio è alto.

Come si calcola lo spread

Il calcolo si rifà all’aritmetica elementare ed è il risultato di una sottrazione. Se il rendimento di un titolo è del 3% e quello di un altro titolo è dell’1%, lo spread è del 2%. Poiché ogni disciplina ha un proprio gergo, in economia la differenza tra i due rendimenti si misura in punti base, ovvero i valori sono intesi come parte di un computo percentuale nel quale ogni punto base conta in misura dello 0,01%. In questo sistema la differenza di 2 punti percentuali viene tradotta in 200 punti base. Quando si legge, per esempio, che lo spread è 250, significa che i titoli italiani rendono 2,5 punti percentuali in più rispetto a quelli tedeschi.

Quando i media parlano di spread, se non indicato diversamente, si riferiscono al differenziale tra i rendimenti dei Bund e dei Btp a 10 anni, che può essere monitorato in qualsiasi momento, online ci sono diversi siti che ne seguono l’evoluzione, con tanto di dati storici. Nel caso specifico, più è alto lo spread più i titoli di Stato italiani sono considerati rischiosi dagli investitori per quanto riguarda la capacità dello Stato di rimborsare i soldi presi in prestito mediante l’emissione di titoli.

Cosa fa variare lo spread

Ogni anno l’Italia mette sul mercato 400 miliardi di debito emettendo titoli di Stato che diversi attori comprano. Tra questi figurano assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione ma anche risparmiatori privati e se, tra gli acquirenti, aleggia la percezione che lo Stato farà fatica a ripagare il debito, occorre che gli interessi siano più alti per attrarre investitori.

Questo è uno dei motivi che fa salire lo spread, ma ci sono ragioni che prescindono dalla valutazione che gli investitori hanno dello Stato: una di queste è riconducibile all’incertezza economica in generale. Lo spread sale quando, per fare un esempio calzante con l’attualità, i timori di crisi finanziaria cominciano a dare segnali di sé. Nell’ultimo anno, quindi a partire dal mese di ottobre del 2021, lo spread Btp – Bund è salito da 104,1 a 238,66 punti base (nel momento in cui scriviamo). Limitandoci al solo 2022, lo spread è aumentato dell’80,5%.

Questo significa che lo spread ha cominciato la sua corsa verso l’alto quando, di fronte a una situazione economica incerta, gli investitori non hanno avvertito in modo chiaro gli interventi di politica monetaria nell’Eurozona. Alle politiche lasche della Banca centrale europea, con il passare dei mesi, si sono sovrapposte l’inflazione e il quadro bellico russo-ucraino.

Lo spread come indicatore

Di norma uno spread superiore ai 300 punti (quindi un differenziale Btp-Bund almeno del 3%) fa suonare dei campanelli di allarme, è la soglia al di là della quale i titoli italiani non sono ritenuti sicuri. Questo dà origine a un meccanismo per il quale chi acquista il debito italiano pretende rendimenti maggiori con il conseguente aumento del debito pubblico.

Lo spread e i cittadini

Chi sostiene che lo spread è una faccenda di Stato e come tale non ha ricadute sul proprio quotidiano commette un errore. In primo luogo, perché lo Stato è l’insieme dei cittadini e, non di meno, perché se i tassi di rendimento dei Btp salgono occorre più denaro per ripagare il debito e questo può coincidere con l’aumento di tasse e imposte o con una minore spesa pubblica (anche tutte le cose insieme). Le ricadute sui singoli cittadini quindi ci sono e possono assumere un peso specifico.

Lo spread inteso come differenziale tra Bund e Btp ha può avere un peso relativo sui mutui. L’Euribor, l’indice da cui si ricavano i tassi dei mutui variabili non è collegato a questo differenziale. Quando si parla di mutui, tuttavia, il termine spread assume un’altra accezione, e indica il guadagno (espresso in termini percentuali) che la banca trattiene per sé sessa, come abbiamo spiegato qui.

 Il mio esordio in auto e quell’etto di cambiali. La parola era sinonimo urticante di vergogna. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Giugno 2022.

La decisione europea, nel tentativo di salvare il pianeta dall’inquinamento, di stabilire la scadenza del tempo del petrolio e suoi derivati per «far andare» le automobili, optando per l’elettricità, tra circa tredici anni, se ho capito bene, ha fatto trasecolare un automobilista retrivo che ha definito la decisione: una cambiale. Questo mi ha ricordato il mio esordio di automobilista legato alla parola che ho scelto per trafficare nel lessico con guida prudente e senza inquinare la lingua nostra: cambiale.

Era «grigio topo», con le portiere che si aprivano verso la direzione di marcia e una piccola radio scassata: era una Fiat 500. Non era scassata solo la radio, era scassata tutta. Ma l’avevo comprata lo stesso da un furbacchione che me l’aveva rifilata per un etto di cambiali. Quando mio padre lo seppe andò su tutte le furie. Furie bonarie, ma irriducibili. La parola cambiale, per la gente dabbene di quei tempi era sinonimo urticante di vergogna. Come avevo potuto coprirmi di disonore indebitandomi?

Ma io dell’auto avevo bisogno, un bisogno impellente e grave: avrei fatto sacrifici su di tutto e l’avrei pagate quelle maledette cambiali. Me l’ero comprata, la 500, per emanciparmi dal treno della Sud-Est. Non avevo nulla contro i treni, ma il fatto era che quello che mi serviva partiva da Bari alle 5.25. Arrivava a Locorotondo dopo più di due ore e mi scaricava ad un miglio dalla scuola media dove facevo il supplente. Le lezioni cominciavano alle otto in punto: una decisione feroce dettata da qualche vecchio preside insonne. Avevo ventidue anni ed ero uno smarrito professorino di Lettere. La terribile corvée mi costringeva ad alzarmi alle 4.30. Tornavo affranto alle 15.30 e svenivo sul divano per pochi minuti, prima di mettermi a studiare Storia medievale o Filosofia teoretica, esami rimandati anche troppe volte. Non ero ancora laureato ed erano tempi in cui non si perdonavano lacune, ancorché dovute al lavoro degli studenti o alla loro passione per il teatro che, nel mio caso, divorava tanto tempo. Il termine «fuoricorso» era vergognoso e parente di «cambiale in protesto». Solo gli scavezzacolli ricchi e figli di papà se n’ornavano con sicumera. La flessibilità nella seconda metà degli strabilianti anni sessanta era obbligatoria. Ma gli esami pure.

Basta. Comprai dal furbacchione la 500 «grigio topo» scassata. Dopo pochi giorni dovetti spegnere quel motore a due cilindri stremati. Gli è che era talmente scassata che, per via della tenuta di strada approssimativa, finì in un fosso con me dentro che sono ancora qui, fortunatamente, a raccontarlo. Restava quell’etto di cambiali da onorare e un ferraccio grigio topo. Burbero e buono, mio padre intervenne con un’onerosa trattativa: liquidò il creditore esoso riscattando le cambiali, permutò il rottame e comprò una auto nuova. Dandomi le chiavi sentenziò che avrei dovuto guadagnarmela e pagargliela a rate. Senza cambiali.

Era una bellissima Fiat 500 bianca con gli interni azzurri. Aveva un motore portentoso e irriducibile. Fu amore a prima vista e fu anche sonno in più. Potevo alzarmi alle 6 e percorrere la bella litoranea in un’ora o poco più. Quell’utilitaria significò l’emancipazione, la libertà di movimento, una briciola di gioia quotidiana, la comodità in più che agevola il vivere. I miei coetanei sanno quello che dico e se parlo di comodità, sanno anche che alludo alle riservate e minuscole felicità d’amori travolgenti consumati in quell’angusta alcova dove in tanti hanno sperimentato soavi contorsionismi e slanci sentimentali mai dopo ritrovati in alloggiamenti più confortevoli. In tanti e tante, innamorati, abbiamo fatto pratica di virtuosismi ginnici e d’astuzie meccaniche. E si, la mia Fiat 500 F non aveva ancora i cosiddetti «sedili spallabili», lusso sibaritico raggiunto, più tardi, dalla versione L. Fu studiata una leva del cambio corta opzionale e fu praticata l’adozione del Plaid detto «messicano» multiuso. Era inutile cercarlo nei negozi di tessuti, lo fornivano solo i rivenditori d’accessori auto: nella bella stagione di poteva adagiare sulla spiaggia o sul prato, limitrofo alla portiera e diventava comodo talamo en plein air.

Capitava anche di veder uscire da una 500 quattro persone di stazza media. Oggi sembra inconcepibile, ma l’Italia di allora era abituata a dividere e condividere. Quell’automobile irripetibile fu una conquista straordinaria e non solo meccanica. Era il 1966. Fu quello l’anno in cui Gianni Agnelli diventò il Presidente della Fiat e anche quello in cui arrivai quasi a finire i miei esami all’Università. Fu quello l’anno delle mie prime vere fatiche teatrali e in cui imparai da mio padre a non far debiti. Per inciso, lui non volle mai più quelle 515.000 lire, tanto costava la Fiat 500. Ma quando me lo disse mi avvertì di stare attento per il futuro perché lui «non era Gianni Agnelli» per cui la parola cambiale era una metafora.

Francesco Guerrera per “la Repubblica” il 14 Giugno 2022.

Viste le sue origini, Christine Lagarde conosce bene la parola gaffe. Visto il suo ruolo, la presidente della Banca Centrale Europea dovrebbe evitare di commettere l'atto descritto da quella parola. Soprattutto in questo periodo di debolezza economica, nervosismo dei mercati e profonde spaccature all'interno della zona euro. 

Purtroppo, l'ultima gaffe di Lagarde - l'aver lasciato la porta aperta ad un aumento dei tassi d'interesse molto più grande di quanto preventivato da mercati, governi ed esperti - sta rendendo la vita difficile non solo alla Bce ma anche a Paesi dalle finanze fragili come l'Italia.

Con l'inflazione della zona euro a livelli record, i banchieri centrali europei stanno giocando su tre diversi campi: nelle Borse mondiali, nelle capitali nazionali e nel confronto con le altre autorità monetarie. 

La prima partita è, al momento, la più importante. Spaventati dalla possibilità di un rapido e considerevole aumento dei tassi, i mercati si stanno accanendo sugli anelli deboli della moneta unica, tra cui l'Italia. La provocazione è stata, ahimè, un'altra gaffe di Francoforte, che aveva fatto trapelare di avere in programma uno "scudo" contro il balzo dello spread di alcuni Paesi, salvo poi non annunciare nulla di concreto.

La risalita del rendimento dei Btp negli ultimi giorni è una sfida degli investitori alla banca centrale: sfoderate lo scudo o creeremo un'altra crisi del debito. La Bce probabilmente risponderà di avere risorse illimitate per combattere la speculazione, ma un braccio di ferro con hedge fund miliardari è l'ultima cosa di cui ha bisogno in questo momento. 

La seconda partita è la più delicata, come dimostrato ieri dalle dichiarazioni di Francesco Giavazzi. «La Bce promette di alzare i tassi per rispondere all'aumento dell'inflazione con uno strumento sbagliato», ha detto il consigliere economico, e grande amico, di Mario Draghi ad un convegno. Giavazzi ha poi spiegato di non aver voluto criticare la Bce, che usa l'unica arma a sua disposizione per ridurre il caro-prezzi.

A suo avviso, il miglior modo per contrastare l'inevitabile frenata economica causata dall'aumento dei tassi è quello di spendere bene e presto i fondi del Pnrr. Come a dire: il vero "scudo" contro lo spread è la crescita. 

Detto ciò, la querelle (tanto per rimanere nel lessico francese) ha messo a nudo le sensibilità dei governi nazionali di fronte ad una politica monetaria aggressiva, e ad una politica della comunicazione scompigliata, da parte di Francoforte. 

Non sarà l'ultima volta che un esponente politico nazionale dirà la sua sulle azioni della Bce. La terza battaglia è quella che durerà più a lungo. È ormai chiaro che la Federal Reserve americana alzerà i tassi molto più velocemente delle sue controparti in Europa, Gran Bretagna e Giappone.

Il risultato, e già lo stiamo vedendo, è un rafforzamento del dollaro contro le altre grandi valute. La buona notizia è che le aziende esportatrici del nostro blocco - e ce ne sono tante in Italia ma anche in Germania - guadagneranno ordini, ricavi e, si spera, posti di lavoro. 

La brutta notizia è che una moneta debole ci costringe ad "importare" inflazione, gravando di costi ulteriori i bilanci già stremati di milioni di famiglie. Sono tre fronti complessi, tortuosi e pericolosi, distanti anni luce dalla semplicità del compito delle banche centrali negli ultimi decenni: elargire stimolo con il pilota automatico. Ora la Bce, e l'Europa, hanno bisogno di una guidatrice dalla mano ferma e le parole chiare. È nell'interesse di tutti sperare che Christine Lagarde sia la persona giusta.

Rodolfo Parietti per “il Giornale” il 14 Giugno 2022.  

Dovevamo capirlo fin dall'inizio, da quel comunicherò col mio stile. Frase con cui Christine Lagarde, di fresca investitura alla guida della Bce, aveva da subito voluto marcare uno iato rispetto al modus comunicandi di Mario Draghi. Quello sempre stringato e tecnico, persino un poco ingessato nel lessico. Ma è da quel dire per sottrazione che si è poi dispiegata la potenza salvifica del Whatever it takes. Col suo stile, la capa della Bce continua invece a combinar disastri.

A Madame molti attribuiscono un'indubbia abilità politica, riconoscimento peraltro non suffragato dall'infausta esperienza come ministro francese dell'Economia. È il 2008 quando sembra destinata a finire nel tritacarne: l'imprenditore Bernard Tapis fa crac, lei è presa in mezzo. Tre anni dopo, però, i giudici la fanno cadere in piedi: è colpevole di negligenza, ma la fedina penale non si macchia. Erano i tempi di Nicolas Sarkozy all'Eliseo.

Erano gli anni di Christine in versione Biancaneve con sfumature masochiste: Fai di me ciò che vuoi, scrive al suo Sarko. Attrazione fatale verso il potere. 

Anche ora che ha messo a ferro e fuoco i mercati con la supercazzola sullo scudo anti-spread, girano voci che la vorrebbero premier di Francia. Lo sponsor sarebbe proprio Nicolas, che ne apprezza la naturale attitudine ad ascoltare tutti. Che, poi, rischia di essere il difetto capitale di chi stenta ad avere idee proprie. Christine, nata Lallouette, fatica a manifestarle. Da sempre. 

Forse colpa di quelle lacune curriculari, mai colmate dopo la laurea in scienze politiche e il fallito approdo all'ENA. Di economia mastica quel che ha imparato allo studio legale Baker&McKenzie, di cui diventò presidente nel 1999.

Ai tempi, in Francia, la chiamavano l'Americaine, e non per farle un complimento. Intelligente, un sorriso accattivante ma con la stessa rigidezza plastificata di chi ha praticato il nuoto sincronizzato, è sempre stata capace di fiutare da che parte tira il vento. Fino al punto di scalare, gradino dopo gradino, la sua personale stairway to heaven. Prima della Bce, c'era stato il Fondo monetario internazionale. 

Con Christine, il "pink power" veniva issato per la prima volta, anche grazie al priapismo di Dominique Strauss-Khan, sulla plancia di comando di una delle più potenti organizzazioni internazionali. Non furono anni memorabili. 

Di quell'inclinazione perpetua a cambiare carreggiata ne sanno qualcosa i greci. Dopo aver aperto i cordoni della borsa all'Argentina con un prestito non rimborsabile, Madame si impuntò, fra insulti reciproci (l'ellenico «Criminale» contrapposto al lagardiano Non fate i bambini), sulla proroga di una tranche di prestiti che Atene doveva restituire al Fmi.

Il default venne sfiorato, e solo dopo arrivò il mea culpa: Abbiamo commesso un errore evidente nel calcolo dei moltiplicatori. Tradotto: non abbiamo capito una mazza sugli effetti pesantemente recessivi dell'austerity. 

Con la stessa frequenza dei suoi tailleur Chanel d'ordinanza esibiti in pubblico, questa tendenza all'errore ha accompagnato Lagarde in tutto il suo percorso professionale. Dallo sfondone sulla crisi dei mutui subprime (Il peggio è dietro le spalle), fino a quello sull'inflazione (È un fenomeno temporaneo).

Il Covid l'ha, come dire, aiutata a non terremotare l'eurozona anzitempo grazie al varo del Pepp da 1.850 miliardi. Ma prima della pandemia, causa originaria di innesco dell'inflazione, pareva già essersi appuntata al bavero della giacca la spilla coi colori della Germania. 

Si annusava l'odore di abiura del quantitative easing di SuperMario da quel non siamo qui per ridurre gli spread del marzo 2020. Da non derubricare a rango di cazzata, tipo la gaffe da Maria Antonietta con l'invito rivolto ai francesi, nel 2007, a usare la bicicletta contro i rincari della benzina. 

Quelle parole erano una scelta di campo. Ora, comme d'habitude, ci risiamo. Oltre ad accelerare il processo di normalizzazione della politica monetaria, viene di fatto tollerato l'allargamento degli spread. Con ciò rendendo più impervia la strada dell'aggiustamento dei conti pubblici, esponendo Eurolandia al rischio di recessione e alimentando le spinte anti-euro. Il dolce stilnovo della Lagarde sembra già far rima con crisi del debito sovrano 2.0.

Giampiero Martinotti per ''la Repubblica'' del 18 giugno 2013

Non si sa quando l'ha scritta e nemmeno se l'abbia mai spedita, ma gli appunti per una lettera a Nicolas Sarkozy buttati giù da Christine Lagarde, attuale direttrice del Fondo monetario internazionale, sono quanto meno imbarazzanti. E sarebbe davvero interessante sapere se l'ex capo dello Stato ha mai ricevuto una lettera di quel genere, se non altro per sapere se dopo aver scritto la brutta copia la Lagarde ha capito quale lecchino avesse messo insieme in poche righe.

L'appunto è stato ritrovato dagli inquirenti durante una perquisizione a casa Lagarde nel quadro della vicenda Tapie. Il testo non ha niente a che fare con l'inchiesta, ma mette in luce il grado di sottomissione della Lagarde all'ex presidente, sospettato di aver spinto a fondo per favorire il finanziere nel suo contenzioso con lo Stato. L'appunto fa sorridere o piangere, a scelta:  

"Caro Nicolas, molto brevemente e rispettosamente

1) Sono al tuo fianco per servirti e per servire i tuoi progetti per la Francia.

2) Ho fatto del mio meglio e ho potuto fallire periodicamente. Te ne chiedo scusa.

3) Non ho ambizioni politiche personali e non desidero diventare un'ambiziosa servile come tanti di quelli che ti attorniano, la cui lealtà è talvolta recente e talvolta poco durevole.

4) Utilizzami per il tempo che ti conviene e che conviene alla tua azione e alla tua distribuzione dei ruoli

5) Se mi utilizzi, ho bisogno di te come guida e come sostegno : senza guida, rischio di essere inefficace, senza sostegno rischio di essere poco credibile. Con la mia immensa ammirazione. Christine L.".

Non c'è dubbio che la lettera potrebbe aggiudicarsi immediatamente il "lecchino d'oro". L'appunto risale probabilmente a qualche anno fa, quando la Lagarde era ministro delle Finanze. E al di là dell'ammirazione per un personaggio politico, è difficile immaginare la Lagarde in un tale stato di venerazione quasi infantile. Comunque sia, il testo esiste e la rete se n'è impadronita, sbeffeggiando senza pietà la direttrice dell'Fmi con testi e immagini sarcastiche.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 26 aprile 2022.

Nel 1999, da presidente del Consiglio in carica, Massimo D'Alema partecipò a un incontro riservato, organizzato da Enrico Cuccia, boss di Mediobanca e Alfio Marchini, all'epoca un giovanissimo manager, ricordato per le sue non fortunate esperienze politiche da candidato sindaco di Roma, in un'abitazione della Capitale. 

Lo scopo dell'incontro, al quale era presente lo stesso Cuccia, fu quello di ottenere l'appoggio dell'allora capo dell'esecutivo alla scalata di Roberto Colaninno su Telecom Italia.

L'episodio spunta nel racconto che Franco Bernabè, ex amministratore di Telecom Italia all'epoca dell'Opa di Colaninno, consegna al giornalista Alan Friedman nel suo ultimo libro «Il prezzo del futuro- Perché l'Italia rischia di sprecare l'occasione del secolo» (La nave di Teseo) in uscita in questi giorni. 

Nelle oltre 500 pagine il giornalista statunitense stronca le misure grilline e riserva un capitolo all'attuale inquilino di Palazzo Chigi ribattezzato l'ammazza-spread. L'incontro tra D'Alema e Cuccia riscrive la verità su una delle operazioni finanziarie più controverse della storia d'Italia. 

Per quale motivo l'allora capo del governo in carica, che avrebbe dovuto mantenere una posizione neutrale, decide di incontrare Cuccia che appoggiava la scalata? E soprattutto perché l'incontro avvenne in una casa privata? E non a Palazzo Chigi. Dove sarebbe stato naturale avvenisse?

Bernabè consegna a Friedman la sua tesi: «D'Alema si sentiva lusingato dalle attenzioni che gli riservava Enrico Cuccia. D'Alema, che voleva accreditarsi sia come sponsor del capitalismo sia come amico dei poteri forti italiani, e quindi affidabile nei confronti del sistema, va a questo incontro con Cuccia, che è un incontro veramente anomalo, perché fatto dal presidente del consiglio in casa di un privato con Cuccia». 

Poi il racconto di Bernabè si sposta sulle posizioni che emersero rispetto all'operazione all'interno del governo guidato dall'ex leader dei Ds e nell'intera classe politica. «L'unico politico di peso che all'epoca affrontò di petto D'Alema, criticando Colaninno e le segrete trame di Mediobanca, fu il leggendario Beniamino Andreatta, il grande liberale che oggi è la bussola morale che ispira l'operato di Mario Draghi, di cui per anni è stato il mentore.

Andreatta si domandò: "Cosa avesse da gioire D'Alema per un'operazione che avrebbe addossato debiti su Telecom, dimezzandone il flusso di cassa disponibile per gli investimenti"». 

C'è un secondo episodio raccontato da Bernabè che avvalora la tesi di un pieno coinvolgimento di D'Alema nella scalata a Telecom Italia. E stavolta Bernabè è testimone oculare. Friedman chiede a Bernabè che ruolo avesse avuto D'Alema. «Il Tesoro deteneva ancora il 3,5 per cento di Telecom, il governo D'Alema ufficialmente si era dichiarato neutrale, eppure il primo ministro dava l'impressione di aver concesso il proprio endorsement a Colaninno, con quel suo commento sui "capitani coraggiosi"».

Il secondo episodio riporta al pomeriggio di una domenica del febbraio 1999. Era appena stato dato l'annuncio dell'Opa Telecom e Bernabè era andato a un incontro con D'Alema in persona. Incapace di trattenere la rabbia e la delusione, si era lamentato di quello che lui definiva «l'appoggio che il suo governo aveva concesso a un gruppo la cui componente finanziaria di natura speculativa predominava palesemente su quella industriale».

Il giornalista incalza Bernabè chiedendo se ricorda un clima di particolare freddezza alla fine dell'incontro. «Freddezza? Ma che freddezza?- sbotta Bernabè -. Era proprio uno scontro e molto, molto duro. Io non riuscivo a credere che D'Alema sostenesse quell'operazione e lui invece non solo la sosteneva, ma argomentava a favore del fatto che a quel punto si sarebbe salvaguardata l'italianità. Io gli ho detto: "Scusami, ma per salvaguardare l'italianità ammazzi le prospettive di crescita di Telecom Italia?" "Ah, non ti permettere"».

«Io dissi a D'Alema: "Sono stupefatto che un primo ministro italiano, in un capitalismo così fragile, consenta un'operazione che in nessun altro paese mai è stata consentita, cioè di fare un'operazione ostile su un incumbent di un settore molto particolare"». Il giornalista americano ha provato a chiedere a Massimo D'Alema un commento sulle ricostruzioni di Bernabè. Nessuna risposta.

Stralci del capitolo 11 de “Il Grande Inganno”, di Paolo Cirino Pomicino (ed. Lindau), pubblicati da “La Verità” il 26 aprile 2022.  

La drammatica svendita di grandi eccellenze nazionali finanziarie e manifatturiere al capitalismo internazionale, in particolare negli anni '90, è continuata sottotraccia anche negli anni successivi e purtroppo sempre sotto i governi di centro-sinistra. Il caso più emblematico è stato quello dell'Unicredit sotto la guida del francese Jean Pierre Mustier. 

Quando arrivò Mustier, l'Unicredit era la prima banca italiana e anche la più internazionalizzata. L'anno precedente aveva superato lo stress-test della Banca Centrale Europea, che simula eventi negativi per verificare la tenuta patrimoniale delle banche. Vediamo allora cosa ha fatto Mustier nel silenzio complice del Tesoro e dello stesso parlamento.

Nell'ottobre 2015 Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, su spinta di Jean Pierre Mustier, già in predicato di assumere la guida della banca, vendette agli americani di Fortress la controllata Unicredit credit management bank, che produceva valore per sé e per la casa madre grazie a una innovativa piattaforma per la gestione degli Npl, i cosiddetti crediti non performanti.

Naturalmente, vendendo lo strumento, furono ceduti a Fortress anche 2,4 miliardi di euro di Npl e, un anno dopo, questa volta direttamente da Mustier, altri 17,7 miliardi al 13-14% del valore nominale dei crediti in sofferenza. Un gigantesco trasferimento di valore dagli azionisti, piccoli e grandi, a società specializzate nel settore, che la grande finanza aveva subito organizzato; e un grave danno anche per i debitori. 

Complice la vigilanza della Bce, le banche sono state costrette a vendere i crediti non performanti a prezzo vile, piuttosto che gestirli in proprio negoziando con i debitori, e cioè con famiglie e imprese, eventuali «saldo e stralcio».

L'Unicredit, con la sua Uccmb, svolgeva questa attività, ma grazie alla decisione di Ghizzoni e di Mustier la finanza internazionale trovò il Bengodi, perché comprò a prezzi bassissimi i crediti deteriorati, trattando successivamente a sconto con i debitori e realizzando plusvalenze del 70-80% rispetto ai prezzi di acquisto.

Non contento degli incassi generati dalla vendita di alcuni gioielli, Mustier varò un aumento di capitale monstre, come sussurrarono, compunti, alcuni grandi opinionisti. In tal modo fu spazzato via quel minimo di incidenza esercitato sulla prima banca italiana da alcune fondazioni nazionali, come la Fondazione Cassa di risparmio di Torino e quella di Verona.

E così Mustier, già libero da ogni controllo grazie al silenzio di governo e parlamento, si era liberato anche del proprio consiglio di amministrazione. I fondi internazionali gli erano devoti. Diventa difficile non ricordare alcuni conflitti di interesse inquietanti, con Mustier socio e in seguito manager del fondo Tikehau Capital, tra i cui azionisti c'è Amundi, alla quale Mustier aveva venduto Pioneer. 

Per buona parte della gestione Mustier il ministro del Tesoro è stato Pier Carlo Padoan, che non si pose mai il problema del danno per il paese causato dal passaggio in mani francesi di una grande società di raccolta del risparmio, che invano Poste italiane aveva tentato di acquistare rappresentando, il risparmio delle famiglie, una delle poche «materie prime» di cui l'Italia è ricca. Quella di Padoan è la mentalità del tecnico privo della sensibilità politica tanto cara alla sinistra italiana e alla finanza internazionale, nonostante l'insegnamento contrario offerto dai nostri cugini francesi.

La musica non cambiò neanche con i governi giallo-verde e giallo-rosso, anzi la questione si aggravò perché era subentrata una più grande incapacità politica. L'Unicredit, però, non fu l'unico caso di distrazione dei governi e del Tesoro italiani sulle questioni bancarie. Un caso più complesso, e forse anche più grave, è quello del Monte dei Paschi di Siena, il cui azionista da anni è il ministero dell'Economia, alias il Tesoro italiano.

Vista la complessità della vicenda e le eventuali responsabilità ministeriali nella gestione di una banca ridiventata pubblica, scrissi nel 2017 una lettera riservata al direttore generale del Tesoro, all'epoca Vincenzo La Via, e alla Banca d'Italia, per chiedere alcuni chiarimenti. La Banca d'Italia rispose, correggendo e integrando due mie domande ma confermando la vendita di 27 miliardi di euro di Npl a trattativa privata. Governo e Mps rimasero invece in un silenzio imbarazzante.

Dopo la privatizzazione e la quotazione degli anni '90 la gestione del Monte fu affidata, di fatto, alla omonima fondazione, emanazione dei poteri locali quasi tutti in mano alla sinistra comunista. Ed è successo di tutto e di più.

Dopo la tragica operazione dell'acquisto di Antonveneta a prezzi sbalorditivi, il mio vecchio amico Franco Bassanini, eletto senatore nel collegio di Siena, dichiarò che si trattava della migliore operazione possibile (purtroppo approvata anche da Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia). E invece fu l'inizio del crollo della banca. Dichiarazioni e coperture politiche di questo tipo aiutarono il disastro del Monte dei Paschi. Quando era banca pubblica, al Monte non accadeva ciò che poi è accaduto, la sua solidità era nota e apprezzata.

Una strana sequenza di eventi ha accompagnato la lunga involuzione di Mps. Il governo dell'Ulivo lo privatizzò negli anni '90, poi la sinistra lo guidò per oltre venti anni attraverso l'omonima Fondazione, con i disastri ricordati. Sempre la sinistra comunista, dopo averlo messo in «braghe di tela», lo rese di nuovo pubblico e ora tenta di privatizzarlo nuovamente. 

Quando parlo di sinistra comunista parlo dei dirigenti della seconda Repubblica, perché quelli della prima erano tutt' altra cosa sul terreno della gestione e del rigore. Tanto per semplificare, e senza offendere nessuno, nella prima Repubblica Bassanini non ebbe mai incarichi politici o societari importanti e non influenzava quasi per nulla la politica del partito comunista italiano.

Nella seconda Repubblica ha ottenuto un potere politico, societario e finanziario molto esteso e ha anche ricevuto la Legion d'onore dal presidente francese Jacques Chirac. Chissà perché! Dalla presidenza della Cassa depositi e prestiti a quella di Open Fiber, fino alla riforma della pubblica amministrazione compiuta da ministro della Funzione pubblica nel governo Prodi (cambiata poi altre quattro volte dai successori) i risultati non furono mai brillanti.

Oggi tutti vedono che Mps da solo non regge e, dopo la rinuncia dell'Unicredit alla fusione, l'orizzonte è sempre più incerto. Bisognerà rinegoziare la nuova privatizzazione del Monte con l'Europa in maniera diversa, considerando il contesto mondiale molto cambiato a causa della pandemia. 

Una presenza pubblica nel sistema bancario oggi si impone, come peraltro accade da tempo nelle banche francesi, tedesche e anche in quelle britanniche. Il fallimento delle politiche pubbliche degli anni '90 trova nella crisi del Monte dei Paschi la più eloquente conferma, aggravata dalle inquietanti ombre sulla morte violenta di David Rossi, il giovane responsabile della comunicazione istituzionale della banca.

Il terzo episodio che, insieme ai primi due già descritti, testimonia l'inadeguatezza della politica degli ultimi trent' anni è la questione Aspi (Autostrade per l'Italia). Privatizzata nel 1999, per oltre vent' anni ha operato con scarsissimi controlli dal ministero delle Infrastrutture. Dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, nel 2021 è stata ripubblicizzata con Cassa depositi e prestiti e ha sostituito i «perfidi» gestori Benetton con due grandi fondi finanziari, Blackstone e Macquarie, in genere investitori di breve periodo interessati esclusivamente al rendimento economico, ai quali è stato ceduto il 49% della proprietà, mentre Cassa depositi e prestiti detiene il controllo con il 51%. Un disastro frutto di ignoranza o di altro?

Se si era persa la fiducia nel gestore, il governo avrebbe dovuto convocare i vertici di Aspi, comunicarglielo e promuovere la rescissione contrattuale consensuale della concessione, lasciando inalterata nel frattempo la gestione durante il tempo necessario per spacchettare i 2.800 km in concessione e metterli in gara. 

Lo Stato avrebbe così incassato una cifra importantissima, con la quale far fronte agli oneri derivanti dalla rescissione contrattuale di una concessione fin troppo benevola. Avrebbe poi dovuto affidare la rete autostradale a tre o quattro soggetti industriali, piuttosto che conferire il tutto a un soggetto esclusivamente finanziario, Cassa depositi e prestiti, affiancato dai due fondi finanziari prima citati.

Sarebbero state pratiche corrette, quelle indicate, rispettose del diritto internazionale e potevano esaurirsi in 12-18 mesi senza le ridicole dichiarazioni «di guerra» ascoltate per due anni. È accaduto l'esatto contrario, non sappiamo se per ignoranza o per interessi occulti, perché si stenta a capire il motivo della presenza di due fondi speculativi nella nuova proprietà. 

È sempre bene, però, ricordare i fatti. La folle convenzione con i Benetton, tanto criticata, fu istruita sempre dalla sinistra nel periodo 2006-2008, con il secondo governo Prodi e in particolare dal ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. All'ex pubblico ministero, in un duro scontro televisivo, ho chiesto invano di esibire il proprio stato patrimoniale e confrontarlo con il mio.

Sto ancora aspettando.

Tassi all’insù. È finita l’era del denaro gratuito. Linkiesta il 29 Gennaio 2022.

Per quasi due anni le banche centrali di tutto il mondo hanno immesso nel sistema finanziario globale una quantità di liquidità senza precedenti, adesso stanno invertendo la tendenza anche per rispondere all’inflazione crescente. Questo impatterà sui mutui e sui bilanci degli Stati

Per quasi due anni le banche centrali di tutto il mondo hanno immesso nel sistema finanziario globale una quantità di denaro senza precedenti. La risposta alla pandemia da parte della Federal Reserve, della Banca centrale europea e di altre grandi istituzioni ha prodotto una grande inflazione che adesso si sta provando a ridurre intervenendo sui mercati.

A un certo punto, verso la fine dello scorso anno, sembrava che lo stimolo delle banche centrali sarebbe durato praticamente per sempre. Era ovviamente una percezione, o forse una speranza, per qualcuno, ma non era un auspicio realistico.

Oggi, infatti, sembra di essere passati dall’altra parte del tavolo: i mercati sono in contrazione e le previsioni dicono che i tassi di interesse aumenteranno di quattro volte nel 2022 dopo mesi e mesi di tagli. «È la fine dell’era del denaro gratuito», scrive l’Economist. Un turning point decisivo, simboleggiato dalla conferma della Fed, arrivata in settimana, che il programma di acquisto di obbligazioni sarebbe giunto al termine – gradualmente, di circa 15 miliardi di dollari al mese, da qui a metà anno – e che i tassi di interesse sarebbero stati alzati di nuovo.

Ovviamente la Federal Reserve non si muove da sola. Anche la banca centrale australiana ha adottato misure per inasprire la politica monetaria questa settimana, mentre la Bank of Canada ha dichiarato la scorsa settimana che smetterà di espandere il proprio bilancio. Allo stesso modo, la Banca centrale europea sta rallentando il ritmo degli acquisti in questo trimestre.

Questo cambiamento è un segnale, forse il segnale più forte proveniente dalle banche centrali di tutto il mondo negli ultimi mesi. È una stretta monetaria – per certi versi prevista o prevedibile, almeno per alcuni investitori – che adesso sta creando nei mercati una grande volatilità.

Per l’Economist il cambio di rotta degli ultimi giorni si vede, ad esempio, nel «repricing di asset a lungo termine: con il crollo dei tassi di interesse durante la pandemia, il valore dei titoli con rendimento a lungo termine è aumentato vertiginosamente. Le azioni di aziende tecnologiche come Zoom e Netflix, già spinte in alto da lockdown e smartworking, sembravano ancora più appetibili dal momento che il rendimento delle obbligazioni era quasi svanito. La loro ascesa ha spinto il mercato azionario. Ultimamente, però, i tassi di interesse a lungo termine sono aumentati in previsione di una stretta monetaria, provocando un’inversione di tendenza che è stata drammatica per i titoli più speculativi e per alcuni nuovi strumenti come le criptovalute».

Una lunga analisi del Time suggerisce proprio che il mercato finanziario sia entrato in una nuova fase, in una nuova epoca storica: «La recente volatilità dei mercati finanziari globali può sembrare l’ultimo shock indotto dalla pandemia, ma ci sono segnali che gli investitori si stanno abituando all’idea che una qualche forma del virus faccia parte della nostra nuova norma: all’inizio del 2020, gli investitori seguivano ogni evoluzione del virus e della pandemia, hanno valutato le informazioni sui contagi e le restrizioni e sui progressi dei vaccini per stimare in che modo le singole aziende fossero strategicamente posizionate per trarne profitto. Ma adesso è cambiato tutto: il mercato sta gradualmente diventando meno reattivo e più razionale. Il focus non è più su chi trarrà vantaggi a breve termine dalla pandemia, perché adesso il virus è diventato un fenomeno più gestibile e al quale siamo abituati».

Sull’economia reale l’effetto di tassi di interesse più elevati sarà percepito più lentamente, e forse sarà anche più difficile da prevedere. Con il grande afflusso di denaro del 2021 – che l’Economist definisce «denaro ultra-economico» – le aziende hanno avuto la possibilità di raccogliere grandi quantità di fondi per un lungo periodo, ed è un boom che non si ripeterà almeno per un po’. Allo stesso modo, chi ha sta comprando casa lo fa con mutui pesanti, dal momento che i prezzi delle case sono aumentati di nuovo, e non di poco.

Insomma, l’elevato indebitamento creatosi come risposta alla pandemia rende l’economia mondiale più sensibile ai cambiamenti nella politica monetaria. Adesso le banche centrali devono aumentare i tassi d’interesse fino al punto da abbassare l’inflazione, ma devono comunque muoversi con cautela per non far precipitare le economie in recessione a causa dei nuovi oneri sugli interessi.

Un altro fattore chiave da guardare per una vera ripresa dell’economia reale riguarda il momento in cui i consumatori torneranno a spendere per i servizi, non solo per i beni come hanno fatto negli ultimi 20 mesi (questa asimmetria nelle preferenze, sbilanciata dal lato dei beni, è una delle cause della carenza di approvvigionamenti degli ultimi mesi).

«Quando le persone torneranno a spendere per i servizi, sarà allentata la pressione sui prezzi dei beni causata da catene di approvvigionamento intasate», scrive l’Economist, che però chiarisce: «I dati economici sono diventati più difficili da interpretare: se le vendite al dettaglio diminuiscono, ad esempio, è un riflesso dell’indebolimento economico o è un gradito ritorno ai normali modelli di consumo?».

In definitiva, l’incertezza riguardo la reale stabilità dell’economia globale e la sua capacità di resistere a tassi d’interesse più elevati, unita alla preoccupazione delle banche centrali per l’inflazione, porta i mercati finanziari in una nuova fase. «Per quasi due anni – conclude l’Economist – il denaro a buon mercato ha portato i prezzi degli asset finanziari a livelli sorprendenti anche se l’economia mondiale era in crisi. Oggi invece le due cose sono strettamente legate».

·        Il Debito. Pagherò.

Giuliano Balestreri Fabrizio Goria per “la Stampa” il 31 ottobre 2022.

In tempi di inflazione alle stelle e salari fermi al palo, fa gola a molti la promessa "compri subito, ricevi immediatamente, ma paghi dilazionato", senza passare attraverso i canali bancari o finanziari e con totale assenza di interessi. Soprattutto a quella Generazione Z che diffida dalle banche, che non usa le carte di credito e spesso fatica a razionalizzare i propri impegni finanziari. Il fenomeno del "Buy now, pay later", o Bnpl, cresce e viene attenzionato dalle autorità di vigilanza. Anche in Italia.

L'onda di piccoli default in arrivo dagli Stati Uniti - dove crescono i giovani che bruciano i loro risparmi nell'illusione di potersi indebitare a costo zero per comprarsi una giacca o un viaggio - ha spinto Banca d'Italia ad accendere un faro su un fenomeno che è quasi impossibile da quantificare, con stime che oscillano dal miliardo e mezzo di euro - pari al 3% del valore dell'ecommerce - solo per l'online ai 6,2 miliardi di euro complessivi stimati dalla società di intelligence finanziaria Market & Research che nel nostro Paese calcola una crescita del 52,8% rispetto al 2021. Merito dell'adozione del sistema di pagamento da parte dei big del settore, come Amazon, Yoox o Farfetch, e delle neo-bank.

Un fenomeno che secondo Kaleido Intelligence, a livello globale per l'online, potrebbe sfondare quota 80 miliardi di dollari con una crescita del 50% rispetto all'anno scorso.

Anche perché secondo PayPlug, i commercianti che hanno utilizzato questo metodo di pagamento registrano un aumento del carrello medio del 45% e un incremento di fatturato pari al 10%. Motivo per cui i costi dell'operazione sono tutti a carico loro.

Klarna, Scalapay e Clearpay sono alcune delle società che permettono di diluire il pagamento degli acquisti, anche direttamente da app dopo l'acquisto nei negozi fisici. E il fatto che Apple abbia annunciato l'intenzione di sviluppare un servizio di dilazione dei pagamenti direttamente da telefonino conferma quanto il settore sia effervescente.

Quello che spesso sfugge ai consumatori, però, è che l'assenza di interessi non sia un'assenza di rischi. Secondo Kruk, operatore specializzato nella gestione dei debiti, il 60% degli utilizzatori del Bnpl non si è mai accorto degli avvisi sulle conseguenze in caso di mancato pagamento e il 77% ignora ci siano delle sanzioni in caso di mancato pagamento di una rata. 

Addirittura, PayPal sottolinea come una rata saltata potrebbe far scattare «un'azione legale nei confronti dell'utente» e avverte che «potrebbe comportare criticità nell'ottenimento di altri finanziamenti, anche con terzi creditori».

Avvertenze analoghe per gli altri operatori.

Eppure, la storia di crescita del comparto è solida in Italia, secondo Market & Research.

Nel periodo 2022-2028 il tasso annuo di crescita composto (o Cagr, in inglese) è dato al 26,8 per cento. Si passerà dai 4,09 miliardi di euro del 2021 ai 25,98 miliardi del 2028.

Sempre più persone usano il Bnpl, o ne sono incuriositi. Secondo un rapporto di marzo 2022 di Clearpay, il 56,1% degli italiani che non sono a conoscenza del metodo di pagamento sarebbe interessato a utilizzarlo.  

E non solo per i grandi acquisti. Nel luglio scorso Trenord, l'operatore dei trasporti ferroviari della Lombardia, ha annunciato il lancio della sua funzionalità Bnpl con Scalapay, che consente ai pendolari di acquistare i biglietti utilizzando l'opzione di pagamento differito.

Il problema principale, secondo le autorità, è la scarsa percezione della spesa, e quindi il possibile sovraindebitamento. Banca d'Italia ha messo in guardia i consumatori sull'utilizzo del Bnpl. Si tratta, spiegano da via Nazionale, di una «forma di credito che si sta diffondendo anche nel nostro Paese, ma non è oggetto di una specifica regolamentazione.

Pertanto, la disciplina applicabile e le relative tutele dipendono dal modo in cui è configurata». 

Questa forma di finanziamento, ricorda l'istituto, è «solitamente di importo contenuto e può essere offerta sia online sia presso punti vendita fisici, nella maggior parte dei casi non prevede interessi o oneri a carico del consumatore, ma commissioni in caso di ritardo o mancato pagamento». Il credito è concesso con una procedura molto rapida, e in questo caso «senza lo svolgimento di una valutazione del merito creditizio o sulla base di una valutazione semplificata». 

Il contesto di poche regole e procedure velocizzate, rimarca Palazzo Koch, può essere fuorviante: «La facilità di accesso al servizio, unitamente alla circostanza che il Bnpl è generalmente utilizzato per acquistare beni di consumo di importo contenuto, potrebbe incentivare acquisti non del tutto consapevoli e, quindi, potenzialmente non sostenibili per i consumatori, esponendoli a un rischio di sovraindebitamento», si spiega. Il monitoraggio, avverte Via Nazionale, sarà costante e continuo. 

«È uno strumento da utilizzare con buon senso e responsabilità. Non dobbiamo farci ingannare dalla convinzione di poterci permettere tutto e subito», dice Simona Scarpa di Kruk Italia. Che poi aggiunge: «Siamo particolarmente preoccupati che questo strumento possa solo aumentare i casi di debiti personali, soprattutto in una fascia giovane della popolazione».

·        ConTanti Saluti.

L’Europa del contante. Redazione L'Identità 9 Dicembre 2022

Tanto rumore per nulla. Il consiglio Ue ha deciso che il limite per i pagamenti in contante, sul territorio dell’Unione, sarà pari a 10mila euro. Due volte quello proposto dal governo Meloni, da “appena” 5mila euro. E su cui si è scatenata la bagarre, le proteste dei sindacati, i rilievi di Bankitalia, gli strepiti del Cnel. La decisione Ue mira a uniformare le regole su un tema sensibilissimo, specialmente in tema di anti-riciclaggio, e non solo di evasione fiscale come s’è incardinato il dibattito italiano. La stretta, semmai, è arrivata sulle monete digitali. O meglio, sulle criptovalute. Chiunque effettuerà transizioni superiori ai mille euro dovrà essere sottoposto alle procedure legate alle verifiche anti-riciclaggio per la clientela. Insomma, il piccolo dibattito sulla piccola manovra del governo si può dichiarare concluso. A meno di voler tacciare di complicità all’evasione fiscale anche il Consiglio Ue.

La decisione europea, una volta tanto, ha fatto esultare il centrodestra. In particolar modo, a festeggiare, il leader della Lega Matteo Salvini. Già nei giorni scorsi si era attirato gli strali dell’opposizione per aver criticato in maniera colorita chi pretendeva di pagare il caffè con la carta. Il vicepremier e ministro alle Infrastrutture ha letteralmente gongolato e sui social ha scritto: “Bene, anche l’Europa conferma la libertà di usare il proprio denaro come si vuole, raddoppiando addirittura il tetto all’uso del contante previsto dal governo italiano da 5 a 10mila euro. Sinistri e critici in silenzio oggi?”.

Dalla maggioranza, dunque, è partito il fuoco di fila contro l’opposizione. Sul tema, poi, era intervenuta anche Unimpresa che aveva spiegato come, in media, negozi e ristoranti ogni anno paghino migliaia di euro solo per commissioni sulle carte. Un esborso rilevante e doloroso, in tempi di ristrettezze economiche, inflazione galoppante e caro bollette. Eppure il dato medio attuale, pari a 10mila euro, tra costi fissi e commissioni per il Pos rappresenta un numero “più basso rispetto al 2017 quando le tariffe dei pagamenti elettronici erano decisamente più rilevanti e le spese complessive arrivavano a sfiorare 14.000 euro l’anno: in cinque anni, dunque, si è registrato un calo di circa il 40%. Un calo che interessa sia i costi fissi per i pos passati in media, in relazione al canone mensile, da 14 euro a 5 euro (-63%) per gli apparecchi mobili e da 24 euro a 8 euro per (-66%) per i dispositivi fissi. Quanto alle commissioni, si aggirano attorno all’1,6% per i pos mobile (-26% sul 2017) e attorno all’1,40% per i pos fissi (-37%)”. Con la decisione del consiglio dell’Ue, i contanti potranno tornare a essere utilizzati in maniera più libera e rilevante almeno in Italia. Con tanti saluti al dibattito che ha accompagnato, finora, la manovra italiana.

Piccoli temi, in fondo, per una piccola manovra. Piccoli come le soglie dei pagamenti con il pos, piccoli come i cambiamenti possibili, di qualche decina di euro su o giù, attorno all’asticella dei sessanta. Le scelte del governo, fatalmente, porgono il fianco alle critiche. Come quelle che sono piovute in capo alla premier da Matteo Renzi. Secondo cui “se lei continua a occuparsi di minuzie non si va da nessuna parte perché la manovra non funziona”. Il leader di Iv, però, non chiude del tutto le porte a Meloni che, per lui, è “una donna totalmente diversa, anzi dentro la maggioranza sembra quella più moderata”. Quindi una battuta: “Se va sulla via di Damasco, ha il telepass per le conversioni. Ma ora bisogna vedere se fanno sul serio o no”.

Ora i nodi della manovra, dunque, dovranno essere rintracciati altrove. Intanto, per risolverli, il governo si appresta a varare una cabina di regia. Ci sono tremila emendamenti alla finanziaria. Di questi, oltre seicento sono stati presentati dai partiti del centrodestra. Se ne attendevano 400, sono quasi il 50% in più. Dunque bisogna sveltire le procedure e, per farlo, ecco l’idea della cabina di regia. Che sarà affidata al ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida. Che è, in pratica, il braccio destro della premier. Insomma, Meloni mette il cappello e si gioca tutto su questa manovra. E lo fa mentre incassa, grazie al consiglio Ue e alla sua decisione sul tetto ai contanti fino a 10mila euro, una piccola vittoria nel piccolo dibattito sulla piccola manovra.

Da lastampa.it l’8 Dicembre 2022

Nell'Ue si fissa un tetto massimo di 10mila euro per i pagamenti in contanti. Proprio mentre in Italia il confronto politico si concentra sull'obbligo previsto in manovra, al momento, di accettare pagamenti digitali con carta o bancomat a partire dai 60 euro e sull'innalzamento del tetto al contante dal prossimo primo gennaio dai 2mila euro attuali a 5mila euro. 

Innalzamento che ha attirato contro il governo gli strali dell'opposizione. "Bene, anche l'Europa conferma la libertà di usare il proprio denaro come si vuole, raddoppiando addirittura il tetto all'uso del contante previsto dal governo italiano da 5 a 10mila euro. Sinistri e critici in silenzio oggi?", ha commentato il leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini.

L'importo dei 10mila euro, la stessa soglia per altro che impone di dichiarare valuta alla dogana entrando nell'Unione, è stato indicato in Consiglio Ue nell'adozione della propria posizione negoziale con il Parlamento europeo sul pacchetto antiriciclaggio e la lotta ai finanziamenti al terrorismo. Accoglie quella che è l'indicazione della Commissione europea data con la proposta del luglio 2021, assieme a tutta una serie di altre misure per contrastare il riciclaggio. 

Si lascia comunque facoltà agli Stati membri di fissare soglie massime inferiori. Il pacchetto di riforme, tra l'altro, è lo stesso in cui si prevede la creazione dell'autorità europea antiriciclaggio (Anti-money-laundering authority, Amla), per la cui sede l'Italia vuole candidarsi, forse con Roma, in una corsa che vede già in totale una decina di località in gara.

Regolamento antiriciclaggio e nuova direttiva, una volta adottati costituiranno il nuovo regolamento antiriciclaggio dell'Ue insieme alla proposta sul regolamento sul trasferimento di fondi, su cui è già stato invece raggiunto un accordo con il Parlamento europeo. "I terroristi e coloro che li finanziano non sono i benvenuti in Europa", ha scandito il ministro delle Finanze della Repubblica ceca Zbynek Stanjura, alla presidenza di turno Ue. 

"Diventeranno impossibili pagamenti in contanti di importo superiore a 10mila euro. Cercare di rimanere anonimi quando si acquistano o vendono cripto-asset diventerà molto più difficile. Nascondersi dietro più livelli di proprietà delle società non funzionerà. Diventerà persino difficile riciclare denaro sporco tramite gioiellieri o orafi". 

 Oltre al tetto dei 10mila euro, si prevedono tra l'altro obblighi di verifica per gli operatori del mondo 'cripto' nelle transazioni oltre i 1.000 euro. Saranno soggetti al regolamento anche intermediari finanziari terzi e persone che commerciano metalli preziosi, pietre preziose e beni culturali, così come gioiellieri, orologiai e orafi. I paesi inseriti nelle liste del Gruppo di azione finanziaria internazionale, un riferimento nelle norme antiriciclaggio, saranno inseriti anche nelle liste Ue. Saranno poi rese più trasparenti e armonizzate le norme sulla titolarità effettiva. In particolare, il Consiglio ha chiarito che la titolarità effettiva si basa proprietà e controllo, da analizzare per valutare le modalità di esercizio del controllo su una persona giuridica e per identificare tutte le persone fisiche che ne sono i titolari effettivi.".

Estratto dell’articolo di Claudio Tito per repubblica.it l’8 Dicembre 2022

Nel dibattito rozzo cui spesso il centrodestra ricorre quando si tratta di discutere e affrontare il macigno vergognoso della nostra evasione fiscale, di sicuro entrerà subito la decisione annunciata dal Consiglio europeo di fissare il tetto per l’utilizzo del contante a 10 mila euro. Ma come? Anche noi volevamo prevedere quella quota – è la più probabile delle reazioni dei sostenitori del governo Meloni – e invece c’è stata una sollevazione, una marea di critiche. Avvertimenti. Richiami. Anche da Istituzioni pubbliche autorevoli come la Banca d’Italia e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. E allora? Allora avevamo ragione noi, sarà la lunga eco di Palazzo Chigi. Già iniziata con un tweet di Salvini: "L'Europa raddoppia il tetto all'uso del contante previsto dal governo italiano. Sinistri e critici in silenzio oggi?".

No, il governo non ha ragione a portare il tetto al contante a 5mila euro. Per due motivi essenziali. Il primo: la decisione europea non è un passo indietro rispetto a posizioni già assunte. Quella misura, a livello comunitario, non esisteva. In Germania, ad esempio, non è previsto alcun limite al cash. Averlo adesso inserito in una misura europea, equivale a compiere un primo passo avanti. E’ cioè la dimostrazione che l’Ue considera indispensabile intraprendere quella strada. 

Il secondo: l’Italia non è la Germania. E non è nemmeno la Francia. E nemmeno la Spagna. Il nostro tasso di evasione fiscale è il più alto. Basti un dato, appena reso pubblico, a confermarlo: siamo il Paese con la percentuale più alta di Iva non riscossa. Il 20,8 per cento per un valore di oltre 26 miliardi. Per capirci: con quei 26 miliardi il governo avrebbe potuto scontare il prezzo della benzina almeno fino a settembre 2023. E non fino a marzo. Sarebbe stato un bel risparmio per tutti. […]

Tetto al contante in Europa fino a 10mila euro: la Ue zittisce la sinistra. Dario Martini su Il Tempo il 09 dicembre 2022

Anche la Ue introduce il tetto al contante. Per il Consiglio europeo deve essere di diecimila euro. Esattamente il doppio di quanto fissato dal governo Meloni. Il vicepremier Matteo Salvini esulta via social: «Bene, anche l'Europa conferma la libertà di usare il denaro come si vuole, raddoppiando addirittura il tetto all'uso del contante previsto dall'esecutivo italiano da 5 a 10mila euro. Sinistri e critici in silenzio oggi?». In effetti, Pd e 5 Stelle restano muti per tutto il giorno.

Occorre ricordare che l'Italia fino ad oggi ha avuto una delle soglie più basse dell'Unione europea: duemila euro. Altri tredici Stati membri, tra cui Germania, Austria e Olanda, non hanno alcun limite. Quindi, portare questa cifra a cinquemila euro, come previsto nella legge di bilancio all'esame delle Camere, è perfettamente in linea con ciò che avviene all'estero. La decisione del Consiglio europeo si inserisce nel nuovo regolamento antiriciclaggio dell'Unione. Saranno soggetti agli obblighi del regolamento anche gli intermediari finanziari terzi, i soggetti che commerciano in metalli preziosi, pietre preziose e beni culturali, così come i gioiellieri, gli orologiai e gli orafi. Limitando i grandi pagamenti in contanti, l'Ue renderà più difficile per i criminali riciclare denaro sporco.

Dalle parole di ZbynekStanjura, ministro delle Finanze della Repubblica Ceca, paese presidente di turno dell'Unione, si evince come diecimila euro sia una cifra già ritenuta molto bassa: «Per riciclare il denaro sporco, i singoli criminali e le organizzazioni criminali hanno dovuto cercare lacune nelle nostre vigenti norme, che sono già piuttosto rigorose. Ma la nostra intenzione è di colmare ulteriormente queste lacune e applicare norme ancora più rigorose in tutti gli Stati membri dell'Ue».

Gli Stati membri avranno la flessibilità di imporre un limite massimo inferiore, se lo vorranno. L'Italia, come detto, ha previsto di portarlo a cinquemila euro. «Le nuove regole dell'Ue in materia di antiriciclaggio e lotta al finanziamento del terrorismo - scrive il Consiglio in una nota - saranno estese all'intero settore delle criptovalute, obbligando tutti i fornitori di servizi di cripto -asset a condurre due diligence sui propri clienti. Ciò significa che dovranno verificare fatti e informazioni sui loro clienti».

Intanto, la Commissione europea ha diffuso i dati sull'evasione dell'Iva nella zona Ue. L'Italia è maglia nera, con 26 miliardi nascosti al fisco, quasi un terzo di tutta l'Unione, dal momento che solo nel 2020 in totale sono mancati all'appello 93 miliardi di gettito.

Al secondo e terzo posto si collocano Francia e Germania, rispettivamente con 14 e 11 miliardi evasi. Il commissario all'Economia, Paolo Gentiloni, fa sapere che l'esecutivo europeo «sta lavorando sulla legge di bilancio italiana e adotterà un'opinione la prossima settimana», anche se «i principi sono già abbastanza evidenti, nel senso che basta leggersi gli obiettivi del Pnrr e le raccomandazioni annuali ai diversi Paesi, inclusa l'Italia, per sapere che per noi sia la fatturazione elettronica che la lotta all'evasione sono grandi priorità». 

Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” il 27 Ottobre 2022.

Sono anni che cerco controindicazioni al limite ragionevole di utilizzo del contante, ma non ne ho mai trovata una. Il Ministro Salvini invece ne trova molte, visto che propone di alzare il tetto da 2.000 euro a 10.000, e allora gli chiedo: «Per chi è vantaggioso girare con 10.000 euro in tasca?». Sicuramente per gli spacciatori, per chi paga tangenti, per chi lavora in nero (che può anche accedere a tutti i benefici e aiuti previsti per gli indigenti, incluso il reddito di cittadinanza). 

Dai dati dell’Ocse, Unione Europea, Tax Research emerge che siamo un Paese molto corrotto, e tutte le inchieste legate al mondo degli appalti dimostrano che le tangenti si pagano in contanti. Non solo: di cash vive lo spaccio di droga, il contrabbando di petrolio, di merce contraffatta. Scoraggiarne l’uso, a favore dei pagamenti tracciabili è un dovere perché si contrastano le attività illecite.

 È un dovere perché contribuisce a ridurre l’illegalità nel mondo del lavoro. È un dovere perché rende più complicata la vita agli evasori. Vale la pena rinfrescare le tabelle Istat pubblicate nel 2021 sull’economia sommersa: 183 miliardi. Un’economia composta da 3,5 milioni di lavoratori irregolari e «a nero», cioè lavoratori pagati in contanti. Questo significa zero entrate fiscali e zero contributi versati. E coinvolge un’infinità di settori: dall’edilizia alla sanità, dal commercio all’ingrosso alla ristorazione, alla logistica. A questo si aggiungono centinaia di attività che vanno dall’avvocato al medico, dall’estetista al parrucchiere, dal libero professionista all’idraulico, che incassano le prestazioni in contanti e su cui non pagano tasse.

Dunque: alzare il tetto a 10.000 euro quali vantaggi porta e a chi? Tra l’altro è meno rischioso tenere in tasca un bancomat o una carta di credito rispetto al cash. Il vicepremier intende allinearsi ad una «media europea». E cioè quale? In Francia e in Spagna il tetto è a 1.000 euro, in Grecia 500, in Belgio e Portogallo 3.000. In Germania, Austria, Lussemburgo, Irlanda per esempio non ci sono limiti, ma non c’è nemmeno l’evasione e il sommerso che abbiamo noi. Nemmeno negli Stati Uniti c’è un limite al contante, ma se vai a comprare qualcosa sopra i 100 dollari difficilmente accettano contanti, perché nessuno vuole trovarsi a gestire una cassa piena di cash.

Anche nei nostri supermarket la rendicontazione è più facile da quando i clienti pagano per lo più con carta. Negli Usa quando beccano un evasore, l’evasore se lo ricorda per tutta la vita. In Italia siamo meno cattivi. Le ricordo ministro che chi evade ruba i servizi sanitari di cui usufruisce senza aver contribuito a pagarne il costo, come non ha contribuito a pagare la scuola dove manda i suoi figli, o la costruzione delle strade che percorre ogni giorno. 

Tutto questo lo pagano i soliti, quelli che 10.000 euro tutti insieme fanno fatica a vederli. Loro non si sono mai lamentati del tetto al contante, anzi la vedono come una misura giusta di contrasto. La premier Meloni ha dichiarato che è una discussione ideologica, che non c’è correlazione fra economia sommersa e limite al contante. A dire il vero un recente studio di Bankitalia la correlazione l’ha dimostrata.

Contante? Non è un demone. Evasori attaccabili con migliori politiche. Angelo Lucarella, Giurista, saggista, opinionista, su Il Riformista il 7 Novembre 2022

La lotta al contante è un problema atavico le cui radici nascono dalla sfiducia e dall’uso monetario illegale che, talvolta, alcuni commettono consapevolmente o meno.

Qui, però, si cerca di offrire alcune riflessioni che possono consentire di invertire il paradigma “contante cosa brutta”. Per farlo bisogna dotarsi, idealmente, di una scala a piramide inversa la cui base è il “principio” a cui segue, come gradino successivo, il “valore delle cose” ed in ultimo “l’obbiettivo contemporaneo e quello programmatico”.

Nel primo di questi step piramidali (il principio) prendiamo per utile il concetto etimologico di “moneta”: il termine può essere inteso sia in senso positivo che negativo perché si linfa si significato, stando ai più, dal tempio eretto a Giunone in Campidoglio ove era situata la zecca romana (senso positivo). Il nome di questo tempio era, appunto, “Moneta” ovvero monitrice dell’arrivo di un flagello sul popolo romano (senso negativo).

Da questo aneddoto storico, che in verità ha investito anche lo studio etimologico greco (la cui desinenza ETA – della parola moneta – richiama a sua volta il concetto del rappresentare il valore, designare, ecc.), non sfugge il c.d. “conio”: dal latino “Cuneo”, sempre etimologicamente parlando, sarebbe uno strumento antico di metallo o di legno, a seconda delle evoluzioni dei popoli, che in antichità aveva forma, appunto, piramidale per incidere, fendere, penetrare, calzare, ecc. Successivamente, in epoca meno antica, strumento funzionale ad imprime su monete e medaglie.

Ovviamente la moneta è stata ideata per sostituire il cosiddetto scambio beni per baratto (cioè cosa per cosa). Detto ciò, la moneta è un titolo al portatore ovverosia chi la detiene manifesta una signoria sul proprio avere. Il ché non significa per forza di cose identificare tale atteggiamento di signoria come uno sprezzante approccio di colui che ha e compra, ma semplicemente come il rapporto di colui che ha un valore nelle mani che, se riconosciuto dal mercato legale, produce scambio, ricchezza, virtuosità.

Ecco il senso della virtuosità ci porta inevitabilmente a sdoppiare l’analisi su due direttrici: una verso la moneta reale circolante, l’altra verso il valore bancariamente disponibile. La prima è il mezzo riconosciuto come legale per far fronte alle obbligazioni tra titolari di beni al portatore (nasce, in buona sostanza, dagli usi e dalle consuetudini); la seconda è strumento collaterale alla prima al fine di controllare tutti gli scambi (salvo deroghe) e determinare, così facendo, l’effettivo controllo a maglie strette sull’agire collettivo (e quindi necessita di una scelta politica vera e propria).

Se queste due direttrici hanno una dignità di ragionamento in termini di principio, allora, possiamo passare al rapporto che questi hanno in ordine al “valore delle cose”.

Il valore delle cose è determinabile in diversi modi: per prezzo, appagamento, frutti, ecc. Sempre il valore delle cose si ramifica partendo, tuttavia, da una radice comune rispetto a quanto innanzi elencato: la necessità dell’individuo di raggiungere e detenere beni essenziali della vita e poi altro.

Intorno a quest’ultimo passaggio si sono evolute diverse teorie politiche negli ultimi secoli: il comunismo e il liberismo ne sono esempi da manuale (di estramizzazione). Nel primo caso si vuole l’abolizione del capitale in un sistema di eguale distribuzione dei beni essenziali dettata da logiche di Stato; nel secondo la distribuzione avviene per effetto dello scambio e della concorrenza che ribassa i prezzi e rende democratico l’accesso con quote crescenti di soddisfazione dei consociati (cioè i partecipanti alla produzione ed al mercato).

Entrambi i sistemi, a parare di chi scrive, portano allo stesso punto di crollo: l’esasperazione dei partecipanti che nel comunismo sono in stato passivo (quindi meri elementi sociali da “soma”), mentre nel liberismo sfrenato sono in stato attivo (cioè costantemente alla ricerca del “fagocitamento economico altrui” fino a che non ne rimarrà nel mercato solo uno – una sorta di selezione naturale del più forte sul più debole).

Le due impostazioni economiche, comunque, conducono ad una sorta di dittatura da parte dei distributori dei beni essenziali verso gli avventori o consumatori che, molto più esplicitamente, vivono in una dimensione di sottomissione vera e propria.

Ora, cosa c’entra questo cappello introduttivo con la questione del contante lo si cerca di spiegare con il collegamento ultimo che c’è tra il senso della democrazia e quello delle dittature.

Non a caso si è parlato del valore delle cose prima di giungere sin qui perché l’accessibilità ottimale e virtuosa dei beni è mantenuta solo se il sistema economico stesso è in tensione bilanciata od oscillante (sostenibile) tra gli attori della produzione, dello scambio e del consumo.

Il metro della tensione (positiva in questo senso) è dato dalla moneta reale circolante che rappresenta la capacità di acquisto di determinati beni ad una certa velocità di relazioni tra gli attori ed ad un certo prezzo fissato dal mercato o risultante dalle politiche calmiere (od anche l’opposto) dello Stato.

La velocità, in via specifica, è un ingranaggio dello stato di tensione che, quindi, fa comprendere come la microeconomia necessiti di un rapporto costante di circolazione quotidiana.

Più veloce è la portata di scambio in una determinata “piazza”, maggiore è la possibilità di valorizzazione ed apprezzamento dei beni in quel determinato mercato che, piano piano, alimenta inflazione tollerabile (salvo la disponibilità di moneta circolante che deve essere diminuita od aumentata a seconda delle necessità di politiche di stabilizzazione e su questo piano il c.d. “tetto al contante” non è funzionale).

In una parola: virtuosità del sistema dipende non dal limite al contante, ma dalla sua capacità di esser impiegato e manifesto. La traduzione ulteriore sta a suggerire una massima: per l’evasore, lo spacciatore, ecc. il limite al contante è percepito in totale indifferenza potendo tali soggetti accedere a tutti i beni possibili utilizzando altre vie: ad esempio il riciclaggio. A questo si attende il limite all’uso del contante, non alla lotta all’evasione in senso stretto.

Torna utile la politica della fiducia: se tutti gli attori sono leali nel rapporto reale, pagando le imposte e le tasse in “maniera proporzionale, tra gli scambiatori di beni nel mercato legale, non si genera la c.d. disaffezione sociale verso lo Stato. Questo sentimento è, di tutta evidenza, il motore di due cose: l’evasione fiscale (a sua volta psico-socialmente di due tipi: di sopravvivenza; di ingordigia) e la nascita di mercati paralleli (ad esempio il contrabbando).

Ovviamente, ispirandoci al principio della legalità, sia l’evasione che il mercato parallelo sono espressioni negative del rapporto di fiducia e fedeltà costituzionale (art. 54). Questo però è un sinallagma che non può essere preteso a monte verso il cittadino, il quale ultimo, se vessato, subisce un vero e proprio flagello nel dover mantenere uno Stato incapace di rendere virtuoso il mercato nel quale dovrebbe operare legalmente ed in cui moneta e beni devono rendere sostenibile il sistema stesso della pubblica amministrazione.

A questo punto serve fissare l’obbiettivo comune (politicamente parlando) composto di due parti: uno contemporaneo, uno programmatico. Una sorta di patto fiscale-costituente partendo da una domanda di fondo. Cos’è più dannoso? La moneta contante o uno Stato opprimente?

Entrambi lo sono quando risultano frutto di distorsioni e di assenza di fiducia (dei cittadini verso lo Stato e viceversa). Il dato contemporaneo (al 2021) ci consegna dei numeri chiari e spaventosi:

59 milioni circa di cittadini;

16 milioni circa di pensionati;

9,8 milioni circa di minorenni;

18 milioni circa di lavoratori dipendenti;

5 milioni circa di partite iva

16 milioni circa di persone iscritte a ruolo fiscale e sottoposte a procedure esattoriali.

Come può notarsi quasi 1 cittadino italiano su 3 ha problemi con il pagamento nei confronti dello Stato. Significa che sono tutti evasori? No. sarebbe una aberrazione culturale e fattuale. Tra gli iscritti a ruolo esattoriale ci sono tantissimi morosi, anche illegittimamente sanzionati, incapaci di poter fronteggiare l’impegno fiscale vuoi per cambiamento della capacità contributiva, vuoi per cambiamento della virtuosità economica del Paese e del mercato di riferimento, ecc. Tra questi anche chi non ce la fa a difendersi perché non ha accesso al patrocinio a carico dello Stato (in quanto non attualizzato al momento di capacità contributiva e necessità difensiva).

Se l’evasione fiscale italiana ammonta a circa 1.100 miliardi di euro ed “ogni hanno entrano nelle casse dello Stato solo 10 miliardi a fronte dei 70 da riscuotere” (dichiarazione di Ernesto Maria Ruffini dell’Agenzia delle Entrate in Commissione parlamentare – fonte Ansa, 7 aprile 2022) un motivo c’è. Di contro la corruzione ammonterebbe a circa 237 miliardi l’anno con un indice di percezione del fenomeno di corruttela aumentato del 14% negli ultimi dieci anni (fonte Autorità Anticorruzione, 25 gennaio 2022). Guarda caso proprio dal 2011 in poi ovvero da quando il limite del contante è stato portato al livello minimo della storia repubblicana.

Allora c’è uno stretto legame tra peso fiscale dello Stato e virtuosità del sistema economico che si regge, negli scambi, con moneta avente corso legale (art. 1277 codice civile) e non con disponibilità bancaria (che si basa su criteri di credibilità del debito o della giacenza).

Se c’è sproporzione tra il chiesto (Stato) e l’effettivamente pagabile (cittadino) si genera, automaticamente ed antropologicamente, sfiducia e quindi il metro della tensione si sposta dal valore delle cose del mercato al valore della sopravvivenza vera propria (esempio classico: l’esercente che pur dichiarando tutto non riesce a pagare le imposte perché con quest’ultime deve fronteggiare la carenza di vendite dei giorni o mesi successivi rispetto al momento del versamento all’erario che avviene, come sappiamo, negli anni successivi).

Se, invece, avviene il contrario è giusto che lo Stato combatta il fenomeno perché si cade nell’ingordigia (esempio classico: colui che non dichiara per farsi le vacanze alle Hawaii).

La questione di fondo di questa analisi giunge verso la conclusione con una domanda ulteriore la cui risposta non è facile. Eliminare il contante o limitarlo può giovare al virtuosismo economico di un determinato sistema? Si, ma dipende quale sistema si vuole imporre per due motivi:

eliminare il contante significa espropriare di fatto lo Stato di emissione titoli al portatore (che hanno sempre una matrice di derivazione e, quindi, sottoponibile a controllo perennemente);

eliminare il limite all’uso nei pagamenti tra privati, risulterebbe eccessivo rispetto alla necessità di controllare che i titoli al portatore non escano dal virtuosismo ideale del mercato voluto.

Occorre, pertanto, una via di mezzo. Molti Paesi europei (Olanda, Austria, Germania, Lussemburgo, Ungheria, Irlanda, Estonia, Finlandia, Cipro, ecc.) non hanno il limite all’uso del contante. Cosa legittima, ma che necessita di altro approfondimento.

Ebbene, per quanto riguarda la nostra penisola, lo studio della Banca d’Italia dell’ottobre 2021 (come afferma il Prof. Antonio Tomassini il 04 novembre 2022 in una intervista su Il Settimanale), l’aver alzato il limite all’uso del contante nel 2016 ha portato all’aumento di fiducia tra gli attori del mercato: l’aumento a 3.000 euro del limite del contante per le operazioni di transazione ne ha comportato l’aumento dell’1% così da ingenerare maggior gettito fiscale.  Significa che occorre innestare, per maggiore virtuosismo e legalità, anche una politica dell’interesse e del contro interesse: cioè pretendere lo scontrino per altri fini-beneficio (detrazioni ad esempio).

In definitiva, perché demonizzare il contante quando il principio è solo uno: se il cittadino dichiara tutto quale paura ha lo Stato di non fidarsi della stessa moneta che mette in circolo?

Forse, più che paura occorrerebbe iniziare da una commissione d’inchiesta per valutare chi sia il titolare del sistema bancario privato e quanti dei politici o chi per loro partecipano ai relativi dividendi.

C’è una frase utile per finire: “ma chi va in giro con 10.000 euro in borsa”? Si presume, nessuno. Aggiungerei una domanda: e perché non ci deve essere se una persona dichiara tutta la sua ricchezza?

Vogliamo combattere davvero il riciclaggio, l’evasione, ecc.? Bene, iniziamo a far spendere queste persone, smascherando la loro reale capacità, facendo emergere la spesa reale e perseguiamole per quanto non dichiarato. Se no il tutto è solo propaganda e demonizzazione.

Possiamo togliere il contante, ma almeno a due condizioni di partenza: abolendo per legge la povertà (seriamente) ed abolendo la partecipazione privata nelle banche (quindi regolamentando davvero i profili di conflitto). Questo, però, sarà un altro mondo. Chissà quale.

La misura del governo Meloni. Tetto al contante, oltre le illusioni e il moralismo. Alberto Cisterna su Il Riformista il  4 Novembre 2022

Certo non è stato un buon esordio. Inaugurare l’attività di governo con la proposta di innalzare il tetto del contante circolante a 10.000 euro ha concesso praterie alle opposizioni e a quanti guardano con istintiva diffidenza al primo gabinetto di destra della Repubblica. Ma insomma la frittata è fatta e tanto vale provare ad assaggiarla. Si dice che si raggiungerà probabilmente un’intesa tra le forze di governo sui 5.000 euro, la media ponderale europea oscilla intorno ai 3.000 euro; a occhio e croce la Commissione di Bruxelles avrà poco da ridire. Per comprendere a fondo la questione vanno evitate inutili tecnicalità e messi da parte facili moralismi.

E’ chiaro che la stragrande maggioranza degli italiani non circola con 5.000 euro in tasca e neppure con 3.000 e sarebbe ipocrita negare che la misura tende inevitabilmente a favorire la destinazione del denaro verso i micro-evasori (professionisti, artigiani e negozianti in primo luogo) e da lì verso il consumo. Sono due passaggi distinti. Se i consumatori pagano in nero – e ancora oggi lo fanno massicciamente soprattutto nelle transazioni con gli artigiani: dal meccanico all’idraulico, dal falegname al piccolo emporio – è evidente che, a fine giornata, gli incassi debbano avere una qualche destinazione. Escluso il mattone, per gli evidenti rischi che presenta, resta la necessità di portare il denaro contante da qualche parte. Una quota consistente confluisce in beni di consumo, spese quotidiane, autosostentamento; da micro-evasore a micro-evasore, spesso; da micro-evasore a conto corrente, con una certa cautela; da micro-evasore al conto corrente di parenti e coniuge, più frequentemente.

Non è raro, anzi, che medici e avvocati, geometri e ragionieri siano risucchiati nel circuito dell’evasione dal fatto che i propri clienti non sono disposti a pagare se non in contanti per non lasciare traccia delle proprie disponibilità economiche. Ed è vertiginoso il giro di auto, case, natanti e beni di lusso che sono da sempre intestati a società di comodo proprio per dissimulare ricchezze provenienti dall’evasione fiscale perpetrata per anni. Insomma, nessuno si illuda e nessuno si è mai illuso che impedendo la circolazione del contante d’incanto scompaia l’evasione fiscale. Tutti sanno che evasione ed elusione (soprattutto) riguardano in primo luogo l’Iva e non le imposte dirette, si annidano nelle frodi carosello, rimpinguano le casse in nero delle imprese commerciali extraeuropee (cinesi in primo luogo) presenti sul territorio nazionale. Sono cose che il premier conosce bene, tant’è che in piena campagna elettorale aveva proposto che le società extracomunitarie di nuovo conio fossero tenute a versare una fideiussione per garantire il pagamento dell’Iva prima di dissolversi come neve al sole. Miliardi di euro spariscono ogni anno e questa volta il contante c’entra poco o nulla.

Hanno tutti i registratori di cassa le imprese pirata cinesi, ma poi scompaiono non pagando l’Iva sulle transazioni; un danno enorme per l’Erario e un vulnus grave alla stessa sovranità nazionale. Chissà se il presidente Meloni intende bilanciare la proposta sul contante, a trazione leghista, con l’approvazione della sua idea sulla polizza che colpirebbe in primo luogo proprio le migliaia di imprese cinesi che operano illecitamente in Italia. Poi c’è la seconda parte del discorso. Ogni giorno un fiume di denaro in contanti attraversa il paese con lo spaccio delle sostanze stupefacenti. I consumatori certo non pagano le dosi con il bancomat e milioni di euro confluiscono nelle reti del traffico di droga seguendo canali che finora nessuno ha mai scoperto. La droga la si sequestra a tonnellate (lasciamo perdere in che modo), ma il denaro nessuno l’ha mai visto dove finisca. Si dovrà attendere qualche coraggioso e determinato procuratore della Repubblica per capirne di più. Si spera.

Nell’attesa il narcodenaro corre a dispetto di qualunque tetto al contante e certo nessuno sta a pensare che si possa parcellizzare questo fiume di liquidità in micro rivoli da 5.000 euro cadauno. Il provento delle droghe finisce altrove, probabilmente all’estero sia per pagare le partite importate sia per riciclare il denaro con minori rischi che in Italia. In realtà, per il riciclaggio, è il resto del mondo un gigantesco paradiso fiscale. A costoro non importa risparmiare sulle tasse, ma pulire il denaro e fare affari al riparo da ingombranti pericoli e la stessa cosa vale per corrotti e corruttori: le mazzette importanti non si pagano certo in Italia e men che meno in contanti.

Per chiudere. La circolazione del contante ha dei limiti è vero, ma essi hanno poco a che vedere con la lotta all’evasione e al riciclaggio. Far circolare il denaro comporta comunque la possibilità di una tassazione; certo l’ingiusta tassazione indiretta (Iva) in luogo della più giusta tassazione diretta e progressiva (Irpef), ma meglio di niente, visto i proclami decennali sul punto rimasti con pochi risultati. Nel fronte opposto, trova legittimazione e spazio l’ideologia populista e demagogica della sorveglianza generalizzata, l’opzione panottica degli inquisitori e dei moralisti che sotto sotto vorrebbero un paese assoggettato a controlli a setaccio fine e a maglie strette, per spiare in poche parole la vita dei singoli; perché alla fine questo succede con le carte elettroniche di pagamento.

Se servisse davvero, si potrebbe anche ragionare sui costi immani di questi protocolli sulla privacy dei cittadini e fare scelte consapevoli, ma siccome la struttura economica e produttiva del paese è pulviscolare e sfugge a ogni regola, tanto vale non ostacolare oltre misura la circolazione del denaro per poterlo intercettare e sanzionare se le sue fonti sono illegali e, comunque, tassarlo quando si indirizza su beni di consumo; beni che (a loro volta) diventano indici della capacità reddituale e appetibili per la fiscalità. Alberto Cisterna

“Con un tetto al contante a 5 mila euro l’evasione fiscale diminuirebbe”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Ottobre 2022. 

E' quanto sostiene Unimpresa: il livello più alto di evasione, con picchi superiori a 109 miliardi, si è registrato nel periodo che va dal 2012 al 2014, quando la soglia massima per i pagamenti cash era stata abbassata a 1.000 euro

La soglia più alta del “tetto al contante”, pari a 5.000 euro, fissata per il 2010, coincide con il livello più basso di evasione fiscale mai registrato nello scorso decennio, pari a 83 miliardi di euro. Mentre il livello più alto di evasione, con picchi superiori a 109 miliardi, si è registrato nel periodo che va dal 2012 al 2014, quando la soglia massima per i pagamenti cash era stata abbassata a 1.000 euro.

È quanto rivela un’analisi del Centro studi di Unimpresa, secondo la quale non è possibile individuare alcuna correlazione diretta tra l’andamento dell’evasione fiscale e l’evoluzione del cosiddetto “tetto al contante“: l’osservazione dei rispettivi andamenti negli ultimi 10 anni, infatti, non consente di indicare alcun nesso causale tra le modifiche alle norme relative all’utilizzo del denaro di carta per i pagamenti e la curva del gettito tributario sottratto all’amministrazione finanziaria annualmente. 

“Alzare a 5.000 euro l’utilizzo del denaro contante restituirebbe anzitutto un senso di libertà alle imprese e ai cittadini. Sono anche sicuro che una decisione di questo tipo, ci auguriamo arrivi il prima possibile, favorirebbe sopratutto il commercio e quindi i consumi, con effetti positivi per la crescita economica e quindi per il prodotto interno lordo. Sarebbe una decisione positiva e sono convinto che le imprese, soprattutto quelle più piccole, largamente indebolite dalla congiuntura sfavorevole, tornerebbero a guardare con fiducia al futuro, anche tornando ad assumere e creando cosi’ nuova occupazione”, commenta Paolo Longobardi presidente onorario di Unimpresa .

Secondo l’analisi del Centro studi di Unimpresa, nel corso del decennio che va dal 2010 al 2019, la soglia massima per l’utilizzo del denaro contante ai fini del pagamento e delle transazioni commerciali è stata più volte oggetto di correzioni e modifiche.

Nel 2010 si è registrato il livello più alto, quando il tetto al cash era a 5.000 euro, e proprio quell’anno l’evasione fiscale ha toccato la soglia più bassa con 83 miliardi successivi. Nel 2011, il tetto al contante è stato abbassato a 2.000 euro e l’evasione fiscale è salita a 104,8 miliardi di euro, con un incremento di oltre 21 miliardi rispetto all’anno precedente (+26%): quindi, cala il tetto al contante e sale l’evasione.

Negli anni successivi, la soglia per l’utilizzo del contante è stata ulteriormente ridotta a 1.000 euro, ma i “furbetti delle tasse” non si sono intimiditi: nel 2012 l’evasione fiscale è salita a 107,5 miliardi, nel 2013 ancora a 109,7 miliardi, nel 2013 era a 109,2 miliardi, nel 2015 a 106,1 miliardi. Nel 2016, poi, il tetto al contante è stato si nuovo alzato a 3.000 euro, ma questo fattore è rimasto una variabile indipendente rispetto all’evasione che quell’anno è rimasta stabile a 106,6 miliardi.

Nel 2017 il totale del denaro sottratto all’erario era a 107,3 miliardi, nel 2018 a 102,3 miliardi e solo nel 2019 si è registrata una riduzione più apprezzabile a quota 99,2 miliardi. Una riduzione, quest’ultima, tuttavia che non è in alcun modo stata favorita dall’aumento da 1.000 a 3.000 euro per la soglia dell’utilizzo del contante, definita peraltro già quattro anni prima. Redazione CdG 1947

Il tetto al contante non piace solo a chi vuole spiarci. Gianfranco Ferroni su Il Tempo il 28 ottobre 2022

Il popolo è sovrano. E, come insegnano al primo anno del corso di economia nelle università, «l'emissione della moneta da parte di uno Stato è un'estrinsecazione della propria sovranità, attraverso l'esercizio del potere di emettere o stampare moneta in linea con le proprie scelte di politica monetaria». In qualità di presidente del Consiglio, Giorgia Meloni ha difeso la sovranità parlando contro il «tetto al contante». Da anni se ne parla nelle stanze della Banca d'Italia, oltre che in quelle della Bce: «Il tetto al contante è un'offesa rivolta a chi emette legalmente, essendo una istituzione, la moneta». Ovvero le banche centrali. Con una campagna populista e fuorviante i contrari spacciano e diffondono la paura dell'evasione fiscale, che secondo questi oppositori del contante verrebbe facilitata dalla diffusione del cash: niente di più falso. La tracciabilità già esiste nelle banconote: ognuna ha un codice identificativo. Con un semplice lettore ottico al momento del pagamento si può sapere che «vita» ha avuto un pezzo da 50 euro, dalla sua nascita: certo, chi si mette a disposizione degli emittenti delle carte di credito darà sempre il suo contributo controla circolazione del contante, visto che la forza di quei gruppi è superiore a quella delle singole nazioni. Giganti contro formiche. Ma che a volte si incazzano.

Leggiamo cosa ha detto Fabio Panetta, componente del comitato esecutivo della Bce, in occasione della conferenza internazionale sul contante della Deutsche Bundesbank dal titolo «Cash in times of turmoil»: «L'Eurosistema è impegnato a preservare il ruolo del contante. Stiamo adottando misure concrete affinché esso rimanga ampiamente accessibile e accettato come mezzo di pagamento, anche qualora fosse introdotto l'euro digitale». Non solo, perché ha ricordato che all'inizio della pandemia «i consumatori, specialmente quelli con basso reddito, hanno ridotto gli acquisti di beni e servizi e aumentato le scorte di attività finanziarie liquide; ciò ha alimentato la domanda di contante, che rappresenta l'attività finanziaria in assoluto più liquida e quindi, per la sua stessa natura, maggiormente adatta a soddisfare la preferenza per la liquidità espressa dai cittadini». Tra l'altro, i soloni anti-contante dimenticano che per mesi le filiali delle banche sono state poco accessibili, e solo su prenotazione. Con una importante annotazione di carattere sociale, Panetta ha rilevato che «la carenza di contante danneggerebbe sia i commercianti sia i consumatori, soprattutto quelli con basso reddito. Difficoltà emergerebbero in particolare per i segmenti della popolazione, quali gli anziani o le persone con un minore livello di istruzione, che preferiscono il contante ad altri mezzi di pagamento».

Anche perché molti dimenticano che non è obbligatorio avere un conto corrente bancario, visto che non si tratta di un servizio gratuito. In Germania, dove il contante è rivestito di sacralità, in tanti non sono mai entrati in una banca e si fanno consegnare lo stipendio «cash». E acquistano anche automobili costose pagando con le banconote. Ma la cosiddetta tracciabilità, si sa, interessa coloro che vogliono mettere sotto la lente d'ingrandimento la vita di ognuno di noi, conoscendone tutte le spese. Dati personali che dovrebbero essere venduti volontariamente a peso d'oro, e che invece servono ai grandi gruppi per orientare le scelte dei consumatori. Chi ha a cuore le sorti del proprio Stato difende anche la moneta che utilizza, e che viene emessa dalle istituzioni e non dai privati. Per i sovranisti più rigidi, tra l'altro, il tetto, invece che al contante, andrebbe riservato alle spese effettuabili con carte di credito e di debito.

Tutta la verità sul tetto al contante. Andrea Muratore il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tutta la verità sul tetto al contante. Battaglia ideologica non di secondaria importanza, ma che non c'entra nulla con le strategie anti-evasione per fermare il sommerso: lo confermano i dati europei

Sul tetto al contante la Lega ha, per mezzo dell'onorevole Alberto Bagnai, depositato una proposta di legge che alza il tetto da 2mila a 10mila euro per i pagamenti. E Matteo Salvini è tornato alla carica confermando quanto dichiarato da Bagnai e dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni al Senato sull'inesistenza di un nesso diretto tra tetto al contante ed evasione.

Salvini: "Contante e riciclaggio, nessuna correlazione"

"L'evasione fiscale va perseguita, soprattutto la grande evasione fiscale miliardaria, ma non si abbassa perseguendo e perseguitando i piccoli risparmiatori e gli acquirenti che vogliono e possono far la spesa pagando in denaro contante", ha detto il Ministro delle Infrastrutture e segretario leghista in un video di Twitter.

"Non c'entra nulla il pagamento in contanti con l'evasione fiscale o il riciclaggio tanto che", ha aggiunto Salvini, "ci sono nell'attuale Unione Europea Austria, Cipro Estonia, Finlandia, Germania, la virtuosa Germania, l'Ungheria, la pericolosa Ungheria, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Polonia" e "il Regno Unito da fuori, che non hanno nessun limite di spesa in denaro contante".

Il contante in Europa

Salvini elenca un ampio numero di Paesi con fattispecie assai diverse. In Germania ad esempio un limite tecnicamente c'è ma più operativo che concreto: chi vuole spendere in contanti più di 10mila euro tutti assieme deve dichiarare le motivazioni dell'acquisto. In Regno Unito invece è obbligo per chi compie pagamenti superiori alle 10mila sterline di registrarsi come "High Value Dealers". Ma in generale quanto detto dal segretario del Carroccio è corretto: tutti i Paesi in questione non hanno limiti di fatto alla spesa in contanti.

E anche Malta, che ha recentemente introdotto un limite di 10.000 euro sulle transazioni in contanti , lo ha limitato a transazioni sensibili per la vendita di immobili e oggetti di valore. Introdotto nella legge lo scorso marzo, questo limite è nuovo per Malta – poiché in precedenza, qualsiasi somma di denaro poteva passare di mano.

"Anzi", nota Salvini, "il Paese europeo che ha un tasso di evasione superiore a tutti gli altri è la Grecia, che ha la spesa in contanti più bassa di tutto il continente", sottolinea. E "quindi in un momento di difficoltà economica per cittadini, imprenditori, artigiani e commercianti, obbligare all'utilizzo della carta di credito tutti quanti significa arricchire le banche, perdere clienti e perdere business", afferma il vicepremier. Il pagamento massimo consentito in contante in Grecia è di 500 euro. E purtroppo per Atene il Paese resta ancora quello maggiormente soggetto alla piaga dell'evasione. Stimare il peso dell'evasione fiscale sul Pil di ogni Paese è complesso: ma tra le economie europee Atene si posiziona indubbiamente ai primi posti, con un sommerso paragonabile al 30% del Pil. La Germania, con un sommerso al 13,3% del Pil, è meglio piazzata di Spagna e Portogallo, sopra il 18%, che un tetto al contante lo hanno.

E del tema se ne è occupata anche la Bce. Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Banca centrale, in un intervento ufficiale ha ricordato per esempio che "le banconote rappresentano l'unico modo per garantire l'inclusione finanziaria di ampi strati della popolazione". "Il ruolo del contante sia come mezzo di pagamento che come riserva di valore, va salvaguardato con politiche attive», ha spiegato ancora Panetta. Uno dei timori è che tetti troppo bassi all'uso del contante, ne riducano troppo la circolazione rendendone quindi l'uso più difficile penalizzando proprio la parte più fragile dei cittadini. In momenti di crisi, come durante la pandemia, ha ricordato sempre Francoforte, l'uso del contante è paradossalmente aumentato.

Il top manager dell'Eurotower ha ricordato che "nell'area dell'euro ci sono 13,5 milioni di adulti privi di un conto bancario che effettuano quasi esclusivamente pagamenti in contante". Il contante, insomma, non è il diavolo "e per gli strati più poveri della popolazione resta l'unico strumento gratuito a disposizione". Panetta è peraltro il massimo sostenitore dell'euro digitale nei vertici Bce, dunque la sua opinione è decisamente pesante.

Una questione di libertà

In generale, il tetto al contante non sembra statisticamente significativo come strumento con una correlazione diretta col contrasto all'evasione. Questo perché non ha inciso minimamente sulla questione di cui l'evasione è la derivata prima: il sommerso. Meloni ha citato al Senato l'ex Ministro dell'Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan, che nel 2015 rubricò il dibattito sul tetto al contante, alzato allora dal governo Renzi da mille a 3mila euro, come una "questione ideologica". Padoan nel 2019 ha poi dichiarato di essere contrario alla misura che si trovò a dover varare. E certamente l'ideologia in economia vuole la sua parte laddove una componente politica vuole promuovere una visione del sistema più consona alla sua visione. Ma interpretare il "dibattito sul contante" come ideologico non ha solo significato critico.

"Il contante è uno strumento di civiltà e inclusione finanziaria, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione", un simbolo di libertà secondo Ranieri Razzante, docente di legislazione antiriciclaggio nell'università di Bologna e tra gli autori delle norme antiriciclaggio oggi vigente. Razzante all'AdnKronos ha detto che "essere contro l'innalzamento della soglia per la sua circolazione va spiegato ai milioni di italiani che lo utilizzano e soprattutto a quelli che non hanno associato al conto corrente bancario una carta di credito, circa 15 milioni per essere attendibili". Per quale motivo un cittadino che lavora, guadagna onestamente, paga le tasse, non deve poter decidere liberamente e con quali modalità utilizzare e spendere i suoi soldi? Perché lo Stato deve imporre ai cittadini come devono disporre dei propri soldi, anche a coloro che non possono ancora seguire le linee guida delle regole nazionali fino in fondo?

Il sommerso certificato dall'Istat, del resto, non risulta diminuito per effetto del tetto al contante, e questo purtroppo non è mai avvenuto quantomeno dal 2000 in poi, nonostante le variazioni al limite di circolazione, mentre per Razzante "sull'abitudine a richiedere scontrini e fatture a fronte dei pagamenti effettuati si dovrebbe aprire un capitolo a parte, che impatta poco sulla tipologia di mezzo di pagamento utilizzato". E del resto anche in letteratura economica c'è consenso sul fatto che la correlazione tra pagamenti in contante e evasione può essere colta solo a livelli altissimi e non riguardanti le spese ordinarie dei cittadini. La soglia di 10mila euro di Malta, "Tortuga" dell'elusione e in cui in passato nei settori ove ha stretto vigeva la più totale anarchia. Non per ogni bene: anche perché, e questo vale per l'Italia, sono ben pochi i cittadini chiamati a avere effettive opportunità di spesa in più a prescindere che la soglia sia di 2mila o di 10mila euro. Il vero portato della legge proposta dalla Lega avrà infatti, qualora la proposta divenisse realtà, più impatti ideologici e di metodo che risvolti concreti.

Il vero problema: l'elusione dei giganti senza tasse

La questione che si può porre, e che è sempre evitata nei dibattiti sull'evasione fiscale, è il fatto che penalizzare i contanti in nome di una crociata fine a sé stessa non aiuta a cogliere il vero punto del problema. E cioè che non è l'economia sommersa, in Italia quantificabile tra il 10 e il 15% del Pil, la massima fonte di evasione fiscale, quanto le pratiche di elusione praticate soprattutto dai grandi gruppi multinazionali.

Tutto ruota intorno ai diversi trattati stipulati dall’Italia in passato al fine di evitare a un’azienda di dover pagare le tasse in due Paesi differenti ma che hanno stipulato l’accordo. Su cui si può giocare con la strategia di trasferire la sede fiscale, che è solo uno degli artifici a disposizione. Come ha spiegato Milena Gabanelli su Dataroom del Corriere della Sera, infatti, la seconda manovra possibile è quella del cosiddetto transfer pricing: ” transazioni economiche (spesso fittizie) all’interno di un gruppo multinazionale (come prestiti, cessione di marchi o brevetti, servizi assicurativi), il tutto gestito da una controllata che ha sede in un paradiso fiscale”.

Infine, terza e ultima strategia è quella estremamente aggressiva sfruttata dai giganti del web in Europa: fatturare nel Paese “di comodo” tutti i ricavi di un’area geografica e contribuire così a creare quella posizione dominante contro cui più volte le autorità europee si sono lanciate senza cambiare le carte in tavola. Prima del Covid la concorrenza fiscale sleale generava evidenti vantaggi per taluni Paesi: il Lussemburgo, paese di circa 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del PIL, a fronte del 2% dell’Italia; e in virtù del sistema fiscale penalizzante l’Italia attira investimenti esteri diretti pari al 19% del PIL; il Lussemburgo pari a oltre il 5.760%, l’Olanda al 535% e l’Irlanda al 311%.

Tutte queste problematiche sono ben più complesse e difficili da risolvere di quanto si vorrebbe fare colpendo unicamente il tetto al contante. Battaglia che, aveva ragione Padoan, è ideologica, ma non da sottovalutare, in quanto capace di affermare una linea di controllo delle risorse da parte della cittadinanza che lavora e produce, sottraendola ai circuiti immateriali che proprio del rapporto di dipendenza degli utenti si nutrono per conquistare posizioni dominanti. Ma che al contempo, ovviamente, non c'entra con le strategie di primo piano per combattere elusione e sommerso, che passano per partite ben più grandi.

·        Il Leasing.

Vantaggi e svantaggi: quello che c'è da sapere sul leasing. I contratti leasing sono di diversi tipi e hanno vantaggi anche di tipo fiscale. Si adattano a una vasta platea di consumatori ma non sono del tutto esenti da aspetti negativi. Giuditta Mosca il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Il leasing è un contratto che permette, dietro pagamento di un canone, di usare un bene del quale non si ha la proprietà. È noto ai più soprattutto perché la formula del leasing è molto usata per l’acquisto di veicoli ma ne esistono di diversi tipi e, di nature tanto diverse tra loro, da avere persino scomodato la Cassazione per redimere alcune delle difficoltà che ha portato con sé. La parola leasing, dall’inglese to lease (affittare, dare in locazione), non è semplicemente un contratto di affitto perché, al termine, il leasing consente al consumatore di riscattare il bene di cui ha fatto uso.

Le tipologie di leasing

Il leasing operativo e quello finanziario sono distinti tra loro dal numero di intermediari. Nel leasing operativo è chi produce i beni a concederli in locazione. Nel leasing finanziario il consumatore si rivolge a un’azienda specializzata (per esempio una banca o una finanziaria) che procederà ad acquistare il bene che gli serve per poi concedergliene l’uso in leasing.

In questo ultimo scenario il ruolo del produttore è marginale ai fini del leasing e può comunque assumere uno spessore di rilievo, accordandosi con la finanziaria per riacquistare a un prezzo ridotto il bene stesso alla scadenza del contratto di leasing.

Si comincia quindi a intravvedere una certa complessità che ha impegnato il legislatore e che ha creato alcuni dissidi pratici e interpretativi.

La natura giuridica

Il leasing operativo è di facile interpretazione e quindi lascia dietro di sé pochi strascichi, si tratta di un contratto di locazione propriamente detto. Il leasing finanziario ha implicazioni diverse, perché raggruppa più contratti autonomi e distinti – per esempio quello tra il produttore e la finanziaria e tra questa e il consumatore finale e questo può dare luogo a dispute di ordine giuridico che arrivano fino al massimo livello di giudizio interno come dimostrano le tante sentenze della Cassazione civile. Per meglio contestualizzare ne citiamo una, la sentenza 5623 del 15 ottobre del 1988, secondo la quale i canoni leasing scontano anche il prezzo del bene locato e, nel caso di una risoluzione anticipata del contratto, inserendo nel computo totale sia i canoni pagati sia il bene restituito, la finanziaria potrebbe conseguire un indebito arricchimento.

La Cassazione è intervenuta più volte nel corso degli anni fino a distinguere, dal punto di vista giuridico, due diverse forme di leasing, quello tradizionale (detto anche di godimento) e nuovo (traslativo). Nel primo caso il canone pagato da chi utilizza il bene include una perdita di valore del bene stesso, nel caso del leasing traslativo il canone è fissato in base all’uso che si fa del bene e tenendo conto anche del fatto che il bene medesimo conserva il suo valore nonostante l’uso o il passare del tempo. Può, per esempio, essere il caso di un capannone industriale.

Caratteristiche dei contratti di leasing

A prescindere dalla tipologia di leasing e dal suo campo di applicazione (beni mobili o immobili) ci sono delle caratteristiche comuni, tra queste spiccano:

Il canone iniziale, ovvero una rata maggiorata che funge da deposito cauzionale e tutela la finanziaria nel caso in cui il consumatore finale non pagasse il dovuto

Le rate che il consumatore paga (solitamente) con cadenza mensile

La rata finale, detta anche “riscatto”, con la quale il consumatore può decidere se acquistare il bene pagando un prezzo stabilito in fase contrattuale.

I vantaggi e gli svantaggi del leasing

Il leasing è uno strumento a cui si fa ricorso quando, per diversi motivi, non si vuole o non si può comprare il bene che è al centro del contratto.

Tra i pro vanno annoverati:

Pagare un canone in luogo del prezzo totale del bene rende accessibile a molti qualcosa che altrimenti sarebbe appannaggio di pochi: l’esempio classico è quello di una vettura di lusso

Permette di acquistare il bene alla fine del contratto di leasing

Permette anche di non acquistare il bene e questo è un vantaggio soprattutto se questo diventasse obsoleto o particolarmente usurato

Aziende e partite Iva possono portare in detrazione il canone del leasing.

Tra gli svantaggi più evidenti ci sono questi due:

Il bene preso in leasing per lunghi periodi tende ad avere un costo superiore a quello di acquisto

Il bene resta di proprietà della finanziaria e il consumatore ne esercita i diritti legati al possesso.

La scelta tra l’acquisto e il leasing è quasi sempre condizionata da due fattori: la liquidità del consumatore e l’obsolescenza del bene, entrambi limiti che il leasing permette di superare.

·        I Bitcoin.

Cos’è e come funziona la tecnologia Blockchain? Il Tempo il 15 novembre 2022

Negli ultimi anni, una delle innovazioni che ha suscitato maggiore entusiasmo è senza dubbio la tecnologia blockchain. 

Le blockchain sono la tecnologia di base per decine di criptovalute (scopri le migliori piattaforme criptovaute italia), infatti questa tecnologia è stata creata inizialmente come sistema di pagamento. Tuttavia gli sviluppatori stanno cercando di incorporare questa tecnologia in diversi settori come quello finanziario, bancario o addirittura medico.

Per comprendere il perché di questo crescente interesse è utile capire cos’è di preciso la blockchain, come funziona e perché ha così tanto valore. 

Cos’è la blockchain?

Una blockchain è un registro digitale decentralizzato protetto da crittografia. Con l'aiuto della tecnologia blockchain, le persone possono effettuare transazioni tra loro in modo sicuro senza la necessità di un intermediario come una banca, un governo o un'altra terza parte. Per questo la blockchain è una tecnologia peer-to-peer.

I blocchi che riuniscono una serie di transazioni, sono collegati attraverso la crittografia in una rete. Chi si occupa di verificare le transazioni, i validatori, verificano in modo indipendente ogni transazione, la marcano temporalmente e la aggiungono alla catena (chain) di dati. I dati non possono essere modificati una volta registrati.

La tecnologia blockchain ha implicazioni molto interessanti per i contratti legali, le transazioni immobiliari, le cartelle cliniche e qualsiasi altro settore che debba autorizzare e registrare una serie di azioni, nonostante sia stata resa nota principalmente per l'utilizzo in aumento di Bitcoin, Ethereum ed altre criptovalute. 

Come funziona la blockchain?

Scopriamo in questo paragrafo come funziona la tecnologia blockchain, nota anche come tecnologia a “libro mastro distribuito”. Nel caso del Bitcoin, le transazioni vengono inserite ed inviate ad una rete di computer molto potenti, chiamati nodi. Utilizzando algoritmi informatici, i nodi della rete competono tra loro per confermare la transazione, stiamo parlando del cosiddetto mining di Bitcoin. Il blocco di transazioni da confermare e le relative ricompense in BTC, viene assegnato al miner che per primo risolve il problema aritmetico.

La quantità di transazioni determina l'aumento o la diminuzione delle commissioni, chiamate fee. Ogni transazione deve essere approvata dalla maggioranza della rete, le modalità di approvazione dipendono da blockchain a blockchain e sono espresse nel protocollo. Infine, utilizzando un' “impronta” crittografica nota come hash, il blocco che contiene le transazioni viene collegato in modo permanente a tutti i blocchi precedenti di transazioni Bitcoin e la transazione è completata.

Tutti i nodi della rete tengono traccia di ogni sviluppo e transazione della rete di Bitcoin. Le transazioni effettuate su blockchain sono pseudonime. Non vengono infatti trascritti i nomi di chi esegue le operazioni ma i codici dei wallet, pertanto le transazioni sono del tutto trasparenti nonostante la visibilità pubblica dell'indirizzo e della cronologia delle transazioni dei portafogli di criptovalute.

Le possibilità di errore con questa tecnologia sono ridotte perché l'interazione umana durante la transazione è minima. È estremamente difficile falsificare o alterare le informazioni, poiché ogni transazione deve essere verificata e registrata dalla maggioranza dei nodi della rete.

Il più grande vantaggio di questa tecnologia è però indubbiamente la decentralizzazione, nessun ente governativo è responsabile o emette Bitcoin e qualsiasi altra criptovaluta. Inoltre, ciò significa che nessun governo o organizzazione potrà mai decidere il futuro di una blockchain pubblica. L'assenza di intermediari riduce i costi perché non ci sono commissioni di transazione da parte di terzi. L'efficienza temporale è un altro enorme vantaggio del funzionamento della blockchain, a differenza delle banche e di altri intermediari, la blockchain è disponibile per le transazioni 24 ore su 24, ogni giorno dell'anno.

«Ho creduto ai social e ci ho rimesso i miei risparmi»: il popolo dei rovinati dalle criptovalute. Negli Usa il fallimento di Celsius e il crollo di TerraUsd. In Italia, l’inchiesta su Nft. E poi il dimezzamento del valore del bitcoin e il pesante calo delle altre. Le criptovalute presentate spesso come un eldorado perdono consensi, tra truffe e furti. E c’è chi chiede regole più severe. Alessandro Longo su L'Espresso il 29 Agosto 2022. 

«Ho creduto a tutti gli spot, ai social media e alla pubblicità secondo cui Celsius era un conto di risparmio ad alto rendimento e a basso rischio. Ci è stato assicurato che i nostri fondi sono più sicuri presso Celsius che in banca. Questi soldi sono i miei risparmi di una vita». Così Raphael DiCicco, americano di origini italiane, ha scritto in una lettera rivolta a una corte dello Stato di New York, dopo aver perso quasi 16mila dollari per il fallimento di Celsius, piattaforma che prestava soldi al pubblico in forma di criptovalute.

Quanto ne sapete di criptovalute? Scopritelo rispondendo al nostro quiz. Giulia Cimpanelli su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

Quando sono nati i Bitcoin? Come si possono compravendere? Come funziona la blockchain? Tutte le informazioni principali sulle valute digitali. 

In questo periodo il valore delle criptovalute è in caduta. Basti pensare al Bitcoin, che nel 2021 ha raggiunto i 67mila euro e che oggi tocca appena i 20mila. Le crypto destano la curiosità di molti ma sono da "maneggiare" con cautela: la loro volatilità non ne fa certamente un asset in cui investire con leggerezza. Per farlo, oltre a differenziare con attenzione il proprio portafogli, bisogna in primis conoscerle bene. Ecco un questionario sui "fondamentali" delle criptovalute.

Il fenomeno in espansione. Bitcoin senza controllo, c’è allarme sulle criptovalute che non sono moneta legale. Angelo De Mattia su Il Riformista il 22 Maggio 2022. 

È uno dei casi in cui gli studi, le analisi e le sia pur iniziali ricerche abbondano, ma non si passa ancora a trarne le conseguenze sul piano delle regole e dei controlli. A giorni alterni si lanciano allarmi che, però, restano inascoltati da chi – organi, istituzioni nazionali e internazionali – dovrebbe assumere al riguardo coerenti decisioni. Ci si riferisce alla cosiddette criptovalute o valute virtuali che vengono scambiate secondo un tasso di cambio, per esempio, con l’euro o il dollaro su piattaforme on-line e che, in effetti, non sono vere e proprie monete, ma asset speculativi, come ormai sia la Federal Reserve, sia la Bce le definiscono.

Sono diverse migliaia, nel mondo, i cripto asset, in particolare i bitcoin ma anche gli stablecoin strettamente legati a una valuta a corso legale, negoziati su piattaforme il numero delle quali è in crescita. I “bitcoin”, come accennato, non essendo una moneta legale, non hanno potere liberatorio o solutorio nelle transazioni; non vige, dunque, l’obbligo della loro accettazione nelle negoziazioni. Solo nel Salvador il bitcoin è stato elevato al rango di moneta legale. In alcuni Paesi, invece, è stato dichiarato come non impiegabile nelle transazioni, in sostanza, illegale. Finora, le autorità monetarie hanno lanciato caveat sui rischi dell’investimento in questi asset, data l’oscillazione frequente del loro valore, nonché l’inesistenza di un’adeguata trasparenza su come si formano e sulla loro negoziazione. In particolare, mancano tuttora, come si è accennato, regole e controlli.

In questi giorni, l’argomento è tornato di attualità in relazione ai riflessi sui mercati dell’andamento e delle previsioni dell’inflazione, nonché della corrispondente rilevata volatilità dei bitcoin. Concorrono anche le ripercussioni della guerra della Russia contro l’Ucraina e le sue prospettive. È da circa due anni che soprattutto il presidente della Consob Paolo Savona insiste sulla necessità di un intervento normativo a livello europeo e internazionale, non mancando di rappresentare pure le problematiche nel campo digitale che si presentano per poter accedere alla conoscenza della formazione di questi asset e, dunque, per evitare che l’auspicata regolamentazione diventi l’Achille che insegue la tartaruga (dello sviluppo delle tecnologie, in questo caso) senza mai raggiungerla, come nel paradosso di Zenone di Elea.

A livello europeo, sono in discussione tre ipotesi di regolamenti sul fintech in generale che affrontano anche la materia ora in esame. Per la sua efficacia, data la diffusione del fenomeno a livello globale, una disciplina dovrebbe essere adottata – anche se si è in ritardo – in campo internazionale, partendo, ad esempio, dal G7 e dal G20. Poi vi è la competenza europea che comunque, in mancanza di misure globali, dovrebbe accelerare l’adozione di un’adeguata regolamentazione: un’esigenza, questa, che finora non sembra essere stata colta come si dovrebbe. Ma, se ai predetti livelli non si arriva colpevolmente a risultati in tempi brevi (che sono lunghi se si pensa da quanto tempo sarebbe stato necessario agire), allora, pur nella convinzione della parzialità della misura e della sua efficacia, una disciplina del fenomeno bisognerà adottarla a livello nazionale. L’avere istituito un albo, nel quale debbono iscriversi coloro che operano in questo campo, è un piccolo passo avanti, ma privo della necessaria efficacia se mancano regole e vigilanza sull’operare.

Tutt’altra cosa è, invece, il progettato euro digitale, innanzitutto perché sarà una moneta a corso legale che si affiancherà a quella cartacea con l’osservanza di criteri e limiti, sulla cui istituzione si sta lavorando nella Bce sotto il coordinamento dell’autorevole componente italiano del Comitato esecutivo, Fabio Panetta, il quale, nei giorni scorsi, ha esposto un’analisi efficace dei rischi dei cripto-asset. Leggeremo, sperabilmente nelle Considerazioni Finali che il governatore di Bankitalia leggerà nell’incontro del prossimo 31 maggio, la posizione che l’Istituto non dovrebbe trascurare di esporre in questo campo. Comunque, è l’ora di agire. Già in altre epoche della storia si è evitato che alcuni fenomeni si stabilizzassero e sviluppassero senza norme regolatrici (titoli atipici, fondi comuni di investimento). Nel frattempo, la panoplia per intervenire da parte dei Governi, dei Parlamenti, delle Autorità monetarie è aumentata. Il fenomeno in questione non può rimanere ancora senza risposte: lo impone, prima di tutto, l’art.47 della Costituzione sulla tutela del risparmio.

·        I Bonus.

Antonio Castro per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2022.

Fanno gola 230 milioni di euro. Anzi in 6 anni si sono spesi oltre 1 miliardo, 76 milioni e qualche spicciolo. Soldi destinati a 2.449.109 ragazzi nati dal 1998 in poi. Il bonus introdotto dal governo Renzi è giunto quest’anno alla sesta edizione. 

È stato partorito come agevolazione per i cittadini italiani maggiorenni a cui lo Stato eroga del denaro sotto forma di buono del valore di 500 euro «al fine di sostenere la diffusione della cultura mediante l'acquisto di prodotti e attività culturali di vario tipo». Accedere al regalo per la maggiore età è facile: basta scaricare l'applicazione dedicata (18App), dotarsi dello Spid (identità digitale), e scegliere come spendere la "dote" culturale.

Si possono acquistare nell'arco di 12 mesi - libri, biglietti di spettacoli e cinema, musei, mostre ed eventi culturali, biglietti per visitare monumenti, gallerie, aree archeologiche, parchi naturali. Oppure cd, dvd, musica online, iscriversi a corsi di musica, di teatro, di lingua straniera o sottoscrivere abbonamenti a quotidiani e periodici anche in formato digitale. 

Mediamente hanno richiesto il "bonus 18" dai 350mila ai 441mila ragazzi. Basta farsi due conti per intuire l'entità dell'impegno finanziario profuso dal ministero della Cultura e dalla presidenza del Consiglio. Anche perché per accedere al beneficio non esistono limiti di reddito familiare: mamma e papà possono guadagnare 1.000 euro al mese o 10 milioni per il ragazzo non c'è differenza: sempre 500 euro può spendere al compimento dei 18 anni.

La maggior parte dei diciottenni che ne hanno usufruito ha optato per l'acquisto di libri (il 78%), per andare al cinema o a teatro, per visitare una mostra o un museo. L'emersione delle truffe nell'utilizzo del credito giovani ha portato il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano a rivedere i sistemi di elargizione. L'intento è di realizzare una vera "carta della cultura" che «superi ed elimini ogni criticità del passato».

Probabilmente dal prossimo anno si terrà conto anche del reddito familiare (secondo i parametri Isee), fatta salva la dotazione complessiva già iscritta a bilancio. Sta di fatto che bisogna intervenire - nono stante le polemiche politiche dal attizzate Pd -anche per ché le inchieste per truffa spuntano come funghi. 

L'ammontare complessivo dei casi già notificati all'amministrazione relativi ad usi indebiti da parte di esercenti (e diciottenni) è, ad oggi, di circa 9 milioni di euro. E i 9 milioni rappresentano appena la punta dell'iceberg visto che si tratta della effettiva restituzione degli importi indebitamente percepiti dagli esercenti. La Polizia Postale sta anche indagando su un filone nuovo: vale a dire truffe su segnalazione di neo diciottenni che hanno denunciato l'utilizzo a loro insaputa del bonus assegnato.

I casi più eclatanti? Quello di due commercianti napoletano: marito e moglie avevano messo in piedi una vera e propria organizzazione criminale, con tanto di "adescatori" (pagati in percentuale), per intercettare la platea degli aventi diritto. 

In 6 anni erano riuscite a movimentare da soli 1,5 milioni di euro, falsificando le fatture elettroniche inviate alla Società Consap. A Catanzaro una sola società aveva dichiarato operazioni per 1,7 milioni. A Jesi è scattato un decreto di sequestro preventivo per oltre 758mila euro. L'amministratrice della società è stata condannata a 8 mesi di reclusione (pena sospesa) dal tribunale di Ancona. E pure i ragazzi sono stati multati. Ed è solo l'inizio...

I meccanismi delle frodi sul bonus cultura. Validazione dei buoni per compravendite mai avvenute, passaparola per accalappiare i titolari delle agevolazioni, errata applicazione delle aliquote Iva. I magistrati di Napoli e Catanzaro spiegano il funzionamento degli illeciti legati al 18 App, che potrebbe essere ritoccato in manovra. Carmelo Rapisarda su Agi l’11 dicembre 2022

AGI - Validazione dei buoni per compravendite mai avvenute, 'reclutamento' dei titolari del bonus con catene di passaparola per indurli alla spendita illegale e a intascare una percentuale, errata applicazione delle aliquote Iva sui beni acquistati con i voucher: sono alcuni dei meccanismi truffaldini emersi da recenti inchieste della magistratura di Napoli e di Catanzaro sul bonus cultura 18 App. Frodi ai danni dello Stato di importo rilevante, come risulta dagli atti giudiziari in possesso dell'AGI: quasi 600.000 euro a Napoli, e 1,4 mlioni di euro a Catanzaro.

Truffe che "sono state possibili solo con il concorso volontario e consapevole dei neo maggiorenni destinatari del bonus, che si prestavano a negoziarlo in maniera artificiosa e truffaldina", scrive il Gip di Napoli, Antonio Baldassarre, nella sua ordinanza del 18 maggio 2022 ha disposto l'arresto di varie persone, tra le quali il titolare di un negozio di informatica e telematica e sua moglie, e il sequestro di un importo pari al valore delle somme truffate allo Stato, ovvero 590.152 euro, a carico di 16 indagati.

Il provvedimento del Gip si basa su indagini della Guardia di finanza, che hanno messo in luce, come si legge nell'ordinanza, l'esistenza di "una organizzazione stabilmente destinata all'accettazione e successiva validazione dei buoni del valore di 500 euro ciascuno", e alla successiva emissione di fattura "giustificandola con la compravendita, in realtà mai avvenuta, di beni funzionalmente destinati alla spendita del bonus". Un sistema con cui gli indagati, secondo il Gip, "inducevano in errore la Consap".

L'organizzazione napoletana ruotava attorno al negozio dei due coniugi, e alle figure che il Gip definisce "capo maglia", ossia il soggetto che si incaricavano "di raccoggliere presso i propri conoscenti i buoni". Uno di questi "capi maglia", che utilzava per i contatti con i diciottenni titolari del bonus il cellulare della madre, secondo l'accusa ha guadagnato con le truffe oltre 300.000 euro.

I truffatori si lamentano delle tasse

Agli atti dell'inchiesta ci sono molte conversazioni su WhatsApp tra i truffatori, che negoziavano anche la spartizione: il 70% andava al "capo maglia", il 30% agli altri. I pagamenti avvenivano con bonifico bancario. In una delle conversazioni su WhatsApp un "capo maglia" e il suo interlocutore si lamentano persino della complessità delle procedure per la validazione e liquidazione dei bonus cultura, e delle tasse "che sono tantissime", e si lamentano: "questo è lo Stato italiano, benvenuto nello Stato italiano". Commenti che il Gip stigmatizza come "desolante risentimento nei confronti dello Stato italiano che impone il pagamento delle tasse!"

Il giudice Francesca Rinaldi, del Tribunale Civile di Catanzaro, invece, in un porvvedimento del 19 novembre 2021, dispone il sequestro di somme per 1.440.019 euro, nell'ambito di una causa intentata dal ministero della Cultura contro il titolare di una società accusata di "un sistematico utilizzo del bonus per beni in alcun modo riconducibili nelle categorie previste" dal Dpcm sulla 18 App. In sostanza, venivano negoziati "beni descritti come libro o e-book ma registrati come cessione ad aliquota ordinaria del 22% mentre gli unici beni che la società avrebbe potutto legittimamente cedere con i voucher 18 App sono esclusivamente i beni sottoposti a regime agevolato del 4%".

In altre parole, spiega il magistrato, la societa' "ha validato buoni di cui al cosiddetto bonus cultura a fronte della vendita di beni appartenenti a categorie diverse rispetto a quelle per le quali il bonus era invece utilizzabile, con conseguente illecita appropriazione del complessivo importo di 1.440.019,85 euro, pari alle somme versate dal ministero a fronte delle dichiarazioni non veritiere fornite" dalla società.

Bonus e benefit per chi fa più figli nella Ue: zero tasse, oltre 600 euro a famiglia e auto in regalo. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2022.

L’Italia fa pochi figli ed è diventata la grande malata d’Europa. Record negativo nel 2021: appena 399.431 nascite (quasi il doppio i decessi, 709 mila persone). Il tasso di fertilità totale, ovvero il numero medio di bambini per donna in età fertile, è di 1,24, il più basso dopo Malta (1,13) e Grecia (1,19), molto indietro sia rispetto alla media Ue (1,5) sia ai Paesi più simili per ricchezza nazionale e demografia: Germania (1,53) e Francia (1,83). Ormai il problema è strutturale.

Proiezioni fosche per il futuro

La discesa del tasso di fertilità in Italia è un fenomeno che viene da lontano. Dal 1980 l’Italia è sotto i due figli per donna, soglia che assicura a una popolazione la possibilità di mantenere costante la propria struttura. L’emorragia è aumentata dal 2015, anno in cui per la prima volta si è scesi sotto le 500 mila nascite. Poi è arrivata la pandemia che ha portato il tasso ancora più giù. Se il trend negativo dovesse proseguire – stima l’ultimo rapporto Istat sulle previsioni demografiche – ci ritroveremmo nel 2070 con una popolazione di 47,7 milioni di persone, 11,5 milioni in meno rispetto a oggi (Qui la proiezione).

Gli investimenti in Italia e nella Ue

L’Italia è uno dei Paesi europei che spende meno per le politiche di sostegno alla famiglia e alla natalità. Nel 2019 ha investito appena l’1,1% del Pil (circa 20 miliardi) contro il 3,3% della Germania (116 miliardi) e il 2,3% della Francia (62 miliardi). Gli unici che fanno peggio sono Cipro (1% del Pil) e Malta (0,8%). In totale la spesa in tutta la Ue per assegni familiari e figli è stata di 315 miliardi di euro, pari al 2,3% del Pil europeo. Una prima inversione di tendenza è arrivata con il governo Draghi che nel 2022 ha aumentato la spesa per le politiche di sostegno alla famiglia all’1,4% del Pil (circa 26 miliardi, 6 in più) e ha introdotto l’assegno unico e universale (Auu). L’Auu è una misura universalista (va a tutte le famiglie con figli), strutturale (finanzierà il bambino fino ai 18 anni di età, se studia o cerca lavoro fino a 21 anni) e progressiva (l’assegno è di 175 euro al mese a figlio per le famiglie meno abbienti, 50 euro per quelle più ricche). Per ciascun figlio successivo al secondo è prevista una maggiorazione da 85 euro a 15 euro al mese. L’importo di 175 euro riguarda la metà delle famiglie italiane, mentre un contributo di 100 euro al mese raggiunge quella parte di ceto medio che ha un reddito familiare tra i 60 e i 70 mila euro (stime Mef). La misura è estesa anche ai figli degli immigrati se i genitori hanno un permesso di soggiorno da almeno 6 mesi. Nei primi 9 mesi dell’anno sono arrivate quasi 6 milioni di richieste (5.982.892) riferite a oltre 9 milioni di figli (9.176.144) e sono stati erogati 8,9 miliardi di euro.

Il bonus asilo

L’altro contributo principale erogato alle famiglie italiane è il bonus per gli asili nido. Si tratta di un rimborso che va da 136 a 272 euro al mese per il pagamento delle rette degli asili nido ed è trasferito dallo Stato alle famiglie che hanno un figlio fra 0 e 3 anni. Per il 2022 sono stati stanziati 553,8 milioni con i quali sono state finanziate 365 mila domande. I fondi risultavano esauriti già a settembre e solo attingendo alle risorse stanziate negli anni precedenti si è riusciti a rimborsare ulteriori 60 mila domande. La copertura che gli asili nido riescono a garantire in Italia rispetto al numero di bambini è ancora troppo bassa: nel 2020 si fermava al 26,6%, ma dovrebbe aumentare nei prossimi anni grazie all’investimento di 3,1 miliardi del Pnrr.

Gli aumenti previsti dal governo Meloni

La legge di Bilancio presentata dal governo Meloni prevede che per il primo figlio sotto 1 anno d’età l’assegno unico sarà aumentato del 50% (262 euro per le famiglie meno abbienti, 75 per i più ricchi). Lo stesso incremento del 50% per le famiglie con 3 o più figli sotto i 3 anni d’età (dunque dovrebbe salire rispettivamente a 347 e 98 euro). Inoltre, il congedo parentale facoltativo sarà retribuito per un mese all’80% dello stipendio anziché al 30% per le madri lavoratrici.

Gli assegni familiari in Europa: i due modelli

Tutti i Paesi europei hanno un tasso di fertilità inferiore a due figli per donna. I principali approcci seguiti per sostenere la natalità sono due, completamente diversi. Li ha fotografati un recente studio pubblicato dal British Medical Journal. Il primo, tipico della Francia e della Germania, mette al centro la persona, è inclusivo, promuove i diritti e la parità di genere. Il secondo all’opposto, prevalente in Polonia e Ungheria e definito «pronatalista», fa pressione sulle donne affinché si sposino e abbiano più figli possibile per il bene della nazione, imponendo ruoli familiari e di genere conservatori.

In Germania

La Germania è il Paese che negli ultimi 10 anni ha investito di più sulla famiglia ed è riuscito a risollevare il tasso di fertilità da 1,39 a 1,58 (dato 2021). Il sistema si basa su due misure principali: l’assegno alle famigliecon figli (Kindergeld) e l’assegno parentale (Elterngeld). Il Kindergeld è un contributo universale di 219 euro al mese che viene corrisposto dopo la nascita del primo figlio. L’assegno aumenta a 225 euro per il terzo figlio e a 250 euro per il quarto. La somma è versata fino ai 18 anni d’età (25 se si studia o se si è disoccupati) ed è percepita anche dai residenti stranieri (nel marzo 2021 erano oltre 83 mila i cittadini italiani con figli che ricevevano l’assegno). L’Elterngeld è per entrambi i genitori che dopo la nascita di un figlio sono disoccupati o scelgono di lavorare con orario ridotto per accudire il bambino (massimo 30 ore). L’assegno è garantito fino ai 14 mesi di vita dei bambini e corrisponde al 65% del mancato reddito netto. Può variare da un minimo di 300 a un massimo di 1.800 euro al mese. Lo scopo è incentivare i genitori a condividere il tempo e la cura del congedo. Nel 2020 l’hanno incassato 1,9 milioni di persone (Dati Neodemos).

In Francia

La Francia invece da decenni investe sul futuro e infatti ha il tasso di fertilità più alto in Europa (1,83). Le tasse non sono su base individuale, ma si calcolano sul reddito complessivo della famiglia (Quoziente familiare). Tutti i principali assegni sono su base reddituale ovvero sono più consistenti per i meno ricchi e sono riscossi anche dai residenti stranieri. La misura più importante è l’allocation familiale, contributo che finanzia le famiglie con almeno due figli fino ai 20 anni di età (25 se studiano). L’importo base è di 140 euro al mese, 320 euro per chi ha tre figli, 500 euro dai 4 figli in poi. Dopo il compimento dei 14 anni c’è un ulteriore aumento di 88 euro a figlio. Poi ci sono il premio alla nascita (970 euro), l’assegno mensile di base per i figli fino a tre anni (175 euro al mese) e l’assegno per l’inizio dell’anno scolastico (aliquota base: 378,87 per figli tra 6 e 10 anni, 399,77 per figli tra 11 e 14 anni, 413,62 per figli tra 15 e 18 anni). Le norme francesi stabiliscono anche che i genitori possono usufruire a lungo del part-time (di base un anno, ma può essere esteso fino a tre). Lo Stato copre parte dello stipendio mancante.

In Spagna e in Gran Bretagna

In Spagna e in Gran Bretagna l’assegno per i figli è riconosciuto solo a chi appartiene alle fasce meno abbienti. A Madrid è di 100 euro al mese per i bambini da 0 a 3 anni (70 euro da 3 a 6 anni, 50 euro da 7 a 18 anni) ma solo se il reddito annuale non supera i 27 mila euro, a Londra è di 21,8 sterline alla settimana per il primo figlio (14,4 sterline dal secondo figlio in poi) ed è assegnato ai nuclei familiari con reddito sotto le 60 mila sterline.

Polonia e Ungheria

I Paesi dell’Est Europa hanno subito un netto crollo demografico dopo il 1989. Nell’ultimo decennio hanno cercato di cambiare rotta. In Polonia dopo il fallimento dello schema Famiglia 500+, il governo nazional-conservatore ha lanciato dal 2022 «Family Care Capital», programma che alza a 213 euro al mese il contributo dello Stato per il secondo figlio e i successivi. Il tasso di fertilità nel 2021 resta basso: 1,3. In Ungheria invece i sussidi economici sono molto più leggeri: 30 euro al mese per il primo figlio, 37 per il secondo e 44 per i successivi. Si punta sulle agevolazioni fiscali e sui benefit: le donne che si sposano sotto i 40 anni hanno un mutuo agevolato come pure le famiglie con due figli. Se si hanno 3 figli, lo Stato offre un assegno per un’auto a 7 posti. Dal quarto figlio in poi non si pagheranno più le tasse a vita. Dopo un’iniziale risalita nello scorso decennio, il tasso di fertilità in Ungheria si è stabilizzato a 1,5 figli per donna. Nonostante l’impegno per la famiglia e l’accento sui valori conservatori, i Paesi dell’Est hanno mostrato grande riluttanza a investire su uguaglianza di genere e servizi per l’infanzia. Oggi Slovacchia, Repubblica Ceca e Polonia registrano il tasso di iscrizioni agli asili nido più basso dell’Unione europea (sotto il 10%), mantenendo inalterata un’organizzazione familiare incentrata sulla cura femminile. L’Ungheria fa poco meglio (16%). In Polonia le restrizioni all’aborto sono state ulteriormente inasprite (praticamente si può abortire solo se la madre rischia la vita), è vietata la distribuzione gratuita dei contraccettivi, proibita la sterilizzazione volontaria, limitato lo screening prenatale.

Congedi parentali flessibili e incentivi al lavoro femminile

Gli assegni familiari per i figli sono le misure più comuni adottate in Europa per sostenere le famiglie. Per rivitalizzare la natalità, prima di tutto occorre che lo Stato offra assegni corposi, evitando bonus una tantum. Lo dimostrano misure dispendiose dai risultati poco esaltanti come il bonus bebè di 2.500 euro lanciato in Spagna da Zapatero e il «Capitale per la Maternità e per la Famiglia» di 5.300 euro offerto da Putin alle madri russe (il reddito pro-capite a Mosca è di 8.500 euro). Inoltre, è necessario che gli assegni siano accompagnati dal miglioramento dei servizi per l’infanzia come asili nido di qualità e convenienti (in Spagna e Francia superano la soglia del 50%).

Bisogna poi potenziare le misure per la conciliazione tra vita e lavoro: congedi parentali flessibili e ben retribuiti, tutele ai genitori che scelgono il part-time e soprattutto incentivi al lavoro femminile. Le statistiche dell’Ocse ci confermano che anche su quest’ultimo punto siamo fanalino di coda tra i Paesi industrializzati: solo il 72,6% delle donne italiane tra i 25 e i 54 anni ha un lavoro. Peggio di noi fanno solo Sudafrica e Turchia.

Il bonus, il brutto e il cattivo. Report Rai PUNTATA DEL 28/11/2022 di Luca Bertazzoni.

Collaborazione di Edoardo Garibaldi

Il Governo deve affrontare l’impatto del superbonus sui conti dello Stato.

“Il problema non è il superbonus, ma i meccanismi di cessione che sono stati disegnati senza discrimine e senza discernimento”: così parlava in Senato l’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi il 20 luglio scorso, poche ore prima di rassegnare le dimissioni. Il nuovo governo di centro destra deve ora affrontare l’impatto del superbonus sui conti dello Stato: al 30 ottobre scorso, erano 55 i miliardi di euro di investimenti ammessi a detrazione. E nel frattempo migliaia di imprenditori edili si ritrovano con i cassetti fiscali bloccati, i magazzini pieni e i cantieri fermi. Con il risultato che molti proprietari di casa che avevano iniziato i lavori di ristrutturazione non riescono a rientrare nelle loro abitazioni. Report racconterà cosa succede nel mercato parallelo della cessione dei crediti fiscali e come funziona il sistema delle ristrutturazioni in altri paesi europei.

“IL BONUS, IL BRUTTO E IL CATTIVO” di Luca Bertazzoni collaborazione Edoardo Garibaldi immagini Carlos Dias, Alfredo Farina, Cristiano Forti, Andrea Lilli, Marco Ronca montaggio Igor Ceselli

DANIELE SORGI - INGEGNERE L’impresa fa il pacchetto completo, quindi nel suo lavoro mette anche quelle che sono le spese tecniche. Ma se poi ad un tratto l’impresa non riesce a cedere i crediti il tecnico non viene pagato, solo che aspettare un mese è un conto, quando cominciano ad essere 3, 4, 5, 6, 7, 8 e quando si comincia a paventare anche l’idea che forse questa cosa si ferma e poi nessuno avrà modo di ripagare tutto il lavoro che tu hai fatto è un problema.

LUCA BERTAZZONI Perché si parla di mesi e mesi di attesa, di cantieri così.

DANIELE SORGI - INGEGNERE Un cantiere che comincia a palesare 6, 7 mesi di ritardo per me è un cantiere fermo.

LUCA BERTAZZONI Perché è fermo questo cantiere?

DANIELE SORGI - INGEGNERE Il problema fondamentale di questo cantiere è che l’impresa ad oggi ha nel suo cassetto fiscale una serie di crediti e quindi se non li sblocca non va avanti. In quei soldi che deve prendere quell’imprenditore c’è anche parte della mia parcella.

LUCA BERTAZZONI Quanti cantieri come questo ci sono che lei vede, che lei cura?

DANIELE SORGI - INGEGNERE Sette cantieri.

LUCA BERTAZZONI Su quanti?

DANIELE SORGI - INGEGNERE Su 7 cantieri.

LUCA BERTAZZONI 7 su 7, cioè sono tutti così?

DANIELE SORGI - INGEGNERE Sì. PEPPINO GIOVANNINI - IMPRENDITORE Questo abbiamo iniziato a maggio, giugno del 2021.

LUCA BERTAZZONI Quindi è un anno e mezzo.

PEPPINO GIOVANNINI - IMPRENDITORE Ha due camere da letto, il bagno e qui adesso dobbiamo finire di montare tutto il fotovoltaico sopra con le batterie, portare avanti le finestre e i pavimenti. Adesso dovremmo cominciare a fare l’impianto a pavimento e però ci siamo dovuti fermare. Noi ad oggi abbiamo cinque cantieri così.

LUCA BERTAZZONI Di che cifre stiamo parlando?

PEPPINO GIOVANNINI - IMPRENDITORE Saremo intorno ai 500mila/600mila euro.

LUCA BERTAZZONI Non ha più soldi lei?

PEPPINO GIOVANNINI - IMPRENDITORE Eh, no. Quelli che avevamo li abbiamo già messi tutti.

LUCA BERTAZZONI Lei sta sotto di 600mila euro di crediti, giusto? E in più ha messo soldi suoi. Di che cifre parliamo?

PEPPINO GIOVANNINI - IMPRENDITORE Mah, un paio di cento.

LUCA BERTAZZONI Un paio di 100. 200mila euro. E se lei adesso non dovesse prendere questi crediti come fa ad andare avanti?

PEPPINO GIOVANNINI - IMPRENDITORE Non ci possiamo andare avanti, sono dolori.

LUCA BERTAZZONI I proprietari di casa cosa le dicono?

PEPPINO GIOVANNINI - IMPRENDITORE I proprietari si arrabbiano, dicono: “Perché non vai avanti?”. Gli spieghi: “Guarda, il 110% sapete come funziona. Quindi noi abbiamo già anticipato una bella fetta, non posso anticipare ancora di più perché non ce li ho”.

LUCA BERTAZZONI Perché non ce l’ha… certo. ROMA 10/09/2022

IMPRENDITORE IN PIAZZA Siamo tutti in ginocchio. L’Italia è stata ricca ed è diventata una quarta potenza mondiale grazie alle microimprese. Draghi, mettitelo in testa: l’Italia ce l’ha nel cuore la microimpresa.

 LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nel settembre scorso piazza San Giovanni a Roma si riempie di persone che protestano contro le politiche economiche del Governo. Oltre a pescatori e balneari, in prima fila ci sono gli imprenditori edili, quelli che avrebbero dovuto beneficiare del superbonus 110%.

ROBERTO CERVELLINI - IMPRENDITORE La misura del Superbonus è l’unica misura che può rigenerare dal punto di vista tecnico e sismico il nostro paese.

GAETANO MONTEMURRO - IMPRENDITORE Il governo, che cosa ha fatto? Prima ci ha fatto indebitare, dopodiché ha cambiato le regole del gioco durante la partita e quindi ci ha bloccato e oggi ci troviamo veramente in una situazione imbarazzante.

ANDREA BONGI - COMMERCIALISTA L’articolo 119, che regola il superbonus, è stato cambiato 16 volte.

LUCA BERTAZZONI In due anni e mezzo.

ANDREA BONGI - COMMERCIALISTA In due anni e mezzo, ma se facciamo una media abbiamo una modifica, in media, ogni 50 giorni, meno di 2 mesi. Quindi una situazione di caos normativo, io non so come chiamarla diversamente.

LUCA BERTAZZONI Queste più altre modifiche che riguardano la cessione dello sconto

ANDREA BONGI - COMMERCIALISTA Che riguardano la cessione, l’articolo 121. Quello è cambiato 12 volte.

LUCA BERTAZZONI Quindi 16 + 12 in realtà.

ANDREA BONGI - COMMERCIALISTA Eh, se le sommiamo sì. Perché se prendiamo le due norme insieme, che di fatto vanno prese insieme perché il superbonus viaggia se c’è la cessione, sono 28 modifiche normative in 2 anni e mezzo. E poi lo spartiacque vero, è il decreto antifrode, decreto del 12/11/2021 nel quale il governo dell’epoca, il governo Draghi, con un decreto legge dice: “fermi tutti” siccome erano già uscite frodi importanti…

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’Agenzia delle Entrate ha quantificato queste frodi a sei miliardi di euro e l’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi, nel suo ultimo discorso al Senato, ha rivendicato la stretta del suo Governo sulla cessione dei crediti.

MARIO DRAGHI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2021-2022 Senato della Repubblica 20/07/2022 Ma il problema non è il superbonus, il problema sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati. Chi ha disegnato quei meccanismi di cessioni senza discrimine e senza discernimento è lui, o lei, o loro sono i colpevoli di questa situazione in cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Caduto Draghi, la questione del Superbonus rimane comunque aperta e a gestirla sarà il nuovo Governo di centro destra.

LUCA BERTAZZONI Ministro buongiorno, sul superbonus cosa intendete fare? Sono aumentate le spese per lo Stato. Ministro, una domanda sola sul superbonus, siccome lei aveva detto che era una misura per ricchi e facevamo ridere tutto il mondo ristrutturando le quinte case…

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE Aspettate qualche giorno e vedrete.

LUCA BERTAZZONI Sono aumentati i costi per lo Stato, sono più di 20 miliardi rispetto ai 33 previsti. Cosa farete? Scusi eh…

GIANCARLO GIORGETTI - MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE Aspetta qualche giorno e vedrai.

LUCA BERTAZZONI Solo un’idea di cosa… Sì, però non può fare così, eh… Solo per capire cosa farete Ministro, sono tanti soldi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, il governo ha deciso: da oggi chi vuole ristrutturare, rendere più efficiente dal punto di vista energetico la propria abitazione, non potrà più farlo gratis. È finita l’epoca del superbonus, il 110%. Potrà continuare a usufruirne solo chi aveva già presentato la Cila e chi dovrà terminare i lavori da concludere entro l’anno. Dal 1° gennaio del 2023 invece potranno continuare ad accedere a un bonus, ma del 90% solo i condomini e i proprietari di villette. Ma quelli che hanno un ISEE sotto i 15 mila euro. Poi conterà anche il quoziente familiare. Insomma, dicevamo è finita un’epoca. È stato un fenomeno il superbonus: ha contribuito ad aprire 326 mila cantieri in tutta Italia, era stato concepito nel 2020 dal governo Conte per dare un impulso a un’economia che era in ginocchio per via della pandemia. Da sempre il comparto edilizia è il motore del Pil. Come ha funzionato il 110%? Insomma, se io volevo ristrutturare la mia abitazione, renderla più efficiente dal punto di vista energetico, e dovevo spendere 100, lo Stato mi restituiva 100. E poi aveva pensato a un 10% per le spese bancarie. I 100 venivano restituiti attraverso crediti d’imposta, da scontare dalle tasse da pagare. Solo che non tutti generano reddito di tasse importanti tali a coprire la spesa della ristrutturazione. Quindi è stato concepito un meccanismo della cessione a terzi, a terzi soggetti. Anche la possibilità di essere scontati in banche o attraverso insomma anche altre persone. Questo però ha consentito una deformazione di questo sistema. Si sono intrufolati professionisti che hanno lucrato con commissioni importanti, truffatori che attraverso anche lavori non fatti, fatture gonfiate, hanno accumulato fino a un miliardo di crediti fiscali, tutto ovviamente a spese dello Stato. Ecco, poi è arrivato il governo Draghi e ha cercato in qualche modo di mettere fine a quella che è stata definita la più grande truffa della storia della Repubblica. Bloccata la cessione del credito, le banche hanno accettato ben volentieri, perché insomma, un po’ temevano le truffe, un po’ avevano i cassetti fiscali pieni, ma questo ha fermato il flusso della liquidità. E quindi gli imprenditori, le imprese edili sono rimaste senza contanti per pagare gli operai, i fornitori, pur avendo i cassetti fiscali pieni di crediti da scontare. Ci hanno rimesso anche i proprietari delle case che non sono riusciti a rientrare nelle loro abitazioni perché non c’era chi poteva terminare i lavori. Ora, pur riconoscendo la nobiltà e anche la genialità, se volete, di questa legge, però chi ha concepito il meccanismo della cessione dei crediti non ha pensato che il sistema poteva reggere fino a quando c’era qualcuno che aveva tasse da scontare. Una volta che hai i cassetti fiscali pieni, insomma, spuntano gli speculatori e c’è chi rimane con il cerino in mano. Il nostro Luca Bertazzoni.

LUCA BERTAZZONI Ci sarà la legge di bilancio e il nuovo governo si trova di fronte ad un buco, no?

TITO BOERI - PROFESSORE DI ECONOMIA UNIVERSITA’ BOCCONI MILANO Si trova di fronte ad un buco e si trova di fronte all’esigenza di dover varare una serie di misure che necessariamente dovranno intervenire sul caro bollette. Inevitabilmente un volume di risorse importante dovrà essere destinato a questo tipo di interventi. Già ritornare agli incentivi preesistenti, che arrivano fino al 65%, quella sarebbe la cosa minima da fare. Ma io credo che ci vogliano anche interventi più draconiani, cioè riduzioni ancora più forti. In altri paesi in genere l’incentivo fiscale è dell’ordine del 30%.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Questo è tutto quanto il materiale delle commesse che stanno ferme qui da un anno: pompe di calore, caldaie, pannelli solari, tutto quello che riguardava la parte dell’efficientamento energetico. Però questo materiale qua io ho dovuto pagarlo già.

LUCA BERTAZZONI Quanto hai speso più o meno per questo?

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Questo qui… Considera che si parla di un magazzino di circa 500mila euro. Ho ricominciato 10 anni fa veramente con le pezze al culo, due anni fa quando è successo del superbonus era una cosa che l’abbiamo vista come una speranza di poter ricominciare.

LUCA BERTAZZONI Anche qui è magazzino?

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Anche qui è magazzino sì, con caldaie, con tutti quanti i prodotti che sono fermi qua che non si sa se li andremo a rivendere.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo il blocco della cessione dei crediti fiscali, centinaia di imprenditori in crisi si sono uniti e hanno fondato il gruppo “Class Action Nazionale dell’Edilizia”.

NORBERT TOTH - IMPRENDITORE Hanno completamente paralizzato un macrosettore come l’edilizia, creando loro il più grande danno economico che la storia italiana si ricordi. Noi rischiamo il collasso dell’80% delle aziende edili e anche dell’indotto strettamente correlato perché qua fra 3 mesi piangeremo i morti.

LUCA BERTAZZONI Perché le banche ad un certo punto hanno iniziato a non comprare più?

ANDREA BONGI - COMMERCIALISTA Perché ad un certo punto avevano esaurito i plafond, perché è ovvio che io che acquisto dei crediti poi che cosa ne faccio di questi crediti? O trovo a mia volta qualcun altro che li acquista oppure li devo utilizzare così come li avrebbe utilizzati il proprietario dell’immobile: è ovvio che fisicamente ognuno ha un tetto massimo. Siamo arrivati nella primavera del ‘22 quando anche i più grossi gruppi bancari, con semplici comunicazioni dalla sera alla mattina, hanno detto: “Mi spiace, ma noi non abbiamo più spazio per acquistare i suoi crediti”.

MARTINO POLANSKI - IMPRENDITORE Noi ci siamo fidati dello Stato che ci garantiva un sistema per ricevere il pagamento sicuro e invece a quanto pare poi questo pagamento non c’è stato.

 ROBERTO CERVELLINI - IMPRENDITORE In corso d’opera ci hai cambiato il contratto, ci hai bloccato… non… non è possibile, non esiste in nessuna parte del mondo. Se io devo andare a comprare un furgoncino per aumentare la forza lavoro, farò un leasing a cinque anni. Tu mi interrompi i pagamenti, li interrompi in quel momento, e io non posso più pagare i fornitori, il leasing non lo pago più, non rispetto più i pagamenti e vado protestato, sono rovinato.

MARTINO POLANSKI - IMPRENDITORE Io oggi mi ritrovo con dei debiti, mi ritrovo sull’orlo del licenziamento di parte degli operai sicuramente, non solo: ho problemi a portare qualche soldino pure a casa mia per fare la spesa. In realtà nel mio cassetto fiscale sono quasi ricco.

LUCA BERTAZZONI Di che cifre parliamo?

NORBERT TOTH - IMPRENDITORE 700mila euro.

LUCA BERTAZZONI Anche lei la stessa cosa?

ROBERTO CERVELLINI - IMPRENDITORE Un milione. In associazione abbiamo fino a 64 milioni, associati con 64 milioni di crediti fiscali bloccati sui cassetti e zero in banca. Se lei esce fuori e si fa un giro per Formia trova palazzine completamente piene di ponteggi senza operai sopra, basta, finito.

LUCA BERTAZZONI È tutto fermo?

ROBERTO CERVELLINI - IMPRENDITORE Tutto fermo! E la gente senza caldaie, senza finestre. Ma che sistema è? Ma che paese è?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Magazzini pieni, imprese in crisi di liquidità e cantieri fermi: questa è la situazione a due anni e mezzo dall’entrata in vigore del superbonus.

LUCA BERTAZZONI Un cantiere fermo.

NORBERT TOTH - IMPRENDITORE Qua abbiamo fatto tutto questo cappotto termico, abbiamo fatto una ristrutturazione completa. Questo è tutto l’impianto radiante a pavimento, qua, sotto queste mattonelle, ci sono tutti i tubi che lavoreranno a riscaldamento e raffrescamento. Questa casa non inquinerà nulla e non si spenderanno soldi in bollette.

LUCA BERTAZZONI Di che somma parliamo qua?

NORBERT TOTH - IMPRENDITORE Per rimetterli in casa mi ci vorrebbero almeno 30mila euro fra pompa di calore, tra collegamenti impianti e impianto elettrico quella è la somma che ci vuole.

LUCA BERTAZZONI E questi 30mila euro non li ha?

NORBERT TOTH - IMPRENDITORE Non li ho perché logicamente questo è un contratto con lo sconto in fattura e quindi io finché non monetizzo i crediti non riesco a riprendere questo cantiere.

LUCA BERTAZZONI E da quanto tempo è fermo?

NORBERT TOTH - IMPRENDITORE Io ho potuto lavorare qua fino ad aprile, maggio. Quasi tutte le aziende stanno messe così

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A pagare il prezzo più salato sono soprattutto i proprietari di casa che non hanno risorse a sufficienza per anticipare di tasca propria i soldi alle aziende edili in difficoltà.

NORBERT TOTH - IMPRENDITORE Lei è la madre, che ha sempre vissuto in questa casa.

ELISA FAIOLA - PROPRIETARIA Eh sì, adesso è un anno che sono sbattuta fuori. Lui ha affittato un po’…

LUCA BERTAZZONI Siete andati in giro in pratica.

ELISA FAIOLA - PROPRIETARIA Sì, insomma.

LUCA BERTAZZONI Quando sareste dovuti tornare qua invece?

ELISA FAIOLA - PROPRIETARIA Di solito dopo 2, 3 mesi

LUCA BERTAZZONI Quando pensa di tornarci? Perché lui dice che non ha i soldi per finire i lavori.

ELISA FAIOLA - PROPRIETARIA Eh, lo so. Già abbiamo investito qualcosa, abbiamo fatto dei debiti per aiutare, però io sono caduta in depressione più o meno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Era settembre e la signora ancora deve rientrare nella propria abitazione: cantiere fermo così come lo avete visto. E anche l’impresa edile ha ancora i crediti bloccati. Che ammonterebbero in tutta Italia a circa 6 miliardi di euro, questo secondo il ministro dell’Economia Giorgetti. Sarebbero invece 12 miliardi secondo l’Ance, l’associazione nazionale dei costruttori. Ora è vero che un certo approccio clientelare, populista, del come è stata concepita le legge sui bonus edilizi ha favorito il fatto che poi il proprietario di casa che doveva ristrutturare si disinteressasse un pochettino del costo dei lavori. Se prima decideva di scegliere chi proponeva i lavori a parità di materiale e di qualità di manodopera, chi offriva 50, alla fine ha scelto anche in questo caso chi gli offriva 150. È mancato così il meccanismo della contrattazione. Questo ha comportato anche un’inflazione nel mondo dell’edilizia: materiali che costavano di più, anche difficile poi trovarli vista la richiesta. Tuttavia, c’è anche una luce su quello che riguarda il bonus edilizia, anche il superbonus. Perché secondo una recente ricerca del Cresme, il centro ricerche dei costruttori edili, il superbonus avrebbe contribuito per il 22% alla crescita del Pil del 2022. Una ricchezza che però rischia di essere un po’ virtuale, un po’ di rimanere nelle pance degli istituti di credito. Un documento esclusivo di cui è venuto in possesso il nostro Luca Bertazzoni, proveniente dalla Commissione sulle banche, ecco, testimonia come si sono comportati i nostri istituti di credito nel meccanismo dell’acquisizione dei crediti. Insomma, pancia mia fatti capanna. Anzi, pancia mia fatti banca.

LUCA BERTAZZONI Avete fatto uscire un documento che però è molto vago.

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Noi abbiamo fatto un documento dal punto di vista tecnico inattaccabile, ma purtroppo ci è mancato il peso politico. Qui si doveva andare con questo fascicolo al Mef e dire: “Signori, questo è il tema dei crediti fiscali”. Quando dici: “Trenta miliardi li abbiamo ceduti, quaranta sono in lavorazione” significa che tu ti trovi settanta miliardi di minor gettito pubblico.

LUCA BERTAZZONI Ma è stata una scelta politica quella di bloccare la cessione del credito e quindi il funzionamento della misura?

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Nessuno al Mef aveva mai potuto immaginare la portata della misura. Settanta miliardi nei prossimi cinque anni sono dodici miliardi l’anno, è una mezza finanziaria.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La nostra fonte interna alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario, ipotizza che il blocco dei crediti sia stata una scelta dovuta all’aumento esponenziale delle richieste di bonus edili. Nel documento riservato per la Commissione si mette nero su bianco che sono già stati spesi interamente i 30 miliardi stanziati, ma che in lista d’attesa ci sono 47 miliardi di ulteriori bonus da liquidare.

TITO BOERI - PROFESSORE DI ECONOMIA UNIVERSITA’ BOCCONI MILANO Le previsioni erano più basse, di un esborso minore, quindi certamente sono stati fatti degli errori a riguardo. È una situazione tipica in cui si scarica tutto sullo Stato.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure, specialmente all’inizio, la misura ha fatto fatica a decollare perché le banche private non compravano facilmente i crediti.

GIANFRANCO TORRIERO - VICEDIRETTORE GENERALE VICARIO ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA Le banche probabilmente all’inizio hanno lavorato un po’ meno di altri operatori perché chiedevano più documenti, ma questo elemento ha tutelato gli stessi clienti, ha tutelato lo stesso mercato.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Chi ha cercato invece di sfruttare la situazione è Poste Italiane che lancia la sua campagna: “Per poter accedere al servizio di cessione del credito di imposta di Poste Italiane, gli interessati non dovranno presentare alcuna documentazione per istruire la pratica. Una volta stipulato il contratto di cessione - online, in pochi click, o in Ufficio Postale - il correntista dovrà solo accedere alla piattaforma dell’Agenzia delle Entrate”. Il risultato è che la misura prende piede, ma si moltiplicano le truffe come quella famosa, presunta, di Mister Miliardo a San Severo.

FRANCESCO TENACE Si parla di un miliardo e 17 milioni di ipotetico volume di affari sotto forma di credito fiscale, ma poteva essere molto di più.

LUCA BERTAZZONI Addirittura?

FRANCESCO TENACE Certo!

LUCA BERTAZZONI Lei stesso un milione e 250mila euro di crediti ceduti.

FRANCESCO TENACE Sì, un milione con la partita Iva e 250mila il personale, alle Poste qui di fronte.

LUCA BERTAZZONI Qui di fronte alle Poste era pure comodo, sotto l’ufficio.

FRANCESCO TENACE Li porti sul portale, lo potevi fare pure tu. Se qualcuno ti metteva a disposizione un plafond andavi alle Poste e glielo cedevi.

ANDREA BONGI - COMMERCIALISTA All’inizio a Poste Italiane non gliene fregava niente. Io ricordo di clienti che avevano le app, dicevano: “Mi hanno detto di caricare la app, scrivo quanto credito cedo, digito il credito e loro mi mandano avanti la procedura”. Che abbia fatto i lavori, che non li abbia fatti, che abbia casa, che non abbia casa: non gliene fregava niente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dal documento si evince che nell’acquisto di crediti un istituto bancario ha fatto la parte del leone, prendendosi da solo un terzo del mercato. E non si tratta di una banca qualsiasi, ma di una controllata dallo Stato.

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Quello che è emerso è che Poste ha fatto il 33% del mercato. Quelle truffe che sono uscite sono di Poste. Poste da un lato ha dato la spinta al mercato, forte, dall’altro però è stata quella che avrebbe dovuto controllare un po’ di più.

LUCA BERTAZZONI C’è stata una spinta politica, quindi, a comprare i crediti per far funzionare la misura?

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Sì, quando c’era Conte il Movimento sulla misura ci ha creduto tanto.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il documento presentato alla Commissione parlamentare d’inchiesta stila la classifica delle banche che hanno acquistato i crediti, ma ne omette i nomi. La nostra fonte ce li ha svelati e scopriamo che al primo posto, come detto, c’è Poste Italiane, seguita dal Gruppo Intesa San Paolo che ha comprato più di 7 miliardi di crediti e poi da Banca ICCREA con 3 miliardi.

LUCA BERTAZZONI Come si sono mosse le banche sul mercato dei crediti?

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Le condizioni applicate, io ho fatto un’analisi e siamo a tassi usurai.

LUCA BERTAZZONI Chi avrebbe dovuto controllare?

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Ragazzi, ma c’è un’autorità di vigilanza sul sistema bancario. Cioè lì, la Banca d’Italia, come si occupa di monitorare i tassi dei mutui, va monitorato questo. Ho detto, a un certo punto: “Guardate, che le rilevazioni che fa la Banca d’Italia sui tassi usurai per attività simili sono molto più basse”. Perché poi ho fatto il “medione” e se fai le medie la banca più cattiva mettici almeno quattro punti sopra su quella media.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il “medione” di cui parla la nostra fonte, per il Superbonus è dell’8,85% nel 2022 con punta massima al 10,63%. E dell’8,63% per gli altri crediti per bonus edili, con il massimo che raggiunge addirittura il 13,74%.

LUCA BERTAZZONI Questo è un tasso medio, quindi c’è chi si è comportato meglio e c’è chi si è comportato peggio. Perché ci sono queste differenze?

GIANFRANCO TORRIERO - VICEDIRETTORE GENERALE VICARIO ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA Differenze di tassi ci sono in tutti i segmenti perché in realtà poi il costo della raccolta è diverso da banca a banca, perché sennò avremmo un mercato dove ci dovrebbe essere un unico tasso di interesse.

LUCA BERTAZZONI Nulla di anomalo quindi?

GIANFRANCO TORRIERO - VICEDIRETTORE GENERALE VICARIO ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA Una differenziazione di prezzi lo vediamo anche nella pubblicizzazione, ad esempio, del mercato dei mutui, che è un mercato estremamente trasparente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il mercato dei mutui, però, è caratterizzato da un grande rischio per le banche di non recuperare i soldi prestati al privato. Mentre nel caso dei crediti derivanti dai bonus edili, alla base c’è una garanzia totale da parte dello Stato. Ma dal documento riservato alla Commissione non è possibile ricavare quali sono le banche che applicano i tassi più alti.

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Sui crediti fiscali, su questo sistema, si è trovato un modo per rimpinguare i bilanci delle banche. Io sono un tecnico e mi è stato detto: “Non dare fastidio”. Io la cosa che ho capito venendo in Parlamento è che quando ti arrivano undici banche “significant”…

LUCA BERTAZZONI …ti metti sull’attenti, diciamo?

COMMISSIONE D’INCHIESTA SULL’ATTIVITA’ BANCARIA Eh, certo. E impari la discussione, ragazzi.

LUCA BERTAZZONI L’operazione superbonus può essere stato un modo per ricapitalizzare…

TITO BOERI - PROFESSORE DI ECONOMIA UNIVERSITA’ BOCCONI MILANO Rifinanziare le banche e ricapitalizzarle, certamente. Però non è questo il modo di farlo, insomma ci sono modi più trasparenti di procedere in questa direzione.

LUCA BERTAZZONI È stato miope il Governo all’epoca quando ha varato questo provvedimento?

TITO BOERI - PROFESSORE DI ECONOMIA UNIVERSITA’ BOCCONI MILANO Non c’è stato nessun tipo di misura che ha impedito alle banche in qualche modo alla fine anche di lucrare su queste operazioni. Stabilire quantomeno dei limiti agli oneri che potevano porre a carico dei condomìni in questo tipo di operazioni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Le banche che avevano utili più alti, avevano più tasse da pagare e quindi hanno acquistato a buon prezzo una maggiore quantità di crediti per scontarle. Quelle più piccole ne hanno potuti comprare di meno. Chi rischia nello stop sono i piccoli imprenditori come Guglielmo Manzo.

LUCA BERTAZZONI Questo è il tuo cassetto fiscale?

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Questo è lavoro praticamente di un anno e mezzo, attualmente circa 1 milione e 70mila euro e nessuno compra più i crediti.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma quando c’è chi è in difficoltà si trova sempre qualcuno disposto a dare una mano.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Questi sono dei gruppi Facebook: “Cessione credito: la soluzione migliore”, “Crediti da ecobonus: le banche non ti ascoltano, ci pensiamo noi”.

LUCA BERTAZZONI Ed è pieno di questi annunci così?

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE È pieno assolutamente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Con il blocco della cessione del credito, la Rete si è riempita di mediatori che promettono di sbloccare in poco tempo i cassetti fiscali degli imprenditori.

MEDIATORE 1 I prezzi che avevano le banche prima adesso non ci sono più, sono aumentati.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE E di che tassi parliamo adesso? Sempre sul decennale, eh…

MEDIATORE 1 Con la banca arrivano a più del 30%.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Quindi al 70%?

MEDIATORE 1 Sì.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Ma non c’è il rischio che inciampino nel discorso dell’usura?

MEDIATORE 1 No, ma non è un finanziamento, cioè con il finanziamento io ti do cento e tu mi dai gli interessi. Diverso è quando tu mi dai una cosa e io te lo pago quello che voglio.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Più o meno di che tempi parliamo?

MEDIATORE 1 Da quando lo comprano, a 30 giorni.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Voi avete una provvigione su quello che poi andiamo a cedere?

MEDIATORE 1 Noi costiamo il 5,9% più il costo dell’operazione.

ANDREA BONGI - COMMERCIALISTA Quelle imprese che si sono trovate in grosse difficoltà sono disposte anche a pagare un tasso più alto pur di riuscire ad re-incamerare quella liquidità, a far ripartire o finire quel cantiere.

MEDIATORE 2 Tenga conto che io ho un onere del 6%.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Io ho circa 1 milione di euro, quindi parliamo di 60mila euro di provvigione.

MEDIATORE 2 Eh beh.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Pochi giorni dopo Guglielmo riceve il contratto in cui il compenso per l’advisor è del 6,5% più Iva.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Quindi loro senza fare nulla sul mio milione di euro guadagnano circa 80mila euro.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma alcuni intermediari hanno capito che il fattore tempo è determinante, e che quindi il vero affare è nella velocità della cessione del credito. Che ovviamente ha un suo costo.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Buonasera.

MEDIATORE 3 Se secondo te riesci ad aspettare un mese e mezzo, mettiamo anche due mesi a quel punto ti dirò: “Ho questa proposta al 67%, 66%, 69%, ok? Che vuoi fare? La vuoi accettare oppure no?”. Tu quanta fretta hai?

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Quanta fretta ho? Prima si fa e meglio è.

MEDIATORE 3 C’è questo giochino nuovo: ci sono queste banche che vengono fuori, chiamano noi come professionisti perché abbiamo il pacchetto clienti e per le aziende che hanno bisogno di liquidità immediata “in 20 giorni ti liquidiamo il cassetto fiscale”.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Di che percentuali parliamo più o meno? MEDIATORE 3 Parliamo di un 61%, 62%.

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE 62%? Ma ti rendi conto che io ho scontato all’87% e ci vado a rimettere più di 20 punti…

MEDIATORE 3 Ho chiesto una call oggi pomeriggio perché voglio capire bene come mai. Devono stare attenti a che prezzi fanno perché si sta parlando di tassi usurai. Se io ti do il 60% che ci guadagni tu? Su 1 milione ti do 600mila euro, ci guadagni tu?

GUGLIELMO MANZO - IMPRENDITORE Ci vado a rimettere parecchi soldi e sono tutti, tutti soldi che sono frutto del lavoro che ho fatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli avvoltoi quando sentono puzza di cadavere si avvicinano. Ecco, insomma, hanno anche agganci con le banche e i fondi. Prendono il sei per cento di commissione, alla quale va anche aggiunta quello che chiedono le banche o i fondi per acquistare i crediti. E siccome si tratta non più di una cessione di credito, ma la cessione di un bene, insomma, la valutano quanto gli pare. Quindi può capitare che se cedi 100, puoi ottenere in cambio 60. Eludono così anche le normative antiusura. Nessuno controlla, gli speculatori sono spuntanti fuori grazie al meccanismo del blocco della cessione dei crediti che ha generato un mercato parallelo e senza controllo. Ma è possibile? Ora dalla fonte della Commissione banche è spuntato fuori anche un documento che fa venire i brividi. A giugno scorso sarebbero stati 30 miliardi di euro di crediti, già liquidati altri 47 sarebbero da liquidare. Cioè un totale di 77 miliardi di euro. È una cifra imponente, importante. Dallo stesso documento è anche emerso chi ha fatto la parte del leone, il 33% di questi crediti li avrebbe in pancia Poste Italiane, cioè un’impresa pubblica. E avrebbe fatto la parte del leone perché nel momento di lanciare la sua campagna avrebbe acquistato crediti senza chiedere particolare documentazione. Ma questo avrebbe anche favorito l’insorgere delle truffe. E a domanda risponde Poste: ma quale sarà la conseguenza sui suoi bilanci del fatto che sono stati sequestrati alcuni di questi crediti. Ecco, ci scrivono gli utili non sono a rischio. Dicono che i provvedimenti di sequestro riguardano meno del 3% dei circa 6 miliardi di euro delle presunte frodi. Ora, noi abbiamo letto, abbiamo visto il loro ultimo resoconto di gestione che è sul sito, è stato anche depositato in Consob, leggiamo che su iniziativa di alcune Procure sono stati sequestrati crediti per 381 milioni di euro, cioè il doppio di quanto Poste ci ha detto. Ora o ci siamo sbagliati noi a fare i calcoli o loro. Insomma, vedremo. Poi in questa speciale classifica c’è anche Banca Intesa gruppo San Paolo che avrebbe acquistato 7 miliardi di crediti. E poi c’è banca Iccrea con 3 miliardi. Altro tasto dolente, sarebbe il tasso che è stato applicato a questi istituti di credito nell’acquistare i crediti. Insomma, avrebbero applicato un tasso medio dell’8,5% con punte anche del 13%. Però per Abi è tutto normale, non ci sono anomalie. Hanno fatto un po’ come si fa con i mutui. Solo che l’anomalia qui è che qui ti trovi di fronte ad un credito che riusciranno ad incassare di certo perché si tratta di soldi dello Stato, anche se restituiti nel tempo. Insomma, poi l’altra grande anomalia è che nessuno ha pensato di porre un limite, quindi le banche potranno continuare a fare un po’ il loro comodo. Ora, il provvedimento del governo per sbloccare questi crediti è stato quello di allungare nel tempo la possibilità di scontare i crediti fiscali. Dieci anni invece di cinque. Questo dà la possibilità di liberare spazio nei cassetti fiscali, e di poter acquistare nuovi crediti. Tra un minuto, un minuto solo. Invece vedremo chi ha usufruito del superbonus.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Eccoci qui insomma. Ma chi è che fino a oggi ha utilizzato il superbonus? Secondo la Corte dei conti l’accesso al superbonus è stato impedito alle classi meno abbienti. Questo perché hanno avuto difficoltà a parlare per una carenza culturale, anche di competenze a parlare anche con i tecnici specializzati ma anche perché va detto trovare tecnici specializzati non è semplicissimo. Il fatto che questo bonus sia stato distribuito con una certa generosità ha fatto sì anche che si presentassero delle ditte inadeguate. Insomma, anche chi faceva il macellaio alla fine ha aperto una ditta edile. Perché non era tanto importante la competenza, quanto il fatto che realizzassero il 110%. Insomma, così in molti casi le potenzialità del superbonus sono evaporate invece quello che abbiamo perso lo capiamo da quello che ha realizzato un collega esperto di green con una consulenza preziosa di una bioarchitetta.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Uno dei fortunati proprietari di casa ad aver usufruito del superbonus è Giorgio Malavasi, che ha completamente ristrutturato questo antico casale a pochi chilometri da Venezia, rendendolo un immobile all’avanguardia.

GIORGIO MALAVASI - GIORNALISTA La casa è in legno, è stato fatto un cappotto sulle pareti di 24 centimetri all’esterno e di 8-15 centimetri all’interno. Sul tetto c’è un isolamento molto spinto, ci sono 30 centimetri di fibra di legno. Questa casa non ha termosifoni tradizionali e neppure riscaldamento a pavimento o a soffitto, ma si serve di aria e quindi aria che esce o che entra da queste bocchette. Permettono d’inverno di avere il caldo che entra, d’estate di avere il fresco e durante tutto l’anno, 365 giorni all’anno e 24 ore al giorno, di avere un ricambio continuo di aria. Il secondo ingrediente di questa casa sono i pannelli fotovoltaici: sfrutto l’energia che non uso immediatamente e la accumulo in batterie. Queste mi consentono, quando poi viene sera, di usare l’energia pulita che ho prodotto sul tetto di casa mia.

DENISE TEGON - ARCHITETTO Vi porto nel cuore pulsante dell’abitazione. Ecco uno scambiatore geotermico, cosa vuol dire? Queste tubazioni mi raccolgono la temperatura del terreno ad un metro di profondità.

LUCA BERTAZZONI E la portano qui in casa.

DENISE TEGON - ARCHITETTO La portano qua in casa… Quindi, adesso ci sono più di 30 gradi all’esterno, vediamo che entrano e già siamo a 20 gradi. Quindi ho già un abbattimento di 12 gradi gratuiti. Scambia con questo macchinario, l’aria ripassa e mi va nel secondo trattamento.

LUCA BERTAZZONI Tramite questo tubo?

DENISE TEGON - ARCHITETTO Assolutamente sì. Nella parte superiore abbiamo una piccola pompa di calore che è solo di un kilowatt e 92, quindi capite come un’abitazione di tali dimensioni venga riscaldata e raffrescata con veramente poca energia elettrica. Ma questa energia, ricordiamo, che arriva da quella che è l’energia rinnovabile del fotovoltaico, quindi per l’85% delle volte quella funziona sempre gratuitamente.

LUCA BERTAZZONI Praticamente non ha bollette?

GIORGIO MALAVASI - GIORNALISTA Alla fine, il bilancio è attorno allo zero, anzi un tantinello sotto zero.

LUCA BERTAZZONI Lei quindi spende zero?

GIORGIO MALAVASI - GIORNALISTA Di energia elettrica per scaldare, raffrescare, cucinare, illuminare, far funzionare gli elettrodomestici di tutta la casa.

LUCA BERTAZZONI Lei senza superbonus una cosa del genere sarebbe stato in grado di farla? Per capirci...

GIORGIO MALAVASI - GIORNALISTA No.

LUCA BERTAZZONI Perché stiamo parlando, senza entrare ovviamente nei dettagli delle cifre, di un lavoro importante, immagino, a livello economico. No?

GIORGIO MALAVASI - GIORNALISTA Di un lavoro importante che diventa sostenibile proprio perché il superbonus ha permesso di creare non solo case come questa, ma anche ristrutturazioni importanti anche in abitazioni più ordinarie, tipo i nostri tantissimi condomini colabrodo ed energivori dei quartieri di tutte le città d’Italia.

ABITANTE QUARTICCIOLO 1 Voi vi rendete conto che adesso con il 110% io proprietario di casa me ristrutturo casa alle spalle dello Stato, dopo di che siccome la casa è messa meglio e aumenta di valore io posso aumentare l’affitto.

ABITANTE QUARTICCIOLO 2 I soldi ci sono, che aspettiamo? Che se li mangiano gli altri? È ora di farla finita, pensate a noi poracci. CORO 110% subito, 110% subito.

ABITANTE QUARTICCIOLO 1 Ci sono a Roma nel 2020 case di cinque piani senza ascensore, ci sono case dove ci piove dentro, poi però per le case dei signori, per le ville dei ricchi i soldi ce stanno.

LUCA BERTAZZONI L’1% della popolazione più ricca ha ricevuto il 10% delle risorse destinate al superbonus, questo è un dato impressionante.

TITO BOERI - PROFESSORE DI ECONOMIA UNIVERSITA’ BOCCONI MILANO Esattamente. Questo chiaramente è qualcosa che non va bene, in questo momento abbiamo davvero bisogno di utilizzare le poche risorse disponibili sulle fasce di popolazione a redditi più bassi perché l’inflazione li colpisce molto di più. Il superbonus è una misura che ha effetti esattamente opposti perché va a favorire individui che hanno redditi superiori ai 60-70 mila euro. Abbiamo avuto dei casi addirittura di superbonus che sono andati a ristrutturazioni di castelli.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il castello sì e le borgate di Roma no. Eppure, al Quarticciolo, quartiere di edilizia popolare della Capitale, il superbonus servirebbe veramente.

KATIUSCIA EROE - RESPONSABILE NAZIONALE ENERGIA LEGAMBIENTE Passare da una casa in una classe G o una classe F, come sono questi edifici, ad una classe A, cosa che con il superbonus puoi fare tranquillamente, vuol dire risparmiare per lo meno l’80% di consumi.

LUCA BERTAZZONI Perché questo palazzo per come è ridotto consuma e spreca molto…

KATIUSCIA EROE - RESPONSABILE NAZIONALE ENERGIA LEGAMBIENTE Per come è ridotto e per come è stato costruito. Dalle analisi termografiche…

LUCA BERTAZZONI …che avete fatto cosa avete scoperto?

KATIUSCIA EROE - RESPONSABILE NAZIONALE ENERGIA LEGAMBIENTE Tutta una serie di dispersioni che arrivano dalle pareti murarie, dagli infissi. I termosifoni quindi riscaldano l’interno, ma gran parte del calore va anche verso l’esterno, quindi è calore e soldi sprecati. Il 110% è una mega opportunità per far risparmiare le famiglie soprattutto in questo momento, poi se gli metti anche due pannelli solari avresti anche fatto bingo, come dire.

LUCA BERTAZZONI Però invece vediamo questo.

KATIUSCIA EROE - RESPONSABILE NAZIONALE ENERGIA LEGAMBIENTE Questa è indecenza pura, nel senso che qui vuol dire che non solo non è stato costruito bene, ma negli anni non hai fatto assolutamente nulla.

ABITANTE QUARTICCIOLO 4 Infiltrazioni dal tetto, mi piove all’interno dell’appartamento. Ho paura che mi crolli in testa.

ABITANTE QUARTICCIOLO 3 Pure tu hai lo stesso problema?

ABITANTE QUARTICCIOLO 5 Muri tutti crepati, casca il calcinaccio per le scale e troviamo sempre i cosi bianchi in terra. Infiltrazioni in camera, al bagno, però non interessa a nessuno.

NICOLA ZINGARETTI – PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 CONFERENZA STAMPA REGIONE LAZIO 25 MARZO 2021 Il superbonus è un’idea felice. Cambieranno le case dove vivono le persone.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Questo annunciava il 25 marzo del 2021 Nicola Zingaretti, all’epoca Governatore della Regione Lazio, proprietaria attraverso l’Ater delle case popolari del Quarticciolo.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 CONFERENZA STAMPA REGIONE LAZIO 25 MARZO 2021 L’apertura di cantieri green, l’efficientamento energetico di migliaia di appartamenti significa far vivere meglio chi ci vive e vedere concretamente che cosa vuol dire la green economy quando diventa concretezza.

LUCA BERTAZZONI Ci stiamo occupando del superbonus.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 Io proprio non parlo fino a che faccio il Presidente.

LUCA BERTAZZONI Eh, ma riguarda proprio la Regione Lazio. Siccome lei un anno e mezzo fa aveva parlato di 300 milioni di euro da investire nel superbonus.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 Sono già partite le gare.

LUCA BERTAZZONI Non è partito nessun cantiere però in un anno e mezzo.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 Partono, partono, è il più rande investimento green

LUCA BERTAZZONI Quando?

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 Andate per esempio al Corviale, non vi preoccupate, sta andando bene.

LUCA BERTAZZONI Sta andando bene? Non è partito nessun cantiere.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 Ma questo lo vediamo. È inutile che picconate tutte le cose belle che si fanno in Italia, sono molto contento che sarà il più grande cantiere green d’Europa.

LUCA BERTAZZONI Questo lei lo ha detto un anno e mezzo fa, il superbonus c’è da due anni e mezzo e non è partito nulla.

NICOLA ZINGARETTI - PRESIDENTE REGIONE LAZIO 2013-2022 Colpite chi non fa un cazzo, non chi fa bene.

LUCA BERTAZZONI In questi due anni cosa è successo?

ABITANTE QUARTICCIOLO 5 Niente, assolutamente niente.

ABITANTE QUARTICCIOLO 6 Due anni fa si girava per il quartiere e sembrava che facevano Beverly Hills al Quarticciolo. Sembrava che eravamo noi ad essere preoccupati: “No, ma perché? Dovete fidarvi, non vi preoccupate, ora sono arrivati i soldi dell’Europa, non vi preoccupate”. E stiamo così.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nonostante la promessa di Zingaretti di investire più di 300 milioni di euro per riqualificare le case popolari di Roma, per chi vive al Quarticciolo la California sembra ancora molto lontana.

ABITANTE QUARTICCIOLO 8 Hai qualche paura?

LUCA BERTAZZONI Oddio! C’è la doccia qui sotto, si può?

ABITANTE QUARTICCIOLO 8 C’è la vasca da bagno, che ci facciamo la doccia. Se qualche giorno mi arriva un mattone in testa…

LUCA BERTAZZONI Questa è muffa.

ABITANTE QUARTICCIOLO 8 E per forza, è bagnato!

LUCA BERTAZZONI Da quanto tempo sta così?

ABITANTE QUARTICCIOLO 8 Quattordici anni.

ABITANTE QUARTICCIOLO 3 Da qui è caduto il cornicione dieci giorni fa.

ABITANTE QUARTICCIOLO 9 Questo è il lavoro che ha fatto mio marito perché mi pioveva.

LUCA BERTAZZONI Vi pioveva in casa?

ABITANTE QUARTICCIOLO 9 Sì, esatto.

ABITANTE QUARTICCIOLO 10 Guarda, e al bagno ho tutta una macchia nera perché passa l’acqua da qua. Mi metto gli stivali, il cappuccio in testa e vengo a togliere l’acqua. È l’unico sistema perché sennò veramente devo stare con l’ombrello.

ABITANTE QUARTICCIOLO 4 Ho una grotta, mic una casa. Devo stare con i secchi?

LUCA BERTAZZONI Cioè sta con le bacinelle in casa lei?

ABITANTE QUARTICCIOLO 4 Sì, una qui. E lì c’è la cameretta dove ora ci piove sul letto.

LUCA BERTAZZONI Sul letto dei bambini?

ABITANTE QUARTICCIOLO 4 Sì, poi ci sono tutte queste crepe che si stanno aprendo. Come si forma l’acqua sopra continua a gocciolare per 2 o 3 giorni. Dovevamo rientrare con il superbonus.

LUCA BERTAZZONI E lei da due anni vive così?

ABITANTE QUARTICCIOLO 4 Sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nelle periferie di Milano invece qualche cantiere del superbonus è riuscito a partire. Ma i lavori procedono a rilento.

LUCA BERTAZZONI Sono tutti cantieri 110%?

THOMAS MIORIN - RESPONSABILE ENERGIESPRONG ITALIA Questi sono tutti 110%.

LUCA BERTAZZONI Più o meno da quanto c’è questo cantiere?

OPERAIO CANTIERE MILANO Un anno dovrebbe fare a novembre.

LUCA BERTAZZONI Un po’ a rilento, diciamo.

OPERAIO CANTIERE MILANO Ci sono troppi problemi, non è una cosa semplice. Il gas, per esempio, adesso metà appartamenti sono fatti e qualcuno ancora da fare, dobbiamo levare il gas vecchio e mettere tutta la tubazione nuova. Il fotovoltaico è un’altra cosa, non c’è qui.

THOMAS MIORIN - RESPONSABILE ENERGIESPRONG ITALIA Rimarremmo legati al gas. Non sono questi gli edifici che porteranno l’Italia ad una indipendenza dal punto di vista energetico.

LUCA BERTAZZONI Eppure, questa è edilizia popolare e dovrebbe essere il fulcro della riqualificazione.

THOMAS MIORIN - RESPONSABILE ENERGIESPRONG ITALIA Questi sono gli edifici su cui di più bisognerebbe investire in efficienza energetica perché qui c’è una situazione di povertà energetica. Se noi qui riqualifichiamo senza spingere, senza investire un po’ di più per arrivare a delle performance energetiche reali qui chiediamo alla gente di pagare poco di affitto e tanto di bolletta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non sono certo questi gli edifici che ci porteranno ad una indipendenza dal punto di vista energetico. E invece è proprio là, sugli edifici popolari che bisognerebbe investire pesantemente. Ne avrebbe un beneficio il clima, ma soprattutto anche un beneficio sociale. Quelle famiglie, che spendono poco di affitto molto in bollette elettriche, avrebbero anche un senso, avrebbe anche un senso restituire la dignità a chi hai abbandonato per decenni. Ora finalmente la regione Lazio ha annunciato la partenza del primo cantiere, l’Ater, l’azienda che dipende appunto dalla Regione, ha anche annunciato il termine delle gare per affidare i lavori di ristrutturazione di mille appartamenti. È una buona notizia, evviva! Ma arriva dopo che sono stati aperti 326mila cantieri in tutta Italia e proprio il patrimonio immobiliare che andrebbe ristrutturato e reso più efficiente dal punto di vista energetico. Ecco, questo secondo uno studio, un report di Odysee-Mure, una ricerca, uno studio finanziato dall’Unione europea, Collaborano anche Ispra e la nostra Enea, in base al quale a parità di condizioni climatiche una abitazione media italiana consuma il 50% in più di una equivalente nel resto di Europa. E anche per il rapporto Italy for Climate, che il patrimonio edilizio in Italia andrebbe ristrutturato perché responsabile del 44% dei consumi energetici. Ecco, insomma, ora uno non è che pretende che bisognerebbe ristrutturare questi edifici popolari come ha fatto il collega Malavasi grazie anche al contributo della sua architetta. Quando va male paga 15 euro di bolletta però immaginate se a fronte di un investimento importante, queste competenze fossero messe a disposizione dell’edilizia, della ristrutturazione dell’edilizia popolare. Se pensate che questa sia una utopia andate a vedere in Olanda, dove assisterete anche ad una beffa perché grazie a una tecnologia tutta italiana stanno redendo efficienti al 100% gli edifici di edilizia popolare.

SANNE DE WIT - HEAD OF IDEAS ENERGIESPRONG Il progetto Energiesprong è nato 12 anni fa dall’esigenza di migliorare la qualità dell’edilizia popolare e sociale, che in Olanda rappresenta un terzo dell’intero patrimonio immobiliare. Insieme al governo, abbiamo deciso di partire proprio dalle periferie delle grandi città per renderle più verdi e più belle. Abbiamo voluto privilegiare l’edilizia popolare anche perché per queste persone sarebbe stato più difficile ristrutturare casa a proprie spese.

LUCA BERTAZZONI Qual è il peso dello Stato in questa partnership?

SANNE DE WIT - HEAD OF IDEAS ENERGIESPRONG Lo Stato ha speso pochissimo, di fatto ha garantito i prestiti necessari alle cooperative per fare i lavori di ristrutturazione che si ripagheranno nel tempo con i soldi che prima gli inquilini pagavano per le bollette di luce e gas.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Risparmio energetico e riqualificazione: nella periferia di Utrecht i quartieri popolari stanno cambiando volto.

AART VERKAIK - DIRETTORE VIOS BOUW Questo edificio sarà demolito e ne costruiremo uno completamente nuovo: rispetto a prima ci saranno più appartamenti di tagli diversi. Questo invece verrà ristrutturato e diventerà ad impatto energetico zero, proprio come quelli che vedi lì.

LUCA BERTAZZONI Quanto ci avete messo a ristrutturare questo palazzo?

AART VERKAIK - DIRETTORE VIOS BOUW L’edificio ha 48 appartamenti, i lavori sono durati pochi mesi.

LUCA BERTAZZONI Quanto è costata la ristrutturazione?

AART VERKAIK - DIRETTORE VIOS BOUW All’incirca 70mila euro per appartamento. I lavori comprendono l’isolamento dei muri esterni, del tetto e dei pavimenti, l’installazione di pompe di calore. In questo modo i pannelli solari garantiscono l’autosufficienza dell’intero palazzo.

LUCA BERTAZZONI Ma qui non c’è il sole.

AART VERKAIK - DIRETTORE VIOS BOUW Con le nostre tecnologie anche se qui piove per almeno un terzo dell’anno, i giorni di sole ci bastano per coprire tutto l’inverno.

LUCA BERTAZZONI Ma è un’operazione finanziariamente sostenibile per tutti?

SANNE DE WIT - HEAD OF IDEAS ENERGIESPRONG Certo, in Olanda ci sono molti condomini simili fra loro e questo consente all’industria di produrre in serie abbattendo i costi anche del 40% rispetto ad una singola ristrutturazione.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Questo nuovo mercato dell’edilizia ha generato importanti investimenti in tecnologia e innovazione. Sono nati così stabilimenti concepiti solo per questo tipo di interventi di efficientamento energetico che hanno abbattuto i costi e fatto aumentare la produzione.

LINDA SJERPS – RESPONSABILE SVILUPPO AZIENDALE RC PANELS Questo è l’inizio della catena di produzione, il punto di raccolta dei materiali. Per prima cosa costruiamo quello che io chiamo “sandwich”, lo puoi vedere qui: uniamo queste lastre di polistirene e di legno-cemento. Le due estremità sono resistenti a fuoco, aria ed acqua, quindi garantiscono un perfetto isolamento.

LUCA BERTAZZONI Cosa stanno facendo lì?

LINDA SJERPS – RESPONSABILE SVILUPPO AZIENDALE RC PANELS Ora abbiamo costruito un pannello, ma dobbiamo adattarlo alla facciata che dovrà sostituire: il lavoro deve essere perfetto, millimetrico. Quindi tagliamo il pannello e lo inseriamo in questo macchinario che abbiamo comprato in Italia.

LUCA BERTAZZONI E cosa fa questo macchinario italiano?

LINDA SJERPS – RESPONSABILE SVILUPPO AZIENDALE RC PANELS Utilizza una tecnologia nuova che permette di tagliare insieme tutti i materiali che compongono il “sandwich”, anche se sono molto diversi fra loro: è incredibile! Guarda, è il computer che guida il taglio del macchinario: così otterremo lo spazio necessario per incastrarci porta e finestre.

LUCA BERTAZZONI Quali sono i passaggi successivi?

LINDA SJERPS – RESPONSABILE SVILUPPO AZIENDALE RC PANELS Il pannello esce dal macchinario, viene levigato ed è pronto per la verniciatura. Una volta asciutto possiamo incollarci qualsiasi rifinitura. È un processo automatizzato e questo è un grosso vantaggio perché se lo facessimo manualmente costerebbe troppo per gli edifici popolari. In questo modo, invece, anche i quartieri periferici possono godere di un’estetica così bella.

LUCA BERTAZZONI Quanti pannelli riuscite a produrre in un anno?

LINDA SJERPS – RESPONSABILE SVILUPPO AZIENDALE RC PANELS Il numero sufficiente per rendere green circa mille case l’anno. Secondo le nostre stime, già l’anno prossimo raddoppieremo la produzione, ma è un dato destinato a salire nel tempo. Se gli affari continueranno a migliorare a questa velocità, a breve apriremo un nuovo stabilimento. Ecco, hanno montato la porta e le finestre, il pannello è pronto per il trasporto.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In Olanda non solo la produzione, ma anche il trasporto e la messa in opera di tutto il materiale prefabbricato rispondono a rigidi criteri di efficienza che garantiscono ristrutturazioni in tempi record.

LUCA BERTAZZONI Quanto tempo ci vuole per questo cantiere?

LINDA SJERPS – RESPONSABILE SVILUPPO AZIENDALE RC PANELS Per montare ogni pannello ci vogliono circa 15 minuti. Come vedi ci sono due ganci, uno sulla costruzione esistente e l’altro sul pannello: è come un puzzle, in poco tempo tutto si incastra. I nostri operai sono formati e ormai altamente specializzati in questo particolare tipo di operazione: possiamo dire di aver creato una nuova figura professionale all’interno del mondo dell’edilizia. Ma la vera novità è che i proprietari di casa non devono lasciare l’abitazione durante i lavori.

LUCA BERTAZZONI Buongiorno, ma lei non va via?

PROPRIETARIO DI CASA E perché dovrei? Ho messo i teli di plastica sui mobili perché potrebbe cadere un po’ di polvere, ma resto qui a guardarmi lo spettacolo: è incredibile!

LUCA BERTAZZONI Quando sono iniziati i lavori?

PROPRIETARIO DI CASA Due mesi fa sono venuti a fare i rilievi, l’altro ieri hanno montato le impalcature, oggi installano i pannelli solari e domani vanno via: meraviglioso, non pagherò più bollette!

LINDA SJERPS – RESPONSABILE SVILUPPO AZIENDALE RC PANELS Se ci pensi è come mettere la giacca alla casa.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Una giacca calda ed ecologica che allo stesso tempo regala, anche a chi abita in periferia, un abito da gran gala.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E pensare che senza la tecnologia italiana, quella che taglia perfettamente i pannelli e che ha anche consentito di abbassare i prezzi il miracolo olandese non sarebbe stato possibile. Solo che loro hanno pensato prima a rendere efficienti gli edifici popolari, hanno contribuito per il 30% hanno fornito le garanzie, hanno controllato che le ristrutturazioni fossero effettivamente avvenute. Gli inquilini da parte loro hanno contribuito versando l’equivalente di quello che hanno risparmiato nella bolletta. Noi invece siamo stati più generosi in tutta Europa, abbiamo investito 55 miliardi di euro. Questo però secondo il Censis ha portato dei benefici perché avrebbe attivato nella filiera delle costruzioni ben 115 miliardi, ne avrebbe anche beneficiato lo Stato, le casse dello stato. Secondo il Mef ci sarebbe stato un incremento del gettito tra gennaio e settembre del 2022 di circa l’11% del gettito rispetto all’anno precedente e questo sarebbe merito del comparto edilizio. Ora però la pacchia è finita, il bonus del 110% non c’è più.

Conte, altro che Robin Hood: col Superbonus 60 miliardi regalati ai più ricchi. Angela Azzaro su Il Riformista il 13 Novembre 2022

Quel gratuitamente, ripetuto in campagna elettorale da Giuseppe Conte come un mantra, è stato quantificato. Il Superbonus al 110%, modificato dal decreto Aiuti quater, è costato 60 miliardi di euro. E lo abbiamo pagato noi. Una cifra spropositata anche perché, come ha spiegato ieri il ministro del Mef, Giancarlo Giorgetti, questi soldi, che hanno creato un buco di 38 miliardi, sono andati ai più ricchi, cioè l’1,5% della popolazione. Nel decreto Aiuti 4 la misura viene portata al 90% e viene ancorata al reddito.

L’Associazione dei costruttori edili ha protestato perché – dicono – cambiando le regole in 15 giorni (data entro cui si possono espletare le pratiche con il bonus al 110) andrebbero penalizzati proprio i condomini meno ricchi che ci hanno messo più tempo a raggiungere l’obiettivo. Una cosa è certa: quel meccanismo non ha funzionato, è stato un boomerang dal punto di vista economico favorendo chi ha di più. Con effetti politici anche importanti: una campagna elettorale di Conte fondata su due misure: da una parte il Superbonus, dall’altra il reddito di cittadinanza. Misure che in realtà parlano un linguaggio opposto: da una parte un regalo ai ricchi, dall’altra una misura di welfare che andrebbe non tagliata ma migliorata. Il contrasto tra queste due norme la dice lunga sulla confusione politica di Conte e dei 5 stelle che tutto sono fuorché il futuro della sinistra.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografico

Il Pil italiano in crescita e in testa al G7, ma attenzione a come si distribuiscono gli aiuti.  Milena Gabanelli e Rita Querzè su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022

Sarà difficile schivare la recessione in arrivo sull’Europa, ma intanto l’Italia ha messo a segno risultati migliori degli altri Paesi del G7. Grazie all’iniezione di fiducia data ai mercati dall’autorevolezza dei 20 mesi di governo Draghi. E grazie alle tante piccole e medie imprese dove gli imprenditori stanno facendo il loro mestiere, che è quello di reagire alle crisi con le proprie forze inventandosi nuove strade e mobilitando gli utili accumulati nelle fasi di crescita. Lo dobbiamo soprattutto a loro se il Paese resta in piedi.

L’imprenditore che si prende i rischi

La Geiko Taiki-sha è un’azienda famigliare di Cinisello Balsamo, con 250 dipendenti, e produce per le case automobilistiche reparti completi per la verniciatura delle auto. Però da quando la Commissione europea ha annunciato che dal 2035 le auto diesel e a benzina non saranno più immatricolate, l’Europa da molti investitori è considerata troppo rischiosa. Ad aprile scorso il socio giapponese di Geiko (Taiki-sha appunto) decide di uscire dall’Europa. Per un accordo preso in precedenza, il proprietario A. Reza Arabnia avrebbe potuto vendergli la sua quota (il 51%). A quel punto però l’azienda avrebbe chiuso e mandato a casa i dipendenti. La decisione è stata quella di dare fondo alle risorse di famiglia per acquisire le azioni dei giapponesi (che poi sono rimasti soci al 14,5% per avere accesso alle tecnologie Geiko). In soldoni: circa 30 milioni di investimento in piena crisi e, per alleggerire i conti del gruppo, il presidente onorario ha rinunciato al suo compenso (400 mila euro lordi) per cinque anni. Parte di quei soldi (1000 euro netti) sono stati messi nella busta paga di tutti i dipendenti per affrontare il caro-prezzi.

Anche la Masmec di Bari, un’azienda familiare fondata 40 anni fa con un fatturato di 35 milioni di euro e 290 dipendenti, fino a qualche anno fa produceva solo macchine e linee automatiche per l’assemblaggio e il collaudo di componenti delle auto con motore endotermico. Questo filone del business oggi copre solo il 20% del fatturato. Per un altro 60% Masmec lavora per i produttori di auto elettriche, mentre per l’ultimo 20% è entrata nel settore degli apparecchi medicali. Il cambio delle linee produttive ha reso necessaria la creazione di una nuova sede con un investimento di 24 milioni. In parte hanno avuto accesso ai fondi europei, ma il grosso lo hanno messo di tasca loro e, per tenere il passo, ogni anno investono il 15-20% del fatturato in ricerca e sviluppo.

Cavalcare il cambiamento

Prendere rischi e fiutare i mutamenti prima degli altri, inventando nuovi prodotti e servizi: questo fanno gli imprenditori. L’azienda di Roberto Cimberio, la Cimberio spa sul lago D’Orta, ha quasi 100 anni di vita e di dipendenti ne ha 200. Produce valvole. In ottone, ma sempre valvole che di per sé non sono nulla di innovativo. Nel 2015 Cimberio ha deciso di farle dialogare con la tecnologia digitale. «Comandare» le valvole a distanza, e farlo tramite un algoritmo intelligente, vuole dire regolare i flussi di riscaldamento e raffreddamento. In questo modo si possono ridurre i consumi di energia di vecchi edifici, senza bisogno di ristrutturazioni. Siccome le competenze digitali sono indispensabili ha iniziato una stretta collaborazione con una start up, Enersem, incubata al Polihub di Milano Bovisa, con 15 ingegneri. All’inizio la società è partita con un finanziamento europeo da 1,7 milioni, poi la famiglia ne ha messi altri 8,3 di tasca propria. E poi sono arrivati i risultati con le prime commesse importanti. Il Consorzio Tutela Grana Padano utilizza il loro sistema di regolazione per mantenere una temperatura sempre costante nei magazzini adibiti alla stagionatura. E ora li stanno installando anche gli alberghi. «Le notti insonni sono ancora tante – dice Cimberio – ma il traguardo si avvicina, ed è quello di portare questa tecnologia dentro le case».

L’azienda-comunità

Chi ha le spalle meno larghe ha bisogno anche dell’aiuto dei dipendenti per rispondere alla crisi. Soprattutto nelle attività energivore, dove spesso vanno riorganizzati i turni per concentrare la produzione sfruttando al massimo gli impianti. Alla Argo di Baranzate, alle porte di Milano, si producono guarnizioni in gomma. I 50 dipendenti hanno sempre lavorato su due turni, ma da settembre per fronteggiare i prezzi dell’energia hanno introdotto anche il turno di notte in modo da non spegnere gli impianti. Siccome non c’erano abbastanza commesse da saturare tutti i giorni della settimana, restavano fermi il venerdì e i dipendenti hanno accettato di conteggiarlo come ferie andando così incontro alle difficoltà dell’azienda. In questo modo le bollette si sono stabilizzate. Ora con la diminuzione del prezzo del gas contano di tornare alla normalità e di avere utili da redistribuire alla fine dell’anno.

Dividere gli utili con i dipendenti

Certo, se si stringe la cinghia tutti insieme poi l’azienda deve essere disponibile a redistribuire di più quando le cose vanno bene. Per esempio, l’edilizia sta navigando a gonfie vele, grazie anche alla spinta dell’ecobonus. Alla Genesio Setten di Oderzo, in provincia di Treviso, avrebbero potuto semplicemente dare un bonus, come fanno in molti. Invece la società ha deciso di redistribuire ogni anno ai dipendenti il 20% degli utili ai 140 dipendenti. Il nuovo sistema partirà nel 2023 sulla base degli utili del 2022. Le valutazioni degli uffici tecnici vengono poi riviste insieme con i rappresentanti di operai e impiegati. In relazione al merito di ciascuno il premio può andare da un minimo di 100 euro fino a superare i mille. I parametri considerati sono quantitativi ma anche qualitativi: capacità di collaborare, correttezza, affidabilità.

L’Italia resiliente

Si potrebbe pensare che quelli elencati fino a qui siano casi eccezionali, che non rispecchiano lo stato di salute del nostro sistema produttivo. Ma non è così. I dati mostrano che l’Italia arriva all’appuntamento con il rischio recessione più preparata di molti altri Paesi. L’economista Marco Fortis della fondazione Edison lo ha evidenziato a più riprese: la nostra manifattura è diventata più produttiva di quella tedesca.

Il turismo, poi, quest’anno ha messo a segno risultati straordinari, soprattutto da luglio in poi, grazie a una stagione allungata dal bel tempo: il tasso di occupazione delle nostre strutture è superiore a quello di Francia, Spagna e Grecia. Solo per il ponte dei Santi Federalberghi stima un giro d’affari di oltre tre miliardi.

Ben diversa la situazione sul fronte della finanza pubblica: abbiamo ad oggi un debito tra i più alti d’Europa, pari al 150% del Pil. Vuol dire che non possiamo permetterci di aumentare la spesa pubblica. A preoccupare c’è l’inflazione, spinta dai prezzi del gas che ora si attestano intorno ai 100 euro al megawattora: ad agosto hanno toccato punte di 300 euro, ma sono ben lontani dai 20-30 euro del periodo pre-crisi. Inoltre il gas, alla fine, potrebbe non bastare e non si escludono scenari di razionamento. In questo quadro il governo si appresta a definire la legge di Bilancio. Dalle categorie produttive si moltiplicano le richieste di aiuto. Ma tra le fila di chi ha davvero bisogno si insinuano anche settori e imprese che potrebbero farcela da soli, come è già successo durante l’emergenza Covid quando sono state sostenute con aiuti pubblici anche farmaceutica e grande distribuzione. E anche oggi si prospetta il rimborso a tutte le imprese energivore a prescindere dalla solidità finanziaria.

Aiuti incrociando i dati

Scegliere con rigore le imprese da sostenere è cruciale. Per due motivi. Il primo: i mercati potrebbero prendere male la nuova spesa finanziata in deficit per elargire aiuti a pioggia a chi non ne ha bisogno (la recente esperienza del Regno Unito insegna). Il secondo: elargire aiuti pubblici per non far sentire troppo l’aumento dei prezzi dell’energia anche alle imprese che potrebbero farcela con le loro gambe non le spinge a fare davvero tutto il possibile per ridurre i consumi. Vale anche per le famiglie. In conclusione: per aiutare davvero e con equità chi non è in grado di affrontare la crisi è necessario assumersi la responsabilità di incrociare tutte le banche dati con le bollette di cui si chiede il ristoro.

L’Italia è una Repubblica fondata sui bonus. Cinque motivi per cui i bonus sono contrari all’idea di lavoro e alla cultura liberale. Corrado Ocone l'8 Maggio 2022 su Nicolaporro.it.

Da una parte, si potrebbe dire celiando, ma non troppo, che la nostra sia diventata una Repubblica non più fondata sul lavoro, ma sui bonus; dall’altra, se ne potrebbe logicamente dedurre che i Padri costituenti inorridirebbero perché l’idea del bonus è la perfetta antitesi del concetto morale di lavoro a cui essi pensavano quando formularono quel primo articolo della nostra Carta fondamentale. 

Dove questa storia dei bonus sia nata, è abbastanza evidente: fu col fatidico assegno di 80 euro che il governo di Matteo Renzi concepì e attuò per meri e “populistici” obiettivi di consenso nel proprio bacino elettorale di riferimento (che per il Pd era e resta, anche ora che il senatore di Rignano ha cambiato casacca, quello impiegatizio e statale). Non c’è però dubbio che sia stata  in questa legislatura, in un crescendo che unisce i due governi di Giuseppe Conte a quello attuale di Mario Draghi, che il Bonus è diventato il vero feticcio o totem della politica italiana. È in questo  “brodo primordiale” che i Cinque Stelle hanno sguazzato a meraviglia, con rutti gli altri che, a dire il vero, si sono senza troppe difficoltà adeguati. Le polemiche di questi giorni sulla necessità di revocare o no il bonus sui lavori di ristrutturazione edilizia, oppure sulla cumulabilità del bonus di disoccupazione con il “reddito di cittadinanza”, ne sono il surreale epifenomeno. 

Perché il bonus come concetto sia antitetico all’idea moderna di lavoro, nonché alla cultura e sensibilità liberale, provo a dimostrarlo qui brevemente in cinque punti.

1. Il lavoro è stato dalla nostra civiltà concepito sempre più come un modo di promuovere la dignità umana e la realizzazione personale. L’idea  che la società, o lo Stato, possa accudirti e preservarti indipendentemente da quello che tu sei e fai, non solo deresponsabilizza ma invoglia a non fare nulla per uscire dallo stato di “protetto” in cui ci si è cacciati. Quindi, atrofizza la creatività e la voglia di impegnarsi, riducendoci a una sorta di “pecore” docili e svogliate. Il bonus è solo apparentemente un amico del debole: lo è molto più del Potere.

2. Lo Stato, incapace di risolvere alla radice i problemi, cioè prima di tutto disegnando un quadro generale nel cui spazio gli individui e la società possano muoversi liberamente, si affida a procedimenti ad personam che, rispetto all’universalità che dovrebbe essere propria della sua azione, favoriscono le lobby e le minoranze organizzate che sanno meglio muoversi o che sono più funzionali a certi giochi di potere o alle ideologie. Addio Stato di diritto! (continua a leggere a pagina 2)

3. È evidente che quello che il potere pubblico dà con una mano, deve togliere con l’altra, per parafrasare il titolo di un provocatorio libello contro le tasse scritto qualche anno fa dal filosofo tedesco Peter Sloterdjik. Una tale azione, in nome della giustizia, non può che creare altre e più profonde ingiustizie.

4. dalla proliferazione bulimica dei bonus ne esce vieppiù accentuato e rinforzato Il processo di regolamentazione e razionalizzazione, che è la cifra ma anche la croce del moderno, perché significa standardizzazione, omologazione, uniformazione, burocratizzazione. Il politico, o meglio il burocrate al potere, si sente in diritto di rimodellare la società appunto dando e togliendo, muovendo le pedine come in uno scacchiera in nome di un’idea astratta di bene che finisce quasi sempre per essere un male per la società intera e per ogni singolo individuo. È la mania costruttivisica e ingeneristico-sociale, che i padri del liberalismo  anche tanto criticato, che grazie ai bonus trova la sua apoteosi.

5. Se ogni desiderio diventa un diritto, e se ogni diritto va assecondato con un bonus dallo Stato, a patirne è la stessa coesione sociale, quell’adesione alle comuni regole del gioco che impone che ad ogni diritto corrisponda un dovere e ad ogni domanda un offerta del mercato. Sarebbe un dovere cercarsi un lavoro per guadagnare, ad esempio non lasciando scoperti quest’estate i posti di cameriere e cuoco in albergi e ristoranti italiani. Con grave danno per quella già tanto difficile ripresa del turismo italiano. Corrado Ocone, 8 maggio 2022

Decreto Rilancio 2020, la legge ha agevolato truffe per 6 miliardi di euro di cui 1,8 già spariti. Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022

Dieci miliardi di euro di fatture gonfiate, sei di crediti fiscali illegittimi di cui 1,8 già incassati e dileguati. I bonus Covid previsti dal Decreto Rilancio 2020, e in particolare quello sugli affitti non residenziali, bonus facciate e bonus sisma, hanno generato truffe vertiginose. Chi le ha ordite non ha nemmeno avuto bisogno di complicarsi troppo la vita con autorizzazioni e acquisti di materiali come per il Bonus 110%: qui un buon numero di abili truffatori, una rete intermediari e un plotone di prestanome hanno sfruttato una legge nata per essere aggirata con estrema facilità. 

Truffatori e complici uniti

Solo così si può spiegare, ad esempio, come due micro società immobiliari hanno potuto fatturarsi a vicenda canoni di affitto e lavori di adeguamento sisma (non realizzati) per 2 miliardi prima che la magistratura le fermasse. A Rimini un’organizzazione ramificata in tutta Italia, è partita da contratti d’affitto esistenti, ma nessuno ha controllato gli importi, gonfiati di 1000 volte. Hanno maturato crediti per 400 milioni, 100 recuperati, 300 incassati e svaniti. Ad Umbertide (Pg) un’oscura concessionaria d’auto ha accumulato crediti d’imposta inesistenti per 103 milioni, di cui 23 comprati da Poste da soggetti che non avevano mai fatto la denuncia dei redditi, rapinatori o con precedenti per associazione a delinquere. Poste e Cassa Depositi e Prestiti hanno liquidato nel corso del 2021 centinaia di milioni senza fiatare, sostenendo di aver agito in buona fede e ora ne chiedono il rimborso allo Stato. 

Art 121: la falla nel comma 1 lettera b e nel comma 4

Per capire il meccanismo bisogna partire dal Decreto Rilancio promosso a maggio 2020 dal governo Conte, che concede «un credito d’imposta del 60% dei canoni di locazione degli immobili commerciali o industriali, e fra l’80 e il 90% sui lavori di rifacimento facciate e adeguamento sisma» per aiutare le aziende in crisi, a fronte di spese sostenute per lavori realizzati. Il credito, detraibile dalle tasse, è per la prima volta girabile ad un numero infinito di soggetti, o incassabile subito vendendolo con sconto a istituti di credito. In particolare, l’articolo 28 sugli affitti è stato emendato 40 volte da maggioranza e opposizione per allargare i benefici a ogni tipologia possibile di affitto, dalle cabine balneari ai distributori automatici di bevande. Il guardasigilli ha vistato la legge (spesa stimata a carico dello stato di 1,5 miliardi, la sola truffa è costata sette volte tanto) e anche l’opposizione che non l’ha votata (il Governo aveva posto la questione di fiducia) ha applaudito. 

La norma folle

Se decidi di fare questo però devi mettere dei presidi importanti, perché basta che due privati si mettano d’accordo su un credito inesistente e il danno è fatto. Durante l’iter la Ragioneria dello Stato avverte: troppe cessioni di credito d’imposta possono innescare un’economia parallela e fittizia. L’Agenzia delle Entrate il 12 maggio solleva la stessa obiezione, ma la direttiva politica è quella di far girare l’economia e i controlli si fanno dopo. La bozza circola fra i capigabinetto, il ministro Gualtieri dà l’assenso alla norma, passa alla Ragioneria che la avalla, quindi al preconsiglio dei ministri, e poi il Presidente del Consiglio per l’ok finale. Il Decreto Rilancio viene approvato il 9 luglio 2020. A settembre 2020 sul sito di Poste si legge: «Per poter accedere al servizio di cessione del credito di imposta di Poste Italiane gli interessati non dovranno presentare alcuna documentazione per istruire la pratica (..) chi ha maturato il credito riceverà la liquidità sul proprio conto». 

La truffa madre

Criminali e faccendieri in Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana, Trentino e Veneto si mettono in moto. Il meccanismo si riassume in modo emblematico con il caso che riguarda due piccole srl di proprietà dei fratelli pugliesi Maurizio e Maria Marisa de Martino: Immobiliare Vallè srl, nata a metà 2019 ad Aosta per occuparsi di «locazione immobiliare di beni propri o in leasing (affitto)» e dal fatturato quasi inesistente, e la foggiana MaMa srl, attiva nel settore costruzioni, ma con fatturato che fino ad ottobre 2020 non supera i 20.000 euro al mese. 

Già nel mese di novembre Vallè fattura a Mama 12,5 milioni di euro per affitti di immobili non residenziali. A gennaio 2021 Vallè riceve da Mama fatture per 21,177 milioni per lavori da eseguire. Fatture elettroniche (quindi «leggibili» in tempo reale da parte dell’Agenzia delle Entrate) di importo incongruente con la capacità finanziaria dei soggetti ed emesse solo tra società gemelle. Contemporaneamente viene comunicata sulla piattaforma dell’Agenzia la cessione del credito a terzi. Siccome nessuno fiata, lo scambio tra Puglia e Valle d’Aosta diventa vorticoso. A febbraio fatture per 95 mln, ad aprile 142 milioni di cui 97 in un solo giorno. Tra maggio e agosto vengono depositate ulteriori fatture per oltre 200 milioni. A giugno, l’Ufficio Antifrode, che si sua iniziativa aveva cominciato ad osservare i transiti nella banca dati, vede che qualcosa non quadra ed inizia ad indagare. Intanto le società foggiane avanzano tranquille: a ottobre fatture per oltre 200 milioni, a novembre per 191,8. La giostra si ferma quando l’Agenzia delle Entrate consegna un dossier alla Procura di Roma che, il 22 dicembre 2021, con un provvedimento d’urgenza, congela crediti fiscali per oltre 1,25 miliardi di euro. Almeno 250 milioni, però, erano già stati liquidati da intermediari come le Poste e Cassa Depositi e Prestiti. 

Chi incassa è un nullatenente

Perché per oltre un anno nessuno è intervenuto in tempo reale sull’emissione di fatture con importi spropositati, o emesse da soggetti incapienti? Perché nessun controllo era previsto dalla legge sull’inserimento dei crediti nei cassetti fiscali. Nessun controllo era previsto tra la congruenza delle somme pagate e la qualità degli immobili (che spesso non esistevano o erano stanzette sfitte) e nessuna necessità di inserire copia dei contratti d’affitto. Nessun controllo sui lavori eseguiti per i richiedenti di bonus sisma o rifacimento facciate. La cessione del credito avveniva tramite comunicazione sulla piattaforma online dell’Agenzia delle Entrate del codice fiscale del beneficiario finale (e la legge non metteva limite al numero di cessioni) quello dell’incaricato dell’incasso. Chi eseguiva l’operazione doveva limitarsi a conservare i documenti «in vista di eventuali controlli». Ad incassare il cash era spesso un disoccupato, un ambulante o un incapiente che dal punto di vista legale non rischia nulla perché la legge si rivale solo su chi ha generato la truffa.

(...) nessun controllo era previsto dalla legge (…) Chi eseguiva l’operazione doveva limitarsi a conservare i documenti «in vista di eventuali controlli»

Chi paga: Poste e Cdp

Una volta che l’incapiente di turno, in cambio di una «mancia» da parte di chi ha ideato il meccanismo, vende il titolo a Poste o Cassa Depositi e Prestiti, è fatta. I soldi sono subito partiti per la Cina o altre destinazioni. I cessionari ora si trovano in mano carta straccia (valuta falsa, la definisce il magistrato Stefano Pesci) che dovrebbero inserire in bilancio come perdite, cosa che però non hanno nessuna intenzione di fare. In un decreto di dissequestro dello scorso 13 maggio (il caso è quello della O.B. Car, una piccola concessionaria di auto), i procuratori Raffaele Cantone e Laura Reale scrivono che molti dei soggetti dai quali Poste ha acquistato il credito fiscale presentavano «profili di rischio economico penale, fiscale». Cittadini che non hanno mai presentato un 730, ultraottantenni, pregiudicati per reati violenti e per truffe anche nei confronti di Poste. «Sarebbero bastate semplici verifiche su Google per accorgersene» scrivono i magistrati, inoltre non è dato comprendere perché Poste rifiuta a giugno 2021 la cessione di un credito per 150.000 euro al prestanome Nicola M., e tre mesi dopo cambia idea: M. si presenta allo sportello con 500 mila euro di crediti e li cambia a vista. La domanda che Poste avrebbe dovuto fare a M era questa: «come hai fatto a maturare mezzo milione di crediti?». Ma qual è l’interesse di un istituto di credito nell’acquistare crediti così rischiosi? Lo sconto. Per esempio Poste per ogni blocchetto da mezzo milione di euro, ne pagava al cliente 415.015, per scalare poi dalle proprie tasse la somma intera.

Ma qual è l’interesse di un istituto di credito nell’acquistare crediti così rischiosi? Lo sconto

I danni li paga lo Stato

Ora il problema è che Poste e Cassa Depositi e Prestiti (ma anche colossi dell’energia e del gas) vogliono che lo Stato rimborsi questi crediti che non possono più portare a compensazione delle tasse, sostenendo di averli acquistati nel rispetto della legge. A dire il vero ad aprile 2020 e a febbraio 2021 l’Unità di Informazione finanziaria di Banca d’Italia, nella comunicazione «prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria connessi all’emergenza Covid», aveva richiamato gli istituti di credito agli obblighi antiriciclaggio e a prevenire i rischi connessi con l’eventuale natura fittizia dei crediti d’imposta. Indicazione evidentemente non seguita. Infatti altri gruppi bancari, che hanno fatto un minimo di due diligence sui soggetti che volevano cedere i crediti e sui contratti sottostanti, di fregature non ne hanno prese. Sta di fatto che Poste e Cdp per aver ragione hanno ingaggiato una principessa del Foro, l’avvocata Paola Severino, ex ministro della Giustizia e membro del Comitato Scientifico proprio di Cdp. Negli ultimi mesi alcuni crediti sono stati sbloccati, altri no, e il contenzioso passa nelle mani dei tribunali. Se gli intermediari vinceranno, le somme trafugate le pagherà lo Stato. Se perderanno, anche: Poste è controllata al 60% dal Ministero delle Finanze, Cdp all’83 per cento.

Ora il problema è che Poste e Cassa Depositi e Prestiti (ma anche colossi dell’energia e del gas) vogliono che lo Stato rimborsi questi crediti che non possono più portare a compensazione delle tasse

Draghi mette la parola fine

L’11 novembre 2021 la norma che di fatto autorizzava le frodi carosello è stata integrata d’imperio dal governo Draghi, imponendo all’Agenzia delle Entrate 30 giorni di tempo per il controllo sulla cessione crediti. E la cessione del credito non può avere più di 4 passaggi. Mentre per gli istituti di credito c’è il divieto di acquistare da soggetti a rischio. Infatti nel corso del 2022 gli imprenditori onesti hanno continuato a lavorare, ma ben 2 miliardi di tentate truffe sono state bloccate sul nascere. La domanda è: il parametro informatico che incrocia i dati, fa scattare un allerta automatica che arriva al funzionario dell’Agenzia delle Entrate e gli dice «apri quel cassetto fiscale», poteva essere adottato da luglio 2020? La risposta è «sì». Avrebbe rallentato l’economia? No. Si sarebbe però evitato di foraggiare ladri e criminali.

Il flop dei superbonus: in crisi un’impresa su tre e boom di contenziosi. Armando Rossi su Il Riformista il 31 Luglio 2022 

C’erano una volta le Pmi che hanno contribuito al boom economico dell’Italia e che ci invidiavano in tutto il mondo. Oggi gli imprenditori, soprattutto edili, che stavano ancora facendo i conti con le crisi nate a partire dagli anni 2000, sono strozzati dal blocco delle cessioni dei crediti dei bonus edilizi e dalla crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina. Il Superbonus – misura fiscale studiata per il rilancio dell’economia nazionale e delle imprese edili – sta paradossalmente portando al collasso proprio le aziende che doveva risollevare. Si tratta di una vera mazzata per queste Pmi che avevano fatto affidamento su queste misure fiscali, investendo capitale e risorse umane.

Oggi, a causa della mancanza di liquidità, gli imprenditori non riescono più a far fronte agli impegni assunti. Sono migliaia le aziende a rischio fallimento e centinaia di migliaia i posti di lavoro che rischiano di essere persi in tutto il settore delle costruzioni: un’impresa su due sta pagando i fornitori in ritardo, il 30,6% rinvia le tasse e le imposte, e una su cinque non riesce a pagare i propri collaboratori. A qualcuno ancora non sono ancora chiari due aspetti fondamentali: in primis, attraverso lo sconto in fattura, l’impresa anticipa per conto dello Stato un beneficio al committente, facendo affidamento sulla possibilità – prevista dalla legge – di recuperare il valore della prestazione attraverso la cessione a terzi; in secondo luogo, i tassi più alti richiesti dalle banche e l’aumento triplicato dei costi dei materiali assottigliano solo gli utili dell’impresa, la quale è tenuta a rispettare il tetto degli importi di spesa imposti dalla legge. La crisi di governo in atto porta ulteriori danni agli imprenditori e alle famiglie coinvolte, causando incertezze e instabilità normativa.

Bisognerà, poi, valutare l’efficacia della soluzione proposta con l’emendamento al D.L. Semplificazione: i crediti maturati ante 1° maggio 2022, allo stato sospesi, dovrebbero poter beneficiare della possibilità di cessione da parte delle banche e degli intermediari finanziari ai vari clienti professionisti e imprese. Ma ci vorrà comunque tempo, troppo tempo! Nel frattempo le imprese rischiano il fallimento. Ed oggi, con il nuovo codice della crisi di impresa, anche con 5 mila euro di debito tributario o previdenziale si rischia l’attivazione di allert che potrebbero condurre l’imprenditore a subire un percorso senza ritorno. E cosa fa lo Stato con il suo plotone di esecuzione dell’Agenzia delle Entrate, comandato da Ruffini? Invece di cercare di sbloccare i crediti con una normativa concretamente efficace, ha ordinato oltre mezzo milione di controlli per recuperare 18 miliardi di euro.

Nel frattempo, Agenzia dell’Entrate continuerà a farla da padrona, grazie all’interpretazione delle norme vigenti in senso favorevole alle banche (spalleggiate dai chiarimenti dell’ABI): basti vedere la famigerata Circolare 23/E di Agenzia delle Entrate che, contro ogni principio di diritto pubblico, si è elevata quasi a norma di legge, con la previsione di responsabilità a carico delle banche in caso di inosservanza del dovere di diligenza qualificata, fino a quel momento mai pervenuta nella legislazione. Inoltre, a partire dal 1° luglio si è registrato un vertiginoso aumento delle percentuali a titolo di corrispettivo per le cessioni del credito d’imposta: tutto ciò mentre le imprese sono schiacciate, da un lato, da solleciti di pagamento dei fornitori, dall’altro, da “puntuali” cartelle di Agenzia dell’Entrate.

Gli imprenditori continueranno a subire ingenti danni di natura patrimoniale non potendo monetizzare i crediti, non potendo pagare tasse, imposte, dipendenti e materiale. Tutti questi debiti genereranno interessi, sanzioni, rivalutazione monetaria, sfociando in contenziosi legali defatiganti e costosi. Come faranno gli imprenditori, già vessati da anni da una pressione fiscale e contributiva pari a circa il 65%, a resistere a questa drammatica crisi di liquidità ed attendere che fatalmente possa cambiare a breve qualcosa? Ecco che la parola spetta ora ai professionisti specializzati che dovranno tutelare i diritti lesi di migliaia di imprese del nostro, a volte, inefficiente Paese. Armando Rossi

(ANSA il 30 luglio 2022) - Con "5.175 milioni di euro incagliati nei cassetti fiscali delle imprese - di cui 3.684 milioni (il 71,2%) per il superbonus e 1.491 milioni (28,8%) per gli altri bonus edilizi - la loro inesigibilità costerebbe la perdita di 46.912 addetti nelle micro e piccole imprese". 

È la nuova "denuncia" di Confartigianato che ha calcolato l'impatto sull'occupazione nelle costruzioni del blocco della cessione crediti. Così "si ridurrebbe del 40% l'aumento di occupazione creato nel settore delle costruzioni nell'ultimo anno".

"È paradossale e autolesionista" avverte il presidente Marco Granelli. Confartigianato "ha calcolato l'impatto sull'occupazione nel settore delle costruzioni a causa del blocco del sistema della cessione dei crediti, non gestibili sul mercato bancario a causa delle continue modifiche normative in materia".

E sintetizza: "Se le piccole imprese non potranno incassare i 5,2 miliardi di crediti fiscali per lavori incentivati dai bonus edilizia si perderanno 47mila posti di lavoro". Così si ridurrebbe del 40% l'aumento di occupazione creato nel settore delle costruzioni nell'ultimo anno, pari a 116 mila unità posti di lavoro in più tra il primo trimestre 2021 e il primo trimestre 2022, equivalente ad un ritmo di crescita del +8,4%, il doppio rispetto al totale dell'economia (+4,1%).

"Il blocco dei crediti, le continue modifiche normative in materia di bonus edilizia e la volontà del Governo di non prorogare il superbonus - evidenzia la confederazione di artigiani e piccole imprese - colpiscono proprio l'unico settore che, anche grazie a queste misure di sostegno, ha rimesso in moto il mercato del lavoro negli ultimi due anni. 

Infatti, tra il primo trimestre 2020 e il primo trimestre 2022, le costruzioni hanno fatto registrare l'aumento di 176mila addetti, a fronte del calo generalizzato di addetti nei servizi (-106mila), nella manifattura (-41mila), nell'agricoltura (-50mila). A livello territoriale il maggiore incremento di occupazione nelle costruzioni si è registrato nel Mezzogiorno, con 101mila addetti in più negli ultimi due anni, seguito dalla crescita di 71mila occupati nel Nord Ovest".

"È paradossale e autolesionista - commenta i presidente di Confartigianato Marco Granelli - bloccare strumenti che hanno consentito la creazione di lavoro, il rilancio della domanda interna e che dovrebbero favorire la transizione ecologica del nostro Paese. Mi auguro si trovi una soluzione rapida e di buon senso, innanzitutto per 'liberare' i crediti fiscali incagliati ed evitare il fallimento di migliaia di imprese che non possono pagare dipendenti, fornitori, tasse e contributi, oltre a scongiurare la miriade di contenziosi legali che si aprirebbe inevitabilmente a causa del blocco dei cantieri avviati, a danno dei cittadini che hanno commissionato i lavori e che ora li vedono messi a rischio".

"Per il futuro degli incentivi nel settore edilizia, che la Commissione europea ha indicato tra le armi più efficaci per rilanciare lo sviluppo - aggiunge Granelli - mai più gli stop and go normativi di questi ultimi mesi che hanno vanificato le aspettative e gli sforzi di cittadini e imprenditori. Siamo pronti fin d'ora ad un confronto con il Governo e il Parlamento per individuare soluzioni equilibrate, che mettano al riparo dalle truffe dei finti imprenditori, e definire provvedimenti certi, strutturali e sostenibili finalizzati a favorire la transizione green e il risparmio energetico".

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 22 giugno 2022.

Per intendersi: sono tre volte i finanziamenti straordinari pensati per la sanità, nell'epoca del post covid. Poco meno di quanto si immagina di spendere per il reddito di cittadinanza nel 2022, sei volte di più dei nuovi finanziamenti alle imprese, più di quanto è stato destinato per gli ammortizzatori sociali. 

Come una piccola finanziaria, insomma, che potrebbe cambiare il destino di migliaia di famiglie italiane. È invece la cifra di una truffa. Anzi, sono 5,64 miliardi di euro di truffe che, secondo l'ultima ricognizione della Guardia di Finanza e dell'Agenzia delle entrate, sono state accertate sul sistema dei bonus edilizi.

Quello che avrebbe dovuto - e in parte lo ha fatto - rilanciare l'economia. E che invece si è trasformato in un pericoloso cratere per i conti pubblici. Denunciato dal governo Draghi nei mesi scorsi. E confermato dalle indagini delle procure italiane. 

«Andrà sempre peggio: più scaveremo e più verranno fuori disastri» si era sfogato con Repubblica un investigatore a inizio 2022 quando sul tavolo della Finanza e del Ministero dell'Economia arrivarono gli esiti delle verifiche sull'utilizzo dei bonus edilizi. Parliamo di quello facciate, in primis. E di ecobonus, bonus locazioni, sisma e superbonus.

Dopo il controllo a campione su quelle società che avevano nel portafoglio crediti fiscali superiori al mezzo milione di euro, si erano scoperte truffe per 4,2 miliardi. Un monte di denaro pubblico. 

Ma purtroppo il vaticinio dell'investigatore era corretto: nel giro di quattro mesi i finanzieri hanno visto le frodi lievitare del 25 per cento circa. Ad oggi sono 2,5 miliardi i crediti inesistenti già sequestrati, 2,7 miliardi quelli su cui pende richiesta di sequestro, 452 milioni quelli sospesi sulla piattaforma dell'Agenzia.

I sistemi per sottrarre soldi allo Stato con i bonus sono quelli individuati dagli uomini del Comandante generale della Finanza, Giuseppe Zafarana, che ha creato una task force in collaborazione con le Entrate per tentare di recuperare le somme. 

Sfruttano una serie di vulnus che la normativa, almeno al principio, aveva: senza troppi controlli, i cittadini o le imprese dichiarano di avviare un intervento edilizio previsto dalla legge, e così incamerano un credito fiscale con lo Stato che copre una percentuale delle opere da realizzare.

Questo credito può essere "incassato" in due modi: scontandolo dalla dichiarazione dei redditi, oppure cedendolo a banche e intermediari in cambio di una somma minore all'importo ma immediata. Cash. 

In un primo momento era possibile vendere all'infinito i crediti. E questo rendeva difficoltoso risalire a quello originario di partenza per accertare un'eventuale truffa (per esempio: sono state progettate ristrutturazioni milionarie su quelle che in realtà erano stalle di pochi metri quadrati).

Ora il passaggio senza limiti è stato vietato, il credito lo si può cedere una volta sola, però ormai i buoi, e non solo i buoi, sono scappati. Per dire: coloro che sono considerati gli "inventori" delle truffe sui bonus - un imprenditore e un commercialista pugliesi oggetto della maxi inchiesta della procura di Rimini che ha rilevato truffe per mezzo miliardo di euro - sono stati arrestati dopo cinque mesi di latitanza.

Uno era a Santo Domingo, l'altro in Colombia. Come sempre accade in queste situazioni, le vittime dei sistemi di truffa allo Stato sono i cittadini onesti. Le banche hanno cominciato a non scontare più - o a farlo con molta difficoltà - i crediti in portafoglio, proprio per evitare di finire nel mezzo di guai giudiziari. Risultato: chi aveva cominciato i lavori è senza liquidità.

Con il rischio concreto, in questa seconda metà del 2022, che migliaia di aziende, molte delle quali nate proprio con la spinta dei bonus, possano fallire, lasciando cantieri a metà e buchi finanziari. Inoltre, è notizia di questi giorni, già a fine maggio l'ammontare delle richieste per i lavori del 110 per cento (il bonus che permette di fare efficientamenti energetici praticamente gratis) erano più dei fondi stanziati dal Governo. In sostanza: non ci sono più soldi per rimborsare imprese e banche. Perché molti, troppi, sono finiti nelle tasche di chi non ne aveva diritto. 

110 e Lode. Report Rai PUNTATA DEL 30/05/2022 di Luca Bertazzoni. Collaborazione di Edoardo Garibaldi  

Una delle più grandi truffe della storia della Repubblica.

Il Ministro dell’economia Daniele Franco ha definito le frodi generate dai bonus edilizi concessi dallo Stato: “Una delle più grandi truffe della storia della Repubblica”. Finora la Guardia di Finanza ha scoperto 4,4 miliardi di euro di crediti fittizi derivanti da lavori mai effettuati da imprese di costruzioni. Proprio per i bonus, abbiamo assistito a un boom, da maggio 2020 a oggi ci sono 45mila imprese in più che operano in edilizia. Report è andato a vedere come queste imprese lavorano in un settore che ha vissuto un’impennata dei prezzi da quando è stata introdotta questa misura, che è già costata allo Stato italiano quasi 30 miliardi di euro. E poi un viaggio a San Severo, in provincia di Foggia, alla ricerca di “mister miliardo”.

110 e lode di Luca Bertazzoni collaborazione di Edoardo Garibaldi.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Questo è un nostro furgone utilizzato per i servizi di appostamento e pedinamento dinamico.

LUCA BERTAZZONI Si chiama balena, giusto?

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Sì, balena: un veicolo tattico di osservazione.

LUCA BERTAZZONI Ci sono diverse telecamere.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Sì, questo è un sistema con tutte microcamere occultate in tutte le sue parti, quindi anche nel vano anteriore e negli specchietti. Dentro c‘è la postazione dell’operatore: qui c’è una mini control room dove l’operatore ha visione sugli impianti, riesce a gestire le telecamere. Il sistema riconosce i soggetti, ci permette di avere anche da distanze molto lunghe una certezza e un’identificazione del soggetto investigato.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’arrivo dei bonus edili ha portato tanto lavoro non solo nel settore delle costruzioni, ma anche e soprattutto agli investigatori privati.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Siamo stati incaricati da dei condomini che avevano affidato questo cosiddetto superbonus ad una ditta che dopo poco si era resa irreperibile. Adesso vediamo…

LUCA BERTAZZONI Si sta avvicinando.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO I due soggetti si avvicinano. Ecco in questo caso vediamo uno scambio, eccola può essere una busta contenente dei contanti o qualche pratica, ora non sappiamo, vedremo poi dal filmato di capire nel dettaglio.

LUCA BERTAZZONI Però lo scambio c’è stato.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Sì, lo scambio c’è stato.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Negli ultimi due anni l’investigatore privato Giuseppe Strollo ha indagato su 15 truffe legate ai bonus edili.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Qui tracciavamo e pedinavamo un incontro tra l’imprenditrice del consorzio e un consulente, qui possiamo vedere che si recava presso l’istituto di credito.

LUCA BERTAZZONI Cosa andava a fare in banca?

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO In questo caso lui andava in banca a presentare la pratica per cedere il famoso credito.

LUCA BERTAZZONI Quindi andava ad incassare.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Ad incassare, sì, questo è il senso. Loro qui montavano solo le impalcature, ma effettivamente non iniziavano i lavori.

LUCA BERTAZZONI Hanno lasciato solo quelle impalcature?

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Hanno lasciato tutto così. Il materiale acquistato veniva poi rivenduto a dei ricettatori locali.

LUCA BERTAZZONI Quindi hanno acquistato il materiale per i lavori del superbonus?

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Ma al posto poi di installarlo e quindi di impiantarlo presso i nostri clienti è stato rivenduto al mercato nero.

LUCA BERTAZZONI Questo è il sistema delle truffe.

GIUSEPPE STROLLO - INVESTIGATORE PRIVATO Questo è il sistema delle truffe, sì. Partiamo dal cassetto fiscale perché quello è il momento in cui il nostro cliente veniva a conoscenza di lavori mai effettuati, dopo di che trovavamo le società amministrate per la maggior parte da nullatenenti, addirittura da alcuni pregiudicati, le emissioni di fatture per operazioni inesistenti, quindi tutta la parte dei consulenti, dei commercialisti compiacenti e tutta la parte peritale, quindi tutti i professionisti che avevano elaborato false perizie, fino ad arrivare ad una truffa complessiva di circa un milione di euro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli investigatori sono quelli che hanno incassato qualcosa da questo nuovo provvedimento. Siamo nel 2020, c’è stata la pandemia, c’è stata una battuta d’arresto paurosa. Il governo Conte deve in qualche modo provvedere per dare di nuovo linfa vitale al paese, alle famiglie alle imprese e si punta su quello che viene da sempre considerato il motore del Pil italiano, cioè il mondo dell’edilizia che è in crisi dal 2011. Quindi che cosa si fa? Si investe pesantemente, 40 miliardi in bonus edilizi, oltre 33 solo per il superbonus, il 110%. Questo dal secondo governo Conte e poi da Draghi. Serve soprattutto per muovere l’economia, l’abbiamo detto ma anche per rigenerare il nostro patrimonio immobiliare, e soprattutto per renderlo un po’ più efficiente dal punto di vista energetico, per agevolare la transizione ecologica. Ma Come funziona il 110%? Tu devi ristrutturare un immobile, costa 100- Lo stato ti dice ti do 110 così hai anche la copertura per le spese bancarie. Come viene ridato sostanzialmente la quota? Si trasforma in detrazione fiscale, in credito fiscale. Sostanzialmente lo stato restituisce togliendoti una parte dalla quota di tasse che tu devi pagare ogni anno. Ma c’è un problema. Non tutti guadagnano abbastanza, non tutti pagano tasse sufficienti, per poter detrarre una quota di una ristrutturazione e allora lo stato ha pensato di rendere cedibile questo credito. a terzi soggetti, a ditte, ma anche a banche, assicurazioni e alle poste. Insomma questo si è trasformato in un grandissimo affare soprattutto per i professionisti che trattengono il 10-20 per cento del lavoro che gli viene commissionato. E soprattutto anche per i truffatori che si sono infilati lungo la strada con modalità che ricordano personaggi della commedia italiana. Solo che c’è poco da ridere. C’è chi ha accumulato un miliardo di crediti fiscali. Insomma sono soldi dei contribuenti. Chi è Mr miliardo? Il nostro Luca Bertazzoni.

INTERCETTAZIONE RIMINI IMPRENDITORE 1 Guarda, a me sinceramente, ti dico la verità, questi due anni… l’inizio del Coronavirus mi ha portato bene nel senso economicamente. Ho approfittato, ti dico la verità, sono diventato uno squalo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma lo squalo è finito nella rete della Guardia di Finanza di Rimini che ha scoperto una maxi frode ai danni dello Stato. Un’inchiesta che ha portato all’esecuzione di 35 misure cautelari e 12 arresti, con accuse che vanno dalla truffa aggravata al riciclaggio.

ROBERTO RUSSO - GUARDIA DI FINANZA RIMINI Si sono suddivisi il territorio, l’intero territorio nazionale, qui avevamo il gruppetto in Veneto, il gruppetto a Rimini, il gruppetto in Puglia, avvalendosi di numerosissimi prestanome e tante società, si parla di 116 società.

INTERCETTAZIONE RIMINI IMPRENDITORE 1 Tu vedi se troviamo pure un architetto. Vedi anche un ingegnere, per fare un lavoro sistematico.

IMPRENDITORE 2 Certo. IMPRENDITORE 1 Dobbiamo averne di più perché non è che possono risultare tutti con la stessa firma.

IMPRENDITORE 2 È chiaro. ROBERTO RUSSO - GUARDIA DI FINANZA RIMINI Avevamo questo gruppo centrale di 12 soggetti che secondo le nostre indagini gestivano il tutto, procacciavano gli altri collaboratori, procacciavano i prestanome, si occupavano di caricare questi crediti, si occupavano della cessione e della monetizzazione.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il sistema è semplice: grazie ad un giro di professionisti del settore vengono generati dei crediti fiscali relativi a ristrutturazioni mai realizzate. Questi crediti vengono poi caricati nei cassetti fiscali di alcuni prestanome. Dopo aver caricato i crediti nel cassetto fiscale, il prestanome li cede agli istituti bancari e passa all’incasso. La moneta virtuale diventa così moneta reale.

ROBERTO RUSSO - GUARDIA DI FINANZA RIMINI Il denaro contante era nascosto anche dentro delle botole, nelle cornici degli armadi: li avevano nascosti bene. Avevano comprato lingotti d’oro, cripto-valuta, stavano comprando delle società.

LUCA BERTAZZONI Stiamo parlando di una cifra complessiva di?

ROBERTO RUSSO - GUARDIA DI FINANZA RIMINI Partendo dal mese di luglio, dove avevano caricato poche decine di migliaia di euro, siamo passati a centinaia di migliaia di euro, milioni di euro, per poi arrivare dopo l’estate a settembre a 150 milioni di euro, da là a 200 prima di Natale, 440 al 10 gennaio.

INTERCETTAZIONE RIMINI IMPRENDITORE 1 Tu non hai idea di quanti cazzo di soldi hanno fatto. Non sanno più dove andare ad aprire i conti correnti in giro per il mondo per mettere soldi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Con due click sul computer e nessun controllo, generare truffe milionarie è stato fin troppo semplice. Un gioco da ragazzi, come lo descrive in questa intercettazione un imprenditore arrestato.

INTERCETTAZIONE RIMINI IMPRENDITORE 1 Madonna Santa! Lo Stato italiano è pazzesco, è una cosa…vogliono essere inculati praticamente!

LUCA BERTAZZONI Cercavo mister miliardo.

CITTADINO DI SAN SEVERO 1 Mister miliardo?

LUCA BERTAZZONI Avete sentito? Maurizio De Martino.

CITTADINO DI SAN SEVERO 1 Noi non abbiamo neanche una lira.

CITTADINO DI SAN SEVERO 2 Noi siamo poveri.

LUCA BERTAZZONI Mister miliardo.

CITTADINO DI SAN SEVERO 3 Ah, sì ho sentito il soprannome.

LUCA BERTAZZONI Un miliardo di crediti nel cassetto fiscale.

CITTADINO DI SAN SEVERO 3 Sì, ho sentito. C’è un’indagine credo.

LUCA BERTAZZONI Sì, ma le lo conosce De Martino?

CITTADINO DI SAN SEVERO 3 Sì, di vista sì. Lo conosco perché sta qui di fronte.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ad incassare parte del miliardo di euro sono state decine di società individuali spuntate dal nulla nel giro di pochi mesi, tutte con sede in una piccola via di questo quartiere nella periferia di San Severo, un comune di 50mila abitanti nella provincia di Foggia.

LUCA BERTAZZONI Quale è il garage dove hanno messo la sede della partita Iva?

CITTADINO DI SAN SEVERO 4 Loro i garage che hanno questi sono.

LUCA BERTAZZONI Ah, quindi queste sono le sedi delle società, garage.

CITTADINO DI SAN SEVERO 4 Così pare.

LUCA BERTAZZONI Ha mai visto qualcuna di queste persone che lavorava qui?

CITTADINO DI SAN SEVERO 5 Abitano più avanti.

LUCA BERTAZZONI L’abitazione è una cosa, però la società è dentro questo garage.

CITTADINO DI SAN SEVERO 5 Questi sono negozi di alimentari.

LUCA BERTAZZONI Però qui sono passati milioni di euro di crediti d’imposta.

CITTADINO DI SAN SEVERO 5 E che ne so io? A me non hanno dato niente, magari!

LUCA BERTAZZONI Al numero 1 ci sono non so quante partite Iva di procacciatori di affari che hanno gestito crediti per centinaia di milioni di euro.

CITTADINO DI SAN SEVERO 6 Lo so, non ce ne siamo accorti se no qualche cosa si cercava di avere.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Chi invece sicuramente se ne è accorta è la signora Giovanna Tenace, che dal 2016 al 2021 non dichiara nulla al fisco italiano, ma poi apre una partita Iva come procacciatrice di affari e nel giro di pochi mesi incassa quasi un milione di euro.

LUCA BERTAZZONI Signora Giovanna?

GIOVANNA TENACE Sì?

LUCA BERTAZZONI Salve, sono Luca Bertazzoni, un giornalista di Rai Tre. Posso disturbarla un secondo?

GIOVANNA TENACE No guardi, non ho tempo.

LUCA BERTAZZONI Un secondo solo, ci stavamo occupando della storia che la riguarda.

GIOVANNA TENACE Lo so, già ne ho parlato. La ringrazio.

LUCA BERTAZZONI Ci chiedevamo soltanto…

LUCA BERTAZZONI Quale è il sistema di questo tipo di frode?

IVAN CIMMARUSTI - IL SOLE 24 ORE A monte ci sono due società che emettono fra loro delle false fatturazioni, dichiarano sostanzialmente di aver fatto dei lavori edili che non sono stati mai fatti. Queste false fatture vengono poi girate ad un fiscalista, il quale si occupa poi di inserirle all’interno della piattaforma dell’Agenzia delle Entrate. Questi crediti di imposta quindi vengono ceduti in un secondo momento a delle persone fisiche. Queste persone fisiche sono dei soggetti nullatenenti, risultano interi nuclei familiari. Questa cessione a delle persone fisiche ha evidentemente un unico obiettivo, quello di mandare questi soggetti in banche o assicurazioni o come successo a Poste Italiane…

LUCA BERTAZZONI A riscuotere.

IVAN CIMMARUSTI - IL SOLE 24 ORE Esattamente. Per monetizzarli, per riscuotere i soldi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A San Severo le due società che si sono scambiate le fatture che hanno poi generato crediti per oltre un miliardo di euro sono la Mib, Mama International Business, e la Sviluppo Immobiliare Valle. Stessa sede, stesso commercialista, stessi proprietari: i fratelli De Martino. A occuparsi del reclutamento di persone fisiche che potessero incassare i crediti era il loro collaboratore Francesco Tenace.

LUCA BERTAZZONI Signor Tenace.

FRANCESCO TENACE Salve.

LUCA BERTAZZONI Noi stiamo provando a contattare il signor De Martino, ma…

FRANCESCO TENACE No, non può parlare.

LUCA BERTAZZONI Perché ha fatto un casino questa vicenda.

FRANCESCO TENACE Sì, si parla di un miliardo e 17 milioni di ipotetico volume di affari che avremmo, tutti insieme me compreso, generato sotto forma di credito fiscale.

LUCA BERTAZZONI Una bella cifra, questo dico.

FRANCESCO TENACE Sì, ma poteva essere molto di più.

LUCA BERTAZZONI Addirittura?

FRANCESCO TENACE Certo!

LUCA BERTAZZONI Lei stesso un milione e 250mila euro di crediti ceduti.

FRANCESCO TENACE Sì, un milione con la partita Iva e 250mila il personale, alle Poste qui di fronte.

LUCA BERTAZZONI Qui di fronte alle Poste era pure comodo, sotto l’ufficio.

FRANCESCO TENACE Li porti sul portale, lo potevi fare pure tu. Se qualcuno ti metteva a disposizione un plafond andavi alle Poste e glielo cedevi, incassavi.

LUCA BERTAZZONI Infatti è quello il problema, che è troppo semplice.

FRANCESCO TENACE È troppo semplice perché la normativa è quella.

LUCA BERTAZZONI Quanto le è rimasto in tasca?

FRANCESCO TENACE 15mila euro per la cosa e sul milione 280mila euro se li sono presi le Poste, e 50mila euro li ho presi io che ci vado a pagare le tasse.

LUCA BERTAZZONI Paga tante tasse quindi.

FRANCESCO TENACE Eh sì, perché devi stare tutto a posto.

LUCA BERTAZZONI Detto da lei, dopo questo casino.

FRANCESCO TENACE I soldi a chi cazzo vanno? Vanno allo Stato.

LUCA BERTAZZONI Ma allora cosa lo ha fatto a fare tutto questo impiccio?

FRANCESCO TENACE Devono chiarirsi loro.

LUCA BERTAZZONI È sbagliata la normativa?

FRANCESCO TENACE Questo è un altro concetto.

LUCA BERTAZZONI C’è chi ne può approfittare, questo dico.

FRANCESCO TENACE Approfittare è un termine un pochino forte.

LUCA BERTAZZONI A lei questo credito chi glielo ha messo a disposizione? Parliamo di 1 milione e 250mila euro.

FRANCESCO TENACE La Mib.

LUCA BERTAZZONI Sempre De Martino.

FRANCESCO TENACE Certo, mi ha messo a disposizione il credito perché io ci lavoro, perché io sono amministratore di condominio, quindi ho 40 condomini alle spalle, ho un’azienda tutta mia.

LUCA BERTAZZONI Scusi, Tenace Giovanna è sua sorella?

FRANCESCO TENACE Sì, è della mia famiglia.

LUCA BERTAZZONI Sua sorella quindi non dichiara e non versa nulla dal 2016, ad ottobre 2021 apre una partita Iva così generica come procacciatrice di affari. Poi compra 250mila euro di crediti, li rivende, poi ne compra altri 500mila, tenta di rivenderli, a quel punto Poste se ne accorge e rifiuta la transazione.

FRANCESCO TENACE No, ma non è così. Il fatto è che ha finito il plafond.

LUCA BERTAZZONI Poi c’è lei, c’è questo Tenace Giuseppe Ennio.

FRANCESCO TENACE Sì, quale è il problema?

LUCA BERTAZZONI Chi è? Un altro suo parente?

FRANCESCO TENACE Sì.

LUCA BERTAZZONI Tenace Enrichetta un’altra sua parente, Tenace Soccorsa un’altra sua parente.

FRANCESCO TENACE Tutti parenti miei. Avevo solo questi parenti, magari ad averne altri.

LUCA BERTAZZONI Lei lo ha fatto fare a tutta la sua famiglia.

FRANCESCO TENACE Certo. Se questo è un reato ne discutiamo.

LUCA BERTAZZONI La stessa cosa con i Vicciantuoni, che parentela hanno con la vostra famiglia?

FRANCESCO TENACE Sono tutti amici, parenti. Sono tutti quanti conoscenti e fidati.

LUCA BERTAZZONI Un milione di euro, 500mila euro, 500mila euro. Bazzecole insomma, niente di che.

FRANCESCO TENACE L’azienda per trasferire un milione di crediti fiscali al signor Bertazzoni, lo devo conoscere perché se no il signor Bertazzoni si prende il credito, scappa, se ne va e vattela a pesca il signor Bertazzoni dove sta. Il problema poi è nostro.

LUCA BERTAZZONI E allora vado a chiamare i parenti e faccio prima.

FRANCESCO TENACE Eh, hai capito.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Parenti, amici e conoscenti. Perché di crediti da riscuotere ce ne erano fin troppi per una società che in media, nei due anni precedenti, aveva avuto ricavi per poche centinaia di migliaia di euro. E che con l’arrivo dei bonus edili si è improvvisamente trovata a gestire un giro di affari di oltre un miliardo di euro.

FRANCESCO TENACE Ci sta la normativa, ci sta l’applicazione, la applichiamo, tutto a norma di legge: dove cazzo sta il problema?

LUCA BERTAZZONI Siete bravi, cosa vi devo dire?

FRANCESCO TENACE È quello il problema, che ci possano essere delle persone in Puglia a San Severo, nell’ultima provincia d’Italia dove c’è di tutto, e ci possono essere delle persone oneste che hanno preso una normativa e l’hanno applicata. Adesso mi puoi dire che la norma ha delle maglie larghe, che magari si poteva fare in maniera diversa, ma non è un problema nostro.

LUCA BERTAZZONI Ma loro stanno dicendo che non l’avete applicata bene, che c’è una truffa sotto.

FRANCESCO TENACE Prima o poi ce lo dimostreranno. Infatti a differenza di altre situazioni…

LUCA BERTAZZONI Non vi hanno ancora arrestati.

FRANCESCO TENACE Non ci hanno ancora arrestati, può darsi che ci arresteranno fra qualche minuto, non lo so.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non li hanno arrestati, ci congratuliamo con loro. Secondo la Procura di Roma , giazie a una serie di fatture fittizie scambiate tra due società e la complicità di alcuni professionisti compiacenti, i signori avrebbero accumulato la bellezza di un miliardo di crediti fiscali anche per ristrutturazioni mai eseguite. I signori Maurizio De Martino e la sorella ci scrivono attraverso il loro avvocato che ritengono “realmente di aver agito a norma di legge sin dal primo intervento”. Insomma noi ce lo auguriamo ma se così fosse, l’Italia sarebbe veramente il Paese delle grandi opportunità. Perché in base al patrimonio immobiliare dei signori monitorato, ci sarebbe una gran parte 1152 tra stalle e scuderie, dunque il valore degli immobili non giustificherebbe una cifra per la ristrutturazione tale da far accumulare un miliardo di crediti fiscali. Ora gli investigatori stanno continuamente indagando su questa vicenda ma anche su tutte le segnalazioni che arrivano dalla Agenzia delle entrate che sono tantissime. Su oltre 40 miliardi di investimenti sui vari bonus edilizi, le truffe ammonterebbero a oltre 4,4 milardi di euro. Poi sulla qualità dei lavori e delle ditte che fanno questi lavori lo vedremo dopo la pubblicità, golden minute, 40 secondi .A tra poco.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Rieccoci qui. Stavamo parlando del Bonus edilizio. Quando elargisci incentivi a pioggia tali da poter coprire le spese e guadagnare anche qualcosina in più, è facile che il concetto della qualità dei lavori, e anche quello della ditta venga messo da parte. Non si chiede più se quella ditta è competente ma se quella ditta applica il 110%. Così anche chi è un macellaio di professione gli viene voglia di imbracciare mazzetta e scalpello anche se non li ha mai presi in mano in vista sua. Report ha scoperto con l’aiuto di Infocamere che a partire dal 2020, cioè da quando sono partiti i super bonus, operano nel settore dell'edilizia ben 45.000 nuove imprese in più. Ora pur riconoscendo lo spirito nobile di questa legge, forse è stata scritta troppo in fretta e ha dato per scontato un requisito. Quello dell’onestà. Infatti, secondo il ministro dell’economia Franco, si è trasformata questa legge nella truffa più grande della storia della Repubblica,

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il 13 maggio del 2020, a pochi giorni dalla fine del primo lockdown, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte presenta in conferenza stampa il superbonus edile al 110%.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 - CONFERENZA STAMPA 13 MAGGIO 2020 Nel settore edilizio in particolare introdurremo un superbonus per la casa. Tutti quanti potranno ristrutturare, per dare una boccata di ossigeno al mondo dell’edilizia, le loro abitazioni per renderle più green. Non si spenderà un soldo per queste ristrutturazioni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Passano quasi due anni, cambia il governo e vengono fuori le prime truffe legate ai bonus edili.

DANIELE FRANCO - CONFERENZA STAMPA 11 FEBBRAIO 2022 Le cessioni di bonus edilizi intercettate dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza come sospette ammontano ad oltre 4 miliardi, di questi 2,3 miliardi sono già stati oggetto di sequestro. Resta fondamentale evitare ulteriori truffe che sono tra le più grandi che questa Repubblica abbia mai visto.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Un mese fa, davanti al Parlamento Europeo, il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha espresso le sue perplessità sulla misura.

MARIO DRAGHI - PARLAMENTO EUROPEO 3 MAGGIO 2022 Possiamo non essere d’accordo sul superbonus del 110% e non siamo d’accordo sulla validità di questo provvedimento.

LUCA BERTAZZONI Il Presidente Draghi è andato in Europa a dire di non essere d’accordo sulla validità del provvedimento del superbonus. Che vuol dire per lei questo?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Il governo ha chiesto di finanziare per circa 13 miliardi del Pnrr il superbonus. Francamente è una contraddizione che indebolisce un po’ la posizione italiana anche in Europa, una contraddizione che non si comprende.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Le truffe accertate su tutti i bonus edili varati dal Governo Conte ammontano a 4,4 miliardi di euro, una piccola percentuale riguarda il superbonus del 110%, mentre la maggior parte sono relative al bonus facciate, che non prevede un tetto di spesa e non ha alcun impatto sull’efficientamento energetico.

LUCA BERTAZZONI Il Ministro Franco dice: “una delle più grandi truffe della storia della Repubblica”

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Il superbonus non è affatto una delle più grandi truffe, lo dicono i numeri.

LUCA BERTAZZONI 3%.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 3% su un ammontare di crediti contestati pari a 4,4 miliardi, giusto? Quindi il 3% sarebbe una potenziale truffa per quanto? 130 milioni all’incirca? Allora come si fa a dire che è la più grande truffa della storia della Repubblica? È un dato falso, è una mistificazione.

LUCA BERTAZZONI Però il superbonus rientra nei bonus che riguardano l’edilizia.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Allora parliamo dei vari bonus.

LUCA BERTAZZONI E qui le truffe sono di 4,4 miliardi.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Lei però mi ha detto nella domanda iniziale: “il superbonus è la più grande truffa”.

LUCA BERTAZZONI Questo lo ha detto il Ministro Franco.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Per quanto riguarda invece la truffa più in generale, se dopo 130 miliardi scopriamo che ci sono crediti falsificati per 4,4 miliardi di che cosa stiamo parlando?

LUCA BERTAZZONI È un dato rilevante questo, no? Non sono due spicci.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Lei sta sfondando una porta aperta con chi ritiene che 1 euro dell’erario pubblico è sacro. Nel momento stesso in cui si erogano 130 miliardi e più di sostegno a famiglie e imprese in tempi velocissimi, perché ricordiamoci che oggi stiamo a fare i sofisti se c’è stata la frode, la falsificazione eccetera, ma allora era importante.

LUCA BERTAZZONI Quindi per la fretta ci sono stati questi errori?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Non solo questo, perché ci sono misure consolidate, pensiamo all’invalidità civile e tantissime altre, dove comunque c’è sempre una percentuale di frodi. È fisiologico, è un dato statistico.

LUCA BERTAZZONI Lei dice che ci può stare?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Direi che su 130 miliardi e oltre 4,4 miliardi è un dato fisiologico, ma che io ovviamente non avvaloro, non è che mi fa piacere.

LUCA BERTAZZONI Le posso chiedere se a fronte di questo…

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Non vi vorrei rovinare la trasmissione se è targata sul dato delle falsificazioni e delle frodi, però…

LUCA BERTAZZONI È un dato importante, sono 4 miliardi e mezzo.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Certo che è importante, ho detto che 1 euro è importante.

LUCA BERTAZZONI Allora possiamo dire alla fine che avendo perso questi soldi…

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Non avremmo dovuto erogare sostegni e bonus? Ha capito?

LUCA BERTAZZONI Avreste dovuto scrivere meglio la legge? Lo possiamo dire se c’è stata questa frode?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 No, guardi glielo dico con grande rispetto: è molto ingenuo pensare che scrivendo una norma si possano prevenire le frodi.

LUCA BERTAZZONI Io le facevo il discorso di scrivere la legge in un modo diverso semplicemente perché è un dato di fatto che ci sono state queste frodi così consistenti.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Glielo dico da giurista: sarebbe troppo semplice una legge che viene osservata da tutti senza nessuna frode, è un po’ difficile che si possa realizzare. Questo al di là della formulazione tecnica della legge. Ma ricordiamoci anche che noi abbiamo migliorato notevolmente il livello occupazionale anche grazie all’occupazione che si è creata in questo settore. Stiamo parlando di circa 127mila nuovi occupati rispetto al periodo prepandemia.

ISPETTORE DEL LAVORO 1 (VANNO MESSI I NOMI CHE SONO ISPETTORI DEL LAVORO) Andiamo dritto e andiamo a vedere più avanti quel cantiere che ho visto ieri.

MANUEL CARUSI - ISPETTORE DEL LAVORO L’accesso lo facciamo da qua, questa è la strada, Stefania gira e io ti seguo, sto con loro dietro. Ok, così lo hai visto? Andiamo. Questo è un bonus facciate, negli ultimi due anni siamo passati da un’irregolarità nell’ambito edile che era circa del 67% ad una irregolarità adesso di circa il 90%. Quindi in 9 aziende su 10 ci sono dei lavoratori che se noi non andassimo a trovarli sarebbero in condizioni di lavoro insicure.

LUCA BERTAZZONI Oltretutto sono sorti anche molti più cantieri con i bonus e il superbonus.

MANUEL CARUSI - ISPETTORE DEL LAVORO Assolutamente, sono quasi raddoppiati nell’ultimo periodo. Sono tantissimi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO I dati raccolti da Infocamere per Report ci dicono che dall’introduzione dei bonus edilizi ad oggi nel settore delle costruzioni ci sono 45mila imprese in più, comprese quelle “riconvertite”, ossia le aziende che hanno cambiato natura passando dall’attività di macelleria o autotrasporto a quella edile.

EDOARDO BIANCHI - VICE PRESIDENTE NAZIONALE ANCE Chiunque poteva aprire una partita Iva, un’impresa edile e fare questi lavori.

LUCA BERTAZZONI Però questo è dovuto ad un vuoto legislativo.

EDOARDO BIANCHI - VICE PRESIDENTE NAZIONALE ANCE L’associazione che ci rappresenta aveva chiesto fin dall’inizio che le imprese che venivano coinvolte in questi bonus fossero imprese qualificate, quindi fossero imprese con una patente come una patente di guida in maniera tale che c’è la testimonianza di un saper fare.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E dopo due anni e più di quattro miliardi di euro di truffe se ne è accorto anche il Governo che introdurrà la patente per le imprese, ma solo dal gennaio del 2023 ed esclusivamente per i lavori di importo superiore a 516mila euro. E nel frattempo…

MANUEL CARUSI - ISPETTORE DEL LAVORO Buongiorno, siamo dell’ispettorato del lavoro. Facciamo un controllo di routine, se ci date un documento gentilmente. Grazie.

ISPETTORE DEL LAVORO 2 Cosa state facendo qua? I lavori della facciata?

OPERAIO 1 Facciata dei palazzi, sì.

ISPETTORE DEL LAVORO 2 Il contratto lo hai firmato?

OPERAIO 1 Ancora…sì, sì ho firmato. Mi hanno fatto firmare delle cose.

ISPETTORE DEL LAVORO 2 Delle cose o un contratto?

OPERAIO 1 Il contratto l’ho firmato.

ISPETTORE DEL LAVORO 2 La consegna dei Dpi?

OPERAIO 1 Sì, ho firmato tutto.

OPERAIO 2 Dopo tanti anni lui ha ripreso questi lavori, se no faceva più che altro strade. Allora sta riprendendo con il bonus.

LUCA BERTAZZONI Ah, faceva strade?

OPERAIO 2 Lui fa strade.

LUCA BERTAZZONI E ora si è buttato sul bonus.

OPERAIO 2 Beh, con i bonus mi ha richiamato e sono venuto dalla Sardegna. Tutte le strade portano a Roma.

LUCA BERTAZZONI Al bonus, non a Roma.

OPERAIO 2 Ah, al bonus!

LUCA BERTAZZONI È in regola?

OPERAIO 3 No, in regola de che? Io lavoro per questo qui, vado a controllare i cantieri di questo signore. Non sono in regola.

LUCA BERTAZZONI Ha un contratto?

OPERAIO 3 Io non posso lavorare, ho 80 anni. E allora? Io non ho un contratto.

LUCA BERTAZZONI Le dà una busta paga o la paga a nero?

OPERAIO 3 Ma quale busta paga? Mi paga così. Mi dà, per dirti, 50 o 60 euro.

MANUEL CARUSI - ISPETTORE DEL LAVORO Questo vuoto è pericoloso. Queste travi appoggiate sono pericolose. Questa non è fissata, queste sono pericolose sono tutte così, queste zone sono solo appoggiate. Nella carrucola è stata rimossa la protezione di sicurezza. Qui manca completamente, è pericoloso qua, si può andare giù. Sta sul vuoto lui, perché lì non ha la protezione contro il vuoto, quindi può cadere in basso.

ISPETTORE DEL LAVORO 2 Il progetto del ponteggio chi lo ha?

MANUEL CARUSI - ISPETTORE DEL LAVORO La cartellina con tutti i documenti della sicurezza.

OPERAIO 3 Io penso che lo dovrebbe chiedere a…telefoni in ditta.

ISPETTORE DEL LAVORO 2 Sì, ma un referente fisso che sta qui, che coordina le attività? OPERAIO 3 Non ci sta.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo un’ora di controllo, gli ispettori del lavoro scoprono che le ditte presenti sul cantiere sono tre, e non una come segnato nel contratto, che non c’è un capocantiere, e che i ponteggi installati non sono a norma. Finalmente riescono a mettersi poi in contatto con l’architetto responsabile dei lavori di ristrutturazione della facciata.

MANUEL CARUSI - ISPETTORE DEL LAVORO Lavoratori non protetti, che non sanno per chi lavorano, non sanno chi gli paga i contributi e il ponteggio che ha delle voragini così con il pericolo di cadere e morire: questo è quello che troviamo tutti i giorni, questi sono i cantieri del superbonus. Adesso c’è il superbonus, tutti a fare il superbonus.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se si cade si muore. il 16 % per cento in più rispetto al passato. Del resto sono aumentati i cantieri, ma lo Stato deve anche accollarsi le spese degli infortuni, tutti coloro che non sono coperti adeguatamente. Del resto abbiamo visto la qualità delle ditte, dei controlli, delle condizioni in cui lavorano. Ora uno dei più feroci, se non il più feroce critico dei bonus edilizi è proprio il premier, Mario Draghi che dice che tutti questi incentivi, tutti questi bonus hanno drogato il mercato. Effettivamente è una legge che è stata scritta in modo clientelare. La committenza non ha più quell’accuratezza nel scegliere i materiali, le tipologie di lavoro, di fare attenzione sui costi perché tanto paga poi lo stato. Questo ha provocato un impazzimento del settore. Del costo dei ponteggi per esempio, anche perché aumenta all’improvviso tutta quanta la domanda. Mancano i materiali, il prezzo delle lavorazioni aumenta. Questo perché il meccanismo ha tolto la possibilità delle contrattazione. Prima se dovevi ristrutturare, magari sceglievi a parità di ditte quella che ti offriva il prezzo più basso e magari pagavi 50 e ora paghi 150 e non ti poni il problema. Questo ha reso impossibile le ristrutturazioni di immobili che non hanno possibilità di accedere al bonus. Tutti questo poi si è sommato a quello che c’era giù prima, l’inflazione. Un aumento incondizionato dei prezzi che già era in atto da qualche mese del gas, dell’olio, della benzina ma anche semplicemente del pane, della farina. Quello che è paradossale è che questi bonus non vanno a coprire alcune lavorazioni che sarebbero vitali in alcuni territori. Vediamo chi è rimasto con il cerino bollente in mano.

GIORGIO CORTELLESI - SINDACO DI AMATRICE Questo è quello che rimane di Amatrice, un paese che ho vissuto per anni. Quelle pietre che vedete sono i resti dell’edificio del Comune di Amatrice.

LUCA BERTAZZONI Questo era il centro storico, giusto?

GIORGIO CORTELLESI - SINDACO DI AMATRICE Questo era proprio il nodo centrale, la torre civica è il punto centrale e il simbolo di Amatrice. Qui c’era un palazzo nobiliare dei principi Orsini, i principi di Amatrice. Di fronte c’era un altro palazzo, dei Vitelli precedenti agli Orsini.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A 6 anni dal terremoto che costò la vita a 300 persone, la situazione ad Amatrice è ancora questa.

LUCA BERTAZZONI Ad oggi quanto è stato ricostruito?

GIORGIO CORTELLESI - SINDACO DI AMATRICE Ad oggi nel centro storico è partito un unico cantiere, è stato ricostruito soltanto il 15%, c’è stata una prima partenza forte della ricostruzione, poi c’è stato un fermo causato purtroppo dagli incentivi fiscali che hanno drogato il mercato.

LUCA BERTAZZONI Stiamo parlando dei bonus dell’edilizia, perché?

GIORGIO CORTELLESI - SINDACO DI AMATRICE Hanno penalizzato tantissimo la ricostruzione.

LUCA BERTAZZONI Lei lamentava la mancanza di professionisti e geometri.

GIORGIO CORTELLESI - SINDACO DI AMATRICE Imprese non si trovano, speriamo di reperirle adesso perché in questo momento era antieconomico lavorare sul terremoto.

LUCA BERTAZZONI Però è surreale. È più appetibile lavorare su una cosa piuttosto che su un’altra è una...

GIORGIO CORTELLESI - SINDACO DI AMATRICE Non è surreale perché avendo una forte richiesta i fornitori hanno aumentato a dismisura i costi dei materiali, pertanto diventava non vantaggioso per le imprese lavorare sul terremoto perché il costo dei materiali era superiore a quello che era il contributo anche coadiuvato dagli incentivi fiscali.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il superbonus ha dunque creato una bolla nel settore edile che rischia di danneggiare le stesse imprese di costruzione.

MASSIMO MANCINELLI - ACER ROMA L’utilizzo di questi bonus è compresso in pochi anni, per cui alla fine si stanno muovendo grossi condomini e grossi enti tutti in un arco temporale piuttosto ristretto e quindi i prezzi di alcuni materiali, ad esempio nel caso nostro è eclatante il caso dei ponteggi.

LUCA BERTAZZONI Di quanto sono saliti?

MASSIMO MANCINELLI - ACER ROMA Oltre il 100%.

EDOARDO BIANCHI - VICE PRESIDENTE NAZIONALE ANCE Si è creata una spirale che sta mettendo in ginocchio il paese.

LUCA BERTAZZONI Per voi concretamente cosa vuol dire questo?

EDOARDO BIANCHI - VICE PRESIDENTE NAZIONALE ANCE I ricavi non coprono i costi.

GIUSEPPE PISAURO - PRESIDENTE UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO 2014-2022 Uno schema che rimborsa oltre la spesa chiaramente elimina qualsiasi contrasto di interessi fra venditore ed acquirente. Quindi di per sé comporta una spinta all’aumento dei costi perché la spesa sarà la massima possibile.

MARIO DRAGHI - CONFERENZA STAMPA 22 DICEMBRE 2021 Perché il governo non voleva estendere il superbonus? Perché ha creato delle distorsioni. La prima di queste è un aumento straordinario dei prezzi delle componenti che servono a fare le ristrutturazioni.

LUCA BERTAZZONI Con l’incentivo fiscale, togliendo la trattativa sul prezzo, i costi sono triplicati. Questo è un dato di fatto, lo dice anche l’Ance.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 La lievitazione dei costi sicuramente è un dato oggettivo. È chiaro che nel momento in cui cresce la domanda in Italia e anche nel resto d’Europa e del mondo c’è una lievitazione dei prezzi, ma non è che per questo è una ragione valida, efficace per rinunciare ad un elemento che si è rivelato di trazione dell’intera economia italiana.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO I bonus edili sono pagati con i soldi pubblici, quindi più aumentano i prezzi più il bonus costa ai contribuenti. L’ulteriore rischio è che ormai siano in pochi a poterne beneficiare veramente.

FABRIZIO SORDINI - AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO Visto che questo palazzo è del 1973, diciamo che sta bene. Però sarebbe stato bello poter fare l’efficientamento energetico e il cappotto termico.

LUCA BERTAZZONI Cosa è emerso?

FABRIZIO SORDINI - AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO È emerso che si poteva fare di tutto perché potevamo accedere al superbonus. Allora strette di mano, “ok, fateci vedere il contratto”: qui sono cominciate ad uscire fuori le sorprese. Ad esempio, se un operaio su un’impalcatura cade, si fa male o si ammazza la responsabilità è la mia. LUCA BERTAZZONI Del condominio?

FABRIZIO SORDINI - AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO Del condominio e dell’amministratore. Se l’azienda non riceve a quella data il passaggio del credito fiscale, il condominio deve tirare fuori soldi contanti, ma qui parliamo di centinaia di migliaia di euro: è impossibile. A questo punto la gente in assemblea ha detto: “a che cosa stiamo andando incontro? Fermi tutti, fermiamoci”.

LUCA BERTAZZONI È troppo complicato? FABRIZIO SORDINI - AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO Troppo complicato e poi non c’è più la possibilità di usufruire dello sconto in fattura che non fa più nessuno.

LUCA BERTAZZONI Questo concretamente che vuol dire?

FABRIZIO SORDINI - AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO Vuol dire che bisogna tirare fuori i soldi almeno preventivamente, poi l’azienda ti indica una banca con cui loro lavorano a cui poterlo cedere. Ma se il condomino non ha la possibilità di tirar fuori subito i contanti diventa un problema perché bisogna andare a chiedere un prestito in banca, pagare gli interessi.

LUCA BERTAZZONI Si parlava del superbonus al 110%, non si tira fuori un euro, qua invece i soldi tocca tirarli fuori e i condomini giustamente magari non potendoselo permettere dicono: “ma chi me lo fa fare”?

FABRIZIO SORDINI - AMMINISTRATORE DI CONDOMINIO Ecco, a costo zero è un parolone.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Difficoltà tecniche e iniziale esborso di denaro: per i condomini in periferia sono ostacoli spesso insormontabili, molto più semplice affrontarli per chi invece ha una villa.

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA Da un punto di vista numerico le cosiddette villette a schiera e le unifamiliari sono di più.

LUCA BERTAZZONI Su 155mila interventi, 24mila riguardano condomini e 130mila villette e unità indipendenti.

GIUSEPPE PISAURO - PRESIDENTE UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO 2014-2022 I bonus affluiscono soprattutto ai contribuenti più ricchi, il 15% più ricco usufruisce del 50% dei bonus. Io noto a Roma che nei quartieri centrali o semi-centrali c’è un fiorire di impalcature, se vado un po’ più in periferia ne vedo molte meno.

LUCA BERTAZZONI Perché secondo lei?

GIUSEPPE PISAURO - PRESIDENTE UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO 2014-2022 Perché sono comunque interventi che richiedono qualche esborso iniziale che comunque un qualche peso per chi non è in grado di sostenerlo possono averlo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’Enea, Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, monitora e rendiconta per il Governo l’andamento del superbonus. Tutti gli italiani che hanno deciso di usufruirne hanno a che fare con loro.

LUCA BERTAZZONI Si dice che sia una misura per ricchi questa, lei che i dati li vede…

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA Non lo posso dire perché non conosco le persone che l’hanno fatta, lì bisognerebbe fare una ricerca specifica su chi ha realizzato questi lavori.

LUCA BERTAZZONI Se noi prendiamo Roma voi sapete dirci ad esempio quanti lavori sono stati fatti in periferia piuttosto che al centro storico?

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA No, questo tipo di ricerca non l’abbiamo fatta.

LUCA BERTAZZONI Perché? Non ve l’hanno chiesta?

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA No, non l’abbiamo fatta perché non ce l’hanno chiesta.

LUCA BERTAZZONI Colpiscono i dati della Sardegna, dove ovviamente stiamo parlando di una percentuale molto più alta di villette unifamiliari. Voi avete immagino i dati anche su questo.

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA Ecco, sì. Sardegna è qua. Adesso io nella Sardegna non so quello che è…però è possibile, se è scritto è così. E perché le crea sorpresa?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La sorpresa è che secondo i dati raccolti proprio da Enea, al 31 aprile scorso in Sardegna sono state approvate 5300 richieste di superbonus: solo 400 riguardano i condomini e ben 4900 gli edifici unifamiliari o indipendenti, le cosiddette villette.

LUCA BERTAZZONI È chiaro che un conto è una seconda casa, diciamocelo chiaramente.

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA Non è facile, perché non è stato inserito, verificare adesso a posteriori se sono prime o seconde case. Però questo si potrà fare.

LUCA BERTAZZONI Dopo due anni però.

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA Guardi, mi scusi, adesso non è quello. Il discorso è che io adesso non ho i numeri precisi, però voglio dire che diamo per scontato che la maggioranza delle villette che sono state rifatte sono seconde case, questo però lo dobbiamo verificare sui fatti, non è vero.

LUCA BERTAZZONI Eh, però è quello che dicevo. Era una cosa che bisognava fare a monte forse, perché un conto è fare una misura per i condomini e le prime case, un conto è fare una misura per…

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA Questo è un discorso che non posso fare.

LUCA BERTAZZONI Che non può far lei, ma infatti a monte non intendo voi, a monte intendo la politica.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo doveva fare a monte la politica giusto. Però noi abbiamo capito che i dati, li ha solo che non monitora in tempo reale ed è un peccato perché se poi sbaglia la direzione poi fa in tempo a raddrizzarla. Noi abbiamo capito strada facendo che questo bonus se non imbocca la strada della truffa è diventata sostanzialmente una misura per i più ricchi. Lo scrive in sintesi anche la corte dei conti che scrive nella sua relazione annuale, per la ristrutturazione per il risparmio energetico, scrive “la misura è regressiva, ovvero favorisce i più ricchi e tra i più poveri solo 2 persone su 100 vi hanno avuto accesso, mentre sono 25 persone su 100 i ricchi.” Questo penalizza sostanzialmente le periferie e l’edilizia popolare. Però dopo un periodo di vacche grasse il governo ha messo delle limitazioni sulla possibilità di cedere i crediti fiscali e di renderli quindi subito monetizzabili. E questo perché? Perché poi anche le banche e le poste per evitare di sottoporre alcuni dei loro patrimoni sotto sequestro, di incappare in sequestri sono diventate un po’ più restie a monetizzare. Questo ha comportato un problema serio. Ci sono molte ditte edili che hanno crediti fiscali nei cassetti ma non riescono a monetizzarli. Questo comporta che non riescono a pagare fornitori gli operatori, gli operai. Rischiano anche di fallire lasciando a metà i lavori. Ci sono famiglie che rischiano di non vedere completati i loro lavori sugli edifici. Poi c’è anche il rischio che se non finisci i lavori nelle date stabilite devi restituire quello che hai incassato e anche il doppio perché c’è una sanzione. Poi c’è il tema che il bonus, il super bonus avrebbe anche dovuto favorite l’efficientamento energetico degli edifici. Da questo punto di vista come siamo messi? E poi insomma, attenzione un consiglio: guardate meglio nel vostro cassetto fiscale, anzi più spesso perché rischiate di trovare una sorpresa e anche se poi volete fare l’efficientamento energetico della vostra casa non riuscirete più a farlo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Sono molti i cittadini veneti che volevano rendere la loro abitazione più green e hanno quindi provato ad accedere al superbonus. Uno di loro è Claudio.

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Su Facebook iniziano a venire fuori le prime pubblicità ed entro in contatto con un agente, un procacciatore di contratti.

LUCA BERTAZZONI Cosa le ha fatto firmare questo intermediario?

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Solamente le carte dove dice che io sono d’accordo, si prende i miei dati, i miei documenti per poi poter…

LUCA BERTAZZONI Istruire la pratica per il superbonus.

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Esatto. Mi dice “adesso è tutto a posto, siamo pronti per partire”. Mi contatta durante l’estate del 2021 la Guardia di Finanza dicendo di controllare nel mio cassetto fiscale se per caso avevano preso del credito.

LUCA BERTAZZONI E cosa scopre controllando il cassetto?

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Che c’è stata una fattura per un totale di 60mila euro.

LUCA BERTAZZONI Che loro hanno incassato come cessione del credito.

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Esatto.

LUCA BERTAZZONI E poi che fine ha fatto questo credito?

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Questo credito non so che fine ha fatto, anche perché il lavoro non lo hanno iniziato, nemmeno la presa in giro di mettermi il cartellone al cancello.

LUCA BERTAZZONI Sono spariti tutti in pratica.

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Sì.

LUCA BERTAZZONI In un anno e mezzo non è mai venuto nessuno qui ad iniziare alcun tipo di lavoro e oltretutto c’è stata questa cessione di credito fiscale di 60mila euro.

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS E questo che vuol dire? Che se un domani l’Agenzia delle Entrate fa un controllo e vede che non ho fatto nessun tipo di lavoro, loro il credito lo rivogliono indietro con gli interessi. Mi costa di più l’Agenzia delle Entrate rispetto alla casa che ho acquistato.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il rischio per Claudio e tante altre persone nella sua stessa situazione è che qualcuno abbia usato il loro cassetto fiscale per commettere una truffa e che ora lo Stato richieda indietro a loro i soldi anticipati per lavori mai eseguiti.

CLAUDIO GALLO - VITTIMA DI TRUFFA SUPERBONUS Io ho il danno di non poter usufruire del superbonus e in più non posso nemmeno fare il superbonus a nome di mia moglie perché risulta già usufruito su questa abitazione anche se non ho usufruito di niente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Per assurdo le truffe colpiscono chi voleva migliorare la classe energetica della propria abitazione, ma rischiano di creare un danno anche all’idea che era alla base del provvedimento normativo.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 La misura, questa qui, comporta risparmio energetico, taglio di emissioni di clima alteranti, e ci consente ovviamente di realizzare la transizione energetica, ecologica, partecipata, democratica, dal basso.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A due anni dall’entrata in vigore del superbonus è tempo di un primo bilancio: è veramente questa la strada che ci porterà all’indipendenza energetica?

LUCA BERTAZZONI Quanto vale a livello di risparmio energetico 1 euro investito?

ILARIA BERTINI – CAPO DIPARTIMENTO RISPARMIO ENERGETICO ENEA Noi diciamo che in generale c’è un costo-beneficio che per essere precisa glielo dico è intorno allo 0,12%.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In altre parole ogni 100 euro di soldi pubblici investiti genereranno un risparmio di 12 kilowatt/ore nei prossimi 30 anni.

LUCA BERTAZZONI Lo Stato alla fine ci metterà 33 miliardi di euro, un investimento colossale da parte dello Stato italiano. Si potevano spendere in altro modo questi soldi?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Oggi che tutto riparte, oggi che stiamo realizzando il risparmio energetico, oggi che facciamo il taglio di emissioni di Co2 per quanto riguarda gli edifici, quando facciamo queste valutazioni di questi costi li vogliamo considerare…

LUCA BERTAZZONI Eh, ma dico: il gioco vale la candela?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2018 – 2021 Direi: “assolutamente sì”.

GIUSEPPE PISAURO - PRESIDENTE UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO 2014-2022 Solo il superbonus in questo anno e mezzo ha già superato i 20 miliardi e ha comportato interventi che riguardano all’incirca l’1% del patrimonio immobiliare. Una generalizzazione di questo schema, 20 miliardi per l’1% vuol dire 100% 2mila miliardi, che è all’incirca il volume attuale del debito pubblico italiano.

LUCA BERTAZZONI Quindi stiamo parlando di una cosa irrealizzabile?

GIUSEPPE PISAURO - PRESIDENTE UFFICIO PARLAMENTARE DI BILANCIO 2014-2022 Sì, ovviamente completamente insostenibile.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma abbiamo capito che se volessimo ristrutturare e rendere più efficiente dal punto di vista energetico l’intero patrimonio immobiliare del paese dovremmo investire una somma pari all’intero ammontare del debito pubblico italiano. Una misura che è insostenibile. Ma quanto abbiamo risparmiato in tema di consumo energetico su quell’1% di immobili ristrutturati? Secondo l’ex premier Giuseppe Conte ha rielaborato i dati in casa Enea, ma senza studi ufficiali, avremmo risparmiato a oggi un consumo di 1,7 milioni di famiglie. Ma come li ha calcolati? Se tu non hai contezza di quante ristrutturazioni sono state fatte sulle prime case rispetto alle seconde rischi di dare un dato sbagliato. Anche perché nelle seconde case uno va pochi giorni e consuma meno energia rispetto a quella delle prime case. Non vorremmo che oltre alla bolla dei prezzi e delle ristrutturazioni non ci trovassimo di fronte anche alla bolla del risparmio, del consumo energetico.

Sandra Riccio per “la Stampa” il 14 aprile 2022.

Per il Superbonus al 110% per le villette è in arrivo una proroga oltre il 30 giugno e il termine potrebbe slittare almeno al 31 dicembre del 2022. I partiti di maggioranza insistono nel pressing sul governo per uno spostamento in avanti della scadenza estiva che ormai è alle porte. Molto probabilmente la novità sarà inserita nel Def che andrà in discussione tra Pasqua e il 25 aprile. La misura avrà bisogno di qualche settimana ed è caccia alle risorse aggiuntive che serviranno. In pratica sarà rimandato il termine intermedio del 30% fissato per i lavori alle abitazioni unifamiliari (i condomini hanno tempo fino al 2025).

Sarà inoltre chiarito se la percentuale del 30% dell'intervento complessivo è riferita al complesso dei lavori o ai singoli lavori oggetto dell'intervento. La guerra in Ucraina, così come la carenza di materiali, hanno pesantemente rallentato i lavori.

A beneficiare della decisione sarebbero anche le imprese: molte devono ancora avviare i cantieri e hanno bisogno di tempo. 

Sul tavolo non c'è soltanto un'estensione dei termini. In arrivo ci sarebbe anche un allentamento sulla limitazione delle cessioni del credito. Lo scorso febbraio, dopo la scoperta di frodi miliardarie, il Governo aveva deciso che i passaggi dei crediti devono fermarsi a un massimo di tre (e dal secondo in poi devono coinvolgere solo soggetti del mondo bancario-assicurativo). Adesso potrebbe essere introdotta una quarta cessione, ma solo per le banche e a patto che il credito vada a un correntista dell'istituto.

Si tratta di un meccanismo aggiuntivo che consentirebbe alle banche di smaltire parte dei propri crediti. Lo prevede un emendamento al decreto Energia-Bollette che sarà convertito entro aprile. Dunque la quarta cessione potrebbe partire a maggio. 

In ogni caso lo sblocco arriva proprio nel momento in cui banche importanti hanno annunciato uno stop sul Superbonus e sugli altri bonus edilizi. La frenata è arrivata ufficialmente ieri da Intesa Sanpaolo e da Unicredit, i due maggiori istituti del Paese che, insieme a Poste Italiane, sono i primi operatori nell'ambito dei bonus edilizi. Il gran numero di richieste pervenute ha portato al progressivo esaurimento della possibilità di smaltire i crediti. Ieri Intesa Sanpaolo ha fatto sapere che «da aprile non sarà più possibile la cessione di altri crediti 2021».

La banca finora ha acquisito crediti collegati ai bonus edilizi per oltre 4 miliardi di euro con una domanda che però ha superato i 20 miliardi. Stessa linea anche da Unicredit che «sta riscontrando un elevato volume di richieste che potrebbero comportare il raggiungimento della massima capacità fiscale possibile per la cessione dei crediti». Al 31 dicembre Unicredit, tra crediti d'imposta e impegni già presi, ha un totale di circa 1,2 miliardi di euro. Lo stop delle banche è di fatto un appello a cambiare le regole.

«Se non verranno modificate le norme di riferimento, è inevitabile - è la posizione di Intesa Sanpaolo - un progressivo rallentamento dell'acquisizione delle richieste fino all'uscita». A chiedere un intervento sono anche i consumatori. «Senza una nuova modifica il Superbonus e la cessione in fattura diventeranno impraticabili - dice Barbara Puschiasis, avvocato responsabile del settore consumer protection di Consumerismo -. Rimarrà solo la strada della detrazione di imposta. E a restare esclusi saranno soprattutto i più poveri».

Bonus mobilità 2022, 750 euro per l’acquisto di bici e monopattini: domande dal 13 aprile. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.

Le nuove regole

Arrivano le regole per fruire del nuovo bonus mobilità sostenibile (per l’acquisto di biciclette, monopattini elettrici, e-bike, abbonamenti al trasporto pubblico, servizi di mobilità elettrica in condivisione o sostenibile), il credito d’imposta previsto per chi ha sostenuto spese per l’acquisto di mezzi e servizi di mobilità a zero emissioni e ha rottamato un vecchio veicolo di categoria M1. Il provvedimento è stato firmato dal direttore dell’Agenzia che definisce i criteri e le modalità di fruizione dell’agevolazione prevista dal Decreto Rilancio (art. 44 comma 1-septies del DL n. 34/2020) e approva il modello di comunicazione che i contribuenti dovranno trasmettere alle Entrate a partire dal 13 aprile e fino al 13 maggio 2022. Il credito, utilizzabile esclusivamente nella dichiarazione dei redditi, è fruibile non oltre il periodo d’imposta 2022.

Credito d'imposta f Credito d’imposta fino a 750 euro

Si tratta di un credito d’imposta, nella misura massima di 750 euro, riconosciuto alle persone fisiche che, dal 1° agosto 2020 al 31 dicembre 2020, hanno sostenuto spese per l’acquisto di biciclette, monopattini elettrici, e-bike, abbonamenti al trasporto pubblico, servizi di mobilità elettrica in condivisione (sharing) o sostenibile.

L’obbligo della rottamazione

Per accedere all’agevolazione, nel limite complessivo di spesa di 5 milioni di euro, è necessario aver consegnato per la rottamazione, nello stesso periodo, contestualmente all’acquisto di un veicolo, anche usato, con emissioni di CO2 comprese tra 0 e 110 g/km, un secondo veicolo di categoria M1 rientrante tra quelli previsti dalla normativa in materia (art. 1, comma 1032 della legge n. 145/2018).

Il periodo di validità (dal 13 aprile)

Per fruire del bonus mobilità occorrerà comunicare alle Entrate, dal 13 aprile al 13 maggio 2022, l’ammontare delle spese sostenute e il credito d’imposta richiesto inviando il modello approvato con il Provvedimento utilizzando il servizio web disponibile nell’area riservata del sito o i canali telematici dell’Agenzia.

Limite di spesa a 5 milioni

Il credito d’imposta è utilizzabile esclusivamente nella dichiarazione dei redditi in diminuzione delle imposte dovute e può essere fruito non oltre il periodo d’imposta 2022. Entro 10 giorni dalla scadenza del termine di presentazione dell’istanza sarà resa nota la percentuale di credito d’imposta spettante a ciascun soggetto richiedente, sulla base delle richieste ricevute e tenuto conto del limite di spesa di 5 milioni.

Che Stato pazzesco. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

Quando leggi di centinaia di truffatori indagati per avere lucrato quattro miliardi con gli incentivi edilizi. Quando nelle intercettazioni li senti parlare allegramente di panzerotti, che sarebbero i soldi, trasferiti nei paradisi fiscali. Quando li ascolti esultare al telefono per le scappatoie offerte da leggi mal scritte e burocrazie farraginose: «Lo Stato è pazzesco, gli piace farsi fregare (eufemismo)». Ecco, in momenti del genere ti tornano alla mente le parole dei magistrati di Mani Pulite, di cui in questi giorni si celebra il trentennale. Rovesciando un diffuso luogo comune, quei giudici hanno sempre sostenuto che l’inchiesta non si fermò perché era salita troppo in alto, ma perché era scesa troppo in basso. Il consenso popolare, elevatissimo finché si era trattato di fare le bucce ai politici, si esaurì quando le indagini cominciarono a scoperchiare la corruzione spicciola, quella dei panzerotti. Inutile precisare che, come non tutti i politici sono ladri, così non tutti gli imprenditori sono prenditori. Ma è sicuro che la famigerata Casta contro cui alcuni partiti oggi in via di disfacimento hanno costruito le loro fortune era solo una parte del problema. Accanto a quella dei potenti c’era e c’è un fiorire di sottocaste altrettanto fameliche e corporative, che approfittano della mancanza di biasimo sociale per sottrarre alla comunità (cioè, lo ricordo, a noi) miliardi di soldi pubblici (cioè, lo ricordo, anticipati da noi). Rivoglio indietro i miei panzerotti.

Il malus facciate. Non solo vi arrubbate il bonus, ma provate a trovare chi mi fa i lavori a casa. Guia Soncini su l'Inkiesta il 14 Febbraio 2022

Mentre voi ristrutturavate piscine a spese dello Stato (cioè mie), io non riuscivo a trovare nessuno che mi attaccasse le luci, essendo tutti quelli con mestieri veri (muratori, idraulici, elettricisti) impegnati con voi 

Ma pensa un po’. Nel Paese in cui ci si divide tra chi in famiglia ha almeno un falso invalido e chi mente senza vergogna, nel Paese in cui gli unici a non parcheggiare in doppia fila sono quelli che non hanno la patente, nel Paese in cui i genitori fanno i compiti ai figli perché fare bella figura è più importante che insegnar loro a cavarsela da soli, in questa terra di santi poeti e navigatori delle più oneste acque, si sono arrubbati quattro miliardi di bonus edilizio. Invero imprevedibile.

(Sono quattro miliardi o di più? Importa davvero saperlo? Da una certa cifra in poi, non è come il deposito di Paperone, una cifra di cui non sapremmo scrivere gli zeri figuriamoci immaginarla?)

Non vorrei farmi togliere il saluto dai garantisti e cacciare a calci da Linkiesta, ma a me le intercettazioni piacciono molto. Persino quando sono riportate senz’alcun senso del tono e inchiodano gli intercettati a concetti mai espressi (sto parlando di me ma anche di Carlo d’Inghilterra), mi sembra che le intercettazioni ci forniscano ormai l’unica commedia all’italiana possibile: quella con dialoghi illuminanti. «Lo Stato italiano è pazzesco», riportava ieri Fiorenza Sarzanini sul Corriere: i criminali increduli che sia così facile arrubbare allo Stato sono un copione che sarebbe piaciuto tantissimo a Monicelli.

Mi piace molto anche il passaggio (non intercettato ma scritto da Sarzanini) «in provincia di Foggia c’è un paese dove tutti i residenti sono riusciti a incassare il credito»: non ho niente contro la provincia di Foggia, ho tanti parenti falsi invalidi in provincia di Foggia, e mi torna sempre in mente quella frase di Rotondi sulla Dc che ha fatto grande l’Italia con l’evasione fiscale a nord e le false pensioni a sud. È forse questa la modernità, l’epoca in cui non solo hai la falsa pensione ma sei pure evasore fiscale? È forse questo il progresso? È forse così che saniamo finalmente la questione meridionale?

Ma sto divagando. Perché, vi sorprenderà, a me importa solo di me. E quindi sì, è un disastro che questa norma sia stata all’origine di tante truffe, ma era comunque un disastro che esistesse, se anche l’avessero applicata regolarmente.

Perché è colpa dello stracazzo di bonus facciate se io sto con le lampadine appese. Se sul display del mio telefono c’è un messaggio del 23 agosto di quello che doveva venire a mettermi le lampade e giurava che il giorno dopo sarebbe arrivato, e poi dopo quattro mesi di silenzio il 24 dicembre ha mandato un messaggio a tutta la rubrica: «Auguri a tutti!!!!». Sai come te lo puntesclamativo, il bonus facciate.

Mentre voi ristrutturavate piscine a spese dello Stato (cioè mie), io non riuscivo a trovare nessuno che facesse dei lavori minimi, essendo tutti quelli con mestieri veri (muratori, idraulici, elettricisti: i lavori che dovreste sognare per i vostri figli, altro che mandarli al classico, da cui usciranno analfabeti come quelli dell’istituto tecnico e perdipiù disoccupati) impegnati coi vostri stracazzo di bonus facciate. Sono stata senza lavandino in cucina da maggio a ottobre: erano tutti troppo impegnati col bonus facciate per venire a installarmelo. Sono stata, a novembre, due settimane senz’acqua calda: erano tutti troppo impegnati col bonus facciate per venire ad aggiustarmi il boiler. E sono da otto mesi coi vestiti negli scatoloni: la mia cabina armadio è l’ultimo dei pensieri di gente che vi ristruttura le piscine a spese mie.

Per non parlare del silenzio. Ve lo ricordate, il silenzio? Era quella meraviglia che potevamo goderci nelle nostre case prima che quella munifica madre che è lo Stato italiano, sempre pronto a darvi la mancetta, decidesse di pagarvi le ristrutturazioni. Prima che trapani e martelli pneumatici e altre fonti di esaurimento nervoso devastassero l’acustica degli appartamenti che hanno la sfortuna di stare sotto, o sopra, o di fianco a qualcuno cui non pare vero di scroccare una ristrutturazione.

Neanche per strada la mia serenità è al sicuro: i palazzi sono tutti impacchettati, pieni di impalcature a scrocco, bisogna camminare in mezzo alla strada se non si vuole rischiare di prendersi in testa una cazzuola in caduta libera. In “Monterossi” c’è una scena in cui l’investigatore dilettante Fabrizio Bentivoglio cammina, a Milano, al centro di via Vittor Pisani, che oltre a essere una strada trafficata ha anche ai lati i suoi bravi portici, e insomma nessuno che non voglia buttarsi sotto una macchina per mettere fine alla sua infelice vita camminerebbe in mezzo alla strada. O almeno questo è quel che avrei pensato vedendola fino all’anno scorso; ma adesso lo capisco, Bentivoglio: tra un bonus facciate e l’altro, il posto più sicuro per un pedone è in mezzo alla strada.

Naturalmente la mia è solo invidia. Invidia dei proprietari immobiliari, che guai a tassarli sennò poi si dispiacciono e anzi paghiamogli anche la ristrutturazione, porelli. Invidia per i lavori sicuri nell’edilizia, che mica possiamo cancellare i bonus e rischiare che gli diminuisca il giro d’affari. Invidia per un Paese a forma di prebenda, in cui tutti si stravolgono se qualcuno, sia Draghi o una cretina qualunque, dice non state ad agitarvi per me, me la cavo, a me ci penso io, a trovarmi un lavoro e pure a ristrutturarmi casa.

Marco Bardesono per “Libero Quotidiano” il 15 febbraio 2022.

È senso comune dire che se l'edilizia tira, allora «l'economia vola». E probabilmente è così, almeno così lo è stato in passato: si pensi al piano Ina Case di fanfaniana memoria, tra la ricostruzione e il boom economico. Ma se l'edilizia è «drogata», come ha sottolineato nei giorni scorsi il ministro per lo Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, si crea una bolla che fa precipitare il sistema economico. 

E la bolla sembra essere quella del Superbonus 110%. Nelle ultime settimane, infatti, la Guardia di Finanza ha scoperto complessi raggiri in quasi tutte le regioni italiane che hanno depauperato lo Stato di oltre 4 miliardi di euro.

Oltre al "clan dei commercialisti romagnoli" che avrebbero rubato la bellezza di quasi 500 milioni e di cui Libero ha scritto ieri, degna di nota è la truffa che ha visto coinvolto un consorzio edile composto da imprese (almeno sulla carta) che avrebbero operato in Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Piemonte e Veneto. 

La peculiarità di questo raggiro «sarebbe la capacità - spiegano le Fiamme Gialle - di ottenere i bonus sulla base di una documentazione formalmente ineccepibile, ma completamente falsa».

Perché i palazzi su cui operare gli interventi edilizi, o sarebbero inesistenti (vere e proprie case fantasma) o le richieste sarebbero state presentate all'insaputa di proprietari e affittuari.

Ciò sarebbe stato possibile grazie ad una serie numerosa di prestanome: dal nullatenente, al pensionato che vive solo e che sarebbe stato circuito, al senza fissa dimora che per una manciata di spiccioli ha messo a disposizione la sua identità. 

L'inchiesta delle Fiamme Gialle è ancora in fase iniziale ma già sarebbe stata quantificata la cifra sottratta indebitamente in 109 milioni di euro.

La Guardia di Finanza sta cercando di recuperare il maltolto e l'autorità giudiziaria ha già disposto sequestri in 16 istituti finanziari. Si è arrivati a questo dopo che i Finanzieri si sono presentati negli uffici e nelle abitazioni di funzionari e dirigenti del consorzio Sgai per effettuare le perquisizioni e acquisire «una montagna di documenti». 

Dal canto suo, ed è doveroso segnalarlo, il consorzio ha diffuso una nota che spiega che «la notizia di reato alla base del provvedimento è rappresentata da nove su 5.709 clienti attivi. Con questi nove clienti, Sgai aveva già risolto il rapporto e rinunciato al proprio compenso.

Fino a oggi, il Consorzio ha ricevuto appalti per un valore complessivo di 1,5 miliardi di euro ed eseguito interventi per oltre 226 milioni di euro: dunque, le denunce alla base del provvedimento rappresentano soltanto una minima parte rispetto alle migliaia di progetti in essere.

A ogni modo il Consorzio intende dimostrare la legittimità del proprio operato anche nei pochissimi casi oggetto di denunce-querele, rispetto ai quali non ha conseguito alcun profitto. Il Consorzio dimostrerà in tutte le sedi la legittimità del proprio operato e dei professionisti che con esso collaborano».

A dare impulso alle indagini è stata un'analisi di rischio sviluppata dall'Agenzia delle Entrate, precisamente dal Settore Contrasto Illeciti sulla spettanza del bonus in materia edilizia previsto dal Decreto «Rilancio».

I 110 milioni di euro sarebbero stati accumulati in soli 13 mesi, «a partire dal dicembre 2020 - spiegano dal comando della Finanza -, grazie ai crediti d'imposta che sarebbero poi stati ceduti a terzi. Soldi che avrebbero prodotto il guadagno illeciti, per l'associazione a delinquere», senza che venisse sistemato un infisso o installata una caldaia. 

Oltre 40 milioni erano finiti a un fondo speculativo, "Alternative Capital Partners", e da questi girati lo stesso giorno a Banco Desio. E poi assicurazioni come "Groupama", e istituti come "Banca Ifis", "Illimity", oltre alla Cassa depositi e prestiti e alle Poste, istituti finanziari estranei alla vicenda. 

Marco Bardesono per Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022.  

Sembra che il detto «fatta la legge, trovato l'inganno», per il bonus 110%, sia stato rovesciato in: «Trovato l'inganno, facciamo la legge». Perché i raggiri per ottenere i contributi, sono tali e tanti e così ben orchestrati, da far nascere sospetti e incredulità.

La Guardia di Finanza ha individuato una serie di truffe che non ha precedenti. I primi controlli sono stati effettuati attraverso un'indagine coordinata dalla procura di Rimini che ha portato all'arresto di 12 persone e che via via si è moltiplicata in altre 11 regioni. Al centro dell'inchiesta soldi, molti soldi, almeno 500 milioni di aiuti finiti in modo illecito nelle mani di professionisti, imprenditori e commercialisti che non ne avevano diritto.

Complessivamente sono 78 le persone indagate e 35 le misure cautelari. Oltre 100 le società coinvolte, alcune create ad hoc per ottenere bonus locazioni, bonus per ristrutturazioni con miglioramenti sismici ed energetici, i cosiddetti bonus facciate e tutti quei benefici compresi nel decreto Rilancio del 2020. Otto sono le persone finite in carcere e altre 4 ai domiciliari, mentre nei confronti di 20 imprenditori è stata disposta l'interdizione all'esercizio di impresa e per 3 commercialisti l'interdizione all'esercizio della professione.

PERQUISIZIONI A TAPPETO L'esecuzione delle misure è scattata in Emilia Romagna e, successivamente, in Piemonte, Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio, Lombardia, Marche, Puglia, Sicilia, Toscana e Trentino. I finanzieri hanno eseguito anche un'ottantina di perquisizioni e sequestrato i falsi crediti d'imposta, beni e società, per il reato di indebita percezione di erogazione ai danni dello Stato. Tra gli indagati, 9 avevano presentato domanda di reddito di cittadinanza e lo avevano anche ottenuto, mentre altri tre avevano precedenti per associazione di stampo mafioso e legami con le 'ndrine calabresi. 

Tra le persone finite in manette, il commercialista romagnolo con interessi in mezza Italia, Stefano Francioni, mentre il ruolo di coordinatore del sodalizio, era ricoperto da Nicola Bonfrate. Nel corso dell'operazione, le Fiamme Gialle hanno sequestrato alcuni trolley zeppi di banconote.

Ed è proprio di soldi che gli indagati, quasi sempre, parlano al telefono, ignorando d'essere intercettati. «Non hai idea - dice uno di loro - di quanti ca*o di soldi hanno fatto... Non sanno più dove andare ad aprire i conti correnti in giro per il mondo per mettere il denaro, ma noi ci stiamo dietro... Ci stiamo dietro, però dobbiamo stare attenti...». 

Chi non è particolarmente attento alle parole, invece, è Nicola Bonfrate, che in una conversazione con il commercialista Matteo Banin (anche lui raggiunto da una misura cautelare), dice: «Lo Stato italiano è pazzesco, è una cosa... Praticamente vogliono essere inc*lati».

Entusiasta del "sistema" e certo di non essere scoperto, è Francioni che con un interlocutore commenta: «Io sto andando forte come un leone. Ho dato una serie di smacchi incredibili a tutti, perché coi soldi alla mano ho fatto delle operazioni importanti. Ho comprato un'altra casa, ho comprato e venduto dei crediti fiscali e quindi coi soldi, dopo mi sono messo a posto... Mi sono rialzato completamente. Ho circa 400mila euro sui conti correnti di cui non so che farmene».

LUDOPATIA DA REATO Ciò che colpisce, è l'eccitazione dei componenti della consorteria per quanto stavano facendo e che il Gip definisce: «Una ludopatia da reato». Ma ciò che ha lasciato interdetti gli investigatori è che di tutte le ristrutturazioni (bonus 110%, facciate, ecobonus, sismabonus), il gruppo criminale diffuso su tutto il territorio nazionale non abbia avviato un solo lavoro. 

Si tratta di progetti corredati di asseverazioni, permessi e documenti su interventi mai effettuati e su immobili a volte inesistenti. Poi c'è un altro tipo di truffa («più veniale, perché almeno i cantieri si aprono per davvero») che riguarda la richiesta del 110%, ad esempio per l'intervento trainante del "cappotto" dell'edificio, mascherato, invece, con la semplice ritinteggiatura della facciata. Qualcuno ha avuto anche l'ardire di chiedere (e a volte di ottenere) entrambi i bonus per un totale del 200% (110% più il 90% del bonus facciate, oggi sceso al 60%). 

Da open.online il 23 febbraio 2022.

La Guardia di Finanza di Monza ha denunciato ventidue imprenditori della provincia per aver percepito illecitamente contributi a fondo perduto per l’emergenza. Secondo la ricostruzione delle fiamme gialle i denunciati avrebbero ricevuto illecitamente oltre 460 mila euro, utilizzati principalmente per acquistare beni di lusso o “godersi la vita”.

I finanziamenti erano erogati dall’Agenzia delle Entrate ed erano destinate dal Decreto Rilancio alle imprese colpite da cali di fatturato dovuti al Coronavirus. Secondo le fiamme gialle uno di loro ha ottenuto il denaro e lo ha usato per finire di pagare il finanziamento per l’acquisto di un Rolex.

In sei, secondo quanto è emerso, hanno percepito contributi a fondo perduto, richiesti telematicamente all’Agenzia delle Entrate, per un totale di 237 mila euro, tra cui l’amministratore unico di una società di impiantistica elettrica di Giussano, che avrebbe incassato 147 mila euro, il titolare di una cooperativa che ha firmato un’istanza di contributo a fondo perduto per circa 50 mila euro e due rappresentanti legali di due società sportive brianzole, beneficiarie di oltre 28 mila euro. 

In sette, infine, hanno ottenuto finanziamenti bancari assistiti da garanzia per complessivi 210 mila euro, senza averne diritto.

I pirati del mattone: “Lo Stato si fa fregare e noi siamo qui”. Giuliano Foschini,  Fabio Tonacci su La Repubblica l'11 febbraio 2022. Dalle carte dei magistrati emerge il meccanismo criminale sulle ristrutturazioni. Finora solo indagini a campione.

L’inizio del Coronavirus ha portato bene, economicamente… Non so più dove andare ad aprire i conti correnti in giro per il mondo». La conversazione intercettata al telefono di un imprenditore emiliano arrestato, Nicola Bonfrate, racconta meglio di qualsiasi analisi economica, di qualsiasi indagine penale, di qualsiasi relazione al Parlamento, cosa si sta muovendo nel complicato e inquinato mercato italiano dei bonus fiscali legati all’edilizia.

DA NORD A SUD. Boss e pusher, chi ha frodato più di 4 miliardi del Superbonus. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.  

Il caso più eclatante è quello di G. C. M., 37 anni, ospite di una comunità per tossicodipendenti. Non ha un lavoro, non ha alcun bene intestato, non ha mai presentato la dichiarazione dei redditi. Eppure nel 2021 «ha aperto una partita Iva come procacciatore d’affari e ha tentato di cedere a un intermediario finanziario oltre 400 mila euro di crediti fittizi, poi venduti a una società di costruzioni». I soldi sono stati incassati e trasferiti su un conto corrente sloveno. «Cessione del credito», è questa la formula magica che ha consentito alle organizzazioni criminali e ai loro boss, ma anche a delinquenti comuni, colletti bianchi, commercialisti e avvocati, di far sparire finora dalle casse dello Stato quattro miliardi e 400 milioni di euro. E potrebbe non essere finita perché al 31 dicembre — come confermato dal direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini — «le cessioni comunicate attraverso la piattaforma telematica sono state pari a 4,8 milioni per un controvalore di 38,4 miliardi».

Il depliant di Poste con le istruzioni

Il sistema ha sfruttato la norma del decreto rilancio che nel 2020 non ha posto alcun limite alla possibilità di cedere i bonus edilizi. E così è bastato falsificare le pratiche, oppure sfruttare «prestanome» — come è appunto il pusher individuato dall’Agenzia delle Entrate — per ottenere le somme rivolgendosi a Poste italiane e a svariati istituti di credito. La procedura era sin troppo semplice, come conferma il depliant di Poste Italiane citato due giorni fa dal presidente del Consiglio Mario Draghi che nelle istruzioni sottolinea: «La procedura è semplice e immediata, non è necessario fornire alcuna documentazione a supporto della richiesta. Effettuata la richiesta di cessione del credito a Poste Italiane, affinché questa vada a buon fine è necessario comunicarlo ad Agenzia delle Entrate. In caso di esito positivo, il prezzo della cessione verrà accreditato direttamente sul tuo Conto Corrente BancoPosta». Detto fatto, nessun controllo preventivo è stato effettuato e migliaia di persone hanno ottenuto l’accredito.

«Ho le credenziali, possiamo divertirci»

Il 31 gennaio scorso la guardia di Finanza arresta i componenti di un’organizzazione che partendo da Rimini si è mossa in tutta Italia e grazie alla falsificazione dei vari bonus edilizi ha frodato quasi 300 milioni di euro. Creavano false società, fingevano di effettuare lavori e invece si limitavano a passare all’incasso sulla piattaforma dell’Agenzia delle Entrate accedendo ai cassetti fiscali. Hanno acquistato lingotti d’oro e criptovalute, hanno spostato soldi a Cipro, Malta e Madeira. Le conversazioni intercettate per ordine dei magistrati hanno svelato il sistema utilizzato. I «cash dog» hanno consentito di trovare contanti e gioielli occultati in botole e intercapedini.

«Lo Stato Italiano è pazzesco», esultano gli indagati mentre si accordano sui bonus da prendere. E poi l’imprenditore chiarisce ai complici: «Ne ho già 16 sui due cassetti. Nostri, non dipendono da nessuno, sono i miei, non devo chiedere il favore a nessuno di venderli, di accreditare, di fare. Li ho generati, poi ti spiego come ho fatto... come abbiamo fatto con il commercialista, sono stato quattro mesi dietro e ce l’ho fatta». E ancora: «Bisogna stare attenti, bisogna avere persone fidate, persone anziane...». Prestanome che in pochi mesi hanno consentito alla banda di comprare ristoranti, appartamenti, quote di altre società.

L’annuncio su Facebook del finto consorzio

Un consorzio di 21 imprese che ha un solo dipendente: parte da qui l’inchiesta della procura di Napoli su una truffa da 100 milioni di euro. Il resto lo fanno le denunce dei cittadini che raccontano di aver risposto a un annuncio pubblicato su Facebook di una ditta che offriva prezzi vantaggiosi e procedure semplificate per ristrutturare palazzi e villini. 

Il dossier della Guardia di Finanza entra nei dettagli rivelando il contenuto delle denunce — tutte uguali — presentate da decine di cittadini: «Tramite annuncio su Facebook i denuncianti contattavano il consorzio Sgarbi per effettuare lavori nelle proprie abitazioni essendo titolari di porzione di villetta bifamiliare, usufruendo dell’eco bonus 110%. Dopo diversi solleciti da parte dei contribuenti, il titolare del consorzio chiedeva loro di inviare firmato il documento di impegno per la presentazione telematica. Soltanto dopo essere stati convocati presso questo comando scoprivano che, nonostante nessun lavoro fosse mai stato svolto né alcuna fattura presentata, l’Agenzia delle entrate aveva già accettato la cessione del loro credito». Oltre al danno per i truffati c’è stata la beffa: i clienti del consorzio hanno dovuto «sanare» la propria posizione per non apparire come soggetti che avevano hanno già fruito dei bonus.

La bracciante con 80 milioni di euro

In provincia di Foggia c’è un paese dove tutti i residenti sono riusciti a incassare il credito. Stessa fortuna è toccata a svariati gruppi familiari residenti a Roma. È stata un’inchiesta avviata dai magistrati della capitale e condotta con i colleghi pugliesi a far scoprire il meccanismo messo in piedi grazie alla creazione di decine di finte aziende. Il dossier della Finanza svela il sistema: «Sono state individuate due società, gestite dalle medesime persone, che attraverso un meccanismo circolare di fatture false e comunicazioni di cessioni crediti hanno generato operazioni per centinaia di milioni di euro. Sostanzialmente le due società si sono fatturate a vicenda circa 500 milioni di euro ciascuna, in pochi mesi, per anticipi lavori mai effettivamente realizzati. Queste operazioni hanno generato indebiti crediti di imposta, poi monetizzati presso intermediari finanziari e soggetti grandi contribuenti».

I canali erano due: «Cessione dei crediti a persone fisiche compiacenti, perlopiù nullatenenti e tutte residenti nel medesimo paese o facenti parte del medesimo gruppo familiare, che hanno poi incassato il controvalore del credito da un intermediario finanziario. Utilizzo di una società di consulenza con operatività limitata, senza dipendenti e amministrata da un’imprenditrice agricola che, improvvisamente, acquista e rivende a un grosso intermediario finanziario 80 milioni di euro di crediti».

 Cronaca di un fallimento annunciato. Tutto ciò che non va nello sciagurato Superbonus 110. Federico Spadavecchia su L'Inkiesta il 19 Febbraio 2022

Per garantire una ripresa strutturale del settore dell’edilizia, il governo Conte II avrebbe dovuto varare una misura più equa, efficace, meno costosa e distorsiva delle dinamiche di mercato. Un obiettivo giusto è stato perseguito con metodi sbagliati e misure malgestite.

Il Superbonus 110% avrebbe dovuto essere per il governo Conte 2 il booster per la ripresa economica in tempo di pandemia, si sta invece trasformando in un boomerang con effetti collaterali devastanti. Le dimensioni dell’investimento e sopratutto l’enormità delle frodi rilevate ha portato all’allarme lanciato dal presidente del Consiglio Mario Draghi che ha sottolineato la mancanza di controlli efficaci previsti e a quello di Bankitalia che ha confermato carenze nelle regole dei bonus fiscali.

Il mercato drogato dalla misura avrà effetti non strutturali nel settore, senza accrescere la produttività; l’opportuno miglioramento dell’efficienza energetica e della sicurezza antisismica degli immobili avrebbe dovuto essere perseguito con una misura più equa, efficace, meno costosa e distorsiva delle dinamiche di mercato. Un bonus a favore di una porzione di cittadini, non va dimenticato, è pagato indirettamente da tutti i contribuenti, compresi quelli che non ne beneficiano. 

Il provvedimento, nato con il Decreto Rilancio del 2020, ha incrementato al 110% l’aliquota di detrazione delle spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021, a fronte di specifici interventi in ambito di efficienza energetica, prevedendo inoltre la possibilità di optare, in luogo della fruizione diretta della detrazione, per un contributo anticipato sotto forma di sconto dai fornitori dei beni o servizi (cd. sconto in fattura) o, in alternativa, per la cessione del credito corrispondente alla detrazione spettante. 

Tuttavia lo sviluppo della norma è stato, e continua a essere, una corsa a ostacoli. Date le iniziali scadenze eccessivamente ravvicinate, cittadini, imprese, e professionisti si sono trovati in una selva di nuovi soggetti (ad esempio i General Contrator) e adempimenti aggiunti di volta in volta al regolamento originale. Per rendere l’idea, basti pensare che il Decreto Rilancio è stato pubblicato a maggio 2020, ma il primo cantiere a Roma è partito soltanto a dicembre dello stesso anno, poiché le disposizioni attuative sono state rese disponibili solo alla fine di ottobre. Per risolvere questo primo intoppo si è dovuto attendere la legge di bilancio 2021 (legge n. 178 del 30 dicembre 2020), che ha prorogato il Superbonus al 30 giugno 2022 (e, in determinate situazioni, al 31 dicembre 2022 o al 30 giugno 2023) e introdotto altre rilevanti modifiche. 

A peggiorare la situazione, ha gravato il messaggio del Governo Conte, che ha dato agli Italiani l’illusione di poter ottenere qualsiasi lavoro di ristrutturazione gratis, e che lo Stato avrebbe regalato perfino qualcosa in più! 

Poche parole, invece, sulla complessità dell’iter tecnico-burocratico e il reale peso finanziario dell’operazione, in particolare per le casse pubbliche. 

Bisogna infatti ricordare che le opere oggetto di Superbonus sono unicamente quelle previste dall’art. 119 del Decreto Rilancio: isolamento termico delle superfici opache dell’edificio, sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti, interventi antisismici di cui ai commi da 1-bis a 1-septies dell’articolo 16 del decreto legge n. 63/2013 (cd. sismabonus). I cosiddetti interventi trainanti. 

Il Superbonus spetta anche per una serie ben definita di ulteriori tipologie di interventi (cosiddetti trainati), a condizione che siano eseguiti congiuntamente ad almeno uno di quelli sopra elencati.

In aggiunta agli adempimenti ordinariamente previsti per le detrazioni degli anni passati, ai fini dell’esercizio dell’opzione, per lo sconto o cessione, il contribuente deve acquisire il visto di conformità dei dati relativi alla documentazione che attesta la sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione d’imposta, rilasciato dagli intermediari abilitati alla trasmissione telematica delle dichiarazioni, e la asseverazione tecnica relativa agli interventi di efficienza energetica e di riduzione del rischio sismico che certifichi il rispetto dei requisiti necessari ai fini delle agevolazioni fiscali e la congruità delle spese sostenute in relazione ai lavori agevolati, in accordo ai decreti ministeriali. Successivamente l’Agenzia delle Entrate avrà otto anni di tempo per sottoporre sotto la propria lente le pratiche presentate, procedendo ai dovuti accertamenti e recuperi.

Una combinazione di tempistiche e modalità che scopre troppo il fianco a intenti fraudolenti da parte di imprese e professionisti, spesso controllati dalla malavita organizzata, che presentando documentazione mendace incasserebbero subito introiti milionari per sparire nel nulla subito dopo, prima ancora che il controllo reale possa iniziare.

«Il funzionamento del Superbonus ha rallentato per i sequestri deliberati dalla magistratura», ha commentato il presidente del Consiglio, mentre il ministro dell’Economia Daniele Franco ha riportato come al 31 dicembre 2021 le richieste di cessione dei crediti relative ai bonus edilizi comunicate all’Agenzia delle Entrate erano 4,8 milioni per un controvalore di circa 38 miliardi di Euro; di queste, le operazioni sospette ammontano a oltre 4 miliardi di Euro, con sequestri scattati per 2,3 miliardi.

È chiaro tuttavia che, con una mole tanto imponente di richieste, il Superbonus, novello Titanic, vada ormai portato in porto proteggendolo dagli iceberg lungo la rotta. Lo stesso Draghi ha ribadito la volontà di far funzionare il meccanismo, individuando le adeguate contromisure alle truffe. Il primo tentativo c’è stato con il decreto Sostegni ter che ha previsto il divieto di effettuare cessioni a catena dei crediti, limitando la cessione a una sola. 

Il provvedimento, giudicato eccessivamente penalizzante dagli operatori, ha avuto l’immediata conseguenza di portare al rifiuto delle cessioni da parte delle banche. Bisognerà dunque aspettare il prossimo Decreto Bollette per i correttivi del caso, che dovrebbero consistere nell’innalzare il limite massimo delle cessioni da uno a tre, a fronte di certificazione della veridicità del credito stesso.

Il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, intanto ha firmato il decreto che fissa i tetti massimi per gli interventi del Superbonus 110%, aumentandoli almeno del 20% in considerazione del maggior costo delle materie prime e dell’inflazione. Nell’euforia generale in cui tutti brindavano ai lavori gratis il mercato è stato dopato come un cavallo in una corsa truccata: con il costo delle singole opere e componenti fissato dai prezzari istituzionali, sono stati messi tutti al valore più alto possibile. Inoltre, la corsa contro il tempo al cantiere ha causato un’estrema difficoltà di reperimento dei materiali e delle attrezzature necessarie, come per esempio i ponteggi, facendone schizzare il prezzo alle stelle.

Ancora una volta ci troviamo davanti a obiettivi giusti perseguiti con metodi sbagliati e misure malgestite; sarebbe stato auspicabile una maggiore visione da parte della classe politica che si è intestata il merito del Superbonus, progettando una misura di intervento strutturale meno avida di prime pagine, meno generosa, ma più efficace per l’economia reale e d’aiuto ai bisogni dei cittadini, tale da evitare la rincorsa in tempi ristretti alla ristrutturazione gratis.

Sarebbe stato probabilmente sufficiente una percentuale di bonus intorno a 60/70% con scadenze a lungo termine, permettendo verifiche nei cantieri e salvaguardando gli strumenti della cessione del credito e lo sconto fattura, utili per raggiungere gli scopi prefissati. Ancora, si sarebbe potuto creare un sistema per calibrare i bonus spettanti in base al reddito del contribuente – come in una misura corrispondente attuata in Francia e senza favorire, come è stato in Italia, le fasce più abbienti – ma qui la sfida sarebbe davvero ardua, perché si entrerebbe nel pieno della riforma tributaria, non soltanto normativa ma anche materiale, portando a compimento la definitiva digitalizzazione dell’Amministrazione Finanziaria.

Superbonus, Draghi e Franco: «truffa tra le più grandi della Repubblica». Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022

Una truffa «tra le più grandi che la Repubblica abbia mai visto». Una norma che «prevede pochissimi controlli». Sono durissime le critiche che il premier Mario Draghi e il ministro dell’economia Daniele Franco hanno espresso in conferenza stampa nei confronti del superbonus, un provvedimento che presto sarà modificato attraverso un emendamento da presentare alle Camere perché sia reso più efficiente e perché non si ripetano abusi. E un attacco che proviene da fonti così autorevoli non poteva certo passare sottotono: il M5S, secondo alcune indiscrezioni, vuole chiedere a Franco di riferire in Parlamento: «Attribuire i 2,3 miliardi di frodi al Superbonus è semplicemente una falsità».

Oggetto di critiche

Da tempo il superbonus - una misura per la quale sono stanziati fino alla fine del 2022 ben 18 miliardi - era entrato nel mirino delle critiche, vuoi per la sua (poca) equità, vuoi per il ripetersi di truffe scoperte dalla Guardia di Finanza e dalla Agenzia delle Entrate. Oggi Draghi ha reso esplicito che i dubbi tormentano anche Palazzo Chigi. «Non è che l’edilizia senza il superbonus non funziona - attacca il presidente del consiglio in conferenza stampa -. L’edilizia si è giovata del superbonus» ma va avanti lo stesso, «altrimenti tutti i Paesi starebbero a zero». «Alcuni di quelli che più tuonano sul superbonus sono quelli che hanno scritto questa legge senza» prevedere «sufficienti controlli». Se in Italia ci sono casi di frodi è perché , osserva Draghi « si è voluto costruire un sistema che prevede pochi controlli».

Superbonus, a gennaio superati i 18 miliardi di investimenti ammessi alla detrazione

Operazioni sospette per 4 miliardi

Daniele Franco rincara poi la dose: « Sui bonus edilizi si possono pensare ulteriori affinamenti, stiamo pensando di tracciare meglio» le operazioni, «tutto si può fare ma resta fondamentale evitare ulteriori truffe che sono tra le più grandi che questa Repubblica abbia visto». Premier e ministro confermano poi che le inchieste della magistratura hanno già portato al sequestro di 2,3 miliardi di euro per operazioni indebite ma le operazioni sospette ammontano a 4 miliardi. «Dire che i problemi che adesso si manifestano dipendano dai controlli, non credo, dipendono dalla massiccia azione della magistratura penale che interviene su un contesto che prima era poco regolato» conclude Franco. 

La cessione dei crediti

Il punto debole del meccanismo, pare ormai accertato, è la cosiddetta cessione dei crediti: chi fa domanda per il superbonus cede poi il beneficio ad altri soggetti, dando vita a una sorta di «moneta fiscale» come l’ha definita il ministro dell’economia e finendo per finanziare lavori per ingenti somme al di fuori del perimetro previsto dalla legge.

Superbonus, Draghi pizzica Conte. La truffa più grande che si ricordi escogitata da chi gridava onestà. Franco Bechis su Il Tempo il 12 febbraio 2022

Il giudizio di Mario Draghi è stato tombale: “Per inciso, alcuni di quelli che più tuonano oggi su super bonus, sulla necessità che queste frodi non contano, che bisogna andare avanti lo stesso, che l'industria non può aspettare…. alcuni di loro sono quelli che hanno scritto questa legge, dove è stato possibile fare quello che si è fatto senza controlli. Su un dépliant delle Poste del 2020 è scritto che non è necessario fornire alcuna documentazione a supporto della richiesta, è sufficiente verificare preliminarmente di essere titolare del credito da cedere. Va bene. Allora se ci troviamo in questa situazione qui è per il fatto che si è voluto costruire un sistema che prevedeva pochissimi controlli. Questo è il punto”.

E siccome tante volte non abbiamo nascosto perplessità sulle parole del premier oggi è doveroso dire che sul super bonus edilizio Draghi ha ragioni da vendere. E ha proprio centrato il punto della questione che abbiamo sollevato qualche giorno fa: la legge tanto difesa dal M5s e varata fra fiumi di retorica dal governo allora guidato da Giuseppe Conte è scritta con i piedi, non prevedeva alcun controllo di legalità e si è rivelata un'autostrada facilissima da percorrere (il biglietto era offerto dal governo) per chiunque avesse cattive intenzioni come per gruppi criminali che si sono apparecchiati il ricco tavolo fregando le casse dello Stato.

Dire che funzionava l'idea in sé ed era in grado di rimettere in moto il Pil è semplicemente una banalità. Rimborsare con soldi pubblici il 10% in più di quello che hai speso ricorda un po' l'idea di rimborso elettorale che dagli anni '90 avevano in testa i partiti politici poi entrati per questo nel mirino del M5s, è non è manco dissimile da altre pratiche in vigore nella Prima Repubblica, come le mance pre-elettorali del celebre candidato sindaco a Napoli, Achille Lauro (regalava una scarpa prima delle elezioni, promettendo l'altra a voto ottenuto). La gente accorre a prendere? Certo che sì: ma se sali su un elicottero lanciando sacchi rigonfi di euro funziona uguale: si correrà ad arraffarli.

Quindi non c'era genialità nell'idea sul super bonus edilizio e dei suoi crediti di imposta cedibili all'infinito: se regali soldi, qualcuno tende la mano e li prende. Tutti contenti della propria generosità, sicuri di potere poi riscuotere nelle urne il consenso come quando fu promesso senza se e senza ma il reddito di cittadinanza, Conte e i suoi non hanno pensato alla tentazione più ovvia che stavano mettendo in moto: “Questi regalano 10 su 100, e se noi ci prendessimo proprio tutta la posta, mettendoci in tasca tutti i 110?”.

Non l'hanno solo pensata, l'hanno fatto a macchia di olio. Siamo già a quota 4 miliardi di euro scoperti dalla guardia di Finanza quando purtroppo in gran parte erano già evaporati. Ma non si ricorda in così breve tempo una truffa di queste proporzioni su una legge dello Stato. E attenzione, perché se ne hanno scoperti 4 miliardi sarà solo piccola parte della realtà, perché c'è voluto anche un pizzico di fortuna per acciuffarli e scoprire che avevano combinato. Quindi la peggiore ruberia che si ricordi nella storia repubblicana è stata messa in moto dalle menti sapienti di quelli che urlavano “onestà, onestà” dando del “ladro” a tutti gli altri. C'è tutto nel dépliant 2020 delle Poste citato da Draghi nella conferenza stampa di ieri: nessun documento a dimostrare nulla, e vai con il bonus e la finanza sui crediti di imposta. Una specie di invito a pranzo per i malfattori di ogni sorta, che appunto non si sono fatti pregare.

Era voluto un sistema che incentivava la disonestà? No, purtroppo. Non metto in dubbio la buona fede di Conte, del suo sottosegretario Riccardo Fraccaro e di chiunque avesse messo mano a quelle norme sul super bonus come alla pioggia di concessioni di bonus di quel periodo. Non l'hanno fatto apposta per favorire gli sgraffignatori che abbiamo visto all'opera. Ma è perfino peggio così, perché fa brillare il vero problema emerso in questa legislatura con i 5 stelle: l'incapacità (per giunta presuntuosa) provoca danni grandissimi, perfino più grandi della voracità mostrata da altre generazioni di uomini politici. Non parliamo poi della finanza creativa messa in moto dalla cessione all'infinito di crediti spesso illegittimi: era proprio quella combattuta fra grida e manifestazioni di piazza dai grillini, ma ora porta indelebile la loro firma.

Ora cercherà di metterci una pezza  insieme a Draghi il ministro dell'Economia Daniele Franco, per salvare uno strumento che può essere utile a un settore importante come l'edilizia pensando alla crescita del Paese. Le soluzioni tecniche ci sono per assicurare legalità e salvare l'appetibilità del super bonus, anche se purtroppo i guai combinati non si possono più riparare. Ma ricordare come lezione di storia e di vita sicuramente sì.

Superbonus: irregolari 91 cantieri su 100. Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 07 febbraio 2022.

In Italia, per ogni aspirante imprenditore, dar vita ad una nuova attività è un percorso lungo e complicato. Di questi tempi chi vuol fare impresa rapidamente conviene buttarsi sull’edilizia: basta registrare il numero di partita Iva e il codice di attività corretto (Ateco 41) alla Camera di Commercio e contemporaneamente inviarlo all’Agenzia delle Entrate, e un’ora dopo puoi tirar su muri, demolirli o montare i gettonatissimi «cappotti termici» sulle facciate di case o condomini. Nel secondo semestre 2021 sono nate 64 nuove imprese edili al giorno, per un totale di 11.600 a fine dicembre. 

Dentro questi numeri da ricostruzione post bellica ci sono anche le «riconversioni», ovvero le aziende che hanno cambiato natura passando da attività di macelleria, autotrasporto, agricola, ad edili. Un boom con uno scopo preciso: attingere ai 30 miliardi di euro di bonus che lo Stato distribuisce fino a giugno 2023 a chi migliora l’efficienza energetica degli edifici residenziali. 

La legge non chiede competenze

Gli imprenditori del settore costruzioni riuniti nell’Ance, hanno in media sei dipendenti, quelli delle aziende neonate zero. Il presidente dell’associazione di categoria Gabriele Buia è convinto che non faranno mai assunzioni perché non intendono investire, ma solo approfittare di un momento d’oro. L’Ance forma operai, geometri, addetti al cantiere, e Buia si chiede «come possono i nuovi arrivati gestire un cantiere in sicurezza se fino a ieri macellavano carni o trasportavano merci?». La legge italiana queste domande non se le pone, non sono richieste competenze specifiche e nel momento in cui ti dichiari azienda edile, hai tutti i titoli per chiedere i bonus energetici senza limiti di importo. E magari senza mai iniziare i lavori. L’Agenzia delle Entrate rincorre i truffatori che intascano i bonus e lasciano i cantieri aperti. Il 1° febbraio a Rimini sono state arrestate 35 persone: avevano ricevuto illecitamente 440 milioni tra bonus e superbonus con una catena di subappalti. Le truffe hanno già superato il miliardo di euro. Il governo prova a difendersi: il nuovo Decreto Sostegno Ter del governo Draghi impedisce di cedere il credito fiscale dei bonus a terzi per limitare i subappalti rischiosi. Ma molti costruttori Ance sono già sul piede di guerra: da un lato vogliono eliminare gli avventizi, dall’altro chiedono però allo Stato di abbassare i controlli.

Il 90% dei cantieri fuori regola

Il fronte più preoccupante è quello della sicurezza. L’Ispettorato del Lavoro dallo scorso giugno ha raddoppiato il numero delle ispezioni. È un bollettino di guerra: nell’ultimo semestre 2021, su 100 cantieri visitati, 91 erano non erano in regola con le norme contrattuali, assicurative, di sicurezza. Nel primo semestre erano 60, e questo dimostra che la corsa al bonus sta accelerando le irregolarità. Delle 13 mila infrazioni registrate nel corso del 2021, il 50% riguardano l’inadeguatezza delle misure di protezione in caso di caduta dall’alto: mancanza del doppio parapetto, montaggio non a norma di tubi o ponteggi, materiali usurati, mancanza di parasassi o cartelli di pericolo. E quando si cade da un’impalcatura ci si fa sempre molto male. 

L’Ispettorato certifica che i lavoratori irregolari sono cresciuti del 12% tra il 2020 il 2021. Mentre il «nero» è stabile (2518 gli operai totalmente abusivi nel 2021 su 7674 irregolari), è esploso il «lavoro grigio». Al posto di lavoratori dipendenti regolarmente formati e assicurati, gli ispettori hanno trovato autonomi assunti irregolarmente a cottimo, intermittenti, apprendisti, tirocinanti, operai a progetto, in associazione, in partecipazione. E siccome cresce la richiesta di manodopera, si ricorre a «lavoratori appaltati» da aziende dell’est Europa (+173%), e qui il problema è che se sono assicurati, lo sono presso l’azienda madre in Romania, Albania o Slovenia. 

Tutte formule che portano allo stesso risultato: meno spese per le imprese, meno sicurezza in cantiere. I numeri sono impietosi: le denunce di infortunio nei cantieri edili sono aumentate nell’ultimo anno del 17%, dopo dieci anni di diminuzione continua. Con una tendenza in crescita: nell’ultimo quadrimestre l’aumento degli incidenti sfiora il 30%, ad esempio a dicembre 2021, se ne sono verificati 1.521, contro i 1.160 dello stesso mese nel 2020. Le morti nell’edilizia sono passate da 114 a 127 con un incremento dell’11%. E questi sono solo i casi registrati dall’Inail, quindi gli assicurati, perché poi ci sono i morti che nessuna conta, quelli del lavoro nero. 

Il crollo dei ponteggi

Il fenomeno tragico è la crescita dei crolli di ponteggi e impalcature. Crollano per qualche folata di vento ponteggi che dovrebbero resistere anche a burrasche: è successo a giugno, a Campobasso, per sei piani di impalcatura. Il 15 settembre a Genova muore per caduta un operaio di 54 anni: sotto inchiesta la fretta nel montare il ponteggio. Il 14 novembre nel Salento cede un’impalcatura di sei metri, forse assemblata male: scompare un 57enne. A dicembre, nel crollo di un ponteggio a La Spezia, i carabinieri scoprono che i montatori erano irregolari e non formati. Sempre a dicembre, il caso di Torino non ha precedenti: il crollo di una grossa gru montata male provoca la morte di tre operai. La procura di Torino ha aperto un’inchiesta, ma sarà difficile ricostruire chi ha sbagliato in una catena che comprende tre ditte (responsabile del cantiere, proprietaria della gru, proprietaria del carro di montaggio), i tre montatori deceduti (ingaggiati per l’occasione, uno aveva solo vent’anni) e il gruista bosniaco, autonomo, rimasto ferito. A minare la sicurezza spesso è proprio la lunga catena di subappalti; inoltre nei piccoli cantieri non sempre c’è un capo cantiere o il responsabile della sicurezza, e quando ci sono corrono da un cantiere all’altro. 

Impalcature non omologate

Il boom delle ristrutturazioni ha reso introvabili i ponteggi ed ha gonfiato i prezzi. I costi di montaggio e noleggio sono passati da 13/15 euro fino a 40 euro al metro quadro per il primo mese di affitto. E un ponteggio pagato caro deve rendere, vuol dire che nei tempi morti dei lavori si smonta e rimonta in fretta per aprire altri cantieri, senza troppa attenzione alla sicurezza. Operazioni che devono essere eseguite da personale specializzato, che molte aziende non hanno. I ponteggi invece scarseggiano per tre ragioni: 1) in Italia sono legali solo quelli omologati direttamente dal Ministero del Lavoro, 2) i grandi produttori sono pochi e non tengono dietro alla richiesta, 3) le nuove imprese che entrano sul mercato edile senza i costi fissi di personale, utilizzano il capitale per fare incetta di materiale. E siccome tutti hanno fretta, si ricorre anche all’importazione illegale da Turchia ed Europa dell’Est, senza bollettino di conformità del Ministero, e spesso di modesta qualità. Se poi a montare un ponteggio usurato ci metti personale senza alcuna formazione, puoi solo sperare nel santo protettore.

Le soluzioni

L’Ispettorato del Lavoro oggi ha solo 239 ispettori tecnici da mandare sui cantieri di tutta Italia a controllare lo stato dei ponteggi; ne arriveranno altri 1000, ma l’anno prossimo! Per l’Ance andrebbe adottato lo stesso meccanismo di certificazione dell’affidabilità delle aziende edili che operano nel settore pubblico: il certificato Soa. Anche se operi su edifici privati, poiché esegui lavori con denaro pubblico, dovresti avere un bilancio adeguato all’importo richiesto allo Stato, referenze bancarie, idonee attrezzature tecniche e personale tecnico specializzato. Se fino a ieri vendevi bovini o facevi trasporto merci, non puoi metterti a rivestire edifici di otto piani fino a quando non dimostri di essere affidabile.

A conti fatti i bonus hanno rimesso in moto tutta l’economia e produrranno nel tempo un risparmio energetico, ma l’altra faccia della medaglia ha un prezzo immorale

L’arrivo di tanti soldi da spendere in poco tempo ha prodotto truffe, lavori non sempre fatti bene, e sacrificato la sicurezza, proprio nel settore che già da anni aveva il triste primato di incidenti sul lavoro.

SuperBonus 110%: già rimborsati 16 miliardi. I prezzi li decide un privato e lo Stato non controlla. Marco Bonarrigo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022. 

Se vedete scritto su un listino prezzi «Tipografia del Genio Civile» cosa pensate? Che il Genio Civile, un organo dello Stato, abbia stabilito quei prezzi! La questione riguarda il SuperBonus al 110%: soltanto nello scorso mese di dicembre lo Stato ha autorizzato 110 milioni di euro al giorno di credito fiscale agli italiani per migliorare l’efficienza energetica delle loro abitazioni. Dal 1° luglio 2020 sono stati spesi quasi 16,2 miliardi, e sono previsti investimenti per almeno altri 14 fino al giugno del 2023, quando l’operazione dovrebbe scadere. In media ogni condominio che ha eseguito i lavori ha investito 540 mila euro, ogni casa individuale oltre 110 mila. Un incentivo imperdibile per rinnovare il vetusto parco immobiliare nazionale e renderlo più ecologico. E una boccata di ossigeno per produttori, imprese e progettisti. 

La manina che cambia il decreto

Con gli incentivi le frodi sono sempre in agguato: «Alcuni cittadini ci hanno segnalato di aver firmato le carte senza che fosse avviato alcun lavoro, altri di lavori eseguiti da società che non sono nell’edilizia ma nel settore della macellazione» ha dichiarato Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle Entrate, quantificando le truffe in almeno un miliardo di euro. Per ridurle, l’Agenzia ha intensificato i controlli, mentre lo Stato ha reso più complessa la procedura di richiesta del bonus. Per incassare, l’impresa che fa i lavori deve dimostrare all’Enea di aver utilizzato materiali che garantiscono il risparmio energetico, e all’Agenzia delle Entrate di aver applicato prezzi congrui. 

E come si determina il prezzo congruo? La legge 77 del luglio 2020 che ha istituito gli incentivi è molto chiara: chi progetta deve rispettare i prezzi massimi dei listini delle Regioni (non sempre aggiornati) e quelli ben più diffusi e spesso efficienti delle Camere di Commercio presenti sul territorio. Un mese dopo, nel decreto attuativo del 6 agosto, le Camere di Commercio spariscono, e come riferimento ufficiale sui prezzi compaiono «le guide dell’edilizia edite dalla casa editrice Dei – Tipografia del Genio Civile». A luglio 2021 un’associazione di categoria chiede numi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, e il segretario generale risponde così: «I parametri di riferimento sono quelli definiti dal Genio Civile». Un ente pubblico quindi. 

Un privato che si chiama Genio Civile

Il Genio Civile non esiste più dal 1972, anno in cui questa struttura del Regno — creata da Vittorio Emanuele I a inizio Ottocento per monitorare i lavori pubblici — si è dissolta. La Dei, che con il Genio non ha mai avuto nulla a che fare, è una società privata con undici dipendenti e sede a Roma. Settant’anni fa il suo fondatore, il signor Bartoli, ebbe l’idea — lui sì geniale — di mettere nome e marchio del Genio Civile nella ragione sociale per vendere meglio i suoi prezzari e manuali per l’edilizia. Ad equivocare infatti sono in parecchi, dai funzionari del Ministero, a quelli dell’Agenzia delle Entrate e dell’ Enea. Nel marzo 2021, in piena operazione bonus, la Dei è stata acquisita dalla Quine, del gruppo Lswr, colosso dell’editoria tecnica guidato da Giorgio Albonetti. Lswr gestisce molti prezzari dei farmaci, pubblica riviste giuridiche, quelle delle fiere di settore, la rivista del consiglio nazionale degli ingegneri, l’organo che assevera i costi del superbonus, la rivista dell’associazione dei termotecnici (AICAR) che progettano gli impianti e asseverano i costi ai fini del bonus. I listini Dei sono dettagliatissimi. Siccome lungo lo stivale i prezzi variano, e occorre definire e monitorare 80 mila voci, uno immagina che ci lavoreranno un centinaio di esperti. Sbagliato: sono solo in 6, e qualche consulente. 

Il listino di riferimento

I listini nella loro versione elettronica permettono la compilazione automatica dei preventivi. Ovviamente la comodità ha un prezzo: fino a 3.200 euro per un abbonamento annuale.

Sul tavolo di ogni ingegnere, architetto o geometra, quello della Dei (che dichiara 10 mila clienti e fatturato raddoppiato nell’ultimo anno) è un monopolio su cui lo Stato non esercita alcun controllo.

L’editore Albonetti fa il suo mestiere, e lo fa bene: «Vengano pure a controllare, troveranno che i prezzi sono i più bassi possibili. Noi non cediamo alle pressioni delle imprese che vorrebbero aumenti continui lamentandosi per i rialzi delle materie prime. Siamo totalmente indipendenti e quindi affidabili». Qualche potenziale conflitto di interessi in realtà c’è: i prezzari Dei ospitano pubblicità a pagamento dei costruttori, e editano la rivista dell’Ordine degli Ingegneri, che nei suoi editoriali ne difende a spada tratta «l’insostituibilità come riferimento per i lavori».

Come si determina un prezzo

Secondo Luca Bertoni, presidente del Collegio degli ingegneri di Lodi, i listini Dei non espongono prezzi spropositati per le singole voci, ma è la loro struttura che permette di alzare i prezzi quando si redige un preventivo. Un esempio: «In zona climatica “E” un serramento può costare 650/750 euro al metro. Io ho visto capitolati basati sul listino Dei che calcolavano anche 2.500 euro al metro. Come ci si arriva? Applicando alla lettera delle singole voci super dettagliate, inserendo separatamente le ore di posa in opera e così via». Il listino Dei è autorizzato dallo Stato, e lo Stato non può contestare il prezzo finale che va a rimborsare. La legge in origine ipotizzava una procedura diversa per calmierare i costi: stabilire un prezzo massimo (ad esempio 1.000 euro al metro per i serramenti) e lasciare l’eventuale spesa in eccesso a carico del contribuente. Vuoi isolare casa con 120 metri quadri di cappotto termico? Ti rimborso al massimo tot euro al metro quadro, in base alle misure certificate dal progettista. Nessuno in questo modo avrebbe bisogno di gonfiare i prezzi. I massimali però non sono stati messi in pratica.

I professionisti ringraziano

I costi sono diversi da regione a regione, da provincia a provincia. Se in Lombardia i prezzari delle Camere di Commercio sono (oltre che gratuiti) anche impeccabili, nel Centro-Sud la storia cambia. Francesco Triolo, ex presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Messina, spiega: «Mi piacerebbe far riferimento al prezzario della Regione Sicilia, ma contiene pochissime voci, mentre quello Dei comprende ogni possibile variante e nel momento in cui lo adotti sai che lo Stato non avrà nulla da obbiettare. In un mercato sano, ai prezzari si applica sempre lo sconto: ma se l’Agenzia delle Entrate rimborsa prezzi più alti della media nessuno ha interesse a chiederlo». I professionisti — che col superbonus incassano parcelle di progettazione più alte — ringraziano: «I meccanismi di rimborso dei soldi che anticipiamo sono lenti, guadagnare di più è un modo per rifarci».

Regalati due miliardi

Nessuno è interessato a potenziare gli uffici tecnici pubblici locali che pure avrebbero competenza e risorse per far da garanti. Qualche professionista calcola almeno nel 10% la spesa in eccesso da parte dello Stato dovuta a un meccanismo di calcolo non calmierato. Sui 16 miliardi già spesi, se ne sarebbero già risparmiati due. Due mesi fa il ministro della Transizione ecologica ha riportato i conti al governo: «Stiamo pagando il doppio dei valori europei perché non c’è contrattazione sui prezzi». Per ridurre i costi, la nuova legge finanziaria ha modificato la normativa: per essere congrue le spese dovranno adeguarsi «ai valori massimi stabiliti con decreto del ministro della Transizione ecologica da emanarsi entro il 9 febbraio 2022».

Il Mite ha dunque tre settimane di tempo per stabilire un tetto di spesa per ogni singola voce di intervento, dai cappotti termici alla manodopera, alle spese di progettazione.

L’impresa è dura: i produttori di materie prime, le imprese costruttrici, e la maggior parte dei progettisti sono già sul piede di guerra. Il defunto Genio Civile non può controllarli, lo Stato pare non essersi accorto del decesso e i prezzi del Tariffario Dei che portano ancora il suo nome fanno davvero comodo a tutti.

·        Evasori fiscali!

Crosetto, "ho letto una cosa curiosa": il siluro che cancella la sinistra. Libero Quotidiano il  10 dicembre 2022

"Leggo molte polemiche sul 'record' italiano per l’evasione IVA": Guido Crosetto interviene su una delle questioni più dibattute degli ultimi giorni. E lo fa su Twitter, dove scrive: "La cosa curiosa è che sono polemiche che arrivano da parte di chi ha governato negli ultimi 10 anni, rivolte a chi sta governando da 50 giorni". Il riferimento del ministro della Difesa è a chi da giorni si scaglia contro il governo, accusandolo di strizzare un occhio agli evasori.

Crosetto, però, fa notare che il rapporto della Commissione europea sull'evasione del gettito Iva, che vede l'Italia indossare la maglia nera, non si basa certo sui dati del governo di Giorgia Meloni, che siede a Palazzo Chigi da poco più di un mese. A commentare la notizia sul record italiano è stato nei giorni scorsi anche il leghista Claudio Borghi: "Ma come? Con i limiti al contante più bassi d'Europa, la fattura elettronica e il pos non avrebbe dovuto esserci nemmeno l'ombra dell'evasione! Come dite? Non dipende da quello? Ah...".

La stessa Meloni non avrebbe reagito bene alle polemiche degli ultimi giorni. "Non possono certo dire che pure questo è colpa nostra", avrebbe detto dopo la notizia sul rapporto sull'evasione. Lo ha rivelato La Stampa in un retroscena. Il rapporto della Commissione Ue presentato dal commissario all’economia a Bruxelles Paolo Gentiloni assegna all’Italia il primato in Europa con 26,2 miliardi di evasione Iva. La presidente del Consiglio ce l’avrebbe anche con lui, perché "sa benissimo che se il sistema fiscale non funziona la responsabilità è dei governi precedenti. Noi siamo appena arrivati", avrebbe detto secondo il racconto di una fonte al quotidiano.

Leggo molte polemiche sul “record” italiano per l’evasione IVA.

La cosa curiosa è che sono polemiche che arrivano da parte di chi ha governato negli ultimi 10 anni, rivolte a chi sta governando da 50 giorni.

Evasione fiscale: i metodi di contrasto con i limiti imposti da politica, privacy e i colpi di spugna. Milena Gabanelli e Rita Querzè su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2022.

L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e sull’evasione fiscale. Nel 2019 (ultimi dati completi disponibili) sono sfuggiti al fisco 99,24 miliardi di euro di tasse – il 18,5% del dovuto allo Stato – quanto basta per tre manovre di Bilancio. La novità è che se l’evasione non viene ridotta entro il 2024 di quasi 15 miliardi il Pnrr è a rischio. I buchi neri sono tre. Il primo: 32 miliardi di Irpef evasa da lavoratori autonomi e imprese che oggi non pagano il 68,3% del dovuto. Era il 65,1% nel 2015. Il secondo riguarda l’Iva: 27,7 miliardi persi nel 2019, siamo i primi in Europa per ammontare. Il terzo è il lavoro nero: 12,7 miliardi di contributi non versati. Anche questo dato è in continua crescita: nel 2015 erano 11,3 miliardi. Nel 70% delle aziende ispezionate sono riscontrate irregolarità.

L’Agenzia delle Entrate fa quello che dice il Mef

Il datore di lavoro dell’Agenzia delle Entrate è il ministero dell’Economia e delle Finanze che, attraverso una convenzione, gli indica ogni anno gli obiettivi da raggiungere: per il 2022 deve incassare 14,4 miliardi di evasioni relative agli anni passati. Quindi è difficile intaccare quella nuova. L’Agenzia delle Entrate della Lombardia deve portarne a casa 2, quella del Lazio 1, l’Emilia-Romagna e Veneto 560 milioni e così via. Ogni sede, una volta raggiunto il budget, può anche fermarsi lì. Nella convenzione sono indicati metodi per scovare gli evasori, a partire dall’analisi del rischio. Si tratta di prendere diverse categorie di attività (dalle gioiellerie, alle carrozzerie, ai negozi di elettronica) e incrociare i dati dell’anagrafe tributaria con quelli dei conti correnti, sostituendo i nomi degli intestatari con uno pseudonimo perché non siano identificabili. Nei casi in cui si evidenziano incongruenze possono partire i controlli in chiaro sul singolo. Il problema è che le analisi del rischio «pseudonimizzate» sono state autorizzate dal Garante della Privacy solo da giugno, dopo tre anni di attesa. E non sono mai partite. Certo, se gli incroci venissero fatti fin dall’inizio senza nascondere i nomi dei contribuenti il processo sarebbe più efficiente e veloce perché consente di andare mirati su chi fa il nero e ricicla escludendo i falsi positivi. Ma questo il Garante, interpretando in modo più restrittivo la direttiva europea, lo vieta.

Un altro limite alla lotta all’evasione è la mancanza di interoperabilità delle banche dati. Per esempio incrociando i dati di Inps, Unità di Informazione Finanziaria (l’autorità incaricata di esaminare i flussi finanziari a scopo di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo) e Guardia di Finanza si potrebbero vedere i travasi di dipendenti o di soldi che svelano subito i grandi illeciti. Ma, come per i conti correnti, a queste banche dati si può accedere solo quando si sta facendo una verifica puntuale. Inoltre questi incroci possono farli soltanto due uffici specializzati (Agenzia e Gdf) perché gli altri non hanno mezzi né personale con le competenze necessarie.

La fatturazione elettronica e i «no» del Garante

L’introduzione della fatturazione elettronica ha consentito un grande passo avanti: bloccati falsi crediti Iva per un miliardo prima di arrivare in compensazione e 2,2 di frodi carosello. Il limite, sempre imposto dal Garante per la protezione dei dati personali, riguarda le fatture emesse da un’azienda al consumatore finale: si può vedere che X ha fatturato 10.000 euro a Y ma non l’oggetto della transazione. Una segretezza che, oltre a consentire illeciti di varia natura, impedisce di sapere se è stata applicata l’aliquota del 4% quando magari doveva essere del 22%. Per sfruttare al meglio questo strumento si dovrebbe lavorare sull’anno in corso: se vedo che una società vende trattori o computer, ma non ne acquista, è evidente che sono fatture false e quella attività la blocco subito, non quando il danno è fatto. Poi ci sono le partite iva apri e chiudi: sono migliaia e girano miliardi. Esiste da tempo la norma che consente di andare a vedere subito se quell’attività esiste sul serio e, nel caso, di chiuderla immediatamente, ma questo obiettivo il Mef non lo ha ancora inserito nella convenzione.

Lavoro nero

L’introduzione di contratti sempre più flessibili dagli anni ’90 in poi non ha ridotto il lavoro nero che, al contrario, è aumentato. Ora l’Ue ci dà un target di riduzione dei lavoratori sommersi pari al 2% entro il marzo 2026. Un numero che non si è mai raggiunto, nemmeno attraverso le sanatorie. Dagli ultimi dati Istat sull’economia sommersa (che ammonta a circa 170 miliardi) i lavoratori irregolari superano i 3 milioni: stipendi pagati in contanti, zero tasse e zero contributi versati. La legge 79 del 29 giugno stabilisce che i risultati dell’attività di vigilanza di Ispettorato del lavoro, Inps, Inail, Carabinieri e Guardia di Finanza confluiscano tutti in un unico portale nazionale gestito dall’Ispettorato. Oltre ai numeri però bisognerebbe incrociare i dati a monte: metri quadrati delle attività, consumi di energia, numero di veicoli dell’azienda con numero di dipendenti. Se hai consumi monstre e un dipendente solo qualcosa non torna. E a quel punto fare scattare le verifiche. Si parla da anni di questa misura, ma non è mai stata introdotta. E poi sono cruciali i controlli sul campo. Un obiettivo che non sta nella convenzione. Infine c’è il lavoro grigio: l’impresa si fa prestare i dipendenti da una società che li sottopaga e poi versa i contributi con crediti d’imposta falsi: avviene spesso nella logistica e nell’edilizia. Dall’anno scorso l’Agenzia delle Entrate li intercetta, ma anche in questo caso se ne occupano solo due uffici specializzati.

Gli evasori totali come li scovi?

La premier Meloni nel suo discorso di insediamento alla Camera ha detto che nel mirino del fisco ci saranno prima di tutto gli evasori totali. Che però – proprio in quanto totali – non lasciano tracce nell’anagrafe tributaria. E quindi qual è la strategia? Per scovarli i francesi nella legge di bilancio 2020 (LOI 2019-1479 du 28 décembre 2019 de finances pour 2020), hanno attribuito alle autorità fiscali la facoltà di controllare la veridicità delle dichiarazioni fiscali attraverso le informazioni presenti sui social network e le piattaforme. Esempio: se sul web una società ricerca personale, ma quella società non è nota al fisco è chiaro che c’è un problema.

Inviti bonari e riscossione

C’è chi evade scientemente, chi spera di farla franca, chi per errore non ha allegato tutta la documentazione nella dichiarazione dei redditi. Giustamente prima di arrivare ai ferri corti l’Agenzia avvia l’attività di compliance: ti scrivo per segnalarti che secondo me qualcosa non va e ti invito entro 60 giorni a documentare l’anomalia o a metterti in regola. Il Pnrr prevede entro il 2024 un aumento del 30% delle lettere di compliance, una riduzione dei «falsi positivi» al 5%, e un incremento del 20% degli incassi connessi all’adempimento spontaneo. Nei casi più semplici funziona, ma buona parte dei contribuenti quando sa di essere in torto non risponde. Succede la stessa cosa con le lettere di accertamento: hai 60 giorni per pagare, fare ricorso o rateizzare. Se non rispondi, il debito passa a Equitalia che a sua volta deve attendere per legge 210 giorni prima di procedere al pignoramento. Nel frattempo hai svuotato i conti o chiuso l’attività o è arrivato un condono o una rottamazione: c’è stata nel 2016, 2017, 2021, 2022. Secondo Alessandro Santoro, ex presidente della Commissione che ogni anno redige il rapporto sull’economia sommersa, quando le evidenze di evasione sono robuste, nella lettera di compliance sarebbe il caso di scrivere che, in caso di mancata risposta, l’invito si trasforma dopo i dovuti controlli in cartella esattoriale. Mentre quando il contribuente non reagisce all’accertamento occorre aumentare i poteri dell’Agenzia per accorciare i tempi della riscossione.

Il colpo di spugna sull’attività dell’Agenzia delle Entrate e Gdf

Lo scorso anno l’ufficio antifrode, Guardia di Finanza e Procura di Roma in una operazione congiunta hanno avviato un’attività di controllo che ha portato al sequestro e al blocco preventivo di circa 10 miliardi di falsi crediti d’imposta legati ai bonus facciate, sisma, affitti. Poste e Cassa Depositi e prestiti ne hanno acquistati per centinaia di milioni senza fare le dovute verifiche e ora vorrebbero portarli in detrazione alle imposte che devono versare. L’Agenzia delle Entrate ha risposto picche e la Cassazione gli ha dato ragione. Ebbene, per sanare quel buco il 6 dicembre scorso 4 senatori di Forza Italia (Claudio Lotito, Roberto Russo, Dario Damiani, Francesco Silvestro) e 4 di Fratelli d’Italia (Matteo Gelmetti, Paola Ambrogio, Lavinia Mennuni, Vita Nocco) hanno presentato in Senato alla Commissione Bilancio una modifica al decreto Aiuti da convertire in legge entro il 17 gennaio con cui chiedono, in sostanza, di considerare quei crediti «veri» per decreto. Il che porterebbe al dissequestro o allo sblocco, e quindi all’utilizzo, di quei 10 miliardi di crediti falsi. Soldi che poi finiranno a carico dello Stato. Il colpo di spugna è stato infilato anche in un emendamento alla legge di Bilancio presentato da Ubaldo Pagano (Pd): è il numero 51.023. Quello presentato invece da Mazzetti D’Attis e Cannizzaro (il numero 28.010) libera le banche da ogni responsabilità. Se la modifica passa, e gli emendamenti accolti, criminalità organizzata e imbroglioni ringraziano.

La volontà politica

Per combattere l’evasione ci vuole la volontà politica e il personale adeguato. Da regolamento l’Agenzia delle entrate deve avere in organico 44.000 persone, oggi sono 29.000. Per potenziare l’attività sono previste 4.113 assunzioni. Con uno scoperto di 11.000 posti non si va molto lontano. E quindi in quale direzione sta andando la volontà politica? La Corte dei Conti, Bankitalia e l’Ufficio parlamentare di Bilancio segnalano nella manovra misure che incoraggiano l’evasione: 1) una nuova rottamazione delle cartelle; 2) la flat tax al 15% estesa dai 65 mila agli 85 mila euro lordi di reddito: chi guadagna oltre 85 mila cercherà di piazzarsi sotto questa soglia; 3) l’introduzione di un limite di 60 euro al di sotto del quale poter rifiutare il pagamento con il Pos ed evitare così il tracciamento della transazione; 4) il passaggio del tetto del contante da 1.000 a 5.000 euro, ulteriore aiuto a chi vuole evitare il tracciamento dei passaggi di danaro. Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha detto di non inseguire il consenso e di essere disposta a mettere a rischio la vittoria alle prossime elezioni pur di fare la cosa giusta per il Paese. La cosa giusta per il Paese è che tutti paghino il dovuto in base alle reali capacità contributive per far fronte alle spese per sanità e scuola, gli investimenti per creare lavoro e sostenere imprese e famiglie in difficoltà. Solo riducendo quei 99 miliardi di evasione e quei 170 di sommerso sarà finalmente possibile abbassare le tasse per tutti senza massacrare – come sempre – welfare e servizi pubblici.

Giampiero Mughini per Dagospia l’11 novembre 2022.

Caro Dago, ti confesso che da lavoratore impegnato nel doppio registro, tanto quello del lavoro dipendente che quello del lavoro con partita Iva, mi appassiona moltissimo questa faccenda della tassa “piatta” al 15 per cento per le partite Iva che fatturano entro i 65mila euro annui (com’è oggi) o addirittura entro gli 85 mila euro annui (come vorrebbe la Lega di Matteo Salvini). 

Com’è possibile che una partita Iva sia sottoposta a un’aliquota fiscale così bassa, dato che un lavoratore dipendente paga il 43 per cento di aliquota fiscale appena raggiunge i 50mila euro di reddito annuo? E’ la domanda che fanno in molti. Solo che la questione del raffronto tra il trattamento fiscale del lavoro dipendente e quello del lavoro autonomo a partita Iva è parecchio più complesso. Lo dico perché da quarant’anni e oltre lo sperimento sulla mia pelle.

Parto da un esempio concreto. Una ventina o poco meno di anni fa mi ruppi il tallone d’Achille cadendo dal palco di una mostra del libro antico. Mi ritrovavo con una gamba ingessata e a dovermi muovere con le stampelle. Andare dalla mia camera da letto al bagno era un’impresa non da poco. A quel tempo tanto ero un giornalista dipendente tanto uno che guadagnava una parte del suo reddito da prestazioni a partita Iva. Ebbene le conseguenze dell’infortunio furono le seguenti.

Per quel che è del lavoro dipendente, mandai in tutto e per tutto due certificati medici che mi consentirono di non andare al lavoro per due mesi senza perdere un solo euro. Per quel che è del lavoro a partita Iva, il committente che mi pagava quel lavoro (da fare a Milano) mi disse che se non mi fossi presentato loro mi avrebbero fatto causa, e questo perché nel promuovere quel determinato lavoro loro avevano puntato sul fatto che io ci fossi. E dunque per evitare la causa dovetti andare a Milano in auto pagandomi tutte le spese del caso (che un’assicurazione sanitaria mi restituì dopo un anno).

Questo per dire che non è oro tutto quel che luccica nel lavoro autonomo, di cui si dice che è quello che alimenta l’evasione fiscale. Una cosa incomprensibile ai miei occhi dato che se non faccio fattura non comincia il computo dei 90 giorni che ci vogliono per essere pagati. E beninteso fermo restando la possibilità del committente di pagarti con ulteriore ritardo o addirittura di non pagarti. (Se non sbaglio in questi ultimi vent’anni non mi sono state pagate fatture per un ammontare di 60mila euro e oltre.)

Ma il bello deve ancora venire. Ne ho parlato stamane con il mio fidatissimo commercialista. Andrea. Il quale mi ha detto che la norma secondo cui hai diritto all’aliquota fiscale del 15 per cento se resti entro i 65mila euro lordi di fatturato è una norma di cui molti suoi clienti non si avvalgono e questo perché a quel punto non possono detrarre alcuna spesa per la produzione del reddito, spese che in molti casi superano l’apparente beneficio fiscale. 

Per me che vivo innanzitutto dallo scrivere libri e articoli ma anche del chiacchierare in tv di cose che devo ben conoscere, le spese sono facilmente identificabili. Uno studio e le sue attrezzature e le sue bollette e la colf che lo pulisce e i danni continui a cose e a tecnologie. L’acquisto a caterve di libri riviste e giornali. Gli abbonamenti a tutto il possibile dei canali televisivi. I contatti al ristorante o altrove con informatori eccetera. Le spese sanitarie che mi consentono di restare vivo e continuare a produrre reddito. Eccetera eccetera eccetera.

Voglio dire che nel lavoro dipendente ti danno 1000 euro e su quelli paghi le tasse. Se guadagni 1000 euro nel lavoro autonomo è perché ci hai pagato prima magari 200 o 300 euro di spese necessarie alla produzione di quel reddito. E senza contare che il lavoro dipendente ti assicura un mese di vacanze annuo, una tredicesima, una mensilità di anzianità di servizio. Lavori undici mesi per guadagnarne 14. 

E allora? Allora vedete che le maldicenze contro la tassa piatta perdono molte delle loro frecce. Almeno così a me pare. Per restare al concreto, l’anno scorso tra pensione e lavoro autonomo il mio reddito netto è stato di 139mila euro su cui ho pagato un’imposta netta di 49mila euro. Sono stato abbastanza di “sinistra”? Io credo di sì.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 9 novembre 2022.

Il domestico non basta, e il portiere neppure, nel processo in cui il Tribunale di Milano motiva «perché il fatto non sussiste» l'assoluzione dell'imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone dall'accusa di evasione fiscale per non aver mai presentato una dichiarazione di redditi in Italia, specie nel 2010-2013 (prima c'è prescrizione) quando così per la GdF non avrebbe pagato 12 milioni di tasse.

Dal «cosiddetto "libro mastro" di Gabriele Bravi», nel quale questo consulente con il barone riciclatore Filippo Dollfus annotava «4.000 operazioni per 500 milioni transitati su fiduciarie estere riconducibili a clienti italiani», il Tribunale ravvisa «riscontrata» per Bellavista Caltagirone «la titolarità di 30 società offshore, specie della Liberia, con 60 milioni di giacenze nel 2013».

Ma per condannarlo per evasione era necessario al pm Paolo Filippini dimostrarne la fittizietà della residenza fiscale in Lussemburgo, dove aveva pagato briciole di tasse da 131.000 a 199.000 euro. Solo che le deposizioni del portiere di casa, dei domestici e dei dipendenti sul fatto che l'imprenditore vivesse ai Parioli, rese alla Gdf nel 2013 in un processo verbale di accertamento tributario, sono state ritenute non utilizzabili nel penale, e comunque pertinenti sino solo al 2010, cioè solo al primo dei 3 anni in causa.

Paolo Baroni per “la Stampa” il 7 novembre 2022.

Nel 2019 il «tax gap», ovvero il divario tra le imposte effettivamente versate e quelle che invece i contribuenti avrebbero dovuto versare, che di fatto misura la propensione all'evasione degli italiani, per la prima volta è sceso sotto i 100 miliardi di euro attestandosi a quota 99,24 (86,5 di mancate entrate tributari e 12,7 di mancati contributi) contro una media di 103,259 del periodo 2017-2019. In base alla «Relazione sull'economia non osservata e l'evasione fiscale e contributiva» allegata alla Nota di aggiornamento appena approvata dal governo tra il 2015 ed il 2019 il tax gap si è ridotto in valore assoluto di 6,9 miliardi di euro ed anche la propensione all'evasione si è ridotta di 2,7 punti.

Ma in base i primi dati sul 2020 ci sono segnali in controtendenza: aumenta infatti la propensione all'evasione di autonomi e imprese. I primi, infatti, balzano dal 68 al 68,7%, mentre la tendenza ad evadere l'Ires da parte delle imprese sale da 22,9 al 23,7%, quindi il canone Rai passa dal 10,3% all'11,2% e le accise sui prodotti energetici dal 9,4 passano al 10,9%. A scendere in maniera significativa, per effetto della fatturazione elettronica, è invece la propensione all'evasione dell'Iva, che cala dal 23,4 al 19,3%, che in valore assoluto vale oltre 8 miliardi rispetto alla media del 2017-2019.

Per quanto riguarda il regime dei minimi agevolati l'analisi preliminare svolta dal Dipartimento delle finanze sul regime forfetario introdotto nel 2019 (e che ora il nuovo governo vorrebbe ampliare alzando la soglia) «evidenzia un effetto di autoselezione dei contribuenti con ricavi e compensi al di sotto della soglia massima di 65 mila euro al fine di usufruire dell'imposta sostitutiva prevista dal regime forfettario». 

In pratica si sottofattura per continuare a beneficiare dell'aliquota ridotta del 15%. Anche l'analisi riferita al triennio 2012-2014, stando all'Agenzie delle entrate, «non ha contribuito a ridurre il tax gap espresso in percentuale dell'imposta potenziale - sempre a causa del fenomeno dei "falsi minimi", ovvero di contribuenti che hanno potuto beneficiare dell'agevolazione solo grazie alla sotto-dichiarazione del fatturato».

Un'altra «flat tax», quella applicata ai redditi derivanti dalle locazioni di abitazioni, la famosa cedolare secca, presenta risultati contraddittori.

Perché se da un lato si riscontra un effetto di emersione - ovvero un aumento della probabilità di contrarre e dichiarare un contratto di locazione ed un aumento della base imponibile - dall'altro lato, come rileva la relazione del Mef, «tale effetto non è stato sufficiente ad assicurare la copertura delle minori entrate derivanti dalla riduzione dell'imposizione e ha avuto effetti regressivi in termini di distribuzione del reddito». 

Decisamente positivo, invece, l'impatto dell'introduzione degli «Isa», gli Indici sintetici di affidabilità fiscale che hanno sostituito i vecchi studi di settore ed esteso il regime di premi per i contribuenti che rientrano nei parametri del Fisco, e che hanno prodotto un aumento «significativo» dei ricavi e del valore aggiunto dichiarati dai contribuenti.

Per quanto riguarda la prevenzione e il contrasto all'evasione, nel 2021 il risultato annuale relativo all'obiettivo di riscossione complessiva è pari a 13,7 miliardi di euro, di cui 4 miliardi derivano dalla riscossione coattiva, 8 dai versamenti diretti (somme versate a seguito di atti emessi dall'Agenzia delle entrate o accordi per deflazionare il contenzioso) e 1,7 relativi all'attività di promozione della compliance. Le nuove entrate strutturali frutto della lotta all'evasione ammontano invece a 3,1 miliardi: posto che 1,7 miliardi sono già stati impegnati quest' anno per finanziare i decreti Aiuti nel fondo destinato alla riduzione delle tasse ad oggi restano 1,4 miliardi di euro.

Una quota di risorse aggiuntive, utile per irrobustire la prossima legge di bilancio, potrebbe essere recuperata mettendo ordine alla selva degli sconti fiscali, che anche questo governo (come tutti i precedenti) intende riordinare nell'ambito «di un più ampio e organico disegno di riforma fiscale». 

Riforma che - ricorda lo specifico allegato alla Nadef - «è una riforma abilitante del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), assicurando poi che «le linee programmatiche per il riordino saranno definite in prossimi provvedimenti normativi». In totale le cosiddette «tax expenditures» in base all'ultimo censimento sono in tutto 592 per un controvalore complessivo di 82,5 miliardi di euro. Un onere in aumento del 21% rispetto ai 68,1 miliardi contabilizzati nel 2021. Basterebbe cancellare solo il 10% di questi «sconti» per ricavare 7-8 miliardi di euro.

Lago Maggiore: pescare è un diritto esclusivo dei Borromeo, la «tassa» del 1400. Milena Gabanelli e Mario Gerevini  su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2022.

Vuoi pescare sul Lago Maggiore? Devi pagare una tassa annua alla famiglia Borromeo: 50 euro se sei un dilettante, 3.500 se sei un professionista. Non è un antico editto del 1300, succede nel 2022 nel secondo più importante lago italiano. Però se le acque sono pubbliche (demaniali), i pesci di nessuno e ho una regolare licenza di pesca, perché devo dare i miei soldi al signor Vitaliano Borromeo? «Da bambini – ricorda un pescatore – la chiamavamo “la borromea”, era di 15 mila lire». «Tuteliamo il lago e lo Stato riconosce il nostro diritto» è in sintesi la posizione di Vitaliano Borromeo. Per capire, andiamo sul Lago Maggiore, e indietro nel tempo. 

La nobile tassa

La famiglia nobile fa pagare i «diritti esclusivi di pesca» di cui gode da secoli, su più del 50% del lago, parte svizzera esclusa. Ben oltre le Isole Borromee, proprietà gestite dalla società Sag del principe Vitaliano XI, 62 anni, sette cardinali tra gli antenati, residente a Milano nel Palazzo Borromeo in Piazza Borromeo, cugino di Lavinia, moglie di John Elkann, e di Beatrice, moglie di Pierre Casiraghi, terzogenito di Carolina di Monaco e Stefano Casiraghi. La «tassa Borromea» (chiamiamola Tabor) viene pagata dai dilettanti attraverso la licenza che costa 80 euro, invece dei soliti 30, e dai professionisti tramite la loro cooperativa (3.500 euro mediamente a testa per una porzione ben definita dell’area Borromeo). Viene in mente il film di Benigni e Troisi: «Ehi! Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!». 

L’origine dei diritti

Questi diritti hanno origini nell’Alto Medioevo. Nelle acque interne di laghi e fiumi il regime è rimasto immutato per secoli, ma i vincoli sono stati spesso frazionati tra i notabili o donati alla Chiesa e da questa alle comunità. Esistono ovunque piccole «riserve» o usi civici (diritti d’uso a favore di comunità), per lo più in capo a enti locali o istituzionali. Il caso del Lago Maggiore, però, è unico e patologico per estensione e durata dei privilegi in mano a un solo soggetto privato. Ovviamente la Tabor fa girare i mulinelli ai pescatori: una decina i professionisti e 600-700 licenze dilettanti emesse ogni anno. Ma il fastidio per il «dazio nobiliare» sta montando anche contro gli «esattori» della Fipsas (Federazione italiana pesca sportiva e attività subacquee). La Federazione, tramite una sezione locale, prende in affitto i diritti con contratti triennali e fa pagare ai pescatori che escono in barca, anche quelli della domenica, 50 euro extra con un apposito bollettino postale intestato alla Fipsas di Villadossola (Verbania). È la controparte di Borromeo nella scrittura privata. 

Parola ai pescatori

La firma sull’accordo è di Gian Mauro Bertoia, presidente provinciale dei pescatori di Verbania, secondo il quale il diritto Borromeo è «un’anomalia». Del resto «lui non ha mai voluto occuparsi di pesca, vigilanza, ripopolamenti, tutela delle acque e quindi dà la gestione a noi». Se ne occupa la Fipsas. Un capolavoro contrattuale per il principe: incassa soldi ed evita la seccatura di dover mantenere una struttura stabile di uomini e mezzi sui circa 90 km quadrati di competenza. Tanto più che la legge è chiara: l’esercizio dei diritti non può essere «contrario a esigenze di interesse generale», pena «l’espropriazione per causa di pubblica utilità». Rolando Saccucci, presidente dei pescatori dilettanti dell’Alto Verbano, tuona contro: «se è vero che i Borromeo devono fare ripopolamento ittico e manutenzione delle rive, ecco a noi questo proprio non risulta. In tutto il lago hanno una sola guardia ittica pagata da loro». Matteo Felici, naturalista, è tra gli animatori dell’associazione La Pinta che opera per la salvaguardia del lago: «Borromeo con i soldi dei diritti potrebbe aiutare le associazioni che già sopperiscono alla scarsità di interventi e controlli».

Un capolavoro contrattuale per il principe: incassa soldi ed evita la seccatura di dover mantenere una struttura stabile di uomini e mezzi sui circa 90 km quadrati di competenza

La crisi del lavarello

Lo specchio d’acqua è diviso tra due Stati (Italia e Svizzera), due regioni (Lombardia e Piemonte) e tre province (Verbano Cusio Ossola, Novara e Varese). Gli incerti confini acquatici non aiutano il pescatore in barca (e le guardie) a capire sotto quale campanile e quali regole si trova. Figurarsi il povero lavarello che magari è protetto nella parte varesina ma non in quella novarese. Roberto Forni coordina le tre Fipsas lacustri e sintetizza: «Il principe in sostanza dice: voglio i miei soldi. La Fipsas locale a sua volta dice ai pescatori: guardate che il Borromeo vuole i soldi sennò non ci fa pescare. E così la Federazione prende in affitto il diritto e lo gira ai pescatori facendoli pagare. È chiaro che i pescatori si chiedono come mai lo Stato non sia in grado di gestire le sue acque, ma il Borromeo rispetta le regole». La Cooperativa professionisti ha stipulato un accordo da 30 mila euro e subaffitta ad altri pescatori. Stefano Ruffoni è un pescatore-ristoratore: «Certo che è una tassa che sa di feudale, ma è legale».

Gli incerti confini acquatici non aiutano il pescatore in barca (e le guardie) a capire sotto quale campanile e quali regole si trova

Isole e bond (dell’Inter)

In totale tra dilettanti (46 mila euro) e professionisti (30 mila) il principe incassa la modesta cifra di 76 mila euro che perpetua un diritto acquisito 600 anni fa. Non è dunque economico il nocciolo della questione, piuttosto l’origine e il senso di un tributo concentrato nelle mani di un privato che al Verbano ha dato, ma ha molto ricevuto. La Sag (100% Vitaliano Borromeo) gestisce le attività commerciali intorno alle isole e in altre località vicine, poi «impianti da sci, noleggio bici», il Parco Avventura, bar e ristoranti per un fatturato totale intorno ai 10 milioni (ma con bilanci in rosso negli ultimi due anni causa Covid). L’uomo d’affari, poi, oltre alle notevoli proprietà immobiliari, ha una holding personale con partecipazioni per circa 10 milioni, tra cui un bond da un milione, rimborsato l’anno scorso, di Lionrock Zuqiu la società di private equity socia al 31% dell’Inter. 

Le ragioni del principe

I diritti appartengono al casato «dalla metà del 1400 – ci scrive il principe-manager – quando Filippo Maria Visconti concesse a Vitaliano I Borromeo la proprietà di Arona, Cannobio, Lesa del Vergante con tacita annessione dei diritti sulle acque e quindi sul lago». Tacita annessione. Diritti poi «ribaditi da un decreto del ministro per l’Agricoltura del 1931». In cambio di cosa? «Come Famiglia Borromeo provvediamo alla sua protezione, in primis alla tutela della fauna ittica». Quindi un diritto accompagnato da un dovere. Lo dice una sentenza della Corte Costituzionale del 1973: «L’amministrazione pubblica ha facoltà (...) di controllare l’effettivo esercizio dei diritti di pesca, imponendo obblighi di conservazione e miglioramento della fauna ittica, sotto sanzione di decadenza». Friuli e Sardegna hanno dichiarato «estinti mediante indennizzo» i diritti esclusivi di pesca. In questa cornice si inseriscono anche i diritti dei Borromeo. 

La scrittura privata

Nella pratica come si assolvono gli obblighi/doveri a fronte dell’esercizio dei diritti? Risposta di Vitaliano: «1) programmi annuali di seminagioni e immissioni di avannotti, (...) e ogni altro eventuale obbligo ittiogenico (definito nell’accordo con Fipsas); 2) servizio di guardapesca aggiuntivo (53.965,61 euro dal 2017 al 2022); 3) la partecipazione al progetto di ricerca e ripopolamento» tra vari enti del lago «per un valore di 10.000 euro annui per 5 anni». In effetti nella scrittura privata Borromeo-Fipsas Villadossola c’è scritto che Fipsas dovrà provvedere ogni anno a proprie cure e spese a «semine e opere ittiologiche» e «ogni altro eventuale obbligo imposto per la conservazione dei Diritti di Pesca». Dunque alla fine chi verifica che siano rispettate le norme ittiche in quella grande fetta di lago? I guardapesca che per lo più sono volontari Fipsas. Dovrebbero autodenunciarsi se scoprissero irregolarità nella gestione dei diritti Borromeo. Chiamiamo la presidenza della Fipsas a Roma: un portavoce dice che il presidente nazionale non sa nulla e che le sezioni hanno completa autonomia. Sulla vigilanza ha un ruolo anche la Regione, che delega le Province, ma a domanda segue risposta: «Ci stiamo attrezzando». Se fosse un laghetto qualsiasi non sarebbe un gran problema, ma si tratta del Lago Maggiore: un ecosistema delicato e complesso sul quale tutti delegano, pochi (e confusi) governano e qualcuno fa business. Fin dal 1400.

Felice Manti per “il Giornale” il 3 ottobre 2022.

Milano incassa oltre 1,7 milioni di euro grazie alla collaborazione con l'Agenzia delle Entrate per il 2021. Napoli solo 3.534,26 euro. Basterebbero questi due numeri per raccontare un Paese a due velocità sulla lotta all'evasione fiscale (e non solo) ma la notizia rilancia anche il tema della mancata compliance tra Stato, Comuni e contribuenti. «Se si vuole combattere l'evasione lo si può fare - ragiona Antonio Gigliotti, presidente del Centro studi Fiscal Focus - non la si combatte dove manca la volontà di farlo», come nel Mezzogiorno, dove le mafie fanno il bello e il cattivo tempo, stando anche alla relazione della Dia sul secondo semestre 2021.

La norma che premia con il 100% delle cifre scoperte dagli 007 del Comune e dell'Erario era stata prevista all'articolo 44 del Dpr 600/73. Nel 2005 il governo Berlusconi decise di premiare con il 33% dell'emerso i Comuni che stanavano gli evasori. Misura salita al 100% nel 2012. Con esiti prevedibili. 

Molti soldi al Nord, pochissimi a Roma e nel Sud Italia, con un trend sempre più negativo. Come funzionano le segnalazioni? I Comuni incrociano i dati in loro possesso con le banche dati e segnalano alle Entrate eventuali discordanze su case e licenze, patrimoni e residenze, urbanistica e professioni. Se le verifiche della Guardia di Finanza vanno a buon fine, i soldi sono tutti dei Comuni.

Milano, che nel 2021 aveva incassato 350mila euro, ha raccolto 1.776.847,83 euro, quasi 34 volte più di Roma, che si è fermata a 53.098,61 euro, e 500 volte più di Napoli, ferma ad appena 3.500 euro e spicci. Genova è passata da 473mila euro e oltre 869mila euro. Bologna incassa quasi 308mila euro, Torino poco meno di 124mila euro (dai 404mila euro del 2021), Firenze solo 58.807,40 euro, poi Reggio Calabria (39.082,66 euro) e Venezia (36.191,81). Per Napoli 3.500 euro sono pure tanti. Nel 2018 si fermò a 403 euro.

Cosa ci farà Sala con questi soldi, ora che Milano è in bolletta? «Sarebbe molto interessante conoscerne l'uso che i Comuni fanno del recuperato», dice al Giornale il commercialista Gianluca Timpone. Lo Stato lo fa, gli enti locali no. E sono sempre in rosso nonostante il tesoretto inaspettato. 

La notizia riporta al centro dell'agenda politica la questione delle cartelle esattoriali: le ipotesi sulla sanatoria a 3.500 euro, con sanzioni e interessi azzerati, non basta ad aiutare i tanti contribuenti, non evasori ma semplicemente in difficoltà. «L'unica strada per abbattere le cartelle che oggi valgono 1.100 miliardi di euro è riproporre la norma del 2002, vale a dire il pagamento del 25% dell'imposta». 

Così le società di riscossione potrebbero dedicarsi al recupero di somme effettivamente incassabili, mentre a oggi l'Erario accampa diritti su ruoli esattoriali inesigibili, morti e sepolti, a volte figlie di cartelle pazze per le quali nessun dirigente delle Entrate paga pegno. Una materia della quale la nuova maggioranza dovrà occuparsi. Presto.

Galatina, il tesoro della Scu conservato sottovuoto in due freezer fuori uso: cc sequestrano 2,6 milioni. Gli investigatori ipotizzano che il tesoro sia riconducibile al clan Coluccia, il sodalizio della Scu egemone su Galatina e dintorni. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Settembre 2022

Oltre due milioni e 600mila euro messi sottovuoto in buste e occultati in due congelatori fuori uso. È quanto hanno sequestrato i carabinieri in un’abitazione di Galatina di proprietà di un uomo di 76 anni. Gli investigatori ipotizzano che il tesoro sia riconducibile al clan Coluccia, il sodalizio della Scu egemone su Galatina e dintorni. Il proprietario dell’abitazione è un parente di esponenti del clan e questo avvalorerebbe il sospetto degli inquirenti, coadiuvati nel blitz dalle unità del Gruppo Cinofili di Modugno.

I soldi erano stati riposti in vari involucri di cellophane sotto vuoto in due borsoni chiusi con due lucchetti e riposti in due congelatori spenti nel vano scala. Per l’uomo è scattata una denuncia per possesso ingiustificato di valori. Gli investigatori sono al lavoro per verificare la provenienza del denaro. Nei giorni scorsi la Procura distrettuale antimafia di Lecce ha depositato il verbale delle prime dichiarazioni da collaboratore di giustizia di Gerardo Dino Coluccia, 49 anni, legato da vincoli di parentela ai capi storici del clan.

Fatture false, scoperti altri 3 milioni. Redazione online su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2022.

Salito a 15 il bottino riconducibile alla coppia ai vertici del gruppo, capace secondo quanto ricostruito dal pubblico ministero Claudia Passalacqua di emettere fatture false per oltre mezzo miliardo di euro ed evadere 93 milioni di imposte 

In quella che sembra essere diventata una sorta di “caccia al tesoro”, la guardia di finanza e carabinieri di Brescia hanno rinvenuto altri 3 milioni 500 mila euro. In questo modo il presunto provento delle attività delittuose sale a circa 15 milioni di euro. Al centro delle indagini l’abitazione di Brione, in Franciacorta, dove Giuliano Rossini, titolare di aziende che commercializzano metalli in provincia e la moglie Silvia Fornari, 40, risultano domiciliati.

Vale la pena ricordare che entrambi si sono costituiti spontaneamente dopo l’emissione delle misure cautelari (oltre una settantina gli indagati e 22 gli arresti: 15 ai domiciliari e 8 in cella). Il capofamiglia al carcere di Cremona, la moglie in quello di Verziano, a Brescia.

Da milano.repubblica.it il 15 settembre 2021.

Gli 8 milioni seppelliti in giardino in buste con chiusura ermetica a loro volta sistemate in scatole a tenuta stagna sono solo la prima - e per ora più consistente parte - del tesoro illecito di Giuliano Rossini, 47 anni, e della moglie Silvia Fornari, 40enne, la coppia di Gussago, nel Bresciano, che si è costituita due giorni fa e che adesso si trova in carcere accusata di una maxi evasione fiscale. 

"Vi faremo trovare altri soldi", hanno detto ieri durante il primo interrogatorio. E la guardia di finanza ha già trovato altri soldi nascosti in un sottotetto della loro casa: 1,6 milioni in tagli da 20, 50 e 100 euro divisi in mazzette e protetti da sacchetti di plastica. Si arriva così a quasi 10 milioni: e non è detto che la contabilità in nero si fermi qui. 

Rossini, titolare di un’azienda che si occupa di materiali ferrosi, è accusato con la moglie di essere al vertice di un gruppo capace di generare fatture false per oltre mezzo miliardo di euro ed evadere il Fisco per 93 milioni di euro. Otto milioni sono stati appunto trovati in secchi, dentro a pozzetti, sotto metri di terra del giardino -oltre a 180mila euro in una legnaia - della coppia, che vive in una casa e con uno stile di vita che non ha mai dato nell'occhio.

Dopo pochi giorni di latitanza all'estero - in seguito all'ordinanza di custodia cautelare emessa una settimana fa dal gip per loro e altre 20 persone sulle 77 indagate -  hanno deciso di costituirsi presentandosi direttamente in carcere. Lei a Verziano, penitenziario femminile bresciano, e lui a Cremona, molto meglio rispetto al sovraffollato Canton Mombello di Brescia. 

E ieri, come già avevano anticipato al loro legale Lorenzo Cinquepalmi, hanno iniziato a confessare durante l'interrogatorio di convalida dell'arresto. "Hanno ammesso le contestazioni della Procura, ma vista la complessità dell'indagine si sono riservati di parlare con il pubblico ministero non appena avrà intenzione di ascoltarli", ha confermato il loro difensore. Entrambi sono stati sentiti dal gip in video conferenza, mentre il figlio 22enne della coppia e la zia materna - ai domiciliari da una settimana - si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.

La Guardia di Finanza, nel frattempo, sta continuando le indagini per capire a chi effettivamente sono riconducibili quei soldi. Di certo il gruppo gestito dalla coppia bresciana ha movimentato una quantità incredibile di denaro. Basti pensare che l'inchiesta della pm Claudia Passalacqua nasce dopo l'accertamento di movimenti bancari per oltre 34milioni di euro in nove mesi, su un conto corrente postale intestato a una società bresciana, aperta il 30 luglio 2018 e dichiarata cessata il 27 febbraio successivo. 

"Una cartiera che nello stesso giorno dei pagamenti delle fatture per operazioni inesistenti, riceve bonifici per 28 milioni di euro su conti correnti accesi presso istituti di credito di Hong Kong", ricostruisce il gip Matteo Grimaldi nell'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 22 persone arrestate. Giuliano Rossini e Silvia Fornari sapevano che era ormai una questione di tempo e che sarebbero finiti nelle maglie della giustizia.

"Sono i veri e propri dominus dell'associazione" scrive il gip. Il 14 luglio 2020 infatti a uno degli arrestati nell'ambito di questa inchiesta, Marco Pesenti, la Finanza sequestra 153mila euro che l'uomo teneva in uno scatolone in auto. "Una cospicua somma di denaro ricevuta all'interno dell'azienda di Giuliano Rossini" scrivono i militari nell'informativa agli atti. 

Il gruppo si trovava, stampava le fatture false, apriva conti correnti online con una connessione schermata, in quello che viene definito "l'ufficio occulto" a Gussago, sempre in Franciacorta. Con Rossini "si rapportano tutti i soggetti coinvolti nel meccanismo fraudolento, dai fornitori ai clienti finali che utilizzano le false fatture, dai gestori e amministratori di fatto delle cartiere", mentre la moglie avrebbe anche avuto il compito di "gestire i trasferimenti dei bonifici ricevuti su conti esteri".

E poi ci sono Emanuele Rossini, figlio della coppia, e la zia Marta Fornari, entrambi ai domiciliari, "spesso protagonisti - scrive il gip in ordinanza - delle consegne del denaro ai clienti". Quel denaro in parte finito sotto terra e recuperato dai cash dog della Finanza, che hanno fiutato le banconote e messo con le spalle al muro la coppia bresciana. Che ha ancora tanto da spiegare a chi indaga.

Estratto dall'articolo di Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 19 settembre 2022.

«Qui ogni buco è buono». «Il mercato dei terreni e dei sottotetti è schizzato alle stelle». «Pensare che là io ci andavo a funghi». L'ultima è di un'anziana signora, sorride Barbara Svanera della Locanda Primarosa. Se giri nei bar e nelle trattorie di Brione, 700 anime, il primo comune della Val Trompia del ferro e dell'industria delle armi, queste sono le battute. 

Colpa dell'insolito destino che ha travolto la noia del paese allungando una scia di misteri e sospetti che da quassù scende a Gussago, nella confinante e ricchissima Franciacorta patria dello spumante. La beffa stile Arsenio Lupin al contrario - a volte beccavano anche lui - sta in una caccia al tesoro nata per caso, che deflagra i primi giorni di settembre e diventa una storiona all'italiana. Più passano i giorni e più si gonfia, fuor di metafora. Come i terreni sotto i quali gli "insospettabili", e dunque sospettabilissimi Giuliano Rossini e la moglie Silvia Fornari, con l'aiuto del figlio Emanuele, della sorella di lei, Marta Fornari e di chissà chi altro, hanno imboscato dieci milioni di euro. Nella pancia del giardino. Negli appezzamenti intorno. Nei sottotetti, finanche nel tagliaerba e nei vasi di coccio. 

Una montagna di soldi il cui odore si è mischiato con le radici delle piante, tanti ulivi, alcuni giovani, portati un giorno da Rossini con un camion e piantati nel prato all'inglese della villetta gonfia di banconote. Grano proveniente da "cartiere" e "lavanderie", secondo la Guardia di finanza. […]

Casa Rossini: telecamere, silenzio, i sigilli della Procura. Terra arata e rovesciata, arbusti strappati, vasi, secchi: tutto per aria dopo che i dog cash hanno annusato il bottino portato in superficie dalle ruspe. Gli occhi elettronici, Rossini e consorte, li avevano piazzati sui quattro lati della villetta. «Questo è un paese tranquillissimo, zero criminalità, niente furti, noi teniamo il cancello aperto», dice la vicina. La descrive così, lei, la coppia del cash. «Schivi, riservatissimi. Mai visti movimenti sospetti, arrivi, macchine, gente strana. Due dall'aspetto e dalle abitudini semplicissime. Però certo tutte quelle telecamere un po', adesso, fanno pensare». 

I movimenti erano bancari. Quindi dai conti esteri si passava - letteralmente - al movimento terra. Perché marito, moglie, figlio e zia avevano deciso che il forziere più sicuro erano i terreni. E i sottotetti, certo (due, quello di Brione e quello della casa del figlio a Gussago: 1 milione e 1,6 milioni). 

È il 5 settembre. Guardia di finanza e carabinieri scoperchiano un vorticoso giro di conti all'estero, bonifici con cadenza settimanale, una marea di fatture false. Per oltre mezzo miliardo. Ventidue arrestati: otto in carcere e 14 ai domiciliari. Sono 73 gli imprenditori, i prestanome e i faccendieri coinvolti. Gli inquirenti sequestrano beni mobili e immobili per 93 milioni. I dominus del gruppo? Loro: Rossini (46 anni) e la moglie, sei anni più giovane. Sono in carcere, uno a Cremona, l'altra a Brescia. Il figlio, 20 anni, ai domiciliari, non sembra proprio l'erede di Bernard Madoff: all'interrogatorio si è presentato in jeans strappati e t-shirt nera. Sempre in bicicletta.

Secondo gli inquirenti «si è occupato della creazione di fatture false per operazioni inesistenti e di falsi documenti di trasporto delle società cartiere e di consegnare il denaro ai clienti a restituzione dei pagamenti delle false fatture». 

Funzionava così il sistema Rossini &co. Venivano emesse fatture tarocche; i soldi spalmati in conti aperti in Bulgaria, Romania, Croazia e Cina. Gli spalloni riportavano il denaro in Italia e a quel punto ognuno mangiava la sua fetta di torta. Nei terreni di Brione e nelle intercapedini dei sottotetti finivano i fondi neri.

Le ruspe si mettono in azione il 9 settembre. Eccoli: quattro, otto, dieci milioni. Duecentomila euro saltano fuori da una legnaia, altri da un tagliaerba. Ma la gran parte del bottino è occultato sotto metri di terra. Con quale abilità la coppia infila i soldi nel ventre del giardino? Un pozzetto, i secchi. Dentro, i pacchi di soldi avvolti da nastro adesivo. I panetti contenevano banconote da 20, 50, 100 euro. «L'ordine era solo apparentemente sparso - spiega un investigatore - In realtà c'era una mappa». 

I Rossini usano il gps per nascondere il malloppo. Loro e di chissà di chi altro. Perché è forte il sospetto che la cassaforte rurale custodisse denaro non solo della coppia. Confessare, hanno confessato. Ma "canteranno" marito e moglie? «Collaboreranno », dice il loro legale, Lorenzo Cinquepalmi. Nei corridoi della Procura si mormora che, se davvero lo faranno, per la Franciacorta, nota nel mondo per i suoi vitigni, potrebbe essere un bel danno a livello di immagine. "Mister 50 milioni": è il soprannome con cui, nelle telefonate intercettate, chiamano Giuliano Rossini.

Formalmente è titolare di un'azienda di metalli ferrosi. Nel cortile di casa c'è una vecchia tinozza da vendemmia, altri attrezzi agricoli, vasi e piante rovesciate, un'utilitaria, le luci lasciate accese. Gli investigatori hanno smesso di diffondere particolari sulle ricerche perché - dicono - «avanti così tra Franciacorta e Val Trompia potrebbe scattare una caccia al tesoro collettiva». 

Che gran copione cinematografico. Curiosità: l'indagine inizia nel 2019 su un giro di droga; spuntano delle fatture false e 113 lettere che Poste italiane aveva indirizzato a un'impresa di Brescia: dal 2 agosto 2018 al 12 aprile dell'anno successivo aveva movimentato 34milioni: pagamenti di fatture fantasma. Quarantadue società finiscono sotto indagine. Sei sono "cartiere", dodici "lavanderie". Altre diciotto beneficiano del sistema: al cliente una provvigione del 10% di quanto fatturato. Garantiva Rossini, e il giardino, muto.

L'inchiesta su marito e moglie "dominus" di un'associazione a delinquere. Bottino da 8 milioni sepolto nel giardino di casa: ruspe scovano il tesoro frutto di un maxi frode fiscale. Redazione su Il Riformista il 14 Settembre 2022 

Le fatture erano false, i soldi trovati sepolti nel giardino di casa, circa 8 milioni di euro, verissimi. È la storia incredibile che arriva da Gussago, alle porte della Franciacorta in provincia di Brescia, dove carabinieri e guardia di finanza hanno trovato, nell’ambito di una indagine guidata dalla Procura e dal sostituto procuratore Claudia Passalacqua, titolare di una maxi inchiesta su un presunto giro di fatture false per circa mezzo miliardo di euro (pari a 93 milioni euro di imposte evase), un bottino da record.

Otto i milioni di euro nascosto metri sotto terra, dentro alcuni fusti e chiusi ermeticamente nelle buste di plastica sottovuoto. Una montagna di denaro nascosta nel giardino dell’abitazione di Giuliano Rossini, 46enne titolare di aziende operanti nel settore dei metalli ferrosi. 

Sarebbe lui il vertice dell’associazione a delinquere, un gruppo di 77 persone di cui 22 già tratte in arresto. Il suo braccio destro sarebbe stata la moglie Silvia Fornari, 40 anni.  I due coniugi al momento del blitz delle forze dell’ordine non erano a casa ma in Austria, dove trascorrono lunghi periodi così come a Panama, e e si sono costituiti solo nelle scorse ore, lui nel carcere di Cremona e lei a Verziano (Brescia): avrebbero già fornito al proprio legale le prime ammissioni.

Ma nel gruppo c’era spazio per altri membri della famiglia: dal figlio Emanuele, 22enne ora ai domiciliari che avrebbe partecipato con la madre alle consegne di denaro, ritirato il contante e predisposto documenti da dare a clienti, fornitori e autotrasportatori. Quindi la zia materna, Marta, anche lei arrestata: come riporta il Corriere della Sera, si sarebbe occupata “delle restituzioni del denaro contante ai clienti degli uffici interni” di una delle aziende di famiglia, di cui era rappresentante legale.

Dietro l’apparente attività di commercio di materiali ferrosi, il sodalizio era ben più attivo secondo la Procura nel creare una filiera di società cartiere operative sia in Italia che all’estero: gli otto milioni di euro recuperati  con ruspe e cash dog dalla finanza sarebbero proprio pare del capitale illecito fatto rientrare in Italia.

L’inchiesta è nata dalla segnalazione di movimentazioni finanziarie sospette dal conto corrente postale di un’azienda di Lodrino: un giro da 34 milioni di euro nel solo 2018 con 113 bonifici eseguiti su conti correnti di clienti cinesi su conti esteri per oltre 4,5 milioni di euro. La ditta in questione, come accertato dai finanzieri, era rimasta aperta soltanto da luglio 2018 al febbraio 2019, riuscendo però a muovere quasi 35 milioni di euro. Da lì lo sviluppo delle indagini e la scoperta del giro di fatture per operazioni inesistenti dal valore di 500 milioni di euro.

IRPEF, QUEI 5 MILIONI DI ITALIANI CON IL PAESE SULLE SPALLE. QUALE PARTITO LI RAPPRESENTA? Alberto Brambilla su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022. 

La coalizione che uscirà vincente dalle prossime elezioni del 25 settembre si troverà come premio una situazione economica, energetica e sociale complicata. Il primo impegno sarà la legge di Bilancio per il 2023 da farsi con estrema rapidità per evitare un improponibile esercizio provvisorio considerando che il nuovo governo, se tutto andrà bene, potrà essere operativo a fine ottobre. Saremo all’inizio della stagione fredda con i prezzi alimentari e energetici ancora molto alti, con la probabilità di una riduzione forzosa dei consumi di gas pari al 7%. Una situazione sociale difficile, aggravata dalle sicure polemiche post voto.

Sarà anche una legge di Bilancio in parte scritta e tutte le mirabolanti promesse elettorali si infrangeranno contro il muro delle spese già maturate a causa dell’alta inflazione e indifferibili. Per prima cosa si dovrà prevedere la rivalutazione dello stock di pensioni in essere pari a circa 313 miliardi di euro per oltre 16 milioni di pensionati ai quali verrà applicato lo schema reintrodotto dal governo Draghi e sospeso dall’esecutivo Monti e da tutti quelli succedutisi con grave danno dei pensionati. Ipotizzando un’inflazione acquisita del 7% e considerando che dal primo gennaio del 2022 le pensioni sono state rivalutate all’1,7% mentre l’inflazione del 2021 è stata dell’1,9%, i pensionati dal 2023 si vedranno rivalutate gli assegni del 7,2%, al 100% per le rendite fino a 4 volte il minimo (2.100 euro circa), al 90% da 4 a 5 volte il minimo (2.100– 2.600 euro) e al 75% per tutti gli assegni d’importo più alto. Costo totale 20 miliardi che rimarranno strutturali. I pensionati al minimo (524,34 euro al mese) avranno un aumento di circa 37,75 euro,pari a 490 euro l’anno; da 2 volte il minimo 981 euro e 4 volte il minimo circa 1.963 euro; in pratica quasi una quattordicesima.

I veri conti

A questi 20 miliardi occorrerà aggiungerne altri 6/7 per il finanziamento del debito pubblico, anch’essi strutturali per i prossimi anni, sia per la fine del QE della Bce sia perché il Btp a 10 anni rendeva a gennaio 2021 lo 0,65% mentre oggi è poco sopra il 3% con uno spread sui Bund che balla intorno a 230 punti, ma con i titoli greci che nel breve termine rendono addirittura meno dei nostri: e ci lamentiamo se ci riducono il rating?

Sarà probabile, sempre che i problemi creati da Russia e Cina non si aggravino, proseguire nei primi mesi freddi dell’anno, con aiuti a famiglie e imprese, rifinanziare le missioni all’estero e alcune spese che si trascineranno per parte del 2023 come quelle del Superbonus. Un totale vicino ai 35 miliardi! Altro che flat tax, al 23% di Berlusconi, al 15% Salvini, peraltro, con grandi profili di incostituzionalità (perché gli autonomi sì e i dipendenti no?) e che creerà un aumento del sommerso e infedeltà fiscale. Altro che pensioni a mille euro al mese per tutti (costo 30 miliardi), pensioni da mille euro per 13 mesi alle mamme, costo 13 miliardi strutturali ogni milione di mamme, pace fiscale, dote ai diciottenni, taglio del cuneo fiscale (soluzione per Berlusconi) che secondo il Pd produrrebbe una quattordicesima mensilità (costo oltre 19 miliardi).

È vero che una parte della rivalutazione delle pensioni rientrerà sotto forma di Irpef soprattutto a carico dei 5 milioni di pensionati (su 16) e in parte come imposte indirette, ma sono sempre tanti soldi.

I problemi da affrontare

Contestualmente alla legge di Bilancio, il nuovo governo si dovrà misurare con i reali problemi: 1) Il basso tasso di occupazione: su 36,5 milioni di italiani in età da lavoro solo 23 milioni lo fanno (meno del 39%) mentre in Francia e Germania sono oltre il 50% e siamo ultimi con la Grecia, ma primi assoluti in Europa per i Neet, i giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione. Sono 3 milioni (il 25,1% ), tra i nostri competitor la Spagna ne ha il 18%, la Francia il 14%, tutti gli altri Paesi sotto l’11%. 2) Siamo ai primi posti per spesa assistenziale che, compresi i bonus, vale circa 180 miliardi immessi nel sistema esentasse «in nero» il che crea ovviamente altro sommerso. Nel 2008 spendevamo 73 miliardi e i poveri assoluti erano 2,1 milioni; oggi spendiamo il doppio e i poveri assoluti sono diventati 5 milioni; e non si trovano camerieri, bagnini, cuochi e personale ad alta e media specializzazione anche perché tra reddito di cittadinanza, i sussidi vari, Naspi e Cassa integrazione manteniamo in nero oltre 5,5 milioni di italiani. 3) Mentre quelli che lavorano negli ultimi 30 anni, secondo Ocse, hanno visto i loro salari reali medi perdere il 2,9% (unico Paese in Europa), un abisso rispetto agli altri Paesi.

Noi e gli altri

In Germania gli stipendi sono saliti del 33%, in Francia del 31%, in Spagna del 6%. 4) Per aumentare i salari (il fantasioso cuneo fiscale) una decontribuzione protratta nel tempo distruggerebbe il sistema pensionistico: uno sconto del 3% di contributi costerebbe 7,7 miliardi l’anno escludendo i nuovi schiavi italiani cioè quelli che dichiarano dai 35 mila euro di reddito in su, quelli che pagano oltre il 60% di tutta l’Irpef (il 50% degli italiani non versa un euro) e che anche con l’ottimo governo Draghi sono esclusi da tutti i bonus e le agevolazioni. Anziché la decontribuzione sarebbe meglio aumentare la quota di retribuzione non soggetta a tasse e contributi ora ferma a 258 euro portandola stabilmente a 516, e introducendo il buono trasporti strutturale da almeno 8 euro al giorno (il governo Draghi li ha introdotti con 516 e 60 euro l’anno ma solo per un anno e per redditi fino ai fatidici 35 mila euro) e aumentare a 12 euro il buono pasto esente: con queste semplici mosse si avrebbe un incremento strutturale del 15% per oltre il 70% dei redditi fino a 25 mila euro e con il contrasto di interessi, gratis, una ulteriore quattordicesima, ma smettendola di escludere quelli che dichiarano 35 mila euro lordi l’anno che non sono ricchi ma nuovo serbatoio della politica. Siamo solo 5 milioni, chi ci rappresenta?

Cartelle esattoriali notificate a mail (Pec) non valide: ricorsi a pioggia. Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022.

Cosa succede se l’Agenzia delle Entrate notifica l’atto di pagamento delle cartelle esattoriali con una pec, la casella di posta elettronica certificata, non più valida (cioè non iscritta a nessun registro pubblico delle pec)? In tutta Italia nelle Commissioni tributarie stanno arrivando numerosi ricorsi contro cartelle esattoriali dove l’indirizzo email utilizzato dall’ufficio Riscossione non risulta in nessun elenco pubblico. I giudici sono divisi: alcune sentenze sono giunte a favore dell’Agenzia, altre a favore dei contribuenti. Un problema che rischia di ingigantirsi entro la fine dell’anno, quando dovrà essere notificato anche il 70% delle cartelle sospese durante la pandemia.

Cartelle per 1,4 milioni di euro

Il caso più emblematico è stato ai danni di un imprenditore della provincia di Assisi. L’Agenzia delle Entrate gli ha notificato ben 71 cartelle esattoriali, tra il 2005 e il 2019, per un totale di un milione e 400 mila euro utilizzando un indirizzo pec non presente dei pubblici registri. Così, lo scorso maggio, la Commissione tributaria di Perugia ha deciso di annullare l’intero debito con lo Stato, in quanto quelle cartelle non sarebbero mai state notificate in maniera corretta e di conseguenza l’imprenditore non ne sarebbe mai venuto a conoscenza.

La legge italiana

A regolare questo sistema vige la legge n. 53 del 1994, che all’articolo 3 bis sancisce che la notificazione in via telematica degli atti può essere eseguita «esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante che compare negli elenchi pubblici». Nel caso in cui l’atto dovesse arrivare da un’email non ufficiale, è da considerarsi «inesistente». A luglio la Commissione tributaria di Napoli ha annullato l’ennesima cartella esattoriale perché ricevuta dal contribuente da notifica.acc.campania@pec.agenziariscossione.gov.it invece di quello iscritto al registro, cioè protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it. Per fare chiarezza, gli elenchi pubblici per le pec sono Ipa, Reginde e Inpec.

L’appello della difesa

La mancata chiarezza, però, deriva dal fatto che spesso la difesa degli enti di riscossione si appella all’articolo 26 del decreto del presidente della Repubblica 602/1973 (modificato più di recente nel 2017), dove si specifica che è l’indirizzo pec del destinatario a dover essere presente nei registri pubblici, mentre non viene specificata la condizione dell’indirizzo email di chi notifica. Anche se nel 2019, con la sentenza n. 1734, la Corte di Cassazione ha confermato la necessità anche per il mittente di aver inserito il proprio indirizzo pec negli elenchi pubblici. In caso contrario la notifica è da considerare inesistente e quindi insanabile.

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Soldi versati sul conto corrente, si muove l'Agenzia delle Entrate: chi rischia. Federico Garau il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il Fisco può effettuare controlli anche sul conto corrente di dipendenti, privati e pensionati. La Cassazione ricorda che c'è una presunzione legale in base a cui versamenti ingiustificati devono essere imputati ai redditi

Il Fisco ha ormai rimesso in moto i motori e la sua lente d'ingrandimento può puntarsi anche sul conto corrente dei contribuenti, ai quali, in caso di versamenti ingiustificati, potrebbe essere richiesto di dimostrare la provenienza del denaro.

Essere dipendenti pubblici o privati, pensionati o lavoratori, non cambia le cose: eventuali accertamenti da parte dell'Agenzia delle Entrate saranno sempre legittimi, a patto che sia mostrata la prova inconfutabile della provenienza delle somme soggette a verifica. Questo è quanto disposto dall'ordinanza n.18245/2022 della sezione sesta della Corte di cassazione depositata lo scorso 7 giugno.

Controlli sempre più serrati: il Fisco sfodera l'intelligenza artificiale

Nello specifico, il collegio di piazza Cavour si è pronunciato su un caso relativo a un accertamento fiscale avviato nei confronti di alcuni versamenti, ritenuti ingiustificati, effettuati sul conto corrente di un contribuente. Quest'ultimo aveva fatto ricorso, ma la commissione tributaria di primo grado di Bolzano aveva respinto tale richiesta. Una delibera poi ribaltata dalla commissione di secondo grado di Bolzano, che aveva invece dato peso al fatto che il reddito del contribuente fosse il frutto di un lavoro alle dipendenze dello Stato, mentre i versamenti ingiustificati provenissero da vincite di gioco provenienti dall'estero.

Questo caso, dunque, riguardava un dipendente statale, ma il Fisco può tranquillamente decidere di fare delle verifiche anche sul conto corrente di lavoratori dipendenti, privati o pensionati, anche se si tratta di circostanze solitamente più rare.

La Corte, infatti, ricorda che la presunzione legale relativa della disponibilità di maggior reddito non riguarda soltanto i titolari di reddito di impresa o di reddito di lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come disposto dagli art. 32 e 38 del dpr 600/73. Secondo la normativa, dati e elementi relativi ai rapporti bancari possono essere impiegati nei confronti di tutti i contribuenti soggetti agli accertamenti previsti dall'articolo 38 e seguenti.

Con la sua ordinanza, la Cassazione ha dato conferma. Vi è una presunzione legale in base a cui anche versamenti ritenuti ingiustificati di dipendenti privati e pensionati su conti correnti devono essere imputati ai redditi. Il contribuente avrà poi facoltà di fornire una prova contraria, che sarà valutata dal giudice.

Riassumendo: i versamenti possono essere considerati come una maggiore disponibilità reddituale, anche quando si parla di dipendenti, privati e pensionati. Sta al cittadino, poi, dimostrare il contrario. Per quanto concerne il caso di Bolzano, la Cassazione ha rigettato il ricorso del contribuente, non ritenendo provate le vincite di gioco dichiarate.

 Fisco rapace, che palle questa storia delle tasse sono alte per gli evasori. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 10 agosto 2022

Mamma mia che palle con questa storia che le tasse sono alte perché c'è l'evasione fiscale. Ma finché non si imporrà la verità opposta - e cioè che il grosso dell'evasione è rivolto al finanziamento di attività produttive, mentre le tasse finanziano perlopiù l'inefficienza e la malversazione pubblica - quella fregnaccia continuerà a imperare. È una verità impronunciabile perché descrive un sistema ormai completamente pervaso da quella stortura, un intreccio ossificato di illegalità necessitata (l'evasione che serve all'economia produttiva) e di legalità aberrante (la tassazione che la intralcia).

Non si tratta neppure di decidere se sia giusto o ingiusto, perché questa è materia di opinioni (per quanto difficilmente qualcuno saprebbe dimostrare che questo casino ha addentellati di ragionevolezza): si tratta di riconoscere quella realtà senza ricoprirla con il tappeto di retorica e mistificazione che non la contiene più, e da cui sbuffa fuori con mareggiate di cartelle esattoriali e deplorazioni imbecilli sull'egoismo di chi evade lasciando a languire i servizi pubblici.

La devono fare finita, e chi non condivide questa impostazione contraffattoria dovrebbe spiegare senza timore che una buona quota dell'inottemperanza fiscale sostiene un'economia altrimenti anche più disastrata, così come una larga parte del gettito è adoperata per mantenere eserciti di parassiti. E spiegare, infine, che il nemico sociale di chi produce e versa al fisco tutto quanto (ingiustamente) deve, non è l'evasore che si sottrae al vampiro per pagare stipendi o per il lusso di una settimana di ferie, ma lo Stato che organizza questo scempio criminogeno e ha pure il coraggio di assolversene addossando la colpa a chi non batte due scontrini. 

Flat Tax, a chi conviene? Chi guadagna e chi perde con la riforma promessa dal centrodestra. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera su il 24 Agosto 2022

Una campagna elettorale che punta sui temi economici

Una campagna elettorale che appare già infiammata dai temi economici. Le proposte fioriscono, spesso senza però un reale calcolo dei costi. E’ un po’ il caso della Flat tax, rilanciata ormai da qualche giorno dalla coalizione di Centrodestra, Lega in testa.

La «tassa piatta» è un metodo di tassazione dei redditi non progressivo, diverso dunque da quello attuale degli scaglioni Irpef. Oggi la Flat tax esiste già e si applica soltanto alle Partite Iva che possono rientrare nel regime forfettario al 15% (ma si scende al 5% per i primi cinque anni di attività) se i loro ricavi sono inferiori ai 65 mila euro.

Ma una Flat tax per tutti converrebbe davvero? Proviamo a vedere le proposte dei partiti e a fare un po’ di calcoli.

La proposta del Centrodestra

L’aliquota unica al 15% piace da sempre molto al Carroccio. Per la Lega il percorso verso la Flat tax uguale per tutti dovrebbe procedere attraverso tre fasi: la prima, già avvenuta con la legge di Bilancio del 2019, ha introdotto la tassa piatta per le partite Iva con redditi inferiori a 65 mila euro l’anno. Le altre due fasi vedrebbero l’introduzione con gradualità della Flat tax prima per fasce di reddito ai lavoratori dipendenti, poi per le imprese. Forza Italia, invece, ha rilanciato con una Flat tax al 23%.

In realtà, il programma di coalizione (con dunque anche Fratelli d’Italia) si è ridimensionato e parla più genericamente di una «Flat tax incrementale», cioè solo sul reddito dichiarato in più rispetto all’anno precedente (e questo è ciò che ha ottenuto il partito di Meloni). Così facendo, si tratterebbe di una “tassa piatta” «solo entro certi limiti, poi cambia, come in un normale sistema a scaglioni», come ha commentato Luigi Marattin, di Italia Viva. Il programma condiviso del Centrodestra parla infine anche di “estensione della Flat tax per le partite Iva fino a 100 mila euro di fatturato”.

Salvini, durante il suo tour elettorale in Abruzzo, ha difeso dalle critiche la proposta del Centrodestra: «Vorrei che mi si venisse a dire che chi guadagna 70 mila euro con due figli a carico è un riccone», ha detto il segretario della Lega. «La flat tax c’è già per 2 milioni di lavoratori, noi vogliamo estenderla: la nostra proposta è per famiglie monoreddito e con due redditi, non alla Berlusconi. Estendere la flat tax al 15% è urgente», ha concluso Salvini.

Nel ddl Siri, con cui la Lega presentava la sua Flat tax al 15% nel 2020, esiste una sorta di clausola di salvaguardia, in modo tale che i redditi più bassi, che godono di detrazioni, non ne possano risentire.

Costi delle proposte del Centrodestra

Se nel programma del Centrodestra fosse passata la proposta di Berlusconi di una tassa piatta unica e per tutti al 23%, rispetto a quanto fatto dal governo Draghi, che ha alleggerito il prelievo di circa 8 miliardi attraverso la revisione delle aliquote, di fatto i redditi fino a 15 mila euro non avrebbero tratto alcun giovamento (l’aliquota per loro è già al 23%), sarebbe migliorato invece qualcosa per i redditi compresi tra i 15 e i 28 mila euro (per loro ora è al 25%), mentre avrebbero stappato la bottiglia i redditi più alti (attualmente l’aliquota è al 35% per i redditi da 28mila a 50 mila e al 43% oltre i 50 mila). Il risparmio sarebbe infatti ben maggiore per chi ha un reddito più alto: secondo i calcoli fatti da diversi economisti, del 14,3% per la fascia più alta, contro lo 0,7% per la fascia più bassa. Se si guarda al risparmio complessivo per tutti i contribuenti italiani, risulterebbe che la fascia con i redditi più alti otterrebbe oltre la metà del beneficio.

I problemi della proposta del Centrodestra

Secondo le stime degli esperti, riportate dal Sole 24 Ore, il costo della Flat tax come proposta da Berlusconi (quella al 23%) costerebbe circa 30 miliardi l’anno. Con la Flat tax come piace alla Lega (al 15%) i costi crescerebbero a 50 miliardi di euro l’anno. Ma al problema delle risorse, si aggiunge il problema del principio della progressività del prelievo, così com’è previsto dalla Costituzione, principio che potrebbe impedire l’imposta unica per tutti.

In soldoni: il taglio delle tasse si può attuare solo aumentando entrate di altro tipo o tagliando la spesa pubblica (i regolamenti europei e i vincoli di bilancio, infatti, non permettono di fare deficit sulle materie fiscali).

Flat tax, pro e contro

Se ci limitiamo a confrontare le attuali aliquote Irpef con la Flat tax al 15%, è indubbio che per professionisti e imprenditori individuali sarebbe un vantaggio, rispetto al regime ordinario. Per la natura della Flat tax, che equipara tutti e non prevede “sconti”, si andrebbero a perdere deduzioni e detrazioni previste per le persone fisiche. Per questa ragione, la tassa piatta converrebbe soprattutto a chi non si giova di detrazioni (single, contribuenti senza figli o familiari a carico, che non detraggono spese per medicine, interessi passivi sui mutui o rimborsi fiscali legati alle ristrutturazioni come ecobonus e superbonus). Anche i dipendenti sarebbero avvantaggiati rispetto, a parità di reddito, ai forfettari di oggi. Come detto, per ovviare a questo, la Lega propone una Flat tax al 15% rivista, che tuteli dunque chi ha finora goduto di deduzioni e detrazioni.

La simulazione Uil: grande vantaggio per i redditi alti

L’ufficio studi della Uil aveva sintetizzato tempo fa i calcoli di molti economisti (vedi tabella qui sotto) per quantificare l’impatto che avrebbe una Flat tax generalizzata al 15% per i redditi familiari fino a 55 mila euro. Lo studio calcola l’attuale imposta al netto delle detrazioni e deduzioni mediamente godute dai lavoratori italiani, rapportandola con l’imposizione che sarebbe, invece, generata con una tassa completamente piatta al 15%, senza deduzioni o detrazioni. Le ipotesi prese in esame prevedono che per ogni nucleo familiare vi sia un solo reddito. Infine, al risultato è stata sommata (considerandola come un aumento diretto dell’imposizione) la perdita del bonus di 80 euro spettante per i redditi fino a 26.600 euro. La Uil arriva alla conclusione che il risultato di una Flat tax generalizzata, che superi tutte le attuali deduzioni e detrazioni, è fortemente penalizzante per i redditi più bassi. 

Un esempio e la spiegazione. Un cittadino che abbia un reddito di 10.990 euro lordi annui dovrebbe pagare in un anno 1.819 euro di tasse in più. Questo perché, ad oggi, per effetto delle detrazioni e delle deduzioni l’imposta netta versata è mediamente pari al 7,19% (tabella qui sotto), a questa maggiore imposta va sommata la perdita degli 80 euro mensili erogati con il bonus. Questo aumento di imposta si genera per tutti i redditi più bassi, quelli cioè fino a 26.600 euro lordi annui. 

Secondo il calcolo della Uil, i guadagni comincerebbero intorno ai 30 mila, con un -22% di tasse. Ma è per chi ha redditi superiori ai 50 mila euro che le tasse diminuiscono in maniera clamorosa: - 43%.

La Lega: «Così i veri vantaggi della proposta sulla Flat Tax, risparmi con le detrazioni». Redazione Economia su Il Corriere della Sera su il 24 Agosto 2022

La Flat tax è una delle principali proposte del programma del Centrodestra. Nel tempo, la tassa piatta ha ricevuto alcune critiche, ma la Lega difende l’impianto della sua proposta al 15%, pronta dal 2020 (DDL AS1831 del 27.5.20), il cui testo, vantaggi e coperture sono stati studiati in mesi di lavoro e di confronto con i tecnici dell’amministrazione finanziaria.

L’applicazione della Flat tax non sarà generalizzata

Una delle critiche partiva da uno studio fatto dalla Uil precedentemente al DDl Siri. Lo studio analizzava “l’impatto che avrebbe una Flat Tax generalizzata al 15% per i redditi familiari fino a 55.000 euro priva di detrazioni e deduzioni”. Ma come spiega la Lega, “il DDL presentato al Senato, non prevede un’applicazione generalizzata ai redditi”, ma “è divisa in fasce a seconda della composizione familiare”. Inoltre, la proposta del Carroccio prevede “un semplice ma efficace sistema di deduzioni familiari, fondamentale per ottenere un risparmio di tassazione anche per i redditi bassi. Lo studio Uil tratta il caso di famiglie con un unico reddito da lavoro e utilizza esclusivamente (probabilmente per semplicità) unicamente la detrazione per reddito da lavoro dipendente. I risultati di calcolo vengono confrontati con una tassazione completamente piatta che non preveda detrazioni né deduzioni”. Di fatto, una sorta di clausola di salvaguardia per i redditi più bassi.

I calcoli sulla proposta

Secondo i calcoli fatti dalla Lega, un cittadino che abbia un reddito di 10.990 euro lordi annui con la fiscalità attiva al tempo dello studio pagava, grazie alla detrazione per lavoro dipendente, 790 euro di tasse. Con il sistema di Flat Tax previsto dal Carroccio, “che prevede una deduzione di 14.000 euro per la famiglia monocomponente (consideriamo il single visto che al calcolo non viene applicata nessuna detrazione prevista per il coniuge a carico), l’imponibile va a zero. In questo caso il contribuente ha un risparmio di 790 euro. Per un reddito di 17.640euro€ lordi annui il risparmio diventa di 1.076 euro; infatti, al reddito lordo va detratta la deduzione per il contribuente di 10.815 euro, per cui l’imponibile diventa di 6.825 euro, a cui va applicata l’aliquota del 15%”. “La tassazione con la Fase II della Flat Tax, quindi, sarebbe di 1.024 euro, con un risparmio di 1.076 euro”.

La App della Lega per calcolarsi da soli gli effetti della Flat tax

La composizione delle famiglie italiane è molto variegata e il sistema fiscale previsto dalla proposta della Lega per la Flat Tax Fase II, descritta nel DDL Siri, tiene dunque conto “di ogni possibile situazione. Infatti, grazie al sistema di deduzioni per il contribuente e gli eventuali carichi familiari, personalizza la tassazione per ogni composizione della famiglia fiscale e per ogni fascia di reddito prevista dalla Fase II della Flat Tax”. I conti possono farli direttamente i cittadini, dato che la Lega ha messo a disposizione di tutti i cittadini una App (Flat Tax) scaricabile gratuitamente per verificare cosa cambierebbe per ciascuno con la riforma proposta da Salvini.

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Paolo Baroni per “la Stampa” il 9 agosto 2022.  

Quindici o ventitré per cento? Ha senso introdurre in Italia una flat tax? E ancora: è incostituzionale oppure no? E, nel caso, meglio la proposta di Matteo Salvini o quella di Silvio Berlusconi? In ballo ci sono 8 punti di Irpef di differenza, mica poco. Se questo fosse un processo la flat tax, a detta di esperti ed economisti, non ne uscirebbe molto bene.

Chi spara a zero è Tito Boeri: «Sono tutte proposte insostenibili perché hanno un costo altissimo - spiega l'economista della Bocconi -. Bisognerebbe rifare i calcoli, ma in base alle vecchie stime siamo attorno agli 80 miliardi, e quella di Forza Italia costa addirittura ancora di più. E quindi, se Lega e Forza Italia devono seguire il consiglio del loro candidato premier Giorgia Meloni, che ha detto di avanzare solo proposte che fattibili, è meglio che la ritirino immediatamente. Perché è una presa in giro. Voglio capire dove trovano 80 miliardi per una operazione di questo tipo».

«Quella di Salvini o non è una flat tax oppure è una misura non realizzabile. Quella proposta da Berlusconi ha invece discrete possibilità di essere realizzata. A patto, però, di prevedere anche un disboscamento radicale degli sconti fiscali», sostiene Nicola Rossi, docente di Economia a Tor Vergata e tra i fautori (non da oggi) con l'Istituto Bruno Leoni di una riforma radicale del nostro sistema fiscale a partire, appunto, dall'introduzione di una tassa piatta.

«L'aliquota del 15% che propone Salvini è certamente troppo bassa. Una simile riforma costerebbe moltissimo, diverse decine di miliardi», commenta a sua volta Carlo Cottarelli. Che tre giorni fa su Twitter ha scritto: «La flat tax non mi piace. Non va demonizzata, ma va presentata per quello che è: un sistema di tassazione che redistribuisce meno di quello attuale e che (al 23%) ha un alto costo per le finanze pubbliche che dovrà essere colmato con altre tasse o tagli di spesa (oggi o domani)».

Questo di partenza, poi - come spiega lo stesso direttore dell'Osservatorio conti pubblici - tutto dipende da come la riforma viene messa in atto. Con l'eliminazione delle deduzioni fiscali, ad esempio potrebbero essere previsti meccanismi utili a recuperare risorse. Mercati ed agenzie di rating potrebbero anche prenderla male, ma di certo «non ci sarebbero problemi dal punto di vista costituzionale. Anche perché sicuramente sarebbe prevista una no-tax area, dato che altrimenti le circa 10 milioni di persone che attualmente non pagano le tasse dovrebbero iniziare a farlo, e per loro sarebbe un aumento gigante di costi». 

Della stessa opinione anche Boeri: «Chi dice che la flat tax non è progressiva e quindi anticostituzionale dice una stupidaggine: perché è progressiva, semmai è poco progressiva e senza dubbio premia i redditi più alti».

Per Giovanni Tria, ex ministro dell'Economia nel governo Conte 1, oggi come oggi «si sta parlando di una cosa che non c'è. La flat tax - spiega - è una cosa complessa, occorre saperla immaginare e scrivere. In passato si sono lette cose che non stavano né in cielo né in terra. Affermazioni come quelle di Salvini e Berlusconi sono solo propaganda - aggiunge l'economista - mentre la questione è molto seria perché si tratta di rivedere il sistema fiscale e anche la spesa. Oggi gran parte degli italiani paga meno del 15% di tasse, cosa significa estendere a tutti la flat tax: si fa pagare di più a chi paga di meno?».

Solo slogan da campagna elettorale destinati a non produrre nulla? «Per adesso non si capisce bene cosa vogliano proporre i partiti - spiega Rossi - però c'è un pregresso che può aiutare a capire di cosa stiamo parlando. Quando la Lega parla di flat tax al 15% e di estensione del limite di reddito verso i 100 mila euro si riferisce essenzialmente ad un trattamento di favore per gli autonomi che con la flat tax non ha però niente a che fare. 

Se invece si intende estendere una aliquota unica del 15% a tutti i contribuenti è una cosa impossibile, innanzitutto dal punto di vista dei conti. E non avrebbe nemmeno senso come struttura del sistema tributario. La Lega purtroppo si è impiccata a questo 15%, che anni fa è stato fatto in maniera molto improvvida senza far bene i conti, ma è una proposta che non ha molto senso».

Diverso, invece, il giudizio sulla proposta di Forza Italia che punta ad una aliquota del 23% che Rossi definisce «centrata, anche se sarebbe meglio indicare il 25%. Però, per arrivare a quel risultato, occorre disboscare in maniera molto significativa tutta la giungla delle spese fiscali e dei trattamenti di favore. In linea di principio questa sarebbe un'operazione benvenuta di pulizia del sistema fiscale che libererebbe risorse aprendo la strada ad una flat tax con una aliquota più bassa. 

È ovvio poi che rispetto a questi obiettivi ci sono poi tante soluzioni intermedie, che in linea di principio potrebbero prevalere come il passaggio non a una ma a due aliquote o la possibilità di equilibrare diversamente il carico fiscale tra imposte dirette e indirette». Detto questo, conclude Rossi, «visto che la legge delega muore con questa legislatura, credo che si dovrà rimettere mano al più presto alla riforma del sistema fiscale, perché così com' è proprio non va».  

Rivoluzione fiscale o morte del Paese. Angelo Lucarella, Giurista, saggista, opinionista, su Il Riformista il 17 Agosto 2022

Nessuno deve morire di fame. Su questo siamo tutti d’accordo. Principio sacrosanto. Diritto inviolabile della persona umana. Questo Paese però ci ha abituati ad assunzioni pubbliche talvolta inutili, discutibili ed a misure assistenziali pure e semplici nonché a sprechi di ogni genere. Questo significa spesa pubblica e, per l’effetto, debito pubblico se il sistema economico sul quale si basa il tutto non è virtuoso (cioè non riesce ad auto ripagarsi in chiave di equilibrio).

Ora, sappiamo altrettanto tutti (o quanto meno si presume nell’epoca post medievale) che il Paese non ha più titolarità di emissione della moneta (non della stampa attenzione) da quando ha aderito al sistema bancario europeo. La traduzione plastica è che il potere vero e proprio, in termini di politica economica e fiscale, si indirizza quantomeno su due fronti: come spendo per generare valore in accrescimento (infrastrutture esempio classico) e come ritiro dal sistema interno i titoli al portatore in eccesso. Sul “come spendo” il problema è atavico:

sia riguardo alla sproporzione tra quanto effettivamente il Paese spende per cose utili e funzionali;

sia riguardo a quali risorse umane davvero sono necessarie al tempo della tecnologia (in verità il carrozzone fonda le radici nella prima Repubblica ma con incidenza diversa rispetto alla sopportabilità complessiva del sistema-Paese).

Sul “come ritiro i titoli al portatore” c’è chi favorisce i titoli di Stato in mano agli italiani e chi invece preferisce aumentare le imposte, le tasse, ecc.: nel primo caso i soldi, materialmente, tornano in cassa pubblica ma la titolarità del credito è in capo al privato il quale, di tutta evidenza, ha molta più convenienza ed interesse diretto a finanziare il debito del proprio Paese; nel secondo caso alzare l’asticella del livello di imposizione/tassazione, qualora quest’ultima superi una certa soglia di sopportabilità, conduce la parte produttiva del Paese in stato di tensione sociale (il ché può generare evasione o morosità a cascata oppure ancora chiusure delle piccole e medio-imprese in primis) e, in caso più duro, in proteste, reazioni, rivoluzioni (Masaniello ce lo ricorda da secoli).

Questo cappello di premessa serve per affermare un principio: la capacità contributiva non equivale a diritto di Stato di alimentare spesa pubblica fine a sé stessa o sproporzionata o di altro genere che, peraltro, può trasformarsi in una sorta di concorrenza sleale per talune partite iva. Allora, se la spending review nessuno è capace di portarla avanti con serietà e determinazione, elettoralmente soprattutto, non aspettiamoci di contro che le piccole e medio imprese nonché gli autonomi (a cui va aggiunta l’industria seppure partendo da altri presupposti) possano mantenere il Paese negandosi costantemente serenità.

Il rischio, a catena, è che questa parte produttiva prima o poi molli. Qualcuno potrebbe dire, senza cognizione di causa, ma “se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero meno”. Non diciamo eresie, cavolate insomma. È una idiozia culturale (ammesso che di cultura possa parlarsi). Le imposte e le tasse vengono previste per legge e non per questioni compensative dell’evasione o delle morosità. Sarebbe meglio l’assunto: “tutti sono tenuti a pagare le imposte e le tasse se queste rispettano la capacità contributiva reale e attuale del soggetto contribuente”.

L’evasione, infatti, è un processo psicologico che viene ingenerato nel responsabile quando il sistema-Paese non garantisce livelli funzionali e proporzionali di gettito rispetto al reddito prodotto. Chiaramente, quest’ultimo discorso ha una sua validità perimetrata solo laddove si consideri l’evasione fiscale fatta non da un soggetto malato di ingordigia monetaria, che rifiuta lo stato di diritto, ecc. o avente una conclamata inclinazione delinquenziale a sottrarre imposta all’erario, ecc.

La morosità, invece, è il risultato finale della necessità di sopravvivenza del contribuente ed è intuibile il motivo. Quanti contribuenti morosi hanno il gruzzoletto sotto il mattone? Quasi nessuno (e l’utilizzo del termine “quasi” è per un beneficio del dubbio che responsabilmente occorre mantenere). Qui viene il punto cruciale. Posto che le partite iva medio-piccole continuano a chiudere a “quantità industriali” (si consenta lo sforzo di terminologia) sia per la crisi economica che per quella pandemia e, forse in parte, per quella energetica sopraggiunta, domandiamoci come pensiamo di garantire la distribuzione (alimentare e non solo) su larga e capillare scala nazionale se i negozi, le attività di prossimità continuano ad estinguersi?

Questa gente dove va a finire? Nel calderone del reddito di cittadinanza? E c’è un’altra questione non certamente esaustiva, ma conclusiva di quest’analisi. Meno negozi ed attività di prossimità equivale a dire che ci sarà aumento dei prezzi al consumo ed una minore capacità di raggiungimento dei beni in chiave di decentramento dei consumi. Chi ha un salario o reddito fisso e ciclico subirà un rilevante shock di potere d’acquisto. Allora, invece di essere bigotti, puntiamo a recuperare le persone alla capacità contributiva perché più contribuenti, fanno pagare meno tutti se la spesa pubblica complessiva da ripagare è, grossomodo, stabile.

Rottamazione, saldo e stralcio, condono, pace fiscale, flat tax, chiamiamola come vogliamo ma per fare la rivoluzione fiscale occorre chiarire che, prima di dare addosso alle partite iva, dobbiamo facciamo un esame di coscienza. I soldi dei morosi sono rimasti tutti nell’economia reale. Anche per garantire i consumi dei garantiti stessi a cui va altrettanto garantito il potere d’acquisto (questa volta la terminologia è volutamente ripetuta). Se no il Paese crolla. Del tutto. Dalla prossima legislatura occorre permanentemente pensare e lavorare ad una riforma tributaria complessiva, organica e non pletorica, che punti a stabilizzare il Paese per almeno 5 generazioni. Salvo che si abbia il coraggio politico di dire la verità agli italiani.

 Il debito è buono solo se lo fa la sinistra. Paola Tommasi su Il Tempo il 12 agosto 2022

Giorgia Meloni premier, con il suo ministro dell'Economia, Tremonti o Panetta che sia, dovrà tenerlo bene in mente: la spesa pubblica in Italia va bene solo quando a farla è la sinistra. Nel tempo si sono trovati 10 miliardi all'anno per il reddito di cittadinanza o per gli 80 euro di Renzi e tutte le risorse necessarie per bonus di ogni tipo ma appena si azzarda una proposta di taglio delle tasse, che tra l'altro farebbe da volano ai consumi, agli investimenti, alle assunzioni e alla ripresa economica, improvvisamente non c'è più un euro in cassa. Certo, perché si sono spesi male prima. Ma come mai per le mance clientelari della sinistra un modo per trovare i fondi si trova sempre mentre per le proposte economiche del centrodestra diventa tutto più difficile, al limite dell'impossibile?

In ogni campagna elettorale, ai programmi della coalizione Fratelli d'Italia-Lega-Forza Italia si fanno le pulci mentre qualsiasi cosa, più o meno sensata e più o meno costosa, propongano Enrico Letta e compagni è oro colato, va benissimo ed è fattibile. Sul costo della Flat tax di Matteo Salvini e delle pensioni minime di Silvio Berlusconi circolano stime mirabolanti, fino a 80 miliardi per la prima e oltre 30 per la seconda, ma sono calcoli gonfiati dal pregiudizio di chi ha come obiettivo solo quello di rendere ridicole le proposte e i partiti che le portano avanti.

Eppure si tratta di idee che affrontano due problemi cruciali: la pressione fiscale troppo alta, che impoverisce le famiglie e rende meno competitive le imprese italiane rispetto a quelle estere, e le pensioni troppo basse per gli anziani, che spesso servono ad aiutare anche i giovani senza reddito in un Paese in cui il vero welfare è quello familiare.

A sinistra dovrebbero accoglierle con giubilo, trattandosi di fatto di misure sociali, invece è la solita levata di scudi. L'ultima riforma del fisco in Italia è la legge Visentini e risale ai primi anni '70. Da allora a oggi è passato mezzo secolo e tutto è cambiato, dall'avvento delle multinazionali alle delocalizzazioni, dall'ingresso nell'euro al Covid. Una revisione dell'intero sistema tributario sarebbe quanto mai necessaria. In ogni legislatura nascono e muoiono deleghe fiscali su cui si litiga in Parlamento ma che non trovano mai attuazione.

Perché, allora, se ci sono proposte nette, di carattere strutturale, le si boccia al sol pensiero? Perché mai non approfittare della sospensione dei vincoli europei per far partire una riforma che, se nei primi anni costa, poi compensa in quelli successivi con il maggior gettito prodotto quindi si finanzia da sola? Perché non concentrare sul taglio delle tasse tutte le risorse a disposizione piuttosto che disperderle in micro-misure che non portano cambiamento né risolvono i problemi? C'è tanta spesa pubblica cattiva, come la definì Mario Draghi, che può essere tagliata e destinata a usi produttivi. Basterebbe sfrondare del 10% quella attuale, che supera come spesa corrente 800 miliardi, per avere un gruzzolo da cui partire. O tagliare le agevolazioni fiscali che pure costano allo Stato oltre 150 miliardi all'anno. Per non parlare del recupero dell'evasione. Insomma, lo spazio economico c'è. La volontà politica è altrettanto forte, tale da superare le insidie della sinistra? 

Ecco tutta la verità sulla Flat tax. Aiuta le famiglie e costa 13 miliardi. Filippo Caleri su il Tempo il 19 agosto 2022

Trenta miliardi. No di più. Forse ottanta. Passando per i cinquanta che fa sempre cifra piena e dunque facile da ricordare. Sono i numeri buttati a caso sul costo della Flat tax proposta dal centrodestra e fortemente avversata dal centrosinistra che, per stroncare sul nascere ogni idea di cambiamento del regime delle tasse in Italia, parla di cifre roboanti instillando il dubbio che una riforma proposta da Salvini, Meloni e il Cav debba essere necessariamente a favore dei ricchi. Non solo. Per rafforzare la tesi distruttiva qualche parlamentare ha parlato di un regime che, invece di due, prevede ben 18 aliquote. 

Per cercare di fare chiarezza Il Tempo ha cercato di studiare, con attenzione e consultando i promotori, la sola proposta di legge in materia che la coalizione di centrodestra abbia presentato e che rappresenta la base di ogni ragionamento sul tema. L’unico progetto di "tassa piatta" rintracciabile negli archivi parlamentari è quello presentato dalla Lega in Senato il 27 maggio del 2020, nel pieno del governo Conte due. Si tratta del ddl A.s. 1831. Un testo seguito dal leghista Armando Siri. E, come ha spiegato durante la conferenza stampa con il leader della Lega, Salvini, frutto di un lavoro nato da un’interlocuzione costante tra i tecnici del partito e l’amministrazione finanziaria per «più di un anno», e dunque legittimamente nella pienezza di poteri del governo gialloverde.

Un lavoro informale di confronto con le Finanze che garantisce una ragionevole fondatezza alle cifre e all’impianto elaborato. Il provvedimento è comunque complesso. La parte che il Carroccio vorrebbe avviare è quella relativa alla cosiddetta famiglia fiscale nella quale rientrano dipendenti e pensionati. Quella che il partito di Salvini chiama la Fase due e tre. La uno, è infatti, già stata attuata con la Flat tax alle partite Iva fino a 65mila euro, che ora dovrebbe essere ampliata fino a 100mila.

Famiglia fiscale

Nella Fase due a beneficiare del nuovo regime sarebbero tre tipologie di famiglie fiscali: i single con redditi fino a 30mila euro, le famiglie monoreddito fino a 55mila e quelle bireddito (con due stipendi) a 70mila euro. Una suddivisione non campata in aria. I tecnici che fanno capo a Siri sono partiti dalla classificazione elaborata dal Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia nei suoi studi. Visti i limiti di reddito e la certezza che la Fase tre, che prevede l’imposta unica per tutti i nuclei fiscali a prescindere dal reddito non partirà subito ma dopo attenta valutazione della Fase due, si può già affermare che il modulo da avviare non avvantaggia i super ricchi vista la soglia oltre la quale la riforma si azzera (settantamila euro nel caso del nucleo con due redditi). Superati questi limiti, infatti, il contribuente rientra, automaticamente, nel regime attuale dell’Irpef con le quattro aliquote.

La base imponibile

La cifra sulla quale si applica l’aliquota unica (15%) è determinata con una serie di deduzioni (cioè valori si sottraggono al reddito dichiarato) legate esclusivamente alla composizione della famiglia. Si inizia da una sottrazione per tutti, che parte da un minimo di 13mila euro e alla quale se ne aggiungono altre per i carichi (figli o familiari presenti nel nucleo). Questi valori però non sono fissi ma si riducono gradualmente con il crescere del reddito. La prima certezza è che, secondo questo principio, la nuova tassazione prevede una no tax area di almeno 13mila euro, che è già più alta di quella attuale. Per riepilogare con la riforma avviata chi guadagna circa 1.100 euro al mese non paga un euro di Irpef. Così, confutando le critiche, i percettori più poveri sono al riparo da sorprese.

Le aliquote

Il prelievo fisso è del 15% a regime. Ma nella fase due è previsto quello che i tecnici chiamano meccanismo dello «scivolo» che fa sì che, fino a 26mila euro per i single, 50mila per la monoreddito e 65mila per la bireddito l’aliquota sia secca al 15%. Per gli euro successivi fino, rispettivamente, a 30mila, 55mila e 70mila euro, l’aliquota sale leggermente ogni mille aggiuntivi. Solo a titolo di esempio nella famiglia bireddito i mille euro di reddito successivi ai 65 mila sono tassati al 16,5%. E così via. I tecnici spiegano che questo è stato fatto per evitare un passaggio brusco tra chi è nel regime a tassa piatta e chi per un euro di più di reddito (e cioè da 65.001 euro), passa alla tassazione con l’Irpef attuale. Così si evita anche la tentazione di non dichiarare l’eventuale euro in più che farebbe scomparire il vantaggio. Nel linguaggio più comprensibile è un modo per evitare il cosiddetto «scalone» quando ci si avvicina ai 65mila euro e si possono facilmente superare con un’entrata aggiuntiva. Ed è forse questo sistema, ideato per dare una certa gradualità ai contribuenti marginali, che ha indotto in errore qualcuno che, studiando male il meccanismo, ha parlato di 18 aliquote. Questo sistema non sarà comunque più in vigore nella fase tre perché allora l’aliquota sarà sempre al 15% per tutti.

Il costo

Se in linea di principio sono tutti d’accordo ad abbassare le tasse, una delle principali accuse rivolte alla Flat tax è quella di costare troppo in termini di gettito. La relazione che accompagna il ddl stima per la partenza della fase due un ammontare di 13 miliardi. Non dunque 30 o 50. Un numero che, secondo il team che ha accompagnato il lavoro di Siri, parte con simulazioni molto accurate verificate grazie all’interlocuzione con i tecnici nel governo Conte uno. E per questo ci si è basati - spiegano a Il Tempo - sui dati contenuti nello studio del Mef sulle famiglie fiscali riattualizzandoli grazie alle statistiche Istat e alle ultime dichiarazioni dei redditi disponibili. Il passo successivo è stato costruire tutta una serie di tabelle per i casi di famiglie fiscali in base ai redditi e alla composizione familiare.

Per ogni nucleo e per ogni reddito è stata ricostruita la tassazione secondo la normativa vigente e quella con la fase due, tenendo conto degli incassi e delle deduzioni in base alla consistenza della famiglia. Una simulazione basata su dati numerici acclarati e certificati nel corso del confronto con l’amministrazione finanziaria, dunque non aleatori. Non solo. Sempre secondo chi ha elaborato la proposta, i dati della stima iniziale sono da attualizzare, e il costo dovrebbe scendere ancora dagli iniziali 13 miliardi. Questo perché nel calcolo dello stanziamento necessario a finanziare l’avvio della fase due sarebbero assorbiti anche i fondi della riforma Irpef partita il primo gennaio del 2022 e che vale 7 miliardi. Dunque per un primo esperimento di tassa piatta ai dipendenti basterebbero, calcoli alla mano, altri sei miliardi, che potrebbero essere reperiti attraverso il riordino del groviglio delle centinaia di tax expenditure, la lotta all’evasione e la rivisitazione dei processi di spesa dello Stato. Dunque senza necessità di ulteriore debito da accollare alle generazioni future.

Flat tax: cos’è e come funziona. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 09 agosto 2022

Proposta da Matteo Salvini e Silvio Berlusconi prevede di introdurre un’unica aliquota per le imposte sul reddito. Con la sua introduzione, chi guadagna 1.500 euro al mese e chi ne guadagna 50mila pagherebbero la stessa percentuale di tasse

La flat tax è la principale proposta economica presentata fino a questo momento dalla coalizione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. Consiste nel sostituire le attuali imposte sul reddito, che sono più alte mano a mano che si sale nella scala dei guadagni, con un’imposta unica che abbia un’aliquota valida per tutti. Chi guadagna duemila euro al mese e chi ne guadagna 500mila pagherebbe quindi la stessa percentuale.  

LE PROPOSTE

Il leader della Lega Matteo Salvini ha parlato di una flat tax al 15 per cento da implementare entro cinque anni. Silvio Berlusconi ha proposto invece un’aliquota al 23 per cento. Giorgia Meloni non ha ancora formulato il suo piano e, in generale, appare un po’ più prudente sul tema.

Né Lega né Forza Italia hanno ancora messo nero su bianco le loro proposte, che per ora sono solo di annunci da parte dei leader. Di flat tax però si parla da oltre cinque anni e varie proposte sono state avanzate nel tempo. Si possono quindi già fare delle ipotesi sui meccanismi di questo nuovo regime fiscale.

Il primo: la proposta dovrà includere esenzioni per chi ha guadagni più bassi. Entrambe le aliquote proposte da Lega e Forza Italia sono più alte di quanto pagano attualmente. Secondo le principali stime, chi guadagna fino a 23mila euro l’anno, si troverebbe a pagare di più con il sistema proposto da Berlusconi.

Per questa ragione, la proposta di flat tax sarà probabilmente accompagnata dall’estensione della cosiddetta “no tax area” e di altri strumenti per evitare che sia tramuti in un aumento di imposte per i più poveri. 

PUÒ FUNZIONARE?

Da anni tutti i principali economisti avvertono che la flat tax si può fare solo in due modi, entrambi molto complicati. Il primo è quello “a costo zero”, o quasi, che si tradurrebbe nel far pagare molte meno tasse ai più ricchi, finanziando questi sconti alzando le imposte ai più poveri. In sostanza, si tratterebbe di lasciare che tutti paghino la stessa percentuale, senza correggere il fatto che oggi chi guadagna meno paga un’aliquota più bassa del 15 per cento. Non serve specificare che questo sistema sarebbe molto impopolare.

Il secondo modo di implementare la flat tax, e quello preferito almeno a parole dai leader del centrodestra, è quello di introdurre abbastanza correttivi da far sì che nessuno si trovi a pagare più tasse di prima. In questo scenario, secondo stime di qualche anno fa, la flat tax potrebbe arrivare a costare fino a 80 miliardi di euro l’anno.

Una cifra enorme, per intendersi: superiore al costo di tutti gli interessi che l’Italia paga ogni anno sul debito pubblico. Per affrontare questa riforma ci sarebbe quindi bisogno di dolorosi tagli ai capitoli più costosi della spesa pubblica: pensioni, sanità o scuola, ad esempio. 

E LA COSTITUZIONE?

Non ci sono solo i costi, l’altro ostacolo alla flat tax è la costituzione italiana che all’articolo 53 specifica che il sistema italiano «è informato a criteri di progressività». La progressività fiscale è esattamente l’opposto della flat tax. Significa che al crescere del reddito, i contribuenti devono pagare le imposte in modo più che proporzionale. Per questa ragione, l’Irpef, la principale imposta sul reddito, ha una serie di aliquote che crescono al crescere del reddito e che vanno dal 23 al 43 per cento.

Ma le proposte di flat tax che circolano non sono automaticamente anti costituzionali. L’articolo 53 infatti precisa che il sistema fiscale, nel suo complesso, deve essere «informato» a criteri progressivi. Cioè complessivamente il contribuente che guadagna di più deve pagare imposte in modo più che proporzionale, ma non viene stabilito in maniera assoluta che l’imposta sul reddito deve essere progressiva.

Negli scorsi anni, i sostenitori della flat tax hanno proposto vari meccanismi per rendere leggermente più progressiva la loro proposta e quindi ridurre i rischi di bocciatura costituzionale. In ogni caso, questo è un secondo problema a cui andrebbe incontro la flat tax, anche se si dovesse risolvere quello ancor più pressante di trovare i soldi per finanziarla.

IN QUALI PAESI È PREVISTA UNA FLAT TAX?

Le difficoltà economiche di implementare una flat tax e il suo fondamentale squilibrio (ricchissimi che pagano la stessa percentuale dei più poveri) fanno sì che questo tipo di imposta non sia molto diffusa. Nessuno dei paesi del G7 utilizza una flat tax come principale imposta sul reddito, né lo fa alcuno dei principali paesi industrializzati.

La lista di chi ha adotta questa forma di imposizione dipende da quanto si restringe la definizione, ma in generale si può dire che la flat tax è tipica dei paesi ex comunisti che l’hanno adottata subito dopo la caduta dell’Unione sovietica. Si tratta di paesi come Armenia, Georgia, Romania e Kazakistan.

Flat tax, ce lo chiede l'Europa: ecco perché bisogna farla. Giuseppe Valditara su Libero Quotidiano il 10 agosto 2022.

Non passa giorno che la sinistra politica e mediatica non sottoponga il centrodestra ad una sorta di esame del sangue europeista. Peccato che proprio questa sinistra sia poco coerente con le direttive di Bruxelles su un tema importante come quello del fisco. Il paragrafo 25 della raccomandazione 616/2022 della Commissione europea, dopo aver sottolineato che il sistema tributario italiano si caratterizza per un peso eccessivo della tassazione sul lavoro, denuncia la forte discontinuità fra le aliquote marginali. Detto in altri termini, vi è una eccessiva distanza fra le aliquote, che andrebbe dunque ridotta. È l'implicito riconoscimento della bontà di un regime fiscale che tenda all'appiattimento fra le aliquote. Insomma è un buon viatico per la flat tax. Questa raccomandazione dovrebbe essere più attentamente considerata prima di sparare a zero contro chi sostiene una riforma che mira ad introdurre nel nostro sistema la cosiddetta flat tax. Le due critiche più forti che si fanno alla tassazione piatta consistono nella sua pretesa insostenibilità economica e nella sua incostituzionalità per difetto di progressività. Andiamo a verificare se queste critiche hanno consistenza con riguardo al ddl presentato in Senato a prima firma Salvini/Siri. Intanto va osservato che già oggi la flat tax si applica a circa 2 milioni di partite Iva, grazie alla riforma fortemente voluta dalla Lega all'epoca del primo governo Conte, con risultati senz' altro positivi.

COSA CAMBIA

Il progetto di legge della Lega prevede tre fasi. Una prima fase alza per le partite Iva la fascia di applicazione della tassa piatta dagli attuali 65.000 euro a 100.000. Sopra i 100.000 euro si continua a pagare l'aliquota attuale. Con la successiva legge di bilancio, è previsto l'avvio della seconda fase che consiste nella applicazione del cosiddetto quoziente famigliare, ovverosia una tassazione modulata sul numero dei componenti il nucleo famigliare. Qui la tassa piatta al 15% scatta per tutti i lavoratori dipendenti e pensionati fino a 50.000 euro, nel caso di famiglia monoreddito, con uno scivolo di graduale adeguamento alle aliquote attuali fino a 55.000 euro. Dopo i 55.000 euro si pagano le imposte secondo la vigente progressività. Per le famiglie bireddito gli scaglioni partono da 65.000 euro con graduale adeguamento fino a 70.000 euro. Per i single la soglia è a 26.000 euro con scivolo fino a 30.000. Il quoziente famigliare prevede poi un meccanismo di deduzioni inversamente proporzionale al reddito e direttamente proporzionale al numero dei componenti il nucleo famigliare. Con buona pace dei critici, la progressività e quindi la costituzionalità della proposta, è incontestabile. Quanto alla copertura, si utilizzano i 7 miliardi di euro già stanziati per la riforma dell'Irpef voluta da Mario Draghi, e altrettanti miliardi da una revisione delle tax expenditures in vigore. Il passaggio alla terza e ultima fase, con la generalizzazione della flat tax per tutti i redditi, è previsto in modo assai equilibrato solo dopo aver verificato il funzionamento delle prime due fasi e comunque non prima di 4 anni.

L'EVASIONE

Sono immediatamente evidenti i benefici di questa importante riforma fiscale: intanto la minore tassazione è destinata a diminuire l'evasione, e quindi a recuperare gettito, secondo un principio di proporzionalità già ben affermato da Luigi Einaudi. Del resto la curva di Laffer dimostra come all'aumento delle tasse corrisponde di norma una diminuzione del gettito. Pagare meno tasse significa poi per i cittadini avere più soldi da spendere e quindi far ripartire i consumi. Lo si è visto esemplarmente al contrario proprio con l'introduzione dell'Imu che causò una significativa contrazione dei consumi delle famiglie, come dimostrato da un interessante studio di Paolo Suricu e Riccardo Trezzi. Far ripartire i consumi vuol dire poi mettere in moto l'economia. Significa anche ridurre la forbice stipendiale con gli altri lavoratori europei: gli stipendi dei lavoratori italiani si collocano infatti agli ultimi posti in Europa e il divario con Francia e Germania è ulteriormente cresciuto negli ultimi due anni. Infine proprio il quoziente famigliare, in un Paese con la più bassa natalità del continente europeo, è destinato a ridurre quello che è il fattore principale che scoraggia la genitorialità, ovverosia l'impoverimento della famiglia all'arrivo di figli. Certo, chi ha inaugurato la campagna elettorale auspicando la patrimoniale non condividerà questa linea di politica fiscale. Ma qui passa il discrimine fra i veri liberali e gli epigoni di Togliatti, di Nenni e di Dossetti.

TASSE, GLI ITALIANI NON SONO OPPRESSI DAL FISCO: LA METÀ VIVE «A CARICO» DEGLI ALTRI. Alberto Brambilla su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022  

«Dobbiamo dare agli italiani quello che si aspettano», dice gran parte della politica. Follie di una strategia che guarda al tornaconto del partito e non vede più in là dei problemi di giornata, mentre il Paese è alle prese con l’inflazione, tassi in rialzo, debito pubblico sempre elevato, siccità e guerra. Ma che cosa si aspettano dal futuro gli italiani? Evidentemente tanto, drogati da promesse e spese insostenibili.

Le promesse dei governi: da Renzi ai 5 Stelle

Si sono prima innamorati di Matteo Renzi dandogli addirittura il 40% di voti alle europee del 2014. Ma la sua parabola è finita nel 2016, nonostante le agevolazioni contributive per oltre 10 miliardi per favorire le assunzioni, il bonus da 80 euro che costa al Paese circa 10 miliardi l’anno dal 2016 e il reddito d’inclusione (il Rei), il papà del reddito di cittadinanza. Ma allora il popolo è cattivo e severo? No, sono i problemi che sorgono quando si promette la luna. Lasciato Renzi, l’assetato popolo dei diritti e dei bonus si invaghisce dei 5 Stelle che promettono un reddito certo, quello di cittadinanza, e un posto fisso per tutti (il decreto dignità); è un plebiscito in Sicilia e un enorme successo a livello nazionale con oltre il 34% di share; il maggior partito in Parlamento che conquista anche Roma e Torino.

Conte 1 e 2: le promesse della Lega

I governi Conte 1 e 2 sono assai criticabili, ma capi e capetti di tutti i partiti incuranti del debito pubblico, allora al 132,08% del Pil, moltiplicano le promesse e con esse cresce la rabbia degli italici che insoddisfatti voltano le spalle al M5S in meno di due anni (Renzi era durato 2 anni e 9 mesi e Berlusconi, che vinse le elezioni del 2001 promettendo le pensioni da 1 milione al mese e l’abolizione dell’Imu e nel 2008 di portare tutte le pensioni a mille euro, cosa che avrebbe sfasciato il sistema pensionistico ma che gli fece vincere le elezioni, nei suoi ultimi 3 governi era durato oltre 9) e si innamorano della Lega di Salvini che promette pensioni per tutti, Quota 100, cancellazione e rottamazione delle cartelle esattoriali (leggasi condono) che alle europee del 2019 raggiunge il 37% di consensi. Le promesse continuano e sono talmente tante e insostenibili finanziariamente che buona parte di esse non viene mantenuta aumentando così il rancore degli italiani verso la politica con un aumento dell’astensionismo. E in meno di due anni anche Salvini cala nei sondaggi e sale un nuovo amore per Giorgia Meloni.

I dati del sistema Italia

Ma quanta verità conoscono questi italiani? Evidentemente poca, molto poca. Forse non sanno che siamo in cima alle classifiche per evasione fiscale; pensano di essere oppressi dalle tasse e invece la stragrande maggioranza di loro non solo non paga nulla ma è anche beneficiaria di tutti i servizi gratis, a partire dalla sanità. Qualche esempio? Il Mef ci dice che quelli che fanno una dichiarazione dei redditi sono circa 41 milioni ma quelli che pagano almeno 1 euro di Irpef sono 30 milioni; ergo metà degli italiani vive «a carico» di qualche altro. Dieci milioni di contribuenti pari a 14,48 milioni di abitanti vivrebbero, in base alle loro dichiarazioni, per un intero anno con meno di 3.750 euro lordi; altri 8,1 milioni dichiarano redditi tra 7.500 e 15.000 euro, pari in media 651 euro al mese; altri 5.550.000 guadagnano tra i 15 e i 20 mila euro lordi l’anno (meno di mille euro al mese!). 

Riassumendo, i contribuenti delle prime due fasce di reddito sono 18.140.077, cioè il 43,68% del totale dei dichiaranti pari a 26,13 milioni di abitanti. Tutti insieme pagano solo il 2,31% dell’intera Irpef cioè circa 4 miliardi, cioè ben 153 euro l’anno. Per il solo servizio sanitario di cui beneficiano gratuitamente, costano ad altri cittadini «volonterosi» ben 50,4 miliardi l’anno. Poi ci sono tutti gli altri servizi forniti gratis da Stato, regioni, comuni, di cui evidentemente si rendono poco conto se evidenziano un continuo malcontento che si riflette nelle urne. 

Se aggiungiamo la terza classe di redditi (da 15 a 20 mila euro lordi l’anno), arriviamo a 34,1 milioni di abitanti poco più del 57%, che messi insieme pagano 14,7 miliardi di Irpef pari all’8,35% del totale delle imposte (431 euro a testa l’anno) e per la sola sanità il costo a carico del 13,07% della popolazione, che dichiara da 35 mila euro lordi l’anno in su, sale a 54 miliardi e a 182 miliardi considerando anche altre due funzioni: scuola e assistenza. Le stesse proporzioni valgono per le imposte indirette.

Appello ai politici

Cari Salvini, Conte, Berlusconi e sindacati, serve altro? Bollette gratis? Pace fiscale e sconti sui contributi? Riduzione dell’inesistente cuneo fiscale solo per i redditi sotto i 35mila euro l’anno, quello sparuto 13,07% di contribuenti pari a meno di 5 milioni di italiani che sono i «nuovi schiavi»? Avete capito che non si possono fare scostamenti di bilancio perché ogni anno già facciamo tra i 30 e i 40 miliardi di nuovo debito? Avete capito che la proposta di riduzione delle tasse sul lavoro è inutile perché il 60% della popolazione non paga quasi nulla? Avete capito che gran parte della differenza tra stipendio netto e costo azienda va a beneficio dei lavoratori e che chiedere uno sconto di 3 punti di contributi devasta il sistema pensionistico? Che portare tutte le pensioni a mille euro costa oltre 30 miliardi l’anno strutturali devastando il sistema previdenziale? Chi paga?

Possibile che la politica non riesca a dire la verità agli italiani e cioè che viviamo molto al di sopra delle nostre possibilità, che è tutto gratis: sanità, scuola, la gran parte dei servizi degli enti locali (dopo che Berlusconi ha eliminato l’Imu), l’acqua e così via; che tra Stato centrale e enti locali vengono elargiti ogni anno oltre 180 miliardi in aiuti e sussidi tutti esentasse (in nero) che ovviamente creano altra evasione Irpef e Iva? Possibile che non sappiate che gli italiani non sono così poveri perché spendono oltre 130 miliardi per giochi e lotterie, che siamo al secondo posto in Europa per possesso di animali da compagnia e al primo posto per prime e seconde case, automobili, telefonia, abbonamenti a pay-tv. Non è ora di finirla con questa politica inetta?

Il patrimonio della libertà. Nel nostro Paese la patrimoniale è un'ossessione. Pompeo Locatelli il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Nel nostro Paese la patrimoniale è un'ossessione. Torna e prova ad affermarsi con una puntualità che impressiona, visto e considerato che la puntualità è un valore che, di norma, non rientra tra le virtù italiche. Specie quando si tratta di cosa pubblica. Mancano i denari (perché sprecati o utilizzati in malo modo) per rispondere ad un'esigenza (poi si tratta di vedere se lo scopo è appropriato ma quello è un altro discorso)? Si ricorra ad una bella tassazione per colpire i patrimoni dei ceti più abbienti, quelli che la vulgata ideologica etichetta con un certo sprezzo i ricchi o, addirittura, i super ricchi.

Così facendo la politica appiattita su visioni di impronta statalista ritiene di svolgere una funzione virtuosa. Lo Stato sperpera? Poco importa: si colpisca il cittadino/contribuente oltre il dovuto. E in modo particolare la categoria dei ricchi. Il morbo novecentesco di matrice sinistrorsa massimalista magari perde il pelo, non certo il vizio. In nome di una presunta giustizia sociale. Le cose stanno diversamente. Il problema di fondo è che l'Italia fatica ad avviare un percorso riformatore in materia di fisco. Manca uno sguardo virtuoso e realistico. Non si vuole mettere mano e in modo coraggioso a una macchina che picchia in testa da tempo immemore.

La flat tax, così avversata dai campioni della patrimoniale è, come noto, un sistema fiscale non progressivo basato su un'aliquota fissa. Una formula equa, moderna, che favorisce un rapporto normale tra il cittadino e l'istituzione pubblica. Una tassazione finalmente ragionevole e non vessatoria verrebbe a garantire un gettito scevro dal tarlo dell'evasione. Sgombrerebbe alla radice l'alibi ad evadere gli obblighi. E, scoperto chi evade, dopo gli opportuni e rigorosi controlli, sarebbe efficace intervenire nei suoi confronti in sede civile. La lezione è semplice: solo la cultura liberale ha nel suo dna il concetto di flat tax. Per il liberale la libertà del cittadino è un patrimonio. Altro che patrimoniale!

Le aziende italiane con sede legale in Olanda (per motivi fiscali). Barbara Massaro su Panorama il 20 luglio 2020.

E' inutile girarci intorno, finché le regole non cambieranno, chi può farlo lo fa. Se, in maniera legale, un imprenditore può decidere di tenere nelle proprie tasche le plusvalenze generate dagli introiti aziendali invece che versarle all'erario sceglierà questa opzione.

Ed è questa una delle ragioni per la quale la maggior parte delle grandi aziende italiane anche a partecipazione pubblica (Enel, Eni, per dirne alcune) hanno trasferito la propria sede legale o fiscale in Olanda.

A livello legale non fanno nulla di male: in nome del principio europeo della libera circolazione di merci e capitali nel territorio dell'Unione è possibile stabile la propria sede in un Paese che abbia un regime fiscale differente dal proprio.

In questo l'Olanda è il Paradiso in Terra pur non essendo un Paradiso Fiscale: semplicemente il diritto societario è meno complesso rispetto ad altrove. A fronte di aliquote che non sono molto differenti da quelle degli altri Paesi UE, infatti, a essere quasi nulla è la tassazione sugli utili. Quindi in maniera trasparente e legittima le plusvalenze societarie restano nelle casse dell'azienda.

Da Fca a Ferrari da Luxottica a Mediaset per finire con Campari, pertanto, quasi tutti i grandi marchi del made in Italy hanno fatto le valigie dirottando ad Amsterdam oltre 30 miliardi di euro che dovrebbero restare nelle casse italiane. Di questi 30 solo 10, però, finiscono al Fisco olandese, gli altri restano nelle tasche delle imprese.

ENI Tra le prime a scegliere il profumo dei tulipani è stata ENI, società fondata dallo Stato italiano nel 1953 e di fatto controllata ad oggi da MEF e Cassa Depositi e Prestiti. Nonostante sia, quindi, un'azienda pubblica il Gruppo multinazionale è presente ad Amsterdam dal 1994 con la Eni International B.V. ed è attiva nei settori di petrolio, gas naturali ed energie rinnovabili.

ENEL Altro big dell'energia che ha preferito il diritto societario olandese a quello italiano è Enel, compartecipata al 23,6% dal MEF. Enel in Olanda si trova attraverso le società finanziarie Enel Finance International N.V. e Enel Investment Holding B.V., che promuovono obbligazioni e altre forme d'investimento incentrate su produzione e distribuzione d'energia elettrica.

EXOR Ma non è finita qui. L'intera famiglia Agnelli, baluardo di quell'Italia imprenditoriale ormai in bianco e nero, ha deciso, nel 2016, di trasferire i propri affari nei Paesi Bassi stabilendo lì la sede legale della holding di famiglia. Exor, infatti, rappresenta forse la più importante delle aziende italiane con sede in Olanda in quanto azionista di maggioranza di FCA, Ferrari, Juventus F.C. e dei gruppi editoriali GEDI e The Economis.

FCA Anche con la fusione di FCA e PSA la sede legale di Fiat Chrysler resterà ad Amsterdam dove si trova la holding Fiat Chrysler Automobiles N.V. controllata a sua volta da Exor. Il gruppo automobilistico ha scelto l'Olanda nel 2014 e da lì non si è più mossa. F

ERRARI Restando in ambito automobilistico il cavallino rampante orgoglio del made in Italy versa le tasse ad Amsterdam e non a Roma da diverso tempo. Ferrari, infatti, è proprietà di New Business Netherlands N.V., rinominata Ferrari N.V. dopo lo scorporo da FCA di gennaio 2016, restando però sotto il controllo di Exor; nel 2018 ha stipulato un accordo con l'Agenzia delle Entrate e mantiene sede in Olanda.

MEDIASET Da Cologno Monzese ha preso un biglietto di sola andata per Amsterdam anche Mediaset che ha creato la holding MFE (Media For Europe) rafforzando il suo controllo sulla spagnola Mediaset Spagna e sulla tedesca ProsiebenSat.1.

CEMENTIR La multinazionale italiana del cemento e calcestruzzo - Gruppo Caltagirone – è in Olanda dal 2019 con lo scopo di evitare scalate dall'estero al gruppo vista la legislazione olandese in fatto di quote societarie.

LUXOTTICA La sede legale è in Olanda dal 1999 ed è tra le aziende pioniere nel trasferimento all'estero per eludere il Fisco italiano

FERRERO La multinazionale dei dolci ha sede fiscale all'estero praticamente da sempre. Nel 1973 aveva stabilito di pagare le tasse secondo il sistema lussemburghese per poi virare verso l'Olanda più di recente tramite il solito gioco delle scatole cinesi delle holding

Da ILLY a CAMPARI L'elenco è molto lungo e conta decine di aziende che ogni anno fanno le valigie e si sottraggono alle regole italiane beneficiando delle agevolazioni fiscali olandesi. L'ultima, in ordine di tempo, è stata Campari che da Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, ha lasciato tutto per volare a Amsterdam. Stessa scelta già fatta da Illy come da Prysmian, da Telecom Italia come da molte altre.

Olanda, da Fca a Ferrero e Mediaset ecco i gruppi italiani con sede ad Amsterdam. E la Ue vieta di escluderli dagli aiuti pubblici. Nel paese dei tulipani anche Eni, Enel, Luxottica, Illy, Telecom Italia, Prysmian e la Cementir. Il Paese formalmente non ha aliquote bassissime ma sono ridotti o inesistenti i prelievi su dividendi, guadagni da cessioni di partecipazioni, royalties. Francia, Danimarca e Polonia hanno deciso di escludere da contributi statali le società con sedi in paradisi fiscali. Per Bruxelles questa distinzione è contraria ai principi della libera circolazione dei capitali. Mauro Del Corno su Il Fatto Quotidiano il 3 maggio 2020. 

I gruppi italiani che hanno sede o filiali nei Paesi Bassi sono tanti. Fca e Ferrari hanno qui la loro sede legale, la Exor della famiglia Agnelli quella fiscale. Sede legale ad Amsterdam anche per Mediaset, ma ad aver creato holding qui sono pure alcune delle più importanti partecipate italiane: Eni, Enel e Saipem. In viaggio verso il paese dei tulipani anche Campari che sta per trasferire qui la sua sede. E poi Luxottica, qui dal 1999, Ferrero, Illy, Telecom Italia, Prysmian e la Cementir di Caltagirone. Le banche tendono invece a preferire i regimi fiscali di Irlanda e Lussemburgo. Uno dei grimaldelli impiegati negli ultimi anni per recuperare una piccola parte dei proventi fiscali sottratti in questo modo agli altri Paesi è stato contestare gli aiuti pubblici, proibiti da Bruxelles quando ledono la concorrenza. Ma la Commissione proprio in questi giorni ha sancito che – in nome della libera circolazione dei capitali – i piani di salvataggio pubblico adottati a causa dell’emergenza Covid non possono escludere chi ha la sede in un altro Stato.

Zone grigie e paradisi non dichiarati – Non è corretto fare processi alle intenzioni. Avere una sede in Olanda non significa automaticamente adottare comportamenti fiscalmente discutibili. Può trattarsi di trasparente e legittima ottimizzazione fiscale e scelte di corporate governance. Ma le zone grigie sono molte e trincerarsi dietro lo scudo arancione è facile. L’Olanda, ad esempio, non fa parte della lista dei paradisi fiscali stilata dall’Unione europea. Esclusione dettata da ragioni politiche. In materia di fisco l’Ue richiede l’unanimità dei voti (quindi compresi quelli di Olanda e Lussemburgo) per apportare modifiche. Le grandi aziende europee che approfittano dei vantaggi del fisco arancione fanno pressione sui loro governi per fare in modo che nulla cambi. Anche l’Ocse dispone di dati che sarebbero preziosi per aumentare la trasparenza sulle pratiche fiscali del paese, però non li rende pubblici a causa di veti di paesi membri. Così si va per deduzioni e per vie indirette.

Addio a 72 miliardi di profitti che finiscono in Olanda – L’Olanda è un buco nero che, ogni anno, risucchia dai paesi membri fino a 72 miliardi di euro di profitti aziendali. Una montagna di denaro che ricompare, molto rimpicciolita, ad Amsterdam. Quasi 10 miliardi di euro finiscono al fisco olandese, il resto rimane nelle casse delle multinazionali. Le stime sono dell’economista Gabriel Zucman, tra i più esperti e attenti osservatori del fenomeno a livello globale. Dalla sola Italia spariscono ogni anno profitti per quasi 30 miliardi di euro e di questi più di 3 miliardi finiscono in Olanda che in questo modo sottrae quasi un miliardo di euro all’anno al fisco italiano. Per contro quasi il 40% del gettito da tassazione sui profitti di impresa del paese dei tulipani deriva da questo scippo.

Ma perché l’Olanda è un forziere particolarmente difficile da scardinare? Formalmente le sue aliquote fiscali non sono particolarmente diverse da quelle di molti altri paesi europei. I prelievi sono però estremamente ridotti o inesistenti se si parla di dividendi, guadagni da cessioni di partecipazioni, interessi incassati da prestiti infra gruppo, royalties e quant’altro. Così le multinazionali stabiliscono qui le loro holding (società che hanno in pancia le partecipazioni chiave di un’impresa) e costruiscono strutture di gruppo artificiose per far affluire denaro sotto queste forme. Non solo.

Consulente Oxfam: “Accordi fiscali riservati permettono di ridurre la tassazione” – “Destano preoccupazione gli accordi fiscali riservati che i Paesi Bassi, come anche altri Paesi Ue, hanno siglato e continuano a siglare con le imprese multinazionali che verosimilmente permettono di ridurre in modo consistente il livello effettivo di tassazione delle corporation”, spiega Misha Maslennikov, consulente di Oxfam Italia in tema di fisco. “L’Olanda”, continua Maslennikov, “ha inoltre in essere un ampio network di convenzioni fiscali con altri Paesi che hanno natura particolarmente restrittiva, permettendo un abbattimento significativo delle aliquote sulle ritenute alla fonte per diverse fattispecie di reddito d’impresa che fluiscono verso Amsterdam”.

L’incredibile produttività di lussemburghesi, svizzeri e olandesi – Non è un caso se nella classifica globale dell’associazione Tax Justice Network, che denuncia e combatte pratiche fiscali scorrette, i Paesi Bassi vengano solo dopo Isole Vergini, Bermuda e Isole Cayman quanto a opacità delle pratiche fiscali. Una delle tecniche utilizzate è quella di valutare la discrepanza tra le risorse che una società possiede in un determinato paese (dipendenti, uffici) e gli utili che qui realizza. Incrociando questi dati si scopre che ogni singolo, e a quanto pare fenomenale, dipendente lussemburghese genera profitti per oltre 8 milioni di euro. Uno svizzero 760mila, in Olanda 530mila. La media di tutti gli altri paesi europei è di 60mila euro per dipendente, con Italia e Germania allineate intorno ai 42mila e Francia a 33mila.

Il grimaldello degli aiuti pubblici… – Uno dei grimaldelli impiegati in questi anni per recuperare una piccola parte del maltolto è stato quello degli aiuti pubblici, proibiti da Bruxelles quando ledono la concorrenza. Accordi tra azienda ed erario che abbassino sotto certi limiti il livello del prelievo sono stati equiparati ad indebite agevolazioni. In alcuni casi si è arrivati a condanna nonostante l’opposizione, scontata, dei gruppi coinvolti ma anche dei soliti Lussemburgo, Irlanda e Olanda che si battono in aula per rafforzare la loro immagine di cani da guardia degli utili di azienda.

…e lo stop della Commissione: “No all’esclusione in base a dove è la sede” – In questa fase drammatica per il futuro economico dell’Europa i governi avrebbero avuto un’arma in più. Se la Commissione Ue non si fosse messa di mezzo. Francia, Danimarca e Polonia hanno infatti deciso di escludere dall’erogazione di aiuti pubblici le società con sedi in paradisi fiscali. Bruxelles, che predica bene ma razzola molto male, ha però puntualizzato che questa distinzione è contraria ai principi della libera circolazione dei capitali a sci sono improntati i trattati europei. Davvero un peccato anche perché sarebbe giusto che i contribuenti che pagano gli aiuti sapessero a chi stanno dando i loro soldi, come sottolinea Maslennikov. “Sarebbe opportuno che anche il nostro Parlamento emendasse in fase di conversione il DL Liquidità inserendo l’obbligo per le società italiane che fanno parte di grandi gruppi multinazionali e richiedono garanzie statali su nuovi finanziamenti di rendere pubbliche le proprie rendicontazioni paese per paese”, ragiona l’esperto di Oxfam Italia. “Volete il nostro supporto? Ben venga, ma vi chiediamo di permettere a cittadini e parlamentari un maggior scrutinio sulla vostra strutturazione societaria globale e sul livello di contribuzione fiscale in ciascun Paese in cui operate” conclude.

Luca Dondoni per “La Stampa” il 20 luglio 2022.

Da anni ha lasciato l’Italia per trasferirsi in pianta stabile a Los Angeles. Ma c’è qualcuno che ha continuato a scrivergli con una certa assiduità: l’Agenzia delle Entrate. Tiziano Ferro è di nuovo alle prese con la guerra che va ormai avanti da anni con il fisco. 

L'ultima battaglia è stata persa: il tribunale di Latina ha convalidato l'esecuzione esattoriale del fisco nei confronti del cantante per 9 milioni di euro. Società destinataria del pignoramento è la Tzn Srl, società che fa capo al cantante di Sere nere che tra il 2006 e il 2008, quando Tiziano risiedeva in Gran Bretagna, avrebbe omesso di versare delle tasse Irpef, Irap e Iva per somme che oggi hanno maturato la richiesta milionaria.

In pratica, gli si contestava di aver preso la residenza nel Regno Unito, a Manchester soltanto per poter godere di un regime fiscale più benevolo. Assolto da ogni accusa sul fronte penale, restava il fronte tributario: e il contenzioso con l'erario si era concluso con la condanna di Ferro a risarcire il fisco, che aveva monitorato con dovizia tutte le somme spostate e le spese sostenute per viaggi, documentando la presenza dell'artista anche ai concerti e in tv.

Una decisione divenuta definitiva dopo il pronunciamento della Cassazione in cui i giudici sostenevano pure che era giusto infliggere sanzioni più pesanti a un personaggio famoso che, molto più di tutti gli altri, ha modo (e mezzi) di informarsi su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. 

E cioè «in possesso – scrissero ai tempi i giudici – degli strumenti necessari per valutare la giustezza di un determinato comportamento, il quale, essendo la sua condotta "pubblica" , ha, rispetto ad altri contribuenti, "maggiormente l'onere di una condotta etica"». Il cantante, che a Los Angeles vive con il marito Victor e ora anche con i due bambini che hanno adottato, ha sempre sostenuto che la sua residenza nel Regno Unito non fosse affatto una farsa, che anzi allontanarsi da Latina era un fatto profondamente legato alle difficoltà a vivere pubblicamente la sua omosessualità. 

Se sul fronte penale ha avuto ragione e ne è uscito pienamente assolto, sul fronte tributario i giudici hanno invece continuato a contestargli «la natura dolosa del comportamento». Fino alla puntata, di cui si è saputo ieri: la richiesta della sospensione del pignoramento delle somme da parte dei legali della Tzn Srl, respinta dal tribunale di Latina. Ma non è detto che sia l'ultima puntata.

Maria Corbi per “La Stampa” il 20 luglio 2022.

Il tormentato rapporto tra le tasse e gli italiani non risparmia certo i vip. Anzi. E i giudici della Cassazione con riferimento al «caso» Tiziano Ferro hanno sottolineato come chi «ha un elevato livello economico e culturale, avrebbe dovuto avere un comportamento più etico». 

E chi ha orecchie per intendere intenda. Oltre alla pop star di Ti scatterò una foto sul red carpet «fisco me ne infischio» troviamo una folla di star nostrane. In molti hanno chiarito, altri hanno patteggiato, o sono stati condannati. 

L'unica ad aver affrontato il carcere però è stata Sophia Loren che nel 1982 venne condotta al penitenziario di Caserta, mettendo fine così a un lungo «esilio» negli Usa. La famiglia e il lavoro in Italia imponevano quella scelta. Di quei 17 giorni dietro le sbarre Sophia ricorda soprattutto la porta della cella che si chiude: «Quel tonfo che fa male quando sai di non avere le chiavi».

Una vicenda che si è trascinata per 40 an-ni ed è finta con una assoluzione e le «scuse» della Cassazione: non sarebbe dovuta andare in carcere. Le responsabilità fiscali attribuite al suo commercialista. E non è certo stato l'unico professionista ad essere coinvolto nelle cartelle esattoriali dei clienti. 

Mara Venier nel 1993 ha rimesso i suoi debiti per una cifra pari a 162 milioni di lire. «Sì, mi ha truffata, derubata, derisa, ingannata», ha spiegato la conduttrice. «E adesso, per evitare il peggio, ho dovuto pagare di corsa anche il condono... tutto questo perché uno si fida del proprio commercialista e non immagina che al posto di versare l'Iva o l'Irpef, intasca gli assegni senza dire nulla».

Nel 1996, Anna Oxa dovette pagare una multa di un milione e 250 mila lire su compensi per sponsorizzazioni ricevuti in nero. Ha patteggiato Gianna Nannini accusata di aver evaso circa 4 milioni di euro tra il 2007 e il 2012 avendo fatto confluire i suoi guadagni in società costituite in Stati con regimi fiscali più «benevoli».

Nello sport la lista è lunga. Valentino Rossi, nove volte campione del mondo, nel 2007, si è visto contestare la residenza «fittizia» a Londra, al fine di evitare il pagamento dei tributi in Italia. Qualche anno fa ha chiuso il contenzioso (si parla di 60 milioni di euro). «Brutta vicenda - ha commentato il campione- ero in una ragnatela da cui non potevo uscire, però ho pagato ed è iniziata una nuova vita».

Il gruppo di vip «furbetti» che cerca di abbassare le aliquote costituendo società di diritto estero o emigrando la residenza è nutrito. Ma in pochi sfuggono alla lente dei Bond del fisco. Ezio Greggio sette anni fa ha concluso la sua «cartella» con un assegno di 45 mila euro senza menzione nel casella-rio penale. Anche qui per imposte non versate da una società irlandese che gestiva i suoi diritti. Oggi ci tiene a chiarire che riga dritto.

Nel 2000 toccò a Pavarotti, anche per lui chiusura della vicenda con un versamento di 25 miliardi li lire, alle casse dello Stato Aveva trasferito il suo domicilio a Monaco ma secondo gli agenti del Fisco molte delle sue attività si svolgevano in Italia. Stessa sorte per Giancarlo Fisichella: il suo trasferimento a Montecarlo tra il 1998 e il 2002 sarebbe stato solo un escamotage. 

Cartella esattoriale che ammontava a 17, 2 milioni di euro. Cifra ridotta a 3, 8 milioni dopo l'accordo. Nel gruppo degli emigranti di lusso a Montecarlo anche Rosanna Lambertucci e Katia Ricciarelli. Una residenza nel paradiso fiscale poco credibile per gli esattori italiani, anche per loro cartella, multa e accordo.

Poi c'è il caso Briatore per la vicenda legata al noleggio dello Yacht Force Blue. «Nel Maggio 2010, ha raccontato l'imprenditore su Instagram a fine gennaio di quest'anno, la Guardia di Finanza mi ha sequestrato la barca e sui media di tutto il mondo usciva la notizia che ero un evasore fiscale. Oggi, dopo 12 anni e 6 processi, si è finalmente accertata la mia innocenza». 

Revocata anche la confisca dell'imbarcazione. Peccato che fosse già stata venduta all'asta dallo Stato senza attendere la sentenza definitiva. Il compratore è Bernie Ecclestone, grande amico di Briatore. Ma questa è un'altra storia.

(ANSA il 5 luglio 2022) - Nei mesi di gennaio-maggio 2022 le entrate tributarie erariali ammontano a 188.674 milioni di euro, con un incremento di 18.562 milioni di euro rispetto allo stesso periodo del 2021 (+10,9%).

Il Mef fa sapere che il "significativo incremento" è influenzato da tre fattori: dal trascinamento degli effetti positivi sulle entrate che si sono determinati a partire dal 2021, dagli effetti del decreto Agosto, che nel biennio 2020-2021 avevano disposto proroghe, sospensioni e ripresa dei versamenti con possibilità di rateizzazione e, infine, dagli effetti dell'incremento dei prezzi al consumo che hanno influenzato, in particolare, la crescita del gettito dell'Iva.

Così scatta la spia del Fisco sulle carte di credito. Alessandro Imperiali il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.

La Camera approva il Pnrr 2. L'Agenzia delle Entrate avrà i dati delle transazioni giornaliere delle carte di credito. Ecco cosa saprà di noi. 

È arrivata l'approvazione definitiva anche da parte della Camera dei deputati del cosiddetto Pnrr 2. Tra le novità anche il fatto che i dati delle carte di credito dovranno essere segnalate all'Agenzia dell'entrate.

Il decreto del 30 aprile 2022 n.36 intitolato "Ulteriori misure urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza" è stato quindi convertito in legge (n. 79/2022, in G. U. n.150 del 29/6/2022). La votazione ha riportato 316 favorevoli, 24 contrari e un astenuto. Come riporta ItaliaOggi, quando è stato presentato per la prima volta era composto da 50 articoli frazionati in 168 commi. Ora, invece, contiene 72 articoli in 280 commi. Come detto all'inizio, tra i provvedimenti che più farà discutere c'è l'articolo 18 che introduce modifiche alla disciplina della trasmissione dei dati di pagamento delle carte di credito e bancomat.

Cosa prevede

"Gli intermediari che mettono a disposizione degli esercenti sistemi di pagamento elettronico siano tenuti a trasmettere all'Agenzia delle entrate, oltre alle commissioni addebitate, e i dati identificativi degli strumenti di pagamento, anche gli importi complessivi delle transizioni giornaliere effettuate mediante tali strumenti", questo è scritto nell'articolo. Il passaggio di trasmissione dati, inoltre, accadrà sia nel caso di un consumatore finale sia di un operatore economico.

In questa maniera l'Agenzia delle Entrate potrà incrociare i dati di pagamento digitale con carta con quelli relativi agli scontrini elettronici emessi dagli esercenti. Il fine è poter realizzare controlli di congruità tra scontrini emessi e pagamenti ricevuti.

L'articolo 18, inoltre, prevede l'estensione della fattura elettronica anche per chi ha una partita iva a regime forfettario. Dal primo luglio 2022 i soggetti che l'anno precedente hanno conseguito ricavi superiori ai 25mila euro dovranno emettere fattura elettronica. Per tutti gli altri questo giorno arriverà il primo gennaio 2024.

Infine, anche la riforma della lotteria degli scontrini potrà diventare istantanea con provvedimenti del direttore dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli d'intesa, però, con l'Agenzia delle entrate.

Da repubblica.it il 6 dicembre 2022.

Uno strumento di semplificazione dei pagamenti per i consumatori o una "tassa occulta" per i commercianti? Il governo Meloni, facendo scattare le sanzioni per la mancata accettazione di pagamenti elettronici solo a partire dai 60 euro, ha riacceso il dibattito sull'argomento. 

Bankitalia, Corte dei Conti, Cnel: tutti gli osservatori "tecnici" che hanno detto la loro opinione in merito alla Manovra - nel corso delle audizioni parlamentari - hanno spiegato come il mix di rialzo del tetto al contante e l'intervento sui pagamenti digitali sia un segnale negativo per la lotta all'evasione. Vista dagli occhi dei negozianti, la partita si gioca sui costi. Ma davvero il costo dei Pos rischia di mettere in ginocchio i commercianti proprio ora che sull'economia italiana si affaccia lo spettro della recessione? Ecco di che numeri si parla.

Quanto pagano i commercianti per il Pos

Come qualsiasi servizio bancario, ogni esercente può scegliere tra i diversi servizi offerti dagli operatori. In Italia nel mercato dei pagamenti i principali attori sono Nexi, anche in partner con Intesa Sanpaolo, Unicredit, SumUp e Banca Sella. Per i commercianti l'onere si compone essenzialmente di due voci: il costo di acquisto del dispositivo (o il canone di abbonamento) e quello delle commissioni sui pagamenti processati.

In caso di acquisto, quindi senza canone, la cifra varia dal tipo di Pos ma sul mercato si trovano dispositivi già a partire da 29,99 euro, con la cifra che può salire in caso di prodotti tecnologici più sofisticati. Questo tipo di soluzione è l'ideale per chi deve fronteggiare pochi pagamenti quindi non ha convenienza a sostenere un abbonamento mensile e che tuttavia presenta anche le commissioni più alte. 

Diverso il caso delle offerte con un canone mensile. Nexi ad esempio, offre una soluzione a 14,50 euro al mese (a cui si aggiungono 79 euro di installazione), Unicredit offre un abbonamento mensile a 2,90 per il solo servizio e senza costi di attivazione, Intesa ha un canone mensile azzerato per il Pos mobile e virtuale sottoscritto dai nuovi clienti, per un anno, e parte da 8 euro per il Pos fisso. 

Il costo delle commissioni

Anche per quanto riguarda le commissioni le somme variano a seconda delle offerte. SosTariffe a settembre stimava costi variabili tra l’1,4 e l’1,7% tra bancomat e carte, un punto percentuale in meno di cinque anni prima: sul suo sito Unicredit propone 0,9%; Intesa segnala commissioni che partono da un minimo di 0,55% per transazioni effettuate da clientela con carte italiane, e un valore medio applicato alle Pmi clienti dell'1%; Nexi un importo variabile tra lo 0,99% per bancomat e prepagate e il 2,49% per i circuiti Visa e Mastercard tradizionali. 

In molti però applicano condizioni promozionali che azzerano le commissioni sugli acquisti più bassi, fino a 10 o 15 euro. Ancora più economiche le condizioni offerte da Satispay che azzera di default le commissioni fino a 10 euro, quindi non solo in via promozionale, e fissa una commissione fissa da 20 cent oltre questa soglia, indipendentemente dall'importo. 

Gli sconti fiscali

Va detto comunque che nel corso degli ultimi anni il governo è intervenuto e continua ad intervenire per mitigare i costi per gli esercenti. Fino a tutto il prossimo anno è riconosciuto un contributo fino a 50 euro, attraverso credito di imposta (cioè una riduzione del totale delle tasse da versare), per l’acquisto dei dispositivi Pos. A queste si aggiunge un ulteriore credito di imposta pari al 30% delle spese sostenute per commissioni per chi fattura fino a 400 mila euro. Cioè il 30% di quanto pagato torna indietro come minori tasse versate.

Tetto al contante vs Pos e va in scena la solita guerra tra poveri. Cristiana Flaminio su L'Identità il 6 Dicembre 2022

Siamo sulla soglia di una guerra commerciale tra Europa e Stati Uniti. Ma in Italia è meglio appassionarsi alla guerra del contante. Tra Bruxelles e Washington l’armonia si è incrinata. È quasi come ai tempi della bocciatura del Ttip, il trattato che avrebbe dato il via libera all’invasione dei mercati europei da parte dei prodotti Usa. La situazione, secondo gli osservatori, può solo peggiorare. Specialmente se una voce americana autorevole come è quella di Politico, ha parlato del rischio di un braccio di ferro commerciale tra i due poli del mondo occidentale. Eppure in Italia, mentre fuori infuria la tempesta, ci si appassiona a Pos e tetto al contante.

Bankitalia, tanto per cominciare, ha bocciato senz’appello le mosse del governo. “Soglie più alte per il contante favoriscono l’economia sommersa”, ha tuonato Fabrizio Balassone, capo del Servizio struttura economica del dipartimento Economia e Statistica di Palazzo Koch: “I limiti all’uso del contante, pur non fornendo un impedimento assoluto alla realizzazione di condotte illecite, rappresentano un ostacolo per diverse forme di criminalità ed evasione”. Quindi Balassone ha spiegato che “il contante ha costi legati alla sicurezza, come quelli connessi ai furti, trasporto valori e assicurazione” e pertanto “per gli esercenti il costo del contante in rapporto al valore della transazione è superiore a quello di carte di debito e credito”.

Anche il Cnel è a dir poco scettico sulle mosse del governo in materia di contante e pos. Il presidente Tiziano Treu ha spiegato che “la lotta all’evasione fiscale è fondamentale. Abbiamo per mesi organizzato un’analisi complessa di tutto il sistema fiscale, con proposte di riforma. Il nostro è un sollecito forte a continuare questa lotta e alcuni provvedimenti non aiutano in questa direzione, ma rischiano di andare in senso contrario, in particolare quelli sull’uso del contante”. E dunque. “La diffusione della moneta elettronica è importante perché favorisce la verifica e l’effettività delle risorse trasmesse e anche perché è utile per tante operazioni di tracciabilità per l’Agenzia dell’entrate”. Infine la stoccata sui “condoni, anche se si è precisato che non si tratta di condoni veri e propri ma di una rottamazione delle cartelle e della riduzione sanzioni, non aiutano”.

Insomma, chi preferisce il contante aiuta l’evasione e la criminalità. È una guerra ideologica, ormai. E infatti il presidente onorario di Unimpresa, Paolo Longobardi, invita tutti al buon senso parlando di “incomprensibile querelle” sui temi di pos e contanti. “L’obbligo di accettare pagamenti con le carte di credito e il Bancomat, con il livello minimo per commercianti e partite Iva portato da 30 euro a 60 euro con la legge di bilancio, sta generando una incomprensibile querelle tra le forze politiche: chi associa l’alzamento della soglia per i Pos a un aumento dell’evasione fiscale commette, infatti, un errore grossolano. Questa norma, insomma, non agevola l’evasione fiscale e chi paga in contanti riceve o può pretendere lo scontrino”. Longobardi poi ha invitato i critici a guardare più in là: “Ma davvero si vuol convincere la pubblica opinione che il problema è l’evasione nella fascia di pagamento tra 31 e 60 euro? Chi sostiene questa tesi è in malafede e dimentica i miliardi di euro, per esempio, non pagati dai giganti del web per i quali non si vedono iniziative particolarmente aggressive”. Insomma, un’autentica beffa per i piccoli commercianti, tacciati (loro) di essere potenziali evasori a fronte degli affari dei cosiddetti Over the top.

La guerra al contante. Delirio di Miss Ricottina: “Viva il Pos, ci pago pure l’elemosina”. L’apologia del contactless by Caterina Soffici da Londra: “Italiani con rotoli di banconote bersaglio dei borseggiatori”. Nicola Porro il 6 Dicembre 2022.

Incredibile il pezzo di oggi sulla Stampa di Caterina Soffici. Ricordate? Quella che scopre il male della Brexit, quando va nel suo supermercato Tesco di Londra per comprare la “ricottina” d’importazione e capisce che è aumentata di prezzo? Bene, oggi, con lo stesso criterio, la signora Soffici ci spiega che nei luoghi della City dove va lei nessuno accetta il cash. Neppure nella pizzeria dove c’è “la pizzeria napoletana con forno a legna e bordo alto”. Il non detto è che anche gli italiani che vanno all’estero non accettano il contante.

Vi chiedo: secondo voi, questa indagine svolta nel centro chic di Londra dove lei vive, quanto è affidabile? No, perché questi radical chic ragionano come se il loro mondo fosse quello di tutti. O peggio ancora ragionano così: se loro vogliono il cash, allora tutto il mondo deve volere il cash. Sì, il piccolo mondo della Soffici diventa tutto il mondo.

Ma non è finita. La Soffici regala sempre sorprese. Anche in coda. State a sentire: “Addirittura – scrive -, si può fare l’elemosina in chiesa contactless. E si può comprare contactless anche ‘The Big Issue’, il giornale di strada più diffuso al mondo, venduto dai senzatetto o da persone in condizioni di vulnerabilità (principalmente ex alcolizzati), in modo da offrire loro l’opportunità di guadagnarsi un salario e reinserirsi nella società. Offerta minima 3 sterline”. Infine, leggete il finale del suo pezzo: “C’è anche una storiella, ma forse è solo una leggenda metropolitana, sugli italiani e il cash. Si dice the gli italiani e gli arabi siano i bersagli preferiti dei borseggiatori di turisti in zona Piccadilly e Oxford Street. Hanno rotoli di succose banconote che chiedono solo di cambiare tasca”.

Che dire? Sono senza parole… Siamo arrivati a questo: alla leggenda metropolitana degli italiani e degli arabi borseggiati a Londra perché vanno in giro con il contante…

Picchiano sul Pos per picchiare duro Meloni. Il podcast di Alessandro Sallusti del 7 dicembre 2022

Pos o non pos? Basta, non se ne pos più.

Questa discussione sull’uso obbligatorio dei pagamenti elettronici, altrimenti detta pos, con un subordine di un tetto minimo di spesa, sta diventando stucchevole. E dire che le cose sono abbastanza chiare, nel senso che non ci sono prove evidenti che l’uso del contante, a meno che uno non sia delinquente, incida in modo significativo sull’evasione fiscale. Anche perché hai voglia a riciclare un eventuale nero da caffè, cappuccini, sigarette e piccole spese.

Non ci sono indicazioni neppure dalla Banca Centrale Europea per limitare l’uso e la circolazione del contante. Anzi, semmai il contrario, perché il contante resta l’unico sistema di pagamento a valore legale. La questione, quindi, ha più che altro un valore simbolico e culturale, nel senso che un governo di destra, coerentemente, sostiene che ognuno dei suoi soldi ne fa l’uso che vuole, nei modi che meglio crede…

Vorrei ma non Pos. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022.  

Le due Italie non comunicanti si sono incontrate su un taxi di Genova. Silvia Salis, vicepresidente del Coni, ha chiesto di pagare la corsa col bancomat, ma il conducente le ha digrignato addosso che per le banche era finita la pacchia. La Salis è un’ex campionessa di lancio del martello (senza falce: lo preciso per gli allergici al Pos che le avessero già dato della comunista) ma, anziché tirarne uno addosso al tassista, ha parlato in pubblico della sua disavventura. E ha detto di essere rimasta colpita dal senso di legittimazione che sembrava ispirare il comportamento aggressivo dell’interlocutore. Del genere: adesso comandiamo noi.

Viviamo tempi rovesciati, dove ti tocca sentirti in colpa se usi la carta di credito o indossi la mascherina in una stanza piena di gente che scatarra. Eppure, quando mi sono imbattuto in soggetti come quel tassista e ho preteso di far valere le mie ragioni con l’indignazione invece che con la persuasione, ho ottenuto il bel risultato di non insinuare alcun dubbio nella controparte, semmai di fortificarla nelle sue convinzioni, passando oltretutto per saccente. Da qualche tempo, diciamo da circa un quarto d’ora, avrei perciò deciso di cambiare strategia. La prossima volta che incontrerò un fanatico del contante, ascolterò il suo sfogo con comprensione, ripetendomi il mantra che chiude il capitolo XXXI dei Promessi Sposi: «Anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire». Sentendosi finalmente capito e non giudicato, magari si commuove e accende il Pos.

Vorrei ma non pos. Storia del mio cosino rosa e dell’infallibile tecnica per far accettare la carta ai tassisti. Guia Soncini su L’Inkiesta il 6 Dicembre 2022.

Se sai farmi la piega esattamente come la voglio in dodici minuti, per me meriti di evadere le tasse senza che nessuno si permetta d’obiettare. Ma se vuoi che paghi il taxi in contanti mi fingo beota e non andrò mai a prelevare

Sabato mattina alle otto e mezza avevo smarrito il cosino rosa. Lo smarrimento del cosino rosa è una costante delle mie partenze, esso viene inghiottito dal disordine più spesso di quanto accada al cellulare, molto più spesso di quanto accada alle chiavi. Con la differenza che il cosino rosa non posso farlo squillare, né posso usarne una copia.

Il cosino rosa è un aggeggio di pelle che contiene le carte di credito e la carta d’identità e la carta dei punti fragola (di gran lunga il suo più importante contenuto). Il cosino rosa è piccolo, il che mi permette di uscire senza borsa o con la Trio (che è la più bella borsa mai prodotta ma un vero portafoglio dentro mica ci sta). Il cosino rosa è piccolo, il che fa sì che si perda spesso.

A volte lo smarrimento del cosino rosa è più drammatico, a volte meno. Sabato mattina alle otto e mezza non era particolarmente drammatico: stavo andando a lavarmi i capelli, e il mio parrucchiere, l’unica volta in cui ho provato a dargli una carta di credito, l’ha guardata come un topo morto.

Lo so che ci sono, là fuori, personcine ligie che mai andrebbero da un parrucchiere evasore, ma io sono per una fiscalità punitiva: se sai farmi la piega esattamente come la voglio, e sai farmela in dodici minuti, per me meriti di evadere le tasse senza che nessuno si permetta d’obiettare. Quindi io, che non uso mai i contanti, faccio un bancomat ogni tre mesi, e lo faccio solo per avere in casa una scorta di banconote per il parrucchiere (ammesso che al momento di andarci ne trovi una: esse sono quasi più scivolose del cosino rosa).

Tra l’altro il parrucchiere soffre d’un’evidente forma dissociativa: egli non sa di non avermi mai fatto uno scontrino, l’ho capito il giorno che gli ho detto che i tassisti scioperavano, e lui ha inveito dicendo che non pagano le tasse. Evasori fiscali, così come raccomandati, son sempre gli altri.

Lo smarrimento del cosino rosa sarebbe potuto diventare un drammaticissimo dramma tre ore dopo, quando avrei dovuto prendere un treno e dei taxi e poi andare in un albergo: come diavolo li pago i taxi, come diavolo dimostro la mia identità all’albergatore? (Questa questione del documento d’identità negli alberghi, cascame degli anni del terrorismo quando la questura doveva sapere chi dormiva dove, vogliamo risolverla o resta lì come le accise della guerra d’Abissinia?).

Ma mancavano appunto tre ore: dodici minuti per farmi lavare i capelli e poi ho più di due ore per cercare il cosino rosa prima della partenza. Esco con una banconota trovata in fondo a una borsa mentre cercavo invano il cosino rosa, e sono persino in anticipo: posso prendere un cappuccino.

Al bar dove lo fanno buono non c’è la solita folla: sono le otto e mezza d’un piovoso sabato mattina, in giro per la città ci sono solo io. È nel bar deserto che noto una scritta che non avevo mai visto, e che nei giorni normali (quelli senza contanti) non m’avrebbe fatto impressione. Sopra la cassa, campeggia un “cards only”. Resto senza cappuccino, ma ho l’aneddoto che stroncherà tutte le conversazioni sul pos: l’Italia come la California, i bar rifiutano i contanti.

Vado dal parrucchiere, torno a casa, e dopo accurata perquisizione trovo il cosino rosa dentro la sportina di stoffa che ho usato il giorno prima per andare in farmacia. Il taxi prenotato arriva, e quando arriviamo in stazione gli do la carta. Tra il momento in cui la prende e quello in cui mi ridà la valigia, mi arringa sulle commissioni, «che alla fine son 30, 40 euro al mese». Penso: ma non è l’uno per cento? Quattromila euro d’incassi? Ammazza. Non dico niente, sorrido: l’unico insegnamento che è riuscita a trasmettermi Natalia Aspesi è non discutere coi tassisti, ma sorridere con aria beota.

Una volta, per risparmiarmi le discussioni, chiedevo al centralino un taxi da pagare con la carta, o ai posteggi chiedevo se accettassero la carta prima di salire. Poi ho capito che non serve: il pos ce l’hanno tutti, se quella alla quale hai già fornito il servizio non ha contanti è comunque meglio la carta che non farsi pagare.

O almeno, questo ho creduto fino a domenica. Quando il gentile personale dell’hotel Eden ha chiamato per me un taxi, il tizio che mi è venuto a prendere mi ha portato a Termini, due minuti da lì, e io gli ho dato la carta per i dieci euro che segnava il tassametro (all’ora, i tassisti valgono più dei cardiologi).

«Ennò, c’ho il pos scarico, io sto andando a casa». Sorrido beota: eh, ma io non ho contanti (il che è peraltro vero: mica dovevo andare dal parrucchiere). «Eh, ma me poteva avvisa’». Eh, ma se è scarico cosa cambiava? «Ce fermavamo a preleva’. E mo?». Ci guardiamo dallo specchietto: io col sorriso beota, lui con l’espressione di Travis Bickle. Dopo un po’ lui capisce che i battaglieri prima o poi cedono, ma i beoti non li smuovi, e prende il pos.

Borbotta «vediamo se ce la fa», «vediamo se una me la concede». Io intanto guardo fuori. «S’è stranita?», chiede la sua coda di paglia mentre la mia carta trilla sul suo pos. No, si figuri, dico. Mentre penso che al mio treno manca un’ora, e potrei tranquillamente andare a prelevare. Ma col cazzo che mi offro di farlo: continuo a sorridere beota.

«Ecco, s’è spento. Vabbè, nun c’è problema, te la offro». Ma no, ma mi dispiace, sussurro col mio miglior sorriso mite oltre che beota. Sto pensando: come minimo l’hai passata per venti invece che dieci, scommetto che non s’è spento e mi trovo l’addebito doppio. Il tassista si mette in fila al posteggio di Termini (ma non aveva il pos scarico perché stava andando a casa?), e io decido di non cedere ai miei pregiudizi.

Quindi il lunedì chiamo la banca e chiedo di controllare se ci sia un addebito della domenica mattina sulla carta. «Tripoli 5 dieci euro?». Avevo ragione: non si era spento. Avevo torto: aveva addebitato la cifra giusta. Vedi che non bisogna mai pensar male degli evasori fiscali.

Selvaggia Lucarelli filma il tassista, "vergognati": finisce in disgrazia, il video. Libero Quotidiano il 04 agosto 2022

Continua la battaglia di Selvaggia Lucarelli contro i tassisti. Da tempo infatti la giornalista si scaglia contro la categoria che "dichiara al Fisco 1000 euro e compra licenze per 180mila". Critiche che l'hanno resa spesso oggetto di insulti da parte di alcuni di loro. A Napoli, ad esempio, un coro l'ha definita "putt***", costringendola a prendere provvedimenti. Nonostante questo la sua lotta prosegue. L'ultimo tentativo di denuncia è avvenuto nella giornata di martedì 2 agosto, quando la Lucarelli è salita su un taxi dal Duomo, a Milano, per tornare a casa.

A poca distanza dalla sua abitazione, la firma di Tpi ha tirato fuori il proprio bancomat. Immediata la reazione del tassista che ha affermato di avere il pos scarico. Ecco allora la lite, tutta ripresa da un filmato poi postato dalla diretta interessata su Instagram. Qui l'uomo le riferisce che aspetteranno la volante della Polizia per la sanzione, ma senza fermare il tassametro. Lei a quel punto ricorda che è obbligato ad avere il pos.

Allora il tassista torna sui suoi passi: "Il pos di mio fratello, che è anche il mio socio. Non c’è bisogno di far precipitare le cose in questo modo". La giornalista gli domanda se non prova un minimo di vergogna. E poi: "Tutto questo giochino per cosa? Per non pagare le tasse?". Il video è stato diffuso sui social, dove la Lucarelli si è lasciata andare a un lungo sfogo: "Vi dovete vergognare". 

Selvaggia Lucarelli, la denuncia social (con prove): «Gelato più caro se si paga con il pos». CAMILLA SERNAGIOTTO su Il Corriere della Sera il 3 Agosto 2022.

Dopo aver sollevato la questione della maggiorazione del prezzo per chi paga con carta di credito in una gelateria di Sanremo, Selvaggia Lucarelli torna a denunciare sui social questo malcostume. Lo fa parlando di una gelateria di Treviso, che aumenta del 3 per cento lo scontrino a chi paga con il pos 

Continua la battaglia di Selvaggia Lucarelli in difesa del consumatore. Dopo aver sollevato la questione della maggiorazione del prezzo a chi paga con la carta di credito in una gelateria di Sanremo, la giornalista e scrittrice laziale torna a denunciare un malcostume purtroppo dilagante. E che vede penalizzato chi paga con il pos come è successo qualche giorno fa in una gelateria di Vittorio Veneto.

Il fatto

Da uno degli ultimi post sul profilo Instagram della Lucarelli — per la cronaca 1,2 milioni di followers — si evince che una gelateria in provincia di Treviso maggiora del 3 per cento lo scontrino a chi usa il pos. «Gelateria di Vittorio Veneto, Treviso. Due conti identici, a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro. Quello pagato con carta di credito con una maggiorazione del 3 per cento» scrive Lucarelli. «Chiamo la gelateria e la scusa è: io posso decidere di fare lo sconto anche ai biondi. Sentire per credere».

Nel video (oltre 10mila like in meno di 24 ore) che ha condiviso sulla sua pagina si può ascoltare la telefonata intercorsa tra lei e il titolare del locale. La riportiamo qui.

Lucarelli: «Come mai sullo scontrino che fate nel caso di pagamenti con carta di credito applicate una maggiorazione del 3 per cento?». Il gestore ribatte spiegando che «la maggiorazione viene applicata su tutto il listino a seguito dell’aumento dei prezzi in qualsiasi settore, dalle coppette ai cucchiaini. Poi c’è il caso eclatante della panna: +47 per cento dall’inizio dell’anno a ora. Siccome ogni mese vengono riaggiornati i listini delle materie fresche che dobbiamo comprare, non sono in grado di stampare un listino ogni mese perché la piattaforma dove è applicato il listino costa circa 260 euro. Motivo per cui ho messo davanti alla cassa un biglietto dove c’è scritto che, a partire da luglio, c’è stato un aumento del listino del 3 per cento», spiega il proprietario della gelateria. Ma la giornalista gli fa notare che — benché il costo di ogni consumazione sia a sua detta aumentato — lui applica una scontistica per chi paga in contanti. «Ho qui due scontrini di luglio, stampati a pochi minuti di distanza l’uno dall’altro — obietta Lucarelli —. Uno del 31 luglio alle ore 17 e 21, l’altro delle 18 e 04. Entrambi hanno come conto 5,60 euro. Il pagamento in contanti è di 5,60 euro. Il pagamento con carta di credito è maggiorato del 3 per cento».

La replica? «Esatto, quello è un regalo che facciamo noi gestori ai clienti che decidono di pagare in contanti. Il listino è aumentato del 3 per cento, però a chi decide di pagare in contanti noi facciamo uno sconto di nostra spontanea volontà».

«Quindi fate pagare di più alle persone che pagano con carta di credito?» incalza Lucarelli. «No, è il contrario. Noi facciamo pagare meno, il listino è aumentato», la risposta del gestore.

A questo punto Lucarelli affonda: «Guardi, se vuole le mando gli scontrini. La faccenda è molto chiara. Chi ha pagato con la carta di credito ha +3 per cento di maggiorazione». Il gestore: «Facciamo noi uno sconto speciale. Il gestore può decidere di fare uno sconto a tutti quelli che hanno i capelli biondi, a chi è alto un metro e settanta… ». E quando Lucarelli cerca di spiegare che «no, non è bene informato. Non funziona così, non si possono fare sconti in base alle simpatie, così come non si possono fare sconti a seconda dei metodi di pagamento: la legge non lo permette», la comunicazione viene interrotta dal gestore. L’annosa questione del sovrapprezzo applicato ai micropagamenti con pos invece resta.

I casi precedenti: la gelateria di Sanremo

Quello della gelateria di Vittorio Veneto è solo uno dei tanti casi denunciati da Selvaggia Lucarelli. A fine luglio la giornalista aveva puntato il dito contro la «Compagnia del gelato», una gelateria di Sanremo che aveva esposto il cartello: «Il prezzo di vendita in pagamento tramite pos verrà aumentato di 50 centesimi». In una delle sue stories su Instagram, Lucarelli aveva mostrato il cartello corredandolo della scritta: «Qualcuno spieghi ai signori che non funziona così. Magari la finanza». E la gelateria di corso Matteotti, a metà strada tra il casinò e il teatro Ariston, è ora sotto indagine della Finanza e del Garante della Concorrenza e del mercato. A rendere questo caso ancora più clamoroso? Il fatto che uno dei due titolari sia un commercialista.

I casi precedenti: il bar di Genova

Da quando i micropagamenti con la carta di credito sono stati ufficialmente legittimati dall’obbligo di dotarsi di pos (entrato in vigore dal 30 giugno 2022), molti cartelli simili sono spuntati in Veneto, in Liguria e in altre regioni italiane. C'è addirittura chi ne ha affisso uno in cui «si oppone fermamente all'obbligo di moneta elettronica», spiegando le proprie motivazioni. È il caso del Mangini, storico bar di Genova che vantava un habitué del calibro di Sandro Pertini. Giacomo Rossignotti, titolare del locale di piazza Corvetto, ha attaccato all’ingresso un lungo messaggio in cui spiega la sua scelta di andare contro la legge. Tra i motivi principali c’è quello legato ai costi bancari. «Il caffè? Si paga in contanti, se non li ha piuttosto glielo offro» ha dichiarato Rossignotti al quotidiano La Voce di Genova, aggiungendo: «Qui si paga solo in contanti, sono pronto a prendere una multa». I costi di cui il titolare del Mangini parla sono i seguenti: «Per il Pos (che ho, anche se spento) la spesa è di 500 euro l'anno, a cui si aggiunge l'1 per cento di transazioni, qualsiasi cifra si spenda». In pratica è la stessa motivazione che i titolari della gelateria sanremese (dopo la segnalazione di Selvaggia Lucarelli) hanno spiegato a Il Secolo XIX: costi di transazione troppo alti. Eppure da quando il pos è obbligatorio il mercato propone dispositivi di pagamento che non hanno costi fissi mensili, alcuni dei quali non applicano commissioni al di sotto dei 10 euro di spesa (e sopra i 10 euro si parla di commissioni tra l’1 e il 2 per cento).

Non solo bar e gelaterie

La lotta in difesa del consumatore con relativa campagna di sensibilizzazione di Selvaggia Lucarelli continua. Di queste ore è un nuovo post su Instagram che ha per protagonista un tassista milanese. Il quale, a corsa quasi terminata, comunica alla giornalista di avere il pos scarico, come testimonia il video condiviso sui social. Come dire: ci risiamo. E a rimetterci è l’utente finale che però non ha «maggiorazioni di stipendio». Al contrario, negli ultimi trent’anni non soltanto i salari italiani non sono cresciuti, ma hanno perso il 2,9 per cento. In concreto, stando ai dati dell’Osservatorio JobPricing, in Italia la maggior parte delle retribuzioni si attesterebbe sotto la soglia dei 35 mila euro. Il che esporrebbe il 90 per cento dei lavoratori a costanti perdite di potere di acquisto causa inflazione. Anche sul gelato...

Pagamenti con Pos, il costo delle sanzioni, le scappatoie e i controlli difficili: “Azzerate le commissioni bancarie”.  Redazione su Il Riformista il 27 Giugno 2022 

“Non c’è linea“, “Se paghi con la carta ti aggiungo la percentuale per la commissione”, “Non accettiamo pagamenti in Pos” e così via. Dal 30 giugno niente scuse, ricatti e violazioni della legge (in vigore già dal 2014) per esercenti e professionisti che impediranno ai clienti di pagare con il terminale di pagamento, il dispositivo elettronico che consente di effettuare pagamenti mediante moneta elettronica, ovvero tramite carte di credito, di debito o prepagate. Saranno interessati numerose figure professionali: artigiani come falegnami, fabbri e idraulici; ristoratori e baristi; negozianti e ambulanti; professionisti come notai, avvocati, ingegneri, geometri, commercialisti, medici, consulenti del lavoro, dentisti e così via.

Per ogni transazione via Pos rifiutata (di qualsiasi importo) la sanzione è pari a 30 euro, più il 4% del valore della transazione stessa (per esempio, per un pagamento di 100 euro, la multa sarà di 30 euro più 4 di parte variabile) e non sarà consentito il pagamento ridotto previsto quando si salda nel giro di due mesi dalla contestazione o dalla notifica. L’obbligo – e le sanzioni – in vigore dal 30 giugno riguarda chi nel 2021 ha conseguito ricavi o compensi superiori a 25mila euro e, dal primo gennaio 2024, anche gli altri.

Ma chi dovrà accertare le violazioni? Ufficiali e agenti di polizia giudiziaria oltre agli “organi addetti al controllo sull’osservazione delle disposizioni”. In sostanza partirà tutto dalle segnalazioni dei clienti che, in caso di rifiuto del pagamento con il Pos, dovrebbero allertare le forze dell’ordine e aspettare il loro arrivo.

La misura è stata anticipata dal 1 gennaio 2023 al 30 giugno 2022 con il decreto legge 36 del 30 aprile 2022 recante ‘Ulteriori misure urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza PNRR’, dopo essere stato di volta in volta rinviato sin dal 2012, ai tempi del governo Monti. Con il decreto era stato introdotto in Italia l’obbligo per negozianti e professionisti di accettare i pagamenti con Pos, misura poi confermata ed estesa a partire dal 1 luglio 2020 dal decreto Fiscale ma, come fa notare il Codacons, non erano state introdotte sanzioni portando a “una situazione paradossale in cui ancora oggi numerosi negozianti in tutta Italia, pur possedendo il Pos, impediscono ai clienti di pagare con moneta elettronica, consapevoli che non andranno incontro ad alcuna multa“.

Adesso la musica cambia, almeno si spera, e commercianti, ristoratori e professionisti saranno tenuti ad accettare il pagamento elettronico. Le uniche eccezioni, non al momento specificate del tutto, dove la sanzione non si applica “riguardano i casi di oggettiva impossibilità tecnica” a ricevere pagamenti con carta via Pos. Effettivi problemi di connettività temporanea o malfunzionamenti tecnici dell’apparecchio? Uno dei dubbi da chiarire perché – accusa il Codacons – potrebbe costituire una scappatoia per i furbetti.

Un’altra scappatoia – incalza il Carlo Rienzi, presidente Codacons – potrebbe essere relativa alle restrizioni di gestori e professionisti: “Per essere in regola con la nuova norma, esercenti e professionisti potrebbero limitarsi ad accettare anche un unico circuito e una sola tipologia di carta di debito (per esempio il bancomat) e una sola di credito, restringendo così il diritto degli utenti a pagare con Pos”.

“La norma, poi, rischia di essere difficilmente praticabile, dal momento che un numero elevato di segnalazioni contro i commercianti disubbidienti potrebbe mettere in crisi le autorità preposte ad eseguire controlli ed elevare sanzioni. Senza contare che una multa da 30 euro per chi non si adegua alle disposizioni sul Pos rischia di determinare una situazione paradossale per cui il procedimento sanzionatorio nei confronti dell’esercente scorretto avrebbe un costo superiore al valore della sanzione, con un evidente danno le casse erariali” conclude il Codacons.

Per Assoutenti invece “va sottolineato che i costi legati al Pos a carico dei commercianti restano tuttora elevati: è necessario azzerare del tutto le commissioni interbancarie e gli altri balzelli richiesti agli esercenti, perché i pagamenti elettronici non possono arricchire le casse delle banche e delle società che emettono le carte di credito e pesare sulla categoria degli esercenti”.

Estratto dell’articolo di Flavio Bini e Raffaele Ricciardi per “la Repubblica” il 3 dicembre 2022.

Otto pagamenti con carta su dieci sono sotto i sessanta euro. È questa la mole di operazioni sulla quale la manovra del governo Meloni disarma i consumatori, mettendo al riparo dalle multe gli esercenti che negano loro il Pos. «Non vedo l'ora che arrivi il primo gennaio per accettare solo pagamenti da 60 euro in su», dice un tassista pasdaran della cartamoneta, sulla strada tra l'aeroporto di Linate e il centro di Milano. «Dovrà abituarsi a girare coi contanti», avverte.

Non tutti credono, però, a questo estremismo. Certo si teme l'effetto liberi-tutti. «L'auspicio è che la manovra non abbia conseguenze drammatiche sulle abitudini a pagare digitale che gli italiani hanno assimilato - spiega la direttrice dell'Osservatorio Innovative payments del Politecnico di Milano, Valeria Portale -. Ma è un segnale culturale negativo: i pagamenti elettronici abilitano servizi innovativi, oltre ad essere un deterrente per gli evasori. C'è in gioco la modernità del Paese».

D'altra parte, è vero che le sanzioni attuate dal governo Draghi sono in vigore solo da luglio. E la crescita dei pagamenti digitali viene da prima: quest'anno potrebbero sfondare quota 400 miliardi, avvicinando il 40% del totale delle spese. Ma togliere il deterrente delle multe, insieme all'innalzamento a cinquemila euro del tetto all'uso del contante, dà un chiaro messaggio ai naviganti. «Scelte politiche», le bolla il leader della Confindustria, Carlo Bonomi. […] 

Quel che molti lamentano è il peso dei costi. Davvero strozzano le attività? Di norma, i contratti con le banche prevedono due voci: un canone mensile, se presente, e le commissioni sulle singole transazioni. A cui si può aggiungere il prezzo d'acquisto del Pos. Ci sono sempre più offerte, poi, di nuovi operatori fintech. Alcuni non hanno il canone, ma le commissioni salgono: pacchetti buoni per chi fa poche transazioni. Secondo le statistiche Global Data, gli esercenti italiani pagano lo 0,7%, meno di Olanda (1,4%), Germania (1,3%) o Regno Unito (0,8%).

Ma è un numero limato al ribasso dal peso della Gdo, che spunta condizioni migliori dei piccoli. Spulciando le offerte delle banche, saliamo tra l'1 e il 2%. «Se hai un ampio giro d'affari, possono offrirti anche il Pos gratis - segnala Stoppani - ma per il piccolo esercente le spese di noleggio e manutenzione sono consistenti». Dietro i registratori di cassa, le posizioni si fanno sfumate. 

Un ciclista in zona Navigli, a Milano, tira fuori il contratto. «Due euro e novanta al mese di canone, più una commissione dello 0,9% sul transato con bancomat e carte di credito: 1.400 euro su dieci mesi di apertura piena. Per la mia attività è sostenibile, ma per altre che lavorano tirando al massimo i prezzi per restare competitivi non è scontato». Luigi, titolare di un ristorante, fa parte di quelli che non lo vivono come un peso: «Pago lo 0,39% sui pagamenti con bancomat, lo 0,79% per quelli con Visa e salgo al massimo all'1,5% per quelli con American Express; nessun canone se arrivo ad almeno 6000 euro di transato, di che cosa stiamo parlando?». […] 

A puntellare i bilanci degli esercenti gioca il credito d'imposta al 30% su queste voci e, per tutto l'anno prossimo, un contributo fino a 50 euro per acquistare i dispositivi. Molti istituti, poi, hanno azzerato i costi per le transazioni di importo minore. Ma si tratta di offerte a tempo e Stoppani chiede interventi strutturali, «perché sulle microtransazioni si rischia di vedersi mangiare tutto il margine».

La dura (e sbagliata) legge del Pos. Riccardo Luna su La Repubblica il 28 Giugno 2022.

Solita occasione mancata da parte del legislatore per farci fare un salto in avanti.

E quindi giovedì 30 giugno entra in vigore “la dura legge del Pos”. Pagamenti obbligatori con carta di credito in tutti gli esercizi commerciali. Pena, una multa di 30 euro più il 4 per cento della transazione negata. In un paese ancora legato ai pagamenti cartacei e al nero, cioé all’evasione fiscale, ci sarebbe da esultare. Finalmente. E invece no. La norma approvata in gran fretta dal Parlamento nel decreto di attuazione del Pnrr sembra fatta apposta per diventare la solita occasione mancata del legislatore per farci fare un salto in avanti. Intanto c’è il meccanismo della multa: è il cliente che deve denunciare l’esercente. Immaginate la scena: devo pagare un caffè, quello mi dice che il Pos è rotto, è sempre rotto il Pos in certi negozi, io esco, chiamo una guardia e sporgo denuncia.

E poi cambio quartiere probabilmente. Ma il vero punto debole della norma è nell’aver considerato un solo tipo di pagamento digitale: quello con il Pos, appunto, un acronimo che sta per Point of Sale, un oggettino al quale avvicinare la carta di credito per la transazione, pagando ovviamente varie commissioni. Ma lo sa, il ministro dell’Economia Daniele Franco, che questa norma ha voluto, che si possono fare pagamenti elettronici, e quindi tracciati, anche senza carta di credito e con commissioni quasi azzerate? La tecnologia ha fatto passi da gigante in questi anni: avvicini il tuo telefonino a quello dell’esercente, scrivi la cifra dovuta e i soldi si trasferiscono, come per magia. 

C’è addirittura una startup italiana, Satispay, che su questa cosa ha costruito una azienda, che sta cercando di scalare in Europa. E infatti in Belgio dal 1 luglio i pagamenti obbligatori saranno quelli elettronici, tutti, mica solo quelli con il Pos. Ma noi niente, amiamo così tanto le startup da fare delle norme - contrarie ai principi europei - che sembrano fatte apposta per danneggiarle. E per danneggiare l’innovazione. E obbligare i commercianti ad un nuovo balzello che si poteva evitare. 

Domenico Zurlo per leggo.it il 2 luglio 2022.

Dai no-vax ai no-Pos. La novità dell'obbligo dei Pos da ieri 30 giugno, per effetto del decreto legge 36 entrato in vigore due mesi fa e che prevedeva appunto l'obbligo di pagamenti digitali, con tanto di sanzioni, non è andata giù ai commercianti: da ieri infatti chi non è in possesso del Pos e verrà 'beccato' dovrà pagare una multa di 30 euro più il 4% della transazione negata. 

Una norma che vale per i negozianti, ma anche per avvocati, notai, medici e tutti i professionisti, pensata per combattere finalmente in maniera decisa l'evasione fiscale, piaga del nostro Paese da tanti anni.

I commercianti da sempre contrari all'obbligo del Pos lo dicono da sempre: le commissioni da pagare sono troppo alte. E in poco più di 24 ore sono in tanti coloro tra cui monta la protesta, come scrivono oggi diversi quotidiani. 

«Non posso permettere a un cliente di pagare un limone con la carta, ci rimetto», spiega un ambulante di Torino, scrive La Stampa, che cita anche un barista di Napoli: «Esistono i no-vax? Be io sono un no Pos, per un euro non accetto carte. Voglio vedere se mi fanno la multa». «Se la carta viene parificata al contante, i costi di gestione e per le transazioni devono essere annullati», dice invece a Repubblica Giacomo Rossignotti, titolare della pasticceria Mangini di Genova.

Spunta il trucchetto dei furbetti del Pos

Ma come sempre accade in Italia, fatta la legge trovato l'inganno: come spiega Il Messaggero, c'è già chi ha trovato un modo per aggirare questa norma e sono i cosiddetti furbetti del Pos. Con tanto di video sui social per spiegare il modo giusto per evitare l'applicazione della legge. Secondo qualcuno infatti, la multa scatterebbe non se il Pos non c'è o non funziona, ma se il commerciante rifiuta di accettare il pagamento con carta. Un'interpretazione un po' dubbia e di difficile interpretazione, ma a crederci sono in tanti. 

Confartigianato: costi troppo alti

Contro l'obbligo di Pos si è espressa anche Confartigianato, che all'Adnkronos afferma che «gli artigiani e le piccole imprese si stanno adeguando all'utilizzo del Pos per regolare le transazioni commerciali. Rileviamo, piuttosto, ancora una resistenza all'uso della moneta elettronica da parte dei consumatori per i pagamenti inferiori ai 10 euro.

Rimane il problema del costo delle commissioni a carico degli imprenditori». «Non si comprende perché la rapidità nell'imporre sanzioni non sia stata accompagnata da altrettanta celerità nel rivedere l'impatto di questi oneri, che appaiono ancor meno giustificati se si considera l'evoluzione tecnologica degli strumenti per i pagamenti elettronici» sostiene l'associazione degli artigiani. 

Meloni: obbligo vergognoso

Oltre a commercianti e professionisti, anche la presidente di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni ha bocciato il provvedimento del governo, definendolo «semplicemente vergognoso». «L'Italia è diventata la Nazione degli obblighi e delle coercizioni.

Con l'accondiscendenza silente di tutta la maggioranza - scrive la leader dell'opposizione - da oggi è entrato in vigore l'ennesimo obbligo per le micro e piccole imprese: tutti sono obbligati ad avere il pos, ovvero a versare alle banche l'ennesimo obolo, tra costo del dispositivo e commissioni. Tutto a carico delle imprese, che ovviamente saranno costrette a ribaltare il costo sui clienti. Gli unici a guadagnarci sono i gestori della moneta elettronica, che possono contare su uno Stato che obbliga il suo tessuto produttivo a far uso dei loro servizi, senza nemmeno chiedere di azzerare le commissioni. Semplicemente vergognoso».

Multe ai gestori delle spiagge coi calciobalilla: sono come i videopoker, serve autorizzazione. Redazione Tgcom24 il 21 giugno 2022.  

Oltre per rullate scatta un altro divieto per i calciobalilla: non potranno essere installati se non certificati dall'Agenzia delle entrate. E' quanto stabilisce un decreto entrato in vigore a giugno che fissa anche le sanzioni: 4mila euro per chi fa giocare su dispositivi non autorizzati. E in Puglia, per la precisione, in un lido di Santa Margherita di Savoia, è scattata la prima multa.

Calciobalilla come i videopoker - Il decreto del direttore dell'Agenzia Dogane e Monopoli del 1/06/2021 parla chiaro e dice che dal primo giugno 2022 gli apparecchi che non erogano vincite in denaro o tagliandi possono essere installati solo se dotati di un "nulla osta di messa in esercizio". Tra gli apparecchi nel mirino ricadono  biliardi, ping pong, flipper e appunto i calciobalilla. Stessa sorte per gli apparecchi già installati presso gli esercenti. La loro scadenza era anticipata al 30 aprile, giorno entro il quale avrebbero dovuto fare la richiesta del titolo autorizzativo all'Agenzia delle Dogane. Lo stesso iter che si fa, ma un po' più semplice, per i videopoker.

Ecco dunque che uno dei giochi di "società" ormai entrati nel costume degli italiani rischia di sparire. Il calciobalilla in spiaggia potrebbe costare caro ai gestori dei lidi. Ne sa qualcosa quello di uno stabilimento balneare di Margherita di Savoia che si è visto comminare la sanzione da 4mila euro e ha preferito togliere il gioco.

L'Agenzia delle Entrate "salverà" i calciobalilla gratuiti? - Ma sono previste novità a breve. Nei giorni scorsi sono state presentate una interpellanza all'Agenzia delle Entrate e una interrogazione parlamentare per fare un po' di chiarezza soprattutto sui calciobalilla ad uso gratuito, soprattutto nelle spiagge, e sui giochi messi a disposizione degli utenti in circoli privati o comunque in aree non aperte al pubblico.

«Calciobalilla come i videopoker»: multe ai gestori delle spiagge. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.

È la conseguenza di un decreto entrato in vigore a giugno: tutte le apparecchiature devono essere munite di un nulla osta proprio per impedire che facciano scattare vincite in denaro. In Puglia le prime sanzioni. 

Il calciobalilla e i flipper - intramontabile simbolo dell’estate - rischiano di scomparire dagli stabilimenti balneari e dai locali pubblici italiani: è la conseguenza di un decreto dell’Agenzia delle dogane entrato in vigore a maggio e che equipara anche questi intrattenimenti al videopoker. Norma che è già stata contestata da alcune associazioni e oggetto anche di interrogazioni parlamentari ma che ha già fatto sentire i suoi effetti: in Puglia alcuni gestori sono già stati multati, in Toscana altri hanno deciso di far sparire tavoli e apparecchiature per non incorrere in sanzioni.

Biliardini messi sullo stesso piano di videopoker e slot machine? A prima vista la regola appare assurda e incomprensibile. Il decreto stabilisce che tutte le apparecchiature per il gioco installate in locali pubblici (anche quelli che non prevedono vincite in denaro) devono essere provvisti di un «nulla osta» e di un certificato identificativo. Incombenza burocratiche che - specifica il decreto - spetta «al gestore dell’apparecchio», dunque anche «l’esercente del locale...qualora ne sia il proprietario». La stessa Agenzia delle dogane specifica che tale norma si applica a «calciobalilla, carambole, biliardi, dondolanti per bambini, tavoli da ping pong». Il senso della norma - pare di capire - è certificare che biliardini e in generale «giochi azionati a gettone» rispondano a definite caratteristiche tecniche ed escludano appunto che qualunque vincita di denaro che farebbe scattare le norme sul gioco d’azzardo.

Di proroga in proroga, la circolare è entrata in vigore definitivamente innescando conseguenze che parevano difficili da immaginare: il titolare di un lido a Margherita di Savoia, in Puglia, ha strappato il (triste) primato: è probabilmente il primo ad aver ricevuto una multa (che può arrivare fino a 4.000 euro) perché incappato in uno dei primi controlli. Sono corsi ai ripari, come detto, molti suoi colleghi toscani facendo sparire dagli stabilimenti i giochi simbolo dei pomeriggi in riva al mare. Sul piano istituzionale una interrogazione è stata presentata dalla parlamentare di Forza Italia Maria Paola Binetti dell’avviso che la norma sia difficile da interpretare e applicare (anche gli oratori sarebbero tenuti a chiedere la certificazione).

Giuseppe Culicchia per “La Stampa” il 22 giugno 2022.

Ecco: come usa dire, non ci mancava che questa. Ma dato che ormai viviamo in un mondo al contrario, perché stupirsi? Dallo scorso mese di maggio, per chi non lo sapesse, una nuova norma ha equiparato i calciobalilla (e i tavoli da ping-pong, e con questi oltre ai biliardi e le carambole pure i dondolanti per bambini) ai videopoker. 

Così vuole infatti l'Agenzia delle Dogane, secondo cui tutti i giochi presenti nei locali pubblici devono oggi essere provvisti di uno speciale «nulla osta» per certificare, mediante assunzione di responsabilità del proprietario del bar, dello stabilimento balneare e a questo punto anche del parroco di turno, visto che i non molti calciobalilla superstiti in Italia stanno negli oratori, che il gioco a gettone in questione non sia strumento (del demonio) per ottenere vincite in denaro, caratteristica com' è noto dei giochi d'azzardo.

Ora, sui dondolanti per bambini non ci giurerei, ma sono certo che il calciobalilla e il ping-pong siano tra le discipline riconosciute - esattamente come il biliardo - e ammesse tra gli sport con tanto di federazioni nazionali: all'Agenzia delle Dogane forse è sfuggito che esistono da tempo tornei, campionati e perfino competizioni a livello non soltanto amatoriale ma addirittura olimpionico.

Al di là di questo, tuttavia, basterebbe avvicinarsi a un qualsiasi calciobalilla o tavolo da ping pong et cetera e insinuare a coloro i quali ce la stanno mettendo tutta per battete l'avversario o gli avversari di turno sudando le proverbiali sette camicie e insinuare che la partita in questione sia appunto un gioco d'azzardo, di quelli cioè in cui conta solo la fortuna, checché ne dicano i colleghi del «Giocatore» di Dostoevskij, intenti a rovinarsi alla roulette o alle slot-machine.

Ora, vi immaginate la reazione dei giocatori? Io sì, avendo praticato piuttosto indegnamente per alcuni decenni soprattutto il calciobalilla (meno il ping pong e meno ancora il biliardo; sul dondolante purtroppo non ho ricordi molto attendibili) e sapendo bene, avendo patito un lungo elenco di sconfitte, come ci si scanni su ogni singola pallina, e come gli eventuali colpi di fortuna (la rete segnata involontariamente grazie a un rimbalzo bizzarro, il punto ottenuto con la complicità del bordo superiore della rete che divide il tavolo da gioco) siano oggetto di ovvio sarcasmo e relativi sfottò da parte degli altri giocatori, mentre al contrario ci si vanti legittimamente di ogni giocata dovuta all'abilità che in effetti solo un'infanzia all'oratorio può garantire.

Signori, e signore, dell'Agenzia delle Dogane, ascoltate dunque questo appello: non privateci vi prego di questi divertimenti, a tutti noi tanto cari, e carichi di ricordi. In vita mia ho partecipato o assistito a migliaia di partite, al termine delle quali si vinceva al più un giro di birre. Rammento sfide epiche, in cui match interminabili si decidevano all'ultima pallina, circondati da un tifo infernale nei peggiori bar di Torino e nei migliori bagni delle Cinque Terre. E poi ancora, nel caso infausto di eventuali sconfitte «a zero», la determinazione disperata a battersi fino in fondo per segnare almeno un goal e non dover passare sotto il calciobalilla.

E infine l'ammirazione che scattava in tutti i duellanti nel caso in cui a dimostrarsi più forte fosse una ragazza, che da quel momento diventava un mito di cui si narravano le gesta fino a notte fonda, tornando a casa. So che le prime sanzioni sono già state comminate, in Puglia, e che lungo lo Stivale a cominciare dalla Toscana vi sono già stati proprietari e gestori di locali pubblici e stabilimenti balneari che hanno fatto sparire quegli omini sempre pronti ad affrontarsi in mille e una finali di Champions, giocate in diurna e in notturna, da Jesolo a Marsala passando per Noli e Pietra Ligure.

Un'estate al mare senza più nemmeno un calciobalilla su cui sfidarci con gli amici e le amiche, o con cui divertire i nostri figli, magari facendoli salire su una sedia o uno sgabello, sarebbe un'estate monca di un piacere che nulla ha a che fare con il triste e autodistruttivo rituale che contraddistingue i videopoker.

Sono sicuro che siete stati/e bambini/e e ragazzi/e anche voi. Ricordate quell'amore infantile o adolescenziale sbocciato proprio intorno a un calciobalilla, e quanto vi impegnavate per fare bella figura al cospetto di chi vi faceva battere il cuore? Suvvia, restate umani. L'estate appena iniziata non sarà, per i noti motivi, tra le più felici. Siate gentili. Ripensateci.

Sì, frullare. Toccateci tutto, ma non i simboli della (mia) generazione che ha inventato la Nostalgia. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 Giugno 2022.

La tassa sui biliardini ha scatenato i miei coetanei sempre pronti a difendere le nostre madeleine: i 45 giri, le cabine telefoniche, i poster in cameretta. Ma tutto ciò su cui ci struggiamo come fosse un fondamento della specie umana è esistito solo per qualche decennio. 

Secondo uno studio del Dipartimento Generazione che ha inventato la Nostalgia della Facoltà Anima Mia dell’Università del Mio Salotto, un minorenne che giochi a biliardino in spiaggia lo fa per compiacere un genitore che lo ricatti emotivamente («ecco, non vuoi fare mai niente assieme a tuo padre, ma quando sarò morto») o che in cambio gli abbia promesso soldi coi quali comprarsi nuove vite ai videogiochi.

La Generazione che ha inventato la Nostalgia è pronta a tutto per difendere le sue madeleine. Ieri, al falso (forse) allarme (allarmissimo) dei biliardini dismessi perché improvvisamente tassati, uno dei più miti di noi, Stefano Bartezzaghi, è ricorso su Repubblica alle minacce minacciose: «Lasciateci giocare a biliardino in pace. Se ce lo toglierete ne faremo argomento di letteratura e di sicuro sarà molto peggio».

La Generazione che ha inventato la Nostalgia è piena di illusioni, la più interessante delle quali è che tutto ciò che sta sparendo fosse lì da sempre. Il biliardino sulla spiaggia, il 45 giri nel mangiadischi, le cabine telefoniche, i poster in cameretta, i programmi televisivi imperdibili: tutto ciò su cui ci struggiamo come fosse fondamento della specie umana è esistito per poco più d’un paio di generazioni.

Mia nonna non ha mai chiamato un fidanzatino dal telefono a gettoni al mare, e sospetto che mio nonno non abbia mai giocato a biliardino sulla spiaggia. I miei genitori da piccoli non avevano la tv del pomeriggio, e il pop come lo conosciamo è cominciato quando avevano più o meno vent’anni: nelle cartolerie della loro infanzia non vendevano poster di Claudio Villa.

Né evidenziatori: l’altro giorno Alessandro Cattelan ha instagrammato la figlia davanti a schiere di pennarelli colorati di quelli che fanno sdilinquire i nostri coetanei (Cattelan è più giovane di me, ma non abbastanza), parlando d’intramontabile fascinazione. Ma i nostri genitori non compravano le gomme di Hello Kitty, e i nostri figli vanno in cartoleria per farci un piacere: ormai non sappiamo quasi più scrivere a matita o a penna noi, che l’abbiamo fatto in esclusiva per i primi decenni della nostra vita, figuriamoci loro, nati con un touchscreen in mano.

D’altra parte ogni generazione passa a quella successiva le tifoserie: conosco gente che per compiacere i genitori s’è interessata al calcio o al cinema francese, mi sembra giusto che le nuove generazioni non sbadiglino di fronte a dibattiti davvero importanti quali «ma a biliardino è consentito frullare?».

E ovvio che i giornali ieri dedicassero intere pagine al dramma dei biliardini tassati: la Generazione che ha inventato la Nostalgia, quella che al mare vuole giocare a biliardino (e nei momenti di maggior compiacimento lo chiama «calciobalilla») e che alla Fondazione Prada vuole mettere la monetina nel juke-box, quella lì (questa qui) è l’ultima generazione che compra i giornali, vorrei pure vedere che smettessero di parlare di noi.

Siamo anche gli ultimi che pagano le tasse (i nostri figli hanno tutta l’intenzione di farsi mantenere a vita), il che spiega il dolente comunicato stampa inviato ieri mattina: «L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli apprende con rammarico le false notizie apparse sugli organi di stampa nelle ultime ore sulla regolamentazione dei biliardini. ADM infatti è ben consapevole della rilevanza di questi giochi nella cultura e tradizione degli italiani» (traduzione dall’antilingua: siam mica matti che vi tagliamo le frullate, all’età alla quale i menischi vi hanno mollato e quello è l’ultimo calcio da spiaggia che vi resta, sarebbe quasi più impopolare che far pagare le concessioni balneari a stabilimenti che vi fanno pagare cinque euro un cornetto Algida ma voi li considerate benefattori perché non dovete portarvi l’ombrellone a spalla).

Prosegue il comunicato: «Nelle ultime ore, nessuna nuova regolamentazione è intervenuta per modificare la normativa di settore già esistente» (traduzione dall’antilingua: questa tassa c’era già, state diventando come i vostri figli per cui le cose esistono solo quando compaiono sul loro TikTok).

Ma soprattutto: «È utile ripercorrere, rapidamente, lo sviluppo della vicenda per chiarire i punti principali della materia rappresentando preliminarmente che gli uffici dell’Agenzia non hanno attivato – e al momento non intendono attivare – alcun intervento di controllo sul territorio» (traduzione dall’antilingua: la tassa c’è ma nessuno controlla che la paghiate, quindi potete continuare a non pagarla come avete fatto finora).

«Sotto l’aspetto tributario, tali apparecchi sono assoggettati, da oltre venti anni, all’imposta sugli intrattenimenti. Anche in questo caso, nulla è cambiato con la nuova regolamentazione ed è quindi oggettiva l’inesattezza delle informazioni riportate sui media» (traduzione dall’antilingua: sono vent’anni che lasciamo che non paghiate questa tassa, e ce ne vantiamo).

«Da ultimo, l’Agenzia sempre con l’intento di garantire lo svolgimento di questo importante intrattenimento, si è fatta promotrice di una nuova norma di semplificazione, che in questi giorni risulta essere in discussione in Parlamento. Verrebbero in tal senso eliminati, dagli obblighi certificativi posti dalle leggi oggi in vigore, proprio i biliardini» (traduzione dall’antilingua: facciamo pagare le tasse ai videogiochi, alle slot machine, a quelle diavolerie moderne, ma il calciobalilla dell’anima vostra non ve lo tocchiamo).

Il comunicato ha la data di martedì, ma l’hanno mandato solo ieri, e sappiamo tutti perché. Erano giustamente terrorizzati dalla minaccia che – come già facciamo con ogni Barbie, Cicciobello, telefilm, canzonetta, pennarello, Das, cinema di seconda visione, un due tre stella – ne facessimo scarsissima letteratura.

Da agimeg.it il 23 giugno 2022.

Quello che ormai viene chiamato il “caso calciobalilla“, che però ha coinvolto tutti gli apparecchi di puro intrattenimento, come ad esempio i biliardini ed i ping pong, sembra ormai essere diventato l’argomento del momento. 

Ed a parlarne è stato anche il leader della Lega Matteo Salvini che, riferendosi all’emendamento inserito nel PNRR sui comma 7, ha detto: “Grazie a chi, a nome della Lega, ha corretto una norma assurda. Libero biliardino in libero Stato!”.

Da ansa.it il 23 giugno 2022.  

Biliardini salvi negli stabilimenti e nelle sale giochi di tutta Italia.

In base a una norma inserita nel maxiemendamento al dl Pnrr approvato in Senato, entro il 15 novembre di ogni anno l'Agenzia delle Dogane dovrà individuare gli apparecchi "meccanici ed elettromeccanici che non distribuiscono tagliandi" (tra cui rientrano i calciobalilla) che saranno esenti dall'obbligo di verifica tecnica e conseguente nulla osta da parte della stessa Agenzia oggi necessari per l'utilizzo.

La mancanza di queste certificazioni comporta infatti il rischio di sanzioni. Resta fermo, invece, l'obbligo di versamento dell'imposta sugli intrattenimenti.

IL MAXIEMENDAMENTO. I biliardini sono salvi, non servirà il nulla osta. Il Domani il 23 giugno 2022

I proprietari dei biliardini non dovranno ricevere il nulla osta dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Basta un’autocertificazione

Non ci aspetta un’estate senza biliardini, come era stato paventato in questi giorni: il calcio balilla è stato “salvato” dal Senato. Ma cosa era successo?

Il sindacato italiano dei balneari, il Sib, aveva diffuso una nota per protestare contro l’obbligo di certificare giochi come biliardini, ping pong e flipper previsto dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Quest’ultima, applicando una direttiva che esiste già da diversi anni, con l’obiettivo di distinguere i giochi che non prevedono vincite in denaro e quelli che non le prevedono, aveva chiesto che la certificazione necessaria (e l’”imposta sugli intrattenimenti” da pagare) per i giochi che prevedono delle vincite fosse estesa anche a calciobalilla, carambola, biliardo, flipper, freccette e giochi simili.

Alla fine, però, l’equiparazione di questi giochi a videopoker e slot machine non sarà applicata. In base a una norma inserita nel maxiemendamento al dl Pnrr approvato in Senato, infatti, entro il 15 novembre di ogni anno l’Agenzia delle Dogane dovrà individuare gli apparecchi «meccanici ed elettromeccanici che non distribuiscono tagliandi», che saranno esenti dall’obbligo di verifica tecnica e conseguente nulla osta per il loro utilizzo. Tra questi rientrano anche i biliardini, che non avranno quindi bisogno di certificazione. Il mancato ottenimento del nulla osta da parte delle autorità competenti comporta una misura sanzionatoria.

Tuttavia, gli stabilimenti e le sale giochi hanno comunque l’obbligo di versamento dell’imposta sugli intrattenimenti. Quindi i proprietari avranno solo l’obbligo di compilare un’autocertificazione e inviarla entro il 30 giugno all’Agenzia dei monopoli, comunicando che il loro biliardino rientra tra i giochi basati sull’abilità manuale dei “fruitori”. Se non si invia l’autocertificazione, si rischia di incappare in una sanzione che può arrivare fino a 4mila euro.

«L’Agenzia – ha detto il direttore Marcello Minenna – si è limitata a dare attuazione a una norma di legge consentendo la regolarizzazione di oltre 85mila apparecchi attraverso la semplice compilazione di una autodichiarazione da presentarsi a cura del proprietario. Nulla cambia invece sotto l’aspetto tributario dato che anche i biliardini sono assoggettati, da oltre 20 anni, all'imposta sugli intrattenimenti, un fisso, una decina di euro al mese».

Una decisione, quella del governo, che è stata accolta con favore da Antonio Capacchione, presidente del Sib aderente a Fipe/Confcommercio: «In questa circostanza il governo è stato saggio e solerte nell'eliminare una equiparazione irragionevole e stupida, salvaguardando giochi che sono anche un pezzo di storia e di identità dell’Italia. Ci aspettiamo adesso anche l’eliminazione della tassazione allorquando questi giochi siano forniti gratuitamente».

Fisco, la trappola è online: l'arma perfetta, ecco quali evasori fiscali sono finiti. Libero Quotidiano il 05 giugno 2022.

Il Fisco le prova tutte pur di scovare gli evasori. L'ultima frontiera è quello dei controlli tramite siti web e social network. Una nuova arma prevista dal governo nel rispetto di quanto promesso all'interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza, ossia una modernizzazione dell'amministrazione fiscale. E così dal prossimo 14 giugno gli evasori dovranno stare attenti a tutto, anche a quello che pubblicano sui social. 

Non solo, perché l'esecutivo guidato da Mario Draghi annuncia la "piena utilizzazione dei dati che affluiscono al sistema informativo dell'anagrafe tributaria, potenziamento dell'analisi del rischio, ricorso alle tecnologie digitali e alle soluzioni di intelligenza artificiale, ferma restando la salvaguardia dei dati personali". Tutte pratiche che costringono il governo a trovare un accordo con il Garante della privacy. In particolare là dove si parla della "definizione di algoritmi appositamente addestrati ed altre soluzioni di intelligenza artificiale" indispensabili per "effettuare sistematicamente attività di analisi del rischio basate sulla raccolta massiva e sull'elaborazione automatizzata dei dati liberamente accessibili su siti e piattaforme web, nonché di quelli resi pubblici dagli utenti".

Come verrà allora tutelata la riservatezza? A parole verrà messa a punto una tecnica in grado di non rendere visibile la reale identità del contribuente, il cui nome sarà rivelato solo in caso di effettiva necessità di invio di lettera di comunicazione. Solo il Fisco deciderà come procedere: se tramite una lettera di compliance, nella quale si avvisa il cittadino e lo si invita a mettersi in regola, o se attraverso una comunicazione in cui vengono chieste spiegazioni su ciò che non torna. 

Giusy Franzese per “il Messaggero” il 6 giugno 2022.

Sono la bestia nera degli automobilisti distratti e anche un po' furbetti: le multe per violazione del codice della strada. Giusto pagarle, ovviamente. Ma la loro quantificazione è altrettanto giusta? No, per niente. Molti Comuni - che con le multe rimpolpano non poco le casse municipali - a conti fatti risultano più furbetti dei multati. E, giocando sulla mancanza di «criteri oggettivi fissati dal legislatore» arrivano anche ad aumentare del 400% la voce relativa alle spese di accertamento che vanno ad aggiungersi ai 9,5 euro di spese di notifica (fissate per legge). 

Pur di far lievitare la somma da incassare, dentro la voce spese di accertamento ci mettono di tutto: costi di stampa, postalizzazione, costi di acquisto e manutenzione dei palmari per la rilevazione delle infrazioni, manutenzione delle apparecchiature e del software di gestione del servizio, moduli autoimbustanti, redazione delle distinte delle raccomandate, visure alle banche dati della Motorizzazione Civile ecc.

Ogni Comune fa come gli pare. E così c'è l'amministrazione comunale (la minoranza) che limita queste spese a 2,5 euro, ma poi ci sono quelle che arrivano a mettere in conto all'automobilista anche 15 euro. Dei veri e propri «abusi», contro cui l'automobilista non può nemmeno fare ricorso. A squarciare il velo sotto il quale si nascondono i maneggi di sindaci e assessori a danno dei cittadini, è il presidente dell'Antitrust, Roberto Rustichelli, in un'audizione davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla tutela dei diritti di utenti e consumatori.

«Paradossalmente, per le sanzioni di minore importo, tra spese di notifica fissate e regolate da Agcom e queste spese ulteriori di accertamento, si può arrivare a situazioni in cui esse sono più delle spese dell'importo edittale» punta il dito Rustichelli. La fantasia (per non dire l'ingordigia) di alcuni amministratori locali, pur di incassare di più, non ha limiti.

 «In taluni casi, la discrezionalità dei Comuni denota come gli stessi sono giunti anche a duplicare varie voci di spesa. Ad esempio, un Comune include sia i costi di stampa, sia quelli per cartucce e nastri stampanti» evidenzia il Garante. E c'è chi si sbizzarrisce sulle visure Aci, facendo lievitare il costo da 0,80 euro a 1,83 euro: una differenza del 128%. Ma non basta. In molti Comuni si arriva al paradosso dei paradossi: le spese di accertamento «curiosamente aumentano» per i contribuenti che hanno scelto di avere le notifiche via Pec. 

Questo tipo di comunicazioni della sanzione, infatti, non comporta la spesa fissa di notifica 9 euro e 50 centesimi. E allora cosa si sono inventati i Comuni per compensare? Aumentare ancora di più la voce relativa alle spese di accertamento, che partono da un minimo di 4 euro (contro i 2,5 nel caso di notifiche cartacee) fino a 15 euro. Una sorta di gioco delle tre carte a danno, ancora una volta, del contribuente che non può protestare. 

«La discrezionale definizione di tali spese, a livelli talvolta elevati, si traduce in uno sfruttamento della posizione di debolezza del consumatore/cittadino, che è costretto a pagarle - ricorda il Garante - per espressa previsione di legge senza poterne contestare il quantum in alcuna sede». Si tratta quindi di «evidenti abusi» ribadisce l'Antitrust, contro i quali «il cittadino/consumatore è indifeso». 

Rustichelli non ha dubbi (e il presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla tutela dei diritti di utenti e consumatori, Simone Baldelli, concorda): per mettere fine a tutto ciò «è assolutamente necessario predeterminare normativamente l'ammontare di un costo standard valido per tutti i Comuni, ispirato a criteri di ragionevolezza, reale correlazione ai costi, trasparenza e non discriminazione degli utenti». E intanto negli uffici delle associazioni dei consumatori si preparano i moduli per i ricorsi. 

Comuni «fuorilegge»: uno su cinque tace sui soldi delle multe. Foggia e Matera nella black list. Per legge gli enti devono comunicare dove finiscono i proventi. Paolo Ciccarone su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Giugno 2022.

Il 20% dei comuni italiani non ha presentato la rendicontazione  relativa all’uso corretto dei proventi delle multe stradali. E ad oggi risultano ancora inadempienti ben 15 amministrazioni provinciali, 3 città metropolitane e 317 unioni di comuni.  Con una cifra già stimata di circa 3 miliardi di euro.

In base ai numeri che emergono da un rapporto fornito dal Ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile alla Commissione Trasporti di Montecitorio relativamente ai dati del 2020,  ad oggi 1.556 comuni (il 19,7% del totale) non hanno fornito la rendicontazione relativa alle multe elevate per violazioni al Codice della strada, nonostante la legge imponga a ciascuna amministrazione di consegnare al governo  entro il 31 maggio di ogni anno (ora 30 giugno in base al nuovo Dl infrastrutture in vigore da novembre scorso)   una relazione telematica sugli introiti delle sanzioni stradali, anche quelle elevate tramite autovelox, e di pubblicare sul sito dell’amministrazione locale i dati contenuti nella relazione stessa entro un mese dalla data di consegna.

Il Mims studia una contromossa: «Qualora l’ente non trasmetta la sopra menzionata relazione ovvero utilizzi i proventi in modo difforme da quanto previsto dal codice della strada, la percentuale dei proventi spettanti è ridotta del 90 per cento per ciascun anno per il quale sia riscontrata una delle predette inadempienze».

Tre città metropolitane (Catania, Messina e Reggio Calabria)  risultano inadempienti, così come 15 amministrazioni provinciali fra cui in Puglia spicca Foggia e Matera in Basilicata. Eppure il business delle multe rappresenta un «tesoretto»  che, come detto, vale  circa 3 miliardi di euro annui in Italia,  alimentato da ben  2,5 milioni di contravvenzioni: Di queste, ogni anno, secondo i dati Aci-Istat,  sarebbero elevate dai circa  8mila autovelox installati sul territorio.

Rispondendo ad una interpellanza urgente di Forza Italia -  primo firmatario, Simone Baldelli  - il Governo ha risposto che in caso di inadempimento relativo alla mancata trasmissione della relazione con i dati di utilizzo, o qualora emergano usi impropri da quanto previsto dal codice della strada, «la percentuale dei proventi spettanti è ridotta del 90% per ciascun anno per il quale sia riscontrata una delle predette inadempienze». Circostanza che per il Governo «rilevano ai fini della responsabilità disciplinare per danno erariale e devono essere segnalate al procuratore regionale della Corte dei conti».

Ruffini (Agenzia Entrate): "In 19 milioni hanno debiti con il Fisco". Evasori: "Non serve il carcere, meglio lavorino". La Repubblica il 3 Giugno 2022.  

Il direttore al Festival dell'Economia: "Il mio sistema ideale è quello in cui i cittadini sanno che chi non paga viene intercettato e l'azione viene punita facendoli pagare. Chi è poi così autolesionista da evadere?"

In Italia ci sono 19 milioni di persone che in un modo o nell'altro rientrano nella categoria degli "evasori", perché hanno almeno una cartella esattoriale. Non si può pensare di rinchiuderli tutti in carcere, meglio che lavorino per ripagare la collettività. E' il concetto espresso dal direttore dell'Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, che non crede che la pena detentiva sia la soluzione: "La pena detentiva per chi non paga le tasse non mi ha mai convinto. Preferisco mettere in carcere l'evasore così poi fallisce l'attività o farlo lavorare finché non ripaga la collettività?".

Parlando giovedì 2 giugno al Festival Internazionale dell'Economia - dove ha presentato il suo libro Uguali per Costituzione. Storia di un'utopia incompiuta dal 1948 a oggi, a cura di Feltrinelli, al Circolo dei lettori - ha ricordato la cifra di 19 milioni di soggetti con almeno una cartella esattoriale, e aggiunto: "Hanno fatto i maramaldi per tanti anni, usiamo strumenti che li facciano rientrare in carreggiata. Li abbiamo individuati", spiega Ruffini. "Il mio sistema ideale è quello in cui i cittadini sanno che chi non paga viene intercettato e l'azione viene punita. Chi è poi così autolesionista da evadere?"

Ruffini è soddisfatto dell'andamento delle dichiarazioni dei redditi precompilate, "procedono bene, i cittadini acquisiscono familiarità con questo strumento". Sulla riforma del Fisco, giudizio sospeso: "E' una delega, aspettiamo di vedere la norma delegata per esprimere un giudizio. La cosa a cui tengo di più è la riorganizzazione delle norme". "Prima bisogna fare ordine, poi si può vedere quali norme si possono cambiare. Altrimenti si fa altra confusione", ha osservato.

Prossime tappe? "Stiamo già precompilando i registri dei soggetti commerciali, l'anno prossimo partirà la precompilata Iva". Ora in programma "c'è l'attuazione degli istituti della rateizzazione, c'è il completamento della rottamazione in corso. La macchina fiscale è tornata alla normalità, siamo pienamente operativi perché il legislatore così ci ha chiesto di essere. Abbiamo sospeso la nostra attività nel 2020 e 2021, c'è stato detto di ricominciare, abbiamo rimodulato l'attività dividendo nel 2022 il pregresso, abbiamo decine di milioni di atti e stiamo procedendo". Quanto alla riforma fiscale "la cosa che mi aspetto - afferma - è la riorganizzazione delle norme. la confusione è enorme".

 L.Ci. per “il Messaggero” il 3 giugno 2022. 

Sulle manette agli evasori Ernesto Maria Ruffini è scettico. Il direttore dell'Agenzia dell'Entrate intervenendo al Festival dell'Economia di Torino, per presentare il suo libro Uguali per Costituzione, ha confermato una posizione già espressa in passato, inserendola nel quadro dell'attuale situazione della riscossione. «La pena detentiva per chi non paga le tasse non mi ha mai convinto - ha detto Ruffini - preferisco mettere in carcere l'evasore, così poi fallisce l'attività o farlo lavorare finché non ripaga la collettività? Non credo convenga». «Sono 19 milioni le persone iscritte a ruolo - ha aggiunto - le abbiamo individuate, usiamo strumenti che le facciano rientrare in carreggiata».

Il riferimento è ai 19 milioni di persone fisiche o società che a vario titolo hanno ricevuto negli anni scorsi una qualche cartella esattoriale. «Il mio sistema ideale - è il ragionamento di Ruffini - è quello in cui i cittadini sanno che chi non paga viene intercettato e l'azione viene punita facendoli pagare, chi è poi così autolesionista da evadere?». 

Già nei giorni scorsi il direttore dell'Agenzia delle Entrate aveva ricordato come il cosiddetto magazzino, ovvero l'insieme di tutti i debiti da riscuotere (non solo in relazione a tributi ma anche a multe stradali ed altre partite) sia arrivato ormai a 1.100 miliardi. Di cui però solo alcune decine possono ragionevolmente essere recuperati, visto che gli elenchi contengono anche soggetti defunti, falliti o comunque non in grado di pagare. Sui già citati 19 milioni di contribuenti solo 3 hanno aderito alle varie forme di rottamazione, con un ricavato di circa 20 miliardi.

Per quanto riguarda le operazioni per liberare il magazzino dei crediti che non si riesce a incassare, Ruffini ha ribadito ieri che «in programma c'è l'attuazione degli istituti della rateizzazione, c'è il completamento della rottamazione in corso. Riscuotiamo molto meno di quello che riceviamo da riscuotere». 

«La macchina fiscale - ha concluso - è tornata alla normalità, siamo pienamente operativi perché il legislatore così ci ha chiesto di essere. Abbiamo sospeso la nostra attività nel 2020 e 2021, c'è stato detto di ricominciare, abbiamo rimodulato l'attività in modo non improvviso, dividendo nel 2022 il pregresso, abbiamo decine di milioni di atti e stiamo procedendo».

A proposito della legge delega di riforma del fisco ancora all'esame del Parlamento (il suo percorso dovrebbe riprendere nei prossimi giorni dopo l'accordo politico tra governo e maggioranza) il direttore delle Entrate non è entrato nel merito dei temi specifici, dando però una forte indicazione a favore della razionalizzazione del sistema: «È una delega, aspettiamo di vedere la norma delegata per esprimere un giudizio, la cosa a cui tengo di più è la riorganizzazione delle norme». La sfida è coordinare e codificare una normativa che si è stratificata nel corso degli anni: «Prima bisogna fare ordine, poi si può vedere quali norme si possono cambiare, altrimenti si fa altra confusione», ha concluso Ruffini.

Ruffini sugli evasori? Come Doctor Jekyll e Mister Hyde. Domenico Ferrara il 5 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il direttore dell'Agenzia delle Entrate, nel giro di 24 ore, ha detto tutto e il contrario di tutto.  

All'anagrafe è Ernesto Maria Ruffini. Ma nella realtà è Doctor Jekyll e Mister Hyde. Già, perché il direttore dell'Agenzia delle Entrate, nel giro di 24 ore, ha detto tutto e il contrario di tutto. Doctor Jekyll: "La pena detentiva per chi non paga le tasse non mi ha mai convinto. Preferisco mettere in carcere l'evasore così poi fallisce l'attività o farlo lavorare finché non ripaga la collettività? Sono 19 milioni le persone che non pagano le tasse. Li abbiamo individuati, ma a chi conviene metterli tutti in cella?".

Mister Hyde: "Abbiamo circa 800 norme tributarie, stratificate nel tempo e un Testo unico, che dalla sua approvazione nel 1986 è stato modificato più di 1.200 volte: in media 1 ogni 10 giorni. In un contesto simile il rischio è duplice: il contribuente onesto fatica a raccapezzarsi, il disonesto invece, proprio grazie alla confusione, ha la possibilità di riuscire a nascondersi". Insomma, in un battibaleno 19 milioni di italiani sono passati da evasori a vittime di un sistema fiscale malsano.

Ma mentre la prima affermazione è alquanto esagerata e non supportata da prove certe (vogliamo davvero sostenere che chi non ha pagato una multa o ha ricevuto una cartella sia un evasore?), la seconda invece è appurata, certa, lapalissiana, inconfutabile. E non tanto perché l'ammissione arriva dal capo del Fisco, ma perché sono decenni che si parla di necessità di migliorare un sistema oppressivo che considera il contribuente un suddito sempiterno colpevole a cui spetta sempre l'onere della prova.

Come se non bastasse, Ruffini ha pure ammesso che "in magazzino ci sono circa 150 milioni di cartelle accumulate". Ma quand'è che si comincerà a invertire gli assunti della discussione e si comincerà a dire: "Il Fisco ha un problema. Punto"?

Era così difficile per Ruffini sostenere che: "Abbiamo circa 800 norme tributarie, stratificate nel tempo e un Testo unico, che dalla sua approvazione nel 1986 è stato modificato più di 1.200 volte: in media 1 ogni 10 giorni. In un contesto simile il rischio è duplice: il contribuente onesto fatica a raccapezzarsi, il disonesto invece, proprio grazie alla confusione, ha la possibilità di riuscire a nascondersi. Inoltre in magazzino ci sono circa 150 milioni di cartelle accumulate. A causa di tutto questo, ci troviamo 19 milioni di italiani che hanno debiti col Fisco". Era un esercizio così assurdo?

Così l'Erario ci tratta solo come sudditi da spremere. Felice Manti il 5 Giugno 2022 su Il Giornale.

L’esperto: su 80 miliardi di evasione contestati solo 10 sono accertati. I funzionari insistono pure quando hanno torto. Tanto loro non pagano.

Si scrive evasione fiscale, si legge inefficienza dello Stato. Il direttore dell'Agenzia delle Entrale Ernesto Maria Ruffini ieri ha ribadito il suo teorema: «In Italia ci sono 19 milioni di evasori, lasciamoli lavorare affinché ripaghino il debito». Una frase dal sapore medievale, che rispecchia la concezione dell'Erario degli italiani: non contribuenti che creano ricchezza in cambio di servizi ma sudditi, servi della gleba che lavorano per alimentare il buco nero della spesa pubblica.

In algebra la «regola di Ruffini» (dal matematico Paolo) permette di scomporre velocemente un qualunque polinomio. Bene, se scomponiamo il postulato di Ruffini scopriremo che il primo problema è l'enorme pressione fiscale a cui siamo sottoposti. Da 157 giorni, come ricorda la Cgia di Mestre, gli italiani lavorano per onorare tutti gli adempimenti fiscali dell'anno (Irpef, Imu, Iva, Tari, addizionali varie, Irap, Ires, contributi previdenziali, eccetera). Solo da domani scatta il cosiddetto Tax freedom day e si inizia a lavorare per noi. Su una cosa Ruffini ha ragione, quando dice che gli evasori li conosce tutti. Il 90% delle cartelle esattoriali arriva a persone perfettamente note al fisco: dipendenti, partite Iva, professionisti, gente che ha dichiarato le imposte da versare ma non è riuscito a pagare. Eppure si è visto (di nuovo) invaso da una pioggia di cartelle ultimative. Come se la pandemia e la guerra non ci fossero mai state.

L'evasione fiscale vera è altrove. Nel riciclaggio che si nasconde nelle transazioni anonime di contanti verso wallet digitali tipo Amazon ricarica in cassa, come dimostrato dalle inchieste del Giornale, mentre lo Stato insiste con la lotteria degli scontrini (ieri è stato estratto il premio da 5 milioni durante Germania-Italia) e al fallimentare cashback firmato Giuseppe Conte, altra paglia dove nascondere gli aghi del nero e senza portare un euro in più (dice la Corte dei Conti).

«Gli evasori non risulteranno quasi mai destinatari di cartelle», dice il commercialista Gianluca Timpone, che ricorda come l'Erario abbia elaborato un algoritmo predittivo (rivelato dal Giornale l'8 giugno 2021, ndr) che incrocia le 136 banche dati disponibili. Ma così si lascia impunito chi riesce ad essere trasparente per il fisco. Nullatenenti, società con prestanomi, eccetera. «L'evasore non transita nelle banche dati perché non presenta nessun modello dichiarativo, né dichiarazione dei redditi né dichiarazioni Iva né fatture elettroniche». Per snidare gli evasori servono più accertamenti analitici sul campo, ma l'Agenzia ha 30mila dipendenti a controllare circa 38 milioni di contribuenti. Ognuno ha a carico 1.270 contribuenti, ma con tempi medi di accertamento superiori a 60 giorni, un dipendente può verificare due, tre aziende all'anno.

Ci sono cartelle esattoriali per un controvalore di mille e cento miliardi. Ma soltanto una piccola percentuale si può effettivamente riscuotere. Eppure l'ex Equitalia anziché cancellare debiti ormai inesigibili li lascia annegare nel bilancio dello Stato, con un costo enorme di cui nessuno parla. «A volte - è il ragionamento di Timpone - bisogna avere il coraggio di riconoscere quando il cittadino non ha evaso». I funzionari dell'Agenzia delle Entrate difficilmente mollano la presa, perché la valutazione dei funzionari non si basa sulle imposte riscosse ma su quelle accertate. I freddi numeri dicono: 80 i miliardi di evasione accertata, 10 quelli recuperati.

Poi c'è il tema della compliance, della conformità alle regole, e della scarsa collaborazione dell'Erario. Le norme fiscali sono «scritte male e si lasciano interpretare», dice amaramente Timpone. Se n'è accorto anche Ruffini: «Ci sono i presupposti per fare una riforma, vedremo poi come continuerà». Non è un problema da poco. «Non è detto che un contribuente abbia effettivamente violato una norma, ad interpretarla (male) a volte è la stessa Agenzia - sottolinea il professionista - nonostante la prassi e la giurisprudenza sia di parere contrario». A volte il contribuente viene condannato semplicemente per errori formali di norme processuali. Ma ci sono sentenze che comunque vengono ribaltate perché gli ermellini, non potendo entrare nel merito, ne contestano alcuni aspetti giuridici. «Ma nel frattempo il contribuente deve anticipare un terzo delle imposte presuntamente evase». E se la Cassazione dà ragione al contribuente chi paga? La fiscalità generale. «Invece ci vorrebbe una legge - riflette il commercialista - che addebiti le spese al funzionario che ha portato l'accertamento fino al terzo grado, pur essendo consapevole della sostanziale innocenza del contribuente». E sui professionisti diventati delatori si abbattono gli oneri dell'antiriciclaggio: basta una carta d'identità scaduta per far scattare una sanzione. «Siamo utilizzati dall'Agenzia delle Entrate per agevolare il loro lavoro, vedi i tanti adempimenti per alimentare le informazioni nelle banche dati. In pratica siamo loro dipendenti, pagati dai clienti contribuenti», è la conclusione di Timpone. Mentre sull'Iva (la tassa più evasa d'Europa) la Ue ragiona per blockchain - database condivisi tra Stati e contribuenti - mentre lo Stato insiste col Cloud pubblico e blindato. Un motivo ci sarà.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 21 maggio 2022.

«La stabile organizzazione occulta di una società estera completamente priva di personale e caratterizzata esclusivamente da una struttura tecnologica avanzata»: non è la affascinante trama di una nuova serie di Netflix, ma la realtà che secondo la Procura di Milano ha consentito proprio a Netflix di accumulare per anni profitti in Italia senza versare un solo euro di tasse nel nostro paese. 

Grazie a trecentocinquanta server sparsi per la Penisola sulle reti telefoniche, il segnale in streaming dei film del colosso americano arrivano in altissima qualità nelle case degli italiani: ma fino all'altroieri per il fisco italiano era come se Netflix non esistesse. 

Adesso è pace fatta, o quasi. Il colosso si impegna a versare una robusta multa - oltre cinquantacinque milioni di euro - all'Agenzia delle entrate, e soprattutto a impiantare sul nostro territorio una struttura aziendale a tutti gli effetti. Dal gennaio scorso ad incassare i proventi degli abbonamenti italiani non è più la Netflix International BV con sede in Olanda ma la Netflix Italy srl, che qui pagherà le tasse relative.

Tutto nasce dall'inchiesta della Procura di Milano: «il primo caso in ambito mondiale», spiega ieri il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, capo del pool sui reati economici internazionali, in cui si riesce a chiudere il cerchio intorno a queste società «fluide» della digital economy. 

Quando l'inchiesta venne alla luce, nel 2019, negli accertamenti della Guardia di finanza gli abbonamenti italiani a Netflix assommavano a circa un milione e mezzo. Lo scorso 6 maggio, quando l'azienda ha diramato il suo ultimo conteggio, il totale delle utenze aveva superato i cinque milioni.

Una crescita esponenziale (anche se ultimamente rallentata dall'ingresso in campo di altre piattaforme rivali) che la dice lunga sulla quantità di liquidi messi in circolazione dalla passione incontenibile per serie e film dal divano di casa. E fa sì che alle tariffe attuali a Netflix basteranno gli incassi italiani di un mese per saldare il conto con l'Agenzia delle entrate. 

«Siamo soddisfatti - dichiara ieri un portavoce di Netflix - di aver posto fine a questa vicenda, che ha riguardato gli anni fiscali 2015-2019. Abbiamo mantenuto un dialogo ed una collaborazione costanti con le autorità italiane e continuiamo a credere di aver agito nel pieno rispetto delle norme italiane e internazionali applicabili al caso di specie».

La Procura di Milano, guidata dal nuovo capo Marcello Viola, resta di diverso avviso.

Sia perché la svolta accettata da Netflix è la riprova che il vecchio sistema non era del tutto rispettoso delle «norme italiane e internazionali», sia perché resta aperta l'indagine penale, che vede indagati per omessa denuncia dei redditi alcuni manager della società. 

Si tratta esclusivamente di manager stranieri, individuati dalle «fiamme gialle» milanesi come amministratori della Netflix olandese agli inizi dell'inchiesta. Ma è verosimile che con l'accordo sul fronte delle tasse anche l'indagine giudiziaria possa arrivare a conclusione senza troppi danni.

Rispetto alle altre inchieste della Procura milanese sui giganti della economia digitale, l'indagine su Netflix era una novità assoluta: mentre Google, Facebook e gli altri colossi avevano in Italia una struttura fisica, dipendenti e dirigenti, eppure erano sconosciuti al fisco, la piattaforma di streaming aveva come unica presenza italiana la tecnologia, i server, le infrastrutture. 

Per questo è stato tanto difficoltoso quanto importante inquadrare giuridicamente il Content delivery network attraverso cui arrivava nelle case il segnale di Netflix, e dimostrare che - anche senza un solo impiegato in Italia - anch' essa era di fatto una azienda italiana.

Ferruccio De Bortoli per “L’Economia - Corriere della Sera” il 16 maggio 2022.  

Se lo stracitato marziano di Ennio Flaiano fosse arrivato a Roma nella primavera del 2022, avrebbe ovviamente avuto molte occasioni per cui stupirsi. Dibattito extraterrestre sul termovalorizzatore a parte.

Come prima cosa avrebbe constatato che nel caso di un’invasione — ma il marziano della commedia teatrale di Flaiano è imbelle, anzi finisce per essere vittima dei nostri difetti — il dibattito pubblico italiano si sarebbe concentrato sulle colpe degli aggrediti. Dunque, via libera? No, conoscendoci meglio il nostro strano ospite alla fine avrebbe consigliato ai suoi simili di lasciar perdere. Inutile invaderci. A maggior ragione dopo aver assistito una lunare discussione sulla riforma fiscale. Perché? Che cosa ne avrebbe dedotto? Prima di tutto che l’impegno generale di tutte le forze politiche — assolutamente encomiabile — è quello di ridurle. In Italia sono troppe. La pressione fiscale è elevatissima. Bravi.

Salvo poi chiedersi se non ci sia qualcosa di esoterico, di imperscrutabile, nel nostro modo di essere, di affrontare la realtà. All’articolo 10 della legge delega è scritto a chiare lettere che la riforma — così generosa di promesse di pagare meno tasse debba avvenire «senza maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Miracoli in Terra. Com’è possibile? C’è qualcosa di assolutamente irresistibile nella capacità italiana di (non) fare i conti, avrebbe pensato il nostro marziano, al quale Flaiano diede il nome di Kunt. Meglio restare alla larga da questi qui.

Ha ragione Luigi Marattin, presidente della Commissione Finanze della Camera, che ha messo nell’opera titanica di riordinare i tributi competenza e passione: il dibattito sulla riforma fiscale è stato ed è il trionfo dell’ipocrisia. La maggioranza ha votato, il 5 ottobre scorso, all’unanimità (ma con l’uscita dei ministri leghisti) il testo della legge delega. Poi ognuno è andato per conto proprio. Sciolti. E si è discusso solo di catasto. Non del resto. 

Marattin, ospite nei giorni scorsi a Cernobbio del Forum delle professioni, organizzato da The European House-ambrosetti e da Teamsystem, si è lasciato andare all’amara considerazione che dei dieci articoli della riforma ci si è accapigliati solo sull’unico aspetto, il catasto, che non ha effetti fiscali.

La legge stessa fa sì che la nuova mappatura degli immobili non abbia conseguenze immediate sul calcolo dell’imu. Ma quando la radiografia sarà realizzata, non prima del gennaio del 2026, saremo in un’altra legislatura, con un nuovo governo. E sempre di legge ordinaria si tratta. Il Parlamento è sovrano (e chissà in quali condizioni di finanza pubblica ci troveremo, ma questo è un altro discorso).

Dunque, la promessa che le tasse sulle case non aumenteranno è un semplice auspicio. Parlare di certezza è invece un inganno. Anche perché alla rendita catastale se ne aggiunge un’altra, pur separata, che potrebbe facilmente essere usata per ridefinire gli imponibili ai fini dell’imu. 

Gli enti locali hanno comunque conservato la facoltà di collegare gli estimi ai valori di mercato. La riforma in ogni caso prevede tempi lunghi. Un massimo di 18 mesi per i decreti delegati. Ma va, finalmente, nella direzione giusta, cioè quella di ridurre il carico fiscale sul lavoro autonomo e d’impresa). Il principio costituzionale della progressività è limitato all’imposta sulle persone fisiche.

La flat tax per le partite Iva è confermata al 15 per cento. C’è un’ipotesi di portarla al 20 per cento fino a 80 mila euro. E soprattutto di evitare gradini eccessivi, frenando la tendenza del nero. Per gli autonomi è prevista poi la possibilità di superare il sistema degli acconti, spesso su redditi nemmeno incassati o del tutto teorici. 

La tassazione sui redditi da capitale, mobiliare e immobiliare, varia oggi dallo zero (dei Pir, i Piani individuali di risparmio) al 10 per cento per la cedolare secca, al 26 per cento sulle plusvalenze. Vi sarà un riordino? In quale direzione? Silenzio operoso (forse). Il principio di neutralità fiscale è nello spirito della delega.

Un primo intervento sull’irpef e sull’irap è già stato apportato con la Legge di Bilancio 2022 per un costo annuale di 6 miliardi. Le aliquote Irpef potrebbero essere ulteriormente ridotte a tre. L’irap è già stata abolita per 835 mila persone fisiche o ditte individuali, poi toccherà a professionisti, alle società di persone e, in prospettiva, a quelle di capitali, ma ovviamente bisognerà aumentare l’ires.

I conti

Di quanto? Peccato che non se ne parli. La semplificazione è un impegno prioritario. «Non è da Paese civile — nota Marattin — avere 341 pagine di istruzioni su come fare una dichiarazione fiscale». Sono circa 800 le leggi fiscali in vigore. Anche per l’iva la riforma prevede un riordino o meglio una migliore ripartizione tra beni e servizi con l’obiettivo finale di ridurre a due le aliquote. Con la conseguenza che in diversi casi, l’iva aumenterà. Inevitabile. Discorso scomodo, e certamente inopportuno, in una fase di forte inflazione e di esplosione dei costi delle materie prime, ma non eludibile.

Parlando a Cernobbio a una platea di professionisti, Marattin ha spiegato che vi sono alcuni temi, di grande importanza, che sono rimasti fuori dalla delega fiscale. In primo luogo, lo scoglio della riscossione e degli accertamenti, che tra l’altro incide fortemente sull’attrattività degli investimenti esteri. 

Non ha alcun senso dichiarare di avere un «magazzino fiscale», di tributi non versati, del tutto teorico, superiore a mille miliardi, essendo nel tempo morte le persone e decedute le aziende. La parte aggredibile è intorno agli 80 miliardi. Si avrà il coraggio di cancellarli, dato che sono crediti inesigibili che però paralizzano l’attività dell’agenzia delle Entrate?

C’è poi l’anomalia, tutta italiana, dei giudici tributari (2700), del loro ruolo e delle loro competenze. Metà delle sentenze emesse è riformata nei gradi successivi. Marattin denuncia poi il caso di 20 microtributi, con gettito complessivo non superiore ai 200 milioni, privi di una corretta codificazione. Si disperdono nella giungla fiscale fino a risultare difficilmente tracciabili. 

Onestà intellettuale

«Se vogliamo ridurre il carico fiscale sui flussi legati al lavoro - spiega Tommaso Di Tanno, fondatore della Di Tanno & associati - dobbiamo avere l’onestà intellettuale di dire che occorrerà un maggior prelievo sui fattori diversi dal lavoro. Quali sono? I consumi, ovvero l’iva e le accise; per quanto riguarda il patrimonio, la tassazione sui proventi finanziari e sulla proprietà immobiliare (Imu, Tari, Tasi) e poi tutto ciò che attiene alla funzione pubblica, imposte di registro, ipotecarie, catastali, concessioni governative e altre minori. Tutto ciò nella delega fiscale è visibile in prospettiva, si scorge all’orizzonte, ma lo si rimuove con lo sguardo fisso al presente e alle prossime elezioni amministrative e politiche».

Quanto manca all’appello per rispettare l’articolo 10 della legge delega? Mal contati 15 miliardi (grosso modo il gettito dell’irap). Si può pensare di recuperarli con il margine fiscale che lo scorso anno è stato accresciuto dalla forte ripresa e dagli incassi superiori al previsto della fatturazione elettronica. O dalla lotta all’evasione fiscale, nell’intesa che tutto ciò che si recupera dovrebbe, come la legge già prevede, andare a beneficio di chi paga le tasse. Ma vi è sempre stato, anche con questo governo, qualcuno con un potere di lobby superiore. Il contribuente onesto, fino in fondo, non fa lobby. Paga e basta. In silenzio.

Mario Giordano, "quanti giudici tributari arrestano all'anno": in che mani siamo, inquietante. Mario Giordano su Libero Quotidiano il 10 maggio 2022.

Per gentile concessione dell’editore Rizzoli e dell’autore Mario Giordano pubblichiamo un estratto del libro «Tromboni. Tutte le bugie di chi ha sempre la verità in tasca», in libreria da oggi. Di seguito, la prima parte del capitolo dedicato ai tromboni della giustizia.

Dicono che finalmente si farà la riforma della giustizia. Dicono che è la volta buona. Non come negli ultimi trent'anni che era sempre la volta buona ma poi non lo era mai. Dicono: «Accelerare i tempi dei processi». E poi: «Evitare la politicizzazione delle toghe». E poi: «Ripristinare la fiducia dei cittadini». Dicono sempre le stesse cose e dicono che non bisogna dubitare. Che ora tutto cambierà. E io ci credo, per carità. Però...

Il giudice tributario? È pignorato dal fisco. Non è uno dei colmi che recitavamo da bambini, come quello del pizzaiolo che ha la figlia capricciosa o quello dell'idraulico che non capisce un tubo. No: il giudice tributario pignorato dal fisco è una realtà. Stiamo parlando di Raffaele Di Ruberto, foggiano, 55 anni, membro della commissione tributaria di Latina, uno di quelli chiamati a giudicare sui contribuenti che non assolvono i loro doveri con il fisco. Peccato che, stando alle carte, nemmeno lui assolva i suoi doveri con il fisco: risulta infatti aver accumulato, nel corso degli anni, un debito con lo Stato di ben 130.000 euro. Sia chiaro: le carte ufficiali non sempre sono aggiornate, magari nel frattempo lui ha ripagato fino all'ultimo centesimo. O ripagherà presto. Oppure farà ricorso in Cassazione e vincerà. Ma il dubbio resta: può essere serena nel giudicare i rapporti tra cittadini ed erario una persona alla quale il medesimo erario sta chiedendo 130.000 euro?

INGEGNOSO SISTEMA

Non è l'unico caso, purtroppo. Donato Arcieri, 59 anni, lucano trapiantato in Lombardia, è stato arrestato nel dicembre 2021. Era giudice nella commissione tributaria della Lombardia. Insieme ad altre persone avrebbe architettato un sistema per frodare il fisco: 90 milioni sottratti allo Stato, anche attraverso un ingegnoso meccanismo che passava per l'acquisto di fiches nei casinò. Due anni prima erano finiti in manette due giudici tributari di Salerno, Fernando Spanò e Giuseppe De Camillis: avrebbero venduto sentenze in cambio di denaro. Dai 5000 ai 30.000 euro a botta. Nelle intercettazioni le tangenti venivano chiamate «mozzarelle». Proprio così: mozzarelle, magari con un filo d'olio per ungere meglio. Una bontà. In media «vengono arrestati uno o due giudici tributari l'anno», ammette Antonio Leone, il presidente del CPGT (Consiglio di presidenza della giustizia tributaria).

CASO GREGORETTI

Ma il numero non lo scandalizza perché «i giudici tributari sono tremila». Si capisce, caspita: volete che ogni tremila giudici tributari non ce ne siano un paio che frodino il fisco? O che prendano tangenti? O che almeno non paghino le tasse? Ma come potrebbe essere? Sarà che siamo cresciuti con un rispetto devoto per la giustizia. E per le tante persone oneste che sacrificano la loro vita in suo nome. Ma non riusciamo ad accettare che tutto questo sia normale. Così come non riusciamo ad accettare come normali le performance di magistrati alla Nunzio Sarpietro. Lo ricordate? Il 28 gennaio 2021, in piena emergenza pandemica, è arrivato a Roma per interrogare l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul caso Gregoretti, quello con Matteo Salvini nella parte dell'imputato. E dopo aver improvvisato un inopportuno show davanti a Palazzo Chigi sparando giudizi non dovuti sul capo del governo («Il premier mi ha fatto un'ottima impressione»), ha pensato bene di infrangere tutte le regole andando a pranzo in un ristorante (vietato) violando la zona arancione (vietatissimo). Il ristorante, ovviamente, era chiuso per tutti i cittadini comuni. Ma non per lui. Gli inviati delle Iene lo hanno beccato in flagranza di scampi, gamberi rossi e branzino al sale. Come vino, ovviamente, champagne. «Mi trovavo in stato di necessità» s' è giustificato lui. «Altrimenti avrei dovuto mangiare un trancio di pizza...»

Ma si capisce, poveretto: può il giudice Sarpietro mangiare un trancio di pizza come tutti i comuni mortali? Macché. Ci vuole lo champagne. E dunque per lui lo champagne (con scampi e gamberi rossi) è «stato di necessità». Così come è «stato di necessità» violare quelle regole che in realtà avrebbe il dovere di far rispettare a tutti i cittadini. Normale? E va be'. Se il comportamento del magistrato Sarpietro vi sembra normale, allora sarà normale anche quello del magistrato Piero Gamacchio, pure lui memorabile nei suoi approcci al ristorante. Giudice in Corte d'Appello a Milano, già protagonista di processi famosi come quello al Banco Ambrosiano, Gamacchio è un amante di piatti ricercati, tartufo bianco e vini pregiati. E, per gustarli, non ha mai esitato a girare tutti i migliori locali di Milano. Che dite? Il conto così viene un po' salato? Certo. Ma al giudice della Corte d'Appello non interessava. Anche perché lui, in genere, non pagava. Lui mangiava a scrocco. Era abituato così: si abbuffava, salutava e se ne andava. Senza mai farsi portare il conto. In questo modo ha accumulato debiti su debiti. «Si è trattato di un comportamento di grave leggerezza, me ne vergogno profondamente e presto porrò rimedio» ha ammesso lui. Ma solo quando è stato scoperto. Guarda un po'. Non se n'era accorto prima che il comportamento era «di grave leggerezza»? E, visto che parla di «porre rimedio», come potrà porre rimedio alla sfiducia che queste imprese generano nei cittadini? Anche perché chi mette in atto queste imprese, se veste la toga, quasi sempre la passa liscia.

L'APERITIVO

Come Claudia Ferretti. Magistrato, con un incarico importante, quello di sostituto procuratore a Modena, un giorno in pieno lockdown si è concessa un aperitivo irregolare alla Salumoteca Bruno Parrucca di Scandiano (Reggio Emilia), insieme a due amici, di cui uno, per altro, ergastolano in semilibertà con alle spalle una condanna per associazione mafiosa. Vi sembra opportuna la scelta di violare le regole della zona rossa in compagnia di un ergastolano? Non tanto, no? Eppure il CSM (Consiglio superiore della magistratura, l'organo di autogoverno delle toghe) esamina il caso e archivia tutto. Come sempre. O quasi sempre. Di recente, in effetti, una sanzione del CSM c'è stata: quella al capo della procura di Firenze, Giuseppe Creazzo. Accusato di aver molestato una collega palpeggiandola nelle parti intime, ha ricevuto l'adeguata punizione. Gli hanno tolto due mesi di anzianità lavorativa. Avete capito bene: perderà due mesi di contributi previdenziali per un reato che a un comune cittadino costa dai sei ai dodici anni di reclusione. Eppure lui si è lamentato. «Sentenza ingiusta» ha commentato. A chi lo dice.

Felice Manti per “il Giornale” il 10 maggio 2022.

Ha denunciato una compensazione illegittima del suo consulente fiscale. E la giustizia, dopo aver riconosciuto come anche lui fosse una vittima, gli ha portato via tutto. È l'incredibile disavventura di Ivan Sorrenti, 44 anni, titolare di un'impresa nel settore energetico del milanese, che si è visto riempito di debiti, con la casa sequestrata e messa all'asta. E meno male che un giudice ne ha sentenziato l'innocenza. 

Per capire questa storia bisogna andare indietro di una decina d'anni, quando Ivan si rivolge ad un commercialista di Novate Milanese, G.B., per le cartelle di Equitalia. Ha un debito di circa 75 mila euro che con il passaggio a ruolo è diventato superiore ai 150 mila. E vuole risolvere il problema: sono gli anni dei suicidi degli imprenditori e delle cartelle che lievitano a dismisura, con il fisco che non lascia tregua.

E, sulla scia delle proteste, è appena nata la legge 3, ribattezzata appunto «salva suicidi», con cui si possono estinguere i debiti. «Ma il mio consulente fiscale - racconta Ivan - non se n'era mai occupato. Mi consigliarono così di rivolgermi a questo professionista di Novate Milanese». 

G.B. gli consiglia intanto di chiedere la rateizzazione massima e gli parla di possibili compensazioni fiscali grazie alla legge 3: «Pagai inizialmente 4mila euro. L'accordo prevedeva poi un 10% da versare sul risparmio effettivamente ottenuto con l'erario». Ivan va allo sportello, ottiene intanto la dilazione e la consegna al professionista. Passano tre anni.

«Da Novate mi chiamano e mi dicono di saldare perché l'operazione era andata a buon fine. A quel punto il mio commercialista mi dice di farmi dare le carte sul lavoro svolto prima di pagare». Anche perché la sua posizione debitoria con l'erario risulta di appena 3 mila euro. Troppo poco, anche con la legge 3. Ivan decide di approfondire.

Scopre così che G.B. gli aveva fatto compensazioni per investimenti in aree svantaggiate, a Gela, dove non ha mai messo piede. «Una cosa surreale - spiega l'avvocato Claudio Defilippi, che difende l'imprenditore - tanto che Ivan, siamo nel 2017, denuncia tutto alla Procura di Milano. D'altra parte lui non aveva mai incaricato nessuno di fare un'operazione del genere, che è una palese compensazione illegittima». 

Ivan si aspetta naturalmente che Equitalia torni a presentargli il conto di prima: «Invece è più o meno raddoppiato dalle sanzioni. E quasi raddoppiato ulteriormente - prosegue il legale - dagli interessi. Siamo a circa 600 mila euro».

Ma è il meno. Due anni più tardi, infatti G.B. viene arrestato per aver fatto compensazioni fasulle in mezza Italia per oltre 20 milioni di euro. E lo stesso Ivan, che lo aveva denunciato, viene indagato in due procedimenti connessi. A Milano e a Gela. «A Milano - dice Defilippi - il processo si conclude con l'assoluzione nella formula più ampia, ovvero per non aver commesso il fatto, dietro richiesta della Procura stessa. Dunque, un'assoluzione definitiva». 

Caso dunque chiuso? Nemmeno a parlarne. Perché invece a Gela il procedimento connesso va avanti. E per via della bizzarra normativa che equipara evasori e mafiosi la casa di Ivan viene sequestrata preventivamente. Non solo. Per far fronte ai debiti moltiplicati di Equitalia, Ivan non è riuscito a pagare il mutuo e la banca ha pignorato la sua casa e ne ha chiesto la vendita. Un effetto domino infinito.

Dice Defilippi: «Il mio cliente ha ricusato il giudice perché sulla casa insiste anche un fondo patrimoniale. Ma ad oggi non è cambiato nulla. Sicché c'è un uomo che ha fatto scoprire una compensazione illegittima, che è già stato sicuramente riconosciuto innocente in un processo dalla giustizia, cui la stessa giustizia porta via tutto prima ancora dell'esito del secondo troncone del procedimento, caricandolo quattro volte dei debiti che aveva prima e impedendogli, di fatto, di pagare un mutuo. 

E ora, proprio lui che aveva denunciato, si deve difendere da tutti. Una cosa così, giuro, non l'avevo mai vista prima. Verrebbe da chiedersi, a questo punto, se alle persone convenga denunciare data la risposta dello Stato. Ma, nonostante tutto, noi abbiamo fiducia nella giustizia e cerchiamo un giudice a Berlino».

PER IL FISCO SIAMO TUTTI COLPEVOLI FINO A PROVA CONTRARIA. Da privacychronicles.substack.com il 9 maggio 2022.

Dopo aver parlato della follia e del pericolo di dare all’Agenzia delle Entrate la capacità di trattare dati sanitari, per scovare e punire i “novax”, oggi parliamo dei suoi nuovi super-poteri “anti-evasione”, che da qualche mese interessano anche l’attività del Garante Privacy. 

Rischio fiscale, tutti colpevoli fino a prova contraria

Di recente il Garante Privacy ha dato un parere in merito allo schema di decreto proposto dal MEF per dare attuazione alla legge di Bilancio 20201. Lo schema prevede le misure per attivare un nuovo potere dell’Agenzia delle Entrate: l’analisi dei dati per valutare il “rischio fiscale”.

La legge definisce rischio fiscale come il “rischio di comportamenti attuati in violazione di norme di natura tributaria ovvero in contrasto con i principi o con le finalità dell’ordinamento tributario”. Non confondiamo il rischio, che è la possibilità astratta che possa verificarsi un evento, con la certezza di commissione di un illecito. Qui di certo non c’è nulla. 

L’analisi sarà fatta grazie all’intreccio di diversi dati, come i dati relativi ai rapporti finanziari, cioè i movimenti sui conti corrente, ai dati su depositi e prelievi, oltre che alle banche dati della Guardia di Finanza. Al centro ci sarà il codice fiscale delle persone, che sarà usato come punto fermo a cui collegare tutte le altre informazioni. Lo scopo è in buona sostanza usare milioni di dati per valutare il comportamento delle persone e valutare il rischio fiscale.

Nella pratica saranno usati due dataset diversi: uno di analisi, che comprenderà dati nella disponibilità dell’Agenzia, e uno di controllo, che invece riguarderà i dati caratterizzati da rischio fiscale. I dati di analisi saranno cancellati ogni 8 anni, mentre quelli di controllo ogni 10. 

Superando la coltre di tecnicismi, la valutazione del rischio fiscale non è nient’altro che una valutazione sistematica e globale di azioni, comportamenti e dati (anche probabilistici), sulla quale si fonderanno decisioni, anche automatizzate, che avranno effetti giuridici molto rilevanti su milioni di persone. In una parola: profilazione. 

È un sistema che per sua natura capovolge il principio di presunzione d’innocenza: siamo tutti sospetti e quindi potenzialmente soggetti a sorveglianza e profilazione, fino a prova contraria.

Il nuovo potere di profilazione conferma un trend iniziato con la fatturazione elettronica, e si va a sommare ai poteri informativi già incredibili di cui gode l’Agenzia da qualche anno. Le fatture elettroniche, che non sono altro che un file XML pieno zeppo di dati. Un tesoro informativo che dà all’Agenzia delle Entrate il potere di conoscere ogni singolo aspetto della nostra vita. Basta pensare che ogni anno in Italia vengono emesse più di 2 miliardi di fatture per i motivi più disparati: divertimento, questioni di salute, lavoro, educazione, e servizi di ogni tipo. 

Recentemente il Garante ha definito così il trattamento di dati legato alla fatturazione elettronica: 

“La memorizzazione integrale dei file XML, corredati dei relativi allegati […] comporta comunque la concentrazione presso l’Agenzia delle entrate di miliardi di fatture elettroniche contenenti dati, anche appartenenti a categorie particolari o relativi a condanne penali e reati, riferiti a ogni aspetto della vita quotidiana, abitudini e scelte di consumo delle persone fisiche. […] determinano un’ingerenza, sistematica e preventiva, nella sfera privata più intima delle persone fisiche, non proporzionata all’obiettivo di interesse pubblico.” 

Non è la prima volta che il Garante si espone sul tema. Già nel 2020 aveva dato un parere negativo sullo schema attuativo per la conservazione dei dati della fatturazione elettronica proposto dal Direttore dell’Agenzia delle Entrate, paragonandolo a un sistema di sorveglianza di massa degli italiani:

“[…] Configura un sistema di controllo irragionevolmente pervasivo della vita privata di tutti i contribuenti, senza peraltro migliorare il doveroso contrasto dell’evasione fiscale.“ 

La limitazione dei nostri diritti

Non ci sono solo la profilazione e la sorveglianza di massa a preoccuparmi, ma anche un secondo aspetto relativo ai nostri diritti. Lo schema in esame prevede infatti ampie limitazioni dei diritti su dati previsti dalla normativa europea. Quei diritti cioè che permettono alle persone di controllare i loro dati e, quindi la loro vita. 

La prima limitazione è relativa al diritto di accesso ai dati, che prevede il potere di conoscere se è in corso o meno un trattamento di dati e di ottenere informazioni significative. Ecco, questo non sarà possibile. Lo schema propone infatti di escludere il diritto di accesso, almeno fino a dopo aver ricevuto l’invito a regolarizzare la propria posizione fiscale. Solo quando l’Agenzia delle Entrate avrà deciso che siamo colpevoli, avremo allora diritto di chiedere l’accesso ai dati.

Il motivo della limitazione del diritto di accesso è chiaro: il legislatore vuole proteggere a tutti i costi la segretezza delle attività di sorveglianza dell’Agenzia, come se fosse a tutti gli effetti un organo di intelligence o di polizia. L’Agenzia ha il diritto di metterci sotto sorveglianza, ma noi non abbiamo il diritto di saperlo - se non a giochi fatti. Il culmine dello stato di diritto. 

Lo schema attuativo limita anche altri diritti, come la possibilità di richiedere la limitazione del trattamento, il diritto di opposizione e il diritto di cancellazione. Una volta entrati nel sistema è impossibile uscirne.

Questi diritti sono uno strumento fondamentale per proteggere attivamente la nostra vita contro possibili abusi, errori e conseguenze giuridiche derivanti da profilazione e processi decisionali automatizzati. La limitazione ex lege ci lascia alla mercé del potere, pressoché illimitato, dell’Agenzia delle Entrate. Anche il Garante Privacy la pensa allo stesso modo, affermando nel parere sullo schema che la limitazione “rischia di ostacolare più in generale il diritto di difesa del cittadino, protraendo anche condotte illecite”.

Come posso, ad esempio accertarmi che i dati su di me siano corretti e aggiornati, e nel caso in cui non lo siano, correggere l’azione dell’Agenzia delle Entrate, se non ho neanche il diritto di sapere che c’è un trattamento di dati che mi riguarda? 

Queste limitazioni assurde spostano tutto il carico di responsabilità sul contribuente, che si troverà in condizione di doversi difendere da una decisione presa dall’Agenzia delle Entrate sulla base di dati e processi decisionali non conoscibili da nessuno.

Un Leviatano inarrestabile

L’Agenzia delle Entrate somiglia sempre più a un’agenzia di intelligence, con mandato di sorvegliare, profilare e sanzionare sistematicamente e in massa la popolazione italiana. 

Il contrasto all’evasione fiscale e al riciclaggio sono ormai assi piglia tutto che servono a giustificare ingerenze sempre più pervasive nella vita delle persone, senza alcuna proporzionalità.

La stessa fatturazione elettronica, spacciata come un processo di “trasformazione digitale” è in realtà semplicemente uno schema di sorveglianza di massa. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ruffini2, non ne fa mistero: 

"La fatturazione elettronica non ha dato gli effetti sperati non perché non sia la via giusta ma perché abbiamo un armadio pieno di dati che non siamo in grado di utilizzare perché non siamo autorizzati a farlo per la privacy".

[…] La partita è impari dal lato del Fisco. Le partite Iva sono 6 milioni e noi siamo 32 mila servitori dello Stato. Immaginare di poter accertare sistematicamente 4 o 5 milioni di partite Iva attive è difficile. [...] ai privati cediamo i nostri diritti alla privacy e poi ci difendiamo dallo Stato che siamo noi stessi". 

Quindi lo scopo dela fatturazione elettronica, come ammesso dal Direttore, era accumulare dati e usarli contro i contribuenti. E che significa “accertamento sistematico” se non sorveglianza di massa?

E poi il caro Ruffini paragona lo Stato con le aziende private. Ma le aziende private trattano dati in modo non violento e squisitamente consensuale3 per vendere i loro prodotti. Le aziende private o le banche non mi mandano le guardie armate se i loro algoritmi determinano un qualche profilo di rischio nei miei confronti. Al massimo, sceglieranno di non fare affari con me.

Lo Stato invece è un’altra bestia. Ci sorveglia in modo violento e pervasivo, senza alcuna possibilità di difesa, come se fossimo criminali. Ci costringe a renderci trasparenti di fronte ai suoi organi inquisitori e punisce i cittadini innocenti che cercano di difendersi dalla sorveglianza, come nel caso in cui qualcuno usi “troppi” contanti. E quelle poche difese legali che abbiamo, come il diritto di accesso, ci vengono ora tolte per decreto. Il tutto viene condito da una narrativa pubblica che trasforma in criminale chiunque non voglia sottoporsi a questo regime di sorveglianza. Non c’è una terza strada: chi non è assolutamente trasparente ha qualcosa da nascondere, e quindi deve essere discriminato.

Lo Stato non siamo noi. Lo Stato è un collettivo di burocrati il cui unico scopo è assicurare la propria sopravvivenza a discapito di chi, nonostante tutto, cerca di vivere e produrre, per il proprio bene e quello degli altri. Lo Stato è un regime che colpevolizza e criminalizza pubblicamente chiunque ribadisca la propria dignità umana e il diritto a non subire ingerenze arbitrarie nella propria vita. 

Come scriveva Ayn Rand in Atlas Shrugged: "There's no way to rule innocent men. The only power any government has is the power to crack down on criminals. Well, when there aren't enough criminals one makes them4”. E l’Agenzia delle Entrate è qui per questo.

Riforma catasto, immobili fantasma e abusivi: la resa dei conti. Milena Gabanelli e Gino Pagliuca su Il Corriere della Sera il 9 maggio 2022.

Un Paese normale deve conoscere la fotografia reale di tutto il patrimonio immobiliare presente sul suo territorio, e l’esatta destinazione d’uso dei terreni. Si chiama «aggiornamento del Catasto» e serve a classificare e a determinare i valori sulla cui base si pagano le imposte sugli immobili: Imu, tassa di registro quando si compra da un privato, tassa di successione e donazione, oltre a contribuire al calcolo dell’Isee per chi chiede contributi e agevolazioni pubbliche. Allora perché su un tema così scontato si accapigliano da decenni tutti i partiti? Perché modificare il valore del singolo immobile significa anche modificare l’importo delle imposte che il suo possessore deve eventualmente pagare.

(...) modificare il valore del singolo immobile significa anche modificare l’importo delle imposte che il suo possessore deve eventualmente pagare.

30 anni di vuoto

Il Catasto attribuisce a ogni immobile, sulla base delle sue caratteristiche, una «rendita». I valori di base sono stati definiti per l’ultima volta nel 1989, in previsione dell’arrivo dell’Ici, ed è evidente che numeri scritti oltre trent’anni fa non hanno alcuna attinenza con i valori di mercato attuali, anche perché il sistema si basa su una suddivisione del territorio, soprattutto nelle grandi città, del tutto incongrua. Per gli immobili residenziali c’è poi un ulteriore problema: la superficie non è misurata in metri quadrati come nella prassi commerciale ma in «vani catastali», di dimensione variabile. Le abitazioni sono suddivise in categorie e classi che riflettono ancora la situazione di quando la rendita è stata attribuita senza tenere conto di eventuali migliorie avvenute nel tempo. Basti pensare che 3,5 milioni di edifici residenziali tuttora esistenti sono stati costruiti prima del 1940 e la maggior parte ha subito importanti opere di riqualificazione. 

Case fantasma e abusive

Che cosa prevede la riforma? Tre cose: la prima è identificare gli immobili fantasma. L’ultima ricognizione generale è stata fatta alla fine del 2011 e indicava in oltre due milioni le porzioni di territorio (le «particelle») che non trovavano riscontro nelle banche dati, e oltre 1,1 milioni di casi presentavano anche edificazioni da accatastare. Una parte è stata sanata portando alle casse del fisco un maggiore gettito per 356 milioni all’anno, ma ancora l’ultima edizione disponibile delle statistiche catastali (2021) delle Entrate fa riferimento a 1,2 milioni di immobili fantasma. Anche perché nel frattempo l’abusivismo sulle nuove edificazioni non si è fermato: secondo il rapporto Sdgs (Sustainable Developments Goals) redatto dall’Istat nel 2020 su 100 case nuove, quelle abusive sono 6,1 al Nord, 17,8 al Centro, 45,6 al Sud. Nella media nazionale rappresentano il 17,7 %. Senza contare i terreni edificabili classificati come agricoli. La nuova opera di ricognizione si farà servendosi di rilievi aerofotografici o anche di sistemi come google maps, ma per la definizione precisa delle caratteristiche dei terreni incolti è necessaria la collaborazione dei Comuni, perché un terreno vuoto è edificabile o agricolo a seconda di che cosa stabiliscono i piani urbanistici comunali. 

Ruderi diventati case di lusso

Il secondo aspetto della riforma è riclassificare sin da subito e con le regole attuali gli immobili che hanno cambiato le loro caratteristiche. Negli scorsi anni si è già operato nei centri storici di alcune città, soprattutto a Roma e a Milano, ma molto si può fare semplicemente ricorrendo ai dati che le Entrate hanno in casa. Chi compie lavori di ristrutturazione e chiede le agevolazioni dà al Fisco tutte le informazioni utili perché gli riclassifichi l’immobile. È evidente che chi sta facendo i lavori con il Superbonus (pagati interamente dallo Stato) vedrà passare la casa in una fascia fiscale più alta. Dovrà fare un salto «di classe» anche chi possiede immobili prestigiosi, ma non classificati in una delle tre categorie catastali (A/1, A/8 e A/9) considerate di lusso. Per esempio il rudere che negli ultimi 30 anni è diventato villa con piscina. Oggi sono solo 70mila gli immobili di lusso, lo 0,2% del totale, una percentuale poco credibile. Avere una casa di prestigio significa pagare l’Imu anche se è prima casa, e quando si compra pagare un’imposta del 9% invece del 2. 

L’emersione delle case non accatastate, di quelle che se pur censite non pagano il dovuto, e la riclassificazione degli immobili allo stato attuale porteranno nuovi introiti all’Erario e alle casse comunali. Oggi il prelievo sugli immobili è stimabile in 41 miliardi di euro. La promessa è che dove emergerà più sommerso ne beneficerà la comunità con una riduzione delle imposte, in particolare dell’Imu che viene decisa a livello locale. Se il Comune incassa di più abbassa a tutti l’aliquota. 

Lo scontro sul valore di mercato

Il terzo aspetto della riforma, presente nel comma 2 dell’articolo 6 della legge delega di riforma fiscale, riguarda l’aggiornamento delle rendite ai valori reali. In questi tre decenni ci sono quartieri che si sono degradati e altri che invece hanno avuto uno sviluppo perché, ad esempio, è arrivata la linea della metropolitana. Vuol dire che alcuni immobili hanno perso valore e altri lo hanno aumentato. Ma come si calcolano i valori? Identificando i valori delle zone in cui sono suddivisi i territori urbani, tenendo conto delle statistiche sui valori immobiliari di tutti i Comuni italiani che l’Agenzia delle Entrate rende pubbliche ogni sei mesi, e sull’elaborazione dei dati ricavabili dai rogiti. Questo consentirà di avere il quadro veritiero della situazione, ma non inciderà sulle imposte, perché la riforma prevede già in origine che fino al 2026 si continuerà a pagare sulla base delle vecchie rendite, dopo si vedrà. Se il senso di tutta questa battaglia politica era quello di far sparire dal testo della legge le parole «valore di mercato», è una modifica di forma ma di poca sostanza. 

Chi vince e chi perde

Nel 2021 il Corriere ha messo a confronto il prezzo medio a metro quadrato di vendita rilevato dai rogiti nel 2020 e il valore medio delle rendite catastali: la differenza tra prezzo di mercato e valore fiscale a Milano era del 174%, a Roma del 56%, a Napoli del 108%, e a Torino del 46%. 

Se però si guarda all’interno delle città si scopre che fra centro e periferia le cose cambiano. A Milano, ad esempio, una seconda casa in piazza Libia che oggi per i dati delle Entrate vale in media 388 mila euro, paga su un valore fiscale di 244 mila. Applicando l’aliquota sul valore di mercato l’Imu costerebbe 1.550 euro in più; a Quarto Oggiaro invece chi ha comprato una casa una decina di anni fa ha una rendita catastale più alta del valore di mercato e risparmierebbe 330 euro. A Torino: nella centrale via Po una casa che per il Fisco oggi vale 183 mila euro e per il mercato 213 mila pagherebbe 342 euro in più, al Lingotto il proprietario di una casa seminuova da 155 mila euro per il mercato e 174 mila per il fisco, risparmierebbe 216 euro. 

Cosa cambia?

A conti fatti per chi possiede solo una prima casa non di lusso (sono 19,5 milioni) non cambia nulla perché non pagava l’Imu prima e non la paga ora. Per i proprietari di seconde case e immobili commerciali, resta tutto inalterato fino al 2026. Pertanto chi dovrebbe pagare di meno non risparmierà un centesimo, chi dovrebbe pagare di più, perché ha la seconda casa o un negozio a Brera o Piazza Navona, non sborserà un euro in più. In sostanza, adeguare le rendite in base ai valori reali non ce lo chiede solo l’Europa, ma anche il buon senso. Quanto far pagare invece è una decisione politica. In Francia l’imposta ha come imponibile il 50% del valore di locazione registrato al catasto, e viene aggiornato ogni due anni. In Spagna la situazione è simile alla nostra, con valori catastali non sempre aggiornati. Nel Regno Unito le imposte si pagano sul valore di mercato al momento del calcolo. In Germania il valore imponibile dipende da una radiografia completa dell’immobile, incluso quello dell’affitto ricavabile. Il nuovo criterio, basato sui dati al 1 gennaio di quest’anno, entrerà in vigore nel 2025.

Monica Serra per “la Stampa” il 28 aprile 2022.

Il ristorante stellato «I Tigli in Theoria» fra le mura del palazzetto Branda Castiglioni nel centro di Como è solo una delle tante attività vincenti nel lungo curriculum imprenditoriale di Giovanni Maspero. Il suo «curriculum» penale invece è di tutt' altro tenore. Il giudice che da ieri ha disposto per lui gli arresti domiciliari - tra le altre accuse per aver contratto un debito con lo Stato da 107 milioni di euro - definisce Maspero «assolutamente specializzato nel settore dell'evasione fiscale e contributiva, con una storia personale di comprovata infedeltà tributaria che da oltre un decennio rappresenta il tratto caratterizzante della sua personalità e la forma di illecito finanziamento delle sue attività a spese della collettività». 

E sì, perché, come si legge nel provvedimento di cattura, a oggi si contano ben undici condanne dell'imprenditore, tra patteggiamenti e decreti penali, per omesso versamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Reati minori che però descriverebbero il suo modus operandi «insieme predatorio e parassitario», scrive il gip Andrea Giudici. Tant' è che tra le esigenze cautelari che lo costringono ai domiciliari in quanto persona «pericolosa per la collettività e per le sue stesse imprese» c'è «la certezza che se lasciato libero, Maspero possa attivarsi prima della Guardia di Finanza, riuscendo a mettere al sicuro i proventi di anni di attività criminali e sottraendoli in maniera irrimediabile alle ragioni dell'Erario e dei creditori». 

L'imprenditore, che ha fatto fortuna nel settore dell'hi-tech ed è molto noto nel mondo della vela (nel 2009 ha rifondato il team «Azzurra» per inseguire il sogno dell'America' s Cup con un equipaggio interamente italiano) è accusato di evasione fiscale, vari reati fallimentari tra cui bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio. 

L'indagine del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Como è partita da una verifica fiscale effettuata dopo che la procura diretta da Nicola Piacente aveva chiesto il fallimento di Prima Comunicazione srl, della quale Maspero era amministratore unico, esposta con l'erario per oltre venti milioni di euro. La società era stata fusa per incorporazione nella Giovanni Maspero & C srl, attualmente ammessa a procedura di concordato preventivo.

Secondo quanto emerso dalle indagini, che hanno anche portato al sequestro di venti milioni di euro, l'imprenditore avrebbe distratto dal patrimonio di Prima Comunicazione più di 17 milioni di euro attraverso una serie di bonifici privi di titoli giustificativi, con causale «finanziamento ai soci» in favore di dieci imprese di fatto riconducibili a lui. Ma Maspero avrebbe anche provocato lo stato di insolvenza di Prima Comunicazione, omettendo di pagare 23 milioni allo Stato e occultando le perdite aziendali nei bilanci, e sottratto altri 13 milioni di euro di imposte. Tra le accuse ipotizzate c'è anche l'autoriciclaggio di 3,3 milioni di euro e una serie di omessi versamenti al Fisco per oltre quattro milioni di euro tra ritenute e Iva. 

Fabio Pavesi per “Verità & Affari” il 28 aprile 2022.

La chiamano azienda calcio, ma non è certo un termine lusinghiero per le aziende vere, quelle sane. Ormai e noto a tutti che per le squadre di calcio vige una sorta di contabilità propria che nulla ha a che fare con una normale impresa. 

Debiti alle stelle, patrimoni al lumicino, se non sotto zero, e costi che superano in genere i ricavi con l’effetto di avere sempre bilanci in perdita. Una situazione che riguarda quasi tutti i grandi club di serie A, ma che per alcuni assume caratteri ipe- patologici. Emblema del dissesto dei conti del calcio italiano e sicuramente il Genoa, gestito per anni da Enrico Preziosi, il re del giocattolo, che solo a novembre dello scorso anno ha ceduto il club agli americani di 777Partners.

Il bilancio annuale 2021 appena approvato e un nuovo bagno di sangue, dopo quello dell’anno prima. 43 milioni di perdite su ricavi per soli 78 milioni; un margine lordo in rosso per 41 milioni; debiti totali a quota 278 milioni, di cui ben 83 milioni tra banche e factoring e 77 milioni con il Fisco italiano. 

Dulcis in fondo: non c’è più patrimonio netto a livello consolidato, dato che con le ultime perdite e stato del tutto eroso, finendo in negativo per 23 milioni. Un’azienda sì, ma da libri in Tribunale. Certo i nuovi padroni del fondo Usa hanno già messo mano al portafoglio, per evitare il crac, versando in due tranche quasi 50 milioni in soli 4 mesi di possesso della squadra. Ma pensare che bastino rischia di essere illusorio.

Anche perchè la situazione ereditata dalla gestione Preziosi e ben più grave di quanto appare. Preziosi ha infatti sfruttato, come del resto hanno fatto molti club, tutte le possibilità offerte dalle leggi dello Stato in era Covid per tamponare i buchi. Dalla rivalutazione delle attività immateriali; alla sospensione degli ammortamenti dei calciatori. Il tutto per evitare un default patrimoniale che si sarebbe palesato già nei conti del 2020. 

 E cosi il fenomeno Rovella, il giovane calciatore ceduto alla Juve, nello scambio incrociato, senza passaggio di denaro, con due giocatori del club torinese, e stato rivalutato a patrimonio grazie alla mega-valutazione di ben 18 milioni. Soldi veri non sono girati, ma lo scambio ha permesso al club genoano di iscrivere a patrimonio quei 18 milioni in più per evitare che andasse in rosso già nel 2020. 

Non solo il Genoa, sempre nel 2020, ha rivalutato il marchio per ben 34,6 milioni e i diritti di archivio Rai per 3,7 milioni. Tutte manovre contabili (pur lecite) che hanno rimpolpato il capitale. Lo scorso anno solo dalla sospensione dei costosi ammortamenti dei calciatori il Genoa ha risparmiato ben 35 milioni. Senza quella manovra insieme ad altre consentite, il margine operativo lordo, spiega l’ultimo bilancio, sarebbe andato in rosso non per 41 milioni ma per 96 milioni.

Ma il tratto che più descrive l’operato della gestione Preziosi e la tendenza a ricorrere massicciamente al debito per finanziare le attività, evitando di mettere soldi suoi il più possibile. L’esempio eclatante, e che costituisce un unicum nell’intera serie A, sono i debiti con l’Erario che il Genoa ha accumulato nel tempo. Oggi valgono 77 milioni. Nel 2020 superavano i 60 milioni e si trascinano in questo ordine di grandezza da anni. Nel 2018-2017 erano della stessa entità.

Quindi sono anni che Preziosi con il suo club e “moroso” nei confronti del Fisco. Piu di una quarantina di milioni sono rateizzati da anni, gli altri maturano anno su anno fino a toccare a fine 2021 i 77 milioni. 

Di fatto pagando in ritardo e rateizzando Preziosi si e assicurato un polmone finanziario che ha tenuto in piedi (oltre alle plusvalenze) i conti negli ultimi anni. Basti pensare che le pendenze con il Fisco del Genoa sono da sole un quinto dell’intero debito con l’Erario di tutta la serie A. 

Quei 77 milioni sono il 30% dell’intera massa debitoria in capo al club rosso-blu. Sommati ai debiti bancari si arriva a 160 milioni di esposizione. Per una società che non produce flussi di cassa, ha uno sbilancio tra costi e entrate di oltre 40 milioni, pensare di pagare in un colpo solo gli arretrati con l’Erario e i nuovi debiti che maturano pare impresa impossibile. Dovranno pensarci da ora in poi i nuovi padroni americani e il nuovo presidente, il primario del San Raffaele Alberto Zangrillo, che forse non si aspettavano di trovare tanta polvere sotto il tappeto.

Tanto che in modo surreale pare che l’ex patron Preziosi, oggi in Cda come consigliere, abbia fatto intendere di non voler votare il nuovo bilancio che dovrà essere approvato il prossimo 30 aprile. Un bilancio che per 11 mesi porta in realtà la sua firma. Intanto mentre esplode la tensione su conti e debiti tra la vecchia e la nuova proprietà, il Fisco attende di essere pagato. Magari prima che si paghino i lucrosi stipendi di calciatori e allenatori che da soli, nel 2021, sono costati guarda caso 77 milioni. La stessa cifra del debito accumulato negli anni con l’Erario.

Record di tasse: mai così tante. Carlo Lottieri il 17 Aprile 2022 su Il Giornale. Nell'ultimo anno pressione fiscale al 43,5% del Pil.

Gli ultimi dati diffusi dalla Cgia di Mestre sono sintetizzabili in questo modo: in Italia la vera emergenza politica è l'oppressione fiscale. Solo lo Stato francese è più esoso del nostro, il che significa che fino al 6 giugno ognuno deve lavorare per finanziare la spesa pubblica e unicamente dal 7 giugno in poi per la propria famiglia. La cosa è aggravata dal fatto che quella italiana è una società che da tempo non cresce. In fondo, pure negli anni Cinquanta e Sessanta la pressione tributaria è andata aumentando, ma allora l'economia tirava. Le tasse lievitavano, ma noi si stava sempre meglio, al punto che si è arrivati a crescere perfino del 10% l'anno. In quel periodo, per giunta, chi voleva intraprendere aveva a che fare con poche regole e semplici, mentre ora s'imbatte in una selva normativa che intralcia ogni attività e obbliga molti a emigrare. Lo scenario è dunque completamente diverso. Nel momento in cui le politiche inflazionistiche delle banche centrali vanno traducendosi in un aumento generalizzato dei prezzi, il persistere di prelievi fiscali così alti comporta la sostanziale impossibilità di operare, competere a livello internazionale, soddisfare i clienti, mantenere i livelli occupazionali. In altre parole, dovrebbe essere chiaro a tutti che se non si procede a un radicale abbassamento delle imposte, l'Italia continuerà a perdere colpi e impoverirsi. Segnali cupi giungono da ogni settore: basti pensare, solo per fare un esempio, che in due anni (nel 2020 e nel 2021) sono stati chiusi ben 7mila bar. Alle difficoltà derivanti dalle misure adottate per contrastare il Covid-19 oggi s'aggiungono quelle connesse alla guerra, che comporta un ulteriore blocco dei commerci e gravi problemi sul fronte dell'approvvigionamento energetico. Va inoltre sottolineato come il salasso subito da famiglie e imprese quasi mai finanzia attività meritevoli. Poiché sono sottratti alle logiche della concorrenza, i servizi pubblici sono spesso di qualità assai modesta; e anche per questa ragione sarebbe necessario liberare tali settori della vita economica e sociale, riducendo le imposte e lasciando spazio a iniziative premiate dai consumatori. Ridurre la pressione fiscale è perciò indispensabile, anche se non è semplice. La difficoltà principale non sta in qualche blocco ideologico, né tanto meno nel favore della popolazione nei riguardi dei servizi offerti dallo Stato. L'ostacolo principale è dato dal fatto che attorno alla spesa statale si è costituito un «blocco sociale» schierato a difesa dell'esistente. Vincere questa resistenza è la sfida fondamentale del nostro tempo.

Le tasse vanno sempre pagate (ma dagli altri). Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2022.

Obiettori fiscali di coscienza. In un Paese con un’evasione stimata intorno agli 80 miliardi (ultima rilevazione del 2019, fonte ministero dell’Economia), solo il . La maggior parte delle persone, il 70%, si colloca nella classe di reddito tra 15.000 e 70.000 euro l’anno, il 27% rimane sotto i 15.000 euro. In media, un imprenditore guadagna meno di un suo dipendente.

«Perché denunciare il reddito dopo il bene che vi ha fatto?» si chiedeva Marcello Marchesi e, infatti, le ipotesi che si possono fare sul tentativo di alleggerire la pressione fiscale sono tutte improntate al nonsenso civico. 

1) L’evasione esalta la nostra furbizia. Di solito, chi “frega” gli altri suscita ammirazione, chi paga le tasse è un fesso. 2) Siamo evasori incalliti, ma a fin di bene: una norma “morale” ci suggerisce che non è reato evadere le tasse imposte da un governo considerato ostile. 3) Cerchiamo di pagare poche tasse perché, comunque, sono sempre troppe rispetto ai servizi che elargiscono. 4) L’evasione esalta, sportivamente, la nostra capacità di saltare i controlli. 5) Ogni giorno ci rafforziamo nell’idea che non ci sia volontà politica di colpire gli evasori; alla fine, la fanno sempre franca.

Comunque, nelle conversazioni, le tasse vanno sempre pagate: dagli altri.

Paolo Baroni per “la Stampa” il 14 aprile 2022.

Il governo accelera sull'attuazione del Pnrr, varando un pacchetto di norme che semplificano molte procedure ed introducono una serie di correttivi ed in parallelo vara una stretta anti-evasione. 

Confermate tutte le anticipazioni della vigilia a partire dalla decisione di far scattare già dal prossimo 30 giugno (anziché da gennaio 2023) le multe a carico degli esercenti che non accettano pagamenti con moneta elettronica (carte di credito, bancomat, ecc.). La sanzione per chi non è dotato di Pos è pari 30 euro più il 4% del valore della transazione e si applica a chiunque offra prodotti e servizi al pubblico, quindi pubblici esercenti, tassisti, ma anche professionisti (avvocati, medici, ecc.).

Dal prossimo primo luglio vengono poi aboliti gli esoneri per la fatturazione elettronica e la trasmissione telematica delle fatture, che quindi d'ora in poi riguarderanno anche i lavoratori autonomi che beneficiano della flat tax. Quindi si interviene di nuovo sul Superbonus del 100%, su Ecobonus e Sismabonus potenziando il sistema di monitoraggio di questi incentivi e consentendo all'Enea di raccogliere informazioni e dati utili alla quantificazione dei risparmi energetici conseguiti con questi incentivi,a partire dal Superbonus che assorbe 10,2 dei 191,5 miliardi del Recovery fund.

Per monitorare il fenomeno del sommerso e rendere più efficace la programmazione dell'attività ispettiva nasce anche invece un «Portale nazionale del sommerso» gestito dall'Ispettorato nazionale del lavoro in cui confluiranno i risultati delle attività dello stesso Inl e degli accertamenti svolti da Inps, Inail, Carabinieri e Guardia di finanza. 

L'obbligo del Pos è vecchio di 10 anni, risale al 2012 e venne introdotto dal governo Monti senza però prevedere sanzioni. Poi di rinvio in rinvio, di governo in governo, si è arrivati ad oggi ed oggi come allora non mancano le proteste dei commercianti che si sentono in qualche modo vessati.

«Prima di un'eventuale "stretta sui Pos" bisognerebbe procedere finalmente al taglio sostanziale delle commissioni pagate dagli esercenti sulla moneta elettronica, più volte promesso ma realizzato solo in minima parte» lamenta Confesercenti. 

Anche Confcommercio sollecita «scelte decise di abbattimento delle commissioni e dei costi a carico di consumatori ed imprese - a partire dal potenziamento dello strumento del credito d'imposta sulle commissioni pagate dall'esercente - e prevedendo la gratuità dei cosiddetti micropagamenti».

Confesercenti, segnala poi che nonostante il forte aumento dei Pos avvenuto negli ultimi tempi (dai 2,4 milioni attivi nel 2017 ai 3,4 del 2020) il gettito fiscale non sia cresciuto in proporzione e quindi contesta il fatto che «tra progetti di sanzioni, lotterie e obblighi vari il peso della lotta all'evasione venga concentrato sulle spalle degli esercenti, mentre le grandi piattaforme internazionali che operano online godono di un regime fiscale favorevole che permette loro di pagare un quinto rispetto agli altri».

Da iltempo.it il 7 aprile 2022.

"Una roba assurda". Urla, fogli che volano, oggetti lanciati a terra e parole forti: la discussione in Commissione Finanze sulla riforma del Fisco degenera, secondo l’agenzia stampa “Ansa” per separare i deputati sarebbero intervenuti persino alcuni commessi mentre c'era chi spingeva e chi urlava: "E' una vergogna, vergogna!". 

Sui social il video di come sia finita malissimo la seduta è diventato virale: il deputato della Lega Claudio Borghi lo ha raccontato bene su Twitter. 

Nella serata di ieri, mercoledì 6 aprile, si scopre che l'accordo sulla riforma del fisco, sulla quale il premier Mario Draghi potrebbe decidere di mettere la fiducia, è saltato. Una lunga giornata di trattative che si conclude con l'ennesima fumata nera in commissione Finanze alla Camera dove si sfiora la rissa.

Lì in quella sede dove si doveva trovare un'intesa sul pacchetto di riformulazione degli emendamenti proposto dal Governo: 25 emendamenti per sostituire quelli presentati dai partiti di maggioranza, che avrebbero dovuto ritirarli. 

La mediazione non va in porto per l'opposizione di Forza Italia e Lega, che non intendono ritirare l'emendamento (firmato anche da Fdi) che prevede il ritorno in commissione dei decreti attuativi del Governo, per un parere vincolante. Il Carroccio aggiunge anche un'altra condizione: quella che si voti il suo emendamento sull'impegno a non aumentare le tasse su titoli di Stato e locazioni. 

La commissione di Montecitorio, convocata alle 13,30, si aggiorna alle 19 per concedere un'ultima speranza ai tentativi di accordo. 

Ma, in serata, bisogna prendere atto che l'intesa non c'è dopo la lite violenta che sarebbe esplosa dopo la scelta del presidente Luigi Marattin (Italia Viva) di sospendere i lavori. 

Lo stesso Marattin sarebbe diventato protagonista della feroce discussione che ha coinvolto anche Alessio Villarosa (Gruppo Misto) e Marco Osnato (Fratelli d’Italia). 

La scena terribile è stata ripresa da Sestino Giacomoni (Forza Italia) che poi ha pubblicato tutto su Instagram: «Come ho detto nel mio intervento in Commissione Finanze questa sera non c’è più ordine, altro che interventi sull’ordine dei lavori. Dopo il mio intervento, per non votare, il presidente ha sospeso la seduta e si è scatenato l’inferno… ».  La maggioranza dunque torna a spaccarsi sulla riforma del fisco, con il rischio che si ripeta quanto accaduto con il catasto anche per altri articoli della delega.

Domenico Di Sanzo per true-news.it l'8 aprile 2022.

Mercoledì notte, Commissione Finanze a Montecitorio. Bagarre sulla delega fiscale, con il centrodestra che torna unito sulle tasse e rischia di mandare sotto la maggioranza e l’asse M5s, Pd, Leu, Italia Viva. 

Dopo una serata di votazioni sugli emendamenti, ecco che il presidente della Commissione, il renziano Luigi Marattin sospende la seduta. Volano parole grosse e si sfiora la rissa tra un esponente di Fratelli d’Italia e alcuni deputati del centrosinistra. Marco Osnato, uno dei protagonisti della folle nottata, capogruppo di Fdi in Commissione Finanze racconta a true-news.it l’accaduto.

Bagarre in Commissione

“Allora è successo questo: noi eravamo stati convocati la mattina, poi alle 19 ancora non c’era un accordo, il governo ha ritenuto di dare parere negativo a tutti gli emendamenti tranne uno che era stato accantonato, in seconda votazione i numeri erano a favore del centrodestra e allora il presidente Marattin – su pressione di Pd e M5s – ha ritenuto di sospendere la seduta, ma non si poteva rinviare al mattino dopo perché eravamo già in fase di dichiarazione di voto e allora ha sconvocato la commissione per una discussione interna alla maggioranza”.

Chiediamo all’onorevole Osnato se è vero che è stato offeso da un deputato del Pd, che gli avrebbe intimato: “abbassa quel braccio, anche se so che per te è difficile”. Risponde Osnato: “C’è stato qualcuno, un deputato di Italia Viva, che ha tirato fuori il fascismo per coprire la modalità poco democratica del loro comportamento, ma questo dimostra solo i pochi argomenti che avevano per difendere la propria posizione”. 

Onorevole, si è offeso? “Ma si figuri, ci sono abituato, tra l’altro poi il collega si è reso conto dello svarione che ha fatto e ha anche chiesto scusa, ma io non mi sono offeso, quindi non c’era bisogno di scuse, più che altro mi dispiaceva per lui”.

Centrodestra unito sulle tasse, con riserve

A parte la cronaca della nottata di follia in Commissione, c’è il punto politico. Sembra che si sia ritrovata l’unità del centrodestra sulle tasse. “Come è inevitabile quando si parla di problematiche concrete come il fisco è inevitabile che il centrodestra sia unito dopo venti anni di battaglie comuni su questi temi”, spiega Osnato. 

Che però non si fida degli alleati che sostengono il governo di Mario Draghi: “Siamo preoccupati dall’eventualità che Lega e Forza Italia pur di mantenere unito il governo rinuncino allo spazio per le politiche di centrodestra”. 

Infatti si parla del fatto che Palazzo Chigi possa ricorrere alla fiducia sul tema: “Quello che farà Draghi sarà una sua scelta, ma mettere la fiducia su una legge di delega fiscale dimostra tutta l’arroganza del governo Draghi e di parte della sua maggioranza, chi ha a cuore la democrazia, la centralità del parlamento e il rispetto istituzionale non deve acconsentire a che ciò accada”. 

E il riferimento e agli alleati di Lega e Forza Italia, che incontreranno Draghi in questi giorni. 

Osnato insiste: “So solo che Fratelli d’Italia non abbandonerà gli emendamenti che ha presentato, che il nostro partito ha a cuore temi come la proprietà immobiliare, la pressione fiscale e le tasse, per noi non c’è alternativa al ritiro di questa delega”. 

Parliamo di fisco

Infine una postilla: “Ho letto sui giornali che siccome c’è la guerra non si può discutere di fisco, noi come partito siamo stati e saremo responsabili sulla guerra, ma anche qui parliamo di cose che condizioneranno la quotidianità di tutti i cittadini italiani da qui ai prossimi decenni, stiamo affrontando la guerra con responsabilità ma questo non può voler dire rinunciare a intervenire su un’altra questione concreta come il fisco”. 

Da ansa.it il 7 aprile 2022.  

"Il magazzino dei crediti non riscossi attualmente ha sfondato il tetto dei 1.100 miliardi di euro". Lo ha detto il direttore dell'agenzia delle Entrate Enrico Maria Ruffini rispondendo alle domande dei parlamentari della commissione sul federalismo fiscale.

All'aumento del magazzino ha contribuito l'assorbimento del "magazzino riscossione Sicilia". Il Magazzino è in continuo aumento ed è - ha detto Ruffini - "ingestibile". E' un magazzino unico al mondo. Nessuno tiene un magazzino di 22 anni di crediti non riscossi. Si fanno delle scelte".

"E' dal 2015 che il Parlamento è informato. Un magazzino così non può essere gestito. Si sono fatti dei tentativi con la rottamazione, il saldo e stralcio e altri istituti similari, che non hanno portato" però alla sua riduzione. Lo ha detto Ernesto Maria Ruffini rispondendo ai parlamentari della Commissione sul federalismo fiscale sottolineando che ogni anno "entrano 70 mld di crediti da riscuotere e ne escono meno di 10 mld di crediti riscossi". Attualmente il magazzino ha circa 130.140 mln di cartelle con 16 mln di cittadini iscritti a ruolo.

Milena Gabanelli e Francesco Tortora per corriere.it il 21 aprile 2022.  

Sono oltre mezzo milione gli italiani che hanno risparmiato migliaia di euro all’anno grazie alla surroga del mutuo immobiliare. Eppure, la norma introdotta nel 2007 dal Decreto Bersani è sempre stata ostacolata sia dalle banche che dai notai, questi ultimi hanno in gran parte pure evaso le tasse di archivio e i contributi previdenziali collegati alla procedura e destinati alla cassa del Ministero della Giustizia.

Che cos’è la surroga e il boom in Italia

La surroga è la possibilità di trasferire a costo zero e senza penali il prestito ricevuto da una banca ad un’altra, garantendo al cittadino un mutuo più favorevole con rate e tassi di interesse più bassi. 

Un altro vantaggio è la possibilità di cambiare la durata residua del prestito allungandola o riducendola. Tutti i costi di istruttoria, di perizia e del notaio sono sempre a carico della banca subentrante. 

Nell’ultimo decennio a causa della crisi del debito sovrano (2010-11) i tassi d’interesse sono prima schizzati alle stelle (l’anno record è stato il 2012 con una media del tasso variabile al 3,7% e del tasso fisso al 6,02%), ma poi, grazie alla politica monetaria espansiva adottata dalla Bce con Mario Draghi e confermata da Christine Lagarde, il costo del denaro è sceso rapidamente fino a raggiungere i minimi storici (nel 2020 con una media dello 0,88% per il tasso fisso e dello 0,78% per quello variabile).

Questa tendenza ha provocato il boom delle surroghe che sono passate in Italia da appena 2.493 nel 2013 a 73.486 nel 2020. Negli stessi anni i finanziamenti bancari delle surroghe sono saliti da poco più di 261 milioni a quasi 9,5 miliardi di euro. Tirando le somme: dal 2013 al 2021 le banche hanno sottoscritto complessivamente quasi 3 milioni di nuovi mutui immobiliari e oltre 450 mila surroghe.

Banche e notai le boicottano

La surroga può essere bilaterale o trilaterale. Nel primo caso a firmare il contratto sono solo la banca subentrante e il cittadino che beneficia del prestito: il notaio entro 30 giorni si presenterà all’istituto di credito originario per firmare la quietanza, l’atto che attesta l’avvenuta estinzione del mutuo per surrogazione. 

Nel secondo caso, invece, a firmare contratto e quietanza in un atto unico sono il debitore, la nuova banca e il vecchio istituto di credito. La seconda procedura è più farraginosa, consente al vecchio istituto di credito di rallentare il procedimento fino a bloccarlo ed è quella che è sempre stata preferita dal Consiglio Nazionale dei notai.

Sin dal 2007 la categoria, insieme all’ABI bancaria, ha portato avanti una battaglia contro le surroghe e solo l’intervento dell’Antitrust ha evitato un cartello tra notai e banche. L’ente che regola la concorrenza ha poi sanzionato 23 banche per pratiche commerciali scorrette ed è intervenuto ripetutamente con procedimenti per «abuso dei poteri di vigilanza e disciplinari» nei riguardi di diversi consigli notarili distrettuali.

Con le surroghe guadagnano meno

Oggi in Italia ad esercitare la professione di notaio sono in 5.130: solo poco più di 1.900 stipulano surroghe (il 36,5%), mentre ben 5.100 (il 96,4%) si occupano di compravendite immobiliari. 

Il motivo: per una surroga i notai fatturano in media 820 euro, per un mutuo 1.200 euro. Inoltre per ogni surroga i professionisti versano all’Archivio notarile circa 167 euro, per un mutuo «solo» 111 euro.

Sottraendo tasse e contributi, in media sulla prima il notaio incassa 653 euro, sul secondo 1.089 euro. Nel 2018, durante il Congresso nazionale del notariato, l’allora presidente Salvatore Lombardo dichiara, fra gli applausi della categoria, di aver condotto «una battaglia» contro le procedure in quanto «agevolano il singolo ma non l’economia».

Poi aggiunge: «È il nuovo mutuo che agevola l’economia... che mette in giro nuove risorse, fa fare nuove attività. La surroga sostituisce a un singolo creditore un tasso inferiore a un tasso superiore». 

Le piattaforme online e l’esposto che apre il vaso di Pandora

Con la crescita delle richieste di surroghe sono nate le piattaforme online per semplificare le procedure e ridurre i costi. Il Consiglio Nazionale del Notariato ne ha subito scoraggiato l’uso, poi per garantirsi il controllo sulla distribuzione delle procedure tra gli studi notarili, ha ideato la sua piattaforma online (Mutuitel) in collaborazione con l’ABI bancaria. 

Di fatto ha cercato di imporne l’uso esclusivo, avvantaggiandosi dei poteri disciplinari e di vigilanza dei consigli notarili, e monopolizzando l’attività digitale e telematica dei notai. Nel 2017 un notaio firma un esposto all’Antitrust contro il Consiglio Notarile di Milano per pratiche anticoncorrenziali.

Pochi mesi dopo il Consiglio distrettuale denuncia il professionista (e i soci dello studio) per non aver mai pagato le imposte dovute sulle quietanze di surroga. Loro fanno ricorso e il caso arriva in Cassazione. E qui si apre il vaso di Pandora. 

Tasse e contributi evasi

I notai ogni volta che stipulano atti di surroga devono versare al Ministero della Giustizia una tassa d’archivio e contributi previdenziale per 55,50 euro. Ma la norma non è molto chiara e così la regola è stata a lungo quella di pagare poco o nulla.

Lo conferma un’indagine della Guardia di Finanza del 2020 che ha ascoltato 79 notai e 46 uffici degli archivi notarili distrettuali. La Guardia di Finanza ha anche verificato come siano mancati quasi del tutto i sistemi di vigilanza da parte di chi doveva controllare gli atti dei notai (l’Ufficio centrale degli archivi, i capi degli archivi distrettuali e i presidenti dei distretti). 

L’indagine chiarisce che fino al 2018 il Ministero della Giustizia si è limitato a percepire ciò che i notai versavano senza effettuare mai controlli. Solo a partire da gennaio 2020 ha iniziato a chiedere la quota dovuta. Invece l’Ufficio centrale degli archivi notarili fino ad oggi non ha mai segnalato alla Corte dei conti le condotte inadempienti dei suoi ispettori e dei presidenti dei distretti. 

Gli interventi della Cassazione

Arriviamo al 2021 e tre sentenze della Corte di Cassazione confermano che i notai hanno l’obbligo di pagare queste imposte e in caso di mancato versamento bisogna applicare le sanzioni (pari a 84,80 euro per ogni surroga). 

Le sentenze riguardano proprio i soci dello studio che nel 2017 aveva segnalato la condotta anticoncorrenziale del Consiglio Notarile di Milano: i tre soci sono gli unici ad essere stati perseguiti per evasione di contributi e tassa d’archivio.

E tutti gli altri? Perché da quel che risulta i notai che hanno effettivamente versato la quota completa sono una minoranza, e fra evasione e danno erariale la somma complessiva si aggirerebbe intorno ai 20 milioni di euro. 

L’intervento della politica

Il 14 aprile scorso la Commissione parlamentare di vigilanza sulla Previdenza privata ha convocato il presidente della Cassa Nazionale del Notariato Francesco Nardone per verificare quanto dal 2007 è stato effettivamente versato su tutte le quietanze di surroga bilaterali e trilaterali. 

Il presidente ha dichiarato che la Cassa non sa quante surroghe siano state stipulate, non ha poteri di accertamento e riscossione, specificando che tali poteri spettano al Ministero della Giustizia attraverso gli Archivi notarili. 

La Commissione, al fine di accertare di chi siano le responsabilità, convocherà nelle prossime settimane i rappresentanti degli Archivi notarili. Al di là di quello che emergerà nelle audizioni un fatto è certo: sin dal 2007 i notai hanno trascurato i benefici delle surroghe per i cittadini, promuovendo procedure che garantiscono alla categoria maggiori guadagni e permettono di mantenere alte le tariffe, mentre i consigli notarili, che dovrebbero svolgere una funzione disciplinare, spesso hanno esercitato il proprio potere per limitare la concorrenza tra notai e tutelare interessi di parte. 

La risposta del Consiglio nazionale del notariato 

Caro Dago, ti invio la lettera di chiarimenti che abbiamo inviato ieri a Milena Gabanelli. 

In merito all’inchiesta di Dataroom ove si afferma che il notariato ha ostacolato le surroghe, promosso una sua piattaforma per gestire in monopolio il mercato, evitato di fare controlli e, infine, evaso una cifra intorno ai 20 milioni di euro, è necessaria una serie di risposte chiare e per punti. 

1 - I notai non hanno mai ostacolato il sistema delle surroghe e i numeri in crescita esponenziale degli ultimi 10 anni sono lì a dimostrarlo. 

Non solo, proprio perché favorevole alle surroghe, il notariato, in accordo con le Associazioni dei Consumatori e ABI, ha sollecitato una riforma, poi benedetta dalla modifica al TUB e dal decreto dirigenziale, per semplificarne il procedimento.

2 - I notai, pubblici ufficiali, sono sottoposti a diversi controlli effettuati dallo Stato con cadenze mensili, quadrimestrali e biennali, in relazioni agli atti ricevuti ed alle tasse ed ai contributi versati. Nel caso specifico delle surroghe, il fatto che la Cassazione, al termine di un procedimento disciplinare avviato dallo stesso Notariato nei confronti di alcuni notai che ritenevano di non dover pagare contributi e tasse d’archivio   derivanti dalle quietanze delle surroghe, li abbia condannati, costituisce la dimostrazione che anche i controlli dei singoli consigli distrettuali, nell’interesse del sistema e dei cittadini, funzionano a dovere.

3 - Affermare che la maggioranza dei notai avrebbe evaso circa 20 mln di euro sulla base di dati non dimostrati, a quanto è dato leggere dall’inchiesta, fornisce una visione distorta della categoria.

4 - La piattaforma Mutuitel cui fa riferimento l’articolo, peraltro non ancora concretamente operativa, è stata sottoposta al giudizio dell'Antitrust che ha esaminato il progetto senza sollevare rilievi; con ciò sgombrando ogni dubbio circa l’affermazione per cui il notariato ha lavorato per garantirsi il monopolio sulle surroghe volendo creare un cartello tra notai e banche. 

Siamo certi che, dopo quanto da noi sottolineato, la redazione di Dataroom riterrà opportuno, nel futuro, coinvolgere le parti direttamente chiamate in causa. Una informazione completa, infatti, è nell’interesse sia del lettore sia dell'autore dell'inchiesta. 

Valentina Rubertelli, Presidente Consiglio Nazionale del Notariato

Francesco Giambattista Nardone, Presidente Cassa Nazionale del Notariato

Alle Entrate cartelle vecchie di 22 anni "1.100 miliardi di crediti non riscossi". Gian Maria De Francesco l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il direttore dell'agenzia fiscale, Ruffini: "Siamo l'unico Paese in questa situazione, è ingestibile". E invoca maggiori poteri.

«Il magazzino dei crediti non riscossi attualmente ha sfondato il tetto dei 1.100 miliardi di euro». Il direttore dell'Agenzia delle Entrate. Enrico Maria Ruffini, ieri in audizione presso la commissione sul federalismo fiscale, ha lanciato un allarme sulla sostanziale inadeguatezza del sistema della riscossione. «Siamo l'unico Paese del mondo Occidentale - ha sottolineato - ad avere un magazzino con crediti di 22 anni: un magazzino così, è ingestibile». Per sottolineare l'enormità dell'ammontare di tasse, imposte, multe non pagate dagli italiani negli ultimi 21 anni (e 4 mesi) ha paragonato l'arretrato al debito pubblico che ammonta a poco più di 2.700 miliardi. Se questi crediti fossero tutti riscossi, potrebbe sparire circa la metà del debito, ma molti sono inesigibili e restano iscritti a bilancio dei diversi enti pubblici «abbellendo» il risultato.

L'intervento di Ruffini, infatti, non ha risparmiato le responsabilità politiche ma, pur mantenendo l'imparzialità del funzionario pubblico, ha contestato l'efficacia dei provvedimenti di «grazia» perché gli interventi «sanatori» non sono serviti: la bilancia pende sempre a favore di quanto entra che è sempre maggiore di quanto esce. «Si sono fatti dei tentativi con la rottamazione, il saldo e stralcio e altri istituti similari, che però non hanno portato alla sua riduzione», ha sottolineato. Il flusso di tasse non pagate che entrano nel «magazzino» sembra inarrestabile, è sette volte superiore ai crediti che Agenzia delle Entrate-Riscossioni riesce a riscuotere. «Ogni anno entrano nel magazzino 70 miliardi di crediti e ne vengono riscossi meno di 10 miliardi», ha spiegato.

L'arretrato è cresciuto sia a causa della sospensione dell'invio delle cartelle nei due anni della pandemia, condizione che ha di fatto bloccato l'attività di riscossione, sia a causa dell'assorbimento del «magazzino riscossione Sicilia». Ma il problema, sottolinea, è a monte. «Nessun paese Occidentale mantiene un magazzino di 22 anni di crediti non riscossi», ha aggiunto Ruffini sottolineando che si tratta «di 130-140 milioni di cartelle per 230 milioni di crediti da riscuotere relativi a circa 16 milioni di cittadini iscritti a ruolo». A gestire questo magazzino sono 8mila funzionari, un numero «non adeguato» perché Agenzia delle Entrate-Riscossione «è per legge, calibrato per gestire un magazzino di tre anni».

Le soluzioni proposte dal direttore, tuttavia, lasciano pensare che egli ritenga più semplice potenziare la cogenza dell'attività della riscossione (anche attraverso il Grande Fratello Fiscale) rispetto alla scelta di soluzioni meno invasive. Secondo Ruffini, infatti, la strada da percorrere è «aumentare i poteri della riscossione». Si potrebbe anche immaginare, ha proseguito, «una gestione meramente informatica, come di fatto stiamo facendo ora, inviando atti a oltre 16 milioni di cittadini, ma il tema poi è la gestione del contenzioso, perché se paradossalmente i 16 milioni di cittadini facessero tutti ricorso non sarebbe tanto messa in difficoltà l'agenzia delle Entrate-Riscossione, sarebbe messo in difficoltà il sistema della giustizia italiana». Insomma, l'inappellabilità degli atti amministrativi della Riscossione non sarebbe, forse, una cattiva idea. Un principio che è parzialmente vagheggiato dalla recente proposta di equiparare gli sms inviati dall'Agenzia ai contribuenti con qualche problema di compliance a un atto di accertamento vero e proprio. D'altronde, alla commissione sul federalismo fiscale Ruffini ha ricordato l'importanza della gestione centralizzata del catasto. Basta solamente fare «2+2».

Record mondiale di cartelle non riscosse, italiani evasori: 16 milioni iscritti a ruolo. Il direttore dell'Agenzia delle entrate Ruffini: «Il magazzino non può essere più gestito, mantenere 22 anni di non riscossione non è possibile: il Parlamento decida cosa fare». CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2022.

Quando si poteva ricorrere liberamente alla metafora della “guerra” nessun altro termine rendeva meglio il conflitto ventennale che si consuma tra gli italiani e quel plico da rigettare al mittente che risponde al nome di cartella esattoriale. Nel corso degli anni se ne sono accumulate talmente tante che nei magazzini ormai non c’è più posto. «Abbiamo sfondato il tetto dei 1.100 miliardi di euro non riscossi», ha aggiornato i numeri di questa disfatta dello Stato, il direttore dell’Agenzia delle entrate Ernesto Maria Ruffini. Gli italiani iscritti al ruolo ora sono 16 milioni. Una quota di popolazione enorme che ha ingaggiato una battaglia con il fisco senza pari nel mondo.

«Il magazzino del non riscosso continua ad aumentare anche ad esito dell’anno 2020-21, un anno che per la pandemia ha determinato la sospensione della riscossione», ha spiegato, allargando le braccia, Ruffini ai membri della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, nel corso dell’audizione che si è tenuta ieri a Montecitorio. Da quando anche la Regione Sicilia non riscuote più in autonomia le sue cartelle il contenzioso è lievitato. E a nulla sono servite le ripetute rottamazioni. Idem per il saldo a stralcio. «Sono istituti che non hanno portato a

spostare la bilancia – ha chiarito il direttore dell’Agenzia – annualmente entrano 70 miliardi di crediti da riscuotere mentre si riscuotono circa 10 miliardi».

La situazione è nota. Ma la politica che da almeno 7 anni conosce le reali dimensioni del problema puntualmente se ne lava le mani. Meglio rimandare, passare la palla al prossimo governo, tergiversare e in caso estremo rottamare. Oppure – vedi la Lega – farne un cavallo di battaglia cavalcando il “perdono”, la “pace fiscale”, il colpo di spugna che manderebbe ulteriormente in crisi quegli enti locali che nei loro bilanci classificano quei crediti come un residuo attivo.

L’Agenzia delle entrate – 8000 dipendenti – è strutturata per gestire un magazzino della riscossione di 3 anni. Si dà il caos però che di cartelle esattoriali ce ne siano anche vecchie di 22 anni. In tutto 130-140 milioni, 230 milioni di crediti da riscuotere, «una montagna difficile da gestire», ha ammesso Ruffini. O meglio un modo, senza ricorrere ad una moratoria tombale, per scalare questa montagna ci sarebbe. Basterebbe «ampliare i poteri di riscossione intervenendo sul magazzino – ha indicato la strada il direttore – ma sono scelte da fare, perché in nessuna parte del mondo si sceglie di mantenere 22 anni di crediti non riscossi». Ci sono poi circa 25 milioni di cartelle che riguardano imposte non pagate per meno di 10 mila euro. La maggioranza del credito sospeso si concentra su cartella dal valore di circa 100 mila euro.

Di strade per uscire da questa situazione surreale se ne sono percorse tante. Condoni, sanatorie mascherate, sconti sugli interessi sono serviti a poco. Le scelte competono al Parlamento. «Possiamo anche immaginare – ha continuato Ruffini – una gestione meramente informatica, come stiamo facendo ora, inviando atti a 16 milioni di cittadini, ma il tema poi è la gestione del contenzioso. Se tutti, paradossalmente, i 16 milioni facessero ricorso non sarebbe messa in difficoltà l’Agenzia delle entrate ma sarebbe messo in difficoltà il sistema della giustizia italiana».

Sono previsti strumenti volti a rafforzare lo scambio informativo tra l’Agenzia e i comuni per consentire la fruizione dei dati catastali. L’Agenzia rende disponibile ai comuni le informazioni contenute nella banca dati catastali per favorire i controlli E’ in corso di realizzazione un’intesa con l’Anci per una radicale rivisitazione delle modalità di deposito presso i comuni. D’ora in avanti sarà l’Agenzia, e non più i professionisti incaricati, a provvedere a tali adempimenti in via telematica. Il deposito avverrà, mettendo a disposizione dei comuni, un portale con i dati di aggiornamento. Tramite il portale dedicato a tutti i comuni vengono messi a disposizione, con frequenza mensile, varie informazioni e i comuni possono accedere alle banche dati dell’Agenzia e acquisire informazioni puntuali.

«A marzo 2022 risultavano essere più di 7mila i comuni che fruivano dei servizi di consultazione», ha spiegato Ruffini. Tra tanti numeri c’è però un dato sul quale riflettere. Solo il 5% Comuni ha collaborato ad accertamenti. «Ci sono ampi margini perché la collaborazione dei comuni agli accertamenti «conosca un’ulteriore diffusione, dal momento che a utilizzare detta opportunità offerta dalla normativa è stato appena il 3,5 per cento dei 7.904 comuni italiani», ha rivelato il direttore dell’Agenzia delle Entrate. Un dato che colpisce anche perché per queste attività di collaborazione i comuni ricevono una «quota incentivante», una percentuale sul riscosso.

Nel 2021 per l’attività effettuata nel 2020 a 280 comuni italiani è stato trasferito un importo pari a 6.490.977 euro. In compenso, sono arrivate all’Agenzia circa 120 mila segnalazioni inviate da 1.153 a partire dal febbraio 2009. Le segnalazioni hanno dato origine a 20.130 mila atti impositivi per una maggiore imposta accertata di 386.340.000 euro, per un importo riscosso totale pari a circa 139 milioni di euro. Quando la macchina della riscossione si mette in moto insomma qualche risultato a casa lo porta sempre.

(Il Sole 24 Ore Radiocor Plus l'1 aprile 2022) - 'Restiamo convinti di aver operato secondo le regole ma, al fine di evitare i tempi e i costi di un rilevante contenzioso fiscale, abbiamo deciso di sottoscrivere un accordo transattivo con l'Agenzia delle Entrate'. Lo ribadisce John Elkann, presidente di Exor, nella lettera agli azionisti della holding, parlando dell'accordo transattivo definito con l'Agenzia delle Entrate italiane in merito a una complessa contestazione in materia fiscale, con particolare riferimento all'Exit Tax.

L'accordo, ricorda Elkann, 'ha comportato il pagamento immediato di 746 milioni di euro, di cui 104 milioni per interessi'. Secondo il presidente di Exor, “la sottoscrizione dell'accordo non ha comportato nè deve essere interpretato come un'accettazione, tantomeno una condivisione neppure parziale, della società verso le tesi sostenute a posteriori dall'Agenzia delle Entrate”. 

Per Elkann, 'e' significativo che in relazione alla contestazione in materia di PEX non sia stata irrogata alcuna sanzione da parte dell'ente stesso', sottolineando che 'non sussistono ulteriori questioni fiscali pendenti in capo a Exor in relazione agli anni in cui la società ha avuto la residenza fiscale in Italia'.

Nella lettera, Elkann continua dicendo che 'nonostante il nostro disappunto per quanto accaduto, ricordiamo le sagge parole di Luigi Einaudi, uno dei più importanti presidenti della Repubblica, nonchè giornalista per La Stampa e The Economist, che una volta disse: 'Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli.

E' la vocazione naturale che li spinge: non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia ai clienti''. Con questo spirito, conclude Elkann, “rimaniamo più' determinati che mai a seguire la nostra vocazione e cercare nuove opportunità per creare valore non solo per Exor ma al contempo per le comunità' dove siamo presenti”.

Cosa sono e quanto pesano sul costo del pieno le accise italiane sulla benzina. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Marzo 2022.  

Costituiscono una parte significativa del prezzo di benzina e gasolio, e sono fondamentali per le casse erariali: ecco cosa sono le accise e quanto pesano sul prezzo alla pompa. I prezzi sono determinati dalle accise che ogni Paese applica. E l’Italia in Europa si trova sul podio: 2a per quanto riguarda la benzina, 1a per il diesel.

Durante le ultime settimane, i prezzi della benzina e gasolio, ma anche di metano e GPL, sono aumentati repentinamente raggiungendo valori record. Determinante, in questa corsa al rialzo, la guerra che infuria in Ucraina? Non solo: come mostrato dai dati ufficiali del Mise, il prezzo dei carburanti è costantemente aumentato negli ultimi 12 mesi, passando da 1,56 euro/litro per la benzina e 1,43 per il gasolio a marzo 2021 alle attuali cifre superiori ai 2 euro e in continuo aumento. A marzo 2021 la benzina “verde” si vendeva a una media di 1,568 mentre il “diesel” a 1,435: un altro mondo rispetto ai valori odierni dove anche un rifornimento self pagato 20 euro eroga meno di 10 litri.  

Lo scoppio della guerra in Ucraina ha dato un’altro forte aumento alle tariffe, producendo dal 23 febbraio al 6 marzo aumenti sulla benzina del 6,37 per cento (da 1,999 a 2,126 euro) e sul gasolio del 7,95 per cento (da 1,878 a 2,027 euro).

Ma da cosa è composto e determinato il prezzo del carburante alla pompa? I fattori sono molteplici: innanzitutto il costo della materia prima, ovvero del barile di petrolio, ma anche i costi di raffinazione e trasporto, oltre ai margini di guadagno che si assicurano le compagnie petrolifere e i gestori degli impianti. Ma ad avere un grande peso sul prezzo finale sono anche le tasse imposte dallo Stato, sotto forma di Iva e soprattutto di accise. Andiamo a capire di cosa si tratta, quanto pesano sul portafogli degli automobilisti e quando sono state introdotte.

Quanto pesano le accise sul costo alla pompa

Oltre all’Iva, ovvero l’Imposta sul valore aggiunto che vale il 22% del prezzo del carburante industriale, lo Stato impone su benzina, gasolio e affini anche una serie di accise. Ovvero, un’imposta che riguarda determinati beni di consumo tra cui appunto i carburanti. Gestite dall’Agenzia delle dogane e dei Monopoli, le accise hanno un’importanza fondamentale nei bilanci dello Stato: le accise sui carburanti nel 2021 hanno fatto incassare all’erario, oltre 24 miliardi di euro. Da specificare che, mentre i costi di greggio, raffinazione e trasporto, e di conseguenza anche l’Iva, sono variabili, le accise costituiscono una tassa fissa indipendentemente dall’andamento del prezzo del carburante industriale. 

 

Al momento, le accise sulla benzina ammontano a 0,7284 euro per litro, mentre per il gasolio si fermano a quota 0,6174 euro/litro. Sebbene dal 1995 l’imposta sul carburante sia definita in modo unitario (ovvero non va a finanziare determinati ambiti della spesa pubblica, ma fluisce direttamente nelle casse dell’erario) le accise odierne sono il frutto di ben 19 tassazioni aggiunte nel corso degli anni. La prima tra quelle tecnicamente ancora in vigore in quando mai abolita risale addirittura agli anni ’30: 1,60 lire per finanziare la guerra in Etiopia. Nel ’56 si aggiunsero 14 lire per fronteggiare la crisi di Suez, e poi, a seguire, diversi aumenti i cui fondi erano destinati alla ricostruzione dopo calamità di vario genere: il disastro del Vajont, l’alluvione a Firenze, i terremoti nel Belice, in Friuli e in Irpinia. Nell’82 e nel ’95 toccò poi alle accise per sostenere le missioni ONU in Libano e Bosnia, rispettivamente di 205 e 22 lire.

Nel corrente millennio la corsa alle accise non si è fermata: nel 2004 si è registrato un aumento di 2 centesimi per il rinnovo dei contratti dei ferrotranviari, poi l’anno successivo nel 2005 per l’acquisto di autobus ecologici e nel 2009 per il terremoto in Abruzzo. Poi, nel 2011, cioè 10 anni fa è stato il turno delle nuove accise per il finanziamento alla cultura e per la crisi libica, oltre che per l’alluvione in Liguria e Toscana e il Nel nuovo millennio la corsa alle accise non si è fermata: nel 2004 si è registrato un aumento di 2 centesimi per il rinnovo dei contratti dei ferrotranviari, poi l’anno successivo per l’acquisto di autobus ecologici e nel 2009 per il terremoto in Abruzzo. Poi, nel 2011, è stato il turno delle nuove accise per il finanziamento alla cultura e per la crisi libica, oltre che per l’alluvione in Liguria e Toscana e il Decreto “Salva Italia”. Nel 2012 i carburanti sono stati rincarati per trovare fondi destinati alla ricostruzione dopo il terremoto in Emilia. Le ultime nuove accise sono andate infine a finanziare il “Bonus gestori”, alla riduzione delle tasse per i terremotati abruzzesi e, nel 2014, il “Decreto Fare”. Nel 2012 i carburanti sono stati rincarati per trovare fondi destinati alla ricostruzione dopo il terremoto in Emilia. Le ultime nuove accise sono andate infine a finanziare il “Bonus gestori”, alla riduzione delle tasse per i terremotati abruzzesi e, nel 2014, il “Decreto Fare”. 

 

 

Benzina e gasolio alle stelle

Alla luce dei recenti e gravosi aumenti dei prezzi di benzina e gasolio, ormai stabili oltre la soglia dei 2 euro al litro, in molti hanno richiesto al Governo di ridurre almeno temporaneamente accise e Iva. Soprattutto per sostenere quei settori, come l’autotrasporto, fondamentali per l’economia italiana e fortemente dipendenti dal consumo di gasolio. “Un costo insostenibile per gli automobilisti e per tutti i cittadini, che pagano tali aggravi in termini di rincari generalizzati su beni e servizi” spiegano le associazioni dei consumatori “Senza accise, la benzina oggi costerebbe 1,39 euro al litro e il gasolio 1,55 euro al litro, con un risparmio, in termini annui, di circa 874 euro”.

Oltre alle dinamiche di mercato, in questo momento legate al conflitto in Ucraina, i prezzi sono determinati dalle accise che ogni Paese applica. E l’Italia in Europa si trova sul podio: 2a per quanto riguarda la benzina, 1a per il diesel.

Guerra d’Abissinia, terremoto del Belice... Tutte le assurde accise che fanno costare cara la benzina. Paolo Lorenzi su Il Corriere della Sera l'8 marzo 2022.

Carburanti e tensione (soprattutto dei camionisti) alle stelle. Colpa del petrolio, aumentato come molte altre materie prime, ma il costo del carburante è solo una voce, tra le tante, che compongono il prezzo finale. La fiscalità incide molto più di quanto si pensi 

Guerra d'Abissinia, terremoto del Belice... Tutte le assurde accise che fanno costare cara la benzina

Dalla Calabria, a Ravenna: si moltiplicano sulle strade d’Italia le proteste dei tir contro il caro-carburante, che rischia di penalizzare fortemente il settore dell’autotrasporto. Ma è un fenomeno che riguarda tutti: il prezzo alla pompa supera da diverse settimane 1,8 euro al litro di media, e in qualche caso persino il tetto record dei 2 euro al litro. Colpa del petrolio, aumentato come molte altre materie prime, ma il costo del carburante è solo una voce, tra le tante, che compongono il prezzo finale. La fiscalità incide molto più di quanto si pensi, nel caso dell’Italia arriva al 59% di quanto sborsiamo per un pieno di benzina (per il gasolio paghiamo di meno, ma la differenza è minima, 4 punti percentuali in tutto). Quello del peso fiscale che grava sui carburanti è una storia lunga, perché da quasi 90 anni i governi italiani si sono sempre attaccati alle tasche degli automobilisti quando servivano soldi, con la scusa degli eventi eccezionali. Passata l’emergenza, gli aumenti (le cosiddette accise) sono però rimasti al loro posto e oggi gravano sul prezzo della verde alla pompa per ben 728 centesimi, sui quali si paga anche l’Iva (la tassa sulla tassa, un’altra assurdità), vale a dire altri 321 centesimi considerando l’aliquota del 22%. Il peso fiscale su un litro di benzina arriva così a 1,049 euro (fonte Unione energia per la mobilità).

Nuovi aumenti, vecchie accise

Storia lunga dicevamo, quella delle accise. La prima fu introdotta nel 1935: 0,1 centesimi per sostenere la guerra d’Abissinia, ma nel 1936 furono aggiunti ulteriori 1,9 centesimi per finanziare il conflitto in Etiopia.

Nei decenni successivi altri eventi hanno giustificato l’introduzione di nuove accise, alcune sono state riassorbite in seguito a un parziale riordino, altre sono rimaste, come l’accisa introdotta per la Crisi di Suez (14 lire nel 1956, 0,00723 euro), il disastro del Vaiont (10 lire nel 1963, 0,0052 euro), l’alluvione di Firenze (10 lire nel 1966), il terremoto del Belice (10 lire nel 1968, 0,00516), quello del Friuli (100 lire nel 1976, 0,05165 euro), quello dell’Irpinia (75 lire nel 1980, 0,03873), la missione in Libano (100 lire nel 1982, 0,05165), rifinanziata a un anno di distanza (105 lire nel 1983, 0,05423), la missione in Bosnia (22 lire nel 1996, 0,01136).

Nuove emergenze e sostegni

Da lì in poi sono apparse altre voci, per sostenere rinnovi contrattuali, nuove emergenze, persino un sostegno alla cultura e allo spettacolo (0,0019 centesimi di euro nel 2011). L’ultima voce risale al 2014, 0,0024 centesimi imposti con il decreto Fare, rimasto in vigore un solo anno, caso anomalo visto che continuiamo a foraggiare guerre inesistenti ed emergenze superate da tempo.

Peggio di noi solo la Grecia

In tutto sono 19 le accise in vigore. Piccolissima consolazione, l’Italia non è l’unico Paese europeo ad aver adottato questo sistema. Il carico fiscale nell’area euro arriva al 55%, ma il nostro Paese è saldamente ai vertici della classifica preceduta dalla sola Grecia la cui incidenza fiscale sul litro di benzina raggiunge quota 60%. Il Paese dove si paga di più per un pieno è l’Olanda dove a gennaio di quest’anno il costo del carburante aveva giù superato in media i 2 euro (2,002 per la precisione). Tra i maggiori mercati dell’auto, dove si viaggia relativamente meglio è la Spagna, con 1,520 euro al litro.

Accise su benzina e gasolio, quanto pesano sul prezzo finale: senza, il costo sarebbe la metà. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.

Le ipotesi per ridurre le tasse sul carburante

I nuovi record raggiunti dai listini dei carburanti e l’escalation senza sosta di benzina e gasolio rischiano di mettere in ginocchio trasporto pubblico locale e le piccole aziende. Mentre lungo le strade d’Italia si moltiplicano le proteste dei tir contro il caro-carburante, il prezzo alla pompa ha superato da diverse settimane l’1,8 euro al litro di media, ma in alcuni casi ha sfondato anche il tetto record dei 2 euro al litro (come sull’Isola di Ischia, dove il 10 marzo alcuni distributori hanno segnato 2,698 euro per il diesel e 2,518 euro per la benzina). La colpa sta nel prezzo del petrolio, come sappiamo, aumentato come molte tante altre materie prime, ma anche nelle tante altre voci che sommate insieme danno il prezzo finale alla pompa.E così, sul fronte del caro-carburanti, come ha scritto sul Corriere Enrico Marro, si stanno valutando diverse ipotesi per tentare di ridurre i prezzi: i gestori delle pompe di rifornimento chiedono di abbassare l’Iva dal 22 al 5%, mentre - più realisticamente - le forze di maggioranza propongono di sterilizzare l’Iva sui rincari. Intanto, la Lega insiste per tagliare le molte accise che gonfiano il prezzo della benzina e del gasolio. Questo è un vecchio cavallo di battaglia del Carroccio e di Matteo Salvini, che nella campagna elettorale del 2018 aveva promesso sarebbe stato tra i suoi primi provvedimenti al governo. Poi, diventato ministro dell’Interno nel governo Conte I, se n’è dimenticato anche lui. E le accise sono tutte rimaste. Vediamo allora cosa sono, quanto costano e come mai negli ultimi 90 anni in Italia il peso fiscale sulla benzina è costantemente cresciuto.

Cosa sono le accise

Le accise sono un tributo indiretto, una tassa che lo Stato pone sulla fabbricazione o sulla vendita di prodotti di consumo. Le accise sull’acquisto dei carburanti, in Italia, sono state incrementate nel tempo allo scopo di fronteggiare finanziariamente alcune emergenze, come quelle provocate dagli eventi naturali o dalle guerre. Ma quando sono cadute le ragioni per fare il prelievo, gli incrementi sono rimasti lì, per essere utilizzati per la copertura di altre voci del bilancio pubblico.

E’ il caso, per fare qualche esempio, dell’accise di 0,00723 euro per il finanziamento della crisi di Suez del 1956; o quella dello 0,00516 euro per la ricostruzione dopo il disastro della diga del Vajont (correva l’anno 1963); o, ancora, quella dello 0,00516 euro per la ricostruzione di Firenze dopo l’alluvione del 1966. Ma le voci sono molte di più. E alcune suonano decisamente grottesche, come la prima accisa, ancora esistente, quella del 1935 per finanziare la guerra mussoliniana in Abissinia: allora furono 0,1 centesimi, che ne nel 1936 videro aggiungersi 1,9 centesimi per finanziare il conflitto in Etiopia. La dittatura fascista è caduta e così anche i Savoia e l’impero d’Etiopia, ma l’accisa riadeguata nel tempo è ancora lì. In totale, sono quasi una ventina le accise sui carburanti, accorpate nel 1995 in un’unica imposta indifferenziata, eliminando così ogni riferimento alle motivazioni originali.

Quanto pesano oggi le accise

Secondo quanto riportato dall’Adm, l’Agenzia delle accise, dogane e monopoli, su mille litri di benzina, si pagano 728,40 euro di accise. Si scende a 617,40 euro col gasolio (e questo spiega perché costa meno al distributore). L’ultima rilevazione settimanale del ministero della Transizione relativa a lunedì 7 marzo 2022 fotografa una situazione in cui la benzina costava in media 1,953 al litro, di cui 728,4 centesimi di accise e 352,21 centesimi di Iva, da cui si ricava che il prezzo industriale della benzina era di poco sopra agli 872,5 centesimi. Per il gasolio, invece, eravamo a 1,829 euro al litro, di cui 617,4 centesimi di accise e 329,8 centesimi di Iva, per un valore netto di 872,5 centesimi.

I vantaggi per lo Stato

Le accise sui carburanti, beni che siamo quasi tutti costretti ad acquistare (per avere un’idea: nel 2019, nel nostro paese c’erano 663 auto ogni mille abitanti), sono imposte che offrono allo Stato due vantaggi:

1) il gettito è immediato, sicuro e costante: il quantitativo dei carburanti (come dell’energia elettrica e dei tabacchi consumati in Italia è facilmente prevedibile e rimane grosso modo costante);

2) l’accise scatta subito, ovvero nel momento in cui la benzina o il gasolio vengono immessi nel circuito del consumo;

3) se ci sono problemi di bilancio, è molto veloce per il governo fare ritocchi al rialzo a questo tipo di imposta e così ripianare le perdite.

Ecco perché il ricorso a questo strumento è aumentato nel corso degli anni: tra il 1956 e il 1996, ovvero in 40 anni, sono state introdotte otto nuove accise, mentre altre dieci in soli dieci anni, tra il 2004 e il 2014.

Il confronto con gli altri Paesi Ue

Come detto, negli anni le accise sulla benzina in Italia sono via via cresciute, portando queste tasse al secondo posto della classifica d’Europa. A batterci solo il Belgio, con 787,73 euro per mille litri di benzina contro i nostri 728,4 euro. Gli stessi confronti possono essere fatti anche sul diesel, dove però il nostro Paese risulta essere quello con le accise più alte in Ue, con 0,62 euro per ogni litro fatto. Sul secondo e terzo gradino del podio, rispettivamente, Belgio (0,60 euro al litro) e Francia (0,59 euro). I Paesi dell’Est registrano le accise sulla benzina e sul diesel minori. La Bulgaria risulta il Paese con l’accisa sulla benzina minore, 363,02 euro per mille litri. Sotto i 400 anche Polonia e Ungheria. Stessa cosa dicasi per il diesel, con ancora la Bulgaria al primo posto tra i Paesi con memo imposte.

Il taglio dell’Irlanda

Intanto, mentre in Italia si discute, il ministro delle Finanze irlandese e presidente dell’Eurogruppo, Pascal Donohoe, ha annunciato nei giorni scorsi un taglio temporaneo delle accise applicate su benzina e diesel in Irlanda. «L’accisa si ridurrà di 20 centesimi per litro di benzina e 15 centesimi per il diesel a partire dalla mezzanotte di stasera. Questo significherà un risparmio di circa 12 euro per un pieno di benzina e 9 euro per il diesel», ha evidenziato Donohoe.

Tra le ipotesi contro il 'caro carburante', anche un taglio delle imposte. Benzina e gasolio, prezzi record: come sarebbero senza accise e tasse. Redazione su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

Il prezzo della benzina e del gasolio hanno ormai raggiunto valori record. La corsa dei prezzi del carburante non accenna a fermarsi, tanto da mettere in crisi le piccole aziende, ma anche i trasporti. In alcuni distributori si sono persino superati i 2 euro al litro, anche al self.

Da lunedì 14 marzo scatterà la protesta dei camionisti per ‘cause di forza maggiore’, con ripercussioni che potrebbero portare a un’impennata dei prezzi al dettaglio, come denunciato dal Codacons.

La causa di questo fenomeno è da ricercare nell’aumento del prezzo del petrolio, nelle dinamiche di mercato (legate al momento al conflitto in Ucraina), ma anche nelle accise applicate dai vari paesi. E così l’Esecutivo sta cercando delle soluzioni per intervenire sul ‘caro carburante’. I gestori delle pompe di rifornimento chiedono di abbassare l’Iva dal 22% al 5%; la maggioranza propone di sterilizzare l’Iva sui rincari, mentre la Lega di tagliare appunto le accise che influiscono sui listini di benzina e gasolio. Ma in cosa consistono queste accise e quanto ‘pesano’ sui prezzi del carburante? 

Cosa sono le accise

Le accise sono tributi indiretti, tasse che lo Stato impone sulla fabbricazione oppure la vendita di beni di consumo. Nel corso degli anni sono state spesso utilizzate per fronteggiare guerre, disastri naturali o emergenze di diverso tipo e poi mantenute, nonostante l’evento fosse superato, per coprire altre voci del bilancio pubblico. Grazie alle accise lo Stato può contare su un gettito costante, immediato e sicuro. L’accise scatta subito, nel momento in cui i prodotti vengono immessi nel circuito del consumo. Inoltre le aliquote possono essere facilmente ritoccate al rialzo, in modo da riuscire a far fronte a nuove esigenze di bilancio. Ecco perché il numero delle accise è costantemente aumentato nel corso degli anni.

Le accise non si riferiscono solo ai carburanti, ma sono presenti anche sulle bollette dell’energia elettrica e del gas, sui tabacchi, sulle bevande alcoliche.

Alcuni esempi di accise? C’è quella di 0,00723 euro per il finanziamento della crisi di Suez del 1956; o ancora di 0,00516 euro per la ricostruzione della diga del Vajont dopo il disastro del 1963, o per fronteggiare la tragedia dell’Irpinia (1980) di 0,0387 euro. E ancora, 0,0114 euro per finanziare la missione ONU in Bosnia (1996). Un totale di 18, che nel 1995 sono state inglobate in un’unica imposta indifferenziata, eliminando le motivazioni originali, per finanziare il bilancio statale.

Quanto ‘pesano’ le accise sui prezzi

Secondo l’Adm, l’Agenzia delle accise, dogane e monopoli, su mille litri di benzina si pagano 728,40 euro di accise, mentre per il gasolio 617,40 euro. L’ultima rilevazione settimanale del ministero della Transizione Ecologica di lunedì 7 marzo 2022 riporta i seguenti dati: costo medio della benzina 1,953 al litro, di cui 728,40 centesimi di accise e 352,21 centesimi di Iva. Quindi il prezzo industriale della benzina era 872,53 centesimi. Per il gasolio, invece, su un prezzo di 1,829 euro al litro, 617,40 erano centesimi di accise e 329,8 centesimi di Iva, per un valore netto di 882,05 centesimi.

Rispetto agli altri Paesi Ue, siamo al secondo posto per le accise sulla benzina, secondo una stima di Facile.it: ci superano solo i Paesi Bassi (787,73 euro per mille litri di benzina contro i nostri 728,4 euro). Mentre per quanto riguarda il diesel, siamo al primo posto. La Bulgaria è invece il Paese con le accise sia sulla benzina che sul diesel più basse: nel primo caso 363,02 euro per mille litri. 

Il taglio sulle accise dell’Irlanda

Mentre in Italia si continua a discutere in cerca di una soluzione, in Europa c’è chi si è già mosso su questo fronte. Il ministro delle Finanze irlandese e presidente dell’Eurogruppo, Pascal Donohoe, ha infatti annunciato, lo scorso 9 marzo, un taglio temporaneo delle accise su benzina e diesel in Irlanda.

“L’accisa si ridurrà di 20 centesimi per litro di benzina e 15 centesimi per il diesel a partire dalla mezzanotte di stasera. Questo significherà un risparmio di circa 12 euro per un pieno di benzina e 9 euro per il diesel“, ha evidenziato Donohoe.

Per Gualtieri romani evasori, il sindaco di Roma non perde il tic del comunista. Francesco Storace su Il Tempo il 26 febbraio 2022.

Non c’è niente da fare, nella testa di Roberto Gualtieri resta quel vecchio vizio comunista per cui chi è titolare di lavoro autonomo rimane un evasore incallito da abbattere. E magari prossimamente dovremo anche esibire i nostri documenti al sindaco di Roma, novello maresciallo maggiore impegnato in un’ardita lotta all’evasione fiscale in un paese ormai allo stremo. Quel che non è riuscito a fare da ministro dell’economia del governo Conte – da lì rimosso da Mario Draghi che della materia ci capisce di più – lo vuole fare da borgomastro della Città eterna. E ieri, in maniera abbastanza artigianale – anzi no, se scriviamo così rischia di pagare tasse in più pure lui – Gualtieri sembrava essersi svegliato da un sogno sui miliardi evasi dai cittadini romani.

Alla presentazione del solito protocollo antievasori che fa tanto chic da sottoscrivere con Agenzia delle entrate e Guardia di Finanza, il Dracula de’ noantri ha detto la sua: «L’evasione a Roma? Se andiamo a prendere i dati del 2021 a livello nazionale, calcolati sul 2019, risulta di poco meno di 100 miliardi. Si può quindi stimare l’evasione fiscale e tributaria su Roma (che pesa sempre per una percentuale di circa il 10%) sia di circa 9 miliardi di euro. C’è un tema più generale che riguarda gli enti locali. È infatti molto forte, nella Capitale, l’evasione della TaRi». 

Dunque, evasione fiscale calcolata a spanne. Cento miliardi, come se fossimo al gioco di tutto il cucuzzaro. «E quanti sennò?». Senza offrire alcun dato statistico, che magari ci si sarebbe aspettato proprio da uno che ha fatto il ministro dell’economia. Ma erano chiacchiere senza competenza, evidentemente, tanto per dire che a Roma si evadono nove miliardi al fisco. E butta lì la TaRi, che semmai è un miracolo che ci sia chi la paga ancora.

Perché il servizio di raccolta dei rifiuti è meglio non commentarlo, ci pensano valanghe di post sui social e articoli sui giornali meno compiacenti (ormai pochi, per la verità). A Gualtieri sfugge un dato che riguarda il rapporto costi/benefici. Un vecchio detto milanese afferma: «Lavoro e guadagno, pago e pretendo». Dalle nostre parti potremmo dire: «Pagare moneta, vedere cammello». Perché in realtà noi residenti a Roma paghiamo proprio la Tari più che ogni altro cittadino italiano. E quindi ha fatto il paragone più sbagliato.

Ma c’è di peggio, nelle intenzioni del sindaco. È vero che le norme vigenti consentono alle amministrazioni locali di segnalare al fisco «situazioni che evidenziano comportamenti evasivi e/o elusivi, che l’Agenzia delle Entrate potrà poi utilizzare per dare vita ad un accertamento fiscale», come si afferma nel protocollo che Gualtieri ha sottoscritto con Finanza e Agenzia delle entrate. E quindi guai a chi sarà nel suo mirino.

Ma arrivare a minacciare la mannaia fiscale nel momento peggiore per il sistema Paese lascia capire che razza di tic alberghi nella testolina del sindaco di Roma. Ogni volta che arriva a casa o in modalità informatica una bolletta le imprecazioni arrivano al cielo. Tanto più adesso, che agli abituali salassi locali e nazionali si aggiungono le bastonate su luce e gas, che saranno ulteriormente aggravate dal conflitto bellico in corso in Ucraina. E Gualtieri trova il tempo per darsi da fare in materia fiscale. Complimenti, e a chi promette le sue cure? Anche qui, basta la lettura dei documenti siglati: caccia aperta a «commercio e professioni, urbanistica e territorio, proprietà edilizie e patrimonio immobiliare, residenze fittizie all’estero e la disponibilità di beni indicativi di capacità contributiva dei cittadini residenti».

Fermi tutti e flessioni per non dare in escandescenze: ci può spiegare il sindaco che cosa sono quelle residenze fittizie a cui si fa riferimento? A chi trasferisce se stesso e i suoi familiari laddove si pagano meno tasse che da noi? Lo sa, Gualtieri, come si chiama questo? Resistenza, una parola che dovrebbe piacergli e che è usata da chi si è scocciato di vedersi svuotare le tasche. Piuttosto, usi la sua autorevolezza per pretendere semmai il caso drastico della pressione fiscale, che il cittadino non sa più come andare avanti.

Provi a visitare l’ufficio speciale condono edilizio, magari, e scoprirà quanti soldi in meno arrivano al cassiere della città perché c’è un arretrato che fa paura. Smaltiscano le pratiche vecchie di svariati anni e vedrà che i quattrini arriveranno pure in Campidoglio. Oppure pretenda che finalmente si paghino affitti evasi da decenni nelle case popolari. Pensi, signor sindaco, persino il suo partito, il Pd, è stato pizzicato come moroso e a più riprese. Vale pure per i suoi compagni il protocollo sottoscritto con Guarda di Finanza e Agenzia delle entrate?

O almeno vale per quell’enorme esercizio di lavoro clandestino che infila le sue rimesse a casa senza versare quanto dovuto all’erario?

Vantava di essere un economista solo per essersi seduto alla scrivania di Quintino Sella. Ma la competenza non si inventa, procedendo per slogan. Lo abbiamo visto all’opera da ministro e ora, ahinoi, ci tocca da sindaco. Ma sbagliando sia qui che là non si rimettono a posto le casse cittadine: si fanno solo arrabbiare i contribuenti romani. Prima lo faceva con tutti gli italiani... 

Caro Roberto Gualtieri, gli evasori di Roma se li cerchi li trovi: ecco chi sono. Damiana Verucci su Il Tempo il 27 febbraio 2022.

C'è un mondo sommerso romano che poi tanto sommerso non è. O meglio, sono attività produttive, ma non solo, che sfuggono volontariamente al fisco, ma che poi non sembra così difficili da scovare; a volte basterebbe incrociare qualche dato e soprattutto magari digitalizzare i sistemi che ancora in troppi casi vanno avanti a timbrare marche da bollo. Il discorso di incrociare, ad esempio, lo ha fatto già da tempo Federalberghi Roma, che i dati sull'evasione per quanto riguarda le migliaia di strutture ricettive in nero presenti nella Capitale, li ha forniti anche al Campidoglio. Si riferiscono al periodo pre covid quando c'era ancora un certo numero di turisti che in questi ultimi due anni sono letteralmente svaniti, ma quelle strutture oggi «fantasma» aspettano, per la maggior parte, il gran ritorno del turismo, che prima o poi ci sarà. E veniamo allora ai dati. Fedralberghi Roma aveva calcolato che su 33mila inserzionisti di b&b, case vacanze, affittacamere e simili ci fossero ben 20mila irregolari dei quali aveva considerato una solo stanza ciascuno. La tassa di soggiorno venute a mancare per le casse del Campidoglio a causa proprio dell'irregolarità di queste strutture era stata quantificata in 43 milioni e 800mila euro. Un bel gruzzoletto.

C'è poi da considerare una certa parte di strutture regolari che lo stesso non versano questa tassa ma che sono addirittura molto più facili da scovare, vista la loro «trasparenza». «Il problema sono i controlli - dice il presidente di Federalberghi Roma, Giuseppe Roscioli che il Comune non esercita proprio mentre le forze dell'ordine sì, ma sono insufficienti a disincentivare il fenomeno così come lo sono le sanzioni che vengono elevate, di circa un migliaio di euro, quanto la cifra che i titolari di queste strutture guadagnano in una sola settimana». Se si parla di evasione viene poi molto spesso in mente quella della Tari, una delle tasse più odiate dai romani visto anche il livello di degrado in cui versa Roma. Difficile scovare gli evasori? Non sembra e il Campidoglio sa bene chi sono. Si tratta per lo più di utenze domestiche e la percentuale di morosità è pari al 15 per cento, mail problema sembra piuttosto essere in quelle che l'Ama qualche anno fa ha definito «utenze fantasma», ovvero famiglie, ditte e locali commerciali che non risultano nei database dell'azienda e che sarebbero circa 400mila. Pensare di puntare su questi evasori fiscali come prima mossa per recuperare i soldi che si devono al Comune, sembra piuttosto ovvio. Anche perché non si tratta di pochi soldi, circa un miliardo di mancati introiti negli ultimi sei anni. Ovvero, in base agli ultimi dati disponibili, non sarebbe stato incassato più di un quarto della tariffa complessiva a carico degli utenti privati.

E c'è un altro interessante capitolo, quando si parla di evasione e riguarda l'occupazione di suolo pubblico degli esercizi di somministrazione. Tassa che, per via del Covid, non è stata più versata all'Amministrazione comunale ma che comunque rappresenta in generale una bella entrata sicura, o almeno tale dovrebbe essere. Perché invece, secondo alcune cifre di Fiepet Confesercenti Roma, la mancanza di controlli, di adeguate sanzioni per chi evade e un sistema molto poco digitalizzato, fa sì che migliaia di esercenti non la paghino proprio. Eppure non si tratta di una cifra per loro così proibitiva, la tariffa unica annuale è pari a 285 euro al mq. che per un esercizio medio di somministrazione fa circa novemila euro l'anno. Se lo moltiplichiamo per il numero di domande (fatte non in regime di emergenza), fanno dai 45 ai 50 milioni di introiti per il Campidoglio di cui, però, 10-15 milioni non vengono percepiti perché non versati. «Se solo si monitorassero le volture - chiosa Claudio Pica, presidente Fiepet Confesercenti - molti di questi soldi verrebbero recuperati in un attimo».

Michele Zaccardi  per "Libero quotidiano" il 22 febbraio 2022.

La "bomba sociale", come è stata definita, è quella di 523mila contribuenti, il 43% del totale, che è decaduto dalle sanatorie varate nel 2018: la cosiddetta "Pace fiscale". Si tratta di quei debitori che non sono riusciti a soddisfare le condizioni previste dai due provvedimenti, il saldo e stralcio e la rottamazione ter, e che ora dovranno sanare la loro posizione.

E il conto dei debiti sarà reso ancora più salato dal fatto che si troveranno a dover pagare anche le sanzioni e gli interessi di mora. Un guaio anche per i conti pubblici. Il governo, infatti, faceva affidamento sulle due sanatorie per incassare 2,45 miliardi di euro. Tuttavia, vista la situazione, quei soldi dovranno essere riscossi con le procedure ordinarie, con tutte le lungaggini burocratiche che comportano.

MANCANO 5 MILIARDI Ma il buco in bilancio è ancora più grande. Infatti, il governo prevedeva di recuperare dalla lotta all'evasione fiscale 15,3 miliardi di euro nel 2022. L'Agenzia delle entrate, invece, ha stimato che l'asticella si fermerà a 10,3 miliardi, ben 5 in meno di quanto voluto. Per mettere un pezza alle difficoltà dei contribuenti, la Camera ieri ha dato il via libera alla proroga al 30 aprile della rateazione delle cartelle, provvedimento contenuto nel decreto Milleproroghe. 

Il voto finale dell'aula è atteso per oggi, mentre giovedì la palla passerà al Senato per il nulla osta definitivo. Ma l'approvazione è praticamente scontata: si tratta di una misura che riguarda migliaia di contribuenti e sulla quale il governo metterà la fiducia come fatto ieri. L'intervento, in sostanza, sposta il termine per chiedere la rateizzazione dal 31 dicembre 2021 al 30 aprile. Nella misura, che riguarda le richieste presentate dal 1° gennaio di quest' anno, rientrano le rate scadute e poi sospese durante l'emergenza Covid nel marzo del 2020.

In pratica, chi aveva un piano di rientro e non è riuscito a pagare in tempo potrà chiedere un'ulteriore dilazione senza dover saldare prima gli arretrati. Inoltre, per mettersi in regola il contribuente avrà a disposizione fino a settantadue rate mensili. Secondo il ministero dell'Economia, il provvedimento può interessare circa il 20% dell'1,32 milioni di rateizzazioni già in corso prima della sospensione dell'8 marzo 2020. Altre 440mila, invece, sono state chieste successivamente e ricadono fuori dal raggio della misura.

MANCATO PAGAMENTO Per perdere il beneficio del pagamento a scaglioni basta poco. Come si legge nel sito dell'Agenzia delle Entrate, infatti, è sufficiente il mancato pagamento della prima rata prevista dal piano entro trenta giorni da quando si è ricevuto l'avviso. Per le quote successive, invece, il termine è la scadenza della rata seguente. In entrambi i casi, si perde la possibilità di rateizzare e bisogna pagare, oltre all'arretrato, anche le sanzioni e gli interessi in misura piena. Un certo margine di tolleranza è previsto per i casi di «lieve inadempimento», quando si versi una somma che sia inferiore al dovuto del 3% e anche quando il ritardo nel saldo della prima rata sia minore di una settimana.

Va ricordato, d'altra parte, che le misure di favore introdotte negli ultimi due anni sono state numerose. Tra queste, l'aumento da 5 a 18 del numero di rate non pagate che comportano la decadenza dalla rateazione, se già in corso prima della moratoria. Per i piani di rateazione chiesti dopo la sospensiva di marzo fino alla fine del 2021, invece, le rate scadute che facevano perdere il diritto al beneficio erano state alzate da 5 a 10. Infine, l'aumento delle cifre ammissibili per la rateazione da 60mila euro a 100mila.

Soldi in Svizzera, infondate le accuse contro Fontana: inchiesta archiviata. Il Dubbio il 23 Febbraio 2022.

Il presidente della Regione Lombardia era finito nella bufera per un'indagine della procura di Milano. Ma l'inchiesta non ha dimostrato alcun tipo di coinvolgimento di tipo illecito dell'esponente della Lega.

Per il gip di Milano Natalia Imarisio non ci sono elementi sufficienti per sostenere l’accusa contro il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana indagato per autoriciclaggio e falso nella “voluntary disclosure” in relazione a 5,3 milioni di euro che erano depositati su un conto corrente in Svizzera, “scudati” nel 2015, e in particolare riguardo a 2,5 milioni ritenuti il frutto di presunta evasione fiscale.

Di fronte al “mutismo” della Svizzera che non ha mai risposto alla rogatoria avanzata dalla procura, il giudice concorda con la procura, i pm Paolo Filippini e Carlo Scalas e il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, quando «ritiene non acquisite – e non acquisibili, per quanto già esposto – risultanze sufficienti ad ipotizzare con ragionevole prognosi di condanna la riconducibilità delle violazioni in esame (anche solo in parte) ad Attilio Fontana».

Non solo: nel suo decreto il gip «ritiene che i concreti esiti investigativi (con gli apporti citati della difesa) risultino maggiormente concludenti (e comunque tali da fondare una più che ragionevole ipotesi alternativa in tal senso) ai fini dell’esclusione di tale riconducibilità». In particolare i difensori, gli avvocati Jacopo Pensa e Federico Papa, hanno fatto accertamenti sui soldi della madre di Fontana, morta nel 2015, confluiti in un conto Ubs nel 2005, «ossia un conto Bdg di Losanna» intestato alla donna e aperto il 12 dicembre 1999 con il nome identificativo “Axillos“.

«Per la difesa, fortemente significativo della riconducibilità di tale provvista ai risalenti risparmi di famiglia (e non al reddito dell’indagato) sarebbe la coincidenza di tale nome con quello (“Assillo“) identificativo della relazione bancaria aperta presso Ubs già dal padre dell’indagato, Elio, nel lontano 1977 e chiusa nel 1997» secondo una corrispondenza bancaria del 2021, prodotta dalla difesa e «della cui genuinità la procura stessa non dubita».

IL TESORO DEL PRESIDENTE. Attilio Fontana e i conti in Svizzera, l’indagine archiviata grazie ai silenzi degli elvetici. ALFREDO FAIETA su Il Domani il 22 febbraio 2022

La magistratura milanese scrive la parola fine nell’inchiesta sul conto estero milionario del governatore lombardo Attilio Fontana. Il tribunale di Milano ha infatti chiuso la complessa vicenda penale che riguarda i soldi svizzeri del politico leghista, emersi durante le indagini per frode sui camici anti Covid.

Un conto da 5,3 milioni di euro acceso nel 1997 presso la filiale di Lugano della banca Ubs che, per la difesa di Fontana, sarebbe stato il frutto dei risparmi di una vita della madre dentista, deceduta nel 2015.

Fontana aveva ereditato il conto e lo aveva regolarizzato con la voluntary disclosure, lo scudo fiscale. La procura del capoluogo lombardo, però, aveva indagato Fontana sospettando che parte dei soldi non fossero riferibili alla madre, ma direttamente a lui.

ALFREDO FAIETA. Giornalista. Una passione per i fatti che incrociano economia e cronaca giudiziaria, e il tentativo di renderli chiari a occhio nudo. Il tifo per il Pescara, perchè è nel calcio di provincia che resta l'epopea di questo sport.

Estratto dell’articolo di S.Mo. per “il Sole 24 Ore” il 23 febbraio 2022. . Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti”. 

Dopo una prima richiesta a marzo e una seconda sollecitazione a settembre, la Svizzera ha deciso di non collaborare con la procura di Milano per accertare l'ipotesi di reato di evasione fiscale e autoriciclaggio a carico del governatore lombardo Attilio Fontana, e pertanto le indagini si chiudono qui, con un'archiviazione stabilita dal gip di Milano Natalia Imarisio.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 23 febbraio 2022.  

Un po' «Obbligo» e molto «Assillo»: sta in questa bizzarra coppia bancaria la storia - chiusa ieri da archiviazione - dello scudo fiscale fatto nel 2015 dal presidente leghista della Regione Lombardia, Attilio Fontana, sui 5,3 milioni dichiarati eredità della madre.

«Nessun apporto concreto è stato fornito dalla documentazione dei difensori dell'indagato», proponeva la Procura di Milano al giudice, chiedendo sì l'archiviazione dell'accusa di autoriciclaggio e falso ma solo a causa del rifiuto opposto dalla Svizzera alla rogatoria: rifiuto che per i pm Romanelli-Filippini-Scalas impediva di acquisire le prove documentali della falsità della «voluntary disclosure» con la quale Fontana il 24 settembre 2015 aveva regolarizzato i 5,3 milioni di asserita eredità materna, dei quali 2,3 apparivano invece ai pm possibile evasione fiscale del Fontana-avvocato.

Ma ora la giudice Natalia Imarisio archivia in modo più liberatorio e favorevole a Fontana, dando significativo valore proprio alle carte raccolte in Svizzera dai difensori Jacopo Pensa e Federico Papa: «I concreti esiti investigativi, con i citati apporti della difesa, risultano maggiormente concludenti ai fini della esclusione della riconducibilità delle violazioni a Fontana, e comunque tali da fondare in tal senso una più ragionevole ipotesi alternativa». 

I 5,3 milioni in Svizzera dichiarati da Fontana eredità della madre dentista Maria Giovanna Brunella, in pensione dal 1998 a 21.900 euro l'anno e morta a 92 anni, erano emersi quando il presidente della Regione, per evitare il danno d'immagine della fornitura di camici sanitari alla società regionale Aria spa da parte del cognato Andrea Dini, nel 2020 aveva pensato di risarcirlo di tasca propria con 250.000 euro quando il cognato l'aveva trasformata in donazione (peraltro parziale) alla Regione: bonifico revocato dopo che l'Unione Fiduciaria aveva segnalato all'antiriciclaggio l'operazione sospetta. 

Mentre il processo a Fontana per l'accusa di frode in pubbliche forniture inizierà il 18 marzo, la Procura coglieva anche indizi sulla falsità dello scudo fiscale. 

In dichiarazioni pubbliche Fontana aveva ad esempio abbozzato di aver appreso dei soldi all'Ubs della madre solo dopo la morte, ma poi era emerso che, quando la signora aveva aperto il conto il 4 novembre 1997, proprio Fontana ne era stato indicato procuratore con potere di firma.

Il 4 luglio 2005 il patrimonio di 3,4 milioni della 83enne madre era passato alla Montmellon Valley di Nassau, lievitando però di altri 2,5 milioni di ignota provenienza, e con la singolarità di una firma della madre che la perizia grafologica dei pm esclude fosse della madre. 

Infine il 19 agosto 2014 (madre 91enne) le azioni della Montmellon Valley erano passate al trust Tectum, che operava per una fondazione del Liechtenstein, «Obbligo». 

Il commercialista Fabio Frattini ha detto ai pm di aver poi solo trasmesso al Fisco la voluntary di Fontana compilata da Paolo Vincenti, il quale (collegato allo studio di Valerio Vallefuoco) ha riferito di essersi basato sui conteggi di Paolo Cenciarelli, nel frattempo morto in un incidente, e Vallefuoco ha spiegato di aver perso le carte nell'allagamento dello studio nel 2018.

La difesa di Fontana, andando in Svizzera nelle banche, ritiene invece di aver ricostruito l'origine dei 2,5 milioni spuntati nel 2005: la Bdg di Losanna, istituto di Ubi Banca poi incorporato in Banca Cramer, dove il 20 dicembre 1999 la madre aveva aperto un conto con un nome («Axillos») simile al nome del conto «Assillo» del padre di Fontana all'Ubs tra il 1977 e il 1997. Solo che le carte, passati 10 anni, non ci sono più. Per i pm quindi non basta; ma per la gip questa lettura difensiva resta un'alternativa «comunque più ragionevole».

Striscia la Notizia, la cartella-scandalo dell'Agenzia delle Entrate: una truffa vergognosa. Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022.

Striscia la Notizia è tornato ad occuparsi con Riccardo Trombetta dell’Agenzia delle Entrate e del caso d un commerciante a cui erano state intestate a sua insaputa delle utenze telefoniche fittizie, sulle quali gli è pure stato richiesto il pagamento delle tasse. Il tg satirico di Canale 5 è intervenuto per risolvere la situazione, che era diventata surreale e ridicola, non degna di un Paese civile. 

Daniele Castellano è un commerciante che vende modelli di personaggi noti della tv animata giapponese: è stato vittima di una truffa per un recupero crediti da parte di un noto operatore telefonico per circa 7mila euro. “Qualcuno ha intestato sette linee telefoniche alla nostra azienda - ha spiegato ai microfoni di Striscia la Notizia - utilizzando tutti i nostri dati a parte l’indirizzo, che era diverso e a cui arrivavano le bollette. Abbiamo fatto denuncia e l’operatore ha bloccato tutto, ma il problema non si è risolto”. 

L’Agenzia delle Entrate ha infatti chiesto le tasse per un valore di 260 euro: “Abbiamo fatto presente che siamo vittime di una truffa, abbiamo fatto ricorso e lo abbiamo vinto, con l’Agenzia che avrebbe dovuto rimborsarci 300 euro, che non abbiamo mai visto. A distanza di 10 anni ci ha poi chiesto 472 euro per queste famose sette schede”. Allora Trombetta ha contattato l’Agenzia che ha riconosciuto l’errore e ha annullato la cartella.

 Luca Cifoni per "Il Messaggero" il 19 febbraio 2022.

Da Exor 746 milioni, dalla Giovanni Agnelli BV (che di Exor detiene la maggioranza del capitale) altri 203. In tutto il fisco incassa quasi un miliardo a conclusione dell'accertamento relativo alla precedente fusione con la controllata olandese Exor NV. Per l'Agenzia delle Entrate si tratta della più grande operazione di questo tipo dopo quella in cui il gruppo francese Kering (che controlla Gucci) aveva accettato di versare 1,25 miliardi.

LE REGOLE La vicenda che riguarda la holding della famiglia Agnelli risale al 2016. A seguito della fusione, che comportava di fatto il trasferimento della società in Olanda, andava versata la cosiddetta exit tax, calcolata sulle plusvalenze realizzate. Proprio su questo punto si basa la contestazione dell'Agenzia delle Entrate, che aveva stimato un imponibile maggiore di quello dichiarato dalla società. 

La differenza dipende essenzialmente dalla convinzione di Exor di poter sfruttare il regime di partecipation exemption (Pex) che permette di esentare le plusvalenze per il 95 per cento del loro valore. Secondo la società non ci sarebbe stata una violazione delle regole vigenti: l'accordo è stato accettato «al fine di evitare tempi e costi di un rilevante contenzioso fiscale» e «non comporta né può essere interpretato come un'accettazione - né tantomeno una condivisione, neppure parziale - delle tesi sostenute a posteriori dall'Agenzia delle Entrate».

Nell'interpretazione di Exor le contestazioni dipenderebbero infatti da un atto successivo ai fatti, un Principio di diritto che risale al maggio del 2021. L'Agenzia delle Entrate si appoggia invece a un documento che risale a dieci anni prima la fusione, la circolare numero 6 del 2006. Quello concluso è quindi un accertamento con adesione, che ha permesso alla società della famiglia Agnelli di risparmiare solo le sanzioni che sarebbero state dovute. L'importo versato di 746 milioni comprende invece 104 milioni di interessi, mentre sui 203 versati dalla Giovanni Agnelli BV la quota interessi vale 28 milioni.

VICENDA CHIUSA Per quanto riguarda Exor l'effetto dell'accordo, il cui pagamento è stato interamente corrisposto, si rifletterà sul bilancio 2021. E non avrà impatto su investimenti e strategie di sviluppo. Entrambe le società fanno sapere che «non sussistono ulteriori questioni fiscali pendenti» in relazione agli anni in cui hanno avuto la residenza fiscale in Italia «per i quali risultano inoltre scaduti gli ordinari termini di accertamento». Insomma la vicenda si chiude qui, con un versamento comunque molto rilevante che avrà un effetto positivo anche sui conti pubblici italiani.  

Doppia tegola sulle cassaforti di casa Agnelli: 746 milioni per Exor e 203 milioni per la Giovanni Agnelli, che controlla la Exor. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Febbraio 2022.

La holding di casa Agnelli ha così scelto di sottoscrivere l'accordo e di pagare quanto pattuito con l' Agenzia delle Entrate, onde evitare un conseguente lungo e costoso contenzioso tributario. Exor in occasione della fusione societaria, aveva applicato la disciplina della Participation Exemption (Pex) prevista dall'articolo 87 del Corporate Income Tax Act.

L’accordo raggiunto tra l’ Exor holding di casa Agnelli e l’Agenzia delle Entrate riguardano le plusvalenze derivanti dal trasferimento in Olanda della holding al cui vertice siede John Elkann. A questo punto, i 746 milioni pattuiti (104 gli interessi) – e pagati per cassa – peseranno sui conti di Exor del 2021, il cui primo semestre si era chiuso con un utile di 838 milioni e quindi non dovrebbe comunque passare in “rosso” nell’intero anno. Lo stesso bilancio aveva visto un incasso di dividendi pari a 1,7 miliardi di euro e serviti per pagare le cedole agli azionisti e fare investimenti. La Giovanni Agnelli B.V. , che controlla la stessa Exor a sua volta dovrà pagare 203 milioni (28 alla voce interessi) all’Agenzia delle Entrate.

La decisione della Exor risale al 2016 di ridomiciliarsi in Olanda, perché olandese era già la residenza di molte delle società controllate, come Cnh Industrial, Fca e Ferrari. Inoltre anche Stellantis che ha da poco celebrato il primo anno di operatività, nel 2021 per la sua residenza aveva scelto Amsterdam , “il tutto – spiega Exor – per l’esigenza di armonizzazione dei sistemi di governance e di regole del diritto societario, non di convenienza fiscale: il trattamento fiscale sulle plusvalenze è praticamente uguale in Italia e in Olanda“. 

La holding di casa Agnelli ha così scelto di sottoscrivere l’accordo e di pagare quanto pattuito con l’ Agenzia delle Entrate, onde evitare un conseguente lungo e costoso contenzioso tributario, pur rimanendo del tutto convinta di aver agito correttamente e rivendicando di non aver violato alcuna norma in tema di Exit Tax, l’imposta sui redditi dovuta sulle plusvalenze realizzate in occasione del trasferimento della residenza verso uno Stato appartenente all’Ue oppure aderente all’Accordo sullo Spazio economico europeo.

In merito prosegue la nota della Exor, “c’è il fatto che l’ Agenzia delle Entrate non ha comminato alcuna sanzione a fronte della contestazione sollevata: l’ammontare pagato per l’Exit Tax corrisponde solo al ricalcolo del maggiore imponibile e ai relativi interessi”. 

Exor in occasione della fusione societaria, aveva applicato la disciplina della Participation Exemption (Pex) prevista dall’articolo 87 del Corporate Income Tax Act. In tale regime, il 95% delle eventuali plusvalenze relative al valore delle sue partecipazioni era esente e, quindi, escluso dal reddito imponibile della holding per la determinazione della Exit Tax.

Ma successivamente l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che la Participation Exemption “non dovesse applicarsi ai casi in cui una holding trasferisce il proprio domicilio fiscale all’estero senza mantenere una stabile organizzazione in Italia“. Exor a sua volte resta convinta di aver agito secondo le regole. E precisa che “non sussistono ulteriori questioni fiscali pendenti in relazione agli anni nei quali la holding ha avuto la residenza fiscale in Italia per i quali risultano anche scaduti gli ordinari termini di accertamento“.

La Giovanni Agnelli a sua volta ritiene pure di “avere correttamente operato e di non aver commesso alcuna violazione della normativa applicabile nella determinazione della Exit Tax“. La cifra pagata da Exor equivale a circa il 2,5% del suo valore (intorno a 30 miliardi), e quindi l’esborso fiscale non cambierà le sue strategie di investimento e sviluppo. Redazione CdG 1947

Agnelli, dal Fisco un conto di 950 milioni. Pierluigi Bonora il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Accordo record per un contenzioso legato al trasferimento della sede in Olanda del 2016. Doppia tegola sulle cassaforti di casa Agnelli: 746 milioni (104 gli interessi) per Exor e 203 milioni (28 alla voce interessi) a carico della Giovanni Agnelli, che controlla la stessa Exor. Di fatto, entrambe le società hanno definito le proprie pendenze con il Fisco italiano per il 2016. L'accordo raggiunto tra Exor e l'Agenzia delle Entrate riguarda le plusvalenze derivanti dal trasferimento in Olanda della holding al cui vertice siede John Elkann. A questo punto, i 746 milioni pattuiti - e pagati per cassa - peseranno sui conti di Exor del 2021, il cui primo semestre si era chiuso con un utile di 838 milioni (non dovrebbe comunque passare in «rosso» nell'intero anno). Lo stesso bilancio aveva visto un incasso di dividendi pari a 1,7 miliardi di euro e serviti per pagare le cedole agli azionisti e fare investimenti.

Risale al 2016 la decisione della holding di ridomiciliarsi in Olanda, perché olandese era già la residenza di molte delle società controllate, come Cnh Industrial, Fca e Ferrari. Tra l'altro, anche Stellantis, che ha da poco celebrato il primo anno di operatività, nel 2021 ha scelto Amsterdam per la sua residenza. «Il tutto - spiega Exor - per l'esigenza di armonizzazione dei sistemi di governance e di regole del diritto societario, non di convenienza fiscale: il trattamento fiscale sulle plusvalenze è praticamente uguale in Italia e in Olanda». E per evitare un lungo e costoso contenzioso tributario, la holding ha così scelto di sottoscrivere l'accordo e di pagare quanto pattuito, pur rimanendo del tutto convinta di aver agito correttamente e rivendicando di non aver violato alcuna norma in tema di Exit Tax, l'imposta sui redditi dovuta sulle plusvalenze realizzate in occasione del trasferimento della residenza verso uno Stato appartenente all'Ue oppure aderente all'Accordo sullo Spazio economico europeo. Al riguardo, aggiunge la nota, «c'è il fatto che l'Agenzia delle Entrate non ha comminato alcuna sanzione a fronte della contestazione sollevata: l'ammontare pagato per l'Exit Tax corrisponde solo al ricalcolo del maggiore imponibile e ai relativi interessi».

In occasione della fusione transfrontaliera, Exor aveva applicato la disciplina della Participation Exemption (Pex) prevista dall'articolo 87 del Corporate Income Tax Act. In tale regime, il 95% delle eventuali plusvalenze relative al valore delle sue partecipazioni era esente e, quindi, escluso dal reddito imponibile della holding per la determinazione della Exit Tax.

L'Agenzia delle Entrate ha ritenuto, però, successivamente, che la Participation Exemption «non dovesse applicarsi ai casi in cui una holding trasferisce il proprio domicilio fiscale all'estero senza mantenere una stabile organizzazione in Italia». Exor, comunque, resta convinta di aver agito secondo le regole. E precisa che «non sussistono ulteriori questioni fiscali pendenti in relazione agli anni nei quali la holding ha avuto la residenza fiscale in Italia per i quali risultano anche scaduti gli ordinari termini di accertamento».

Da parte sua, la Giovanni Agnelli ritiene pure di «avere correttamente operato e di non aver commesso alcuna violazione della normativa applicabile nella determinazione della Exit Tax». La cifra pagata da Exor corrisponde a circa il 2,5% del suo valore (intorno a 30 miliardi). L'esborso non cambierà le sue strategie di investimento e sviluppo. La parola passa ai mercati.

Da "il Messaggero" il 18 febbraio 2022.

Sono «circa 8 milioni di euro» i ricavi «sottratti fraudolentemente al fisco attraverso la fittizia interposizione di veicoli societari esteri» dall'ex presidente della Camera Irene Pivetti, come accertato nelle «accurate» indagini della Guardia di Finanza. 

Il Riesame di Milano, accogliendo il ricorso del pm, ha disposto il sequestro di circa 4 milioni di euro a carico della Pivetti e di un suo consulente, tra gli indagati per riciclaggio, autoriciclaggio e frode fiscale per una serie di operazioni commerciali, in particolare la compravendita di tre Ferrari Gran turismo, che sarebbero servite per riciclare proventi di un'evasione fiscale.

Il sequestro, effettuato il 18 novembre, non è stato convalidato dal gip. Poi, l'appello del pm e ieri la decisione. Con la «interposizione» fittizia di uno «schermo societario», Pivetti avrebbe raggiunto l'obiettivo «fraudolento di evasione fiscale» tra il 2016 e il 2017, con «operazioni simulate e avvalendosi di documenti falsi», scrivono i giudici. «Concordo con l'impostazione del gip, non con il Riesame e sentiremo cosa ne pensa la Cassazione», preannuncia l'avvocato Filippo Cocco.

Flavio Briatore "a processo", l'unico che paga per il Covid: l'ultimo atto della persecuzione giudiziaria. Andrea Cappelli su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022.

Dopo due anni di sviste, inversioni a U, maxi commesse dalla Cina e crisi di governo, va a finire che a pagare per gli errori commessi in fase pandemica saranno Flavio Briatore e una manciata di gestori di locali in Sardegna. Partiamo dai fatti: a otto mesi dalla chiusura delle indagini sui contagi Covid scoppiati nell'estate 2020 in Costa Smeralda, la procura di Tempio Pausania ha chiesto il rinvio a giudizio per gli amministratori unici e le società proprietarie di tre noti locali. A rischiare di finire sul banco degli imputati, con le accuse di epidemia colposa e lesioni personali colpose, sono Flavio Briatore - proprietario della società Billionaire srl - e l'amministratore unico della discoteca Billionaire Roberto Antonio Pretto. Diversa la posizione dell'amministratore del Phi Beach di Baja Sardinia Luciano Guidi e dell'amministratore del Country Club di Porto Rotondo William Franco Carrington Royston, che dovranno rispondere solo dell'accusa di lesioni colpose. Un'odissea giudiziaria senza fine, quella del tycoon di Verzuolo, che un mese fa è stato assolto dall'accusa di frode fiscale nel processo riguardante il presunto noleggio per fini commerciali dello yacht Force Blue. Dodici anni di calvario mediatico che hanno segnato profondamente Briatore e familiari (l'imbarcazione fu sequestrata nel 2010 dalla Guardia di Finanza al largo di La Spezia mentre a bordo si trovavano l'allora moglie Elisabetta Gregoraci e il piccolo Nathan Falco, figlio della coppia, oltre a una ventina di membri dell'equipaggio) al termine dei quali l'imprenditore è riuscito a dimostrare la sua innocenza. Neppure il tempo di tirare il fiato e il dirigente piemontese dovrà ora dimostrare di non avere scatenato un'epidemia.

RICOSTRUZIONI

Stando alle ricostruzioni dei pm, titolare della società e amministratore del Billionaire non avrebbero predisposto adeguate misure di sicurezza anti-Covid. Tale lassismo avrebbe agevolato il proliferare del virus, provocando decine di contagi tra i clienti e i 14 dipendenti della discoteca. Per uno di quei paradossi che sembrano caratterizzare da sempre la sua vita professionale, in questo scenario Briatore sarebbe anche vittima di se stesso, avendo contratto in prima persona il virus dentro il suo locale. Discorso diverso per Phi Beach e Country Club, i cui gestori sono accusati di non aver fornito un numero sufficiente di mascherine protettive al personale (6 i dipendenti infettati nel primo locale, 8 nel secondo) oltre ad aver esercitato controlli blandi in materia di misure di sicurezza anti Covid. Ora spetterà al giudice dell'udienza preliminare stabilire se i gestori dovranno affrontare un processo. «Al momento ha dichiarato Antonella Cuccureddu, legale dell'ad del Billionaire di Porto Cervo Pretto non abbiamo ricevuto nessuna notifica; per questo motivo non abbiamo alcun commento da fare». Fino a ieri nessuna reazione nemmeno dell'ex team manager della scuderia Benetton di Formula 1. Ora, fermo restando il principio di non colpevolezza, così come l'azione doverosa della magistratura chiamata ad accertare i fatti, nei meandri del web c'è già chi si scaglia contro Briatore e soci, accusandoli delle peggiori nefandezze. Non per "benaltrismo" ma per senso di giustizia, una domanda sorge spontanea: davvero l'opinione pubblica rischia un simile cortocircuito?

LE VERE QUESTIONI

Dopo la maxi commessa da 1,25 miliardi a tre consorzi cinesi ad opera dell'allora commissario Arcuri per l'acquisto di mascherine, con migliaia di euro di ristori promessi dal governo Conte II ancora in attesa di essere erogati, con la schizofrenia iniziale nell'istituire zone gialle-rosse-arancioni per poi tornare sui propri passi e con il peccatuccio veniale- ma irresistibilmente comico - di un ministro della Salute che in piena pandemia prima scrive e poi ritira dal commercio a pochi giorni dall'uscita un agile saggio in cui si festeggiava la fine dell'emergenza, davvero va a finire che a dover rendere conto del dilagare dell'epidemia dovranno essere Flavio Briatore e gli imprenditori della Costa Smeralda? Prima del Billionaire e di chi lo gestisce, i processi giudiziari e quelli mediatici attendono ancora una lunga lista di ospiti illustri.

Da liberoquotidiano.it il 19 febbraio 2022.

Alberto Genovese avrebbe utilizzato i proventi dell'evasione fiscale per «provvedere al reperimento delle risorse necessarie per le sue attività personali, tra cui l'acquisto e la ristrutturazione della villa a Ibiza e l'acquisto di beni di lusso e di consumo», tra cui «ingenti acquisti di alcolici». È quanto scrivono i giudici della terza sezione della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui hanno rigettato il ricorso dell'imprenditore contro il sequestro preventivo di 4,3 milioni di euro su un'ipotesi di presunta evasione fiscale che sarebbe stata commessa negli anni scorsi.

In particolare, Genovese si sarebbe servito della società Auliv «per scopi personali del tutto estranei all'oggetto sociale» e «in modo pressoché esclusivo per gestire i flussi finanziari derivanti dalle sue attività e dalle sue partecipazioni societarie e provvedere al reperimento delle risorse necessarie per le sue attività personali». 

Tra acquisto e ristrutturazione la villa a Ibiza è costata 8 milioni di euro. Genovese è imputato di violenza sessuale dopo che una 18enne lo ha accusato di averla violentata nella sua casa di Milano durante una festa, e anche un'altra ha denunciato una violenza che sarebbe avvenuta proprio nella villa di Ibiza.

Caso Genovese. Per la Cassazione “ha evaso le tasse per pagarsi la villa a Ibiza, beni di lusso e grandi quantità di alcol”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Febbraio 2022

Genovese a processo a Milano con l'accusa di aver violentato, dopo averle rese incoscienti con un mix di droghe, due giovani modelle, avrebbe "utilizzato la holding Auliv a scopo di evasione fiscale, per gestire i flussi finanziari derivanti dalle sue attività e partecipazioni societarie e per provvedere al reperimento delle risorse necessarie per le sue attività personali", tra le quali 8 milioni di euro per "l'acquisto e la ristrutturazione della villa a Ibiza" e "beni di lusso e consumo", come "ingenti acquisti di alcolici".

L’imprenditore del web Alberto Genovese a processo a Milano con l’accusa di aver violentato, dopo averle rese incoscienti con un mix di droghe, due giovani modelle, avrebbe “utilizzato la holding Auliv a scopo di evasione fiscale, per gestire i flussi finanziari derivanti dalle sue attività e partecipazioni societarie e per provvedere al reperimento delle risorse necessarie per le sue attività personali”, tra le quali 8 milioni di euro per “l’acquisto e la ristrutturazione della villa a Ibiza” e “beni di lusso e consumo“, come “ingenti acquisti di alcolici“. “L’80% circa delle uscite relative alla holding Auliv e il 51% circa delle operazioni passive della stessa società nel periodo 2014-2020 sono collegate alla residenza nell’isola spagnola“. 

E’ quello che ha scritto la 3a sezione penale (presidente Grazia Lapalorcia) della Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui a fine novembre scorso ha confermato il sequestro da 4,3 milioni di euro, disposto dal Tribunale Riesame dopo che il gip l’aveva negato, a carico dell’ex ‘mago’ delle start up digitali accusato di reati fiscali, per gli anni 2018-2019. Reati contestati in un filone dell’inchiesta condotta dai pm Paolo Filippini e Rosaria Stagnaro i cui accertamenti sulle sue movimentazioni finanziarie erano stati delegati al Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano.

Il sequestro ha riguardato una presunta evasione su redditi da lavoro, riferiti al suo ruolo dell’epoca in Facile.it Holdco Limited, che Genovese avrebbe dichiarato come redditi da capitale. indicandoli come “compensi percepiti dalla liquidazione di ‘warrants instruments’ emessi dalla Facile.it Holdco.Ltd come redditi di natura finanziaria” e non da “lavoro dipendente”. 

La Auliv, ribadiscono i giudici, sarebbe stata “utilizzata fraudolentemente e a scopo di evasione come soggetto interposto per consentire a Genovese di sottrarre somme di cui aveva la disponibilità alla imposizione fiscale”. Non si può parlare, per la Suprema Corte, di “abuso del diritto“, cioè di ‘semplici’ forme di elusione fiscale, ma c’è stata evasione perché si tratta di “operazioni che non hanno rispettato, neppure formalmente, le norme fiscali”. Motivazioni per le quali il ricorso della difesa è stato rigettato.

Ma non solo. Contestata anche una presunta evasione sulla liquidazione di alcune partecipazioni che aveva in Facile.it (società da lui fondata) realizzata con lo ‘schermo’ della holding Auliv: non avrebbe indicato “tra i redditi personali di natura finanziaria” le “plusvalenze da quasi 10 milioni di euro relative alle cessioni di partecipazioni” e quelle da oltre 1,8 milioni di euro su “cessioni di partecipazioni detenute in Brumbrum spa“. Redazione CdG 1947

Panama Papers, parla la fonte: «Ho paura di Vladimir Putin, è lo zar delle offshore». Sei anni dopo la fuga di notizie che svelò i segreti dei paradisi fiscali, la prima intervista al protagonista: «Devo restare anonimo, ho toccato troppi interessi di cartelli della droga e regimi corrotti. Sono fiero delle riforme approvate, ma i politici devono fare di più». L'Espresso - Der Spiegel - Icij su L'Espresso il 22 luglio 2022.

Nel 2015 una fonte che usava uno pseudonimo, John Doe, ha contattato il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung e ha consegnato a due giornalisti un'enorme quantità di documenti riservati, più di 2,6 terabyte, provenienti dallo studio Mossack Fonseca di Panama City, una delle più importanti centrali internazionali di creazione e gestione di società offshore. I cronisti tedeschi hanno condiviso tutti quei dati con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij), che ha organizzato e coordinato un'inchiesta internazionale, chiamata Panama Papers, che ha unito oltre 400 giornalisti di più di cento testate di tutto il mondo, tra cui L'Espresso in esclusiva per l'Italia. A partire dall'aprile 2016 quel fiume di rivelazioni sulle offshore, le società anonime utilizzate dai vip per nascondere ricchezze nei paradisi fiscali, hanno smascherato per la prima volta migliaia di evasori, politici corrotti, narcotrafficanti e riciclatori di soldi mafiosi. Hanno spinto alle dimissioni ministri e capi di governo, dal Pakistan all'Islanda, scatenando proteste in numerose capitali contro i privilegi delle élite che non pagano le tasse. I Panama Papers hanno poi permesso a diverse nazioni, tra cui l'Italia, di avviare indagini fiscali e giudiziarie, che hanno consentito di recuperare un bottino totale, fino ad oggi, di oltre 1,2 miliardi di euro.

John Doe non ha mai rivelato la sua identità e fino ad oggi non aveva mai parlato pubblicamente. Ora, per la prima volta, ha accettato di farsi intervistare dai due autori dello scoop mondiale di cinque anni fa, Frederik Obermaier e Bastian Obermayer, che oggi lavorano come giornalisti indipendenti con una propria testata investigativa, Paper trail media. La versione integrale dell'intervista viene pubblicata dal settimanale tedesco Der Spiegel oggi alle 11, in simultanea con le anticipazioni concesse a L'Espresso e alle altre testate del «Team Panama Papers».

Come sta? Si sente sicuro?

«Sono al sicuro, per quanto posso saperne. Viviamo in un mondo pericoloso e qualche volta la situazione mi pesa. Ma alla fine sto piuttosto bene e mi considero molto fortunato».

Lei è rimasto in silenzio per sei anni. Non le è mai venuta la tentazione di rivelare il suo ruolo di protagonista della fuga di notizie che ha scoperchiato gli affari segreti con le società offshore di capi di Stato e di governo, magnati dell’economia, cartelli della droga e delinquenti di ogni tipo?

«In passato avevo dovuto lottare, come penso capiti a molti, per vedere riconosciuto il mio lavoro, ma in questo caso la fama non è mai stata parte dell'equazione. L'unica mia preoccupazione era rimanere in vita abbastanza a lungo per poter raccontare prima o poi la storia a qualcuno. Avevo riflettuto diversi giorni prima di decidere di rendere pubblici i dati di Mossack Fonseca. Mi sembrava di vedere dall'alto la canna di una pistola carica. Ma alla fine mi sentito in dovere di farlo». 

Quando ha contattato la Sueddeutsche Zeitung, cosa si aspettava, cosa aveva in mente?

«Allora non avevo assolutamente idea di cosa sarebbe successo e nemmeno se mi avreste risposto. Avevo già cercato giornalisti di altre testate, inclusi New York Times e Wall Street Journal, che si mostrarono disinteressati. Poi ho contattato anche Wikileaks, che non si è curata nemmeno di rispondermi».

Tutte le testate del «global team» dei Panama Papers hanno pubblicato il primo articolo insieme, alla stessa ora, domenica 3 aprile 2016. Che giorno è stato per lei?

«Era una domenica come le altre, ero a pranzo con alcuni amici. Ricordo che da quel momento ho visto volare in rete migliaia di commenti. Una cosa che non avevo mai veduto prima, una vera esplosione di notizie. Mi lasciò stupefatto scoprire che anche Edward Snowden, la fonte delle notizie sulle intercettazioni di massa dei servizi segreti americani, era interessatissimo e ne discuteva personalmente. Anche le persone che erano con me hanno iniziato subito a parlarne. Ho fatto del mio meglio per comportarmi come chiunque altro stesse ascoltando quelle notizie per la prima volta».

Molti esperti hanno paragonato i Panama Papers allo scandalo Watergate. In quel caso la «gola profonda», il vicedirettore dell'Fbi Mark Felt, rivelò la sua identità dopo 33 anni.

«Ho pensato di tanto in tanto a Felt e al tipo di rischi che ha affrontato. Ma il mio profilo di rischio è differente dal suo. Potrei dover aspettare fino a quando non sarò sul letto di morte».

Perché?

«I Panama Papers coinvolgono così tante organizzazioni criminali internazionali, alcune delle quale collegate a governi, che è difficile immaginare come potrei continuare a vivere in sicurezza rivelando la mia identità. Mark Felt doveva preoccuparsi soprattutto del presidente Richard Nixon, che dopo un paio d'anni si è dimesso. Nel mio caso, è probabile che anche tra 50 anni alcuni dei gruppi che mi preoccupano saranno ancora tra noi».

Ha mai rivelato a qualcuno il suo ruolo nei Panama Papers?

«Dopo la pubblicazione degli articoli, ne ho parlato solo a poche delle persone che mi stanno più a cuore».

Perché ora ha deciso di parlare?

«Avevo pensato di farlo altre volte, in questi sei anni, in periodi in cui mi sembrava che il mondo si avviasse verso la catastrofe, per cui sentivo l'urgenza di intervenire. Ma dovevo mettere sulla bilancia altri fattori. Per prima cosa, la mia sicurezza fisica e quella della mia famiglia. Poi, il fatto che il mondo è un grande spazio con una cacofonia di voci che cercano di far prevalere il loro punto di vista. Volevo che le mie parole mantenessero un significato, che non andassero perdute dopo l'ennesimo tweet di Donald Trump. Nel 2016 firmai un manifesto che denunciava il pericolo che una grave instabilità mondiale fosse vicina. Temo che oggi quell'instabilità sia arrivata».

Che tipo di instabilità?

«L'ascesa del fascismo e dell'autoritarismo a livello globale, dalla Cina alla Russia, dal Brasile alle Filippine, e ora anche negli Stati Uniti. L'America ha fatti errori terribili nella sua storia, ma per anni ha funzionato come forza di bilanciamento contro i peggiori regimi. Oggi quella funzione di bilanciamento ha cessato di esistere».

I paradisi fiscali e le società offshore sembrano avere un'importanza cruciale per gli uomini forti dei regimi autocratici.

«Oggi Putin è una minaccia per gli Stati Uniti più grave di quanto lo fosse Hitler. E le società offshore sono i suoi migliori amici. Sono le offshore, che finanziano l'apparato militare russo, a uccidere i civili innocenti in Ucraina, a pagare i missili lanciati sui centri commerciali. Sono altre offshore, che nascondono i colossi industriali cinesi, a uccidere i lavoratori minorenni nelle miniere di cobalto in Congo. Le società offshore rendono possibili questi orrori e li facilitano, rimuovendo ogni possibilità di controllo delle responsabilità. Ma senza controlli la nostra società non può funzionare».

Molte notizie dei Panama Papers sembrano ancora più rilevanti dopo l'attacco russo all'Ucraina. Ad esempio, uno degli amici più stretti e fidati di Putin, il violoncellista Sergei Roldugin, è stato colpito dalle sanzioni alla fine di febbraio. E la ragione principale è quello che abbiamo trovato nei Panama Papers: società offshore che possiedono miliardi, intestate sulla carta a Roldugin, ma verosimilmente come prestanome del suo potente amico. È contento di questa svolta?

«Sono felice di vedere Roldugin sanzionato. Mi sembra una mossa geniale».

Ha paura che il regime russo possa cercare di vendicarsi?

«È un rischio con cui convivo. I servizi segreti di Mosca hanno commesso diversi omicidi anche in pieno giorno nelle capitali europee. Il governo russo ha dichiarato esplicitamente che mi vuole morto. Ricordo che, prima della guerra, il canale Russia Today ha messo in onda un “docu-drama” in due parti sui Panama Papers: nella sigla iniziale si vede un personaggio, chiamato John Doe, con ferite alla testa provocate da torture; poi c'è un cartone animato con una barca che naviga nel suo sangue, come se fosse il canale di Panama. Per quanto bizzarro e pacchiano, non era un messaggio sottile. Anche in altre nazioni abbiamo visto personaggi potenti, collegati a conti offshore ed evasioni fiscali, ricorrere all'omicidio, come nelle tragedie dei giornalisti Daphne Caruana Galizia e Ján Kuciak. Le loro morti mi hanno profondamente colpito. Invito l'Unione europea a rendere giustizia a Daphne e Ján e alle loro famiglie. E a ripristinare la legalità e lo Stato di diritto a Malta, una delle giurisdizioni dove operava Mossack Fonseca».

Per l'oligarchia russa è una routine usare complesse strutture societarie offshore per nascondere la proprietà di ville di lusso, yacht, aerei privati e altre ricchezze. Come si può fermare questo?

«Penso che il mondo occidentale abbia visto per lungo tempo Putin come un fastidio, che però si poteva controllare con incentivi economici. Ovviamente, questo non ha funzionato. Per districare gli enigmi del mondo delle offshore servirebbe uno sforzo straordinario, una sorta di versione moderna del "Manhattan Project". Le capacità tecniche e informatiche esistono certamente. La questione è se ci sarà la volontà politica. Finora non ne ho avuto molta evidenza».

Perché non abbiamo ancora visto un whistleblower, una fonte interna al sistema come lo era lei, in Russia?

«Per diventare un whisteblower, oltre a un determinato quantitativo di coraggio, serve un certo grado di libertà. C'è bisogno di qualcun altro che lo stia ad ascoltare e ci dev'essere un desiderio di cambiare le cose. A parte il fatto che Putin fa uccidere o imprigionare chi dimostra questo coraggio, è molto difficile trovare quel tipo di libertà in un posto come la Russia».

Dal 2016 ad oggi sono stati pubblicati migliaia di articoli sui Panama Papers. Ci sono storie ancora inedite che il mondo dovrebbe conoscere?

«Ce ne sono tantissime. Me ne viene in mente una: un trust che gestiva assegni di comodo, creato da uno studio colombiano probabilmente per un cartello della droga, che era autorizzato a usare a Panama i conti di corrispondenza di una grande banca americana. I nomi dei beneficiari erano stampati sugli assegni con una macchina da scrivere. Definire anomale queste pratiche è un eufemismo: erano operazioni da denunciare alle autorità antiriciclaggio».

Quanto è soddisfatto dell’impatto dei Panama Papers?

«Sono sbalordito del risultato. Icij ha realizzato un obiettivo senza precedenti. E io sono molto contento, e perfino orgoglioso, che siano state adottate importanti riforme legali come effetto dei Panama Papers. Anche il fatto che sia stata realizzata una collaborazione giornalistica di questa scala è un vero trionfo. Purtroppo, non è ancora abbastanza. Non ho mai pensato che rendere pubblici i dati di un solo studio legale potesse risolvere il problema globale della corruzione. Sono i politici che devono agire. Bisogna rendere pubblici tutti i dati sulle società registrate in tutte le giurisdizioni, dalle British Virgin Islands ad Anguilla, dalle Seychelles al Delaware. E se sentite qualche resistenza, quello è il rumore di un politico che deve essere cacciato».

Marco Bresolin per "la Stampa" il 24 febbraio 2022.

Il Parlamento europeo vuole far luce sul caso Credit Suisse, dopo l'inchiesta giornalistica che ha rivelato l'esistenza di conti correnti presso l'istituto svizzero riconducibili ad attività criminali, violazioni dei diritti umani e persone sottoposte a sanzioni. 

Da parte degli eurodeputati c'è la volontà di chiedere alla Commissione di raccogliere il maggior numero di informazioni relative ai conti svelati dall'inchiesta coordinata da Occrp e Süddeutsche Zeitung della quale La Stampa e IrpiMedia sono i partner italiani, per chiarire il ruolo della vigilanza svizzera e verificare eventuali problematiche.

Nei giorni scorsi il gruppo del Partito popolare europeo aveva chiesto alla Commissione di considerare un eventuale inserimento della Svizzera nella blacklist Ue dei paradisi fiscali, tecnicamente «lista delle giurisdizioni non cooperative». 

Prima di arrivarci, però, c'è la volontà di fare chiarezza. «Come Parlamento non possiamo certo rimanere a guardare» spiega Irene Tinagli, eurodeputata Pd e presidente della commissione Affari Economici.

La numero due del Partito democratico ha scritto a tutti i capigruppo per proporre un incontro con la Commissione da tenersi «il prima possibile». Non una vera e propria audizione, ma un meeting a porte chiuse per controllare che tutto sia in regola per quanto riguarda lo scambio di informazioni con la Svizzera e il rispetto delle normative. 

Tinagli ha anche messo la questione all'ordine del giorno del prossimo incontro con i capigruppo «per valutare ulteriori iniziative, per esempio audizioni, per approfondire meglio la questione». L'obiettivo è «capire» se i fatti sono avvenuti prima del 2010 o anche dopo per vedere «se ci sono elementi tali da far emergere problematiche per gli anni successivi».

Ma anche se il caso specifico non dovesse rivelare irregolarità, per la presidente della commissione Affari Economici dell'Europarlamento è necessario «cogliere l'opportunità offerta da questa vicenda» per una riflessione più ampia sulla normativa anti-riciclaggio, che oggi è oggetto di revisione da parte delle istituzioni europee. 

«Vogliamo capire - prosegue Tinagli - se c'è la necessità di rafforzare gli strumenti che abbiamo a disposizione e se c'è bisogno di introdurre ulteriori elementi di verifica». Perché il problema non è soltanto ciò che accade in Svizzera o in altri Paesi extra-Ue, ma il timore che i fondi che transitano da quei conti possano poi essere riciclati e investiti in Europa. «E questo - aggiunge Tinagli - lo dobbiamo impedire».

La lista nera Ue delle giurisdizioni non cooperative è stata introdotta nell'ottobre del 2017 e viene aggiornata di continuo, di norma due volte l'anno. L'ultima revisione è stata effettuata nell'ottobre scorso e la prossima è prevista nelle prossime settimane. Al momento i Paesi inclusi sono i seguenti: Samoa americane, Figi, Guam, Palau, Panama, Samoa, Trinidad e Tobago, Isole Vergini degli Stati Uniti e Vanuatu. 

C'è poi un elenco di Paesi che hanno assunto impegni e che per questo vengono monitorati: ne fanno parte Turchia, Botswana, Anguilla, Barbados, Dominica, Seychelles, Thailandia, Costa Rica, Hong Kong, Malaysia, Qatar, Uruguay, Jamaica, Giordania, Macedonia del Nord e Qatar. 

Suisse secrets, l'inchiesta giornalistica sui soldi della criminalità nella banca svizzera. Di PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 25 febbraio 2022.

Quello che l’immaginazione cinematografica ha raccontato in film come “Le conseguenze dell’amore” di Paolo Sorrentino o “Wolf of Wall Street” dove lindi banchieri svizzeri accolgono soldi di camorra o di provenienza illecita si sta ammantando di realtà, anche se da verificare e accertare in ogni dettaglio.

“Suisse secrets” è il nome del progetto cui lavorano 163 giornalisti di 48 testate in 39 paesi coordinata dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung e dall’Occrp (organizzazione internazionale che si occupa di corruzione) che grazie a fughe di notizie e documenti ha fatto emergere la gestione della banca svizzera di migliaia di conti cifrati gestiti da organizzazioni criminali, faccendieri e stati canaglia. Si tratterebbe di circa cento miliardi di dollari transitati in Svizzera dal 1940 al 2010.

Sarebbero 18000 i conti bancari sospetti riconducibili a 37000 clienti. Tra questi ci sarebbero almeno 700 italiani, quasi tutti residenti o domiciliati all’estero.

Il francese Le Monde che fa parte del pool investigativo (in Italia aderiscono La Stampa e IrpiMedia) non ha avuto remore a scrivere nei giorni scorsi che “a dispetto delle regole di vigilanza imposta alle grandi banche internazionali la banca zurighese ha ospitato per molti anni fondi legati alla criminalità e alla corruzione”.

L’istituto bancario in una sua replica ha “negato fermamente” di essere coinvolto affermando anche: “Queste accuse dei media sembrano essere uno sforzo concertato per screditare il mercato finanziario svizzero, che ha subito cambiamenti fondamentali dopo la crisi finanziaria globale, e allo stesso tempo prendono specificamente di mira il Credit Suisse con una raffica di accuse infondate”.

Non vanno bene le vicende della gloriosa banca. A gennaio le dimissioni del presidente Antònio Horta-Osòrio per bilanci troppo allegri e la recente richiesta del Partito Popolare Europeo a Strasburgo di “inserire la Svizzera nelle liste dei paesi ad alto riciclaggio” portano cieli neri nell’ovattata nazione di Guglielmo Tell.

Marco Sabella per il "Corriere della Sera" il 22 febbraio 2022. 

Dai Panama Papers ai «Suisse Secrets». Il mondo della finanza internazionale - e in particolare il nome di una primaria banca elvetica di antica tradizione, il Credit Suisse - è coinvolto in un nuovo scandalo finanziario.

(…. Le informazioni trapelate fanno riferimento a conti e depositi di un importo complessivo superiore a 100 miliardi di dollari, aperti sul Credit Suisse tra gli anni Quaranta del secolo scorso e la fine degli anni 2010. Si tratterebbe in tutto di circa 18 mila conti bancari riconducibili a 37 mila tra persone fisiche e aziende. 

(…) Tra i clienti «speciali» del Credit Suisse figurano almeno 700 nomi di italiani, quasi tutti residenti o domiciliati all'estero e con interessi nel settore petrolifero o minerario in Asia. Credit Suisse nella sua replica ha sottolineato che molte delle vicende ricostruite sono riferite al passato.

L'istituto ha annunciato una investigazione interna per ricostruire le modalità della fuga di notizie e ha respinto fermamente le accuse e le insinuazioni riguardanti le presunte pratiche commerciali della banca. (…)

Gianluca Paolucci per "La Stampa" il 22 febbraio 2022. 

Il gruppo del Ppe - il più numeroso al Parlamento europeo - chiede alla Commissione di valutare se la Svizzera non debba essere considerata tra i paesi della lista nera per riciclaggio. La Finma, autorità di controllo del sistema finanziario elvetico, spiga di essere «in contatto con la banca» per le opportune valutazioni.

I socialdemocratici e i Verdi svizzeri incalzano sulla libertà di stampa e puntano il dito sull'articolo 47 della legge bancaria svizzera che prevede l'arresto per la violazione del segreto bancario. Sono alcune delle reazioni alla pubblicazione di Suisse Secrets, una investigazione alla quale hanno partecipato 48 testate di 39 paesi - per l'Italia La Stampa e IrpiMedia - su 18 mila conti di Credit Suisse.

Inchiesta che ha svelato tra i clienti dell'istituto dittatori, narcotrafficanti, evasori fiscali di mezzo mondo. Innescando una serie di dubbi sulle pratiche dell'istituto e sul rispetto delle regole di tracciabilità dei fondi e riconoscibilità dei clienti. Il gruppo bancario elvetico, già al centro di una serie di scandali negli ultimi anni, ieri ha subito anche il contraccolpo in Borsa: il titolo dell'istituto ha perso oltre il 3% alla Borsa di Zurigo, dove è quotata. Reazioni sono arrivate da alcuni dei personaggi citati nell'inchiesta. 

Re Abdullah II di Giordania fra il 2011 e il 2016 aveva sei conti presso il Credit Suisse, un altro era a nome di Rania, uno di questi sarebbe stato in seguito valutato 230 milioni di franchi svizzeri. Nello stesso periodo l'Fmi accordò un salvataggio finanziario alla Giordania ma a condizione di non poche misure di austerity con sacrifici chiesti ai cittadini.

La Casa Reale giordana ha emesso ieri un comunicato per definire le rivelazioni del consorzio di testate «inaccurate, vecchie e ingannevoli». Giordano era anche Sa' ad Kahir: a capo dei Servizi segreti di Amman tra il 2000 e il 2005, ha ispirato il personaggio di Hani Salaam nel film "Nessuna verità" con Loenardo Di Caprio e Russel Crowe.

Alleato degli Usa nella lotta al terrorismo, ha accumulato fino a 28 milioni di franchi svizzeri in un conto al Credit Suisse aperto nel 2003 e chiuso poco dopo la sua morte nel 2009. Accusato di traffico di petrolio, era colui che sovraintendeva alle «rendition» americane in Giordania. Quello delle spie è un capitolo nella vicenda dei clienti della banca. Sono almeno 15 gli alti vertici dei servizi di vari paesi presenti.

Tra questi Omar Suleyman, ex capo dei servizi egiziani durante il regime di Mubarak, Carlos Luis Aguilera Borjas, ex guardi del corpo di Chavez diventato capo dei servizi venezuelani, Khalaf Al-Dulaimi, a capo dei servizi iracheni sotto Saddam Hussein. Tutti con conti di molti milioni di euro, poco compatibili con lo status di funzionari statali seppure di altissimo livello. 

Tra i clienti anche due ex alti esponenti del regime siriano, accusati di essere corresponsabili di crimini di guerra e contro l'umanità. Si tratta dell'ex vice presidente siriano Abdel Halim Khaddam, morto a Parigi due anni fa, e Muhammad Makhluf, a lungo esponente di spicco dell'oligarchia al potere a Damasco e defunto zio dell'attuale presidente siriano Bashar al Assad.

Articolo di Joseph Stiglitz pubblicato da "La Stampa" - Traduzione di Anna Bissanti il 22 febbraio 2022.

L'ultima notizia esplosiva - i Suisse Secrets - riportata da numerosi organi di informazione internazionali è il proseguimento del lavoro pionieristico sui Panama Papers e i Paradise Papers. Da un certo punto di vista, si tratta sempre della stessa solfa, una storia trita e ritrita: ogni volta che i giornalisti alzano un po' la cortina di segretezza dietro la quale agisce il settore finanziario, capiamo meglio perché il segreto sia così importante.

Serve a coprire una rete di attività corrotte e scellerate eseguite in misura spropositata - e che non stupisce più di tanto - da clienti tenebrosi e famiglie di dittatori, e, presa nel mezzo, una manciata di politici apparentemente rispettabili che vivono nei Paesi democratici. Questa volta, però, siamo in presenza di qualcosa di diverso. 

Questa volta non si sta parlando di un'isoletta sperduta, di un paradiso fiscale chissà dove, di un Paese in via di sviluppo e in difficoltà che cerca di escogitare un modello alternativo di produzione ed esportazione di stupefacenti.

Qui si sta parlando di una delle banche più importanti nel cuore stesso dell'Europa, per la precisione di uno dei Paesi più ricchi al mondo, un paese dove si presume che la legalità debba regnare incontrastata. 

La vicenda è tanto più demoralizzante se si tiene presente che il Paese e la banca coinvolta si erano impegnati espressamente ad agire in modo trasparente e a fare sempre meglio, dopo una lunga storia in cui facilitare l'evasione fiscale era parso il minore dei problemi. È proprio questo il punto: senza maggiore trasparenza non può esservi una rendicontazione attendibile.

In verità, con il passare del tempo la posizione della Svizzera sembra assumere sempre più due facce diverse, con un inquadramento giuridico che penalizza chi cerca di aprire uno squarcio nei suoi segreti. Vari Paesi in varie parti del mondo hanno approvato leggi a tutela degli informatori, dopo aver riconosciuto quanto sia difficile fare luce e dare notizia di comportamenti disdicevoli.

Probabilmente, senza le nuove inflessibili leggi americane a tutela degli informatori, per Frances Hagen non sarebbe stato possibile denunciare i misfatti di Facebook. In verità la Svizzera, una delle democrazie più antiche del mondo, sembra aver intensificato il suo impegno nei confronti del segreto, a prescindere dagli incentivi che dà ai malfattori, a prescindere dalle minacce ai giornalisti e a chi potrebbe accedere alle informazioni in grado di mostrare che cosa accade dietro le quinte e nell'ombra del sistema finanziario.

Sfortunatamente, ma non sorprendentemente, nessun organo svizzero di informazione è riuscito a unirsi alla collaborazione giornalistica globale a causa del rischio di gravi conseguenze penali previste dalle sue leggi sul segreto bancario. I giornalisti di altri Paesi, invece, dovrebbero ricevere complimenti ed encomi per aver rischiato di essere perseguiti dalle autorità svizzere. 

Certo, la Svizzera deve conoscere l'effetto tremendo delle sue leggi: quasi sicuramente preservare il suo business model più a lungo possibile era lo scopo primario di un Paese che trattiene una piccola fetta delle ricchezze mal guadagnate altrui, offrendo in cambio un posto segreto e sicuro dove ammassare e custodire l'oro. Dai Suisse Secrets scopriamo due aspetti inquietanti. 

La collaborazione giornalistica internazionale ha fatto luce solo su una minima parte delle informazioni sui clienti della banca, eppure in quella minima parte vi erano già molti clienti inquietanti, dittatori e loro famigliari, criminali di guerra, funzionari e capi delle intelligence, manager corrotti, trafficanti di uomini, capi di Stato, uomini d'affari soggetti a sanzioni, violatori dei diritti umani - una vera e propria galleria di canaglie.

Che cosa vedremmo se lo squarcio in quella banca fosse più grande? In secondo luogo, sembra che i Paesi che subiscono le peggiori conseguenze per l'assistenza che la banca offre a personaggi di pessima lega siano i Paesi in via di sviluppo e i mercati emergenti. 

Questa rivelazione conferma ciò da cui gli esperti ci stavano mettendo in guardia già da molto tempo: la Svizzera ha acconsentito a uno scambio automatico delle informazioni perlopiù con altri Paesi avanzati, non con quelli poveri, e ancor meno con quelli che potrebbero ospitare attività illegali.

Pertanto, cleptocrazia e corruzione possono benissimo prosperare ancora a lungo. È un bene vedere che i giornalisti credono nel loro dovere di riferire i fatti e si battono per il diritto di sapere dei cittadini di quei Paesi che non hanno controllo su ciò che i loro politici nascondono in Svizzera. 

Ai politici dei Paesi avanzati piace molto fare discorsi di condanna della corruzione altrove. Invece, sono proprio i Paesi come la Svizzera gli elementi determinanti, quelli che offrono un nascondiglio sicuro e garantiscono rendimenti a lungo termine.

Ci corre l'obbligo di essere chiari: la Svizzera non è sola. Giustamente si lamenta, dicendo che chiudere le sue porte vorrebbe semplicemente dire spostare le attività alle proprietà immobiliari e alle istituzioni finanziarie di Miami, Londra e di altri centri dove si ricicla denaro sporco. Nondimeno, vi è qualcosa di ripugnante dal punto di vista morale per coloro che negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Svizzera vivono a spese dei bottini sottratti a coloro che sono molto più poveri di loro.

E, a maggior ragione, dovrebbero sentirsi in forte imbarazzo tutti quei Paesi che, come la Svizzera, hanno messo a punto un ordinamento giuridico che permette a un simile sistema di prosperare. 

Di quante vicende, di quante rivelazioni, di quante denunce ci sarà ancora bisogno prima che Svizzera, Stati Uniti, Regno Unito e altri Paesi cambino le leggi sul segreto bancario e le proprietà immobiliari, nonché su tutte le altre attività che facilitano il riciclaggio di denaro sporco e promuovono crimine e corruzione?

Se scoperta e rivelazione di questo tesoro mettono in luce in che modo la Svizzera stia traendo beneficio da un flusso di soldi proveniente dai Paesi poveri, il sistema intero è corrotto: il marcio dei soldi sporchi guasta tutto ciò con cui viene a contatto. Lo abbiamo visto in modo eclatante e violento negli Stati Uniti, dove il Comandante in Capo era a uno stesso tempo anche il massimo riciclatore di denaro sporco e ha messo a repentaglio la democrazia del Paese. 

Ora si spera che i Suisse Secrets - questo enorme risultato del lavoro di giornalisti onesti e rispettabili - sommergano di vergogna coloro che hanno opposto resistenza alla creazione di un sistema economico e finanziario più trasparente.

Articolo del “Foglio” il 23 febbraio 2022, pubblicato da "Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell'Arti".

L'Europa ha una sorta di Lehman Brothers nel proprio cuore finanziario pur se la Svizzera non fa parte né della zona euro né della Ue. 

Il Credit Suisse, la più antica (1856) e seconda per capitalizzazione delle banche svizzere, quotata a Zurigo e New York, era appena uscita dal doppio trauma delle dimissioni, a gennaio, del presidente António Horta-Osório, colpevole non tanto di aver violato ripetutamente le norme anti Covid ma di aver avallato un bilancio 2021 con perdite di 1,57 miliardi di franchi (1,49 miliardi di euro) rispetto ai 6,9 di utili della rivale Ubs: ed ecco la scoperta di file e quintali di carte su 30 mila conti e 18 mila clienti tra i quali oligarchi, criminali di guerra, narcotrafficanti e politici di paesi satelliti della Russia e del medio oriente.

Nonché il Vaticano e circa 700 italiani. Al punto che il Partito popolare europeo, il più numeroso al Parlamento di Strasburgo, ha chiesto alla Commissione Ue di "inserire la Svizzera nella lista dei paesi ad alto riciclaggio di denaro", ben più grave della black list dei paradisi fiscali dalla quale era uscita nel 2019.

La richiesta è più di forma che di sostanza ma è evidente che un rischio c'è, e prima che diventi sistemico deve essere estirpato dalle autorità regolatorie e governative. C'è una stretta relazione tra bilanci in perdita e clienti discutibili, anche più grave delle operazioni spericolate sui mutui che condussero al crac Lehman e al contagio della finanza mondiale. 

Le perdite sono dovute in gran parte a crediti concessi in Africa e Asia, collegati a scommesse politiche sbagliate. Negli ultimi 5 anni il Cs ha più che dimezzato la capitalizzazione e Horta-Osório, prima di andarsene, aveva sponsorizzato la fusione con altri istituti tra i quali Unicredit. Nessuno ha abboccato. Ma le banche europee, uscite mediamente rafforzate dalla pandemia per la crescita del risparmio gestito e l'occhiuta sorveglianza della Bce, ora rischiano di raccogliere i cocci del Credit Suisse. A meno di un acquisto a prezzo di saldo da parte di un colosso dotato di un un adeguato servizio di pulizie.

Lorenzo Bagnoli e Gianluca Paolucci per "La Stampa" il 23 febbraio 2022.

Evasione ipotizzata: 14 miliardi di euro. Gettito recuperato: 110 milioni di euro, attraverso due patteggiamenti: con la procura di Milano (8,5 milioni, tra confisca e sanzione) e con l'Agenzia delle Entrate (101 milioni). Soldi che rientreranno dalle migliaia di verifiche fiscali scattate: molto pochi o forse zero.

È dura la lotta all'evasione fiscale e al riciclaggio lungo i confini Italia-Svizzera. Correva l'anno 2017 e Credit Suisse si trovava al centro di un'indagine della procura di Milano. L'ipotesi era che la banca avesse costruito un sistema di contabilità speciale attraverso cui permettere ai propri clienti di nascondere patrimoni all'estero. 

Prima dell'inchiesta Suisse Secrets, dove Credit Suisse è accusata di aver concesso conti correnti a criminali, il secondo istituto bancario svizzero nella sua storia recente ha anche patteggiato per non aver impedito evasione fiscale e riciclaggio. L'indagine milanese ha portato alle perquisizioni degli uffici meneghini di Credit Suisse, locati in via Santa Margherita 3, dove sono stati ritrovati i nomi di circa 13 mila clienti.

La Guardia di finanza sta ancora cercando di individuarne diversi: la collaborazione della Svizzera, fino ad oggi, è stata parziale. Secondo il patteggiamento, inoltre, negli uffici della banca sono stati trovati i nomi di 4 mila clienti che avrebbero sottoscritto polizze assicurative alle Bermuda. Polizze-mantello, le chiamano i finanzieri. 

Sotto la veste di strumenti assicurativi, si celavano strumenti finanziari attraverso cui drenare soldi all'estero. Gli investimenti devono essere dichiarati nel quadro RW delle dichiarazioni dei redditi, le polizze assicurative no. Alle Bermuda un sottoscrittore di questo prodotto, Bidzina Ivanishvili - ex primo ministro della Georgia ritiratosi dalla politica, oggi ricco imprenditore di base in Francia - ha perso 400 milioni di dollari a causa di trading «fraudolenti e imprudenti».

Nessuno di Credit Suisse gli avrebbe dato spiegazioni dell'ingente perdita, così è andato per vie legali. Il processo è ancora in corso a Hamilton. In Svizzera nel 2018 è stato arrestato il suo consulente, Patrice Lescaudron, che lavorava con oligarchi e uomini d'affari dell'Est Europa. Era accusato di essersi appropriato indebitamente di parte dei soldi dei suoi clienti.

Nell'agosto 2020 Lescaurdon si è tolto la vita in carcere, scrive il Financial Times, che cita un report dell'autorità di vigilanza svizzera Finma secondo cui da parte della banca «ci sono stati anche tentativi di sorvolare sulle violazioni» del consulente. Negli uffici di Milano, oltre alle polizze-mantello, la Guardia di finanza ha trovato anche conti correnti cifrati e la proposta di un servizio di spallonaggio per far rientrare i soldi in Italia. 

C'erano anche slide che suggerivano comportamenti per non dare nell'occhio ai consulenti di Credit Suisse. Questi elementi di prova avevano valore nel procedimento penale contro la banca conclusosi con il patteggiamento ma non ai fini delle verifiche fiscali.

Non importa che, come scrive la Gip Chiara Valori, Credit Suisse non avesse adottato ed efficacemente attuato «modelli di organizzazione e gestione idonei a evitare la commissione di reati di riciclaggio di provenienza delittuosa realizzati nell'interesse non esclusivo degli autori degli stessi reati»: le verifiche fiscali si fanno caso per caso. 

Maurizio Reggi è un dottore commercialista tributarista che si è trovato a difendere almeno una ventina di clienti di Credit Suisse con polizze-mantello. In primo e secondo grado di giudizio ha sempre ottenuto l'annullamento della verifica fiscale. Le polizze infatti sono state sottoscritte troppi anni fa (molte tra il 2005, 2006 e 2007) perché la verifica fosse ancora utile.

In alcune tra le sentenze più recenti delle Commissioni tributarie, inoltre, si legge spesso che l'Agenzia delle entrate non è stata in grado nemmeno di produrre la polizza contestata. Perché queste difficoltà nell'identificare i clienti? Un motivo possibile, secondo un investigatore, è la poca collaborazione dell'istituto e delle autorità svizzere: le polizze assicurative infatti sono state sottoscritte in Svizzera. Sia le autorità fiscali elvetiche sia l'istituto di credito, rispondendo in blocco alle domande del consorzio Suisse Secrets, hanno dichiarato di essersi sempre adeguate agli standard di cooperazione internazionale.

Cecilia Anesi, Gianluca Paolucci e Lorenzo Bagnoli per "la Stampa" il 21 febbraio 2022.

Familiari e associati dei dittatori che hanno scatenato le primavere arabe. Burocrati venezuelani che hanno partecipato alla spoliazione delle risorse del paese durante le presidenze di Chavez e Maduro. Un generale algerino che guidava le torture durante la sanguinosa guerra civile che ha devastato il paese. 

Un cittadino svedese attualmente in carcere nelle Filippine, dove sconta una condanna per traffico di esseri umani. Un italiano legato al riciclaggio delle cosche di Ndrangheta. E poi evasori fiscali, corrotti e corruttori, narcotrafficanti. Tutti clienti "speciali" di Credit Suisse, la seconda banca svizzera e una delle più importanti istituzioni finanziarie del globo. 

Tracciabilità e trasparenza

Grazie a Suisse Secrets, una investigazione condotta da oltre 160 giornalisti di 39 paesi coordinati da Suddeutsche Zeitung e Occrp con La Stampa e IrpiMedia partner italiani, è possibile risalire alle identità dei titolari di una serie di conti dell'istituto svizzero e alle pratiche della banca, che malgrado gli scandali ha continuato a fornire per anni i propri servizi a questi clienti nonostante le regole sulla tracciabilità dei fondi e la trasparenza delle attività che li hanno prodotti.

E malgrado le ripetute promesse di pulizia da parte dei manager che si sono avvicendati alla guida dell'istituto già al centro di una serie incredibile di scandali. Il leak ricevuto da Suddeutsche Zeitung riguarda circa 18 mila conti, alcuni aperti da anni, una parte ancora attivi in tempi molto recenti. Sono riconducibili a oltre 30 mila persone e società e assommano a un totale di oltre 100 miliardi di euro. 

Fondi che potrebbero essere stati sequestrati su richiesta dei tribunali di mezzo mondo ma su cui non si hanno notizie certe: la banca non ha risposto alle domande puntuali dei giornalisti del consorzio, facendo riferimento al fatto che molte delle vicende ricostruite sono riferite al passato. «Credit Suisse - ha risposto la banca, che ha annunciato una investigazione interna per la fuga di notizie - respinge fermamente le accuse e le insinuazioni riguardanti le presunte pratiche commerciali della banca.

I fatti riferiti sono principalmente remoti, risalendo in alcuni casi addirittura agli anni Quaranta del secolo scorso. Ciò che viene riportato è basato su informazioni parziali, inaccurate o selettive che, estrapolate dal loro contesto, danno adito a interpretazioni tendenziose riguardo la condotta della banca. 

Credit Suisse, in base alle disposizioni di legge, non può rilasciare alcun commento su potenziali relazioni di clientela, ma conferma di avere adottato le misure adeguate, in linea con le direttive e i requisiti regolamentari applicabili nei periodi in questione, e di avere già preso provvedimenti dove necessario». 

Il manager

Seppure la Svizzera si sia adeguata al sistema di scambio automatico di informazioni, la riservatezza resta uno dei capisaldi dell'istituto di credito. Riservatezza garantita in misura maggiore ai clienti "speciali". Una reporter di Occrp si è finta un potenziale cliente interessato a depositare una grossa somma di denaro e chiedendo riservatezza estrema. "Solo un numero limitato di persone anche dentro la banca avrà accesso alle informazioni del vostro conto", l'ha rassicurata un alto dirigente dell'istituto.

Credit Suisse offre ancora conti cifrati al prezzo di 3000 dollari all'anno ma, ha spiegato il manager al finto investitore, "la protezione offerta da questo tipo di conti è diminuita nettamente nel corso degli anni" a causa delle strette normative seguiti agli scandali su riciclaggio ed evasione fiscale e proponendo dunque una serie di alternative, compresi dei trust con dipendenti dell'istituto come fiduciari e direttori. 

Questi clienti «non passano attraverso il normale processo di apertura di un conto bancario. Accedono a un sistema separato, la loro documentazione è tenuta a parte, in cartelle che non sono accessibili al sistema standard. Solo i dirigenti sono a conoscenza di questi conti», spiega un ex Credit Suisse basato a Zurigo che ha accettato di parlare anonimamente con il team di giornalisti. 

Secondo questa e altre fonti, Credit Suisse non solo accettava, ma incoraggiava i propri dipendenti a fornire servizi a clienti con fondi di dubbia provenienza. In questi casi, spiega l'ex banchiere, i conti erano gestiti direttamente dalla direzione della banca, i conti più ricchi e al tempo stesso più a rischio erano «isolati e gestiti dagli alti dirigenti». 

Le cosche del Nord

Tra questi clienti c'era ad esempio Evelin Banev. Ex wrestler, a capo di un gruppo di narcotrafficanti italiani e bulgari, Banev, attualmente in carcere, è stato condannato in via definitiva in tre paesi diversi e in Italia dovrebbe scontare una pena di 20 anni. La sua cocaina veniva smerciata anche dalla costola piemontese della cosca Bellocco.

A Bellinzona è in corso un processo per certi versi storico che vede sul banco degli imputati la banca stessa: «Una decina di alti dirigenti della banca, così come il suo dipartimento legale, era a conoscenza del fatto che un gruppo di clienti erano criminali trafficanti di droga, ma hanno approvato milioni di euro di transazioni per loro prima di congelare i loro conti», riporta il Financial Times. Oppure Bo Stefen Sederholm.

Cittadino svedese, gestiva un traffico di giovani donne filippine che con la promessa di un lavoro da segretaria venivano invece indotte alla prostituzione e al porno online. Nel 2009 è stato arrestato e nel 2011 condannato all'ergastolo. Il suo conto al Credit Suisse, aperto nel 2008, è rimasto attivo fino al 2013, oltre due anni dopo la condanna.

Spie e dittatori

E ancora, sono rimasti buoni clienti di Credit Suisse malgrado accuse e condanne Pavlo Lazarenko, ex premier ucraino, dopo la condanna negli Usa per riciclaggio; Alaa Mubarak, figlio dell'ex dittatore egiziano Hosni Mubarak, che aveva oltre 200 milioni di franchi nel suo conto svizzero; Khaled Nazzar, a capo della giunta militare algerina durante la guerra civile degli anni '90, arrestato a Ginevra e accusato di crimini di guerra; Omar Suleyman, per 20 anni a capo dei servizi segreti egiziani, pubblicamente accusato di tortura. Il conto, intestato a dei familiari, ha avuto fino a oltre 60 milioni di franchi depositati ed è rimasto attivo ben oltre la caduta del regime di Mubarak.

La replica dell'istituto alle richieste puntuali del Guardian su circa 50 di questi clienti "speciali" è stata, tra le altre cose, che in fondo rappresentano solo lo 0,003% dei clienti. Ovviamente, tra i clienti speciali non potevano mancare gli italiani. Nei dati esaminati da questa inchiesta sono almeno 700 quelli che hanno scelto di portare i propri soldi in Credit Suisse. 

I nomi che si ritrovano non sono particolarmente famosi, ma rivelano uno schema: sono quasi tutti residenti o domiciliati all'estero, in alcuni casi per davvero - come nel caso degli italiani che operano nel settore petrolifero o minerario e legname in Africa, o nel gaming in Asia, - in altri solo perché fiscalmente più conveniente. 

Italiani del Venezuela

Tra gli italiani domiciliati all'estero, quasi un terzo abita in Venezuela. Il più facoltoso tra i correntisti "venezuelani" è Mario Merello, imprenditore noto alle cronache rosa per essere il marito della cantante Marcella Bella e per le sue frequentazioni del mondo dello showbusiness, i cui patrimoni all'estero sono noti dal 2009 grazie alla lista Pessina. 

Secondo la procura di Milano, Merello era a capo di un'associazione per delinquere che tra il 2000 e il 2009 avrebbe frodato al fisco circa 450 milioni di euro. Creava società offshore a cui faceva emettere fatture per consulenze, polizze assicurative e prestazioni mai effettuate. Con questo castello di carte, spostava il denaro oltreconfine e abbatteva l'imponibile delle imprese. 

Tra i dati di Suisse Secrets, emergono 13 conti - oggi tutti chiusi - che sommati hanno avuto un patrimonio massimo di oltre 24 milioni di euro.

Le finte polizze

Alcuni patrimoni degli italiani in Svizzera sono stati dichiarati al fisco a fronte di ampi sconti su sanzioni e potenziali procedimenti penali, attraverso strumenti come la voluntary disclosure e lo scudo fiscale, in particolare negli anni tra il 2009 e il 2015. Mario Merello è stato tra quelli che sono riusciti ad aggirare lo scudo: con una mano faceva rientrare una parte dei capitali, con l'altra ne manteneva una parte offshore, trasformata in quote di una società schermata da un trust.

Anche volendo utilizzare i dati dello scudo fiscale, nessuno sarebbe riuscito a individuare il beneficiario effettivo. Nei casi in cui è stato possibile approfondire le informazioni ricevute con le autodichiarazioni, gli inquirenti si sono ritrovati di fronte non solo a conti cifrati ma anche a polizze assicurative trasformate in conti deposito nei quali investire e prelevare esentasse, in qualche paradiso offshore. Le hanno definite "polizze mantello" e dopo le indagini della procura di Milano, Credit Suisse ha patteggiato nel 2016 pagando al Fisco italiano 101 milioni di euro.

Pietro Bellantoni per ilgiornale.it il 16 febbraio 2022.  

Montecarlo non è più un paradiso (fiscale). Almeno, non lo è per circa 8mila italiani, finiti – lo racconta Angelo Mincuzzi sul Sole 24Ore – nel mirino dell'Agenzia delle entrate. "Il Fisco – spiega il quotidiano di Confindustria – è partito alla ricerca dei falsi residenti nella Rocca dei Grimaldi e sta passando al setaccio le posizioni di tutti gli iscritti all'Aire, l'Anagrafe degli italiani residenti all'estero". Insomma, per il mondo del jet set sono settimane di grande fibrillazione.

Montecarlo è una delle mete preferite dei vip italiani che qui non pagano alcuna imposta sui redditi. Un paradiso fiscale, appunto, messo però a rischio dalle indagini dell'Agenzia italiana. Imprenditori, finanzieri e campioni sportivi dovranno ora dimostrare che vivono e operano davvero nel Principato e che il loro cambio di residenza non è stato una mossa da furbetti delle tasse. 

Di anno in anno, infatti, diventano sempre più raffinati i meccanismi per trasferire redditi imponibili da Paesi ad alta fiscalità, proprio come l'Italia, ad altri a fiscalità più moderata o nulla.

La Guardia di finanza conduce con frequenza controlli a tappeto per limitare l'evasione internazionale, ma i nuovi strumenti oggi in mano ai frodatori rendono sempre più difficile il contrasto a queste pratiche che aggirano i doveri di contribuenti e imprese verso il Fisco. 

La stretta avviata dall'Agenzia delle entrate, in ogni caso, non riguarderà soltanto la città-stato. "Monaco – spiega ancora il quotidiano della Confindustria – è però soltanto il primo passo, perché gli uomini dell'agenzia delle Entrate stanno lavorando anche sui nominativi dei residenti in altri paesi, come Lussemburgo (30.933 italiani secondo l'ultimo censimento Aire relativo al 2021), Dubai (10.795 contando anche gli altri Emirati), Svizzera (639.508) e Liechtenstein (1.824 italiani iscritti)". 

Il nuovo giro di vite che interessa i paradisi fiscali è stato agevolato dal recente accordo tra Fisco, Comando regionale della Lombardia della Guardia di Finanza e Comune di Milano, firmato il 13 gennaio scorso. "Il numero degli ex residenti a Milano che si sono iscritti all'Aire – spiega Mincuzzi – è salito dagli 80.140 del 2016 ai 93.230 del 2020, con un aumento del 12,6%. 

Di questi, 721 risultavano residenti a Montecarlo, altri 1.022 in Lussemburgo, 12.314 in Svizzera, 901 negli Emirati Arabi e 5 in Liechtenstein. Il protocollo prevede una cooperazione rafforzata per il contrasto all'evasione fiscale con controlli mirati su particolari tipologie di 'soggetti, attività e operazioni', per consentire al Comune di Milano un'efficace segnalazione di fenomeni legati all'evasione fiscale". 

Una collaborazione che consentirà alla Direzione regionale della Lombardia dell'agenzia delle Entrate di concentrare il lavoro su obiettivi concreti. "Protocolli di intesa simili – ricorda il Sole 24Ore – sono stati firmati con quasi la metà dei 1.506 comuni della Lombardia e rappresentano un passo importante per rendere più efficace la lotta all'evasione fiscale. 

Un 'modello Lombardia' che potrebbe essere presto replicato in altre regioni e con altri grandi comuni italiani, soprattutto per gli effetti positivi per le casse comunali a caccia di risorse". A Milano le operazioni contro i falsi residenti all'estero si erano aperte nel 2017 grazie al cosiddetto "modello Milano", sviluppato dall'ex procuratore Francesco Greco, che aveva costituito all'interno degli uffici giudiziari il "Pool latitanti fiscali". L'obiettivo era quello di individuare e smascherare chi si era trasferito oltre confine per non pagare le tasse in Italia. 

Sono tantissimi i paradisi fiscali in giro per il mondo. Tutti garantiscono tasse basse o inesistenti su reddito personale e interessi. Quanto alle società di capitali, il trasferimento della loro sede in una delle tante Montecarlo può significare un risparmio all'anno a sei o più zeri.

Estratto dell’articolo di Angelo Mincuzzi per 24plus.ilsole24ore.com il 16 febbraio 2022.

(…)  Più di metà degli italiani residenti a Montecarlo provengono dalla Lombardia e dalle aree limitrofe. Si tratta soprattutto di imprenditori, finanzieri, professionisti, vip e campioni sportivi che nel Principato non pagano nessuna imposta sui redditi delle persone fisiche. A loro toccherà l'onere di dimostrare che la residenza a Montecarlo è reale e che lì si trova davvero il centro dei loro “interessi vitali”.

Dopo Monaco, Lussemburgo e Dubai

Monaco è però soltanto il primo passo. Perché gli uomini dell'Agenzia delle Entrate stanno lavorando anche sui nominativi dei residenti in altri paesi, come Lussemburgo (30.933 italiani secondo l'ultimo censimento Aire relativo al 2021), Dubai (10.795 contando anche gli altri Emirati), Svizzera (639.508) e Liechtenstein (1.824 italiani iscritti).

L'accelerazione dell'Agenzia delle Entrate sugli italiani residenti nel Principato di Monaco è stata agevolata dal recente accordo tra Fisco, Comando regionale della Lombardia della Guardia di Finanza e Comune di Milano, firmato il 13 gennaio 2022 dal direttore delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, dal generale Stefano Screpanti, dal sindaco Giuseppe Sala e dal direttore della Direzione specialistica incassi e riscossioni del capoluogo lombardo, Monica Mori. (…) 

Il monitoraggio fiscale

Il Decreto legislativo 90/2017 ha modificato in modo rilevante sia la normativa sulla prevenzione e sul contrasto del riciclaggio sia la disciplina sul monitoraggio fiscale. Sono stati realizzati importanti cambiamenti agli articoli 1 e 2 che regolamentano la rilevazione ai fini fiscali di alcuni trasferimenti – da e per l'estero – di denaro, titoli e valori. In particolare, le modifiche hanno riguardato le modalità di rilevazione e di conservazione delle informazioni basate sulle regole previste dalla normativa antiriciclaggio. 

Le operazioni i cui dati sono adesso oggetto di rilevazione e trasmissione alle Entrate sono quelle di importo pari o superiore a 15mila euro realizzate in un'unica operazione o in più operazioni collegate tra loro e quelle in valuta virtuale.

La segnalazione periodica all'Anagrafe tributaria – a differenza di quella da inviare all'Uif – non è più subordinata al sospetto di un'evasione o di un'elusione d'imposta. Deve essere, in pratica, quasi automatica. 

Le categorie dei soggetti “monitorabili” restano invece le stesse, ma viene meno il requisito della residenza in Italia, per cui anche l'ordine di trasferimento per conto o a favore di un soggetto non residente ricade nel campo di applicazione della disciplina. (…) 

Otto italiani su 10 sono potenziali evasori fiscali. Felice Manti il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il sondaggio choc di Ipsos. E in Parlamento si torna a parlare di proroga sulle cartelle.

Otto italiani su 10 sono potenzialmente evasori, perché non ci sono controlli efficaci (anche se non sarebbe questo il motivo principale che spinge all'evasione) e i servizi pubblici erogati non sono all'altezza delle tasse corrisposte all'erario per tre italiani su quattro. È questo il risultato di un sondaggio choc commissionato a Ipsos dal Centro studi Fiscal Focus, nel giorno in cui in Parlamento si torna a parlare dell'ennesima pace fiscale, invocata a gran voce dal centrodestra. Stando ai dati del ministero delle Finanze, nel 2019 l'evasione fiscale in Italia sarebbe stata pari a 80,6 miliardi di euro. Per il direttore del Centro studi Antonio Gigliotti il risultato non deve sorprendere: «Ogni giorno, soprattutto dopo due anni di incertezze provocate dalla pandemia, decine di migliaia di professionisti e piccoli imprenditori si chiedono se sia più opportuno pagare le tasse o i costi fissi dell'azienda, inclusi quelli per l'acquisizione di nuovi clienti che sono necessari per alimentare un flusso di cassa positivo. Ormai c'è un clima culturalmente e politicamente avverso all'impresa e che sta delegittimando anche a livello normativo con adempimenti fiscali a catena ed una vera e propria vessazione fiscale chi oggi ha ancora voglia di fare l'imprenditore nella vita».

D'accordo anche il commercialista Gianluca Timpone, che osserva: «Ad oggi circa il 50% dei richiedenti i benefici del saldo e stralcio e rottamazione ter sono risultati decaduti e sono in attesa di una eventuale ripescaggio». Parliamo di almeno 800mila cartelle, per un controvalore che si aggira sui 4 miliardi. D'altronde, è chiaro che con due anni di pandemia alle spalle e uno stato d'emergenza prolungato al 31 marzo una nuova pace fiscale sembra l'unica opzione possibile. Non parliamo di evasori, chiariscono sia Gigliotti sia Timpone, ma di «lavoratori autonomi che a causa della sensibile contrazione dei propri ricavi anche a cause delle continue e forzate chiusure imposte dallo stato sono stati costretti a saltare le rate arretrate». Con una beffa ulteriore. Per colpa delle azioni esecutive che l'Agenzia delle Entrate può già mettere in campo, come ha già scritto Il Giornale, in tanti si sono visti conti bloccati, stipendi pignorati, immobili ipotecati e fermi amministrativi a pioggia. «L'Erario aggredisce le nuove entrate, necessarie per sopravvivere. Ecco perché sono urgenti misure tampone per evitare il fallimento fiscale di imprese e professionisti», ammonisce Timpone. Anche perché un'impresa che salta è una risorsa in meno per sostenere la spesa pubblica, soprattutto in questa fase in cui l'Europa sembra voler tornare a fare la voce grossa su fiscal compact e debito pubblico, proprio nel giorno in cui lo Stato rende noto che le entrate tributarie e contributive nei primi 11 mesi del 2021 sono aumentate del 9,7% (+58.691 milioni di euro) rispetto all'analogo periodo del 2020.

«Per evitare una decadenza di massa delle cartelle scadute lo scorso 14 dicembre ci vuole una nuova pace fiscale», sottolinea l'avvocato Claudio Defilippi, che assiste alcuni imprenditori vittime della tagliola dell'Erario e che denuncia la non impugnabilità dell'estratto di ruolo, decisa dal governo lo scorso 21 dicembre. «Ci sarà una valanga di ricorsi alla Corte costituzionale contro questa decisione», annuncia Defilippi. Felice Manti

 Alberto Brambilla per corriere.it il 21 gennaio 2022.

Che la confusione e le contraddizioni nel nostro Paese siano tante e in aumento, lo si legge giorno per giorno nelle dichiarazioni della politica e negli atti dei governi che si susseguono al ritmo medio di uno ogni 17 mesi circa. Se poi associamo tre argomenti che sembrano differenti, ma in realtà molto legati tra di loro e cioè premiare il merito, lotta all’evasione fiscale e transizione ecologica, la confusione è totale e questo non è un bene per il Paese. 

Il merito spesso, anche se non sempre, fa rima con redditi decenti prodotti da impegno, lavoro, abnegazione e soprattutto tanti doveri. In Italia invece avere un reddito lordo sopra i 35 mila euro è considerato un lusso, una situazione che non deve fruire dei benefici pubblici; anzi deve essere tassata in quanto situazione agiata.

In un Paese dove si parla sempre di redditi lordi, e dove la progressività è forte, un guadagno di 35 mila euro ne vale circa 2.000 euro netti al mese, che si riducono se si hanno figli che vanno a scuola , usano servizi sociali perché le rette e costi per queste attività sono legati al reddito. E quanti sono questi «agiati» da 35 mila euro lordi l’anno? Sono solo 5,5 milioni, il 13,22% dei dichiaranti/cittadini ma pagano quasi il 60% di tutta l’Irpef e molto di più considerando le imposte indirette e le altre in vigore. 

Sopra i 100 mila euro

Invece quelli che dichiarano da 100 mila euro in su sono solo l’1,21% pari a 501.846 dichiaranti/cittadini. Per inciso le automobili di grossa cilindrata circolanti in Italia sono 2,5 milioni per cui 2 milioni, evidentemente, appartengono ad ereditieri. Per questi cittadini l’eventuale risparmio della miniriforma fiscale si aggirerebbe sui 270 euro l’anno. Alcuni partiti volevano congelare questo risparmio (lo 0,27%) per darlo sotto forma di sconti in bolletta energetica a chi dichiara redditi bassi, ovvero quasi la metà degli italiani che vivono (così almeno risulta dalle loro dichiarazioni) con circa 10.000 euro lordi l’anno, pagano meno di 5 miliardi di Irpef e costano al sopra citato 13% solo per la sanità oltre 51 miliardi l’anno. 

Le pensioni d’oro

Ovviamente quelli che dichiarano redditi superiori a 35 mila euro non beneficiano se non in modo marginale dell’assegno unico universale per i figli e di quasi nessun bonus. Per dare una prova di come si tartassi chi guadagna di più, vale la pena ricordare che nel 2018 il governo gialloverde decise di punire i «pensionati d’oro», cioè quelli con assegni da 100 mila euro lordi l’anno in su. 

Inoltre si pensava di ricalcolare con il metodo contributivo le loro pensioni per ridurre gli importi immeritatamente incassati e, con il ricavato, aumentare le pensioni basse. Ovviamente il ricalcolo non si fece anche perché se si fosse fatto oltre la metà dei cosiddetti «pensionati d’oro» avrebbe visto aumentare la propria rendita e quindi si procedette al taglio selvaggio senza alcun conteggio. 

A nessuno è venuto in mente che i poveri pensionati a cui volevano aumentare la prestazione, rappresentano ben il 50% dei 16 milioni di pensionati che, peraltro, sono totalmente o parzialmente assistiti perché di contributi in 67 anni di vita ne hanno pagato pochi o nulli e quindi anche zero tasse.

Gli sconti

I taglieggiati in realtà avevano per la stragrande maggioranza meritato la pensione. Ma quanti sono i «tagliati»? 35.642 su 16milioni e 35 mila pensionati, per un incasso, in 5 anni di poco più di 200 milioni di euro: è democrazia o dittatura della maggioranza? La domanda è pertinente e la risposta non può che essere affermativa; infatti, in questi ultimi 25 anni è stato creato un sistema che potremmo definire: «meno dichiari e più sussidi, servizi pubblici e attenzioni, avrai». Basta leggere le decine di leggine che regolano i bonus, gli sconti, le agevolazioni, tutte basate su redditi: un sistema che incentiva fortemente a dichiarare il meno possibile. Il tutto in barba al merito, ai doveri e alla lotta all’evasione fiscale: la parola d’ordine usata da tutti è «diritti».

I poveri

Per darne una riprova nel 2008 lo Stato spendeva per l’assistenza a carico della fiscalità generale 73 miliardi; nel 2019 siamo arrivati a 114,27 miliardi. Con quali risultati? Che quelli in povertà assoluta sono aumentati da 2,11 milioni a 4,6 milioni e quelli in povertà relativa da 6,5 a quasi 9 milioni. Avete capito bene: abbiamo speso il 60% in più e abbiamo aumentato del 210% i poveri. 

Il caro bollette

Resta la transizione ecologica e il caro bollette; anziché spiegare a quel 50% di fasce deboli, termine ormai abusato, come fare ad economizzare l’utilizzo di luce, gas e riscaldamento, alla faccia della transizione ecologica finanziamo l’impronta carbonica con sconti in bolletta (oltre 5 miliardi di spesa e i partiti ne chiedono di più). Consumate pure tanto ci pensa lo Stato: sempre il famoso 13%. E se come accade, aumenta il prezzo del pane, pasta, riso e così via, cosa faranno politici e sindacati? Ormai è diventato di moda cercare bisognosi a cui promettere (pro-consenso elettorale) di tutto. Hai delle difficoltà? Nessun problema: un bonus oltre al reddito di cittadinanza lo si trova sempre. A carico della minoranza che paga; poi se questi spremuti non ce la fanno, si fa come per il 2021 altri 137 miliardi di debito, a carico di figli e nipoti. 

Rivoluzione Imu: non si paga se l'immobile è occupato. Gian Maria De Francesco il 30 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il Comune deve rimborsarla se la Polizia non sgombera. Confedilizia: "Ora serve una legge".

Sentenza rivoluzionaria nel frastagliato panorama dell'Imu: se l'immobile è occupato, l'imposta non è dovuta. A far esplodere la bomba è stata la Commissione tributaria della Toscana in una sentenza del 13 dicembre scorso riportata ieri da Italia Oggi. È stato, infatti, respinto un ricorso del Comune di Livorno contro la P.I. Sgr nel quale l'ente locale contestava la sentenza della Commissione tributaria provinciale sull'indebita percezione dell'imposta municipale unica dal 2015 al 2017 su un edificio composto da otto immobili e occupato abusivamente da soggetti in stato di emergenza abitativa e che non era mai stato sgomberato dalla forza pubblica.

Il cuore della sentenza, a fronte di controversi pronunciamenti della Cassazione (la Suprema Corte spesso si è espressa a favore delle amministrazioni pubbliche ancorché il concetto di possesso dell'immobile fosse labile; ndr), è il riferimento all'articolo 1140 del Codice Civile secondo il quale «il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà». Pertanto, «se gli organi di polizia si astengono dal difendere il diritto di proprietà di colui cui il Comune richiede il pagamento dell'Imu, questi è privo di tutela senza possesso poiché in mancanza di possibilità di attivare i diritti possessori». Viene, pertanto, sancito il principio in base al quale «il titolare di un immobile occupato non trae nessun utile dal suo diritto di proprietà né quello di un godimento diretto del bene né di un godimento mediato attraverso il conseguimento di un corrispettivo per il suo utilizzo ed è anzi costretto a subire un deterioramento del bene con conseguente diminuzione patrimoniale». Di qui il rimborso sull'imposta già pagata dalla Sgr per evitare di incorrere nel pagamento di sanzioni e interessi.

Molto soddisfatta Confedilizia che da anni denuncia l'illegittimità dell'imposizione cui sono soggetti i proprietari di immobili occupati abusivamente: spossessati del bene e obbligati a pagare l'Imu oltreché l'Irpef. «La Commissione tributaria regionale della Toscana è stata costretta a forzare un po' il dettato normativo», ha dichiarato il presidente Giorgio Spaziani Testa interrogandosi sull'opportunità di «stabilire per legge questo principio sia per la situazione in esame sia per altri casi eclatanti di vera e propria vessazione fiscale». Spaziani Testa si riferisce ad altri casi sistematicamente denunciati da Confedilizia. In primo luogo, occorre ricordare la battaglia per la non applicazione dell'Imu agli immobili per i quali la locazione sia terminata ma non siano stati restituiti al proprietario dagli inquilini. Non meno eclatante è il caso degli immobili inagibili e inabitabili per i quali l'Imu è comunque pretesa ma può essere ridotta presentando un'apposita certificazione. Gian Maria De Francesco

(ANSA il 26 gennaio 2022) - La corte d'appello di Genova ha assolto Flavio Briatore e altre tre persone "perché il fatto non costituisce reato" nel processo sulla vicenda dello yacht Force Blue. Briatore era a processo per una evasione fiscale di oltre 3 milioni sull'Iva e per l'attività di charter. 

Il maxi yacht era stato sequestrato nel 2010, al largo della Spezia, mentre il manager era a bordo con Elisabetta Gregoraci e il figlio. I giudici hanno revocato la confisca dell'imbarcazione e dei 3 milioni e 600 mila euro. La Cassazione aveva annullato la sentenza della Corte d'Appello che condannava Briatore a 18 mesi e aveva ordinato un nuovo processo.

Anche la procura generale aveva chiesto l'assoluzione e la revoca della confisca. La sentenza diventa così definitiva. Per quanto concerne invece la confisca, l'Avvocatura di Stato potrebbe impugnare la decisione.

Il Force Blue era stato venduto un anno fa all'asta e se lo era aggiudicato l'ex patron della Formula 1 Bernie Ecclestone per sette milioni a fronte di una stima di 20 milioni. La Cassazione aveva annullato per due volte le decisioni dei magistrati genovesi. 

Luca Fazzo per "il Giornale" il 15 luglio 2021.

Il Force Blue non esiste più, svenduto in tutta fretta dalla Corte d'appello di Genova alla vigilia dell'udienza decisiva. E così a Flavio Briatore, che dello splendido yacht era il padrone, come consolazione non rimangono che le motivazioni depositate l'altroieri della sentenza con cui la Cassazione ha maltrattato l'ostinazione dell'intera magistratura del capoluogo ligure - accusa e giudici - nel portare avanti una accuse senza capo né coda. Ovvero che Briatore fosse una sorta di furbetto della crociera, che spacciasse per yacht aziendale e da noleggio quella che era la sua barca privata: con robusti vantaggi fiscali. 

Che la Cassazione annulli una condanna fa parte delle giuste dinamiche giudiziarie. Che debba farlo due volte perché i giudici del posto se ne sono fregati è meno consueto. E forse si spiega solo con la verve con cui la procura genovese ha gestito fin dall'inizio l'inchiesta su Briatore e la sua barca: compreso lo spettacolare arrembaggio con cui lo yacht venne assicurato alla giustizia. 

All'inizio, le cose per l'accusa erano andate bene: Briatore condannato nel 2015 a un anno e undici mesi di carcere - insieme al malcapitato comandante della barca e a altri imputati - per avere sottratto al fisco tre milioni e 600mila euro, importando il Force Blue e rifornendolo di carburante dietro lo schermo di una società ombra, spacciandolo per natante da noleggio e usandolo in realtà per i comodi propri. In appello, altra condanna. 

Ma nel 2015 la Cassazione annulla, spiegando ai colleghi genovesi di avere sbagliato tutto. E rimanda loro il fascicolo perché si adeguino. Invece, come si legge testualmente nelle motivazioni ora depositate, la Corte d'appello di Genova «si comporta come se tutto ciò che è scritto nella sentenza di annullamento non la riguardasse». Cioè afferma un'altra volta che Briatore è colpevole, gli concede la prescrizione ma intanto gli porta via sia il Force Blue che i 3,6 milioni, ripetendo un'altra volta che la barca era il giocattolo personale dell'inventore del Billionaire. 

Ma - scrive la Cassazione - «come si spiega il fatto che il Force Blue ha effettivamente navigato in Italia e all'estero conducendo clienti terzi in forza di regolari contratti di charter?». Quindi, a quindici anni dai fatti, nuovo processo d'appello: e vedremo se la Corte genovese si adeguerà. Intanto, lo yacht è andato: valeva diciannove milioni, i giudici genovesi lo hanno messo all'asta per sette, ne hanno incassati sette e mezzo. Era sotto sequestro da dieci anni, ma era diventato improvvisamente «deperibile». 

Briatore "evasore"? Tutto falso, troppo tardi. Luca Fazzo il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

E va bene che non a tutti deve per forza stare simpatico Flavio Briatore, e che era lecito dormire tranquilli pur sapendolo ingiustamente privato del suo yacht.  

E va bene che non a tutti deve per forza stare simpatico Flavio Briatore, e che era lecito dormire tranquilli pur sapendolo ingiustamente privato del suo yacht. Ma che la vicenda giudiziaria che ha investito l'inventore del Billionaire si concluda solo ieri, con l'assoluzione «perché il fatto non costituisce reato», a dodici anni dall'arrembaggio con cui la Guardia di Finanza - su ordine della Procura di Genova - si impossessò in mare aperto del Force Blue è una di quelle brutali assurdità che dovrebbero spingere chiunque ad indignarsi. Perché la stessa inverosimile durata dei round giudiziari può venire inflitta a chiunque: anche a chi non ha le spalle larghe - caratterialmente e economicamente - come l'imprenditore di Verzuolo. E se anche uno tosto come lui, uno passato indenne per la Formula 1 e per Naomi Campbell, ieri dice che è stato «un vero calvario», è facile immaginare a quanti poveri cristi senza nome tocchi ogni giorno portare croci più pesanti. Certo, nel caso di Briatore brillano assurdità particolari. Una è senza dubbio la sparizione dello yacht sequestrato, e intorno al quale si è combattuta la lunga battaglia giudiziaria (Briatore era accusato di averlo importato illegalmente, senza pagare le tasse, fingendo di adibirlo a noleggi, e usandolo invece per i fatti propri): con la sentenza di ieri il natante andrebbe restituito al proprietario, peccato che nel frattempo i giudici lo abbiano messo all'asta senza aspettare la fine del processo. Se l'è comprato, facendo un affarone, Bernie Ecclestone, e ora Briatore può solo sperare di recuperare una parte dei quattrini. Ma ancora più eclatante è quanto accaduto nel corso del processo: che non è durato dodici anni per caso, o perché i giudici erano oberati di lavoro, o perché i difensori ammucchiavano cavilli. Ma perché la Corte d'appello di Genova nel 2019 se ne infischiò della sentenza della Cassazione che aveva riconosciuto la regolarità dell'operazione, e confermò il sequestro dello yacht. Costringendo Briatore a un nuovo ricorso in Cassazione: dove il 9 giugno dell'anno scorso i giudici scrissero testualmente che per ridare torto a Briatore la Corte genovese «si comporta come se tutto ciò che c'è scritto nella sentenza di annullamento non la riguardasse». Una sorta di menefreghismo giudiziario: che, questo sì, forse si spiega solo perché l'imputato si chiamava Flavio Briatore, ed era preda troppo grossa per lasciarla sfuggire.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Briatore assolto per lo yacht: «Un incubo durato 12 anni. Contro di me invidia sociale». Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera 26 gennaio 2022.

La decisione dopo 6 sentenze. «Accanimento nei miei confronti. Ma ci sono anche dei giudici che cercano la verità». La barca intanto è stata venduta all’asta: «Una vergogna».  

È stato assolto, lo Stato le dovrebbe restituire lo yacht, ma nel frattempo l’ha venduto all’asta. È più felice o arrabbiato?

«No, oggi va bene così. È finito un incubo durato 12 anni e 6 processi. Una cosa incredibile, per tutto questo tempo mi hanno tenuto sulla graticola».

Flavio Briatore è un imprenditore che certo non si tira indietro quando c’è da criticare la macchina pubblica, i troppi cavilli e lacci burocratici. In questo caso è lui il protagonista di una vicenda quasi paradossale. Nel maggio 2010 viene indagato per sospetta frode fiscale e il Force Blue, il suo yacht che fa capo a una società con sede nelle Isole Vergini Britanniche, sequestrato dalla Guardia di Finanza. L’accusa è che abbia simulato un’attività di charter per pagare meno tasse (quantificate in 3 milioni e 600 mila euro). Condanna in primo grado e poi in Appello (18 mesi e confisca dello yacht), primo rinvio in Cassazione, un secondo Appello in cui il reato viene considerato prescritto ma la confisca confermata, ancora un rinvio in Cassazione e adesso la Corte d’Appello di Genova che alla terza pronuncia assolve Briatore e altri tre (il comandante e due amministratori) «perché il fatto non costituisce reato» e ordina la restituzione della barca. Peccato però che, su richiesta del custode giudiziario, l’anno scorso è stata messa all’asta e venduta a 7 milioni e mezzo, un terzo del valore stimato. «Una vergogna — sbotta Briatore —. Ma in questo momento voglio pensare ad altro».

È stata accolta in pieno la tesi dei suoi avvocati?

«Anche il procuratore generale aveva chiesto la mia assoluzione. Per fortuna è finita così, ma è stata durissima. Sono stato sputtanato a livello mondiale, additato come evasore, mi hanno condannato prima del tempo, oggetto di invidia sociale, ho subito danni economici».

Però alla fine non può lamentarsi della giustizia italiana.

«Da parte di certi pm c’è stato un accanimento nei miei confronti, se non c’ero io di mezzo credo tutto questo non sarebbe mai iniziato. Certo, poi ci sono dei magistrati che cercano la verità e non decidono per partito preso».

Che ricorda del momento del sequestro?

«A bordo c’erano mia moglie e mio figlio. È stato choccante, anche per l’equipaggio. C’erano tantissimi finanzieri, un assalto alla diligenza».

L’ha più rivisto il Force Blue?

«Certo, anche durante il sequestro ha continuato a navigare e anch’io l’ho noleggiato. La società ha sempre pagato l’equipaggio e tutte le spese, lo Stato non ha sborsato un euro».

Eppure è stato deciso di metterlo all’asta.

«Due settimane prima che si pronunciasse la Cassazione per la seconda volta. Assurdo, hanno aspettato dieci anni e poi, nonostante avessimo presentato istanza, non hanno aspettato dieci giorni».

Il Force Blue l’ha comprato un suo amico, Bernie Ecclestone, ex patron della Formula 1. Ha fatto un affare.

«Meglio lui che altri».

L’ha sentito dopo la sentenza?

«Sì, l’ho chiamato».

Che gli ha detto?

Sorride. «Gli chiederò di regalarmelo... Ma a parte la battuta, vedranno gli avvocati cosa fare per recuperare quanto mi spetta».

In realtà, l’Avvocatura dello Stato potrebbe ancora presentare impugnazione.

«Possono fare tutto quello che vogliono. A me interessa che dopo 12 anni i giudici della Cassazione e anche quelli d’Appello hanno stabilito che sono innocente. Ora voglio solo pensare alla salute, ad andare avanti e a creare posti di lavoro, soprattutto per i giovani».

Patrizia Albanese per "la Stampa" il 27 gennaio 2022.

Entusiasta come un ragazzino. Anzi, «felice, davvero felice». Flavio Briatore non si sentiva così da dodici anni. Da quando è iniziata la vicenda giudiziaria che gli è costata sei processi e il sequestro di uno yacht poi venduto all'asta per 7 milioni, sborsati da Bernie Ecclestone. 

Per non parlare dell'aspetto più strettamente privato. Con la separazione dalla moglie Elisabetta Gregoraci: anche il matrimonio è finito nel frullatore «dei processi e dei continui colloqui e riunioni con i miei avvocati, che ringrazio». 

È finita, con un'assoluzione, dopo 12 anni...

«Sono felice, davvero felice. Ma questa non è giustizia, se obbliga una persona innocente a convivere con un incubo del genere». 

Da non dormirci la notte. E non solo. Quanto ha inciso nel privato?

«Molto. Ha inciso molto con la mia famiglia. Sei segnalato alle banche come evasore, contrabbandiere. Tanti progetti che avevo in mente non ho potuto realizzarli. Anche se poi...». 

Poi?

«Ho le spalle larghe, certo. E sono andato avanti lo stesso. Ma a che prezzo».

Anche del matrimonio? Sarebbe andata diversamente?

«Certo, tutto influisce. Sul carattere. E su tutti quelli che ti stanno più vicino. Cambia il rapporto. Anche con chi lavora con te. E si deve subire ore e ore di colloqui con gli avvocati. Per difendere te stesso e tutti quanti. Non puoi stare 12 anni sulla graticola così». 

E col ricordo del sequestro del Force Blu, con a bordo sua moglie Elisabetta Gregoraci, madre da pochissimo.

«Quando hanno sequestrato la barca, a La Spezia, c'erano mia moglie e mio figlio appena nato. È stato un assalto della Finanza, abbastanza traumatizzante. Il bambino era piccolo e per fortuna non ne ha ricordo. Ma per Elisabetta non è stato piacevole. Né per chi era con lei, né per l'equipaggio». 

Quella barca un anno fa venne venduta a Ecclestone.

«Una porcheria. Davvero una porcheria. Uno scandalo, guardi. Venduta due settimane prima del verdetto di Cassazione, che mi ha assolto. Avevamo espressamente chiesto di aspettare. Invece, niente».

Chiederà un risarcimento? Lo Stato dovrà restituirle i 7 milioni incassati da Ecclestone.

«Non ne ho idea. Oggi sono tranquillo per la prima volta da 12 anni. E devo soltanto ringraziare gli avvocati».

Anche un bel costo.

«Non voglio parlare di cifre. Fossi stato un piccolo imprenditore, sarei stato rovinato. La gogna, il sequestro della barca, prime pagine, telegiornali, siti anche internazionali. Sei additato come un delinquente». 

All'inaugurazione dell'anno giudiziario di Genova è stato sottolineato come 2 imputati su 3 vengano assolti dopo il dibattimento.

«I pm spesso non cercano la verità. Per quello i processi durano tanto, anche senza prove certe. Come con me. Per fortuna in Cassazione e ora a Genova abbiamo trovato persone che hanno cercato la verità».

Ora una nuova barca?

«Non so. Ora è l'ultima cosa. L'affitterò come ho sempre fatto anche in passato».

Ce l'ha con qualcuno?

«Nessun astio. Ma se non mi chiamavo Briatore, quel processo non sarebbe mai stato fatto. Ma andiamo avanti. Accettando e perdonando».

Come ha spiegato tutta la vicenda a suo figlio?

«Gli ho spiegato che non ho mai evaso niente. Mi è spiaciuto per quello che poteva magari venirgli detto a scuola. Ora, finalmente, può rispondere di andare a quel paese».

BRIATORE: «IO, ASSOLTO DOPO 12 ANNI HO RISCHIATO IL FALLIMENTO». Claudia Guasco per "il Messaggero" il 27 gennaio 2022.  

Dodici anni di processo, sei sentenze, due rinvii dalla Cassazione alla Corte d'Appello. «Tanto per cominciare possiamo dire che alla fine, ma molto alla fine, la giustizia trionfa. Mi chiedo però che giustizia sia, se un procedimento dura tutto questo tempo. Fa sprofondare una persona innocente in una vita da incubo». Flavio Briatore, dal salotto di casa, si gode l'assoluzione dall'accusa di evasione fiscale sull'Iva per oltre 3 milioni con l'attività di noleggio del suo yacht Force Blue e la revoca della confisca dell'imbarcazione che però, nel frattempo, è finita all'asta.

Acquistata dall'ex patron della Formula 1 Bernie Ecclestone per 7 milioni a fronte di una stima di 20 milioni. Ora la sentenza dei giudici genovesi stabilisce che il fatto non costituisce reato e «io li ringrazio - afferma l'imprenditore - perché sono gli unici che hanno cercato la verità. Ma resta il fatto che questa storia è stata una persecuzione». 

 Il cognome Briatore c'entra qualcosa?

«Sicuramente è stato anche un processo al personaggio, questo è pacifico. Il professo Franco Coppi, uno dei mie avvocati, ha detto che un doppio rinvio accade pochissime volte. Ebbene, a me è successo. Sono stati dodici anni durissimi, con la costante pressione delle udienze, un pensiero fisso che ti ronza nella testa. E poi la schiera di legali con cui confrontarsi, la preoccupazione per i dipendenti della barca, gli sbarramenti nel mondo degli affari».

La sua attività ne ha risentito?

«Se non hai le spalle larghe, una giustizia cosi ti fa fallire. Io sono conosciuto in tutto il modo il mondo per i miei venticinque anni di attività imprenditoriale, eppure gli affari hanno accusato il colpo: sono stato inserito nella lista nera delle banche, non potevo più accedere ai finanziamenti come è prassi normale nel mio settore. Ho fatto fuoco con la legna che avevo da parte, come si dice, ma c'erano alcuni progetti che da solo non sono stato in grado di realizzare. Se questa situazione dura un anno o due si può aspettare, quando si arriva al decennio no. Io non avevo bisogno di finanziamenti per andare avanti, in caso contrario sarei stato rovinato. Ti distruggono il lavoro, la vita, la famiglia. Senza contare, poi, che processi del genere fanno scappare gli investitori internazionali. Non è una bella pubblicità per l'Italia». 

Le immagini del sequestro del Force Blue, il 20 maggio 2010, hanno fatto il giro delle tv.

«È stato un arrembaggio, al largo di La Spezia sono arrivate le motovedette, sembrava avessero scoperto il covo di Totò Riina. A bordo c'erano mia moglie Elisabetta Gregoraci con nostro figlio Nathan Falco, che aveva solo due mesi, per lei è stato un trauma. Comunque, dopo questi fuochi d'artificio la Procura nomina un custode e lo yacht continua a svolgere attività di charter con i turisti. Volevo assicurare un posto all'equipaggio e ha funzionato: la barca ha stipulato noleggi per 8 milioni di euro, compresi i miei. Ho sempre pagato, come faccio quando vado a mangiare nei miei ristoranti. Avevamo un accordo in base al quale, a fine stagione, la società armatrice avrebbe ripianato le perdite, ma improvvisamente il custode viene indagato e ne arriva un altro. Da quel momento le cose cambiano. Esplode la pandemia, americani e russi che sono i nostri principali clienti non vengono più, consigliamo di tenere la barca armata al minimo. Il 27 gennaio 2021 scopriamo che il Tribunale ha messo lo yacht all'asta, senza nemmeno informare la società armatrice né aspettare la sentenza della Cassazione che sarebbe arrivata dodici giorni dopo. È questo che mi ha fatto più male, mi hanno portato via un bene a un terzo del prezzo. Dovrebbe esserci un ristoro per i soldi persi, a me basta solo che finisca questa storia».

C'è stato accanimento?

«Sono un personaggio pubblico e contro di me c'è una cattiveria incredibile. Eppure una barca è come un'azienda, crea posti di lavoro e indotto sul territorio con i turisti. In Italia c'è invidia sociale contro chi ce l'ha fatta, abbiamo un governo che è contro le imprese». 

Però nel nostro Paese continua a investire.

«Io sono italiano e ci credo. Il dna dell'imprenditore è creare occupazione, i problemi non si risolvono con il reddito di cittadinanza ma facendo lavorare le aziende». 

Chi vorrebbe come nuovo Presidente della Repubblica?

«Vedo molto bene Mario Draghi. Abbiamo il terzo debito mondiale, quando arriveranno i soldi dall'Europa dovranno essere gestiti bene. Per ora gli aiuti se ne sono andati in biciclette e banchi a rotelle». 

Briatore assolto, il legale: «Giustizia trionfa? No, se il processo dura 12 anni». Si chiude il processo per evasione fiscale a carico di Flavio Briatore. Lui: «È stato un calvario». Il Dubbio il 26 gennaio 2022.

«L’assoluzione di Briatore la potrò commentare dicendo che la giustizia trionfa. Ma mi chiedo se è giustizia un processo che dura 12 anni. Un processo che obbliga una persona innocente a convivere con un incubo. No non è giustizia». Così il difensore di Flavio Briatore, l’avvocato Fabio Lattanzi, commenta la sentenza di assoluzione della corte di appello di Genova che ha messo fine al processo a carico di Briatore per evasione fiscale nell’ambito del quale, venne sequestrata anche la sua barca Force Blue.

«Nel Maggio 2010 la guardia di Finanza mi ha sequestrato la barca e sui media di tutto il mondo usciva la notizia che ero un contrabbandiere e un evasore fiscale. Oggi, dopo 12 anni e 6 processi, si è finalmente accertata la mia innocenza. Un vero calvario che si è fortunatamente concluso», dice invece il diretto interessato, Flavio Briatore. «Ringrazio tutti i professionisti che mi hanno seguito in questa storia – conclude Briatore – da Coppi Massimo Pellicciotta a Fabio Lattanzi ed Andrea Parolini». «Sono felicissima dì questa notizia. Ma 12 anni di calvario giudiziario non si cancellano. Sono davvero troppi», aggiunge Elisabetta Gregoraci. Quel 21 maggio 2010, quando il megayacht fu sequestrato dalle Fiamme Gialle a largo di La Spezia, a bordo c’era anche lei, che all’epoca era ancora sposata con Briatore e suo figlio Nathan Falco: «Sono stati anni difficilissimi».

Briatore assolto, ma ora la sinistra giustizialista tace. Francesco Boezi il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'assoluzione di Briatore è ovviamente marginale per la sinistra giustizialista che lo aveva assalito ben dodici anni fa. La gogna giustizialista, ai tempi, aveva colpito anche Flavio Briatore che ieri è stato assolto dopo un processo per presunta frode fiscale - ci si ricorderà della famosa vendita dello yatch - "perché il fatto non costituisce reato". Si tratta dell'esito di una vicenda che, dal punto di vista giudiziario, ha avuto la durata di dodici anni.

Basta riavvolgere il nastro per tornare all'epoca in cui - trattasi di una prassi che purtroppo è tuttora in voga - una semplice notizia d'indagine aveva comportato l'immediato utilizzo della ghigliottina politico-mediatica. In queste ore, dopo lo scagionamento dell'imprenditore, non si ode il tam-tam che aveva fatto tanto rumore tempo fa, ossia quando questa storia poi finita in un nulla di fatto aveva avuto inizio. C'è il consueto doppiopesismo che riguarda la notiziabilità delle indagini e quella della fine dei procedimenti per assoluzione.

Gli attacchi a Briatore del direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, per dire, si contavano con difficoltà. Più in generale, è stato l'atteggiamento di certa sinistra giustizialista, ad assalire la vicenda, facendone una bandiera. Di sicuro ha contribuito una certa dose di pauperismo: ricco uguale colpevole è un'equazione che certa sinistra fatica a riporre nel cassetto dei ricordi.

Se ne sono ormai accorti in molti in questo Paese, tant'è che ormai si parla con continuità di cambio di clima nel Paese. Il garantismo è la cifra culturale cui si guarda ormai con consapevolezza persino sui social, dove un approfondimento può emergere con qualche difficoltà: "#Briatore innocente, nessuna frode al Fisco con il suo yacht: che però è già stato venduto ad Ecclestone. Un altro grande trionfo della celerrima giustizia del Belpaese, che ci ha messo solo 12 anni per arrivare alla decisione", ha fatto presente un utente via Twitter. Gli argomenti ed i toni maggioritari sono questi. Un altro tuona: "Oggi chi PAGA? L'ennesimo episodio di malagiustizia all'Italiana , tutto a carico principalmente di Briatore , secondariamente sopra le nostre spalle , quelle degli contribuenti".

Se le litigate durante Servizio Pubblico tra Flavio Briatore e Luisella Costamagna (ma anche con lo stesso Travaglio) fanno ormai parte delle cronache del passato, rimane difficile non notare come la notizia dell'assoluzione non sia stata trattata con la medesima attenzione da parte della stampa che tanto eco aveva suscitato, soffermandosi sul caso dello yatch e su tutte le faccende di contorno.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali

Briatore chiede allo Stato 12 milioni per il suo yacht. La barca era stata confiscata e "svenduta", ma la Cassazione aveva annullato la condanna. Redazione il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.

Chiede allo Stato 12 milioni, Flavio Briatore. La richiesta è motivata dalla differenza tra il valore del suo yacht, il Force Blue, pari a 20 milioni di euro, e il ricavato della vendita all'asta dell'imbarcazione, pari a 7 milioni. Lo stato infatti aveva confiscato il Force Blue per reati fiscali e lo aveva sbrigativamente venduto. Briatore era stato poi condannato in Appello, ma visto che la Cassazione ha ribaltato tutto ora l'imprenditore cuneese vuole indietro i suoi soldi.

La vicenda è ricostruita dal Fatto Quotidiano: il Force Blue è un 62 metri che apparteneva a Briatore ma era intestato a una società offshore di chartering. Nel 2010 la Guardia di Finanza lo aveva sequestrato in seguito a un'inchiesta che vedeva Briatore accusato di avere evaso il pagamento delle accise sul carburante dell'imbarcazione, pari a 3,6 milioni di euro. Inizialmente Briatore era stato condannato ma la Cassazione aveva annullato la condanna, confermando però la confisca del Force Blue, che il tribunale aveva messo all'asta per evitare allo Stato di pagare gli esorbitanti costi di manutenzione. La barca era stata venduta (anzi, «svenduta») ma dopo qualche tempo la Cassazione aveva sbianchettato anche la confisca dello yacht. Da qui la decisione di Briatore di rivalersi sullo Stato, anche con gli interessi. Le sue ragioni appaiono abbastanza evidenti: il tribunale avrebbe infatti dovuto attendere la pronuncia definitiva della Cassazione prima di dare via il Force Blue. Nel caso in cui le sue ragioni non dovessero essere riconosciute pacificamente, Briatore è pronto a intentare una causa civile contro lo Stato. Nei giorni scorsi l'imprenditore se l'era presa contro gli italiani «sfigati e rancorosi» che avevano gioito per i danni provocati dal maltempo al Twiga, il suo stabilimento chic di Forte dei Marmi.

·        L'Ingiunzione di Pagamento.

Cos'è e come si ottiene un'ingiunzione di pagamento. Un’ingiunzione di pagamento è uno strumento messo a disposizione dalla legge per recuperare crediti documentati. Sapere cosa è e come funziona può essere utile. Giuditta Mosca il 19 Settembre 2022 su Il Giornale.

L’ingiunzione di pagamento, conosciuta anche con il nome di decreto ingiuntivo, è una procedura grazia alla quale chi vanta un credito (il creditore) può recuperalo dal debitore. Viene emesso da un giudice e soltanto dopo averlo ricevuto, il debitore può decidere se impugnarlo.

È sorretta dagli articoli 633 e seguenti del Codice di procedura civile e segue un percorso che impone dei prerequisiti, un inter giuridico e che rappresenta un costo. Ecco come chiedere a un giudice di emettere un’ingiunzione di pagamento e come comportarsi nel caso in cui se ne ricevesse una.

Cosa è un’ingiunzione di pagamento e chi può ottenerla

Di fatto è un ordine con il quale un giudice intima a un debitore di pagare il dovuto, sia questo rappresentato da denaro, un bene mobile oppure da una consegna da effettuare. Il creditore, ossia chi chiede l’intervento del giudice, deve fornire prova scritta del credito vantato, tipicamente una fattura emessa, la ricevuta di pagamento relativa alla fornitura di un bene o un servizio mai ottenuto e, in generale, prova particolareggiata dalla quale emerga il rapporto tra creditore e debitore con l’esistenza di un credito. Laddove il creditore non fosse in grado di dimostrare il credito si renderebbe necessario l’avvio di una causa più complessa nei confronti del debitore, facendo per esempio ricorso a testimoni che possano certificarne la cifra e la natura.

Per ottenere un’ingiunzione di pagamento occorre rivolgersi a un giudice di pace se il credito non supera 5.000 euro, altrimenti va adito un tribunale. In linea di principio, l’ausilio di un avvocato non è richiesto se ci si rivolge a un giudice di pace per una causa che non supera 1.100 euro di valore ma, considerando la delicatezza della riscossione dei crediti, è consigliabile rivolgersi a un legale per fare le cose nel modo corretto, evitando perdite di tempo.

Nel caso in cui il credito sia documentato il giudice emette l’ingiunzione di pagamento senza un’udienza. Il creditore deve quindi notificarla al debitore entro 60 giorni.

Cosa accade dopo l’emissione dell'ingiunzione

Quando il debitore ha ricevuto la notifica dell’ingiunzione di pagamento tramite ufficiale giudiziario, notifica cartacea di un legale o mediante Pec (se è un’azienda o un professionista) ha 40 giorni di tempo per decidere se pagare il debito oppure consegnare i beni o i servizi oggetto dell’ingiunzione, opporsi al decreto oppure non pagare.

Nel caso in cui pagasse entro 40 giorni, l’iter si chiuderebbe senza conseguenze. Il debitore può decidere di opporsi al decreto ingiuntivo e rivolgersi a un avvocato per contestarlo. In questo caso viene avviata una causa civile propriamente detta. Il creditore deve quindi essere in grado di ribadire la legittimità del credito che vanta nei confronti del debitore, il quale va in aula per dimostrarne l’inesigibilità.

Cosa succede se il debitore non paga

Per logica distributiva se, passato il quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo, il debitore non ha saldato il dovuto e non ha opposto reclamo, si evince che l’ingiunzione di pagamento diventa definitiva. Il creditore deve procedere in via esecutiva, notificando al debitore un atto di precetto con il quale gli vengono concessi altri 10 giorni per procedere al pagamento. Scaduto anche questo termine il debitore può rivolgersi all’ufficiale giudiziario affinché disponga il pignoramento dei beni del debitore, mirando alle sue relazioni bancarie o postali, ai suoi beni mobili e immobili, crediti da questo vantati (affitti da percepire, fatture da incassare, azioni societarie, eccetera). Il creditore può avvalersi anche del quinto dello stipendio o della pensione del debitore sempre se non si tratta di una pensione di invalidità civile perché quest'ultima non è pignorabile. La pensione d’invalidità civile, infatti, vale a dire l'importo dovuto agli invalidi civili totali o parziali, rientra tra i sussidi assistenziali per cui non potrà mai essere pignorata. 

Gli effetti di un decreto ingiuntivo si prescrivono dopo 10 anni dalla notifica al debitore. Nel momento in cui però il creditore rinnova la richiesta di pagamento del debito, il termine viene prorogato e conteggiato nuovamente dalla data seguente alla ricezione della comunicazione del creditore al debitore che ha valore di atto interruttivo della prescrizione.

Quanto tempo e quanto denaro occorre

È impossibile stabilire con certezza quanto tempo passi dalla richiesta al momento in cui il giudice emetterà il decreto ingiuntivo, le tempistiche variano dalla mole di lavoro dei giudici. Possono essere necessarie poche settimane ma anche diversi mesi. A questo tempo va aggiunto quello che occorre per notificarlo al debitore.

Anche il costo per ottenere un decreto ingiuntivo varia a seconda dell’importo del credito. Il contributo unificato, la tassa pretesa dallo Stato per iniziare un’azione giuridica, varia per scaglioni a secondo del valore. Il contributo unificato va versato secondo le norme emesse dall’Agenzia delle entrate che comprendono sia i versamenti bancari sia quelli postali ma, di solito, se si è assistiti da un avvocato, è quest'ultimo che si dovrebbe occupare del pagamento del contributo unificato in sede di deposito degli atti necessari per l'inizio dell'iter dinnanzi al giudice di pace o in tribunale. Se si ottiene il gratuito patrocinio, l'importo per il contributo unificato non è dovuto.

Cosa fare se si riceve un’ingiunzione

Come visto in precedenza, o si procede al pagamento, o ci si oppone oppure lo si lascia cadere in giudicato, dando al creditore modo di esercitare il recupero forzato. Vale quindi la pena rivolgersi a un legale, anche per mediare una soluzione alternativa con il debitore. Benché la legge non contempli forme diverse dal pagamento del debito in un’unica soluzione, non sono vietati accordi che prevedano il pagamento rateale o il pagamento di una somma diversa da quella richiesta dal creditore.

·        Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.

Buongiorno controtuttelemafie.it,  Sono Veronica Colombo, e faccio parte del team di Prontobolletta. 

Vi contatto in quanto avrei il piacere di presentarvi il nostro ultimo articolo che riguarda le utlime novità nel settore dell'Energia e del Gas, in particolar modo facendo luce sugli ultimi provvedimenti presi dall'antitrust verso alcuni provider energetici a causa di alcune pratiche poco trasparenti. 

In un comunicato proprio l'Autorità Antitrust,  garante della concorrenza all’interno del mercato, rende noto quanto accaduto. 

Spero che il testo sia di vostro gradimento e sentitevi liberi di inserire questo articolo originale nel vostro sito web così com'è o modificarlo a seconda delle vostre esigenze editoriali. 

Se interessati, abbiamo a disposizione anche immagini di corredo. 

Vi chiedo solamente l'accortezza di esplicitare la fonte per evitare di incorrere in problemi di copyright con Google. 

Fonte: prontobolletta.it/news/multe-provider.

Ringrazio per il tempo dedicatomi, Cordiali Saluti

Veronica Colombo

Redattrice papernest.it

L’Antitrust contro Enel Energia: multe salate a causa di messaggi ingannevoli. Giada Ravalli il 24 Novembre 2022

Si tratta di una pratica commerciale altamente scorretta in quanto, come dichiarato dall’l'Autorità, la condotta è risultata aggressiva a causa delle ripetute telefonate che diffondevano il messaggio preregistrato, anche dirette ai moltissimi consumatori che non avevano fornito un interesse o un consenso ad essere contattati per finalità di marketing.[/main]

Sommario: n un comunicato l’Autorità Antitrust garante della concorrenza all’interno del mercato rende noto quanto accaduto. Si tratta di Cinque milioni di euro di multa da parte dell’Antitrust a Enel Energia e alle agenzie partner a causa di pratiche aziendali definite ingannevoli durante la fase della vendita di servizi energetici.

Nel dettaglio è una sanzione amministrativa che prevede la somma di:

3.500.000 euro a Conseed e Seed

1.000.000 euro a Zeta Group

280.000 euro a New Working

100.000 euro a Run e Sofir

Il tutto è stato scoperto solo grazie alle numerose segnalazioni di consumatori e di associazioni di consumatori. Nel messaggio venivano fornite indicazioni errate sulla data di cessazione del mercato tutelato, cioè del regime di maggior tutela del prezzo nel settore dell’energia per i clienti finali di piccole dimensioni. Il termine, attualmente previsto al 10 gennaio 2024, era indicato dagli operatori come imminente o, comunque, di gran lunga anticipato rispetto alla data di cessazione effettiva.

L’informazione ingannevole voleva ovviamente indurre i consumatori a sottoscrivere un contratto con Enel appartenente al mercato libero dell’energia. Il massaggio mandato ai consumatori era chiaro ma allo stesso tempo apprensivo verso i consumatori che si dichiaravano confusi e diffidenti verso l’atteggiamento della compagnia energetica.

Si tratta di una pratica commerciale altamente scorretta in quanto, come dichiarato dall’l’Autorità, la condotta è risultata aggressiva a causa delle ripetute telefonate che diffondevano il messaggio preregistrato, anche dirette ai moltissimi consumatori che non avevano fornito un interesse o un consenso ad essere contattati per finalità di marketing.

Cosa è stato sanzionato nello specifico?

Enel ha svolto la suddetta attività di vendita e di marketing avvalendosi di subagenzie e di singoli agenti che disponevano lunghe liste di clienti appartenenti al mercato tutelato utilizzando la procedura di cold calling. L’Autorità Antitrust ha ritenuto che tali condotte rispecchiano una pratica commerciale scorretta in quanto sono ritenute idonee a falsare il comportamento economico del consumatore in relazione, peraltro, ad un servizio di interesse primario, quale quello della fornitura dei servizi di energia.

Enel, rispetto alle altre agenzie di marketing coinvolte, ha ricevuto una multa da 3,5 milioni di euro per la sua responsabilità nella mancata implementazione di un efficace sistema di controllo sulle modalità con cui le agenzie partner contattarono la clientela e acquisivano nuovi contratti sul mercato libero dell’energia, mediante comportamenti ingannevoli e aggressivi.

La replica da parte di Enel Energia non si è fatta attendere. La compagnia replica così:

Non si è fatta attendere la replica dell’azienda

"Enel Energia si vede sanzionata per fatti" di soggetti terzi "nell’ambito della propria autonomia imprenditoriale e senza prova di una responsabilità diretta". La nota prosegue così: "Nel corso del procedimento – dice Enel – non sono state valorizzate le azioni adottate dalla Società, quali le denunce presentate all’Autorità Giudiziaria e le rilevanti sanzioni applicate, per contrastare il fenomeno delle pratiche scorrette" di "operatori che agiscono o spacciandosi Enel o contravvenendo alle rigide regole imposte dalla Società"

La società evidenzia, da una parte, di non trarre alcun vantaggio da tali comportamenti scorretti, ma solo rilevanti pregiudizi economici e reputazionali e, dall’altra parte, che non dispone di poteri ispettivi e di controllo verso soggetti terzi, di cui può invece avvalersi l’Autorità. E’ grazie all’esercizio di tali poteri autoritativi infatti, quali ispezioni e sequestri eseguiti presso le Agenzie coinvolte con l’ausilio della Guardia di Finanza, che l’Autorità è potuta risalire alle condotte scorrette e alle relative responsabilità". Dall’inizio dell’anno l’Autorità Antitrust è intervenuta in almeno altre 5 occasioni che hanno minacciato l’equilibrio di un mercato della concorrenza e dei consumatori che si interfacciano alle utenze e, più in generale, al settore energetico.

Nella maggior parte dei casi le varie compagnie hanno intrapreso delle pratiche scorrette e fuorvianti sempre nei confronti degli utenti. L’ultimo accaduto risale ad appena un mese fa quando l’Antitrust ha emanato provvedimenti cautelari nei confronti di Iren, Iberdrola, Eon e Dolomiti per illegittime modifiche unilaterali ai prezzi di fornitura di energia elettrica e gas.

Al momento però Dolomiti Energia, Iren, Eon ma anche altri provider energetici non hanno avuto nessuna ripercussione ed è possibile confrontare offerte luce e gas direttamente dalle nostre pagine web.

Quel pasticciaccio brutto del nordest. Ivano Tolettini su L'Identità il 21 Ottobre 2022. 

Un pasticciaccio brutto con al centro il colosso Agsm Aim. Un’operazione poco speciale per la quale qualcuno potrebbe bruciarsi viste le implicazioni non solo economiche. La compravendita di una società nel settore dell’energia rischia di diventare indigesta sull’asse Verona-Vicenza, con ripercussioni politiche, visto che l’acquirente è la multiutility berico-scaligera. Il dubbio amletico da sciogliere è: quanto costa ad Agsm Aim, tramite la controllata Agsm Aim Energy, rompere il contratto sottoscritto soltanto due mesi fa per comprare Compago srl? In alternativa, qual è il pericolo nel perfezionare l’accordo che ha portato l’azienda pubblica, sorta da una fusione nel dicembre 2020 delle due società cugine, ad acquistare il 35% dell’holding di partecipazione milanese “Compago srl”, che ha in pancia alcune ditte tra cui quella più appetibile è “Compagnia Energetica Italiana”, che vende gas ed energia elettrica, valutata 67 milioni di euro? Sono due domande di valore milionario che non fanno dormire sonni tranquilli ai sindaci di Verona e Vicenza, rispettivamente Damiano Tommasi e Francesco Rucco, per le conseguenze qualora l’affare andasse male. Le aziende, infatti, sono dei cittadini alle prese con bollette sempre più pesanti.

Ieri è stata una giornata campale per i due sindaci, che si sono incontrati e confrontati con i propri consulenti. Ma è stata una giornataccia anche per il consiglio d’amministrazione di Agsm Aim guidato da Stefano Casali, da settimane sulla graticola per un piano che in primavera pareva affidabile e dal quale, però, di recente lui stesso in commissione Bilancio, in Comune a Verona, ha preso di fatto le distanze. Del resto al centro dei rumors c’è un Cda che si è fidato del consigliere delegato Stefano Quaglino, perché in seguito alla crisi del settore energetico quella che pareva una buona operazione industriale che avrebbe fatto lievitare a oltre 1 milione i clienti di Agsm Aim, all’improvviso si è tramutata in tanti punti interrogativi. Se andasse male chi pagherebbe? Soprattutto dopo che il Cda, non soddisfatto del lavoro di Quaglino e che ieri sera gli ha ritirato le deleghe per l’operatività straordinaria, a contratto firmato e opinione pubblica informata a fine settembre ha incaricato due consulenti di eseguire una valutazione il cui esito è stato negativo. I rischi sono maggiori dei pregi. Dunque, che fare?

È l’8 settembre scorso quando l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato informa dell’operazione e in un comunicato Agsm Aim sintetizza che è stato raggiunto l’accordo per acquistare il 35% di Compago srl di cui è presidente Roberta Corno Pozzi. Il pezzo pregiato, la partecipata “Compagnia Energetica Italiana spa”, presieduta da Enrico Pozzi, ha ricavi per 350 milioni di euro e 165.000 clienti nel Nord Italia cui vende prodotti e servizi di luce e gas.

Sulla carta è una operazione in linea con gli obiettivi industriali di Agsm Aim che punta ad allargarsi per diventare più potente, in realtà presenta criticità. A farsi interpreti di questo disagio è il gruppo di minoranza “Per una grande Vicenza” con i consiglieri Otello Dalla Rosa, Raffaele Colombara, Alessandro Marobin e Cristiano Spiller, che osserva come l’operazione Compago suscita interrogativi e “raccoglie molte preoccupazioni del settore, riprese più volte dalla stampa nazionale, e riguarda il rischio di default finanziario per molte utilitiy italiane ed europee”.

A quel punto le telefonate tra i consiglieri comunali di Verona e Vicenza si susseguono e sono incrociate, perché com’è noto all’ombra dell’Arena Tommasi guida una giunta di centrosinistra, mentre all’ombra del Palladio Rucco presiede una giunta di centrodestra. Non solo, il Cda di Agsm Aim è stato rinnovato qualche mese prima delle elezioni comunali di giugno a Verona e i componenti sono tutti di area centrodestra. Insomma, una situazione non agevole per Tommasi, che non si fida delle scelte del predecessore Sboarina, anche perché la municipalizzata è la cassaforte dei due Comuni.

Nel mirino il comportamento di Quaglino. Questi, tra l’altro, con la fusione del 2020 è passato da un compenso di 150 mila a 300 mila euro (ai componenti del Cda vanno 40 mila euro ciascuno). Vero è che il 2021 si è chiuso con ricavi per quasi 2 miliardi di euro e un utile netto di 57 milioni. Chapeau! Ma il piano industriale prospettato per l’acquisizione di Compago, per il cui 35% andrebbero versati oltre 22,5 milioni e al perfezionamento del contratto i rimanenti 44,5 milioni, alla luce del mutamento del quadro macroeconomico andrebbe rivisto per le “criticità”. Come comportarsi? Il Cda dopo avere incaricato gli advisor ed avere avuto una prognosi negativa sui risultati, tramite Agsm Aim Energy, il veicolo che esegue l’operazione, ha informato la controparte di volere quanto meno sospendere la procedura di acquisto. Compago ha replicato che “pacta sunt servanda” e che se l’accordo non verrà rispettato Agsm Aim pagherà pegno. Ecco perché quelle “criticità nell’acquisto” sono diventate un pasticciaccio brutto del Nordest.

 Extraprofitti con il gas, undici miliardi in più di tasse per i big dell’energia. Milena Gabanelli e Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2022.

Le società energetiche stanno facendo enormi profitti perché a causa di eventi imprevedibili il prezzo di gas e petrolio è schizzato in alto, mentre gli acquisti loro li avevano fatti ben prima ad un prezzo molto più basso. Per questo il governo con l’ultimo decreto Aiuti ha stabilito che sulla differenza fra il prezzo di acquisto e quello di vendita del gas da ottobre 2021 a marzo 2022, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, viene applicata in più una tassa del 25%. Il ministero del Tesoro ha messo a bilancio un incasso di 11 miliardi di euro, per ridurre il peso delle bollette di famiglie e imprese e di 30 centesimi le accise su gasolio e benzina. Che alla pompa ha già sfondato i 2 euro al litro. Enel, Eni, Edison, i principali destinatari di questa «tassa extra » hanno già schierato gli avvocati: «I calcoli sono sbagliati». Proviamo a fare qualche conto.

Cosa c’è dentro ad un MWh

Il prezzo dell’elettricità dipende esclusivamente dall’andamento del prezzo del gas. Tra ottobre e dicembre 2021 l’Agenzia delle Dogane ha rilevato che dall’Algeria il gas è arrivato in Italia a 23 euro al megawattora, dall’Azerbaijan a 67, dalla Russia a 54, dalle navi metaniere a circa 48. Questi sono i prezzi pagati da Eni, Edison ed Enel per effetto dei loro contratti di lungo termine stipulati in anticipo. Da gennaio a marzo 2022 invece dall’Algeria è arrivato a 29 euro al megawattora, dall’Azerbaijan a 81, dalla Russia a 88. Non ci sono dati disponibili su quello via navi metaniere. 

Dall’elaborazione dei dati Terna, dentro al MWh di elettricità venduto agli utenti, c’è una quota fatta con il solare che costa fra i 20 e 30 euro, una parte di eolico che costa fra i 30 e i 40, una importante di idroelettrico che oscilla tra i 10 e i 20, quella realizzata col carbone, che viaggia attorno ai 50 euro, e una parte di energia nucleare, il cui costo d’importazione dalla Francia è fra i 35/40 euro. E quindi il prezzo di vendita ai consumatori qual è? 

Come si forma il prezzo

La formula dei prezzi finali viene elaborata dall’authority per l’Energia (Arera). I 18 milioni di utenti in maggior tutela (fra luce e gas) da gennaio a marzo hanno pagato circa 96 euro al MWh. Una differenza enorme. Questo per due ragioni:

1) Il prezzo del gas naturale è legato alla quotazione media sul trimestre precedente della Borsa di Amsterdam, sottoposta alla speculazione di fondi ed intermediari, e ai conflitti geopolitici come quello  in Ucraina. Oggi stiamo pagando la media del trimestre gennaio-marzo, ed è già sui 100 euro.

2) Il prezzo di vendita sulla bolletta si aggancia alla quota maggiore con cui si compone il MWh, e il 44% dell’elettricità è prodotta con il gas. Un meccanismo che si chiama «prezzo marginale» (Nella versione originale avevamo scritto che il prezzo marginale si applica solo in Italia. L’informazione non è corretta: il prezzo marginale si applica in tutti i Paesi della Ue, è vero invece che l’Italia è fra i Paese su cui impatta di più. Ce ne scusiamo con i lettori). 

Significa che quando il prezzo del gas esplode, si trascina al rialzo anche quello delle fonti rinnovabili. Infatti solare ed eolico solo un anno fa costavano la metà. Più complicato invece è sapere a quanto è stata venduta l’elettricità sul libero mercato a 30 milioni di utenti, perché c’è chi ha stipulato un contratto a prezzo variabile e chi a prezzo fisso per un anno o due. Per questi ultimi l’aumento non è stato applicato 

La speculazione

Il governo per sapere quanto effettivamente si mettono in tasca in più la lunga filiera di operatori, ha incaricato l’Arera di andare a vedere dentro ai contratti, le rinegoziazioni, l’attività di trading, e quanto pesano i costi dei derivati stipulati con le banche a protezione del rischio che il prezzo salga o scenda troppo in fretta. Il mercato vive di contratti di compravendita in cui la consegna del bene e il pagamento del prezzo pattuito avvengono a una data futura prefissata. Si tratta di scommesse in anticipo sul prezzo del gas, generalmente a tre mesi. Se si prevede che scenda si comincia a vendere, se si prevede che salga si comincia a comprare, e il prezzo si gonfia. A pagare questa speculazione è l’utente finale, mentre ad arricchirsi come mai prima sono i grandi colossi e i fondi speculativi. Nomi sconosciuti come Man Group, Systemic Investments, Florin Court Capital, Gresham Investment. Hanno sedi in paradisi fiscali, e a Wall Street o a Londra, non comprano e vendono gas naturale, ma i derivati a cui il bene fisico è agganciato. È un mondo talmente intricato e opaco che per Arera è impossibile definire una cifra precisa. 

I profitti dei grandi

E quindi il Tesoro come ha calcolato gli extraprofitti? Sulla liquidazione Iva, cioè a quanto comprano la materia prima gli operatori e a quanto la vendono. Eni, Enel, Edison contestano perché si tratterebbe di un valore grezzo. Inoltre sollevano un problema di costituzionalità: «Perché dobbiamo pagare solo noi e non anche le banche, Unicredit e Intesa in testa, che con le polizze di copertura sul prezzo delle materie prime stanno facendo i soldi a palate?». Intanto Enel ha chiuso il primo trimestre con ricavi passati da 18 a 34 miliardi, quasi raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2021, e gli utili al lordo delle tasse sono cresciuti da 2,1 a 2,3 miliardi. Ha fatto quasi 1,4 miliardi di margine operativo lordo solo dalla generazione termoelettrica (basata sul gas) e dalle attività di trading in Borsa: 442 milioni nel primo trimestre 2021, 1,61 miliardi da gennaio a marzo di quest’anno. Nel primo trimestre 2022 anche Eni ha raddoppiato il fatturato (32 miliardi di euro), mentre i profitti industriali sono passati da 1,3 miliardi a 5,2 miliardi di quest’anno. Il direttore finanziario di Enel, Alberto De Paoli, ha precisato che la nuova imposta peserà al massimo per un centinaio di milioni. Per l’Eni gli analisti prevedono che il contributo difficilmente supererà il miliardo. Anche Nicola Monti, a capo di Edison (7,1 miliardi di ricavi nel primo trimestre contro 2,1 di un anno prima) ha chiarito che il gruppo prevede di accantonare non più di un centinaio di milioni. 

Stiamo parlando di società quotate che hanno nella compagine sociale società di Stato, come Cassa Depositi o la francese Edf, ma anche un nutrito gruppo di investitori istituzionali: colossi del risparmio gestito, tra Londra e New York, che incassano lauti dividendi anche grazie alle bollette pagate dalle famiglie italiane. Sta di fatto che la prima tranche di quegli 11 miliardi va versata entro il 30 giugno. Se gli operatori non pagheranno quanto richiesto (e sappiamo già che i contenziosi durano anni), i soldi che servono per aiutare le famiglie e imprese in difficoltà bisognerà trovarli aumentando il debito pubblico, o tagliando i servizi pubblici. 

I dati per calcolare l’inflazione

Buio anche sull’aggiornamento dell’inflazione. Il dato più rilevante da conoscere è proprio quello energetico: serve a determinare il costo della vita e il potere d’acquisto dei salari. Avere un quadro completo sulle importazioni di beni energetici extra Ue è compito dell’Istat, però il modo in cui sono stati ricavati i prezzi e comunicati ad Eurostat non sono corretti. Lo ha ammesso con una nota lo stesso Istituto di statistica: «bisogna attendere ottobre, quando ci sarà consolidamento dei dati del 2021» , anche a causa della crescente rilevanza di operazioni finanziarie che non implicano il transito fisico del gas. Tradotto: in assenza di dati corretti sarà pure difficile stabilire un tetto al prezzo del gas. Milena Gabanelli e Fabio Savelli

Francesco Bisozzi per “il Messaggero” l'11 aprile 2022.

Fanno risparmiare a famiglie e imprese fino al 25 per cento sulla bolletta, ma ancora non decollano. Sono ancora in numero modesto le Comunità energetiche rinnovabili (Cer), erano 24 alla fine del 2021, accreditate o in fase di accreditamento da parte del Gestore dei servizi energetici.

Eppure la fase di sperimentazione delle Cer è stata avviata nel 2020. Il problema è che oggi gli impianti gestiti dai membri delle Cer devono essere collegati alla medesima cabina di trasformazione secondaria, che tuttavia ha una potenza ridotta. 

Affinché vedano la luce le grandi Cer energetiche (capaci di inglobare in una sola entità condomini, aziende, negozi e scuole) è necessario un decreto del ministero della Transizione ecologica che autorizzi l'allaccio alle cabine primarie: il decreto, atteso per maggio, starebbe ancora annaspando nelle sabbie mobili, e secondo fonti vicine al dossier potrebbe slittare a dopo l'estate.

Il Pnrr destina circa 2 miliardi di euro di aiuti alle Cer. La fase di sperimentazione è partita all'inizio della pandemia, con il Milleproroghe del 2020. A novembre dell'anno scorso sono state poi recepite le direttive europee Red II e Iem sulla promozione dell'utilizzo dell'energia rinnovabile. 

A frenare i nuovi strumenti ha contribuito fin qui anche la burocrazia e i procedimenti autorizzativi troppo lenti che tengono in ostaggio i progetti per la realizzazione degli impianti: per il fotovoltaico per esempio servono in media 5 anni per ottenere semaforo verde. 

Il presidente della Commissione Industria del Senato, Gianni Girotto (M5S), è considerato il founder delle Comunità energetiche rinnovabili in Italia visto che si è battuto in prima persona per tradurle in realtà. «Queste comunità offrono grandi benefici per l'ambiente e in termini economici per i membri che ne fanno parte. Oggi mettere un'azienda in condizione di risparmiare il 20-25% della bolletta può fare la differenza tra il continuare a produrre e interrompere l'attività. Tuttavia c'è ancora scarsa conoscenza dello strumento: gli imprenditori, i presidi delle scuole, i titolari delle strutture ricettive, gli amministratori di condominio, ancora non hanno capito come funzionano e perché convengono», spiega il presidente della Commissione.

Qualcosa però inizia a muoversi. L'approvazione di una serie di emendamenti al decreto Energia non solo ha introdotto una consistente semplificazione delle procedure di autorizzazione per gli impianti con una potenza fino a 10 Mw, ma ha anche esteso la possibilità di realizzare impianti per autoconsumo entro 10 chilometri dall'utenza.

«Bene l'autoconsumo diretto fino a 10 chilometri, ma non basta. Per favorire la diffusione delle Cer sono necessari ulteriori interventi. La Commissione che presiedo chiede che anche i Comuni fino a 10mila abitanti, e non solo quelli fino a 5mila, possano beneficiare delle risorse previste dal Pnrr per promuovere la costituzione delle comunità energetiche rinnovabili», prosegue Girotto.

Nel dettaglio, le Cer rendono possibile lo scambio di energia rinnovabile, consentendo a cittadini, amministrazioni, piccole imprese e realtà locali di farsi protagonisti della rivoluzione energetica, distribuendo vantaggi ambientali, economici e sociali sui territori: si va dall'abbattimento delle emissioni di anidride carbonica alla riduzione dei costi in bolletta. E più sono grandi le comunità più sono importanti i vantaggi per chi ne fa parte. Non a caso il decreto che ha recepito le direttive europee sull'autoconsumo ha stabilito tra le altre cose che la potenza degli impianti ammessi ai meccanismi di incentivazione possa arrivare a 1 Mw, mentre prima il limite era 200 Kw. 

Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato: i vantaggi e le trappole. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 4 aprile 2022.

Tutti conosciamo il nome del fornitore a cui stiamo pagando l’elettricità e il gas, quasi mai invece che tipo di contratto abbiamo stipulato. Ed è proprio questo a fare la differenza. Ce ne siamo accorti con le prime bollette del 2022: per alcuni aumenti del 70-80%, per altri prezzi invariati. E allora cosa dobbiamo sapere per decidere cosa è più conveniente fare ora che i prezzi sono schizzati alle stelle? Prima di tutto bisogna avere le informazioni corrette: il 21,6% dei clienti domestici non sa che è possibile cambiare in qualsiasi momento il fornitore di energia elettrica e di gas naturale; il 20,8% pensa erroneamente che cambiando fornitore sia necessario sostituire anche il contatore, il 32,2% teme possano verificarsi delle interruzioni nella fornitura di energia elettrica o gas naturale. Non è vero. Fatta questa premessa, le possibilità che offrono gli operatori sono due: il contratto in servizio di tutela o in libero mercato.

Regime di tutela

Il nome dovrebbe essere una garanzia, e per anni è stato così. Il consumatore paga il prezzo (uguale in tutto il Paese) che definisce l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (Arera) ogni 3 mesi in base all’andamento dei mercati finanziari e all’ingrosso. Oggi i clienti domestici che hanno questo tipo di offerta sono 11,8 milioni per l’elettricità e 7,6 milioni per il gas. Chi compra è una società pubblica che si chiama Acquirente unico e che la rivende agli operatori (uno per zona) che la distribuiranno con un margine di guadagno minimo. Vediamo i prezzi. Elettricità: per il secondo trimestre 2022, una famiglia con 2.700 kWh di consumo annuo e con 3 kW di potenza impegnata paga 41,34 centesimi a kWh, contro i 46,03 del primo trimestre. Nel secondo trimestre 2021 erano 20,83 centesimi. Vuol dire che il prezzo è raddoppiato.

Gas: per il secondo trimestre 2022 il costo è fissato a 123,62 centesimi al m³, contro i 137,32 del primo trimestre. Esattamente un anno fa erano 73,42 centesimi. Anche qui le famiglie in regime di tutela devono fare i conti con un aumento della bolletta del 70%.

Opzione libero mercato

In questo caso il prezzo il prezzo è fissato dall’azienda che compra e rivende in base alle proprie strategie commerciali con un margine di profitto più elevato. Il costo della materia prima è ancorato al mercato reale e solo marginalmente a quello finanziario, poiché i rivenditori possono comprare dai grandi fornitori e fare acquisti con scadenze a medio e lungo termine. I rivenditori sono 723 ed hanno oltre 18 milioni i clienti per l’elettricità, e 12 per il gas. Ogni rivenditore fa il suo prezzo, che può essere «variabile» o «fisso». Il prezzo del contratto «variabile» dipende da come è costruito: può prevedere la variazione del costo dell’energia automatica e periodica, a scadenze prefissate, in base ai prezzi del mercato all’ingrosso. Se il contratto invece è a prezzo «fisso», ovvero con scadenza ad un anno, due, o tre, paghi quello che è stato stabilito indipendentemente da come vanno i mercati. Infatti chi ha stipulato questo tipo di contratto prima dei rincari, non ha subito variazioni di prezzo.

Funziona un po’ come il mutuo per la casa: il tasso variabile segue l’andamento dei mercati, con quello fisso se i tassi salgono sei blindato, se scendono ci perdi

Ma ora che il prezzo del gas e dell’elettricità è fuori controllo come può orientarsi chi deve fare un nuovo contratto, o è tentato di cambiare quello che ha già? Tentazioni forti visto che le famiglie sono bombardate dalle telefonate dei venditori di elettricità e gas.

Il bombardamento dei call center

I fornitori di energia e gas, ovvero Enel, A2a, Hera, Acea, Iren, Eni, ecc. vendono sia in regime di tutela che in libero mercato, e la spinta è quella di convincere i propri clienti ad andare verso il libero mercato. 

Ormai oltre il 50% è passato al libero mercato. Il 20,5% ha sottoscritto il contratto da solo tramite il sito internet del fornitore, il 17,9% ha chiamato il call center del venditore, il 16,1% dichiara di aver sottoscritto il contratto dopo aver ricevuto la chiamata di un call center e il 12,1% da chi bussa alla porta. Significa che quasi un cliente su 3 è stato convinto da una telefonata o dalla visita di un venditore. Negli ultimi mesi questa pratica è diventata vessatoria. I 723 rivenditori hanno scatenato i loro call center, che telefonano a casa a qualunque ora, spesso spacciandosi magari per Enel Energia, e tentano di convincere l’utente a cambiare contratto. Prima di accettare occorre ricordare due cose: 1) la proposta di un’offerta da chiunque provenga, è prima di tutto nell’interesse del venditore e non del cliente, 2) per evitare di essere imbrogliati, non dare mai i codici che identificano i contatori (Pod e Pdr). 

Dove trovare l’offerta giusta

Per individuare l’offerta più vantaggiosa dobbiamo sapere prima di tutto il tipo di contratto che abbiamo (è scritto sulla bolletta), e quanto paghiamo a kWh (prendere la voce spesa per l’energia e dividerla per il consumo fatturato). Le altre voci che riguardano i costi di trasporto, oneri di sistema, Iva ecc, non vanno considerate perché sono uguali per tutti, sia in regime di tutela che a libero mercato. Oggi, a causa dell’aumento della componente energia, il governo ha temporaneamente eliminato gli oneri di sistema e diminuito la quota Iva, e quindi il costo della materia prima incide sull’80% della bolletta elettrica, e per il 70% di quella del gas. A questo punto si va su ilportaleofferte.it/portaleOfferte/ dove si vedono tutte le tariffe a confronto, ed è possibile valutare quella più conveniente per le proprie esigenze. 

Nel 2021 per una famiglia con un consumo di 2.700 kWh di elettricità e una potenza di 3 Kw, su 1.355 offerte mensili solo 122 erano più convenienti sul mercato libero rispetto al servizio di tutela. Risparmio massimo 88,93 euro l’anno con il prezzo variabile e 188,50 euro a prezzo fisso con contratto a 12 o 24 mesi. Per una famiglia con un consumo annuale di gas di 1.400 m³, sul libero mercato solo 113 offerte più convenienti del regime di tutela. Risparmio massimo: a prezzo variabile 109,68 euro l’anno, a prezzo fisso 412,22 euro. «Dall’analisi emerge come una quota prevalente delle offerte del libero mercato risulti non conveniente – scrive l’Autorità per l’energia nel suo report (qui) – con un livello di spesa annua media costantemente superiore alla spesa dei servizi di tutela». 

Le offerte ingannevoli

A febbraio 2022 su 1.224 offerte per l’elettricità 628 invece appaiono più convenienti dei servizi di tutela, mentre per il gas sono 102 su 613 offerte. Ma attenzione: bisogna leggere molto bene che cosa dicono le condizioni perché l’offerta il più delle volte è ingannevole. Per esempio possono essere previste tariffe più vantaggiose solo in cambio dell’acquisto di un impianto fotovoltaico da cinquemila euro. Altre sorprese si celano nelle sottoclausole: a) dopo un anno può esserci il cambio della tariffa anche se il contratto a prima vista sembra a tariffa fissa per 24 mesi; b) se si supera il consumo previsto dal pacchetto «tutto compreso» la penalizzazione rischia di essere severa; c) lo sconto può apparire significativo per un periodo limitato di tempo, ma rispetto a un prezzo molto più alto di quello del regime di tutela. Un caso tipico: ipotizziamo che il servizio di maggior tutela abbia una tariffa della componente energia di 30 centesimi, e il fornitore propone uno sconto del 30% per i primi sei mesi, ma magari il prezzo offerto è 40 centesimi. Vuol dire che effettivamente per i primi sei mesi pago 28 centesimi, ma poi mi ritrovo a pagare un prezzo ben più elevato. In sostanza le offerte vantaggiose sul libero mercato ci sono, ma trovarle presuppone una competenza nel saper leggere i dettagli e un livello di conoscenza delle voci che compongono la bolletta che non tutti hanno. 

Nessun Paese ha una giungla di 723 venditori, pertanto è urgente creare un albo di operatori qualificati. Per noi invece sarà meglio capire in fretta come funziona il sistema, perché dal primo gennaio 2023 per il gas e dal 10 gennaio 2024 per l’elettricità, sarà tutto libero mercato e decretata la fine del regime di tutela. A meno che Arera non cambi i parametri di riferimento dei prezzi ancorandoli a quelli del mercato reale, anziché a quello fatto dalla grande finanza speculativa. 

La questione è complessa, ma alla fine la decisione di non buttare a mare il bambino con l’acqua sporca è come sempre una scelta politica.

·        La Telefonia.

Questa è TIM. Report Rai PUNTATA DEL 12/12/2022 di Giorgio Mottola

Collaborazione di Norma Ferrara

Tim potrebbe essere la prossima Alitalia.

Per correre ai ripari questa estate la nuova dirigenza ha presentato un piano per dividere l’azienda in due con l’obiettivo di cedere a Cassa depositi e prestiti la rete fissa, su cui grava la maggior parte dei debiti e dei dipendenti. Un progetto che la scorsa settimana è stato ufficialmente bocciato dal governo Meloni che però finora non ha ancora presentato una proposta alternativa. Nel frattempo, il titolo in Borsa è crollato e gli indici finanziari non lasciano ben sperare. Eppure, 25 anni fa Telecom era una delle aziende floride del nostro Paese e la sesta società di telecomunicazioni del mondo. Come siamo arrivati a questo punto? Con interviste esclusive a ex presidenti del consiglio ed ex amministratori delegati di Telecom, Report  ricostruirà la storia dell’ex azienda di Stato, che dopo un quarto di secolo ha subìto un vero e proprio tracollo finanziario e industriale. Di chi sono state le responsabilità? Con documenti inediti Report accenderà, inoltre, un faro su alcuni progetti e contratti anomali stipulati da Tim nel periodo in cui stava per chiudere l’accordo con Dazn sui diritti della serie A di calcio.

QUESTA È TIM di Giorgio Mottola collaborazione di Norma Ferrara immagini di Alfredo Farina, Cristiano Forti, Fabio Martinelli, Carlos Dias montaggio Giorgio Vallati

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La leggenda narra che qui in un Umbria, tra le limpide acque delle fonti del Clitunno, la ninfa Camesena si unì al dio Giano dando vita alla stirpe italica. Forse per questo retaggio mitologico, sul colle che domina l’antica dimora della ninfa, scelse di stabilire la sua comunità Antonio Meneghetti, fondatore dell’ontopsicologia, una pseudoscienza che propone terapie e percorsi per guarire e potenziare la personalità. Insieme ai suoi adepti Meneghetti acquistò tutte le case del borgo medievale allora abbandonato e lo ribattezzò Litzori, facendone la roccaforte dell’ontopsicologia. Tra queste vie venne ad abitare nel 2003 anche l’ex conduttore televisivo Andrea Pezzi.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Bellissimo borgo che ha fatto lui negli anni. Questo è un signore che, se posso permettermi, un signore che ha dedicato molta parte della sua vita alla psicologia clinica e aveva ripeto un fascino… lei deve entrare nella mentalità di un ragazzo intellettualmente inquieto come ero io.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 1998 Antonio Meneghetti e la sua comunità di ontopsicologia vengono inserite dal Ministero dell’interno nell’elenco delle psicosette italiane. La fama del guru però non ne viene affatto scalfita. Dopo l’incontro con Meneghetti, Pezzi abbandona la Tv e si dedica all’impresa e alla consulenza di impresa.

GIORGIO MOTTOLA Lei consigliava gli imprenditori ma all’epoca non aveva dei grandi successi imprenditoriali, le sue aziende andavano tutte quante malissimo.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE No… io… la ringrazio per questa considerazione. No, non andavano male.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2006 la famiglia Berlusconi diventa socia di Pezzi, investendo in Ovo, il progetto di una videoenciclopedia online, che si rivela un bagno di sangue; quando Fininvest esce dalla società le perdite ammontano a oltre sette milioni di euro.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Hanno scelto purtroppo di perderci perché hanno deciso, diciamo, di liquidare un’azienda che ha avuto delle difficoltà finanziarie. Io nella ripartenza riuscii a costruire la piattaforma distributiva su internet e tutta la mia storia imprenditoriale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo il fallimento di Ovo, Andrea Pezzi apre altre aziende e si lancia nel settore della pubblicità online, riuscendo ancora una volta a imbarcare soci importanti, il principale dei quali è Davide Serra, capo di fondi speculativi e tra i principali finanziatori di Matteo Renzi. Dopo di lui entrano in società con Pezzi anche altri soggetti vicini al cerchio magico renziano, come Francesco Bianchi, fratello del presidente della fondazione Open Alberto Bianchi, e Fabrizio Landi finanziatore della fondazione Open e nominato dal governo Renzi nel cda di Leonardo.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Io le posso dire che non ho mai incontrato Renzi in vita mia e non sono mai stato un suo elettore, giusto per essere molto chiari.

GIORGIO MOTTOLA Beh, però ha conosciuto, incontrato e fatto affari con le persone più vicine a Renzi.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE A me dispiace, che cosa le devo dire?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma dopo l’ingresso dei nuovi soci, Pezzi riesce a ottenere commesse per gestire la pubblicità online di molte società partecipate come Enel, Poste e soprattutto Tim con cui nel 2021 firma un contratto da 5 milioni di euro all’anno per 5 anni. L’azienda telefonica non è stata la gallina dalle uova d’oro solo per Pezzi. Dopo i contratti chiusi con Tim, un fondo francese ha deciso di investire nella società dell’ex conduttore e ha acquisito le quote di Serra e della Seven Capital di Francesco Bianchi.

GIORGIO MOTTOLA Nel momento in cui il fondo francese ha comprato le quote della sua società immagino che siano stati adeguatamente retribuiti?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Nel caso specifico di chi ha messo del capitale, ha avuto una gradevole plusvalenza.

GIORGIO MOTTOLA Ma… mi spiega come mai Pezzi è così importante per Vivendi?

EX MANAGER DI TIM Perché Pezzi ha creato dei rapporti a Vivendi con il mondo politico e con le istituzioni italiane.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2021 Andrea Pezzi è stato assunto come consigliere da Arnaud De Puyfontaine presidente di Vivendi, l’azionista di maggioranza di Tim.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Io sono advisor di Arnaud De Puyfontaine, lo aiuto, come forse le dissi quel giorno, a fare da traduttore culturale tra l’approccio cartesiano, se mi consente dei francesi, a quello forse troppo machiavellico di alcune partite del nostro paese.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei è il consigliere machiavellico di De Puyfontaine.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE No, aiuto, diciamo che decodifico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Decodificare alcune partite nel nostro Paese non è certamente cosa semplice, come non è semplice capire qual è il ruolo di Andrea Pezzi, ex veejay, di cui avevamo parlato nella prima puntata dedicata a Tim. E’ l’advisor abbiamo detto del gruppo Vivendi, che è il principale azionista principale azionista di Tim. Un’azienda in crisi, 30 miliardi e oltre di debiti, decine di migliaia di lavoratori ai quali da 12 anni è stata imposta la solidarietà. Mentre per Pezzi e soci, Tim continua a essere la gallina dalle uova d’oro. Grazie anche a un contratto di esclusiva della gestione della pubblicità on line: parliamo di 25 milioni di euro in cinque anni, rinnovabili per altri cinque. È stata la gallina anche delle uova d’oro dei suoi soci, appartenenti al giglio magico, che hanno potuto realizzare una ricca plusvalenza grazie a questo contratto una volta che hanno ceduto le loro quote ad un gruppo francese. Pezzi si è anche circondato all’interno delle sue società che gestiscono la pubblicità on line anche di manager poliedrici, uno l’abbiamo trovato Salvatore Passaro, è un ex cantante, modesto come cantante, è diventato famoso grazie ad un breve flirt che ha avuto con Michelle Hunziker. Però più importante per la sua vita è stata la relazione che ha avuto con Giulia Berghella, una sedicente pranoterapeuta nota come Maga Clelia, in arte. Ecco aveva fondato un circolo a Milano, i Guerrieri della Luce, che era frequentato da divi dello spettacolo e anche dall’alta borghesia milanese. Però per gli adepti che l’hanno frequentato si sarebbe trattato di una vera e propria setta, il cui dominus diventa proprio grazie alla relazione che ha con la maga Clelia, proprio Passaro, che lo ritroveremo poi come manager in una società di Pezzi, per gestire sempre la pubblicità on line e poi dopo ancora anche in Tim, a fare affari con Tim, che a un certo punto sembra diventata la succursale di ex artisti che hanno il pallino dell'imprenditoria. Il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il quadrilatero della moda è il quartiere più lussuoso di Milano. Ogni angolo brulica di atelier di stilisti e di boutique dei principali marchi internazionali frequentate da turisti e da milionari. Fino a qualche anno fa, ogni venerdì sera, quando calava il buio, in una via riservata del quadrilatero, all’interno di un appartamento di questo palazzo, le luci sfavillanti delle vetrine cedevano il passo al baluginare fioco delle candele. Nella penombra si tenevano le sedute spiritiche più esclusive di Milano, partecipate da imprenditori di successo e personaggi dello spettacolo.

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Le sedute collettive, le riunioni erano tutti in cerchio, lei al centro, lei diceva delle parole della cabala. Tanto che a volte capitava che qualcuno si addormentava, perché lei faceva ‘sti canti, le sedute avvenivano sempre dopo cena, tipo alle 11.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La persona che evocava la Cabala e dirigeva le sedute era Giulia Berghella, in arte maga Clelia. Sedicente pranoterapista che, secondo il racconto alcuni ex adepti, sarebbe stata la fondatrice di una setta che praticava riti esoterici.

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Questa persona illuminata aveva questo potere di parlare per voce di Gesù, come se Gesù entra nel tuo corpo attraverso la fontanella qua e parla attraverso di te. Per cui io ti faccio una domanda e tu mi rispondi come se io parlassi direttamente con Gesù Cristo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La comunità messa in piedi dalla Berghella era frequentata dall’alta società di Milano. Agiva pubblicamente sotto le insegne dell’associazione Gelsomino, dietro cui però si sarebbe celata la setta dei Guerrieri della luce.

 SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO E noi quando ci radunavamo dovevamo esser tutti vestiti di bianco.

GIORGIO MOTTOLA Chi altro ne faceva parte?

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Non hai idea di quanta gente c’era dentro. Se solo potessi parlare li capotterei tutti quanti, metà della televisione era là dentro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra gli adepti della maga Berghella c’erano cantanti, attori e presentatori televisivi ma soprattutto la migliore amica di Simona Crisci: Michelle Hunziker, che rimane legata alla setta per quasi dieci anni.

MICHELLE HUNZIKER – DOMENICA IN 17/12/2017 Ero la gallina dalle uova d’oro e comunque attraverso il mio lavoro potevano diffondere la loro luce e il loro messaggio e reclutare sempre più gente.

GIORGIO MOTTOLA La Berghella riesce ad accalappiare tutti quanti gli altri dopo che è entrata la Hunziker?

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Si, dopo, dopo. Lei tramite un pezzo grosso del dietro le quinte della televisione.

GIORGIO MOTTOLA Chi era?

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Pier Silvio.

GIORGIO MOTTOLA Anche Piersilvio faceva parte…?

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Perché Michelle non ha più lavorato in Mediaset? A un certo punto lavorava solo in Germania?

GIORGIO MOTTOLA Anche Piersilvio frequentava?

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Sì sì, lui frequentava singolarmente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’inizio degli anni 2000, Piersilvio Berlusconi avrebbe frequentato privatamente la maga Berghella, senza prendere parte alle sedute collettive della setta che imponeva a tutti gli adepti precise regole di comportamento e rigidi divieti.

MICHELLE HUNZIKER – DOMENICA IN 17/12/2017 A me dicevano: guarda che tu devi essere pura perché attraverso questo mestiere arrivi alle masse, arrivi alla gente, quindi devi essere il messaggio. Infatti, ho praticato astinenza sessuale dall’età di 23 anni fino ai 27.

CRISTINA PARODI Però… e non… anche questo…

MICHELLE HUNZIKER Vaca Loca. Eh!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Poco dopo l’arrivo della Hunziker nella setta, accanto alla maga Giulia Berghella fa la sua comparsa Salvatore Passaro, in arte Erz, giovane musicista di scarso successo ma di grande intraprendenza.

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Beh, il suo ruolo diventa presto il re, nel senso che diventa l’amante di Giulia e inizia un po’ a prendere lui tutte le decisioni per cui dove si fanno le riunioni, chi fa le sedute singole, chi non le fa, come ci si deve vestire.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nello stesso periodo, Salvatore Passaro fonda insieme a Michele Hunziker la Tuenda, un’agenzia di spettacolo che lavora soprattutto con Mediaset e gestisce i contratti di vari artisti, a partire ovviamente da quello della stessa Hunziker.

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Tra l’altro la Tuenda l’aprì Michelle, la finanziò Michelle, aveva pagato tutto Michelle e poi l’aveva donata a Salvatore in seguito a una telefonata di fuoco, che io ero presente ed ho sentito, dove diceva: non ti vergogni tu che hai tutte queste possibilità… E lei diede tutto a loro, per cui loro si sono ritrovati ‘sta società senza aver tirato fuori una lira.

GIORGIO MOTTOLA Immagino che all’epoca anche i compensi di Michelle finissero in gran parte verso la Tuenda?

SIMONA CRISCI - EX MEMBRO ASSOCIAZIONE GELSOMINO Tutti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con Michelle Hunziker Salvatore Passaro riesce ad avviare anche una breve relazione sentimentale che finisce subito sulle copertine di tutte le riviste di gossip. Ma quando la conduttrice televisiva e la sua amica abbandonano e denunciano pubblicamente la setta, la maga Berghella e Salvatore Passaro scompaiono dalla scena. 15 anni dopo, ritroviamo l’ex compagno della maga su un palco aziendale, presentato come manager di successo di un’azienda di pubblicità online, the Outplay.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY – 13 OTTOBRE 2017 The Outplay oggi rappresenta in realtà una forma innovativa perché assemblando tre componenti importanti di dialogo e dialettica nei confronti del mercato con gli advertiser, con i publisher…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’epoca The Outplay era la principale azienda di pubblicità online con sede a Londra di Andrea Pezzi. Il capitale era infatti di proprietà di Mint, la società che l’anno dopo sottoscriverà il contratto con Tim.

GIORGIO MOTTOLA Salve. SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Mottola!

GIORGIO MOTTOLA Molto piacere come sta?

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Piacere di conoscerla, bene. Ci diamo del tu?

GIORGIO MOTTOLA Mi hanno detto che conosci molto bene Andrea Pezzi.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Uff, certo. È un carissimo amico. Tutti gli amici di Andrea come Deborah Bergamini e Carlo De Matteo sono amici miei carissimi.

GIORGIO MOTTOLA Sei stato un dirigente della sua azienda, giusto? The Outplay?

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Sì, sì sì. Consulente con funzioni dirigenziali.

GIORGIO MOTTOLA Voi avete avuto in comune, diciamo, anche un passato esoterico?

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Esoterico? No, assolutamente.

GIORGIO MOTTOLA Tu eri in quel gruppo cosiddetto dei Guerrieri della Luce, giusto?

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Questa è una grandissima cazzata.

GIORGIO MOTTOLA A me però raccontavano che tu di questa ipotetica setta eri diventato, quando eri il compagno della Berghella, un po’ una sorta di capo.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Quella setta non è mai esistita, è un’invenzione della stampa. E non è mai esistita, nel senso che era un gruppo familiare. C’era la signora Berghella, c’ero io, i suoi figli e basta.

GIORGIO MOTTOLA C’erano poi molti vip, c’erano anche importanti imprenditori.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY A parte Michelle non c’erano altri… cioè, sì, c’erano altri.

GIORGIO MOTTOLA Dicevano che anche Pier Silvio Berlusconi frequentava.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Come no, come no, io sono stato ospite di Pier Silvio. Frequentava la signora Berghella per la pranoterapia, ma anche la sua all’epoca compagna che era, come si chiama?

GIORGIO MOTTOLA La Toffanin.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY La Toffanin, eh, la Toffanin, certo che frequentava tanto la signora Berghella.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO C’è un altro elemento che accomuna Pezzi e il suo ex General manager. Vale a dire Tim, l’azienda in cui, come abbiamo raccontato nella stessa puntata, l’ex VJ di Mtv, oltre ad avere contratti da milioni di euro, esercita anche una enorme influenza grazie al ruolo di consulente di Vivendi, il primo azionista della società telefonica. E anche Salvatore Passaro, quando smette di lavorare per The Outplay di Andrea Pezzi, è alle porte di Tim che va a bussare.

GIORGIO MOTTOLA Dopo tu hai mai lavorato per Tim?

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY No.

GIORGIO MOTTOLA Neanche in modo…

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Si, dopo. Ma… ti dico, nel 2020, 2019… Quindi Andrea non lo…

GIORGIO MOTTOLA Non lo vedevi più.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo l’esperienza con Pezzi, Passaro si mette in proprio con la sua 013 Industries e prova a entrare nel settore delle telecomunicazioni. Nel 2020 assume consulenti di peso come Giuliano Tavaroli, ex capo della security di Telecom all’epoca di Tronchetti Provera che ha patteggiato una condanna a quattro anni e mezzo per dossieraggio. Alla fine, Passaro riesce a piazzare un progetto con Tim che gli vale un contratto da 50mila euro ancora in corso, pagato da un fornitore storico dell’azienda telefonica.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Ho presentato all’epoca… i miei consulenti lo presentarono all’epoca. E poi da lì è andata, ci furono le gare.

GIORGIO MOTTOLA È andata in buca quella prima volta?

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY E non si dice è andata in buca.

GIORGIO MOTTOLA Sei riuscito a…

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Si dice in un’altra maniera.

GIORGIO MOTTOLA È stato approvato il tuo progetto.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY No, è andato in gara.

GIORGIO MOTTOLA È andato in gara, ok.

SALVATORE PASSARO - EX GENERAL MANAGER THE OUTPLAY Attenzione: il progetto è stato scelto dall’azienda, l’azienda ha messo a gara alcune imprese per farlo. Io a quel punto ero, non c’entravo niente. Quindi son diventato consulente di un gruppo di aziende che hanno partecipato alla gara e questo era normale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, Salvatore Passaro, ex giovane promessa del partito Repubblicano, ex pupillo di Giovanni Spadolini, ex cantante nome in arte Erz, ad un certo punto entra in un circolo dal sapore esoterico, fondato da una sedicente pranoterapeuta, Giulia Berghella, in arte Maga Clelia, secondo gli adepti però sarebbe una vera e propria setta, che era frequentata da divi dello spettacolo e dall’alta borghesia milanese. C’era anche Michelle Hunziker, con la quale Passaro ha una breve relazione, riesce anche a farsi donare, ad un certo punto, la società che aveva fondato, la Tuenda, che gestiva la scuderia, era una sorta di scuderia di divi dello spettacolo, di personaggi dello spettacolo e lavorava prevalentemente con Mediaset. La cosa gli sarebbe venuta anche facile, perché secondo alcune testimonianze a frequentare il circolo della Maga Clelia c’era anche Piersilvio Berlusconi che ci scrive e ci dice: che è vero che ha conosciuto la signora Berghella nel 2001 attraverso un agente dello spettacolo Che ci sono stati successivamente degli incontri casuali ma con questa signora Berghella lui non ha mai intrattenuto rapporti né economici né commerciali. Né ha mai partecipato a sedute di pranoterapia. Poi dice di aver conosciuto anche Passaro perché l’ha conosciuto come compagno della signora Berghella e anche come manager di questa agenzia, la Tuenda. E quindi è probabile che poi avesse lavorato con Rti, per appunto contratti riguardanti la produzione. Poi però dice, non li ho più visti. Ecco ed effettivamente Passaro e la Maga Clelia sono spariti dai radar per 15 anni. Passaro poi lo ritroviamo improvvisamente su un palco, a sponsorizzare le qualità di una società, la società è The Outplay è di Andrea Pezzi, Passaro è diventato un manager di questa società e poi ad un certo punto lo troveremo poi anche in Tim, a fare affari, perché ha presentato un progetto da circa 20 milioni di euro riguardante l'efficientamento delle sedi Tim, l'efficientamento energetico, e ha anche assunto come consulente un ever green, Giuliano Tavaroli, responsabile della security Tim di Tronchetti Provera. Ed è stata una scelta vincente in base anche al contratto che abbiamo potuto consultare, che lo riguarda, perché Passaro continuerà ad incassare delle percentuali dal tre al cinque per cento per ogni contratto che verrà realizzato per portare a termine quel progetto sull’efficientamento energetico delle sedi di Tim. Poi abbiamo anche scoperto un altro contratto che riguarda però questa volta Pezzi, ci aveva detto di non aver avuto benefici dall’accordo Tim-Dazn sulla trasmissione del campionato di calcio on stream. Insomma, non è proprio così.

GIORGIO MOTTOLA Lei è a conoscenza di anomalie rispetto alla gestione di questo accordo?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Non particolari, non più di quanto forse non sappia lei.

GIORGIO MOTTOLA Andrea Pezzi ci dice di non aver guadagnato nulla dall’accordo tra Tim e Dazn.

EX DIRIGENTE TIM Guardi, non è così. Voi avete mostrato l’altra volta un contratto di Pezzi da 5 milioni di euro l’anno ma ce n’è un altro invece che gli è stato fatto dopo l’alleanza tra Tim e Dazn.

GIORGIO MOTTOLA Però questo contratto che c’entra con l’accordo tra Tim e Dazn?

EX DIRIGENTE TIM La risposta si trova in un accordo di distribuzione da 15 milioni di euro che Tim e Dazn sottoscrivono dopo l’intesa sulla serie A.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Report è in grado di mostrarvi in esclusiva l’accordo di distribuzione tra Tim e Dazn collaterale all’intesa sulla serie A. In questa scrittura privata, Dazn si impegna a concedere gratuitamente a Tim spazi pubblicitari sulla propria piattaforma pari a 15 milioni di euro. Vale a dire che prima e dopo le partite, la società telefonica potrà mandare in onda i propri spot senza dover pagare. La dirigenza di Tim impone però una clausola particolare: la gestione di questi spazi gratuiti dovrà avvenire attraverso una terza parte, un’agenzia media da loro indicata.

EX DIRIGENTE TIM Ovviamente la società in questione è quella di Pezzi.

GIORGIO MOTTOLA Se anche fosse vero cosa ci sarebbe di strano?

EX DIRIGENTE TIM Pezzi aveva già un contratto per gestire la pubblicità online di Tim, perché farne un altro apposito per Dazn, che tra l’altro aveva già dato mandato alla sua concessionaria Publitalia di redigere un piano per gli spot di Tim?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dazn si affida alla sua agenzia media, vale a dire Publitalia del gruppo Fininvest che, come potete vedere, aveva già presentato questo piano per gli spot di Tim. Tuttavia l’azienda telefonica chiede di inserire nell’accordo la Mint di Andrea Pezzi, che - come dimostra questo documento inedito - pianifica quattro mesi di spot per un valore di tre milioni e 600mila euro. Ma nonostante Dazn li abbia offerti in omaggio, sulla programmazione di questi spot Pezzi incassa una percentuale dell’otto per cento, vale a dire 291mila euro. E stessa percentuale viene applicata anche per la restante pubblicità di Tim andata in onda gratuitamente sulla piattaforma. Si tratta di soldi che si aggiungono al contratto da cinque milioni di euro che ogni anno Tim versa a Pezzi per gestire la pubblicità online.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE E’ un cliente Tim che ha una redditività per noi della metà circa rispetto agli altri clienti.

GIORGIO MOTTOLA Cioè, non ci guadagna tanto con Tim?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE No, non voglio dire che non ci guadagno tanto. Dico che ci guadagno meno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il vero architetto dell’accordo tra Tim e Dazn che porta alla serie A una dote di due miliardi e mezzo di euro per tre anni è Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega Calcio. È lui che fa le trattative e gestisce la gara per l’assegnazione dei diritti. Prima di approdare in Lega De Siervo è stato un importante dirigente della Rai, poi passato a Infront, la multinazionale che gestisce i diritti sportivi, dove lavorava anche Andrea Pezzi.

LUIGI DE SIERVO - AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA SERIE A Conosco Andrea da oltre vent’anni, è una persona diciamo del nostro mondo, è una persona che conosco, che stimo.

GIORGIO MOTTOLA Lei lo ha mai incontrato per parlare di diritti e del ruolo di Tim?

LUIGI DE SIERVO - AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA SERIE A Mai, mai.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Luigi De Siervo e Andrea Pezzi sarebbero coinvolti in una curiosa triangolazione che vede al centro un progetto denominato Apogeo, e che punta a ottenere la manutenzione e il potenziamento di un software creato da Tim per il monitoraggio del segnale radio delle sue antenne. Nei mesi che precedono l’accordo tra Tim e Dazn, il piano viene presentato ai vertici dell’azienda da un amico di Luigi De Siervo, Raffaello Polchi, proprietario di questo locale molto alla moda di Milano: Officina. La sua azienda di famiglia fattura poco più di mezzo milione di euro all’anno con piccoli appalti nelle telecomunicazioni. E per fare il salto di qualità Polchi si sarebbe rivolto all’amministratore delegato della Lega Calcio.

EX DIRIGENTE TIM Raffaello Polchi chiede aiuto a De Siervo per spingere il suo progetto su Apogeo. Guardi, c’è anche una mail, mandata in copia nascosta a un dirigente di Tim, che Polchi poi manda a De Siervo e scrive: “se si convincessero Nardello e Gubitosi - vale a dire l’amministratore delegato di Tim dell’epoca e il suo numero due - avremmo l’opportunità di sviluppare una significativa attività commerciale”. Non solo, alla mail inviata a De Siervo, Polchi allega anche il progetto con tutti i dettagli che, voglio dire, non è proprio robetta, stiamo parlando di un piano da 20 milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccolo il progetto Apogeo che l’amico di De Siervo presenta a Tim: 20 milioni di euro per migliorare la capacità di geolocalizzazione delle antenne di Tim. Luigi De Siervo non ha accettato la nostra richiesta di intervista ma in una nota scritta dai suoi avvocati specifica di non aver mai ricevuto la summenzionata mail né tantomeno i dettagli del progetto.

GIORGIO MOTTOLA Raffaello Polchi?

RAFFAELLO POLCHI - IMPRENDITORE Sì. GIORGIO MOTTOLA Salve, sono Giorgio Mottola di Report, Rai3.

RAFFAELLO POLCHI - IMPRENDITORE Sì. GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle se ha mai presentato dei progetti in Tim insieme a Luigi De Siervo.

RAFFAELLO POLCHI - IMPRENDITORE Sì, nel senso che ho avuto modo di… De Siervo è un mio amico. E gli ho detto: magari mi puoi presentare a qualcuno un po’ più in alto perché i miei rapporti sono più in basso e io non conosco più di tanto le persone più in alto e lui mi presentò a dei dirigenti di Telecom.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da quanto abbiamo ricostruito, De Siervo avrebbe messo in contatto Polchi con un dirigente apicale di Tim e soprattutto con Andrea Pezzi, grazie al quale l’amico dell’ad della Lega calcio sarebbe riuscito ad arrivare a Pietro Labriola, attuale capo di Tim, all’epoca alla guida di Tim Brasile. Nella nota inviataci, De Siervo nega di aver presentato Pezzi o dirigenti di Tim a Polchi e specifica di essersi limitato al massimo a girargli qualche numero di telefono.

RAFFAELLO POLCHI - IMPRENDITORE De Siervo mi presentò soltanto quello che era il numero due di Telecom Italia che era Nardello. GIORGIO MOTTOLA Ma De Siervo le presenta anche Andrea Pezzi?

RAFFELLO POLCHI - IMPRENDITORE Sì, mi aveva presentato anche Andrea Pezzi. Lo stesso Andrea Pezzi comunque anche lui mi disse che poteva eventualmente aiutarmi anche lui presentandomi a Labriola in Brasile.

GIORGIO MOTTOLA Lei incontra Labriola a casa di Pezzi?

RAFFELLO POLCHI - IMPRENDITORE Esattamente, una volta l’ho incontrato a casa di Pezzi, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E anche Andrea Pezzi ci conferma di aver assecondato la richiesta di De Siervo, presentando Polchi in Tim, specificando tuttavia di averlo fatto prima del 2021, vale a dire quando non era ancora consulente di Vivendi. Pezzi ci conferma inoltre di averlo messo in contatto con Pietro Labriola, l’attuale ad di Tim, che subito avvia interlocuzioni dirette e personali con Polchi. Circostanza che dunque conferma la forte influenza di Andrea Pezzi all’interno di Tim che l’interessato aveva negato in modo perentorio durante la nostra intervista.

GIORGIO MOTTOLA Ci raccontano che lei è un po’ una sorta di eminenza grigia di Tim.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Escludo categoricamente. Mitomani. Io non ho… non so come dire… è proprio totale, totale… fantasia di chi… Io non sono un’eminenza grigia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il 7 maggio del 2021, il progetto di Polchi ottiene un primo stanziamento da 718mila euro. Beneficiaria è la Scai Group, un’azienda indicata da Polchi di cui però l’imprenditore non né socio né dipendente.

GIORGIO MOTTOLA Come mai la beneficiaria del finanziamento di Tim alla fine è Scai Group, una società che non ha niente a che fare con lei e sembra quasi uno schermo che frappone affinché non si risalga a lei?

RAFFELLO POLCHI - IMPRENDITORE Perché in realtà la mia società è una società piccola e che non è qualificata in Telecom Italia e quindi non ha neanche la struttura per fare, diciamo, l’attività e la gestione finanziaria, perciò alla fine io sono un canale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma il progetto Apogeo si incaglia a causa di alcuni dirigenti di Tim, che vogliono vederci più chiaro. Alla fine, vengono versati solo 205mila euro alla ditta vicina a Polchi che infatti sarebbe poi tornato alla carica con De Siervo chiedendo un suo intervento.

EX DIRIGENTE TIM Alla fine del 2021 Polchi torna da De Siervo e gli dice: Andrea mi offre rassicurazioni, ma Apogeo in Tim sta sollevando troppa polvere, è il caso di cambiare nome al progetto. Cosa che in effetti avviene, anche se poi il risultato non cambia.

GIORGIO MOTTOLA Mi risulta che poi lei a novembre riscriva a De Siervo e gli dica: Apogeo in Tim sta sollevando un polverone. Ma perché si rivolge di nuovo a De Siervo e soprattutto perché Andrea Pezzi le offriva delle rassicurazioni?

RAFFELLO POLCHI - IMPRENDITORE Perché in realtà io, diciamo la cosa passò in mano a Siragusa che invece… bloccò tutto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Stefano Siragusa, manager molto vicino all’Opus dei e ambasciatore dell’Ordine di Malta, era l’allora direttore commerciale di Tim. Sua è la firma sotto al primo stanziamento da 718mila euro. Poi però, stando al racconto di Polchi, avrebbe cambiato idea.

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sul progetto Apogeo.

STEFANO SIRAGUSA – CAPO DELL’INFRASTRUTTURA DI TIM 2018-2022 Io la ringrazio molto, se ha avuto il mio numero lei sa che ho un patto di riservatezza. La ringrazio per questo.

GIORGIO MOTTOLA Volevo solo chiederle perché inizialmente approva e poi blocca il progetto.

STEFANO SIRAGUSA – CAPO DELL’INFRASTRUTTURA DI TIM La ringrazio per aiutarmi a rispettare il patto di riservatezza, lei è molto gentile in questo.

GIORGIO MOTTOLA Sì, però non aiuta me a ricostruire i fatti, in questo modo.

STEFANO SIRAGUSA – CAPO DELL’INFRASTRUTTURA DI TIM La ringrazio molto, ho un patto di riservatezza. Mi trova in un momento molto complesso perché sto cambiando il pannolino al mio bambino, devo chiudere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO ha realizzato piccoli appalti per Tim, ora vuole fare un salto di qualità, vuole presentare Stefano Siragusa lo lasciamo cambiare il pannolino al figlio, è un bel gesto da padre anche per le pari opportunità. Poi però si appella al patto di riservatezza siglato con l’azienda, e non ci spiega perché di un progetto da 20 milioni di euro, Apogeo, stanzia prima 718 mila euro e finisce con il pagare solo una rata da 205 euro e poi nulla. Ora noi non ci vediamo assolutamente nulla di illegale in questa operazione, possiamo solo sollevare delle questioni di opportunità. Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega Calcio, ha condotto una lunga trattativa per la cessione dei diritti del calcio, della trasmissione delle partite del campionato di calcio con Dazn e Tim. Ad un certo punto, Tim che è anche poi sponsor del campionato, ad un certo punto presenta un imprenditore, che ha un progetto, suo amico ai dirigenti di Tim: è Raffaello Polchi che gestisce un bar, è proprietario, di un bar “Officina” a Milano di tendenza ma ha anche una società di famiglia con la quale ha realizzato piccolo appalti per Tim. Ora vuole fare un salto di qualità, vuole presentare un progetto per la geolocalizzazione di nome Apogeo, del valore di 20 milioni di euro. Poi chiede a De Siervo una mano per essere introddotto in Tim. De Siervo dice ma io ho dato solamente dei numeri telefonici. Polchi invece dice no mi sono stati presentati materialmente i dirigenti, dice anche di aver informato continuamente De Siervo sull’evolversi del suo progetto Apogeo che aveva sollevato un polverone in Tim, al punto da essere costretto a cambiare nome. Lo avrebbe informato attraverso delle email, che sono state lette dai dirigenti Tim, ma che De Siervo dice di non aver mai ricevuto e comunque di non aver mai letto. De Siervo dice: io comunque sono estraneo ad ogni interesse intorno a questo progetto. Polchi dice anche che De Siervo gli avrebbe presentato Andrea Pezzi, per introdurlo a Labriola, Pezzi non esclude di averlo fatto, Labriola dice io non ho mai incontrato Polchi mi ricordo che nel 2020, di aver ricevuto una email dove ci veniva segnalato il progetto Apogeo, pensavamo anche di utilizzarlo per Tim Brasile poi abbiamo optato per delle soluzioni più di qualità e anche più economiche. Ora in questa girandola di conferme smentite e diffide, alla fine che cosa succede che Polchi riceve un bonifico di 205 mila euro, e qui c’è l’altra anomalia perché non gli viene pagata sulla sua società di famiglia ma su un’altra società la Scai. Poi alla fine della partita, di tutta questa storia, emerge comunque il peso di Andrea Pezzi, l’ex veejay, che al di là del contratto di esclusiva di 25 milioni di euro per la pubblicità on line in cinque anni, rinnovabili per altri cinque, riesce a incassare centinaia di migliaia di euro, quando a Tim vengono offerti dei pacchetti gratuiti di spot. Poi c’è un altro contratto che finisce sotto invece la lente dell’audit, questa volta riguarda i modem.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nello stesso periodo, viene avviata in Tim un’altra operazione che finirà sotto i riflettori. Nel 2020, in seguito alla pandemia e in vista del possibile accordo sul calcio, l’azienda telefonica fa incetta di modem e riempie i magazzini. Nel settembre dello stesso anno stipula un contratto con Gruppo Distribuzione, un suo fornitore storico che gestisce i call center. In base all’accordo, Tim vende a Gruppo Distribuzione 600mila modem per oltre 100 milioni di euro. Ma subito dopo, nell’arco di pochi mesi, in varie tranche, tutti e 600mila i modem tornano a Tim.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Questo contratto prevede che Tim potesse vendere a Gruppo Distribuzione 600mila modem per poi riacquistarli contabilmente e con fattura nel momento in cui andava a venderli al consumatore finale. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In un audit riservato di Tim, gli ispettori interni hanno marchiato con il bollino rosso l’intera operazione, considerandola anomala. Secondo quanto si ricostruisce nel report aziendale, la compravendita avveniva infatti senza alcun onere a carico di Gruppo Distribuzione dal momento che Tim si impegnava a ricomprare i modem divenuti obsoleti. Inoltre, i modem comprati e poi rivenduti secondo gli ispettori non si sarebbero mai mossi da questo magazzino nella periferia di Roma in cui Tim li teneva stoccati. Per le spese di deposito a Gruppo Distribuzione vengono riconosciuti 250mila euro.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Questa merce non si muoveva dai magazzini.

GIORGIO MOTTOLA Cioè, rimaneva ferma sempre nello stesso magazzino?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Rimaneva ferma in Tim. È un giro di fatture.

GIORGIO MOTTOLA È un’operazione puramente contabile?

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO È un’operazione contabile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie all’operazione contabile, i 600mila modem venduti a Gruppo Distribuzione sono stati inseriti da Tim nei propri bilanci trimestrali come ricavi, presentandosi in questo modo al mercato con risultati meno negativi del previsto per alcuni trimestri tra il 2020 e il 2021. Per questa ragione, nonostante i dati siano stati corretti a fine 2021, il giudizio degli ispettori di Tim è pesantissimo: sostengono, infatti, che le analisi hanno evidenziato significative criticità nel rispetto delle procedure interne e dei principi contabili.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Questo è gravissimo. È gravissimo perché Tim è una società quotata, non dimentichiamolo. È una società sottoposta anche all’interesse del governo. Il problema concettuale è che queste cose in una società quotata non possono succedere e sono successe.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da quasi vent’anni Gruppo Distribuzione si occupa dei call center per conto di Tim. Insieme alle aziende collegate, Distribuzione Italia, Youtility e Callmat fatturano ogni anno circa 140 milioni di euro, che provengono per il 70 per cento da Tim. La proprietà del gruppo è al 99 per cento di Michele Deledda, sponsor di una scuderia di Formula 3, e all’un per cento di Fernando Giustini, proprietario di una pompa di metano a Roma. GIORGIO MOTTOLA Siamo venuti per incontrare Michele Deledda?

DIPENDENTE GRUPPO DISTRIBUZIONE Chi posso dire?

GIORGIO MOTTOLA Giorgio Mottola.

DIPENDENTE GRUPPO DISTRIBUZIONE Aspetti che proviamo a sentire se ci risponde…. Nella giornata di oggi sono sicuro che era in Telecom per delle cose che stiamo facendo insieme, quindi sicuramente non tornerà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Proviamo anche in altre sedi e al telefono ma non riusciamo a parlare con Deledda, né a spiegare perché lo cerchiamo. Il giorno dopo però ci arriva da Gruppo Distribuzione una lettera molto strana, con cui veniamo diffidati a non accostare l’azienda alla questione Dazn. Questione a cui in realtà non avevamo mai accennato.

GIORGIO MOTTOLA Nella lettera che ci avete inviato, ci diffidate ad accostare Gruppo Distribuzione a Dazn, ma io questo accostamento non l’ho mai fatto.

FERNANDO GIUSTINI – IMPRENDITORE Non lo so, francamente non so, non l’ho vista per cui non…

GIORGIO MOTTOLA E le dirò, non ci avevo neanche mai pensato.

FERNANDO GIUSTINI – IMPRENDITORE L’abbiamo messa sulla buona strada.

GIORGIO MOTTOLA Esatto, mi avete dato un suggerimento di inchiesta…

FERNANDO GIUSTINI – IMPRENDITORE Esatto, non male.

 GIORGIO MOTTOLA Ma che collegamento c’è tra l’operazione dei modem e l’accordo tra Tim e Dazn?

FERNANDO GIUSTINI – IMPRENDITORE Ha ricevuto una comunicazione e la prego veramente di attenersi a quella perché stiamo già subendo dei danni giganteschi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi prendiamo spunto dalla diffida e cominciamo a indagare. Scopriamo così che il 23 marzo del 2021, vale a dire tre giorni prima dell’ufficializzazione dell’accordo tra Tim e Dazn, Michele Deledda chiede a Tim una modifica al contratto sulla compravendita dei modem. Fino a quel momento, Gruppo Distribuzione comprava da Tim ogni modem a 196 euro e glielo rivendeva alla stessa cifra. Ma dopo l’accordo tra Tim e Dazn, riesce a ottenere un extrabonus di 25 euro per ogni modem rivenduto. E così, stando ai numeri citati nell’audit, in pochi mesi, grazie all’extra bonus approvato da Tim, tra aprile e dicembre, Gruppo Distribuzione riesce a incassare con l’operazione dei modem 2 milioni e 900mila euro senza aver avuto alcun onore o rischio di impresa, stando alla denuncia degli ispettori dell’azienda telefonica.

GIAN GAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Questa è un’operazione che certamente sarebbe da esplorare adeguatamente, non tanto sotto il profilo degli impatti sul bilancio ma quanto sotto il profilo del motivo per cui si fanno queste operazioni e dell’esistenza di queste operazioni che vengono contabilizzate in una società quotata.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gruppo Distribuzione ci scrive che è estranea al contratto tra Tim-Dazn, il contratto dei modem parte un anno prima per supportare la richiesta crescente di banda larga causata anche dalla pandemia. L’incarico è stato affidato attraverso una gara con altri partner, per la capacità di Gruppo distribuzione di vendere questi servizi. È stato stipulato un contratto che ha previsto la vendita di 230 mila modem, in tre anni. Gruppo distribuzione nega di aver ricevuto 250 mila euro per il deposito dei modem in magazzino, così come è scritto nell’audit. E specifica che i modem venduti sono stati rimborsati a Gruppo Distribuzione da Tim perché doveva farli scontare ai clienti in bolletta. Finita poi pandemia è diminuita la richiesta di modem, e Tim ha annullato nuove richieste. Gruppo distribuzione ci scrive che da contratto non c’era l’obbligo di riacquisto da parte di Tim dei modem invenduti o obsoleti. Secondo gli ispettori dell’audit, c’era questo obbligo. Infine, sul tema dell’extra bonus di 25 euro a modem, si tratta di un incentivo unilateralmente deciso da Tim, introdotto nel 2021 proprio per stimolare le vendite. Ora poi invece vediamo tra un minuto a cosa sono costretti i dipendenti Tim.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora da 12 anni Tim impone il regime di solidarietà a decine di migliaia di dipendenti che significa un taglio di 2-300 euro netti al mese dallo stipendio. È dal 1997, da quando è iniziata la privatizzazione, che i dipendenti sono stati falcidiati, dimezzati. Il peccato originale è che si è scelto il modello di privatizzazione sbagliato. Nel caso di altre aziende strategiche come Eni ed Enel, lo Stato ha mantenuto il 30 percento della partecipazione, qui invece per Telecom il controllo è stato completamente abbandonato in mano a degli imprenditori che si sono rivelati completamente inadeguati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi 25 anni il numero dei dipendenti di Telecom è stato tagliato di quasi il 70 per cento. Se nel 1997 i lavoratori dell’azienda di Stato erano 120 mila oggi ammontano a meno di 40 mila e per i più fortunati, che non sono stati esternalizzati o licenziati, le condizioni contrattuali subite non sono state delle migliori.

GIORGIO MOTTOLA Quali sono state le condizioni contrattuali a cui sono stati sottoposti i lavoratori Telecom?

DORIANO LOCATELLI - EX DIPENDENTE TIM Mediamente il contratto di solidarietà diciamo che ha prodotto una perdita di salario dell’ordine del 20, 30 per cento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per pagare gli stipendi ai propri dipendenti Tim ha chiesto aiuto allo Stato, imponendo all’interno dell’azienda i contratti di espansione, anche detti di solidarietà, che hanno comportato una decurtazione media dei salari tra i 200 e i 300 euro al mese.

SONIA MIANO - DIPENDENTE TIM Io sto sotto i 2000 euro, 1900.

GIORGIO MOTTOLA Voi siete in solidarietà da quanti anni?

SONIA MIANO - DIPENDENTE TIM Io da 12 anni, poi dipende dal settore.

GIORGIO MOTTOLA Che vuol dire lavorare in solidarietà?

SONIA MIANO - DIPENDENTE TIM Eh… La cosa triste è che ci siamo abituati perché 12 anni sono tanti. Vuol dire che la carriera si ferma perché ci sono pochi soldi, quindi non è possibile dare più di tanto premi, promozioni, una tantum…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma nonostante l’esternalizzazione, i tagli dello stipendio e il blocco delle carriere, la maggior parte dei lavoratori di Tim continua a nutrire un senso di fierezza per il proprio lavoro.

SONIA MIANO - DIPENDENTE TIM Io sì, sì, sono orgogliosa di lavorare in Tim e quello che faccio mi piace. Mi piace, lo faccio ancora con entusiasmo. Nonostante tutto però. Credo ancora tanto in questa azienda, credo che sia un’azienda che può continuare a fare bene per il Paese e che può continuare a crescere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO C’è stato un tempo in cui non solo i dipendenti ma tutto il Paese era profondamente orgoglioso di ciò che rappresentava Telecom.

VITO GAMBERALE – AMMINISTRATORE DELEGATO TELECOM 1995-1997 Era il riferimento di Bill Gates che ci veniva a trovare una volta l’anno a prendere spunto da quello che facevamo per potere sviluppare i servizi che poi ha sviluppato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Vito Gamberale è il primo amministratore delegato di Telecom Italia, l’azienda statale nata nel ‘95 dalle ceneri della vecchia Sip. All’epoca era la sesta compagnia telefonica più ricca del mondo che alla fine degli anni Novanta arriva ad essere presente in 30 stati tra Europa e Sudamerica. Una società solidissima che incassa alti fatturati e riconoscimenti internazionali, come il premio per l’azienda più innovativa del mondo, vinto per avere introdotto in Italia la carta prepagata nel 1995.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1996-1998 Telecom era fantastica allora.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma sebbene fosse fantastica, nel 1997 il governo Prodi decide di privatizzarla, nella convinzione che il grosso delle azioni sarebbe stata comprato da aziende italiane. Sarà il nocciolo duro della nuova Telecom, annuncia il governo. Ma il nocciolo si rivela presto un nocciolino. Non va infatti oltre il 6,6 per cento la quota che si limita ad acquisire una cordata di istituti finanziari di cui fa parte l’Ifil, la cassaforte della famiglia Agnelli che con appena lo 0,6 per cento diventa l’azionista di riferimento di Telecom.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1996-1998 Io volevo un blocco degli italiani grossi, antipatici o simpatici, perché il telefono volevo che rimanesse in Italia. Io dovetti insistere mi ricordo con Umberto Agnelli, dicendo ma è un interesse dell’Italia, io devo privatizzare, è un interesse vostro. Non hanno capito niente. Appena sono arrivati han venduto, guadagnando o addirittura hanno spolpato vendendo gli edifici.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Telecom gli Agnelli restano per soli due anni. Ma fanno in tempo ad avviare la svendita del patrimonio immobiliare dell’azienda. Dopo di che gli Agnelli escono dall’azionariato, vendono le proprie quote incassando una plusvalenza da 204 milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Sono state sbagliate secondo lei le modalità con cui si è proceduti alla privatizzazione di Telecom? MASSIMO D’ALEMA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1998-2000 Sicuramente il risultato della privatizzazione non fu brillante. La famiglia Agnelli sostanzialmente ne deteneva il controllo avendo preso lo 0,6 per cento delle azioni. Fu un po’ la pretesa di una sorta di aristocrazia del capitalismo italiano di fare i padroni senza metterci i soldi.

GIORGIO MOTTOLA E come mai un’azienda modello come quella poi è finita in mano a degli speculatori, sostanzialmente, che l’hanno spolpata e basta?

 ROMANO PRODI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1996-1998 Lei può dare la colpa anche a me. Nel senso che io ho cercato dei compratori più affidabili che ci fossero e loro…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 1999 gli Agnelli liquidano le loro quote a una cordata capeggiata da Roberto Colaninno, amministratore delegato di Olivetti. La scalata riceve la benedizione del presidente del consiglio Massimo D’Alema, che in un discorso pubblico esalta il coraggio di Colaninno e dei suoi soci.

MASSIMO D’ALEMA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1998-2000 No, io dissi, mi limitai a dire, siccome sembrava uno scandalo, dico ci sono degli imprenditori hanno il coraggio di scommettere sul futuro di questa azienda e ci mettono dei soldi. Ci fu una valutazione molto attenta e decidemmo di mantenere una posizione di neutralità.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca questa neutralità voleva dire sostanzialmente dare il via libera all’opa, no?

MASSIMO D’ALEMA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1998-2000 Vorrei capire qual era l’alternativa, diciamo. Che dovevamo rinazionalizzarla? Il via libera lo dette il mercato e la gente aderì all’opa, non fu una decisione di governo.

VITO GAMBERALE – AMMINISTRATORE DELEGATO TELECOM 1995-1997 Erano dei quisque de populo. Erano validi imprenditori che avevano avuto un dignitoso sviluppo nel loro ambito territoriale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E infatti per la scalata a Colaninno mancavano i soldi. Anche perché la sua Olivetti era quattro volte più piccola di Telecom. E così l’opa, che vedeva la regia occulta di Mediobanca di Enrico Cuccia, viene realizzata quasi del tutto a debito. Vale a dire che i soldi usati per fare la scalata vengono quasi tutti chiesti in prestito alle banche, che però non si rifanno su Colaninno ma direttamente su Telecom. E così, durante la sua gestione, il debito dell’azienda telefonica passa da otto miliardi a 22 miliardi. Il Financial Times definisce l’operazione una rapina in pieno giorno.

VITO GAMBERALE – AMMINISTRATORE DELEGATO TELECOM 1995-1997 Telecom, che aveva un indebitamento bassissimo, si trovò ad essere gravata da un debito non di natura industriale. Ecco, fu introdotto un debito cattivo che è come avere insinuato nel corpo di Telecom un germe di cui poi non si sarebbe mai potuto riuscire a trovare l’antidoto, il vaccino.

GIORGIO MOTTOLA Sapevate che la scalata sarebbe stata fatta quasi esclusivamente a debito, insomma, e che i debiti poi sarebbero ricaduti sull’azienda.

MASSIMO D’ALEMA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1998-2000 Questo era il problema di quell’operazione per la quale noi chiedemmo, diciamo, quali programmi ci fossero. Ma ripeto, dal punto di vista del piano industriale, l’operazione era credibile. E questa era anche l’opinione di Mediobanca.

GIORGIO MOTTOLA Molti hanno sostenuto che lei appoggia questa scalata di Colaninno, anche perché viene appoggiata da Mediobanca, perché un po’ il suo obiettivo all’epoca era dimostrare che un ex comunista sapesse stare, ecco, nei salotti buoni della finanza italiana.

MASSIMO D’ALEMA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 1998-2000 Uno può scrivere quello che vuole perché siamo in un paese libero nel quale c’è anche un certo numero di cretini, quindi è giusto che ognuno si esprima, diciamo. Ma in quella vicenda io mi misi contro la famiglia Agnelli che non è precisamente una scelta a favore dell’establishment, no?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2001 al governo arriva Silvio Berlusconi e in Telecom è il turno di Marco Tronchetti Provera, patron della Pirelli. Anche la sua scalata è fatta contraendo debiti che esplodono però soprattutto dopo la fusione di Telecom con la sua partecipata Tim. In questo modo l’indebitamento della compagnia telefonica raggiunge la cifra monstre di 39 miliardi di euro.

VITO GAMBERALE – AMMINISTRATORE DELEGATO TELECOM 1995-1997 Ecco il debito è schizzato su. La gestione Tronchetti Provera, secondo me, dal punto di vista strettamente industriale è stata la meno estranea. Poi furono aggiunte delle operazioni finanziarie che non avrebbero portato alcun beneficio nel gruppo ma anzi sarebbero state malefiche, tipo l’opa sul flottante di Tim che incrementò il debito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se nel ‘97 lo Stato piazza le azioni a 6 euro l’una oggi il titolo è crollato, sprofondando a 18 centesimi di euro. All’inizio del secolo aveva filiali in 30 nazioni e oggi è presente solo in Brasile. Ma nonostante i numeri disastrosi, in molti hanno festeggiato. In 25 anni, gli azionisti privati hanno sottratto oltre 60 miliardi di euro all’azienda. E le banche italiane e americane hanno incassato 30 miliardi di euro di interessi sui debiti di Telecom.

 GIORGIO MOTTOLA Guardando in che condizioni si trova oggi Telecom, che sentimenti prova?

VITO GAMBERALE – AMMINISTRATORE DELEGATO TELECOM 1995-1997 Di grande amarezza, perché la storia di Telecom e degli uomini che hanno guidato Telecom è stato un suicidio industriale, un forte suicidio industriale che il Paese si è dato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È la metafora della politica industriale del nostro Paese. La privatizzazione di Telecom è cominciata su ispirazione dell’Europa nel ’97, Prodi ha dovuto fare cassa per centrare l'obiettivo dell’euro, l’obiettivo l’ha centrato, Telecom ne è uscita con le ossa rotte. Prima è passata in mano ad una cordata controllata dagli Agnelli, che con solo il 6% ha detto Prodi ha spolpato Telecom. Poi è passata a Colaninno, che l’ha comprata creando un debito, un debito che sarebbe stato poi ripagato da Telecom. Come ha fatto? Usando il meccanismo del leveraged Buy out: cioè ha creato una società veicolo, ha messo poco capitale di suo, ha chiesto un prestito monstre alle banche e quel debito l’ha infilato nella società con a garanzia Telecom. Si è trovata sulle spalle un fardello mostruoso, il debito da ripagare con la sua stessa capacità di cassa. È in quel momento che è stato inoculato un virus senza un antidoto, perché è stato infilato il debito malato, cattivo, quello non di natura industriale. Ne ha fatto un po’ i conti anche Tronchetti Provera, che ha fatto pure lui ricorso al leveraged buy out, aveva anche buone intenzioni ma poi quando ha fatto la fusione tra la parte sana, Tim, la rete mobile, con quella malata, Telecom, che si portava dietro tutto il fardello del debito creato da Colaninno, il debito è esploso, è arrivato a 26 miliardi di euro. Aveva anche la possibilità di portare avanti un piano industriale, ma poi è successa la catastrofe, è rimasto impigliato nella vicenda giudiziaria, il dossieraggio che ha visto coinvolto il suo capo security, Giuliano Tavaroli. Tronchetti Provera ha venduto a Telco, un consorzio formato da da Mediobanca, Intesa e Generali, che aveva come partner industriale Telefónica, la spagnola, che però era interessata solo agli asset in Sudamerica. E così ha ceduto le sue quote a Vivendi, il Gruppo controllato da Bolloré, che oggi controlla di fatto Tim. Bollorè che è noto per i suoi raid finanziari, fatti con la tecnica del cosiddetto “boa”, così viene definito in Francia, perché indebolisce i suoi avversari, per scalarli, per trarne vantaggio. Il pallino di Bollorè all’inizio della sua scalata era quello di formare un polo di media e telecomunicazioni, in un asse fra Parigi, Roma, Madrid. Per questo da una parte ha strizzato continuamente l’occhio a Telefonica, dall’altro ha tentato nel 2016 la scalata a Mediaset, la tv di Berlusconi. Poi è scoppiata ed è stata siglata la pace, si è concentrato su Tim, con la quale ha condiviso l’acquisizione dei diritti del campionato di calcio. Tim ha cercato di spostare pubblico e abbonati dalla piattaforma satellitare a quello dello streaming, cercando di tutelare i propri abbonati e di sfilarne di nuovi a Sky. Sky poteva uscirne indebolita e a quel punto Vivendi avrebbe potuto tentare la scalata. Solo che anche Tim è uscita con le ossa rotte dall’accordo. L’attuale ad Labriola ha dovuto mettere a bilancio per i prossimi tre anni una Perdita da 500 milioni di euro. E ora per mettere una pezza alla crisi strutturale di Tim, pensa allo scorporo: dalla parte la rete fissa, con i debiti e i costi dei dipendenti, una sorta di bad company. Dall’altra la rete mobile, il cloud e la cybersecurity. E vuole vendere la rete fissa, ipotizza che la acquisti Cdp. Ma a che prezzo? Non certo 30 miliardi di euro. Perché nel ’97 quando lo Stato ha privatizzato Telecom ha incassato 14 miliardi di euro, l’equivalente. Oggi può spendere 30 miliardi solo per la rete? Vedremo come andrà a finire. E poi, soprattutto, qual è il progetto di Bollorè?

FABRIZIO SOLARI - SEGRETARIO NAZIONALE SLC CGIL Il rischio grosso è che la parabola che sta correndo Telecom assomigli molto a quella che ha caratterizzato l’Alitalia. Oggi per Tim siamo ai saldi di fine stagione, all’invenzione di uno spacchettamento per tentare di realizzare qualche prezzo da saldo perché la sopravvivenza è un’altra cosa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il nuovo amministratore delegato Pietro Labriola quest’estate ha approvato un piano per scorporare in due l’azienda: da una parte NetCo, che comprende la rete, e dall’altra ServCo in cui rientra la telefonia mobile, il cloud, Tim Brasile e tutti gli altri servizi. L’obiettivo principale dello scorporo è disfarsi della rete fissa di Tim, vale a dire la metà dell’azienda che comprende la maggior parte dei costi e dei dipendenti attuali.

VITO GAMBERALE – AMMINISTRATORE DELEGATO TELECOM 1995-1997 Io non sono favorevole allo scorporo della rete, non sono favorevole allo scorporo dei servizi da Telecom perché significherebbe la morte finale di Telecom.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei più grandi paesi europei, come la Spagna, la Francia e la Germania, le aziende telefoniche controllate dallo Stato gestiscono sia la rete che i servizi. Lo scorporo è avvenuto solo in piccoli stati come la Danimarca e l’Islanda e ha avuto effetti disastrosi in Inghilterra. La rete è considerata strategica nei principali paesi perché a rischio c’è la sicurezza nazionale.

VITO GAMBERALE – AMMINISTRATORE DELEGATO TELECOM 1995-1997 Ve l’immaginate le reti telefoniche italiane in mano a dei fondi internazionali che chissà che ci possono fare e le informazioni chissà a chi possono essere rivendute o gestite?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino alla scorsa settimana, l’obiettivo principale dello scorporo di Tim era vendere la rete fissa a Cassa Depositi e Prestiti, che l’avrebbe accorpata a Open Fiber, la società a partecipazione statale proprietaria di una quota importante della fibra ottica italiana. La rete di Tim viene valutata da Cassa Depositi e Prestiti intorno ai 15 miliardi di euro, ma Vivendi, il principale azionista della società telefonica, non è disposto ad accettare un’offerta inferiore ai 31 miliardi di euro.

FABRIZIO SOLARI - SEGRETARIO NAZIONALE SLC CGIL Qualcuno mi spieghi dove sta l’arcano. Stiamo discutendo di vendere una rete per fare la rete unica e stanno litigando tra chi dice no vale 20 miliardi, non ne vale 30, e stanno litigando. Oggi con una quotazione di borsa, comprarsi il 100 per cento di Tim ci vogliono quattro miliardi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se Cassa Depositi e Presiti lanciasse una scalata sull’azienda, oggi gravata da quasi 32 miliardi di euro di debiti, acquistare in borsa il 100 per cento delle azioni di Tim costerebbe tra i quattro e i cinque miliardi di euro.

MATTEO MAURIZIO DECINA - ANALISTA FINANZIARIO Cassa Depositi e Prestiti con 2 miliardi fa un’opa parziale con l’aiuto dei fondi su Telecom, diventa il maggior azionista di Telecom, ok, c’ha sì 30 miliardi di debiti lordi ma vende Tim Brasile e Tim Servizi per 20 miliardi e quindi i debiti da 30 passano a 10 lordi e cinque netti. Quindi questa sarebbe l’optimum.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il grande problema per il governo italiano sono i francesi di Vivendi che avevano comprato il 23 per cento di Tim quando il titolo valeva un euro. Ma dopo sette anni, le azioni sono crollate a circa 20 centesimi. Quindi, se ora vendessero la propria quota al prezzo attuale di mercato, l’azienda francese rischierebbe di perderci miliardi di euro.

FABRIZIO SOLARI - SEGRETARIO NAZIONALE SLC CGIL Vivendi è un problema perché non è il padrone di Tim ma ha una massa critica tale da impedire che qualcun altro possa decidere al suo posto.

GIORGIO MOTTOLA Ma qual è la visione industriale che Vivendi ha di Tim?

FABRIZIO SOLARI - SEGRETARIO NAZIONALE SLC CGIL Non ce l’ha.

GIORGIO MOTTOLA Oggi quindi rispetto a Tim, l’obiettivo di Vivendi qual è?

FABRIZIO SOLARI - SEGRETARIO NAZIONALE SLC CGIL Di rientrare il più possibile di quanto ha investito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Vivendi è il colosso europeo dei media che fa riferimento a Vincent Bolloré, il controverso finanziere francese che ha patteggiato lo scorso gennaio una condanna civile per corruzione. In Francia la sua ascesa imprenditoriale si è spesso legata alla carriera di alcuni politici, come ci racconta il suo ex socio Jacque Dupuy-Dauby.

JACQUE DUPUYDAUBY – EX SOCIO VINCENT BOLLORÉ Lui aveva rapporti soprattutto nel centrodestra, negli anni Ottanta era molto amico di alcuni che poi sono diventati ministri.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E i rapporti di Bolloré sono stati particolarmente stretti innanzitutto con Nicolas Sarkozy, che da neoeletto presidente della Francia si fece fotografare a bordo di Paloma, lo yacht del miliardario. Ma ad omaggiare Bolloré presso la sede della sua azienda in Bretagna si sono presentati i presidenti della Repubblica degli ultimi 15 anni, il socialista Francois Hollande ed Emanuel Macron.

NICOLAS VESCOVACCI – GIORNALISTA, EX COLLABORATORE DI CANAL+ Solo che a un certo punto Macron ha favorito un gruppo televisivo concorrente e perciò Bolloré ha spostato Canal+ su posizioni di destra, o estrema destra.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nell’affermazione imprenditoriale di Bolloré ha avuto un ruolo fondamentale l’acquisizione di Vivendi e del suo gioiello Canal+, il gruppo televisivo via cavo più importante della Francia di cui fa parte anche C news, canale gratuito di informazione fondato dal magnate bretone nel 2017 e diventato il braccio politico armato del Gruppo Bolloré.

NICOLAS VESCOVACCI – GIORNALISTA, EX COLLABORATORE DI CANAL+ Gli ospiti sono generalmente opinionisti di estrema destra. La linea editoriale di C News è propagandare contenuti reazionari: si parla in continuazione di immigrati e religione.

DIBATTITO C NEWS I clandestini studiano i piani sanitari dei diversi paesi e poi vanno nello stato che offre l’assistenza sanitaria più generosa.

GIORGIO MOTTOLA È la Fox News francese?

NICOLAS VESCOVACCI – GIORNALISTA, EX COLLABORATORE DI CANAL+ È la Fox News dei poveri perché non ha gli stessi mezzi. C News è l’unica televisione in Francia che dà spazio, tutti i giorni, in ogni trasmissione, a idee di estrema destra. È diventato un canale di opinioni al servizio di un’ideologia. È la prima volta che succede una cosa del genere in Francia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La star di C News è Eric Zemmour, giornalista e polemista, esploso sul canale di Bolloré nel 2019 come opinionista fisso di Face à l’info, il programma serale d’informazione più visto in Francia. Tutte le sere, dal lunedì al giovedì, per tre, anni Eric Zemmour ha utilizzato la televisione di Bolloré come palcoscenico per le sue provocazioni che lo hanno visto condannato per discriminazione razziale e istigazione all’odio razziale.

ERIC ZEMMOUR – FONDATORE DI RECONQUETE E’ necessario che questi giovani immigrati non vengano più in Francia. Tutti. Sono ladri, assassini, stupratori. Bisogna rimpatriarli.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Qualche mese fa Eric Zemmour ha fatto il grande salto. Si è candidato alle presidenziali francesi contro Macron ed è arrivato quarto, raccogliendo un sorprendente otto per cento. Un risultato che lo ha incoraggiato a preparare sin da ora la prossima corsa all’Eliseo del 2027. A sostenerlo c’è il partito da lui fondato lo scorso anno, Reconquête.

SUPPORTER ZEMMOUR Z-E-M-M-O-U-R, Zemmour!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso 10 settembre siamo stati gli unici giornalisti italiani presenti al primo evento nazionale di Reconquête organizzato in Provenza dopo la campagna presidenziale. Sin dalle 10 del mattino scorrono fiumi di birra e gli stand di salami e salsicce rubano la scena ai libri neofascisti esposti in bella mostra poco più in là. Dal momento che le elezioni politiche in Italia sono tra due settimane, il nome di Giorgia Meloni è sulla bocca di tutti.

GIORGIO MOTTOLA Se lei fosse italiano, per chi voterebbe?

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE Beh, senza alcun dubbio per la signora Meloni.

GIORGIO MOTTOLA Quindi condividete gli stessi valori?

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE È il partito più simile a noi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I valori di Reconquête si basano sulla difesa della civiltà e dell’identità francese che, come spiega durante il suo comizio conclusivo Eric Zemmour, va protetta da tre grandi nemici. Il primo è rappresentato dagli immigrati musulmani.

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE Se noi fossimo stati al potere tutte le moschee dei Fratelli musulmani sarebbero state interdette e chiuse. E anche se i paesi arabi si fossero arrabbiati, beh, noi in Francia non abbiamo paura di niente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il secondo nemico è l’ideologia ambientalista.

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE Smettiamola per sempre di costruire questi parchi eolici così brutti e inefficaci, investiamo in modo deciso sull’energia nucleare!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E infine ci sono le femministe.

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE Quando un uomo uccide la sua compagna non si può più parlare di crimine passionale, siamo costretti a chiamarlo femminicidio. L’assassino non uccide più per amore, per speranza, per vendetta, no, uccide per odio nei confronti della donna. Un fatto politico che si chiama femminicidio. Vi invito a non chiamarlo mai più così.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’unica televisione a mandare in diretta il discorso integrale di Zemmour è stata C News di Vincent Bolloré. Il finanziere bretone è da molti considerato la vera eminenza grigia della sua candidatura.

 ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE Bolloré è un amico e un uomo straordinario che al contrario di molti imprenditori ha capito che il nostro Paese è a rischio.

GIORGIO MOTTOLA Si dice che lei sia il candidato del gruppo Bolloré.

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE No, rappresento solo me stesso e i francesi che votano per me.

GIORGIO MOTTOLA Ha finanziato la sua campagna?

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE No.

GIORGIO MOTTOLA Neanche un euro?

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE Neanche un euro.

GIORGIO MOTTOLA Ma ha votato per lei?

ERIC ZEMMOUR - PRESIDENTE DI RECONQUETE Lo spero!

AUDIZIONE AL SENATO FRANCESE PER LA COMMISSIONE D’INCHIESTA SUI MEDIA - 19/01/2022

PARLAMENTARE Voi avete fabbricato un candidato alle elezioni presidenziali.

VINCENT BOLLORÉ – PRESIDENTE GRUPPO BOLLORÉ Mi perdoni, Zemmour pubblicava libri e articoli ben prima di venire a lavorare a C News, le ricordo che collaborava con Le Figaro. Poi quando è arrivato a C News per voi è divenuto un problema. Ma all’epoca nessuno sapeva che sarebbe diventato presidente della Repubblica.

PARLAMENTARE Non lo è ancora diventato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È ottimista Bollorè, crede nelle qualità di Zemmour, si porta avanti con il lavoro, lo immagina già nuovo presidente della Francia nel post Macron. Le parole che abbiamo sentito sono quelle di una audizione della Commissione d'inchiesta sulla concentrazione dei media in Francia che sta valutando una possibile, una eventuale mancanza di pluralismo sulle reti di Bollorè. Bollorè ci ha scritto e ha detto che non è vero che ha finanziato la campagna elettorale di Zemmour, non lo ha mai fatto, né lui né il gruppo Vivendi, e non corrisponde neanche al vero che si sono interrotti i rapporti con l’Eliseo, con Macron, perché non ha appoggiato delle iniziative del gruppo Vivendi. Ora tornando in Italia, Bollorè deve risolvere la grana Tim. È di queste ore la notizia che il fondo americano Kkr vorrebbe presentare un’offerta per l’acquisto della rete fissa, lo valuterebbe però insieme al governo italiano, vorrebbe addirittura essere appoggiato con una società veicolo a controllo statale, insomma vuole comprare la rete fissa con i soldi pubblici. Vedremo se la notizia è reale o serve solo per far alzare la quotazione delle azioni di Tim a beneficio di qualcuno. L’idea di Bollorè l’abbiamo capito è vendere la rete fissa a Cdp. Ma a che prezzo? Non certo a 30 miliardi di euro. Anche perché manca una stima reale, una stima del valore industriale di una rete che rischia di essere già vecchia perché deve ancora completare lo spegnimento delle reti in rame che dovrà avvenire entro 4 anni. Insomma, il pensiero del governo non è certo quello di acquistare solo una parte, solo la rete fissa, ma di tornare a un controllo pubblico dello Stato su Telecom, mantenendo l’unicità della rete. Ma con quante risorse? E poi che cosa farà eventualmente delle risorse provenienti dallo Stato, Bollorè? Sentiamo la mancanza in Italia di un editore come Bollorè?

Report, Andrea Pezzi nel mirino: "Chi e cosa c'è dietro la sua ascesa". Libero Quotidiano il 7 novembre 2022

Report torna su Rai3. Il programma di Sigfrido Ranucci si aprirà mettendo nel mirino Andrea Pezzi, ex conduttore televisivo, ex socio di Silvio Berlusconi e di uno dei finanziatori di Matteo Renzi. A dare ai lettori un suo ritratto, oltre a Ranucci, ci pensa Il Fatto Quotidiano che riporta: "Dopo la collaborazione con Infront, multinazionale dei diritti televisivi, dove ha saldato il rapporto con l'attuale ad della Lega Calcio Luigi De Siervo, oggi Pezzi è l'uomo di fiducia dell'azionista di maggioranza di Tim, Vivendi, e del suo presidente, Arnaud De Puyfontaine, braccio destro del gran capo Vincent Bollorè. Report ha ricostruito il ruolo che avrebbe ricoperto in alcune delicate partite".

Ma non solo, perché Report passa al vaglio il suo fatturato: "Guida una società il cui fatturato è passato nel 2020 da 100mila euro a 54 milioni, di cui 28 arrivano da Tim che gli ha affidato diversi contratti, tra cui l'esclusiva della pubblicità digitale (5 milioni l'anno per 5 anni). In pratica è advisor di Vivendi, ma al contempo fa affari milionari con Tim di cui Vivendi è primo azionista".

L'inchiesta della trasmissione punta i riflettori sull'ascesa di Pezzi, a loro dire "incrociata con alcuni degli uomini vicini a Matteo Renzi. Nel 2015, Vivendi sale oltre il 20% di Tim diventandone primo socio. Il governo Renzi non intralcia l'operazione". Addirittura, "quell'anno, la carriera imprenditoriale di Pezzi svolta. Nella sua Mint, che si occupa di pubblicità digitale, entra Davide Serra, fondatore di Algebris e finanziatore della prima ora di Renzi".

Successivamente l'imprenditore viene incaricato da Vivendi di mediare con Berlusconi con una parcella da 1,5 milioni. Ma Pezzi a chi deve la conoscenza del Cavaliere? "All'amica Deborah Bergamini - si legge -, forzista, sottosegretaria con Draghi e una delle figure chiave di Fininvest negli anni 2000, quando il Biscione investiva nella società di Pezzi "Ovo" attraverso la lussemburghese Trefinance". Finito qui? Neanche per sogno, visto che Ranucci tira in ballo i rapporti con l'ontopsicologia, dottrina inserita nel '98 tra le nascenti sette. "Il guru era l'ex prete francescano Antonio Meneghetti, che Pezzi porta su Rai2 nel 2006 in una puntata del suo programma Tornasole". 

Dagospia il 7 novembre 2022

"La crescita del fatturato di Mint, come per ogni startup, va inserita nella crescita del fatturato del gruppo, che passa da 31 milioni di euro nel 2019 a 43 milioni l'anno successivo (non 54 come avete scritto, purtroppo). È una crescita importante e di cui sono fiero. Ma parlare della sola crescita di Mint non tiene conto dello spostamento di alcune attività da una società all'altra dovuta proprio alle innovazioni tecnologiche apportate da Mint.

Per quanto riguarda il mio ruolo di consulente per Vivendi e di fornitore in Tim è utile sottolineare che per verificare la compatibilità ho chiesto alla Compliance interna di Tim e avuto il loro via libera. Ma, lo ripeto, le mie attività con Tim erano iniziate diversi anni prima tramite un altro fornitore. 

Infine sugli investitori e il loro presunto ruolo nella crescita dell'azienda grazie alle loro eventuali relazioni politiche ci tengo a chiarire che gli investitori citati sono stati soci finanziari senza ruoli operativi e il successo della tecnologia è stato determinato dalla qualità della soluzione  che consente di ottimizzare gli investimenti pubblicitari e risparmiare. Per questo è particolarmente utile soprattutto alle grandi aziende e per questo abbiamo lavorato con grandi player. A tal proposito è utile ricordare che Mint lavora con oltre trenta aziende in tutto il mondo e non solo in Italia".

Dagospia il 9 novembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago, nell'ultima settimana ho accolto con stupore l’attenzione e le notizie - o presunte tali - che sono circolate su di me e sulla mia azienda Mint. Si sono evidentemente cercate connessioni insussistenti rispetto a vicende esterne alle attività prestate a favore di Tim, società di cui siamo fieri fornitori e nel cui unico interesse abbiamo sempre agito.

Confesso innanzitutto di essere rimasto assai sorpreso nel constatare che alcuni organi di informazione fossero in possesso di contratti tra la mia azienda e Tim, soggetti a riservatezza da parte di entrambi i contraenti. Su questo punto mi sono già messo a disposizione del nostro cliente affinché si possa fare chiarezza rispetto ai contenuti diffusi illegalmente e secondo modalità idonee a supportare erronee percezioni da parte degli spettatori e dei lettori.

Ma veniamo ai fatti. Innanzitutto ci tengo ad evidenziare di non aver avuto alcun ruolo nella trattativa che ha portato all'accordo tra Tim e Dazn sui diritti tv del campionato di calcio di Serie A. Si tratta di un tema sul quale non ho mai espresso pareri, né mi è stato mai chiesto di farlo e penso sia chiaro a tutti ormai che dietro questa surreale messa in scena ci siano interessi che vanno ben oltre uno smodato interesse per i contratti siglati dalle mie aziende.

In qualità di amministratore delegato di Mint, penso sia inoltre essenziale chiarire che il rapporto professionale tra la mia azienda e Tim risale al 2016 e che anche il più recente accordo relativo alla gestione del media digitale è precedente di oltre un anno rispetto all’inizio della mia attività personale come advisor di Vivendi. 

Le due attività sono assolutamente compatibili. Il lavoro con Tim, infatti, è stato avviato solo dopo ricevuto dal capo dell’ufficio Compliance di Tim una rassicurazione sul fatto che questa attività fosse compatibile con il lavoro svolto da Mint per Tim.

Chiariamo quindi cosa faccio per Tim in relazione ai contratti di cui si è parlato. A partire dal 2020 il rapporto tra Mint e Tim ha incluso un progetto finalizzato a garantire l'ottimizzazione degli investimenti in pubblicità. Questa attività ci è stata affidata dopo aver superato un severo test del servizio, ottenendo risultati ben oltre le aspettative.

Si è favoleggiato delle cifre.  Anche qui stiamo ai fatti. I contratti di Mint con Tim sono certamente importanti per la mia azienda ma rappresentano solo l’8 per cento del margine operativo lordo sul totale 2021 e il 6 per cento sul totale previsto nel 2022 e mi sorprende il fatto che alcuni abbiano confuso il fatturato con i ricavi e che nessuno sia in grado di capire che il fantomatico balzo dei fatturati è solo un consolidamento fiscale della mia holding che nel 2019 non consolidava i risultati delle società controllate e mentre nel 2020 abbiamo iniziato a farlo. Quindi?

Questa percentuale di incidenza è destinata a decrescere sempre di più, poiché Mint cresce come fatturato ogni anno di quasi il 40 per cento. Un incremento legato anche all’espansione internazionale, che conferma l'innovazione e l'unicità della nostra soluzione tecnologica. 

Quest'ultimo punto è per me l'argomentazione che spegne tutte le polemiche. Mint cresce perché il valore che la nostra tecnologia è in grado di offrire ai nostri clienti è evidente. Non a caso non lavoriamo solo in Italia ma le nostre soluzioni sono scelte da oltre 36 grandi imprese anche all'estero. Non a caso la rivista Business Insider ci ha inserito fra le 9 migliori società di marketing digitale europee da acquisire nel 2023. 

Di questa crescita devo ringraziare le oltre 200 persone che lavorano nel nostro gruppo ed è anche per difendere la loro reputazione che ho ritenuto importante precisare alcuni fatti.

Ti ringrazio per la tua attenzione, Andrea Pezzi Ceo Mint

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 9 novembre 2022.

Incuriosito dallo straordinario ruolo che gli viene attribuito (eminenza grigia di Vivendi e del suo presidente Arnaud De Puyfontaine), ho seguito la puntata di Report di Giorgio Mottola su Andrea Pezzi (Rai3). Lo stile della trasmissione di Sigfrido Ranucci è sempre il solito: molta carne al fuoco, molte interviste con personaggi oscurati, molti inseguimenti per strada, molti punti di domanda.

 La giovane promessa di Mtv aveva tentato la carriera tv anche in Rai, quando in Viale Mazzini ricopriva ruoli importanti Deborah Bergamini (ex consulente per la comunicazione di Berlusconi). Nel 2005 Pezzi conduce Tornasole, un programma culturale molto velleitario. L'anno successivo ospita Antonio Meneghetti, il guru dell'ontopsicologia, un guazzabuglio fideistico di rara amenità: «Individua e descrive i comportamenti del monitor di deflessione e isola l'identità e le caratteristiche dell'unità di azione che specifica l'uomo conforme al progetto di natura: l'In Sé ontico». 

Pezzi è un seguace di Meneghetti, sostiene persino di seguire i suoi corsi a San Pietroburgo (in che lingua si tenevano, in russo?). Allora scrissi che era stata trasmessa «una delle più strampalate, balzane, sconclusionate interviste che la Rai abbia mai mandato in onda». 

Poi Pezzi si palesa come grande esperto di comunicazione con il progetto «OVO», una sorta di enciclopedia illustrata che già sul nascere appariva vecchia, nemmeno fondata sull'ipertesto (pare che per Mediaset sia stato un bagno di sangue economico). Da seguace dell'ontopsicologia a consigliere, mediatore, incantatore di serpenti finanziari, imprenditore del digital advertising: un grande balzo non c'è che dire. 

 Ovviamente ogni sua iniziativa è ammantata di neoumanesimo, qualunque cosa voglia dire. Sostiene che il suo compito, strapagato, è di fare «il traduttore culturale tra l'approccio cartesiano dei francesi e quello troppo machiavellico degli italiani». Mah!

Estratto dell’articolo di Lorenzo Vendemiale per “il Fatto quotidiano” il 7 novembre 2022

Nell'ultimo anno di campionato […] sono andati perduti anche milioni, un'ottantina per la precisione, dalle casse di Tim, che avrebbe pagato molto più del previsto l'intesa con Dazn. È una delle rivelazioni dell'inchiesta di Giorgio Mottola sul colosso della telefonia italiana, che andrà in onda domani sera su Rai3 nella prima puntata della nuova stagione di Report. 

Bisogna riavvolgere il nastro al febbraio 2021 quando, in piena asta per i diritti tv, Dazn invia una lettera riservata alla Lega Serie A dove spiega che la sua offerta è affidabile anche per la presenza di Tim come partner tecnologico e finanziario. 

Quel documento sposta gli equilibri della partita contro Sky: è proprio la garanzia di Tim a convincere i patron indecisi a rompere con la pay-tv. Poche settimane dopo, l'assemblea voterà a larga maggioranza per l'offerta faraonica di Dazn, 840 milioni a stagione, 2,5 miliardi in tre anni. La Serie A dal 2021 al 2024 va in streaming, a Sky restano le briciole.

La lettera svelava anche la proporzione dell'apporto di Tim […] Cioè circa 340 milioni l'anno, un miliardo totale, e in effetti queste sono le cifre di cui si è parlato fino ad oggi. 

Invece un audit interno, non pubblico, sostiene che la somma realmente sborsata sarebbe di circa 410-420 milioni, ben più del 40% dichiarato. Cosa dovrebbero significare questi 80 milioni di differenza? Se non altro che Tim in realtà ci è cascata più del previsto […] 

[…] Avrebbe giocato un ruolo centrale Andrea Pezzi, consigliori di Vivendi in Italia, che pur negando, a Report ha raccontato di un incontro in sede con l'ex ad di Tim Luigi Gubitosi, e quello della Serie A Luigi De Siervo, in cui gli fu chiesto cosa ne avrebbe pensato Vivendi. 

[…]il business plan parlava di 1,8 milioni di nuovi contratti, si sono fermati a quota 550mila, per colpa dei problemi di trasmissione di Dazn e della condivisione dell'account permessa dalla App. […] 

Tim ha segnato una perdita complessiva da mezzo miliardo sui tre anni […] tanto che ha fatto di tutto per uscirne il prima possibile, rinunciando in estate all'esclusiva e ottenendo uno sconto da Dazn (si parla di 100 milioni in meno l'anno). […]

Estratto dell’articolo di Marco Franchi per “il Fatto quotidiano” il 7 novembre 2022 

Nei prossimi mesi il governo Meloni potrebbe trovarsi a discutere della strategica partita delle rete unica anche con un ex conduttore televisivo, ex socio di Berlusconi e di uno dei finanziatori di Renzi, che oggi fa affari d'oro con Tim. 

È il quadro svelato dall'inchiesta di apertura della nuova stagione di Report, in onda stasera su Rai3. Il protagonista è Andrea Pezzi, ex veejay di Mtv a fine Anni 90 che si è reinventato imprenditore.

Dopo la collaborazione con Infront, multinazionale dei diritti televisivi, dove ha saldato il rapporto con l'attuale ad della Lega Calcio Luigi De Siervo, oggi Pezzi è l'uomo di fiducia dell'azionista di maggioranza di Tim, Vivendi, e del suo presidente, Arnaud De Puyfontaine […] 

[…] Pezzi […] guida comunque una società il cui fatturato è passato nel 2020 da 100mila euro a 54 milioni, di cui 28 arrivano da Tim che gli ha affidato diversi contratti, tra cui l'esclusiva della pubblicità digitale (5 milioni l'anno per 5 anni). In pratica è advisor di Vivendi, ma al contempo fa affari milionari con Tim di cui Vivendi è primo azionista.

[…] Secondo Report, nell'autunno 2018, in piena guerra per il controllo di Tim con i francesi contro la Cassa depositi e prestiti e il fondo Elliott, Pezzi - che nega - avrebbe aiutato De Puyfontaine a incontrare il vertice dei servizi segreti con l'intermediazione di un politico del centrodestra. 

L'inchiesta ne ricostruisce l'ascesa, incrociata con alcuni degli uomini vicini a Matteo Renzi. Nel 2015, Vivendi sale oltre il 20% di Tim diventandone primo socio. Il governo Renzi non intralcia l'operazione, De Puyfontaine elogia il fiorentino come un faro dell'europeismo. […]

Quell'anno, la carriera imprenditoriale di Pezzi svolta. Nella sua Mint, che si occupa di pubblicità digitale, entra Davide Serra, fondatore di Algebris e finanziatore della prima ora di Renzi. 

Segue la Seven Capital Partners, di cui fanno parte Francesco Bianchi, fratello di Alberto (presidente della fondazione Open, l'ex cassaforte politica renziana), e Fabrizio Landi, finanziatore di Open poi nominato da Renzi nel cda di Leonardo.

Mint ottiene importanti appalti nel settore della pubblicità online con partecipate dallo Stato: 4,5 milioni da Enel (nel cui cda sedeva all'epoca Alberto Bianchi), 100mila euro da Poste Italiane e, soprattutto, Tim. Nel 2021, incassato il contratto con Tim, Seven Capital vende le quote a un fondo francese e realizza una ricca plusvalenza. 

Nel 2016 Renzi cade, il governo Gentiloni cambia atteggiamento. Bollorè prova l'assalto a Mediaset […] Pezzi […] viene incaricato da Vivendi di mediare con Berlusconi con una parcella da 1,5 milioni. 

Deve la conoscenza dell'ex Cavaliere all'amica Deborah Bergamini, forzista, sottosegretaria con Draghi e una delle figure chiave di Fininvest negli anni 2000, quando il Biscione investiva nella società di Pezzi "Ovo" attraverso la lussemburghese Trefinance. 

Per Fininvest fu un bagno di sangue: ne uscì nel 2011 con perdite di 7 milioni. Bergamini sarebbe stata anche elemento di contatto tra Pezzi e De Puyfontaine, in quegli anni responsabile di Mondadori in Francia.

Report rivela anche i rapporti dei due con l'ontopsicologia, controversa dottrina inserita nel '98 tra le nascenti sette. Il guru era l'ex prete francescano Antonio Meneghetti, che Pezzi porta su Rai2 nel 2006 in una puntata del suo programma Tornasole. In quell'anno Pezzi e Meneghetti sono invitati d'onore al Congresso dei Circoli del Buongoverno di Marcello Dell'Utri, da poco condannato in primo grado a 9 anni e mezzo per concorso esterno in associazione mafiosa.

Da calcioefinanza.it l’8 novembre 2022. 

Ennesima resa dei conti vicina per TIM. Si terrà nella giornata di domani il CdA della società, dove oltre ai numeri dei primi nove mesi – scrive La Stampa – si esaminerà ancora una volta il travagliato contratto con DAZN (poi rivisto senza esclusiva dopo la prima stagione dell’accordo triennale 2021-2024) legato ai diritti tv della Serie A.

Un contratto già al centro di un’inchiesta interna. Del punto si è occupata anche la trasmissione Report, in onda sulla Rai, la quale – oltre a evidenziare il ruolo dell’ex star di Mtv Andrea Pezzi come attivissimo consulente di Vivendi – ha fatto emergere come degli 840 milioni dell’offerta dei diritti di DAZN, TIM avrebbe contribuito non per i 340 milioni fin qui riportati ma con una cifra tra i 410 e i 420 milioni di euro.

A causa dell’accordo con DAZN, il gruppo ha dovuto accantonare nel bilancio 2021 ben 540 milioni di euro. Secondo alcune voci, in relazione ad alcuni aspetti del contratto che ha sopravvalutato i diritti del calcio, Vivendi vorrebbe che il CdA agisse contro l’ex amministratore delegato, Luigi Gubitosi. Tuttavia, al momento, da Parigi non giunge alcun commento.

Da liberoquotidiano.it l’8 novembre 2022.

Report torna su Rai3. Il programma di Sigfrido Ranucci si aprirà mettendo nel mirino Andrea Pezzi, ex conduttore televisivo, ex socio di Silvio Berlusconi e di uno dei finanziatori di Matteo Renzi. A dare ai lettori un suo ritratto, oltre a Ranucci, ci pensa Il Fatto Quotidiano che riporta: "Dopo la collaborazione con Infront, multinazionale dei diritti televisivi, dove ha saldato il rapporto con l'attuale ad della Lega Calcio Luigi De Siervo, oggi Pezzi è l'uomo di fiducia dell'azionista di maggioranza di Tim, Vivendi, e del suo presidente, Arnaud De Puyfontaine, braccio destro del gran capo Vincent Bollorè. Report ha ricostruito il ruolo che avrebbe ricoperto in alcune delicate partite".

Ma non solo, perché Report passa al vaglio il suo fatturato: "Guida una società il cui fatturato è passato nel 2020 da 100mila euro a 54 milioni, di cui 28 arrivano da Tim che gli ha affidato diversi contratti, tra cui l'esclusiva della pubblicità digitale (5 milioni l'anno per 5 anni). In pratica è advisor di Vivendi, ma al contempo fa affari milionari con Tim di cui Vivendi è primo azionista". 

L'inchiesta della trasmissione punta i riflettori sull'ascesa di Pezzi, a loro dire "incrociata con alcuni degli uomini vicini a Matteo Renzi. Nel 2015, Vivendi sale oltre il 20% di Tim diventandone primo socio. Il governo Renzi non intralcia l'operazione". Addirittura, "quell'anno, la carriera imprenditoriale di Pezzi svolta. Nella sua Mint, che si occupa di pubblicità digitale, entra Davide Serra, fondatore di Algebris e finanziatore della prima ora di Renzi".

Successivamente l'imprenditore viene incaricato da Vivendi di mediare con Berlusconi con una parcella da 1,5 milioni. Ma Pezzi a chi deve la conoscenza del Cavaliere? "All'amica Deborah Bergamini - si legge -, forzista, sottosegretaria con Draghi e una delle figure chiave di Fininvest negli anni 2000, quando il Biscione investiva nella società di Pezzi "Ovo" attraverso la lussemburghese Trefinance". Finito qui? Neanche per sogno, visto che Ranucci tira in ballo i rapporti con l'ontopsicologia, dottrina inserita nel '98 tra le nascenti sette. "Il guru era l'ex prete francescano Antonio Meneghetti, che Pezzi porta su Rai2 nel 2006 in una puntata del suo programma Tornasole".

Le inchieste di «Report» e il neoumanesimo di Andrea Pezzi. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.

La puntata approfondisce la figura dell’ex promessa di Mtv, ora «eminenza grigia» di Vivendi

Incuriosito dallo straordinario ruolo che gli viene attribuito (eminenza grigia di Vivendi e del suo presidente Arnaud De Puyfontaine), ho seguito la puntata di «Report» di Giorgio Mottola su Andrea Pezzi (Rai3). Lo stile della trasmissione di Sigfrido Ranucci è sempre il solito: molta carne al fuoco, molte interviste con personaggi oscurati, molti inseguimenti per strada, molti punti di domanda.

La giovane promessa di Mtv aveva tentato la carriera tv anche in Rai, quando in Viale Mazzini ricopriva ruoli importanti Deborah Bergamini (ex consulente per la comunicazione di Berlusconi). Nel 2005 Pezzi conduce Tornasole, un programma culturale molto velleitario. L’anno successivo ospita Antonio Meneghetti, il guru dell’ontopsicologia, un guazzabuglio fideistico di rara amenità: «Individua e descrive i comportamenti del monitor di deflessione e isola l’identità e le caratteristiche dell’unità di azione che specifica l’uomo conforme al progetto di natura: l’In Sé ontico». Pezzi è un seguace di Meneghetti, sostiene persino di seguire i suoi corsi a San Pietroburgo (in che lingua si tenevano, in russo?). Allora scrissi che era stata trasmessa «una delle più strampalate, balzane, sconclusionate interviste che la Rai abbia mai mandato in onda».

Poi Pezzi si palesa come grande esperto di comunicazione con il progetto «OVO», una sorta di enciclopedia illustrata che già sul nascere appariva vecchia, nemmeno fondata sull’ipertesto (pare che per Mediaset sia stato un bagno di sangue economico). Da seguace dell’ontopsicologia a consigliere, mediatore, incantatore di serpenti finanziari, imprenditore del digital advertising: un grande balzo non c’è che dire. Ovviamente ogni sua iniziativa è ammantata di neoumanesimo, qualunque cosa voglia dire. Sostiene che il suo compito, strapagato, è di fare «il traduttore culturale tra l’approccio cartesiano dei francesi e quello troppo machiavellico degli italiani». Mah!

Lo scopriremo Vivendi. Report Rai. PUNTATA DEL 07/11/2022 di Giorgio Mottola

Collaborazione di Norma Ferrara e Goffredo De Pascale

Tim uno dei fascicoli più spinosi che il Governo Meloni si troverà ad affrontare. ​

Oggi è visto solo come un problema, uno dei fascicoli più spinosi che il governo Meloni si troverà ad affrontare. All’inizio degli anni ‘90 Telecom è stato il fiore all’occhiello dell’industria di Stato. Poi l’hanno privatizzata, scalata, spolpata e, forse tra qualche settimana, sarà anche scorporata. Da terza azienda telefonica più ricca d’Europa è finita agli ultimi posti per fatturato e indebitamento a causa di scelte industriali e finanziarie sbagliate. Come, ad esempio, l’alleanza con Dazn per i diritti televisivi, che potrebbe costare a Tim perdite per oltre mezzo miliardo di euro. Dal 2016 l’azionista di maggioranza dell’ex società di telecomunicazioni di stato è Vivendi, il gruppo francese di media controllato da uno dei più spregiudicati uomini d’affari transalpini, Vincent Bolloré. Grazie a un’intervista esclusiva a un suo ex socio, Report ricostruirà le strategie del finanziere francese per la conquista del mercato italiano: dalla scalata ostile a Mediaset della famiglia Berlusconi alla conquista di Tim, avvenuta negli anni in cui al governo c’era Matteo Renzi. Attraverso documenti e testimonianze inedite, Report ricostruirà come la politica continui ad avere ancora oggi un peso enorme nella più importante industria di telecomunicazioni italiana, condizionando scelte e piani industriali. Un ruolo centrale rispetto alle vicende di Tim lo interpretano soprattutto alcuni degli uomini di fiducia di Vivendi, come Andrea Pezzi, l’ex conduttore di Mtv, diventato consigliere strategico dei francesi, al centro di appalti milionari con l’azienda telefonica e di trame di potere insospettabili.

Le risposte integrali di DAZN

Qual è la causa dei disservizi riscontrati dagli utenti in modo massiccio nel corso della passata stagione e all'inizio della corrente? Ogni qualvolta viene introdotta una nuova tecnologia si verifica una fase iniziale – del tutto fisiologica - di assestamento culturale e di conoscenza, oltre che meramente tecnologica. L’affermazione del live streaming per gli eventi sportivi è un percorso inarrestabile, già in atto. In questo ambizioso processo di digitalizzazione, Dazn ricopre il ruolo di apripista: lo stiamo affrontando con grandi risorse, umane e finanziarie. Il live streaming di eventi sportivi in diretta rappresenta una modalità di fruizione dei contenuti totalmente differente dalla televisione tradizionale ed anche dalla fruizione di contenuti on demand in streaming. Dopo l’assegnazione dei diritti, in soli tre mesi, per la prima volta in assoluto, è stato introdotto in Italia di un servizio di streaming live di portata nazionale. Una partita di Serie A, quindi, è uno stress test per tutte le realtà che, ognuna con il proprio ruolo, partecipano alla trasmissione. La visione dipende, infatti, dal contributo di una serie di attori: lo spettatore con la sua conoscenza digitale (con i device come la tv, la natura dell’abbonamento di connettività, le modalità di utilizzo della connettività ed in particolare il wi-fi); i fornitori di connettività; i gestori di specifiche infrastrutture di distribuzione dei contenuti video; la App e chi la gestisce. Questi ultimi siamo noi: DAZN gestisce la App a valle di tutto questo processo. Siamo consapevoli che l’interfaccia che il cliente vede è la nostra e ci prendiamo le nostre responsabilità ma siamo convinti che innovare modi ed abitudini consolidati da decenni richieda l’impegno e lo sforzo di tutti. Andando nello specifico dei disservizi: all’inizio della passata stagione (2021/2022), sono stati registrati solo in occasione di tre partite di inizio campionato e, in due casi, sono stati dovuti a un picco di traffico sulle CDN di un nostro partner e solamente in un caso ai sistemi IT di DAZN. Per quanto riguarda l’inizio di questa stagione, invece, come abbiamo per altro già avuto modo di spiegare, non si è mai trattato di un problema di rete o connessione – che, al contrario, hanno performato molto bene - ma di problematiche di accesso all’account del tutto non prevedibili e relative ai processi di autenticazione e login, e comunque relativamente solo ad alcune partite della prima giornata calcistica. In tutti questi casi abbiamo provveduto, comunque, oltre a scusarci con i nostri clienti come doveroso, a rimborsarli in tempi rapidissimi. In riferimento all’attuale stagione la misura dell’indennizzo, in conformità a quanto previsto dalla delibera AGCOM, è stata pari al 25% del canone mensile pagato da ciascun cliente secondo il proprio profilo di abbonamento. Non solo, proprio in ragione della straordinarietà dell’evento, Dazn proattivamente ha rimborsato un ulteriore 25%, pari alla fruizione gratuita di una giornata di campionato. Come mai molti utenti hanno continuato a lamentare disservizi anche dopo la seconda giornata di campionato? Il problema si è verificato esclusivamente durante alcune partite della prima giornata del Campionato in corso. A partire dalle ultime partite della prima giornata sono stati registrati da Auditel ascolti che variano tra i 5 ed i 6 milioni di spettatori; a fronte di una così massiccia visione non abbiamo registrato disservizi generalizzati ma solo alcuni casi – in percentuale del tutto fisiologica - che sono stati gestiti ed indirizziamo con un piano di miglioramento continuo. Mensilmente, solo in Italia, vengono trasmessi in piattaforma 500 eventi in diretta. Parliamo, comunque, di un numero di situazioni che rende l’aggettivo “massiccio” non corretto a rappresentare la realtà. L’obiettivo a cui puntiamo, comunque, è minimizzarla fino ad annullarla. Tutto questo anche grazie sia ad una strutturata e mirata cooperazione con i fornitori di connettività sia alla efficace implementazione di quanto previsto dal regolatore in materia di trasparenza informativa ed assistenza ai clienti sia, infine, agli investimenti realizzati autonomamente da DAZN per rafforzare ed ulteriormente migliorare la propria piattaforma e il proprio servizio. I disservizi sono da addebitare alla rete internet italiana o alla piattaforma Dazn? Abbiamo spiegato che l’introduzione di questa nuova modalità di visione di eventi sportivi richiede una fase di naturale assestamento e che gli incidenti che si sono verificati hanno avuto cause specifiche, individuate e risolte: non si tratta quindi di addebiti da fare a DAZN o alla rete italiana. La rete italiana, sia fissa che mobile, ha retto come rilevato anche da AGCOM e la App ha consentito e consente, come sopra ricordato, una fruizione a circa 5/6 milioni di spettatori durante ciascuna giornata di Campionato anche in momenti di fruizione prevalentemente in mobilità come nel periodo estivo. Il calcio in streaming è quindi da considerare un acceleratore della domanda di servizi a banda larga e della promozione della cultura digitale: AGCOM stessa lo cita, insieme ai cambiamenti imposti dalla pandemia, come driver della domanda di banda ultralarga in uno dei suoi recenti documenti (allegato B alla delibera 337/22/cons, pagina 18). Basti usare un semplice indicatore: dal marzo 2021 a marzo 2022 il numero delle linee ultra broadband in Italia è cresciuto di circa 1,5 milioni (fonte Osservatorio AGCOM). Come mai Dazn ha scelto Tim come partner e quale è stato il ruolo di Tim nella determinazione dell'offerta presentata alla Lega di serie A? E’ Dazn ad aver acquisito i diritti per trasmettere tutta la Serie A in Italia dal 2021 al 2024, investendo 840 milioni a stagione per un totale di circa 2,5 miliardi. L’accordo stretto con TIM è di distribuzione. Le telco giocano, per loro natura, un ruolo cruciale per i servizi di streaming, live e on demand, e continueranno a giocarlo. Rappresentano un attore importante della filiera esperienziale che vive il nostro cliente che va dal campo al dispositivo. TIM, oltre ad essere il principale player di mercato, è anche un importante aggregatore e fornitore di contenuti con TIM Vision. Si tratta di un modello di distribuzione tipico del mondo OTT già implementato da Dazn in Giappone (Docomo), in Germania (Vodafone e Deutsche Telekom) e anche in Spagna (Movistar, Masmovil e Orange). Qual è la quota pagata da Dazn per i diritti di Serie A e quale quella di Tim? E’ Dazn ad aver acquisito i diritti per trasmettere tutta la Serie A in Italia dal 2021 al 2024, investendo 840 milioni a stagione per un totale di circa 2,5 miliardi. Non condividiamo informazioni confidenziali relative agli accordi commerciali che stringiamo, il valore dell’accordo di distribuzione siglato con TIM rimane pertanto confidenziale.

Le risposte integrali di TIM

REPORT – RAI3 1. Corrisponde al vero che TIM ha versato tra i 410 e i 420 milioni di euro a Lega Serie A per i diritti televisivi? No, il titolare dei diritti della Lega Serie A è DAZN. TIM non ha partecipato, né direttamente, né indirettamente alla gara per l’aggiudicazione degli stessi e non ha intrattenuto rapporti con la Lega in questo contesto. Noi abbiamo siglato con DAZN un accordo commerciale, inizialmente in esclusiva, per la distribuzione dei loro contenuti sulla nostra piattaforma streaming, TimVision. Il valore dell’accordo è confidenziale. 2. Corrisponde al vero che nell’audit interno si faccia riferimento a irregolarità nell’assegnazione dei diritti televisivi del campionato di calcio italiano a TIM e DAZN? Non è vero, non sono state evidenziate irregolarità di questa natura. 3. E’ vero che, alla fine del 2022, gli abbonati a DAZN su TimVision corrispondono al numero di 550mila? Per ragioni di mercato, non abbiamo mai reso pubblici i dati relativi alla customer base di TimVision. Oltretutto, quelli relativi a DAZN, sono soggetti ad un accordo di riservatezza. 4. Corrisponde al vero che il cda di TIM stia valutando un’azione di responsabilità o un esposto in Procura in merito alla gestione dell’accordo tra TIM e DAZN? Poiché si tratta di un’informazione rilevante per il mercato e TIM è una società quotata non possiamo fare commenti al riguardo, ma solo su decisioni formalmente approvate. 5. Corrisponde al vero che il dott. Andrea Pezzi abbia avuto un ruolo nell’assegnazione di tali diritti? Come già detto sopra, TIM non ha partecipato ad alcun titolo alla gara, per cui non abbiamo informazioni al riguardo. 6. Domande su MINT: a. Corrisponde al vero che TIM abbia sottoscritto nel 2021 un contratto alla società MINT, che prevede il pagamento di 5 milioni di euro all’anno per i prossimi anni? b. Corrisponde al vero che alla cifra summenzionata vada aggiunta una Service Fee che prevede: un importo pari al 4% del budget digitale stanziato da TIM; un importo giornaliero pari a €1100 in relazione al Servizio Value Factory; un importo giornaliero pari a €700 in relazione al servizio Academy? c. A quanto ammontano complessivamente i compensi annuali di MINT erogati da TIM? d. E’ vero che nel 2020 TIM ha pagato fatture a MINT o Myintelligence pari a 28.123.354 €? Gruppo TIM - Uso Interno - Tutti i diritti riservati. MINT, prima My Intelligence, è un operatore affermato nel mercato italiano ed è un fornitore di TIM da diversi anni. E’ incaricata di fornire servizi a supporto delle campagne di marketing digitale. Come ogni azienda, non rendiamo pubbliche le condizioni relative ai contratti con i nostri partner, essendo coperti da un vincolo di riservatezza. 7. Degli abbonamenti stipulati con TIM rispetto alla rete fissa e internet qual è la percentuale attivata esclusivamente online? Le acquisizioni digitali rappresentano una quota rilevante delle attivazioni dei servizi di TIM e tale quota cresce nel tempo. Questo fenomeno riguarda tutti i servizi, quelli fissi, mobili, così come i prodotti e i contenuti TV. 8. Corrisponde al vero che su questioni riguardanti la gestione di TIM il dott. Labriola interloquisca abitualmente con il dott. Pezzi, quale intermediario in Italia di Vivendi? Nelle società quotate esistono specifiche regole relative ai rapporti con gli azionisti, rapporti che sono, non solo doverosi, ma soprattutto opportuni e fortemente incentivati dalla comunità finanziaria e non solo nazionale. E nell’ambito e nei limiti della suddetta politica, l’amministratore delegato, che è – assieme al Presidente - tra le figure incaricate di darne esecuzione, si interfaccia costantemente con gli azionisti - e i rappresentanti da loro designati - che ne abbiano fatto richiesta.

LO SCOPRIREMO VIVENDI di Giorgio Mottola collaborazione Norma Ferrara e Goffredo De Pascale Immagini di Carlos Dias, Cristiano Forti, Alfredo Farina, Davide Fonda Andrea Lilli, Fabio Martinelli

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Immaginate se la finale dei mondiali del 2006 fossimo stati costretti a guardarla così.

RICCARDO CUCCHI - RADIOCRONACA Sta per partire Grosso… è un calcio di rigore fondamentale… Grosso…reteeeee, reteeeee.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sarebbe stato un vero e proprio incubo. Una sensazione che purtroppo conoscono molto bene milioni di tifosi abbonati a Dazn, che provano a seguire sulla piattaforma di streaming la loro squadra del cuore.

TIFOSO 1 Salernitana-Roma, partitone…che non ho visto ma non per colpa mia. La vergogna italiana che si chiama Dazn, non te lo permette.

TIFOSO 2 Dazn, vergognati! Vergognati! Che schifo, mi avete fatto passare la voglia di vedermi la partita. Ma che schifo!

RICCARDO CUCCHI – GIORNALISTA SPORTIVO Si parla di calcio come grande business. È così, è vero. Ma su cosa si basa questo grande business? Si basa su gente che compra. Compra partite, cioè compra la sua passione. Io credo che nel momento in cui questi appassionati si rendessero definitivamente conto di essere considerati soltanto fruitori, tipo bancomat, io credo che potrebbe davvero esaurirsi questa passione. E senza questa passione, il business funzionerebbe ancora?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Italia a gestire il business del pallone è la Lega Serie A, che ha assegnato i diritti televisivi del campionato italiano a Dazn, la piattaforma che trasmette sport on line in 30 paesi del mondo, fondata da Len Blavatnik, miliardario di origini ucraine ma con passaporto americano che in Russia è stato socio di uno dei principali oligarchi vicini a Putin, e negli Stati Uniti ha elargito milioni di dollari sia al partito democratico che a quello repubblicano.

GIORGIO MOTTOLA È stato un errore affidare i diritti televisivi a Dazn, visto come è andata?

LORENZO CASINI – PRESIDENTE LEGA CALCIO SERIE A Mah, mi sembra un’affermazione un po’ eccessiva. GIORGIO MOTTOLA Ci sono stati sempre molti problemi tecnici.

LORENZO CASINI – PRESIDENTE LEGA CALCIO SERIE A A noi non risultano così tanti.

GIORGIO MOTTOLA Volevo chiederle se vi siete pentiti di aver concesso i diritti a Dazn?

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA CALCIO SERIE A No.

GIORGIO MOTTOLA Nonostante tutto questo disastro?

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA CALCIO SERIE A Non è un disastro.

GIORGIO MOTTOLA Beh, lo dica ai tifosi italiani. Ogni giorno pubblicano post, fanno lamentele, disdicono abbonamenti.

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA CALCIO SERIE A Siamo in un paese libero, giustamente ciascuno può esprimersi come crede.

GIORGIO MOTTOLA Com’è la sua esperienza con Dazn?

RICCARDO CUCCHI – GIORNALISTA SPORTIVO Non è stata positiva. Perché purtroppo si interrompe la visione, compare quella rotellina che innervosisce gli appassionati e molto spesso la visione non è perfetta. Purtroppo, non so quale siano la ragioni di questi problemi perché credo di aver fatto tutto quello che un normale utente dovrebbe fare in questi casi.

GIORGIO MOTTOLA Cioè? RICCARDO CUCCHI – GIORNALISTA SPORTIVO Ho la fibra, ho l’abbonamento a Timvision, ho l’abbonamento a Dazn, ho il televisore ultima generazione smart, i televisori intelligenti. E però ogni tanto l’immagine scompare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’immagine scompare per due possibili ragioni: o la piattaforma di Dazn non funziona a dovere oppure è la rete internet italiana a non essere adeguata. Per scoprirlo nel 2021, la di Lega Serie A ha affidato a degli esperti del settore una consulenza.

GIORGIO MOTTOLA Qual è stato l’esito di questa sua consulenza?

FRANCESCO VATALARO – PROFESSORE ORDINARIO INGEGNERIA TELECOMUNICAZIONI UNIVERSITA’ DI ROMA TOR VERGATA La qualità della rete è assolutamente adeguata.

GIORGIO MOTTOLA Quindi gli eventuali problemi non sono da addebitare alla rete internet?

FRANCESCO VATALARO – PROFESSORE ORDINARIO INGEGNERIA TELECOMUNICAZIONI UNIVERSITA’ DI ROMA TOR VERGATA Se ci sono dei problemi è più probabile che vadano cercati altrove, sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sebbene varie relazioni tecniche evidenziassero che i disservizi riscontrati dai tifosi non fossero da addebitare alle rete, lo scorso anno la Lega Calcio ha concesso a Dazn in esclusiva i diritti della serie A.

GIORGIO MOTTOLA Come mai avete scelto Dazn?

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA CALCIO SERIE A È stata fatta una gara, una gara che è verificata e seguita da parte di tutte le autorità. È il risultato di quella gara è stato quello.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dazn è riuscita a vincere la gara offrendo 840 milioni di euro all’anno per il triennio 2021-2024. Ma non tutti i presidenti si fidavano delle capacità tecniche e della solvibilità finanziaria della piattaforma inglese. E così per superare le resistenze degli indecisi, pochi giorni prima dell’asta, Dazn ha inviato alla Lega di Serie A una lettera che vi mostriamo in esclusiva. La piattaforma assicura di aver raggiunto un accordo con un importante partner industriale, in grado di supportare l’offerta anche da un punto di vista finanziario. Pochi giorni dopo Tim e Dazn annunciano l’alleanza.

GIORGIO MOTTOLA Dazn è stata costretta a fare una lettera riservata alla Lega, alla serie A, per dire che dietro c’era Tim. Altrimenti non era sostenibile per Dazn quell’offerta.

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA CALCIO SERIE A No, in realtà non è così. Ciascun player può fare le alleanze che crede. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella lettera inviata da Dazn ai presidenti della serie A, si sostiene che Tim avrebbe contribuito all’offerta per il 40 percento, quindi con circa 340 milioni di euro. Ma da un audit interno della società telefonica è emerso che la cifra in realtà sarebbe molto più alta. E che si aggirerebbe tra i 410 e i 420 milioni di euro. Tim avrebbe contribuito all’offerta per circa la metà.

GIORGIO MOTTOLA Su questi 840, qual è la cifra che impegna Tim?

LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA CALCIO SERIE A Non è stato mai comunicato ufficialmente. Sono informazioni che può chiedere probabilmente a Dazn e a Tim. EX DIRIGENTE TIM Nell’indagine interna fatta da Tim emergono molte cose strane sull’alleanza con Dazn. Innanzitutto, bastava guardare i numeri dell’operazione. Non era difficile indovinare che avrebbe portato enormi perdite. Fosse stato per me, non l’avrei approvata. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nelle previsioni di Tim si sarebbero dovuti raggiungere circa un milione e ottocento mila abbondati, ma si sono fermati a 550mila. La dirigenza, allora guidata da Gubitosi, aveva interesse a spostare il calcio dalla piattaforma satellitare allo streaming, anche per contrastare la concorrenza di Sky sulla linea internet domestica. Invece è Tim a essere stata messa in difficoltà dall’operazione. Il nuovo amministratore delegato, Pietro Labriola, lo scorso anno ha inserito a bilancio una perdita di oltre mezzo miliardo di euro per i tre anni dell’accordo con Dazn. Ma fonti vicine alla vecchia dirigenza ribadiscono la correttezza dell’operazione dal punto di vista della strategia industriale e contestano le indiscrezioni trapelate sui contenuti dell’audit. GIORGIO MOTTOLA Buonasera dottor Labriola, Giorgio Mottola di Report …

PIETRO LABRIOLA – AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE GENERALE TIM No, mi scusi.

GIORGIO MOTTOLA Posso chiederle che cos’è accaduto con Dazn? Perché Tim ci ha perso una barca di soldi…

PIETRO LABRIOLA – AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE GENERALE TIM La ringrazio ma sono informazioni che abbiamo già rilasciato alla borsa e tutto quanto...

GIORGIO MOTTOLA È vero che ci sono state irregolarità nell’acquisizione…

EX DIRIGENTE TIM In questo audit interno sono emerse irregolarità nel processo che ha portato Tim a fare un accordo per i diritti della Serie A con Dazn e con la Lega Calcio. Da quello che mi risulta ora il Cda starebbe aspettando l’esito di un secondo audit.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E dal momento che l’intero processo di assegnazione dei diritti è gestito dalla Lega Calcio, siamo andati da coloro che ne fanno parte, vale a dire i massimi dirigenti delle squadre di serie A.

 GIORGIO MOTTOLA Hanno fatto un audit in Tim ed è venuto fuori che ci sono state delle anomalie nell’assegnazione dei diritti a Dazn. A voi risulta qualcosa? Può soltanto dirmi se vi risulta qualcosa, se c’è qualche anomalia?

PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN Non glielo dico. Non le dico niente, vada. Passi lunghi e ben distesi. Se le dico che non parlo, le dico che non parlo, non insista.

GIORGIO MOTTOLA Io ho fatto una domanda, però … non è che….

 PAOLO SCARONI – PRESIDENTE AC MILAN E io non rispondo.

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle una domanda su Dazn su irregolarità rispetto all’assegnazione dei diritti

MAURIZIO ARRIVABENE – AMMINISTRATORE DELEGATO JUVENTUS FC …..

GIORGIO MOTTOLA Posso chiederle un commento? Imperturbabile, una sfinge. Mi dica soltanto qualcosa, anche solo non voglio parlare. Niente?

JOE BARONE – DIRETTORE GENERALE ACF FIORENTINA ….

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Poi però il direttore generale della Fiorentina, ci ripensa e torna indietro.

JOE BARONE – DIRETTORE GENERALE ACF FIORENTINA Rifammela un’altra volta. Vieni, vieni, vieni.

GIORGIO MOTTOLA Sono emerse all’interno dell’audit di Tim delle irregolarità rispetto a questa assegnazione, voi avete sentito qualcosa? C’è stata qualche anomalia?

JOE BARONE – DIRETTORE GENERALE FIORENTINA Questo dovete parlare con Luigi De Siervo. Penso che Luigi è la persona giusta per spiegare questa situazione.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Luigi De Siervo, ex amministratore delegato di Infront, multinazionale che si occupa di diritti televisivi sportivi, è stato uno dei principali architetti dell’accordo della Lega Calcio con Dazn.

GIORGIO MOTTOLA Si racconta dentro l’audit di Tim di alcune irregolarità.

 LUIGI DE SIERVO – AMMINISTRATORE DELEGATO LEGA CALCIO SERIE A Ma io che cosa ne so. Lo chieda a loro, lo chieda a loro. La Lega Calcio ha fatto tutto in maniera regolare come lei sa perfettamente.

EX DIRIGENTE TIM Guardi, un ruolo nella partita lo ha giocato Andrea Pezzi che ha i piedi in entrambi i mondi. Conosce molto bene Luigi De Siervo, si sono conosciuti all’epoca in cui entrambi lavoravano a Infront e da anni è una delle figure più influenti dentro Tim. Una sorta di eminenza grigia.

GIORGIO MOTTOLA Ma che cosa avrebbe fatto rispetto alla partita Dazn-Tim, Andrea Pezzi?

 EX DIRIGENTE TIM È stato la cerniera tra Lega Calcio e Tim. Ha mediato con l’azionista di maggioranza di Tim per convincerlo ad appoggiare l’alleanza con Dazn.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Andrea Pezzi è l’ex vijay di Mtv che dopo la carriera di conduttore televisivo si è reinventato imprenditore. Dopo la collaborazione con Infront, durante la quale ha saldato il rapporto con De Siervo, oggi è l’uomo di fiducia dell’azionista di maggioranza di Tim, Vivendi, e in particolare del suo presidente, Arnaud De Puyfontaine.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Non sono mai entrato in nessun modo in contatto con le decisioni, mai ho partecipato a riunioni.

GIORGIO MOTTOLA Ma nell’epoca in cui stava maturando questo accordo, lei non era stato informato?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE No, mi è successo, se posso fare un piccolo aneddoto, solo una volta. Stavo parlando del mio contratto con un manager di Tim. Ricordo che entrò in ufficio Luigi De Siervo con Luigi Gubitosi. E in quella circostanza Gubitosi mi chiese cosa secondo me ne avrebbe pensato Vivendì e io gli ho detto di chiamare l’azionista, mi sembrava tecnicamente un’idea sensata.

GIORGIO MOTTOLA E lei non fece da intermediario con Vivendì?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE No, zero.

GIORGIO MOTTOLA E non parlò con De Puyfontaine?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Ma non hanno bisogno di me.

GIORGIO MOTTOLA Ci raccontano che lei è un po’ una sorta di eminenza grigia di Tim?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Escludo categoricamente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si schermisce Andrea Pezzi, tuttavia è il consulente del più grande impero mediatico d’Europa, dei francesi di Vivendi, che sono anche azionista di maggioranza di Telecom, oggi Tim. Ed è anche più longevo, l’ex veejay di MTV, degli amministratori delegati, che fino a qui si sono succeduti, sotto la gestione francese. Sono stati quattro e sono durati in una media di due anni ciascuno. Per capire come Vivendi e il suo consulente abbiano legato i loro destini a Tim, bisogna ripercorrere le tappe della privatizzazione di Telecom, iniziata 25 anni fa con il governo Prodi che cercava di far cassa, per centrare l’obiettivo dell’entrata in Eurolandia. Telecom è passata prima in mano ad una cordata guidata dagli Agnelli, poi da Colaninno, poi Tronchetti Provera che con 26 miliardi di debiti l’ha ceduta al consorzio Telco, formato da Mediobanca, Banca Intesa Sanpaolo, Generali, partner industriale la Telefónica, società spagnola che però era più interessata agli asset in Sudamerica che a sviluppare la nostra compagnia telefonica e quindi poco dopo ha scambiato le nostre quote con i francesi di Vivendi, che sono diventati con il 23 percento azionisti di maggioranza. Ora Vivendi è controllata da Vincent Bolloré, che ha patteggiato in Francia una pena per corruzione e ha pagato anche 12 milioni di euro di multa. In Francia lo chiamano il boa, per il modo di stritolare, indebolire, i suoi avversari prima di sferrare la scalata. Alcuni analisti pensano che Vivendi abbia avuto un interesse con Tim nell’accordo dei diritti televisivi con Dazn proprio per indebolire Sky. Tim avrebbe avuto l’interesse di spostare, grazie al calcio, abbonati dalla piattaforma satellitare a quella dello streaming, della compagnia telefonica, un po’ per tutelare i propri abbonati e un po’ anche per sfilarne di nuovi da Sky, che in quel momento stava offrendo la linea internet domestica. E poi una volta indebolita Sky, sarebbe intervenuta Vivendi per tentare di scalarla. Insomma: “io non voglio solo il potere di partecipare alle feste. Voglio avere anche il potere di farle fallire”. Era il motto di Jep Gambardella, il giornalista protagonista della Grande Bellezza che si muoveva a suo agio nella mondanità. È un po’ il modo di operare del boa Bolloré: così ha scalato Vivendi, e così ha tentato di rovinare la festa anche a Berlusconi, nella scalata a Mediaset. Solo che il cavaliere ha trovato lungo la strada un inaspettato esercito della salvezza, disposto ad aiutarlo: i membri del giglio magico renziano e anche un ex conduttore di Mtv, Andrea Pezzi. Il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’impero dei Bolloré nasce due secoli fa qui in Bretagna, sulle rive del fiume Odet, dove le navi dei corsari venivano a rifugiarsi dopo le scorrerie nell’Atlantico. L’industria di famiglia fondata nel 1822 prospera sia sui vizi che sulle virtù degli esseri umani: cartine per sigarette e carta per le Bibbie sono il prodotto principale del loro marchio, Ocb, Odet Cascades Bolloré. Diventa presto uno dei gruppi finanziari più ricchi e potenti della Francia, intimo dei presidenti Leon Blum, George Pompidou e Giscard D’Estaina. La loro buona stella, però, si appanna all’inizio degli anni ’80 quando la Ocb entra in crisi e rischia la bancarotta. È a questo punto che conquista la scena la settima generazione della famiglia, Vincent Bolloré.

VINCENT BOLLORÉ – PRESIDENTE GRUPPO BOLLORÉ 19/01/2022 AUDIZIONE AL SENATO FRANCESE PER LA COMMISSIONE D’INCHIESTA SUI MEDIA Vengo da una grande famiglia di industriali bretone. L’azienda è poi andata in difficoltà e quindi ho dovuto lasciare la banca in cui lavoravo per dedicarmi al recupero e allo sviluppo della società di famiglia. Quando sono arrivato faceva 20 milioni di euro di fatturato. Oggi ne fa 20 miliardi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Vincent Bolloré rileva per un franco l’azienda di famiglia e la porta sulla vetta più alta del capitalismo europeo. Il suo gruppo fattura 20 miliardi di euro e negli anni ha acquisito l’etichetta musicale Universal, alcuni tra i principali media francesi, una delle più grandi concessionarie pubblicitarie d’Europa, Telecom Italia e fino a qualche mese aveva il monopolio della gestione dei porti nell’Africa Occidentale.

NICOLAS VESCOVACCI – GIORNALISTA EX COLLABORATORE CANAL+ Negli anni ‘80 Bolloré aveva nel suo ufficio la foto di un boa che si avvolgeva intorno a un uomo. Il boa è un animale che non ammazza la sua preda in un colpo solo, ma la uccide strangolandola, bloccandole la circolazione sanguigna. Penso che questa immagine descriva perfettamente la strategia di Vincent Bolloré.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La strategia del boa ha contraddistinto le principali operazioni finanziarie del gruppo Bolloré. Si punta una società, entrando nel capitale come socio amichevole. Ma presto l’abbraccio si fa sempre più stretto fino al momento in cui la preda non riesce più scappare e viene divorata in un solo boccone. Questa è stata per esempio la storia della scalata a Vivendi, una delle più grandi aziende europee nel campo dei media, proprietaria di Canal+ e fino a pochi mesi fa di Universal. L’operazione di conquista era iniziata con un innocuo 1,7 per cento.

NICOLAS VESCOVACCI - GIORNALISTA EX COLLABORATORE CANAL+ Bolloré aveva rastrellato altre azioni sul mercato senza comunicarlo alle autorità di controllo della Borsa. Nella piazza finanziaria di Parigi erano tutti indignati, nessuno approvava le modalità di questa scalata. Ma Bolloré poco a poco è salito al cinque per cento, poi al 10, il 14 e oggi possiede il 29 percento.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Italia la strategia del boa di Bolloré ha avuto una vittima illustrissima: Silvio Berlusconi. Nel 2016, Vivendi bussa alle porte di Cologno Monzese e si offre di acquistare Mediaset Premium, la pay tv che all’epoca perdeva molti soldi e pesava come un macigno sui conti del Biscione. In cambio dalla famiglia Berlusconi Bolloré ottiene l’ingresso nel capitale di Mediaset, con una piccola quota del 3,5 percento.

JACQUES DUPUYDAUBY – EX SOCIO VINCENT BOLLORÉ È il suo metodo. Quando Bollorè entra in una azienda e generalmente si tratta di aziende a gestione familiare dove ci sono dei problemi, lui assicura che la sua è una partecipazione amichevole. Ma in realtà sta già comprando in giro azioni di nascosto per arrivare a ottenere il controllo della società.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei giorni in cui Berlusconi è ricoverato al San Raffaele per uno scompenso cardiaco, Bolloré inizia a rastrellare di nascosto azioni di Mediaset. E così all’insaputa di tutti, in soli 6 mesi Vivendi riesce, a salire nel capitale del Biscione dal 5 percento al 30 percento. In questo modo potrebbe sfilare il controllo di Mediaset alla famiglia Berlusconi che possiede il 40 percento. Ne nasce una guerra finanziaria e legale che dura per 5 anni, dagli ovvi risvolti politici.

NICOLAS VESCOVACCI – GIORNALISTA EX COLLABORATORE DI CANAL + Berlusconi non è nato l’altro giorno. Dopo la scalata ostile ha avviato un’azione giudiziaria contro Bolloré, chiedendo miliardi di euro di risarcimento. Ma poi alla fine si sono accordati. E Bolloré è riuscito a guadagnare da questa storia milioni di euro. È sempre così, se non ottiene il controllo dell’azienda, ci ricava comunque un sacco di soldi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella faida che si apre tra Bolloré e Berlusconi, prova a infilarsi anche il cosiddetto Giglio Magico. Il 12 dicembre del 2016 Matteo Renzi decade dalla carica di presidente del Consiglio e soli tre giorni dopo l’avvocato Alberto Bianchi, che presiede la fondazione Open, incarico costatogli un’indagine per finanziamento illecito, scrive a Marco Carrai, consigliere intimo dell’ex premier: “Ma noi non abbiamo nessuno che aiuti berlusconi contro Vivendi?”, chiede l’avvocato. “nel senso che se trovassimo qualcuno che li aiuta, finanziariamente e/o industrialmente a resistere a Vivendi, potrebbe esserci un significativo beneficio politico”. E Carrai risponde: “ci sto pensando”.

GIORGIO MOTTOLA Buonasera, sono Mottola di Report.

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Come stai caro? Francamente… Ormai siamo un affetto stabile.

GIORGIO MOTTOLA Ci conosciamo...Perché Bianchi e Carrai parlano di Vivendi e Mediaset e dicono …

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Devi chiederlo a Bianchi e Carrai.

GIORGIO MOTTOLA Dicono che avrebbero avuto beneficio politico, appoggiando Berlusconi. Come mai?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Domandalo a Bianchi e Carrai.

GIORGIO MOTTOLA Entro anche io nel selfie?

 MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 No, Mottola no, Mottola nel selfie no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Seguiamo alla lettera il consiglio di Renzi e andiamo a trovare Marco Carrai sulle rive del lago di Como al Forum Ambrosetti.

GIORGIO MOTTOLA Marco Carrai buonasera, sono Giorgio Mottola di Report, Rai3.

MARCO CARRAI – IMPRENDITORE Buona sera…

GIORGIO MOTTOLA Volevo farle qualche domanda sulle conversazioni con Alberto Bianchi nel 2016.

MARCO CARRAI – IMPRENDITORE No, grazie.

GIORGIO MOTTOLA Come mai eravate così interessati alla guerra fra Vivendi e Telecom?

MARCO CARRAI – IMPRENDITORE Ti posso presentare mia moglie?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi lo lasciamo salutare i suoi ospiti e aspettiamo. Passa un’ora, ne passano due e poi calato il tramonto proviamo a riavvicinarci.

GIORGIO MOTTOLA Carrai sono sempre Mottola.

MARCO CARRAI – IMPRENDITORE Eh eh eh.

GIORGIO MOTTOLA Ho aspettato che finisse di parlare con i suoi commensali.

MARCO CARRAI – IMPRENDITORE No, grazie.

GIORGIO MOTTOLA Qual era il beneficio politico che dovevate ottenere da Berlusconi aiutandolo nella guerra…

GUARDIA DEL CORPO Basta.

GIORGIO MOTTOLA Aspetti, mi può rispondere? Ma perché mi allontana così?

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei messaggi che nel 2016 scriveva a Carrai il presidente della fondazione Open Bianchi, c’era anche un riferimento diretto a Telecom: “tra le cose che pensi, pensa a Telecom, se il biscione con amici entra pesantemente lì, porta la guerra nel campo del nemico, e se riesce, noi prendiamo due piccioni con una fava”.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Anche su questo avremmo voluto chiedere anche su questo una spiegazione a Carrai ma ci blocca la sua guardia del corpo.

GUARDIA DEL CORPO Siccome il signor Carrai è anche console d’Israele e le immagini che lo riguardano hanno un certo peso…soprattutto riguardano me che sono la sua sicurezza…quindi se non vuole rispondere…non vuol rispondere.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E Telecom sembra rimasta nei pensieri di Carrai. Durante il ricevimento il console onorario d’Israele risponde al telefono e si guarda intorno come se stesse cercando qualcuno. Poi velocemente si allontana. E lo ritroviamo per caso a parlare appartato con l’attuale amministratore delegato di Tim, Pietro Labriola. Qualche anno fa, quando Renzi era al governo, Carrai presentò a Tim un progetto per costituire insieme una società di Big Data, finalizzati al mercato pubblicitario.

EX DIRIGENTE TIM Era mi pare il 2016 ecco e Carrai, si presentò ai vertici della Tim volendo costituire una società di Big Data, dentro dovevano esserci Leonardo, che all’epoca era ancora Finmeccanica, Unicredit e Banca Intesa. Si presentò con un israeliano e disse: mettiamo su questa società ma dentro dev’esserci assolutamente Telecom.

GIORGIO MOTTOLA Perché Carrai puntava ai dati di Telecom?

EX DIRIGENTE TIM Esatto, lei capirà ovviamente che questa cosa non poteva andare in porto. Carrai si presentò con un socio israeliano e per di più era risaputa la sua vicinanza a Renzi, sarebbe scoppiato uno scandalo enorme.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sin dall’inizio i rapporti tra il mondo renziano e Vivendi, l’azionista di maggioranza di Tim, sono stati di totale armonia.

EX DIRIGENTE TIM All’epoca Renzi aveva un pessimo rapporto con i vertici apicali di Tim. Mentre con Vivendi ricordo che aveva un ottimo rapporto, anche di grande intesa e confidenza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In una delle sue prime uscite pubbliche in Italia, il presidente di Vivendi, Arnaud De Puyfontaine elogia il politico toscano, indicandolo come faro dell’europeismo. Dal canto suo il governo Renzi non oppone alcuna resistenza ai francesi, né chiede loro spiegazioni, nei giorni in cui Vivendi conquistava blocchi di azioni di Tim sempre più grandi, diventando nel 2016 il primo azionista con il 23 percento.

GIORGIO MOTTOLA Come mai quando lei era presidente del Consiglio ha lasciato campo libero a Bolloré?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Si chiama mercato.

GIORGIO MOTTOLA Prego?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Mercato, si chiama mercato. Noi abbiamo lasciato fare al mercato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO All’occorrenza però il mercato sa adeguarsi molto bene ai riti antichi della politica.

EX DIRIGENTE TIM Nel 2016 Renzi e Bollorè si sono incontrati più volte, fra l’altro in maniera anche molto conviviale, ecco. Uno degli incontri decisivi è avvenuto in un famoso ristorante di lusso di Firenze, l’enoteca Pinchiorri.

GIORGIO MOTTOLA E che cosa si sono detti durante quell’incontro?

EX DIRIGENTE TIM Sicuramente Tim era in cima ai pensieri di Bollorè. Mi hanno detto che hanno bevuto un ottimo Massetto, un vino che costa 1000 euro a bottiglia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi lontano dalle sedi istituzionali in questa famosa enoteca di Firenze, nel 2016 si sarebbero attovagliati l’allora primo ministro Matteo Renzi, il presidente di Cassa Depositi e Prestiti Claudio Costamagna e il padrone di Vivendi, Vincent Bolloré.

GIORGIO MOTTOLA Ha mai incontrato Bolloré a Firenze?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Ma certo che ho incontrato Bolloré.

GIORGIO MOTTOLA A una cena?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 No, a pranzo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo le dimissioni di Renzi e l’inizio della guerra tra Bolloré e Berlusconi, il nuovo governo guidato da Gentiloni assume un atteggiamento di segno opposto su Vivendi. Nel 2017, in Consiglio dei ministri viene proposto un emendamento denominato antiscorrerie, che sembra fatto su misura per mettere un freno alle scorribande finanziarie di Vivendi. L’autore della proposta è l’allora ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda.

CARLO CALENDA – MINISTRO SVILUPPO ECONOMICO 2017-2018 In realtà era una norma che diceva che quando tu acquisti un pacchetto rilevante devi spiegare che cosa vuoi fare della società.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma dopo un duro scontro all’interno del Pd, la norma antiscorrerie viene cancellata.

GIORGIO MOTTOLA Come mai nel 2017 saltò?

CARLO CALENDA – MINISTRO SVILUPPO ECONOMICO 2017-2018 Non me lo ricordo onestamente. Tra l’altro la proposi io.

GIORGIO MOTTOLA Esatto, appunto. Come mai saltò? Lei la diede per fatta..

CARLO CALENDA – MINISTRO SVILUPPO ECONOMICO 2017-2018 Perché non c’era in consiglio dei Ministri… mo me lo ricordo, perché non c’era l’unità non in consiglio dei Ministri ma perché non c’era la maggioranza per appoggiarla.

GIORGIO MOTTOLA Renzi ebbe un ruolo centrale, era contrario a questa norma antiscorrerie?

CARLO CALENDA – MINISTRO SVILUPPO ECONOMICO 2017-2018 Non me lo ricordo, onestamente.

GIORGIO MOTTOLA Come mai lei si è schierato contro l’antiscorrerie, l’emendamento di Calenda tra l’altro, quando era ministro dello Sviluppo Economico.

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Io?

GIORGIO MOTTOLA Sì. MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Io mi sono schierato contro l’emendamento di Calenda? GIORGIO MOTTOLA Si, questi sono i retroscena.

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Era ministro del mio governo.

GIORGIO MOTTOLA No, era quello successivo.

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 E come faccio a schierarmi contro se non c’ero nemmeno in Parlamento. Oh, ragazzi siete più credibili quando parlate di autogrill. Ti svelo un segreto, nel governo successivo io non ero in Parlamento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Matteo Renzi non era in Parlamento ma era il segretario nazionale del Partito Democratico, e infatti durante la partita sull’antiscorrerie molti giornali e agenzie autorevoli come Ansa e Reuters evidenziano lo scontro in atto tra Renzi e Calenda proprio sul provvedimento in questione.

OTTO E MEZZO - 12/04/2017 LILLI GRUBER Veniamo a un altro ministro, Carlo Calenda. Leggiamo che i vostri buoni rapporti si siano un po’ deteriorati. È così?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Ci siamo parlato anche ieri sera, o meglio ci siamo scritti, non parlati. Non è assolutamente così.

LILLI GRUBER C’è chi lo propone leader del centro destra, lo sa?

MATTEO RENZI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2015-2016 Secondo me sarebbe un’ottima idea del centrodestra.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Invece Calenda è diventato il suo di leader, scherzi del destino. Ora apparentemente Renzi non sembra preoccuparsi delle scalate di Vivendi. È il mercato, dice a Giorgio. Poi però ammette di aver incontrato a pranzo Bollorè. Questo è legittimo lo diciamo subito non solo ma è obbligatorio per un premier, perché Vivendi attraverso Tim controlla i dati di 40 milioni di utenze, controlla Telsy che è la società che fornisce apparecchi criptati per la pubblica amministrazione, per le istituzioni. E poi controlla anche Path.net, la piattaforma dei dati digitali per la pubblica amministrazione, controlla Telecom San Marino, Tim Brasile, con altri 60 milioni di utenze. Controlla Inwit che è il gestore delle Torri della comunicazione mobile, il primo del Paese, il secondo in tutta Europa. Controlla soprattutto Sparkle, che è la rete di cavi sottomarini che collega l’Europa con l’Iran, la Turchia, Israele, dove passano i dati degli apparati di sicurezza. Tuttavia nonostante tutto questo il governo non applica il Golden Power cioè il potere di controllo sulle aziende strategiche, fino all’ottobre del 2017, premier, Paolo Gentiloni. Nel 2016 poi Vivendi aveva tentato la scalata a Mediaset, a Silvio Berlusconi, e questo preoccupa i sogni di Alberto Bianchi, che è il presidente della fondazione di riferimento renziana Open, il quale scrive a Carrai, nel dicembre del 2016, e dice a Carrai - che è console di Israele in Toscana, Lombardia e Emilia-Romagna nonché amico di lunga data di Renzi - bisogna pensare a Telecom, bisogna aiutare il Cavaliere perché avremo “un beneficio politico”. Quale? Va detto anche che Bianchi in quel momento punta anche ad un ruolo di avvocato all’interno di Fininvest e chiede a Carrai una sponsorizzazione parlando con Luigi B. Chi è Luigi B? Bianchi poi suggerisce anche la strategia per difendere Berlusconi da Bollorè: bisogna portare la guerra in terra del nemico, dentro Telecom, bisogna che qualche amico strutturato dal punto di vista industriale e dal punto di vista finanziario entri in Telecom e faccia la guerra a Bollorè, questo è un po’ il senso, prenderemo così due piccioni con una fava. Immaginiamo Bianchi avesse una sfera di cristallo perché è esattamente quello che succede qualche mese dopo nel 2018 entrano in Tim contestualmente Cassa Depositi e Prestiti guidata dal manager nominato da Renzi, Costamagna, e poi il fondo Elliott, che ha come suo advisor in Italia Paolo Scaroni, uomo vicino a Silvio Berlusconi. Elliott era già intervenuto a salvare il Milan. E comincia una guerra senza esclusione di colpi all’interno di Telecom, al punto che i francesi sono costretti a concedere anche la nomina di alcuni amministratori. Ecco qual è stato il ruolo di Pezzi in questo braccio di ferro, in questa guerra senza esclusione di colpi, lo vedremo tra 45 secondi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando dello scontro tra Bollorè e Berlusconi, e del ruolo di Andrea Pezzi. L’ex veejay che è riuscito a mediare e anche a fare affari con il mondo berlusconiano e anche con quello del giglio magico renziano. È la parabola di un conduttore di successo, ex conduttore con il pallino degli affari, che però vanno male fino a quando non incontra sulla sua strada un ex frate francescano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2018 Tim si trova al centro della contesa tra Vivendi da una parte e dall’altra il fondo d’investimento americano Elliot e Cassa Depositi e Prestiti, che hanno acquistato importanti pacchetti azionari e contendono ai francesi il controllo del cda.

EX DIRIGENTE TIM Nel 2018 i francesi di Vivendi prendono schiaffi dal fondo Elliot e da Cassa Depositi e Prestiti. Sono in difficoltà perché si sono ritrovati a non avere più referenti politici diretti. Per questo costruiscono un contatto con il Deep State italiano, i servizi segreti. Tra ottobre e novembre del 2018, in una sede riservata dei servizi, vicino piazza Sallustio a Roma, il capo dei servizi incontra il presidente di Vivendi De Puyfontaine, che si porta dietro anche Andrea Pezzi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi nell’autunno del 2018, il presidente di Vivendi Arnaud De Puyfontaine partecipa a un incontro, con i vertici dei servizi segreti italiani che sarebbe stato promosso da Andrea Pezzi, grazie alla mediazione di un politico del centro-destra.

EX DIRIGENTE TIM Pochi mesi dopo quell’incontro viene nominato Salvatore Rossi come nuovo presidente di Tim e Luigi Gubitosi, amministratore delegato come espressione del fondo Elliott.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Andiamo dunque al Meeting di Comunione e Liberazione, quest’anno sponsorizzato da Tim, dove è previsto un intervento di Arnaud De Puyfontaine, il presidente di Vivendi arriva in compagnia proprio di Andrea Pezzi, che durante il meeting prima si intrattiene a parlare riservatamente con un consulente del settore della difesa, Daniele Ruvinetti, e poi con l’ex ministro Maurizio Lupi.

GIORGIO MOTTOLA Buongiorno, mi chiamo Giorgio Mottola.

ARNAUD DE PUYFONTAINE – PRESIDENTE VIVENDI Piacere.

GIORGIO MOTTOLA Sono giornalista della televisione pubblica Rai3, Report.

ARNAUD DE PUYFONTAINE – PRESIDENTE VIVENDI Magnifica televisione, magnifica televisione.

GIORGIO MOTTOLA Grazie.

GIORGIO MOTTOLA Vorrei chiederle se è vero che nel 2018 ha partecipato a un incontro presso la sede dei servizi segreti italiani.

UFFICIO STAMPA Non era organizzata questa intervista!

GIORGIO MOTTOLA Faccio il giornalista non devo organizzare tutte le interviste.

GIORGIO MOTTOLA È vero? Ci può dare una risposta? So che c’era anche lei signor Pezzi a questa riunione, è vero? Nel 2018…

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Non so di cosa parli….

GIORGIO MOTTOLA Se ha partecipato a una riunione…

ANDREA PEZZI – CONSULENTE No.

 GIORGIO MOTTOLA Non c’era?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Non credo.

GIORGIO MOTTOLA So che lei aspettava fuori mentre De Puyfontaine era all’interno.

GIORGIO MOTTOLA Avete parlato delle nomine di Tim durante questa riunione?

UFFICIO STAMPA Stop, Basta! Stop!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Arnaud De Puyfontaine non risponde a nessuna delle nostre domande ma al suo posto lo fa Andrea Pezzi.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Non escludo evidentemente che un importante investitore straniero possa aver avuto il bisogno o comunque la possibilità di incontrarsi con chi riferisce al governo del Paese la posizione e lo voleva fare in modo diretto. Questo non lo escludo. Ma mai, mai, perché organizzato da me o in mia presenza, insomma.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa ci faceva al Meeting di Rimini con Arnaud De Puyfontaine?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Io sono un advisor di Arnaud De Puyfontaine. Lo aiuto, come forse le dissi quel giorno, a fare da traduttore culturale tra l’approccio cartesiano, se mi si consente dei francesi a quello troppo machiavellico di alcune partite del nostro Paese.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei è il consigliere machiavellico di De Puyfontaine?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE No, aiuto… diciamo che decodifico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il decodificatore Andrea Pezzi emerge nel pieno dello scontro tra Berlusconi e Bollorè. Viene scelto infatti come mediatore per aiutare Vivendi a portare a casa un accordo con Mediaset.

GIORGIO MOTTOLA Perché in quella vicenda fu scelto proprio lei? In ballo c’erano miliardi e miliardi di euro.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Ma non ho avuto un ruolo così importante, per cui lei mi attribuisce in questa frase un ruolo, come se fossi stato io quello che ha creato l’opportunità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il ruolo importante però glielo attribuisce Vivendi che per la mediazione con Berlusconi, gli paga una parcella da un milione e mezzo di euro.

GIORGIO MOTTOLA Lei di lavoro non faceva il negoziatore.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Io faccio l’advisor degli amministratori delegati dal 2003, da quando uscito dalla televisione.

GIORGIO MOTTOLA Ah lei faceva l’advisor di amministratori delegati?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Lo facevo per comunicazione, per progetti specifici.

GIORGIO MOTTOLA Lei consigliava imprenditori ma all’epoca non aveva dei grandi successi imprenditoriali, le sue aziende andavano tutte malissimo.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE No… io la ringrazio per questa considerazione…no, non andavano male.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Andrea Pezzi decide di diventare imprenditore agli inizi degli anni 2000 quando la sua carriera di conduttore televisivo andava a gonfie vele. All’epoca era l’idolo delle giovani generazioni: volto noto di Mtv, la tv più alla moda di quel periodo.

ANDREA PEZZI ARCHIVIO Buonasera, dunque questa è Kitchen.

ANDREA ZOPPOLATO – EX SOCIO PEZZI Ai tempi era il numero uno dei nuovi conduttori televisivi. Parliamo di un Andrea Pezzi che aveva tre programmi contemporaneamente nelle tv nazionali.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Ma mentre è all’apice del successo, Pezzi decide di scomparire per qualche anno dai radar televisivi. Riappare, molto cambiato nello stile e nei contenuti, nel 2006 con un programma su Rai2, il Tornasole. In una delle puntate ospita un personaggio molto controverso.

IL TORNASOLE - 2006 Un momento importante per me, Antonio Meneghetti! Il professor Meneghetti!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pezzi offre quasi mezz’ora del suo programma a Meneghetti per esporre i principi della discussa dottrina di cui si professa fondatore e a cui il conduttore si è molto avvicinato negli ultimi anni: l’ontopsicologia!

IL TORNASOLE - 2006 L’ontopsicologia non è che l’ho scoperta così. Quando curavo le persone, ne ho curate centinaia senza medicine, io volevo capire: perché l’uomo è stupido?

GIANNI DEL VECCHIO – AUTORE “OCCULTO ITALIA” Antonio Meneghetti è il guru dell’ontopsicologia che, secondo lui, era una nuova scuola di pensiero psicologica. In realtà è stata messa nel report del 1998 da parte del Ministero degli interni come una delle nuove sette italiane.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Meneghetti è un ex frate francescano, oggetto di venerazione da parte dei suoi adepti che in un borgo medioevale in Umbria gli hanno costruito una statua dopo la sua morte nel 2013. Negli anni ’80 Meneghetti finisce al centro di indagini per associazione a delinquere, usurpazione di titoli e truffa da cui verrà assolto e poi in un’inchiesta per omicidio colposo per cui verrà condannato.

ANTONIO MENEGHETTI Salve sono il professor Antonio Meneghetti. Che cos’è l’ontopsicologia?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Meneghetti propone la sua ontopsicologia come metodo terapeutico per curare problemi psicologici o per potenziare la personalità dei suoi seguaci che vengono reclutati tra i pazienti. Tempo dopo alcuni di loro si sono rivolti a Silvana Radoani, che da anni si occupa di studi sulle sette.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa era accaduto a queste persone?

SILVANA RADOANI – ANTROPOLOGA Erano state avvicinate da qualcuno aderente all’ontopsicologia. Gli viene appunto intimato di allontanarsi da tutto se vuole evolvere, rapporti con la famiglia, rapporti con il mondo del lavoro, amici, conoscenti, tutto.

GIORGIO MOTTOLA Quindi isolare l’adepto da tutto il mondo esterno?

SILVANA RADOANI – ANTROPOLOGA Da tutti quindi ridursi proprio in completa balia del fondatore, questo Antonio Meneghetti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E molto discusso è stato anche il rapporto di Antonio Meneghetti con le sue adepte.

SILVANA RADOANI – ANTROPOLOGA I capi dell’ontopsicologia, a partire da Meneghetti, hanno sempre fatto largo uso di sesso e sessualità, anche a scopo di insegnamento.

ANTONIO MENEGHETTI - ONTOPSICOLOGO Ci sono delle donne che sono soltanto femmine. Anche se la donna, magari durante un amplesso, ha goduto di questa rivelazione, dopo due o tre minuti nella sua memoria non resta niente. A meno che, le cose sono diverse se la donna a un certo momento arriva ad avere obbedienza umile, dice: io non capisco ma faccio solo quello che dici tu.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La vita da guru di Antonio Meneghetti parte negli anni ’80 quando dà vita a una comunità di seguaci dell’ontopsicologia che si installa qui in Umbria, a Pissignano sul Clitunno, in un borgo medievale allora abbandonato, che il sedicente professore ribattezza Lizori. In pochi anni gli adepti lo ripopolano, comprando tutte le case del centro storico.

GIORGIO MOTTOLA Era un po’ la capitale?

FAUSTO PIERONI – PRESIDENTE COOPERATIVA ONTOLIZORI La capitale.

 GIORGIO MOTTOLA Tutti i seguaci dell’ontopiscologia nel mondo venivano qui?

FAUSTO PIERONI – PRESIDENTE COOPERATIVA ONTOLIZORI Non mi piace seguaci.

 GIORGIO MOTTOLA E come…

FAUSTO PIERONI – PRESIDENTE COOPERATIVA ONTOLIZORI Diciamo tutti gli interessati.

GIORGIO MOTTOLA Il movimento dell’ontopsicologia è stato spesso descritto come una setta, anzi una psicosetta.

FAUSTO PIERONI – PRESIDENTE COOPERATIVA ONTOLIZORI Io so che il professor Meneghetti ha ricevuto mi sembra tre premi cultura della presidenza del consiglio dei Ministri, una marea di riconoscimenti vari. Ecco, mi ci viene da ridere, io non ci ho trovato niente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E tra coloro che all’inizio degli anni 2000 compra casa a Lizori, per stare vicino a Meneghetti, c’è anche Andrea Pezzi.

GIANNI DEL VECCHIO – AUTORE DI “OCCULTO ITALIA” Pezzi per l’ontopsicologia è un po’, passami il paragone, è un po’ Tom Cruise per Scientology. Perché per tutti questi gruppi settari è importantissimo scrollarsi di dosso no, il marchio d’infamia dell’essere una setta e quale modo migliore quello di avere un personaggio pubblico.

GIORGIO MOTTOLA C’è chi dice che lei stava all’Ontopsicologia come, fatte le dovute proporzioni, Tom Cruise a…Scientology!

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Guardi, glielo lo lascio dire. Non è vero, Io non credo che sia così. Però, io rivendico. Lo dico con grande franchezza.

GIORGIO MOTTOLA Beh, ha dato grande visibilità comunque, l’ha portato anche in tv.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE L’ho portato al Tornasole. Qualcuno ha usato la parola setta.

GIORGIO MOTTOLA Psicosetta.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Se è vero, io credo nessuno debba mai settarizzare la vita reale, per cui … ripeto…sono anni della formazione, quindi lo rivendico. Sono felice di averlo fatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo rivendica anche perché ha avuto un ruolo nella sua carriera di imprenditore. Negli anni 2000 Pezzi è un affermato conduttore, particolarmente apprezzato dai giovani. Ma è permeabile alle novità, si appassiona ad una nuova dottrina: l’ontopsicologia. Una controversa dottrina che nel 1998 finisce nel report del Viminale, tra le nascenti sette. Ha come guru Meneghetti, un ex prete francescano, controverso un po’ anche lui e infatti anche lui finisce in questo report del Viminale, perché cita alcuni reati che però non hanno nulla a che fare con l’esercizio della dottrina, per questo Meneghetti verrà anche risarcito dal Viminale. Ha un suo patrimonio cospicuo in Italia però fonda una Fondazione a Lugano nel 2007, Fondazione Meneghetti. Ma era già tempo attivo addirittura dal 1998 aveva dei corsi presso l'Università Statale di San Pietroburgo, finanziati addirittura dal governo russo, corsi di Ontopsicologia. Anche in Brasile dal 2000 dove c’era addirittura una Scuola per l’amministrazione che porta il nome di Meneghetti. Solo che per insegnare, per avere la docenza in quei corsi, dovevi aver conseguito il Master a San Pietroburgo. Secondo Meneghetti l’Ontopologia serviva per curare, come terapia, per le nevrosi e le frustrazioni, ma secondo l’antropologa Radoani, insomma veniva applicata con metodi discutibili. I seguaci finivano con l’essere completamente in balia dei maestri per i quali insomma lo strumento necessario era anche quello del sesso. Sempre secondo Meneghetti l’Ontopsicologia serviva anche a formare leader. Ed è per questo che nel 2006 Meneghetti a lui e al suo allievo di punta Pezzi vengono spalancate le porte di un partito. Il 2006 è un anno magico per Pezzi perché incontra lungo la strada i finanziamenti per le sue imprese, ma anche il manager di Mondadori France, Arnaud de Puyfontaine, che 8 anni diventerà amministratore delegato di Vivendi, presidente di Tim poi membro del Consiglio di amministrazione di Tim. Proprio Tim che diventerà la gallina dalle uova d’oro per Andrea Pezzi ma anche per i suoi soci.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2006 l’Ontopsicologia prova a fare il suo debutto in politica. Pezzi e Meneghetti sono invitati d’onore al Congresso dei Circoli del Buongoverno di Marcello Dell’Utri, allora senatore di Forza Italia, poco tempo prima condannato in primo grado a nove anni e mezzo per concorso esterno in associazione mafiosa.

ANDREA PEZZI - CONGRESSO CIRCOLI DEL BUON GOVERNO - 2006 Buonasera a tutti io mi chiamo Andrea Pezzi e sono felice di essere venuto qui. Oggi è un sintomo abbastanza evidente di quanto in Italia per chi fa il mio mestiere sia complicato prendere una posizione di apertura ad un mondo che è quello del centrodestra.

GIORGIO MOTTOLA Come mai nel 2006 decide di avvicinarsi a Dell’Utri?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE No, dell’Utri, no. No, no, no.

GIORGIO MOTTOLA Lei e Meneghetti in quella fase dovevate diventare una sorta dei formatori dei giovani che ruotavano intorno a dell’Utri?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Questa mi sembra una balla di proporzioni inadeguate.

GIORGIO MOTTOLA All’epoca lui stringe anche un rapporto con Marcello Dell’Utri?

ANDREA ZOPPOLATO – EX SOCIO PEZZI Mi ha detto che lo aveva conosciuto e gli piaceva perché lui si occupava ai tempi dei giovani di Forza Italia. E Andrea gli piaceva l’idea del potere dare una mano a formare le persone che volessero far politica.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Io sono andato soltanto un convegno in cui mi hanno invitato a parlare. Questa mia curiosità che ogni tanto evidentemente mi punisce, intellettuale.

GIORGIO MOTTOLA Bastava soddisfare questa curiosità online e scoprire che Dell’Utri era già indagato per mafia e aveva già bei problemi.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Mi perdoni, questo è il punto di vista giusto e corretto di chi ha la sua mentalità. Io credo che le persone soprattutto quando hanno storie complicate non ti inquinino se tu li incontri con un animo positivo. E non ho paura di incontrare anche il peggiore dei criminali.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’incontro con Dell’Utri però sembra tutt’altro che casuale. In quel periodo infatti la Fininvest di Silvio Berlusconi aveva deciso di investire molti soldi in una società appena fondata da Pezzi alla fine degli anni ‘90: Ovo. Un’azienda che si basava sul progetto di una video-enciclopedia con lemmi costituti da brevi clip sul modello Mtv.

ANDREA ZOPPOLATO – EX SOCIO ANDREA PEZZI Mi richiama nel 2006 e mi dice: ce l’abbiamo fatta! Ho trovato chi ci finanzia. Lì o subito dopo mi ha detto che era una società del gruppo Berlusconi. L’idea era fare la Mtv alla, tra virgolette, Piero Angela. Cioè invece di avere tre minuti di video di Micheal Jackson, tre minuti in cui ti parlo del golf, in modo molto pop, tre minuti in cui ti parlo di Milano. GIORGIO MOTTOLA Di storia, di cultura…

ANDREA ZOPPOLATO – EX SOCIO ANDREA PEZZI Qualunque cosa. Era sostanzialmente la Wikipedia su video.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Attraverso una società lussembrughese, la Trefinance, Silvio Berlusconi investe nell’azienda di Andrea Pezzi e ne diventa socio. Per Fininvest sarà un bagno di sangue. Il Biscione, infatti, esce da Ovo nel 2011 con perdite pari a sette milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Berlusconi con Ovo c’ha perso molti milioni di euro?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Hanno scelto purtroppo di perderci perché hanno deciso … diciamo hanno deciso poi… di liquidare un’azienda che ha avuto delle difficoltà finanziarie. Devo dire, con un po’ di orgoglio, che il piano industriale che io nel 2006 feci e presentai agli azionisti è stato confermato nella mia vita. Io nella ripartenza riuscì a costruire la piattaforma distributiva su internet e tutta la mia storia imprenditoriale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nonostante il fallimento milionario, Andrea Pezzi prosegue il progetto di Ovo, continuando a fondare società su società tra Milano e Londra. Di nuovo non ha grande fortuna ma poi arriva la svolta: nel marzo del 2015, entra in società con Andrea Pezzi, Davide Serra, uomo d’affari e tra i principali finanziatori di Matteo Renzi, allora primo ministro.

GIORGIO MOTTOLA Posso chiederle come nasce questo suo rapporto con Serra?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE È nato occasionalmente. C’è stato un confronto su dei punti di vista rispetto al digitale e in questa discussione probabilmente lui ha ritenuto che il mio modo di argomentare fosse solido.

GIORGIO MOTTOLA Davide Serra è già considerato il grande sostenitore di Renzi.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Sì, non ho commenti su questo, non è certamente per la sua simpatia nei confronti di Renzi che invece ha sempre caratterizzato le nostre discussioni in modo molto dialettico. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Davide Serra diventa socio di Pezzi in un’azienda che si occupa di pubblicità digitale che cambia cinque volte nome in 10 anni. Prima Sprei2, poi Sfera Investimenti, quindi Gagoo, a un certo punto Myntelligence e infine Mint. Nell’azionariato dopo Serra, entra anche la Seven Capital Partners di cui fanno parte alcune figure di spicco vicine al giglio magico renziano: Francesco Bianchi, fratello del presidente della fondazione Open Alberto Bianchi, e Fabrizio Landi, finanziatore della fondazione Open e nominato dal suo governo nel cda di Leonardo.

GIORGIO MOTTOLA Anche in questa Seven Capital ci sono figure molto vicine al mondo renziano.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Io le posso dire che non ho mai incontrato Renzi in vita mia e non sono stato mai un suo elettore. Giusto per essere molto chiari.

GIORGIO MOTTOLA Però ha conosciuto e incontrato e fatto affari con le persone più vicine a Renzi…

ANDREA PEZZI – CONSULENTE A me dispiace, cosa le devo dire?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Con questa compagine societaria Mint si lancia nel settore della pubblicità on line, riesce a ottenere importanti appalti con società partecipate. Quattro milioni e mezzo di euro vengono da Enel, nel cui cda sedeva all’epoca sedeva fino al 2019 Alberto Bianchi, 100 mila euro da Poste Italiane e soprattutto Tim. Nel 2020 il fatturato di Mint passa da 100 mila euro alla cifra record di 54 milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Tipo il record mondiale dell’aumento di fatturato.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE No, non è così. Molta parte del nostro fatturato, veniva fatto, noi avevamo una società in Inghilterra, una società in Italia, queste crescite sono date dal fatto che noi a un certo punto capiamo che era necessario attraverso la nostra tecnologia accedere direttamente ai budget dei clienti. Il modello è quello della delega di pagamento perché tecnicamente sulla pubblicità, Google, Facebook, le grandi piattaforme internazionali vogliono essere pagati a 30 giorni, i clienti non vogliono pagare a 30 giorni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi per alcuni clienti Mint anticipa i costi della spesa pubblicitaria che finisce però nel fatturato finale della società. Nel 2020 su 54 milioni di euro di entrate, 28 milioni vengono da Tim, che è il principale cliente di Pezzi. Nel 2021, la società telefonica ha affidato in esclusiva a Mint la gestione di tutta la sua pubblicità on line con un contratto che prevede il pagamento di cinque milioni di euro all’anno per i prossimi cinque anni, prorogabili per altri cinque.

EX DIRIGENTE TIM Tim per Pezzi è stata la gallina dalle uova d’oro. È dopo aver ottenuto l’esclusiva per la pubblicità digitale di Tim che la sua azienda è cresciuta poi in maniera esponenziale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E in realtà l’azienda telefonica non è stata la gallina dalle uova d’oro solo per Pezzi. Dopo i contratti chiusi con Tim, un fondo francese ha deciso di investire nella società dell’ex conduttore e ha acquisito le quote di Serra e della Seven Capital.

GIORGIO MOTTOLA Nel momento in cui il fondo francese ha comprato le quote della sua società immagino che siano stati adeguatamente retribuiti?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Nel caso specifico di chi ha messo del capitale, ha avuto una gradevole plusvalenza.

GIORGIO MOTTOLA Ma…mi spiega come mai Pezzi è così importante per Vivendi?

EX MANAGER DI TIM Perché Pezzi ha creato dei rapporti a Vivendi con il mondo politico e con le istituzioni italiane.

GIORGIO MOTTOLA Lei interloquisce con soggetti politici, parlamentari, istituzionali di questioni riguardanti Tim?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE No. Mi è capitato di riferire messaggi che Vivendi, perché non erano in Italia, mi ha chiesto di riferire quando e se c’erano le circostanze per poterlo fare e di riportare a mia volta messaggi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un messaggero, ma anche come ha detto anche lui stesso in precedenza il traduttore culturale dall’approccio cartesiano dei francesi a quello fin troppo machiavellico di alcune partite che si giocano nel nostro Paese. Sarà un nostro limite sicuramente, ma non abbiamo ben capito qual è l’ambito in cui si svolge questa consulenza di Pezzi. Che dobbiamo dire la verità più che un abile imprenditore fino a quel momento si era rivelato un abile conduttore. Ed è, a proposito di approccio machiavellico, un fatto che l’imprenditore Pezzi spicchi il volo nel momento in cui comincia ad ottenere contratti per la gestione della pubblicità dentro Tim. E non fa il volo da solo ma imbarca nel 2015 anche un socio, Davide Serra, che è uno dei più grandi sostenitori di Renzi che è anche il premier in quel momento. Sono i mesi in cui Vivendi sta scalando indisturbata Telecom. Poi nel 2019, a gennaio del 2019, Pezzi imbarca anche nella società Mint anche la Seven Capital, società che fa riferimento a Francesco Bianchi, fratello di Alberto Bianchi che è presidente della Fondazione Open, la “cassaforte” secondo i magistrati che aveva sostenuto Renzi. Open aveva chiuso i battenti proprio pochi mesi prima. Insomma, Serra e Seven Capital, entrano come soci nel momento giusto. Nel 2020 su 54 milioni di euro di entrate, 28 milioni provengono da Tim che addirittura nel maggio del 2021, in un contratto affida la gestione in esclusiva a Mint tutta la pubblicità on line, un contratto blindato 25 milioni per cinque anni, rinnovabili per i prossimi cinque anni. Ora che cosa succede? Con questo contratto ricco, formidabile, in pancia arriva un fondo francese che rileva le quote di Davide Serra e di Seven Capital che escono con una ricca plusvalenza. Sono stati bravi a credere nelle virtù di Pezzi. Ora Pezzi ha anche un altro socio in Mint, Carlo De Matteo, chi è Carlo De Matteo?

GIORGIO MOTTOLA Come faceva Pezzi ad avere tutti questi rapporti?

EX DIRIGENTE TIM La chiave di volta è stata Deborah Bergamini, nell’ultima legislatura lei era vicepresidente della commissione parlamentare che si occupava di telecomunicazioni e quindi anche di Tim. È stata lei che l’ha messa in contatto con presidenti di commissioni, sottosegretari e ministri di tutti i partiti, inclusi anche quelli della Lega e Cinque Stelle.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Deborah Bergamini, deputata di Forza Italia e sottosegretaria del governo Draghi, è stata una delle figure chiave di Fininvest e del cerchio magico berlusconiano all’inizio degli anni 2000, periodo in cui il Biscione investiva nella società di Pezzi.

DEBORAH BERGAMINI – DEPUTATA FORZA ITALIA Un alto dirigente di Tim ci dice che lei ha aiutato Pezzi a costruire rapporti con la politica negli ultimi anni. GIORGIO MOTTOLA No, io sono un politico, Andrea pezzi è un mio amico. In questo senso sicuramente ha costruito un rapporto con me.

GIORGIO MOTTOLA Ma l’ha aiutato a mettersi in contatto con altre figure del mondo politico? Ci hanno detto addirittura anche del mondo dei cinque stelle, del mondo della Lega.

DEBORAH BERGAMINI – DEPUTATA FORZA ITALIA No, lo escludo totalmente, non so chi glielo abbia detto. Direi che interrompiamo qui la nostra conversazione.

GIORGIO MOTTOLA Ma come è nato il suo rapporto con Pezzi?

DEBORAH BERGAMINI – DEPUTATA FORZA ITALIA Queste sono questioni che… non so perché devo rispondere, è un mio amico.

GIORGIO MOTTOLA Il suo compagno però lavora con Andrea Pezzi, giusto?

DEBORAH BERGAMINI Sì.

GIORGIO MOTTOLA È l’amministratore delegato, Carlo De Matteo.

DEBORAH BERGAMINI – DEPUTATA FORZA ITALIA No, non è l’amministratore delegato. Avete una informazione sbagliata.

GIORGIO MOTTOLA Carlo De Matteo, giusto? DEBORAH BERGAMINI – DEPUTATA FORZA ITALIA Sì.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Carlo De Matteo è consigliere di amministrazione di Mint e socio di Pezzi in Tef, l’holding che possiede la quota di maggioranza di Mint e che annovera come azionista anche Cristiana Capotondi, compagna storica di Andrea Pezzi.

CRISTIANA CAPOTONDI La mission dell’associazione è promuovere un movimento culturale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Cristiana Capotondi, insieme a De Matteo, Pezzi e Deborah Bergamini hanno costituto nel 2019 un’associazione politico culturale “Io sono”, prende spunto dagli insegnamenti di Meneghetti e organizza dibattiti pubblici. L’anno scorso l’ospite d’onore è stata il ministro della giustizia, Marta Cartabia.

GIORGIO MOTTOLA Da quello che ci hanno raccontato Debora Bergamini l’aiuterebbe a intrecciare relazioni istituzionali e politiche.

ANDREA PEZZI - CONSULENTE Falsità assolute, Debora Bergamini è un’amica.

GIORGIO MOTTOLA Quindi con la Bergamini non parlate mai d’affari quando vi vedete?

ANDREA PEZZI - CONSULENTE No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi Pezzi e Bergamini di affari non parlerebbero mai. Qualche volta però è molto probabile che il discorso sia finito sull’ontopsicologia.

GIORGIO MOTTOLA Ha fatto parte anche del gruppo di ontopsicologia?

DEBORA BERGAMINI - DEPUTATO FORZA ITALIA Ma sta …

GIORGIO MOTTOLA Del movimento di Meneghetti?

DEBORA BERGAMINI - DEPUTATO FORZA ITALIA Vuole venire al supermercato con me?

GIORGIO MOTTOLA No, le voglio chiedere

UFFICIO STAMPA Qui temo che non possiate entrare

GIORGIO MOTTOLA Ci hanno detto che si è laureata in Russia. È vero? ci può rispondere?

 DEBORA BERGAMINI No, non è vero.

GIORGIO MOTTOLA Non si è laureata, ma ha frequentato il corso, è vero o no?

GIORGIO MOTTOLA Corrisponde al vero che Deborah Bergamini ha frequentato il corso di ontopsicologia in Russia?

ZOPPOLATO – EX SOCIO DI ANDREA PEZZI No questo…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma poi a margine dell’intervista, Andrea Zoppolato ci confessa di aver frequentato il corso di ontopsicologia che negli anni 2000 Meneghetti teneva in Russia e ammette che tra gli studenti c’erano anche Andrea Pezzi e Deborah Bergamini.

GIORGIO MOTTOLA La Bergamini era in questo corso di psicologica ontologia?

ANDREA ZOPPOLATO – EX SOCIO DI ANDREA PEZZI Sì.

GIORGIO MOTTOLA Perfetto. E Pezzi?

ANDREA ZOPPOLATO – EX SOCIO DI ANDREA PEZZI Pezzi sì, nel senso io al master e lui alla laurea.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo quanto abbiamo ricostruito, in quello stesso periodo, Deborah Bergamini sarebbe stata uno dei principali elementi di contatto tra Pezzi e il presidente di Vivendi Arnaud De Puyfontaine, che all’inizio degli anni 2000 lavorava per Berlusconi, come responsabile di Mondadori in Francia.

GIORGIO MOTTOLA Come ha conosciuto De Puyfontaine?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE La prima volta nel 2006.

GIORGIO MOTTOLA Quando era in Mondadori?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Quando era in Mondadori Francia.

GIORGIO MOTTOLA Ha avuto un ruolo Debora Bergamini nella conoscenza di De Puyfontaine?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Non direttamente, non direttamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindici anni dopo, Andrea Pezzi è diventato il consigliere più ascoltato di Vivendi in Italia. E secondo le testimonianze che abbiamo raccolto avrebbe svolto un ruolo di primo piano nelle partite strategiche di Tim.

EX DIRIGENTE TIM Ovviamente Pezzi non può che negare, ma per esperienza diretta vi posso assicurare che lui ha molta più influenza rispetto all’amministratore delegato attuale di Tim. Anzi gira voce è che stato proprio lui a consigliarlo a Vivendi.

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Non ho voglia neanche di parlare mi fa abbastanza sorridere perché è semplicemente ridicolo. È una persona che conosco, che io abbia espresso Labriola attiene all’universo di fantasilandia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il rapporto tra Pezzi e l’attuale amministratore delegato di Tim Labriola comincia in Brasile nel 2016. Nell’aprile di quell’anno Pezzi fonda una società, Myintelligence Brasil, e prova a ottenere un contratto con Tim Brasile attraverso Labriola, che all’epoca era il responsabile marketing dell’azienda. Poiché l’operazione non va in porto, Myintelligence Brasil viene chiusa. Ma poi nel 2019, Pezzi apre Mint Brasile e, nel giro di qualche mese, ottiene un contratto da oltre un milione di euro per curare la pubblicità online di Tim Brasile, il cui amministratore delegato era diventato da poco Pietro Labriola.

EX DIRIGENTE TIM Già all’ora Pezzi aveva rapporti con Vivendi. E negli anni successivi gli ha conferito un potere enorme sulle questioni interne di Tim.

GIORGIO MOTTOLA Quindi che tipo di consigli dà a Vivendi?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Loro direbbero che io sono un ambasciatore dell’Italia, prima ancora che dei francesi nel senso che ho sempre cercato di convincerli che Tim ha bisogno di un grande lavoro di concerto con le istituzioni italiane.

GIORGIO MOTTOLA Sarebbe complicato credere che lei non si sia mai occupato di Tim, anche nell’interesse di Vivendi, perché altrimenti che tipo di consulenze fa a De Puyfontaine? Sui ristoranti e sugli abiti italiani?

ANDREA PEZZI – CONSULENTE Come le dicevo, Vivendi ha i suoi consulenti che sono banche d’affari e all’interno di questo viaggio hanno ritenuto che il punto di vista di una persona indipendente e libera e onesta intellettualmente e fuori dagli schemi e dai sistemi di potere, hanno ritenuto di chiedermelo. Però devo dire che il mio è stato un ruolo non di merito, mai.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Qual è allora il suo ruolo in Tim? A domanda precisa: se interloquisce abitualmente con Pezzi su questioni riguardanti Tim, Pietro Labriola ci ha risposto che nelle società quotate “l’amministratore delegato si interfaccia costantemente con i rappresentanti designati dagli azionisti”. E dunque sì. Dialoga con Pezzi. Questo se volete è un piccolo un tassello, anche se volete di colore, di un quadro molto più complesso. In 25 anni di privatizzazione Tim non è riuscita a scrollarsi di dosso la politica, che continua a condizionarne le sorti senza tutelare l’interesse pubblico, senza tutelarla dagli imprenditori rapaci. Nel 1997, Telecom nata dalle ceneri di Sip, aveva un fatturato equivalente a 23,2 miliardi di euro, oggi è di 15,8 miliardi. Non aveva debiti netti, oggi ne conta 23,3 di miliardi di debiti. Telecom nel ‘97 era il sesto operatore al mondo, era presente in 30 Paesi diversi con delle sue filiali, oggi è a San Marino e in Brasile. Aveva 120.345 dipendenti, oggi sono 52.333. In quegli anni Telecom era stata anche premiata come la più innovativa del mondo, perché aveva introdotto la carta prepagata. Oggi somiglia molto più ad un tavolo da sparecchiare dai resti di un banchetto. In questi anni hanno banchettato gli azionisti privati che si sono spartiti oltre 60 miliardi di dividendi. Hanno spolpato parte del patrimonio immobiliare. Hanno partecipato al banchetto anche consulenti esterni che per smontare e rimontare, ristrutturare, la società hanno incassato 4,7 miliardi di consulenze. Tutto questo mentre i dipendenti sono da 14 anni in solidarietà. Ora l’amministratore delegato Pietro Labriola ha presentato un progetto in cui… ha presentato due Tim diverse: una è Netco, dove nella pancia c’è la rete fissa, gran parte dei debiti e gran parte dei dipendenti, un po’ una bad company. E poi c’è Servco, dove c’è la rete mobile, c’è il cloud e poi anche la cybersecurity. Il progetto quello di vendere la rete fissa a Cassa Depositi e Prestiti. Sì ma a che prezzo? Nel ‘97 la privatizzazione di Telecom ha portato nelle casse dello Stato l’equivalente di 14 miliardi di euro. Oggi solo per comprare la rete fissa lo Stato dovrebbe spendere 30 di miliardi di euro. Per questo c’è un progetto del governo, progetto Minerva del governo Meloni, che prevede quasi, prevede di ricomprarla tutta la Tim, perché converrebbe. Ma con chi parlerebbe dei Francesi della nazionalizzazione di Tim? Uno dei king maker, potrebbe essere proprio l’ex veejay, Pezzi, con tutto il bagaglio però che si porta dietro. Noi continueremo a seguire le vicende di Tim, continueremo a parlare della sua crisi finanziaria e del futuro dei dipendenti.

Il nuovo Registro delle Opposizioni: ecco come difendersi dal telemarketing aggressivo. La redazione di internet-casa, Raffaele N. Redattore Internet-Casa il 14 Aprile, 2022.

Le chiamate da parte degli operatori di telemarketing diventano sempre più insistenti. Capita a tutti noi infatti di ricevere almeno due chiamate a settimana, su rete fissa o mobile, da parte di un operatore che ci chiede se siamo interessati ad attivare una nuova offerta. Ciò provoca qualcosa di simile a un “terrorismo telefonico”: riceviamo molto spesso non solo chiamate da operatori di telemarketing, ma anche quelle chiamate “fantasma” in cui nessuno risponderà al tuo “pronto?”.

Perché siamo costantemente bombardati di chiamate di promozione?

Non è un caso infatti che, secondo una ricerca Eurostat, il mercato del call-center in Italia sarà destinato a crescere passando da 2,85 miliardi del 2015 a quasi 3,4 miliardi nel 2022. 

Perché è un mercato destinato a crescere? Le aziende fornitrici di servizi si servono del telemarketing per:

Svolgere attività di promozione

Raccogliere informazioni sui potenziali clienti

Convertire i clienti, ossia farli passare da un contratto ad un altro

In particolare, chi si serve maggiormente del telemarketing sono le aziende che offrono servizi e non prodotti: il marketing telefonico permette infatti all’azienda di poter facilmente entrare in contatto con il cliente, descrivere il servizio e procedere con la sottoscrizione del contratto.

Telemarketing aggressivo: cos’è e quali sono i rischi?

Le chiamate dai call-center non sono illegali, seppur molto spesso non siano apprezzate dai consumatori. Tuttavia, i clienti non hanno modo di difendersi da tutte quelle attività considerate “moleste” e “aggressive”. Immagina di essere chiamato da un operatore, il quale ti propone di cambiare offerta in modo insistente e fastidioso. Oppure, immagina di essere chiamato per rilasciare informazioni personali per accedere ad alcuni servizi. O, ancora, immagina di essere chiamato più e più volte durante la settimana. Questi sono tutti esempi di “telemarketing aggressivo”.

Non è solo fastidioso, ma può anche essere una minaccia per la tua privacy: una tecnica in particolare è quella del “vishing” (o “phishing digitale”), che consente al truffatore di ottenere informazioni private tramite una voce automatica registrata.

Una ricerca condotta da Truecaller nel 2019, ha dimostrato che circa il 47% delle chiamate di telemarketing effettuate da provider di servizi energetici e televisivi erano chiamate di spam.

Inoltre, le chiamate di spam sono aumentate dal 2018 al 2019 del 7%. Si pensi anche all’incremento delle chiamate dai “finti operatori telefonici”: questi, fingendosi per provider come TIM, Vodafone e Fastweb, ottengono dati fondamentali direttamente dai clienti, i quali pensano di parlare con i veri operatori. Lo stesso avviene tramite email. 

Quello del telemarketing aggressivo non è un fenomeno da prendere alla leggera. Un esempio sono le attivazioni indebite di contratti di servizi nei confronti di coloro che hanno bisogno di maggiore assistenza, spesso anziani o disabili, o al trattamento illecito di dati personali con il fine promozionale.

Il nuovo Registro delle Opposizioni

A tal proposito, il Governo italiano ha deliberato con DPR 26/2022 la creazione di un nuovo Registro pubblico delle opposizioni, che permetterà ai consumatori di bloccare chiamate indesiderate sia da fisso che da cellulare. In realtà, il Registro delle Opposizioni viene per la prima volta istituito nel 2011 ma era rivolto unicamente alle utenze fisse e postali.

Il nuovo Registro delle Opposizioni entrerà in vigore a partire dal 27 luglio e l’iscrizione sarà gratuita: basterà comunicare il numero telefonico che si intende proteggere attraverso un modulo online sul sito web o per via telefonica. L’iscrizione, sarà portata a termine il successivo giorno lavorativo. Le compagnie di telemarketing, quindi, dovranno aggiornare mensilmente le loro liste contatti prima di poter promuovere telefonicamente un’iniziativa: in questo modo, i contatti iscritti nel Registro non saranno chiamati.

Consigli su come difendersi dal telemarketing aggressivo

Come possiamo difenderci dal telemarketing aggressivo prima dell’entrata in vigore del nuovo registro?

Oggigiorno, tanti sono i modi per poter informarsi in merito agli operatori telefonici o ai fornitori di energia. Per questo motivo, se desideri non ricevere più chiamate promozionali, ti consigliamo diversi modi:

Il primo, è quello di chiedere formalmente alla compagnia di non chiamare più il vostro numero. Questo può essere fatto durante la chiamata con l’operatore o inviando una email/raccomandata alla società in cui espressamente si chiede la cancellazione del vostro numero dalla lista dei contatti per fini promozionali.

Il secondo modo è quello di bloccare definitivamente il contatto tramite il vostro smartphone. Dopo aver ricevuto la chiamata, i possessori di Android e iOS hanno la possibilità di bloccare il contatto direttamente dalle ultime chiamate ricevute.

È possibile scaricare delle App (che non sono totalmente infallibili) che ti permettono di capire chi ti sta chiamando.

Infine, come menzionato anche prima, registrandosi sul sito del Registro delle Opposizioni. Questo metodo risulta essere quello più valido e definitivo. Per altre informazioni, puoi consultare direttamente il sito web.

Seppur possa sembrare quasi impossibile evitare questi servizi, tanti e semplici sono i modi per poter affrontare meglio una chiamata di telemarketing aggressivo.

Raffaele N. Redattore Internet-Casa

Alessandro Longo per “la Repubblica” il 22 ottobre 2022.

Se avete un cellulare lo sapete già: le telefonate di telemarketing moleste ci colpiscono ancora nonostante il nuovo registro delle opposizioni. Ma il problema principale è che dovremo sopportare tutto ciò per alcuni mesi ancora - se tutto va bene, fino al 2023-2024. Sono questi infatti i tempi - secondo quanto ha appreso Repubblica - di cui hanno bisogno le due autorità incaricate del problema: Garante Privacy e Autorità Garante delle Comunicazioni (Agcom).

Già qualche settimana dopo l'avvio - il 26 luglio - del nuovo registro erano arrivati i primi sondaggi da parte di associazioni dei consumatori secondo cui la maggior parte degli iscritti continua a ricevere le chiamate moleste. Non che ora vada meglio. Dopo un dimezzamento ad agosto e settembre, forse dovuto alla necessità dei call center illegali di capire la situazione, a ottobre sono aumentate.  

Per tornare a livelli più vicini a quelli precedenti al registro. «I miei sondaggi confermano la tendenza non positiva riguardo alle chiamate di telemarketing indesiderate», spiega Agostino Ghiglia, componente del Garante per la protezione dei dati personali.

Ricordiamo che chi è iscritto al registro rende illecite, in automatico, tutte le chiamate pubblicitarie a quel numero. Salvo quelle di un'azienda con cui abbiamo un contratto attivo, a cui però possiamo comunque comunicare di non volere ricevere contatti pubblicitari. Se l'utente dà il consenso, dopo l'iscrizione, a una qualche azienda può continuare a ricevere lecitamente le sue chiamate. Basta però rinnovare di nuovo l'iscrizione al registro per fare tabula rasa dei consensi dati nel frattempo.

Questo è un primo motivo che spiega - in parte - l'ondata di chiamate agli iscritti al registro: «A volte gli utenti danno il consenso senza accorgersene, anche quando navigano sul web», spiega Ghiglia. Ci sono in realtà anche casi di aziende che falsificano il consenso degli utenti - manipolando il registro di siti web telefonici - come denunciato da un recente servizio di Striscia la Notizia. Ci sono infine anche i call center che, semplicemente, ignorano il nuovo registro e nemmeno si preoccupano di procurarsi un consenso, per quanto falso.

Qui il cuore del problema: «Da parte nostra, non possiamo che aumentare il nostro lavoro sui casi segnalati dagli utenti e così arrivare a fare eventuali sanzioni. Ma oggi stiamo analizzando ancora quelli di 18-24 mesi fa», dice Ghiglia. Ergo: le prime sanzioni post registro le vedremo nel 2024. «Siamo solo 120 persone, con i nuovi assunti in arrivo tra un anno saremo 180, un terzo di quelli che dovremmo essere. Al garante francese sono in 450.  

La situazione è drammatica, le indagini sono difficoltose e devono riguardare anche Paesi extra-ue, dove si nascondono i call center illegali. Prima dobbiamo scoprire dove sono, poi individuare i responsabili, chiedere loro informazioni, aspettare risposte. Solo quando abbiamo accertato le colpe possiamo emettere le sanzioni». 

Il governo ha già detto che il nuovo registro delle opposizioni è solo uno dei tasselli di un piano di misure a contrasto degli illeciti. Un altro, già individuato, è un nuovo codice di condotta a cui lavora Agcom, con il Garante privacy e tutti gli operatori del settore. Gli aderenti si impegneranno con il codice a rifiutare ogni contratto che viene da fonte non sicura.

Da leggo.it il 20 ottobre 2022.

Vi siete iscritti al Registro delle opposizioni ma continuano ad arrivarvi le telefonate dei call center? Non siete gli unici. Assoutenti, che sta ricevendo le proteste dei cittadini che si sono iscritti al nuovo strumento avviato lo scorso 27 luglio, parla apertamente di fallimento, perché non solo le telefonate non sono diminuite, ma in molti casi sono persino aumentate.

«Il nuovo Registro pubblico delle opposizioni va verso il "fallimento"». Lo strumento si è rivelato «inadeguato ad assicurare una efficace tutela degli utenti, al punto che le telefonate commerciali non solo proseguono senza sosta ma, in alcuni casi, hanno registrato un sensibile incremento», fa sapere Assoutenti.

«Ad oggi 3 milioni di italiani hanno aderito al Registro nella speranza di non essere più vittime di telefonate indesiderate, ma riceviamo moltissime segnalazioni sulle chiamate commerciali che provengono da call center stranieri o da numeri fittizi creati da appositi software», spiega il presidente Furio Truzzi.

«Il paradosso, però, è rappresentato dal fatto che alcuni utenti, subito dopo l'iscrizione al Registro, hanno visto aumentare il numero di telefonate ricevute, ottenendo un effetto diametralmente opposto a quello sperato», sostiene il presidente. In tal senso «bene fa Agcom a chiedere alle società telefoniche di bloccare i numeri senza prefisso nazionale».

«Il telemarketing, poi, ha cambiato pelle, e nell'ultimo periodo sono aumentate le chiamate che pubblicizzano non contratti di energia o telefonia, ma trading online, acquisto di bitcoin e investimenti finanziari», aggiunge Truzzi. «È evidente che serve un cambio di rotta per correggere uno strumento che, ad oggi, si è rivelato fortemente inadeguato e per questo chiameremo il prossimo Governo e modificare urgentemente la normativa prevedendo, così come hanno fatto altri paesi a partire dall'Olanda, un sistema 'Opt-in', per cui solo chi si iscrive al Registro fornisce espresso consenso al telemarketing e quindi può ricevere telefonate commerciali», conclude il presidente.

Massimiliano Di Giorgio per "il Venerdì - la Repubblica" il 20 gennaio 2022.

Un fantasma si aggira tra le bollette degli utenti della telefonia fissa: quello degli elenchi telefonici di carta. Chi ha più di vent' anni, se li ricorda: volumi spessi con la lista alfabetica di quasi tutti gli abbonati della città, le cosiddette Pagine Bianche, distribuiti nei condomini o casa per casa (mentre le Pagine Gialle erano l'elenco degli esercizi commerciali). 

Dal 2012, con l'avvento definitivo di internet e degli smartphone, gli elenchi non rientrano più per legge negli obblighi del servizio, e sono quasi scomparsi. Ma non dalle bollette di diversi utenti, che continuano a trovarsi ogni anno la cifra di 3,90 euro - Iva inclusa - per la loro consegna. «Credo che a me e altri condòmini arrivino ancora» racconta perplesso al Venerdì un utente che ha notato quella strana voce in bolletta. «Ma restano qualche giorno nell'androne del palazzo e poi vengono gettati».

Quanti sono gli utenti che ancora pagano? Non ci sono numeri precisi, però la voce "corrispettivo annuo consegna elenchi telefonici" comparirebbe su una buona parte delle bollette per le circa venti milioni di linee fisse esistenti. Molti non ci fanno caso, altri invece lo scoprono all'improvviso leggendo il conto, che spesso non viene neanche più inviato per posta, proprio per ridurre le spese e l'accumulo cartaceo. 

Che cosa si deve fare per smettere di pagare? Dare la disdetta, spiega l'Agcom, attraverso un modulo normalmente disponibile sul sito web degli operatori telefonici, annullando così il pagamento dall'anno successivo. Per quanto riguarda il rimborso di quanto già versato, aggiunge l'authority delle telecomunicazioni, «andrà chiesto all'operatore e, laddove quest' ultimo non intenda fornirlo, dopo aver presentato formale reclamo si potrà agire in sede conciliativa».

Tim, l'erede dell'ex monopolista telefonico Telecom che oggi detiene circa il 44 per cento delle linee fisse, precisa che il servizio non riguarda i nuovi clienti (che devono chiedere espressamente gli elenchi). La consegna dei volumi, oggi, è affidata a ItaliaOnLine, società nata dalla vecchia Seat. Molti però lamentano di non riceverli. «Può capitare che l'elenco venga depositato in prossimità delle abitazioni» spiega Tim in una nota, «questa modalità comporta che a volte il cliente non venga in possesso della copia a lui destinata perché sottratta indebitamente da persone non destinatarie del prodotto». U anche se per molti è solo un ricordo, Chi ha una vecchia linea fissa una volta all'anno se lo ritrova tra le voci della bolletta. uscirne, però, si può. richiedendo la disdetta del servizio.

Iliad, offerta in fibra ottica wifi: si parte da 15,99 euro al mese a 5 Giga di velocità. Paolo Ottolina su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2022.

Iliad ha presentato la sua attesa offerta per la connettività a Internet in casa, basata sulla rete in fibra ottica. Quello che molti chiamano (impropriamente) l’offerta per il “wifi”. L’operatore francese è arrivato in Italia nel 2018 e in tre anni e mezzo finora ha conquistato 8,5 milioni di clienti in Italia. Ora il rilancio sulla fibra ottica con la stessa filosofia già utilizzata con successo nella connettività 4G e 5G. Benedetto Levi, l’ad di Iliad Italia, ha ricordato come l’ingresso sul mercato italiano sia stato dirompente per molti aspetti: Iliad ha messo molta pressione alla concorrenza, grazie ad offerte ricche di Gigabyte (“Nel 2018 la media era di 8 GB al mese, noi siamo partiti con 30 GB e abbiamo alzato via via l’asticellla. Oggi la media di mercato è 7 volte quella del 2018” ha ricordato Levi) e con prezzi molto aggressivi. L’altro componente della ricetta Iliad in Italia è stato la ricerca di offerte chiare, trasparenti, “per sempre” ovvero senza rimodulazioni delle tariffe in tempi successivi.

L’offerta aggressiva per le connessioni domestiche

Da queste linee guida Iliad si è mossa anche per attivare la sua offerta “wifi” su fibra ottica. “Abbiamo fatto i compiti a casa – ha detto Levi -, studiando i dettagli commerciali della concorrenza. Dai clienti abbiamo avuto la richiesta di fare sulla fibra quello che abbiamo fatto sul mobile”.
E l’offerta messa in campo da Iliad è molto aggressiva. Si parte da 15,99 euro al mese per chi è già cliente Iliad sui cellulari, che salgono a 23,99 euro per chi non lo è. La proposta riguarda solo connessioni in fibra “pura” (FTTH) ed è disponibile per 7,5 milioni di case e oltre 250 città, quelle raggiunte dalla rete Open Fiber con cui Iliad ha stretto un accordo.

La fibra Iliad viaggia a 5 Giga al secondo

Iliad ha messo punto un suo router, chiamato Iliadbox: design circolare e connettività fino a 5 Gigabit al secondo (in download, mentre sono 0,7 in upload). A 1,99 euro al mese si potrà noleggiare un Extender per portare il wifi dove non arriva, in case o uffici di grandi dimensioni. Nel frattempo l’ad Levi non è entrato nel merito dei colloqui, riportati dall’agenzia Reuters per prima, tra Iliad e Vodafone per unire le attività italiane: «Andiamo avanti da soli, come abbiamo fatto negli ultimi 3 anni e mezzo», ha detto il numero 1 di Iliad Italia. 

Iliad fibra wifi a 15,99 al mese conviene? Il confronto con gli altri. Paolo Ottolina su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2022.

Iliad entra sul mercato della connettività per casa FTTH. Senza una Sim il prezzo sale a 23,99 e Milano, Torino e Bologna si viaggia a 1 Gigabit e non a 5 Gigabit. I dettagli del router Iliadbox: design e soluzioni intelligenti ma manca il Wi-Fi 6

La proposta Iliad

Iliad ha appena lanciato la sua offerta per la connettività domestica in fibra ottica (wifi). Nel maggio 2018 l’operatore francese - che secondo voci di stampa sta trattando con Vodafone per fondere le attività italiane - aveva debuttato in Italia nella telefonia mobile. Finora ha conquistato 8,5 milioni di clienti, con una crescita rapidissima dovuta ai prezzi aggressivi e alla trasparenza nelle offerte. Su questi stessi presupposti base il suo attacco al mercato della connettività residenziale in fibra ottica (FTTH): l’offerta parte da un prezzo finora mai visto, di 15,99 euro al mese per una linea veloce da 5 Gigabit al secondo.

Su entrambe le caratteristiche (costo mensile e velocità) è bene però entrare nei dettagli, per capire come la proposta di Iliad si rapporta a quelle degli altri operatori già attivi sul mercato del fisso.

Durante l’evento di lancio, Iliad ha presentato anche il suo modem router: si chiama Iliadbox, ha un’originale forma circolare e merita anch’esso un piccolo approfondimento.

Trasparenza e nessuna voce Trasparenza e nessuna voce nascosta

Durante la presentazione del nuovo servizio, l’amministratore delegato di Iliad Italia, il 31enne Benedetto Levi, ha rimarcato più volte altri aspetti della filosofia dell’azienda fondata dal francese Xavier Niel.

Iliad sui cellulari ha portato molti Giga per pochi euro («Oggi l’offerta media di Giga sul mercato italiano è 7 volte quello che era nel 2018, prima del nostro debutto», ha spiegato Levi dal palco di Milano). Ha però anche fatto leva su un’offerta estremamente chiara, senza clausole nascoste e senza rimodulazioni, cioè senza ritocchi (verso l’alto) delle tariffe pattuite al momento della sottoscrizione. Anche l’offerta fibra di Iliad nasce, dice l’azienda francese, nel segno della trasparenza: la promessa è di non avere riduzioni di velocità, aumenti della quota mensile, offerte promo che scadono e fanno lievitare i prezzi, clausole vessatorie strampalate. Tutte pratiche purtroppo ben note ai clienti italiani e spesso sanzionate dall’AgCom.

L’offerta fibra di Iliad ad esempio non ha vincoli di durata: spesso gli operatori chiedono un impegno minimo di 24, 36 o anche 48 mesi, addebitando dei costi fissi se si recede prima del termine pattuito. Ma è davvero conveniente? E quanto? Cerchiamo di capirlo confrontandolo con la concorrenza.

Il prezzo e il confronto con gli altri

Iliad fibra costa 15,99 euro. Attenzione però: il prezzo è soltanto per chi è già cliente Iliad nella telefonia mobile. E non basta avere una Sim Iliad, magari abbandonata in un cassetto e ricaricata con una manciata d’euro 1-2 volte l’anno. È necessario che per la Sim sia attivo un «metodo di pagamento automatico (IBAN, carta di credito, carta prepagata)».

Senza questa condizione si passa a 23,99 euro.

Se non si è clienti mobili Iliad, l’offerta dei francesi diventa più o meno in linea con la concorrenza. Nel momento in cui scriviamo, solo per citare le aziende più note, WindTre parte da 22,99 euro al mese (ma è un’offerta «convergente» per chi ha già una Sim Wind, altrimenti si sale a 26,99); Aruba parte da soli 17,49 euro che salgono tuttavia a 26,47 euro dal 13° mese; Vodafone ha un’offerta da 24,90, stesso prezzo per Sky (per 18 mesi, poi diventano 29,90), Fastweb e Tiscali partono da 25,95, Tim da 24,90 (con offerta «amico», che salgono a 29,90 dopo 12 mesi).

Nulla vieta però di procurarsi un Sim Iliad alla tariffa minima mensile (quella Voce), che parte da 4,99 euro al mese: la spesa con Iliad in questo caso partirebbe da 20,98 euro al mese, comunque inferiore a tutti i rivali.

Iliad prevede inoltre telefonate illimitate verso fissi e cellulari in Italia e anche verso i fissi di oltre 60 destinazioni internazionali. Se usate ancora il telefono fisso è da tenere in considerazione: Vodafone non fa pagare, ma Wind e Sky ad esempio prevedono uno scatto alla risposta, mentre Tim non include nulla (c’è una tariffa Internet+Telefono illimitato a 27,90 euro). 

Alle cifre mensili di Iliad vanno aggiunti 40 euro (39,99) per l’attivazione. Una somma non enorme ma di cui tener conto, soprattutto se non siete certi di legarvi a lungo all’operatore francese: se dopo un anno doveste passare a un altro fornitore di connettività, il prezzo mensile di Iliad va aumentato di 3,33 euro.

Nonostante questi 40 euro, Iliad ha calcolato che un’offerta combinata fisso-mobile (9,99 per i cellulari + 15,99 per la fibra) consente in 12 mesi di risparmiare una quota mensile dall’8% fino al 27% a seconda dei principali concorrenti. 

I conti rispetto agli altri operatori

 

I conti rispetto agli altri operatori

La linea e dove si può attivare Iliad Fibra

A differenza di altri operatori che, a seconda dell’area geografica offrono abbonamenti con prestazioni diverse (vecchie Adsl, soluzione miste fibra-rame, fibra ottica), Iliad entra nel solo mercato della fibra “pura”, quella cosiddetta FTTH (fiber to the home). Il cavo di fibra ottica arriverà fino a casa. Iliad pubblicizza una velocità «fino a 5 Gbit complessivi» in download, mentre in upload si arriva a 700 Megabit al secondo (ovvero 0,7 Gbit).

I 5 Giga sono una delle velocità più alte oggi disponibili: soltanto Tim, con la sua offerta (sperimentale) Tim Magnifica, vende una 10 Gigabit.

Iliad però potrà commercializzare la sua offerta solo per i 7,5 milioni di famiglie già raggiunte dalla rete Oper Fiber. Iliad ha anche investito in FiberCop, la newco di Tim. In Oper Fiber Iliad non si limita a «rivendere» la fibra: ha acquistato fibra «spenta» e ha installato i suoi apparati di rete, questione tecnica che avrà un riflesso diretto sulla qualità del servizio.

I 5 Gigabit al secondo sono «complessivi» perché Iliad calcola il totale delle porte disponibili sul suo modem-router: un singolo dispositivo potrà arrivare (via cavo Ethernet) a un massimo di 2,5 Gigabit.

Infine, i 5 Gigabit sono disponibili sono nelle “zone con tecnologia EPON Iliad” (Ethernet-capable Passive Optical Network). Per le zone con “tecnologia GPON” (Gigabit-capable Passive Optical Network), che il gruppo identifica nelle città di Milano, Torino e Bologna, si scende a un massimo di 1 Gbit in download e 300 Mbit in upload.

Il router Iliadbox: com’è, cosa manca

Disegnata e progettata da Iliad, la iliadbox è il modem router che viene fornito agli abbonati. Ha un design circolare gradevole, ha un foro sul retro che permette anche di appenderla a un muro, magari vicino a dove arriva la fibra ottica in casa. Consente una velocità complessiva di 5 Gigabit al secondo, così suddivisi:

- fino a 2,5 Gbit/s su 1 porta Ethernet

- fino a 1 Gbit/s su altre 2 porte Ethernet

- fino a 0,5 Gbit/s in Wi-Fi.

Sopra ha un piccolo display che può visualizzare un QR Code con cui collegarsi al Wi-fi senza digitare password. La rete domestica viene gestita tramite un’app, Iliadbox Connect: tra le altre cose consente, sempre tramite QR Code, di far collegare gli ospiti presenti in casa a una rete Wi-Fi «guest».

A 2,99 euro al mese Iliad offre un servizio di sicurezza digitale basato su Antivirus McAfee.

Il limite principale dell’iliadbox? Il Wi-Fi non supporta il più recente standard Wi-Fi 6, ma solo il precedente Wi-Fi 5. Al momento è un limite modesto, visto che i dispositivi che supportano Wi-Fi 6 non sono così diffusi. Ma Iliad parla di un router «sostenibile» pensato per durare 10 anni, per combattere l’obsolescenza programmata: sul lungo periodo l’assenza degli standard Wi-Fi più recenti (alle porte c’è già Wi-Fi 6E, più veloce di Wi-Fi 6).

Gli Extender

Durante l’evento di oggi, Iliad ha presentato anche un ultimo accessorio. Si tratta di un extender da associare all’iliadbox per espandere il segnale wi-fi e coprire al meglio anche le case e gli uffici con grandi dimensioni o molti muri portanti che rendono inefficiente la rete wireless. Il funzionamento è molto semplice, pressoché automatico, ed è basato sul concetto di Wi-Fi mesh (cos’é? Una spiegazione).

Gli extender costano 1,99 euro al mese (in locazione) l’uno, se ne possono aggiungere fino a 4.

Telecom: come si uccide un’azienda strategica per soldi. Milena Gabanelli, Daniele Manca e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.

Poco più di 20 anni fa Telecom era il sesto operatore al mondo, oggi è diciassettesima. E non è colpa del mercato. Allora come ha fatto a ridursi così? Partiamo dall’inizio. 

La madre di tutte le privatizzazioni

Telecom nasce nel 1994 dalla fusione di Iritel, Telespazio, Italcable e SIRM, società del gruppo pubblico STET che già opera nel settore delle telecomunicazioni. Nel 1995 lancia Tim, il primo operatore italiano dedicato esclusivamente alla telefonia mobile. Nel 1997 è la quarta impresa in Italia per fatturato: l’equivalente di 23,2 miliardi di euro, e una elevata redditività. Non ha debiti netti, conta una trentina di partecipazioni internazionali, un patrimonio immobiliare pari a oltre 10 miliardi di euro e 120.345 dipendenti. 

Nello stesso anno il governo Prodi con Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, per mettere a posto i conti e raggiungere così l’obiettivo dell’entrata nell’euro, decide di privatizzare il meglio che c’è. Telecom va sul mercato con la più ampia offerta di titoli fatta da un governo italiano: viene superato il milione di richieste. Le azioni sono collocate a 10.902 lire (5,6 euro) e dalla vendita del 35,26% del capitale si ricavano 26 mila miliardi di lire (circa 14 miliardi di euro). Il gruppo di riferimento tanto corteggiato dal governo è guidato dal gruppo Fiat, che acquista appena il 6,6% delle azioni, e attraverso l’Ifil la famiglia Agnelli con solo lo 0,6% assume il comando. L’azionariato oltre ad essere poco solido è anche litigioso.

I capitani coraggiosi

Nel 1999 una cordata di imprenditori guidata da Roberto Colaninno, numero uno di Olivetti, lancia un’offerta pubblica d’acquisto tramite la controllata Tecnost. L’operazione da 102 mila miliardi di lire (circa 50 miliardi di euro) sulla totalità delle azioni di Telecom Italia è quasi tutta a debito, garantito da Comit, Cariplo, Monte dei Paschi, Bnl, Banca di Roma, Commerzbank, Bank of America, Mediobanca, Chase Manhattan, Lehman Brothers. Olivetti ci mette 10 miliardi di euro, ricavati dalla vendita di Omnitel e Infostrada. Tra i costi della storia di Telecom bisogna mettere in conto anche il passaggio di controllo all’estero proprio di Omnitel, da cui nascerà il colosso mondiale delle tlc Vodafone.

Una piramide di società

Tecnicamente l’offerta pubblica è lanciata da Tecnost, società quotata controllata da Olivetti, che rileva il 52,12% di Telecom Italia. Ad indebitarsi è quindi la Olivetti attraverso la controllata Tecnost. Olivetti a sua volta è controllata dalla finanziaria lussemburghese Bell, in cui Roberto Colaninno e il manager bresciano Emilio Gnutti hanno fatto confluire un gruppo di 150 investitori (per la maggior parte schermati da società offshore). Sopra la Bell ci sono la Fingruppo di Colaninno e la Hopa di Emilio Gnutti. Un sistema a piramide che permette il controllo di Telecom con appena l’1,5% del capitale. Ad appoggiare la scalata è il governo guidato allora da Massimo D’Alema, che boccia le azioni di difesa studiate da Telecom Italia (la fusione con Deutsche Telekom, oggi terzo gruppo al mondo), non esercita il diritto di veto (golden share), impedendo con ordine scritto a Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, di valutare opzioni più favorevoli per gli azionisti, e battezza come «capitani coraggiosi» gli imprenditori della cordata. Nessun Paese ha mai accettato un’opa ostile nei confronti di una società strategica, ma tant’è.

I capitani incassano e lasciano il debito

Il problema dei nuovi soci è trovare il modo di far affluire i ricchi profitti di Telecom lungo la cascata di società e tamponare i debiti. L’intenzione di Colaninno è quella di fondere Tecnost e Telecom (leveraged buyout), ma il Codice civile italiano vieta la fusione fra la società veicolo che si indebita al fine di acquisire la società madre e ripagare con la cassa generata da quest’ultima. Tenta allora di trasferire il controllo di Tim a Tecnost, un’operazione che avrebbe penalizzato gli azionisti di minoranza e definita dal Financial Times «una rapina in pieno giorno», infatti la sola indiscrezione provoca un’ondata di vendite. Un piano industriale non c’è, e nel 2001 Colaninno e soci vendono tutto il pacchetto portandosi a casa una plusvalenza di 1,5 miliardi di euro e la Imsi, la società del gruppo con dentro gli immobili di pregio. A Telecom e alle società collegate restano i 43 miliardi di debito da cui la compagnia non riuscirà più a sollevarsi. 

Arriva Tronchetti Provera

A comprare è Pirelli, di cui è amministratore delegato Marco Tronchetti Provera, attraverso la Olimpia, una società che sta sotto Pirelli, e con dentro la famiglia Benetton e altri investitori italiani. Olimpia è controllata dal Gruppo Partecipazioni Industriali (GPI), con Tronchetti Provera primo azionista. Anche lui compra quasi tutto a debito: con 7,2 miliardi di euro Olimpia si prende il 27% delle azioni Olivetti e il comando di Telecom. I soldi sborsati da Tronchetti Provera di tasca sua equivalgono a meno dell’1% del capitale Telecom. Nel 2003 cambia il diritto societario: il meccanismo del leveraged buyout diventa legittimo e la fusione tra Olivetti e Telecom stavolta si può fare. Questo rende possibile il trasferimento dei ricchi flussi di cassa lungo la catena di controllo, ma scarica definitivamente i debiti sull’azienda di telecomunicazioni.

I debiti crescono ancora

La stagione Pirelli è quella che dura di più. Il presidente Tronchetti Provera punta allo sviluppo di Internet attraverso la banda larga (si passa da 390 mila linee a 6,7 milioni nel 2006), tratta una partnership con la News Corp di Murdoch per la produzione di contenuti, avvia accordi con la spagnola Telefónica per allargare il mercato. Per abbattere il debito vende gli immobili che restano, partecipazioni internazionali per 16,4 miliardi di euro e svaluta attività per circa 11,8 miliardi di euro. I dividendi sono molto generosi con i soci. In 6 anni il fatturato resta costante attorno ai 30 miliardi l’anno, l’utile netto a 3 miliardi, e agli investimenti viene destinato il 17,5% del fatturato. Poi nel 2005 un’operazione rischiosa: Telecom acquista Tim, e il debito della società riesplode a 46,9 miliardi. Nel 2006, secondo governo Prodi, Rovati, consigliere di Palazzo Chigi, fa circolare un piano di scorporo della rete. La politica torna ad occuparsi di Telecom. La società è impiombata, il titolo in caduta libera. 

Da Telco a Telefónica a Vivendi

Nel 2007, con il titolo in caduta, Olimpia vende tutte le sue quote a Telco (l’operazione completa costa 4,1 miliardi di euro), consorzio formato da Mediobanca, Intesa Sanpaolo e Generali, che sceglie come partner industriale la spagnola Telefónica. Telco, con il 22,8% delle azioni ora controlla Telecom, su cui pesano 35,7 miliardi di debito. La collaborazione con Telefónica è difficile, e a giugno 2014 gli investitori istituzionali cedono le loro quote a Telefónica. Dunque l’operatore spagnolo, con solo il 15% delle azioni comanda Telecom. Ma dura poco. Più interessato agli asset sudamericani di Telecom e per nulla al rilancio della compagnia, nel 2015 Telefónica scambia parte delle sue quote con la francese Vivendi di Vincent Bolloré. In dieci anni tutti i processi di montaggio, smontaggio e rimontaggio della società arricchiscono schiere di consulenti: il costo per l’azienda è di 4,75 miliardi. 

Cambiano 4 ad in sei anni

Nei sei anni che seguono Telecom cambia nome in «Tim Spa», Vivendi diventa il primo azionista con il 23,75%, e si alternano 4 amministratori delegati: Marco Patuano, Flavio Cattaneo, Amos Genish, Luigi Gubitosi. In buonuscite Telecom Italia sborsa 33 milioni, di cui 25 a Flavio Cattaneo per un solo anno di incarico. 

Rientra lo Stato attraverso Cassa Depositi e Prestiti, che diventa il secondo azionista con il 9,81%. Cdp sarebbe in conflitto d’interesse perché ha anche partecipazioni in Open Fiber, concorrente di Telecom sullo sviluppo della rete in fibra. Con il Conte 1 entra anche il fondo Elliott, un hedge fund squalo non interessato allo sviluppo delle aziende in cui investe, ma a realizzare plusvalenze e vendere, tuttavia gli viene consentito di nominare il consiglio d’amministrazione. Sta di fatto che il debito azzoppa la società e gli investimenti sulla fibra non vanno avanti. A fine 2020 il fatturato scende a 15,8 miliardi, gli utili si attestano a 1,3 miliardi di euro, il debito resta fermo a 23,3 miliardi. A ottobre 2021 il titolo precipita al minimo storico: 0,28 euro. 

Entra in scena il fondo americano KKR

L’ultimo scontro per il controllo dell’azienda è tra il fondo americano KKR e la francese Vivendi. La procedura è inusuale: a fine novembre KKR invia una lettera a Tim nella quale manifesta l’interesse all’acquisto per circa 11 miliardi di euro, e indica il valore delle azioni a 0,50 euro. La lettera viene diffusa, e in Borsa il titolo raddoppia, ma l’offerta nella quale si indica in modo giuridicamente vincolante un prezzo, e da dove arrivano le risorse per l’acquisto, non è stata depositata alla Consob, come prevede il testo unico della finanza. Però l’Autorità di vigilanza non mette il Fondo alle corde. É legittimo pensare che qualcuno abbia fatto insider trading.

Una preda facile

Telecom è senza dubbio il più grande equivoco della storia industriale italiana degli ultimi 25 anni. Lanciata come «la madre di tutte le privatizzazioni», la società di telefonia non solo non è mai riuscita ad affrancarsi dal potere politico che spesso ne ha determinato le sorti senza tutelare l’interesse pubblico, ma sulla sua strada ha trovato imprenditori rapaci che l’hanno uccisa per fare soldi. Caricata di debiti non ha più avuto risorse da investire nella modernizzazione della rete, infatti abbiamo ancora 2,8 milioni di abitazioni senza connessione.

Nessuno Stato permette che venga compiuto un simile scempio sulla propria compagnia di telecomunicazioni, perché è un asset strategico, ed è lì che nascono e si sviluppano le competenze tecnologiche

Ora la partita sulla facile preda è aperta. Venerdì scorso è stato nominato il nuovo amministratore delegato Pietro Labriola, un manager che conosce molto bene l’azienda. Resta da vedere quali saranno le intenzioni dei soci e della politica.

·        Le furbate delle Assicurazioni.

Striscia la Notizia stana la compagnia assicurativa: ecco l'ultima furbata per non pagare. Libero Quotidiano il 02 marzo 2022.

Una vera e propria vergogna quella denunciata da Striscia la Notizia. Nella puntata di mercoledì 2 marzo andata in onda su Canale 5 Moreno Morello torna a mortase i pretesti curiosi e stravaganti delle compagnie assicurative per ritardare, diminuire o negare i risarcimenti ai danneggiati. Questa volta il sinistro riguarda un incidente tra due auto, di cui una va a finire addosso a una vetrina sfondandola.

Peccato che l'assicurazione non voglia pagare il danno alla vetrina. Il risultato? Ecco come se ne esce. "Il danno per il quale è chiesto il risarcimento deve essere reale e determinabile, requisiti questi che finora non siamo stati in grado di stabilire". "Come no?" si chiede Morello stupito. E infatti dietro l'inviato del tg satirico di Antonio Ricci c'è una vetrina completamente rotta. Improbabile che il danno non sia reale e quantificabile. 

Ma non è tutto, perché "sulla base dell'istruttoria è esclusa la possibilità che le lesioni o la morte siano avvenute nelle circostanze indicate nella richiesta danni". Anche in questo caso la risposta sorprende Morello: "Ma quale morte? Stiamo parlando di un vetro". Insomma, di scuse pur di non pagare la compagnia assicurativa sembra averne in quantità industriale. 

La Rc auto in Italia costa 84 euro più che in Europa: ma negli ultimi due anni i premi sono scesi del 21%. Andrea Greco su La Repubblica il 25 Luglio 2022. 

I blocchi delle attività hanno ridotto la differenza tra quanto pagano gli automobilisti italiani e quelli di Germania, Francia, Spagna, Regno Unito. Ma il distributore Segugio.it scrive: "I prezzi si sono ridotti ma non in modo coerente". E nel 2020 nel Paese una polizza veicolare rendeva sei volte più della media Ue  

La pandemia ha dato una grossa mano ai conti delle assicurazioni italiane, perché il crollo del numero dei sinistri durante i blocchi delle attività, quando era vietato a molti perfino circolare, ha fatto risparmiare molti più milioni di quelli che sono stati “restituiti” ai sottoscrittori di polizze Rc auto nel 2020 e nel 2021. Anche se i premi medi per assicurare i veicoli sono calati di oltre il 21% negli ultimi due anni, la polizza auto italiana resta più costosa rispetto a quella pagata nei maggiori Paesi europei: l’Ivass ha calcolato per il 2021 un differenziale medio di 84 euro, che è circa un terzo del premio medio pagato dagli italiani. Per chi si vuole consolare, questi 84 euro non sono mai stati così pochi: 11 anni fa erano 206 euro, e ancora nel 2019 si pagavano 91 euro in più rispetto all’Rc media di Germania, Francia, Spagna, Regno unito).

I sinistri in Italia costano di più

Storicamente, ed è noto, gli assicuratori italiani richiedono premi più alti, per due ragioni. La principale è legata al maggior costo dei sinistri, che nel 2019 era in media di 262 euro per polizza, contro 174 euro medi per gli altri Paesi dell’euro. Poi ci sono le spese di acquisizione e gestione dei contratti, più elevate che altrove. Tuttavia, questo differenziale è costantemente calato nell’ultimo decennio, con un complessivo -59% rispetto tra il 2011 e il 2020. Nel primo anno del Covid, le restrizioni che hanno determinato una riduzione della circolazione e degli incidenti hanno prodotto una riduzione che Segugio.it, un distributore online di prodotti di credito e polizze, ha stimato in un 9,5% medio rispetto all’anno prima. A fronte dei maggiori margini conseguiti, va detto che le imprese hanno continuato a ridurre i premi anche nel 2021: in un contesto di ripresa della circolazione stradale, i prezzi dell’Rc auto in Italia si sono ridotti di un altro 11,7% medio.

Margini ancora molto alti sull’Rc auto

Tuttavia, Segugio.it ha calcolato anche che il “margine tecnico” per ogni polizza sulla responsabilità civile venduta in Italia è ancora molto più alto che nel resto d’Europa. E’ una voce calcolata sottraendo al premio medio di tariffa il costo medio per sinistri e spese di acquisizione del contratto: e in Italia nel 2020 è stato di 36,2 euro per contratto, a fronte di soli 6,7 euro per la media degli altri quattro Paesi europei già citati. “Con l’arrivo del Covid i prezzi in Italia si sono ridotti più che nel resto d’Europa, ma non in misura coerente con la riduzione dei costi/sinistri, come mostra il netto aumento dei margini”, è il commento che si legge in una nota di Segugio.it. La società aggiunge: “Prima dell’arrivo del Covid, le imprese assicurative operanti in Italia erano in affanno, con margini negativi a seguito della prolungata fase di riduzione dei prezzi, mentre nel resto d’Europa la situazione era più equilibrata, con margini mediamente positivi”. Solo nel 2020, l’anno più flagellato dai lockdown, l’Ivass che vigila sul settore ha stimato nella relazione annuale che le compagnie italiane abbiano risparmiato 2,2 miliardi di euro nella dinamica tra premi e costo dei sinistri: e che di questi, solo 800 milioni erano tornati agli automobilisti in forma di sconti e promozioni, mentre il resto era andato a far lievitare del 45% i profitti sulle polizze.

Rc auto, dopo gli incassi record durante la pandemia ora le assicurazioni si preparano ad alzare i prezzi. “Adeguiamo le tariffe all’inflazione”, si giustificano le compagnie. Che però nei due anni dell’emergenza Covid hanno incassato “grazie” alla riduzione del numero di incidenti. «E non avrebbero problemi a far fronte all’aumento dei costi», attaccano le associazioni dei consumatori. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 18 Luglio 2022.

Chiamatela stangata, se volete. Oppure «adeguamento delle tariffe all’aumento dei costi dei sinistri», come si sono affrettati a spiegare i portavoce delle grandi compagnie di assicurazioni. Sta di fatto che l’onda lunga dell’inflazione sta per investire anche le polizze Rc auto. Per il mercato è un cambio brusco di rotta. Da una decina di anni, infatti, il balzello annuale che tutti gli automobilisti sono per legge obbligati a pagare è in calo costante: siamo passati dai 520 euro circa del 2014 ai 353 euro del primo trimestre del 2022.

·        I Ricconi alle nostre spalle.

I 100 marchi più forti al mondo: la regina è Apple, per l’Italia vincono Ferrari, Gucci e Prada. Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022

I brand più forti, dal valore più alto e più riconoscibili al mondo. La società di consulenza, Interbrand ha pubblicato la classifica dei Best Global Brands 2022, l’indagine che mette in fila le performance dei migliori 100 marchi a livello internazionale. Pensate, il valore medio di queste eccellenze ha superato per la prima volta nella storia i 3 mila miliardi di dollari. Con valutazioni record. Anche quest’anno le aziende del settore tecnologia dominano la classifica: Apple mantiene la prima posizione per il decimo anno consecutivo, mentre l’Italia è rappresentata dall’alta gamma soprattutto nel comparto moda con nomi come Gucci e Prada ma anche nell’automotive di lusso: si pensi a Ferrari. Ma vediamo la classifica nel dettaglio, posto che sui posizionamenti incidono la valutazione economica del brand, il ruolo svolto dal brand nel processo d’acquisto, la forza competitiva del brand e la sua capacità di creare fidelizzazione.

La top ten

I marchi tecnologici continuano a dominare la classifica rientrando nelle prime cinque posizioni a livello globale. La regina incontrastata è Apple che segna nel 2022 un aumento del 18% del valore del marchio (482.215 miliardi di dollari). Segue Microsoft (278.288 miliardi di dollari) che ha superato Amazon (274.819 miliardi) ora al terzo posto. Google (251.751 miliardi) mantiene invece il quarto posto mentre Samsung (87,689 miliardi) è quinta. Dalla sesta posizione in poi si esce dal settore strettamente tecnologico con nell’ordine: Toyota (59.757 miliardi di dollari), Coca-Cola (57.535 miliardi), Mercedes-Benz (56.103 miliardi), Disney (50.325 miliardi) e Nike che entra al decimo posto con un valore stimato di 50.289 miliardi superando McDonald’s all’undicesimo posto.

Tra le performance migliori per il 2022 gli analisti segnalano Microsoft, Tesla e Chanel che hanno registrato la maggiore crescita percentuale su base annua, aumentando il valore del loro marchio del 32%. Nonostante i successi inanellati e il primato di Elon Musk come uomo più ricco al mondo, Tesla non è però riuscita a replicare l’aumento monstre del 184% registrato nel 2021. Derby poi in casa Meta con Instagram che supera Facebook come marchio migliore della società di Menlo Park .

Il made in Italy

E il nostro Paese? L’Italia rappresenta il 3% tra i marchi internazionali maggiormente valutati (quelli Usa sono il 50%). Il primo brand italiano che si incontra in classifica è Gucci (20,417 miliardi) da anni al vertice del fashion internazionale e arrivato al 30esimo posto. Segue poi Ferrari al 75esimo posto, brand conosciuto in tutto il mondo per le sue auto di lusso e valutato 9,365 miliardi (+31% sul 2021). Chiude l’ambito del made in Italy Prada, che sale all’89 esimo posto dal 94esimo dell’anno scorso e che, secondo i dati di Interbrand, vale 6,548 miliardi in crescita del 21%.

Dice Lidi Grimaldi, managing director di Interbrand: «Il nostro studio conferma Gucci, Ferrari e Prada tra i brand italiani globali a maggior valore economico. La loro capacità di perseguire e mettere a terra visioni coraggiose e di creare linguaggi iconici rende questi brand dei veri e propri movimenti di cui le persone si fanno attive sostenitrici». A fare la differenza è la visione. «Prada, in particolare, è un rappresentante tutto italiano che ha dimostrato un’attenzione concreta e pionieristica rispetto alle dimensioni ESG, facendone uno dei suoi punti di forza. Gucci ha stretto rilevanti partnership e ha stabilito una solida strategia nel Metaverso che segna un investimento a lungo termine nei mondi virtuali e un’esperienza digitale completamente rafforzata. Ferrari continua a superare i confini della propria arena competitiva, la sua collezione moda è un concreto esempio in tal senso, senza rinunciare al suo focus strategico sull’innovazione di prodotto», conclude.

I nuovi ingressi e le uscite nella Top 100

Per alcuni marchi il 2022 è stato un anno complesso. Tanto che alcuni brand sono usciti dalla classifica dei campioni. Se Airbnb, Red Bull e il marchio tecnologico cinese Xiaomi sono i nuovi arrivati, Uber, Zoom e John Deere, il produttore di macchine agricole , sono tutti usciti dalla top 100.

L’Antitrust sanziona 14 case automobilistiche costrette a modificare le offerte di finanziamento. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Agosto 2022.

Per l' ’Autorità per la concorrenza: "Le modalità di presentazione delle offerte di acquisto con finanziamento e di leasing erano omissive e ingannevoli: veniva enfatizzato il contenuto importo della rata mensile oppure un prezzo non comprensivo di oneri finanziari o spese".

A seguito dell’intervento dell’Antitrust 14 case automobilistiche hanno modificano le offerte di acquisto con finanziamento e di leasing: lo rende noto l’ Autorità, spiegando che ha chiuso i procedimenti riguardanti FCA, Volkswagen, PSA, Renault, Toyota, Ford, BMW, Mercedes, Hyundai, Kia, Suzuki, Nissan, Honda, M.M. Automobili che non avevano fornito in modo chiaro le informazioni sulle condizioni economiche delle offerte di acquisto con finanziamento e di leasing “accettando gli impegni proposti” dalle società.

Nella nota dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato si apprende che “le modalità di presentazione delle offerte di acquisto con finanziamento e di leasing erano omissive e ingannevoli: veniva enfatizzato il contenuto importo della rata mensile oppure un prezzo non comprensivo di oneri finanziari o spese, relegando allo stesso tempo, in sezioni di non agevole lettura, informazioni essenziali sul costo da sostenere”. 

Il finanziamento è diventato ai nostri giorni una delle modalità più diffuse di acquisto delle autovetture nuove. Ai finanziamenti tradizionali caratterizzati da una lunga durata e da un anticipo di importo variabile, si sono affiancati i finanziamenti con maxirata finale. Più di recente, alcune case automobilistiche hanno iniziato a proporre ai consumatori, in alternativa all’acquisto, contratti di leasing di durata spesso triennale, strutturati sulla base di un rilevante anticipo, una rata mensile e, in caso di leasing finanziario, un’opzione di riscatto. “Si tratta – continua la nota dell’ Antitrust – di proposte piuttosto complesse per la presenza di differenti elementi (anticipo, un numero di rate mensili, maxirata finale /valore di riscatto), che permettono diverse ripartizioni dei pagamenti nel tempo“.

Gli impegni presentati dalle società riguarderanno sia la comunicazione digitale, sia quella tradizionale offline – prosegue l’Antitrust – “consentono al consumatore di comprendere, già da una prima lettura delle condizioni dell’offerta, l’entità dell’impegno economico richiesto e la sua distribuzione nel tempo. La concentrazione in un unico riquadro visivo di tutte le informazioni economiche rilevanti (l’entità dell’anticipo, il numero e l’importo mensile delle singole rate e dei canoni di leasing, l’entità del versamento finale, l’eventuale valore di riscatto, il TAN e il TAEG), presentate in modo chiaro e con adeguata evidenza grafica, permette al consumatore di calcolare con semplici operazioni aritmetiche il costo della vettura e comprenderne le modalità di pagamento nel tempo”.

Gli impegni proposti costituiscono quindi “un significativo miglioramento della comunicazione relativa alle condizioni di finanziamento perché riducono l’asimmetria informativa, assicurano condizioni di offerta trasparenti e immediatamente comprensibili, innovano la comunicazione del settore automobilistico e, soprattutto, mettono fine alla prassi corrente che enfatizzava al primo contatto il contenuto importo della rata (o del canone) mensile oppure un prezzo che non comprendeva oneri finanziari o spese” conclude la nota. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” il 12 luglio 2022.

Lo chiamavano il signore dei diamanti […] Maurizio Sacchi, 67 anni, amministratore delegato della Diamond Private Investment (Dpi spa), specializzata nella vendita di pietre preziose. Dal commercio dei diamanti, la società avrebbe guadagnato cifre da capogiro: 99 milioni e 413 mila euro. Un profitto, però, ottenuto secondo le indagini condotte dalla Guardia di Finanza, riciclando denaro derivato da una serie di truffe aggravate che avevano condotto all'arresto di Sacchi, il 3 luglio del 2020, all'aeroporto di Roma Fiumicino, mentre tornava da un viaggio.

Tra le oltre seicento vittime del raggiro anche il cantante Vasco Rossi, la conduttrice Federica Panicucci, la showgirl Simona Tagli e l'industriale Diana Bracco. Ora l'imprenditore è imputato davanti al Tribunale di Roma per autoriciclaggio, la prossima udienza si terrà il 24 ottobre. La Procura gli contesta anche l'accusa di truffa in un procedimento separato in cui ci sono altri imputati. 

[…] Le indagini […] hanno visto coinvolte 73 persone e molti istituti bancari, che […] compravano dalla Diamond Business spa e dalla Diamond Private per poi rivendere i diamanti a prezzi molto più alti. 

[…] Sacchi utilizzava la Dpi spa «per commercializzare diamanti a prezzi esorbitanti, in molti casi con la complicità delle banche […] attraverso le quali i prodotti venivano pubblicizzati in maniera ingannevole». […] Attualmente Sacchi è libero, ma i suoi beni sono ancora sotto sequestro: si parla di oltre 700 milioni di euro, quote societarie e attività finanziare per oltre 34 milioni di euro. […]

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 ottobre 2022.

Saranno stati pure belli i diamanti della «IDB Intermarket Diamond Business», ma tutto hanno portato meno che fortuna a chi in un modo o nell'altro li ha sfiorati. Collassata la società, che fatturava 200 milioni l'anno vendendo diamanti da investimento ai clienti di banche, e che è finita sommersa da sanzioni Antitrust e processi in mezza Italia quando sotto il teorico valore dei diamanti è affiorata la truffa ai risparmiatori con la complicità degli istituti di credito.

Suicida il suo ultimo amministratore delegato, Claudio Giacobazzi, uccisosi nel 2018 all'emersione sia della truffa sia della controversa gestione del patrimonio della multimilionaria proprietaria di «IDB», Antinea Massetti de Rico. Sei anni in stato vegetativo lei, nata poverissima e giovane collaboratrice di Michele Sindona, in coma (dal 2011 alla morte nel 2017) per una banale caduta mentre faceva colazione in un bar vicino al Duomo a Milano. Minato da un grave deficit cognitivo il suo secondo marito Richard Hile (dopo il primo musicista argentino protagonista di un Festivalbar), un modello americano bellissimo ma con l'età mentale di un bambino incapace di badare a se stesso, figurarsi ai beni della consorte in coma. 

E ieri condannati in primo grado a pene da 2 a 8 anni dal Tribunale di Milano il guardaspalle-maggiordomo marocchino (beneficiato da un apparente lascito di 2 milioni) e i notai-commercialisti-avvocati imputati dalle pm Giovanna Cavalleri e Cristiana Roveda d'aver architettato tra il 2012 e il 2015 strumenti giuridici (trust, clausole, nomine, consulenze, testamenti) finalizzati in apparenza a fare l'interesse della coppia, e in realtà invece a spolparli. Compresa la fetta finita in un trust da 70 milioni ora sotto sequestro (nel verdetto dei giudici Bertoja-Cotta-Dani) anche in vista di future controversie civili.

Franco Novelli, destituito dall'Ordine dei notai di Milano, ha avuto 8 anni e mezzo per associazione a delinquere, peculato, falso, circonvenzione d'incapace e sequestro di persona (lo spostamento di Hile a Viareggio nel luglio 2015 per sottrarlo al giudice tutelare di Milano). Due anni e 7 mesi a sua moglie Marzia Provenzano (già vicepresidente dell'Ordine dei commercialisti) per circonvenzione d'incapace, sequestro, e associazione a delinquere, nella quale concorre con il maggiordomo Mustapha Samaya (2 anni e 2 mesi anche per il sequestro) e il legale Alberto Consani (2 anni).

Assolto il figlio di Giacobazzi, Andrea, al quale giorni fa la sezione Misure di Prevenzione ha invece sequestrato in Appello 3,4 milioni come erede del padre. Anche l'avvocato Stefano Pillitteri, figlio dell'ex sindaco di Milano (Paolo), è stato assolto nel merito «per non aver commesso il fatto» da tre accuse di circonvenzione di incapace, mentre i giudici hanno riqualificato da peculato ad abuso d'ufficio un episodio per il quale hanno dichiarato la prescrizione.

La faida milionaria della dinastia Rothschild: eredità, dispetti (e l’amico Clinton). Paola De Carolis su Il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2022.

Lotta nella famiglia dopo il lascito di 600 milioni di Sir Evelyn alla moglie americana. A Londra il discorso funebre dell’ex presidente Usa che ha fatto appello all’unità del clan

Sir Evelyn de Rothschild, morto il 7 novembre a 91 anni, insieme con la terza moglie, l’americana Lynn Forester, 68 anni, che ha ereditato la fortuna della dinastia di banchieri

Di fronte all’eredità anche le famiglie più unite possono sfaldarsi. Quando la posta in ballo è qualcosa come 600 milioni di sterline, la tensione è forse inevitabile. A due settimane dalla perdita del capostipite, il ramo britannico dei Rothschild, dinastia bancaria dalla storia secolare, è in preda a faide interne che hanno allontanato la (terza) moglie del defunto Sir Evelyn dai figli di lui, lasciati a mani vuote dal testamento.

Il controllo del patrimonio della famiglia sarebbe stato intestato alla vedova, Lynn Forester, Lady de Rothschild, 68 anni, statunitense, e non ai figli Jessica, David ed Anthony. Stando alla ricostruzione di alcuni giornali britannici, la difficile relazione all’interno del casato è stata evidenziata anche dalla regia delle esequie tenutesi alla sinagoga liberale di St John’s Wood, a Londra. La cerimonia è stata orchestrata da Lady de Rothschild, che si è seduta al primo banco affiancata dai suoi figli (nati da un precedente matrimonio). I figli di Sir Evelyn sono invece stati messi lateralmente, tanto che la figlia Jessica, in segno di protesta, ha deciso di non unirsi alla processione che al termine ha seguito il feretro.

Come se ciò non bastasse, il discorso principale al funerale è stato affidato non ai figli, non a Lord Jacob, quarto barone de Rothschild e cugino di Sir Evelyn, bensì all’ex presidente Usa Bill Clinton, arrivato a Londra con la famiglia. I contrasti devono essere sembrati chiari anche a lui se nel suo intervento ha fatto appello all’unità: «Negli ultimi giorni — ha detto — ho pensato molto a Evelyn e all’ambiguo privilegio di nascere con un nome famoso ereditando l’obbligo di prendere decisioni su cosa farai dell’identità, dei mezzi e dei privilegi che ora ti appartengono e tutte le complicazioni che li accompagnano. A tutti voi che siete venuti qui con dubbi irrisolti e risentimenti — ha aggiunto — vi chiedo di perdonare».

Stando a conoscenti della famiglia, è difficile che le parole di Clinton abbiano l’effetto desiderato. Gli amici di vecchia data precisano tra l’altro che ha conosciuto Sir Evelyn appena 25 anni fa. «Il cugino Jacob sarebbe stata la persona cui chiedere di parlare, Evelyn ha vissuto 91 anni, ha avuto una vita piena prima di sposare Lynn, non è giusto interpretarla solo nell’ottica di questo ultimo capitolo».

Particolarmente sconcertante, per gli amici, è la decisione di lasciare tutto alla moglie, una donna che, sottolineano, non conosce bene il Regno Unito, è più interessata alla politica statunitense e con ogni probabilità deciderà di usare il capitale oltreoceano. Storicamente questo ramo dei Rothschild è legato alle maggiori innovazioni e campagne britanniche, dalla battaglia di Waterloo, al canale di Suez, alla metropolitana di Londra. Se il motto latino del casato è«concordia, integritas, industria», su quest’ultima generazione aleggia un clima di ostilità, se neanche al funerale — al quale hanno partecipato l’ex premier Tony Blair e la duchessa di York Sarah Ferguson con la figlia Beatrice, mentre re Carlo ha spedito un «elegante lettera di condoglianze» — i parenti sono riusciti a trovare il modo di andare d’accordo.

Libertà vigilata per Anna Sorkin. "Ho imparato tanto quando ero in prigione…" Una svolta al caso della truffatrice di New York. Anna Sorkin è ora in libertà vigilata e pensa a un podcadst e un libro sulla sua esperienza in galera. Carlo Lanna il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Di professione era una party girl e una donna influente che si muoveva con agilità all’interno della borghesia di New York. In realtà Anna Sorkin non era proprio nessuno. Ha truffato tutti lì nella Grande Mela e, una volta finita in prigione, il suo caso è rimbalzato sul web come una scheggia impazzita. Tanto è vero che nel 2021, proprio sulla vicenda di Anna Sorkin, Shonda Rhimes ha costruito e realizzato una serie per Netflix (ispirata a un articolo di giornale) che è diventata un successo di pubblico. Inventing Anna, questo il titolo dello show, ha raccontato nei minimi dettagli l’ascesa e la discesa della Sorkin – da tutti conosciuta come Anna Delvey -. Un fatto di cronaca è diventa una fiction, ma le vicende giudiziarie non si sono ancora concluse per l’ex truffatrice.

"Inventing Anna", la serie Netflix su una geniale truffatrice 

Come ha riportato il New York Times in un articolo pubblicato a inizio di ottobre, Anna Sorkin è uscita di prigione ma è in libertà vigilata. Il giudice per l’immigrazione Charles Conroy ne ha autorizzato il rilascio (agli arresti domiciliari) in quanto la validità del suo visto negli Usa è scaduta, e deve quindi essere rimpatriata in Germania. Nell’intervista al magazine americano si è lasciata andare ad alcune rivelazioni sia sulla condanna che sulla vita in prigione. Ad oggi non ha ancora pagato i 275 milioni di debiti ma crede che per lei sia giunto il momento di un nuovo inizio. "Sono entusiasta di uscire e di potersi concentrare sull’appello contro la mia ingiusta condanna – esordisce -. È impossibile dimenticare senza cambiare ciò che ho vissuto dietro le sbarre. Ho imparato davvero tanto. In prigione ho provato a vedere la mia esperienza come qualcosa su cui migliorare – aggiunge -. La persona che sono oggi deriva dalle decisioni che ho preso in passato". E tra le righe si continua a professare innocente, nonostante le prove a suo carico. Nelle rivelazioni, poi, ammette che è pronta a dare una svolta alla sua vita.

Inventing Anna è la nuova serie politicamente corretta

"Sto lavorando su tanti progetti. L’arte è uno di questi. Ad esempio, sto lavorando sul mio podcast con tanti ospiti in ogni episodio – afferma -. È stato difficile registrare in cella. E poi c’è il mio libro. Vorrei scrivere qualcosa in merito alla riforma della giustizia criminale per far capire quanto può essere difficile la galera per noi donne. Rincorrere la celebrità? Ora è l’ultimo dei miei pensieri, specialmente ora che sono a casa senza accesso ai social". Ma non è tutto. La Sorkin è convinta che tutti questi buoni propositi aiuteranno a non "ripetere gli errori del passato".

Da Mendella a Bochicchio, le grandi truffe ai risparmiatori della storia della finanza. Gabriele Petrucciani su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

I grandi truffatori

Quello di Massimo Bochicchio, il broker scomparso lo scorso 19 giugno in un incidente in moto, non è né il primo e probabilmente non sarà neanche l’ultimo dei raggiri perpetrati a danno dei risparmiatori, piccoli o grandi che siano. La truffa è truffa, e se ben congegnata non è facile sfuggirvi. Soprattutto considerando che la digitalizzazione e l’innovazione tecnologica dilagante se da un lato hanno democratizzato l’accesso ai mercati finanziari e alle piattaforme di investimento, dall’altro lato hanno anche favorito la diffusione delle frodi. Sì, perché fino a ieri per fregare il «pollo» bisognava allestire una farsa in stile Henry Gondorff, il truffatore americano interpretato da Paul Newman nel film «La Stangata» che per la truffa del secolo creò addirittura una finta agenzia di scommesse. Oggi, invece, il pericolo corre direttamente in rete, sul web, dove è possibile incappare anche in siti e piattaforme ben costruite ma che alla fine non sono altro che uno specchietto per le allodole. Ma anche se sfuggire a una truffa ben congegnata è praticamente impossibile, questo non giustifica chi si approccia al mondo degli investimenti con sufficienza. I risparmi vanno tutelati. E per farlo bisogna informarsi in modo adeguato prima di affidarsi nelle mani sbagliate.

C’è truffa e truffa

Le frodi non sono tutte uguali, anche se alcune si sono ripetute nei trascorsi storici, sebbene con stili e modalità differenti. Ci sono tanti modi per raggirare un risparmiatore, in modo diretto o indiretto. In modo diretto, per esempio facendosi affidare con l’inganno i risparmi direttamente dai malcapitati; in modo indiretto, per esempio causando la bancarotta di una società, portando al crollo delle azioni in Borsa e al default delle obbligazioni ancora in circolazione emesse dalla stessa società. E poi ci sono i sistemi di tranding innovativi, quelli che promettono facili e mirabolanti guadagni anche con piccoli capitali e che sono pubblicizzati a raffica sui social network da giovanissimi e improbabili guru della finanza. Oltre ai moderni raggiri legati al mondo delle criptovalute. Ma la storia ci insegna che anche tra le mura delle banche possono nascondersi delle insidie, anche se l’evoluzione normativa, con l’arrivo della Mifid prima e della Mifid di secondo livello poi, ha reso più difficile la vendita di prodotti inadeguati al profilo dei risparmiatori.

La «piramide» di Ponzi

Come riporta il sito della Consob, «le truffe finanziarie più pericolose e ricorrenti utilizzano quasi sempre le medesime modalità. Si tratta di schemi da tempo collaudati» e che oggigiorno hanno trovato nuova linfa con la diffusione di Internet. Tra queste, la tipologia di truffa più frequente è il cosiddetto schema piramidale, anche detto «schema Ponzi» dal nome del suo ideatore, il romagnolo Carlo Ponzi (si è trasferito a Boston nel 1903, diventando uno dei più grandi truffatori della storia americana). In pratica, i primi risparmi vengono raccolti promettendo guadagni molto elevati, che saranno poi pagati con i soldi raccolti da altri investitori. Il passaparola fa il resto, con lo schema piramidale che si autoalimenta e che continuerà a funzionare fino a quando la capacità di attrarre altri risparmiatori resterà elevata. Il sistema crolla nel momento in cui i nuovi capitali non saranno più in grado di coprire gli elevati guadagni promessi.

La replica di Madoff

In tempi più recenti, lo schema Ponzi fu replicato quasi fedelmente dal finanziere Bernard Madoff, che arrivò a truffare oltre 35 mila persone in tutto il mondo, bruciando 65 miliardi di dollari. Arrivato addirittura alla presidenza del Nasdaq nel 1990, Madoff prometteva guadagni del 10% in qualsiasi condizione di mercato, quando andavano bene e anche quando l’Orso prendeva il sopravvento. E nei fatti il finanziere americano riuscì a mantenere le sue promesse, passando indenne alla crisi del 1998 e anche all’attentato alle Torri Gemelle. Ma in realtà Madoff non aveva fatto alcun investimento, se non depositare i soldi raccolti su un conto della Chase Bank, mettendo su un nuovo schema Ponzi. Come il finanziere sia potuto sfuggire ai controlli della Sec, nonostante sei esposti presentati tra il 1992 e il 2008, rimane un mistero. Il castello di carta crollò nel 2008, con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers, quando Madoff, pressato dai disinvestimenti, non riuscì a onorare richieste di riscatto per circa 7 miliardi di dollari.

Il telefinanziere Mendella

Negli stessi anni in cui Madoff alimentava il suo schema Ponzi, in Italia si consumava un’altra truffa a danno dei risparmiatori, per mano del telefinanziere Giorgio Mendella. Ex venditore di quadri a Bergamo Tv, nel 1987 Mendella fondò il suo network, Retemia, dopo aver acquistato l’ex Elefante Tv dalla famiglia Marcucci. E, attraverso la sua rete, Mendella comincia a spronare i telespettatori a investire i soldi nelle sue società, promettendo guadagni superiori al 20 per cento. Parlava anche di un posto, la Romania, dove si potevano comprare palazzine intere a prezzi molto convenienti, considerando che il regime di Ceaușescu stava per crollare. Ma a marzo del 1991, la Guardia di Finanza mette sotto sequestro la holding Intermercato, che nei mesi successivi fallisce insieme ad altre controllate. Per Mendella parte il procedimento penale per falso in bilancio, bancarotta fraudolenta, associazione a delinquere, truffa e raccolta di risparmi senza autorizzazione. Venne condannato nel 1999 a nove anni di reclusione, ma fu assolto dall’accusa di associazione a delinquere e truffa. Il crack Mendella da 400 miliardi delle vecchie lire coinvolse in tutto oltre 20mila risparmiatori, tra chi aveva sottoscritto dei mutui, chi aveva comprato azioni Intermercato e chi aveva sottoscritto mandati per l’acquisto di appartamenti in Romania.

I prodotti MyWay e 4You

Agli inizi degli anni 2000 un altro scandalo scuote il mondo della finanza. Quello dei prodotti MyWay e 4You di Banca 121, poi acquisita da Monte dei Paschi di Siena. Prodotti che sono stati presentati ai risparmiatori come piani a lungo termine ad accumulo pensionistico, con un orizzonte di 15 anni o 30 anni, e che potevano essere dismessi senza penali in qualsiasi momento. Di fatto, dunque, strumenti a basso rischio. In realtà, però, si trattava di prodotti piuttosto complessi e che incorporavano un livello di rischio ben più alto. In pratica, i contratti MyWay e 4You prevedevano l’apertura di un finanziamento a lungo termine in capo al risparmiatore, da rimborsare in rate mensili con tanto di pagamento di interessi. L’importo finanziato serviva per acquistare obbligazioni o quote di fondi comuni. La Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata più volte (nel 2012, nel 2017 e nel 2019) in merito alla nullità di questi contratti «atipici», aprendo quindi per i sottoscrittori la strada del rimborso di quanto versato a titolo di interessi e capitale.

Il «cryptoschema» Ponzi di Quadriga CX

Corsi e ricorsi storici, verrebbe da dire. Lo schema Ponzi sembra non morire mai. Tanto che è stato riutilizzato di recente dall’exchange (cambiavalute) canadese Quadriga CX per truffare alcuni risparmiatori che avevano creduto nel bitcoin. Dopo la morte presunta a dicembre 2018 dell’amministratore e fondatore Gerald Cotten (sarebbe morto in India per complicazioni dovute al morbo di Crohn), la società ha dichiarato bancarotta, e chi aveva investito in bitcoin attraverso la piattaforma canadese si è ritrovato con un pugno di mosche in mano. Cotten era l’unico a conoscere la password per accedere al conto su cui risiedevano le criptovalute. Inizialmente si pensava a uno strano caso di malagestione: come era possibile che una delle realtà più grandi in Canada nel settore delle criptovalute non avesse contemplato un piano di emergenza per una situazione di questo tipo? Dalle indagini, invece, è poi emerso che Cotten aveva messo in piedi un moderno schema Ponzi. Ai clienti mostrava dati falsi sull’andamento dei loro investimenti, mentre lui utilizzava il denaro dei clienti per spese o investimenti personali. E chi voleva incassare i bitcoin veniva pagato con nuovi capitali raccolti. Complessivamente, Cotten ha sottratto circa 200 milioni di dollari ai risparmiatori.

La Vip-truffa di Bochicchio

Un altro schema Ponzi è stato realizzato dal famigerato «truffatore dei vip», Massimo Bochicchio, deceduto a Roma lo scorso 19 giugno a causa di un incidente stradale in moto culminato in un incendio. Bochicchio, con un passato come advisor in Hsbc, era riuscito a entrare nel «palazzo» dell’aristocrazia professionale romana e dopo aver stretto amicizie importanti convinceva i suoi clienti ad affidargli i loro risparmi, forte anche delle sue società finanziarie con sede a Londra (Tiber Capital e Kidman Asset Management). Con la promessa di guadagni superiori al 10%, Bochicchio era riuscito ad accumulare un capitale di oltre 500 milioni di euro, anche se nelle intercettazioni lui affermava di aver movimentato addirittura 1 miliardo e 800 miloni. In tutto sono 38 i clienti che si sono costituti parte civile e tra i truffati spiccano nomi come quello dell’allenatore Antonio Conte (e del fratello Daniele), che avrebbe perso 24 milioni, dell’attaccante della Roma Stephan El Shaarawy (6 milioni) e dell’ex calciatore Patrice Evra, a cui si aggiungono l’ambasciatore italiano a Londra Raffaele Trombeetta, il procuratore sportivo Luca Bascherini, l’osteopata romano Massimiliano Mariani, l’avvocato Alvaro Tagliabue e l’odontoiatra Marco Petrilli (700 milioni). Tra i raggirati figura anche il nome dell’ex Ct della nazionale italiana Marcello Lippi, che però non si è costituito parte civile. Il castello di carta costruito da Bochicchio è crollato in pieno lockdown, nel 2020, quando Conte ed Evra hanno bussato invano alla sua porta per chiedere il rimborso dei capitali sottoscritti.

L‘uomo più ricco del mondo. Chi è Satoshi Nakamoto, il deus ex machina dei Bitcoin. Gian Luca Comandini su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Da anni giornalisti, hacker e mondo della finanza provano a ricostruire la storia dell’ideatore della criptovaluta più famosa del mondo. Il nuovo libro di Gian Luca Comandini indaga tra teorie e (poche) certezze

Bitcoin, criptovalute, blockchain: sembra che nell’ultimo periodo non si parli d’altro… E quando dico «ultimo periodo» intendo proprio gli ultimi anni, perché ricordo ancora l’incontro all’Università di Roma, la prima volta che ne parlammo nel 2014: io, il professore e una ventina di studenti che avevamo adescato in cambio di qualche credito; per non dire ai tempi della mia laurea, quando non solo non si studiavano ma non si potevano quasi nominare. Ovvio: c’è la pandemia, c’è la guerra (anche se sarebbe più corretto dire “guerre”), ci sono diversi fenomeni che nel bene e nel male stanno segnando la nostra epoca. Eppure, se guardiamo le parole più cercate sui motori di ricerca internazionali «bitcoin», «criptovalute» e «blockchain» sono saldamente ai primi posti.

Ne parlano tutti. Qualcuno bene, con cognizione di causa. Molti ripetono a macchinetta ciò che hanno trovato in rete o hanno sentito al bar o dagli amici. Alcuni li considerano una specie di fenomeno di costume, neanche fossero i tulipani nell’Olanda del Seicento o le dot com degli anni Novanta, bolle destinate a scoppiare quando si spingono troppo in là. Altri sono convinti che sia solo l’inizio, il primo passo di un cambiamento epocale, e che – analisi alla mano – il loro impatto sulle nostre vite, le nostre abitudini e la nostra quotidianità sarà quindici volte superiore rispetto all’avvento di internet; e chi c’era allora, al tempo dei modem 56k o anche prima, può confermare quanto la vita fosse diversa: ecco, quindici volte di più.

Su una cosa, però, sono tutti d’accordo: non hanno la minima idea di chi sia dietro a un sistema tanto complesso e rivoluzionario. In altre parole: chi sia Satoshi Nakamoto, l’ideatore di Bitcoin.

Che non è solo colui – o coloro – che ha – o hanno – perfezionato e per la prima volta reso pubblica la tecnologia blockchain. Che non è solo un “genio”, un uomo o una donna che ha saputo guardare oltre e ha avuto sì un’idea, ma è anche riuscito a realizzarla; perché è questo che fa il vero genio, non si limita a immaginare, bensì rende reale ciò che sogna, plasmando il mondo in base alla sua visione. Ma è anche uno degli uomini più ricchi del pianeta, uno che se utilizzasse anche solo una parte dei bitcoin che ha accumulato potrebbe saldare il debito pubblico di Bulgaria, Estonia e un’altra decina di Paesi, spostando letteralmente gli equilibri mondiali.

E invece non lo fa né lo ha mai fatto: in tutti questi anni non ha toccato un bitcoin. E, ancora una volta, nessuno sa perché.

È ricco di suo e perciò non ne ha bisogno? Non gli interessano i soldi? È un benefattore che li donerà al momento opportuno? Oppure sta aspettando il momento giusto per uscire allo scoperto e passare all’incasso? O magari non li può usare perché, ad esempio, ha scordato la password, come potrebbe capitare a uno qualsiasi di noi? Oppure è semplicemente morto?

Il fatto è che non solo non usa quei soldi, ma in un mondo dove tutti vogliono mostrarsi e apparire, lui fa l’esatto opposto: scompare. Il 26 aprile 2011 scrive un ultimo messaggio al suo erede designato, Gavin Andresen, e da allora non se ne sa più niente. Nessuna email.

Nessuno scambio. Nessuna dichiarazione.

Svanisce, anche se torna fuori praticamente ogni volta che ci imbattiamo in qualcosa che vada al di là della semplice quotidianità. Parliamo di crisi del mercato finanziario? Parliamo (anche) di lui. La guerra, la crisi energetica, i viaggi spaziali, la Cina, la Corea del Nord, il Venezuela, El Salvador…? C’è sempre lui di mezzo. Eppure non c’è mai.

Ma, allora, chi è davvero Satoshi Nakamoto?

Esistono decine di teorie, di ricostruzioni più o meno attendibili, e partono tutte dai medesimi presupposti, dalle poche certezze che abbiamo, quelle evidenze che lui stesso ha fornito (forse proprio per portarci sulla pista sbagliata).

Ovvero, cosa sappiamo? Quali sono questi punti fermi?

Il nome è uno pseudonimo di chiara ispirazione giapponese, laddove satoshi significa «saggezza», naka «strumento» e moto «creazione». C’è un gruppo di persone, di cui si fida o si è fidato, con cui ha definito il progetto. E una serie di costanti ricorrono nei suoi messaggi, anche solo nel modo in cui scrive (ad esempio, la scelta di alcuni termini o il doppio spazio dopo il punto).

Poi? Poco altro, e via via lo vedremo.

Sta di fatto che a partire da queste “certezze” si è scatenata una sorta di caccia al tesoro globale, prima all’uomo e poi propriamente al tesoro che possiede, che ha coinvolto hacker, giornalisti, esperti di finanza di mezzo… anzi, di tutto il mondo. Che, però, non ha portato da nessuna parte.

Non significa che le ipotesi siano sbagliate a priori o le ricerche siano fatte male, ma, in genere, non ottengono altro risultato che la conferma dell’assunto dal quale partivano; come se forzassero la conclusione, scegliendo alcune “carte” e trascurandone apposta altre, pur di trovare Satoshi.

Gian Luca Comandini, L‘uomo più ricco del mondo, Rizzoli, 18 euro, 176 pagine

PAPERONI. Elon Musk è l’uomo più ricco al mondo, Ferrero e Rocca quelli d’Italia. Redazione Economia su Il Corriere della Sera l'1 Novembre 2022.

La Nutella batte Facebook. Giovanni Ferrero si conferma, infatti, il primo imprenditore italiano nella classifica dei Paperoni mondiali del Billionaires Index, scalando posizioni e piazzandosi alla data del primo novembre al 25esimo posto con una ricchezza pari a 38,6 miliardi di dollari. Ma la vera notizia è che Ferrero ha finito con il sorpassare anche Mark Zuckerberg. Il fondatore di Facebook è infatti scivolato al 29esimo posto con “appena” 36,1 miliardi di dollari nel portafoglio. Gli innumerevoli problemi del suo impero, oggi Meta (e che comprende anche WhatsApp e Instagram), gli hanno fatto perdere in un anno quasi 90 miliardi, buttandolo fuori dalla top ten degli uomini più ricchi al mondo, un club esclusivo che fino ad oggi non aveva mai abbandonato. Non è un caso se, secondo quanto riporta il Financial Times, gli investitori sarebbero fortemente irritati con Zuck per le spese sostenute sul fronte del metaverso. E l’irritazione sale nella consapevolezza di avere uno spazio di azione assai limitato per cambiare le cose, dal momento che Zuckerberg ha in mano il 13% del social e il 54,4% dei diritti di voto.

Il più ricco è Musk

Al primo posto della classifica dei Paperoni si conferma il fondatore di Tesla e nuovo boss di Twitter Elon Musk con 203 miliardi di dollari, seguito dal re del lusso francese Bernard Arnault (138 miliardi) che con la sua LVMH continua a macinare ricavi: oltre 56 miliardi di euro nei primi nove mesi di quest’anno. Terzo Gautam Adani, che è il fondatore del più grande operatore portuale dell’India e che, a dispetto di tutti gli altri, non ha perso miliardi anzi ne ha guadagnati oltre 49 da un anno all’altro. “Solo” quarto Jeff Bezos con 126 miliardi di dollari davanti a Bill Gates con 111 miliardi.

Paolo Rocca batte Silvio Berlusconi

Il secondo degli italiani della lista di Bloomberg è in 163esima posizione ed è il patron di Tenaris Paolo Rocca, che con oltre 10 miliardi dollari precede di quasi 200 posizioni Silvio Berlusconi al 350esimo posto con poco più di 6 miliardi di dollari in tasca. Nei 500 censiti dall’indice c’è anche Giorgio Armani con 4,8 miliardi di dollari al 471esimo posto.

Nella top 10 ci sono 7 americani

Nella top 10 ci sono dunque sette americani, un francese e due indiani. In quest’ultimo caso, oltre ad Adani, al nono posto spicca Mukesh Ambani (con 87 miliardi di dollari) che controlla la Reliance Industries (proprietaria del più grande complesso di raffinazione del petrolio al mondo) ma che ha anche una a squadra di cricket professionale: i Mumbai Indians. A Musk, Bezos e Gates nella pattuglia dei miliardari Usa si affiancano l’oracolo di Omaha Warren Buffett, in sesta posizione con 106 miliardi di dollari, Larry Ellison (al settimo posto con quasi 94 miliardi), Larry Page di Google (ottavo con quasi 88 miliardi). In decima posizione il co-fondatore di Alphabet (la cassaforte di Google) Sergey Brin.

Andrea Cuomo per “il Giornale” l'1 novembre 2022.

Che mondo sarebbe senza Facebook? Migliore? Peggiore? Boh. Che mondo sarebbe senza Nutella? Certamente peggiore. Vista da questa prospettiva, non è certo strano che il signor Nutella, Giovanni Ferrero, sia un po' più ricco del signor Facebook, Mark Zuckerberg. A dirlo è la classifica dei ricconi Bloomberg Billionaires Index, che piazza l'italiano al 25esimo posto al mondo mentre il nerd di White Plains è tre posizioni indietro, 28esimo. Ferrero con la sua famiglia è accreditato di 38,9 miliardi di dollari di patrimonio mentre Zuckerberg si deve accontentare - poverino - di 38,2.

Va detto che il papà di Facebook viene da un annus horribilis, con il crollo a Wall Street della sua azienda, un -69,34 per cento seguito al cambio di denominazione del social network, che ora si chiama Meta, e alla virata sul Metaverso. E le finanze del signor Facebook ne hanno risentito: un anno fa, il 31 ottobre 2021, era accreditato di un patrimonio più che triplo, 121 miliardi, mentre Ferrero è cresciuto rispetto ai 34,2 miliardi dell'anno scorso.

Così la crema alla nocciola si spalma il Metaverso sul pane. Va detto che entrambi, Giovanni e Mark, impallidiscono di fronte al podio dei paperoni: Elon Musk, il patròn di Tesla e di Space X, si tuffa nel suo deposito in 204 miliardi di dollaroni. Bernard Arnault, presidente della holding del lusso LVMH, assieme alla sua famiglia può contare su un tesoretto di 140 miliardi.

Nel pacco di Jeff Bezos, il titolare di Amazon, trovano spazio 127 miliardi in valuta americana. E va detto che l'altro celebre indice dei nababbi globali, la Forbes World Billionaire List, conferma lo stesso podio, con Musk sempre in testa ma Bezos davanti agli Arnault, ma rimescola le posizioni di rincalzo. Qui Ferrero, accreditato di 36,2 miliardi, scende al 36esimo posto in classifica e mangia la polvere dell'ex programmatore, che risale a 67,3 miliardi ed è 15esimo. 

Una piccola rivincita del cyberspazio sulla merenda.

Giovanni Ferrero, 58 anni, è un uomo che ama tenersi lontano dai red carpet mondani. E infatti sfidiamo la maggior parte di chi ci legge a conoscere il suo volto (problema risolto: c'è la sua foto qui sotto). Nipote di Pietro - l'uomo che fondò la Ferrero nel 1946 ingrandendo un piccolo laboratorio di pasticceria di Alba - e figlio di Michele - l'uomo che inventò nel 1964 la Nutella, cambiando la ricetta e l'immagine della crema spalmabile che in precedenza si era chiamata dapprima Cremalba e poi Supercrema - Giovanni si trovò ad amministrare l'azienda di famiglia dopo il ritiro del padre (morto nel 2015) e la morte per infarto del fratello Pietro nel 2011 durante un allenamento in bicicletta in Sudafrica. 

Giovanni vive a Bruxelles con la moglie Paola Rossi e i due figli Michele e Bernardo. A differenza di Zuckerberg non ama i social e non ha profili ufficiali e ama la letteratura: ha scritto vari romanzi per Mondadori (Stelle di tenebra), Rizzoli (Campo paradiso, Il canto delle farfalle, Il cacciatore di luce) e Salani (Blu di prussia e rosso di porpora).

Giovanni è alla testa di un impero dolciario tra i più importanti al mondo. 

Oltre alla Nutella, prodotto iconico celebre in tutto il pianeta con 365mila tonnellate prodotte ogni anno (con la Francia primo consumatore, seguito da Germania e Italia, classico caso di profeta non in patria), la Ferrero produce e commercializza prodotti di successo come la linea Kinder in tutte le sue declinazioni, le caramelle Tic Tac, la bibita Estathè, l cioccolatini Mon Cheri, Pocket Coffee e Rocher. Inoltre negli ultimi anni la società, che ha sede in Lussemburgo ed è articolata in una serie di controllate e subholding che fanno capo a Ferrero International SA, ha acquisito numerose società alimentari in giro per il mondo, tra le quali le attività dolciarie della Nestlè negli Stati Uniti nel 2018. Dolce è la vita dei miliardari, ma davvero.

LA CLASSIFICA DI FORBES. Gautam Adani, il miliardario indiano è la terza persona più ricca del mondo: ha superato Bezos. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022.

Il miliardario indiano Gautam Adani è la terza persona più ricca del mondo nella classifica dei miliardari di Forbes. Il suo patrimonio netto è salito a 150,8 miliardi di dollari nella giornata di mercoledì 14 settembre. Adani ha superato il fondatore di Amazon Jeff Bezos, la cui fortuna è scesa di quasi 10 miliardi arrivando a 150,2 miliardi di dollari, dopo che le azioni del colosso dell’e-commerce sono scese del 7% a New York.

La differenza tra i patrimoni netti di Adani e Bezos è però talmente minima che le loro posizioni in classifica sembrano destinate a cambiare nuovamente in futuro. A dominare la classifica è sempre Elon Musk con un patrimonio netto di 265,6 miliardi di dollari, mentre in seconda posizione c’è il magnate della moda francese Bernard Arnault con 165,3 miliardi di dollari.

Gautam Adani, presidente e fondatore del conglomerato indiano Adani Group, è l’uomo più ricco dell’Asia. La ricchezza di Adani è quasi triplicata rispetto al 2021, poiché le azioni delle sue società hanno beneficiato dell’aumento dei prezzi dell’energia. Il magnate indiano possiede partecipazioni in sei società quotate in borsa che operano nei settori dell’energia elettrica, delle rinnovabili e del gas, oltre che dei porti. Adani è diventato la persona più ricca dell’Asia nel febbraio del 2022, quando ha superato il miliardario indiano Mukesh Ambani. Adani ha fatto fortuna nei porti e nel commercio di materie prime e ora dirige il terzo conglomerato più grande dell’India con interessi che vanno dall’estrazione del carbone e dagli oli commestibili fino agli aeroporti e ai media.

Da lastampa.it il 19 settembre 2022.

Il tycoon indiano Gautam Adani strappa a Jeff Bezos il titolo di secondo uomo più ricco al mondo. E' quanto emerge dal Bloomberg Billionaires Index, secondo il quale Adani con i suoi 146,9 miliardi di dollari è alla spalle di Elon Musk e la sua fortuna di 260 miliardi. Bezos è relegato al terzo posto con 145,8 miliardi. Il Gruppo Adani opera nel settore porti, aeroporti, centri dati ed è attivo anche nel settore delle energie rinnovabili.

Adani ha superato oggi nella lista di Forbes il francese Bernard Arnault, diventando il secondo uomo più ricco del mondo. Secondo i dati in tempo reale della lista dei miliardari di Forbes, il patrimonio netto del presidente dell'omonimo gruppo e della sua famiglia vale oggi 155,5 miliardi di dollari, contro i 155,2 del titolare del gruppo LVMH. In testa alla classifica continua a svettare Elon Musk, mentre al quarto posto, dopo Adani e Arnault, resta Jeff Bezos.

Adani, 60 anni, vive a Mumbai, ed è un industriale miliardario che ha creato da solo la sua ingente fortuna. Nato nello stato del Gujarat da una famiglia benestante, ha abbandonato l'attività tessile del padre per iniziare come selezionatore di diamanti. Il primo capitolo della costruzione del suo gruppo, che oggi spazia dal commercio ai porti, dagli stabilimenti per la produzione di energia, alla proprietà dell'aeroporto di Mumbai, fu l'aquisto di una azienda di plastica.

In agosto Adani era stato definito l'uomo più ricco di tutta l'Asia, dopo essere balzato al terzo posto della classifica di Forbes, e avere scalzato il "concorrente" indiano Muskesh Ambani.

Amin Nasser, chi è mister petrolio: l’uomo da mezzo miliardo di dollari al giorno. Fausta Chiesa su Il Corriere della Sera il 15 Agosto 2022.

«Ora è meglio che tu vada a dormire». Se questa frase fosse detta a un bambino nessuno si stupirebbe, ma in questo caso il destinatario del consiglio – che suonava più come un comando – era niente meno che Amin Nasser, ceo di Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo. A pronunciarla, quando l’ora non era affatto tarda — le 21 — nell’imbarazzo dei presenti (mille persone), durante un evento del settore quest’anno a Riad, è stato il ministro dell’Energia dell’Arabia Saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, in un episodio riportato da Reuters. E non stava affatto scherzando. Nella sua lunga carriera di top manager di Stato, Nasser si è guadagnato la reputazione di uomo dedito al lavoro, sempre pronto ad affrontare le sfide della giornata successiva, che — serve dirlo? — comincia già dalle prime ore del mattino. E quella reputazione doveva essere mantenuta intatta.

Saudi Aramco, il colosso da 2.330 miliardi

Nasser è a capo della più grande compagnia petrolifera del mondo, che non solo «sforna» 10 milioni di barili di petrolio al giorno e che nell’ultimo trimestre ha portato a casa profitti per oltre 48 miliardi di dollari (mezzo miliardo al giorno) e che vale 2.330 miliardi di dollari (oltre 55 volte l’Eni e che a maggio ha addirittura superato Apple, diventando per qualche settimana la società che valeva di più al mondo) ma soprattutto con i suoi proventi e dividendi mantiene una nazione da 35 milioni di abitanti che sta cercando di diversificare la sua economia ma è ancora largamente dipendenti dai petrodollari. Nasser è l’uomo che a dicembre 2019 ha portato a termine la quotazione di Aramco sulla Borsa di Riad (il flottante è solo del 2%) in quella che è stata la Ipo più grande della storia, superando il record di Alibaba.

L’attacco agli impianti nel 2019

Un momento cruciale che Nasser aveva superato nel 2019 poche settimane prima dello sbarco in Borsa è stato quando droni e missili hanno colpito gli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais dimezzando la produzione di greggio dell’Arabia Saudita e Stati Uniti e Arabia Saudita accusarono l’Iran dell’attacco. Nasser arrivò all’unità di emergenza di Aramco in sette minuti, ha detto Reuters una fonte del settore, e diede ai manager sul campo la libertà di prendere decisioni durante un momento di alta pressione. Nonostante il 50% delle operazioni di Aramco fosse stato danneggiato dall’attacco, nel giro di poche settimane Aramco fu in grado di ripristinare la maggior parte delle attività e, secondo Mazen Alsudairi, capo della ricerca presso Al Rajhi Capital, «ciò fu possibile perché (con la guida di Nasser, ndr) aveva continuato la politica di gestione del rischio che non lascia margini di clemenza».

L’ingegnere che non ha studiato negli Usa

A differenza dei top manager che lo hanno preceduto alla guida di Aramco, Nasser non è un prodotto di una «top» università americana, ma ha ricevuto un’istruzione saudita ed essersi laureato in ingegneria petrolifera alla King Fahd University di Dhahran. Dopo aver seguiti percorsi formativi all’interno di Saudi Aramco (il Management Development Seminar a Washington e il Global Business Program) ed essere entrato nella compagnia nel 1982, Nasser ha scalato i ranghi dell’azienda e, secondo gli analisti sentiti da Reuters, è diventato molto popolare promuovendo una cultura decentralizzata, ma anche trascorrendo del tempo sia con i vertici sia con i lavoratori. «Il lavoro di Nasser — rivela Jim Krane, ricercatore energetico presso il Baker Institute della Rice University — è molto più grande di quello del tipico ceo di una compagnia petrolifera. Non deve soltanto produrre e vendere petrolio, ma anche fornire al governo saudita le entrate necessarie per rimanere a galla». Per guidare l’azienda, deve mantenere il sostegno delle due figure più potenti del regno: il ministro dell’Energia, il principe Abdulaziz bin Salman e Yasir al-Rumayyan, governatore del fondo sovrano saudita Pif (quello che lo ha mandato a letto alle 21), che è anche presidente del consiglio di amministrazione di Aramco, e il potente principe ereditario Mohammed Bin Salman.

Il discorso «pro fossile»

Di solito pacato e diplomatico, Nasser ha infranto il suo codice di comportamento lo scorso dicembre in quella che oggi — con questi livelli di prezzi energetici e di inflazione — sembra essere una profezia. Intervenendo al World Petroleum Congress di Houston, in Texas, Nasser ha criticato l’ipotesi che il mondo possa passare a combustibili più puliti «praticamente dall’oggi al domani» affermando che la mancanza di spesa per la produzione di petrolio e di investimenti necessari avrebbe potuto e potrebbe avere gravi conseguenze sociali. «Capisco che ammettere pubblicamente che petrolio e gas svolgeranno un ruolo essenziale e significativo durante la transizione e oltre sarà difficile per alcuni - ha detto - ma ammettere questa realtà sarà molto più facile che affrontare l’insicurezza energetica, l’inflazione dilagante e i disordini sociali poiché i prezzi diventano intollerabilmente alti e gli impegni per zero emissioni nette iniziano a disfarsi».

Il primo rapporto sulle emissioni

«In alcuni ambienti è visto come una minaccia climatica a causa dei piani aggressivi di aumentare la produzione a 13 milioni di barili al giorno entro il 2027 — spiega Jim Krane — ma nei circoli sauditi è visto come un innovatore disposto a diversificare il modello di business di successo di Aramco spingendo verso prodotti chimici, idrogeno e decarbonizzando le operazioni». E dopo decenni di segretezza ha pubblicato il primo rapporto dell’azienda sulle emissioni.

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Articolo di “Le Monde” - dalla rassegna stampa estera di “Epr Comunicazione” il 3 maggio 2022.

Una fuga di dati rivela l'entità degli investimenti esteri nell'emirato, uno dei centri finanziari più opachi del pianeta, in particolare nel settore immobiliare di lusso. 

Con le sue spiagge artificiali, i suoi grattacieli scultorei e le sue stazioni sciistiche in mezzo al deserto, Dubai appare come uno stravagante paradiso terrestre per i ricchi del mondo. Ma il più appariscente degli Emirati Arabi Uniti è anche uno dei centri finanziari più opachi del pianeta, meta provvidenziale di denaro illecito o sospetto. Scrive Le Monde. 

Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina il 24 febbraio, il timore che gli oligarchi russi trasferiscano lì le loro fortune per sfuggire alle sanzioni hanno alzato la tensione. All'inizio di marzo, l'organismo globale antiriciclaggio, il GAFI, ha inserito Dubai nella lista grigia degli Stati a cui è stato chiesto di colmare le loro lacune nella lotta al denaro sporco. Nel mirino: finanza, ma anche immobili di lusso, grande vettore di riciclaggio, su cui regna il mistero più grande.

Questo timore è stato ora confermato da un database a cui Le Monde ha avuto accesso, rivelando l'identità di 274.000 proprietari di 800.000 proprietà situate a Dubai. 

Ottenuti dal Center for Advanced Defense Studies (C4ADS), un think tank americano - composto da ex ufficiali e accademici americani, indaga su crimini e conflitti internazionali -, questi dati catastali inediti datati 2020 sono stati utilizzati come base per l'inchiesta collaborativa "Dubai Uncovered", che riunisce venti media internazionali sotto gli auspici del media finanziario norvegese E24. 

Il lavoro del consorzio investigativo Organized Crime and Corruption Reporting Project (OCCRP), un partner nell'inchiesta, ha identificato due politici russi di alto rango presi di mira dalle sanzioni internazionali.

Il primo, Aleksandr Borodai, è noto per aver servito brevemente nel 2014 come "primo ministro" della "Repubblica popolare di Donetsk", autoproclamata dai separatisti filorussi come parte del conflitto nell'Ucraina orientale. È stato poi eletto alla Duma nel 2021. Fu durante la sua rapida ascesa nella politica russa che acquistò tranquillamente un grande appartamento nel sontuoso complesso residenziale Grandeur Residences-Maurya su Palm Jumeirah, l'iconica isola artificiale a forma di palma. Il resort dispone di piscine, ristoranti, un eliporto, un campo da tennis e sicurezza 24 ore su 24.

A meno di 3 chilometri di distanza, nel porto turistico, un più modesto appartamento di 109 metri quadrati, valutato a 430.000 dollari (409.000 euro), appartiene al collega deputato Roman Liabikhov, che sarà eletto con il biglietto del Partito Comunista Russo nel 2021. 

Nella fuga di notizie, i due uomini sono affiancati da noti oligarchi: Ruslan Baisarov, un uomo d'affari russo vicino a Ramzan Kadyrov, il dittatore ceceno sotto sanzioni che ha fornito soldati e risorse militari alla Russia per l'invasione dell'Ucraina; e Dmitri Rybolovlev, il ricco e controverso oligarca con passaporto cipriota che ha sede a Monaco, dove è azionista di maggioranza e presidente della squadra di calcio AS Monaco. Il signor Baisarov possiede almeno sei proprietà a Dubai, per un valore di circa 8,5 milioni di dollari, mentre il signor Rybolovlev possiede una villa sul mare a Palm Jumeirah, valutata oltre 3,5 milioni di dollari. 

Politici russi di alto livello

Questo database, precedentemente inaccessibile al grande pubblico, alla stampa e ai ricercatori, espone il lato più oscuro di Dubai. La lista dei proprietari di immobili nella fuga non comprende solo uomini e donne d'affari che sono venuti a godere del dinamismo economico del piccolo emirato e delle sue agevolazioni fiscali: comprende anche un gran numero di persone coinvolte in attività criminali (frode, corruzione, traffico di droga, ecc.), bersaglio di indagini giudiziarie o sotto sanzioni internazionali.

Questo ha dato all'emirato una cattiva reputazione, dato che il suo nome è regolarmente citato in importanti casi di riciclaggio di denaro ed è il luogo dove si rifugiano i trafficanti di droga e i criminali dai colletti bianchi ricercati dalle forze di polizia internazionali nella speranza di evitare l'estradizione. 

In totale, più di cento membri dell'élite politica russa, funzionari e uomini d'affari vicini al Cremlino, possiedono beni immobili nell'emirato. Questo fenomeno è destinato ad aumentare, data la neutralità degli Emirati Arabi Uniti nei confronti dell'offensiva russa in Ucraina e il loro rifiuto di applicare le sanzioni votate dall'Occidente. Il denaro investito a Cipro, un paradiso per gli oligarchi, potrebbe in particolare rifugiarsi lì.

Sospetti di traffico di cocaina

Ma il denaro russo non è l'unico ad essere investito in modo massiccio in questo importante centro finanziario mediorientale e a sollevare domande. Una dozzina di europei coinvolti nel riciclaggio di denaro e nella corruzione appaiono anche nei file di Dubai Uncovered. 

In cima alla lista c'è Daniel Kinahan, un ex promotore di boxe irlandese ora sospettato di traffico di cocaina e di appartenenza a un'organizzazione criminale internazionale. In fuga a Dubai - che documenta ampiamente pubblicando foto sui social network - l'uomo è sul radar dell'Europol. Gli Stati Uniti hanno congelato i beni del suo clan, e sono stati promessi fino a 5 milioni di dollari per informazioni che portino alla sua cattura o al congelamento dei suoi beni. Nei dati trapelati, il signor Kinahan è elencato come proprietario di un ufficio di 115 metri quadrati nella torre Jumeirah Bay X3, a pochi minuti dalla spiaggia, acquistato tra la primavera 2017 e gennaio 2018.

Emergono anche altri profili sulfurei, come il ceco Tibor Bokor, direttore esecutivo di una borsa di criptovalute sanzionata dal Tesoro americano nel 2021, che ha tre appartamenti a Dubai, o l'ex avvocato e uomo d'affari slovacco Miroslav Vyboh, ricercato per corruzione. Possiede un appartamento di 2,7 milioni di dollari nell'emirato. Contattato, il signor Vyboh ha confermato, attraverso il suo avvocato, che possiede un appartamento a Dubai, acquistato nel 2017, ma che non ha mai avuto intenzione di viverci e che attualmente sta cercando di venderlo.

La lista include anche i nomi di diversi sospetti coinvolti nella frode "Cum-Ex", una truffa internazionale che è venuta alla luce a metà degli anni 2010 e ha danneggiato le finanze pubbliche di diversi paesi europei, tra cui Germania, Danimarca, Belgio e Francia. 

Aprendo le porte al denaro del mondo, Dubai sta diventando un paradiso per i criminali? "L'approccio di Dubai al business e alla regolamentazione finanziaria, e al crimine finanziario straniero, è di non fare domande e non vedere alcun danno", ha scritto la ONG Tax Justice Network nel 2020. Quando è stato contattato dai partner dell'inchiesta, il governo di Dubai ha sostenuto che "gli EAU hanno un quadro normativo chiaro, che è in linea con le leggi e gli standard internazionali per combattere il crimine finanziario". La maggior parte delle personalità citate nell'articolo non ha risposto alle richieste del consorzio.

Un puro paradiso fiscale

La radiografia senza precedenti del settore immobiliare di Dubai, fornita dall'inchiesta "Dubai Uncovered", permette di rispondere a una domanda rimasta finora senza risposta: chi investe cosa e quanto nel più segreto degli emirati, un puro paradiso fiscale dove non esistono imposte sul reddito, sul capitale o sulle società? 

I dati catastali ottenuti da C4ADS stimano il valore degli immobili di proprietà straniera a Dubai ad almeno 146 miliardi di dollari - una somma impressionante che rappresenta quasi un terzo del mercato immobiliare del regno.

Secondo i calcoli degli economisti di finanza offshore Gabriel Zucman e Annette Alstadsæter, che hanno anche analizzato i dati, almeno il 27% del patrimonio immobiliare di Dubai è di proprietà di stranieri. O anche di più, dato che il 7% dei proprietari elencati nel registro fondiario non poteva essere collegato a una nazionalità. 

Queste somme colossali fanno dell'emirato di appena 3.885 chilometri quadrati e 3,3 milioni di abitanti uno dei più grandi centri immobiliari offshore del mondo. In effetti, questo importo è il doppio del valore degli appartamenti e delle case londinesi detenuti da non residenti, e persino superiore al valore totale di tutti i beni immobiliari francesi detenuti da non residenti (131 miliardi di dollari nel 2019). 

"Questa è la prima volta che abbiamo informazioni così dettagliate sulla ricchezza immobiliare offshore", dice Zucman - ha lavorato in passato sugli scandali fiscali "SwissLeaks" o "Panama Papers", che erano a loro volta basati su conti nascosti in paradisi fiscali dietro società di comodo.

"Il rischio è che gli immobili a Dubai sostituiscano il conto svizzero come strategia di evasione fiscale o di occultamento di beni", dice il professore associato dell'Università della California a Berkeley, che dirige l'Osservatorio fiscale dell'Unione europea. Crede che questo richieda una reazione da parte dei regolatori, dato che il settore immobiliare non è coperto dallo scambio automatico di informazioni tra gli stati, la nuova pietra angolare della lotta globale contro l'evasione fiscale. 

Mentre alcune nazionalità sono sovrarappresentate tra i proprietari di immobili a Dubai (come i cittadini indiani, che rappresentano il 20% del totale delle proprietà straniere), gli europei non sono esclusi. Da questa fuga di informazioni, ad esempio, emergono 3.256 francesi (sportivi, uomini d'affari, pezzi grossi, ecc.), proprietari di poco meno di 5.000 proprietà, con un valore medio di 400.000 dollari. 

È impossibile dire, sulla base di questa fuga di dati, se il denaro utilizzato per investire possa essere stato evaso in Francia o se le proprietà soggette all'imposta sul patrimonio immobiliare siano state dichiarate o meno dai residenti fiscali francesi. Ma lo studio del caso norvegese, un paese dove i dati fiscali possono essere consultati da tutti, fa riflettere: secondo il lavoro degli economisti, il 70% della ricchezza detenuta dai norvegesi a Dubai non è stata dichiarata.

Massimo Basile per “la Repubblica” il 4 giugno 2022.

Non si è dimessa per lo stress o l'improvvisa voglia di fare la filantropa, ma fermata dagli scandali interni che hanno messo in imbarazzo Facebook e Meta, la società madre. Sheryl Sandberg, 52 anni, chief operating officer della società guidata da Mark Zuckerberg, la donna uscita da Harvard, quella che ha guidato la trasformazione di Facebook da startup a gigante planetario, una delle manager più potenti al mondo con patrimonio di oltre un miliardo e mezzo di dollari, se ne va perché la gestione disinvolta del suo privato l'ha rovinata.

Non solo avrebbe fatto pressioni, per ben due volte, nel 2016 e nel 2019, sul tabloid inglese Daily Mail perché riponesse nel cassetto un articolo sul fidanzato di allora, Bobby Kotick, top manager con villa a Beverly Hills arredata con opere astratte, accusato di aver nascosto una storia di stupro riguardante una dipendente. Sandberg avrebbe usato anche fondi di Meta per finanziare la festa di matrimonio con il suo attuale fidanzato, l'ex producer di Nbc Tom Bernthal. 

«Nessuna di queste storie ha a che fare con la decisione di lasciare », ha commentato al Wall Street Journal una portavoce di Meta. Ma il giornale finanziario newyorkese ha messo insieme i tasselli del puzzle, partendo dall'inizio del declino della numero due di Facebook, cominciato con il coinvolgimento di Sheryl nello scandalo Cambridge Analytica, la società accusata di aver usato i dati di 87 milioni di utenti di Facebook per farne target di campagne pubblicitarie a favore di Donald Trump. Zuckerberg, scrive il quotidiano, si sarebbe infuriato. Le tre storie, messe insieme, avrebbero accelerato la fine della manager considerata icona del movimento sui diritti delle donne #Me-Too.

Sandberg si era fatta notare di recente per l'insolita assenza al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, dove il gotha del mondo degli affari si ritrova. Invece erano presenti altri membri del board di Meta. Ufficialmente era rimasta negli Stati Uniti, trattenuta dal bat mitzvah, la cerimonia ebraica di passaggio all'età adulta, della figlia. 

Da tempo la manager raccontava di essere sfibrata dal lavoro, lasciando intendere di essere finita nel mirino delle accuse per una questione sessista («ogni donna di successo - aveva commentato - viene vista come una puttana rabbiosa») ma il tema del #MeToo è stato oscurato dalla sua immagine controversa.

Il rapporto con Zuckerberg viene descritto come in crisi da tempo. Lei ha annunciato che si dedicherà alla filantropia, si prenderà un lungo sabbatico ma continuerà a battersi per le donne, a cominciare dalla difesa del diritto all'aborto. Sandberg aveva accusato la Corte Suprema di aver attaccato "diritti fondamentali", messaggio che non era piaciuto al board di Meta. 

I progetti di sviluppo a cui stava lavorando la manager erano stati rallentati, segnale che gli spazi operativi si stavano riducendo da tempo. Sandberg, che solo nel 2021 aveva guadagnato 35,2 milioni di dollari, continuerà a far parte del cda di Meta, che oltre a Facebook ha Instagram e Whatsapp, ma lascerà formalmente l'incarico in autunno.

Perché Sheryl Sandberg ha lasciato Meta (e cosa succede ora). Davide Casati e Martina Pennisi su Il Corriere della Sera il 2 giugno 2022.

La numero 2 di Mark Zuckerberg, con un post su Facebook, ha annunciato l’1 giugno le sue dimissioni dal ruolo di Chief operating officer. Ma si è trattato di una vera sorpresa? Quali sono le ragioni di questa scelta? E cosa potrebbe succedere, ora?

Mercoledì 1 giugno, con un post su Facebook e Instagram, Sheryl Sandberg ha annunciato che lascerà il suo ruolo a Meta. 

Un ruolo che — è bene ricordarlo — è pressoché impossibile sovrastimare. Nei 14 anni che separano il suo ingresso a Menlo Park dalla sua uscita, a novembre, Sandberg è stata ben più di una Chief operating officer: braccio destro del fondatore, Mark Zuckerberg, è stata lei a creare il modello di business che ha permesso a Facebook prima, e a Meta ora, di diventare uno dei più grandi colossi tecnologici del pianeta. Un modello di business che consiste, primariamente, nella raccolta dei dati degli utenti, nella loro profilazione sempre più accurata e granulare, e nella capacità di garantire agli investitori pubblicitari la certezza di poter far arrivare un messaggio a un target precisissimo. Ecco: quel modello di business è responsabile, oggi, del 97 per cento degli introiti della società. 

Ma perché, allora, Sandberg ha deciso di lasciare Meta, pur rimanendo nel consiglio di amministrazione del gruppo? E che cosa indica, questo addio, per l’azienda fondata da Zuckerberg? Cosa può succedere ora? 

La risposta ufficiale la dà la stessa Sandberg: in una intervista a Fortune spiega di aver «deciso» durante il fine settimana e di essere stata motivata dall’imminente decisione della Corte Suprema sull’aborto (la sentenza conosciuta come Roe vs Wade, che ha riconosciuto in tutti gli Stati Uniti il diritto all’aborto, potrebbe essere abolita). «Il tipo di lavoro non lascia molto spazio ad altre cose della vita. Questo è un momento importante per le donne, e per me per fare di più nella filantropia e con la mia fondazione», ha detto, prima di aggiungere che «mi piace pensare che la mia carriera e quella di altre leader abbia ispirato le donne: mi auguro che le mie figlie crescano in un mondo in cui ce ne sono molte di più, al vertice». Non sembrerebbe escluso un futuro in politica, dunque, che andrebbe ad affondare le radici nel passato di Sandberg come capo dello staff di Larry Summers, segretario del Tesoro nell’amministrazione Clinton. 

Sotto ci sarebbe anche altro, come ha ricostruito il Wall Street Journal interpellando le sue fonti: Meta aveva attivato un ’indagine formale sulle attività di Sandberg, compreso il presunto uso delle risorse aziendali per pianificare il matrimonio come Tom Bernthal, nuovo compagno di vita della manager dopo la morte improvvisa del secondo marito Dave Goldberg. E non è il primo episodio: un mese fa il colosso si è attivato per fare luce sulle pressioni che Sandberg avrebbe esercitato tempo fa sul sito del tabloid britannico Daily Mail per bloccare un articolo su un ordine restrittivo del 2014 contro il suo fidanzato dell’epoca, Bobby Kotick, amministratore delegato di Activision Blizzard. Una portavoce di Meta, Caroline Nolan, ha sottolineato al Wsj che «niente di tutto ciò ha a che fare con la sua decisione di andarsene». Il quotidiano americano fa anche riferimento a un periodo difficile per Sandberg a livello personale: le fonti dicono che è esausta («burned out») e sente di «essere stata presa di mira, schiacciata in un modo che non sarebbe mai accaduto a un uomo. Che sia un problema di genere o meno, è stanca». 

Inoltre: la situazione di Meta e gli equilibri interni a Menlo Park si erano ormai profondamenti modificati. Sono almeno quattro gli elementi, difficili da ignorare, per capire il contesto di questa scelta. 

1. La parola mancante

Il post di addio di Sandberg è composto da 8.467 caratteri - 1.532 parole in tutto. Ne manca una, notevole: metaverso. Un’assenza curiosa, se si considera che è proprio lì che, a dire del suo fondatore, si concentra il futuro della società (tanto che Zuckerberg ha addirittura cambiato il nome dell’azienda che ha creato). 

Sandberg ha parlato a lungo, nel suo post, del suo arrivo a Facebook, del suo rapporto con Zuckerberg, delle sfide affrontate e vinte, della convinzione che Meta continuerà a svolgere un ruolo positivo per la società: ma non è chiaro quanto fosse convinta della nuova direzione indicata dal fondatore di Meta, né se ci sia un percorso chiaro per rendere profittevole quella che, al momento, sembra una sfida non solo complicata, ma estremamente costosa (nell’ultimo trimestre, la perdita netta per Reality Labs, «casa» del progetto metaverso, ha sfiorato i 3 miliardi di dollari: un quinto della liquidità dell’azienda, nota il Financial Times ). 

Sandberg ha ricordato anche come una delle tre promesse che Zuckerberg le aveva fatto - e che «ha mantenuto fino alla fine» - fosse quella di poter stare «seduti vicini»: ma il Wall Street Journal ha notato come «ultimamente abbiamo visto parecchie immagini di meeting nel metaverso con Zuckerberg seduto accanto al suo Capo della tecnologia, Andrew Bosworth. E l'avatar di Sandberg, a quel tavolo, non c’è mai stato». 

2. Un cambio di paradigma

Quando Sandberg è entrata a Facebook, l’azienda aveva 4 anni, entrate per 272 milioni di dollari, perdite per 56 e poche centinaia di assunti. 

Lo scorso anno, le entrate sono state di 118 miliardi di dollari, i profitti di 39 miliardi, gli assunti sono diventati 77.800, e il numero di utenti che usano i prodotti dell’azienda è salito a quasi 3 miliardi. 

Tutto questo è stato reso possibile — come dicevamo — dalla pubblicità. 

Ma quel mondo - in qualche modo - sta per cambiare: meglio, lo sta già facendo, e rapidamente, come testimonia il fatto che le azioni dell’azienda hanno perso, dall’inizio dell’anno, oltre il 40 per cento del loro valore. 

Il «problema», per Meta, è duplice. Da un lato, i legislatori — in primis l’Ue con il Digital Services Act — si preparano a limitare le possibilità di utilizzo dei dati per profilare gli utenti. 

Dall’altro, i colossi del web provano ad anticiparli, creando strumenti più rispettosi della privacy ma in grado di soddisfare gli inserzionisti. 

Apple ha cambiato le regole della raccolta dei dati sul suo sistema operativo, «bruciando» decine di miliardi di dollari proprio in casa Meta: e dalla sua ha il fatto che tutto ciò non tocca il suo core business, che non si basa sulla pubblicità. Google sta lavorando all’eliminazione dei cookie di terze parti (gli elementi che danno informazioni sulla nostra navigazione) dal browser Chrome. 

E la stessa Meta sta per cambiare la sua privacy policy, promettendo (quantomeno per Facebook, Messenger, Instagram, con la notevole eccezione di Whatsapp) di «non raccogliere, categorizzare né utilizzare i dati degli utenti in modo nuovo»: il tutto mentre altri concorrenti (come TikTok ) diventano sempre più ingombranti. 

Insomma: il campo di forze sta cambiando. E la stessa Wall Street prevede, per Meta, una crescita di ricavi dalla pubblicità «solo» del 6 per cento, quest’anno, contro una media del +44 per cento nei 10 anni passati. Se il modello a cui Sandberg ha legato il suo impegno sta radicalmente cambiando, e in direzioni che non riuscivano a convincerla, la COO potrebbe aver immaginato che fosse giunto, per lei, il momento di lasciare.

3. Il «fallout» degli scandali

«Il mio ruolo a Meta non è stato tra i più gestibili che si possano immaginare», ha detto a Bloomberg Sandberg. Un messaggio preciso, con almeno un paio di declinazioni. 

La prima è legata a una sfera — quella personale — cui la stessa manager ha fatto riferimento nel suo post: Sandberg ha annunciato, per l’estate, il suo matrimonio con Bernthal, incontrato dopo la morte di Dave Goldberg; il desiderio di concentrarsi sul ruolo di madre di una famiglia «allargata» che conterà 5 figli; e quello di dedicarsi di più alla sua fondazione e al suo lavoro filantropico, «che è più importante per me di quanto non lo sia mai stato dato il momento critico che stiamo vivendo, per le donne». 

Ma la seconda ha a che fare con quanto Sandberg ha fatto, in questi anni. All’inizio della loro avventura, mentre Zuckerberg definiva come «muoviti in fretta, rompi cose» la sua filosofia imprenditoriale, la Coo era definita «l’adulta nella stanza»: la manager esperta, abile, credibile, capace di garantire credibilità a un’azienda dal futuro ancora tutto da scrivere, fuori della Silicon Valley. 

Sandberg aveva rapporti con manager, politici - e con l’opinione pubblica. E proprio su questa linea si è creata la «grande frattura» che ha caratterizzato gli anni di Sandberg a Meta. 

Dal suo arrivo, e fino al 2015, Sandberg ha di fatto dato forma alla fase di maggior espansione, e di maggior entusiasmo, dell’azienda. 

Dal 2015 - anno della morte improvvisa del secondo marito — tutto è cambiato: il suo rientro in azienda, dopo una pausa, è coinciso con l’elezione di Trump, e l’inizio di una ininterrotta catena di scandali e critiche a Facebook. Da Cambridge Analytica ai Facebook Files dello scorso anno, la gestione delle cause antitrust e quella della privacy degli utenti, l’aggressività di un modello di business costruito su profilazione e viralità, l’incapacità di trovare un equilibrio definitivo e convincente tra libertà di espressione e necessità di moderazione dei contenuti hanno rappresentato fianchi sempre più scoperti: e Sandberg è stata, per anni, al centro di una scena rovente. 

Nel futuro di Sandberg, secondo molti osservatori, potrebbero esserci un ruolo di vertice in un’altra grande azienda — o anche la politica. Ma prima di ripartire, qualunque sia la direzione, per Sandberg era necessario ipotizzare un periodo di «stacco», per allontanare la sua immagine da quella, ormai tutt’altro che immacolata, dell’azienda che ha contribuito a fare grande.

4. Un ruolo in calo

Nel suo ruolo, Sandberg ha quotidianamente a che fare con cifre, dati, numeri. Non poteva sfuggirgliene uno: quello relativo al numero di dipendenti a suo diretto riporto. Il Wall Street Journal, lo scorso anno, aveva mostrato come la percentuale di dipendenti sotto la diretta responsabilità di Sandberg era in continua riduzione, mentre altri manager — e soprattutto il Chief growth officer, Javier Olivan, che assumerà anche il ruolo di Coo - vedevano il loro potere espandersi. 

Certo, le responsabilità di Sandberg rimanevano enormi. Ma come scrivono due croniste del New York Times , Sheera Frenkel e Cecilia Kang, in Facebook. L’inchiesta finale (Einaudi 2021), «per molti dei massimi dirigenti dell’azienda la sensazione ormai è che non ci siano più un numero uno e un numero due, ma un numero uno e molti altri». 

La prima stella in ascesa è quella di Olivan, appunto: spagnolo, 44 anni, da 15 in azienda, «mente» dell’acquisizione di Whatsapp, il suo dominio coprirà la pubblicità, i prodotti business, gli analytics, il marketing, l’infrastruttura, la crescita, analytics, marketing.

E poi Chris Cox , a capo dei prodotti, Andrew Bosworth, a capo della tecnologia (che ha appena annunciato una riorganizzazione: a fine mese lascia anche il vicepresidente dell’Ai Jerome Pesenti e il team di ricerca sull’intelligenza artificiale guidato dallo scienziato Yann LeCun si trasferirà ai Reality Labs di Boz), e Nick Clegg , di recente diventato presidente per gli affari globali e le comunicazioni di Facebook. Ex vicepremier britannico, assunto per essere il «ministro degli Esteri» di Facebook, ha con il tempo guadagnato sempre più terreno nelle gerarchie interne. Cox e Clegg hanno rappresentato Meta all’ultimo e recente World Economic Forum di Davos, mentre Sandberg non c’era. 

È la fine di un’era, ha notato Zuckerberg, il 1 giugno, commentando le dimissioni di Sandberg. 

Ed è l’inizio di un’altra, ancora tutta da scrivere.

F. M. per “il Messaggero” il 29 maggio 2022.

C'è un filo verde come il colore dei dollari che lega le sorti di Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuckerberg e Bill Gates. Tutti loro hanno costruito un impero, raggiungendo una posizione di monopolio nel proprio settore, entrando nel ristrettissimo club del trilione di dollari, a capo di aziende la cui capitalizzazione a Wall Street ha superato i mille miliardi.

 Non ci illudiamo, sin da quando esistono il profitto e la teoria capitalistica, ci sono sempre stati imprenditori di questa risma e dalle grandi fortune, eppure, il giornalista Riccardo Staglianò, segnala che mai come oggi, questi uomini hanno ottenuto anche il favore delle masse, la benedizione del cittadino medio. Una stranezza che esige un immediato cambio di prospettiva, ridestandosi dal torpore prima che sia troppo tardi, passando anche attraverso le pagine brillanti e pungenti di Gigacapitalisti (Einaudi, pp.152 12), il nuovo saggio del giornalista viareggino, classe 1969.

 Tutti noi, in modo più o meno conscio, nutriamo sogni di ricchezza ma ciò non basta a spiegare l'atteggiamento con cui rimiriamo Gates e company, anche quando si lanciano in dichiarazioni ciniche; del resto, proprio ieri, Elon Musk, l'uomo più ricco al mondo, il miliardario che sta cercando di acquistare Twitter, ha twittato, ben venga la recessione mondiale, è da troppo tempo che piovono soldi sugli sciocchi.  

E che dire di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, che al termine del suo primo volo in orbita, costato più di cinque miliardi di dollari, ha ringraziato «ogni dipendente di Amazon e ogni cliente di Amazon, perché voi avete pagato tutto questo»? 

Il tema è scottante e Staglianò lo sta approfondendo con una serie di saggi rigorosi ma di facile lettura, dal fenomeno Airbnb con L'affittacamere del mondo (Einaudi, 2020) alla sharing economy con Lavoretti (Einaudi, 2018) sino Al posto tuo (Einaudi, 2016), con i danni causati dall'automatizzazione della catena lavorativa.

Cosa rende unici e pericoli i gigacapitalisti? La loro visione sinottica, ovvero la capacità di «scorgere ogni possibile connessione tra il proprio terreno di gioco e altri che a prima vista non c'entrano niente», riuscendo a dar vita a nuove forme di profitto, esternalizzando il più possibile e, in tal modo, sfuggendo alla tutela dei diritti dei lavoratori.  

Il risultato è che la pandemia ha fiaccato l'economia mondiale ma i gigacapitalisti ne sono usciti trionfatori, gonfiando il proprio patrimonio, ottenendo un potere superiore anche agli Stati sovrani e in cambio dei servizi offerti, sono entrati in possesso dei nostri dati personali, come dimostra il recente scandalo legato a Facebook.

E dunque, si chiede l'autore, cosa possiamo fare? Una proposta pratica è certamente quella di attuare una dura tassazione ad hoc contro i plutocrati ma prima di tutto, ribadisce Staglianò, è necessario aprire gli occhi e comprendere il peso e il potere che questi «padroni dell'universo» stanno accumulando giorno dopo giorno. E dobbiamo farlo subito, prima che sia troppo tardi. 

Musk, Zuckerberg e Jeff Bezos: il club dei signori del vapore che sta provando a prendersi il mondo. Il patron di Tesla e Spacex (e di Twitter) è solo l’ultimo multimiliardario che ha deciso di investire un patrimonio nei social media. E non è un caso. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 9 maggio 2022.

Quando Elon Musk ha postato su twitter un sondaggio su quanto, secondo gli utenti, il social garantisse libertà d’espressione, in pochi avevano capito le sue reali intenzioni. Quando poi, qualche giorno dopo, è diventato socio di maggioranza dell’azienda, annunciando alcune novità e promettendo investimenti, altrettanti avrebbero scommesso che non sarebbe arrivato fino in fondo. Quando, infine, l’uomo più ricco del mondo si è comprato il social per 44 miliardi di euro, grazie a un corposo finanziamento bancario, in molti non hanno potuto far altro che pensare: «Oh no, di nuovo».

Il patron di Tesla e SpaceX è infatti soltanto l’ultimo multimiliardario a essersi iscritto al club dei “padroni del vapore”, cioè una manciata di imprenditori che hanno deciso di investire gran parte del proprio capitale in tecnologia, social media e intelligenza artificiale. In alcuni casi, come quello di Musk, comprando aziende già bell’e fatte. In altri, come quelli di Jeff Bazos e Mark Zuckerberg, creando dal nulla i propri imperi economici. E difendendoli oggi dall’assalto cinese all’Intelligenza artificiale e ai social, portato avanti in primis da TikTok ma anche da Weibo (il twitter cinese), WeChat (la super app senza la quale nel Dragone non si può praticamente vivere, e che contiene anche una specie di Whatsapp), fino ad Alibaba, l’Amazon d’Oriente fondata dal multimiliardario Jack Ma.

Ma chi sono questi personaggi e come sono arrivati a essere gli uomini più geniali (e ricchi) del mondo? Andiamo per ordine (d’età e non di ricchezza). Jeff Bezos nasce nel 1964 ad Albuquerque, nel New Mexico, Stati Uniti. Il cognome non è quello del padre naturale, ma del cubano Miguel Bezos che sua madre sposa dopo il fallimento del primo matrimonio. La famiglia si traferisce a Houston, Texas, ed è lì che Jeff cresce tra cactus e modellini di impianti elettrici. La laurea in Ingegneria elettronica nel 1986 a Princeton, poi, gli cambia la vita. Ma è nel 1994 che decide di inseguire il suo sogno e fonda, nel garage di casa, quella che di lì a poco verrà ribattezzata Amazon. Prevede di non fa- re profitti per i primi anni, ma ha calcolato tutto.

In poco tempo il marchio si allarga fino a contenere 500 milioni di articoli in vendita. Da lì a poco arriveranno Amazon Prime, che ha cambiato per sempre il concetto di avere qualcosa a portata di mano, Amazon Studios, da cui poi deriverà Prime Video, e Amazon Echo. Non sazio, nel 2000 fonda Blue Origin, società di start up per voli spaziali umani. Puntualmente, nel 2019 i primi turisti spaziali osservano la Terra da un oblò. Tanto per non farsi mancare nulla, nel 2013 acquista per 250 milioni di dollari il Washington Post. Al 2 maggio 2022 ha un patrimonio stimato di 148 miliardi e duecento milioni di dollari. E a proposito di spazio, chi meglio di Elon Musk e la sua Space X per spiegare la follia di un progetto? Musk nasce a Pretoria, Sudafrica, nel 1971, ma si trasferisce in Canada poco meno che ventenne per frequentare l’università. Per poi spostarsi negli Stati Uniti, dove avrà modo di far fruttare la propria intelligenza fuori dal comune. Prima da cofondatore di PayPal, che ha facilitato i pagamenti online in tutto il mondo, poi creando Space X (i cui razzi sostituiscono dal 2020 portano in orbita gli astronauti, da ultimo la nostra Samantha Cristoforetti) e infine diventando Ceo di Tesla. Pochi giorni fa, la pazzia. Compra twitter, e giustifica la sua azione dicendo di credere «nel suo potenziale per essere la piattaforma per la libertà di parola in tutto il mondo». Per molti riuscirà nell’impresa, per altrettanti creerà il caos. Lui, intanto, istrionico e geniale, si gode il titolo di uomo più ricco del mondo, con un patrimonio stimato di 253 miliardi e seicento milioni di dollari.

Di social media s’intende, e non poco, Mark Zuckerberg, nato nel 1984 a White Plans, NY, Usa. Dove ha creato Facebook, che ha letteralmente cambiato la vita di miliardi di persone? Nel dormitorio di Harvard, assieme a quattro compagni di stanza. Per poi distribuirlo ad altre università e farlo diventare il social network più conosciuto del mondo. Zuckerberg diventa miliardario nel 2007, a 23 anni, e nel 2012 il numero di utenti registrati a Facebook raggiunge il miliardo. Un successo straordinario, che il Nostro decide di far fruttare creando nel 2013 Meta, azienda che acquisisce poi Instagram e Whatsapp. Un unico grande contenitore, con dentro post, foto e messaggi di miliardi di persone. In mezzo a così tanta ribalta, lo scandalo Cambridge Analytica, per cui Zuckerberg è costretto a presentarsi davanti a una commissione d’inchiesta del Congresso Usa. Fino all’idea del Metaverso, un universo parallelo e virtuale destinato a cambiare il nostro approccio con la tecnologia. A partire dall’uso di visori per muoversi in un mondo che non esiste. Fantascienza? Può darsi, nel frattempo Zuckerberg ha accumulato un patrimonio stimato di 71 miliardi e 800 milioni di dollari. E, come gli altri, non intende mettere un freno alla propria genialità. 

Da Elon Musk a Jeff Bezos, quante ore dormono gli imprenditori di successo? Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.  

Dirigere una grande azienda è un’attività estremamente impegnativa, che richiede energia e concentrazione. Molti imprenditori celebri, da Elon Musk a Jeff Bezos, hanno dichiarato in alcune interviste di avere una precisa routine del sonno che consente loro di restare sempre produttivi. Metodi diversi per mantenere il successo e migliorare le performance dell’organizzazione che spaziano da 6 ore di sonno al massimo alle 8 canoniche. Ecco i ‘segreti’ di alcuni dei più grandi imprenditori, per patrimonio e attività, del mondo.

Elon Musk: solo 6 ore

Secondo un termine coniato dal Wall Street Journal, esiste un’ «élite degli insonni» costituita da persone fortunate, nate con una mutazione genetica posseduta dall’1% al 3% della popolazione mondiale. Persone che riescono a dormire meno “funzionando” normalmente. Tra questi potrebbe esserci Elon Musk, ceo di Tesla e Space X, che ha svelato di dormire solo 6 ore ogni notte. In un’intervista ha detto: «Ho provato a dormire meno, ma poi la produttività totale diminuisce. Non mi ritrovo a desiderare di dormire più di sei ore».

Jeff Bezos, fan delle 8 ore di sonno

A differenza di molti suoi colleghi, il fondatore di Amazon difende le 8 ore di sonno. Jeff Bezos ha dichiarato di avere come abitudine il dormire otto ore quando è possibile. «Perché? Penso meglio. Ho più energia. Il mio umore è migliore», ha detto una discussione all’Economic Club di Washington nel 2018.

Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook: sveglia alle 8

Molto meno mattiniero Mark Zuckerberg che si sveglia alle 8 ma dorme comunque 6-7 ore a notte. Come ha dichiarato in più interviste la sua prima attività al mattino è controllare lo smartphone, dà un occhio a Facebook e WhatsApp e pratica attività fisica. Nel 2019 il fondatore di Facebook ha progettato una «sleep box» per aiutare la moglie a dormire meglio.

Bill Gates, 7 ore di sonno

Bill Gates ha dichiarato di essere invidioso di chi non ha bisogno di dormire e ha affermato di dormire almeno 7 ore a notte. Il numero uno di Microsoft inizia la sua giornata con l’attività fisica. Secondo il New York Times, Gates trascorre un’ora sul tapis roulant mentre guarda Dvd didattici.

Warren Buffett, l’oracolo di Omaha

Considerato uno dei più grandi investitori di sempre, Warren Buffett si sveglia ogni giorno alle 6:45. «Non ho alcun desiderio di andare al lavoro alle quattro del mattino», ha dichiarato.Trascorre poi la maggior parte della mattinata leggendo i giornali, in particolare T he Wall Street Journal, USA Today e Forbes, nella convinzione che «più leggi, più sei informato, meno sei impulsivo». Consiglia, anzi, alle persone di leggere almeno 500 pagine al giorno.

Jack Dorsey, co-founder di Twitter

La concezione che gli imprenditori debbano lavorare tutta la notte e non prendersi mai un giorno di riposo è superata, secondo Jack Dorsey. Il co-fondatore di Twitter ha però ritmi ben scanditi. Si sveglia alle 5.30, medita per mezzora, fa esercizio fisico seguito da un caffè. Passeggia per almeno 5 chilometri per recarsi a lavoro e nel tragitto ascolta podcast e si informa. «La cosa più importante è aver meditato, il che significa che ho calmato la mia testa, ho fatto un po’ di esercizio fisico e ho imparato qualche cosa tre ore prima dell’inizio della prima riunione», ha detto Dorsey.

Tim Cook, Apple

Tim Cook, ceo di Apple, ha dichiarato di svegliarsi ogni mattina alle 3:45 per affrontare le 700-800 email che riceve al giorno. Scrive mail per un’ora poi va in palestra, poi da Starbucks per altre email e solo dopo a lavoro dove resta anche fino alle 21:00. Ha dichiarato: «Il fatto è che quando ami quello che fai, non lo consideri un lavoro. È quello che fai. E questa è la vera fortuna».

I miliardari tech sono quelli che pagano meno tasse di tutti: Bill Gates ha risparmiato 125 milioni di dollari di fisco in 5 anni. Elena Tebano su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2022.

L’analisi di Pro Publica sui 400 più ricchi d’America: una famiglia della classe media arriva a pagare il 26%, loro appena il 16%. Merito degli sconti su rendite finanziarie e investimenti.

Bill Gates, Ellison e gli altri: l’analisi

In cima alla lista ci sono i 125 milioni di dollari del fondatore di Microsoft Bill Gates. Poi i 106 milioni di dollari di Larry Ellison, co-fondatore di Oracle, i 93 milioni di Fayez Sarofim, investitore discendente di una famiglia nobile egiziana, gli 86 milioni di dollari dell’erede della catena di supermercati Walmart Alice Walton e infine i 62 milioni di dollari di Sheldon Adelson, il magnate dei casinò scomparso l’anno scorso. Sono le tasse risparmiate ogni anno tra il 2013 e il 2018 da alcuni dei 400 più ricchi d’America, grazie a un sistema che in teoria dovrebbe essere progressivo ma in realtà premia le enormi fortune finanziarie e finisce per tassarle meno di quanto tassa la classe media. Lo rivela un’inchiesta del sito di giornalismo investigativo Pro Publica che ha ottenuto i dati dell’Internal Revenue Service (il Fisco statunitense) su 15 anni di dichiarazioni dei redditi delle persone più ricche della nazione.

Famiglie e multimiliardari: il confronto

Pro Publica aveva già rivelato che nel 2007 e nel 2011, Jeff Bezos, allora multimiliardario e ora l’uomo più ricco del mondo, non aveva pagato un centesimo di tasse sul reddito federale, così come il fondatore di Tesla Elon Musk (la seconda persona più ricca del mondo) nel 2018, e i miliardari Michael Bloomberg e George Soros per svariati anni.

Adesso ha analizzato nel dettaglio cinque anni di dichiarazioni dei redditi delle 400 persone più ricche degli Stati Uniti, ognuna delle quali ha guadagnato minimo 110 milioni di dollari all’anno. E rivela che mediamente hanno pagato solo il 22% di tasse, percentuale che scende al 20% se si considerano solo le 15 persone con i redditi più alti e addirittura al 16% per le 25 persone con i patrimoni più alti. Negli Stati Uniti un lavoratore che guadagna 45 mila dollari all’anno paga il 21% di tasse sul suo reddito, mentre una coppia sposata con un figlio con un reddito familiare di 200 mila dollari l’anno arriva al 26% di tasse. Eppure tra i loro redditi e quella dei più ricchi c’è una sproporzione talmente grande che è difficile anche solo immaginarla.

Investimenti e rendite finanziarie meno tassate

«Un tipico americano che guadagna 40 mila dollari all’anno dovrebbe lavorare per 2.750 anni per fare quello che la persona con il reddito più basso in questo gruppo ha fatto in uno solo. Ognuno dei primi 11 ha guadagnato in media più di 1 miliardo di dollari all’anno dal 2013 al 2018. L’americano tipico dovrebbe lavorare per 25.000 anni per guadagnare 1 miliardo di dollari» spiega Pro Publica. «In teoria, il nostro sistema fiscale è progettato per tassare i ricchi a tassi più alti di tutti gli altri. Non è così che funziona con i redditi più alti. I dati rivelano un sistema in cui le persone che guadagnano di più, in media, pagano aliquote fiscali molto più basse di quelle dei semplici ricchi. E anche tra i primi 400, alcuni gruppi se la passano meglio di altri: i miliardari della tecnologia pagano aliquote ben al di sotto anche degli altri proprietari» scrive ancora Pro Publica.

Questo succede perché il fisco americano tassa gli investimenti e il reddito da attività finanziare molto meno di quanto tassa i salari.

Un regalo di George W. Bush

Lo sconto sui redditi dei dividendi azionari è stato un regalo fatto ai ricchi dal presidente George W. Bush nel 2003, che ha fatto risparmiare complessivamente alle 400 persone più ricche degli stati Uniti una media di 1,9 miliardi di dollari di tasse ogni anno. Un altro sistema che permette ai ricchissimi di abbassare le tasse è la beneficienza: fare grandi donazioni dalle proprie partecipazioni azionarie permette di dedurre l’intero valore delle azioni al loro prezzo corrente. «Poiché le tasse sui salari colpiscono in modo sproporzionato i lavoratori a basso e medio reddito, esse possono cancellare la progressività delle tasse sul reddito. È comune per i lavoratori salariati pagare un tasso più alto di imposte federali personali rispetto anche agli americani con i redditi più alti» spiega Pro Publica.

Tech, ereditieri, fondi di investimento

Tra coloro che beneficiano di più di questi sconti sulle tasse ci sono i miliardari della tecnologia, il cui reddito proviene principalmente dalla vendita di azioni (sono 10 delle 15 persone con i redditi più alti degli Stati Uniti). Poi ci sono gli ereditieri che devono la loro ricchezza ai dividendi o altre forme di reddito da investimento prodotte dalle loro grandi eredità (tra i 400 più ricchi degli Stati Uniti ci sono 11 eredi dei fondatori di Walmart Sam e Bud Walton e quattro del fondatore di Amway Richard DeVos). E infine i gestori di fondi di investimento, che da soli rappresentano un quinto delle 400 persone più ricche degli Usa. Così finisce che le 11 persone più ricche d’America pagano di tasse la stessa aliquota (se non meno) di coloro che guadagnano 25 mila volte meno di loro.

Elon Musk scavalca Jeff Bezos, è il più ricco del mondo con un patrimonio di 219 miliardi. Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.

Il primato di Elon Musk

Un nuovo sorpasso per Elon Musk. Il patron di Tesla, che ha da poco comprato il 9,2% di Twitter, ha superato il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, ed è diventato la persona più ricca del mondo secondo la classifica annuale di Forbes. Il patrimonio netto dell’amministratore delegato di Tesla ammonta a 219 miliardi di dollari, contro i ‘soli’ 171 di Bezos. I dati della classifica sono riferiti all’11 marzo e quindi, nel caso di Musk, non tengono conto del suo massiccio acquisto di azioni di Twitter. Musk è stato aiutato dal rialzo del valore del titolo di Tesla, cresciuto del 58,9% nell’ultimo anno, con Amazon salito invece del 4,18%.

Il terzo posto ad Arnault

Dietro a Musk e Bezos si piazza il miliardario Bernard Arnault (LVMH) che conta un patrimonio familiare di 158 miliardi di dollari. Cifra che gli permette di confermarsi per il terzo anno come terzo uomo più ricco del mondo.

La classifica: il 40% dei miliardari ha guadagnato di più

Secondo Forbes nel 2022 si contano 2.668 miliardari in tutto il mondo, 87 in meno rispetto al 2021. Il 40% dei miliardari, però, ha aumentato il proprio patrimonio. Gli Stati Uniti guidano la classifica con 735 miliardari e un patrimonio totale di 4.700 miliardi di dollari, seguiti dalla Cina con 607 miliardari e 2.300 dollari di patrimonio. La ricerca di Forbes registra anche come il patrimonio dei miliardari russi sia diminuito di oltre 260 miliardi nell’ultimo anno, con il risultato che 34 miliardari russi sono usciti dalla classifica

Le donne miliardarie: solo 327

Dei 2.668 miliardari nel mondo, solo 327 sono donne, un numero che comprende anche le donne che condividono il patrimonio con il coniuge; nel 2021, erano 328. Di queste donne, 101 hanno creato la loro fortuna. Tra le nuove miliardarie, figurano la cantante Rihanna e Melinda French Gates, dopo il suo divorzio da Bill Gates, che per il secondo anno consecutivo è il quarto uomo più ricco del mondo. Tra le donne, 90 sono statunitensi, 63 cinesi, 35 tedesche. La donna più ricca è Francoise Bettencourt Meyers (L’Oreal), al 14esimo posto complessivo con 74,8 miliardi di dollari. 

Musk, Adani o Yiming: chi sarà il primo triliardario della storia? Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo

Elon Musk potrebbe essere il primo triliardario della storia. Secondo uno studio di Tipalti Approve, che ha confrontato il valore netto annuale delle persone più ricche del mondo, prevedendo entro quando raggiungeranno il trilione di dollari (ovvero, mille miliardi di dollari), il fondatore di Tesla e SpaceX potrebbe conquistare il primo posto di questa fantasmagorica classifica già nel 2024. Attualmente, l’imprenditore sudafricano con cittadinanza canadese e naturalizzato statunitense vanta un patrimonio netto di circa 200 miliardi di dollari, il più alto di qualsiasi essere umano vivente. Ma già a metà gennaio di quest’anno, la cifra era di 263 miliardi di dollari. Tesla è solo uno dei fattori che contribuiscono a questa incredibile ricchezza: il progetto SpaceX, per esempio, da solo ha spinto il suo patrimonio netto nell’empireo delle dodici cifre. “Dal 2017, la fortuna di Musk ha mostrato un aumento medio annuo del 129%, che potrebbe potenzialmente vederlo entrare nel club dei trilioni di dollari in soli due anni, raggiungendo un valore netto di 1,38 trilioni di dollari entro il 2024, quando Musk avrà 52 anni”, spiega il rapporto Approve. Proiezioni come queste, però, possono cambiare velocemente e così la classifica. Per fare un esempio, Zhong Shanshan, il presidente della società cinese di acqua imbottigliata Nongfu Spring, ha visto il suo patrimonio netto balzare da 2 miliardi di dollari nel 2020 a 71 miliardi di dollari nel 2022, dopo le offerte pubbliche per due delle sue aziende avvenute a Hong Kong.

Dunque, con la consapevolezza che un nuovo super paperone potrebbe già essere dietro l’angolo, vediamo quali sono gli altri candidati a entrare nel “Trillion dollar club”.

Gautam Adani

Ma quali sono gli altri magnati che entrano nella lista? Subito sotto a Musk compare il nome di Gautam Adani, il presidente e fondatore del conglomerato indiano Adani Group, impegnato nello sviluppo e nelle operazioni portuali in India. Dal 3 marzo 2022, Adani è l’uomo più ricco dell’Asia e dell’India, con un patrimonio netto, secondo Forbes, di 92,9 miliardi di dollari. Solo nel 2021, Adani ha aggiunto 49 miliardi di dollari alla sua ricchezza personale (e in questo batte anche Elon Musk), ma nel 2025 - all’età di 62 anni - avrà scavallato quota mille miliardi di dollari.

Zhang Yiming

Il terzo ad arrivare nel “Trillion dollar club” potrebbe essere Zhang Yiming, l’imprenditore cinese che ha fondato nel 2012 ByteDance, società che ha sviluppato l’aggregatore di notizie Toutiao e la piattaforma TikTok. Secondo il Bloomberg Billionaires Index, il patrimonio personale di Zhang nel 2022 è stimato in 44,5 miliardi di dollari. Entro il 2026 dovrebbe raggiungere lo status di triliardario. Se questo dovesse accadere, Yiming sarà il più giovane triliardario del mondo, a soli 42 anni. “Nel 2017, il gigante dell’e-commerce e degli acquisti globali Jeff Bezos è stato il primo a raggiungere i 100 miliardi di dollari da Bill Gates nel 1999”, ha sottolineato il rapporto. “È stato Bezos, non Musk, che pochi anni fa ci si aspettava che diventasse il primo triliardario del mondo, e che ora non dovrebbe entrare nel club fino al 2030, circa sei anni dopo Musk”.

Jeff Bezos

Negli anni 2000, il gigante dell’e-commerce e degli acquisti globali Jeff Bezos è stato il primo a raggiungere i 100 miliardi di dollari di patrimonio (Bill Gates ci era riuscito nel 1999). E proprio Bezos doveva essere il primo triliardario del mondo. Ora, invece, si prevede che entrerà nel club non prima del 2030, ovvero circa sei anni dopo Musk, che al momento gli ruba anche lo scettro di uomo più ricco del mondo.

Mukesh Dhirubhai Ambani

Tra i primi cinque paperoni che potrebbero arrivare a breve a essere triliardari c’è anche un altro indiano, Mukesh Dhirubhai Ambani, nato nel 1957. Questo uomo d’affari, presidente, amministratore delegato e maggior azionista della Reliance Industries Ltd., l’azienda indiana col valore di mercato più alto, secondo Forbes e Bloomberg Billionaires Index, ha un patrimonio netto a marzo 2022 stimato in circa 93 miliardi di dollari, rendendolo la seconda persona più ricca in Asia e in India. Ambani potrebbe superare quota mille miliardi nel 2029, quando avrà 71 anni di età.

Bernard Arnault

Sempre nel 2029, potrebbe entrare nel club il primo europeo: Bernard Arnault, proprietario del gruppo del lusso LVMH, la prima azienda in Europa. Secondo la rivista Forbes, al 23 gennaio 2022, Arnault risultava essere il terzo uomo più ricco al mondo, con un patrimonio di 190,7 miliardi di dollari, subito dopo Elon Musk e Jeff Bezos. Come detto, nel 2029 il suo patrimonio potrebbe superare i 1.200 miliardi. Quell’anno Arnault compirà 79 anni.

Françoise Bettencourt Meyers

E le donne come sono messe? La prima trilliardaria della storia potrebbe essere Françoise Bettencourt Meyers, l’imprenditrice, filantropa, scrittrice, pianista ed ereditiera francese, che è anche la donna più ricca del mondo, con un patrimonio netto stimato di 75,3 miliardi di dollari a marzo 2022, sempre secondo Forbes. Nipote del fondatore de L’Oréal Paris, Eugène Schueller, Meyers potrebbe entrare nel club 2036, quando avrà 82 anni.

Elon Musk: Putin è molto più ricco di me. Il fondatore di Tesla per la riapertura delle centrali nucleari. Redazione ANSA NEW YORK il 27 marzo 2022.

 "Ritengo che Vladimir Putin sia significativamente più ricco di me", afferma Elon Musk in un'intervista a Business Insider. Dicendosi "sorpreso" dal fatto che "ai nostri tempi" ci sia ancora una guerra, il miliardario visionario spiega come a suo avviso il "governo americano abbia fatto" per l'Ucraina "più di quanto la gente possa realizzare".

Sul fronte dell'energia, Musk osserva come il nucleare sia in questo momento centrale perché è il modo più veloce di produrla. "Voglio essere chiaro: non solo non si devono chiudere gli impianti nucleari, ma devono essere riaperti quelli che sono già chiusi", secondo il fondatore di Tesla. 

Dalla vetta di Wall Street al “buco” da 65 miliardi di dollari. La storia nera dei Madoff. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.  

Una storia da film: l’ex bagnino diventato banchiere, la condanna a 150 anni di carcere per la più grande truffa finanziaria della storia, i suicidi delle vittime e del figlio Mark, la tragica fine di un altro figlio a 48 anni. In febbraio l’ultimo capitolo: sorella e cognato si sono tolti la vita. 

Bernard Lawrence Madoff insieme con la moglie Ruth: i due si sono sposati nel 1959. Il finanziere è morto in carcere nel 2021 a 82 anni

Proiettava fiducia e trasparenza fin dal motto scelto per la sua società d’investimenti: «Il nome del proprietario è sulla porta». E anche presentandosi come titolare di un’azienda familiare: fratelli, figli e moglie di un’onorata stirpe della comunità ebraica di New York, ben nota per le sue attività filantropiche, impegnati nella gestione dei risparmi di una selezionata clientela, comprendente anche i suoi amici e parenti: chi poteva dubitare di Bernie Madoff? Invece l’ammirato self made man partito dal nulla - bagnino e poi tecnico che istallava impianti antincendio - capace di trasformare i pochi risparmi giovanili in un impero finanziario, aveva messo in piedi la più vasta e clamorosa truffa finanziaria della storia: 65 miliardi di dollari raccolti e investiti in modo truffaldino, 20 dei quali irrimediabilmente persi. Migliaia di risparmiatori messi sul lastrico, finanzieri che si erano fidati di un uomo che sembrava un genio degli investimenti, spinti al suicidio: l’immane e grottesco disastro finanziario, emerso col crollo di Wall Street del 2008 e diventato il simbolo di un’era di degenerazioni del capitalismo finanziario americano e di fallimento dei sistemi di controllo, sprofonda alla fine in tragedia con la famiglia Madoff letteralmente dissolta. Travolta da un gorgo di arresti, suicidi, malattie mortali e cambi di identità nel tentativo di cancellare un marchio d’infamia ed essere dimenticati.

Omicidio e suicidio finale

L’ultima, tragica pagina di questa storia incredibile che ha ispirato numerosi film e documentari è stata scritta pochi giorni fa quando la polizia di Palm Beach, in Florida, ha trovato in un piccolo condominio della vicina Boynton Beach, i cadaveri di Sondra Wiener, 87enne sorella di Madoff, e del marito Marvin: omicidio-suicidio, ha sentenziato lo sceriffo della contea dopo i primi accertamenti. Nel 2009 anche Sondra aveva denunciato di essere stata truffata da Bernie. Aveva perso tre milioni, tutto il suo patrimonio. Costretta a lasciare la sua lussuosa residenza sull’oceano, era andata a vivere nell’appartamentino assai più modesto (pagato una cifra pari a 250 mila euro) nel quale si è tolta la vita. Bernie, primatista mondiale del crimine finanziario, non ha fatto in tempo ad avere rimorsi anche per questa tragedia: è morto poco meno di un anno fa, 82enne, nel penitenziario di Butner, in North Carolina. Scontava una condanna a 150 anni di carcere. Ma dietro le sbarre, trattato dagli altri detenuti col rispetto in genere riservato a un boss e protetto da un killer di mafia, ha visto, dopo i suicidi dei suoi clienti, la sua famiglia andare in pezzi a cominciare dalla tragica morte dei suoi due figli.

La confessione

Il 10 dicembre 2008, non più in grado di nascondere la sua truffa davanti a clienti che chiedevano di ritirare una parte - 7 miliardi di dollari - dei loro investimenti, Madoff confessò ai figli Mark e Andrew che gestivano con lui la finanziaria di famiglia ma non si erano mai accorti di nulla, che l’azienda era, in realtà, solo un castello di carte. Il giorno dopo, i figli, per evitare di essere incriminati, lo denunciarono ed esplose lo scandalo. Oltre a Bernie, finì in carcere il fratello Peter che confessò la sua complicità (è tornato libero di recente dopo aver scontato una condanna a dieci anni), mentre Mark e Andrew, mai condannati dai giudici, sono stati travolti dai rimorsi e dall’odio degli investitori danneggiati che non hanno creduto alla loro innocenza. Mark non ha retto e nel 2010, nel secondo anniversario dell’arresto del padre, si è suicidato impiccandosi col guinzaglio del cane. Lasciandosi dietro, in un messaggio di appena due righe, una terribile maledizione: «Bernie, ora sai che hai distrutto i tuoi figli con la tua vita fatta di inganni. Vai a farti fottere». Nel 2014, a 48 anni, muore anche Andrew. Lo uccide un linfoma mantellare, un tumore molto raro, ma lui, agonizzante, sostiene che anche la sua malattia va attribuita al padre: un cancro dovuto ad anni di stress estremo.

La moglie, libera e sola

Oltre al fratello di Bernie, l’unica sopravvissuta è la moglie Ruth che oggi vive isolata in un appartamento sul mare in Connecticut. Nonostante abbia firmato tutti gli assegni emessi dalla società del marito e abbia gestito i registri aziendali, ha sempre sostenuto di non aver saputo nulla della truffa: i magistrati non sono riusciti a provare la sua complicità. Ora è libera e sola in una casa lasciatale dalla prima moglie di Mark. Con tutto il tempo per contemplare le macerie della sua famiglia, distrutta da una frode tanto mastodontica quanto elementare nella sua costruzione e per ripercorrere gli anni scintillanti quando Bernie era soprannominato «il buono del Tesoro ebreo» per la puntualità con la quale garantiva rendimenti elevati e costanti ai suoi clienti, in massima parte della comunità jewish. Ruth ha raccontato che voleva morire anche lei, insieme al marito: alla vigilia di Natale del 2008, col finanziere agli arresti domiciliari, i due tentarono il suicidio ingerendo un cocktail di sonniferi e farmaci per l’epilessia.

Presidente del Nasdaq

Un tentativo maldestro o poco convinto visto che i coniugi se la sono cavata senza nemmeno un ricovero. Madoff costruisce le prime fortune della sua società su un’intuizione: è tra i primi a vedere le potenzialità delle tecnologie digitali applicate alla finanza. Scommette sull’automazione e vince. La finanza di New York lo incorona: nei primi Anni 90 diventa presidente del Nasdaq, la Borsa tecnologica americana. Quando confesserà le sue colpe, Madoff sosterrà di essersi montato la testa dopo quel successo. Allarga il suo business usando un banalissimo “schema Ponzi”: un tipo di truffa molto semplice che ha il nome dell’immigrato italiano che all’inizio del Novecento la sperimentò per primo negli Usa. Raccogli denaro e remuneri il capitale dei vecchi investitori coi soldi ricevuti dai nuovi clienti: un gioco che può essere mascherato solo finché la torta cresce. Madoff riesce a farla crescere per decenni: secondo gli investigatori in realtà Bernie ha cominciato a truffare i suoi clienti all’inizio degli Anni 80 e, forse, ancora prima.

La piramide

Una truffa elementare nella sua struttura e una storia grottesca, da “soliti ignoti”: il precursore della finanza digitale, trionfo dei computer, crea un sistema di contabilità parallela scritta a mano, a volte con la matita, o affidata a una vecchia macchina da scrivere meccanica, senza lasciare tracce informatiche. Un lavoro condotto in uffici collocati nello stesso edifico, l’iconico Lipstick Building della Terza Avenue di Manhattan, dove è anche la sede ufficiale della finanziaria, ma a un piano diverso. Uffici dei quali i figli non sapevano nulla. Tutto procede tranquillamente per decenni: Madoff garantisce ai suoi clienti guadagni stabili ed elevati negli anni, ma senza esagerare, per non alimentare sospetti. Non il 30 per cento vantato in certi anni da alcuni hedge fund: uno stabile 10-12 per cento. Ma come fa a pagare sempre, anche quando le Borse vanno giù? Cominciano i sospetti, alcuni finanzieri lo accusano. Harry Markopolos, un esperto di derivati, presenta due esposti, nel 1999 e nel 2005, alla SEC, il “poliziotto” della Borsa Usa. L’authority conduce cinque ispezioni e non trova nulla. L’avventura scintillante di Bernie, tra ville lussuose, jet privati e uno yacht lungo 27 metri, finisce nell’autunno del 2008 col fallimento della Lehman e il crollo di Wall Street: gli investitori chiedono a Madoff di riavere 7 dei 65 miliardi che gli hanno dato da investire.

La fine, le vittime e la giustizia

Bernie quei soldi non li ha: traccheggia, rimborsa qualcuno, ma alla fine è costretto a gettare la spugna. Lo scandalo è gigantesco e raggiunge anche la SEC: il più grosso fallimento della storia dell’ente di controllo. Arrivano libri e poi film e documentari. Appassiona una storia nella quale c’è tutto: crimine finanziario, cecità e avidità di Wall Street, il deragliamento del capitalismo americano, la tragedia della famiglia e anche un tocco glamour: tra le vittime di Bernie ci sono anche Elie Wiesel, un premio Nobel sopravvissuto all’Olocausto, e molte star dello spettacolo come il regista Steven Spielberg e gli attori Kevin Bacon e John Malkovich. Fioccano le pellicole con Madoff interpretato da Robert De Niro e Richard Dreyfuss. E ora è in lavorazione un’altra docu-serie di Netflix. Bernie non potrà vedersi reinterpretato per l’ennesima volta. Morto nell’infermeria del carcere dopo che, malato ormai terminale di cancro, gli era stato negato di spegnersi nel suo letto. Voleva dare l’addio ai suoi sei nipoti. Strano Paese l’America: dietro la facciata di efficienza non riesce a intercettare scandali giganteschi anche se denunciati. Poi, trovato tardivamente il colpevole, lo punisce con ferocia per dare l’esempio, anche quando potrebbe esserci spazio per un minimo di pietà umana. Tutti i nipoti di Madoff, comunque, hanno cambiato cognome per non essere collegati a un nonno disgraziato.

Da ansa.it l'11 febbraio 2022.

È on line sul sito di ogni parlamentare la dichiarazione dei redditi del 2021. La documentazione patrimoniale dei deputati e dei senatori è disponibile sulla pagina personale di ogni singolo deputato e senatore. 

È il segretario del Pd Enrico Letta il leader con il reddito complessivo più alto in base alla documentazione patrimoniale presentata che riguarda i redditi del 2020.

Il segretario Dem ha un reddito 621.818 euro. Segue Matteo Renzi con 571.391 euro. Al terzo posto si classifica Giorgia Meloni con 134.206 euro. Il leader di Leu Roberto Speranza ha un reddito complessivo di 107.842 euro. 

Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni ha un reddito complessivo di 101.800 euro. "Ultimo" in base alla documentazione il segretario della Lega Matteo Salvini di 99.699 euro.

È Niccolò Ghedini, senatore di Forza Italia e avvocato di Silvio Berlusconi il senatore più ricco in base alla documentazione patrimoniale presentata che fa riferimento all'anno 2020.

Il senatore di Fi ha un reddito complessivo di 2 milioni 689 euro. Al secondo posto, un altro avvocato, la senatrice della Lega Giulia Bongiorno con un reddito complessivo di 2 milioni 402euro.

l senatore a vita Renzo Piano dichiara un reddito imponibile di 1 milione 860 euro. Non risulta visibile la dichiarazione patrimoniale del senatore a vita Mario Monti. 

Il premier Mario Draghi ha un reddito complessivo di 527.319 euro. Nella documentazione patrimoniale presente sul sito del governo risulta inoltre che il capo del governo è proprietario di 16 immobili tra terreni e fabbricati tra cui un appartamento a Londra, varie proprietà tra Roma, Anzio, Stra in provincia di Venezia e a Città della Pieve.

Tra i ministri politici: il titolare della Farnesina Luigi Di Maio ha un reddito complessivo di 98.471. euro, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà 95.811, Stefano Patuanelli, ministro per le Politiche agricolo è di 98.980 euro. 

Fabiana Dadone, ministro per le politiche giovanili 98.471euro il leghista Giancarlo Giorgetti, ministro Sviluppo Economico ha un reddito di 99.883 euro. Erika Stefani, ministro per le disabilità 99.699.

Il ministro per il Turismo Massimo Garavaglia ha un reddito complessivo di 98.874 A guidare la delegazione di Fi è Renato Brunetta con 206.996 euro. Mara Carfagna, ministro per il Sud ha un reddito di 139.833 euro mentre il ministro per gli affari regionali Maria Stella Gelmini ha un reddito di 100.324 Il ministro per le Pari Opportunità Elena Bonetti in quota Iv) ha un reddito complessivo 99.864. 

Per il Pd, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha un reddito complessivo 104.269 euro, quello della Difesa Lorenzo Guerini è pari a 112.018 euro. Il ministro della Cultura Dario Franceschini ha un complessivo di 165.384 euro.

Redditi dei politici, Letta batte Renzi tra i leader di partito (ma il più ricco è sempre Berlusconi). Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022

Il segretario del Pd dichiara 622 mila euro, il capo di Iv 571 mila. Poi Meloni con 127 mila. In coda Speranza (89 mila). Il presidente di FI stacca tutti con oltre 50 milioni. 

Il più ricco è Silvio Berlusconi, con 50 milioni 661mila 390 euro dichiarati al Fisco. E questa non è una novità. Anche se sono 3 milioni di euro in più di quelli incassati dal Cavaliere l’anno precedente. Molto distante dall’ultimo della classifica dei leader di centrodestra, Matteo Salvini con 92.568 mila euro. Ma c’è chi sale e chi scende nelle dichiarazioni patrimoniali dei parlamentari pubblicate sui siti di Camera e Senato. Eccole.

Un balzo all’ingiù lo fa Matteo Renzi. Rispetto all’1,1 milioni di euro del 2019, quest’anno ha dichiarato un imponibile di 571mila 391 euro. Con una partecipazione di 10mila euro della Ma. Re (le sue iniziali ndr) Consulting srl: società specializzata nelle consulenza d’impresa da lui fondata lo scorso anno.

Il leader di Italia Viva finisce così dopo quello del Pd Enrico Letta con un reddito imponibile 621.818 euro. La presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni è molto distante, con i suoi 127.057 euro. Poi c’è il leader (ora sospeso dal tribunale di Napoli) del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte, che ha dichiarato un imponibile di 100.927 mila euro. E ancora più giù il leader Leu e ministro della Salute, Roberto Speranza, con un reddito di 89.631 euro.

La sfida tra i presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama la vince di gran lunga la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, con un reddito imponibile di 255.970 euro. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha dichiarato 98.471 euro.

Tra i ministri il più ricco risulta quello della Transizione ecologica, Roberto Cingolani con un reddito imponibile pari a 543.952 euro. A seguire il ministro dell’Economia, Daniele Franco, che per il 2020 ha dichiarato un reddito imponibile pari a 383.406 euro. Terza viene Marta Cartabia, ministra della Giustizia, con 313.794 euro. A seguire il titolare del dicastero della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta (282.211), la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese (230.331), Enrico Giovannini , ministro delle Infrastrutture (227.803), Mara Carfagna, ministra per il Sud (136.112). Quindi la ministra dell’Università Maria Cristina Messa (124.531), il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini (121.463), il titolare della Scuola Bianchi (114.969), la ministra Erika Stefani (111.045). E ancora, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (109.847) e il titolare del Lavoro Andrea Orlando (103.511). Seguono Bonetti e Giorgetti, (99.864 e 99.169), il titolare della Farnesina Luigi Di Maio (98.471) e Stefano Patuanelli (98.398). Infine, il titolare del Turismo Garavaglia (97.885), il ministro dei rapporti con il Parlamento D’Incà (95.811) e la ministra Gelmini (92.814). 

Silvio Berlusconi Paperone della politica con un reddito di oltre 50 milioni di euro. Il Tempo il 09 febbraio 2022.

E' ancora Silvio Berlusconi il politico più ricco d'Italia con ville, auto e barche di lusso il si conferma re dei "Paperoni" dichiarando un reddito di oltre 50 milioni di euro: cento volte più del premier Mario Draghi.

Secondo la dichiarazione redditi di gennaio 2021 il leader di Forza Italia resta al top in Italia e Bruxelles. Conti alla mano il governo Draghi (insediatosi il 13 febbraio scorso) ha portato fortuna al leader azzurro mentre il Conte bis gli ha 'tolto' circa mezzo milione di euro: con 'l'avvocato del popolo' a palazzo Chigi (dal primo giugno 2018 al febbraio 2021) il presidente di Forza Italia ha infatti guadagnato di meno, registrando una 'perdita' di 518mila 449 euro. Berlusconi è sempre stato al top della classifica dei più facoltosi nelle aule parlamentari.

Nel dettaglio, nel 2018, quando è tornato a comparire nella 'lista' in quanto leader di Fi dopo essere stato assente qualche anno per la decadenza dalla carica di senatore per effetto della legge Severino (nel novembre 2013), ha percepito (in relazione al periodo di imposta 2017) 48 milioni 011 mila 267 euro, sbaragliando la concorrenza, alla Camera, al Senato e alla presidenza del Consiglio (Conte premier, solo per fare un esempio, si fermava a 370mila euro). Nel 2019 lo 'stipendio' del numero uno di Fi è rimasto sostanzialmente invariato, pari a 48 milioni 022mila 126 euro (riferito al 'periodo d'imposta' 2018). Per poi arrivare ai 47milioni 492 mila 818 euro incassati nel 2020 da eurodeputato, con un ammanco di poco più di 500mila euro rispetto all'esercizio precedente, come certificato dalla dichiarazione dei redditi, firmata il 20 gennaio 2021.

Da corriere.it il 10 febbraio 2022.

È ancora lui il politico più ricco d’Italia, il «Paperone» del Palazzo. Con un imponibile di oltre 50 milioni di euro denunciati al fisco Silvio Berlusconi si conferma al primo posto per patrimonio (soldi, azioni, ville e auto), nel Parlamento italiano e a Bruxelles, ma anche tra i leader di partito e di governo. 

Spulciando l’ultima dichiarazione dei redditi, quella del 2021, firmata dal Cavaliere il 14 gennaio scorso, contenuta nell’anagrafe patrimoniale dei tesorieri e dirigenti di partito e visionata dall’Adnkronos, si scopre che l’ex premier (eurodeputato di Forza Italia dal 2019), ha dichiarato per l’esattezza 50 milioni 661mila 390 euro, ben oltre 3 milioni di euro in più rispetto a quelli dell’anno precedente. 

Conti alla mano, di fatto, il governo Draghi (che si è insediato quasi un anno fa, il 13 febbraio scorso) ha portato fortuna al leader azzurro mentre durante il Conte bis (dal primo giugno 2018 al febbraio 2021) il presidente di Forza Italia ha guadagnato di meno, per la precisione 518mila 449 euro in meno. Berlusconi è sempre stato al top della classifica dei più facoltosi nelle aule parlamentari. 

Nel dettaglio, nel 2018, quando è tornato a comparire nella lista in quanto leader di Forza Italia dopo essere stato assente qualche anno per la decadenza dalla carica di senatore per effetto della legge Severino (nel novembre 2013), ha dichiarato (in relazione al periodo di imposta 2017) 48 milioni 011 mila 267 euro, sbaragliando la concorrenza, alla Camera, al Senato e alla presidenza del Consiglio (Conte premier, solo per fare un esempio, si fermava a 370mila euro). 

Nel 2019 il reddito del numero uno di Fi è rimasto sostanzialmente invariato, pari a 48 milioni 022mila 126 euro (riferito al periodo d’imposta 2018). Per poi arrivare ai 47milioni 492 mila 818 euro incassati nel 2020 da eurodeputato, come certificato dalla dichiarazione dei redditi, firmata il 20 gennaio 2021.

Nella dichiarazione di reddito non risulta l’ex Villa Zeffirelli, la nuova residenza romana scelta dopo l’addio alla sede storica azzurra di palazzo Grazioli. Eppure, secondo indiscrezioni, la magione, ribattezzata «Villa Grande», dovrebbe essere stata acquistata dal leader di Fi per oltre 3 milioni di euro nel 2001 e poi prestata in comodato d’uso gratuito al regista fiorentino, suo amico ed ex parlamentare forzista, scomparso nel giugno 2019. 

Non sono citate neanche Villa San Martino ad Arcore, alcune residenze in Sardegna, a cominciare da Villa La Certosa, e la magione di Macherio che si è ripreso dopo il divorzio con Veronica Lario. Oltre ai 50 milioni di euro, fanno parte del tesoretto di Berlusconi invece una Audi A6 immatricolata nel 2006 e tre imbarcazioni extra lusso: la San Maurizio (comprata nel 1977), il Magnum 70 (del ‘90) e la barca a vela Principessa vai via (del 1965). Quest’ultima, raccontano, sarebbe stata venduta negli anni scorsi al patron di Mediolanum Ennio Doris, ma ora è tornata tra le proprietà del leader azzurro. Invariato resta il «pacchetto titoli» dell’imprenditore brianzolo.

Fino alla dichiarazione del 2020 il patrimonio mobiliare e immobiliare dell’ex premier non è cambiato. Nel modulo consegnato al fisco nel 2021, invece, è intervenuta una variazione, ovvero: «L’acquisto dell’intera proprietà di un immobile nel Comune di Casatenovo in data 12 marzo 2021». Dovrebbe trattarsi di Villa Maria, la super villa di Rogoredo di Casatenovo, in provincia di Milano (situata a pochi chilometri da Arcore), dove per un certo periodo Berlusconi viveva con la ex fidanzata Francesca Pascale. Il condizionale è d’obbligo, perché allo stato nessuno sa dire se questo immobile corrisponde a quello denunciato al fisco nel 2018 e indicato come fabbricato di proprietà a Casatenovo o si tratta di un altro bene. 

A parte il piccolo giallo di Villa Maria, nulla è stato toccato. Berlusconi ha, quindi, conservato la proprietà di tre fabbricati a Milano (a cominciare dalla storica residenza di via Rovani, prima del Covid utilizzata per i vertici di centrodestra con Matteo Salvini) e di Villa Campari, sul Lago Maggiore, a Lesa, provincia di Novara. Possiede, inoltre, due magioni ad Antigua e una a Lampedusa (l’ex villa Due Palme, acquistata nel 2011 nell’isola simbolo dell’immigrazione, restaurata e inaugurata nel 2019).

L’ex capo del governo ha una nuova compagna, la deputata azzurra, Marta Fascina. Dopo la separazione dalla seconda moglie Veronica Lario, non si è più sposato ed è rimasto celibe: alla voce stato civile dell’ultima dichiarazione dei redditi presentata nel gennaio scorso, infatti, Berlusconi ha indicato libero, mentre due moduli fa risultava ancora divorziato.

Fabrizio Grasso per Tag43 l'11 febbraio 2022.

Registi, attori e cantanti, ma anche sceneggiatori e produttori. Forbes ha diramato la classifica delle 25 celebrità dell’intrattenimento che hanno guadagnato di più nel 2021. Il primo in classifica è Peter Jackson, regista della trilogia Il Signore degli anelli e del documentario sui Beatles Get Back. Il cineasta ha incassato quasi 600 milioni di dollari dopo aver ceduto parte della sua società di effetti speciali Weta Digital, di cui possedeva il 60 per cento delle azioni, per 1,6 miliardi di dollari. Jackson è così diventato il terzo regista miliardario dopo Spielberg e Lucas.

Completamente maschile la Top 10, con solo tre donne fra le prime 25 posizioni. La prima, l’attrice Reese Witherspoon è solo 12esima. Altro dato interessante è che quasi la metà delle personalità presenti in lista si è guadagnata un posto grazie alla vendita totale o parziale dei diritti di lavori precedenti o cataloghi musicali. 

Seconda posizione per Bruce Springsteen. The Boss ha venduto, lo scorso dicembre, i master e i diritti di pubblicazione di tutta la sua discografia alla Sony per 500 milioni di dollari. Nell’accordo anche gli 11 album multi-platino e cinque singoli d’oro, che hanno portato il cantante ad abbattere il muro del miliardo di incassi in carriera.

Immediatamente alle sue spalle il rapper Jay-Z (340 milioni di incassi) e la star di Hollywood Dwayne “The Rock” Johnson, l’attore più pagato al mondo con 270 milioni all’attivo. Curiosamente, la maggior parte di loro introiti è giunta per via indiretta, grazie alla sponsorizzazione di prodotti commerciali come champagne, tequila o scarpe da ginnastica. 

Quinto posto in classifica per Kanye West con i suoi 235 milioni di dollari, che ha preceduto i creatori di South Park, Trey Parker e Matt Stone. I due sceneggiatori hanno incassato 210 milioni grazie alla firma di un contratto di sei anni da 900 milioni con Paramount+ per la realizzazione di film e prodotti seriali. Completano la top 10 Paul Simon (200 milioni di dollari), ex membro dello storico duo Simon & Garfunkel, il commediografo Tyler Perry (165 milioni) e i cantautori Ryan Tedder e Bob Dylan, rispettivamente con 160 e 130 milioni.

Undicesimi in classifica i Red Hot Chili Peppers, da poco tornati in radio e su tutte le piattaforme con il nuovo singolo Black Summer. Il loro biglietto di ingresso fra i paperoni dello showbiz è stata la cessione al fondo di investimento musicale Hipgnosis di tutto il catalogo musicale per 116 milioni di dollari. Hanno battuto così di un solo milione la prima donna in elenco, l’attrice Reese Witherspoon. La star ha potuto contare sulla vendita di quote della società di produzione Hello Sunshine che si concentra sul ruolo femminile nel cinema e su un cachet da 20 milioni per The Morning Show su Apple Tv.

Cifra tonda per Chuck Lorre, la mente alle spalle delle sitcom The Big Bang Theory e Due uomini e mezzo, che ha totalizzato 100 milioni di dollari. Fra gli sceneggiatori ci sono anche Dick Wolf, creatore di Law & Order (15esimo con 86 milioni di introiti) e il trio Kevin Bright, Marta Kauffman e David Crane, ideatori della pluripremiata Friends (17esimi con 82 milioni). Spazio anche per la produttrice Shonda Rhimes che, grazie a Bridgerton e Grey’s Anatomy, ha incassato 81 milioni di dollari piazzandosi 18esima.

In classifica Neil Young, sulle pagine di cronaca per la faida con Spotify e Joe Rogan (19esimo con introiti pari a 80 milioni) e band come Mötley Crue e Beach Boys. Chiude la classifica la terza donna dell’elenco, Taylor Swift, che ha incassato 52 milioni di dollari. Complessivamente, le 25 star hanno totalizzato nel 2021 circa 4,4 miliardi di dollari al lordo di tasse e commissioni, il doppio rispetto al 2020.

La riscossa delle classi lavoratrici. Scene da Anni Settanta. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 15 gennaio 2022. 

È vero, Elon Musk e Apple sono diventati ancora più ricchi. Ma i dipendenti rialzano la testa. Negli Stati Uniti, dove si registra il fenomeno Grandi Dimissioni, come in Cina.  

Una violenta protesta di lavoratori dell’automotive negli Usa, nel 1975: alcuni operai distruggono un’auto giapponese importata degli States (foto Ap)

Elon Musk ha aumentato il proprio patrimonio del 75% nel 2021, a quota 273 miliardi di dollari. Apple ha sfondato la soglia dei tremila miliardi, un record storico per il valore di Borsa. La pandemia è stata generosa con i miliardari, soprattutto quelli di Big Tech. Ma solo con loro? In realtà l’era del Covid non è stata un remake del tradizionale peggioramento delle diseguaglianze. In particolare nelle due superpotenze che sono anche le maggiori economie mondiali, America e Cina, abbondano i segnali di riscossa delle classi lavoratrici. Paradosso: i miliardari si sono arricchiti più che mai, ma i loro dipendenti rialzano la testa. E la rinascita di un conflitto tra capitale e lavoro si manifesta nell’inflazione.

Cominciamo dagli Stati Uniti. Tre manovre di spesa pubblica (due firmate Donald Trump, una Joe Biden) hanno rovesciato sull’economia americana una quantità di dollari paragonabile in proporzione a quanto fu speso per la Seconda guerra mondiale. In buona parte sono stati aiuti ai cittadini. I lavoratori hanno accumulato risparmi e sono diventati più esigenti verso i padroni. Di qui il fenomeno chiamato la Grande Dimissione: ogni mese oltre quattro milioni di dipendenti si licenziano, spesso sbattendo la porta, perché sanno di poter trovare di meglio. Infatti le assunzioni e i salari salgono. A rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori contribuisce il rallentamento dell’immigrazione, che riduce la concorrenza nelle mansioni più basse. A guadagnarci sono soprattutto le buste paga di camerieri, fattorini, autisti, commesse.

Dall’altra parte del mondo la Cina si riscopre comunista. Nei discorsi di Xi Jinping rispuntano nostalgie del maoismo, un messaggio chiaro. Il presidente è un nazionalpopulista, ce l’ha con i miliardari, promette di ridurre le diseguaglianze. Per quanto possa sembrare una ridondanza, il regime di Pechino ha imboccato una svolta di sinistra, è meno benevolo verso il capitalismo privato, più attento alle condizioni degli operai. Le maggiori economie del mondo contribuiscono a riaccendere il conflitto redistributivo: la battaglia per la ripartizione della ricchezza nazionale tra capitale e lavoro. Negli Anni Settanta, all’apice di lotte sociali, ci furono fiammate d’iperinflazione. È uno scenario che potrebbe ripetersi: un’esperienza nuova per le fasce d’età che vanno dai Millennial a Generazione X, cresciute in un mondo senza inflazione.

Un altro paragone con gli Anni Settanta riguarda il confronto tra Nord e Sud del pianeta. Le nazioni povere hanno sofferto per la carenza di vaccini, il “divario farmaceutico” si è scavato. Si sono sfidati un modello privatista - Big Pharma made in Usa - e uno a direzione statale. Quest’ultimo ha perso: i giganti cinesi hanno sfornato vaccini mediocri, così si è infranto il sogno di Pechino di usare la diplomazia sanitaria come strumento di egemonia. Dall’Africa all’America latina non ci sono solo perdenti. Chi ha materie prime — minerali e terre rare — può prendersi una rivincita: l’inflazione premia i detentori di risorse naturali. Non tutti hanno un brutto ricordo degli Anni Settanta; furono segnati da un trasferimento di denaro dal Nord a una parte del Sud, all’epoca dei due shock energetici targati Opec, il cartello petrolifero. La vera sfida, oggi come allora, riguarda l’uso delle nuove ricchezze da parte delle classi dirigenti locali.

L’impero di Gianluigi Aponte, il magnate che vuol comprare la ex Alitalia, tra bilanci segreti e holding in Svizzera. È il primo nel mondo nei cargo, il terzo nelle crociere col marchio Msc e controlla una rete di porti estesa in tutto il mondo. Ora l’armatore italiano, con base a Ginevra, vuol trasportare merci e passeggeri anche con gli aerei. E punta sull’Africa grazie all’appoggio dell’amico Macron. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 07 febbraio 2022.

I sogni di gloria di Gianluigi Aponte viaggiano in mare, su strada e ora anche nel cielo. In mezzo secolo di carriera, l’ottuagenario imprenditore campano che ha messo radici in Svizzera, è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo cavalcando la globalizzazione degli scambi dell’ultimo trentennio e, più di recente, l’impennata dei prezzi del trasporto merci innescata dalla pandemia.

Da repubblica.it il 24 maggio 2022.

Le autorità svizzere hanno detto no alla richiesta della Procura di Milano di consegnare alla giustizia italiana l'immobiliarista romano Danilo Coppola, ex protagonista della stagione dei 'furbetti del quartierino' e su cui pende un'ordinanza di custodia in carcere per tentata estorsione a Prelios, società proprietaria del complesso immobiliare Porta Vittoria.

Dopo che la Cassazione ha confermato la decisione del Riesame sulla misura cautelare, i pm hanno chiesto alla Svizzera, dove Coppola era stato individuato, di poter eseguire l'arresto ma le autorità nei giorni scorsi hanno risposto che non riconoscono come punibile quel reato. 

Stando a quanto ricostruito, la Cassazione l'8 marzo (con motivazioni depositate il 13 aprile) ha confermato la decisione del Riesame (presidente del collegio Maria Cristina Mannocci) sulla misura cautelare che era invece stata negata dal gip Stefania Pepe.

L'accusa è di tentata estorsione contestata in un filone dell'inchiesta coordinata dai pm milanesi Mauro Clerici e Giordano Baggio (ora alla Procura europea) e condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf per le bancarotte del Gruppo Immobiliare 2004, di Mib Prima e di Porta Vittoria, società che era titolare di un progetto di rilancio di dell'area residenziale milanese, dichiarate fallite nel 2013, nel luglio 2015 e nell'aprile 2016. Contestazioni che anche in appello gli sono costate una condanna a 7 anni di reclusione (a luglio l'udienza in Cassazione).

Dopo il provvedimento della Suprema Corte sulla misura cautelare investigatori e inquirenti hanno dato il via alle ricerche per eseguire l'arresto, hanno individuato Coppola in Svizzera e hanno trasmesso gli atti per poter dare esecuzione alla misura.

Poco più di una decina di giorni fa, però, è arrivata la risposta delle autorità elvetiche: dicono in sostanza che non possono consegnare l'immobiliarista, 54 anni, all'Italia perché in Svizzera quel reato non è riconosciuto come punibile. 

Coppola, che intanto sui profili social attacca spesso i magistrati per i vari casi giudiziari che l'hanno visto coinvolto, potrebbe, però, essere arrestato se si trovasse in un altro Paese.

Danilo Coppola, i video su Instagram contro i pm e l’invidia sociale: «Ho pagato 200 milioni al fisco, ma posso ancora avere ville, un jet e molti cani». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Già ventunesimo uomo più ricco d’Italia, discusso protagonista delle scalate ad Antonveneta e Bnl, nel marzo 2007 venne arrestato per bancarotta fraudolenta. Nel febbraio 2020 gli è stata confermata in appello la condanna a sette anni. 

Nei video che in questi giorni sta postando su Instagram, Danilo Coppola si rivolge ai magistrati che a vario titolo lo indagano da 15 anni e in oltre trenta processi. Sfoggia megaville e megayacht e spiega che, «nonostante quello che sta subendo, sequestri compresi», lui e la sua famiglia sono riusciti a comprare altre ville e altri yacht. 

La notizia, finora mai uscita, sarebbe che, dall’8 marzo, è ricercato e latitante per una richiesta di ordine cautelare in carcere. Ma Coppola è altrove, e da allora posta video su Instagram da una stanza non meglio identificata. Il 10 maggio, l’immobiliarista filma una villa al mare con prato a sfioro: «Mostro questa villa stupenda per dimostrare ai Pm Cascini, Sabelli e Miele che, nonostante abbiano preso prigioniera la villa della mamma dei miei figli, la mia famiglia è andata avanti e ne ha comprate altre… Questo per dimostrare che nonostante quello che mi è accaduto e i 200 milioni pagati al fisco, mi posso permettere di avere ville, una barca, dei cani che adoro, perché oggi i cani costano molto ve l’assicuro. Io ho un cocker, Pluto, che mi è costato moltissimo». L’ironia non gli difetta neppure in un momento drammatico come questo. Nella fantasmagorica stagione dei cosiddetti «Furbetti del quartierino», di Stefano Ricucci e Gianpiero Fiorani, dei rampanti che scalavano i poteri forti, Danilo Coppola era quello che spiccava per i capelli lunghi e piatti. 

Già ventunesimo uomo più ricco d’Italia, discusso protagonista delle scalate ad Antonveneta e Bnl, nel marzo 2007 fu arrestato per bancarotta fraudolenta. Non se ne avevano notizie dal febbraio 2020, quando gli fu confermata in Appello la condanna a sette anni per le bancarotte del Gruppo Immobiliare 2004, di Mib Prima e di Porta Vittoria Spa. Ora, torna con una serie di video, della durata non proprio istantanea, ma lunghi pure un’ora. Nell’ultimo, in maglietta bianca, occhiali scuri, leggermente imbolsito rispetto ai tempi d’oro, spiega perché ha appena postato uno yacht di lusso: «È la barca di famiglia e, nonostante il momento terribile che sto passando, mi fa sorridere: in una delle decine di processi subiti, c’erano, alla Procura di Milano, i dottori Maggio e Clerici e poi c’erano i giudici. Uscì fuori che la mia famiglia aveva questa barca importante e questo fatto fu considerato quasi scandaloso... Addirittura quando emerse che si chiamava Don Pablo, non potete capire gli sguardi fra di loro, sembrava che chiamare Don Pablo la barca, era reato. Erano schifati». 

Insomma, sostiene Coppola: «Come si può giudicare qualcuno se si hanno pregiudizi su chi sbaglia il nome di una barca?». E aggiunge, lanciandosi in una lezione di etimologia: «Ho mio padre che si chiamava Paolo… Il don è un segno di rispetto, che deriva da “donno” e da “dominus”: il proprietario, il capo. Invece, a qualcuno è venuto in mente che era un nome delinquenziale». Non è chiaro lo scopo dei video-fiume che vanno accumulandosi da due mesi. Coppola ce l’ha con l’invidia sociale, con l’acrimonia che sente addosso perché – parole sue – è un arricchito. Tuona: «Voi ce li vedete Falcone e Borsellino che erano invidiosi di chi aveva l’aereo o la barca?». 

La goccia che innestato la campagna social sembra sia stata una richiesta di custodia cautelare in carcere, partita a marzo, per una presunta estorsione, ma chi ha la pazienza di guardarli fino in fondo, scopre vari appelli per andare a votare al Referendum sulla giustizia del 12 giugno. Coppola, in particolare, è per la separazione delle carriere e, in generale, invita a votare per i Radicali («hanno cambiato la democrazia in Italia»). Molti post sono di Amarcord: titoli d’antan, tipo «Mediobanca, porte aperte a Coppola», «Dai centri commerciali a Bnl, ecco Coppola, finanziere d’assalto», «Coppola costruirà Rai City», «Coppola vuole regalarsi la Roma a Natale». Tempi che non sono più quelli. Restano case e barche, dice lui, più di quelle che aveva prima. «Non è ostentazione», ci tiene a chiarire, «il messaggio che voglio dare è che, se si è in regola, non bisogna vergognarsi di quello che si ha… C’è un insieme di situazioni che permettono che alcune persone riescano e altre no». 

Ricorda che molti processi si sono chiusi con assoluzione e ci sono pure i vocali a misteriosi interlocutori, tipo un tale Gianfranco, che deve avergli fatto un torto: «Quando tu spolveravi la scrivania io avevo già tre miliardi e mezzo in Borsa». Pochi i follower, per ora: 767. Solo nove le persone seguite, fra cui Flavio Briatore e una pagina che pubblicizza «i migliori contenuti motivazionali». Di motivazione per far conoscere la sua storia a costo di sottrarsi al carcere gliene serve molta.

Danilo Coppola: «Sono latitante, non vedo i miei figli da marzo. Starò nascosto e posterò tutto: le carte dei processi, le informative fra procure». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.

Parla l’immobiliarista cinquantaquattrenne protagonista delle scalate bancarie dei primi anni Duemila e dei processi ai cosiddetti «furbetti del quartierino», oggi latitante: «Sono ricercato. Dall’8 marzo, c’è un ordine di custodia cautelare nei miei confronti»

Danilo Coppola telefona da una località segreta: «Sono ricercato. Dall’8 marzo, c’è un ordine di custodia cautelare nei miei confronti. L’ho saputo e ho preferito non farmi trovare. Non vorrei fare l’ennesimo carcere preventivo per poi essere di nuovo assolto». L’immobiliarista cinquantaquattrenne protagonista delle scalate bancarie dei primi anni Duemila e dei processi ai cosiddetti «furbetti del quartierino», ha una leggera agitazione nella voce. A tratti, l’affanno. 

Gli ultimi video che ha messo su Instagram sembrano quasi pezzi di cabaret: in uno, sbeffeggia i magistrati che gli hanno sequestrato una villa in Sardegna, dice che di ville ne ha acquistate altre e anche di barche e pure di cani, perché i cani come il suo cocker Pluto sono costosissimi. 

Ma c’è poco da ridere, in realtà. 

Quello che non era chiaro dalla raffica di video, documenti e atti processuali che Coppola pubblica da un paio di mesi è che lui è latitante: «Me ne starò nascosto e posterò tutto: le carte dei processi, le informative fra procure, le assurdità sui miei rapporti con la Banda della Magliana. Mi hanno arrestato perché davo fastidio ai poteri forti, i miei processi hanno dato spettacolo, in 18 anni ne ho subiti oltre trenta, spesso sono stato assolto». Impossibile ridurre in poche righe uno sfogo lungo oltre quattro ore. Impossibile riportare tutto: nomi, cognomi, accuse a magistrati, banche. La «sua» verità. Coppola parla di società fatte fallire per debiti col fisco non ancora scaduti, di tasse pagate pure due volte pur di risolvere, ma senza risolvere, di società che vanno giù come birilli perché lui era in carcere e tutti i suoi dirigenti erano in carcere. 

Sta dicendo che ha scelto di essere latitante per portare avanti una campagna social e far sentire le sue ragioni?

«Non voglio solo che si sappiano le mie ragioni e si riconosca la mia innocenza, voglio raccontare una giustizia che non funziona. Io sono nato povero, ho avuto il frigo vuoto e non si perdona che uno che viene dal nulla arrivi a fatturare quattro miliardi, entri in Mediobanca, abbia un giornale, compri banche. Ci sono i poteri forti, c’è invidia sociale. Su Instagram, non ero mai stato e ora non è che faccio i post per vittimismo. Però, per accendere un faro, ho dovuto ricorrere a questo atto pazzesco. Lo faccio per dire che un Paese dove un giudice non si mette contro il Pm o si giudica per correnti non è un Paese civile». 

Dove si trova?

«Sono da solo, all’estero. Non sto bene. È un brutto momento che dura da troppo tempo. Il primo marzo 2007, fui arrestato su richiesta dei Pm di Roma per bancarotta fraudolenta della Micop, riciclaggio, associazione per delinquere, poi, fui assolto dopo cinque anni. Feci due anni e mezzo di carcere, arresti, ospedale: soffro di claustrofobia e vomitavo di continuo, arrivai a pesare 46 chili, ero in sedia a rotelle. Mi davano 180 gocce di Lexotan al giorno». 

Arrivò notizia di due tentati suicidi.

«Sono stato malissimo. Hanno dovuto ammettere che la mia salute è incompatibile col carcere. Vengo assolto, ma partono processi per altre otto società. Ho calcolato di aver avuto un miliardo e mezzo di danni. Poi, il 24 maggio del 2016, mi arrestarono di nuovo, stavolta per il complesso immobiliare di Porta Vittoria a Milano. La banca aveva cominciato a sospendermi dei leasing, l’avevo denunciata e la denuncia non viene neanche trasmessa al Gip. La banca fa istanza di fallimento. Io presento il concordato preventivo al 100 per cento, significa che saldavo tutti i debiti per intero. Mi trovo a San Vittore, isolamento, reparto psichiatrico, ricomincio a vomitare, torno in sedia a rotelle. Avevano arrestato me e una quindicina di miei dirigenti, è chiaro che, se ti decapitano un’azienda, chiudi. Finì che feci dimettere i legali che gestivano il concordato, facendo fallire Porta Vittoria, pur di tornare a casa. Mi diedero i domiciliari, che potevo fare?». 

Perché ora un nuovo ordine di custodia cautelare?

«Per una presunta tentata estorsione neanche fatta da me, ma identificata nella email di un avvocato che non era nemmeno il mio, una mail di cui non sapevo niente, come ho dimostrato anche pubblicando su Instagram i messaggi che ho scritto all’avvocato quando l’ho scoperto. Per giunta, una tentata estorsione in una causa civile, non penale». 

In sintesi, di che vicenda stiamo parlando?

«C’era un preliminare di vendita che Porta Vittoria aveva fatto con la società svizzera Orizzonti e che andava chiuso per poter procedere al concordato. Dopo varie traversie, presenta un concordato tale Porta Vittoria Real Estate Srl, che ha un capitale sociale minimo, io so a chi appartiene davvero. Ho postato il documento, perché a mio avviso, in questa storia, c’è un conflitto di interessi, una follia. Comunque, si portano a casa il complesso per 150 milioni, quando io avevo pagato solo il terreno tipo 120». 

Per tornare alla tentata estorsione?

«Per fare il concordato, dovevo rescindere il preliminare con Orizzonti. Parlo con Orizzonti e poi con quella che era diventata Prelios Porta Vittoria, si parlano i vari avvocati e si scambiano mail riservate, trattano. Io ero assistito da uno studio importantissimo di Milano. Uno dei legali coinvolti nella trattativa, fra le mille mail, lancia il cuore oltre l’ostacolo, propone di chiudere tutto con un milione e mezzo a saldo e stralcio. Prelios deposita la mail in procura e denuncia una tentata estorsione. Su Instagram, ho postato i WhatsApp in cui scopro di questa mail e che chiedo di annullare. Poi succede che un Tribunale Svizzero mette la testa dentro Orizzonti, vede che c’è un preliminare non fatto. I magistrati di Milano si inseriscono, si arriva alla richiesta di custodia cautelare. Nel frattempo, a Roma, la Procura sta aprendo decine di provvedimenti nei miei confronti, mi contesta 40mila euro per una operazione di secoli fa: a me, che ho pagato 200 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate… A me, che, negli ultimi dieci anni ho speso dieci milioni di euro in beneficenza: ho comprato ambulanze, costruito villaggi in Africa, posso mai fare una tentata estorsione per un milione e mezzo su una causa civile? Poi, non voglio essere presuntuoso: ma un milione e mezzo? Sa perché ho postato la mia McLaren? Perché, se la vendo, vale un milione e mezzo a buttarla via». 

Ha detto pure che ha più barche e ville di quante ne aveva prima.

«Hanno sequestrato la villa della mia ex moglie a Porto Cervo due volte. Chiaro che ho voluto dire: la casa per il mare ce l’ho: a Cap Ferrat e in Spagna. Il primo sequestro risale al 2007, dopo l’arresto spettacolare. Una mia società, e calcoli che ne avevo 200 perché solo comprando Ipi ne controllava 50, aveva prestato sette milioni a un’altra che aveva acquistato la villa. Mi hanno contestato appropriazione indebita, riciclaggio. Io rinuncio alla prescrizione e vengo assolto. La villa torna alla mia ex moglie. Dopo quattro mesi, sono al Louvre coi figli e ci mancava solo che la guida mi dicesse: Coppola, sta su tutti i telegiornali. Dall’Italia, mi chiamava chiunque: girava un video con un nuovo sequestro della villa con elicotteri tipo Narcos. Questo sostenendo che la prima società che aveva prestato i soldi alla seconda aveva 12 milioni di debiti col fisco. Ma io le tasse le avevo pagate: ho postato l’assegno circolare». 

Secondo lei, come sarebbe cominciato tutto?

«Andavo spesso a colazione da Francesco Cossiga. A un certo punto, mi disse: Coppola, ora si scaglieranno contro di lei e i suoi amici. Dico: in che senso? Chi? Uscii un po’ sconvolto, ma pensavo: non ho fatto niente, sono un imprenditore perbene. Avevo Ipi in Borsa, non ancora il 5% di Mediobanca, ma il 5% di Bnl, il 10% della Roma, partecipazioni per due miliardi e mezzo, più il patrimonio immobiliare. Invece, dopo poco, mi ritrovai indagato per rapporti con la Banda della Magliana, una storia assurda, da cui venni assolto dopo un anno e mezzo». 

Da quando non vede i suoi due figli?

«Da marzo. La grande ha compiuto 18 anni il 27 marzo, non l’ho potuta festeggiare». 

Sta piangendo?

«Da quando era bambina, ci teneva a una festa per il diciottesimo, che è saltata perché lei è stata male: queste cose ti massacrano. Rischia di perdere l’anno scolastico. Sono cose inconcepibili. I magistrati, prima di essere abilitati, dovrebbero passare dieci giorni in carcere per capire l’impatto devastante che ha». Ha detto che andrà avanti ancora a pubblicare video e documenti. Per quanto tempo ne avrà? «Non so dirlo. Forse un mese, forse di più. Qui, qualcuno deve prendere in mano questa vicenda, leggere le carte, vagliarle. Sono molto testardo, ma molto stanco. Magari, dopo, mi costituisco». 

Perché, una campagna così azzardata?

«Perché ho cercato soluzioni che non sono arrivate. Ora, ho cambiato strategia e anche avvocato: da pochi giorni, mi segue l’avvocato Ivano Chiesa. Ho subito tanto, sono stato male, mi sequestravano tutto. Mi hanno sequestrato pure l’aereo. Era un Falcon 900 X Easy, ce l’avevo a 34 anni, manco Diego Della Valle l’aveva». 

Anche di aerei ne ha comprati altri, come le case?

«Ora ne ho due, uno piccolo, uno grande». 

E davvero Pluto costa così tanto?

«L’ho preso cucciolo forse per tremila euro, ma l’ho detto per provocazione. Ho avuto un magistrato in aula, indignato per i miei soldi, che mi ha detto che guadagnava tremila euro al mese. Ho risposto che molti italiani nemmeno quello». 

Che altro prevede la sua campagna mediatica?

«Un film su un’Italia in cui ci sono persone che non dovrebbero fare il loro lavoro perché hanno pregiudizi, applicano logiche di classe, di appartenenza. Ho messo a disposizione di un regista importante dieci milioni, perché ce li ho».

I Fratelli Vacchi. Muchas lagnas. Gianluca Vacchi, Fedez e le star dell’oggi che frignano per identificarsi con il pubblico (cioè noi). Guia Soncini su L'Inkiesta il 15 Giugno 2022.

Quest’epoca sarà ricordata per i documentari bruttissimi e senza coraggio, in cui il famoso viene ritratto a tinte pastello, salvo quando si commuove (cioè sempre) per suscitare partecipazione negli spettatori e far credere loro di essere sullo stesso livello.  

Cosa dice del livello culturale del nostro tempo il fatto che consumiamo le opere soltanto se esse sono trasposizioni non dissimulate delle vite, e che non vogliamo un io narrante ma un buco della serratura, e che non vogliamo assistere a quello che hai deciso di mettere in scena ma vogliamo conoscere te che ti metti in scena, illuderci che siamo amici, depositari dei tuoi segreti, osservatori degli angoli delle inquadrature che loro sì ti sanno?

Ci pensavo mentre il marito della Ferragni – che se deve vendere una canzone ha bisogno di trucchi social quali «seguo cento di voi tra quelli che mettono like», ma se deve venderci la sua vita e le sue malattie non spinge troppo, sapendo che il prodotto funziona da sé – collegava mirabilmente il suo cancro e il relativo timore di lasciare orfani i figli al verso della canzone da vendere quest’estate, «la vita senza amore dimmi tu che vita è».

Ma soprattutto ci pensavo guardando, in grave ritardo, “Mucho más”, il documentario su Gianluca Vacchi che è su Prime ed è stato reso obsolescente dal fatto che quando è uscito sono arrivati anche, sui giornali, i racconti di come Vacchi costringa la servitù a improbabili coreografie per il suo Instagram. Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto che non erano loro che lo supplicavano di partecipare ai balletti in grembiule e crestina.

Che sia verosimile o no, che sia succulenta o no, l’indiscrezione imprevista vincerà sempre sul prodotto programmato: se vogliamo illuderci di vedere la verità, essa non dev’essere sospettabile di sceneggiatura.

I documentari di questi anni sono tutti bruttissimi. È colpa delle piattaforme, certo: della loro logorrea, del loro far diventare tutto roba da otto puntate. Ma è anche colpa del fatto che ormai non puoi essere brillante, sennò la gente non s’immedesima; devi piangere, sennò la gente non s’immedesima; devi dire frasi da calendario di Frate Indovino, mica da testo di Karl Kraus (sennò, indovinate?, la gente non s’immedesima); non devi fare o dire niente che possa far pensare al pubblico guarda questo quant’è distante da me: magari sei fantastiliardario, ma soffri, ma sei comunque uno di noi. Insomma: vogliamo sceneggiature troppo loffie per sembrare tali.

E poi c’è il problema che i soggetti da raccontare hanno tutti la smania di fare bella figura, e non si circondano certo di gente che dica loro che il re è nudo. Di Matt Tyrnauer (il regista di “Valentino – L’ultimo imperatore” che monta il documentario con tutte le parti più petulanti che mai Valentino e Giammetti avrebbero voluto rese pubbliche) ce n’è uno; ma pure di Valentino e Giammetti che lo vedono, capiscono che funziona, e se ne fottono di uscirne bene non ce ne sono moltissimi – forse nessuno.

Ci pensavo mentre Gianluca Vacchi diceva che bisogna decidersi: o è un cretino lui e quindi lo sono milioni di persone che lo seguono perché lo amano, oppure ha ragione lui. Pensavo: ah, vedi, Vacchi usa Instagram solo per postare le sue cose. Se lo usasse per guardare le cose degli altri, saprebbe che guardiamo quasi solo coloro dei quali possiamo dire «mamma mia quant’è coglione», che guardiamo Instagram come l’elettore di sinistra negli anni Novanta guardava Emilio Fede: per raccapricciarci e sentirci superiori.

Ma pensavo anche: quindi Vacchi non ha un amico, uno stipendiato, un parente, un qualcuno che gli sveli che il meccanismo è quello, e molte visualizzazioni non necessariamente equivalgono a molta stima. Oppure ce l’ha ma pensa (non a torto) che guardiamo le cose con un’attenzione così lasca che, se sentiamo uno dire «mi guardano quindi mi reputano un figo», difficilmente ci mettiamo a contestarlo? Magari ha sia l’amico che la consapevolezza, ma sa quanto tendiamo a non cercare secondi livelli: se dice che è un figo, lo sarà.

Ci pensavo mentre Vacchi diceva che un uomo che legge vive mille vite e uno che non legge ne vive una sola, e mancavano la gatta al lardo e le mogli e i buoi; ci pensavo mentre diceva «sono stato il primo a portare la musica latina a Ibiza», come quelle pizzerie del New Jersey che si vantano d’essere più italiane delle altre.

“Mucho más” somiglia a tutti i documentari brutti degli ultimi anni. Come Tiziano Ferro, Vacchi piange tantissimo. Come Chiara Ferragni, usa la nascita della figlia come materiale narrativo. Come Elisabetta Franchi, ci dice che si è fatto da solo (Vacchi sciava a Cortina quarant’anni prima di quando sarebbe arrivata a farlo la Franchi – ma ora non cavilliamo). Come tutti, il documentario è fatto per un terzo di filmati già visti su Instagram, giacché ormai il pubblico vuole solo ciò che già conosce.

Se fosse stato un documentario valentinesco, avrebbe contenuto non l’Instagram compiaciuto di Vacchi ma i fuorionda che abbiamo guardato sui siti dei giornali: quel video dei domestici di casa Vacchi che lo difendono dopo lo scandalo, e dicono che il dottore chiede sempre per favore quando vuole che gli portino un asciugamano, quello è meglio di qualunque pianto di Vacchi (per la figlia, per la casa in Sardegna, per un po’ tutto).

C’è un mezzo secondo fatto così, in “Mucho más”, quando Vacchi si tuffa con una capriola dalla barca, e la corte dei miracoli a bordo applaude, e si desidera che sia tutto così: tutto trattato sulle classi sociali, tutto “Wolf of Wall Street”, tutto io sono io e voi non siete un cazzo. E invece è tutto un frignare: del padre che sarebbe fiero di lui, delle braccia che non sentiva più stringendo la sua piccina uscita dalla sala operatoria, della gente che giudica (in pieno spirito del tempo, Vacchi si mette in scena e poi trasecola se lo giudicano).

Che occasione sprecata. C’è persino un momento stupendo in cui Vacchi dice d’essere nato «benestante, non ricco», e che il suo patrimonio ora è cento volte quello che gli ha lasciato il padre. Da non crederci: la regia non ha la prontezza di contrappuntarlo con «il cash non mi ha cambiato, sono ancora poco ricco»

Gianluca Vacchi, la noia e la nemesi nel documentario su Amazon. Beatrice Dondi su L'Espresso il 6 giugno 2022.

Oltre ai social c’è di più, avrebbe voluto raccontare l’agiografico “Mucho Mas”. Poi è esploso il caso degli ex dipendenti non pagati. Come una tempesta perfetta. Da cui si è potuto evincere che anche i ricchi piangono.

«Ve lo dico subito: di me non sapete un bel niente e quel che pensate di sapere è un’enorme cazzata», dice in smoking Gianluca Vacchi l’influencer (che andrebbe scritto tutto attaccato) in apertura del documentario che racconta la sua vita e le sue (si fa per dire) opere. Una bella trovata, si saranno detti lui, Amazon Prime e la troupe tutta, per entrare nei computer degli italiani mostrando, visto che qualcuno magari lo chiede a gran voce, che oltre ai social c’è di più. Come le gambe.

Però il diavolo fa le pentole, i coperchi ma pure i mestoli e le presine, così a poche ore dal lancio del viaggio introspettivo di “Mucho Mas” sono spuntate denunce di cattiva gestione del personale filippino, niente ferie, niente tfr, niente straordinari, urlacci e pretese per quegli stessi dipendenti che con crestina e grembiule sgambettavano a ritmo su Tik Tok. Insomma, un tempismo cinico e baro.

Ma la tempesta è spesso perfetta, e l’uomo che tanto ha dato ai social e che si dona in mutande d’ordinanza al suo amato pubblico, viene ripagato al grido di vergogna proprio dai suoi ex follower. I quali delusi per le “distrazioni” contributive ai danni delle colf, hanno realizzato all’improvviso che il modello di riferimento di Gianluca Vacchi l’influencer non era Giuseppe Di Vittorio e hanno chiesto la cancellazione del docufilm. Quando si dice la nemesi. Non si fa così.

Ora, sulla Croce rossa non si spara. Ma si sa, che si può resistere a tutto tranne che alle tentazioni e alla luce delle cronache e degli audio rivelati da Repubblica ci si può concedere una sbirciata alle immagini patinate del faccione barbuto di questo signore di mezza età che passa la sua giornata nel disperato tentativo di rimanere giovane.

Il risultato però è abbastanza mesto. Un’ora e quindici minuti di primi piani, in cui gli occhi si riempiono sovente di lacrime commosse per la moglie, la figlia, il successo. E con accento bolognese monocorde, Vacchi procede nel suo soporifero racconto in odor di santità, per rivelare quanto sia dura la vita di un multimilionario, costretto dalla sua posizione in classifica a conservare gli addominali come se fossero panda in via d’estinzione, obbligato a temperature sotto zero per cacciare le rughe, e impegnato giorno e notte a spremere le meningi per ideare addirittura un video in cui apre il baule di un’auto.

Così, di citazione in citazione, si arriva alla chiusura in grande stile: «La gente comune pensa che con i soldi tutto venga naturalmente ma è un mito che va sfatato». Perché si sa, anche i ricchi piangono. 

Giuseppe Scarpa per repubblica.it il 27 maggio 2022.

Gli anni di lavoro a casa di Gianluca Vacchi sono descritti come un incubo. Sfruttamento, vessazioni. I video su TikTok che hanno reso famoso l'imprenditore, diventato influencer, sono stati una fonte di "stress tra il personale" perché se gli stessi suoi dipendenti non andavano "a tempo di musica", se i balletti non "venivano eseguiti perfettamente" si "scatenava la rabbia di Vacchi che inveiva contro i domestici, lanciando il cellulare e spaccando la lampada usata per le riprese". 

L'ex colf di Vacchi, una filippina di 44 anni, ha fatto causa alla star dei social italiani, "Mister Enjoy". La donna non è l'unica ad aver portato di fronte al tribunale del lavoro l'imprenditore, altri suoi due ex dipendenti hanno chiesto il risarcimento dei danni. La domestica vuole che le vengano riconosciuti 70 mila euro, tra straordinari e tfr non pagati.

La 44enne, nell'atto di citazione civile, ripercorre i suoi tre anni e mezzo a casa Vacchi, dal 25 maggio 2017 al 10 dicembre 2020. Il contratto che aveva firmato la donna prevedeva un impiego di poco più di sei ore al giorno per sei giorni a settimana. La signora di origine filippina sostiene di aver lavorato, in certi casi, fino a venti ore senza interruzione e senza aver quasi mai ricevuto gli straordinari. In molti casi non avrebbe beneficiato del riposo settimanale e nemmeno delle ferie. 

Gli insulti, durante le registrazioni dei video, poi postati sui social nel periodo del lockdown, sono solo uno dei vari capitoli toccati nella causa. Altri episodi particolarmente spiacevoli, secondo la ricostruzione della colf, riguardano la preparazione dei bagagli dell'influencer. Ebbene nell'ipotesi in cui i domestici si fossero dimenticati qualche capo di abbigliamento o accessorio Vacchi aveva teorizzato la possibilità di multarli con 100 euro da detrarre dalla busta paga.

Una volta per aver dimenticato di preparare gli occhiali da sole del manager, non facendoglieli trovare già pronti in macchina. Un'altra, come si sente nei messaggi vocali in possesso di Repubblica, per aver spostato le punture di testosterone dal loro solito posto. Insomma un clima di terrore e turni massacranti, secondo la versione offerta dalla signora. La donna ricorda come un incubo i soggiorni in Sardegna nella villa H20 a Porto Cervo "l'orario si estendeva indicativamente dalle 10 di mattina alle 3 di notte, a volte anche fino alle 4 o alle 5". 

Infine la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Vacchi avrebbe chiesto alla domestica di firmare un contratto di riservatezza. Nessuna informazione da divulgare a terzi, in caso una penale da 50mila euro da detrarre dal Tfr: "Il dottor Vacchi è persona che, anche in virtù della sua attività, ha assunto una rilevantissima notorietà e popolarità a livello mondiale; per la parte rivelante dette informazioni costituiscono un patrimonio personale, economico e commerciale di valore considerevole che intende tutelare".

Questo l'incipit del documento che ha provocato non poche tensioni con la colf. L'epilogo è stato il "licenziamento" subito anche da "altri collaboratori", si legge nell'atto di citazione civile. A novembre sarà il tribunale ad accogliere o meno le doglianze dell'ex colf filippina di Vacchi.

Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it il 3 ottobre 2022.

“Attacchi d’ira” da parte di Gianluca Vacchi. Questo succedeva quando “le direttive non venivano attuate dal personale domestico”. A raccontare al giudice le sfuriate di Mister Enjoy non è un altro membro dello staff ma la ragazza che per tre anni è stata la sua compagna, Giorgia Gabriele, modella 36enne. Giorgia, dal 2014 al 2017, è stata al fianco dell’influencer. Per questo motivo la governante sarda, licenziata da Vacchi a ottobre del 2020, l’ha chiamata a testimoniare nella sua causa di lavoro al tribunale di Bologna. 

La donna assieme al marito, anche lui un ex di casa Vacchi, chiedono all’imprenditore più di 700mila euro per gli straordinari non pagati, ferie e riposi non goduti. Ma l'accusa peggiore è un'altra: aver lavorato in nero per 14 e 10 anni. Entrambi gli ex collaboratori hanno servito l'influencer in totale per 22 e 17 anni, lavorando, sostengono, anche 15 ore al giorno.

La donna ha ricoperto un ruolo di primo piano nella gestione dello staff e nell'amministrazione delle case dell'imprenditore. Ecco cosa dice di lei Giorgia: “Quando avevamo bisogno la contattavamo, anche a mezzanotte, se c’era bisogno, il suo era un lavoro dietro le quinte”. Poi la modella spiega nel dettaglio il ruolo della governante: “Si occupava della gestione delle case e del personale domestico delle case del signor Vacchi in particolare seguiva la formazione del personale organizzava i loro turni e si assicurava che la casa fosse organizzata in modo tale da essere efficiente secondo le esigenze del signor Vacchi”. 

La governante gestiva anche del denaro, sempre secondo Giorgia, su indicazioni dell’influencer: “Per le piccole spese anche di personale occasionale provvedeva al pagamento in contanti la ricorrente. Posso riferire che io avevo a disposizione una carta di credito e consegnavo poi gli scontrini, per le spese più grosse, alla signora, così come lei mi aveva chiesto di fare. Confermo che  Vacchi chiedeva alla signora di andare a prelevare denaro al bancomat ma non saprei quantificare con quale frequenza. Vacchi preferiva avere sempre con sé del contante per ogni evenienza”.

La causa di lavoro dei due ex dipendenti sardi si aggiunge a quella della colf filippina di Laluna Maricris Bantugon, 44 anni. La donna nel suo esposto al tribunale del lavoro ha ricordato gli anni al servizio di Vacchi come un incubo. Sfruttamento, vessazioni. I video su TikTok che hanno reso famoso l'imprenditore, diventato influencer, erano una fonte di "stress tra il personale" perché se gli stessi suoi dipendenti non andavano "a tempo di musica", se i balletti non "venivano eseguiti perfettamente" si "scatenava la rabbia di Vacchi che inveiva contro i domestici, lanciando il cellulare e spaccando la lampada usata per le riprese". La 44enne ha chiesto che le vengano riconosciuti 70 mila euro, tra straordinari e tfr non pagati da parte di Mister Enjoy.

L'ex colf di Gianluca Vacchi: "Noi domestici presi a bottigliate e costretti a ballare per i TikTok. Vi racconto l'inferno di Mister Enjoy”. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 28 Maggio 2022.  

Laluna Maricris Bantugon, la lavoratrice che ha fatto causa all'influencer: "Non ha rispettato i miei diritti, adesso voglio giustizia". Poi rivela: "C'era una clausola di riservatezza che prevedeva una penale da 50mila euro qualora avessimo diffuso informazioni sulla sua vita privata".

"Gianluca Vacchi non mi ha trattato bene". È questa la sintesi di Laluna Maricris Bantugon se le si chiede di riassumere i tre anni e mezzo al servizio di "Mister Enjoy". La colf filippina, 44 anni, non ha dubbi: "Non ha rispettato i miei diritti di lavoratrice". La domestica ricorda con amarezza quel periodo accanto all'influencer, da maggio del 2017 fino a dicembre del 2020.

Gianluca Vacchi, nuove accuse da due dipendenti: “Mister Enjoy? Ci ha pagato in nero per più di dieci anni: ci deve 700mila euro”. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 29 Maggio 2022.  

Dopo il ricorso della colf filippina due ex capi staff denunciano l'imprenditore per calunnia e gli chiedono un maxi-risarcimento per contributi non versati e straordinari non pagati. Lui replica: "Mi avete rubato un milione di euro".

 Nuove richieste di risarcimento al tribunale del lavoro che superano i 700 mila euro. Altri due dipendenti hanno fatto causa a Gianluca Vacchi. Si allarga il caso di Mister Enjoy, anche perché l’intera faccenda è approdata al penale. Denunce e controdenunce con accuse di furto, calunnia, minaccia ed estorsione che si intrecciano tra loro. Insomma, non c’è solo la colf filippina (la 44enne Laluna Maricris) che ha chiesto un indennizzo di 70mila euro, dopo i suoi tre anni e mezzo alla corte dell’influencer, ci sono due ex collaboratori sardi che reclamano maxi-risarcimenti.

Gianluca Vacchi, nuove accuse da due dipendenti: “Mister Enjoy? Ci ha pagato in nero per più di dieci anni: ci deve 700mila euro”. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 29 Maggio 2022.  

Dopo il ricorso della colf filippina due ex capi staff denunciano l'imprenditore per calunnia e gli chiedono un maxi-risarcimento per contributi non versati e straordinari non pagati. Lui replica: "Mi avete rubato un milione di euro".

Nuove richieste di risarcimento al tribunale del lavoro che superano i 700 mila euro. Altri due dipendenti hanno fatto causa a Gianluca Vacchi. Si allarga il caso di Mister Enjoy, anche perché l’intera faccenda è approdata al penale. Denunce e controdenunce con accuse di furto, calunnia, minaccia ed estorsione che si intrecciano tra loro. Insomma, non c’è solo la colf filippina (la 44enne Laluna Maricris) che ha chiesto un indennizzo di 70mila euro, dopo i suoi tre anni e mezzo alla corte dell’influencer, ci sono due ex collaboratori sardi che reclamano maxi-risarcimenti.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 28 maggio 2022.

«Gianluca Vacchi non mi ha trattato bene». È questa la sintesi di Laluna Maricris Bantugon se le si chiede di riassumere i tre anni e mezzo al servizio di "Mister Enjoy". La colf filippina, 44 anni, non ha dubbi: «Non ha rispettato i miei diritti di lavoratrice». La domestica ricorda con amarezza quel periodo accanto all'influencer, da maggio del 2017 fino a dicembre del 2020. Perciò ha fatto causa alla star italiana dei social, che su Instagram conta più di ventidue milioni di follower. Adesso sarà il tribunale del lavoro a decidere. 

Bantugon ha chiesto che le vengano riconosciuti 70 mila euro tra straordinari e tfr non pagati. La donna accusa Vacchi di averla fatta lavorare ad oltranza, «più di 20 ore al giorno», e di averle bruciato numerosi giorni di «ferie e di riposi settimanali». Ma non erano solo gli orari disumani, secondo la sue versione, i problemi a casa Vacchi. Girare i TikTok che lo hanno reso celebre «era fonte di stress». Così come «la preparazione dei pasti, dell'abbigliamento o dei bagagli poteva scatenare scatti d'ira e comportamenti aggressivi», si legge nell'atto di citazione civile.

Cosa accadeva quando Vacchi girava i video su TikTok con i dipendenti?

«In alcuni casi dovevamo partecipare in prima persona ai video, anche se non volevamo comparire. Dovevamo presentarci vestiti con il grembiule da cameriere. Una volta abbiamo girato un filmato con dei colleghi maschi, uno ha sbagliato una mossa e lui gli ha dato una botta sul petto». 

Può raccontare gli episodi che ritiene più gravi?

«Quando lui cercava le medicine che aveva perso e non trovava più. Ci convocava e noi andavamo in bagno a cercarle. Intanto, mentre noi frugavamo nei cassetti, lui ci lanciava addosso delle bottiglie».

Vi offendeva?

«Diceva un sacco di parolacce, bestemmiava. Non ho mai sentito una persona dire così tante parolacce come lui». 

Lei lamenta di aver lavorato anche 20 ore al giorno.

«Mi è capitato di lavorare anche di più. Per dieci giorni senza interruzione dalle 8 di mattina sino alle 6 del giorno successivo. Questo è accaduto a Milano nel 2017. In quel periodo le altre mie colleghe erano scappate via. Per questo eravamo rimasti in pochi». 

Può spiegare meglio?

«C'erano in tutto 11 dipendenti, poi molti di loro hanno dato le dimissioni perché non riuscivano a tenere il ritmo. E così siamo rimasti in tre, di cui una in malattia. Quindi eravamo in due. Perciò non mi fermavo mai. Poi Vacchi mi portò a Milano e la mia condizione peggiorò ulteriormente, ero l'unica domestica tuttofare. Fu un periodo terribile. Dieci giorni in cui non ho praticamente mai riposato.

C'erano sempre degli ospiti che arrivavano a tutte le ore del giorno e della notte. Ricordo che alle sei e mezza di mattina arrivava la massaggiatrice e dovevo aprire io dopo i party notturni in cui avevo servito». 

Ha mai detto a Vacchi: "Io non riesco a tenere questo ritmo. Voglio che venga rispettato il contratto che prevede 40 ore settimanali"?

«Non dovevi lamentarti». 

Cosa vi siete detti l'ultima che vi siete visti?

«L'ultima volta è stato a dicembre del 2020. Prima mi ha fatto i complimenti, e poi mi ha mandato via. Si era creata tensione nel rapporto lavorativo per la clausola di riservatezza che prevedeva una penale da cinquantamila euro qualora avessimo diffuso informazioni sulla sua vita privata». 

Se si stava così male, perché è rimasta tre anni e mezzo alle sue dipendenze? «Semplicemente perché avevo bisogno di lavorare. Era il periodo del lockdown. Poi devo dire che c'era una governante eccezionale che spesso riusciva a mediare nonostante le sue intemperanze». 

Se oggi dovesse vedere Vacchi, cosa gli direbbe?

«Che non si calpestano in questo modo i diritti di chi lavora per te. E adesso in tribunale rivendico solo quello che mi spetta, avendo piena fiducia nella giustizia italiana».

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 29 maggio 2022. 

Nuove richieste di risarcimento al tribunale del lavoro che superano i 700 mila euro. Altri due dipendenti hanno fatto causa a Gianluca Vacchi. Si allarga il caso di Mister Enjoy, anche perché l'intera faccenda è approdata al penale. Denunce e controdenunce con accuse di furto, calunnia, minaccia ed estorsione che si intrecciano tra loro. Insomma, non c'è solo la colf filippina (la 44enne Laluna Maricris) che ha chiesto un indennizzo di 70mila euro, dopo i suoi tre anni e mezzo alla corte dell'influencer, ci sono due ex collaboratori sardi che reclamano maxi-risarcimenti. 

La coppia, che lo è anche nella vita, ha ricoperto un ruolo di primo piano nella gestione dello staff e nell'amministrazione delle case dell'imprenditore. Anche in questo caso sullo sfondo c'è il tema degli straordinari non pagati, delle ferie e dei riposi non goduti. Ma l'accusa peggiore è un'altra: aver lavorato in nero per 14 e 10 anni. Entrambi gli ex collaboratori hanno servito l'influencer in totale per 22 e 17 anni, lavorando, sostengono, anche 15 ore al giorno.

Intanto ieri, l'attuale staff di Vacchi, ha preso le sue difese in un video di sei minuti postato sui social: «La nostra vita non trascorre qui tra una frustrata e un insulto». E ancora: «È un normale datore di lavoro che si arrabbia se non vengono fatte le cose come dice lui». Infine: «Il dottore è anche umile, perché poi quando alza la voce dopo ti chiede scusa».

La vicenda della coppia sarda è molto più complessa di quella della colf filippina. L'epilogo del rapporto lavorativo è simile. Secondo la loro ricostruzione, i due vengono mandati via di casa dopo un attacco di ira dell'influencer: non avrebbero gestito bene il servizio durante un aperitivo. Da lì la situazione sarebbe degenerata fino al licenziamento disciplinare con un'accusa, ritiene la coppia, infamante e strumentale, aver rubato un modem e un pc.  

Ecco, allora, che la coppia decide di denunciare Mister Enjoy a marzo del 2021 per calunnia. Vacchi alza la posta in palio e presenta a sua volta un esposto contro i suoi due ex collaboratori ad aprile: furto e appropriazione indebita. In pratica secondo la tesi dell'influencer, la coppia nel corso degli anni gli avrebbe rubato oltre un milione di euro. Nel frattempo, al tribunale del lavoro, i due presentano dei ricorsi in cui ritengono che Vacchi debba loro più di 700mila euro. E anche una nuova denuncia in cui sostengono che Vacchi aveva affidato loro le carte di credito e i bancomat affinché prelevassero quando aveva necessità di denaro. 

Il motivo di tanti contanti, come ritiene la coppia, era dovuta al fatto che Mister Enjoy retribuiva in nero alcuni suoi dipendenti. Prestava soldi ad amici e ragazze e pagava estetiste, massaggiatrici, hostess, terapiste, guardarobiere, barman, camerieri, dj, animatori, sarti, tatuatori e addetti alla sicurezza sempre cash. Adesso pendono due inchieste in procura. Ad oggi non è possibile stabilire chi abbia ragione. Così come al tribunale del lavoro in cui a Mister Enjoy nel complesso viene chiesta una cifra che si avvicina al milione di euro.

Michele Serra per “la Repubblica” il 31 maggio 2022.

Parlandone come di una fiction (per il semplice fatto che lo è), la puntata nella quale il protagonista, Gianluca Vacchi, viene accusato da alcuni domestici di averli costretti a ballare per manifestare giubilo e benessere su Instagram, mi è sembrata irresistibile: una spietata satira dell'epoca. Essendomi perso tutte le puntate precedenti, e senza dubbio anche le successive, non posso giudicare la serie nel suo complesso.

Ma so che ha milioni di affezionati, e che il copione (Vacchi che danza, Vacchi che ride, Vacchi in motoscafo, Vacchi in piscina, Vacchi che lustra i tatuaggi con il Sidol, Vacchi che fa fitness per essere sempre più Vacchi) ha una sua fissità ipnotica, degna di un certo cinema impegnato degli anni Settanta nel quale non succede mai niente, ma il pubblico è convinto che si stia sviscerando la condizione umana.

Allo stesso modo il narcisismo social, pur rimanendo, scientificamente parlando, una turba psichica, lascia intendere di essere una forma di avventura esistenziale, anche se non si capisce quale.

E la gente abbocca. Una sola cosa mi sento però di dire: chi ha visto tutte le puntate precedenti, ovvero i follower di Vacchi, non ha nessun diritto di interferire nella trama, lamentando la crudeltà del datore di lavoro, o viceversa difendendolo dall'ingratitudine dei sottoposti.

I soli veri mandanti di Vacchi sono loro, che hanno costruito l'idolo ammonticchiando miliardi di clic per seguire un tizio che segue solamente se stesso. Non hanno alcun diritto di giudicare Vacchi. È il loro specchio. Il loro doppio. Lo hanno creato loro. Se lo meritano così com'è, se lo tengano così com'è.

"Contro di me falsità e offese": Vacchi si difende sul caso colf. Marco Leardi il 31 Maggio 2022 su Il Giornale.

In una nota, l'imprenditore parla di "affermazioni false e gravemente offensive" nei suoi confronti, senza però entrare nei dettagli del caso. "Spetterà ai giudici". Intanto, sui social, la vicenda continua a dividere.

Gianluca Vacchi rompe il silenzio, ma non troppo. Dopo la denuncia per sfruttamento sul lavoro di una sua ex domestica e le accuse di alcuni ex collaboratori, l'imprenditore bolognese si è pronunciato sul caso che lo ha travolto senza però entrare nei dettagli. Lo ha fatto tramite i suoi avvocati, parlando di "affermazioni false" nei suoi confronti e affidandosi al pronunciamento della giustizia. Sì, perché la questione proseguirà ora sul piano legale, mentre il riflesso delle polemiche social ancora non si è placato.

"Riguardo alle notizie apparse in questi giorni sui media non ho rilasciato alcuna dichiarazione né ho intenzione di farlo: ci sono infatti dei procedimenti in corso e spetta unicamente ai giudici esprimersi al riguardo", ha premesso il popolare influencer. Tuttavia - ha proseguito Vacchi - "sono state altresì diffuse, in modo fuorviante, numerose affermazioni false e gravemente offensive, anche riguardo a fatti per i quali non è mai stata presentata alcuna denuncia e che non costituiscono oggetto dei già citati procedimenti giudiziari: ho dato quindi mandato ai miei legali di tutelarmi in tutte le sedi competenti".

Secondo quanto riporta dall'Ansa, i procedimenti in corso riguardano una ex colf, che ha avviato una causa al tribunale del Lavoro di Bologna, e una coppia di lavoratori domestici, che hanno impugnato un licenziamento. Nei confronti di questi ultimi - a quanto si apprende - Vacchi ha sporto una denuncia alla Procura bolognese. L'imprenditore ha preferito quindi non addentrarsi nelle vicende divenute oggetto di pubblica curiosità; sulla questione, tuttavia, si erano espressi nei giorni scorsi alcuni suoi dipendenti, che in un video lo avevano difeso a spada tratta.

Nelle stesse ore, sui social, si scatenavano accesi scambi di battute tra chi sosteneva Vacchi e chi invece si dichiarava indignato sulla base delle accuse mosse dai suoi ex dipendenti. Alcuni utenti, attraverso un hashtag, avevano anche chiesto a Prime Video di stoppare la docuserie dedicata alla vita del noto imprenditore, disponibile proprio in questi giorni sulla medesima piattaforma streaming.

Il caos in casa di Gianluca Vacchi e la saga delle colf (che tra loro usano i walkie talkie). Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.  

C’è la colf filippina che accusa Gianluca Vacchi di tirare bottiglie se è arrabbiato e ci sono i suoi ex colleghi che se la prendono con lei perché non ci stanno a passare per dipendenti che accettano soprusi pur di lavorare. La saga di Vacchi e dei suoi dipendenti è come un Downtown Abbey in salsa Billionaire. Lì, la serie tv raccontava destini e miserie degli aristocratici Crowley e del loro stuolo di servitori nei primi del ‘900. Qui, siamo in diretta social mondiale, l’influencer da 50 milioni di followers su Instagram e TikTok va in onda su Prime Video in 240 Paesi e territori in un docufilm sulla sua vita e, intanto, un’ex collaboratrice domestica gli fa causa beneficiando di riflesso di un’eco globale.

La denuncia

I fatti risalgono al 2017-2020 e della denuncia si sa a scoppio ritardato, ma al momento giusto per scatenare il massimo del clamore. È il fascino immutato di ciò che succede nelle stanze di servizio. Ieri, una cameriera poteva ribellarsi se le negavano il giorno libero, oggi, una colf può ribellarsi perché detesta essere reclutata dal padrone di casa per un balletto di Tik Tok. In realtà, Laluna Maricris Bantugon, 44 anni, ha fatto una vertenza a Vacchi chiedendo 70 mila euro per Tfr e straordinari non pagati, però, al momento, non risultano denunce per i presunti maltrattamenti raccontati in un’intervista in cui parla di balletti forzati, lanci di oggetti contro il personale, bestemmie, multe da cento euro se uno metteva gli occhiali nel posto sbagliato. Intanto, otto suoi ex colleghi, indignati, postano sui loro social un video in cui dicono: «Il dottore ci chiede per favore, dice: scusate, mi portate l’asciugamano?». Oppure: «Il dottore ha anche umiltà. Dice: scusate ragazzi se ho alzato la voce».

La vertenza

L’imprenditore si rifiuta di commentare perché c’è una vertenza in corso. Ci tiene a parlare invece, Laura Siazzu, 40 anni, addetta alla lavanderia di Casa Vacchi a Bologna, 2.200 metri quadrati, campo di padel, discoteca, tende safari per gli ospiti con la sabbia vera del deserto. Nel video, Siazzu è la prima a sinistra, la portavoce, la più agguerrita: «Ci abbiamo messo la faccia all’insaputa del dottore, perché c’è chi ha scritto che abbiamo la sindrome di Stoccolma, non è vero. Io ho 40 anni e questo è il primo posto dove mi assumono a tempo indeterminato. Non ho mai visto volare bottiglie, oggetti, mai ricevuto una multa per aver bucato i calzini». Il famoso audio che titoli sbrigativi liquidano come «di minacce alla filippina», all’ascolto, è un audio in cui Vacchi si sfoga col responsabile del personale: «Gli diceva che ci avrebbe multati, ma non è una minaccia che ha mai rivolto a noi», assicura Laura. Migliaia i commenti disgustati sui social, ma sono tante anche le persone che diffidano della ex colf, del suo tempismo, o che si chiedono perché sia rimasta a servizio quasi quattro anni se era un tale inferno. Bantugon accusa l’ex datore di averla fatta lavorare 20 ore al giorno. Siazzu replica: «Facciamo turni normali: mattina o sera, otto ore in tutto, con un’ora di pausa pranzo. Sì, il dottore ci fa anche mangiare. Siamo pagati bene, abbiamo vitto e alloggio, le ferie». Poi, senza scendere nei dettagli, togliendo il nome incriminato: «Se c’era una persona violenta, non era il dottore. Qualcuno è stato licenziato per aver alzato le mani su tre colleghi».

L’azienda «casa»

Nell’intervista al Corriere, alla domanda su quanti collaboratori domestici avesse, Vacchi rispondeva: «Ho le persone che bastano ad assicurare un’accoglienza alberghiera e affettuosa ai miei ospiti». A Bologna, ci sono otto persone in casa, più sette addetti alla sicurezza, quattro giardinieri. Poi, c’è l’autista-guardia del corpo. Gli home manager, quelli che un tempo si chiamavano governante e maggiordomo, sono due. Fanno 22 persone: più che una casa, è un’azienda. E sei mesi all’anno, Vacchi non c’è. Sta a Miami: «Ma non ci licenzia né ci mette in cassa integrazione», chiarisce Laura. Chi arriva in una delle case di Vacchi, sa che la vastità è tale che il personale si parla col walkie talkie. Nel favoloso mondo Mister Enjoy è tutto un affaccendarsi di cuochi, giardinieri, camerieri. Che a volte, partecipano con lui ai video dei suoi balletti. Quelli odiati da Bantugon. Laura compare solo in uno: «Ho chiesto io di partecipare, per divertirmi». Per la cronaca, i vestiti neri col grembiule bianco e la crestina da cameriera sono costumi di scena: servono solo per i video. I dipendenti di casa Vacchi vestono pantaloni e maglietta. Laura: «La crestina e la gonna sono scomode, il dottore non ci chiederebbe mai di indossarle per lavare i pavimenti». Ultima domanda: la clausola di riservatezza da 50mila euro di cui parla la sua ex collega lei l’ha firmata? «Io ho firmato solo il contratto di lavoro».

Alessandro Fulloni per corriere.it il 28 maggio 2022.

«Il Dottore? Ha anche l’umiltà di chiedere scusa. E chiede “per favore” se c’è da portargli un asciugamano».  C’è anche un video di replica alla ex colf di Gianluca Vacchi — la donna che ha avviato una causa di lavoro — che viene dallo staff che assiste l’imprenditore/influencer bolognese. 

Un filmato piuttosto surreale, qua e là inelegante e a tratti decisamente offensivo nei confronti dell'ex collega.  

A postarlo sui social è il «Gv staff», otto ragazzi e ragazze che — maglietta e pantaloncini neri d’ordinanza — introdotti da Laura, quella che sembra la leader del gruppo, si qualifica dicendo «che noi siamo dietro a quella che è la vita del Dottore... La nostra vita qui non trascorre tra una frustata e una tazzina tirata contro di noi... Siamo qui da tanti anni. Il Dottore ci ha aiutato...». 

Laura replica a ciò che si sarebbe appreso dagli esposti firmati contro «Mister Enjoy». «Gli straordinari? Noi siamo pagati» è il suo grido. E poi: «Non sempre quello che si dice nei social è la verità. Siamo incavolati per quello che abbiamo letto. La gente si sente in dovere di giudicare noi, ma noi siamo stanchi» del vociare e inoltre «lavoriamo per una bellissima famiglia».  

Ma quali vessazioni, insomma, secondo la «portavoce» dello staff: Laura è un fiume in piena e traccia pure un breve ritratto del «Dottore che nei momenti di rabbia ha anche l’umiltà di chiedere scusa... “Scusate ragazzi se ho alzato la voce”». Non solo: «Chiede “per favore, mi portate un asciugamano?».  

Quanto a Laluna Maricris Bantugon, la 44enne che ha fatto causa, «è una persona che non ha più l’onore di stare qui tra noi» prosegue Laura tra le grida d’approvazione.

Un’altra ragazza sbotta così: «Non è vero ciò che si dice...». Qualcuno fa eco in inglese: «Not true!». Poi interviene ancora Laura: «siamo indignati con la persona che ha messo in giro queste calunnie...». Non basta, la collaboratrice di Vacchi dà una specie di «consiglio» diretto alla stessa Laluna: «trovati un lavoro». Anzi no, ci ripensa e si mette a ridere: «Non assumetela, mandatela alla Caritas». 

Il video, si specifica a un certo punto, è stato girato «all’insaputa» del Dottore e «nessuno ci ha obbligato». 

Tutto finisce con un appello diretto a chi guarda il filmato, «consapevoli che siete intelligenti e avete capito: siamo stanchi che voi offendiate gratuitamente persone che sono arrivate dove voi non ce l’avete fatta... se voi reputate il Dottore solo una persona che fa lo stupido su Tiktok e sui social ve lo indirizzo io — conclude Laura — un consiglio: guardate i film del Dottore, imparate a conoscerlo un po’ di più».  

Sotto al filmato raffiche di commenti. Qualcuno ci scherza su: «Lo avete fatto gratis?».

Nuove schiavitù? La domestica accusa Gianluca Vacchi: «Io usata per TikTok». L'ex collaboratrice fa causa all'imprenditore e divo del web. Ma i colleghi le vanno contro: «Un onore lavorare per lui». Bianca Chiriatti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Maggio 2022.

È la notizia più chiacchierata delle ultime ore: Laluna Maricris Bantugon, ex collaboratrice domestica dell’imprenditore, influencer e divo di internet Gianluca Vacchi, gli ha fatto causa chiedendo un risarcimento danni di circa 70mila euro, che comprenderebbero straordinari e tfr non retribuiti.

Ma non basta: la donna, 44 anni, di origine filippina, ha raccontato la sua esperienza, durata tre anni e mezzo, da maggio 2017 fino alla fine del 2020. Contratti di lavoro non rispettati: sulla carta, sei ore al giorno per sei giorni a settimana, nella pratica turni improbabili da 20 ore consecutive, dalle 10 del mattino alle 3 di notte e oltre.

Lo stress causato quando Vacchi coinvolgeva lo staff per i suoi video su Tik Tok (è sul podio degli italiani più seguiti al mondo, con 21,5 milioni di follower): «Se i balletti non riuscivano perfettamente come voleva lui - avrebbe riferito la signora - le reazioni erano furibonde. Urla, insulti, un cellulare lanciato contro la lampada per le riprese». Minacce di sanzioni pecuniarie se il personale sbagliava a preparagli i bagagli per un viaggio, 100 euro per ogni capo d’abbigliamento dimenticato. Un contratto di riservatezza da firmare all’assunzione in cui Vacchi avrebbe minacciato una multa di 50mila euro se le riservatissime informazioni sulla sua vita privata fossero trapelate all’esterno.

Niente ferie, niente riposi, scatti d’ira perché non trovava le punture di testosterone al solito posto. Fino a qui i contorni della vicenda farebbero pensare a una sorta di schiavitù 2.0: la donna avrebbe deciso di trascinare Vacchi in tribunale, ma nel 2022, specie se il protagonista della vicenda ha un seguito così numeroso, il primo verdetto lo esprime sempre il pubblico social. Che in queste ore si sta dividendo, anche alla luce di una replica arrivata da parte del resto dello staff della star del web. Una risposta che arriva in video, come ogni buona dinamica social comanda, e in cui la 44enne filippina viene messa all’angolo dagli ex colleghi. «Laluna parla così perché non ha più l’onore di lavorare qui con noi - sostengono i membri dello staff, tutti con la t-shirt d’ordinanza con le iniziali «GV», quasi a voler ostentare quell’«onore» a loro ancora concesso - il Dottore ci ha aiutato, gli straordinari ci vengono pagati, non sempre quello che si racconta corrisponde al vero». E sottolineano che proprio lui, il Dottore, avrebbe perfino «l’umiltà di domandare scusa quando alza la voce, o usare “per favore” e “grazie” per chiedere qualcosa». Per poi concludere rivolgendosi direttamente alla ex collega: «Trovati un lavoro... anzi no, mandatela alla Caritas», specificando di non essere stati costretti da nessuno a girare il video, meno che mai dallo stesso Vacchi.

Insomma, ancora una volta il popolo della rete è chiamato a schierarsi: ci sono davvero condizioni di schiavitù tenute nascoste per paura degli effetti di tanta notorietà, pur di non mettersi contro una delle personalità più influenti di questo periodo storico-digitale? O lo sfruttamento viene confuso con quell’«onore» di lavorare per un nome così importante, e spinge a pensare di poter subire qualsiasi cosa solo perché ai vip viene concesso (quasi) tutto? O ancora le cause del licenziamento sono altre e la persona si è sfogata e ha lasciato parlare davvero l’invidia e la frustrazione per non essere più alla corte del «Dottor» Vacchi? Ai posteri (del web) l’ardua sentenza.

Miriam Romano per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2022.  

Si è ormai aperto un varco irricucibile tra le stanze di servizio di casa Vacchi. Informazioni che filtrano tra le procure e racconti che balzano sul web. Da giorni ormai domestici e colf raccontano a suon di denunce, accuse e difese tramite social cosa accade tra le mura delle abitazioni di Gianluca Vacchi, imprenditore bolognese e influencer con 50 milioni di follower tra Instagram e TikTok.

 Il caos si è scatenato nei giorni scorsi quando è venuta a galla a scoppio ritardato (i fatti risalgono infatti al 2017-2020) la denuncia dell'ex colf filippina di Vacchi, Laluna Maricris Bantugon, che ha aperto una vertenza chiedendo all'imprenditore 70 mila euro per Tfr e straordinari non pagati. A colorire la questione si sono aggiunti i presunti maltrattamenti raccontati dalla colf in un'intervista in cui parla di balletti forzati, lanci di oggetti contro il personale, bestemmie, multe da cento euro se uno metteva gli occhiali nel posto sbagliato. 

Il campo di accusa ora si è allargato a nuove richieste di risarcimento al tribunale del lavoro che superano i 700 mila euro, per le denunce di due altri ex collaboratori sardi. La coppia, che lo è anche nella vita, ha ricoperto un ruolo di primo piano nella gestione dello staffe nell'amministrazione delle case dell'imprenditore.

Ricompare il tema degli straordinari non pagati, delle ferie e dei riposi non goduti. Ma i due accusano Vacchi soprattutto per averli fatti lavorare in nero per 14 e 10 anni. Entrambi gli ex collaboratori hanno servito l'influencer in totale per 22 e 17 anni, lavorando, sostengono, anche 15 ore al giorno. Una vicenda che potrebbe essere ancora più complessa di quella della colf filippina. 

 Secondo la loro ricostruzione, i due sarebbero stati mandati via di casa dopo un attacco di ira dell'influencer, "colpevoli" per non aver gestito bene il servizio durante un aperitivo. Da lì la situazione sarebbe precipitata fino al licenziamento disciplinare con un'accusa che secondo i due collaboratori sarebbe solo infamante e strumentale: aver rubato un modem e un pc.

E qui scatta il risvolto penale della vicenda. A marzo del 2021 la coppia decide di denunciare l'imprenditore per calunnia. Vacchi presenta a sua volta un esposto contro i suoi due ex collaboratori ad aprile per furto e appropriazione indebita. Secondo l'influencer, la coppia gli avrebbe rubato oltre un milione di euro. 

Nel frattempo, al tribunale del lavoro, i due presentano dei ricorsi in cui ritengono che Vacchi debba loro più di 700 mila euro, insieme a una nuova denuncia in cui sostengono che l'influencer aveva affidato loro le carte di credito e i bancomat affinché prelevassero quando avevano necessità di denaro. Contanti, secondo la coppia, con cui Vacchi retribuiva in nero i dipendenti: prestava soldi ad amici e ragazze e pagava estetiste, massaggiatrici, hostess, terapiste, guardarobiere, barman, camerieri, dj, animatori, sarti, tatuatori e addetti alla sicurezza sempre in contanti.

Il risultato sono due inchieste aperte in procura. Più le cause pendenti davanti al tribunale del lavoro in cui a Mister Enjoy nel complesso viene chiesta una cifra che si avvicina al milione di euro. Il popolo del web, intanto, sembra aver già emesso il verdetto. È partita nelle scorse ore la tempesta sui social per chiedere ad Amazon di ritirare l'imminente docu serie dedicata all'influencer. 

L'hashtag #VacchiOut spopola sui social con promesse di boicottaggio e di disdire gli abbonamenti causa "Mucho Mas", la docu serie sulla vita colorata e tumultuosa di Vacchi. «Guardiamoci i documentari di storia», «non abbiamo bisogno di chi considera i suoi dipendenti schiavi», sono alcuni dei commenti sulla pagina di Prime. E ancora la parola d'ordine più temibile: «Via Vacchi o via l'abbonamento».

A schierarsi con l'influencer è invece l'attuale staff di collaboratori domestici. In un video diffuso via social, hanno preso le sue difese: «Siamo alquanto contrariati per quello che abbiamo letto sui giornali: non c'è niente di vero in quello che avete scritto. La nostra vita non trascorre tra insulti e frustate. Siamo qui tutti da diversi anni, se le accuse fossero state vere nessuno avrebbe resistito tutto questo tempo. Siamo qui per lavorare, ma anche per divertirci, nessuno ci obbliga né a fare un Tik Tok né ad indossare una divisa».

La verità secondo l’attuale staff. Gianluca Vacchi, lo staff difende Mr. Enjoy: “La nostra vita qui non trascorre tra una frustata e un insulto”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Maggio 2022.

“Siamo il Gv life staff, siamo quelli che stanno dietro la vita del dottore. Siamo qui perché siamo contrariati per quello che abbiamo letto sui giornali perché non c’è nulla di vero in quello che avete scritto o vi hanno detto. La nostra vita qui non trascorre tra una frustata, un insulto o qualcuno che ci tira una tazzina contro”. A prendere la parola in un video postato dallo staff di Gianluca Vacchi è Laura che dice di lavorare per Mr. Enjoy da tre anni. Sono in 8 e, seduti intorno ad un tavolo, hanno deciso di dire la loro sulla vicenda che vede protagonista il loro datore di lavoro.

Pantaloncini e maglietta nera d’ordinanza, non ci stanno a restare in silenzio dopo le pesanti accuse che una loro ex collega ha rivolto a Vacchi portandolo in tribunale. L’ex collaboratrice domestica 44enne, di origini filippine, ha infatti citato Mr. Enjoy in tribunale, lamentando tre anni e mezzo ‘da incubo’ e chiedendo che le vengano riconosciuti 70mila euro tra tfr e straordinari non pagati. A raccontare la vicenda è stata Repubblica. La donna aveva raccontato di turni di lavoro incessanti, di riposi e ferie non concessi, di straordinari non pagati.

Poi gli aneddoti spiacevoli sulla vita in casa Vacchi. ‘Scatti di rabbia’ nei casi in cui il personale non avesse eseguito ‘alla perfezione’ i balletti su TikTok: video che hanno reso particolarmente popolare l’imprenditore bolognese, oggi anche dj e influencer. “Inveiva contro i domestici, lanciando il cellulare e spaccando la lampada usata per le riprese” ha dichiarato la donna. Ma non c’erano solo i presunti insulti durante le riprese dei video. Stando alla sua versione dei fatti, Vacchi aveva ‘minacciato’ una multa di 100 euro, da detrarre dallo stipendio, se i domestici avessero ancora dimenticato un capo d’abbigliamento oppure degli accessori preparando i suoi bagagli. Una ‘sanzione’ ipotizzata anche per ‘aver spostato le punture di testosterone dal solito posto’, come si evince da alcuni messaggi vocali diffusi dal quotidiano.

L’attuale staff dell’imprenditore influencer con un video di 6 minuti ha raccontato la loro quotidianità: “Siamo qui per lavorare e divertirci, a noi nessuno ci obbliga a fare un TikTok, a infilarci una divisa. Vedete? Nessuno di noi ha un grembiule addosso”. I membri dello staff nel presentarsi dicono di lavorare lì chi da 9 anni e chi da un anno ma di non aver mai riscontrato atteggiamenti di Vacchi come quelli denunciati dall’ex colf. “Se fossero stati veri nessuno avrebbe resistito tutto questo tempo”, continua Laura.

Poi prende la parola un’altra ragazza dello staff: “È un normale datore di lavoro che si arrabbia se non vengono fatte le cose come dice lui”. E ancora un altro: “È un grande amico per me. Ora qui c’è anche mia moglie, lui mi ha aiutato. Quello che si dice su di lui non è vero”.

“E soprattutto, un punto che si è andato a toccare, che lui non paga gli straordinari – dice ancora Laura – Noi siamo pagati”. E poi un’altra: “Non sempre quello che si dice nei social è la verità. Siamo incavolati per quello che abbiamo letto. La gente si sente in dovere di giudicare noi, ma noi siamo stanchi perché lavoriamo per una bellissima famiglia. Il dottore ha anche umiltà. Quando si arrabbia e alza la voce poi chiede scusa. Chiede ‘per favore, mi portate un asciugamano?’”.

Poi si rincara la dose contro l’ex colf che ha denunciato Vacchi: “Quello che è stato detto è stato detto da un persona che purtroppo per lei non ha più l’onore di stare in mezzo a questo team”. C’è, inoltre, un passaggio in cui Laura spiega che il video che i dipendenti hanno appena registrato e postato sui social è stato fatto “in difesa sua” e soprattutto “a sua insaputa perché lui in questo momento non c’è. Non c’è nessuno in questo momento che ci sta minacciando: ‘fatelo sennò vi licenzio’. Noi siamo una grande famiglia che si vuole bene e vuole bene al suo datore di lavoro. E lui ci dimostra di volercene Cercatevi un lavoro”.

Il video da 6 minuti finisce con un appello ai naviganti: “Consapevoli che siete intelligenti e avete capito: siamo stanchi che voi offendiate gratuitamente persone che sono arrivate dove voi non ce l’avete fatta… se voi reputate il Dottore solo una persona che fa lo stupido su Tiktok e sui social ve lo indirizzo io — conclude Laura — un consiglio: guardate i film del Dottore, imparate a conoscerlo un po’ di più”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Gianluca Vacchi: «Per mia figlia Blu Jerusalema sto costruendo una casa in Sardegna. Dalla Ima mi sono allontanato io». Candida Morvillo su Corriere della Sera il 25 maggio 2022. 

Gianluca Vacchi, quante case ha?

«In Sardegna ne sto costruendo una straordinaria, si chiamerà Blu Jerusalema, come mia figlia: voglio sia un covo di serenità. Saranno 1.200 metri quadrati più mille di terrazze, con un campo da padel, discoteca, due lodge con suite, 15 camere. Faccio lavori per quasi 15 milioni di euro. Spero di vivere abbastanza per vedere mia figlia capire i privilegi che ha». 

Le altre case?

«Miami, dove vivo metà anno, l’ho battezzata Villa BJV, Blu Jerusalema Vacchi. Ora, non rida, perché sembra che abbia un’affezione per la misura: ma sono 1.200 metri anche lì. L’ho comprata in pandemia quando non si sapeva dove andasse il mondo. È stato un atto di coraggio. Ma sarà la casa degli anni di formazione di Blu».

La villa di Bologna? Altri 1.200 metri?

«Sono 2.200. Al confronto, le altre sono dependance. Ma questa è un villaggio vacanze, la casa perfetta di un adulto mai cresciuto, con tutti i giochi possibili: un palazzetto dello sport; una Spa che forse non ce l’ha un hotel che lo fa di mestiere; una discoteca; una pista per l’elicottero; la zipline privata più lunga d’Europa».

Che cos’è la «zipline»?

«In cima a un albero altissimo è attaccato un cavo che va a un altro albero lontano 350 metri e più basso. Ti agganci e voli. È divertente. L’ultima novità è che ho fatto arrivare sabbia dal deserto e ho creato un’area safari, con lodge dove gli ospiti si sentono come in Kenya. Quando un amico viene da me, deve essere un momento magico, deve voler tornare. Mi piace vivere bene. A Bologna, si dice: “voglio morire goduto”».

Vacchi si fa chiamare anche Mister Enjoy, ha 50 milioni di follower sui social. È diventato celebre per i balletti su Instagram, i post fra aerei privati, ville galattiche, crioterapia la mattina. È amato o disprezzato. E ora è il protagonista di un docufilm, , in onda su Prime Video in 240 Paesi e territori del mondo. Maglietta bianca, un rubino per fermabarba, Gianluca, 54 anni, spiega: «Quella sui social è solo la parte di me più adatta a uno strumento di comunicazione basato sull’intrattenimento. Ma anche se non m’importa delle critiche, era ora di chiarire i misunderstanding: che sono nato ricchissimo; che spendo i soldi di mio padre... Volevo una testimonianza da lasciare a mia figlia».

Torna sempre a lei. Il suo arrivo, 19 mesi fa, come l’ha cambiata?

«Ha dato un senso a tutto. Non posso più prescindere dall’averla in braccio. È proprio una daddy girl: quasi quasi respinge sua madre se ci sono io nei dintorni. Però non dice “papà”, mentre dice “mamma”: forse pensa che tutti e due siamo mamma».

A dicembre lei disse al «Corriere» che voleva sposare la sua compagna, Sharon Fonseca, ma che non gliel’aveva chiesto. Ora l’ha fatto?

«Lo farò sperando in una fase storica più serena per il mondo e riuscendo a stupirla. Prima d’incontrarla non pensavo che avrei avuto una famiglia, ma questa giovane donna mutava la mia serenità quotidiana».

Prima, quanto era playboy?

«Ero Peter Pan, vivevo cogliendo i piaceri della vita senza un’ottica costruttiva».

Il Gianluca Vacchi che conosciamo dai social nasce a tavolino o per caso?

«In principio vietavo il telefono agli amici a cena. Nel 2013, osservando alcune figure diventate modelli, ho capito che i social sarebbero diventati la nuova convenzione comunicativa di massa e singola. Ho pensato che, mostrando la mia vita, potevo essere d’ispirazione per qualcuno. Credevo di non essere portato per queste cose, ma non bisogna mai dire “mi conosco, non fa per me”. Mi è successo anche con TikTok».

Non voleva andare su TikTok?

«Sharon mi diceva: devi andarci, ci vanno tutti. E io: no, è per teenagers. All’ennesima sollecitazione, tirai il telefono contro un candelabro, che esplose. Chiesi scusa, aprii TikTok e, in quasi due anni, ho 21 milioni e mezzo di follower».

Perché tirò il telefono contro un candelabro?

«Perché sapevo che Sharon aveva ragione, ma non avevo più argomenti dialettici per difendermi. Però lei è con me perché, attraverso calma e saggezza non tipici di una ragazza che oggi ha 27 anni, riesce sempre a farmi riflettere. E io, se qualcuno mi fa cambiare idea, sono contento».

Le capita spesso di essere iracondo?

«È un difetto che si è stemperato col tempo. È che ho un rapporto difficile con la tecnologia: i telefoni mi fanno sempre domande, non capisco perché non si limitano a funzionare e basta».

Non ha uno staff che fa i suoi post?

«Faccio tutto da solo: se no finirebbero divertimento e genuinità».

Qual è il video più folle che ha postato?

«Quello della Vespa sott’acqua: ci ho messo mezz’ora per studiare l’angolatura per non far vedere le lenze da pesca che mi trainavano».

Il video più virale?

«Quello in cui apro e chiudo il baule dell’auto comandando la fotocellula col piede, poi si scopre che veniva aperto e chiuso da un collaboratore fuori inquadratura: 205 milioni di visualizzazioni; 578 mila ore di riproduzione».

Si è mai fatto male?

«Tante volte per la mia stupidità».

Ne racconti una.

«Sono fermo da sette settimane perché ho spaccato la racchetta da padel e mi sono rotto il legamento di un dito. È stato giusto, me lo merito: sbattere le racchette se sbaglio è ridicolo».

Non sopporta di perdere?

«La competizione è la mia malattia, ma sono più competitivo con me che con gli altri: sapere che non sto dando il massimo mi pesa. Già da bimbo ero campioncino di sci, battevo Kristian Ghedina e Alberto Tomba. Credo che primeggiare fosse un modo per vincere la timidezza».

Timido? Lei?

«Da piccolo, molto. Non frequentavo bambini, non sono andato all’asilo. C’erano i rapimenti: ho vissuto l’infanzia recluso in campagna, poi a Cortina fra i monti, vivendo per lo sci. Non avevo occasioni di violentare la mia timidezza».

Perché lasciò lo sci?

«Non mi divertivo più e volevo fare l’imprenditore, diventare ricco. Lo dico senza vergogna: a vent’anni è un sogno legittimo».

Lei è nato ricco e non fa altro che spendere soldi di famiglia, questo le scrivono i detrattori.

«Il mio patrimonio è cento volte quello che mi ha lasciato mio padre. L’azienda di famiglia, la Ima, è diventata grande con la mia generazione, sotto la gestione di mio cugino. Un’altra barzelletta è che la famiglia mi ha allontanato dalla gestione: mi sono allontanato io perché non saprei fare il manager. Mi sarei potuto sedere su una poltrona prendendo lauti compensi, ma ho preso solo i dividendi in quanto azionista, qualità che mi sono procurato comprando azioni da parenti con soldi miei, indebitandomi, a 24 anni. Poi ho creato altre aziende, ma sempre impostando il lavoro sulla delega: per me è importante avere tempo per vivere come voglio io».

Com’è la sua giornata-tipo?

«Gioco a padel 4 ore al giorno, sto molto con Blu. Mi sveglio alle 5 e mi chiudo nella camera iperbarica dove dormo altre due ore. Mi alzo, faccio ginnastica per un’ora, poi 20 minuti nella vasca piena di ghiaccio a zero gradi, che ha sostituito la crioterapia perché crea un freddo uniforme. Mi ci metto dentro a braccia incrociate, anche pronto a un arresto di qualunque genere...».

Quando disse che aveva la crio in casa generò una crio-mania.

«La vasca di ghiaccio è più faticosa: nella crio, stavo a -110 gradi, ma per tre minuti; la prima volta in vasca per 18 minuti, ho smesso di tremare la mattina dopo. Però genera un ringiovanimento impressionante. Svegliarsi, chiudersi in un sarcofago e tutto il resto sono sforzi enormi. La disciplina non ce l’hai perché hai i soldi».

Tutta questa fatica per fermare il tempo. Quanto vuole vivere?

«La funzionalità fisica migliora la qualità della vita, ma curo anche la mente, ho un precettore, Ezio Visconti: parliamo di storia, filosofia».

Qual è stato il suo momento più difficile?

«Ho toccato il fondo e ho nei pugni la sabbia presa nelle profondità del mare. Ho subito un processo per 18 anni e poi sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Avevo ceduto Last Minute Tour a Calisto Tanzi per 29 milioni di euro, cifra esorbitante per i pm che avevano ipotizzato una distrazione ai danni dei creditori Parmalat, senza capire che la vendita di viaggi online era il futuro. Mi fecero un sequestro da 120 milioni, che ai tempi era tutto quello che avevo».

Che educazione ha avuto?

«Militare: mio padre non mi ha mai detto sì una volta. Fino alla laurea, potevo uscire solo il giovedì e la domenica. I genitori più generosi sono quelli che sanno dire no».

Lei ci riesce?

«Ironizzando, rispondo: sono un diseducatore. Ma sulle cose importanti, ci riuscirò».

Nel film si commuove parlando di suo padre, di sua figlia... Quanto piange?

«Molto. Piangono i forti, non i deboli. Io non mi vergogno di piangere, perché so che, se devo affrontare una lotta, so farlo».

Suo fratello Bernardo l’ha denunciata per un affare di cyclette a infrarossi e il tribunale gli ha riconosciuto di poterle sequestrare beni per 200 mila euro, per un successivo pignoramento. Che succede fra voi due?

«Preferisco non parlare di piccolezze».

Oltre all’influencer, lei, ora, che fa?

«Il deejay, ho una catena di Kebab e da poco una compagnia telefonica, EliMobile, che è il primo social media operator sbarcato in Italia, con tutorial e miniserie esclusive e una valuta interna che si matura facendo movimento: a breve, correndo, si otterranno ricariche».

Che cosa le piacerebbe che sua figlia dicesse di lei, da grande?

«Mio padre è stato un grande uomo. E, soprattutto, è stato un grande padre».

Marco Zini per tag43.it il 2 febbraio 2022.

Meno Instagram e più industria, lo slogan potrebbe essere questo. Specie se in ballo c’è un’immagine imprenditoriale da preservare, magari da qualcuno che in famiglia ha scelto di fare altro nella vita. 

Ed è per questo motivo che i due fratelli Vacchi prendono strade diverse. Bernardo, 51 anni, bolognese si divide da Gianluca che con i suoi oltre 30 milioni di follower e diventato sì una star del web, ma finendo con la sua visibilità e popolarità a nuocere perfino al cugino Alberto, patron della Ima, leader mondiale delle macchine automatiche, che è stato anche in corsa per la Presidenza dì Confindustria.

Dopo l’assoluzione dopo 18 anni nel processo Parmatour, filone del crack Parmalat, dove l’influencer Gianluca era finito con l’accusa di bancarotta, e dopo alcune iniziative imprenditoriali di poco successo, dai ristoranti al kebab fino alle biciclette ai raggi infrarossi, il fratello Bernardo ha deciso di dividere le strade. 

Così, con il marchio storico Finvacchi, nasce un family office e una holding di investimenti con un valore conferito di asset stimato in oltre 130 milioni di euro, e costituito in prevalenza da liquidità e da partecipazioni aziendali.

La svolta di Bernardo Vacchi e l’ottima intesa con il cugino Alberto ad di Ima

Bernardo Vacchi ha deciso la svolta anche in considerazione della sua ottima intesa con il cugino Alberto, a cui riconosce di aver fatto grande il Gruppo Ima, il colosso bolognese nel settore delle macchine automatiche che i cinesi hanno per anni tentato invano di comprare, asse portante delle fortune familiari, di cui Alberto  è presidente e amministratore delegato. 

Finvacchi ha già illustrato nella presentazione delle linee strategiche a investitori istituzionali, facente parte di un Co-Investor Road show program, il progetto relativo a investimenti o co-investimenti di Private Equity con focus principale nelle Pmi italiane, in particolare in settori che per appartenenza familiare conosce bene: Meccanica, Meccatronica, Smart Infrastructure and build Tech.

Il futuro di Boato International Spa

La Holding, assistita da Sri Group dì Giulio Gallazzi, fra gli altri investimenti in portafoglio, controlla al 95 per cento un piccolo gioiello italiano con sede a Monfalcone, la Boato International Spa, leader mondiale nel settore “nicchia” delle macchine automatiche per la produzione di membrane bituminose utilizzate nelle costruzioni edili e nelle opere infrastrutture per garantire isolamento termico e acustico, l’impermeabilizzazione e l’assorbimento di vibrazioni.

Boato International oggi esporta in più di 20 Paesi e ha un portafoglio di 350 clienti industriali. L’azienda è pronta per andare in Borsa nei prossimi 24 mesi. E nel piano industriale, approvato lo scorso dicembre, ha previsto nuove partnership industriali e investimenti mirati.

Bernardo e Alberto proseguono quindi nella tradizione imprenditoriale familiare, mentre Gianluca si concentra sul web inondandolo di performance ballerine e non mancando di trascorrere due ore al giorno nelle camere iperbariche per ossigenare mente e corpo.

Dagospia il 4 febbraio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Egr. Direttore, in relazione all'intervista a Gianluca Vacchi, dal titolo "Tra me e mio fratello destini separati, liquidato con le quote che gli avevo regalato" pubblicata ieri sulla rivista on line ieri da lei diretta, a nome e per conto del mio assistito Bernardo Vacchi sono ad evidenziarle che la stessa riporta dei fatti che non corrispondono alla realtà e che, quindi, sono altamente lesive della reputazione del signor Bernardo Vacchi. 

Tengo innanzitutto a precisare che non vi è stata alcuna liquidazione e regalo di quote da parte del Sig. Gianluca Vacchi. Il capitale sociale di COFIVA, holding di partecipazioni e con oggetto sociale consistente nella gestione di pacchetti azionari e quote di altre società nonché di proprietà mobiliari ed immobiliari, era ripartito tra me e Gianluca.

Con il passare del tempo, in ragione dell'acuirsi, in seno alla compagine societaria, di una crescente divergenza negli obiettivi strategico-imprenditoriale e negli interessi sociali, si è fatta sempre più sentita l'esigenza di addivenire ad una riorganizzazione societaria finalizzata all'effettiva continuazione dell'attività imprenditoriale da parte di ciascuna società partecipante all'operazione che, da un lato, permettesse il mantenimento degli investimenti finanziari effettuati in capo alla Società e, dall'altro, l'assegnazione ad una società beneficiaria di nuova costituzione di valori mobiliari e disponibilità liquide nell'ottica di impiego di tali risorse finanziarie per avviare, implementare o continuare, in proprio, iniziative imprenditoriali, senza dover dipendere dalle scelte operate dall'altro socio. 

Per tali ragioni, nell'ottobre 2021, con una operazione di Scissione Parziale Asimmetrica ai sensi degli artt. 2506 e ss del Codice Civile, tali asset sono stati assegnati ad una società beneficiaria di nuova costituzione, la BV Holding srl, interamente controllata dal sottoscritto. 

Dagospia il 5 Febbraio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Egr. Direttore, in relazione all'intervista a Gianluca Vacchi, dal titolo "Tra me e mio fratello destini separati, liquidato con le quote che gli avevo regalato" pubblicata ieri sulla rivista on line ieri da lei diretta, a nome e per conto del mio assistito Bernardo Vacchi sono ad evidenziarle che la stessa riporta dei fatti che non corrispondono alla realtà e che, quindi, sono altamente lesive della reputazione del signor Bernardo Vacchi. 

Tengo innanzitutto a precisare che non vi è stata alcuna liquidazione e regalo di quote da parte del Sig. Gianluca Vacchi. Il capitale sociale di COFIVA, holding di partecipazioni e con oggetto sociale consistente nella gestione di pacchetti azionari e quote di altre società nonché di proprietà mobiliari ed immobiliari, era ripartito tra me e Gianluca.

Con il passare del tempo, in ragione dell'acuirsi, in seno alla compagine societaria, di una crescente divergenza negli obiettivi strategico-imprenditoriale e negli interessi sociali, si è fatta sempre più sentita l'esigenza di addivenire ad una riorganizzazione societaria finalizzata all'effettiva continuazione dell'attività imprenditoriale da parte di ciascuna società partecipante all'operazione che, da un lato, permettesse il mantenimento degli investimenti finanziari effettuati in capo alla Società e, dall'altro, l'assegnazione ad una società beneficiaria di nuova costituzione di valori mobiliari e disponibilità liquide nell'ottica di impiego di tali risorse finanziarie per avviare, implementare o continuare, in proprio, iniziative imprenditoriali, senza dover dipendere dalle scelte operate dall'altro socio.

Per tali ragioni, nell'ottobre 2021, con una operazione di Scissione Parziale Asimmetrica ai sensi degli artt. 2506 e ss del Codice Civile, tali asset sono stati assegnati ad una società beneficiaria di nuova costituzione, la BV Holding srl, interamente controllata dal sottoscritto. Alla luce di quanto sopra brevemente esposto, La invito a voler provvedere entro e non oltre 24 ore ai sensi dell'ari 8 della I. n. 47/48 alla pubblicazione del contenuto della presente. Cordiali saluti Avv. Teresa Verteramo

Gianluca Vacchi: «Tra me e mio fratello destini separati, liquidato con le quote che gli avevo regalato». Candida Morvillo  su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2022.

L’imprenditore e star dei social e l’uscita dalla holding di famiglia del fratello Bernardo (che si è creato la sua «Finvacchi», con capitale di 100 milioni di euro). «Ogni volta che ci sono di mezzo io, si vuole creare una Dynasty. Non lo sento da mesi, ma gli voglio bene»

«Meno Instagram e più industria, lo slogan potrebbe essere questo», è così che il sito economico Tag43 spiega la separazione dei destini imprenditoriali dei due fratelli Vacchi, di Gianluca 54 anni, star dei social con 46 milioni di follower e di Bernardo, 51, che ora è uscito dalla holding di famiglia e ha creato la sua Finvacchi con un capitale stimato, scrivono, di 130 milioni.

Gianluca Vacchi, cos’è questa storia che suo fratello l’avrebbe salutata per tutelare l’immagine imprenditoriale della famiglia, minata dal suo successo da influencer e deejay?

«Una storia che, anzitutto, mi fa sorridere. Intanto, perché ho fatto io sia Instagram sia l’industria». 

Siamo alla solita vulgata che la vuole a fare balletti e sperperare soldi di famiglia? 

«C’è sempre questa leggenda… Ma in realtà a 24 anni sono stato io a riorganizzare l’assetto societario dell’azienda di famiglia, indebitandomi per una cifra largamente superiore al patrimonio di mio padre. Ora, semplicemente, mio fratello ha espresso il desiderio di essere indipendente e intraprendere un cammino separato dal mio. Ha chiesto di essere liquidato: nella holding Cofiva da me creata, aveva una quota minoritaria e che, per metà, gli avevo donato. Nessuna buona azione rimane impunita… Ma lo dico senza polemica. Anzi, mi fa piacere chiarire questa vicenda prima che si creino altre leggende».

Perché gli aveva donato quella partecipazione?

«Quando trent’anni fa organizzai quel riassetto azionario liquidando i parenti non interessati al business, papà era ancora al mondo, era un uomo con un gran senso della famiglia e feci quel gesto per vederlo sereno, per evitare che si creasse un forte squilibrio con mio fratello minore. Quella partecipazione l’ho valorizzata in anni di lavoro in modo esponenziale e ora gliel’ho liquidata. Per 102,5 milioni di euro. Non per 130». 

L’articolo dice che lei, «con la sua visibilità e popolarità nuoce perfino al cugino Alberto, presidente e amministratore delegato della Ima», che è il colosso delle macchine automatiche controllato dalla famiglia.

«Questa visione dei social arcaica e borghese esiste solo in Italia. Nel resto del mondo, se non sei sui social, sei trasparente. Non credo sia questo il tema. Io sono felice che mio fratello abbia un buon rapporto con nostro cugino, ma se questa lettura volesse sottintendere che io con Alberto ho cattivi rapporti, qui, ci si sbaglia. Anche se io non ho più cariche operative, io e mio cugino condividiamo in modo praticamente paritetico il controllo di un gruppo che viaggia sui due miliardi di fatturato e fa bene da 30 anni. Se anche mio fratello va d’accordo con lui, mi fa piacere‰, e visto che gli auguro una bella carriera imprenditoriale, spero che gli chieda qualche consiglio: Alberto potrà darglielo meglio di qualunque consulente possa avere attorno». 

Il riferimento è a possibili cattivi consiglieri?

«Nessun riferimento. Presumo solo che chi sia nella posizione di desiderare un cammino imprenditoriale che comincia oggi – e lo dico perché mio fratello non ha mai lavorato – si deve avvalere di persone che hanno etica e disinteresse nel consigliare le scelte migliori».

Suo fratello non ha mai lavorato?

«Tutte le scelte imprenditoriali e strategiche le ho prese io. Ho un occhio paterno nei suoi confronti e, avendo più esperienza, so che spesso attorno a chi ne ha poca arrivano persone che se ne approfittano, spero non sia il suo caso. Poi, ogni volta che ci sono di mezzo io, si vuole creare una Dynasty che non c’è. Io, verso mio fratello, sono sempre stato mosso da affetto nel proteggerlo e nel creargli un patrimonio». 

Ne parla come se fosse molto più piccolo, ma lei ha solo quattro anni più di lui.

«Mio padre è morto che avevo 30 anni, l’ho sempre avuto a cuore come un figlio. Gli auguro di fare il suo percorso, spero si faccia consigliare bene e che abbia successo. Il mondo fuori dalle mura protette di casa è fatto di gente che non ci pensa due volte a guardare il proprio interesse. Chiunque sarebbe preoccupato. Io conosco il mestiere di imprenditore e, se lui ha questa disponibilità economica, lo deve solo a me». 

Quando l’ha sentito l’ultima volta?

«Ormai molti mesi fa». 

Neanche a Natale per gli auguri?

«Purtroppo, quando si creano certe frizioni, può accadere che ci si allontani. Per me, è un dispiacere». 

Che motto è «nessuna buona azione rimane impunita»?

«Lo sancisce la disciplina psicologica: quando ottieni grandi benefici, finisci per provare rancore verso chi ti ha dato i benefici. Una cosa inspiegabile, ma esiste. Ovviamente, quando ti capita di subire quel rancore, se sei lucido, e io lo sono – nel caso qualcuno pensi che a ballare su Instagram la lucidità si perda – non puoi far altro che rispondere al rancore con affetto immutato».

IL MISTERO. Bugatti Centodieci in Salento. Chi è il proprietario dell’hypercar da 8 milioni di euro? Redazione Motori su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022. 

Ne esistono solo 10 al mondo, una di queste è di proprietà di Cristiano Ronaldo. Un’altra sta facendo notizia a Nardò, in Salento, dove è stata avvistata a far rifornimento in un self service. Il caso della misteriosa Bugatti Centodieci.

Bugatti Centodieci, come quella di Ronaldo

C’è una domanda che da qualche giorno sta girando di bocca in bocca nel Salento: chi è il proprietario della Bugatti Centodieci che, da sabato, gira per la provincia di Lecce? Lo stupore è giustificato: si tratta di una delle auto più esclusive in produzione. Ne esistono solo 10 esemplari al mondo. Uno di questi è di proprietà di Cristiano Ronaldo che, come è noto, ha una collezione preziosissima di automobili. E il prezzo è davvero sbalorditivo, 8 milioni di euro: una delle auto più costose di sempre. Il primo avvistamento si è verificato sabato sera a Nardò, in provincia di Lecce.

La Bugatti al self service

Secondo i testimoni che, in quel momento si trovavano alla stazione di servizio salentina, un ragazzo è sceso dal bolide di colore bianco e ha fatto il pieno al self service, probabilmente per un importo stellare. Nelle ore successive l’auto misteriosa è stata avvistata ancora, nel capoluogo Salentino, nel Brindisino e ancora nel leccese. Scatenando la curiosità dei residenti e le fotocamere di decine di smartphone. 

Chi è il misterioso proprietario della Bugatti Centodieci?

Un‘apparizione quasi mistica, attorno alla quale non sono mancate ipotesi e sono già nate leggende metropolitane. Per esempio c’è chi azzarda che sia di proprietà di qualche sceicco attirato dalle bellezze del Salento. Al momento l’ ipotesi più accreditata è che la dream car sia in prova sull’anello della pista di collaudo Porsche engineering che si trova a Nardò. Del resto Porsche e Bugatti fanno capo allo stesso gruppo, Volkswagen.

Bugatti Centodieci, l’omaggio

Pensata e progettata per festeggiare degnamente i 110 anni della casa automobilistica francese, la Bugatti Centodieci è un omaggio alla EB110 del 1991. Motore da batticuore (1600 cavalli e velocità massima di 380 kmh) e prezzo pure da batticuore (8 milioni di euro), la Centodieci è stata presentata in anteprima nella ex fabbrica Bugatti di Campogalliano, per poi svelarsi al grande pubblico al Concours d’Elegance del 2019, il famoso concorso automobilistico a scopo benefico che ogni anno, ad agosto, si svolge sui campi da golf di Pebble Beach in California.

La Bugatti di CR7

Tra i fortunati acquirenti di questa vettura superesclusiva, anche Cristiano Ronaldo, stella del Manchester United cinque volte Pallone d’oro.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'1 febbraio 2022.

Nella storia dell'azienda ci sono migliaia di foto, e centinaia famosissime, ma poche così Perfette - con la «P» maiuscola - come quella scattata altezza elicottero da Adrian Hamilton, era il 1978, per una celebre campagna Pubblicitaria (sempre con la «P» alta): 140 coloratissime automobili disposte in fila sulla pista di un aeroporto a formare la lettera iniziale di Pirelli: una «P» lunga, elastica, iconica... Slogan: «Pneumatici con la P maiuscola».

«P» come Prestazione, Potenza, Prodotto, Progresso, Pista, soprattutto Passione, prima di ogni cosa Pneumatici. La storia della Pirelli va di corsa. Azienda che come poche altre ha transitato l'Italia dalla vocazione agricola alla civiltà delle macchine, vive sulla strada da 150 anni: da quando, 28 gennaio 1872, nella Milano di via Ponte Seveso - oggi è in 160 Paesi nel mondo - l'ingegnere Giovanni Battista Pirelli cominciò a produrre «articoli tecnici» di caucciù: tele gommate, tubi, cinghie di trasmissione, quindi impermeabili, persino giocattoli, e poi quelle che noi, comunemente, per metonimia, chiamiamo «gomme».

Delle automobili. Si partì rivestendo le ruote delle carrozze, siamo arrivati agli avveniristici pneumatici da 18 pollici per la Formula 1.  Pneuma in greco significa «respiro», «soffio vitale». 

Lunga vita alla Pirelli, che compie 150 anni - a proposito: Auguri e altri 150 di questi viaggi - e ha festeggiato il compleanno, ieri, con un mega evento al Piccolo Teatro di Milano.

Pubblico delle grandi occasioni - management, media e pirelliani - il racconto teatrale condotto sul palco da Ilaria D'Amico ha ripercorso, fra immagini, recitazione e testimonianze, la storia di un'impresa - sia nel senso di azienda industriale sia in quello di azione eroica - che attraverso tre secoli, l'800 dell'industrializzazione, il '900 della Modernità e il Duemila digitale, ha cambiato il lavoro, l'idea di fabbrica, la tecnologia, il costume, lo sport e la cultura. Modernizzando e industrializzando il Paese. 

Guest star: Marco Tronchetti Provera, vicepresidente esecutivo e Ceo di Pirelli e cinghia di trasmissione - di solito di gomma - tra la Pirelli di allora e quella di domani: «Oggi abbiamo voluto percorrere insieme un viaggio nella storia guardando al futuro. Anticipare il cambiamento è quello che Pirelli fa da 150 anni grazie alla solidità della sua cultura di impresa e al suo sapere essere sempre protagonista del presente». Applausi. Accanto a lui (ed è curioso che l'avventura di una delle storie più belle del capitalismo italiano sia narrata solo dall'intellighenzia «critica») Paolo Mieli, Ferruccio De Bortoli, Renzo Piano... Prima regola di una grande azienda: separare l'ideologia, e la politica, dal business.

E in effetti quello che ha fatto grande la Pirelli è stato, piuttosto, tenere insieme uomini, idee, fabbriche, creatività, comunicazione, ricerca, tecnologia, unendo sapere umanistico e conoscenze scientifiche. Si chiama cultura politecnica. Il Cinturato Pirelli, la rivista Pirelli, il grattacielo Pirelli, il calendario Pirelli, Pirelli HangarBicocca, Pirelli Design, la Fondazione Pirellli... La dimostrazione che con la gomma, materiale dotato di elevata elasticità, si può fare tutto.

La Pirelli - ha ragione MTP, un settantaquattrenne che sembra un eterno startupper - in fondo è una bella signora che continua a ringiovanire: ha cambiato il modo di muoversi su strada, rivoluzionato l'idea di fabbrica, attraversato due guerre mondiali, almeno altrettante crisi (le fallite fusioni negli anni '70 e '90 con Dunlop e Continental, e, nel Duemila, il progetto mancato con Telecom), ha spianato l'autostrada italiana del boom economico, di cui ha innalzato il totem architettonico: il Pirellone, ha disegnato un capitolo fondamentale della storia della Pubblicità, con P» maiuscola (Depero, Nizzoli, Armando Testa, Renato Guttuso, Bob Noorda...), scritto pagine fondamentali della «letteratura d'impresa» (tutti gli intellettuali che sono passati da casa Pirelli: Sinisgalli, Sereni, Buzzati, Calvino, Eco, Alfonso Gatto, Montale...), è diventata una multinazionale e ha conquistato il mondo senza muoversi mai davvero dalla sua Milano, ha fotografato di anno in anno lo spirito del tempo con «The Cal», ci ha fatto sognare con Luna Rossa, rappresenta uno dei principali operatori mondiali nel settore dei pneumatici e ha scritto a suo modo versetti importanti in quel vangelo del fare che è diventato religione del Progresso. Con la «P» maiuscola, come Pirelli.

Azienda 4.0 che mantiene salde le radici nell'equilibrio, il senso del dovere e lo spirito visionario che fu del fondatore, la Pirelli - musa industriale dal nome femminile ma fatta tutta da uomini - se ha corso così meravigliosamente bene per 150 anni, saltando tre secoli senza mai una caduta, è perché, come nelle celebri pubblicità, sa esprimere il massimo della potenza sapendosi però sempre fermare un millimetro prima del baratro. Cosa che riesce a fare solo chi sa anticipare i tempi. Si dice essere Previdenti. Con la «P».

I lupi di Wall Street... in monopattino. Report Rai PUNTATA DEL 17/01/2022 di Daniele Autieri. Collaborazione di Federico Marconi 

Chi sono i capitani coraggiosi che hanno reso possibile l'impresa della quotazione in borsa di Helbiz?

La Helbiz ce l’ha fatta ed è divenuta la prima compagnia di sharing di monopattini quotata al Nasdaq di New York City. È il sogno fatto realtà di Salvatore Palella, il giovane imprenditore partito da Acireale e finito a Wall Street. Chi sono però i capitani coraggiosi che hanno reso possibile l’impresa, portando in Borsa un’azienda che nei primi nove mesi del 2021 registra una perdita di oltre 50 milioni di dollari a fronte di ricavi per appena 8 milioni? Proprio grazie a una serie di rapporti privilegiati, la Helbiz Italia ha ottenuto nel 2020 un prestito bancario di 5,5 milioni di euro garantito dal Fondo centrale di garanzia per le PMI. Nell’anno in cui l’intero gruppo mondiale Helbiz fatturava appena 4,4 milioni di euro, lo Stato italiano ha assicurato un prestito superiore al fatturato globale di una società controllata da una holding nel Delaware, di cui di fatto si sa poco o nulla dell’origine dei capitali e degli azionisti.

I LUPI DI WALL STREET IN MONOPATTINO di Daniele Autieri Collaborazione Federico Marconi Immagini Dario D’India, Giovanni De Faveri, Alfredo Farina, Davide Fonda, Tommaso Javidi, Fabio Martinelli Montaggio Andrea Masella Grafica Michele

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per utilizzare i monopattini elettrici si deve scaricare un’app, ci si registra, si inseriscono i dati della carta di credito, si sblocca il mezzo e il viaggio ha inizio. Sembra un “giocattolo” utile per decongestionare il traffico e inquinare meno. Forse per questo le amministrazioni hanno avuto un approccio molle, e lo stato non ha ancora pienamente regolato il settore. Eppure dietro il monopattino crescono imprenditori che studiano per diventare gli Elon Musk del futuro. Uno di loro è sicuramente Salvatore Palella, fondatore della società Helbiz. Salvatore Palella oggi vive stabilmente nella Grande Mela, ha sposato una modella di Sport Illustrated e insieme hanno festeggiato la nascita del figlio George W. con un selfie a Times Square che li immortala ai piedi della foto del pargolo impressa sui cartelloni pubblicitari della piazza. Ci riceve nel quartiere generale della Helbiz, al 32° piano di un grattacielo nel cuore di Wall Street, in presenza del suo avvocato americano e dei legali in collegamento da Roma. La loro presenza è un monito.

DANIELE AUTIERI Qui siamo un po’ in un bunker, ci sono telecamere che ci riprendono, persone collegate, avvocati… diciamo che non ci sentiamo proprio i benvenuti.

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Che tu non sia il benvenuto questo te lo posso dire io sicuramente. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci aveva accolto così Salvatore Palella un anno fa. È il mago di Helbiz, dei monopattini. Con i suoi avvocati, con le telecamere, che sembravano essere un monito: attenzione a raccontare bene le cose, perché effettivamente la sua è una storia straordinaria, incredibile, ma anche piena di insidie. Salvatore Palella è nato 34 anni fa ad Acireale, lo stesso giorno in cui è nato Silvio Berlusconi, un imprenditore che lui stima e che aspira ad emularne le gesta. Si scambiano anche gli auguri lo stesso giorno e non è detto che non ci riesca. Come Berlusconi aveva tentato e acquistato una squadra di calcio ma a differenza sua l'ha portata al fallimento. Aveva tentato da giovane imprenditore, una gioventù imprenditoriale un po' bruciata, possiamo definirla così, anche di vendere le bibite. Ma le vendeva attraverso una società che secondo gli investigatori antimafia non sarebbe stata neppure la sua ma faceva il prestanome. Ora, Palella ha frequentato grandi imprenditori, mezzi truffatori, grandi banchieri e quei furbetti del quartierino che avevano tentato di scalare le banche. Però, insomma, sullo sfondo ogni tanto spuntava un personaggio, un'insidia, proveniente da ambienti discutibili. Archiviata la fase diciamo imprenditoriale italiana, Palella si è gettato sulla finanza internazionale, e là ha spiccato il volo. Da qualche anno è a capo di Helbiz, la società che offre in sharing i monopattini elettrici che vediamo sfrecciare nelle nostre città. E la sua passione per i viaggi, per il lusso, per le belle donne gli sono valse anche una copertina su Forbes. Ora, un anno fa dopo la nostra inchiesta, pensava di avere dei problemi. Invece noi lo ritroviamo anche rinvigorito, con un management molto più elevato dal punto di vista professionale, con investimenti che ha fatto nelle startup, che ha fatto anche nel mondo dei diritti del calcio, ha acquisito i diritti della Lega di Serie B, e ha anche investito sul cibo e soprattutto, ad agosto, Palella ha coronato il suo sogno. Quello di sbarcare a Wall Street. E questo gli vale un record, perché è la prima società di micromobilità a essere quotata. Ma come ha fatto il mago di Helbiz? Il nostro Daniele Autieri

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Helbiz ce l’ha fatta. Il 13 agosto Salvatore Palella suona la campanella che dà inizio alle contrattazioni del Nasdaq mentre tiene orgogliosamente in braccio suo figlio George W. La società fondata dal giovane imprenditore di Acireale diventa così la prima azienda di sharing di monopattini quotata alla Borsa americana. Quella che porta la Helbiz in Borsa è una sofisticata operazione finanziaria che prevede l’intervento di una Spac, una “special purpose acquisition company”; ovvero una società veicolo già listata al Nasdaq. La Spac in questo caso è la Greenvision che investe nella Helbiz, la società non quotata, la prende per mano e l’accompagna al gran ballo della Borsa di New York.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO In questa maniera i gestori della Spac decidono di comprare una società che a loro piace oppure hanno degli interessi infilando nei portafogli degli investitori una società che magari non è molto innovativa.

DANIELE AUTIERI E infatti nel caso di Greenvision se non sbaglio molti investitori scappano via.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Più del 90% degli investitori, cioè di quelli che investono al buio, no? E qui se ne sono andati via quasi tutti.

DANIELE AUTIERI Chi sono questi signori di Greenvision?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Dietro a questa Greenvision ci sono dei cinesi, accompagnati da un americano. C’è un certo Gi Zheng Fu, che è un finanziario, un finanziere, insomma uno con una certa esperienza nei mercati. C’è un altro signore che si chiama Qi Ie, c’è uno che forse ci ha messo i soldi, che si chiama Lui Iu, che è un oncologo, e quindi non c’entra proprio niente…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dei tre cinesi e della Greevision, che ha portato per mano la Helbiz di Palella in Borsa, si sa poco o nulla, a parte che la società è stata costituita nel 2019, che ha una sede a Shanghai e una a New York. Proviamo allora a chiamare e a chiedere di parlare con l’amministratore delegato David Fu.

SEGRETERIA GREENVISION Greenvision, come posso aiutarla?

DANIELE AUTIERI Buongiorno… vorrei parlare con il signor Fu.

SEGRETERIA GREENVISION Un momento… L’interno 7429 non è in grado di rispondere alla sua chiamata.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’interno di David Fu non risponde allora riproviamo con la segreteria.

SEGRETERIA GREENVISION Greenvision, come posso aiutarla?

DANIELE AUTIERI Posso avere un indirizzo e-mail per contattare il signor Fu, perché nessuno risponde…

SEGRETERIA GREENVISION Mi spiace, ma non ho una mail di Mr Fu.

DANIELE AUTIERI L’azienda non ha un sito internet. Cosa posso fare per parlare con lui?

SEGRETERIA GREENVISION Lo so, ma generalmente quando la gente chiama, lascia un messaggio e poi lui richiama.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Mr Fu non risponde perché l’ufficio newyorkese di Greenvision, al 36esimo piano del grattacielo One Penn Plaza, è in realtà un virtual office. Poco più di cento dollari al mese in cambio di una segreteria e di una casella postale.

DANIELE AUTIERI A livello industriale come va la Helbiz oggi?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Molto male. Nei primi nove mesi del 2021 ha realizzato perdite per oltre 50 milioni di dollari. Loro dichiarano all’ente di controllo americano che su 8 milioni e 700 mila dollari di ricavi ne fanno 6 milioni e 3 in Italia e 2 milioni e 3 negli Stati Uniti. Le perdite sono quasi sei volte i ricavi…

 DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Helbiz ha tamponato le perdite ricorrendo anche al sostegno dello stato italiano. Prima nel novembre del 2020 quindi nel marzo del 2021 la compagnia ha ottenuto prestiti bancari per 5,5 milioni di euro garantiti dal Fondo Centrale di garanzia per le PMI. Dunque la controllata italiana ottiene un prestito garantito dallo stato che vale più del fatturato mondiale che il gruppo registra nel 2020, e assicura così una liquidità alla sua holding con sede nel Delaware.

DANIELE AUTIERI Ma non le sembra inopportuna una roba del genere?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Lei è molto elegante. Sì, è inopportuno. Non so come abbiano fatto. Vabbè… Beati loro da un certo punto di vista. Speriamo che li rimborsino.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Salvatore Palella, il mago dei monopattini, lo incontriamo per caso mentre sta per entrare nella sede milanese di Helbiz.

DANIELE AUTIERI Oi Salvatore dai, è un’occasione. Raccontami della quotazione. Salvatore… quanto ti fermi in Italia?

SALVATORE PALELLA - AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Chiama i carabinieri per favore…

DANIELE AUTIERI Che devono fare i carabinieri, scusa?

SALVATORE PALELLA - AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Chiamate i carabinieri per favore!

SIGFRIO RANUCCI IN STUDIO Dispiace perché al posto dei carabinieri avremmo incontrato volentieri invece proprio Salvatore Palella. Non nascondiamolo, è un imprenditore anche brillante, anche divertente. Insomma, però abbiamo capito come si è quotata in borsa Helbiz. È stata presa per mano da una società veicolo, una Spac si dice in termine economicofinanziario, una società veicolo che ha preso per mano Helbiz e l'ha condotta per mano a Wall Street. Dietro ci sono tre cinesi, tra cui un oncologo, e un americano. E anche un virtual office. Questo ha riscontrato il nostro Daniele Autieri. Ora Helbiz dice che questa è la prassi, che dopo che hanno svolto il loro compito le Spac possono chiudere. Il particolare non trascurabile è che il nostro Daniele ha contattato il virtual office prima ancora che Helbiz venisse quotata in borsa. Chissà se qualcuno dipanerà mai questo mistero. Poi dalle carte che sono state depositate invece in Sec, l'autorità che controlla le società quotate nella borsa americana, il nostro Daniele Autieri ha scoperto anche che Helbiz ha chiuso i nove mesi del 2021, i primi nove mesi, con una perdita di 50 milioni di dollari. Ha scoperto anche che nel 2020 Helbiz ha chiesto, per parare i colpi provenienti dalla pandemia, un prestito bancario garantito dal fondo centrale, dal fondo di garanzia per le piccole e medie imprese. Cioè lo Stato avrebbe garantito la liquidità a una società che di fatto ha la sua sede in Delaware. E la cifra che è stata garantita, 5,5 milioni di euro, è addirittura superiore al fatturato globale di Helbiz nel 2020. Ora è ovvio che c'era la pandemia. Helbiz è convinta di poter restituire tutto, grazie anche alla quotazione in borsa. Noi non possiamo che augurarcelo. Ora, ma chi è l'ispiratore delle strategie economico-finanziarie di Helbiz? Chi sono gli investitori di Helbiz? Insomma, in un pranzo a Capri di mezza estate spunta intanto un mentore della vecchia finanza italiana.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nell’ottobre del 2019 a Capri c’è un pranzo tra amici. Intorno a un tavolo siedono Giulio Profumo, capo della finanza di Helbiz e figlio dell’ex-ministro dell’istruzione Francesco Profumo e Massimo Ponzellini, l’ex-presidente della Banca Popolare di Milano, condannato per corruzione privata, poi prescritto. Riparato a Londra, Ponzellini è divenuto il padre nobile di Helbiz, tanto da intervenire alla prima convention mondiale del gruppo.

MASSIMO PONZELLINI – CONSULENTE HELBIZ HELBIZ CONVENTION - 17 settembre 2021 La vostra capacità è di sapere chiedere a ognuno la cosa che vi consente a voi di crescere. Questa crescita collettiva farà della Helbiz un grandissimo successo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Oltre a Ponzellini, allo stesso tavolo di Capri, siede anche il direttore operativo di Helbiz, Giovanni Borrelli. È il dream team della società dei monopattini riunito intorno al suo capitano Salvatore Palella. Al centro dei commensali, il cantante neomelodico Mauro Nardi intona “O’ Sole Mio”

MAURO NARDI O sole mio, sta ‘n fronte a te. O sole, o sole mio…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Mauro Nardi è un artista apprezzato in Italia e oltreoceano. Nella sua vita si è esibito per Maradona, ma anche per i boss di camorra della famiglia Lo Russo e quelli di Cosa nostra, come i Gambino di New York.

DANIELE AUTIERI È vero che lei ha cantato per tutti? Mi hanno detto addirittura che ha cantato per i Gambino, negli Stati Uniti. È vero, oppure è legenda?

MAURO NARDI - CANTANTE Io posso scrivere un libro. Hai capito?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ma perché Nardi canta per i manager di Helbiz? Mauro Nardi è un nome d’arte. Quello vero è Antonio Borrelli, e a Capri è insieme al figlio e manager di Helbiz, Giovanni Borrelli.

DANIELE AUTIERI No, mi chiedevo, visto che suo figlio Giovanni lavora alla Helbiz, se lei li conoscesse Salvatore Palella, oppure Massimo Ponzellini il banchiere, che era lì a Capri?

MAURO NARDI - CANTANTE Io non so da questa vostra telefonata che cosa volete sapere…

DANIELE AUTIERI Va bene, allora la posso venire a trovare?

MAURO NARDI - CANTANTE Come vuole, non c’è problema, si figuri.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ma la disponibilità del cantante svanisce, quando andiamo a trovarlo a Napoli.

DANIELE AUTIERI Signora, sto cercando Mauro…

DONNA Non c’è…

DANIELE AUTIERI Sta in giro tutto il giorno?

DONNA Non so a che ora arriva.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Pochi minuti dopo Antonio Borrelli, in arte Mauro Nardi, spunta fuori dal portone a bordo della sua macchina. Ma come ci vede scappa. avremmo voluto chiedere dei suoi legami con Helbiz. l’immobiliare J&L che fino al 2016 ha fatto riferimento a lui e al figlio Giovanni, ha ricevuto tra il 2018 e il 2019 oltre 120mila euro dalla compagnia dei monopattini, ma solo quando è passata nelle mani di un manager segnalato dalla polizia con dei precedenti per stupefacenti.

GIOVANNI BORRELLI – HEAD OF OPERATIONS HELBIZ HELBIZ CONVENTION - 17 settembre 2021 I nostri ragazzi quando escono per strada hanno l’obiettivo di servire la città nel migliore dei modo, dando la sicurezza ai cittadini e dando il massimo all’azienda.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Borrelli vive da anni a Milano, ma non ha mai tagliato i suoi vecchi legami con Napoli, dove si è recato insieme all’amministratore delegato di Helbiz italia Luca Santambrogio per ratificare i bilanci della Helbiz presso lo studio del ragioniere Ciro Scarciello. Un’azienda con sede nel Delaware, quartier generale a New York, branch operativo a Milano, approva i bilanci della controllata italiana a due passi da Forcella.

SEGRETARIA STUDIO SCARCIELLO Il dottore non c’è, quindi mi dispiace però…

DANIELE AUTIERI Nemmeno se entro da solo e gli dico due cose…

SEGRETARIA STUDIO SCARCIELLO No, non c’è. Giuro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Tra i contatti del figlio del cantante neomelodico e manager di Helbiz, ce ne sono alcuni un po' imbarazzanti. Nel 2014 i carabinieri scoprono che l’utenza di Giovanni Borrelli viene utilizzata da Mimmo Borriello, un quasi omonimo titolare di locali a Ibiza, per dialogare con Ettore Bosti, detto O’ Russ, il reggente del potentissimo clan Contini di Napoli.

DANIELE AUTIERI Giovanni Borrelli… ti posso chiedere una cosa? Giovanni, mi ascolti per favore? Una domanda? Una domanda, scusami al volo. Mi dici i tuoi rapporti con Mimmo Borriello? Giovanni, a Ibiza, utilizzava il tuo telefono… intestato a te, oddio c’ho il fiatone. Mi puoi dire due parole su questo?

GIOVANNI BORRELLI – HEAD OF OPERATIONS HELBIZ Non ti dico niente.

DANIELE AUTIERI Due parole su questo… Mimmo Borriello.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Lo diciamo chiaramente, Giovanni Borrelli non è stato mai indagato, e nel settembre del 2020 posa accanto al sindaco De Magistris quando viene annunciato lo sbarco a Napoli dei monopattini elettrici di Salvatore Palella.

DANIELE AUTIERI Borrelli era presente, perché lui è un po’ il rappresentante della Helbiz in Europa. La cosa interessante è che dalle indagini anche della DDA di Napoli emerge che prestava il suo telefono cellulare per far dialogare un imprenditore in odore di camorra con Ettore Bosti che era il reggente del clan Contini…

MARCO GAUDINI – ASSESSORE ALLA MOBILITÀ COMUNE DI NAPOLI GENNAIO-AGOSTO 2021 Guardi innanzitutto apprendo ora quello che lei mi sta dicendo. Il rapporto che ha avuto l’amministrazione l’ha avuto con la Helbiz Italia srl e il rappresentante del quale è stato chiesto il casellario giudiziario dei legali rappresentanti, certificato antimafia, la regolarità contributiva e il programma cento. E le verifiche hanno dato tutte quante esito regolare

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il manager di Helbiz Italia su cui sono stati fatti i controlli è Luca Santambrogio, un giovane di 27 anni che prima di trasformarsi in un top manager è stato operaio per cinque anni, quindi commesso della Esselunga. Alla presentazione di Napoli, Santambrogio è assente. Al suo posto, Giovanni Borrelli. Giovanni Borrelli vanta un’amicizia storica con Salvatore Palella. In uno dei suoi post sui social Borrelli scrive: senza di me l’economia di Milano non gira. Ma a farla girare al mio posto ci pensa Palella.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Personaggio singolare Giovanni Borrelli. Insomma, il figlio del cantante neomelodico napoletano. Ora il suo nome appare nelle carte degli investigatori antimafia perché presta il suo telefonino a un imprenditore che ha urgenza di parlare con un boss del clan Contini. Si tratta di episodi isolati, ci scrive Helbiz, che non hanno nulla a che fare con presunti legami con la criminalità organizzata. Ecco, siamo felici di riportarlo e inoltre aggiungiamo noi che Borrelli non risulta indagato per il momento. L'anomalia è che si presenta lui nelle situazioni ufficiali, invece che il country manager che è Luca Santambrogio, 27 anni, ex commesso dell'Esselunga, ex operaio. Si tratta di giovani che Palella ha posto sotto le sue ali come hanno fatto gli imprenditori milanesi quando lui è salito ad Acireale e aveva l'ambizione di fare l'imprenditore. Uno degli imprenditori che lavoravano su Milano e che ha preso sotto le proprie ali Palella è Michele Cilla. Considerato il braccio destro del famoso, dei famosi boss di Cosa nostra, i Fidanzati. Gestiva locali, è stato condannato per estorsione. Quando ha incontrato il nostro Daniele Autieri ha detto: Palella mi è stato consigliato, raccomandato da alcuni amici. Ma non ha detto quali. E inoltre, insomma, il nostro Michele Cilla, è stato anche condannato recentemente per aver tentato un'estorsione nei confronti di Lele Mora e perché aveva tentato anche di vendere delle partite di champagne taroccato. Lele Mora, e qui il cerchio si chiude.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel 2011 Salvatore Palella sbarca a Milano con un sogno nella valigia: diventare un imprenditore e cimentarsi nel mondo della finanza. Dalla sua ha la società WITAMINE specializzata nella distribuzione di bibite, ma anche la passione per la bella vita e le discoteche. Rimane così impigliato nella regnatela della Milano da bere, una calamita per giovani ricchi, broker e aspiranti imprenditori. Al centro di questa ragnatela c’è uno dei tessitori dell’epoca: Lele Mora.

DANIELE AUTIERI Ma lui in quegli anni di Milano in che giro stava?

LELE MORA Te lo spiego, tu sai Cilla con chi stava?

DANIELE AUTIERI Il boss Fidanzati?

LELE MORA Bravissimo, i Fidanzati. Basta ti ho detto tutto, non ti devo dire altro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Guglielmo Fidanzati è il figlio di Tanino, boss di Arenella Acquasanta. Quando nel 2011 viene arrestato anche la Witamine di Salvatore Palella viene prima sequestrata e poi dissequestrata dalla direzione distrettuale antimafia di Milano perché considerata nelle mani del boss e del suo uomo di fiducia, Michele Cilla, un noto gestore di discoteche, cerniera tra il mondo del crimine organizzato e quello della Milano da bere. Avevamo incontrato Cilla qualche tempo fa mentre stava scontando la sua pena ai domiciliari in un paesino nell’hinterland milanese e gli avevamo chiesto del suo rapporto con Salvatore Palella.

MICHELE CILLA Conosco tutto di lui, l’ho creato io, è un uomo venuto da me, è venuto qui a studiare a fare università e mi era stato consigliato da amici di amici di mettermelo sotto diciamo sotto la mia ala…

DANIELE AUTIERI Ma mi dice dalla Sicilia chi è che ha detto, sto ragazzo...andiamo forza…

MICHELE CILLA Non si può.

 DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Anche Lele Mora ha contribuito alle finanze di Palella. Il 29 marzo del 2011 Mora emette un bonifico dalla Banca BSi di Lugano di 45mila euro proprio a favore della Witamine, la società controllata dall’imprenditore di Acireale. Secondo Palella un saldo dovuto per i servizi di catering offerti dalla Witamine.

 DANIELE AUTIERI Ho visto che tu gli avevi fatto un bonifico a questa Witamine, a un certo punto. Ti ricordi per caso perché?

LELE MORA Ah, te lo dico sì. Perché io avevo preso dei soldi da Cilla, Cilla ha voluto che glieli ritornassi a loro. Era un piacere che avevo fatto a Cilla. Dopo ho saputo che era la Witamine. Era una scatola vuota. Bisogna scoprire chi ha lui dietro…

DANIELE AUTIERI È quello che mi sono chiesto, perché secondo me è qui a Milano che lui ha maturato quelle amicizie per…

LELE MORA Non posso dirti altro.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ad un certo punto Lele Mora scrive su un foglio un nome: è quello di Rocco Casalino Palella smentisce lo stesso fa Casalino, che però aggiunge di essere stato contattato dalla Helbiz quando lavorava a Palazzo Chigi. Per offrire a lui e ad altri politici abbonamenti gratis per le corse in monopattino.

ROCCO CASALINO - PORTAVOCE PRESIDENZA DEL CONSIGLIO 2018-2021 In questo scambio di messaggi, poi se non mi sbaglio loro tipo mi dissero: “Guarda ti abboniamo tipo un tot di corse gratis. Lo facciamo con tutti i politici. Io mi spaventai subito perché so che c’è la regola che noi non possiamo accettare né regali, né nulla. Io ero a Chigi, quindi “Stop”, dissi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A contattare Casalino è Matteo Tanzilli, il capo delle relazioni istituzionali di Helbiz ritratto in questa foto accanto a Luciano Nobili, deputato di ItaliaViva e uno dei primi sostenitori delle leggi in favore della micromobilità. Un extra che deve piacere a Salvatore Palella visti i suoi trascorsi milanesi, quando scorrazzava per il centro di Milano a bordo di una flotta di auto blu con autista, senza però pagarne il conto.

DANIELE AUTIERI In qualche modo avete provato a recuperare questi denari da Palella?

ARES MARINGOLO - AVVOCATO Abbiamo provato in un primo momento con una procedura esecutiva immobiliare al quale ci siamo accodati.

DANIELE AUTIERI Cioè lui era proprietario di una casa.

ARES MARINGOLO - AVVOCATO Sì, di un bene immobile. A Forlì.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La casa di Palella viene messa all’asta per due volte. Alla fine se l’aggiudica la Citrus, una società attiva nel mercato ortofrutticolo, controllata da Marianna, una delle due sorelle di Palella, dopo aver fatto scendere il prezzo. Ma tra i creditori di Palella spuntano anche istituti di credito come il Monte Paschi di Siena e la Banca di Imola e la società di autonoleggio rimane a bocca asciutta.

ARES MARINGOLO - AVVOCATO Confidavo che qualcosa prendessimo, pochi giorni prima di avere il riparto si è insinuata Equitalia nella procedura e quindi non hanno visto un centesimo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Alla fine si apre un procedimento penale, ma la difesa di Palella presenta una proposta transattiva per rifondare parzialmente il debito di 250 mila euro proponendo un ristoro di 20mila euro. I legali della società accettano e depositano la remissione della querela. Ma il titolare della società di autonoleggio, ci rivela un particolare rimasto finora inedito, che chiama in causa uno dei furbetti del quartierino, Stefano Ricucci, l’ex dentista diventato immobiliarista, amico di Giampiero Fiorani, protagonista di scalate di banche e quotidiani.

TITOLARE SOCIETÀ DI AUTONOLEGGIO Allora lui mi diceva: “Ho bisogno di due macchine”. E ho saputo che un paio di volte era stato trasportato anche Ricucci che era qua a Milano.

STEFANO RICUCCI - IMPRENDITORE Io l’ho conosciuto, c’aveva 20 anni a Milano, e quindi voglio dire frequentava amici di mio figlio.

DANIELE AUTIERI Ecco, proprio in quegli anni Palella pagava un servizio di noleggio con conducente. Però poi le auto a noleggio trasportavano lei…

STEFANO RICUCCI - IMPRENDITORE Ma sicuramente. Salvatore ha usufruito di tutta una serie di amicizie che ho tuttora a Milano, perché ripeto ho abitato a Milano per 15 anni.

DANIELE AUTIERI Quindi Palella pagava per suo conto?

STEFANO RICUCCI - IMPRENDITORE Ma quando mai, ma Salvatore non c’aveva mai un euro… era un ragazzino. Ma veramente, boh?

DANIELE AUTIERI Appunto, dico, mi chiedo come potesse permettersi fatture da 60mila euro al mese…

STEFANO RICUCCI - IMPRENDITORE Non lo so, signor Autieri io non so che cosa… informatevi, vedete voi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vabbé, mica è semplice anche perché insomma poi la vita di Salvatore Palella è un po' come le matrioske: apri un capitolo, spunta un personaggio che è legato ai misteri della finanza del nostro paese. Uno di questi è l'abile banchiere bolognese Massimo Ponzellini. È stato a capo del Banco popolare di Milano, durante la sua stagione i magistrati avevano ipotizzato addirittura che avesse messo in piedi addirittura una struttura deviata parallela dedita al finanziamento su indicazione dei politici di alcuni imprenditori, a finanziamenti particolari. Poi in realtà, durante il processo, secondo i giudici il fatto non sussiste. Invece poi Ponzellini è rimasto coinvolto in un fatto di corruzione privata in cui è rimasto condannato e poi prescritto. L'altra matrioska è Stefano Ricucci, il furbetto del quartierino, che da dentista era diventato immobiliarista e poi era stato autore anche di scalate. Insomma, secondo Palella, lo ammette lui stesso, gli offriva dei viaggi gratis in Mercedes per pura cortesia. Una generosità che però Palella, secondo quello che ci racconta Rocco Casalino, non avrebbe perso, perché attraverso il suo responsabile alle relazioni istituzionali avrebbe offerto gratis l'abbonamento per girare non in Mercedes questa volta, ma sui monopattini, ai politici. Perché d'altra parte, adesso, è diventato il mago di Helbiz. Ma come ha fatto a diventare il mago di Helbiz.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora bentornati, stiamo parlando di Salvatore Palella, il mago di Helbiz, i monopattini elettrici che sfrecciano tra le strade delle nostre città e anche quelle internazionali. È un imprenditore nato 34 anni fa ad Acireale che è sbarcato a Wall Street, per la prima volta nella storia è riuscito a far quotare una società che si occupa di micromobilità. Ma come ha fatto? Il nostro Daniele Autieri ha scoperto a Singapore delle carte esclusive dalle quali si può immaginare che Helbiz, la società dei monopattini, è nata dalle ceneri di un peccato originale commesso con le criptovalute. A Singapore spuntano anche un'altra matrioska, come negli episodi del passato, un broker misterioso che è stato coinvolto nei guai di Montepaschi di Siena, il più antico istituto bancario al mondo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Salvatore Palella ci ha creduto fin dall’inizio, ma è stato un manipolo di capitani coraggiosi che ha realizzato il sogno della quotazione. Tra questi la Monaco Mobility, il fondo gestito dal magnate italiano riparato a Miami Riccardo Silva e la Finbeauty srl, una holding di partecipate attive principalmente nella cosmetica, controllata dall’imprenditore napoletano Dario Belletti. Proviamo allora a chiedere chiarimenti direttamente alla Finbeauty ma non esiste un sito internet della società e la sua sede a Milano è presso uno studio di commercialisti.

DANIELE AUTIERI Buongiorno, stiamo cercando la società Finbeauty.

PORTIERE La Finbeauty allora qui ha solo sede legale.

DANIELE AUTIERI Ah, hanno solo sede legale?

PORTIERE Sì

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dario Belletti, il titolare della Finbeauty, è arrivato a detenere oltre il 10% delle azioni di Helbiz. Oltre alla Finbeauty, a sostenere la società nella sua lunga corsa alla quotazione ci sono anche altri azionisti. Tra questi, la Monaco Mobility, il fondo Copernicus e il fondo Quantum. Un advisor della finanza ci aiuta a ricostruire l’origine di questi investitori.

ADVISOR FINANZA Questi nomi sono fondi di investimento che proteggono, che garantiscono l’anonimato dei reali investitori.

DANIELE AUTIERI E questo fondo Quantum?

ADVISOR FINANZA È un fondo offshore con base Bahamas, già finito nei cosiddetti Bahamas Leaks Investigation. In altre parole i Panama Papers dell’isola caraibica. È collegato al Gruppo Lambda Securities, entrambi gestiti da Fabio Allocco, un broker coinvolto anche nelle inchieste sul Monte Paschi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel 2016 Allocco viene rinviato a giudizio insieme ad altre 13 persone. Tra i reati contestati al gruppo associazione a delinquere transnazionale, finalizzata alla commissione di più delitti di truffa aggravata ai danni dell’istituto. Ma i reati vengono prescritti. Allocco e Palella li ritroviamo insieme a Singapore in un’altra vicenda che coinvolge Salvatore Palella: quella degli Helbiz Coin, la criptovaluta che l’imprenditore lancia nel 2018.

SALVATORE PALELLA - AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ VIDEO LANCIO HELBIZ COIN - LONDRA Grazie a tutti, grazie di essere qui. Voglio dire grazie a Skrill per ospitarci oggi. Sono felice di annunciare la quotazione di Helbiz.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questa è una testimonianza inedita di uno dei denuncianti che hanno lanciato una class action contro Helbiz oggi depositata presso il tribunale di New York City.

PARTECIPANTE CLASS ACTION CONTRO HELBIZ … Io ho investito 5mila dollari che comunque sono soldi, giusto?

DANIELE AUTIERI Palella e i promotori della criptovaluta sostenevano il progetto, lo pubblicizzavano?

PARTECIPANTE CLASS ACTION CONTRO HELBIZ E loro continuavano a sostenere che stava andando benissimo, che stavano arrivando partner, che si stavano espandendo a Los Angeles.

DANIELE AUTIERI Dopo quanto il valore della cripto è crollato?

PARTECIPANTE CLASS ACTION CONTRO HELBIZ Il token è iniziato ad andare giù da subito, per sempre. Fondamentalmente ed è una prova di quando c’è un’attività fraudolenta.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Secondo i querelanti della class action la Helbiz delle criptovalute avrebbe raccolto sul mercato circa 40 milioni di dollari. Una somma confermata al tempo dallo stesso Palella alla stampa specializzata ma poi smentita nell’intervista che l’imprenditore ci ha rilasciato un anno fa.

DANIELE AUTIERI Quanto avete raccolto?

SALVATORE PALELLA – AMMINISTRATORE DELEGATO HELBIZ Si parla di circa 700mila dollari. Abbiamo chiesto alla Hbz mobility system a Singapore di occuparsi del ritorno dei denari a tutti coloro che avevano acquistato il token. E hanno ritornato quasi il 70%.

DANIELE AUTIERI Palella si è difeso dicendo: erano pochi soldi e in più li abbiamo restituiti…

PARTECIPANTE CLASS ACTION CONTRO HELBIZ Non è assolutamente vero. Io a conti fatti di 5mila dollari me ne tornavano in tasca appunto 200, 300. Ci sono transazioni sulla blockchain che grazie a dio saranno eterne, che dimostrano che i soldi non solo assolutamente quelle poche briciole che secondo Palella Helbiz ha raccolto, sono ovviamente svariati e svariati milioni di dollari.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I documenti inediti che abbiamo recuperato a Singapore dimostrano che quando gli Helbiz Coin vanno male la Helbiz Mobility System, la società costituita per lanciare la criptovaluta, viene prima rinominata Helbiz System PTE, quindi chiusa definitivamente nel 2019. La società, che in origine nasce dalla SP1 Investments, la fiduciaria di Salvatore Palella con sede alle Cayman, viene poi ceduta al fondo Quantum di Fabio Allocco, lo stesso broker prescritto nell’inchiesta sul Monte Paschi e diventato azionista della Helbiz dei monopattini.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Questa società delle Cayman di Palella viene sostituita da una società di Fabio Allocco. Il quale con una società delle Bahamas, quindi oceano Pacifico, oceano Atlantico, tutti gli oceani sono in ballo. Mentre l’altra si chiama Helbiz Singapore, anche questa dichiara di fare software, questa è amministrata direttamente da Salvatore Palella insieme a Fabio Garibotti, che è il suo uomo locale. Chiamiamolo così. Ora queste società di Singapore hanno un capitale enorme: un dollaro di Singapore, pari a 65 centesimi.

DANIELE AUTIERI Di euro… GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Mezzo caffè!

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dai documenti consegnati alla SEC si capisce che la Helbiz System di Singapore, la società accusata dagli investitori di sospetta frode sulla criptovaluta, ha prestato 1,3 milioni di euro alla Helbiz nel Delaware, denari che la Helbiz dei monopattini ha restituito il 24 marzo del 2021. Mentre il Palella della criptovaluta crolla, il Palella dei monopattini diversifica il suo business, acquisisce i diritti del calcio della serie B, entra nel settore del food, aprendo a Milano Helbiz Kitchen. Del resto a lui piace volare alto. Qui lo vediamo a bordo di un Gulfstream 550, la Rolls Royce dei jet privati, migliore del G200 che usa di solito Cristiano Ronaldo, uno sfizio costoso. Per capire quanto costoso andiamo a Venezia e facciamo rotta verso il terminal dell’Aviazione Generale, tra i primi handler in Italia ad offrire servizi ai viaggiatori VIP. Qui ci aspetta Bryan, un broker che organizza i viaggi dei top client nei cieli di mezzo mondo.

BRYAN BELLICINI – FONDATORE VENICEJETS Se andiamo su voli oltreoceano, verso destinazioni caraibiche o gli Stati Uniti in quel caso i costi aumentano in modo esponenziale, raggiungendo cifre di 80/90mila euro per un volo di sola andata.

DANIELE AUTIERI Quindi a tratta un New York-Milano può costare 90mila euro?

BRYAN BELLICINI – FONDATORE VENICEJETS Sì, esattamente.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Anni dopo Salvatore Palella viaggia ancora con aerei privati, e il suo volo per acquisire le imprese sul mercato non si ferma. Questo imprenditore ci racconta di essere stato avvicinato e di aver trovato accanto a Palella un altro manager di Helbiz, di nome Emanuele Liatti.

DANIELE AUTIERI Questo Emanuele Liatti…

IMPRENDITORE Un bravissimo ragazzo.

DANIELE AUTIERI Che era quello che interloquiva con voi, no?

IMPRENDITORE C’è stato un interesse nell’immaginare qualcosa assieme, però li ho dovuti assolutamente eclissare nel nascere.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Emanuele Liatti è il figlio della compagna di Alfredo Altavilla, amministratore delegato di ITA Airways, la società al 100% del ministero dell’Economia, nata dalle ceneri di Alitalia.

DANIELE AUTIERI Quando è entrato Altavilla in questa vicenda?

IMPRENDITORE Io non l’ho mai visto, ti do per certo che c’entra, perché ormai si sono sputtanati da soli. Però quella è gente che c’ha così il pelo.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nella trattativa con l’imprenditore che abbiamo intervistato Altavilla non è mai entrato, ma il manager di ITA ha comunque siglato una partnership con Helbiz, dove lavora Emanuele Liatti, figlio della sua compagna. Dal 12 novembre scorso acquistando i biglietti aerei è possibile prenotare i monopattini di Helbiz. Mentre Helbiz Kitchen, il ristorante mobile della compagnia dei monopattini, aprirà la sua seconda sede italiana presso il quartier generale di ITA nell’aeroporto di Fiumicino. Secondo ITA il conflitto di interessi non esiste, perché non c’è scambio economico tra le parti. Alfredo Altavilla e il suo figlioccio Emanuele Liatti festeggiano. E festeggia Salvatore Palella, ancora una volta dal grande schermo di Time Square.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Festeggia a Time Square, però ha capito che la cuccagna è qui perché riesce a ottenere dei prestiti garantiti dal fondo delle piccole e medie imprese, riesce a ottenere le concessioni per far sfrecciare i suoi monopattini sulle strade dei comuni italiani, gli riesce facile avere partnership con aziende che sono di proprietà dello stato. Insomma, pare che dopo tanta ricerca Helbiz abbia trovato il socio, il partner solido e stabile: lo Stato italiano. Gli è venuto facile infatti trovare anche l'accordo con Ita, visto che uno dei manager di Helbiz è proprio Emanuele Liatti che è figlio della compagna dell'attuale amministratore delegato di Ita, della nuova Alitalia, Alfredo Altavilla. Ora loro dicono: guardate che non c'è stato nessun costo per le società, è semplicemente un accordo di co-marketing. È vero, non c'è stato nessun costo, ci sono stati giustamente dei guadagni. Siamo felici per loro. Al solo annuncio dell'accordo infatti Helbiz è cresciuta dell'8 per cento in borsa: niente di male se non ci fosse secondo noi almeno un piccolo conflitto di interessi tra appunto il manager, l'amministratore delegato di Ita, Altavilla, e il fatto che il manager con cui interloquisce è Emanuele Liatti, il figlio della sua compagna. Poi ci sarebbe a guardar bene anche un altro piccolo conflitto di interessi: il mentore di Helbiz, Massimo Ponzellini, il banchiere, è anche il cugino di Giorgetti, che è il ministro dello sviluppo economico, che è il controllore su Ita. Vabbè, insomma, questo tanto per fare una digressione. Mentre invece l'altro personaggio chiave per capire i successi di Helbiz è Fabio Allocco, un broker misterioso: il nostro Daniele Autieri l'ha trovato nelle carte di Singapore. È stato coinvolto in una truffa, con l'accusa di truffa internazionale, sulla vicenda di Montepaschi di Siena, poi prescritto. Allocco è l'uomo che acquista la bad company, la Helbiz che era stata autrice del disastro dei bitcoin e poi investe dopo una serie di passaggi societari, che come ha detto il nostro Bellavia coinvolgono tutti gli oceani, investe nella Helbiz che è in Delaware, nella società pulita. Da lì nasce l'impero del mago di Helbiz. Adesso per capirne qualcosa di più forse bisognerà aspettare le carte della class action. 

I Rizzoli. Giancarla Ghisi per il "Corriere della Sera" il 24 gennaio 2022.

«Oggi è il giorno della rinascita. Un'altra. Non mi ricordo neppure a che numero siamo arrivati: il difficile periodo di guerra, la morte di mio marito Andrea, quella violenta di mia figlia Isabellina, la perdita dell'impero. E adesso il Covid da cui sono guarita». 

Ljuba Rizzoli è appena rientrata a casa a Montecarlo, dopo un mese e mezzo di cure presso il Centro Ranieri III, nell'anticamera della terapia intensiva. «Colpa mia - racconta - ho fatto il primo vaccino e mi sono sentita forte. Continuavo a spostare la seconda dose. Ai primi di dicembre, avevo un leggero malessere poi è arrivato il peggio: mancanza di respiro».

In quel momento cosa ha provato?

«Una sensazione terribile. Dicevo tra me e me: ecco è finita. Uscivo da casa avvolta in un lenzuolo bianco e impartivo le ultime volontà a Lucia, la persona che mi segue da trent' anni, prenda carta e penna per il mio ultimo testamento. Lei mi urlava: "Ma dopo 190 miliardi di lire di debiti cosa vuol lasciare le briciole? Cosa le importa a chi andranno i gioielli e i quadri? Pensi alla salute». 

Quando si è ripresa cosa ha pensato?

«Ero in una camera meravigliosa. Mi sono guardata attorno, mi sono chiesta: chi paga tutto questo lusso? Sempre Lucia: "Non si dimentichi che si chiama Rizzoli"».

Già, un cognome importante.

«Di cui sono fiera. Angelo Rizzoli, padre di mio marito Andrea, ha creato dal niente un impero: giornali, libri, arte, cinema. La domenica ci ritrovavamo a pranzo nella casa di famiglia e ricordava la sua vita difficile. "Sono cresciuto nei Martinitt, non dimentico il passato". La tavola era apparecchiata con cristalli e candelabri, ma il menu per tutti era pane e mortadella. "Per ricordare da dove arriviamo". E ai nipoti sottolineava: "Con tutto quello che ho costruito ci vogliono almeno cinque generazioni per distruggerlo". Ne sono bastate due». 

Quando per la prima volta ha sentito il nome Rizzoli?

«Sono cresciuta in viale Monza, media borghesia. Mio padre Pierino era impegnato nella fabbrica di famiglia di Trapani, stavo soprattutto con la mamma e i miei due fratelli. I fine settimana Pierino ci portava con l'Aprilia a fare la gita. Una domenica, mi sono ritrovata a Canzo davanti a un magnifico castello e sognavo di essere la principessa di quel posto. Non sapevo che era di proprietà dei Rizzoli e ne sarei diventata proprietaria. Un luogo che ho sempre amato. Camilla Cederna che adorava i miei colpi di testa, diceva: "Diventerai noiosa da morire in questo lusso sfrenato"». 

Lei, però, è approdata qui dal jet set internazionale.

«Prima sfollata in campagna per la guerra. Ho subìto la violenza del professore di scienze, una ferita che non si è mai chiusa. Ero alta, mi ha ingaggiato Jole Veneziani a sfilare nell'atelier di via Montenapoleone, punto di riferimento delle sciure milanesi. Ma ero più affascinata dal mondo culturale e letterario. Mi sono innamorata di Alfio Tofanelli, direttore di Tempo Illustrato. Purtroppo era sposato. Un giorno si presenta la seconda moglie con un figlio: "La prego, lei così bella con una vita davanti mi lasci mio marito". Mi sono detta che non poteva soffrire a causa mia. Un distacco traumatico». 

Non l'unico.

«Purtroppo no. Per distrarmi mio fratello mi portava all'ippodromo. Un pomeriggio il mio cavallo si impunta e mi fa finire a terra. Da dietro sento: " Bela tusa devi tornare in sella subito altrimenti non ci andrai mai più". Era il petroliere Ettore Tagliabue. Si era appena separato. Per me ricominciava una nuova vita: Parigi, Londra, Deauville. Mia madre non voleva. "Cosa te ne fai di uno così vecchio". Tofanelli non si rassegnava: "Scappa da quel cavallaro ignorante"».

Come si sentiva?

«Mi divertivo a fare la civetta. Avevo 23 anni, il mese dopo mi trovavo sul Cristina di Onassis, con Grace Kelly e il principe Ranieri, Churchill che mi chiedeva se non mi dava fastidio il sigaro. Poi ho conosciuto Ali Khan che mi corteggiava. Edda Ciano che mi impartiva una lezione sui brillanti. "Devono essere il tuo unico grande amore. Un brillo ti salva sempre". In quel periodo ho fatto conoscenza con il gioco: croce e delizia di tutta la mia vita. Mi ha tolto molto, ma mi ha anche aiutato. Una vera terapia per me». 

E il suo primo brillante?

«Un Winston, regalo di Tagliabue. Poi, a un certo punto mi sono potuta permettere, comprando all'asta, i bauli della Maharani di Baroda». 

Si dice che ha avuto più gioielli lei della Regina d'Inghilterra.

«Credo che sia vero. Ma non mi hanno portato la felicità. La fine della storia con Tagliabue è stata traumatica: l'ho scoperto in casa con la figlia dello stalliere. Sono corsa fuori urlando come una pazza e non vedendo la piscina vuota ci sono caduta dentro. Un lungo periodo al Neurologico. Non volevo più vivere. Lì, in corsia, ho rincontrato Andrea Rizzoli. Uomo meraviglioso, ironico, intelligente. In fondo, a me, non sono mai piaciuti gli uomini belli. Per casa giravano Clay Regazzoni, David Niven, Gianni Agnelli, ma non mi interessavano. Andrea, se gli arrivava qualche pettegolezzo, non faceva mai scenate. "Ljuba ho tanti problemi, non darmi altri pensieri". Piuttosto, un uomo di grande fascino è stato Attilio Monti. O quel giornalista del Corriere che, con qualsiasi tempo, mi faceva andare ad aspettare il giornale fresco di stampa». 

Ha nostalgia di quei tempi?

«Ho nostalgia delle persone. Di certi valori. Vivevo nel lusso, ma facevo una vita semplice. Andrea lavorava tutto il giorno, la sera spesso giocavamo a carte in famiglia, la domenica a bocce. Abitavo tra Milano, la casa di campagna a Sedone e Cap Ferrat nella Tour Saint-Hospice. Quest' ultima piaceva molto a mio marito. Gli dicevo "Sento che mi porta sfortuna". Non ho visto male. Pochi anni dopo è finito tutto: crollato l'impero e Isabella non ha retto al dolore». 

Qual è il momento che ricorda volentieri?

«L'inaugurazione della libreria di New York. Ero vestita di bianco con due rubini regalo del Commenda, c'erano: Jacqueline Kennedy, il sindaco di New York, Fanfani e la sua prima moglie Biancorosa che con aria invidiosa chiese a mio suocero: "Chi è quella là?". Lui, senza peli sulla lingua: "Che le piaccia o no è la giovane e fresca moglie di mio figlio"». 

Come definirebbe la sua vita?

«La più artificiale e squilibrata del mondo. Ho sofferto troppo. Da quando è mancata Isabella è cominciata la spirale distruttiva. Unica gioia rimasta Annina Rizzoli, figlia di mio marito, con la sua bella famiglia che ricorda i tempi passati. Lei, le uniche radici che mi tengono ancorata».

Enea Conti per corriere.it il 25 novembre 2022.

«Nessuna turbolenza in azienda, andiamo avanti». Le parole sono di Denis Amadori, il nuovo capo del Gruppo dell’azienda fondata dal padre Francesco nel 1969, fresco di nomina dopo le dimissioni dell’ex ceo Francesco Berti. Eppure sul colosso romagnolo del settore avicolo romagnolo arrivano ogni settimana nuove indiscrezioni su una presunta guerra di famiglia. 

Il licenziamento della nipote e le altre polemiche sul ruolo delle donne

Dopo la cacciata di Francesca Amadori (nipote del fondatore) che il prossimo 13 dicembre porterà in Tribunale l’azienda per una causa sul licenziamento e dopo le dimissioni di Berti secondo quanto riportato dal Resto del Carlino Patrizia e Loretta Amadori, figlie di Francesco che fondò l’azienda nel 1969 a San Vittore di Cesena, hanno citato davanti al Tribunale delle imprese di Bologna le società Francesco Spa e Finama Holding, presiedute dai loro fratelli Denis e Flavio. L’oggetto della causa civile dovrebbe essere il riassetto societario del gennaio scorso, che avrebbe concentrato il potere nelle mani degli uomini della famiglia, a discapito delle donne. 

Francesco Amadori e la divisione societaria in favore dei figli maschi

In sintesi quando il padre fondatore Francesco lasciò l’azienda, aveva diviso il pacchetto azionario della holding che controlla il gruppo, la Francesco Spa, in quattro quote: il 27% a testa ai figli Denis e Flavio, il 23% a testa alle figlie Patrizia e Loretta, che erano fuori dalla gestione aziendale. I fratelli fecero poi confluire le quote in una nuova società in modo da avere la maggioranza assoluta. Intanto al netto dei contrasti – reali o presunti - l’azienda ha varato un piano di assunzioni da record: 700 nuovi profili da inserire nei vari stabilimenti sparsi per l’Italia dalla Romagna all’Abruzzo forte di un fatturato di 1, 3 miliardi di euro nel 2021 e conta circa 9000 dipendenti.

L’INTERVISTA. L’ad di Amadori: «Francesca è stata licenziata perché ha smesso di lavorare a dicembre, senza dare spiegazioni». Michelangelo Borrillo su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.  

«Da inizio dicembre Francesca Amadori ha smesso di lavorare, senza dare spiegazioni. Che non sono arrivate neanche dopo la richiesta di chiarimenti da parte dell’azienda, secondo quanto previsto dalla legge e dal contratto di lavoro. A quel punto non potevamo non licenziarla. Neanche il padre ha potuto far nulla. Se non ribadire che le regole valgono per tutti, a prescindere dal cognome». Il licenziamento che ha fatto più clamore in questo inizio 2022 — quello di Francesca Amadori, nipote del fondatore Francesco e figlia di Flavio, presidente dell’omonimo gruppo agroalimentare di cui era responsabile della comunicazione — si spiega così. A fornire i chiarimenti è Francesco Berti, dal 2019 amministratore delegato (e dal 2018 direttore generale) del gruppo di Cesena noto per i suoi polli. Che, però, avrebbe di gran lunga preferito, come si usa in Romagna, risolvere la questione in maniera più informale e meno eclatante anziché in aula, avendo Francesca Amadori dichiarato che si opporrà al provvedimento ritenuto ingiusto e illegittimo.

Il licenziamento è una cosa seria. Se la soluzione si poteva trovare in via informale, non era forse il caso di evitare l’allontanamento?

«Sappiamo benissimo che il licenziamento è una questione seria. Tanto che dal 2018 ad oggi, questo è solo il terzo caso sugli oltre 600 dipendenti della società in cui era impiegata Francesca. Ma l’azienda ha provato in ogni modo a evitare la soluzione estrema. Da inizio dicembre Francesca Amadori, che era una impiegata e non una dirigente, ha smesso di lavorare. Sia in presenza che a distanza. Senza dare spiegazioni, senza documentare le motivazioni delle sue assenze al lavoro. Quando non si rispetta il contratto nazionale di lavoro si agisce di conseguenza».

Nelle settimane precedenti c’erano stati motivi di discussioni su questioni lavorative?

«No. Del resto il suo era un ruolo esecutivo, non aveva voce nella governance aziendale». 

E screzi a livello familiare? In passato non sono mancati, sia tra i fondatori Francesco e il fratello Arnaldo, deceduto nel 2017, sia nella stessa famiglia di Francesca, con la madre Maurizia Boschetti che ha lasciato l’azienda dopo la separazione dal marito.

«Di eventuali screzi a livello familiare non so nulla. Posso solo dire che non avrebbero giustificato un licenziamento. I motivi, come spiegato, sono altri».

E sulla vicenda è intervenuto il nonno, il fondatore Francesco che ha da poco compiuto 90 anni e che a Francesca è affettivamente molto legato?

«No. Non solo perché non avrebbe potuto fare nulla, alla stregua del padre. Ma anche perché da quando ha lasciato la guida dell’azienda, nel 2014, ne è sempre rimasto fuori. Al contrario di quel che si possa pensare, questa non è più un’impresa familiare».

In che senso? Il presidente è Flavio Amadori, il vice presidente è il fratello Denis e molti dei loro figli lavorano in azienda.

«Ma l’amministratore delegato è esterno alla famiglia, e io sono già il terzo dal 2014 ad oggi. Perché la volontà della seconda generazione è stata quella di trasformare l’azienda da familiare a manageriale. E ci siamo riusciti».

Cosa glielo fa pensare? L’azienda è ancora molto identificata con lo slogan del fondatore, “parola di Francesco Amadori”.

«I numeri e i fatti. I numeri dicono che nel 2014, quando il fondatore lasciò il gruppo, l’azienda fatturava 1,2 miliardi, con un patrimonio netto di 223 milioni, 7.182 dipendenti e investimenti pari a 171 milioni nei precedenti 4 anni; nel 2018 il fatturato diventa di 1,3 miliardi, il patrimonio netto di 271 milioni, i dipendenti 7.906 e 200 milioni gli investimenti nei precedenti 4 anni; nel 2021 si sale a 1,4 miliardi di fatturato, 295 milioni di patrimonio netto con 8.675 dipendenti e investimenti in 3 anni, di cui 2 di Covid, pari a 237 milioni. Questi i numeri, che rendono l’idea di un’azienda sana e di mercato».

E i fatti?

«I due fondatori del gruppo, Francesco e Arnaldo Amadori, rispettivamente titolari del 77% e del 23% delle quote, sono da tempo rappresentati dai rispettivi figli. Nello specifico stiamo parlando di 9 famiglie che detengono il 100% delle quote del gruppo Amadori. Proprio per garantire stabilità nel processo decisionale , alla fine del 2021 ne abbiamo ridefinito il sistema di funzionamento sia Flavio che Denis possiedono il 21% del capitale ma il loro 42% ha diritto di voto per il 51%. Oggi la situazione è molto più chiara che in passato, tanto più dopo aver risolto nello scorso mese di settembre vecchie cause con ex soci».

Non sarà più un’azienda familiare, ma nel gruppo lavora anche il marito di Francesca, Paolo Montagna, tra l’altro con un ruolo importante come quello di responsabile qualità. Questa situazione potrebbe creare problemi?

«No, in alcun modo. Ognuno di noi, me compreso, è valutato sui risultati che raggiunge, non certo per la relazione coniugale».

A proposito di risultati, anche nel vostro settore il 2021 è stato l’anno dell’incremento dei costi delle materie prime, di circa il 40%. Ci saranno ripercussioni sul prezzo d’acquisto da parte dei consumatori?

«Noi facciamo parte di una filiera produttiva, all’interno della quale ognuno può rinunciare a un p’ di profitto: gli allevatori, i trasportatori, noi. Così riusciamo ad attutire gli effetti negativi sui consumatori finali per i quali, ad oggi, non c’è stato alcun aumento di prezzo. E speriamo non ci sia neanche in futuro, anche grazie ai 500 milioni di investimenti che abbiamo previsto per rendere i nostri stabilimenti più moderni e sostenibili, incrementare l’autogenerazione di energia, perfezionare la digitalizzazione e aumentare il benessere animale».

Francesca Amadori non ci sta: cosa succede con l'azienda del nonno. Alessandro Ferro il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Inizia la battaglia legale tra Francesca Amadori e l'azienda del nonno dove è stata licenziata alcuni giorni fa. "Campagna di delegittimazione nei suoi confronti".

Francesca Amadori adesso alza la voce: dopo il licenziamento dall'azienda fondata da nonno Francesco ma adesso in mano al padre, Flavio Amadori, l'ormai ex responsabile comunicazione dell'azienda leader nel settore avicolo ha dato mandato ai suoi legali di far valere le proprie ragioni.

"Ecco perché l'abbiamo licenziata"

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è l'intervista rilasciata dall'Amministratore delegato della società, Francesco Berti, al Corriere della Sera e di cui ci siamo occupati sul Giornale.it. L'accusa dell'Ad era stata pesante: "Da inizio dicembre Francesca Amadori ha smesso di lavorare, senza dare spiegazioni. Che non sono arrivate neanche dopo la richiesta di chiarimenti da parte dell’azienda, secondo quanto previsto dalla legge e dal contratto di lavoro. A quel punto non potevamo non licenziarla. Neanche il padre ha potuto far nulla se non ribadire che le regole valgono per tutti, a prescindere dal cognome", ha affermato al quotidiano.

La nota degli avvocati

Dopo queste parole, la risposta di Francesca non si è fatta attendere. "Con riferimento alle notizie diffuse anche a mezzo stampa dall'amministratore delegato Francesco Berti - scrivono i legali - condanniamo con forza la campagna di delegittimazione in atto nei suoi confronti e fondata su informazioni strumentalmente distorte e gravemente lesive della sua onorabilità personale e professionale", viene riportato sul Resto del Carlino. Insomma, la vicenda è tutt'altro che conclusa: secondo alcune indiscrezioni, i legali della Amadori avrebbero alcune cartucce da sparare nel momento opportuno.

"Ci vedremo nelle sedi competenti"

Il comunicato degli avvocati si conclude con l'intenzione di Francesca Amadori a "far valere le proprie legittime ragioni nelle competenti sedi. Prendiamo inoltre atto che l'amministratore delegato Francesco Berti conferma di ignorare completamente l'estrema gravità delle questioni aziendali più volte verbalmente e formalmente sollevate, anche di recente, dalla dottoressa Amadori". La prova provata della situazione complicata all'interno dell'azienda c'è stata sabato 15 gennaio, giorno del compleanno del patron Francesco Amadori che ha compiuto 90 anni. Ci si aspettava una grande festa di famiglia che, per ovvie ragioni, non c'è mai stata: secondo indiscrezioni del quotidiano bolognese, il pranzo è stato annullato sia per ragioni di sicurezza legate al Covid ma anche per le tensioni nell'azienda familiare.

Ricordiamo che il tanto amato nonno 90enne di Francesca ha lasciato la guida dell'azienda nel 2014: è tutto in mano al padre, Flavio Amadori, presidente della società. Il vicepresidente è il fratello di Francesca, Denis, ma anche altri figli lavorano in azienda. Il motivo di nominare un amministratore delegato esterno alla famiglia è motivato dal fatto di "trasformare l’azienda da familiare a manageriale. E ci siamo riusciti", aveva affermato l'Ad Berti. Attualmente, Francesco e Arnaldo Amadori che hanno fondato il gruppo, detengono rispettivamente il 77% e il 23% delle quote ma sono rappresentati dai loro figli: 9 famiglie con il 100% delle quote aziendali. Nel gruppo, tra l'altro, lavora anche Paolo Montagna, marito di Francesca, come responsabile qualità. Al momento, ovviamente, non c'è stata nessuna ripercussione lavorativa. "Ognuno di noi, me compreso, è valutato sui risultati che raggiunge, non certo per la relazione coniugale", conclude Berti.

Francesca Amadori, la guerra dei polli trascende: "Diffamata. E tacciono su fatti gravissimi", accuse estreme al gruppo. Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Non accenna a placarsi la guerra in casa Amadori. Francesca, dopo essere stata licenziata dall'azienda fondata dal nonno e ora in mano al padre Flavio, ha deciso di rivolgersi agli avvocati. Francesca Amadori non ha particolarmente apprezzato le parole dell'amministratore delegato della società, Francesco Berti, che al Corriere della Sera la accusava di non lavorare. "Da inizio dicembre Francesca Amadori ha smesso di lavorare, senza dare spiegazioni. Che non sono arrivate neanche dopo la richiesta di chiarimenti da parte dell’azienda, secondo quanto previsto dalla legge e dal contratto di lavoro. A quel punto non potevamo non licenziarla. Neanche il padre ha potuto far nulla se non ribadire che le regole valgono per tutti, a prescindere dal cognome", sono state le dichiarazioni dell'ad. 

Biasimo che Francesca rispedisce al mittente: "Con riferimento alle notizie diffuse anche a mezzo stampa dall'amministratore delegato Francesco Berti - scrivono i legali - condanniamo con forza la campagna di delegittimazione in atto nei suoi confronti e fondata su informazioni strumentalmente distorte e gravemente lesive della sua onorabilità personale e professionale". Ancora una volta la nipote del colosso dei polli ha intenzione di "far valere le proprie legittime ragioni nelle competenti sedi" e critica Berti "di ignorare completamente l'estrema gravità delle questioni aziendali più volte verbalmente e formalmente sollevate, anche di recente, dalla dottoressa Amadori". 

Le tensioni sono dunque palpabili con il nonno Francesco che è stato costretto ad annullare i festeggiamenti per il suo 90esimo compleanno. Amadori senior ha lasciato al figlio la guida dell'azienda nel 2014. Da allora il vicepresidente è il fratello di Francesca, Denis. Oltre ad altri figli, a lavorare nel gruppo anche Paolo Montagna, marito di Francesca, che si occupa del controllo qualità.

Amadori, la nipote licenziata? Guerriglia infinita nella famiglia dei polli: il drammatico precedente (e un rovinoso divorzio). Andrea Cappelli su Libero Quotidiano il 14 gennaio 2022.

Terremoto all'interno della storica azienda Amadori, leader del settore avicolo in Italia assieme ad Aia. È notizia di ieri che Francesca- nipote del fondatore Francesco di cui porta anche il nome- è stata licenziata dall'azienda cooperativa di famiglia, dove ricopriva il delicato ruolo di responsabile della comunicazione. Come riportato dall'edizione cesenate del Resto del Carlino, la lettera di fine rapporto le è stata consegnata martedì mattina e la notizia, come prevedibile, ha destato molto scalpore all'interno dell'impresa romagnola. Resta ancora da chiarire se l'abbandono di Francesca si inscriva nel contesto di una faida interna alla dinasty cesenate o se dietro il gesto ci siano motivazioni di altra natura. Vero è che se i rapporti tra Francesca e il nonno sembrano essere sempre stati idilliaci (nel 2018 fu proprio lei a promuovere la pubblicazione dell'autobiografia "Parole di Francesco Amadori", parafrasando il celebre spot televisivo rimbalzato per anni su tutte le emittenti nazionali accompagnato dal sorriso bonario del fondatore), nell'aprile 2015 Amadori senior, all'epoca 83enne, ha ceduto il controllo dell'azienda ai figli Flavio e Denis. A questi ultimi è stato assegnato il 52% della holding, mentre il dominus ha conservato una quota del 48%.

FREDDEZZA

A stupire è anche la freddezza con cui i vertici dell'azienda - presieduta da suo padre Flavio- hanno congedato l'ultima "erede" della dinastia: "Gesco sca", consorzio operativo del gruppo, si è limitato a confermare la cessazione del rapporto lavorativo «per motivazioni coerenti e rispettose dei principi e delle regole aziendali», aggiungendo che «tali regole sono valide per tutti i dipendenti senza distinzione alcuna». Un'affermazione impossibile da smentire dopo quest' ultimo licenziamento. Al momento le motivazioni che hanno portato a questo atto non sono state rese note ma una cosa è certa: la giovane Amadori (45 anni) è già sul piede di guerra. «In merito alle notizie che riguardano la mia persona - ha dichiarato ieri - desidero precisare che nei 18 annidi attività lavorativa presso il Gruppo di famiglia ho sempre operato in maniera eticamente corretta e nell'interesse dell'azienda, animata dal sentimento di attaccamento che da sempre mi lega all'impresa fondata da mio nonno Francesco».

IN TRIBUNALE

Francesca fa intendere inoltre che la vicenda potrebbe presto entrare nelle aule giudiziarie: «Sto valutando le iniziative più opportune per oppormi a un provvedimento che ritengo ingiusto e illegittimo e che non riguarda la violazione di alcuna regola aziendale, trovando al contrario fondamento in logiche che dovranno essere appurate nelle opportune sedi». L'episodio ha anche portato alla convocazione dell'assemblea dei soci di Romagna Iniziative, consorzio che raggruppa le principali realtà industriali della zona. Dopo aver loro illustrato la situazione i membri di RI hanno ringraziato Francesca, chiedendole di restare al suo posto. L'azienda ha sulle spalle oltre mezzo secolo di storia: fondata nel 1969 dai fratelli Francesco e Arnaldo Amadori a San Vittore di Cesena, in breve tempo il gruppo si impone tra i leader italiani nel settore degli allevamenti. Oggi può vantare un fatturato di 1,2 miliardi di euro. Non è la prima volta che un membro della famiglia abbandona l'azienda: già nel 1998 Arnaldo (fratello di Francesco e co-fondatore) decise di lasciare il gruppo, con una buonuscita di 40 miliardi di lire che gli consentì di cambiare vita, trasferendosi prima in Tanzania e poi in Brasile, dove è morto nel 2017. In questo caso, però, l'uscita ha il sapore di un allontanamento. Difficile davvero prevedere gli sviluppi di quella che potrebbe presto diventare un'aspra contesa familiare: certo è che l'ultima rampolla sembra decisa a lottare con le unghie e con i denti per fare valere le sue ragioni. Parola di Francesca Amadori. 

L’ex presidente di Serie A (Manenti) senza 1 euro e il miliardo sospetto della Leonardo. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2022.

Da un euro a un miliardo. Due storie, molto diverse tra loro, di stravagante finanza. La prima è forse la più piccola operazione societaria del 2021 con protagonista il più tragicomico presidente che la serie A di calcio ricordi, Giampietro Manenti. La sua Mapi Italia chiude perché l’ex presidente del Parma Calcio non ha versato 1 euro, un solo euro di capitale che mancava. La seconda è la più sospetta operazione miliardaria degli ultimi dodici mesi. Si dipana tra Varese, Biella e il Delaware: al centro c’è la sconosciuta Leonardo Da Vinci spa che ha uno stratosferico capitale da 1,1 miliardi ma un unico socio pressoché nullatenente e un gigantesco debito con il Fisco, 755 milioni, pari a 12,5 euro per ogni italiano, tant’è che l’Agenzia delle Entrate ha da poco chiesto e ottenuto il fallimento della società. E per il 22 febbraio è fissata un’udienza in tribunale dei creditori. Partiamo dalla prima: operazione Mapi.

A un euro dalla fine

«Preso atto — leggiamo dai documenti societari — che il capitale sociale è sceso al di sotto del minimo legale di 1 euro e gli azionisti non hanno ricapitalizzato, dichiaro lo scioglimento della Mapi Italia srl». Dopo anni di stenti, mai la gioia di una fattura da esibire, un dipendente da assumere o un bilancio da depositare e, insomma, dopo cento mesi di zero affari, alza le mani Paola Crivelli amministratore unico della capofila in Italia del gruppo internazionale di mister Mapi, alias Giampietro Manenti. Dove per «gruppo internazionale» deve intendersi un ristretto numero di scatole vuote controllate da una holding, Mapi Grup Poslovno Svetovanje, che aveva la sede di rappresentanza nella casa colonica di due anziani contadini della campagna slovena.

I progetti di Mapi Channel e Mapi Fashion

Eppure era così anche 7 anni fa quando Manenti, senza trovare alcun ostacolo (Figc-Covisoc, Lega), si presentò sulla ribalta del calcio nazionale, rilevando per un euro (il solito misero euro) il Parma dei trionfi di Tanzi e poi della crisi di Ghirardi. Lo ricordano molto bene i tifosi: servivano soldi subito per evitare il fallimento. E lui allo Stadio Tardini e nelle conferenze stampa garantiva: «Stanno arrivando», «il bonifico è partito», «c’è un intoppo in Slovenia ma è fatta». Intanto preannunciava la nascita di Mapi Channel, Mapi Fashion e Mapi Energia, indicando conti alla Hsbc, Sberbank, Alfa Bank ecc. Un mese di fuffa, con il risultato che il presidente da un euro diede l’ultima spintarella al club: fallito e finito tra i dilettanti. E Nullamanenti, com’è stato ribattezzato, chiuse l’avventura passando un paio di settimane a San Vittore con l’accusa di reimpiego di capitali illeciti e indebito utilizzo di carte di credito.

Il fenomeno social

A distanza di anni, dopo l’inferno in serie D, la rinascita, i dollari di Kyle Krause e i guantoni di Buffon, il lato “tragico” di quel febbraio-marzo 2015 è sfumato mentre resta limpido, indelebile il lato comico: i video del Manenti presidente sono diventati a distanza di anni un fenomeno social, cliccatissimi (oltre 2 milioni di visualizzazioni su youtube) con migliaia di ironici commenti dell’affollatissima comunità di Mapi-fan. Ora va mestamente in liquidazione la Mapi Italia, per mancanza di quell’euro che l’ex presidente del Parma nemmeno ravanando nelle tasche di qualche vecchia giacca a vento deve aver trovato.

Il fallimento da 755 milioni della Leonardo Da Vinci

Il 7 ottobre ha fatto crac una sconosciuta società di Varese con una voragine fiscale da 755 milioni di euro. Il fallimento è stato chiesto dall’Agenzia dell’Entrate e decretato dal tribunale di Milano. La società si chiama Leonardo da Vinci e — da atti ufficiali — ha un capitale sociale sottoscritto e versato da 1,13 miliardi, come se gestisse un impero internazionale. Però nessuno la conosce, è un fantasma nell’ecosistema industriale del nord, non si rintracciano clienti, non sembrano esistere fornitori, non ha dipendenti. È una società-zombi che per mischiare le carte cambia sede come fossero fermate di un autobus; è di proprietà di Salvatore Abilone, uno dei tanti prestanome e personaggi borderline, tra commercialisti, amministratori e notai, che hanno accompagnato le gesta della Leonardo. Quali gesta? La cessione di crediti fiscali. Anzi presunti crediti creati ad hoc con un meccanismo di altrettanto presunta frode fiscale. La triangolazione è con una società partecipata in Algeria (la partecipazione è valorizzata in bilancio per la poco credibile cifra di 433 milioni) e con l’improbabile egiziano Ramadam Hussim Mohamed (574 milioni).

La sponda del Delaware

E pochi mesi fa attività per 219 milioni (in gran parte crediti fiscali) sono state acquisite da una società (Event Better) che immediatamente dopo si è fusa con una finanziaria del Delaware, la Phoenix Usa. Nome d’effetto per una società costituita da una sarta di Settimo Milanese («Mi hanno offerto 300 euro per firmare — ci aveva detto al telefono dal suo piccolo negozio — avevo bisogno di soldi ma non me li hanno ancora dati»). L’Agenzia delle Entrate ha chiesto il fallimento della Leonardo il 16 settembre scorso quando l’azienda però — e questo è l’aspetto un po’ paradossale della vicenda — era ancora nell’orbita di alcuni soggetti finiti nel 2016 al centro di un’inchiesta per una maxi frode fiscale: società “cartiere” e “fantoccio”, «un’organizzazione criminale — raccontano le cronache del tempo — dedita a false fatturazioni che generavano crediti Iva poi ceduti ad aziende terze che li utilizzavano come compensazione». Come hanno fatto a gestire ancora per anni quella stessa società finita sotto inchiesta? Le accuse, tuttavia, restano da provare: il procedimento penale è avviato e sono pendenti ricorsi in Cassazione sulle materie fiscali più tecniche. Comunque vada, possiamo moderatamente dubitare che il signor prestanome Abilone abbia effettivamente versato nella Leonardo da Vinci 1.136.454.464 euro di capitale sociale (che poi è il minimo garantito ai creditori). E invece per l’altra storia, confidiamo ostinatamente che Giampietro Manenti trovi qualche banca disposta a prestargli l’euro necessario a far sopravvivere la sua Mapi Italia.

(ANSA il 20 gennaio 2022) - "Fateci pagare più tasse". È il nuovo appello ai governi dei 102 paperoni convinti che l'attuale sistema di tassazione sia ingiusto. In una lettera aperta affermano: "Mentre il mondo ha sofferto in questi due anni, molti di noi possono dire di aver visto aumentare la loro ricchezza durante la pandemia. Pochi di noi, forse nessuno, può invece dire onestamente di aver pagato il giusto di tasse".

Fra i firmatari c'è Abigail Disney, l'erede di Walt Disney, da tempo in prima linea per reclamare un fisco più giusto. Nella missiva i paperoni spiegano come a loro avviso il sistema vigente ha creato una mancanza di fiducia fra la gente normale e le élite. "Il mondo, e ogni paese, deve chiedere ai ricchi di pagare il giusto. Tassateci, e tassateci ora". La lettera coincide con le riunioni virtuali del World Economic Outlook. 

Ma la pandemia aumenta il divario economico. Elon Musk è l’uomo più ricco del mondo, tra i ‘Paperoni’ italiani Ferrero e Del Vecchio (Luxottica). Redazione su Il Riformista il 2 Gennaio 2022.

I ricchi sempre più ricchi e i poveri aumentano. Un’equazione economica esasperata dalla pandemia che viene raccontata dall’annuale classifica del Bloomberg Billionaire Index, la lista delle 500 persone più ricche del mondo, che messi insieme superano gli 8.400 miliardi di dollari, cioè più del Pil di ogni Paese del mondo (fatta eccezione per Stati Uniti e Cina).

Il primo tra i primi si conferma Elon Musk, il ceo di Tesla Motors, recentemente eletto da Time ‘Persona dell’anno’, che non è mai stato così ricco. Musk, con i suoi 270 miliardi di dollari di patrimonio personale ha raggiunto il maggior livello di ricchezza nell’era moderna, al netto dell’inflazione.

Nel corso del 2021 i 500 più ricchi del mondo hanno rimpolpato il proprio portafoglio con più di mille miliardi di dollari di valore personale. Il valore del capo di Tesla e Space X equivale all’1,29 del Pil degli Stati Uniti, all’11,2% del valore del mercato immobiliare Usa ed è pari a 4.003.622 volte il guadagno medio di una famiglia americana. Nell’altro lato della terra la pandemia ha portato, secondo le stime della Banca Mondiale, più di 150 milioni di persone oltre le soglie dell’estrema povertà.

È la prima volta nella storia che i 10 super-ricchi hanno fortune personali che superano i 100 miliardi di dollari. Secondo Bloomberg, una dimostrazione di come la ripresa dallo choc economico per l’emergenza sanitaria sia stata disomogenea e abbia radicalizzato le disparità, con i più ricchi che hanno beneficiato di una politica fiscale allentata. A questo aggiungiamo il crescente fatturato di tutte le imprese che si occupano di digitale a vario titolo, grazie all’impennata di piattaforme e hardware per la comunicazione e in generale per le attività a distanza. Otto dei primi 10 ricconi si confermano imprenditori nel campo della tecnologia.

Elon Musk ha raggiunto la vetta della classifica con un patrimonio di 273,5 miliardi di dollari e un guadagno del 75% grazie alla scommessa degli investitori sulle auto elettriche di Tesla. Il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, è sceso al secondo posto con 194,2 miliardi dollari con il colosso dell’e-commerce e del cloud che è salito solo del 2% rispetto al 2020. Dietro di lui il francese Bernard Arnault, il patron del colosso del lusso Lvmh, con una fortuna di 177,1 miliardi dollari: le azioni del suo impero sono cresciute del 55% lo scorso anno, anche grazie a importanti investimenti come i 15 miliardi di dollari spesi a fine 2020 per rilevare Tiffany.

Scivola in quarta posizione Bill Gates, con un patrimonio stimato in 138,3 miliardi di dollari: hanno pesato il divorzio da Melinda, che lo ha costretto a cedere alla moglie una fetta di titoli Microsoft, e una crescita della società solo del 5%. Sesto Mark Zuckerberg, il patron di Meta-Facebook, con 128,4 miliardi (e +24% rispetto al 2020), preceduto da Larry Page, fondatore di Alphabet-Google, che a fine anno aveva un patrimonio di 129,5 miliardi di dollari, cresciuto del 57%. Il suo «gemello» Sergey Brin è al settimo posto e precede l’unico altro non-tech, il sempreverde Warren Buffet. A chiudere la classifica un altro miliardario storico come Larry Ellison, co-fondatore di Oracle.

Escluso Arnault, francese, i primi 10 sono tutti imprenditori americani. Per gli omologhi cinesi infatti il 2021 è stato in realtà l’anno peggiore da quando – nel 2012 – Bloomberg ha incluso il Paese nella sua classifica. La perdita totale di 61 miliardi di dollari è legata alle politiche di «prosperità condivisa» promossa dal governo.

Al 37esimo posto, con 35,9 miliardi di dollari e una crescita di 1,75 miliardi anno su anno, troviamo Giovanni Ferrero e famiglia, primo degli italiani. Solo due posizioni in meno per Leonardo Del Vecchio (34,5 miliardi, +9,75 miliardi), fondatore di Luxottica. Scendendo ancora, troviamo: al posto 204 Paolo Rocca e famiglia (11,1 miliardi, +1,12 miliardi), amministratore delegato del gruppo Techint (Tenaris); al 301esimo Silvio Berlusconi (8,77 miliardi, +684 milioni); al 477esimo Miuccia Prada (5,93 miliardi, -20,9 milioni); al 479esimo Patrizio Bertelli, l’amministratore delegato del gruppo Prada, con 5,91 miliardi di patrimonio personale e una perdita di 21 milioni anno su anno.

Nella gara dei Paperoni d'Italia vincono gli eredi Del Vecchio. Il patrimonio di famiglia a 28 miliardi. Prada e Rocca sul podio. E Benetton conquista il quarto posto. Gian Maria De Francesco il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Gli eredi Del Vecchio, i coniugi Bertelli-Prada e la famiglia Rocca sono gli italiani più ricchi in Borsa. È quanto emerge dalla tradizionale classifica stilata a Ferragosto da Milano Finanza, che riunisce i 628 uomini e donne con le maggiori consistenze azionarie nel listino milanese e gli italiani con partecipazioni rilevanti in società quotate all'estero. La famiglia del patron di Luxottica, recentemente scomparso, conta su un patrimonio di 28,4 miliardi di euro che vale il primo posto in classifica. Ciascun erede dispone di 3,6 miliardi, che sarebbero comunque sufficienti a occupare il dodicesimo posto nel ranking, appena sopra i 3,3 miliardi di Francesco Gaetano Caltagirone.

Dopo i Del Vecchio, il secondo posto è occupato da Patrizio Bertelli e Miuccia Prada, a capo dell'omonima casa di moda il cui titolo scambia alla borsa di Hong Kong. Le consistenze azionarie dei due Paperoni del fashion ammontano a 11,5 miliardi. Per trovare i primi italiani con partecipazioni solo in Italia bisogna scendere al terzo gradino del podio, dove compaiono i Rocca, Gianfelice e Paolo, proprietari di Tenaris, che grazie alla corsa del greggio ha visto a Piazza Affari una rivalutazione del 50% dallo scoppio della guerra in Ucraina. La ricchezza azionaria dei fratelli Rocca è così balzata a 9,4 miliardi. Sorte analoga a quella dei Benetton in quarta piazza a 8,6 miliardi. Quinti gli Agnelli-Elkann con 8,4 miliardi. Dall'anno prossimo gli eredi di Gianni Agnelli rafforzeranno le fila dei Paperoni italiani con partecipazioni prevalenti nelle borse estere in virtù del trasloco di Exor alla Borsa di Amsterdam (le quotazioni sono iniziate ieri). In sesta posizione i Garavoglia, a capo della Campari (8,1 miliardi). Al settimo posto (in miglioramento di tre posizioni) Nicola e Paolo Bulgari, forti dei loro 7,6 miliardi provenienti dal colosso francese Lvmh, e all'ottavo Stefano Pessina, a capo della multinazionale americana della salute e del benessere Walgreens Boots Alliance, con 5,6 miliardi. Chiudono la top ten Gustavo Denegri di Diasorin (4,3 miliardi) alla nona posizione e alla decima Piero Ferrari (4,2 miliardi), ultimo erede della casa automobilistica di Maranello.

MF-Milano Finanza ha calcolato anche la ricchezza azionaria del Tesoro italiano e dei grandi investitori istituzionali esteri, nonché quella delle fondazioni bancarie. Lo Stato italiano, con 49 miliardi, resta di fatto il primo azionista di Piazza Affari, seppur in flessione dai 56 miliardi dello scorso anno. Interessante notare che le partecipazioni di Cassa Depositi e Prestiti hanno visto il loro valore aumentare da 27,8 a 28,2 miliardi, grazie soprattutto alle quote in Eni e Terna. Il ministero dell'Economia e delle Finanze (Mef) si è invece impoverito di oltre 7 miliardi, penalizzato dalla flessione borsistica di Enel e dal tonfo di Mps. Più forti invece i fondi esteri, la cui quota è salita per il secondo anno consecutivo, arrivando sopra i 45 miliardi. In testa c'è sempre Norges Bank, il fondo sovrano norvegese, forte di 149 partecipazioni che valgono oltre 8 miliardi.

PATRIMONI. Forbes, miliardari italiani crescono (con la pandemia): 13 nuovi ingressi. Da Elkann ai Della Valle, la lista completa. Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Gli italiani tra i più ricchi del mondo: 13 nuovi ingressi.

Nei 21 mesi di pandemia da Covid-19 - precisamente da marzo 2020 a novembre 2021 - sono stati ben 13 gli italiani «paperoni» (su un totale di 49) ad essere entrati nella lista Forbes degli uomini più ricchi del mondo, a fronte di oltre un milione di individui (400.000 famiglie) «sprofondati nella povertà». Secondo il report di Oxam, che già aveva rivelato come i dieci uomini più ricchi al mondo abbiano raddoppiato il loro patrimonio nel periodo di emergenza sanitaria, il valore aggregato dei patrimoni dei super-ricchi è cresciuto del 56%, toccando quota 185 miliardi di euro. L’organizzazione non governativa denuncia un divario sempre più ampio tra questi patrimoni e la popolazione povera, che infatti ha definito «DisuguItalia». I 40 miliardari italiani più ricchi - secondo quanto ricostruito da Forbes, la «Bibbia dei miliardari» - posseggono l’equivalente della ricchezza netta del 30% degli italiani più poveri (18 milioni di persone adulte).

Ecco la top 10 degli italiani più ricchi, secondo Forbes, e le 13 new entry del 2022.

Giovanni Ferrero (Nutella)

L’italiano più ricco in assoluto è Giovanni Ferrero, che dal 20211 è amministratore delegato dell’industria dolciaria di famiglia Ferrero, la casa della Nutella e di molti altri marchi di dolciumi nel mondo intero. Il patrimonio dell’erede e amministratore del gruppo piemontese di Alba (nato da una piccola pasticceria e dall’intuizione delle pasta di nocciole come succedaneo del cacao, che in tempi di guerra scarseggiava) è valutato da Forbes in 35,1 miliardi di dollari. Una fortuna che gli vale la 40 posizione nella classifica delle persone più ricche del pianeta.

Leonardo Del Vecchio (Luxottica)

Il secondo uomo più ricco in Italia e il 62esimo al mondo nella lista di Forbes è invece Leonardo Del Vecchio, fondatore e presidente di Luxottica, o meglio Essilux dopo la fusione coil gruppo francese Essilor, con una ricchezza che è cresciuta dai 16,1 nel 2020 ai 25,8 miliardi di dollari di adesso. Del Vecchio ormai da anni recita un ruolo importante nella finanza italiana, come dimostra il ruolo critico e attivo, nella gestione del gruppo delle Assicurazioni Generali, vicenda che tiene banco nelle settimane di inizio 2022.

Stefano Pessina (Walgreens Boots Alliance)

L’ultimo ad occupare il podio italiano è Stefano Pessina, presidente esecutivo della multinazionale delle farmacie Walgreens Boots Alliance. Con il suo patrimonio del valore di 9,5 miliardi di dollari in realtà è in calo nella classifica di Forbes: nel 2020 occupava il 133esimo posto (con 10,2 miliardi di dollari), mentre ora occupa il numero 234.

Massimiliana Landini Aleotti (Menarini)

Il quarto posto è occupato da una donna, la prima della classifica dei miliardari italiani: Massimiliana Landini Aleotti, proprietaria dell’azienda farmaceutica Menarini, è la donna più ricca del Paese. Con un patrimonio di 9,4 miliardi (in crescita rispetto ai 6,6 del 2020) è la 256esima persona più ricca al mondo.

Giorgio Armani

Dagli 8,9 miliardi del 2020, Giorgio Armani, stilista e fondatore dell’azienda di moda Armani, a fine 2021 è calato a una ricchezza di 7,7 miliardi dollari. La sua posizione è scesa dal quarto al quinto posto in Italia e alla 323 nel mondo.

Silvio Berlusconi

Sesta posizione per Silvio Berlusconi. La sua ricchezza raggiunge la cifra di 7,6 miliardi di dollari (incrementati dai 5,3 di due anni fa) gli fa guadagnare la posizione 327 nella classifica dei «paperoni» del mondo di Forbes.

Piero Ferrari (Ferrari e Ferretti)

Al settimo posto c’è Piero Ferrari (ha un patrimonio di 5,5 miliardi di dollari), figlio di Enzo e proprietario del 10,2% dell’azienda fondata dal padre nonché presidente della Ferretti, colosso degli yacht di super lusso. Occupa la posizione 705 tra gli uomini più ricchi al mondo secondo Forbes.

Gustavo Denegri (Diasorin)

Gustavo Denegri, presidente di DiaSorin, biotech che produce kit di reagenti molto utilizzati nei due anni della pandemia Covid, ha un patrimonio pari a 5,4 miliardi. È l’ottavo uomo in Italia e il 550esimo nel mondo tra i super-ricchi.

Luca Garavoglia (Campari)

Nono posto italiano per Luca Garavoglia, presidente di Campari, e il suo patrimonio da 5,2 miliardi di dollari. Forbes lo piazza alla posizione numero 680.

Augusto e Giorgio Perfetti (Golia)

A chiudere la top 10 ci sono Augusto e Giorgio Perfetti (con 5,1 miliardi di dollari), proprietari di Perfetti Van Melle, il gigante italo-olandese delle caramelle di marchi come Mentos, Chupa Chups e Golia.

Sergio Stevanato (Stevanato fiale di vetro)

Scopriamo, ora, i 13 nuovi nomi che sono entrati nella classifica Forbes. Fra questi Sergio Stevanato, presidente del gruppo Stevanato che è uno dei principali produttori mondiali di fiale di vetro per medicinali (anche e sopratutto quelle utilizzate per i vaccini, che negli ultimi due anni hanno chiaramente fatto registrare un boom di richieste): ha un patrimonio di 3,9 miliardi di dollari ed è il 16esimo italiano più ricco.

Alberto Bombassei (Brembo)

Nome del tutto nuovo nella lista Forbes anche quello di Alberto Bombassei, con 2,6 miliardi di ricchezza, fondatore e presidente dell’azienda Brembo S.p.a., società attiva nella progettazione e produzione di sistemi frenanti. Occupa la 22esima posizione tra più ricchi in Italia.

John Elkann (Stellantis e Exor)

John Elkann, l’erede dell’Avvocato Gianni Agnelli al timone della Fiat e della finanziaria della famiglia Agnelli (Exor) , occupa la 24esima posizione con 2,2 miliardi di dollari - ha inaugurato il 2021 con la nascita di Stellantis, frutto della fusione tra Fca e Peugeot. Il 2022, invece, lo inaugura con l’ingresso nella classifica dei «paperoni» di Forbes: Elkann rappresenta una new entry nella graduatoria dei miliardari del mondo edizione 2022.

Miuccia, Marina e Alberto Prada (Prada)

Al 26esimo posto si trovano i fratelli Prada, Marina e Alberto, dell’omonima casa di casa, con un patrimonio di 2,1 miliardi di dollari. La terza sorella, Miuccia Prada, si trova addirittura in 12esima posizione con 5 miliardi di patrimonio.

Giuliana e Marina Caprotti (Esselunga)

Con 1,6 miliardi sono entrate nella lista 2021 - alla 33esima e alla 34esima posizione - anche Giuliana e Marina Caprotti, moglie e figlia di Bernardo Caprotti, patron di Esselunga.

Barbara Benetton

A pari ricchezza e una posizione sotto alle «donne Esselunga» si trova un’altra quota rosa con Barbara Benetton (1,6 miliardi di dollari), figlia di Gilberto Benetton, fondatore dell’omonimo gruppo.

Antonio ed Emma Marcegaglia

Posizioni 40 e 41 per Antonio ed Emma Marcegaglia (1,3 miliardi), fratelli alla guida dell’azienda di famiglia Marcegaglia SpA.

Nerio Alessandri (Technogym)

Nerio Alessandri, presidente e fondatore di Technogym, è entrato in classifica su Forbes ed è 45esimo tra gli italiani. Il suo patrimonio è di 1,1 miliardi di dollari.

Enrico Preziosi (Giochi Preziosi)

A seguirlo c’è Enrico Preziosi (1 miliardo di dollari), presidente del Gruppo Giochi Preziosi e fresco venditore (a un fondo americano) del Genoa Football Club.

Simona Giorgetta (Mapei)

Simona Giorgetta, imprenditrice del settore chimico nell’azienda Mapei, entra alla 47esima, sempre con un miliardo.

Andrea e Diego Della Valle (Tod’s)

Andrea Della Valle (vice presidente di Tod’s) e Diego Della Valle (amministratore delegato di Tod’s) ricoprono il 48esimo e 37esimo posto della classifica rispettivamente con uno e con 1,6 miliardi di dollari di patrimonio. Sono gli ex proprietari della Fiorentina calcio, venduta all’italoamericano Rocco Commisso, altro nome noto nella classifica dei miliardari di Forbes: nell’ultima edizione dil proprietario dl gruppo di tv via cavo e ecommerce Mediacom ha fatto un gran balzo, visto che il patrimonio è passato da 4,5 miliardi di dollari a 7,2. Una ricchezza che gli vale la 352 esima posizione assoluta tra i miliardari del Pianeta.

PAPERONI. Da lady Amplifon alla vedova Doris: le nuove miliardarie di Italia secondo Forbes. Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 9 Aprile 2022.

La classifica di Forbes 2022

Tra i 2.668 super miliardari del mondo ci sono 52 italiani. È quanto riporta la classifica stilata da Forbes, la «bibbia» dei super ricchi, aggiornata al 2022. Le novità rispetto allo scorso anno sono diverse, prima fra tutte sicuramente Elon Musk - noto per essere fondatore e ceo di Tesla, ma che è tornato a far parlare di sé per la recente acquisizione del 9,2% di Twitter - che sale per la prima volta al primo posto dei «paperoni» superando il rivale fondatore di Amazon, Jeff Bezos, che scende in seconda posizione dopo quattro anni consecutivi sul primo gradino del podio.

Secondo Forbes, che ha aggiornato la classifica secondo i valori di Borsa del mese di marzo, Elon Musk possedeva un patrimonio netto di circa 219 miliardi di dollari: 68 miliardi di dollari in più rispetto allo scorso anno, anche grazie all’aumento del 33% del prezzo delle azioni della compagnia di auto elettriche Tesla.

Il podio degli italiani: Ferrero, Del Vecchio e Armani

Come anticipato, prima posizione tra i miliardari nazionali per Giovanni Ferrero, alla guida dell’omonimo impero di prodotti dolciari. Nella classifica globale occupa il 36esimo posto con un patrimonio netto di 36,2 miliardi di dollari: 1,1 in più rispetto a un anno fa e 2,9 in più di fine 2021. Anche lo scarto dal secondo posto italiano, occupato da Leonardo Del Vecchio, è diminuito da 10 a 8,9 miliardi. Tanto che, per alcuni giorni, alla fine del 2021, è stato anche la persona più ricca in Italia. La ricchezza del presidente di EssilorLuxottica è passata infatti da 25,1 a 27,3 miliardi e gli ha permesso di guadagnare la 52esima posizione nella classifica mondiale.

Nuovo sul podio, al terzo posto, è Giorgio Armani, che recupera due posizioni rispetto ad aprile e tre rispetto a dicembre 2021. La sua fortuna è pari a 7,8 miliardi di dollari.

La top 10 degli italiani: da Aleotti a De’ Longhi

Al quarto posto si trova Silvio Berlusconi, anche lui in risalita, con un patrimonio di 7,1 miliardi di dollari. Al quinto troviamo Massimiliana Landini Aleotti, la proprietaria dell’azienda farmaceutica Menarini, che si conferma la donna più ricca d’Italia nonostante la sua fortuna sia scesa da 9,1 a 5,4 miliardi di dollari nell’ultimo anno.

A seguire c’è Giuseppe De’ Longhi, presidente dell’omonimo gruppo degli elettrodomestici, con 4,4 miliardi. Al settimo posto Piero Ferrari, vicepresidente e proprietario del 10% della casa automobilistica fondata dal padre, con 4,2 miliardi. Ottavo posto, con 4,1 miliardi, per i fratelli Augusto e Giorgio Perfetti, proprietari dell’impresa italo-olandese delle caramelle, che comprende marchi come Mentos, Chupa Chups e Golia. A concludere la lista dei primi dieci ci sono Patrizio Bertelli e Miuccia Prada, nono e decima con 4 miliardi di dollari.

I sei nuovi ingressi: Susan Carol Holland (Amplifon)

Le new entry italiane nella classifica di Forbes sono ben sei. Alla posizione più alta tra le nuove, la 14esima, si trova Susan Carol Holland, presidente e figlia del fondatore di Amplifon, con un patrimonio di 3,8 miliardi, alla 778esima posizione del mondo. Holland è una donna d’affari italo-britannica, si è laureata in sociologia e psicologia dalla Keele University a Newcastle in Inghilterra, con diploma di specializzazione in Logopedia all’Università degli Studi di Milano. Dopo un’esperienza da logopedista all’Ospedale Policlinico di Milano, ha lavorato come assistente Marketing in Amplisystem, divisione Personal Computer di Amplifon dal 1983 al 1991. Dal 1988 ha iniziato a far parte del consiglio di amministrazione del gruppo, per assumerne poi la vicepresidente nel 1993 e, infine, la presidenza dal 2011.

Giuseppe Crippa (Technoprobe)

Sotto di quattro posizioni, alla 18esima, c'è Giuseppe Crippa: 86 anni, fondatore di Technoprobe, un’azienda leader nel settore dei semiconduttori e della microelettronica che di recente si è quotata da poco in Borsa. Il suo patrimonio ammonta a 3,2 miliardi di dollari.

Nel 1989, con l’aiuto del figlio Cristiano, ha avviato una piccola impresa di produzione di sonde destinate al mercato delle probe cards, le schede sonda utilizzate per il test dei chip (allora tecnologicamente molto acerbe e prodotte solo negli Stati Uniti). Ben presto l’attività si è intensificata e sei anni dopo è stata formalmente costituita l’azienda Technoprobe S.r.l. Il 15 febbraio scorso è sbarcata a Piazza Affari sull’Euronext Growth, la piattaforma di negoziazione di imprese competitive facendo subito boom: balzo del 12% al debutto, con una valutazione di 3,5 miliardi di euro.

Isabella Seragnoli (Coesia)

Al 21esimo posto, con 2,8 miliardi di dollari, c’è Isabella Seragnoli, a capo di Coesia, gruppo specializzato in prodotti industriali e di packaging con sede a Bologna. Fin da dopo la maturità è entrata a lavorare nel gruppo industriale di famiglia ma è nel 2002 che diventa presidentessa e unica azionista del gruppo, composto da 21 aziende, 83 impianti produttivi e 8.500 collaboratori e che ha raggiunto, nel 2020, un fatturato da 1,76 miliardi di euro.

Federico De Nora (Industrie De Nora)

Federico De Nora, di Industrie De Nora - multinazionale italiana che fornisce tecnologie sostenibili per processi industriali elettrochimici e per il trattamento delle acque - occupa la 24esima posizione con un patrimonio di 2,6 miliardi. La fortuna dell’azienda, negli ultimi anni, è stata puntare sull’idrogeno verde e a febbraio 2022 Industrie De Nora ha annunciato una Ipo da 5 miliardi di euro. Fondata nel 1923, la società è diventata leader nell’elettrochimica e nelle tecnologie sostenibili e ha un portafoglio di prodotti e sistemi per ottimizzare l’efficienza energetica di processi industriali e di soluzioni per il trattamento delle acque. Il gruppo, che ha oltre 1.600 dipendenti, 14 siti produttivi tra Italia, Germania, Stati Uniti, Brasile, Giappone, Cina e India e cinque centri di ricerca e sviluppo, ha chiuso il 2021 con ricavi totali per 616 milioni di euro.

Lina Tombolato (vedova di Ennio Doris)

Entra per la prima volta in classifica - al 45esimo posto - anche Lina Tombolato, vedova di Ennio Doris (fondatore di Mediolanum), scomparso lo scorso 24 novembre a 81 anni. I due si sono sposati nel 1966 e hanno avuto due figli, Massimo Antonio, amministratore delegato di Banca Mediolanum, e Annalisa Sara, presidente esecutivo della Fondazione Mediolanum Onlus e consigliere di Banca Mediolanum.

Stefania Triva (Copan)

Infine, un’altra new entry femminile: alla 52esima posizione si trova Stefania Triva, amministratrice delegata di Copan, l’azienda che ha prodotti i tamponi usati come test anti-Covid. Nel 2003 l’azienda ha inventato e immesso sul mercato i tamponi «floccati», tempestati di minuscole fibre sintetiche, che hanno il vantaggio di rilasciare l’80% del campione prelevato dalle narici dei soggetti per l’accertamento della presenza del virus, mentre i classici tamponi non floccati raccolgono e rilasciano solo il 20% del campione. Grazie a questa innovazione, Copan (fondata a Mantova nel 1979 dal padre di Stefania, Giorgio Triva) è stata protagonista negli anni e fondamentale per far fronte alle emergenze.

Marina Caprotti (Esselunga) e Simona Giorgetta (Mapei) le più giovani

Nel totale dei 52 “paperoni” italiani si contano 16 donne ed è tra loro che ci sono le due persone più giovane tra i ricchi del Paese. Marina Caprotti, figlia del fondatore di Esselunga, Bernardo Caprotti, ha un patrimonio di 1,5 miliardi di dollari. Simona Giorgetta, nipote del fondatore di Mapei, Giorgio Squinzi, e principale azionista della società, arriva invece a 1,3 miliardi. Entrambe hanno 44 anni.

La classifica completa

1) Giovanni Ferrero

Patrimonio: 36,2 miliardi 

2) Leonardo Del Vecchio e famiglia

Patrimonio: 27,3 miliardi 

3) Giorgio Armani

Patrimonio: 7,8 miliardi 

4) Silvio Berlusconi e famiglia

Patrimonio: 7,1 miliardi 

5) Massimiliana Landini Aleotti e famiglia

Patrimonio: 5,4 miliardi 

6) Giuseppe De’ Longhi e famiglia

Patrimonio: 4,4 miliardi 

7) Piero Ferrari

Patrimonio: 4,2 miliardi 

8) Augusto & Giorgio Perfetti

Patrimonio: 4,1 miliardi 

9) Patrizio Bertelli

Patrimonio: 4 miliardi 

10) Miuccia Prada

Patrimonio: 4 miliardi 

11) Francesco Gaetano Caltagirone

Patrimonio: 3,9 miliardi 

12) Paolo & Gianfelice Mario Rocca

Patrimonio: 3,9 miliardi 

13) Luca Garavoglia

Patrimonio: 3,8 miliardi 

14) Susan Carol Holland

Patrimonio: 3,8 miliardi 

15) Sergio Stevanato e famiglia

Patrimonio: 3,8 miliardi 

16) Gustavo Denegri

Patrimonio: 3,7 miliardi 

17) Renzo Rosso e famiglia

Patrimonio: 3,5 miliardi 

18) Giuseppe Crippa e famiglia

Patrimonio: 3,2 miliardi 

19) Alessandra Garavoglia

Patrimonio: 3,1 miliardi 

20) Remo Ruffini

Patrimonio: 3 miliardi 

21) Isabella Seràgnoli

Patrimonio: 2,8 miliardi 

22) Giuliana Benetton

Patrimonio: 2,7 miliardi 

23) Luciano Benetton

Patrimonio: 2,7 miliardi 

24) Federico De Nora

Patrimonio: 2,6 miliardi 

25) Alberto Bombassei

Patrimonio: 2,1 miliardi 

26) John Elkann

Patrimonio: 2,1 miliardi 

27) Brunello Cucinelli

Patrimonio: 2 miliardi 

28) Maria Franca Fissolo

Patrimonio: 2 miliardi 

29) Nicola Bulgari

Patrimonio: 1,9 miliardi 

30) Romano Minozzi

Patrimonio: 1,9 miliardi 

31) Mario Moretti Polegato

Patrimonio: 1,7 miliardi 

32) Alberto Prada

Patrimonio: 1,7 miliardi 

33) Marina Prada

Patrimonio: 1,7 miliardi 

34) Paolo Bulgari

Patrimonio: 1,5 miliardi 

35) Giuliana Caprotti

Patrimonio: 1,5 miliardi 

36) Marina Caprotti

Patrimonio: 1,5 miliardi 

37 ) Domenico Dolce

Patrimonio: 1,5 miliardi 

38) Stefano Gabbana

Patrimonio: 1,5 miliardi 

39) Manfredi Lefebvre d’Ovidio

Patrimonio: 1,5 miliardi 

40) Massimo Moratti

Patrimonio: 1,5 miliardi 

41) Nerio Alessandri

Patrimonio: 1,4 miliardi 

42) Sabrina Benetton

Patrimonio: 1,4 miliardi 

43) Diego Della Valle

Patrimonio: 1,4 miliardi 

44) Antonio Percassi

Patrimonio: 1,4 miliardi 

45) Lina Tombolato

Patrimonio: 1,4 miliardi 

46) Barbara Benetton

Patrimonio: 1,3 miliardi 

47) Simona Giorgetta

Patrimonio: 1,3 miliardi 

48) Marco Squinzi

Patrimonio: 1,3 miliardi 

49) Veronica Squinzi

Patrimonio: 1,3 miliardi 

50) Sandro Veronesi

Patrimonio: 1,3 miliardi 

51) Luigi Cremonini

Patrimonio: 1,2 miliardi 

52) Stefania Triva

Patrimonio: 1,2 miliardi

Giuseppe Vicenzi, il re dei biscotti compie 90 anni: «La svolta quando iniziammo a produrre amaretti». L’imprenditore dei Grisbì: «Ho sempre cercato le nicchie per diventare leader. Vado ancora in azienda tutti i giorni alle 8.30 e il sabato bevo un caffè con i manager». Lorenzo Fabiano su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.

«Qualche magagna ce l’ho, ma dentro sono rimasto giovane. Novant’anni sono un bel traguardo, difficile ripeterlo, cosa dice?». Se la ride al sole di Creta, Giuseppe Vicenzi, novant’anni lunedì, il re dei biscotti nominato un anno fa Cavaliere del Lavoro dal Presidente Mattarella.

L’hanno fatta Cavaliere: altro bel traguardo, Vicenzi…

«Significa che qualcosa di buono nella vita devo aver fatto».

In vacanza a Creta, scommetto che i savoiardi li conoscano bene anche lì.

«E da un pezzo ormai. Vengo qui da sette anni, si sta bene, il mare è tranquillo. C’è una bella giornata di sole, arieggiata; sarete mica stati voi del Corriere a chiederla al Padreterno per il mio compleanno..? (Ride, ndr)».

Non arriviamo a tanto. Ma una giornata di sole al mare della Grecia è davvero un bel regalo di compleanno. Ha festeggiato coi nipoti prima di partire?

«Sì, ci siamo riuniti, di nipoti ne ho otto, una squadra di basket praticamente (ride di nuovo, ndr). Quando sono andato al Quirinale a ricevere l’onorificenza di Cavaliere dal Presidente Mattarella, avevo un tutore al braccio. Ero caduto giocando a tennis con quello di 12 anni».

Intanto, un regalo lo ha fatto lei ai malati di Alzheimer.

«Portando a Verona le ultimissime tecnologie per la teleriabilitazione delle persone affette da demenza, Un vero e proprio polo scientifico neurologico donato alla Fondazione Pia Opera Ciccarelli. L’Alzheimer è forse la peggiore patologia in circolazione, per questo ho deciso di dare il mio contributo personale, sperando che possa fare la differenza per chi è agli stadi iniziali della malattia».

Riavvolgiamo il nastro e torniamo indietro di un bel po’: «Sito mato?» le dissero quando volle abbandonare i tradizionali frollini per produrre l’amaretto. Ci aveva visto giusto.

«Me lo disse mio fratello Mario. Un cliente di Bergamo pagava anticipato e aveva mandato un assegno da 300.000 lire, bei soldini allora: lo chiamai e gli dissi che glielo mandavo indietro perché non potevo spedirgli l’ordine: “Non faccio più frollini, ma solo amaretti” gli spiegai. Fu la svolta dell’azienda, ho sempre cercato le nicchie per diventarne leader. Specialità che riflettono gli insegnamenti di mio padre. Da piccolo mi metteva sul bancone a imparare quello che faceva lui».

E nonna Matilde?

«Decisa e determinata. Mio padre andava a comperare lo zucchero e i soldi li teneva lei. Significava ordine e volontà di fare le cose per bene».

Oggi cos’è il Gruppo Vicenzi?

«Una realtà da 370 dipendenti, con tre unità produttive: la sede di San Giovanni dove produciamo la linea classica; lo stabilimento di Bovolone, dedicato ai ripieni, e quello di Nusco, in provincia di Avellino, dove produciamo le merendine Mr.Day»

Mr.Day e Grisbì, i due marchi che nel 2005 acquisiste dal crack della Parmalat.

«Il Decreto Marzano imponeva a chi acquisiva aziende in fallimento o in chiusura, il mantenimento per due anni del numero dei dipendenti. Ci trovammo con 200 persone in più del necessario e le stipendiammo per due anni. Non era poco, mi creda».

La macchina per stendere la pasta sfoglia, andò invece a prenderla fino in Giappone.

«Sì, e quella per i savoiardi in Belgio. Ho sempre cercato il meglio della tecnologia per essere più competitivi su prodotti che gli altri ancora non facevano. Così sono diventato leader nelle nicchie».

Lei in azienda ci va ancora tutti i giorni, vero?

«Certo. Una volta andavo alle 8.30, magari adesso me la prendo un po’ più comoda. Vado anche il sabato mattina, così mi prendo un caffè coi manager. La mia vita è sempre stata l’azienda e lo è ancora».

Il futuro?

«C’è e ci sarà. Le mie figlie (Giuliana vicepresidente e direttrice commerciale export, Valeria e Beatrice nel Cda, ndr) sanno che quando ho le idee, decido di realizzarle».

Nomini Giuseppe Vicenzi e vedi un pallone da basket.

«A Verona c’è ancora chi mi ferma per strada per chiedermi della pallacanestro: “bei tempi presidente!” Mi dicono. Pensi che io di basket sapevo zero. Fu il notaio Marino a chiedermi dare una mano: “Sono bravi sti ragazzi, ma non hanno mezzi” mi disse. Avevano il marchio Vicenzi sulle maglie, “Mario, dobbiamo fare le cose per bene - dissi a mio fratello. Se Verona è andata in serie A col calcio, dobbiamo fare la stessa cosa col basket”. È andata bene, qualche soddisfazione ce la siamo tolta».

A chi è rimasto legato di quelle lunga avventura?

«Tanti giocatori erano di passaggio, andavano e venivano. Uno che ricordo sempre volentieri è Bonora, ma con grande piacere ricordo Zanon: veniva da Venezia in treno per gli allenamenti: il primo ad arrivare, l’ultimo ad andarsene. Erano gli anni della serie D, un grande professionista e un ragazzo serio. Andrea Fadini, col quale ho tuttora un ottimo rapporto, è invece l’uomo che ha portato progettualità e professionalità, ciò di cui avevamo bisogno per salire in serie A».

In serie A la Scaligera potrebbe tornarci quest’anno.

«Lo spero, perché Verona merita la serie A, è lì che deve stare».

Cavaliere, a Verona si vota il 12 giugno. Che città desidera per il futuro dei suoi nipoti?

«Una Verona con più ordine, pulita ed europea, come dev’essere una città a forte vocazione turistica. Spero che chi sarà sindaco, ne terrà conto. Perché Verona si deve presentare nel modo migliore».

Intanto si goda la sua vacanza.

«Grazie, adesso vado a farmi un bel bagno in mare, mi vien voglia di tuffarmi ma è meglio di no… (altra risata, ndr). Prima di salutarci, posso chiederle io una cosa?»

Prego.

«Lai ha figli?»

Uno.

«Ah bene. Gli faccia fare allora la prima colazione con un buon bicchiere di latte fresco e i savoiardi. È la miglior colazione del mondo».

Leonardo Del Vecchio. I segreti di Del Vecchio. Dall'infanzia ai Martinitt alle lenti con Zuckerberg. Tommaso Ebhardt il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.

La madre rimasta vedova non può seguirlo e lo affida all'istituto. Da qui parte la sua scalata.

È la Milano della gente che si sveglia molto presto perché le distanze sono infinite. Nel 1935 la più grande e avanzata città del Nord Italia conta oltre un milione di abitanti, circa il doppio rispetto a vent'anni prima. Per cercare un futuro migliore per la sua famiglia Leonardo Del Vecchio senior era partito dal profondo Sud con la moglie Grazia, antesignani di una tradizione destinata a durare nei decenni, quella dei fruttivendoli pugliesi a Milano. Nel 1930 sono oltre 45mila i pugliesi emigrati a Milano. I Del Vecchio si conoscono a Trani, mamma Grazia è di un paesone dell'entroterra. Si sposano in una delle cappelle della cattedrale della città, il gioiello del romanico che si affaccia sul porto, il mare azzurro di fronte, il tufo calcareo locale che la rende immacolata.

È il 1921, la guerra è finita da due anni. Leonardo ha combattuto nel primo conflitto mondiale, torna reduce. Salvo. Si innamora di una ragazzina di Spinazzola, Grazia ha vent'anni quando si sposa. Leonardo senior è del 1885, ne ha quindici di più. A Trani nascono i loro tre primi figli, due femmine e un maschio: Rita, Giuseppina e Michele. A quel punto decidono di partire per il Nord. Siamo nei primi anni Trenta, Milano promette lavoro e un futuro migliore. Papà Del Vecchio cerca un lavoro stabile, si ritrova a fare il venditore ambulante di frutta e verdura. Un prototipo d'attività imprenditoriale, la sua. «Ohi donne», gridavano i fruttivendoli che trascinavano il proprio carretto, ovviamente a braccia, per le vie di periferia. Il regolamento comunale prevedeva che si potessero fermare sul pubblico suolo per il tempo necessario alla vendita, poi dovevano subito spostarsi. Papà Del Vecchio è uno di questi, «un ortolano per conto proprio», si legge nei registri dell'orfanotrofio.

Leonardo viene concepito che i fratelli sono già grandi, Rita è sposata. Papà Del Vecchio gira per queste strade con il suo carretto di frutta e verdura. L'inverno del 1934 è freddo. Si becca una polmonite. Muore in poche ore, a 49 anni, l'11 novembre. Mamma Grazia ha in grembo il piccolo. Porta a termine la gravidanza da sola, il 22 maggio. Grazia lo chiama come il padre scomparso, rimarrà l'unico dei fratelli Del Vecchio nato al Nord, il solo che non conoscerà mai il papà. I figli da sfamare, una vita in salita per Grazia, costretta a trovarsi un lavoro da operaia dopo la morte del marito. Dal nipote del maresciallo Radetzky, Senatore Borletti, Grazia lavora tutta la giornata. Se aggiungiamo il lungo tragitto che la porta da casa sino alla fabbrica, esce alle prime luci dell'alba e torna che fa buio. Non c'è nessuno che può badare a Leonardo, un piccolo vivace che impara ben presto ad arrangiarsi da solo. La paura è che diventi un bimbo di strada in un quartiere già noto per essere uno di quelli problematici.

«Viene dall'ambiente delle case minime», si legge nel suo fascicolo dell'orfanotrofio. Una frase perentoria, che basta a giustificare la necessità di assistenza. Nelle case minime è tutto improntato alla logica del risparmio, compresi i materiali di costruzione. Finiture non esistono, fondamenta neanche. Eppure per i Del Vecchio trasferirsi in fondo a via delle Forze Armate è già un miglioramento rispetto alla casa di ringhiera dove stavano in centro, dietro corso Como. Almeno hanno un bagno, piccolo, in casa e non lo devono dividere con gli altri vicini in fondo al ballatoio. Leonardino passa la giornata in cortile, qualche vicina o le suore dell'asilo a dargli un occhio. C'è una sorta di assistenza diffusa, tutti si conoscono, nelle difficoltà ognuno cerca di portare un po' di solidarietà a chi ha ancora meno, come i Del Vecchio. «Le case minime eran belle perché c'era un cortile dove stavano tutti i bambini, era un bel casino», mi racconta. «Mia mamma, poverina, faceva l'operaia».

E poi scoppia la guerra. Ci mancavano anche le bombe, la chiamata alle armi e la città che diventa di colpo un bersaglio. L'ultimogenito di Grazia ha cinque anni quando inizia il secondo conflitto mondiale. La piccola vita di Leonardo diventa ancora più precaria. «Eravamo una famiglia molto povera, mia mamma vedova, io l'ultimo di quattro fratelli. E poi è arrivata la guerra», racconta in una rara intervista televisiva. Grazia è sempre più preoccupata, non sa che fine potrà fare il piccolo. Quando arriva a casa dalla fabbrica, le altre donne le raccontano le marachelle del suo piccolo, le liti con i bimbi, le zuffe in cortile. Nessuno si può prendere cura di lui. «Una volta, una signora, cattiva, che al pomeriggio voleva dormire, ha buttato l'acqua su tutta la scala per non farci correre su e giù», ricorda. Ovviamente la banda delle case minime lo fa lo stesso. Leonardo cade e si taglia il sopracciglio. Mamma Grazia arriva a casa e trova il piccolo ferito, lo porta a medicare all'ospedale militare lì accanto, dove gli mettono due punti. Si rende conto che non lo può lasciare così tutto il giorno. E, intanto, dal cielo piovono ordigni.

Nel 1942 Grazia si arrende. Capisce che non può fare altrimenti. La sorella racconta a Leonardo che sono proprio la sua estrema vivacità e il fatto che non avesse un parente in grado di accudirlo a spingere Grazia a bussare alle porte dell'orfanotrofio. «La mamma, poverina, a un certo punto ha detto: Cosa devo fare? Rientrava dal lavoro e sentiva cosa avevo combinato, così ha deciso di mettermi in collegio». Per Leonardo si apre l'immenso portone di via Pitteri. Esattamente dall'altra parte della città rispetto alla sua casa minima. A piedi ci vogliono quasi tre ore. Mamma Grazia non si può neanche assentare dal lavoro per salutare Leonardo e portarlo in collegio. A ricoverarlo è la signora Rivoli, che s'impegna al pagamento delle spese. A sette anni, in tempo di guerra, Leonardo lascia la famiglia e finisce in orfanotrofio. Un'esperienza che lo cambierà per sempre. «Sono cresciuto senza padre e in istituto. Crescere senza famiglia è qualcosa che non si può spiegare, se non lo si è vissuto. Ti segna», sono le poche parole che riesco a strappargli su quegli anni.

Quando Leonardo Del Vecchio 20enne fu a un passo dal fallimento. Poi ha conquistato il mondo. Ferruccio de Bortoli su Il Corriere della Sera il 13 maggio 2022.  

I documenti inediti sull’infanzia del fondatore di Luxottica, ex Martinitt, nella biografia curata da Tommaso Ebhardt : «Urge immediato ricovero. Vive nel più completo abbandono».  

Leonardo Del Vecchio, nato a Milano, 87 anni il prossimo 22 maggio.

C’è stato un momento nel quale Leonardo Del Vecchio stava per fallire. Siamo nel 1969. Se tutti i funzionari del credito si fossero comportati come lo sciagurato direttore della Banca del Friuli di Agordo — che negò un fido allo sconosciuto imprenditore degli occhiali — non saremmo qui a parlare di uno degli uomini più ricchi d’Italia, maggior azionista di Mediobanca oltre che di Generali. Per fortuna un finanziamento gli venne accordato dalla Cassa di Risparmio di Belluno. Non dall’istituto della valle che lui, negli anni, beneficerà di lavoro e reddito. Ma almeno dalla banca del capoluogo di provincia del distretto degli occhiali made in Italy, che lancerà in tutto il mondo. Con quel fido, Del Vecchio liquidò i suoi primi soci (della Metalflex) ma soprattutto riuscì a pagare regolarmente creditori e operai. Si salvò.

«Non siete falliti?»

Nel Bellunese era un immigrato alla rovescia. Veniva da Milano. Un «foresto». Erano sicuri che quel pur volenteroso terzista e fornitore di stampi non ce l’avrebbe fatta a competere con i rivali locali già affermati dell’occhialeria (Lozza, Marcolin, Safilo). Quando la piccola fabbrica riaprì ad Agordo dopo le ferie estive, il commercialista esterno che curava la contabilità lo accolse così. «Ma come, non vi avevano chiuso il conto? Non siete falliti?». «No, ragioniere, siamo ancora aperti», rispose orgoglioso il ventenne Del Vecchio. Mi è sempre rimasta la curiosità di sapere se Del Vecchio, applicando gli attuali sofisticati algoritmi che misurano il merito di credito, avrebbe superato l’esame. Per fortuna ebbe di fronte all’epoca, almeno in una banca, funzionari di buon senso che lo guardarono in faccia. E credettero in lui, nelle sue capacità, nel suo spirito di sacrificio, nella voglia di farcela contro ogni vento contrario. Temo che un algoritmo analogo non avrebbe finanziato, come per fortuna avvenne, nemmeno Enzo Ferrari. Che follia dare dei soldi a uno che voleva costruire auto da corsa mentre c’erano ancora le macerie della guerra!

Del Vecchio e Caltagirone

Nel leggere la bella biografia curata da Tommaso Ebhardt (Sperling&Kupfer), scritta con il passo avvincente di un romanzo e nello stesso tempo con la cura per il dettaglio del cronista, si coglie qualche semplice ma istruttiva verità. Non c’è limite al talento, d’accordo. Ma soprattutto sono imprevedibili gli orizzonti che l’umiltà e la fatica del lavoro possono dischiudere. Non arrendersi mai, non aspettarsi nulla dagli altri. Non si è mai soddisfatti, realizzati. Mentre il giovane Del Vecchio macinava chilometri sulla sua Fiat 1100, alleviando la fatica con la simpamina, i suoi concorrenti si ritenevano già realizzati costruendo la propria villetta a Jesolo. E cominciava il loro declino. L’ultraottantenne Del Vecchio resta inquieto. Tenta insieme a un altro self made man come Francesco Gaetano Caltagirone la scalata alle Generali. Respinti. Resta un mistero di come due imprenditori così diversi per carattere possano andare d’accordo. Insieme si apprestano a regolare i conti anche con il management di quella Mediobanca che si oppose al disegno del patron di Luxottica sull’Istituto europeo di oncologia (Ieo). Curioso che fu il no dell’istituto di piazzetta Cuccia a una sua donazione per la cura e la ricerca di 500 milioni di euro (avete letto bene) a scatenare la lotta fratricida della finanza italiana.

All’orfanotrofio dei Martinitt

Non solo a Belluno, ma anche a Milano, Leonardo Del Vecchio era, di fatto, un immigrato. Povero. La sua famiglia veniva dalla Puglia. Non conobbe il padre, venditore ambulante di frutta e verdura che morì prematuramente. Quando aveva sette anni, la madre Grazia non fu più in grado di badare ai suoi tre figli e fece domanda (siamo nel 1942) per l’ammissione di Leonardo, il più piccolo, all’orfanotrofio dei Martinitt, lo stesso frequentato da Edoardo Bianchi, il futuro re delle biciclette, e da Angelo Rizzoli. Nel suo fascicolo, finora inedito, si legge che «urge immediato ricovero perché viene dall’ambiente delle case minime e passa la giornata nel più completo abbandono». Il piccolo Leonardo passò da una modestissima casa di ringhiera della periferia milanese di Baggio alle austere camerate dell’istituto. La divisa, la sveglia alle sei, la fila per lavarsi, a petto nudo, anche d’inverno. Quando nel 1949 chiede di lasciare in anticipo l’istituto spiega che vuole diventare «un ottimo meccanico specializzato». «È stata la mia fortuna — confida a Ebhardt — perché il collegio è diventato la mia famiglia. Stavo bene, mi hanno insegnato delle regole».

Il derby con la Safilo

Regole trasformatesi in abitudini, come quella di andare in fabbrica anche prima dell’alba. Accompagnato da Luigi Francavilla, suo alter ego, di origini pugliesi anche lui, ormai agordino stabile. Un altro immigrato alla rovescia che lascia la Svizzera, terra di fluviale e disperata emigrazione della gente dolomitica, per stabilirsi in valli di rara bellezza ma anche di secolare povertà. Oggi purtroppo spopolate. Nessuno dei due parla inglese, ma sanno conquistare il mondo. Scelgono bene i loro collaboratori. «Ho la fortuna di aver trovato — dice Del Vecchio — persone che avevano la mia stessa volontà». Un giorno chiamano da New York. Hanno ricevuto cinquemila paia di occhiali con i naselli montati alla rovescia. Un disastro. Da Agordo partono subito. Arrivano di corsa e, in una notte, mettono a posto i naselli. I clienti si conquistano così. Le parole non contano. Forse un episodio come questo dice più delle tante conquiste che hanno segnato l’internazionalizzazione di Luxottica, in particolare l’acquisto della società che produce i mitici Ray-Ban. Un derby tutto italiano, bellunese, con l’altro contendente, la Safilo di Vittorio Tabacchi, un grande del settore. Vince Del Vecchio e i due non si parleranno per anni. Come si litiga in Veneto non si litiga da nessun’altra parte. Luxottica è quotata prima a New York che a Milano.

La crescita inarrestabile

Quando gli italiani scoprono che Del Vecchio è il primo contribuente d’Italia, la sua popolarità esplode. Paolo Frajese lo intervista per la Rai ma lo chiama sempre Lorenzo. La crescita è inarrestabile, le acquisizioni sono numerose — tra cui Persol — e i contratti con gli stilisti un decisivo fattore di successo. Si allea con Armani che poi lo lascerà per Safilo. Ma i due si ritroveranno. Non solo per gli affari ma anche per iniziative di solidarietà. L’ultima grande operazione, con Essilor, che produce lenti, completa il sogno di un’integrazione verticale. Sembra, inizialmente una cessione. Anche perché Essilor-Luxottica è quotata e ha sede a Parigi. Ma la Delfin, la finanziaria lussemburghese di famiglia, è il primo azionista. E Francesco Milleri, il suo braccio destro, ne diventerà in seguito l’amministratore delegato. Tre mogli, l’attuale sposata due volte, sei figli. Una vita sentimentale altrettanto inquieta. Il rimpianto di non aver dedicato alla famiglia maggior tempo. Quando decise di farlo — all’epoca in cui assunse dalla Indesit Andrea Guerra — se ne pentì presto. Tornò al timone. Il valore di Borsa, da allora è triplicato. La sua fortuna personale è di circa 30 miliardi. Dell’imprenditoria italiana dice che spesso si «ferma spesso al primo successo e smette di innovare». E che lui «ha sempre cercato di migliorare», ogni volta pensando al passo successivo. Il suo segreto? Semplice «Io voglio essere il più bravo in tutto quello che faccio. Tutto qui».

Alessandro Benetton: il padre, i figli, le aziende. «Un errore i silenzi sul ponte di Genova». Daniele Manca su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.  

Il manager si racconta a 7 e fa un bilancio dei suoi 58 anni: «Confesso che ho detto no... A mio padre, alla famiglia, alla scelta di restare in silenzio dopo la tragedia del crollo del Morandi». No che adesso spiega in un libro.

Alessandro Benetton, nato a Treviso nel 1964, ha fondato 21 Invest ed è presidente di Edizione. Mondadori pubblica ora la sua autobiografia ‘La traiettoria’.

Nascere con un cognome così...

«La fermo subito. Sì, è una fortuna. Ma non per quello che comunemente e anche giustamente si può pensare. Grazie a una famiglia fatta di persone di poche parole ma gran lavoratrici, è stato creato qualcosa di unico. Ma la mia vera fortuna è avere avuto la forza di dire tanti no. “No” a mio padre, “no” a mio zio e a miei zii, “no” alla famiglia, “no” ai manager. Tutti quei “no” necessari a cercare e costruire la mia strada. I “no” alle scelte facili, anzi, forse persino con troppa testardaggine, il voler fare qualcosa di mio. E chissà se proprio grazie a quei “no”, oggi mi ritrovo qui».

«DOPO IL CROLLO DEL PONTE AVREMMO DOVUTO SUBITO CHIEDERE SCUSA. STRAPARLARE O TACERE È SBAGLIATO IN UGUALE MISURA»

Alessandro Benetton abbassa la voce. Sembra pensare alle parole appena pronunciate. Pare di vederlo, il “giovane” della dinastia trevigiana, che si defila da quello che era un gruppo con 7 mila negozi nel mondo, sparsi in ogni angolo della terra, da Teheran a Pechino passando per Mumbay e Buenos Aires. Un gruppo diventato poi un impero con dentro tante altre attività. Anche qui, forse troppe? Quei “no” nonostante i successi, persino in Formula 1, scoprendo un signore che ancora oggi è nel cuore dei tifosi, Michael Schumacher. E che ha spinto Flavio Briatore a dire di lui: «Alessandro è uno di quelli che ce l’hanno fatta “nonostante” la famiglia». Ma anche i “no” a come è stata affrontata una tragedia — quella del crollo del Ponte Morandi, a Genova — che ha fatto anch’essa il giro del mondo. Era il 2018: giorni d’agosto di dolore, strazio per le famiglie delle 43 vittime. Alessandro Benetton non avrebbe voluto quei silenzi nei giorni di pioggia della tragedia, dice. E scrive. Sì, scrive in un libro. Che è la sua storia.

Alessandro Benetton in un momento di pausa dal lavoro. Benetton è allenatore federale della Federazione sport invernali, appassionato di surf, kitesurf e tennis 

I punti de La traiettoria (così si intitola, in uscita il 10 maggio per Mondadori), della costruzione di un uomo, di una persona. Non di un gruppo, tantomeno di un’azienda. Anzi, la battaglia continua per farsi la sua storia. Anche se è alle prese con un’Opa, quella su Atlantia, che potrebbe essere la maggiore operazione finanziaria d’Italia.

Lo vede? Per quanto ci giri attorno il cognome conta...

«Si, conta. Conta come quel ceffone di mia mamma che a sette anni, ero in seconda elementare, mi becco con la frase che mi accompagnerà per la vita: “Che figura fai fare alla famiglia?”».

«ERAVAMO RICCHI, MA IO DI SOLDI IN TASCA NON NE AVEVO. E, A VOLTE, NELLA CARTELLA NON C’ERA LA MERENDINA, COME PER I MIEI COMPAGNI»

Alessandro Benetton con Debora Compagnoni: sposati nel 2008, si sono lasciati 13 anni dopo 

Cosa aveva combinato?

«Come scrivo nel libro, nella mia scuola figli di contadini e impiegati, operai e primi imprenditori, spartivano aula e banco. Tanto per dire, la maestra Rosa, intelligente quanto magnanima, se ne poteva uscire con frasi del tipo: “Non dovete vergognarvi di non essere ricchi”».

Sì, ma il ceffone?

«Io sentivo dilagare in me la vergogna di esserlo, ricco. Perlomeno diverso. Anche perché mio padre, il “Signor Luciano”, aveva perso suo papà a dieci anni e si era dovuto rimboccare le maniche e anche se avevamo una casa costruita per noi, l’etica del lavoro era tutto. Mia mamma, figlia di un militare, aveva il senso del pudore. Insomma eravamo ricchi, ma io di soldi in tasca non ne avevo. E a volte, nella cartella non c’era la merendina, come avevano tutti i miei compagni».

E allora?

«Allora, grazie a un certo spirito di iniziativa, tentavo ogni tanto di farmene dare un po’ dai miei compagni. Ma la maestra se ne era accorta e aveva chiamato mia mamma. Risultato: un bel ceffone. E non fu nemmeno l’unico, le assicuro».

Alessandro Benetton (al centro) con la sorella Rossella, il fratello Mauro e la madre Maria Teresa Maestri 

D’accordo l’etica ma qualche vantaggio...

«So benissimo di essere partito da una posizione di privilegio e di avere avuto opportunità incredibili, ma so anche che la mia vita - come quella di tutti - non è stata una passeggiata. È stata una maestra. Mi ha insegnato che ognuno di noi è ciò che fa quando gli capita quello che non si aspetta. Che, spesso, per capire chi si è bisogna scegliere la strada più scomoda, la meno battuta, la meno scontata. Che per pensare in grande è necessario esporsi, rischiare, uscire dalla propria zona di comfort: dalla rassicurante familiarità di ciò che già conosciamo».

Ma ci voleva proprio un libro?

«È stata in verità una gestazione un po’ lunga, durata qualche anno... Ho cominciato a pensarci in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Una delle poche occasioni in cui, invitando i tanti amici e compagni di scuola del passato, ho guardato indietro invece che avanti. In quel momento mi sono tornati tra le mani alcuni temi che avevo scritto a scuola a 10 anni, li leggevo e rileggevo, li trovavo attuali e mi ci rispecchiavo».

Un libro che è la vita di un uomo che senza reticenze scorre con gli inciampi, le risate, i dolori...

«Ho pensato soprattutto ai giovani con cui in questi ultimi anni ho iniziato un intenso dialogo sui social: mi sono reso conto che raccontare la mia vita e le mie esperienze era d’aiuto a molti che mi chiedevano di saperne sempre di più. E ad un certo punto ho immaginato potesse essere utile anche per gli altri».

Ma quindi bisogna essere sempre in dissenso e avere battute d’arresto?

«Non ho intenti rivoluzionari nel parlare di “infrangere le regole”, parlo della capacità di ritagliarsi i propri spazi con convinzione, anche quando ciò significa avere un’idea diversa dalle persone che ti circondano, in particolare quando significa dissentire dalle tue figure guida. È un processo formativo importantissimo».

Alessandro Benetton giovanissimo, con il padre Luciano, oggi 86enne 

Il ”Signor Luciano”... perché lo chiama così?

«Mio padre è un visionario: negli anni 60 ha rivoluzionato il mercato dell’abbigliamento. Prima di lui le cose si facevano in un modo, dopo si facevano in modo diverso. In questo libro ho cercato di ricordare e trasmettere le sensazioni che provavo da ragazzo, crescendo, in tutte le situazioni che vivevo. E mio padre, per un lungo periodo, non è stato solo un padre, ma anche “il Signor Luciano”, appunto. Così lo sentivo chiamare intorno a me, e il Signor Luciano ha sempre rappresentato quel lato di mio padre che metteva il lavoro davanti a tutto, a volte anche davanti al suo essere padre. O almeno questa era la mia percezione ai tempi. La sfera affettiva ha sempre dovuto per forza di cose convivere con quella pubblica dovuta alla sua posizione e a quella della mia famiglia, e ai tempi non è sempre stato facile rapportarsi a questa dimensione così particolare».

«PER MIO PADRE ERA PIÙ IMPORTANTE FORTIFICARCI, DARCI UN’ETICA. LA NOTTE IN CUI L’UOMO ARRIVÒ SULLA LUNA CI VOLLE ACCANTO A SÉ»

Però una notte vi sveglia addirittura.

«Sì, dormivamo e sentiamo papà che ci chiama. Era il 20 luglio 1969. Scendiamo e ci fa cenno di sederci sul divano con lui. L’uomo stava atterrando sulla Luna. Ci dice “è un fatto storico”».

E vuole dividerlo con voi, con nessun altro. La sua severità, che nel libro è evidente, sembra quasi figlia del voler trasmettervi principi, valori. In fondo avrebbe potuto “comprarvi” con un motorino, con più soldi per divertirvi...

«Per lui era più importante fortificarci, renderci più solidi, darci un’etica. E poi, ripeto, quando si è grandi ci si dimentica di come si ragionava da piccoli... Quello che è stato costruito è sotto gli occhi di tutti, uno dei più grandi miracoli italiani».

Del resto suo padre fa parte di una generazione abituata a parlare molto poco, soprattutto con i figli. C’era un Paese da ricostruire.

«Mio padre mi ha insegnato moltissimo, d’altronde, uno dei suoi mantra è sempre stato “impara a percorrere la tua strada da solo”, e così ho voluto fare. Non mi ha mai fatto nessuno sconto e mi ha insegnato che bisogna arrangiarsi nella vita. Non posso perciò che essergli grato, soprattutto oggi da padre riconosco che alcune volte bisogna correre il rischio di non essere troppo protettivi e di orientare i propri figli verso il futuro, la sfida e le scelte coraggiose. Come quando mi arriva la lettera del ministero dell’Economia».

Che lettera dal ministero dell’Economia?

«Un giorno, più di 10 anni, fa mi arriva una lettera del ministero dell’Economia. Mi proponevano la nomina a Cavaliere del Lavoro. Abituato ed educato a essere severo con me stesso, penso di non avere fatto ancora abbastanza per accettare. La mia creatura, la 21 Invest, è già bella grande, tante aziende, tanti dipendenti, ma mi sembrava ancora troppo poco».

Alessandro Benetton nel 2010, mentre riceve la nomina a Cavaliere del Lavoro dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano 

Ma poi al Quirinale, Napolitano le appunta la decorazione, a 46 anni...

«Eh sì. Non era possibile rifiutare. D’accordo che voglio arrivare sempre più in là, ma anche la falsa umiltà non mi piace. Qualcosa di buono l’avevo fatto. E quando stringo la mano al Presidente mi volto e vedo i miei e mia madre: chi l’avrebbe detto, mamma? Pensa alle volte che hai dovuto recuperarmi nelle sale del biliardo».

È la mamma dei ceffoni...

«In maniera diversa, entrambi i miei genitori hanno posto sul mio cammino dei paletti con cui ho imparato a disegnare traiettorie. Ha anche lei luminosissime contraddizioni. Pensi, è una pilota spericolata. Con la sua Due Cavalli ci accompagnava a scuola a tutta velocità. A 81 anni caricherà i miei tre figli a Treviso per portarli in Toscana, beccandosi una multa per eccesso di velocità. Del resto avrei dovuto capirlo quando, entrando in un concessionario, le chiesero che tipo di auto volesse rispose: “Veloce e che sorpassi in fretta...”. Ma quella carezza sul mio capo quando sono stato bocciato me la ricordo ancora».

«AL LICEO FUI BOCCIATO: ERO UN ADOLESCENTE RIBELLE, POMERIGGI PASSATI A TRUCCARE I MOTORINI, LA SCOPERTA DELLE SALE DA BILIARDO...»

Bocciatura?

«Sì c’è stato anche questo nella mia vita. In seconda liceo. Ero un adolescente un po’ ribelle, in fondo, come molti, cercavo di capire chi fossi senza seguire le regole dettate da altri. Pomeriggi passati a truccare e a far impennare i motorini, la scoperta delle sale da biliardo... Ammetto che i rudimenti della leadership e dei processi di valutazione del rischio non li ho appresi sui banchi ma li ho coltivati stando all’aperto, e che devo molti dei trucchi che tuttora serbo nella mia cassetta degli attrezzi di comunicazione e marketing ai giovanili tentativi di conquistare le ragazze omettendo dalla conversazione il mio cognome e cavandomela per strada».

Alessandro Benetton con Michael Schumacher nel 1994, anno della vittoria al Mondiale di Formula 1 con la Benetton 

Ma adesso ha tre figli: Agnese, Tobias e Luce. E hanno deciso di vivere con lei. Sta impartendo la stessa rigida educazione ai suoi figli?

«Ho instaurato con i figli un rapporto diverso rispetto a quello dei miei genitori, con un dialogo più parallelo e meno verticale. Penso che l’autorevolezza si raggiunga anche e soprattutto attraverso l’empatia. Condivido con loro viaggi, percorso di studi, prime esperienze lavorative, visite culturali. Li invito a farsi domande e ad allargare sempre lo sguardo, facendo cogliere le caratteristiche e le inclinazioni di ciascuno, evitando di imporre una direzione, una traiettoria appunto, ma spingendoli a cercare la loro».

Funziona?

«Non lo so, dovreste chiederlo a loro! Sicuramente stare sui social e aprirmi alle curiosità del mondo dei giovani mi è stato d’aiuto».

Villa Minelli, la grande famiglia... Emerge l’orgoglio di chi racconta dal di dentro la storia di un brand divenuto famoso in tutto il mondo con il desiderio però di affrancarsene...

«Non mi sono mai vergognato del mio cognome, anzi, è proprio il contrario. Ma ciò che mio padre (insieme al resto della famiglia) ha realizzato rischiava di farmi vivere come all’ombra di un gigante, e per uscire da quell’ombra ho dovuto (ho voluto) camminare tanto, trovando la mia traiettoria».

Decide così di dar vita ad una sua attività in proprio, 21 Invest...

«In particolare negli incontri dal vivo, i giovani mi chiedono spesso di raccontare come ho affrontato le singole sfide imprenditoriali, di come ho scelto le aziende su cui investire, cosa abbiamo fatto per rilanciarle, quali tecniche abbiamo usato... è per questo che riporto nei dettagli di Trudi e del tentativo abortito di Sei Milano, del cambio di paradigma con The Space Cinema e di Forno d’Asolo, di Farnese Vini...21 è la creatura a cui ho dedicato 30 anni della mia vita».

E il curriculum cresce ...

«Ma vede, dietro ad un imprenditore non c’è solo curriculum, c’è una persona e dietro una persona ci sono tante cose, tante caratteristiche dettate anche dalle emozioni. In un curriculum non c’è scritto quando una persona ha imparato a risollevarsi dai “momenti no”. Soprattutto professionali».

Ma anche le relazioni sentimentali...

«Anche quelle hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita. Con la voglia sempre di non farsi schiacciare dai “non detti”».

Carolyn Bessette, già compagna di Alessandro Benetton, sposò poi John Fitzgerald Kenndy Jr.: è morta con lui in un incidente aereo nel 1999 

Le riuscirà con la sua ragazza, che stava a Treviso mentre lei studiava a Boston, ma non con quella che rimane una delle persone a cui sembra essere più legato: Carolyn Bessette.

«Io e Carolyn non ci siamo concessi quel momento. Sgranare uno dopo l’altro i grumi che avevamo dentro. Non la incontrerò mai più. Morirà nel 1999 in un incidente aereo assieme al marito John Fitzgerald Kenndy Jr: andavano a un matrimonio a Martha’s Vineyard ed era lui a pilotare il Piper precipitato nell’Atlantico. Era capace di riattivare e stimolare ogni Alessandro che dimora dento di me: il ragazzo sportivo che fa scorribande, il giovane uomo con la ventiquattrore, il laureando di Harvard...».

Un Alessandro che davanti alla vicenda di Genova, al crollo del Ponte Morandi, ha un atteggiamento preciso.

«È una vicenda che peserà per sempre sulla mia famiglia e non smetterò mai di rinnovare la mia vicinanza alle famiglie delle vittime. Come ho già detto nel video di gennaio, avremmo dovuto subito chiedere scusa, a prescindere dal fatto che Edizione deteneva poco più del 30% di Atlantia nel cui consiglio, composto in maggioranza da amministratori indipendenti, sedeva un solo Benetton. In quelle ore a chi mi chiedeva pareri rispondevo con una sola parola: trasparenza. Straparlare o tacere sarebbe sbagliato in egual misura. Dobbiamo parlare: la parola è un atto volontario di apertura, disponibilità, umiltà».

Chissà se anche per questo oggi lei si ritrova alla presidenza di Edizione. Forse un libro serve anche a questo.

«No, guardi, ho iniziato a scrivere questo libro quando la presidenza di Edizione non era minimamente nei miei progetti, anzi. Le bozze sono state chiuse molto prima. Anche questo dimostra che la vita può prendere traiettorie inaspettate. Assieme ai miei cugini abbiamo accettato la sfida consapevoli di condividere una visione di discontinuità e sostenibilità. Si è trattato di ritrovarsi sui valori dei nostri padri che hanno fondato quello che oggi dobbiamo fortificare e far vivere nel tempo».

Sebastiano Venier per tag43.it il 14 ottobre 2022.

Nell’impero Benetton la transizione verso la seconda generazione è cosa fatta. Almeno a parole. Nei mesi scorsi i quattro rami della famiglia di Ponzano hanno condiviso la necessità di una maggiore compattezza, con l’obiettivo di non disperdere l’enorme patrimonio che sta sotto all’universo di Edizione Holding, la cassaforte di famiglia con asset per oltre 12 miliardi. 

Alessandro Benetton numero uno operativo con il ceo Enrico Laghi

Come si sa Alessandro Benetton è diventato il numero uno operativo con deleghe precise che definiscono la parte più strategica della holding. Questo vuol dire che le mosse di Edizione, dagli investimenti nelle controllate fino alla diversificazione, sono studiate da lui e dal ceo Enrico Laghi.

Al numero uno compete anche la convocazione delle riunioni del board, l’oggetto delle delibere e l’intera area della comunicazione. Infine, d’intesa con l’amministratore delegato, cura i rapporti con gli organi istituzionali e le autorità di vigilanza. Quanto alle deleghe esclusive affidate a Laghi, come capoazienda ha ampi margini di manovra sugli investimenti o sulle vendite di partecipazioni, oltre a curare i rapporti con istituti di credito. 

Ma le strategie di lungo periodo di Edizione devono essere decise insieme dalla coppia presidente-ceo. Una questione non banale considerando che i quattro fratelli fondatori del gruppo, ovvero Luciano, Giuliana e gli scomparsi Gilberto e Carlo contano in tutto 14 eredi. I quattro rami della famiglia Benetton sono i proprietari della holding con una quota paritaria (25 per cento), utilizzando le seguenti casseforti: Evoluzione, Proposta, Regia e Ricerca.

Il consiglio di Edizione è composto nove consiglieri: Alessandro Benetton (presidente), Carlo Bertagnin Benetton, Christian Benetton ed Ermanno Boffa (marito di Sabrina Benetton), l’amministratore delegato Enrico Laghi, Irene Boni e Francesca Cornelli (indipendenti) mentre sono stati confermati Claudio De Conto e Vittorio Pignatti-Morano Campori. 

Screzi in famiglia per la scissione di Edizione Property

Tutto bene quindi. Non del tutto, perché sono cominciati ad affiorare i primi screzi in famiglia. Già il prezzo di vendita di Autogrill ha sollevato qualche perplessità. Nelle ultime settimane poi la cassaforte di Ponzano Veneto è al lavoro sulla scissione di Edizione Property.

In estate era stata esplorata la vendita in blocco. E Citibank aveva ricevuto un mandato per una specie di asta. Un’operazione rilevante. Il patrimonio immobiliare ha una valutazione di mercato, secondo le indicazioni dell’ultimo bilancio di Edizione, di oltre due miliardi di euro. L’esplorazione della banca d’affari americana aveva attratto l’interesse di diversi soggetti internazionali.

Ma le offerte non avevano soddisfatto tutti i componenti della famiglia. In particolare, gli eredi di Carlo e Gilberto avrebbero espresso qualche perplessità. E così il vasto patrimonio immobiliare potrebbe essere suddiviso tra i quattro rami della famiglia. Restano ovviamente esclusi i negozi della rete United Colors, il cuore immobiliare dei maglioni colorati. Al 31 dicembre 2021, il patrimonio di Edizione Property è costituito da circa 100 immobili, dei quali 58 in Italia, distribuiti in 13 Paesi del mondo. 

La società possiede svariati immobili di prestigio, tra i quali il Fondaco dei Tedeschi, l’isolato del Ridotto dove la società possiede spazi retail, l’hotel Monaco e Grand Canal a Venezia, un palazzo a Place de l’Opéra a Parigi e uno in piazza Augusto Imperatore a Roma, mentre a Firenze è della famiglia il palazzo della Borsa delle merci. Un primo segnale che in prospettiva l’impero Benetton potrebbe dividersi in quattro e Alessandro di essere il momentaneo signore del Trono di spade.

Jeff Bezos. Minimum tax? Ecco perché Jeff Bezos è meglio dei ladroni di Stato. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 20 giugno 2022.

Non c'è dubbio che il veto ungherese alla minimum tax abbia natura puramente ricattatoria: vogliono i quattrini europei, e finché non li ottengono remano contro tutto. Altro, dunque, che le ragioni ideali (che ci sono) poste alla base dell'impostazione minoritaria che vede in quella direttiva di tassazione un altro esempio dell'approccio dirigista e di pianificazione che ormai costituisce il tratto distintivo delle politiche comunitarie. Ma qui da noi la faccenda ha adunato gli eserciti statal-progressisti nella condanna dei servi delle multinazionali che affamano le masse popolari.

Vedi il ministro Orlando, burocrate del Pci già a vent' anni, che l'altro giorno se ne vien fuori così: «Populisti e xenofobi, falsi amici del popolo, veri amici delle multinazionali». Può essere inconcepibile per un comunista che non ha mai visto un'azienda in vita sua, e può suonar strano in un Paese mezzo-socialista come il nostro, ma le pubbliche economie sono devastate assai meno dalle famigerate multinazionali che dai ladroni di Stato e dagli Stati ladroni, gli uni e gli altri ottimamente rappresentati da chi concepisce il potere pubblico come una greppia provvidenziale da tener su con il lavoro altrui.

Il fatto che l'odiata multinazionale si faccia indubbiamente gli affaracci propri, ma altrettanto indubbiamente senza ficcarci le mani in tasca, e il fatto che le nostre tasse non finiscano nel portafogli di Bezos o Cook, ma negli ospedali popolati di pantegane o nelle scuole modello congolese, sono dettagli che sfuggono ai difensori del popolo e degli operai con gli stipendi più bassi d'Europa grazie a mezzo secolo di retorica operaista. Pagano poche tasse, le multinazionali? Può darsi. Ma i soldi che non versano sono assai meno di quelli rubati dallo Stato. 

Irene Soave per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2022.

Volare nello spazio come in vacanza, creare e abitare mondi paralleli come Zuckerberg con il suo «metaverso», comperarsi la giovinezza eterna e l'eterna salute. I grandi miliardari, dopo averne messo a reddito quasi ogni caratteristica, sembrano voler scavalcare la condizione umana. 

L'ultima sfida viene da Jeff Bezos ed è quella dell'eterna giovinezza. Fondatore e presidente di Amazon, è il secondo uomo più ricco del mondo, il primo centimiliardario - parola coniata in suo onore - mai entrato in una classifica di Forbes e anche il primo a volare in orbita (mentre il rivale Elon Musk, a sua volta fondatore di una compagnia spaziale e primo uomo più ricco del mondo, se n'è finora guardato, forse intendendo anche lui allungarsi la vita, o almeno non accorciarla).

Ieri Bezos ha annunciato un «salto di qualità» nella gestione della sua startup Altos Labs, che si occupa di «lotta contro l'invecchiamento» e «rigenerazione cellulare». Altos appartiene a Bezos da settembre, ma ieri lui ha annunciato di avere reclutato come direttore esecutivo l'ex supermanager farmaceutico Hal Barron, 59 anni, finora in forze alla multinazionale britannica GlaxoSmithKline. Già questa mossa, da sola, sarebbe un segnale; ma è stata accompagnata, così l'annuncio di ieri, anche dall'investimento di tre miliardi di dollari nei prossimi piani di ricerca e sviluppo. 

Che si concentreranno soprattutto sulla «riprogrammazione cellulare», tecnica già usata in laboratorio finora solo su cellule singole, che effettivamente «ringiovanisce»: per alcuni studiosi qui sta la chiave del vero possibile prolungamento della speranza di vita attraverso la sconfitta di mali correlati all'invecchiamento, come i tumori. 

«Vivere più a lungo in un corpo che però è al suo meglio», come nel patto con Mefistofele a cui Faust cede l'anima in cambio della durata eterna di un attimo di perfetto piacere: questo è lo scopo di Altos, fondata da Bezos con altri miliardari come il russo Yuri Milner, e con l'ex dirigente dell'istituto oncologico nazionale degli Stati Uniti Richard Klausner, che sarà a capo del comitato scientifico. Da settembre Altos sta conducendo una campagna di reclutamenti tra gli accademici più stimati, a cui offre - così il «Times» - «stipendi da calciatori». Tra loro c'è il biologo Juan Carlos Izpisua Belmonte, che di recente ha predetto che la vita possa essere allungata di «almeno cinquant' anni»; e il Nobel per la Medicina Shinya Yamanaka, luminare delle staminali (che ha rinunciato al suo compenso).

Nomi di garanzia che servono anche a tranquillizzare i molti critici di Bezos, che vedono in questo investimento sulla «vita eterna» una deriva distopica simile a quella rappresentata, nel film più visto di queste settimane che è Don't Look Up , dal perfido miliardario che boicotta i piani per salvare la terra da una cometa assassina, ma intanto promette ai più ricchi una «seconda vita» in criocapsule spaziali. Proprio come un lusso da ricchi occidentali, la cui speranza di vita è già comunque quasi centenaria, potrebbero essere almeno all'inizio i progressi che eventualmente Altos assicurerà.

A caccia dell'eterna giovinezza, del resto, il 58enne Bezos lo sembra da un po': la foto di Capodanno pubblicata sui social lo ritrae a bordo piscina, in jeans e sorriso ugualmente candidi, avvinghiato alla nuova compagna Lauren Sànchez, che nel 2019 ha sostituito la prima moglie Scott McKenzie, in un antidoto alla mezza età già ben collaudato da generazioni di ricchissimi. Sànchez, a sua volta, ha 52 anni e ne dimostra forse metà. Un perfetto attimo di Faust, da prolungare il più possibile. 

Bill Gates. La svolta "povera" di Gates: "Donerò tutti i miei miliardi alla fondazione per il bene". Gaia Cesare il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il guru di Microsoft annuncia di voler uscire dalla classifica dei super ricchi del pianeta.

«Le grandi crisi del nostro tempo richiedono a tutti noi di fare di più». Per questo Bill Gates decide di scendere dal tetto degli uomini più ricchi per salire definitivamente nell'olimpo degli uomini più magnanimi e lungimiranti. Il fondatore di Microsoft annuncia via Twitter che trasferirà 20 miliardi di dollari della sua ricchezza alla sua Fondazione, la Bill & Melinda Gates Foundation, e che «guardando al futuro» prevede di donare quasi tutta la sua ricchezza all'ente. Conclusione: «Alla fine uscirò dalla lista delle persone più ricche del mondo». Ma poco importa. Ci sono troppe questioni da affrontare e l'imprenditore artefice della rivoluzione dei computer le elenca tutte: prevenzione delle pandemie, riduzione della mortalità infantile, sicurezza alimentare, sradicamento delle malattie, adattamento climatico, uguaglianza di genere e miglioramento dei risultati educativi.

«Ho l'obbligo di restituire le mie risorse alla società nei modi che hanno il maggiore impatto per ridurre la sofferenza e migliorare la vita - scrive su Twitter -. E spero che anche altri in posizioni di grande ricchezza e privilegio si facciano avanti in questo momento». Quindi addio alla ricchezza totale attuale di 118 miliardi di dollari, conteggiata dal magazine Forbes e che ne fa oggi il quarto uomo più ricco del mondo dopo Elon Musk, Jeff Bezos, Bernard Arnaud e dopo anni in cui Gates aveva dominato la classifica (dal 1995 al 2010 e dal 2013 al 2017). E avanti tutta nella battaglia contro le piaghe del mondo. Alle quali il fondatore di Microsoft sa che deve aggiungere, oltre al coronavirus («una delle più grandi battute d'arresto») una nuova entrata colossale: la guerra in Ucraina, che si unisce ai passi indietro fatti sul clima e la gender equality. «La gente si chiede se il mondo sia destinato a peggiorare», scrive Gates. «Ma io sono ancora ottimista. Queste battute d'arresto si verificano nel contesto di due decenni di progresso storico e credo che sia possibile mitigare i danni e tornare ai progressi che il mondo stava facendo».

Gates intende aumentare la sua spesa a favore della fondazione, dai quasi 6 miliardi l'anno di oggi ai 9 miliardi di dollari entro il 2026. «Melinda e io abbiamo avviato la fondazione nel 2000 perché credevamo che ogni persona dovesse avere la possibilità di vivere una vita sana e produttiva - spiega in una serie di cinguettii il 66enne -. Le grandi crisi del nostro tempo richiedono a tutti noi di fare di più». Nel 2008, dopo 33 anni di successi mondiali e profitti da capogiro, Gates lasciò la guida di Microsoft per dedicarsi a tempo pieno all'ente benefixo. Lo stesso aveva fatto due anni prima l'ex moglie Melinda. Da allora i due - che hanno ufficializzato il divorzio - sono diventati due filantropi d'eccezione, con la fondazione che porta pure il nome della moglie. Eppure nei suoi tweet Gates ha voluto ricordare che quasi metà delle risorse arrivano da Warren Buffett, quinto uomo più ricco del mondo: «La sua incredibile generosità è un enorme motivo per cui la fondazione è stata in grado di essere così ambiziosa - scrive Gates - Non posso mai esprimere adeguatamente quanto apprezzi la sua amicizia e la sua guida».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 marzo 2022.

Melinda Gates sta uscendo di nuovo insieme a qualcuno, e «immergendo la punta del piede» nel mondo del romanticismo meno di un anno dopo aver annunciato la sua separazione dal marito Bill. 

Melinda, 57 anni, ha detto alla CBS Mornings Gayle King di essere «sicuramente» aperta a ritrovare l'amore e di aver già incontrato alcuni corteggiatori.  «È interessante a questo punto», ha ridacchiato durante un'intervista con King andata in onda giovedì mattina. 

«Sai, sto immergendo un po' l'alluce in quell'acqua. Mi sento come se fossi davvero in un buon posto. E sono davvero, davvero entusiasta della mia vita e del mondo, del lavoro che mi aspetta», ha detto. Ha anche criticato il suo ex marito Bill per la sua discutibile amicizia con il pedofilo Jeffrey Epstein e ha rivelato che ha continuato a incontrarlo nonostante lei avesse "incubi" su di lui.

Melinda ha detto alla CBS Mornings di aver insistito per incontrare Epstein nel 2011 perché voleva vedere «chi era quest'uomo».  «Non mi è piaciuto che avesse incontri con Jeffrey Epstein. Gliel'ho chiarito. Ho anche incontrato Jeffrey Epstein una volta. Volevo vedere chi fosse quest'uomo e me ne sono pentito dal momento in cui ho varcato la soglia». 

«Era ripugnante, il malvagio personificato. Dopo ho avuto degli incubi a riguardo. Ecco perché il mio cuore si spezza per queste giovani donne. È così che mi sono sentita, e sono una donna anziana. Era terribile».

E sul suo divorzio ha confessato che «non è stata una cosa, sono state molte cose [che hanno portato al divorzio]. Qualsiasi domanda rimasta su quale fosse il rapporto di Bill con lui... spetta a Bill la risposta. Ho chiarito cosa provavo per lui».   

Durante l’intervista, la prima dopo il suo divorzio, Melinda ha rivelato che a volte piangeva «sul tappeto» mentre lavorava con i suoi avvocati al divorzio. Ha raccontato di aver perdonato Bill per una relazione del 2000, ma poi sono uscite altre notizie di “affari di cuore”.

«Credo nel perdono. Pensavo che avessimo risolto un po' di tutto questo», ha detto Melinda della sua relazione del 2000 con una dipendente Microsoft. «Ho dato ogni singolo pezzo di me stessa a questo matrimonio. Mi sono impegnata dal giorno in cui ci siamo fidanzati fino al giorno in cui me ne sono liberata».     

Melinda ha anche rivelato che lei e Bill non sono amici ma sono «amichevoli» e lavorano insieme, e ha suggerito che ha avuto più di una relazione durante i loro 27 anni di matrimonio.  

Da liberoquotidiano.it il 3 febbraio 2022.

Dopo il divorzio da mister Microsoft, Melinda French Gates ha deciso di non donare più la maggior parte della sua ricchezza, stimata in 11,4 miliardi di dollari, alla Bill and Melinda Gates Foundation, l'organizzazione filantropica che ha fondato con l'ex marito.

Secondo il Wall Street Journal, la ex moglie di Bill Gates prevede ancora di distribuire gran parte della sua fortuna attraverso iniziative filantropiche, ma in gran parte al di fuori della Gates Foundation.

"Riconosco l'assurdità di tanta ricchezza concentrata nelle mani di una sola persona, e credo che l'unica cosa responsabile da fare con una fortuna di queste dimensioni sia darla via nel modo più ponderato e di impatto possibile", ha affermato la filantropa texana.

"È importante riconoscere che regalare soldi di cui la tua famiglia non avrà mai bisogno non è un atto particolarmente nobile - ha proseguito Melinda - Non c'è dubbio nella mia mente che il vero standard di generosità è fissato dalle persone che danno anche quando significa farne a meno".

Ecco perché, ha detto ancora, "mi impegno a fare di più che firmare assegni, ma dedico anche il mio tempo, le mie energie e i miei sforzi al lavoro per combattere la povertà e promuovere l'uguaglianza - per le donne, le ragazze e altri gruppi emarginati - negli Stati Uniti e in tutto il mondo".

DAGONEWS il 2 marzo 2022.

Melinda Gates ha scoperchiato il vaso si Pandora sul suo divorzio con il marito Bill in un’intervista con Gayle King, conduttrice di CBS Mornings. La 57enne, che ha scioccato il mondo quando con Bill ha annunciato nel maggio 2021 che avrebbero posto fine al matrimonio dopo 27 anni, ha rivelato i motivi che l’hanno portata a concludere la relazione. 

Nel breve trailer dell’intervista che andrà in onda il 3 marzo Melinda rivela come ha reagito alla notizia del tradimento del marito con una dipendente di Microsoft: «Si era interrotto il rapporto di fiducia. Credo sicuramente nel perdono, quindi ho pensato che avessimo risolto il problema. Non è successo un momento o una cosa specifica, è solo arrivato l’attimo in cui ho capito che per me non era salutare e non potevo fidarmi di quello che avevamo».

Nonostante sapesse che il divorzio era l'unica opzione rimasta per lei, Melinda ha ammesso di essere devastata dalla separazione: «Ho pianto per molti giorni. Ci sono state giornate in cui mi sdraiavo sul pavimento pensando: "Come può essere? Come posso alzarsi? Come faccio ad andare avanti? Ci sono stati giorni in cui ero arrabbiata. Questo fa parte del processo di lutto. Stai soffrendo per la perdita di qualcosa che pensavi di avere per tutta la vita. Questa è roba dolorosa.

Alla fine, però, ho iniziato questo viaggio di guarigione e mi sento come se stessi iniziando ad arrivare dall'altra parte del tunnel. Ora mi sento come se stessi voltando pagina. È il 2022 e in realtà sono davvero entusiasta di ciò che accadrà e della vita davanti a me».

DAGONEWS il 3 marzo 2022.

Melinda Gates ha rivelato che i rapporti dell’ex marito Bill Gates con Jeffrey Epstein hanno avuto un ruolo nel loro divorzio. La 57enne, in una lunga intervista alla Cbs, ha raccontato che ci sono stati “diversi fattori” che l’hanno indotta a staccare la spina al matrimonio dopo 27 anni. E tra questi c’erano gli incontri di Bill con Epstein. 

«Non mi piaceva avesse incontri con Jeffrey Epstein» ha detto Melinda sottolineando che il marito avesse comunque continuato ad averci rapporti nonostante le sue proteste: «All’epoca gli dissi cosa pensavo di lui». Poi rivela di aver incontrato Epstein in un’occasione: «Volevo vedere chi fosse quell’uomo. Me ne sono pentita nel momento in cui ha varcato la soglia. Era ripugnante. Era il male fatto persona. Dopo l’incontro ho avuto gli incubi. Ho il cuore a pezzi per quelle donne».

In passato Gates aveva fatto sapere di aver fatto un “errore enorme” ad aver incontrato più volte Epstein. A destare scandalo era stata la foto dei due insieme a casa di Epstein nel 2011, dopo che il finanziere era stato condannato per crimini sessuali. 

Carlotta Lombardo per il “Corriere della Sera” l'1 maggio 2022.

Il mese scorso, alla Cbs, Melinda French aveva rotto il silenzio sul divorzio da Bill Gates raccontandone tutto il dramma emotivo. Il tradimento (lui aveva avuto una storia con una donna del suo staff), la rabbia, il perdono, il venir meno della fiducia riposta nell'uomo con il quale aveva condiviso 27 anni di matrimonio, e poi il dolore e le (molte) lacrime.

Oggi, a raccontarsi in un'intervista fiume al «Times Magazine», è Bill Gates. «Melinda è sempre stata quella loquace, emotiva - dice il miliardario filantropo, ex ceo di Microsoft, incalzato dalla giornalista -. Io non sono visibilmente emotivo. Forse, da qualche parte nel mio profondo... Ho pianto leggendo The Heart (di Maylis de Kerangal). Voglio dire, questo libro ti fa piangere...». Bill Gates è famoso per molte cose: la creazione di Microsoft, la ricchezza, l'impegno nella beneficenza con la Fondazione filantropica creata con l'ex moglie. 

Un sodalizio che, nonostante il divorzio, tra i due sembra al momento rimanere solido. «Melinda ed io... mi sento fortunato a poter lavorare con lei. Abbiamo un rapporto stretto e complesso, abbiamo scelto di lavorare ancora insieme ma anch' io - continua Gates, riferendosi alla separazione annunciata via Twitter lo scorso 3 maggio - sto soffrendo nello stesso modo in cui sta soffrendo lei. Quando ci siamo conosciuti avevo 38 anni, lei 28. Siamo cresciuti insieme. Abbiamo fatto dei figli fantastici (Jennifer, 26 anni, Rory, 22, e Phoebe, 19, ndr )». 

«Ma è stato negligente?», gli si chiede ancora. «No, ero molto serio. Ogni matrimonio, quando i figli lasciano la casa, subisce una transizione. Il mio purtroppo ha attraversato quella del divorzio. Dal mio punto di vista però è stato un grande matrimonio. Non l'avrei cambiato. Non sceglierei di sposare nessun altro. Sposerei ancora Melinda».

 L'ex moglie nell'intervista di marzo non escludeva l'ipotesi di altri tradimenti di Bill: «È una domanda alla quale dovrebbe rispondere lui», aveva detto (interrogato dal Times , Gates non ha però voluto rispondere). Si era espressa con insolita durezza sulla frequentazione dell'allora marito con il miliardario pedofilo Jeffrey Epstein (trovato morto nella sua cella a New York nel 2019: per le autorità fu suicidio). «Purtroppo all'epoca - ha commentato al Times il fondatore di Microsoft - non mi rendevo conto che il frequentarlo avrebbe contribuito a dargli credibilità». 

Melinda e le altre, così uso i miliardi dell’ex. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 5 febbraio 2022.

La decisione di non contribuire più alla Fondazione Gates: «Riconosco l’assurdità di tanta ricchezza concentrata nella mani di una sola persona». Il caso del divorzio Bezos e le scelte della vedova di Steve Jobs.

Il club delle prime mogli del settore tech si arricchisce — letteralmente — di una nuova socia, Melinda French Gates, che si costruisce una nuova vita, con una nuova strategia. A sei mesi esatti dal divorzio da Bill (erano sposati dal 1994) ha preso una decisione drastica, ma non del tutto inaspettata, sul suo futuro nel settore della filantropia: French Gates, che è co-fondatrice della Bill and Melinda Gates Foundation, non convoglierà più la maggior parte della sua ricchezza nell’organizzazione: dei circa 60 miliardi di dollari del suo patrimonio (la metà di quello del marito), ne indirizzerà 15 alla fondazione Gates, ma ha deciso di avere mano libera per altre iniziative. L’anno scorso pareva che alla fine del matrimonio non sarebbe seguita la fine della partnership benefica, «Bill and Melinda» erano co-presidenti e sembravano intenzionati a lavorare insieme anche da divorziati. Ma le differenze di visione strategica dei due sembrano essere tali da portare alla nascita di progetti di Melinda French Gates come «solista».

Filantropia

«Riconosco l’assurdità di tanta ricchezza concentrata nelle mani di una sola persona, e credo che l’unica cosa responsabile da fare con una fortuna di queste dimensioni sia regalarla, nel modo più ponderato possibile, e con il massimo impatto possibile — ha scritto French Gates in una lettera aperta al Giving Pledge, il progetto lanciato dodici anni fa da lei, dall’ex marito e da Warren Buffett, che vede alcune tra le persone più ricche del mondo impegnate a lasciare tutto o quasi il loro patrimonio in beneficenza — L’obiettivo finale di qualsiasi filantropo dovrebbe essere quello di rendere obsoleta la necessità della filantropia. È importante riconoscere che regalare soldi dei quali la tua famiglia non avrà mai bisogno non è un atto particolarmente nobile. Non c’è dubbio nella mia mente che il vero standard di generosità è quello delle persone che donano anche quando donare significa doversi privare di qualcosa. Ecco perché mi impegno a fare di più che firmare assegni. Dedicherò il mio tempo, le mie energie e i miei sforzi al lavoro per combattere la povertà e promuovere l’uguaglianza — per le donne, le ragazze e altri gruppi emarginati — negli Stati Uniti e in tutto il mondo».

Gli esempi

Nel 2015, French Gates ha fondato Pivotal Ventures, una società di «investimento e incubazione» per promuovere il progresso sociale e professionale per le donne: è possibile che i miliardi negati alla Fondazione Gates finiranno nelle casse di Pivotal. Non sarebbe la prima volta che un divorzio plurimiliardario del settore tech cambia gli scenari della filantropia: se French Gates stacca parte del patrimonio dalle priorità decise con Bill, alle quali lui tiene moltissimo (lotta alla malaria, cause ambientali), Mackenzie Scott ex moglie di Jeff Bezos (1993-2019), terza donna più ricca del mondo con un patrimonio di circa 60 miliardi di dollari (a seconda del valore delle azioni Amazon), ha aderito al Giving Pledge, ha garantito che donerà tutto in beneficenza e si è risposata con l’insegnante di scienze dei figli. Anche Laurene Powell Jobs, vedova di Steve, meno ricca di French Gates e di Scott con un patrimonio di «soli» 18 miliardi di dollari, ne ha già impegnati 3,5 per la salvaguardia dell’ambiente e ha garantito che la sua fortuna «finisce con me, se avrò abbastanza tempo», altrimenti toccherà ai figli donarla a buone cause ambientali e sociali.

Un caso a parte

È un caso a parte quello di Talulah Riley, attrice inglese che è stata sposata due volte con Elon Musk, per poi divorziare due volte. Anche se Musk con un patrimonio di 232 miliardi di dollari è non solo l’uomo più ricco del 2021 ma è il più ricco della Storia, Riley ha ottenuto 20 milioni di dollari (subendo anche le lamentele di Musk che ha detto d’aver speso troppo in avvocati).

Maye Musk: «Quando vado a trovare Elon dormo nel garage». Marilisa Palumbo su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.

Maye Musk è una celebrità di suo, non solo perché ha messo al mondo uno degli uomini più famosi e discussi del pianeta. Elegante, orgogliosamente botox free, a 74 anni viene chiamata a posare in tutto il mondo. La sua autobiografia, uscita nel 2019, è stata tradotta in 30 lingue, a maggio è apparsa in costume da bagno sulla copertina di Sports Illustrated Swimsuit. Durante la settimana della moda a Parigi è stata ambasciatrice di bellezza di Dior, ed è lì che una giornalista del Times l’ha incontrata per un lungo profilo sull’edizione domenicale del quotidiano londinese. «Mi ingaggiano per le mie rughe — dice subito lei — nessuno mi ha mai chiesto di cambiare». Quanto ai capelli grigi, giura che la sua carriera è decollata quando a cinquant’anni ha smesso di tingerseli e se li è tagliati.

Diretta e spiritosa, il suo argomento preferito per tutta l’intervista resta (nonostante i grandi apprezzamenti anche per gli altri due, Kimbal e Tosca). Sin da piccolo lo chiama «Genius Boy»: «Era sempre intento ad assorbire informazioni, potevamo chiedergli qualsiasi cosa. E questo era prima di internet. Immagino che ora potremmo chiamarlo internet». La vita di Maye e dei suoi ragazzi non è sempre stata facile. L’ex marito Erroll, definito «un essere umano terribile» da Elon che per un po’ ha vissuto da solo con lui, le diceva che era stupida, e brutta: «Mi ricordo che pensavo: non posso essere così brutta, faccio la modella. Ma mi picchiava, quindi non mi mettevo a contestarlo».

Alla fine prese i tre ragazzi e dal Sudafrica dove vivevano si spostò in Canada. Smarrirono il suo bagaglio e dovette usare i vestiti di Tosca e Elon «perché non potevo permettermi di comprarne di nuovi». Anche molto tempo dopo la fine del matrimonio era «terrorizzata all’idea di non essere capace di sfamare i miei ragazzi».

Ora vive a New York, in un appartamento, dice, «non grande»: «Non ho bisogno di spazio sprecato perché con esso arrivano le responsabilità. Ho detto ai miei figli: “Questo è il posto più bello in cui abbia mai vissuto”».

Anche l’adorato Elon, assicura, pur con i suoi 270 miliardi di dollari che ne fanno , non è poi così interessato ai beni materiali e vive in un posto relativamente modesto a Boca Chica, il quartier generale di SpaceX in Texas, tanto che quando va a trovarlo «devo dormire nel garage. Non si può avere una casa di lusso vicino a un sito di lancio di missili».

Maye sostiene di non interferire nelle decisioni dei figli (e per fortuna, confessa che non voleva Musk costruisse un’auto elettrica e razzi), ma è una vera chioccia. Il suo account Twitter, oltre 780 mila follower, è pieno di hashtag #proudmom, mamma orgogliosa. O mamma tigre, se Elon viene attaccato: quando il Wall Street Journal ha scritto che il patron di Tesla e Space X avrebbe avuto una relazione con la moglie del suo vecchio amico, Sergey Brin di Google, Maye non è stata diplomatica: ««@WSJ Non è presunta, è inventata da voi. Come sempre. Chi vi paga per mentire questa volta?».

Sulle intemperanze verbali del primogenito glissa: «Ha un senso dell’umorismo eccentrico e non sempre si rende conto che a qualcuno potrebbe non piacere o non capirlo». Se il ragazzo un po’ nerd ce l’ha fatta, racconta, è anche grazie al fratello: «Molti geni finiscono in un seminterrato a fare i geni, ma senza applicare quella genialità», ed è stato Kimbal, più giovane di un anno, a tirarlo fuori (adesso è anche lui nel board di Tesla e Space X). Quanto a Elon ora può tranquillamente mescolarsi «ad altra gente timida»: «Tutti i suoi ingegneri sono timidi e un po’ nerd».

Luca Bottura per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.

Elon Musk, il miliardario sudafricano che ha fatto fortuna con le auto elettriche ma ha la sensibilità ecologica di un portapenne in alabastro, l'uomo che acquistò Twitter ma lo restituì perché è pieno di profili falsi, non prima di aver promesso che avrebbe fatto rientrare Donald Trump, che è falso anche visto di fronte, l'imprenditore che sta alla geopolitica come qualunque sindaco di Roma a un cassonetto immacolato, ha pubblicato ieri proprio su Twitter un sondaggio col quale proponeva un suo piano di pace a Putin e alle sue vittime:

1) Rifare i referendum in Donbass sotto la supervisione dell'Onu;

2) Cedere la Crimea ai russi "per sanare l'errore di Krusciov";

3) Neutralità dell'Ucraina in cambio delle forniture d'acqua. 

Nel concerto di pernacchie social che ne ha ricavato - molte delle quali incentrate sul fatto che un referendum vero c'è già stato, e lo vinse chi non voleva stare coi russi persino dalle parti di Sebastopoli - va rilevato l'ambasciatore ucraino in Germania, Andry Melnyk, che ha così postato: "La mia risposta molto diplomatica a Elon Musk: fottiti". Analizzata la vicenda, il turpiloquio gratuito, il fatto che la proposta di Musk abbia comunque ottenuto il 37 per cento dei consensi e cioè oltre 400.000 voti, spieghi il lettore con chi sta dei due contendenti e perché proprio Melnyk.

L'insolenza di Musk che ignora la storia. Roberto Fabbri il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale

Come tutti gli uomini di genio, il concretissimo Elon Musk certe volte stupisce per astrattezza. Il numero uno di Tesla, finora molto apprezzato a Kiev per averle messo a disposizione il suo sistema satellitare Starlink, si è messo in testa di fare il mediatore con Mosca. Ma la brillantezza con cui ha permesso all'Ucraina di aggirare i tentativi di hackeraggio dei russi non è la stessa che ha dispiegato nella sua bizzarra proposta, che ha indignato Zelensky ma è piaciuta subito al Cremlino, con tanto di complimenti al miliardario americano da parte del superfalco Dmitry Medvedev.

Secondo Musk che in passato ha ammesso di prendere decisioni sotto l'effetto di droghe e che per buona misura ha sottoposto i quattro punti del suo «geniale» piano ai suoi 107 milioni di follower su Twitter come un Beppe Grillo qualsiasi la pace si raggiungerebbe se Zelensky si decidesse una buona volta a riconoscere formalmente la sovranità russa sulla Crimea che Mosca ha strappato a Kiev nel 2014 e se venissero nuovamente tenuti sotto supervisione Onu dei referendum popolari nelle province ucraine occupate che Putin ha appena annesso alla Russia in base a consultazioni truccate. Kiev, inoltre, dovrebbe scordarsi Ue e Nato, impegnarsi alla neutralità e a garantire l'approvvigionamento idrico alla Crimea (russa).

Musk ricorda agli ucraini che fu «una erronea decisione presa nel 1955 dall'allora leader dell'Urss Nikita Krusciov» (che era un ucraino) a trasferire la Crimea dalla Russia all'Ucraina, all'epoca entrambe Repubbliche sovietiche. Il fatto che Putin se la sia ripresa usando la forza, esattamente come ha fatto nel Donbass e nelle altre due regioni ucraine appena annesse, non pare importante all'improvvisato mediatore.

Il quale forse ignora oltre ai principii del diritto internazionale - che se oggi l'Alaska è uno dei 50 Stati degli Usa lo si deve a una decisione presa nel 1867 dall'allora Zar Alessandro, che svendette agli americani quello che all'epoca sembrava un inutile e remoto possedimento coperto di ghiacci per una cifra ridicola pari a 140 milioni di dollari di oggi. Chissà cosa proporrebbe il signor Musk se Putin lo invadesse e se lo annettesse richiamando l'antica sovranità russa e una «decisione erronea» presa nel XIX secolo.

Elon Musk ha avuto una storia con la moglie del co-fondatore di Google, Sergey Brin. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022. 

Il Wall Street Journal spiega che dietro la rottura dell’amicizia tra i fondatori di Tesla e Google ci sarebbe una storia tra Musk e la moglie di Brin — che avrebbe preceduto l’avvio delle procedure di divorzio tra i due. 

A vedere le sue immagini di qualche giorno fa, mentre fa il bagno a Mykonos, gonfio, bianchiccio, con la capigliatura, frutto di un massiccio riporto, che gli precipita sugli occhi, Elon Musk non sembrerebbe esattamente un Adone. 

Ma evidentemente l’uomo più ricco del mondo ha un fascino che va anche al di là dei 240 miliardi di dollari del suo patrimonio se, oltre a passare da un’avventura sentimentale all’altra (beccandosi pure qualche accusa di molestie sessuali) e ad aver portato a 10 il numero dei figli che ha sparso per il mondo, è riuscito a sedurre anche la moglie di un altro miliardario: il cofondatore di Google-Alphabet Sergey Brin che è «solo» ottavo nella classifica dei più ricchi, ma dispone pur sempre di un patrimonio di 95 miliardi. 

Il Wall Street Journal rivela che il motivo per il quale a gennaio Brin ha chiesto al tribunale di Santa Clara, nella Silicon Valley, di poter divorziare dalla seconda moglie, Nicole Shanahan, sposata quattro anni fa, è una breve relazione da lei avuta con Elon Musk all’inizio dello scorso dicembre. 

Da molti mesi ormai un Musk sempre più inquieto e assetato di protagonismo fa parlare continuamente di sé e non solo per le invettive contro i democratici, il passaggio dagli elogi agli attacchi a Trump e la scalata a Twitter seguita da una precipitosa ritirata. Una straordinaria pantomima miliardaria con Elon che si arrampica sugli specchi cercando giustificazioni legali per il suo ripensamento mentre il vertice aziendale che all’inizio faceva le barricate per respingerlo, adesso l’ha trascinato in tribunale per costringerlo a completare l’acquisto da 44 miliardi di dollari. 

Negli ultimi mesi Musk ha divorziato dalla moglie, l’artista canadese Grimes dalla quale aveva appena avuto un secondo figlio (surrogato). 

Di recente, poi, si è saputo che in autunno Musk ha avuto altri due figli (nono e decimo) da Shivon Zilis, una manager di Neuralink, una delle sue società. 

Mentre un’assistente di volo di un aereo di SpaceX (altra sua società) sarebbe stata molestata sessualmente da Elon nel 2016. 

Lui nega tutto e non ci sono denunce, ma la cosa è sospetta proprio per questo: l’episodio è stato rivelato da un’amica della hostess, la quale tace perché ha raggiunto un accordo col suo datore di lavoro. Musk ha pagato 250 mila dollari per il suo silenzio. 

Il caso Musk-Brin, se verrà confermato, colpisce ancora di più per l’identità dei due personaggi, ma soprattutto per il loro antico legame d’amicizia: Elon si è vantato per anni di essere un nomade senza casa. Quando finiva la sua lunga giornata lavorativa a Tesla o a SpaceX andava a bussare alla porta di qualche amico che gli procurava un giaciglio. La casa più «gettonata» era proprio quella di Brin, amico di Musk da oltre 15 anni: nel 2008, quando Tesla, ancora agli inizi, stava per fallire, il cofondatore di Google venuto dalla Russia prestò all’imprenditore di origine sudafricana, insieme ad altri, il denaro che gli consentì di evitare la bancarotta. Nel 2015, quando mise a punto la sua prima sport utility della Tesla, Musk regalò a Brin uno dei primi esemplari. 

Amicizia spezzata dal tradimento consumato non tra le mura domestiche ma all’inizio di dicembre in Florida durante uno degli eventi di Art Basel in trasferta a Miami. 

I rapporti tra Sergey e Nicole, che hanno una figlia di tre anni, erano logorati da tempo: il tradimento ha provocato la rottura. 

Amici comuni hanno raccontato al Wall Street Journal che Musk ha chiesto platealmente, e forse ironicamente, scusa a Brin inginocchiandosi davanti a lui e invocando il suo perdono. 

Il cofondatore di Google ha preso atto del presunto ravvedimento ma non sembra aver cambiato rotta: divorzio confermato (con contestazione della richiesta di Nicole di un miliardo di dollari) e ordine ai gestori del suo patrimonio di vendere tutte le partecipazioni in aziende di Musk.

(ANSA il 25 luglio 2022) - Il patron di Tesla, Elon Musk, ha negato di aver avuto una relazione con Nicole Shanahan, la moglie del co-fondatore di Google, Sergey Brin. La smentita, scrive la Bbc online, è giunta dopo che il Wall Street Journal ha riferito che la sua amicizia con Brin era finita a causa del presunto flirt. Le replica di Musk è arrivata su Twitter, dove ha definito la notizia "totalmente falsa". Il patron di Tesla ha poi affermato di essere ancora amico di Brin e che "ieri sera erano a una festa insieme!".

"Ho incontrato Nicole due volte in questi tre anni e sempre con altre persone intorno. Non c'è stato nulla di romantico", ha aggiunto. (Poi, in un altro tweet, ha detto: “Non faccio sesso da secoli”, ndDago).

Citando alcune fonti, il Wall Street Journal ha affermato che Musk ha avuto una breve relazione con Shanahan alla fine dello scorso anno. Ciò ha spinto Brin a chiedere il divorzio all'inizio del 2022, ponendo fine alla lunga amicizia tra i due miliardari. All'epoca della presunta relazione, a dicembre, Brin e la moglie erano separati ma vivevano ancora insieme, secondo il Wall Street Journal, che cita una persona vicina a Shanahan. Anche se hanno firmato un accordo prematrimoniale, Brin e Shanahan stanno attualmente negoziando un accordo per il divorzio che potrebbe arrivare a 1 miliardo di dollari, secondo il Wsj. 

Elon Musk nega di aver avuto una storia con la moglie di Sergey Brin: «Siamo amici, eravamo a una festa insieme l'altra sera». Redazione su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

Il Ceo di Tesla ha risposto via Twitter alle indiscrezioni del Wall Street Journal, secondo cui la sua amicizia con il cofondatore di Google sarebbe finita a causa di una sua relazione con la moglie Nicole Shanahan

«Una enorme cavolata». Così Elon Musk descrive l'indiscrezione del Wall Street Journal secondo cui lui sarebbe la causa della fine del matrimonio tra Sergey Brin - cofondatore di Google - e la moglie Nicole Shanahan. Racconta il giornale americano che Musk avrebbe avuto una breve relazione con la donna lo scorso dicembre. Brin, sposato con Shanahan da quattro anni ma a quel tempo già in crisi, avrebbe dunque deciso da una parte di divorziare - i due starebbero patteggiando per un accordo da circa 1 milione di dollari - dall'altra di chiudere definitivamente l'amicizia con il Ceo di Tesla.

Ma Elon Musk non ci sta. E sotto il post su Twitter della notizia racconta che in realtà la sua amicizia con Brin è solida: «Eravamo a una festa insieme l'altra sera! Ho visto Nicole solo due volte in tre anni, ed entrambe le volte eravamo circondati da molte persone. Niente di romantico». Una risposta a caldo, da cui trapela la rabbia per l'indiscrezione del Wall Street Journal. Qualche ora dopo torna sull'argomento, attaccando direttamente il giornale: «Dovrebbe avere degli alti standard di giornalismo e, ora come ora, sono al di sotto di un tabloid. Il WSJ dovrebbe scrivere storie di reale importanza per i suoi lettori, con solide basi fattuali, non riportare voci a caso di terze parti».

D'altronde risulterebbe piuttosto credibile la storia, considerati i trascorsi sentimentali burrascosi di Elon Musk. Ammonta a nove il numero di figli che ha avuto con diverse donne. I primi sei (il primogenito è  però tragicamente morto all'età di 10 mesi) con la moglie, la scrittrice canadese Justine Wilson, da cui ha divorziato nel 2008. Poi sono arrivati i due figli avuto insieme alla seconda moglie, la cantante Grimes, battezzati con due nomi piuttosto originali: X Æ A-Xii (detto X) e Exa Dark Sideræl (detta Y), quest'ultima nata da maternità surrogata a dicembre. Gli ultimi due, gemelli, sono nati da una relazione con Shivon Zilis, dirigente di Neuralink, una delle sue aziende. Relazione che, stando alle tempistiche, avrebbe avuto mentre aspettava Y. Anche con Grimes è finita. Ma in questi pochi mesi c'è già stato tempo per trovarsi una nuova fiamma: a fine maggio è stato avvistato a Saint Tropez con l'attrice australiana (classe 1992) Natasha Bassett. 

Elon Musk è legato da una forte amicizia con Sergey Brin da oltre 15 anni. Proprio il cofondatore di Google - oggi ottavo uomo più ricco al mondo - gli prestò il denaro per evitare la bancarotta di Tesla poco dopo essere stata fondata. E nel 2015, Brin è stato uno dei primi a guidare una Tesla, regalatagli dall'amico. Stando alle indiscrezioni, il rapporto sarebbe stato distrutto dal tradimento di Musk, nonostante le cose tra Brin e la moglie andassero male da tempo. Alcuni amici comuni avrebbero raccontato anche di una scena plateale, dove Musk si sarebbe messo in ginocchio per chiedere scusa pubblicamente all'amico. Non sembra aver funzionato: Brin avrebbe già ordinato ai gestori del suo patrimonio di vendere tutte le partecipazioni in aziende di Musk.

DAGONOTA il 25 luglio 2022.

Dopo la smentita, arriva la foto! Per dimostrare che i rapporti con Sergey Brin sono ancora buoni, Elon Musk ha pubblicato un selfie che si sarebbe scattato a una festa, in cui si vede Sergey Brin sullo sfondo. Il patron di Tesla aveva già derubricato a cazzate le voci sulla sua relazione con Nicole Shanahan, ex moglie del fondatore di Google, sostenendo di non fare sesso “da secoli”. Affermazione su cui abbiamo qualche dubbio, considerando i suoi numerosi figli illegittimi che continuano a spuntare come funghi. 

Senza considerare che la foto in questione non appare lusinghiera nei confronti dell’ “amico” Brin: il buon Sergey appare defilato e molto poco sobrio.

Da repubblica.it il 25 luglio 2022.  

"Imprenditrice della Silicon Valley" e "filantropa", secondo il ritratto che ne dà Bloomberg: Nicole Shanahan è balzata all'onore delle cronache, durante il fine settimana, per questioni che non hanno a che fare con queste sue attività. Sarebbe, secondo una ricostruzione del Wall Street Journal, la causa della rottura del rapporto tra Elon Musk, il fondatore della Tesla tra le altre cose, e Sergey Brin, co-fondatore di Google. Il primo (242 miliardi di dollari) e l'ottavo (94,6 miliardi) uomo più ricco del mondo. 

Shanahan è stata per tre anni la moglie di Brin, ma nel giugno scorso la coppia ha annunciato l'intenzione di divorziare per "inconciliabili divergenze". Secondo il Wsj, tra le inconciliabilità ci sarebbe proprio il ruolo di Musk, amico di vecchia data di Brin tanto che quest'ultimo ha aiutato l'imprenditore sudafricano quando la Tesla era sull'orlo del fallimento (con un assegno da mezzo milione). E, in segno di riconoscenza, si è visto recapitare uno dei primi Suv elettrici della casa.

Per il quotidiano, dunque, Musk e Shanahan avrebbero avuto una fugace relazione, durante la settimana dell'Art Basel di Miami a dicembre, che avrebbe posto la lapide sul matrimonio di lei con Brin. Il fondatore della Tesla avrebbe anche chiesto pubblicamente scusa all'ex amico, durante una festa, senza convincerlo. Ma lo stesso Musk ha smentito via Twitter questa ricostruzione, dicendo che è "totalmente falsa" e affermando di essere ancora amico di Brin e che "ieri sera erano a una festa insieme!". "Ho incontrato Nicole due volte in questi tre anni e sempre con altre persone intorno" e ha aggiunto che non c'è stato nessun affare di cuore. 

Brin e Shanahan si sono incontrati sette anni fa a un ritiro di yoga a Wanderlust e si sono spostati quattro anni fa. Tutti e due erano già stati sposati, Brin con Anne Wojcicki, co-fondatrice di 23andMe dalla quale ha avuto due figli, e Shanahan con un manager. La coppia, riportano le cronache, avrebbe iniziato ad incrinarsi lo scorso anno, complici i lockdown da Covid e le difficoltà con la loro bimba di tre anni. 

Il tradimento con Musk avrebbe inflitto il colpo definitivo alla loro relazione e si è finiti alle carte bollate, con Shanahan che ha chiesto un miliardo di dollari e Brin che si oppone: secondo la Bloomberg ci sono gli elementi per una riedizione della nota separazione dei coniugi Gates o quella di casa Amazon. 

Shanahan è avvocato e ricercatore presso CodeX, lo Stanford Center for Legal Informatics. Nel suo curriculum c'è l'aver fondato ClearAccessIP, società di Palo Alto che si occupa di aiutare i detentori di brevetti a gestire e monetizzare le loro proprietà intellettuali: è stata acquisita, nel 2020, dalla IPwe sua concorrente. Proveniente da una famiglia di immigrati cinesi, nella quale la madre faceva la domestica, ha raccontato di aver contato sull'assistenza pubblica. Il suo profilo LinkedIn ne ricorda il percorso di studi: economia e mandarino alla University of Puget Sound nello Stato di Washington, legge alla Santa Clara University, con un passaggio di scambio alla National University of Singapore.

Dal 2019 ha dato vita alla fondazione Bia-Echo, con 100 milioni di dollari sul piatto per diffondere gli studi e le tecnologie mediche che consentono alle donne la gravidanza in età avanzata, ma anche interessi per la riforma della giustizia. E' stata politicamente sostenitrice di Democratici e di orientamento a sinistra. Citando una recente intervista a Puck, l'agenzia ricorda Shanahan stessa abbia indicato che la sua ambizione esistenziale è dedicarsi alla giustizia sociale, e assicurato che la separazione avrebbe potuto permetterle di consolidare questo ruolo. Motivo per cui è scattato il parallelismo con MacKenzie Scott e Bezos.

DAGONEWS il 26 luglio 2022.

Silicon Valley? Sex Valley! La torbida storia di corna che ha coinvolto in questi giorni Elon Musk è solo un piccolo spaccato della Silicon Valley: tra orge, martimoni aperti, strip club, i miliardari tecnologici americani hanno una morale tutta loro, come scrive il Daily Mail. 

Il patron di Tesla ha negato di essere andato a letto con Nicole Shanahan, moglie di Sergey Brin, co-fondatore di Google. Eppure, non ci sarebbe niente di strano, né di inusuale, considerando le abitudini sessuali dei super-nerd della tecnologia, messe peraltro a nudo da alcuni libri (“Brotopia”, di Emily Chang e “La Valle Oscura”, di Anna Wiener). 

In un articolo firmato da Tom Leonard, il tabloid britannico ha ripercorso la lunga tradizione di festini che vanno avanti ininterrottamente da anni nella “valle del silicio”.

Leonard parte raccontando una tipica scena da uno di questi party, la “festa ai confini del mondo”, ospitata da un venture capitalist nella sua casa sulla spiaggia fuori San Francisco: “L'invito specificava innocentemente l'abbigliamento – ‘avventuriero glamazon, safari chic e abbigliamento tribale della giungla’. Tra gli ospiti c'era Elon Musk, che indossava un costume nero simile a un'armatura, ornato di punte e catene d'argento. Il suo vecchio amico Sergey Brin, cofondatore di Google, un'altra delle persone più ricche del mondo, era ‘a torso nudo e con un gilet’. 

Nonostante l'abbigliamento, Musk ha ribadito che la serata è stata "noiosa e aziendale, senza sesso o nudità". Forse ha passato tutto il tempo in cucina, perché una giovane donna presente all'evento, che lavorava nel settore tecnologico, ha riferito di essersi ritrovata con due coppie sul pavimento del soggiorno, ricoperto di pelliccia sintetica bianca e cuscini. 

Diverse persone avevano già iniziato ad accarezzarsi l'un l'altra, ha raccontato, quando le è stata offerta dell'ecstasy in polvere in un sacchetto: la droga è notoriamente in grado di sciogliere le inibizioni tra estranei.

Quella donna era appunto Emily Chang, che nel 2018 ha scritto e pubblicato “Brotopia”, il libro che ha svelato l’anima nera della Silicon Valley: “Non l'avevo mai presa prima. Mi hanno detto che ti farà sentire rilassata e che ti piacerà essere toccata", ha ricordato, quando un imprenditore tecnologico le ha chiesto di baciarla. È stato "così strano", ha detto la donna, mentre la moglie era accanto a lui e la incoraggiava. Quando lei è scappata, lui ha continuato a seguirla durante la festa. 

Scrive Leonard: “Mentre coloro che gestiscono Google, Facebook, Amazon e Uber sostengono di cambiare la società in meglio e di essere paladini di valori progressisti e ‘woke’, in realtà non sono migliori degli adolescenti di una ‘confraternita’, che si abbandonavano a un mondo di orge alimentate dalla droga e a una vita sessuale libera in cui le donne venivano sminuite e abusate.

Un altro ospite della stessa festa, Paul Biggar, ha poi dichiarato che il sex party era stato ‘molto peggio di quanto sembri’, aggiungendo: "Prima di andare ci avevano avvertito di non spaventarci per le cose che c'erano, che non erano permesse foto (!) e di non dire a nessuno quello che avevamo visto". 

Eppure, quando gli è stato chiesto dell'evento, Elon Musk si è presentato come un innocente ferito. Non era successo nulla di sconveniente. Se ci sono "festini a base di sesso" nella Silicon Valley, non ne ho visto né sentito parlare. Se volete feste selvagge, siete nel posto sbagliato", ha dichiarato alla rivista di tecnologia Wired.

Riferendosi al soprannome di quelle sessioni di petting indotte da droghe a cui la donna aveva assistito, ha sbuffato: "I nerd su un divano non sono una ‘pozza di coccole’". 

Anche oggi che è al centro dell’attenzione per la sua presunta relazione con Nicole Shanahan, Musk è tornato in modalità negazionismo.

“Lavoro con orari assurdi, quindi non c'è molto tempo per le sciocchezze", ha dichiarato, liquidando come "stronzate" le notizie sulla relazione riportate dal solitamente solido Wall Street Journal. Contrariamente alle affermazioni secondo cui la relazione avrebbe distrutto la loro amicizia, ha detto che lui e Brin erano stati a una festa insieme solo la sera precedente, condividendo una fotografia sui social media per dimostrarlo. 

Non abbiamo ancora notizie di Brin in merito. Né tantomeno da Nicole Shanahan - ma, dicono i cinici, nella Silicon Valley dominata dagli uomini si sente raramente la parte delle donne. 

Musk ha inoltre scritto su Twitter di non fare " sesso da secoli (sigh)", aggiungendo: 'Ho visto Nicole solo due volte in tre anni, entrambe le volte con molte altre persone intorno. Niente di romantico". Sarà, ma il romanticismo c’entra poco, nell’epica orgiastica della Silicon Valley. E comunque, difficile credere alla castità di Musk, considerando la mole di figli illegittimi che continuano a spuntare come funghi in giro per il mondo. 

“Pensano di essere al di sopra della legge perché pensano di cambiare il mondo", ha detto ancora Emily Chang, secondo cui i miliardari tech si sentono onnipotenti. In “Brotopia” racconta ad esempio che gli uomini possono portare tutte le donne che vogliono, purché non siano accompagnati da altri maschi. Alcuni portano le loro mogli o fidanzate.

Non appena la cena - che a volte viene consumata sui corpi di donne nude - è terminata, arriva la droga. Le pillole di queste feste a volte portano il logo di grandi aziende tecnologiche. 

Quando le inibizioni scompaiono, gli ospiti formano le cosiddette "pozze di coccole", dividendosi in coppie, coppie a tre o gruppi più numerosi. Alcuni si ritirano in una delle tante stanze del locale; altri non si preoccupano nemmeno di farlo e iniziano a fare sesso lì.

La notte diventa giorno, il gruppo si riunisce per la colazione, dopo la quale alcuni possono avere di nuovo rapporti sessuali", scrive Chang. “Mangiare, drogarsi, fare sesso, ripetere". 

Molti potrebbero non essere sorpresi dal fatto che i re di Internet - patria della pornografia hardcore senza limiti, dei videogiochi violenti e sessualmente grafici e del trolling feroce sui social media - siano un gruppo di giovani (ormai manco tanto) uomini emotivamente bloccati. Dopotutto, il più famoso di loro - Mark Zuckerberg - ha fondato Facebook all'Università di Harvard per permettere a lui e ad altri studenti maschi di guardare le foto delle loro coetanee. 

Considerando quanto si dice sulla Silicon Valley e sulla velocità con cui i suoi governanti si fanno strada tra le donne, è sicuramente possibile che Musk - la persona più ricca del mondo, la cui fortuna stimata in 208 miliardi di sterline si basa in gran parte sul controllo della casa automobilistica elettrica Tesla - e il suo vecchio amico Brin abbiano potuto mettere da parte le loro divergenze in pubblico. 

La cosa straordinaria è che pochissimi, nel mondo della tecnologia, sembrano immuni da questo tipo di comportamento. Persino il cofondatore di Microsoft Bill Gates, ora impegnato a salvare il mondo dalle malattie, nascondeva un lato zozzone dietro quegli occhiali da smanettone e quegli orrendi maglioni con scollo a V. 

L'anno scorso, dopo la brusca fine del suo matrimonio con Melinda, durato 27 anni e da lei definito "irrimediabilmente rotto", Gates è stato accusato di dissolutezza, tra feste in piscina senza veli, spogliarelli, relazioni extraconiugali e di una ricerca eticamente discutibile di personale femminile nei suoi primi anni di vita.

Quando era studente ad Harvard, Gates amava frequentare la famigerata “Combat Zone di Boston, con i suoi spettacoli porno, i locali di spogliarelli e le prostitute", ha raccontato il suo biografo James Wallace. 

In seguito abbandonò gli studi e si trasferì a Seattle, sua città natale, per fondare la Microsoft, e organizzò "sfrenati addii al celibato" a casa sua: " visitava i nightclub di Seattle e assumeva ballerine per venire a casa sua e nuotare nudo con i suoi amici nella sua piscina coperta". 

Ci sono una miriade di altri esempi simili. A maggio è stato riportato che un'ex assistente di volo della società SpaceX di Musk ha dichiarato che l'azienda le aveva versato 250.000 dollari (207.000 sterline) come risarcimento, dopo aver affermato che Elon Musk si era esposto, le aveva strofinato una gamba e le aveva fatto una proposta di sesso durante un volo per Londra. Lui ha negato tutto (sai che novità). 

Nel 2014 Andy Rubin, inventore del software per smartphone Android, è stato cacciato da Google dopo essere stato indagato per violenza sessuale. Avrebbe costretto una dipendente a fare sesso orale in una stanza d'albergo nel 2013 - affermazione che lui ha negato (sai che novità, bis) 

Travis Kalanick, ex amministratore delegato di Uber, nel 2014 si è vantato con GQ di essere così ricco da poter godere di donne su richiesta. "Sì, noi lo chiamiamo Boob-er", ha ridacchiato. Secondo le accuse, una volta ha portato altri dirigenti di Uber in un bar di escort-karaoke a Seoul, in Corea del Sud, dove hanno scelto le ragazze da una fila. La dirigente donna se ne andò, apparendo "visibilmente turbata".

Ma sicuramente, come Elon Musk continua a sottolineare nelle sue smentite, niente di tutto questo è il comportamento probabile di un gruppetto di “super-nerd” stacanovisti e ossessionati da Star Trek. Sembra, come direbbe lo Spock dell'astronave Enterprise, del tutto illogico.

Eppure, secondo alcuni, è proprio perché sono secchioni che si comportano così. Chiamatela pure vendetta dei nerd, ma ora che sono super ricchi e con un ego all'altezza, stanno recuperando il tempo perduto, dopo gli anni dell’adolescenza, in cui solitari, goffi e brufolosi, non riuscivano a quagliare e venivano derisi dalle donne, che presumibilmente preferivano loro i bulletti che praticavano sport.

Un dirigente della Silicon Valley senza nome ha detto a Chang che i suoi colleghi sono così ricchi e i loro prodotti così famosi che i "ragazzi che non riuscivano a conquistare una ragazza al liceo" possono comportarsi come vogliono con le donne e non hanno certo bisogno di essere vincolati alla monogamia. 

Un altro libro da leggere per capire meglio il clima di sottomissione e follia che si respira nella Silicon Valley è “La Valle oscura”, di Anna Wiener, che racconta il sessismo e la denigrazione continua delle donne subita nelle grandi aziende tecnologiche americane. 

Wiener per esempio cita citato un collega che aveva una particolare app per smartwatch, che serviva solo per riprodurre in loop una GIF animata del seno di una donna che "rimbalzava in eterno".

In un'atmosfera del genere, anche se Musk avesse avuto una relazione con la moglie di Brin, sarebbe così sorprendente, nel vuoto morale della Silicon Valley, se i due continuassero a essere visti insieme alle feste? 

Certo, Brin stesso non è certo irreprensibile. Una volta è stato soprannominato il "playboy di Google" per il suo coinvolgimento sessuale con i dipendenti, spingendo il responsabile delle risorse umane dell'azienda a definire il suo comportamento "una denuncia per molestie sessuali pronta a scattare". 

Nel 2013 si è separato dalla prima moglie Anne Wojcicki dopo aver avuto una relazione con una dirigente di Google di nome Amanda Rosenberg. Lui aveva 40 anni e due figli piccoli, lei 27. 

L'ex CEO di Google Eric Schmidt ha rivelato di avere un matrimonio aperto e di aver insonorizzato il suo nido d'amore a New York, dove ha portato una serie di fidanzate molto più giovani. C'è un detto popolare tra le donne che cercano di trovare marito nella Silicon Valley: "Le probabilità sono buone, ma la merce è strana".

"Se dobbiamo credere alle storie scioccanti che provengono dal centro dell'universo tecnologico - conclude Leonard -  'strano' è un grottesco eufemismo".

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 26 luglio 2022.

Forse i banchieri non ce l'hanno, invece i miliardari generici sì: ma se hanno il cuore vuole anche dire che hanno a che fare col problema delle corna, fatte e subite. E si può immaginare che la quantità di corna dipenda anche dai miliardi che opprimono la loro fama: cioè più ne hai più sarà compatta e decisa la folla di femmine (o maschi ovvio, siamo inclusivi) da cui dovrai difenderti, pur godendone i favori, senza poi dover scucire a ogni flirt o divorzio, nel caso di Elon Musk, una Tesla o, nel caso di Sergey Brin un miliardo.

Noi italiani eravamo già agonizzanti sotto una campagna elettorale da subito demente, quando a tirarci su il morale è arrivata questa nuova affascinante notizia di corna e denaro, che, se riferita ad altri, soprattutto se famosi, sempre consola. 

Musk, attualmente detto l'uomo più ricco del mondo (253,4 miliardi di dollari) e Brin (89,9 miliardi di dollari), per ora messo al nono posto della stessa classifica, avrebbero rotto la loro amicizia Paperonica, a causa di una signora, moglie già separata di uno ed ex avventura dell'altro.

Non è detto che sia vero, che magari la storia sia del tutto diversa, che a sposarsi siano Musk con Brin, che tra un mese si ritrovino tutti straccioni, che la storia riguardi altri molto ricchi: ormai ci siamo abituati alla scomparsa della certezza, e milioni di twittanti raccontano le cose come credono che siano o potrebbero essere, e va bene così, sia che si tratti di pettegolezzo che di elezioni. 

La realtà è morta, viva lo spettacolo che ci seppellirà. Maschi cinquantenni gloriosamente attraenti per patrimonio se non di aspetto (ma in questo caso neppur da buttar via), tutti e due creativi del futuro, uno sudafricano di cittadinanza canadese naturalizzato americano (Tesla), l'altro russo naturalizzato americano (Google) e tra loro, nata negli Stati Uniti da madre cinese immigrata e poverissima, l'ultratrentenne carina Nicole Shanahan, geniale e colta imprenditrice che se mai si ritrovasse signorina, di suo ha un capitalino di 50 milioni di dollari, certo nulla rispetto ai forzieri dei suoi uomini (Brin è padre di sua figlia e lei gli ha chiesto un miliardo per divorziare).

Siccome nel mondo dei ricchi e famosi tutto si intreccia e tutti si incontrano, Musk è anche rientrato nella causa per diffamazione di Depp alla ex moglie Amber Heard. 

Queste giovani belle donne non hanno tempo da perdere e non so se il giorno dopo o quello prima lei si era già accoppiata con l'irrefrenabile imprenditore: che non si sa quando lavori preferendo giustamente fare l'amore di qua e di là. 

 Tanto da aver messo al mondo una decina di piccini con varie ragazze imprenditrici del loro futuro, lui risparmiando, con tutti i suoi dollari, sull'acquisto di condom. E comunque, ultime notizie, Musk non perde tempo, è già sceso dal suo aereo privato, (ormai pare che ce l'abbiano tutti) con una nuova bella giovinetta tutta contenta.

Ma poi a noi sinceramente che ce ne frega di queste storie lontane e banali, di ricchezze che non cambiano la vita, di queste separazioni senza fascino, quando qui da noi è la nostra vita a divorziare dal futuro, mentre la politica divorzia da noi? 

Mini consolazione per chi si accontenta: in tema di unioni che si spezzano, notizia succulenta per il twittista italiano noi abbiamo avuto quella di Totti-Blasi, certamente molto più elegante: meno miliardi e nessun disordine, pervaso di sentimento, anche di dolore. 

Che cosa sta succedendo a Elon Musk? Pier Luigi Pisa su La Repubblica il 27 luglio 2022.

Relazioni clandestine, figli segreti, vacanze inattese: la vita dell'uomo più ricco del mondo è più appassionante di una serie tv. Ecco perché dovrebbe interessarci

Danielle:

“Tieni il tuo pene nei pantaloni, vogliono la tua testa” 

Elon Musk:

“E pensare che non faccio sesso da tempo (sigh)” 

Danielle:

“Incredibile, nemmeno in vacanza?” 

Elon Musk:

“Niente” 

In una sera d’estate, su Twitter, si consuma la conversazione più surreale. Tra un account dedicato alle auto elettriche, che spesso interagisce con Musk, un altro account che sembra appartenere a una donna, e l’uomo più ricco del pianeta, la cui vita privata nelle ultime settimane è diventata più interessante dei traguardi raggiunti dalle sue aziende visionarie: Tesla, SpaceX e Neuralink. 

“Che problemi ha Elon?” chiede un altro utente, sempre su Twitter. Poi si risponde da solo: “Il problema di Elon sono i media”. 

L’ultimo ‘problema’ si chiama Wall Street Journal. Il quotidiano americano sostiene che Musk abbia avuto una storia con la moglie di Sergey Brin, il co-fondatore di Google, e che proprio questa relazione abbia causato il divorzio della coppia. “Musk si è inginocchiato per chiedere perdono a Brin”, suo amico di vecchia data, ha scritto il Wsj. 

Ma Elon se la ride, in un selfie. Alle sue spalle c’è proprio Sergey Brin. Sono alla stessa festa, nelle ore in cui il Wsj si preparava a pubblicare la sua storia. E questo, secondo Musk, dimostrerebbe che è tutto falso. “Ho visto Nicole [Shanahan, ndr] due volte negli ultimi tre anni, e sempre con altre persone intorno. Niente di romantico” ha scritto l’imprenditore su Twitter. 

“Il loro divorzio non ha niente a che vedere con me - ha scritto Musk in una mail inviata al New York Post - e sono certo che anche Sergey e Nicole lo possono confermare. Ho parlato con loro due ore dopo l’uscita della storia”. 

Non dovremmo interessarci alla vita sessuale di Elon Musk, né alle sue presunte amanti, né alle sue amicizie finite. Eppure, in un certo senso, siamo costretti a farlo. Perché ogni relazione dell’uomo più ricco del mondo può influenzare il destino delle sue aziende, del mercato in cui operano, della vita dei suoi dipendenti. Persino di coloro che potrebbero esserlo in futuro. 

“L’attenzione nei miei confronti è letteralmente esplosa - ha scritto Musk su Twitter - e questo è spiacevole. Farò del mio meglio per concentrarmi su progetti che contribuiscono alla civilizzazione”.

Ma è proprio questo il punto. 

Negli ultimi mesi, complici le sue esternazioni su Twitter e la sua condotta privata, le ‘missioni’ che hanno reso Musk un genio visionario - la persona dell’anno 2021 secondo Time - sono improvvisamente passate in secondo piano. 

Non si parla più, per esempio, dei progressi che sta facendo il nuovo razzo di SpaceX, Starship, con cui l’imprenditore sogna di trasferire gli uomini su Marte. Oppure del suo nuovo obiettivo: spedire un milione di persone sul pianeta rosso entro il 2050. È sfilato in sordina persino l’annuncio sul Cybertruck di Tesla, che secondo Musk uscirà finalmente dalla fabbrica a metà del 2023. 

No, invece si parla delle vacanze di Musk a Mykonos, in Grecia. Delle sue foto in costume, su cui è lo stesso imprenditore a scherzare su Twitter: “Probabilmente dovrei mangiare meglio e togliermi la maglietta più spesso”. 

Ma non è il suo stato di forma, che fa notizia. Colpisce piuttosto che Musk, nel mezzo della tempesta causata dal voltafaccia sull’acquisizione di Twitter, e di una recessione economica che lo ha portato a tagliare diversi posti di lavoro, si conceda una giornata a bordo di un super yacht. Lui che nel 2018 dormiva sul pavimento della fabbrica Tesla per accelerare la produzione della Model 3. Lui che affermava: “Non credo che le persone lavorerebbero duramente sapendo che il loro Ceo è in vacanza”.

Questo non vuol dire che Musk non abbia diritto alle ferie. Ma i tempi, e persino i modi, lasciano interdetti. Prendere il sole su uno yacht extralusso si avvicina, di molto, alla sua celebre frase rivolta ai dipendenti Tesla che si lamentavano del troppo lavoro: “Potrei starmene a bere Mai Tai con delle modelle nude - avrebbe detto l’imprenditore - ma invece me ne sto qui con voi”. 

Due settimane prima di volare in Grecia, con il suo jet privato, un’altra grana: Business Insider svela che a novembre del 2021, in gran segreto, Musk è diventato padre di due gemelli. Sembra puro gossip, ma di fatto non lo è. Perché la madre dei bambini si chiama Shivon Zilis ed è una importante dirigente di Neuralink, l’azienda fondata proprio da Musk che punta a trasformare gli esseri umani in cyborg, impiantando microchip nel loro cervello. 

Elon Musk ha avuto una relazione con una sua dipendente, dunque. E se questo da una parte lascia interdetti, dal punto di vista etico, dall’altra getta un’ombra sulle accuse di molestie che hanno investito Musk recentemente. SpaceX avrebbe pagato un’assistente di volo dell’azienda 250mila dollari per mantenere il silenzio sulla condotta dell’imprenditore, che nel 2016 avrebbe mostrato il pene alla donna promettendole l’acquisto di un cavallo in cambio di un massaggio erotico. 

La relazione con Shivon Zilis non conferma questa accusa. Avvalora, semmai, l’ipotesi che Musk non si faccia scrupoli nell’avvicinare le sue dipendenti. Non prova che Musk è un molestatore seriale, è piuttosto l’indizio di un atteggiamento. Che gli investitori, gli stessi dipendenti - e l’opinione pubblica - possono (o meno) tenere in conto. 

Zilis, esperta di intelligenza artificiale e machine learning, inserita da Forbes nella sua lista "30 Under 30”, non ha mai parlato alla stampa dopo lo scoop sui gemelli. A Neuralink era direttrice delle operazioni e dei progetti speciali, ma ora sul suo sito personale non c’è più traccia della sua posizione lavorativa nell’azienda fondata da Musk. E la sua pagina LinkedIn, che riportava le sue esperienze lavorative in Neuralink, è stata cancellata. Shivon Zilis, insomma, è sparita dai radar. 

Così come è sparito, negli ultimi giorni, il co-fondatore di Neuralink Paul Merolla, che su LinkedIn ha detto di aver lasciato la società per inseguire un progetto personale "ancora segreto". Stando a quello che riporta Reuters, degli otto fondatori dell'azienda ora ne restano soltanto due: Elon Musk e l'ingegnere Dongjin 'Dj' Seo. 

Qualcosa non funziona come dovrebbe, a Neuralink. Musk ha annunciato che il primo test di impianto di microchip su esseri umani avverrà quest'anno. Ma aveva promesso la stessa cosa nel 2020 e nel 2021. Intanto l'azienda rivale Synchron, fondata un anno fa dall'ex presidente di Neuralink, Max Hodak, ha già ricevuto dalla FDA il via alla sperimentazione sugli uomini e ha appena annunciato di aver impiantato un microchip in un paziente americano. 

Cambiano le persone che fanno parte del'"inner circle" di Musk, insomma, un cerchio della fiducia che vale miliardi di dollari. Nelle grazie dell'imprenditore, secondo il Wsj, è entrato recentemente un ex giocatore di poker professionista, il 34enne russo Igor Kurganov, che per la Musk Foundation si è occupato nel 2021 di amministrare azioni Tesla per il valore di 5,7 miliardi di dollari. 

Kurganov, che insieme a Musk avrebbe sviluppato una strategia chiamata "altruismo effettivo", non è visto di buon occhio da Jared Birchall, 48enne ex bancario di Morgan Stanley, che da sei anni è a capo di Excession, una società di servizi di Austin (Texas) che gestisce il patrimonio di Musk e i suoi investimenti. Il family office dell'imprenditore, insomma. 

Proprio Birchall ha aiutato Musk a mettere insieme i miliardi di dollari - circa 44 - necessari per formulare l'offerta d'acquisto di Twitter, che ora è rimessa alla decisione di una giudice del Delaware dopo che l'imprenditore ha annunciato di aver cambiato idea, poiché il social network non avrebbe fornito dati chiari e certi sui suoi bot.

Verrebbe da dire che Elon Musk, in questo delicato periodo della sua vita, in cui si sente sotto attacco, potrebbe cercare riparo nella sua famiglia. Nei figli che solitamente lo accompagnano nei viaggi in Europa, com'è accaduto quando Musk è volato recentemente a Roma, per incontrare il Papa, e a Venezia per visitare la città.

Ma anche in casa Musk non vive un periodo tranquillo, se si pensa alle recenti dichiarazioni di uno dei suoi sette figli, Xavier, che ha chiesto alla Contea di Los Angeles di poter cambiare nome e genere una volta compiuti i 18 anni, per non essere più legato "in nessun modo" al padre. 

Xavier prenderà il cognome della madre, Wilson, prima moglie di Musk che non molto tempo fa, in un'intervista, ha rivelato i lati più oscuri dell'imprenditore.

Chi sono i miliardari con più figli? La classifica dei papà-paperoni (solo 10° Elon Musk con 9 bambini). La classifica dei paperoni più prolifici curata da Forbes. Dal miliardario omanita con 15 figli al fondatore di FedEx con dieci. E in una super famiglia sono entrati anche David e Victoria Beckham. Alessia Cruciani su Il Corriere della Sera il 3 Agosto 2022.  

Elon Musk, «solo» nove figli 

Con Jeff Bezos si contende il titolo di uomo più ricco del mondo ma, nonostante i nove bambini messi al mondo, Elon Musk nemmeno si avvicina al podio dei miliardari con il maggior numero di figli. C’è chi arriva addirittura a 15! La vita privata dell’imprenditore sudafricano è tornata alla ribalta nelle settimane scorse quando si è saputo che il numero 1 di Tesla e di SpaceX è padre anche di due gemelli avuti con Shivon Zilis, oggi dirigente di Neuralink (altra società fondata da Musk). Una notizia che ha convinto la testata economica Forbes a fare un calcolo su quanti figli hanno gli uomini più ricchi del mondo. Quindi, il 51enne Musk è fermo a quota nove (in realtà il decimo figlio, il suo primogenito, morì dopo appena 10 settimane), inclusi tre gemelli e due coppie di gemelli, avuti da tre mamme diverse.

Suhail Bahwan, record con 15 figli 

Forbes ha realizzato una classifica sui miliardari con prole da record limitandosi al passaporto americano. Ma è noto che il paperone più desideroso di condividere il suo patrimonio con tanti eredi, addirittura 15, è l’omanita Suhail Bahwan, che da piccolo commerciante ha costruito un impero immenso. Il suo gruppo è ora la più grande azienda privata dell’Oman, con interessi che vanno dalle auto all’assistenza sanitaria all’edilizia. Nei mesi scorsi è stato anche coinvolto nello scandalo che ha come protagonista l’ex ceo di Renault, Carlos Ghosn, e la Francia ha spiccato ad aprile un mandato d’arresto internazionale per entrambi per la gestione dei fondi della casa automobilistica.

Frank Vander Sloot, 14 figli 

Integratori per la salute e detergenti per la casa ecologici. Questi sono gli oltre 400 prodotti che vende online l’azienda Melaleuca, fondata da Frank VanderSloot, 73 anni, padre di 14 figli. Grande finanziatore delle campagne politiche repubblicane, nato in una umile famiglia di contadini dell’Idaho, ha avuto sei figli dal primo matrimonio e altri otto dalla sua seconda moglie, con cui è sposato da 26 anni. Come spiega Forbes, fin da adolescente VanderSloot si è convertito alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni.

Farris Wilks, 11 figli 

Insieme al fratello Dan, Farris Wilks, 70 anni, aveva iniziato a lavorare come scalpellino fino a diventato uno dei più potenti petrolieri degli Usa. L’imprenditore texano, un selfmade man con un patrimonio da 1,3 miliardi di dollari e il dodicesimo proprietario terriero più grande d’America (con 672.000 acri di terra), ha avuto 11 figli con la moglie Jo Ann. Entrambi sono collegati ai gruppi cristiani conservatori.

David Duffield, 10 figli 

Cinque figli avuti dalla moglie Cheryl e cinque adottati per David Duffield, il fondatore delle società di software Workday e PeopleSoft (venduta poi a Oracle per 10,7 miliardi di dollari nel 2005). Già nonno di sette nipoti, adora anche gli animali e vive in Nevada. Anzi, è proprio alle associazioni che difendono e proteggono gli animali che l’81enne Duffield ha devoluto centinaia di milioni di dollari. Il suo patrimonio personale è di 9,6 miliardi di dollari. 

Grande filantropo, 78 anni, con un patrimonio di 1,4 miliardi di dollari, Jerry Moyes ha avuto dieci figli dalla moglie Vickie, con cui è sposato da oltre 40 anni. Insieme al papà, fondò a Phoenix nel 1966 la Swift Transportation per consegnare cotone e acciaio tra l'Arizona e la California con un solo camion. La compagnia di trasporti è diventata una delle più grandi degli Usa con 20.000 camion e circa 4 miliardi di dollari di entrate annuali (prima di fondersi con Knight Transportation nel 2017). Moyes è stato anche proprietario della squadra di hockey Phoenix Coyotes, oltre a controllare anche la compagnia aerea charter Swift Air e FBO Swift Aviation all'aeroporto internazionale di Phoenix Sky Harbor.

Jerry Moyes, 10 figli 

Grande filantropo, 78 anni, con un patrimonio di 1,4 miliardi di dollari, Jerry Moyes ha avuto dieci figli dalla moglie Vickie, con cui è sposato da oltre 40 anni. Insieme al papà, fondò a Phoenix nel 1966 la Swift Transportation per consegnare cotone e acciaio tra l'Arizona e la California con un solo camion. La compagnia di trasporti è diventata una delle più grandi degli Usa con 20.000 camion e circa 4 miliardi di dollari di entrate annuali (prima di fondersi con Knight Transportation nel 2017). Moyes è stato anche proprietario della squadra di hockey Phoenix Coyotes, oltre a controllare anche la compagnia aerea charter Swift Air e FBO Swift Aviation all'aeroporto internazionale di Phoenix Sky Harbor.

Nelson Peltz, 10 figli 

Ottanta anni, tre matrimoni e dieci figli per l’investitore e creatore di fondi Nelson Peltz. L’uomo d’affari è stato protagonista delle cronache rosa negli ultimi mesi per il matrimonio a maggio della figlia Nicola, avuta dall’ex modella Claudia Heffner, con Brooklyn Beckham, figlio di David e Vicotira Beckham. Secondo Forbes la sua società di investimento Trian Fund Management vale 8,5 miliardi di dollari, mentre il suo patrimonio personale è di 1,6 miliardi.

Richard Schulze, 10 figli 

Entrambi rimasti vedovi a causa del cancro, il fondatore e presidente di Best Buy, Richard Schulze e sua moglie Maureen sono dei grandi sostenitori della ricerca scientifica. Con le due signore Schulze, il miliardario di 81 anni ha messo al mondo dieci figli. Aveva iniziato a lavorare come rappresentante di un produttore di componenti elettronici prima di aprire il suo negozio di apparecchiature stereo, Sound of Music, nel 1966. L’origine di quella che è diventata la grande catena Best Buy, di cui detiene ancora una quota dell11% che fa di lui uno degli uomini più ricchi del pianeta con un patrimonio di 3,8 miliardi di dollari.

Fred Smith, 10 figli 

Due matrimoni e dieci figli anche per il fondatore di FedEx, Fred Smith, 77 anni. Tutti i figli sono impegnati nelle varie società acquisite negli anni dall’imprenditore del Mississipi. Una carriera da magnate del traporto decollata, è proprio il caso di dirlo, grazie a una mossa disperata a un tavolo da gioco di Las Vegas per trovare i fondi indispensabili per salvare il suo progetto. Personaggio stravagante, Smith ha interpretato anche se stesso nel film Cast Away, quando Tom Hanks, pilota della FedEx riesce a tornare a casa dopo che l’aereo era precipitato anni prima. Il 1 giugno 2022 ha lasciato la guida di FedEx, che fattura 84 miliardi di dollari l’anno. Il suo patrimonio personale è di 5,1 miliardi.

Scott Smith, 9 figli

Pareggia il conto con Elon Musk, il 73enne Scott Smith, padre di nove figli. Ed è proprio con due di loro (Ryan e Jared) che ha fondato la società di cloud computing Qualtrics, con sede nello Utah. Tre giorni prima della sua Ipo (offerta pubblica iniziale), programmata nel gennaio 2019, Qualtrics è stata acquisita dalla società di software tedesca SAP per 8 miliardi di dollari in contanti. Il suo patrimonio è di 1 miliardo di dollari tondo tondo.

Elon Musk. Da Ansa il 2 dicembre 2022.

Entro sei mesi Neuralink sarà in grado di impiantare il suo primo dispositivo nel cervello di un essere umano, per comunicare con i computer attraverso il pensiero.

"Ovviamente siamo attenti che funzioni bene, abbiamo presentato tutti i nostri documenti alla Fda (l'agenzia che si occupa della salute pubblica negli Stati Uniti, ndr) e crediamo che entro sei mesi saremo in grado di avere il nostro primo impianto in un essere umano", ha annunciato Elon Musk, a capo della start up che si occupa di neurotecnologie e anche di Tesla, SpaceX e Twitter.

"Siamo fiduciosi che il dispositivo di Neuralink sia pronto per l'uomo, quindi la tempistica dipende dal processo di approvazione della Fda", ha poi chiarito su Musk su Twitter.

L'orizzonte di sei mesi è un ulteriore rinvio del progetto.

Nel luglio 2019, Musk aveva stimato infatti che Neuralink potesse eseguire i suoi primi test sulle persone nel 2020. Ma finora, ii test sono stati fatti su animali. Alcune scimmie, con le sperimentazioni, sono state in grado di "giocare" ai videogiochi o di "digitare" parole su uno schermo, semplicemente seguendo con gli occhi il movimento del cursore sul display.

Musk e gli ingegneri di Neuralink hanno anche fatto il punto sugli ultimi progressi della start-up nello sviluppo del robot chirurgo e nello sviluppo di altri impianti, da installare nel midollo spinale o negli occhi, per ripristinare la mobilità o la vista. Altre società stanno lavorando al controllo dei computer con il pensiero, come Synchron, che a luglio ha annunciato di aver implementato la prima interfaccia cervello-macchina negli Stati Uniti.

DAGONEWS il 2 dicembre 2022.

Nel 2016, Elon Musk, l'uomo più ricco del mondo ha fondato Neuralink, un'azienda di neurotecnologie grazie alla quale spera di impiantare presto dei chip nel cervello delle persone.

Denominato Link, il chip monitorerebbe e stimolerebbe persino l'attività cerebrale.

In particolare, secondo Musk, è promettente per il "ripristino delle funzioni sensoriali e motorie e il trattamento dei disturbi neurologici".

Questa è solo una delle numerose affermazioni che il miliardario ha fatto riguardo al lavoro che Neuralink sta conducendo.

Tuttavia, secondo gli esperti, la realtà della situazione potrebbe essere un po' più complessa di quanto Musk lasci intendere.

All'inizio di quest'anno, Neuralink ha confermato che alcune delle 23 scimmie macaco coinvolte negli esperimenti Link sono morte a causa di traumi o per eutanasia.

Gli esperimenti sono stati condotti dal 2017 al 2020 e hanno persino spinto il Physicians Committee for Responsible Medicine a presentare una denuncia contro Neuralink per aver sottoposto le scimmie ad abusi.

Traumi facciali, convulsioni e perdita di dita dei piedi e delle mani sono solo alcuni dei traumi subiti dagli animali.

Poco dopo la presentazione del rapporto, molti animalisti sono scesi in campo sui social per denunciare pubblicamente Musk e Neuralink.

Ricercatori e scienziati hanno espresso paura e orrore per l'obiettivo di Musk di collegare il cervello umano ai computer.

Ciò deriva principalmente da molti interrogativi sulla sicurezza dei dispositivi.

Nel frattempo, il dottor Johnson del SUNY Upstate ha messo in dubbio che la scienza sostenga la visione di Musk.

«Se Neuralink sostiene che sarà in grado di usare il suo dispositivo a livello terapeutico per aiutare le persone disabili, sta facendo troppe promesse che non possono essere mantenute», ha detto Johnson.

Altre preoccupazioni riguardano l'uso improprio di questa tecnologia a scopo di lucro. «Temo che ci sia un matrimonio scomodo tra un'azienda a scopo di lucro e questi interventi medici che si spera possano aiutare le persone», ha dichiarato la dottoressa Karola Kreitmair, assistente alla cattedra di storia della medicina e bioetica presso l’Università del Wisconsin-Madison.

«Il nostro cervello è il nostro ultimo baluardo di libertà, il nostro ultimo luogo di privacy» ha dichiarato la dottoressa Nita Farahany, studiosa di tecnologie emergenti presso la Duke University School of Law.

Michele Serra per "la Repubblica" il 2 dicembre 2022.

Come spiega, con esemplare nettezza, Riccardo Luna nella sua ultima "Stazione futuro", Elon Musk è molto popolare tra i suoi colleghi miliardari perché è un vero e proprio iper-padrone: "arriva, licenzia oltre la metà dei dipendenti, abolisce lo smart working, chiede e ottiene da chi resta di lavorare senza limite di orario, cambia la maglietta aziendale da Stay Woke - slogan della campagna dei neri d'America che invita a stare in guardia sui diritti - in Stay at Work, stai a lavoro". Ovvia postilla, la simpatia ieri per Trump, oggi per Ron De Santis, astro sorgente della destra americana nerboruta.

Se il profilo è fedele al personaggio, e lo è, la vera domanda non è perché Musk sia molto ammirato dagli altri straricchi della top ten: si tratta della più classica solidarietà di classe. La vera domanda è come sia possibile che centinaia di milioni di fan, in tutto il mondo, ne abbiano fatto un idolo, un mito, un modello da emulare, una specie di Messia della religione tecnologica; senza che la sua brutalità padronale (se non vi piace la definizione, suggeritene una più calzante) sollevi non dico ostilità, ma perlomeno diffidenza.

La vecchia immagine del padrone in cilindro e marsina delle vignette socialiste di un secolo fa era figlia dell'ideologia e della sua rigidità. Ma l'attuale popolarità di Musk, e degli altri iper-padroni in t-shirt, è figlia della dabbenaggine post-ideologica, incapace di aguzzare la vista di fronte a sperequazioni di reddito stellari, da epoca dei faraoni. Nessun merito può spiegare la mostruosa catasta di miliardi sulla quale siedono i giovani padroni techno. Vale a spiegarla, piuttosto, il demerito: la reverente mediocrità delle folle che adorano chi le sottomette.

Estratto dell'articolo di Massimo Basile per "la Repubblica" il 2 dicembre 2022.

Due anni fa era toccato alla maialina Gertrude muoversi in un recinto con un microchip. Sei mesi fa una scimmia aveva mosso i cursori di un videogioco. Tra sei mesi potrebbe toccare agli umani testare la nuova creazione di Elon Musk. Il miliardario che ha acquistato Twitter e sogna viaggi su Marte è convinto che la sua sfida sul cervello umano sia a un passo dalla svolta: il primo dispositivo di Neuralink, compagnia di neurotecnologie fondata nel 2016, verrà impiantato in un cranio umano e permetterà di interfacciarsi con un dispositivo esterno in collegamento wireless.

È stato chiamato "The Link", all'inizio dovrebbe occuparsi di disabilità legate a traumi o degenerazioni, ma in futuro il chip verrebbe inserito nel midollo spinale per "curare" le paralisi. «Vogliamo accertarci che tutto funzioni - ha spiegato Musk, presentando il progetto nel quartier generale di Fremont, California - prima di mettere un chip nel cervello di un uomo. Ma intanto abbiamo presentato la documentazione alle autorità».

Le sue parole sono state accolte dagli applausi della platea, ma il mondo scientifico è cauto. L'era dei microchip sembra ancora lontana e Musk resta un enigma. […]

Quando il magnate sostiene che un chip grande come una moneta impiantato nel cranio permetterà di sfidare malattie degenerative come Parkinson e Alzheimer, nessuno sa quanto ci sia del lucido visionario o dell'imbonitore.

Intanto le tempistiche sono saltate. La sperimentazione sull'uomo sarebbe dovuta partire in questi giorni, ma i ritardi hanno bloccato l'intero processo. Musk aveva minacciato di spostare i suoi investimenti sulla compagnia rivale, Synchron, che nel frattempo aveva ricevuto via libera per sperimentare il suo dispositivo su un paziente negli Stati Uniti e quattro in Australia. Poi ci ha ripensato, è tornato a magnificare Neuralink e aspetta il via libera della Fda, la Food and drug administration , l'agenzia federale che regolamenta l'uso di farmaci.

Da due anni Musk viene attaccato dagli animalisti, che lo hanno accusato di aver sottoposto maiali e scimmiette a trattamento crudele. Alcuni macachi sono morti durante gli esperimenti a causa di infezioni del sangue e emorragie cerebrali. Altri hanno mostrato segni di autolesionismo e sono stati soppressi.

«Gli hardware - spiega al New York Times il neuroscienziato Daniel Yoshor - sono straordinari ma non rappresentano un miglioramento decisivo nel ristabilire funzioni del cervello o nell'attivarle». Musk ha già respinto le perplessità della comunità scientifica: è convinto di aver trovato il modo di infilarsi tra gli 86 miliardi di neuroni che compongono il vostro cervello.

Elon Musk posta su Twitter la foto con i figli e Papa Francesco. Ignazio Riccio il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il miliardario statunitense ha reso pubblico un incontro non inserito nell’agenda ufficiale della Santa Sede. I due hanno parlato delle nuove tecnologie che potrebbero salvare il mondo.

L’incontro non era inserito nel bollettino ufficiale della Santa Sede, molto probabilmente perché nelle intenzioni del Vaticano doveva mantenere il carattere della riservatezza, ma ci ha pensato il magnate Elon Musk, numero uno delle società SpaceX e Tesla, a renderlo noto al mondo intero. Il miliardario statunitense di origine sudafricana ha postato sul suo account Twitter la foto che lo ritrae, insieme a quattro dei sette figli, con Papa Francesco. Erano quasi due settimane che l'uomo più ricco del mondo non scriveva sulla piattaforma di social network che sta per acquistare. Non è chiaro né il luogo dell'incontro, probabilmente Santa Marta, né perché Musk sia stato ricevuto dal Pontefice. “Onorato di incontrare @pontifex ieri”, ha scritto in maniera stringata su Twitter. Con Papa Francesco Musk ha parlato delle nuove tecnologie che salveranno il mondo.

Accanto al Pontefice anche i quattro ragazzi adolescenti di Musk. Il miliardario, in realtà, ha otto figli. I ragazzi presentati a Papa Francesco sono quelli avuti dalla scrittrice canadese Justine Wilson, con la quale ha portato avanti una relazione dal 2000 al 2008. Justine Wilson aveva avuto un primo figlio con Musk, Nevada, nel 2002, che morì dieci giorni dopo la nascita per la Sids, la Sindrome della morte in culla. Più tardi ebbe due gemelli, Xavier e Griffin, e poi altri tre, Damian, Kai e Saxon, che ora hanno 16 anni. I cinque adolescenti hanno sempre mantenuto un profilo piuttosto basso, nonostante il padre abbia l'affidamento congiunto.

Fino al 20 giugno scorso, quando Xavier, 18 anni, ha dichiarato di essere transgender: dal punto di vista legale vuole essere riconosciuto come donna e con il suo nuovo nome, Vivian Jenna Wilson. Ha cercato anche di tagliare tutti i suoi legami con il padre, infatti no nera presente all'incontro con Papa Francesco. Quasi sicuramente, la ragazza non ha apprezzato i commenti di Musk sui pronomi di genere che non sono piaciuti alla comunità transgender. In passato, il miliardario aveva dichiarato, sempre su Twitter, di essere “assolutamente favorevole ai trans”, ma ha definito “un incubo estetico tutti questi pronomi”. Da qui una serie di polemiche che ancora non si sono assopite, nonostante la sua società di auto elettriche, Tesla, sia in cima alla lista annuale dei migliori posti in cui lavorare per le persone Lgbtq.

Il figlio più famoso di Elon, in ogni caso, è quello nato con la sua attuale fidanzata Grimes (il cui vero nome è Claire Boucher). La cantante ha dato alla luce il loro figlio X A-Xii ( X AE A-XII ) il 4 maggio 2020. Nel marzo di quest'anno, Grimes ha colto tutti di sorpresa raccontando che con Musk hanno avuto un altro figlio con madre surrogata, nel dicembre 2021, e hanno chiamato la bambina, Exa Dark Siderl Musk , soprannome "Y", mentre il maschio pare venga chiamato con un più facile "X".

Da repubblica.it il 7 Luglio 2022.

Elon Musk, il tycoon di Tesla e SpaceX, ha avuto due gemelli l'anno scorso con una dirigente della sua azienda Neuralink, la canadese Shivon Zilis, 36 anni.

I bambini, che secondo Insider sono nati a novembre, sono arrivati poche settimane prima che Musk, 51 anni, e l'artista musicale Grimes avessero il loro secondo figlio tramite maternità surrogata. 

In totale, Musk ha avuto dieci figli, uno dei quali è morto poco dopo la nascita. Il mese scorso, uno dei suoi figli, che ha da poco compiuto 18 anni, ha presentato richiesta a un tribunale della California per cambiare il suo nome e la sua identità di genere in femminile. Nel documento del tribunale la ragazza ha affermato: "Non vivo più con il mio padre biologico e non desidero più avere rapporti con lui in alcun modo".

Musk, Marte e quei "gemelli segreti": cosa succede al capo di Tesla. Federico Garau su Il Giornale il 7 Luglio 2022. 

L'umanità sul pianete Marte? Secondo il famoso imprenditore Elon Musk non mancherebbe molto al raggiungimento di questo traguardo.

In uno dei suoi più recenti post su Twitter, infatti, il patron di Tesla e SpaceX afferma senza mezzi termini: "Humanity will reach Mars in your lifetime", ossia "L'umanità raggiungerà Marte nel corso della tua vita". Insomma, secondo Musk l'evento dovrebbe avvenire nella nostra generazione, entro pochi anni. 

Il post di Musk ha ovviamente fatto esplodere i commenti degli utenti, alcuni molto entusiastici altri critici. Fra gli internauti qualcuno si è addirittura chiesto se questa umanità sarebbe in grado di gestire un enorme passo in avanti come il raggiungimento del pianeta rosso. Altri, invece, affermano che in questo preciso momento storico sarebbe importante cercare di migliorare le condizioni di vita sulla Terra. Non mancano, tuttavia, le persone pronte a lanciarsi nella nuova avventura, seguendo la visione di Musk.

Lo stesso imprenditore, fra l'altro, dichiara che "senza un obiettivo comune, l'umanità finirà col combattere se stessa" e "la Luna ci ha uniti nel '69, Marte può fare lo stesso in futuro". Insomma, gli obiettivi di Elon Musk sono chiari. E a suo dire non mancherebbe molto.

Intanto, proprio in questi giorni, il patron di Tesla è finito al centro di una feroce polemica dopo la diffusione della notizia di due gemelli che avrebbe avuto con una dirigente di Neuralink, una delle sue società.

Secondo il sito web d'informazione statunitense Business Insider, Musk avrebbe avuto i due bambini con la 36enne canadese Shivon Zilis, la quale avrebbe già presentato domanda presso un tribunale del Texas per cambiare il cognome ai piccoli, in modo tale che abbiano il cognome Musk, oltre a quello materno. Il giudice, sembra, avrebbe dato la sua approvazione.

La coppia di gemelli, sempre stando a quanto riferito da Busines Insider, sarebbe nata qualche settimana prima del secondo figlio di Musk, avuto dalla musicista Grimes, chiamato Exa Dark Sideræl Musk.

Maurizio Maggiani per “La Stampa” il 17 giugno 2022.

Per dire quanto sono stupido, e vecchio, e ignorante, una notte di questa primavera, volgendo lo sguardo lassù al cielo stellato e terso e cristallino come solo qui in questa campagna senza luci e fumi può esserlo d'aprile, mi sono raggelato anch' io come il sidereo lassù notando il transitare di un gran stormo di lucine in movimento sincrono da ovest a est, lontane e veloci oltre ogni possibile mezzo aereo, troppe per ogni possibile convoglio spaziale umano. 

Giuro che ho pensato di godere del privilegio agognato nella mia antica pubertà di assistere all'invasione aliena; a parziale scusante ammetto di essermi nutrito, anzi, saziato, nella critica età dello sviluppo dei libri di Peter Kolosimo, e nel lampo di un giorno dei miei dodicianni, di aver sostituito il catechismo della cresima con Non è Terrestre. 

Naturalmente ho reclamato a gran voce testimoni, e tutta la famiglia ha visto e concordato, madida d'ansia e smarrimento, davvero era giunta l'ora, davvero ne eravamo noi i testimoni? 

È stato un momento di magica unicità, poi il nipote più grande ha messo in moto il suo telefono e siamo venuti a sapere che avevamo visto schierare in orbita lo stormo di un centinaio di satelliti per le telecomunicazioni di proprietà del signor Elon Musk, lanciati da un vettore di sua proprietà, a compimento della prima fase di un'impresa che vedrà in orbita dodicimila satelliti i cui segnali a banda larga copriranno l'intero globo a beneficio dell'umanità tutta. 

Non ho dimenticato quel notturno cielo d'aprile infestato di alieni, ma non ho riflettuto un granché sulla flotta celeste del signor Musk, fino a quando non ti vengo a sapere che l'alta precisione di tiro dell'artiglieria ucraina che tanti danni sta arrecando alle forze d'invasione è merito del signor Musk, che ha offerto gratuitamente all'esercito ucraino la sua rete satellitare per la guida precisa al centimetro del tiro. 

Beh, a me pare che valga la pena di pensarci un po' su; dunque, c'è un privato cittadino che di fatto ha dichiarato guerra a uno stato. Il cittadino in questione non è un patriota ucraino che ha messo a disposizione della patria i suoi potenti mezzi, e non è neppure un mercenario al servizio dello straniero, così come ce ne sono tanti e tanti ce ne sono stati nei secoli.

No, è qualcosa di più; è l'uomo più ricco del mondo che possiede un terzo dei satelliti orbitanti, più degli USA per capirci, e si appresta ad essere monopolista assoluto nel settore dei voli spaziali, che per ragioni tutte sue, forse ideali, chissà, ha deciso non semplicemente di influenzare, ma addirittura di determinare l'esito di un conflitto tra due stati sovrani. 

No, non è un soldato di ventura a contratto, ma il proprietario di una possibile vittoria contro la nazione più vasta del mondo. La potenza dei suoi mezzi è tale che, non escludendo la possibilità di altri suoi interventi ideali, meriterebbe un posto tra i membri permanenti del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Vi piace questa evenienza?

A me lo confesso, fa venire gli stessi elettrizzanti brividi di quella notte, di quando ho paventato, seriamente, un'invasione aliena. Pensiamoci. Pensiamo alle nazioni, agli stati, al buon vecchio Moloch a cui abbiamo affidato il compito di proteggerci da noi stessi in cambio di grandi, esclusivi, tragici poteri; il potere di battere moneta, la testa di Cesare testimonia che quel pezzo di metallo è oro, il potere di imporre tributi, il potere di controllo su sudditi e cittadini, il censimento come strumento di massimo controllo, il potere di usare violenza contro chi tra loro trasgredisce, e infine il potere di dichiarare guerra.

Cosa resta del Moloch dopo Musk, e quindi dopo Bezos, Zuckerberg, Gates gli attori planetari di poteri che sono stati esclusività statali? Che emettono moneta di corso globale senza metterci nemmeno la faccia, pagano le tasse se e quando e dove e come vogliono, che possiedono i dati di censimenti che superano di gran lunga le informazioni in possesso delle istituzioni preposte, che applicano violenza censoria in base a leggi che essi stessi definiscono, comprese le leggi morali, che possono dichiarare guerra e condurla a loro personale giudizio. 

E lo fanno esentati da qualsiasi possibilità di critica attiva; noi volentieri scioperiamo contro l'abuso della tassazione, ma non scioperiamo contro Bezos per lo straordinario surplus legato alle sue tariffe, e protestiamo con calore contro il controllo statale dei nostri dati sensibili e più che mai dei nostri conti correnti, mentre concediamo tutto di noi a Zuckerberg, e partecipiamo a veementi cortei contro la guerra che ci impongono i nostri rappresentanti eletti e manco ci pensiamo alla guerra di Musk. 

Cosa resta della sovranità degli stati se agli sono stati alienati i loro poteri più esclusivi, e cosa resta della sovranità dei cittadini se sono soggetti all'esercizio del potere sui loro stessi corpi e sull'anima della loro cittadinanza da entità private che escludono l'idea stessa di legittima rappresentanza? 

Allo stato rimane il solo potere di indebitarsi, magari con gli stessi privati, in favore di sé stesso e dei suoi cittadini, e si capisce bene come siano così ostinatamente gelosi della prerogativa di stabilire il diritto di cittadinanza. Ai cittadini non rimane niente, se non il fantasma della sovranità esercitata nel libero voto; una parvenza, visto che in queste contingenze di ristrettezza lo stato ha la necessità di comprimerla e deprimerla la sovranità popolare, e questa frustrante evenienza ha il nome gradevole di governabilità, la necessità di gestire la cosa pubblica comunque e nonostante la volontà popolare. Intento che, come ad esempio per l'attuale governo, può anche essere lodevole, ma senza alcun rapporto con la volontà espressa dai cittadini con il loro voto.

Così che la lotta contro l'usurpazione di sovranità, è una lotta contro un fantasma, e i fantasmi non possono dare nulla perché nulla possono toccare con mano. Ma anche se non li possiamo toccare con mano, non sono fantasmi i signori Musk e colleghi, sono cogente materia, solo che è materia allocata altrove, in un altrove sempre più irraggiungibile, e, non proprio metaforicamente, prossimamente su un altro pianeta, e vorrei vivere abbastanza per vedere cosa succederà quando la sede sociale delle aziende Musk avrà sede su Marte.

Con quali strumenti potremo mai, noi cittadini, noi governi, rivendicare e confliggere per ciò che della nostra sovranità, e della nostra vita, si sono presi? Non ne abbiamo; si è palesata una nuova epoca, un'epoca mitologica di poteri trascendenti. Sempre che lo si voglia un conflitto; perché gli stati, i governi, sanno farsi odiare, altroché se sanno farlo, ma loro sanno solo essere carini e amabili con noi clienti; perché odiare chi ci offre a prezzo che ci possiamo anche stare la Champions League, il pasto caldo a casa, l'accesso a tutto quello che crediamo di voler sapere, tutti i cartoni animati del mondo per i nostri figli che così non rompono. E tutto il bendidio che sanno darci. È questa una nuova, tragica età dell'oro, dove chi sta morendo di fame potrà ricevere sul suo smartphone da due soldi un messaggino del tipo: ;-) Ti regaliamo un sorriso: c'è una nuova piacevole sorpresa per te, perché ci stai a cuore! Vai su. 

DAGONEWS l'1 agosto 2022.

Il padre di Elon Musk ha ammesso di non essere orgoglioso del figlio miliardario, di non guidare una Tesla e ha spiegato perché si è sposato e ha avuto due bambini con la figliastra. 

Errol Musk, 76 anni, ha chiamato al “Kyle and Jackie O Show” sulla radio australiana per una bizzarra intervista di 20 minuti. 

Il padre del boss di Tesla ha detto di non essere particolarmente orgoglioso di Elon: «Siamo una famiglia che fa tante cose da molto tempo, non è che all'improvviso abbiamo iniziato a fare qualcosa. I miei figli fanno cose interessanti e nessuno ha ricevuto l’elemosina da Elon. Kimbal, il fratello minore di Elon, è il mio orgoglio e la mia gioia. Anche lui è un miliardario anche se non è così ricco come il fratello. Se Elon è felice? Si sente in ritardo di cinque anni ed è eternamente insoddisfatto. È frustrato dal dover fare progressi, lo capisco».

E sui chili di troppo di Elon ha aggiunto: «Mangia male, gli ho pure raccomandato un integratore per dimagrire». Inoltre ha confessato di non guidare una Tesla, ma Bentley, Rolls Royce e Mercedes-Benz. Infine ha difeso la sua relazione con Jana Bezuidenhout , la figliastra di 42 anni più piccola, dalla quale ha avuto due figli: «Si tratta di un rapporto completamente normale».

Bufera su Elon Musk: il padre fa una figlia con la figliastra. Massimo Balsamo il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il 76enne Errol Musk è diventato padre di Emily, nata dalla relazione con la figliastra Jana Bezuidenhout di 41 anni più giovane. Errol è stato sposato con la madre di Jana per 18 anni.

“Siamo sulla Terra solo per riprodurci”. Così Errol Musk, padre del celebre imprenditore Elon, ha confermato la nascita della figlia avuta dalla figliastra 35enne. Interpellato dal The Sun, il 76enne ha rivelato di aver messo al mondo la piccola Emily con Jana Bezuidenhout nel 2019, scatenando il dibattito sui social network.

Secondo quanto riferito dai ben informati, Elon non avrebbe accolto di buon grado la notizia. Il Ceo di Tesla “è impazzito” quando ha scoperto la gravidanza di Jana, che ha vissuto a lungo insieme a lui. Errol Musk è stato sposato con la madre di Jana, Heide, per 18 anni, dal loro amore sono nati due figli. La donna aveva avuto tre figli dal precedente matrimonio. Il 76enne ha evidenziato che la gravidanza non era pianificata, anche se i due convivevano già da tempo.

“Non ho fatto il test del Dna”, ha spiegato Errol Musk, “ma Emily somiglia alle altre mie figlie, sembra un mix tra Rose e Tosca”. L’uomo ha ricordato di aver sposato Heide Bezuidenhout nel 1991, tra i due una differenza d’età di 20 anni. “Era una delle donne più belle che abbia mai visto in vita mia”, ha aggiunto.

Errol Musk e la figliastra non vivono più insieme ma il legame affettivo è rimasto. Ma non è tutto. Il figlio di mister Tesla ha ammesso di essere pronto a fare un altro figlio: “Non vedo alcun motivo per non farlo. Se avessi pensato a qualcosa di simile, Elon o Kimbal non esisterebbero”. Certo, la notizia ha destato parecchio scalpore in famiglia. “Le mie figlie erano sotto shock”, ha rimarcato il 76enne, considerando che Jana è la loro sorellastra.

"Spaccatura col padre". Il figlio di Elon Musk chiede il cambio di nome e genere

Ricordiamo che la famiglia Musk è particolarmente numerosa. Il solo Elon ha nove figli, a partire dai due gemelli avuti da Shivon Zillis, dirigente di Neuralink (società guidata dal magnate sudafricano).

Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 22 giugno 2022.

Xavier Alexander Musk vuole diventare Vivian Jenna Wilson. Una notizia che ha destato scalpore perché il padre rinnegato è Elon Musk, fondatore della Tesla. Xavier, transgender 18enne, ha presentato i documenti in tribunale per cambiare il suo genere sessuale ed essere riconosciuta legalmente come Vivian. Ha chiesto, inoltre, di voler cambiare anche il cognome in quello della madre perché non vuole più «essere associata in nessun modo» al suo padre biologico. 

I documenti sono stati presentati a Santa Monica, in California, e la questione sarà sottoposta al giudice preposto questo venerdì. Alla base della decisione radicale di Vivian non ci sarebbero quisquilie economiche sul mantenimento - Musk ha un patrimonio di 214 miliardi di dollari - ma problematiche ben più complicate.

LE POLEMICHE In molti puntano il dito contro le tante dichiarazioni di Musk su temi riguardanti la comunità transgender. Lo scorso anno l'amministratore delegato di Space X si era espresso contro chi utilizza un pronome legato al sesso dal quale si sente rappresentato (invece di usare quello legalmente riconosciuto). 

Un'affermazione che aveva portato Chasten Buttigieg - marito del segretario dei trasporti del governo Biden, Pete Buttigieg - a rispondergli senza troppi giri di parole: «Capisco la tua frustrazione, dolcezza. Vediamoci al termine della lezione e possiamo ripassare il compito insieme, ancora». Inoltre, Musk aveva manifestato il proprio supporto al governatore della Florida Ron DeSantis che era stato condannato dalla comunità Lgbtq per aver proposto una legge che bandiva dalle scuole e dagli asili il tema dell'identità di genere e dell'omosessualità, soprannominata Don't say gay bill.

Musk ha ribadito le proprie posizioni anche di recente: «Ci viene detto contemporaneamente che non esistono differenze di genere e che i generi sono così profondamente diversi da richiedere un'operazione chirurgica. Forse qualcuno più saggio di me può spiegarmi questa dicotomia», ha twittato la scorsa settimana. Opinioni che tuttavia secondo lo stesso Musk non precludono la sua posizione paritaria sui diritti civili.

CONTRO LE DISCRIMINAZIONI L'imprenditore ha più volte sottolineato come la sua Tesla sia sempre nella top list dei luoghi di lavoro più accoglienti per gli appartenenti alla comunità arcobaleno. Non la pensano allo stesso modo i dipendenti di Twitter, che hanno accusato il nuovo proprietario (Musk ha comprato il social per 44 miliardi di dollari) di essere anti-gay e anti-transgender. 

«Cosa dovremmo dire alla comunità Lgbtbq quando andiamo alle conferenze sulle assunzioni quando ci chiedono perché dovrebbero venire a lavorare in Twitter, che è appena stato comprato da un omofobo e transofobo?», ha chiesto, provocatoriamente Dalana Brand, che si occupa proprio di diversità in Twitter essendo Chief People and Diversity Officer.

VITA PRIVATA Musk è stato sposato con la madre di Vivian, Justin Wilson, dal 2000 al 2008 e insieme hanno avuto un primo figlio, Nevada, morto a soli dieci giorni di vita per sindrome della morte in culla. Successivamente la coppia ha avuto due gemelli Xavier e Griffin e altri tre figli maschi: Damian, Kai e Saxon, che ora hanno sedici anni. Di recente Musk è diventato padre di altri due figli con la cantante canadese Grimes: Æ A-Xii, chiamato X, e Exa Dark Sideræl conosciuta come Y (quest' ultima nata tramite maternità surrogata).

Dagotraduzione dal Daily Beast il 22 giugno 2022.

Uno dei figli di Elon Musk ha presentato una petizione per un cambiare il suo nome, dichiarando che «non vivo più né desidero essere imparentato con il mio padre biologico in alcun modo o forma». Il diciottenne vuole assumere il nome da nubile di sua madre, Justine Musk, che è stata la prima moglie di Elon. 

La petizione per far riconoscere ufficialmente il suo genere come femmina e il suo nome formalmente cambiato su un nuovo certificato di nascita è stata depositata presso la Corte Superiore della California ad aprile e ci sarà un'udienza a riguardo alla fine di questo mese.

TMZ è stata la prima a segnalare la notizia, che all'improvviso ha iniziato a circolare su Reddit e Twitter questo fine settimana. 

Il Daily Beast ha inviato un'e-mail a Elon Musk in merito alla petizione di sua figlia prima del rapporto TMZ e lui ha risposto: «Non vuole essere un personaggio pubblico. Penso sia importante difendere il suo diritto alla privacy. Per favore, non pubblicizzare qualcuno contro la sua volontà, non è giusto». 

Successivamente, diversi altri media, tra cui il Los Angeles Times, hanno pubblicato la notizia. Il Daily Beast non è riuscito a contattare Justine Musk o sua figlia per un commento. Ma la mamma ha twittato quando la storia ha iniziato a diffondersi. 

Cathy Renna, direttrice delle comunicazioni della National LGBTQ Task Force, ha dichiarato al Daily Beast che il gruppo «non approverebbe né perdonerebbe mai l'uscita di un giovane perché ha genitori famosi».

«Si spera che questo sia un campanello d'allarme per Elon Musk, che ha una storia di commenti anti-trans e irrispettosi in particolare sull'uso dei pronomi. Ci auguriamo che la ragazza trovi sostegno da altri membri della famiglia e sappia di avere una grande comunità che la supporta in ogni caso», ha aggiunto Renna. 

Il CEO di Tesla e SpaceX, un autodefinito «assolutista della libertà di parola», è stato preso di mira nel 2020 per aver twittato che «i pronomi fanno schifo», spingendo persino il suo partner, Grimes, a chiedergli di spegnere il telefono perché «non può sostenere l'odio». 

Mesi dopo, Musk ha insistito in un altro tweet dicendo che «sostiene assolutamente i trans, ma tutti questi pronomi sono un incubo estetico».

In altri tweet, Musk ha deriso l'idea delle differenze di genere, twittando l'11 giugno che «ci viene detto contemporaneamente che le differenze di genere non esistono e che i generi sono così profondamente diversi che la chirurgia irreversibile è l'unica opzione». «Forse qualcuno più saggio di me può spiegare questa dicotomia», ha aggiunto. 

Allo stesso tempo, lui e la cantante Grimes, che si identifica come "neutro di genere" , avrebbero adottato un sistema genitoriale neutrale rispetto al genere per i loro due figli. 

«Non voglio identificarli con il genere nel caso in cui non sia così che si sentono nella loro vita», ha detto Grimes in precedenza durante un live streaming su YouTube. 

Musk ha cinque figli, gemelli e terzine, con Justine, che nel 2010 ha scritto un saggio feroce per Marie Claire sul loro matrimonio.

«Era cresciuto nella cultura dominata dagli uomini del Sud Africa, e la volontà di competere e dominare che lo ha reso così vincente negli affari non si è spenta magicamente quando è tornato a casa. Questo, e il vasto squilibrio economico tra noi, ha fatto sì che nei mesi successivi al nostro matrimonio, una certa dinamica ha iniziato a prendere piede», ha scritto. 

«Il giudizio di Elon ha prevalso sul mio, e lui continuava a rimarcare i modi in cui mi trovava carente. "Sono tua moglie", gli ho detto più volte, "non una tua dipendente". "Se tu fossi un mio dipendente", diceva altrettanto spesso, "ti licenzierei"».

Dopo il loro divorzio, Justine, una scrittrice di successo, ha continuato a crescere i propri figli fuori dai riflettori, anche se di recente ha attirato l'attenzione per aver twittato sul processo per diffamazione Amber Heard-Johnny Depp, in cui Elon Musk ha svolto un ruolo di supporto.

Xavier, dopo aver compiuto 18 anni, vorrebbe chiamarsi Vivian Jenna Wilson: "Non voglio più essere legata in alcun modo a mio padre". La Repubblica il 20 Giugno 2022.

Uno dei figli di Elon Musk non vuole essere più legato al cognome del padre, l'uomo più ricco al mondo e fondatore di Tesla, e vuole cambiare nome per sancire la transizione di genere. Secondo quanto riporta il sito americano di gossip Tmz, Xavier Musk, dopo aver compiuto in aprile 18 anni, vuole chiamarsi Vivian Jenna Wilson.

La richiesta sarebbe contenuta in un documento depositato presso la Contea di Los Angeles. Xavier dice di voler essere identificato come femmina, ma la questione del nome sembra solo una parte della storia: il figlio sostiene il diritto all'"identità di genere - riporta il documento citato da Tmz - e il fatto che non voglio più convivere o essere legata al mio padre biologico in ogni modo e forma".

Musk e Xavier non hanno mai parlato pubblicamente di questa transizione, anche se il fondatore di Tesla nel dicembre 2020 aveva manifestato sostegno alla comunità transgender, ma aggiungendo che "tutti questi pronomi sono un incubo estetico".

Xavier/Vivian ha un fratello gemello, Griffin. Wilson è il cognome della madre, l'autrice canadese Justine Wilson. L'audizione per il cambiamento del nome è in programma venerdì prossimo.

Il figlio di Elon Musk vuole cambiare nome e genere. La Repubblica il 22 Giugno 2022.

Xavier, uno dei sette figli del fondatore di Tesla, dopo aver compiuto 18 anni, vorrebbe chiamarsi Vivian Jenna Wilson: "Non voglio più essere legata in alcun modo a mio padre".

Uno dei figli di Elon Musk non vuole essere più legato al cognome del padre, l'uomo più ricco al mondo e fondatore di Tesla, e vuole cambiare nome per sancire la transizione di genere. Secondo quanto riporta il sito americano di gossip Tmz, Xavier Musk, dopo aver compiuto in aprile 18 anni, vuole chiamarsi Vivian Jenna Wilson.

La richiesta sarebbe contenuta in un documento depositato presso la Contea di Los Angeles. Xavier dice di voler essere identificato come femmina, ma la questione del nome sembra solo una parte della storia: il figlio sostiene il diritto all'"identità di genere - riporta il documento citato da Tmz - e il fatto che non voglio più convivere o essere legata al mio padre biologico in ogni modo e forma".

Musk e Xavier non hanno mai parlato pubblicamente di questa transizione, anche se il fondatore di Tesla nel dicembre 2020 aveva manifestato sostegno alla comunità transgender, ma aggiungendo che "tutti questi pronomi sono un incubo estetico".

Xavier/Vivian ha un fratello gemello, Griffin. Wilson è il cognome della madre, l'autrice canadese Justine Wilson. L'audizione per il cambiamento del nome è in programma venerdì prossimo.

Justine Wilson, sposata con il fondatore di Tesla dal 2000 al 2008. ha avuto un figlio con Musk, Nevada, nel 2002, che morì 10 giorni dopo la nascita per la Sids, la sindrome della morte in culla. Più tardi ebbe due gemelli - Xavier e Griffin - e poi altri tre, Damian, Kai e Saxon, che ora hanno 16 anni. I cinque adolescenti hanno sempre mantenuto un profilo piuttosto basso, nonostante il padre abbia l'affidamento congiunto. Musk è padre di altri due figli: X AE A-XI ed Exa Dark Sideræl, avuti dalla cantante Grimes.

Uno dei figli di Elon Musk vuole cambiare nome e genere. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.

Documento depositato alla Contea di Los Angeles: Xavier Musk vuole essere identificato come Vivian Jenna Wilson, prendendo il cognome della mamma per non avere più alcun riferimento o collegamento al padre.

Xavier Musk cambierà genere e nome, dopo aver preparato il documento legale per completare il processo venerdì 24 giugno, con i fogli già presentati alla Contea di Los Angeles. 

Il figlio 18enne di Elon Musk, avuto dall’ex moglie Justine Wilson, l’autrice canadese dalla quale ha divorziato nel 2008, vuole essere identificato come donna sotto il nome di Vivian Jenna Wilson, prendendo il nome della mamma per non avere più alcun riferimento o collegamento con il cognome del padre, in aperta protesta con il fondatore di Tesla, con il quale non sembra aver avuto mai un buon rapporto. 

Nei fogli è specificato tutto, non solo la volontà di cambiare genere e di essere apertamente riconosciuto come donna, ma anche la scelta di allontanarsi dal padre, specificando la rottura. «Il nuovo nome significherà per me non solo il riconoscimento della mia vera identità di genere, ma anche l’evidenza che non voglia più essere associata al mio padre biologico, in qualsiasi modo e maniera», così Xavier nel testo, dal momento che, avendo raggiunto la maggiore età per la legge californiana, può fare liberamente la sua scelta senza rendere conto ad altri. 

Questi retroscena sono stati riportati dal sito americano di gossip Tmz, nonostante in passato non fossero mai emersi dettagli sul rapporto tra padre e figlio, né sulla volontà di Xavier di cambiare genere. Quest’ultimo è uno dei due gemelli, l’altro è Griffin, avuti dall’ex moglie canadese, mentre un altro figlio è morto nel 2002 per la Sids, la sindrome della morte in culla. Successivamente sono arrivati Damian, Kai e Saxon, prima che Musk si accompagnasse alla cantante Grimes e avesse da lei altri due figli, X AE A-XI ed Exa Dark Sidereel.

La posizione di Elon Musk

Di tutta la vicenda è ancora ignota la posizione del miliardario, anche se in qualche tweet era trapelato in passato qualche spunto. Nel luglio 2020 Musk aveva espresso su Twitter il proprio disaccordo nei confronti dei pronomi, e di come il riconoscimento della comunità LGBTQ potesse condizionare il linguaggio e la scrittura. Nel dicembre dello stesso anno era andato oltra con la risposta a un altro tweet, quasi specificando la propria posizione con un «Io sostengo assolutamente i transgender e la loro comunità, anche se tutti questi pronomi sono un incubo estetico». L’imprenditore non era andato oltre questi messaggi lapidari, con una manifestazione vera e propria del suo pensiero, neanche in merito alla posizione rispetto alle reali intenzioni del figlio.

Il timore di discriminazioni

Tempo fa, anche a seguito di quei tweet, e soprattutto negli ultimi tempi, che hanno visto Musk provare ad acquisire la maggioranza delle quote di Twitter, molti nella comunità LGBTQ avevano espresso la propria preoccupazione. Per loro, il controllo della piattaforma da parte dell’imprenditore sudafricano potrebbe essere motivo di una maggiore esposizione alla discriminazione, proprio perché in passato il padre di Tesla si era autodefinito un «assolutista della libertà d’espressione», con il rischio che possa consentire in futuro anche le posizioni più estreme e contrarie all’affermazione delle cosiddette identità di genere non binarie. Questa preoccupazione sulla base di una costante presenza di hater online che attaccano gli appartenenti a questa comunità, nel tentativo di marginalizzarli, temendo un peggioramento della situazione con Musk. Ora proprio la scelta del figlio Xavier, presto Vivian Jenna Wilson, potrebbe essere un punto di svolta, se non altro per far riflettere maggiormente sul tema l’imprenditore stesso, in generale e sulle piattaforme social.

"Spaccatura col padre". Il figlio di Elon Musk chiede il cambio di nome e genere. Novella Toloni su Il Giornale il 21 giugno 2022.  

Vivian Jenna Wilson. È questo il nome che il figlio transgender di Elon Musk, Xavier Musk, ha scelto per cambiare legalmente identità. Il 18enne, nato dalla relazione del magnate canadese con la scrittrice Justine Wilson, ha presentato un'istanza nella contea di Los Angeles per essere riconosciuto formalmente donna e prendere le distanze dal padre, modificando il proprio cognome scegliendo quello della madre.

A riportare la notizia è il sito americano TMZ, che è entrato in possesso dei documenti presentati da Xavier Musk in tribunale non appena ha compiuto 18 anni lo scorso aprile. "Dice che vuole essere riconosciuto come donna, ma il cambio di nome non riguarda solo la sua transizione, c'è chiaramente una spaccatura con il caro vecchio papà", si legge sul portale statunitense. Tra i motivi della scelta ci sono, dunque, il desiderio di avere un'identità di genere diversa da quella naturale e la volontà di non essere più accostato, anche solo formalmente, al padre biologico Elon Musk.

Xavier è il figlio maggiore di Elon Musk (insieme al gemello Griffin) nato durante la relazione, che il magnate canadese ha avuto con la scrittrice Justine Wilson (dalla quale ha avuto altri tre gemelli, oggi sedicenni). Nonostante il divorzio avvenuto nel 2008, la Wilson ha scelto di mantenere il cognome dell'ex marito, mentre ora il figlio 18enne lo rinnega. I figli di Elon Musk hanno sempre mantenuto un basso profilo e fino a oggi si era saputo poco o nulla della transizione di Xavier, che nei prossimi giorni otterrà una risposta dai giudici americani.

Pochi giorni fa la madre di Xavier aveva pubblicato sulla sua pagina Twitter un cinguettio sibillino riferito proprio al giovane: "Mi figlio diciottenne mi ha detto: 'Ho avuto un'infanzia strana. Non posso credere di sembrare normale come sono', e io gli ho detto: 'Sono molto orgogliosa di te'. Lui ha detto lo stesso di se stesso". Meno embatici erano stati, invece, i tweet pubblicati da Elon Musk alla fine del 2020, dove si era detto "assolutamente favorevole ai trans", definendo però "un incubo estetico tutti questi pronomi". Ma la sua società di auto elettriche, Tesla, è ancora nella lista dei migliori posti di lavoro per LGBTQ+ Equality secondo la Human Rights Campaign Foundation.

Tosca Musk, sorella di Elon, e gli affari con la piattaforma di film rosa (ed erotici) Passionflix: «Non chiamatelo piacere proibito». Alice Scaglioni su Il Corriere della Sera il 10 Settembre 2022.  

Regista e imprenditrice, parla la più giovane della famiglia e racconta l’idea di Passionflix, piattaforma streaming tematica: «Il piacere delle donne non è una vergogna» 

Ha un nome altisonante, un richiamo all’Italia e alla tradizione lirica, scelto dalla madre Maye perché appassionata dell’opera di Giacomo Puccini. E un cognome che negli ultimi anni è diventato tra i più chiacchierati dell’universo tech. Tosca Musk, nata nel 1974, ha tre anni in meno del più famoso fratello Elon, patron di Tesla e SpaceX, ma quanto a intraprendenza non ha niente da invidiargli. L’eclettica sorella di Elon è regista, produttrice esecutiva e imprenditrice: uno dei suoi ultimi gioielli è Passionflix, un servizio di streaming su abbonamento rivolto esclusivamente al pubblico femminile, di cui è co-fondatrice e amministratrice delegata. L’idea è semplice: produrre adattamenti di serie tv e film da romanzi rosa e fan fiction erotiche, ma anche disporre dei diritti di altri contenuti, come il film Anni 90 Sabrina (remake dello storico film con Audrey Hepburn, diretto da Billy Wilder ndr) il tutto al costo di 6 dollari al mese per il pubblico.

«Il romanticismo non è preso sul serio»

Una scelta non banale (e non facile), spesso soggetta al giudizio di chi pensa che il piacere femminile non debba avere la stessa dignità di quello maschile, come lei stessa racconta. «Il romanticismo non è sempre preso sul serio in questo settore, mentre i libri di romanzi rosa generano oltre un miliardo di dollari di vendite ogni anno» spiega a 7. «Anche i lettori del genere più voraci si riferiscono spesso alla lettura di questi romanzi come a un guilty pleisure (piacere proibito, ndr). Non dovrebbe essere qualcosa di proibito: è sempre un piacere! E non bisognerebbe provare vergogna quando si parla di ciò che ci porta piacere e gioia». Laureata nel 1997 alla University of British Columbia a Vancouver in cinematografia, ha lavorato per Alliance, società di produzione canadese, prima di trasferirsi a Los Angeles. Qui ha diretto, scritto e prodotto il film Puzzled, (2001), un vero affare di famiglia: il produttore esecutivo è stato infatti il fratello Elon.

IN UNA DELLE PRODUZIONI RECITA GIULIO BERRUTI, FIDANZATO DELL’EX MINISTRA MARIA ELENA BOSCHI: «È STATO SCELTO DA UNA FAN»

Si sono poi susseguiti diversi lavori per il cinema e per la televisione: ha diretto e dato vita a lungometraggi per Hallmark, Lifetime e ION Television. Nel 2005 ha prodotto la web serie Tiki Bar Tv, che ha attirato l’attenzione di Steve Jobs: quell’anno, durante una delle tradizionali presentazioni dei prodotti Apple, venne mandata in onda proprio una parte della serie come esempio di un podcast video. La svolta - sul mercato della produzione cinematografica al femminile e nella vita di Tosca Musk - è arrivata con l’incontro con Joany Kane, socia fondatrice di Passionflix e con il boom mondiale di Cinquanta sfumature, la saga bestseller di E. L. James. «Kane ha avuto l’idea anni fa, dopo l’uscita del film e dei sequel» racconta Tosca Musk. «Si chiedeva perché non ci fosse posto per gli adattamenti dei romanzi rosa, soprattutto dopo il successo di quella saga. Alla fine, mi ha contattato dopo aver visto uno dei miei lungometraggi: ha detto che amava il modo in cui l’avevo diretto e le sarebbe piaciuto che dirigessi uno dei suoi lavori».

«DICEVANO CHE IL MIO FILM ERA TROPPO AUDACE, NESSUNO LO VOLEVA, ALLORA HO COSTITUITO L’AZIENDA: IN UNA SETTIMANA»

«Ho letto la sua sceneggiatura e l’ho adorata! Abbiamo provato a portare il nostro film su reti diverse ma nessuno lo voleva perché era giudicato troppo audace. Alcuni mesi dopo, ci siamo sedute a pranzo con la mia partner di produzione, Jina Panebianco, e Joany ci ha parlato della sua idea per Passionflix e ci siamo dette: “Fantastico, facciamolo!”. La settimana successiva abbiamo costituito l’azienda e abbiamo trascorso l’anno seguente a raccogliere fondi». Su Instagram, dove si definisce «regista e mamma» (di due gemelli, Isabeau e Grayson, avuti grazie alla fecondazione in vitro e un donatore anonimo di sperma), è seguita da oltre 77 mila follower, con cui condivide il backstage e momenti sul set, ma anche trailer degli ultimi film lanciati sulla piattaforma, viaggi e vita privata. Non mancano scatti dal red carpet insieme alla madre Maye, che ha un ottimo rapporto con tutti e tre i figli: per un periodo è stata lei a gestire gli account social di Passionflix e in una recente intervista ha parlato di loro e in particolare di Elon, sostenendo di dormire in garage quando va a trovarlo nella sua casa in Texas. 

Il racconto sui social

Ma nel feed di Tosca fanno capolino anche foto amarcord in compagnia dei fratelli per gli auguri social di compleanno. La regista sembra avere anche un legame particolare con l’Italia che va oltre le origini del suo nome: sul suo account spiccano foto della Galleria degli Uffizi e del Duomo di Firenze, entrambi scelti come location per alcuni dei suoi film più di successo. «Non vediamo l’ora di tornare nella bellissima Italia quest’autunno», si legge nella didascalia che accompagna uno scatto dal set. Ed è proprio dai social che misura il gradimento degli utenti della piattaforma e trae spunti per nuovi progetti. «Riceviamo così tanti meravigliosi messaggi e commenti di supporto» spiega. «Passionflix è una piattaforma guidata dai fan: prendiamo le storie che tutti amiamo e le portiamo sullo schermo, proprio come sono state scritte per far divertire il pubblico. Non solo condividono il loro supporto, ma spesso sono anche alla base delle nostre decisioni di casting. Giulio Berruti, il protagonista di Gabriel’s Inferno, è stato scelto dopo il suggerimento di una fan».

Il rapporto con la community

L’attore, fidanzato da tre anni con la deputata di Italia viva Maria Elena Boschi, è il volto maschile dell’ultimo film in casa Passionflix, disponibile sulla piattaforma dal 12 agosto scorso. In uno dei suoi ultimi post su Instagram la regista si è rivolta nuovamente ai follower per chiedere nomi per le prossime produzioni: in poche ore ha raccolto oltre un migliaio di commenti (curiosità: tra i nomi c’è anche quello di Can Yaman). E proprio perché la community di Passionflix è così affiatata e affezionata alla piattaforma e alle storie che porta sullo schermo, Mrs. Musk non ha perso l’occasione per monetizzare il supporto dei fan. Quale modo migliore del merchandising, capace di far riconoscere tra loro le abbonate semplicemente dalla t-shirt o dalla tote bag (borse della spesa per lo più in tessuto ndr )? Dagli asciugamani alle tazze, passando per alcuni capi che richiamano i film più amati dal pubblico di Passionflix, fino ad arrivare al vino: un Sangiovese corposo, dal nome «#4 (Toe Curling Yumminess), che viene prodotto in un vigneto in una riserva in Umbria, dove sono state girate anche alcune scene del sequel Gabriel’s Rapture. Tutto acquistabile dalla piattaforma, in pochi click. 

Sconosciuto il numero di abbonati

Non è dato sapere, al momento, se Passionflix sia un progetto destinato ad avere grande successo (non è noto il numero degli abbonati e, a domanda diretta, Tosca Musk non risponde). Di certo, la scommessa arriva in un momento in cui il mercato sembra vicino alla saturazione, come testimonia in questi mesi l’andamento delle principali compagnie al mondo. Netflix ha perso lo scettro di regina dello streaming quando Disney+ ha raggiunto e superato il numero dei suoi abbonati (221 milioni contro 220, stando ai dati diramati a inizio agosto), ma la stessa piattaforma di proprietà di Disney Company prevede un calo delle sottoscrizioni da qui al 2024 (complice l’aumento dei prezzi e la perdita di alcune esclusive), tanto che introdurrà una versione con la pubblicità. Eppure è vero che, dopo il battesimo con la trilogia delle Cinquanta sfumature e il più recente boom di Bridgerton, il romanticismo (anche spinto) pensato per le donne da altre donne ha preso il volo. 

Tosca Musk, l’imprenditrice (e sorella di Elon) a capo del servizio di streaming al femminile «Passionflix». Alice Scaglioni su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.

Sorella minore dell’uomo più ricco del mondo, anche lei è una mente creativa: il fratello è dietro Tesla e SpaceX, lei è a capo di Passionflix, una piattaforma di streaming pensata per il pubblico femminile. 

Se dici Musk, nel 99% dei casi pensi a Elon: mente dietro Tesla e SpaceX, futuro acquirente (pare) di Twitter, uomo più ricco al mondo secondo Forbes. 

Elon, però, potrebbe non essere l’unico genio di casa: e per capirlo basta dare un’occhiata a che cosa stia combinando la sorella minore. 

Tosca Musk, nata nel 1974, ha tre anni in meno del fratello. Porta un nome importante, un richiamo all’Italia e alla tradizione della lirica, scelto dalla madre Maye perché appassionata dell’opera di Giacomo Puccini. 

Regista, produttrice esecutiva e imprenditrice, uno dei suoi ultimi gioielli è Passionflix, un servizio di streaming su abbonamento che si rivolge esclusivamente al pubblico femminile, di cui è co-fondatrice e amministratrice delegata. 

La piattaforma ha raccolto quasi 22 milioni di dollari in finanziamenti anticipati, come scrive il New York Times che proprio a lei ha dedicato un lungo ritratto. 

L’idea che si cela dietro Passionflix è semplice: produrre adattamenti di serie tv e film da romanzi rosa e fan fiction erotiche, ma anche disporre dei diritti di altri contenuti, come il film anni Novanta Sabrina e una linea di merchandising dedicata. Il tutto da proporre al pubblico al costo di 6 dollari al mese. 

Laureata nel 1997 alla University of British Columbia, il suo primo film è stato un affare di famiglia: il produttore esecutivo è stato proprio il fratello Elon. Si sono poi susseguiti diversi lavori, sia per il cinema che per la televisione. Nel 2005 ha prodotto la web serie Tiki Bar Tv, che ha attirato anche l’attenzione di un altro genio, Steve Jobs. Nello stesso anno, infatti, durante una presentazione di Apple venne mandata in onda proprio una parte della web serie al pubblico, come esempio di un podcast video. 

Nel 2017 ha fondato Passionflix, insieme alla scrittrice Joany Kane e alla produttrice Jina Panebianco. Ha curato anche la regia di diversi film che sono disponibili in streaming sulla piattaforma. 

Su Instagram si definisce «regista e mamma» (di due gemelli, Isabeau e Grayson) ed è seguita da oltre 75 mila follower. Qui condivide momenti di lavoro dietro la telecamera e di pausa sul set, stralci dai film che si possono vedere sulla piattaforma, ma anche viaggi e vita privata (come un pensiero alla madre Maye). 

Al New York Times, parlando della sua attività come ad di Passionflix — di cui non ha fornito il numero degli abbonamenti sottoscritti dagli utenti — ha detto che comunque vada, arrendersi non è nel suo dna. Un chiaro riferimento alla famiglia. 

Di Elon oramai sappiamo tutto (o meglio, sappiamo quel che l’imprenditore geniale e «opportunamente» sregolato ha voluto raccontare): la sua saga per l’acquisto di Twitter, i cinguettii taglienti, la capacità di dare vita ad aziende di successo, il desiderio di provocare (i media così come l’opinione pubblica). 

Poi c’è Kimbal, l’altro fratello: imprenditore anche lui, attivo nel campo della ristorazione (e nei consigli di amministrazione di SpaceX e Tesla) e tra i primi investitori nel progetto Passionflix. 

La madre Maye è una figura molto importante nella vita dei figli. Per un periodo ha anche aiutato la figlia Tosca con l’account Instagram della piattaforma e recentemente ha accompagnato il figlio Elon al Met Gala 2022. Modella e scrittrice, ha raccontato gli anni di soprusi dell’ex marito Errol Musk, padre dei figli, prima di lasciarlo. Non ha cambiato il cognome — dice — per solidarietà nei confronti dei figli. 

Non è dato sapere, al momento, se Passionflix sia un progetto destinato ad avere grande successo. Di certo, la scommessa arriva in un momento in cui il mercato sembra vicino alla saturazione saturo (Netflix docet), ma è anche vero che, dopo il battesimo con la trilogia delle Cinquanta sfumature, il romanticismo (anche spinto) pensato per le donne da altre donne ha preso il volo. 

Una scommessa, quindi. Come quelle di Elon. Che ora — mentre annuncia un taglio del 10% del personale di Tesla — osserva con attenzione le imprese della sorella.

Pier Luigi Pisa per repubblica.it l'1 giugno 2022.

Il “duro lavoro” per Elon Musk, conta più del talento. L’uomo più ricco del mondo l’ha fatto capire in più di un’occasione in passato. Raccontando come abbia pagato a caro prezzo, nella sua vita, le rare occasioni in cui si è concesso una vacanza. E rimproverando duramente i dipendenti di Tesla che si lamentavano del troppo lavoro: “Potrei starmene a bere Mai Tai con delle modelle nude - avrebbe detto - ma invece me ne sto qui con voi”. 

Non stupisce, insomma, la mail di Elon Musk trapelata sui social, rivolta proprio ai dipendenti Tesla che lavorano in smart working. “Il lavoro da remoto non è più accettato” si legge nell’oggetto della mail inviata personalmente dal Ceo dell’azienda.

La mail è stata inviata ieri, 31 maggio, in un periodo in cui i casi Covid negli Usa sono di nuovo in aumento. “Tutti quelli che intendono lavorare da remoto - scrive Musk - devono essere in ufficio per un minimo (e sottolineo *un minimo*) di 40 ore a settimana, oppure devono lasciare Tesla”.

“Se ci sono collaboratori straordinari per cui questo non sarà possibile, giudicherò e approverò direttamente io ogni singolo caso” ha aggiunto l’imprenditore. Musk scrive anche che l’impegno richiesto “è inferiore a quello richiesto a chi lavora in fabbrica”. 

Con ogni probabilità, stando a questo passaggio della mail, il ‘capo’ si sta rivolgendo soprattutto ai cosiddetti “white collar”, ai manager che non dovendo operare sulla catena di montaggio possono godere della flessibilità concessa dallo smart working. Ma è evidente che questa disposizione investirà anche gli ingegneri che lavorano al software usato sulle vetture Tesla, per esempio. 

Non è chiaro se le nuove disposizioni di Musk interessino gli stabilimenti Tesla in America oppure siano estese anche a quelli di Berlino e Shanghai, gli unici due che si trovano fuori dagli Usa. A Shanghai, dove la strategia “zero-Covid” del governo cinese ha portato nelle ultime settimane a durissimi e prolungati lockdown, gli operai Tesla avrebbero svolto turni di 12 ore, con un solo giorno di riposo a settimana. E avrebbero dormito all’interno della fabbrica.

La mail di Elon Musk è stata pubblicata da alcuni utenti su Twitter, tra cui il profilo Whole Mars Catalog che conta 100mila follower e che si occupa spesso di tematiche legate a Musk e alle sue aziende: Tesla e SpaceX. Proprio questo account ha chiesto direttamente a Musk un commento sulla vicenda: “Hey Elon, molte persone stanno parlando di questa mail. Vuoi dire altro alle persone che credono che lavorare in ufficio sia un concetto antiquato?”. 

“Queste persone dovrebbero far finta di lavorare altrove” ha risposto duramente Elon Musk. Che in questo modo ha confermato indirettamente l’autenticità della mail. In altre occasioni, infatti, l’imprenditore ha smentito personalmente su Twitter le notizie che ha reputato false sul suo conto. Come quando il New York Post ha scritto che Trump avrebbe incoraggiato Musk ad acquistare Twitter. E lo stesso Musk, sotto all'articolo condiviso su Twitter dalla testata, ha scritto: "È falso, non ho avuto nessun contatto con lui".

Con la sua mail e il suo giudizio sui dipendenti che “fanno finta di lavorare” da remoto, Elon Musk ha generato diverse polemiche. Nel panorama dell’industria tech la sua posizione è a dir poco isolata.

Il Ceo di Tesla e SpaceX si è espresso su una piattaforma, Twitter, che ha autorizzato i suoi dipendenti a lavorare “per sempre da casa o da qualsiasi altro posto in cui si sentono più produttivi e creativi”. Una scelta condivisa, negli ultimi tempi, da aziende come Meta, Spotify e Dropbox. Anche Apple, che non condivide l’idea dello smart working permanente, e che comunque ha in mente un piano di rientro ibrido nei suoi uffici (almeno tre giorni a settimana, inizialmente), ha di nuovo rimandato il lavoro in presenza a causa dell’impennata della curva di casi Covid in America. 

È vero che Tesla, rispetto alle aziende citate, prevede un lavoro manuale importante, e dunque in presenza, per produrre le sue auto sportive elettriche. Ma è anche vero che in molti, nell’impresa guidata da Musk, si occupano del software che permette la guida assistita e che un giorno - forse - consentirà una guida totalmente autonoma. Almeno agli ingegneri, insomma, potrebbe essere concessa una libertà maggiore. E invece no, tutti in sede. 

La fabbrica, per Musk, ha un ruolo centrale per lo sviluppo e la prosperità delle sue aziende. L'imprenditore non ammette battute d'arresto, neanche quelle imposte dal governo Usa. Va ricordato che la pandemia ha spinto gli affari di Musk verso il Texas, più permissivo rispetto allo stato della California che aveva ordinato a Tesla di chiudere il suo stabilimento nel corso del primo lockdown del 2020. Con due tweet Musk all'epoca aveva liquidato le autorità californiane: "Questa è la goccia che fa traboccare il vaso - ha scritto - Tesla sposterà il suo quartier generale e le sue attività future in Texas e Nevada”. E infatti, lo scorso aprile, Musk ha inaugurato proprio in Texas, vicino ad Austin, la nuova Gigafactory di Tesla. 

Colpisce, infine, che Musk si sia espresso così duramente con i dipendenti che negli ultimi due anni - quelli della pandemia e dello smart working, appunto - hanno consentito a Tesla di raggiungere l’impressionante valore di mercato di 1000 miliardi di dollari, prima casa automobilistica al mondo a tagliare questo traguardo.

Usa, «Musk accusato di molestie» vittima risarcita con 250 mila dollari. Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022. Le accuse pubblicate dal Business Insider: nel 2016 ha abusato sessualmente di una assistente di volto della’azienda aerospaziale. Ma lui nega: una falsità 

SpaceX, l’azienda aerospaziale fondata da Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, avrebbe corrisposto a un assistente di volo 250 mila dollari per evitare una denuncia per molestie contro Musk nel 2018. Questo è quanto sostiene Business Insider. La hostess, che ha lavorato come membro dell’equipaggio di cabina per la flotta di jet aziendali di SpaceX, ha accusato Musk di averle mostrato il pene, strofinandolo contro la sua gamba senza consenso. Musk poi avrebbe proposto di comprarle un cavallo in cambio di un massaggio erotico.

L’incidente, avvenuto nel 2016, è denunciato in una dichiarazione firmata da un’amica dell’assistente e preparata a sostegno della sua affermazione. Secondo la dichiarazione, l’assistente avrebbe confidato all’amica che dopo aver accettato il lavoro di assistente di volo, sarebbe stata incoraggiata a ottenere la licenza come massaggiatrice in modo da poter fare massaggi a Musk. Fu durante uno di questi massaggi in una cabina privata sul Gulfstream G650ER di Musk, disse all’amica, che Musk le fece una proposta. «Se fossi propenso a subire molestie sessuali, è improbabile che questa sia la prima volta che viene alla luce in tutta la mia carriera trentennale», ha risposto Musk, definendo l’articolo un «pezzo politicamente motivato».

Usa, media: accuse di molestie per Elon Musk: "SpaceX pagò 250.000 dollari". Lui nega: "Articolo politicamente motivato". La Repubblica il 20 Maggio 2022.

Business Insider, l'incidente nel 2016, poi nel 2018 l'accordo.

Accuse di molestie per Elon Musk. Una ex assistente di volo che lavorava per la flotta di aerei privati di SpaceX ha accusato Musk di averle mostrato il suo pene, di averla toccata senza consenso e di averle offerto in regalo un cavallo in cambio di un massaggio erotico. Lo riporta Business Insider citando alcune fonti, secondo le quali SpaceX avrebbe poi patteggiato con la donna il pagamento di 250.000 dollari nel 2018 per il suo silenzio.

La replica. Elon Musk nega di aver commesso molestie come riportato da Business Insider. "Se fossi incline alle molestie, questa difficilmente sarebbe la prima volta nella mia carriera che emergerebbe", afferma Musk con Business insider definendo l'articolo "politicamente motivato".

Molestie a una hostess, bufera su Musk. Lui: "Le accuse? Politicamente motivate". Nino Materi il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.

Episodio del 2016, il miliardario avrebbe pagato 250mila dollari per chiudere la vicenda. Il recente endorsement per i repubblicani.

La situazione è grave, ma la traduzione dall'inglese rischia di renderla anche piuttosto greve. Lo «scoop» sui guai del miliardario Elon Musk per una presunta molestia sessuale, anticipata da Business Insider, è stato infatti riportato dai media italiani come segue: a una hostess che lavorava «come membro» dell'equipaggio, Musk avrebbe mostrato «il pene»; e qui il buon gusto già suggerirebbe un salvifico atterraggio d'emergenza. Invece no, si continua a volare alto.

I mastini di Business Insider, entrando dentro l'affare, hanno infatti accertato i dettagli della scabrosa vicenda. Si è quindi scoperto che quello sporcaccione di Elon «lo» avrebbe pure «strofinato contro la sua (sua di lei ndr) gamba, senza il consenso della donna». Un comportamento da disturbato sessuale (il fattaccio risalirebbe a 4 anni fa) che è costato al fondatore dell'azienda aerospaziale SpaceX un risarcimento stellare, pari a 250 mila dollari: la somma che la povera (ora ex povera) hostess molestata si è convinta ad accettare, evitando di denunciare l'avvilente performance in alta quota.

Nel 2018 - sempre che le informazioni divulgate dai segugi di Business Insider non siano fake - Musk era vittima forse di una patologica «turbolenza» a sfondo erotico, e ciò non solo tra le nuvole a bordo del suo Gulfstream G650ER, ma pure quando aveva i piedi piantati in terra: una posizione «stabile» che tuttavia non ha impedito al dominus di Tesla di perdere la testa «offrendo alla hostess un cavallo in dono in cambio di un massaggio intimo». Tutto davanti a testimoni, che l'assistente di volo nel mirino di Elon avrebbe minacciato di portare in tribunale in caso di «mancato accordo finanziario»; e si sa come negli Stati Uniti, sul punto, siano pignoli.

A confermare la storia boccaccesca ci sarebbero anche registrazioni ed email che Business Insider sostiene di «aver visionato». Un particolare su cui riflettere (si fa per dire): pare che l'assistente di volo tanto cara a Elon abbia «confidato all'amica che, dopo aver accettato il lavoro, era stata incoraggiata a prendere la licenza di massaggiatrice proprio per fare massaggi a Musk».

La scena che ne è seguita non sfigurerebbe in una commedia sexy anni '80, con Musk in versione Renzo Montagnani e l'hostess dello scandalo in formato Edwige Fenech: «Quando sono arrivata ho visto Musk completamente nudo tranne che per un lenzuolo che copriva la metà inferiore del suo corpo. Durante il massaggio lui mi ha mostrato i genitali e mi ha toccata»; per poi proseguire le avances una volta giunti a destinazione: «Mi ha offerto in dono un cavallo se avessi fatto di più, riferendosi chiaramente ad atti sessuali».

A questo punto la hostess, evidentemente disinteressata a omaggi equini, si sarebbe limitata al «massaggio normale», senza accettare profferte di «extra». Un diniego cui Musk avrebbe reagito prima «cambiando alla donna tutti i turni di lavoro» poi «licenziandola in tronco». Insomma, tarpandole professionalmente le ali: circostanza piuttosto penalizzante per un'assistente di volo. Sta di fatto che la hostess-massaggiatrice ha deciso di passare al contrattacco, affidandosi a un avvocato che ha ottenuto per la sua cliente la bella cifra di 250 mila dollari.

Intanto Musk ha definito l'articolo di Business Insider «politicamente motivato». Annunciando che non voterà più per i democratici, ma per i repubblicani. Sessualmente parlando, Trump è una garanzia.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2022.

Abituato a fare notizia tutti i giorni, a volte anche sparando tweet tanto sorprendenti quanto contraddittori, stavolta Elon Musk perde il controllo del ciclo dell'informazione e deve vedersela con un'accusa pesante: quella di molestie sessuali a una hostess in servizio sui jet privati della sua SpaceX. 

La storia, pubblicata dal sito Insider, che sostiene di aver ricevuto documenti originali e aver contattato lo stesso Musk che parla di «attacco politico» contro di lui, risale al 2016.

In sostanza, il fondatore di Tesla, durante un viaggio avrebbe chiesto all'assistente di volo un massaggio. Alla hostess sarebbe stato in precedenza suggerito di ottenere anche la licenza come massaggiatrice in modo da poterli fare al magnate a bordo e poter lavorare più spesso. Lei gli avrebbe praticato il massaggio, ma poi, palpeggiata, avrebbe respinto una sua richiesta di prestazioni sessuali. Secondo Insider, Musk «espose i suoi genitali» e accompagnò l'offerta con la promessa di regalarle un cavallo.

La storia è bizzarra ma da Musk ci si può aspettare di tutto. Il caso viene fuori in modo curioso - attraverso il racconto di un'amica della donna molestata - probabilmente perché la hostess, che sarebbe stata messa a suo tempo a tacere con un assegno da 250 mila dollari, ha firmato un accordo nel quale si impegna al silenzio.

Contattato da Insider , Musk prima ha detto che ci sarebbe molto di più da raccontare sulle circostanze del caso. Poi ha parlato di un attacco motivato da ragioni politiche, aggiungendo: «Se fossi un tipo incline alle molestie sessuali non sarebbe strano veder emergere notizie di questo tipo solo 30 anni dopo l'inizio della mia carriera professionale?» 

Interrogativi ma non smentite: alla fine Insider ha deciso di pubblicare. Più tardi, Musk che è attualmente impegnato nell'acquisizione di Twitter, ha usato proprio il social media per rispondere: «Per la cronaca, queste accuse assurde sono completamente false». 

Poi ha ironizzato: «Finalmente, possiamo usare Elongate come nome di uno scandalo», come il tycoon aveva suggerito in un tweet del marzo 2021. Infine ha lanciato una «sfida a questa bugiarda che afferma che la sua amica mi ha visto nudo: descriva solo una cosa, qualsiasi cosa (cicatrici, tatuaggi) che non sia nota al pubblico. Non sarà capace perché non è mai accaduto». Ha accusato la donna di essere una «attivista-attrice di estrema sinistra a Los Angeles con una grossa ascia politica da affilare». 

Joe Biden, "insabbiato tutto": Elon Musk, bomba sulla Casa Bianca. Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022

Twitter avrebbe censurato notizie compromettenti su Hunter Biden in grado di condizionare, in negativo, la corsa alla Casa Bianca di suo padre Joe Biden. A rilanciare la tesi dell'insabbiamento pro-democratici è niente meno che Elon Musk, neo-proprietario di Twitter, che ha promesso una devastante campagna di trasparenza che potrebbe generare conseguenze politiche inimmaginabili a Washington.

Poche settimane prima delle elezioni presidenziali del 2020 (che Biden vinse sconfiggendo Donald Trump), il quotidiano conservatore New York Post pubblicò la storia del computer di Hunter Biden, figlio problematico e scavezzacollo dell'ex vice di Obama. Secondo l'articolo del Post il dispositivo conteneva diversi file, comprese e-mail potenzialmente incriminanti, riguardanti i rapporti d'affari del figlio dell'attuale presidente con Paesi e individui stranieri. A pubblicare su Twitter le mail che mostrano gli scambi tra i dipendenti della piattaforma online è il giornalista statunitense Matt Taibbi, in una serie di tweet condivisi dallo stesso Musk. Twitter, sostiene Taibbi, "ha adottato misure straordinarie per sopprimere la storia, rimuovendo collegamenti e pubblicando avvisi sulla loro possibile non sicurezza. Ne ha persino bloccato la trasmissione tramite messaggio diretto, uno strumento finora riservato a casi estremi, come la pornografia infantile". 

Il New York Post è stato il primo giornale a riferire del computer, abbandonato in un'officina di riparazioni di Wilmington, nel Delaware, e che presumibilmente apparteneva a Hunter Biden. L'oggetto conteneva diversi file, comprese e-mail potenzialmente incriminanti, riguardanti i rapporti d'affari del figlio dell'attuale presidente con Paesi e individui stranieri. In una delle email, Vadym Pozharskyi, cittadino ucraino e terzo al comando della compagnia energetica ucraina Burisma, ringraziava Biden per l'opportunità avuta di incontrare suo padre, allora vicepresidente, e per aver "trascorso del tempo con lui" ad aprile 2015. Hunter Biden, in quel momento, era membro del Consiglio di amministrazione della società. Circa 50 ex membri della comunità dell'intelligence hanno affermato che le informazioni erano "false" e create dai russi per interferire nelle elezioni. Lo scorso marzo, tuttavia, il New York Times ha riferito che il laptop e le informazioni incluse erano autentici e fanno parte di un'indagine in corso del dipartimento di Giustizia su Hunter Biden in merito ai suoi affari finanziari e fiscali.

Le rivelazioni dei Twitter-files: utenti in blacklist e post oscurati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Dicembre 2022.

L'inchiesta del New York Times dimostra l'esistenza di un team di dipendenti di Twitter il cui scopo era “costruire liste nere, impedire ai tweet sfavorevoli di diventare di tendenza e limitare la visibilità di interi account o addirittura di argomenti di tendenza”. Nuova bufera per il più potente dei social network

Inizialmente lo scandalo con tanto di accuse reciproche e di cause legali sul reale numero degli utenti, dopo è arrivata la questione dei licenziamenti di massa successivamente in parte reintegrati con tanto di scuse, dopo gli uffici trasformati in dormitorio ed ora i “Twitter files”. Che l’ingresso di Elon Musk in Twitter non sarebbe stata semplice e indolore era prevedibile fin dal primo momento. Adesso però nella Twitter-story arrivano dettagli che potrebbero far cambiare radicalmente il modo in cui gli utenti guardano quello che è indubbiamente uno dei social network più potenti.

Le rivelazioni del quotidiano “New York Times”, le ultime in ordine di tempo arrivate nella notte, svelano un fitto e per nulla trasparente intreccio che politica e istituzioni e il social media. La giornalista Bari Weiss, con la “benedizione” del nuovo Ceo di Twitter, ha infatti pubblicato su lungo “thread” in cui si dimostra l’esistenza in passato di un team di dipendenti di Twitter il cui scopo era “costruire black list” cioè liste nere, impedendo ai tweet sfavorevoli di diventare di tendenza e limitare la visibilità di interi account o addirittura di argomenti di tendenza”. “Il tutto in segreto,– prosegue il post retwittato dallo stesso Musk – senza informare gli utenti”.

Le Blacklist di Twitter

Tra gli utenti finiti nella blacklist compare ad esempio Jay Bhattachary, professore dell’ Università di Stanford che sosteneva che i lockdown messi in atto per contenere la diffusione del Covid avrebbe potuto danneggiare i bambini (e per questo finito nella “trend blacklist” che impediva appunto ai suoi tweet di diventare virali) o l’account del presentatore di un popolare talk show Dan Bongino finito nella blacklist delle ricerche perché dichiaratamente di destra.

Nel mirino dei censori di Twitter era finito anche l’attivista conservatore Charlie Kirk (esplicativa la nota interna “Da non amplificare” allegata al suo profilo). Un sistema organizzato e strutturato, insomma, tutt’altro che qualche caso sporadico legato alle intemperanze dei singoli account. Secondo la giornalista del New York Times i vertici di Twitter chiavano questa politica VF cioè “Visibility Filtering” (“filtraggio di visibilità”) . “Pensate al filtro di visibilità come a un modo per sopprimere ciò che le persone vedono a diversi livelli. È uno strumento molto potente”, ha dichiarato un dipendente di vecchia data.

Altro caso è stato quello della pagina “Libs of TikTok” (1,6 milioni di follower) sospeso sei volte ufficialmente per incitazione all’odio nonostante un documento interno dimostri che i gestiri della pagina non hanno mai violato il regolamento interno di Twitter. Nella foto postata dalla giornalista americana si vede che proprio nella scheda di tale utente capeggiava in bella mostra il messaggio, in rosso, con scritto “Non prendere inizitive sull’utente senza consultare il Sip-Pes”, ovvero il “Site Integrity Policy, Policy Escalation Support,” il braccio operativo di questo tipo di operazioni.

Chi pensava che lo “scandalo Twitter” fosse limitato, alla vicenda legata al figlio di Biden, Hunter, e alle notizie (insabbiate) relative ad una non molto chiara consulenza con Paesi stranieri e frodi fiscali, sbagliava di grosso. La vicenda adesso si sta allargando a macchia d’olio e la stessa giornalista promette nuovi aggiornamenti a breve, anche grazie alla collaborazione offerta da altri colleghi e da altre testate.

Elon Musk ha fatto sapere che “Twitter sta lavorando a un aggiornamento del software che mostrerà il vero stato dell’account, in modo da sapere chiaramente se si è stati bannato, il motivo e le modalità per fare ricorso”.

Amazon e Apple scommettono su Twitter e investono in pubblicità

Gli incentivi all’attività di advertising decisi da Twitter hanno fatto centro, dal momento che hanno spinto molti inserzionisti a rilanciare le loro campagne sulla piattaforma. In cima alla lista ci sono due società big, come Amazon e Apple. La prima, come riporta la Reuters, si prepara a investimenti per 100 milioni mentre la seconda avrebbe pianificato di riprendere a pieno regime l’attività precedente stabilendo di fatto che maggiore è la quantità di denaro spesa sulla piattaforma, più verranno amplificati gli annunci, generando così un “valore aggiunto” (in termini di “impressions”).

In altri termini, se un inserzionista spende 200mila dollari, otterrà un valore aggiunto del 25%. Se ne spende 350mila, un valore aggiunto del 50%. Se invece investe 500mila, otterrà un valore aggiunto del 100%. Lo sforzo della piattaforma (secondo gli analisti si tratta di incentivi molto generosi) si è reso necessario in seguito all’allontanamento di molti inserzionisti a causa delle nuove policy imposte da Elon Musk al social network. Queste entrate rappresentano più del 90% del totale.

Nonostante gli inserzionisti di ritorno possano essere una buona notizia per Twitter, fonti interne hanno riferito al New York Times che le entrate pubblicitarie della terza settimana di novembre sono state inferiori dell’80% alle aspettative. Proprio il 20 novembre sono iniziati i Mondiali di calcio, storicamente un’occasione ghiotta per Twitter, con traffico record e un grande afflusso di pubblicità. Non questa volta. Le aziende restano prudenti, accettano di fare pubblicità solo per eventi circoscritti e con clausole in cui si afferma che possono cambiare idea per qualsiasi motivo. 

Tutti i numeri

I pesanti tagli al personale imposti dal tycoon, nel primo mese da proprietario della piattaforma, hanno coinvolto i dipendenti che si occupavano sulla moderazione dei contenuti, lasciando scoperta questa attività, con il conseguente proliferare di “fake news“, account falsi e odio online (situazione incentivata anche dal ripristino degli account bannati). Novembre è stato anche il mese del caos degli account verificati e della spunta blu a pagamento: molti utenti hanno approfittato della nuova funzionalità per impersonare account falsi e twittare messaggi pericolosi e dannosi per la reputazione del marchio “impersonato” (Twitter poi ha messo in pausa la funzione, promettendo un rilancio con nuove misure di sicurezza).

Di conseguenza, molte grandi aziende, tra cui il produttore di automobili General Motors, la società alimentare General Mills, il produttore di Oreo Mondelez International, Audi e la società farmaceutica Pfizer avevano interrotto o sospeso la pubblicità su Twitter. 

Secondo i dati di MediaRadar, a maggio Twitter contava 3.980 inserzionisti. A ottobre il numero è calato a 2.315, mai così pochi. Come da analisi di Media Matters, la metà dei primi 100 inserzionisti di Twitter ha ridotto poi le proprie spese nei giorni successivi all’acquisizione. Nella terza settimana di novembre, le vendite pubblicitarie dell’azienda in Europa, Medio Oriente e Africa sono diminuite di oltre il 50% rispetto alla seconda.

Redazione CdG 1947

"Ha fatto morire le scimmie". Cosa non torna nell'inchiesta contro Musk. Storia di Roberto su Il Giornale Vivaldelli il 6 dicembre 2022. 

Primi guai giudiziari per il patron di Tesla e di Twitter, Elon Musk. Neuralink, l'azienda statunitense di neurotecnologie con sede a San Francisco, fondata da un gruppo di imprenditori, tra cui proprio Musk, che si occupa di sviluppare interfacce neurali impiantabili, è sotto inchiesta federale per potenziali violazioni commesse ai danni degli animali durante i test condotti dalla stessa azienda. Neuralink Corp sta sviluppando un impianto cerebrale che spera possa aiutare le persone paralizzate a camminare di nuovo e curare altri disturbi neurologici. L'inchiesta federale, di cui non è stata data notizia in precedenza, è stata aperta nei mesi scorsi dall'ispettore generale del Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti su richiesta di un procuratore federale, secondo due fonti a conoscenza dell'inchiesta. L'indagine, ha detto una delle fonti, si concentra sulle presunte violazioni dell'Animal Welfare Act, che regola il modo in cui i ricercatori trattano e testano alcuni animali. A darne notizia è il Guardian.

Sicuramente si tratta di un caso e di una semplice coincidenza, ma la notizia dell'inchiesta ai danni di Neuralink emerge nel momento in cui tutto l'establishment statunitense - e non solo - ha espresso il suo malcontento per come Elon Musk sta gestendo Twitter, piattaforma social che l'uomo più ricco del mondo ha acquisito nelle scorse settimane per la modica cifra di 44 miliardi di dollari. Musk ha sferrato un duro colpo all'establishment quando, venerdì scorso, ha "utilizzato" il giornalista indipendente Matt Taibbi per pubblicare una prima serie di documenti interni, svelando le pressioni politiche per limitare il “free speech”, e come questo sforzo ha subito un’accelerazione in occasione delle ultime elezioni presidenziali, con l’importante decisione dell’ottobre 2020 da parte di Twitter di bloccare la diffusione dello scoop del New York Post circa i contenuti compromettenti del laptop di Hunter Biden, figlio del presidente Usa e al tempo sfidante di Donald Trump. Che abbia infastidito qualcuno? Chissà.

Dubbi sull'indagine e l'importante lavoro di Neuralink

Tornando all'indagine federale, lo stesso Guardian sottolinea che le normative statunitensi non specificano quanti animali le aziende possono utilizzare per la ricerca e danno un margine di manovra significativo agli scienziati per determinare quando e come utilizzare gli animali negli esperimenti. Neuralink, peraltro, ha superato tutte le ispezioni del Dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti d'America delle sue strutture, come mostrano i documenti normativi. In tutto, l'azienda ha ucciso circa 1.500 animali, tra cui più di 280 pecore, maiali e scimmie, a seguito di esperimenti condotti dal 2018 in poi, secondo i documenti esaminati da Reuters e fonti con conoscenza diretta delle operazioni di test sugli animali dell'azienda. Dunque, al momento parliamo di un'indagine che potrebbe anche non portare a nulla vista l'ampia discrezionalità che viene concessa agli scienziati in questi esperimenti, giustamente. Lo appurerà eventualmente la giustizia americana, sempre che non sia un'inchiesta avviata da qualche procuratore per ottenere un po' di visibilità o giusto per infangare un po' il nome dell'istrionico milionario.

Musk è un'imprenditore e come tale non fa beneficienza, né ha lanciato Neuralink per puro spirito filantropico. Questo è chiaro. Tuttavia, è bene sottolineare che Neuralink è impegnata nello sviluppo di un dispositivo da impiantare nel cervello per aiutare le persone paralizzate a camminare e curare altri problemi neurologici. Una tecnologia che andrebbe a beneficio - costi permettendo - di milioni di persone, in futuro. Che farebbe sentire meglio persone che ora non possono nemmeno camminare, dando benessere a loro e alle loro famiglie, allievando importanti sofferenze. E allora, anche se l'azienda avesse commesso qualche "forzatura" in tal senso, con tutto il rispetto per scimmie e pecore - che comunque meritano di essere trattati con la dovuta attenzione in quanto essere viventi - sarebbe in qualche modo "giustificata" dall'importante obiettivo che l'azienda si è prefissata. Qualche volta, come in questo caso, il fine giustifica i mezzi, anche se dirlo non è politically correct.

Stefano Graziosi per “La Verità” il 5 dicembre 2022.

Ricordate quando Twitter censurò lo scoop del New York Post, che provava come Joe Biden fosse a conoscenza dei controversi affari di suo figlio all'estero? Era l'ottobre 2020 e, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, quell'articolo avrebbe potuto seriamente danneggiare l'allora candidato dem. Eppure, il social di San Francisco decise di bloccare la possibilità di condividerlo. 

Una scelta controversa, su cui ha finalmente gettato luce il giornalista Matt Taibbi. In un thread su Twitter, costui ha infatti chiarito alcuni aspetti della vicenda, basandosi su documentazione interna recentemente resa pubblica. Taibbi ha iniziato col sottolineare come la piattaforma ricevesse spesso richieste dal mondo politico per bloccare tweet considerati sgraditi: da quanto sostiene, tali richieste sarebbero pervenute sia dall'amministrazione Trump sia dal comitato elettorale di Joe Biden.

Il punto è che, prosegue Taibbi, «questo sistema non era bilanciato. Era basato sui contatti. Poiché Twitter era ed è composto in modo schiacciante da persone con un dato orientamento politico, c'erano più canali, più modi per lamentarsi, aperti a sinistra (cioè ai democratici) che a destra». E qui veniamo al primo nodo. 

La piattaforma poteva infatti vantare legami assai più solidi con il Partito democratico che con il Partito repubblicano. E attenzione: non si trattava solo di simpatia a livello ideologico. Come emerge dal sito Open Secrets, nei cicli elettorali del 2018 e del 2020 i dipendenti di Twitter versarono cospicui finanziamenti all'asinello, riservando invece briciole all'elefantino. In tutto questo, il Washington Examiner ha riferito che la maggior parte dei tweet, segnalati dalla campagna di Biden o dal Comitato nazionale del Partito democratico, non sono più disponibili.

Sia chiaro: i finanziamenti elettorali in sé stessi erano legali. Il punto è politico. Secondo Taibbi, Twitter si arrogò il diritto di censurare lo scoop del New York Post, facendo ricorso a strumenti fino ad allora utilizzati soltanto per casi oggettivamente gravissimi. 

«Twitter ha adottato misure straordinarie per sopprimere l'articolo, rimuovendo collegamenti e pubblicando avvisi che avrebbe potuto essere "non sicuro". Ne hanno addirittura bloccato la trasmissione tramite messaggio diretto: uno strumento finora riservato a casi estremi, per esempio la pedopornografia», ha scritto il giornalista.

Fu addirittura bloccato l'account dell'allora portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany, colpevole di aver postato lo scoop. Ora, la gravità non sta solo nel fatto che sul social cinguettavano allegramente figure a dir poco controverse, come Ali Khamenei e Nicolas Maduro. Ma che si trattasse di una circostanza potenzialmente lesiva del Primo emendamento fu sottolineato ai vertici di Twitter anche da Ro Khanna: deputato dem che, per la cronaca, risulta notevolmente spostato a sinistra e che non è quindi tacciabile di simpatie trumpiste. 

Ma gli aspetti inquietanti non si fermano qui. Una delle ragioni addotte per la censura fu che i materiali contenuti nello scoop fossero stati hackerati. Peccato che non ci fosse alcuna prova ufficiale della cosa. Non a caso, la questione suscitò dibattito anche tra le alte sfere di Twitter. 

In particolare, la decisione ultima di censurare fu presa dalla responsabile dell'ufficio legale dell'azienda, Vijaya Gadde (che è stata, anche per questo, licenziata dal nuovo Ceo, Elon Musk). Al contrario, Jack Dorsey non sarebbe stato coinvolto nell'affossamento dell'articolo né lo sarebbero stati apparati governativi. Non solo.

Secondo Taibbi un ex dipendente di Twitter avrebbe riferito che «l'hacking era la scusa, ma nel giro di poche ore praticamente tutti si sono resi conto che non avrebbe retto. Tuttavia, nessuno ha avuto il coraggio di invertire  la rotta». Che la base legale fosse fragile era quindi chiaro a tutti i dirigenti: d'altronde, in uno scambio di messaggi, il Deputy general counsel della società, Jim Baker, ammise che servivano «più fatti» per capire se il materiale provenisse da un hacking, ma aggiunse anche che, nel mentre, la «cautela era giustificata». 

Della serie: prove non ce ne sono, ma intanto blocchiamo tutto. Ricordiamo sempre che mancava meno di un mese alle elezioni presidenziali di allora e che Baker era stato assunto in Twitter a giugno 2020, dopo aver prestato servizio nell'Fbi e aver partecipato all'inchiesta federale sulla presunta collusione tra Donald Trump e la Russia. Non sentite anche voi puzza di cortocircuito?

In tal senso, il deputato repubblicano, James Comer, ha annunciato che a gennaio chiamerà in audizione alla Camera i responsabili della censura. Lo scoop del New York Post conteneva un'email di aprile 2015 rinvenuta nel laptop di Hunter Biden: un'email in cui un alto funzionario della controversa azienda ucraina Burisma ringraziava lo stesso Hunter per avergli presentato suo padre, che all'epoca era vicepresidente degli Stati Uniti. 

Pochi mesi dopo quella email, l'allora numero due della Casa Bianca fece pressioni sul presidente ucraino, Petro Poroshenko, per silurare il procuratore generale Viktor Shokin: una figura chiacchierata ma che aveva indagato proprio su Burisma. Ora, non sapremo mai se, senza questo atto di censura, l'esito delle ultime presidenziali americane sarebbe stato differente. Tuttavia, la gravità di quanto accaduto dovrebbe far riflettere sulla pericolosità insita in alcuni tanto decantati «meccanismi di moderazione» vigenti nei social. Ci sarebbe infine piaciuto che la Commissione europea, oggi tanto severa e occhiuta verso il Twitter di Musk, avesse detto qualcosa anche nel 2020. E comunque nuovi documenti potrebbero essere presto resi pubblici.

"Ora sono il partito dell'odio". Musk silura i dem americani. Marco Leardi il 19 Maggio 2022 su Il Giornale.

Elon Musk volta e spalle ai democratici americani, di cui era stato sostenitore. "Ora sono il partito della divisione e dell'odio, voterò repubblicano", ha scritto il magnate in un tweet.

"Ora sono il partito della divisione e dell'odio". Elon Musk volta le spalle ai democratici americani e anzi, li rinnega proprio. Il miliardario della Silicon Valley, un tempo sostenitore della sinistra dem a stelle e strisce, ora ha cambiato idea: lo ha riferito lui stesso, con parole che risuonano come uno schiaffo alla compagine politica guidata da Joe Biden. In un tweet pubblicato nelle scorse ore, il fondatore di Tesla si è inserito a modo suo nel dibattito in vista delle elezioni di midterm e lo ha fatto lanciandosi in un endorsement per i repubblicani.

"In passato ho votato democratico, perché erano (soprattutto) il partito della gentilezza. Ma sono diventati il partito della divisione e dell'odio, quindi non posso più sostenerli e voterò repubblicano. Ora guarda la loro campagna di trucchi sporchi contro di me", ha twittato Elon Musk, riuscendo ancora una volta ad attirare l'attenzione su di sé. Già nella mattinata di ieri l'imprenditore, durante un podcast, aveva espresso le proprie intenzioni di voto in riferimento alle elezioni di metà mandato che costituiranno una vera e propria prova del fuoco per l'attuale presidenza americana.

Che il milionario sudafricano non sopportasse più le contraddizioni e le mosse politiche della sinistra statunitense era ormai chiaro, così come era evidente la reciprocità di questi attriti. Nelle scorse settimane, quando Musk si era lanciato alla conquista di Twitter, erano stati soprattutto i democratici a manifestare critiche e contrarietà alla mossa. "Questo accordo è pericoloso per la nostra democrazia", aveveva accusato la senatrice democratica Elizabeth Warren, auspicando l'introduzione di "una tassa sui ricchi e di regole più stringenti affinché Big Tech sia responsabile". Affermazioni che certo non potevano lasciare in silenzio il diretto interessato.

Già in passato, il magnate di Tesla e SpaceX aveva assicurato su Twitter che "gli attacchi politici" nei suoi confronti sarebbero aumentati "a dismisura nei mesi a venire". E lo stesso Elon non aveva fatto nulla per evitarli. Anzi. Pochi giorni fa, l'imprenditore aveva aperto al ritorno di Donald Trump sulla popolare piattaforma, facendo infuriare ancora di più la sinitra (in questo caso globale) e i sostenitori del politicamente corretto via social. Ma la battaglia, su quel fronte, sembra essersi arenata.

Musk ha infatti dichiarato la momentanea sospensione del suo accordo per l'acquisizione di Twitter. Prima di finalizzare l'affare (per un valore di 44miliardi di dollari offerti), il fondatore di Tesla ha infatti chiesto chiarimenti sul reale numero di utenti falsi presenti sulla piattaforma. Secondo alcune stime meno del 5%, secondo Elon molti di più: circa il 20%. Una cifra che potrebbe cambiare le carte in tavola nella valutazione del reale valore della società.

Il manifesto politico di Elon Musk su Twitter, di cui Renzi invita a «parlare, anziché ironizzare». Martina Pennisi su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

L'imprenditore pubblica un grafico che spiega perché si sente più vicino ai conservatori. Il senatore di Italia Viva approva e chiede una riflessione sulla «sinistra riformista». 

«Elon Musk ha sempre twittato come se la piattaforma fosse sua», ha titolato il New York Times . È vero: il fondatore e amministratore delegato di Tesla e SpaceX è un po’ il Trump dell’imprenditoria, su Twitter. È onnipresente, sfrutta il social da 229 milioni di utenti quotidiani (monetizzabili, +15,6% in un anno) per surfare sugli altri media, provoca. 

Ma lo è anche politicamente? Più chiaro: quanto è vicino alle idee dell’ex presidente degli Stati Uniti il nuovo potenziale proprietario di Twitter? Inevitabile chiederselo, in queste ore, mentre ci si interroga sul futuro della moderazione sulla piattaforma e sugli effetti dell'era Musk sul dibattito pubblico. 

Talmente inevitabile che Musk ha pensato bene di rispondersi da solo. A modo suo: cinguettando una vignetta evocativa e un po’ provocatoria sugli equilibri fra gli schieramenti politici negli Stati Uniti. Lui, come si vede chiaramente nell’immagine, ora risulta spostato a destra, verso l’ala conservatrice. Il motivo, secondo la sua ricostruzione, è che dal 2008 in poi la sinistra liberal si è sbilanciata sempre più a sinistra, perdendo alleati e sposando la cosiddetta cultura Woke (si può tradurre come consapevolezza dell'esistenza di razzismo o altre discriminazioni), mentre i conservatori di destra sono rimasti fermi, e adesso se la ridono, forti dei nuovi consensi più o meno moderati (compreso quello di Musk).

Quindi: rimanendo fermo sulle sue idee, Musk si vede più vicino alla destra di quanto non fosse 13 anni fa, quando era invece vicino alla sinistra. Questo perché la distanza fra i due partiti si è allungata e la sinistra non viene più considerata rappresentativa di un maschio bianco (in crisi) di mezza età, ma molto più vicina alle istanze Woke: quelle, cioè, delle minoranze in stato di allerta contro le microagressioni quotidiane. 

Per il senatore Matteo Renzi — ex segretario e premier del Partito democratico di centro-sinistra e poi fondatore di Italia Viva, che dal centro guarda anche a destra — «questo tweet interroga la politica della sinistra riformista più di mille convegni. Bisognerebbe parlarne anziché ironizzare». 

Secondo il Washington Post , invece, le conclusioni a cui giunge il grafico sono errate: «Ci sono vari modi per misurare come è cambiata la politica americana, uno è guardare chi stanno eleggendo gli americani al Congresso: ed emerge il contrario di quello che ha rappresentato Musk», scrive Philip Bump. 

Il giornalista del WaPo spiega che i Democratici si sono effettivamente allontanati dal centro, ma che i Repubblicani partivano molto più polarizzati, e i due schieramenti non erano equidistanti come li ha rappresentati Musk. Tra il 2008 e il 2021, inoltre, i Repubblicani si sono spostati a destra e l'elettorato americano si è spostato verso sinistra.

To buy or not to buy. Report Rai PUNTATA DEL 30/05/2022 di Lucina Paternesi Collaborazione di Eleonora Zocca

Potrebbe essere l’acquisizione social più costosa della storia: 44 miliardi di dollari.

Perché l’uomo più ricco del mondo vorrebbe comprare Twitter, il social network che più di tutti rappresenta il sentire comune e l’orientamento politico dei suoi utenti? “La libertà di parola è il substrato di una democrazia che funziona e Twitter la piazza digitale dove si discutono questioni vitali per il futuro dell’umanità, ha affermato Elon Musk. Il suo Twitter potrebbe essere senza censure e con un tasto per modificare i cinguettii. Ma qual è la sua idea di libertà? Cosa cambierà per gli oltre 250 milioni di utenti attivi ogni giorno? Ed è giusto che sia l’uomo più ricco del mondo a imporre agli altri la propria idea di libertà?

TO BUY OR NOT TO BUY Di Lucina Paternesi

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Dall’esplorazione dei cieli agli algoritmi che fanno andare le macchine senza toccare il volante. I satelliti per far arrivare internet ovunque, le capsule di trasporto a pressione, i pagamenti digitali, le neuro tecnologie e l’intelligenza artificiale. Tutto questo è Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo

ELON MUSK Non lo faccio per guadagnare soldi

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Al suo impero futuristico mancava un solo tassello, conquistare la piazza d’opinione per eccellenza, Twitter

MICHELE MEZZA - ESPERTO DI MEDIA DOCENTE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI Elon Musk ha comprato Twitter per difendere la sua libertà, non quella degli altri.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO L’acquisizione social più costosa al mondo: 44 miliardi di dollari, cioè 55 volte il valore di una delle tranches d’aiuti che l’amministrazione Biden ha inviato in Ucraina per respingere l’offensiva russa, 22 volte il costo dei test covid forniti gratuitamente agli americani dall’inizio dell’anno e un quarto delle risorse del fondo del Next Generation EU destinato all’Italia.

TOMMASO VALLETTI - PROFESSORE ECONOMIA IMPERIAL COLLEGE - LONDRA Se andiamo a vedere Elon Musk non farà altro che rimpiazzare un altro uomo un po’ meno ricco ma sempre molto ricco. Il vero problema sta nella concentrazione di mercato di queste piattaforme.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, la libertà di parola è il substrato di una democrazia che funziona e Twitter, come piattaforma digitale, grande piazza cittadina digitale è quella sulla quale si discutono temi che valgono il futuro dell’umanità. In sintesi, è questo il pensiero di Elon Musk, che ha anche trovato un accordo per acquistarlo Twitter, 44 miliardi di dollari. Però ora è sospeso perché Musk ha annunciato che è necessario fare una due diligence sui reali profili di Twitter, cioè distinguerli dallo spam, da quelli falsi. Insomma, è una vera intenzione o una drittata, una furbata per cercare di tirare poi su il prezzo, fatto sta che ha violato un accordo di riservatezza e sono intervenuti i legali. Ma il tema è un altro, qual è l’idea di libertà di stampa, di democrazia di Elon Musk, visto che si appresta ad acquistare la più grande piazza cittadina digitale, quella che più è in grado di orientare i sentimenti e dare informazioni, le opinioni di 250 milioni di profili attivi ogni giorno, che comprendono anche capi di stato, politici e giornalisti? E poi, con quali soldi Musk acquisterà Twitter, se l’acquisterà? La nostra Lucina Paternesi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Ha paragonato il premier canadese Trudeau ad Adolf Hitler e ha fatto crollare più volte le azioni Tesla per via di qualche cinguettio azzardato, come questo del 2018 che gli è costato due multe da parte dell’ente che controlla la borsa americana, per 40 milioni di dollari. Con 95 milioni di follower oggi Elon Musk è anche un troll: cinguettii provocatori, irritanti e fuori luogo. Ma chi è veramente Elon Musk?

RICCARDO STAGLIANO’ - GIORNALISTA E AUTORE ‘I GIGA CAPITALISTI’ Nasce in Sudafrica, è un bimbo che si cimenta coi primi tentativi di programmazione, Dungeons and Dragon, i videogiochi dell’epoca diciamo. È però un bimbo bullizzato. Va a fare uno stage in Silicon Valley nel ‘94 e capisce che quello è il posto dove deve stare, è un posto dove si creano le cose.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO E lui ha creato un impero, che oggi vale oltre mille miliardi di dollari.

ELEONORA ZOCCA In che cosa si distingue Musk dagli altri gigacapitalisti?

RICCARDO STAGLIANO’ - GIORNALISTA E AUTORE ‘I GIGA CAPITALISTI’ Quando parla della propria azienda, Tesla, dice che è un modo per salvare il pianeta, perché, diciamo, riducendo le emissioni salverebbe il pianeta. Evoca costantemente la salvezza dell’umanità il futuro dell’umanità.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con l’obiettivo di salvare l’umanità, Musk ha messo a disposizione dell’Ucraina il sistema Starlink, migliaia di satelliti che hanno permesso agli ucraini di rimanere connessi a Internet durante la guerra.

MICHELE MEZZA - ESPERTO DI MEDIA DOCENTE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI Si è guadagnato i galloni sul campo di difensore dell’occidente. Vorrà esercitare un ruolo di influencer del pianeta, anzi di più, galattico visto che punta a Marte e alla Luna.

LUCINA PATERNESI Che Twitter sarà il Twitter del futuro?

MARIANO DELLI SANTI – ESPERTO DI PRIVACY OPEN RIGHTS GROUP Ci sono due cambiamenti fondamentali, uno riguarda l’identificazione obbligatoria dell’utente che utilizza il servizio. Permette di ricollegare informazioni che attengono alla vita reale della persona, quindi l’indirizzo di casa, situazione bancaria, creditizia, abitudini d’acquisto e via dicendo

MICHELE MEZZA - ESPERTO DI MEDIA DOCENTE UNIVERSITA’ FEDERICO II NAPOLI E lui vuole costruire un impero dei dati in cui lui integra le informazioni di massa che sta raccogliendo con i suoi, le province del suo impero, Tesla sul pilota automatico delle auto, Spacelink sull’intero sistema georeferenziato del pianeta e soprattutto i sistemi genetici sul cervello.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO L’anello di congiunzione per estendere il suo dominio anche nel campo digitale. La libertà non è mai costata così tanto. Ma con quali soldi ha intenzione di prendersela?

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO “VERITA’ & AFFARI” Per comprare Twitter deve vendere azioni Tesla è questa la preoccupazione per gli investitori, perché lui ha già venduto un piccolo pacchetto e il titolo infatti è sceso. LUCINA PATERNESI È veramente così ricco Elon Musk?

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO “VERITA’ & AFFARI” Ma in realtà è ricco di azioni. Si stima che lui abbia stock option per circa 20 milioni di azioni Tesla in questo momento, quindi equivale a un valore di 20 miliardi

LUCINA PATERNESI Però tutto sulla carta, cioè liquidità?

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO “VERITA’ & AFFARI” Finché non vende lui non ha una vera liquidità

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO E infatti voleva andare a rimorchio di banche e investitori agitando lo spettro della vendita di azioni Tesla che così perdono valore. Ma alla fine ha dovuto capitolare: oggi per comprare Twitter Musk può contare su un prestito da 6 miliardi di dollari da un gruppo di banche guidate da Morgan Stanley, mentre i restanti 33 li dovrebbe mettere lui. Nel frattempo, però, sono arrivati gli investitori: il principe saudita Bin Talal, il fondo sovrano del Qatar, le principali società d’investimento della Silicon Valley come Sequoia Capital.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO “VERITA’ & AFFARI” Però nell’operazione Twitter viene fuori li Musk vecchia maniera. Cioè il Musk che usa, come dire, i vecchi arnesi della finanza, pur essendo lui questo innovatore. Cioè lui andrà a debito, si fa dare i soldi dalle banche mettendo a garanzia i titoli

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per fortuna che c’è Tesla. Dopo anni in perdita, lo scorso anno la società automobilistica ha fatto registrare il primo utile, ma non è sempre tutto rosa e fiori

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO “VERITA’ & AFFARI” Il problema qual è? È che Tesla in borsa vale da sola una volta e mezza tutto il valore mercato di tutte le case automobilistiche del mondo.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Nonostante venda “appena” un milione di auto l’anno, contro i 10 milioni di Toyota, gli 8 di Volkswagen e i 6 e mezzo di Stellantis

FABIO PAVESI - GIORNALISTA FINANZIARIO “VERITA’ & AFFARI” Vuol dire che gli investitori comprano una cosa per cui devi assicurarti che l’azienda faccia gli stessi utili crescenti nei prossimi 50 anni. Se però questo non accade, il titolo è una bolla colossale

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO A gennaio 2021 Twitter aveva sospeso in modo permanente l’account del presidente uscente degli Stati Uniti d’America Donald Trump dopo questi due tweet, giudicati capaci di influenzare i seguaci di Trump a commettere atti criminali come l’assalto a Capitol Hill

ELON MUSK (INTERVISTATO DAL FINANCIAL TIMES) Se ci sono dei tweet che sono sbagliati, devono essere eliminati o resi invisibili. Una sospensione temporanea è appropriata ma non un ban permanente

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Donald Trump potrebbe tornare, e potrebbe non essere solo. Lo stesso giorno in cui ha annunciato che l’accordo su Twitter era stato raggiunto, Bot Sentinel, un servizio di analisi dati, ha scoperto che un certo numero di account legati a posizioni di sinistra avevano perso follower, mentre altri, conservatori, avevano raddoppiato i propri utenti. Così mentre la vicepresidente americana Kamala Harris ha perso più di 16mila follower in 24 ore, il presidente brasiliano Bolsonaro ha guadagnato oltre 65mila follower in un giorno solo. Secondo Bot Sentinel, il 58% di questi account era stato creato nei due giorni precedenti

TOMMASO VALLETTI - PROFESSORE ECONOMIA IMPERIAL COLLEGE - LONDRA Se loro vogliono che noi rimaniamo online il più tempo possibile, ore e ore, ci accapigliamo, pro-Trump contro Trump, adesso con la guerra in Ucraina, fino al momento in cui estraggono tutte le informazioni che servono per profilare te per profilare me e poi venderci pubblicità LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Secondo il rapporto di We are social e Hootsuit, oggi l’impatto potenziale di un tweet disinformato sponsorizzato riuscirebbe a raggiungere il 27% della popolazione in Nord America, il 20% in Medio Oriente, il 30% in Regno Unito, Irlanda e Islanda, il 7% in Italia

LUCINA PATERNESI Saremo più protetti in Europa da disinformazione, algoritmi tenuti segreti?

TOMMASO VALLETTI - PROFESSORE ECONOMIA IMPERIAL COLLEGE - LONDRA Il mio dubbio è che la commissione europea metta troppe poche risorse sul tavolo. Nel momento in cui Twitter o Facebook metteranno la disinformazione all’interno dei loro programmi di formulazione dei prodotti che offrono, vorrà dire che prendono questa legge in considerazione. Questa sarà secondo me la misura di una legge che funziona. Non tanto se l’ho multato, ma se ho cambiato il comportamento di Musk o di Zuckerberg.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Presto entrerà in vigore anche la nuova normativa antitrust europea che prevede il contrasto alla disinformazione e maggiore trasparenza degli algoritmi dei social network. Ora, come fai a dire che è disinformazione? Insomma, chi è che deciderà se è disinformazione oppure no? Come farai a rendere più trasparenti gli algoritmi? Però insomma, la domanda di conseguenza è: è un bene che Elon Musk, l’uomo più ricco al mondo compri la piattaforma che più di altre è in grado di orientare il sentimento e l’opinione nel mondo? È una piattaforma che, come abbiamo visto, è composta da capi di stato, politici e giornalisti. Elon Musk sarà indipendente come editore, come imprenditore? Quello che pensa del partito repubblicano americano lo ha già esternato pubblicamente, proprio con un tweet. Quando acquisterà Twitter, se lo acquisterà, diventerà il più grande megafono al mondo di un organismo politico.

Dagotraduzione dalla Cnbc il 26 aprile 2022.

Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, sulla carta la persona più ricca del mondo, sta acquistando Twitter, la piattaforma di social media su cui fa affidamento da anni per promuovere i suoi interessi e plasmare la sua immagine pubblica. 

«La libertà di parola è la base di una democrazia funzionante e Twitter è la piazza della città digitale in cui si dibattono questioni vitali per il futuro dell’umanità», ha affermato Musk quando l’accordo è stato annunciato lunedì. 

Musk si è caratterizzato per anni come un Primo Emendamento e un sostenitore della libertà di parola, difendendosi per esempio in una causa per diffamazione dopo aver definito un critico un “pedo ragazzo” (Musk ha vinto), e sostenendo che la SEC ha violato i suoi diritti in un accordo transattivo che hanno raggiunto e rivisto dopo che l’agenzia lo ha accusato di frode sui titoli nel 2018. 

Ma come hanno sottolineato The Atlantic, Bloomberg e altri, la difesa della libertà di parola di Musk sembra applicarsi principalmente al suo discorso e a quello dei suoi fan e promotori. TechDirt sostiene che Musk non ha una comprensione seria della libertà di parola e ancor meno della moderazione dei contenuti.

Discorso dei lavoratori

Quando si tratta della libertà di parola dei suoi dipendenti, Musk dimostra poca tolleranza. 

Sotto la sua guida, quando Tesla ha licenziato i dipendenti, ha chiesto loro di firmare accordi di separazione tra cui una forte clausola di non denigrazione senza data di fine. Questo tipo di accordi non sono rari nel settore, ma Musk è tutt’altro che un assolutista della libertà di parola qui. 

Una copia di uno di questi accordi di Tesla, condivisa con la CNBC da un ex dipendente licenziato nel 2018 (che non ha firmato l’accordo) diceva: 

«Accetti di non denigrare Tesla, i prodotti della Società o i funzionari, i direttori, i dipendenti, gli azionisti e gli agenti, le affiliate e le sussidiarie della Società in alcun modo che possa essere dannoso per loro o per la loro attività, per la reputazione aziendale o per la reputazione personale».

Nello stesso documento, Tesla richiedeva ai dipendenti licenziati di mantenere nascosti i dettagli sull’accordo di separazione stesso, oltre che al proprio avvocato, contabile o stretto familiare, anche ad altri lavoratori. 

«Le disposizioni del presente Accordo saranno tenute nella massima riservatezza da te e non saranno pubblicizzate o divulgate in alcun modo», affermava l’accordo. «In particolare, e senza limitazione, l’utente accetta di non divulgare i termini del presente Accordo a nessun dipendente o appaltatore della Società attuale o precedente».

Come la maggior parte delle grandi aziende, anche Tesla richiede ai lavoratori di firmare un accordo arbitrale sull’assunzione. Ciò significa che per parlare liberamente in tribunale, dove il loro discorso diventerà parte di un registro pubblico, i lavoratori devono prima ottenere un’esenzione dall’accordo arbitrale da un giudice. 

Sotto la guida di Musk, decine di lavoratori di Tesla hanno denunciato molestie, discriminazioni e altri tipi di molestie razziste, sessiste e di altro tipo e condizioni di lavoro non sicure. Molti hanno anche denunciato ritorsioni dopo aver parlato dei problemi.

Queste accuse sono state recentemente sotto i riflettori a causa di un’indagine appena rivelata dall’EEOC e di una causa legale dell’agenzia per i diritti civili della California, ma la società ha una lunga esperienza. 

Nell’agosto 2018, un ex impiegato della sicurezza di Tesla, Karl Hansen, ha presentato una denuncia alla US Securities and Exchange Commission dicendo di essere stato licenziato ingiustamente dal suo lavoro di investigatore presso l’impianto di batterie dell’azienda a Sparks, in Nevada, dopo aver lanciato l’allarme sul furto di materie prime per un valore di decine di milioni di dollari. Tesla ha nascosto il furto agli azionisti, ha affermato, anche se all’epoca rappresentava una somma sostanziale di denaro per la casa automobilistica.

Nel novembre 2020, l’ex dipendente di Tesla Stephen Henkes ha dichiarato di essere stato licenziato dal suo lavoro in Tesla il 3 agosto 2020, dopo aver sollevato problemi di sicurezza internamente e quindi presentato reclami formali agli uffici governativi. Sia il CPSC che la SEC stanno considerando le denunce di Henkes come prove.

Stampa libera

Musk ha ripetutamente cercato il controllo su ciò che giornalisti, blogger, analisti e altri ricercatori dicono delle sue attività, dei loro prodotti e di sé stesso. 

Una volta il CEO di Tesla ha rimproverato e interrotto un analista in una chiamata sugli utili nel 2018. «Scusatemi, il prossimo, il prossimo. Le domande noiose e ossute non sono belle», ha detto il CEO dopo una domanda sui requisiti patrimoniali della sua azienda. La casa automobilistica aveva appena registrato la peggiore perdita trimestrale della sua storia. Musk in seguito si è scusato per questo e ora a volte non parla durante le riunioni sugli utili di Tesla.

Musk e Tesla hanno anche chiesto ai giornalisti di firmare accordi di non divulgazione o di mostrare bozze di storie alla società per ottenere le approvazioni prima della pubblicazione. 

Musk ha sfacciatamente invitato i follower a modificare la sua biografia su Wikipedia. «Ho appena guardato la mia wiki per la prima volta da anni. È pazzesco!» Musk ha twittato. «A proposito, qualcuno può per favore eliminare ‘investitore.’ Fondamentalmente non investo a zero», ha detto. Le sue legioni di follower hanno obbligato gli autori a modificare la pagina per sminuire i suoi investimenti. 

Musk si arrabbia persino con i blog dei fan quando scrivono delle carenze di Tesla. 

Sotto la sua direzione, Tesla ha smesso di invitare alcuni dipendenti di Electrek a eventi aziendali dopo che il sito - che negli ultimi anni si è evoluto - ha pubblicato una storia con questo titolo, “Tesla sta addebitando ai proprietari $ 1.500 per l’hardware per cui hanno già pagato”. La storia è stata accurata anche se umiliante per Musk perché affronta il fallimento della sua azienda nella corsa per fornire la tecnologia dei veicoli autonomi ai clienti in attesa da lunga data.

Discorso dei clienti

Musk e Tesla hanno anche cercato, non sempre con successo, di mettere a tacere i clienti. Ad esempio, Tesla obbligava i clienti a firmare accordi contenenti clausole di non divulgazione come prerequisito per la riparazione dei loro veicoli. 

Nel 2021, Tesla ha chiesto ai clienti di accettare di non pubblicare messaggi critici sui social media in merito a FSD Beta, un pacchetto software sperimentale di assistenza alla guida che alcuni proprietari di Tesla potrebbero testare utilizzando le proprie auto.

In un accordo che Tesla ha inviato ai conducenti all’inizio di quest’anno per l’accesso alla versione beta di FSD, la società ha chiesto loro di «mantenere riservate le tue esperienze nel programma» e di non «condividere alcuna informazione su questo programma con il pubblico», anche prendendo screenshot, creando post di blog o pubblicazione su siti di social media. 

Tesla ha nominato Facebook, Instagram, Reddit, TikTok, Snapchat e YouTube come siti in cui i proprietari non dovrebbero condividere informazioni sul loro utilizzo di FSD Beta, secondo una copia dell’intero accordo ottenuto dalla CNBC.

Musk in seguito ha revocato i termini di accesso di Tesla a FSD Beta dicendo che nessuno stava comunque rispettando l’accordo. Ma la pratica ha causato un’indagine da parte dell’autorità federale per la sicurezza dei veicoli, NHTSA. 

«Dato che NHTSA fa affidamento sui rapporti dei consumatori come un’importante fonte di informazioni per valutare potenziali difetti di sicurezza, qualsiasi accordo che possa impedire o dissuadere i partecipanti al programma di rilascio beta di accesso anticipato dal segnalare problemi di sicurezza a NHTSA è inaccettabile», ha scritto l’NHSA in un lettera a Tesla nell’ottobre 2021.

Nel frattempo, in Cina, Tesla ha citato in giudizio i clienti che si sono lamentati di problemi di sicurezza con le loro auto e ha citato in giudizio un influencer dei social media per diffamazione. L’influencer, Xiaogang Xuezhang, ha pubblicato un video che mostra i problemi con i sistemi di frenata di emergenza automatizzata di Tesla e di altre case automobilistiche. 

Redazione

Gli avvocati di Tesla e Musk hanno anche presentato costantemente richieste di trattamento riservato per documenti legali e commerciali negli Stati Uniti.

Tra le altre cose, Tesla ha cercato di nascondere alla vista del pubblico: informazioni sulla sicurezza dei veicoli che i regolatori automobilistici federali hanno chiesto all’azienda come pratica investigativa di routine e informazioni commerciali utilizzate da Tesla per richiedere sussidi fiscali alla California Alternative Energy and Advanced Transportation Financing Authority.

Gli avvocati per conto di Tesla e Musk hanno anche cercato di mantenere nascoste le trascrizioni e i video delle testimonianze di dipendenti e dirigenti nei casi dinanzi al tribunale della Cancelleria del Delaware e ad altri tribunali. 

Libertà di parola per me

Musk ha sicuramente esercitato i diritti di libertà di parola per sé e per le sue aziende. 

Di recente, ha affermato che il servizio Internet satellitare di SpaceX Starlink manterrà online le fonti di notizie russe, nonostante ciò che secondo Musk è stato un invito a bloccarle da parte di governi senza nome durante la brutale invasione dell’Ucraina da parte di Putin.

«A Starlink è stato detto da alcuni governi (non dall’Ucraina) di bloccare le fonti di notizie russe. Non lo faremo se non sotto la minaccia delle armi», ha scritto Musk. «Mi dispiace essere un assolutista della libertà di parola». 

Sul fronte del lavoro, Musk sta anche combattendo una sentenza del tribunale amministrativo secondo cui deve rimuovere un tweet dal suo feed perché viola i diritti dei lavoratori. Il tweet, pubblicato nel 2018, diceva: «Niente impedisce al team Tesla del nostro stabilimento automobilistico di votare il sindacato. Potrebbe farlo tmrw se volesse. Ma perché pagare le quote sindacali e rinunciare alle stock option per niente?». 

ELON MUSK FUMA

In Tesla, Musk ha evitato l’obbligo di far approvare alcuni dei suoi tweet da un esperto di diritto dei titoli prima di pubblicarli, nonostante l’accordo transattivo che ha raggiunto con la SEC dopo che questa lo ha accusato di frode sui titoli civili. 

Musk ha detto a Lesley Stahl in un’intervista del 2018 che generalmente i suoi tweet non sono controllati, anche se un tribunale gli aveva ordinato di farli pre-approvare da esperti se contenevano informazioni che avrebbero potuto avere un impatto sul prezzo delle azioni di Tesla. Durante quell’intervista ha detto: «Ciao Primo Emendamento. La libertà di parola è fondamentale...».

Dagotraduzione dal Sun il 26 Aprile 2022.

Il co-fondatore di Twitter Jack Dorsey mangia solo un pasto al giorno e una volta ha trascorso il suo compleanno in un rifugio immerso nel silenzio dove non puoi usare la tecnologia o stabilire un contatto visivo. 

Dorsey ha ufficialmente rassegnato le dimissioni da Ceo di Twitter nel 2021 e ora, il collega miliardario Elon Musk ha pagato sette volte il patrimonio netto di Dorsey per diventare il nuovo proprietario della piattaforma. 

Lunedì il Ceo di Tesla si è assicurato un accordo da 44 miliardi di dollari con Twitter, ovvero sette volte il patrimonio netto di Dorsey di 6,6 miliardi di dollari.

Dorsey, 45 anni, ha fatto notizia molte volte in passato per i suoi ideali unici di salute e benessere. 

L'anno scorso, ha detto al conduttore di podcast Ben Greenfield che mangia solo un pasto al giorno, una forma piuttosto estrema di digiuno intermittente, e talvolta nei fine settimana salta anche i pasti. Ha detto che il digiuno lo aiuta a concentrarsi ed «è stata una nuova dimensione». Dorsey ha raccontato che in genere mangia solo a cena e prepara un pasto abbondante con proteine e molta verdura. 

Nel 2018, Dorsey ha fatto un ritiro di meditazione in Myanmar e un mese dopo è andato su Twitter per condividere la sua esperienza. «Ho meditato al Dhamma Mahimã a Pyin Oo Lwin. Questa è la mia stanza. Di base», insieme alle foto di una stanza spoglia che sembra contenere solo letti. «Durante i 10 giorni: nessun dispositivo, lettura, scrittura, esercizio fisico, musica, intossicanti, carne, parlare e nemmeno contatto visivo con gli altri. E' gratis: tutto è dato ai meditatori per carità».

«Mi sono svegliato alle 4 del mattino tutti i giorni e abbiamo meditato fino alle 21. C'erano pause per colazione, pranzo e passeggiate. Niente cena. Ecco il marciapiede su cui ho camminato per 45 minuti ogni giorno», ha aggiunto Dorsey, condividendo un'altra foto di una passerella dall'aspetto tranquillo. 

Dorsey ha aggiunto che aveva in programma di continuare a lavorare sulla sua pratica di meditazione ogni anno. «Continuerò a farlo ogni anno, e spero di farlo sempre più a lungo ogni volta. Il tempo che prendo per fare questo restituisce così tanto a me e al mio lavoro». 

Dorsey lascia Twitter

Dorsey ha fatto l'annuncio scioccante che avrebbe lasciato Twitter nel novembre 2021. «Ho deciso di lasciare Twitter perché credo che la società sia pronta ad andare oltre il suo fondatore», ha detto Dorsey in una nota.

«La mia fiducia in Parag [Agrawal] come Ceo di Twitter è profonda. Il suo lavoro negli ultimi 10 anni è stato trasformativo. Sono profondamente grato per la sua abilità, il suo cuore e la sua anima. È il suo momento di guidare». 

L'imprenditore ha anche condiviso l'e-mail che ha inviato ai dipendenti interni su Twitter, firmando «ciao mamma!». 

Dopo la notizia, le azioni di Twitter sono aumentate fino al 9% in più, mentre Square, una società di cui Dorsey è anche CEO, è salita del 3%. Il Nasdaq ha quindi sospeso rapidamente la negoziazione di azioni Twitter.

Il consiglio di amministrazione della società si stava preparando per la partenza di Dorsey dal 2020, hanno affermato le fonti. La notizia scioccante arriva oltre un decennio dopo che Dorsey ha co-fondato la piattaforma di social media. Ha co-fondato Twitter con Ev Williams, Biz Stone e Noah Glass nel 2006.

Erode Musk. Massimo Gramellini su Corriere della Sera il 25 maggio 2022. 

Anche il meno ispirato dei poeti mi emoziona più del signor Elon Musk, fautore e principale beneficiario della autentica catastrofe della nostra epoca: la sostituzione dell’umanità con la tecnologia e il convincimento, per molti aberrante, che questa sostituzione rappresenti un progresso. Ieri l’uomo più ricco del mondo ha scoperto che, «contrariamente a quello che si pensa», i ricchi fanno meno figli dei poveri (ma davvero, Elon, non sapevi che «proletari» viene da «prole»? I tuoi algoritmi te l’hanno sempre tenuto nascosto?) Poi ha rivelato l’esistenza di un’eccezione: lui medesimo, che di figli ne ha fatti (programmati?) ben sette e l’ultimo, in una botta di romanticismo, lo ha chiamato X Æ A-Xii. Infine, Musk si è appoggiato a un grafico per affermare che il tasso di natalità sta crollando nel suo Paese come nel nostro, arrivando alla originalissima conclusione che di questo passo l’Italia è destinata a non avere più una popolazione autoctona. Con tutto il rispetto, ma: 1) non ci voleva lui per scoprirlo; 2) il pianeta, nel suo complesso, resta comunque in «overbooking»; 3) se c’è qualcuno, in Occidente, che ha contribuito a imporre una cultura ipertecnologica e asociale — il cui effetto è ridurre il bisogno di compagnia e quindi di figli, oltre che i posti di lavoro necessari a sfamarli —, questo qualcuno è lui. Se il signor Elon Musk cerca un possibile Erode contemporaneo dei tassi di natalità, non deve consultare l’ennesimo grafico: gli basta guardarsi allo specchio. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 maggio 2022. 

Continua la faida tra Elon Musk e Bill Gates. I due miliardari si stuzzicano su Twitter da anni. L’ultimo episodio riguarda un tweet di Elon Musk. Il miliardario ha commentato con un “Sigh” un articolo di “Breitbart” che raccontava come la fondazione di Bill Gates abbia donato «centinaia di milioni di dollari» a numerosi gruppi per spingere gli inserzionisti a boicottare l’acquisizione di Twitter da parte di Musk. 

Secondo l’articolo la Gates Foundation ha donato milioni di dollari attraverso il New Venture Fund e la Tides Foundation, due gruppi definiti di «denaro oscuro», a 11 dei 26 firmatari di una lettera aperta che spingeva al boicottaggio. 

La faida du Twitter tra Musk e Gates è in corso da settimane. Il fondatore di Microsoft ha infatti criticato aspramente il piano del Ceo di Tesla di acquistare Twitter per 44 miliardi di dollari. Musk a sua volta ha accusato Gates di scommetere contro le azioni di Tesla e lo ha paragonato a un’emoji di un uomo gravido.

Il mese scorso Gates ha dichiarato che l’acquisizione di Twitter da parte di Musk avrebbe peggiorato la disinformazione, invece di migliorarla. «Non è il suo curriculum. Il suo curriculum con Tesla e Space X è piuttosto strabiliante. È in grado di mettere insieme un grande team di ingegneri. Dubito che accadrà questa volta, ma dovremmo avere una mente aperta e non sottovalutare mai Elon». 

«Sai, qual è il suo obiettivo?» ha chiesto Gates. «Quando parla dell'apertura, come si sente riguardo a qualcosa come "i vaccini uccidono le persone" o che "Bill Gates sta rintracciando le persone" che è una delle cose che secondo lui dovrebbe essere diffusa? Quindi non è del tutto chiaro cosa farà».

(ANSA il 26 maggio 2022) - Elon Musk rivede la sua offerta per Twitter, abbandonando il piano per un prestito a margine legato ai titoli Tesla e aumentando la sua quota di capitale a 33,5 miliardi di dollari dai 27,5 miliardi precedenti. Una quota per la quale comunque può cercare aiuto all'esterno e sulla quale sta già lavorando. Musk sta infatti cercando di raccogliere ulteriori fondi per la sua offerta chiedendo agli attuali azionisti, incluso il co-fondatore Jack Dorsey, di convertire le loro quote nella nuova società così da ridurre l'ammontare di cash di cui ha bisogno per finanziare l'operazione.

(ANSA il 26 maggio 2022) - Twitter patteggia una causa sulla privacy e si impegna a pagare 150 milioni di dollari. L'azione legale era stata presentata dalle autorità americane che l'hanno accusata si aver impropriamente raccolto dati degli utenti fra il 2014 e il 2019. Twitter - afferma il Dipartimento di Giustizia - ha ingannato gli utenti in merito alla tutela della privacy: la società che cinguetta aveva infatti detto ai suoi utenti che raccoglieva i loro dati per motivi di sicurezza, ma non aveva dichiarato che li avrebbe usati per la pubblicità mirata.

Il vero obiettivo dietro la scalata di Musk a Twitter. Andrea Muratore su Inside Over il 26 aprile 2022. 

Diventare, ufficialmente, un magnate del Big Tech; insinuarsi in un mondo dinamico e sempre in movimento in cui il controllo dei flussi informativi è determinante; fare del suo impero personale una piattaforma digitale a tutti gli effetti come quelle di Amazon, Facebook, Google: Elon Musk ha scalato Twitter per diverse ragioni che molto spiegano delle dinamiche del capitalismo americano e globale.

Musk-Twitter e la “guerra” dei magnati

In primo luogo, della sua tendenza alla concentrazione: il patron di Tesla salta sul ponte di comando di uno dei più celebri e frequentati social network, sicuramente il più controverso e dvisivo, come dimostrato dal tema del ban di Donald Trump, e rafforza con una miniera di dati, potenziali contatti e occasioni di visibiltà la sua galassia comprendente già Tesla, SpaceX e il sistema di internet via satellite Starlink.

In secondo luogo, della personalissima sfida tra i suoi protagonisti. Elon Musk è infatti intento in una vera e propria guerra con Jeff Bezos e il suo impero. Tanto che il Washington Post, di proprietà dell’uomo che contende a Musk la palma di persona più ricca del pianeta, ha posto in essere dei dubbi sulla libertà effettiva di Twitter e delle garanzie per un’informazione corretta con il passaggio del social al magnate di origine sudafricana. Ci sarebbe da ridere, se non fosse vero: Bezos e il suo sistema comprendono già Amazon, la più grande delle piattaforme, e rivaleggiano nello spazio con SpaceX attraverso il sistema Kuiper. Il quotidiano della capitale Usa fa esattamente ciò che Bezos teme Musk possa fare con Twitter: trasformarlo in uno strumento d’interesse e pressione personale. Certo, il problema esiste, e il combinato disposto tra concentrazione e personalizzazione della sfida tra i magnati lo rende più complesso.

In terzo luogo, il rafforzamento degli oligopoli personalistici è una spada di Damocle nel rapporto con le istituzioni federali statunitensi. Di fronte a una corsa “dopata” dalla iper-valutazione di Tesla sui mercati, Musk diversifica il suo patrimonio proprio nei mesi in cui gli Usa e Joe Biden in particolare studiano come affrontare il problema delle grandi piattaforme tecnologiche. Il consolidamento permette di opporre un fronte più ampio alle volontà regolatorie dell’autorità federale.

Musk entra nel Big Tech per cambiarlo

A queste lezioni bisogna aggiungere la necessità di capire perché Musk si sia lanciato in un’operazione tanto vistosa in una fase in cui le sue attività più volte sono state oggetto di critica, dalla possibilità di un suo insider trading sulle criptovalute al braccio di ferro con le autorità del governo per le attività di Tesla in Paesi rivali come la Cina.

Una spiegazione può essere quella del tentativo di Musk di accreditarsi nel gotha di Big Tech forzando una rivoluzione nella gestione di un social che non rappresenterà il suo core business aziendale per poi portare queste pratiche a diffondersi sulle altre piattaforme. Consacrandosi come vero “rivoluzionario” del mondo social e, dunque, entrando con un’azione da guastatore negli affari di compagnie come Facebook, Google, Amazon, notoriamente molto disinvolte nella gestione dei dati degli utenti. Una partita che va di pari passo con il tentativo di creare un oligopolio tech non necessariamente legato al trittico Silicon Valley-Partito Democratico-cultura liberalprogressista e che è stato anticipato dalle mosse di Musk in Stati federali come il Texas.

“Authenticating all humans“: sarà questa la chiave di volta del Twitter del futuro, il vero cambiamento dell’epoca Musk. Il buon Elon, in pratica, al fine di sconfiggere i bot (che hanno avuto un peso enorme nel diffondere le fake news negli ultimi anni) vuole obbligare tutti gli utenti ad autenticarsi sulla piattaforma”, nota Libero Tecnologia. “Questo vuol dire, in poche parole, che non sarà più possibile usare Twitter in modo completamente anonimo: i nostri follower potranno non sapere chi siamo, ma Twitter non ci lascerà twittare senza sapere chi siamo”. Una manovra che può anticipare alcuni interventi dei regolatori ma anche di fatto forzare cambiamenti che poi altre piattaforme dovranno adattare, imponendo di fatto la necessità di gestire con maggior criterio i dati degli utenti e la loro corrispondente rendita commerciale.

Bezos e Biden sul piede di guerra

Che ci sia ruggine per l’operazione di Musk tra il patron di Tesla e il mondo politico-imprenditoriale americano è chiaro. Oltre a sdoganare il suo quotidiano, ad esempio, Bezos ha scritto che l’acquisizione da parte di quest’ultimo del social media Twitter rischia di esporre tale piattaforma digitale all’influenza della Cina. Servendosi proprio del suo profilo Twitter, Bezos ha ricordato che “il secondo maggiore mercato di Tesla nel 2021 è stata la Cina”, e che “i produttori di batterie cinesi sono importanti fornitori per le auto elettriche di Tesla”. Secondo Bezos, “dopo aver bandito Twitter nel 2009, il governo cinese non ha più avuto quasi nessuna influenza su quella piattaforma”, ma proprio l’acquisizione da parte di Musk potrebbe aver mutato la situazione. In una nota pubblicata ieri, Musk ha affermato di aver acquistato Twitter per tutelare la libertà di espressione su quella piattaforma: “La libertà di parola è essenziale al funzionamento della democrazia, e Twitter è la piazza digitale dove vengono dibattute questioni cruciali per il futuro dell’umanità”, ha scritto il fondatore di Tesla e SpaceX.

Biden, invece, potrebbe non essere del tutto scontento di eventuali pulsioni regolatorie indotte nel nuovo Twitter, ma ha rilanciato il tema fondamentale dell’eccessiva concentrazione e dello strapotere di Big Tech.  Biden è “preoccupato dal potere dei social media al di là di chi è alla guida”, afferma la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. I democratici e i repubblicani sono uniti contro lo strapotere della Silicon Valley e delle piattaforme social, anche se per motivi diversi. Ai liberal preoccupati per la disinformazione, le fake news e le teorie della cospirazione si contrappongono i conservatori contrari alla “censura dei social controllati da un gruppo di ricchi democratici della California. Da anni le big della Silicon Valley sono nel mirino di Washington, lontana comunque dal raggiungere un accordo per una regolamentazione più stringente e per una maggiore tutela della privacy.

Con l’uomo più ricco del mondo alla guida di Twitter non è ancora chiaro cosa accadrà nel settore. Ma è bene sottolineare che questo problema precede l’ascesa di Musk alla guida di Twitter. E il fatto stesso che negli ultimi tempi si sia vista la natura decisiva della classificazione delle informazioni secondo gli algoritmi di Facebook, il peso di Google News nell’orientare il loro accesso al pubblico e lo scatenamento della potenza di fuoco del duo Bezos-Washington Post lo testimonia. L’affare Musk è una conseguenza, non una causa, del matrimonio sempre più organico tra big tech e circuiti informativi. E fino a che a Washington non si capirà la necessità di regolare in maniera stringente operazioni di questo tipo, delegando al mercato le soluzioni, azioni come quella di Musk, che mira a entrare nel gotha dei gestori dei flussi globali di informazioni e dunque della tecnologia in una forma che il solo duo Tesla-SpaceX non consentiva di garantire, saranno sempre più diffuse . Più potenza di fuoco del big tech, in fin dei conti, vuol dire più lobbying a Washington e più freni a ogni tentativo di riaffermare le leggi della concorrenza e della trasparenza. Con un danno generale alla democrazia economica internazionale che senza regole precise contro la creazione di monopoli permetteranno di rimediare.

Twitter, salta l'acquisto di Elon Musk: in fumo l'accordo da 44 miliardi. Il Tempo il 09 luglio 2022.

Elon Musk rinuncia all’acquisto di Twitter. Gli avvocati del Ceo di Tesla e SpaceX hanno notificato alla Sec, la società che controlla la borsa Usa, l'intenzione del miliardario di terminare l'acquisizione pianificata del colosso dei social media. Musk ha annunciato le sue intenzioni di porre fine all'accordo da 44 miliardi di dollari in una lettera inviata da un legale per suo conto al chief legal officer di Twitter nel tardo pomeriggio di oggi, secondo quanto riportato dalla CNBC. Nella missiva l'avvocato di Skadden Arps Mike Ringler ha accusato Twitter di “non aver rispettato i suoi obblighi contrattuali".

La decisione arriva mesi dopo che a maggio, Musk aveva "temporaneamente sospeso" l'accordo nell'attesa di verificare l’ammontare degli account spam fake attivi sulla piattaforma. Ringler ha affermato che Twitter non ha fornito a Musk le informazioni commerciali rilevanti che aveva richiesto. Lo stesso Musk aveva precedentemente affermato di voler valutare le affermazioni di Twitter secondo cui circa il 5% dei suoi utenti attivi giornalieri monetizzabili (mDAU) sono account di spam. "Twitter ha mancato o rifiutato di fornire queste informazioni", ha affermato Ringler. "A volte Twitter ha ignorato le richieste del signor Musk, a volte le ha respinte per motivi che sembrano ingiustificati" o ha fornito "informazioni incomplete o inutilizzabili”. E ora lo stop definitivo: Twitter non finirà nelle mani di Musk.

Elon Musk rinuncia all'acquisto di Twitter: «Voglio cancellare l'accordo da 44 miliardi». Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.  

Ora la domanda che tutti si pongono è una: Twitter è davvero sopravvalutata perché ospita una percentuale rilevante di profili falsi oppure il clamoroso dietrofront di Elon Musk nel ritirarsi dall’acquisto del popolare social network sia da ascrivere al crollo dei titoli tech in Borsa dell’ultimo mese che ha ridotto di molto il patrimonio del fondatore di Tesla e SpaceX? Quel che è certo è che ora a Wall Street gli unici a fare affari d’oro saranno gli avvocati. Perché dopo due mesi di trattative, di due diligence sui profili fake, di conti spulciati nel minimo dettaglio per capire il reale costo-contatto per gli inserzionisti della popolare piattaforma di cinguettii Musk ha fatto l’ultimo colpo di teatro: rinuncia a comprare Twitter. Lui che da solo ha oltre 100 milioni di follower e con i suoi tweet è finito più volte nel mirino della Sec, l’authority borsistica americana, per comunicazioni in grado di alterare le dinamiche di mercato. Sostengono i suoi che la piattaforma fondata da Jack Dorsey abbia un vizio di origine.

Che il reale valore sia di molto inferiore alla promessa di acquisto da 54 dollari per azione sotto forma di Opa immaginata ad aprile scorso dall’imprenditore di origine sudafricana. Perché gli utenti veramente attivi, ritenuti circa 330 milioni, siano ancora meno. Perché i bot, cioè i profili falsi costruiti da algoritmi di intelligenza artificiale capaci di scatenarsi per alimentare tesi propagandistiche, sono molti di più di quel 5% ritenuto il valore soglia oltre il quale l’intesa non poteva essere suggellata. L’azienda però rispedisce la tesi al mittente anche perché nell’ultimo mese aveva accettato di fare un’operazione trasparenza aprendo la stanza dei segreti, la «dataroom», chiarendo il suo modello di business e il reale costo contatto di ognuno di noi. Cioè quanto i nostri dati valgono per gli inserzionisti che ci profilano quando cinguettiamo o esprimiamo una preferenza quando ri-postiamo una dichiarazione che condividiamo. Per questo la società, che ha perso ieri in Borsa il 5,1%, ha fatto sapere che aprirà un contenzioso con Musk.

La penale da circa un miliardo che dovrà pagare non basterebbe a sanare il danno reputazionale che ha subito in questi ultimi mesi di illazioni e smentite, annunci roboanti di acquisto da 44 miliardi di dollari fino a questo sorprendente dietrofront. Eppure Musk si difende sostenendo che «diversi aspetti dell’intesa non sono stati rispettati». Ma più di qualcuno tra gli analisti finanziari osservava che ad aprile probabilmente Musk aveva fatto il passo più lungo della gamba. Certo nessuno poteva immaginare che nel mese di giugno il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici, lasciasse per strada il 29,5%. Tesla dal 4 aprile scorso ha perso il 25% lasciando quasi 250 miliardi di capitalizzazione. Che abbiano finito per pesare visto che l’Opa sarebbe stata finanziata anche con azioni del marchio icona di auto elettriche? Fabio Savelli

Elon Musk ritira l'offerta di acquisizione di Twitter: azioni crollano, - 9%. Il social: "Faremo causa". Tiziano Toniutti su La Repubblica l'8 Luglio 2022.  

La motivazione: "Mancato rispetto di diversi aspetti dell'accordo e nessuna informazione su bot e spam". Paul Krugman: "Musk è il Boris Johnson della tecnologia"

Il passerotto blu di Twitter non volerà più verso l'impero economico di Elon Musk. Almeno così sembra per ora: l'ad di Tesla e SpaceX ha annunciato di aver ritirato la proposta di acquisizione del social network, annunciata lo scorso aprile per la somma di 44 miliardi di dollari. Il motivo secondo quanto riporta una lettera firmata da uno studio legale che segue Musk è "il mancato rispetto di diversi aspetti dell'accordo" e il "non aver fornito informazioni sui profili falsi e sullo spam". L'accordo già nelle scorse ore era apparso decisamente pericolante. 

In serata le azioni di Twitter sono calate del 7%, Musk aveva offerto 54,20 dollari per azione nella sua proposta di aprile. Nel trading post-chiusura sono crollate del 9%. Ora Musk secondo i termini dell'accordo dovrebbe pagare un miliardo per aver interrotto la transazione. Ma dopo l'annuncio della rottura dell'accordo da parte di Musk, il board di Twitter non ci sta e in un comunicato fa sapere di voler proseguire l'operazione, alla stessa cifra per azione offerta inizialmente da Musk. E annuncia una causa contro il miliardario.

La comunicazione della rottura dell'accordo, arrivata via Sec, pone fine a una saga iniziata in primavera. Musk aveva negli ultimi tempi già sospeso l'acquisizione in attesa che Twitter dimostrasse che gli "spam bot", ovvero gli account falsi automatizzati, fossero meno del 5% degli utenti. Un punto non negoziabile questo per Musk, che aveva messo la regolamentazione dei bot ai primi posti tra le "riforme urgenti" per Twitter. E il 5% secondo la lettera dello studio legale, rappresenta una stima ampiamente per difetto. 

L'accordo sembrava chiuso già ad aprile ma dalla sospensione in poi, le probabilità che si realizzasse poi effettivamente erano già vistosamente in calo. Alle trattative tese si erano anche aggiunte le preoccupazioni dei dipendenti di Twitter, che Musk aveva poi incontrato. Ma se questa rinuncia sia davvero l'ultimo capitolo di questa storia o sia un passaggio strategico per rinegoziare i termini non è ancora dato sapere. La trattativa potrebbe forse riservare ancora sorprese, come già visto finora.

Di certo non mancheranno reazioni e commenti. Tra i primi, quello del del premio Nobel per l'economia Paul Krugman che proprio su Twitter dice: "Qualcuno deve dirlo, dato il suo evidentemente scarso livello di autocontrollo, Elon Musk appare come il Boris Johnson della tecnologia". Mentre Donald Trump Jr attacca il social: "Dunque Twitter ha un'enorme quantità di account finti, molti di più di quelli che ha detto, ed è stata scoperta. Come ho detto settimane fa gli account 'spam' sono probabilmente il 50 per cento e non il 5 degli utenti di Twitter".

Twitter, Musk fa retromarcia: "Troppi utenti falsi, mi ritiro". Sofia Fraschini il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Mister Tesla interrompe le trattative per l'acquisto. E rischia un'azione legale per non aver rispettato i patti.

Solo una questione di account. Ma che manderà in fumo un accordo da 44 miliardi di dollari. Una delle più grandi operazioni social degli ultimi anni, targata Elon Musk e finalizzata all'acquisto di Twitter, molto probabilmente non andrà in porto. Secondo quanto scrive il Washington Post, citando diverse fonti vicine al dossier, il team del multimiliardario patron di Tesla e Space X avrebbe concluso che i dati sugli account falsi e su quelli spam (utenti registrati, anche più volte, con nomi falsi tramite indirizzi mail secondari per tutelare quello principale da eventuali bombardamenti pubblicitari indesiderati; ndr) non sarebbero verificabili attraverso le cifre fornite dal social network. Ragione che avrebbe convinto definitivamente Musk a interrompere le trattative intorno all'operazione. In primis, per i possibili finanziamenti propedeutici alla maxi-offerta.

Musk controlla già il 9,5% della società, secondo azionista dietro il fondo Vanguard, ma lo scorso aprile ha avanzato un'offerta sull'intero capitale. Mossa dopo la quale ha chiesto di poter verificare prima che gli account falsi fossero inferiori al 5% del totale. Ora che la squadra di Musk ha concluso che le cifre di Twitter sugli account spam non sono verificabili, ha detto una delle fonti del Washington Post, l'accordo starebbe sfumando. Non senza strascichi. Twitter potrebbe intraprendere un'azione legale. I termini dell'accordo dicono che Musk deve pagare un miliardo di dollari per rompere l'accordo, ma i legali hanno affermato che Twitter potrebbe tentare di costringere il tycoon a portare a termine l'acquisto. Il portavoce del social network, Trenton Kennedy, interpellato dal Washington Post, ha rifiutato di commentare la vicenda. E anche Musk per ora non si è espresso chiaramente sulle indiscrezioni.

Dall'annuncio dell'accordo sull'acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk di fine aprile, la vicenda è stata ricca di colpi di scena. Il 13 maggio Musk ha messo l'accordo in standby con la scusa di voler verificare con esattezza il peso degli account falsi. Il 6 giugno era poi arrivato un ultimatum dal team legale di Musk, che aveva inviato una lettera agli avvocati di Twitter in cui minacciava di abbandonare l'accordo se non fossero arrivati dati rilevanti al più presto, a cui l'azienda aveva risposto qualche giorno dopo dicendosi disponibile a condividere i dati degli utenti.

Twitter, intanto, non vive un gran momento: ha licenziato il 30% del team dedicato alle risorse umane, a due mesi dal blocco delle assunzioni in tutta l'azienda. Da mesi, inoltre, la compagnia Usa ha sospeso la maggior parte delle assunzioni e dei rientri, a parte i ruoli più critici. Si tratta solo dell'ennesima difficoltà che interessa i colossi del web, tanto che si stima che negli ultimi due mesi siano stati licenziati oltre 30mila lavoratori nel settore, con i social network non immuni alla crisi del mercato. Concorrenti come Meta-Facebook e Snap hanno adottato misure precauzionali per far fronte alla situazione difficile che stanno vivendo i grandi del tech.

Dopo l'annuncio dell'accordo con Elon Musk, la situazione è comunque precipitata: Parag Agrawal, che aveva sostituto il co-fondatore di Twitter Jack Dorsey, ha allontanato il manager Keyvon Beykpour e il leader dei prodotti Bruce Falck. A dicembre, l'azienda ha perso il chief design officer Dantley Davis e il capo dell'ingegneria Michael Montano. Un mese dopo, sono andati via anche gli esperti di sicurezza Rinki Sethi e Peiter Zatko.

Da Ansa il 31 luglio 2022.

La battaglia tra Twitter ed Elon Musk non sarà nè rapida nè indolore. L'uomo più ricco del mondo ha, infatti, deciso di rispondere alla causa lanciata dal social media per costringerlo a concludere l'acquisto da 44 miliardi dollari presentando una sua denuncia. 

Un documento di quasi 200 pagine nel quale il patron di Tesla difende la sua scelta di ritirarsi. La notizia non è ancora ufficiale ma fonti informate hanno riferito al Wall Street Journal che le argomentazioni per il contrattacco sono le stesse che il patron di Tesla ha indicato come le ragioni della sua retromarcia: Twitter non è stata trasparente sul numero di bot, account spam e falsi. Per rendere ancora più efficaci le sue ragioni pare che nella denuncia Musk abbia addirittura voluto inserire una celebre citazione dell'oracolo Warren Buffet che suona più o meno così: "Solo quando la corrente si ritira, si scopre chi ha fatto il bagno nudo". La causa, secondo le fonti, è stata depositata poche ore dopo la convocazione del processo per il 17 ottobre in Delaware, mentre il 13 settembre è stato fissato il voto degli azionisti. sulla proposta.

Nelle intenzioni di Twitter il processo dovrebbe durare soltanto cinque giorni e finire con l'ordine del tribunale al miliardario di tenere fede ai patti. La società di San Francisco è in difficoltà dopo che i dati della trimestrale hanno mostrato un rosso da 270 milioni di dollari su ricavi in calo dell'1% a 1,18 miliardi di dollari, sotto le attese degli analisti. E' probabile che a pesare sui conti sia l'incertezza causata da Musk e dal suo ritiro dall'accordo, anche se per molti analisti i risultati deludenti sono la conferma di quanto il patron di Tesla va dicendo da mesi e potrebbero addirittura rivelarsi un'arma da sfoderare in tribunale per difendere il suo passo indietro.

Altri invece danno ragione a Twitter: gli inserzionisti hanno frenato gli acquisti di spazi perché preoccupati da una possibile acquisizione di Musk, contrario alla pubblicità e intenzionato ad allentare i controlli sui contenuti postati. Intanto lui è tornato a postare i suoi cinguettìi provocatori. "Tesla + Twitter -> Twizzler", ha twittato poche ore dopo la diffusione della notizia della sua denuncia ironizzando sul fatto che l'unione della sua azienda con il social media sarebbe "meglio" di uno degli snack dolci preferiti dagli americani, una sorta di bastoncini gommosi alla fragola. E subito dopo: "alcune persone sono totalmente prive di nonsense. A me personalmente piace un po' di nonsense". Prima il patron di Tesla aveva chiesto ai suoi 102,4 milioni di follower: "Sbaglio o l'interazione con tutti gli account Twitter è più bassa in queste ultime settimane e giorni?".

Musk e gli sms della lite con l'Ad di Twitter Agrawal: «Ma cosa hai combinato questa settimana? Parlare con te è inutile». Massimo Gaggi su La Repubblica l'1 Ottobre 2022. 

Pubblicati i messaggi tra il fondatore di Tesla e il CEO di Twitter: dall'intesa delle prime ore al tweet (di Musk) che fa precipitare i rapporti, fino alla rottura definitiva

Elon Musk: «Ho una tonnellata di idee, ma fammi sapere se sto spingendo troppo. Io voglio solo che Twitter sia straordinaria». 

Parag Agrawal, amministratore delegato di Twitter: «Non vedo l’ora di sentirle. Ti dirò quali sono quelle che possono funzionare meglio».

Musk: «Ottimo. Vorrei capire meglio come funzionano alcuni aspetti tecnici di Twitter. Ho scritto software per vent’anni, mi interfaccio meglio con gli ingegneri che fanno il lavoro di programmazione che con i program manager, quelli col master in business administration». 

Agrawal: «Certo, la prossima volta che ci sentiamo, trattami come un ingegnere, non come l’amministratore delegato». 

Musk: «Francamente detesto le incombenze manageriali, penso che nessuno dovrebbe essere il capo di nessuno. Io amo risolvere problemi tecnici di disegno dei prodotti». 

Agrawal: «Perfetto, a domani». 

È il 7 aprile scorso e Musk, che ha progressivamente acquistato sul mercato il 9% di Twitter, ha appena accettato di entrare nel consiglio d’amministrazione della società. 

Sappiamo come andrà a finire: l’armonia ben presto si rompe, Musk passa alla scalata ostile, 44 miliardi di dollari per rilevare il controllo di Twitter. La società prima fa le barricate per respingere Musk, poi accetta l’offerta. Ma a quel punto, coi mercati in forte arretramento e le aziende tecnologiche che hanno perso da un quarto a un terzo del loro valore, il fondatore di Tesla non vuole più comprare Twitter: sostiene che la sua offerta non è più valida perché la società gli ha presentato un quadro della sua situazione non veritiero, in particolare per quanto riguarda il numero di account falsi, fortemente sottostimato. Twitter giudica infondate le obiezioni di Musk, conferma l’accettazione dell’offerta e chiede alla magistratura di obbligare l’uomo più ricco del mondo a rispettare l’impegno preso. 

Tra due settimane, il 17 ottobre, inizierà davanti a un tribunale del Delaware il processo che dovrà risolvere il caso. 

Alle informazioni fin qui note sul caso, soprattutto i post pubblicati su Twitter, ora si aggiungono i messaggi privati che i protagonisti della vicenda si sono scambiati in quelle giornate bollenti e che gli avvocati di Musk hanno deciso, ignorando le obiezioni della parte avversa, di allegare ai loro documenti processuali. 

Nessuna novità clamorosa, ma lo scambio tambureggiante di messaggi rende in modo molto vivido il repentino mutamento di clima e di umori, le reazioni impulsive, i disperati tentativi di ricucitura e anche i timori sul futuro di Twitter che altri protagonisti della vicenda, da Jack Dorsey a Larry Ellison, hanno preferito esprimere in privato. 

La svolta arriva meno di 48 ore dopo quel 7 aprile concluso con baci e abbracci. 

Musk pubblica su Twitter l’elenco delle dieci personalità con più follower sulla rete sociale, da Obama allo stesso Musk passando per Justin Bieber e Cristiano Ronaldo, nota che su questi account l’attività è molto limitata, pochissimi i nuovi post, e si chiede: «Twitter sta morendo?» 

È il 9 aprile e poche ore dopo Agrawal risponde a un Musk che notoriamente non ama farsi dire cosa deve e non deve fare: «Sei libero di chiederti se Twitter stia morendo ma è mia responsabilità farti sapere che questo non aiuta. La prossima volta che ci sentiremo ti darò un quadro di come questo crei confusione interna e danneggi il nostro lavoro». Poi auspica che nel frattempo si convinca, anche grazie all’intervento di altre personalità di Twitter, del suo valore. E conclude: «Ma non ci siamo ancora». 

Passa un minuto e Musk replica secco: «Ma tu cosa hai fatto di buono questa settimana? Non entrerò nel consiglio d’amministrazione di Twitter: è tempo sprecato. Farò un’offerta per rilevare il controllo della società». 

Fine dell’idillio con Agrawal che Jack Dorsey, fondatore di Twitter e grande sponsor dell’ingresso di Musk nella società per rivitalizzarla, gli aveva presentato come un grande ingegnere. 

Nei giorni successivi il presidente della società Bret Taylor e lo stesso Dorsey tenteranno di ricucire, ma senza risultati. Musk è convinto che il Ceo sia schiavo del personale di Twitter, incapace di imprimere svolte decise. Dorsey organizza un incontro tra i due che non finisce bene e Musk scrive a Dorsey: «Io e te siamo d’accordo sul fatto: Agrawal è troppo lento e sta cercando di ingraziarsi gente che sarà sempre scontenta, qualunque cosa lui faccia». Dorsey conclude: «Quantomeno ora abbiamo chiarito che voi due non potete lavorare insieme». 

È il sigillo sulla rottura. 

"Questo non aiuta", "Sta morendo": svelati i messaggi della lite Musk-Ceo di Twitter. Il processo che vede coinvolto il Ceo di Tesla si svolgerà nel Delaware a partire dal prossimo 17 ottobre. Federico Garau l'1 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

In attesa del processo in programma per il prossimo 17 ottobre, nel quale si stabilirà se Elon Musk dovrà o meno completare l'acquisizione da 44 miliardi di dollari di Twitter, già accettata dalla società in data 25 aprile 2022, inizia a essere reso noto il contenuto di alcuni messaggi che il Ceo di Tesla e quello del celebre social Parag Agrawal si sono scambiati negli ultimi mesi.

L'idillio

Dal contenuto dei primi messaggi si evince che tra i due si era inizialmente instaurato un buon rapporto, reso solido anche dalla comune passione per l'ingegneria, avviato da un contatto instaurato da Agrawal. Siamo ancora in un periodo precedente la comunicazione, da parte di Musk, dell'intenzione di acquisire Twitter. Quando il Ceo di Tesla inizia a fare sul serio, è proprio Parag Agrawal il primo a contattarlo per chiedergli direttamente un incontro di persona. "Hey Elon, è fantastico essere connessi direttamente", scrive l'Ad di Twitter, "Mi piacerebbe parlare": un messaggio risalente al 27 marzo, secondo quanto riportato dalla BBC. La risposta di Musk non si fa attendere, e i due programmano un incontro vis-à-vis a cena per le ore 20:00 del 31 marzo a San Josè (California). Incontro reso necessario dalla grande accelerazione delle trattative in corso.

Cena e chiaccherata si rivelano particolarmente gradevoli per Parag Agrawal, che così scrive a Musk:"Tutto memorabile, per diverse ragioni. È stata davvero piacevole". Pochi giorni dopo si diffonde la notizia dell'ingresso del Ceo di Tesla nel board di Twitter."Sono super eccitato", dichiara ancora Agrawal. "Adoro le nostre conversazioni", avrebbe invece scritto Musk in un post, stando a quanto riferito dall'Associated Press.

Qualcosa inizia a muoversi nel momento in cui Musk entra ufficialmente nel board di Twitter e la notizia diviene di pubblico dominio. Il Ceo di Tesla riceve numerosi messaggi da conoscenti e amici, relativamente alla gestione del celebre social, tra cui quello di Joe Rogan. "Libera Twitter dall'allegra tirannide della censura", consiglia quest'ultimo a Musk, che così replica: "Fornirò consigli, che possono o meno scegliere di seguire". Tra i due ingegneri prosegue comunque l'idillio, almeno per qualche giorno ancora. Al 7 aprile risalgono gli ultimi messaggi in cui si scambiano informazioni sulle rispettive carriere, con Musk che annuncia la propria intenzione di rendere Twitter "fantastico il più possibile".

La rottura

Dopo due giorni cambia la musica. Al 9 aprile risale il tweet incriminato. "La gran parte degli account "top" di Twitter posta molto raramente", scrive Musk,"questa piattaforma sta morendo?". Troppi bot sul social, secondo il Ceo di Tesla, che viene redarguito da Agrawal.

"Elon, sei libero di twittare "Twitter sta morendo?", o qualsiasi altra cosa a riguardo della società. Ma ho il dovere di dirti che questo non mi aiuta affatto a rendere questo posto migliore, nel contesto attuale", sbotta il Ceo del celebre social."La prossima volta in cui ci vedremo, mi piacerebbe fornirti un po' di prospettiva sul livello di distrazione interna che c'è in questo momento, e su quanto questo aiuti o danneggi la possibilità di lavorare", aggiunge.

Non passa neppure un minuto e Musk risponde per le rime all'ex amico, infastidito dal fatto di esser stato criticato per il contenuto del tweet. "Lavorare? Ma cosa hai fatto, questa settimana?", risponde il Ceo di Tesla. "Non entrerò a far parte del board, questa è una perdita di tempo. Farò un'offerta per comprarmi Twitter", promette. "Puoi dedicarmi 10 minuti e spiegarmi cosa succede? Sei entrato nel board 24 ore fa: posso anche capire il tuo punto, ma vorrei intendere le ragioni di questo improvviso cambio di direzione", chiede a Musk Bret Taylor (anche lui nel board di Twitter) dopo esser stato contattato da Agrawal.

Musk tira dritto per la sua strada e offre 44 miliardi per acquistare Twitter. Il board della società accetta l'offerta il 25 aprile. Il 26 Jack Dorsey cerca di convincere Musk a trovare un accordo con l'ex amico e Ceo del social. "Tu e io la pensiamo allo stesso modo: Parag si muove troppo lentamente, e cerca di tenersi buone persone che non saranno comunque contente, qualunque cosa farà", replica Musk sbattendo la porta. Tutto salta a luglio, quando il Ceo di Tesla decide di rinunciare all'acquisto. Twitter si oppone con forza, avviando una pratica legale. Si deciderà tutto nelle prossime settimane, all'interno di un tribunale del Delaware.

Musk cambia ancora idea. E si ricompra Twitter. "Abbiamo ricevuto la lettera di Elon Musk. L'intenzione della società è quella di chiudere la transazione" scrive Twitter. Redazione il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.

«Abbiamo ricevuto la lettera di Elon Musk. L'intenzione della società è quella di chiudere la transazione» scrive Twitter. È fatta, dopo una diatriba infinita il social network si prepara a cinguettare sotto un nuovo padrone.

Con un'altra retromarcia, il visionario e controverso imprenditore americano, padrone di Tesla, ha infatti scritto alla società proponendole di acquistarla a 54,20 dollari ad azione, ossia lo stesso prezzo offerto in aprile per un totale di 44 miliardi di dollari.

Il titolo vola. Alla chiusura di Wall Street le azioni di Twitter hanno registrato un +22%, il guadagno maggiore dal 4 aprile, quando Elon Musk ha avanzato l'offerta per l'acquisto della società.

Secondo la tv Cnbc, l'accordo potrebbe essere finalizzato venerdì o lunedì prossimi. Le parti avevano siglato una intesa a fine aprile, ma in luglio il patron di Tesla aveva fatto dietrofront accusando Twitter di non aver fornito dati veri su spam e bot (gli account falsi), quest'ultimi a suo avviso superiori al 5% indicato dalla piattaforma. La compagnia aveva reagito facendogli causa in un tribunale del Delaware per costringerlo ad onorare l'impegno, sostenendo che la questione dei bot è un pretesto per uscire da un'operazione che Musk non reputa più vantaggiosa. Le prime udienze non sono state molto incoraggianti per l'uomo più ricco del mondo. La giudice Kathaleen McCormick lo ha autorizzato ad utilizzare le rivelazioni di una «talpa» interna, l'ex capo della sicurezza di Twitter, Pieter Zatko, secondo cui la società ha ingannato le autorità americane anche sugli account falsi, uno dei motivi addotti dal magnate per far saltare l'operazione.

Ma ha visto respinta la sua istanza di rinviare il processo perché «anche un ritardo di quattro settimane rischierebbe di arrecare a Twitter un danno troppo grande da giustificare». In ogni caso i legali di Musk temono che, nonostante la talpa, sarebbe difficile provare gli avversi effetti materiali delle sue accuse, che sono il requisito per uscire dal contratto.

La prossima udienza è fissata per il 17 ottobre ma un eventuale accordo eviterebbe a Musk una incerta battaglia legale in una delle acquisizioni più contestate della storia recente. Secondo alcuni esperti si tratta di un segno di debolezza.

«È un chiaro segno che Musk riconosce che le sue chance di vincere contro il consiglio di amministrazione davanti ad un tribunale del Delaware sono moto deboli e che la raccolta di 44 miliardi è inevitabile in un modo o nell'altro», ha osservato l'analista Dan Ives de Wedbush Securities. Twitter si avvia così verso una nuova stagione, senza le «censure» contestate da Musk e con la possibilità di un ritorno di Donald Trump, dopo che era stato bandito per aver istigato l'assalto al Congresso.

«The bird is freed». Elon Musk compra Twitter e licenzia subito quattro top manager. L'Inkiesta il 28 Ottobre 2022.

L’acquisizione è costata 44 miliardi di dollari, confermata giusto in tempo per evitare l’avvio del processo per mancato rispetto degli accordi. Il patron di Tesla e Space X ha modificato il suo profilo come «chief Twit». Uno dei dirigenti è stato scortato fuori dal quartier generale di San Francisco

«The bird is freed». «L’uccellino è libero». Con questo tweet, Elon Musk ha annunciato la sua acquisizione del social network Twitter, aggiornando le informazioni del suo profilo come «chief Twit».

L’acquisto della società è stato finalmente completato dal fondatore di Tesla e Space X, giusto in tempo per evitare l’avvio del processo per mancato rispetto degli accordi che il tribunale aveva sospeso, ma solo fino alle ore 17 di oggi, venerdì 28 ottobre. L’annuncio dell’acquisizione, costata 44 miliardi di dollari, è arrivato alle 6 di pomeriggio della California, le tre di notte in Italia.

Il suo primo atto, come riportano i giornali americani, è stato il licenziamento in tronco dei quattro dirigenti più importanti di Twitter: l’amministratore delegato Parag Agrawal, il direttore finanziario Ned Segal, il consigliere generale Sean Edgett e la responsabile degli affari legali e della sicurezza, Vijaya Gadde, già attaccata da Musk per come aveva organizzato il lavoro dei moderatori che filtrano i contenuti postati. Almeno uno di loro è stato addirittura scortato fuori dal quartier generale di Twitter, nel centro di San Francisco. 

Musk, che oggi potrebbe avere un incontro pubblico con tutti i 7.500 dipendenti, nei colloqui avuti ieri avrebbe detto che, anche se ci saranno sicuramente tagli di organico, non intende licenziare il 75% del personale come rivelato qualche giorno fa dal Washingotn Post. Mercoledì si era presentato in azienda a San Francisco portando un lavandino per incontrare ingegneri e dirigenti pubblicitari.

Musk ieri ha ritrattato le sue dichiarazioni sul modello di business di Twitter, quando aveva detto: «Non amo la pubblicità, per Twitter voglio un modello di business basato sugli abbonamenti». Peccato che, per ora, il social network proprio dalla pubblicità trae quasi tutti i suoi 5 miliardi di dollari di ricavi. Così ieri il patron di Tesla Musk ha mandato un messaggio conciliante agli inserzionisti: «La pubblicità, se fatta bene, di qualità, è un servizio reso agli utenti. Noi vogliamo questi messaggi: aspiriamo ad essere la più rispettata piattaforma di inserzioni pubblicitarie. Questo rafforzerà il vostro brand e vi farà crescere come imprese».

Musk ha davanti a sé un compito arduo. Sul piano economico deve trasformare e valorizzare una società in deficit cronico, che deve inventarsi un nuovo modello di business. Attualmente solo il 10% degli utenti usa con una certa continuità la piattaforma che, secondo alcuni analisti, oggi non vale più di 10 miliardi di dollari.

Poi c’è la questione politica. Elon Musk aveva annunciato che avrebbe riaperto il profilo di Donald Trump. E anche se l’ex presidente ha già detto che non accetterà l’invito, molte imprese starebbero subendo pressioni perché non facciano più pubblicità su Twitter se Musk farà cadere il veto su Trump.

Il miliardario ieri Musk, pur confermando di voler fare di Twitter un tempio del free speech(«è importante per il futuro della civiltà costruire una piazza digitale aperta a tutti»), ha anche aggiunto che «ovviamente questo non significa che la piattaforma possa diventare un free for all hellscape (cioè un luogo infernale, caotico e senza regole, ndr) dove si può dire qualunque cosa senza subirne le conseguenze». Trovare un nuovo modello di moderazione dei contenuti sarà la sua vera impresa titanica.

Let that sink in. Cosa (non) farà ora Elon Musk con Twitter, lavandini a parte. Pietro Minto su L'Inkiesta il 28 Ottobre 2022.

L’azienda perde soldi, utenti e alimenta polemiche d’ogni tipo, ma è anche un’ossessione per molti politici e potenti, cosa che rende la sua mera proprietà un nuovo fattore d’influenza del capo di Tesla, che è ormai un agente politico ed economico globale

Cosa c’entra un lavandino con la difesa della libertà d’espressione? Niente, se non ci fosse Elon Musk di mezzo. Il capo di Tesla ha finalmente chiuso l’epopea della sua acquisizione di Twitter, iniziata ufficialmente a fine gennaio, momento in cui cominciò ad acquistare azioni del social network, arrivando a twittare, due mesi dopo, di «pensare seriamente» a comprare l’azienda. Primi d’aprile, Musk è il principale azionista della società; gli viene offerto un posto nel consiglio d’amministrazione, non si fa niente; pochi giorni dopo, l’offerta d’acquisto per la folle cifra di 44 miliardi di dollari.

Quello fu solo l’inizio dell’odissea, a dire il vero, perché Musk è sembrato pentirsi presto della decisione, cercando una via di fuga, un cavillo burocratico per far saltare l’accordo. Per alcune settimane furono i famigerati bot che infestano la piattaforma, su cui Musk voleva saperne di più e avrebbe potuto anche usare per far saltare tutto, se solo non avesse già firmato carte piuttosto vincolanti. Insomma, gli ultimi mesi sono stati un caotico groviglio di tweet, accuse e cause legali che non hanno portato a nulla: ieri Musk è finalmente entrato negli headquarters di San Francisco di Twitter, e lo ha fatto con un lavandino per onore al gioco di parole (intraducibile in italiano) let that sink in. Che significa “lascia che affondi” (nel senso di pensaci, riflettici su) ma d’altronde sink vuol dire anche lavandino, e quindi lo si può leggere come: “fai entrare questo lavandino”. 

Furto di meme altrui a parte, Musk è apparso sorridente, ha detto di aver incontrato tante bella gente tra i dipendenti e ha subito cambiato la sua bio di Twitter – dove ha 110 milioni di follower – in “Chief Twit”. Ci siamo quindi. E ora? Da quel che sappiamo, Musk ha sempre giustificato l’esborso di 44 miliardi di dollari, finanziati con prestiti e vendita di aziende Tesla (ma ci arriviamo), agitando lo spettro della libertà d’espressione tanto minacciata dalle piattaforme. È lo stesso principio che, almeno a parole, ha spinto Donald Trump e Kanye West a fare scelte simili: il primo con Truth Social, social “ad personam” fondato dall’ex presidente dopo il suo bando generalizzato dalle piattaforme; il secondo con Parler, social di destra che il rapper sembra avere intenzione di comprare. 

Se si incrocia questa preoccupazione con alcune frequentazioni dell’imprenditore, vicine ai libertari e al circolo di Trump (Peter Thiel tra tutti), possiamo forse anticipare alcune delle future mosse dell’azienda. Per esempio, in molti si aspettano che il bando permanente imposto da Twitter a Donald Trump, dopo il suo ruolo nell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021, venga in qualche modo fatto saltare. Musk sembra essere in linea con il fondatore ed ex ceo di Twitter stesso, Jack Dorsey, che ha lasciato l’azienda a fine 2021, e che, secondo il Wall Street Journal, era contrario alla cacciata di Trump.

Musk sembra saperlo, tanto da aver pubblicato una dichiarazione in cui rassicura gli inserzionisti pubblicitari che Twitter diventerà «la piattaforma pubblicitaria più rispettata del mondo» e non un incubo in cui tutto è concesso. Al netto di miracoli, per riuscirci Twitter dovrà avere regole sulla moderazione sempre più rigide e rispettate, cosa che sembra cozzare con la promessa della piazza digitale fatta da Musk stesso.

Se il deplatforming di Trump cominciasse a scricchiolare, le conseguenze politiche in vista delle elezioni di metà mandato, previste negli Stati Uniti a novembre, sarebbero notevoli. Ma che ne sarebbe degli altri “banditi” storici? Pensiamo a Milo Yiannopolous, per esempio, ex giornalista britannico diventato troll d’estrema destra e scomparso dalle scene dopo un deplatforming. 

Osservata da questa angolazione, la libertà d’espressione tanto ventilata da Musk sembra tramutarsi in una certa antipatia nei confronti della moderazione dei contenuti, la stessa che ha ispirato social network alternativi (8chan, Gab, il citato Parler), tutti nati denunciando la tirannia delle piattaforme e tutti diventati fogne di abusi, razzismi, minacce e oscenità varie. 

Quanto a Twitter, è una piattaforma in crisi da tempo, incapace di attirare nuovi utenti ma piuttosto efficace nel radicalizzare quelli che rimangono. Nel frattempo, però, nell’ultimo anno, il panorama social è cambiato radicalmente, con TikTok che ha sconvolto le convinzioni di Meta e Google – figuriamoci di Twitter. Su una cosa Musk ha ragione: l’azienda non è esattamente encomiabile per la sua dinamicità ed efficienza, ma il suo piano di tagliare il 75% della forza lavoro sarà davvero la soluzione, o è solo un modo di spingere più persone possibile a licenziarsi prima che debba essere lui a farlo?

Twitter è un’azienda che perde soldi, utenti e alimenta polemiche d’ogni tipo. Ma è anche un’ossessione per molti politici e potenti (Musk incluso), cosa che rende la sua mera proprietà un nuovo fattore d’influenza del capo di Tesla, che è ormai un agente politico ed economico globale, dalle auto elettriche ai razzi, da Starlink a Twitter. Sarà anche per questo che i soldi necessari alla chiusura del deal sono arrivati (anche) dal principe saudita Alwaleed bin Talal, che immaginiamo quanto abbia a cuore la libertà d’espressione degli utenti.

(ANSA il 4 novembre 2022) - Comincia da oggi il brutale licenziamento di massa di metà dei 7.500 dipendenti di Twitter deciso da Elon Musk pochi giorni dopo l'acquisizione della piattaforma per 44 miliardi di dollari. Lo scrive il New York Times, che ha visionato una copia della mail inviata ai dipendenti. Il messaggio ordina loro di andare a casa e di non tornare in ufficio venerdì mentre procedono i tagli.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 4 novembre 2022. 

Non ce l'ho con Elon Musk, ma con chi si ostina a considerarlo un mito perché commercia in sogni e futuro, mentre è solo l'ultimo travestimento dell'antico padrone delle ferriere. Con una differenza sostanziale: il padrone delle ferriere aveva il coraggio di presentarsi per quello che era e non come un benefattore dell'umanità. Musk ha appena comprato Twitter in nome della libertà, ma secondo il Financial Times sta per licenziare la metà dei dipendenti.

Anche le altre decisioni che ha preso finora, come quella di spillare otto dollari al mese di abbonamento premium agli utenti, rientrano in una logica che sarà impeccabile sotto il profilo economico, ma che cozza in modo clamoroso con l'immagine romantica e innovativa che Musk continua a diffondere di sé stesso, e che, ben più delle auto elettriche, rappresenta la vera ragione per cui la finanza si è innamorata di lui, issandolo sul trono di uomo più ricco del pianeta. 

Musk non è l'unico incantatore di serpenti in circolazione, ma il capofila di una ristretta schiera di oligarchi tecnologici che, per avere sostituito la cravatta con la t-shirt e i bulloni con i microchip, si atteggiano a cavalieri del progresso e del bene, offuscando per fascino e fama imprenditori molto più umani di loro, che hanno l'unico torto di trattare merci meno seducenti. I Musk si riempiono la bocca di futuro, ma ci sono giorni in cui penso che rappresentino il più bieco dei ritorni al passato. Questo è uno di quei giorni.

Alberto Simoni per “La Stampa” il 4 novembre 2022. 

Elon Musk dimezza i dipendenti a Twitter, ne licenzia 3.700 e chiude lo smart working per quelli che restano: da lunedì tutti in sede. Una settimana dopo aver scalato il sito di microblogging, il miliardario e il suo staff di consulenti, quasi tutti portati da Tesla, comincia a plasmare la compagnia. 

Qualche azione radicale e netta, altre più misurate come un colloquio su Zoom con alcuni attivisti per la difesa dei diritti civili preoccupati che Twitter sotto il controllo del paladino libertario possa trasformarsi in un ricettacolo di odio e un volano di insulti razzisti. Musk li ha rassicurati spiegando loro che per rivedere sul sito gli account bloccati ci sarà tempo, dovranno passare al vaglio di un Comitato.

 Il processo comunque non è ancora definitivo, ma è bastato per scatenare la rabbia degli utenti di estrema destra che nell'arrivo di Musk avevano posto fiducia e che ora bollano come un traditore. Le prime mosse del miliardario sembrano scontentare tutti: in attesa che si definiscono le regole alcune grandi società tra cui Audi e Pfizer hanno sospeso la presenza sul social. A far discutere sono gli 8 dollari di abbonamento al mese per avere un account verificato. Musk è stato inondato di proteste e si è messo in prima persona a rispondere definendosi "Twitter Complain Hotline Operator".

Ha risposto al re del thriller, Stephen King e ha duellato con AOC, al secolo Alexandria Ocasio-Cortez, democratica progressista. AOC, 13,5 milioni di follower su Twitter e 8,6 milioni su Instagram, ha acceso le polveri: «Un miliardario pensa di poter vendere l'idea che la libertà di parola sia un piano di abbonamenti da 8 dollari al mese», il tweet della deputata. Musk ha replicato: «La tua opinione è apprezzata, ora paga 8 dollari». Quindi ha allegato una delle foto delle magliette vendute da AOC per 58 dollari. Controreplica sul fatto che i «miei dipendenti appartengono al sindacato, hanno benefit e ognuno di loro riceve il salario minimo».

Mentre Musk - sempre nel tweet dell'icona della sinistra Usa - è «un demolitore di sindacati che guadagna sottopagando e maltrattando i lavoratori». Mentre ingaggia corpo-a-corpo virtuali, Musk guarda ai conti della sua creatura. Il primo obiettivo è fare pulizia di account fake e spam; quindi trovare un modello di business che consenta al microblogging di sostenersi finanziariamente senza alimentare il debito.

La prospettiva della recessione a inizio 2023 obbliga non solo Twitter ma anche altri giganti di quella che era la "new economy" a ricalibrare investimenti e spese. Lyft - l'anti Uber - ridurrà lo staff del 13% per far «fronte alla dura realtà». Stripe taglierà 1.000 posti di lavoro. E la corporate Amazon ha congelato nuovi ingressi per essere pronta a muoversi in uno scenario di crisi economica.

Mauro Masi per “ItaliaOggi” il 5 novembre 2022.  

Come moltissimi osservatori internazionali, anche noi in questa rubrica avevamo riportato i dubbi e le perplessità connesse al fatto che l'uomo più ricco del mondo (Elon Musk, con interessi pesantissimi anche nel business dell'intelligenza artificiale) potesse acquistare senza alcun filtro regolatorio uno dei social più influenti al mondo (Twitter). 

Nella realtà i primi frenetici e contraddittori atti del neo proprietario (così è il suo stile) rendono difficile un giudizio: si passa da aperture politiche di diverso segno a licenziamenti in tronco di top manager e dipendenti vari, ad annunci di nuove acquisizioni. Su una cosa però ci troviamo pienamente d'accordo con lui: il deciso tentativo di far pagare i servizi della piattaforma agli utenti/consumatori.

Un principio quest' ultimo che, nel nostro piccolo (e, almeno in Italia, in beata solitudine), sosteniamo da tempo: trasformare i social in servizi offerti in abbonamento. Per esempio, è stato calcolato che Facebook potrebbe ottenere lo stesso fatturato che ha realizzato nel 2021 facendo pagare agli utenti un abbonamento molto basso, intorno ai 14 dollari l'anno.

In teoria l'impianto potrebbe tenere, ma perché l'idea possa avere uno sviluppo concreto bisognerebbe o avere una legge specifica in tal senso (ipotesi piuttosto complessa) o che i gestori delle piattaforme arrivino a considerare la situazione attuale troppo onerosa (ad esempio, perché vengano introdotte norme sempre più vincolanti sull'utilizzo dei dati personali o perché il costo dell'energia cresce in maniera insostenibile) e autonomamente decidano di trasformare la natura dei social da piattaforma di condivisione a servizio; una soluzione che, oltre a essere più trasparente e diretta, porterebbe una serie di vantaggi in vari campi (dalla privacy alla legalità, al dibattito politico ecc.). 

Quest' ultima soluzione sembra essere quella accolta da Musk con la motivazione di dover compensare l'eccessiva crescita dei costi di produzione (in particolare, le bollette energetiche). Il magnate ha annunciato infatti che per ottenere o mantenere la cosiddetta «spunta blu», cioè avere un profilo Twitter verificato, sarà obbligatorio abbonarsi a Twitter Blue pagando 8 dollari al mese (aveva detto 20, poi li ha ridotti dopo la rivolta di molti vip, tra cui lo scrittore Stephen King).

Sarà a pagamento anche la possibilità di pubblicare audio e video più lunghi. In sintesi, Musk è quello che è e rappresenta un neocapitalismo discutibile, ma questa sua iniziativa potrebbe davvero cambiare il mondo dei social. E ciò anche perché un accesso a pagamento è sicuramente un accesso più consapevole, attento e, quantomeno, dovrebbe poter scoraggiare chi accede ai social in maniera patologica. Non sarebbe poco.

L'impietoso show di Musk. Con una mail silura 3.700 dipendenti Twitter. Marco Lombardo su Il Giornale il 5 novembre 2022

Nell'attesa di decidere se si ha a che fare con un pazzo o un visionario, il mondo assiste attonito all'ennesimo show di Elon Musk e si gratta la testa. Facile condannare il nuovo padre-padrone di Twitter nel giorno in cui organizza un grottesco spettacolo per licenziare 3.700 dipendenti, la metà degli impiegati del social network appena acquistato per 44 miliardi di dollari, tra cui l'intero team Human Rights, che si occupava della difesa dei diritti umani in azienda. Ma siamo sicuri che il capitalismo in t-shirt non nasconda le rughe di un sistema che, dovunque lo si guardi, mostra solchi profondi?

Ma che modi, comunque: dipendenti che si svegliano al mattino e trovano computer e relativi account bloccati, in attesa di una mail che sa di macabra lotteria. «La tua posizione in Twitter»: è arrivata titolata così, intorno alle 3 del pomeriggio di San Francisco, e solo allora hanno scoperto chi ha vinto e chi ha perso. Violenza psicologica, si chiama, moltiplicata dal fatto che Musk si sta divertendo un mondo. E qui sta il punto.

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Il capitalismo, si diceva: che sia in giacca e cravatta o appunto si vesta con una sdrucita magliettina, pone ormai delle domande per abili solutori. Le cui risposte non sembrano essere all'orizzonte. La rivoluzione tecnologica sembrava infatti aver cambiato una realtà antica in cui chi era al comando della baracca aveva potere di vita e di morte lavorativa su chi stava sotto. Poi però è arrivato Steve Jobs, di cui si narrano licenziamenti in ascensore per una risposta sbagliata al suo saluto. E comunque, anche se non fosse vero, quelli che successivamente hanno partecipato alla corsa per la sua impossibile eredità, sono riusciti a fare anche di peggio, basta vedere dove e come prodotti e servizi tecnologici vengono confezionati. Così adesso ecco che Elon riassume il tutto, preannunciando a chi resterà con lui 12 ore di lavoro su 24 (bontà sua), 7 giorni su 7, 52 settimane su 52 («sennò quella è la porta»), con gente che dorme in ufficio in sacco a pelo per non perdere la scrivania. E quindi: che senso ha? E soprattutto: ha senso un'economia in cui fallimento e successo hanno lo stesso lato oscuro? L'orologio del tempo sembra andare indietro: la linea tra l'impresa e la ferriera è sempre più sottile, e c'è da chiedersi se le regole del gioco vadano d'accordo con la realtà. L'impresa in fondo è rischio, dice la legge universale, e per tutte le parti in causa che dovrebbero far parte dello stesso ingranaggio. «Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale: è il coraggio di continuare che conta», diceva Winston Churchill. Il problema è come.

E poi le parole, appunto, torniamo a quelle: perché l'uomo più fuori dall'ordinario di sempre per fare certe cose poi si attacca al déja vu. Tipo: ai dipendenti chiusi fuori dalla porta, a cui ha sospeso badge e accessi in attesa del giudizio finale, Musk ha scritto di non presentarsi in ufficio «per garantire la loro sicurezza». Agli investitori che minacciano di ritirare il loro appoggio, che sta lavorando «per rendere l'azienda un posto migliore». E alle promesse di «un lavoro dignitoso per tutti» fa seguire l'ingresso dalla porta sul retro di ingegneri delle sue altre aziende - tipo Tesla, The Boring Company e Neuralink - per occupare gente il doppio del tempo alla metà, al posto di quelli che stanno già con gli scatoloni in mano. Niente male per uno che vuol fare l'alternativo e ha chiamato uno dei suoi otto figli X Æ A-Xii.

Lo immaginiamo, allora, seduto alla scrivania, scarpe sul tavolo e spinello in mano, mentre il sogna di come andare ancora più in là dove nessun tycoon è mai giunto prima. Ha preso Twitter per garantire libertà, ma non ha specificato quale fosse il limite, soprattutto il suo. E così, comunque vada, sa che ne uscirà vincitore: nel caos totale del social (che ha annullato la conferenza degli sviluppatori) e con i conti a pezzi, ecco che Musk ha la soluzione pronta, accusando «gruppi di attivisti che fanno pressione sugli inserzionisti, nonostante il fatto che nulla sia cambiato con la moderazione dei contenuti».

In ogni mondo, in ogni epoca alla fine, per spiegare l'inenarrabile è sempre la solita Storia: c'è qualcuno che ce l'ha con te.

Elon Musk su Twitter in lotta con star e inserzionisti per le spunte blu a pagamento. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2022. 

Esodo di manager operativi (oltre ai capi licenziati in tronco il giorno stesso del cambio di proprietà); esodo (temporaneo) di inserzionisti pubblicitari (come General Motors); esodo di utenti che non vogliono restare nella rete sociale dell’ uomo più ricco del mondo o contestano la sua decisione di far pagare (8 dollari al mese negli Usa, ma la quota sarà diversa da Paese a Paese) il «blue tick», la spunta blu che certifica l’identità dei titolari degli account.

Partenza a razzo ma in salita quella di Elon Musk nel suo nuovo ruolo di padrone e amministratore unico di Twitter, ormai non più quotata in Borsa. I nuovi uomini che ha portato con sé e i pochi vecchi dei quali si fida stanno cercando di tamponare l’assalto dei troll che approfittano della fase di transizione e della revisione del sistema di moderazione per gettare nella piattaforma falsità, calunnie, odio. Problema assai serio in questi giorni di vigilia elettorale americana.

Proprio in attesa di capire come cambieranno i filtri che eliminano dalla piattaforma i messaggi inaccettabili ora che ai comandi c’è il sedicente «assolutista del free speech», la Ipg, una delle maggiori agenzie pubblicitarie del mondo, ha suggerito ai suoi clienti di sospendere le inserzioni su Twitter. Musk, che oggi ottiene dalla pubblicità il 90 per cento dei ricavi della rete sociale, corteggia le aziende, ma al tempo stesso cerca di incrementare altri introiti, soprattutto con le subscription.

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Dopo la prima ondata di personaggi dello spettacolo come Shonda Rhimes, creatrice di serie televisive come Grey’s Anatomy o la cantante Sara Bareilles (3 milioni di follower) che se ne sono andati sbattendo la porta per motivi ideologici, ora Musk è alle prese con altri focolai insurrezionali. Oltre che con le proteste di personaggi come il giocatore di basket o , star della sinistra radicale americana, deve vedersela con la rivolta degli utenti più o meno celebri che non vogliono pagare un abbonamento mensile per la certificazione della loro identità, ritenendo di essere in credito, non in debito, con Twitter. Casi come quelli dello scrittore Stephen King (6,9 milioni di follower) o del sondaggista Nate Silver (3,5 milioni): convinti che dovrebbe essere Twitter a pagarli per il traffico da loro prodotto che alimenta le entrate pubblicitarie della rete sociale, affermano che, se la società non ci ripensa, loro se ne andranno.

Musk tiene duro, spiega che ha bisogno di entrate diverse dalla pubblicità, ma poi li tratta da ricchi viziati e lancia, come abbiamo raccontato ieri, slogan populisti. Evidentemente scommette sul fatto che chi ha spostato gran parte della sua vita pubblica sulla sua rete difficilmente staccherà la spina. Per andare dove, poi? Tornare da Facebook, avvitata nella spirale di una crisi assai grave? Cercare nuovi lidi rischiando di perdere il grosso dei seguaci nella transizione?

Ma l’imprenditore sta già pensando anche ad altro. Promette che una parte dei nuovi introiti serviranno a ricompensare i produttori di contenuti immessi nella sua rete e il Washington Post pubblica il testo di un progetto chiamato «Paywalled Video» che dovrebbe diventare realtà entro poche settimane: la possibilità per chiunque di postare video a pagamento. Chi li vuole vedere dovrà pagare 1, 2 o 5 dollari che Twitter inoltrerà agli autori col sistema Stripe, trattenendo una percentuale. Un altro passo nella direzione di una trasformazione di Twitter (anche) in piattaforma editoriale. 

Massimo Gaggi per corriere.it il 2 novembre 2022. 

Alba del primo novembre. Elon Musk 1 gioisce per il lancio, pienamente riuscito, di un missile Falcon Heavy di SpaceX, il più potente missile oggi operativo al mondo, impegnato in una missione militare segreta. Musk 2 pubblica le immagini di una festa di Halloween in costume alla quale ha partecipato con la madre, svoltasi (ma quando?) nell’East Villege di Manhattan.

Musk 3, impegnato a rivoluzionare, a San Francisco, il quartier generale di Twitter del quale ha appena preso il controllo, scopre, in primo luogo, che comportarsi da assolutista del free speech (parole sue) senza che la rete sociale divenga una cloaca di calunnie, falsità e linguaggi violenti, è più facile a dirsi che a farsi. E ora deve anche prendere atto che il suo progetto di trasformare – parzialmente o totalmente – Twitter in servizio a pagamento è destinato a trovare opposizioni molto dure. Anche di gente che ha potere contrattuale nei confronti della piattaforma.

Nei giorni scorsi Washington Post, New York Times e siti come TheVerge avevano scritto (come il Corriere ha riferito ieri) che il nuovo proprietario intende rendere a pagamento (si è parlato di 15 o 20 dollari al mese) il blue tick: il sistema di certificazione che garantisce l’autenticità di un account su Twitter. Musk non ha confermato né smentito, anche se dagli incontri che ha avuto nelle settimane scorse con gli investitori era trapelata la sua volontà di introdurre una quota di subscription per non far dipendere la società totalmente dalle entrate pubblicitarie. 

Il primo a rispondere con furia alle voci è stato lo scrittore Stephen King: «Venti dollari al mese per tenere il mio blue check?» ha scritto, ovviamente in un tweet, ai suoi 6,9 milioni di follower. «Vadano a farsi fottere: sono loro che dovrebbero pagare me. Se lo fanno davvero me ne vado». 

La sortita deve aver preoccupato Musk che, dismessi i panni di Iron Man e indossati quelli di un negoziante che tratta sul prezzo, ha subito risposto a King: «Ma io devo pur pagare le bollette e gli stipendi. Che ne diresti di 8 dollari?». A parte gli aspetti curiosi della vicenda, è la prima volta che Musk esplicita e quantifica il suo piano, parlando in prima persona. E che l’idea di mettere Twitter a pagamento sia molto concreta e sia stata attentamente soppesata lo conferma un altro tweet nel quale Musk promette che prima di introdurre il nuovo sistema spiegherà in modo dettagliato le basi logiche delle sue decisioni.  

Dovrà essere molto convincente perché Stephen King non è, di certo, l’unico a essersi ribellato: Musk rischia di perdere le star che producono traffico – e quindi valore – per Twitter. Lo spiega in modo molto chiaro e pacato il celebre sondaggista di FiveThirtyEight, Nate Silver: «Io, coi miei 3,5 milioni di follower e un uso intenso di Twitter, sono l’obiettivo perfetto (per l’introduzione di un pagamento, ndr). Certamente posso permettermi di versare 20 dollari al mese e non ce l’ho con Musk, ma la mia reazione a tutto questo è che io genero tonnellate di contenuti di valore e gratuiti per Twitter». Così, passando dai toni compassati a un linguaggio più colorito, anche Silver manda a quel paese Elon.

Che, in serata torna alla carica con un anticipo dei ragionamenti logici promessi: dice che ci saranno tariffe differenziate per Paesi, tenendo conto delle differenze di potere d’acquisito, afferma che il paywall non verrà applicato a chi pubblicherà «dimostrando di voler lavorare con noi» e, soprattutto, ipotizza un sistema di redistribuzione delle risorse agli autori (la quota mensile «darà a Twitter le risorse per compensare i creatori di contenuti»). I suoi fan hanno subito condiviso sostenendo che questo cambierà radicalmente il sistema dell’informazione rendendolo più credibile e trasparente. 

Articolo di “Le Monde” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 2 novembre 2022.

Per oltre un decennio – scrive il giornalista di Le Monde - il fondatore di Tesla e SpaceX ha animato il social network con i suoi tentativi di manipolazione, le sue provocazioni e le sue battute bizzarre. 

All'improvviso, tutto è diventato secondario e il mondo digitale è stato in fermento per l'acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk per 44 miliardi di dollari (44,24 miliardi di euro) giovedì 27 ottobre. 

Anche il più famoso reietto della famosa rete, colui che non ha più diritto di stare sul forum digitale dopo il tentativo di colpo di stato del 6 gennaio 2021, si è autoinvitato al dibattito. "Sono molto felice che Twitter sia ora in buone mani e non sia più gestito da pazzi e maniaci della sinistra radicale che odiano davvero il nostro Paese", ha scritto Donald Trump sul proprio social network venerdì 28 ottobre.

Il dibattito ha preso una piega sorprendente: tutti sono scesi in rete per sfidare personalmente il nuovo padrone di casa, Elon Musk, l'uomo più ricco del mondo. Ognuno ha fatto i propri commenti personali, creando una presunta intimità con Musk, l'uomo con 112 milioni di follower. 

Quest'ultimo twitta: "l'uccello è libero". Thierry Breton, commissario europeo per il digitale, ha risposto direttamente: "In Europa volerà secondo le nostre regole". "Questo causerà polemiche, ma la censura delle piattaforme era chiaramente andata troppo oltre", scrive l'ex informatico e whistleblower Edward Snowden dal suo rifugio russo.

C'è chi mette alla prova la censura, insultando Elon Musk e mostrando la sua foto con Ghislaine Maxwell, la carpitrice del pedofilo Jeffrey Epstein che si è suicidato in carcere. Sono state lanciate centinaia di immagini e battute. Alcuni si rivolgono a Musk per offrire i loro servizi, chiedendo la certificazione del loro account Twitter, come Kyle Rittenhouse, un giovane estremista di destra pazzo per le armi che ha ucciso due persone negli scontri di Kenosha nell'estate del 2020, ma è stato assolto per legittima difesa. 

Altri ancora chiedono che i loro account vengano sbloccati: "Ehi! @Elon Musk! Sono Lana Del Rey e sto twittando dal mio account di riserva. Pensa che sia possibile riattivare il mio account disattivato?".

Durante il fine settimana, i repubblicani e l'estrema destra hanno gongolato quando Elon Musk ha retwittato un messaggio cospiratorio su Paul Pelosi, il marito della Presidente della Camera Nancy Pelosi, vittima di un'aggressione. La sinistra è rimasta sgomenta, il New York Times ha fatto finta di organizzare la resistenza: "Dopo l'insediamento di Elon Musk, alcuni utenti di Twitter si sono chiesti se dovessero adottare misure supplementari per proteggere i loro account, o addirittura cancellarli", mentre General Motors, un concorrente di Tesla, la casa automobilistica di Elon Musk, ha sospeso i suoi investimenti pubblicitari su Twitter.

Il geopolitico Ian Bremmer cerca di mettere le cose in chiaro: "Ehi voi, non è la fine del mondo", twitta con una vignetta su Musk e Twitter, mentre Elon Musk gongola: "La comicità è ora consentita su Twitter". 

Il dibattito rivela la mania quasi irrazionale che esiste da un decennio intorno a Elon Musk. Il social network è il veicolo di comunicazione preferito dal capo di Tesla e fondatore di SpaceX, che vi ha fatto il suo ingresso con un primo tweet nel giugno 2010: "Per favore, ignorate i tweet precedenti, perché si trattava di qualcuno che fingeva di essere me:) In realtà sono io", ha scritto, inaugurando il suo senso dell'umorismo un po' astruso.

Il social network gli consentirà di mettersi contro l'establishment, che non ha assolutamente fiducia nel successo di Tesla e SpaceX, e contro i mercati, che stanno vendendo allo scoperto le azioni dell'azienda automobilistica. 

Il suo enorme successo darà ragione a Elon Musk e al suo gruppo di fan. I suoi seguaci, che includono molti appassionati di cannabis, formeranno una comunità incrollabile. In questi anni, Musk promuove Tesla, i suoi lanci di razzi con SpaceX e moltiplica le provocazioni.

Twitter è una modalità di espressione particolarmente inappropriata per il capo di una società quotata in borsa, soggetta a regole severe. Ma Elon Musk non rispetta nulla. Nel torpore dell'agosto 2018, mentre usciva dalla sua casa di Los Angeles, ha dichiarato: "Sto considerando di delistare Tesla a 420 dollari per azione. Il finanziamento è assicurato". 

In realtà, il signor Musk non ha alcuna garanzia e l'imprenditore è allo stremo delle forze. Tesla non sta producendo al ritmo sperato, l'azienda sta consumando liquidità ed è sull'orlo del collasso.

Qualche mese prima, Elon Musk aveva addirittura annunciato il fallimento... il 1° aprile: "Tesla va in bancarotta, Palo Alto, California, 1° aprile 2018. Nonostante gli intensi sforzi di raccolta fondi, compresa un'ultima massiccia vendita di uova di Pasqua, siamo spiacenti di annunciare che Tesla è completamente e totalmente fallita. Così in bancarotta che non ci si può credere". 

Queste battute non sono affatto piaciute alla Security Exchange Commission (SEC), l'organo di controllo del mercato azionario statunitense, che ha minacciato Musk di vietargli la gestione. È tenuto a far controllare al suo direttore legale i suoi tweet su Tesla, obbligo che difficilmente è stato in grado di rispettare. Nel maggio del 2020, lo ha fatto di nuovo: "Il prezzo delle azioni di Tesla è troppo alto".

Elon Musk manipola costantemente i mercati su Twitter. Si è rapidamente infatuato delle criptovalute e ha persino promosso i dogecoin, token creati da "geek" per prendere in giro le "cripto", ma che hanno acquisito un valore reale. 

Nel febbraio 2021, Musk ha twittato una parodia del Re Leone di Disney, mostrandolo vestito da leone mentre presenta il suo bambino, il dogecoin: il messaggio è stato ritwittato 135.000 volte e apprezzato 940.000 volte. Poiché il mondo delle criptovalute non è regolamentato, non esiste l'insider trading.

Twitter è anche il ring, per questo sudafricano che non amava il rugby e ha lasciato il Paese per evitare il servizio militare durante la fine dell'apartheid. Non è sempre facile capire se si tratta di un incontro di pugilato o di wrestling, ma il confronto con Jeff Bezos, che ha intrapreso anche lui l'avventura spaziale all'inizio del secolo, è stato molto duro. Quando, nell'aprile del 2021, il fondatore di Amazon ha attaccato la NASA per aver scelto SpaceX al posto della sua azienda per andare sulla Luna, Elon Musk ha sogghignato sui fallimenti di Jeff Bezos con la sua caratteristica maleducazione sessuale: "Non riesce nemmeno a portarlo [in orbita]".

All'inizio della pandemia, ha nuovamente attaccato il capo di Amazon, allora l'uomo più ricco del mondo, per aver ritirato dalla vendita un libro controverso sul Covid: "È una follia, Jeff Bezos. È tempo di sciogliere Amazon. I monopoli sono cattivi". 

Elon Musk, tuttavia, sa come avere senso dell'umorismo riguardo alle proprie delusioni. Quando, nel marzo 2021, uno dei suoi razzi si schianta sulla rampa di lancio del suo centro di lancio a Boca Chica, in Texas, Musk sbotta: "Almeno il cratere è nel posto giusto!".

Ultimamente si è fatto un nome in politica, a partire dalle polemiche sulla pandemia. Ha attaccato le autorità californiane per aver tenuto chiuse le fabbriche mentre ai suoi concorrenti di Detroit è stato permesso di riaprire. "Ridate al popolo la sua libertà", ha dichiarato con rabbia il 29 aprile 2020. 

Qualche giorno prima aveva suggerito di provare la clorochina. "Potrebbe valere la pena di prendere in considerazione la clorochina", ha twittato il 16 marzo, proprio all'inizio della pandemia, collegandosi a un documento accademico ora considerato "non sicuro" da Twitter.

In assenza di Donald Trump, Elon Musk è diventato il primo avversario di Joe Biden nell'estate del 2021 e, nel caso, è stato senza dubbio Joe Biden ad aprire le ostilità. Il presidente democratico non lo ha invitato a un summit sulle auto elettriche alla Casa Bianca nell'estate del 2021, nonostante Tesla sia il leader assoluto del settore. 

Il Presidente ha ripetutamente affermato in modo falso che la General Motors è un pioniere delle auto elettriche. All'inizio, Elon Musk ha lasciato che la madre andasse in prima linea: "Il discorso di Biden è stato scritto 20 anni fa, poco prima che GM uccidesse l'auto elettrica. Il suo speechwriter ha caricato il file sbagliato", ha spifferato Maye Musk nel novembre 2021. Il presidente continua a rifiutarsi di parlare di Tesla, sostenendo che l'azienda non è sindacalizzata.

"Inizia con una T, finisce con una A, con ESL nel mezzo", ha esasperato Elon Musk nel gennaio 2022. Il 1° marzo, Biden rende omaggio ai 15.000 posti di lavoro creati da Ford e GM nell'auto elettrica. Un'altra risposta diretta di Musk: "Tesla ha creato oltre 50.000 posti di lavoro negli Stati Uniti per la costruzione di veicoli elettrici e sta investendo più del doppio di GM + Ford messe insieme [N.d.T. per la persona che controlla questo account Twitter]". Alla fine, Joe Biden è costretto a pronunciare il nome di Tesla.

Elon Musk non si è accontentato di vivacizzare la rete con i suoi tweet, ma si è subito interessato ad essa come risorsa. "Amo Twitter", ha scritto nel dicembre 2017. "Quanto costa?", chiede poco dopo. Il blitz avverrà attraverso un sondaggio lanciato il 25 marzo 2022 tra i suoi follower? "La libertà di parola è essenziale per il funzionamento di una democrazia. Pensate che Twitter si attenga strettamente a questo principio?". 

Poi ha avvertito: "Le conseguenze di questo voto saranno significative. Votate con attenzione. Due milioni di voti dopo, il verdetto è arrivato con il 70% di voti negativi su Twitter. Pochi giorni dopo, il pubblico viene improvvisamente a sapere che Elon Musk ha acquistato azioni di Twitter in borsa dalla fine di gennaio. Non su Twitter, ma in un documento fornito alla SEC. Ne è seguita una lunga battaglia, più o meno pubblica, con i dirigenti di Twitter per l'acquisizione del social network.

In questi tempi di incertezza, Elon Musk sta intraprendendo una carriera da geopolitico, forte della soddisfazione di aver messo i suoi satelliti Starlink a disposizione dell'esercito ucraino in risposta all'attacco russo. 

"Sono un grande fan dell'Ucraina, ma non della terza guerra mondiale", afferma il miliardario, che il 3 ottobre ha pubblicato una proposta di piano di pace, lasciando la Crimea alla Russia. L'iniziativa non è piaciuta al presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ha twittato in risposta: "Quale Elon Musk preferite: quello che sostiene l'Ucraina? Quello che sostiene la Russia?".

La cosa non è piaciuta nemmeno al New York Times, che ha pubblicato un'inchiesta intitolata "Come Elon Musk è diventato un agente geopolitico del caos". Elon Musk ha poi sogghignato contro il quotidiano e le sue fonti anonime. Ma Musk aveva già questo immenso potere di trasgressione come semplice utente di Twitter, come altri 200 milioni di utenti del pianeta. Gratis.

Twitter, la spunta blu a pagamento è fine del social gratuito. Alessio Caprodossi su Panorama il 2 Novembre 2022.

Musk deve trovare ricavi alternativi alla pubblicità rompendo un muro che sembrava indistruttibile. Ma bastano solo 8 dollari  Twitter, la spunta blu a pagamento è fine del social gratuito

Cento ne pensa e cento ne fa, o almeno punta a farne. Star dietro alle idee di Elon Musk è alquanto complicato, come sanno bene i dipendenti di Tesla e stanno scoprendo ora quelli di Twitter. L'uomo più ricco del mondo è al centro del dibattito da giorni dopo l'acquisizione di Twitter e sta utilizzando la piattaforma (e il suo account seguito da oltre 113 milioni di utenti) per suggerire cosa ha in mente di fare per cambiare la direzione del social media. Nel frattempo il nuovo proprietario sta proseguendo con l'opera di pulizia interna pianificata per essere da solo al comando. Dopo aver licenziato i top manager della compagnia, il passo successivo è stato sciogliere il consiglio di amministrazione, giusto per confermare l'intenzione di tagliare completamente i fili col passato. La decisione dovrebbe essere temporanea, con nuovi consiglieri scelti dallo stesso Musk nell'arco delle prossime settimane, ma le certezze non fanno quasi mai rima con una mente così imprevedibile.

Sul piano pratico Musk ha una priorità chiara, che è ridurre la dipendenza di Twitter dalla pubblicità (da cui ottiene il 92% degli introiti). La soluzione al problema, che il social media si porta dietro da anni, è ottenere entrate dagli abbonamenti, step da compiere con la trasformazione di Twitter Blue. Che al momento costa 4,99 dollari al mese (è disponibile per ora solo in Usa, Canada, Australia e Nuova Zelanda) e consente di leggere articoli privi di pubblicità, personalizzare la barra di navigazione e modificare o annullare i tweet già pubblicati. Già ieri, però, la possibilità di ottenere articoli senza annunci è stata rimossa, anche perché tra le mire di Musk c'è la volontà di chiudere accordi con gli editori per fornire un servizio esclusivo agli abbonati di Twitter Blue. "L'attuale sistema per avere la spunta blu al profilo è una stronzata. Potere al popolo! 8 dollari al mese per Twitter Blue" , ha scritto Musk in uno dei suoi tweet più gettonati delle ultime ore. La cifra è scaturita dopo un botta e risposta con Stephen King, sbigottito dalla precedente proposta di Musk di far pagare 20 dollari al mese l'abbonamento al servizio. "Sono loro che dovrebbero pagare me" , ha tagliato corto lo scrittore, costringendo il nuovo patron della piattaforma ad abbassare le pretese, con una risposta tra il serio e il faceto: "Dobbiamo pagare le bollette in qualche modo! Twitter non può basarsi soltanto sulla pubblicità. Che ne dici di 8 dollari?". Musk ha poi specificato quali saranno i vantaggi inclusi nell'abbonamento a Twitter Blue, che per una cifra "adeguata al potere d'acquisto di ogni paese" consentirà di avere priorità nelle risposte, nelle menzioni e nelle ricerche, la possibilità di pubblicare video e audio di lunga durata (non è stato specificato per quanto tempo), dimezzare gli annunci pubblicitari e accedere ai contenuti concordati con gli editori disposti a collaborare con Twitter.

Al di là del discorso sulla spunta blu, che ha acceso immediate polemiche per l'eventuale complessità di intercettare fake news e tentativi di disinformazione teoricamente garantiti dalla verifica del profilo, Bloomberg ha raccontato che nei piani di Musk c'è anche la rinascita di Vine. Acquistata da Twitter nel 2012 e subito molto popolare, l'app per video di 6 secondi acquistata è stata a detta del fondatore Jack Dorsey il "più grande rimpianto di Twitter". In anni in cui la mania dei video su Instagram e TikTok doveva ancora esplodere, grazie a Vine su Twitter erano arrivati comici, attori e artisti che hanno attirato un ampio seguito tra le fasce più giovani. Quel potenziale è andato però perso per l'incapacità di capitalizzare il vantaggio, mancando ad esempio di supportare i creativi, presto fuggiti verso altre piattaforme più redditizie. Per quanto gli ingegneri di Twitter siano propensi a riportare in auge Vine, il processo è complicato dalla necessità di riscrivere da zero il codice e dagli alti costi dell'hosting video, variabile quest'ultima non in linea con la cura dimagrante inseguita da Musk, che sembrerebbe pronto a licenziare un quarto dei circa 7.500 dipendenti di Twitter. Lo stesso fondatore di Tesla, tuttavia, ha specificato come uno degli obiettivi dell'incremento di prezzo di Twitter Blue sia quello di destinare parte dei ricavi a chi crea contenuti più gettonati. Altro tema caldo riguarda il ritorno su Twitter dei profili bannati in precedenza, come quello di Donald Trump. A specifica richiesta, Musk ha spiegato che "tutti gli account sospesi non saranno attivi prima delle elezioni di Midterm" , poiché serviranno settimane prima del loro eventuale ripristino. Sotto pressione per l'ipotesi di abbandono di diverse star dello spettacolo e le richieste circa la sicurezza e i controlli sui contenuti di 50 associazioni Usa per i diritti civili (incontrate nei giorni scorsi), Musk ha assicurato che "il consiglio per la moderazione dei contenuti di Twitter includerà rappresentanti con opinioni ampiamente divergenti" , al fine di trovare un punto di equilibrio tra libertà di espressione e necessità di evitare derive e abusi.

Il nuovo Twitter allarma le élite, Pfizer guida le “sanzioni” contro Musk.  Giorgia Audiello su L'Indipendente il 7 novembre 2022.

Dopo le lunghe e complesse trattative per l’acquisizione di Twitter, il magnate americano Elon Musk ha finalizzato il contratto di acquisto della società lo scorso 28 ottobre per un valore di 44 miliardi di dollari. Tuttavia, il passaggio di proprietà del noto social nelle mani dell’eccentrico milionario – che ha affermato di voler difendere e garantire la libertà di parola sulla piattaforma – ha suscitato grande agitazione nel cosiddetto mondo liberal e da parte degli inserzionisti, tra cui le grandi aziende multinazionali, comprese quelle del farmaco come la Pfizer, che hanno sospeso le pubblicità sulla piattaforma. In seguito al perfezionamento del contratto di acquisto e al licenziamento di una buona parte di dipendenti, operanti soprattutto nell’ambito della moderazione dei contenuti, lo stesso presidente americano Joe Biden è intervenuto criticando aspramente il social e il suo nuovo proprietario e asserendo che si tratta di «un’organizzazione che sputa bugie in tutto il mondo». Pochi giorni dopo le esternazioni di Biden, addirittura l’Onu ha scritto una lettera aperta a Musk per chiedergli di garantire il rispetto dei diritti umani e di vigilare sulla “disinformazione”.

Il dibattito sulla gestione dei contenuti di Twitter è controverso e vede contrapporsi coloro che reputano giusto e necessario imporre una qualche forma di censura per combattere le notizie false e la propaganda e chi, al contrario, ritiene che sia proprio l’amministrazione dello stesso social ad applicare forme di propaganda e a veicolare determinati contenuti piuttosto che altri in linea con precise correnti politiche e ideologiche dominanti, individuando nel social una sorta di cassa di risonanza del pensiero mainstream di ispirazione liberal-globalista. Il noto imprenditore americano pare avere abbracciato la seconda posizione, in quanto ha affermato più volte che il social limita la libertà d’espressione, censurando i contenuti scomodi e fomentando l’odio tra gli utenti, anche attraverso i cosiddetti bot, algoritmi programmati con contenuti prefabbricati. Non stupisce, dunque, che a contratto firmato, Musk abbia twittato «l’uccellino è stato liberato».

L’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, nella lettera aperta a Musk si è premurato di sottolineare che «la libertà di parola non è un lasciapassare: la diffusione virale di disinformazione dannosa, come quella osservata durante la pandemia di Covid-19 in relazione ai vaccini, provoca danni nel mondo reale. Twitter ha la responsabilità di evitare di amplificare i contenuti che danneggiano i diritti di altre persone». L’Alto Commissario ha insistito particolarmente sul rispetto dei diritti umani, scrivendo che «come tutte le aziende, Twitter deve comprendere i danni associati alla sua piattaforma e adottare misure per affrontarli. Il rispetto dei nostri diritti umani condivisi dovrebbe stabilire le barriere per l’uso e l’evoluzione della piattaforma. In breve, vi esorto a garantire che i diritti umani siano centrali nella gestione di Twitter sotto la vostra guida».

Allo stesso modo, il social nel 2021 ha censurato e sospeso in via definitiva dalla piattaforma l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump: un provvedimento senza precedenti che dimostra la palese discesa in campo politico delle compagnie private. Al riguardo, Politico ha riferito che da quando Musk è diventato proprietario di Twitter, molti politici del partito democratico sono preoccupati «per potenziali modifiche alle politiche di moderazione dei contenuti dell’app e per un aumento della diffusione della disinformazione in vista delle elezioni di midterm di martedì». La parola chiave delle critiche è, dunque, “disinformazione”: tuttavia, è difficile distinguere quando si tratti realmente di disinformazione e quando quest’ultima diventa un pretesto per stigmatizzare i fatti e le opinioni non gradite alla vulgata liberale, di cui la precedente amministrazione del social era una riconosciuta e indiscussa portabandiera.

Secondo il Wall Street Journal, dopo che Musk è subentrato nella direzione della società, molti inserzionisti avrebbero deciso di sospendere le proprie pubblicità sulla piattaforma, preoccupati per un possibile ridimensionamento nella moderazione dei contenuti. Tra questi spiccano Audi, General Mills e la multinazionale farmaceutica Pfizer. Quest’ultima in particolare sarebbe preoccupata dalla possibilità che con la nuova gestione del social possano circolare liberamente articoli e studi che mettono in discussione l’efficacia e la sicurezza dei vaccini anti Covid da lei prodotti. Nelle ultime settimane, lo stesso Musk ha sottolineato un grosso calo delle entrate, imputandone la responsabilità agli «attivisti che fanno pressione sugli inserzionisti, anche se nulla è cambiato con la moderazione dei contenuti», in quanto – sempre a detta dell’imprenditore – «stanno cercando di distruggere la libertà di parola in America». Musk ha provato quindi a rassicurare le aziende sul fatto che Twitter non diventerà un «paesaggio infernale» e che sarà «caldo e accogliente per tutti», promettendo anche di istituire un «consiglio di moderazione dei contenuti» che presumibilmente definirà gli standard per la sorveglianza del sito. Dichiarazioni che, tuttavia, non sono bastate a placare gli allarmi del mondo dem e le critiche per il licenziamento dei dipendenti, una parte dei quali sono stati recentemente reintegrati come si apprende da un articolo di Bloomberg.

Intanto, il numero uno di Tesla ha definito nuove regole per l’utilizzo trasparente del social: ha annunciato una stretta sugli account falsi e sui furti d’identità, oltre ad avere introdotto il pagamento di otto dollari per avere un account verificato. Ha annunciato anche che d’ora in poi «tutti gli utenti coinvolti in rappresentazioni senza specificare apertamente la “parodia” saranno sospesi in modo permanente». Secondo Musk, ciò «renderà più democratico il giornalismo e darà più potere alla voce della gente». Infine, il milionario americano ha scritto che «Twitter deve diventare di gran lunga la più accurata fonte di informazioni sul mondo. Questa è la nostra missione». Affermazioni che certamente non basteranno a smorzare il malcontento e le preoccupazioni tra le fila dei democratici americani. [di Giorgia Audiello]

The day after giù la Muskera. Giovanni Vasso su L’Identità il 9 Novembre 2022 con Federico Ferrazza

Si parla solo di Joe Biden e di Donald Trump. Come se tutta la vicenda relativa alle elezioni di mid-term americane si risolvesse nelle figure dell’attuale e dell’ex inquilino della Casa Bianca. Se c’è una legge, in politica, è quella della complessità e della sintesi. L’una presuppone e contemporaneamente non deve prevaricare l’altra. In soldoni: ci sono dinamiche che vanno al di là del semplice scontro tra i front-runner dei partiti, ci sono personaggi e protagonisti diversi che, di volta in volta, possono recitare un ruolo decisivo nelle elezioni senza prendervi parte attivamente. Negli Stati Uniti alle prese con il mid-term, questo compito s’è l’è assunto su di sé Elon Musk. Il magnate di origini sudafricane non è soltanto uno degli uomini d’affari più influenti dell’Occidente ma ambisce a ritagliarsi un ruolo centrale nel dibattito, non solo politico e non solo negli Stati Uniti d’America. Elon Musk “è un imprenditore coraggioso e visionario”, spiega a L’identità Federico Ferrazza, direttore di Wired Italia. “Ha lanciato una serie di operazioni che hanno anticipato i tempi. Alcune, come Tesla e Paypal, sono andate bene. Altre non altrettanto, penso ad Hyperloop, il progetto delle metropolitane superveloci”. Di sicuro, per Ferrazza, c’è il fatto che Musk “è una persona che tende a esporsi molto: a volte questo è un vantaggio, altre no perché è abbastanza divisivo”. Tentare di dare ambizioni solo politiche, a Musk, può essere uno sbaglio: “Io credo che voglia attenzione, partecipare alla discussione pubblica. È il modo di comunicare che ha per le sue imprese, lo ha fatto anche con Tesla. Lui vuole rivoluzionare Twitter e farne la più grande piattaforma di comunicazione al servizio della democrazia, vuole rivoluzionare la pubblicità e creare un mondo più sostenibile. Ho qualche dubbio che questa sia la strada per fare di Twitter una piattaforma per la democrazia ma lui tende a voler essere centrale nelle discussioni pubbliche”. Gridare al pericolo Elon per le libertà, però, è eccessivo. “C’è un’illusione ottica sui social. Non sono spazi pubblici, non lo sono mai stati. Facebook è privato, anche Twitter lo è e lo era già con Jack Dorsay. Svolgono un servizio pubblico e devono prendersi la responsabilità di quello che offrono ma non vedo grandi pericoli per la democrazia se Musk decide di voler gestire diversamente Twitter rispetto a come sia stato gestito finora”.

A tenere banco, poi, sono le sue idee politiche. I suo endorsement è andato ai Repubblicani. Un’indicazione di voto giunta da un magnate, e soprattutto da un personaggio pubblico come Elon Musk, avrà il suo peso. Alla politica, Musk si approccia rivendicando il suo sentirsi centrista. “Lui è a destra dei democratici e a sinistra dei repubblicani, si pone in una posizione moderata ma non lo sembra affatto”, spiega Ferrazza. “Elon Musk è molto bravo a mettersi al centro delle discussioni pubbliche e adesso ci sono le elezioni. Ha idee stravaganti della politica. È un’idea naif, diciamo così, credere che la compensazione tra i diversi organi del potere americano porti a un bilanciamento. Sappiamo, infatti, che se il presidente è democratico e il congresso è repubblicano, c’è il rischio che si blocchi tutto”.Eppure al neo proprietario di Twitter viene riconosciuto un potere enorme. Gli deriva dal suo sterminato patrimonio, dalle sue aziende impegnate in ogni campo, dalle infrastrutture fisiche e digitali che possiede, dalle sterminate masse di clienti o consumatori che, tutti i giorni, utilizzano i suoi prodotti, si interfacciano con le sue aziende. Ma c’è chi è (davvero) più potente di lui, anche se ha un approccio più discreto nella sfera pubblica. “Musk fa molto discutere – dice Ferrazza – ma tra lui e Jeff Bazos, che ha rivoluzionato i nostri stili di vita, chi ha più potere è quest’ultimo. Oggi compriamo tantissime cose online, Bazos ha rivoluzionato le grandi catene commerciali e industriali. Musk, invece, fa un social che ci piace tanto ma che non cambia le sorti del mondo. Anche Calenda, Salvini e Letta si scatenano su Twitter eppure lasciano il tempo che trovano…”.

Mentre l’America è alle prese con il voto, si è registrato qualche giorno fa, un incredibile capitombolo, in Borsa, delle maggiori società digitali. “Se per digitale intendiamo commercio e comunicazioni – afferma Ferrazza -, dobbiamo riconoscere che il settore è prospero. C’è un problema con i social network, specialmente con i primi, quelli che si sono imposti con maggior forza sul mercato. Facebook ha un problema ma Whatsapp (che afferisce sempre al gruppo Meta ndr) non va male. Il problema magari è di prodotto, legato a cose che possono aver stancato gli utenti. Credo poi che a Menlo Park ci sia un problema di visione: temo che quella roba lì, del metaverso, non avrà il successo che loro si augurano…”. Ma questa è un’altra storia. 

Tutti contro Elon Musk, ma Twitter ha bisogno di un visionario dirompente. I sostenitori di Musk, che credono alla sua capacità visionaria e al voler estrarre valore da una piattaforma molto conosciuta, ma che dalla sua nascita non ha mai prodotto un dollaro di profitto per i suoi azionisti. Antonello Garzoni su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Novembre 2022.

Da quando Elon Musk, imprenditore seriale già conosciuto per le sue avventure in PayPal, Tesla e SpaceX, è diventato il nuovo proprietario di Twitter, il mondo si è diviso in due. I sostenitori di Musk, che credono alla sua capacità visionaria e al voler estrarre valore da una piattaforma molto conosciuta, ma che dalla sua nascita non ha mai prodotto un dollaro di profitto per i suoi azionisti. Il resto del mondo, che vede la sua ingerenza nella gestione di Twitter, dopo aver cacciato in maniera eccessivamente teatrale i suoi vertici, un pericolo per la libertà di comunicazione sino ad oggi espressa dai milioni di utenti dell’uccellino blu! Persino il «Financial Times» ha recentemente rappresentato la sua indignazione, dopo che Musk ha costretto i suoi dipendenti nel fine settimana a rientrare in ufficio per immaginare insieme un nuovo modello di business per far ripartire la piattaforma. Se anche il FT inizia ad indignarsi per la violazione del weekend dei manager di un’azienda in forte crisi, ci spieghiamo molto dell’attuale impasse governativa britannica.

Personalmente, non provo simpatia per Elon Musk e per i suoi metodi di gestione alla «una poltrona per due»! Trovo però necessaria una chiarezza sui fondamentali dell’operazione e sulla capacità di visione imprenditoriale che la caratterizza.

Twitter viene fondato nel 2006 da Jack Dorsey e deve la sua fortuna alla decisione di limitare a 140 caratteri ogni tweet, così da dare centralità al messaggio e favorirne la diffusione. Nel 2013, anno della sua quotazione alla New York Stock Exchange, registrava 500 milioni di utenti e 50 milioni di tweet al giorno. Una notorietà mondiale cresciuta nel tempo anche in Europa, facendone la piattaforma preferita da chiunque abbia qualcosa di sensato da dire (per le cose insensate c’è Facebook, vetrina del cosa sto facendo in questo momento).

La soddisfazione degli utenti non trova però altrettanta soddisfazione da parte degli azionisti. Dalla fondazione ad oggi, Twitter ha accumulato costantemente perdite. Rispetto a molte altre società high-tech, il valore dell’azione non è mai decollato e, oggi, quota quasi allo stesso prezzo del suo debutto nel 2013.

Ad occhi esperti, questa situazione è pienamente riconducibile ad una mancanza di chiarezza del modello di business, focalizzato sulla gratuità di accesso e sulla centralità delle entrate pubblicitarie che contano per il 90% del fatturato. L’altro 10% è dato dalla vendita di dati a pacchetto.

L’ingresso di Musk porta ad una totale revisione del modello di business, passando dall’idea del «tutto gratis» ad un abbonamento da 8 dollari al mese (per chi pubblica e non per chi legge). Secondo Musk vanno «tassati» gli editori per i loro contenuti prodotti (cosa in sé sorprendente e innovativa, perché di solito gli editori, soprattutto se famosi, vengono pagati per il loro diritto d’autore, anziché dover pagare per scrivere).

In realtà, in questo tentativo di riequilibrio, Musk fa leva sull’identità di una piattaforma che oggi è la più seguita dai giornalisti di tutto il mondo e su cui l’informazione prodotta ha una immediata ripercussione sulle notizie. E in un mondo dell’informazione così veloce come quello odierno, la rapidità di diffusione della notizia è un valore.

Peraltro, l’era del «tutto gratis» nel mondo di internet e dei social ha finito il suo ciclo e oggi non è più sostenibile non solo economicamente, ma anche socialmente. Essa infatti nasconde la grande insidia della vendita dei dati a terze parti per pubblicità o altri scopi (come ad esempio l’analisi dei dati in maniera aggregata, per valutazione di lanci di nuovi prodotti e campagne marketing). Senza arrivare a quanto accaduto per Cambridge Analytics, dove la finalità di manipolazione dei dati è stata usata in modo illecito, emerge una questione sociale di estrema importanza: non desideriamo che i nostri dati vadano in giro così liberamente! Così oggi preferiamo modelli di business a pagamento, dove non abbiamo interruzioni pubblicitarie e possiamo contare su servizi aggiuntivi. Netflix e Spotify sono gli apripista di questi modelli senza pubblicità e poco social, dove però si apprezzano i contenuti e i servizi.

E anche gli altri big del mondo high-tech, come ad esempio Meta (Facebook), sono in affanno per il loro modello ancorato alla gratuità e alla pubblicità.

Allora, in un’azienda che non fa profitti da 10 anni, dove la possibilità di bancarotta è sempre alle porte, ben venga un visionario che stravolge in chiave dirompente l’esistente, se è capace di riportare in asse un così importante mezzo di comunicazione e consentirne lo sviluppo futuro.

Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per repubblica.it l’8 novembre 2022. 

Elon Musk irrompe nelle elezioni midterm, sollecitando gli americani a votare repubblicano. Così non solo viola per la prima volta la regola della neutralità, almeno apparente, rispettata finora dai fondatori o proprietari dei grandi social media, ma alimenta le preoccupazioni per la regolarità delle presidenziali del 2024, perché si schiera apertamente col partito di Trump che ha già detto di voler riammettere sulla sua piattaforma, nonostante usandola per diffondere la "grande bugia" sulle elezioni rubate nel 2020 abbia fomentato l’assalto al Congresso del 6 gennaio.

[…]  Diverse cose cambieranno, se il Gop prenderà anche solo la maggioranza alla Camera. Ci sarà la paralisi dell'agenda legislativa di Biden, andranno a rischio i finanziamenti per continuare a sostenere l'Ucraina, diventerà impossibile regolare l'aborto con una legge federale, si bloccheranno le nuove iniziative sull’emergenza clima e le misure contro il Covid. 

Quasi scontato sarà lo scontro sul debito pubblico, usato dai repubblicani come arma di ricatto per tagliare le spese sociali e l'assistenza; impensabili la riforma del sistema dell'immigrazione e la cancellazione dei debiti degli studenti universitari; probabile l’avvio di inchieste parlamentari sul capo della Casa Bianca, con l'obiettivo di screditarlo, impedirgli di operare e tentare l'impeachment.

Se poi il Gop prenderà anche il Senato, Biden non potrà più nominare giudici per equilibrare quello che aveva fatto Trump alla magistratura, e se ci sarà l'ondata sperata dai repubblicani il presidente rischia di perdere anche il potere di veto per bloccare le leggi volute dai suoi avversari. […] Le elezioni midterm quindi saranno soprattutto un referendum su Biden e Trump. Nessuno dei due è sulla scheda, ma tutti sanno che si vota per loro due, tanto riguardo le midterm e il controllo del Congresso, quanto in proiezione delle prossime presidenziali del 2024.

Federico Rampini per corriere.it l’8 novembre 2022.

Mancano poche ore ai risultati delle elezioni di midterm. Mancano pochi giorni all’annuncio di Donald Trump sulla sua terza candidatura alla Casa Bianca. Intanto il nuovo padrone di Twitter, Elon Musk, fa scandalo con il suo endorsement: votate repubblicano alle elezioni legislative. 

La sua uscita non dovrebbe sorprendere più di tanto, l’industriale più ricco del mondo è favorevole a politiche economiche liberiste, più consoni al programma del Grand Old Party.

Gli endorsement degli editori di media sono pratica corrente: il New York Times è pieno di consigli su come votare (sempre e soltanto per l’altra parte, il partito democratico). Inoltre Musk ha l’avvertenza di presentare la sua scelta non come una preferenza categorica ma come una preferenza tattica. Spiega che l’eccessiva concentrazione di potere è sempre fonte di abusi, pertanto è bene che un presidente democratico sia controbilanciato da un Congresso a maggioranza repubblicana. Ma lo scandalo rimane. Non può che rafforzare la campagna contro l’acquirente di Twitter, già in atto da settimane. 

Si capisce la tensione febbricitante, gran parte del frastuono assordante che circonda i primi passi di Musk come nuovo padrone di Twitter, si spiega così: per anni l’establishment di sinistra ha controllato la sfera del discorso pubblico digitale negli Stati Uniti, fino ad applicare la censura in modo sempre più sistematico, confinando la destra in una sorta di «riserva indiana».

Musk è sempre stato più vicino alla destra (ha spostato la sua sede dalla California democratica al Texas repubblicano), anche se i suoi rapporti con Trump sono a dir poco tempestosi. Ma in gioco non c’è solo il ritorno di Trump su Twitter, o meno. Il semplice fatto che Musk possa alterare gli equilibri di potere e il controllo politico sui media digitali, ha mobilitato contro di lui una coalizione di forze formidabile. 

In passato questo imprenditore è riuscito in imprese impossibili, rovesciando tutti i pronostici. Ha trasformato la Tesla nell’azienda automobilistica di maggior valore al mondo, mentre fino a pochi anni fa molti concorrenti e autorevoli osservatori la consideravano una bufala. 

Irriso inizialmente per i suoi propositi di conquista dello spazio, oggi con Space-X gestisce l’azienda più attiva del mondo nella messa in orbita di nuovi satelliti, anche per conto della Nasa. Questi precedenti dovrebbero indurre alla cautela prima di irridere ai suoi sforzi di risanamento di un’azienda malata (Twitter è stata quasi sempre in perdita).

Ma da quando Musk ha osato prendere il controllo del social media di San Francisco che ha inventato i «cinguettii», la campagna che si è scatenata contro di lui è forsennata, e sembra aver perso ogni senso delle proporzioni. 

Ogni suo passo come nuovo capo di Twitter viene descritto con toni che variano dall’indignazione al catastrofismo. Un esempio sono i titoloni in prima pagina per l’ecatombe di posti di lavoro, accompagnati da analisi che trasudano orrore per i metodi «disumani» con cui Musk sta licenziando il personale dell’azienda appena acquistata. I 3.700 licenziamenti che Musk ha in mente sono tanti, non c’è dubbio, e la notizia merita visibilità.

 Tuttavia non si tratta di un «massacro occupazionale» senza precedenti, tutt’altro. In passato ben altre riduzioni di organici ebbero luogo nella Silicon Valley, per esempio i 24.600 licenziamenti alla Hewlett-Packard. 

In questo periodo, inoltre, tutto il settore Big Tech versa in difficoltà più o meno gravi, e i licenziamenti sono la regola: perfino Amazon si appresta a cacciare un bel po’ di dipendenti, così come Lyft, Stripe e tanti altri. 

I toni apocalittici con cui viene descritta la ristrutturazione di Twitter sarebbero più adatti per raccontare ciò che sta accadendo a Meta-Facebook: l’azienda di Mark Zuckerberg ha perso il 70% del suo valore in Borsa, la scommessa sulla realtà virtuale e il metaverso per adesso è un disastro, e anche lì si preannunciano licenziamenti sostanziosi.

In quanto ai metodi con cui i dipendenti vengono cacciati, in America non sono mai particolarmente gentili: qualcuno ricorda gli «scatoloni» della Lehman Brothers? La catastrofe Meta-Facebook non ha né la stessa visibilità né viene analizzata con i toni ostili che segnano i notiziari su Twitter. 

La spiegazione è evidente per chi conosca la geografia politica dei media americani. La maggior parte degli organi d’informazione tradizionali, dal New York Times al Washington Post, dalla Cnn alla Msnbc, sono controllati da una generazione di militanti della sinistra radicale. Questo establishment si considera progressista, pratica la woke culture o cancel culture che ho analizzato in passato nel mio saggio «Suicidio occidentale», e considera come una sua missione sacrosanta quella di censurare molte opinioni contrarie, magari etichettandole come fake-news.

Questo establishment è ancora più potente nei social, dove la generazione politicamente corretta ha preso il controllo da tempo in quei poteri forti che sono Google e Facebook. Così si spiegano i due pesi e due misure, nel narrare le vicende di Tiwtter e Facebook. 

Questo establishment progressista è potentissimo e Musk se ne sta rendendo conto: «I gruppi attivisti – ha detto – stanno facendo pressione sugli investitori pubblicitari perché disertino Twitter, stiamo subendo perdite massicce nelle entrate pubblicitarie, benché io non abbia ancora cambiato nulla nelle regole di moderazione dei contenuti».

Anzi, per placare l’ira degli «attivisti», Musk vuole affidare la moderazione dei contenuti a un comitato di esperti indipendenti, chiamandosi fuori. 

Quando parla di «attivisti», il nuovo padrone di Twitter si riferisce alle correnti ideologiche militanti che influenzano la Global Alliance for Responsible Media, un’associazione nata per «combattere contenuti nocivi sui media», che riunisce i responsabili pubblicitari di grandi multinazionali e le maggiori agenzie pubblicitarie, insieme con i top manager in carica per le questioni etiche, coloro che vigilano sulla purezza dottrinaria delle aziende su temi come le minoranze etniche e sessuali o l’ambientalismo.

Ironizzando sull’accerchiamento che subisce da parte di questa nuova «polizia del linguaggio», Musk si è auto-nominato non più chief executive di Twitter bensì Twitter Complaint Hotline Operatore: traduco liberamente con «centralinista della linea diretta per le lamentele contro Twitter».

L’offensiva mediatica non è l’unica. La sinistra parlamentare e di governo completa l’accerchiamento di Musk. Al Congresso alcuni democratici, capeggiati dal senatore Chris Murphy, chiedono un’indagine sui capitali esteri che partecipano all’acquisizione di Twitter e minacciano di bloccarla per ragioni di sicurezza nazionale. Si riferiscono a un fondo saudita e a un investitore sino-canadese, che hanno partecipazioni molto minoritarie.

Altri esponenti della sinistra invocano l’intervento della Casa Bianca, perché Musk avendo una fabbrica Tesla a Shanghai sarebbe colluso con il regime cinese e quindi Twitter (secondo loro) finirebbe per subire l’influenza di Xi Jinping. Peraltro l’Amministrazione Biden finora è stata indulgente verso una piattaforma social come TikTok, la cui proprietà è interamente cinese. 

Non bisogna cercare una coerenza negli assalti lanciati contro Musk. Per conservare il senso delle proporzioni: Twitter è un nano con i suoi 4,5 miliardi di fatturato pubblicitario rispetto ai 210 miliardi di Alphabet-Google o ai 31 miliardi di Amazon. Ma Google e Amazon sono nelle mani «giuste». 

In questo clima di assedio, l’endorsement di Musk ai repubblicani a poche ore dal voto si può interpretare come un gesto opportunistico e difensivo.

 La vittoria della destra alle elezioni di mid-term sembra abbastanza scontata, non sarà la presa di posizione tardiva di Musk a spostare dei voti. Forse lui sta già chiedendo alla futura maggioranza parlamentare di proteggerlo dagli attacchi dell’establishment di sinistra.

Musk, il tycoon odiato dall’élite di sinistra che vuole boicottarlo. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022.

Era circondato da sospetti, considerato stravagante. Con Trump ha avuto un rapporto burrascoso. I media sono in massima allerta, ma non obiettarono quando Bezos comprò il Washington Post

«Vox populi, vox dei. Il popolo ha parlato, sia fatta la sua volontà». Così Elon Musk ha annunciato il risultato del referendum che aveva indetto su Twitter: hanno vinto i favorevoli a riammettere Donald Trump sul social media, dopo due anni di censura. Musk oggi si presenta come l’arbitro della democrazia americana, quantomeno del suo discorso pubblico sulla «piazza digitale», come definisce Twitter. Già si considerava un salvatore dell’ambiente con l’auto elettrica Tesla; un costruttore del nostro futuro nello spazio con i lanci di Space-X; un attore della geopolitica con i suoi satelliti essenziali per l’esercito ucraino. Come tanti miliardari, Musk non si rassegna ad essere solo un imprenditore di talento: vuol essere considerato un idealista. Invece i 1.200 dipendenti che si sono dimessi spontaneamente da Twitter — oltre ai 3.500 che aveva licenziato lui — temono che l’uomo più ricco del mondo abbia perso il tocco magico e sia un magnate nei guai. Per di più di destra. Cioè un appestato nella città più politicamente corretta del mondo, San Francisco. Quando di Twitter lui era solo un utente — con 110 milioni di follower appassionati che si fanno chiamare «topi muschiati» o «moschettieri» per assonanza col suo cognome — maneggiava il social con il gusto della provocazione: «Gioco a fare lo scemo su Twitter e mi metto in un mare di guai ma lo trovo terapeutico». Adesso il giocattolo terapeutico è suo, investendoci 44 miliardi di dollari lo ha strapagato proprio quando il mondo Big Tech è franato in Borsa. Ora affronta un test formidabile: la fuga di ingegneri alla vigilia dei Mondiali di calcio nel Qatar, metterà a dura prova il software di Twitter, quarto sito mondiale con 7 miliardi di visitatori al mese dietro Google YouTube e Facebook.

Musk fece irruzione nella mia vita nel 2009, quando dalla Cina tornai a vivere negli Stati Uniti. Era circondato da sospetti, considerato stravagante e inaffidabile, nel Pantheon delle divinità tecnologiche allora dominato da Steve Jobs. Un fidanzato di mia figlia che lavorava da Apple per Jobs, a Cupertino, fu uno dei primi acquirenti di una Tesla: la decantava come «un iPhone su quattro ruote». L’adozione di quell’auto-icona da parte dei geni della Silicon Valley era un segnale. In seguito ebbi diritto ad uno dei primi test di pilotaggio semiautomatico, sulle strade della California dov’era cominciata l’invasione silenziosa dei roadster Tesla. Di lì a poco Musk abolì l’ufficio relazioni pubbliche dell’azienda. Il suo disprezzo per i giornalisti ha scatenato la nostra attrazione verso il frutto proibito: le performance spettacolari dell’uomo più ricco del mondo sostituiscono il «culto» che un tempo dedicavamo a Jobs.

Con Trump ha un rapporto burrascoso. Musk — 51 anni e un patrimonio che vale esattamente cento volte quello del palazzinaro newyorchese — lo ha fatto imbestialire rivelando di non aver mai votato per lui. Peggio, sull’ex presidente ha aggiunto: «È tempo che navighi verso il tramonto, è troppo vecchio per fare il chief executive di qualsiasi cosa, tantomeno degli Stati Uniti». La deludente performance elettorale dei repubblicani, e le critiche che hanno accolto anche a destra l’annuncio della sua ricandidatura, hanno ammosciato l’eccitazione attorno al ritorno di Trump su Twitter. Re Mida delle controversie che trasforma in scandalo ciò che tocca, Musk deve aver contagiato con questo dono i familiari. Sua madre Maye, ex modella, ha detto che quando va a trovare il figlio nella sua base spaziale di Boca Chica (Texas), Elon la costringe «a dormire in un garage», perché non ci sono alloggi migliori a fianco di una piattaforma per missili. Una figlia adolescente lo detesta perché lui accusa i college americani di indottrinare la gioventù al marxismo. E nonostante i dieci figli che ha riconosciuto, c’è chi crede alla leggenda per cui avrebbe comprato una clinica della fertilità per diffondere il proprio Dna.

Ora che Musk è il padrone di un social, l’élite di sinistra che domina i media americani è sul piede di guerra. Dal New York Times alla Cnn è massima allerta, per il danno che può fare il supermiliardario con un pubblico da 250 milioni di utenti fissi. Nessuno di quei media obiettò quando Jeff Bezos (Amazon) comprò il Washington Post per contrastare Trump; né quando Bill Gates spende miliardi in sintonia con Obama-Biden; né quando Michael Bloomberg e George Soros donano centinaia di milioni a candidati democratici. Musk è un raro caso di miliardario Big Tech schierato contro l’establishment progressista. Ha dato del «fascista» al governatore democratico della California, Gavin Newsom, per le restrizioni durante i lockdown. E soprattutto ha spostato la sede Tesla dalla California iper-tassata e iper-regolata al Texas repubblicano. Perciò la sinistra ha mobilitato il mondo del business perché boicotti la pubblicità su Twitter sotto la nuova gestione. Per avere un’idea dell’atmosfera tossica attorno a Musk, basta confrontare la visibilità enorme e velenosa che i media dedicano ai guai di Twitter, con i toni più neutri riservati alla bancarotta fraudolenta di FTX. Il crac da 32 miliardi della Borsa di criptovalute FTX ha come protagonista uno dei massimi donatori al partito democratico e alla galassia delle ong progressiste. Dal coro che processa Musk si dissocia Jack Dorsey, fondatore di Twitter: l’unico a ricordare che la crisi del social ebbe inizio anni fa.

Cosa vorrà farne Musk per salvarlo? Un’idea è trasformare Twitter in una «app tuttofare» sul modello della cinese WeChat: la messaggeria si affianca a una piattaforma per acquisti online e un sistema di pagamento digitale. Rinunciare alla censura politica di parte è un modo per allargare il pubblico. Riuscirà a ripetere uno dei suoi successi impossibili? Esordì come co-fondatore di PayPal, sistema di pagamento che oggi ha diffusione mondiale. Ancora qualche anno fa molti erano convinti che la Tesla era un’impostura, oggi vale 580 miliardi, molto più di Ford e General Motors messe assieme. I suoi annunci sulla conquista dello spazio furono sbeffeggiati, oggi Space-X vale 150 miliardi e la Nasa gli affida un ruolo chiave anche per il ritorno sulla luna.

Grazie a Starlink, Musk ha un ruolo determinante nella guerra ucraina. Su quei satelliti viaggia la comunicazione delle forze armate di Kiev. Putin ha minacciato di «prendere di mira satelliti americani», e non si riferiva a tecnologie del Pentagono bensì alla rete di Musk. Quest’ultimo però, facendo leva sull’aiuto che fornisce a Zelensky, gli ha proposto un suo piano di pace che prevede concessioni territoriali alla Russia. Dalla Cina all’Iran, i regimi autoritari studiano il ruolo di Starlink e diffidano di Musk. Lui non rinuncia a spiazzare: lancia un piano per Taiwan che la trasformerebbe in una «zona amministrativa speciale» della Repubblica Popolare, cioè un’altra Hong Kong. Inaccettabile per i taiwanesi. Il capo di Tesla è riuscito a mantenere un buon rapporto con Xi Jinping e la sua fabbrica più grossa sta a Shanghai. La débacle di Twitter è un episodio di una storia più grande: Big Tech è entrato in una crisi che non risparmia nessuno, il Wall Street Journal parla di «crepuscolo degli dei». La tempesta scuote giganti come Amazon e Meta-Facebook. Mi riporta al mio esordio nella Silicon Valley, in coincidenza con il crac del Nasdaq nel marzo 2000 che travolse molte aziende della prima rivoluzione Internet. La «distruzione creatrice» del capitalismo mi accolse 22 anni fa quando andai a vivere in una San Francisco dove giovani milionari delle start-up diventavano disoccupati in poche ore. Era il mondo di cui Musk, ventinovenne, imparava le regole del gioco.

Da corriere.it il 9 novembre 2022.

Come avevamo anticipato, è arrivato oggi, mercoledì 9 novembre, un altro colpo di scure monstre nel dorato mondo delle big tech. Meta Platforms, proprietaria di Facebook, Instagram e WhatsApp, annuncia il taglio del 13% della sua forza lavoro, ovvero oltre 11.000 dipendenti. 

Dopo l'operazione messa in piedi di Musk, nuovo proprietario di Twitter, la scorsa settimana quando ha lasciato a casa la metà dei dipendenti del social - 7500 persone, anche se alcune ora stanno venendo reintegrate -, tocca questa volta a Mark Zuckerberg fare fronte alla perdita del 70% del valore dell'azienda nell'ultimo anno. Quello messo in atto da Meta è uno dei più grandi licenziamenti tecnologici di quest'anno, con la società che lotta contro l'impennata dei costi e la debolezza del mercato pubblicitario.

 «Oggi condivido alcune delle modifiche più difficili che abbiamo adottato nella storia di Meta - scrive Zuckerberg nella lettera -. Ho deciso di ridurre le dimensioni del nostro team di circa il 13% e lasciare a casa più di 11mila dei nostri talentuosi dipendenti. Stiamo inoltre adottando una serie di ulteriori misure per diventare un'azienda più snella ed efficiente, tagliando le spese discrezionali ed estendendo il blocco delle assunzioni fino al primo trimestre».

Wsj: «Meta, anche per Facebook arrivano i licenziamenti. A casa migliaia di persone». Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022

Meta, la società che controlla Facebook, starebbe per annunciare un piano di licenziamenti di massa a partire dalla prossima settimana. Lo rivelano alcune fonti al Wall Street Journal, secondo cui si tratterebbe di uno dei più grandi tagli di personale nell’ambito della recente ondata di crisi del settore tecnologico dopo la rapida crescita dell’industria durante la pandemia (che ha costretto anche Twitter a licenziare metà degli impiegati). I licenziamenti dovrebbero riguardare molte migliaia di dipendenti e l’annuncio sarebbe previsto per mercoledì prossimo. Alla fine di settembre, lavoravano per Meta più di 87 mila persone. I funzionari dell’azienda hanno già detto ai dipendenti di cancellare i viaggi non essenziali a partire da questa settimana.

Alla fine di giugno Zuckerberg aveva annunciato ai dipendenti che «realisticamente, in azienda ci sono probabilmente un po’ di persone che non dovrebbero essere qui». Durante la pandemia Meta, come altri giganti della tecnologia, ha fatto moltissime assunzioni: più di 27 mila nel 2020 e nel 2021, e poi altre 15.344 nei primi nove mesi di quest’anno, di cui circa un quarto nell’ultimo trimestre. Nel frattempo le azioni di Meta sono scese di oltre il 70% quest’anno: l’azienda ha dato la responsabilità al deterioramento generale della situazione economica, ma gli investitori sono stati spaventati anche dalle spese elevate e dalle minacce al core business dei social media. La crescita di questa attività in molti mercati si è peraltro arrestata a causa della forte concorrenza di TikTok, mentre la richiesta di Apple agli utenti di acconsentire al tracciamento dei loro dispositivi ha limitato la capacità delle piattaforme di social media di indirizzare gli annunci pubblicitari.

I licenziamenti di Meta celano gli inaspettati passi indietro della digitalizzazione. Walter Ferri su L'Indipendente  il 10 novembre 2022.

Se ne parlava da giorni, se non da settimane, ma alla fine è successo: Meta si è accodata alla crescente lista di Big Tech che hanno compiuto ingenti tagli al personale nel disperato tentativo di ridurre i costi. Nello specifico, l’azienda guidata da Mark Zuckerberg ha messo senza troppe cerimonie alla porta il 13% della sua forza lavoro, ovvero più di 11.000 dipendenti. L’esempio di Meta non è anomalo, ma è estremamente eclatante ed evidenzia tanto una crisi del settore, quanto un cambio di rotta sulle previsioni di come la digitalizzazione stia attecchendo all’interno del tessuto sociale. 

Della questione avevamo già accennato a luglio, periodo in cui i giganti della tecnologia hanno iniziato a rallentare le previsioni di assunzione, tuttavia i fatti ci rivelano che la posizione allora pubblicamente adottata dai leader di categoria fosse tutto sommato ottimistica. A porte chiuse si parlava già di licenziamenti, ma ufficialmente l’imprenditoria doveva dimostrarsi propositiva e lanciata verso un futuro di crescita, così da non ammettere la parziale sconfitta che stava effettivamente subendo.

Le cause di questa “recessione” digitale vengono spiegate con precisione dallo stesso Zuckerberg: «all’inizio del Covid, il mondo si è rapidamente mosso online e la crescita dell’e-commerce ha portato a un aumento delle entrate fuori scala. Molti hanno predetto che questa accelerazione sarebbe stata permanente, che sarebbe proseguita anche in seguito alla conclusione della pandemia. […] Sfortunatamente questo non è stato il caso. Non solo il commercio online è tornato ai suoi numeri originari, ma la crisi macroeconomica, la crescente competizione e la perdita di indicatori delle inserzioni hanno motivato ritorni di molto inferiori di quando non mi aspettassi».

Il Big tra i Big, Meta, rinforza dunque l’idea da molti percepita che la conclusione delle restrizioni pandemiche – che non necessariamente coincide con la conclusione della pandemia – sia stata accompagnata da un desiderio di allontanarsi dallo schermo, piuttosto che dalla tendenza di perdersi all’interno del cyberspazio. Le cose sono perlopiù tornate a quella che pochi anni fa veniva considerata normalità, una tendenza che le testate specializzate in tecnologia etichettano infelicemente come “Great Reset”, forse non rendendosi conto che il colorito nomignolo si confonde facilmente con un omonimo progetto socio-finanziario tanto caro al World Economic Forum (WEF).

Questo rimando al passato non è altresì del tutto sincero, alcuni dati suggeriscono anzi che il tempo che le persone dedicano ad app e portali social siano ancora in aumento, piuttosto si può sostenere che a essere in dubbio sia il futuro digitalizzato prospettato da alcuni gatekeeper propensi al monopolio. La digitalizzazione prosegue, seppur più lentamente, il suo percorso, tuttavia dopo anni di abusi e comportamenti scorretti le Big Tech si trovano a dover convincere Governi e utenti che i servizi da loro forniti siano effettivamente in grado di aggiungere valore, di contribuire in qualche modo a migliorare la vita dei singoli individui e delle comunità tutte. [di Walter Ferri]

La grande crisi di Big Tech, tra licenziamenti di massa e flop: è come la fine della bolla delle dot-com nel 2000? Twitter, Meta-Facebook ma anche Stripe, Zillow, Peloton e tante altre: sono decine di migliaia i posti di lavoro persi. Amazon e Google fermano le assunzioni, Apple alla prese con problemi di produzione. Solo un aggiustamento dopo una crescita troppo rapida oppure è una crisi più strutturale, come quella di inizio XXI secolo? Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022

Twitter ha licenziato venerdì scorso metà dei suoi 7.500 dipendenti (anche se ora ne sta richiamando alcuni essendosi accorta che, nella fretta imposta da Elon Musk, ha cacciato anche gente essenziale per il funzionamento della piattaforma). Quello stesso giorno, sempre a San Francisco, Lyft, l’alternativa a Uber nei servizi di trasporto individuale, ha licenziato 650 dei suoi 5.000 addetti mentre Stripe (software per pagamenti elettronici) ha messo alla porta 1.120 dipendenti. Nonostante l’elevata inflazione e il costo del denaro in forte crescita per il tentativo della Federal Reserve di raffreddare l’economia anche a costo di rischiare una recessione, i dati dicono che, dopo due trimestri negativi, il Pil degli Stati Uniti è tornato a crescere nel periodo luglio-settembre mentre anche a ottobre il mercato del lavoro è stato molto positivo: 263 mila occupati in più e disoccupazione scesa al 3,5%. Ma alla ripresa post pandemia di alcuni settori tradizionali – ristorazione, alberghi, trasporto aereo – fa riscontro, ormai dalla primavera scorsa, una brusca flessione delle imprese tecnologiche di ogni tipo: crollo dei profitti accompagnato prima da uno stop alle assunzioni (decretato in estate, ad esempio, da Amazon e Alphabet-Google), poi da ondate più o meno massicce di licenziamenti.

Dopo Twitter, Meta-Facebook

Quella più consistente potrebbe arrivare mercoledì con un brusco ridimensionamento della forza lavoro di Meta-Facebook, azienda che nell’ultimo anno ha perso addirittura il 70% del suo valore. I mercati la puniscono perché fatturato e profitti della pubblicità, cresciuti in modo spropositato negli anni scorsi, ora crollano, mentre il gruppo continua a investire decine di miliardi di dollari nell’avventura, dall’incerto futuro, del Metaverso. Mark Zuckerberg ha già detto che non intende fare passi indietro su questo fronte che considera essenziale per il futuro dell’impresa da lui fondata, ma ha promesso che Meta tirerà la cinghia nei suoi business tradizionali. O, meglio, la tireranno molti dei suoi 87 mila dipendenti. Secondo il Wall Street Journal l’azienda mercoledì annuncerà il licenziamento di molti di loro. Quanti? Le fonti del quotidiano dicono solo che saranno meno del 50% di Twitter. C’è chi parla di 10 mila, chi del 25% ma escludendo le grandi strutture di ricerca e sviluppo, soprattutto i Reality Labs, che Zuckerberg considera intoccabili.

Tutti tagliano

Ma i licenziamenti stanno arrivando, a pioggia, nelle aree più disparate dell’industria tecnologica: tagliano industrie elettroniche blasonate come la Philips (4.000 in meno tra Stati Uniti e Olanda) mentre a Boston DataRobot manda via 260 dei suoi mille tecnici e ingegneri. A Seattle Zillow, specializzata nella compravendita digitale di immobili, elimina 300 dei suoi 5.800 dipendenti a fronte di quella che viene definita «la crisi più dura del mercato real estate degli ultimi 40 anni». HelloFresh, fornitore di kit per pasti, tedesco ma con due terzi dell'attività negli Stati Uniti, dopo la rapidissima crescita negli anni della pandemia, ora licenzia 611 dipendenti mentre a Boston la Wayfair, gigante dell’arredamento online, ne manda via 870 e a New York Peloton, iconico produttore di cyclette, tapis roulants e altre attrezzature per il fitness collegate a Internet riduce gli organici di 500 unità. 

Effetto post pandemico o crisi strutturale?

Cosa sta succedendo? Un aggiustamento naturale dopo gli anni della pandemia quando, con la gente costretta ovunque dalla necessità della separazione fisica a rivolgersi ai servizi online, l’economia digitale è cresciuta a dismisura? O siamo di fronte a una crisi più strutturale come quella del 2000 quando esplose la prima bolla tecnologica? Probabilmente questa crisi è la somma di due fenomeni: sicuramente c’è il rallentamento fisiologico, post pandemia, del ricorso ad alcuni servizi online. Più sport all’aria aperta, meno fitness domestico, meno pasti consegnati a domicilio col ritorno al ristorante, mobili scelti nella showroom anziché vederli solo nei cataloghi digitali, e via di seguito. Ma questo sembra essere solo un fattore che accentua, esaspera, una crisi da crescita eccessiva che stava maturando da tempo. Sembra confermarlo il fatto che anche grandi industrie strategiche dei semiconduttori come Intel sono in crisi (in un anno ha perso metà del valore a pare si prepari a ridurre del 20% la sua forza lavoro).

Le eccezioni (per ora?): Amazon, Apple, Google, Microsoft

Mentre i tre giganti di big tech che per ora, pur avendo bloccato le assunzioni e fatto qualche taglio, non sembrano preparare massicci licenziamenti, cioè Microsoft, Amazon e Alphabet-Google attribuiscono buona parte della riduzione dei profitti al rallentamento delle loro attività nel cloud computing. 

Un caso a parte quello della Apple. Sfuggita fin qui alla crisi, la società di Cupertino ora deve, però, affrontare problemi di natura diversa: il taglio della produzione degli iPhone a causa della nuova ondata dei contagi Covid in Cina con conseguenti, nuovi lockdown nelle città dove si fabbricano gli smartphone. Nei prossimi anni, poi, l’azienda di Tim Cook dovrà districarsi tra i problemi logistici legati al trasferimento di molte produzioni negli Stati Uniti e in altri Paesi asiatici come il Vietnam, deciso per motivi economici e geostrategici. 

Elon Musk, 8 cose che non sapete sul nuovo proprietario di Twitter (che ha anche ispirato Iron Man). L'infanzia difficile, la prima società a 12 anni, la sindrome di Asperger: passioni, stravaganze e paure dell’imprenditore che vuole portare l’uomo su Marte. Lorenzo Nicolao, Michela Rovelli su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022

Uomo eccentrico

Per alcuni è un idolo, per altri una minaccia, per altri ancora semplicemente un fanatico. Elon Reeve Musk è uno degli imprenditori che ha maggiormente caratterizzato l’innovazione degli ultimi anni, oltre ad appartenere al club degli uomini più ricchi del pianeta. Nato 51 anni fa a Pretoria, il sudafricano (con cittadinanza canadese e naturalizzato statunitense) amministratore della multinazionale automobilistica Tesla, azienda per la quale è principalmente conosciuto, si è distinto più volte e non solo per i suoi successi imprenditoriali. Le molte stravaganze proprie del suo carattere e della sua indole l'hanno reso una star e sono riemerse proprio in questi giorni sul «caso Twitter», il social network che ha appena acquisito. Tra licenziamenti di massa, discussioni tra celebrità e nuovi (discussi) modelli di business. Sono molte le curiosità che lo riguardano, ma non tutti le ricordano.

La prima «società» a 12 anni

Partiamo dalla natura fortemente imprenditoriale che contraddistingue Elon Musk. La prima lampadina gli si è accesa quando aveva solo 12 anni. Lui, che aveva imparato a programmare già da tre anni, crea (e poi vende) un videogioco chiamato Blastar, dove l'obiettivo era distruggere una navicella aliena. Così guadagna i suoi primi 500 dollari. L'inizio di un impero, costruito con idee al limite del realistico, scommesse quasi impossibili e investimenti istintivi che gli hanno fatto conquistare un soprannome che, prima di lui, era stato associato solo a Steve Jobs. Elon Musk, l'imprenditore «visionario».

Mille (e una) aziende

A lui però si deve anche la nascita del sistema dei pagamenti digitali PayPal, azienda che ha venduto a eBay per 180 milioni di dollari. A soli 32 anni ha dunque intascato abbastanza soldi per ritirarsi e vivere di hobby, per diventare filantropo (vedi Bill Gates) o per seguire la classica strada dei siliconiani milionari, ovvero scovare startup e finanziarle. Musk però è sempre stato un vulcano di idee e ha continuato a vivere la vita come fosse sempre un giovane startupper vale a dire fondare aziende innovative che diano nuove soluzioni a vecchi problemi. 

Con l’immenso patrimonio oggi stimato di 223,8 miliardi di dollari (dati di Forbes del 29 ottobre), ricopre il ruolo di fondatore e gestisce, oltre alla Tesla, un menù ampiamente diversificato di aziende, attive nei settori più disparati. Le conoscete tutte? C'è innanzitutto la compagnia aerospaziale SpaceX, che collabora con le più importanti agenzie spaziali - a cominciare dalla Nasa - per le più importanti sfide attuali che vedono l'uomo tornare sulla Luna o addirittura esplorare Marte. Ma Musk è anche fondatore di The Boring Company, società nata per creare nuove infrastrutture come l'Hyperloop (piano piuttosto fallimentare per il momento: i suoi tunnel vengono usati come parcheggi), ma che ha all'attivo diverse invenzioni che potremmo definire originali, se non improbabili. Nel suo inventario troviamo il profumo «Capelli Bruciati», una tavola da surf da 1.500 dollari, dei Lego giganteschi per costruire case e persino un lanciafiamme. Poi c'è Neuralink, azienda per le neurotecnologie che sta provando a costruire chip da impiantare nel cervello, OpenAi, realtà che promuove la ricerca sull’Intelligenza Artificiale, e Starlink, società per la connettività satellitare. Ora è anche proprietario di Twitter, mossa che lo spinge a invadere un nuovo settore, quello del social network.

Non ha fondato Tesla

Molti credono che Elon Musk sia il fondatore di Tesla ma non è così. Il marchio automobilistico che ha dato una notevole spinta alla mobilità elettrica in realtà è nato nel 2003 da Martin Eberhard e Marc Tarpenning. Solo nell'anno successivo Elon Musk entrerà nell'azienda (che allora si chiamava Tesla Motors) diventandone il principale investitore e nel 2008 sarà nominato Ceo.

La regola dei cinque minuti

Considerate le tantissime aziende che vengono amministrate dalla stessa persona, ci si chiede come un solo essere umano sia in grado di tenere tutto sotto controllo. Elon Musk sostiene di lavorare tra le 85 e le 100 (almeno 12 ore spalmate su sette giorni). Massimo sei ore di sonno a notte. Sembra che per non impazzire, l'imprenditore abbia creato una agenda molto dettagliata e precisa. A ogni compito e questione, dedica non più di cinque minuti. Compreso il pranzo.

Un'infanzia difficile

Elon Musk ha una sorella, Tosca, anche lei imprenditrice e fondatrice della Musk Entertainment, casa con la quale ha prodotto diversi film. Il fratello Kimbal è invece amministratore delegato dell’azienda di pubblicità OneRiot, oltre che proprietario del ristorante The Kitchen, con due sedi in Colorado. Kimbal stesso deve però molte delle sue ricchezze alla Tesla fondata dal fratello maggiore. Subito tra i primi investitori del progetto, come azionista e stato anche tra quelli ad averne tratto subito i maggiori profitti, pur avendo preferito lasciare a Elon la gestione dell’intera società. Per quanto riguarda il rapporto con i genitori, anche qui le cose non sono semplici. La complessa personalità di Musk nasce da un'infanzia complessa trascorsa in Sud Africa. La madre Maye è (ancora oggi) una modella, il padre Error un ingegnere, con cui Musk vive dopo la separazione dei genitori. Lo ha definito in un'intervista a Rolling Stone «un terribile essere umano». Mentre lui, il padre, ha dichiarato in un'intervista di non essere per niente orgoglioso del figlio, che considera ancora un ragazzino infelice. In quel bambino, preso in giro a scuola e mai a suo agio in casa, mentre inizia a imparare la programmazione e il funzionamento del cervello dei computer, nasce la consapevolezza di non riuscire a sopportare la solitudine.

Tanti figli (e nomi improbabili)

Lui è Iron Man

I gossip hollywoodiani raccontano che Musk è stato l'ispirazione per l'Iron Man cinematografico. Sarebbe stato lui la base per la creazione di Tony Stark, il geniale ingegnere interpretato da Robert Downey Jr che combatte il crimine grazie a una futuristica armatura di sua invenzione. Il bello è che i gossip sono stati confermati dal regista del film, Jon Favreau. Alcune parti del secondo film, Iron Man 2, sono state girate proprio all'interno di Space X, e Musk appare anche nel cast.

Twitter, altro colpo di scena: Musk costretto a comprare una società molto malata. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 5 Ottobre 2022.  

Il fondatore di Tesla ha capito di non aver chance in tribunale e ha quindi cambiato di nuovo idea, acquisterà la società al prezzo originario: 44 miliardi di euro 

Mai scrivere la parola fine su una vicenda con un protagonista imprevedibile come Elon Musk. Ma quella emersa a sorpresa ieri potrebbe essere la svolta decisiva nella disputa su Twitter, con l’uomo più ricco del mondo che, dopo essere entrato nella rete sociale in modo inizialmente amichevole, essere poi passato alla scalata ostile e aver provato a ritirare la sua offerta dopo che il board di Twitter l’aveva accettata, ora cambia di nuovo rotta: a due settimane dal processo richiesto da Twitter per obbligare Meta a rispettare gli impegni presi, Musk annuncia non solo che comprerà ma anche che pagherà per intero l’elevatissimo prezzo offerto sei mesi fa, quando i mercati erano molto più in salute.

Perché l’uomo più ricco del mondo ci ripensa e prende il controllo di una società che versa in condizioni molto peggiori rispetto ad aprile, quando lanciò la sua sfida (a Wall Street c’è chi chiama Twitter walking dead, morto che cammina) accettando di pagare l’elevatissimo prezzo originario di 54,20 dollari per azione? Una risposta chiara ancora non c’è, ma dagli indizi raccolti pare che Musk si sia convinto di avere pochissime possibilità di spuntarla nelle aule dei tribunali. I cavilli che aveva sollevato per cercare di non perfezionare l’acquisto si sono rivelati, appunto, cavilli: dal sospetto che gli account fantasma – quelli dietro i quali c’è un robot anziché un utente vero – sono più del 5 per cento dichiarato da Twitter alla carenza dei sistemi informatici di tutela della privacy degli utenti denunciata qualche giorno fa da un ex dipendente della società. E così, a due settimane dall’inizio del processo che avrebbe aperto per lui una via crucis lunga, costosa e quasi certamente perdente, Musk ha ricambiato le carte in tavola: ieri mattina si è diffusa la voce di una sua lettera nella quale offriva a Twitter di chiudere la vertenza con l’acquisto della società. In Borsa il titolo, sospeso due volte, è schizzato in alto del 22 per cento.

In serata la conferma: Twitter ha accettato l’offerta. Ora c’è chi si aspetta ancora colpi di scena, qualche beffarda diavoleria di Elon. Ma prevale la sensazione che stavolta la spavalderia sia servita a poco: Musk è finito sotto scacco. E, in una partita nella quale gli attori fin qui sono stati, oltre al tycoon di Tesla, il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, che aveva chiamato Musk per rivitalizzarla e che poi è uscito di scena e Parag Agrawal, l’amministratore delegato che ha tentato di collaborare con Musk, ma poi è finito in rotta di collisione fino a diventare il bersaglio dei suoi feroci attacchi, spunta un altro protagonista: il presidente di Twitter, Bret Taylor. Calmo e metodico quanto Musk è impulsivo, abituato a lavorare discretamente, sottotraccia, mentre Elon passa da un proclama a un ultimatum, Taylor dapprima ha cercato di ricucire il rapporto col miliardario. Poi, preso atto della rottura insanabile, ha costruito un agguerrito team legale con l’obiettivo di costringere Musk a rispettare gli impegni presi e senza sconti rispetto all’elevatissimo prezzo offerto prima che Tesla e tutto il mercato tecnologico perdessero circa il 30-40 per cento del loro valore.

Passo dopo passo, Taylor si è convinto che Musk non disponeva di carte tali da convincere il giudice del tribunale del Delaware a dargli ragione, e l’ha chiuso in un angolo. Sempre uomo più ricco del mondo, ma con assai meno disponibilità liquide e la necessità di pagare interessi molto più alti sui prestiti contratti per finanziare una parte di un affare che gli costerà 44 miliardi di dollari, Musk rileva una società che non è mai stata redditizia, ma ora versa addirittura in una crisi profonda: crollo degli introiti pubblicitari, numero degli utenti che non cresce, emorragia di manager e cervelli tecnologici che abbandonano Twitter scoraggiati. Musk azzererà i vertici della società nella quale inserirà uomini suoi (non un problema per Taylor che è anche co-amministratore delegato di Salesforce). E poi tenterà di trasformare Twitter in qualcosa di diverso: forse il nucleo di Xcom, la nuova piattaforma che Elon ha in mente e che potrebbe essere rete sociale, ed erogatore di servizi alla persona, informativi e finanziari. Sempre che il personale della società che gli è ostile e teme per il suo futuro, non si metta di traverso.

Cos’è X, la super app di cui parla Elon Musk. Giuditta Mosca su Il Giornale il 5 Ottobre 2022

Elon Musk rompe gli indugi e, confermando di procedere con l’acquisto di Twitter, parla anche di X, la super app sulla quale mantiene il riserbo

Il lungo tira e molla tra Elon Musk e Twitter sembra volgere al termine, con il patron di Tesla deciso a formalizzare l’acquisto prima di entrare in tribunale.

Mentre il sito Bloombger considera l’ipotesi che la conferma di Musk è indotta dalla quasi certezza che il tribunale del Delaware (quello adito da Twitter) avrebbe comunque obbligato l’imprenditore a concludere l’acquisto, spunta X, una super app a cui l'imprenditore ha fatto accenno senza fornire dettagli.

Musk aveva offerto 44 miliardi di dollari per acquistare la piattaforma di microblogging (ossia 54,2 dollari per azione) attirando così l’attenzione dei principali investitori, salvo poi fare retromarcia.

Il 4 ottobre la fine della saga: Musk ha sostenuto che comprare Twitter sia un acceleratore per la creazione di "X, l’app di tutto".

Acceleratori e X, la super app

Musk non ha detto una parola in più, tenendo per sé cosa intende quando parla di X, la super app. Occorre quindi scavare un po’ per immaginare quale direzione voglia intraprendere l’imprenditore di origini sudafricane.

Un acceleratore è una struttura in grado di dare slancio alle startup, mettendo a loro disposizione specialisti in grado di disegnarne strategie operative e organizzative che ne facilitino la crescita in tempi rapidi.

Una super app – termine non nuovo – è un’applicazione che consente agli utenti di svolgere diverse attività senza mai abbandonarla. WeChat, per citare l’esempio più noto, è una piattaforma che consente lo scambio di messaggi istantanei e che include anche un portafoglio elettronico e, in una delle sue versioni, consente di svolgere alcune attività legate alle attività professionali, come per esempio la gestione dei rimborsi spese.

E qui interviene X, “la app tutto” a cui accenna Elon Musk. Con ogni probabilità parla proprio di un’app – non si sa se Twitter o una nuova – per il cui tramite sarà possibile fare diverse cose, non per forza tutte legate ai business attuali che fanno capo all’impero dell’imprenditore che potrebbe creare servizi nuovi o rispolverarne di vecchi evolvendoli. Non va dimenticato che Musk ha creato, tra le altre cose, il servizio di pagamenti digitali PayPal. Allo stesso modo uno dei suoi sogni è che le auto a guida autonoma possano offrire un rendimento economico a chi le possiede, noleggiandole quando non ne fa uso. Un momento che, se mai arriverà, è da datare in un futuro abbastanza lontano perché il mercato non è ancora pronto, ma che Musk sia un visionario è fuori discussione.

Inoltre, nel 1999, Musk ha creato X.com, tra le prime banche online e, a maggio del 2022, ha fondato le X Holdings nelle quali vuole fare confluire Twitter, Tesla e Space X.

Difficile dire cosa sia X perché è difficile dire cosa bolla nella vulcanica inventiva di Musk, è però evidente che 44 miliardi di dollari per Twitter, che nella sua storia ha visto le cifre nere soltanto in poche occasioni, siano uno sproposito dal punto di vista finanziario e aumentarne fatturato e utili è una mossa obbligata.

Un passo avanti. Per salvare la democrazia serve controllare le piattaforme, anche l’America lo ha capito. Luigi Daniele su L'Inkiesta il 27 Aprile 2022.

L’infodemia contemporanea necessita di misure regolatorie che impediscano ai grandi player di fare uso di pratiche pericolose per la società. Finora l’Unione europea sembra aver trovato il modello migliore per contenere i rischi, ma gli Stati Uniti sembrano voler seguire l’esempio.

Lo scorso giovedì, l’ex presidente americano Barack Obama è intervenuto in un incontro sulle sfide poste alla democrazia dall’informazione digitale, organizzato dal Cyber Policy Center, un ente di ricerca collegato all’Università di Stanford. Pur riconoscendo il ruolo innovativo ed emancipatorio che può essere svolto dalle piattaforme online, Obama ha sostenuto come l’infodemia contemporanea rischi, contro ogni sua promessa di democraticizzazione della società e dell’informazione, di tradursi nel suo opposto. Anche a causa di attori che deliberatamente intendono sfruttarne le criticità intrinseche.

Tra questi attori, non ci sono solo «aziende che sono venute a dominare internet in generale e le piattaforme di social media in particolare», le quali prendono «decisioni che, intenzionalmente o no, hanno reso le democrazie più vulnerabili», ma anche «consulenti politici» o «potenze straniere» che possono «sfruttare strumentalmente gli algoritmi delle piattaforme o aumentare artificialmente la portata dei messaggi ingannevoli o dannosi».

Come esempi di uso distorsivo dei social network e dell’informazione online con effetti sulla polarizzazione del dibattito politico nelle realtà interessate, Obama ha citato esplicitamente, tra gli altri, l’uso dei social fatto dai sostenitori di Trump e le campagne di disinformazione di cui la Russia è accusata in diversi Paesi.

L’ex presidente non è nuovo a questo tipo di interventi sul tema: qualche giorno prima, all’Università di Chicago, ha affermato la necessità di «misure regolatorie e norme industriali» che permettano alle piattaforme private di fare business impedendo, al tempo stesso, le pratiche «potenzialmente lesive per la società».

Negli ultimi anni, il dibattito statunitense sul legame tra informazione, social network e democrazia ha assunto accenti che, a lungo, nella mentalità comune americana, sono sembrati eccessivi, finendo per sfociare nella discussione per certi versi filosofica su come trovare il giusto mezzo tra il garantire la libertà di parola e di informazione e il limitare gli attacchi alla democrazia da parte di chi promuove disinformazione approfittando proprio di questa libertà, cioè alterando quei meccanismi decisionali e di produzione del consenso che sono alla base delle democrazie occidentali.

Anche sulla base di questa nuova consapevolezza, alimentata anche da casi come quello di Cambridge Analytica, che ha portato all’audizione di Mark Zuckerberg presso il Parlamento, il Congresso statunitense sta attualmente discutendo su una serie di riforme che hanno l’obiettivo di attribuire maggiori responsabilità e limiti alle piattaforme online, soprattutto ai colossi come Meta, Google e Twitter, introducendo regole più severe in materia di privacy, per tutelare i cittadini, e di concorrenza, per evitare che un monopolio economico si trasformi in un’arma politica.

Soprattutto, anche negli Stati Uniti si sta facendo sempre più strada l’idea che le piattaforme siano responsabili dei contenuti pubblicati attraverso di esse, e che a queste spettino responsabilità in termini di moderazione e di verifica (ad esempio per le notizie o i commenti pubblicati).

Una visione da tempo giudicata prettamente europea, ma che presto potrebbe divenire dominante anche sull’altra sponda dell’Atlantico, dal momento che si discute sempre più spesso di aggiornare il Communications Decency Act, risalente al 1996, modificando quelle sezioni che garantiscono ampia libertà alle piattaforme, sollevandole dalle responsabilità per i contenuti postati dagli utenti.

L’Unione europea, a differenza degli Stati Uniti, segue da più tempo la prospettiva di una limitazione delle piattaforme, tanto in termini di accumulazione di peso politico quanto di responsabilità sui contenuti. Negli scorsi anni, il Parlamento Europeo ha lavorato in più occasioni sulle campagne di disinformazione organizzate in diversi Paesi membri ad opera di potenze extra-UE, al fine di influenzare l’opinione pubblica diffondendo visioni a loro più congeniali su alcuni temi strategici o alimentando notizie false che favorisse i partiti considerati in qualche modo a loro più vicini.

A marzo, il Parlamento ha approvato la relazione della commissione speciale INGE, sulle interferenze straniere nei processi democratici dell’Unione e dei suoi Stati membri: in essa, si sottolinea come le piattaforme online siano spesso state utilizzate da Stati esterni per diffondere disinformazione.

La commissione INGE, per questo, ha chiesto «una legislazione europea che garantisca una trasparenza, un monitoraggio e una responsabilità significativamente maggiori per quanto riguarda le operazioni condotte dalle piattaforme online», oltre che una serie di misure per «obbligare le piattaforme, specialmente quelle che presentano un rischio sistemico per la società, a fare la loro parte per ridurre la manipolazione e l’interferenza delle informazioni».

Nella direzione di un coinvolgimento maggiore delle piattaforme nella lotta alla disinformazione, del resto, si muove anche il Digital Services Act, di recente approvato in versione definitiva dal Consiglio dell’Unione europea, che prevede ad esempio diversi limiti alla profilazione degli utenti e diversi obblighi in materia di trasparenza sulla moderazione dei contenuti, oltre che la possibilità per la Commissione Europea di adottare misure verso le piattaforme che contribuiscono alla diffusione online di notizie false.

«Il Dsa è un passo importante per la sicurezza di internet a livello europeo, perché punta sull’accountability delle piattaforme, fornendo una serie di strumenti utili alla lotta alle fake news e assicurando agli utenti la possibilità di contestare l’azione delle piattaforme», racconta Maria Giovanna Sessa, Senior Researcher di EU DisinfoLab, un think tank che analizza i meccanismi di diffusione della disinformazione in unione europea e le policy di contrasto.

Un ottimismo di fondo condiviso anche da diversi europarlamentari, come Brando Benifei, capodelegazione del Partito democratico, che definisce il Dsa «un buon testo, che finalmente garantisce potere e tutele a cittadini e consumatori» ponendo l’accento su come siano previste «norme più stringenti sulla trasparenza degli algoritmi» oltre che «una procedura più chiara di notice & action in cui gli utenti avranno il potere di segnalare contenuti illegali online, come l’incitamento all’odio o il revenge porn, e le piattaforme online dovranno agire rapidamente».

Secondo Sessa, però, un limite del Digital Services Act è rappresentato dal suo riguardare solo le piattaforme con più di 45 milioni di utenti, mentre «anche quelle minori meritano attenzioni e ulteriori interventi regolatori: negli ultimi anni, infatti, diverse comunità estremiste e cospirazioniste sono migrate su di esse proprio perché percepite come meno rigide sulla moderazione dei contenuti».

Un punto dirimente della regolazione delle piattaforme, infatti, è quello di evitare per quanto possibile il cosiddetto “effetto bolla”, cioè la dinamica per cui si è esposti a fonti informative che confermano le proprie convinzioni, per quanto errate ad estreme siano. «Sebbene l’effetto bolla sia in un certo senso sempre esistito, le piattaforme hanno esasperato questo trend», continua Maria Giovanna Sessa: «Molti algoritmi si basano sulla continua personalizzazione dei contenuti, falsando la percezione di quanto un tema sia diffuso e condiviso. Si rinforza così la tendenza a rifiutare posizioni in conflitto con il proprio pensiero precostituito, trascinando l’utente in un circolo vizioso difficile da spezzare».

È chiaro che la prospettiva di attribuire maggiori responsabilità alle piattaforme solleva alcuni nodi problematici per quanto riguarda il monitoraggio dell’applicazione delle norme. A livello politico, e più profondamente culturale, però, il fatto che questa visione sia perseguita da tempo dalle istituzioni europee evidenzia la presa di coscienza di come, oggi, tutelare la libertà di parola e di informazione significhi anche agire contro gli abusi di essa.

Un apparente conflitto tra due esigenze della democrazia, necessario però per la sua tutela, in maniera simile a come la difesa dell’ordine democratico rende necessaria la repressione delle forze che lo mettono in discussione.

In questo senso, è significativo che anche in area statunitense, tradizionalmente incline a un’interpretazione estesa dal concetto di libertà di parola, si stia iniziando a muoversi in questa direzione, seguendo l’esempio europeo nel modo di declinare la risposta ai rischi per la democrazia causata da alcuni usi delle piattaforme online.

Twitter e destino. L’isteria su Elon Musk è la versione surreale del “se vince Bush me ne vado”. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Aprile 2022.

Ora che il re dei picchiatelli ha comprato il social network, c’è chi scrive di essere preoccupato per la libertà di espressione e quindi minaccia di non twittare più. E noi siamo in attesa di fargli ciao ciao con la manina. 

Ogni giovedì un editore mi telefona per commentare i dati di vendita d’un libro. Il libro non è mio, non è di qualcuno che mi stia particolarmente simpatico o particolarmente antipatico: non osserviamo la catastrofe per sadismo nei confronti dell’autore. Osserviamo la combinazione tra i dati di vendita e la rassegna stampa: ci sono settimane in cui sul libro vengono pubblicati più articoli di quante copie venda.

Niente serve a niente, come evidente a chiunque segua su Instagram qualcuno che abbia in partenza una tournée. C’è gente che tutti i giorni ricorda ai follower a quali link si possono comprare i biglietti, ed è inevitabile pensare che, se anche solo una persona avesse cliccato su quel link ogni volta che è stato postato, a quest’ora i posti disponibili per gli spettacoli sarebbero esauriti. E invece. E invece non si vende un biglietto di niente (prima dicevano che era la pandemia, ora la guerra, domani che i soldi del loro biglietto o del mio libro gli italiani li mettono da parte per pagare il riscaldamento nel primo inverno senza gas russo).

Non vendono (i prosciutti esposti) i social, figuriamoci se li vendono i giornali. D’un altro libro che ha più articoli di giornali che lettori, un altro editore mi diceva che l’ultimo articolo pervenuto era una buona cosa perché scritto da autore molto presente sui social: «L’hanno visto tutti». Cioè: i molti follower del recensore hanno visto qualche screenshot di qualche riga d’articolo che avranno guardato con l’attenzione con cui tutti noialtri guardiamo le immagini che compaiono sui social (mentre aspettiamo che si scongelino i sofficini), e dubito siano corsi a comprare il tomo di cui lo screenshot parlava, anche nella remota ipotesi che avessero letto quelle righe con sufficiente attenzione da capire che raccontavano un romanzo e non la ricetta per la quiche lorraine.

Al lordo di questo girare a vuoto come criceti nella ruota, ferve la preoccupazione per la proprietà dei social. Sono di un miliardario buono o di un miliardario cattivo? Se arriva Elon Musk ce ne dobbiamo andare per protesta? Se un miliardario cattivo (che non ho ancora capito come si distingua da un miliardario buono: pensavo la miliardaritudine fosse una livella) possiede Twitter, è emergenza democratica? Se il nuovo proprietario restituisce l’account a Donald Trump, dobbiamo chiamare Amnesty?

Sono andata a cercare un’intervista che feci a Nora Ephron nell’autunno 2010. Domandavo: «Il mese scorso un tassista newyorchese mi ha detto che, se Sarah Palin vince le elezioni, lui va a vivere altrove». Lei rispondeva: «Ma vive già altrove! La città di New York è un altro paese!». Insistevo: «Quello che vorrei dire a lei e a lui è che in Italia diciamo così a ogni elezione, e poi restiamo sempre qui». E lei rispondeva: «Anch’io sento gente che lo dice da anni, ho amici che minacciavano di emigrare per Bush ma, indovina un po’? Sono rimasti. Ci piace atteggiarci, fare quelli moralmente superiori che non possono sopportare di vivere in un paese di destra, ma dove dovremmo andare? Dieci anni fa si poteva pensare al Canada, ma ora hanno un premier più conservatore di quanto fosse Bush. Non è facilissimo, trovare posti… A lei ne viene in mente uno, una democrazia di sinistra in cui emigrare? Certo non possiamo trasferirci in Irlanda. O in Israele».

La storia si ripete, la prima volta come governo della nazione, la seconda come proprietà di Twitter.

Sei anni prima, il Guardian aveva intervistato Tom Wolfe. L’intervista era uscita pochi giorni prima che gli americani eleggessero per la seconda volta George W. Bush. Wolfe raccontava che Tina Brown era stata a una cena alla quale lei e i suoi commensali parlavano inorriditi degli elettori repubblicani, finché il cameriere aveva dichiarato che avrebbe votato per Bush. E, invece di chiedersi cosa non capivano dei meno ricchi, la Brown e i suoi amici si erano chiesti come poter far capire al povero cameriere ignorante che Bush era il male. (Il miglior tweet a presa per il culo del panico da Musk che abbia visto in questi giorni diceva: il maggior finanziatore delle campagne elettorali di Obama ha comprato Twitter).

Insomma, proseguiva Wolfe, voterei Bush se non altro per andare a fare ciao ciao all’aeroporto a tutti quelli che giurano che emigreranno a Londra se vince: qualcuno deve pur restare qui.

L’isteria dell’iscritto a Twitter che minaccia d’andarsene come a qualcuno importasse qualcosa è divertente, ma ci distrae dalla domanda: perché Musk spende 44 miliardi di dollari per una piattaforma che fa un miliardo l’anno di profitti? È per la stessa ragione per cui il precedente proprietario di Twitter, nelle sue magioni da centinaia di milioni di dollari, non mette lampade, convinto che la luce elettrica alteri il metabolismo? È perché i miliardari son tutti picchiatelli?

Io i picchiatelli non miliardari, quelli preoccupati che Twitter diventi un covo neonazista, quelli che minacciano d’abbandonare i cuoricini che affondano, quelli che finalmente hanno una polemica con cui svoltare un’altra settimana da passare a guardare i social invece che a lavorare, io quelli li capisco.

È difficilissimo arrendersi al fatto che i social siano luoghi inutili e tali resteranno, luoghi dove perdere tempo e non imparare niente, luoghi dove disimparare a fare conversazione, e tuttavia non ce ne stacchiamo. Potremmo leggere il Vasilij Grossman che abbiamo comprato per sentirci pregni di spirito del tempo, e invece resta lì, intonso, mentre cuoriciniamo foto di cani. Potremmo ricominciare a giocare a tennis, tenerci in forma, perfezionare il rovescio a due mani, e invece ci facciamo venire le piaghe da decubito puntesclamativando la nostra indignazione all’ipotesi che Musk non chiami la buoncostume ogni volta che qualcuno ci twitta «Taci, culona».

L’altro giorno Tim Rice – il paroliere di robetta come “Il re leone” e “Evita”, “Jesus Christ Superstar” e “La bella e la bestia” – ha twittato malinconico: «Tweet oltremodo avvincente sul mio ultimo podcast: 11 like in quattro giorni. Foto del mio cane in treno: quasi settemila like in cinque ore. Il mio prossimo spettacolo sarà: Cani, il musical». Quel che non sa, povero Rice, è che lo spettacolo staccherebbe comunque meno biglietti dei cuoricini che toccherebbero a una qualsivoglia foto gratuita del cane. Perché alzarsi dal divano, comprare un biglietto, seguire una trama, è una brutta fatica.

E noi ormai siamo abituati a stare a riposo, i nostri neuroni sono abituati allo sforzo minimo. Là fuori c’è gente che si sbatte per scrivere libri, spettacoli, canzoni, e per recensirli, e per far leggere a più gente possibile le recensioni, e le interviste ai protagonisti, e le meravigliose idee promozionali che dovrebbero servire a farci alzare il culo e arrivare non dico a un concerto ma almeno allo scaffale di casa dove abbiamo poggiato un libro, e invece no. Invece restiamo sul divano, a mettere un cuoricino al tuo spettacolo, che poi è un cuoricino all’idea di me spettatrice del tuo spettacolo, di me e dei miei impeccabili gusti culturali, di me come sarei in un universo che non è questo, questo in cui cambia l’identità dei proprietari delle stanze dei giochi ma mai l’inerzia delle popolazioni che le abitano.

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per repubblica.it il 26 Aprile 2022.  

[…] L'acquisizione del social da parte dell'uomo più ricco al mondo, Elon Musk, porterà a uno stravolgimento enorme, di cui il miliardario di origine sudafricana ha già ampiamente dato conto: ci saranno algoritmi più aggressivi per moltiplicare le interazioni e totale libertà d'espressione, senza più vincoli o sanzioni. 

Il fatto che pochi minuti dopo l'annuncio dell'acquisto di Twitter di parte di Musk per circa 44 miliardi di dollari, il presidente degli Stati Uniti e il suo predecessore abbiano sentito la necessità di commentare, dà la dimensione del fenomeno, che va oltre gli oltre duecento milioni di utenti in tutto il mondo, un decimo di quelli di Facebook. Joe Biden è "preoccupato dal potere dei social".

Donald Trump ha detto che non tornerà su Twitter, dopo più di un anno di espulsione. Questa è stata la piattaforma su cui si sono scontrati Trump e Biden per due anni, in cui Trump ha attaccato tutti, minacciato il mondo, mosso mercati, silurato ministri, dove è nato il movimento #BlackLivesMatter, quello del #MeToo in difesa delle donne, della Primavera Araba, dell'indignazione all'attacco nazi ai pacifisti di Charlottesville, del giornalismo oltre i giornali, dei debunker scopritori di bufale, la finestra in diretta sul mondo.

Negli anni è diventata la piattaforma che ha provato a contrastare la disinformazione e la manipolazione, ma arrivata a un punto di crisi quando a essere bannato era stato il presidente a capo del Paese più potente al mondo: lui, Trump, il Commander in Tweet, il troll più famoso, prima dell'avvento di Musk.

Era l'8 maggio 2013 quando Trump dal suo account atrealDonaldTrump aveva sbeffeggiato i suoi detrattori: "Scusatemi falliti e odiatori, ma il mio quoziente d'intelligenza è uno dei più alti - e tutti voi lo sapete. Per favore, non sentitevi molti stupidi o insicuri, non è colpa vostra". Da lì, un'ascesa planetaria, fatta di messaggi controversi ("bambini sani vanno dai dottori, prendono un sacco di vaccini, non si sentono bene e cambiano: AUTISMO. Troppi casi!", 28 marzo 2014).

Il body shaming, l'insulto a Arianna Huffington ("è brutta dentro e fuori. Capisco pienamente perché il suo ex marito l'ha lasciata per un uomo, ha preso una buona decisione"), la battaglia ai mulini a vento in stile Don Chischotte ("i mulini sono la più grande minaccia negli Stati all'aquila calva. Ma gli allarmi dei media al 'riscaldamento globale' sono peggio").

E quando aveva lanciato accuse sulla vera origine di Barack Obama ("diamo un'occhiata più da vicino al certificato di nascita, visto che viene indicato come nato in Kenya"), salvo poi promuoversi come uomo di pace: "ogni volta parlo di odiatori e falliti lo faccio grande amore e affetto. Non riescono ad accettare il fatto che sono stati fregati alla nascita". Gli analisti dicono che senza Twitter non ci sarebbe stata la presidenza Trump.

[…] Da ora in poi, con la nuova era Musk, la domanda diventerà un tormentone: Trump tornerà su Twitter? Persone a lui vicine dicono che avrebbe una grande voglia di farlo, ma dipende da come andrà il social personale, Truth, partito tra difficoltà e intoppi tecnologici.

Musk gli lascerà la porta aperta, è la sua nuova sfida, un'operazione marketing di lancio della piattaforma in grande stile. Il ritorno del Commander in Tweet nel pieno della crisi Ucraina e con le elezioni di midterm tra meno di sette mesi, è una tentazione molto forte. E una minaccia per i suoi avversari. Il fight club globale in cui c'è solo una regola: niente regole. Proprio come Musk intende il suo nuovo Twitter.

Altro che meme. La libertà di opinione che Elon Musk vuole difendere su Twitter è soprattutto la sua.  Pietro Minto su L'Inkiesta il 27 Aprile 2022.

Ormai i tweet fanno parte di una filiera mediatica composta da siti di news-Reddit-viralità-Wall Street, essenziale per l’economia contemporanea. Il fondatore della Tesla è stato il primo a sfruttarla (e meglio di tutti) e vuole continuare a farlo, senza il rischio di deplatforming o di impedimenti da parte della SEC

Cosa ne se fa la persona più ricca del mondo di un social network con un numero relativamente piccolo di utenti e una cronica incapacità di generare profitto? È una domanda che si chiedono in molti in queste ore, dopo che Elon Musk si è aggiudicato Twitter per 44 miliardi di dollari al termine di un paio di settimane di proposte, negoziazioni e tweet.

Eppure, nei giorni scorsi, Musk aveva detto pubblicamente di non vedere Twitter «come un modo di fare soldi»: ma allora, che cos’è? Noia da miliardari o l’ennesima presunta mossa strategica di chi sta giocando a scacchi in 3D con i destini del mondo?

La risposta – ammesso che ce ne sia una – la conosce solo l’interessato. A noi poveri mortali e umili utenti del suo feudo non restano che le ipotesi: tra queste, la più probabile (e quella in grado di rispondere a più arcani) ha a che fare con la SEC (la Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense che vigila sulla borsa valori).

Chi conosce le vicende di Elon Musk saprà già che la SEC è un po’ il suo nemico prescelto, il villain della saga. Tutto comincia nell’agosto del 2018, quando il CEO aprì la sua app di Twitter e scrisse urbi et orbi: «Am considering taking Tesla private at $420. Funding secured». Ovvero, Musk disse di voler ritirare la sua Tesla dalla borsa, sborsando 420 dollari per azioni grazie a dei fondi che diceva essere stati “assicurati”.

Fu il panico. Al di là della numerologia simpaticona (420 è un numero caro agli appassionati di marijuana; la stessa Twitter è stata comprata sborsando 54,20 dollari ad azione: le risatone!), un annuncio simile finì per far schizzare le quotazioni dell’azienda, che alla fine di quella giornata erano salite dell’11%, attirando le attenzioni della SEC. Da allora è iniziato un estenuante balletto tra il miliardario e la Commissione, il primo abituato ad annunci infondati su Twitter (con cui è in grado di influenzare il mercato, anche nelle criptovalute), la seconda intenzionata a fermarlo, spesso invano.

Nel corso degli ultimi quattro anni Musk ha dovuto accettare una sorta di “babysitter” per il suo account Twitter, facendo vagliare i suoi tweet prima di inviarli. Misure speciali che non sono bastate a contenere il CEO, la cui potenza finanziaria e mediatica non ha fatto che aumentare dall’inizio della pandemia, grazie a una crescita sorprendente di Tesla.

Ma perché comprarsi Twitter, allora? La spiegazione ufficiale proposta dal suo nuovo proprietario è «per difendere la libertà d’espressione». Potrebbe essere vero, anche se ci permettiamo una piccola correzione: «Per difendere la sua libertà d’espressione». Come ha scritto il commentatore tecnologico Ranjan Roy, infatti, il fine ultimo di Musk potrebbe essere di impedire alla SEC di togliergli l’account Twitter, o di bandirlo come è successo a Donald Trump. Comprare il social per evitare il deplatforming (il processo con cui un utente viene rimosso e bandito dai servizi digitali), quindi.

E se può sembrare assurdo spendere 44 miliardi di dollari per la difesa di un profilo Twitter, val la pena ricordare il peso finanziario e politico che @elonmusk ha per il miliardario e le sue diverse proprietà. È qui, a colpi di tweet, che Musk è diventato “Elon”, il miliardario simpatico (ai più), deciso a salvare il mondo con le auto elettriche di Tesla e a costruirne un altro, su Marte, con i razzi di SpaceX, il tutto mentre scava tunnel con The Boring Company. La filiera mediatica tweet-siti di news-Reddit-viralità-Wall Street è una componente essenziale per l’economia contemporanea, ed è stato Elon Musk a sfruttarla per primo, e meglio.

È lo stesso Roy a notare come sia possibile raccontare l’ascesa in borsa di Tesla (e lo spessore del portafogli di Musk) con un grafico come questo, che mostra la frequenza dei tweet dal profilo del CEO. La crescita dei secondi sembra accompagnare i guadagni dell’imprenditore: 

Nel grafico segnaliamo due picchi notevoli: il primo, a inizio 2013, coincide con un aumento in borsa del 40% per Tesla; il secondo arriva proprio nell’estate del 2018, quella del tweet incriminato, altro periodo di crescita. Da allora Musk non hai smesso di twittare – né di arricchirsi. Alla luce di tutto questo, risulta più chiaro come l’idea che la SEC – il cui processo contro Musk è in corso proprio in questi giorni – possa togliergli tutto questo sia troppo pericolosa per le sorti del miliardario. E non perché non potrebbe più pubblicare meme rubati da Reddit; no, la posta in palio è molto più alta.

Proprio ieri, mentre l’operazione Twitter andava finalmente in porto, Elon Musk, su Twitter, definiva quelli della SEC «pupazzi senza vergogna». E la SEC cosa può fare a questo punto, bandirlo dal suo stesso social network?

Da “il Giornale” il 26 Aprile 2022.  

Contestare sui social il professore-provocatore Alessandro Orsini può comportare di essere banditi dai social per qualche giorno. «Questo è assurdo, era solo una critica politica» commenta il parlamentare di Italia viva Luciano Nobili, bloccato da Twitter finché non ha rimosso il post incriminato. Nobili aveva ritwittato un'immagine cruda diffusa della reporter Francesca Mannocchi dove comparivano corpi carbonizzati a Bucha, tra i quali quello di un bambino. E aveva aggiunto a commento la discussa frase pronunciata da Orsini: «:Meglio i bambini che vivono nella dittatura che sotto le bombe». Il deputato è stato richiamato da Twitter via mail con la contestazione di istigazione alla violenza: «Decisione senza senso, oltretutto erano immagine largamente diffuse» alla fine ha dovuto cedere Nobili"

Alberto Simoni per “La Stampa” il 27 aprile 2022.  

Alec Ross, già consigliere di Obama e al Dipartimento di Stato con Hillary Clinton come consulente per l'innovazione, è abituato a muoversi nella galassia digitale, ne conosce gli anfratti, le zone buie e le potenzialità. 

Quando ha sentito per la prima volta che Elon Musk aveva fatto un'offerta per acquistare Twitter pensava «fosse uno scherzo, di quelli cui Elon ci ha abituati. Ne ha fatti tanti, di cattivo gusto e divertenti». Poi però da fantasia la scalata è diventata realtà: «Ho sentimenti contrastanti», dice al telefono da Bologna dove insegna alla Johns Hopkins University.

Cosa c'è di buono in questa acquisizione?

«Il board di Twitter è in confusione da troppo tempo, quindi ben venga». 

E il rovescio della medaglia

 «Quel che mi preoccupa è da dove viene Elon Musk, una sorta di fraternita maschilista, popolata da miliardari libertari di San Francisco, il mondo di Thiel e della cosiddetta Paypal mafia. Temo che prendano la libertà di parola e la trasformino in un'arma».

Perché? Quali segnali glielo suggeriscono?

«Hanno una mentalità da adolescenti, twittano in quel modo, irriverente, combattivo.

Basta guardare le polemiche con Bill Gates sulle vendite allo scoperto di Tesla. Tutto a ruota libera». 

Ci sono timori sul fatto che l'informazione finisca nelle mani di un solo miliardario. Questo non la colpisce?

«Mi spaventa molto meno rispetto all'approccio adolescenziale. Anche Jeff Bezos è miliardario ma non ci sono problemi con il Washington Post, c'è una responsabilità». 

Quella che mancherà a Musk secondo lei?

«O mancherà a chi lo guiderà per lui». 

Chi saranno?

«Libertari, nel senso di sostenitori di un meccanismo senza regole. Elon ritiene che uno possa dire quello che vuole. Ci saranno persone cacciate dalla piattaforma che torneranno sentendosi tutelati». 

Però Trump, il più illustre degli epurati, ha detto che non riapparirà.

«Più che questo penso ai temi cui la "mafia Paypal" si concentrerà e che attireranno l'attenzione dell'ultradestra repubblicana, il mondo che fa riferimento all'ex presidente».

Quali temi saranno centrali per Musk?

«Tasse e soldi. Lui e Peter Thiel fanno di tutto per evitare di pagare le tasse e mantenere intatto il loro potere economico. E oggi quest' agenda li allinea con l'ala più radicale dei repubblicani. Ho l'impressione che questo porterà Twitter a essere veicolo di questa visione». 

Fra le varie ipotesi si parla anche di un sistema open source, algoritmi accessibili a tutti proprio per garantire la libertà di espressione. Cosa significa?

«Anzitutto, non significa che chiunque potrà avere accesso alle chiavi di Twitter e farsi un social a uso e consumo. Open source significa però che ognuno può capire come rendere un proprio messaggio virale.

Io penso che l'attuale algoritmo di Twitter sia terribile, lo ritengo privo della neutralità necessaria. Su questo mi sento di simpatizzare con Musk. Tuttavia, bisogna capire quale direzione questa open source strategy prenderà».

Come la politica potrebbe esserne influenzata?

«L'avvento di Musk renderà il linguaggio su Twitter molto più abrasivo, irriverente, con un umorismo di basso livello. Il timore è che si creerà un sistema dove rabbia e un certo linguaggio diventeranno dominanti. E questo influenzerà la politica».

Teme per la salute della democrazia?

«Temo che ci sarà una diminuzione della partecipazione attiva e che la nostra politica diventerà su Twitter come un medievale duello di spade. E questo può minacciare la democrazia. Ma c'è un secondo aspetto che la mancanza di regole comporta». 

Quale?

«Assenza di un sistema regolatorio efficace significa consentire ai capitali stranieri di essere usati per influenzare un processo decisionale. Se Musk applica il suo credo di zero censura, zero regolamentazione e zero intermediazioni, allora non avrà alcun problema a consentire a soldi provenienti dall'estero di sbarcare su Twitter, sponsorizzare e spingere alcuni contenuti a scapito di altri nell'interesse del Paese che finanzia tutto ciò». 

Si entra in una dimensione di sicurezza nazionale così

«Assolutamente. È quello fatto dalla Russia attraverso Facebook nel 2016. E allora c'era un pessimo controllo interno e scarsa regolamentazione. Cosa succederebbe invece con Twitter totalmente priva di controlli? Un incubo». 

Musk ha detto di non usare Twitter come nuova fonte di guadagno, ma come «ritorno alla civiltà».  Per questo scopo ha messo sul piatto 44 miliardi di dollari? Tanti per una battaglia di civiltà

«Musk è un maestro nel creare valore per le sue società. L'ha fatto con SpaceX e con Tesla. Credo sia ragionevole pensare che diminuirà la sua esposizione nella nuova compagnia quando sarà riuscito a incrementarne il valore. Non dimentichiamo che l'operazione è legata a finanziamenti con tassi tra 4,5 e 5%. Fra un anno o poco più potrebbe riportare la società in Borsa, con le azioni in rialzo e fare soldi»

DAGONEWS il 27 aprile 2022.

L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk ha fatto scattare l’allarme rosso a Washington. L’amministrazione Biden non vede di buon occhio l’operazione: se l’uomo più ricco del mondo, un geniale pazzoide da sempre su posizioni politicamente scorrette, mette le mani su un social network così “rilevante” tra gli opinion-maker non c’è da dormire sonni tranquilli. 

La Casa bianca ha attivato i suoi legali per mettere a fuoco lo scenario, capire se e quali possano essere i margini di intervento. Tra i democratici c’è chi teme contraccolpi politici, addirittura una minaccia alla sicurezza nazionale. 

Con quali soldi Musk ha comprato Twitter? I 46,5 miliardi sganciati sono così ripartiti: 21 li ha messi Musk di tasca sua, 13 arrivano da prestiti bancari e gli altri 12,5 sono frutto di prestiti ottenuti impegnando le azioni di Tesla. 

Un bel cetriolo per gli istituti, con Morgan Stanley, Bank of America e Barclays in testa, che proprio per questo “scambio” hanno visto le quotazioni di Tesla affondare a Wall Street. I titoli del colosso delle auto elettriche hanno bruciato 110 miliardi di dollari di capitalizzazione. Una goduria per l’amministrazione Biden che, dall’alto della propria ostilità all’affare, non ha apprezzato il sostegno dato dalle banche a Musk. Che il prossimo obiettivo dei democratici sia quello di “punire” Tesla per stangare di sponda gli istituti, a cui lasciare in pancia titoli fortemente svalutati? Ah, saperlo…

(ANSA il 27 aprile 2022) - Elon Musk può ritirarsi dall'offerta a Twitter pagando un miliardo di dollari, una cifra bassa rispetto a quelle tipicamente imposte come 'termination fee' nei leverage buyout. E' quanto emerge dalle comunicazioni alla Sec. Nel caso in cui fosse Twitter a fare un passo indietro per motivi regolamentari o per un'offerta maggiore da un altro potenziale acquirente, la società che cinguetta dovrebbe pagare al patron di Tesla un miliardo.

(ANSA il 27 aprile 2022) - Moody's mette sotto osservazione per un possibile downgrade il rating Ba2 di Twitter in seguito all'acquisizione da parte di Elon Musk. Lo afferma l'agenzia di rating, sottolineando che l'esame riguarda la quota di debito dell'operazione che "risulterà in un materiale indebolimento delle metriche di credito" ma anche le implicazioni di governance.

(ANSA il 27 aprile 2022) - S&P ha messo tutti i rating di Twitter, incluso quello BB+ a lungo termine, sotto esame in vista di un possibile taglio, in scia all'accordo da 44 miliardi di dollari per l'acquisizione da parte di Elon Musk. "L'operazione verrà finanziata con una combinazione di debito e capitale e ci aspettiamo che la leva finanziaria di Twitter aumenti in modo sostanziale al di sopra del limite di 1,5 volte, livello per un downgrade del rating BB+", si legge in una nota. S&P prevede di risolvere il creditWatch, che potrebbe portare a un taglio di diversi notches, "una volta che l'acquisizione si sarà conclusa".

La transazione proposta include l'emissione di 13 miliardi di dollari di nuovo debito da parte di Twitter e un 'margin loan' da 12,5 miliardi a fronte di 62,5 miliardi di dollari in azioni Tesla, a fronte di un debito attuale del gruppo di "soli" 5,29 miliardi di dollari, ricorda S&P. "Prevediamo di raccogliere più informazioni sui dettagli del margin loan ma è possibile che consolideremo il prestito nella struttura del capitale di Twitter e nelle metriche di credito". In ogni caso, indipendentemente dalle modalità di computo del margin loan, "l'ammontare di debito nella struttura di capitale aumenterà significativamente e la leva supererà la soglia di 1,5 volte prevista per l'attuale rating".

L'acquisizione potrebbe dunque "determinare un downgrade multiplo del rating dell'emittente, probabilmente non più alto della categoria 'B'. Secondo S&P la transazione "aumenta" anche "i rischi e le incertezze sui potenziali cambiamenti nella strategia, nella gestione e nella governance". "Attualmente non disponiamo di informazioni sufficienti sulla componente in equity del finanziamento per determinare se Musk avrà il controllo economico o di voto su Twitter", anche appoggiandosi a "un consorzio di investitori".

"Una proprietà di controllo" viene considerata dall'agenzia di rating "un rischio chiave di governance perché l'azionista di controllo potrebbe mettere i suoi interessi al di sopra quelli degli altri stakeholder, inclusi gli obbligazionisti". La risoluzione del CreditWatch comporterà inoltre "una revisione di qualsiasi cambiamento nella strategia, governance come pure composizione del board e dei diritti di voto. Valuteremmo probabilmente una proprietà di controllo - conclude S&P - come un fattore negativo nella valutazione della gestione e della governance della nuova entità".

(ANSA il 27 aprile 2022) - NEW YORK, 26 APR - Tesla affonda a Wall Street. I titoli del colosso delle auto elettriche perdono il 12,18% e bruciano 110 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Il piano da 44 miliardi di dollari di Elon Musk per acquistare Twitter prevede 13 miliardi di debito da alcune delle maggiori istituzioni di Wall Street e 12,5 miliardi di prestito usando come collaterale i titoli Tesla. Musk non ha ancora comunicato nel dettaglio come finanzierà i restanti 21 miliardi in contati, alimentando l'ipotesi che posa dover vendere titoli della casa automobilistica.

Da repubblica.it il 27 aprile 2022.  

Elon Musk ha rivelato in un filing depositato presso la Sec (Securities and Exchange Commission, la Consob italiana) come intende finanziare l'offerta da 43 miliardi di dollari sulla totalità delle azioni Twitter. 

L'imprenditore e fondatore della Tesla ha dichiarato di aver trovato 25,5 miliardi di dollari di finanziamenti coordinati da Morgan Stanley, la banca che lo affianca in questa operazione. Di questi 25,5 miliardi la metà, cioé 12,5 miliardi, sono rappresentati da prestiti a fronte di azioni Tesla date in garanzia e facenti parte del suo pacchetto azionario. Inoltre, Musk finanzierebbe l'offerta con 21 miliardi di dollari di suo patrimonio personale. In totale fanno 46,5 miliardi di dollari e dunque implicitamente è come se Musk avesse rilanciato rispetto al prezzo indicato originariamente.

Il cda di Twitter non ha ancora risposto ufficialmente all'offerta da 43 miliardi di dollari lanciata da Musk ma ha deliberato una poison pill (pillola avvelenata) che impedisce a qualsiasi azionista di salire oltre il 15% del capitale attraverso acquisti sul mercato. Il board di Twitter ha assoldato JP Morgan Chase e Goldman Sachs come advisor per difendersi dalla scalata ostile del geniale imprenditore sudafricano. 

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 27 aprile 2022.

Chi governerà materialmente Twitter, visto che il nuovo proprietario ha già la responsabilità di aziende molto complesse, da Tesla a SpaceX? Come farà il libertario Elon Musk a eliminare i filtri dei contenuti immessi in rete senza ridare spazio alla disinformazione e alle teorie cospirative? E non rischia di essere vulnerabile alle pressioni politiche della Cina visto che la metà del milione di Tesla prodotte annualmente viene dalla fabbrica di Shanghai?

Adesso che Twitter ha abbassato il ponte levatoio, all'uomo più ricco del mondo, che l'ha conquistata, non viene dato il tempo di festeggiare: tutti chiedono cosa ne farà e come la gestirà. 

L'uomo, si sa, è imprevedibile, ama stupire, ma la direzione di marcia è chiara: lui stesso l'ha indicata parlando enfaticamente di difesa intransigente del free speech e aggiungendo che la totale libertà della piazza digitale di Twitter (la rete sociale più influente per l'informazione) «è fondamentale per una democrazia funzionante» e, addirittura, «essenziale per il futuro dell'umanità».

Musk promette dunque di essere un libertario a trazione integrale (precisando di essere per la libertà di parola «che rispetta la legge») ma gli analisti lo pressano: in Borsa c'è nervosismo per le imprese di big tech non più redditizie come un tempo e Twitter è la più vulnerabile. 

E poi la traduzione degli slogan sul free speech in comportamenti concreti non sarà facile. Intanto lui non è il primo a parlare di Twitter come di un'agorà: lo aveva già fatto il Ceo Dick Costolo nel 2013, salvo poi scoprire che la piazza digitale è, in realtà, un'arena zeppa di gladiatori a caccia di attenzione. E che la moderazione della piattaforma, adottata per bloccare falsità e calunnie non può essere liquidata come censura.

In secondo luogo, il free speech va sicuramente difeso, ma il Primo emendamento della Costituzione Usa che lo tutela vieta di porre vincoli solo al governo e ai poteri pubblici, non ai privati che, infatti, spesso impongono riservatezza ai loro dipendenti. Lo sa bene Musk, sempre durissimo coi suoi critici e pronto a licenziare senza pietà i dipendenti «non allineati». 

C'è, poi, il nodo della compatibilità con le nuove regole europee: la rinuncia a eliminare da Twitter i contenuti estremi va in direzione opposta rispetto alle delibere della UE che ritiene le piattaforme responsabili per i rischi che i loro servizi possono rappresentare per i cittadini.

Insomma, come nota persino un suo ammiratore come Jason Miller, consigliere di Trump, Elon Musk potrebbe scoprire che «è più facile mandare uomini su Marte che cambiare la cultura di Twitter». 

Né sarà agevole trovare un modello di business redditizio, come ci si aspetta da un'azienda di Musk: in termini di piattaforma e di diffusione delle notizie, Twitter funziona bene ma perde soldi e ora deve vedersela anche con nuovi concorrenti come TikTok che crescono nel mondo dei social network, togliendo ossigeno a tutti gli altri.

Il fondatore di Tesla sicuramente ha idee valide (più trasparenza con l'algoritmo open source, identità certa per tutti gli utenti, meno dipendenza dalla pubblicità, forse l'iscrizione a pagamento) per rimettere in pista Twitter, ma deve anche stare attento a non farsi distrarre dalle sue attività principali che rimangono l'auto elettrica e lo spazio. 

Stabilirà la rotta e poi affiderà la guida a un delegato. Resterà l'attuale Ceo, Parag Agrawal? Sembra improbabile, visto che Elon ha dichiarato pubblicamente la sua sfiducia nel management attuale, ma lui, come detto, è imprevedibile.

Tornerà il fondatore Jack Dorsey, amico di Musk che ieri lo ha definito il miglior proprietario possibile di Twitter che per lui è «la cosa più vicina a una coscienza globale»? Possibile. 

Le risposte sull'affare Twitter non devono, poi, venire solo da Musk: intanto l'uscita dalla Borsa e la trasformazione della rete sciale in società privata deve essere ratificata dal board uscente della società e autorizzata dalle authority del mercato con le quali Musk ha un pessimo rapporto.

La Casa Bianca per ora tace ma si sa che Biden è preoccupato: teme che l'uomo più ricco del mondo usi Twitter come sua arma politica e ideologica. Un altro dubbio riguarda il comportamento dei 7500 dipendenti, molti dei quali sono dei liberal terrorizzati dall'arrivo di un nuovo padrone assai poco politically correct. 

In passato Facebook e Google sono stati bloccati o, comunque, condizionati dai dipendenti attivisti in rivolta. Infine l'interrogativo sull'atteggiamento di Donald Trump. Ha detto che non tornerà su Twitter anche se la sua messa al bando verrà revocata: meglio puntare sulla sua nuova piattaforma, Truth Social. Che, però, non sta funzionando e attira poco traffico. L'ex presidente pazienterà ancora, ma se la sua rete non dovesse decollare, difficilmente rinuncerà davvero al megafono di Twitter.

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 27 aprile 2022.  

Un anno fa gli studiosi si chiedevano: chi separerà gli umani dai robot? 

Con l'acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, la domanda è cambiata: chi separerà l'auto elettrica da un tweet, un motore Performance da un hashtag, la libertà d'espressione dalla censura cinese? 

Jeff Bezos, per esempio, se lo è chiesto. Oscurato dalla mossa del rivale, il fondatore di Amazon ha gettato un po' di arsenico sull'affare dell'anno. 

Bezos si è chiesto se la Cina adesso farà pressione sulla Tesla di Musk per reprimere quella "libertà di espressione" che il visionario sudafricano si è comprata, offrendo 44 miliardi di dollari per rilevare tutte le azioni della piattaforma social. Il presidente Joe Biden è «preoccupato per il potere dei social». 

[…] Quello cinese è l'Eden industriale di Musk, lì ha costruito la Gigafactory di Shanghai, stabilimento che in Occidente si sarebbe solo sognato: tremila auto prodotte alla settimana, più di 250 mila l'anno. 

Ma se c'è una piattaforma che Pechino non ama è Twitter, bannato dal governo nel 2009. La Cina potrebbe usare il social come canale per le sue comunicazioni di Stato?

[…] Resta la domanda: il troll più celebre al mondo porterà la "libertà d'espressione" anche in Cina o subirà la pressione per non compromettere gli affari? «Il governo cinese - ha commentato Bezos - ha appena guadagnato una leva sulla piazza digitale? ». Musk per ora non risponde alle accuse e si limita a dire: «La violenta reazione di chi teme la libertà di parola la dice tutta».

Nonostante abbia solo 217 milioni di utenti, un decimo del seguito di Facebook, Twitter è considerata molto più influente, perché ci sono tutti i leader politici del mondo e i top manager. Jack Dorsey, il fondatore, ha definito l'accordo con Musk l'unica soluzione in cui crede. «L'obiettivo di creare una piattaforma affidabile e larga - ha aggiunto - è quella giusta». Ma il ceo, Parag Agrawal, ha ammesso: «Nessuno sa davvero quale direzione prenderà il social». 

[…] 

L'idea di impegnare parte dei titoli Tesla per raccogliere 21 miliardi cash da aggiungere ai 23 già raccolti attraverso le banche, ha fatto crollare ulteriormente le azioni, che hanno perso oltre l'11%. In una sola giornata Tesla ha bruciato più di 100 miliardi di dollari di capitalizzazione. 

Dal 4 aprile, giorno in cui Musk ha rivelato di avere acquisito il 9% delle quote della piattaforma social, le azioni Tesla hanno perso il 21% del loro valore. Twitter ieri, a un certo punto, aveva registrato un calo di oltre il 3%, a conferma di come il destino dei due giganti si sia saldato. 

Dagospia il 27 aprile 2022. Dagotraduzione da un articolo di Mick Hume* per il Daily Mail

* Mick Hume è l'autore di "Trigger Warning: La paura di essere offensivi uccide la libertà di parola?" pubblicato da William Collins.

Chi ha paura della libertà di parola? La risposta, se non fosse già abbondantemente chiara, è tutta l'élite liberale e gli ossessionati dalla cancel culture che trattano Twitter come la loro camera d'eco privata. 

Questo è stato, almeno, fino all'inizio di questa settimana, quando Elon Musk si è assicurato un accordo per acquistare il social network per 35 miliardi di sterline e si è impegnato ad aprire il sito per consentire una maggiore libertà di parola.

Ora questi guerrieri della tastiera sono andati in crisi. 

Esperti di sinistra, accademici e celebrità di destra si sono dichiarati terrorizzati dal fatto che l'uomo più ricco del mondo possa osare fare l'impensabile: consentire a chi ha un'opinione anche leggermente diversa dalla propria di esercitare la libertà di espressione online.

Pochi giorni fa, un professore di giornalismo particolarmente esperto della New York University è arrivato al punto di avvertire: «Oggi su Twitter sembra l'ultima sera in un nightclub di Berlino al crepuscolo della Germania di Weimar». 

Un tremante editorialista del Washington Post si è dichiarato "spaventato" perché Musk «sembra credere che sui social media tutto vada bene. Perché la democrazia sopravviva, abbiamo bisogno di più moderazione dei contenuti, non di meno». (Per “'moderazione dei contenuti” leggi “Censura del PC”).

Ma in mezzo a tutto questo lamentarsi, non posso fare a meno di sorridere perché, per chiunque di noi crede nel diritto inalienabile e illimitato alla libertà di parola, questa acquisizione è sicuramente qualcosa da festeggiare con almeno due applausi. 

La verità è che gli isterici avvertimenti di una discesa nel "fascismo" sregolato si riveleranno sicuramente infondati. Musk, che si descrive come un «assolutista della libertà di parola», si è semplicemente impegnato a rivedere le controverse politiche di moderazione dei contenuti di Twitter e a consentire una più ampia diffusione dell'opinione.

Non vi è alcun suggerimento che gli incitamenti a commettere atrocità violente o altri contenuti pericolosi non continueranno a essere regolamentati in modo appropriato. Per i "Twitterati", tuttavia, tali chiarimenti non contano: per loro, le mura della loro cittadella stanno crollando e Musk, in quanto motore di tale cambiamento, rappresenta un'aberrante minaccia alla loro visione del mondo.

In effetti, per troppo tempo una forte minoranza ha trattato con disprezzo la vera libertà di parola, sostenendo le opinioni di sinistra quasi fino alla completa esclusione di altre convinzioni. Incoraggiandosi a vicenda nella loro coccolata bolla di Twitter, sostenuta da potenti algoritmi digitali che alimentano gli utenti con un flusso continuo di contenuti simili, si sono illusi che opinioni diverse sostenute da innumerevoli altri siano simili a "crimini d'odio", che chiunque non sia d'accordo con loro si possa definire allora un nemico del popolo, meritevole di “cancellazione” sociale.

Nel frattempo, i signori di Twitter con sede nella Silicon Valley, hanno rafforzato la loro presa normativa negli ultimi anni su ciò che considerano contenuto accettabile. «La libertà di espressione è un diritto umano: crediamo che tutti abbiano una voce e il diritto di usarla», afferma con orgoglio la "Politica di condotta odiosa" di Twitter.

Lì, nella soleggiata California, uno dei bastioni della sinistra alla moda, la libertà di parola si è trasformata in qualcosa di completamente estraneo: non più un diritto universale, ma un privilegio da concedere solo a coloro che esprimono l'opinione corretta. 

La programmazione di sinistra schiaffeggia qualsiasi tweet non conformista - quasi sempre di un sentimento più di destra - con etichette di avvertimento su "abuso" o "disinformazione" e, come ultima risorsa, blocca persino gli utenti dal sito. 

Il gesto più eclatante è stato il ban, nel gennaio 2021, di Donald Trump, allora presidente in carica degli Stati Uniti, a seguito delle violente rivolte del Campidoglio che è stato accusato di incitare. Molti potrebbero pensare che Trump dovrebbe essere bandito da Twitter, ma non sono d'accordo: devi ricordare che più di 74 milioni di americani hanno recentemente votato per lui.

Ma questo pensiero di gruppo è diventato così radicato che i critici di Musk non riescono a vedere l'ironia della loro opposizione alla sua acquisizione. La loro affermazione che la proprietà di Musk farà cadere Twitter nel fascismo è l'ironia più profonda. 

Perché è solo attraverso la libertà di parola, che Musk sposa, che la democrazia può fiorire – in caso di dubbio, basta dare un'occhiata alla censura dei social media che Vladimir Putin ha imposto per mascherare le sue attività barbare e criminali in Ucraina. 

In verità, quelli di sinistra sono in armi per l'acquisizione perché rischiano di perdere il controllo della conversazione globale su Twitter, forse il social media più potente al mondo.

I Twitterati sono sempre stupiti e indignati ogni volta che il pubblico attuale non è d'accordo con le loro opinioni. Per loro, il referendum dell'UE del 2016 e le elezioni generali del 2019 sono esempi lampanti del tipo "sbagliato" di democrazia in atto. 

Ma ora qualcuno ha osato sfidare tutto questo. Eppure, lungi dall'essere un mostro di estrema destra, in realtà Musk è un personaggio politico complesso: in parte verde, in parte libertario. In fondo è un ingegnere - e un astuto uomo d'affari, che ha guadagnato miliardi dalle sue auto elettriche Tesla e dal suo produttore di veicoli spaziali, SpaceX.

L'acquisizione di Twitter rappresenta un'altra impresa commerciale, ma sembra che voglia anche utilizzarla per migliorare la conversazione globale. «Twitter è diventata di fatto una sorta di piazza cittadina», ha affermato di recente, «quindi è davvero importante che le persone abbiano sia la realtà che la percezione di essere in grado di parlare liberamente, nei limiti della legge». 

Non c'è molto segno di fascismo lì, se me lo chiedi. Solo semplice buon senso e anche buon senso degli affari. In effetti, l'acquisizione di Musk arriva in un momento in cui c'è un possibile respingimento contro il risveglio del dominio del discorso sociale. Il lancio dell'anno scorso di GB News di destra, e questa settimana TalkTV, lo attestano.

Naturalmente, ci sono avvertimenti che dovremmo tenere a mente. In realtà non dovrebbe spettare a nessuna singola azienda Big Tech controllata da miliardari decidere cosa siamo e non siamo autorizzati a dire, ascoltare e vedere, che si tratti della Facebook di Mark Zuckerberg o del Twitter di Elon Musk. 

Ma almeno al valore nominale, le promesse di Musk di una maggiore "trasparenza" ai vertici del social network sembrano autentiche. Dovrebbero anche essere sollevate domande legittime sul suo rapporto aziendale con la Cina comunista e su come ciò potrebbe distorcere il suo atteggiamento nei confronti della libertà di parola. La Cina è il secondo mercato più grande al mondo per le auto Tesla dopo gli Stati Uniti. È anche il luogo in cui vengono prodotte le batterie delle auto.

Il tempo dirà se Musk può rimanere insensibile all'influenza del Drago Rosso. Ma giudichiamolo in base a ciò che fa, non solo a ciò che dice, o a ciò che gli altri potrebbero dire di lui. Per quel che può valere, come collega fondamentalista della libertà di parola, io per primo sono fiducioso. Alla fine, la dura verità sulla libertà di parola è che non tutti coloro che scelgono di pubblicare, pontificare o inveire su Twitter condivideranno le tue stesse opinioni. Ma ciò non dovrebbe mai significare che i loro diritti alla libertà di espressione sono inferiori. 

La nostra democrazia e le nostre libertà si basano su questo, ed è qualcosa che Elon Musk sembra ottenere.

Francesco Santin per tech.everyeye.it il 27 aprile 2022.

Mentre sembra avvicinarsi l’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, proprio sul social network dell’uccellino blu è emersa una interessante e bizzarra conversazione tra Musk e Bill Gates, due multimiliardari da tempo noti anche per le loro posizioni e iniziative di filantropia: cosa si sono detti in privato? 

Su Twitter l’account Whole Mars Catalog ha pubblicato nella giornata del 23 aprile 2022 una serie di screenshot che mostrano alcuni frammenti di una conversazione privata tra i due in merito a delle possibili iniziative coordinate e partnership per filantropia nell’ambito del cambiamento climatico. Dai testi inviati sembrava esserci già un accordo per un incontro; tuttavia, una domanda da parte di Elon Musk ha fatto saltare il tutto. 

Il quesito posto dal CEO di Tesla e SpaceX è piuttosto semplice e riguarda la posizione corta (nel contesto della vendita allo scoperto di azioni, detta altrimenti short selling) di mezzo miliardo di dollari contro Tesla che, Gates ammette di seguito, non ha ancora chiuso. Alla luce di tale risposta, Musk ha risposto come segue: “Scusa, ma non posso prendere sul serio la tua filantropia sul cambiamento climatico quando hai una posizione corta enorme contro Tesla, la società che fa di più per risolvere il cambiamento climatico”.

Whole Mars Catalog ha chiesto a Elon Musk se questa conversazione fosse reale e, a sorpresa, egli ha confermato l’autenticità della chat ribadendo che non è stato lui a diffondere le immagini al New York Times, bensì “amici di amici” le avrebbero condivise una volta ottenute. Il tycoon di origine sudafricana ha poi affermato: “Ho sentito da più persone al TED che Gates aveva ancora mezzo miliardo di short contro Tesla, motivo per cui gliel'ho chiesto, quindi non è esattamente top secret”. 

Nessuna conversazione “compromettente”, quindi, ma che rilancia una storica faida tra i due che dura da qualche anno, tra social network e affermazioni alla stampa. Tra l’altro, anche all’ultimo TED2022 Elon Musk si è lasciato andare contro Twitter, Zuckerberg e SEC.

Da corrierecomunicazioni.it il 5 maggio 2022.

Elon Musk potrebbe rendere Twitter “peggiore”. È il timore avanzato da Bill Gates, cofondatore di Microsoft, nel suo intervento al ceo summit del Wall Street Journal, in cui ha parlato dell’acquisizione da 44 miliardi di dollari su cui il fondatore di Tesla ha raggiunto un accordo con il board del social network, avanzando preoccupazioni sulla crescita della disinformazione che viaggia attraverso le piattaforme online. 

Nel suo intervento Gates si è detto preoccupato dalle motivazioni che potrebbero aver spinto Musk al takeover su Twitter, soprattutto rispetto all’obiettivo di promuovere una non meglio specificata «libertà d’espressione». «Come si comporterebbe di fronte a un contenuto che dice che i vaccini uccidono le persone, o rispetto a chi dice che Bill Gates "traccia" i comportamenti delle persone? – chiede Gates – quali sono i suoi obiettivi, e come si interfacciano con la diffusione di notizie false e di teorie complottistiche? Li renderà mai pubblici?».

Intanto, secondo quanto emerge dalla stampa internazionale, Elon Musk si sarebbe assicurato fondi per 7,14 miliardi di dollari per finanziare la sua scalata a Twitter da un gruppo di investitori che comprendono il cofondatore di Oracle Larry Ellison e Sequoia Capital. Inoltre il principe saudita Alwaleed bin Talal, che inizialmente si era opposto all’operazione, avrebbe accettato di far parte del deal con la propria partecipazione da 1,89 miliardi di dollari. 

Nel frattempo Musk continuerà nei colloqui con i principali azionisti di Twitter, incluso l’ex Ceo Jack Dorsey, per coinvolgerli nell’operazione.

Dal Regno Unito intanto arriva la notizia della decisione del parlamento britannico di invitare Elon Musk per discutere dell’acquisizione multimiliardaria di Twitter: l’iniziativa è stata lanciata da Julian Knight, presidente della commissione dei Comuni che si occupa di digitale e media, con l’intento di porre domande sui piani futuri per il social network riguardo a temi cruciali come la libertà di espressione e la sicurezza degli utenti. Proprio su quest’ultimo punto, il governo di Boris Johnson aveva lanciato un monito a Musk sul modo in cui sarà gestito Twitter.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera - Sette” il 6 maggio 2022.

Nel 2000 Elon Musk pensava già in grande. L’ingegnere 28enne, che aveva abbandonato Stanford e la prospettiva di un dottorato di ricerca per fare l’imprenditore, aveva appena venduto la sua prima start up per 22 milioni di dollari subito reinvestiti — salvo un milione destinato all’acquisto di una supercar — in X.com: il progetto di una banca tutta su Internet con la quale voleva rivoluzionare il sistema finanziario. 

I suoi piani confliggevano, pero, con quelli di un’altra societa, Confinity, che stava andando nella stessa direzione sotto la guida di Peter Thiel, altro giovane genio della finanza innovativa. 

Dopo mesi di guerra sanguinosa, i due stavano esplorando la possibilita di un accordo “con le pistole sul tavolo” per non distruggersi a vicenda. Una mattina di marzo Thiel, raggiungendo Musk a casa sua, nella Silicon Valley, lo trovo intento a curare la McLaren F1 che gli era stata appena consegnata: un bolide d’argento derivato da quelli delle corse, detentore, con 386 chilometri orari, del record di velocita per vetture stradali. 

«Che ci farai mai con questa roba?» chiese Thiel tra l’ironico e lo scettico. «Sali» replico Musk: «E appena arrivata, non la so ancora guidare, ma e una gran macchina, ce ne sono solo 62 nel mondo». Partirono ma dopo poco l’ingegnere con sogni da fanciullo, incapace di governare i 627 cavalli selvaggi del motore, schianto la supercar contro un muro. 

Potevano ammazzarsi e non avremmo mai avuto la rivoluzione dell’auto elettrica imposta da Tesla, i missili e le astronavi di SpaceX, Palantir con le sue segretissime tecnologie per l’intelligence e i militari del Pentagono; forse nemmeno Facebook, di cui Thiel (fondatore di Founders Fund, oltre che di Palantir) diventera negli anni successivi il primo e maggiore finanziatore.

Invece i due uscirono dai rottami malconci ma illesi. E, fondendo le loro attivita, dettero l’avvio, con PayPal, all’era dei pagamenti digitali via Internet: una societa, la loro, in tempesta perenne, ma piena di cervelli febbrili che, dopo l’inevitabile diaspora, creeranno altri grandi protagonisti del web come YouTube, LinkedIn e Yelp. Liti feroci, divorzi, colpi di mano aziendali, non hanno spezzato il filo rosso che lega questi personaggi soprannominati The PayPal Mafia, capaci di cambiare la cultura e il modo di operare delle imprese digitali della Internet economy. 

Thiel dice che Musk e un truffatore ed Elon ricambia sostenendo che Peter e uno psicopatico. Ma, pur essendo personaggi molto diversi (Thiel e un gay introverso, amante della segretezza, impegnato in politica con Trump e altri repubblicani , mentre Musk, plurimaritato con scrittrici, attrici, musiciste, padre di sette figli, e uno che alterna meditazioni solitarie ad esibizioni narcisiste, instabile anche nel rapporto con la politica), i due parlano lingue simili: libertari con tendenze anarchiche e un certo gusto per il surreale, amano lanciare sfide ambiziose.

Qualche settimana fa, dal palco della Bitcoin Conference di Miami, Thiel ha pronosticato l’imminente scomparsa di quella che ha definito la «gerontocrazia del capitalismo finanziario americano». 

Elon ha ambizioni ancora piu vaste: da ingegnere, cerca da tempo di rivoluzionare alcuni aspetti delle nostre vite su vari fronti: la mobilita, con auto elettriche, viaggi nello spazio, trasporto sotterraneo ad alta velocita con la Boring Company e l’hyperloop; l’energia pulita e l’ambiente coi pannelli solari della sua Solar City e le batterie prodotte nelle gigafactory di Tesla; il rapporto dell’uomo con l’intelligenza artificiale col tentativo della sua Neuralink di creare un’interfaccia diretta tra computer e cervello umano, inserendo minuscoli elettrodi nel cranio con tecniche di chirurgia robotica.

Grandi progetti, proiettati su un orizzonte di lungo periodo. Di recente, pero, Musk e diventato un protagonista anche della politica quotidiana: Zelensky lo ha ringraziato perche i minisatelliti della sua rete Starlink mantengono attive in tutta l’Ucraina le connessioni wi-fi a banda larga che consentono di diffondere ovunque immagini e video delle atrocita della guerra scatenata dalla Russia. 

Ora, poi, Twitter nella sua agenda degli acquisti: la rete sociale piu influente per l’informazione e «la cosa piu vicina a una coscienza globale», stando alla definizione del suo fondatore, Jack Dorsey. Una “coscienza globale” di proprieta esclusiva dell’uomo piu ricco del mondo? C’e di che preoccuparsi, anche se non manca chi giudica l’acquisto un fatto positivo, visto l’impegno di Musk a rendere Twitter un’agora totalmente libera e trasparente.

Si torna, cosi, sempre ai giudizi divergenti su Musk, personaggio che affascina e spaventa: volutamente divisivo col suo gusto per l’imprevedibilita, con le prese di posizione che spiazzano, convinto che per fare balzi in avanti bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo e lanciarsi in ragionamenti controintuitivi, anche a costo di prendere cantonate.

La sua capacita di creare e plasmare oggetti affascinanti (la Tesla Model X con gli sportelli ad ala di gabbiano o la scintillante astronave Starship che sembra uscita da un fumetto di fantascienza degli anni Cinquanta), la doppia natura di ingegnere pragmatico e di visionario con progetti che sembrano sogni di un fanciullo (la citta da un milione di abitanti su Marte) e un certo temperamento istrionico, hanno trasformato Musk in un personaggio di culto fin dall’alba delle sue attivita spaziali e automobilistiche. 

Quasi 15 anni fa il registra Jon Favreau si ispiro a lui per il personaggio di Iron Man (interpretato sullo schermo da Robert Downey Jr che si consiglio spesso con Elon, apparso di persona nel secondo film della serie, parzialmente girato nello stabilimento di SpaceX).

Uomo dell’anno 2021 per Time, per altri e solo un megalomane che realizza un decimo di quello che promette e che sfrutta istinti libertari e antipolitica per calpestare le regole, insolentire i governi e non pagare le tasse. Populismo imprenditoriale dopo quello politico?

Lo escludono gli 84 milioni di follower che lo seguono, ammaliati, su Twitter, ma tanti altri disseminano in rete siti specializzati nella misurazione della distanza tra gli impegni presi da Musk e la loro effettiva realizzazione: dall’auto a guida totalmente autonoma da lui promessa entro sei mesi nel gennaio di cinque anni fa (e che ancora non compare all’orizzonte) al tunnel per veicoli ad alta velocita che doveva consentire di andare da New York a Washington, 360 chilometri, in 29 minuti, sparati in un tubo simile a quelli della posta pneumatica: nel luglio 2017 Musk disse di aver avuto l’approvazione di massima dal governo (il progetto non e mai partito ed ora e stato cancellato dai programmi della sua Boring Company).

Ma sul trasporto elettrico Elon ha sconfitto, da solo, lo scetticismo dei big dell’auto costringendo tutti a seguirlo. E nello spazio, dopo aver tentato inutilmente di comprare missili balistici intercontinentali russi dismessi dall’Armata Rossa, ha deciso di costruirli da solo e in pochi anni e riuscito a mandare uomini nello spazio battendo gruppi molto piu esperti ed attrezzati come Boeing e Lockheed e spendendo una frazione dei loro sontuosi budget. 

Chi e davvero questo imprenditore nato in Sud Africa 50 anni fa, bullizzato in eta scolastica, emigrato in Canada e poi negli Usa dove ha creato realta industriali straordinarie gestendo la forza lavoro, e i suoi stessi collaboratori, con una durezza che rasenta la ferocia? 

Vedevamo le sue auto per strada ma lui restava un personaggio lontano, da film. E, come in un film, leggevamo la sua storia umana: il padre violento, la madre che lo portava dall’otorino pensando che fosse sordo quando entrava in trance mentre, gia da piccolo, inseguiva i suoi sogni tecnologici, costruendo razzi che gli esplodevano tra le mani e vendendo il suo primo videogame a 12 anni.

Il racconto di un’infanzia difficile come chiave per comprendere stranezze e asperita del suo carattere. Come l’empatia a singhiozzo, dall’amore sconfinato per la madre Maye, donna di carattere e ancora della sua vita che a 74 anni rimane una modella e un’autrice di successo, alla confessione fatta anni fa, dopo un divorzio, al suo biografo Ashlee Vance: «Non so stare senza una fidanzata, ma ho poco tempo. Quanto bisogna dedicarne a una donna? Cinque ore a settimana? Dieci? Esiste, secondo te, un minimo sindacale? Io non ne ho idea». 

Poi trovo la musicista canadese Grimes con la quale ha avuto un figlio registrato all’anagrafe col nome X AE A-XII e una figlia, Exa Dark Siderael, nata da una gravidanza surrogata. Di nuovo il tempo tiranno: storia finita nell’autunno scorso. 

Da tempo, pero, con la rivolta di Elon contro le direttive anti Covid, con l’abbandono della California statalista e liberal alla quale ha preferito il Texas liberista e socialmente darwiniano, con l’attacco alle politiche economiche di Biden e, ora, con l’offensiva lanciata su Twitter celebrata dai repubblicani come un loro trionfo, anche la percezione pubblica del personaggio e cambiata.

I progressisti che 10 anni fa lo osannavano, ora lo detestano e sono tentati di ridare indietro le loro Tesla socialmente responsabili. I tweet intemperanti, un tempo guardati con indulgenza come lo specchio di deformazioni caratteriali, ora non gli vengono piu perdonati, anche perche lui ne fa un uso spesso brutale: a Bernie Sanders, vecchio leader della sinistra, che invita il governo a far pagare ai miliardari tutte le tasse dovute, Elon replica secco: «Mi ero dimenticato che sei ancora vivo». 

Con la sua crescente presenza nel dibattito politico (dalla bocciatura delle politiche sociali della Casa Bianca alla surreale sfida a duello lanciata a Vladimir Putin), con la volonta di valorizzare sempre piu il suo ruolo di influencer e, ora, con l’acquisto di uno strumento essenziale per l’informazione e il dibattito politico, bisogna anche chiedersi quale ruolo l’imprenditore libertario e liberista vuole giocare rispetto alla claudicante democrazia americana. 

E anche rispetto al capitalismo di Wall Street minacciato di demolizione dai profeti della criptoeconomia e rispetto all’Europa: Musk vuole togliere vincoli e controlli sulle piattaforme proprio mentre Bruxelles decide di considerarle responsabili dei contenuti che vengono postati.

Visionario ma anche pieno di contraddizioni, libertario ma vendicativo con chi lo contesta, contrario agli incentivi finanziari dello Stato ma titolare di imprese che hanno ottenuto parecchi miliardi di contratti e sussidi pubblici, Musk apre nuovi orizzonti, ma deve tenere a bada demoni che rischiano di trasformarlo in una versione digitale del Citizen Kane di Quarto potere. 

Dagospia il 6 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Sul “The New York Times” di oggi, destinato agli abbonati, un articolo pone un’ombra su Elon Musk: ha trascorso i primi 17 anni della sua vita nel Sud Africa dell’ Apartheid - in un sobborgo dove i giornali arrivavano censurati, alla tv passavano l’inno nazionale con i soldati bianchi morti negli scontri con i neri. E’ cresciuto in scuole solo per bianchi, in “comunità segregazioniste”, i compagni ricordano che non aveva amici neri. 

Ai giornalisti del NYT che gli mandano mail per “chiarire” se sarà imparziale come proprietario di Twitter vista la sua formazione da bianco suprematista, non risponde.

Ed è subito giallo: Elon Musk sarà imparziale anche verso le comunità di colore? Gian Paolo Serino 

Dagospia il 6 maggio 2022. Elon Musk ha lasciato un Sudafrica pieno di disinformazione e privilegio bianco. Estratto dell’articolo di John Eligon and Lynsey Chutel per nytimes.com 

L'imminente acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk ha portato molte persone a sondare le sue dichiarazioni pubbliche e il suo passato per trovare indizi su come plasmerà una delle piattaforme pubbliche più influenti del mondo. 

Ma il signor Musk, meglio conosciuto perché possiede le aziende Tesla e SpaceX, non ha parlato molto in pubblico di una parte significativa del suo passato: come possa averlo plasmato il crescere, da bianco, sotto il sistema razzista dell'apartheid in Sudafrica. 

"E' eloquente - i ragazzi bianchi erano isolati dalla dura realtà", dice Terence Beney, un bianco che si è diplomato con Musk alla Pretoria Boys High School nel 1988.

Le interviste con i parenti e gli ex compagni di classe rivelano un'educazione in comunità bianche segregate ed elitarie, disseminate di propaganda governativa anti-nera, e distaccate dalle atrocità che i leader politici bianchi hanno inflitto alla maggioranza nera.

Musk, 50 anni, è cresciuto nel centro economico di Johannesburg, nella capitale esecutiva di Pretoria e nella città costiera di Durban. Le comunità suburbane erano in gran parte avvolte dalla disinformazione. I giornali a volte arrivavano sulla soglia di casa con intere sezioni oscurate e i notiziari notturni finivano con l'inno nazionale e un'immagine della bandiera nazionale che sventolava mentre i nomi dei giovani bianchi che erano stati uccisi combattendo per il governo scorrevano sullo schermo.

"Eravamo davvero sprovveduti come adolescenti bianchi sudafricani. Davvero sprovveduti", ha detto Melanie Cheary, una compagna di classe del signor Musk durante i due anni che ha trascorso alla Bryanston High School nella periferia nord di Johannesburg, dove i neri erano visti raramente, se non al servizio delle famiglie bianche che vivevano in case sontuose. 

Musk ha lasciato il Sudafrica poco dopo il diploma a 17 anni, per andare al college in Canada, senza quasi mai guardarsi indietro. Non ha risposto alle e-mail di richiesta di commento sulla sua infanzia.

Musk ha annunciato il suo acquisto di Twitter come una vittoria per la libertà di parola, dopo aver criticato la piattaforma per la rimozione di messaggi e il divieto degli utenti. Non è chiaro quale ruolo possa aver giocato la sua infanzia - trascorsa in un tempo e in un luogo in cui c'era a malapena un libero scambio di idee e dove la disinformazione del governo era usata per demonizzare i sudafricani neri - in questa decisione. [...]

Pietro Saccò per “Avvenire” il 27 aprile 2022.  

Elon Musk è un genio. Lo è in modo così rumoroso e sfacciato che è impossibile non vederlo. Dei geni ha la capacità di capire prima e meglio degli altri la direzione verso cui va la società. 

Questo talento naturale, combinato a una incredibile determinazione, gli ha permesso di mettere a frutto molte delle sue intuizioni: dal potenziale del digitale (ha incassato i suoi primi 22 milioni di dollari nel 1999, non ancora trentenne, vendendo Zip2, società di guide sul web messa in piedi con il fratello e un amico) al futuro dell'auto elettrica, passando dai pagamenti online con PayPal, i lanci spaziali di SpaceX e il futuristico progetto dei treni velocissimi in tunnel a bassa pressione di Hyperloop.

Dei geni Musk ha anche molti dei tratti più problematici: il comportamento imprevedibile, l'enorme ego, una naturale allergia al rispetto delle regole. Un imprenditore "normale" avrebbe presentato il suo piano per Twitter e quindi avviato la scalata. Invece Musk si prepara a prendere il controllo di uno dei social network più influenti del pianeta con un progetto tutto da decifrare e per questo anche inquietante.

Dice che vuole difendere la «libertà di espressione, che è il fondamento di una democrazia funzionante e Twitter è la piazza cittadina digitale in cui si dibattono questioni vitali per il futuro dell'umanità». Musk arriva a definirsi un «assolutista della libertà di espressione», come ha fatto - sempre su Twitter - spiegando perché anche dopo l'invasione dell'Ucraina non aveva nessuna intenzione di impedire ai media russi di usare i suoi satelliti per diffondere i loro contenuti.

La libertà di espressione che ha in mente Musk sembra coincidere con la libertà di dire qualsiasi cosa si abbia in mente. Anche fare 'body shaming', cioè prendere in giro qualcuno per il suo aspetto. Solo venerdì scorso Musk lo ha fatto con Bill Gates, pubblicando su Twitter una foto del fondatore di Microsoft ("colpevole" di investire contro Tesla mentre parla di lotta al cambiamento climatico) di fianco all'emoticon di un uomo incinto. 

L'immagine era corredata da un commento troppo volgare per essere riportato qui. Quattro anni fa Musk aveva fatto di peggio, dando del "pedofilo" a uno speleologo inglese impegnato nel salvataggio dei ragazzi rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia che lo aveva accusato di volersi fare pubblicità sfruttando l'emergenza.

Lo speleologo lo ha denunciato per diffamazione, Musk ha vinto la causa: dire a qualcuno che è un "pedo guy", ha spiegato ai giudici americani, era un insulto comune nel Sudafrica in cui è cresciuto. 

Altre volte l'imprenditore ha usato la libertà di parola per scopi più materiali: spingere il valore delle criptovalute su cui investe (compreso l'assurdo 'dogecoin') o muovere il titolo Tesla sfruttando la sua influenza su milioni di piccoli investitori fai-da-te che pendono dalle sue labbra. Spesso la Sec, la Consob americana, lo ha richiamato, fino a fargli perdere la presidenza di Tesla, per l'irregolarità di queste comunicazioni.

Musk tende ad essere un assolutista soprattutto della propria libertà di parola. L'Atlantic ha ricordato come in Tesla vigono stringenti misure di riservatezza, sia con i dipendenti che con i clienti. Il geniale imprenditore non è mai stato prodigo di empatia e spiegazioni nei confronti di chi non la vede come lui. È arrivato a rifiutarsi di rispondere alle domande degli analisti, dopo una pessima trimestrale di Tesla nel maggio del 2018, dicendo di essere stanco di interrogazioni «noiose e stupide». 

Nessuno farà domande all'uomo più ricco del mondo sulla sua strategia per Twitter, dal momento che nel piano di Musk il social network lascerà la Borsa, perché lui ne comprerà il 100% e procederà al delisting. A quel punto Twitter Inc, cronicamente in perdita, sarà al riparo dalle pressioni degli investitori desiderosi di dividendi.

Ma allo stesso tempo non sarà tenuta alla trasparenza, non solo contabile, richiesta ad ogni società quotata. Nel frattempo Musk introdurrà alcune delle modifiche che gli sono venute in mente in questi anni di assiduo twittatore. Vuole rendere "aperto" l'algoritmo in base al quale ogni utente vede i tweet nella sua pagina, introdurre il "tasto edit", cioè la possibilità di modificare i tweet una volta pubblicati. 

Progetta l'autenticazione di tutti gli utenti umani, così da ridurre l'influenza dei "bot", gli utenti gestiti da sistemi automatici: una modifica certamente positiva, per quanto tecnicamente complicata. In un altro tweet, ieri, Musk ha chiesto ai suoi più duri detrattori di non lasciare il social network anche quando sarà di sua proprietà: «Questa - ha assicurato - è la libertà di parola»

Lo scherzetto del giudice a Elon Musk. Di cosa non potrà più parlare sul suo Twitter. Il Tempo il 27 aprile 2022.

Un giudice federale di New York ha negato la richiesta di Elon Musk di annullare un accordo di ottobre 2018 con le autorità di regolamentazione dei titoli azionari in cui il miliardario americano e l'azienda di auto elettriche Tesla avevano accettato di pagare 20 milioni di dollari in multe civili per i tweet in cui Musk aveva detto di avere i soldi per privatizzare Tesla. Il finanziamento era lungi dall’essere assicurato e la società di veicoli elettrici rimase pubblica, ma il prezzo delle azioni di Tesla schizzò alle stelle. Per questo Musk e Tesla furono multati. Nell’accordo con la Securities and Exchange Commission (Sec) si stabilì l’estromissione del miliardario come presidente del cda, così come la pre-approvazione dei suoi tweet. L’avvocato di Musk, Alex Spiro, ha sostenuto nelle mozioni presentate al tribunale che la Sec sta calpestando il diritto di Musk alla libertà di parola; specie ora che il miliardario padron di Tesla si appresta ad acquistare per 44 miliardi di dollari il social network.

Ma il giudice Lewis Liman ha negato la sua richiesta di annullare non solo l'accordo, ma anche i mandati di citazione di Musk per cercare informazioni su possibili violazioni del suo accordo con la Securities and Exchange Commission. La Sec sta indagando se il ceo di Tesla ha violato l’accordo con i tweet dello scorso novembre, chiedendo ai follower di Twitter se dovrebbe vendere il 10% delle sue azioni Tesla. Musk aveva chiesto alla corte di cancellare l’accordo, che richiedeva che i suoi tweet fossero approvati da un avvocato di Tesla.

Chi (forse) parte e chi torna: i guai di Twitter nell’era Musk. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2022.   

Anonymous: addio se obbligati a svelarci. Dubbi sul finanziamento dell’operazione. 

Centinaia di migliaia di progressisti che smettono di seguire i loro beniamini su Twitter dove, invece, cresce il seguito di personaggi della destra radicale e trumpiana. Celebrity in rivolta che minacciano di andarsene (ma ben pochi, per ora, lo fanno davvero). Il collettivo Anonymous che lo avverte: «Se ci obblighi a rivelare la nostra identità ce ne andiamo». E, addirittura, il timore di sabotaggi interni da parte di dipendenti di Twitter decisi a opporre una resistenza ideologica al nuovo padrone o infuriati per la vendita della rete sociale a un personaggio abituato a trattare con durezza i suoi dipendenti: la società ha sospeso per alcuni giorni gli aggiornamenti del software, forse proprio per ridurre il rischio di manomissioni dei sistemi. Non è un atterraggio morbido quello di Elon Musk a tre giorni dall’annuncio della sua conquista di Twitter: in molti avevano previsto difficoltà politiche per un imprenditore abilissimo nella produzione industriale manifatturiera ma senza esperienze manageriali nel campo della comunicazione, anche se lui stesso è un grande comunicatore e un influencer di successo.

Il timore

Così come gli analisti avevano espresso il timore che il suo impegno per Twitter, con la necessità di vendere buona parte delle sue azioni Tesla per finanziare l’acquisizione, potesse «cannibalizzare» il titolo automobilistico che è alla base della ricchezza del miliardario. Ma quello che sta accadendo su tutti e due i fronti va al di là delle previsioni più cupe: il titolo Tesla continua a oscillare fortemente, ma sta consolidando una perdita superiore al 10% rispetto ai valori della scorsa settimana. La Reuters ha notato che il calo di martedì sera, riducendo la capitalizzazione di Tesla di ben 126 miliardi di dollari, aveva fatto perdere a Musk 21 miliardi: esattamente la cifra che una settimana fa l’imprenditore si era impegnato a estrarre dal suo patrimonio azionario per finanziare l’acquisizione di Twitter, come risulta dal prospetto da lui presentato alla Sec, l’authority della Borsa americana. Un’acquisizione che potrebbe diventare per lui finanziariamente problematica se l’emorragia borsistica di Tesla dovesse continuare.

L’appello

Quanto a Twitter, nonostante l’appello di Musk che ha invitato tutti gli utenti, anche quelli che non lo amano, a restare, promettendo libertà assoluta di dialogo sulla piattaforma, i primi segnali sono, per lui allarmanti: levate di scudi di personaggi pubblici, da Mia Farrow al leader di Black Lives Matter Shaun King, all’attrice e modella Jameela Jamil, al sindaco di Londra Sadiq Khan mentre la senatrice democratica Elizabeth Warren definisce l’acquisizione di Musk «pericolosa per la democrazia». Molti mal di pancia ma pochi abbandoni effettivi tra le celebrity, anche perché le alternative praticabili non sono molte. Chi minaccia di andarsene davvero è il collettivo di Anonymous: avvertono che «se Twitter imporrà la verifica dell’identità abbandoneremo la rete, come abbiamo già fatto con Facebook». Comprensibile, visto che la ragione d’essere di questi hacker è l’anonimato e un altro problema per Musk che ha annunciato di voler rendere trasparente l’identità di tutti gli utenti. Ma il nodo principale, per lui, è il rischio che, anche al di là della sua volontà, l’acquisizione venga percepita come un’operazione di destra. Le celebrity non se ne vanno ma molti progressisti anonimi sì: Barack Obama, la star più seguita della rete, ha perso 300 mila follower in una notte, ma l’emorragia riguarda anche siti dedicati ai diritti umani, privi di una specifica connotazione politica: perfino quello dell’Auschwitz Memorial ha perso 35 mila iscritti in una notte. Festa grande, invece, a destra anche se Trump, pur elogiando Musk, per ora preferisce restare sulla sua piattaforma, Truth Social: Marjorie Taylor Greene, bandiera dell’ultradestra, ha guadagnato 100 mila follower in poche ore mentre Tucker Carlson, il più seguito dei conduttori conservatori della Fox News ne ha presi 141 mila. E festeggia con un enfatico «We are back», siamo tornati. Ovviamente su Twitter, che considera «riconquistata». Musk può tentare correzioni di rotta ma, per ora, solo a parole: l’acquisizione, che comporta passaggi societari e processi autorizzativi complessi, non andrà in porto prima di sei mesi. 

Chi si nasconde dietro Elon Musk. Riccardo Staglianò su La Repubblica il 26 aprile 2022.   

Elon Musk (in una foto di qualche anno fa ) è nato in Sudafrica nel 1971. È, tra le altre cose, Ceo dell’azienda di auto elettriche Tesla e fondatore e Ceo di SpaceX, il primo vettore spaziale privato (Joe Pugliese/ August/ Contrasto) 

Ha chiamato il sesto figlio X, come i razzi che progetta di mandare su Marte per salvare l'umanità. Inchiesta sull'uomo che chiese al suo biografo: "Ma secondo te, sono matto?"

Scartabellando tra la vita e le opere di Elon Musk, un termine ricorre di frequente. Lo pronuncia il fondatore di Tesla e SpaceX davanti a un'aragosta fritta in inchiostro di calamaro quando chiede serissimo al suo futuro biografo: "Secondo te sono pazzo?". Ne dibatte anche con l'ultima moglie, la musicista precedentemente nota come Grimes, oggi ribattezzata c (il simbolo della velocità della luce), che si definisce "un ibrido tra una fata, una strega e un cyborg": "Sono più pazzo io o sei più pazza tu?". Soprattutto la domanda non è suonata peregrina quando, dopo un improvvido tweet a mercati aperti in cui aveva detto che era pronto a ricomprarsi la sua azienda a 420 dollari ad azione (un numero sinonimo di cannabis, per tutta una serie di fumosi motivi che Wikipedia dettaglia), il titolo prima è stato sospeso per eccesso di rialzo, poi l'autorità di Borsa gli ha fatto due multe da 20 milioni di dollari l'una destituendolo temporaneamente da presidente dell'azienda e infine i suoi consiglieri d'amministrazione gli hanno tolto Twitter per tre mesi. Come a un Trump qualsiasi. Volendo gli esempi potrebbero moltiplicarsi ad infinitum, ma il senso l'avete capito.

Se questo quasi cinquantenne che si interroga circa il suo stato di salute mentale fosse l'artista più quotato del momento, ci sarebbero molti precedenti e nessuno scandalo. Ma si tratta dell'ingegnere, come gli piace definirsi, che ha deciso di rivoluzionare i trasporti privati e trasformare l'umanità in una specie multiplanetaria, apparecchiando su Marte il piano B per la Terra in rovina. Uno, per dirla altrimenti, che deve saper far di calcolo piuttosto bene ché altrimenti auto elettriche e razzi si schiantano. E che, sebbene si siano occasionalmente schiantati entrambi, il più delle volte ci riesce. Tant'è che nel frattempo le Tesla cominciano a essere avvistate anche sulle strade italiane, i razzi partono alla volta della Stazione Spaziale Internazionale al ritmo di una volta al mese e lui, in tutto questo, ha brevemente scalzato Jeff Bezos dal trono di persona più ricca del mondo con un patrimonio personale di quasi 200 miliardi di dollari, il Pil della Nuova Zelanda. Se non proprio scioglierlo, cercheremo almeno di diradare il mistero dell'imprenditore più "visionario" (altro ricorrente anglismo, ormai sdoganato) in circolazione.

Un muro di omertà

Sono anni che provo a intervistare Musk. All'ennesimo tentativo l'ufficio stampa europeo mi disse "vieni intanto a Parigi a provare una Tesla o a vedere le nostre nuove batterie". Non mi buttai a pesce su quella specie di antipasto e non mi rispondono più (Musk ha anche fama di cambiare i portavoce - che bypassa comunicando con i suoi 42 milioni di follower su Twitter - come si fa con i Kleenex durante un'influenza). Ho scritto, tra gli altri, a Adeo Ressi, imprenditore italo-americano che si fregia del titolo di suo miglior amico. A Tom Mueller, ex capo dei lanci di SpaceX. A Kevin Holland, altro suo veterano. A Hamish McKenzie, autore di Insane Mode, un'agiografia muskiana. Niente, zero, nada. Così, oltre alla robusta rassegna stampa che l'uomo ha prodotto, l'unica fonte diretta è Ashlee Vance, giornalista di Bloomberg BusinessWeek e autore di Elon Musk. Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico (Hoepli), un tomo di 380 pagine frutto di oltre 30 ore di interviste che si sono svolte perlopiù durante altrettante cene. È una biografia autorizzata, e ciò ovviamente ne determina il tono (le critiche, per bocca di un paio di accademici, sono affastellate senza convinzione negli ultimi paragrafi), ma si tratta di un libro documentatissimo, ben scritto ed essenziale per la comprensione del personaggio. Chiedo a Vance, che ha una quarantina d'anni ed è in lockdown in Messico, se a Musk il libro sia piaciuto: "Lì per lì sì. Contestò giusto che la Bmw di un viaggio americano l'aveva pagata lui e non il fratello Kimbal e che non era vero che gli ingegneri di SpaceX si lamentassero perché si prendeva tutti i meriti. Lo definì accurato al 95 per cento. Però, man mano che i giornali lo recensivano, l'attitudine cambiò fino a un paio di sue telefonate furiose. Abbiamo interrotto i rapporti per quasi tre anni, fino a una sua mail conciliante di pochi mesi fa".

Ex bimbo bullizzato

D'altronde, avesse avuto una sensibilità più standard, Musk si sarebbe reso conto da solo che non tutti avrebbero preso benissimo alcune sue rivelazioni. Tipo: "Ho sofferto moltissimo (con mio padre). È capace di prendere qualsiasi situazione, per quanto bella possa essere, e renderla brutta" al punto che con la prima moglie hanno proibito ai loro cinque figli (un altro morì neonato) di frequentarlo. Oppure il commiato da Mary Beth Brown, sua assistente per dieci anni, a cui aveva fatto persino gestire l'affido congiunto dei bambini, licenziata in tronco quando aveva chiesto un aumento (da allora se n'è persa ogni traccia digitale). O ancora quando ha candidamente ammesso che gli dà un po' fastidio sapere che la sua prole non avrà un'infanzia dura come la sua, perché crede che "gli abbia fruttato riserve aggiuntive di energia e forza di volontà". Che è come constatare che il lager, quando non ti uccide, ti fortifica.

Dunque: turbo-riassunto dell'Elon infante. Nasce a Pretoria, in Sudafrica, il 28 giugno 1971 da madre modella e dietologa e padre ingegnere e imprenditore immobiliare, che divorzieranno presto. Smanetta col computer Vic-20 e gioca a Dungeons & Dragons, passatempi ben noti alla generazione del cronista. Non fa sport e legge l'Encyclopedia Britannica, gran topos, sempre un po' sospetto, sul conto di geni precoci. Risultato: lo bullizzano pesantemente, fino a rompergli il setto nasale spingendolo giù dalle scale di scuola. Emigra in Canada per il college. Poi Università di Pennsylvania per economia e fisica. Nel '94, alba internettiana, fa due stage in Silicon Valley e capisce che è lì che deve stare. Lo prendono a Stanford per il dottorato ma lascia subito per fondare Zip2, un sistema di annunci su mappe ante-Google Maps (gli varrà 22 milioni) e poi X.com, che diventerà Paypal (165 milioni è la sua quota quando eBay la rileva). Con questo peculio, dopo averne speso un milione per una delle 62 McLaren al mondo, può dedicarsi al suo vero interesse: colonizzare Marte, dove i terrestri si potranno rifugiare quando il clima sarà definitivamente impazzito. Nel 2002, con 100 milioni di dollari propri, fonda SpaceX.

Autodidatta dello Spazio

Ora, mandare uomini nello Spazio è il benchmark internazionale per indicare qualcosa di tremendamente difficile. Musk è un autodidatta che però studia come un matto. Assume gli ingegneri migliori (uno di loro: "Faceva così tante domande da imparare il 90 per cento di quel che sapevi tu"). Chiama il primo razzo Falcon 1, in onore dell'astronave Millennium Falcon di Guerre stellari, il che sembra consolidare la reputazione di ragazzone a sviluppo interrotto. Però realizza anche sistemi di avionica, la dotazione informatica che sui razzi non costava mai meno di 10 milioni di dollari, per soli 10 mila. In questa terra di mezzo tra infantilismo e raziocinio prospera l'uomo. Quando gli dicono che è impossibile utilizzare la saldatura ad attrito sui razzi, dimostra che è vero il contrario. E quando Jeff Bezos gli scippa il prezioso specialista che sa realizzarla la prende così bene da ribattezzare la concorrente Blue Origin "BO",  slang per body odor, odore di sudore.

Dismessi gli shuttle, la Nasa gli affida, con una commessa miliardaria che dividerà con Boeing, la missione di portare gli astronauti in orbita. Niente più ammarraggi, promette, e nel dicembre 2015 riesce a far atterrare un Falcon 9 nel deserto. Solo razzi riutilizzabili, se vogliamo rendere le missioni spaziali più abbordabili. In attesa di prendere a bordo i primi turisti spaziali. Ogni tanto un razzo esplode ma l'anno scorso, con la missione Demo-2, la sua è stata la prima azienda privata a far arrivare sano e salvo un equipaggio umano sulla Stazione Spaziale Internazionale. Sin qui ci sono riusciti in tre: l'America, la Russia e lui. Già che si trovava nell'atmosfera gli è venuta l'idea di Starlink (in verità l'ha rubata a uno che gliel'aveva raccontata, ma non sottilizziamo), ovvero una serie di satelliti a bassa orbita (costo sui 10 miliardi) per dare accesso a internet in ogni zona del mondo.

E-Car: è vera gloria?

Tornando con i piedi per terra, per così dire, se dici Musk pensi subito a Tesla, ma né il nome (un omaggio a quel Nikola, pioniere del motore elettrico) né il prototipo della vettura sono suoi. L'azienda la fondano nel 2003 Martin Eberhard e Marc Tarpenning. Musk ci investe quasi sette milioni di dollari e inizia la sua scalata che finirà con l'estromissione degli altri. L'ostacolo gigantesco, per un'auto con più accelerazione di una Ferrari e originariamente composta all'80 per cento da batterie (ora sono un terzo del peso totale), è dissipare il calore prodotto senza farle esplodere. Il primo modello, la Roadster, costa 100 mila dollari, con 400 chilometri di autonomia. Genera buona stampa, ma scarso fatturato. Nel 2012 arriva il Model S, una berlina che fa quasi 500 chilometri e ha un doppio bagagliaio perché il motore è grande come un'anguria e sta tra le ruote posteriori. Altri dettagli: portiere ad ala di falco (immensamente più complesse di quelle ad ala di gabbiano perché una volta sollevate si ricompattano sopra il tetto). Un sistema operativo che viene aggiornato a distanza, come quello dei cellulari. L'avventata promessa di poterla ricaricare gratuitamente nelle stazioni Tesla. Motor Trend la nomina all'unanimità Auto dell'anno. Poi è Consumer Reports ad assegnarle 99 su 100, il punteggio più alto nella sua storia. Temendo di non poterla battere, Daimler Benz e Toyota comprano quote dell'azienda (10 e 2,5 per cento).

"Il campo unificato"

Nel 2015 esce il Model X, un suv. L'anno dopo Musk acquisisce SolarCity, il primo installatore di pannelli solari d'America. Ed entra in attività la Gigafactory in Nevada, la più grande fabbrica di batterie elettriche al mondo. Ormai si delinea ciò che il biografo Vance chiama la "teoria del campo unificato di Musk". Vale a dire: "Tesla produce gruppi batteria che SolarCity può poi vendere ai clienti finali. SolarCity fornisce i pannelli solari alle stazioni di ricarica Tesla, permettendo a queste ultime di offrire ai clienti la ricarica gratuita. I nuovi acquirenti di Model S scelgono spesso di convertirsi allo 'stile di vita Musk' e installano pannelli solari sul tetto di casa".

Tutto, almeno nella sua testa, si tiene. La Model 3 (che, se il marchio non fosse già stato registrato da Ford, lui voleva chiamare E per poter dire che l'acronimo dei tre modelli faceva SEX) è la berlina da 35 mila dollari con cui Musk vuol conquistare il ceto medio globale ambientalmente avvertito. L'entusiasmo per le prime 500 mila prenotazioni viene seppellito da una tempesta perfetta di sfighe produttive. Ritardi. Guasti. E almeno due grossi richiami dal mercato del modello precedente. Gli short sellers, investitori specializzati nel vendere allo scoperto azioni di aziende di cui prevedono il fallimento, sentono l'odore del sangue. Tesla diventa il titolo più shortato del mondo. Musk combatte come un leone. Compra azioni proprie con 25 milioni di soldi suoi per farne salire il valore. Litiga via social con gli assalitori. Resiste.

Ma c'è chi dice no

Tra gli speculatori convinti che l'uomo sia un mezzo bluff c'è Aaron Greenspan. Laureato in economia, vive a San Francisco sviluppando software e investendo in Borsa, sino a Tesla con profitto. Accetta di parlarmi previa lettura di un esposto da 138 pagine che ha presentato contro Musk. Dice: "Tesla è la più grande truffa finanziaria di sempre, i cui strabilianti risultati esistono solo nei racconti del suo amministratore delegato. Per cominciare: quante auto vende? Nessuno lo sa perché l'azienda parla di 'consegnè e non di 'vendite'. E i soldi li fa, più che altro, vendendo crediti verdi alle altre compagnie automobilistiche a benzina o diesel". In realtà numeri delle vendite esistono. Mentre è vero che Tesla ha incassato oltre 350 milioni di dollari vendendo crediti a chi, per legge, doveva sdebitarsi per l'inquinamento prodotto (per non dire degli altri 295 milioni intascati in due anni sempre come crediti per veicoli a emissioni zero in contropartita di un progetto di sostituzione gratuita di batterie mai partito). La pista che convince di meno Greenspan è quella della presunta instabilità mentale: "L'aver fumato uno spinello in diretta radiofonica non è stato un incidente, ma una manovra di pr perfettamente riuscita. Sino a pochi giorni prima tutti parlavano della sua grottesca accusa ('pedofilo') a un soccorritore britannico di quella squadra di ragazzini thailandesi rimasta intrappolata in una grotta. È bastata una canna per farla sparire dai tg!".

Ha più dubbi John Markoff, per decenni corrispondente tecnologico del New York Times, quello citato in Essere digitali di Nicholas Negroponte ("Perché non posso pagare solo per i suoi pezzi?"): "Alla presentazione losangelina di Do You Trust This Computer?, un documentario sui rischi dell'intelligenza artificiale che Musk aveva finanziato, il produttore dovette salire sul palco e scortarlo giù perché diceva cose incoerenti. Un momento imbarazzantissimo". Era il periodo in cui, come Musk racconterà in un'intervista più volte interrotta dalla lacrime, "non uscivo dalla fabbrica anche per 3-4 giorni di seguito, a scapito del rapporto con i miei figli e i miei amici". E parla uno noto per aver fissato la soglia del dolore da super-lavoro sopra le 80 ore settimanali ("piuttosto gestibili"), descrivendo l'aumento "non lineare" della pressione quando si avvicina alle 120 ("insano"). Per dormire trangugia Ambien, un popolare sedativo.

Chiedo a Markoff, che sta lavorando a un librone su Stewart Brand, il tecnologo che detiene il copyright dello Stay Hungry attribuito a Steve Jobs, quale sia la reputazione di Musk nella Valle ora che le cose sembrano andargli benone: "Paradossalmente peggiore di una volta, per aver più volte minacciato di spostare la sede in Texas sebbene la California l'abbia finanziato con oltre un miliardo di dollari. Per non dire del miliardo e tre versati dal Nevada per attrarre la fabbrica di batterie. Per un totale di circa 5 miliardi, tra prestiti e detrazioni, intascati durante l'amministrazione Obama. Se ti dichiari libertario, uno che per cui meno Stato c'è meglio è, ci fai una figura da ipocrita". Tanto più se, come membro di spicco della cosiddetta Paypal Mafia, assieme al famigerato Peter Thiel, forse l'unico imprenditore tecnologico trumpiano, hai fatto parte nell'ampiamente schifato gabinetto di consulenti dell'ex presidente.

Che cos'ha nel cervello

La vera preoccupazione di Markoff - la cui testa mentre parliamo via Zoom galleggia sullo sfondo virtuale di un laghetto - riguarda Neuralink, l'interfaccia uomo-macchina su cui Musk ha messo al lavoro un centinaio di neuroscienziati. Si tratta di elettrodi da 4 o 6 micron da impiantare nel cervello attraverso una chirurgia robotica, con lo scopo di favorire la simbiosi con i computer: "Musk immagina che ci permetterà di comandare meglio le macchine, io temo che, semmai, ci renderà comandabili".

L'ultima citazione, nella costellazione di idee apparentemente folli in cui è impegnato, va a HyperLoop, un sistema di trasporto a induzione magnetica all'interno di tubi a bassa pressione. Una specie di posta pneumatica per esseri umani a 1.200 km/h che consentirebbe di andare da Roma a Milano in meno di mezz'ora. Sette-otto anni fa un tripudio di rendering, prototipi, una compagnia ad hoc chiamata The Boring Company. Boring vuol dire  "scavare tunnel" ma anche "noioso", e nella testa di Musk deve aver prevalso la seconda accezione. Concorda Vance: "Se ne son perse le tracce. Non ho prove che stia scavando da qualche parte, sebbene un paio di startup si siano appassionate all'idea. Forse, banalmente, non è una sfida sufficiente per uno che si misura con Marte". Che te ne importa di rivoluzionare qui e ora il pendolariato di milioni di persone, moltiplicando per sei la velocità dei treni, quando l'unica stazione che ti interessa è quella spaziale? Questo è l'uomo, nel bene e nel male.

Casa e famiglia

L'analfabeta sentimentale che, al primo incontro con la futura seconda moglie, l'attrice ventenne Talulah Riley, le proporrà, con inconsapevole parafrasi alleniana, di farle vedere la sua collezione di razzi ("Ero scettica, ma mi mostrò davvero i video dei razzi"). E che, quando si lasceranno, confiderà i rovelli logistici al biografo ("Devo trovarmi una ragazza. Ecco perché devo riuscire a ritagliarmi un po' di tempo. Forse altre cinque o dieci ore... quanto tempo vuole una donna ogni settimana? Qual è il minimo sindacale? Non saprei"). E tuttavia, nei suoi brevi ma intensi periodi da scapolo, avrebbe avuto una relazione con Amber Heard, sposata con Johnny Depp (che poi l'ha svillaneggiato chiamandolo Mollusk), se non addirittura - stando ai tabloid - "una cosa a tre con lei e la sua amica Cara Delevingne". Per avere alcuni tratti da Asperger ad alto funzionamento ha detto cose sorprendenti, tipo questa a Rolling Stone: "Se non sono innamorato, se non sto con una compagna stabile, non posso essere felice". Una recente intervista con Maureen Dowd, über-firma del New York Times, è stata titolata "Decollando in una beatitudine domestica". Proprio a segnalare la quiete, con Tesla che da sola vale (inspiegabilmente in un anno in cui pochissimi han pensato di rinnovare il parco auto) più delle sei principali aziende automobilistiche messe assieme, dopo anni di tempesta. Cosa fa Musk, nei chirurgici ritagli di tempo? Guarda anime, ascolta audiolibri e podcast. La regola numero uno che ha imposto all'intera famiglia è presa dalla Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams: "Niente panico". Mentre il suo comandamento personale resta che "se le montagne russe quotidiane non sono incredibilmente spaventose, allora sto sbagliando qualcosa". Quando si dice il savoir vivre.

A maggio scorso gli è nato il sesto figlio, che all'anagrafe va per X Æ A-12 (il dittongo, in lingua elfica, starebbe per AI, intelligenza artificiale, oltre che per "amore" in giapponese. Mentre A-12 allude all'Archangel-12, l'aereo da ricognizione della Cia che lui e signora prediligono). In casa però l'abbreviano in X. E sorprende il riferimento all'intelligenza artificiale, dal momento che il papà è il principale sostenitore del rischio che si trasformi in un "dittatore immortale" (a chi gli obietta che esagera ribatte con la battuta dei Monthy Python: "Nessuno si aspettava l'Inquisizione").

Il signore dei meme

A Dowd, che chiude l'intervista con una specie di questionario di Proust, ha risposto "è probabilmente vero" alla domanda se "preferirebbe essere un signore dei meme che un milionario". In realtà lo è già. Un suo soffio provoca tsunami internettiani. Una sillaba e la Borsa si imbizzarrisce. Durante la vicenda GameStop, in cui legioni di piccoli investitori hanno sfidato speculatori allo scoperto, è bastato un suo onomatopeico cinguettìo ("Gamestonk"), interpretato come sostegno alla causa dell'azienda sotto attacco, per far crescere le azioni di un ulteriore 157 per cento ("Una bolla che produce un altra bolla" è stata la più perfida ma acuta battuta).

Sempre a gennaio l'invito a "usare Signal" aveva fatto lievitare il valore di un titolo omonimo che non c'entrava niente con l'applicazione di messaggistica. Da ultimo l'aver reso noto di aver comprato Bitcoin per 1,5 miliardi di dollari, annunciando che li accetterà come pagamento per le Tesla, ha fatto superare inediti record alla criptovaluta. Non pago, ha dichiarato di aver comprato un bel po' di Dogecoin, altri soldi virtuali ispirati a meme sui cani giapponesi shiba inu, come dote per l'ultimogenito, augurandosi che diventino la "valuta di internet" (risultato: +16 per cento). Tutto questo amore per le criptomonete, oltre ad avallare strumenti speculativi che economisti come Nouriel Roubini vedono come il male assoluto, fa esplodere anche l'ennesima contraddizione sulla sua strombazzata preoccupazione per il Pianeta, dal momento che i computer che servono per crearle assorbono lo 0,56% del fabbisogno elettrico mondiale.

Eccolo il libertario sussidiato, l'autistico romantico, l'ambientalista energivoro. "Non ci sono, sulla Terra, problemi più pressanti di Marte?" provoca uno dei rari critici nella biografia citata. Mi risponde Vance: "Certo, ma è un'obiezione che potremo fare a tanti: a ognuno interessa ciò che accende lui, non un altro". Arriva a ipotizzare che Musk abbia messo in piedi tutto questo circo per combattere la sua "profonda insicurezza, una tendenza all'auto-sabotaggio" con radici profonde. A lui ha confidato: "Mi piacerebbe morire su Marte" per poi aggiungere spiritosamente "ma non al momento dell'impatto. Idealmente vorrei andare a visitarlo, tornare qui per un po' e poi andare lassù quando avrò settant'anni o giù di lì, e restarci". Mogli e figli "probabilmente resterebbero sulla Terra". A meno che, di qui ad allora, non abbia trovato una soluzione a questo pendolariato interstellare dell'amore. Sul Venerdì del 26 febbraio 2021

La guerra dei follower tra Dem e conservatori: ma tutti temono Trump. Stefano Magni su Inside Over l'1 maggio 2022.

L’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, l’affare del secolo da 44 miliardi di dollari, sta provocando un terremoto politico. Negli Usa, soprattutto, i Democratici perdono seguito, i Repubblicani lo guadagnano. Ma entrambi (anche i Repubblicani) temono il ritorno di Donald Trump, bannato a vita dal social network.

Il travaso dei follower

La conquista di un seguito maggiore è stata quantificata da diverse inchieste. Non sono numeri da poco. Usa Today che ha tracciato il flusso in entrata e in uscita dei followers in entrambi i partiti, ha contato centinaia di migliaia di nuovi utenti che seguono esponenti del Grand Old Party (Gop) e decine di migliaia che hanno smesso di seguire il Partito Democratico. Si tratta di un fenomeno molto diffuso: il 72% dei profili Twitter dei Repubblicani ha aumentato il numero di followers in appena 24 ore, dal 25 al 26 aprile, non appena è stata battuta la notizia dell’acquisto del social network da parte di Elon Musk. Mentre quasi tutti i profili dei membri del Congresso del Partito Democratico, 268 su 270, ne hanno persi.

Secondo un’altra inchiesta condotta dalla rivista Economist al Senato, i senatori democratici hanno perso, in media lo 0,2% dei loro followers, quelli repubblicani hanno guadagnato lo 0,8%. E questo, sempre e solo nelle prime 24 ore dopo l’annuncio dell’acquisto da parte di Elon Musk.

Questo flusso di utenti funziona quasi come un flusso di voti. Chi votava Democratico, soprattutto in tempi di grande polarizzazione, difficilmente si reca alle urne per votare Repubblicano, il più delle volte sta a casa. Le elezioni, in una democrazia matura, vengono vinte da chi riesce a mobilitare la propria minoranza e spingerla ad andare al voto. Così succede anche sui social network, secondo l’analisi di Usa Today i nuovi followers dei Repubblicani sono nuovi utenti, gente che prima del 25 aprile non aveva Twitter, o l’aveva chiuso perché, magari, considerava quel social troppo sbilanciato a sinistra. La perdita di followers dei Democratici, al contrario, è costituita da gente che ha disattivato adesso il proprio account, al grido (digitale) di #LeavingTwitter. Non solo americani: anche la tedesca Carola Rackete ha tenuto a dichiarare su Twitter che si è stancata di Twitter, soprattutto dopo l’acquisto da parte di Elon Musk.

I numeri di cui si parla sono molto grandi: in un solo giorno, Jim Jordan (deputato repubblicano dell’Ohio, trumpiano di ferro) ha guadagnato quasi 64mila followers, Marjorie Taylor Greene (oggetto di controversie perché ritenuta vicina alla setta QAnon) ne ha presi quasi 52mila, Ted Cruz (senatore del Texas, ex candidato presidenziale, lanciato dal Tea Party) più di 50mila. Non si traducono in voti, ma in una maggior cassa di risonanza. Perdono decisamente i Democratici: Nancy Pelosi (speaker della Camera) ne ha persi più di 14mila ed Elizabeth Warren (ex candidata presidenziale) più di 13mila. Bernie Sanders, socialista, ex candidato presidenziale (battuto da Biden alle primarie), ben 21mila.

Come si nota dai numeri e dai nomi, sono chiaramente di più le persone che hanno aperto un nuovo account Twitter rispetto a quelle che lo hanno chiuso. Poi: sono coinvolti nel fenomeno, in negativo o in positivo, i personaggi più in vista, vuoi perché sono oggetto di polemiche, come Jim Jordan e Marjorie Taylor Greene, o perché più importanti come carica istituzionale, come Nancy Pelosi, o perché lanciati nel grande pubblico per le loro campagne presidenziali, come Cruz, Warren e Sanders. Ma un aspetto, soprattutto, li caratterizza tutti: sono figure altamente polarizzanti, o si amano o si odiano. Per questo i loro seguiti sono pronti ad aprire o chiudere il loro account sul social network se solo pensano che prenderà una piega diversa.

L’ambiguità della sinistra

C’è da chiedersi, però, perché c’è proprio questo cambio di pubblico al cambio di proprietà? Elon Musk è un imprenditore impegnato nella produzione di auto elettriche e nella corsa allo spazio, non è un politico, non è neppure detto che voti repubblicano. Elizabeth Warren ne fa una questione sociale ed economica: “Un miliardario, il cui reddito netto stimato è 10 volte maggiore rispetto all’inizio della pandemia, sta per avere il potere di decidere come milioni di persone possono comunicare fra loro. È un pericolo per la nostra democrazia avere così tanto potere in così poche mani”. Anche la stessa amministrazione Biden, pur non commentando direttamente l’acquisto, esprime preoccupazione “per il potere dei social”. Adesso, sì, ma quando lo stesso Twitter veniva accusato dai Repubblicani di censurare solo i profili dei conservatori, non c’erano altrettante preoccupazioni. E se c’era una condizione di quasi monopolio nelle mani di Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp, Oculus e Giphy), perché la sinistra non ha fatto altrettanto chiasso?

La preoccupazione, paradossalmente, è che Elon Musk promette più libertà di espressione su Twitter: “Ho investito in Twitter dal momento che credo nel suo potenziale di piattaforma per la libertà di espressione in tutto il mondo e credo che la libertà di parola sia un imperativo sociale in una democrazia funzionante”. Se la libertà di espressione era una priorità dei liberal ai tempi delle contestazioni studentesche, negli anni Sessanta, ora è difeso quasi solo dai conservatori. Per i liberal di nuova generazione, soprattutto se studenti o docenti, la libertà di espressione è solo sinonimo di: fake news, insulti alle minoranze (tutte: razziali, etniche, sessuali, di genere o con disabilità).

Soprattutto, quel che ogni liberal teme è che Trump torni su Twitter e si prenda di nuovo tutta l’attenzione del mondo, lo stesso scenario che gli aveva permesso di vincere a sorpresa nel 2016, pur avendo contro tutti i media tradizionali. Anche funzionari dell’amministrazione Biden stanno seguendo con grande attenzione gli sviluppi della vicenda Twitter, temendo questo scenario, anche se Trump stesso smentisce, per ora, di voler tornare a “cinguettare” sul social network.

Paradossalmente, anche molti Repubblicani temono il rientro dell’ex presidente. Come alcuni di loro confidano alla rivista Politico, “Se fossi un Democratico, pregherei perché Elon Musk riporti Trump su Twitter”, perché: “Sarebbe abbastanza da creare grattacapi e probabilmente ci costerebbe anche qualche seggio”. Un altro anonimo politico repubblicano spiega anche che Trump, tornando su Twitter avrebbe “il più grande microfono del mondo. Può trarne molto di buono, ma anche molto di cattivo. Renderebbe sicuramente più difficile la vita politica di ogni membro del Gop”.

Da notare anche che, nel flusso di followers, i Repubblicani che guadagnano di più sono quelli più vicini a Trump, quantomeno non ostili a lui: tutti coloro che avevano un seguito che si sentiva discriminato da un social network troppo liberal. Trump sarebbe un problema, invece, per quei conservatori e moderati che vorrebbero liberarsi della sua pesante eredità. Sarebbero costretti a inseguirne i toni, a sostenere o ribattere (sempre a loro rischio) tutte le polemiche quotidiane che l’ex presidente è in grado di creare con le sue poche, lapidarie, provocatorie, parole affidate al mare del Web.

Il ritorno di Trump su Twitter spaventa di più i repubblicani. MATTEO MUZIO su Il Domani il 27 aprile 2022

L’ipotesi (per ora remota) del ritorno dell’ex presidente sulla piattaforma appena acquistata da Elon Musk è stata vista come una minaccia per i democratici di Joe Biden. Al momento però sta creando più problemi al suo partito, sempre più diviso.

In un’intervista al magazine Politico, un membro anonimo della leadership ha detto: «Se fossi un democratico, pregherei per il ritorno di Trump su Twitter». 

Il diretto interessato Trump ha dichiarato a Fox News che non intende tornare su Twitter, che resterà sulla sua applicazione Truth Social, lanciata lo scorso 21 febbraio.

Quando Elon Musk ha annunciato l’acquisto di Twitter per 44 miliardi di dollari, alcuni osservatori hanno posto l’attenzione sull’approccio libertario del tycoon di origine sudafricana alla “moderazione dei contenuti”. Avrebbe nuovamente liberalizzato gli insulti, anche su base etnica o sessuale? E la diffusione di fake news? Soprattutto, avrebbe nuovamente consentito a Donald Trump di tornare sulla piattaforma? Apriti cielo! I democratici, tra cui l’ex segretario al lavoro dell’amministrazione Clinton, Robert Reich, hanno definito questa nuova piattaforma “un incubo”. Per chi sarebbe però l’incubo? Per i repubblicani, probabilmente.

Non facciamoci trarre in inganno dal tweet inviato dall’account ufficiale del gruppo parlamentare alla Camera dei rappresentanti che il 25 aprile ha taggato il nuovo proprietario per chiedergli di “liberare” l’ex presidente. Nell’account del Senato, invece, si trova soltanto un retweet della senatrice Marsha Blackburn del Tennessee: afferma che il fatto che Musk sia per la libertà di parola è “una bella cosa”, ma niente altro.

IL PASTICCIO

Il ricordo va agli ultimi giorni di utilizzo dell’ex presidente, poco prima del ballottaggio in Georgia per due seggi del Senato, quando il suo protagonismo assoluto ha attirato su di sé l’attenzione, togliendo ai due repubblicani uscenti David Perdue e Kelly Loeffler un argomento forte nei confronti degli elettori: togliamo a Joe Biden la maggioranza al Senato per impedirgli di portare avanti il suo programma “radicale”. Non si poteva perché avrebbe voluto dire mettersi in contrasto con Trump, che riteneva quelle elezioni “rubate”. Insomma, un gran pasticcio che ha generato l’esile maggioranza di cui ancora dispone l’attuale presidente.

In un’intervista al magazine Politico, un membro anonimo della leadership ha detto: «Se fossi un democratico, pregherei per il ritorno di Trump su Twitter». Argomentando il punto, il politico senza nome ha continuato sostenendo che «ciò eleverebbe di nuovo le opinioni di Trump a notizia e i candidati repubblicani dovrebbero nuovamente rispondere di questo. Potrebbe costarci qualche seggio».

Non si sa ancora se e quando le nuove policy promosse da Elon Musk verranno implementate: al di là delle dichiarazioni di circostanza su quanto sia brutta la censura e il ban definitivo delle persone dalla piattaforma, non dovrebbero discostarsi di molto da quelle attuali. Inoltre, il diretto interessato Trump ha dichiarato a Fox News che non intende tornare su Twitter, che resterà sulla sua applicazione Truth Social, lanciata lo scorso 21 febbraio e che ora il suo ex social media preferito è diventato “noioso”.

UN EX PRESIDENTE POCO CREDIBILE

Peccato per due punti: la parola di Trump è assai poco credibile, tanto per gli avversari come per gli alleati, e la sua creatura, per la quale ha convinto l’ex deputato californiano Devin Nunes a lasciare il congresso per diventarne amministratore delegato, non sta andando affatto bene. Non soltanto perché è aperta solo agli utenti americani, ma anche perché gli utenti attivi quotidiani sono soltanto 513mila, poco meno degli abitanti del Wyoming, contro i 217 milioni di Twitter.

E anche l’ex presidente la usa poco: dopo un post iniziale a febbraio, non ha postato più nulla. La tentazione di tornare al centro dell’attenzione però potrebbe essere troppo forte, non solo per gli 88 milioni di follower che tornerebbe a informare direttamente, ma perché sarebbe il modo più facile per tornare sulla cresta dell’onda. Nonostante, oltre a Truth, ci siano altre tre piattaforme che hanno chiesto all’ex presidente di aprire un account: Gab, Parler e Gettr. Tutte e tre però non lo hanno convinto. Verrebbe da dire perché non ci sarebbero progressisti da “far arrabbiare”. Al Congresso però temono di tornare al 2017, quando Trump twittava qualcosa di molto forte la mattina e loro dovevano rispondere delle sue opinioni nel pomeriggio, lasciando poco spazio alle loro proposte costruttive.

Non che in un’elezione di metà mandato siano importanti, ma di certo aiuterebbe le fragilissime prospettive di Joe Biden l’aver a che fare con l’unico politico molto più impopolare di lui, che regalerebbe un argomento facile all’amministrazione: volete tornare al caos di Trump? Per di più, il leader repubblicano alla Camera Kevin McCarthy, che aspetta di diventare speaker da moltissimo tempo, si trova a dover fronteggiare le rivelazioni del New York Times di giovedì scorso: in un’intercettazione successiva all’assalto al Campidoglio dello scorso 6 gennaio, avrebbe cercato di far dimettere l’allora presidente insieme a colei che è diventata un nemico numero del mondo nazional-conservatore: la deputata del Wyoming Liz Cheney, avversaria strenua di Trump. Inutili quindi le visite mensili nella residenza di Mar-a-Lago per tenere buoni rapporti con il vecchio presidente. Due sostenitori del trumpismo come Marjorie Taylor Greene e Matt Gaetz hanno già annunciato che faranno mancare il loro appoggio a McCarthy qualora dovessero vincere nuovamente una maggioranza. In sintesi, Trump non è ancora tornato e già sta creando problemi. Soprattutto però ai repubblicani, che già pregustavano il trionfo elettorale il prossimo novembre. MATTEO MUZIO

Mattia Feltri per “la Stampa” il 28 aprile 2022.  

L'apprensione planetaria per l'acquisto di Twitter da parte di Elon Musk dimostra che il problema non è Elon Musk. Il quale è uno screanzato, un incontinente verbale e con lui, dicono, il social rischia di diventare una caienna più di quanto già lo sia, e siccome pare voglia riammettere il cancellato account di un monello peggio di lui, Donald Trump, l'apprensione lievita e ci si chiede che ne sarà della libertà di parola.

Non ho idea dei progetti di Musk su Twitter, ma ho un'idea sul mondo online, ancora incompreso e ingovernato. Lasciare che un social da qualche centinaio di milioni di iscritti sia gestito al capriccio del proprietario, è un approccio preistorico. Come ha spesso spiegato Luciano Floridi, le categorie novecentesche del privato e del pubblico non funzionano più: Twitter sarà pure di Musk, e di certo non può essere statalizzato, ma Musk non lo può gestire al modo in cui un barista gestisce il bar. 

Bisogna mettersi lì, avere un pensiero nuovo per leggi nuove in un mondo nuovo, mentre in un mondo nuovo continuiamo a pensare leggi vecchie. L'Ue ne ha per esempio progettata una che attribuisce la responsabilità di tutto quello che si scrive sui social all'azionista, come se fosse il direttore di un quotidiano.

Così uno come Musk, visto il livello di teppismo, rischia di ritrovarsi migliaia di cause al giorno, per non dire della meraviglia che se io sostenessi su Twitter che Musk è un pedofilo, Musk dovrebbe querelare sé stesso. Il problema non è Musk, il problema è lasciare tutto com' è, finché un giorno Twitter, o Facebook o Instagram, dovesse comprarseli il primo Putin che passa. 

Dagospia il 28 aprile 2022. ROB BESCHIZZA suboingboing.net.

Le azioni di Tesla sono scese del 20% in una settimana, cancellando circa 125 miliardi di dollari dal valore dell'azienda poiché il suo CEO Elon Musk ha invece lavorato al suo piano donchisciottesco per acquistare Twitter. Poiché l'accordo che ha concluso dipende dal mantenimento del valore di Tesla, un ulteriore calo lo metterà in pericolo. 

243 miliardi di dollari. Questo è quanto vale Musk, che possiede il 21% di Tesla ma ha impegnato più della metà della sua quota come garanzia di prestito, secondo Forbes . Il cofondatore di PayPal è cresciuto in Sud Africa prima di frequentare l'Università della Pennsylvania come studente trasferito. 

Nonostante il crollo delle azioni di Tesla martedì, Musk rimane di gran lunga la persona più ricca del mondo. Il fondatore e presidente di Amazon Jeff Bezos è quello che si avvicina di più , con un patrimonio netto di $ 166 miliardi. 

"Non crediamo che questa offerta su Twitter si tradurrà in una vendita importante delle azioni Tesla di Musk", ha detto l'analista di Wedbush Dan Ives in una nota di venerdì, ipotizzando che le azioni sarebbero invece state impegnate per prestiti. "Non vediamo alcun rischio da questa situazione di Twitter che influisca sulle azioni di Tesla o sul focus di Musk".

L'acquisizione di Twitter da parte di Musk sembra non piacere a nessuno tranne che agli utenti di Twitter di destra, meno di tutti i lavoratori o gli investitori a seconda della stabilità e della capacità di concentrazione di Musk. Ci sono altri motivi per pensare che l'accordo sia condannato, come il continuo trolling di Musk su Twitter e l'ingenuità della sua retorica sulla libertà di parola di fronte a ostacoli inamovibili come le politiche dell'App Store di Apple e le norme sulla privacy dell'UE.  

Da corrieredellosport.it il 28 aprile 2022.

Elon Musk pronto ad acquistare Coca-Cola. O almeno così ha scritto su Twitter, diventato di recente di sua proprietà, con un commento ironico: "Ora voglio acquistare Coca-Cola, per rimettere la cocaina nella bevanda”. Parole che richiamano un documento storico pubblicato dal National Institute of Drug Abuse. A quanto pare la cocaina era legale nel 1885 quando John Pemberton, un farmacista di Atlanta, produsse per la prima volta l’iconica bevanda. Pare che la ricetta originale, cambiata poi agli inizi del 1900, contenesse un estratto di cocaina ottenuto dalle foglie di coca. 

Da tag43.it il 28 aprile 2022.  

Perché Elon Musk ha deciso di comprare per 44 miliardi di dollari Twitter? La domanda è più che lecita, visto che il social è a malapena redditizio e Musk è pronto a sborsare otto miliardi in più del suo prezzo di mercato. Secondo il giornalista francese Olivier Lascar, autore di Indagine su Elon Musk: l’uomo che sfida la scienza (Alisio Science, in uscita a giugno in Francia), l’uomo più ricco del mondo acquistando Twitter ha messo le mani su uno «strumento di influenza» fondamentale per i suoi business. 

Una mossa che non stupisce. «Musk», spiega Lascar a France Info, «è un bambino digitale. Vent’anni fa creò la banca online X.com che si è fusa per trasformarsi in Paypal. Vendendo Paypal ha guadagnato i milioni necessari per fondare SpaceX. Con Twitter ritorna al suo primo amore». Oggi il patron di Tesla è alla guida di aziende tecnologiche che fanno discutere.

È il caso di Neuralink che sta sviluppando un chip per mettere in comunicazione le funzioni cerebrali degli esseri umani con l’intelligenza artificiale. Già nel mirino per maltrattamenti animali, al momento non può svolgere esperimenti su cervelli umani sani. «Elon Musk avrebbe quindi quasi bisogno di leggi ad hoc», sottolinea Lascar. «Uno strumento come Twitter può essere utile per influenzare la politica». E per trovare gli amici giusti.

Musk si è presentato come paladino della libertà di espressione, anche se la sua concezione di libertà va presa con le molle. In SpaceX per esempio solo lui o il suo vice hanno diritto di parola. E in passato ha bloccato utenti che su Twitter criticavano le sue imprese. 

Più che libertà di espressione, quella che ha Musk ha in testa è la libertà di dire tutto ciò che si vuole senza regole o limitazioni, fa notare Lascar. Per questo si può ipotizzare con la nuova gestione un ritorno sul social, dopo due anni di ban, di Donald Trump. Al momento resta una ipotesi. Il Tycoon non si è detto interessato, anche se molto dipenderà da The Truth, il social dell’ex presidente che al momento si sta rivelando un fallimento. Senza contare il richiamo esercitato dalla guerra in Ucraina e soprattutto dall’avvicinarsi delle Midterm.

Una cosa è certa: Musk gli lascerà la porta aperta. Intanto a festeggiare l’acquisizione ci ha pensato il governatore della Florida Ron De Santis, repubblicano rampante che mira alle Presidenziali del 2024. Lo stesso che dopo aver varato la legge “don’t say gay” nelle scuole, ha dichiarato guerra alla Disney contraria al provvedimento ora saluta Musk come un liberatore. 

Twitter per Trump e Musk è da sempre croce e delizia. Insieme i due hanno pubblicato oltre 72 mila post sebbene abbiano criticato a più riprese il social perché poco liberale. Se Trump è stato bandito nel gennaio 2020 per aver contribuito a scatenare con un tweet l’assalto del Campidoglio, a seguito di un tweet su Tesla nel 2018 Musk è finito nei guai con la Sec, l’autorità di Borsa americana, per turbativa di mercato. «Uso i miei tweet per esprimere la mia personalità. Alcune persone lo fanno con i capelli. Io uso Twitter», commentò lui dopo aver perso la causa. 

Ma la passione per i cinguettii non è l’unico elemento in comune tra i due. Il patron di Tesla entrò a far parte del comitato consultivo strategico creato dal Tycoon. Un impegno che però si è rivelato mediaticamente un boomerang visto che il suo coinvolgimento a fianco dell’allora presidente è stato interpretato come professione di trumpismo. Nonostante Musk abbia sempre cercato di evitare le etichette. 

Come ha riportato Newsweek è stato un donatore sia dei repubblicani sia dei democratici, definendosi sempre un moderato. L’unico candidato alla presidenza che ha apertamente appoggiato è stato Andrew Yang, imprenditore e filantropo fondatore dell’organizzazione non-profit Venture for America, che dopo il fallimento alle primarie dem del 2020 ha provato, ugualmente senza successo, a correre come sindaco di New York.

La verità è che Musk accettò di lavorare con Trump sperando di influenzarlo. «Più voci ragionevoli sente meglio è», spiegò. «Attaccarlo non porterà a nulla, meglio ci siano canali di comunicazione aperti».  La distanza tra i due però è cresciuta con la decisione di Trump di ritirare gli Usa dall’Accordo sul clima di Parigi. «Il cambiamento climatico è reale», twittò il patron di Tesla. 

«Lasciare Parigi non fa bene all’America o al mondo». In un’intervista con Rolling Stone nel novembre 2017, Musk disse di considerare il Climate Change «la più grande minaccia che l’umanità dovrà affrontare in questo secolo». A riavvicinarli è stata la pandemia. O, meglio, la critica alla gestione del Covid. Quando a maggio 2020 la contea di Alameda in California entrò in lockdown, Musk sfidò l’ordine di chiusura nello stabilimento Tesla di Fremont. Un’alzata di testa che incassò il sostegno pubblico di Trump. Del resto entrambi lottano contro le ingerenze del governo nella vita dei cittadini.

Poco importa che si tratti di vaccinazioni, chiusure, o dell’obbligo di utilizzare le mascherine. Trump dal canto suo non ha mai nascosto la sua simpatia per Musk definito in una intervista alla CNBC «uno dei nostri grandi geni». Non a caso da presidente ha sostenuto indirettamente Space X, snobbando il progetto Nasa di realizzare una stazione spaziale orbitante intorno alla Luna. The Donald si disse interessato solo a un ritorno degli astronauti sul satellite. E guarda caso Musk stava e sta lavorando alla costruzione di un veicolo in grado di portare l’uomo non solo sulla Luna ma pure su Marte.

Chi ha paura della lotta all'anonimato? Francesco Maria Del Vigo il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Chi ha paura del nuovo Twitter? Molti, almeno a giudicare dalle reazioni scomposte.

Chi ha paura del nuovo Twitter? Molti, almeno a giudicare dalle reazioni scomposte. Elon Musk non ha ancora messo le mani sul social network più influente nel mondo dell'informazione, ma c'è già chi ha iniziato a tremare. Anche se, in realtà, nessuno sa precisamente che cosa intenda fare il numero uno di Tesla con il sito di microblogging. Stando alle sue parole, anzi ai suoi tweet, quella di Musk si preannuncia come una potentissima iniezione di libertà.

Talmente potente da aver già mandato in tilt parte dell'opinione pubblica, specialmente quella orientata verso sinistra che ha vissuto l'acquisto di Musk come se fosse l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin. L'imprenditore, un po' folle e visionario, ha messo i suoi stivali da cowboy sul tavolino del salotto dell'elite più radical e più chic. E, anche se non dovesse tornare a cinguettare Donald Trump in carne ed ossa, le sorprese per gli alfieri del politicamente corretto sono dietro l'angolo e sono in molti a temere che l'overdose libertaria trasformi Twitter un far west.

Una delle poche certezze della nuova gestione è la guerra senza esclusione di colpi agli account finti, ai bot. Cioè i profili che non rispondono all'identità di una persona. Non è cosa di poco conto e ce ne sono milioni, destinati ai più disparati utilizzi. Le shit storm e gli attacchi più violenti e beceri spesso partono proprio da profili anonimi, dietro i quali si nascondono intelligenze artificiali o cretini, ahinoi, molto reali. Intere battaglie e campagne politiche hanno avuto al centro squadracce digitali tanto virtuali quanto dannose, sia in Italia che negli Stati Uniti, dove il social network di Jack Dorsey, pur non essendo la rete con il maggior numero di iscritti, ha un ruolo nodale nel dibattito pubblico. Ed è proprio questo il motivo principale che ha spinto l'inventore di SpaceX a comprarlo. Combattere ed eliminare i bot - ammesso che sia tecnicamente possibile farlo - ridisegna il paesaggio stesso delle reti sociali e ridefinisce i pesi in campo.

E, bisogna ammetterlo, è anche un atto politico.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it l'1 maggio 2022.

 Così Musk smaschera la sinistra illiberale

Negli ultimi anni, la società si è più spostata a destra o a sinistra? Politici, politologi, sondaggisti e giornalisti (un po' meno gli elettori, non così preoccupati della questione) se lo chiedono spesso. La risposta non è facile. Servirebbero decine di saggi, convegni, congressi, inchieste Oppure si potrebbe tentare di riassumere la questione, in tempi in cui un'immagine pesa come mille parole, con un disegnino.  

Quello che ha fatto Elon Musk, imprenditore con azioni in pasta in compagnie varie, dalla aerospaziale SpaceX alla casa automobilistica Tesla, da PayPal a Twitter. Che si è appena comprato. Per battezzare la nuova avventura l'uomo più ricco del pianeta (secondo le stime di Forbes) ha postato una vignetta che visualizza lo spostamento dell'asse destra-sinistra su tre piani temporali: 2008, 2012 e 2021. 

Un omino, che rappresenta lo stesso Musk, è sempre fermo nel medesimo punto, ma nel 2008 è equidistante fra il centro e l'area liberal; nel 2012 la sinistra scivola sempre più a sinistra, lasciandolo al centro; mentre nel 2021 la sinistra è così scivolata sul crinale della cancel culture, dell'ideologia Woke, le proteste Black Lives Matter, ideologia gender e varie battaglie ultraprogressiste, da lasciarlo indietro, lontanissimo, vicino alla casa dei conservatori... 

La didascalia non c'è, ma sarebbe questa: «Non sono io a essere diventato di destra, è la sinistra che è diventata troppo di sinistra». Il disegnino ovviamente non vuol essere un trattato sociologico, ma una provocazione (in realtà negli ultimi anni, pensando a Donald Trump e Ocasio-Cortez negli Usa, o a Salvini e certi «dem» putiniani in Italia, la polarizzazione è cresciuta pericolosamente in entrambe le direzioni).

 C'è da dire, poi, che qui da noi della vignetta se ne erano accorti in pochi, fino a quando - ieri - non è stata rilanciata da Matteo Renzi, uno che infatti in pochi anni, senza cambiare posizione su nulla, da politico di centrosinistra ormai è percepito quasi di centrodestra. Comunque, di fronte al disegnino la sinistra, sia negli Stati Uniti sia da noi, si è infuriata oltre i limiti, dando prova esattamente della deriva illiberale a cui l'ha inchiodata Musk.

 A riprova che il miliardario sudafricano-canadese-statunitense (forse un po' troppo pragmatico, ma non stupido) ha saputo cogliere meglio di tanti intellettuali la trasformazione in atto nella società. E anche l'efficace sintesi di cui, a volte, è capace Twitter.

Twitter, Elon Musk fa impazzire la sinistra Usa. Benedetta Frucci su Il Tempo l'1 maggio 2022.

La sua colpa? Una policy basata sull’assoluta libertà di espressione, annessa alla certificazione dell’identità del profilo degli utenti: liberi di esprimersi ma assumendosene la responsabilità. E in effetti in una democrazia la libertà si associa sempre alla responsabilità individuale e alla fiducia che lo Stato ha nel cittadino. L’opposto di ciò che propaganda ormai da anni la sinistra radicale Usa. Una sinistra che si fa chiamare liberal, ma che di liberale non ha assolutamente nulla. Sono i cultori della cancel culture, della censura, delle statue abbattute e dei libri bruciati nei cortili delle scuole. Un paradosso che un movimento così sia nato e abbia preso piede negli Usa, la terra della libertà, ma tant’è.

Per capire la misura del fenomeno, basta pensare che l’amministrazione Biden, proprio pochi giorni dopo l’acquisto di Twitter da parte del magnate, ha assegnato a una figura ultra liberal come quella di Nina Jankowicz il ruolo di guidare una sorta di ministero della disinformazione, che suona molto simile all’orwelliano Ministero della Verità. Un caso? Comunque sia, il tema che pone Musk, che si dichiara lontano dall’estrema sinistra come dall’estrema destra, é un tema su cui vale la pena aprire una riflessione anche qui, in Europa e in Italia. Una riflessione che riguarda in primis la libertà di espressione, che dovrebbe essere sempre garantita in una democrazia.

Come combattere le fake news? La risposta liberale è combatterle con l’informazione, non con la censura. I fatti dimostrano che questo atteggiamento funziona, tanto più se associato alla certificazione dell’identità dell’utente, così da fermare il proliferare dei bot. Prendiamo l’esempio dei vaccini: nonostante lo spazio mediatico dato ai no vax, gli italiani si sono vaccinati in massa. Ma Musk nei suoi cinguettii offre anche uno spunto di riflessione su ciò che è accaduto alla sinistra in questi anni e lo fa postando uno schema che mostra come la sinistra sia corsa sempre più verso gli estremi e l’elettorato di centro si sia avvicinato per questo apparentemente ai conservatori, pur restando fermo sulle proprie posizioni moderate. Questo non significa che anche la destra non si sia spostata su posizioni più estreme, come nell’era trumpiana o nel caso dei sovranismi europei. Ma che sulla libertà di espressione, la sinistra abbia voltato faccia. E negli Usa, l’ha fatto anche per ciò che riguarda la libera iniziativa economica. In America non sono abituati infatti a una sinistra statalista, caratteristica della sinistra europea.

Questo spostamento traslato in Italia è evidente su più fronti. Da un lato, nell’abbraccio del Pd con il M5S, dall’altro, nelle posizioni ultraliberal - espressione fuorviante, meglio traducibile con ultraprogressismo - assunte da un pezzo dei dem italiani, come per esempio in occasione del Ddl Zan che, lungi dal limitarsi a tutelare la comunità omosessuale, introduceva nei fatti un meccanismo di censura. Soprattutto quello schema pone un interrogativo essenziale alla sinistra su dove voglia andare. Tornare al riformismo alla Blair o spostarsi sul radicalismo alla Sanders, alla Melenchon, alla Corbyn? Certo è che le elezioni si vincono ancora al centro e che quello che appare oggi agli occhi dell’elettore moderato è un pericoloso ibrido fra il radicalismo di vecchie teorie economiche stataliste, rappresentate dalla onnipresente proposta di una patrimoniale e il radicalismo liberal censorio americano.

Elon Musk e il paradosso della sinistra: i compagni chiedono a Twitter più censura. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 29 aprile 2022.

Per farsi un'idea sul carattere di Elon Musk c'è un sistema comodo: basta rileggere quanto successe quando venne trascinato in una causa per diffamazione da un inglese cui aveva dato del pedofilo nel corso di una lite. Per cavarsela in tribunale il miliardario nato a Pretoria tenne un discorso memorabile. E vinse, riuscendo a far digerire al giudice la teoria che in Sud Africa, dove è nato, un po' tutti danno del violentatore di bambini al prossimo, così, per burla. D'altra parte per l'imprenditore - oggi trasferito negli Usa - quel processo rappresentava una questione di principio, visto che da tempo si definisce un «assolutista del pensiero libero». E ora che si è comprato Twitter per 44 miliardi ha annunciato che adotterà questo metro per governare il suo social network (non certo il più popolare, ma sicuramente quello più usato dalla politica).

Tutti liberi, anche di andare nettamente sopra le righe, purché - sia chiaro - lo si faccia mettendoci la faccia. «Il limite deve essere solo la legge. Censurare qualcuno andando oltre ciò che è legale significherebbe andare contro il volere popolare», ha spiegato Musk.

Detto in altri termini, per chi non fosse pratico di questo mondo virtuale, oggi su Twitter chiunque può spacciarsi per il Mahatma Gandhi o per Topolino e andare a insultare chi gli pare - dal Dalai Lama a Minnie - rischiando solo che, dopo lunghe procedure, qualcuno dall'alto intervenga per cancellare il messaggio. Il che non sempre avviene. La rivoluzione di Musk è questa: lui vorrebbe lasciare anche che questo caos continui, purché chi scrive lo faccia a volto scoperto affrontando le eventuali conseguenze.

Un obiettivo che potrebbe apparire logico, ma non per tutti è così.

Da Cate Blanchett a Carola Rackete passando per Beppe Severgnini, migliaia di volti noti - praticamente tutti orientati a sinistra - si sono scagliati contro la «crociata per il pensiero libero di Musk». «Se pensiero libero vuol dire libertà di insultare, diffamare, minacciare e mentire (in forma anonima, of course), o di sovvertire la democrazia (come ha provato a fare Trump), allora non ci interessa più, caro Musk», ha scritto Severgnini. I Democratici Usa sono arrivati a rinfacciargli il suo patrimonio (come se Mark Zuckerberg, proprietario del colosso Face book -Wh atsapp - fosse un indigente). Altri semplicemente lo definiscono «pericoloso per la democrazia». Twitter infatti aveva cacciato Donald Trump, cosa farebbe oggi Musk? Lo lascerebbe parlare? Molto probabilmente sì. E questo è «pericoloso».

Tanti sembrano essere convinti che la soluzione per smontare tesi errate (o presunte tali) sia oscurarle. O che un social network possa e addirittura debba decidere a chi concedere diritto di parola e chi è dannoso per la società. Musk ieri ha ribadito di ritenere vero l'opresse) posto, come l'esperienza insegna: «Truth (ovvero il social creato dalla Trump Media & Technology Group per aggirare i divieti) esiste perché Twitter ha censurato il pensiero libero». In altre parole, chi pensava di risolvere la questione con un cartellino rosso ha sbagliato i conti.

In questo momento, sembra bizzarro, ma Musk si trova in mezzo al tiro incrociato dei pensatori di sinistra di mezzo mondo perché condanna la censura a 360 gradi. Il che è curioso anche per un altro dettaglio. Parliamo del patron di Space X, il progetto per portare i ricchi in vacanza nello spazio. Qualcuno ha provato a fare delle stime: pare che le sue navicelle rilascino nella nostra atmosfera fino a 100 volte più CO2 per passeggero rispetto a quella di un volo intercontinentale. Inquina come una centrale a carbone e lo fa per gioco. Non per questo finisce sotto accusa da parte di presunti ultra-ambientalisti come la Rackete - anzi pare che a nessuno freghi nulla - ma perché critica i censori. Forse il problema non è oscurare le idee altrui, ma di averne di sensate. «Spero che anche i miei peggiori critici rimangano su Twitter, perché questo significa libertà di parola», ha detto Musk. Lezioni.

Libertà, ricchezza, genio: tutto quello che la sinistra odia di Musk. Andrea Indini il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Chi è davvero Elon Musk? Lo si può definire un anarcolibertario. La difesa della libertà è diventata una sua crociata. E questo fa infuriare la sinistra che non lo vuole a capo di Twitter.

Dice di essere progressista sui diritti civili e conservatore su quelli fiscali. Ama definirsi socialista. "Solo non il tipo che sposta le risorse dalla più produttiva alla meno produttiva, fingendo di fare del bene, mentre in realtà causa danni. Il vero socialismo cerca il massimo bene per tutti". I suoi detrattori, invece, non lo definiscono: si limitano ad attaccarlo aspramente e a bollare la sua filosofia di vita, le cui radici affondano nei romanzi scritti da J.R.R. Tolkien, Isaac Asimov e William Golding, col termine muskismo. Un neologismo (ovviamente dispregiativo) che sicuramente richiama il populismo e altri ismi con cui i progressisti si riempiono la bocca.

Non è facile inquadrare Elon Musk. Forse perché con i suoi eccessi, le sparate e i successi non lascia mai indifferenti: o piace o no, non c'è un'emoticon mediana per definirlo. E così, se volessimo proprio buttarci in questo esercizio che lascia il tempo che trova e tentassimo di racchiuderlo in una casella politica (il ché è praticamente impossibile visto il personaggio) potremmo azzardarci a definirlo libertario. Un ultrà delle libertà portate all'eccesso che sconfina nell'anarchia. Un anarcolibertario, dunque. Ma anche così saremmo lontanissimi dal capire il soggetto. Certo è che tutto quello che lui incarna urta profondamente i nervi di progressisti, liberal, dem, radical chic e via dicendo.

La lista di quello che intravedono in lui e che disprezzano è davvero lunga. Perché, pur essendo seduto su una montagna d'oro del valore monstre di mille miliardi e pur potendo gestire un patrimonio personale di quasi 270 miliardi (cento in più di Jeff Bezos), non è affatto il prototipo del liberal della Silicon Valley. Non sposa le campagne buoniste, le devasta a suon di tweet. Non cavalca i cambiamenti climatici per invocare un ritorno all'età della pietra, investe sul green su quattro ruote e ci fa soldi (tanti soldi). Non difende le minoranze e il politicamente corretto, fa di tutto per essere scorrettissimo agli occhi di qualsiasi minoranza. In una parola: è controcorrente. Sempre. E lo fa col sorriso sulle labbra irridendo tutto e irritando tutti (meno che i suoi oltre 86 milioni di follower su Twitter). Per questo non poteva che levare le tende dalla California e andarsene in un posto che gli era più congeniale (a livello ideologico e soprattutto fiscale): il Texas. La rottura è avvenuta all'inizio della pandemia e dell'ondata di restrizioni. Quando gli è stato comunicato che la sede di Palo Alto della Tesla avrebbe dovuto restare chiusa, ha fatto fare gli scatoloni e, tempo zero, ha spedito tutti quanti a Austin.

Un ultrà delle libertà, certo. Ma soprattutto un anti statalista in piena regola. "Lo Stato è semplicemente la più grande azienda con un monopolio sulla violenza, contro cui non hai possibilità di ricorso; quanti soldi daresti a questa entità?". Se da una parte appare ovvia l'incomunicabilità con l'incrollabile fede liberal californiana pro tasse e regolamentazione, dall'altra risulta altrettanto scontata l'attrazione verso il nuovo Eldorado a stelle-e-strisce: il Texas, infatti, non solo si presenta come un paradiso fiscale (non ha addizionale locale sull'Irpef), ma gode anche di una burocrazia che dire snella è davvero troppo poco. Due ingredienti che hanno portato questo Stato ad accogliere oltre 4 milioni di nuovi residenti, il 42% dei quali si sono trasferiti proprio dalla vicina California, e ad essere la prova provata che quello che professa Musk è giusto: non è lo Stato a creare occupazione e quindi benessere, ma la libertà di impresa.

La libertà è per Musk una sorta di religione. Per difenderla è disposto a tutto e con tutti ingaggia continui scontri. Nemmeno i talebani del gender, intransigenti fino al midollo e forse i più illiberali tra tutti gli illiberali, gli fanno paura. "Tutti questi pronomi sono un incubo estetico", twittò tempo fa facendo imbufalire l'intera comunità Lgbt. Negli ultimi anni ha intrapreso una personalissima crociata contro la cancel culture e l'ideologia woke, "un virus mentale" che oggigiorno rappresenta "una delle più grandi minacce per l'umanità". Quando Dave Chappelle è finito nel tritacarne per aver detto che "ogni essere umano sulla Terra è dovuto passare attraverso le gambe di una donna", non ha esitato a prendere le sue parti. E quando Netflix ha registrato, fra gennaio e marzo, 200mila abbonamenti in meno e un conseguente crollo in Borsa del 40%, ha gongolato: "Perde utenti perché aderisce all'ideologia woke". Colpito e affondato.

Forse il più grande successo (politico) di Musk è stato proprio entrare nel green, settore monopolizzato dalla sinistra ambientalista, e farci soldi. Un mucchio di soldi. Questo, a conti fatti, è Tesla. Oggi la società vale 880 dollari ad azione circa (pesa l'acquisto di Twitter) ma qualche mese fa era arrivata a valere fino a 1.200 dollari ad azione. Nei giorni scorsi sul Foglio Camillo Langone annotava: "La sua è la storia di un anarcolibertario divenuto ricchissimo vendendo macchine bruttarelle, dispendiose e disfunzionali a benestanti ambientalisti, perciò divietisti e statalisti". Giudizio estetico a parte, l'analisi sulla "lezione del grande maestro Musk" è perfettamente corretta e condivisibile: è riuscito a "vendere a perfetti conformisti l'illusione di essere diversi e superiori". Immaginate che travaso di bile deve venire a tutti questi sinistrorsi ogni volta che lo sentono difendere l'energia nucleare.

Oggi tutti questi liberal sono in subbuglio. Non gli va a genio l'incursione di Musk nel campo dei social media. Lui ha promesso che vuole più libertà di cinguettio. E questo ai liberal non va giù. Vogliono essere loro a stabilire cosa si può dire e cosa no, cosa si può scrivere e cosa no, cosa si può twitter e cosa no. E così ora minacciano di cancellarsi da Twitter. Un po' come quando nel 2016 avevano minacciato di emigrare in Canada qualora Donald Trump avesse vinto le elezioni. Oggi come allora giurano che la democrazia è a rischio. Già, ma quale democrazia?

L'antidoto al conformismo. Nicola Porro il 27 aprile 2022 su Il Giornale.

Elon Musk è un pazzo scatenato. Sì, avete letto bene. Essere l'uomo più ricco del mondo non esclude la follia, che può essere lucida. E soprattutto non esclude la voglia di avere sempre fame, per usare i termini del mitico Steve Jobs. Per questo è un po' diverso dal John Galt, l'eroe della libertaria Ayn Rand, che in pochi in Italia conoscono, ma che molti imprenditori della Silicon Valley continua ad influenzare.

Dietro la sua scalata a Twitter, il più traballante dei social network, ma il più usato dall'establishment di tutto il mondo, ci sono sicuramente ragioni finanziarie. Ha comprato valutando l'affare 44 miliardi di dollari, 54 dollari ad azione: più dei 44 delle ultime quotazioni, molto meno dei 77 che valeva solo pochi mesi fa.

È un pazzo visionario che si è inventato Tesla, che è ancora una scommessa, ma che è diventato uno dei marchi più famosi del mondo. È un pazzo visionario che si è inventato SpaceX, per i viaggi spaziali, quando nessuno ci pensava. Un bambino bullizzato in Sudafrica che lascia Stanford dopo solo due giorni. E poi a 28 anni si inventa Paypal, la società dei pagamenti che si apre in un click. E da lì, lo spazio, l'ecologia, i trasporti, i collegamenti neurali fino a Twitter.

Di sé ha detto: sono progressista sui diritti civili, conservatore su quelli fiscali. Dichiarazione molto simile a come si definiva un liberale Antonio Martino. È un ambientalista convinto, ma un distruttore del politicamente corretto. È contro il mainstream, anche se ne fa parte. La California, a cui deve molto, l'ha mollata solo un anno fa per il Texas: troppe tasse. Ha votato con i piedi.

E ora arriviamo a Twitter. Quello di Musk si annuncia come un incubo dei progressisti. Musk lo vuole rendere un social libero: niente più censure. In cui tutti possano esprimere le proprie opinioni, anche le più urticanti. Alla sinistra non va giù: è il suo cortile di casa. E teme che Trump, espulso dal social, possa così ritornarci. Non è detto che l'ex presidente lo faccia. E pochi si ricordano come Musk fosse sì contrario all'espulsione di Trump, ma fosse stato anche un suo acerrimo nemico riguardo ai cambiamenti climatici. Com'è quella frasetta, erroneamente attribuita a Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire».

Musk è un libertario che sa fare i soldi. Il fondatore di Twitter, Jack Dorsey che vive digiunando e meditando e che si sente un eroe randiano, non poteva che apprezzare l'arrivo di Musk.

La sinistra, i liberal americani, i politicamente corretti di tutto il mondo stanno invece schiumando dalla rabbia. È la rivolta di Atlante, è l'Atlas Shrugged di Ayn Rand. Adesso vedremo che sapranno fare.

La guerra Twitter, tutti contro Musk. Rodolfo Parietti il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Bezos lo attacca sulla Cina. La Ue: rispetti le regole. I dem Usa: pericolo. S&P: rating a rischio.

Solo contro tutti. Neanche il tempo di festeggiare la presa di Twitter, dopo un assedio durato meno di un mese ma costato 44 miliardi di dollari, ed Elon Musk rischia subito di soffrire della più classica sindrome da accerchiamento. Là fuori si è subito formata una coda di indici puntati contro lo stravagante miliardario spendaccione. Il più affilato è quello della senatrice democratica Elizabeth Warren, pronta a sentenziare che l'acquisizione «è pericolosa per la nostra democrazia. Abbiamo bisogno di una tassa sui ricchi e di regole più stringenti affinché Big Tech sia responsabile». Altrove, soprattutto sui media liberal (da Newsweek a The Independent, fino a Cnet), è tutto un fiorire di manuali pronti all'uso su «come cancellare il tuo account» dal social. Puro odio di classe distillato sotto forma di «do it yuorself» in risposta al «spero che rimangano anche i miei peggiori critici» del patron di Tesla. Odio che rimbalza nei commenti della sinistra mondiale, di cui Carola Rackete è alfiere: «Sto pensando di chiudere l'account».

Storce il naso pure Wall Street, dove Tesla è ruzzolata ieri di quasi il 10% e Twitter è calata di oltre il 3%, mentre c'è non lesina insinuazioni pesanti. Tipo Jeff Bezos: «Forse che il governo cinese ha appena guadagnato un po' di influenza sulla piazza del paese?», ha cinguettano il patron di Amazon. Lasciando così intendere che Pechino potrebbe acquisire influenza su Twitter, al momento oscurata dal cosiddetto Great Firewall, una volta andata in porto l'acquisizione. Il motivo? Semplice: il Dragone è il «secondo mercato più grande di Tesla» dopo quello degli Stati Uniti.

Solite ruggini tra i due Paperoni, rinnovate di recente da un editoriale del Washington Post, di proprietà di Bezos (titolo: «L'investimento di Elon Musk su Twitter potrebbe essere una cattiva notizia per la libertà di parola», con successiva replica al vetriolo di Musk («Quel giornale è sempre buono per farsi una risata»). È un po' un gioco delle parti, tutto sommato innocuo. I pericoli veri potrebbero arrivare da altre direzioni. Non dalla Sec (la Consob Usa), mai tenera (anche a ragione) con il creatore di Space X (che ha contraccambiato con un ruvido «la Sec è una marionetta senza vergogna», visto che Twitter va verso il delisting e diventerà un'azienda privata.

Il primo rischio serio è quello di subire la bocciatura da parte di Standar&Poor's, che ieri ha messo tutti i rating di Twitter sotto esame senza escludere il taglio di svariate tacche. S&P mette l'accento sulle modalità dell'acquisizione, finanziata in parte a debito e in parte con i 21 miliardi che Musk metterà di tasca propria senza dire come saranno reperiti. Ciò comporta «che la leva finanziaria di Twitter aumenti in modo sostanziale al di sopra del limite di 1,5 volte, livello per un downgrade del rating BB+». Stessi timori per Moody's che ha messo sotto osservazione il rating Ba2 di Twitter, puntando il dito contro i debiti e la governance. Poi c'è il caveat di Bruxelles. In base al nuovo regolamento sui servizi digitali (il Dsa) che impone la rimozione tempestiva dei contenuti illegali, l'Ue ricorda come la società «dovrà adattarsi completamente alle regole europee» indipendentemente dagli orientamenti del nuovo azionista in termini di libertà di espressione. Insomma, Musk è sotto tiro ancor prima che metta in pratica i cambiamenti annunciati per Twitter: «Algoritmi open source per aumentare la fiducia», battaglia allo spam e agli account falsi e inserimento di un bottone di modifica ai messaggi. «Sono per la libertà di parola nell'ambito della legge», ha twittato ieri. Chissà cosa succederà quando, com'è sua abitudine, deciderà di defenestrare l'intero board.

Il genio libertario che spacca la sinistra. Francesco Maria Del Vigo il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Ha rivoluzionato i pagamenti e superato i verdi. Ora la sfida del Cosmo.  

«Clown, genio, bastian contrario, visionario, industriale, showman: un folle ibrido» è con queste parole che il Time, nel 2021, incorona Elon Musk come uomo dell'anno. Ma forse avrebbero dovuto aggiungere anche «politico» allo sterminato curriculum dell'imprenditore. Perché Musk non è solamente l'istrione che posta cinguettii strampalati durante la notte, che produce e vende lanciafiamme come se fossero oggetti di uso quotidiano, che si fuma una canna in diretta e che sogna di colonizzare Marte. È, anche e soprattutto, un libertario. Anzi, è una vera e propria icona libertaria e pure politica. Ipotesi confermata dalle reazione isteriche della sinistra mondiale d'innanzi al suo acquisto del social network più radical in circolazione (un esempio per tutti: Carola Rackete che annuncia la chiusura del suo profilo). Nell'arco di meno di vent'anni Musk ha rivoluzionato il mondo dei pagamenti con Paypal; ha creato Space X e riportato dopo più di un decennio gli astronauti statunitensi nello spazio, superando e salvando al tempo stesso la statalissima Nasa; non pago, ha messo la freccia e sorpassato a sinistra gli ecologisti di maniera inventandosi e mettendo sul mercato la Tesla, l'automobile elettrica più bella, chic e performante in circolazione. Più pragmatico e gretino di Greta stessa, pur non essendo una prefica dell'imminente fine del mondo. Tutto molto imprenditoriale, ma tutto anche molto politico. Si può rintracciare, in filigrana, un pensiero coerente dietro quello che Musk ha fatto in tutti questi anni? Negli Usa molti sono convinti di sì e hanno già coniato un termine per definire la filosofia del miliardario naive: il muskismo. E sono in molti a scommettere che l'acquisto del social di microblogging sia un primo passo verso una sua discesa in campo. Per Jill Lepore, docente di Storia americana all'università di Harvard, quello di Musk è un «capitalismo estremo, extraterrestre». E, in effetti, qualcosa di alieno c'è nell'epopea muskiana: la distanza siderale nei confronti di tutti i luoghi comuni tanto cari alla sinistra vessillifera del politicamente corretto e della cancel culture. Musk non si fa problemi a citare Ernst Jünger, a fuggire dalla progressista California per riparare nel repubblicanissimo Texas, a sbertucciare i guru della silicon valley, a portare il sistema capitalista alle sue estreme conseguenze con operazioni spericolate che a volte sembrano happening situazionisti. «Sono un anarchico utopico», ha dichiarato qualche anno fa il miliardario di origini sudafricane. Non sappiamo se il muskismo si farà mai politica, nel frattempo quella di Elon è una bella iniezione libertaria nel corpaccione di una società ancora troppo perbenista e statalista. 

"Ora odio e misoginia...". La sinistra va in paranoia per Twitter a Musk. Marco Leardi il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Twitter nelle mani di Elon Musk? "Un pericolo per la democrazia". La sinistra americana e gli influencer progressisti in allarme per l'operazione del magnate favorevole alla libertà d'espressione.

Troppo libertario, troppo permissivo. Addirittura critico sugli eccessi del politicamente corretto. Dunque, "pericoloso per la democrazia". Per gli alfieri del progressismo da social network, Elon Musk è diventato una minaccia. L'acquisizione di Twitter da parte del patron di Tesla (un affare da 44 miliardi di dollari) ha mandato letteralmente in paranoia gli attivisti della sinistra globale che avevano trasformato la suddetta piattaforma digitale in una bolla favorevole ai loro ideali. I pareri poco mainstream su politica, immigrazione, gender e diritti civili erano infatti costantemente a rischio di espulsione. Come accaduto a Donald Trump, privato "per sempre" della facoltà di cinguettare con l'accusa di aver incitato alla violenza. Ora, però, l'avvento del magnate sudafricano potrebbe portare a un'inversione di rotta.

Musk, infatti, si è sempre dichiarato un assolutista della libertà di espressione e in tempi recenti aveva ribadito la sua intenzione di lasciare spazio a tutte le opinioni sul popolare social nework. Anche alle più scomode. "Spero che anche i miei peggiori critici rimangano su Twitter, perché questo significa libertà di parola", aveva scritto il magnate nei giorni scorsi. In tempi non sospetti aveva pure auspicato che lo spazio digitale in questione diventasse "un'arena inclusiva", nel senso più largo e permissivo del termine. Idee che hanno messo in allarme gli animi più conformisti e gli influencer del pensiero unico tendente a sinistra.

Così, proprio sulla piattaforma, è montata la protesta progressista. L'attrice britannica Jameela Jamil, femminista convinta e sostenitrice delle politiche arcobaleno, è stata tra le prime personalità a manifestare sconcerto per l'acquisizione della piattaforma da parte di Musk. "Ah, si è preso Twitter. Vorrei che questo fosse il mio ultimo tweet. Temo che questa offerta di libertà di parola aiuterà questa piattaforma infernale a raggiungere la sua forma finale di odio, fanatismo e misoginia totalmente illegali. Buona fortuna", ha cinguettato la donna, che già aveva manifestato l'intenzione di chiudere il proprio profilo qualora il magnate di Tesla avesse concluso l'accordo.

E pure all'interno di Twitter non sono mancate voci indignate. L'ingegnere del software, Addison Howenstine, ha cinguettato con toni allarmati: "Le cose sicuramente peggioreranno, è potenzialmente pericoloso per la democrazia e gli affari globali". Il collega Geraint Davies, provocatoriamente, ha invece chiesto su Twitter se qualcuno fosse interessato alla sua esperienza professionale (così da offrirgli un nuovo posto di lavoro).

Ma i contraccolpi dell'operazione di Elon Musk sono stati accusati anche dalla politica, in particolare dalla compagine democratica americana. L'arrivo del milionario ha infatti alimentato nella sinistra a stelle e strisce l'incubo del ritorno di Donald Trump sulla piattaforma. "Tutti dovrebbero essere preoccupati per questo", ha detto l'esponente dem Mary Anne Marsh, argomentando: "Abbiamo già visto l'impatto che Trump è riuscito ad avere con il suo account Twitter, sia mettendo in discussione il luogo di nascita di Barack Obama, sia rifiutando i risultati delle ultime elezioni. Immagina cosa farà per riprendere il potere nel 2022 o nel 2024 quando non ci sarà nessuno a fermarlo?".

Già, perché l'incubo progressista è che il tycoon possa tornare a servirsi di un account per lanciarsi alla riconquista alla Casa Bianca. E poco importa che, secondo quanto riferisce Fox News, l'ex presidente non sarebbe particolarmente interessato a un ritorno su Twitter. "Questo accordo è pericoloso per la nostra democrazia. Miliardari come Elon Musk giocano secondo un diverso insieme di regole rispetto a tutti gli altri", ha accusato la senatrice democratica Elizabeth Warren. Il possibile cambiamento dello status quo sta generando il panico: chi non cinguetta a senso unico è una minaccia.

Elon Musk sarà il primo "triliardario" del pianeta. Marco Leardi il 22 Marzo 2022  su Il Giornale.

Il fondatore di Tesla, secondo alcune stime, nel 2024 avrà una ricchezza superiore a 1.000 miliardi di dollari. Sarà il primo uomo del pianeta a tagliare tale traguardo. Dopo di lui, l'indiano Gautam Adani.

Elon Musk si candida a essere il primo "triliardario" del pianeta. Il Paperon de' Paperoni del globo terracqueo. Detto "in soldoni" - è proprio il caso di dirlo - nelle sue mani si concentrerà un patrimonio pari a quello del prodotto interno lordo di uno Stato sovrano europeo come la Spagna. Secondo alcune stime economiche basate sui dati di Forbes, nel 2024 il fondatore di Tesla e di SpaceX sarà il primo essere umano a possedere una ricchezza superiore a 1.000 miliardi di dollari, a patto che nel frattempo continui ad arricchirsi con l'attuale ritmo sostenuto. Il visionario della Silicon Valley, a 52 anni, inaugurerà dunque un club per pochissimi privilegiati, che in un futuro non troppo lontano inizierà pian piano a vantare alcune new entry.

Il secondo uomo a diventare triliardario sarà con ogni probabilità il miliardario indiano Gautam Adani, proprietario con la sua famiglia di un impero che commercia materie prime. Il fondatore del gruppo Adani taglierà il traguardo un anno dopo Elon Musk, dunque nel 2025, quando il suo tasso di crescita potrebbe fargli scavalcare quota 1.000 di 5 miliardi. Il fondatore e presidente della Beijing ByteDance Technology Company, Zhang Yiming, è al terzo posto della lista dei futuri triliardari: secondo le previsioni entrerà nel club dei super ricchi a soli 42 anni, nel 2026. Con un patrimonio stimato da 1.456 miliardi. Più facile da scriversi che da immaginarsi.

Gli affari porteranno infine a diventare triliardario anche il magnate indiamo Mukesh Ambani. Il "re del ferro", che attualmente è il decimo uomo più ricco del mondo, potrebbe raggiungere i 1.206 miliardi nel 2029, a 71 anni. Lo stesso anno, dovrebbe unirsi al gruppo degli accumulatori di miliardi anche il primo europeo, ovvero Bernard Arnault, signore della moda e del lusso che avrà poco più di 1.000 miliardi proprio nel 2029, quando avrà 79 anni. Altri "paperoni" si aggiungeranno al club solo dopo il 2030 e tra questi c'è anche il fondatore di Amazon Jeff Bezos.

L'imprenditore statunitense, a sorpresa, non sarà dunque tra i primi triliardari del pianeta: per arrivare all'ambito traguardo, secondo le stime, dovrà attendere tra il 2030 e il 2032. Lo stesso vale per Larry Page (Google) e Sergey Brin (Google). A essi si aggiungeranno probabilmente Ma Huateng (Tencent), Francois Pinault (Gucci e altri marchi della moda), Dieter Schwarz (Lidl) e Francoise Bettencourt Meyers, unica donna che rientra al momento nelle previsioni sui "trillionaires". Spoiler: tra i più ricchi del pianeta non è annoverato nessun italiano.

Chi è davvero Elon Musk? Un reporter del Wsj si è avvicinato alla risposta. Pier Luigi Pisa su La Repubblica il 22 marzo 2022.  

Tim Higgins, autore del libro "La scommessa del secolo", ci aiuta a capire ancora meglio la figura di Elon Musk raccontando i retroscena e i dettagli della nascita di Tesla, un'azienda che oggi vale circa 1000 miliardi di dollari.

Nell'estate del 2019, quando era ancora lontano dall’essere l’uomo più ricco del pianeta, Elon Musk si stava preparando a volare in Asia per firmare un accordo di straordinaria importanza: Tesla avrebbe aperto il suo primo stabilimento in Cina. Ma la testa dell'imprenditore era altrove. 

In Thailandia dodici ragazzi erano rimasti intrappolati in una caverna allagata. Alla corsa contro il tempo per salvarli, stava partecipando anche Musk: progettando un mini sottomarino per trasportare i ragazzi, inviando ingegneri di SpaceX in Thailandia e raggiungendo personalmente il luogo in cui si stavano svolgendo le operazioni. "Quella di Musk è stata una mossa pubblicitaria" dirà il subacqueo Vernon Unsworth, alla CNN, dopo aver salvato tutti e dodici i ragazzi senza usare la tecnologia di Musk. 

Tre anni dopo, ed Elon Musk sta ancora cercando di salvare qualcuno. Le buone intenzioni, al solito, si mescolano allo show su Twitter. Musk ha offerto la connessione internet Starlink agli ucraini rimasti senza rete, poi ha sfidato a un surreale corpo a corpo Putin, infine ha bisticciato con il leader ceceno Razman Kadyrov. Tutto su Twitter, ovviamente.

“Twitter è il parco giochi di Musk” afferma Tim Higgins, reporter del Wall Street Journal che ha scritto “La scommessa del secolo”, un libro dedicato a Elon Musk e alla nascita di Tesla pubblicato in Italia da Mondadori. “E, sempre su Twitter, Musk  ha costruito un esercito di sostenitori e fan che aiutano a promuovere Tesla e le sue altre società - aggiunge Higgins -. Ha avuto a lungo modo di emergere, sui social media, quando si è presentata una problematica importante, come emergenze di alto profilo, e di aggrapparsi a queste attraverso l'offerta di un aiuto o di un’opinione. Alimenta quel personaggio di Iron Man che gli piace così tanto. Nel caso del salvataggio nella grotta thailandese, le sue offerte di aiuto non hanno fatto molta differenza, anzi hanno solo distratto”.

Un dettaglio della copertina de "La scommessa del secolo" di Tim Higgins (Mondadori) 

Il libro di Higgins si concentra sulla storia di Tesla, di cui Elon Musk è considerato erroneamente il fondatore. Le 480 pagine scritte dal cronista del Wsj ricostruiscono in modo dettagliato un’impresa impossibile: costruire da zero una supercar sportiva totalmente elettrica e, con questa, avviare una nuova casa automobilistica. "Una cosa è creare un social network quando tutto quello che esiste già è MySpace - spiega Higgins nel suo libro - Tutt’altra è prendere di mira alcune delle maggiori aziende al mondo e sfidarle sul loro stesso terreno, con qualcosa che hanno imparato a fare - spesso a prezzo di grandi sofferenze - in oltre un secolo". 

Dietro questa scommessa, c’era un uomo che con il mondo dell’auto - prima di stringere le redini di Tesla - aveva avuto a che fare solo come cliente. Come quando, con parte dei soldi ricavati dalla vendita della sua prima startup, Zip2, Elon aveva comprato una supercar McLaren dal valore di un milione di dollari. Era il 1999, la CNN aveva ripreso la scena della consegna per un servizio sulle ricchezze che si stavano spostando nella Silicon Valley. Erano i giorni in cui Musk sognava di finire sulla copertina di Rolling Stone, non sapendo che dodici anni dopo avrebbe conquistato una cover ancora più prestigiosa: quella per la “persona dell’anno” del settimanale Time. 

All’inizio del suo libro, Higgins parte da un quesito ben preciso. Una domanda che si fa spesso anche chi segue le gesta di Musk su Twitter, sui notiziari o sui principali siti d’informazione: “Elon Musk è un cane sciolto, un antieroe, un ciarlatano, o tutte e tre le cose insieme?”. “Molti vogliono che le cose siano in bianco e nero, ma con Musk non può funzionare - ci dice Higgins, a cui abbiamo chiesto che idea si sia fatta sull’imprenditore - Musk può essere sia l'eroe che il cattivo, a seconda del giorno e del problema”. 

Di certo, i panni del supereroe a Musk non dispiacciono. Ha fatto di tutto per entrare in Iron Man 2, con un piccolo cameo, per la felicità dei fan che lo ritengono un novello Tony Stark, imprenditore eccentrico e geniale. Ma al tempo stesso Musk si è rifiutato di pagare per mostrare le sue auto nel film. Cosa che invece aveva fatto Audi e che aveva fortemente indispettito Elon: “Noi la faremo a pezzi, Audi” avrebbe detto il ceo di Tesla, una frase che Higgins riporta nel suo libro. 

“Tesla, senza Musk, non esisterebbe - ci ha detto il reporter del Wsj - Ha una visione unica di ciò che i consumatori desiderano e si diverte con le sfide ingegneristiche più complicate. Ma la cosa più importante che ha fatto è stata vendere l'azienda e la sua visione. Ai clienti, ovviamente, ma - è ancora più importante - agli investitori. Tesla inizialmente era una macchina per mangiare denaro contante: aveva bisogno di un pasto continuo di denaro per rimanere in vita. Musk è stato in grado di ottenere quei soldi vendendo la sua visione più e più volte”. 

Una visione, quella di Elon Musk, caratterizzata da notevoli ritardi nella produzione e nella consegna delle vetture annunciate. Si pensi a quella, più volte rimandata, del futuristico pickup chiamato Cybertruck. Eppure Musk è riuscito ogni volta a ottenere il massimo. Dagli investitori, come abbiamo detto, ma anche dai suoi dipendenti, che riusciva a motivare nonostante fossero logorati dal ritmi altissimi del lavoro in Tesla: “C’era chi divorziava, chi si licenziava e andava via - scrive Higgins - un sacco di sconvolgimenti familiari”. 

“Un giorno [Musk] riunì i dipendenti intorno a una torta - si legge ne “La scommessa del secolo” -  e disse loro che dovevano continuare a spingere, dovevano far uscire la Model S, e poi sarebbe venuta la nuova generazione. Quella avrebbe potuto rendere davvero popolare il brand. “So di aver chiesto tantissimo a tutti voi, e che avete lavorato duro” esordì. “Mi piacerebbe potervi dire che non dovremo lavorare più di così, ma invece sì: in futuro dovremo farlo. Se non lo facciamo falliremo, e precipiteremo come una meteora. Ma se lo facciamo, quest’azienda potrebbe arrivare a valere anche 200, 250 dollari ad azione”. In molti tra i presenti avevano scrollato le spalle e avevano pensato che il loro capo fosse un folle. Non potevano immaginare che molti anni più tardi il prezzo sarebbe stato di gran lunga superiore: 905 dollari ad azione, dice l’indice Nasdaq alle 16:00 del 18 marzo 2022. 

Al rapporto di Musk con i dipendenti è legata anche la storia che Higgins ama di più, del suo libro, quella che caratterizza lo spirito dell’imprenditore nonché la sua spavalda irrazionalità. “Alla fine del 2017, mentre il team stava lottando per aumentare la produzione di batterie nella sua fabbrica fuori Reno, Musk stava spronando tutti duramente - ci ha raccontato Higgins -. Un sacco di urla e cose del genere. L’azienda era in una brutta situazione e lui lo sentiva. Ma poi si è reso conto di essere stato troppo duro. Per cercare di tirare su il morale, allora, ha organizzato una festa in cima alla fabbrica, con un falò e s'more [tipico dolce americano, ndr]. Sembrava una cosa carina. Ma era anche un esempio dell’agire senza pensare alle conseguenze: un falò sul tetto di una fabbrica di batterie, piena di materiali altamente infiammabili!”. 

Con Tesla che oggi vale mille miliardi di dollari, e Musk che è diventato da tempo l’uomo più ricco del mondo, viene da pensare che quest’uomo nato in Sudafrica, che ha da poco compiuto 50 anni, abbia vinto la sua scommessa. Se ci è riuscito, per Higgins, è perché il suo lato oscuro non ha avuto la meglio: “Elon Musk può essere il peggior nemico di se stesso - ci ha detto il giornalista -. Creare un'azienda automobilistica è già abbastanza difficile, ma molti dei problemi che hanno quasi portato Tesla alla bancarotta nel 2018 sono stati causati proprio da Musk. Molte delle decisioni che lo hanno messo nei guai sono state prese per eccesso di ego e spavalderia. Eppure  la sua sicurezza e la sua spavalderia hanno anche aiutato Tesla ad arrivare dov'è oggi. Altri potevano adottare misure meno audaci o essere stati più cauti. Non Musk, che ha un'enorme tolleranza al rischio e scommette in grande”.

Federico Rampini per il “Corriere della Sera” il 4 gennaio 2021. Hollywood lo mette in scena nel ruolo del malvagio, il miliardario che salva se stesso e pochi intimi dall’Apocalisse planetaria fuggendo nello spazio. La Cina lo tratta come una superpotenza a sé stante, protesta presso le Nazioni Unite per le sue presunte prevaricazioni spaziali. 

Elon Musk ha chiuso il 2021 come l’uomo più ricco del mondo (273 miliardi di dollari) ma non solo. È l’unico magnate-guru che riesce ad affascinare e irritare al tempo stesso i giovani. È all’avanguardia nelle nuove tecnologie, incluse le criptovalute, ma sfacciatamente ostile al politically correct; esibisce un’ideologia libertaria di destra.

Il cinema non poteva ignorarlo. Nel film di fanta-satira Don’t Look Up di Adam McKay il miliardario tech Peter Isherwell (Mark Rylance) è un’evidente parodia di Musk. Malevola: fallisce nel suo progetto di smembrare un meteorite per ricavarne minerali rari, poi abbandona la Terra al suo triste destino.

Il vero Musk in effetti ha detto: «Voglio morire su Marte, ma non schiantandomi all’impatto». Sembra capace di trasformare lo spazio in un business credibile, non solo un gioco per miliardari egomaniaci. La Nasa ha una tale fiducia in lui che usa la sua società SpaceX per trasportare astronauti e apparecchiature sulla stazione spaziale internazionale. 

Con 27 lanci in 12 mesi, SpaceX ha superato tutti i concorrenti americani. Sempre la Nasa lo ha scelto per costruire il prossimo Moon Lander, modulo lunare per lo sbarco.

Le sfide si moltiplicano. Musk ha sperimentato il primo missile completamente riutilizzabile per lanci molteplici, disegnato per la missione su Marte. «Segnerà — dice lui — la differenza tra l’umanità come una specie con un solo cammino, e l’umanità come una specie dai percorsi multipli».

I costi esorbitanti della spedizione su Marte? Lui li vuole finanziare con la sua più grossa impresa commerciale nello spazio: fino a 30.000 satelliti Starlink per telecomunicazioni a banda larga, l’Internet alla portata di tutti coloro che ancora non hanno collegamenti adeguati (Paesi poveri, regioni isolate, navi e aerei, ma anche per le transazioni ad altissima frequenza tra Borse).

Ne ha già messi in orbita 1.800 ed è qui che nasce il casus belli con Xi Jinping. Pechino sostiene che i suoi astronauti hanno dovuto fare «operazioni d’emergenza» con la stazione spaziale made in China per evitare collisioni con i satelliti di Musk. L’aspetto interessante è che il governo comunista non ha protestato presso la Casa Bianca, ma si è appellato all’Onu: riconoscendo implicitamente che Musk va trattato come uno Stato sovrano. 

Chi continua a sospettare che sia un geniale ipnotizzatore delle folle, deve fare i conti con i solidi risultati della sua Tesla. Il 2021 è stato il primo anno pieno all’insegna dei profitti, e la marca di auto elettrica ormai è nel club delle società «trilionarie» (oltre mille miliardi di dollari di valore in Borsa).

Contro chi la considera una bolla speculativa, ci sono dati commerciali e industriali consistenti. Le vendite Tesla sono aumentate dell’80% nel 2021, mentre i volumi globali di auto vendute scendevano dell’1%. Le altre case automobilistiche hanno sofferto tagli di produzione per la penuria di semiconduttori. 

Tesla no: ha aggirato la scarsità perché è quasi unica al mondo la sua autonomia nell’ingegneria elettronica, sicché ha «riscritto» il software delle vetture per integrare microchip alternativi.

«Hanno il marchio Tesla i due terzi delle auto elettriche vendute negli Stati Uniti», proclama il chief executive, che ora vuol cambiarsi qualifica. Ennesima provocazione: ha inoltrato una formale pratica presso l’authority di Borsa per ribattezzarsi «techno-Re» della Tesla. 

I problemi non mancano. Tra i più seri: gli incidenti gravi in cui sono incappate alcune Tesla in modalità di auto-pilotaggio; e le accuse della Cina (ancora) contro presunte attività di spionaggio di queste auto sul suo territorio.

Ma gli investitori sono convinti che Musk supererà ogni ostacolo, e negli ultimi giorni dell’anno scorso un balzo delle quotazioni ha aggiunto alla Tesla 200 miliardi, cioè più di quanto valgono Ford e General Motors insieme. «Forse — ha chiosato il Wall Street Journal –—Tesla sta facendo in un anno quel che Amazon ha fatto in vent’anni, cioè dimostrare di essere una tale fuoriclasse che la sua bolla è giustificata». 

Il personaggio Musk, essendo all’avanguardia nella tecnologia della sostenibilità, affascina i giovani, dai Millennial fino alle generazioni X e Z. Nel 2021 più della copertina di Time a lui dedicata è stato emblematico il suo show personale nel programma di satira Saturday Night Live.

La sua adesione alle criptovalute coincide con il boom di queste monete alternative, o lo alimenta: 3.000 miliardi di dollari di valore, il 16% degli americani le possiedono o ne hanno avute (contro l’1% sei anni fa). 

Musk il politico prende molti giovani in contropelo. Ha duellato via Twitter con due esponenti della sinistra radicale, i senatori Elizabeth Warren e Bernie Sanders, che hanno la loro base tra i Millennial. Dopo che i due hanno proposto nuove tasse sui miliardari accusandoli di elusione, Musk ha reagito. «Sarò l’americano che ha pagato più tasse nella storia». 11 miliardi nel 2021, per la precisione. Rivolto alla Warren: «Non li spendere tutti in una volta». All’ottantenne Sanders: «Continuo a dimenticare che sei ancora vivo».

A differenza di Donald Trump che è stato cancellato dai social media più diffusi, Musk ha 66 milioni di follower su Twitter. Ha inaugurato una sorta di populismo finanziario proprio sulla questione fiscale. Citando le polemiche contro i miliardari che eludono le imposte perché evitano di incassare plusvalenze di Borsa, ha chiesto ai suoi seguaci se doveva convertire stock option e vendere azioni per pagare le tasse. La consultazione su Twitter (con 3,5 milioni di votanti) ha dato il 58% di sì, e lui ha venduto. 

Il gesto più provocatorio lo ha fatto «votando con i piedi». È la scelta di trasferirsi — personalmente e come sede centrale della Tesla — dalla California al Texas. Ha adottato lo Stato vetrina dei repubblicani, voltando le spalle al bastione della sinistra. Il Texas non ha addizionale Irpef sui redditi, è per molti aspetti un paradiso fiscale, ha meno regole e burocrazia.

La California ha una delle pressioni fiscali più alte degli Stati Uniti. Musk considera il modello californiano come un concentrato dei «fallimenti del socialismo»: record di senzatetto, costo della vita alle stelle, carenza di abitazioni popolari, esodo di residenti. 

Alle ultime elezioni finanziò equamente democratici e repubblicani, diede il suo endorsement a un candidato democratico alla nomination (l’imprenditore tecnologico Andrew Yang). Eppure Musk è una spina nel fianco dei democratici, il contraltare dei vari Bill Gates e Mark Zuckerberg: è l’unica celebrità di Big Tech il cui cuore batte a destra. Quando denuncia la vecchia sinistra statalista «tassa-e-spendi», c’è un’America giovane che lo ascolta, magari digrignando i denti.

I super ricchi e il virus, da Bezos a Gates e Musk: chi ha raddoppiato il patrimonio dall’inizio della pandemia. Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.  

I ricchi sempre più ricchi, anche con il Covid

Durante i 21 mesi di pandemia da Covid-19 i dieci uomini più ricchi del mondo lo sono diventati ancora di più, vedendo raddoppiata la loro ricchezza, che è passata da circa 700 miliardi a ben 1.500 miliardi di dollari. Questo significa che la velocità con cui accumulano immense ricchezze è raddoppiata da quando il mondo annaspa, alle prese con la pandemia, al ritmo di 1,3 miliardi al giorno, 15 mila dollari al secondo. A rilevarlo è «La pandemia della disuguaglianza», il rapporto di Oxfam (clicca qui per scaricarlo), organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze, pubblicato il 17 gennaio 2022 in occasione dell’apertura dei lavori del World Economic Forum di Davos. Ma chi fa parte di questa top ten di super ricchi che riesce a guadagnare sempre di più (anche) in queste condizioni di chiusure, difficoltà e scarsità di lavoro? Oxfam si è rifatta alla «Bibbia dei miliardari», ovvero alla rivista specializzata «Forbes», per stilare la classifica dei miliardari e il ritmo di crescita forsennato dei loro patrimoni. I nomi? Il patron di Amazon, Jeff Bezos, ovviamente, che da inzio pandemia ha guadagnato 81 miliardi di dollari (quanto il costo di tre dosi di vaccino, «booster» incluso, per l’intera popolazione mondiale. Ma anche il leader di Tesla, Elon Musk, il re del lusso Arnault, Bill Gates, il guru degli investitori, Warren Buffett, e i numeri uno delle Big Tech, a partire da Mark Zuckerberg (Facebook/Metaverso) per continuare con Brin e Page (Google) e Larry Ellison (Oracle).

Violenza economica

Oxfam ha affermato che la ricchezza in possesso di questi miliardari è aumentata di più nel periodo pandemico rispetto a quanto non abbia fatto nei 14 anni precedenti, quando l’economia mondiale stava affrontando una delle peggiori crisi dal crollo di Wall Street del 1929. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria ogni 26 ore un nuovo membro si è unito all’élite dei miliardari composta da oltre 2.600 super-ricchi, le cui fortune sono aumentate di ben 5 mila miliardi di dollari, in termini reali, tra marzo 2020 e novembre 2021. Nello stesso periodo, secondo le stime,163 milioni di persone in più sono cadute in povertà a causa della pandemia. Oxfam ha chiamato questa disuguaglianza «violenza economica», perché ogni giorno porta alla morte di circa 21 mila persone per mancato accesso al sistema sanitario, fame, violenze di genere o cause ambientali legate al cambiamento climatico.

I dati di Oxfam

Ad oggi i dieci miliardari possiedono una ricchezza 6 volte superiore ai 3,1 miliardi di persone più povere del mondo, cioè il 40% della popolazione mondiale. E se anche il valore delle loro fortune calasse del 99,993%, resterebbero comunque più ricchi di qualunque cittadino collocato tra il 99% più povero della popolazione mondiale. Stando agli analisti di Oxfam, se questi super ricchi dovessero spendere le loro fortune, si suppone, a un ritmo di un milione di dollari ciascuno, impiegherebbero 414 anni ad esaurirle. Ma vediamo chi sono secondo la classifica stilata da Forbes a novembre 2021.

Jeff Bezos

Al primo posto si trova ovviamente Jeff Bezos, il noto imprenditore che ha fondato il gigante dell’e-commerce Amazon nel 1994 dal suo garage a Seattle, con un patrimonio netto totale di 177 miliardi di dollari. Si è dimesso dalla carica di ceo per diventare presidente esecutivo il 5 luglio 2021. Nel rapporto Oxfam si legge che nei primi 21 mesi di pandemia il suo surplus patrimoniale (pari a +81,5 miliardi di dollari) equivale al costo completo stimato della vaccinazione Covid (due dosi e booster) per l’intera popolazione mondiale.

Elon Musk

A tenergli testa al secondo posto c’è Elon Musk, con un patrimonio da 151 miliardi di dollari. L’incremento rispetto al 2020 per il fondatore di Tesla è stato di oltre 124 miliardi ed è sostanzialmente dovuto alle quotazioni della casa di produzione di auto elettriche, cresciute di oltre il 700%.

Bernard Arnault

Terza posizione per Bernard Arnault, magnate francese proprietario del gruppo del lusso Lvmh, secondo Bloomberg prima azienda francese, prima in Europa e terza a livello mondiale. La sua ricchezza personale ha un valore di 150 miliardi di dollari, in aumento di 76 miliardi rispetto al 2020.

Bill Gates

Appena sotto il podio, al quarto posto, si trova il fondatore di Microsoft e ora filantropo Bill Gates, con un patrimonio personale di 124 miliardi di dollari. Può vantare, però, di essere rientrato tra i quattro della lista di Forbes a superare i 100 miliardi di ricchezza.

Mark Zuckerberg

Mark Zuckerberg si piazza in quinta posizione. Sono 97 i miliardi di dollari di patrimonio per il discusso fondatore di Facebook. Dal 2020 sono aumentati di oltre 42 in più. Anche in questo caso il merito spetta al boom delle azioni del social network dell’80%.

Warren Buffett

Al sesto posto c’è Warren Buffett, finanziere statunitense, amministratore delegato di Berkshire Hathaway dal 1993. All’età di 91 anni e on il suo fondo d’investimento può vantare un patrimonio da 96 miliardi di dollari.

Larry Ellison

L’imprenditore Larry Ellison occupa la settima posizione, grazie alle sue fortune derivanti dai successi di Oracle, società multinazionale del settore informatico che vende software e tecnologia per database, sistemi di ingegneria cloud e prodotti software aziendali. Il suo patrimonio si aggira sui 93 miliardi di dollari.

Larry Page

Larry Page, uno dei fondatori del colosso Google insieme a Sergey Brin, raggiunge l’ottava posizione della classifica redatta da Forbes con un patrimonio di 91,5 miliardi di dollari.

Sergey Brin

Appena dietro c’è proprio il suo socio in affari Sergey Brin, l’altra mente dietro alla creazione di Google, con una ricchezza personale complessiva di 89 miliardi di dollari.

Mukesh Ambani

Infine,in coda alla classifica ad occupare la decima posizione è l’indiano Mukesh Ambani, presidente, amministratore delegato e il maggiore azionista di Reliance Industries Limited. Con un patrimonio da 84,5 miliardi di dollari si aggiudica il titolo di uomo più ricco dell’Asia. 

Patrimoni raddoppiati per i 10 Paperoni. Effetto Covid: 15mila dollari al secondo. Valeria Robecco su Il Giornale il 18 Gennaio 2022.  

Con la pandemia di Covid i ricchi sono diventati ancora più ricchi. Mentre 163 milioni di persone sono cadute in povertà, dal marzo 2020 i patrimoni dei 10 individui più ricchi del mondo sono più che raddoppiati, passando da 700 a 1.500 miliardi di dollari (al ritmo di 15mila dollari al secondo, 1,3 miliardi al giorno). A certificare l'allargamento del divario andando nel dettaglio è Oxfam nel suo rapporto intitolato La pandemia della disuguaglianza, pubblicato in occasione dell'apertura dei lavori del World Economic Forum di Davos. L'organizzazione ha basato i suoi risultati sul Global Wealth Report di Credit Suisse e sulla Forbes Billionaires List, che indica come i 10 Paperoni del Pianeta il patron di Tesla Elon Musk, il numero uno di Amazon Jeff Bezos, il capo del gruppo Lvmh Bernard Arnault, gli ex ceo di Microsoft Bill Gates e Steve Ballmer, l'ex ceo di Oracle Larry Ellison, i fondatori di Google Larry Page e Sergey Brin, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg e l'investitore Warren Buffet. «Già in questo momento i 10 super ricchi detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione mondiale, composto da 3,1 miliardi di persone», ha sottolineato Gabriela Bucher, direttrice di Oxfam International.

Dall'inizio dell'emergenza Covid, ogni 26 ore un nuovo miliardario si è unito a una élite composta da oltre 2.600 Paperoni le cui fortune sono aumentate di ben 5mila miliardi di dollari, in termini reali, tra marzo 2020 e novembre 2021. Allo stesso tempo, Oxfam denuncia che ogni 4 secondi una persona muore per mancanza di accesso alle cure, per l'impatto della crisi climatica, per fame e per violenza di genere. «Le banche centrali hanno pompato miliardi di dollari nei mercati finanziari per salvare l'economia, ma gran parte di queste risorse sono finite nelle tasche dei miliardari che cavalcano il boom del mercato azionario - ha aggiunto Bucher, ribadendo che - alcuni settori hanno beneficiato della crisi con conseguenze avverse per troppi, come nel caso del settore farmaceutico, fondamentale nella lotta alla pandemia, ma succube alla logica del profitto e restio alla sospensione temporanea dei brevetti e alla condivisione di know how e tecnologie necessarie per aumentare la produzione di vaccini e salvare vite anche nei contesti più vulnerabili». Per Oxfam, i monopoli detenuti da Pfizer, BioNTech e Moderna hanno permesso di realizzare utili «per 1.000 dollari al secondo e creare cinque nuovi miliardari». Al contempo «meno dell'1% dei loro vaccini ha raggiunto le persone nei Paesi a basso reddito».

Tornando ai Paperoni del Pianeta, solo per il numero uno di Amazon, una delle aziende il cui fatturato è decollato con il virus, Oxfam calcola un «surplus patrimoniale» nei primi 21 mesi di pandemia di 81,5 miliardi di dollari, l'equivalente del costo stimato della vaccinazione (due dosi e booster) per l'intera popolazione mondiale. Per quanto riguarda l'Italia, secondo Oxfam dopo un 2020 in cui oltre milione di individui e 400mila famiglie sono sprofondati nella povertà, è continuata a crescere la concentrazione della ricchezza. A fine 2020 il 5% più ricco degli italiani deteneva una ricchezza superiore a quella dell'80% più povero, e fra marzo 2020 e novembre 2021 il numero dei miliardari italiani della lista di Forbes (di cui fanno parte ad esempio Giovanni Ferrero, Leonardo Del Vecchio, Stefano Pessina, Giorgio Armani e Silvio Berlusconi) è aumentato di 13 unità, mentre il valore aggregato dei patrimoni dei super ricchi è cresciuto del 56% a 185 miliardi di euro alla fine dello scorso novembre.

Luca Piana per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 17 gennaio 2022.  

L'ultimo arrivato si chiama Alessandro Rosano e nei giorni prima di Natale ha fatto il colpo della vita. Il gruppo americano Crocs, quello dei sandali colorati, ha annunciato di aver comprato un'azienda di Hong Kong che si chiama Hey Dude e produce scarpe per il tempo libero, che ha iniziato a vendere via Amazon nel 2017 raggiungendo i 580 milioni di dollari di ricavi. 

Dalla cessione Rosano, il fondatore di Hey Dude, incasserà 2,5 miliardi di dollari, oltre 2 miliardi dei quali cash, e continuerà a lavorare nel gruppo. Di lui, in realtà, si sa poco: incrociando i dati su Linkedin e sul sito di Hey Dude si arriva a dedurre che ha 53 anni, è nato a Torino e tredici anni fa ha fondato a Pistoia una piccola azienda calzaturiera, che esiste ancora e si chiama Fratelli Diversi. 

Come sia passato dall'intuizione iniziale ai fasti di Hong Kong, però, lui finora ha preferito non raccontarlo, entrando di diritto in una speciale categoria di imprenditori italiani: i capitani silenziosi. 

Se si osserva la classifica elaborata da Forbes sui grandi patrimoni italiani, che include anche chi è nato qui ma risiede all'estero, si nota che in vetta ci sono numerosi imprenditori che si fanno coinvolgere raramente nelle grandi partite finanziarie o nella vita pubblica del Paese.

Alcuni non hanno mai rotto la loro riservatezza per concedere un'intervista, altri lo fanno solo in rare occasioni. È vero, al secondo posto del ranking spicca Leonardo Del Vecchio, il fondatore di EssilorLuxottica che sta mettendo a soqquadro gli storici equilibri di due santuari della finanza nazionale come Mediobanca e Generali, mentre al quinto si trova Silvio Berlusconi, che certamente nessuno può accusare di finto understatement.

Allo stesso tempo, però, molti italiani faticherebbero a riconoscere, se lo incontrassero al gate dell'aeroporto, il numero tre della classifica Stefano Pessina, che con la compagna - di lavoro e di vita - Ornella Barra è uno dei grandi azionisti di Walgreens Boots Alliance, colosso mondiale della distribuzione farmaceutica, un giro d'affari che supera i 111 miliardi di euro.

Lo stesso si può dire per la numero quattro Massimiliana Landini, vedova di Alberto Aleotti, imprenditore scomparso nel 2014 che fece grande la casa farmaceutica Menarini, oppure per il numero otto Gustavo Denegri, che controlla la società diagnostica Diasorin, fenomeno di Piazza Affari con una capitalizzazione di 8,6 miliardi di euro.

I gruppi industriali che stanno dietro a queste fortune silenziose sono molto diversi fra loro, così come le storie individuali delle persone che li guidano o ne sono i grandi azionisti. Quasi in ogni bar d'Italia si trovano le gomme Brooklyn, le caramelle Golia, i Chupa Chups. L'azienda che li produce si chiama Perfetti Van Melle e nei pressi di Milano conserva l'originario stabilimento produttivo di Lainate.

La famiglia Perfetti, i proprietari, decimi nella classifica di Forbes, si sono trasferiti in Svizzera negli anni Settanta, quando Egidio, uno dei due fondatori, venne rapito e poi liberato solo dopo il pagamento di un riscatto. Due settimane prima di Egidio, anche il fratello Augusto era stato oggetto di un analogo tentativo, sventato all'ultimo istante.

Da allora la famiglia si è chiusa nella privacy più estrema e solo un esponente della terza generazione, Egidio pure lui, presidente della holding lussemburghese che custodisce la proprietà del gruppo, vi sfugge a intermittenza, considerato che pilota e sponsorizza una Porsche del team tedesco Project 1, iscritta al campionato mondiale endurance. 

La Perfetti d'un tempo è cresciuta anche attraverso acquisizioni, fino a diventare un colosso mondiale delle caramelle, ha 17.600 dipendenti e ha spostato il quartier generale in Olanda. Il bilancio consolidato della holding lussemburghese (la C+F Confectionary & Foods) mostra che i lockdown del 2020 hanno dato una bella botta ai ricavi, scesi da 2,6 a 2,2 miliardi di euro.

I profitti netti, però, sono aumentati da 236 a 305 milioni, in parte grazie a una legge italiana: la rivalutazione dei beni patrimoniali resa possibile dal Decreto Agosto del governo Conte 2, che ha permesso alla filiale di Lainate di ridurre in misura consistente il carico fiscale del 2020. 

Molto italiano e molto no è anche il gruppo Ferrero. Dell'uomo che ha inventato la Nutella, Michele Ferrero, si conoscono due interviste: una rilasciata per il libro "Miliardari in borghese" del 1966, l'altra pubblicata dal quotidiano La Stampa dopo la sua scomparsa, nel 2015. 

Nel mezzo ha sempre fatto parlare le martellanti pubblicità dei prodotti più conosciuti, dal Mon Chéri all'ovetto Kinder. Il figlio Giovanni, in testa alla classifica di Forbes una spanna sopra Del Vecchio, il silenzio ereditario l'ha interrotto in due momenti. 

Il primo con un'intervista più personale nel 2008, tra la pubblicazione del quarto e del quinto dei romanzi che ha scritto (è arrivato a sette, l'ultimo è uscito l'anno scorso). Il secondo quando ha preso in mano le redini del gruppo e ha annunciato che Ferrero sarebbe andata «oltre le colonne d'Ercole», affiancando alla crescita interna quella per acquisizioni, mai tentata dal padre. 

Da allora Giovanni, che è nato a Torino ma risiede a Bruxelles, ha rilevato biscotti, cioccolatini, snack alla frutta, gelati, crostate e altro ancora tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Danimarca, Italia. 

 Negli ultimi anni è tornato alla riservatezza tipica della famiglia, non solo di Michele ma anche della madre Maria Franca Fissolo. A parlare sono i numeri, che mostrano l'esecuzione dei piani annunciati nel 2015: il gruppo, oltre 34 mila dipendenti, controllato dalla lussemburghese Ferrero International, nel bilancio annuale all'agosto 2020 aveva ormai 12,3 miliardi di euro di ricavi, in crescita dagli 11,4 dell'anno prima soprattutto grazie alle acquisizioni.

Uno spunto interessante riguarda il fatto che alcuni fra i capitani silenziosi al top della classifica sono al vertice di imprese non quotate in Borsa. È così per Ferrero, Aleotti e Perfetti, e anche per Simona Giorgetta, 47 esima nel ranking, erede del 34 per cento della Mapei al fianco degli Squinzi. 

La scalata più spettacolare, però, è forse quella di Leonardo Del Vecchio, che nella fotografia di Forbes ha portato il suo patrimonio a 32,9 miliardi di dollari facendo leva proprio sulla crescita per acquisizioni e fusioni della sua EssilorLuxottica, oggi uno dei titoli di punta della Borsa di Parigi.

Sarà dunque interessante vedere, fra gli outsider, quanto potranno crescere in futuro altri personaggi meno noti ma grandi azionisti di imprese quotate. Una è Alessandra Garavoglia, 14 esima con 4,4 miliardi di dollari, sorella del più visibile ma sempre riservato Luca Garavoglia, nono con 5,2 miliardi, presidente della Campari, altro gruppo votato alla crescita per acquisizioni. 

L'altro è Sergio Stevanato, proprietario del gruppo padovano che porta il nome di famiglia e produce contenitori e infusori per farmaci: la recente quotazione a Wall Street dell'azienda lo ha fatto scoprire anche in Italia, proiettandolo in sedicesima posizione, con un patrimonio di 3,7 miliardi.